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LUDOVICO GEYMONAT
Storia del pensiero filosofico e scientifico VOLUME T...
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LUDOVICO GEYMONAT
Storia del pensiero filosofico e scientifico VOLUME TERZO
Il Settecento Con specifici contributi di Corrado Mangione, Gianni Micheli, Felice Mondella, Renato Tisato
GARZANTI
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1 edizione: marzo 1971 Nuova edizione: ottobre 1975 Ristampa 1981
© Garzanti
Editore s.p.a., 1971, 1975, 1981
Ogni esemplare di quest'opera che non rechi il contrassc:gno della Società Italiana degli Autori ed Editori deve ritenersi contraffatto Printed in Italy
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SEZIONE QUINTA
L'illuminismo· Kant
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CAPITOLO PRIMO
Il secolo dei lumi
I
· TRASFORMAZIONI ECONOMICHE E SOCIALI
L iav~_?;~t~_<:fç)ll;l__R()fgh~sf~ che già aveva caratterizzato lo sviluppo di una notevole parte dei più civili paesi d'Europa durante il secolo precedente, assunse nel Settecento un nuovo impeto e una nuova forza d'urto. Si realizzano cospicui ~postatl1C!l!!i_gj___fiçç_b!!Z?;~, si lanciano ~ove imprese economic:he, auJ:!len~_ il commercio, si riorganizza e consolida lo ~rE__g~JJ:len_to_ <,lei_ p9poH _cglgnial!. Le nuove iniziative non tollerano più di venire comunque ostacolate, ed entrano in aperto conflitto con le forze che avevano detenuto il monopolio del potere nelle epoche precedenti. Se la terra continua ad essere la principale fonte di ricchezza, accanto ad essa se ne comincia ad affermare un'altra che può in certo senso venir considerata come lo sviluppo dell'antica attività artigiana ma con caratteri via via più differenziati. È legata alla 5_:_9stitt1zione_ di_gra11<1i opjfici, con un notevole quantitativo di mano d'opera e di macchine: essa richiede per ogni addetto un impiego di capitale assai superiore a quello richiesto dalla terra, ma può fornire in breve tempo un elevato numero di prodotti da gettare sul mercato e, se questo è favorevole, permette guadagni per l'innanzi sconosciuti. Il trapasso dall'artigianato al nuovo tipo di produzione avviene per gradi, attraverso fasi che variano da un popolo all'altro. Il suo inizio può venire fatto risalire - in ispecie per l 'Inghilterra e per la Francia- al secolo precedente, come si è accennato nel capitolo I della sezione IV; ma è solo nel xviii che assume un ritmo accelerato ed è soltanto in Inghilterra che esso entra, negli ultimi anni del secolo, in una fase di piena attuazione. Il principale effetto cui perviene è il notevole aumento di produttività, e quindi il rapido incremento del reddito globale della nazione interessata in misura nettamente superiore a quello dei popoli in cui il trapasso non ha ancora avuto inizio o è rimasto a fasi più arretrate. È uno squilibrio che si avverte nell'ambito dei paesi europei ma ancor più nei confronti dei paesi coloniali o comunque extraeuropei. È istruttivo citare le parole con cui nella voce« Arte» dell' Enryclopédie Denis Diderot- che pur non sembra aver compreso appieno il valore della rivoluzione
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Il secolo dei lumi
industriale - illustra i vantaggi realizzati dai grandi opifici: « La bontà delle materie prime sarà il principale fattore della superiorità di una manifattura su un'altra, insieme con la speditezza del lavoro e con la sua perfetta esecuzione. La bontà dei materiali è questione d'attenzione, mentre la speditezza e perfezione del lavoro sono soltanto in funzione del numero degli operai impiegati. Quando una fabbrica ha numerosi operai, ciascuna fase di lavorazione occupa un uomo diverso. Un operaio ha eseguito ed eseguirà per tutta la vita una sola ed unica operazione; un altro, un'altra; perciò ognuna è compiuta bene e prontamente, e la migliore esecuzione coincide con il minimo costo. Inoltre, il gusto e la destrezza si perfezionano indubbiamente fra un gran numero di operai, poiché è difficile che non ve ne siano taluni capaci di riflettere, combinare e scoprire infine il solo modo che consenta loro di superare i compagni: ossia come risparmiare il materiale, guadagnar tempo, o far progredire l'industria, sia con una nuova macchina, sia con una manovra più comoda.» È chiaro che, nel suo ingenuo ottimismo, Diderot non riesce a vedere i gravi conflitti economici che traggono origine dalla nuova organizzazione della produzione (non si chiede per esempio che interesse debba avere l'operaio- il quale non è più proprietario o comproprietario dell'azienda, come lo era l'antico artigiano - a risparmiare il materiale, a guadagnar tempo o a far progredire l'industria), né a rendersi conto della frustrazione psichica del lavoratore costretto a eseguire per tutta la vita una sola ed unica operazione. Ciò che attrae la sua attenzione, è l'enorme vantaggio che la produzione ricava dalla suddivisione del lavoro e dall'impiego di sempre nuove macchine; macchine però che l'industria introduce sempre più numerose nel ciclo produttivo non - come scrive il nostro autore- perché l'operaio ne comprenda l'utilità ma perché il padrone dispone dei capitali indispensabili per acquistarle e sa quale aumento di reddito può ricavare dal loro uso. I problemi sociali della classe lavoratrice non suscitano ancora un interesse molto grande nel Settecento, neppure fra i pensatori più progressisti; la preoccupazione fondamentale è, per il momento, un'altra: quella di agevolare l'iniziativa dei nuovi imprenditori (abbattendo gli ostacoli che essa incontra nelle vecchie legislazioni di origine feudale) e di permettere che essi assumano nel più breve tempo il peso politico che compete alla loro crescente forza economica. Dal punto di vista della storia del pensiero filosofico-scientifico, il fenomeno testé accennato è soprattutto importante per due effetti ad esso collegati: I) per l' accres~l!l~!!__fidl!_
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Il secolo dei lumi
più facile riconoscere uno dei fattori fondamentali dello sviluppo della civiltà. È bene sottolineare fin d'ora- riservandoci di tornare con maggiore ampiezza sull'argomento nel capitolo vm - che i progressi realizzati dalla tecnica nel XVIII secolo furono veramente enormi, notevolmente superiori a quelli compiuti nel secolo precedente. Basti pensare alla invenzione della macchina a vapore, che diverrà ben presto lo strumento essenziale della rivoluzione industriale in quanto si rivelerà in grado di fornirle quelle risorse energetiche, di cui il rapidissimo sviluppo della produzione avrà un bisogno via via crescente. Se i progressi della tecnica sono ancora in larga parte indipendenti da quelli della scienza (solo nel XIX secolo questa si rivelerà in grado di assumere la guida delle ricerche tecnologiche), comincia in ogni modo a profilarsi all'orizzonte la necessità di una collaborazione sempre più stretta fra le due; essa vale, tra l'altro, a radicare in un numero crescente di studiosi la convinzione che le applicazioni pratiche possano fornire la più valida prova della scientificità delle teorie. Si comprende agevolmente che ciò contribuirà alla u_adl,!ale J~i_c:::i~?~~t9!lf! ci~!~~- s<;it,:nza: è chiaro, infatti, che quanto più questa si preoccupa di fornire ausilio alla tecnica, tanto meno si interessa dei rapporti tra i propri principi e le concezioni metafisico-teologiche. In altri termini: se la validità delle teorie scientifiche è cercata nella loro fecondità pratica (sia pure non esclusivamente in essa), è evidente che diminuisce il bisogno di cercare in un essere trascendente la garanzia della loro assoluta verità o di provare la « nobiltà » del sapere scientifico mostrando che esso costituisce la via più diretta per giungere alla conoscenza di tale essere. Avanzata della borghesia e incremento della produzione, fiducia nelle iniziative umane e laicizzazione della cultura sono fenomeni che caratterizzano - tutti insieme - il grandioso e complesso sviluppo della civiltà europea nel xvm secolo. Noi ci fermeremo soprattutto sull'accresciuta fiducia nelle forze umane e sulla laicizzazione del pensiero, perché esse si inseriscono direttamente nell'argomento della nostra trattazione; non dovremo però mai dimenticare il substrato socio-economico cui risultano connesse, onde non perdere di vista l'unità del processo storico. È un'unità indispensabile per comprendere i fatti nella loro reale concretezza. II
· SITUAZIONE POLITICA GENERALE
I grandi eventi politici del Settecento riflettono in sé, come è ovvio, le trasformazioni economiche e sociali di cui si è fatto cenno nel paragrafo precedente. Ma le riflettono in forma diversa da paese a paese, secondo la varia struttura dei singoli stati e secondo il tipo di resistenza che le vecchie classi dirigenti oppongono al rinnovamento della società. Esemplari, da questo punto di vista, sono le vicende dei due più progrediti popoli europei dell'epoca, l'inglese e il francese, in cui l'avanzata della borghesia si effettua lungo vie in certo senso antitetiche. 9
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I l secolo dei lumi
Come abbiamo menzionato nella sezione IV, la seconda rivoluzione inglese ha pacificamente portato la borghesia (in particolare l'alta borghesia) alla direzione dello stato: il regime parlamentare ne garantisce l'assoluto predominio, pur entro il quadro di una moderna libertà costituzionale, permettendo alla grande finanza (banche, compagnie coloniali, ecc.) di controllare l'indirizzo generale della politica del paese. Stabilità interna ed equilibrio fra le grandi potenze sono le due direttrici di questa politica; incremento del commercio con tutti i paesi europei ed extraeuropei, e rafforzamento della flotta ormai padrona di tutti i mari, sono i due principali strumenti per l'attuazione del grandioso programma. «Il commercio, » scrive Voltaire nella decima delle sue famose Lettere inglesi, « che in Inghilterra ha arricchito i cittadini, ha contribuito a renderli liberi, e questa libertà a sua volta ha esteso il commercio, donde è derivata la grandezza dello stato. È il commercio che ha formato a poco a poco quelle forze navali per cui gli inglesi sono i padroni dei mari. Attualmente essi possiedono circa duecento vascelli da guerra. I posteri apprenderanno forse con sorpresa che una piccola isola, che di suo non possiede che un po' di piombo, dello stagno, della terra da purgo e della lana grezza, è divenuta con il suo commercio tanto potente da inviare, nel 1723, contemporaneamente tre flotte ai tre capi del mondo: una davanti a Gibilterra conquistata e mantenuta dalle sue armi, un'altra a Porto Bello, per togliere al re di Spagna il godimento dei tesori delle Indie, e una terza nel mar Baltico per impedire alle potenze del nord di battersi. » La Francia invece sta attraversando un periodo in cui la frattura tra forze reali e direzione politica del paese si fa via via più profonda. La politica estera di Luigi XIV è fallita, e le lunghe guerre da lui combattute hanno pesantemente gravato sulle finanze dello stato. Con la revoca dell'editto di Nantes (168s) il potente monarca è senza dubbio riuscito a stroncare entro i confini del paese la minoranza ugonotta, rafforzando l 'unità politica del regno; ma nel contempo ha privato la società francese di preziose energie, che avevano contribuito in notevolissima misura all'arricchimento della nazione. Con tale atto egli ha dato inizio ad un'aperta scissione fra le sorti dell'assolutismo regio e quella della classe borghese, o terzo stato, cui l'anzidetta minoranza era stata- dai tempi di Enrico IVparticolarmente legata. La scissione non verrà sanata dai successori di Luigi XIV, ma anzi si approfondirà a grado a grado in conseguenza dei loro errori politici, spingendo la borghesia a posizioni sempre più avanzate, cosicché la lotta da questa intrapresa per la propria affermazione assumerà un'asprezza mai conosciuta dagli altri paesi europei. Le vicende di tale lunga lotta, che sfocierà nella grande rivoluzione, sono troppo note per doverle qui ricordare. Certo è che le guerre rivoluzionarie e napoleoniche sconvolgeranno pressoché tutti i paesi europei, e quando le truppe francesi rientreranno sconfitte nei vecchi confini l 'intero continente si troverà profondamente trasformato, malgrado gli sforzi dei conservatori per restaurarne l'antico assetto politico. IO
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Il secolo dei lumi
Dovremo varie volte ritornare, con qualche maggiore dettaglio, sulle condizioni politiche dell'Inghilterra, della Francia e di altri popoli europei, per illustrare l'influenza che queste condizioni esercitarono su alcuni caratteristici orientamenti di pensiero affermatisi in tali paesi. Qui ci limiteremo ad aggiungere che un grande fenomeno storico destinato ad assumere un notevole peso sulla cultura del secolo fu l'assolutismo illuminato, del quale è ben nota la diffusione in vari stati europei, come l'Austria, la Prussia, la Russia, ecc. Particolare menzione va fatta del re di Prussia Federico n, che non solo cercò di dare il massimo incremento alle ricerche scientifiche nel suo stato (potenziando notevolmente l'accademia delle scienze di Berlino), ma varie volte offerse generosa ospitalità a studiosi stranieri, in ispecie a pensatori francesi che si sentivano minacciati dalle autorità politico-religiose del proprio paese. Questa ospitalità trova spiegazione non solo nella particolare apertura di Federico n verso i problemi della cultura, ma ancor più nel fatto che i philosophes da lui protetti difendevano autorevolmente nei loro scritti la naturale alleanza tra la borghesia più avanzata e il principio monarchico. Essi costituivano la guida spirituale di tale borghesia, profondamente desiderosa di una riforma generale della società europea ma sinceramente convinta che una riforma del genere avrebbe potuto venire attuata solo per l'intervento diretto dei sovrani. Non è necessario aggiungere che il programma riformatore in questione era sostanzialmente moderato, anche nei casi in cui i! monarca appariva più coraggioso; esso poteva condurre i governi a prendere qualche efficace iniziativa contro il potere ecclesiastico (si ricordino i vari provvedimenti presi contro la compagnia di Gesù, in seguito ai quali il papa Clemente xrv fu indotto a sciogliere il già fortissimo ordine nel 1773 1), ma non potevano giungere a colpire le radici più profonde dei vecchi privilegi. Sui limiti specifici del programma innovatore di Federico II ritorneremo nel capitolo xv. Furono soprattutto le vicende della politica estera - come ad esempio la guerra dei sette anni - a dimostrare le contraddizioni del dispotismo illuminato; la prima spartizione della Polonia, eseguita nel 177z da Federico II, Giuseppe II e Caterina II rappresentò, da questo punto di vista, il fatto più grave. Vi furono, sì, alcuni tentativi di giustificarla da parte dei philosophes personalmente legati a Federico II e Caterina II; ma furono tentativi maldestri e inconsistenti. La spartizione dimostrava, al di là di ogni dubbio, che la politica di potenza non aveva mai cessato di conservare il sopravvento - nei tre monarchi illuminati del nord rispetto a tutte le belle dichiarazioni progressiste. Malgrado questi limiti, il movimento testé accennato ebbe un notevole peso nell'ampio processo in via di attuazione entro la società europea; l'opinione pubblica, da esso influenzata, non ebbe timore di esprimere severi giudizi sulla situazione francese, e, nel 1789, accolse con sincero favore i primi atti del nuovo goI
L'ordine dei gesuiti venne ricostituito nel .!!!±_da Pio
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col breve « Sollecitudo omnium ».
Il secolo dei lumi
verno rivoluzionario. I pareri mutarono però rapidamente, quando la rivoluzione cominciò a radicalizzarsi, e il favore si trasformò in decisa condanna allorché i giacobini spinsero la propria coerenza fino alla decapitazione di Luigi xvi. Il quadro da noi sommariamente delineato può servire, pur nella sua schematicità, quale primo generico orientamento alla comprensione dei fondamentali sviluppi del pensiero settecentesco. Prima di iniziare l'esposizione di questi sviluppi, occorre però aggiungere ancora qualche brevissimo cenno alla rivoluzione americana conclusasi con il g:~~-~a~o _c:l~Y~~~!l:.i!l_t:~_(1_~_i) mediante il quale veniva riconosciuta dali 'Inghilterra l 'indipendenza degli Stati Uniti d'America. Tale rivoluzione costituì il primo duro colpo, inferto dalle più decise forze progressiste contro il vecchio assetto politico disposto dalle potenze europee. Per un lato esso dimostrava che nella stessa « liberale » Inghilterra si annidavano parecchi elementi reazionari, contro cui sarebbe stato necessario combattere per spingere a fondo il rinnovamento della società; per un altro lato dimostrava che tali elementi non erano invincibili, quando si fosse decisi a muovere guerra aperta contro di essi. L'entusiasmo suscitato dalle vicende americane fu enorme tra i progressisti europei, in ispecie francesi. La Dichiarazione dei diritti, solennemente votata a Filadelfia nel 1774 (in cui si proclamavano i diritti storici delle colonie verso la madre patria e i diritti naturali che nessun governo può disconoscere senza violare le leggi eterne della giustizia), si riallacciava manifestamente al grande movimento dei philosophes e sembrava fornire la prova storica dell'effettiva realizzabilità delle loro più avanzate idee politiche. Nel giro di pochi anni toccherà alla Francia imitare questo esempio, formulando la famosa Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (2.4 agosto 1789), che costituirà la base della democrazia borghese moderna. III
· L 'ILLUMINISMO
L'indirizzo di pensiero che dominò il Settecento europeo suol venire indicato col nome di illuminismo. Va subito osservato, però, che non trattasi a rigore di un vero e proprio indirizzo filosofico o scientifico, bensì di un'atmos_fg~_c~l turale che improntò di sé quasi tutte le correnti filosofiche e scientifiche del secolo, malgrado le sostanziali differenze riscontrabili tra l'una corrente e l'altra (per esempio fra empiristi e materialisti in Francia, fra empiristi inglesi e razionalisti tedeschi, fra fisici matematici e fisici sperimentali, ecc.). Per profonde che siano queste differenze, sulle quali avremo modo di fermarci a lungo nei capitoli successivi, esistono tuttavia - entro le varie correnti di pensiero in largo senso illuministiche- alcuni caratteri comuni, che sembrano riflettere lo slancio innovatore da cui fu pervasa gran parte della società europea. Il primo fra essi è la fidllQ_ll, __nelJ!!__~gione, intesa come strumento atto a chiarire tutti i problemi dell'uomo, da quelli schiettamente filosofici e scientifici a quelli religiosi, politici e sociali. 12. www.scribd.com/Baruhk
Il secolo dei lumi
Non è certo possibile sostenere che il termine «ragione» possegga qui un significato preciso ed univoco. Al contrario bisogna riconoscere che a proposito di esso sono proprio riscontrabili le più importanti differenze cui abbiamo or ora accennato fra i vari indirizzi illuministici, tendendo alcuni a legare indissolubilmente la ragione all'esperienza, altri invece a vedervi una facoltà capace di raggiungere principi forniti di una evidenza superiore a quella dei dati sensibili. A rigore, però, si tratta di divergenze che riguardano più le fonti del conoscere che non la nostra possibilità di accrescere il patrimonio conoscitivo dell'umanità, correggendo a grado a grado gli errori in cui siamo incorsi, dissolvendo le false credenze per quanto radicate nel nostro animo, sottoponendo ogni concezione a prove via via più attente. Fiducia nella ragione significa dunque, in questa accezione, non tanto fiducia in questa o quella fonte del conoscere, quanto nelle capacità critiche dell'uomo, nella chiarezza delle argomentazioni, nell'assoluta superiorità dello « spirito scientifico » rispetto a ogni forma di oscurantismo. Va notato che persino gli autori, come Rousseau, che sembrano opporsi al razionalismo dei loro contemporanei, in realtà non fanno altro se non denunciare la superficialità delle loro presunte argomentazioni razionali per contrapporvi una razionalità più autentica. Anch'essi sono, comunque, convinti che l'uomo sia in grado di raggiungere con le proprie forze le verità più profonde, e non si trovi impotente di fronte ad esse. In conclusione: i «lumi» della ragione di cui parlano gli illuministi non sono qualcosa di ben determinato, non sono legati a una specifica forma di razionalità, ma indicano ~~ a~i!()_f!l:~~~-~1-~__<:Ìli~~m~_!!te cont~~l?E.C?~to all 'accetta:zi~1le p:ts~i~a di _':!!it!,_ di sup~!'~!}_:Z!?.1li~~i <:logm~ indis~\lt~~~· Di qui il secondo carattere fondamentale di tutto il movimento: il dovere, che ogni illuminista sente vivissimo, di diffondere la cultura, di rendere tutti gli uomini partecipi dello «spirito scientifico », di fare:_~ella ragione uno st~11Il1c:!f1~0 di_ ~-l.C:::Y:t?ic;>!!.~--c:l~U:~_l!l:l!li_tà_. Questo dovere investe anzitutto il campo delle scienze, le cui conquiste non vanno insegnate ai soli specialisti ma, nelle loro linee essenziali, al più largo numero di persone. Gli illuministi si rendono conto con rara perspicacia delle difficoltà insite in tale sforzo, e proprio perciò ritengono che essa rientri nei precisi compiti dei più bravi conoscitori delle singole discipline. Spiegando il modo con cui vennero stese le voci dell' Encyclopédie (che suol venire giustamente considerata il capolavoro dell'illuminismo francese nell'ambito della diffusione del sapere), Diderot precisa che per arrivare ai risultati voluti «è stato necessario dare a ciascuna materia un'estensione conveniente, insistere sull'essenziale, trascurare le minuzie, evitare un difetto troppo comune, quello cioè di dilungarsi su ciò che non richiede che una parola, di dimostrare l'incontestabile e commentare ciò che è chiaro ». E aggiunge: « Per questa ragione gli elementi di una scienza possono essere ben esposti soltanto da chi l 'ha coltivata a fondo; poiché racchiudono il sistema dei principi generali che si estendono alle diverse parti della scienza, e per
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Il secolo dei lumi
conoscere il modo migliore di presentare tali principi, bisogna averne fatto una pratica varia e approfondita. » È in questo spirito che i massimi scienziati dell'epoca - come Euler e Laplace - non disdegneranno di scrivere, accanto a memorie rivolte agli specialisti, alcune opere rivolte a un pubblico più largo. Oltre al campo delle scienze propriamente dette, la diffusione dei più avanzati prodotti della ragione deve poi investire il campo delle discipline morali e politiche. Qui essa assume un significato più immediatamente rivoluzionario. L'accettazione dogmatica dei vecchi valori, degli istituti tradizionali, dei costumi più barbari, costituisce infatti- secondo l'illuminismo- la base più forte della religione: far luce nell'inconsistenza razionale di tali valori, istituti, costumi, significa dunque aprire la via al rinnovamento della società; significa in particolare debellare l'i~_t_~l~~!l~a, l'oscurant~~_!!!o, il conservat~;_~~'E<>• dando inizio a un'era decisamente migliore di tutto il passato. Affiora a questo punto il terzo carattere fondamentale di tutto il movimento illuminista: _!_a_fedf:! fl.~ll-~J?s>_s_si.~i.lità~ttEi_g!is>r~r_c:_~~~ic~tJ~-~~~~lll_~i!l,l_~~()_!le :!!~na. La polemica contro il passato si integra con l'attimis~~· Non si tratta solo di denunciare la corruzione delle civiltà antecedenti, gli orrori delle pratiche superstiziose, i vizi che si appoggiano sull'ignoranza, ma di avere fede nella capacità umana di creare un mondo incontestabilmente migliore. I lumi della ragione costituiscono la molla più potente del progresso. Il compito del filosofo è precisamente quello di diffondere questi lumi, sicché egli diventa per ciò stesso un fattore essenziale della trasformazione della società. È chiaro che una tale concezione della filosofia non poteva non entrare in urto sia con gli insegnamenti tradizionali della metafisica sia con quelli delle religioni positive. Su questo punto le posizioni dei vari illuministi differiscono spesso una dall'altra. La posizione più diffusa è quella del filosofo che si accontenta di polemizzare contro l'aspetto superstizioso delle religioni positive, tentando di sostituir loro una « _t:eligione ?llturale » (religione in cui alcuni credono di scorgere la vera essenza del cristianesimo, altri invece una nuova religione da sostituirsi alle varie confessioni cristiane). Una posizione più radicale è quella dei materialisti, che dall'applicazione conseguente dei lumi della ragione ritengono di poter ricavare una concezione della realtà che esclude ogni trascendenza. A ben guardare, però, sia l 'una che l'altra posizione sono parimenti laiche, in quanto si parte dall'uomo e solo dall'uomo (cioè dall'esercizio più intransigente della nostra ragione) per pronunciare l'ultima parola sui problemi della struttura dell'universo e dei fini dell'umanità. Abbiamo già fatto cenno nel primo paragrafo al processo di laicizzazione della cultura verificatosi nel Settecento parallelamente all'impetuosa avanzata della borghesia. Qui possiamo aggiungere che tale processo ha trovato nel movimento illuministico la sua più diretta espressione. Nelle sezioni successive troveremo senza dubbio delle forme più radicali di ateismo (per esempio nella filosofia di Comte), ma esse hanno potuto sorgere e 14
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I I secolo dei lumi
affermarsi solo in quanto l'illuminismo aveva abituato gli studiosi a trattare i problemi etici e scientifici da un punto di vista puramente umano è terreno, cioè in modo del tutto indipendente da ogni eventuale ipotesi intorno all'esistenza e alla natura di dio. IV
· IL PROBLEMA DELLA STORIA
Fino a non molto tempo addietro gli storiografi dell'illuminismo erano soliti ripetere - sotto l'influenza della polemica condotta contro il pensiero settecentesco dai romantici -che tale movimento di idee sarebbe stato caratterizzato da un astratto antistoricismo. Per sostenere tale accusa essi affermavano, più in base a considerazioni aprioristiche che non in base a un attento esame dei testi, che l'illuminismo non poteva rivelare un'autentica sensibilità per i problemi concreti della storia dato l'orientamento razionalistico della sua concezione dell'uomo e dell'universo. Oggi questo pregiudizio può dirsi pressoché unanimemente abbandonato. Il merito di avere dato inizio a una più esatta valutazione dell'atteggiamento degli illuministi di fronte al problema della storia spetta a Wilh_~l_!ll PHthey, che fin dal 1901 nel saggio dal titolo Das achtzehnte Jahrhundert und die geschichtliche Welt (Il XVIII secolo e il mondo storico) -partendo da un rigoroso esame sia delle dottrine filosofiche sia delle principali opere di storia scritte dai maggiori illuministi - sostenne che l'illuminismo aveva elaborato una vera e propria concezione originale della storia, fondata su una nuova consapevolezza della connessione esistente tra tutte le vicende dell'umanità. «Per la prima volta,» egli scrive, «la storia universale pervenne a una connessione che nasceva dalla stessa considerazione empirica; essa era razionale in virtù della concatenazione di tutti gli eventi secondo il principio di causa ed effetto ed era criticamente superiore in virtù del rifiuto di qualsiasi superamento della realtà data in rappresentazioni che la trascendessero. I fondamenti di tale costruzione erano un impiego deL__gi.!!22P!~Ei~~Lcat~__d,~lla c::t:i~ica storic:a, che non si fermava neppure dinanzi alle più sacre reliquie del passato, e un metodo c~!!!Q_li.J'~~iyq che si estendeva a tutti gli stadi dell'umanità. » Le ricerche di Dilthey, proseguite da Cassirer, Meinecke e vari altri, hanno fatto giustizia dei gravi equivoci contenuti nella vecchia caratterizzazione dell'illum~qismo come filosofia antistoricistica, ed hanno di conseguenza reso possibile scoprire nuovi rapporti (non solo di antitesi ma di continuità) fra il pensiero illuministico, quello di Kant, e lo stesso pensiero romantico. È bensì vero che molti illuministi, influenzati dalle scienze di tipo fisico-matematico, rivelarono nei loro dibattiti una spiccata tendenza a cercare i principi generalissimi da cui poter dedurre l'intero corso dei fenomeni; vero è però - come vedremo nel seguito della presente sezione - che non mancarono nel Settecento, accanto alle grandi opere di fisica-matematica, altre opere scientifiche
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Il secolo dei lumi
a netto carattere sperimentale, il cui centro di interesse era manifestamente costituito dal mondo dei fenomeni, nella loro particolarità e nella varietà delle loro concatenazioni. Né le prime né le seconde hanno una posizione di monopolio entro il pensiero illuministico, ma, al contrario, concorrono entrambe in misura essenziale alla creazione dell'atmosfera specifica dell'illuminismo, caratterizzata dalla fiducia nello «spirito scientifico», nell'uomo, nelle possibilità umane di trasformare il mondo. La radice dell'accusa di «antistoricismo», di «astratto razionalismo », di sostanziale disinteresse per il mondo concreto, va probabilmente cercata nella mancata compr~nsione della riccl1ez~~ cii sig~!!i_~:;~tl_c:b-_t: gl_i illumi~isti coll~ega,y~Q ;Tt~~f~~-~< -~ag_i~?:~ »,della funzione essenzialmente operativa che gli attribuivano. Questa funzione è particolarmente -chi~~~ -nei grandi scrittori francesi, presso i quali l'appello alla ragione aveva soprattutto un significato polemico: costituiva cioè un energico richiamo al nostro dovere di respingere le soluzioni tradizionali, facili e dogmatiche, dei problemi etico-politici, di applicare anche ad essi -come ai problemi propriamente scientifici -il più rigoroso spirito critico, la più attenta e spregiudicata riflessione. Né si può negare che tale richiamo abbia rivelato una notevolissima efficacia: esso riuscì infatti, per un lato, a dimostrare l'assoluta infondatezza delle vecchie interpretazioni teologico-metafisiche della storia (che pretendevano incentrare le vicende dell'umanità sulla comparsa e gli sviluppi del cristianesimo), per un altro lato a porre definitivamente in chiaro le differenze tra la pura e semplice registrazione dei fatti storici e l 'autentica ricerca storiografica (che ha da essere - secondo gli illuministi- sforzo di comprensione razionale del passato e, nel contempo, implacabile critica dei suoi errori). Le considerazioni testé accennate possono aiutarci, tra l'altro, a valutare con una certa esattezza l'effettivo contributo della Francia allo sviluppo dell'illuminismo. La difficoltà di questa valutazione dipende dal fatto che, se ci limitassimo a tener conto dell'apporto francese ai problemi tradizionali della filosofia, dovremmo concludere che proprio il paese ove l'illuminismo assunse un maggior peso politico diede in realtà i contributi meno originali allo sviluppo di questa corrente di pensiero. È invero innegabile che gli illuministi francesi nelle loro critiche delle religioni positive non fecero altro che assimilare i dibattiti dei deisti inglesi; nella trattazione del problema della conoscenza non fecero altro· che percorrere la via aperta da Locke; nella costruzione di un modello fisico del mondo si attennero per lo più ai grandi insegnamenti di Newton; nello stesso problema politico si limitarono a ripetere e integrare le concezioni dei liberali inglesi. Se tutto ciò è vero, non meno vero è però che l'illuminismo non si esaurisce nei temi testé accennati. Esso non fu soltanto una collezione di dottrine filosofiche, ma un movimento di idee che cercava di rispecchiare in sé la grande esigenza rinnovatrice della borghesia settecentesca: come tale va giudicato non solo nel suo aspetto teoretico ma anche in quello pratico. Orbene proprio qui si rivela t6 www.scribd.com/Baruhk
Il secolo dei lumi
l 'autentica originalità degli illuministi francesi: il nuovo interesse che essi seppero portare per il mondo umano: quello passato, costituente l'oggetto delle indagini storiche, e quello presente costituente l'oggetto dell'azione politica. Il radicalismo delle loro posizioni che si manifesta sia nelle opere storiografiche sia negli scritti politici, il vigore polemico con cui attaccarono gli errori del passato per poter dare inizio a un migliore presente, lo slancio che li spinse a trasformare la propria filosofia in strumento ideologico del terzo stato, sono apporti originali del più alto valore. Tenendo conto di essi, ogni accusa di scarsa originalità contro gli illuministi francesi si rivela superficiale e inconsistente. Ciò non significa che il tipo di indagini intraprese da alcuni fra i maggiori illuministi francesi - seriamente impegnati solo nei problemi storico-politici, e non, o non altrettanto, in altri problemi di fondo della filosofia e della scienza sia stato privo di inconvenienti. Al contrario, insisteremo parecchio su questi inconvenienti e sui pericoli della sterzata che essi impressero alla cultura europea; dobbiamo però riconoscere che, pur nei loro limiti, essi furono l'anima del movimento illuministico, e che questo non avrebbe avuto l'importanza che di fatto ebbe se una parte dei suoi rappresentanti non avesse saputo porre in primissimo piano la polemica storico-politica. V
· L'IMPORTANZA DEL PENSIERO ILLUMINISTICO
Qualora si volesse sollevare il problema (peraltro poco rigoroso) se nello sviluppo del pensiero moderno abbia avuto un peso maggiore l'apporto degli autori presi in esame nella sezione IV o di quelli che verranno considerati nella presente sezione, sarebbe necessario compiere in via preliminare una ben netta distinzione. Fra gli autori che tratteremo nei prossimi capitoli uno solo, David Hume, 1 regge per così dire il confronto con i grandi filosofi del Seicento (Cartesio, Hobbes, Spinoza, Locke e così via), e anche nel campo delle scienze propriamente dette la bilancia pende senza alcun dubbio a favore del XVII secolo; per quanto grandi siano stati infatti gli scienziati settecenteschi (Euler, D' Alembert, Lagrange, Buffon, Lavoisier, ecc.), essi non fecero certamente compiere al pensiero matematico, fisico, biologico, svolte così innovatrici come quelle dovute a Cartesio, Fermat, Newton, Leibniz, Harvey, Malpighi, per non menzionarne che alcuni. Da un altro punto di vista, però, la situazione risulta ben diversa. Come in politica l'inizio della società moderna può senza dubbio venir fatto risalire al Seicento, ma la rottura definitiva con le strutture medievali è opera del Settecento, così nella storia del pensiero spetta senza dubbio al XVII secolo il merito di avere impresso un nuovo corso alla scienza e alla filosofia, ma la vera modernizzazione I Oltre, ben inteso, a Kant, che però fuoriesce dai limiti del vero e proprio illuminismo, da
cui attinge sì alcuni fondamentali problemi aprenclone tuttavia altri di carattere radicalmente nuovo.
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della cultura ha avuto luogo soltanto nel secolo successivo. Limitiamoci a qualche esempio: ali 'inizio del Seicento la chiesa cattolica può ancora intervenire con una certa efficacia nel dibattito fra copernicanesimo e cosmologia tolemaica, nel Settecento il copernicanesimo è universalmente accettato dagli scienziati i quali non fanno più alcun conto della condanna che continua a gravare contro di esso; nella seconda metà del Seicento Malebranche può ancora seriamente indagare quali fossero le dimensioni possedute dall'ape vivente ai suoi tempi quando era contenuta, cinquemilaseicento anni prima, entro gli organi genitali del primo campione di tale insetto creato direttamente da dio, un secolo dopo questo problema appare risibile; durante tutto il Seicento la fisica deve fare i conti col problema dei miracoli, interpretati come un intervento diretto di dio che sospende per un istante le leggi da lui imposte alla natura, alla fine del Settecento Laplace delinea un sistema del mondo in cui non ha più bisogno di fare in alcun modo intervenire « l'ipotesi di dio »; agli inizi del Settecento si crede ancora alle streghe e qualche disgraziata è purtroppo condannata al rogo sotto l'accusa di stregoneria, alla fine del secolo le esecuzioni capitali vengono compiute per motivi dichiaratamente politici, senza più invocare alcuna giustificazione religiosa. In questo rapido e radicale processo di modernizzazione il movimento illu_ministico ha avuto un ruolo di primissimo piano. La molla propulsiva della ragione non si è più limitata ad operare in ristretti circoli scientifici, ma ha esteso il suo campo di azione a strati sempre più ampi della società. Se nel Seicento il nucleo più vivo della ricerca scientifico-filosofica si era trasferito dalle vecchie università di stampo medievale alle grandi accademie di nuova creazione, nel Settecento- pur continuando a operare attivamente nell'ambito delle accademietende ormai a proiettarsi fuori di esse mediante opere a carattere più o meno divulgativo che trovano rapidamente un grandissimo numero di lettori. Il filosofo e lo scienziato sentono il dovere di « illuminare » i loro contemporanei, per liberarli dalle vecchie superstizioni e fornir loro una piena consapevolezza intorno all'effettiva situazione dell'uomo. Abbattuta la credenza dogmatica che l 'uomo fosse stato collocato dal creatore al centro dell'universo, si trattava di ridargli una piena dignità facendolo diventare il protagonista e l'artefice del proprio destino. N el succedersi degli anni questo nuovo modo di pensare potrà forse venire deprecato e combattuto, ma nessuno potrà negare che ha rappresentato una tappa decisiva nello sviluppo della cultura moderna. Senza dubbio eserciterà un'influenza della massima importanza anche su pensatori come Fichte ed Hegel che certo non rientrano nel quadro della filosofia i)luministica. Nell'Ottocento il positivismo, pur rifiutando molte tesi illuministiche, verrà considerato il suo diretto continuatore; anche la «sinistra hegeliana » si ispirerà al programma illuminista per rinnovare a fondo le concezioni hegeliane. Pieno riconoscimento, 18
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o recisa negazione, del valore dell'illuminismo cost1tu1scono ancora oggi, per così dire, il punto di più evidente distacco fra gli indirizzi (pur diversi fra loro) che inseriscono nel proprio programma la difesa e lo sviluppo della razionalità umana e quelli che ne dichiarano il fallimento a favore di altre « dimensioni » dell'uomo.
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CAPITOLO SECONDO
Trasformazioni nell'impostazione del problema religioso e morale*
I
· CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
I notevolissimi sviluppi realizzati dal pensiero filosofico e scientifico durante il XVII secolo e all'inizio del XVIII non potevano non riflettersi profondamente anche nell'ambito delle concezioni religiose, sulle quali per altro verso esercitarono una diretta influenza le stesse ampie trasformazioni in atto nella vita politicosociale dei popoli europei. Si pensi, per comprendere il peso del primo fattore (più propriamente teoretico), ai grandi trionfi dello spirito razionalistico ed alla sempre più manifesta impossibilità di mantenere in vita, accanto ad esso, le superstizioni tramandate dalle epoche precedenti; e per comprendere il peso del secondo, all'esito disastroso delle guerre di religione, che- malgrado il grande spargimento di sangue - non avevano portato a completa vittoria nessuna delle varie confessioni cristiane, onde lo stesso culto poteva venire contemporaneamente giudicato pio o empio secondo che lo si praticasse al di qua o al di là di certe frontiere, spesso provvisorie, fra gli stati. Oppure si pensi, da un lato, al rapidissimo ampliarsi dei confini dell'esperienza per effetto delle sempre più numerose e precise osservazioni scientifiche, ed alla conseguente difficoltà di inserire tutte queste nuove scoperte nella vecchia concezione del mondo fatta propria dalla tradizione ebraico-cristiana; dall'altro, al profondo disagio che la conoscenza di lontane civiltà - del tutto indipendenti da quella europea faceva sorgere in una cultura che era sempre stata abituata a identificare l 'intera storia del mondo (e degli stessi rapporti fra uomo e dio) con la storia, sia pur molto travagliata, della cristianità. Di fronte ad un tale stato di cose, è chiaro che la pura e semplice difesa di rigide posizioni dogmatiche diventava sempre più difficile. Ciò non significa che si affievolisse nella cultura dell'epoca l'interesse per i problemi religiosi (abbiamo visto, al contrario, quanto rimanesse vivo in due pensatori della statura di Leibniz e di Newton); esso tendeva però ad assumere forme nuove, miranti a conciliare la religione con le nuove vedute della scienza e della filosofia. Il problema, nel contempo teorico e pratico, su cui si scontravano con maggior
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All'elaborazione del capitolo ha direttamente contribuito Enrico Rambaldi.
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asprezza gli innovatori ed i conservatori fu quello della tolleranza, di cui già illustrammo l'importanza centrale nel pensiero filosofico-politico di Locke. Nel presente capitolo dedicheremo anzitutto un paragrafo a delineare il significato che assunse tale problema entro il deismo, il che fornirà l'occasione di tratteggiare i caratteri generali di questo ampio e complesso indirizzo. Dedicheremo poi un paragrafo alla grande e singolare figura di Bayle, che costituì uno dei principali punti di riferimento per i deisti e in generale per gli illuministi (anche se spesso questi ne interpretarono il pensiero al di là delle sue effettive intenzioni). Sarà così possibile affrontare un'analisi abbastanza completa, seppure molto schematica, dei temi fondamentali dibattuti all'inizio del xvm secolo fra apologeti e deisti inglesi, ponendo in luce l'impostazione sostanzialmente comune che essi diedero ad alcune delle grandi questioni religiose. Dopo una breve esposizione della filosofia di Berkeley - che, ideata per difendere la fede cristiana contro tutti i liberi pensatori e perfino contro la scienza newtoniana, finirà per aprire la via ad una forma di idealismo soggettivistico tutt'altro che cristianamente ortodosso - chiuderemo il capitolo con un paragrafo dedicato ai moralisti inglesi, il cui pensiero è profondamente collegato ai dibattiti intorno al problema religioso. Prima di entrare nel vivo della trattazione, sarà bene però dire qualche parola su uno dei maggiori rappresentanti della cultura teologica cattolica francese, accanito oppositore di ogni tendenza seriamente innovatrice in materia religiosa: il vescovo cattolico (facques BenigneBo-ssuetJI62.7-1704); già lo ricordammo nel capitolo XVI della sezione precedente, per la decisa resistenza da lui opposta all'iniziativa di Leibniz, rivolta alla riunificazione tra cattolici e protestanti. Egli fu una delle più autorevoli guide del movimento politico-religioso diffusosi in Francia nella seconda metà del xvn secolo, che- sostenendo in forma esasperata l'assolutismo intollerante di Luigi XIV- preparò quella rottura radicale fra autorità e cultura che caratterizzerà gran parte dell'illuminismo francese. La sua posizione filosofica, che tentava di unificare le dottrine di Agostino, di Tommaso d'Aquino e di Cartesio, non brillò certo per profondità e chiarezza di idee; ma la sua influenza fu, ciò malgrado, assai vasta, sia per il suo vigore polemico e la sua facondia di scrittore ed oratore, sia per i suoi legami politici (fu uno dei più accesi sostenitori della tendenza gallicana del cattolicesimo francese). Fra i suoi molti scritti ci limiteremo a ricordare due opere: il Discours sur l' histoire universelle (Discorso sulla storia universale, 1681), opera nella quale Bossuet si richiama all'agostiniana distinzione tra città di dio e città terrena e traccia un'ampia filosofia della storia di tipo provvidenzialistico, e la Histoire des variations des églises protestantes (Storia delle variazioni delle chiese protestanti, 1688), nella quale sostiene questa tesi: la verità è per sua essenza unica; quale miglior prova delle falsità delle confessioni protestanti, che la infinita frantumazione dei loro credi? Occorre quindi ristabilire il principio di autorità in tutto il suo rigore, perché essere tolleranti equivale a per2.1 www.scribd.com/Baruhk
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mettere ai lupi di entrare liberamente negli ovili degli agnelli; scardinare non solo la vita religiosa, ma anche quella morale e gli stessi fondamenti della convivenza sociale e politica. II
· CARATTERI GENERALI DEL DEISMO
Come abbiamo visto nel corso del capitolo xn della sezione IV, sia in Olanda, sia soprattutto in Inghilterra, gli scontri dottrinali ed anche cruenti tra cattolici e protestanti, e tra le varie confessioni protestanti, erano lentamente evoluti verso una forma di tolleranza religiosa e dogmatica. Nel corso di questo capitolo ci soffermeremo prevalentemente sul pensiero religioso olandese ed inglese. Naturalmente, il fatto che la tolleranza si sia affermata prevalentemente in questi due paesi non è dovuto al caso. Erano le due nazioni nelle quali la borghesia aveva saldamente raggiunto il potere, e quelle in cui più era fiorita la tradizione giusnaturalistica e il messaggio della pax .ftdei erasmiana. Per la floridezza dei loro commerci e delle loro industrie in espansione, per la potenza della loro politica internazionale, marittima e coloniale, le borghesie olandese ed inglese avevano assoluto bisogno della pace interna. E giacché in quei secoli, come si è visto nella sezione precedente (si ricordi, oltre alla rivoluzione puritana inglese, la violenta __J2ol~mi~!_t1::.!!:.. ar!!!ini~L"'_.&Q_m~_ig_i nella quale restò coinvolto Ugo Grozio), le tensioni politiche e sociali assumevano spesso l'aspetto ideologico di contrasti religiosi, pace interna significava ricollegamento alla tradizione della pax .ftdei auspicata già dagli umanisti, difesa sia in Olanda sia in Inghilterra dalla devotio moderna di Erasmo da Rotterdam, richiesta dall 'irenismo cristiano e razionalistico dei platonici di Cambridge. Sia in Olanda sia in Inghilterra la lotta per la_!<:>l!~!"-~~~~t. Y.<:!t:~ f<:>.r:!!J.a!~~gigsa de!l~_jJ..Qfg_h~~~~'- era soprattutto ~-§_i?.:L<me alJ>!"i11_9p!Q cattqlico dJ. ~lJJprità. Non va dimenticato che la rivoluzione inglese era stata fatta contro una dinastia cattolica, e che l'Olanda aveva conquistato l'indipendenza dopo una cruentissima lotta contro la cattolica Spagna, ed era perennemente minacciata dalla potenza cattolica francese. Motivi storici e culturali confluirono quindi nel promuovere una ~lle_~~-~_, ~e_l_ _ C::O_I~_<:>___g~l __ ~_Y-!! --~<;:c<;>lq,_~_t:~_!Lp_r.g_te;g~_gt~~!!llo__ più _ _ t<:>.llepl{l te_ e più « borg~~-~e » ~ itt:liziof1~~~~~~· La ragione divenne spesso, nelle mani dei protestanti tolleranti, uno strumento per dimostrare che Roma era la « Babilonia moderna », e per distruggere ogni attendibilità della dogmatica cattolica (bersaglio preferito fu spesso il dogma della transustanziazione, cioè della presenza reale del corpo e del sangue di Cristo nel pane e nel vino dell'eucarestia). Teniamo presente inoltre che la borghesia tollerante era la stessa che otteneva sempre più grandiose conquiste scientifiche, che inventava sempre più ingegnose soluzioni tecniche per risolvere i problemi dello sviluppo e della floridezza economica del paese. All'inizio del Settecento vi era ormai un principio quasi unanimemente zz www.scribd.com/Baruhk
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accettato: «Non il dubbio, ma il dogma è il nemico più pericoloso del sapere; non la semplice ignoranza, ma l'ignoranza che si spaccia per verità e si vuol imporre per tale, è quella che intacca la conoscenza nel suo nucleo più intimo e vero » (Cassirer). Era naturale che questo principio fosse fatto valere non solo per la scienza, ma anche per la fede. Per raggiungere la pax ftdei, almeno all'interno delle confessioni protestanti, si ricorse in un primo momento all'uso della ragione. Ma si trattava di una alleanza che non poteva durare. Ad un più approfondito esame, il dio che, da diversi punti di vista, Spinoza, Cartesio, Locke, Leibniz e i platonici di Cambridge avevano cercato di definire, non poteva non risultare diversissimo da quello di tutta la tradizione ebraico-cristiana, patentemente antropomorfico, capriccioso, vendicativo, geloso, spesso ingiusto, e comunque sempre accompagnato da una secolare congerie di superstizioni popolari. A cavallo tra xvii e XVIII secolo l'ammirazione per lo sviluppo delle scienze, ed in particolare per Newton, era immensa, cosl come era vivissimo l'interesse per le scoperte geografiche e per le nuove culture che si veniva a sapere esser esistite da tempi antichissimi (come quella cinese). Proprio questa ammirazione per la ragione rendeva sempre più difficile accettare senza conflitti una religione come quella cristiana che, anche nelle confessioni riformate, restava intrisa di superstizioni nate in secoli barbari. Le scoperte astronomiche e geologiche avevano tolto ogni autorità scientifica alla Bibbia; le scoperte geografiche le toglievano inesorabilmente ogni autorità morale. La vecchia formula scolastica, secondo cui era vero « quod semper, quod ubique, quod ab omnibus », diveniva manifestamente insostenibile quando l'ubique si era esteso all'infinito; quando il semper non era più i cinquemila anni biblici dal giorno della creazione, ma milioni di anni, come la geologia dimostrava; quando gli omnes non erano più, oltre ai cristiani, soltanto i turchi e gli arabi, che avevano avuto conoscenza del messaggio evangelico pur avendolo rifiutato, ma anche i civilissimi cinesi o gli aborigeni americani, africani ed australiani, ignari- senza loro colpa- che più di un millennio e mezzo prima era nato Cristo. Come conciliare con l'idea di un dio giusto il dogma che chi non credeva in Cristo sarebbe stato dannato, quando era evidente che la stragrande maggioranza dell'umanità « non aveva potu.to » conoscerlo? I vecchi dogmi, sia cattolici sia protestanti, sul peccato originale, sulla salvazione e sulla dannazione, non potevano non apparire- a un numero sempre maggiore di persone - sostanzialmente incompatibili con l 'idea di un dio giusto e razionale, cioè con la stessa ragione. Già _Herbert di Cherbury, come abbiamo visto, si era posto questi problemi, ed aveva cercato di definire una religione universale, puramente razionale. Ma con ciò stesso aveva cessato di essere un pensatore « specificamente » cristiano. Egli può essere considerato il primo esponente· del deismo inglese. La tolleranza non fu dunque una semplice manifestazione di lassismo o di
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indifferentismo nei confronti dei problemi religiosi (e quindi dei problemi morali ad essi connessi). Fu, al contrario, l'espressione di una esigenza che racchiudeva in sé un'enorme carica morale. Si trattò inizialmente di un'ardita presa di posizione di molti pensatori protestanti, diametralmente opposta a quella di Bossuet: poiché le credenze religiose sono diverse, anziché reprimerle tutte ad eccezione di una (da imporsi con tutti i mezzi dell'autorità spirituale e secolare), indaghiamo: la ragione, dataci da dio, ci consentirà di trovare, al di là di tutte queste «variazioni» (che vanno rispettate), un credo fondato su alcuni punti comuni. La dottrina che risulterà da questa analisi sarà certamente l'essenza della religione cristiana; solo nella tolleranza, non nella faziosità, troveremo i fondamenti di una morale comune ai cristiani. Gli apologeti che imboccarono questa strada - e furono parecchi - si fermarono però a mezza via, cercando, pur nella tolleranza, un credo comune a tutte le confessioni cristiane (o almeno a quelle protestanti). I deisti fecero un passo più in là: prendiamo come campo di indagine, dissero, tutto il mondo, non solo quello cristiano; avremo allora se non una religione e una morale specificamente cristiane, quanto meno i fondamenti razionali di una religione ed una morale specificamente umane, naturali. Già in Bayle- come vedremo fra poco- risultava chiaro che la tolleranza recava in sé tal une implicazioni scettiche; sarà proprio la polemica p luri decennale tra deisti ed apologeti a portarle sempre più in luce. L'esigenza della tolleranza partiva in fondo anche dalla constatazione che secolari diatribe teologiche, lungi dal chiarire gli articoli fondamentali della fede, li avevano resi più confusi ed oscuri. Di fronte a questo sconfortante panorama, il dubbio non era più sintomo di mera incredulità, ma pure di onestà intellettuale e morale. Merita di venire sottolineato che anche in chi non ponesse consciamente il dubbio alla base della propria ricerca in campo religioso, le implicazioni scettiche assumevano un rilievo via via crescente. Possiamo ricordare a questo proposito l'arcivescovo di Canterbury John Tillotson (1630-94), avversario degli Stuart, che verrà citato con molta stima da David Hume. Tillotson fu un campione della polemica anticattolica, ed in particolare confutò la transustanziazione. Come i platonici di Cambridge egli dichiarava, contrariamente a Bayle, che pretendere che dio ci abbia rivelato alcunché di contrario alla retta ragione è bestemmia. Nel combattere il dogma dell'eucarestia romana, egli finì tuttavia per usare di fatto argomentazioni scettiche, che ridicolizzavano la pretesa di credere a qualche cosa che non solo non ci fosse attestato, ma anzi ci fosse contraddetto dall'esperienza sensibile. Proprio per questo suo atteggiamento sostanzialmente scettico molti deisti si richiameranno a lui, considerandolo addirittura un campione del «libero pensiero». Del resto tentare la dimostrazione razionale di un articolo di fede, fosse pure il più importante di tutti (l'esistenza di dio), significava esporsi a contraccolpi
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scettici, poiché comportava il sottoporre al vaglio critico degli avversari la propria dimostrazione. È rimasta famosa a questo proposito l'affermazione del deista Collins: nessuno aveva dubitato dell'esistenza di dio prima che Clarke si figgesse in capo di dimostrarla. Ecco perché si può affermare che con la filosofia di Hume la controversia deistica si chiuda: il grande filosofo scozzese dimostrerà in modo inequivocabile che di tutto ciò che non concerne questioni di fatto basate sull'esperienza o relazioni tra idee (matematica) è inutile discutere, perché si tratta di mere sofisticherie metafisiche e teologiche che meritano solo di essere abbruciate. Per meglio comprendere alcune astruserie del dibattito che stiamo per esporre - ad esempio certe apparentemente inspiegabili concessioni fatte dai deisti ai loro avversari- sarà bene ricordare che la tolleranza (perfino in Inghilterra) non proteggeva l'ateo, e che nell'opinione comune i deistL_çt.:a,Jl() C()nsiderati, al pari . c1ei liberi pensato_!~~~L~~~ C!J!/!1~. Vi fu anche chi distinse__tr__ ~-i_~fil e deis~~ indicando con il primo termine coloro che credevano in un 9:!o _p~~~onale ~--!!:.~~~!!:- o':) _dente..... che seguisse provvidenzialisticam~!!t~.l des_!:ini c1el__m.on_9.g, e.~ con il secondo chi, QP.....!__çg:g~f!.
· PIERRE BAYLE
Pierre Bayle nacque il 18 novembre 1647 a Carlat, una cittadina calvinista della Francia meridionale. Educato in lettere e teologia dal padre, pastore protestante, all'età di 19 anni si recò alla scuola superiore calvinista di Puylaurens, ove studiò appassionatamente Plutarco e Montaigne. Nel 1669 ottenne il permesso di immatricolarsi all'università cattolica di Tolosa, diretta dai gesuiti, e cominciò uno studio sistematico di filosofia. Dopo poche settimane dal suo arrivo nella città costiera, si convertì al cattolicesimo, ma solo per riconvertirsi al protestantesimo poco più di un anno dopo. Poiché le leggi francesi contro gli eretici relapsi (recidivi) erano molto severe, lasciò il regno e si recò a Ginevra in qualità di precettore, proseguendo gli studi ed appassionandosi alla filosofia di Descartes. Certo l'esperienza di questa duplice abiura fu assai importante per Bayle, perché gli permise di sperimentare di persona con quanta facilità ci si potesse
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ingannare nella pretesa di risolvere con mezzi razionali le questioni teologiche. Nel 1674 Bayle tornò in Francia, recandosi sempre come precettore a Rouen. Nella primavera del '75 si trasferì, con lo stesso incarico, a Parigi; nell'autunno di quello stesso anno vinse un concorso per una cattedra di filosofia all'università calvinista di Sédan, grazie anche all'appoggio del teologo riformato Pierre Jurieu (1637-1713). Per sei anni Bayle insegnò e studiò molto intensamente, concedendosi solo brevi viaggi, finché nel 1681 Luigi XIV decise di chiudere le scuole superiori protestanti. Dopo un breve soggiorno a Parigi, Bayle venne chiamato dalla neonata École illustre di Rotterdam. Ricambiando il favore ricevuto anni prima, si adoperò con successo perché venisse chiamato anche Jurieu. Nel 1682 pubblicò, anonimo, uno scritto composto l'anno prima: Pensées diverses écrites à un Docteur de Sorbonne, à l'occasion de la comète qui parut au mois de décembre z68o (Pensieri diversi scritti ad un dottore della Sorbona a proposito della cometa apparsa nel mese di dicembre del z68o). L'avvenimento era stato interpretato dal popolino e da molti teologi come un segno della collera di dio. Bayle invece non solo diede una spiegazione scientifica e razionale del fenomeno, ma soprattutto criticò la credenza che dio ricorresse a mezzi così triviali per annunciare i propri castighi: tale credenza, frutto della superstizione, rappresentava secondo lui la negazione della vera religione. In Francia frattanto si stava preparando l'opinione pubblica alla revoca dell'editto di Nantes (che avverrà nel I685). Nel I68z, un esponente della corrente gallicana, Louis Maimbourg, pubblicò una Histoire du calvinisme (Storia del calvinismo) che conteneva infami calunnie contro i riformati. Bayle replicò con una mordace Critique de l' histoire générale du calvinisme (Critica della storia generale del calvinismo, I68z), che venne arsa pubblicamente per mano del boia a Parigi. Tre anni dopo uscirono le Nouvelles lettres de l'auteur de la Critique générale (Nuove lettere dell'autore della Critica generale). Nel I 684 si fece promotore di una rivista mensile, « Nouvelles de la République cles Lettres », che redasse personalmente fino al 1687, quando una grave malattia lo costrinse a rinunciare all'impresa. L'organo continuò sotto la direzione di un amico di Bayle, Basnage, con il nuovo titolo di « Histoire cles ouvrages cles savants ». Pur difendendo i riformati dalle calunnie di Maimbourg e della pubblicistica cattolica, appoggiata da Luigi xiv, Bayle non sposò mai fanaticamente la causa protestante, bensì trasse sempre argomento dalle persecuzioni per riaffermare la necessità della tolleranza. Questo lo portò ad una rottura con J urieu. Mentre il nostro autore nello scritto Ce que c'est que la France toute catholique, sous le règne de Louis le Grand (Che cosa è la Francia interamente cattolica sotto il regno di Luigi il Grande, I68 5) invitava alla moderazione, Jurieu pubblicava Le vrai système de l'église (Il vero sistema della chiesa, I686), opera in cui, quanto ad intolleranza, si metteva sullo stesso piano dei gesuiti. Nel 1686 Bayle pubblicò i primi due volumi 26 www.scribd.com/Baruhk
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del suo capolavoro contro l'intolleranza: Commentaire philosophique sur ces paro/es de jésus-Christ « contrains-les d'entrer », ou Traité de la tolérance universelle (Commentario filosofico su queste parole di Gesù Cristo «costringeteli ad entrare», o Trattato della tolleranza universale). Nel 1687 apparve uno scritto di Jurieu, Des droits des deux souverains, la conscience et le prince, en matière de religion (Dei diritti dei due sovrani, la coscienza ed il principe, in materia di religione), in cui si sosteneva che la tolleranza spirituale verso l'errore era indice di lassismo morale. Bayle replicò nel terzo volume del Commentario (1687), sostenendo che la tolleranza non era lassismo, bensì frutto di umiltà cristiana, di modestia intellettuale, di fiducia in dio e di amore per la verità. I due si scambiarono altri colpi con scritti polemici, finché nel 1691 Jurieu sporse denuncia presso le autorità olandesi, accusando l'ex amico di essere un sovvertitore dei costumi religiosi, politici e morali, un agente segreto dell'assolutismo di Luigi XIV. Le autorità olandesi gli diedero ragione, e privarono Bayle della cattedra, proibendo gli anche l 'insegnamento privato. Questo ultimo divieto venne poi tolto, ed a Bayle giunsero molte offerte onorevoli e vantaggiose, ma egli non ne accettò nessuna, e preferì vivere frugalmente dedicandosi completamente agli studi, lavorando febbrilmente ad un'opera che aveva progettato dal 169o, e di cui aveva pubblicato un estratto nel 1692. dal titolo Projet d'un dictionnaire critique (Progetto di un dizionario critico). Nel 1694 pubblicò le Additions aux Pensées diverses sur /es comètes (Aggiunte ai pensieri diversi sulle co1nete); nel 1695 apparve il primo volume del Dictionnaire historique et critique (Dizionario storico e critico), seguito dal secondo volume nel 1697. Jurieu ricorse nuovamente alle autorità, denunciando il Dizionario come monumento di empietà, ma questa volta venne sconfitto: a Bayle vennero imposte solo alcune modifiche marginali, che apportò nella seconda edizione (1702.). Le ultime opere del nostro sono la Réponse aux questions d'un provincia/ (Risposta alle domande di un provinciale, 1703-o6), la Continuation des pensées diverses sur /es comètes (Continuazione dei pensieri diversi sulle comete, 1704), oltre ad alcune opere polemiche contro teologi razionalisti. Morì il 2.8 dicembre del 1706, dopo aver lavorato sino alla sera prima. a) Scetticismo e ragione Nonostante che il Dizionario sia poi divenuto l'arsenale erudito dei deisti, dei philosophes e degli increduli, Pierre Bayle, pensatore non sistematico nel quale convivevano razionalismo e scetticismo, fu indubbiamente un apologeta. Fu anzi tra i primi apologeti riformati a rompere l'alleanza tra protestantesimo e razionalismo, ed a fare dello scetticismo, in campo teologico, un preambulum ftdei. Per quanto concerne la conoscibilità degli articoli di fede, Bayle è decisamente pirroniano, e spinge il suo dubbio ben al di là di quello metodico di Cartesio o di quello scettico-atomistico di Gassendi. Al fondo del dubbio iperbolico, Cartesio aveva trovato l'evidenza come solido fondamento di una scienza sistema-
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tica e sicura, garantita da dio. Gassendi ed i libertini avevano polemizzato con Cartesio, sostenendo che l'evidenza era pur sempre sensazione, e quindi non poteva essere fondamento di una conoscenza razionale. Bayle, in uno scolio alla voce « Pirrone » del Dizionario, va molto più in là, criticando sia l'evidenza sensibile, sia quella razionale. Della prima osserva, ad esempio, che se noi ammettiamo la distinzione tra qualità primarie e secondarie, introdotta da Galileo ed unanimemente, quasi, accettata nel Seicento, ed ammettiamo che le qualità secondarie siano solo soggettive, siamo forzati ad ammettere la possibilità che siano soggettive anche le qualità primarie: « Se gli oggetti dei nostri sensi ci appaiono colorati, caldi, freddi, profumati, pur senza esserlo, perché non potrebbero sembrarci estesi e forniti di figura, in quiete e in movimento, anche senza possedere nulla di ciò? » Quanto all'evidenza razionale, essa non può essere accettata senza grave pregiudizio per la fede: « È evidente che le cose che non differiscono da una terza non sono differenti tra di loro: questa è la base di tutti i nostri ragionamenti, e su ciò si fondano tutti i nostri sillogismi; e tuttavia la rivelazione del mistero della Trinità ci assicura che questo assioma è falso. » La conclusione sarà, secondo Bayle, che la fede è vera ma imperscrutabile: «Non ci si deve dilettare nella disputa con i pirroniani, né immaginare che i loro sofismi possano essere facilmente elusi con le sole forze della ragione: occorre invece innanzitutto far sentire loro l'infermità della ragione, affinché il sentimento li conduca ad una guida migliore, che è la fede. » Ma nonostante questa e molte altre affermazioni scettiche, Bayle non era, di fatto, un antirazionalista. Formatosi nello spirito del cartesianesimo, nonostante la critica, sub specie theologiae, del criterio dell'evidenza, assimilò dal fondatore del meccanicismo e da Malebranche principi che non abbandonò mai. Il dualismo cartesiano diviene anzi in Bayle la traduzione filosofica di una netta separazione tra teologia e filosofia: nel campo del divino, l 'uomo non può che accettare la rivelazione, ma nel campo dell'umano (sia· della scienza, sia della storia sia della morale), la ragione deve guidarci in una tenace ricerca della verità: «Nella vera filosofia è un procedimento irragionevole affermare qualche cosa di cui non si ha una rappresentazione chiara e distinta. Proprio perché Cartesio ha dato questa legge a chiunque voglia divenire filosofo egli ha dato, nel nostro secolo, un così grande contributo al compimento della ragione, mettendola in condizione di scacciare i vecchi errori e di evitare i futuri» (Nuove lettere critiche). Se quindi Bayle non consente ai sociniani ed ai libertini di negare la trinità perché non è razionale, nemmeno consente ai teologi di sostenere filosoficamente la razionalità di proposizioni rivelate. Tipica da questo punto di vista la sua polemica contro la teologia razionalistica che cercava di risolvere il problema del male « dimostrando » la solidarietà dell'intero genere umano nel peccato originale di Adamo. Nella Risposta alle domande di un provinciale, Bayle espone i punti fondamentali z8
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del razionalismo teologico riformato: dio è onnisapiente, onnipotente, ecc., e scelse dall'eternità di creare l'uomo, rendendolo libero di obbedirgli o no, ma minacciandolo di grave castigo se non avesse obbedito. Disobbedendo, Adamo ed Eva corruppero insanabilmente sé e la propria discendenza. Nella sua misericordia, dio scelse tuttavia alcuni predestinati, per salvare i quali regge provvidenzialisticamente il mondo intero, senza mai svelare chi sarà salvato e chi dannato. Orbene Bayle osserva che questa dottrina non può essere fondata razionalmente. Alla ragione appare infatti chiaro che dio creò il mondo per bontà, quindi per la felicità delle creature. Egli pertanto non può né poté mai esigere dalle creature che le azioni « buone » fossero tali proprio perché in contrasto con le inclinazioni naturali degli uomini. Lo stesso libero arbitrio non sarebbe mai stato dato da dio agli uomini, se non avesse saputo che ne avrebbero fatto buon uso, perché non è segno di bontà regalare una magnifica seta ad un uomo, sapendo che egli l 'userà per impiccarsi. Inoltre dio certo odia il male, ma il vero odio del male non è nel punirlo, bensì nel prevenirlo, cosa che dio poteva fare, sia in ambito fisico sia in ambito morale, grazie all'onnipotenza. Se non lo fece, egli risulta, filosoficamente, il primo responsabile del male, e quindi è malvagio. Quanto alla dottrina della predestinazione, essa cozza contro il concetto razionale di giustizia: chi potrebbe definire giusto un sovrano che, punendo una città, massacrasse tutti gli abitanti, salvo alcuni scelti a proprio arbitrio? I confini che Bayle traccia tra fede e ragione sono quindi rigorosi: la ragione non può pretendere di criticare la fede, pena il precipitare essa stessa nel pirronismo; ma la fede, dal suo canto, non può strumentalizzare la ragione, pena il cadere nell'incredulità. Sul problema del male, Bayle fu in aperto contrasto con Leibniz che, come sappiamo, lo giustificava con la teoria del migliore dei mondi possibili. Dal punto di vista strettamente filosofico, per Bayle la sola dottrina accettabile è quella del manicheismo - alla quale è dedicata una delle più importanti voci del Dizionario - assai più comprensibile che non quella dell'armonia prestabilita o del peccato originale. Si accetti per fede la falsità del manicheismo, afferma Bayle, ma non si pretenda di dimostrarla razionalmente.
b) La storia L'aspetto razionalistico della complessa personalità culturale del nostro autore si manifesta soprattutto nel suo capolavoro, il Dizionario, opera che affronta un problema del tutto nuovo: la ricerca della « verità » dei fatti storici. In ambito storico il problema della certezza si pone diversamente che in ambito scientifico: per Cartesio, il mondo della storia esulava dal regno della conoscenza certa, perché egli negava ogni fatto che non fosse riducibile ad assiomi evidenti, al modello meccanico, a dimostrazioni rigorose. Anche in Male branche la storia ha una fun-
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zione esclusivamente negativa, servendo solo a far risaltare maggiormente la verità atemporale, astratta e rigorosa della matematica e della logica. Bayle invece si avvale di un dubbio di incontestabile origine cartesiana proprio per conquistare la conoscenza di fatti storici veramente sicuri. Il suo dubbio è però rivolto non contro il fatto storico, bensì contro l'errore che può velarlo o falsarlo; è un dubbio che porta alla scoperta, alla documentazione, alla prova della verità storica. Conscio che la certezza storica è meno rigorosa di quella matematica, Bayle sottolinea che per altri versi essa è più certificabile: è più certo che in rerum natura sia esistito un uomo di nome Cicerone, afferma, che non il triangolo isoscele perfetto del quale, pur con estremo rigore, discorre Euclide. Bayle non ha però ancora una visione organica e coerente della storia; in lui l'amore, la passione per la ricerca del singolo fatto è tale, che sceglie la forma coordinata del Dizionario anziché quella subordinata di una filosofia della storia o quella organica di un trattato storico vero e proprio. Nel Dizionario avvenimenti importantissimi ed avvenimenti insignificanti sono messi sullo stesso piano. Anche in questo campo, inoltre, la complessità della sua personalità rasenta la contraddizione. Il suo pessimismo di derivazione calvinista sulla natura dell 'uomo ed il suo pur parziale scetticismo gli facevano, da un lato, considerare la storia più come un coacervo di delitti ed infamie dovuti all'intolleranza ed al fanatismo che non come un progresso verso la ragione. Ma, d'altro lato, egli mostra anche di credere che da questo cumulo di macerie e di follie si possa trarre un insegnamento positivo, e considera la storia come magistra vitae della nuova scienza, della morale, della tolleranza. Ad ogni modo, quel che è certo è che l'infaticabile tenacia con cui Bayle svela l'errore e denuncia la superstizione e l'intolleranza, l'estrema acutezza con cui studia le condizioni di verità ed attendibilità dei fatti storici - condizioni che dipendono unicamente dai « principi universali della nostra conoscenza » -fanno sì che egli sia stato giustamente definito il « fondatore della " acribia " storica ». Non solo: Bayle fu anche il primo moralista di questa disciplina: nella storia egli applicò concretamente e serenamente la tolleranza, respingendo ogni faziosità e dichiarando: come storico sono «esclusivamente al servizio della verità; questa è la mia unica regina, alla quale ho prestato giuramento di obbedienza».
c) Autonomia della morale e toll~ranza religiosa La riflessione di Bayle sulla tolleranza ha due cardini: uno la ricerca storica, che mostra le infinite rovine causate dal fanatismo; l'altro il rifiuto, decisamente razionalistico, di accettare, nell'ambito dei fenomeni che concernono la esperienza umana, le imposizioni della rivelazione. Lo scetticismo, che in campo teologico era preambulum ftdei, qui scompare, col che ci appare chiaro che esso era soprattutto un rifiuto della sedicente conoscenza razionale di dio e della rivelazione, non un rifiuto globale anche del mondo dei fatti umani. E la morale, questo
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è importantissimo, per Bayle è un fatto umano. Per credere al dogma della trinità, la legge di non contraddizione è non solo superflua, ma dannosa. Ma per dare un giudizio del comportamento di re Davide, e dei comandamenti positivi della Bibbia, il principio di non contraddizione, ed in generale la evidenza razionale di stampo cartesiano, è validissima. Ciò nonostante che Davide ed i comandamenti positivi della morale cristiana abbiano la stessa fonte dei dogmi: la rivelazione. Come da un lato Bayle rende intangibile, con il pirronismo, l'aspetto teologico della fede, così dall'altro rende criticabile, per mezzo del razionalismo, l'aspetto fattuale, positivo, storico, morale della rivelazione, e dà un grandissimo impulso alla critica storica della Bibbia. Già nei Pensieri diversi Bayle aveva osservato che il continuo richiamarsi ai Vangeli non impedì mai ai governi ed alle chiese cristiane di macchiarsi dei più orrendi delitti. È quindi evidente che la morale non dipende dalla confessione religiosa, giacché gli antichi stati pagani non erano certo peggiori degli odierni stati cristiani, ed uno stato governato da atei non si differenzierebbe da nessuno stato europeo. « Ciò pone in luce che nulla è più esposto alla illusione che la tendenza a giudicare i costumi di un uomo in base alle opinioni generali che ha ricevuto. Ancor peggio è giudicare le sue azioni in base ai suoi libri ed alle sue orazioni, che sono pessime garanzie delle inclinazioni dell'autore.» Il comportamento è condizionato in massima parte dalle passioni e dalla abitudine, certo non dalla confessione religiosa. Se quindi la religione positiva non serve, di per sé, al controllo delle passioni, ciò significa che quegli uomini che tentano di raggiungere questo controllo, che si sforzano di essere virtuosi, fanno riferimento ad una morale naturale, uguale per tutti. Non vediamo forse antichi pagani essere esempi di altissime virtù? Atei sacrificare la vita pur di non negare la propria convinzione che dio non esista? Vi è quindi una unica morale naturale per tutti gli uomini, e la santità non è tale perché ci viene comandata da dio, ma ci viene comandata da dio perché è santità. La morale naturale si fonda sul controllo razionale delle passioni; e questo controllo si esercita anche nei confronti della Bibbia. Se i molti massacri ordinati da antichi profeti ebrei contro gli idolatri erano santi solo perché quel profeta si vantava di essere la bocca di dio, allora hanno ragione i libertini, i quali dicono che sono giusti anche tutti gli altri massacri. «Non esiste una terza soluzione: o queste azioni sono indegne, oppure le azioni simili ad esse non sono malvagie » (Dizionario). Questo concetto dell'indipendenza della morale dal senso letterale della rivelazione è espresso limpidamente nel Commentario filosofico, che confuta l'interpretazione letterale di un versetto ,del Vangelo di Luca, «costringeteli ad entrare» (xrv, 23); versetto che i sostenitori di Luigi xrv citavano a sostegno del diritto di perseguitare gli eretici. Secondo Bayle, « tout sens littéral qui contient l'obli-
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gation de faire cles crimes est faux » («ogni senso letterale che contiene l'obbligo di compiere dei crimini è falso»). Nell'uomo esiste una «idea naturale di equità»; orbene « occorre sottoporre tutte le leggi morali, senza eccezione, a questa idea naturale di equità che, al pari del lume metafisica, illumina ogni uomo venuto al mondo». L'equità naturale è «il termine di paragone di tutti i precetti e di tutte le leggi particolari - senza eccettuare quelli che Dio ci ha rivelato ». La tolleranza, oltre che l'unico mezzo per evitare gli orrori e le infamie denunciati dalla ricerca storica, è anche un dovere morale. Bayle è infatti un deciso sostenitore del fatto che lo sbaglio, purché non volontario, non è colpa, quindi della legittimità della coscienza errante: «Un uomo non può mai agire contro i lumi . della sua coscienza errante, senza commettere un delitto. » Certo egli è responsabile se l'errore è dovuto a pigrizia mentale; ma un uomo che credesse in perfetta buona fede ad una confessione errata, fosse pure il paganesimo, che non si fosse mai convinto di altra religione, e non esigesse il rispetto della propria fede pagana, « incorrerebbe davanti a Dio nel delitto di aver disprezzato la verità » (Aggiunte ai pensieri diversi). . IV · IL DEISMO INGLESE
La discussione sulla validità di ogni religione che si pretenda rivelata riveste, nel deismo inglese, due aspetti: il problema dell'evidenza «interna» della religione, e cioè l'esame se la rivelazione presa in sé, a prescindere dai suoi monumenti storici, sia giusta e ragionevole o no, sia necessaria o no all'uomo ed alla salvezza; ed il problema dell'evidenza «esterna», cioè l'esame rivolto ad appurare se quegli stessi monumenti storici - che per la religione cristiana sono l'Antico ed il Nuovo testamento - siano o no degni di fede proprio in quanto monumenti storici. Nel corso della nostra trattazione esporremo separatamente i due aspetti, non mancando di far via via rilevare le loro strette connessioni.
a) Il problema dell'evidenza interna Come si è visto nella sezione precedente, nel r695 Locke aveva pubblicato un'opera intitolata Ragionevolezza del cristianesimo. Anche se il pensiero di questo filosofo fu senza dubbio uno dei punti di partenza del deismo inglese, esso può essere considerato un pensiero apologetico, soprattutto in quest'opera. L'atteggiamento metodico dello scritto è lo stesso che quello del Saggio sull'intelletto umano: dirimere le questioni per mezzo di un esame spassionato, condotto con la ragione e verificato empiricamente. In questo caso, la « verifica » era la lettura dei Vangeli: Locke li lesse prescindendo dai commenti e dalle chiose della scolastica, e quando pubblicò i risultati della sua ricerca era convinto di poter ottenere ciò che aveva almeno in parte ottenuto con il Saggio: spazzare via le pe3Z
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danterie inutili e dannose. Il suo assunto era semplicissimo: quando battezzavano, Cristo e gli apostoli non avevano chiesto nessuna professione di fede nel credo di Nicea, nella confessione augustana o negli articoli della chiesa anglicana, bensì solo di credere che Cristo fosse il messia inviato da dio. Certo credere in Cristo comporta anche credere in ciò che egli ci ha testimoniato nel Nuovo testamento, ma pretendere di fare un catalogo degli articoli di fede è cosa vana: ogni uomo lo può fare da solo, giacché dio dà a tutti la illuminazione necessaria. Anche Locke, come Bayle, difende quindi la coscienza errante: l'errore intellettuale nell'interpretazione delle Scritture non solo non è peccato, ma al limite neppure esiste, a meno che non vi sia una deliberata volontà di alterare il testo. Questa semplicità nascondeva però molti problemi, sentitissimi dai più acuti spiriti della cristianità sin dai tempi medievali, e resi sempre più urgenti dalla riscoperta dei classici greci e latini, attuata già dagli umanisti, e dalle grandiose scoperte geografiche. I cinesi, popolo civilissimo che non poté mai conoscere la predicazione di Cristo, sono necessariamente dannati? E Socrate, Aristotele, Platone? Su questo punto Locke mostra qualche incertezza: egli ha troppo amore giusnaturalistica per la giustizia e l'equità per ammettere che la stragrande maggioranza degli uomini sia dannata senza colpa, ma non vuole rinunciare al fatto che la rivelazione sia necessaria, altrimenti proprio quell'unico articolo fondamentale, la fede nel messia, diverrebbe superfluo. Il problema viene risolto con un compromesso: la rivelazione messianica era necessaria da un punto di vista pratico. Certo alcuni uomini di eccelsa intelligenza possono anche giungere a dimostrare l'esistenza del vero dio e la necessità del messia, ma per la maggior parte del genere umano un simile risultato sarebbe irraggiungibile. È proprio per equità che dio ci ha inviato il messia: perché tutti gli uomini - anche se non· tutti simultaneamente - potessero giungere alla salvezza; non solo i filosofi e gli eccelsi ragionatori, ma anche i ciabattini, le massaie, gli analfabeti. Seppur apologetica, la concezione di Locke ha la caratteristica di basarsi unicamente sulla ragione. Essa nega a chicchessia l'autorità di stabilire quali debbano essere gli articoli fondamentali di un cristianesimo ortodosso. Erano passati solo due anni dalla pubblicazione dello scritto lockiano quando le sue potenzialità deistiche vennero in piena luce: nel 1696 John Toland (16691722), richiamandosi a Locke sia nel titolo sia nel metodo, pubblicò uno scritto intitolato Christianiry not mysterious (Cristianesimo non misterioso). Di Tol~nd si possono ricordare anche altre opere: Nazarenus (1718), nella quale sostiene che i veri seguaci di Cristo furono una setta ebraica che da un lato continuava ad osservare la legge mosaica, dall'altro considerava Gesù un profeta uomo; le Letters to Serena (Lettere a Serena), dedicate alla regina di Prussia, nelle quali sostiene che tutte le forme di religione positiva sono superstizioni nate in epoche barbare; il Pantheisticon (172.0), opera parzialmente spinozista nella quale sostiene l'uniformità della
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natura, esclude i miracoli, nega la catastrofe diluviana e fa addirittura una parodia della religione cristiana e della sua liturgia. Nel Cristianesimo non misterioso il metodo lockiano è spinto sino ad affermare che nel cristianesimo non esistono contraddizioni di ragione, cioè « misteri ». La conoscenza, afferma il nostro autore citando Locke, è percezione dell'accordo o disaccordo tra idee; ma in campo teologico le idee, come mostra la grande varietà delle confessioni, sono tanto confuse che ogni serio paragone è impossibile. Occorre quindi attenersi al metodo newtoniano, che Toland usa con venature scettiche marcate: sulle cause ultime, forzatamente incerte, meglio vale sospendere il giudizio, astenendosi da formulazioni azzardate. Le conseguenze in campo religioso sono rimarchevoli: in primo luogo non possiamo andare oltre quanto ci dice la ragione, e quindi non possiamo accettare nulla che abbia carattere contraddittorio; in secondo luogo, della Bibbia non possiamo accettare se non quanto presenta la massima attendibilità per la ragione. Per « misteri » dunque, spiega Toland, si deve intendere non già una proposizione « incomprensibile», bensì una proposizione «rivelata», fermo restando che la circostanza che una proposizione ci sia stata rivelata non significa affatto che essa non possa essere compresa. Ogni proposizione « incomprensibile » è per Toland pregiudizialmente inaccettabile, ed a questo proposito usa un'argomentazione rimasta famosa: «Una persona che avesse l'assoluta certezza che nella natura esiste un essere chiamato blictri, e nel contempo non sapesse che cosa sia questo blictri, potrebbe nutrire giustamente fiducia nella propria conoscenza? » Tutto sta quindi nel giudicare quali dogmi cristiani siano dei blictri e quali no. La trinità di dio, ad esempio, è un blictri? La risposta di Toland si basa ancora sulla filosofia di Locke: delle cose, noi possiamo conoscere solo l'essenza nominale, non quella reale. I dogmi sono quindi conoscenze relative nel senso in cui sono relative anche le nostre conoscenze scientifiche, ma non « misteriosi », in quanto deve sempre essere possibile conoscerne i nomi (che corrispondono alle idee) percependone l 'accordo o il disaccordo con altri nomi. Toland, certo per prudenza, non si pronuncia né sulla trinità né su altri dogmi fondamentali, e la sola dottrina che rigetta esplicitamente è quella cattolica della transustanziazione. Tuttavia le radicali implicazioni deistiche della sua dottrina sono evidenti: il cristia- · nesimo non è misterioso solo perché le sue proposizioni di fede sono relative; e' tra queste, quelle che appaiono contraddittorie sono senz'altro da respingere. Le reazioni che l'opera di Toland suscitò furono violente. Locke sconfessò ogni paternità indiretta dello scritto, e Samuel Clarke (1675-172.9), nelle Boy/e lectures (1704-05) - di particolare rilievo A discourse concerning the being and attributes oj god (Discorso concernente l'essere e gli attributi di dio, 1705), e A discourse concerning the unchangeable obligations of natura/ religion, and the truth and certainty of the christian revelation (Discorso concernente gli immutabili doveri della religione naturale e la verità e certezza della rivelazione cristiana, 1705) -,tentò di correre ai ripari
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dando una dimostrazione apologetica della verità del cristianesimo. Ispirandosi sia a Locke, sia a Cartesio, sia a Newton, Clarke ambiva a costruire un saldo edificio teologico basato su verità chiare e distinte e cementato da dimostrazioni assolutamente rigorose, seguendo il procedimento antologico a priori che sarà poi aspramente criticato da Hume e da Kant. Con una catena di dodici proposizioni Clarke pensa di poter dimostrare l'esistenza di dio con la stessa certezza con cui Euclide studiò le proprietà dei triangoli. Il succo della sua argomentazione è questo: tutti gli esseri di questo mondo sono effetti dipendenti da qualche causa finita; presi nel loro complesso, questi effetti e queste cause finite costituiscono una catena di esseri dipendenti. Ma supporre che una catena di esseri dipendenti sia, nel suo complesso, indipendente ed increata è contraddittorio, perché la proprietà di un tutto è pari alla somma delle proprietà delle parti. Ergo esiste un essere indipendente, causa sui, creatore degli esseri finiti e la cui non esistenza è contraddittoria. L'universo materiale, anche se preso nel suo complesso, non può essere questa causa sui, perché noi possiamo pensare l'annichilimento della materia senza cadere in contraddizione. Si tratta quindi di un essere spirituale: dio. Clarke ammette che non è possibile all'uomo conoscere a priori tutti gli attributi di questo essere; ma per alcuni attributi la deduzione antologica è valida: dio è eterno, infinito ed onnipresente, perché ciò che è necessario deve essere ubique; unico, perché se fossero due, uno dei due non potrebbe più essere causa universale; intelligente, libero, onnipotente. Fin qui però Clarke ha discorso del dio della ragione (e quindi dei deisti), non di quello cristiano della rivelazione. Con la stessa esigenza di rigore egli si accinge quindi a dimostrare, per mezzo di quindici proposizioni fondamentali, la verità e la necessità della rivelazione. La legge morale, afferma richiamandosi a Locke, ha lo stesso grado di certezza della conoscenza matematica: che si debba agire verso il prossimo nello stesso modo in cui si vorrebbe esso agisse verso di noi è come dire che la somma degli angoli di un triangolo è pari a I soo, Ogni azione santa quindi lo è in sé, non perché comandata da dio. Ciò non lede però la libertà di dio, giacché la santità è insita nell'ordine della natura, liberamente dato da dio alla creazione. Ma allora, si può chiedere, a che pro la rivelazione? Se religione e moralità sono come la matematica, in che modo spiegare che Platone ed Aristotele abbiano fallito là dove è riuscito Euclide? La risposta è ancora quella di Locke: come la stragrande maggioranza degli uomini non riuscirebbe ad elaborare gli Elementi di Euclide, così essa non riuscirebbe a conoscere la vera religione e la vera morale. La rivelazione è stata voluta da dio, nella sua bontà, per motivi pratici, per salvare anche le massaie ed i ciabattini. Inoltre, come si è detto, non tutti gli attributi di dio sono deducibili a priori. L'uomo, ad es., può sperare che dio sia misericordioso, ma non dimostrarlo, ed una incerta speranza può incoraggiare la
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superstizione, i sacrifici umani per placare la collera di dio, ecc. La rivelazione era quindi necessaria. Ma allora, perché fu fatta solo ad una piccola minoranza del genere umano? Dio sarebbe ingiusto? Clarke non riesce a rispondere né a questo né ad altri problemi. Ed in effetti, il richiamo alla giustizia distributiva di dio fu sempre un argomento a favore dei deisti: dio, essendo giusto, ha dato a tutti gli uomini la ragione, ed essa basta a raggiungere la salvezza; la rivelazione è un sovrappiù. Nonostante gli intenti apologetici, Clarke, pretendendo di fare uso della sola ragione, si muove di fatto sul terreno dei deisti, tanto che venne definito un «deista cristiano». Non è quindi da stupire che, anziché placare la polemica, egli l'abbia alimentata. Caratteristica ad esempio l'opera di William Wollaston (1660-1724), Religion of nature delineated (Delineazione della religione naturale, 1722), nella quale si deduce con la sola ragione il decalogo, senza fare nessun riferimento alla rivelazione del Sinai; e ciò, nonostante che anche Wollaston fosse un apologeta, e che il fulcro del suo scritto fosse la dimostrazione dell'immortalità dell'anima. Ecco le linee generali di questa dimostrazione: dio è buono, quindi non può aver creato gli uomini in modo che le gioie siano inferiori ai dolori; ma in questo mondo i dolori sopravanzano nettamente le gioie, quindi deve esistere un altro mondo in cui, se i meriti del singolo individuo glielo consentiranno, egli sarà felice (è interessante notare che, nella descrizione dei dolori del mondo, l'autore si sofferma sul pauperismo e sulle conseguenze della rivoluzione industriale). Nel 1730 Matthew Tindal (1653 ?-1733) pubblicò il capolavoro della critica deistica della evidenza interna: Christianity as o/d as the creation (Cristianesimo antico quanto la creazione). Egli si appoggiò a Clarke, usandolo a fini deistici, come Toland si era appoggiato a Locke. Clarke ha ragione - osserva Tindal - nel dire che si può dimostrare a priori l'esistenza di dio e la giusta morale, nel sostenere che queste verità sono eterne ed immutabili come quelle matematiche. Ma ciò significa che l 'uomo le conosceva sin dal primo giorno della creazione. Come pensare infatti che dio abbia spregiato il maggior dono che diede all'uomo, la ragione, ed abbia capricciosamente eletto come oggetto della rivelazione (superflua) un popolo rozzo ed ignorante come quello ebraico? Come credere che dio abbia posto in condizioni di inferiorità la stragrande maggioranza degli uomini, trascurando di far loro conoscere la rivelazione messianica? Il criterio essenziale della verità della rivelazione è la sua universalità, indipendente da ogni limitazione spazio-temporale: la religione cristiana è vera solo in quanto coincide con una rivelazione naturale antica quanto il mondo. La rivelazione messianica è valida solo in quanto rienunciazione della rivelazione naturale, appannaggio del genere umano dal giorno della sua nascita. Tindal rifiuta anche ogni criterio di autorità. Dio per giustizia distributiva non può aver favorito alcuni uomini, dando solo a loro il privilegio di interpretare le Scritture. La religione è sostanzialmente simile ad un contratto, le cui
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clausole sono scolpite nella coscienza e nella ragione di ognuno, perché sarebbe ingiusto che dio non avesse dato ad ogni uomo anche la capacità di intendere ed applicare quelle clausole e di salvarsi. Tindal è quindi avverso ad ogni forma di comandamenti e liturgia positivi, e pensa che la religione confuciana sia superiore a quella cristiana, ebraica e maomettana. Le superstizioni positive che si addensano in queste religioni occidentali sono anzi per lui l'indice che dai tempi della creazione l'uomo non ha affatto progredito; i vizi e la corruzione sono aumentati, soprattutto a causa dei preti e delle chiese. Tra gli avversari di Tindal possiamo ricordare John Leland (1691-1766), che pubblicò scritti contro vari deisti ed un'opera apologetica generale, che può valere ancora oggi come buona fonte per conoscere i dibattiti del tempo. Lo svolgimento del dibattito stava implacabilmente mettendo in luce la verità di quanto aveva detto Bayle: per la ragione è impossibile tentare una dimostrazione delle verità di fede senza cadere nello scetticismo. Caratteristica da questo punto di vista l'opera dell'apologeta William Law (1686-1761), autore di una The case of reason, or natura/ religion fair!J stated (Il fatto di ragione, o religione naturale equamente stabilita, 176z), in cui osserva che il deismo dell'evidenza interna ha costruito tutto sulla presunzione che il concetto umano della giustizia possa essere esteso a dio. Per Law ciò è assurdo, perché la natura divina è del tutto diversa da quella umana: « È certo che la legge secondo cui Dio agisce deve essere sotto molti riguardi interamente inconcepibile per noi, tale da non poter essere conosciuta affatto, e non c'è caso alcuno in cui possa essere conosciuta completamente ed intesa interamente. » Law quindi respinge non solo il deismo, ma anche il razionalismo teologico di Clarke; la nostra ragione, afferma, nulla può senza la rivelazione e senza la fede per conoscere dio e la morale. Che vale infatti la ragione in materia morale e religiosa, se chi nasce maomettano vive in genere da maomettano, chi nasce pagano da pagano, e solo chi nasce cristiano da cristiano? Solo la rivelazione può salvare l 'uomo. Tra gli autori dell'evidenza interna va ricordato anche Thomas Chubb (1679-1747), sostenitore della possibilità di ridurre il cristianesimo a tre proposizioni fondamentali: la morale consiste nel seguire l 'universale legge della coscienza; il pentimento rende all'uomo peccatore la grazia di dio; dio giudicherà gli uomini dalle loro azioni, e darà a ciascuno secondo i suoi meriti. Per dimostrarè queste tre proposizioni, Chubb usa tutta una gamma di proposizioni deistiche, come la negazione di un piano provvidenzialistico, dei miracoli e dell'ispirazione letterale della Bibbia. Nell'opera di Thomas Morgan (m. 1743), invece, sono presenti spunti di una filosofia della storia della religione: ai tempi della creazione l'uomo aveva una religione naturale equilibrata e sana, che si corruppe per causa di una sorta di feticismo, consistente nel voler scorgere l 'intervento diretto di dio negli eventi naturali: piogge, siccità, terremoti, malattie, morti, tutto venne fatto dipendere 37 www.scribd.com/Baruhk
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da interventi diretti della divinità. Questo stato di corruzione dell'umanità, di decadimento dalla religione naturale, venne messo a profitto da vari lestofanti, come Mosè, che se ne valsero per tiranneggiare il popolo. Paolo di Tarso, nemico dei farisei, è esaltato come « libero pensatore » della sua epoca, come difensore della religione naturale predicata da Cristo contro il fanatismo ed il settarismo giudaicizzanti di Pietro e degli altri apostoli. Con Morgan il problema dell'evidenza interna comincia a fondersi con quello dell'evidenza esterna, cioè con l'analisi dell'attendibilità della Bibbia come monumento storico. Nell'opera di Henry Dodwell (?-1784) Christianity not founded on argument (Cristianesimo non fondato su argomenti, I 742.) si ha un lucido consuntivo del dibattito sull'evidenza interna. Clarke, osserva l'autore, h~ cercato di fondare l'apologia sulla ragione, ma ogni passaggio delle sue vantate dimostrazioni rigorose ha solo dato luogo a mille nuove diatribe, anziché spegnere le discussioni. Per parte loro gli ortodossi dovrebbero, di fronte allo sconfortante panorama dell'apologia, quanto meno ammettere il dubbio, ed invece continuano ad esigere la più cieca obbedienza al principio di autorità. Né ragione né autorità possono quindi salvare la fede, e Dodwell propone di seguire la via della « illuminazione interiore », che si ottiene abbandonandosi, senza pregiudizi, alla fede. Andate in una assemblea di fedeli raccolti in preghiera, egli esclama, e chiedete loro se ciò che li spinge li è una generalissima e generica idea di un dio naturale e razionale, o non piuttosto una passione, un amore interiore per dio e Cristo? Ancora una volta, è da parte apologetica che si fanno valere argomentazioni scettiche che preludono al pensiero di Hume. Sotto questo rigu.ardo possiamo ricordare anche Bolingbroke (1678-1751) in cui si registra la stanchezza per la decennale disputa ed il rifiuto di ogni forma di «delirio metafisica». A differenza di Law e Dodwell, Bolingbroke fu un deista, ma egli non credeva che la ragione potesse giungere là dove non era mai giunta la teologia tradizionale: a dare una definizione certa di dio. « La conoscenza umana, >> afferma recisamente, « è relativa, non assoluta », e quindi tanto la teologia di Clarke quanto l'antologia di Tindal vanno ugualmente respinte. Anche in Bolingbroke appaiono elementi di una filosofia della storia delle religioni: i primi uomini furono idolatri e politeisti, afferma, ed il monoteismo rappresenta un progresso. Tuttavia la sua considerazione non è per nulla lineare od ottimistica: catastrofi sono sempre possibili, perché l'andamento delle civiltà è ciclico: «dalla generazione alla corruzione e dalla corruzione alla generazione».
b) Il problema dell'evidenza esterna Da quanto abbiamo esposto sino ad ora, risulta chiaro che la posizione degli apologeti razionalisti era una contraddizione in termini, e ciò spiega come mai i deisti, anche se tra loro non figurano grandi pensatori, riportarono facilmente la vittoria sul piano del dibattito filosofico. Sul piano dell'evidenza esterna, il
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punto d'attacco dei deisti era ancora più facile, e si ricollegava agli spunti di critica biblica contenuti non solo in Bayle, ma anche in Galileo, Hobbes e Spinoza. Come credere che Giosuè avesse fermato il sole e che ciò non fosse più possibile ai generali cristiani del xvm secolo? Per gli apologeti, la storia era irrimediabilmente scissa in due tronconi: uno che si perdeva nella notte dei tempi e nel quale i miracoli erano cosa ordinaria, ed uno che coincideva con l'esperienza storica dell'umanità, e nel quale erano del tutto assenti. Un seguace di Herbert di Cherbury e di Thomas Hobbes, Charles Blount (1654-93), pubblicò alla fine del Seicento un'opera in cui sosteneva che i miracoli biblici erano frutto della superstizione di secoli barbari: Oracles of reason (Oracoli della ragione, 1693). Contro di lui scese in campo quegli che può essere considerato il Clarke dell'evidenza esterna, Charles Leslie (165o-1722), autore di un A short and easy method with the deists (Metodo breve e facile contro i deisti, 1697). Egli proponeva quattro regole o canoni di veridicità dei miracoli: 1) che fossero stati tali da poter esser percepiti con sicurezza dai sensi umani; z.) che fossero stati fatti pubblicamente, alla presenza di testimoni; 3) che fossero poi stati ricordati con festività e ricorrenze pubbliche; 4) che queste festività datassero dall'epoca in cui era stato compiuto il miracolo. Le prime due regole miravano a certificare che i testimoni non si fossero ingannati e non potessero esser stati ingannati; le seconde due, che la loro certezza fosse stata trasmessa, integra, ai posteri. Leslie era convinto che con le sue quattro regole si potesse dimostrare la verità di tutti i miracoli biblici e la falsità di quelli coranici, ed aggiungeva che esse facevano si che il cristianesimo non fosse basato sull'autorità, bensi sulla testimonianza, giacché negare la veridicità della Bibbia sarebbe equivalso a negare quella del De bello gallico. Tra Mosè e Vercingetorige non ci sarebbe più stata nessuna differenza riguardo all'attendibilità delle azioni loro attribuite. Il maggior deista dell'evidenza esterna fu Anthony Collins (I676-172.9), il quale giudicava che i miracoli fossero solo allegorie. Con l'opera di Collins apparve chiaro che il deismo metteva in moto un meccanismo irreversibile: anche se non si riusciva a provare che un singolo miracolo, poniamo quello della risurrezione di Cristo, fosse falso o comunque privo di verità storica effettiva, il deismo costringeva gli apologeti a continue difese di questo o quell'evento miracoloso, e quindi di fatto faceva penetrare i criteri dell'acribia storica nella Bibbia, dissacrandola praticamente. Di Collins ricordiamo An essay concerning the use of reason (Saggio sull'usQ della ragione, 1707), ma soprattutto A diJcourse on freethinking (Discorso sul libero pensiero, 171 3); l'autore sosteneva che la fede deve basarsi sulla ricerca razionale libera (free enquiry, da non confondersi con il « libero esame » di Lutero), e che quindi ogni concezione sovrannaturalistica andava abbandonata. L'opera di Collins suscitò violentissime proteste da parte degli ortodossi,
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tanto che egli (che pure era un esponente whig molto vicino alla dinastia protestante) fu costretto a riparare per un certo periodo in Olanda. Nel 1724 pubblicò però un altro scritto, veramente esplosivo: A discourse of the grounds and reasons of the christian religion (Discorso sui fondamenti e le ragioni della religione cristiana). L'occasione dello scritto venne data dall'apologeta William Whiston (1677-1752), un matematico che occupava la cattedra che era stata di Newton, e che era fedele al grande predecessore anche nel tentativo di difendere la Bibbia. Nel 1722, Whiston aveva pubblicato uno scritto in cui prendeva soprattutto in esame il problema delle « concordanze »: nei Vangeli si afferma spesso che le azioni di Cristo furono realizzazioni di profezie contenute nell'Antico testamento, ma il più delle volte quelle profezie non appaiono realizzate alla lettera. Orbene la pretesa di Whiston era questa: cotreggere l'Antico testamento, alla luce del Nuovo, considerando spurio ciò che non era stato realizzato da Cristo. Collins lo prese in contropiede: in realtà, poiché Gesù e gli apostoli conoscevano lo stesso Antico testamento che conosciamo noi, il testo della vecchia rivelazione ebraica è il solo canone di veridicità di quella messianica, la quale si appellava a quella antica rivelazione. Ma poiché appare chiaro, come lo stesso Whiston ammette, che tra i due testi non vi è concordanza, non resta che una soluzione: Gesù e gli apostoli intesero miracoli, profezie, ecc. unicamente come allegorie, che non necessitavano di una espletazione letterale. Collins suffragava la sua tesi con i risultati di uno studio della lingua ebraica fatto in Olanda. L'esame della tradizione talmudica aveva mostrato che spessissimo i rabbini usavano di varie libertà: la Bibbia poteva essere letta con una punteggiatura diversa da quella corrente (ricordiamo che le lingue antiche non erano punteggiate); si potevano scambiare tra di loro le lettere dell'alfabeto ebraico (anche questo procedimento è molto in uso nella lingua ebraica, che viene scritta senza vocali); si potevano interpolare lettere e parole, espungeme altre, invertirne l'ordine; si potevano suddividere e comporre parole. Collins mostrava come queste regole fossero state applicate dai rabbini e dagli stessi apostoli nell 'interpretazione della Bibbia, e fossero di uso corrente nella filologia ebraica. La conclusione che traeva era che le profezie ebraiche non erano state rispettate alla lettera, e che miracoli, profezie, ecc. erano da considerarsi fatti allegorici e non storici. Queste tesi vennero riprese da Thomas Woolston (1669-1733), che probabilmente collaborò direttamente con Collins nella stesura dei Discourses on the miracles (Discorsi sui miracoli, 1727-29). La sua critica dei miracoli evangelici è estremamente mordace ed egli osserva, ad esempio, che i magi avrebbero fatto meglio a donare a Maria del sapone, dello zucchero e delle candele, piuttosto che dell'incenso e della mirra. Pensare che Gesù abbia voluto imporre una fede nei miracoli come «fatti», equivarrebbe a fare di lui un furfante, e della Bibbia il testo più truffaldino di tutti i tempi, sicché opporsi all'interpretazione allegorica
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significava, a suo giudizio, bestemmiru:e. La interpretazione allegorica conservava invece un valore spirituale preciso: la mutazione dell'acqua in vino avvenuta alle nozze di Cana, veniva interpretata come allegoria dell'unione di Cristo con la chiesa confessante: la mancanza di vino simboleggia la carenza di fede nello Spirito Santo, ed il nuovo vino la sostituzione del senso allegorico a quello letterale. Dopo le critiche di Collins e Woolston gli apologeti si ridussero alla difesa del miracolo fondamentale della religione cristiana: la risurrezione. Interessante da questo punto di vista l'opera di Thomas Sherlock (1678-176I), che nello scritto The tryal of the witnesses of the resu"ection of Jesus (Esame delle testimonianze sulla risurrezione di Gesù) discusse la veridicità della risurrezione simulando un dibat-
tito in un tribunale inglese del XVIII secolo. L'argomentazione deistica, osserva Sherlock, pretende che la risurrezione sia falsa, perché contraddice il corso uniforme della natura. Ma, aggiunge (anche questa è una implicazione scettica che precorre Hume), «quando gli uomini parlano del corso della natura, in realtà pru:lano dei propri pregiudizi e delle proprie immaginazioni ». La testimonianza di molte persone, come gli apostoli, che dimostrarono di essere disinteressate, pagando con il martirio le loro affermazioni senza ritrattarle, ha più valore della nostra esperienza sempre lacunosa ed incerta. Il miracolo della risurrezione è quindi vero. Questo legame con la tradizione giuridica inglese, che già allora godeva di enorme prestigio, fu molto importante perché costrinse a fare un passo innanzi: a esaminare se la Bibbia potesse o no essere considerata frutto di testimonianze oculari. Decisiva fu qui la critica di Conyers Middleton (I683-175o), il quale si affermò con uno scritto intitolato A letter from Rome (Lettera da Roma, 1729), che venne inteso più come una critica protestante del cattolicesimo che non come un'opera deistica. Con Middleton la critica comincia ad operare in profondità, e ad assumere il carattere di storia comparata. Esaminando i riti cattolici, la dislocazione e l'architettura delle basiliche romane, il culto dei santi e le ricorrenze del calendru:io, egli mostra come il cattolicesimo sia infarcito di antichi elementi pagani, e come lo stesso papa sia solo una versione rammodernata del pontifex maximus dei romani. La vecchia accusa di Lutero, Roma è la « Babilonia moderna », veniva suffragata dalla ricerca storica. In un altro scritto, diretto contro Daniel Waterland (1683-1740), Middleton sposava la tesi dell'interpretazione allegorica e le dava un fondamento di storia comparata, mostrando come gran parte dei costumi ebraici non fossero affatto dovuti ad una rivelazione divina, ma fossero copiati da costumi egiziani. Egli asseriva che difendere l'interpretazione letterale della Bibbia era il mezzo migliore per screditarla. In un'opera postuma, Remarks, paragraph lry paragraph, upon the proposals for a new edition of the Testament (Riflessioni, paragrafo per paragrafo, sulle proposte per una nuova edizione del Testamento), egli giungeva poi ad una formulazione assai rigorosa dell'acribia storica: «Nelle ricerche teologiche il problema è lo
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stesso che nelle ricerche naturali: solo l'esperienza e l'osservazione dei fatti possono chiarire la verità dei principi. I fatti sono cose ostinate, che derivano la propria esistenza dalla natura; per quanto spesso mal rappresentati e distorti ad arte e con falsi pretesti, tuttavia è impossibile che siano totalmente cambiati o resi docili ai sistemi che per avventura sono di moda; presto o tardi, ridurranno sempre le opinioni degli uomini all'accordo e alla conformità con se stessi. » Nonostante il rigore di questo principio, Middleton ammetteva la possibilità che parte dei miracoli biblici fossero autentici, voluti da dio per diffondere la rivelazione. Ma quelli dopo il n secolo (quindi anche quelli della patristica) erano senz'altro falsi. Dopo la sua opera, per screditare definitivamente i miracoli non restava che un passo da compiere: mostrare che i miracoli di tutte le epoche hanno la stessa origine e caratteristica: l'inclinazione dell'uomo alla superstizione. Questo passo verrà compiuto da Hume. In William Warburton(1698-1779) la polemica tra deisti ed apologeti denuncia chiaramente la stanchezza, che in questo autore dà luogo ad una sorta di misantropia culturale e ad un esasperato amore per il paradosso. Per lui tutti o quasi gli autori che abbiamo nominato sono fuori strada, o bigotti o senza dio. Warburton fu un apologeta che tentò di rovesciare paradossalmente le tesi dei deisti. Questi avevano puntato i loro strali contro l'Antico testamento, accusandolo di essere un'inattendibile congerie di superstizioni? Egli si propone, come dice il titolo della sua opera maggiore, The divine legation of Moses demonstrated (Dimostrazione dell'ambasciata divina di Mosè, 1737-41), di mostrarne l'origine divina con argomenti paradossali. Tutti gli uomini in tutte le epoche, osserva, ammettono che la dottrina di uno stato futuro - nel quale vi sarà premiazione dei meriti e punizione dei delitti - sia necessaria per il mantenimento dell'ordine morale e sociale. Questa convinzione era molto diffusa tra i popoli antichi del tempo di Mosè. Ebbene, osserva l'autore, questa idea· dello stato futuro non è presente nella rivelazione mosaica, il che dà luogo al seguente « sillogisma »: Mosè non era un pazzo, e quindi non avrebbe omesso di far riferimento ad una dottrina così utile per governare il popolo, se l'avesse giudicato necessario; se non lo fece, fu perché sapeva di poter contare su di una forza ben maggiore: la certezza che l'onnipotente sarebbe intervenuto miracolosamente per convincere gli ebrei dell'utilità di seguire la sua legge. Così l'assenza di una menzione esplicita della vita eterna diviene il fulcro della dimostrazione che la vita eterna esiste, e che la legge mosaica era rivelata direttamente da dio. Di questo autore va ricordata un'altra circostanza paradossale per un apologeta: cioè che egli avviò la storicizzazione di dio! Nel comportamento dell'onnipotente vede infatti la seguente evoluzione: dapprima egli avrebbe eletto arbitrariamente il popolo ebraico tra tutti gli altri e, governandolo proprio come un re terreno, si sarebbe impegnato non solo alla premiazione e punizione ultraterrena,
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ma anche a rendere a ciascuno il suo durante la vita terrena. All'epoca di Davide e Salomone, dio avrebbe incaricato nuovi profeti (come Samuele) di predicare la vita ultraterrena, e nel contempo avrebbe ridotto proporzionalmente i propri interventi diretti, delegando il potere ai re d'Israele come suoi viceré. Infine, con la nascita del messia, avrebbe lasciato ogni preferenza per il popolo ebraico, divenendo il monarca costituzionale di tutti gli uomini. A questa evoluzione si sarebbe accompagnata l 'importanza via via crescente della dottrina dello stato futuro. Con questa storicizzazione di dio, Warburton crede anche di poter spiegare la scomparsa dei miracoli: nella sua nuova veste di monarca costituzionale, egli si comporterebbe come la dinastia inglese con il parlamento: regnerebbe senza governare, cioè senza intervenire direttamente negli affari terrestri, e rispettando egli stesso quelle leggi di natura che in passato sarebbero state suggellate dalla sua onnipotente autorità. Ricordiamo infine Joseph Butler (1692-1752), che lo stesso Hume citerà come proprio precursore, ed i cui scritti maggiori sono i S ermons on human nature (1726) e l'Analogy (1736). In questo autore- su cui ritorneremo nell'ultimo paragrafo per illustrarne l'opera morale - l'uso dello scetticismo come preambulum ftdei ha di nuovo un posto preminente, e la caratteristica delle sue argomentazioni è di essere fondate sul principio dell'analogia sfruttato con il ricorso ad ignorantiam. In tal modo egli pensa che si possa dimostrare, seppur imperfettamente, non solo la verità della fede, ma anche che il dio rivelato dalla Bibbia sia lo stesso che si manifesta nello studio analogico della natura. Le argomentazioni di Butler si fondano spe!sso sulla filosofia morale. L'esistenza di dio viene data per scontata; quella dell'anima è dimostrata con un'argomentazione di sapore clarkiano: l'anima non può essere materiale, perché le proprietà di un aggregato materiale sono pari alla somma quantitativa delle proprietà delle singole parti. Poiché le singole parti del corpo non pensano, nemmeno il corpo nel suo complesso, inteso come entità meramente materiale, potrà pensare. Il principio del pensiero è quindi l'anima, trascendente al corpo, immateriale, incorruttibile, semplice. Il ricorso analogico ad ignorantiam differenzia però l'argomentazione di Butler da quella di Clarke, che pretendeva di essere assoluta. Butler osserva che poiché noi constatiamo che singole amputazioni parziali per lo più non spengono il pensiero, possiamo presumere (ecco il ricorso ad ignorantiam) che anche l'annullamento di tutto il corpo non lo spenga, e quindi che esista l'anima. Si tratta ovviamente di un'argomentazione solo negativa, che acquista un illusorio carattere positivo proprio dalla sua incompletezza. Con lo stèsso procedimento, Butler dimostra l'esistenza di un piano provvidenziale nel mondo. Ognuno di noi, osserva, non ha l'impressione di vivere in un caos, bensì in una rete, seppur finita, di relazioni abbastanza ordinate e stabili, che gli consentono di fare delle previsioni. Possiamo quindi supporre che, per analogia, questo ordine si estenda anche al di là delle nostre piccole cerchie finite, 43
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e dipenda direttamente da dio. Nell'ambito delle nostre esperienze noi vediamo inoltre che ad un'azione buona segue spesso gioia, e ad una cattiva, dolore. Possiamo quindi presumere che questo piano provvidenziale contempli uno stato futuro, di premiazione del bene e punizione del male. E siccome le leggi naturali sono ordinate in modo tale, che alla virtù si presume di solito che segua il bene, ed al vizio il male, questa è una prova che il dio della natura, studiato da Newton, è lo stesso che il dio della rivelazione. Ma evidentemente Butler non poteva sostenere che alla virtù segue sempre il bene! Anzi, ammette che spesso accada il contrario. Come distinguere allora il male derivante dal martirio per una causa giusta dall'esecuzione patita per mano del boia in seguito ad un delitto? Il male del mondo, afferma Butler, è dovuto al fatto che esso è una valle d'esilio, un periodo di prova per raggiungere lo stato futuro. Ed il fatto che l'uomo sia capace di sopportare il martirio (e quindi il male) per amore del bene, dimostra proprio che la legge morale esiste,' che è scolpita direttamente da dio nel cuore degli uomini. L'uomo si attende che alla virtù segua il bene, la sua moralità gli dà una testimonianza in questo senso. Ora, il fatto che questa testimonianza non sempre sia rispettata dimostra proprio che si tratta di una rivelazione non contingente ma assoluta, avvertita come vera a dispetto di tutte le avversità, e diviene la testimonianza del fatto che la vita in questo mondo è un periodo di prova per l'altro mondo. Il fatto che il mondo sia una «prova», comporta che in esso l'uomo sia libero, non necessitato, perché altrimenti non vi sarebbe né merito né demerito, e quindi lo stato futuro diverrebbe inutile. Della libertà dell'uomo, Butler dà una dimostrazione molto interessante, che prelude alle argomentazioni di Hume, e che è indice della stretta fusione che l'autore fa tra legge naturale e legge morale, tra il dio della rivelazione e quello della natura. Supponiamo, egli dice, che un ·ragazzo venga allevato nel più completo fatalismo, cioè nella convinzione che tutto sia necessitato. Un simile ragazzo non vivrebbe a lungo, perché ben presto gli capiterebbe di uscire con disinvoltura dalla finestra di un alto palazzo anziché dalla porta, tanto sarebbe convinto che gli toccherebbe di morire solo se la sua ora fosse già suonata, e che altrimenti non dovrebbe temere nulla. È possibile questo? Evidentemente no, perché le possibilità che gli uomini hanno di sperimentare le leggi della natura, e di avere timore di infrangerle, sono infinite, e nessuno sarà tanto fatalista - a meno di essere pazzo - da avventurarsi senza tema nel vuoto. Il comportamento pratico contraddice quindi il fatalismo. Analogamente, è impossibile che un ragazzo sia educato a mentire senza provare la minima vergogna, perché potrà sempre fare esperienza del fatto che la sua coscienza gli proibisce di peccare e che il male genera vergogna. Quindi anche in campo morale facciamo esperienza diretta della libertà, e il dio della morale e della rivelazione appare ancora una volta essere lo stesso dio delle leggi naturali. Anche sul problema dell'evidenza esterna Butler segue l'argomentazione ad 44
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ignorantiam: il fatto stesso che i deisti sentano il bisogno di accanirsi a dimostrare la infondatezza del racconto biblico dimostra che esso, di per sé, è attendibile. Nulla asta quindi a che sia vero, e dunque possiamo senz'altro presumere che lo sia. Butler non fu un grande filosofo, ed i suoi procedimenti analogici sono sempre estremamente lacunosi. Tuttavia egli ebbe il coraggio di sostenere che noi sappiamo poco di dio, solo perché sappiamo poco di tutto, e di legare strettamente !:apologetica con la morale. Per questi aspetti della sua opera, egli è stato paragonato a Pascal. Inferiore al filosofo francese per penetrazione intellettuale e vastità d'interessi, ebbe però in comune con lui la sfiducia nella ragione e la fiducia nella morale e nella fede. V
· GEORGE BERKELEY
Il più vigoroso avversario del deismo fu però non Butler, bensì il vescovo anglicano George Berkeley (1685-1753), originale sintetizzatore delle tendenze empiriche e scettiche con la tradizione platonica del realismo delle essenze. Spirito profondamente cristiano, missionario e pioniere di un nuovo ordine sociale in America, vescovo infine della diocesi anglicana di Cloyne in Irlanda (ove seppe cattivarsi la stima e l'affetto degli stessi cattolici), Berkeley fu pensatore coltissimo non solo dal punto di vista religioso e speculativo, ma anche da quello scientifico e matematico. Dal punto di vista strettamente filosofico il suo grande avversario fu il materialismo (a suo giudizio implicito nella concezione meccanicistica e newtoniana dell'universo), contro cui seppe ideare argomenti che avranno enorme peso nella storia della filosofia successiva. Anche Berkeley, come Locke, prende le mosse dall'istanza empiristica, e si domanda che cosa ci sia possibile conoscere « al di là » delle percezioni. Locke gli appare, da questo punto di vista, ancora preda di un dualismo: da un lato aveva racchiuso la conoscenza nei limiti dell'esperienza, ma dall'altro non accettava di vedere nel mondo un prodotto dell'esperienza, considerandolo ancora come origine e condizione di essa. Berkeley superò questo dualismo sviluppando il concetto empiristico della corrispondenza e dipendenza tra idea e percezione sensibile. Nell'opera An essay towards a new theory of vision (Saggio su una nuova teoria della visione, 1709), egli critica le nozioni di spazio ed estensione, che Cartesio aveva identificato (nella res extensa) e che altri filosofi, tra cui Locke, avevano invece distinto. Sia Cartesio sia Locke si erano comunque basati sulla galileiana distinzione tra qualità primarie e secondarie, distinzione nella quale Berkeley vede la prima radice di quella filosofia materialistica che costituirebbe il più temibile nemico del cristianesimo. Per stroncare il pericolo a suo giudizio non vi è che un mezzo: porre sullo stesso piano qualità primarie e secondarie, osservando che le prime non sono né così indipendenti da 45
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noi, né così costanti, da giustificare l'attribuzione ad esse di una effettiva esteriorità. A questo scopo, egli critica in primo luogo, come dicevamo, le nozioni di spazio e di estensione. Seguendo il metodo di Locke di vagliare la consistenza delle idee con l'analizzarne l'origine, Berkeley studia la nozione di spazio in collegamento ai due sensi - i l tatto e la vista - cui suoi venir attribuita la capacità di percepire i rapporti spaziali. Egli comincia col notare che « le idee della vista e del tatto formano due specie completamente distinte ed eterogenee »; la vista percepisce soltanto sensazioni di luce e colore, mentre il tatto percepisce le distanze e grandezze dei corpi. Il fatto appare evidente se collochiamo ad una certa distanza da noi (per esempio a cento metri) una sfera rossa di un metro di diametro: la vista ci darà soltanto un dischetto colorato; la distanza, la grandezza, la sfericità di questo dischetto deriveranno invece dall'associazione psicologica di esso con quelle idee di tatto che il dischetto ci preannunzia. Data l'irriducibilità di vista e tatto, quest'associazione sarà però qualcosa di intrinsecamente arbitrario, come la connessione fra parole e idee: le percezioni visive vengono a « suggerirei » le idee di distanza e grandezza « così come le parole di una lingua qualsiasi suggeriscono le idee, per rappresentare le quali quelle parole sono state escogitate ». Solo l'esperienza e l 'abitudine giustificano l 'associazione in esame: «Tanto che un uomo nato cieco, al quale in seguito fosse data la vista, non potrebbe, a un primo sguardo, rappresentarsi come fuori della propria mente le cose che egli vede. » Alla nozione di spazio non spetta dunque alcuna obiettività, e sarebbe gratuito fondarsi su di essa per attribuire un significato realistico alla cosiddetta esperienza spaziale. L'oggetto dell'intuizione spaziale si risolve in una sintesi psichi ca, in una relazione che istituiamo tra i dati di differenti campi sensoriali; ogni affermazione sulle relazioni spaziali è frutto dell'intelletto, non della sensazione. In tal modo l'esigenza empiristica lockiana, dalla quale Berkeley era partito, viene per così dire svuotata dall'interno. Per quanto riguarda la nozione di materia, il risultato dell'analisi di Berkeley è ancora più sorprendente. La materia dovrebbe costituire, secondo la filosofia tradizionale, il substrato degli oggetti, ossia ciò che sorregge le loro qualità pur essendo irriducibile a queste qualità stesse. Molte sono tuttavia le difficoltà insite in siffatta concezione. Sappiamo per esempio che Locke sostiene da un lato l 'inconoscibilità del substrato anzidetto, dall'altro la necessità di fare ricorso ad esso quale causa delle percezioni che si formano in noi, indipendentemente dalla nostra volontà. Se~onché, proprio la distinzione tra qualità primarie e secondarie rende estremamente equivoca la pretesa inconoscibilità del substrato: ed inve~o, se ammettiamo che la materia è fornita delle qualità primarie, come potremo negare che essa risulta in qualche modo conoscibile? Chi potrà, d'altra parte, pretendere che il substrato delle nostre percezioni sia effettivamente conosciuto, se si sostiene- come Locke- la sua irriducibilità al mondo delle percezioni?
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Berkeley dà un taglio netto a queste difficoltà mutando i termini di rapporto tra i due capisaldi della filosofia del Seicento, sensazione e riflessione. In Locke dominava ancora la concezione di due «metà» del reale: alla percezione corrisponderebbe il mondo cosiddetto «esterno», alla riflessione quello «interno». Berkeley si chiede invece: è proprio necessario accettare questa distinzione? Esiste una percezione assolutamente semplice, distinguibile dalla riflessione? No, risponde Berkeley: non è il nostro occhio, inteso in modo immediato, che vede, ma il nostro spirito che, depurando la percezione visiva di ogni immediatezza, le dà significato. Nella Nuova teoria della visione Berkeley distingue tre piani: quello anatomico-fisiologico, che esamina come mai l'occhio veda materialmente; quello della disposizione geometrico-spaziale delle cose viste (questa disposizione, insiste Berkeley, è già frutto dell'astrazione); quello filosofico, che spiega come e perché l'uomo arrivi alla visione:« Spiegare come lo spirito e l'anima dell'uomo giungano a vedere, è l'unico problema rientrante nel compito della filosofia.» Questo problema non potrà evidentemente essere risolto con mezzi logici, poiché è impossibile stabilire nessi logici tra due sfere eterogenee come quella tattile e quella visiva. Riprendendo ancora l'esempio del cieco nato, messo in grado con una fortunata operazione, di vedere, Berkeley si chiede: aprendo gli occhi, il neoveggente sarà in grado di porre immediatamente in relazione il tavolo che vede con il tavolo che tocca? Certamente no, e quando arriverà a fare questa correlazione che tutti facciamo, essa sarà dovuta unicamente all'esperienza, non ad un processo razionale di unificazione delle sfere sensoriali. La nostra mente opera secondo principi associativi dovuti ali 'esercizio ed ali 'abitudine (habit: il vocabolo tornerà in Hume), non alla ragione. La problematica è ripresa ed approfondita nello scritto A treatise concerning the principles of human knowledge (Trattato sui principi della conoscenza umana, 1710). Se, come abbiamo testé visto, non v'è motivo di credere né all'esistenza del substrato, né all'esistenza di una percezione sensoriale significante di per sé (senza la riflessione), allora appare chiaro che in nessun modo possiamo considerare le nostre sensazioni «copie» del mondo esterno. L'esistenza delle cose è solo nel loro venir percepite (esse est percipi). Ogni oggetto è solo la collezione delle idee percettive che ne abbiamo, e la materia non è altro che un « nome >>. Ma qui si annida una grossa difficoltà, della quale Berkeley si rende perfettamente conto: perché abbiamo l 'idea astratta di « uomo », anziché la semplice collezione di idee (o « nomi >>) dei singoli uomini che possiamo percepire? di Giuseppe, Pietro, Giovanni, ecc.? Perché abbiamo il concetto astratto di retta, anziché solo la collezione delle rappresentazioni dei singoli segmenti che possiamo percepire? Chiunque studi le proprietà della retta non può, in realtà, che studiare quelle di una linea finita, disegnabile su un foglio di carta o alla lavagna. «Tale linea, in sé e per sé particolare, è cionondimeno universale nel suo significato, poiché, secondo il modo in cui viene qui adoperata, essa rappresenta qualsiasi 47
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retta particolare; in tal caso, ciò che è dimostrato riguardo ad essa, varrà per tutte le linee o, in altre parole, per la linea in generale. » Anche i Three dialogues between Hylas and Philonous (Tre dialoghi tra Hylas e Philonous, 1713) affrontano questo gravissimo problema: come conciliare l'origine empirica del nominalismo berkeleyano con la funzione universale attribuita ai nomi? Che cosa può essere da noi considerato « reale », visto che non possiamo sperare di paragonare le nostre percezioni ad un mondo esterno? Reale, risponde Berkeley, è ciò che viene da noi percepito secondo una certa uniformità, costanza e regolarità; reali sono quei gruppi di sensazioni che, a differenza dei prodotti vaghi e continuamente mutevoli della fantasia e del sogno, si presentano alla percezione come immutabili, omogenei, costanti, uniformi. Il criterio di realtà non è quindi nelle cose, bensì in noi, in un canone del loro venire percepite da parte della nostra coscienza. Non solo: questa costanza ed uniformità del « reale » non può essere basata su argomentazioni razionalistiche, ma esclusivamente sull'habit, cioè sull'esperienza. E tuttavia non è l'esperienza da sola che ci fa dire che cosa sia reale e cosa no; è un criterio ideale, o meglio coscienziale: l 'u.nlformità e la costanza con cui percepiamo. Questa coincidenza tra criterio di realtà e criterio di uniformità porta Berkeley, per tanti versi antinewtoniano, ad un giudizio molto vicino a quello che Newton aveva dato della legge scientifica. Anche per Berkeley, reale è ciò che è passibile di una legge scientifica universale e necessaria; anche per Berkeley, la spiegazione di un fatto risulta cosi ridotta ad una sua correlazione rigorosa con i fatti che l'hanno preceduto e con quelli che lo seguono, senza che abbia luogo la pretesa di conoscere la causa ultima, il substrato ultimo dei fenomeni. Tanto più singolare è quindi la circostanza che Berkeley abbia criticato molti aspetti del sistema scientifico newtoniano, principalmente i concetti di spazio e tempo assoluti ed il calcolo delle flussioni. Sia l'infinitamente grande, sia l'infinitamente piccolo non possono essere percepiti, e quindi vanno respinti pregiudizialmente. Ma Berkeley, che aveva profonde conoscenze matematiche, spinse la sua critica anche nei dettagli, e nel 1734 pubblicò uno scritto polemico intitolato The analist: or a discourse adressed to an infedel mathematician (L'analista, ovvero discorso ad un matematico injèdele), in cui utilizzava le aporie riscontrabili nell'analisi infinitesimale newtoniana a fini apologetici. Voi, affermava rivolto agli scienziati newtoniani, esaltate la ragione al punto da mettere in forse la fede, ma non avete timore di accettare un calcolo, come quello delle flussioni, che non ha nessuna base razionale dimostrabile. Tale calcolo, osserva Berkeley, è costellato di errori, e se in certe applicazioni può anche condurre a risultati veri, ciò dipende unicamente dal fatto che questi errori finiscono a volte, per puro caso, con il compensarsi a vicenda. Ma come può rifiutarsi di credere ai misteri della fede cristiana chi accetta una matematica sicuramente irrazionale? A Berkeley risposero immediatamente due newtoniani di stretta osservanza:
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James Jurin, sotto lo pseudonimo di Philaletes Cantabrigiensis, e John Walton. Essi dichiararono che il filosofo non aveva capito le idee di Newton e che solo per questo poteva pretendere di trovare degli errori nell'analisi infinitesimale. Il diffondersi dell'opinione che questo nuovo tipo di calcolo non meritasse a rigore nessuna fiducia li preoccupava moltissimo, come pure l'accusa che la costruzione scientifica newtoniana non risultasse accordabile con la fede cristiana. Berkeley non si diede per vinto e, nel medesimo 1734, pubblicò una risposta dal titolo A defence of free-thinking in mathematics (Difesa del libero pensiero in matematica). La polemica proseguì per alcuni anni, senza riuscire a smuovere né l'uno né l'altro dei contendenti dalle proprie posizioni. Certo le critiche del nostro filosofo non erano prive di fondamento, dato che a quel tempo l'analisi era un edificio ancora privo di rigore (ad esempio non si era trovata ancora una sistemazione razionale di concetti fondamentali come quello di limite, di convergenza, di somma di infiniti termini, ecc.). Ma egli cadeva nell'eccesso di rifiutare globalmente questo strumento matematico che si stava rivelando fecondissimo, e soprattutto di basare questo rifiuto più che altro su considerazioni psicologistiche: il limite psicologico della percettibilità del finito viene considerato come la prova decisiva che il processo di divisibilità sia limitato; la stessa considerazione vale, all'inverso, per l'accrescimento illimitato (quindi per i concetti newtoniani di spazio e tempo assoluti). Berkeley è così costretto a rifiutare tutto ciò che non è percepibile, ad esempio anche i numeri irrazionali (persino la famosa yz e lo stesso teorema di Pitagora, che porta alla definizione di grandezze incommensurabili). Ma è evidente che in tal modo torniamo ancora una volta a quell'aporia gravissima dell'impostazione berkeleyana, alla quale abbiamo ripetutamente accennato. Se infatti si respingono concetti (come quelli newtoniani) perché non percepibili, per qual motivo accetteremo poi il concetto di « uomo », di « retta », ecc. certo altrettanto impercepibili? Berkeley non solo si rende conto di questa difficoltà, ma anzi la accetta e la esaspera, facendone il cavallo di battaglia della propria impostazione apologetica. Verissimo, afferma, la funzione universale dei « nomi » non può provenire da noi stessi, dato che non ha nessuna base empirica nelle nostre percezioni. Ciò vale per tutti i concetti, anche per quello più generale di tutti, l 'uniformità e la costanza della natura, sul quale, come si è visto, si basa il nostro stesso giudizio di realtà. Ma se l'universalità dei «nomi» non ci può venire dall'esperienza, e non può essere prodotta da noi che siamo incatenati all'esperienza, non può che venirci da una causa universale superiore a tutto: dio. Senza questo rimando a dio, l'esperienza non ha alcun senso. È dio che introduce, immette nella nostra coscienza le impressioni sensibili, seguendo una uniformità ed un ordine preordinati dalla sua provvidenza infinita, e suscitando in noi, mediante l' habit, il concetto de Il 'uniformità della natura, dell'esistenza del mondo esterno, ecc. Ecco quindi quale è la vera spiegazione del rapporto, ad esempio, tra la sfera sensoriale della vista e quella del tatto: «Le idee della vista sono il
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linguaggio per mezzo del quale lo spirito sovrano da cui dipendiamo ci informa delle idee tangibili che egli imprimerà sopra di noi, nel caso che noi eccitiamo nel nostro corpo tale o tal altro movimento. » Se Butler ci aveva ricordato Pascal, Berkeley ci ricorda senza dubbio l'occasionalismo, anch'esso apologetico e platonizzante, di Malebranche. Ma il vescovo anglicano è ancora più radicale dell'oratoriano francese: se la natura della materia è nell'esser percepita, ciò significa che esistono delle sostanze immateriali che la percepiscono; queste sostanze immateriali - cioè spirituali possono essere di due categorie: lo spirito infinito, cioè dio che è la causa universale di ogni percepibile e di ogni percepiente finito, e le anime particolari, finite, degli uomini. La distruzione del realismo gnoseologico del mondo esterno diviene quindi, in Berkeley, l'unico strumento apologetico decisivo. Chiunque accetti la soluzione realistica non può non distinguere tra essere e pensiero, e quindi è costretto ad accettare una impostazione, come quella meccanicistica e newtoniana, che fatalmente abbassa dio al rango di artefice il quale, dato il primo impulso al mondo, se ne disinteressa. Solo l'antirealismo berkeleyano garantirebbe che dio continui ad essere la causa universale, dato che anche la più insignificante delle nostre percezioni ha senso solo se fatta risalire direttamente alla causa universale divina: «Come è certo che il mondo sensibile sussiste realmente, così pure è certo che esiste un essere infinito, onnipresente e spirituale, il quale contiene in sé e sostiene tale mondo. » Se ci si ferma al piano meramente sensibile, tutto si frantuma necessariamente in un coacervo di percezioni disorganiche; solo ammettendo che la percezione sia segno del linguaggio divino possiamo dare ordine al mondo. Nell'Alciphron (Alcifrone, 1723), Berkeley afferma che lo stesso concetto di legge scientifica non può derivarci dalla sensazione, bensì solo dall'illuminazione divina. Come si vede, siamo passati da una problematica lockiana empiristica ad una soluzione idealistico-platonica. In Siris (1744), Berkeley elabora una ascesi dai sensi alla ragione. I sensi, afferma, sono fonte di illusioni che tengono prigioniero e schiavo l'uomo; l'intelletto è il primo raggio di luce in questo regno di ombre, e ci consente, con l'aiuto divino, di elevarci ai concetti universali di unità, identità ed esistenza. Con evidente riferimento al platonico mito della caverna, Berkeley scrive: «Le cose, che prima sembravano costituire per noi tutto l'insieme della realtà, diventano fuggevoli fantasmi, non appena noi le consideriamo con l'occhio dell'intelletto.» L'idea, nel senso platonico di aitìa e arché, è la causa, il principio attivo del mondo; solo essa, non la sensazione, è fonte di conoscenza, proprio come aveva affermato Platone nel Teeteto. L'antinewtonianesimo di Berkeley diventa quindi il corrispettivo moderno dell'antidemocritismo di Platone. La ragione, afferma l'apologeta anglicano in evidente polemica con tutta la tradizione scientifica inaugurata da Galileo e portata alla massima perfezione in Newton, ci è data da dio per scopi più nobili che
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non la conoscenza quantitativa della natura. Il suo oggetto naturale è la conoscenza qualitativa, teologica e teleologica (cioè provvidenzialistica) dell'universo. Berkeley, per tanti versi filosofo sottilissimo ed impastatore di problemi che travaglieranno per i secoli seguenti il pensiero filosofico, ci appare, sotto questo riguardo, ancora uno scolastico, sostanzialmente disancorato dalla corrente più feconda del pensiero moderno. La sua opera è tuttavia, come si è visto, estremamente complessa, e presenta una sintesi originalissima di empirismo scettico e di platonismo idealistico ed apologetico. VI
· I MORALISTI INGLESI
Parallelamente alla controversia deistica vi fu, in Inghilterra, una notevole fioritura di moralisti. La circostanza non deve stupire: una volta che venga messa in forse la rivelazione, cioè la religione positiva, entra in crisi anche la credenza dogmatica secondo cui morali sono le azioni comandate direttamente da dio. Se l'imperativo «non uccidere» non si regge più sulla rivelazione del Sinai, perché l'uomo continuerà a considerare immorale l'omicidio? Il problema, come si è visto, aveva appassionato Hobbes, Spinoza, Bayle, Locke e molti altri pensatori. Si trattava quindi di dare una fondazione « laica » alla morale, sganciandola dal testo biblico. Anche qui, vediamo una netta distinzione tra apologeti e no. Per brevità, ci soffermeremo tuttavia solo sulle figure di maggior rilievo. Nel novero dei moralisti inglesi del Settecento, spiccano due figure nettamente contrapposte tra di loro, entrambe legate ad una visione anticonfessionale della morale: Shaftesbury e Mandeville. Anthony Ashley Cooper, lord di Shaftesbury (1671-1713), era stato allievo di Locke, di cui conosciamo dalla sezione rv gli stretti legami con questa famiglia patrizia. Egli tuttavia si distaccò dall'illustre maestro, richiamandosi in larga misura proprio a quella scuola platonica di Cambridge che Locke aveva combattuto con tanta energia, e la sua prima opera fu una prefazione ai Sermons di B. Whichcote. Uomo coltissimo, aveva viaggiato molto, soggiornando tra l'altro in Italia (dove si era formato una cultura estetica vastissima) ed in Olanda, ove aveva conosciuto Bayle. Un suo primo scritto, An inquiry concerning virtue (Ricerca sulla virtù), venne pubblicato abusivamente da Toland nel 1698. Gli altri suoi saggi apparvero tra il 1708 e il 1711, e sono raccolti sotto il titolo di Characteristics. Shaftesbury, come i platonici di Cambridge, era avverso all'utilitarismo puritano ed all'empirismo pragmatico baconiano. Egli reputava che i principi gnoseologici e morali siano sostanzialmente coincidenti ed innati nell'uomo. L'ordine della natura, asseriva, è lo specchio dell'ordine morale, e come l'uno è immanente all'universo, così l'altro è immanente all'uomo e alle sue azioni. La maggiore originalità del nostro autore sta proprio in questa identificazione tra morale e gno-
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seologia, da lui espressa con una geniale formulazione del!' estetica: bene e verità, afferma, coincidono perché hanno la stessa « bella forma ». La forma diviene così indice rivelatore della sostanza: una forma bella ed armoniosa è indice di una sostanza nobile e vera. La virtù non può che essere bella, armoniosa e piacevole; ed il vizio, per contro, brutto, sgraziato e disarmonico. Questa identificazione tra bellezza e verità introduce anche un altro concetto: quello di humour. Ciò che è sgraziato e sproporzionato, e quindi falso ed immorale, non può non essere anche comico, ridicolo. Il ridicolo diviene quindi, in certo modo, il criterio della verità, perché solo ciò che resiste al ridicolo, ciò che ha una forma tanto equilibrata ed armoniosa da risultare inattaccabfle dal riso, è vero. Il ridicolo diviene anche uno strumento catartico per liberare l'uomo dalle superstizioni, ed è ridicolizzandolo che Shaftesbury critica l'« entusiasmo», termine con cui designa la bigotteria, la superstizione, il fanatismo (ed è con la satira che egli pensa di distruggere il cattolicesimo, tipica religione, per Shaftesbury, dell'entusiasmo). Il ridic,alo è anche uno strumento di emancipazione politica e sociale, giacché l'entusiasmo è uno strumento nelle mani dei potenti e delle gerarchie ecclesiastiche per tenere schiavo il popolo. Per confutare i miracoli (verso quelli evangelici Shaftesbury conserva però un seppur ironico rispetto) dei ciarlatani, dei sedicenti profeti, degli esaltati, basta satireggiarli. Shaftesbury condivide anche l'ottimismo dei platonici di Cambridge (e quello di Leibniz): la virtù porta la felicità, ma non è assolutamente riducibile al principio utilitaristico ed edonistico per cui è virtuosa un'azione che reca piacere. Certo la virtù reca piacere, ma non perché sia subordinata ad esso, bensì perché rientra nell'ordine divino immanente all'universo, che tutto intero è da considerarsi mirabile opera d'arte, capolavoro di bellezza, di giustizia e di felicità. Il fondamento teologico della morale di Shaftesbury, che pure fu un deista, appare cosl evidente. Per lui dio è il creatore, il primo principio di un universo perfetto, nel quale l'armonia (e quindi la virtù e la felicità) regnano incontrastate. Credere in dio significa percepire l'armonia tra noi e l'universo, avere il senso della bellezza del creato; non crederci, significa esservi sordi. L'ateismo va quindi condannato, come va condannata la confessionalità bigotta ed entusiasta. Il dio di Shaftesbury è ancora una volta quello della scuola di Cambridge: più il principio archetipo del mondo che non un dio personale e trascendente. Per il moralista ogni forma di antropomorfismo va ridicolizzata come entusiasmo. Vi è un altro punto importante che oppone Shaftesbury agli apologeti: egli respinge il dogma della corruzione umana causata dal peccato originale. Nel contesto della sua visione filosofica l'uomo non può che essere intrinsecamente buono, bello e virtuoso, con un senso morale (che Shaftesbury definisce anche istinto divino) innato, al quale affidarsi per distinguere il bene dal male, per amare la virtù ed odiare 11 vizio. Il senso morale è però solo un aspetto particolare del più generale senso estet1co di cui dio ci ha gratificato; grazie al quale senso estetico
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percepiamo la bellezza e l'armonia, e quindi anche la verità e la giustizia. «Ciò che è bello, » scrive, « è armonioso e proporzionato, e ciò che è armonioso e proporzionato è vero; ciò che è ad un tempo sia bello sia vero è, conseguentemente, piacevole e buono. » Quanto alle passioni, Shaftesbury le divide in tre categorie: quelle che portano al bene del prossimo (quindi al bene pubblico); quelle che portano al bene proprio; quelle che portano al male. Queste ultime sono, in certo modo, non reali, non rientrando nell'armonia della natura; Shaftesbury le chiama infatti « affezioni innaturali ». Criticandole, e criticando le loro manifestazioni concrete, il moralista non fa cosa diversa dall'esteta che critica le brutture formali di un dipinto o dal filosofo che critica un principio errato. Ma se l'etica è come l'arte, ci potranno forse essere etiche diverse, come ci sono arti diverse? In una cattedrale gotica, l'arco a sesto acuto è armonioso, mentre stonerebbe in una costruzione greca classica. È allora possibile una morale nella quale l'omicidio sia virtuoso? In altre parole: la morale è storicizzabile o è eterna? Shaftesbury supera la difficoltà affermando che ogni forma di arte, ogni forma di morale, trova il proprio fondamento nell'armonia, e che l'armonia ha una oggettività reale, che funge da modello archetipo a tutte le azioni e realizzazioni concrete, storiche. Quali che siano gli indirizzi artistici, le leggi della proporzione e dell'intrinseca armonia tra le parti permangono. Tra una guglia ed un arco a sesto acuto di una cattedrale gotica intercorre un'armonia intrinseca identica a quella che si riscontra tra un capitello ed una colonna di un tempio dorico. La morale è quindi, in quanto armonia, eterna ed immutabile, e Shaftesbury, da platonico, è un realista della virtù: l'armonia morale ha una realtà antologica. Anzi, le proporzioni sono così eterne e fisse, che possono essere studiate con la stessa certezza dei principi matematici (come aveva affermato anche Locke). Il capolavoro di Bernard Mandeville (1670-1733) venne pubblicato in due tempi: nel I 704 apparve anonimo un poemetto intitolato The grumbling hive: or knaves turn'd honest (L'alveare scontento, ovvero i furfanti diventati onesti); nel 1714 Mandeville ripubblicò il poemetto, inserendolo in un'opera intitolata The fable of the bees: or private vices, public beneftts (La favola delle api, ovvero vizi privati, benefizi pubblici). La nuova opera conteneva, oltre al poemetto, un commento in prosa ai versi salienti ed una introduzione. Come affermava lo stesso Mandeville, non era possibile concepire due filosofie più radicalmente opposte che la sua e quella di Shaftesbury. Il pensiero morale di Mandeville ebbe grandissima risonanza, anche grazie ad una straordinaria capacità dell'autore di esprimere gli aspetti più importanti della sua impostazione filosofica in aforismi paradossali, che colpivano la fantasia (ce ne fornisce un esempio già lo stesso sottotitolo, che afferma crudamente che i vizi privati sono fonte di bene pubblico). La tesi di Mandeville, estremamente penetrante per spiegare la « ricchezza »
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di una società capitalistica, è che i vizi (come il lusso, lo sperpero, l'invidia, la lussuria, ecc.) sono utili al fiorire della società, perché costringono i ricchi a spendere, quindi a mettere in circolazione capitali e a dare lavoro ai poveri. Il vizio di seguire la moda e di vestirsi lussuosamente, ad esempio, costringe a farsi continuamente abiti nuovi, ed implica l'ambizione di farli più belli di quelli del vicino che si invidia. « A questa emulazione e continua gara per superarsi vicendevolmente si deve se, dopo molte innovazioni e cambiamenti della moda - inventandone di nuove e rinnovando le vecchie - ai più ingegnosi rimane ancora un plus ultra. È tutto ciò, o almeno la sua conseguenza, che mette al lavoro i poveri, stimola l'industria e incoraggia l'artigianato intelligente a migliorare il suo lavoro.» Invece la «virtuosa» massima dell'accontentarsi del proprio stato, di ricercare la ricchezza interiore anziché quella del mondo è, socialmente, sinonimo di «pigrizia», e pertanto risulta «nociva all'industria», causa della povertà delle nazioni. La conclusione di Mandeville è quindi spregiudicatamente realista, e dà un quadro certo non completo, ma assai penetrante dei primi decenni ruggenti di un secolo che vide l'impetuoso affermarsi, soprattutto in Inghilterra, della rivoluzione industriale: « Quel che rende un animale socievole non è il suo desiderio di vivere insieme agli altri, la sua bontà, la sua pietà, la sua affabilità o le altre grazie di una bella apparenza, ma ... , invece, le sue qualità più basse e odiose sono le doti più necessarie per renderlo adatto alle società più grandi, che sono, a giudizio del mondo, le più felici e fiorenti.» Perfino le calamità, non teme di affermare Mandeville, sono utili alla società. I disastri provocati a Londra da un incendio, scrive, hanno causato lutti, pianti e rovine; ma hanno dato lavoro ad innumerevoli carpentieri, manovali, fabbri, falegnami, sicché la somma dei benefizi provocati da quella catastrofe supera la somma dei dolori. Ciò vale anche per le guerre, che provocano distruzioni ma stimolano la produzione. Nonostante che le radici hobbesiane e machiavelliche di queste realistiche considerazioni sulla società della prima rivoluzione industriale siano evidenti, il pensiero di Mandeville conserva però un impianto teologico. Dalla teologia infatti egli accetta il concetto che il piacere sia cosa viziosa (e per piacere intende tutto ciò che va al di là delle necessità immediate del nudo selvaggio o del trappista che si ritira dal mondo), sicché mentre rovescia la morale ascetica, ne conserva paradossalmente i valori. Giunge pertanto a considerare il commercio, l'industria, la stessa cultura, l'amore per l'arte e per le invenzioni tecniche che consentono di evitare disagi e fatiche, come peccato, non come elementi di una nuova morale umanistica e laica, sicura del proprio orizzonte e capace di cercare in esso nuovi valori che eliminino le conseguenze nefaste della prima rivoluzione industriale, conservandone i pregi. Essi devono esistere solo « fino a quando ne cogliamo i benefizi». Malgrado questo fondamento teologico, Mandeville suoi essere considerato 54
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il primo acuto moralista della civiltà industriale sebbene sia doveroso notare che anche da questo punto di vista la sua pur brillante analisi risulta alquanto carente. Nell'esaltazione del lusso e non del risparmio, egli appare ancora legato agli schemi del capitalismo commerciale, per il quale la ricchezza consisteva nella circolazione delle merci, più che a quelli del capitalismo industriale. Non capì che le forme di « ascesi mondana » dei puritani, dei giansenisti, degli stessi primi grandi capitani d'industria, realizzavano una condizione essenziale per lo sviluppo industriale: l'accumulazione di capitale da investire e la priorità data all'investimento sul consumo di lusso. In conclusione possiamo dire che l'opposizione di Mandeville a Shaftesbury non potrebbe essere più radicale, e che dei due Mandeville si rivela pensatore assai più acuto e' vigoroso. Come Hobbes, egli è risolutamente avverso ad una morale naturale, ed ha anzi una visione storica di essa: i vizi variano con il progredire dell'industria e dei lussi, e quindi hanno una dimensione storica, positiva. Tra i moralisti del Settecento inglese meritano inoltre di venire ricordati: Samuel Butler, del quale abbiamo già illustrato l'opera apologetica, Francis Hutcheson, David Hartley, Joseph Priestley e Adam Smith. L'opera morale del primo si colloca in gran parte nella scia di Shaftesbury, nonostante che Butler, del quale abbiamo sottolineato le affinità con Pascal, abbia un senso del peccato, del male e della corruzione umana causata dal peccato originale, ignoto al facile ottimismo di Shaftesbury. Di che natura è, egli si chiede, il male morale? Perché consideriamo peccato l'omicidio commesso da un uomo, e non quello perpetrato da una tigre che sbrana un inerme bambino? La risposta ricorda il criterio estetico di Shaftesbury: l'azione della tigre è in armonia con la sua natura, mentre l'omicidio è in irrimediabile c"ontrasto con l'armonia insita nella natura umana. Ma come discernere, allora, questa disarmonica sproporzione che chiamiamo male, peccato? Ancora una volta, riappare l 'insegnamento del filosofo dell'armonia; in tutti gli uomini è innata la coscienza, dataci da dio perché giudicassimo azioni ed inclinazioni. E poiché il dio che ci dà la coscienza è lo stesso che governa il corso del mondo con un piano provvidenziale, anche Butler, come Shaftesbury, crede che la virtù arrechi felicità; infatti dio ha creato il mondo per bontà, e quindi lo ha fatto felice, sicché seguire i suoi piani (suggeriti daila coscienza), comporta una partecipazione a questa bontà universale e una fruizione dei suoi piacevoli frutti provvidenziali. Se ne deduce che le azioni _virtuose, pur senza essere dettate da un movente utilitaristico, contribuiranno a rendere felice chi le compie. Per Butler la coscienza è il principio regolatore delle passioni, che egli divide in due classi: quelle che interessano più davvicino la vita morale (come l'amor proprio e la benevolenza verso il prossimo), e quelle che ci spingono immediatamente ad agire nel mondo (come la fame, la sete ecc.). La funzione di queste ultime è eminentemente pratica, ed esse, come per Shaftesbury, hanno una aseità 55
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antologica indipendente dalla loro applicazione concreta, proprio in quanto ci sono date originariamente da dio per guidarci nella vita pratica. Con la sola ragione non potremmo convincerci della necessità di mangiare; la passione innata della fame sopperisce a questo pericolo di atarassia. È una spiegazione praticoteologica che mira ad eliminare ogni fondazione utilitaristica anche da questo tipo di passioni. È infatti evidente che se noi mangiamo per un impulso originario datoci per il nostro bene dal disegno provvidenziale divino, ogni considerazione sull'utilità o sul piacere di mangiare risulta, ai fini della nostra azione, irrilevante. Butler riesce, in certo modo, a sfuggire alla dicotomia delle impostazioni di Shaftesbury e Mandeville. Dal filosofo dell'ottimismo morale prende vari elementi (quello del senso morale - che in Butler diviene la coscienza - come spia dell'armonia tra virtù e natura umana; quello dell'innatismo dei criteri morali), ma d'altra parte non chiude gli occhi (ed in questo ricorda Mandeville) sul male del mondo e sul fatto che l 'uomo è peccatore; sfugge tuttavia ad una soluzione utilitaristica assorbendo anche la felicità arrecata dalla virtù nel piano provvidenziale di dio, che trascende l'uomo ed i suoi calcoli. Le opere principali di Francis Hutcheson sono: Ideas of beauty and virtuc (Idee di bellezza c virtù, 1725); Passions and affections (Passioni cd affezioni, 1728); 5_ystcm ofmoral philosop~y (Sistcmadiftlosofta morale, uscito postumo nel 1755). Più vicino a Shaftesbury che a Butler, Hutcheson asserisce che in questo mondo la felicità è di gran lunga superiore alla miseria, e che dio ci si manifesta come architetto e legislatore attraverso l'armonia della natura. Ma, a differenza di Shaftesbury, egli non dissolve dio nel principio archetipo del mondo, bensì, apologeticamente, lo considera un essere personale. Inoltre egli ammette che il male esista, anche se (con Leibniz) ritiene che rientri in un piano provvidenziale per un bene maggiore. L'originalità di Hutcheson risiede specialmente nell'articolazione da lui data al senso morale di Shaftesbury. Egli distingue anzitutto i sensi esterni dai sensi interni, e tra questi ultimi enumera il senso della bellezza e dell'armonia (immaginazione), il senso di simpatia per il prossimo, il senso di piacere che danno le azioni, il senso del pudore, dell'onore, della dignità, il senso sociale e quello religioso. Quando questi sensi entrano in conflitto (ad esempio quando il senso di un'azione piacevole urta quello dell'onore), interviene, come supremo principio regolatore, il senso morale, che è superiore a tutti gli altri ed indipendente da essi. Ma in che cosa consiste il senso morale? Sviluppando Shaftesbury, Hutcheson dichiara che si tratta di una tendenza naturale ad approvare sentimenti ed azioni che abbiano come scopo il bene pubblico. Non volendo però cadere in una concezione utilitaristica, egli non ammette che il bene pubblico sia la causa della moralità di tali azioni e sentimenti. Tale causa resta la volontà divina, nella quale bene pubblico e senso morale concorrono armoniosamente. È comunque evidente che, una volta accettata questa definizione della virtù come bene pubblico,
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Trasformazioni nell'impostazione del problema religioso e morale
basta un piccolo spostamento dell'angolo visuale per laicizzare la virtù e dire che l'utile collettivo non ne è l'effetto concomitante, ma la causa efficiente. Questo passo sarà compiuto da Hume, come vedremo nel capitolo v, dedicato all'esposizione del suo pensiero. Una posizione particolare, tra i moralisti del Settecento inglese, è occupata da David Hartley (1705-57), autore di uno scritto intitolato Observations on man, his frame, his dury and his expectations (Osservazioni sull'uomo, la sua struttura fisica, i suoi doveri e le sue prospettive, 1749). Dedicatosi alla medicina dopo aver coltivato gli studi teologici, fu profondamente influenzato da Locke e da Newton. Subì pure l 'influenza della morale puritana calvinista, il che lo indusse ad accettare la dottrina della necessità: tutti gli atti umani, asseriva, sono retti da una ferrea legge che concatena implacabilmente cause ed effetti, e solo dio è veramente libero. Ma come far rientrare in questo schema la virtù, dato che essa sembra richiedere la possibilità di scelta tra le azioni, e quindi la libertà? Per Hartley ciò non solo è possibile, ma la necessità può anche essere conciliata con la felicità. Da un lato sostiene che noi siamo virtuosi perché dio ci ha costruiti tali; dall'altro, radicalizzando Shaftesbury, afferma addirittura che tutti gli uomini sono attualmente felici, giacché dio li ha creati in modo che lo divenissero necessariamente. Merita di venire ricordato che l'influenza newtoniana dà luogo nel nostro autore ad una sorta di studio delle passioni e del pensiero ispirato allo studio della legge di gravitazione universale dei corpi. Dopo aver affermato che dio è la causa efficiente non solo delle mutue attrazioni e repulsioni di tutte le cose dell'universo, ma anche della vita interiore dell'uomo, Hartley, precedendo Bentham, pensa di poter fare una vera e propria matematica morale, analoga alla matematica fisica newtoniana. La sua opera contiene formule matematiche sconcertanti, con l'applicazione di funzioni algebriche alle passioni. Oltre che a Newton egl! si richiama pure a Locke. Ma non accetta la teoria lockiana secondo cui le idee umane si distinguerebbero in due classi, sensazioni e riflessioni; ritiene invece che le seconde si possano ricondurre alle prime, e sulla base di questa riduzione generale alla sensazione (analoga a quella di Condillac) distingue sette classi, gerarchicamente ordinate, di idee: sensazione, immaginazione, ambizione, amor di sé, simpatia, teopatia e senso morale. Alla base di tutte sta, evidentemente, la sensazione, che può essere scomposta nei due elementi irriducibili di piacere e dolore; elementi di origine sensibile, materiale, fasci di vibrazioni sensibili, con base anatomica. Queste piccole vibrazioni possono essere, appunto, o piacevoli o dolorose, e, secondo la legge che regola i moti dei pianeti, le vibrazioni della stessa natura tendono alla coesione, dando luogo a vere e proprie masse di piacere e di dolore. Su queste masse, Hartley opera poi con criteri algebrici, formando delle equazioni che dimostrerebbero come il piacere tenda ad aumentare ed il dolore tenda ad annullarsi.
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Ma in che modo avviene questa nullificazione del dolore, che pure costituisce insieme al piacere, un dato originario della sensazione (e quindi del mondo dell 'uomo)? Hartley risponde affermando che ciò è reso possibile dal tipo di rapporto esistente fra le sette classi di idee poco sopra mènzionate. A livello della sensazione è certo che noi avvertiamo anche vibrazioni dolorose, ma con la immaginazione già introduciamo un correttivo, in quanto fuggiamo la causa di queste vibrazioni. Ha quindi luogo un processo di sublimazione, per cui il piacere sensibile (passibile sempre di avere in sé un residuo di dolore) si sublima nell'altruismo, il quale si espande a sua volta in quello sociale per giungere infine alla teopatia, ave il dolore non ha più luogo. Il senso morale, infine, è la « somma totale » del piacere e regola, necessariamente, questo processo di sublimazione. Con la teoria delle vibrazioni sensibili come base della vita psichica, e della sostanziale omogeneità tra sensazione, pensiero e sentimento, Hartley poneva le premesse per una riduzione della coscienza a gioco meccanico delle sensazioni, e per uno studio anatomico-fisiologico di essa. Su questa scia si mosse anche il suo seguace Joseph Priestley, autore dell'opera Disquisitions relating to matter andspirit (Disquisizioni sulla materia e lo spirito, 1767). Alle scoperte chimiche di Priestley faremo cenno nel capitolo VIII della presente sezione. Tra i moralisti del Settecento inglese non va inoltre dimenticato Adam Smith. Ci riserviamo però di trattare la sua teoria morale non qui, bensì nel capitolo VIII della sezione VI, nel quale esporremo brevemente i lineamenti di un importantissimo ramo della cultura moderna: la fondazione dell'economia politica classica del capitalismo industriale. Sottolineeremo così con maggiore chiarezza gli stretti legami di Smith moralista con Smith fondatore dell'economia politica moderna.
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CAPITOLO TERZO
Montesquieu e Voltaire
I
· CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
Nei primi decenni del Settecento cominciarono a prender piede anche in Francia i nuovi indirizzi di pensiero dei quali abbiamo parlato nel capitolo precedente. Le idee cui essi si ispiravano possono venire così riassunte: aperto e netto rifiuto della rivelazione, condanna intransigente degli elementi mitologici contenuti in tutte le religioni positive, denuncia dello sfruttamento politico di tali religioni (con utilizzazione dell'ignoranza delle plebi a sostegno delle peggiori ingiustizie sociali), critica della tradizione (considerata come fonte di pregiudizi e di chiusura mentale), appello alla ragione- peraltro non ben definita- come unico criterio di verità, e conseguente affermazione che solo una religione razionale può aspirare ad essere universalmente valida. La loro rapida diffusione costituisce un evento storico della massima importanza, che non può venire spiegato se non lo si collega - oltreché alla struttura sociale della Francia di cui si è fatto cenno nel primo capitolo- alla particolare situazione della cultura francese dell'epoca, stimolata per oltre un secolo dal movimento libertino e vivamente impressionata, in anni recenti, dalle penetranti critiche contenute negli scritti di Bayle. Come già in Inghilterra, troviamo anche in Francia fra i seguaci del deismo sia alcuni spiriti sinceramente religiosi, mossi dal desiderio di aprire la via ad una nuova apologetica capace di sceverare il nucleo più autentico del cristianesimo dalle incrostazioni superstiziose accumulatesi su di esso nel corso dei secoli, sia alcuni spiriti insofferenti di ogni dogma e financo propensi -in qualche caso - a forme aperte di ateismo. In un primo tempo i loro scritti circolano in forma quasi clandestina; più tardi (verso la metà del secolo) questi medesimi scritti verranno stampati e si affiancheranno alla grande letteratura illuministica. Ci limiteremo a ricordare, a titolo di esempio: Le ciel o~vert à tous !es hommes (Il cielo aperto a tutti gli uomini, saggio redatto verso il 1710-15 da Pierre Couppé, curato di Bois, ma pubblicato solo nel 1768) che vorrebbe essere sostanzialmente un'opera apologetica, e l'Examen de la religion (di autore ignoto, composto esso pure verso il 1710-20 e pubblicato una prima volta nel 1745, una 59
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seconda volta nel 1761) che nega invece esplicitamente la rivelazione: «Noi disponiamo soltanto di due vie per conoscere la volontà divina: la ragione e la rivelazione. Ma perché mai la ragione è presente più o meno in tutti gli uomini, mentre ve ne sono tanti che ignorano la rivelazione, e così pochi che ne siano stati testimoni? Ciò avviene perché effettivamente c'è una ragione, mentre non c'è mai stata una rivelazione. » Talvolta gli autori di questi scritti sono persone isolate; altre volte però appartengono a piccoli ma combattivi circoli culturali. In tal caso la medesima opera esprime le opinioni di un intero gruppo di studiosi, che collaborano direttamente o indirettamente alla sua stesura. Ad uno dei gruppi più vivaci e più apertamente impegnati nella diffusione del deismo appartenne, per esempio, Jean-Baptiste Mirabaud, autore di varie opere direttamente rivolte alla critica del testo biblico e al rifiuto radicale della fede cristiana (scrisse, fra l'altro, un celebre Examen du Nouveau testament, Esame del Nuovo testamento, pubblicato nel 1769). Malgrado il carattere clandestino degli scritti testé accennati, è certo che essi incontrarono un largo favore in diversi strati della società francese, preparando - per così dire - il terreno al successo di quella che sarà la grande letteratura illuministica. I problemi sollevati da tali scritti apparivano alla generalità dei lettori incontestabilmente seri, anche se ai nostri occhi non risultano sempre discussi con la dovuta profondità: problemi delicati e complessi, ricchi di implicanze non solo nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche ma pure nei confronti di quelle civili (istituzioni, del resto, non facilmente separabili fra loro dato l'appoggio sostanziale che le une fornivano alle altre). La pretesa delle autorità statali e religiose di metterli a tacere andava a urtarsi contro un'opinione pubblica sempre più consapevole e finiva per apparire un atto di imperio assolutamente intollerabile. I ceti della popolazione interessati al dibattito si sentivano ormai così forti da non dover sottostare a imposizioni del genere; gli animi si facevano disincantati; cresceva ovunque l'esigenza di una critica spregiudicata di tutti i principi della religione, della politica, della vita pubblica. È uno stato d'animo di cui bisogna tenere conto per spiegarci sia l'autentico entusiasmo suscitato dai libri di Montesquieu, di Voltaire e di altri illuministi, sia le singolari incertezze delle autorità che, pur condannando tali opere, non osavano opporsi fino in fondo alla loro diffusione ma giungevano talvolta a subirne, esse stesse, l 'influenza. Verso la metà del secolo l 'iniziativa passa decisamente dalle mani dei difensori delle vecchie idee a quelle degli illuministi; le loro critiche si fanno via via più serrate e più taglienti, investendo sempre nuovi problemi. La vecchia cultura è ormai sulla difensiva e deve cedere una posizione dopo l'altra. Perfino gli innovatori più moderati vengono messi da parte, per far posto ad altri più radicali. La trasformazione in atto assume un andamento rapidissimo e irresistibile. La carica propulsiva di questo grandioso movimento culturale fu senza dubbio 6o www.scribd.com/Baruhk
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enorme. La sua diffusione costituì - come già abbiamo osservato - uno dei fatti più rilevanti della storia del xvm secolo, ed ebbe un peso determinante per tutto lo sviluppo del pensiero moderno. Eppure vi si possono riscontrare fin dall'inizio alcuni caratteri, che sembrano rivelare una certa intrinseca debolezza. Secondo il parere dello scrivente essi risultano connessi alla natura stessa dei temi che diedero avvio alla rivolta contro la vecchia cultura: temi limitati che si richiamavano essenzialmente al problema religioso, ai pericoli del fanatismo, alle perniciose conseguenze dell'alleanza fra stato e chiesa, alle barbarie commesse in nome di questa o quella fede. Autorevoli studiosi moderni attribuiscono poca importanza a questa origine del movimento; secondo essi, cioè, il fatto che le radici dell'illuminismo francese si affondino soprattutto nei dibattiti politico-religiosi non avrebbe gravato in modo sensibile sui suoi sviluppi. È tuttavia innegabile che il peso preminente del settore politico-religioso finì per far sorgere l 'illusione che esso potesse venire affrontato a sé, senza doverlo inserire in un quadro più generale. La conseguenza fu un rapido affievolirsi dell'interesse per i problemi più schiettamente teoretici, un diminuito impegno nello sforzo di rinnovare, accanto alle istituzioni politico-religiose, anche la concezione scientificofilosofica del mondo. Vengono così a mutare le funzioni stesse attribuite alla filosofia. Non ci si rende più chiaro conto dell'opera profondamente innovatrice, compiuta dai grandi pensatori del Seicento; si sottovalutano i problemi da essi sollevati o si ritiene di poter loro dare una facile soluzione. La figura del filosofo si trasforma profondamente e viene, grado a grado, identificandosi con quella del moralista, del letterato brillante, dello studioso di argomenti politici, del fine indagatore degli istituti civili e religiosi. Egli nutre, sì, una grande ammirazione per la scienza - in cui scorge l 'unico strumento capace di dissolvere le vecchie superstizioni- ma non si impegna personalmente in essa; ne resta per così dire ai margini, limitandosi a studiarla dall'esterno, a divulgarne i risultati, a farne la più larga ed entusiastica propaganda. Ciò non esclude ovviamente che vi sia qualche pensatore più completo, capace di occuparsi con la massima serietà dei problemi naturali come di quelli umani, ma non si tratta della regola generale. Così il gran discorrere di scienza, di verità scientifiche da contrapporsi ai dogmi religiosi, di sempre nuove vittorie della ragione, finisce per gettare un'ombra di dilettantismo su molte opere degli illuministi, anche su alcune che sarebbe ingiusto tacciare di superficialità. Quando si cercano le lontane radici di quella frattura fra le due culture (umanistica e scientifica) che costituirà una delle peggiori calamità della nostra epoca, non si può non prendere atto che tali radici risalgano proprio al Settecento. Il fatto singolare è che - in tale epoca - nessuno sarebbe stato disposto ad ammettere una qualsiasi forma di esplicita separazione fra la scienza e la cultura umanistica; eppure questa separazione si veniva di fatto affermando per il 61
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graduale disimpegno dei « filosofi-letterati » dai problemi di fondo della matematica, della fisica e della biologia. È appunto prendendo le mosse da questa pericolosa scissione che la borghesia francese del periodo immediatamente successivo alla rivoluzione riterrà possibile (come spiegheremo nella sezione VI) ripudiare lo spirito rivoluzionario dei « filosofi » settecenteschi pur salvando appieno il patrimonio, da essi tanto esaltato, delle nuove scoperte scientifiche e anzi sforzandosi di arricchirlo con sempre nuovi incrementi e ampliamenti. I due autori, dei quali intendiamo occuparci nei prossimi paragrafi, sono molto rappresentativi dal punto di vista testé accennato. Essi diedero certamente un contributo decisivo al rinnovamento della cultura francese (e non solo francese) dell'epoca, diffondendo in tutta la società stimoli fecondi di esigenze critiche, ma non riuscirono a dare a tale rinnovamento quella solidità razionale che senza dubbio era nei loro intenti (soprattutto negli intenti di Voltaire). Il
· VITA E OPERE DI MONTESQUIEU
Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, nacque l'anno I689 nel castello di Brède, presso Bordeaux, da una illustre famiglia la cui nobiltà risaliva all'inizio del XVI secolo. Il titolo di Montesquieu gli venne non dal padre ma da uno zio, presidente del parlamento di Bordeaux. Dopo essere stato educato in un collegio di oratoriani, sito nelle vicinanze di Meaux, studiò diritto a Bordeaux dal I 706 al I 709. Ben presto però diede prova di possedere interessi assai più larghi, di carattere filosofico-letterario. La sua attività di scrittore ebbe inizio nel 171 I con la composizione di un'opera, che andò perduta, dal titolo De la damnation éternelle des paiens (Sulla dannazione eterna dei pagani), nella quale sosteneva che i filosofi dell'antichità non possono essere stati dannati perché ignoravano la rivelazione. Nel 1714 venne nominato consigliere presso il parlamento di Bordeaux. Nel 17I6 ereditò dallo zio, di cui abbiamo fatto cenno, la carica di presidente di tale parlamento (carica che mantenne per dodici anni) oltre al titolo di barone di Montesquieu e un grande patrimonio. Nel frattempo si era sposato, nel I7I 5, con una ragazza protestante, semplice e ricca. A Bordeaux ebbe modo di collaborare con la locale accademia delle scienze, presentandovi diverse memorie di argomento filosofico, politico e di scienze naturali; fra queste ultime alcune trattavano di patologia medica e della funzione delle ghiandole renali, altre del fenomeno dell'eco, della trasparenza dei corpi, ecc. Al 17I6 risalgono pure due saggi filosofici di notevole interesse: Politique des romains dans la religion (Politica dei romani nella religione) e Système des idées (Sistema delle idee). Nel 1721 pubblicò anonime le Lettres persanes (Lettere persiane), romanzo epistolare che si ricollegava a un filone allora assai diffuso di letteratura esotica. Vi
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sono raccolte varie lettere che l'autore immagina scritte da alcuni persiani vissuti per qualche tempo in Francia. In realtà le notizie che tali lettere forniscono sui costumi orientali sono del tutto secondarie mentre il nocciolo dell'esposizione è costituito da una fine satira dei costumi e delle istituzioni politiche francesi nonché della chiesa cattolica. Il romanzo ebbe subito un enorme successo e riuscì a scuotere profondamente la migliore cultura dell'epoca. Suscitò pure varie polemiche, cosicché nel 1725 -essendo stata presentata la candidatura di Montesquieu all'accademia di Francia 1 -vennero sollevate contro di essa notevoli resistenze da parte delle autorità politico-religiose. Queste furono comunque superate nel 1728 con una sorta di compromesso, abbastanza confacente del resto al carattere tutt'altro che intransigente del nostro autore. Intanto si era trasferito a Parigi (nel 1722) continuando però a suddividere la p·ropria vita tra tale città e Bordeaux, fino al 1727 quando abbandonò definitivamente la carriera giudiziaria. Aveva pure scritto alcune composizioni a carattere letterario ed etico-politico, che accrebbero sempre più la sua notorietà nei salotti letterari della capitale. Subito dopo l'ammissione all'accademia, inizia una lunga serie di viaggi in Germania, Austria, Italia, Svizzera, Olanda, Inghilterra (dove si trattiene circa due anni ed è iniziato alle logge massoni che), tornando periodicamente al castello natio per meditare sulle esperienze vissute. Di speciale importanza sono quelle compiute in Inghilterra, che suscitano in lui una viva ammirazione per le istituzioni di tale paese (in particolare per la tripartizione, ivi vigente, dei poteri dello stato in legislativo, esecutivo e giudiziario); non si può dire tuttavia che questa ammirazione provenisse da un'approfondita conoscenza del popolo inglese e della sua storia: è probabile che essa derivasse soprattutto dalla lettura delle opere scritte da Locke a difesa della forma di governo instaurata sull'isola dalla seconda rivoluzione. Non a torto Diderot rimprovererà Montesquieu di avere tracciato un quadro troppo idilliaco di tale governo. Nel 1734 pubblica anonime ad Amsterdam le Considérations sur /es causes de la grandeur des romains et de leur décadence (Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza); poco dopo presenta egli stesso una copia del volume all'accademia, assumendone così ufficialmente la paternità. L'opera costituisce un tentativo di interpretazione globale della storia di Roma; è interessante che, in essa, vengano collocate tra le cause della grandezza romana non solo le virtù militari ma particolarmente quelle civili, e tra le cause della decadenza non solo l'abbandono delle armi ai barbari ma anche l'oblio delle antiche virtù. I Mentre l'Académie royale des sciences, cui si accennò nel capitolo I della sezione IV, venne fondata nel I666 ad opera del ministro Colbert, l' Académie française (accademia di Francia) fu costituita fin dal I 6 3 5 ad opera del cardinale Richelieu ed accolse, all'inizio, soltanto dei letterati col pre-
cipuo scopo di studiare e riformare la lingua francese. In seguito vi entrarono pure diplomatici, giuristi, filosofi, storici, critici ecc.; come ricorderemo nel paragrafo v anche Voltaire venne eletto «accademico di Francia» nel 1746.
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Nel I748 esce finalmente a Ginevra (essa pure anonima) l'opera a cui Montesquieu veniva lavorando dal I73 I, L'esprit des lois (Lo spirito delle leggi), in cui confluiscono tutti i suoi studi sulle costituzioni europee dell'epoca. Essa ebbe grande diffusione, malgrado l'accoglienza assai fredda che ne fecero sia i gesuiti sia i giansenisti. Per rispondere alle critiche sollevate contro il proprio capolavoro Montesquieu pubblicherà nel 1750 (sempre a Ginevra) una Difence de l'Esprit des lois. Malgrado questa difesa l'opera venne posta all'indice nel 175 I. Dopo L'esprit des lois Montesquieu compose ancora un romanzo, Arsace et lsménie, e uno scritto intitolato Lysimaque. Compose pure, per l'Enciclopedia, una voce sul gusto che sarà pubblicata nel I756 col titolo Essai sur le gout (Saggio sul gusto). Nel 1754 ritornò a Parigi, ove continuò a stendere appunti per rielaborare L'esprit des lois. Morì a Parigi nel I 7 55. L 'unico fra i letterati parigini che segui i suoi funerali fu Diderot. Che l'interesse di Montesquieu sia stato quasi interamente assorbito dai problemi civili, risulta evidente dai titoli stessi delle sue opere. Erano, del resto, i problemi che la società francese dell'epoca sentiva come più urgenti. Purtroppo gran parte dei lettori di tali opere ne trassero l'impressione che questi problemi potessero venire trattati senza un inquadramento filosofico più generale, il che non giovò certo al loro approfondimento. Né va d'altra parte dimenticato che la fortuna degli scritti di Montesquieu è anche dovuta al carattere moderato delle idee da lui sostenute. Sono idee che non richiedevano né un mutamento radicale delle concezioni filosofiche né un mutamento radicale delle strutture sociali. Proprio perciò potevano venire accolte con molto favore da chi, pur avvertendo i mali della Francia, non intendeva impegnarsi a fondo nella complessa opera - teorica e pratica - necessaria per estirparli. III
· MODERATISMO E SENSO STORICO
Abbiamo accennato nel paragrafo precedente al sostanziale moderatismo di Montesquieu. È necessario ritornare qui brevemente su di esso, ponendone in luce i rapporti con un altro carattere fondamentale del nostro pensatore: cioè con la sua tendenza a considerare la storia come fonte di spiegazione razionale dei grandi eventi dell'umanità. Tale tendenza emerge con particolare chiarezza nel distacco di Montesquieu dal giusnaturalismo: questo indirizzo scorgeva - come sappiamo - una vera e propria opposizione fra l'individuo e lo stato, considerando quest'ultimo come una costruzione artificiale (arbitraria) della ragione, basata su di un patto ideato per porre ordine al primitivo comportamento irrazionale e caotico degli individui. Per Montesquieu invece la formazione dello stato è opera di un processo ben più lento e complesso. Sono le necessità stesse del sostentamento e della conserva-
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zione a favorire il riunirsi in gruppi dei primi uomini, ed è l'ambiente in cui questi gruppi si trovano a vivere a determinarne gradualmente i costumi che risulteranno diversi da popolo a popolo. Tali costumi - che non sono ancora vere e proprie leggi - verranno poi istituzionalizzati in regole che non hanno in sé nulla di casuale o di arbitrario. « Le leggi sono in strettissimo rapporto con il modo in cui i diversi popoli si procurano i mezzi di sostentamento. Occorre un codice di leggi più esteso per un popolo dedito al commercio e alla navigazione, che non per un popolo il q_uale si limiti a coltivare le proprie terre. Occorre un codice di leggi più esteso per quest'ultimo, che non per un popolo il quale viva sulle proprie greggi, ed ancor più che non per un popolo il quale viva di caccia. » La formazione degli stati è proprio connessa alla istituzionalizzazione delle regole che si sono venute consolidando nei costumi dei popoli. Con lo stato nasce il diritto positivo, che si distinguerà in diritto delle genti, diritto politico e diritto civile. Il primo codifica i rapporti tra le varie società ed ha come suo scopo la tutela e la salvaguardia della pace; il secondo codifica i rapporti tra i cittadini e lo stato; il terzo regola i diritti fra i cittadini come privati. I legami fra il moderatismo di Montesquieu e la concezione testé delineata sono evidenti: questa concezione ci conduce infatti a « comprendere » e quindi in certo senso a «giustificare» tutte le forme statali costituitesi nel procedere della storia. Ciò non significa, ben inteso, che non si debba operare per modificarle e migliorarle, ma l'azione diretta a questo scopo dovrà tendere soprattutto a trasformare il modo di vivere dei popoli, i loro costumi, le loro credenze tradizionali: e questa trasformazione potrà venire conseguita più dal diffondersi del commercio che non dall'improvvisa sostituzione di una forma di governo all'altra. Non senza motivo Voltaire e Diderot negheranno energicamente che gli effetti del clima siano determinanti per le vicende storiche dei popoli. Ecco le chiare e forti parole scritte da Diderot sull'argomento: « Dappertutto i costumi sono effetti della legislazione e del governo; non sono né africani né asiatici né europei, sono buoni o cattivi. Ci sono schiavi al polo dove fa molto freddo. Ci sono schiavi a Costantinopoli, dove fa molto caldo; è necessario che dappertutto un popolo sia istruito, libero e virtuoso. I mutamenti introdotti da Pietro 1 in Russia, se erano buoni in Europa, lo erano dappertutto. Pur non negando l 'influenza del clima sui costumi, lo stato attuale della Grecia e dell'Italia, lo stato futuro della Russia dimostreranno a sufficienza che i costumi buoni e cattivi hanno altre cause. » Quanto ora detto non deve farci ritenere che Montesquieu vedesse nel clima l'unico fattore delle vicende dei popoli: accanto ad esso egli introduce anche altri fattori - cui dà il nome di « morali » - costituiti dai costumi, dalle leggi, dalle credenze religiose di tali popoli. È vero - come abbiamo testé spiegato - che questi fattori morali sono all'origine determinati proprio dal clima, ma è una dipendenza che diventa via via meno immediata. «La natura e il clima dominano quasi da soli presso i selvaggi », ma col progredire delle civiltà i costumi, le leggi,
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le istituzioni acquistano una vera e propria autonomia, diventando essi stessi fattori assai importanti dello sviluppo delle nazioni. È in altri termini, il patrimonio morale e giuridico accumulato nella storia passata che agisce sulla storia futura. «Diverse cose governano gli uomini: il clima, la religione, le leggi, le massime di governo, gli esempi delle azioni passate, i costumi, le maniere e da tutto ciò si viene formando uno spirito generale. » Montesquieu insiste molto su questo « spirito » dei popoli, e ne analizza con straordinario acume i diversi caratteri presso gli antichi romani, presso i cinesi, presso le moderne nazioni europee: esso gli fornisce il filo conduttore per comprendere la loro storia, la loro civiltà, la loro etica. È uno studio che se per un lato vale senza dubbio a moderare lo slancio degli innovatori troppo frettolosi, per l'altro però ha il merito incontestabile di farci riflettere sul carattere non assoluto, non intoccabile, delle nostre istituzioni, le quali non caratterizzano la civiltà ma una delle tante civiltà possibili. Sulla base di questo studio diventa agevole irnpostare in modo nuovo la ricerca di una soluzione per il grande problema dei rapporti fra individuo e stato. Non si tratta più di far dipendere tale soluzione da queste o quelle premesse metafisiche, né di discutere in astratto la via migliore per giungere ad essa. Si tratta invece di osservare direttamente i fatti umani, con occhio libero da ogni pregiudizio, con una metodologia concreta analoga a quella instaurata da Locke. Sorretta da un metodo siffatto la ragione umana potrà penetrare il significato autentico delle istituzioni e dei loro rivolgimenti, e scoprire l'esistenza di un ordine generale nel corso degli eventi umani così come già è riuscita a scoprire l'esistenza di un ordine nel corso degli eventi fisici. È una scoperta che da un lato accrescerà le nostre conoscenze, dall'altro ci porrà in grado di intervenire efficacemente sul mondo politico-sociale, indicandoci la via per elaborare progetti di riforma non soltanto teorici e utopistici, ma aderenti alla realtà e perciò storicamente attuabili. IV · LE FORME DI GOVERNO
Chiariti il metodo e lo scopo dell'opera di Montesquieu, possiamo finalmente passare a precisarne l'oggetto. Questo è costituito dalle forme di governo e dai principi che stanno alla base del loro sviluppo. Il nostro autore ritiene che esse siano fondamentalmente: repubblica, monarchia, e dispotismo. « Il governo repubblicano è quello in cui il popolo riunito, oppure solamente una parte del popolo, possiede "la potenza sovrana; nel primo caso si avrà una repubblica democratica, nel secondo una repubblica aristocratica. Il principio di tale governo è la virtù, cioè la capacità di sottostare alle leggi da noi stessi emanate, sì da essere responsabili delle nostre proprie azioni. Nella democrazia questa capacità deve essere posseduta da tutto il popolo, nell'aristocrazia deve essere posseduta soprattutto dai nobili. »
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« Il governo monarchico è quello in cui governa un uomo solo, ma in base a leggi fissate e stabilite. » Il principio che sta alla base della monarchia è l'onore « vale a dire la consapevolezza che ognuno ha della propria persona e della propria condizione ». In questo tipo di governo « si troverà raramente qualcuno che sia fornito di virtù»; ma il principio dell'onore «può ispirare le azioni più belle e può condurre, se è connesso con la forza delle leggi, a realizzare lo scopo del governo così come fa la virtù». « Il governo dispotico è quello in cui un solo uomo, senza legge e senza regola, dispone ogni cosa con la sua volontà e con i suoi capricci. » Il principio su cui esso si regge è la paura che il despota incute nei sudditi. Al suo funzionamento non è affatto necessaria la virtù dei cittadini; quanto poi al senso dell'onore, esso sarebbe addirittura pericoloso potendo spingere chi lo prova a ribellarsi contro il de~pota cioè a infrangere la struttura stessa dello stato. L'affermazione che i principi delle tre forme testé elencate di governo sono la virtù, l'onore e la paura non significa- secondo Montesquieu - che ciascuno di tali principi viga costantemente nella rispettiva forma di governo, ma solo che dovrebbe esservi sempre presente. « Ciò non vuoi dire che, in una certa repubblica, viga la virtù, ma vuoi dire che si dovrebbe essere virtuosi. E ciò non significa neppure che, in una certa monarchia, si abbia dell'onore: ma implica che se ne dovrebbe avere, altrimenti il governo sarà imperfetto. » Queste definizioni possono senza dubbio apparire molto astratte e artificiose; Montesquieu ritiene tuttavia che siano agevolmente ricavabili dall'esame obbiettivo delle forme concrete di governo via via realizzate dalla storia, e che riescano molto utili per farci cogliere lo sviluppo di tali forme nonché i motivi della loro corruzione. È interessante notare che - secondo il nostro autore questi motivi rappresentano - per la repubblica e per la monarchia - qualcosa di accidentale, mentre nel caso del governo dispotico derivano dalla sua stessa natura. « Il principio del governo dispotico si corrompe senza sosta, poiché è corrotto per sua natura. Gli altri governi periscono in quanto alcuni accidenti particolari vengono a violarne il principio: invece questo perisce per vizio interno allorché qualche causa accidentale non impedisce al suo principio di corrompersi. Esso si mantiene solamente quando circostanze, derivanti dal clima, dalla religione, dalla situazione o dal genio del popolo lo costringono a seguire un certo ordine, e a sopportare qualche regola. Queste cose costringono la sua natura senza però mutarla: la sua ferocia permane, ed è soltanto addomesticata per qualche tempo.» La simpatia di Montesquieu risulta equamente suddivisa tra repubblica e monarchia: in entrambe infatti è, secondo lui, possibile realizzare un'autentica libertà. « Il termine libertà, » egli scrive, «non esprime altro che un rapporto, e non può servire a distinguere le varie specie di governo; infatti lo stato popolare
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implica la libertà dei poveri e dei deboli, e la servitù dei ricchi e dei potenti, mentre la monarchia comporta la libertà dei grandi e la servitù dei piccoli. Libero non è un popolo che abbia questa o quella forma di governo, ma è invece quello che gode della forma di governo stabilita dalla legge ... Da ciò si deve concludere che la libertà politica riguarda le monarchie moderate al pari delle repubbliche, e non è più distante dal trono che dal senato: è libero qualsiasi uomo il quale abbia un motivo fondato di ritenere che il furore di una sola persona o di più persone non gli toglieranno la vita o la libertà dei suoi beni. » E altrove precisa: «La democrazia e l'aristocrazia non sono degli stati liberi per loro natura. La libertà politica si trova soltanto nei governi moderati »; « la libertà consiste principalmente nel non poter essere costretti a compiere una cosa non ordinata dalla legge; e noi ci troviamo in questo stato solo quando siamo governati da leggi civili. Noi siamo quindi liberi in quanto viviamo sotto le leggi civili». Condizione indispensabile per la conservazione della libertà è la separazione dei tre poteri che esistono in ogni stato: il potere legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario. Separandoli uno dall'altro, non solo si circoscrive la zona in cui ciascuno di essi può operare, ma si crea la possibilità di reagire prontamente, qualora i rappresentanti di uno dei tre poteri cercassero di usurpare le funzioni degli altri. Poiché questa separazione può venire praticata sia presso i governi repubblicani sia presso quelli monarchici, tanto gli uni quanto gli altri risultano compatibili con la libertà. Se - come risulta dalla definizione stessa di governo dispotico - non si realizza in esso alcuna divisione fra i tre poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, e quindi non vi può essere alcuna autentica libertà, sorge spontaneo il quesito: perché mai il governo dispotico è tanto diffuso nel mondo, particolarmente in Asia? È interessante notare che per rispondere a questa domanda, Montesquieu non fa appello a qualità negative dell'animo umano - cosa che getterebbe un'ombra di pessimismo/ sulla sua trattazione - ma unicamente alla struttura geografico-climatica del continente asiatico che favorisce i grandi imperi (perché vi si hanno vastissime pianure solcate da pochi fiumi capaci di fungere da confini sicuri fra stati diversi): «Il potere deve essere dispotico in Asia. Infatti, qualora la servitù non fosse estrema, avrebbe luogo per prima cosa una divisione non compatibile con la natura del paese. » L'essenziale è, per il nostro autore, far notare che del tutto diversa è la situazione europea, ove i governi liberi si rivelano i più atti alla prosperità dei popoli (il che costituisce la migliore giustificazione del programma politico dei moderati): « In Europa, invece, la divisione naturale forma vari stati di grandezza media, nei quali il governo delle leggi non si oppone alla conservazione dello stato: al contrario, esso è talmente favorevole a questa, che, senza leggi, lo stato decadrebbe, diventando inferiore agli altri stati. »
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V
· VITA E OPERE DI VOLTAIRE
François Marie Arouet (che, come vedremo, mutò più tardi il proprio nome in quello di Voltaire), nacque a Parigi nel I694 da famiglia borghese. Ricevuta la prima educazione a carattere nettamente letterario dal proprio padrino, l'abate di Chateauneuf, entrò a dieci anni nel collegio dei gesuiti Louis-le-Grand e qui rimase fino al I 7 I I. Precocissimo poeta, era stato presentato ancora ragazzo ad una gran dama, Ninon de Lenclos, famosa per la sua cultura e il suo fascino, che alla propria morte (I 7 o 5) gli lasciò per testamento duemila franchi « allo scopo di comperare libri ». Tornato a casa nel I7II, fu costretto dal padre a dedicarsi agli studi giuridici per divenire magistrato; nel frattempo però frequentava i brillanti circoli letterari parigini, ove non tardò a farsi notare per la sua vivacissima intelligenza. Nel I 7 I 3 il padre lo inviò all' Aja al seguito del marchese di Chateauneuf (fratello dell'abate), ma qui vi fu invischiato in un'avventura amorosa con una protestante; dovette quindi ritornare in patria ove il padre lo relegò per un anno in campagna. Rientrato a Parigi nel I715 si legò ai circoli letterari contrari al reggente (Luigi XIV era morto nel settembre di tale anno), cosicché nel I7I6 venne esiliato da Parigi; dopo meno di un anno gli fu concesso di tornarvi ma, caduto di nuovo in sospetto, venne rinchiuso nella Bastiglia. Qui si diede ad una intensa vita di scrittore, iniziando la composizione di uno dei suoi capolavori: la Henriade. Intanto abbandonava il proprio nome di famiglia assumendo quello di Voltaire, che forse voleva essere un anagramma di Arovet l. i. (le jeune). Uscì dalla Bastiglia nell'aprile del 17 I 8, ma venne di nuovo esiliato da Parigi, dove poté rientrare solo all'inizio del I 7 z.o. Nel 17 z. I il padre morì !asciandogli una cospicua rendita. Anche il reggente si rappacificò con il giovane assegnandogli una pensione, e nominandolo diplomatico segreto del governo francese. Con questa delicata mansione Voltaire compì alcuni viaggi di notevole responsabilità a Cambrai, a Bruxelles, all'Aja; e già sembrava avviato a una brillante carriera, quando per un diverbio con il duca di Rohan venne arrestato, rinchiuso per due settimane nella Bastiglia e poi esiliato in Inghilterra (I72.5). Intanto era uscita, nel I72.3, la prima edizione della Henriade con il titolo La ligue. Dopo una permanenza di tre anni in Inghilterra ritornerà a Parigi, nel I 7 2.9, profondamente trasformato. Non era diventato soltanto un grande ammiratore delle istituzioni politiche parlamentari, ma aveva letto e meditato Locke, Newton e i deisti inglesi, traendone un vivo interesse per i problemi filosofici e scientifici come pure per i dibattiti religiosi. A Parigi la fama di Voltaire cresce rapidamente. La sua attività_ di scrittore non trova soste. Nel I 73r pubblica una prima importante opera di argomento storico, l'Histoire de Charles XII (Storia di Carlo xu). Nel 1734 escono in francese le sue Lettres écrites de Londres sur /es Anglais et autres stljects (di cui già l'anno prima
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era stata pubblicata in Inghilterra un'edizione in lingua inglese). L'opera- solitamente nota col titolo di Lettere filosofiche o Lettere inglesi - viene solennemente condannata come « atta a suscitare illibertinaggio più pernicioso per la religione e per l'ordine della società civile»; malgrado questa condanna essa ottiene però il massimo successo (se ne stampano cinque edizioni nell'annata e altre cinque fra il 1734 e il I739)· Voltaire fugge in Lorena nel castello di Cirey con la marchesa di Chatelet, sua amante fin dal I 7 3 3. Nel I 7 3 5 viene graziato, ma non gli è concesso di abitare continuativamente a Parigi. Nel I736 è di nuovo costretto a lasciare la Francia per tre mesi; poi rientra al castello di Cirey ove lavora intensamente (vi organizza anche un gabinetto scientifico, ove esegue esperimenti di fisica e di chimica). Intanto nel I734 aveva scritto il Traité de métaphysique (Trattato di metafisica) che uscirà solo postumo. Pubblica invece nel I738 gli Éléments de la philosophie de Newton (Elementi della filosofia di Newton), che segnano la vittoria del newtonianesimo sul cartesianesimo in Francia (su questa vittoria ritorneremo nel capitolo VII illustrandone i più importanti fattori). La stessa marchesa di Chatelet studia Newton e si accinge a curare la traduzione francese dei Principia (questa uscirà solo alcuni anni dopo la morte della traduttrice). Voltaire lavora pure ad alcuni romanzi filosofici, che pubblica nel I747 e inizia la stesura delle sue maggiori opere storiche. Nel i745, ormai rappacificato con la corte, viene nominato (per intercessione della Pompadour) storiografo reale; l'anno successivo entra a far parte dell'accademia di Francia. Ma presto ricominciano gli screzi con le autorità, dovuti anche, fra l'altro, all'appoggio che Voltaire fornisce ai rappresentanti più avanzati della cultura francese, e in particolare agli enciclopedisti. Essendo morta nel I749 la marchesa di Chatelet, egli accetta nel I75I l'invito di Federico II a recarsi presso la sua corte; si fermerà a Berlino tre anni. Nel I 7 53 esce una delle due più importanti opere di storia scritte da Voltaire: Précis du siècle de Louis XIV (Compendio del secolo di Luigi xiV); l'altra, Essai sur /es moeurs et l'esprit des nations (Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni), sarà pubblicata nel I756. A Berlino entra in urto con Maupertuis, autorevole presidente dell'accademia delle scienze di tale città. Essendo sorta una grave polemica tra Maupertuis e Koenig intorno al principio di minima azione (del quale parleremo nel capitolo vii), Voltaire interviene in essa per opporsi al tentativo di Maupertuis di dare un'interpretazione metafisica-teologica di tale principio. Scrive sull'argomento un libello fortemente satirico dal titolo La diatribe du docteur Akakia, médecin du Pape. Allorché l'opera viene alla luce (I752·) Federico II lo mette agli arresti. Si riconcilierà poco dopo con lui, ma sorgeranno nuovi dissapori e infine Voltaire lascerà Potsdam (la sede della corte prussiana) nel I753· Per ottenere il permesso di rientrare in Francia, fa un atto di sottomissione,
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ricevendo una comunione solenne a Colmar. Non gli viene tuttavia concesso di stabilirsi a Parigi. Si rifugia in Svizzera in una villa presso Ginevra. Nel I 7 ss esce uno dei più famosi drammi di Voltaire: La pucelle (La pulzella). Il gravissimo terremoto di Lisbona del I 7 s6 •lo spinge a scrivere due opere contro l'ottimismo leibniziano: Poème sur le désastre de Lisbone (Poema sul disastro di Lisbona, I7S6) e Candide ou l'optimisme (Candido o l'ottimismo, I7S9)· Intanto egli si è trasferito, dal I 7 s8, in una vasta proprietà presso ,Ginevra, a Ferney, in territorio francese. Qui continua con infaticabile tenacia la sua attività di scrittore, e nel frattempo interviene coraggiosamente nella vita pubblica della Francia, denunciando misfatti giudiziari, e opponendosi ovunque all'intolleranza e al fanatismo religioso. Fra le sue opere che risalgono a questo periodo ci limitiamo a ricordare: il Traité sur la tolerance (Trattato sulla tolleranza, I763), il Dictionnaire philosophique portatif(Dizionario filosofico portatile, I764), la Philosophie de l'histoire (Filosofia della storia, I76s), Le philosophe ignorant (Il filosofo ignorante, I766), Questions sur I'Encyclopédie (Questioni sull'Enciclopedia, I770-72), Histoire de l'établissement du.christianisme (Storia dell'istituzione del cristianesimo, I777)· Nel I776 Voltaire adottò una ragazza, riscattandola dal convento. Nel I778 ritornò dopo ventotto anni a Parigi, accolto trionfalmente, per rappresentarvi la sua ultima tragedia. lvi morì dopo aver rifiutato il confessore. Nel I79I la sua salma verrà trasferita al Pantheon. Le notizie testé riferite, pur non dandoci un quadro completo della sua straordinaria attività, valgono tuttavia a dimostrarci quanto fu grande l 'impegno etico-politico di Voltaire (inconfrontabilmente superiore ali 'impegno di Montesquieu), e quanto vari e profondi furono i suoi interessi culturali. Egli ci appare senza dubbio come una delle figure più rappresentative dell'illuminismo francese, come uno dei massimi promotori della modernizzazione e laicizzazione del pensiero europeo. Tali notizie mettono però in luce, nel contempo, le non poche oscillazioni dei suoi interessi, che ora lo portano a impegnarsi con molta serietà in alcuni problemi (ad esempio quelli storiografici), ora ad affrontarne altri dei' quali avverte sì l'importanza ma senza rendersi conto della loro più profonda · difficoltà. Nello stesso ambito dei problemi etico-politici egli si rivela non di rado incerto fra la coraggiosa condanna della vecchia società e l'accettazione sostanziale di alcune tra le sue più tipiche strutture. Il fatto è che Voltaire lavora instancabilmente per riformarla, correggerla, innovarla, ma non si propone affatto di abbatterla, per crearne una interamente diversa. Anche se molti rivoluzionari si richiameranno a lui, egli non fu un autentico rivoluzionario; né nel campo della politica, né - come ora cercheremo di spiegare - in quello della filosofia. Se sarebbe ingiusto accusarlo di superficialità, come pretesero fare alcuni storici idealisti, non sarebbe nemmeno esatto, però, nascondercene i limiti. In realtà egli fu uno dei protagonisti più insigni del progresso della civiltà, non del pro-
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gresso del pensiero filosofico-scientifico. Il contributo più valido fu, forse, quello che egli diede alla difficile e complessa opera di liberazione della cultura da ogni condizionamento religioso. VI
· GNOSEOLOGIA ED ETICA
Da quanto abbiamo detto nel paragrafo precedente circa la figura e gli scritti di Voltaire risulta chiaro che egli subì profondamente l'influenza del pensiero inglese, in particolare quella di Locke e di Newton. La sua entusiastica adesione all'empirismo lockiano e alla fisica newtoniana segna una tappa importante nella storia della cultura francese, che con Voltaire e con vari suoi contemporanei sembra voler compiere .una vera rottura nei confronti della propria, anche migliore, tradizione. Il punto più significativo di questa rottura è il netto rifiuto della filosofia e della scienza cartesiana. Come vedremo nei prossimi capitoli, molti fra i più noti pensatori della Francia settecentesca condivisero - almeno nelle sue grandi linee - tale orientamento empiristico e anticartesiano, tanto che alcuni storici della cultura ritennero in passato di potervi scorgere un carattere comune di tutto l'illuminismo francese; da alcuni anni però un più attento esame della situazione ha dimostrato che le cose non stanno a rigore così; in quanto vi fu anche un gruppo di illuministi i quali non solo non rifiutarono l'eredità cartesiana ma fecero perno su di essa per giungere ad una concezione integralmente materialistica, ben più radicale dell'empirismo lockiano e voltairiano. La prima tesi della filosofia di Cartesio che viene aspramente respinta da Voltaire è l 'innatismo. « Chiunque voglia rendersi fedelmente conto di quanto è avvenuto nel proprio intelletto riconoscerà senza fatica che i suoi sensi gli hanno fornito tutte le sue idee; ma alcuni filosofi, abusando della loro ragione, hanno preteso che gli uomini posseggano delle idee innate. » Critica dell 'innatismo e accettazione dell'origine sensoriale di tutte le idee sono, per il nostro autore, due facce della medesima medaglia:« Un'idea è un'immagine impressa nel mio cervello ... le idee più astratte derivano dagli oggetti che ho sentito. » Con evidente leggerezza, egli ritiene ovvio che le stesse più difficili nozioni matematiche- come per esempio quella di infinito- e perfino le nozioni metafisiche provengano unicamente dai sensi: coloro che hanno preteso negare questo incontestabile risultato dell'analisi dei nostri processi conoscitivi non avrebbero fatto altro che abbandonarsi a « romanzesche costruzioni ». Fra tali « romanzesche costruzioni » vanno annoverate non solo l'idea cartesiana di spirito ma anche quella di materia; entrambe debbono venire coraggiosamente abbandonate come i due pilastri di una filosofia in cui Voltaire non scorge altro che la nuova metafisica dell'epoca moderna, non meno dogmatica e non meno pericolosa della vecchia metafisica aristotelica.
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Egli riconosce, sì, i grandi meriti acquisiti da Cartesio nella geometria, ma nega che abbia saputo fare tesoro delle proprie scoperte geometriche per dare inizio a una scienza veramente moderna (anche il meccanicismo biologico lo lascia del tutto insoddisfatto). « La geometria rappresentava una guida da lui stesso in qualche modo formata, e che l'avrebbe fatto procedere sicuramente nella sua fisica; tuttavia egli abbandonò infine quella guida e si dette allo spirito di sistema. Allora la sua filosofia divenne solo un romanzo ingegnoso, e tutt'al più verosimile per gli ignoranti. S'ingannò sulla natura dell'anima, sulle prove dell'esistenza di Dio, sulla materia, sulle leggi del movimento, sulla natura della luce; ammise idee innate, inventò nuovi elementi, creò un mondo, fece l 'uomo a suo modo, e si dice a ragione che l 'uomo di Descartes è appunto sòltanto l 'uomo di Descartes, assai lontano dall'uomo vero. » · Per contro il vero iniziatore della scienza moderna sarebbe stato Bacone «il padre della filosofia sperimentale», il primo scopritore (secondo Voltaire) dell'attrazione gravitazionale, colui che seppe «indicare» quasi tutte le «esperienze della fisica che si sono fatte dopo di lui », e pose fine al periodo in cui le invenzioni erano compiute in virtù del « solo caso ». Se Bacone ha aperto un nuovo orizzonte all'umanità spetterebbe a Newton e Locke il merito di avere definitivamente debellato il pericolo di un ritorno della metafisica (sia pure formulata in termini cartesiani anziché aristotelici), che è la vera nemica del libero sviluppo delle indagini sia scientifiche sia filosofiche. Voltaire non si stanca di presentare Newton quale « distruttore del sistema cartesiano », contrapponendo la sua scienza a quella di Cartesio come « un capolavoro » a un semplice « tentativo »; e parimenti di esaltare in Lockeil demolitore della teoria cartesiana delle idee innate: « Locke, dopo aver demolito le idee innate, dopo aver rinunciato completamente alla vanità di credere che si pensi sempre, constata che tutte le nostre idee ci vengono dai sensi, esamina le nostre idee semplici e quelle che sono composte, segue lo spirito dell'uomo in tutte le operazioni, fa vedere come le lingue che gli uomini parlano sono imperfette, e quale abuso dei termini noi facciamo ad ogni momento». Non è il caso di discutere le valutazioni di Cartesio, di Bacone, di Locke e di Newton date da Voltaire. Basti sottolineare che, pur essendo stato uno degli studiosi che maggiormente contribuì alla diffusione del pensiero newtoniano in Francia, non sembra che Voltaire si sia reso effettivamente conto del significato scientifico dell'opera del grande fisico inglese t;~.é della gravità dei problemi epistemologici da lui lasciati aperti (per esempio del problema - che esamineremo nei capitoli VII e vm - di precisare e giustificare la strettissima collaborazione fra matematica ed osservazione empirica attuantesi nella scienza newtoniana). Ciò che non deve venir dimenticato è che il motivo profondo della decisa opposizione del nostro autore a Cartesio va soprattutto cercato nel pericolo (senza dubbio effettivo, anche se forse sopravvalutato da Voltaire) di una utilizzazione della filosofia 73
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cartesiana al fine di affermare l'assoluta dipendenza dell'uomo e del mondo dalla volontà divina. In altri termini: l'accettazione del cartesianesimo sembra costituire, agli occhi di Voltaire, un grave impedimento alla laicizzazione della cultura ed è per questo motivo che egli lo ritiene gravemente dannoso allo sviluppo di un pensiero davvero libero e moderno. Conseguentemente a quanto testé accennato, Voltaire respinge con pari energia gli sviluppi della filosofia cartesiana operati da Malebranche, Spinoza e Leibniz. Polemizza pure con straordinaria vivacità contro Pasca! dando spesso l'impressione, però, di non riuscire a penetrarne il significato più profondo. Al fine di illustrare l'assoluto divario esistente tra la cultura e la mentalità dei due autori, e quindi di spiegarci il motivo onde Pascal riesce così incomprensib~le a Voltaire, vale la pena riferire - a titolo di esempio -le obiezioni di quest'ultimo al famoso argomento pascaliano della scommessa. 1 « È evidentemente falso dire " non scommettere che Dio esiste, è scommettere che non esiste ", poiché colui che dubita e chiede di essere illuminato non scommette sicuramente né pro né contro. D'altra parte questo articolo risulta alquanto indecente e puerile; l'idea del giuoco, della vincita e della perdita, non conviene alla gravità del soggetto. Inoltre, l'interesse che ho a credere una cosa non è una prova dell'esistenza della cosa stessa ... Cominciate, si potrebbe dire a Pascal, convincendo la mia ragione. »2 È alla ragione che Voltaire vuole appellarsi in ogni problema, poiché essa gli fornisce lo strumento più sicuro per dare all'uomo un pieno dominio sui propri pensieri e sulle proprie azioni. Secondo lui, essa ci rende chiaro conto non solo dell'ordine del mondo, ma anche del posto che l'uomo occupa nella natura, e dei poteri che gli competono. Fra questi merita un particolarissimo rilievo la libertà che «è unicamente il potere di agire ». Voltaire respinge con grande energia la concezione di essa come «libertà di indifferenza» (a suo giudizio questa è soltanto «un'espressione priva di senso, inventata da uomini che non ne avevano affatto »),per farsi invece paladino di quel tipo di libertà che costituiva ormai una delle più vive aspirazioni della borghesia. « La vostra volontà, » egli scrive, « non è libera, ma lo sono le vostre azioni. Voi siete libero di agire quando avete il potere di farlo. » E ancora: « Essere veramente libero vuoi dire potere. Quando posso fare ciò che voglio, sono libero, ma io voglio necessariamente ciò che voglio, altrimenti vorrei senza ragione e senza causa, cosa impossibile. La mia libertà consiste nel camminare quando voglio camminare, senza avere la gotta. La mia libertà consiste parimenti nel non compiere un'azione cattiva quando il mio spirito la presenta come neI Si ricordi quanto venne spiegato su questo argomento nel capitolo vrr della sezione xv. 2. Il brano qui riportato è tratto dalle Remarques s11r !es pensées de Pasca/ aggiunte da Voltaire, come venticinquesima lettera alle Le/tres philosophiques pubblicate in edizione francese nel
1734. Va comunque notato che Voltaire continuò a occuparsi per tutta la vita del grande matematico-filosofo del Seicento a ciò sollecitato in particolare dall'edizione dei Pensées uscita nel 1776 a cura di Condorcet (che vi aggiunse un famoso Éloge de Pasca/).
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cessariamente cattiva, nel soggiogare una passione quando il mio spirito mi avverte della sua pericolosità, e quando l'orrore di questa azione urta in modo violento contro il mio desiderio. >> Come risulta ben chiaro, questa libertà - viva, umana, concreta - non p1,1ò inquadrarsi che in una concezione altrettanto concreta dell'etica, intesa come sforzo per realizzare ciò che il nostro spirito ci presenta come necessariamente buono: la giustizia, il rispetto reciproco, lo sviluppo della cultura. Tale libertà ci costringe anche a prendere atto con assoluta franchezza dei mali che esistono nel mondo, per intervenire con estrema decisione a correggerli, estirparli, o per lo meno ridurne l'efficacia. È proprio in vista di questo intervento che Voltaire polemizza, con tagliente asprezza, contro l'ottimismo leibniziano il quale pretenderebbe di sostenere che il nostro è il migliore dei mondi possibili. Le pagine del Candide dedicate a tale polemica costituiscono un vero capolavoro di letteratura satirica. Si potrà obiettare, non senza ragione, che esse restano alla superficie del problema, che non colpiscono i motivi profondi della concezione leibniziana, ma ciò non diminuisce affatto la loro efficacia (che fu grandissima nel Settecento e contribuì in misura notevolissima a rinvigorire negli spiriti più illuminati dell'epoca la coscienza delle proprie responsabilità civili, dei propri doveri umani). Voltaire si rifiuta di polemizzare contro tale concezione sul piano delle idee: sono gli stessi innumerevoli mali concreti dell'umanità a svuotare di significato l'ottimismo metafisica, a bollarlo col marchio del ridicolo: « Se questo è il migliore dei mondi possibili, che cosa saranno mai gli altri? » VII
· CRITICA DELLE RELIGIONI POSITIVE
Come risulta chiaro dai titoli delle opere riferiti nel paragrafo v, la polemica di Voltaire sul fronte religioso fu vivacissima e si protrasse per tutta la sua vita. Egli era convinto, come i deisti inglesi, dell'esistenza di dio quale autore del mondo e ordinatore di esso: « Quando vediamo una bella macchina, noi diciamo che deve esserci un buon artefice e che questi deve possedere un eccellente intelletto. Il mondo è sicuramente una macchina ammirevole: perciò nel mondo c'è intelligenza ammirevole, da qualsiasi parte essa si trovi. Questo argomento è vecchio, ma non perciò è cattivo. » « Tutto ciò che fa parte della natura è uniforme ed immutabile, ed è l'opera immediata del suo artefice; è lui che ha creato le leggi in base a cui la luna provoca per tre quarti il flusso e il riflusso dell'oceano, ed il sole lo provoca per un quarto; ecc. » Era inoltre convinto che l'uomo abbia il dovere di adorare l'essere divino, ma non secondo le pratiche superstiziose imposte dalle varie religioni positive: il culto del vero religioso « consiste nel fare il bene; la sua dottrina consiste nell'essere sottoposto a Dio. Il maomettano gli dice: " guai a te se non fai il pellegrinaggio alla Mecca! "; ed un cappuccino lo 75
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minaccia: " sventura a te, se non farai un viaggio a Loreto! ". Egli se ne ride di Loreto e della Mecca, ma aiuta l'indigente e difende l'oppresso.» Ragione, religione e morale venivano così a inserirsi in un unico quadro, presentandosi come aspetti diversi di ciò che vi è di più elevato in ciascuno di noi e che ci accomuna a tutti gli altri uomini: «È necessario avere una religione; ma essa deve essere pura, ragionevole, universale; deve essere come il sole, che esiste per tutti gli uomini e non soltanto per qualche piccola provincia privilegiata. È assurdo, odioso, abominevole, immaginare che Dio dia luce a tutti gli occhi, ed invece piombi quasi tutte le anime nelle tenebre. C'è soltanto una specie di probità comune a tutto l'universo; e quindi c'è una sola religione. E qual è? voi lo sapete: essa consiste nell'adorare Dio e nell'essere giusto. »1 Ciò che caratterizza in modo più evidente la posizione di Voltaire, è che il deismo assume in lui un aspetto particolarmente polemico, traducendosi in critica implacabile delle religioni confessionali, dell'intolleranza, della tirannide chiesastica, e in generale di ogni potere che pretenda comprimere la ragione umana. Se il nostro autore aveva cominciato nelle Lettere inglesi ad elogiare la libertà religiosa vigente in Inghilterra, illustrandone i numerosi e rimarchevoli vantaggi per la vita di quel paese (in primo luogo per la sua stessa prosperità economica) a poco a poco egli non si accontenta più di una semplice difesa dello spirito di tolleranza contro quello di persecuzione e sopraffazione. Il principio di tolleranza si trasforma gradualmente in principio di indifferenza nei confronti di tutte le religioni positive; e sfocia infine nell'esigenza di sostituire ad esse una religione « naturale », basata su principi essenzialmente razionali come appunto quelli che abbiamo or ora delineato. « Gli uomini sono ben ciechi e infelici, » egli scrive, « se preferiscono una setta assurda, sanguinaria, sorretta da carnefici e circondata da roghi ... ad una religione semplice e universale che, per riconoscimento stesso dei Cristiani, costituiva la religione del genere umano ai tempi di Seth, di Enoch e di Noè. Se la religione di questi primi patriarchi è vera, certamente la setta di Gesù è falsa. I sovrani si sono sottoposti a questa setta, credendo di diventare più cari ai loro popoli per il fatto di subire anch'essi il giogo imposto ai popoli. E non hanno visto che in tale maniera diventano i primi schiavi dei preti: in metà dell'Europa essi non sono ancora riusciti a rendersi indipendenti. E quale re, quale magistrato, quale padre di famiglia non preferirà essere padrone a casa propria, anziché schiavo di un prete? » Qui la polemica religiosa si è manifestamente tramutata in polemica politica. Voltaire non intente affatto opporsi - come abbiamo visto - al riconoscimento di alcuni principi religiosi generali quali l'esistenza di dio, l'esistenza di una legge morale, ecc., ed anzi è convinto che tale riconoscimento sia estremamente utile per frenare lo spirito sedizioso delle moltitudini; ma ciò che assolutamente non I Sugli stretti legami fra il deismo di Voltaire e il suo interesse per la scienza (in particola-
re per la cosmologia nèwtoniana), si ritornerà nel paragrafo I del. capitolo x.
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ammette è che la religione sia fatta valere per demolire i cardini della civiltà moderna. Nel Trattato sulla tolleranza viene preso esplicitamente in esame l'operato del cardinale Duperon che, negli Stati generali del 1614, riuscì a far annullare il deliberato del parlamento di Parigi il quale« stabiliva come legge fondamentale l'indipendenza della corona». «Tutti i giornali dell'epoca,» scrive Voltaire, « riferiscono i termini di cui Duperon si servì nelle sue arringhe: " Se un principe si_ facesse ariano, si sarebbe ben costretti a deporlo ".»Nulla di più istruttivo, per comprendere il significato profondamente politico della lotta del nostro autore contro l 'intolleranza religiosa, che il vigore con cui risponde a queste argomentazioni: « Niente affatto, signor cardinale. Ammettiamo pure la vostra chimerica ipotesi, che uno dei nostri re, avendo letto la storia dei concili e dei padri della chiesa, colpito d'altra parte da queste parole del V angelo : il padre mio è più grande di me, prendendole troppo alla lettera ed esitando tra il concilio di Nicea e quello di Costantinopoli, si dichiarasse per Eusebio di Nicodemia: non per questo non obbedirei più al mio re, non mi riterrei più legato dal giuramento che gli ho fatto; e se voi osaste insorgere contro di lui, ed io fossi uno dei vostri giudici, vi dichiarerei reo di lesa maestà. » La ben nota posizione di Voltaire a favore del dispotismo illuminato emerge qui con tutta chiarezza. Una cosa è l'intolleranza religiosa contro chi respinge questo o quel dogma, e un'altra cosa totalmente diversa è la severità dello stato moderno nei confronti di chi non intenda rispettare le sue leggi: quella è frutto di mera ignoranza, è un residuo di barbari costumi ben lontani dai nostri, questa invece è espressione di una civiltà essenzialmente laica, rivolta a difendere i diritti della ragione: «Se [alcuni gesuiti] hanno propagato massime delittuose, se il loro istituto è contrario alle leggi del regno, non si può fare a meno di sciogliere la loro compagnia, e abolire i gesuiti per farne dei cittadini... Si riformano, in pace, reggimenti intieri, che non se ne dolgono; perché mai i gesuiti strillano così forte quando vengono riformati per avere la pace? » La difesa della tolleranza non significa, per Voltaire, accettazione indifferenziata di tutte le opinioni; essa non cela in sé alcun atteggiamento scettico o passivo: è, al contrario, intervento attivo contro il fanatismo, cioé contro il più subdolo ostacolo mediante cui si cerca di rallentare il trionfo della ragione: « Bisogna dunque che gli uomini, per meritare la tolleranza, comincino col non essere fanatici »; « ogni giorno in Francia la ragione penetra nelle botteghe dei mercanti come nei palazzi dei signori. Bisogna dunque coltivare i frutti di questa ragione, tanto più che è impossibile impedir loro di maturare. » Come abbiamo ricordato più volte, Voltaire è fermamente convinto che il potere del monarca illuminato possa costituire lo strumento più efficace per combattere vittoriosamente contro il fanatismo e la superstizione; ma se, invece di farsi difensore dello spirito moderno, il re si allea con la superstizione e il fana-
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tismo, allora è giusto che anch'egli venga travolto dalla civiltà che avanza. Così fu perfettamente giusta la condanna di Carlo 1 durante la prima rivoluzione inglese: «È senza dubbio costato stabilire la libertà in Inghilterra; in un mare di sangue si è annegato l 'idolo del potere dispotico; ma gli Inglesi non credono di aver pagato troppo caro le buone leggi. » Si tratta di un insegnamento che i giacobini del '93 applicheranno con rigorosa coerenza, spingendosi molto al di là della linea sostanzialmente moderata cui Voltaire aveva sempre cercato di essere fedele. VIII
· L 'INIZIO DI UNA STORIOGRAFIA MODERNA
Se già le opere a difesa della tolleranza religiosa erano cariche di contenuto politico, la cosa deve ripetersi a maggior ragione per le opere di argomento storico. Nella maggior parte dei casi Voltaire fa della storia per fare della politica, cioè per spiegare i motivi profondi della sua avversione contro la tirannide intesa in senso politico-religioso. Questo intento fortemente pragmatico non impedisce però al nostro autore di introdurre nella storiografia alcune innovazioni che valgono a farle compiere un passo decisivo verso una impostazione moderna. Queste innovazioni sono fondamentalmente due: r) la storia non va intesa come pura erudizione, come semplice raccolta di fatti rigorosamente accertati; deve invece sforzarsi di cogliere il contesto storico, cioè i legami tra i fatti che valgono a darci una spiegazione razionale di essi; z) non deve occuparsi soltanto di guerre o, in generale, di quegli eventi che riguardano i grandi personaggi, ma deve prendere in esame anche il commercio, le arti, le istituzioni religiose, gli stessi interessi della gente minuta, ponendosi per così dire dal punto di vista dei sudditi, dei cittadini, anziché da quello dei re e dei governi. Così impostata, essa non concluderà le sue indagini con un giudizio moralistico sugli individui, ma dovrà farci comprendere l'autentico corso della storia. In vista di ciò Voltaire parla di « filosofia della storia », come di sforzo volto a 'selezionare, tra i molti fatti di un'epoca, quelli più significativi, quelli che ne illuminano meglio i caratteri, sia positivi sia negativi. Egli ritiene, in particolare, che la storia possa e debba porre a nudo le radici dei mali che affliggono l'umanità e in particolare quelli che affliggono il nostro tempo. Proprio nella sua capacità di illuminarci sulla natura e sulla causa di questi mali va cercata la ragione della sua efficacia pragmatica. « Nella storia così concepita si vedono susseguirsi gli errori e i pregiudizi, i quali mettono in fuga la verità e la ragione. Si osserva che gli uomini abili e fortunati mettono in catene gli imbecilli e schiacciano gli sfortunati e sono essi stessi lo zimbello della fortuna, al pari di coloro che essi governano. Infine gli uomini vengono un po' illuminati da questo quadro della loro sventura e della loro sciocchezza. Le società perven-
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Montesquieu e Voltaire
gono con l'andar del tempo a rettificare le loro idee, e gli uomini imparano a pensare. » Lo sforzo di cercare il senso filosofico degli eventi storici, andando al fondo dei problemi umani, è assai importante anche perché permette a Voltaire di non trasformare la propria sincera ammirazione per le istituzioni inglesi in astratta pretesa di riportarle tal quali in una società tanto diversa come quella francese. A differenza di Montesquieu egli sa distinguere con relativa chiarezza fra la sostanza della democrazia e le particolari forme in cui essa si è realizzata in una determinata situazione storica. È proprio tale sostanza ciò che gli sta a cuore; è all'attuazione di essa che egli dedica, sino alla fine della sua lunga vita, tutte le vaste risorse del suo brillante ingegno. Già ricordammo nel capitolo n la profonda antitesi esistente fra i deisti e B'ossuet circa i problemi religiosi; qui è necessario sottolineare che tale antitesi non è meno netta e radicale per ciò che si riferisce ai problemi della storia. In effetti Bossuet costituisce uno degli autori che Voltaire tiene più costantemente presente, quale rappresentante di un indirizzo storiografico che va respinto con estrema decisione e pressoché capovolto. Il metodo di condurre le indagini storiche poco sopra delineato è contrario a quello seguito dal pensatore cattolico, così come sono contrari gli scopi che i due scrittori attribuiscono a tali indagini, le valutazioni che essi compiono di alcuni eventi fondamentali della storia francese (per esempio della politica religiosa di Luigi XIV), ecc. Ma ancora più aperto, se possibile, è il loro contrasto su ciò che costituisce per così dire la linea direttrice dello sviluppo dell'umanità: sviluppo che Bossuet vede incentrarsi nel mondo cristiano mediterraneo, mentre Voltaire rifiuta questa restrizione dichiarando che un non minore interesse deve spettare alla storia dei popoli estranei a tale pur importantissima civiltà. La battaglia a favore di questo ampliamento assume, in lui, un evidente significato di battaglia a favore della laicizzazione del concetto stesso di uomo: se il cristianesimo è solo una delle tante religioni dell'umanità, se le vicende della chiesa e della cristianizzazione dei popoli non godono di una posizione privilegiata nella storia generale, con che diritto si potrà pretendere che il racconto biblico risponda a verità? Come si potrà evitare che esso venga ridotto al rango di tutti gli altri miti religiosi? Un'ultima questione è necessario accennare prima di chiudere la nostra breve esposizione del pensiero di Voltaire: il problema se egli sia o no pervenuto al concetto di progresso. In realtà esistono seri argomenti a favore sia dell'una che dell'altra tesi, e di conseguenza i pareri dei critici sono notevolmente divisi. Senza addentrarci nel complesso dibattito possiamo senz'altro ammettere che egli possegga un'idea abbastanza chiara della vastità e complessità dei fenomeni che intervengono nel progresso (non costituito dai successi guerreschi ma dall'incremento del benessere dei popoli e soprattutto dal perfezionarsi e moltiplicarsi delle opere artistiche);
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non si nasconde però che il progresso è ben l ungi dall'investire tutto lo sviluppo dell'umanità, realizzandosi in realtà solo in qualche breve tratto di tempo. «Bisogna ben confessare che in generale tutta questa storia è una congerie di crimini, di follie e di sciagure, in mezzo a cui noi abbiamo visto qualche virtù, qualche periodo felice, così come si scoprono delle abitazioni sparse qua e là nelle lande selvagge. » Quattro sono i periodi in cui l'umanità ha raggiunto un più elevato livello di civiltà: l'età di Pericle, quella di Augusto, il rinascimento e il secolo di Luigi XIV. « Queste età felici, » spiega Voltaire, « sono quelle in cui sono state perfezionate le arti e che, servendo di modello della grandezza dello spirito umano, costituiscono un esempio per la posterità. » Aggiunge subito, però: « Non si deve credere che questi quattro secoli siano stati esenti da sventure e da delitti. La perfezione delle arti coltivate da cittadini amanti della pace non impedisce ai prìncipi di essere ambiziosi, né ai popoli di essere sediziosi, né ai preti e ai monaci di essere talvolta turbolenti ed astuti. » Il fatto è che Voltaire non può più contare su una garanzia divina della bontà del mondo (si ricordi la sua aspra critica contro l'ottimismo leibniziano) e d'altra parte non è ancora giunto a vedere nell'umanità il vero essere assoluto, che realizzando se stesso attua - come sosterranno alcuni @osofi dell'Ottocento -l'unica autentica razionalità. Nulla (né di trascendente né di immanente) è pertanto in grado di assicurarlo che la storia debba realizzare il progresso. Sono soltanto i fatti analizzati dallo storico a fornire la prova che in alcuni periodi si è verificato un progresso mentre in altri la civiltà è retrocessa; il susseguirsi di periodi di un tipo a periodi di tipo contrario sembra però sfuggire a ogni legge razionale. L'analisi storica ci insegna comunque una cosa assai importante: che il progresso è il frutto di molti fattori e che questi fattori dipendono in ultima istanza dalla volontà umana. In altri termini: l'incivilimento dei popoli è nelle nostre mani, come pure la loro decadenza. Sta dunque a noi impedire che l 'umanità decada e fare in modo che, in mezzo a mille errori, essa riesca a compiere qualche, sia pure lento, passo innanzi. Come gli altri illuministi, Voltaire ha fiducia che d'ora in avanti l'uomo saprà progredire. «Si può ritenete che la ragione e l'industria faranno sempre nuovi progressi, che le arti utili accresceranno il loro dominio, che i pregiudizi - i quali non costituiscono di certo, fra i mali che hanno afflitto gli uomini, il flagello minore- scompariranno a poco a poco in coloro che reggono le sorti delle nazioni, e che la filosofia, ovunque diffusa, potrà consolare un poco la natura umana dalle calamità che essa dovrà subire in tutti i tempi. » È una fiducia che, per non fare appello ad alcuna base metafisica, può essere giustificata solo dal responso dei fatti e in ogni caso lo può essere solo in via provvisoria. E poiché i fatti dipendono in ultima istanza dall'uomo, è una fiducia
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che, se da un lato vale a sorreggere e stimolare la volontà umana, dall'altro trova essa stessa nell'uomo il suo unico e vero fondamento. Sulla base di questa circolarità, qualcuno potrà sostenere che è una fiducia incontestabilmente dogmatica. Certo essa costituiva, in Voltaire e nei suoi contemporanei, un potente stimolo all'azione: un deciso sprone a intervenire consapevolmente e attivamente nella storia per darle un senso razionale e per contribuire all'affermazione in essa dei valori morali.
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CAPITOLO QUARTO
Condillac e Helvétius
I
· VITA E OPERE DI CONDILLAC
Etienne de Condillac nacque a Grenoble nel 1714 da una elevata famiglia di magistrati; il cognome della famiglia era Bonnot, ma il nostro autore assunse quello con cui è passato alla storia, dalla denominazione di alcuni terreni che suo padre aveva acquistato al principio del secolo presso Romans. Come gran parte dei figli della buona borghesia, iniziò i propri studi in un collegio dei gesuiti; non essendo il primogenito, venne poi inviato al seminario di Saint-Sulpice a Parigi, generalmente considerato in quell'epoca un'ottima scuola per giovani destinati agli alti gradi della gerarchia ecclesiastica. Qui ebbe modo di assimilare abbastanza bene la filosofia aristotelico-tomistica e anche di apprendere alcune nozioni di Euclide. Frequentò pure la Sorbona, ma senza grande impegno. Addottoratosi in teologia, venne ordinato prete nel 1740, dimostrando però fin d'allora uno scarso entusiasmo per il sacerdozio (donde la leggenda che abbia celebrato la messa una volta sola in tutta la vita). Già in quegli anni aveva sentito il bisogno di integrare la propria formazione con la lettura di opere moderne, e aveva subito provato una viva propensione per i filosofi e gli scienziati inglesi (Bacone, Locke, Newton, ecc.). Poco dopo il 1740, vivendo a Parigi, ottenne di venire introdotto nei più brillanti salotti della città, ove poté conoscere alcune delle maggiori personalità della cultura francese: Diderot e Rousseau (dei quali divenne sincero amico), D'Alembert, Voltaire e vari altri. Nel 1768 Voltaire dichiarerà che Condillac era destinato ad essere « il primo uomo dell'Europa». Il 1746 vide la pubblicazione della prima opera importante di Condillac: Essai sur l'origine des connaissances humaines (Saggio sull'origine delle conoscenze umane). Essa ottenne un vivo successo e in breve gli procurò una notevole fama sia in Francia sia all'estero. Tre anni più tardi uscì il Traité des systèmes (Trattato dei sistemi) che sottoponeva a un acuto esame critico lo spirito sistematico nelle sue molteplici e varie espressioni (in filosofia, nelle scienze della natura, in economia, in politica); di particolare importanza la presa di posizione del nostro autore di fronte ai grandi sistemi metafisici del Seicento (di Cartesio, Spinoza, Male branche, 8z
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Leibniz, ecc.): su di essa ritorneremo con ampiezza nel capitolo x. Nel medesimo anno (1749) Condillac venne nominato membro dell'accademia delle scienze di Berlino, il che gli fornì occasione di entrare in corrispondenza con il suo presidente, Pierre Louis Maupertuis. Iniziavano anche, però, i sospetti delle autorità religiose e politiche contro l'ormai celebre pensatore, che malgrado il suo abito talare, veniva accusato di lockismo e di materialismo. Nel 1754 pubblicò il Traité des sensations (Trattato delle sensazioni), che è la sua opera principale. Essa ottenne però un successo inferiore alle precedenti, sia perché fornì nuovi motivi alle accuse testé menzionate, sia perché suscitò da varie parti numerosi dibattiti; celebre è per esempio la polemica di Buffon, che sostenne di essere stato plagiato in alcune fra le più famose pagine del Traité. Per difendersi dalle numerose critiche, Condillac pubblicò nel 175 5 il Traité des animaux (Trattato degli animali), inserendovi fra l'altro uno scritto di circa dieci anni prima sull'esistenza di dio. Una delle tesi principali svolte in questa opera è l'attribuzione di un'anima - sia pure inferiore a quella umana - anche agli animali. Malgrado tale difesa, la permanenza a Parigi diventava sempre più difficile, ond'egli accettò di buon grado l'offerta di trasferirsi a Parma quale precettore del giovane Ferdinando di Borbone, erede del ducato. Vi rimase per nove anni, interrotti però da vari viaggi nell'Italia settentrionale (Venezia, Milano, ecc.) che gli permisero di entrare in contatto con l'ambiente illuministico lombardo. Nel 1765 gli fu conferito il priorato dell'abbazia di Mureaux (nella diocesi di Toul), ove egli non si recherà nemmeno una volta pur percependone per tutta la vita le cospicue rendite. Nel 1767, essendo il suo discepolo salito al trono (in seguito alla morte del vecchio duca), Condillac poté rientrare a Parigi ove l'anno successivo venne nominato membro di quella accademia delle scienze. Provvide allora a raccogliere in un Cours d'études (Corso di studi) gli insegnamenti impartiti sulle più diverse discipline a Ferdinando di Borbone. 1 I numerosi volumi dell'imponente opera vennero stampati a Parma nel 1773 ma non poterono essere posti a disposizione del pubblico per l'opposizione del vescovo di tale città, cosicché risultano pubblicati per la prima volta a Parigi nel 177 5. 2 Dopo di allora Condillac non scrisse più alcun'opera di vero impegno filosofico; ci limiteremo a ricordare La logique (La logica), compilata - su richiesta per le scuole polacche (uscirà nel 178o) e La langue des calculs (La lingua dei calcoli), rimasta incompiuta (pubblicata postuma nel 1798), ove è ripreso il programma leibniziano della logica combinatoria. Trascorse serenamente gli ultimi anni, interamente dedicati agli studi, nel I Fra le parti filosoficamente più interessanti del Cours ricordiamo: la Grammaire, l'Art d'écrire, l'Art de penser, l'Art de raùonner. 2. In aggiunta a questa edizione venne pure
pubblicato un saggio dal titolo De l'étude de l'histoire (Sullo studio della storia), generalmente attribuito a un fratello di Condillac.
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castello di Flux che aveva acquistato per una propria nipote. lvi morì nel I78o. Pur non avendo mai fatto parte del gruppo dei philosophes, esercitò su di essi una notevole influenza (al suo pensiero sono ispirate parecchie voci della Enryclopédie) onde potrà venire considerato, durante la rivoluzione, uno degli studiosi che più avevano contribuito all'abbattimento della vecchia cultura francese. È significativo che i più diretti continuatori della filosofia di Condillac saranno i così detti « ideologi » (per i quali rinviamo al capitolo IV della sezione vi), che assumeranno un peso determinante subito dopo la morte di Robespierre per cadere poi in disgrazia quando Napoleone darà inizio a una politica di riavvicinamento con i cattolici. L'esaltazione di Condillac da parte degli ideologi o la sua condanna da parte dei loro avversari non devono però trarci in inganno, facendoci scorgere in lui un ateo o un materialista o un autentico rivoluzionario; d'altra parte sarebbe parimenti erroneo sottovalutarne l'azione innovatrice che - sia pure in limiti ben circoscritti - fu tutt'altro che trascurabile.
II
· POSIZIONE DI CONDILLAC
DI FRONTE A CARTESIO, LEIBNIZ E LOCKE
Gli studiosi di Condillac hanno giustamente posto in luce che il suo sensismo subì alcune notevoli trasformazioni dal Saggio del I746 al Trattato del '54, e ciò proprio in riferimento a taluni problemi filosofici fondamentali (per esempio circa l'esistenza di una realtà obbiettiva, sostanzialmente difesa nella seconda opera e lasciata invece in ombra nella prima). Non potendo entrare in analisi troppo particolareggiate, noi dovremo prescindere da tali differenze e !imitarci a sottolineare le tesi più caratteristiche di tutto intero il pensiero del nostro autore. Va in primo luogo menzionato che egli si allinea fedelmente a Locke nel riconoscere che il compito essenziale della filosofia è quello di analizzare le operazioni dell'intelletto umano, ossia di studiare nel modo più scrupoloso la genesi delle idee e i loro reciproci rapporti. Ciò gli consente di assumere subito una posizione nettamente anticartesiana. Cartesio aveva sostenuto l'esistenza di idee innate, sulla cui base sarebbe possibile concludere con assoluta certezza che il mondo è costituito da due sostanze distinte: la res cogitans e la res extensa. Secondo Condillac, invece, una semplice analisi dei due famosi attributi - pensiero ed estensione - ci fa comprendere che essi non sono affatto il frutto di intuizioni chiare e distinte, ma sono idee che traggono origine, come tutte le altre, dalle nostre sensazioni e perciò valgono unicamente nel mondo del sensibile. La presunzione di basare su tali « intuizioni » una concezione metafisica dell'universo è dunque infondata. Nel respingere l'identificazione cartesiana della realtà fisica con la mera estensione Condillac si trovava in pieno accordo con i leibniziani, e non si può esclu-
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dere che su questo punto egli abbia subito l'influenza diretta del grande pensatore di Lipsia. In un 'altra tesi, però, egli se ne distaccava nel modo più completo: è quella dell'esistenza, rtella vita psichica, di una infinità di gradi che vanno dalle percezioni oscure e confuse, pressoché incoscienti, fino alle appercezioni pienamente consapevoli. Condillac è sì disposto ad ammettere la distinzione fra percezioni deboli e forti, ma non l'esistenza di idee oscure: psichicità e coscienza per lui - come per Locke - coincidono. Ecco in proposito una sua inequivocabile dichiarazione: « Questo problema, se vi siano idee chiare o oscure, e l'altro, se noi abbiamo coscienza di tutte le nostre percezioni, sono l'un l'altro pertinenti. Leibniz ha pensato che abbiamo percezioni delle quali non abbiamo coscienza, e conseguentemente ha dovuto ammettere idee oscure. Io ho ritenuto, per contro, che la percezione e la coscienza non sono che una stessa cosa, e da quel momento le idee oscure non hanno potuto fare ingresso nel mio sistema. » Se, come abbiamo poco sopra accennato, il nostro autore concorda pienamente con Locke nell'impostazione generale della filosofia, non mancano però punti nei quali si distacca con nettezza da lui. Uno dei principali concerne proprio il modo di intendere l'estensione che il filosofo inglese- in accordo su ciò con tutto il meccanicismo - considera come qualità primaria dei corpi, contrapposta alle loro qualità secondarie (colore, calore, ecc.). Orbene, ciò che Condillac rifiuta con energia, per lo meno a partire dal 1749 circa, è proprio la distinzione fra qualità primarie e secondarie (analogo rifiuto era già stato espresso circa dieci anni prima da Hume, nel Trattato della natura umana, che però egli non conòsceva). Ecco ciò che Condillac scrive nel 1740 in una lettera al matematico svizzero Gabriel Cramer: « lo non vedo che cosa ha ottenuto Locke col distinguere le qualità primarie dalle secondarie, né so se la sua ipotesi che noi abbiamo un'idea esatta dalle prime sia un'ipotesi gratuita. Noi conosciamo l'estensione mediante il tatto e la vista, ma non la conosciamo che attr.averso questo mezzo, e lo spirito non ne può dare alcuna definizione. » Un altro punto in cui Condillac si spinge al di là di Locke concerne il problema delle facoltà. Il pensatore inglese aveva parlato di una facoltà intellettuale, che avrebbe il potere di combinare variamente le idee semplici per costituire quelle composte, pur avvertendo subito che le facoltà non vanno intese come « esseri distinti » davvero indipendenti una dall'altra. Il filosofo francese non si accontenta di questa cauta riserva, e vuole metterei chiaramente in guardia dall'interpretare la più semplice percezione come un momento passivo della vita dello spirito, contrapposto all'attività del pensiero: «Alla staticità della veduta lockiana che segnava i due momenti della sensazione e della riflessione, » scrive Mario Dal Pra, « qui è sottesa la dinamicità della vita spirituale, nella sua originaria unità. » È proprio in base a questa interpretazione dinamica di tutto il nostro percepire, che Condillac può giungere alla sua famosa teoria: tutte le cosiddette facoltà hanno origine da un unico principio, la sensazione.
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Merita di venire sottolineato - come giustamente suggerisce Giovanni Solinas- che, con la teoria testé accennata, Condillac compiva un notevole passo verso l'unificazione di tutti gli atti conoscitivi «conforme all'ideale scientifico newtoniano ».Questa presenza di un ideale unitario di marca newtoniana ci spiega l'enorme importanza (senza dubbio eccessiva, agli occhi del lettore moderno) che il nostro autore attribuì alla presunta dimostrazione (da lui ottenuta attraverso le più artificiose e astratte argomentazioni) della possibilità di ricavare l'intera vita psichica dalla sola sensazione, o -più esattamente - dalla sensazione e dal bisogno. Con questa tesi il filosofo francese rivela di non avere affatto rinunciato, per il suo orientamento antimetafisico, all'esigenza della sistematicità. Se egli si dichiara decisamente contrario alle grandi filosofie del secolo precedente, tale sua opposizione non dipende dal carattere sistematico di queste filosofie; ciò che Condillac rimprovera loro non è di aver cercato una visione unitaria del reale, ma di aver fatto ricorso- per raggiungerla- a postulazioni metafisiche anziché alla semplice esperienza1 • Una analoga esigenza di sistematicità non è forse presente nella matematica come nelle stesse scienze della natura? Queste però cercano di raggiungere lo scopo voluto non mediante postulazioni vaghe e incontrollabili, bensì mediante ipotesi esattamente formulate, suggerite dall'esperienza. Orbene anche il filosofo può e deve fare qualcosa di simile: l 'importante è che, nel proprio lavoro, egli eviti scrupolosamente ogni pretesa spiegazione assoluta, sovraempirica, incontrollabile; eviti cioè quel tipo di spiegazioni, che Newton aveva respinto con tanta decisione nel famoso Scolium generale dei Principia. III
· LO SVILUPPO DELLA VITA PSICHICA
Condillac ammette l'esistenza dei due metodi, entrambi in grado di guidare seriamente le nostre indagini: il metodo analitico e quello sintetico. Con l'espressione « metodo sintetico » egli intende quello deduttivo, efficacemente applicato dalla matematica; il nostro autore confessa però di conoscere troppo poco questa disciplina per riuscire a comprendere fino a che punto essa si attenga esclusivamente a tale metodo. Certo è che a suo parere vi si nascondono spesso dei gravi pericoli, soprattutto quando lo si voglia trasferire dalla matematica alla fisica: pericoli dovuti alla difficoltà di determinare con esattezza: le idee primitive e gli assiomi assunti a fondamento delle deduzioni. Invece il metodo analitico offrirebbe tutte le garanzie, perché, scomponendo le singole idee nei loro ultimi costituenti, ci permetterebbe di controllarne fino in fondo l'esattezza evitando gli equivoci che provengono dalla accettazione sommaria di verità a prima vista evidenti. Peraltro Condillac stesso non si accontenta di una mera analisi stricto sensu, r Sulle critiche di Condillac all'esprit de système dei grandi filosofi del Seicento, si ritornerà con
maggiore ampiezza e profondità nel capitolo x di questa medesima sezione.
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proponendo di integrare la scomposizione delle idee con una successiva ricomposizione di esse: « Allo stesso modo che si ricompone un orologio allorché si mettono insieme le parti nell'ordine in cui si trovavano prima che lo si smontasse, così si ricompone l'idea di un corpo quando si rimettono insieme le qualità nell'ordine in cui coesistono, vale a dire nell'ordine in cui esistono strette in unità. È necessario scomporre per conoscere ciascuna qualità separatamente; è necessario ricomporre per conoscere il tutto risultante dalla riunione delle qualità conosciute. Questa scomposizione e questa ricomposizione è ciò che io chiamo analisi. » L'indagine sullo sviluppo della vita psichica, a partire dalla sensazione, viene per l'appunto condotta dal nostro autore applicando una analisi nel senso ampio testé spiegato, cioè mediante l'uso parallelo di una scomposizione e ricomposizione delle idee. Dove è opportuno segnalare che tutta la procedura condillachiana, pur volendo essere strettamente legata all'esperienza, si muove in realtà - come osserveranno gli scienziati psicologi dell'Ottocento - su di un piano meramente astratto, non molto diverso da quello in cui costruivano le loro macchine e i loro esperimenti ideali i filosofi meccanicisti del secolo precedente. Il fatto è che né Condillac né gli altri empiristi della sua epoca riescono davvero a interrogare in concreto l'esperienza; il loro indirizzo rimane essenzialmente speculativo come quello dei loro avversari. Sottolineando l'origine empirica di ogni conoscenza, essi hanno comunque il merito di preparare il terreno alle future indagini scientifiche, che saranno autenticamente empiriche. Molto caratteristico della situazione testé accennata è il famoso esperimento teorico, che il nostro autore delinea per «dimostrare» che tutte le attività dello spirito sono soltanto « sensazioni trasformate ». Esso consiste nella finzione di una statua, che esteriormente sia di marmo e internamente, invece, risulti organizzata come l'uomo. Finché tale statua non avrà provato alcuna sensazione, essa non saprà nulla, non vorrà nulla, non ricorderà nulla. Ma se noi immaginiamo di aprirle ad uno ad uno i cinque sensi, « vedremo » sorgere in essa la nostra medesima vita spirituale, e potremo così «constatare» come tutte le manifestazioni di questa vita traggano origine dal primum delle sensazioni. La finzione della statua, ampiamente svolta nel Trattato del 1754, ottenne subito un grande successo, tanto che diede luogo ad alcune polemiche circa la sua autentica originalità. Effettivamente si trovano alcune finzioni analoghe in scritti di Buffon e di Diderot risalenti a qualche anno prima (rispettivamente al 1749 e al 1751). Ma se si tiene presente che Condillac ne aveva già fatto cenno in una lettera a Maupertuis del 1750, si può senz'altro ritenere che egli non l'abbia plagiata da altri. Va del resto osservato che fu lui il primo a darle un'importanza centrale nello studio delle attività umane, e inoltre che il ricorso a finzioni del genere rientrava perfettamente nei gusti e nella mentalità dell'epoca. L 'idea geniale di Condillac è di aprire i sensi alla sua statua, non tutti in-
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sieme, ma uno per volta. Egli comincia dunque ad accendervi il senso dell'olfatto: si « constaterà » che la statua diventa tutta e soltanto odore. In altri termini: essa non avrà alcuna percezione dello spazio né tanto meno della distinzione fra soggetto e oggetto; l'odore sarà per lei una semplice «maniera d'essere». Proverà invece un sentimento piacevole o spiacevole, a seconda dell'odore percepito, e quindi l'impulso a ripetere o a interrompere tale maniera d'essere. Questo impulso o bisogno è una specie di tono della sensazione che si accompagna immancabilmente con essa. L'accendersi graduale degli altri sensi genererà a poco a poco tutta la vita spirituale dell'uomo, dimostrando che le nostre varie facoltà (anche le più elevate) non sono altro che lo sviluppo di un processo iniziatosi con le sensazioni: così per esempio l'attenzione non risulterà altro che una sensazione tanto forte da escludere le altre; il confronto tra sensazioni non risulterà altro che attenzione rivolta contemporaneamente a sensazioni diverse; il ricordo sarà un effetto ulteriore delle sensazioni, ecc. Pur senza poterei soffermare sui singoli passi di questa ingegnosa ma artificiosa ricostruzione della vita dello spirito, occorrerà aggiungere qualche parola sulla funzione che Condillac riconosce alle due sensazioni fondamentali della vista e del tatto. Quanto alla prima, egli sostiene che non fornisce alla statua la percezione dello spazio, bensì soltanto di luci e di colori, or più or meno piacevoli, ma in ogni caso sentiti come null'altro che «maniere d'essere» del percipiente (non diversamente dunque dalle percezioni dell'olfatto, del gusto e del suono). Ciò che muta radicalmente la situazione è il senso del tatto (inteso come includente in sé anche quello del movimento), che trasforma di colpo il caos delle altre percezioni in un mondo ordinato e consistente: « Apro gli occhi alla luce e non vedo dapprima se non una nube luminosa e colorata. Tocco, mi faccio più innanzi, tocco ancora: un caos viene a poco a poco risolvendosi sotto i miei sguardi. Il tatto scompone, si può dire, la luce: separa i colori, li distribuisce sugli oggetti, distingue uno spazio illuminato, e in esso grandezze e figure; poi guida i miei occhi sino a una certa distanza, apre il cammino ch'essi debbono percorrere per portarsi lontano ed elevarsi dalla terra sino ai cieli: davanti a essi, in una parola, dispiega l 'universo intero. » Né basta; il tatto non si limita a localizzare e ordinare le altre percezioni. Esso fa qualcosa di molto più importante: suscita nella statua la convinzione dell'esistenza di un mondo esterno, proprio quella convinzione cioè intorno a cui i filosofi - dimentichi della sua origine - hanno artificialmente creato tanti inutili problemi: «Dacché il tatto istruì gli stessi sensi, io vedo fuori di me oggetti che attirano la mia attenzione con i piaceri e i dolori che mi cagionano: li confronto, ne giudico, sento il bisogno di cercarli o fuggirli: li desidero, li amo, li odio, li temo. » Si è molto discusso se il nostro autore abbia attribuito al tatto la capacità 88
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di porci effettivamente in rapporto con una realtà altra da noi, o solo quella di farci percepire il sensibile come qualcosa di esterno al soggetto percipiente. È chiaro che accettare la prima o la seconda tesi equivale ad interpretare il suo sensismo in chiave realistica o idealistica. Ci limiteremo a far presente che proprio le parole di Condillac rivelano, su questo punto, non poche oscillazioni; una cosa è comunque certa, che l'impostazione stessa del Trattato del I754 sembra suggerire un'interpretazione realistica in quanto indica nel reciproco rapporto fra l'attività dell'organismo umano e gli oggetti del mondo esterno la condizione necessaria per il sorgere delle varie sensazioni. Quanto poco sopra accennato non significa tuttavia che, secondo Condillac, il tatto ci faccia cogliere negli oggetti esterni qualcosa di effettivamente (o metafisicamente) reale, nel significato in cui i meccanicisti- e in primo luogo Cartesio - parlavano di «effettiva realtà» delle qualità primarie. Esso ci pone in presenza di qualcosa che possiamo chiamare la « corporeità », ma non ce ne fornisce una definizione «intelligibile», ossia una definizione che ci porti direttamente all'essenza di tale corporeità senza fare riferimento ai processi sensoriali per mezzo di cui riusciamo concretamente a percepirla: « Allorché affermo che non conosciamo l'essenza del corpo, intendo dire che non vediamo questa essenza nella proprietà più semplice e originaria. » In altri termini: estensione e impenetrabilità sono senza dubbio, per Condillac, le prime qualità che percepiamo nei corpi; ma il fatto di essere le prime non comporta che siano di natura diversa dalle restanti qualità conosciute attraverso i sensi; non comporta che ci svelino «il corpo in generale e nella sua interezza ». Non è il caso di fermarsi a illustrare le molte difficoltà che emergono immediatamente in questa posizione; l'importante è comprendere la complessa esigenza da cui essa scaturisce: cioè l'esigenza di conciliare una gnoseologia a impostazione sensistica con una concezione del mondo che non rinneghi il realismo dell'uomo comune. IV
· IL LINGUAGGIO
Nel costituirsi dell'attività spirituale uno dei momenti di maggiore importanza è rappresentato, secondo Condillac, dal linguaggio. A suo parere, infatti, i segni linguistici -. adoperati a indicare sia idee semplici sia idee composte, a volte molto astratte e complesse - non solo agevolano la memoria, ma permettono il trapasso dalla sensazione alla riflessione e ci pongono in grado di operare su nozioni (come ad esempio i numeri) altrimenti non dominabili. Ma qual è la genesi dei segni? Condillac non ha difficoltà ad ammettere che una parte di essi vengano direttamente suggeriti all'individuo da eventi naturali o accidentali: il singolo vi farà quindi ricorso anche se vive in totale solitudine. Per la maggior parte, però, occorre fare riferimento al commercio fra individuo
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e individuo, in quanto è solo esso che fornisce l'occasione di crearli. Se ne conclude che la vera matrice del linguaggio va proprio cercata nelle operazioni, eseguite in comune da più individui, nelle passioni che questo diuturno contatto fa sorgere nei loro animi. Il nostro autore introduce l'espressione molto felice «linguaggio d'azione» per indicare l'insieme assai vario di gesti, di movimenti, di grida usati per esprimere in modo non riflesso i sentimenti e i bisogni scaturiti da quell'operare in comune. La trattazione della formazione naturale del linguaggio è fatta da Condillac con qualche precauzione di tipo teologico. Io non mi riferisco, dice l'autore, ad Adamo ed Eva, giacché essi « uscendo dalle mani di Dio, con un soccorso straordinario furono in grado di riflettere e di comunicarsi i loro pensieri». Suppongo invece, prosegue, che «dopo il diluvio due fanciulli, dell'uno e dell'altro sesso, si siano smarriti in terre deserte, prima di conoscere l'uso di alcun segno». Dapprima i due fanciulli vissero senza incontrarsi, e quindi l 'uso delle loro facoltà era molto limitato: ogni volta che una percezione li colpiva in modo particolarmente vivido, eccitava la loro attenzione, ed inoltre avevano reminiscenze delle percezioni più importanti; ma l'uso dell'immaginazione era molto limitato, perché dipendeva del tutto dalle circostanze esterne: « Un giorno il sentimento della farrie ricordava a questi fanciulli un albero carico di frutti, che avevano visto la vigilia; il giorno dopo questo albero era dimenticato, e lo stesso sentimento ricordava loro un altro oggetto. Così l'esercizio dalla immaginazione non era affatto in loro potere; non era che l'effetto delle circostanze in cui si trovavano.» Quando si incontrarono e cominciarono a convivere, queste prime operazioni divennero più frequenti, dando luogo, appunto, al linguaggio d'azione. « Il loro commercio reciproco fece loro annettere alle grida di ogni passione le percezioni di cui erano i segni naturali. Li accompagnavano ordinariamente con qualche movimento, con qualche gesto o qualche azione, la cui espressione era ancora più evidente. » Le loro forme di espressione erano inizialmente ancora dovute all'istinto, non alla riflessione. Ma con il frequente ripetersi delle percezioni, delle passioni, delle grida e dei movimenti, «si familiarizzarono con questi segni», finché« furono in grado di ricordarseli a loro piacimento ».L'uso acutizzò la memoria, l'immaginazione si rese indipendente dalle circostanze esterne, finché la riflessione subentrò all'istinto e nacque il linguaggio d'azione, «linguaggio che, nei suoi inizi, per essere proporzionato alla poca intelligenza di questa coppia, non consisteva verosimilmente che in contorsioni e in agitazioni violente ». Il linguaggio d'azione divenne il punto di partenza del «linguaggio d'istituzione », nel quale la scelta dei segni assunse un carattere convenzionale. Le grida naturali furono il modello con cui elaborare grida e segni nuovi, già convenzionali: « Articolarono nuovi suoni e, ripetendoli più volte e accompagnandoli con qualche gesto che indicasse gli oggetti che volevano far notare, si ahi-
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tuarono a dare nomi alle cose.» Ma uscire dal linguaggio d'azione era molto difficile: i figli della coppia disponevano certo, nei primi anni di vita, di una maggiore scioltezza, nell'articolazione dei suoni, tuttavia dai genitori imparavano solo il linguaggio d'azione, per cui l'arricchimento del vocabolario era lentissimo. Ma con il moltiplicarsi degli uomini discendenti dalla famiglia originaria, anche le parole nuove si moltiplicarono sempre più rapidamente. Certo inizialmente «il linguaggio d'azione, allora così naturale, era un grande ostacolo da sormontare », ma « man mano che il linguaggio dei suoni articolati divenne più abbondante, fu più adatto ad esercitare per tempo (nei fanciulli) l'uso della voce, e a conservargli la sua prima flessibilità. Parve allora tanto comodo quanto il linguaggio d'azione; ci si servì ugualmente dell'uno e dell'altro; infine, l'uso dei suoni articolati divenne così facile che prevalse ». Per un lato questi suoni articolati manterranno alcune funzioni fondamentali del linguaggio d'azione (sono le funzioni emotivo-espressive, che si realizzano soprattutto nello stile poetico); per l 'altro, si riveleranno in grado di assolvere nuove funzioni, legate all'attività conoscitiva. Trattasi essenzialmente, secondo il nostro autore, di funzioni analitiche che - legando segni diversi a idee diverse - ci permettono di precisare i nostri pensieri, di scomporli nei loro elementi, di determinarne i nessi logici. Non è più possibile, per ovvi motivi di spazio, riferire in dettaglio le considerazioni di Condillac sul graduale formarsi dei linguaggi di istituzione, sul loro differenziarsi da popolo a popolo, sui perfezionamenti ad essi arrecati dall'azione degli uomini di cultura e in particolare dai grandi geni (la cui opera peraltro risulta, secondo il nostro autore, direttamente condizionata dal livello del linguaggio che essi trovano innanzi a sé). Basti notare che si tratta di considerazioni per lo più molto pertinenti, nelle quali Condillac rivela una notevolissima apertura di interessi e offre non di rado spunti di eccezionale modernità. Degna di particolare menzione è la stretta analogia che spesso si riscontra, malgrado la diversità fra le loro filosofie generali, tra la concezione del linguaggio di Condillac e quella di Vico. Dal punto di vista dei rapporti tra filosofia e scienza, va soprattutto sottolineata la piena consapevolezza che il nostro autore possiede del condizionamento reciproco fra progresso scientifico e progresso linguistico. Egli giunge ad affermare, nella Langue des calculs, che «una scienza ben trattata non è altro che una lingua ben costruita ». Di qui la sua ammirazione per il linguaggio algebrico e il suo vagheggiamento (in cui è forse riscontrabile l 'influenza di Hobbes) di estenderlo a tutte le scienze. Accenneremo nel capitolo vm ai numerosi spunti che il chimico Lavoisier ricaverà da Condillac, sia per quanto riguarda il problema generale della conoscenza, sia in particolare per l'importanza attribuita al linguaggio e per la tendenza a interpretare la matematica essenzialmente come un linguaggio (molto preciso e proprio perciò molto utile a tutte le scienze).
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Come chiarisce assai bene Giovanni Solinas, il matematismo logico di Condillac- che a uno sguardo superficiale può apparire incompatibile col suo sensismo - trova una convincente spiegazione proprio nella sua filosofia del linguaggio: « Lo spirito umano è in grado di dissipare i pregiudizi e gli errori ove esso giunga ad esplicare la pienezza della propria funzione, ad esercitare cioè una assidua ed ostinata opera di discriminazione tra idee mal determinate, causa prima dell'errore, e idee adeguatamente determinate. Di questo procedimento discriminatorio sono modello esemplare le matematiche, in cui la riflessione sul modo in cui i numeri si sono generati, permette in ogni istante di controllare il grado di esattezza dei rapporti istituiti, e di calcolare con crescente rigore il grado di applicabilità delle regole che si sono scoperte. » Secondo Solinas, in questo matematismo andrebbe cercata la radice ultima di quello stesso metodo compositivo e scompositivo di Condillac, che abbiamo cercato di spiegare all'inizio del paragrafo m. V
· IL PROBLEMA PEDAGOGICO
Già sappiamo che Condillac trascorse circa nove anni a Parma quale precettore dell'erede di quel ducato e poi raccolse nei Cours d'études gli insegnamenti a lui impartiti. Dato il notevole impegno dedicato dal nostro autore a questo compito, sembra doveroso - prima di concludere la nostra esposizione del suo pensiero - aggiungere qualche parola sul modo con cui egli impostò la propria opera di educatore e sui legami tra tale impostazione e le linee generali della filosofia condillachiana. Condillac parte dalla tesi che i risultati raggiunti in sede di analisi filosofico-psicologica del costituirsi dello spirito forniscano, in ultima istanza, l'unica solida base della pedagogia. Secondo lui, infatti, la psiche umana non può far a meno di seguire lo sviluppo posto in luce da tale analisi, cosicché questa ci aiuterà pure a capire la formazione del singolo individuo. E poiché il cammino naturale dell'umanità nello svolgimento delle arti e delle scienze costituisce la spontanea realizzazione dello sviluppo anzidetto, ne segue che il fanciullo dovrà ripercorrere per proprio conto - sia pure con 'ritmo più rapido - tutte le singole tappe di quel cammino. È una conclusione assai importante, analoga a quella cui era pervenuto - partendo da tutt'altre concezioni - l'italiano Gian Battista Vico. Ma il filosofo francese ne ricava delle regole pedagogiche completamente diverse da quelle che esporremo parlando di Vico. Il punto centrale della pedagogia di Condillac può venire così riassunto: poiché tutte le attività dello spirito non sono che sensazioni trasformate, ne segue che chiunque abbia l'uso dei sensi dovrà anche essere capace di ragionare. Pertanto, se si vuole aiutare efficacemente il fanciullo a ripercorrere per proprio conto le tappe attraversate dalle arti e dalle scienze (notiamo, per inciso, l 'affiorare qui di una visione storica della civiltà, presente - sia pure con varie sfumature -
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in parecchi illuministi), e se si vuole che egli sia in grado di percorrerle rapidamente, occorrerà abituarlo quanto prima ai ragionamenti, senza aver timore che non sappia seguirli. In conformità a questa concezione, egli propone al suo alunno, fin dai primi anni, alcuni temi di riflessione filosofica e psicologica, ritenendo che speculazioni siffatte costituiscano una propedeutica indispensabile al corso ordinario degli studi: quanto meglio il fanciullo conoscerà le facoltà di cui dispone, tanto più sentirà il bisogno di servirsene. Per ciò che riguarda in concreto il programma scolastico, ecco alcune delle più interessanti direttive impartite da Condillac: occorre guardarsi dall'abusare del grammaticismo; la lettura dei poeti dovrà precedere lo studio sistematico della morfologia e della sintassi; le prime letture dovranno avere per oggetto opere scritte in una lingua viva (nel caso specifico, il francese) il che comporta che venga ritardato lo studio del latino (Condillac giunge a proporre l'eliminazione di quello del greco); dovrà venire attribuita grande importanza alle discipline storiche, intese però come un'analisi critico-filosofica degli avvenimenti assai più che non come una semplice narrazione degli stessi. Se la critica moderna condannerà nel modo più deciso l'impostazione genera]~ - a carattere razionalistico astratto - della pedagogia di Condillac, non potrà tuttavia fare a meno di riconoscere il valore delle regole didattiche testé riferite. Esse contengono suggerimenti molto preziosi per liberare la scuola da ogni mnemonismo e verbalismo, stimolando il ragazzo alla riflessione e al giudizio personale. Questi suggerimenti valgono a dimostrare che, anche nel campo educativo, la filosofia di Condillac era in grado di promuovere un vigoroso rinnovamento. Molto significativa, da questo punto di vista, è la tesi condillachiana che assai più efficace dell'educazione ricevuta da altri è quella che ciascuno di noi riesce a dare a se stesso. Quanto all'educazione religiosa, il nostro autore afferma che, «se la devozione non è illuminata », essa finirà per distrarci dai nostri doveri e per assorbirci soltanto nelle piccole pratiche. « La vera devozione, » egli scrive, « consiste prima di tutto nell'adempiere i propri doveri »: il bigottismo « guasta i ministri della chiesa» e dà «cattivi ministri allo stato». L'atteggiamento moderato, ma inequivocabilmente moderno, di Condillac di fronte alle vecchie istituzioni ecclesiastiche trova qui una chiara conferma. VI
· VITA E OPERE DI HELVÉTIUS
Claude-Adrien Helvétius nacque nel I 715 da famiglia di elevata condizione sociale (suo padre era medico di corte). Sin da fanciullo manifestò un vivo interesse per la poesia; questo interesse durerà in lui per tutta la vita, e lo caratterizzerà come letterato-filosofo. 93
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Frequentò per vari anni il collegio Louis-le-Grand, retto dai gesllltl, ma provò ben presto una profonda ripugnanza per il tipo di insegnamento ivi impartito, che si accentrava sulle lingue morte e sulla teologia. Intensificò invece le sue letture di opere poetiche (in ispecie dei capolavori del grande teatro francese), integrandolo con lo studio dei più celebri moralisti francesi come Montaigne e La Rochefoucauld. Uscito dal collegio, il padre gli procurò una redditizia sistemazione finanziaria a Caen come appaltatore delle imposte. Vi rimase solo tre anni ( 17 3 5-3 8), ma furono tre anni the gli permisero di acquisire una preziosa conoscenza diretta dell'autentica situazione della provincia francese. Intanto proseguiva gli studi di carattere letterario (in tale periodo scrisse pure un dramma, che però è andato perduto), ampliando a poco a poco i suoi interessi anche verso la filosofia. Tornato a Parigi, approfondì la propria preparazione leggendo opere di Buffon, di Fontenelle, di Voltaire, di Locke, di Newton, ecc. Gli indirizzi di pensiero che più influirono su di lui furono il libertinismo, il meccanicismo, e l'empirismo. La sua cultura e l'elevata posizione sociale gli permisero di entrare facilmente in contatto con la migliore società parigina, ove si accattivò la simpatia e la stima degli spiriti più avanzati. Tra il 1738 e il 1742 scrisse alcune composizioni poetiche di argomento morale, le Epitres (Epistole), che inviò in lettura a Voltaire, di cui si dichiarava discepolo. Tra loro sorgerà una viva amicizia durata vari anni. Le tesi ivi sostenute erano di marca nettamente illuministica: lotta contro i pregiudizi, negazione dei miracoli, riconoscimento della scienza come unica garanzia di verità, difesa di un'etica ispirata all'epicureismo, contrapposizione di una religiosità deistica alle religioni confessionali. Nel 1740 iniziò pure a scrivere un poema in sei canti, Le bonheur (La felicità), sempre ispirato ai medesimi temi; esso verrà pubblicato nel 1772, un anno dopo la morte dell'autore. Assai importante per seguire la formazione di Helvétius è anche un diario (Notes de la main), che egli tenne dal 1738 fino al 1749; da esso apprendiamo le letture che veniva via via compiendo e le riflessioni che queste suscitavano in lui. Di particolare significato fu la sua amicizia con Montesquieu. Questi giunse a sottoporre al giudizio dell'amico, prima ancora di pubblicarla, gran parte della sua famosa opera L'esprit des lois. Ne nacque una discussione franca e approfondita, che valse a porre in luce le differenze fra le loro posizioni. Il nostro autore scriverà sull'argomento un Examen critique de l'Esprit des lois par l' auteur de l'Esprit, che però non darà alle stampe. Intanto veniva preparando la sua opera principale, De l'esprit (Lo spirito), che uscirà nel I 7 58 ; essa suscitò immediatamente un vero scandalo fra i benpensanti, fomentati nella loro aspra reazione dai gesuiti. Fu condannato dall'arcivescovo di Parigi, dal papa e dal parlamento francese. Helvétius fu costretto ad allontanarsi 94
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per qualche tempo dalla Francia, trovando buona accoglienza presso Federico n di Prussia. I philosophes stessi ne furono preoccupati, temendo che l'indignazione suscitata dal libro di Helvétius finisse per coinvolgere anche l' Encyclopédie; dovettero quindi prenderne le difese (soprattutto per suggerimento di Voltaire, che intuì immediatamente il vero scopo della grande offensiva dei gesuiti), anche se non ne condividevano tutte le tesi. Per rispondere alle numerose accuse dei suoi avversari e per completare l'esposizione del proprio pensiero Helvétius si accinse a scrivere una seconda grande opera, L'homme (L'uomo), di argomento etico-pedagogico, che uscirà postuma nel 177 3. Trascorse gli ultimi anni, d'inverno a Parigi, d'estate in alcuni possedimenti di campagna (a Voré e a Lumigny), ricevendo amici e uomini illustri coadiuvato dalla bellissima e intelligente moglie Anne Catherine de Ligneville. Questa continuerà a tenere un vivace salotto letterario anche dopo la scomparsa del marito; durante gli anni della rivoluzione francese esso diventerà il centro dei così detti « ideologi ». Morì nel 1771. VII
· DALLA GNOSEOLOGIA SENSISTICA
ALL'ETICA FONDATA SULL'UTILITÀ
Helvétius non porta contributi sostanzialmente nuovi al problema della conoscenza, ma ricava- dalle risposte che gli empiristi e in particolare Condillac avevano dato a tale problema - una nuova, coraggiosa e coerente visione del mondo morale. Che l'impostazione empiristico-sensistica costituisca l'unica via seria per spiegare i processi della vita psichica, è per lui un fatto acquisito. Non esiste alcun salto metafisica fra il sensibile e l'intelligibile: tutte le operazioni dello spirito possono venire ricondotte alla mera sensibilità. « La sensibilità fisica e la memoria,» scrive nel volume De l'esprit, «cioè, per parlare più esattamente, la sola sensibilità produce tutte le nostre idee. Infatti la memoria non può essere altro che uno degli organi della sensibilità fisica ... Tutte le operazioni dello spirito consistono nella capacità di percepire le somiglianze o le differenze, i rapporti di convenienza o di difformità che sussistono fra vari oggeti. Ma questa capacità non è nient'altro che la stessa sensibilità fisica: ogni cosa si riduce dunque al sentire.» Anche il giudicare è soltanto un sentire; e precisamente è quel sentire che ha luogo quando ci troviamo innanzi a due oggetti, o immediatamente percepiti o richiamati in noi dalla memoria: « Perché dunque si dovrebbe ammettere in noi una facoltà di giudicare distinta dalla facoltà di sentire? ... L'operazione di comparare non è altro che prestare attenzione alle diverse impressioni suscitate 95 www.scribd.com/Baruhk
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in noi dagli oggetti, o attualmente presenti ai nostri occhi, oppure presenti alla nostra memoria. Di conseguenza, ogni giudizio non è altro che l'enunciazione delle sensazioni provate. » La conoscenza dei rapporti degli oggetti, fra loro e con noi, è ciò che Helvétius chiama spirito. Ma, come sappiamo dal paragrafo III, al primum della sensazione si accompagna sempre - secondo la concezione sensistica - anche una percezione di piacere o di dispiacere, che si traduce in sforzo onde ripetere oppure evitare tale sensazione. Di qui si sviluppano il bisogno, l'istinto e in genere l'azione. È proprio su questo punto, cioè sul collegamento fra i due aspetti testé menzionati del percepire, che si sofferma con particolare cura il nostro autore, ricavandone la conclusione che ogni sentimento, ogni affetto, ogni impulso è sempre determinato da una sensazione o da un gruppo di sensazioni; è in altri termini una determinazione inscindibilmente connessa all'utilità di tali sensazioni, all'interesse che suscitano in chi le prova. Bisognerà dunque ammettere se si vuole essere coerenti, che tutt'intera la nostra vita sentimentale ed attiva risulta basata sull'interesse. Nemmeno la morale sfugge, secondo Helvétius, a questo principio generalissimo. Quando riconosciamo che un'azione è buona o cattiva, tale nostro riconoscimento è condizionato da un interesse; se non è in gioco alcun interesse, non si sviluppa alcuna valutazione. Ciò non vale solo per gli individui, ma anche per le varie collettività; le valutazioni da esse accolte e propagandate circa l'onestà, la disonestà, la grandezza, l'eroismo sono tutte e unicamente determinate dalla considerazione dell'utile nei riguardi della singola collettività che le accoglie. « In ogni tempo e in ogni luogo, sia in materia di morale che in materia di spirito, è l'interesse personale che determina il giudizio dei privati, e l'interesse generale che determina il giudizio delle nazioni: in questo modo da parte della collettività come da parte dei privati, è sempre l'amore o la riconoscenza ad essere fonte di lode, ed è l'odio o la vendetta ad essere fonte di disprezzo.» In parecchi casi l'uomo non sarà forse consapevole della base utilitaristica dei propri giudizi, ma se noi analizziamo con rigore il suo comportamento vediamo che, sotto le più nobili parole, si ritrova sempre un ben preciso interesse. Partendo dalla constatazione che è l'ambiente esterno (cioè il complesso delle esperienze effettivamente vissute dagli uomini) a esercitare un'influenza determinante sul modo di agire e di pensare dei singoli - sicché questo modo di agire e di pensare non dipende affatto, come alcuni pretenderebbero, da doti più o meno misteriose innate nell'animo e diverse da un individuo all'altroHelvétius perviene ad una conclusione di autentica portata rivoluzionaria: tutti gli uomini sono per natura fra loro eguali; le diversità fra gli uni e gli altri derivano esclusivamente dalle differenti abitudini che l'ambiente esterno ha sviluppato in essi. Tutti gli individui tendono alla propria felicità, come tutti i popoli tendono in origine alla felicità generale; ma la corruzione dell'ambiente in cui gli uomini sono costretti a vivere, la struttura dei governi in cui pochi individui
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sfruttano a loro personale vantaggio l'ignoranza altrui, provocano le storture morali, i vizi, la decadenza dei costumi. Per combattere efficacemente questi mali non esiste dunque che una via: quella di migliorare le società in cui gli uomini vivono e a tal fine trasformare radicalmente l'organizzazione degli istituti su cui tali società si reggono. Helvétius non nominava in modo esplicito la situazione francese; ma nessuno ebbe dubbi in proposito. Ed infatti le sue vere intenzioni furono subito comprese ben chiaramente dalle autorità civili e religiose di Parigi, che si affrettarono a lanciare i loro fulmini contro l'opera e l'autore. Né era soltanto il contenuto del volume De l'esprit a ferire tali autorità (soprattutto quelle religiose), bensì anche il tono con cui esso era scritto: pacato ma tagliente, obbiettivo ma pieno di amarezza. Se, in particolare, nell'ambito dei problemi religiosi il nostro autore non andava al di là delle posizioni genericamente deistiche di molti contemporanei, il suo era però un deismo vivacemente polemico, non disposto a fare alcuna concessione ai pregiudizi tradizionali. VIII
· L 'ONNIPOTENZA DELL'EDUCAZIONE
Già sappiamo che l'opera De l'homme uscì un anno circa dopo la morte di Helvétius. Essa era un poderoso trattato di pedagogia, che sviluppava ampiamente la tesi - già enunciata nell'opera del 17 58 - che le disposizioni dei singoli uomini dipendono in modo essenziale dall'ambiente in cui essi nascono e crescono, cosicché le differenze fra gli uni e gli altri sono esclusivamente l'effetto della loro diversa educazione: « La diseguaglianza di spirito che si riscontra tra gli uomini dipende unicamente dalla diversa educazione che essi ricevono, e dalla ignota e differente concatenazione delle circostanze in cui si trovano collocati. » Per eliminare queste differenze, e ottenere che tutti gli uomini risultino davvero virtuosi, bisognerà dunque trasformare radicalmente la loro educazione, trasformando - come già si è detto - la società in cui essi si trovano a vivere. Proprio perché l'uomo non possiede virtù o vizi innati, non esistono in lui ostacoli che possano limitare o annullare gli effetti dell'educazione: questa, purché intesa nel suo significato « più autentico e più esteso », è in grado di orientare con sicurezza gli impulsi del singolo sulla via della probità. Se, invece, sono così pochi oggi gli uomini che imboccano seriamente la via della probità, ciò è dovuto al fatto che la formazione delle menti e dei caratteri è in larghissima misura abbandonata al caso. Ma il caso, in realtà, non è altro che un confluire di fattori diversi, dei quali non riusciamo a cogliere l'effettiva concatenazione. È la nostra considerazione superficiale che ce lo fa ritenere misterioso e inspiegabile; un esame più attento ci dimostrerebbe che anche il suo operare obbedisce a ben precise regole e quindi può venire spiegato.
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Condillac e Helvétius
Quando la gente si rammarica che attualmente nascono così pochi eroi e così pochi geni, non è quindi lecito incolpare di ciò il caso, trincerandosi dietro di esso per nascondere le colpe della nostra società. Occorre invece sforzarsi di scoprire, coll'osservazione ripetuta, quali sono i mezzi che il così detto caso adopera per produrre uomini superiori; una volta che li avremo scoperti, sarà possibile servirsi artificialmente di essi per ottenere - con ben maggiore frequenza - i medesimi effetti che la natura ottiene solo in via eccezionale. Orbene la filosofia ci insegna, secondo Helvétius, che tali mezzi consistono essenzialmente nel costituire intorno ai fanciulli un nuovo ambiente sociale, regolato da leggi che sviluppino al massimo le capacità degli individui orientando i loro interessi verso la felicità di tutti. Si abbia dunque il coraggio di operare queste trasformazioni, e l'umanità non avrà più a lagnarsi della rarità dei geni. Sarebbe ovviamente fin troppo facile accusare questa teoria di astrattezza e di ingenuo utopismo. La cosa certa è che nel Settecento essa riuscì a rinvigorire in larghi strati la fiducia nella potenza umana (cioè la fiducia nella capacità dell'uomo non solo di dominare, con la ragione, la natura, ma anche di migliorare se stesso): era una fiducia indispensabile a chi si accingeva al difficilissimo compito di rinnovare a fondo la società.
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CAPITOLO QUINTO
Hume*
I
· VITA E OPERE
David Hume, il maggior filosofo del Settecento inglese ed uno dei più lucidi ingegni della storia del pensiero, nacque ad Edimburgo il z.6 aprile 1711, terzogenito di una famiglia di nobiltà di toga (magistrati). La Scozia era stata unita appena allora (17o6) al regno d'Inghilterra, ma restava molto più arretrata della parte meridionale dell'isola. Il latifondo nobiliare e la servitù della gleba erano ancora diffusissimi, ed il controllo della chiesa presbiteriana sul costume e sulla cultura pesantissimo. Il paese aveva beneficiato solo marginalmente del rinnovamento portato dalle due rivoluzioni inglesi. Eppure esso diede un grande contributo alla fioritura della cultura britannica; basti ricordare, accanto a quello di Hume, i nomi di Butler, Hutcheson e soprattutto Smith. Trascorsa l'adolescenza nella proprietà di campagna di Ninewells, nel 172.I Hume si trasferì ad Edimburgo per frequentare un college. Dotato di una intelligenza vivace e precocissima, in breve si impadronì di una solida cultura umanistica, ·basata soprattutto sui classici latini. L'insegnamento filosofico impartitogli al college fu molto modesto, mentre ottimo fu quello di filosofia naturale grazie a Robert Stewart, che era stato discepolo di Newton. A quattordici anni, quando lasciava il college per tornare a Ninewells, Hume aveva già una spiccata vocazione per gli studi, che coltivò dedicandosi ad una lettura sistematica dei classici e dei maggiori autori della letteratura moderna. Su pressione della famiglia, si iscrisse di malavoglia alla facoltà di giurisprudenza di Edimburgo. Decisivi, per la sua formazione, furono gli anni tra il 172.7 ed il 1734, durante i quali integrò la lettura dei classici con quella di grandi filosofi moderni (Bacone, Locke, Berkeley, i moralisti inglesi, Bayle - attraverso il cui Dizionario si impadronì anche delle dottrine di Spinoza, Malebranche ecc. - Montaigne e altri). A soli diciotto anni, avvertì con chiarezza la necessità di un rinnovamento radicale del metodo d'indagine filosofica. Colpito dall'innegabile circostanza che le dottrine filosofiche avessero sempre recato con sé un alone di incertezza, che dava luogo ad interminabili diatribe, decise che a questo stato di cose si po-
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All'elaborazione del capitolo ha direttamente contribuito Enrico Rambaldi.
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tesse porre rimedio solo fissando un punto fermo - il metodo sperimentale - dal quale non discostarsi più. Fu preda, in quegli anni, anche di crisi religiose e professionali; dopo un fallito tentativo di dedicarsi al commercio, all'età di ventitré anni decideva di lasciare la Scozia e sbarcava in Francia, ove si trattenne per circa tre anni, due dei quali passati a la Flèche, sede del famoso collegio dei gesuiti ove, poco più di un secolo prima, aveva studiato Cartesio. Fu in Francia che, con sconcertante rapidità, compose ancora giovanissimo il suo capolavoro: A treatise of human nature, being an attempt to introduce the experimental method of reasoning into moral suijects (Trattato sulla natura umana, costituente un tentativo di introdurre il metodo sperimentale di ragionamento negli argomenti morali). L'opera comprendeva tre libri: Of the understanding (Sull'intelletto), Of the passions (Sulle passioni), Of morals (Sulla morale). L'ordine di composizione e quello di pubblicazione sono diversi: il primo libro venne composto per ultimo. L'opera venne pubblicata anonima; i primi due libri apparvero nel I739, ed il terzo (anche per interessamento di Hutcheson), nel I740. Ma il Trattato, che può essere considerata una delle opere più rivoluziç>Qll,t:Ì~ ..9:~!1~ .W>~i:a-...~1 . pensie;Q, non ebbe quasi nessuna eco, sicché fu soprattutto per richiamare su di esso l'attenzione del pubblico che nel I74o Hume pubblicò, anonima, una recensione di se stesso, con il titolo An abstract of a treatise of human nature (Compendio di un trattato sulla natura umana). Riflettendo sull'insuccesso dell'opera, Hume si convinse più tardi che esso fosse dovuto non ad errori di ragionamento, ma alla forma letteraria spesso pesante, propria di un trattato sistematico; scelse dunque, per le sue opere successive, la forma più agile e brillante del saggio. Nel I74I usciva la raccolta Essf!YS moral and politica/ (Saggi morali e politici), che ebbe immediato successo e venne ristampata, accresciuta da uno a due volumi, l'anno dopo. Il filosofo era frattanto rientrato nella natia Scozia, ove studiava e componeva alacremente. Nel I744 concorse invano ad una cattedra di psicologia all'università di Glasgow: gli ambienti religiosi e lo stesso Hutcheson si opposero alla chiamata dell'ormai più che trentenne filosofo. Questi decise allora di entrare al seguito del generale Saint Clair, ed intraprese lunghi viaggi sul continente, visitando tra l'altro anche l'Italia. Nel I748 uscì una riduzione e rielaborazione in forma saggistica del primo libro del Trattato: Philosophical essf!YS concerning human understanding (Saggi filosofici sull'intelletto umano). Da allora in poi, disconobbe quello che oggi noi consideriamo il suo capolavoro, il Trattato, ed indicò nei Saggi (che ebbero molte edizioni) la sola fonte per conoscere e giudicare il suo vero pensiero. Nel I749, chiusa questa prima parentesi diplomatica e tornato nella pace di Ninewells, Hume riprese a studiare ed a produrre: nel I 7 5I pubblicava una rielaborazione in forma saggistica del terzo libro del Trattato: Enquiry concerning the principles of morals (Ricerca sui principi della morale); l'anno dopo pubblicò i Politica/ discourses (Discorsi politici). Dal I75 I si era trasferito a Edimburgo, ove 100
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compose i celebri Dialogues concerning natura/ religion (Dialoghi sulla religione naturale), in risposta agli attacchi di Warburton contro il proprio scetticismo deistico. Gli amici (soprattutto Adam Smith) gliene sconsigliarono la pubblicazione, sicché l'opera vide la luce solo postuma (I779)· Divenuto conservatore della biblioteca di Edimburgo (I75z), Hume si dedicò appassionatamente a studi storici; nel I754 uscì il primo volume di una vasta History of Great Britain (Storia della Gran Bretagna): The reigns ofJames 1 and Charles 1 (I regni di Giacomo I e Carlo 1). L'opera, alla quale Hume teneva molto, suscitò aspre critiche sia da parte dei liberali, sia da parte dei conservatori, sia da parte degli ambienti religiosi. Il secondo volume (1756) ebbe invece accoglienza più favorevole: The reigns of Charles II and james II (I regni di Carlo II e Giacomo II). Nel I 7 56 egli approntò anche una raccolta di saggi che conteneva i seguenti scritti: Of the passions (Delle passioni; rielaborazione del secondo libro del Trattato); The natura/ history of religion (Storia naturale della religione); uno scritto di estetica, OJ tragec!J (Della tragedia) e due di argomento etico-religioso: OJ the immortality of the soul (Dell'immortalità dell'anima) e Of suicide (Del suicidio). Quando ebbe tra le mani il volume ormai stampato, Hume si rese conto che soprattutto i due ultimi scritti avrebbero favorito gli attacchi dei religiosi contro di sé, e quindi lo ritirò dal commercio, pubblicando nel I757 un volume di saggi intitolato Four dissertations (Quattro dissertazioni), nel quale i due ultimi scritti del volume ritirato erano sostituiti da un saggio di estetica: Of the standard of !aste (Della regola delgusto). Gli attacchi previsti, cui venne sottoposto, furono tuttavia violenti. Dimessosi dalla carica di conservatore della biblioteca, nel I 7 59 Hume pubblicò The history of England under the house of Tudors (Storia d'Inghilterra sotto la dinastia dei Tudor), e due anni dopo completò l'opera con The history of England from Julius Caesar to 148J (Storia d'Inghilterra dall'invasione di Giulio Cesare al I 48;). Tra il I763 al I766 Hume risiedette a Parigi, quale addetto d'ambasciata. Furono anni sereni e densi di amicizie ed incontri importanti: frequentò i più noti salotti letterari e scientifici, conobbe d'Alembert, Buffon, Diderot, Helvétius, Holbach e altri philosophes. Tornato in Inghilterra, vi invitò Jean-Jacques Rousseau, sempre inquieto ed alla ricerca di una serenità che in continente gli sembrava negata. Ma tra i due pensatori vi fu una clamorosa rottura, seguita dal ritorno di Rousseau in continente e da sue ingiustificate accuse a Hume di averlo perseguitato e danneggiato. Dopo un soggiorno a Londra, ancora denso di impegni politico-diplomatici, nel I 769 Hume tornò ad Edimburgo continuando a studiare, a tivedere ed a rifinire successive edizioni delle proprie opere. Nel I776 gli venne diagnosticato un tumore intestinale. Da quel grande e nobile intelletto ed animo che era, reagì con serenità alla notizia: riordinò le proprie carte, diede disposizioni testamentarie per la pubblicazione postuma dei Dialoghi sulla religione naturale e di uno scritto, My own /ife (La mia vita) che compose quando seppe che stava morendo. 101
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Fino all'ultima ora continuò ad essere amabile ed arguto conversatore ed amico. Morì il 2 5 agosto del I n6. II
· IL RINNOVAMENTO DEL METODO FILOSOFICO
Come ha rilevato uno dei più autorevoli studiosi di Hume, Norman Kemp Smith, nel filosofo si possono rintracciare i filoni di quattro influenze fondamentali: quella dell'emp_it:~!!l:QJngles~_(Locke, Bacone e, mediatamente, Berkeley); quella dello scettici~o (Bayle e Montaigne, oltre allo scetticismo antico); quella dei gJ.Qgl_i_s!!_iggksi e quella di !'i~~tc:>n. In una lettera Hume ebbe una volta occasione di scrivere che, ancora giovanissimo, ebbe una sorta di illuminazione interiore sul rinnovamento da operarsi nel metodo filosofico: «Dopo molto studio e riflessione( ... ), mi parve infine di giungere, verso l'età di diciotto anni, all'aprirsi di una nu_Qy~ ~C~f1a__ delpensiero di fronte a me. » Fino ad allora, egli si era occupato soprattutto, ma non esclusivamente, di filosofia morale in senso specifico (cioè di etica); tuttavia come rileva il maggior studioso italiano dello scetticismo, Mario Dal Pra, quando gli si aprì dinnanzi la « nuova scena del pensiero », essa investiva il metodo filosofico in generale, non solo il campo etico. Il rinnovamento metodologico di Hume muove dalla constatazione che esistono due modi di filosofare: uno «facile ed ovvio», basato più sull'eloquenza che non su analisi accurate, ed uno «astruso ed approfondito», che si affida all'acutezza dell'analisi razionale. Perché, si chiede l'autore, la filosofia facile ed ovvia, ad esempio quella di Cicerone, gode di maggior popolarità che non la filosofia profonda, ad esempio quella di Locke? Certo ciò è dovuto anche al fatto che una filosofia superficiale ed eloquente è più facile e meno faticosa da apprendere, ma d'altra parte è innegabile che la maggior popolarità della filosofia superficiale è dovuta anche ad un difetto proprio di grandissima parte delle filosofie profonde, che troppo spesso sono zeppe di astruserie metafisiche, cagionate dalla vana ambizione di affrontare problemi che, per l 'intelletto umano, sono insolubili, come ad esempio la natura di dio, della sostanza, l'esistenza di un piano provvidenziale, di una armonia prestabilita, ecc. Una volta addentratisi in questi labirinti, i filosofi profondi sono costretti a mascherare la propria impotenza di fronte ad essi trincerandosi dietro un linguaggio astruso e incomprensibile. Per riscattare la fecondità e la validità della filosofia profonda, occorre dunque in primo luogo combattere la metafisica « malata », ed il bisturi sarà costituito da un attento esame delle reali possibilità di conoscenza dell'intelletto umano, con la duplice meta da un lato di sfruttare al massimo queste possibilità, e dall'altro di non avventurarsi in problemi ai quali il nostro intelletto non può trovare risposta alcuna. Per metafisica « sana», cioè filosofia profonda accurata ed esatta, Hume in102
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Hurne tende lo studio della natura umana condotto secondo il metodo newtoniano: risalire dai fenomeni al loro principio comune; risalire poi da questi principi ad altri principi meno numerosi e più generali, sino a giungere a pochissimi principi semplici e certi, dai quali poter infine dedurre in modo rigoroso sia i fenomeni sia le loro leggi; « in poche parole, [per lui] il sapere scientifico è caratterizzato dalla evidenza dei principi e dalla rigorosa deduzione delle conseguenze » (Dal Pra). Come Newton, anche Hume non ha la pretesa di scoprire le cause ultime; l'analisi critica delle facoltà dell'intelletto gli serve proprio per mettere in guardia dalla pretesa di arrivare a scoprire e definire cause ultime come dio, sostanza, res cogitans, res extensa. Egli insiste però con forza sulla rilevantissima importanza scientifica del metodo da lui proposto: « Sebbene non ci sia possibile arrivare ai principi ultimi, è pur soddisfazione andare avanti sino a quel punto a cui ci possono condurre le nostre facoltà. » La rottura di Hume con i grandi pensatori del Seicento è quindi radicale, in quanto i sistemi di Cartesio, Hobbes, Spinoza, ecc. sono, per Hume, metafisiche «malate». Anziché ai meccanicisti, egli si richiama alla tradizione empiristica e sperimentale di Francesco Bacone, di Locke, e soprattutto al celeberrimo « hypotheses non fingo» di Newton. Nel Compendio, Hume descrive così il nocciolo del proprio metodo filosofico: «L 'autore del Trattato si propone di compiere l'anatomia della natura umana in maniera regolare, e promette di non tirare conclusioni se non dove l'esperienza lo autorizza a farlo. Egli parla con disprezzo delle ipotesi. » La riduzione dei fenomeni ai loro principi esplicativi non va quindi fatta con il solo pensiero astratto, ma sempre mantenendo un fecondo contatto tra pensiero ed esperienza; si tratta di analizzare criticamente quest'ultima, senza staccarsene mai. Nonostante l'esplicito richiamo a Bacone, Locke, Newton, ai moralisti inglesi, Hume ha un altissimo senso dell'originalità della « nuova scena del pensiero » da lui scoperta: egli è convinto di essere, nel campo filosofico, più rigoroso, più profondo e più sistematico dei suoi precursori, e pensa che la sua opera darà inizio ad una nuova sistemazione di tutto il sapere umano, non escluso quello della filosofia naturale. È ovvio infatti che qualora si dia una esatta analisi dell'intelletto umano (sul quale ogni scienza riposa), tutte le discipline, anche la matematica e la geometria, ne trarranno vantaggio. Il nuovo sistema del sapere, annuncia H urne, sarà così articolato: logicf!, come scienza del ragionare (che investe quindi anche il metodo della scienza naturale) e della natura delle nostre idee; _mortlf§, come scienza del sentimento; estetica, come scienza del gusto; politica, come scienza dell'uomo sociale. «In queste quattro scienze, logica, morale, estetica, politica, è compreso press'a poco tutto quello che, in una qualunque maniera, può importarci di conoscere. »
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III
· LA LOGICA
Anche se Hume compose prima le parti del Trattatò riguardanti le passioni e la morale, nella nostra esposizione seguiremo l'ordine sistematico dell'opera, confortati in questo dal fatto che non solo Hume ha, di fatto, anteposto la trattazione dell'intelletto alle altre due, ma anche ha esplicitamente affermato che la logica (intesa come gnoseologia generale) è la base delle altre forme fondamentali del sapere (morale, estetica, politica) poco sopra menzionate.
a) Origine e connessione delle idee La logica humiana inizia con un'accuratissima analisi dell'origine delle nostre idee, che egli riconduce, insieme alle impressioni, sotto il nome comune di percezioni: « lo chiamolpercez1o~ tutto ciò che può essere presente al nostro spirito, sia che usiamo dei sensi, sia che o siamo animati da passioni o esercitiamo il nostro pensiero e la riflessione. » Le percezioni si suddividono quindi in due categorie: quelle che sono immediatamente presenti ai nostri sensi o al nostro spirito (sensazioni o passiQtl.Ì), e che Hume chiama impressioni, e quelle che sono presenti ad esso solo mediatamente (i ricordi di quelle sensazioni e quelle passioni), che Hume chiama idee. La sensazione del dolore provocato dal contatto della mia mano con un corpo incandescente è una impressione; il ricordo di quel dolore, in forza del quale so che un corpo incandescente provoca dolore, è un'idea. Impressioni ed idee sono quindi della stessa natura, solo che le prime, in quanto immediate, sono vivide e forti, e le seconde, mediate, sono più deboli e scialbe. L'idea di una scottatura è sempre più scialba di una scottatura in atto. Hume ha così già delimitato un empirismo radicale, in forza del quale si è costretti ad ammettere che l'uomo, in ultima analisi, non può uscire dall'ambito dell'esperienza. Che non possa avere altre impressioni da quelle che di fatto, empiricamente, ha, è evidente. Si tratta ora di dimostrare che anche nell'ambito delle idee non può mai staccarsi dalle impressioni che a quelle idee danno origine. Esaminando le nostre idee, osserva il filosofo, vediamo che esse sono o semplici o composte. L'idea di ippogrifo, ad esempio, è un'idea composta che risulta dalla sintesi delle idee semplici di cavallo e di aquila; quella di centauro, risulta dalle idee semplici di cavallo e di uomo. Ogni idea composta risulta sempre scomponibile in idee semplici, le quali a loro volta possono essere dcondotte ad originarie impressioni di cavallo, uomo, aquila ecc. Tutte le idee quindi, sia semplici sia composte, sono solo copie, « riflessi » di impressioni, tanto che possiamo concluderne « che le impressioni sono la causa delle idee, e non viceversa». L'esistenza di idee composte dimostra però l:~si_s!_enza di una libertà del104
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Hurne
l 'immaginazione nel comporre e scomporre le idet:, e quindi una certa autonomia di queste ultime rispetto alle impressioni. Fino a che punto si spinge questa libertà? Essa- risponde Hume- non esce dall'ambito dell'esperienza, giacché si limita alla facoltà qella nostra immaginazione di operare sintesi (composizioni) ed analisi (scomposizioni) sulle idee «copie>> di impressioni. Questa libertà risulta dunque molto relativa, in primo luogo perché può operare solo mediante materiale fornito da impressioni; in secondo luogo, perché possiamo osservare che essa procede sempre secondo una certa regolarità, rispettando alcune regole di connessione: «Anche nelle fantasticherie più sfrenate e vagabonde, anzi negli stessi sogni, troveremo, se riflettiamo, che l 'immaginazione non corre del tutto a caso, ma che viene sempre mantenuta una connessione fra le diverse idee, che si succedono l'una all'altra. Se fossero trascritte le conversazioni più sciolte e libere, vi si osserverebbe subito qualche cosa che le connette in tutti i loro passaggi. » Si tratta quindi di esaminare questo « qualche cosa », di individuare i principi che regolano la connessione o associazione tra le idee. E dovrà trattarsi di principi tanto elastici da garantire quella libertà, seppur relativa, dell'immaginazione nella sintesi e nella analisi delle idee, e nello stesso tempo tanto universali da valere per la natura del pensiero nel suo complesso. Questo « qualche cosa» - spiega Hume - è una « forza » (paragonabile alla forza newtoniana di attrazione universale): quanto più siamo vicini al livello dell'impressione, tanto più la forza che spinge le idee ad associarsi è violenta (l'idea del fuoco, quando abbiamo appena patito un'ustione, si associa immediatamente a quella del dolore); quanto più siamo distanti, tanto più è lieve, cioè tanto maggiore è il margine di libertà (tuttavia mai assoluto) di cui gode la nostra immaginazione. Orbene, afferma Hume, questi principi generali che danno origine a tutte le possibili associazioni di idee sono tre: « la somiglianza: un ritratto ci fa naturalmente pensare alla persona per la quale fu dipinto. La contiguità: quando ricordiamo Saint-Denis [un sobborgo di Parigi], si affaccia naturalmente l'idea di Parigi. La causalità: quando pensiamo al figlio, portiamo facilmente la nostra attenzione sul padre.» Questi tre principi, afferma Hume con una suggestiva immagine, «sono per noi effettivamente il cemento dell'universo e tutte le operazioni dello spirito ne devono dipendere in larga misura». Come si vede, Hume sta concretamente applicando alla natura umana l'esigenza metodologica newtoniana di giungere, in base all'esperienza, a pochi principi, dai quali far dipendere il complesso e variatissimo mondo dei fenomeni. «L'effetto più rilevante dell'associazione delle idee sono le idee complesse; esse nascono in genere dall'uno o dall'altro dei principi che colleganç> le nostre idee semplici. Le idee complesse possono dividersi in _idee di re!~~!qne, gl__~Qili e di ~-~_!?_!:~_!1~~· » Le più importanti sono le idee complesse di relazioni, di cui quelle
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di modi e di sostanze sono solo forme particolari. Che cosa è, ad esempio quell'idea di sostanza sulla quale tanto si sono affaticati i metafisici? L'idea della sostanza «uomo», risponde Hume, non può mai essere «distinta da quella di una collezione di qualità particolari» che gli uomini hanno. Analogamente l'idea del modo « colore » altro non è che una raccolta delle idee particolari di colori sparsi nei vari oggetti delle sensazioni. Sia le sostanze sia i modi altro non sono quindi che forme specifiche (in quanto collezioni e raffronti di idee particolari) dell'idea di relazione, cioè «di quella proprietà per cui due idee sono connesse nell'immaginazione in modo tale, che l'una introduce naturalmente l'altra». Alla luce di questa analisi, Hume dà ragione a quanto aveva detto Berkeley sugli iuniyi.f_ii[i.!: essi sono solo col~ezi~_t11__s_i!!~.f!~~-_psi~Q.!c:!J:~A~}~~(! partic_ol~r1 A chiarimento di questa tesi, Hume fa tre limpidissime osservazioni: la prima rileva come si possa bensì parlare della « linea » in astratto, ma come in verità non si possa mai concepire una linea priva di dimensioni, di misure particolari: « La precisa lunghezza di una linea non è né differente né distinguibile dalla linea stessa ( ... ) ; perciò l 'idea generale di una linea, nonostante tutte le astrazioni, ha, quando si presenta alla mente, un preciso grado di quantità e qualità,· anche se viene assunta a rappresentare altre linee che abbiano gradi diversi di qualità e quantità. >> Seconda osservazione: «Nessuna impressione può essere presente allo spirito senza essere determinata sia per qualità sia per quantità. Ora tutte le idee sono derivate dalle impressioni e sono copie e rappresentazioni di esse; l'idea è un'impressione più debole; ora, poiché un'impressione forte deve avere necessariamente una quantità e qualità determinate, anche per la copia sarà lo stesso.» Terza osservazione: «In natura ogni cosa è individuale; è quindi assurdo supporre un triangolo veramente esistente che non abbia proporzione precisa di lati e di angoli. Se ciò è assurdo nel fatto, sarà assurdo anche nell'idea.» La conclusione è di una semplicità magistrale: «f::,e idee__ astratte sono qu_!!l_t/_i'- !n.._s.e stesse?_!!!tJ.ivi!!__l!_ali, per quanto possa_!l_q__.flive~_!are__g~!_!E!/....P~!_qtt.4Jo_ !..k!__!.t:!P..PI:~!..~f_ll!Jf!O.. » La loro funzione è semplicissima: quando usiamo il termine generale di « uomo », non richiamiamo alla memoria una per una tutte le idee particolari di uomo che, correlate tra loro, danno l 'idea della sostanza astratta « uomo »; tuttavia, per esperienza ed abitudine sappiamo che sotto quella idea astratta di uomo possiamo ricondurre tutte le idee particolari degli uomini che abbiamo conosciuto, conosciamo e potremmo conoscere. Così accade che « alcune idee sono particolari per loro natura, ma generali per quello che rappresentano ». b) Scienza matematica e scienza sperimentale. Le diverse specie di certezza Dall'analisi che Hume ha fatto dell'origine e delle connessioni tra le idee, discende la possibilità di distinguere due tipi fondamentali di conoscenze: quelle concernenti le «relazioni tra idee» e quelle concernenti le «materie di fatto». 106
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Hume
Che il quadrato costruito sull'ipotenusa di un triangolo rettangolo sia pari alla somma dei quadrati costruiti sui cateti è una relazione tra idee: non ho alcun bisogno, per dimostrare questa verità, di far ricorso all'esperienza. Il teorema può essere dimostrato studiando le relazioni intrinseche all'idea di triangolo. A questa specie di conoscenza « appartengono le scienze della geometria, dell'algebra e dell'aritmetica». Di diverso tipo è la conoscenza delle « materie di fatto ». Che domattina sorgerà il sole, non è verità che io possa dedurre dallo studio delle relazioni intrinseche all'idea, derivata dall'impressione sensibile, che oggi ed in passato il sole è sorto. La verifica di una proposizione come « domani sorgerà il sole » è demandata all'esperienza, che sola può certificarla. Mentre infatti mi è inconcepibile ammettere che il teorema di Pitagora sia falso, o che 2 2 non dia 4, « il contrario di ogni materia di fatto è sempre possibile, perché non può mai implicare contraddizione e viene concepito dalla mente con la stessa facilità e distinzione che se fosse del pari conforme alla realtà. Che il sole non sorgerà domani è una proposizione non meno intellegibile e che non implica più contraddizione dell'affermazione che esso sorgerà». Le scienze matematiche hanno quindi tre caratteristiche fondamentali che le distinguono dalle conoscenze concernenti materie di fatto: sono .~i...Q!i necessarie, _s_~9.,!_eti~he. A priori perché possono essere escogitate con una pura operazione di pensiero, tanto che « anche se non esistessero in natura circoli o triangoli, le verità dimostrate da Euclide conserverebbero sempre la loro certezza ed evidenza ». Necessarie perché il contrario di una verità matematica implica una contraddizione che non può essere accettata dalla mente. Sintetiche perché accrescono le conoscenze umane, consentendo di scoprire proprietà, teoremi ecc. prima ignoti. Nel campo delle «materie di fatto», invece, secondo Hume sono possibili tre forme di relazioni assai diverse: quella diicf..e_'!!..ità (una cosa è identica a se stessa); quella di contigui!~ spazio-temporale (una cosa è vicina o lontana - nello spazio o nel tempo - ad un'altra); quella di ç_ausalit_à (una cosa è causa di un'altra). Esaminando approfonditamente queste tre relazioni, Hume dimostra poi che le prime due possono essere ridotte alla terza, giacché quando, ad esempio, percepiamo del fumo, e ne inferiamo che poco distante (contiguità spaziale) deve esserci del fuoco, in ultima analisi ci basiamo sulla relazione causale che il fumo è un effetto del fuoco; quando oggi vediamo un amico, e rivedendo lo domani gli applichiamo la relazione di identità per cui pensiamo che sia la stessa persona, ci basiamo ancora una volta, in ultima analisi, sulla relazione di causalità. In conclusione « tutti i ragionamenti riguardanti le materie di fatto sembra che siano fondati sulla relazione di causa ed effetto. Solo per mezzo di questa relazione si può andare al di là di ciò che risulta evidente per la testimonianza della memoria e dei sensi ».
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Per studiare questa relazione fondamentale, Hume fa il famoso esempio delle palle di biliardo: noi vediamo (impressione di sensazione) che la palla A, spinta da noi, colpisce la palla B, mettendola in movimento. Analizzando questa impressione visiva, constatiamo che: I) la palla B si è messa in moto nel preciso istante in cui è entrata in contatto con la A, quindi quando ha avuto luogo una contiguità; z) il movimento della palla A precede quello della B; 3) ogni volta che la palla A colpisce la B, quest'ultima si mette in moto; tra i due fenomeni ha quindi luogo una connessione costante. « Oltre a queste tre circostanze, della contiguità, della priorità e della connessione costante, io non posso scoprire nulla di questa causa. La prima palla è in movimento; tocca la seconda palla; immediatamente la seconda palla è in movimento; e quando io tento l'esperimento con la stessa palla o con palle simili, nelle stesse circostanze, o in circostanze simili, trovo che dopo il movimento e l'impatto di una palla, il movimento segue sempre nell'altra. In qualunque senso io rovescio questo fatto e per quanto lo esamini, non riesco a trovare in esso nulla di più. » Fin qui, l'analisi è stata condotta allivello dell'impressione, cioè supponendo di vedere le due palle di biliardo in quiete o in movimento. Ma se ci portiamo a livello delle idee, diviene evidente una circostanza di capitale importanza: vedo la palla A che muove verso la B, e prima ancora che abbia avuto luogo l'urto, inferisco che certamente la palla A metterà in moto la B. Si tratta evidentemente di una inferenza ideale, in quanto ha luogo prima che io abbia l 'impressione visiva del moto della palla B. Una simile inferenza vien fatta per tutti i fenomeni naturali: sono certo, prima di vederlo sorgere, che domattina sorgerà il sole; sono certo che il mio amico è mortale prima di vederlo morire, ecc. Si pone dunque il seguente problema: la relazione di inferenza causale è forse, in quanto sembra preceder/a, indipendente dall'esperienza? La risposta di Hume è tassativa: « Oserò affermare, come proposizione generale che non ammette eccezioni, che la conoscenza di questa relazione non si consegue in alcun caso mediante ragionamenti a priori, ma nasce interamente dall'esperienza quando troviamo che certi particolari oggetti sono stati costantemente connessi tra di loro. » Supponiamo che Adamo avesse, appena creato, una ragione as~olutamente perfetta, e supponiamo che gli si presenti per la prima volta alla vista uno specchio d'acqua: dalla semplice impressione visiva dell'acqua egli non potrà mai inferire a priori che essa può soffocare un essere animato terrestre. Analogamente, egli non potrà inferire dalla prima impressione visiva del fuoco che esso lo può ustionare. Se prescindiamo dal controllo sperimentale, le due affermazioni: « il fuoco ustiona » ed « il fuoco non ustiona », sono ugualmente concepibili per l 'intelletto umano, come possiamo constatare nei bambini che, privi di esperienza, spesso non temono di toccare la fiamma. «Invano, dunque, pretenderemmo di determinare qualche singolo fatto, o di inferire qualche causa o qualche effetto, senza l'aiuto dell'osservazione dell'esperienza. » 108
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Pretendere di dare una dimostrazione razionale del princ1p10 di causalità è quindi impossibile. Pure, resta vero che io so che la palla di biliardo A metterà certamente in moto, colpendola, la palla B. Come spiegare dunque che io conosca una « materia di fatto » prima che essa avvenga, prima dell'impressione del moto di B? In base all'esperienza passata, risponde Hume; in passato ho sempre visto che A metteva in moto, colpendola, B, ed in forza di ciò inferisco che anche in futuro accadrà così. Questa inferenza si basa su di un p.s>stulato_,_naturale a tut~ gl!_uoiJ1il!J_,___g,~!l'uniformità della natur~. L'inferenza causale, anche quando riguarda il futuro, è dunque frutto dell'esperienza passata; è a posteriori. «Sarebbe dunque necessario per Adamo (... ) aver avuto esperienza dell'effetto che tien dietro all'urto delle due palle. Egli avrebbe dovuto vedere, in parecchi casi, che quando una palla urtava l'altra, la seconda si metteva sempre in movimento. Se avesse visto un numero sufficiente di esèmpi di questo genere, ogni volta che avesse visto la prima palla muoversi verso l'altra, avrebbe sempre concluso senza esitazione che la seconda palla avrebbe acquistato movimento. Il suo intelletto avrebbe prevenuto la sua vista, e avrebbe formato una conclusione in accordo con l'esperienza passata. Ne segue dunque che !._utti i ragionaf!1en_!f._çk__~.J.jgf!_q!:__4_a!!_qJçz causa _!._}'effe!.!._q___s_o_f1o]ont/atj su_lf'~sperienza e che tutti i ragionamenti desunti dall'esperienza sono a loro volta fondati sulla supposizione che il corso della natura continuerà uni_(ormemente lo stesso. Noi concludiamo allora che cause simili, in circostanze simili, produrranno sempre effetti simili. » Questo postulato dell'uniformità del corso della natura è evidentemente indimostrabile per la ragione, trattandosi di mate~ia di fatto. La sua origine non è la ragione, ma l'esperienza: «Soltanto! l'abitudine/ci induce a Sl!QE~!"_!"_~)!f:t:J.!~~ confQrm~--~Lp~~~tQ. » Ma vedendo la palla di biliardo A che si muove verso la palla B, non solo prevedo che la B si metterà in moto a seguito dell'impatto, ma anche credo che essa si metterà in moto; e ci credo tanto profondamente, che mi è impossibile credere il contrario, anche se lo posso concepire. « Quando vedo una palla di biliardo che si muove verso un'altra, la mia mente viene immediatamente trasportata dall'abitudine all'effetto usuale, ed anticipa la mia vista concependo la seconda palla in movimento. Ma questo è forse tutto? Mi limito a concepire il movimento della seconda palla? Oltre a concepire il movimento della palla, credo che essa si muoverà. Che cosa è allora questa " credenza "? » Evidentemente non è una idea come le altre, perché precede l'impressione del moto di B; un'altra prova che non sia una idea come le altre è che non può essere scomposta o composta. D'altra parte la credenza non è nemmeno un'impressione, giacché non la sperimentiamo mai coi sensi. Hume risolve il dilemma dicendo che si tratta di un'idea di natura particolare, che ha la vivacità dell'impressione senza averne la base sperimentale; è un 'idea istintiva: « Si può quindi definire la credenza come un'idea vivaceL!!!~'-~'!~_'! _a_ssociata q__'!n'impressione presente~» L'interpretazione che
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della filosofia di Hume dà Dal Pra ci sembra quindi del tutto corretta: in ultima analisi, il criterio di verità del sapere umano in generale è, per Hume, una tensione pratico-istintiva connaturata nell'uomo: da questa scaturisce la credenza. Quanto all'origine ultima, al principio esplicativo assoluto della causa della credenza, H urne applica ancora una volta l'« hypotheses non fingo» di Newton: « Quanto alla causa di queste cause generali, invano ci sforzeremmo di scoprirle; né riusciremmo mai a rimanere soddisfatti di qualche spiegazione che le riguardi. Queste sorgenti ultime ed i principi sono del tutto preclusi all'attenzione ed alla ricerca umane.» Ma se non possiamo indicare la causa ultima della credenza possiamo descriverne l'origine; osserviamo infatti che: r) a seguito dell'impressione di A che mette in moto B; z) a seguito della ripetizione di questa impressione e, 3) a seguito della frequenza e della regolarità di questa ripetizione, in noi, secondo meccanismi che ci sono ignoti, scatta la credenza: « L'esperienza può produrre la credenza con un'operazione segreta senza che sia stata prima pensata. »La credenza è quindi un qualche cosa che nasce, misteriosamente, in noi; è qualche cosa di soggettivo; non è la copia di una proprietà oggettiva degli oggetti, dato che di questa proprietà non abbiamo impressione; « la necessità [in materia di fatto] è perciò un'impressione della mente( ... ), è qualche cosa che esiste nello spirito e non negli oggetti ... ; non è altro che la propensione del pensiero a passare dalle cause agli effetti e dagli effetti alle cause, secondo la loro unione sperimentata. » In base ai risultati dell'analisi svolta, la suddivisione dei diversi tipi di conoscenza subisce un notevole approfondimento. Le conoscenze umane si suddividono in quelle concernenti relazioni tra idee (conoscenze matematiche, certe e necessarie in quanto dimostrabili a priori) e quelle concernenti materie di fatto; queste ultime si suddividono a loro volta in certe (in quanto provate dall'esperienza al punto da essere rese soggettivamente certe e necessarie dalla credenza) ed in probabili. Conoscenza di materia di fatto certa è l'alba di domattina; conoscenza di materia di fatto probabile è che nel mese di luglio in genere non piove e fa molto caldo. Ma questo fenomeno meteorologico non si ripete con una regolarità assoluta, sicché non dà luogo ad una credenza stabile, ed io posso ritenerla una conoscenza probabile, ma non certa. Avremo varie occasioni di riprendere in esame l'analisi humiana della causalità, che continuerà ad esercitare un'influenza decisiva anche su parecchi fra i più significativi pensatori della nostra epoca (per esempio su Einstein e sui neopositivisti). Qui basti sottolineare l'estrema importanza della conclusione testé riferita, che afferma il carattere meramente soggettivo della necessità tradizionalmente attribuita al legame fra causa ed effetto. È una conclusione che, per un lato, metterà in crisi la pretesa dei metafisici di fare appello allegarne causale per risalire dal mondo dell'esperienza a una realtà assoluta non esperibile; per l'altro, autorizzerà epistemologi e scienziati a tentare nuove formulazioni di IlO
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I-lume
quel nesso fra scientifica.
fenomeni, che costituisce l'oggetto principale di ogni ricerca
c) I problemi dell'esistenza del mondo esterno, dell'io e di dio Una volta stabilita la natura soggettiva della credenza, possiamo ancora affermare l'esistenza del mondo esterno? Dal punto di vista pratico, osserva il filosofo, siamo tutti profondamente convinti che esista: «Noi possiamo chiedere quali siano le cause che ci persuadano a credere nell'esistenza dei corpi; ma è inutile che domandiamo se i corpi esistono o no; infatti questo è un punto che dobbiamo presupporre in tutti i nostri ragionamenti. La nostra ricerca riguarderà pertanto le cause che ci spingono a credere all'esistenza dei corpi.» L'indagine presenterà un duplice aspetto: I) «perché si attribuisce agli oggetti un'esistenza continua anche quando non viene percepita dai sensi?»; z) «perché si ritiene che gli oggetti abbiano un'esistenza distinta dalle percezioni?». Esaminiamo in primo luogo se abbiamo una impressione della esistenza continuata del mondo esterno. Evidentemente no: nemmeno quella del nostro proprio corpo, giacché l'abbiamo solo durante la veglia, e non durante il sonno. Analogamente, le impressioni non ci testimoniano mai dell'esistenza di corpi distinti da noi; per percepire questa distinzione, dovremmo ad un tempo da un lato percepire gli oggetti, e dall'altro percepire la nostra impressione di essi, il che è manifestamente impossibile. Esaminando le nostre impressioni di sensazione in generale, osserva Hume, possiamo suddividerle in tre categorie: I) le impressioni di figura, volume, moto e massa (quelle che Galileo ed i meccanicisti avevano denominato qualità primarie dei corpi); n) le impressioni di colore, sapore, odore, ecc. (qualità secondarie); m) quelle del dolore o del piacere provocato in noi dal contatto con i corpi del mondo esterno. Che quelle della III e della n classe siano soggettive, osserva Hume, è universalmente ammesso dai filosofi moderni. Inoltre, sulle orme di Bayle e di Berkeley, egli afferma che anche quelle della I classe lo sono, in quanto non possono, in realtà, essere distinte da quelle della n: « È evidente che i colori, i suoni, il caldo e il freddo, in quanto si manifestano ai sensi, esistono nello stesso modo del movimento e della solidità; la differenza che, sotto questo riguardo, facciamo tra loro non proviene certo dalla percezione. È anche evidente che i colori, i suoni, ecc. esistono in origine allo stesso modo del dolore e del piacere; e che la differenza tra loro non deriva né dalla percezione, né dalla ragione, ma dalla immaginazione. Possiamo pertanto concludere che, stando al giudizio dei seg_:;_i, tutte le percezi9ni __~qno l~-~~~e neUo~g_mqdo _di esist~~· » Non provenendo in modo immediato da una impressione, la credenza nell'esistenza del mondo esterno proviene forse dalla ragione? È ciò che ha sostenuto, ad esempio Cartesio, deducendo il mondo esterno a partire dal « cogito » e III
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Hume
passando attraverso la garanzia antologica di dio. Senza entrare qui nel merito del valore di questa dimostrazione, possiamo, con molta semplicità, chiederci: quante persone conoscono questa dimostrazione? Pochissime; quante ci credono? Ancora meno. Eppure tutti gli uomini credono all'esistenza del mondo esterno; quindi questa credenza non può discendere da una dimostrazione razionale. Alla luce del problema dell'esistenza del mondo esterno, Hume intraprende un ulteriore esame delle impressioni e rileva che hanno la qualità della costanza. In questo momento non vedo ad esempio il monte Bianco, ma so che se andassi in Val d'Aosta lo vedrei; e se anche, rivedendolo, vi trovassi dei cambiamenti rispetto all'ultima volta che l'ho visto (se ad esempio avendolo visto d'estate, ora, d'inverno, lo trovassi molto più innevato), non mi stupirei, perché sono abituato ai mutamenti stagionali della natura. « Tutti gli oggetti ai quali si attribuisce una esistenza continuata hanno una costanza particolare che li differenzia dalle impressioni la cui esistenza consideriamo come dipendente dalle nostre percezioni. Quelle montagne, quelle case, quegli alberi che vedo adesso, mi si sono presentati sempre nello stesso ordine; se chiudo gli occhi o volgo la testa, poco dopo mi si ripresentano senza alcun cambiamento( ... ). Così per tutte le impressioni i cui oggetti si ritiene che abbiano un'esistenza esterna. Anche nei mutamenti poi si verifica una regolarità; essi conservano una coerenza che serve di fondamento ad una sorta di ragionamento di causalità che produce l 'idea della loro esistenza continuata. » Questa sorta di ragionamento è una supposizione basata sulla credenza e l'abitudine; essa ci permette di colmare le lacune dell'impressione sensibile. Se io, ad esempio, sono abituato, quando entro in una stanza, a vedere l'uscio che, spinto da me, si apre, e ad udire un cigolio dei suoi cardini, e se, una volta che mi trovo in quella stanza e volgo le spalle all'uscio, odo quel cigolio e poi vedo una persona accanto a me, sono del tutto naturalmente indotto a supporre che quella persona sia entrata dall'uscio e non scesa dalla cappa del camino, anche se non ho visto l'uscio aprirsi; suppongo e credo che l'uscio continui ad esistere anche quando non lo percepisco. Questa credenza-supposizione vale per tutte le impressioni concernenti il mondo esterno, giacché nessuna di queste, per quanto frequente e regolare, può essere continuata. Questa credenza si basa sull'abitudine, ma con l'ausilio dell'immaginazione (che, come sappiamo, in ultima analisi ha anch'essa una base empirica, sperimentale), la travalica, sicché sono forzato a credere all'esistenza continuata di tutti gli oggetti costituenti il mondo esterno, superando la discontinuità, la frammentarietà ed anche la differenza tra le impressioni sensibili che a quegli oggetti si riferiscono. Anche se il monte Bianco è ora innevato, ora verdeggiante, ora incappucciato da nubi, l'immaginazione, spinta dall'abitudine ad una seppur imperfetta costanza impressionale, supera queste differenze, e mi fa IIZ
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H urne
passare dalla loro somiglianza ad affermare l'identità, nonché ad affermare l'esistenza esterna del Monte Bianco. Questa tendenza a supporre l 'identità di percezioni simili spiega anche l'origine degli errori, dovuti alla identificazione di due impressioni somiglianti ma diverse: ad esempio quando scambiamo il monte Bianco con il monte Rosa. Sulle ragioni ultime di questa supposizione-credenza, Hume applica ancora l'« hypotheses non fingo » : « N.2! siarp.o -~C>~!!'~_!!j__~_g_~_!!lmett~~.J.: es!~~E.~~- _4ei ~orpi, l!_Qçh~__ s_~ __ QO{l_lJQ.S..S.i_l!.f!!()__P.!:c:!~eE_c:l~re__c:l~-~-()~!~r.!_eE_~_}_~_~()!~!'~al!~.E~n alcun ~~ gomento filosofico_: » Una critica altrettanto lucida Hume fa del concetto di « anima » e di « io », che, come ogni idea complessa di sostanza, viene ridotta ad una collezione di idee e impressioni: « Quanto più intimamente mi addentro in ciò che chiamo il mio io, sempre m'incontro in questa o quella particolare percezione, di caldo o di freddo, di dolore o di piacere, o di altro. Non riesco mai a cogliere il mio io senza almeno una percezione, non posso osservare nient'altro che la percezione. » Se togliessi tutte le percezioni, del mio io non resterebbe nulla; lFltlQtl:_~_g_l;!tl:_l:ffi~_!!h_r_()_(( eh~ un fasci()__2_~_!1_~-~C>!!5:Z.!C2_f!~._c:!L_<_!iff~!'~E~L_p~!'.<:.C:~!C>t1i, che si succedono l 'una all'altra con una inconcepibile rapidità, e sono in perpetuo flusso e movimento ». A questo fascio di percezioni intermittenti (interrotte, ad esempio dal sonno) e cangianti, noi attribuiamo una identità sostanziale con una forma di supposizione (basata sulla memoria) analoga a quella che facciamo a proposito del mondo esterno. Ma allora, si dirà, donde viene il nostro pensiero, che è certo cosa immateriale? Possiamo ammettere che esso sia causato da percezioni aventi una origine materiale, quindi che la memoria sia causa di cose non materiali? Perché no? chiede Hume. Certo materia e pensiero sono diversi l'una dall'altro, ma anche la fiamma e l'ustione sono diversi. Noi diciamo che la fiamma è causa dell'ustione solo a posteriori; lo stesso vale per la materia causa del pensiero: « se non si vede nessuna connessione [necessaria, a priori] tra il movimento e il pensiero, il caso non è diverso da quello di tutte le altre cause ed effetti. Pensiero e movimento sono diversi l'uno dall'altro; tuttavia per esperienza troviamo che sono costantemente uniti>>, né più né meno di come troviamo costantemente unite la fiamma e l'ustione. Possiamo quindi concludere che la materia è la causa del nostro pensiero. Se l'io è solo un fascio di percezioni causate dalla materia, l'anima è immortale o no? Per analogia, risponde Hume, possiamo inferire che l 'anima sia mortale: «Quando due oggetti sono uniti così intimamente che tutte le alterazioni rilevate in uno dei due sono accompagnate da alterazioni corrispondenti nell'altro dobbiamo concludere, secondo tutte le regole dell'analogia, che, se maggiori alterazioni si producessero nel primo e lo distruggessero del tutto, ne seguirebbe una dissoluzione totale del secondo. Ora il corpo e lo spirito sono intimamente
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Hurne
uniti; dall'infanzia alla maturità si sviluppano di pari passo ed insieme invecchiano sino alla morte; allora argomentiamo che all~!-~-.Y!_!l~_4~!-~~!.P..Q_sj_a_c:_~_Q~ ~a la rovina dell'anima.» Essendo tale, per Hume, la natura dell'io e dell'anima, l'uomo sarà un essere libero o sottoposto alla necessità della natura? Ricordiamoci che cosa sia per Hume, la necessità che attribuiamo al corso della natura: « La nostra idea di necessità e di causazione deriva completamente dall'uniformità che si può riscontrare nelle operazioni della natura, dove oggetti simili sono costantemente congiunti insieme e la mente è determinata dalla consuetudine ad inferire l'uno dall'apparire dell'altro.» Queste due circostanze appaiono anche a proposito dell'uomo: infatti in primo luogo possiamo constatare una grande uniformità nella natura umana, giacché i vizi e le virtù umane descritti dai più antichi scrittori valgono anche per l'uomo odierno; in secondo luogo, quando trattiamo con il prossimo, ci comportiamo sempre in base ad una previsione delle sue azioni: ci fidiamo di coloro che sappiamo per esperieilza onesti, non ci fidiamo di coloro che sappiamo birboni; non ci stupiamo che una borsa piena d'oro lasciata in mezzo alla strada scompaia, né che l'uomo abbia timore della morte e rispetto dei suoi genitori. Nel comportamento gene!J..le A_c:!!_~Q_JilQ_!i_s_c:_(:lntr!:i'!l9 q~i_gQi_~il!J~ ~g!f.ormità, ....§.i.!l_J~reveclihllit~_._ <ò9_1!l~ __g_c;:!._c:_Q~P2!!a,_'!l_C:~~() --~e.ll:t ga,!~~ll: ; ergo, l'uomo è necessitato nello stesso modo in cui lo è la natura. Nell'ambito di questa problematica, Hume affronta decisamente anche la questione religiosa, particolarmente nei Dialoghi sulla religione naturale e nella Storia naturale della religione. Quali sono, chiede, i fondamenti della religione? È possibile dare una dimostrazione razionale dell'esistenza di dio? Nel contesto della secolare polemica inglese sul deismo (cfr. cap. n della presente sezione) Clarke aveva cercato di dare una dimostrazione a priori dell'esistenza di dio, sostenendo che l'affermazione della non esistenza dell'essere supremo avrebbe provocato una contraddizione logica. La critica che Hume muove alla prova a priori è semplice: l'esistenza o meno di un essere, sia pure dio, concerne non la relazione tra idee, ma la materia di fatto; è sempre possibile, altresì, pensare il contrario di una materia di fatto senza cadere in una contraddizione logica: si può benissimo pensare esistente una cosa che non esiste (ad esempio la chimera), ed esistente una cosa che esiste. La pretesa forza cogente della prova a priori di Clarke viene quindi a cadere. Quanto alla prova a posteriori, che induce l'esistenza di dio dall'ordine del mondo, Hume la riduce in primo luogo ad un ragionamento analogico. Questa prova, osserva, si basa sulla constatazione che il mondo è una macchina perfettissima; noi sappiamo per esperienza che le macchine terrestri sono fatte per un fine da esseri intelligenti, e da ciò induciamo per analogia che anche il mondo sia fatto per un fine, e che esista una mente ordinatrice del mondo analoga, anche se infinitamente superiore, alle menti umane. Criticando questa prova, Hume osII4
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H urne
serva: l'analogia, mancando per definizione dell'esperienza diretta, non può mai darci la certezza, ma solo una probabilità più o meno grande. Ma la succitata prova a posteriori è veramente basata su di una analogia almeno probabile? Possiamo veramente paragonare il mondo ad una macchina? Certamente no, per il semplice fatto che mentre abbiamo esperienza di migliaia di macchine, non ne abbiamo che di un mondo. Chi ci dice che, se paragonassimo questo ad altri universi, non vedremmo che esso non è affatto perfetto, ma imperfettissimo? In generale, del resto, l'analogia vale solo (pur restando in ogni caso unicamente probabile) quando il passo dal noto all'ignoto è piccolo: ad esempio quando inferiamo la circolazione sanguigna dell'uomo da quella di un mammifero. Ma quando il passo diviene più ampio, l'analogia perde ogni valore: come pretendere di studiare la circolazione sanguigna dell'uomo basandosi su di una analogia con quella linfatica delle piante? E, nel caso della prova a posteriori, « come si può fare un passo così vasto quale è quello di paragonare delle navi, delle macchine, all'universo intero ed inferire da una vaghissima somiglianza una somiglianza tra le loro cause, cioè tra dio e l'uomo?» Non solo: la prova a posteriori è blasfema, perché porta a conseguenze antropomorfiche: nel mondo non troviamo mai cause infinite, ma solo finite, sicché anche dio dovrebbe essere finito; nel mondo c'è il male, e quindi dio ne sarà la causa; l'uomo non fa le macchine da solo, ma insieme ad altri uomini; sicché non ci sarà un solo dio, ma molti dei. Ma Hume, non dimentichiamo, è soprattutto un filosofo dell'esperienza, interessato, come Newton, alla spiegazione dei fenomeni; e che la religione esista e sia un fenomeno macroscopico, confermato dalle conoscenze storiche e dagli usi di tutti i popoli, è materia di fatto che non può essere ignorata da chi voglia spiegare in modo sperimentale la natura umana. Di fronte a questo dato di fatto, rilevare che l'uomo non è in grado di dare una fondazione razionale alla religione diviene irrilevante, dato che, come sappiamo, l'uomo non è in grado nemmeno di dare una fondazione razionale alla relazione di causalità, della quale sarebbe assurdo negare la grandissima importanza per la vita umana. Si tratterà quindi di risalire ai principi esplicativi della religione, così come si è risaliti alla credenza per quanto concerneva la causalità. Orbene, osserva Hume, l_l!_f.C::!igic:>!l~ ~jl_ll:~~t~ !l_on sulla ragionç_._!!!l!_§ul_~~l:!!i.!!!_~ntQ__g~J-~!tl1e>~e. La vita dell'uomo afflitto da una grande moltitudine di malanni, ultimo dei quali l'inevitabile morte, che lo incalzano e dei quali non conosce l'origine ultima - è per lo più infelice. Il timore del male lo induce a immaginare una causa - dio - delle disgrazie che lo sopraffanno, e ad istituire dei culti per placare questa divinità minacciosa. d) I limiti dello scetticismo. A conclusione della propria analisi gnoseologica, Hume definisce il proprio scetticismo ed i suoi limiti, affermando che no_n è uno scetticismo radicale, ma « accademico » (il riferimento è al probabilismo della media e della nuova acca-
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demia, cui si è fatto cenno nel capitolo xv della sezione 1), che noi potremmo anche definire newtoniano. Tutto l'accento è posto sulla necessità di restare sal-1 damente ancorati all'esperienza, di fare una «scienza» della natura umana, caratterizzata dalla ricerca sperimentale e dalla ricerca di principi esplicativi che non siano « ipotesi » metafisiche. Applicando in modo critico, analitico ed empiristico il proprio metodo, H urne ha di~~Q_l~g i __ç:~pi§.alciiclel ~-a~.i~J.:la!i~tp~ s~i~e:1:1~e-~~~: dio, 11 mondo esterno, la relazione di causalità, l'io, la differenza tra qualità primarie e qualità secondarie, ecc. Ma pur mettendo in guardia la pretesa di dimostrare razionalmente la verità nel campo delle scienze concernenti materie di fatto, Hume non ha mai negato che l'uomo, nell'ambito di quelle stesse scienze, viva, agisca e preveda. H urne ha indicato che la ragione non potrà mai dimostrare che domattina sorgerà il sole, ma non ha mai ammesso che praticamente, sperimentalmente, l'uomo sia realmente in dubbio se domattina il sole sorgerà oppure no: anche se non può dimostrarlo, l'uomo crede che domattina il sole sorgerà, ed anche questa credenza è una « materia di fatto », della quale Hume tiene il massimo conto. Per quanto quindi la scepsi humiana sia nettamente diversa dal dubbio metodico o iperbolico cartesiano, essa persegue un intento scientifico evidente: delimitare il campo di una scienza umana veramente feconda, praticamente, anche se non a priori, certa ed utile. Caratteristica è la famosa affermazione conclusiva delle Ricerche sull'intelletto un1ano, dove Hume invita a fare del proprio scetticismo sperimentale la discriminante tra il sapere utile e reale, e quello inutile, dannoso e fittizio; l'affermazione riecheggia ancora una volta le regulae philosophandi di Newton, e suona non sfiducia, ma esaltazione di una forma di sapere scientifico rinnovato, esteso anche alla natura umana, fecondo ed utile per l'uomo, suscettibile di progresso di generazione in generazione: « Quando scorriamo i libri di una biblioteca ... , che cosa dobbiamo distruggere? Se ci capita tra le mani qualche vol urne per esempio di teologia o di metafisica scolastica, domandiamoci: contiene qualche ragionamento astratto sulle quantità o sui numeri? No. Contiene qualche ragionamento sperimentale su questioni di fatto o di esistenza? No. E allora, gettiamolo nel fuoco, perché non contiene che sofisticherie ed inganni. » IV
· LA MORALE
La morale di Hume si basa in primo luogo sull'analisi delle passioni. Si ricorderà che egli aveva diviso le impressioni in due categorie: di sensazione e di riflessione; le passioni sono appunto sensazioni di riflessione, ali 'interno delle quali H urne opera ulteriori distinzioni, di cui la prima è tra passioni violente (ad esempio il dolore) e passioni calme (ad esempio il gusto estetico). Le passioni vanno inoltre divise in dirette ed indirette: dirette sono quelle che derivano immediatamente dalla struttura del nostro corpo (ad esempio il dolore per una ustione); indirette quelle che 116 www.scribd.com/Baruhk
Hurne
dipendono da una relazione più complessa: se, bruciandomi un dito, urlo, strepito, piango, saltello goffamente, e poi mi avvedo della presenza di una persona, alla passione diretta del dolore per l 'ustione si accompagna quella indiretta della vergogna per il modo in cui mi sono comportato. Questa classificazione delle passioni (violente, calme, dirette, indirette) è stata fatta considerando come loro origine il mondo esterno: il dolore per un'ustione, il sentimento della bellezza di un dipinto, la vergogna per essermi comportato goffamente, sono passioni provocate da qualche cosa di esterno a me. Esistono però, osserva Hume, passioni più originarie, che sono esse stesse fonte di piacere o di dolore: la gioia per la morte di una persona odiata, ad esempio nasce dalla passione dell'odio, che precede la morte. Quale è l'origine di queste passioni originarie? Nella risposta, Hume è ancora una volta newtoniano: non si devono fingere ipotesi, bensì solo prendere atto che le cose stanno effettivamente così: «Oltre che dal bene e dal male, ossia dal dolore e dal piacere, le passioni dirette nascono frequentemente da un impulso naturale o da un istinto perfettamente inesplicabile. Di questo genere sono il desiderio d'una punizione per i nostri nemici e quello della felicità per i nostri amici, la fame, la concupiscenza e altri appetiti corporei. Queste passioni, propriamente parlando, producono il bene ed il male e non ne derivano, come le altre passioni. » Le passioni vanno inoltre suddivise in semplici e complesse; nell'uomo, le passioni si presentano per lo più frammiste, cioè in forma complessa: io ambisco, per esempio a possedere una cosa, ed a questo desiderio si intreccia subito, proporzionatamente alla probabilità che ho di esaudirlo, la speranza di vederlo soddisfatto ed il timore di vederlo frustrato. Desiderio, speranza e timore si intrecciano e mescolano tra di loro, dando appunto origine ad una passione complessa. Anche nelle passioni operano i meccanismi associazionistici che abbiamo riscontrato nelle idee: se sono triste, sono preda facilmente delle passioni dolorose somiglianti alla tristezza (collera, ecc.); se odio una persona, sono portato ad odiare i suoi amici (contiguità); se sono orgoglioso della mia bellezza, è evidente che considero la mia bellezza causa del mio orgoglio (causalità): Su questo studio analitico delle passioni, il nostro autore innesta una etica decisamente antirazionalistica: per Hume infatti la ragione opera sulle idee, cioè su copie sbiadite di impressioni; componente essenziale della morale è invece la volontà, che non è un'idea, ma un'impressione di riflessione, e per di più del novero di quelle originarie: «Per volontà io non intendo altro se non l'impressione interna che proviamo e di cui abbiamo coscienza, quando generiamo scientemente un nuovo movimento del nostro corpo o una nuova percezione del nostro spirito. Questa impressione ... non può essere definita ed è inutile descriverla più a lungo. » Essendo un'impressione, la volontà è più vivace di qualsivoglia idea, dal che deriva il primato della volontà sulla ragione e l'impossibilità di quest'ultima di influire sulla prima; non è la ragione a dettar legge alle passioni, ma viceversa: II7
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Hume
«Non parliamo né rigorosamente né filosoficamente quando parliamo della lotta tra passione e ragione. La ragione è, e non può che essere, la schiava delle passioni; non può pretendere ad altro che a servire e ad obbedire loro. » Dovremo cercare quindi il movente delle azioni morali non nelle idee, ma nelle impressioni; è chiaro altresì che quando lodiamo o biasimiamo un'azione, lodiamo e biasimiamo non l'azione in sé, ma il movente di essa: un omicidio può essere, a seconda del movente, lodevole o biasimevole. Perché un'azione sia considerata virtuosa, occorre un movente virtuoso precedente ad essa; il senso della moralità di un'azione è posteriore all'esistenza di un movente che rende morale quell'azione: «In breve, si può stabilire come massima indubitabile questa: che nessuna azione può essere virtuosa o moralmente buona, se non esiste, nella natura umana, qualche movente che la produce, diverso dal senso della moralità. » Come avviene quindi la valutazione morale? Quando valutiamo un'azione, siamo nel campo delle impressioni o in quello delle idee? Locke, Clarke ed altri razionalisti etici avevano sostenuto che la valutazione morale consiste nel percepire accordo o disaccordo tra idee, e cioè consiste, humianamente, in una « relazione tra idee ». Ciò, ribatte Hume, è errato: il carattere distintivo della morale è di essere pratica e, come si è detto, alla ragione ogni incidenza pratica sulle az'ioni umane è preclusa; ogni pretesa di dedurre razionalmente la valutazione morale va quindi respinta. Ma se non è una relazione tra idee, la valutazione morale sarà forse un giudizio ideale concernente materie di fatto? Se non fosse neppure così, allora dovremmo accettare, per esclusione, che la valutazione morale non è un'idea, ma un'impressione; ecco come Hume arriva a questa conclusione: «Esaminiamo un'azione dichiarata viziosa, per esempio un delitto volontario. Esaminatela sotto tutti gli aspetti e vedete se riuscite a trovare quella materia di fatto, o esistenza reale, che si chiama vizio (... ). Considerate l'oggetto finché volete, ma il vizio vi sfugge. Non potete trovare il vizio finché non volgete la vostra attenzione all'interno dell'animo e non riscontrate in voi un sentimento di disapprovazione che provate di fronte a questa azione.» Ma il sentimento è appunto un'impressione di riflessione, del tutto soggettivo. La valutazione morale è quindi un'impressione. Quale è la natura di questa impressione, e come agisce su di noi? « Dobbiamo rispondere: le impressioni che sorgono dalla virtù sono piacevoli, le impressioni che vengono dal vizio sono penose. L'esperienza di ogni istante ci attesta ciò. » Del sentimento di bene e male morali possiamo solo dire che li sperimentiamo e che sono di natura particolare: « A vere il senso della virtù vuol dire solo sentire una soddisfazione o piacere di natura particolare nel contemplare un'azione o un carattere. Noi non andiamo più in là.» Questa interpretazione della valutazione morale come piacere o dolore comporta, tra le altre, una notevole difficoltà: tutto ciò che mi procura dolore doII8
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vrebbe essere considerato moralmente cattivo, e ciò che mi procura piacere, moralmente buono; per evitare questa conseguenza, occorre istituire una distinzione qualitativa all'interno dei piaceri: «Una buona composizione musicale ed una bottiglia di buon vino producono generalmente piacere; di più, la loro bontà è definita soltanto dal piacere che suscitano. Diremo allora che il vino è armonioso e la musica saporita? » Evidentemente no: la natura particolare del sentimento morale è tale, che esso può esser riferito solo a persone umane; c'è di più: io posso stimare buone anche le azioni di un nemico, il che significa che nella natura particolare del piacere morale rientra il fatto che posso prescindere dai miei interessi particolaristici: «soltanto quando un'azione o un carattere viene considerata in generale, senza alcun riferimento al nostro interesse particolare, produce in noi una sensazione o un sentimento che la fa considerare moralmente buona o cattiva.» Stabiliti questi caratteri della moralità, Hume intraprende la riduzione newtoniana della sua varietà passionale a pochi principi; «è necessario unire insieme gli impulsi primari e trovare dei principi generali su cui sono fondate tutte le nostre azioni morali. » Questo principio è la simpatia. Come la credenza spiega l 'uso che noi facciamo della relazione di causalità, la simpatia spiega in qual modo, nella valutazione morale, noi assurgiamo ad una valutazione generale, universale, disinteressata: «La simpatia ci fa uscire da noi stessi. È essa che, di fronte al carattere di un altro, ci fa provare lo stesso piacere o dolore, come se esso avesse una tendenza al nostro vantaggio particolare o al nostro danrto particolare. Non occorre pertanto altra spiegazione per ciò che riguarda l'brigine del piacere e del dolore disinteressati. » · V
· ESTETICA
Nell'estetica, collegandosi all'analisi delle passioni, Hume muove da una definizione strettamente empiristica del bello: « La bellezza di qua1siasi genere ci reca rapimento e soddisfazione, come la bruttezza produce dolorej in qualunque oggetto sia posta( ... ). Il piacere ed il dolore dunque non soltanto accompagnano necessariamente la bellezza e la bruttezza, ma ne costituiscono la stessa essenza. » Dal che deriva, evidentemente, che la bellezza non è percepita dall'intelletto, ma dal sentimento (il gusto), e che ha il suo fondamento nella utilità. La bellezza di una casa, la forma di godimento che ci dà vedere un campo coltivato, un battello che solca i mari ecc., trovano il loro fondamento ultimo nell'utilità di questi oggetti. E poiché non tutti gli oggetti utili e belli mi appartengono, è evidente che interviene ancora una volta la simpatia, in forza della quale avverto come bello anche ciò che non mi è immediatamente utile. Ma il gusto estetico, allora, ha un carattere soltanto soggettivo, oppure assurge a canone generale ed universale della bellezza? L'enorme varietà dei gusti,
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dice Hume, è un dato di fatto empiricamente verificabile, che non può essere negato. Tuttavia essa non è tale da non consentire delle convergenze: chi sosterrà, ad esempio, che la poesia di Burchiello sia superiore a quella di Dante? Chi negherà che lo stesso Omero che più di duemila anni fa affascinava i greci, oggi possa affascinare tutti gli uomini colti? Hume, coerentemente con i propri principi di filosofo dell'esperienza, trova la base della regola del gusto nella realtà empirica originaria della natura umana: «Per la struttura originaria del nostro essere interno alcune forme o qualità particolari sono da considerarsi piacevoli, altre spiacevoli. Quando tali qualità manchino al loro effetto, ciò dipende da qualche difetto degli organi. Uno che abbia la febbre non insisterà a dire che il suo palato è adatto a giudicare i sapori. In tutti c'è uno stato regolare ed uno difettoso. Solo il primo si può presumere che dia una regola vera dei gusti e dei sentimenti. Se nello stato regolare c'è notevole conformità tra i vari uomini, da esso si potrà ricavare un'idea della bellezza perfetta.» Veramente regolare è quindi solo il gusto di un critico raffinato, coltissimo, che sappia istituire paragoni tra l'opera d'arte che sta esaminando ed altre opere, che ha affinato il proprio gusto con l 'uso. Questo spiega anche perché, nonostante che « i principi del gusto siano, se non del tutto, pressoché uguali in tutti gli uomini, tuttavia coloro che possono ritenersi capaci di pronunciare un giudizio su qualche opera d'arte sono pochi; e pochi sono coloro che possono prendere il proprio sentimento per regola della bellezza. » VI
· LA POLITICA
La politica humiana studia gli uomini nelle loro relazioni sociali, e cerca di definire quando queste siano giuste e quando no; essa è quindi una necessaria integrazione della morale, e ruota principalmente sullo studio della virtù della giustizia, che viene definita da Hume una virtù artificiale. Che cosa è, si chiede Hume, la giustizia? Essa, evidentemente, non può coincidere con l'interesse privato, ma nemmeno possiamo presumere che sia un'adesione all'interesse pubblico, perché la nostra esperienza quotidiana ci insegna che gli uomini, nelle loro azioni, non si richiamano affatto all'interesse pubblico, che è movente troppo remoto e troppo sublime. L'artificialità della giustizia sta dunque nel fatto che essa nasce «dall'educazione e dalle convenzioni tra gli uomini». È evidente però che Hume, avendo escluso la capacità - per la ragione di agire sulle passioni e di stabilire i canoni di un comportamento virtuoso (quindi anche di quello «giusto»), non può accettare l'impostazione giusnaturalistica e razionalistica, che fa discendere la giustizia dall'esistenza di principi razionali universali, presenti in tutti gli uomini e codificati in legge da un contratto ed una convenzione originaria. Per un filosofo sperimentale della natura umana, si pone ovviamente l'esigenza di ricondurre l'artificialità della giustizia alla natura originaria dell'uomo, riconduzione che Hume opera brillantemente: la giuIZO
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Hume
stizia è sì un artificio, ma un artificio assolutamente necessario per l'uomo, ed in questo senso naturale. Analizziamo quindi la causa naturale di questa virtù artificiale: nell'uomo, osserva Hume, vi è un perenne conflitto tra i suoi bisogni e la possibilità di soddisfarli. Ai difetti della sua debolezza, che non gli consente di soddisfare a tutte le esigenze che avverte, l'uomo può rimediare solo nell'ambito della società. L'uomo asociale, il selvaggio primitivo, ha pochissime possibilità di soddisfare i suoi bisogni, ed è condannato a far tutto da solo, e quindi a non far bene nulla (si veste male, alloggia peggio, mangia male, ecc.); vivendo solo, il selvaggio è poi nudo ed indifeso di fronte alle calamità naturali. La società pone rimedio a questi malanni: « Mediante l 'unione delle forze viene aumentato il nostro potere; mediante la divisione del lavoro viene accresciuta la nostra abilità; mediante i reciproci aiuti ci troviamo meno esposti ai colpi della fortuna. » Ma il selvaggio asociale non può rendersi conto, prima di averli sperimentati, di questi vantaggi. Che cosa lo costringerà quindi ad entrare nella società? Non certo, nella filosofia di Hume, un appello alla « ragione naturale », giacché, come sappiamo, per il nostro filosofo la ragione è del tutto incapace di spingere l 'uomo all'azione. Occorre quindi un movente passionale, che per Hume è l'attrazione sessuale. È sotto l'impulso originario dell'attrazione sessuale che uomo e donna cominciano a convivere; dal loro legame nascono i figli, ed ha quindi origine una unità familiare; figli e genitori cominciano poi ad assuefarsi al commercio sociale, a fare esperienza dei suoi vantaggi, e quindi ad ingentilire i propri costumi. Ma la famiglia non è ancora la società, e l'analisi filosofica del passaggio dell'una all'altra è tutt'altro che facile. Per Hume, come sappiamo, l'uomo non è né tutto egoismo, né tutto generosità, bensì impasto dei due elementi. Certo è tuttavia che l'uomo ha la tendenza ad amare in primo luogo se stesso ed i suoi amici e congiunti, e solo molto alla lontana gli altri uomini in generale. Da questo amor sui deriva ovviamente un pericolo per la vita sociale, pericolo che Hume studia alla luce di analisi di carattere economico. Individui e famiglie, osserva Hume, dispongono di beni materiali, che naturalmente suscitano la cupidigia altrui; questi beni materiali sono infatti scarsi, cioè disponibili in quantità inferiore ai bisogni; è quindi naturale che essi vengano contesi, e ciò genera evidentemente un gravissimo pericolo per la vita sociale, perché gli uomini o le famiglie sarebbero perpetuamente in guerra tra di loro per disporre di quei beni. D'altra parte, una volta giunti al livello familiare, gli uomini fanno esperienza dei vantaggi della vita sociale (possibilità di accrescere, con la divisione del lavoro, i beni di cui disporre); in loro ha quindi luogo un impulso che li spinge ad escogitare un artificio che consenta di conservare i vantaggi della società e ad eliminare gli svantaggi (instabilità del possesso dei beni a causa della cupidigia IZI
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altrui). « E ciò può avvenire solo mediante una convenzione tra tutti i membri della società, avente per scopo di rendere stabile il possesso dei beni materiali e di lasciare ognuno nel godimento pacifico di ciò che può acquistare con il suo lavoro e con la sua fortuna. » Osservando questa convenzione, noi non contraddiciamo alla nostra passione, ma solo ai suoi movimenti sregolati ed impulsivi, né contraddiciamo al nostro interesse personale, ma solo lo consolidiamo. Dalla convenzione di astenersi dai beni altrui nascono le idee di giustizia, di proprietà, di diritto, di obbligo. «L'origine della giustizia spiega l'origine della proprietà in quanto la stessa convenzione dà origine ad entrambe. Non esiste in natura un diritto fisso di proprietà, finché le passioni umane non sono disciplinate da qualche convenzione. » Ma la convenzione generale sulla stabilità del possesso dei beni materiali non servirebbe a gran che, se non desse luogo a regole ed accorgimenti concreti e determinati mediante cui distinguere quali beni particolari debbano appartenere a ciascuna persona. Come fare, però, la prima assegnazione di proprietà?« L'espediente più naturale,» risponde Hume, «è che ognuno continui a godere ciò di cui è padrone al presente e che la proprietà costante sia unita al possesso immediato. » È evidente che in tal modo Hume rinuncia a qualsiasi analisi critica dell'origine della proprietà e delle sue sperequazioni. Stabilita la regola del possesso costante, Hume ne fa discendere altre quattro: i diritti di occupazione, prescrizione, accessione e successione. Il diritto di occupazione è quello di considerare proprio ciò di cui si è entrati in possesso per primi (è evidente il riferimento ideologico all'occupazione coloniale inglese); la prescrizione (o lungo possesso) interviene come titolo giuridico quando il primo possesso sia incerto, ed in forza di esso è proprietario di un bene chi di fatto ne fruisce da lungo tempo. Il diritto di accessione consiste nella facoltà di estendere la proprietà ad oggetti strettamente congiunti a quelli che posseggo (il padrone di un fondo, ad esempio, è padrone anche di tutti gli stabili che sorgono sul fondo). Il diritto di successione è il caposaldo di ogni struttura borghese della società civile: l'eredità. Lo stretto legame di queste teorizzazioni giuridico-economiche humiane è dimostrato anche dal fatto che dalla giustizia egli fa discendere altri due diritti: la commerciabilità della proprietà ed il rispetto delle convenzioni e dei patti. Ma oltre alla società civile, occorre la società politica che la regoli e la garantisca. Certo la virtù «artificiale» della giustizia è un correttivo, a livello della società civile, dello spirito individualistico e familiare, ma di per sé non offre sufficienti garanzie che gli uomini la rispettino. Certo non rispettando la l 'uomo ne ha, alla lunga, un danno, ma si tratta di uno svantaggio molto remoto e mediato, mentre dalla violazione della giustizia (ad esempio dal furto dei beni appartenenti ad altri) egli può ricavare un vantaggio immediato e consistente per sé e per la sua famiglia. Occorrono quindi altri espedienti per far sì che per gli uomini le violazioni della giustizia divengano immediatamente, tangibilmente dannose; oc122
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Hume
corre cioè un esecutivo che reprima sollecitamente i delitti contro la proprietà e la giustizia in generale, cioè un governo che faccia rispettare le leggi con delle sanzioni penali. E se il governo istituito per tutelare la giustizia diviene tirannico, e la viola esso stesso? Hume ammette il diritto di resistenza, ma ne dà una fondazione diversa che non quella razionalistica del giusnaturalismo lockiano: il diritto di resistenza è fondato non sulla ragione, ma sulla passione del proprio interesse: «L'interesse costituisce la sanzione immediata del governo; perciò il governo non può avere una durata più lunga dell'interesse; se quindi il magistrato civile è talmente oppressivo da rendere la sua autorità assolutamente intollerabile, noi non siamo più obbligati a stargli sottomessi.» Cessata la causa (interesse), cessa anche l'effetto (legittimità del governo), e l'esperienza storica (che è parte fondamentale, come sappiamo, dell'esperienza della natura umana) mostra che nessun governo tirannico è stato a lungo tollerato dagli uomini, e che la resistenza alla tirannia è sempre stata considerata giusta. Hume non è però pensatore rivoluzionario, bensì realista incline al conservatorismo: la resistenza attiva al potere tirannico è, per lui, solo eccezione, mentre la regola deve essere la sottomissione e la stabilità dell'esecutivo, per garantire la quale enuncia cinque regole: a) il lungo possesso, anche quando trae origine dall'usurpazione, legittima il potere; b) in sua assenza, vale il possesso presente; c) valido è anche il diritto di conquista, oltre naturalmente, d) al diritto ereditario delle corone; e) infine hanno valore legittimo le leggi positive, quando queste stabiliscono una certa forma di governo. È evidente che in queste posizioni politiche di Hume si riflette la stanchezza dell'Inghilterra dopo gli scotimenti politici del Seicento: egli è contrario sia al rigore dei rivoluzionari, sia a quello dei lealisti integrali. D'altra parte, è intelletto troppo acuto per non avvedersi che le cinque regole suesposte (che egli definisce frutto di una « sana filosofia ») sono incapaci di risolvere le crisi acute degli esecutivi, ed ammette francamente che in questi casi, come insegna la storia « la soluzione è rimessa più alla spada dei soldati che agli argomenti dei legislatori e dei filosofi ». Più volte, nel corso della nostra esposizione, è risultata chiara la grande importanza che Hume annette alla storia, considerata il laboratorio sperimentale del filosofo della natura umana. Nel dare un'interpretazione filosofica di questa di~ci plina, Hume si imbatte però in una difficoltà gnoseologica: da un lato egli afferma infatti che compito della storiografia è di individuare ed esporre nel modo più articolato possibile la relazione di causalità che lega i vari avvenimenti storici (e che affermi questo non ci può stupire, risultando evidente che la conoscenza storica rientra nel novero della conoscenza di questioni di fatto, per le quali, come sappiamo, la relazione di causalità è quella più importante). Ma, allora, come salvare nella conoscenza storica l'impressione sensibile quale ·criterio di verità? « Prima che la conoscenza del fatto [storico, ad esempio della spedizione di Ales123
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sandra il macedone] giunga al primo storiografo, deve passare attraverso molte bocche; e dopo che il fatto è stato affidato alla scrittura, ogni nuova copia di esso è oggetto nuovo, la cui connessione col precedente viene conosciuta soltanto con l'esperienza e con l'osservazione. » Ma quando ci stacchiamo dalla evidenza della impressione iniziale (dei testimoni oculari), non perdiamo con ciò stesso ogni evidenza e certezza? Nonostante questa difficoltà, Hume pensa di poter salvare la storiografia come scienza di materie di fatto. Certo, egli ammette, prima di giungere a noi il fatto storico passa attraverso molte narrazioni e redazioni, tuttavia una caratteristica di questi molteplici passaggi è che sono tutti uguali, sicché l'evidenza si trasferisce, intatta, dall'uno all'altro: « Il fatto storico iniziale viene trasferito da una prima narrazione in un'altra che dipende da quella e dalla seconda passa quindi in una terza narrazione e così di seguito fino alla narrazione che sta ora davanti a noi nel volume che abbiamo tra le mani. Chi conosce una di tali narrazioni le conosce tutte; infatti in questa serie di passaggi, un anello è uguale all'altro; fatto uno di tali passaggi, non c'è più da aver scrupolo nel compiere gli altri. Solo questa circostanza conserva l'evidenza della storia ed è in grado di conservare la memoria dell'età presente fino alla posterità più remota.» Il valore conoscitivo del sapere storico viene esaltato da Hume non solo perché è dilettevole e rende colti, ma soprattutto perché è un preambolo alle altre forme del sapere: « Se consideriamo la brevità della vita umana ed i limiti della nostra conoscenza, anche riguardo a ciò che avviene nel tempo stesso della nostra vita, ci rendiamo facilmente conto che saremmo destinati a rimanere sempre bambini, nella conoscenza, se non fosse per la invenzione della storia, che estende la nostra esperienza a tutte le età passate, fino alle nazioni più remote, consentendoci di trarre da esse profitto per il progresso della nostra cultura, come se esse potessero essere al presente oggetto diretto della nostra osservazione. » VII
· LA FILOSOFIA DEL SENSO COMUNE. T. REID
Dopo Hume l'attività critico-speculativa subisce in Inghilterra un evidente declino, al quale fanno eccezione solamente i moralisti e soprattutto i geniali fondatori dell'economia politica classica (come vedremo nel capitolo vm della prossima sezione). Ma, per quanto concerne specificamente il problema filosoficognoseologico, la meravigliosa fecondità ed originalità del Seicento e della prima metà del Settecento è terminata. Per circa un secolo nel pensiero inglese si ha una vera e propria pausa, che corrisponde al sorgere, nell'Europa continentale, di nuovi problemi ed all'affermarsi, specie in Germania, di correnti filosofiche nettamente antiempiristiche. Questo decadimento è bene impersonato dalla reazione allo scetticismo humiano di Thomas Reid (I 7 I o-96), che portò ad un vero e proprio imbarbarìIZ4
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mento dell'empirismo inglese. Dapprima predicatore e poi professore a Glasgow, Reid è il fondatore della scuola scozzese del senso comune, e ci ha lasciato varie opere: An inquiry into the human mind on the principles of common sense (Ricerca sulla mente umana condotta secondo i principi del senso comune, 1 764); Essqys on the intellectual powers of man (Saggio sui poteri intellettuali dell'uomo, 178 5); Essqys on the active powers of mind(Saggio sui poteri attivi della mente, 1788). Nell'Inquiry, egli narra di essere stato seguace di Locke e di Berkeley, e di essersi reso conto delle conseguenze scettiche delle loro dottrine leggendo Hume, sicché fu questo studio a convincerlo della necessità di combattere lo scetticismo, e cercò di farlo ponendosi sullo stesso terreno sperimentale del grande filosofo di Edimburgo. Un esame obiettivo delle esperienze umane riuscirebbe a porre in luce- secondo Reid - che alla base di tutta la nostra vita si trova una fede saldissima in certi presupposti (i principi del senso comune) che risultano più antichi e più autorevoli di qualunque critica filosofica. I più importanti tra essi sono: l'esistenza di un mondo materiale esterno, l'esistenza di un nesso causale, l'esistenza dell'anima e la validità originaria dei giudizi morali basilari. Poiché la filosofia humiana aveva messo in luce la precarietà di questi principi, Reid pensa che per sbaragliare lo scetticismo basti far vedere come la fede nel senso comune risulti effettivamente insita in ogni soggetto pensante e come agisca in ognuno di essi con una irresistibile forza costrittiva, rendendo vana, nella pratica, l'analisi critica humiana. Ma, come abbiamo visto, Hume non negava affatto che questi ed altri principi fossero presenti nella natura umana; negava solo che essi fossero fondabili razionalmente. Reid non fa che prendere una parte del discorso di Hume, là dove il filosofo afferma che la natura è più forte della ragione critica, e farla valere, in modo assolutamente ingenuo ed inconsistente, contro l'altra. È assente una ricostruzione critica del potere della ragione. In sostanza, egli si limita a troncare barbaramente l'analisi filosofica, e si fa forte di quella che Hume aveva chiamato « filosofia facile », senza nemmeno addentrarsi nei problemi di fondo della humiana «filosofia difficile». Toccherà a Kant riprendere, con ben maggiore profondità e serietà, il problema gnoseologico, e dare una nuova strutturazione al criticismo.
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CAPITOLO SESTO
Logica e fondamenti della matematica DI CORRADO MANGIONE
I · CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
Il discorso sulla logica formale nel XVIII secolo assume un aspetto del tutto particolare: esso può essere sostanzialmente ridotto alla delineazione degli sviluppi che in tale periodo vengono maturando in questo ambito in rapporto a quel disegno generale e ambizioso che della teoria logica aveva tracciato Leibniz. Assunto questo pensatore come punto naturale di riferimento, si osserva infatti che i vari autori significativi di questo secolo si rifanno praticamente tutti - pur se con momento diverso e su basi metafisiche talora molto distanti - al pensiero di Leibniz per guanto riguarda una loro eventuale e personale interpretazione o elaborazione della logica. Come si vedrà, è possibile individuare in questo secolo lo stabilirsi di due distinti filoni di ricerca, che possiamo grosso modo ritenere rappresentati rispettivamente da Johann Heinrich Lambert e Christian Wolff, che· sviluppano le idee logiche leibniziane in modo essenzialmente diverso. Quegli studiosi che si possono annoverare nel primo filone infatti, pur se non tutti consapevoli appieno della portata e della natura delle vedute logiche leibniziane, ne elaborarono per lo meno l'aspetto algoritmico, tentando la costituzione di un calcolo logico e accentuando così l'aspetto formale (pur se in generale in senso più propriamente e limitatamente tecnico) di quelle vedute. Gli studiosi del secondo filone invece, e segnatamente il capostipite di esso Wolff, pur nell'ambito di un'apparente continuità con la filosofia leibniziana, non riescono a cogliere in alcun modo la grande apertura delle idee logiche del Leibniz e riducono sostanzialmente tutta la problematica logica di quest'ultimo a una illustrazione di tipo precettistico e propedeutico della sillogistica. Sarà proprio questo secondo filone che permeerà di sé l'illuminismo tedesco e, riallacciandosi (o comunque riecheggiando di fondo) alla squalificante posizione cartesiana nei riguardi della logica formale, costituirà una linea ideale che troverà il suo compimento in Kant. Nel fare questo discorso sulla logica del Settecento, che si svolgerà in massima parte con riferimento diretto all'ambiente svizzero-tedesco, dovremo concedere un posto a se stante a un logico italiano, il padre gesuita Giovanni Gerolamo Saccheri,
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in virtù soprattutto della sua opera in certo senso conclusiva della logica classica. Anche il problema dei fondamenti della matematica assume in questo secolo un aspetto particolare in quanto, come il lettore può constatare dal capitolo vn di questa sezione, non si può parlare per il Settecento di un'esigenza fondamentalista nelle indagini matematiche; quella che prevale in questo periodo è soprattutto un'esigenza di sistematicità, in generale però aliena da quell'abito di rigore e di interesse per gli elementi ultimi delle costruzioni matematiche che siamo soliti assumere fra le caratteristiche peculiari di una ricerca sui fondamenti in senso moderno. Una notevole importante eccezione a questo «corso» è tuttavia costituita dalla geometria, che ormai per tradizione veniva dibattendo un problema squisitamente fondamentalista, e cioè quello che in termini moderni possiamo chiamare dell'indipendenza del quinto postulato degli Elementi di Euclide. Il Settecento vedrà lo sforzo decisivo per la risoluzione dell'annoso problema, solu. zione che, ottenuta di fatto nei primi decenni del secolo successivo, annovererà nel periodo qui considerato i suoi veri e propri precursori, e avrà enormi ripercussioni sulla matematica, sulla logica e sulla stessa filosofia. Nel prendere in considerazione i primi- e più interessanti- tentativi settecenteschi di dimostrare il quinto postulato euclideo, ritroveremo come protagonisti autori che già avevamo incontrato nella delineazione dello sviluppo della logica. Questa coincidenza va tuttavia ritenuta puramente casuale: non si può parlare infatti in questo secolo di una mutua influenza diretta fra logica e matematica, almeno non nel senso di una influenza attiva di una sull'altra. In generale prevale un atteggiamento matematizzante di tipo cartesiano, che risolve appunto la logica nella matematica e solo sporadicamente, in particolare con Lambert, si riconosce una dipendenza inversa di tipo leibniziano o comunque un'autonomia della ricerca logica. Queste considerazioni offrono l'estro per una «giustificazione» del titolo di questo capitolo: l'aver avvicinato temi che poi in effetti descriviamo così distanti ed estranei fra loro potrebbe sembrare del tutto gratuito. Il fatto è che per quanto « non comunicanti » il termine di paragone per la logica resta pur sempre, anche in questo periodo, diremmo anzi soprattutto in questo periodo (anche se in senso «negativo») la matematica; va inoltre osservato che i germi di una convergenza che si realizzerà compiutamente solo verso la fine dell'Ottocento restano ancora presenti in questo secolo come diretta, riconosciuta o no, eredità della tematica leibniziana. Se pure quindi non siamo di fronte a una situazione specifica dei rapporti fra logica e fondamenti della matematica, è opportuno, dato il carattere generale di quest'opera, confrontare fin da ora i due termini di un binomio che già nella prima metà dell'Ottocento (grazie soprattutto alla scoperta delle geometrie non euclidee e alla rinascita della logica matematica) comincerà ad assumere una più precisa e significativa fisionomia che, come poco sopra accennavamo, sarà (ed è tuttora) di piena e totale convergenza a partire dalla fine del secolo scorso.
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Logica e fondamenti della matematica
Il presente capitolo si articola quindi come segue. Dedicato un paragrafo all'opera logica del Saccheri, passeremo a prendere in considerazione le vedute logiche di Christian Wolff e dei « wolfiani », per poi esaminare il filone più propriamente « leibniziano » della logica settecentesca. Seguirà un paragrafo dedicato alle vedute ·kantiane in tema di logica formale, che costituirà in certo senso la conclusione della parte del capitolo destinata alla logica. Successivamente, in tre paragrafi, verranno presentati una problematica generale sulle geometrie non euclidee, una breve esposizione della struttura e del contenuto degli Elementi di Euclide, e i tentativi di dimostrazione del quinto postulato fino al Settecento; il capitolo si chiuderà con un paragrafo dedicato all'esposizione dell'evoluzione di questo problema nel xvm secolo, che ci condurrà praticamente alle soglie della scoperta delle geometrie non euclidee. II · GEROLAMO SACCHERI
Giovanni Gerolamo Saccheri nacque a S. Remo il 4 settembre I 667; compì a Genova i primi studi di filosofia ma mostrò ben presto una particolare e precoce predisposizione per la matematica. Nel I685 entrò nella Compagnia di Gesù, iniziando gli studi teologici che proseguirà accanto a quelli scientifici dopo il suo trasferimento a Milano fra il I69o e il I691. A Milano tiene corsi digrammatica al Collegio dei gesuiti di Brera e viene in contatto con Tommaso Ceva che lo incoraggia a proseguire nei suoi studi di matematica e geometria; nel' I 69 3 pubblica una Quaestio geometrica con la soluzione di alcuni problemi proposti qualche anno prima da un nobile siciliano (tale Ruggero di Ventimiglia). Nel I694 viene inviato dai superiori a Torino quale insegnante di filosofia e teologia; si trattiene a Torino sino al I697, anno in cui pubblica la Logica demonstrativa, di cui ci occuperemo brevemente in questo paragrafo, quindi viene inviato a Pavia dove nel I699 viene designato alla cattedra di matematica di quella università. Nel I7o8 pubblica la Neostatica e nel I733, anno della sua morte, il celebre Euclides ab omni naevo vindicatus, di cui ci occuperemo invece nel IX paragrafo. La Logica demonstrativa (Logica dimostrativa) è divisa in quattro parti, secondo la ripartizione dei quattro principali scritti logici di Aristotele: Analytica prior, Analytica posterior, Topica seu dialectica, Sophistica. Nella prima parte il Saccheri dà quella che può chiamarsi una sistemazione assiomatica (sul modello euclideo) della logica formale scolastica (leggi: sillogistica). In questa parte, al capitolo XI, viene discussa, in riferimento alle consequentiae leges del capitolo IX, « alia nobilior via » secondo la quale possono venir ottenute numerose proposizioni già dimostrate nel capitolo IX. Si tratta sostanzialmente di quel tipo di ragionamento (già usato da Euclide e Cardano) in base al quale, assumendo che ciò che si vuol dimostrare non sia vero, si ottiene la proposizione stessa che si vuole provare, sicché quest'ultima viene ad essere ottenuta come una conseguenza 128
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della sua propria negazione; questo tipo di ragionamento va quindi tenuto distinto dal processo di riduzione all'assurdo nel quale, assunta la negazione della proposizione da dimostrare, si giunge a contraddire una diversa proposizione già dimostrata o comunque postulata. Il metodo « saccheriano » avrà come vedremo una funzione fondamentale nell' Euclides vindicatus (e fornirà così un primo esempio dell'impiego rigoroso di una tecnica dimostrativa che troverà nel nostro secolo ampia applicazione nel campo delle ricerche relative alla reciproca indipendenza o compatibilità delle proposizioni poste alla base di un sistema deduttivo); questo impiego farà intendere l'elaborazione del metodo puramente in funzione dell'applicazione geometrica e concorrerà in modo determinante alla quasi totale indifferenza riservata all'opera del Saccheri come logico. La seconda parte della Logica demonstrativa presenta tra l'altro, nel capitolo v, l'enunciazione di una netta distinzione tra « definitiones quid nominis » e «definitiones quid rei »: mentre le prime tendono a chiarire il significato di un termine, le seconde affermano anche l'esistenza della cosa definita, in altri termini agiscono come. veri e propri postulati di esistenza. Le definizioni reali non possono quindi figurare tra le proposizioni fondamentali, indimostrate, di una scienza deduttiva, non sono cioè, per dirla col Saccheri, « matres » bensì « filiae plurium demonstrationum ». In proposito Saccheri distingue anche fra definizione « complexa », che cioè attribuisce alla cosa definita più di una proprietà (aumentando quindi l'eventuale pericolo di contraddizioni a causa della possibile incompatibilità di alcune di queste proprietà) e definizione « incomplexa » che invece, attribuendo un'unica nota alla cosa definita, riduce al minimo questo pericolo, sicché· risulta possibile ammettere l'esistenza della cosa definita (ossia riduce al minimo il « rischio » di una eventuale assunzione di una tale definizione come postulato). L'originalità della trattazione del Saccheri è qui testimoniata oltre che dal metodo rigoroso con cui imposta la questione (aristotelica) dei rapporti fra i due tipi di definizione, anche e soprattutto dall'esigenza da lui avvertita di chiarire le connessioni fra definizione e postulazione nell'ambito di una scienza deduttiva. La terza parte della Logica è divisa in due sezioni, ove vengono discussi la natura e gli scopi della dialettica, assieme alle sue principali « facultates » e vengono esaminate entrambe le specie di argomentazione dialettica. La quarta parte infine, la Sophistica, strettamente collegata alla seconda, prende in esame le fallacie argomentative più comuni e altre che si possono mettere in luce grazie appunto alla rigorosa distinzione fra i due tipi di definizione sopra visti e al chiarimento del rapporto fra definizioni e assiomi di una teoria. Com~ sopra si accennava, a una più puntuale e obbiettiva valutazione del Saccheri come logico ha paradossalmente nuociuto la fama da lui giustamente acquisita per le indagini sulla indipendenza del quinto postulato di Euclide,
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indagini che lo pongono fra i maggiori precursori della scoperta delle geometrie non euclidee. Lo stesso Vailati, che nel 1903 riportò alla luce una copia della ormai dimenticata Logica demonstrativa, non ne propose una lettura autonoma come opera di logica, ma la presentò piuttosto come una premessa (anche se di fondamentale importanza) per uno studio sulla genesi logica e metodologica dell' Euclides. Questo stato di cose veniva del resto denunciato circa quarant'anni fa dallo Scholz, il quale affermava: «Galeno è per noi il primo logico che pretese una rigorosa assiomatizzazione della logica e che ne pose così l'esigenza la quale fu poi soddisfatta per la prima e ultima volta, nei limiti del possibile, e quanto alla logica formale nella sua forma classica, da quella a tal proposito del tutto inestimabile e purtroppo quasi completamente dimenticata Logica demonstrativa di Gerolamo Saccheri, già famoso nella storia delle parallele e nella preistoria delle geometrie non euclidee. » Facendo eco, in certo senso, alle su citate parole dello Scholz, si sono di recente sollevate anche in Italia voci di studiosi che sollecitano a una lettura diretta dell'opera logica del Saccheri e nel contempo avanzano l'esigenza che vengano chiariti i rapporti del Saccheri « logico » con i suoi contemporanei (in particolare con Leibniz) in parallelo con i numerosi studi che hanno puntualizzato i rapporti e l'influenza che il Saccheri « geometra » ebbe con e su contemporanei e successori. III · CHRISTIAN WOLFF E
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« WOLFIANI »
Come si è detto nella premessa, a proposito della logica l'eredità leibniziana viene assunta nel XVIII secolo secondo due direttrici, una delle quali fa capo a Christian Wolff, l'altra, che può considerarsi iniziata sulle orme di Gottfried Ploucquet, trova in Johann Heinrich Lambert il suo maggior esponente. La direttrice wolfiana che esamineremo brevemente in questo paragrafo, pur inquadrandosi in un'apparente linea di continuità col pensiero leibniziano (si parla addirittura, come noto, di filosofia leibnizio-wolfiana) ne smussa in effetti totalmente la dimensione logico-formale riducendo la logica stessa a un'affrettata trattazione della sillogistica in senso puramente didattico e metodo logico; questo filone avrà la preminenza per tutto l'illuminismo tedesco che « eccettuato il matematico Lambert lasciò cadere in ombra, sulle orme del W olff, la tematica leibniziana sull'arte caratteristica e combinatoria» (Barone). D'altra parte «l'idea della mathesis universalis, più intimamente connessa nel Leibniz con la sua speculazione filosofica, slitta negli epigoni settecenteschi su un piano esclusivamente metafisica antologico» (Barone); e l'altro filone di eredità leibniziana si riallaccia in generale (eccezion fatta forse per l'originale figura del Lambert) in modo diretto a Leibniz appunto sul piano della characteristica, meno immediatamente fusibile con l'antologia, tentando di sistemare almeno a livello simbolico e algoritmico la sillogistica tradizionale.
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Logica e fondamenti della matematica
Mentre gli effetti e le influenze della posizione logica del W olff si faranno sentire immediatamente, determinando una linea ideale che attraverso i suoi discepoli e continuatori giunge direttamente fino a Kant, l'influenza degli esponenti della seconda direttrice sarà in effetti praticamente nulla: la rinascita della logica formale nell'Ottocento avverrà prima in Inghilterra, in un clima culturale cioè che poco o nulla risente di questi avvenimenti continentali, e solo successivamente in Germania, ricollegandosi del resto direttamente a Leibniz. Solo verso la fine del secolo scorso gli storici della logica potranno riconoscere in alcuni autori settecenteschi di questo secondo filone, e segnatamente nel Lambert, l'anticipazione di temi o problemi che verranno fatti propri dalla moderna logica matematica. Christian Wolff nacque a Breslavia nel 1679, iniziò la sua formazione indirizzandosi verso studi teologici, che abbandonò però ben presto per dedicarsi alla matematica e alla filosofia. Studiò a Jena fino al 1703 e, addottoratosi a Lipsia, per interessamento di Leibniz venne chiamato nel 1706 a una cattedra di matematica ad Halle. Le sue numerose pubblicazioni iniziarono praticamente nel 1710 e l'invidia di alcuni suoi colleghi- si trattava di pietisti che indicarono nel razionalismo del Wolff un pericolo per la religione - per il successo che incontrarono, lo fece allontanare dall'incarico di docente nel 172.3, ad opera del re Federico Guglielmo 1. Ricordiamo di questo periodo, nel quale il Wolff scrive in tedesco quale « precettore di tutto il genere umano », i Verniinfftige Gedanken von den Kriiften des menschlichen Verstandes und ihrem richtigen Gebrauche in Erkenntnis der Wahrheit (Riflessioni razionali sulle forze dell'intelletto umano e sul loro retto impiego nella conoscenza della verità, 171 z.). Si trasferì quindi a Marburgo, ove attese alla stesura delle più impegnative (almeno da un punto di vista logico) opere latine, delle quali ci è sufficiente qui ricordare la Philosophia rationalis sive logica, methodo scientifica pertractata et ad usum scientiarum atque vitae aptata (Filosofia razionale o logica, trattata con metodo scientifico e adattata per uso delle scienze e della vita, qz.S). Salito al trono Federico n, Wolff ritornò ad Halle nella sua cattedra nel 1740 e continuò la sua attività di docente fino alla morte, avvenuta nel 1754. « L'illuminismo tedesco, » afferma l'Ab bagnano nel suo trattato di storia della filosofia, «deve la sua originalità rispetto a quello inglese e francese, più che a nuovi problemi o temi speculativi, alla forma logica in cui temi e problemi sono presentati e fatti valere. » Da ciò si potrebbe essere indotti a pensare a un genuino interesse logico dell'illuminismo tedesco, che lo porrebbe in modo naturale come diretto erede delle idee leibniziane in tema di logica. In effetti il Wolff, ossia il « padre » di questo illuminismo, pur conoscendo direttamente la tematica logica leibniziana ed essendo in contatto epistolare con Leibniz stesso, non riesce a comprendere nella sua autonoma portata la geniale concezione leibniziana della logica come scienza generale delle forme, col risultato che, proprio e paradossalmente in nome di Leibniz, fa segnare una stasi e determina anzi un
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netto regresso nell'elaborazione della logica formale, riducendola a mera precettistica metodologica. L'interesse di Wolff per la logica, secondo quanto lui stesso ci racconta, è piuttosto tardo. Sulla base di una conoscenza limitata alla logica scolastica, egli era giunto a una totale svalutazione della sillogistica e come ars demonstrandi e come ars inveniendi ed era stato confermato in questa sua conclusione dalla lettura dell'opera di von Tschirnhaus Medicina mentis sive artis /nveniendi praecepta generalia (Medicina della mente ossia precetti generali dell'arte della scoperta, Amsterdam 1678 e Lipsia 1695) accettandone in loto lo spirito cartesiano. Egli vede così nell'algebra e nella geometria le vere artes inveniendi et demonstrandi e si dà quindi allo studio della matematica; non ritiene infatti che possa applicarsi al di fuori di essa lo stesso metodo di sicurezza argomentativa. Il carteggio con Leibniz, iniziato praticamente nel 1704 e protratto fino alla morte del suo corrispondente (1716) lo portò a rivedere questa posizione nel senso di una rivalutazione del sillogismo e più in generale della forza probante dell'argomentazione formale. Ma in W olff il suggerimento leibniziano non dà alcun frutto al di là di questa pedissequa rivalutazione; esso non viene cioè assunto come espressione della affermata possibilità, o meglio, della necessità di una autonoma scienza generale delle forme, ma nel senso ristretto di una « raccomandazione » di tipo metodologico il cui fine sia quello di «procurare uno strumento d'argomentazione esteriormente perfetto, per la cui generica utilità vengono semplicisticamente appianate o trascurate le differenze effettive dei singoli campi di ricerca» (Barone). In particolare, i suggerimenti di Leibniz circa l'utilità dei sillogismi vengono frettolosamente interpretati da Wolff come un'affermazione della completezza della logica volgare, nella forma soggetto-predicato, come atta o comunque sufficiente a fornire in ogni caso adeguati criteri di verità; senza darsi la pena di osservare che contro questa semplicistica interpretazione del discorso leibniziano si ponevano, per lo meno, quei tipi di inferenze non sillogistiche che già lo Jungius, e sulle sue orme il Leibniz stesso, avevano considerato. In ~Itri termini, Wolff non riesce a cogliere tutta la portata generale dell'arte caratteristico-combinatoria leibniziana, di cui il sillogismo non è che un esempio particolarissimo e specifico. Ne risulta che nell'elaborazione wolfiana le idee leibniziane sulla logica vengono ridotte a una mera trattazione verbalistica, mentre ciò che della logica viene effettivamente presentato non è che l'aspetto e il contenuto manualistico, se possibile ancora più ristretto del solito, della sillogistica tradizionale: le ampie vedute leibniziane vengono così compresse e costrette nell'ambito e nei risultati della più vieta logica scolastica. E si noti che Leibniz aveva esplicitamente scritto a Wolff, nel 1710: «Non puoi avere dubbi che ci sia una scienza superiore alla matematica e non meno certa. La parte della logica che tratta dei modi e delle figure ne è un modesto esempio. Certamente nella stessa algebra e nei numeri
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l'animo astrae dalle immagini; ma la stessa algebra mostra che si possono trattare le forme e le similitudini non meno accuratamente delle quantità e delle equazioni, dal momento che, ridotta a formule, essa appare subordinata alla combinatoria. » Gli stimoli e i suggerimenti leibniziani non trovano quindi in Wolff terreno fertile; si aggiunga l'interesse didattico per la divulgazione particolarmente accentuato in W olff nei Vernunfftige Gedanken e si comprenderà come sia proprio nel più diretto discendente del Leibniz che la problematica logica di quest'ultimo perde completamente quell'autonomia e quella larghezza di vedute che le sono proprie. Il momento tuttavia più importante e caratteristico in questa elaborazione (possiamo ben dire negativa) che degli spunti logici leibniziani conduce Wolff, resta la suddivisione da lui operata fra logica naturale (che è l'insieme delle « regole che Dio ha prescritto all'intelletto e la disposizione naturale che abbiamo a seguirle »)e logica artificiale(« che insegna come si può ridurre ad abito la disposizione che ci ha dato la natura»); è infatti proprio su questo tema, centrale nell'esposizione wolfiana, che vanno ritrovate da una parte l'insanabile frattura con le vedute leibniziane e dall'altra le qualificazioni specifiche della logica di Wolff. Per il primo aspetto infatti basta pensare che «l'ardita concezione del calcolo delle quantità e delle qualità come momenti di un'unica teoria dei puri rapporti formali- concezione come sappiamo sostenuta da Leibniz-viene abban- , donata o, meglio, ignorata per l'assai più sbrigativa riduzione delle "forme" alle leggi naturali del pensiero» (Barone); per quanto invece riguarda la caratterizzazione della logica wolfiana, non avendo la logica artificiale altro compito se non quello di elaborare le forme e le leggi proprie del pensiero, dovendosi quindi essa occupare dell'intelletto in tutte le sue attività, ne viene che la teoria logica del Wolff non si applica allo studio di sistemi deduttivi ma è composta, e in modo prevalente, da considerazioni di carattere metafisica e gnoseologico, del tutto basate sullo sfondo antologico su cui sono proiettate queste forme naturali del pensiero. Anche se la parte «tecnica» verrà ampliata dal Wolff nella più ambiziosa Logica latina, e anche se in questa stessa opera e in altre posteriori Wolff stesso sembra in qualche modo avvertire le strettoie nelle quali egli ha costretto le vedute leibniziane, tuttavia è proprio questo aspetto angusto che verrà accettato, propagandato e istituzionalizzato dai seguaci e dai successori di W olff. E di pari passo con la fortuna delle sue opere e del suo pensiero su tutto l'arco dell'illuminismo tedesco, si imporranno in questo periodo anche le sue vedute logiche che, salvo rare eccezioni che considereremo in un prossimo paragrafo, verranno accettate in blocco dai vari. esponenti di questo illuminismo. In effetti è proprio a Wolff, e in particolare a quella sua suddivisione della logica in naturale e artificiale, che dobbiamo far risalire la vera origine del richiamo alla « naturalità » della prima figura sillogistica e alla compiutezza e sterilità della logica formale
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che verrà avanzato da Kant e lo indurrà a esprimere su quest'ultima un celebre, lapidario giudizio negativo. È ben noto che dopo Wolff i problemi filosofici vennero trattati in Germania, anche da parte di quegli autori che non ne davano soluzioni conformi a quelle da lui prospettate, sempre sulla scorta del metodo che egli aveva posto in essere. Ciò significa, dal nostro punto di vista, che veniva così istituzionalizzata la concezione logico-metodologica di Wolff, e, fatto caratteristico, questo non si verificava soltanto per tutta una schiera di manualisti che in modo più o meno felice si accinsero alla divulgazione del suo pensiero, ma anche, se pur con rare eccezioni, per pensatori che si opposero alle conclusioni metafisiche di Wolff o comunque ne elaborarono in modo originale il sistema. Converrà, per finire, ricordare qui qualche nome dei rappresentanti delle due « correnti », per poi considerare nel paragrafo successivo le « eccezioni » cui sopra si alludeva e quindi, in effetti, il filone più propriamente « leibniziano » della logica settecentesca. Lo spirito didattico della produzione wolfiana dà origine a un vero e proprio wolfianesimo nella cultura universitaria tedesca di questo periodo. Il primo a comporre un testo completo di filosofia wolfiana fu Ludwig Philipp Thtimmig (I697-I7z8) che nel I725-z6 pubblica le Institutiones philosophiae wolftanae in usus academicos adornatae (Istituzioni di filosofia wolftana adattate ad uso accademico), ove pone in particolare rilievo l'uso precettistico della logica e sottolinea in modo speciale la fusione fra logica e gnoseologia; sulla stessa linea si muovono sostanzialmente le Institutiones philosophiae rationalis methodo Wolfti conscriptae (Istituzioni di filosofia razionale elaborate secondo il metodo di Wolff, I735),. di Friedrich Christian Baumeister (I 708-8 5). Sempre più legati alla tematica wolfiana della distinzione fra logica naturale e artificiale appaiono anche J ohann Peter Reusch (morto nel I754) col suo Systema logicum antiquiorum atque recentiorum item propria praecepta exibens (Sistema logico degli antichi e dei moderni che esibisce anche precetti peculiari, I734) e Johann Heinrich Winkler (I703-70) che pubblica a Lipsia nel I735 delle Institutiones philosophiae universae usibus academicos accomodatae (Istituzioni di filosofia universale elaborate ad uso accademico), ove fra l'altro cerca eventuali aperture della logica in senso non formale. Un'analoga accettazione delle vedute logiche di Wolff si ha peraltro, come sopra si accennava, anche in pe,nsatori più originali di questo periodo, quali ad esempio il professore di logica e metafisica Martin Knutzen (I7I 3-5 I) che pur ripete pedissequamente le idee wolfiane nei suoi Elementa philosophiae rationalis seu logica cum generalis, tum specialoris mathematica methodo in usum auditorum suorum demonstrata (Elementi di filosofia razionale o logica sia generale sia particolare, dimostrati con metodo matematico ad uso degli uditori, I747); o il creatore dell'estetica tedesca Alexander Gottlieb Baumgarten (I7I4-6z), che dedica alla ritenuta definitiva logica del Wolff una Acroasis logica in Christian Wolff (Lezione di logica secondo Christian Wolff, I 76 I) ; o ancora il discepolo di questi Georg Friedrich I34 www.scribd.com/Baruhk
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Meier (1718-77) che pubblicò ad Halle nel 1752 un Auszug der Vernunftlehre (Compendio della teoria della ragione). Analogamente va ricordato il professore di ginnasio amburghese Hermann Samuel Reimarus (1694-1768) che pubblicò nel 17 56 quello che può essere considerato il più popolare testo di logica della seconda metà del Settecento, dal titolo Vernunftlehre (Teoria della ragione) e che, per riportare uno dei soliti giudizi lapidari dello Scholz, « con le sue cinque edizioni rappresenta un interessante esempio di ciò che il pubblico filosofico già nella seconda metà del xvm secolo - 1 5o anni dopo la prima edizione della Logica hamburgensis, nel frattempo del tutto dimenticata - non richiedeva più da una buona logica ». 1 Un ultimo accenno va fatto anche agli avversari del Wolff in campo metafisica che tuttavia non si differenziano da lui per quanto riguarda la concezione della logica. Ci limiteremo a ricordare la Via ad veritatem commoda auditoribus methodo demonstrata (Via per la verità dimostrata agli uditori con metodo facile) di Joacchim Georg Darjes (1714-91) pubblicata nel 175 5 e l'opera del più notevole fra gli oppositori del Wolff, Christian August Crusius (1715-75) ossia il Weg zur Gewissheit und Zuverlassigkeit der menschlichen Erkenntnis (Via per la certezza e la sicurezza della conoscenza umana, 1747). IV · IL FILONE
«
LEIBNIZIANO
»
Si è già detto che la problematica leibniziana connessa con la mathesis universalis tende a spostarsi negli autori settecenteschi su un piano antologico, mentre resta accessibile, a coloro che delle idee di Leibniz avevano compreso almeno la portata formale, una applicazione nel senso della characteristica, nel senso cioè di escogitare sistemazioni algoritmiche efficienti per la sillogistica, per sviluppare una elaborazione del calcolo logico. Ad esempli~care tuttavia il capovolgimento della prospettiva leibniziana nel senso di un adeguamento a una visione che possiamo dire più specificamente « cartesiana », con la logica risolta nella matematica, si può citare l'atteggiamento dei fratelli Bernoulli i quali, posto il parallelismo fra algebra e logica, conclu.dono che« c'è più ingegno e giudizio nella riduzione della più semplice equazione algebrica di qullnto non ce ne sia nei più difficili raziocinii [sillogismi] del resto ovvi nell'uso comune della vita »; e rifacendosi direttamente a Malebranche (ossia, in definitiva, a Cartesio) affermano inoltre esplicitamente che «l'algebra è la vera logica utile per scoprire la verità e per dare alla mente tutta l'estensione di cui questa è capace ». Tralasciando di ricordare qui tentativi che muovono verso quella intel)?retazione antologizzante del pensiero leibniziano e che tendono in ultima analisi alla costituzione di una lingua universale con validità antologica, è per noi più I
Alla Logica hamburgensis. di Jùngius si è fatto cenno nel capitolo
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IX
della sezione
IV.
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interessante accennare a quello che può considerarsi l'unico tentativo di tratta-
~ione simbolica della logica nella prima metà del Settecento. Si tratta dello 5pecimen logicae universaliter demonstratae (Esempio di logica dimostrata universalmente) pubblicato nel 1740 da Johann Andreas von Segner (1704-79) dove l'autore, pur non conservando l'ampia visione della logica come scienza delle forme in generale, avanza tuttavia a livello della sillogistica un'esigenza genuinamente leibniziana di« assiomatica» e introduce un opportuno simbolismo per l'esposizione succinta e rigorosa della sillogistica tradizionale. I tentativi di ripresa della linea leibniziana si hanno nella seconda metà del secolo e si può dire prendano tutti spunto dalle opere di Gottfried Ploucquet (1716-9o), professore di logica e metafisica all'università di Tubinga dal 1750 al 1782. Il tardo interesse di Ploucquet per la logica matura su basi metafisiche sostanzialmente diverse da quelle di Leibniz; e delle due grandi intuizioni leibniziane- quella della mathesis universalis e quella della characteristica- il Ploucquet sviluppa solo la seconda, convinto com'è che la logica formale non possa costituire strumento di conoscenza del reale e che viceversa la simbologia logica vada rettamente intesa come strumento indispensabile per la comunicazione linguistica. Ciò comporta, come osserva il Barone, che « essendo eliminato da un lato lo sfondo antologico della mathesis universalis leibniziana, e mancando .dall'altro canto nel Ploucquet il senso vigoroso della pura costruzione formale che veniva al Leibniz dal suo continuato commercio con le matematiche, l'idea del calcolo logico si restringe nel pensatore settecentesco a una trattazione della deduzione sillogistica che abbia la chiarezza del procedimento geometrico e la facilità meccanica del calcolo numerico: si tratta cioè di elaborare uno strumento tecnico con una funzione squisitamente didattica » (il che permette di associare da questo punto di vista anche il Ploucquet a quella comune atmosfera di illuminismo wolfiano che abbiamo sopra illustrato). Questo compito viene svolto da Ploucquet nei due saggi Methodus tam demonstrandi dircele omnes syllogismorum species, quam vitia formae detegendi ope unius regulae (Metodo per dimostrare direttamente ogni specie di sillogismo e per scoprire gli errori di forma sulla base di un'unica regola) e Methodus calculandi in logicis (Metodo di calcolo in logica) entrambi del 1763. Tratti fondamentali che stanno alla base della costituzione del calcolo ploucquetiano sono il principio dell'identità di soggetto e predicato secondo cui « nel confronto di soggetto e predicato noi intendiamo la loro identità (giudizio affermativo) o la loro diversità (giudizio negativo)», principio strettamente collegato con l'interpretazione psicologica che Ploucquet dà dell'atto del giudizio, secondo la quale « il giudizio affermativo concepito dalla mente non è l'intellezione di due cose ma di una sola; e la proposizione affermativa altro non è che l'espressione di una medesima cosa mediante segni diversi ». Su questa base Ploucquet sviluppa un calcolo estensionale, originato dal fatto che la teoria ploucquetiana dell'identità esige che accanto alla considerazione
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della quantità del soggetto si consideri anche la quantità del predicato: la quantiftcazione del predicato (che verrà ripresa dai logici inglesi nella prima metà dell'Ottocento) fa così il suo ingresso nella storia della logica. Va notato che non si tratta di un'innovazione di portata particolarmente significativa (e che è del tutto superata e resa superflua dall'analisi logica moderna) ma che tuttavia comporta in modo naturale, anche se non necessariamente, un fattore molto importante, ossia appunto il porsi sul piano dell'estensione piuttosto che su quello della comprensione. Tale quantificazione consiste infatti semplicemente nel considerare accanto alla quantità del soggetto anche quella del predicato, sicché ad esempio una proposizione quale « tutti gli uomini sono mortali » va correttamente intesa « tutti gli uomini sono alcuni mortali » (considerando « alcuni » in senso « comprensivo», ossia non escludente l'universalità) ossia afferma sostanzialmente l'identità delle estensioni del soggetto quantificato e del predicato quantificato (o il fatto che tali estensioni si escludono mutuamente nel caso di proposizioni negative). Questa innovazione del Ploucquet comporta una semplificazione e una rigorizzazione nella teoria classica dell'opposizione e della conversione (ad esempio, viene a cadere la distinzione fra conversio simplex e conversio per accidens) e rende validi alcuni modi sillogistici non validi nella teoria tradizionale. Il calcolo ploucquetiano si svolge quindi con la convenzione di simboleggiare soggetto e predicato con le lettere iniziali rispettive, maiuscole o minuscole a. seconda che la rispettiva quantità sia universale o particolare, e giustapponendo semplicemente la lettera del predicato e quella del soggetto nel caso di proposizioni affermative, interponendo invece fra le due lettere il segno > nel caso di proposizioni negative. Ci si riduce così ad assumere un'unica regola di calcolo, la seguente: scritte le premesse in simboli come sopra visto, si cancella il comune termine medio e si rapportano i termini rimanenti con la stessa quantità con la quale compaiono nelle premesse. Ad esempio,
Mg Am Ag Pm
V> P V> m
ogni materia è grave ogni aria è materia ogni aria è grave ogni pietra è minerale nessun vegetale è pietra nessun vegetale è minerale
Il Barone, notato come da un punto di vista della logica formale moderna i risultati del Ploucquet non assumano alcun particolare rilievo, ritiene che il momento significativo dell'opera ploucquetiana vada eventualmente cercato in
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altra direzione e precisamente « negli spunti - più marginali che consapevolmente affermati - verso una connessione della logica con il problema della comunicazione linguistica e verso la costituzione di un "linguaggio " logico indipendente dalla struttura grammaticale della lingua quotidiana ». È così che « l'idea della characteristica nella versione ploucquetiana subisce certo un impoverimento rispetto alla concezione leibniziana della " scienza delle forme " ma conserva tuttavia nei motivi suddetti una notevole suggestione per l'elaborazione moderna di una tecnica deduttiva». Le idee logiche del Ploucquet non trovarono certo un ambiente propenso a un loro apprezzamento o comunque disposto a una loro serena discussione critica. Esse sollevarono anzi numerose polemiche, dirette soprattutto contro la teoria dell'identità sopra accennata, che assunsero non di rado toni accesi di rude acredine personale. A difesa della teoria del maestro si pose tra gli altri anche il suo discepolo G. J. Holland, che intervenne nella polemica con due scritti, entrambi del I 764, il primo dal titolo Schreiben an einen Freund (Lettera a un amico) e il secondo dal titolo Abhandlung uber die Mathematik, die allgemeine Zeichenkunst und die Verschiedenheit der Rechnungsarten (Trattato sulla matematica, l'arte generale dei segni e la diversità dei modi di calcolare). Nel primo egli difende l'originalità della teoria del maestro contro l'accusa di essere una semplice generalizzazione di un'analoga idea dalembertiana sulle equazioni matematiche. Nell'appendice al secondo invece l'Holland pubblica un raffronto critico fra il metodo di rappresentazione sillogistica ploucquetiano e un metodo geometrico che nello stesso anno era stato presentato da quello che può senza dubbio venire considerato il vero erede delle teorie logiche leibniziane nel '7oo, Johann Heinrich Lambert, del quale parleremo dopo aver esposto brevemente le caratteristiche fondamentali di un calcolo elaborato dallo stesso Holland e da questi comunicato al Lambert in una lettera del I 76 5. L'Holland, sotto l'indubbia influenza del maestro, istituisce a sua volta un calcolo estensionale fondato sulla quantificazione del predicato; il calcolo hollandiano risulta tuttavia più « completo » e approfondito di quello di Ploucquet e si sviluppa sostanzialmente come segue. Supponiamo che S rappresenti il soggetto, P il predicato, e che p e 1t siano variabili numeriche: allora la formula S lP = P l1t (che naturalmente vale anche per particolari valori numerici delle variabili) significa « una parte di S è una parte di P » o « alcuni S sono alcuni P » o infine « (almeno) un S è un P » ed è la formula generale di tutti i possibili· giudizi, in relazione ai valori che assumono le variabili numeriche. Se, nel termine S lP, si ha p = I, questo termine viene a significare « tutti gli S » e assume cioè il suo « massimo » logico; analoga considerazione può farsi per 1t e quindi per P 11t. Ne consegue che p e 1t non possono diventare minori di 1 né tanto meno annullarsi o diventare negativi. Qualora una delle due variabili (o entrambe) venga posta uguale all'infinito (co) il concetto corrispondente si considera ne-
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gativo in analogia con la relazione algebrica I f oo = o. Se ora f rappresenta un numero intero finito e maggiore di I, sono possibili le seguenti forme di giudizio: I) Sji = Pji 2) Sji = Plf 3) Sji = Pfoo 4) Slf= Pji 5) Slf= Plf 6) Slf = Pfoo 7)Sfoo=P/I 8) Sfoo = Plf 9) Sfoo = Pfoo
Tutti gli S sono tutti i P Tutti gli S sono alcuni P Tutti gli S sono non P Alcuni S sono tutti i P Alcuni S sono alcuni P Alcuni S sono non P Tutti i non S sono tutti i P Tutti i non S sono alcuni P Tutti i non S sono tutti i non P
che possono venir raggruppate, secondo Holland, in universali affermative (I, 2, 9), universali negative (3, 7, 8), particolari affermative (4, 5) e particolari negative (6). Rappresentati i giudizi col simbolismo precedente, diventa possibile calcolare il sillogismo (impiegando lettere diverse per i divisori quando non si è certi che i giudizi costituenti le premesse abbiano la stessa particolarità). Riportiamo due esempi dello stesso Holland:
H=Mfp E= Hfrr: E= Mfprr:
Tutti gli uomini sono mortali Tutti gli europei sono uomini Tutti gli europei sono mortali
(dove il passaggio dalle premesse alla conclusione nella colonna di sinistra è avvenuto ricavando H = Err: dalla seconda uguaglianza e sostituendo quindi nella prima).
P= Ofp P= Afoo ------· Ofp = Afoo
Tutte le piante sono organismi Tutte le piante sono non animali Alcuni organismi sono non animali
(dove il « calcolo » della colonna di sinistra è avvenuto semplicemente uguagliando i secondi membri delle due uguaglianze). Ci tratterremo ora un po' più a lungo sulla figura e sull'opera di Lambert, che come abbiamo più volte detto è senza dubbio il pensatore più originale, in tema di logica, della seconda metà del Settecento. Johann Heinrich Lambert
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(172.8-77) nacque a Mulhouse da umile famiglia protestante di ongtne francese (suo padre era un semplice sarto). Ottenuta con difficoltà l'autorizzazione a dedicarsi agli studi, dimostrò subito un'eccezionale disposizione per la matematica. Iniziò la sua carriera come istruttore privato, il che gli consentì di compiere lunghi viaggi in Germania, Olanda, Italia settentrionale. Nel 1759 divenne membro dell'accademia di Monaco di Baviera, poi della società delle scienze di Gottinga e infine- nel 1765 -membro stipendiato dell'accademia delle scienze di Berlino. Trasferitosi in questa città vi rimase fino alla morte. Si occupò, oltre che di logica, di matematica (è particolarmente ricordato per lo sviluppo in serie dell'equazione xn px = q e per la dimostrazione, da lui data nel 1761, dell'irrazionalità di 1t), di fisica, di astronomia e di filosofia. Un posto particolare merita inoltre nella « preistoria » delle geometrie non euclidee, come vedremo nel paragrafo IX. Si è visto come il Lambert fosse intervenuto nel 1764 nella polemica suscitata dalle teorie logiche ploucquetiane, appuntando in particolare la sua critica sulla rappresentazione dei sillogismi proposta dal Ploucquet- e che a suo parere era un mero espediente tachigrafico - cui egli opponeva una propria, più funzionale rappresentazione geometrica (che resterà uno dei pochi tentativi settecenteschi di rappresentazione geometrica del calcolo sillogistico, accanto ai celebri « cerchi » che Eulero aveva presentato nelle Lettere a una principessa tedesca del 176o-6z.). Il Lambert interverrà ancora nella polemica, anche relativamente alla teoria dell'identità di Ploucquet, instaurando un rapporto epistolare con lo Holland che resta uno dei documenti più preziosi come fonte di informazione delle riflessioni logiche di questi due autori in particolare, e dei pensatori cl'èlla loro epoca in generale. Ma l'interesse per la logica, in particolare per le vedute logiche di Leibniz, era già operante in Lambert attorno al 175 2.-5 3 periodo in cui, come egli stesso dichiara, fu portato a indagare « che cosa si celasse nella caratteristica leibniziana e nell'arte combinatoria»; le riflessioni di questo periodo lo lasciarono però insoddisfatto se, come egli stesso confesserà, scrisse «sull'argomento ciò che mi venne in mente, ma gli scritti non mi parvero maturi per essere conosciuti ». Sicché Lambert preferì esporre le proprie idee logiche in altre opere posterior! e ben note, anche se di contesto più generale, ad esempio il Neues Organon (Nuovo Organo) del 1764, la De universaliori ca/culi idea disquisitio, una cum adnexo specimine (Discussione dell'idea di un calcolo più universale con annesso esempio) del 1767 e la Anlage
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zur Architektonik oder Theorie des Einfachen und Ersten in der philosophischen und mathematischen Erkenntnis (Disposizione all'architettonica o teoria del semplice e del primo nella conoscenza filosofica e matematica) del 1771. Gli scritti «non maturi» del periodo '5 2.-5 3 verranno pubblicati postumi nel 1782. da J. Bernoulli nella raccolta]. H. Lamberts logische und philosophische Abhandlungen (Trattati logici e filosofici di]. H. Lambert) sotto il titolo complessivo
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di Sechs Versuche einer Zeichenkunst in der Vernunftlehre (Sei saggi di un'arte dei segni nella teoria della ragione). Se tuttavia si riguarda l'opera complessiva del Lambert dal punto di vista della logica formale moderna, è proprio in queste prime riflessioni che si trovano gli spunti più interessanti e le tracce di eventuali anticipazioni di alcuni temi che la logica da Boole in poi farà propri. Tanto il V enn quanto il Diirr hanno infatti messo in luce numerosi elementi significativi di anticipazione (ad esempio: discussione dei rapporti fra operazioni logiche e operazioni algebriche; enunciazione di leggi logiche; analogia di alcune formule lambertiane con formule del calcolo proposizionale, ecc.) contenuti in queste riflessioni giovanili di Lambert; le quali d'altra parte prefigurano già in modo sostanziale quelle che saranno le caratteristiche dei saggi più maturi, in particolare della Disquisitio del '67, tanto per quanto riguarda lo sviluppo tecnico del calcolo logico quanto per la precisa preminenza della trattazione intensionale su quella estensionale. Chiedendosi allora quali possano essere stati i motivi che hanno fatto considerare non maturi al Lambert i suoi risultati poi raccolti nei Sechs Versuche, il Barone ritiene « non arbitrario ... indicare la causa del giudizio negativo del Lambert sui propri tentativi giovanili nella mancanza di una generale concezione filosofica in cui egli sentisse di poter inserire il progetto di un calcolo formale e reale nello stesso tempo. Accettato il principio di un calcolo fondato su elementi semplici, si trattava di determinare la natura di questi. Alla mente del Lambert formatasi direttamente all'esperienza della ricerca scientifica non potevano certo apparire soddisfacenti le indicazioni leibniziane per una interpretazione platonicopitagorica di essi. Su questo punto Lambert sentiva l'esigenza di una soluzione personale: si doveva elaborare una metafisica e una teoria della conoscenza che rispettassero il procedimento rigoroso e sperimentale delle scienze. Soltanto in questa prospettiva poteva essere affrontata la questione degli " elementi semplici ". La prospettiva mancava ancora al tempo della composizione dei Versuche; non manca più quando Lambert pubblica la Disquisitio, che a differenza dei saggi giovanili contiene una specifica determinazione degli elementi semplici come "qualità". Nel quindicennio circa che intercorre tra le due opere, il Lambert aveva infatti elaborato le idee " filosofiche ~· che confluirono nel Neues Organon ». I Versuche non hanno uno sviluppo rigorosamente continuo, né d'altra parte sono composti di « saggi », di « tentativi », del tutto staccati e autonomi l'uno rispetto all'altro: per quanto riguarda l'aspetto più' strettamente logico si può trarne una linea sufficientemente organica di sviluppo. Il primo saggio presenta un'analisi dei concetti in termini di genere e differenza con un relativo calcolo (su cui ci soffermeremo brevemente più avanti) e un abbozzo di una teoria del calcolo sillogistico sulla base di una simbologia che verrà ripresa e ampliata nel quarto saggio (e che costituisce una precisa anticipazione del calcolo sillogistico della Disquisitio). Il secondo e il terzo saggio riguardano il calcolo
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delle relazioni, il quarto la presentazione della sillogistica già accennata nel primo; il quinto e il sesto saggio contengono infine ricerche sull'origine e le proprietà delle operazioni logiche. Ci soffermeremo brevemente sul calcolo dei concetti e sulla teoria del sillogismo (riferendoci per comodità, per quest'ultima, alla versione della Disquisitio). Va dapprima osservato che il mantenersi sul piano dell'intensione è per il Lambert funzionale in modo esplicito a una concezione assai ampia e ambiziosa della logica (concezione, per intenderei, di tipo leibniziano) in quanto solo in questo modo si riusciva a suo parere ad ottenere l'istituzione di un calcolo logico generale di cui il sillogismo non rappresentava che un « misero » esempio. Questa idea, già chiaramente espressa dal Lambert nei suoi saggi giovanili, verrà successivamente;; e ulteriormente approfondita nella Disquisitio, che si muove nel pieno spirito della characteristica e della mathesis universalis leibniziane pur fondandosi, come prima si è visto nella citazione del Barone, su basi metafisiche diverse. Lambert prende lo spunto da una rappresentazione simbolica dei concetti intesi definiti o «spiegati» in base al genere prossimo e alla differenza specifica. Ciò significa sostanzialmente che una tale definizione viene intesa come la scomposizione dell'insieme delle proprietà costituenti la comprensione (intensione, connotazione) di un concetto nella somma delle comprensioni rispettive del termine generico e del termine simbolizzante la differenza specifica. Se, con le notazioni dello stesso Lambert, si indica con y il genere e con a la differenza, il concetto a può intendersi definito dall'espressione
a= a (y +a)
=
ay + aa
(I)
Considerando che il genere e la differenza di un concetto sono a loro volta concetti e possono quindi essere sviluppati secondo la formula precedente, è possibile ottenere numerose leggi sul genere e la differenza quali ad esempio la seguente
che si ottiene immediatamente considerando che
a y = ayy +aya
e
+
e osservando quindi che, giusta la (I), a = ay a a. Questo mostra che il processo di « spiegazione » di un concetto non deve necessariamente fermarsi col dare il genere e la differenza relativi a quel concetto, ma che può essere proseguito per ogni passo n, dando così origine alla celebre « formula newtoniana » del Lambert a = a ( y""
+ nyn-1 a +
n(n- I) yn-2 a2 2.!
+
n(n- I)(n- z) yn-a aa 3!
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+ ...
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che permette di esprimere il concetto a mediante generi universalissimi. Questo procedimento di rappresentazione ammette un inverso, nel senso che come il genere di a è rappresentato da ay e il genere del genere di a da ay2 e così via, così una specie di cui a è il genere può essere rappresentata da ay-1 ecc.; e in generale, come ayn rappresenta un genere che comprende a, così una specie compresa in a può essere rappresentata da ay-n o a Jyn, con analoga rappresentazione per quanto riguarda le differenze. Indicata inoltre con a : b quella parte di a che è diversa da b, vale la relazione
a :b
+ b : a + ab + ab = a + b
dove ab rappresenta le proprietà comuni ad a e b. Su questa base il Lambert sviluppa un calcolo dei concetti che per quanto talora ingegnoso risulta spesso complicato e di scarso se non nullo valore applicativo; in questo calcolo non vengono presentati procedimenti generali di eliminazione e soluzione, ma soltanto delle formule per la soluzione di varie equazioni di tipo particolare. Inoltre, come mette in evidenza il Lewis, Lambert fa qui eccessivo affidamento sulle analogie fra operazioni aritmetiche e operazioni logiche, eseguendo quindi operazioni (e in particolare inversioni di operazioni) che in effetti non possono ricevere alcuna interpretazione logica. Per quanto riguarda il calcolo sillogistico della Disquisitio, notiamo intanto che in quest'opera Lambert ribadisce esplicitamente la natura intensionale del calcolo stesso che viene inoltre immesso nella più genuina tradizione leibniziana nella misura in cui se ne prevede una estensione a una teoria generale delle forme: « Se si troverà un metodo per trattare le qualità delle cose, o le verità, o le idee nello stesso modo con cui vediamo in algebra trattate le quantità, esso richiederà per la stessa somiglianza della trattazione il nome di calculus qualitatum, tleritatum ve/ idearum. » Viene cioè proposta, o auspicata, una caratteristica reale che va attuata con l'esigenza che« dò che è semplice nelle cose e nelle relazioni sia reso con segni semplici, primitivi e radicali » con lo stesso fine leibniziano che la composizione e scomposizione dei segni corrisponda ad analoghe operazioni sulle « cose ». Per quanto ora riguarda la costituzione simbolica e tecnica del calcolo, premesso che egli non considera « gli individui ma le proprietà, cioè il caso in cui un concetto è contenuto in un altro » e cioè che il suo calcolo è appunto intensionale e non estensionale, Lambert osserva che tale calcolo si fonda « sul fatto che soggetto e predicato sono moltiplicati con proprietà sino a che diventano identici », cosicché ad esempio l'universale affermativa sarà simbolizzata con A = nB, dove il fattore n indica le proprietà specifiche del soggetto non pertinenti al predicato. Analogamente, simboli quali mA = nB, A jp·= B Jq, mA Jp = = B Jq stanno rispettivamente per proposizioni particolari affermative, universali 143
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negative, particolari negative, sicché la forma generale della proposizione categorica è mA/p= nBfq (dove la « divisione » rende conto delle proposizioni negative e rappresenta forse la più seria difficoltà di tutta l'impostazione lambertiana, quale caso particolare del problema delle operazioni inverse). La forma generale del sillogismo diventa allora (Lambert usa sempre A per il termine maggiore, B per il medio e C per il minore) mAfp = nBfq 11-C/1t =vB/p 11-nC j1tq = mvA fpp
premessa maggiore premessa minore conclusione
dove la conclusione viene ottenuta ricavando il termine medio B da entrambe le premesse e quindi uguagliando le espressioni che così risultano (osservando naturalmente le classiche regole dei sillogismi circa la « forza » e la qualità della conclusione in dipendenza dalle analoghe proprietà delle premesse). 1 Ancora un cenno va fatto circa la ricerca degli elementi ultimi che dovrebbero servire da riferimento iniziale alla costruzione logica di Lambert; alla loro natura in quanto concetti elementari,« qualità» semplici, abbiamo già accennato; qui va aggiunto che in effetti Lambert non portò a compimento questa parte pur essenziale della sua costruzione, non compì cioè in modo concreto quella « anatomia dei concetti» che per l'appunto doveva portarlo 1 individuare le qualità semplici e ultime dalle quali tutte le altre potessero risultare per composizione. AI di là del diverso orizzonte metafisica in cui sorgono e si esprimono gli interessi logici di Leibniz e di Lambert, quest'ultimo può quindi indubbiamente essere considerato il vero continuatore diretto della tematica logica leibniziana nel XVIII secolo. Va in particolare ribadita l'esigenza leibniziana, che ritroviamo puntualmente in Lambert, di una impostazione « assiomatica » del calcolo logico e la concezione stessa della possibilità di un calcolo generale delle « qualità », ossia di un calcolo logico generale di cui la sillogistica e lo stesso calcolo algebrico non rappresentano, leibnizianamente, che pallidi simulacri.
I Balza evidente agli occhi l'analogia fra il simbolismo hollandiano e quello qui impiegato da Lambert. Si badi tuttavia che fra di essi esiste una differenza fondamentale: mentre Holland è sul piano dell'estensione, Lambert vuole rimanere su un piano intensionale; mentre nel caso
di Holland l'f che figurava nelle sue formule era suscettibile di assumere. valori numerici finiti e maggiori di I, qui gli m, n, p, ecc. indicano appunto proprietà e le operazioni vanno intese in senso logico, non aritmetico, giusta ad esempio la formula alla pagina precedente.
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V · KANT E LA LOGICA FORMALE
Parlare in poche pagine di Kant in relazione alla logica formale è certamente compito assai arduo, specialmente se ciò dovesse essere fatto con compiutezza di riferimenti alla enorme copia di letteratura che sull'argomento è apparsa almeno a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, ossia in particolare da quando si è assistito alla rinascita della logica formale stessa. In questo paragrafo ci limiteremo sostanzialmente ad alcune osservazioni sulla complessa questione, tese soprattutto a giustificare i ripetuti richiami, fatti nelle pagine precedenti, a Kant come a un elemento in certo modo conclusivo dello sviluppo del filone logico wolfiano nel Settecento; faremo quindi un brevissimo cenno al problema del rapporto fra logica formale e logica trascendentale in Kant, e infine a quello di una possibile motivazione all'introduzione della logica trascendentale. Nostro costante riferimento - che servirà anche a snellire, e anzi praticamente a eliminare, la parte espositiva della logica trascendentale kantiana - sarà ovviamente il penultimo capitolo di questo volume, dedicato appunto al pensiero di Kant. Come sopra ricordato, nel corso della nostra esposizione abbiamo più volte avuto l'occasione di far riferimento a Kant quale termine conclusivo di una linea di pensiero logico che a partire da Wolff si protrae per tutto l'arco dell'illuminismo tedesco attraverso i suoi discepoli e continuatori. Che Kant stesso riconoscesse implicitamente questa sua mediata discendenza da Wolff possiamo desumere dalle sue stesse parole della Logik (Logica) pubblicata nel I 8oo a cura del suo allievo Gottlob Benjamin Jii.sche, ove si può leggere questa esplicita dichiarazione: «La logica universale di Wolff è la migliore che si abbia ... Baumgarten, un uomo che in ciò ha molto merito, concentrò la logica wolfiana e Meier commentò di nuovo su Baumgarten »; si tenga inoltre presente che nei suoi oltre cinquanta corsi di logica Kant commentò costantemente su una editio maior dell' Auszug del Meier citato al paragrafo rrr. Le considerazioni fatte nel corso di questo capitolo a proposito di W olff e del suo filone sono già chiarificatrici, a questo punto, di quello che può essere un nostro giudizio su Kant per quanto riguarda il suo atteggiamento verso la logica formale. Giudizio peraltro che, data la centralità dell'opera filosofica di Kant per la storia della filosofia moderna, si trova ribadito, talora con toni assai crudi, negli scritti di praticamente tutti gli storici moderni di logica formale. Varrà la pena di riportare alcuni di questi giudizi a conferma di quanto è stato detto. Così il Venn, nella sua Symbolic logic (Logica simbolica) del I 8 8 I, chiedendosi come mai dopo il Ploucquet, l'Holland e il Lambert ci sia stato un tale « vuoto » (blank) nella storia della logica, ritiene di dover « confessare » lo « spiacevole sospetto che, per quanto grande possa essere stata l'influenza in béne di Kant sulla filosofia, egli abbia avuto un effetto disastroso sulla speculazione lo-
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gica ». Non meno drastico è al solito lo Scholz quando nella sua Storia della logica (193 1, trad. it. 196z.) alludendo alla «divinazione leibniziana del calculemus! » afferma: «Non c'è bisogno di dire quanto noi si sia ancora lontani da questa meta grandiosa, oggi forse più remota che mai. È invece necessario chiedersi se per caso il progresso in tal senso non sarebbe stato maggiore se avessimo dato retta un po' di più a Leibniz e un po' meno a Kant, la cui critica all'idea di una metafisica matematizzata in senso leibniziano divenuta quasi canonica, costituisce uno dei più pesanti rovesci che Kant ci ha fatto subire ... » Ancora, W. e M. K.neale, nel loro The development of logic (Lo sviluppo della logica) del 196z., affermano che negli scritti di Kant «troviamo in apparenza un grande interesse per la logica formale... Questa impressione è confermata dall'impiego che egli ne fa nella sua Critica della ragion pura, in particolare nel suo tentativo di derivare una tavola delle categorie dalla classificazione delle forme di giudizi. Ma se guardiamo più da vicino, troviamo che l'interesse di Kant è superficiale » e, aggiungeranno più avanti, in effetti Kant parla di logica formale col solo scopo precipuo di distinguerla dalla logica trascendentale. E si potrebbe continuare ancora per molto; ci limitiamo a un'altra, più cauta citazione dagli Elementi di storia della matematica del Bourbaki (1960, trad. it. 196z.) ove si può leggere che « l'influenza di K.ant a partire dalla metà del xvnr secolo è certamente, almeno in parte, causa del poco interesse suscitato dalla logica formale in quel periodo: Kant ritiene che noi non abbiamo alcun bisogno di nuove invenzioni di logica perché la forma data ad essa da Aristotele è sufficiente per tutte le applicazioni ... ». In particolare le due ultime obiezioni sopra considerate possono spiegarsi chiaramente con alcuni brevi passaggi dalla seconda edizione della Critica della ragion pura, uno dei quali contiene il famoso giudizio kantiano sulla logica cui si accennava verso la fine del paragrafo nr. Tale giudizio viene peraltro emesso da Kant nell'ambito di una argomentazione in cui si sostiene la natura di scienza della logica e mette conto riportarlo nel suo pieno contesto. Dice dunque Kant nella prefazione all'opera citata: « Che la logica abbia seguito questo sicuro cammino [della scienza] fin dai tempi più antichi si rileva dal fatto che, a cominciare da Aristotele, non ha dovuto fare nessun passo indietro, se non vogliamo considerare come correzione l'abbandono di qualche superflua sottigliezza o la più chiara determinazione della sua esposizione: ciò che appartiene più all'eleganza, che alla sicurezza di una scienza. Notevole è ancora il fatto che sin oggi la logica non ha potuto fare un passo innanzi, di modo che, secondo ogni apparenza, essa è da ritenersi come chiusa e completa. » Kant ritiene infatti che non siano da considerarsi come acquisizioni di questa scienza le corruzioni e i frammischiamenti ad essa apportati da considerazioni di tipo metafisica, o psicologico o antropologico così in voga nella sua epoca; e la intende come « una scienza la quale espone per disteso e prova rigorosamente soltanto le regole formali di tutto il pensiero,
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sia questi a priori o empirico, abbia qualsivoglia origine ed oggetto, trovi nel nostro spirito ostacoli accidentali o naturali ». « L'intelletto non deve nella logica occuparsi d'altro che di se stesso e della propria forma », ma proprio per questo la logica « in quanto propedeutica non costituisce quasi altro che il vestibolo delle scienze e, quando si parla di conoscenze, si presuppone bensì una logica pel giudizio su di esse, ma la loro acquisizione deve cercarsi nelle scienze propriamente e oggettivamente dette ». Accanto quindi a un apparente interesse per la logica formale, ne viene messa in evidenza la « pochezza », ribadita allorché Kant introdurrà la propria logica trascendentale quale scienza « dell'intelletto puro », il cui compito è quello di determinare« l'origine, l'estensione e la validità oggettive di tali conoscenze [pure]» in quanto essa « riguarda semplicemente le leggi dell'intelletto e della ragione, ma solo in quanto si riferisce ad oggetti a priori, e non, come la logica generale, a conoscenze tanto empiriche quanto pure, senza distinzione ». In questo contesto la logica generale (termine con cui Kant qualifica tecnicamente la logica formale) « è a rigore propriamente scienza, benché breve e arida, e quale esige l'esposizione scolastica di una dottrina elementare dell'intelletto ». A una scienza come la logica generale (formale) che nella sua brevità e aridità astrae da ogni contenuto della conoscenza limitandosi a mettere in evidenza e elencare gli schemi logici in base ai quali l'intelletto connette l'un l'altra rappresentazioni empiriche oppure a priori, si contrappone quindi un'altra scienza, la logica trascendentale appunto, la quale viceversa non fa astrazione da ogni contenuto della conoscenza, ma tratta «altresì dell'origine della nostra conoscenza degli oggetti in quanto questa origine non possa essere attribuita agli oggetti», sia cioè a priori, con lo scopo tra l'altro di determinare come abbiamo sopra visto « la validità oggettiva » di tali conoscenze pure. Si presenta spontaneo a questo punto un duplice problema. Da una parte è naturale chiedersi se l'atteggiamento negativo di Kant nei riguardi della logica formale sia frutto di una sua approfondita analisi di questa scienza, o quanto invece in esso non giochi la derivazione wolfiana cui sopra si è accennato; in altri termini si tratta di stabilire se nella reazione kantiana al razionalismo dogmatico di Wolff sia stato effettivamente inglobato anche l'aspetto più propriamente riguardante la logica, ossia se Kant si sia di fatto liberato in modo critico dei presupposti wolfiani che stavano alla base della presunta immediata trascrizione antologica delle leggi logiche, presupposti fra i quali, importantissima, spicca come abbiamo visto la convinzione dell'esistenza di leggi naturali del pensiero che avevano portato Wolff alla sua distinzione fra logica naturale e logica artificiale. D'altra parte si tratta di giustificare l'elaborazione kantiana di una logica trascendentale e gli scopi di una sua introduzione in quanto scienza nella quale « isoliamo l'intelletto ... e rileviamo, di tutta la nostra conoscenza, soltanto la 147
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parte del pensiero che ha la sua origine unicamente nell'intelletto ». Considereremo ora molto brevemente questi due punti. Per quanto riguarda il primo osserviamo che l'« abbandono o la correzione di qualche superflua sottigliezza ... » cui Kant si riferisce nella prima citazione sopra riportata dalla Critica, allude con evidenza, oltre che alla sistemazione che della logica scolastica avevano dato W olff e il wolfiani - e sulla quale ci siamo espressi nel paragrafo m - anche a un lavoro precritico di Kant, Die jalsche 5pitzftndigkeit der vier .ryllogistischen Figuren erwiesen (La falsa sottigliezza delle quattro figure sillogistiche, 1762) nel quale Kant non si era certamente liberato dalla succitata assunzione wolfiana. In esso infatti Kant propone e opera una « riduzione » (nel senso di una limitazione, non in quello aristotelico di « riconduzione ») delle quattro figure sillogistiche a una sola, alla prima figura cioè, la figura perfetta. L'argomentazione kantiana in questo lavoro è condotta in effetti con rigore e stringatezza esemplari ma è fondata con tutta evidenza sulla gratuita ipotesi- di chiara origine wolfiana- dell'esistenza di un modo naturale, privilegiato di pensare, ossia di forme logiche naturali che il pensiero segue argomentando e che si troverebbero appunto realizzate nella prima figura sillogistica: ne risulta- conclude Kant - che è superfluo e scorretto ibridare e appesantire il nostro ragionamento con l'inutile aggiunta delle ulteriori tre figure. Il riprendere nella Critica questo argomento è forse indice non soltanto del fatto che Kant non aveva superato la concezione «naturale» collegata da Wolff al pensiero logico-formale; sta probabilmente a indicare il fatto ben più grave che di fronte a una logica scolastica presentatagli dall'elaborazione illuminista come ormai definitivamente sistemata e conclusa, valida per ogni situazione argomentativa di tipo formale, egli ebbe un atteggiamento di pedissequa accettazione. In altri termini, Kant non intraprese un'analisi critica delle intrinseche possibilità della logica formale ma accettando supinamente, in questo campo, le conclusioni dell'analisi wolfiana, sancì anche per parte sua il ribaltamento definitivo della concezione leibniziana, nella misura in cui si lasciò a sua volta « ... sfuggire il significato più schietto della ricerca formale, l'analisi della molteplicità di conseguenze ricavabili dalla posizione di rapporti qualsiansi fra enti qualsiansi, che era stato mirabilmente colto dalla mentalità matematica del Leibniz » (Barone). Questo risalire alle origini della posizione kantiana può in certo modo motivare la sua valutazione, sostanzialmente ed essenzialmente negativa, nei riguardi della logica formale e consente quindi di ridimensionare da un certo punto di vista la pretesa di far risalire a Kant il« vuoto» verificatosi per un lungo periodo dopo di lui nelle ricerche di logica formale; ma indubbiamente pone anche in chiaro un punto di scacto del suo pensiero, come messo in evidenza dal rinnovato vigore che lo sviluppo della logica formale ha conosciuto dalla seconda metà del secolo scorso in poi. Va qui fatto cenno alle discussioni intorno ai mutui 148
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rapporti, in Kant, fra logica formale e logica trascendentale. È questo un problema destinato ovviamente a rimanere aperto; noi non prenderemo certamente qui in esame i diversi modi di approccio del problema in questione da parte dei vari autori e ci limiteremo ad osservare che le soluzioni in proposito sono quanto mai diverse, oscillando tra prese di posizioni estremistiche in cui le due discipline sono viste come termini escludentisi di una disgiunzione (e si opta ovviamente per l'uno o per l'altro dei due termini) e prese di posizione invece che tendono a considerarle come elementi complementari di una congiunzione, entrambi parimenti necessari, con i loro specifici potenzialità e limiti, al processo conoscitivo dell'uomo. Per un'ampia discussione di questo tema rimandiamo il lettore al volume del Barone più volte citato in queste pagine. Consideriamo piuttosto, brevemente, il problema, anch'esso ovviamente tuttora aperto, della motivazione all'introduzione da parte di· Kant della logica trascendentale. Se, accettando la tesi espressa nel capitolo xvii di questo volume, si conviene che la preoccupazione fondamentale di Kant fosse quella di procurare un'adeguata fondazione alle scienze fisiche, si può dare una suggestiva interpretazione in proposito. Infatti è allora chiaro che per garantire un fondamento sicuro alle leggi generali della fisica non era certamente alla logica formale, quale gli veniva presentata al suo tempo, che Kant poteva rifarsi, a una logica formale che, oltre alle intrinseche limitazioni della sua elaborazione in quel periodo, era praticamente ridotta, per dirla con Kant, a svolgere il ruolo di « atletica dei dotti » nelle discussioni erudite. Egli si trova allora « costretto », una volta scartata l'idea di un approfondimento dell'analisi della potenzialità del discorso formale nella sua forma tradizionale, a elaborare una nuova scienza, con le caratteristiche sopra brevemente illustrate, che gli garantisca appunto la validità oggettiva delle conoscenze pure a priori. Sia o meno da addebitare unicamente a Kant (e alla logica trascendentale) il regresso successivo, per un lungo periodo, degli studi di logica formale, va osservato che indubbiamente a lui va fatta risalire la responsabilità non solo di aver allontanato la ricerca formale dagli studi filosofici, ma anche di aver instaurato un abito contrario ad una sua strumentalizzazione nelle indagini filosofiche, strumentalizzazione che si è viceversa rivelata così fruttuosa in anni recenti. Ed infatti, dopo che gli idealisti avevano sulle sue orme messo esplicitamente al bando la logica formale stessa, questa rifiorirà non solo in seguito all'affinarsi e l'aprirsi della ricerca matematica indirizzata nell'Ottocento verso esigenze di rigore per l'innanzi sconosciute, ma anche quasi esclusivament ad opera di matematici. Questa situazione va oggi lentamente mutando ma permane talora radicata, in particolare in Italia, ancora ai nostri giorni.
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VI · LE GEOMETRIE NON EUCLIDEE: GENERALITÀ
Abbiamo già detto nella premessa a questo capitolo come vogliamo intendere qui (e come in effetti per la matematica di questo periodo non possa non intendersi, in riferimento alle ricerche odierne) l'espressione «fondamenti della matematica »: si può cioè correttamente parlarne solo in riferimento alla geometria e in questo campo si è già accennato che il problema della dimostrabilità del quinto postulato euclideo risale praticamente all'istituzione stessa, da parte di Euclide, della sistemazione della teoria geometrica del suo tempo. È opportuno ribadire che controversa non era la questione se il quinto postulato fosse o no vero, bensì se fosse necessario assumerlo fra le proposizioni indimostrate della geometria; era infatti costume comune assumere l'esistenza di chiare, semplici e fondamentali proposizioni geometriche delle quali non si dubitava minimamente, grazie all'evidenza, garantita dall'intuizione, della loro verità. A questa concezione « intuitiva » della geometria darà una perfetta sistemazione teorica proprio Kant. Spazio e tempo sono intuizioni pure, e la geometria euclidea, in quanto traduce correttamente ed esattamente la struttura del nostro spazio fisico non può essere che quella che in effetti è: una costruzione assoluta, fondata su principi altrettanto indubitabili e assoluti. Si ricordi che per Kant la geometria costituiva un esempio paradigmatico di conoscenza sintetica a priori: infatti essa è complessivamente certa in un modo che non richiede di essere giustificato dall'esperienza (ossia è a priori) e d'altra parte i suoi teoremi ci dicono pur qualcosa intorno al mondo, allo spazio fisico che ci circonda (e cioè è sintetica). Ma Kant, ripetiamolo, non farà che sistemare filosoficamente una concezione che si era tramandata fin dall'antichità greca, per quanto riguarda la natura della geometria come interprete fedele e assoluta della struttura dello spazio fisico. Si comprende quindi come, sulla base di questa convinzione, i tentativi succedutisi nei secoli di risolvere il problema relativo al quinto postulato degli Elementi fossero sostanzialmente tutti rivolti a ridurre il postulato stesso a teorema o a sostituirlo con proposizioni più evidenti. Il vero problema, si comincia qui chiaramente a comprendere, era quello di chiedersi se il postulato euclideo dovesse essere necessariamente vero, se il postulato fosse dimostrabile, invece di ritenerlo assolutamente vero a priori o di impegnarsi testardamente nel tentativo di dimostrarlo. Questa corretta impostazione del problema, per noi oggi tanto naturale, comporta in effetti tutto un ripensamento sulla natura degli assiomi e dei postulati, sul significato stesso dell'intera geometria nei rapporti con l'esperienza e richiedeva, per essere raggiunta, un profondo mutamento di mentalità rispetto a quello dei matematici « settecenteschi». Una volta postesi le domande precedenti con disposizione, libera da preconcetti, ad accettarne tutte le implicite conseguenze, si giungerà appunto alla costituzione delle geometrie non euclidee, ossia si arriverà a vedere che il
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quinto postulato non è che una di molte possibili ipotesi, tutte coerenti con i rimanenti postulati, che permette di edificare una corretta teoria delle parallele; verrà così chiarito nel contempo che, lungi dal dipendere dai rimanenti postulati una tale ipotesi è indispensabile per lo svolgimento della teoria stessa. Sembra sia stato Gauss - come vedremo nel capitolo vn della sezione vr - il primo a riconoscere concretamente che solo un'indagine empirica dello spazio può farci decidere della geometria che può meglio descriverlo: una volta realizzato che le geometrie non euclidee possono essere logicamente consistenti, non siamo più autorizzati a decidere, senza opportuni esperimenti empirici, quale geometria valga in natura (a questo proposito risulterà di particolare importanza e utilità il teorema sulla somma degli angoli interni di un triangolo che incontreremo spesso nelle pagine seguenti). Gauss fu dunque il primo a «pensare», se così si può dire, in modo non kantiano intorno al problema complessivo della struttura dello spazio e ciò in un periodo - la fine del Settecento - nel quale proprio sotto l'influenza della filosofia kantiana l'idea di una indagine empirica circa la struttura dello spazio stesso veniva considerata praticamente un assurdo. Nei paragrafi successivi non giungeremo al cuore del problema in quanto la scoperta «ufficiale» delle geometrie non euclidee si avrà solo negli anni trenta dell'Ottocento, ossia in un periodo di cui ci occuperemo nel prossimo volume. Ci è parso però opportuno giustificare fin da ora l'ampio spazio dedicato al problemadell'indipendenza del quinto postulato euclideo (e alla connessa scoperta delle geometrie non euclidee), in quanto questo problema occupa, per i successivi sviluppi della matematica, della logica e della stessa filosofia, una posizione centrale che può essere così brevemente illustrata. I) Per la matematica si realizza intanto che anche la geometria è una scienza empirica, o quanto meno che va fatta una distinzione fra geometria « matematica » e geometria « fisica ». Questo mutamento di prospettiva verrà compiutamente espresso da Hilbert nelle Grundlagen der Geometrie (Fondamenti della geometria) del I9oo, dove viene codificata l'idea che era venuta progressivamente imponendosi delle costruzioni matematiche come sistemi ipotetico-deduttivi, le cui proposizioni fondamentali cioè non trascrivono alcuna verità assoluta, ma sono semplicemente ipotesi, « cominciamenti » di costruzioni formali, e non principi indubitabili. 2.) Per quanto riguarda la logica, quella della scoperta delle geometrie non euclidee è, a nostro parere, una delle componenti indirette della massima importanza per la sua rinascita. È infatti chiaro, in vista· anche di quanto detto al punto I), che se i principi di una teoria perdono il carattere di verità evidente garantita dall'intuizione, l'unica garanzia che ci resta per considerare una tale teoria come una costruzione matematica lecita è almeno la sua non contradditorietà, ossia la certezza, di natura puramente logica, che se i principi in questione sono non contraddittori i nostri successivi passi di derivazione dei teoremi conservino per
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così dire questa caratteristica, siano cioè rigorosamente sottoposti al vaglio di una operante ed efficace logica deduttiva. 3) Per quanto infine riguarda la filosofia, come già si può desumere da quanto sopra detto, la scoperta delle geometrie non euclidee costringe a rivedere l'idea che il concetto di spazio sia kantianamente dato da un'intuizione pura a priori, rendendo evidente che si possono escogitare ed eseguire esperimenti per stabilire che tipo di spazio (euclideo o no, ed eventualmente con quali caratteristiche) sia lo stesso spazio fisico della nostra esperienza. Chiarita così brevemente l'importanza del problema per la scienza e la filosofia moderne, confidiamo che il lettore sia convinto dell'opportunità, prima di prendere in esame nel paragrafo IX lo sviluppo settecentesco di questo problema, di ridare uno sguardo generale d'assieme all'opera euclidea (paragrafo vn) e di ricapitolare i ripetuti tentativi compiuti dai vari autori antecedenti al periodo che qui ci interessa per dimostrare il postulato delle parallele (paragrafo vm). VII · GLI ELEMENTI DI EUCLIDE
Come risulta già noto al lettore in base a quanto fu esposto nella I sezione della presente opera, Euclide non fu certamente il primo geometra greco che si accingesse alla composizione di Elementi di geometria. Era per lo meno stato preceduto dal famoso Ippocrate (di poco anteriore a Platone, e quadratore delle celebri« lunule »)e da Teudio di Magnesia, contemporaneo di Aristotele. Ma con i suoi Elementi Euclide riuscì a stabilire il modello tipico, destinato a rimanere tale per oltre duemila anni, del rigore dimostrativo cui era giunta la matematica greca, fornendo una ineguagliabile esemplificazione di quella che può essere chiamata l'assiomatica antica. In tale assiomatica si riconosce la convergenza di due distinti criteri, l'uno, quello di dimostrabilità, puramente logico, l'altro, quello di evidenza, di natura extralogica, che concorrono a costituire e caratterizzare l'insieme delle proposizioni vere di una teoria. Si tratta infatti, dopo aver stabilito dei termini e delle proposizioni primitive la cui intelleggibilità, rispettivamente, verità, viene garantita dall'evidenza, di ricavare ogni altra proposizione della geometria dimostrandola a partire dalle proposizioni e in base ai termini così ammessi (in funzione dei quali deve essere definito ogni altro termine introdotto nella teoria). Questa struttura logica di massima (sulla quale torneremo dopo aver illustrato brevemente il. contenuto dell'opera euclidea) viene esemplificata nei I 3 libri che costituiscono gli Elementi (un quattordicesimo e un quindicesimo libro, un tempo considerati facenti parte dell'opera, sono sicuramente spuri). Il libro I (che ci interesserà più da vicino nel seguito) si apre con 2 3 definizioni di nozioni elementari quali punto, retta, superficie, angolo, rette parallele, ecc. cui segue l'elencazione dei 5 postulati e delle 5 «nozioni comuni» (assiomi) che reggeranno l'intera costruzione euclidea. Vi vengono quindi dimostrati riI
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gorosamente 48 teoremi che costituiscono la teoria elementare dei triangoli, delle parallele e dell'equivalenza di poligoni. Il libro II si apre con 2 definizioni e contiene I 4 proposizioni di « algebra geometrica »: si tratta cioè di teoremi costituenti la versione geometrica di problemi la cui soluzione in termini algebrici comporta la considerazione di equazioni di primo e secondo grado. Il libro m inizia con I I definizioni di nozioni quali cerchi uguali, cerchi tangenti, arco di cerchio, corda, settore circolare, ecc. e contiene 37 proposizioni ad esse relative, costituenti la teoria elementare dei cerchi. Il libro IV, che inizia con 7 definizioni (figure circoscritte e inscritte in un cerchio, ecc.), tratta in I 6 proposizioni la teoria dei poligoni inscritti e circoscritti a una circonferenza. Il libro v, il cui contenuto risale certamente a Eudosso, si apre con I8 definizioni e tratta, in 2 5 teoremi, della teoria delle proporzioni da un punto di vista generale, ossia per grandezze qualsiasi. Alle 4 definizioni iniziali del libro VI seguono 33 proposizioni nelle quali viene sviluppata per figure geometriche particolari la teoria delle proporzioni data in generale nel libro precedente. I successivi libri VII, VIII e IX sono strettamente collegati fra loro; solo il primo di essi si apre infatti con 22 definizioni di concetti numerici (unità, numero, numero pari, numero dispari, numero primo, numero perfetto, ecc.) e i teoremi dei tre libri sono tutti relativi a questi concetti. In particolare, il libro VII tratta nelle sue 39 proposizioni della teoria della divisibilità e della teoria delle proporzioni fra interi; i libri vm e IX, rispettivamente con 2 7 e 36 proposizioni, proseguono la trattazione della teoria delle proporzioni, con particolare riguardo alle (( proporzioni continue » ossia alle progressioni geometriche. Vogliamo ricordare che il libro IX contiene fra gli altri alcuni famosissimi teoremi euclidei, come quello sulla unicità della scomposizione in fattori primi (proposizione 14) o quello sulla infinità dei numeri primi (proposizione 20). Il libro x, di lettura particolarmente difficile e per la materia trattata e per il linguaggio geometrico impiegato, si apre con 4 definizioni (grandezze commensurabili e incommensurabili, razionali e irrazionali) e svolge ben I I 5 proposizioni della teoria degli irrazionali quadratici e biquadratici. I rimanenti libri xi, XII e XIII formano ancora un· tutto unico dedicato in generale alla geometria solida. Solo il primo di essi si apre infatti con 28 definizioni di nozioni appunto di stereogeometria, la cui teoria viene quindi svolta nelle 39 proposizioni di questo libro e nelle 36 dei rimanenti due (con I 8 proposizioni ciascuno). La struttura logica degli Elementi è così venuta implicitamente chiarendosi in questa succinta descrizione del loro contenuto: oltre ai termini che hanno funzione definitoria e che compaiono all'inizio di ogni libro, o gruppo di libri che 153 www.scribd.com/Baruhk
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trattano dello stesso argomento (ad esempio, del gruppo costituito dai libri vn, VIII e rx), all'inizio del solo libro r compaiono gli assiomi o nozioni comuni e i postulati,l Su questi assiomi e questi postulati è fondato l'aspettt.~ più propriamente deduttivo degli Elementi, nel senso che ogni altra proposizione dell'opera viene accettata in forza di una rigorosa dimostrazione basata su quelle proposizioni iniziali (o, ovviamente, su proposizioni già dimostrate); in altri termini, la verità delle ulteriori proposizioni geometriche viene ricondotta dimostrativamente alla verità delle proposizioni iniziali assunta come evidente, e viene da questa garantita. In particolare, i cinque postulati che Euclide pone alla base della sua costruzione sono i seguenti: « Si postula che : 1) da qualsiasi punto si possa condurre una retta a ogni altro punto; z) ogni retta terminata [ossia ogni segmento] si possa prolungare continuamente, per diritto; 3) con ogni centro e ogni distanza si possa descrivere una circonferenza; 4) tutti gli angoli retti sono uguali fra loro; 5) se una retta, incentrandone altre due, forma gli angoli interni da una stessa parte minori di due retti, le due rette prolungate all'infinito si incontrino, dalla parte in cui sono i due angoli minori di due retti. »
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Con riferimento alla situazione illustrata in figura, si richiede che se ot ~ < I 8o0 , allora le due rette a e b si incontrino dalla parte di ot e ~Non affrontando qui il problema di altre deficienze che la critica moderna ha messo in luce relativamente alla costruzione assiomatica euclidea, il « neo » per eccellenza fu considerato dagli stessi primi commentatori di Euclide appunto quello dell'ammissione dell'ultima delle proposizioni precedenti come postulato: essa non ha infatti le stesse peculiari caratteristiche di « evidenza » godute dalle altre quattro; è anzi estremamente probabile che tale fosse anche la convinzione di Euclide, il quale non impiega il postulato in questione se non nella proposizione z9 del libro r (in linguaggio moderno: due rette parallele tagliate in volta applicate (ad esempio « il tutto è magdella parte» che è il quinto assioma euclideo); i postulati invece sonO proposizioni primitive la cui verità è sì assunta come evidente, ma la cui validità è per così dire limitata al campo speci- · fico della scienza che li assume.
1 Secondo una distinzione oggi in generale non più riconosciuta dalla logica moderna, gli assiomi sono quelle proposizioni primitive che enunciano affermazioni che si ritengono evidentemente vere in generale, indipendentemente cioè dal campo particolare cui vengono di volta in
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da una trasversale tormano angoli alterni uguali, angoli corrispondenti uguali, angoli coniugati supplementari) dopo di che esso diventa anche operativamente una delle basi fondamentali per l'intero sistema. Va notato che nella definizione 23 del libro I Euclide aveva definito « parallele » due rette che prolungate indefinitamente in entrambe le direzioni non si incontrano mai; si osservi infine che il quinto postulato viene spesso presentato (oltre che come « postulato delle parallele» o semplicemente « postulato di Euclide») come « postulato dell'unicità della parallela » in quanto la proposizione che, per un piano, a una retta data possa condursi una, e una sola, parallela per un punto fuori di essa, si ricava dalla proposizione 30 del libro I (rette parallele a una stessa retta sono parallele fra loro) e può dimostrarsi logicamente equivalente al quinto postulato. Questa equivalenza può aiutare a meglio comprendere il difetto di evidenza lamentato nella proposizione euclidea: è chiaro infatti che in una regione piana, per quanto grande ma comunque accessibile ai nostri sensi o alla nostra intuizione diretta, dati una retta e un punto fuori di essa noi possiamo realmente pensare a infinite rette che passano per quel punto e non incontrano la retta data; ora, affermare che al di fuori del campo della nostra possibile esperienza (campo che, per quanto grande, è pur sempre limitato) tutte quelle rette meno una incontrino la retta data è indubbiamente una impegnativa estrapolazione che ci porta ben al di là dei dati dell'osservazione e dell'intuizione. VIII · LA CRITICA AL QUINTO POSTULATO FINO AL SACCHERI
Come si è poco sopra accennato già i primi commentatori degli Elementi cercarono di eliminare dalla sistemazione euclidea il « neo » rappresentato dall'assunzione del quinto postulato (costituendo una relativa teoria rigorosa delle parallele) dando così origine a tutta una serie di tentativi in questo senso che, succedutisi nel corso dei secoli, portarono infine alla scoperta delle geometrie non euclidee nei primi decenni del XIX secolo. Per quanto talora estremamente diversi fra loro, tutti questi vari tentativi possono sostanzialmente farsi rientrare in uno dei seguenti tre tipi, non necessariamente escludentisi fra loro: I) assunzione di una definizione di rette parallele diversa da quella euclidea; z) sostituzione del quinto postulato con un'altra proposizione più intuitiva, ossia la cui verità risultasse più «evidente», e quindi di più facile accettazione; 3) dimostrazione del postulato come teorema, deducendolo dai quattro postulati rimanenti. In questo paragrafo accenneremo brevemente ai più importanti tentativi nelle varie direzioni che si possono riscontrare fino al XVIII secolo. Per quanto riguarda l'antichità, la nostra migliore fonte d'informazi9ne in proposito è Proclo (410~485) che prima di presentare una propria personale proposta di soluzione riferisce su vari tentativi di predecessori, a cominciare da quello di Posidonio (I secolo a. C.). Questi tenta di sup~rare la questione dando
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una diversa definizione di parallelismo: due rette sono parallele quando sono complanari ed equidistanti. Con un tale artificio però non si fa che spostare la questione, non la si risolve: in tal caso infatti si rende necessario o dimostrare che il luogo dei punti equidistanti da una retta e giacenti da una parte di essa è a sua volta una retta (e questa dimostrazione richiede l'impiego del postulato euclideo) oppure si deve postulare l'esistenza di coppie di rette che godano di queste proprietà e quindi assumere un nuovo postulato certamente non più evidente di quello euclideo. Altro tentativo riferito da Proclo è quello di Tolomeo (n secolo d. C.) il quale tenta di dimostrare il quinto postulato deducendolo dalla proposizione che la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a due retti. Da questa proposizione il postulato euclideo si ottiene in effetti facilmente, ma Tolomeo, per dimostrare la proposizione da cui prende le mosse, fa l'ipotesi che se quel caso si verifica per un triangolo lo stesso si verifica per tutti, la quale ipotesi è per lo meno così poco evidente quanto lo stesso postulato euclideo. Nel prospettare la propria proposta di soluzione del problema, Proclo dichiara che si rifiuta di assumere come postulato una proposizione (la proposizione euclidea, appunto) la cui inversa è un teorema. Egli osserva infatti che la proposizione inversa del postulato euclideo è nient'altro che la diciassettesima del libro I degli Elementi, la quale afferma che la somma di due angoli interni di un triangolo è minore di due angoli retti. Proclo assume quindi come nuovo postulato il fatto che la distanza fra due punti presi su rette intersecantesi può essere resa grande a piacere prolungando sufficientemente le due rette, donde deduce il lemma secondo il quale una retta che incontri una di due rette parallele deve incontrare anche l'altra. In questa dimostrazione tuttavia Proclo introduce l'ipotesi che la distanza fra le due parallele rimane finita; e da questa ipotesi si può dedurre logicamente il postulato euclideo (senza contare il fatto che già l'assunzione del nuovo postulato, che Proclo ricava da un passo di Aristotele, non risulta di certo più « evidente » di quello euclideo). Altre critiche e vari tentativi di emendare gli Elementi vennero successivamente avanzati anche dai commentatori arabi, che introdussero ipotesi o adottarono procedimenti dimostrativi talora geniali. Qui ci limitiamo a ricordare l'opera di Anarizio (Al Narizi, IX secolo) tradotta in latino da Gherardo da Cremona (xn secolo) Euclidis Elementa ex interpretatione Al Hadschdschadschii cum commentariis Al Narizii (Gli Elementi di Euclide nell'interpretazione di Al Hadschdschadsch commentati da Anarizio) che segue sostanzialmente il procedimento di Posidonio, fondando la sua presunta dimostrazione del quinto postulato sulla assunzione che esistono rette equidistanti, e l'originale tentativo di Nasir ed Din (12o1-74) il quale si fonda su un'ipotesi (a sua volta ben poco «evidente») dalla quale è possibile derivare immediatamente che la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a due retti e quindi, da questo risultato, ottenere subito il postulato euclideo (che gli è equivalente).
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Durante il rinascimento e il xvn secolo, le critiche al postulato euclideo vennero iniziandosi soltanto dopo che fu possibile disporre della versione latina dei commentari di Proclo (che vennero stampati a Basilea nel I 533 in originale e quindi in latino a Padova nel I 5Go) e comunque praticamente nella seconda metà del secolo. Di questo periodo ricorderemo per lo più solo dei nomi, soffermandoci brevemente su quegli autori che appaiono più significativi per eventuali spunti originali nelle loro critiche. Così F. Commandino (I 509-7 5) negli Elementorum libri xv (I quindici libri degli Elementi) stampati a Pesaro nel I 57 2 segue la dimostrazione di Proclo per il quinto postulato, dopo aver aggiunto l'idea di equidistanza nella definizione euclidea di parallele; R. S. Clavio (I 537-I612) negli Euclidis elementorum libri xv (I quindici libri degli Elementi di Euclide) stampati a Roma nel I574, si rifà a sua volta a Proclo criticandolo, quindi tenta di dare una propria dimostrazione del postulato euclideo fondata sull'ipotesi che la linea equidistante da una retta è a sua volta una retta seguendo sostanzialmente la dimostrazione di Nasir ed Din. La prima opera esclusivamente dedicata al problema delle parallele è l'Operetta delle linee rette equidistanti et non equidistanti (Bologna I6o3) di P. A. Cataldi (I 552-I6z6) ove però l'autore, per la dimostrazione del quinto postulato, si fonda su un'ipotesi già avanzata da Nasir ed Din. Giovanni Alfonso Barelli (I 6o8-79) fa intervenire il concetto di movimento nella sua trattazione del problema e definisce le parallele come rette equidistanti nel celebre Euclide restitutus che pubblica a Pisa nel I658. Degna di nota è l'opera di Giordano Vitale (I633-I7I I) che nel suo Euclide restituto overo gli antichi elementi geometrici ristaurati, efacilitati. Libri xv stampato a Roma nel I68o, ritorna all'idea di Posidonio riconoscendo però la necessità di escludere che rette parallele in senso euclideo siano asintotiche (ossia si avvicinino indefinitamente senza tuttavia incontrarsi); tenta quindi di dimostrare che il luogo dei punti equidistanti da una retta è ancora una retta. Nell'opera di Vitale si possono riscontrare notevoli spunti originali, alcuni dei quali verranno ripresi dal Saccheri. Uno dei più notevoli tentativi compiuti nel xvn secolo per dimostrare il quinto postulato euclideo è quello di John Wallis (I6I6-17o3) il quale, considerata l'infruttuosità della via battuta da molti suoi predecessori e fondata sul concetto di equidistanza, pone alla base della propria dimostrazione del postulato (e quindi della ricostruzione della teoria delle parallele) l'assioma secondo il quale, data una figura, ne esiste un'altra ad essa simile e di dimensioni arbitrarie. In effetti il Wallis si serve di questa postulazione solo per il caso dei triangoli e il Saccheri dimostrerà che l'assumere questo postulato è equivalente ad assumere l'ipotesi dell'angolo retto, ossia il postulato euclideo; senza contare d'altra parte che il concetto di « forma » cui implicitamente rimanda in modo immediato la nozione di« similarità »che compare nel postulato del Wallis, è fra i più complessi di tutta la geometria e abbisognerebbe comunque a sua volta di una estremamente difficile chiarificazione preliminare.
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IX · I PRECURSORI DELLE GEOMETRIE NON EUCLIDEE
Siamo così giunti al XVIII secolo, ossia al secolo dei veri e propri precursori delle geometrie non euclidee. Si è già accennato infatti che i tentativi secolari di dimostrazione del quinto postulato di Euclide sfoceranno nei primi decenni del XIX secolo nella costituzione di geometrie che assumono fra i loro postulati la negazione del postulato euclideo e che cionondimeno risultano logicamente coerenti. I nomi che qui incontreremo saranno, oltre a quelli di Saccheri e Lambert che abbiamo già visto nell'esporre lo sviluppo delh logica di questo periodo, quelli di numerosi altri studiosi - in particolare di Adrien Marie Legendre che pur essendo fioriti già nei primi decenni del XIX secolo, possono tuttavia senza forzature essere associati ai precedenti per quanto riguarda la convinzione della verità assoluta del postulato euclideo, caratteristica appunto di· tutta la schiera di precursori, anche in senso stretto, delle geometrie non euclidee. Si è già detto che Saccheri entra in modo del tutto originale nella preistoria delle geometrie non euclidee col suo Euclides ab omni naevo vindicatus: sive conatu.r geometricus quo stabiliuntur prima ipsa universae Geometria Principia (Euclide emendato da ogni neo, ossia tentativo geometrico col quale si stabiliscono gli stessi primi principi di geometria universale) stampato a Milano nel 1733, anno stesso della morte del suo autore. Oltre al neo fondamentale dal quale Saccheri vuole emendare l'opera di Euclide, la questione del postulato delle parallele, egli ne prospetta un altro, relativo alla teoria delle proporzioni (del libro v degli Elementi) di cui però non ci occuperemo qui dato anche che il Saccheri non dimostra, nella trattazione di questo secondo problema, un'originalità e un rigore paragonabili a quelli esibiti nella trattazione del primo. I motivi dell'originalità del Saccheri rispetto ai suoi predecessori (e sostanzialmente anche rispetto ai contemporanei e successori) sono essenzialmente due: 1) egli affronta la questione da logico, in relazione alle ricerche della Logica demonstrativa del 1697, ossia non cerca di sostituire il postulato con una diversa ipotesi o di variare opportunamente la definizione di rette parallele, ma applica il metodo di ragionamento già elaborato nella sua precedente opera per dimostrare che il quinto postulato è una conseguenza logica dei rimanenti quattro. Si tratta di negare (con un'ardita ipotesi) il postulato delle parallele, e di ricavare da questa negazione tutte le conseguenze logiche necessarie fino a incontrarne una (sulla cui esistenza il Saccheri non nutre alcun dubbio) che risulti incompatibile col sistema dei primi quattro postulati di Euclide. 2.) Proprio per questo suo tipo di approccio generale, Saccheri è il primo a prendere in esame tutte le possibilità che una negazione del postulato in questione comporta e in tal modo egli può considerarsi come precursore di entrambe le geometrie non euclidee successivamente scoperte, ossia tanto della geometria
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ellittica quanto di quella iperbolica; si pensi che gli stessi fondatori delle geometrie non euclidee presero in esame il solo caso iperbolico. Secondo lo Heath, Saccheri « fu vittima della preconcetta convinzione del suo tempo che la sola geometria possibile fosse quella euclidea, ed egli presenta lo spettacolo curioso di un uomo che erige a fatica una struttura su nuove fondamenta con l'effettivo proposito di demolirla in seguito; egli cercò contraddizioni nel cuore del sistema che egli stesso aveva costruito, per dimostrare così la falsità delle sue ipotesi ». Il Saccheri infatti assume come dati (oltre ai primi quattro postulati euclidei) le prime ventotto proposizioni del libro I (che sono indipendenti dal quinto postulato) e fa inoltre l'ipotesi che il postulato delle parallele sia falso: giusto il metodo di ragionamento da lui adottato, cerca fra le conseguenze di queste ipotesi una proposizione che lo autorizzi ad affermare la verità del quinto postulato stesso. Saccheri prende le mosse dalla considerazione di una figura fondamentale, il quadrilatero birettangolo isoscele
t
B
A
ottenuto innalzando dagli estremi A e B della base AB due lati AD e BC uguali fra loro e perpendicolari alla base, e dimostra innanzitutto che i due angoli in C e in D sono uguali (y = ~). Nel caso che questi angoli siano a loro volta angoli retti, siamo nell'ipotesi euclidea, sicché se assumiamo che essi siano o entrambi acuti o entrambi ottusi neghiamo implicitamente, in entrambi i casi, il quinto postulato di Euclide. Saccheri prende quindi in esame le tre seguenti ipotesi relative agli angoli y e ~:
I) Ipotesi dell'angolo retto: y 2) Ipotesi dell'angolo ottuso: y 3) Ipotesi dell'angolo acuto: y
=
~ =
= =
~ ~
> <
900 900 900.
Fra le prime interessanti proposizioni che ricava dalla sua analisi è quella secondo cui, se si può dimostrare vera in un caso singolo rispettivamente l'ipotesi I) o 2) o 3), allora quella ipotesi vale in ogni caso (proposizioni v, VI, vn). Va quindi citata la proposizione IX, secondo la quale, a seconda che si assuma l'ipotesi dell'angolo retto o dell'angolo ottuso o dell'angolo acuto, la somma degli angoli interni di un triangolo risulta rispettivamente uguale, maggiore, minore di due angoli retti.
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Un primo risultato, riguardante l'insostenibilità dell'ipotesi dell'angolo ottuso, viene ottenuto dal Saccheri nella proposizione XIV. Egli aveva infatti dimostrato (proposizione xm) che il quinto postulato è vero nel caso dell'ipotesi dell'angolo retto e in quella dell'angolo ottuso; e allora basta considerare che valgono anche tutti i teoremi deducibili da quel postulato, in particolare quello affermante che la somma degli angoli del quadrilatero fondamentale è di quattro angoli retti; viene quindi a cadere l'ipotesi z) che richiederebbe ovviamente che questa somma fosse maggiore di quattro retti, donde si ricava che è vera l'ipotesi dell'angolo retto; in altri termini, afferma il Saccheri, l'ipotesi dell'angolo ottuso «distrugge se stessa». In effetti il procedimento del Saccheri (e quindi la sua stessa conclusione) è sbagliato. La sua dimostrazione infatti prova semplicemente che l'ipotesi dell'angolo ottuso non è compatibile col sistema complessivo delle altre premesse della geometria che egli ha assunto e richiede quindi che almeno una di esse - diversa naturalmente dal quinto postulato - venga abbandonata. In particolare il Saccheri nella dimostrazione della citata proposizione xm fa intervenire le proposizioni I,6 e I 8 del libro I degli Elementi, che valgono solo sotto l'assunzione che la retta sia infinita, e tale assunzione appunto non è valida sotto l'ipotesi dell'angolo ottuso. Comunque sia, conclusa la confutazione della seconda ipotesi senza difficoltà particolari, si tratta ora per Saccheri di stabilire la falsità della terza ipotesi, quella dell'angolo acuto. Il problema si presenta qui subito più complesso, tanto che egli parla di « diuturnum proelium contra hypotesim anguli acuti »; e sarà proprio in occasione di questa dimostrazione che il Saccheri verrà meno a quel sottile rigore logico che aveva sin qui contraddistinto la sua opera. Senza seguire dettagliatamente i vari passi della complessa confutazione della terza ipotesi, ci limitiamo a riassumerli come segue. Nelle proposizioni xxm e xxv Saccheri dimostra che, nella ipotesi dell'angolo acuto, due rette complanari o si incontrano, o ammettono una perpendicolare comune o infine, da una determinata banda, esse vanno sempre più avvicinandosi l'una all'altra in modo che la loro distanza diventa minore di qualsiasi segmento piccolo a piacere. In altri termini, in quest'ultimo caso le due rette si comportano asintoticamente. Stabilita l'esistenza di rette asintotiche (si potrebbe dire di «parallele non euclidee ») nelle proposizioni xxx, xxxi e xxxn giunge a risultati che complessivamente possono essere presentati come segue: nell'ipotesi dell'angolo acuto, nel fascio di rette per un punto esistono due rette asintotiche ad una retta data che dividono le rette del fascio in due classi; alla prima classe appartengono quelle rette del fascio che incontrano la retta data, alla seconda quelle che hanno con essa una perpendicolare comune. Questa proposizione è illustrata dalla figura seguente, dove A è il centro del fascio, a la retta data e p e q sono le due rette asintotiche. r6o
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-Stabiliti questi teoremi (che verranno « riscoperti », ovviamente in modo indipendente, dai fondatori della geometria iperbolica) Saccheri ha urgenza di concludere: il suo ragionamento, finora assai rigoroso, slitta su un piano intuitiv o e di puro convincimento psicologico quando trasferisce all'infinito concetti e considerazioni validi per enti posti a distanza finita (cadendo nei facili equivoci che questo trasferimento comporta) per dimostrare, nella proposizione xxxnr, che l'ipotesi dell'angolo acuto è assolutamente falsa «perché ripugna alla natura della retta ». Le considerazioni a questo scopo sono contorte e spesso oscure, ma nel complesso equivalgono all'affermazione che se l'ipotesi dell'angolo acuto fosse vera allora le rette a e p della figura precedente avrebbero una perpendicolare comune nel loro punto comune all'infinito, il che appunto - a suo parere - è contrario alla natura della retta. Il Saccheri stesso non fu soddisfatto di questa conclusione, tanto è vero che cercò di dimostrare di nuovo l'insostenibilità della terza ipotesi ricorrendo a una argomentazione fondata sul vecchio concetto di equidistanza; ma in questo suo secondo approccio non ottenne ovviamente alcun risultato che possa qui interessarci e che comunque aggiunga qualcosa ai meriti, peraltro grandissimi, del Saccheri. L'opera del Saccheri suscitò indubbiamente larga eco fra i suoi contemporanei, anche se cadde ben presto nella dimenticanza più assoluta. Essa ad esempio viene citata nella storia della matematica di J. C. Heilbronner, edita a Lip sia nel 1742, come pure nella notissima storia della matematica del Montucla, pubblicata a Parigi nel I 7 58. Va menzionata però in particolare la citazione che ne fa G. S. Kliigel nel suo esame di una trentina di « dimostrazioni» del quinto postulato euclideo. Il lavoro di Kliigel è rimarchevole soprattutto per la sua conclusione che sembra per la prima volta avanzare qualche dubbio sulla dimostrabilità del quinto postulato, sostenendo che la certezza della sua verità è più frutto di osservazioni sperimentali che non di rigorosa dimostrazione; si tratta del noto Conatum praecipuorum theoriam parallelarum demonstrandi recensio, quam publico examini submittent A. G. Kaestner et auctor respondens G. S. Kliigel (Rassegna dei principali tentativi di dimostrare la teoria delle parallele, che viene sottoposta al pubblico esame da A. G. Kaestner e dall'autore responsabile G. S. Kliigel), pubblicato a Gottinga nel 1763 e molto
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citato da Lambert nella sua Theorie der Parallellinien (Teoria delle parallele) composta nel 1766 ma pubblicata postuma solo nel 1782 da Bernoulli e Hindenburg. Si può dunque senz'altro affermare che Lambert conoscesse l'opera di Saccheri e la cosa sarebbe anche confermata - come vedremo - dall'analogia della figura fondamentale che Lambert stesso pone alla base della sua indagine. Resta comunque il fatto che Lambert riuscì ad andare molto più al di là di Saccheri nello sviluppare le conseguenze delle due ultime ipotesi; probabilmente il non aver pubblicato le proprie r.iflessioni sull'argomento sta a significare per l'appunto che Lambert nutriva un ragionevole dubbio circa la validità incondizionata del postulato euclideo: ma tanto su questa ipotesi quanto sulla precisazione di una eventuale effettiva influenza dell'opera di Saccheri su Lambert siamo costretti ancora oggi nell'ambito delle congetture. L'opera sopra citata di Lambert è composta di tre parti, nella prima delle quali viene discussa la possibilità che il quinto postulato sia dimostrabile dai primi quattro o se invece occorra assumere, allo scopo, qualche altra ipotesi; nella seconda vengono presi in esame vari tentativi di ridurre il postulato in questione ad altre proposizioni semplici che richiedono tuttavia a loro volta di essere dimostrate; la terza infine, che è quella sulla quale riferiremo brevemente, contiene una ricerca analoga a quella condotta da Saccheri. Lambert assume come figura fondamentale il quadrilatero trirettangolo, ossia con tre angoli retti, e le analoghe ipotesi del Saccheri vengono fatte sulla natura del quarto angolo. D
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Le tre ipotesi di Lambert (che noi riferiremo anche, come al solito, quale prima, seconda, terza ipotesi rispettivamente) sono:
I) Ipotesi dell'angolo retto: y = 9oo z) Ipotesi dell'angolo ottuso: y > 9oo 3) Ipotesi dell'angolo acuto: y < 9oo Dimostra anch'egli la validità generale di ognuna di queste ipotesi qualora sia possibile dimostrarla per un caso, e procede quindi a escludere l'ipotesi dell'angolo ottuso (è chiaro che la prima ipotesi dà luogo al sistema euclideo) dimo1strando facilmente come a partire da essa possa derivarsi una contraddizione. ····Per quanto riguarda la terza ipotesi, egli trova intanto che in questo caso la
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somma degli angoli interni di un triangolo è minore di due retti e generalizzando il ragionamento di Saccheri introduce il concetto di difetto di un poligono, che è dato appunto dalla differenza fra z (n- z) angoli retti e la somma degli angoli interni del poligono stesso, dove n è il numero dei suoi lati. Dimostra quindi che questo difetto è proporzionale all'area del poligono. Altra considerazione notevole di Lambert connessa a questo risultato e sulla quale si baserà la refutazione dell'ipotesi dell'angolo acuto, consiste nella scoperta che in una geometria fondata su questa ipotesi è possibile assegnare una unità assoluta di lunghezza cosicché ogni misura di lunghezza verrebbe appunto ad avere un valore assoluto a differenza di quanto avviene nell'ordinaria geometria dove, come noto, la misura ad esempio di un segmento è relativa all'unità di misura scelta. Lambert scopre che a ogni segmento può essere associato un angolo definito e facilmente costruibile (si ricordi che per un angolo è facile dare una misura assoluta, basta esprimerlo per esempio in radianti). Ad esempio, dato un segmento, si può pensare di costruire su di esso un triangolo equilatero e quindi di assegnare al segmento l'angolo di tale triangolo (si ricordi che siamo nell'ipotesi dell'angolo acuto e che sostanzialmente affermare l'esistenza di una unità di misura assoluta significa che non possono esistere figure simili e non uguali). Si ottiene così una corrispondenza biunivoca fra angoli e segmenti che può condursi ad avere tutte le usuali proprietà della ordinaria misura, anche se a prezzo di certe, del resto elementari, complicazioni. In definitiva, la possibilità di costruire l'unità assoluta di misura dipende dalla possibilità di costruire (sempre nell'ipotesi dell'angolo acuto l) un triangolo equilatero di dato difetto. D'altra parte possiamo generalizzare, assegnando una misura assoluta anche all'area di un poligono (semplicemente: il suo difetto) come pure al volume di un poliedro; ma, osserva Lambert, tutto ciò non si accorda con l'ordinaria intuizione dello spazio, sicché va rigettata la possibilità di stabilire misure assolute per lunghezze, aree e volumi: ne viene di conseguenza che va refutata l'ipotesi dell'angolo acuto di cui questa possibilità è conseguenza (tralasciamo qui di prendere in esame il problema se analoghe considerazioni non possano farsi anche sotto l'ipotesi dell'angolo ottuso). Lambert mette per primo in evidenza la stretta analogia fra geometria su una sfera e geometria piana sotto l'ipotesi dell'angolo ottuso e osserva che la geometria sferica è indipendente dal postulato delle parallele. Citiamo ancora la sua acuta, si potrebbe dire « profetica », osservazione che l'ipotesi dell'angolo acuto dovrebbe essere verificata nel caso di una« sfera immaginaria». Un suggerimento per questa sua osservazione può essergli venuto dal momento più propriamente« tecnico» delle sue riflessioni: egli dà infatti, per l'area~ di un triangolo piano nell'ipotesi dell'angolo acuto, la seguente formula ~ =
k(1t- A - B - C)
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e in quella dell'angolo ottuso !::.
= k (A
+ B + C- re)
dove k è una costante. Se nella (2) si pone k = r 2 si ottiene l'area del triangolo sferico (su una sfera di raggio r) e se ora si opera la sostituzione r = r I (ossia se ci si pone su una sfera di raggio immaginario) e si pone quindi r 2 = k, si ottiene proprio la (I). Come già abbiamo accennato, ricorderemo ora alcuni autori che sebbene da un punto di vista cronologico non appartengono tutti, a rigore, al periodo da noi preso in esame, sono tuttavia « settecenteschi » per quanto riguarda il loro approccio al problema qui esaminato. Va detto intanto che nel xvm secolo il discorso sui fondamenti della geometria, oltre che in Italia dove il Saccheri appare peraltro come isolato, si sviluppa essenzialmente in Germania, in particolare verso la fine del secolo e segnatamente sotto l'influenza di Gauss, che incontreremo fra i fondatori delle geometrie non euclidee. Ma il problema era sentito in tutta Europa. In Francia ad esempio, oltre al Legendre al quale va dedicato un discorso a parte, altri numerosi e noti scienziati non mancano di pronunciarsi sull'annosa questione. Così ad esempio J. le Rond d'Alembert (I7I7-83) il quale riteneva che « la definizione e le proprietà della retta così come delle parallele sono lo scoglio e per così dire lo scandalo degli elementi della geometria ». Egli propone di definire la parallela a una retta come l'altra retta ad essa complanare che unisca due punti dalla stessa parte e alla stessa distanza della retta data, e lascia in certo senso come compito ai contemporanei di dimostrare che le rette così ottenute sono equidistanti. J. L. Lagrange (I736-I813) scrisse addirittura una memoria sulla teoria delle parallele, che però ritirò al momento di darne lettura in una seduta dell'accademia delle scienze; L. N. M. Carnot (1753-1823) e P. S. Laplace (I749-I827) studiano il problema partendo entrambi da nozioni di similarità analoghe a quelle del Wallis che vengono tuttavia giustificate, in particolare da Laplace, con considerazioni di carattere analogico meccanico. Notevole ancora la posizione di J. B. Fourier (I768-I83o) per una sua discussione sull'argomento avuta con G. Monge, nella quale sembra assumere un atteggiamento che sarà successivamente peculiare dei fondatori delle geometrie non euclidee. Mentre, verso la fine del secolo, gli studi per la costituzione di una rigorosa teoria « emendata » delle parallele erano orientati in Germania verso ricerche che almeno in via ipotetica si concretassero in risultati geometrici ottenuti sotto assunzioni diverse da quella euclidea, ossia in senso che preludeva direttamente la scoperta delle geometrie non euclidee, in Francia (come del resto in Inghilterra) malgrado come si è visto l'argomento fosse di piena attualità, l'indirizzo delle ricerche era in generale di tipo tradizionale: i vari autori erano cioè impegnati
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nel tentativo di dimostrare il quinto postulato. In questo senso si muovono anche le ricerche del più noto studioso francese della questione, cui abbiamo avuto occasione di accennare più volte: Adrien Marie Legendre (I7F-I8H)· Questi compì una serie di indagini che venne via via esponendo nelle I z successive edizioni, dal I794 al I8z3, dei suoi fortunati Elements de géometrie (Elementi di geometria) e raccolse inoltre i contributi specifici al problema del quinto postulato in una memoria presentata nel I 8 33 all'accademia delle scienze di Parigi, dal titolo Rejléxions sur différentes manières de démontrer la théorie des parai/è/es ou le théorème sur la somme des trois angles du triangle (Riflessioni su differenti maniere di dimostrare la teoria delle parallele o il teorema sulla somma dei tre angoli del triangolo). Suo punto fermo di partenza è dunque la riduzione del postulato delle parallele a teorema, ossia la dimostrazione del quinto postulato. Le sue diverse dimostrazioni si differenziano, oltre che naturalmente a livello puramente « tecnico », per le ipotesi diverse che, come vedremo, egli assume di volta in volta; esse tuttavia hanno tutte in comune il punto di approccio in quanto Legendre vuoi giungere a provare il postulato ricavandolo dalla proposizione, che quindi deve preliminarmente dimostrare, che la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a due angoli retti. Egli intanto comincia col refutare l'ipotesi dell'angolo ottuso dimostrando che la somma degli angoli interni di un triangolo è non maggiore (ossia minore o uguale) a due angoli retti. Sappiamo che questa proposizione era già stata dimostrata da Saccheri nella propria refutazione dell'ipotesi dell'angolo ottuso, ma è passata nella letteratura come primo teorema di Legendre; del resto è nota nella letteratura come secondo teorema di Legendre un'altra proposizione che sappiamo già dimostrata da Saccheri, e che potremmo dire della generalizzazione, in quanto afferma che se uno dei due casi (somma minore o uguale a I 8o 0 ) si verifica per un solo triangolo, allora lo stesso caso si verifica per tutti i triangoli. Dimostrati questi teoremi, Legendre refuta l'ipotesi dell'angolo acuto, vale a dire dimostra che la somma degli angoli interni di un triangolo è proprio uguale a due retti, con un'argomentazione affine a quella .usata per lo stesso scopo da Lambert, basata cioè sull'impossibilità dell'esistenza di un'unità assoluta di lunghezza. Stabilita quindi la validità dell'ipotesi dell'angolo retto, Legendre deriva il postulato delle parallele nella forma dell'unicità, ossia dimostra la seguente proposizione: se la somma dei tre angoli interni di un triangolo è uguale a due retti, per ogni punto di un piano può condursi una e una sola parallela a una retta data. Alcune delle ipotesi cui Legendre fa di volta in volta ricorso nelle sue varie dimostrazioni sono le seguenti: I) Da un punto preso arbitrariamente nella porzione di piano determinata da un angolo è possibile tracciare una retta che taglia entrambi i lati dell'angolo;
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z) La scelta dell'unità di lunghezza non influenza la verità di ciò che viene dimostrato (analoga all'ipotesi di Wallis: esistono figure simili di dimensione arbitraria); 3) Dati tre punti non collineari esiste sempre un cerchio che passa per essi. Come si vede dunque Legendre per « dimostrare » il postulato euclideo è costretto a far intervenire assunzioni che o sono equivalenti alla proposizione di Euclide o non ne sono certamente più « evidenti ». È indubbio che Legendre abbia svolto un'importantissima funzione e per aver diffuso l'argomento, anche a livello scolastico, e per aver ottenuto tutta una serie di risultati indipendenti dalla teoria euclidea delle parallele; va anche detto però che egli non ha contribuito in senso effettivo alla successiva scoperta delle geometrie non euclidee. Eppure verso la fine del xvnr secolo e l'inizio del xrx, questa scoperta è, per così dire, nell'aria. Ricordiamo per finire due autori, l'uno ungherese, l'altro tedesco, entrambi in contatto con Gauss, che sia pure in maniera diversa possono confermarci questa impressione. Il primo di essi è Wolfgang Bolyai (1775-1856) il quale studia a Gottinga nel periodo 1796-99 e vi è compagno di Gauss. Non ci è noto con sicurezza quando egli inizia ad interessarsi del problema delle parallele; sta di fatto che tale problema lo affanna per lungo tempo e che egli giunge a intravedere, pur se vagamente, la possibilità che il postulato euclideo sia falso. Nel 1 8o4 fa pervenire a Gauss una sua Theoria parallelarum (Teoria delle parallele) nella quale ritiene di aver dimostrato l'esistenza di rette equidistanti. Gauss scopre l'errore nella dimostrazione, ma Bolyai prosegue testardamente nei suoi studi giungendo però solo a sostituire la proposizione euclidea con altre più o meno evidenti (e che naturalmente richiedono a loro volta di essere dimostrate); una delle ipotesi più interessanti dalla quale egli vuol derivare il quinto postulato è espressa dalla proposizione: quattro punti non complanari giacciono sempre su una sfera, che equivale alla terza ipotesi su ricordata del Legendre che per tre punti non collineari passi sempre un cerchio. Tanto accanita perseveranza di Wolfgang Bolyai verrà in certo senso compensata dal fatto che toccherà a suo figlio Janos legare il proprio nome alla scoperta della geometria non euclidea (iperbolica). Quando, nel r8z3, questi comunica al padre la propria scoperta, Wolfgang lo esorta a pubblicare al più presto i suoi risultati « primo perché le idee corrono facilmente dall'uno all'altro che può anticiparne la pubblicazione e, secondo, perché mi sembra vero che molte cose hanno un'epoca nella quale esse sono trovate nello stesso tempo da molte parti, proprio come le violette nascono dappertutto in primavera ». Purtroppo passeranno circa dieci anni prima che il lavoro di Janos veda la luce, sicché la paternità della scoperta verrà assunta, nel r8z9 dal russo Lobacevski. Le riflessioni di Janos Bolyai verranno infatti pubblicate nel 1832-33 come appendice di un'opera in due volumi nella quale il padre raccoglie i propri lavori matematici e in particolare i propri tentativi attorno al problema delle par66 www.scribd.com/Baruhk
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rallele: Tentamen juventutem studiosam in elementa matheseos purae, elementaris ac sublimioris, methodo intuitiva, evidentiaque huic propria, introducendi. Cum appendice triplici. (Tentativo di introdurre la gioventù studiosa agli elementi della matematica pura, elementare e superiore, secondo un metodo intuitivo, e con l'evidenza ad esso propria. Con tre appendici. )1 Il secondo autore cui alludevamo è Friedrich Ludwig W:!.chter (1792-1817). Visto che, secondo Bolyai, il postulato euclideo dipendeva dal fatto che fosse possibile tracciare una circonferenza per tre punti non collineari, Wachter ritiene che occorra preliminarmente, per poter stabilire una teoria delle parallele, tentare di dimostrare questa esistenza. Egli infatti dà alle stampe nel I 8 I 7 una memoria dal titolo Demonstratio axiomatis geometrici in Euclideis undecimi (Dimostrazione dell'undicesimo assioma geometrico di Euclide),2 dopo che l'anno precedente ne aveva comunicato il contenuto a Gauss del quale era stato allievo a Gottinga, ove ritiene di aver dimostrato l'assunto a partire dal postulato seguente: quattro punti qualsiasi nello spazio determinano completamente una superficie (la superficie dei quattro punti) e due di queste superfici si intersecano in una linea singola, determinata completamente da tre punti. In effetti in questa sua presunta dimostrazione Wachter non va al di là di elementari considerazioni puramente intuitive, ma fa un'interessantissima osservazione nella succitata lettera a Gauss. Egli afferma infatti che se il quinto postulato fosse falso ci sarebbe una geometria sulla superficie cui tenderebbe una sfera quando il suo raggio tende all'infinito (superficie che nel caso euclideo è appunto un piano) identica a quella dello spazio ordinario. Wachter e Gauss chiamano antieuclidea questa geometria e il Sommerville giunge ad affermare che Wachter sarebbe certamente giunto per primo alla scoperta delle geometrie non euclidee se non fosse morto prematuramente.
I Si osservi che il lavoro di Janos Bolyai non è, come erroneamente di solito si scrive, una delle tre appendici cui si riferisce il titolo. Queste sono inserite regolarmente alla fine del secondo volume, me.."ltre la memoria del nostro autore venne inserita dal padre alla fine del primo volume, con numerazione separata delle pagine (da I a 26). 2 Il diverso numero d'ordine con cui qui ci si richiama al postulato euclideo delle parallele (che viene presentato come undicesimo assioma) deriva dalle varie interpretazioni che si davano alla distinzione fra postulato e assioma. Oltre a quella da noi riportata nella nota I a p. I54, Proclo dà almeno altre due interpretazioni diverse di tale distinzione e precisamente: I) un postulato differisce da un assioma come un problema
differisce da un teorema (sicché un postulato affermerebbe la possibilità di una costruzione); u) un assioma è diremmo noi oggi « analitico», un postulato è invece una proposizione che pur non essendo un assioma nel senso precedente viene accettato senza dimostrazione (questa distinzione risale ad Aristotele). A seconda quindi del criterio scelto per la distinzione si avrà ovviamente una diversa nùmerazione delle proposizioni primitive di Euclide. Si noti infine che un'analisi più moderna del postulato euclideo delle parallele ha messo in luce che, sulla base dei precedenti criteri, esso risulta una proposizione di tipo intermedio fra postulati e assiomi, piuttosto che appartenere definitivamente agli uni o agli altri.
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CAPITOLO SETTIMO
LJesigenza di sistematicità nella matematica e nella meccanica
I
· CONSIDERAZIONI GENERALI
Per comprendere lo sviluppo delle ricerche fisiche nel Settecento occorre senza dubbio collegarle alla grande eredità scientifica lasciata da Newton. Come già abbiamo visto nei capitoli precedenti, la diffusione del newtonianesimo nell'Europa continentale è uno dei fatti più rilevanti della cultura dell'epoca, ricco di riflessi in tutti i campi del sapere (i vi incluso quello propriamente filosofico); vi contribuirono insignì filosofi come Voltaire ed eminenti scienziati che, sia pur distaccandosi talvolta dalle dottrine newtoniane su questo o quel punto particolare, si posero decisamente sulla via da esse aperta dimostrandone la straordinaria fecondità. Vi contribuì perfino il padre gesuita Ruggero Giuseppe Boscovich che- come ha scritto nel 1962. D.J.K. Connell- «fu uno dei primi a diffondere le teorie newtoniane nel continente europeo» (anche se ne vide alcuni difetti e cercò di correggerli con notevole originalità). Va subito aggiunto, però, che l'adesione al newtonianesimo assunse -nel campo specifico degli scienziati - due significati alquanto diversi secondo che nel far proprie (onde svilupparle e perfezionarle) le teorie del sommo pensatore inglese, si intendeva porre in primo piano l'una o l'altra delle due fondamentali esigenze metodologiche presenti nella sua opera: l'esigenza di inquadrare i fenomeni naturali entro costruzioni generalissime rigorosamente elaborate in precise formule matematiche, o quella di fondare le nostre conoscenze fisiche su di una scrupolosa sperimentazione, evitando il ricorso a gratuite ipotesi esplicative. Come abbiamo cercato di spiegare nell'ultimo capitolo della sezione IV, Newton era riuscito ad armonizzare con indubbia maestria queste due esigenze, scrivendo opere che potevano venire considerate come esemplari da entrambi i punti di vista. È incontestabile però, che tali istanze indicavano due direttrici di ricerca tutt'altro che coincidenti fra loro. Non deve pertanto stupirei se, nel Settecento, si delineano fra gli stessi scienziati di origine newtoniana tendenze diverse, una delle quali accentua soprattutto la necessità di sistemare il sapere scientifico in astratte teorie di carattere matematico, mentre l'altra sottolinea principalmente la necessità di basare la fisica sopra un'esatta descrizione dei fenomeni. x68
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Tenuto conto di ciò, abbiamo ritenuto opportuno -per dare ordine alla nostra esposizione - scindere le brevi riflessioni che ci accingiamo a fare sul pensiero fisico del Settecento 1n due capitoli diversi: soffermandod in primo luogo sulla parte più teorica di esso -la cosiddetta meccanica razionale - che affiancheremo sia allo sviluppo dell'analisi infinitesimale, cui la meccanica era già inscindibilmente legata nelle stesse opere di Newton, sia al calcolo delle probabilità che da Laplace in poi diventerà uno degli strumenti fondamentali di tutta la fisica matematica; e dedicando invece il prossimo capitolo alla fisica sperimentale, che collegheremo, oltreché - come è ovvio - allo sviluppo della chimica, anche a quello importantissimo della tecnologia (in particolare al perfezionamento degli strumenti scientifici). Va naturalmente sottolineato che questa suddivisione ha soltanto una giustificazione pratica, e non va quindi intesa come rivolta a sostenere che le due direttrici della ricerca siano state prive di influenze l'una sull'altra. È tuttavia innegabile che essa accenna, sia pure in forma ancora imprecisa, ad una differenza assai significativa anche per il filosofo, nel modo di interpretare il concetto di scienza; trattasi della differenza, che emergerà per esempio in Kant, quando egli, cercando di delineare i fondamenti di una fisica autenticamente razionale, affermerà- nel 1786 - che ogni disciplina rivolta ad oggetti determinati contiene «tanta scienza propriamente detta quanta è la matematica che in essa può venire applicata » e negherà di conseguenza la qualifica di vera e propria scienza alla chimica, malgrado i notevolissimi progressi da essa compiuti proprio in quegli anni soprattutto per merito di Lavoisier. L'obiezione principale che potrebbe venir sollevata contro la nostra distinzione si connette al fatto, storicamente innegabile, che parecchi autorevoli scienziati e filosofi del xvm secolo concepivano la matematica stessa come disciplina di origine empirica, sicché non parrebbe avere alcun senso fare riferimento ad essa per differenziare le scienze a prevalente carattere matematico da quelle a prevalente carattere sperimentale. A questa obiezione si potrebbe in primo luogo rispondere che, accanto alla concezione della matematica come disciplina di origine empirica, cominciò ad affiorarne anche un'altra, proprio nell'epoca in esame e proprio in alcuni pensatori strettamente legati all'empirismo (intendiamo qui riferirei in particolare a d'Alembert, nei cui ultimi scritti alcuni recenti studiosi, come ad esempio Paolo Casini, hanno creduto di poter ravvisare una interpretazione convenzionalistica, e non meramente empiristica, delle teorie matematiche). Una seconda risposta sembra comunque ancora più risolutiva: molti fra i maggiori matematici del Settecento compirono notevolissimi sforzi per riuscir a dare un assetto strettamente analitico a tutta la meccanica e ritennero che il riportarla per intero a principi formulabili in termini esclusivamente matematici costituisse di per sé una garanzia della sua autentica razionalità a prescindere dalla natura della matematica stessa. Come spiegheremo nei prossimi paragrafi la tesi, sostenuta da alcuni di essi, che - così rielaborata - la meccanica venisse ad acqui-
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stare un'evidenza razionale ineccepibile, non può venire oggi accettata (è possibile infatti sollevare parecchi dubbi, cui già accennammo nel capitolo I, sul significato allora attribuito al termine razionalità); è innegabile tuttavia che gli autori dell'epoca riconoscevano di fatto una grandissima importanza a quest'opera di « razionalizzazione », vero segno che ai loro occhi essa era in grado di fornire alle proposizioni scientifiche una validità assai superiore al puro e semplice accordo con i dati dell'esperienza. Dobbiamo d'altra parte prendere atto che gli sforzi testé accennati, anche se inidonei a fornire la garanzia cercata, risultarono tutt'altro che inutili: essi riuscirono infatti a porre in luce i legami logici più profondi esistenti fra le varie proposizioni della meccanica, dando all'intera disciplina un carattere sistematico unitario che prima non possedeva. Costituirono in altri termini il necessario punto di partenza per la ben più rigorosa razionalizzazione di vari capitoli della fisica-matematica gradualmente operata dagli scienziati del secolo successivo. I dubbi che oggi possiamo - e dobbiamo - sollevare contro l'evidenza razionale dei principi, che nel Settecento vennero posti a base della meccanica, sono d'altra parte estensibili a pressoché tutti gli &trumenti matematici allora usati al fine in questione. Avremo infatti occasione di spiegare, nel seguito della presente opera, che l'attento riesame critico - operato dai matematici e dai logici dell'Ottocento - dei più celebri trattati della matematica settecentesca (in particolare di quelli dell'analisi infinitesimale) giunse a scoprirvi un gran numero di lacune, di inesattezze, e perfino di veri e propri errori. Eppure va riconosciuto che tali trattati compirono una funzione storica della massima importanza, su cui sarebbe insensato voler pronunciare giudizi di sommaria condanna. Un'attenta riflessione sulle grandi opere scientifiche del passato - e sulle stesse illusioni che si celavano al di sotto di esse - è estremamente utile per comprendere gli ostacoli di fondo che la ragione umana ha dovuto faticosamente superare per raggiungere il livello di consapevolezza critica che caratterizza la scienza odierna. II
· I PRINCIPALI PROTAGONISTI
Le discipline al cui sviluppo intendiamo dedicare il presente capitolo cioè l'analisi infinitesimale e l'algebra, la meccanica razionale e l'idrodinamica, il calcolo delle probabilità - ebbero nell'epoca in esame legami assai stretti una con l'altra, anche perché furono spesso le medesime persone a portarvi i più notevoli contributi. Sembra pertanto opportuno fornire fin dall'inizio qualche rapidissima notizia su tali persone, sia per richiamare immediatamente l'at'tenzione del lettore sui loro nomi, sia per dargli una visione schematica ma globale dell'elevata posizione che occupavano la matematica e la meccanica nella più avanzata cultura europea del secolo. I ricercatori che ora elencheremo non esauriscono ovviamente l'ampio quadro della scienza settecentesca, ma ne illustrano alcuni
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L'esigenza d i sistematicità nella matematica e nella meccanica
aspetti di speciale rilievo, perché pongono in luce il significato che aveva in tale secolo la fede nella potenza della ragione. Mentre molti vecchi storici dell'illuminismo si soffermarono prevalentemente sui filosofi letterati che ne diressero le lotte ideologiche, è bene ribadire che l'appello alla ragione non avrebbe avuto il peso che di fatto ebbe, se la scienza non avesse contemporaneamente dimostrato con le sue scoperte la superiorità del metodo razionale rispetto a quello dogmatico. Poiché nel secolo in esame la Svizzera fu forse il paese che diede i natali al numero percentualmente maggiore di valentissimi scienziati, sembra opportuno iniziare proprio da essa la nostra schematica rassegna. Anche se non vissero sempre nel loro paese nativo, i Bernoulli, Eulero e Lambert (del quale si è a lungo parlato nel capitolo precedente) ci forniscono una testimonianza sicura dell'alta civiltà raggiunta da quel piccolo stato. I fratelli Jacques Bernoulli (1654-1705) e Jean Bernoulli (1667-1748), entrambi nativi di Basilea e insegnanti di matematica nello studio universitario della loro città (Giovanni venne chiamato a coprire la cattedra del fratello, subito dopo la morte di lui), furono vivamente legati a Leibniz e contribuirono in misura notevolissima alla diffusione e allo sviluppo del suo pensiero matematico. Merita, fra l'altro, di venire ricordato che Giacomo fu il primo ad usare l'espressione - divenuta poi classica - di «calcolo integrale». Pubblicarono parecchie importanti memorie sugli Acta eruditorum e su altri periodici scientifici dell'epoca. Si occuparono soprattutto di analisi infinitesimale, applicandola con successo alla risoluzione di molti problemi geometrici. Nel 1713 uscì, postumo, un importante trattato di Giacomo Bernoulli sul calcolo delle probabilità, dal titolo Ars conjectandi. Anche il fratello si interessò vivamente di questa nuova branca della scienza, e inoltre di algebra, di meccanica, ecc. rivelando ovunque straordinarie capacità inventive. Alla sua morte, Voltaire scrisse alcuni versi in elogio di lui chiamandolo « onore della Svizzera e dell'umanità ». La famiglia Bernoulli fornì un esempio, pressoché unico nella storia, di una vera e propria dinastia di matematici. Nella generazione successiva a quella di Giacomo e Giovanni merita una particolare menzione il secondogenito di quest'ultimo, Daniel Bernoulli (17oo-8z), noto per vari lavori di analisi, di algebra, di calcolo delle probabilità, di meccanica, ma soprattutto per un trattato dal titolo Hydrodynamica, pubblicato nel 1738, cui si può far risalire la fondazione dell'idrodinamica teorica. Daniele visse a lungo in Russia - ove era stato chiamato insieme col fratello Nicola, egli pure valente matematico - dando un serio contributo all'elevazione della cultura scientifica di tale paese. Anche la terza generazione annoverò vari egregi cultori di matematica pura e applicata; ci limiteremo a ricordare un nuovo Giovanni Bernoulli (1744-1807), figlio di un fratello di Daniele che si occupò soprattutto di astronomia e fu autorevole membro dell'accademia delle scienze di Prussia. Leonard Euler - latinizzato in Eulerus - (1707-83) nacque nelle vici171 www.scribd.com/Baruhk
L'esigenza di ·sistematicità nella matematica e nella meccanica
nanze di Basilea, studiò con Giovanni Bernoulli, visse dal 1727 al 1740 in Russia ove fu professore di fisica, ufficiale di marina, membro dell'accademia di Pietroburga; nel 1740 passò a Berlino, chiamatovi da Federico n, ove diresse la classe di scienze dell'accademia di Prussia, e come uomo di corte ebbe modo di stringere rapporti di amicizia con influenti personalità politiche nonché con i massimi rappresentanti della cultura europea. Nel 1766 ritornò, colmo di onori, a Pietro burga, con l'altissima carica di direttore dell'accademia di tale città. Poco dopo però divenne completamente cieco, il che non gli impedì di proseguire con tenacia i propri lavori scientifici. La sua morte suscitò unanimi rimpianti in tutto il mondo culturale dell'epoca. Fu matematico, fisico, astronomo e filosofo; scrittore fecondissimo (le sue memorie occupano decine e decine di volumi), può senz'altro venire considerato il più grande scienziato della generazione immediatamente posteriore a quella di Newton, nonché una delle figure più caratteristiche del secolo dei lumi. Scrisse pure una celebre opera di divulgazione scientifica, Lettres à une princesse d' Allemagne (Lettere a una principessa tedesca, in tre volumi, 1768-72) che raccoglie 234 lettere su argomenti di astronomia, di fisica e di filosofia, da lui inviate alla figlia del Margravio di BrandenburgSchwedt, della quale gli era stata affidata l'educazione scientifica. Sul carattere politicamente moderato del suo illuminismo ritorneremo nel capitolo xv. Passando ora dalla Svizzera alla Francia, dobbiamo subito far presente che uno dei massimi matematici e meccanici dell'epoca, Jean Le Rond d' Alembert ( 171 7-8 3) occupa una posizione così centrale nella storia della filosofia oltreché della scienza (essendo stato con Diderot uno degli iniziatori della famosa Enciclopedia), che risulterebbe impossibile delinearne la figura senza fare diretto riferimento anche alla sua vivacissima attività filosofica e genericamente culturale. Preferiamo quindi !imitarci a ricordare qui il titolo della sua opera scientifica più importante (Traité de cfynamique, 1a ed. 1744, 2a ed. 1758), rinviando ad altri capitoli l'esame approfondito della sua complessa personalità. All'incirca alla medesima generazione di d' Alembert appartennero l'analista Alexis Clairaut e due fra i maggiori algebristi del secolo: Etienne Bézout (173083) e Alexandre Vandermonde (1735-97). Data la personalità di Clairaut, sembra opportuno soffermarci sia pur molto brevemente sulla sua figura. Prima però occorre fornire qualche notizia su di un altro assai celebre - e nel contempo assai discusso - rappresentante della scienza francese dell'epoca: Pierre-Louis Moreau de Maupertuis (1698-1759). Egli nacque a St. Malo, studiò per un anno a Basilea con Giovanni Bernoulli e nel 1731 fu nominato membro dell'accademia delle scienze di Parigi. Pensatore di vasti interessi scientifici e filosofici, scrisse importanti lavori di meccanica, di geodesia, di fisica, di biologia. Nel 1732 pubblicò un celebre Discours sur la figure des astres avec une exposition des Systèmes de Descartes et de Newton (Discorso sulla figura degli astri con una esposizione dei Sistemi di Descartes e. di Newton), che fu la
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prima opera in cui uno studioso francese osasse stabilire un parallelo fra il sistema cartesiano e quello newtoniano. Nel I736 venne incaricato di dirigere una spedizione in Lapponia per misurarvi la lunghezza di un grado di meridiano; le osservazioni da essa accuratamente eseguite confermarono la teoria di Newton, secondo cui la Terra ha la forma di sferoide schiacciato ai poli, e ~on quella dei cartesiani, secondo i quali tale sferoide dovrebbe risultare allungato. Dal momento in cui rese pubblici questi risultati con l'opera La figure de la terre (La figura della terra, I739), anche la Francia abbracciò il newtonianesimo e Maupertuis divenne una delle personalità più influenti della cultura europea. Nel I745 pubblicò anonimo all'Aja la Vénus physique, contenant deux dissertations, l'une sur l'origine de l'homme et desanimaux, et l'autre sur l'origine des noirs (Venere fisica, contenente due dissertazioni, l'una sull'origine dell'uomo e degli animali e l'altra sull'origine dei negri). In questo breve ma importante scritto polemizza contro la teoria della generazione sostenuta da quasi tutti i contemporanei, apponendovi, anche in base a sue originali osservazioni sull'ereditarietà, la teoria epigenetica delle molecole organiche. Nel medesimo anno fu invitato a Berlino da Federico n, che nel I746 lo nominò presidente dell'accademia delle scienze di tale città. Nel I744 e nel I747 scrisse due famose memorie 1 - delle quali parleremo nel paragrafo rvsul principio di minima azione, principio che diede luogo ad alcune penetranti critiche da parte del matematico tedesco Samuel Koenig (1712-57). La polemica che ne seguì fu una delle più significative del secolo. Nel I75 I pubblicò il Système de la nature: essai sur la formations des corps organisés (Sistema della natura: saggio sulla formazione dei corpi organizzati), in cui giunge ad una delle prime formulazioni della teoria della trasformazione della specie riconducendola alla variazione casuale delle molecole organiche (teoria che verrà ampiamente esaminata nel capitolo rx). Lasciata nel I753 la presidenza dell'accademia di Berlino, tornò dopo qualche tempo ad abitare in Francia. Morì a Basilea. Alexis Clairaut ( 17 I 3-6 5) nacque a Parigi, ove suo padre era insegnante di matematica. Ingegno precocissimo, divenne a soli diciotto anni membro dell'accademia delle scienze di tale città per avervi presentatù un'importante memoria sulle curve gobbe. Come parecchi altri scienziati del suo tempo fu uomo di mondo, e intrattenne frequenti relazioni con le maggiori personalità della cultura francese dell'epoca. La sua vivacità intellettuale e la sua difesa del newtonianesimo ne fanno una delle più caratteristiche figure dell'illuminismo scientifico. Partecipò ai lavori della commissione diretta da Maupertuis che fu inviata - come sappiamo -in Lapponia per il controllo della teoria newtoniana. Al ritorno, scrisse un'importante opera, Théorie de la figure de la terre (Teoria della figura della terra), che pubblicò nel I743· Oltreché di geodesia, si occupò di geometria, di analisi in1 La prima, dal titolo Accord de différentes lois de la nature qui avaient jusqu'ici paru incompatibles (Accordo di differenti leggi della natura che erano parse finora incompatibili), venne presentata all'accademia
delle scienze di Parigi; la seconda, dal titolo D es lois du mouvement et du repos (Leggi del movimento e della quiete) venne invece presentata all'accademia di Berlino.
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finitesimale, di algebra mostrando sempre una notevole chiarezza di idee. Insegnò matematica alla famosa marchesa di Chàtelet, amica di Voltaire, rivedendo la traduzione da lei preparata dei Principia di Newton. Se la Germania partecipò vivamente allo sviluppo della matematica e della meccanica settecentesche per avere ospitato nei suoi grandi istituti culturali (in particolare nell'accademia di Berlino) parecchi dei più celebri scienziati dell'epoca, non può invece venire ricordata per avere dato i natali a studiosi di fama paragonabile a quelli finora da noi elencati. Quanto all'Italia, già si ricordò nel capitolo precedente la figura veramente notevole di Gerolamo Saccheri. Accanto a lui possono venire menzionati, sebbene di livello alquanto inferiore: Guido Grandi (I67I-I742) professore dell'università di Pisa e poi matematico del Granduca di Toscana, particolarmente noto per l 'interessantissima serie ancora oggi nota col suo nome; 1 i due fratelli Eustachio (I674-I739) e Gabriele Manfredi (I68I-I76I); Jacopo Riccati (I676-I754) che godette di larga fama nel più qualificato ambiente scientifico europeo; Maria Gaetana Agnesi (I7I8-99), una delle prime donne che raggiunse una certa celebrità nelle ricerche matematiche. Fra gli studiosi dell'epoca che maggiormente contribuirono alla diffusione delle teorie di Newton in Italia merita una particolare menzione il barnabita Paolo Frisi (I7z8-84), matematico, fisico, filosofo, amico dei più avanzati circoli illuministici lombardi. La sua Disquisitio mathematica in causam physicam figurae et magnitudinis telluris nostrae (Disquisizione matematica sulla causa fisica della figura e della grandezza della nostra terra) del I 7 5o (da lui pubblicata malgrado il divieto dei superiori, che lo rimproveravano di non « premettere alcuna protesta per il moto che attribuisce alla terra » !), vari altri saggi da lui scritti sul moto diurno della terra, sull'elettricità, sulla gravità, sui fiumi, e infine due interessanti volumi di Cosmographia (usciti nel I774-75) gli procurarono una grande notorietà in tutta l'Europa onde venne associato alle più celebri accademie italiane e straniere (l'accademia di Roma, quella di Napoli, la Royal Society, l'accademia di Parigi, ecc.). Sui suoi scritti politico-filosofici ritorneremo nel capitolo XIV. Alla cultura italiana va pure collegata la figura e l'opera del già nominato padre gesuita Ruggero Giuseppe Boscovich (I7II-87), nato a Dubrovnick da padre jugoslavo e madre italiana, vissuto a lungo a Roma e Milano (ove fu 1 Trattasi della somma di infiniti termini (o serie) a-a+ a - ...
ovviamente caratterizzata dalla seguente singolare proprietà: se addizioniamo un numero finito n dei termini di tale serie (a partire dal primo), otterremo una somma eguale ad a qualora il numero n dei termini addizionati sia dispari, e otterremo invece una somma eguale a zero qualora il numero n dei termini addizionati sia pari. Ci si chiedeva:
che somma otterremo se addizioniamo tutti gli infiniti termini della serie? In realtà essa rappresenta uno dei primi esempi di serie oscillante, che - proprio per essere oscillante - non converge ad alcun limite. Di qui la sua stranezza per i matematici dell'epoca, i quali non conoscevano ancora il concetto di serie oscillante. Grandi ritenne, erroneamente, che tale serie convergesse al valore ...!!..._ • 2
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uno dei fondatori dell'osservatorio astronomico di Brera). I suoi numerosi viaggi in Francia, Germania, Inghilterra, Olanda, Polonia e perfino in Turchia ne fecero un caratteristico rappresentante della cultura dell'epoca, non circoscrivibile entro i confini di un solo paese. Profondo conoscitore di Newton, ma non pedissequo seguace delle sue teorie ( ché anzi egli tentò strade nuove, capaci di conciliare temi newtoniani con temi leibnizianP), studioso di problemi ottici oltreché di meccanica celeste e di geodesia, attento sperimentatore e ottimo conoscitore degli strumenti astronomici, egli contribuì più di ogni altro contemporaneo a mantenere alta la fama scientifica del suo ordine, in un momento in cui questo attraversava una gravissima crisi politico-organizzativa. La sua apertura mentale è confermata dalla propaganda che egli fece alle vedute astronomiche moderne, al di là di ogni preoccupazione circa l'ortodossia o meno della scienza newtoniana. Tra le opere principali _di Boscovich ricordiamo: De lumine (Intorno alla radiazione luminosa, I748), De materiae divisibilitate et de principiis corporum (Intorno alla divisibilità della materia e ai principi dei corpi, I757), Philosophiae naturaliJ theoria redacta ad unicam legem virium existentium (Teoria della .filosofia naturale ricondotta all'unica legge delle forze esistenti, I 7 58). Il più illustre studioso italiano di matematica e di meccanica, Giuseppe Luigi Lagrange (I 7 36- I 8 I 3), appartenne alla generazione immediatamente successiva e fu- come tutti i grandi scienziati dell'epoca- un uomo di cultura in largb senso europeo al quale non ha molto senso attribuire l'una o l'altra nazionalità. Nato a Torino, visse in questa città fino al I769, ove fu nominato- ancora giovanissimo - professore alla scuola di artiglieria; partecipò pure alla fondazione di quella che doveva diventare l'accademia reale delle scienze di Torino. Nel I769 si recò a Berlino, invitato dall'accademia delle scienze di tale città ad assumervi il posto lasciato libero qualche anno prima da Eulero; vi rimarrà fino al I787. La prodigiosa attività da lui svolta come direttore della classe delle scienze dell'accademia di Berlino lo inserl definitivamente nel mondo internazionale degli studi. Nel I787 si trasferì a Parigi, su invito di Luigi xvr, come pensionato d'onore dell'accademia di tale città. L'anno seguente diede alle stampe la sua celebre Mécanique ana(jtique (Meccanica analitica, I788). Scoppiata la rivoluzione, il nuovo governo, che aveva deliberato l'espulsione di tutti gli stranieri, decretò che il bando non venisse applicato a Lagrange, da considerarsi come uno degli scienziati più benemeriti verso il movimento rivoluzionario.,Così la sua influenza andò crescendo: divenne professore autorevolissimo, fu eletto primo presidente dell'Istituto di Francia, e durante l'impero venne nominato da Napoleone conte e senatore. Oltreché di meccanica, si occupò di analisi e di algebra recando 1 Ci riferiamo qui in particolare alla teoria « dinamista » della realtà che Boscovich contrappone alla concezione atomistica largamente diffusa tra i newtoniani. Ad essa si richiameranno
qualche decennio più tardi Kant e i fisici romantici; ma continuerà ad esercitare una profonda infiuenza anche sugli scienziati della seconda metà dell'Ottocento, per esempio su Lord Kelvin.
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ovunque contributi di fondamentale importanza. È solitamente considerato con Eulero il maggiore matematico del XVIII secolo. Passando infine all'Inghilterra, occorre anzitutto notare che essa rimase per quasi tutto il secolo pressoché isolata dalla grande cultura matemattca europea, a causa della diffidenza nutrita dagli inglesi verso i lavori degli analisti continentali che si valevano del simbolismo leibniziano anziché di quello newtoniano. Fu uno degli effetti più deleteri della penosa polemica di cui parlammo nel capitolo XIV della sezione IV, nella quale si era scioccamente mescolato, a un problema di priorità scientifica, il gretto orgoglio nazionale. Malgrado questo relativo isolamento, è doveroso riconoscere che nella prima metà del secolo operarono anche nella cultura inglese alcuni matematici di indiscutibile valore (seppure di statura non confrontabile a quella di Eulero e di d' Alembert). Fra i migliori analisti vanno ricordati Brook Taylor (1685-1731) nato a Edmonton che dai contemporanei fu giudicato l 'unico matematico paragonabile ai Bernoulli, e Colin Maclaurin (1698-1746) nato a Kilmodan, professore dal 1725 all'università di Edimburgo. Su entrambi fu assai profonda l'influenza di Newton, della cui opera matematica possono considerarsi i migliori continuatori. Alla cultura inglese appartiene a buon diritto anche Abraham de Moivre (1667-1754) pur essendo nato in Francia, a Vitry, perché visse quasi sempre in Inghilterra avendo dovuto la sua famiglia - di fede protestante - emigrare dalla Francia dopo la revoca dell'editto di Nantes (1685). Egli si occupò con intelligenza di analisi (sotto la diretta influenza di Newton), di algebra, di trigonometria; ma la sua fama è soprattutto dovuta ai suoi lavori sul calcolo delle probabilità che furono senza dubbio tra i migliori dell'epoca. Legato da viva amicizia con de Moivre, sebbene alquanto più giovane di lui, fu James Stirling (1692-1770) nato a Garden (Scozia), che fu uno dei migliori continuatori dell'opera di Newton non solo in analisi ma più ancora in geometria. A lui si deve una celebre formula per il calcolo approssimato della funzione fattoriale, che venne poi perfezionata da de Moivre. Se, come appare chiaro dalle brevi notizie testé riferite, l'influenza di Newton fu senza dubbio determinante per tutta la generazione dei matematici inglesi della prima metà del secolo, non va tuttavia dimenticato che, proprio nei medesimi anni, l'opera del sommo scienziato suscitò nella stessa Inghilterra alcune vivacissime e sottili critiche da parte del filosofo Berkeley: esse non erano dirette a esaltare Leibniz contro Newton, ma a colpire i concetti basilari usati concordemente dall'uno e dall'altro. Poiché di tali critiche si è già parlato nel capitolo II, non intendiamo qui ritornare sull'argomento. Ci limiteremo a ripetere che la polemica fra Berkeley e i newtoniani si protrasse a lungo e che - malgrado l'incompetenza matematica del filosofo·- non fu del tutto inutile allo sviluppo della scienza: essa costrinse infatti i difensori di Newton a iniziare sia pure con molta
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cautela, ma comunque con notevole anticipo rispetto agli analisti continentali, quell'opera di revisione dei concetti di infinito e di infinitesimo che giungerà a piena maturazione solo nell'Ottocento. III
· ANALISI INFINITESIMALE E ALGEBRA
Si ricorderà che nel Cinquecento e nel Seicento il pensiero matematico aveva aperto nuove importantissime vie alla scienza, dando inizio all'algebra simbolica, alla geometria analitica e all'analisi infinitesimale. Il xvm secolo non può dirsi altrettanto creativo, ma compie cionondimeno un'opera straordinariamente preziosa dando una prima sistemazione alle discipline di recente creazione e arricchendole di nuovi strumenti tecnici. Prima di accingerci a caratterizzare il significato profondo dell'opera testé accennata, occorrerà ricapitolarne brevemente i punti più salienti. Va detto anzitutto che i maggiori successi toccarono senz'altro all'analisi infinitesimale, non solo per l'importanza dei nuovi concetti e capitoli da essa elaborati (ad esempio il concetto di derivata parziale e il capitolo delle equazioni differenziali), ma anche per la ricchezza delle applicazioni cui i metodi infinitesimali diedero luogo, sia- come vedremo nel prossimo paragrafo - nell'ambito della meccanica, sia nei più diversi rami della matematica pura: dalla geometria analitica, ove già nel Seicento tali metodi avevano dato prova della loro fecondità, fino all'algebra delle grandezze finite che pur poteva sembrare ad essi inaccessibile per la natura stessa del suo oggetto (uno dei fatti giudicati più singolari e più anomali sarà proprio il ricorso a metodi infinitesimali compiuto da d' Alembert nella prima dimostrazione del teorema fondamentale dell'algebra, 1 da lui ideata nel I746). I più significativi progressi conseguiti dall'analisi infinitesimale riguardarono i seguenti campi: 1) studio degli algoritmi infiniti (serie ovvero somme di infiniti termini, prodotti di infiniti fattori) e sviluppo delle funzioni in serie di potenze; su questi argomenti si distinsero in modo particolare le ricerche di Giovanni Bernoulli, di Taylor, di Maclaurin, di Eulero e più tardi di Lagrange; 2) studio delle equazioni differenziali alle derivate ordinarie, ove meritano una speciale menzione i lavori di Giovanni Bernoulli - il quale scoperse che un'equazione del genere ammette infinite curve integrali e comprese l'importanza del metodo di separazione delle variabili- del francese Clairaut e dell'italiano Ricca ti che legarono i propri nomi a tipi particolari di queste equazioni; di Eulero che ideò la via per integrare una qualsiasi equazione differenziale li1 Tale teorema afferma che ogni equazione algebrica ammette sempre una radice, reale o complessa, onde può venire abbassata di un grado con
riferimento a questa radice. Ne segue che un'equazione algebrica di grado n ha n e solo n radici (non necessariamente tutte distinte fr::'- loro).
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neare omogenea a coefficienti costanti e infine di Lagrange che insegnò a ricondurre l'integrazione di un'equazione lineare non omogenea a quella della corrispondente equazione omogenea con il cosiddetto metodo di variazione delle costanti arbitrarie; 3) studio delle equazioni differenziali alle derivate parziali (il primo matematico che comprese con chiarezza la diversità esistente fra derivate ordinarie e derivate parziali fu Eulero, il quale scoperse - a proposito di queste ultimeil fondamentale teorema di inversione) : tale argomento non tardò a rivelarsi uno dei più fecondi di tutta l'analisi, in particolare per le sue applicazioni alla dinamica, che fornì l'occasione di studiare alcuni tipi fondamentali di queste equazioni (per esempio l'equazione di d' Alembert o delle corde vibranti); 4) studio delle più interessanti proprietà delle funzioni fino allora incontrate dalla geometria, nonché delle relazioni intercorrenti fra esse, e definizione di nuove funzioni: qui vanno in particolare menzionati i lavori di Giacomo Bernoulli sulle funzioni corrispondenti alla curva isocrona, alla catenaria, alla spirale logaritmica, ecc., quelle di Maupertuis sui punti singolari delle curve piane, quelli di Eulero sulle relazioni fra la funzione esponenziale e le funzioni trigonometriche (al grande matematico svizzero si devono pure l'introduzione delle due famose funzioni trascendenti cui i posteri attribuiranno il nome di « integrali euleriani di prima e di seconda specie », e i primi studi sulle funzioni di variabile complessa); 5) studio sistematico dei problemi isoperimetrici e successivo inserimento di essi nel ben più generale calcolo delle variazioni: al primo diedero notevoli contributi vari matematici dell'epoca, in particolare Giacomo Bernoulli ed Eulero, mentre il secondo fu creato da Lagrange e suole - a ragione - venir considerato come uno dei suoi maggiori titoli di gloria. Pur se con risultati minori di quelli conseguiti dall'analisi infinitesimale, anche i lavori di algebra proseguirono intensamente nel secolo in esame; le ricerche di geometria analitica risultarono essenzialmente assorbite da quelle delle due discipline testé menzionate. I più significativi progressi delle indagini algebriche riguardarono i seguenti campi: 1) studio dei sistemi di equazioni algebriche: qui vanno particolarmente ricordati i contributi di Vandermonde, cui si deve la prima sistemazione della teoria dei determinanti, e quelli di Bézout che legò il proprio nome al seguente importante teorema « due equazioni algebriche di gradi m ed n hanno, nel caso più generale, m.n soluzioni comuni» (interpretato in termini geometrici esso afferma che due curve algebriche irriducibili di ordine m ed n hanno, in generale, m.n punti in comune); 2.) studi rivolti a trovare una dimostrazione prettamente algebrica del teorema fondamentale dell'algebra, poco sopra citato (la ricerca di questa dimostrazione era dettata dall'esigenza di rendere autonoma l'algebra nei confronti del-
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l 'analisi): spetta ad Eulero il merito di averne proposta una, soddisfacente a tale requisito (1751), che presentava però varie lacune, e, tra l'altro, faceva largo uso di un teorema sulle funzioni razionali delle radici di un'equazione algebrica che verrà dimostrato solo vent'anni più tardi da Lagrange; 3) studi rivolti a trovare, per l'equazione algebrica generale di quinto grado, una formula risolutiva analoga a quella scoperta nel Cinquecento per l'equazione di quarto grado: questi studi non portarono - né potevano portare - ad alcun risultato positivo, ma prepararono il terreno alla dimostrazione del teorema di Ruffini-Abel (che al principio dell'Ottocento segnerà l'inizio di una nuova fase delle ricerche algebriche) affermante l'inesistenza della formula cercata; merita di venire segnalato che, mentre Bézout, Vandermonde, Eulero e gli altri maggiori algebristi dell'epoca erano ancora fermamente convinti della possibilità di trovarla, il primo ad esprimere seri dubbi in proposito fu Lagrange (proprio a lui spetta il merito di avere impostato le indagini che costituiranno la base per la dimostrazione del risultato negativo di Ruffini-Abel). Ovvi motivi di spazio ci impediscono di accennare ad altre pur interessanti ricerche, come ad esempio quelle di Eulero e d' Alembert sulle serie trigonometriche, quelle di Eulero e Lagrange sull'analisi indeterminata di secondo grado, di Eulero e Lambert sulle frazioni continue, ecc. Trattasi di ricerche che possono senza dubbio arricchire il quadro sommariamente abbozzato nelle pagine precedenti ma non sono tali da variarne i lineamenti essenziali, mentre è proprio su questi che dobbiamo soffermarci se vogliamo che le nostre brevi considerazioni sui progressi della matematica ci aiutino a cogliere i caratteri più significativi del pensiero scientifico generale dell'epoca in esame. I lineamenti anzidetti si possono riassumere - a nostro parere - in due punti basilari: ricerca di una visione sistematica degli enormi sviluppi cui possono dar luogo sia l'analisi sia l'algebra; preoccupazione di estendere al massimo tali sviluppi senza sottoporre a rigorosa critica né i loro fondamenti né i metodi adoperati per la dimostrazione dei sempre nuovi e più affascinanti teoremi. È una situazione che venne efficacemente descritta da alcuni storici paragonando questo periodo della matematica all'epoca delle grandi scoperte geografiche: come nota Friedrich Waismann «i matematici del xvm secolo avevano infatti l'impressione di internarsi in un nuovo mondo dello spirito, ed erano bramosi di delimitarne subito i confini». Questa brama di scoprire al più presto i confini del nuovo « continente matematico» non va però intesa come dettata dall'esigenza critica di stabilire a priori una linea oltre la quale tale scienza non avrebbe mai potuto spingersi; proviene invece dal desiderio di giungere a una visione di insieme di tutte le più profonde relazioni esistenti fra i concetti trattati, nella ferma convinzione che esse potranno illuminarsi a vicenda e così accrescere il dominio della ragione sull'intera materia considerata (non v'ha dubbio per esempio che le formule 1
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di Eulero, le quali stabiliscono una ben precisa relazione fra la funzione esponenziale e quelle trigonometriche, gettano effettivamente nuova luce su entrambe, o che lo sviluppo di una funzione in serie di altre funzioni di tipo determinato - poniamo in serie di potenze - è davvero in grado di farcene scoprire alcune proprietà molto recondite, che uno studio isolato di essa non avrebbe mai potuto afferrare). Sono questi i motivi che spingono a un'esposizione sistematica delle discipline recentemente scoperte: discipline che rischierebbero di frantumarsi in tante indagini parziali e disorganiche, se la ragione non fosse in grado di collegarne i vari sviluppi, di dominarli nel loro complesso, di inquadrarli in un grande piano strategico. La fiducia nella potenza della ragione sorregge l'intera ricerca; e se qualche dubbio affiora qua e là circa l'esattezza dei fondamenti del grandioso edificio (ciò accade in particolare per l'analisi infinitesimale), esso vien messo a tacere osservando che l'ampiezza e compattezza delle conseguenze ricavate è largamente sufficiente a giustificare l'accettazione delle premesse. Questo atteggiamento risulta chiaramente espresso dal celebre motto attribuito a d' Alembert: « andate avanti e la fede vi verrà »; mettetevi cioè al corrente dei grandi successi del nuovo tipo di calcolo: la loro imponenza dissolverà ogni vostro dubbio. È manifesto che un tal modo di procedere non poteva sviluppare un'autentica esigenza di rigore. In effetti, non pochi teoremi di Eulero, d' Alembert, ecc. erano - nella loro primitiva formulazione - inesatti, per l 'incompleta elencazione delle ipotesi indispensabili alla loro validità, e non poche dimostrazioni di teoremi- anche esatti - erano lacunose e logicamente scorrette (ad esempio le due dimostrazioni poco fa accennate del teorema fondamentale dell'algebra, ideate da d'Alembert e da Eulero, si trovavano entrambe in questa situazione). In taluni casi, poi, venivano enunciati come teoremi delle proposizioni manifestamente assurde; tale per esempio la formula seguente (che Eulero crede di aver dimostrata!): 1 1
+3+9+···=-z
La presunta dimostrazione di questo e altri analoghi risultati si fonda, per lo più, sull'uso indiscriminato delle serie senza alcuna cautela circa la loro convergenza. Quando si rifletta sullo scarso rigore dei processi dimostrativi adoperati dai grandi matematici del SettecentQ, vi è da rimanere stupiti non tanto dei risultati assurdi da essi in tal modo raggiunti, quanto dei numerosi autentici teoremi che, sia pure con qualche inesattezza di formulazione, essi riuscirono di fatto a scoprire. Di fronte a tali mirabili scoperte, bisogna ammettere che quei matematici erano senza dubbio forniti di eccezionali capacità intuitive, in base alle quali riuscivano a farsi un'idea notevolmente esatta della struttura complessiva del « continente » esplorato, sì da collocarne al posto giusto (o quasi giusto) i più alti monti e i più grandi fiumi. Fuori di metafora, la visione globale della 180
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materia trattata - per lo meno nelle sue grandi linee - permetteva loro di cogliere i punti nodali del sistema, malgrado le inesattezze e, talvolta, gli autentici errori compiuti nello svolgimento delle argomentazioni particolari. Chiaro è, però, che un tal modo di procedere non avrebbe potuto proseguire a lungo senza dar luogo a disastrosi inconvenienti: è ciò di cui ci si comincerà ad accorgere alla fine del secolo 1 e che verrà in piena luce verso il 1 8zo-3o dando luogo a una delle più radicali svolte nella storia del pensiero matematico. Qui basti ribadire che l'entusiastica fiducia nella potenza della matematica, e in particolare in quella della sua più moderna creazione, l'analisi infinitesimale, ben si inquadrava - come già accennammo all'inizio del capitolo - entro la fiducia generale nella ragione umana. Lo « spirito » matematico poteva venir considerato come la più elevata estrinsecazione dello « spirito razionale », e i suoi successi - nei problemi puramente teorici come nelle sempre più numerose applicazioni - assumevano l'aspetto di incontestabili conferme della validità filosofica delle grandi tesi illuministiche. Anche se non era ben chiara l'origine, e quindi la natura, delle nozioni matematiche, e se non era stata esattamente precisata la struttura logica di taluni processi dimostrativi, la matematica sembrava imporsi a tutti con le sue mirabili realizzazioni. Era lo stesso clima culturale dell'epoca a far passare sotto silenzio le non poche e non lievi ombre di cui erano frammezzate tali realizzazioni, per fermarsi esclusivamente su ciò che esse rappresentavano di positivo, sia in se stesse sia nel quadro generale del progresso dell'umanità. IV
· LA MECCANICA RAZIONALE
Durante il XVIII secolo la meccanica moderna, nata con Galileo, Huygens e Newton, subisce ulteriori notevolissimi sviluppi soprattutto dal punto di vista analitico, assumendo un assetto ali 'incirca identico a quello ancora oggi riscontrabile nei corsi istituzionali delle facoltà scientifiche: assetto che giustifica appieno il titolo solitamente attribuitole di « meccanica razionale ». Tali sviluppi furono resi possibili dai progressi parallelamente conseguiti dall'analisi infinitesimale, che fornì gli strumenti indispensabili a un'impostazione soddisfacente dei problemi trattati (importante più di ogni altro lo strumento costituito dalle equazioni differenziali alle derivate parziali). Non senza motivo gli studiosi che diedero maggiori contributi alla meccanica furono proprio, nell'epoca in esame, quelli stessi che abbiamo ricordato nelle pagine dedicate alla storia del pensiero mateI Un merito particolare a questo riguardo va riconosciuto a Lazare Carnot (I753-IS22), sulla cui importante figura ritorneremo nel capitolo v della sezione VI, che, in un celebre saggio dal titolo Réjlexions sur la métaph;•sique du
colo infinitesima/e, 1797) cerca di porre in chiaro i
principi generali di questo calcolo, sulla base di un accurato raffronto di esso con i vecchi metodi di esaustione, degli indivisibili, delle prime e ultime ragioni, ecc.
ca/eu/ infinitésimal (Riflessioni sulla metafisica del ca/-
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matico; il risultato conclusivo cui essi pervennero fu l'inclusione della meccanica nella matematica, come vero e proprio ramo dell'analisi infinitesimale. La prima metà del secolo è caratterizzata da due celebri querelles, peraltro strettamente connesse fra loro: la polemica fra leibniziani e cartesiani alla quale abbiamo già fatto cenno nel capitolo xrv della sezione rv, e quella che si accese verso il 1750 intorno al cosiddetto principio di minima azione di Maupertuis. La prima riguardava il problema della misura delle forze, cioè se tale misura andasse cercata nella quantità di moto m v prodotta dalla forza considerata o I
invece nella così detta «forza viva» (o energia cinetica) - m v2 , ove è chiara 2
la differenza fra le due espressioni in una delle quali la velocità v compare alla prima potenza mentre nell'altra compare alla seconda. Cartesiani e newtoniani, tra loro concordi su questo punto, erano favorevoli alla prima soluzione; i leibniziani invece optavano per la seconda (che i contemporanei solevano chiamare «nuova definizione» della forza). In corrispondenza alle due definizioni, gli uni sostenevano che nei processi naturali si conserva immutata la somma delle quantità di moto; gli altri che si conserva immutata la somma delle forze vive. Il dibattito in proposito, già assai vivo verso la fine del Seicento, si era attenuato all'inizio del Settecento; la conversione del famoso fisico olandese 's Gravesande (del quale parleremo nel prossimo capitolo) dal fronte cartesianonewtoniano a quello leibniziano lo riaccese improvvisamente nel I 7 2 5. Vi intervennero quasi tutti gli scienziati dell'epoca e la polemica fu così aspra da porre in imbarazzo chi non voleva compromettersi apertamente a favore dell'uno o dell'altro indirizzo. Attraverso i numerosi esempi (generalmente ricavati dallo studio dei fenomeni d 'urto) addotti dai leibniziani contro i cartesiano-newtoniani o da questi contro quelli, venne a poco a poco in chiaro che, negli effettivi processi di natura non si conservano costanti né la somma delle quantità di moto né quella delle forze vive. Risultò evidente tuttavia che, per lo meno da un punto di vista operativo (cioè per la sua possibilità di fungere da fondamento di numerose formule della meccanica), il principio di conservazione delle forze vive si rivela assai più fecondo dell'altro: se è vero infatti che non vale per l'intero campo dell'esperienza, vero è però che può venire assunto a caratterizzare, in termini molto generali, alcuni gruppi di fenomeni di specialissima importanza per la meccanica. A riprova di questa fecondità, basti ricordare che Daniele Bernoulli lo pose a fondamento della stessa trattazione dei fenomeni idrodinamici nella sua famosa l:(.ydrodynamica, sive de viribus et tnotibus fluidorum commentarii (Idrodinamica, ovvero commentari intorno alle forze e ai moti dei fluidi) del I738. Né vanno dimenticate le numerose suggestioni che il concetto di forza viva offrì a fisici e a biologi per una conce18z
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zione « dinamista »del reale, cioè per una concezione che scorge nella forza l'elemento ultimo della realtà; ma su tali suggestioni si ritornerà varie volte io questo e nei prossimi volumi. Il principio di minima azione fu enunciato in forma esplicita da Maupertuis nella memoria sopra citata del 1744 e successivamente ampliato e sviluppato in quella del 1747· Prendendo le mosse dalle obiezioni che i cartesiani e poi Leibniz avevano sollevato contro il principio di minimo utilizzato da Fermat per ricavarne le leggi di riflessione e di rifrazione della luce (secondo Fermat la natura agirebbe sempre lungo le vie che permettono alla luce di trasmettersi nel più breve tempo possibile), Maupertuis ritenne di poterlo sostituire con quest'altro: «il cammino seguito dalla luce è quello che rende minima la quantità d'azione» caso particolare di un nuovo principio generalissimo - cui egli dava appunto il nome di principio di minima azione - così enunciabile: « quando in natura ha luogo qualche mutamento, la quantità d'azione di questo mutamento è la più piccola possibile», ove per «quantità d'azione» di un corpo si deve intendere il prodotto delle quantità di moto del corpo considerato per lo spazio da esso percorso (cioè m.v.s ). Effettivamente il nostro autore riusciva a dimostrare senza eccessive difficoltà che il principio testé riferito conduce, ·nel caso particolare dei raggi luminosi, al risultato voluto; dimostrava inoltre che esso ci permette pure di ricavare le leggi generali dell'urto, sia fra i corpi elastici sia fra i corpi non elastici. Con un'ardita generalizzazione egli ne concluderà che su tale principio sono fondate « tutte le leggi del movimento », cioè che proprio da esso « dipendono i movimenti di tutte le sostanze corporee», onde risulterebbe lecito pensare che sia stato direttamente il «Creatore e l'Ordinatore delle cose » a imporla al mondo dei fenomeni. Nel 1751 il matematico tedesco Samuele Koenig pubblicava però un lavoro, in cui sosteneva che il principio di minima azione era già stato enunciato da Leibniz, 1 e anzi precisava che nei moti regolati dalle ordinarie leggi della meccanica la quantità d'azione non assume sempre un valore minimo ma può anche assumere un valore massimo. Maupertuis reagì astiosamente e non del tutto a torto, poiché in realtà Koenig non fu in grado di esibire la lettera ove - a sua detta - Leibniz avrebbe enunciato il principio in questione. Ne nacque una polemica in cui furono coinvolte parecchie fra le maggiori personalità scientificofilosofiche dell'epoca, in primo luogo Eulero e Voltaire. Al saggio vivacemente satirico scritto nell'occasione da quest'ultimo abbiamo già fatto cenno nel capitolo nr; per quanto riguarda Eulero, basti menzionare che egli, pur non tacendo di essere stato il primo a compiere la scoperta, riconobbe -- con parole ove non manca una cauta ironia - che Maupertuis « non solo ha stabilito il principio I Egli non ricordò invece che fin dal 1744 Euler aveva esposto un principio equivalente a quello di Maupertuis, presentandolo tuttavia come
una semplice verità a posteriori, da accettarsi solo in quanto verificata dalle leggi già antecedentemente stabilite dalla dinamica.
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più solidamente di quanto l'avessi fatto io, ma la sua vista, più estesa e più penetrante della mia, vi ha scoperto delle conseguenze che io non ne avrei mai ricavate» (trattasi, come è palese, delle conseguenze teologico-metafisiche). Dal punto di vista matematico il principio di Maupertuis rivela senza dubbio una notevole utilità, in quanto riesce a presentare in forma unitaria parecchie leggi della dinamica solitamente dimostrate per vie del tutto indipendenti (già ricordammo a proposito dell'urto, che esso ha il notevole merito di offrirei un fondamento unico da cui poter dedurre le leggi valide per i due casi antitetici dei corpi elastici e di quelli anelastici). Ma il nostro autore non si accontentava di questo aspetto matematico della propria scoperta; come già abbiamo accennato egli voleva vedervi qualcosa di più, cioè la prova dell'esistenza di un essere onnipotente e onnisciente il quale darebbe prova della sua potenza e saggezza nel far sì che i fenomeni non siano regolati da leggi qualsiasi, ma proprio da leggi strutturate in modo da economizzare al massimo la quantità d'azione. Orbene è precisamente questo intento ciò che viene rifiutato dagli avversari di Maupertuis; esso costituisce il vero sottinteso dei loro dibattiti, appena velato dalle questioni di priorità della scoperta. 1 È interessante riferire le parole con cui d' Alembert, nell'introduzione alla seconda edizione del suo Traité de tjynamique (1758), prende posizione sul delicato argomento pur senza fare nomi e senza intromettersi personalmente nella querelle: un metafisico - egli nota - cercherebbe di provare la necessità che le leggi della meccanica abbiano la forma che di fatto riscontriamo in esse « dicendo che rientrava nella saggezza del Creatore e nella semplicità delle sue vedute, il non stabilire altre leggi dell'equilibrio e del movimento ... ; ma noi abbiamo creduto doverci astenere da questo modo di ragionare, perché ci è parso che esso si baserebbe su di un principio troppo vago; la natura dell'essere supremo ci è troppo nascosta perché possiamo conoscere direttamente ciò che è o non è conforme alla sua saggezza ». Queste parole sono molto istruttive non solo perché sottolineano il desiderio di d' Alembert di separare in modo definitivo la meccanica dalla metafisica, ma anche perché pongono in chiara luce il serio problema metodologico che affiorava nel principio di Maupertuis. Le indagini scientifiche di Galileo, di Huygens e di Newton avevano potuto stabilire le grandi leggi che regolano con rigorosa necessità il prodursi dei fenomeni meccanici; ma qual è il motivo per cui valgono proprio queste e non altre leggi? Si noti che trattasi di un problema tutt'altro che inconsistente, il quale ricompare, sia pure in termini diversi, negli stessi più recenti dibattiti dell'odierna epistemologia. Questa suole infatti distinguere due significati, netI Si vedrà nel capitolo IX (paragrafo m) come Maupertuis creda di poter conciliare questo intervento diretto e continuo di dio nelle leggi
più generali della natura con l'ammissione che una parte dell'ordine dei fenomeni sia effetto del caso.
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tamente diversi, collegabili alla richiesta di una spiegazione: il primo riguarda il perché di un fatto (e ad esso si suole rispondere invocando una legge scientifica) l'altro invece il perché di una legge scientifica, ossia - per usare la parole di Richard Bevan Braithwaite 1 - la « ragione per cui tale legge scientifica è come è» (e qui la risposta si fa straordinariamente più complessa). Maupertuis ebbe il torto di cercare questa ragione in qualcosa di troppo vago e a noi troppo nascosto come la saggezza divina; i maggiori scienziati del suo tempo respinsero tale spiegazione per sostituirla con un'altra, che forse a noi moderni può apparire altrettanto vaga, ma che certo era più conforme alle esigenze della cultura illuministica. Essi sostennero che le leggi della meccanica sono «verità necessarie». Questa è la tesi esplicitamente affermata da d' Alembert nell'introduzione poco sopra citata; e questa è la tesi già sostenuta da Euler nel suo trattato Mechanica sive motus scientia ana(ytice exposita (Meccanica ossia la scienza del moto esposta analiticamente, 1736), ove leggiamo per esempio che la legge fondamentale della proporzionalità fra incremento della quantità di moto e incremento dell'impulso è non solo vera ma fornita di verità necessaria. In una famosa memoria del 17 55, dal titolo Principes généraux de l' état d' équilibre des ftuides (Principi generali dello stato d'equilibrio dei fluidi), il medesimo Eulero asserirà (tesi peraltro non condivisa da d' Alembert) che anche l'impianto teorico dell'idrostatica e dell'idrodinamica è puramente razionale come quello degli altri capitoli della meccanica. La ricerca, perseguita da pressoché tutti i grandi matematici e meccanici del Settecento, di principi generalissimi dai quali poter dedurre tutte le leggi della meccanica si inquadra per l'appunto nel programma testé accennato: cioè nel programma di fornire a questa disciplina una validità scientifica indipendente dalle mere osservazioni empiriche. Tale ricerca li condusse senza dubbio alla scoperta di formule giudicate ancor oggi della massima importanza per la loro incontestabile efficacia unificatrice, sia rispetto ai concetti della meccanica, sia rispetto ai metodi per impostarne e risolverne i principali problemi; ma- come si è detto- i loro autori scorgevano in tali formule anche qualcosa d'altro che oggi noi non siamo più disposti ad ammettere: vi scorgevano delle verità necessarie, cioè delle verità capaci di fornire un carattere di razionalità assoluta a tutta intera la disciplina in esame sì da elevarla allo stesso livello della geometria. Poiché non intendiamo qui delineare una vera e propria storia della meccanica, non ci fermeremo ad esporre le formule testé accennate. Occorre comunque ricordare che un posto di specialissimo rilievo spetta, senza dubbio, al così detto principio di d' Alembert, che ricava le equazioni del moto da quelle dell'equilibrio col sostituire, al posto di ogni forza attiva Ft, la così detta forza perduta Ft - mt at (o al posto delle componenti di quella le corrispondenti comI
Nell'opera Scientific explanation,
Ia
ed. 195 3; traduzione italiana 1966.
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ponenti di questa), e in tal modo riesce a ridurre ogni questione di dinamica ad una di statica. Non minore importanza spetta pure alle equazioni di Lagrange (strettamente collegate, peraltro, al principio di d' Alembert), che pervengono a dare alle equazioni della dinamica una forma generalissima, la quale si presta particolarmente bene - almeno per un largo settore di problemi del moto ad una rigorosa trattazione analitica. (Per maggiori notizie sull'argomento non abbiamo che da rinviare a un qualunque trattato moderno di meccanica razionale.) La Mécanique ana!Jtique (1788) di Lagrange si caratterizza rispetto alle precedenti perché sostituisce, alla ricerca di principi sempre più generali della meccanica, quella di metodi atti « alla risoluzione di ogni problema ». Con ciò essa viene in certo modo a chiudere la fase settecentesca di questa disciplina (dominata dalla preoccupazione di fornire alla meccanica una garanzia razionale assoluta) per aprirne un'altra, in cui prevale invece l'interesse operativo. Va sottolineato che la stessa preoccupazione di giungere ad un unico principio capace di fondare tutta la meccanica assume in Lagrange un significato nuovo: quello di ricavarne un unico tipo di equazioni atto ad uniformare lo studio dei più diversi problemi, e cioè di « riunire e presentare sotto un medesimo punto di vista i diversi principi finora trovati per facilitare la soluzione delle questioni di meccanica, mostrarne la mutua dipendenza e metterei in grado di giudicare la loro giustezza e la loro estensione ». Il nostro autore si vanta di non fare ricorso, per raggiungere il fine testé accennato, « né a costruzioni né a ragionamenti geometrici o meccanici, ma soltanto ad operazioni assoggettate a uno svolgimento regolare e uniforme ». Con ciò l'accento si sposta dal dibattito sui principi e sulla loro giustificazione razionale (che Lagrange dà per scontata) alla ricerca di una sistemazione formalmente perfetta di tutta la scienza del moto. Senza disconoscere il grande valore di questa sistemazione, va tuttavia fin d'ora osservato che essa non riuscì certo a spegnere definitivamente le indagini sui fondamenti della meccanica. Al contrario, queste rinasceranno con rinnovato vigore nella seconda metà dell'Ottocento, e sgretolando il mito della verità assoluta e necessaria della meccanica galileiana-newtoniana, apriranno la via alla teoria einsteiniana della relatività. Comunque, l'opera di Lagrange verrà a lungo considerata quale esempio insuperabile di trattazione puramente matematica dei fenomeni del moto, esempio cui si ispireranno non pochi scienziati della generazioné successiva nel tentativo di tradurre in formule altrettanto perfette altri rami della scienza fisica (si veda in proposito il capitolo xvi della sezione vi).
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V
· IL CALCOLO DELLE PROBABILITÀ
Già accennammo nella sezione precedente che il calcolo delle probabilità nacque nel Seicento, ad opera di due grandi matematici: Pascal e Fermat. Essi però si limitarono a studiarne alcune applicazioni particolari, e anche il breve trattato scritto sull'argomento da Huygens non era altro, in realtà, che una raccolta di problemi in parte già risolti e in parte nuovi. Il fatto stesso che il nuovo calcolo risultasse prevalentemente legato ai giochi d'azzardo, non stimolava certo a considerarlo come un'autentica disciplina scientifica. I primi trattati generali sull'argomento risalgono al Settecento onde solo in questo secolo l'importante capitolo della matematica comincia ad acquistare una fisionomia ben determinata. Tra essi ci limitiamo per ora a ricordare: l'Essai d' ana(yse sur /es jeux de hazard (Saggio di analisi sui giochi d'azzardo, ra ed. 1708, za ed. ampliata 1714) di Pierre Raymond Montmort (1678-1719); l'Ars conjectandi di Giacomo Bernoulli, pubblicata postuma dal nipote Nicola nel 1713 (nella forma incompleta in cui l'autore l'aveva lasciata); e il volume The doctrine of chance (La dottrina del caso) di Abraham De Moivre pubblicato nel 1718 (za ed. 1738, 3a ed. 1756). L'interesse per il calcolo delle probabilità si diffonde ormai rapidamente in tutti i più avanzati ambienti scientifici: se ne occupano con impegno Daniele Bernoulli e s' Gravesande, Buffon, d'Alembert, Eulero, Hume, Lambert, ecc. Il fatto notevole è, però, che lo si vede in una luce tutta particolare: non più -ben inteso- come puramente legato ai giochi d'azzardo, ma nemmeno come fornito di dignità pari a quella degli altri capitoli della matematica. È un calcolo di cui si riconosce l'indubbia utilità nelle «scienze morali o umane», ma proprio per la relativa inesattezza di queste, nessuno pensa seriamente di applicarlo alla fisica, in quanto lo si ritiene inidoneo a fornirle il rigore che tale disciplina può ricavare da una vera e propria trattazione matematica. Lo si applica invece largamente nell'elaborazione delle tavole di mortalità e di sopravvivenza e nella loro utilizzazione da parte delle società assicuratrici, nella valutazione dell'attendibilità delle testimonianze, e perfino nella previsione delle deliberazioni delle assemblee, nella stima dei possibili errori compiuti dai tribunali, ecc. Pur senza voler esporre la storia del calcolo in esame, non possiamo esimerci dal ricordare che parecchi teoremi fondamentali di esso risalgono appunto al xvm secolo. Per esempio il famoso teorema di Bernoulli (che stabilisce un rapporto probabilistico fra la frequenza di un evento entro una successione di prove ripetute, in cui esso abbia sempre la medesima probabilità p, e il valore di questa p) compare per la prima volta nell'Ars conjectandi poco sopra menzionata; la non meno famosa formula di Bayes, riguardante la così detta probabilità delle cause, compare per la prima volta in una memoria di Thomas Bayes (1671-1746), dal titolo An essqy toward solving a problem in the doctrine of chances (Un saggio per risolvere un problema nella dottrina delle probabilità) pubblicata, postuma, nel 1764; la così
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detta formula di De Moivre-Stirling, che ci permette di calcolare con un'approssimazione crescente al crescere dell'intero n il valore della funzione fattoriale n mediante le funzioni n", e",y'n (formula di larga applicazione nel calcolo delle probabilità) compare nei Miscellanea ana(ytica di De Moivre (r73o) e, notevolmente precisata, nel Methodus differentialis (esso pure del r 7 30) di Stirling. L'esemplificazione, che potrebbe venire ulteriormente proseguita, conferma in modo incontestabile il rapido diffondersi dell'interesse per il calcolo delle probabilità; non deve però trar ci in inganno sulla consistenza teorica da esso assunta. In realtà questa risulta ancora molto scarsa, per il carattere incompleto e poco preciso delle sistemazioni che ne vengono tentate (ricordammo poco sopra quelle operate da Montmort, da Giacomo Bernoulli e da Abraham De Moivre). Il primo lavoro davvero soddisfacente da tale punto di vista sarà compiuto-- come vedremo nella sezione vr- da Laplace nei primi anni dell'Ottocento; la sua trattazione potrà in tal modo iniziare una nuova fase della storia di questo ramo della matematica. Ciò che mancava nel Settecento non era soltanto un assetto rigoroso degli assiomi posti a base del calcolo delle probabilità, ma perfino una definizione un po' chiara dei suoi concetti fondamentali (che potesse venire accolta concordemente da tutti i cultori dell'argomento e che potesse poi, in un secondo tempo, venire sottoposta all'accurata analisi dei logici). Che per calcolare la probabilità di un evento, nel caso in cui si riesca a stabilire il numero dei casi ad esso favorevoli e quello dei casi possibili, si dovesse dividere il primo numero per il secondo, era noto fin dal secolo precedente; ma i dubbi sorgevano appena si trattava di decidere il significato attribuibile a tale rapporto, nonché alle espressioni « casi favorevoli» e «casi possibili». All'interno del calcolo si veniva così delineando una netta distinzione fra una parte algebrica, su cui sembrava abbastanza facile ottenere una certa unanimità, e una parte concettuale ove regnava la massima confusione. Giacomo Bernoulli definisce la probabilità come grado di certezza: « probabilitas est gradus certitudinis, et ab hac differt ut pars a toto »; ma questa definizione crea più confusione che chiarezza, sia per il riferimento a qualcosa di eminentemente soggettivo come la « certitudo », sia per l'oscurità del termine « gradus »(a rigore i gradi di certezza vengono definiti proprio attraverso i valori della probabilità, e non viceversa come pretenderebbe l'autore della definizione). A proposito della regola poco fa riferita, consistente nell'assumere come misura della probabilità il rapporto fra numero dei casi favorevoli e numero dei casi possibili, egli afferma che essa risulta applicabile quando non vi è motivo di ritenere che le cose vadano piuttosto in un modo che nell'altro. In manifesta analogia col principio leibniziano di ragion sufficiente il nostro autore lo indica come principio di «ragione non sufficiente»; in seguito verrà chiamato « principio di indifferenza » così enunciato: in mancanza di ragioni che permettano di r88
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assegnare probabilità diverse a ciascuno di più eventi alternativi ed esaustivi, essi devono venire considerati come equiprobabili. Il riferimento alla « certitudo », interpretata come qualcosa di essenzialmente soggettivo, è ancora presente nella voce Probabilité della Enryclopédie (voce dovuta a d' Alembert), ave è compiuta una classificazione che vale la pena citare (come esempio di manifesta equivocità) : secondo tale classificazione un evento sarebbe probabile se ha più di un mezzo di certezza, sarebbe v~risimile se ha molto più di un mezzo di certezza, moralmente certo se ha una certezza quasi completa, incerto se ha un mezzo di certezza, dubbio se ha meno di un mezzo di certezza, ecc. Il problema è reso ulteriormente complicato dalla distinzione - assai diffusa nel Settecento - tra evidentia mathematica ed evidentia moralis e dall'incertezza se far rientrare la probabilità nell'una o nell'altra. In genere si tende a collegarla alla seconda, non alla prima (perché la matematica è un scire mentre il calcolo delle probabilità è solo un conjectare); ma allora, d si chiede, che cosa ci autorizza ad esprimere la probabilità in numeri e perché mai si fa ricorso all'algebra per determinare una probabilità a partire da altre? Né manca chi sostiene (come accennammo nella classificazione testé citata) che l'evidentia moralis avrebbe a che tà.re con la probabilità solo quando questa risulta molto prossima alla certezza, e cioè quando la frazione che la esprime ha un valore molto prossimo all'unità. Stando così le cose, non dobbiamo stupirei che il calcolo delle probabilità venga dai più considerato- come già accennammo - applicabile solo alle scienze umane non a quelle fisiche; e che nello stesso ambito delle prime la sua applicazione dia luogo a parecchi dissensi, anche fra studiosi dotati di pari serietà. Se - come spiega molto bene Orietta Cambursano Pesenti - « esso si presenta come guida all'azione più che come una vera e propria conoscenza», chiaro è però che la guida da esso fornita diventa sommamente incerta quando l'interesse di chi agisce sia diretto al singolo evento e non a un insieme di gran numero di eventi (questo ultimo caso accade per le case assicuratrici, che infatti si avvalgono con grande vantaggio dei calcoli probabilistid). La questione emerse con un carattere di autentica drammaticità, quando cominciò a diffondersi in Europa l'uso (proveniente dai paesi orientali) di inoculare nei fanciulli il vaiolo - in forma non virulenta - onde immunizzarli per tutta la vita dalla grave malattia. Il metodo presentava però il gravissimo inconveniente di non poter garantire la certezza, ma solo una forte probabilità, di condurre ad un esito positivo; sull'opportunità o meno di ricorrere ad esso in queste condizioni si accesero pertanto appassionate discussioni fra i maggiori scienziati dell'epoca (tanto più appasdonate in quanto vi si mescolavano confusamente problemi matematici e problemi di coscienza). Vale la pena riferire un breve rt:soconto di esse fattone da Laplace nel 1814.
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« Il vaiolo ha questa caratteristica: non colpisce mai due volte lo stesso individuo o per lo meno ciò avviene così raramente che se ne può fare del tutto astrazione nel calcolo. Prima della scoperta del vaccino, ben pochi sfuggivano a quella malattia che spesso è mortale ed uccide circa un settimo di coloro che ne sono colpiti. Talvolta però è benigna, e l'esperienza ha dimostrato che le si poteva dare questo carattere, inoculandola su persone sane, preparate con un buon regime, e in una stagione adatta. Allora il rapporto tra gli individui che uccide e quelli vaccinati, non è che un trecentesimo. Questo enorme vantaggio dell'inoculazione, unito a quello di non alterare l'estetica e di preservare dalle conseguenze spiacevoli che il vaiolo naturale spesso porta con sé, ha fatto adottare da moltissime persone l'inoculazione. La sua pratica fu vivamente raccomandata, ma, come quasi sempre avviene per le cose che sono soggette ad inconvenienti, fu anche vivamente combattuta. Mentre ardeva la disputa, Daniele Bernoulli si propose di sottoporre al calcolo delle probabilità l'influenza dell'inoculazione sulla durata media della vita. Mancando di dati precisi sulla mortalità causata dal vaiolo nelle diverse età della vita, suppose che il pericolo di essere colpiti da questa malattia e quello di perirne fossero uguali a qualsiasi età. Partendo da tali ipotesi, giunse, attraverso un'analisi acuta, a trasformare una tavola ordinaria di mortalità, in quelle che si potrebbero fare se il vaiolo non esistesse o se per lo meno non facesse perire che un piccolissimo numero di malati; ne concluse che l'inoculazione aumenterebbe di almeno tre anni la durata media della vita, il che, a parere dello scienziato, indicherebbe chiaramente il vantaggio dell'inoculazione. D' Alembert polemizzò contro l'analisi di Bernoulli, dapprima a proposito dell'incertezza delle sue due ipotesi, poi per l'incompletezza dell'analisi, perché non vi era stato fatto rientrare il confronto tra il pericolo prossimo, sia pure minimo, di perire per l'inoculazione, ed il pericolo ben più grande ma anche più lontano di soccombere al vaiolo naturale. Questa considerazione non ha senso quando si considera un numero grandissimo di individui, ed è appunto per questo un'argomentazione di nessuna importanza per i governi, per i quali i vantaggi dell'inoculazione sussistono; ma ha un gran peso su un padre di famiglia che, facendo inoculare la malattia nei suoi bambini, teme di veder ben presto perire ciò che di più caro ha al mondo e di esserne la causa. Molti genitori rifiutavano di adottare l'inoculazione proprio per questo timore, che è stato fortunatamente dissipato dalla scoperta del vaccino. »1 Si tratta, come ognun vede, di difficoltà strettamente collegate alla definizione poco sopra riferita della probabilità come grado di certezza; era proprio I Anche il fatto che l'inoculazione in un organismo umano di vaiolo vaccino gli procurasse una certa immunità rispetto al vaiolo umano era noto da tempo ai popoli orientali; ma lo studio scientifico di questo fenomeno e la sua piena valorizzazione per l'immunizzazione degli uomini ri-
sale solo al 1798. Il merito della «scoperta» spetta al medico inglese Edward Jenner (1749-182.3) che in tale anno pubblicò una memoria fondamentale sugli accuratissimi esperimenti da lui eseguiti in proposito.
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la presentazione soggettivistico-psicologica di essa che conduceva a confondere i problemi concreti - connessi a una grave decisione del singolo individuo con i problemi teorici, riguardanti il significato scientifico del nuovo calcolo. V ed remo nell'ultima sezione che l 'interpretazione della nozione di probabilità dà effettivamente luogo ancor oggi a gravi dibattiti fra soggettivisti, logicisti e frequentisti, ma sono dibattiti esattamente circoscritti, che non scaturiscono più -come nel Settecento- da una inconsapevole sovrapposizione di sfere diverse. È chiaro comunque che un'impostazione rigorosa di essi esige un'accuratissima critica dei fondamenti: critica che non poteva nemmeno venire abbozzata quando il calcolo delle probabilità non aveva ancora raggiunto un primo assetto sistematico. Essa potrà sorgere solo dopo l'elaborazione di Laplace, per l'appunto, quale approfondimento logico ed epistemologico delle nozioni cui fanno riferimento le ipotesi ivi emerse come essenziali. Senza insistere oltre sull'argomento, ci limiteremo a sottolineare ancora una volta quanto sia tipico della mentalità illuministica lo stadio raggiunto nel Settecento dal calcolo delle probabilità: caratterizzato per un lato da un notevolissimo fervore di ricerche, quasi sempre svolte con incontestabile abilità tecnica, per l'altro da una non meno notevole imprecisione di concetti e da gravi manchevolezze nella sistemazione della materia. Imprecisione e manchevolezze che, pur rendendo difficile un'esatta collocazione del calcolo nel quadro delle nostre conoscenze, non diminuivano però la fiducia in esso, poiché tutti vi scorgevano un nuovo strumento - forse non ancora ben chiaro, ma comunque fornito di una certa efficacia - per allargare il dominio della ragione a campi che erano parsi sfuggire, fino a quel momento, ad ogni seria indagine scientifica.
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CAPITOLO OTTAVO
L'esigenza di una più ampia sperimentazione nelle scienze della natura
I
· CONSIDERAZIONI GENERALI
Se un notevole settore della scienza fisica (intesa nel senso più generale del termine, cioè come scienza della natura inorganica) fu senza dubbio caratterizzato nel Settecento da una crescente esigenza di sistematicità, da attuarsi mediante l'applicazione sempre più estesa della matematica, altri settori però quelli dei quali intendiamo occuparci nel presente capitolo - furono invece caratterizzati dall'acquisizione di nuovi risultati sperimentali, spesso inquadrabili senza grandi difficoltà in leggi empiriche abbastanza precise ma non in teorie generali soddisfacenti. Questo ampliamento di dati, strettamente connesso ai rapidi e sorprendenti progressi della tecnica, costituirà nel giro di qualche decennio una delle molle più importanti per la graduale elaborazione di nuove categorie scientifiche. Mentre i problemi connessi all'esigenza di sistematicità, di cui parlammo nel capitolo precedente, avevano un manifesto rilievo filosofico - in quanto concernevano il significato stesso e i limiti della « razionalità », attribuita nel Settecento alle due discipline, la matematica e la meccanica, più concordemente riconosciute come autentiche scienze - i problemi relativi al settore di ricerche prese in esame nel presente capitolo hanno soprattutto un rilievo metodologico, che riguarda solo indirettamente la filosofia. Essi sono, comunque, assai importanti al fine di comprendere la complessità dei fattori intervenuti nella laboriosa costituzione della scienza moderna. A titolo puramente indicativo, diremo fin d'ora che tali problemi possono venire incentrati sui tre seguenti temi fondamentali: 1) simbiosi fra scienza e tecnica, che nel xvm secolo si risolve spesso in un contributo della seconda alla prima maggiore che non quello della prima alla seconda (a causa dell'inadeguatezzza degli strumenti teorici posseduti dalla scienza dell'epoca onde teorizzare i nuovi campi fenomenici di cui la tecnica stava scoprendo l'enorme importanza, per esempio il campo concernente gli scambi tra lavoro e calore); 2) scarsa rispondenza tra fatti e teoria negli stessi settori ove la teoria sem-
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brava garantita da più solide basi razionali, quale appunto il settore della meceanica (possiamo citare a titolo d'esempio le parole scritte dall'ingegnere militare Charles Borda [I 7 33-99], in una celebre memoria del I 766 dedicata allo studio del moto dei fluidi, ove egli prende in esame l'utilizzabilità dell'idrodinamica teorica a fini pratici: « La teoria ordinaria dell'urto dei fluidi non fornisce che dei rapporti assolutamente falsi e, per conseguenza, sarebbe inutile e perfino pericoloso applicare questa teoria all'arte della costruzione dei vascelli. »); 3) difficoltà di giustificare le leggi della natura, unicamente ricavate dalla generalizzazione dei dati osservativi. Per dare un certo ordine alla nostra esposizione, cominceremo a ricapitolare brevemente alcuni dei principali progressi conseguiti, durante il Settecento, nel campo della fabbricazione degli strumenti scientifici, passando poi a delineare, nel paragrafo successivo, un quadro generale - di necessità schematico - dei nuovi sviluppi della tecnica più difficilmente collegabili con le vedute scientifiche del secolo. Dopo un rapido esame delle conquiste realizzate dalle più significative ricerche sperimentali di fisica e di chimica, ci soffermeremo infine a discutere la portata delle prime istanze critiche affioranti in alcuni scienziati dell'epoca (in particolare nel fisico olandese 's Gravesande). Dato il gran numero di autori considerati, pochi dei quali ebbero una personalità scientifica di autentico rilievo culturale, ci limiteremo a fornire pochissimi dati biografici su ciascuno di essi - via via che avremo occasione di nominarlo - aggiungendo qualche ulteriore notizia solo sulle figure di primissimo piano. II
· RAPIDI PROGRESSI NELLA COSTRUZIONE DEGLI STRUMENTI
SCIENTIFICI
Ci si è soffermati, nel capitolo XI della sezione IV, sul nuovo e significativo interesse diffusosi tra gli scienziati del Seicento per gli strumenti scientifici, e si sono elencati alcuni fra i più importanti di essi che in tale arco di tempo vennero a potenziare le indagini sulla natura. Come è agevole comprendere, i successi così ottenuti riuscirono a vincere quasi completamente (non però in tutte le discipline) le primitive riserve contro il nuovo metodo di osservare la natura, spingendo tecnici e scienziati a compiere ogni sforzo per migliorare gli apparecchi da poco costruiti e per fabbricarne dei nuovi. Non potendo dare un panorama completo dei progressi conseguiti lungo tale via, ci limiteremo a ricordare i campi in cui si realizzarono passi più rapidi e più ricchi di conseguenze in vista dello sviluppo generale della ricerca scientifica. In primo luogo va menzionato il settore della misura del tempo, importantissimo sia dal punto di vista della scienza pura sia per le sue applicazioni pratiche. Il difficile problema, che fu necessario risolvere per migliorare in modo significativo gli orologi del Seicento, riguardava la costruzione di bilancieri
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che garantissero l'isocronismo delle oscillazioni, compensando le variazioni dovute ai mutamenti di temperatura. Il merito maggiore in questo campo spetta al meccanico inglese John Harrison (I693-I776) che nel 1726 ideò il pendolo compensato a struttura bimetallica e nel I 7 3 5 riuscì a fabbricare un primo soddisfacente cronometro marino (controllato da due bilancieri oscillanti in verso opposto, capaci di controbilanciare i movimenti della nave) da utilizzarsi per la determinazione della longitudine. Dopo avergli recato ulteriori perfezionamenti attraverso lunghi anni di paziente lavoro, si decise a presentarlo al governo britannico che aveva decretato un cospicuo premio a chi fosse riuscito a costruire un apparecchio atto a risolvere l'annoso problema della longitudine. Eseguite le debite prove, il premio gli venne riconosciuto nel I772. I cronometri di Harrison furono adoperati dal capitano Cook 1 per i suoi viaggi attorno al mondo. Quanto ai perfezionamenti conseguiti nella costruzione degli apparecchi elettrici, la loro storia è così intimamente legata a quella di tutta l'elettrologia dell'epoca, che preferiamo attendere a farne parola quando prenderemo in rapido esame lo sviluppo dell'intera disciplina. Un altro settore in cui furono realizzati notevolissimi progressi è quello degli apparecchi ottici: basti ricordare che nel I 7 57 l'inglese J ohn Dollond (I7o6-6I) riuscì a costruire un obiettivo acromatico, il che rappresentò una vera e propria svolta in tale campo della tecnica. L'acromatismo era già stato fatto oggetto alcuni anni prima di approfonditi studi da parte del matematico Eulero (di cui parlammo a lungo nel capitolo precedente) che aveva sostenuto contro l'opinione di Newton la possibilità di costruire lenti acromatiche, senza però passare all'effettiva realizzazione di esse. Alcuni importanti perfezionamenti vennero pure introdotti, nella costruzione dei microscopi, dal fisico tedesco Aepinus, su cui ritorneremo nel paragrafo v, e dall'ufficiale olandese François Gerardzoon Beeldsnyder (I7jj-I8o8). Anche la fabbricazione di telescopi a riflessione, già iniziata nel S.eicento (come si ricordò nel capitolo poco sopra citato della sezione Iv) subì importanti miglioramenti soprattutto verso la fine del XVIII secolo ad opera del grande astronomo William Herschel (su cui ritorneremo nel paragrafo IV) che compì le sue famose scoperte astronomiche per l'appunto con un apparecchio di tale tipo (fornito di un tubo di m. I 2 di lunghezza e I .4 7 di larghezza). Passando ora dall'ottica alla termologia, va ricordato che proprio al Settecento risale l'introduzione delle scale termometriche ancora oggi in uso, dovute all'olandese Gabriel Daniel Fahrenheit (I686-I736), al francese René Antoine 1 James Cook (1728-79) fu il maggiore esploratore inglese del Settecento. Nel 1768 egli venne inviato dalla Royal Society di Londra nel Pacifico meridionale, per osservare da Tahiti un determinato passaggio di Venere sul sole. Il fatto che la più illustre accademia inglese abbia affidato a Cook questa missione dimostra quanta importanza fosse
ormai attribuita, anche in sede ufficiale, alle esplorazioni geografiche. In questo ed in altri viaggi, Cook diede un contributo fondamentale allo studio della geografia dell'Australia, della Nuova Zelanda e dell'Oceano Pacifico. Non riuscì tuttavia nell'impresa che più gli stava a cuore: scoprire il continente Antartico.
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Ferchault de Réaumur (1683-1757), e allo svedese Anders Celsius (1701-44)· Tale introduzione fu resa possibile dalla scoperta - dovuta al fisico Guillaume Amontons (1663-1705)- che la temperatura di ebollizione dell'acqua è costante se resta costante la pressione atmosferica: chiaro esempio, come ognuno vede, di stretta e feconda collaborazione fra ricerca scientifica e abilità tecnica (una notevole abilità era ad esempio richiesta per dividere l'intervallo fra i due punti fissi della scala termometrica in trattini esattamente uguali). Assai vantaggioso si rivelò pure l'impiego - operato per la prima volta in forma sistematica, da Fahrenheit -- del mercurio in luogo dell'alcool come liquido termometrico; esso permise la costruzione di termometri più piccoli e più maneggevoli, con i quali fu possibile determinare con maggiore esattezza di prima il decorso dei fenomeni (per esempio lo stesso Fahrenheit riuscì a scoprire con i nuovi apparecchi l'importante fenomeno della soprafusione). Tra i molti altri apparecchi ideati per lo studio sperimentale della termologia, ci limiteremo a ricordare i primi calorimetri costruiti verso il 1750 dal chimico Joseph Black (1728-99), professore all'università di Glasgow, per misurare la quantità di calore assorbita nei mutamenti di stato, e i dilatometri costruiti per determinare le dilatazioni delle aste metalliche da utilizzarsi nella costruzione degli orologi. Il primo dilatometro fu progettato, verso il 1 7 3o, dal fisico e meccanico inglese George Graham (1673-1751); esso subirà in pochi decenni notevoli perfezionamenti e permetterà così uno studio accurato delle leggi di dilatazione. Al medesimo Harrison poco fa ricordato spetta pure il merito di aver costruito la prima bilancia di precisione. Altre bilance ancora più sensibili ed esatte verranno costruite dall'ingegnere meccanico francese Pierre Bernard Mégnié (1751-I8o7) su ordinazione di Lavoisier, e costituiranno lo strumento fondamentale con cui questi opererà le sue rivoluzionarie scoperte. Oltre alla bilancia, anche altri apparecchi di uso comune nelle ricerche chimiche (a base di recipienti di vetro variamente conformati) subirono ingegnosi perfezionamenti; degno di nota è pure l 'uso delle lenti per concentrare i raggi del sole su una ben determinata porzione di spazio onde produrvi opportune reazioni. Particolarmente studiata fu la chimica dei gas, che condusse a molte scoperte ricche di applicazioni tecniche, talune delle quali atte a suscitare l'entusiasmo delle stesse folle. Basti ricordare l'ammirazione generale per il primo volo che Joseph Michel Montgolfier (1740-I8IO) riuscì a far compiere il 20 settembre 1783 a un pallone aerostatico da lui costruito; in questo volo la navicella del pallone era ancora senza passeggeri, ma un mese più tardi esso veniva ripetuto con pari successo, e questa volta erano saliti a bordo due coraggiosi pionieri: il fisico François Pila tre de Rozier (I 7 54-8 5) e il marchese François Laurent Arlandes de Salton (1742-I8o9). Nel gennaio 1785 Jean-Pierre Blanchard (1753-18o9) attraversava la Manica su di un pallone aerostatico. A parte l'accresciuta fiducia nelle possibilità umane che questi ed altri sue-
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cessi diffusero rapidamente tra i più larghi strati di persone, non è difficile comprendere che i progressi poco sopra accennati della strumentologia scientifica ebbero profonde ripercussioni nell'impostazione stessa dei problemi conoscitivi. Essi confermavano la giustezza e la fecondità dell'insegnamento impartito all'inizio del Seicento dai creatori della scienza moderna (e in particolare da Bacone): l'uomo può scoprire i segreti della natura - e quindi imparare a dominarla - quando sappia interrogarla in forme opportune; cioè quando non si limiti a una contemplazione passiva dei fenomeni, ma si costruisca con le proprie mani sempre nuovi strumenti di indagine, capaci di allargare il campo dell'esperienza, di precisare i dati che essa ci fornisce, di provocarne il decorso in condizioni esattamente controllate. III
· I COMPLESSI RAPPORTI TRA TECNICA E SCIENZA
Non è il caso di sottolineare gli stimoli e i suggerimenti che pressoché tutti i campi della produzione ricavarono in breve tempo dai perfezionamenti conseguiti nella costruzione degli strumenti scientifici. Taluni di questi strumenti - come già ricordammo - trovarono diretta applicazione nell'attività pratica (per esempio nella navigazione); altri servirono da modelli per introdurre miglioramenti nelle macchine di uso ordinario, rendendole più efficienti anche se più costose. Saranno come è ovvio le imprese economicamente più solide a perfezionare i propri macchinari, acquistando in tal modo nuove possibilità di imporsi sui mercati. Particolari applicazioni trovarono le innovazioni della tecnologia chimica, sia nell'ambito della lavorazione dei metalli sia in quello della produzione degli esplosivi, onde si cominciarono a costruire armi più potenti e più precise. Furono rinnovati i metodi per la costruzione delle massicciate delle strade, con notevole vantaggio delle comunicazioni terrestri, nonché quelli per la costruzione degli edifici di abitazione, delle fortificazioni, ecc. I perfezionamenti apportati agli strumenti ottici permisero un più preciso rilevamento topografico, il che rese possibile un notevole miglioramento della cartografia. Furono scavati nuovi canali, sia per l'irrigazione sia per la navigazione interna. E così via. Si formò perfino un nuovo mercato per la costruzione di strumenti scientifici a uso dimostrativo. Come scrive Derek J. Price « gli artigiani più in vista cominciarono ora a vendere attraenti cassette contenenti serie di apparecchi per la dimostrazione delle leggi della meccanica o del magnetismo, scatole di modelli per illustrare la geometria solida, serie di lastre e oggetti per il microscopio del principiante, globi e complicati congegni istruttivi come il planetario ... Questa tendenza si accentuò man mano che il secolo s'inoltrava». Eppure, malgrado questo fecondo interscambio fra scienza e tecnica (stimolato - come si è detto - dai perfezionamenti conseguiti dalla strumentolo-
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gia scientifica), vi fu un vastissimo settore della tecnologia nel quale per tutto il XVIII secolo le influenze della scienza rimasero pressoché nulle; e fu proprio il settore in cui si produsse la svolta più radicale, destinata ad avere le maggiori ripercussioni sullo sviluppo della società. Intendiamo riferirei alla svolta determinata dall'invenzione delle macchine a vapore. Data la sua enorme importanza, riteniamo doveroso fornire in proposito qualche notizia più dettagliata. 1 Nel 1698 il meccanico inglese Thomas Savary (1650-171 5) aveva brevettato una «pompa a fuoco» per l'estrazione dell'acqua dalle miniere. Si trattava di inviare con un opportuno congegno di valvole del vapore acqueo ad alta temperatura entro un robusto recipiente, raffreddandolo poi rapidamente col bagnarne dall'esterno le pareti; il vapore si condensava producendo nel recipiente un vuoto abbastanza spinto, onde questo (cioè la camera di condensazione) poteva funzionare come pompa aspirante, capace di sollevare fino a sé un certo quantitativo d'acqua. In un secondo tempo entrava- nella camera così riempita - del nuovo vapore sotto pressione, che ne esp~lleva con forza l 'acqua ivi contenuta, funzionando questa volta come pompa premente. Il rudimentale apparecchio, che aveva un rendimento assai scarso e che tra fase aspirante e fase premente riusciva appena a sollevare l'acqua di 17-18 metri, incontrò tuttavia un certo successo venendo utilmente applicato sia per il prosciugamento delle miniere dall'acqua di infiltrazione, sia per l'approvvigionamento idrico di grandi fabbricati. Dal punto di vista teorico esso rappresentava una importante novità perché interessava - come sottolinea Cesare Codegone a proposito di questo genere di macchine--« due ordini di fatti fin'allora ritenuti eterogenei: il sollevamento di pesi e il riscaldamento di corpi, considerati rispettivamente dalla meccanica e dalla termologia ». Il ponte gettato da Savary fra tali due scienze, che nel Settecento apparivano tanto lontane una dall'altra sia nei loro concetti sia nei loro metodi, fu ben presto rafforzato dagli inventori di nuove macchine a fuoco: col trascorrere del tempo esso si rivelerà una delle idee più feconde di tutto il pensiero scientifico moderno. Il progetto di sfruttare il vapore acqueo, portato ad alta temperatura, per la produzione di lavoro meccanico, fu pure avanzato- all'incirca nel medesimo tempo- da un valente fisico francese, Denis Papin (1647-1714), inventore della famosa « pentola » che porta appunto il suo nome; ma rimase allo stato di semplice progetto per le difficoltà incontrate nella realizzazione. Esso venne comunque a conoscenza del meccanico inglese Thomas NewI Rinunceremo invece, perché trattasi di argomento che interessa più la storia dell'economia che non quella del pensiero scientifico, a soffermarci sui notevoli sviluppi conseguiti, durante l'epoca in esame, dalla costruzione dei telai (navetta volante, filatrice automatica, ecc.) e dalla la-
vorazione dei metalli (sostituzione dei forni a coke in luogo dei forni a carbone di legna, per realizzare la fusione prima del rame poi della ghisa; produzione del così detto « acciaio al crogiolo » che suole venir considerato il primo acciaio moderno, ecc.).
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comen (I663-I7z9), il quale, prendendo le mosse dall'idea di Papin e dalla pompa a fuoco di Savary, riuscì a costruire nel I 7I z una ingegnosa macchina, pratica e sicura, per trasformare il calore in lavoro. Essa era costituita da un grande cilindro in posizione verticale, entro cui poteva scorrere uno stantuffo; questo veniva fatto salire principalmente per l'azione di un peso opportunamente collocato all'estremità di una leva, e durante la salita, la parte inferiore del cilindro si riempiva di vapore prodotto (ad una pressione poco superiore a quella atmosferica) da una caldaia sottostante; giunto lo stantuffo all'estremo superiore del cilindro, il vapore veniva fatto rapidamente condensare da un getto d'acqua fredda, producendo entro la parte inferiore del cilindro un vuoto abbastanza spinto: allora la pressione atmosferica spingeva con forza lo stantuffo dall' estremo superiore a quello inferiore del cilindro. Inizialmente la macchina era in grado di battere sei colpi al minuto; col tempo, però, venne migliorata sì da batterne dodici o anche quindici. Con un opportuno sistema di ingranaggi, questi colpi riuscivano a mettere in moto delle pompe per il sollevamento dell'acqua; così la macchina poteva venire utilizzata sia per prosciugare i pozzi delle miniere, sia per portare acqua in serbatoi opportunamente elevati dai quali essa veniva poi fatta scendere mettendo in moto una ruota idraulica. Il rendimento, sebbene notevolmente superiore a quello delle «pompe a fuoco» di Savary, era ancora assai basso; esso verrà quasi raddoppiato nel I 77 5, a causa dei perfezionamenti introdotti nei vari congegni dall'ingegnere inglese John Smeaton (I7z4-9z). Malgrado il basso rendimento, l'uso della nuova macchina si diffuse rapidamente non solo in Inghilterra ma anche sul continente, tanta era la « fame di energia » provocata dal grande sviluppo della produzione in pressoché tutti i paesi civili d'Europa. Va subito sottolineato però che il dispositivo ideato da Newcomen non costituiva ancora una innovazione autenticamente « rivoluzionaria » nella tecnologia dell'epoca; ai più essa appariva infatti come null'altro che un ingegnoso accessorio, sia pure molto utile, della ruota idraulica. Per dare inizio alla vera e propria sostituzione dell'energia termica all'energia idraulica, era necessario un ulteriore passo. Tale passo fu compiuto da James Watt (I736-I8I9). Questi era un abilissimo tecnico che lavorava presso l'istituto di fisica dell'università di Glasgow. Nel 1763, invitato a riparare una macchina di Newcomen in dotazione di tale università, ebbe modo di studiarla in tutti i particolari, esaminandone in dettaglio il funzionamento. Ebbe quindi l'idea di introdurvi alcune modifiche per accrescere il rendimento (la principale fu costituita dall'aggiunta del condensatore); pervenne così alla costruzione di una nuova macchina, che fece brevettare nel I769. Successivi perfezionamenti la resero straordinariame.nte più vantaggiosa di tutte le macchine precedenti; di particolare importanza fu l 'introduzione dei « rotismi epicicloidali» e del « parallelogramma », capaci di trasformare il
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movimento oscillatorio di un'asta (collegata allo stantuffo che scorre avanti e indietro nel cilindro) in movimento rota torio. Ormai la macchina a vapore non era più un semplice accessorio della ruota idraulica: era uno strumento capace di produrre direttamente il tipo di movimento di cui tutte le officine .avevano bisogno. Lo stesso Watt, associatosi con un abile e ricco imprenditore (Matthew Boulton), ne iniziò a Soho la produzione su vasta scala. Il successo da essi ottenuto fu rapido ed enorme. Ecco le parole con cui ce lo descrive Umberto Forti nella sua affascinante opera, qui largamente usata, Tecnica e Progresso umano: « Nel 1780, quaranta macchine a vapore erano già usate in Inghilterra, e la prima si imbarcava per il continente. L'anno appresso, una fu inviata negli Stati Uniti e un'altra fu installata a Parigi per sollevare le acque della Senna, e alimentare numerose fontane. Il successo di curiosità era pari a quello industriale. Dalle officine di Soho - che fornivano tutto il mondo - uscirono centinaia di esemplari (la produzione segnava un crescendo geometrico) nel ventennio che corre fra il I 780 e il I 8oo: macchine per miniere o per opere di prosciugamento, per mulini, per i recenti congegni tessili di Crompton e di Arkwright (che ormai abbandonavano la forza idraulica), per altiforni e industrie metallurgiche, per birrerie, segherie, e presse, per azionare il nuovo maglio nelle officine di Wilkinson (I783). » La macchina a vapore era ormai divenuta uno dei principali strumenti della rivoluzione industriale. Le notizie qui riferite sono sufficienti pur nella loro brevità, a farci comprendere il tipo di rapporti che legarono la più grande innovazione tecnica del XVIII secolo con l'autentico patrimonio scientifico dell'epoca: rapporti estremamente tenui, del tutto diversi da quelli che incontreremo nell'Ottocento e nel Novecento, quando lo sviluppo della scienza e quello della tecnica diventeranno pressoché inscindibili. Con ciò non vogliamo certo negare che l'invenzione della macchina a vapore sia stata in qualche modo influenzata dai contemporanei progressi della termologia (soprattutto dai nuovi apparecchi scientifici da questa ideati per l'esatta descrizione dei fenomeni termici); ma fu un'influenza indiretta, marginale, non determinante. Il fatto è che un vero e proprio studio scientifico delle trasformazioni del calore in lavoro sorgerà soltanto nel XIX secolo e sarà in gran parte determinato proprio dai progressi delle macchine a vapore: sarà cioè il progresso della tecnica a stimolare la scienza, e non viceversa. Come è stato giustamente scritto « fino al I 8 5o la macchina a vapore fece per la scienza più di quanto la scienza non abbia potuto fare per essa» (L.J. Henderson). È un fatto di cui bisogna tener conto, se si vogliono comprendere sul serio i tratti più caratteristici di questa importante fase del pensiero moderno.
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IV
· ASTRONOMIA, GEODESIA, GEOLOGIA
Le ricerche di astronomia si svilupparono, dopo Newton, lungo due direttrici principali: la prima tendente a dedurre, per mezzo dell'analisi infinitesimale, sempre nuove conseguenze a partire dalla legge di gravitazione, atte a spiegare con rigore via via crescente tutti i fenomeni celesti; la seconda invece a scoprire dati d'osservazione sempre più precisi, da utilizzarsi per ulteriori verifiche (che diedero ogni volta risultati positivi) del grande sistema newtoniano. Proseguirono pure per un certo tempo i dibattiti sulla causa della gravitazione stessa, ma poi finì per prevalere, anche su questo punto, la tesi di Newton, secondo cui la nostra ragione deve accontentarsi (H riconoscere la validità scientifica della legge accogliendola come « fatto generale », senza perdersi alla ricerca di ipotesi -più o meno metafisiche - mediante le quali tentare di spiegarla. La complessa ed esaltante situazione - in cui la cultura del Settecento vedeva mirabilmente confermata la potenza della mente umana, fatta forte dall'analisi infinitesimale - è stata, nel 1796, efficacemente riassunta da Laplace in alcune bellissime pagine da cui vale la pena stralciare qualche brano: « Egli [Newton] ha ben stabilito l'esistenza del principio che ha scoperto; ma lo sviluppo delle conseguenze e dei vantaggi che se ne traggono è stato opera dei suoi successori. L'imperfezione del calcolo infinitesimale, allora appena iniziato, non gli ha permesso di risolvere completamente i difficili problemi che presenta la teoria del sistema del mondo, ed è stato spesso costretto a dare soltanto delle indicazioni sempre incerte sin quando non siano verificate da un'analisi rigorosa ... Dopo che fu riconosciuta la vanità delle spiegazioni cartesiane, si considerò l'attrazione come Newton l'aveva presentata, vale a dire come un fatto generale al quale era giunto attraverso una serie di induzioni, e dal quale era ridisceso per spiegare i fenomeni celesti... I geometri rettificando e generalizzando le sue dimostrazioni, avendo trovato il più perfetto accordo tra le osservazioni ed i risultati dell'analisi, hanno adottato unanimemente la sua teoria del sistema del mondo, divenuta per merito delle loro ricerche, la base di tutta l'astronomia ... Passarono circa cinquant'anni dalla scoperta dell'attrazione, senza che si aggiungesse ad essa niente di notevole. Ci volle tutto quel tempo perché una verità così grande fosse generalmente capita e potesse superare gli ostacoli che le opponeva sul continente l'idea che, sull'esempio di Descartes, si dovesse spiegare meccanicamente la gravitazione ... Bisogna però osservare che per i contemporanei di Newton come per Newton stesso la gravitazione universale non aveva quella certezza che i progressi delle scienze matematiche e le osservazioni le hanno dato. Eulero e Clairaut che, con d' Alembert, applicarono per primi l'analisi alle perturbazioni dei movimenti celesti, giudicarono la gravitazione universale non sufficientemente fondata per attribuire all'inesattezza delle approssimazioni o del calcolo le differenze che notarono tra l'osservazione e i loro risultati sui movimenti di Saturno e del perigeo zoo
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lunare. Ma quegli stessi illustri geometri e i loro successori, dopo avere rettificato quei risultati, perfezionato i metodi e portato le approssimazioni ad ·un grado sufficiente, sono alla fine giunti a spiegare, mediante la sola legge di gravitazione, tutti i fenomeni del sistema del mondo e a dare alle teorie e alle tavole astronomiche una precisione insperata... Il geometra ha così saputo estrarre dalle osservazioni, come da una miniera feconda, gli elementi più importanti dell'astronomia, che, senza l'analisi, vi resterebbero eternamente nascosti. Egli ha determinato i valori rispettivi delle masse del Sole, dei pianeti e dei satelliti, tenendo conto delle rivoluzioni dei vari corpi e dello sviluppo delle loro ineguaglianze periodiche e secolari; la velocità della luce e l'ellitticità di Giove gli san state date dalle eclissi dei satelliti, con maggior precisione che dalla osservazione diretta; ha ricavato la rotazione di Urano, di Saturno e del suo anello e l'appiattimento dei due pianeti dalla posizione rispettiva delle orbite dei loro satelliti; le parallassi del Sole e della Luna e l'ellitticità stessa dello sferoide terrestre si sono rivelate nelle ineguaglianze lunari; s'è visto infatti, che la Luna mediante il suo movimento rivela all'astronomia perfezionata l'appiattimento della Terra come ne aveva palesato ai primi astronomi mediante le eclissi la rotondità. Infine, mediante una felice combinazione dell'analisi e delle osservazioni, la Luna, che sembra essere stata data alla Terra per illuminarla durante le notti, è diventata la guida più sicura del navigante, il quale è garantito da essa dai pericoli ai quali fu esposto per lungo tempo, dati gli errori di calcolo. La perfezione della teoria lunare, alla quale egli deve questo prezioso vantaggio e quello di fissare con esattezza la posizione dei luoghi in cui approda, è il frutto degli studi dei geometri a partire da cinquanta anni fa, e, in un così breve intervallo, la geografia, resa più precisa dall'uso delle tavole lunari e degli orologi marini, ha fatto progressi maggiori che in tutti i secoli precedenti. Queste sublimi teorie riuniscono così tutto ciò che può dar valore alle scoperte: la grandezza e l'utilità dell'oggetto, la fecondità dei risultati e il merito della difficoltà superata.» (trad. di Orietta Cambursano Pesenti) Dopo le parole testé riferite di Laplace non sembra il caso di aggiungere altro né sull'importanza degli sviluppi analitici del sistema newtoniano né sul fatto, estremamente significativo, che la gravitazione universale finì per trasformarsi, in base ai rapidi e innumerevoli successi ottenuti, da legge che gli avversari di Newton ritenevano inaccettabile perché rimasta senza spiegazione, in principio generalissimo, non solo in se stesso valido ma da utilizzarsi per la spiegazione di tutte le altre leggi del cosmo. Occorrerà invece tornare brevemente sulla seconda delle due direttrici, lungo cui si avviò la ricerca astronomica nel secolo in esame. Come accennammo all'inizio del paragrafo, è una direttrice che fece assumere all'astronomia il carattere di scienza altrettanto osservativa quanto teorica, cioè di scienza diretta a raccogliere sempre nuovi e più precisi dati da inserire nel perfetto quadro del 2.01
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sistema newtoniano. Trattasi di dati che fu possibile scoprire - lungo anni di pazienti e accuratissime osservazioni- ~ia per l'accresciuta potenza dei telescopi sia per l 'uso sistematico dei micrometri (i cui primi esemplari cominciarono a venir costruiti nella seconda metà del Seicento, come si è già ricordato). Furono proprio essi a rendere possibile il rifacimento, con precisione allora ignota, dei cataloghi stellari sia del nostro emisfero sia di quello australe: questi cataloghi costituiranno la base di ogni ulteriore progresso delle ricerche astronomiche. Di particolare interesse, anche per i loro riflessi generali sulla cultura, furono gli studi sulle comete; essi riuscirono ad eliminare ogni carattere di mistero alla comparsa di questi singolari corpi celesti, svelandone l'effettiva - se pur recondita - regolarità e quindi sfatando le inveterate superstizioni sorte presso i vari popoli intorno a tale fenomeno. Merita particolare menzione l'opera di Edmund Halley (I65 6-I742.) il quale riuscì a scoprire l'identità della cometa comparsa nel cielo d'Europa nel I68z. con quella osservata da Kepler nel I6o7 ed a prevedere il suo ritorno nel I 7 58. I calcoli di Halley furono poi corretti dal matematico Clairaut che ne stabilì la ricomparsa nei primi mesi del I759 anziché nel '58. Allorché essa venne effettivamente osservata nel marzo I 7 59, il fatto suscitò un enorme entusiasmo e lo spirito scientifico conseguì una delle sue più notevoli vittorie. Alla cometa verrà ben giustamente attribuito il nome di « cometa di Halley ». Altra scoperta della massima importanza fu quella dell'aberrazione della luce proveniente dalle stelle fisse; essa venne compiuta da James Bradley (I6931 762. ), che partendo dalle osservazioni su tale aberrazione riuscì a misurare la velocità della luce. A lui si deve pure l'esatta determinazione della parallasse della stella Draconis e la scoperta di una valida prova del moto della terra attorno al sole. Va infine ricordata l'opera del grande astronomo Friedrich Wilhelm Herschel (I738-I82.2.), tedesco di nascita ma vissuto quasi sempre in Inghilterra, che eseguì importantissime osservazioni sui corpi celesti non appartenenti al sistema solare: a lui si devono i primi importanti studi sulla nostra galassia, sulle stelle doppie, sullo spostamento del sistema solare verso un punto della costellazione di Ercole, ecc. Nel I 78 I scoperse il pianeta Urano, che inizialmente interpretò come una cometa. Le osservazioni di Herschel erano state in parte precedute da quelle del francese Charles Messier (I730-I8J7), che ebbe il merito di scoprire ben quattordici nuove comete e di pubblicare nel I77I un catalogo assai preciso di centotré di quei singolari « oggetti » cui noi attribuiamo il nome di « nebulose ». Parallelamente agli studi sulla sfera celeste si ebbe pure nel XVIII secolo un notevole sviluppo di quelli sullo sferoide terrestre, anch'essi resi possibili dal grande progresso degli apparecchi ottici (in particolare del teodolite). Venne eseguita una precisa triangolazione di tutta la Francia (iniziata nel I744 da Cesare Francesco Cassini, essa richiese un lavoro di circa quarant'anni), poi del sud del2.02.
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l'Inghilterra, e in seguito di altre parti dell'Europa: tale triangolazione permise di compiere notevoli miglioramenti nella cartografia. La ricerca di carte geografiche sempre più perfette era in primo luogo dettata da esigenze pratiche- militari (soprattutto per ciò che riguarda le carte terrestri) e commerciali (per le carte marine)- ma anche dal naturale desiderio di acquisire una conoscenza via via più completa del nostro pianeta, in tutta la sua complessa struttura. A proposito della forma dello sferoide terrestre va ricordato ancora una volta che la prima metà del secolo fu agitata da una grande polemica cui già abbiamo fatto cenno nel capitolo vn fra sostenitori dell'allungamento e sostenitori dello schiacciamento della terra ai poli. La tesi che la terra dovesse risultare allungata ai poli era stata avanzata da Gian Domenico Cassini (nonno del Cesare Francesco testé citato) cui già si accennò nel capitolo XI della sezione IV, mentte la tesi contraria era sostenuta dai seguaci di Newton (questi aveva infatti trovato, in base a considerazioni teoriche, che lo sferoide terrestre doveva essere schiacciato ai poli). Fu proprio per dirimere il complesso dibattito, che l'accademia delle scienze di Parigi organizzò - come sappiamo -- la spedizione in Lapponia (1736-37) guidata da Maupertuis, e nel contempo un'altra in Perù, durata fino al 1744. Entrambe confermarono la tesi di Newton, dando un contributo decisivo alla conversione della Francia al newtonianesimo. I lavori delle due spedizioni testé accennate ebbero un notevolissimo rilievo storico anche da un altro punto di vista: prepararono infatti la misurazione del meridiano terrestre, operazione di alta precisione (per l'epoca) che servirà a fissare l 'unità di lunghezza del sistema metrico-decimale. Agli studi di geodesia possono infine venire collegati quelli di geologia, tendenti a dare una raffigurazione della crosta terrestre, basata su rigorose osservazioni dei materiali che la compongono e delle forze naturali che agiscono su di essi. Tali studi subirono una significativa rinascita nella seconda metà del xvrrr secolo, anche per il parallelo grande sviluppo delle ricerche di mineralogia e di chimica. Riservandoci di tornare in altri capitoli sui problemi generali dell'evoluzione della terra, ricchi di significato per la biologia e per la stessa filosofia, ci limitiamo qui a ricordare i nomi di tre scienziati che diedero contributi di particolare rilievo all'aspetto empirico della geologia e della mineralogia: il francese Jean Baptiste Louis Romé de l'lsle (1736-9o) autore di una fondamentale opera che segnò una vera e propria svolta nelle ricerche mineralogiche: Essai de cristallographie (Saggio di cristallografia, 177z); l'inglese James Hutton (1726-97), valente studioso di rocce e fossili, autore di un libro dal titolo Theory of Earth (Teoria della Terra, 1785); il tedesco Abraham Gottlob Werner (1749-1817), professore di mineralogia e di geologia all'accademia delle miniere di Friburgo.
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V
· LE RICERCHE FISICHE
Come già accennammo nel paragrafo n, le ricerche di fisica del Settecento furono intimamente collegate alla costruzione di nuovi strumenti scientifici, onde i progressi conseguiti in un campo risultano inscindibili da quelli conseguiti nell'altro. Ciò va detto ad esempio per la termologia ove la scoperta fondamentale del secolo - consistente nella distinzione fra temperatura e calore - si sviluppò e consolidò parallelamente alla costruzione di termometri sempre più perfetti e di calorimetri. Lo stesso si può ripetere per l'ottica, ove la scoperta dell'inesattezza dei risultati osservati da Newton circa il fenomeno della dispersione provocò i primi tentativi di costruire un obiettivo acromatico e la riuscita di questi tentativi valse da efficace conferma alla scoperta anzidetta. Anche l'importante distinzione fra la «chiarezza» della luce dalla sorgente luminosa e l'intensità di illuminazione dei corpi colpiti dalla luce fu parallela alla costruzione e ai successivi perfezionamenti dei fotometri: l'opera principale sull'argomento, P batometria sive de mensura et gradibus colorum et umbrae (Fotometria, ovvero della misura e dei gradi dei colori e dell'ombra) fu scritta nel I76o dal matematico e logico Lambert di cui si è parlato nei capitoli precedenti. Mentre la parte sperimentale compiva sicuri progressi, la spiegazione teorica dei fenomeni osservati incontrava non di rado forti difficoltà e dava luogo a vive discussioni. Queste furono particolarmente accese intorno al problema della natura dei raggi luminosi: parecchi erano infatti i fisici che non osando ribellarsi all'autorità di Newton continuavano a restare fedeli alla concezione corpuscolare della luce sia pure introducendovi ingegnose modificazioni per adeguarla ai nuovi dati dell'esperienza; mentre altri, come ad esempio Eulero, tentavano di contrapporle la vecchia concezione ondulatoria di Huygens. Le critiche sollevate da Eulero contro «il sistema dell'emanazione» di Newton erano certo calzanti, ma la teoria che intendeva sostituire a tale sistema (basata sull'asserto che « la luce altro non è se non un'agitazione o vibrazione prodottasi nelle particelle dell'etere») andava essa pure incontro a gravissime difficoltà, connesse alla definizione stessa di quella singolare sostanza « estremamente sottile » e « perfettamente elastica» - l'etere - che secondo lui avrebbe dovuto «riempire tutti gli spazi dei cieli compresi fra i corpi celesti » senza opporre alcuna « sensibile resistenza » ai loro moti. I dibattiti fra i sostenitori delle due antitetiche interpretazioni si protrassero a lungo, finché nell'Ottocento la teoria ondulatoria finì per ottenere - come vedremo nel volume IV - una vittoria che parve definitiva. Molti studi vennero pure compiuti intorno alla natura del calore, che la gran maggioranza dei fisici settecenteschi concepì come un'autentica sostanza:
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il calorico. 1 Non mancò tuttavia chi ebbe il coraggio di sostenere- come Daniele Bernoulli nella sua H_ydrodynamica del 1738 e l'anno successivo Eulero in una memoria sulla natura del calore - che i fenomeni termici potevano invece venire spiegati quali effetti di moti molecolari. Questa teoria verrà ripresa nell'Ottocento in seguito alla dimostrata insostenibilità dell'interpretazione sostanzialistica del calore. Dal punto di vista metodologico che qui particolarmente interessa, gli accesi dibattiti testé accennati sono soprattutto importanti perché fecero sorgere i primi dubbi circa la funzione dei modelii nell'elaborazione scientifica dei fenomeni. Dovremo ritornare varie volte, nel seguito della nostra esposizione, su tale problema, dato che modelli antitetici si presentarono alla scienza, non solo nel Settecento, ma anche in fasi assai più recenti della sua storia. Vedremo che non mancheranno alcuni studiosi i quali - richiamandosi al canone newtoniano dell'hypotheses non fingo- vorranno respingerli completamente dalla fisica; altri però -richiamandosi invece all'esempio dato dal medesimo Newton con la sua teoria corpuscolare della luce - sosterranno tenacemente che solo la scoperta di un modello soddisfacente può fornirci la « vera » spiegazione dei fenomeni. Bisognerà giungere a tempi molto recenti per comprendere che nella scienza i modelli possono tutt'al più avere un valore strumentale, e che comunque essi vanno usati con la massima cautela tenendo ben presente che un qualsiasi modello, anche quando sembra spiegare in modo soddisfacente un gruppo di fenomeni, non ne rappresenta affatto la realtà. 2 Un discorso alquanto più diffuso va fatto per le indagini di elettrologia. Anche qui, naturalmente, l'impulso determinante per la ricerca di nuove concezioni provenne senza dubbio dalla maggiore ricchezza dei dati sperimentali. Basti per ora ricordarne alcuni: la scoperta dovuta all'inglese Stephen Gray (1670-1736) che certi corpi sono buoni conduttori dell'elettricità mentre altri non lo sono, e quella, dovuta al medesimo Gray, dell'induzione elettrostatica; la dimostrazione pratica, compiuta dal francese Charles Du Fay de Cisternay (r698-r739) che esistono due specie di elettricità, da lui chiamate vitrea e resinosa, e che tutti i corpi ad eccezione - così almeno egli credeva - dei metalli e dei corpi umidi sono elettrizzabili per strofinio (sull'elettrizzazione per strofinio è fondato il funzionamento delle prime macchine elettrostatiche); le numerose I Chi diede il maggiore impulso alla diffusione di questa teoria fu J oseph Black; il calorimetro, cui si è fatto cenno nel paragrafo n, da lui ingegnosamente costruito verso il 176o, doveva appunto servire alla misura del calorico necessario per aumentare di un grado la temperatura delle varie sostanze. Chi fornì una esposizione completa della teoria fu, nel q8o, Jean Pau! Marat (1743-93) che assumerà poi una posizione di primo piano nella rivoluzione francese.
2 Scrive sull'argomento R.B. Braithwaitc, riferendosi a uno dei più noti modelli introdotti dalla fisica del nostro secolo: «Gli atomi di idrogeno si comportano, sotto certi aspetti, come se fossero sistemi solari ciascuno con un elettrone come pianeta che compie delle rivoluzioni attorno a un protone come sole. Ma gli atomi di idrogeno non sono sistemi solari; sarà utile pensarli come se fossero sistemi siffatti soltanto se ci si ricorda continuamente che non lo sono. »
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osservazioni eseguite con la così detta bottiglia di Leida, costruita - indipendentemente uno dall'altro- dal tedesco Ewald Jiirgen von Kleist (qoo-48) e dall'olandese Peter van Musschenbroek (1692-176I); la scoperta dovuta all'americano Benjamin Franklin (17o6-9o) 1 del «potere delle punte» che lo condusse alla dimostrazione dell'identità di natura fra il fenomeno della scintilla elettrica e quello del fulmine; le osservazioni assai precise del tedesco Franz Ulrich Theodor Aepinus (1724-18oz) sull'induzione elettrostatica da lui eseguite mediante i suoi famosi « due piatti »; gli esperimenti dell'italiano padre Giambattista Beccaria ( 17 I 6-8 I) sulla resistenza elettrica di vari corpi e sull'elettricità atmoferica; le esperienze dell'inglese Henry Cavendish (1731-I8IO) e poi del francese Charles Coulomb (1736-18o6) sull'azione esercitata da due cariche una sull'altra (servendosi delle proprie ricerche sulla tensione dei fili Coulomb riuscì a stabilire, in alcune fondamentali memorie pubblicate fra il 1784 e il 1789, le famose leggi ancora oggi note col suo nome). Una messe così ampia di dati sperimentali non poteva non provocare alcuni ingegnosi tentativi di spiegazione del nuovo campo di fenomeni, che stava assumendo un'importanza sempre maggiore. Le teorie a tal fine ideate furono essenzialmente di due tipi: teorie che ammettevano due specie diverse di fluido elettrico, e teorie che ne ammettevano invece una sola, presente in giusta misura in ogni corpo (l'aggiunta o la sottrazione di quest'unico fluido ad un corpo provocherebbe i fenomeni che ce lo fanno apparire carico di un segno o dell'altro). Il primo sostenitore di una teoria dualistica fu Du Fay, seguito poi dall'abate francese Jean Antoine Nollet (qoo-7o), e più tardi dall'inglese Robert Symmer (m. 1763), mentre l'iniziatore delle teorie unitarie fu Franklin, seguito da Aepinus, Beccaria, ecc. Non è qui il caso di analizzare i ritocchi, le correzioni, le trasformazioni a volte anche profonde, che sia l'una sia l'altra concezione subirono lungo i decenni per effetto delle critiche della controparte e soprattutto per riuscire a dar ragione dei nuovi risultati sperimentali via via scoperti. Né è il caso di esporre i tentativi qua e là abbozzati di stabilire una qualche connessione fra questo nascente ramo della fisica e il grande tronco della meccanica razionale; malgrado gli sforzi di introdurre una certa esattezza nelle nozioni usate e nella descrizione dei fenomeni, si era ancora ben lungi dal poter elaborare matematicamente la nuova disciplina, sicché essa non appariva interamente degna del titolo di scienza. Chi diede un contributo decisivo a provare l 'autentica scientificità dell 'elettrologia fu Coulomb, con la sua dimostrazione (di tipo sperimentale, sì, ma condotta con tutto il rigore che si potesse allora esigere dalla più accurata sperimentazione) che le azioni esercitate, una sull'altra, da due cariche puntiformi r Non è il caso di ricordare, tanto la cosa è nota, che Franklin prese parte assai attiva alla lotta per l'indipendenza degli Stati Uniti. Qui
basti aggiungere che con lui ha inizio la partecipazione del!' America del Nord alla storia del pensiero scientifico moderno.
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o analogamente da due masse magnetiche - sono forze di tipo newtoniano, cioè forze agenti lungo la retta che congiunge i due punti considerati, e inversamente proporzionali al quadrato della distanza fra i punti in questione. È bensì vero che le azioni elettriche o magnetiche presentavano una profonda differenza rispetto all'azione gravitazionale che due masse esercitano una sull'altra (essendo questa, in ogni caso, un'azione attrattiva, e quella invece potendo essere attrattiva o repulsiva); vero è però che l'analogia formale fra la legge di Newton e le leggi di Coulomb rappresentava comunque una conquista di incontestabile valore. Come spiega molto bene Mario Gliozzi, « le forze elettriche, inquadrandosi nel tipo di forze newtoniane, venivano di colpo a godere di tutte le proprietà che la meccanica razionale aveva trovato per i campi newtoniani »; da quel momento in poi l'elettrostatica (e, in modo analogo, la magnetostatica) riuscirà a compiere rapidissimi progressi, resi possibili proprio dal conquistato legame con la meccanica. L'elettrologia non avrà più l'aspetto di disciplina meramente empirica, staccata dal grande albero della vera e propria scienza, e, per converso, la concezione newtoniana sembrerà trovare in essa la riconferma della propria validità universale. All'incirca nei medesimi anni in cui Coulomb stabiliva le sue importantissime leggi, l'abate Luigi Galvani (1737-98) scopriva - con le famose esperienze sulla rana - un tipo di fenomeni elettrici completamente nuovo, da lui interpretati come la prova incontestabile dell'esistenza di una vera e propria « elettricità animale». Un altro grande scienziato italiano, Alessandro Volta (1745-I827), studiando i risultati di Galvani riteneva di poterli spiegare in modo più fisico, senza dover fare appello alla nozione, che gli pareva alquanto misteriosa, di elettricità animale. Nello sviluppare le proprie argomentazioni scopriva le leggi del contatto e giungeva a costruire la sua celeberrima pila (di cui darà notizia in una lettera del marzo 1 8oo a Joseph Banks, presidente della Royal Society). Giudicando dal punto di vista odierno la polemica Galvani-Volta, dobbiamo riconoscere che sia l'uno sia l'altro avevano ragione nella pars construens e torto nella pars destruens. Come hanno ampiamente dimostrato le ricerche dei secoli successivi, esiste infatti sia un'elettricità animale (seppure da intendersi in modo alquanto diverso da come la intendeva Galvani) sia un'elettricità originata dal contatto di metalli eterogenei. Certo è però che tanto l'una scoperta quanto l'altra fuoruscivano completamente dal quadro concettuale del Settecento: esse aprivano la via a un tipo nuovo di indagini, che darà grandi frutti nelle fasi successive della scienza, e che i fisico-filosofi romantici cercheranno di sfruttare nella loro polemica generale contro il newtonianesimo.
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VI
· LA CHIMICA
Il Settecento rappresenta uno dei secoli più importanti per lo sviluppo della chimica sia sotto l'aspetto sperimentale sia sotto quello teorico. Le ricerche sperimentali - che si accentrano particolarmente sui gas - portano ad alcune scoperte di fondamentale importanza; basti ricordare quella dell'idrogeno e dell'ossigeno. Le ricerche teoriche danno luogo, in un primo momento, alla ideazione della cosiddetta teoria del flogisto (elemento ipotetico che costituirebbe il componente essenziale di tutti i corpi combustibili) 1 : è una teoria che si trova in netta antitesi con le idee dominanti nella medesima epoca entro la meccanica e la fisica - basti pensare che essa attribuisce al flogisto un «peso negativo» ossia una « leggerezza positiva » - ma che riesce ciò malgrado a compiere una funzione unificatrice delle varie ricerche chimiche, di notevole utilità per lo sviluppo della scienza in esame. La teoria del flogisto verrà combattuta efficacemente da Lavoisier, il quale darà inizio con la sua polemica a una nuova fase della storia della chimica. Non va però dimenticato che fino alla fine del secolo molti fra i maggiori chimici europei (soprattutto inglesi) continueranno ad accettarla, senza che questo grave errore teorico danneggi in alcun modo le loro precise e fortunate ricerche sperimentali. Ecco le parole con cui Michele Giua tenta di riassumere e caratterizzare la singolarissima situazione: « Sarà compito principale dei chimici del xvm secolo di tentare di isolare l'ipotetico flogisto, ma dalla sua inesistenza si giungerà nello stesso secolo, col genio di Lavoisier, a creare la chimica moderna. » Già nel Seicento il chimico tedesco Joachim Becker (I635-82) - prendendo le mosse da alcune tesi, allora assai diffuse, dell'indirizzo iatrochimico aveva sostenuto che i corpi sarebbero costituiti da una mescolanza di tre elementi fondamentali: la terra lapidea, presente in tutti i solidi, la terra mercurialis, essenzialmente fluida, e la terra pinguis o elemento combustibile; le proprietà dei diversi corpi dipenderebbero dalla diversa proporzione in cui stanno, in ciascuno di essi, queste tre « terre ». La combustione di un corpo non consisterebbe in altro che nella perdita della terra pinguis ivi contenuta. Ma fu nel Settecento, come abbiamo detto, che questa concezione riuscì ad affermarsi in larghi ambienti scientifici; il suo massimo sostenitore fu il celebre medico e chimico tedesco Ernst Stahl (I66o-1734), uomo fornito di affascinante personalità e di indubbio ingegno. Flogisto è il nuovo nome che Stahl attribuisce alla terra pinguis: esso verrebbe liberato non solo in ogni processo di combustione (i corpi combustibili ne conterrebbero una quantità maggiore o minore a seconda del calore che riescono ad emanare, bruciando), ma anche nel processo di calcinazione dei metalli (onde risulterebbe « provato » che questi 1
Il termine « flogisto » deriva dal greco
flogisttin che Aristotele usava nel senso di mabile».
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infiam-
L'esigenza di una più ampia sperimentazione nelle scienze della natura
non sono sostanze semplici, risultando composti di calce e di flogisto). Poiché nella calcinazione accade che i residui ottenuti sono più pesanti delle sostanze originarie, Stahl e i suoi seguaci ne conclusero che il flogisto doveva avere come già ricordammo - un « peso negativo ». Con questa teoria pareva possibile fornire una spiegazione - sia pure soltanto qualitativa - di varie reazioni (per esempio dell'ossidazione concepita come perdita di flogisto e della riduzione Ct>ncepita invece come aggiunta di flogisto), inoltre del fenomeno della respirazione, ecc. I successi ottenuti dalla teoria del flogisto contribuirono pure, fra l'altro, a favorire la diffusione della concezione sostanzialistica del calore. Fra i maggiori chimici dell'epoca che accettarono le idee di Stahl ci limitiamo a ricordare: l 'inglese Joseph Black, 1 di cui abbiamo già fatto menzione nel paragrafo II, abilissimo sperimentatore, soprattutto celebre per i suoi studi sull'anidride carbonica, alla quale diede il nome di aria .fissata (o aria .fissa) onde distinguerla dall'aria atmosferica; l'inglese Henry Cavendish, alle cui ricerche di elettrologia abbiamo già fatto cenno nel paragrafo v, il quale riuscì per primo a dimostrare che l'acqua non è un elemento semplice bensì una sostanza composta e riuscì a determinare con precisione parecchie proprietà dell'idrogeno da lui chiamato « aria infiammabile »; 2 l'inglese Joseph Priestley (I 7 33- I 8o4), teologo, filosofo e chimico, già ricordato alla fine del capitolo II, giustamente famoso per essere giunto nel 1774 alla preparazione dell'ossigeno, cui diede il nome di «aria deflogisticata » (egli espose direttamente le proprie esperienze a Lavoisier, che seppe darne un nuova, ben più rigorosa, interpretazione); lo svedese Carl Wilhelm Scheele (1742-86), che scoprì l'ossigeno qualche anno prima di Priestley ma pubblicò i risultati delle proprie ricerche solo nel 177 5, cioè contemporaneamente al lavoro dell'inglese su tale argomento (entrambi sottolinearono la capacità, posseduta dall'ossigeno, di mantenere meglio dell'aria la combustione e la respirazione). L'indirizzo di studi da essi perseguito è noto col nome di « chimica pneumatica » perché particolarmente rivolto allo studio dei vari tipi di «aria» (gas). Non mancò, è vero, qualche chimico che osava dichiararsi poco soddisfatto della teoria del flogisto - così per esempio il grande chimico e mineralologo russo Michail V. Lomonossov (I 7 I I -6 5) scopritore della costanza degli angoli diedri del diamante e di altri minerali - ma si trattava di autori in un certo senso isolati, che non potevano competere, in autorevolezza, con gli studiosi or ora citati. La gloria di avere debellato la teoria in questione spetta soprattutto al francese Antoine Laurent de Lavoisier (I743-94). 1 Pare però che, negli ultimi anni della sua vita, Black abbia abbandonato la teoria del flogisto, in seguito alle critiche mosse contro di essa da Lavoisier. z Un altro contributo, assai importante, di Cavendish fu il calcolo della costante gravitazio-
naie cioè della costante di proporzionalità che figura nella formula newtoniana della forza interagente fra due masse; egli riuscì a determinarla misurando con notevole abilità - mediante una bilancia di torsione - la forza di attrazione che due masse pesanti esercitano una sull'altra.
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Nato da famiglia assai agiata, egli dimostrò fin da giovane una notevole attitudine per le ricerche scientifico-tecniche, tanto che a soli venticinque anni venne nominato membro dell'accademia delle scienze di Parigi. Intraprese tuttavia una carriera completamente diversa da quella scientifica, entrando nel I 768 nella Ferme générale (un'organizzazione di carattere finanziario, a cui i re di Francia affidavano da secoli il compito di riscuotere le principali imposte, trattenendo su di esse abbondanti percentuali); nel I 779 divenne fermier général, carica molto 'redditizia ma ovviamente assai invisa al popolo. Intanto era anche entrato a far parte, nel I775, della direzione dell'arsenale di Parigi, nominatovi dal ministro Turgot. Lavoisier tuttavia si valeva dei suoi forti redditi per attrezzare il proprio laboratorio scientifico e acquistare i materiali necessari alle esperienze. I risultati via via raggiunti avevano ormai fatto di lui uno dei membri più influenti dell'accademia. Quando nel I788 il re si decise a promettere la convocazione degli Stati generali, il grande chimico partecipò sinceramente all'unanime entusiasmo dei francesi. Dopo un anno circa venne anzi nominato a un posto di alta responsabilità nella Tesoreria nazionale, lasciando di fatto la Ferme générale. Ma ormai la rivoluzione evolveva verso forme sempre più radicali, che non potevano trovare consenziente un moderato come Lavoisier. Egli finì pertanto di trovarsi schierato tra gli avversari del grande moto popolare. Nel I79I venne privato del posto che occupava da sedici anni presso l'arsenale. Alla fine del I793, essendo stato decretato l'arresto di tutti i Jermiers généraux egli, dopo avere invano cercato di dimostrare alle autorità che l'ordine non poteva riguardarlo personalmente in quanto aveva ormai abbandonato tale carica da circa tre anni, preferì costituirsi prigioniero. Forse sperava che la sua fama di grande scienziato potesse salvado, oppure sperava nell'appoggio di altri scienziati - già suoi collaboratori - che godevano il favore dei più accesi rivoluzionari. Ma tali speranze si rivelarono illusorie. Processato dal tribunale rivoluzionario e condannato a morte, fu ghigliottinato 1'8 maggio I794· Fortemente influenzato dal sensismo di Condillac, Lavoisier attribuiva alla scienza il compito centrale e preminente di descrivere con rigore i fenomeni. Fu proprio questa impostazione programmaticamente empiristica a fargli provare fin dall'inizio delle sue ricerche una forte avversione per la teoria del flogisto, che faceva appello a un elemento ipotetico, non solo non riscontrabile in alcun dato d'osservazione ma fornito - secondo i suoi sostenitori - di proprietà, come la leggerezza, interamente diverse da quelle godute da tutti gli altri corpi. Le prime memorie di chimica scritte dal nostro autore risalgono al 1 770; già due anni dopo egli comincia la propria polemica contro l'ipotesi del flogisto. Dopo accuratissimi lavori durati circa dieci anni egli potrà scrivere, in una fondamentale memoria del I 78 3, che « tutto si spiega in chimica senza il ricorso al ZIO
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L'esigenza di una più ampia sperimentazione nelle scienze della natura
flogisto » onde risulta « infinitamente probabile » che esso costituisca una « supposizione gratuita ». Sappiamo che la scoperta dell'idrogeno e dell'ossigeno, nonché della decomponibilità dell'acqua in questi due elementi, fu opera di alcuni grandi chimici seguaci della teoria del flogisto; sappiamo pure che Lavoisier ebbe precisa notizia dei loro risultati e dei procedimenti da essi seguiti per giungere alla preparazione di tali gas. Ma l'essere stato preceduto da altri nelle scoperte testé accennate non diminuisce affatto la sua originalità; in primo luogo per l'estrema esattezza con cui egli seppe descrivere il decorso dei fenomeni, servendosi con somma maestria della bilancia di precisione, il che gli consentì di dare alla chimica un aspetto rigorosamente quantitativo e cioè autenticamente moderno; in secondo luogo per il nuovo quadro concettuale in cui seppe inserire i fenomeni descritti, aprendo una via che sarebbe restata fatalmente chiusa a chi non era in grado di liberarsi dal preconcetto del flogisto. I principali risultati raggiunti da Lavoisier si possono così riassumere: 1) spiegazione modernamente esatta dei fenomeni della respirazione e della combustione come processi di ossidazione; z) determinazione quantitativa dei componenti che intervengono nella costituzione dell'acqua; 3) dimostrazione (operata in collabÒrazione con Laplace) che la guantità di calore spesa per decomporre un composto nei suoi costituenti è identica a quella sviluppata dalla formazione dello stesso composto a partire dai suoi componenti; 4) scoperta del principio di conservazione della materia (in base a cui la quantità complessiva di materia - determinabile mediante la bilancia - non varia in conseguenza delle trasformazioni chimiche); 5) nuova definizione, a carattere operativo, degli elementi e conseguente riforma della nomenclatura chimica. Accanto a questi risultati del tutto soddisfacenti, e ad altri che per brevità non ci fermiamo ad elencare, si trovano naturalmente in Lavoisier alcune concezioni che il successivo sviluppo della scienza dovrà poi respingere (l'esempio più tipico di f!SSe è costituito dalla sua concezione del calore come sostanza, cioè come calorico); si tratta però di errori che non incidono sull'impostazione generale della sua opera e non ne diminuiscono la fecondità. Per i risultati raggiunti, e ancor più per le innovazioni introdotte nella metodologia della ricerca come pure nell'elaborazione teorica dei dati sperimentali, egli può venire a buon diritto considerato come l 'iniziatore di una nuova fase della chimica: la prima fase autenticamente scientifica della storia di questa disciplina.
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VII
· IL SORGERE DI ALCUNE ISTANZE CRITICHE
Come abbiamo sottolineato nelle pagine precedenti, gran parte delle discipline prese in esame in questo capitolo intendeva trarre direttamente dall'esperienza la prova delle conclusioni via via raggiunte; cercava cioè la garanzia della propria scientificità, non nell'evidenza razionale dei principi, ma nella verifica sperimentale. Quale può essere tuttavia il tipo di certezza che un numero più o meno grande - ma in ogni caso finito - di fatti attentamente registrati è in grado di fornire ad asserti di carattere generale, come sono le leggi scientifiche? Questa domanda, che oggi occupa una posizione centrale nelle ricerche epistemologiche, fu notoriamente dibattuta con molta profondità da alcuni fra i massimi filosofi del Settecento (per esempio da Hume); il fatto che ci sembra interessante segnalare è, però, che essa cominciò ad affiorare anche nell'animo di alcuni scienziati di tale secolo, a ciò sollecitati dalle loro stesse indagini prettamente scientifiche. Uno dei primi ad occuparsene - con l'anticipo di qualche anno rispetto a Hume - fu il fisico olandese Willem Jacob 's Gravesande (I688-I742) che già abbiamo avuto occasione di ricordare nelle pagine precedenti. Nei primi decenni del secolo godette di grande notorietà: fu professore di matematica e di astronomia all'università di Leida a partire dal I7I7, e poi anche di filosofia a partire dal I734· Fu in contatto con Newton che conobbe personalmente nel I 7 I 5, con Giovanni Bernoulli, con Voltaire (negli anni I 7 3 5-3 6) e con varie altre personalità; diede un contributo determinante alla diffusione nell'Europa continentale delle teorie newtoniane con un grande e fortunatissimo trattato di fisica: P~ysices elementa mathematica experimentis confirmata sive introductio ad philosophiam newtonianam (Elementi matematici di fisica, confermati da esperimenti, ossia introduzione alla filosofia newtoniana, ra ed. I7I9-20). Come dice il titolo stesso, vi era particolarmente sottolineato l'aspetto sperimentale della fisica; una larga parte del trattato era infatti dedicata alla descrizione di numerosissime esperienze, con l'esplicito rifiuto di fare ricorso ad ipotesi generali per la loro spiegazione. Fra il I720 e il '23 's Gravesande abbandonò il punto di vista newtoniano-cartesiano per quanto riguardava la vexata quaestio della misura della forza, convertendosi al punto di vista leibniziano: tale mutamento - che costituiva la maggiore novità della 2 a edizione (I 72 5) del trattato anzidetto - riaccese, come già ricordammo nel capitolo vn, il più vivo dibattito sul delicato problema. Al I724 risale un altro scritto molto interessante del nostro autore: precisamente un discorso dal titolo De evidentia che si propone di fissare le differenz~ tra matematica e fisica. Nel I736 uscirà poi un trattato di filosofia generale, che riproduce essenzialmente le lezioni tenute su questo argomento da 's Gravesande nei due anni precedenti; il suo titolo è lntroductio ad philosophiam, metap~ysicam et logicam continens (Introduzione alla filosofia, includente la metafisica e la logica). 212
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L'esigenza di una più ampia sperimentazione nelle scienze della natura
Volendo }imitarci a parlare brevemente del problema dei fondamenti della fisica sperimentale, basterà dire che il nostro autore si rende ben conto che le famose regulae philosophandi anteposte da Newton allibro m dei Principia non sono regole logiche, onde non si può pretendere che valgano a priori; e nemmeno ha senso - a suo parere - volerle giustificare per via induttiva, come si giustificano i singoli risultati della fisica, in quanto costituiscono, proprio esse, il fondamento di ogni induzione. Secondo 's Gravesande la loro validità si regge, in ultima istanza, sul postulato che dio regge il mondo con leggi immutabili. È il postulato cui fanno implicito appello tutti i ragionamenti analogici, ragionamenti da noi continuamente usati ogni volta che vogliamo parlare del corso dei fenomeni ( « noi dobbiamo ragionare per analogia a proposito delle cose naturali»). Come potrà venire giustificato il principio ora riferito? Il nostro autore non trova altra risposta, a questo interrogativo, se non la bontà del creatore. Dio sa che, se la natura non avesse un andamento uniforme e se, di conseguenza, le nostre argomentazioni analogiche risultassero prive di qualsiasi fondamento, si perderebbe ogni possibilità di azione coordinata fra gli uomini; proprio in vista di ciò, egli dispone la realtà in modo da evitare un simile disastro. Il ricorso alla bontà del creatore rientra evidentemente nel grande solco della tradizione filosofico-teologica dell'epoca; non possiamo tuttavia far a meno di notare la nuova luce che tale appello assume nel pensiero di 's Gravesande: la preoccupazione che egli attribuisce all'essere divino non è tanto quella di fornire eleganza e coerenza razionale al corso dei fenomeni naturali (come riteneva ad esempio Newton) quanto quella di rendere possibile la societas umana. È proprio con l'attribuzione di questo fine all'ordinatore dell'universo che il nostro autore può concludere: «pro vero habendum omne quod si negetur, societas inter homines destruitur » (è da ritenersi come vera ogni cosa tale che, se la si nega, si distrugge la societas fra gli uomini). Abbiamo detto che 's Gravesande si rende ben conto del carattere non logico delle regole applicate nella elaborazione della fisica. Questa consapevolezza è ciò che lo conduce a porre una netta distinzione fra conoscenza matematica e conoscenza sperimentale: la prima concerne soltanto il mondo delle idee e perciò non può dirci nulla sulla realtà delle cose; la seconda invece riguarda proprio il mondo dei fatti e - poiché non siamo in grado di provare che le idee convengano alle cose -- non può fare alcun riferimento a verità a priori, valide solo nel mondo delle idee ( « le proprietà del corpo non possono essere scoperte a priori»). L'irriducibilità delle discipline fisiche all'ambito della matematica pura trova la propria radice, secondo 's Gravesande, nella distinzione - cui accennammo alla fine del capitolo vn - fra evidenza matematica ed evidenza morale: l'evidenza matematica è «il marchio della verità per se stessa», quella morale vale soltanto sul piano pragmatico. È una distinzione che i filosofi in-
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L'esigenza di una più ampia sperimentazione nelle scienze della natura
quadrano nel problema generale dei rapporti fra verità di ragione e verità di fatto, mentre lo scienziato 's Gravesande si limita a considerarla (cogliendone però tutta la drammaticità) in riferimento alla struttura di due ben determinate scienze che spesso vengono erroneamente confuse tra loro. Ricollegandosi a questa concezione, un altro fisico olandese - Peter van Musschenbroek, che già ricordammo nel paragrafo v - giunge a sostenere che le leggi naturali possono venire esattamente formulate anche senza l'ausilio della matematica: l'essenziale è, che chi vuole pervenire a conoscerle, sappia cogliere tutte le proprietà del mondo reale rivelateci dai sensi, senza trascurarne alcuna. L'antitesi fra questa concezione della scienza e quella delineata nel capitolo vn, parlando della meccanica razionale, non potrebbe essere più netta. È una frattura che ricomparirà, sotto forme diverse, anche nel xrx secolo, e di cui solo l'epistemologia moderna sembra in grado di fornirci una soluzione soddisfacente. A proposito di questa soluzione, è bene accennare fin d'ora che essa verrà trovata lungo una via, in certo senso aperta dal chimico Lavoisier. Già ricordammo che egli subì profondamente l'influenza di Condillac; orbene - come ci viene chiarito nel Discours préliminaire, anteposto al suo famoso Traité élémentaire de chimie (Trattato elementare di chimica) del 1789 ·- da tale filosofo Lavoisier non attinse soltanto la convinzione che lo scienziato debba attribuire la massima importanza ai dati dei sensi, ma anche alcuni preziosi suggerimenti circa la funzione del linguaggio. Partendo dal postulato di provenienza condillachiana che «noi non pensiamo se non con l'ausilio delle parole», il grande chimico comprende con str~ordinaria chiarezza che la lingua dovrà costituire uno strumento fondamentale per la scienza: qualunque ragionamento infatti non è altro, secondo lui, che « una lingua ben fatta ». Ma che cosa è la matematica? Essa è essenzialmente una lingua, fornita di straordinaria precisione e proprio perciò estremamente utile alla descrizione dell'esperienza. Sviluppando il suo pensiero potremmo dire: la matematica costituisce uno strumento preziosissimo per le scienze della natura, non già perché capace di dedurre le leggi particolari da principi assoluti ed evidenti, ma perché fornita di una chiarezza ed esattezza incomparabilmente superiori a quelle del linguaggio comune. Dobbiamo ovviamente guardarci dall'attribuire a Lavoisier una consapevolezza intorno alla natura e alla funzione del linguaggio matematico, che venne conquistata solo assai più di recente, ad opera di metodologi ben più agguerriti di lui in questioni logiche e linguistiche. È innegabile però che l'epistemologia moderna può cercare i propri antecedenti assai più in lui che non nei grandi matematici del Settecento, i quali si illudevano di poter ridurre il nucleo centrale della scienza della natura (cioè la meccanica) a mero capitolo dell'analisi infinitesimale. Certo è, comunque, che un'impostazione sperimentalistica della fisica non 2.14
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L'esigenza di una più ampia sperimentazione nelle scienze della natura
poteva sviluppare tutte le istanze critiche, insite in essa, se non riusciva anzitutto a liberare il linguaggio scientifico dall'uso di termini - come quello di flogisto, di calorico e di etere - che pretendevano riferirsi ad entità empiricamente non verificabili né in forma diretta né in forma indiretta. Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, Lavoisier seppe condurre una battaglia vittoriosa contro l'ipotetico flogisto, ma continuò a credere fermamente nel calorico. Toccherà alla fisica dell'Ottocento condurre due battaglie altrettanto importanti e altrettanto difficili contro l'ipotesi del calorico e contro quella dell'etere; la prima sarà vittoriosamente combattuta nella prima metà del secolo, l'altra nella seconda metà. Ed entrambe saranno condotte in nome di una radicale esigenza sperimentalistica.
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CAPITOLO NONO
Biologia e filosofia DI FELICE MONDELLA
I
· PREFORMISMO E CREAZIONISMO
Negli ultimi decenni del xvn secolo si era aperta agli studiosi della natura la nuova ed inattesa prospettiva del mondo microscopico. Con l'accrescersi delle osservazioni aumentava la meraviglia e l'interesse per la fine struttura degli organi e soprattutto per quegli insetti, che la scienza aristotelica aveva considerato esseri così vicini alla materia inorganica. Dalle ricerche di Redi era infatti risultato che gli insetti si riproducono come gli animali più perfetti mediante uova e che non poteva essere più sostenuta la loro origine per generazione spontanea. La vita appariva dunque come un processo comunicantesi da organismo ad organismo e sembrava non doversi più attribuire all'azione della putrefazione o a quella di principi seminali di natura più o meno animistica. Harvey, pur ammettendo la generazione spontanea, aveva sostenuto che tutti gli animali derivano da un ovum, inteso però come una generica materia primordiale comune ad essi. All'inizio degli anni settanta del xvn secolo, con le ricerche anatomiche sugli organi sessuali femminili di Stenone, V an Home e Regnier de Graaf, si precisò questa vaga formulazione affermando che anche gli animali vivipari si riproducono mediante uova, di tipo analogo a quelle degli ovipari. Sorgeva in tal modo la dottrina dell'ovismo che veniva ad unificare sotto l'aspetto della generazione tutto il mondo animale. Pochi anni più tardi, nel r677, l'osservazione degli spermatozoi nel liquido seminale maschile doveva far sorgere la contrapposta dottrina dello spermatismo, che tendeva a negare il ruolo esclusivo o prevalente dell'uovo, ma confermava il significato fondamentale della generazione per lo studio degli animali. Più che i lunghi dibattiti che per circa un secolo contrapposero le due opposte scuole degli ovisti e degli spermatisti, da un punto di vista filosofico interessa soprattutto una concezione condivisa da molti sostenitori dei due indirizzi. Si tratta della teoria preformista secondo cui nell'uovo o eventualmente nello spermatozoo si trova già precostituito in miniatura, con tutte le sue parti, l'animale adulto. Sostenne fra i primi questa dottrina l'olandese Jan Swammerdam nel MiZI6
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- - - =---=-:::::
A
B
D
G
Gli sp ermatozoi come furono visti nel x v n secolo: A B C, da L eewvenhoek ( 1679) , D, da Hartsoeker ( 1694) nell'uomo, E F G , da Plantades ( r699 ) .
raculum naturae (1672) negando una vera metamorfosi degli insetti ed affermando ad esempio che la farfalla è inclusa interamente nella crisalide e prima ancora nel bruco, ove essa è nascosta e inviluppata con i suoi organi già distinti. Lo stesso tipo di inclusione si ha secondo lo scienziato olandese in ogni specie animale, compreso l'uomo; egli poté così sostenere che, inscatolati l'uno dentro l'altro, nelle ovaie di Eva si erano trovati al momento della creazione tutti gli individui della sua discendenza, che era perciò destinata ad estinguersi dopo lo sviluppo dell'ultimo uovo. Diveniva così comprensibile, secondo Swammerdam, come il peccato originale avesse potuto macchiare Eva trasmettendosi a tutti i suoi discendenti. Non si ammetteva dunque solo la semplice preformazione del vivente nel singolo germe, entro il corpo del genitore, ma si sosteneva anche la preesistenza di tutti i germi (uova o spermatozoi) all'inizio del mondo, creati con un singolo atto e destinati a produrre tutte le forme successive di vita. Un annoso problema della tradizione filosofica, quello cioè dell'origine delle forme, trovava in tal modo un'inattesa soluzione nel quadro della nuova scienza meccanica della natura. La formazione dell'animale era infatti intesa come un semplice svolgimento (evolutio) delle parti inviluppate in se stesse, come un semplice accrescimento ed allungamento per assorbimento di particelle. Per quanto l'accrescimento del germe debba avvenire meccanicamente, la sua originaria produzione è però sottratta alle semplici leggi materiali del movimento, per cui ciascun germe non poteva considerarsi il risultato di una casuale interazione di particelle materiali, ma doveva essere il prodotto di uno speciale atto creativo della divinità. Con questa concezione creazionistica e meccanicistica della formazione dei viventi si rifiutava l'idea di un continuo intervento miracoloso di dio nella natura, si allontanavano le discusse entità metafisiche della tradizione scolastica, rimanendo fedeli all'esigenza delle idee chiare e distinte.« Quanto ai movimenti dei corpi celesti,» poteva affermare Leibniz, «e più ancora, quanto alla formazione 217
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Biologia e filosofia
delle piante e degli animali, non c'è niente di miracoloso, salvo il cominciamento di queste cose. L'organismo degli animali è un meccanismo che suppone una preformazione divina; ciò che ne segue è puramente naturale e completamente meccamco. » Con la preesistenza dei germi non soltanto si conciliava la negazione della generazione spontanea, l'esigenza di uniformità degli eventi naturali e l'idea di creazione, ma si trovava anche una conferma ad alcune importanti concezioni filosofiche formulate alla fine del Seicento. Ciò accadde per Malebranche, che sostenendo tra i primi nel 1674 la preesistenza dei germi, trovava in essa conferma alla sua idea dell'incapacità di creare degli esseri finiti. Leibniz, che al contrario rivendicava l'autonomia delle sostanze finite, vedeva nella preesistenza dei germi maschili una conferma del principio che la vera unità delle sostanze non può derivare che da una forma in qualche modo indistruttibile, la monade. La conclusione cui giungeva Leibniz della incorruttibilità delle monadi e quindi della immortalità sostanziale dei viventi, pur soggetti a successive trasformazioni, non appariva forse più paradossale di una delle forme che assumeva la teoria della preesistenza dei germi, quella della panspermia, per cui si ammetteva che tali germi fossero disseminati in tutto l'universo, e si sviluppassero dopo la penetrazione negli organi riproduttivi degli animali. Se la panspermia incontrava molte difficoltà, non poche erano quelle che potevano essere sollevate nei riguardi dell'altra dottrina della preesistenza dei germi, quella dell'inscatolamento. Ci si chiedeva in particolare come fosse possibile la disposizione l'uno dentro l'altro di piccolissimi germi in numero indefinito; e non si poteva rispondere che rifacendosi a principi generali, ad esempio, all'assunto teorico della infinita divisibilità della materia, assunto facilmente accettabile dai seguaci della fisica cartesiana e reso plausibile anche dalle ricerche matematiche sul calcolo infinitesimale. Un'idea dunque quella dell'inscatolamento che sembrava difendibile soprattutto su un piano astratto ed ideale e che, come affermava Malebranche, non poteva « apparire impertinente e bizzarra che a coloro che misurano le meraviglie della potenza infinita di Dio con le idee del loro senso e della loro immaginazione ». Queste idee dovevano dunque fermare il loro corso di fronte al principio della creazione, principio di razionalità e di ordine, ma anche indiscutibile verità contenuta nelle Scritture. Non mancavano tuttavia difficoltà quando si cercava di trovare un accordo fra il preciso contenuto del testo sacro e le varie implicazioni della teoria della preesistenza dei germi. Ciò accadeva ad esempio quando Antonio V allisnieri (166I-I73o) si poneva il problema dell'origine dei vermi parassiti dell'intestino dell'uomo. Come è possibile - egli si chiede - che Adamo il quale doveva contenere in sé almeno un esemplare di tutti questi vermi potesse essere colpito da una simile infermità prima ancora del peccato originale? Vallisnieri pensa che questa sventura non poteva essergli accaduta, i vermi perciò prima del peccato 218
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dovevano adempiere una funzione utile, degenerando in parassiti solo successivamente. Questo inserimento dei risultati dell'indagine scientifico-naturale nel quadro del racconto biblico della creazione ricorre in moltissime opere dei primi decenni del '700. Tale inserimento non derivava tanto da un ossequio estrinseco e forzoso all'autorità delle Scritture quanto da un'esigenza di garanzia e di legittimità per l'interpretazione meccanica di fenomeni, che ben difficilmente poteva giustificarsi senza postulare un sommo artefice di tutti i meccanismi. La convinzione che con la nuova analisi scientifica specialmente microscopica ci si stava ponendo direttamente di fronte all'opera stessa perfetta e meravigliosa del creatore, portava molti a conciliare la più astratta postulazione teorica della preesistenza dei germi e del meccanismo armoniosamente finalizzato dei viventi, con l'empirismo descrittivo più accurato ed erudito rivolto specialmente al mondo degli insetti. Per molti risultava così del tutto secondaria la ricerca delle cause seconde, l'analisi dei processi funzionali degli organismi, i quali apparivano quasi fissati nella statica teleologia dei loro dispositivi meccanici. Si può dire, parafrasando Fontenelle, che il mondo apparisse come uno scenario d'opera che lo spettatore scrutava ammirato dimenticando gli apparati meccanici in movimento dietro le quinte. La molteplice varietà delle forme animali e vegetali veniva spesso colta come una diretta e meravigliosa manifestazione dell'onnipotenza divina e la sua accurata osservazione e descrizione poteva avere gli accenti di una celebrazione devota che portava la scienza stessa a contatto con il creatore. Sono di questo genere le opere scritte da Friedrich Christian Lesser (I 692- I 7 54) con i significativi titoli di Insectotheologia, Testaceotheologia ed altre ancora numerose. La tendenza del creazionismo a porre spesso tale atteggiamento descrittivo e contemplativo in primo piano rispetto alla interpretazione meccanica dei fenomeni non significò tuttavia la rinuncia a ricercare un ordine razionale ed astratto. Ci si venne anzi sempre più convincendo che tale ordine poteva essere ritrovato nell'idea della scala naturae, che venne man mano a costituire uno dei temi più ricorrenti del pensiero filosofico-scientifico del Settecento. Derivata dalla tradizione filosofica aristotelica e specialmente platonica, questa concezione della scala naturale è soprattutto legata al principio di pienezza, per il quale, come afferma Lovejoy «l'universo è un plenum formarum in cui trova esauriente esemplificazione la serie di tutte le possibili varianti di generi di cose viventi ». Nella scala naturale inoltre la realizzazione di tutte le possibilità si dispone secondo una serie continua di esseri e secondo una perfezione crescente. Si trattava dunque di un'astratta formulazione antologica che tendeva a ristabilire un ordine in quella molteplicità di forme che, rispetto ai principi della meccanica, risultava indeducibile e caotica. Tale concezione si inseriva in modo essenziale nell'idea di universo formu-
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lata da Leibniz. Secondo il grande filosofo tedesco infatti « tutte le diverse classi di esseri che presi assieme costituiscono l'universo, sono, nelle idee di Dio, che conosce distintamente le loro gradazioni essenziali, altrettante ordinate di una sola curva, così strettamente unite che sarebbe impossibile porne altre fra l'una e l'altra di esse, dato che ciò implicherebbe disordine ed imperfezione. Così gli uomini sono legati agli animali, questi alle piante e le piante ai fossili, che a loro volta si fondono con quei corpi che i nostri sensi e la nostra immaginazione ci rappresentano come assolutamente inanimati ». La continuità, asserita su un piano rigorosamente astratto, non appariva però effettivamente riscontrabile nelle concrete indagini sugli oggetti naturali. Alcuni erano quindi portati a negare questa stessa continuità, ammettendo piuttosto una successione discreta di gradini ascendenti. Altri ritenevano invece che compito della scienza fosse innanzitutto quello di colmare, attraverso l'esplorazione delle regioni più remote della terra e dei suoi rivolgimenti più lontani nel tempo, quei vuoti (vacua formarum) che forse erano soltanto tali per la limitata conoscenza dell'uomo. Nel quadro più ampio del mondo naturale alcuni rilevando l'aspetto statko e gerarchico della scala esaltavano il distacco dell'uomo, coronamento di tutte le creature; ad altri invece, che insistevano sulla continuità compientesi attraverso una gradazione infinitesimale di individui, appariva più evidente l'unità e la comunità profonda di tutti gli esseri. Alcuni indirizzi che si svilupperanno in questo senso nella seconda metà del Settecento giungevano a sostenere che la scala naturale non era tutta compiuta all'inizio del mondo, ma si veniva costituendo attraverso il tempo per la successiva comparsa di nuove forme. Questa nuova prospettiva dinamica, designata da Lovejoy come « temporalizzazione » della scala degli esseri, costituirà una sensibile spinta all'emergere di varie concezioni evoluzionistiche della natura. Nel complesso questa concezione di una gradazione ascendente degli esseri, per quanto fatta propria dai creazionisti e da molti sostenitori del meccanicismo di derivazione cartesiana, presentava alcuni aspetti difficilmente riducibili all'immagine puramente geometrico-meccanica del grande orologio del mondo, e contribuirà così verso la fine del secolo alla crisi della visione strettamente meccanicistica della natura. II
·
LINNEO
Nel xvm secolo un grande apporto allo studio dei viventi strettamente legato alla visione creazionistica della natura, fu la definizione del metodo sistematico o classificatorio compiuta da Linneo, il naturalista svedese che raccolse l'eredità dei grandi studiosi delle forme viventi a lui precedenti, quali Cesalpino, Ray, Tournefort, ecc. 2.2.0
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Dopo essersi interessati a individuare le piante e gli animali considerati nell'antichità classica, gli studiosi moderni di botanica e zoologia si erano man mano cimentati nella descrizione e nella catalogazione dei nuovi esemplari che venivano raccolti ed osservati in misura sempre crescente nel nuovo e nel vecchio continente. Abbandonate le ormai inutili elencazioni per ordine alfabetico alcuni enciclopedisti, come Aldrovandi e Gesnerus, si erano preoccupati di fornire la descrizione dei caratteri esterni e le rappresentazioni grafiche degli animali, con lo scopo prevalentemente pratico di permettere il loro riconoscimento. Cesalpino, rifacendosi direttamente all'opera aristotelica, aveva cercato invece di porre nell'ambito della botanica le basi di una classificazione naturale basata sull'essenza stessa della pianta, di cui i caratteri esterni dovevano essere soltanto una manifestazione. Le piante venivano così distinte secondo il tipo di nutrizione e di accrescimento, manifestantesi nella forma delle radici, del seme e dello stelo e secondo il tipo di moltiplicazione, manifestantesi nella forma del frutto. L'esigenza pratica, espressa dagli enciclopedisti, e quella più propriamente scientifica di una classificazione naturale, vengono a confluire oltre che nell'opera dell'inglese John Ray (I627-I705), anche in quella di Linneo. Nato a Rashult nel I 707 Linneo, dopo i primi anni di studi compiuti in Svezia, soggiornò in Olanda dove si addottorò in medicina e compì, prima di tornare in patria, viaggi in Inghilterra ed in Francia. In Svezia continuò gli studi di botanica, che non aveva mai abbandonato dalla prima giovinezza, e svolse una proficua attività di insegnamento nell'università di Uppsala. Morì nel I778. La passione smisurata di Linneo per la classificazione traspare continuamente dalla disposizione di moltissimi suoi scritti (di cui ricorderemo Sistema naturae, 17 3 5; Fundamenta botanica, I 73 6; Philosophia botanica, I 7 5I) in cui la parte discorsiva è ridotta al minimo ed è invece prevalente la disposizione per gruppi e sottogruppi. La tipica suddivisione gerarchica che egli introduce nello studio delle forme viventi per classi, ordini, generi, specie, individuo è collegabile alla distinzione tradizionale in filosofia tra genere sommo, intermedio, prossimo, individuo. Il criterio stabilito da Linneo per la sua classificazione botanica deriva direttamente dall'aspetto che più interessava gli studiosi contemporanei degli organismi viventi, cioè la generazione. Piante e animali in effetti non avevano solo in comune il processo della riproduzione ma anche la distinzione in sessi. Verso la fine del '6oo era stata infatti sostenuta l'esistenza nei vegetali di organi sessuali e di un processo di fecondazione, e Linneo fu fra i primi a valorizzare questa scoperta stabilendo che proprio in base agli organi della fruttificazione (fiori e frutti) si doveva stabilire la classificazione. Egli partiva infatti dal presupposto che in tali organi si esprime l'essenza stessa dell'organismo ed in questo senso egli faceva propria l'idea di Cesalpino che i tessuti dello stelo si trasformano direttamente nel fiore o meglio che il fiore è come anticipato nei tessuti della pianta; ad esempio il pistillo, l'organo sessuale femminile, è anticipato nel midollo dello stelo in cui 2.2.1
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risiede l'essenza femminile della pianta che, per gli ovisti, era quella stessa dell'organismo. Gli organi della fruttificazione vengono pertanto distinti in 6 categorie fondamentali, calice e corolla, stami e pistilli, pericarpo e seme, ciascuno dei quali può essere ulteriormente suddiviso in 4 o 5 componenti. Ne derivano complessivamente 2.6 parti che costituiscono i segni fondamentali coi quali è scritto tutto il grande libro delle piante (litterae vegetabilium). Gli attributi numerus, figura, situs, proportio di ciascuno di questi segni del linguaggio vegetale ci permettono di definire con uniformità e precisione le caratteristiche di ogni genere. Gli stessi attributi, qualora riguardino soltanto gli stami, ci permettono di definire le classi, se concernono i pistilli costituiscono il criterio per fissare gli ordini appartenenti a ciascuna classe. Degli aggruppamenti che vengono a costituirsi con il linguaggio così definito solo il genere può considerarsi veramente opus naturae, la classe e l'ordine sono almeno in parte delle categorie artificiali che possono anche raggruppare piante che, per organi diversi da quelli sessuali, non presentano una stretta affinità. Questo sistema di classificazione, per quanto sia riconosciuto da Linneo stesso come artificiale, rappresenta una realizzazione del suo ideale di scientificità, che mira a ricostruire in una visione d'insieme l'ordine statico e gerarchico delle forme naturali, ma che è legato anche all'esigenza pratica di una diagnosi, cioè catalogazione e riconoscimento di esse. Linneo ritiene tuttavia che non ci si debba limitare ad un metodo artificiale, ma che scopo fondamentale della scienza della natura sia la definizione di un sistema naturale, in cui con ogni aggruppamento si stabilisca un'affinità ed una somiglianza reali fra le varie piante, tenendo presente tutti i loro organi. I suoi tentativi in questo senso sono però del tutto incompleti e frammentari; pensa ad esempio che tale sistema possa basarsi sulla scala naturale, disponendo in serie le piante, da quelle senza fiore a quelle con i fiori più complessi. Si accorge però che questa disposizione non risulta efficace; le varie specie non si collocano lungo una linea, ma si trovano piuttosto connesse fra loro come i nodi di una rete o i territori confinanti su una carta geografica. Un'importante semplificazione del vocabolario botanico è introdotta da Linneo adottando, per designare ogni specie, una nomenclatura binaria, costituita dai nomi latini del genere e della specie. Avverte l'esigenza di designare la specie, quale entità naturale, con un nome che indichi il suo carattere essenziale e implichi quindi una definizione, ma questa esigenza si dimostra irrealizzabile ed egli finisce con l'usare nomi che indicano qualche aspetto risultante all'osservazione empirica o a volte del tutto convenzionali. La fissità della specie, per la quale il suo nome è spesso ricordato, comporta la stabilità di ogni forma vivente originariamente prodotta da dio al momento della creazione. Stabilità per cui ogni organismo genera soltanto individui simili a se 22.2.
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stesso. Questo principio costituì un progresso fondamentale nello studio delle forme viventi che, secondo diversi autori del passato, avrebbero potuto generare, senza una precisa regola, anche individui molto dissimili da sé. Proprio l'assunzione di questo principio gli permise di rilevare che si producevano delle eccezioni ad esso, che cioè potevano sorgere varietà o specie nuove. Nel I762 giunse così a supporre che l'opera di dio nella creazione poteva essersi limitata a fornire un esemplare per ciascun genere o addirittura per ciascun ordine e che le restanti specie si fossero prodotte col tempo per cause naturali. L'ammissione di una possibile trasformazione della specie non intacca sostanzialmente la concezione della natura di Linneo, intesa come realizzazione di un piano sapiente della divinità che comporta una costante armonia ed un equilibrio fra tutte le forme viventi. Nel grande regno della natura ogni pianta adempie infatti un ruolo determinato entro la gerarchia di tutti i vegetali. I muschi svolgono le funzioni più umili paragonabili nella società a quelle dei braccianti, le erbe invece quelle dei contadini possidenti, mentre le piante, coltivate in orti e giardini, e gli alberi primeggiano sugli altri vegetali come la nobiltà ed i principi. Il ruolo stabilito per gli animali dal creatore è quello di mantenere, come una sorta di polizia, l'ordine e l'equilibrio fra le piante, impedendo la crescita eccessiva delle une, favorendo la nutrizione e la distribuzione delle altre, allontanando inoltre dal grande teatro della natura ogni cosa superflua e inutile. Nella sua visione complessiva della natura, così come nel suo infaticabile lavoro analitico di osservatore e classificatore, si incontrano motivi estetico-religiosi della tradizione protestante ed esigenze di un razionalismo che sa utilizzare nel modo più efficace residui motivi della logica formale scolastica. Poco dello spirito di Linneo poteva considerarsi consono allo spirito dell'illuminismo, alla visione dinamica e storica che esso introduceva nello studio dei fenomeni naturali, eppure il suo metodo ebbe un grande successo e rappresentò per molti studiosi, durante parecchi decenni, l'ideale stesso della conoscenza scientifica delle forme viventi. III
· IL NATURALISMO EVOLUZIONISTICO
Per giungere al superamento sia della concezione preformista della generazione, sia del creazionismo, per cui tutte le forme viventi erano state create fon·· damentalmente immutabili all'inizio del mondo, occorreva anche abbandonare l'idea meccanico-teleologica che considerava gli organismi dei congegni materiali costituiti per un determinato scopo e secondo un disegno prestabilito. A partire dalla metà del Settecento infatti all'idea meccanico-teleologica si contrappone sempre più una concezione degli organismi che potremmo designare come dinamico-naturale, per cui essi si formano, a prescindere da ogni disegno teleologico, per effetto delle proprietà specifiche dei loro elementi costitutivi, allorché questi sono coinvolti in un processo particolare di interazione.
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Per giungere a questa nuova concezione fu molto importante, dal punto di vista teorico e filosofico, il superamento dell'idea di passività della materia. Tale superamento appare come lo sviluppo di diversi problemi discussi nell'ambito della meccanica e della teologia naturale tra la fine del Seicento e l'inizio del Settecento soprattutto in Francia, ove gli occasionalisti avevano ritenuto che, se si doveva tener ferma la definizione puramente geometrica di materia formulata da Cartesio, era necessario ammettere un intervento diretto di dio per produrre il movimento dei corpi e la loro interazione. Fra i motivi scientifico-filosofici che condussero a superare l'idea di passività della materia e quindi la necessità di un intervento divino per produrre i movimenti dei corpi, si possono ricordare le dottrine epicuree e democritee sostenute negli scritti libertini, la teoria avanzata da Leibniz di una vis viva intrinseca ai corpi ed infine la nuova fisica newtoniana che introduceva la gravitazione come proprietà attiva dei corpi. Fra i numerosi autori, che si opposero all'interpretazione creazionistica e meccanico-teleologica degli organismi aprendo la via alla loro concezione dinamico-naturale, tratteremo soltanto di alcuni che, legati all'illuminismo francese, seppero meglio chiarire e sviluppare i motivi e le implicazioni filosofiche di questa trasformazione. Inizieremo ricordando la figura importante, anche per i suoi diretti contributi al problema della generazione, del fisico e matematico francese Maupertuis, di cui si è già trattato nel capitolo vn indicando i suoi contributi scientifici a favore della fisica newtoniana. Egli prende posizione, specialmente nell'Essai de cosmologie (Saggio di cosmologia, 1750), contro l'idea espressa da Newton che la regolarità delle orbite planetarie costituisce la prova di una scelta intelligente compiuta da una mente superiore. Secondo Maupertuis infatti non si può escludere che tali regolarità risultino da una combinazione puramente casuale. Cercando di dimostrare questa sua affermazione egli è fra i primi ad applicare alla fisica il calcolo delle probabilità e soprattutto ad esprimere in termini scientifici la tesi, fondamentale per la conoscenza della natura, che l'ordine apparente dei fenomeni non indica necessariamente una finalità ma può risultare dalla combinazione casuale di elementi. Egli giunge inoltre a sostenere che le prove dell'esistenza di dio, sostenute da vari autori contemporanei in base all'armonia e alla precisione microscopica dei viventi (in base cioè alle 1/Jerveilles de la nature) sono da respingere perché l'adattamento di tali forme potrebbe essere anch'esso effetto del caso, cioè di fortuite trasformazioni dimostratesi convenienti. Nel mondo ci si presentano poi fenomeni di disordine, come i· mostri, che non appaiono facilmente riconducibili ad un piano provvidenziale. Maupertuis sembra dunque aderire alle argomentazioni materialistiche dei libertini che si ispiravano alla cosmogonia di Lucrezio. In effetti egli è lontano dal
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negare alla natura un piano finalistico di origine divina. Ritiene soltanto che la mente umana è incapace di riconoscerlo, specialmente quando esso si realizza nelle strutture fini e complesse dei viventi. L'intervento di dio nel mondo è anzi continuo, come aveva sostenuto Malebranche, ma esso ci è manifesto soltanto nelle leggi più generali, specialmente in quel principio di minima azione, che si ispira al principio leibniziano del meglio e che esprime la semplicità e l'economia della natura. Maupertuis sostiene dunque che fra le leggi, che l'essere supremo si è proposto nella formazione dell'universo, quelle che ci possono essere note sono le più generali che emanano direttamente dalla sua azione; quanto risulta indirettamente da tali leggi ci è oscuro e può apparirci privo di finalità. f.: quindi giustificato e non contrasta con la convinzione di un disegno divino ammettere che almeno una parte dell'ordine dei fenomeni sia prodotto del caso. Se il ricorso al caso può svolgere un ruolo importante nella comprensione dei viventi egli non ritiene però che la produzione ed il mantenimento della vita possano essere spiegati adeguatamente dal geometrismo cartesiano o dall'atomismo epicureo. Non può essere infatti l'organizzazione, cioè la semplice disposizione esterna delle parti, la causa delle proprietà vitali e specialmente psichiche. D'altronde non è accettabile neppure una concezione animistica degli organismi che ne spieghi l'attività mediante un intervento dell'anima sul corpo. Tale intervento sarebbe infatti possibile solo per il tramite di un'azione diretta di dio, che Maupertuis ammette soltanto per le leggi più generali del movimento. Il processo della generazione appare anche per lui essenziale alla comprensione dei viventi. Respinge però la teoria della preesistenza dei germi perché anch'essa postula un illecito ricorso all'azione di dio, ma soprattutto perché risulta inconciliabile con alcuni dati importanti. In primo luogo con i fenomeni ereditari che indicano la trasmissione ai discendenti dei caratteri di ambedue i genitori, mentre per i preformisti dovrebbero trasmettersi a rigore solo quelli materni o solo quelli paterni; inoltre con la ricomparsa di alcuni caratteri a distanza di una o più generazioni e con i fenomeni di ibridismo dove appaiono caratteri intermedi fra quelli parentali. Questi dati, che sono inconciliabili col preformismo, possono invece essere interpretati, secondo Maupertuis, approfondendo la tradizionale dottrina dell'epigenesi e quella della duplice semenza maschile e femminile già accettate da Cartesio. Non solo nel seme maschile, ma anche in un supposto liquido seminale femminile, vi sarebbero cioè particelle eterogenee provenienti da ogni parte del corpo dei rispettivi genitori. Queste particelle o molecole organiche nel processo generativo si dispongono ordinatamente ricostruendo nell'embrione gli organi da cui provengono. Nella Venus physique del 1745 sostiene che queste molecole si dispongono ordinatamente per effetto di una «affinità» reciproca analoga a quella che
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Per giungere a questa nuova concezione fu molto importante, dal punto di vista teorico e filosofico, il superamento dell'idea di passività della materia. Tale superamento appare come lo sviluppo di diversi problemi discussi nell'ambito della meccanica e della teologia naturale tra la fine del Seicento e l'inizio del Settecento soprattutto in Francia, ove gli occasionalisti avevano ritenuto che, se si doveva tener ferma la definizione puramente geometrica di materia formulata da Cartesio, era necessario ammettere un intervento diretto di dio per produrre il movimento dei corpi e la loro interazione. Fra i motivi scientifico-filosofici che condussero a superare l'idea di passività della materia e quindi la necessità di un intervento divino per produrre i movimenti dei corpi, si possono ricordare le dottrine epicuree e democritee sostenute negli scritti libertini, la teoria avanzata da Leibniz di una vis viva intrinseca ai corpi ed infine la nuova fisica newtoniana che introduceva la gravitazione come proprietà attiva dei corpi. Fra i numerosi autori, che si opposero all'interpretazione creazionistica e meccanico-teleologica degli organismi aprendo la via alla loro concezione dinamico-naturale, tratteremo soltanto di alcuni che, legati all'illuminismo francese, seppero meglio chiarire e sviluppare i motivi e le implicazioni filosofiche di questa trasformazione. Inizieremo ricordando la figura importante, anche per i suoi diretti contributi al problema della generazione, del fisico e matematico francese Maupertuis, di cui si è già trattato nel capitolo vn indicando i suoi contributi scientifici a favore della fisica newtoniana. Egli prende posizione, specialmente nell'Essai de cosmologie (Saggio di cosmologia, 1750), contro l'idea espressa da Newton che la regolarità delle orbite planetarie costituisce la prova di una scelta intelligente compiuta da una mente superiore. Secondo Maupertuis infatti non si può escludere che tali regolarità risultino da una combinazione puramente casuale. Cercando di dimostrare questa sua affermazione egli è fra i primi ad applicare alla fisica il calcolo delle probabilità e soprattutto ad esprimere in termini scientifici la tesi, fondamentale per la conoscenza della natura, che l'ordine apparente dei fenomeni non indica necessariamente una finalità ma può risultare dalla combinazione casuale di elementi. Egli giunge inoltre a sostenere che le prove dell'esistenza di dio, sostenute da vari autori contemporanei in base all'armonia e alla precisione microscopica dei viventi (in base cioè alle merveilles de la nature) sono da respingere perché l'adattamento di tali forme potrebbe essere anch'esso effetto del caso, cioè di fortuite trasformazioni dimostratesi convenienti. Nel mondo ci si presentano poi fenomeni di disordine, come i· mostri, che non appaiono facilmente riconducibili ad un piano provvidenziale. Maupertuis sembra dunque aderire alle argomentazioni materialistiche dei libertini che si ispiravano alla cosmogonia di Lucrezio. In effetti egli è lontano dal
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negare alla natura un piano finalistico di origine divina. Ritiene soltanto che la mente umana è incapace di riconoscerlo, specialmente quando esso si realizza nelle strutture fini e complesse dei viventi. L'intervento di dio nel mondo è anzi continuo, come aveva sostenuto Malebranche, ma esso ci è manifesto soltanto nelle leggi più generali, specialmente in quel principio di minima azione, che si ispira al principio leibniziano del meglio e che esprime la semplicità e l'economia della natura. Maupertuis sostiene dunque che fra le leggi, che l'essere supremo si è proposto nella formazione dell'universo, quelle che ci possono essere note sono le più generali che emanano direttamente dalla sua azione; quanto risulta indirettamente da tali leggi ci è oscuro e può apparirci privo di finalità. f.: quindi giustificato e non contrasta con la convinzione di un disegno divino ammettere che almeno una parte dell'ordine dei fenomeni sia prodotto del caso. Se il ricorso al caso può svolgere un ruolo importante nella comprensione dei viventi egli non ritiene però che la produzione ed il mantenimento della vita possano essere spiegati adeguatamente dal geometrismo cartesiano o dall'atomismo epicureo. Non può essere infatti l'organizzazione, cioè la semplice disposizione esterna delle parti, la causa delle proprietà vitali e specialmente psichiche. D'altronde non è accettabile neppure una concezione animistica degli organismi che ne spieghi l'attività mediante un intervento dell'anima sul corpo. Tale intervento sarebbe infatti possibile solo per il tramite di un'azione diretta di dio, che Maupertuis ammette soltanto per le leggi più generali del movimento. Il processo della generazione appare anche per lui essenziale alla comprensione dei viventi. Respinge però la teoria della preesistenza dei germi perché anch'essa postula un illecito ricorso all'azione di dio, ma soprattutto perché risulta inconciliabile con alcuni dati importanti. In primo luogo con i fenomeni ereditari che indicano la trasmissione ai discendenti dei caratteri di ambedue i genitori, mentre per i preformisti dovrebbero trasmettersi a rigore solo quelli materni o solo quelli paterni; inoltre con la ricomparsa di alcuni caratteri a distanza di una o più generazioni e con i fenomeni di ibridismo dove appaiono caratteri intermedi fra quelli parentali. Questi dati, che sono inconciliabili col preformismo, possono invece essere interpretati, secondo Maupertuis, approfondendo la tradizionale dottrina dell'epigenesi e quella della duplice semenza maschile e femminile già accettate da Cartesio. Non solo nel seme maschile, ma anche in un supposto liquido seminale femminile, vi sarebbero cioè particelle eterogenee provenienti da ogni parte del corpo dei rispettivi genitori. Queste particelle o molecole organiche nel processo generativo si dispongono ordinatamente ricostruendo nell'embrione gli organi da cui provengono. Nella Venus physique del 1745 sostiene che queste molecole si dispongono ordinatamente per effetto di una «affinità» reciproca analoga a quella che
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alcuni chimici, estendendo l'idea di attrazione newtoniana, avevano attribuito a diverse sostanze. Nel Système de la nature del 1751 ammette invece che l'organizzazione delle molecole organiche è l'effetto di loro peculiari proprietà psichiche, quali desiderio, avversione e memoria. Ma come è possibile attribuire alla materia delle qualità psichiche? Maupertuis ritiene che è lecito allargare in tal modo il concetto di materia se si rinuncia alla pretesa di conoscerne l'essenza e ci si attiene a ciò che risulta dall'esperienza. « Se pensiero ed estensione sono soltanto qualità, » egli afferma, «possono benissimo appartenere a un soggetto, del quale ci sia ignota la vera essenza. La loro coesistenza non è allora per nulla più inesplicabile di quel che non sia l'unione di estensione e mobilità. Potremo, è vero, provare una maggiore ripugnanza ad attribuire a uno stesso oggetto estensione e pensiero che non a unire tra loro estensione e mobilità: ma ciò deriva solamente dal fatto che l'esperienza dimostra continuamente e direttamente quest'ultima unione, mentre possiamo afferrare la prima fusione soltanto attraverso ragionamenti e conclusioni induttive. » Se ci è dunque possibile riconoscere proprietà psichiche a quegli ammassamenti di materia che ci si presentano come animali, perché non potremmo attribuirle anche ad un granello di sabbia? I fenomeni psichici più elevati risultano per Maupertuis dall'interazione delle proprietà psichiche elementari delle molecole, ma queste non sono perciò meno soggette a quegli accidenti materiali capaci di alterare il loro ordine e le loro caratteristiche trasmissibili ereditariamente. In tal modo diviene comprensibile come partendo da due soli individui si sia prodotta la molteplicità delle specie più diverse. « Esse non avrebbero dovuto la loro prima origine che a qualche produzione fortuita, in cui le parti elementari non avrebbero mantenuto l'ordine che esse possedevano negli animali padre e madre; ogni grado di errore avrebbe prodotto una nuova specie e a forza di scarti ripetuti sarebbe risultata la diversità infinita degli animali che vediamo oggi... » Questa limpida enunciazione della trasformazione delle specie prodotta da casuali variazioni dei caratteri ereditari, non ebbe ampia eco presso i contemporanei. Si presentava in effetti più come una speculazione cosmologico-filosofica sui viventi che non come risultato di un'analisi dettagliata delle strutture differenziate degli organismi. Maggiore fortuna ebbe invece la teoria delle molecole organiche che, riprendendo in senso empirico-materialistico l'idea leibniziana delle monadi, contribuiva ad una svolta importante nella concezione della natura del Settecento; contribuiva cioè alla crisi del meccanicismo creazionistico, che considerava i viventi come congegni tutti costruiti dal sommo artefice all'inizio del mondo, ed all'avvio verso una nuova concezione materialistica e dinamica della natura. Con questa nuova concezione, sotto la spinta delle correnti clandestine epicureo-cartesiane, si rivalutava da un lato l'istanza originaria del meccanicismo di ricondurre il prodursi del tutto all'interazione delle parti, mentre dall'altro, anche per effetto zz6
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dell'opera di Newton, si veniva a superare l'idea di passività della materia riconoscendole un'intrinseca capacità di movimento e di azione. Tale concezione meccanicistica e dinamica della realtà naturale trovò verso la metà del Settecento una delle sue formulazioni più ampie nel pensiero di Georges Louis Ledere conte di Buffon (1707-88) che con i 36 volumi della Histoire nature/le (Storia naturale), da lui pubblicati nel corso di alcuni decenni a partire dal 1749, doveva realizzare una delle opere di maggior influenza sulla cultura scientifico-filosofica europea sino all'inizio dell'Ottocento. Se i naturalisti osservatori ancora all'inizio del xvm secolo avevano prediletto l'analisi minuziosa del mondo microscopico degli insetti egli, convinto che « una mosca non deve tenere nella testa di un naturalista più posto di quanto tiene in natura», preferisce descrivere, in modo immediato e al di fuori di ogni rigido schema, gli animali più vicini al mondo concreto dell'uomo, alla sua esperienza quotidiana di agricoltore o cacciatore. Molti contemporanei anche per questo gli riconobbero dapprima soltanto i pregi stilistici di un grande divulgatore. Ma in diverse sue pagine e specialmente nel discorso De la 111anière d'étudier et de traiter l'histoire nature/le (Dei modo di studiare e trattare la storia naturale) egli tracciava le linee metodiche di una nuova scienza della natura che si trovano sviluppate, non senza oscillazioni e incertezze, in tutta la sua vasta opera. Per Buffon modello esemplare della scienza della natura non può essere la meccanica razionale. Questa, nella misura in cui è scienza matematica, non offre infatti che verità di definizione, create dall'uomo stesso, e inoltre non sembra trovare molte applicazioni al di fuori dell'astronomia e dell'ottica. I principi della meccanica, allorché enunciano l'esistenza di determinate forze, non ci portano a conoscere cause fondamentali, ma soltanto effetti o qualità generali che :risultano semplicemente dall'esperienza; a tali principi non è quindi possibile attribuire il privilegio di una particolare evidenza razionale, come aveva sostenuto Cartesio. Una volta poi che si sia accettato con Newton che la materia non è più definibile in termini solo geometrici, ma anche mediante una qualità fisica come la gravitazione, risulta possibile attribuire alla materia stessa qualità generali quante ce ne suggerisce l'esperienza. All'evidenza della meccanica :razionale, dogmatizzata dai cartesiani, egli contrappone così la certezza o la probabilità di una conoscenza « fisica » della natura, che diviene « fisica filosofica » ogni qual volta :riesca a :ricondurre i dati dell'esperienza a principi generali, che non debbono necessariamente coincidere con quelli della meccanica. Seguendo questi c:rite:ri, nell'interpretare i fenomeni di generazione e di nutrizione dell'organismo, egli :riprende la teoria epigenetica delle molecole organiche formulata da Maupertuis, senza però :riconoscere ad esse alcuna proprietà psichica. F. sufficiente infatti attribuir loro delle jòrze penetranti, analoghe a quelle del peso, pe:r le quali le molecole sono condotte ad organizzarsi nell'embrione, dopo 2.2.7
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aver subito l'effetto di uno stampo interno (moule interieur), di un'impronta caratteristica di ogni organo da cui derivano. La vita appare perciò come una qualità attiva inerente a certi corpi, come una qualità fisica della materia che tenderebbe nella natura a prevalere completamente, a svantaggio della materia bruta, se non fosse rallentata da continui ostacoli. Questa tendenza della natura ad organizzarsi sempre più nella vita è resa possibile anche dalla indistruttibilità della materia primordiale animata, cioè dalle molecole organiche, che in particolari condizioni possono essere prodotte per effetto del calore e della luce sulla materia inerte. Per Buffon la teoria delle molecole organiche non solo risolveva le tradizionali difficoltà del preformismo, ma permetteva di interpretare in modo soddisfacente alcune delle indagini sugli organismi che allora più avevano richiamato l'attenzione dei contemporanei. Si trattava specialmente dei fenomeni di rigenerazione di parti amputate, descritti già all'inizio del secolo da Réaumur nei gamberi, e delle osservazioni condotte da Abraham Trembley (1700-84) sull'idra di acqua dolce, dimostrando che questo organismo è capace di rigenerare individui completi dai vari pezzi in cui poteva essere tagliato. Di fronte a questi fenomeni i preformisti erano costretti ad ammettere non solo che l'organismo adulto era già completamente contenuto in un germe ma anche che in ogni parte di tale organismo erano contenuti tanti altri germi pronti a svilupparsi, nelle circostanze appropriate, o in un organo o in un nuovo individuo completo. Più convincente, per Buffon, appariva invece l'interpretazione di questi fenomeni di rigenerazione ammettendo che gli organismi fossero costituiti da tante unità viventi, quali le molecole organiche, capaci di associarsi e dissociarsi continuamente, come i piccoli elementi cubici di un cristallo di sale. Gli organismi non appaiono dunque più al Buffon come piccole macchine create in miniatura nel germe, ma come corpi in continua trasformazione, dotati di una plasticità per l'associarsi ed il dissociarsi dei loro componenti, e pure capaci di conservare una loro tipicità morfologica grazie all'ipotetico stampo interno. L'indistruttibilità e la plasticità delle molecole organiche permettono a Buffon di affermare che la morte, analogamente a quanto aveva sostenuto Leibniz, travolge le forme viventi ma non la vita. Le molecole organiche, dopo il dissolversi di una pianta o di un animale, permangono infatti nella loro immutata capacità di essere assimilate da un nuovo organismo o anche di riunirsi a produrre, per generazione spontant>a, altri organismi più o meno microscopici. Riproponendo la teoria della generazione spontanea, che aveva subito dalla fine del Seicento un sensibile declino, soprattutto per l'opera di Redi, Vallisnieri ed altri, Buffon trovava appoggio nelle ricerche dell'inglese John Turberville Needham (17138 1 ), che verso la metà del secolo credette di dimostrare con sicurezza la produzione di infusori in sugo di carne ove egli riteneva di aver distrutto col calore ogni germe. 228
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Le conclusioni di Needham, che verranno puntualmente confutate da Lazzaro Spallanzani (1729-99) alcuni lustri più tardi, giungevano a rinnovare la teoria della generazione spontanea in un momento in cui essa appariva in perfetto accordo con l'idea anticreazionistica di alcuni filosofi illuministi che sostenevano un'attività autonoma, una capacità autoorganizzativa della materia e della natura. Facendosi anch'egli sostenitore di quest'idea, Buffon ritiene che l'ordine e le leggi che presiedono alla realizzazione autonoma della natura non vadano attribuite ad un disegno iniziale e statico, fissato da dio per un grande orologio del 229
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---------·- ~------l Figure di muffe viste al microscopio :
tavola dalle N ew microscopica! discoveries (1745) di John Turberville Needham.
mondo o per una scala degli esseri, ma vadano ricercate nella stessa continuità dei processi naturali che si svolgono nel tempo. La generazione spontanea o non spontanea degli organismi, i loro processi nutritivi e riparativi, indicando una plasticità ed una trasformazione costanti, suggerivano infatti un nuovo modo di guardare alla continuità esistente fra i corpi naturali. Non si doveva cioè rilevare solo la continuità statica delle forme, che pure Buffon ribadisce per respingere come artificiose le distinzioni classificatorie di Linneo, ma porre attenzione alla continuità dinamica dei processi naturali, alla continuità di quelle catene di cause
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ed effetti che possono essere seguite risalendo al· passato sin quando i fenomeni comparabili non siano riconducibili a poche cause fondamentali. In questo modo per Buffon la storia naturale, cioè la descrizione completa delle singole forme, diviene storia della natura. Dall'ipotetico momento in cui la terra si è staccata dal sole per l'urto di urta cometa, sino al raffreddarsi della sua superficie ed al sorgere delle prime molecole organiche, si ha una continuità dinamica di fenomeni della natura di cui occorre ricercare ordine e leggi. Così studiando ad esempio le forme animali egli conclude che i quadrupedi possono essere ricondotti ad un piccolo numero di specie originarie, da cui si sono gradualmente diversificati per effetto del clima e dell'addomesticamento. La continuità non è dunque soltanto quella di serie lineari di cause ed effetti ma l'azione reciproca di ogni cosa, della natura inorganica sui viventi e di questi, ivi compreso l'uomo, su tutta la natura. L'uomo, che risulta superiore agli altri esseri per il linguaggio e la vita sociale, rispecchia in sé l'universo e può divenire uno dei centri del suo potenziale sviluppo: « Soltanto tardi l'uomo ha conosciuto l'ampiezza del suo potere e ancora non è riuscito a conoscerla tutta; essa dipende completamente dall'esercizio dell'intelligenza; così più osserverà, più coltiverà la natura, più mezzi otterrà per sottometterla e con maggiore facilità trarrà dal suo seno nuove ricchezze senza diminuire i tesori della sua inesauribile fecondità. E che cosa non potrebbe su se stesso, voglio dire sulla sua specie, se la volontà fosse sempre diretta dall'intelligenza? Chi sa fino a qual punto l'uomo potrebbe perfezionare la sua natura sia morale che fisica? » Se l'ammirazione religiosa dei devoti naturalisti del primo Settecento cede il passo in Buffon alla ricerca di un ordine razionale nel processo storico della natura, non per questo dio viene allontanato dal mondo. La natura è anzi considerata da Buffon, con una nota quasi panteistica, l'ordine delle leggi stabilite dal creatore, e viene vista nel suo complesso come una potenza attiva che comprende ed anima tutto, come la parte che si manifesta della potenza divina. Se Buffon riconosce ed indaga la storicità dei processi naturali non giunge però di fronte agli organismi viventi a formulare esplicitamente, come era avvenuto in Maupertuis, la teoria evoluzionistica per cui tutta la molteplicità delle loro forme poteva essersi prodotta per variazioni partendo da capostipiti comuni. Egli riesce al più ad ammettere che questo processo è avvenuto in senso più degenerativo che progressivo, in gruppi limitati di organismi. Laddove il divenire delle strutture naturali viene invece da lui riconosciuto ed indagato ampiamente è nella geologia, con le opere J-Iistoire et theorie de la terre (Storia e teoria della terra, 1749) e Epoques de la nature (Epoche della natura, 1778). È qui che egli rompe decisamente con la cosmogonia mosaica ipotizzando in circa 75 .ooo anni l'età della terra che uno dei cultori di cronologia biblica, il matematico Whiston successore di Newton a Cambridge, riteneva fosse stata
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travolta dal diluvio il 23 novembre 2349 a.C. È sempre in queste opere che egli si oppone alla tradizione degli studiosi di geologia biblica nei cui scritti era caratteristico il tentativo di conciliare il creazionismo, basato sul racconto biblico, sia con una cosmologia meccanico-razionale di derivazione cartesiana che con le successive indagini sulle stratificazioni delle rocce e sui fossili. In tali scritti il processo fondamentale, che era chiamato a spiegare l'attuale disposizione delle strutture della terra, era in genere un unico evento catastrofico coincidente con il diluvio. Buffon sostiene invece che le trasformazioni geologiche sono l'effetto di cause · lente, di forze naturali che continuano ad agire tuttora nell'universo. Egli viene così a porsi sulla linea di una cosmologia naturalistica che si era espressa, nella forma del romanzo scientifico, soprattutto con l'opera Telliamed, pubblicata nel I748 dopo esser circolata manoscritta per diversi anni. In questo libro, probabilmente ispirato alle correnti libertine, l'autore Benoit de Maillet (I 6 56- I 7 38) sembra quasi opporre alle cosmogonie fondate sulla mitologia biblica il racconto di una cosmogonia ispirata ad una mitologia laica e profana, ove i racconti fantasiosi di marinai ed esploratori su leggendarie creature marine e gli echi letterari delle metamorfosi di Ovidio si fondono con elementi della fisica cartesiana ed epicurea. I movimenti della terra entro i vortici dei corpi celesti la conducono a :raffreddarsi e a ricoprirsi di acque formando quei mari ove la vita sorge, per l'azione di semenze presenti in tutto l'universo. Il calore fa evaporare le acque e le forme viventi passano dal mare alle terre scoperte. La metamorfosi di alcuni organi permette a pesci nuotanti alla superficie e casualmente caduti sulle rive di trasformarsi in uccelli. Dagli esseri marini che abitano le maggiori profondità derivano invece i mammiferi. Da leggendari esseri marini simili all'uomo sorgono poi quelle che de Maillet ritiene le differenti specie di esseri umani che abitano i diversi continenti. Se una continuità storica di processi poteva essere ipotizzata in modo plausibile nel tracciare una cosmogonia fisica, più difficilmente tale continuità poteva essere ammessa fra le forme animali senza uno studio analitico e comparativo che rilevasse una struttura comune nell'anatomia dei loro organi. L'esistenza nei ve:rtebrati di tale struttura o piano fondamentale non era inve:ro sfuggita ad alcuni autori ed in particolare a Buffon che aveva richiamato su di essa l'attenzione dei naturalisti e filosofi contemporanei. «Anche nelle parti che contribuiscono maggiormente a conferire varietà alla forma esterna degli animali, >> egli afferma, « vi è un grado prodigioso di somiglianza che ci richiama irresistibilmente alla mente l'idea di un modello originale su cui tutti gli animali sembrano essere stati concepiti. » Quest'idea poteva essere quella presente al creatore nella produzione dei diversi animali oppure poteva indicare la struttura di una singola specie dalla quale differenziandosi nel tempo erano discese altre specie. Buffon pur colpito da quest'ultima possibilità evita però di giungere ad una generale interpretazione evoluzionistica dell'origine della specie
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Tavola dalla prima edizione (Amsterdam 1761-66) dell'opera De la nature di Jean-Baptiste-René Robinet. Le figure I, 2, 3 rappresentano dei « zoofiti », detti « piume di mare ». La figura 4 rappresenterebbe, secondo Robinet, un « insetto di mare». L'autore sostiene l'esistenza di un prototipo, cioè di una forma primitiva comune a tutti i viventi.
e neppure sembra conferire particolare importanza all'unità del piano come principio d'ordine nella descrizione dei viventi. Chi invece vede nel piano fondamentale o prototipo un tema di particolare importanza per l'interpretazione di tutti i fenomeni naturali e non solo di quelli viventi è il filosofo Jean-Baptiste-René Robinet (r735-r8zo) specialmente nella sua opera De la nature (La natura, 176r-66) ove egli, ispirandosi a Leibniz e a
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Spinoza, sviluppa sino alle loro estreme conseguenze alcuni temi del pensiero scientifico-filosofico settecentesco. Si tratta innanzitutto della legge o del principio di continuità nella catena o serie degli esseri, per il quale egli ritiene che in questa serie gli elementi possono distinguersi solo per il grado maggiore o minore con cui possiedono certi caratteri comuni e mai per una assenza o presenza totale di essi, mai cioè nei termini di negativo e positivo, fra i quali intercorre una distanza infinita. Non si può quindi porre una netta distinzione fra organico ed inorganico, fra animato ed inanimato. Se questi fossero contrapponibili come negativo e positivo e si dovessero ammettere dei termini intermedi fra di loro, sarebbe necessario che la costituzione di tali esseri« partecipasse simultaneamente di due contrari reciprocamente esclusivi; per esempio, che il passaggio dall'inorganico all'organico fosse colmato da una sorta intermedia di esseri ad un tempo organici e inorganici. Ma esseri siffatti, » continua Robinet, « sono contraddittori. Se vogliamo mantenere la legge del continuo, ... se vogliamo riconoscere che la natura passa insensibilmente dall'uno all'altro dei suoi prodotti, senza costringerla a fare salti, non dobbiamo ammettere l'esistenza di esseri inorganici, o inanimati o non razionali. Dove c'è una sola qualità essenziale ... caratteristica di un certo numero di esseri ad esclusione di altri, ... la catena si spezza, la legge del continuo diventa chimera e l'idea di un tutto assurdità. » Queste considerazioni filosofiche, che saranno riprese da alcuni autori romantici, comportavano una concezione ilozoistica e panpsichistica della natura. Ma il Robinet più che su questi aspetti insiste su quell'aspetto morfologico degli elementi della serie continua che è particolarmente evidente negli animali e cioè sul piano fondamentale o prototipo. « Quando paragono la pietra con la pianta, la pianta con l'insetto, l'insetto col rettile, il rettile col quadrupede, attraverso tutte le differenze che caratterizzano ciascuno di essi, io colgo relazioni di analogia che mi persuadono che essi sono stati tutti concepiti e formati in armonia con un solo modello, di cui sono variazioni graduate ad inftnitum. Essi mostrano tutti i tratti salienti di questo esemplare originario, che nel realizzarsi ha successivamente assunto le forme infinitamente numerose in cui l'essere si manifesta ai nostri occhi. » Il prototipo è dunque l'esemplare sempre presente nel concreto generarsi delle forme. Queste secondo Robinet, che segue le idee di Leibniz e dei preformisti, sono latenti nei germi o nei semi che esistono da sempre nella natura e si svolgono in tempi successivi. Ogni germe in se stesso contiene altri germi che non possono però essere identici al primo, né fra di loro; si devono differenziare sia pure di poco. Sono queste le differenze attraverso le quali i germi possono ciascuno a suo modo realizzare le infinite variazioni del prototipo. Rifiutandosi, in forza del principio di continuità, di ammettere un salto qualitativo fra le parti ed il tutto in ogni corpo naturale composto, intende stranamente il prototipo in un modo duplice ed apparentemente contraddittorio, da
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un lato infatti il prototipo è l'elemento costitutivo, dall'altro la stessa forma compiuta dall'associazione degli elementi. Esso appare cioè da un lato come una struttura semplice costitutiva, « un tubo allungato e vuoto, naturalmente attivo », un'unità semplice che si ripete associandosi in infinite combinazioni; dall'altro rappresenta anche la forma delle strutture più complesse ed elaborate, quelle cioè che risultano dal comporsi delle unità elementari. Attraverso le infinite variazioni che costituiscono gli oggetti della natura l'unico piano possibile di esistenza organica od animale giunge alla sua massima realizzazione con l'uomo. «Nella serie prodigiosamente varia dagli animali inferiori all'uomo, >> afferma Robinet, « io vedo la natura che si affatica, che avanza a tentoni verso quell'essere eccellente che corona la sua opera ... Tutte le varietà intermedie fra il prototipo e l'uomo sono secondo me altrettanti saggi della natura, tendenti alla perfezione, e tuttavia incapaci di raggiungerla se non attraverso questa innumerevole serie di abbozzi. Credo che l'insieme degli stadi preliminari possa dirsi l'apprendistato della natura che impara a fare l'uomo. » L'uomo, come meta di perfezione cui tende la natura, diviene anche il criterio di comprensione di tutte le forme a lui inferiori. La serie ascendente delle forme può essere meglio compresa attraverso il suo punto di arrivo che non il suo punto di partenza. È in tal modo che egli considera le forme di cuore, di rene, di arti o di mano che sembrano apparire fantasiosamente in pietre, radici o conchiglie, ecc. come variazioni o abbozzi di quel prototipo compientesi nell'uomo. È per la stessa ragione ed in particolare per il principio di pienezza, secondo cui tutto ciò che non è contraddittorio può realizzarsi, che Robinet dimostra quella credulità ad accogliere i vari racconti su uomini marini, sirene, ecc., che doveva non poco ridicolizzarlo presso i contemporanei. Nelle successive realizzazioni del prototipo, specialmente in quelle più elevate, Robinet scorge una spontaneità di movimenti e di operazioni che rivelano un principio attivo, il quale non si identifica con la materia ma sembra anzi frenato e determinato da essa. Nell'uomo in particolare la materia è solo l'organo attraverso il quale il principio attivo fa entrare in azione le proprie facoltà. Pur non abbandonando il preformismo creazionista egli sembra dunque limitare la portata di quel meccanicismo che vi era strettamente connesso e sembra propendere verso una concezione dinamico-vitalistica della natura, ove al mondo visibile delle forme sottostà una gradazione di forze che ne costituisce il fondamento invisibile. In Robinet e, come si vedrà oltre, anche nel contemporaneo Bonnet, viene a riflettersi l'idea leibniziana di un universo capace di autodifferenziazione e progresso infiniti. Egli ammette infatti una produzione nel tempo delle forme della natura, cioè una« temporalizzazione »della catena degli esseri, pur rimanendo ancora legato al preformismo e all'idea che l'ordine e le leggi di realizzazione della natura sono fissate al momento della creazione o sono comunque il risultato
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di una tendenza dinamica sottostante i fenomeni. Era dunque questa « temporalizzazione » di Robinet ben diversa da quella storicità della natura per cui, secondo Buffo n, le leggi e l'ordine di realizzazione del mondo devono essere desunti empiricamente dalla continuità fenomenica dei processi causali senza riferimenti ad un piano predisposto od agente nella natura. Il tentativo di Robinet di conciliare l'idea di un universo capace di sviluppo nel tempo con quella di una causa creatrice trascendente portava anche a superare alcune difficoltà nella stessa scala naturale. Ijl primo luogo si poteva ammettere, dal punto di vista di Robinet, che i vacua forntarum concretamente riscontrabili in tale scala non fossero dovuti soltanto a distruzioni avvenute nel passato o a lacune dell'attuale conoscenza, ma dovessero ascriversi all'eventualità che il programma della natura si compisse in tempi successivi. Vi era inoltre l'esigenza di superare una concezione puramente statica della gerarchia degli esseri, soprattutto nei suoi aspetti morali e sociali. Ammettere che tutto al mondo avesse un suo aspetto definitivo ed immodificabile significava negare che potesse accadere nulla di nuovo sotto il sole, significava spegnere la speranza di ridurre il male e di perfezionare l'uomo e la società. A questo aspetto sembrava sensibile Voltaire quando respingendo l'idea di una scala degli esseri osservava che tale gerarchia « piace alla brava gente che si sogna di scorgervi il Papa ed i suoi Cardinali seguiti dagli Arcivescovi e dai Vescovi; dopo i quali vengono i Curati, i Vicari, i semplici preti, i diaconi e i suddiaconi, poi i frati; e la fila si conclude con i cappuccini». L'esigenza di una continua ascesa religiosa e di un perfezionamento all'infinito delle creature non è tuttavia estranea ad un altro significativo tentativo di temporalizzazione della scala degli esseri, formulato dal ginevrino Charles Bonnet (172.093) specialmente nella Palingénésie philosophique, ou idées .rur l'état passé et sur l'état futur des étres vivants (Palingenesi ftlosoftca, o idee sullo stato passato e futuro degli esseri viventi, 1769). Dopo importanti ricerche condotte negli anni giovanili, specialmente sulla riproduzione asessuale di insetti e la rigenerazione dei vermi d'acqua dolce, si dedicò ad un'ampia rielaborazione teorica e filosofica di vari problemi scientifici, specialmente quello della generazione. In tali studi egli si batte specialmente contro la nuova concezione epigenetica della riproduzione avanzata da Maupertuis e Buffon e difende la teoria preformista, cercando di superare alcuni dei suoi aspetti più problematici. Non ritiene più che nel germe sia precontenuto esattamente l'individuo adulto ma pensa che vi sia preordinata soltanto la specie. Ciò che caratterizza l'individuo è il risultato delle diverse fasi del processo embrionale su cui influisce anche il seme maschile e in tal modo si può spiegare la rassomiglianza col padre. Nel germe di ogni vivente è inoltre contenuta un'anima allo stato di mera sensibilità potenziale, che vi si sviluppa con il suo accrescimento. Quando il polipo, in cui si ha come in ogni vivente un'aggregazione di germi, si rigenera dalle sue parti divise non si ha perciò
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una divisione dell'anima, ma dai germi latenti in ogni individuo nuovo si sviluppa un'anima dapprima assopita. Il Bonnet, pur essendo da un lato convinto della completezza della creazione originaria di tutti i germi, cioè della loro peesistenza, sostiene dall'altro l'idea di una progressiva comparsa di viventi nelle successive epoche della terra. Per conciliare questi principi apparentemente antitetici ammette che in ognuna delle successive rivoluzioni, a cui è stato soggetto il nostro globo, si siano sviluppati germi sopravvissuti alle catastrofi precedenti e contenuti nei viventi più antichi. Da questi germi sono sorte nuove forme di vita adatte alle nuove condizioni geologiche per una sorta di armonia prestabilita o di parallelismo fra evoluzione dei viventi e rivoluzioni del pianeta. Il successivo accrescimento dei germi creati tutt'insieme, permette la comparsa di viventi sempre più perfetti sino ad un giorno futuro in cui «l'uomo - che sarà stato trasportato allora ad altra dimora, più adatta alla natura superiore delle sue facoltà- lascerà alla scimmia o all'elefante quel primato che, attualmente, egli detiene fra gli animali del nostro pianeta. In questa universale rinascita degli animali, si potrà trovare un Leibniz o un Newton fra le scimmie o gli elefanti, un Perrault o un Vauban fra i castori». In tale passaggio dell'uomo ad una dimora angelica sembra riflettersi la conciliazione di elementi mitici della tradizione cristiano-neoplatonica con l'idea illuminista di progresso. Egli giunge infatti a dubitare, ponendosi al di fuori dell'ortodossia, dell'eternità della condanna dell'uomo malvagio. Eternità che gli appare in contrasto con la bontà del creatore e con l'idea di continuo progresso e di ascesa di tutta la realtà. Lontano dagli echi spinoziani che si riflettono nel pensiero di Robinet lo studioso ginevrino conserva la netta distinzione cartesiana di corpo ed anima estendendola come si è visto a tutti i viventi e rimane fedele ad un rigoroso meccanicismo, nell'interpretare le loro funzioni e tutti i fenomeni della natura. Il grande orologio del mondo e la scala degli esseri naturali vengono fusi in una stretta catena di connessioni causali, per cui anche le creature apparentemente più insignificanti non possono considerarsi grani di polvere sulle ruote dell'enorme macchina, ma piccoli ingranaggi inseriti su quelli più grandi. Anche quando cerca di stabilire un criterio per fissare la gerarchia nella scala degli organismi egli rimane fedele all'impostazione meccanicistica. Non si rifà come il Robinet all'idea di una progressiva realizzazione del prototipo avvicinantesi all'uomo, ma all'idea del « grado di organizzazione ». Giunge così ad affermare che« l'organizzazione più perfetta è quella che con un numero uguale o inferiore di parti distinguibili raggiunge i maggiori effetti». Le macchine della natura, cioè i viventi, vengono così valutati nella loro perfezione con lo stesso criterio di utilità e di finalismo con cui si valutano le macchine dell'uomo. Ma l'applicazione di un simile criterio alla definizione della scala dei viventi era praticamente irrealizzabile e lo stesso Bonnet doveva ad esempio ammettere che il corpo umano, come il più 237
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perfetto dei corpi terrestri, possiede attività sensoriali e motorie del tutto inferiori a quelle di altri animali che sono molto al di sotto nella scala dei viventi. L'opera di Bonnet, in particolare la sua difesa del preformismo e la sua polemica contro la generazione spontanea, che egli sostenne trovando un appoggio importante nell'opera sperimentale estremamente analitica ed accurata di Lazzaro Spallanzani, costituiscono uno degli ultimi tentativi del razionalismo e del meccanicismo creazionistico di far fronte alla concezione dinamica della natura. In questo tentativo il divenire della natura è interpretato come temporalizzazione della scala degli esseri, come successivo dispiegamento di un ordine prefissato al momento della creazione e non già come autonomo determinarsi di un ordine attraverso l'interazione e la continuità temporale dei processi. Eppure a questa concezione dinamica della natura, che segnava una crisi dello stesso meccanicismo, si stava giungendo attraverso l'indagine di vari fenomeni naturali. Si stava giungendo attraverso lo studio dei fenomeni dell'elettricità e del calore che ponevano serie difficoltà ad un'interpretazione meccanicistica, richiamando l'esigenza di un atteggiamento più empirico e nello stesso tempo suggerendo speculazioni su un fluido universale in grado di penetrare tutta la natura. Si stava giungendo anche nel campo, che più da vicino ci interessa, della medicina e della fisiologia ove si riconoscevano su un piano più empirico alcune proprietà degli organismi, come la irritabilità e la sensibilità, che apparvero a molti un segno sicuro della autonomia e della potenzialità dinamica della realtà naturale. IV
· MEDICINA E FISIOLOGIA
Nell'ambito della medicina l'indagine sulle funzioni dell'organismo si era orientata nel xvn secolo verso l'applicazione di metodi più empirici e l'estensione dei concetti ormai stabiliti dalla nuova meccanica oppure di quelli ancora incerti della chimica. Era sorto in questo caso un indirizzo iatrochimico che aveva cercato, usando concetti derivati dalla fabbricazione del vino, della birra, dell'aceto, ecc., di interpretare i fenomeni vitali, in base a processi di fermentazione o di effervescenza, più o meno legati all'interazione di sostanze acide ed alcaline. Il calore vitale venne inoltre interpretato da alcuni autori come l'effetto di una reazione chimica analoga a quella della combustione, perdendo così quella posizione privilegiata di principio della vita, che gli era attribuito nella tradizione antica. Una rottura ancor più netta nei riguardi delle antiche dottrine mediche si aveva nell'indirizzo iatromeccanico che, oltre ad avvalersi del quadro teorico della nuova scienza galileiana e cartesiana, poteva contare anche sul grande risultato della scoperta della circolazione del sangue. La stessa diffusione dell'opera di Newton favorì, nei primi decenni del Settecento, un relativo successo dell'indirizzo iatromeccanico rispetto a quello iatrochimico, specialmente per opera del grande medico olandese Hermann Boerhaave (r668-1738) che sviluppò dalla sua
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cattedra dell'università di Leida l'insegnamento dei grandi iatromeccanici italiani del Seicento come il Barelli ed il Baglivi. L'uso di analogie meccaniche, derivate in special modo dall'idraulica, l'interpretazione delle funzioni dei vari organi sulla base di macine, corde, molle, filtri, mantici, ecc. se permettevano di contrapporre un linguaggio chiaro e preciso a quello spesso oscuro e vago degli iatrochimici, non permetteva di fo;mulare un quadro teorico generale dell'organismo particolarmente utile per interpretare i suoi aspetti di autoconservazione ed i suoi fenomeni morbosi. Sorge così all'inizio del Settecento l'esigenza di una sistemazione teorica dei crescenti risultati dell'esperienza medica, da contrapporre alle coerenti dottrine dell'antichità. Contro la concezione meccanicistica dei processi vitali G.E. Stahl, già ricordato nel capitolo VIII per la teoria del flogisto, si fa sostenitore di un animismo che può apparire un semplice ritorno al passato. Egli parte però da alcune implicazioni dello stesso meccanicismo cartesiano ed in particolare dall'idea che il movimento in quanto tale non appartiene all'essenza della materia, ma è anzi il prodotto di una causa immateriale. Nell'uomo tale causa è, per Stahl, l'anima stessa razionale ed immortale nettamente distinta dal corpo. Essa agisce per fini determinati servendosi dei vari organi come di semplici d,ispositivi meccanici puramente passivi. L'indagine microscopica ed anatomica di tali organi non serve tuttavia a comprendere l'azione vitale dell'organismo. Questa si esercita infatti preservando l'integrità chimica delle parti in modo che non può essere colto direttamente. Solo quando queste sono staccate dal corpo vivente oppure dopo la morte ci possiamo rendere conto come siano immediatamente soggette alla decomposizione per l'azione dissolvitrice dei corpi esterni non più contrastata da quella conservatrice dell'anima. Un diretto intervento dell'anima sul corpo era però del tutto inaccettabile per quegli autori i quali, come ad esempio Leibniz, sostenevano che il movimento di un corpo può essere modificato solo per opera di altri corpi. Leibniz osservava in particolare che la dottrina di Stahl poteva portare ad una concezione materialistica dell'anima, poiché si può pensare che questa agisca sul corpo solo se dotata di materialità. Altri autori tendono ad evitare questa difficoltà riprendendo la vecchia dottrina galenica degli spiriti animali e, accettando l'idea che la materia possiede un'intrinseca capacità di movimento, fissano in essi e non nell'anima immateriale il principio motore fondamentale dell'organismo. Fra questi vi è Friedrich Hoffmann (1660-1742), professore come Stahl nella facoltà medica di Halle. Egli sostiene che nella materia agiscono forze materiali di varia intensità come dimostra ad esempio l'azione della polvere da sparo. Nell'animale la causa dell'attività è dunque l'anima senziente, costituita da una sostanza materiale di particolare sottigliezza ed elasticità che è diffusa, come etere, in tutta la natura. Tale fluido etereo, espansibile ed attivo, giunge a tutte le parti del corpo attraverso il sistema nervoso 2 39
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e ogni sua particella possiede, quasi come le monadi di Leibniz, una sorta di ~ rappresentazione della macchina dell'organismo che da esso viene mosso. Le dottrine di Stahl e di Hoffmann pur essendo l'una animistica e l'altra meccanicistica costituiscono tipici esempi di quella tendenza a concepire secondo un criterio monistico i processi fisiologici e patologici, che verrà accettata da molti medici sistematici del Settecento. Ne risultava una rappresentazione monarchica dell'organismo, mosso e regolato da un unico centro, fissato in genere nel cervello o subordinatamente nel cuore. A questa viene però contrapponendosi nel corso del secolo una rappresentazione pluralistica o federativa dell'organismo, le cui funzioni o disfunzioni vengono ricondotte all'interagire dei vari organi o delle varie parti, ai quali viene attribuita una relativa autonomia oppure una serie di proprietà specifiche e differenti. In questo ultimo senso si muovono alcuni autori della scuola medica di Montpellier ed in particolare Theophile Bordeu (1722-76) il medico che incontriamo come protagonista del Réve de d' Alembert scritto da Diderot nel 1769. Bordeu studiando la secrezione ghiandolare respinge la concezione strettamente meccanicistica che considera questa funzione come una filtrazione puramente passiva di particelle del sangue. Sostiene invece una specifica sensibilità delle ghiandole e ritiene quindi che la secrezione ne risulti come un processo attivo. La sensibilità, che egli non distingue in modo netto dalla irritabilità o contrattilità, indicanti un'intrinseca capacità di movimento dei vari organi, esprime nel modo più caratteristico la « vita propria » di ciascuno di essi. Vita propria che non comporta la negazione di un reciproco legame unitario fra gli organi. Questi agiscono anzi come un tutto, allo stesso modo delle api di uno sciame che riesce a rimanere sospeso ad un albero per l'azione concorde di ciascuna. Il riconoscimento che la sensibilità e la capacità di movimento costituiscono intrinseche proprietà della materia vivente in quanto tale, e non solo dell'organismo nel suo complesso, costituì un momento importante nel pensiero del Settecento. Importante fu anche una netta distinzione fra sensibilità ed irr'itabilità inizialmente confuse o vagamente definite. Tale distinzione costituisce uno dei meriti più rilevanti del grande fisiologo svizzero Albrecht Haller (1708-77). Conducendo numerose esperienze di vivisezione su animali egli giunse infatti a stabilire che la sensibilità e l'irritabilità costituivano delle proprietà inerenti a differenti strutture anatomiche. La sensibilità doveva essere attribuita a quelle parti che stimolate provocano una impressione soggettiva nell'uomo o una reazione di dolore o irrequietezza nell'animale, cioè ai nervi o alle parti riccamente innervate; l'irritabilità a quelle parti che stimolate si contraggono, cioè ai muscoli. Haller aveva affrontato il problema chiedendosi quale fosse la causa del movimento del cuore ed era giunto a stabilire, contrariamente a quanto aveva sostenuto il suo maestro Boerhaave, che il cuore può contrarsi indipendentemente dall'azione dei nervi per la semplice azione delle sue stesse fibre muscolari. Il movimento poteva
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così essere attribuito ad una vis insita al muscolo e realizzarsi anche senza l'intervento della vis nervosa che giunge ad esso attraverso i nervi, cioè senza l'azione di quel fluido nervoso che alcuni ritenevano costituire l'anima materiale sensitiva e altri, come lo stesso Haller, consideravano piuttosto uno strumento materiale dell'anima immateriale e pensante. Con Haller si apre inoltre la via ad una feconda indagine sperimentale delle singole proprietà fisiologiche dei tessuti, che darà alcuni dei risultati più fecondi nel campo della elettrofisiologia con i lavori, ad esempio di Galvani verso la fine del secolo. La distinzione fra sensibilità ed irritabilità, in quanto separava esperienza soggettiva (almeno nell'uomo) e capacità di movimento dell'organismo o di sue parti, veniva a toccare direttamente uno dei problemi filosofico-scientifici più discussi dalla fine del Seicento, cioè quello dei rapporti dell'anima col corpo. All'origine di tale problema si trova in particolare la distinzione cartesiana fra res cogitans e res extensa che, ponendo l'anima in una dimensione puramente immateriale, aveva lasciato aperto il grave compito di spiegare la sua azione sul corpo. Tale azione, modificando il movimento di particelle materiali, sembrava infatti contrastare con il principio della costanza della quantità di moto, affermato dal nuovo meccanicismo deterministico. Cartesio stesso aveva cercato di superare la difficoltà sostenendo che l'anima aveva facoltà non di creare nuovo movimento, ma soltanto di modificarne la direzione. Leibniz aveva però dimostrato che, da un punto di vista strettamente meccanico, un cambiamento di direzione comporta necessariamente un'alterazione della quantità di moto. Le soluzioni del problema anima corpo, che venivano formulate con l'occasionalismo di Malebranche o con la teoria dell'armonia prestabilita di Leibniz, avevano d'altronde sollevato sul piano religioso e scientifico non poche opposizioni. Alcuni influenti ambienti ecclesiastici, specialmente quello dei gesuiti, si erano ad esempio opposti in modo deciso ad ogni concezione dualistica difendendo la tradizionale dottrina scolastica dell'unità sostanziale di anima e corpo. Contro l'aristotelismo ancor prima della metà del Settecento maturò tuttavia una netta opposizione dell'autorità ecclesiastica, allorché ci si avvide che in esso si potevano avere pericolosi punti di contatto con il materialismo, in particolare l'idea di un'intrinseca capacità di movimento e di sensibilità dei corpi materiali. La concezione meccanicistico-creazionistica appariva invece più sicura dal punto di vista dell'ortodossia poiché, privando la materia di ogni potenzialità attiva, richiedeva esplicitamente il diretto intervento di dio nei processi naturali. Nell'idea stessa dell'animale macchina, dei meravigliosi congegni meccanici che dovevano regolare gli istinti più perfetti di ogni animale, non pochi avevano visto il segno sicuro dell'opera divina ed il modo più ragionevole per non attribuire alla provvidenza o all'uomo la sofferenza di creature innocenti. La netta separazione di anima e corpo sembrava inoltre garantire meglio la spiritualità ed il particolare destino di immortalità dell'uomo.
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La teoria cartesiana dell'animale macchina era però utilizzabile in senso diametralmente opposto, cioè antireligioso. Secondo alcuni autori libertini, infatti, se i più meravigliosi istinti degli animali potevano essere ricondotti ad un complesso meccanismo materiale, era possibile che un meccanismo ancora più perfezionato potesse spiegare tutto l'operare dell'uomo. Il declino della filosofia cartesiana ed il diffondersi dell'empirismo inglese sul continente favorirono però, dopo il I 7 30, l'abbandono della teoria dell'automatismo e della completa insensibilità degli animali. Voltaire giunse ad esempio a sostenere che, se gli animali fossero macchine insensibili, dio avrebbe compiuto opera inutile fornendoli di organi simili ai nostri. La materia organizzata può quindi possedere la facoltà di sentire e a ciò non osta alcuna difficoltà di principio, se si ammette con Locke che dio stesso può, volendo, aver dotato la materia della facoltà di pensare. Il sensismo di ispirazione lockiana non portava però necessariamente a delle conclusioni materialistiche. Condillac, pur ispirandosi ad esso, sosteneva infatti che anche nell'animale le sensazioni sono le modificazioni proprie dell'anima e gli organi sensoriali non altro che la loro causa occasionale. A conclusioni materialistiche giungono invece alcuni sostenitori della biologia cartesiana incontrandosi con le correnti epicuree. Si delinea così una fisiologia meccanicistica in cui l'animale macchina non è più considerato un automa insensibile ma possiede un certo grado di stmsibilità, per effetto di un'anima corporea, in genere identificata con quegli spiriti animali che, secondo la tradizione galenica, venivano distillati dal sangue nel cervello e si muovevano poi attraverso i nervi per tutto il corpo. Già nel xvrr secolo Guillaume Lamy (I644-82) usa ad esempio il termine spiriti animali, per indicare quella parte dell'anima contenuta nei nervi, ed il termine anima, per indicare gli spiriti animali contenuti nel cervello. Sia che tali spiriti animali venissero identificati con l'anima stessa, anche nell'uomo, oppure fossero considerati un suo strumento, rimaneva più in generale aperto il problema di stabilire quale fosse la loro natura fisica. Ed a questo proposito le interpretazioni variavano secondo le diverse concezioni che si potevano avere della materia e del movimento. Nel Seicento Gassendi ed anche il fisiologo inglese Thomas Willis (I62I-75) vedono in essi la materia estremamente attenuata del fuoco e della luce. Willis in particolare attribuisce ad essi quelle stesse forze motrici del fuoco che appaiono agire nella polvere da sparo. Nel Settecento invece, Newton insiste maggiormente sull'aspetto fisico degli spiriti animali, che sono per lui costituiti da quello stesso etere che, come fluido estremamente elastico e rarefatto, pervade tutti i corpi. Berkeley infine, nella sua opera Siris del I 744, concepisce questi spiriti, in senso antimeccanicistico, come una sostanza ignea e nello stesso tempo immateriale che pervade anch'essa tutti i corpi, agendo come la divina anima dell'universo, già sostenuta nella tradizione stoica. L'idea che l'anima, o comunque gli spiriti animali agenti nel sistema nervoso,
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dovessero ricondursi ad un fluido universale attivo, identificabile o meno con l'anima del mondo, ma in qualche modo affine ai vari fluidi imponderabili (magnetico, elettrico, calorico e luminoso), verrà difesa da non pochi autori nella seconda metà del Settecento. E sulla base di tale idea si svolgeranno alcuni tentativi, specialmente nel periodo romantico, per superare quella discontinuità fra mondo della natura e mondo dell'uomo che il meccanicismo era incapace di eliminare. Il carattere speculativo di tali tentativi non si riscontra in genere nei contributi più significativi del materialismo settecentesco e specialmente in una delle sue opere più famose L'homme machine (L'uomo macchina) di Lamettrie, che viene pubblicata a Leida nel I748. La tesi fondamentale di quest'opera infatti è che nella conoscenza scientifica dell'uomo non ha più alcun senso far riferimento ad un'anima, sia come principio motore dell'organismo sia come principio esplicativo delle sue attività psichiche, ed in tale rifiuto si coinvolge anche l'idea di un'anima corporea e la stessa dottrina tradizionale degli spiriti animali. Julien Offroy de Lamettrie (I 709-5 I), dopo gli studi medici compiuti a Leida alla scuola di Boerhaave, visse a Parigi sino al 1746, donde fu costretto ad emigrare in Olanda e successivamente a Berlino presso la corte di Federico n, ove incontrò una morte prematura. Appare significativa nello svolgimento del suo pensiero materialista una fase di aperto interesse per la tradizione aristotelica. Nella sua opera Histoire nature/le de I'Jme (Storia naturale dell'anima) del I745 egli ammette infatti che la materia eterna non può avere la sua essenza nell'estensione, poiché da essa non si può derivare alcuna attività. Occorre quindi ammettere che la forza motrice e sensitiva, che egli considera inerente alla materia, debba derivare da «forme sostanziali» che ne determinano la potenzialità. In quest'opera egli aderisce ancora alla dottrina degli spiriti animali e ritiene che l'anima, costituita di una sostanza eterea materiale, abbia una precisa sede nel cervello ove produce il pensiero. Questo monismo metafisica, ispirato ad Aristotele e a Locke, viene del tutto abbandonato con L'ho m me machine che rappresenta una svolta in senso empiristico del suo pensiero. In questo scritto, che si presenta come un agile e polemico libello di propaganda scientifica ed antireligiosa nel genere della tradizione libertina, Lamettrie afferma con decisione che le tradizionali impostazioni metafisiche si sono dimostrate incapaci di risolvere il problema della mente. L'esperienza della medicina apre invece la via sicura per risolvere tale problema, affrontato dalla tradizione filosofica e religiosa postulando un'anima immortale. Gli effetti psicologici delle malattie, della fame, dei farmaci, dell'impulso sessuale, ecc. dimostrano in modo irrefutabile la costante correlazione degli stati psichici e di quelli corporei. Un'analoga correlazione può essere desunta dallo stretto rapporto esistente fra il grado di complessità nella struttura cerebrale degli animali e la varietà del loro comportamento. Tale correlazione dimostra, secondo Lamettrie, che gli eventi 2 43
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psichici non sono il prodotto di un'anima immateriale, ma il risultato delle funzioni cerebrali, una particolare modificazione delle sue peculiari strutture. « Come una corda di violino o un tasto di clavicembalo vibra ed emette il suo suono, così le corde del cervello, colpite dalle onde sonore, sono state stimolate ad emettere o ripetere le parole che le colpivano. » Concepire in tale modo l'attività del pensiero non significa tuttavia per Lamettrie identificare l'organico e lo psichico, né tantomeno dare una definizione dell'essenza dell'uomo. La dipendenza dei fenomeni psichici da quelli organici è una dipendenza causale di cui non ci è dato conoscere la natura profonda. L'idea dell'uomo macchina è quindi una rappresentazione scientifica, un'ipotesi necessaria basata sull'esperienza di diversi ordini di fenomeni e sull'analogia con le costruzioni tecniche. Ciò nonostante Lamettrie sembra convinto che l'organismo non è identificabile con le comuni macchine costruite dall'uomo, in quanto possiede un interno principio di movimento, come appare nel fenomeno fondamentale dell'irritabilità. Questa proprietà, che Haller aveva ritenuto caratteristica dei muscoli, si mostra del tutto indipendente dal sistema nervoso e si realizza escludendo ogni principio motore estrinseco, sia esso l'anima di Stahl o gli spiriti animali della tradizione galenica. Lamettrie pensa che questo principio di movimento, per quanto particolarmente evidente nel cuore, capace di contrarsi anche se staccato dal corpo dell'animale, è inerente ad ogni parte del corpo e suppone che sia rappresentato da «un'oscillazione naturale di cui è dotata ogni fibra». L'organismo è quindi fornito di un'autonoma capacità di movimento, di un'autopropulsione per cui si può dire che esso «è una macchina che monta da se stessa le sue molle: immagine vivente del moto perpetuo ». L'animale macchina possiede inoltre un certo grado di flessibilità e di adattamento per cui può essere sì paragonato ad un orologio, ma ad un orologio così perfettamente costruito da funzionare anche quando alcune delle sue ruote si siano fermate. Quasi in lui riecheggiasse ancora un motivo aristotelico Lamettrie è convinto che il principio intrinseco di movimento è in grado di spiegare tutte le funzioni dell'organismo. «Posto il minimo principio di movimento, i corpi animati avranno tutto ciò che loro occorre per muoversi, sentire, pensare, pentirsi; in una parola per agire nel fisico e nel morale che ne dipende. » Il rilievo dato da Lamettrie alle proprietà di autoconservazione e regolazione della macchina vivente sembra distaccarlo dalla tradizione iatromeccanica ed avvicinarlo a quelle posizioni vitalistiche che si svilupperanno verso la fine del secolo. Egli ne rimane tuttavia ancora lontano, sia perché il principio motore degli organismi non si distingue dalla- loro organizzazione sia soprattutto perché, rimanendo per lui ignota l'essenza della materia e del movimento, risulta difficile proporre distinzioni di principio fra la vita e la non vita. Il suo relativo disinteresse per il problema della generazione, cioè per il sorgere della vita, per la stessa questione dell'esistenza di un essere supremo, sembra comprovare che il 2.44
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materialismo dell' Homme machine è più legato all'esigenza etica di liberare dai pregiudizi la conoscenza scientifica e la condotta morale dell'uomo che non ad una speculazione cosmologica e metafisica. Fra le opposte soluzioni filosofiche che pretendono di ricorrere a dio o al caso per spiegare l'ordine delle cose Lamettrie ritiene semplicemente che la natura stessa possieda i requisiti per produrre necessariamente tale ordine. Il fenomeno della irritabilità, la rigenerazione del polipo di Trembley, sembrano a Lamettrie prove sufficienti per garantire l'autonomo determinarsi della materia, la sua capacità di creare un ordine necessario che nell'uomo stesso può essere verificato. Se vi è nell'uomo una naturale disposizione alla felicità questa infatti si realizzerà come una situazione psicologica individuale, che è prodotta necessariamente dalla macchina organica, benché possa trovarsi in contrasto con le convinzioni etiche e religiose della società. V
· IL MATERIALISMO DI DIDEROT
Verso la metà del Settecento il nuovo corso che le scienze naturali avevano preso nelle opere di Maupertuis, Buffon, Lamettrie ed altri non solo indicava la crisi della concezione creazionistica, ma segnava il sorgere di una nuova visione materialistica della natura. Chi seppe meglio interpretare il nuovo indirizzo di pensiero, così strettamente legato all'illuminismo francese, fu uno dei fondatori della grande Enryclopédie, Denis Diderot. Di cultura vasta ed eclettica, redattore di molte delle voci tecniche della stessa opera, autore di romanzi ed opere teatrali famose, rivolse per tutta la sua vita un interesse particolare ai problemi della biologia, avvertendo come in essa stavano per sorgere le indicazioni più significative per una nuova visione filosofica della natura. Nel 1746 scrivendo i Pensées philosophiques (Pensieri filosofici) sostiene ancora quella forma di deismo sentimentale che in molti contemporanei era alimentata dalle merveilles de la nature. L'ordine geometrico meccanico dell'universo astronomico non manifesta però in modo sicuro l'intelligenza divina. Esso- come aveva rilevato Maupertuis - potrebbe infatti risultare casualmente da una meravigliosa disposizione delle particelle che lo compongono. « La possibilità di generare fortuitamente l'universo è estremamente piccola, ma la difficoltà dell'avvenimento è compensata più che sufficientemente dalla moltitudine delle probabilità. » Solo l'ordine meraviglioso degli organismi ci conduce direttamente a concludere per un'intelligenza divina. « Per scuotere il materialismo, » egli afferma, « le sublimi meditazioni di Descartes e Malebranche non valevano una sola osservazione di Malpighi », e l'idea stessa di preformazione dei germi lo conduce ad escludere che gli organismi possano essere sorti casualmente. Nel giro di pochi anni una svolta importante nel pensiero di Diderot lo conduce ad abbandonare il deismo. Se dapprima le scienze della vita sembravano co-
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stituire il fondamento sicuro del creazionismo ora in esse egli trova la prova per abbandonare questa concezione. Nella Lettre sur les aveugles (Lettera sui ciechi) del I 749 la nuova prospettiva gli si dischiude attraverso la querelle des monstres che aveva interessato, nei decenni precedenti, diversi filosofi e naturalisti specialmente in Francia. Come si poteva conciliare la disarmonia e la turpitudine dei mostri con la saggezza e la bontà divina? E se era impossibile che il germe preformato contenesse al momento della creazione delle alterazioni mostruose, in che modo queste si erano potute produrre successivamente? Su questi ed altri problemi si era a lungo discusso. Ciò che conta per Diderot è che nei mostri vi è l'indicazione di un disordine dal quale egli, attraverso le parole del matematico inglese Nicolas Saunderson (I682.-I739), trae tutte le conseguenze ateistiche. A questi, cieco dalla nascita, è negata la visione del meraviglioso spettacolo della natura, per lui è del tutto certo che l'armonia e l'ordine sono in essa soltanto parziali e non garantiti. La natura non gli può apparire come espressione della saggezza divina, perciò se dio non è buono non può esistere. L'armonia apparente dei fenomeni naturali, anche quelli degli organismi, è dunque frutto del caso. Le molecole della materia in movimento hanno formato un'infinità di combinazioni. Di queste sono perdurate quelle in cui le parti presentavano una reciproca convenienza e compatibilità. Gli animali, così come i mondi che non presentavano questi requisiti, sono stati travolti nel divenire infinito della materia. Erano queste le idee lucreziane della spontanea capacità della materia ad organizzarsi e del passaggio graduale dal caos all'ordine, che venivano a trovare un preciso riscontro nelle nuove osservazioni biologiche della metà del Settecento; in quelle della generazione spontanea, rivendicata da Needham, così come nei fenomeni di rigenerazione del polipo. Negli anni successivi in numerose voci dell' Enryclopédie, ma soprattutto nello scritto De l' interpretation de la nature (Dell'interpretazione della natura) del I 7 53, Diderot traccia le linee programmatiche di una nuova scienza che si distacchi dal dogmatismo meccanicistico dei cartesiani, per giungere ad una visione dell'unità dinamica della natura. Egli tende da un lato come il Buffon, a svalutare la conoscenza matematica dei fenomeni poiché con essa i corpi vengono spogliati delle loro qualità individuali, d'altro lato sostiene che la scienza non deve limitarsi alla semplice raccolta di dati ma deve giungere, attraverso la riflessione, ad enunciare le leggi che devono essere sottoposte al vaglio dell'esperienza. Su questa strada Diderot rivendica la funzione indispensabile dell'ipotesi che emerge, come i prodotti dell'arte, dall'attività creativa della mente. I presentimenti, l'intuizione ed il sogno appaiono così come vie feconde per cogliere le nuove idee che ci conducono all'interpretazione della natura. Ad essa giungiamo attraverso la riflessione su grandi fenomeni, attraverso fatti privilegiati che costituiscono una ricchezza per la filosofia naturale, come il polipo di Trembley, la generazione spontanea, il cieco nato, ecc.
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L'esperimento non può tuttavia verificare in modo assoluto quelle idee o verità più generali che ci danno« l'essenza stessa dell'ordine». Esse rappresentano delle verità, dei principi che hanno una base nell'esperienza ma risultano dalla riflessione filosofica e dal reciproco fecondarsi di scienza e filosofia. L'interpretazione della natura si basa per Diderot innanzitutto sull'idea di unità profonda del tutto. Egli esclude quindi dalla filosofia naturale ogni richiamo a dio, che significa uscire attraverso una catena infinita di cause dalla natura stessa e spiegare un mistero mediante un altro mistero. Occorre anche respingere ogni assunzione di cause finali, fondata sulla presunzione di conoscere il piano dell'opera divina. La convinzione dell'unità della natura lo conduce poi ad escludere un pluralismo di sostanze e a supporre che la natura si realizzi mediante un unico atto, che comporta la interdipendenza e la continuità fra i fenomeni. Il progredire della ricerca potrà così ricondurre il peso, l'elettricità, il magnetismo ad un unico « fenomeno centrale », che permetta una loro visione sistematica. Come Buffon sembra anch'egli in tal modo propenso ad ammettere che la gravitazione, come « qualità primitiva della materia », sia sufficiente ad imporre l'ordine immediato ed immutabile all'insieme dell'universo in movimento. Fra le congetture filosofiche che tendono a individuare il carattere di unità della natura incontriamo in Diderot anche l'idea di un animale prototipo primitivo. Sia che lo si accetti con Maupertuis o lo si respinga con Buffon- egli afferma - bisogna riconoscere che esso è un'ipotesi essenziale tanto per la scienza quanto per la filosofia, poiché è evidente che « la natura non ha potuto conservare tanta somiglianza nelle parti, e far mostra di tanta varietà nelle forme, senza aver spesso reso sensibile in un essere organizzato ciò che ha occultato in un altro ». L'idea di prototipo tuttavia non verrà più ripresa da Diderot. Poteva costituire un principio d'ordine importante in una concezione storica delle forme della vita. Ma egli non giunge ad una concezione evoluzionistica, analoga a quella di Maupertuis o a quella posteriore di Lamarck. Nella successione di eventi della natura le specie non derivano, diversificandosi, da un ceppo comune, ma sorgono in modo indipendente dalla materia, per generazione spontanea, seguendo ciascuna una propria parabola evolutiva. Nell'opera De l'interpretation de la nature egli appare convinto al pari di Buffon che la materia bruta è nettamente distinta da quella vivente, che cioè gli organismi si formano per l'aggregarsi di molecole organiche. Avverte però le difficoltà di questa distinzione, il suo contrasto con l'idea fondamentale di unità della natura. Come è possibile - egli si chiede infatti - che la materia non sia essa o tutta vivente o tutta morta? La materia vivente è sempre vivente? E la materia morta non comincia mai a vivere? Una risposta precisa a questi interrogativi venne data dopo quindici anni nelle opere Entretien de d'Aiembert et Didero! e Réve de d'Aiembert (Colloquio fra 247
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d' Alembert e Didero t e Sogno di d' Alembert) scritte nel I 769, ma pubblicate postume nel I 8 30. Persuaso al pari di Maupertuis che la semplice organizzazione, come disposizione spaziale delle particelle, non può rendere conto del fenomeno della vita, Diderot giunge ad ammettere una sensibilità universale della materia. Le particelle che compongono i corpi, oltre alle qualità fisiche cartesiane dell'estensione e della impenetrabilità, oltre ad un'energia intrinseca di movimento, possiedono anche una sensibilità propria. Sorda e latente nei minerali essa si risveglia gradualmente man mano che le particelle assimilate dalle piante salgono lungo la scala degli esseri sino all'uomo. Se nel processo di nutrizione la materia inerte diventa sensibile ciò può accadere solo se essa possiede una sensibilità latente. Qualora infatti si attribuisca questa proprietà solo alle particelle vitali si metterebbe in dubbio il principio della continuità e dell'unità della natura, per il quale non vi è alcuna qualità di cui ogni essere non sia in qualche grado partecipe. Diderot fa propria la teoria sostenuta nella scuola di Montpellier, ed in particolare da Bordeu, della sensibilità e della relativa autonomia degli organi animali. Egli ammette così che gli organismi sono composti da elementi vitali, da animaiculi che si fondono nell'unità di un individuo all'incirca come le api compongono un tutto nello sciame già ricordato da Maupertuis. È per il principio di continuità che si crea quest'unità e questa fusione, è per lo stesso principio che la sensibilità dei singoli animalculi o dei singoli organi si risolve nella sensibilità unica della coscienza. Negli animali le sensazioni possono raccogliersi in un punto del cervello a cui confluiscono le fibre nervose come le lunghe gambe di un ragno convergono nel suo corpo. La coscienza dell'io comporta una memoria che si produce nel cervello per il movimento di quelle fibre, che analogamente a Lamettrie, egli paragona a corde vibranti sensibili. L'oscillazione permane a lungo dopo che la corda è stata pizzicata ed in tal modo l'oggetto rimane presente. «Ma le corde vibranti hanno anche un'altra proprietà, che consiste nel farne fremere altre; e così una prima idea ne richiama una seconda, queste due una terza ... e così via senza che si possa fissare il limite delle idee risvegliate ... » L'accentramento della sensibilità nel sistema nervoso, che condiziona l'unità dell'animale, non cancella completamente l'autonomia e l'antagonismo reciproco delle parti. Nei viventi più semplici l'organismo può infatti disgregarsi in altri organismi, come nel polipo, o più in generale, con la morte, può scindersi in una infinità di « animalculi di cui è impossibile prevedere la metamorfosi e l'organizzazione futura ed ultima». Quest'ultima asserzione sembra del tutto provata per lui dai processi di generazione spontanea che accompagnerebbero la decomposizione di materia organica. Il sorgere della vita ed il fenomeno della morte appaiono così come processi opposti di composizione e di scomposizione. La goccia d'acqua di Needham, pullulante di esseri microscopici in formazione, è l'immagine in piccolo del grande lavoro della natura. Altre forme potranno in tal modo essere prodotte in futuro di cui non ci è possibile avere conoscenza.
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Tutta la successione dei processi è concatenata da una necessità causale, ma non sembra possibile stabilire un ordine in questa successione. « Chi conosce le razze di animali che ci hanno preceduto? Chi conosce le razze di animali che succederanno alle nostre? Tutto cambia, tutto passa, soltanto il tutto resta. Il mondo comincia e finisce senza posa; in ogni istante esso è al suo principio e alla sua fine; non ha mai avuto altro inizio nè altra fine. » Nell'immenso oceano della materia rerum novus nascitur ordo. Sembra dunque impossibile il caos poiché le qualità intrinseche delle molecole spingono queste a disporsi in un ordine necessario, e a realizzare col tempo tutto ciò che è possibile. Anche per Diderot sembra dunque valere il principio di pienezza, ma il dispiegarsi della scala naturae non è il risultato di un disegno, bensì la realizzazione di tutte le combinazioni probabili per cui il possibile matematico sembra confondersi o coincidere con il possibile metafisica. L'ordine necessario che nasce continuamente tuttavia non è mai un ordine completamente realizzato né è l'ordine definitivo che presiede alla realizzazione della natura. Come afferma il Roger, «l'universo di Diderot è una gigantesca partita a dadi, ove tutto è determinato, ove niente è conosciuto, ove i dadi stessi cambiano continuamente di forma nel corso del gioco ». Per il filosofo quindi l'illusione più pericolosa è il sofisma dell'effemeride, la convinzione cioè che il mondo debba essere necessariamente ciò che è in questo momento; la certezza di un essere passeggero nell'immortalità delle cose, la credenza della rosa di Fontenelle, per cui a memoria di rosa non si era mai visto morire un giardiniere. L'insistenza nel Reve de d' Alembert sul continuo fluire delle cose rivela la contraddizione in cui, per Diderot, si trova l'uomo nella sua esigenza di conoscere la natura. Come già aveva affermato nel De l'interpretation de la nature, «se non si concatenano i fenomeni l'uno con l'altro non si fa filosofia. I fenomeni potrebbero essere tutti concatenati, sicché lo stato di ciascuno di essi potrebbe essere senza permanenza. Ma se lo stato degli esseri è in una perpetua vicissitudine, se la natura è ancora all'opera, nonostante la catena che lega i fenomeni, non vi è filosofia. Tutta la nostra scienza naturale diventa transitoria come le parole. Ciò che noi consideriamo storia della natura non è altro che la storia incompletissima di un istante ». La continua mobilità dell'universo richiede di essere espressa da un pensiero altrettanto mobile. La forma frammentaria e dialogica di molti scritti di Diderot sembra quindi rispondere ad un'interna coerenza del suo pensiero. Pensiero che respinge l'ideale di una conoscenza matematica ed « astronomica » degli oggetti della natura, che miri ad una previsione del loro regolare movimento. Pensiero che respinge cioè la teoria del meccanicismo deistico per cui l'infinita ricchezza dei fenomeni irriducibili ai principi della meccanica era ricondotta o al piano finalistico del grande arteficie o alla libertà della sostanza spirituale dell'uomo. Respinto ormai il creazionismo, meglio descrivere tali fenomeni nella loro con2.49
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cretezza, ricercare la loro unità e diversità nel seno stesso della natura interpretata alla luce di congetture filosofiche. Il divenire dell'universo potrà allora apparire a Diderot più una successione di eventi concatenati che una storia della natura. Tale sto;ia richiede un ordine razionale di svolgimento che per Buffon era garantito dal carattere di manifestazione divina della natura e risultava confermato dalle regolarità sia del processo cosmico che delle forme attuali di vita. Per Diderot e per altri filosofi materialisti è difficile ammettere un ordine di svolgimento senza ammettere quella concezione deistica e finalistica della realtà che essi rifiutano. Nella natura per Diderot è tuttavia riconoscibile una tendenza organizzativa della materia, uno sviluppo graduale della sensibilità che culmina nel pensiero dell'uomo. Questi, pur travolto nella perenne successione delle cose, è pur sempre un'espressione della creatività della natura, la quale tuttavia sfugge alle es1genze sistematiche del suo pensiero aprendo così una contraddizione non risolta. VI
· CONCLUSIONE
Diderot sviluppa in un'ampia concezione materialistica alcuni dei motivi che erano emersi dalla riflessione filosofico-scientifica attorno alla metà del Settecento; in particolare la negazione di un ordine meccanico della generazione, prestabilito con la creazione, e l'idea di una continua creatività della natura (generazione spontanea). Il razionalismo meccanicistico che si era espresso tipicamente tra la fine del Seicento e l'inizio del Settecento con la teoria della preformazione e della preesistenza dei germi era stato posto in difficoltà, sia attraverso la discussione teologico-filosofica, sia per il sorgere di nuove idee scientifiche. A queste idee si era adeguata soprattutto l'opera di Buffon, in cui tale razionalismo non viene completamente superato ma assume una nuova forma, che appare ad esempio nella teoria delle molecole organiche. Queste, pur soggette ad una continua trasformazione e pur essendo il prodotto di processi naturali, risultano in fondo entità del tutto ipotetiche, formulate su un piano che non è del tutto lontano da un astratto atomismo geometrico. La teoria preformista, che veniva difesa con notevole impegno nella seconda metà del secolo specialmente da Bonnet, Haller e Spallanzani, per giustificare i fenomeni sempre meglio osservati dell'eredità e dell'ibridismo aveva richiesto anch'essa la postulazione di entità e processi del tutto congetturali. Ma il ricorso a queste entità veniva ormai a contrastare con quell'atteggiamento empirista che si diffonde nella seconda metà del secolo fra i naturalisti, specialmente in Francia, e per il quale appariva preferibile considerare gli organismi partendo dalle proprietà elementari descritte nell'ambito della fisiologia o della medicina, come ad esempio la sensibilità o l'irritabilità. Con queste proprietà ci si atteneva a fenomeni osservabili, si evitavano le
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lL __ _ Rappresentazione di alcuni infusori (questi piccoli organismi, secondo Needham, si formavano per generazione spontanea in infusi di vegetali o di carne. Spallanzani, con accurate sperimentazioni, dimo strò l ' in fondatezza di questa teoria) : tavola dagli Opuscoli di fisica animale e vegetabile (Modena I 776) di Lazzaro Spallanzani .
congetture su ipotetiche strutture della materia, su sottili congegni meccanici degli organi, tanto spesso escogitati dagli iatromeccanici, ma che la stessa ricerca microscopica non aveva in genere confermato. Le indagini microscopiche per di più avevano perso molto di quel prestigio che ancora le circondava all'inizio del secolo (per i successi da esse conseguiti nell'osservazione del meraviglioso mondo degli insetti). La produzione di immagini illusorie, dovute all'insufficienza della
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Biologia e filosofia
stessa tecnica microscopica, avevano infatti creato frequenti discordanze nei reperti e nelle loro interpretazioni, sminuendo il valore di questo metodo d'indagine. Meglio dunque considerare l'azione degli organismi non in base alla disposizione spaziale delle varie parti della materia ma movendo da quelle proprietà o forze ad essa inerenti, che potevano forse considerarsi la vera causa e non l'effetto dell'organizzazione. Al meccanicismo p:refo:rmistico ed atomistico si oppone così negli ultimi decenni del Settecento, un dinamismo che tende a :riconoscere negli organismi forze o proprietà attive quante sembrano suggeri:rne i vari fenomeni, siano questi sensibilità, irritabilità, secrezione, sviluppo epigenetico dell'embrione, ecc., forze riducibili secondo molti ad un'unica forza vitale. Tale dinamismo, almeno all'inizio tendenzialmente descrittivo ed empiristico, trovava un diretto appoggio in un dinamismo molto più astratto e teorico sviluppato nell'ambito della meccanica. In questa disciplina alcuni autori avevano sostenuto, ispirandosi specialmente al pensiero di Leibniz, che la forza è l'elemento ultimo della realtà (agere est character substantiarum) e avevano quindi cercato di :ricondurre le proprietà di attrazione ed impenetrabilità della stessa materia all'effetto di forze contrapposte agenti su punti geometrici. Un esempio importante del nuovo atteggiamento dinamistico nella biologia si ha già nel 1759 con la Theoria generationis di Caspa:r F:riedrich Wolff (1733-94), uno dei primi teorici dell'epigenesi, che si ispirava a Leibniz e a Needham. Per Wolff la formazione dell'embrione risulta pe:r effetto di due principi, la vis essentialis e la facoltà di solidiftcazione dei fluidi. Per vis essentialis egli intende una forza individuabile in un ordine ben determinato di fenomeni, precisamente quella per cui nelle piante « i fluidi sono :raccolti dal terreno circostante, sono costretti a penetrare nelle :radici, sono distribuiti in tutta la pianta, in parte accumulati in alcuni punti, in parte di nuovo eliminati ». « Comunque questa forza sia costituita, sia attrattiva o :repulsiva, debba essa la sua origine alla dilatazione dell'aria oppure sia composta da questi e da altri fattori in ogni caso essa produce gli effetti accennati e deve essere assunta allorché si :riconoscono nelle piante dei succhi nutritivi, ciò che è proprio dimostrato dall'esperienza. » La vis essentialis, oltre che nei vegetali, agisce anche nella formazione degli embrioni animali producendo lo specifico assorbimento di fluidi entro i pori della sostanza gelatinosa in cui si forma l'embrione, fluidi che successivamente si solidificano in vario modo. Un altro naturalista tedesco Johann F:ried:rich Blumenbach (17p-r84o) sostiene invece alcuni decenni più tardi che la formazione epigenetica dell'embrione è dovuta ad un unico principio, ad una tendenza formativa (nisus formativtts) che agisce accanto alle altre forze vitali (contrattilità, irritabilità, sensibilità). Anch'egli è però convinto che tale principio ha un valore prevalentemente descrittivo. «La parola nisus formativus, » egli afferma infatti, «così come la parola attrazione, peso, ecc. non deve servire a niente più e a niente meno che a indicare
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Embrione di pollo dopo trentasei ore di incubazione:
(è visibile a destra il cranio con gli abbozzi dei bulbi oculari e del becco e, più al centro, la colonna dorsale con l'abbozzo delle vertebre): particolare da una tavola della Theoria generationis di C. Friedrich Wolff.
una forza, il cui effetto costante viene riconosciuto a partire dall'esperienza, ma la cui causa, così come le cause delle forze naturali accennate, e così universalmente riconosciute, è per noi causa occulta. » Meno legate ad un'esigenza di empirismo descrittivo di quanto non accadesse per le forze vitali, erano nella seconda metà del Settecento le varie teorie attorno ai fluidi vitali. Anch'esse si diffusero, spesso in contrapposizione al razionalismo meccanicistico, soprattutto per il grande interesse nei fenomeni elettrici. Partendo specialmente dalle esperienze con la bottiglia di Lei da e da quelle sui pesci elettrici, non pochi fisiologi giunsero a sostenere che la sorgente dell'attività vitale si trovava diffusa nei corpi al di fuori degli organismi e che questi assorbivano più o meno passivamente elettricità dall'esterno caricandosi di forza vitale. Si trattava di speculazioni destinate ad avere un grande successo nella pratica medica ove a lungo imperversò la moda delle cure elettriche; ma anche di speculazioni che si ricollegavano direttamente all'idea già sostenuta all'inizio del secolo, di un fluido etereo diffuso in tutto l'universo ed agente nello stesso sistema nervoso. Le varie teorie sui fluidi vitali si intrecciavano con le numerose discussioni e speculazioni sulla natura e sulla possibile convertibilità dei fluidi imponderabili quali luce, calore, elettricità magnetismo, ecc. La convinzione che tali fluidi imponderabili potessero costituire le varie forme assunte da una sottile sostanza eterea capace di penetrare e muovere tutto l'universo, trovava un riscontro nelle residue teorie neoplatoniche e specialmente stoiche su un'anima del mondo. Tali teorie verranno riprese nel periodo romantico, specialmente in Germania, da alcune filosofie della natura che venivano a contrapporsi alla visione ormai in crisi del razionalismo meccanicistico e anche a quella più recente dell'empirismo vitalista.
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CAPITOLO DECIMO
La critica dell'<< esprit de système >> e l'ideale enciclopedico del sapere DI GIANNI MICHELI
I
· CONSIDERAZIONI CRITICHE INTORNO AI SISTEMI INTERPRETATIVI DELLA REALTÀ
La caratteristica essenziale delle prospettive filosofiche e scientifiche secentesche era, come si è rilevato nel volume precedente e particolarmente nel capitolo VIII della sezione IV, la riduzione della realtà naturale ed umana ad elementi semplici, chiaramente determinati e pienamente controllati dalla ragione. Questa esigenza di semplificazione della realtà venne a coincidere in gran parte con l'accettazione dell'interpretazione meccanicistica dei fenomeni, e assunse un tono spiccatamente razionalistico. Il meccanicismo infatti non faceva altro che porre nella massima evidenza delle operazioni razionali, principalmente l'astrazione dai dati della sensibilità e la disposizione ordinata di ciò che si riteneva costitutivo delle cose; tali operazioni sono alla base di tutte le grandi sistemazioni del Seicento, anche in quelle che al meccanicismo si ricollegano solo indirettamente, come illeibnizianesimo, per esempio. Quel che è costitutivo del razionalismo secentesco è comunque l'esigenza di porsi su di un piano superiore a quello della sensibilità, cioè in quello della ricostruzione della realtà secondo alcuni presupposti razionali. Non si tratta in verità di una fuga dalla realtà, ma di un cosciente abbandono dell'approccio tradizionale ai fenomeni, che appariva concreto solo in apparenza e oramai sterile, per conquistare una nuova concretezza, usando appunto la mediazione di nuovi schemi concettuali. Il richiamo alla concretezza si manifesta soprattutto nel rilievo dato al valore euristico delle teorie esplicative della realtà, tipico della concezione di Descartes e della sua scuola. Le ipotesi meccanicistiche adempivano infatti al compito di dare una efficace esplicazione scientifica dei fenomeni, anche indipendentemente dal valore reale che tale esplicazione poteva avere, ed erano, in quanto tali, suscitatrici di ricerche e quindi di rinnovati contatti con la realtà, compiuti al fine di adeguare la connessione tra ipotesi e fenomeni reali. Comunque il problema del rapporto tra realtà ed esplicazione scientifica, pur essendo valutato e colto in tutta la sua complessità, è completamente risolto nelle grandi concezioni razionalistiche del Seicento, sulla base della fiducia che si nutre nelle capacità della ragione umana di cogliere le strutture reali del mondo e delZ54
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l'uomo mediante l'applicazione ad essa dei propri schemi interpretativi, semplici, chiari, evidenti, comprensibili, efficaci. Si tratta però di un atteggiamento che comincia ad essere posto in discussione nella seconda metà del Seicento e che verrà sempre più criticato nel corso del secolo seguente. L'opera di Newton nel suo complesso, come si è già sottolineato, è un indice abbastanza evidente della frattura che si è ormai operata, alla fine del xvn secolo, tra ricerca scientifica e indagine antologica, che erano invece profondamente unite nelle grandi filosofie razionalistiche del Seicento. Il dibattito tra cartesianesimo e newtonianesimo, certo la discussione culturale più rappresentativa della prima metà del Settecento, verte essenzialmente attorno a questo problema cruciale. Descartes era considerato il più tipico esponente di una mentalità scientifica troppo « immaginativa » e soprattutto troppo incline a disconoscere la realtà pur di non rompere le maglie di un tessuto sistematico che riteneva desse una esplicazione completa delle cose. Ciò che si sottolineava non erano solo gli« errori» di Descartes e della sua scuola (molto spesso resi più evidenti da un contesto schematizzato), ma un più generale atteggiamento« dogmatico» (di cui gli « errori » non erano altro che un riflesso) che sembrava connesso ad una prospettiva di ricerca di tipo astrattamente razionalistico e pertanto poco proficua. « Le ipotesi di tali fisici, » osservava Condillac in proposito, « sono destinate a farci penetrare nella natura dell'estensione, del movimento e di tutti i corpi; sono opera di gente che per lo più osserva poco o che sdegna anche di istruirsi con le osservazioni che altri hanno fati:e. Ho sentito dire che uno di questi fisici, felicitandosi di avere un principio che rendeva ragione di tutti i fenomeni della chimica, osò comunicare le sue idee ad un abile chimico. Questi che aveva avuto la compiacenza di ascoltarlo, gli disse che gli avrebbe fatto presente una sola difficoltà, che cioè i fatti erano diversi da come egli supponeva. Ebbene, riprese il fisico, insegnatemeli affinché li spieghi. Questa risposta svela perfettamente il carattere di un uomo che trascura di istruirsi nei fatti perché crede di avere la ragione di tutti i fenomeni, quali che possano essere. Non ci sono che delle ipotesi vaghe che possano dare una fiducia così mal fondata. » La crisi delle grandi sistemazioni a sfondo meccanicistico venne a manifestarsi quindi, come ben ha qui rilevato Condillac, sul terreno della ricerca; la facilità con cui era possibile spiegare i fenomeni costituiva la più vistosa conseguenza della banalizzazione, ormai acquisita, di un approccio alla realtà condotto sulla base di schemi concettuali troppo generici, i quali ormai, di fatto, venivano assumendo una connotazione sempre più arbitraria. Di contro ad una simile mentalità (impersonificata dal cartesianesimo) venne rivendicata con sempre maggiore insistenza la positività, nelle ricerche fisiche, del continuo riferimento ai fatti; del saggio e controllato uso delle congetture, del rifiuto di considerazioni sull'essenza delle cose: Newton costituì l'esponente tipico del nuovo approccio alla realtà, o quello che era considerato tale dai pen-
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satori illuministi. Si considereranno in seguito i presupposti empiristici di questo atteggiamento verso la realtà; basterà qui sottolineare che il richiamo a Newton aveva un significato polemico nei confronti del cartesianesimo, ma non certo contro la concezione meccanicistica del mondo, che non era messa in dubbio, almeno in ambito strettamente scientifico. La discussione in effetti aveva un carattere più propriamente filosofico: non si trattava di una opposizione alla scienza meccanicistica acquisita, ma alla sistemazione generale della realtà in cui l'interpretazione meccanicistica dei fenomeni veniva inglobata. Come si è visto, la meccanica rimase per tutto il secolo la scienza paradigmatica per eccellenza, essendo quella in cui la matematizzazione dei fenomeni era più completa: ciò che si intendeva colpire era la generalizzazione arbitraria dei risultati della meccanica e soprattutto la sua identificazione con la realtà. Non a caso autori come Lamettrie, che intendevano conservare al meccanicismo valori di generalizzazione e implicazioni strettamente materialistiche, si preoccupano di svincolarlo da ogni presupposto antologico. Non a caso la polemica tra cartesianesimo e newtonianesimo verteva essenzialmente sull'arbitrarietà dell'ipotesi degli elementi e dei vortici cartesiani e sul significato antologico che si voleva dare all'attrazione newtoniana. La grande superiorità dell'atteggiamento newtoniano veniva fatta risiedere essenzialmente proprio nella sua consapevole rinuncia ad ogni ricerca sulle cause prime. I due passi seguenti sono molto precisi a questo proposito. « Newton non ha mai formulato ipotesi per spiegare la causa dell'attrazione dei pianeti e quella della luce; ha dimostrato che questa gravitazione esiste, che un grave non ricade sulla terra che in virtù di quella medesima forza centripeta che trattiene gli astri nella loro orbita, che nessun vortice di materia sottile, grande o piccolo, può essere la causa di questa forza centripeta. Ci si tenga lì e non si immagini di poter fare con un romanzo ciò che Newton non ha potuto fare con la sua matematica» (Voltaire, Défense du Newtonianisme). 1 «L'attrazione newtoniana è un principio indefinito, con il quale, cioè, non si vuole designare né alcuna specie o maniera d'azione particolare, né alcuna causa fisica di una simile azione, ma solo una tendenza in generale, un conatus accedendi o sforzo per avvicinarsi, quale che ne sia la causa fisica o metafisica, cioè sia che la potenza che lo produce sia inerente ai corpi stessi, sia che essa consista nell'impulso di un agente esterno » (d' Alembert, articolo Attraction nell'Encyclopédie). 1 È noto che Voltaire ebbe un ruolo notevole nella diffusione delle idee di Newton in Francia (come è già stato sottolineato) ancora pienamente cartesiana nei primi decenni del Settecento. I numerosi testi di Voltaire su questo argomento testimoniano però che la sua adesione al newtonianesimo è tanto entusiastica quanto acritica: lo stile è brillante e piacevole, ma le argomentazioni addotte sono povere e inserite in un contesto estraneo ad interessi genuinamente scientifici.
Come è stato giustamente sostenuto da uno studioso americano, Co!m Kiernan, in un recentissimo lavoro, l'interesse di Voltaire per la scienza e per Newton derivava infatti essenzialmente dalla sua preoccupazione di provare l'esistenza di dio. Il passo seguente tratto dall'opera Histoire de ]enni, è abbastanza significativo: «Tutti gli astri innumerevoli, posti nella profondità dello spazio, obbediscono alle leggi matematiche scoperte e dimostrate dal grande Newton; un catechista annuncia Dio e Newton lo prova ai saggi. »
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Questi due testi analoghi nella sostanza, seppur diversi nella forma, sono molto indicativi perché rivelano la generalità dell'atteggiamento antimetafisico, divenuto ormai, verso la metà del secolo, patrimonio comune dell'uomo di cultura, sia esso scienziato o letterato: si tratta cioè di una questione che ha travalicato l'ambito strettamente metodologico o scientifico per diventare il riflesso di una più generale attitudine, filosofica o culturale in senso lato, di cui il rifiuto di ogni considerazione sulle cause, l'abbandono del metodo di indagine deduttivistico, il ridimensionamento di prove indirette come quelle fondate sull'efficacia operativa delle teorie, non sono che singoli aspetti. Si può trovare una precisa formulazione della nuova concezione generale della ricerca nell'opuscolo del medico olandese Hermann Boerhaave, De conJparando certo in physicis (Sul modo di stabilire la certezza in fisica, 1715) che, secondo quanto dice P. Brunet, non tardò a diventare in qualche modo il manuale del metodo sperimentale. L'opera è interessante in quanto Boerhaave è un deciso assertore del meccanicismo e della concezione metodologica ad esso connessa, ma è a un tempo ben conscio della difficoltà della deduzione dei corpi singoli da una concezione generale della materia. In uno scritto anteriore, De usu ratiocinii mechanici in medicina (L'uso del raziocinio meccanico in medicina, 1702), aveva rivelato che occorreva assumere dei dati certi, non formulati con l'arbitrio della mente, ma stabiliti in base all'osservazione sensibile, potenziata dai vari artifici dell'anatomia, dalla microscopia e dalla scienza dei liquidi. La testimonianza sensibile e il giudizio razionale (che si realizza mediante l'uso del metodo geometrico) sono gli elementi che caratterizzano la ricerca che, necessariamente, si pone come meccanicistica: ogni altro tipo di indagine si situa, a suo giudizio, al di fuori di una dimensione veramente scientifica. Pur tuttavia Boerhaave ritenne di dover nettamente svincolare la prassi metodologica meccanicistica (insostituibile) da ogni ipoteca antologica. Afferma recisamente, infatti, nell'opuscolo citato per primo, che i principi delle cose ci sono del tutto nascosti e che la sola via di conoscenza scientifica che l'uomo abbia, consiste nell'osservazione sensibile o in ciò che da essa si può trarre con l'ausilio del raziocinio geometrico. La certezza dell'esistenza di principi che siano a fondamento dei mutamenti che si hanno nel mondo, si accompagna con la consapevolezza della nostra totale incapacità di giungere alla loro conoscenza. È interessante vedere il tipo di critica che Boerhaave fa delle formulazioni speCifiche dei primi principi che erano state date: è la critica di ordine genetico, che è indicativa di un atteggiamento che sarà poi tradizionale. Dato che è impossibile conoscere alcunché dei primi principi, ciò che, relativamente ad essi, si sostiene, non può che essere derivato dalla conoscenza che si ha degli effetti. Se si ·risale perciò alla vera origine delle osservazioni « metafisiche » sulla realtà, si trovano dati empirici: così la « individualità» dell'atomo deriva da una necessità osservata nelle cose, la sua non penetrabilità dallo stato di conflitto che si osserva in ogni corpo; simili osserva257
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zioni si possono fare per la monade, l'estensione, la gravità e in genere per ogni formulazione sui caratteri ultimi delle cose. L'attrazione stessa non sta ad indicare altro che una causa sconosciuta. Quella che Boerhaave prospetta come la più sicura e feconda è la ricerca che si propone l'analisi, con l'ausilio dello strumento matematico, degli effetti noti e che coscientemente trascura ogni discussione sulla natura o le cause dei fenomeni: si tratta di un programma che sarà condiviso, esaltato e perseguito dalla maggior parte degli scienziati e dei filosofi del secolo. Quel che comunque appare degno di nota nell'opuscolo di Boerhaave è che la critica ai dettami metafisici entrati nella scienza viene fatta risolvendo geneticamente tali asserzioni, cercando di spiegarne cioè, la formazione effettiva. Tutto ciò non è che il riflesso di un più generale atteggiamento empiristico verso la realtà, che sarà predominante per tutto il Settecento. Esso trae le sue origini nell'Inghilterra del tardo Seicento, periodo in cui la corrente dell'empirismo, che era sempre stata una componente tradizionale della cultura inglese e aveva assunto un assetto articolato in una filosofia organica e un notevole prestigio nell'ambito della scienza, si sviluppa e potenzia sul continente, e in Francia in particolare, in parte sotto il profilo della diffusione, dell'assimilazione e dell'adattamento della cultura inglese. I nomi di Locke e di Newton sono le bandiere sotto cui in Francia viene condotta la lotta contro la cultura filosofica e scientifica « metafisicizzante » ormai divenuta tradizionale: gli strumenti critici forgiati all'uopo e le argomentazioni usate si ricollegano del resto al pensiero dei grandi maestri dell'empirismo inglese, pur essendo svolti negli aspetti più pregnanti e concreti, anche se meno rigorosi. La tendenza speculativa di fondo è la medesima: si rivolge l'attenzione più ai processi conoscitivi che agli oggetti della conoscenza stessa e si tenta di dare una fondazione critica di quelli che si considerano gli elementi costitutivi della conoscenza, che vengono ricondotti alla loro matrice concreta. Ma nel contempo il filosofo settecentesco si preoccupa di stabilire qual è il rapporto reale (o quello che appare tale) che lega l'uomo alla natura, e se da un lato dubita di poter arrivare a conoscere la vera natura della realtà, dall'altro si oppone ai tentativi di coartare la natura entro schemi artificiali. Quel che gli interessa allora è di poter cogliere, mediante l'analisi formale dei nessi conoscitivi, ciò che è proprio dell'uomo e di vedere come si situi, sul piano delle reali acquisizioni conoscitive, il rapporto uomonatura. Il limite estremo di tale prospettiva era costituito, ovviamente, dalla tendenza a far coincidere la costituzione della realtà stessa con l'appropriazione conoscitiva fattane dall'uomo, tendenza che si realizzò nell'opera di Berkeley. Ma fu questo un pericolo ben presente agli stessi illuministi e da essi tenacemente combattuto: 1 per la stragrande maggioranza degli illuministi un atteggiamento idear Si cita qui un passo famoso di Euler: « Quando il mio cervello suscita nella mia anima
la sensazione di un albero o di una casa, io dichiaro senza timore che esiste realmente fuori di
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listico sarebbe stato arbitrario e non fondato come quello metafisicizzante. La fiducia nell'esistenza di una realtà obiettiva che l'uomo deve conoscere in quanto tale (seguendo l'esperienza e le conseguenze che da essa si possono trarr~ non gli venne mai meno insieme con la radicata convinzione della possibilità di un intervento attivo sulla realtà per modificarla in relazione ai propri fini. La situazione è ambigua solo in apparenza, in quanto la conquista di un rapporto più vero con la realtà coincideva con l'effettiva distruzione di una serie di incrostazioni storiche e politiche, da cui occorreva liberarsi. La presen4a predominante di una componente politica nella cultura illuministica è innegabile, ma lo è a mio parere in modo molto più netto e categorico di quanto si sia soliti sottolineare. Il filosofo illuminista mirava essenzialmente ad operare un radicale cambiamento nelle istituzioni culturali, religiose e politiche che tendevano a perpetuare nelle coscienze pregiudizi assurdi. Il pregiudizio che combatte l'uomo di cultura illuminista è però ben diverso da quello contro cui lottava il filosofo meccanicista del xvn secolo: mentre per quest'ultimo si trattava di superare delle credenze insite costituzionalmente nella nostra natura e che dal mondo dell'infanzia si prolungavano in un'ampia strutturazione concettuale, per il primo il pregiudizio da combattere era una mistificazione, storicamente determinata e mantenuta in vita da tutta una serie di condizionamenti psicologici, sociali, culturali, politici, di strutture originarie che occorreva ricuperare nella loro primigeneità. Gli strumenti concettuali usati sono diversi, anzi antitetici: il filosofo razionalista secentesco persegue lo scopo di ricostituire la natura riducendola ad una sola idea centrale (materia in movimento, forza) chiaramente comprensibile e dominabile; il philosophe illuminista si basa invece su di un mero presupposto etico, la fiducia nella bontà della natura che occorre scoprire, liberandola da ciò che di arbitrario vi era stato messo, e non ricostruire. La posizione del primo, che doveva portare ad una concezione del tutto nuova della scienza e della ricerca sulla realtà, aveva bisogno di essere radicale e assoluta e di postulare una fiducia incondizionata nell'appropriazione reale del mondo per mezzo degli strumenti astratti della ragione; quella del secondo è meno rigida e meno dotata di audacia creativa essendo rivolta a fini essenzialmente pratici, ma è altrettanto ferma nel rivendicare una visione razionale del mondo. Ma, l'opposizione tra i due atteggiamenti è più apparente che reale. Si passa da una critica me un albero o una casa, di cui conosco anche la posizione, la grandezza e altre proprietà. E non c'è uomo o animale che dubiti di questa verità. Se a un contadino venisse in mente di dubitarne, se dicesse, per esempio, di non credere nell'esistenza del suo balì quantunque si trovi innanzi a lui, lo si prenderebbe per un matto; ma se è un filosofo ad avanzare simili opinioni, esige che si ammiri il suo spirito e la forza dei suoi lumi, che superano infinitamente quelli del popolo. Per cui mi sembra assolutamente sicuro che mai si siano sostenute
simili bizzarre opinioni se non per superbia e per desiderio di distinguersi; Vostra Altezza converrà facilmente che i contadini hanno a questo riguardo più buon senso di una simile specie di dotti, che dai loro studi non sanno trarre altro che uno spirito sviato. » Per quanto la formulazione generale del problema della conoscenza da parte di Euler, come risulta delineata nel brano testé riferito, fosse, per molti aspetti, discutibile, a giudizio di molti illuministi (d'Alembert per esempio), su questo punto l'accordo appariva ovvio.
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in sostanza essenzialmente « teorica » (nel senso che non bada alla concretezza storica) di strutture culturali tipiche, ormai considerate completamente inaridite, e non più in grado di servire come strumenti di conoscenza e di azione, ad una critica « pratica » nel senso che vuole ricondurre configurazioni dottrinali che si ritengono erronee a stratificazioni concrete, sociali e politiche. I risultati cui era pervenuta la ricerca scientifica secentesca, quelli conseguiti tramite un'analisi rigorosa dell'esperienza (e l'an'alisi più rigorosa, quella fondata sulla matematica, viene esaltata e perseguita), non vengono rinnegati, ma accolti come verità che occorre scindere dal falso, cioè da ciò che non è conforme all'esperienza. Il processo di rimozione delle stratifi.cazioni culturali nelle coscienze, cioè dei pregiudizi, coincide pertanto con la ricerca di ciò che è primigenio, e perciò vero. La critica più generale, sul piano teorico, che gli illuministi rivolgono alla cultura precedente, colpisce essenzialmente quel che a loro giudizio è il pregiudizio gnoseologico fondamentale che si riscontra in essa e che designano con il termine di esprit de système. Appare quindi del più grande interesse analizzare in dettaglio un'opera espressamente dedicata a questo problema, il Traité des systèmes di Etienne Condillac, opera divenuta, per così dire, una sorta di manuale critico fondamentale per il philosophe. L'idea base, attorno alla quale è condotta tutta l'argomentazione di Condillac, è quella che si è detto essere tipica della mentalità illuministica: la presupposizione, di ordine squisitamente etico-pratico, che la natura è buona1 e che l'uomo per restare nel vero deve adeguarsi ad essa. Ne risulta, come immediato corollario quello strumento di indagine genetico-critico che, si è già visto, era stato usato da Boerhaave e che Condillac utilizza nel modo più generale: esso consiste nel far sì che ogni asserzione venga risolta e ricondotta alla sua matrice reale per modo che sia possibile sceverare in essa ciò che è riconducibile alla natura (il suo nucleo di verità cioè) da ciò che alla natura si sovrappone artificialmente. In effetti, secondo Condillac, c'è un solo criterio di verità, quello fondato su fatti constatati. « I sistemi sono più antichi dei filosofi: la natura ne fa fare, e non se ne facevano di cattivi, allorché gli uomini non avevano che essa come guida. Gli è che allora un sistema non era e non poteva essere che il frutto dell'osservazione. Non ci si proponeva ancora di rendere ragione di tutto: si avevano dei bisogni e non si cercavano che i mezzi per soddisfarvi. Solo l'osservazione poteva fare conoscere questi mezzi, e si osservava perché vi si era forzati. Nell'ignoranza di ciò che dopo si è chiamato principio, si aveva per lo meno il vantaggio di garantirsi da tanti errori: occorre infatti, un inizio di cono1 Qualche ulteriore cenno su questo tema (della bontà della natura) presente in tutta quanta la cultura illuministica, si ha nel capitolo xn; ovvia-
mente si pone qut m rilievo solo l'importanza che il tema in esame ha avuto in ambito gnoseologico. ·
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scenze per errare e spesso sembra che i filosofi non abbiano avuto che questo inizio. Gli uomini osservavano dunque, cioè, notavano i fatti relativi ai loro bisogni. Poiché si avevano pochi bisogni c'erano poche osservazioni da fare; e, poiché i bisogni erano di prima necessità, era raro che ci si ingannasse; gli errori, per lo meno, non potevano essere che passeggeri; se ne era ben presto avvertiti, perché i bisogni non erano soddisfatti. L'osservazione non si faceva ancora che a tentoni, non era dunque sempre possibile assicurarsi di un fatto, appena si fosse creduto di percepirlo. Lo si sospettava, lo si supponeva e, in mancanza di meglio, una supposizione teneva il luogo di una scoperta, che una nuova osservazione confermava o distruggeva. È così che la natura guidava gli uomini, ed è così che essi si istruivano, senza notare che andavano di conoscenze in conoscenze, per mezzo di un seguito di fatti ben osservati. » Condillac, qui come altrove, pone in evidenza che i primi passi verso la verità vennero fatti seguendo istintivamente la natura, giacché alle origini dello sviluppo delle nostre facoltà e di ogni nostra conoscenza, sta un fatto istintivo, un bisogno. Non c'è però nulla di irrazionalistico in tutto ciò: il solo scopo che persegue Condillac rifacendosi alla conoscenza immune da errore, quella immediata, è di ricuperare le strutture operative vere del processo conoscitivo per poter arrivare a liberarci dall'errore. Non si rivendica cioè, puramente e semplicemente, di abbandonarsi all'istinto: il richiamo è del tutto funzionale ai fini di stabilire i retti criteri di funzionamento delle nostre facoltà conoscitive. Da questo assunto si può dire che derivi tutta l'analisi di Condillac. Studiare un'idea nella sua genesi reale, vuoi dire, di fatto, sottoporre tale idea ad un vaglio critico: vuoi dire, vedere se si trova o no una illecita sovrapposizione al senso reale di tale idea. Se non risulta una esatta corrispondenza tra significato reale e significato presunto, si è operata la demistificazione dell'idea, si è scoperto cioè l'errore, nel senso che si è individuata quale reale operazione concettuale sottende all'elaborazione artificiale: tutto ciò costituisce una spiegazione e perciò stesso un superamento dell'errore. Da un punto di vista generale, i soli principi in cui non si nota alcuno scompenso, sono, come si è prima sottolineato, i fatti constatati, quelli che fondano cioè i sistemi veri e legittimi. Illegittimi, pertanto, devono intendersi, secondo la classificazione di Condillac, quei sistemi che fanno capo a massime generali astratte, o a supposizioni. Molto evidente è l'errore che sta alla base dell'assunzione dei principi generali astratti che si suppone siano infusi da dio nell'anima nell'atto della creazione: esso consiste nel ribaltare l'ordine nella generazione delle idee astratte, le quali non sono altro che un modo abbreviato per designare delle osservazioni particolari e determinate. Così la massima: il tutto è più grande della sua parte non è la fonte del giudizio particolare il mio corpo è più grande del mio braccio; al contrario, il primo non è che l'estensione di proposizioni particolari analoghe a quella testé indicata. Del resto l'adesione ad un sistema piuttosto che a un altro di )nassima non è determinata da elementi
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razionali, ma dalle passioni: un bisogno tutto pratico sta inoltre all'origine di ogni sistema astratto. Particolarmente significativa e rigorosa è l'analisi condotta da Condillac del sistema della divinazione e di quello delle idee innate. La nascita di un sistema di divinazione è determinato dallo stato di alternanza di felicità e di infelicità in cui si trova l'uomo e che lo induce sempre, da un lato, a sperare che i mali di cui è affiitto finiscano, e dall'altro a temere di perdere i beni di cui gode. Tutto ciò implica il bisogno di ricondurre i mali all'odio di certi esseri superiori, e inoltre, in via complementare, quello di immaginare esseri più favorevoli, capaci di controbilanciare la potenza maligna dei primi. Su basi analoghe, cioè con il timore che fa rapportare gli avvenimenti ad una causa qualunque, viene spiegata, secondo Condillac, l'origine dell'astrologia. L'argomentazione critica è comunque condotta in modo dettagliato ed ha lo scopo di porre in rilievo come si sia giunti a formulare veri e propri sistemi di interpretazione della realtà. Il presupposto su cui si basa l'indagine è molto sottile, ed è molto interessante chiarirlo. In sostanza al fondo delle asserzioni divinatorie sta un bisogno di sicurezza che porta a stabilire un nesso causale qualsiasi tra dei fenomeni, anche se immaginario. Tra i mali a cui siamo esposti, osserva Condillac, ce ne sono di quelli la cui causa è manifesta ed altri che non sappiamo a chi attribuire. Questi furono una fonte di congetture per quegli spiriti che credono di interrogare la natura, allorché non consultano che la loro immaginazione. Questa maniera di soddisfare la propria curiosità, ancor oggi così ordinaria, era la sola per degli uomini non rischiarati dall'esperienza: era allora il primo sforzo del genio. Poco più oltre, a proposito dell'astrologia, sostiene, per spiegare come la gente poteva accogliere asserzioni così poco credibili, che il popolo credeva « che tutte le favole che venivano spacciate ad esso, erano altrettante verità confermate da una lunga esperienza». Quel che qui Condillac sembra affermare è da un lato la necessità di un rapporto mistificato nei confronti della natura (primo sforzo del genio): l'estrema arbitrarietà dei dati che si formulano in simili sistemi è il risultato di una prima risposta, per forza non adeguata, all'esigenza reale e naturale (quella di interrogare in modo verace, conforme all'esperienza, la natura) dello spirito umano per la quale il popolo crede appunto a ciò che gli viene proposto in quanto lo ritiene fondato sull'esperienza. Si può dire pertanto che, per Condillac, sia propria della natura umana una esigenza di completezza e di sistematicità che in parte contrasta con l'esigenza, altrettanto reale, di accogliere solo ciò che è conforme alla realtà naturale, cioè ciò che è controllabile mediante l'esperienza. La necessità di una mistificazione nei confronti della natura sarebbe sempre presente: il rapporto tra sistemazione arbitraria e acquisizione reale (rapporto che è a sfavore della seconda in modo macroscopico nel caso della divinazione) può variare, ma permane sempre una certa mistificazione, almeno fino a quando non si è acquisita la prospettiva di un sistema vero, basato solo sui fatti. Il pregiudizio delle idee
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innate dimostra del resto in modo esemplare ancora questo fatto, cioè la compresenza fin dalle origini, di un fattore arbitrario e di un fattore reale nello spirito umano. Così, all'inizio, si era impazienti di acquisire nuove conoscenze e si osservava poco: ci si illudeva di poter indovinare la natura. Certo, il punto di partenza era reale, basato sulle nozioni comuni a tutti gli uomini, e Condillac, fedele al suo metodo genetico-critico, si propone di far vedere il sorgere del pregiudizio da tale radice: il mezzo di derivazione è a suo parere il paragone, la metafora. Così, per esempio, gli uomini, osservando che gli oggetti si dipingono nelle acque, immaginarono l'anima come una superficie su cui sono tracciate le immagini di tutte le cose. Fu facile pertanto credere che le immagini che si formano nel nostro spirito fossero conformi alle cose esterne. « Si concluse che si poteva in tutta sicurezza giudicare degli oggetti dalla maniera con cui le immagini li rappresentano. Si danno a queste immagini i nomi di idee, di nozioni, di archetipi, e parecchi altri propri a illudere se stessi e far credere che si aveva su questo soggetto delle conoscenze superiori. » D'altronde, per scoprire la mistificazione, per cogliere cioè mediante quali trasformazioni le idee sensibili diventano in qualche modo spirituali, occorreva possedere delle cognizioni che non si potevano avere a quel grado di sviluppo delle conoscenze: la cosa era tanto più difficile, in quanto tale errore è, a giudizio di Condillac, così profondamente radicato nello spirito umano che, anche quando ormai la verità si era palesata, parecchi filosofi non potevano comprenderla. Di notevole interesse è peraltro l'analisi specifica, assai lunga e dettagliata, dei sistemi filosofici più noti del tempo : quelli di Malebranche, di Leibniz e di Spinoza; Condillac si sforza di esporre con la massima cura il pensiero di tali autori e poi di smontare pezzo per pezzo le loro costruzioni teoriche, facendo uso del citato metodo genetico-critico, e, in via subordinata e collaterale, di un controllo volto a porre in rilievo il carattere verbale e arbitrario di gran parte delle asserzioni che vengono criticate. Tipica del modo con cui procede Condillac e particolarmente significativa in se stessa è l'analisi della nozione di forza che Leibniz collega alle monadi: la ricordiamo a mo' di esempio. Le radici della idea di forza sono, secondo Condillac, psicologiche: ognuno si familiarizza con la forza che sente in sé ed è portato a parla come ragione dei cambiamenti di ogni sostanza. Ma, trasportata fuori del contesto psicologico in cui si manifesta, essa diventa una designazione puramente verbale; non si ha alcuna idea per designarla e tanto meno per indicarla come presente in esseri semplici, in quanto la sentiamo sempre diffusa nel composto anima-corpo. È della medesima natura di quelle nozioni con cui si indicano cause sconosciute, come forza centrifuga, d'attrazione ecc. (diverse, ovviamente dalle cause conosciute, come ruota, bilanciere, ecc.) : si tratta di mere parole, certo molto comode, ma che non racc!J.iudono in sé altra idea se non quella con la quale si designa una ragione qualsiasi. Il passaggio dalle parole alle cose, o meglio la trasposizione delle parole in
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cose, è, a giudizio di Condillac, la conseguenza più evidente e quella più deleteria che si riscontra nell'uso dei sistemi astratti. Preoccupazioni analoghe egli manifesta nell'analisi delle ipotesi nelle scienze, cioè di quegli elementi che stanno alla base del secondo tipo di sistemi e in cui il rapporto effettivo con la realtà era posto programmaticamente in dubbio: si muove sul piano di un calcolo prudente, rivolto a stabilire quali ipotesi si possano utilizzare e quali no. Si può così vedere che riescono bene in matematica, meno bene in astronomia, mentre il loro uso è aleatorio e problematico in fisica e lo è di più in scienze pratiche, come la medicina. I criteri in base ai quali si devono valutare le supposizioni devono essere ovviamente del tutto esterni: le ipotesi sono utili quando relativamente ad una questione s~ possono esaurire tutte le ipotesi possibili, e quando si è in grado di operare tra di esse una discriminazione effettiva. In effetti i termini di giudizio concernenti le ipotesi ricalcano quelli più ampi (anch'essi intrinseci) in base ai quali Condillac considera i sistemi in genere: ciò che emerge è sempre il richiamo alla realtà. Il filosofo tende a rompere a vantaggio dell'immaginazione quel delicato equilibrio tra analisi e immaginazione che è necessario per ben filosofare e a costruire i suoi sistemi, simili a palazzi belli e magnifici, ma poco solidi: occorre ben rilevare pertanto ciò che è reale e ciò che è arbitrario. Come appare ben chiaro da ciò che si è detto finora, il discorso critico di Condillac vuole essere la premessa per una discussione sui veri sistemi, quelli fondati esclusivamente sull'esperienza, che il filosofo francese affronta però solo in modo formale e poco dettagliato. La disamina dei sistemi fatta da Condillac fu la più rigorosa che si ebbe nel corso del XVIII secolo; essa si inseriva in una tendenza di fondo della cultura illuministica e incontrò quindi una grande fortuna, tanto che le sue conclusioni critiche furono accolte e divulgate dalla maggior parte dei philosophes: l'articolo Système dell'Encyclopédie, per esempio, riassume più o meno l'opera di Condillac. L'atteggiamento antisistematico dell'illuminismo ha anche però una componente meno formale e più aderente a quelle che erano considerate le reali esigenze della ricerca. La concezione del sistema che coarta la natura travisandola nei suoi contenuti effettivi si inquadra infatti entro la ripresa dell'esigenza tipicamente rinascimentale di una comprensione dei fenomeni nella loro concretezza puntuale e nella loro integralità: il continuo richiamo a Bacone, da parte dei philosophes, è molto significativo. «Tutti riconoscono Bacone,» diceva Jacques André Naigeon, «come l'autore e il padre della sana filosofia, di quella saggia e utile filosofia che cammina solo con l'aiuto dell'esperienza e secondo lo studio della natura e delle sue operazioni. » Di un baconismo di tal fatta furono autorevoli esponenti Diderot e, in genere, gli enciclopedisti. Si tende oggi, e giustamente, a ridimensionare l'influenza, un tempo sopravvalutata che il baconismo ha avuto su Diderot e a porre in rilievo molteplici altri influssi tra cui, e di notevole importanza, anche quello legato alla tradizione cartesiana. A mio parere però il problema non va posto esclusivamente nei termini della reale
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influenza che il pensatore inglese ha avuto sull'illuminismo francese. A volte è estremamente significativa anche l'idea che di un determinato pensatore ci si costruisce: in questo caso il nome e la figura di Bacone servono ad indicare un tipo di concezione che si vuole instaurare, una prospettiva sistematica (analoga, almeno per l'impostazione generale, alla filosofia baconiana) che non voglia interpretare la realtà con l'ausilio di pochi elementi astratti, ma che tenga conto invece delle sue molteplici caratteristiche al fine di armonizzarle in una sintesi unitaria. Non stupisce che in alcuni dei più autorevoli illuministi, come Buffon, Maupertuis e lo stesso Diderot (si è già accennato a ciò nel capitolo rx), ci sia una spiccata avversione per la matematica, in quanto disciplina astratta e lontana dal mondo concreto dei fenomeni reali che non riesce a cogliere nella loro individualità. Non stupisce neppure (ma si vedrà in seguito il vero significato di tali affermazioni) che da parte di Diderot e di altri siano formulate critiche abbastanza forti contro il metodo nelle scienze in quanto tende a imporre alla natura schemi artificiali che non le sono propri. Il generale atteggiamento antisistematico (nel senso chiarito in precedenza) può essere rivelato anche da certi moduli stilistici che hanno grande voga in questo periodo. Ci riferiamo, in particolare, agli scritti di forma dialogica e discorsiva o comunque non di forma didascalica, a cui gli studiosi danno uno speciale rilievo, specialmente quando si parla di Diderot. Si osserva che gli scritti di Diderot non hanno un andamento dogmatico, ma sono invece aperti a tutte le sollecitazioni della ricerca: ad essi quindi la forma espressiva del dialogo e dell'aforisma risulta congeniale. Si sottolinea il fatto che un simile atteggiamento non è casuale, ma trova organici collegamenti con alcune tradizioni metodologiche precise: quella baconiana (in ciò si vede la conferma della radice empiristica del pensiero di Diderot, sollecito come Bacone a non rinchiudere entro schemi intellettualistici la realtà) oppure quella cartesiana (Diderot sarebbe l'erede di una concezione comunicativa e terrena della filosofia che aveva la sua forma di espressione tipica nel dialogo, in cui il pensiero cartesiano intendeva raggiungere il suo culmine) oppure ancora quella dei grandi moralisti (Montaigne, La Rochefoucauld, La Bruyère). È certo che il pensiero di Diderot è molto complesso soprattutto sotto il profilo letterario ed è molto difficile coglierlo alla luce di una prospettiva unitaria soddisfacente. Herbert Dieckmann in uno dei suoi saggi più belli su Diderot ha analizzato, con notevole finezza e penetrazione, il vario e multiforme rapporto tra il pensiero di Diderot e i suoi modi di espressione. Egli asserisce che c'è in Dideì:ot un modo di espressione rigorosamente filosofico e fedele alla tradizione scolastica, nel senso lato del termine, e che compare particolarmente in quegli scritti - De la suifisance de la religion nature/le (La sufficienza della religione naturale), Principes philosophiques sur la matière et le mouvement (Principi filosofici sulla materia e il movimento) - scritti enciclopedici in cui, in
nome della ragione critica, combatte la religione e la metafisica. Ma osserva anche
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che questo modo di espressione non era particolarmente congeniale a Diderot, il cui pensiero vario, mutevole, ricco di spunti, pronto continuamente alla digressione, difficilmente riusciva a trovare un modo di espressione adeguato. Secondo Dieckmann, la forma migliore di espressione Diderot la vedeva rappresentata soprattutto nelle arti e specificamente nello schizzo. « Nell'insieme dell'opera di Diderot, lo schizzo ha il valore e la funzione di un elemento formale. Esso non poteva diventare, se non incidentalmente, un modo di espressione »; Diderot si volse pertanto al dialogo che divenne per lui la forma letteraria di elezione (altri modi di espressione di cui fece uso furono il sogno e il paradosso) in quanto esso gli permetteva di dare corso liberamente al movimento del suo pensiero e di considerare i differenti modi di formulazione di un problema. Tutte queste considerazioni paiono molto esatte nella sostanza, solo che occorre rilevare che le preoccupazioni stilistiche di Diderot relative alla forma di espressione più adeguata del suo pensiero, sono il travagliato e tormentato riflesso letterario dell'interpretazione diderotiana del generale atteggiamento che ha verso la ricerca sulla realtà il philosophe illuminista: ciò si chiarirà meglio in seguito. II
· IL VERO SISTEMA DEL SAPERE
Alle sistemazioni arbitrarie della realtà, gli illuministi contrapponevano, come è noto, una visione enciclopedica del sapere. Ciò non implicava però la rinuncia ad una concezione sistematica e organica della realtà che viene anzi rivendicata ed esaltata dai più autorevoli rappresentanti dell'illuminismo: ciò è vero anche per Diderot, malgrado l'apparenza. L'elemento che sta al centro della concezione organica del sapere propria di questo autore è la nozione di natura: si tratta dello stesso strumento concettuale astratto con cui aveva criticato i sistemi filosofici in auge al suo tempo, che serve al filosofo per elaborare prospettive positive di interpretazione della realtà. Le formulazioni teoriche illuministiche sono differenti, in relazione alle diverse esigenze degli autori, ma rivelano tutte il desiderio « naturalistico » di un approccio alla realtà senza il bisogno di mediazioni concettuali indirette. La polemica contro l'arbitrarietà dei sistemi filosofici secenteschi coinvolge prevalentemente il carattere artificiale o antinaturale di tali costruzioni: riemerge pertanto, se si vuole, il tema aristotelico della « traduzione » della realtà entro schemi concettuali non deformanti, ma in una dimensione nuova e più elaborata. La grande scoperta del secolo xvn, l'uso del m~todo analitico con le conseguenti caratteristiche operativistiche insite nel meccanicismo e nella relativa teoria dei modelli, per cui la ricostruzione genetica di un fenomeno secondo i principi della meccanica (o comunque secondo principi dettati dalla ragione) costituiva il punto fondamentale della ricerca, viene trasposta in ambito gnoseologico; cioè s1 pensa di applicare il metodo genetico-critico, o analitico,1 direttamente nella 1
L'analisi viene così definita dall' Encydopédie:
«Consiste nel risalire all'origine delle nostre
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indagine sui modi di appropriazione umana della realtà. Il presupposto di base è comunque sempre quello per il quale conoscere qualcosa vuol dire essere in grado di spiegare la formazione di essa; la scoperta di come si formano « realmente», secondo natura, idee e concetti costituisce, oltre che l'istanza critica fondamentale per smascherare l'errore, ad un tempo lo strumento di elaborazione positivo di una filosofia nuova e più «vera», cioè più adeguata alla natura. Non si deve, per conseguirla, dunque, immaginare un sistema, bensì osservare il « sistema » fatto dalla natura, mediante l'analisi, cioè quella operazione intellettuale che tutti svolgono e che tutti, fin dall'infanzia, imparano dalla natura; per ben proseguire « basterà continuare come la natura ci ha fatto cominciare: cioè osservare e mettere i nostri giudizi alla prova dell'osservazione e dell'esperienza». Questo giudizio di Condillac ci riconduce ancora a quel discorso sulla fondazione istintiva della conoscenza, che è di capitale importanza nella filosofia dell'illuminismo e che occorre pertanto intendere nei suoi termini esatti. Richiamarsi all'istinto voleva dire portare alle estreme conseguenze l'esigenza di un adeguamento perfetto alla natura, quasi di un immedesimamento con essa, per poter giungere a scoprire qualcosa di nuovo. Il familiarizzarsi con gli oggetti, il vederli senza alcun disegno, divenivano le condizioni ideali per avviarsi alla conoscenza scientifica, per scoprire cioè quella trama di rapporti fissi e invariabili con cui gli oggetti si legano nel nostro animo. È ciò che espressamente affermava Buffon e che è condiviso da Diderot, il quale del resto nel suo famoso elogio dell'istinto contenuto in quella che è la sua opera filosofica più significativa, De l'interprétation de la nature (già ricordata nel capitolo rx), giunse a sostenere che « ci sarebbe forse più fisica sperimentale da apprendere studiando gli animali che seguendo i corsi di un professore ». Il migliore conoscitore della natura risulta quindi essere quello che, per così dire, è più immerso nella natura: le tante discussioni sul genio del xvrrr secolo tendono tutte a porre in rilievo una connessione, anzi una identità, tra la natura e il genio. « Il genio studia, per così dire, senza accorgersene; è costretto per le impressioni che gli oggetti fanno su di lui, ad arricchirsi continuamente di conoscenze che non gli sono costate nulla; getta sulla natura occhiate d'insieme e ne penetra gli abissi. Raccoglie nel suo seno germi che vi entrano insensibilmente, e producono col tempo effetti tanto sorprendenti che lui stesso è tentato di credere ad una ispirazione» (Jean François Saint-Lambert, articolo Gmio dell' Encyclopédie). idee, a svilupparne la generazione e a farne differenti composizioni o scomposizioni per paragonade da tutti i lati in cui possono mostrare dei rapporti. È facile vedere che l'analisi così definita è il vero segreto delle scoperte. Ha il vantaggio sulla sintesi di non offrire che poche idee alla volta e sempre nella gradazione più semplice. È nemica dei principi vaghi e di tutto ciò che può essere contrario all'esattezza e alla precisione. Essa
cerca la verità non facendo ricorso a proposizioni generali ma sempre per mezzo di una specie di calcolo, cioè componendo e scomponendo le nozioni per paragonarle nella maniera più favorevole alle scoperte che si ha in vista. Non per mezzo di definizioni, che di solito non fanno che moltiplicare le dispute ma spiegando la generazione di ogni idea. » (Si ricordi quanto fu detto sul metodo analitico nel ur paragrafo del capitolo rv.)
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L'istinto, il gusto, il talento, non sono, secondo Condillac, che gli strumenti di cui si serve la natura, il miglior maestro che vi sia, per insegnare all'uomo di genio il modo con cui svolgere l'analisi delle cose che studia. Questa visione« naturalistica » dello studio e della ricerca viene radicalizzata da Diderot che, come ha ottimamente posto in rilievo Franco Venturi nel suo importante studio sul filosofo francese, giunge a sostenere perfino una sorta di necessità biologica nello sviluppo obiettivo delle singole scienze. Il genio si inserirebbe in tale sviluppo operando nelle scienze trasformazioni analoghe a quelle che si hanno nelle trasformazioni degli esseri viventi. Questo riconoscimento dei fattori istintivi nell'ambito della cultura illuministica non indica concessioni a tendenze irrazionalistiche né la presenza di questo elemento nel secolo della ragione può essere oggetto di molto stupore. In effetti il philosophe illuminista non ha la coscienza che ci possa essere una scissione tra facoltà razionali e non razionali (con le conseguenze svalutative delle prime nei confronti delle seconde, o viceversa, che si sono poi poste in rilievo) : entrambe le facoltà adempiono ad una medesima funzione, quella di imitare la natura. Se c'è una logica artificiale, frutto della nostra riflessione, il successo di essa dipende molto dalla logica naturale che è varia e in vari gradi negli uomini, giacché l'esprit che dio ci ha dato è uno strumento che deve essere esercitato e sapere che cosa sia o come funzioni è cosa in certo senso non primaria. Lungi, quindi, dal proclamare una cesura tra sapere irriflesso e riflesso, Diderot (e in genere tutti i pensatori dell'illuminismo) sostengono una sostanziale identificazione dei due momenti, una identificazione funzionale, ovviamente, nel senso che per conoscere determinati processi conoscitivi viene postulata la concreta necessità di immergersi nel flusso degli eventi naturali per assimilare dal vivo gli elementi essenziali della realtà e poi tradurli in schemi concettuali che non ne falsino le caratteristich-e. Questo riaffermato primato della pratica non tradisce però la fiducia nell'attività e nelle forze della ragione: costituisce invece, a giudizio degli illuministi, un potenziamento della ragione stessa in quanto viene ricondotta alla sua fonte originaria e acquista così una dimensione concreta e vera perché desunta direttamente dalla realtà e modellata su di essa. Si capisce perché d' Alembert sostenga che «la filosofia moderna si è avvicinata in molti punti a ciò che si è pensato nella prima età della filosofia; perché sembra che la prima impressione della natura sia quella di darci delle idee giuste, che si abbandonano ben presto per incertezza o per amore delle novità, e alle quali infine si è forzati di ritornare ». Da tutto ciò consegue che è cosa di somma importanza per l'illuminista conoscere come si sono formati idee e nessi conoscitivi: scoprire il loro processo di formazione vuol dire impossessarsi di elementi reali di conoscenza. Quando Diderot dice, all'inizio della lnterprétation de la nature: « Lascerò che i pensieri si succedano sotto la mia penna nel medesimo ordine secondo il quale gli oggetti
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si sono offerti alla mia riflessione: perché essi rappresenteranno meglio i movimenti e il cammino del mio animo (esprit) », obbedisce pertanto ad un preciso intento metodologico, quello di arrivare a scoprire la genesi naturale delle sue considerazioni dando così ad esse un significato di verità. In questa prospettiva, accanto al problema della scoperta delle nostre conoscenze, diventa essenziale anche quello dell'ordine da dare ad esse. Gli enciclopedisti erano ben consci di questo fatto e affrontarono a più riprese l'argomento, soprattutto d' Alembert che ebbe il merito di collegare in modo diretto i due aspetti della questione. Secondo il pensatore francese la costituzione e lo sviluppo delle scienze avviene gradualmente in virtù delle scoperte di alcuni uomini geniali, che costituiscono altrettante tappe nell'evoluzione delle scienze. La scoperta1 è infatti una sorta di liberazione da una impasse venutasi a creare nello sviluppo conoscitivo; una volta aperta la via, si procede fino a quando si incontra un nuovo ostacolo, per superare il quale occorre un lavorio che dura talvolta anche dei secoli: tra i modi in cui si esplica tale lavorio c'è anche l'ordinamento delle conoscenze già note. Ma c'è una imperfezione in tale ordinamento, «dovuta principalmente al fatto che i compilatori di quelle prime opere poterono ben di rado sostituirsi agli inventori, giacché, utilizzando i frutti del loro lavoro, non ne avevano ereditato il genio. Soltanto gli inventori avrebbero potuto trattare in modo soddisfacente le scienze che avevano scoperto, perché, ripercorrendo il cammino compiuto dalla loro mente ed esaminando in qual modo una proposizione li aveva condotti ad un'altra, erano essi solo in grado di cogliere la connessione della verità, e quindi di formarne una catena». Queste affermazioni che tendono a situare in un certo rapporto il processo d'invenzione e quello di ordinamento, sono molto indicative per capire la concezione illuministica del sapere, e anche la difficoltà in cui viene a dibattersi. Il modus ordinandi, nel senso chiarito prima del termine, è funzionale al modus inveniendi: prepara il terreno perché possa verificarsi la scoperta del genio. Si tratta di opere che tendono a sistemare i dati conosciuti, ma sempre in modo imperfetto perché non si basano sui veri modi con cui si è giunti alla scoperta. Ciò implica che, al limite, nel «vero» sistema del sapere, modus inveniendi e modus ordinandi (qui inteso non in senso funzionale, ma reale) tendono a coincidere. Ripercorrendo, quindi, nella sua genesi la verità, ristabilendo con precisione i passi che hanno condotto alla scoperta, si può giungere ad individuare quelle connessioni « vere », cioè insite nella realtà, che costituiscono dei punti fissi nella costruzione dell'edificio del sapere. Le difficoltà sono notevoli perché gli inventori non sono usi lasciare che si conoscano quei principi e quei nessi che li hanno I Nell'articolo omonimo dell'Encyclopédie, d'Alembert cerca di enucleare ciò che caratterizza la scoperta sia in generale sia in particolare nelle scienze. Le scoperte si fanno in tre modi: tro-
vando una o più idee completamente nuove, oppure congiungendo un'idea nuova ad una già conosciuta, o infine riunendo due idee conosciute.
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condotti alle loro scoperte, per vari motivi (negligenza, ecc.) o anche perché, essendo a volte guidati più dall'istinto che dal ragionamento, riuscirebbe difficile anche a loro stessi tale riconoscimento: la prospettiva è però chiara, almeno in linea di principio. L'ordinamento delle conoscenze, genetico e sistematico ad un tempo, è quindi lo scopo che si prefiggono i philosophes, anche se non è loro estraneo l'intento di un sistema delle conoscenze in senso funzionale come punto di partenza per nuove acquisizioni conoscitive. L'esigenza della fondazione assoluta o « naturale » del sapere è però preminente. Questa espressione di Didero t: « Il genio non conosce regole; eppure, nelle sue buone prove, non se ne discosta mai. La filosofia conosce soltanto le regole fondate sulla natura degli esseri, che è immutabile ed eterna. Al secolo scorso tocca fornire esempi: al nostro, prescrivere regole », caratterizza bene il programma generale che si pone la filosofia del xvnr secolo. Viene qui ribadito con grande efficacia che tra conoscenza istintiva e riflessa sussiste una sostanziale identità e che l'operazione gnoseologica essenziale è quella mediante la quale si rendono esplicite le regole della natura. Questa continua insistenza sulla intrinseca realtà della natura (di cui pure l'uomo è parte) come termine di riferimento «assoluto» fa sì che la filosofia dell'illuminismo non perda mai la sua connotazione realistica essenziale. Ma quali sono le caratteristiche di questo ordine naturale tanto auspicato dagli illuministi? Esso si basa intanto su una visione della natura, che fa proprie, mutuandole da un'antica tradizione, le idee dell'unità e della continuità delle cose fra di loro.! Al concetto della natura intesa come un tutto organico corrisponde pertanto una visione delle scienze che riproduce tale totalità. « Se potessimo cogliere,» scrive d' Alembert, «senza soluzione di continuità, la catena invisibile che collega tutti gli oggetti delle nostre conoscenze, gli elementi di tutte le scienze si ridurrebbero ad un principio unico, le cui principali conseguenze sarebbero gli elementi di ciascuna scienza particolare. » L'unificazione sarebbe in tal modo perfetta e l'uomo acquisirebbe quella conoscenza globale che ha solo dio: è comunque la prospettiva che, come in ogni filosofia degna di questo nome, guida le singole ricerche, ed è volta a comporre in unità le parti che costituiscono le singole scienze e a situare queste nella catena del tutto. I principi generali su cui si fonda la conoscenza ordinata sono, secondo d' Alembert, di due tipi. Da un lato si hanno i principi fondamentali di ogni scienza, quelli che formano il capo di ciascuna parte della catena, come, « in fisica, i fenomeni quotidiani che l'osservazione rivela agli occhi di tutti; in geometria, le proprietà sensibili dell'estensione; in meccanica, l'impenetrabilità dei corpi, fonte della loro reciproca azione» e così via nelle altre scienze; dall'altro, quelli che si trovano al punto di unione di diverse branche della catena e che si possono chiamare secondari. L'ordine cui mirano gli illuministi risulta essere di tipo enciclopedico-sistemaI Più ampi dettagli su questi concetti e sul loro effettivo significato (significato che deriva
principalmente dalle scienze biologiche) si hanno nel capitolo IX.
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tico. Nel quadro del sapere devono essere presenti i singoli dati conoscitivi, nella loro specificità, ma si deve pure poter trarre da essi elementi di correlazione e di unificazione generale. L'opera che realizzò praticamente l'ideale illuministico del sapere fu appunto ad un tempo « dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri» ed enciclopedia, come traspare dal titolo stesso dell'opera e dai rilievi in proposito fatti da d' Alembert all'inizio del discorso preliminare. L'ordine sistematico enciclopedico si deve realizzare sulla base del metodo genetico o analitico. L'analisi non è ovviamente psicologistica : «N o n ci riferiamo,» sostiene d' Alembert, « all'ordine che gli inventori hanno realmente seguito, che era senza regola alcuna e talvolta senza oggetto; ma a quello che avrebbero potuto seguire procedendo con metodo.» L'analisi è invece tipologica: si tende cioè a stabilire le strutture primarie e originarie della conoscenza umana in generale, a fissarle in tipi gnoseologici fondamentali, da cui è possibile poi ricavare tutto l'apparato concettuale adeguato per rappresentare il quadro conoscitivo nella sua interezza. Il discorso preliminare dell' Encyclopédie comincia appunto con un discorso sull'origine delle idee, ricondotte tutte al primum della sensazione (che riflette un mondo di oggetti che ci è estraneo), prosegue poi con l'esposizione della genesi delle idee sociali e morali, dell'anima e di dio, e infine delle varie scienze e delle arti. Tuttavia la storia filosofica delle nostre idee, se dà un quadro genealogico e sistematico conforme ai principi metodologici prima delineati, questo risulta troppo generale e confuso perché possa essere proficuamente utilizzato. Pertanto, dobbiamo riconoscere che possiamo ricostruire, mediante l'analisi tipologico-normativa, solo una genealogia delle nostre conoscenze, che ripeta, senza essere in grado di spiegarlo, l'apparente disordine naturale (se potessimo spiegarlo avremmo una conoscenza analoga a quella divina); questo disordine (non si riesce neppure a far quadrare l'ordine genealogico delle scienze con quello della loro invenzione)« per quanto sia filosofico da parte dello spirito, sfigurerebbe o piuttosto distruggerebbe completamente l'albero enciclopedico nel quale lo si volesse raffigurare ». L'impossibilità effettiva di creare una sistemazione organica e dettagliata delle conoscenze a partire dalla ricostruzione genealogica delle idee, non infida però né il metodo analitico in se stesso né il fine conoscitivo che rimane quello traduttivo della realtà. Si tratta di modificare l'impianto sistematico in un modo che si ritiene più adeguato e costruire un albero genealogico-enciclopedico (si noti bene, ancora genealogico) che costituisca la traduzione, in sistema concettuale, del « sistema » della natura. L'immagine di cui si servono sia Diderot che d'Alembert per rappresentare l'ordine enciclopedico è quello di una carta geografica, o meglio di un mappamondo che ben simbolizza la stretta e concreta aderenza che sussiste tra il sistema «reale» e quello concettuale. «L'assetto più naturale sarebbe quello nel quale gli oggetti si susseguissero secondo quelle insensibili sfumature che servono a un tempo a distinguerli e a unirli », ma esso
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non può essere conseguito, perché l'uomo, essere relativo, deve per forza servirsi di semplificazioni e quindi c'è sempre, secondo i due maggiori enciclopedisti, una arbitrarietà inevitabile in ogni sistema costruibile dall'uomo: il sistema che non abbia in sé alcuna arbitrarietà si trova solo nell'intelletto divino. L'albero enciclopedico delle conoscenze, di derivazione baconiana/ verso cui si erano decisi gli enciclopedisti sembrava loro corrispondente il più possibile sia alle esigenze «genealogiche» sia a quelle «enciclopediche». Sia per Diderot che per d' Alembert esso costituiva però un pis-aller, una sorta di adattamento forzato alla tradizione, particolarmente a quella baconiana, anche se ciò avveniva senza che essi dovessero rinunciare ai presupposti gnoseologici fondamentali nei quali credevano. Il metodo da essi usato per giustificare l'albero delle conoscenze è sempre quello tipologico-normativo: solo che la sistemazione non risulta costruita a parte oljecti (o meglio ideae oljecti), ma a parte su~jecti. In pratica i tipi di sistemazione delle conoscenze non sono più gli oggetti, ma le facoltà conoscitive, cioè i vari modi di organizzazione delle idee dirette o riflesse: questi sono la memoria, la ragione e l 'immaginazione. Le tre facoltà costituiscono le divisioni fondamentali sulle quali si articola l'albero della conoscenza: da esse derivano immediatamente le tre discipline fondamentali, la storia, la filosofia, le belle arti e poi tutte le altre scienze. Il raggruppamento scelto dagli enciclopedisti, malgrado le insufficienze che rivela, trae peraltro la sua validità dal fatto che è fondato su divisioni non artificiali, che non alterano la conoscenza « naturale »: palesa comunque una fiducia innegabile nell'esprit systématique (che d' Alembert invita a non confondere con l'esprit de système con il quale è generalmente in dissidio), cioè nella capacità umana di elaborare costruzioni concettuali in grado di connettere in unità gli oggetti che costituiscono il sistema, organico e totale, della natura. 2 La concer D' Alembert si sofferma molto sul fatto che nel suo albero delle conoscenze, diversamente che in quello baconiano, la ragione è anteposta all'immaginazione: è interessante notare che le argomentazioni a favore di questo ordine delle facoltà sono tutte fondate sul fatto che esso è conforme al naturale progresso delle operazioni dello spirito. 2 Alcuni critici hanno sostenuto che tale fiducia venne meno nei due maggiori enciclopedisti e che essi in seguito vennero accentuando i motivi critici verso il criterio rigidamente sistematico in cui ancora credevano al tempo della pubblicazione del primo volume dell' Encyc!opédie. Documenti di tale evoluzione sarebbero per d' Alembert l'articolo E!éments des sciences (175 5) e poi ancora gli E!éments de phi!osophie (1759), mentre per Diderot, particolarmente, l'articolo Encyc!opédie che viene visto come contrapposto al Prospectus e al Discours pré!imùtaire di d' Alembert. In verità non mi pare si possa sostenere la tesi di una qualche crisi nelle convinzioni
sistematiche dei due autori: i passi citati dai critici (e se ne possono citare anche non tardi cronologicamente) si spiegano tutti benissimo alla luce dell'idea, radicata in tutti gli illuministi, per la quale la limitatezza di ogni sistematica umana va sempre vista in rapporto a quella naturale, assoluta, opera di dio: la presunta inadeguatezza è solo funzionale. Questo presupposto d'altra parte è ben rilevato dagli studiosi, per esempio da H. Dieckmann a proposito di Diderot e nel medesimo scritto in cui sostiene un cambiamento di prospettiva nel senso sopra delineato da parte dell'enciclopedista, ma non è situato in modo esatto. Quando si sostiene che« l'idea di ordinamento che Diderot non sacrifica, ha perso il suo carattere di sistema stabilito a priori per diventare aspirazione a un sistema che non si consegue che dopo numerosi tentativi e tanti scacchi » non si comprende che Diderot, come d' Alembert, non ha mai pensato di stabilire un sistema aprioristico, ma ha avuto sempre l'aspirazione e il desiderio di creare un sistema aderente alla natura, visto sempre come
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zione che si fecero gli illuministi dell'ordine sistematico del sapere è chiara nelle sue linee generali, ma non è affatto lineare nei suoi presupposti e nelle sue conseguenze; presenta numerose difficoltà che mi pare sia necessario cercare di porre in luce. Si è visto che i due massimi enciclopedisti, per quanto fossero ben consci dell'inscindibile nesso che doveva sussistere tra la genesi delle conoscenze e il loro ordinamento, non riuscirono di fatto ad enucleare quella genesi «naturale» del sapere che costituiva per essi lo scopo primo della filosofia: il problema rimase irrisolto o per lo meno risolto solo in via generale. Infatti, anche una volta scartata la via soggettiva (quella psicologistica) nella formazione del sapere, restava pur sempre aperto il problema di una ricostruzione univoca e vera. Sia Diderot che d' Alembert erano consapevoli che gli ordini che si potevano introdurre erano infiniti (nel Discours préliminaire vengono citate, a mo' di esempio, le suddivisioni delle conoscenze in naturali e rivelate, utili e dilettevoli, speculative e pratiche e così via), ma erano altrettanto consapevoli del fatto che, tra quegli infiniti modi, ce ne dovevano essere alcuni privilegiati e, al limite, uno cui bisognava tendere. Le incertezze e le aporie che rivela il Discours préliminaire sono la conseguenza di una tensione nella ricerca maturata da una tale esigenza che non si poteva abbandonare e l'incapacità di approntare gli strumenti teorici adeguati. La ricostruzione tipologico-normativa esposta nella prima parte del Discours doveva apparire molto importante a d' Alembert perché, praticamente, era condotta sulla base di un solo tipo gnoseologico fondamentale, la coscienza dell'esistenza del nostro corpo e dei suoi bisogni, che si ha tramite le sensazioni le quali ci avvertono appunto della nostra esistenza e di quella di oggetti estranei, tra cui il nostro corpo. La coscienza che abbiamo un corpo fa tutt'uno con la scoperta dei bisogni che manifesta e dei mille pericoli cui è esposto. La valutazione degli oggetti esterni è modellata su questa necessità di preservare il corpo dalle malattie e dalla distruzione: su tale base viene giudicato anche il rapporto con gli altri uomini, condizionato dal vantaggio che può venire dall'unione fra diverse persone. « Presupposto e sostegno di questa unione è la comunicazione delle idee, che esige naturalmente l'invenzione dei segni. Ecco dunque l'origine delle società, nelle quali probabilmente nacquero le lingue. » Le idee morali (quella dell'ingiustizia e del male e, correlativamente, quella della giustizia e del bene), le scienze e le arti vengono. quindi ricondotte tutte alla soddisfazione di crescenti bisogni corporei. Per quanto riguarda il contenuto, tale spiegazione utilitaristica dell'origine della conoscenza si ricollega, direttamente e volutamente, non solo a Bacone ma anche a tutta la tradizione empiristica; per quanto riguarda l'impianto generale, si può vedere come una forte e genuina volontà demistificatoria, un assoluto, come una guida per la ricerca. Del resto l'assoluto come elemento normativa di ogni ricerca è sempre stato una costante nella buona fi-
losofia perseguibile, ma non attingibile dall'uomo nella sua interezza, almeno nella dimensione dell'evoluzione storica.
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presente del resto in ogni teoria empiristica, sia del tutto preminente e comandi l'assetto metodologico che si fonda, in ultima analisi, nella presunzione che dietro ogni processo conoscitivo ci sia un preciso bisogno pratico. Essa appare comunque inadeguata e le ragioni della sua inadeguatezza vanno ricercate nell'insufficiente giustificazione dell'assunto. Gli illuministi non accettavano o non davano rilievo a prove indirette, come il criterio pragmatico dell'efficacia esplicativa, di cui avevano fatto un grande uso proprio i pensatori oggetto delle loro critiche; d'altro canto le prove dirette addotte per dimostrare l'origine pratica delle nostre conoscenze erano da un lato troppo generiche, e dall'altro rivelavano un difetto di correlazione con gli altri elementi della ricerca. Non stupisce pertanto che la spiegazione tipologica testé delineata venisse giudicata insoddisfacente dallo stesso d' Alembert, in quanto il tipo delineato era estrinseco e generale, non presentava un nesso logico fra le varie idee e non riusciva a dare un'esplicazione funzionale della derivazione delle varie scienze dalle singole idee. In realtà il modulo estrinseco di spiegazione doveva essere collegato e integrato, almeno nelle intenzioni degli enciclopedisti, con un altro, più intrinseco, che ripetesse le regole operative della natura, e che viene designato talora con il termine di genealogico (tale termine non viene però sempre usato in modo univoco: a volte significa puramente e semplicemente cronologico). Stabilire la genealogia esatta delle conoscenze vuol dire osservare e rendersi conto del ritmo funzionale della natura: l'operazione è possibile perché l'uomo è ad un tempo parte preminente della natura e suo osservatore e può quindi scoprire ed enucleare i veri nessi della natura. Si tratta in sostanza di quell'ordine degli inventori di cui si è parlato prima, e cioè di una sistemazione tipologico-normativa estremamente difficile da perseguire e che gli enciclopedisti riuscirono a presentare solo sotto forma di abbozzo. Il tema della genealogia intrinseca è comunque importante perché fu sempre tenuto presente dagli enciclopedisti e dagli illuministi in genere: per essi costituiva una remora per ogni sistemazione conoscitiva artificiosa e un costante invito ad un confronto diretto con la natura, con l'entità con la quale si commisura il grado di verità che si consegue. La genealogia dell'invenzione non coincide necessariamente con quella storica. Le regole operative della scienza devono rifarsi alla natura, non importa se in modo istintivo o con l'ausilio di strumenti concettuali elaborati: è certo però che le vie che. portano alla scoperta di conoscenze vere sono sempre originate da un contatto diretto con la natura; lunghi, difficili, pieni di sviamenti ed errori (tutti storicamente determinabili) sono i tempi e i modi che portano a quelle operazioni inventive, ma essi si pongono al di fuori della tipologia che deve mirare solo a stabilire delle verità. Creare un'opera che contenga non ciò che si è pensato in tutti i secoli,« ma solo ciò che si è pensato di vero» (d' Alembert) costituiva perciò realmente la più grande aspirazione di tutti gli enciclopedisti. Il problema essenziale allora dovrebbe essere quello di conseguire una stretta connessione tra genealogia estrinseca ed intrinseca delle conoscenze; una volta giunti 274
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ad essa anche l'ordine logico fra i vari elementi del sapere nell'albero enciclopedico ideale ne deriverebbe come una diretta conseguenza, nel senso che l'ordine sarebbe derivato direttamente dalla natura. In questa prospettiva generale risulta evidente che il problema della genealogia storica delle conoscenze e della sua sistemazione nell'ordine del sapere non poteva essere eluso. Il « difetto » della soluzione adottata dagli enciclopedisti fu, se si vuole, quello di non aver studiato a fondo la connessione che doveva sussistere tra la ricerca tipologica e quella storica. Conseguenza dell'imperfetta valutazione di tale rapporto fu il fatto che la riduzione dell'analisi storica a quella tipologica fu condotta in modo non molto elaborato e rimase abbastanza generica. All'inizio della seconda parte del Discours préliminaire dedicata appunto all'esposizione storica dell'origine delle nostre conoscenze, viene posta in chiaro la differenza tra genealogia storica e filosofica, e la subordinazione della prima, in quanto l'esposizione storica viene condotta secondo le indicazioni derivate dal discorso genealogico-tipologico che serve da norma. Lo sviluppo storico è collegato principalmente allo sforzo creativo del ristretto gruppo di geni che hanno dato origine ad un avanzamento nelle scienze; si tende poi a mettere in rilievo che gli avvenimenti si susseguono secondo un ritmo ciclico che si adegua, in linea di massima, al ritmo tipologico; le deviazioni dalla linea teorica vengono spiegate con il condizionamento sociale per il quale le modalità diverse si presentano come necessarie per nuovi sviluppi. Il discorso prescinde volutamente da ogni spiegazione relativa alle origini delle nostre conoscenze; l'esposizione storica comincia dalla :rinascenza, che viene interpretata alla luce dell'andamento tipologico basato sulle facoltà. L'umanità ridotta in decadenza durante il medioevo per tutta la messe di pregiudizi che in tale età prosperavano, si venne poco a poco liberando da tale situazione per una serie favorevole di circostanze, ma si trovò quasi come agli inizi della sua attività, cioè in una sorta di infanzia. Ma, diversamente che ai primordi del suo sviluppo, invece di studiare la natura, cominciò a leggere le opere degli antichi, ausilio che non avevano i primi uomini (la giustificazione è pratica-utilitaristica: è più facile leggere che vedere): ciò portò allo sviluppo della memoria, cioè dell'erudizione; poi a quello dell'immaginazione, cioè delle belle arti, alimentate dall'ammirazione per le bellezze stilistiche degli antichi; infine a quello della ragione, cioè della filosofia. La deviazione rispetto allo sviluppo tipologico si spiega in questo modo: «Sebbene nell'ordine delle nostre idee le prime operazioni della ragione precedano i primi saggi dell'immaginazione, quest'ultima, una volta fatti i primi passi, va assai più in fretta dell'altra; essa ha il vantaggio di lavorare su oggetti che lei stessa produce, mentre la ragione è costretta ad attenersi a quelli che trova dinanzi a sé, ad arrestarsi ogni momento, e spesso si esaurisce in ricerche vane. » Il processo di rinnovamento storico si conclude con lo sviluppo della filosofia moderna che è caratterizzato ad un tempo dalla lunga e fa-
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ticosa liberazione da secolari pregiudizi alimentati dall'autorità politica e religiosa e dal progressivo ritorno allo studio della natura. Artefici di questo rinnovamento che avrebbe portato la luce della ragione ad illuminare il mondo furono alcuni geni (Bacone, Descartes, Newton, Locke, Leibniz, di ognuno dei quali d' Alembert si compiace di tessere l'elogio) le cui opere costituiscono, si può dire, le tappe del lungo cammino che ha condotto al grande rigoglio filosofico del secolo in cui vivevano appunto gli enciclopedisti. In sostanza, la filosofia moderna, secondo che osserva Diderot, riprende la grande tradizione filosofica dell'eclettismo che ha rappresentato, fin dalle origini, il vero e corretto modo di filosofare. «L'eclettico è un filosofo che, calpestando il pregiudizio, la tradizione, l'antichità, il consenso universale, l'autorità, insomma tutto ciò che soggioga l'animo del volgo, osa pensare con la propria testa, risalire ai principi generali più chiari, esaminare, discuterli, astenendosi dall'ammettere alcunché senza la prova dell'esperienza e della ragione.» Il metodo che usa consiste non già nel sistemare in un piano preordinato le sue conoscenze, né nellasciarle isolate, ma nell'ordinarie secondo relazioni aderenti in modo evidente a principi: cerca di seguire cioè, di fatto le relazioni che ha posto la natura. Secondo Diderot scopo della filosofia eclettica altro non è se non quello « di ritrovare la mappa del grande architetto e i piani perduti di questo universo»; constatato il crollo dei vari edifici sistematici in cui si erano situate le conoscenze, alcuni allora si trasferirono in aperta campagna per costruire un nuovo edificio completamente diverso dai precedenti, con i materiali ancor solidi rimasti (cioè le conoscenze vere) e con altri che trassero direttamente dalla natura. È questo il fine ultimo cui tende la filosofia eclettica, praticata dai primi uomini di genio e rimasta sepolta nell'oblio fino alla fine del xvr secolo, epoca in cui la natura, lungamente intorpidita e quasi esausta, fece uno sforzo e generò uomini come Bruno, Cardano, Bacone, Descartes, ecc., fedeli alla più bella prerogativa umana, la libertà di pensiero, che diedero origine alla moderna forma dell'eclettismo. Si tratta ancora di quella prospettiva di sistemazione che guida la ricerca della vera filosofia che si manifesta in una duplice tendenza di fondo: sperimentale (rappresentata da quegli eclettici che ritengono impossibile allo stato attuale delle conoscenze costruire l'edificio del sapere e si dedicano perciò alla raccolta di materiali nuovi), e sistematica (rappresentata da quei filosofi, i quali pur essendosi cimentati più volte e senza successo nell'impresa, ritengono di non dover smettere di tentare). Il rapporto tra assoluto e relativo è, del resto, come si è più volte sottolineato, il punto di riferimento costante in tutta la ricerca degli illuministi ed è essenzialmente da questo punto di vista che va valutato. Il termine di riferimento assoluto per la valutazione delle nostre conoscenze è il concetto di natura. Tale strumento conoscitivo svolse una funzione critica veramente notevole perché servì a porre in rilievo in modo molto efficace la scarsa aderenza alla realtà di dottrine logorate ormai nelle formulazioni acquisite e svuotate da usi ed appli2.77
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cazioni indiscriminate. Anche in discipline e in ambiti specifici svolse una funzione di questo tipo: un esempio abbastanza significativo è dato dalla valutazione fornita da d' Alembert delle scienze fisico-matematiche. Egli propose una netta distinzione tra modello matematico e modello meccanico generico: c'è infatti, secondo d' Alembert, la fisica generale e sperimentale, che è. propriamente soltanto una raccolta ragionata di esperienze e di osservazioni, e ci sono le discipline fisico-matematiche che deducono da una sola esperienza numerose conseguenze dotate di una certezza assai vicina a quella della geometria. Solo la meccanica e l'ottica che fanno uso del modello matematico sono certe: quando invece si utilizza il modello meccanico generico (tipico è il caso della iatromeccanica citato da d' Alembert) si giunge a conseguire risultati lontani dalla realtà della natura. Si comprendono quindi i motivi del cambiamento che si è avuto nel XVIII secolo nella valutazione generale del meccanicismo. Si condanna come contraria a natura la generalizzazione arbitraria, «metafisica», dei risultati della meccanica, concezione che aveva avuto il suo apogeo nel secolo precedente: la generalizzazione meccanicistica, se mai, viene intesa nel senso contrario, come effettiva riduzione delle altre discipline nell'ambito operativo della meccanica, ed è concezione questa che troverà ampi sviluppi nel XIX secolo. Si può qui osservare, concludendo, che l'uso del concetto di natura se diede buone prove nella ricerca filosofico-scientifica (e non solo in essa) come strumento critico e polemico, era troppo vago, generico, impreciso perché potesse dar luogo ad elaborazioni positive molto efficaci: fu un « modello » fondato essenzialmente su di una esigenza pratica e morale (il ritorno alle origini come metodo di rinnovamento) da cui risultava poco agevole derivare quelle mediazioni concettuali concrete nuove e feconde con le quali sole la ricerca può realmente rinnovarsi e procedere.
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CAPITOLO UNDICESIMO
L'Enciclopedia DI GIANNI MICHELI
I
· CONSIDERAZIONI
PRELIMINARI
L'ideale illuministico di una enciclopedia del sapere che si è analizzato nel capitolo precedente nei suoi presupposti generali, si concretizzò principalmente nella realizzazione di un'opera, l' Encyclopédie, ou dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers (Enciclopedia, o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri), che si può definire la prima grande impresa editoriale moderna. L'opera però non ha valore soltanto come l'espressione pratica della concezione generale del sapere di un'epoca, ma anche e soprattutto per l'aperto significato polemico e critico nei confronti della cultura tradizionale (e particolarmente degli istituti religiosi del tempo) che aveva esplicitamente buona parte del suo contenuto. Questi due aspetti, quello teorico-sistematico e quello critico, sono così intimamente connessi fra di loro che non è possibile, a mio parere, scindere nell'opera tali componenti. Infatti, se l'enciclopedia appare o può apparire essenzialmente come un efficace veicolo di propaganda e di azione politica, lo strumento con il quale gli enciclopedisti condussero la loro battaglia contro il conservatorismo culturale, religioso e politico della società francese del tempo, occorre rilevare che tale azione di propaganda si basava su una concezione generale che, proprio per quel richiamo, implicito ed esplicito, alla natura veniva ad avere un chiaro significato di rottura nei confronti della tradizione, e che l'enciclopedia doveva appunto realizzare in forma concreta e sistematica. L'essere ad un tempo opera teorica e politica è forse l'aspetto più tipico dell'Enciclopedia: è comunque l'elemento che meglio la caratterizza rispetto alle numerose opere analoghe, contemporanee e antecedenti. In effetti i numerosi dizionari ed enciclopedie del tempo avevano un carattere prevalentemente linguistico (New generai english dictionary di T. Dycke e W. Pardon, 1737; il Dictionnaire des arts et des sciences, edito dall'Académie française, r694; il Dictionnaire universel français et latin, detto Dictionnaire de Trévoux, 1704) o specifico (Lexicum technicum or an universal english dictionary of arts and sciences di J. Harris, 1704-ro; Dictionnaire économique di N. Chomel, 1709) o erudito (Grand dictionnaire historique di Moreri, r674; il Dictionnaire historique et critique di P. Bayle, r695-97, anche se in quest'opera, come si è visto nel capito-
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lo n, l'erudizione è permeata di vis polemica e di una prospettiva filosofica generale, si trovano in essa scarse preoccupazioni per una visione teorico-sistemativa delle conoscenze). Le enciclopedie nel senso proprio del termine, cioè come opere teoriche, si rifacevano a moduli tradizionali, artificiosi e scolastici (esempio tipico è l'Enciclopedia di J.H. Alstedius, 163o), oppure non erano nulla più che mere enunciazioni programmatiche (i programmi di Bacone e, in misura molto meno elaborata, quelli di Leibniz sono esempi significativi di questa tendenza). La preoccupazione di creare un'opera che fosse ad un tempo dizionario ed enciclopedia, e quindi dotata di organicità e completezza, ben viva in Diderot e d' Alembert, si riscontra peraltro anche nel Dizionario universale delle arti e delle scienze di Ephrai'm Chambers, opera che si riconnette direttamente all'Enciclopedia, in quanto è noto che la grande impresa editoriale francese all'origine non doveva essere che una traduzione del dizionario inglese. Orbene Chambers, nella prefazione della sua opera che ebbe molta fortuna tanto da essere tradotta in italiano nel 1749, considera l'esigenza di organicità l'elemento caratterizzante e originale del suo lessico rispetto a quelli precedenti, ma nello stesso tempo sottolinea i grandi vantaggi che presenta l'ordinamento del contenuto sotto forma di dizionario; «quella forse,» sostiene lo studioso inglese,« è la sola strada, onde l'intiero circolo o corpo di scienza, con tutte le sue parti e dipendenze, si possa altrui ben porgere. In ogni altra forma, migliaia di cose più minute necessariamente tolgonsi alla vista: tutti i piuoli, le connessure, i legamenti della fabbrica è forza che rimangono invisibili; tutte le minore parti, quali si siano, esser debbono in qualche misura come inghiottite nel tutto ». Nel Prospectus dell'Enciclopedia, in cui Diderot analizza criticamente l'opera di Chambers, riconosce allo studioso inglese il merito di aver posto in rilievo i vantaggi della sistematicità e della concatenazione organica delle conoscenze ma censura la realizzazione dell'opera, sottolineando lo scarto sussistente fra le enunciazioni programmatiche e i risultati conseguiti. Questo difetto di realizzazione è, a giudizio di Diderot, strutturale e non soggettivo, una naturale conseguenza del piano dell'opera troppo angusto, per cui le numerose lacune ed omissioni appaiono ovvie e scontate. Ma se « l'omissione di un articolo rende semplicemente imperfetto un dizionario comune, in una enciclopedia infrange la connessione intera dell'opera, nuoce alla forma e al contenuto». La deficienza nella realizzazione risulta quindi essere ad un tempo deficienza nella teoria. Qui, implicitamente, Diderot mostra la precisa consapevolezza della novità della sua opera, in cui ad un progresso nell'elaborazione teorica corrispondeva un progresso nella realizzazione, concepita non in termini dilettantistici; è noto che l'Enciclopedia è la prima opera del genere in cui le voci siano redatte da specialisti e secondo criteri specialistici, cioè ampie e dotate di una considerevole precisione di linguaggio.
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II· LE VICENDE DELLA PUBBLICAZIONE
L'Enciclopedia nacque dall'iniziativa commerciale di un libraio parigino A.F. Le Breton, il quale aveva accolto la proposta che uno studioso tedesco, G. Sellius, abitante allora a Parigi, gli aveva fatto nel gennaio I745 relativamente alla traduzione francese dell'opera di Chambers. A tal fine si associò con un gentiluomo inglese, J. Milis, con il quale lo stesso Sellius lo aveva messo in contatto. Fu stipulato un contratto per una traduzione ampliata che doveva comprendere quattro volumi di testo e 120 tavole; fu ottenuto il privilegio per la stampa e diffuso il Prospectus dell'opera. L'associazione durò solo qualche mese: sorsero ben presto dei contrasti tra J. Milis e il libraio parigino, che alla fine riuscì a liquidare il socio inglese e anche Sellius, al quale spettava l'onere della traduzione. Vista però la favorevole accoglienza che il progetto aveva avuto presso il pubblico, Le Breton prese l'iniziativa di fondare, per la pubblicazione dell'opera, un sindacato comprendente gli stessi finanziatori, Briasson, Durand e David, con i quali si era associato in precedenza per la traduzione del Dizionario di medicina di R. James, cui aveva collaborato Diderot. La direzione del lavoro venne affidata il 27 giugno 1746 all'abate Gua de Malves, studioso di matematica e di varie altre scienze, mentre d' Alembert e Diderot vennero assunti come collaboratori. I rapporti tra gli editori e il direttore si deteriorarono quasi subito a tal punto che poco più di un anno dopo fu rotto il contratto; Diderot e d'Alembert allora si assunsero l'onere di continuare l'opera, di cui presero la direzione. Non si sa con precisione a chi sia dovuta l'idea di modificare radicalmente il progetto originario dell'opera; probabilmente ciò fu il frutto, da un lato, delle esigenze degli editori invogliati, viste le reazioni favorevoli del pubblico, a sviluppare sempre più l'impresa, e dall'altro, di quelle dei direttori i quali, valutate le manchevolezze delle varie voci tradotte che avevano a disposizione, dovevano essere sempre più spinti ad impegnarsi in un'opera originale. Comunque il cambiamento nel piano e nella elaborazione del lavoro fu progressivo; il passaggio dai cinque volumi primitivi ai ventotto finali avvenne attraverso varie tappe, che costituiscono altrettanti momenti importanti della tormentata e complessa vicenda della pubblicazione dell'Enciclopedia. A partire dal 1747 d'Alembert e Diderot si misero con grande zelo e fervore al lavoro, ma fu soprattutto Diderot, il quale si interessava della parte più ampia e gravosa dell'opera, quella relativa alle arti e ai mestieri, che si assunse le maggiori incombenze, tanto che, arrestato a causa della Lettre sur !es aveugles à l'usage de ceux qui voient nel luglio 1749, la preparazione dell'opera dovette essere sospesa quasi del tutto. Furono pertanto gli stessi librai a rivolgersi al vicecancelliere conte di Argenson e al luogotenente generale di polizia Berryer per sollecitarli a porre in libertà Diderot, ponendo in rilievo la necessità dell'attiva presenza del philosophe per il proseguimento dell'impresa da essi iniziata. Diderot fu liberato il 3 novembre 1749 e si dedicò quindi con il mas281
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simo impegno alla stesura dell'Enciclopedia; nel novembre dell'anno seguente fu distribuito il Prospectus dell'opera, scritto dallo stesso Diderot e si cominciarono a raccogliere le sottoscrizioni che furono numerose. Il successo dell'iniziativa appariva lusinghiero, ma già in occasione del prospetto Diderot ebbe una prima polemica con i gesuiti del « Journal de Trévoux » e particolarmente con il padre Berthier (che doveva in seguito dirigere il periodico ed essere il principale avversario degli enciclopedisti) a proposito del piano dell'opera e dei rapporti di esso con il programma baconiano. Il primo volume apparve il 28 giugno con l'approvazione dei censori, ma suscitò subito delle polemiche. Il più duro attacco, ma anche il più serio, veniva dai gesuiti, e particolarmente ancora dal padre Berthier che pubblicò nel suo periodico, già fin dall'ottobre, numerosi articoli che contenevano un'analisi accuratissima sia del Discours préliminaire che delle varie voci del primo volume; egli si era reso ben conto infatti dell'importanza dell'opera e del pericolo che rappresentava come strumento di diffusione delle nuove idee eversive. Lo strumento di cui si servì per condurre la sua lotta era particolarmente efficace: consisteva in ripetute accuse di plagio che egli per altro provava in modo minuzioso e dettagliato, lasciando intendere chiaramente però che il vero fine della sua battaglia era la difesa della religione e degli istituti su cui essa si basava. Poneva in rilievo come particolarmente pericolosi, tra gli altri, l'articolo Autorité politique e l 'articolo Aius Locutius in cui si rivendicava, almeno per i philosophes, la libertà di espressione e sottolineava inoltre l'irriverenza verso la religione e l'autorità politica che traspariva dal particolare tipo di scelta degli articoli e dal risalto dato agli uni piuttosto che agli altri. Nella critica dell'Enciclopedia si ebbe la singolare convergenza con i gesuiti dei giansenisti; loro intento era palesemente quello di inasprire la polemica contro gli enciclopedisti dei gesuiti, gareggiando con questi ultimi, loro tradizionali avversari, in intransigenza. I gesuiti del resto non si limitarono soltanto ad esercitare una critica violenta e dura, ma cercarono ben presto di esercitare le più forti pressioni sulle autorità perché l'opera fosse soppressa. Furono essi a creare in funzione chiaramente antienciclopedica il caso dell'abate de Prades, un giovane collaboratore dell'Enciclopedia al quale fu contestata l'ortodossia di alcune affermazioni contenute nella sua tesi di teologia, che aveva già presentato e brillantemente discusso alla Sorbona. La condanna di de Prades era in effetti, una condanna contro l'Enciclopedia. Notava un contemporaneo: « I gesuiti sono italiani e macchinano da lontano la loro vendetta. Che si fa contro gli autori di questa grande e utile impresa? Li si accusa di empietà. Di qui questa accusa contro la tesi presentata alla Sorbona da uno di essi, l'abate de Prades, in cui non c'era nulla da ridire ... La gelosia degli altri licenziati ha fatto trovare motivi di critica nel giro di quattro o cinque giorni. Denunciato dai licenziati invidiosi ai gesuiti, questi, che meditavano già una persecuzione contro il libro nemico suscitarono immediatamente a Parigi un gran scalpore contro la 282
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tesi e il suo autore. »Ancora, fu un ecclesiastico molto legato ai gesuiti, F. Boyer, già vescovo di Mirepoix e precettore del delfino, ad intervenire presso il re contro l'Enciclopedia e a far sì che il 7 gennaio I 7 52 fosse emanato il decreto di soppressione dei due primi volumi dell'opera (il secondo volume era apparso proprio pochi giorni prima). Le conseguenze di tale ordine non furono però molto gravi: i volumi sequestrati furono pochi e d'altra parte Diderot e i librai poterono salvare dalla confisca preventiva i manoscritti degli altri volumi perché avvertiti in tempo proprio dallo stesso directeur de la librairie, Malesherbes, favorevole aiphilosophes, che doveva far eseguire l'ordine. Il benevolo appoggio di Malesherbes ebbe un ruolo determinante anche nel rendere possibile la continuazione della pubblicazione dell'Enciclopedia. Assicurò che tre teologi della Sorbona avrebbero rivisto tutta l'opera (un espediente abituale dei primi due volumi era stato quello di inserire le espressioni meno ortodosse dal punto di vista religioso in voci che non avevano nulla a che fare con la teologia) e sostenne inoltre d'Alembert nella sua vittoriosa polemica con il « Journal des Savants » circa il contenuto irreligioso del suo Discours préliminaire, contribuendo a far sì che il matematico desistesse dai suoi propositi di ritirarsi dall'Enciclopedia. Non senza ragione quindi d' Alembert poteva scrivere una Avvertenza al terzo volume pubblicato nel I 7 53 in cui traspare chiaramente la fiducia nell'assenso indiretto delle autorità all'opera anche nell'orgogliosa sicurezza che mostra nella confutazione delle varie critiche che erano state mosse all'opera. In effetti l'Enciclopedia superò bene questa prima crisi e il lavoro proseguì alacremente; i volumi vennero pubblicati al ritmo di uno all'anno; nel novembre I757 apparve il settimo volume. I violenti attacchi da parte degli oppositori non erano però mai cessati; essi ricevettero un rinnovato impulso nel I757 appunto, a seguito dell'attentato di Damiens al re Luigi xv e del conseguente decreto regio che introduceva misure più severe nel controllo della stampa di opposizione. I libelli e gli scritti polemici e satirici contro l' Enciclopedia si moltiplicarono; tra questi divennero famosi i Mémoires sur !es cacouacs in cui gli enciclopedisti (cacouacs) venivano dipinti come degli esseri spregevoli che irretivano chi cadeva nelle loro mani ma che potevano essere facilmente combattuti. Questa ben orchestrata campagna di stampa contro l'Enciclopedia, nonché le polemiche e le proteste suscitate dall'articolo Genève, ebbero come conseguenza immediata il ritiro dall'Enciclopedia di d' Alembert, autore dell'articolo in questione. La decisione di d' Alembert, alla quale per la verità non furono estranei motivi di contrasto economico con gli editori, fu irrevocabile malgrado le insistenze di Diderot e di Voltaire; essa arrecò un danno notevole all'opera, in quanto provocò la defezione di altri collaboratori e fece cadere interamente su Diderot la responsabilità della pubblicazione. La rinuncia di d' Alembert costituì un effettivo indebolimento dell'Enciclopedia e fu più grave in quanto avvenne proprio nel momento in cui si venne maturando la crisi più seria che l' Enciclopedia avesse mai avuto. L'opera fu infatti coinvolta nello scandalo che sorse
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a seguito della pubblicazione del libro di Helvétius De l'esprit; I' Enciclopedia fu condannata insieme allo scritto di Helvétius e ad altre opere da un decreto del Parlamento redatto il 6 febbraio I 7 59; rimasta senza esito una petizione dei librai a Malesherbes, un decreto regio revocò il privilegio accordato nel I746. L'opera fu quindi interrotta, la vendita dei volumi proibita e fu fissato anche il rimborso da rendere ai sottoscrittori. Di fatto però, e sempre per merito di Malesherbes che seppe districarsi assai bene in questa delicata circostanza, l'opera non venne sospesa; fu raggiunto un compromesso nel senso che si diede corso alla stampa delle tavole (1'8 settembre fu concesso un nuovo privilegio concernente appunto le tavole) mentre la pubblicazione dei rimanenti volumi fu solo rimandata (si era ottenuto in pratica un tacito consenso; nel I 766 furono in effetti distribuiti, sia pure con molte difficoltà, gli altri dieci volumi di testo). La pubblicazione degli undici volumi di tavole fu relativamente sollecita; dati i problemi enormemente complessi che essa implicava, si protrasse per dieci anni, dal I76z al I77Z e diede luogo anch'essa ad una lunga polemica, sebbene solo di carattere letterario. Si trattava di un'accusa di plagio, avanzata da più parti, nei confronti delle tavole relative alle arti e ai mestieri (le più numerose dell'Enciclopedia) in corso di elaborazione sotto la guida di Réaumur da parte dell' Académie des sciences. La denuncia, raccolta nell'« Année littéraire » da E. Fréron, irriducibile avversario dell'Enciclopedia, partiva dall 'incisore Patte e venne poi ribadita dallo stesso Réaumur. Diderot sconfessò a più riprese il plagio ed anche una commissione dell' Académie des sciences incaricata di appurare la cosa, si pronunciò in modo negativo, redigendo un attestato in tal senso che venne stampato nei volumi delle tavole dell'Enciclopedia. È certo comunque che l'accusa non era infondata: una parte (anche se non rilevante) delle incisioni deil'Enciclopedia furono composte utilizzando, in misura maggiore o minore, le tavole di Réaumur, ed è molto probabile che anche considerazioni esterne (il fatto che d'Alembert ed altri membri dell'Académie avessero collaborato all'Enciclopedia, nonché il desiderio di non interrompere ancora una volta le pubblicazioni dell'opera) abbiano avuto un certo peso nel giudizio liberatorio della commissione dell'Accademia. L'Enciclopedia poté quindi esse completata; nel I 76 3 si era dimesso Malesherbes, ma il nuovo directeur de la librairie, Sartine, amico di Diderot, continuò la politica del predecessore, e non vi furono quindi ulteriori eccessivi intralci nella pubblicazione. III· COLLABORATORI
E
LETTORI
Alcuni studiosi hanno tentato di «situare» in modo preciso l'Enciclopedia all'interno della società francese considerando la provenienza sociale sia dei collaboratori che dei lettori; i risultati conseguiti sono di un qualche interesse e vale
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la pena di ricordarne gli elementi essenziali. La cosa più rilevante di siffatte ricerche analitiche è di aver determinato nei particolari un'asserzione abbastanza scontata nei suoi termini generali, cioè l'estrazione borghese dei collaboratori dell' Enciclopedia. Jacques Proust che ha svolto egli stesso studi in questa direzione e che ha esaminato da vicino tutta questa questione nel suo ampio studio su Diderot è giunto alla conclusione, abbastanza persuasiva, che gli enciclopedisti derivavano da una frazione limitata della borghesia. Erano principalmente rappresentanti della media e piccola borghesia: medici, tecnici, funzionari, insegnanti, ecc.; nobili, parlamentari ed ecclesiastici parteciparono all'impresa solo in quanto potevano, in qualche modo, essere assimilati alla borghesia. Questi collaboratori si trovavano per lo più integrati entro le strutture feudali della società francese del tempo, soprattutto perché le loro fonti di reddito (principalmente di origine fondiaria o derivanti da cariche pubbliche) erano tradizionali; però spesso svolgevano funzioni tecniche ed economiche che li portavano in direzioni nuove e ciò li caratterizzava come membri di quella frazione dinamica e progressiva della borghesia che determinerà l'affermarsi del capitalismo industriale. Si trattava comunque di una volontà di rinnovamento inficiata dal moderatismo, cosa che del resto, non sfuggirà agli stessi contemporanei. Significativo è da questo punto di vista lo sferzal)te giudizio di Robespierre nei confronti dell'Enciclopedia citato dallo studioso francese J. Dautry e che qui riportiamo: « L'Enciclopedia racchiudeva alcuni uomini degni di stima e un gran numero di ciarlatani ambiziosi. Parecchi suoi capi erano divenuti dei personaggi considerevoli nello stato: chi ignorasse la sua influenza e la sua politica non avrebbe una idea completa della prefazione della nostra rivoluzione. Questa setta, in materia di politica, restò sempre al di sotto dei diritti del popolo; in materia di morale andò molto al di là della distruzione dei pregiudizi religiosi. I suoi corifei declamavano talvolta contro il despotismo ed erano pensionati dai despoti, facevano ora dei libri contro la corte, ora delle dediche ai re, dei discorsi per i cortigiani e dei madrigali per le cortigiane; erano fieri nei loro scritti e striscianti nelle anticamere... Si è notato che parecchi di loro avevano legami intimi con la casa di Orléans, e la costituzione inglese era secondo essi il capolavoro della politica e il massimo di felicità sociale. » La censura dei giacobini è rivolta essenzialmente contro il carattere non popolare dell'Enciclopedia; la scarsa fiducia e considerazione che gli enciclopedisti avevano per il popolo, è cosa del resto nota. Così, se la descrizione delle attività manifatturiere ed artigiane occupa gran parte dell'Enciclopedia e se molti operai hanno collaborato, in modo diretto o indiretto, alla stesura degli articoli e delle tavole, non deve meravigliare che la maggior parte degli operai e degli artigiani non venga nominata. «Insomma, i giacobini hanno concepito dall'alto in basso, in direzione del popolo minuto, un compromesso sociale che gli enciclopedisti e i costituenti come Barnave e Mounier non concepivano che verso l'alto tra la borghesia attiva e l'aristocrazia» (Proust). Gli ideali dell'Enciclopedia ispirarono pertanto
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quelle forze politiche, i girondini prima e i termidoriani poi, che esprimevano il moderatismo borghese al tempo della rivoluzione; i grandi istituti scolastici della Francia rivoluzionaria e postrivoluzionaria, come si vedrà nel capitolo xvi, costituivano, a giudizio degli stessi contemporanei, una realizzazione condotta secondo lo spirito e la mentalità dell'Enciclopedia. Lo strato sociale a cui appartenevano i collaboratori dell'Enciclopedia è anche quello stesso da cui proveniva buona parte dei lettori dell'opera, che furono moltissimi (i sottoscrittori furono infatti più di quattromila). Tale asserzione trova conferma anche dall'indagine di D. Mornet volta ad accertare la presenza dell'Enciclopedia nelle biblioteche private francesi e dall'esame (fatto da Proust) della lista dei sottoscrittori che aderirono al processo intentato contro i librai da Luneau de Boisjermain che aveva per scopo di ottenere il rimborso di somme, a loro giudizio, illegittimamente pagate. Si tratta pertanto, ed è questo il dato più interessante che emerge da questi studi, di una frazione della borghesia legata, direttamente o indirettamente e sotto diversi aspetti, alle strutture del potere tradizionale: ciò spiega abbastanza il moderatismo degli enciclopedisti in generale e l'equivoca posizione personale di alcuni suoi membri, di d' Alembert in particolare che nutrì una eccessiva fiducia nell'autorità regia e coltivò a lungo l'illusione che il rinnovamento culturale che prospettava potesse essere non solo tollerato, ma addirittura appoggiato e favorito dal potere statale. IV · IL
CONTENUTO
DELL'ENCICLOPEDIA
Il moderatismo e, in genere, l'equivoco atteggiamento politico degli enciclopedisti ha il suo esatto corrispettivo teorico nella incapacità che essi mostrarono nel creare strumenti concettuali generali atti a rinnovare positivamente la cultura tradizionale come era nelle loro intenzioni. Il contenuto effettivo dell' Enciclopedia fa risaltare in modo macroscopico le deficienze della nozione teorica di enciclopedia del sapere, quale fu concepita da Diderot e da d' Alembert, particolarmente l'insufficienza dell'astratto concetto di natura come elemento di mediazione tra le opposte esigenze della sistematicità e della concretezza. L'opera risulta quindi essere, nel suo complesso, un amalgama eclettico che non risponde agli intendimenti programmatici appunto perché l'assunto teorico non è in grado di caratterizzare e di situare i vari elementi del tutto. Le deficienze sono pertanto obiettive e non si spiegano con le difficoltà di ogni sorta che gli enciclopedisti dovettero superare per pubblicare la loro opera: sono la conseguenza diretta di un compromesso con la cultura tradizionale, forse necessario, ma comunque altrettanto obiettivo. Con tutto ciò non si vuole affatto sminuire il valore dell'Enciclopedia: lo stesso grande rilievo che si è dato in questa Storia all'analisi di tale opera testimonia del contrario. Esso ha avuto per scopo di cercare di ricondurre la sua ec2.86
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cezionale importanza in un ambito ben determinato e di modificare il giudizio abbastanza corrente che fa dell' Enciclopulia un'opera aperta a tutte le sollecitazioni della ricerca e in cui traspare « lo spirito di dialogo », e per ciò essa « può ancora insegnare qualcosa ad un lettore del secolo xx» (Proust). In verità, a nostro parere, l'Enciclopedia si caratterizza essenzialmente per la sua funzione sociale. Come ha ben detto F. Venturi, essa è un capolavoro pratico. «Per l'attrazione che esercitò sulle forze più vive della Francia di allora, per l'equilibrio che ha saputo dare a forme di cultura varie e complesse, per il fine comune verso cui ha saputo dirigerle, l'Enciclopedia è una grande opera politica e sociale. » Del resto, come si è visto, l'opera ebbe origini pratiche (non doveva essere nulla più di una modesta impresa commerciale) e ciò fu, a giudizio dello stesso Diderot, uno degli elementi essenziali per la sua realizzazione. Egli, infatti, rileva a ragione che se si fosse dato ai collaboratori l'incarico di redigere ex novo le voci, essi si sarebbero spaventati per la complessità e l'impegno che esso avrebbe richiesto e l'Enciclopedia non si sarebbe fatta. Il semplice lavoro di revisione e arrangiamento di articoli già stesi, sembrava invece un compito più facile, per i collaboratori, anche se poi erano costretti, per le insufficienze e le lacune che presentava, a non servirsi affatto del materiale iniziale. A poco a poco, con l'aumentare della mole e dell'impegno, l'opera si venne delineando come un amalgama di idee correnti e di dati ormai acquisiti, sufficientemente ampio e analitico: come tale, fu un efficacissimo strumento di diffusione sociale della cultura. In questa prospettiva fu di grande giovamento anche l'apparato teorico elaborato da Diderot e da d' Alembert, pur nella sua imperfetta correlazione con la realizzazione effettiva dell'opera. Infatti, l'assetto programmatico, ambizioso e organico, rese necessaria da un lato una stesura ampia, analitica e non dilettantesca delle singole voci (ponendo con ciò le basi per un'opera di divulgazione di alto livello) e dall'altro l'integrazione dell'esposizione alfabetica con una serie di rinvii che resero articolata la trattazione e fornirono inoltre un efficace strumento politico (gli argomenti più scabrosi erano trattati spesso come si è già accennato, in voci apparentemente innocue a cui si arrivava appunto per mezzo di rinvii); tutti questi fatti contribuirono a fare dell'Enciclopedia quel «capolavoro pratico» di cui si è detto, caratterizzato dall'equilibrio tra idee diverse ed eterogenee e dal compromesso tra innovazione e tradizione, cioè da quegli elementi che determinano il successo di una iniziativa pratica. Non può stupire pertanto la larga utilizzazione di materiali preesistenti effettuata dagli enciclopedisti per la stesura degli articoli (l'accusa più ricorrente, ed anche la più veritiera contro l'Enciclopedia è il plagio) né l'arrendevolezza mostrata da Diderot in alcune questioni di fondo (nella voce Autorità politica, per esempio, la nozione di potere politico viene fondata su principi tanto tradizionali da suscitare la giustificata reazione di alcuni amici del filosofo). Una analisi anche sommaria della trattazione delle più importanti discipline chiarirà e confermerà tale assunto.
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Per quanto riguarda le materie più scabrose, la teologia soprattutto, il compromesso fu abbastanza evidente. La collaborazione fu piuttosto difficile e travagliata per diversi e ovvi motivi; fu affidata a dei religiosi come Mallet, Yvon, de Prades, Pestre, Morellet, i quali cercarono in varia misura, ma con non molto successo, di conciliare esigenze e prospettive di rinnovamento con il più scrupoloso rispetto dell'ortodossia: i risultati non furono particolarmente vistosi e l'allarme suscitato dall'affare de Prades non fu causato, come si è visto, da motivi intrinsechi. Più intelligente, articolata e fatta in vista di una prospettiva precisa fu la « conciliazione » effettuata nelle discipline filosofiche e affini, opera principalmente di Diderot. Sulla scorta di una guida sicura, la Historia critica phil?sophiae di Brucker, una delle prime esposizioni critiche dello sviluppo del pensiero filosofico, egli accentuò i motivi antireligiosi, cercando nel contempo di dar risalto a quegli elementi che potessero risultare idonei alla diffusione della sua dottrina materialistica, la quale appunto per i suoi caratteri di vaghezza, indeterminazione e non molto rigore, si prestava bene per una siffatta operazione polemico-divulgativa. Uno degli aspetti meno appariscenti, ma certamente più positivi dell'Enciclopedia fu la divulgazione dei principi della critica storica, che ormai erano accolti dalla maggior parte degli studiosi. Non solo la trattazione delle materie storiche viene effettuata sulla base di essi, ma si ha anche un'esposizione generale dei criteri che devono guidare lo storico nella sua ricerca, dando grande rilievo all'importanza dello studio critico delle fonti, alloro ampliamento, allo scrupolo e alla cautela che occorre dimostrare nell'accertamento di fatti e dottrine, alla necessità di espungere ogni elemento estrinseco nell'esame del documento. Caratteri ancor più accentuati di eclettismo e di compenetrazione di esigenze e di prospettive diverse si hanno nella trattazione della politica e dell'economia (si hanno articoli di Quesnay, di d'Holbach, di Rousseau, ecc.), in cui traspare evidente una linea moderatamente riformista e conciliante, almeno come tendenza generale di fondo. Un discorso più ampio e circostanziato merita l'analisi della parte più originale dell'Enciclopedia (se non altro per l'ampiezza rispetto alle opere simili antecedenti) che ci interessa più da vicino in questo contesto, cioè quella relativa alle scienze e alle tecniche. Anche qui si può affermare che manca una prospettiva realmente innovatrice (nel senso specifico e tecnico del termine) e che per lo più si ha una esposizione, neanche sempre molto diligente o aggiornata, di dati e asserzioni ormai acquisiti. La parte di gran lunga migliore è senz'altro quella relativa alla matematica e alla fisica matematica redatta quasi esclusivamente da d' Alembert. Per quanto concerne la matematica, la trattazione è semplice, chiara e pienamente adeguata allo stato delle conoscenze del tempo; nuoce tuttavia, come ha ben rilevato René Taton, il preconcetto che d' Alembert ha verso Euler dovuto a una reazione istintiva contro i principi di sistematizzazione dell'opera di Euler. Di notevole rilievo sono anche gli articoli relativi alla meccaz88
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nica, in cui d' Alembert riproduce gli elementi essenziali della sistemazione che aveva fatto di tale disciplina nelle sue opere specifiche; risalta particolarmente la sua preoccupazione antimetafisica e il suo desiderio di unificazione e semplificazione dei principi della meccanica. Di buon livello sono anche gli articoli di ottica, mentre non molto significativi sono quello sui fenomeni calorici, magnetici ed elettrici: carente è inoltre l'astronomia e soprattutto la chimica, la cui trattazione è opera (per lo più di Vene!) incoerente e non aggiornata; non molto omogenee sono anche le voci di fisiologia e di medicina, affidate a diversi autori, tra cui T. de Bordeu (contiene comunque anche l'articolo lnoculation opera di T. Tronchin), e quelle di biologia scritte da Diderot, dai fratelli Daubenton, da de Jaucourt in cui accanto alla volgarizzazione delle teorie di Buffon, riescono a trasparire le idee personali di Diderot. Ma la parte più interessante è quella relativa alle arti, la più ampia e la più ambiziosa di tutta l'opera, ed anche la più nota. L'eccezionale rilievo dato in un'opera di cultura generale alla trattazione delle arti e dei mestieri viene infatti considerato come uno dei motivi più originali e moderni dell'Enciclopedia, indice della piena consapevolezza del superamento della separazione tra le arti liberali e meccaniche e della acquisizione di una prospettiva filosofica « pratica », rivolta essenzialmente alla trasformazione della realtà. Gli stessi enciclopedisti, del resto, hanno spesso posto in risalto l'importanza della loro opera in questo campo situandola nel solco della grande tradizione che risaliva a Bacone e che auspicava una stretta unione della teoria con la pratica da realizzarsi proprio nelle arti, considerate lo strumento per un radicale rinnovamento. Diderot pertanto perseguì l'idea, sviluppata nell'articolo Arte, di costruire un trattato generale delle arti meccaniche che raccogliesse l'ideale baconiano e lo traducesse in realtà. Per la soluzione dei molteplici problemi che lo sviluppo delle arti meccaniche poneva, Diderot insiste particolarmente sulla necessità della combinazione tra geometria teorica e geometria pratica o sperimentale e della creazione di una unificazione linguistica reale dei termini usati nelle varie arti spesso diversi fra di loro e non correlati: ma soprattutto ripropone continuamente un'operazione di rivalutazione culturale primaria ed essenziale, cioè il definitivo riscatto delle arti meccaniche dall'avvilimento in cui erano state a lungo mantenute. Diderot cercò di realizzare il suo intento nel modo più proprio, cioè sulla base di informazioni dirette apprese nelle botteghe degli artigiani. «Ci siamo rivolti», egli afferma nel Prospectus, «ai più abili artigiani di Parigi e del regno. Ci siamo presi la pena di andare nei loro opifici, interrogarli, scrivere sotto loro dettatura, sviluppare i loro pensieri, trovare termini adatti ai loro mestieri, tracciare le relative tavole e definirle, parlare con coloro dai quali avevamo ottenuto memorie scritte, e (precauzione quasi indispensabile) rettificare in lunghi e ripetuti colloqui con alcuni, ciò che altri avevano spiegato insufficientemente, oscuramente, talvolta non fedelmente. » L'immagine di Diderot intento ad osservare nei laboratori artigiani è
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forse quella che meglio riassume l'attività stessa di tutta l'Enciclopedia e spesso ha avuto un carattere emblematico. Studi recenti hanno però giustamente ridimensionato il significato dell'opera di Diderot e d' Alembert in questo campo. È cosa del tutto evidente, anzitutto, che la preoccupazione di inserire l'attività degli artigiani in un'ampia prospettiva culturale non era altro che l'accoglimento di un atteggiamento ormai definitivamente acquisito dalla grande cultura razionalistica del Seicento. Si può dire, anzi, che la concezione della tecnica che gli enciclopedisti divulgano è più vicina a quella rinascimentale che non a quella dell'età del meccanicismo e si traduce in un programma che è baconiano nel senso letterale del termine, condizionato cioè dalla preoccupazione enumerati~a e descrittiva. I vari mestieri sono posti tutti sullo stesso piano e sono visti più con lo sguardo e la curiosità dell'amateur inteso ad una raffinata elencazione antiquaria, che non con la piena consapevolezza del valore scientifico e culturale delle tecniche. Non a caso B. Gille, autore del migliore studio sull'Enciclopedia come dizionario tecnico, ha potuto scrivere che «il programma redatto dai direttori dell'Enciclopedia costituiva una eccellente ricerca folcloristica». «Di più, rifiutando deliberatamente - o per lo meno annunciavano che avevano agito così -la letteratura tecnica a stampa, i nostri ricercatori andavano sul posto a studiare i vari mestieri (il maestro di Gargantua aveva fatto così alcuni secoli prima). Non si poteva dunque ottenere che una condizione statica delle tecniche. » In fondo gli enciclopedisti non avevano tratto alcun profitto dalla lezione di Descartes e dei meccanicisti secenteschi che avevano una visione selettiva delle tecniche incentrata sulla macchina; lo studio delle componenti teoriche delle macchine, la cui generalizzazione concettuale aveva costituito il fulcro delle concezioni secentesche, non subisce apprezzabili sviluppi da parte degli enciclopedisti. Come osserva ancora Gille, se nell'opera viene dato adeguato rilievo alla macchina per tessere le calze, primo esempio di automatismo in materia di tecnica, sono in verità « i mestieri tradizionali poco meccanizzati, quelli degli artigiani, che sembravano costituire per Diderot la vera tecnica: essi sono descritti in modo eccellente, come quello del conciatore di pelli per esempio, per cui Diderot rivolgeva a se stesso dei complimenti ». Un'ulteriore riprova della concezione antiquata che hanno delle tecniche gli enciclopedisti (ma si potrebbero dare ancora altri esempi) è data dalla scarsa considerazione che hanno per la macchina a vapore. Si è già visto nel capitolo VIII che essa costituiva un'invenzione rivoluzionaria, sia dal punto di vista teorico che tecnico, che avrebbe cambiato radicalmente di lì a pochi decenni lo stato delle tecniche in generale e della società: orbene nell'Enciclopedia si ha solo, in appendice alla voce Feu, una descrizione minuta, ma per niente significativa, della macchina di Bois di Bossu. Nella sostanza quindi il lungo lavoro di Diderot non appare molto diverso per l'impostazione generale dai numerosi trattati tecnici anteriori, di cui la monumentale impresa dell' Académie cles sciences era l'ultimo e grandioso esempio; ad essa lavorò intensamente Réaumur, con il quale, si
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è visto, ebbe una polemica a causa dell'accusa non del tutto immotivitata di plagio. L'inestimabile pregio e importanza dell'opera di Diderot in questa direzione non deve però ricercarsi, ancora una volta, nell'originalità dei presupposti teorici e nell'indicazione di svolte culturali decisive, bensì nel fatto che per la prima volta, superando i vincoli corporativi che tendevano a non divulgare eccessivamente i procedimenti tecnici di fabbricazione, una descrizione scrupolosa e dettagliata delle arti e dei mestieri viene programmaticamente ed effettivamente messa alla portata del gran pubblico: la consapevolezza del rilievo culturale delle tecniche, divenendo di fatto, con l'Enciclopedia, una acquisizione sociale, acquistò una dimensione del tutto nuova. V · IL SUCCESSO COMMERCIALE
Il grande successo che gli enciclopedisti riuscirono a conseguire con la loro opera di sintesi e di divulgazione è forse il maggior pregio dell'Enciclopedia, certamente l'elemento che più ne sottolinea la modernità. Infatti, per il numero di copie vendute eccezionale per l'epoca, per l'immensa risonanza che ebbe, l'Enciclopedia fu l'antesignana delle grandi opere collettive del XIX e del xx secolo e senza dubbio quella di maggior peso culturale. La storia dell'opera da un punto di vista strettamente commerciale ha quindi un suo particolare interesse; studi recenti, tra cui notevoli quelli di Proust di cui qui riassumiamo i risultati, hanno attirato l'attenzione sui numerosi documenti in questo campo ancora reperibili, sì che è ora possibile avere un quadro abbastanza analitico delle varie vicende economiche della pubblicazione dell'Enciclopedia. Il capitale iniziale messo a disposizione da Le Breton dapprima e dagli altri tre librai associatisi in seguito, era abbastanza modesto in relazione ai modesti fini che si voleva perseguire con la pubblicazione dell'opera; al tempo della rottura del contratto con Gua de Malves, tuttavia, erano già state spese più di 36.ooo lire. L'incarico dato dagli editori a Diderot si spiega, anche ed essenzialmente, con il fatto che il philosophe, data la sua precedente esperienza editoriale, dava garanzie reali per il concreto compimento dell'opera. Così se all'inizio del 1750 le spese avevano superato le 6o.ooo lire, nell'ottobre dello stesso anno era già distribuito il Prospectus e venivano aperte le sottoscrizioni per un'opera in dieci volumi al prezzo complessivo di lire 28o. Il successo dell'iniziativa apparve subito lusinghiero e lo fu sempre più: i sottoscrittori aumentarono progressivamente e la tiratura dei volumi successivi al primo venne continuamente aumentata fino ai 4200 esemplari del quarto volume (il numero dei precedenti volumi venne adeguato con ristampe); con l'uscita del settimo volume (novembre 1757) la quasi totalità dei volumi era assorbita dalle sottoscrizioni (circa 4ooo). Le spese alla fine del 1754 avevano raggiunto le 28o.ooo circa, ma gli incassi avevano già superato il mezzo milione di lire e alla fine del 1757 questi ultimi avevano quasi raggiunto il milione di lire. La so-
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spensione della pubblicazione nel 1759, il cui decreto prevedeva anche un indennizzo di 72 lire per ciascun sottoscrittore, determinò un'ulteriore espansione commerciale e finanziaria dell'opera; il rimborso di lire 72 ai sottoscrittori dei volumi di testo venne scontato dalle nuove sottoscrizioni per le tavole che vennero aperte al prezzo di lire 360. Le spese in questa fase dell'opera aumentarono enormemente data l'ampiezza e la natura della nuova pubblicazione (erano di circa 49o.ooo lire nel gennaio 1762 e alla fine del 1767 avevano raggiunto, secondo il registro di uno dei librai, Briasson, la cifra di 1.039.642 lire, 7 soldi, 3 denari) ma gli incassi erano aumentati in una proporzione ancora maggiore; secondo i calcoli fatti da Luneau de Boisjermain (fatti per sostenere la sua causa nel processo già ricordato) dovevano aver superato i 3·5oo.ooo di lire (tale dato è abbastanza attendibile nel complesso). I profitti dell'impresa furono quindi certamente superiori ai 2 milioni di lire. Non appare del tutto sproporzionato pertanto questo famoso e significativo giudizio di Voltaire: «Di quest'opera si tirarono 42 5o esemplari di cui non ne rimane neppure uno dai librai. Quelli che si possono trovare per un caso fortunato si vendono oggi a 18oo franchi; così tutta l'opera avrebbe potuto operare una circolazione di 7.65o.ooo lire. Quelli che non considerano che i vantaggi commerciali, vedranno che quelli derivanti dalle due Indie non vi si sono avvicinati. I librai vi hanno guadagnato all'incirca il 5oo%, cosa che non è mai accaduta da quasi due secoli in nessun commercio. Se si considera l'economia politica, si vedrà che più di mille operai, da quelli che cercano le materie prime della carta fino a quelli che si sono incaricati delle più belle incisioni, sono stati impiegati e hanno nutrito le loro famiglie. » Come testimonianza del fatto che già in questo periodo era abbastanza normale lo sfruttamento del lavoro intellettuale, si può osservare che il totale dei proventi che Diderot riuscì a ricavare nei venticinque anni di collaborazione ali' Enciclopedia si aggira all'incirca sulle 8o.ooo lire, che gli furono date in vari modi dai librai. I compensi pagati a Didero t erano inoltre eccezionali: la collaborazione degli altri autori venne pagata molto meno. VI · GLI
SVILUPPI
La pubblicazione dell'ultimo volume dell'Enciclopedia avvenne nel 1772. L'opera aveva avuto un successo strepitoso, ma presentava anche difetti evidenti a chiunque. Il critico più severo fu del resto lo stesso Diderot il quale, secondo un suo giudizio riportato in una memoria presentata dai librai al cancelliere in vista di una nuova edizione, affermò che l'Enciclopedia era un abisso in cui erano gettate alla rinfusa « un'infinità di cose mal viste, mal digerite, buone, cattive, detestabili, vere, false, incerte e sempre incoerenti e disparate » e osservò che quasi tutte le sezioni dovevano essere rimaneggiate e rifatte. Gli ulteriori sviluppi dell'Enciclopedia sono quindi determinati dalla duplice esigenza, di continuare
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da un lato lo sfruttamento commerciale dell'opera, e dall'altro di eliminare le deficienze più vistose sia del testo che delle tavole. Il libraio Panckoucke già dal 1768 si era interessato presso i librai associati per una seconda edizione dell'opera che però non fu iniziata per le sfavorevoli accoglienze che ebbe il Prospectus. Stampò invece il supplemento (due volumi furono pubblicati nel luglio I776, due altri nel I 777 con un volume di tavole e poi due altri volumi contenenti la tavola analitica e ragionata degli argomenti) che presentava l'aggiornamento, la correzione, la revisione e l'ampliamento delle varie voci: oltre ai vecchi collaboratori scrissero per il supplemento anche altri studiosi, tra cui Condorcet (per la matematica), Lalande (per l'astronomia), J. Bernoulli (autore di alcuni articoli tra cui lnstrument balistique e Tables astronomiques), Adanson (per la storia naturale), Guyton de Morveau (per la chimica). Furono questi alcuni dei più noti collaboratori della Encyclopédie méthodique ou par ordre de matières, opera monumentale in I66 volumi, pubblicata tra il I782 e il I 8 32, che costituisce la prosecuzione più naturale ed immediata dell' Enciclopedia, e un serio sviluppo di essa. Fu lo stesso Panckoucke che si assunse l'onere della pubblicazione sfruttando il materiale dell'opera precedente e del supplemento; la stampa iniziò sotto favorevoli auspici ma si protrasse poi a lungo in mezzo a difficoltà di ogni sorta. Il richiamo diretto all'opera di Diderot e d'Alembert è programmatico: l'Enciclopedia metodica infatti, più che una cosa nuova, voleva essere una trasformazione in senso più funzionale della vecchia Enciclopedia, della quale voleva correggere gli errori, aggiungere tutti gli articoli mancanti, completare la nomenclatura di tutte le parti, operare una corrispondenza rigorosa tra il testo e le tavole, ridurre il numero delle tavole sopprimendone alcune e aggiungendone altre, ed inoltre e particolarmente, modificare il piano espositivo dell'opera. Quest'ultima è la novità più sostanziale: creando un'opera composta di diversi trattati, ognuno dei quali esponeva in ordine alfabetico i principali elementi di una particolare disciplina, si credeva di poter ovviare al principale difetto della vecchia Enciclopedia, la confusione degli oggetti, risultante dal voler « rinchiudere tutte le conoscenze umane in un solo dizionario ». Risulta nel complesso un'opera ancor più grandiosa, sia per la concezione che per la realizzazione, di quella precedente che era sorta, come si è visto, con ambizioni modeste, ed è grande merito di Panckoucke di averla portata, contro ogni difficoltà, ad uno stadio di realizzazione molto avanzato. Fu certamente un'impresa culturale di grande portata, superiore per molti aspetti particolari all'opera da cui derivava, ma ovviamente risentì non solo della mancanza di un'impronta unitaria e di quella passione e di quell'entusiasmo che Diderot e d' Alembert seppero profondere nella loro opera, ma anche e soprattutto di quella caratterizzazione che l'Enciclopedia venne a mano a mano assumendo, particolarmente per merito di Diderot, come punto di riferimento culturale di tutta un'epoca e come strumento di direzione politica efficacissimo. Diderot non partecipò
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all'iniziativa di Panckoucke. Certo il philosophe nutrì l'intenzione di dedicarsi alla stesura della nuova edizione dell'Enciclopedia sotto gli auspici dell'imperatrice Caterina n cui egli aveva sottoposto il progetto; la cosa lo aveva entusiasmato avendo intravisto la possibilità di rifare l'opera conformandola al piano sul quale era stata progettata e di vendicarsi di tutti gli ostacoli e tutte le difficoltà che aveva dovuto superare. Il progetto di Diderot però non potè realizzarsi e così il diretto proseguimento dell'Enciclopedia si realizzò senza il fattivo interessamento del vecchio Diderot e ancora sotto il pesante condizionamento di esigenze puramente commerciali. L'intento commerciale di acquisire un mercato più vasto si rivela nella concezione stessa dell'Enciclopedia metodica che intendeva essere, racchiudendo in sé i vantaggi del dizionario e del trattato, opera di consultazione e di studio ad un tempo; però l'ambizione di creare un sistema completo delle conoscenze umane mediante l'unione articolata delle singole sezioni si rivelò illusoria. Secondo il Prospectus, infatti, doveva esserci all'inizio di ogni dizionario un discorso preliminare e una tavola analitica per indicare l'ordine in cui si dovevano leggere tutte le parole, in modo che ogni sezione poteva essere considerata come un trattato ed essere collegata con le altre; orbene le tavole analitiche spesso mancano e i discorsi preliminari sono molto diversi fra di loro, sia per l'ampiezza dell'esposizione sia per il modo in cui essa si svolge e del tutto eterogenei, sì che il legame fra le varie sezioni risulta essere un mero presupposto. Le sezioni in cui si divide l'opera sono 26; il numero dei volumi di ciascuna serie è variabile e le voci (quelle della vecchia Enciclopedia sono indicate) sono poco numerose ma molto ampie e analitiche (alcuni articoli sono dei veri e propri trattati a se stanti). Per quanto concerne il contenuto, e relativamente alle sezioni che ci interessano, un notevole interesse riveste la trattazione delle materie filosofiche innanzi tutto perché la parte più propriamente storica è divisa da quella sistematica comprendente la metafisica, la logica e la morale, e poi perché la parte storica è opera di Naigeon, l'allievo e più diretto continuatore dell'opera di Diderot; vi viene trattata molto estesamente la filosofia antica e moderna (c'è un lungo articolo su Diderot stesso e su d' Alembert) e vengono da un lato accentuati gli aspetti più propriamente materialistici mentre dall'altro Naigeon manifesta una più sottolineata autonomia rispetto a Brucker, fonte primaria di Diderot; l'opera di Naigeon, che, come è noto, fu l'editore degli scritti del maestro, ha inoltre un certo rilievo come fonte per l'identificazione e l'autenticità del testo delle voci diderotiane della prima Enciclopedia. Le sezioni scientifiche sono quasi tutte valide e originali per diversi aspetti: si può dire che, nel complesso, la parte relativa alla scienza e alla tecnica è stata quella più curata di tutta l'Enciclopedia metodica. La sezione di matematica, curata dall'abate Bossut, autore di un ampio excursus storico su tale disciplina posto all'inizio del trattato, consta prevalentemente delle voci già redatte da d' Alembert e delle integrazioni apportate da Con294
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dorcet per il supplemento; la sezione di astronomia, non molto sviluppata nella vecchia Enciclopedia, è invece completamente rinnovata da parte di un astronomo di grande rilievo, Lalande, il quale diede un quadro esauriente anche per quanto riguarda lo sviluppo storico fino alle più recenti scoperte; la fisica è trattata da un grande scienziato, Monge, e da altri collaboratori e contiene numerose e talora sostanziali modificazioni rispetto al modello originario: l 'impostazione generale non sembra però mutata, mentre è ampliata e più curata la parte storica. Le scienze mediche sono raggruppate in tre trattati distinti dedicati uno alla chirurgia, uno alla medicina propriamente detta e l'altro alle discipline mediche di base, l'anatomia e la fisiologia. Il primo è curato da Louis e gli altri due da Vicq d' Azyr, uno dei medici più noti del tempo, il quale si preoccupò di ampliare la trattazione della vecchia Enciclopedia e del supplemento, dando rilievo a branche come l'anatomia comparata e la chimica animale del tutto trascurate nell'opera precedente. La parte relativa alla zoologia, affidata precipuamente a Daubenton, è redatta secondo le idee generali di Buffon, di cui viene accolta la nomenclatura; viene inoltre riprodotto nella trattazione molto del materiale della sua monumentale opera. Ancor più sostanziali rimaneggiamenti vennero introdotti nella sezione di botanica, il cui autore, Lamarck, si propose di colmare le enormi lacune che presentava questa disciplina nell'opera diderotiana relativamente soprattutto alla parte descrittiva e alla nomenclatura. «Manca in essa,» si dice espressamente nel prospetto, « più della metà dei vegetali, anche tra i più conosciuti. I diversi articoli sono posti per lo più sotto nomi stranieri, che i botanici non hanno potuto adottare e che ne rendono la ricerca impossibile. Per mancanza di un'intesa, vi sono numerosi impieghi doppi dei nomi. Una pianta conosciuta spesso è designata col suo nome barbaro. » Ma è soprattutto la sezione di chimica, « senza alcun dubbio, » si afferma nel prospetto, «la parte più imperfetta di tutta la vecchia Enciclopedia » che ha subito i più radicali rinnovamenti: le deficienze che vi si riscontravano erano però obiettive, riflesso dello stato di confusione in cui versava tale disciplina proprio pochi decenni prima che si affermassero i principi della chimica moderna. Di questi cambiamenti i redattori della Enciclopedia metodica erano ben consci; Guyton de Morveau, autore del primo volume, costituito quasi esclusivamente dalle voci Acido e Ajjinità, espose idee analoghe, in qualche misura, a quelle di Lavoisier, e Fourcroy, autore principale degli altri volumi, è un deciso seguace delle teorie di Lavoisier. Si può pertanto dire che nel complesso, la trattazione abbia accolto pienamente il senso che gli ultimi sviluppi di tale disciplina avevano avuto, e abbia un'impronta chiaramente moderna. Un discorso solo in apparenza analogo si può fare anche per la parte dedicata alla tecnica: le novità che l'Enciclopodia metodica introduce rispetto alla vecchia Enciclopedia sono infatti notevoli, ma si ha l'impressione che Roland de La Platière, Macquer e Jaubert, come già Diderot, non abbiano affatto coscienza della rivoluzione che stava svolgendosi nelle industrie proprio nel periodo della fine del
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L'Enciclopedia XVIII secolo e l 'inizio del XIX. La sezione è comunque molto aggiornata: vengono infatti descritti gli ultimi perfezionamenti della macchina a vapore, come pure quelli della industria siderurgica e tessile. È abbastanza indicativo il fatto che la parte dedicata alle industrie tessili, del cuoio, degli olii e dei saponi sia separata in un trattato autonomo rispetto a quello dedicato alla descrizione delle attività più propriamente artigianali.
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CAPITOLO DODICESIMO
Rousseau DI LUDOVICO GEYMONAT E
I
RENATO TISATO
· VITA E OPERE
Jean-Jacques Rousseau nacque a Ginevra nel 1712 da una famiglia calvinista di piccoli artigiani. Malgrado la scomparsa della madre (morta in conseguenza del parto) ebbe un'infanzia abbastanza serena: il padre - che era uno spirito piuttosto bizzarro - provvide direttamente alla sua istruzione, indirizzandolo verso letture romanzesche e coltivandone la viva sensibilità naturale. Ma quando il ragazzo aveva appena dieci anni il padre dovette fuggire da Ginevra per non venire arrestato (era stato coinvolto in una rissa), e il giovane Jean-Jacques venne affidato alla cura di parenti che non erano in condizione di fargli proseguire gli studi. Fu pertanto avviato al lavoro ed esercitò per qualche tempo il mestiere di incisore. Insofferente di questo genere di vita fuggì in Savoia rivolgendosi per aiuto a un parroco cattolico, che lo indirizzò ad una giovane signora svizzera, Madame de Warens, dedita a fare propaganda in favore del cattolicesimo. Questa nel 17z8 lo condusse a Torino ove il giovane sedicenne si convertì alla fede cattolica; tornato in Savoia Rousseau divenne, qualche anno più tardi, l'amante della sua protettrice. Dopo una decina di anni abbastanza felici, trascorsi nello studio e in mestieri diversi, il nostro autore lasciò Madame de Warens per recarsi prima a Lione (1740) come precettore, poi a Parigi (1742). Quivi fu costretto, per guadagnarsi la vita, a fare ora il maestro, ora il segretario privato, ora il copista di musica (come segretario privato dell'ambasciatore di Francia presso la repubblica veneta, passò alcuni mesi a Venezia). Nel vivace ambiente parigino poté entrare in contatto con vari rappresentanti della più avanzata cultura illuministica, in particolare con Diderot e Condillac. Ebbe pure una relazione, durata diversi anni, con una povera ragazza di campagna che faceva la cucitrice; ne nacquero vari figli, abbandonati uno dopo l'altro all'ospizio dei trovatelli, secondo il costume dell'epoca.! I Indagini moderne hanno provato che il costume di abbandonare i figli in ospizi raggiunse, / durante la seconda metà del XVIII secolo punte veramente sconcertanti: a Parigi, nel 1772, su 18.713 nati, ben 7676 (e cioè il41°/o circa) vennero
deposti all'ospizio dei trovatelli; e si noti che di questi 7676 solo un migliaio era costituito da illegittimi! Comunque, Rousseau cercò poi di giustificare il proprio comportamento attribuendone la colpa alla società, che facendo di lui un povero,
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Il 1750 segnò un'importante svolta della sua vita. L'accademia di Digione aveva bandito un pubblico concorso sul tema: « Se il progresso delle scienze e delle arti avesse contribuito a migliorare i costumi »; la risposta inviata da Rousseau- risposta che era il suo primo scritto di filosofia- fu giudicata vincitrice e gli procurò improvvisamente una grande notorietà. Nel 17 53 un nuovo quesito a premio bandito dalla medesima accademia lo indusse a tornare sull'argomento, scrivendo un Discours sur l'origine et !es fondements de l' inégalité parmi /es hommes (Discorso sull'origine e i fondamenti dell'ineguaglianza fra gli uomini), che approfondiva la tesi già sostenuta nel precedente lavoro. Questo secondo Discours viene da lui dedicato alla città di Ginevra, dove si recherà- vivamente festeggiato -per abiurare il cattolicesimo riconvertendosi al calvinismo (1756). Nel medesimo periodo (e cioè negli anni dopo il 1750) Rousseau collabora pure all'Encyclopédie con una serie di articoli di carattere musicale che verranno poi riuniti nel Dictionnaire de musique (Dizionario di musica, q68). Stende inoltre per tale enciclopedia, la voce Economia politica, ove però l'economia occupa solo l'ultima parte dello scritto. Va subito notato che, malgrado la collaborazione testé accennata, Rousseau veniva maturando una posizione assai diversa da quella dei philosophes illuministi. Essa emerge con indubbia chiarezza già dalla risposta inviata all'accademia di Digione, ove si sostiene che il progresso delle scienze e delle arti non ha contribuito a nobilitare i costumi; tale progresso infatti rappresenterebbe, secondo il nostro autore, qualcosa di esteriore rispetto all'uomo, qualcosa che non tocca ciò che vi è di più intimo nel nostro essere, cioè l'istinto naturale. È una risposta polemica, paradossale, che permette a Rousseau di rivolgere un'acerba critica alla più raffinata società del suo tempo, presentandola come assolutamente inferiore a quella dei primitivi e dei selvaggi. Nello stato di natura - aggiungerà nella risposta al secondo quesito - non esistono diseguaglianze tra gli uomini; queste infatti sono il frutto artificioso della decadenza dell'uomo dal suo stato di originaria perfezione, sono il risultato della sua « alienazione » ossia della separazione tra uomo e proprietario, uomo e cittadino.! Approfondendo il proprio pensiero, Rousseau si renderà poi conto che lo gli aveva impedito di assumersi il compito di educare i propri figli. 1 Questi temi vanno senza dubbio ricollegati alla fiorente letteratura francese, e non solo francese, ispirata alla leggenda del « buon selvaggio ». Tale letteratura aveva avuto inizio nel Cinquecento in seguito alle grandi scoperte geografiche, e aveva dato luogo all'idealizzazione dei popoli primitivi (in particolare degli aborigeni d'America), all'apologia della vita selvaggia, talvolta anche alla condanna della colonizzazione. Più tardi gli stessi gesuiti contribuirono al diffondersi di tale utopia, mossi fra l'altro dall'intento di assimilare i selvaggi (naturalmente buoni)
ai cristiani delle prime comunità o ai popoli più virtuosi del mondo classico. Nel Settecento la letteratura in esame incontrò un particolare successo anche in seguito all'accresciuto gusto per i racconti di viaggi, per i costumi esotici, e in generale pet tutto ciò che appariva estraneo alla civiltà europea. Un altro fattore di questo successo fu il diffondersi di un vago atteggiamento umanitaristico e anarchico-socialista. In Rousseau la contrapposizione fra vita spontanea dell'uomo primitivo e vita artefatta di chi accetta passivamente le ingiustizie della nostra civiltà assume però, come vedremo, un significato nuovo, ricco di profonde implicanze filosofiche.
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stato di natura non può, a rigore, venire inteso come uno stato che abbia avuto effettiva esistenza nella storia umana, ma è essenzialmente un concetto teorico, una categoria filosofica, una norma di giudizio, in base a cui condannare le ingiustizie del mondo presente e smascherare il disordine della pretesa società civile. Nel 1757 Rousseau interrompe i rapporti con la redazione dell'Enryclopédie e nel 175 8 entra in polemica aperta con d' Alembert a proposito delle istituzioni ginevrine rendendo così pubblico il proprio dissenso. Come spiega Furio Diaz « nonostante ricorrenti rimpianti e tentativi di recupero, era [per gli enciclopedisti] una perdita inevitabile: determinata da un divario di idee sostanziali a sua volta fondato su sensibilità fra loro diverse per le esigenze della lotta ideologicopolitica ». Intanto il nostro autore si era ritirato in un piccolo edificio isolato, nei dintorni di Montmorency (l'Ermitage) messo a sua disposizione da Madame d'Epinay. Rotti i rapporti anche con lei, per cause tutt'ora non esattamente chiarite, Rousseau non abbandona l'incantevole paese accettando l'ospitalità del maresciallo di Lussemburgo, signore di Montmorency. Le lunghe ore trascorse in aperta campagna suscitano in lui - secondo quanto scrive Harald Hoffding - « fantastici sogni di libertà » illudendolo di poter « vivere come era vissuto l'uomo primitivo, prima che la civiltà avesse rotto il felice incanto dello stato di natura ». Sono anni di lavoro intenso, eccezionalmente fecondo. Nel 1761 esce la Nouvelle Héloise (Nuova Eloisa), :romanzo epistolare pieno di passione, diretto a sostenere che il matrimonio deve essere fondato non sulle artificiose convenzioni della società, ma su di una libera scelta dettata unicamente dall'amore. Nel 1762. Rousseau pubblica altri due capolavori che dovranno immortalarlo nella storia del pensiero: uno- l'Émile- di carattere filosofico-pedagogico, l'altro- Le contrai social (Il contratto sociale) -di argomento sociale. Particolarmente degna di menzione è la famosa Profession de foi du vicaire savoyard (Professione di fede del vicario savoiardo), contenuta nel quarto libro dell'Émile, che costituisce un testo fondamentale per lo studio della concezione filosofico-religiosa rousseauiana. Queste due opere suscitarono immediatamente il più vivo sdegno delle autorità e provocarono contro il loro autore gravi persecuzioni politiche e religiose, tanto più pericolose in quanto Rousseau non poteva ormai contare sull'appoggio dei philosophes (dai quali era considerato un traditore). Dovette pertanto fuggire in Svizzera, nella speranza di trovarvi protezione e libertà; poco dopo però, sentendosi anche qui perseguitato, abbandonò la Svizzera per l'Inghilterra ove Hume gli aveva offerto un rifugio sicuro ( 1766). Ma i rapporti fra i due ebbero ben presto termine con una clamorosa rottura dovuta alla morbosa suscettibilità del ginevrino. Rientrato in Francia, ove nel frattempo si era calmata la tempesta, continuò a manifestare la propria irrequietezza compiendo ripetuti viaggi, senza preciso scopo, nelle regioni meridionali del paese. Fece infine ritorno a Parigi, ove condusse a termine le Confessions (ConfeSsioni) già iniziate nel
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r 76 5 e scrisse - senza però pubblicarle - varie altre opere, di notevole interesse anche se meno importanti dei tre capolavori pubblicati nel 1761-62. Ci limiteremo a ricordare i dialoghi dal titolo Rousseau juge de jean-]acques (Rousseau giudice di Gian Giacomo, composti fra il 1772 e il 1776) e le Reveries du promeneur solitaire (Fantasticherie del viandantc solitario, composte fra il 1776 e il 1778). Morì nel 1778 in seguito ad una improvvisa malattia, nel castello di Ermenonville, ove erasi recato su invito del marchese di Girardin. L'esasperata emotività che traspare dagli scritti di Rousseau nonché dalla sua stessa agitatissima vita, rivelano in lui una disposizione d'animo senza dubbio più vicina a quella che caratterizzerà i grandi spiriti romantici che non a quella dominante nella cultura settecentesca. Scarsa è la fiducia da lui riposta nelle scienze, nelle innovazioni della tecnologia e nei progressi che esse fanno compiere all'umanità; grandissima invece è l'importanza che riconosce al sentimento, all'istinto, alla spontaneità. Eppure egli resta, a giudizio di parecchi studiosi, un caratteristico uomo del Settecento, sostenitore di una filosofia sostanzialmente razionalistica. È il problema che ci proponiamo di esaminare, sia pure molto rapidamente, nel prossimo paragrafo esponendo le linee generali della concezione filosofico-religiosa di Rousseau. Precisato questo aspetto del suo pensiero, sarà più agevole comprendere il grande contributo da lui recato nell'ambito della politica e dell'educazione. II
· RAGIONE E SENTIMENTO. IL PROBLEMA RELIGIOSO
Abbiamo ricordato nel paragrafo precedente che Rousseau fu in stretto contatto- fra il I742 e il 1756- con l'ambiente illuministico, in particolare con Diderot e Condillac; è naturale quindi che si ritrovino in lui non pochi riflessi della filosofia empiristica e sensistica di cui venne a conoscenza attraverso tali autori. Risulta però con certezza che egli fu profondamente influenzato anche dal pensiero di Male branche~ oltreché da quello dei giusnaturalisti del Seicento. Poiché ciascuno di questi indirizzi lasciò un'impronta assai durevole nella sua formazione, ne segue che la filosofia rousseauiana rivela spesso notevoli oscillazioni fino ad apparirci su qualche punto pressoché contraddittoria. Così ad esempio egli sostiene, nel Discours sur l'origine et /es fondements de l' inégalité e più tardi nel Contra! social, che lo sviluppo della ragione umana è essenzialmente legato alla socialità, onde sarebbe dovuto proprio ai contatti fra individuo e individuo se, « animale stupido e limitato », l'uomo divenne a poco a poco un essere intelligente. Nell' Émile collega invece il formarsi della ragione allo sviluppo del singolo uomo che la contiene « in potenza » fin dall'infanzia ma potrà attuarla solo gradualmente man mano che giunge a piena maturità. Sotto la manifesta influenza di Condillac il nostro autore afferma che si tratta di un trapasso dal mero uso dei sensi alla ragione « sensitiva o puerile », e poi da quest'ultima
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alla vera e propria «ragione umana»; l'opera dell'educatore- come spiegheremo più diffusamente nell'ultimo paragrafo - dovrà adeguarsi a questa gradualità agevolando dapprima l'esercizio dei sensi e poi, via via, quello delle facoltà superiori, restando comunque inteso che « il capolavoro di una buona educazione è di fare un uomo ragionevole ». Rousseau è ben convinto che il nostro essere non si risolve in una mera serie di atti conoscitivi, poiché i sentimenti costituiscono essi pure una parte fondamentale della nostra vita; è inoltre ben convinto che l'attività del conoscere non si esaurisce per intero nella ragione, poiché questa costituisce soltanto la fase finale del complesso processo conoscitivo. Non ha dubbi sul fatto che la ragione - una volta maturatasi nel nostro animo- ne diventerà la guida più autorevole, spettandole naturalmente il compito di giudice supremo di tutte le nostre opinioni:« Non vi è nulla di più incontestabile che i principi della ragione. » Malgrado le ripetute polemiche contro la metafisica cartesiana, egli delinea una metodologia del conoscere ove è impossibile negare l'influenza dell'impianto filosofico di Descartes. È vero che Rousseau si appella a un « lume interiore » non identificabile con l'evidenza invocata dall'autore del Discorso sul metodo, ma l'analogia fra le vie da essi seguite traspare comunque ben chiara. Ecco ad esempio alcune significative parole che il ginevrino fa pronunciare al vicario savoiardo: «Portando dunque in me per sola filosofia l'amore della verità e per solo metodo una regola facile e semplice che mi dispensa dalla vana sottigliezza degli argomenti, io riprendo sulla base di questa regola l'esame delle conoscenze che mi ·interessano, deciso ad ammettere come evidenti tutte quelle alle quali, nella sincerità del mio cuore, non potrei rifiutare il mio assenso, come vere tutte quelle che mi parranno avere un legame necessario con le prime, e di lasciare tutte le altre nell'incertezza, senza rigettarle né ammetterle, e senza darmi la pena di chiarirle quando esse non conducano a nulla di utile per la pratica. » Anche sul piano del comportamento pratico come sul piano teorico, l'uomo attraversa, secondo Rousseau, tre fasi: durante la prima il criterio della condotta è costituito dal piacere e dal dolore; durante la seconda diviene possibile organizzare l'azione in vista dell'utile; solamente dopo i quindici anni si formano la coscienza morale e il sentimento religioso. La passione fondamentale dell'uomo è «l'amore di sé». L'amore di sé è sempre buono ed è soddisfatto quando i nostri veri bisogni sono soddisfatti. Le altre passioni, finché sono modificazioni di quella fondamentale, possono a rigore essere definite esse pure « naturali »; senonché nella maggior parte dei casi esse hanno cause esterne senza le quali non sarebbero sorte: in tal caso esse vanno contro il loro principio. L'uomo è allora fuori della natura. Lo stesso amore di sé degenera e diventa « amor proprio » che ci fa anteporre noi stessi agli altri ed esigerebbe che anche gli altri ci preferissero a loro stessi. L'amor di sé diventa il fondamento della pietà in quanto permette al giovane di comprendere che vi sono esseri simili a lui che soffrono come 301
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lui. Solo a questo punto è possibile affrontare il problema religioso. Anticipare l'annuncio della verità a quelli che non sono in grado di comprenderla sarebbe, infatti, come sostituirvi l'errore. È meglio non avere alcuna idea che averne di fantastiche e false. Ciò vale anche e in particolar modo per l'idea della divinità. Come gran parte dei suoi contemporanei, anche Rousseau ritiene che il problema religioso sia assolutamente centrale per la cultura. L'educatore avrà perciò il dovere di delinearlo in tutta la sua complessità e gravità all'educando; ma- come abbiamo detto- dovrà farlo solo quando questi abbia raggiunto un adeguato livello nello sviluppo della propria vita teoretica e sentimentale. In tale momento il giovane si troverà in grado, non solo di comprenderlo, ma di risolverlo lungo la grande linea tracciata dal deismo. La « via razionale » per giungere all'esistenza di dio prenderà le mosse da un principio che sembra riecheggiare la filosofia di Malebranche e che il nostro autore ritiene di dover accettare senza discussione: « Le prime cause del movimento non risiedono nella materia; questa riceve il movimento e lo trasmette, ma non lo produce. » Per spiegarlo occorrerà dunque rimontare a una causa prima: la volontà divina che « muove l'universo e anima la natura». E aggiunge: «Concepire la materia come produttrice del movimento, è manifestamente concepire un effetto senza causa, è non conoscere assolutamente nulla. » La religione « naturale » fondata unicamente sulla nozione di causa prima (o, per essere più esatti, di volontà capace di muovere tutto l'universo) non può certo presumere di farci conoscere l'esistenza di dio, e quindi di poter gareggiare con le religioni positive nella precisazione degli attributi divini; proprio questo suo limite ha però l'immenso vantaggio di preservarla dalle innumerevoli superstizioni che affliggono i vari culti religiosi. E proprio perciò essa si rivela in grado di convincere ogni uomo dotato di ragione, assai più di quanto lo possano persuadere i vari argomenti solitamente addotti dai teologi. Le religioni positive, diverse da popolo a popolo, possono senza dubbio compiere una funzione socialmente assai utile, in quanto capaci di rivolgersi anche agli ignoranti e di aiutarli, con i loro precetti e le loro minacce, a seguire le vie della morale, ma non possono reggere di fronte a un serio esame razionale. « Io considero tutte le religioni particolari come istituzioni salutari, che prescrivono in ciascun paese una maniera uniforme di onorare Dio con un culto pubblico, e che possono - tutte - avere le loro ragioni nel clima, nel governo, nel genio del popolo, o in qualche altra causa locale che rende l'una preferibile all'altra secondo i tempi e i luoghi. » Ma guai se si pretende di giustificarle facendo riferimento a prove soprannaturali, a miracoli, a profezie. Fare appello a tali pretese prove ci conduce a credere tutto questo « sulla base della testimonianza altrui, e a sottomettere, all'autorità degli uomini, l'autorità di Dio che parla alla ragione ». Il più grave pericolo insito in ogni religione particolare è la presunzione che questa costituisca una verità indiscutibile mentre le altre non sarebbero che errori.
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Di qui l'intolleranza, il fanatismo, il dogmatismo. « Conoscete voi molti cristiani, i quali si siano presi la pena di esaminare con cura ciò che la religione ebraica adduce contro di essi? » Una situazione analoga si ripete per tutte le religioni positive, ciascuna delle quali nasconde gelosamente ai fedeli gli argomenti addotti dalle altre religioni e pretende che tutti i propri dogmi vengano accettati senza discutere, malgrado le loro palesi assurdità. « Io sostengo,» scrive Rousseau nella Projession de foi du vicaire savoyard - che non esiste alcuna rivelazione contro cui le medesime obiezioni (sollevate contro i dogmi cristiani) non abbiano una forza pari, o anche maggiore, a quelle che hanno contro il cristianesimo. D'onde segue che, se esiste una religione verace che tutti siano obbligati a seguire sotto pena di venire dannati, bisognerà trascorrere la vita a studiarle tutte, ad approfondirle, a confrontarle, a viaggiare nei paesi ove esse sono praticate. Nessuno è esente dal primo dovere dell'uomo, nessuno ha il diritto di fidarsi del giudizio altrui... Se il figlio di un cristiano fa bene a seguire, senza un esame profondo e imparziale la religione di suo padre, perché mai il figlio di un turco farebbe male a seguire egualmente quella del proprio? ... Io non ho la presunzione di credermi infallibile; altri uomini hanno potuto decidere ciò che mi sembra indeciso; io ragiono per me e non per loro; non li biasimo né li imito; il loro giudizio può essere migliore del mio, ma non è colpa mia se non è il mio. » Senza insistere su altri punti particolari della religione professata dal vicario savoiardo, risulta chiaro che essa si ispira a un razionalismo individualista, permeato di tolleranza verso tutte le fedi e ben deciso a negare che una qualunque di esse possa venire privilegiata rispetto alle altre. Come scrive molto bene Robert Derathé, trattasi di una posizione « altrettanto lontana dallo scetticismo quanto dal dogmatismo »; posizione che alcuni hanno voluto considerare come puramente pragmatistica, ma che ricorda invece - secondo Derathé - quella assunta da Malebranche nella Recherche de la verité: non certo nel rifiuto di privilegiare la religione cristiana, ma nel riconoscimento che « i limiti della ragione umana le impediscono di farsi un'idea chiara di Dio e di concepirne la natura ». Questo riconoscimento dei limiti della ragione, unito all'altro - non meno esplicito in Rousseau- che entro l'ambito dei problemi che riesce a trattare, essa risulta assolutamente sovrana, ci permetterebbe pure di comprendere, secondo Derathé, la dialettica rousseauiana ragione-sentimento. Se la ragione ha dei limiti, se per esempio non si trova in grado di comprendere come possano conciliarsi la giustizia e la bontà di dio, ciò che interviene a salvare l'uomo impedendogli di smarrirsi sarà proprio il sentimento interiore (non opposto alla ragione- come intendeva Pascal- ma neanche riducibile ad essa). Non si trattava dunque, per Rousseau, di opporre il sentimento alla ragione né di preferirlo ad essa. Ma gli pareva naturale di ricorrere al sentimento interno quando la ragione resta in sospeso, in quanto «priva di motivi in base a cui optare per un partito o per l'altro» (Derathé).
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In quale senso dovremo intendere questi limiti della ragione? Nell'unico senso che la ragione abbia bisogno di venire integrata dal sentimento o nel senso più ampio che, per essere limitata, essa risulti essenzialmente ingannatrice? Qui si appunta il dibattito più acceso fra gli interpreti di Rousseau, tendendo gli uni (come R. Derathé, E. Cassirer e altri) alla prima soluzione, e gli altri invece (come ad esempio P. M. Masson) alla seconda. Pur senza voler entrare in una controversia tanto complessa (che richiederebbe un esame dettagliato dei testi qui non eseguibile per evidenti limiti di spazio), non possiamo comunque nascondere la serietà dei motivi che possono venire addotti a favore di un'interpretazione sostanzialmente razionalistica del pensiero di Rousseau. Se è vero che égli non condivide il razionalismo degli illuministi vero è però che ciò dipende soprattutto dal loro modo di intendere il razionalismo. « Ciò che Rousseau condanna è la filosofia dei lumi, e tutti coloro che, come gli enciclopedisti, non vedono altra salvezza per l'uomo fuorché nel progresso delle conoscenze » (Derathé). III
·
LA VOLONTÀ GENERALE, BASE DELLA SOCIETÀ CIVILE
L'ultima osservazione accennata nel paragrafo precedente ci porta al cuore del pensiero rousseauiano. La preoccupazione centrale del nostro autore è la « salvezza » dell'umanità, ove si intenda questa salvezza non già come un fine da raggiungersi in un'altra vita, ma nella nostra, liberando la società umana dai profondi mali che l'affliggono. Egli percepisce questi mali con un acume e una sensibilità eccezionali, e si rende perfettamente conto - in modo ben diverso da parecchi suoi contemporanei - che essi affondano le loro radici nella struttura stessa del mondo civile così come si è venuto costituendo attraverso i millenni della nostra storia. Da questo punto di vista egli ci appare come un autentico rivoluzionario, perfettamente consapevole che la società in cui viveva non poteva essere guarita con semplici riforme interne (e in particolare con il semplice progresso delle scienze e delle tecniche), ma esigeva una trasformazione radicale, un rivolgimento completo, un totale mutamento delle sue istituzioni. Come abbiamo accennato all'inizio del capitolo, questo è il senso autentico delle risposte che Rousseau diede ai famosi quesiti posti dall'accademia di Digione. È vero che egli sembra talvolta credere seriamente alla superiorità della vita primitiva rispetto a quella realizzata dai popoli civili, ed è vero che il suo vagare per le foreste di Montmorency sembra sinceramente dettato dal desiderio di ristabilire nel proprio animo un contatto diretto colla natura (non ancora corrotta dalla civiltà), vero è però che egli si rende ben conto che la riforma della società non può consistere nel riportare gli uomini allo stato primitivo. Essa dovrà consistere invece nel « ridare misura umana a società e cultura », come
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spiega assai bene Aldo Visalberghi, facendo in modo che le istituzioni civili non impediscano e distorcano lo sviluppo dell'uomo ma lo pongano in grado di realizzare la sua più profonda libertà. Fin dai primi scritti Rousseau sembra consapevole che lo stato di natura è sostanzialmente una finzione: esso « non esiste, forse non è esistito affatto, probabilmente non esisterà mai ». Il riferimento a tale stato è tuttavia importantissimo, in primo luogo per farne un termine di confronto con l'innaturale stato in cui viviamo, in secondo luogo per affermare con energia la nostra fede nell'uomo. L'esaltazione della superiorità dello stato di natura rispetto al così detto stato civile assume infatti, in Rousseau, il significato di rifiuto del dogma ebraicocristiano del peccato originale: ad esso viene contrapposto il mito della bontà primitiva dell'uomo, che costituisce una sicura garanzia della possibilità di rinnovare a fondo lo stato attuale dell'umanità. Nel Contra! social Rousseau riprende il problema già trattato nelle sue risposte ai quesiti cui sopra accennammo e prospetta la formulazione positiva della tesi antecedentemente svolta in forma critica. Non essendo possibile riportare l'uomo allo stato di natura reintegrandolo nella sua umanità primitiva, occorre trasformare la società stessa in modo che essa non annulli ma potenzi la nostra libertà. Con questa affermazione, Rousseau già rivela la distanza che lo separa, sia dalle tesi giusnaturalistiche che dalle teorie hobbesiane, e anche da quelle di Locke. Come sappiamo, le preoccupazioni dei giusnaturalisti e quelle di Locke erano essenzialmente rivolte a fissare i limiti del potere statale allo scopo di salvare i diritti dei singoli cittadini; al contrario, Hobbes mirava ad affermare perentoriamente e drasticamente il diritto dell'autorità statale al potere assoluto sui sudditi. Di qui un certo vizio originale delle diverse concezioni del contratto sociale: col pactum unionis gli individui avrebbero decretato la fine dello stato di natura e la loro unione, ma col pactum subiectionis tale unione si sarebbe spezzata nella distinzione fra sudditi e sovrano. Per Rousseau invece il passaggio dallo stato di natura allo stato civile assume un significato profondamente diverso in quanto, nella nuova situazione, « l'uomo che prima aveva badato soltanto a se stesso si vede costretto ad agire in base ad altri principi, e ad ascoltare la propria ragione prima di ascoltare le proprie tendenze». Il nostro autore sa molto bene che il passaggio testé accennato non è un fatto storico, nel senso comune di questo termine; il riferimento ad esso compie tuttavia, nella sua trattazione, un ruolo essenziale perché è proprio l'analisi del contratto sociale - in cui possiamo immaginare puntualizzato tale passaggio a permettergli di enucleare i caratteri che debbono stare alla base della vita civile. Il contratto sociale, asserisce Rousseau contro Hobbes, è nullo e assurdo se collega le volontà individuali solo esteriormente, ricorrendo alla costrizione fisica, anziché all'intima unione di esse. Un tale vincolo non avrebbe alcuna legittimità perché sarebbe privo di ogni valore morale; questo spetta solo a un patto
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al quale l'individuo non sia costretto, ma vi si sottometta spontaneamente. Con la costrizione non si ha un'effettiva inclinazione della volontà individuale, ma soltanto una coercizione di essa, onde la volontà conserva, in fondo, tutta la sua primitiva indipendenza. L'unione vera dei singoli può fondarsi soltanto sul libero consenso e sul reciproco rispetto della libertà individuale. Da un lato, la rinuncia che mediante tale unione gli individui fanno delle loro prerogative non costituisce una alienazione della propria libertà, perché essi decidono solo di sostituire ai dettami della volontà individuale i decreti della volonté générale, come la chiama Rousseau; dall'altro lato, la libertà che gli individui conservano non significa negazione di ogni freno, di ogni vincolo, ma sottomissione alla legge, severa e sacra, che ogni individuo, mediante la volonté générale, impone a se stesso. Va sottolineato che tale volontà generale non va confusa con la volontà di tutti: quest'ultima infatti ha in sé qualcosa di contingente, potendo costituire il momentaneo punto di convergenza di interessi particolari ed egoistici; quella invece è la volontà del generale, dell'universale, e pertanto è necessariamente buona. Secondo Rousseau l'autentica personalità umana si afferma proprio con l'accennata sottomissione alla volontà generale. Sorge così un nuovo concetto positivo di libertà, la quale non consiste più nel libero svolgersi degli impulsi individuali, ma nel dominio di esso in nome di quella più vera e profonda libertà che si afferma solo con il potere della ragione. « Soltanto la libertà morale rende l'uomo veramente padrone di sé: infatti l'impulso del solo appetito è una schiavitù, mentre l'obbedienza alla legge che ci è prescritta [dalla volontà generale] è libertà. » Il vero significato della filosofia di Rousseau non va dunque cercato in un anarchico tendere all'emancipazione dell'individuo (cioè nell'esaltazione della libertà naturale) ma nella costruzione di un nuovo concetto di libertà, che trova la propria struttura nell'autonomo controllo della ragione sulla persona, preannunziando e anticipando la Critica della ragion pratica di Emanuele Kant. Con il passaggio dallo stato di natura allo stato sociale gli individui, che prima erano soltanto un agglomeramento di istinti e di impulsi, diventano- come abbiamo testé spiegato - esseri razionali, morali. Il contratto, che puntualizza tale passaggio, segna pertanto l'inizio della vera e propria storia, intesa come storia di autentici uomini; è l'atto di fondazione della società civile. I vari regimi politici si organizzano proprio a partire da questo atto; essi saranno legittimi solo se rispetteranno la volontà generale che ha dato luogo al contratto sociale. Rousseau ammette che ogni forma di governo possa essere sostanzialmente buona; pur riconoscendo che la più perfetta è la democrazia, non esclude per principio che le diverse circostanze di tempo e di luogo giustifichino anche altre forme. Ciò che conta è che esse rispettino la volontà generale non tentando di soffocarla. In qualunque tipo di governo, la vera sovranità si regge soltanto sulla volontà generale, e quindi può appartenere esclusivamente al popolo.
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«La sovranità, non essendo altro che l'esercizio della volontà generale, non può mai essere alienata. » Il popolo potrà trasmettere il potere, ma non cedere la sovranità. Questa è unica, inalienabile e indivisibile. Il vero sovrano, cioè il popolo, potrà affidare il governo alla totalità dei cittadini e si avrà così la democrazia; o a un piccolo numero di essi, il che darà luogo all'aristocrazia; o perfino a un magistrato unico (« questa forma di governo è la più comune e si chiama monarchia o governo regio»). In ogni caso però si tratta sempre di una delega temporanea. Nessun governo può in base alla delega ricevuta annullare o sopprimere la sovranità del popolo, a pena di perdere ogni suo fondamento e ogni sua giustificazione. Non solo: se ciò avvenisse, il popolo potrebbe legittimamente costringere i responsabili di tale cattivo uso del potere a restituirlo al suo vero e unico depositario: il popolo. Le conseguenze pratiche ricavabili dalla concezione filosofica testé accennata erano gravide di significato rivoluzionario: governo, parlamento, magistratura restavano per Rousseau non altro che forme diverse di servizio sociale sotto l'unica indivisibile sovranità del popolo. Egli abbandonava in tal modo le forme del liberalismo classico per affermare l'assoluta sovranità dello stato, inteso non quale volontà di un despota o di un gruppo, bensì quale volontà collettiva e universale. Era il modello di una democrazia politica, non formale ma sostanziale, cui si ispireranno i protagonisti più accesi della rivoluzione. Esso tornerà nel XIX secolo a costituire l'oggetto di profonda riflessione da parte dei teorici di altre ideologie rivoluzionarie. IV · IL PENSIERO PEDAGOGICO: FONTI E METODO DELL'«ÉMILE»
Un'indagine che mirasse a ricostruire la genesi della pedagogia di Rousseau dovrebbe tener conto di due ordini di fattori: le fonti culturali e le esperienze personali (in particolare l'educazione da lui ricevuta, e la sua esperienza quale pedegogo). Sarebbe poi necessario un minuzioso riesame di tutti i suoi scritti, note e corrispondenza inclusi, allo scopo di rintracciare via via i segni del sorgere e dello svolgersi dell'interesse e della consapevolezza critica del nostro autore in ordine al problema dell'educazione. È superfluo dire che un'impresa del genere esula completamente dal compito che questo capitolo si propone. Ci limiteremo dunque a pochi richiami, miranti a fornire al lettore più che altro qualche indicazione circa la delicatezza e la complessità della questione. Per quanto riguarda le fonti culturali, Rousseau sembra ignorare gran parte della letteratura specificamente pedagogica (è vero però che egli, il più delle volte, non si preoccupa di citare le sue fonti). Egli non cita né Vives, né Erasmo, né Rabelais, né, in generale, i pedagogisti dell'umanesimo e del rinascimento. Analogamente si comporta per quanto si riferisce ai grandi esponenti del movimento culturale e pedagogico della riforma e della controriforma: neppure il
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grande Comenio ha l'onore di una citazione. Silenzio assoluto anche a proposito dei gesuiti i quali, pure, stanno dominando la scena pedagogica europea da un secolo e mezzo (la loro espulsione dalla Francia avviene nel I 762, l'anno stesso della pubblicazione dell' Émile). Gli autori di Rousseau sono: Montaigne, Locke (col quale peraltro polemizza aspramente su questioni fondamentali) e Fénelon. Un secondo gruppo di ispiratori è costituito dai philosophes dell' Enryclopédie, sopra tutti Diderot e Condillac. Un terzo (ma forse è il più importante) è formato dagli autori antichi e in particolare da Plutarco e da Platone, la cui Repubblica è definita « il più bel trattato di educazione che sia mai stato fatto ». Per quanto riguarda l'educazione ricevuta da Jean-Jacques, vogliamo solo ricordare che essa si presta a due interpretazioni contrastanti. I vecchi studiosi di impostazione moralistica tendevano a scorgervi « vicissitudini tali da scoraggiare anche l'ottimismo pedagogico più tenace», tanto che la pubblicazione dell' Émile poteva essere considerata « lo scandalo di una personalità moralmente corrotta che si erige a guida degli educatori» (Roggerone). Oggi si tende a sottolineare l'analogia fra l'educazione di Émile e quella ricevuta da Rousseau, appoggiandosi, del resto, alle parole da lui stesso scritte nelle Confessions: «Se mai un fanciullo ebbe un'educazione ragionevole e sana, questo fui io. » Quanto infine alle esperienze di Rousseau quale pedagogo, basterà far presente che esse non furono né numerose, né di lunga durata, né particolarmente importanti. Alcuni riferimenti, qua e là rintracciabili negli scritti rousseauiani, permettono tuttavia di affermare che egli affrontò l'impresa con serietà di impegno e che la riflessione sulle concrete esperienze dell'insegnamento diede l'avvio ad una serie di ripensamenti critici i quali costituiscono indubbiamente altrettante tappe verso l'elaborazione dell'opera pedagogica fondamentale. Prima di addentrarci nella esposizione dei motivi essenziali della pedagogia di Rousseau riteniamo opportuno fare alcune considerazioni relative alla questione del« metodo» seguito dal nostro autore nella elaborazione dell' Émile. Non si tratta di un problema marginale, sia pure elegante, ma di una questione che investe il significato stesso dell'opera. Alla vecchia critica secondo cui il libro peccherebbe di astrattezza, gli interpreti più moderni rispondono osservando che esso vuol darci la descrizione non di un esperimento concreto ma di un esperimento ideale. Si tratterebbe di un metodo di « analisi ideologica » consistente nel verificare talune ipotesi mediante il semplice ragionamento, metodo già usato da Condillac nel famoso esempio della statua e, prima ancora, da Buffon. È lo stesso Rousseau ad enunciare chiaramente questo metodo, allorché, nel primo libro dell' Émile, afferma di volere scegliere «un allievo immaginario» e di voler supporre per se stesso «l'età, la salute, le conoscenze e tutte le attitudini adatte » a portare a termine nel miglior modo la difficile impresa. Su questo punto l'accordo fra gli studiosi è ormai pressoché totale. Secondo
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Vial è la stessa funzione normativa attribuita da Rousseau ai suoi scritti che determina il metodo dell'indagine: dovendo non tanto descrivere ciò che è quanto definire ciò che deve essere, non è possibile muovere dai fatti ma si impone una indagine razionale a priori. Per Lecercle l' Émile è « una pittura dell'uomo ideale », di un uomo di cui attualmente non esiste alcun modello nella vita, creato secondo pure esigenze morali e sociali. Wallon, dal canto suo, osserva che i rapporti tra Emilio e l'educatore «sarebbero stravaganti e mostruosi se fosse necessario supporli trasportabili sic et simpliciter nella realtà ». Le pratiche e gli accorgimenti descritti nel libro sono artifici escogitati « per enunciare tutte le condizioni richieste per una felice preparazione dell'uomo alla vita ... Maestro e alunno restano cioè esseri puramente immaginari, che l'autore modella in modo valido per la sua dimostrazione». Una volta superata la critica di astrattismo utopistico ed accettata la tesi dell' Émile quale « modello ideale » o « mentale », è facile il passaggio all'affermazione (che costituisce una delle massime lodi fatte al nostro autore) secondo la quale Rousseau, per primo, avrebbe impostato il problema dell'educazione sul piano dell'universalità, cioè come problema dell'educazione dell'uomo in quanto tale, laddove i pedagogisti precedenti si erano limitati a progettare il piano per la formazione del militare o del religioso, dell'umanista o del cortigiano o del gentleman e via dicendo. Senonché, in seguito ad un'ulteriore e più attenta analisi dell'intera problematica, oggi anche la portata universale dell'impegno pedagogico rousseauiano è stata sottoposta ad un severo controllo critico e ricondotta entro i confini di una precisa situazione esistenziale e storica. Si trovano dei limiti sia in taluni motivi che derivano dall'atmosfera (e mediatamente dalla realtà sociale) del tempo, sia nelle stesse finalità che il pedagogista si propone. Per quanto riguarda il primo punto l'accusa è quella di non riuscire a superare il pensiero borghese del tempo e, quel ch'è più grave, di non essere, a proposito di alcuni problemi fondamentali, neppure all'avanguardia di tale pensiero. Ciò varrebbe, per esempio, per l'ostilità nei riguardi del materialismo, considerato dal ginevrino una dottrina da salotto, utile esclusivamente a gente del gran mondo e per la conseguente difesa della religione e per l'educazione della donna, intesa conformisticamente come educazione all'inferiorità e all'esclusivo compito matrimoniale (Lecercle). Per quanto si riferisce al secondo punto, la limitazione sarebbe costituita da una parte dal proposito di lottare anche sul piano dell'educazione contro la società francese del tempo e dall'altra dalla convinzione che i poveri e i plebei non abbiano bisogno di educazione, dal momento che a formarli ci pensano le difficoltà della vita, e dalla conseguente decisione di immaginare Emilio nobile e ricco. Ne deriverebbero conseguenze estremamente interessanti. Prima di tutto il programma di Rousseau, lungi dall'essere il programma educativo considerato sul piano puramente pedagogico e quindi sub specie aeter-
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nitatis, sarebbe un programma subordinato a limitazioni di natura contingente,
secondariamente il piano per l'educazione di Emilio verrebbe a perdere buona parte del suo famoso carattere o utopistico o di « modello ideale », dal momento che« il ricco può ben concedersi il lusso di un'educazione in campagna, con un precettore dedito interamente a lui, lontano dalla corruzione sociale che è prevalente in città» (Roggerone). V
· I PRINCIPALI MOTIVI DELLA PEDAGOGIA ROUSSEAUIANA: EDUCAZIONE NATURALE ED EDUCAZIONE NEGATIVA
Come già abbiamo detto più volte nelle pagine precedenti, l'uomo è secondo Rousseau naturalmente buono, ma risulta corrotto dalle istituzioni sociali. Ne deriva che, attualmente, bisogna scegliere: o educare l'uomo o educare il cittadino. Ritornare alla natura non può significare, d'altra parte, sottrarsi definitivamente alla società, giacché Emilio « membro della società, deve compierne i doveri » e nemmeno può significare entrare nella società senza educazione alcuna, giacché questo significherebbe lasciarsi sommergere e soffocare dai pregiudizi, dai cattivi esempi, dalla violenza e dalla ipocrisia, da tutto quanto di peggiore la società stessa ha prodotto. L'educazione è indispensabile precisamente allo scopo di salvare, nella società e per la società, quanto di buono v'è nella natura umana. Solo promovendo la formazione di uomini nei quali la natura si realizzi liberamente, senza corrompersi, possiamo sperare di dare origine ad una società migliore. Così Rousseau, mentre da un lato considera, con Platone, che l'individuo sia il risultato della struttura della società, si rivela, dall'altro - con Socrate, con la tradizione cristiana e con Comenio - fiducioso nella possibilità di riformare la società agendo sull'individuo. Educazione naturale, dunque, in quanto salvaguarda la natura dalla contaminazione dell'ambiente. Ma educazione naturale anche in quanto la necessità di sottrarre il bambino all'azione depravatrice della società (identificata con la città) : suggerisce di sistemare il fanciullo in campagna (vista come l'ambiente naturale dell'uomo). « Gli uomini non sono fatti per ammucchiarsi come formiche ... L'alito dell'uomo è mortale per il suo simile, tanto in senso proprio quanto in senso figurato. » Educazione naturale, infine, perché presuppone da parte dell'educatore una profonda conoscenza della psicologia dell'età evolutiva in generale e della psiche di Emilio in particolare. Questa terza accezione del naturalismo porta Rousseau a sostenere, contro la pedagogia tradizionale e anticipando un motivo particolarmente caro alla pedagogia e alla psicologia dei nostri giorni, la tesi (per verità già presente in Comenio, Fénelon e Vico) secondo la quale fra l'adolescente e l'adulto non c'è tanto differenza in grado, per cui il fanciullo possa essere considerato un uomo imperfetto, quanto differenza qualitativa. « La natura vuole che i fanciulli siano fan-
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ciulli prima di essere uomini. L'infanzia ha certi modi di vedere, di pensare, di sentire del tutto speciali; niente è più sciocco che volere sostituire ad essi i nostri. » « Ogni età, ogni stato di vita ha la sua perfezione conveniente, la specie di maturità sua propria. Abbiamo sentito spesso parlare d'un uomo fatto: consideriamo ora un bambino fatto. » Conseguentemente non vi può essere un unico tipo di azione educativa, valido per tutte le età. La scuola tradizionale si preoccupava esclusivamente di fissare « ciò che importa agli uomini sapere »; è invece necessario determinare « ciò che i fanciulli sono in grado di imparare », in conformità col tipo di attività conoscitiva in essi prevalente e, conseguentemente, coi loro interessi. Dal principio che bisogna determinare ciò che i fanciulli sono in grado di imparare e ciò di cui si interessano, deriva l'affermazione che l'attività educativa presuppone una robusta preparazione psicologica. n fatto, poi, che la suddivisione rousseauiana delle varie fasi dell'età evolutiva, la loro caratterizzazione e il ritmo del loro trascorrere l'una nell'altra possano apparire, oggi, schematici, artificiosi e in qualche caso errati, ha una modesta importanza: Rousseau, ovviamente, non possiede la somma di dati che solo una secolare sperimentazione fornisce ai pedagogisti dei nostri giorni; egli basa ancora le sue affermazioni sull'intuizione e sull'osservazione personale. 1 Una volta chiarito che il fanciullo non è, in quanto tale, un essere imperfetto, che la sua attività spirituale e fisica ha una sua organicità, che la sua attività è adatta alle circostanze di vita che all'infanzia sono peculiari; una volta ammesso che il fanciullo si sviluppa naturalmente passando attraverso alcuni stadi che si succedono in ordine costante, ci apparirà assai meno paradossale l'affermazione secondo la quale « coi bambini bisogna cercare non di guadagnare tempo, ma di perderne », in quanto «ogni dilazione è un vantaggio». Accelerare il I Ciò non toglie che alcuni psicopedagogisti dei nostri giorni (Claparède, Wallon) riconsiderando l' Émi/e alla luce delle conclusioni della scienza più avanzata, siano giunti a riconoscere la validità di parecchie tesi rousseauiane. Claparède, per esempio, trova nella pedagogia del ginevrino alcune fondamentali leggi della pedagogia funzionale: I) La legge di successione genetica, per la quale il fanciullo si sviluppa naturalmente, passando per un certo numero di tappe che si succedono in un ordine costante, col corollario che queste tappe sono le stesse percorse dal cammino dell'umanità. 2) La legge dell'esercizio genetico-funzionale, per la quale l'esercizio di una funzione è condizione dello sviluppo e dello sbocciare di funzioni superiori. 3) La legge dell'adattamento funzionale, per la quale l'azionesi apre la strada allorché essa è adatta
a soddisfare il bisogno o l'interesse del momento. 4) La legge dell'autonomia funzionale, per la quale il fanciullo non è in se stesso un essere imperfetto, ma un essere adatto alle circostanze che gli sono proprie, con una vita mentale costituita in unità e un'attività mentale appropriata ai suoi bisogni. Wallon, dal canto suo, ritiene che Rousseau abbia colto i caratteri di quel tipo di pensiero che oggi si chiama sincretico, abbia realizzato un'equilibrata convergenza di funzionalismo e finalis.mo, abbia esattamente attribuito un carattere utilitaristico all'interesse del fanciullo per le cose, abbia acutamente visto la necessità di adeguare il metodo al progressivo cambiare dei valori, pur identificando, nel mutare dei metodi, almeno un punto fisso: quello per cui il presente non deve essere sacrificato al futuro, contrapponendo la pedagogia della felicità alla tetra pedagogia dello sforzo per lo sforzo.
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ritmo del processo educativo vuol dire, infatti, proporre all'educando cose, fatti, idee, esperienze per le quali egli non è ancora maturo, col risultato di accumulare nella sua mente nozioni non intese o, quel ch'è peggio, intese erroneamente e col far assumere al fanciullo atteggiamenti esteriori non corrispondenti all'autentico momento evolutivo della sua struttura psicofisica. La condizione perché il fanciullo si impegni attivamente nella conquista di nuove cognizioni e nell'acquisizione di nuove tecniche è l'interesse; ma l'interesse non può sorgere che in dipendenza di un bisogno ed in presenza di un oggetto atto ad appagare il bisogno. Solo seguendo il progressivo svolgersi e mutare dei bisogni vitali dell'educando noi provocheremo l'attivazione delle sue facoltà. Queste, dal canto loro, si sviluppano mediante il loro funzionamento e in guisa tale che il pieno sviluppo di alcune è condizione per il manifestarsi delle ulteriori. Ne derivano due norme di fondamentale importanza: r) sul piano dell'attività conoscitiva, la capacità di ragionare, il gusto estetico, l'interesse per i problemi etico-politici e religiosi non possono manifestarsi, se prima non siano giunte a perfetta maturazione le facoltà sensitiva e rappresentativa; .z) sul piano dell'attività pratica, la capacità di agire secondo il dettato della coscienza morale non è concepibile se non come conclusione di un processo di sviluppo della primitiva ricerca del piacere, attraverso la successiva fase della ricerca dell'utile. Educazione naturale, dunque, non vuol dire restituzione dell'uomo alla condizione di bruto, farlo camminare a quattro zampe, come scriveva, motteggiando, Voltaire; essa vuole eliminare quanto, nella cultura moderna, è ingombro che soffoca lo spirito e comprime la personalità. Rousseau ha un altissimo concetto della dignità umana: « Se dovessi scegliermi io stesso il mio posto nell'ordine degli esseri, che cosa potrei scegliere di più che d'essere uomo? » Ma vero uomo è colui che non si lascia avvolgere dal turbine sociale e trascinare dalle passioni e dalle opinioni altrui, colui che vede coi suoi occhi e sente col suo cuore e non si lascia governare da nessun'altra autorità. Non si tratta - come già chiarimmo nel paragrafo III - di proscrivere la cultura in quanto tale ma di riconoscere che la così detta cultura è, oggi, in larga misura corrotta e superficiale, pronta a sacrificare alla moda e al successo la vera grandezza. L'ingegno autentico è operoso, creativo e modesto e solo questo tipo di ingegno vale la pena di curare e di accrescere. Ne consegue la critica ad ogni insegnamento che non promuova o, peggio, che indebolisca la capacità di ragionare. Quel che conta non è di possedere un ricco bagaglio di nozioni ma di formarsi lo strumento capace di acquistarle. L'intelligenza umana è limitata e il numero delle verità inesauribile. Bisogna dunque operare una scelta.
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Escluse le cognizioni inutili e quelle che servono solo a nutrire l'orgoglio di chi le possiede, si devono escludere anche quelle la cui comprensione implica un grado di sviluppo superiore a quello attualmente raggiunto dall'educando. Ciò che rimane è, comunque, una sfera immensa. Il principio fondamentale del metodo sarà questo: Emilio non deve tanto imparare quanto inventare. Ogni nuova cognizione deve essere il risultato di una conquista e l'impegno che la conquista implica non può essere promosso che dalla curiosità, dall'interesse. Cosmografia, industria e arti meccaniche, tutto deve essere studiato praticamente, attivamente. Emilio si costruisce mappe e plastici; impara ad orientarsi guardando il sole e gli alberi. L'essenziale non consiste nel numero delle nozioni acquisite ma nella nascita del gusto, dell'amore per le scienze e nello svilupparsi del metodo per impararle. Rousseau respinge la massima di Locke secondo la quale si può ed anzi si deve ragionare coi bambini: in realtà, per chi conosca l'autentica posizione del filosofo inglese, la polemica appare un luogo comune, fondato sulla deformazione del suo pensiero. Del resto lo stesso Rousseau è costretto a concedere che i fanciulli sanno ragionare molto bene su tutto ciò che conoscono e che si riferisce ai loro interessi presenti, e Locke non voleva dire altra cosa che questa. Quello che veramente è assurdo (per Rousseau ma anche per Locke) è il pretendere di far ragionare l'alunno su luoghi e cose lontani nello spazio e nel tempo e, soprattutto, lontani dalla sua attuale forma mentis e dai suoi interessi. Per quanto riguarda l'educazione del fanciullo al comportamento pratico, Rousseau afferma che ognuno di noi è educato da tre specie di maestri: la sua personale natura, gli altri uomini e le cose. Dal momento che la natura (cioè le facoltà e le attitudini individuali) non può svilupparsi che in rapporto di azione reciproca col mondo circostante, Rousseau ritiene indispensabile attribuire primaria importanza alle « cose >> rispetto agli uomini. A contatto con le cose Emilio imparerà che di fronte alla necessità bisogna piegare il collo senza sentirsi per questo vittime dell'ingiustizia o preda del disordine. Rousseau vuole che anche le poche persone le quali dovranno per necessità avere rapporti con Emilio bambino si comportino con lui come « cose ». La dipendenza del bambino dagli adulti deve essere generata e limitata esclusivamente dal bisogno: forza, necessità, potenza, impotenza, soggezione sono parole che debbono occupare al più presto un posto importante nel vocabolario di Emilio, al quale debbono invece rimanere sconosciute le parole « obbedienza » e « comando ». La legge degli uomini deve essere inflessibile e impassibile come le leggi di natura. Una legge di questo tipo non nuoce alla libertà e non genera vizi. Purtroppo la volontà degli uomini è quasi sempre disordinata, particolare, incostante, incapace di porsi come fine il bene comune e di assumere, conseguentemente, un valore oggettivo. In quanto tale, essa fonda la dipendenza ingiusta, fonte di ogni corruzione. Solo qualora sia stato esattamente compreso quanto siamo venuti fin qui
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dicendo, sarà possibile afferrare il significato autentico del secondo fondamentale principio della pedagogia rousseauiana: vale a dire il concetto di educazione negativa. Se l'educando deve passare naturalmente attraverso i successivi stadi del suo sviluppo e se ogni individuo differisce dagli altri, è necessario, come suggeriva Montaigne, !asciarlo trotterellare liberamente davanti a noi per evitare di imporgli un passo troppo lento o troppo spedito. Quindi niente programmi rigidi, orari precostituiti, mete fisse da raggiungere entro limiti di tempo predeterminati. A questo punto, però, il concetto di negatività rivela alcuni aspetti intimamente contraddittori: lungi dal limitarsi ad osservare Emilio che cresce a contatto con le cose; lungi dal contenere il suo intervento entro i limiti di una oculata vigilanza, Rousseau trasforma incessantemente l'ambiente, organizza situazioni, crea occasioni, di modo che, al momento da lui ritenuto opportuno, il fanciullo sia costretto a incontrarsi con certe « cose », a fare certe esperienze, a porsi certi problemi. Né si tratta di abuso involontario, del quale l'autore sia inconsapevole, tutt'altro. In un passo celeberrimo Rousseau esclama: «Emilio deve credere di essere sempre lui il padrone ma in realtà il padrone dovete essere voi. Non vi è sottomissione più completa di quella che conserva l'apparenza della libertà; così la volontà stessa risulta imprigionata ... Indubbiamente egli non deve fare se non ciò che vuole, ma non deve volere se non ciò che voi volete che faccia; non deve fare un passo che voi non abbiate previsto; non deve aprir bocca senza che voi sappiate cosa dirà. » L'educazione negativa si è ormai trasformata in intervento dissimulato e la libertà dell'educando si risolve nell'assenza della consapevolezza di essere sotto il giogo dell'educatore, cioè nella peggiore forma di schiavitù, se è vero che la prigionia della volontà è mille volte peggiore della prigionia dell'azione. L'illusione che l'uomo sia libero in quanto, come i bruti, non è conscio della causalità dei suoi stati mentali e affettivi è proprio quella che lo mantiene non libero. I limiti della concezione rousseauiana rivelano qui tutta la loro gravità. Nello stato di natura, essere liberi significa agire secondo l'impulso dell'istinto; perché anche nello stato civile l'uomo si senta parimenti libero occorrerà - secondo Rousseau - rendere i comportamenti di tipo sociale formalmente identici a quelli istintivi. In altri termini: gli uomini devono credersi, devono sentirsi, liberi da ogni violenza, da ogni sottomissione, da ogni specie di costrizione, anche se oggettivamente violenza sottomissione e costrizione risulteranno indispensabili per realizzare il bene comune. Di qui il netto prevalere del metodo «indiretto» nell'educazione. Ma c'è un altro motivo essenziale generalmente meno avvertito, per mettere in evidenza la chiusura del pensiero rousseauiano entro i limiti di una situazione storica determinata: alludiamo alla polemica contro la funzione disintegratrice della personalità umana svolta da una società basata sulla divisione del lavoro.
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Rousseau
Nello stato di natura l'individuo basta a se stesso: è agricoltore, cacciatore, pescatore, pastore, conosce tutte le arti che gli occorrono e che insegna ai suoi piccoli. Vive, insomma, una vita piena senza dipendere da alcuno e in ciò consiste la sua libertà. Gli uomini sono liberi in quanto eguali ed eguali in quanto autosufficienti. La divisione del lavoro e la specializzazione, creando una fitta rete di reciproche dipendenze, distrugge l'eguaglianza e la libertà. L'uomo cessa di essere un organismo e si riduce a parte di un organismo via via più vasto, complesso e poderoso. Rendere « uno » l'uomo è la grande meta che Rousseau propone all'educazione, senza però additare una via d'uscita che non sia quella di un velleitario agognare alla restaurazione di un artigianato di tipo paesano-medievale. Alcuni storici hanno osservato che a Rousseau sono in generale favorevoli quelle correnti di pensiero le quali, partendo dal presupposto della bontà originaria dell'uomo, ritengono possibile una pedagogia della libertà, mentre sono sfavorevoli quelle che ritengono l'uomo naturalmente malvagio o comunque corrotto. Mentre crediamo di poter accettare il principio generale per cui dal postulato della bontà naturale è giustificata una pedagogia della libertà e dal postulato della malvagità una pedagogia dell'autorità, ci sembra di poter affermare: 1) che Rousseau se ammette, in linea di principio, la naturale bontà dell'uomo, afferma però in linea di fatto la sua attuale corruzione; z) che egli, conseguentemente, instaura una pedagogia dell'autorità anche se, mediante la tecnica dell'intervento dissimulato, mira ad ottenere l'adesione dell'educando in forma irriflessa ed inconsapevole. Rousseau, inoltre, non esclude l'azione della società nel campo educativo: non solo per quanto riguarda il futuro, nel quale, essendo la società retta dalla volontà generale, l'educazione non avrà più bisogno di rifugiarsi nella solitudine dei campi, ma anche per quanto riguarda il presente. È chiaro infatti che il nostro autore riassume in sé e nella piccola schiera dei suoi obbedientissimi collaboratori, l'intera futura perfetta società. E questo lo pone sul piano di tutti gli assertori dell'educazione collegiale a partire dai gesuiti.l Così, quella che per tanto I È vero che la contrapposizione del ginevrino alla compagnia di Gesù ha costituito un punto fisso, un passaggio obbligato per la critica, fino a poco tempo fa e in parte lo costituisce ancora. Oggi però un notevole gruppo di studiosi è giunto, sulla base di indagini assai rigorose, a una profonda, radicale revisione di questo tradizionale « passaggio obbligato ». Il lettore che abbia seguito attentamente l'argomentazione da noi svolta nel corso di questo paragrafo non potrà che riconoscere francamente la logicità della revisione alla quale alludiamo. « Quando si pone il problema sul piano spirituale, » osserva il cattolico Ravier, «una prima verità si impone. Si tratta del fatto che nel libro c'è un orientamento segreto; si può anzi dire che questo orientamento si presenta con una forza, un vigore, che si trova
raramente in altre concezioni pedagogiche. Bisogna ricorrere alla Ratio studiorum dei gesuiti, sul piano intellettuale, o, sul piano del carattere, ai pedagogisti degli stati dittatoriali, per trovare l'equivalente di questa forza di convergenza verso un fine ... » Chàteau, dal canto suo, dice che per quanto si riferisce alla meticolosità con la quale organizza un ambiente artificiale, essenzialmente educativo, Rousseau « è agli antipodi dell'educazione cosiddetta nuova e molto più vicino ai gesuiti... Rousseau non si fida della perversa società contemporanea, proprio come i gesuiti » e perciò, contrariamente a quello che faranno i pedagogisti progressisti del '900 i quali invocheranno una scuola aperta sulla vita, innalza una barriera fra Emilio e la società, rinchiudendolo in un vero e proprio collegio.
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Rousseau
tempo è stata lodata, o biasimata, come la pedagogia dell'assoluta e magari eccessiva libertà, si rivela, ad un esame più approfondito, la pedagogia tipica di una società sostanzialmente autoritaria. Prima di chiudere questo capitolo ci sembra opportuno aggiungere un brevissimo cenno sull'influenza esercitata dal pensiero pedagogico di Rousseau negli ultimi decenni del xvm secolo e in particolare durante la rivoluzione. Ci limiteremo a riferire in proposito i discordi pareri di due valenti studiosi come Vial e Lecercle. Per Vial gli uomini della rivoluzione avrebbero imparato da Rousseau a liberare la pedagogia dai chiostri e dai palazzi gentilizi per portarla nelle piazze. Da Rousseau avrebbero tratto la convinzione che l'educazione sia la principale collaboratrice dei grandi progetti rivoluzionari, lo strumento più efficace per instaurare il regno della ragione. Di più: tutti i progetti rivoluzionari relativi alla creazione o alla riforma della scuola sarebbero stati solo delle applicazioni di principi rousseauiani. Lecercle, viceversa, afferma che «si potrebbe benissimo scrivere una storia dell'insegnamento sotto la rivoluzione senza parlare dell' Émile » e che « Talleyrand, Condorcet, Lepelletier de Saint-Fargeau, Saint-Just, Romme, Lakanal, Daunou e tanti altri legislatori rivoluzionari devono molto poco a Rousseau ». Al primo ci permettiamo di obiettare che la riduzione di progetti come quelli di Talleyrand e di Condorcet alla temati ca dell' Émile è possibile, solo se si interpreta tale tematica in modo così generico da svuotarla del suo significato originale. Al secondo obiettiamo che è possibile negare ogni influsso del pensiero pedagogico di Rousseau solo se si mettono fra parentesi i programmi e la politica scolastica dei giacobini di sinistra e in particolare di Robespierre. In realtà la situazione storica fu così complessa da non permettere- a nostro parere - una risposta univoca. È ciò che si cercherà di spiegare con una certa ampiezza nel capitolo XVI della presente sezione.
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CAPITOLO TREDICESIMO
Ulteriori sviluppi dell'illuminismo francese: Ho/bach e Condorcet DI GIANNI MICHELI
I · CONSIDERAZIONI GENERALI
L'enciclopedismo, come si è visto nei capitoli relativi, era la conseguenza teorica più generale di un atteggiamento realistico accolto in modo organico dalla cultura illuministica; esso scaturiva, ad un tempo, dall'istanza critica verso le costruzioni sistematiche artificiose e dalla fiducia nella scoperta del vero sistema naturale del sapere. Gli altri più consistenti risultati teorici a cui è pervenuta la filosofia del xviii secolo, la concezione materialistica della natura e dell'uomo e la nozione del progresso indefinito del sapere, nascono anch'essi dall'assunzione del principio di una stretta e rigida identità fra natura e ragione. Ma se l'enciclopedismo, come si è visto, rappresentò più che altro una mera esigenza teorica che non si venne configurando in una adeguata elaborazione dottrinale (le incertezze, e, in definitiva, lo scacco dell' Encyclopédie in questo settore, sono significativi), il materialismo e la dottrina del progresso ebbero invece una concretizzazione più compiuta, articolata e precisa: si ebbero in questo campo importanti sintesi dottrinali improntate ad una fiduciosa sicurezza e che costituirono indubbiamente un successo, almeno nella coscienza dei loro autori. Enciclopedismo, materialismo e dottrina del progresso non sono condivisi da tutti i filosofi e da tutti gli uomini di cultura del xviii secolo, ma certamente larghissimi strati della cultura illuministica, o per lo meno quelli più rappresentativi, sono dominati da questi elementi: si può dire comunque che essi sono gli aspetti teorici più originali dell'illuminismo e quelli, soprattutto, che l'hanno caratterizzato storicamente. Appare opportuno, quindi, dopo aver analizzato dettagliatamente l'enciclopedismo, esaminare in un capitolo apposito i punti essenziali del materialismo e della dottrina del progresso. L'esame di questi temi verterà principalmente su quegli autori, Holbach e Condorcet, che li hanno espressi nella forma conclusiva e paradigmatica. II· IL MATERIALISMO
Il materialismo settecentesco costituisce, ad un tempo, lo sbocco di tutta la copiosa letteratura eterodossa, per lo più manoscritta e clandestina, che da tempo 317
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circolava in Europa, e una conseguenza indiretta del rinnovato clima culturale polemico verso la cultura del passato e desideroso di trovare, mediante l'esperienza, le vere strutture della natura e dell'uomo. Ed è pure lo strumento teorico più radicale di cui si servivano le punte estreme dell'illuminismo per la loro azione eversiva contro le istituzioni culturali, religiose e politiche del tempo. Si tratta quindi di una dottrina che presenta difficoltà notevoli di interpretazione, appunto per la diversità di componenti e di intenti che contiene. Non a caso gli studi critici sulla questione sono insoddisfacenti: si riscontrano infatti esaltazioni, confutazioni o superamenti, e solo raramente giudizi equilibrati e storici. Il materialismo settecentesco si pone come l'erede naturale di quella letteratura libertina, deista, panteista e solo marginalmente materialistica, sviluppatasi particolarmente nel corso del xvn secolo e nei primi decenni del xvm. Le fonti cui si ispiravano questi autori eterodossi, ai margini della cultura ufficiale, erano l'atomismo e l'epicureismo antichi, l'aristotelismo padovano, lo scetticismo rinascimentale; tali temi erano temperati e commisti, negli autori più tardi, con alcuni elementi della nuova cultura secentesca (gassendismo, cartesianesimo, spinozismo). Pur nella varietà degli accenti e delle componenti teoriche, questi autori promulgavano una visione del mondo a sfondo naturalistico e una morale più libera ed aperta. Era però comune a tutti una caratteristica peculiare: i loro interessi, come le loro letture e le loro conoscenze, erano di tipo essenzialmente letterario, e solo indirettamente legati ai vasti e complessi problemi scientifici in discussione nel Seicento e nella prima metà del Settecento. L'ispirazione moralistica di tale letteratura eterodossa venne in gran parte accolta dagli esponenti più maturi del materialismo settecentesco. Ciò permette di chiarire l'aporia insolubile in cui si dibatte Holbach e il sostanziale fallimento del suo pur notevole sforzo di conciliare la letteratura non ufficiale tradizionale con l'esigenza, tipica del suo tempo, di costruire una nuova filosofia naturale con gli strumenti dottrinali empiristici. In effetti, furono ancora una volta le circostanze pratiche immediate, la necessità di condurre a fondo la lotta contro il cattolicesimo e gli istituti politici che lo sorreggevano, che risultarono predominanti e indussero Holbach e i numerosi philosophes del suo gruppo a porsi nella linea della tradizione culturale antireligiosa e ad accoglierne sostanzialmente le motivazioni. Come si vedrà, il piglio polemico ed eversivo, è addirittura ossessivo in Holbach: esso coesiste peraltro con la ferma e sincera volontà di porre le basi per la edificazione del vero sistema della natura. Non diversamente però da quello di d'Alembert, il tentativo di Holbach, ma per ragioni diverse, non ebbe successo, per la povertà degli strumenti concettuali di cui si servì, conseguenza di una insufficiente conoscenza delle scienze naturali del suo tempo e, soprattutto, di una inadeguata riflessione su di esse. Non è casuale il fatto che, mentre l'enciclopedismo di d' Alembert ebbe originali sviluppi nel positivismo, il materialismo di Holbach fu solo il punto di arrivo e il culmine della corrente filosofica antire-
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ligiosa tradizionale: il materialismo ottocentesco si muove, infatti, in una direzione diversa, verso cioè una utilizzazione, diretta ed esclusiva, dei metodi scientifici e dei risultati conseguiti nelle singole scienze. III· IL BARONE D'HOLBACH
Paul-Henri-Dietrich, barone d'Holbach, nacque ad Eidelsheim, una località tedesca (del Palatinato), prossima alla Francia. Poco si sa della sua famiglia. In virtù della munificenza dello zio, Franciscus Adam d'Holbach, che si era da tempo trasferito a Parigi, dove aveva acquisito una notevole fortuna e il titolo baronale, ricevette una buona educazione, e, in seguito, alla morte di lui, un patrimonio ragguardevole e il titolo di barone. Il giovane Paul-Henri studiò alla università di Lei da e visse per qualche tempo a Heesen; poi, sposatosi con la figlia di una sua cugina, Basile-Geneviève d'Aine, si recò a Parigi, dove in breve tempo entrò in relazione con gli ambienti culturali più vivi della città. Molto importante fu la sua amicizia con Diderot che durò tutta la vita ed ebbe grande rilievo nella sua opera (con Rousseau ruppe, invece, clamorosamente i suoi rapporti dopo pochi anni). Subito dopo aver conosciuto Diderot entrò nel vivo dell'ambiente dell'Encyclopédie e collaborò attivamente, a partire dal secondo volume, pubblicato nel I 7 5z, alla redazione dell'opera, soprattutto per quanto riguarda la metallurgia e la mineralogia. La casa di Holbach divenne in breve il centro del gruppo enciclopedista; i pranzi che settimanalmente offriva agli amici erano altrettante occasioni per degli incontri e delle discussioni su temi letterari, filosofici e politici condotte con spregiudicatezza e nella più ampia libertà. Furono ospiti di Holbach i maggiori uomini di cultura del tempo: Voltaire, d' Alembert, Grimm, Buffon, Saint-Lambert, Rousseau, Helvétius, l'abate Galiani, Hume, ecc. Gli amici più intimi di Holbach, Diderot, Boulanger, Naigeon e altri che condividevano le idee materialistiche e radicali del barone, costituivano il centro del salotto e formavano la cosiddetta coterie. Nel 1754 gli morì la moglie che svolgeva un ruolo non indifferente nei ricevimenti che offriva; poco dopo si risposò con la sorella di Basile-Geneviève, Charlotte-Suzanne. La sua vita si svolse tranquillamente quasi esclusivamente a Parigi e nella sua residenza di campagna (Le Grandval) dove spesso era ospite Diderot (solo nel 1765 fece un breve soggiorno in Inghilterra) e fu completamente assorbita dall'attività di infaticabile animatore culturale e di cauto, ma ostinato, propagandista a favore del materialismo. Morì nel 1789. Holbach svolse un'intensa attività come divulgatore e editore di testi. Essa comprende la traduzione di numerosi trattati di chimica e di tecnica tedeschi, pochissimo conosciuti in Francia, tra cui la Minéralogie ou description générale des substances du règne minéral (Mineralogia o descrizione generale delle sostanze del regno minerale, 1753) di J.G. Wallerius; la Chimie métallurgique (La chimica meta/-
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lurgica, I758) di C.E. Gellert; i Traités de physique, d'histoire naturelle, de mtneralogie et de métallurgie (Trattati di fisica, di storia naturale, di mineralogia e di metallurgia, I759), di J.G. Lehmann; la P_yritologie, ou histoire naturelle de la pyrite (La piritologia, o storia naturale della pirite, q6o), di J.F. Henckel; il Traité du soufre (Trattato sullo zoljò, I766), di G.E. Stahl; gran parte del contenuto di questi testi venne utilizzato dal barone per la redazione delle voci dell' Encyclopédie.
Comprende inoltre l'edizione di numerosi scritti di polemica antireligiosa che circolavano da tempo e che egli fece stampare in Olanda e introdurre clandestinamente in Francia. Citiamo alcuni di questi testi: Recherches sur l'origine dudespotisme orientai (Ricerche sull'origine del dispotismo orientale, q6 I), e L'antiquité dévoilée par ses usages, ou examen critique des principales opinions, cérémonies et institutions religieuses et politiques des dijférents peuples de la terre (L'antichità svelata dai suoi usi, o esame critico delle principali opinioni, cerimonie e istituzioni religiose e politiche dei vari popoli della terra, q66), di N.A. Boulanger; Lettre de Thrasybule à Leucippe(Lettera di Trasibulo a Leucippo, I 76 5), e l' Examen critique des apologistes de la religion chrétienne (Esame critico degli apologeti della religione cristiana, I766), di N. Fréret; Les prétres démasqués, ou des iniquités du clergé chrétien (l preti smascherati, ovvero delle iniquità del clero c1'istiano, traduzione dall'inglese, I767), di « Layman »; L'esprit du clergé, ou le christianisme primitif vengé des entreprises et des excés de nos prétres modernes (Lo spi1'ito del clero, ovvero il cristianesimo pritnitivo contraddetto dalle imprese e dagli eccessi dei nostri p1'eti moderni, traduzione dall'inglese, 1767), di ]. Trenchard; Le militai1'e philosophe ou diffìcultés sur la religion, proposées au R.P. Malebranche, prétre de I'Oratoire (Il militare filosofo, ovvero diffìcoltà intorno alla religione, proposte al Rev. P. .Malebranche, prete dell'Oratorio, I 768); Let tres philosophiques (Lettere filosofiche, traduzione dall'inglese, q68), di ]. Toland; De la nature des choses (Sulla natura delle cose, testo e traduzione, I768), di Lucrezio; De la nature humaine (Sulla natura umana, traduzione dall'inglese, I77z), di T. Hobbes. Numerosi sono pure gli scritti originali di Holbach, tutti pubblicati anonimi o con artifici letterari: erano anch'essi stampati in Olanda e divulgati per vie traverse in Francia. I principali sono i seguenti: Le christianisme dévoilé, ou examen des principes et des effets de la religion chrétienne (Il cristianesimo disvelato, ovvero esame dei principi e degli effetti della religione cristiana, stampato come se fosse opera di Boulanger, ormai defunto, I 76 I, antidatato I 7 56); Système de la nature, ou des lois du monde physique et du monde mora/ (Sistema della natura, o delle leggi del mondo fisico e del mondo morale, I 770); Le bon sens, ou idées naturelles opposées aux idées surnaturelles (Il buon senso, ovvero idee naturali contrapposte alle idee soprannaturali, I77z); 5_ystème social, ou principes naturels de la morale et de la politique, avec un examen de l'influence du gouvernement sur /es moeurs (Sistema sociale, o principi naturali della morale e della politica, con un esame dell'influenza del governo sui costumi, I773); La morale universelle, ou /es devoirs de l'homme fondés sur la nature (La morale universale, ovvero i doveri dell'uomo fondati sulla natura, I776). p.o
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Lo stretto legame del materialismo di Holbach con la letteratura eterodossa tradizionale traspare più che dai contenuti, dall'impostazione stessa della dottrina e dalle sue caratteristiche metodologiche essenziali. L'analisi ha infatti lo stesso tono di assolutezza e di genericità della filosofia naturalistica anteriore e non è per nulla adeguata allo stato di grande complessità cui erano giunte le scienze fisiche e biologiche del tempo: ad esse occorreva purtuttavia rifarsi se si volevano creare degli strumenti teorici e metodologici atti a trattare in modo nuovo i temi usuali della natura, dell'uomo e dei loro reciproci rapporti. Ma Holbach aveva un'idea molto approssimativa della fisica e della biologia del suo tempo e per quanto riguarda la chimica, la disciplina che più lo aveva interessato, condivideva le concezioni stahliane, allora molto in voga, ma ormai in via di completo superamento; egli non ebbe affatto coscienza del profondo rinnovamento che la chimica stava subendo proprio negli anni della sua maturità intellettuale. L'impostazione che P. Naville, il maggior studioso di Holbach, ha dato al suo lavoro, Ho/bach et la philosophie scientifique au xvm siècle (Ho/bach e la filosofia scientifica nel xvm secolo, 1943) risulta quindi inaccettabile; il voler porre Holbach e le sue concezioni nel vivo del dibattito scientifico settecentesco, significa fare della cattiva apologia del barone, e soprattutto, fuorviare il discorso. Per farsi un'idea delle sue carenze, in questo campo, basta considerare il modo vago e indeterminato con cui è affrontata nel Système de la nature, l'opera più importante del barone, la questione del movimento della materia e delle sue leggi o quella della sensazione e della genesi delle facoltà intellettuali; si tratta peraltro di problemi fondamentali nell'ambito di una dottrina che voglia essere materialistica. Tale dilettantismo scientifico ha conseguenze negative generali e di fondo che investono tutta l'opera del barone: è la matrice principale dell'assoluta mancanza di ordine e di rigore concettuale della trattazione, dell'uso di un linguaggio impreciso e, sul piano formale, di macroscopici difetti stilistici (la prolissità e le frequenti e inutili ripetizioni che si riscontrano nel Système furono più volte rilevate e furono a lungo stigmatizzate da Voltaire). L'assenza di una mentalità rigorosa nell'affrontare i problemi traspare specialmente se si considera la concezione di Holbach dal punto di vista che le è più proprio, quello della stretta connessione tra prospettiva teorica e politica. Nel 5_ystème, e più ancora nelle altre opere, il riferimento ai nessi che collegano l'assunzione di determinate dottrine con le istituzioni politiche e religiose è continuo. Considerando le varie tirannidi e le varie chiese e particolarmente la chiesa cattolica come i veri responsabili degli errori concettuali e dei pregiudizi che si continuano e si aggravano nel tempo, Holbach ritenne che suo compito precipuo fosse quello di combattere incessantemente, con ogni mezzo e da ogni punto di vista, tale duplice avversario. Certamente la tensione pratica, il sincero anelito per l'affermazione della verità e per la conquista di una società più libera e giusta, costituiscono l'aspetto più vivo dell'opera del barone. Osserva giusta-
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mente a questo proposito N aville: «La lettura di Ho lbach è benefica. Il suo pensiero respira l'onestà, l'energia, l'intelligenza, la generosità, il rifiuto di ogni ipocrisia, l'intransigenza e anche l'humour.» Per quanto riguarda l'impegno, l'energia, il coraggio intellettuale profusi per l'acquisizione sociale di quegli ideali di umanità, di libertà, di giustizia che, dal Settecento in poi, sono diventati il patrimonio inalienabile della cultura razionalistica e democratica, la figura di Holbach rimane esemplare. Tale passione politica, pervasa com'è da un acceso moralismo, non fa però che aggravare le ambiguità e la confusione metodologica della trattazione. Egli è pienamente convinto che la scoperta della verità coincide con la conquista di una nuova e più alta moralità e che entrambe sono il frutto di un atto di emancipazione intellettuale e insieme morale. La vera conoscenza cioè non si consegue che a prezzo dell'impegno, dello sforzo, del coraggio con cui ci si è saputi liberare dai pregiudizi cui le istituzioni politiche, sociali, religiose tengono avvinti gli individui. La conseguenza che ne trae il barone è però quella di mescolare continuamente all'esposizione dottrinale la esortazione pratica e la declamazione e di usare spesso tali artifici retorici come un mezzo per uscire dalle difficoltà concettuali in cui si viene ad imbattere. In definitiva, il giudizio che un acuto critico inglese del secolo scorso dava del barone: « è più un espositore che un ricercatore, più un predicatore che un filosofo; e fa un uso sfacciato dell'esortazione, invece che della prova» rimane ancora quello più valido. All'inizio della prefazione del Système de la nature si trovano queste significative parole: « L 'uomo non è infelice se non perché misconosce la natura »; l'opera termina poi con un capitolo, Abrégé du code de la nature (Compendio del codice della natura), che è un inno di esaltazione lirica della natura, in cui alcuni critici hanno riconosciuto la mano di Diderot (Diderot, come è noto, rivide per intero il manoscritto del Système). Il contrasto tra l'esperienza, da cui solo può nascere un verace contatto con la natura e l'immaginazione, fonte di ogni errore, così essenziale in tutta la problematica dell'illuminismo, è la matrice fondamentale anche del pensiero di Holbach e disvela nel barone, come in tutti i philosophes, quella esigenza realistica che è al fondo di ogni filosofia razionalistica. La nozione della natura come un tutto è l'idea generale che guida la ricerca del barone. Per radicalizzare in senso rigidamente materialistico questa concezione tanto tradizionale, egli insiste, fin dall'inizio della sua opera, sulla completa determinazione materiale della natura, e pertanto, sulla non esistenza di entità spirituali e della distinzione tra uomo fisico e morale. 11 presupposto fondamentale è quindi il rifiuto della nozione di passività della materia e l'asserzione che i fenomeni, dai più semplici ai più complessi, si autogenerano necessariamente l'uno dall'altro in virtù del movimento che è proprio, ab aeterno, della materia. « Se per natura,» egli afferma, «intendiamo un ammasso di materie morte, prive di ogni proprietà, puramente passive, saremo senza dubbio forzati a cercare al di
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fuori di questa natura il principio dei suoi movimenti; ma se per natura intendiamo ciò che essa è realmente, un tutto le cui diverse parti hanno diverse proprietà, che fin da allora agiscono secondo quelle medesime proprietà, che sono in una azione e reazione perpetua le une sulle altre, che pesano, che gravitano verso un centro comune mentre altre se ne allontanano e vanno alla circonferenza, che si attirano e si respingono, che si uniscono e si separano e che con le loro collisioni e i loro ravvicinamenti continui producono e decompongono tutti i corpi che vediamo, allora nulla ci obbligherà a ricorrere a delle forze soprannaturali, per renderei conto della formazione delle cose e dei fenomeni che vediamo. » Le prove empiriche che adduce per dimostrare il suo assunto sono per altro dubbiose o estremamente generiche. Esse sono i fenomeni di autocombustione, di generazione spontanea e in genere quelli misti in cui si trovano uniti insieme il fuoco, l'aria e l'acqua, come il tuono, le eruzioni vulcaniche, i terremoti. Si tratta, come si vede, più che di prove, di mere esemplificazioni, espresse nella forma del linguaggio comune e addotte senza la benché minima preoccupazione di farne le pietre angolari del sistema per mezzo di un'analisi dettagliata. Inoltre lascia indeterminato il problema della costituzione essenziale della materia non solo nel suo aspetto di questione squisitamente metafisica, ma anche in quello propriamente funzionale, precludendosi così la possibilità di un'analisi seria, di qualsiasi fenomeno naturale. Così, per risolvere la questione della determinazione della materia, anziché servirsi in modo esplicito e diretto dello strumento di indagine per eccellenza e insostituibile, quello di corpuscolo o particella (le molecole di materia, cui fa talvolta cenno, non hanno comunque una funzione esplicativa), introduce l'ambigua ed equivoca nozione di natura od essenza. È costretto infatti a considerare la natura in modo non omogeneo, ma continuamente differenziata. Le differenziazioni più generali sono quelle costituite dalle proprietà designate tradizionalmente come i quattro elementi fondamentali (fuoco, terra, acqua, aria). Secondo gli svariati modi con cui si compongono e si raggruppano le singole parti di materia, si formano entità individuali dotate di nature ed essenze peculiari, estremamente varie per grado e forma di caratterizzazione. L'essenza viene definita come «ciò che costituisce un essere, ciò che è, la somma delle sue proprietà o delle qualità secondo le quali esiste e agisce ». Ogni entità è quindi dotata di alcuni movtmenti caratteristici, sempre gli stessi; se un'entità dotata di un'essenza più forte si oppone ad essa, tale entità si modifica o si dissolve in relazione all'intensità dell'effetto subito. Così un corpo deve cadere necessariamente (la caduta è un effetto necessario del peso, della densità, della coesione delle parti di cui il corpo è composto), così la materia del fuoco deve bruciare, così un essere sensibile deve cercare il piacere e fuggire il dolore; così il fuoco cessa di bruciare delle materie combustibili, quando ci si serve dell'acqua per arrestare i suoi progressi; così l'essere sensibile cessa di cercare il piacere quando teme che ne risulti un male per lui.
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Come criterio esplicativo concreto dei fenomeni adotta ed usa in modo indiscriminato la nozione generica e vaga di gravitazione, che egli assimila alla conservazione dell'essenza propria di ogni entità corporea, credendo con ciò di aver superato la tradizionale dicotomia tra mondo fisico e morale. « La conservazione, » egli afferma nel capitolo IV della prima parte del Système, « è dunque il fine comune verso cui sembrano continuamente dirette tutte le energie, le forze, le facoltà degli esseri. I fisici hanno denominato questa tendenza o direzione gravitazione su di sé; Newton la chiama forza d'inerzia, i moralisti l'hanno chiamata nell'uomo amore di sé, che non è se non la tendenza a conservarsi, il desiderio della felicità, l'amore del benessere e del piacere, la prontezza a cogliere tutto ciò che sembra favorevole al proprio essere, e l'avversione marcata per tutto ciò che lo turba o lo minaccia: sentimenti primitivi e comuni di tutti gli esseri della specie umana, che tutte le loro facoltà si sforzano di soddisfare, che tutte le loro passioni, le loro volontà, le loro azioni hanno continuamente per oggetto e per fine. Questa gravitazione su di sé è dunque una disposizione necessaria nell'uomo e in tutti gli esseri che, con mezzi diversi, tendono a perseverare nell'esistenza che hanno ricevuto, finché nulla rompe l'ordine della loro macchina o la sua tendenza primitiva. » Ciò non fa che porre in rilievo quella che è la carenza principale di tutta la ricerca holbachiana: l'assenza di uno strumento metodologico unitario e rigoroso che permetta di dare, mediante analisi dettagliate, una effettiva interpretazione materialistica dei fenomeni naturali ed umani. Holbach è costretto pertanto ad avvalersi dello strumento classico del naturalismo anteriore, la mera analogia, nel senso meno rigoroso e più ascientifico del termine, e a combinare insieme in modo astratto e verbalistico concetti eterogenei e disparati tratti dai più diversi autori, da Aristotele ad Hobbes, da Locke, a Leibniz, a Toland. L'astrattezza e il verbalismo sono le caratteristiche principali del pensiero di Holbach. Si veda per esempio il modo con cui è risolto il problema della differenziazione degli individui. Il concetto base è la nozione di temperamento. « È dalla natura, » afferma, « è dai nostri genitori, è dalle cause che senza posa e dal primo momento della nostra esistenza ci hanno modificato, che ll hbiamo ricevuto il nostro temperamento. È nel seno della propria madre che ciascuno di noi ha attinto le materie che influirono per tutta la vita sulle sue facoltà intellettuali, sulla sua energia, sulle sue passioni, sulla sua condotta. Il nutrimento che prendiamo, la qualità d'aria che respiriamo, il clima in cui abitiamo, l'educazione che riceviamo, le idee che ci vengono presentate e le opinioni che ci vengono date, modificano questo temperamento, e siccome queste circostanze non possono mai essere rigorosamente le stesse in ogni punto per due uomini, non sorprende che ci sia tra di essi una così grande diversità, o che ci siano tanti temperamenti differenti quanto sono gli individui della specie umana. » Poco prima il temperamento era stato definito come « lo stato abituale in cui si trovano i
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Ulteriori sviluppi dell'illuminismo francese: Holbach e Condorcet
fluidi e i solidi di cui il corpo di ogni uomo è composto. I temperamenti variano in ragione degli elementi o materie che dominano in ogni individuo e delle differenti combinazioni e modificazioni che queste materie, diverse per se stesse, provano nella sua macchina. Ed è così che negli uni abbonda il sangue, negli altri la bile, il flegma in alcuni, ecc. ». Posta in questi termini, la nozione di temperamento non è altro che una mera espressione verbale che non spiega niente. Inoltre, e senza alcuna motivazione, Holbach accanto al temperamento, introduce come elemento di coesione dinamica degli individui il concetto stahliano di flogisto. « Sembra, in generale, » sostiene il barone, « che il principio igneo che i chimici hanno designato con il nome di flogisto o di materia infiammabile, sia quello che, nell'uomo, gli dà più vita ed energia, che procura più flessibilità, mobilità, attività alle sue fibre, tensione ai suoi nervi, rapidità ai suoi fluidi. » Risulta qui in modo chiaro quale sia il procedimento normale che Holbach usa per la sua trattazione e soprattutto quali siano i suoi veri intenti: quel che gli interessa in verità non è l'individuazione di strumenti concettuali atti a spiegare i fenomeni in tutta la loro complessità, bensì creare nel suo lettore un preciso atteggiamento di ripulsione verso alcune credenze radicate. Così il temperamento, essendo un termine che indica il complesso psico-fisico dell'uomo facendo riferimento esclusivamente ad elementi sensibili, serve da efficace contrapposizione a quelle definizioni dell'uomo che comprendono entità spirituali (anima, volontà, ecc.) non rilevabili empiricamente. Il designare un tutto con asserzioni implicanti un riferimento sensibile e il contrapporre polemicamentetali asserzioni a concezioni che contengano entità non empiriche, è una caratteristica costante del metodo holbachiano; in genere, la validità degli assunti proposti viene provata con una loro presunta efficacia pratica, cioè con esortazioni a servirsene. Così, a proposito della dottrina dei temperamenti afferma: « La morale e la politica potrebbero trarre dal materialismo dei vantaggi che il dogma della spiritualità non fornirà loro mai e ai quali impedisce loro anche di pensare. L 'uomo sarà sempre un mistero per quelli che si ostineranno a vederlo con gli occhi prevenuti della teologia, o che attribuiranno le sue azioni a un principio, di cui non possono mai avere idee. Allorché vorremo conoscere l'uomo, cerchiamo dunque di scoprire le materie che entrano nella sua combinazione e che costituiscono il suo temperamento; queste scoperte serviranno a farci congetturare la natura e la qualità delle sue passioni e delle sue inclinazioni, e a presentire la sua condotta in date occasioni: esse ci indicheranno i rimedi che potremo impiegare con successo per correggere i difetti di una organizzazione viziosa o di un temperamento tanto nocivo alla società quanto a quello che lo possiede. » Si può avere un'ulteriore conferma della netta prevalenza, nell'opera del barone, del motivo pratico-politico, se si considera uno dei più vivaci capitoli del Système, quello sulla libertà. In questo caso il tutto che viene considerato è l'attività dell'individuo nel suo complesso: dato che è stato posto che ogni individuo
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è esclusivamente un amalgama di elementi materiali, viene asserito che le azioni di ogni uomo, cioè i suoi movimenti, sono necessariamente determinati dalle condizioni in cui si è costituito e sviluppato il suo essere materiale. La prospettiva del totale ed estrinseco condizionamento dell'attività dell'uomo viene contrapposta alla concezione che postula la possibilità di resistere alle inclinazioni mediante la volontà. Questa possibilità si può avere o non avere, secondo il temperamento dell'individuo o comunque sempre in virtù di motivi estrinseci alla volontà dell'uomo. Se per esempio qualcuno vuoi dimostrare che è libero, sostiene il barone, per il fatto che può muovere o non muovere le mani, ciò non proverà la sua libertà, ma solo il desiderio di mostrare la sua volontà in un modo o nell'altro. Se poi quella stessa persona sostenesse che è libera di gettarsi dalla finestra, continua il barone, gli si può rispondere che non è vero, che fin quando conserverà la ragione, il desiderio di provare la sua libertà non diverrà motivo sufficientemente forte per spingerlo a tale azione; qualora si gettasse effettivamente dalla finestra, vorrà dire che è stata la violenza del suo temperamento a indurlo a ciò. Come si vede è l'assolutezza e il verbalismo di tale criterio assertorio che impedisce un serio discorso sulle motivazioni del comportamento umano. L'argomentazione viene quindi abbastanza disinvoltamente sviluppata nel senso che più sta a cuore al barone. Un freno alle inclinazioni malvagie e agli eccessi dei temperamenti, è possibile, si domanda, in un contesto sociale dominato dal culto dell'ambizione sfrenata, del denaro, delle sregolatezze di ogni genere, della vendetta, della persecuzione, che non fa altro che deprimere il bene con ogni sorta di esempi? Ancora una volta, egli si sforzerà di persuadere che il sistema della necessità è molto più utile di quello della presunta libertà per promuovere la virtù. Qui, come sempre, è il tema della società che corrompe gli individui instillando in essi pregiudizi ed errori ed oscurando i veri valori fondati sulla natura che predomina. Per instaurare il regno della moralità, bisogna cercare nel mondo visibile i veri moventi che spingono l'uomo ad agire; la natura indica che essi sono esclusivamente l'interesse e il piacere e che essi non possono essere veramente soddisfatti se non con la virtù, cioè promuovendo la felicità altrui; compito del phiiosophe è di diffondere tale verità e di persuadere gli uomini ad accettarla rimuovendo i pregiudizi che la offuscano. La filosofia di Holbach si pone quindi essenzialmente come un tentativo di demistificazione del passato e della tradizione: in ciò si collega a quelle che sono le esigenze più sentite del pensiero illuministico. L'avere interpretato questo motivo in senso prevalentemente oratorio e propagandistico e l'averlo sviluppato con il debole ausilio del metodo assertorio-verbalistico, costituiscono senza dubbio i limiti di tale filosofia nei confronti della grande corrente analitica del pensiero settecentesco. Non mancano, è vero, nell'opera del barone, spunti di una ricerc:,~ volta a dare un senso all'errore e al pregiudizio e a spiegarne le
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origini: sono però molto approssimativi, mancano di finezza, di approfondimento e di una seria riflessione sugli strumenti concettuali creati dalla psicologia empiristica. La nascita di concetti assurdi, come quello di anima, di ordine dell'universo, di dio, è in effetti un problema che viene considerato da Holbach. La nozione di anima viene spiegata come l'obiettivazione di un atto di ignoranza. L'uomo, osserva il barone, « vide che il suo corpo e le sue differenti parti agivano, ma spesso non poté vedere ciò che li portava all'azione; credette dunque di racchiudere entro di sé un principio motore, distinto dalla sua macchina, che dava segretamente l'impulso alle molle di questa macchina, si muoveva in virtù di una energia propria e agiva conformemente a leggi totalmente differenti da quelle che regolano i movimenti di tutti gli altri esseri ». La comune considerazione dell'universo come un tutto ordinato è vista come una indebita estrapolazione di una prospettiva psicologica. L 'uomo, infatti, non appena scorge un modo di agire che ha qualche affinità con il suo, tende a spiegado con una causa che gli assomiglia, che agisce come lui. «È così che l'uomo, non vedendo al di fuori della sua specie che degli esseri che agivano differentemente da lui e credendo di notare nondimeno nella natura un ordine analogo alle proprie idee, delle vedute conformi alle sue, immaginò che questa natura fosse governata da una causa intelligente come la sua, alla quale fece l'onore di quell'ordine che credette di vedere e delle vedute che aveva egli stesso. »Con questa sola differenza, che l 'uomo, sentendosi incapace di produrre gli effetti che vedeva nell'universo, esagerò enormemente le facoltà che possedeva, ponendole nella causa invisibile che regge l'universo. Un discorso più preciso è svolto da Holbach per spiegare la nascita dell'idea di dio, che è, a suo modo di vedere, la matrice permanente degli errori più gravi, degli arbitri più assurdi, delle più irragionevoli violenze che hanno afflitto l'umanità. La trattazione della divinità occupa tutta la seconda parte del Système ed è condotta puntigliosamente con l'intento di confutare, in modo ampio e dettagliato, tutte le presunte prove che sono state date dell'esistenza di dio. La nozione di dio viene risolta nell'ambito dell'analisi empiristica del comportamento umano, fondato sul bisogno. 11 primo dei mali che l'uomo avverte è, in effetti, il bisogno; esso è purtuttavia necessario alla conservazione e allo sviluppo individuale, poiché senza bisogni l'uomo non potrebbe né conoscere né evitare ciò che gli nuoce né procurarsi ciò che gli è favorevole, e non differirebbe dagli esseri insensibili e non organizzati. « Se la natura gli avesse permesso di soddisfare agevolmente tutti i suoi bisogni rinascenti, o di non provare che sensazioni piacevoli, i suoi giorni sarebbero trascorsi in una uniformità perpetua e non avrebbe avuto motivi per ricercare le cause sconosciute delle cose. » La divinità non è in fondo che il modo illusorio con cui l'uomo tenta di liberarsi dai timori, dagli allarmi, dai dolori, che sono suscitati in lui dai bisogni continua32·7
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mente insoddisfatti, e dal gran numero di mali estrinsechi che lo affliggono (accidenti, malattie, calamità, ecc.); è appunto per dare una spiegazione al male del mondo e per cercare di !imitarne le conseguenze dannose che l 'uomo ha forgiato degli agenti sconosciuti e potenti, obiettivando in essi le proprie facoltà, e ha creato il culto verso di essi. È su tali elementi che si sono costruite le religioni, il cui sviluppo è visto da Holbach come un processo di successive riflessioni. La prima teologia si fonda infatti sul timore e l'adorazione degli elementi, di oggetti materiali e grossolani; si ha poi il culto per degli agenti che presiedono agli elementi stessi, e infine la creazione, in virtù di uno sforzo di semplificazione, di un solo agente, di una intelligenza sovrana, di un'anima universale che mette in movimento tutta la natura: Ciò perché «l'essenza dello spirito umano è di lavorare senza posa sugli oggetti sconosciuti ai quali comincia sempre con l'attribuire una importanza molto grande e che non osa mai in seguito esaminare con sangue freddo ». Questo abbozzo di sviluppo delle religioni, discusso in dettaglio, costituisce di per sé uno sforzo effettivo di dare un senso preciso alla genesi dell'errore, ma risulta sterile, perché Holbach non ha posto bene in luce la necessità dei vari momenti dello sviluppo e quale sia il rapporto di essi con il manifestarsi della verità. lnvero il problema del nesso errore-verità, pur presente in tutta la filosofia del barone, viene in sostanza eluso con l'abituale uso di formule semplicistiche ed assertorie. Lo spunto più interessante di una ricerca più precisa si trova nel capitolo sulla libertà dove il barone afferma che, malgrado tutte le idee false e gratuite che l'uomo si è fatto sulla sua pretesa libertà, di fatto ha sempre adottato il sistema della necessità. Se non si supponesse, infatti, la presenza di un potere necessitante nella determinazione della volontà, non avrebbero senso l'educazione, la legislazione, la morale, la religione stessa che suppone che il genere umano e la natura siano sottomessi alle volontà irresistibili di un essere necessario. « In una parola, in tutto ciò che fanno, gli uomini suppongono la necessità, quando credono di avere per esso delle esperienze sicure, e la probabilità quando non conoscono il legame necessario delle cause con i loro effetti, non agirebbero come fanno, se non fossero convinti, o se non presumessero che da certi effetti seguiranno necessariamente le azioni che fanno. » Ma anche questo spunto esplicito è risolto in senso immediatamente polemico e non è il punto di partenza per una analisi approfondita dei rapporti tra riflessioni illusorie e vere, tra i risultati dell'immaginazione e quelli dell'esperienza. IV · LA DOTTRINA DEL PROGRESSO
La nozione del progresso del sapere si trova già delineata, nelle sue linee essenziali, nel xvrr secolo, anche se non assume la forma di una trattazione specifica e non è esplicitamente oggetto di dibattito culturale, se non verso la fine
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del secolo. Essa è vista più che altro come la naturale conseguenza della conquista della nuova dimensione della ragione scaturita dal grande sviluppo delle scienze e delle tecniche e dagli innumerevoli successi che aveva avuto in ogni campo. Il testo di Pascal che abbiamo citato nel capitolo vm della sezione IV, esprime in modo incisivo ciò che è una convinzione comune della cultura secentesca. Il problema si poneva concretamente soprattutto in relazione al modo in cui si situava il pensiero moderno nei confronti dell'antico. La celebre polemica letteraria, originata dallo scritto di Claude Perrault (Parai/è/e des anciens et des modernes [Parallelo fra gli antichi e i moderni], I 68 8-98), che si suole considerare come il punto di partenza, esplicito e diretto, del dibattito culturale attorno a cui si è venuta formulando la moderna dottrina del progresso, verte appunto sul tema del rapporto tra gli antichi e i moderni. Il testo di Perrault, come i numerosi scritti analoghi, hanno in effetti contribuito ad impostar< il problema, nei termini che vennero poi sviluppati, dibattuti e divulgati dagli illuministi. Tra gli autori « progressisti », la figura che emerge è senz'altro quella di Bernard de Fontenelle (I657-I757), il più celebre uomo di cultura del suo tempo. Poeta, autore di teatro, moralista, scrittore di cose scientifiche, questo grande divulgatore del cartesianesimo e del suo spirito, fu essenzialmente un letterato brillante e ironico. Segretario dell' Académie des sciences per oltre un quarantennio, scrisse numerose opere tra cui gli Entretiens sur la pluralité des mondes (Conversazioni sulla pluralità dei mondi, I686), che rimase il modello insuperato degli innumerevoli scritti di divulgazione scientifica settecenteschi e l'Histoire des oracles (Storia degli oracoli, I687). I testi da cui traspaiono le sue idee sul progresso sono i Dialogues des morts (Dialoghi dei morti, I683) e soprattutto la Digression sur /es anciens et /es modernes (Digressione sugli antichi e i moderni, I688). In Fontenelle la dottrina del progresso è già impostata in termini chiari. Infatti, vi si trova il problema della natura come struttura perenne, per cui tra gli antichi e i moderni non c'è differenza per quanto concerne l'energia creatrice («la natura dispone di una pasta che gira e rigira in mille modi, ma che è sempre la stessa »); vi si trova il problema dell'errore, visto come un passo necessario per l'acquisizione della verità; vi si trova il problema della distinzione tra progresso nell'eloquenza e nella morale e progresso nelle scienze. Ma è soprattutto con Turgot che la dottrina del prògresso trova un effett1vo approfondimento. Robert-Jacques Turgot (I727-8I) è più noto come economista e uomo politico che come filosofo. I suoi scritti filosofici appartengono al periodo della giovinezza (alcuni sono abbozzi relativi ad opere non portate a termine) e non sono molto conosciuti. Sono tuttavia tra i più interessanti di tutta la letteratura filosofica settecentesca: rivelano conoscenze ampie e approfondite, giudizi sicuri e precisi, analisi ricche, dense, serrate. Tali testi sono essenzialmente due discorsi letti alla Sorbona nel I 7 5o: S ur /es avantages que l' établissement
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du christianisme a procurés au genre humain; Sur /es progrès successifs de l'esprit humai11 (Sui vantaggi che l'istituzione del cristianesimo ha procurato al genere umano; Sui progressi successivi dello spirito umano) e un Pian des discours sur l'histoire universelle (Piano dei discorsi sulla storia universale), diviso in due parti: Sur la formation des gouvernements et le mélange des nations (Sulla formazione dei governi e l'incrocio delle nazioni) e un Esquisse dont l'objet sera /es progrès de l'esprit humain (Abbozzo il cui argomento sarà il progresso dello spirito umano). Le concezioni generali di Turgot si
sviluppano sotto il profilo della dominante filosofia empiristica di origine lockiana e si collegano direttamente alle filosofie della storia, come quella di Bossuet, dominate dalla prospettiva della provvidenza divina (Turgot parla talora di provvidenza, ma si può dire, come ha notato un critico, che in lui si venga attuando una sorta di secolarizzazione della provvidenza e una assimilazione di tale nozione con quella di progresso). Il problema del progresso è impostato in modo chiaro e preciso da Turgot, il quale stabilisce preliminarmente una distinzione fondamentale tra i fenomeni naturali e i fenomeni storici; Mentre i primi seguono sempre i medesimi cicli di sviluppo e sono determinati da leggi costanti, i secondi sono estremamente vari di luogo in luogo e di età in età. I fenomeni storici tuttavia si pongono fra di loro in un effettivo processo di continuità, per cui si può considerare il genere umano come un tutto immenso che ha come ogni individuo, la sua infanzia e i suoi progressi. Sono così delineate quelle che sono le questioni principali: la continuità e le caratterizzazioni dello sviluppo. Un presupposto essenziale è che il punto di partenza dello sviluppo è ovunque il medesimo. « Le risorse della natura e il germe fecondo delle scienze si trovano ovunque ci siano degli uomini. » Gli uomini si trovano, infatti, nei confronti della natura in un rapporto che è univoco: hanno cioè tutti le stesse sensazioni, le stesse idee, gli stessi bisogni. Gli strumenti dell'analisi empiristica hanno permesso, a giudizio di Turgot, di risolvere in modo verace il problema della genesi delle conoscenze e di scoprire così le strutture portanti dell'evoluzione comuni a tutti gli uomini. Egli pertanto sviluppa ampiamente questa questione che, pur appartenendo, egli osserva, più alla storia della natura che a quella dei fatti, è purtuttavia importante, poiché i primi passi condizionano il resto, ed espone una tipologia del processo conoscitivo abbastanza dettagliata secondo i soliti schemi lockiani. Essendo comuni i nessi strutturali che regolano l'attività degli uomini e i loro primi comportamenti fondati su bisogni elementari e grossolani, si può rilevare una identità sostanziale nelle varie manifestazioni del modo di vivere dei popoli primitivi. Ora, l'elemento dinamico che introduce il germe del progresso in alcuni popoli e non in altri è dato, secondo Turgot, dallo stabilirsi di una differenza qualunque. Non si tratta di una diseguaglianza dovuta al clima, come sostiene Montesquieu: tale opinione è smentita dai fatti. E neppure solo di una diseguaglianza naturale: individui meglio dotati, cioè
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con una felice disposizione nelle fibre cerebrali, con una memoria più viva ecc., esistono in egual misura in tutti i popoli, sia barbari che civilizzati, a parità del numero dei componenti la popolazione. Si tratta piuttosto di una diseguaglianza casuale, alimentata e fortificata dalle relazioni in cui si trovano gli individui e i popoli. « Senza dubbio, » afferma Turgot, « lo spirito umano racchiude ovunque il principio dei medesimi progressi, ma la natura ineguale nei suoi benefici, ha dato a certi spiriti, una abbondanza di talenti che ha rifiutato ad altri; le circostanze sviluppano questi talenti o li lasciano avvolti nell'oscurità; e dalla varietà infinita di queste circostanze nasce l'ineguaglianza dei progressi delle nazioni. » In un popolo barbaro c'è un livellamento abbastanza generale tra gli individui (tutti svolgono le medesime funzioni, l'educazione è la stessa per tutti); quando gli individui più dotati cominciano a stabilire differenze tra loro e gli altri individui (divisione del lavoro con conseguente creazione di dislivelli di ricchezza e di educazione), determinano le condizioni per il sorgere di uno sviluppo. La stessa cosa succede per i popoli. Un primo progresso determina i successivi, per cui il distacco di una nazione sull'altra aumenta in progressione. Il concetto del progresso implica quindi necessariamente quello della continuità, come trasmissione delle conoscenze acquisite: nella trattazione viene pertanto dato il dovuto rilievo all'importanza del linguaggio, della scrittura e soprattutto dell'educazione, intesa nel suo più ampio significato. Se Turgot ammette che la diversità del progresso dei vari popoli è casua,le, si sforza però di dare una ragione del diverso sviluppo delle scienze e delle arti e di stabilire delle leggi che ne regolano l'evoluzione. La matrice di tale differenz~1 si trova essenzialmente, secondo Turgot, nel diverso oggetto che considerano le varie discipline. Erodoto, per esempio, che è venuto dopo Omero, è enormemente inferiore in quanto storico, ad Omero in quanto poeta: spesso, in effetti, una cosa che richiede meno genio di un'altra, esige più progresso nella massa totale degli uomini. Turgot ritiene particolarmente significativa la differenza di sviluppo tra le scienze matematiche e le altre discipline. La matematica ha una evoluzione sicura; da poche idee semplici si traggono di mano in mano conseguenze vere, le quali sono a loro volta fonte di altrettante verità; la catena delle verità è ininterrotta, anche se si sono avute divergenze circa l'ordine da dare a tali verità (il metodo preferibile è quello di seguire i passi che ha seguito lo spirito umano nelle sue scoperte, che vanno dal conseguimento di verità particolari verso formule sempre più generali). Il carattere privilegiato della matematica consiste nel fatto che la verità delle proposizioni è dimostrata dalla reciproca dipendenza delle medesime e non c'è bisogno di stabilire una connessione con la realtà. Nelle altre scienze, quelle d'osservazione, che comprendono, secondo Turgot, oltre alle scienze fisiche propriamente dette, la logica, la metafisica, e anche, in qualche modo, la storia, la morale e la politica, il discorso è diverso; la verità è molto più difficile da conseguire, si realizza a livelli diversi secondo
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l'oggetto (nella storia, per esempio, la certezza che si può avere non è mai molto grande, perché dipende in gran parte da testimonianze), _e l'errore risulta essere una necessità di fronte all'enorme complessità di un'analisi che deve partire dal tutto della realtà, dove i fenomeni sono reciprocamente collegati l'uno all'altro. « Cerco, » dice enfaticamente Turgot, « i progressi dello spirito umano e non vedo quasi altro che la storia dei suoi errori. » In verità, il cammino in questi campi di indagine è lungo e tortuoso. Sulla base di un certo numero di effetti poco conosciuti, si formano ipotesi che poi vengono abbandonate per fare posto ad altre meno assurde, ma non per questo più vere: l'evoluzione, già lenta, è ulteriormente ritardata dallo spirito di setta che fa sì che gli uomini tendano a perpetuare le opinioni e le ipotesi conseguite, impedendo con ciò l'ascesa verso la verità. Le leggi secondo cui Turgot ritiene che tale cammino si svolga sono quelle che saranno riprese poi da Comte, il quale riconoscerà nel philosophe un suo diretto precursore: dapprima si crede che gli effetti fisici siano prodotti da esseri invisibili, intelligenti e simili a noi, poi da espressioni astratte come le essenze e le facoltà, infine da cause meccaniche. Considerazioni più brevi sono rivolte alle arti (anche in esse è possibile riscontrare dei progressi), all'eloquenza e alle arti meccaniche, le quali conoscono un progresso ininterrotto (ogni arte, ogni volta che è inventata, sussiste, e se sussiste, si perfeziona). L'evoluzione delle singole discipline è quindi impostata in modo chiaro e l'analisi è acuta e circostanziata, anche se è necessariamente sommaria, dato il carattere degli scritti turgotiani. Inoltre Turgot si preoccupa di vedere anche quale sia l'elemento di unificazione del progresso di tutte le scienze, che sarebbe costituito da una tendenza verso la generalizzazione crescente. La conquista della verità, cioè dell'avvicinamento progressivo alla realtà naturale sarebbe il frutto di una considerazione sempre più ampia dei fenomeni naturali; le prime ipotesi, più povere, nascerebberc. dall'esame di un numero limitato di fenomeni; le ipotesi successive, più complesse e più vere scaturirebbero dalla considerazione di un numero di fenomeni maggiore. Questo sarebbe un principio generale. Così egli riconosce che il cristianesimo, lungi dall'aver indebolito il sentimento della natura, ha apportato un effettivo progresso nell'evoluzione dell'umanità essenzialmente perché ha abolito le barriere tra ebrei e gentili, e ha promesso l'amore per tutti gli esseri umani, fortificando e ampliando la nozione di virtù e di felicità di tutto il genere umano. V · CONDORCET
Jean-Antoine-Nicolas Caritat de Condorcet nacque a Ribemont in Piccardia nel 1743. Studiò nel collegio dei gesuiti di Reims e poi nel collegio di Navarra a Parigi. Dopo essere ritormto per qualche tempo nella sua città natale, nel 1762 si stabilì a Parigi, dove entrò in relazione con l'ambiente enciclopedista. Particolare rilievo ebbe l 'amicizia che strinse con Turgot, il quale ebbe molta
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influenza sul suo pensiero filosofico e politico. Nel I769 entrò a far parte dell'Académie des sciences, di cui divenne segretario quattro anni dopo. Nel I775 fu nominato da Turgot inspecteur des monnaies, carica che tenne fino a quando Turgot rimase al potere come ministro; qualche anno più tardi (1782) divenne membro dell' Académie française, per opera soprattutto di d' Alembert. Nel periodo che precede immediatamente il I 789 e fino alla morte, svolse una intensa attività politica, divenendo uno degli esponenti più noti e combattivi della rivoluzione. Ricoprì numerose funzioni pubbliche e partecipò attivamente al dibattito sui principali problemi in discussione 1 ; alla Convenzione, pur avendo una posizione politica personale, fu abbastanza legato ai girondini. Inviso a Robespierre, il quale, come osserva L. Cahen, vedeva in lui, non senza ragione, il rappresentante della congrega enciclopedista che aveva perseguitato il suo maestro, Rousseau, nel luglio del I793 fu proscritto per essersi pubblicamente opposto al progetto di una nuova costituzione. Rifugiatosi nella casa di Madame V ernet, vi restò alcuni mesi; nel marzo del I 794, temendo di essere stato scoperto fuggì da Parigi; cercò invano ospitalità presso dei conoscenti, i Suard, e, infine, dopo aver vagato due giorni per la campagna attorno a Parigi, fu arrestato e condotto in carcere a Bourg-la-Reine. Fu trovato morto poco dopo nella sua cella; non si sa con certezza se si sia suicidato, come vuole la tradizione. A vendo dato false generalità al momento dell'arresto, la notizia della sua morte fu conosciuta solo molti mesi dopo. Condorcet fu uno spirito enciclopedico: si occupò dei più svariati argomenti e sempre in modo serio e approfondito. L'attività a cui si dedicò continuamente per tutta la vita fu la matematica; la sua opera in questo campo verte principalmente su problemi di analisi e di calcolo delle probabilità. Gli scritti più importanti, oltre agli articoli redatti per il supplemento dell'Encyclopédie e per l'Encyclopédie méthodique e a numerose memorie accademiche su problemi specifici, sono i seguenti: Du calcul intégral(Sul calcolo integrale, I765); Essais d'ana!Jse (Saggi di analisi, 1768); Essai sur l' application de l' ana!Jse à la probabilité des decisions rendues à la pluralité desvoix (Saggio sull'applicazione dell'analisi alla probabilità delle decisioni prese a maggioranza di voti, I 78 5). Una menzione particolare meritano i suoi studi dettagliati volti a cercare una applicazione pratica nelle scienze sociali e politiche del calcolo delle probabilità. Notevoli furono anche le sue conoscenze di storia della scienza: i suoi elogi degli accademici morti tra il 1666 e il 1699 e quelli degli accademici contemporanei, che egli scrisse conformemente alle sue funzioni di segretario dell' Académie des sciences, sono considerati un modello del genere. Si occupò anche di problemi di economia; condivise le idee fisiocratiche del suo amico Turgot e intervenne sulla controversa questione della liberalizzazione del commercio del grano con lo scritto Réflexions sur le commerce des blés (Riflessioni sul commercio I Sul progetto di riorganizzazione generale dell'istruzione pubblica, presentato da Condorcet
ali' Assemblea legislativa, mente nel capitolo xvi.
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si ritornerà ampia-
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dei grani, 1768) in difesa dell'opera riformatrice del ministro. Sull'importanza della concezione fisiocratica nel pensiero di Condorcet ha particolarmente insistito uno studioso italiano in uno scritto recentissimo. Vasta e molteplice fu inoltre la sua opera di pubblicista su varie questioni politiche. Ricordiamo, fra gli altri, lo scritto Réftexions sur l' esclavage des nègres (Riflessioni sulla schiavitù dei negri, 1781) e di legislatore. Della sua opera più nota, il Tableau historique des progrès de l'esprit humain (Quadro storico dei progressi dello spirito umano), si hanno alcuni frammenti e il Prospectus; essa fu redatta da Condorcet negli ultimi mesi di vita nel suo rifugio parigino, praticamente senza l'ausilio di nessun libro. La Convenzione nazionale rese omaggio alla memoria di Condorcet acquistando tremila esemplari del Prospectus per essere distribuiti nelle scuole repubblicane; nel rapporto letto nella seduta del 2 aprile 179 5 venne sottolineata particolarmente la grandezza della figura di Condorcet il quale «ha composto quest'opera in un tale oblio di se stesso e dei propri infortuni, che non c'è nulla che ricordi le circostanze disastrose nelle quali scriveva. Non parla della rivoluzione che con entusiasmo, e si vede che non ha considerato la sua proscrizione personale che come una di quelle sventure particolari quasi inevitabili nel mezzo di un grande movimento verso la felicità generale ». Nel Prospectus la storia dell'umanità è divisa in dieci grandi epoche. Le prime tre comprendono i primi stadi dello sviluppo, fino all'invenzione della scrittura alfabetica; la quarta e la quinta descrivono i progressi compiuti dallo spirito umano nel mondo greco-romano fino alla decadenza delle scienze; la sesta e settima sono dedicate ali' analisi della decadenza e degli inizi della restaurazione delle scienze in Occidente fino all'invenzione della stampa; l'ottava tratta del periodo che va dall'invenzione della stampa fino al tempo in cui le scienze e la filosofia scossero il giogo dell'autorità; la nona descrive l'età dei lumi; nella decima Condorcet traccia un quadro dei progressi futuri dello spirito umano. Tale Prospectus non era nelle intenzioni di Condorcet che il semplice abbozzo di un'opera grandiosa e ambiziosa. I frammenti dell'opera che si posseggono danno un'idea del modo ampio e particolareggiato con cui intendeva impostare la trattazione, che doveva essere una esposizione analitica dell'evoluzione dell'umanità in tutte le sue fotme e i suoi aspetti. Occorre quindi, nel dare un giudizio su questo scritto, tenere presente che esso dà solo la prospettiva d'insieme e le idee generali di un trattato che si poneva effettivamente come la summa del pensiero illuministico e delle sue aspirazioni. Il Prospectus è, in effetti, forse il testo più rappresentativo, insieme con il Discours préliminaire de I'Enryclopédie di d'Alembert con il quale ha non poche somiglianze, della cultura del xvm secolo. Entrambi gli scritti, di d' Alembert e Condorcet, sono programmi per monumentali opere di sintesi e palesano il vigore, la forza e l'energia di convinzioni radicate; entrambi accolgono i più validi elementi della filosofia illuministica (principalmente l'esigenza realistica e l'uso dell'ana334
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lisi come strumento di indagine) e ne condividono le illusioni e i limiti teorici. Come l'Encyclopédie, il Tableau voleva essere non solo un'opera dottrinale, ma uno strumento di azione culturale: la verità ormai acquisita, esposta nelle sue forme più compiute, doveva essere il punto di partenza per traguardi prestigiosi. « Queste osservazioni su ciò che l 'uomo è stato, su ciò che è oggi, condurranno in seguito ai mezzi per assicurare e accelerare i nuovi progressi che la sua natura gli permette di sperare ancora,» scrive Condorcet nell'introduzione. Non diversamente che in d' Alembert, anche se in forma diversa, il limite essenziale che si riscontra nell'opera di Condorcet consiste essenzialmente nella imperfetta correlazione, nel considerare l'evoluzione dell'umanità, tra concezione teorica e concezione storica. Il problema è visto chiaramente da Condorcet, il quale, fin dall'inizio, distingue la « metafisica » dalla storia. « Se ci si limita ad osservare, » scrive il philosophe, «a conoscere i fatti generali e le leggi costanti che presenta lo sviluppo delle facoltà, in ciò che c'è di comune ai diversi individui della specie umana, questa scienza porta il nome di metafisica. Ma se si considera questo stesso sviluppo nei suoi risultati, relativamente agli individui che esistono nel medesimo tempo su uno spazio dato, e se lo si segue di generazioni in generazioni, presenta allora il quadro dei progressi dello spirito umano. » I due momenti sono però strettamente congiunti nella trattazione non solo perché Condorcet si pone continuamente dal punto di vista della verità acquisita (strutture delle facoltà conoscitive dell'uomo rilevate dall'analisi empiristica; scoperta del metodo scientifico e dell'esistenza di un diritto naturale per ogni individuo), ma anche perché l'analisi « metafisica » gli serve spesso come chiarificazione del momento storico. Alcuni dei passi più interessanti dei frammenti dell'opera possono servire da esempio circa il metodo seguito da Condorcet: la trattazione del genio, in cui il philosophe espone una tipologia della scoperta geniale e innovatrice in ogni disciplina, e più ancora quella della nascita della superstizione religiosa. L'esame di questo problema è condotto con molta finezza e penetrazione. La prima forma di superstizione nasce, secondo Condorcet, dal desiderio di colmare il vuoto lasciato dai morti e di trovare una consolazione nel ritenere che una parte di essi sopravviva. «L'opinione che sussista,» egli afferma, «dopo la morte una parte di noi stessi che si compiace di vivere nei medesimi luoghi, che conserva i medesimi gusti, le medesime affezioni, era troppo consolante per non essere avidamente adottata da esseri la cui sensibilità era viva e la ragione debole. Ciò che questa opinione racchiude di contrario alle leggi generali della natura non poteva colpirli. L'annichilimento assoluto di un essere che poco prima aveva dei sentimenti e dei pensieri doveva anche apparire loro ancora più difficile da concepire che non quella nuova esistenza.» Si ebbe poi l'antropomorfizzazione dei fenomeni naturali, mediante la trasposizione in essi, per via di una analogia grossolana, degli elementi caratteristici dell'uomo (principalmente la volontà).« Questa analogia,» continua Condorcet, « appariva tanto più naturale a quegli uomini grossolani che, non a-
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vendo ancora alcuna idea della regolarità né delle leggi della meccanica, né degli effetti generali ai quali noi diamo il nome di cause e di cui gli effetti sensibili che osserviamo sono i risultati, l'azione di una volontà sui corpi era, fra tutte le cause, quella che era loro più familiare e di cui avevano anche una nozione più distinta. » Da questi primi fatti nacquero, secondo il philosophe, le religioni che si svilupparono poi sempre più per l'azione dei preti. Come si vede, la ricerca « metafisica » guida e potenzia la ricerca storica e ne costituisce l'asse esplicativo fondamentale. Se ne comprendono le ragioni: più di ogni altro philosophe, Condorcet ha sentito l'urgenza di spiegare l'errore secondo la categoria della necessità, al di là di ogni prospettiva moralistica, di ogni caratterizzazione positiva o negativa. Il progresso metodico, senza cadute o turbamenti, non potrebbe trovarsi che in una specie costituita in modo diverso da quella umana. Condorcet ha però interpretato questa necessità non nel senso in cui si era mosso Turgot, quello cioè di trovare nel ritmo stesso dello sviluppo le leggi generali che lo regolano, non si è cioè preoccupato di trovare dei principi generali chiari ed efficaci con i quali poter dominare in tutta la sua globalità l'evoluzione delle conoscenze e delle società. Ora, quando si usa la categoria della necessità, perché questa abbia un senso reale e fecondo, occorre porre alcune assunzioni generali ed essere in grado di derivare da esse l'insieme dei fenomeni che si considerano. Le conseguenze inevitabili sono la mancanza di sistematicità e di organicità e, in sostanza, l'empirismo, nel senso più lato del termine. Sono in effetti quelle in cui cade Condorcet; le sue spiegazioni dell'errore sono continuamente o di tipo « metafisica » o di tipo storico-sociale senza che fra di loro venga stabilito un nesso effettivo. Le spiegazioni storico-sociali, di cui Condorcet fa spesso uso, sono senza dubbio acute e interessanti. Di esse diamo qui due esempi che ci paiono particolarmente felici. La presenza delle classi sacerdotali si riscontra in tutti i popoli ed ha quindi un fondamento naturale. Essa ha avuto ad un tempo una funzione positiva e negativa: da un lato, infatti, ha contribuito ad accelerare il progresso di lumi, in quanto ha dato la possibilità ad un certo numero di uomini, svincolati da bisogni materiali, di coltivare certe credenze generali e di creare i primi rudimenti delle scienze (astronomia, medicina, ecc.); ma dall'altro, accentuando il distacco con il resto della popolazione e tenendo segrete le conoscenze acquisite o velandole con allegorie per mantenere il prestigio e il potere ed ingannare sempre di più il popolo, ha determinato paurosi ritardi nello sviluppo delle conoscenze. Ora « degli uomini il cui interesse era quello di ingannare dovettero ben presto provare disgusto per la ricerca della verità. Contenti della docilità dei popoli, credettero di non aver bisogno di nuovi mezzi per garantirsene la durata. Poco a poco, dimenticarono essi stessi una parte delle verità nascoste sotto le loro allegorie; della loro antica scienza non serbarono che ciò che era rigorosamente necessario per conservare la fiducia dei loro discepoli, e finirono per essere essi stessi vittime delle
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·loro favole». Su questo punto ha giustamente insistito lo studioso americano C. Frankel. L'altro esempio si trova nell'ottava epoca. La molla che ha fatto sorgere la cultura moderna e che ha infranto la catena dei pregiudizi che si perpetuavano nel tempo è stata, a giudizio di Condorcet, l'invenzione della stampa. Con lo sviluppo della stampa, si stabilisce una nuova tribuna, si forma un'opinione pubblica potente per numero ed energia poiché i motivi che la determinano agiscono su tutti gli spiriti, anche a grandi distanze. Ogni nuovo errore è combattuto fin dalla nascita; quelli ricevuti fin dall'infanzia sono distrutti per il fatto che è divenuto impossibile impedirne la discussione. Essa inoltre ha liberato da tutte le catene politiche e religiose, poiché, di fronte all'enorme diffusione dei libri e all'istruzione che tale diffusione apporta, tutti gli istituti tradizionali di dominio culturale di cui si servivano la tirannide politica e quella ecclesiastica per mantenere i popoli nell'errore e nel pregiudizio, vengono a perdere gran parte della loro efficacia. Si palesa qui quello che è il presupposto fondamentale del pensiero di Condorcet: il nesso indissolubile che stabilisce tra errore-oppressione-tirannide e verità-libertà-democrazia. È in effetti l'assunto con cui tenta di unire la « metafisica » e la storia. Ma più che un reale principio esplicativo un tale assunto è una mera convinzione che trae la sua efficacia dall'energia e dalla convinzione con cui Condorcet lo sostiene: risulta troppo generico perché possa servire da effettivo strumento di indagine. L'imbarazzo in cui il philosophe si trova alcune volte è particolarmente significativo. Così, a proposito della civiltà araba si esprime in termini che racchiudono quasi una contraddizione. «Le scienze erano libere e gli arabi dovettero a questa libertà il fatto di aver potuto risuscitare qualche scintilla del genio dei greci; ma essi erano sottomessi a un dispotismo consacrato dalla religione. Così questa luce non brillò qualche momento se non per far posto alle tenebre più spesse ... » E più oltre deve proporsi di risolvere il quesito di come « la religione di Maometto, la più semplice nei suoi dogmi, la meno assurda nelle sue pratiche, la più tollerante nei suoi principi, sembra condannare ad una schiavitù eterna, ad una stupidità incurabile, tutta quella vasta porzione della terra ove essa ha esteso il suo impero; mentre vedremo brillare il genio delle scienze e della libertà sotto le superstizioni più assurde, nel mezzo della più barbara intolleranza ». Ma è soprattutto nell'ottava epoca che traspaiono evidenti le difficoltà in cui Condorcet viene ad imbattersi. Non c'è alcun tentativo di spiegare perché si sviluppi nel Seicento la scienza moderna (introduce semplicemente nel corso del capitolo l'analisi dei rivoluzionari sviluppi dell'astronomia, della fisica, della matematica e della biologia) proprio nel secolo in cui dispotismo e intolleranza raggiungono il loro apice; i suoi sforzi per capire come si siano sviluppati i primi germi della libertà e del diritto naturale dalla riforma e dal rigurgito di intolleranza, che ne è seguito, sono fugaci, generici e puramente verbali. Se l'aporia rilevata costituisce il limite sostanziale dell'opera di Condorcet, 337
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ciò non toglie che egli abbia visto con eccezionale chiarezza, ancor più di Turgot, che la nozione fondamentale nella considerazione dello sviluppo dell'umanità, è quella della continuità. Il grande rilievo che hanno nel suo pensiero i problemi del linguaggio e dell'educazione ne sono l'immediata conseguenza. Si tratta di argomenti così essenziali che Condorcet ne ha fatto oggetto di studio per delle applicazioni pratiche. Se i suoi progetti di riforma dell'insegnamento sono ben noti e di essi si discuterà a lungo nel capitolo xvr, meno conosciuti sono quelli relativi alla creazione di un linguaggio rigoroso ed universale. Essi sono stati particolarmente posti in luce dallo studioso francese G.G. Granger. Le preoccupazioni per una lingua precisa collegano direttamente Condorcet a Condillac. Una frase del Prospectus è molto significativa: «Una delle prime basi di ogni buona filosofia è di formare per ogni scienza una lingua esatta e precisa, ove ogni segno rappresenti un'idea ben determinata, ben circoscritta, e di giungere a ben determinare, ben circoscrivere le idee. » Quel che è interessante è che Condorcet riconosce nella creazione di una lingua universale e rigorosa una necessità pedagogica derivante dalla sempre più grande diffusione dell'istruzione. Se, infatti, il genio può superare gli inconvenienti di un linguaggio poco preciso e può comunque discernere la verità, per far sì che le cognizioni possano essere efficacemente diffuse e apprese dalla maggior parte delle persone, occorre che siano espresse in una forma semplice ed esatta. Linguaggio ed educazione sono gli elementi in cui si realizza la continuità dello sviluppo, ma sono anche i fattori propulsivi del progresso. Il tema della continuità e del progresso tendono quindi ad unificarsi nell'opera di Condorcet: sono i due aspetti concomitanti in cui si presenta l'evoluzione. La nozione del progresso indefinito del sapere è pertanto la vera radice del pensiero di Condorcet, essa viene ampliamente sviluppata nel Prospectus in termini molto chiari e precisi. I lumi che si sono faticosamente conseguiti non debbono essere che la base per nuovi avanzamenti nella conoscenza e nell'emancipazione sociale in uno sviluppo che non può avere fine. La realtà, con la sua estrema complessità, è l'oggetto inesauribile della ricerca: anche la sola considerazione meccanicistica dei fenomeni costituisce già un sistema enormemente vasto per l 'uomo. Ciò non toglie che l'uomo abbia la capacità di adeguare continuamente la funzionalità dei suoi strumenti di indagine: metodi nuovi, semplificazioni sempre più efficaci, generalizzazioni sempre più precise, energie nuove scaturite da masse sempre più vaste di individui illuminati, amplieranno continuamente il campo di comprensione e di dominio dell'uomo sulla natura. Il quadro dei progressi futuri dell'umanità che Condorcet presenta nella decima epoca del Prospectus, pervaso di un ottimistico fervore, è animato dalle giustificate speranze di reali rinnovamenti sorte dalla rivoluzione francese; se tali speranze risultarono in gran parte fallaci, lo spirito che le animava costituisce sempre fonte di ispirazione per ogni cultura che voglia essere progressiva.
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CAPITOLO QUATTORDICESIMO
Il pensiero ftlosoftco-pedagogico italiano DI LUDOVICO GEYMONAT E RENATO TISATO
I ·IL TRAPASSO DELLA CULTURA ITALIANA DAL SEICENTO AL SETTECENTO
Il lettore avrà forse notato che nella sezione precedente non dedicammo alcun capitolo specifico alla trattazione del pensiero italiano. Si fece sì, parecchie volte, riferimento agli apporti - in taluni casi davvero notevoli - recati dai discepoli e continuatori di Galileo alle singole discipline scientifiche, ma è fuori dubbio che questi apporti non riuscirono purtroppo a confluire in un movimento di portata nazionale, capace di imprimere un qualche ben delineato carattere alla cultura del paese. Il fatto è che le grandi svolte operate, nell'ambito della filosofia e della scienza, dai pensatori del nostro rinascimento fino a Galileo incluso erano diventate da tempo patrimonio comune del pensiero europeo e stavano producendo, come sappiamo, notevolissimi frutti in Francia, Inghilterra ecc. La situazione dell'Italia aveva invece subìto nel xvn secolo un pauroso arretramento, almeno nel campo delle più impegnative indagini filosofico-scientifiche sia per effetto indiretto della mala amministrazione politica di quasi tutte le regioni (in ispecie di quelle sotto il dominio spagnolo), sia più direttamente per il pesante clima di intimidazione che la condanna di Galileo aveva diffuso in larghe schiere di intellettuali. Si ha l'impressione che per parecchi di essi l'unico serio problema (anch'esso però tutt'altro che facile da risolversi) fosse quello di mantenere qualche contatto personale con i più eminenti pensatori stranieri per ottenere qualche informazione attendibile sui grandi dibattiti della cultura d'avanguardia. Vi fu sì nelle nostre maggiori città una certa fioritura di studi storico-eruditi, sostanzialmente non ostacolati dalla controriforma che si limitava a precludere loro tal uni precisi reparti di storia religiosa ed ecclesiastica; ma il loro carattere circoscritto, sostanzialmente avulso dai più generali problemi filosofici, contribuì a rinchiudere gli spiriti, più che a sensibilizzarli verso i nuovi indirizzi che andavano diffondendosi nel resto dell'Europa. È fuori dubbio che le ricerche storico-erudite testé accennate fornirono un prezioso materiale filologico alle indagini di Vico. Non si può negare tuttavia
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che esse impressero ·alla cultura italiana un carattere retorico-umanistico che pesò a lungo sulla nostra tradizione, radicando in parecchi studiosi anche di valore, la convinzione che ogni altro tipo di ricerca (orientata per esempio verso una visione scientifico-filosofica del mondo) fosse intrinsecamente priva di un autentico significato culturale. Purtroppo lo stesso Vico, che pur nutriva vivi interessi per le scienze propriamente dette, finì per rafforzare questa tradizione con la sua tenace e accanita polemica anticartesiana. Nella seconda metà del xvn secolo si cominciano però a notare alcuni fermenti che, pur senza essere in grado di liberare la cultura italiana dalla pesante cappa testé accennata, rivelano un nuovo interesse per ciò che sta elaborandosi al di là delle Alpi. Essi sfociano nella creazione di vere e proprie scuole, che si propongono di rinfocolare i contatti col grande pensiero europeo su di un piano non più soltanto individuale ma per così dire collettivo. I limiti concettuali di queste scuole sono incontestabili, ma esse hanno l'indubbio merito di dar luogo a più ampi dibattiti, che tendono a strappare faticosamente il nostro paese dall'isolamento in cui era caduto. La rinascita culturale italiana del Settecento è strettamente connessa alla nuova atmosfera creata da tali scuole: ciò non significa però che ne sia una diretta prosecuzione, ed infatti, se un rapporto del genere può venire in certo senso affermato per gli illuministi, dei quali parleremo negli ultimi paragrafi del presente capitolo, esso non sussiste sicuramente per Vico che anzi si oppose energicamente alle filosofie straniere di recente importazione. Eppure anche il suo pensiero subì profondamente l'influenza dell'anzidetta atmosfera: fu essa a stimolarlo, a parlo di fronte a gravissimi problemi, a fargli cercare vie originali per la loro soluzione ( « originali», anche se ricavate da un serio ripensamento dei temi in qualche modo contenuti nella tradizione umanistico-erudita di cui abbiamo poco sopra fatto cenno). Ciò premesso, risulta chiaro che, prima di accingerci ad esporre il pensiero italiano del Settecento (nelle sue due fondamentali componenti, vichiana e illuministica), sarà opportuno fornire qualche informazione, sia pur brevissima e meramente schematica, sui tentativi compiuti negli ultimi decenni del Seicento, di aggiornare il nostro paese intorno ai risultati ottenuti dalle più famose correnti filosofiche europee. Spetta alla cultura napoletana il merito di aver capito l'importanza del cartesianesimo e la necessità di iniziare al più presto una diffusione sistematica di esso. Fu per l'appunto un professore dell'università di Napoli, Tommaso Cornelio (1614-86), matematico, astronomo e medico, a introdurre in Italia la conoscenza diretta delle opere del grande pensatore francese. Meccanicista convinto, egli accettò quasi per intero le ipotesi della fisica e della fisiologia cartesiane, ritenendo - quale erede del glorioso pensiero rinascimentale italiano di poter trovare senza difficoltà il modo tli conciliarlo con il vecchio naturalismo
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di Telesio nonché con le dottrine di Galileo. Anche il medico e filosofo Leonardo da Capua (I 6 I 7-9 5), amico del precedente, fu seguace degli insegnamenti di Cartesio e perciò strenuo avversario della medicina galenica. Egli pure si mostrò fermamente convinto di poter conciliare la scienza cartesiana con quella galileiana (segno evidente che non aveva saputo enucleare le ben diverse radici filosofiche dell'una e dell'altra), rivelando tra l'altro notevoli simpatie per l'atomismo di Democrito. A Tommaso Cornelio e Leonardo da Capua si deve la fondazione dell'accademia degli Investiganti, organizzata sul modello di quella che era stata la gloriosa accademia del Cimento di Firenze. Di pochi decenni più giovane fu Gregorio Coloprese della Scalea (I 6 5o- I 715) egli pure cartesiano entusiasta (« gran filosofo renatista », per usare le parole di Vico), che può venire considerato uno dei più dotti e autorevoli professori dell'epoca; pare che alla sua scuola venissero anche esposte e discusse le idee dei giansenisti. Non occorre aggiungere altri nomi per dimostrare quanto fosse numeroso e vivace il gruppo dei cartesiani di Napoli. Sembra invece indispensabile chiarire quale fosse il vero scopo del loro cartesianesimo: il richiamo al pensatore francese assumeva in loro il precipuo significato di una lotta aperta contro la vecchia cultura, contro le concezioni tradizionali della filosofia e della scienza (tanto da suscitare non pochi sospetti e persecuzioni da parte dei censori ecclesiastici). Proprio perciò non dobbiamo stupirei che essi non provassero alcun disagio a difendere, insieme con le teorie di Cartesio, anche quelle - per verità assai differenti - di Galileo o di Gassendi, e non di rado oscillassero tra la difesa del più schietto empirismo e l'adesione a un matematismo di tipo pitagorico-platoni-:co. Come spiega assai bene Eugenio Garin, « soprattutto scientifico fu originariamente l'interesse destato da Cartesio, e medici e naturalisti quelli che primi si occuparono di lui. Essi nella nuova filosofia vedevano soprattutto lo strumento polemico contro la tradizione, il mezzo di affermare e difendere le idee nuove. Chi volesse opporre nella cultura del tempo motivi galileiani, cartesiani e poi gassendisti, andrebbe assai lungi dal vero, ché li vediamo generalmente congiunti in un unico sforzo». Non mancarono, è vero, altri cartesiani, direttamente interessati anche alla metafisica del pensatore francese; basti citare Michelangelo Fardella da Trapani (I658-I7I8), che insegnò la filosofia cartesiana all'università di Padova dal I693 al I 709. Ma il significato innovatore della loro opera è in certo senso meno rilevante di quello del « cartesianesimo napoletano ». I problemi da essi dibattutti riguardano la conciliabilità della filosofia cartesiana con la religione cattolica, la possibilità di inserire il cartesianesimo nella tradizione del platonismo rinascimentale, di interpretarlo in chiave agostiniana, ecc. ; questioni tutte indubbiamente importanti, ma che tendono in modo più o meno esplicito ad attenuare la frattura fra il vecchio e il nuovo.
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Ritorneremo nel paragrafo VI su altri sviluppi del cartesianesimo in Italia; qui basti aver rilevato la funzione di autentica rottura che rappresentò - per il nostro paese - questa prima presa di contatto, in forma sistematica, con un grande filosofo di livello europeo. Allo studio di Cartesio e di Gassendi seguirà, poco più tardi, quello di altri famosi autori (Locke, Newton, Leibniz, ecc.) che porteranno alla ribalta sempre nuovi problemi. Saranno questi con tatti, via via più frequenti, a rendere possibile la mirabile rinascita che caratterizzerà la cultura italiana nel XVIII secolo. II · VITA E OPERE DI VICO
Di modestissima famiglia, Giambattista Vico nacque a Napoli nel" 1668. Come ci racconta egli stesso nella propria Autobiografia, 1 fu lungamente infermo, tra i sette e i dieci anni, in seguito a una grave caduta: si salvò per le attente cure ricevute, ma «dal guarito malore pervenne che indi in poi e' crescesse di una natura malinconica ed acre ». Allievo dei gesuiti, fu da essi stimolato a intense letture prima di logica e poi di metafisica; ma, tutto sommato, il giovane si sentiva più interessato alla poesia che non alla filosofia. Suo padre invece voleva avviarlo a studi giuridici per farne un avvocato; in effetti si addottorò in legge, forse a Salerno, fra il 1693 e il '94· Intanto aveva dovuto accettare un posto da precettore presso la famiglia di un nobile napoletano, Domenico Rocca marchese di Vatolla, e tale professione lo costrinse a vivere per nove anni (dal 1686 al 1695), quasi ininterrottamente nel castello avito che il marchese possedeva nel Cilento (per l'appunto a Vatolla): furono anni di «esilio» (forse meno rigoroso, però, di quanto Vico racconta nell'anzidetta Autobiografia) dedicati a studi molto intensi e a profonde meditazioni. Sul tipo di letture compiute in tali anni dal nostro autore sono sorte di recente parecchie discussioni. Se è certo infatti che egli lesse attentamente le opere di Agostino e dei più famosi rinascimentali (Ficino, Pico, Patrizi), non meno certo è tuttavia che subì anche l'influenza di Lucrezio e delle correnti fisico-materialistiche allora vivacemente dibattute dai circoli « novatori » della cultura napoletana. Ne è sicura testimonianza la celebre canzone, di manifesta ispirazione lucreziana, che Vico scrisse verso il 1692. e pubblicò nel '93; essa ha per titolo Affetti di un disperato ed è interamente dominata da un inconsolabile pessimismo sia per le sorti personali dell'autore sia, più in generale, per la sorte stessa del cosmo. Un valente studioso di Vico (Antonio Corsano) ha avanzato, qualche decennio fa, l'ipotesi di una crisi religiosa del giovane Vico che avrebbe determinato il I È questa un documento estremamente interessante, ma non sempre attendibile; fu infatti scritta quando Vico aveva poco meno di cinquant'anni, ed è quindi ben spiegabile che egli non ricordasse più esattamente tutti i particolari
della propria infanzia. Risulta inoltre viziata dall'intento dell'autore di presentarci un quadro della propria vita (in particolare della propria formazione) quale egli la vedeva a partire dalle nuove posizioni ormai maturate in lunghi anni di studio.
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suo trapasso, da una primitiva adesione all'epicureismo, a una posizione filosofica orientata in senso neoplatonico. Anche se tale ipotesi sembra poco accettabile non si può tuttavia negare che lo sviluppo del pensiero vichiano abbia attraversato una fase (sostanzialmente passata sotto silenzio nell'Autobiografia) in cui il nostro autore fu assai meno lontano dal meccanicismo di quanto lo sarà negli anni della piena maturità. Un'altra cosa è certa: che nel periodo in esame e ancora per molti anni più tardi (all'incirca fino al 1714), Vico nutrì un serio e vivo interesse per i problemi di fisica e di biologia. Dopo il distacco dalla fase originaria cui abbiamo or ora fatto cenno, egli penserà di poterli risolvere in forma decisamente antimateriaUstica e antimeccanicistica (ispirandosi ai temi vitalistici del Timeo platonico), e anche se tale soluzione ci appare arretrata rispetto alla scienza dell'epoca, essa vale comunque a confermarci la grande importanza attribuita dal nostro autore a tale tipo di problemi; purtroppo il Liber physicus dedicato all'argomento è andato perduto. Rientrato nel 1695 a Napoli, fu subito ammesso a frequentare i migliori salotti letterari della città ove si fece ammirare per le sue poesie e la grande erudizione (nel 1710 verrà aggregato all'Arcadia). Nel gennaio 1699 vinse la cattedra di retorica presso l'università di Napoli (carica però che comportava uno stipendio assai modesto) e nel dicembre del medesimo anno si sposò; il grande numero dei figli nati da tale matrimonio (ben otto) renderà sempre più pesante la situazione finanziaria del filosofo. Principale frutto del suo insegnamento universitario sono le sette orazioni inaugurali che Vico ebbe l'incarico di pronunciare in latino all'apertura dell'anno accademico (fra il 1699 e il 1708), la più importante delle quali è l'ultima, letta nel 1708 e pubblicata nel 1709. Come dice il suo stesso titolo, De nostri temporis studiorum ratione (Sul metodo degli studi del nostro tempo), questa orazione tratta con ampiezza l'organizzazione degli studi, stabilendo un raffronto critico fra il livello da essi raggiunto in tempi moderni e quello che possedevano in passato. Fra le più interessanti tesi ivi sostenute ricordiamo: l'impossibilità di affrontare con un medesimo metodo le scienze dell'uomo e quelle della natura, la difesa dell'indirizzo sperimentale nelle ricerche fisiche, la critica della pretesa cartesiana di giungere alla conoscenza della natura per via puramente matematica. A proposito di quest'ultimo argomento sono celebri le seguenti parole: «geom6trica demonstramus, quia facimus; si physica demonstrare possemus,faceremus » («dimostriamo le proposizioni geometriche perché le facciamo; se potessimo dimostrare quelle fisiche, le faremmo»). Nel 1710 Vico pubblica una prima esposizione sistematica della propria visione del mondo: De antiquissima italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda (Dell'antichissima sapienza italica da rintracciarsi nelle origini della lingua latina). In quest'opera l'autore tenta di illuminare le concezioni dei primi popoli italici, 343
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quali gli Joni e gli Etruschi, ricavandole dallo studio di talune parole che sarebbero passate dalle loro lingue in quella latina. Vi si trova per la prima volta chiarito in tutta la sua portata il famoso criterio del verum ipsum factum, su cui ci soffermeremo nel prossimo paragrafo; esso costituisce il perno di una serrata critica contro « i dogmatici del nostro tempo », cioè i cartesiani. Vi si trova pure abbozzata una classificazione delle scienze a partire dalla più certa, cioè dalla matematica, alla meccanica, poi alla fisica e infine alla morale (è una classificazione che verrà rovesciata nelle opere successive). Nel I7I3 inizia la stesura di una ricerca storica su Antonio Carafa; essa gli offre l'occasione di rileggere le opere di Grozio il quale diventa così uno dei quattro autori preferiti di Vico (accanto a Platone, a Tacito e a Bacone). Uscirà nel I7I6 col titolo De rebus gestis Antonii Caraphaci (Intorno alle imprese di Antonio Carafa). Da questo momento l'interesse di Vico si volge prevalentemente ai problemi di diritto e di storia. Nel I72o inizia la pubblicazione del Diritto universale, un'opera che può venire considerata quale primo abbozzo della futura Scienza nuova. Un secondo abbozzo di essa è elaborato tra il I723 e il '24 con la cosiddetta Scienza nuova in forma negativa, che è andata smarrita. Finalmente nel I725 esce la prima edizione del capolavoro vichiano: Principi di una scienza nuova d'intorno alla natura delle nazioni (è la cosiddetta Scienza nuova prima). Nel medesimo anno il nostro autore stende la propria autobiografia (Vita di Giambattista Vico scritta da se medesimo) a cui apporterà una notevole Aggiunta nel 173 I su invito di Muratori. Fra il natale I729 e l'aprile I730 riscrive il proprio capolavoro che uscirà nel dicembre col titolo Cinque libri di G.B. Vico de' principi d'una scienza nuova d'intorno alla comune natura delle nazioni (è la cosiddetta Scienza nuova seconda). Nel I 7 3 5 ottiene la carica di storiografo regio, e intanto gli viene raddoppiato lo stipendio di professore; ormai la fama del filosofo si va consolidando e anche la sua situazione finanziaria subisce qualche miglioramento. L'anno precedente aveva iniziato la stesura definitiva della Scienza nuova, cui lavorerà instancabilmente fino alla morte. Questa lo coglie nel gennaio I744; sei mesi più tardi esce la cosiddetta Scienza nuova terza, col titolo: Principi di scienza nuova d'intorno alla comune natura delle nazioni, in questa terza impressione dal medesimo autore in un gran numero di luoghi corretta, schiarita e notabilmente accresciuta. III · LA POLEMICA ANTICARTESIANA DI
VICO;
LA SCOPERTA DI UN NUOVO CRITERIO DELLA CONOSCENZA SCIENTIFICA
Pure ammettendo che Vico abbia attraversato (verso il I 692-93) una fase in cui fu tutt'altro che insensibile alle concezioni filosofico-scientifiche di Cartesio, di Hobbes, di Gassendi, ecc., è certo che fin dai primi del Settecento l'anti344
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cartesianesimo costituì uno dei fattori essenziali del suo pensiero. Ciò che il nostro autore rimprovera a Cartesio e ai cartesiani è soprattutto la pretesa di fondare la certezza conoscitiva unicamente sul criterio dell'evidenza e quindi di ammettere come scientificamente valide le sole spiegazioni ricavabili per via razionale da principi di per sé evidenti. Riprendendo alcune difficoltà già poste in luce dai primi critici di Cartesio, il filosofo italiano obietta che il criterio dell'evidenza non offre in realtà la benché minima garanzia: qualunque idea infatti, sia pure falsa, può apparire evidente a colui che la pensa. Da questa premessa metodologica al rifiuto dell'argomento cartesiano del cogito il passo è immediato: Vico non nega che dalla coscienza di pensare discenda con certezza la coscienza di esistere, ma nega che questa coscienza sia un autentico sapere, onde si possa con diritto fare appello ad essa per dissolvere i dubbi dello scettico: « Lo scettico non dubita di pensare... Egli non dubita di esistere ... Sostiene tuttavia che la sua certezza di pensare è coscienza, non scienza ... Sapere significa infatti possedere il genere o la forma in cui una cosa avviene: si ha invece coscienza di quelle cose delle quali non possiamo dimostrare il genere o la forma in cui avvengono (scire enim est tenere genus seu formam quo res ftat: conscientia autem est eorum, quorum genus seu formam demonstrare non possumtts). » Di qui l'assurdità di voler partire dal cogito, quale verità prima, assoluta e indubitabile, per giungere all'esistenza di dio, e poi di voler ricavare dalle proprietà attribuite all'ente supremo la garanzia assoluta della realtà della natura, nonché la conoscenza « necessaria » delle leggi supreme che la governerebbero. La polemica di Vico contro ogni apriorismo della fisica è serrata e implacabile, non mancando di spunti ancora oggi validi. Nel modo di procedere dei fisici cartesiani (e, potremmo aggiungere noi, di molti «fisici matematici») si nasconde, a suo parere, un gravissimo pericolo: quello di confondere la macchina reale del mondo con il modello immaginario che possiamo tracciarne in termini matematici, e di credere per conseguenza che la dimostrazione teorica di una legge entro questo modello possa sostituire l'osservazione diretta della legge medesima entro il mondo effettivo dei fenomeni. « Ma tali uomini dotti affermano che proprio questa fisica, da essi usata per insegnare con metodo geometrico, è la natura stessa; e che in qualunque modo tu ti rivolga alla contemplazione dell'universo, ti troverai di fronte a questa fisica. » È sulla base di questa incontestabile frattura tra mondo delle teorie e mondo dei fatti che il nostro autore sostiene con accanimento il primato del metodo sperimentale (baconiano) su quello matematico (cartesiano). Anche se non accetta tutte le teorie di Francesco Bacone (respinge ad esempio, come empia, la sua fiducia nella possibilità di instaurare sulla terra il regnum hominis), Vico ci appare qui un fedele interprete e un abile difensore del punto di vista baconiano; fatto questo tanto più importante, in quanto la concezione vichiana del sapere era in realtà - come vedremo nel seguito della nostra esposizione - notevolmente diversa
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da quella dell'inglese. Ma abbiamo già rilevato più volte (per esempio nei capitoli vu e vm) che il divario tra l'approccio sperimentale e quello matematico della fisica era senza dubbio molto profondo nel Settecento, e non dobbiamo quindi stupirei che un pensatore acuto come Vico abbia saputo percepirne così bene tutta la gravità. Vedremo del resto nel capitolo xvu che anche Kant si rese pienamente conto della sua importanza, e anzi lo assunse come uno dei problemi centrali da risolvere con la sua Critica. Le obiezioni testé riferite contro il metodo cartesiano dell'evidenza sono del massimo interesse non soltanto per le fondamentali conseguenze cui danno luogo- come si è visto- nell'ambito della metafisica e della fisica, ma anche perché costituiscono la premessa a partire dalla quale Vico pervenne a formulare il suo nuovo celebre criterio della conoscenza. Tale criterio stabilisce che è possibile giungere a una verace conoscenza di un oggetto (quale che questo sia) solo da parte di un soggetto che costruisca l'oggetto stesso. In altri termini: tanto dio quanto l 'uomo possono autenticamente conoscere solo ciò che essi fanno: verum ipsumfactum. La verità può cioè venire colta nella sua pienezza solo per via genetica (nel suo farsi), non in base a una mera contemplazione statica e astratta. Va subito osservato che questo criterio, mentre a prima vista parrebbe escludere la verità della matematica (che Cartesio pretendeva ricondurre a intuizioni chiare e distinte), riesce invece secondo Vico a salvarne appieno il valore. Nella matematica infatti - come già risulta da un brano citato nel paragrafo precedente - Vico ritiene che sia l'uomo stesso a costruire gli enti trattati (numeri, figure, ecc.), donde si ricava che egli può averne una conoscenza verace e completa. È una interpretazione che nel Settecento poteva apparire estremamente ardita e discutibile ma che in tempi moderni ha dimostrato (ad opera di critici della matematica, che operarono completamente al di fuori di ogni influenza vichiana) una straordinaria fecondità. Vico osserva tuttavia che l'anzidetta costruzione degli enti matematici non ha un valore reale ma soltanto convenzionale e arbitrario, bastando che l 'uomo modifichi le premesse di una teoria matematica perché se ne alterino anche tutte le conseguenze. Pur concedendo ai risultati di tale disciplina la qualifica di vere e proprie conoscenze, egli ne limita pertanto radicalmente la portata: afferma infatti che sono, sì, verità ma puramente convenzionali. Riassumendo: il criterio vichiano della conversione del vero nel fatto restringe in limiti assai circoscritti il campo delle conoscenze umane autenticamente tali. La matematica è ammessa come scienza, ma solo di enti fittizi, convenzionali; la fisica è invece esclusa, per principio, dal campo delle scienze umane, perché solo dio, e non l'uomo, è in grado di costruire il mondo della natura. Su una terza conclusione vale la pena di fermarci: in base all'argomento testé accennato Vico giunge altresì ad escludere la possibilità di una conoscenza completa e verace dell'essenza dell'uomo, perché anche l'uomo è opera di dio e non
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opera nostra. Ritorna qui, come è chiaro, il deciso e intrasigente anticartesianesimo del nostro autore. Cartesio aveva preteso di fondare tale conoscenza sul cogito, ma la sua pretesa è, secondo Vico, del tutto inconsistente. Il cogito potrebbe infatti costituire il principio onde conoscere l'essenza umana solo se esso fosse la causa che crea e produce l'effettiva esistenza dell'io. Le cose stanno però in modo ben diverso: « Il pensatore infatti, » scrive Vico, « non è causa ma segno del mio essere mente, e il segno non è causa. » Bisogna dunque concluderne che il cogito non può in alcun modo adempiere alla funzione assegnatagli da Cartesio; esso si limita a rispecchiare un fatto, e perciò è una semplice presa di coscienza dell'esistenza dell'io, non l'inizio di una vera e propria conoscenza scientifica.l Ma, se esclude dall'ambito della vera e propria scienza i due campi di conoscenza della natura fisica del mondo e dell'essenza dell'uomo (due settori che sembravano unanimemente acquisiti dalla filosofia dell'epoca), il criterio vichiano ne apre però un altro della massima importanza: il campo della storia, considerata come opera dell'uomo. Nei confronti di questa disciplina Vico si propone di compiere una rivoluzione analoga a quella compiuta da Bacone rispetto alla scienza naturale: tale rivoluzione consisterà nell'elevare la storia al rango di autentica scienza. A questo scopo occorrerà dimostrare che anche gli eventi storici come quelli naturali sono governati da un'effettiva logicità; logicità però inconfondibilmente diversa, secondo Vico, da quella che regna nelle scienze matematiche, tanto da richiedere uno specifico organo di conoscenza (l'ingegno o facoltà di scoperta del nuovo), anziché la ragione cartesiana (organo della verità dimostrativa). È il grande compito che il nostro autore intende assolvere nella Scienza nuova. IV ·LA CONCEZIONE VICHIANA DELLA STORIA
Una volta ammesso che la storia può venire da noi effettivamente e intrinsecamente conosciuta, perché sono proprio gli uomini a costruirla, sorgono subito a proposito di essa due problemi fondamentali: 1) quali mezzi dovremo apprestare per cogliere l'ordine logico che regola gli eventi storici? 2.) che interpretazione dovremo dare di tale ordine? dovremo cioè considerarlo come qualcosa che si impone dall'alto alla volontà umana o scorgervi, invece, un libero decreto di questa stessa volontà? Al primo quesito Vico risponde affermando che la nuova scienza dovrà scaturire dalla sintesi di due discipline - la filosofia e la filologia - capaci, nel 1 A proposito dell'uomo, va osservato che, diversamente dagli illuministi, Vico non rivelò in alcun caso effettivi interessi pratici e quindi non affrontò mai, di proposito, problemi etici. Egli era convinto (e questo è certamente uno degli aspetti meno moderni del suo pensiero) che il
fondamento della morale umana fosse in dio, o più esattamente nel timore di dio, e pertanto sostenne che solo questo timore riuscì - in tutte le epoche - a imporre agli uomini i canoni di quella che essi dovevano considerare una condotta giusta.
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loro reciproco intrecciarsi, di portarci ad afferrare in tutta la sua complessità l'ordine cercato. La filosofia, o scienza del vero ideale, è rivolta a cogliere la linea generalissima, lungo la quale corre tutta la storia delle « nazioni nei loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini». Questa linea ci fornisce «la storia ideale eterna» che Vico considera come la « norma » secondo cui si muove la storia effettiva dell'umanità, ovvero come la verità stessa della storia. La filologia, o scienza del certo reale, è invece rivolta alle raccolte di documenti (degli eventi reali e temporali) capaci di certificare le cose che si sono effettivamente svolte lungo l'anzidetta linea ideale. Essa non consiste soltanto nello studio delle parole e del loro sviluppo, ma, essendo le parole collegate alle cose che esprimono, anche nello studio delle cose. Secondo Vico, cioè, la filologia doveva elevarsi da storia della lingua a storia delle idee e dei fatti; doveva, insomma, divenire filosofia. Si trattava, in altri termini, da un lato, di convincere i filologi ad abbandonare la predilezione per quell'erudizione fatta di parole e fatti messi insieme senza un ordine e una veduta generali, e, dall'altro, di indurre i filosofi - e qui Vico si riferiva specialmente ai cartesiani - a non disprezzare l'apporto della filologia alla ricerca della verità. Così impostata, la nuova scienza riesce effettivamente, secondo Vico, a rintracciare un ordine logico (di una logicità non matematica, come si è detto) nella storia degli uomini, scoprendo anzitutto che essa possiede un inizio e un termine finale. Quello è lo stato di caduta e disperazione durante cui l 'uomo si trova in una condizione prettamente ferina. Questo è rappresentato dal dominio sull'impulso animale, cioè dall'ordine perfetto che coincide con la «repubblica di Platone ». Tale termine non va inteso come un traguardo che, una volta raggiunto, concluderebbe lo snodarsi della storia nel tempo. Esso rappresenta qualcosa di più profondo: un ordine verso cui tendono, con maggiore o minore consapevolezza, gli uomini in ogni stato e in ogni stadio della storia, con uno sforzo sempre rinnovato; un ordine il quale racchiude in sé il significato delle azioni umane e la legge che dà unità a tutto quanto l'uomo opera nel tempo. Su questa linea ideale - dallo stato « ferino » alla « repubblica di Platone » - corre, secondo Vico, tutta la storia reale dei popoli, che egli distingue in tre età fondamentali: degli dèi, degli eroi e degli uomini. Lo studioso moderno sarà in grado di percorrerla a ritroso, proprio in quanto sappia avvalersi, all'uopo, della filosofia e della filologia intese nel senso anzidetto. Perverrà in tal modo a riassumerla nella famosa formula: « gli uomini prima sentono senza avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura ». Studiando la prima epoca storica, cioè quella degli dèi, Vico ritiene di poter scoprire che ne sono i protagonisti « stupidi, insensati, orribili bestioni ». Questi bestioni «sentono senza avvertire», predominando in essi, per un lato, un'esu-
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berante sensibilità fisica, per l'altro, la fantasia donde nacquero il linguaggio e la poesia (Omero) e insieme la personificazione delle forze della natura in divinità terrifiche. Fu il timore di queste personificazioni a creare insieme i primi istituti religiosi - la cui origine risale, per Vico come per Lucrezio, al « timor » che « primos deos in orbe feci t » - e i primi istituti civili (come ricorderà il Foscolo nei Sepolcri). Non occorre far notare, tanto la cosa è evidente, che questa spiegazione dell'origine delle religioni risultava in palese disaccordo col racconto biblico. Vico cercò di uscire dall'imbarazzante difficoltà distinguendo la storia sacra da quella profana e sostenendo: 1) che la propria concezione della storia dei popoli doveva intendersi valida solo per la storia profana, e quindi inapplicabile a quella del popolo ebreo; z) che il periodo ferino non poteva comunque venir fatto risalire alla prima comparsa dell'uomo sulla terra, ma solo all'epoca successiva al diluvio universale, onde l'abbassamento dell'uomo allo stato di bestione poteva apparire come giusta punizione dei peccati commessi dai costruttori della torre di Babele. L'assurdità di questa artificiosa soluzione serve a porre in luce uno dei punti più deboli della posizione di Vico: la sua incapacità di liberarsi in modo completo dall'atmosfera equivoca della controriforma (incapacità derivante, tra l'altro, dal suo rifiuto di comprendere l'apporto innovatore di quella filosofia e di quella scienza moderna contro cui era partito in lotta con tanta acrimonia). Coll'assegnare alla poesia (in particolare ad Omero) una vera e propria funzione essenziale nella linea ideale della storia dell'umanità, Vico si poneva ancora una volta in aperta antitesi rispetto ai cartesiani, che avevano programmaticamente trascurato il valore della fantasia per esaltare soltanto quello dell 'intelletto (e con ciò trovava modo di schierarsi entro il filone retorico-umanistico di cui abbiamo fatto parola nel primo paragrafo, contro il filone scientifico dei « novatori renatisti »). La sua difesa della fantasia, e del prodotto di questa cioè della poesia, viene comunque svolta con argomenti di rara profondità filosofica: Vico la connette infatti alla teoria generale poco sopra delineata, cioè al fatto che - nella sua graduale evoluzione attraverso le tre età degli dèi, degli eroi e degli uomini - la mente umana non potrebbe, per sua intrinseca natura, giungere immediatamente al vero e proprio pensiero, ma « prima di riflettere con mente pura, avverte con animo perturbato e commosso ». In altri termini: la sua esaltazione della fantasia contro l'intelletto non si radica in un'analisi astratta della facoltà, ma in una concezione filosofica generale del mondo umano. Scendendo ad argomenti più circoscritti, noteremo infine che con la teoria ora in esame Vico raggiungeva pure un altro obiettivo: quello di affermare il fondamento umano della produzione poetica, contro le teorie estetiche dominanti che l'avevano ridotta a un mero cumulo di regole e di precetti esteriori, senz'alcun riguardo al suo vero contenuto, cioè all'ispirazione fantastica. Inoltre 349
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Vico vide acutamente come il linguaggio, inteso quale espressione non convenzionale né estrinseca della mente dell'uomo, avesse una origine del tutto naturale e spontanea, rappresentando l'esigenza ineliminabile dell'uomo di esprimersi e di comunicare. Anche il mito e le favole ricevono una loro giustificazione storica al pari della poesia, poiché costituiscono quella sapienza poetica che è l'insieme delle produzioni dello spirito umano allo stato barbarico. Da tali presupposti prende l'avvio la seconda delle tre età sopra menzionate, cioè l'età eroica, durante cui sorge e si fa avanti la riflessione. Essa mira, con i più antichi governi aristocratici, a realizzare l 'idea del bene comune, che Platone porrà al centro della propria filosofia. Nascono in tal modo le virtù eroiche della prudenza, della fortezza, della temperanza e della magnanimità. In questa età eroica si vengono costruendo ed innalzando le basi di una società umana non più fondata esclusivamente sulla forza e sulla violenza. Da questa nuova mentalità sorgono le forme di associazione basate su una comunanza di interessi sociali, come ad esempio i feudi; i contrasti fra gli individui non vengono più risolti con la sola ferrea legge del più forte, ma le si sostituiscono altre forme più simboliche di risoluzione che, ammantate di carattere religioso, acquistano un sacro valore. Saranno appunto quelle virtù e quei principi propri dell'« età eroica» a creare le condizioni, da cui potrà infine svilupparsi una terza età. È l'età degli uomini, destinati a chiudere la vicenda con una approfondita e consapevole· riflessione sul mistero - mistero però soltanto apparente - della storia umana. Va comunque segnalato che quest'ultima fase della storia umana non costituisce per Vico alcunché di definitivo. Egli ritiene al contrario che sia sempre possibile ricadere dall'età degli uomini a quella degli dèi (così sarebbe accaduto di fatto durante la «barbarie» medievale), e in tal caso l'umanità dovrà faticosamente ripercorrere tutte le tappe sopra accennate per elevarsi a una nuova età degli uomini. È la celebre teoria dei « corsi e ricorsi », in cui il nostro autore esprjme da un lato la propria visione pessimistica della storia, dall'altro la ferma fiducia che, in ultima istanza, ogni periodo di barbarie contenga pur sempre i germi di un nuovo ciclo di incivilimento. Siamo ora in grado di affrontare il secondo grave quesito sollevato all'inizio del presente paragrafo: qual è la sorgente profonda di quest'ordine? La risposta che il nostro autore fornisce a questa domanda è tutt'altro che univoca. Se infatti la tesi generale di Vico è, come sappiamo, che sono gli uomini stessi a fare la storia (e proprio perciò la storia può essere oggetto di conoscenza completa e e verace), non mancano però in lui varie affermazioni in senso contrario: affermazioni cioè che il motore profondo della storia non sarebbe interamente riducibile all'iniziativa umana. Esisterebbe in altri termini una coscienza segreta, insita negli eventi, che spingerebbe gli uomini, indipendentemente dalla loro consapevole volontà, a
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creare forme nuove di vita e di cultura, sollevandosi faticosamente dallo stato ferino a quello civile. A questa forza (in cui taluni studiosi hanno voluto scorgere l'antecedente diretto della famosa «astuzia della ragione» di Hegel) Vico ama attribuire il nome di «provvidenza», ben guardandosi però dall'identificarla con la provvidenza di cui parla la religione cristiana. Essa esclude che l'ordine degli eventi sia effetto del puro caso o sia il prodotto di un fato misterioso incombente sull'umanità. Dovrebbe riuscire a conciliare in ~é l'iniziativa umana e la logicità dei risultati cui questa ci conduce, pur attraverso innumerevoli errori e parziali sconfitte. In questo groviglio di problemi, un punto sembra comunque fondamentale: che Vico attribuisce proprio all'uomo il difficile compito di eludere la possibilità (mai escludibile a priori) di una caduta nello stato ferino. È un compito che il nostro autore ritiene possa venire assolto solo con la chiara consapevolezza che non esiste, nella storia, altro modo di conservare fuorché quello di accrescere. Il « ricorso » della storia, cioè il ritorno sui suoi passi, diventa invece una necessità, quando ci si illuda che, in un certo momento del tempo, siano state effettivamente realizzate e soddisfatte per sempre tutte le richieste che l'uomo può porsi per sviluppare la sua vita storica. Combattere questa illusione, rendere consapevoli gli uomini dei rischi e delle possibilità insiti nella loro storia, è per l'appunto il fine principale che Vico si propone nella Scienza nuova. V · LA
PEDAGOGIA.
LIMITI
DEL PENSIERO
VICHIANO
È superfluo notare la complessità e a volte la contraddittorietà dei temi presenti nel pensiero di Vico. Alcuni di essi sono senza dubbio ricchi di spunti geniali, ancor oggi incontestabilmente positivi; si pensi per esempio alla sua denuncia dei pericoli contenuti in una fisica strutturata più sulle formule che non sull'esperimento, alla scoperta del carattere convenzionale della matematica, al rjfiuto di identificare la conoscenza scientifica con la mera evidenza intuitiva, all'importanza da lui attribuita alle società primitive (onde qualcuno ha potuto vedere in Vico il precursore della moderna antropologia culturale), alla grandiosa filosofia della storia in cui il nostro autore si è sforzato di delinare, caratterizzandone le singole fasi, lo sviluppo generale della civiltà. Altri temi, tuttavia, non possono non lasciarci fortemente perplessi: per esempio il riconoscimento della cultura retorico-erudita come vera depositaria dei più alti prodotti dello spirito, l'incomprensione della funzione innovatrice del cartesianesimo (pur nei suoi indubbi limiti), il rifiuto del rigore logico-matematico e la contrapposizione ad esso della fantasia, l'esaltazione generica di Bacone singolarmente connessa a una sostanziale indifferenza di fronte ai nuovi risultati delle ricerche sperimentali, la passiva accettazione (forse più esteriore che interiore) dei dettami della controriforma con la conseguente rinuncia a un'effettiva lotta contro le istituzioni poli-
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tiche che l'appoggiavano, l'equivocità del concetto di provvidenza, ora invocato per richiamare agli uomini la grave responsabilità che ad essi compete come protagonisti delle vicende storiche, ora invece per istillare nei loro animi una specie di pacata rassegnazione di fronte alle medesime, il cui ordine interno risulterebbe qualcosa di completamente superiore alla valutazione morale datane dal singolo. Di fronte a una così manifesta complessità, non dovremo stupirei che il pensiero di Vico abbia potuto venire interpretato in sensi nettamente diversi e utilizzato (dal punto di vista della politica culturale) in direzioni assai contrastanti. Ciò è accaduto in particolare in Italia, ove però è sostanzialmente prevalsa l'utilizzazione di esso fattane da Croce, per emarginare dalla storia della cultura sia il filone illuministico sia le più moderne istanze avanzate dalle filosofie non idealistiche. Ciò che qui ci interessa subito rilevare, è che le profonde oscillazioni riscontrate nelle concezioni più propriamente teoretiche di Vico, ricompaiono anche nel suo pensiero pedagogico, di cui va pur tuttavia riconosciuta la grande importanza storica e la profondità nell'impostazione di taluni problemi. La tesi centrale, su cui si regge tutta la pedagogia vichiana, è che il trapasso storico dall'età della barbarie a quella della civiltà corrisponderebbe sostanzialmente al ritmo naturale secondo cui si sviluppa la stessa mente umana. Orbene, la prima conclusione che ne deriva può così riassumersi: il bambino non è un adulto imperfetto; egli ha un suo mondo, diverso da quello dei « grandi », con interessi suoi propri, con una vita psichica distinta da quella delle persone mature, che va studiata nelle sue strutture e nel suo dinamismo e affrontata sul piano che le è caratteristico. Il bambino, come l'uomo primitivo, è tutto senso e, successivamente, memoria, immaginazione, entusiasmo passionale. « Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione, ed è proprietà dei fanciulli di prender cose inanimate tra le mani, e trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive. » L'educazione per essere efficace deve dunque adeguarsi alle leggi di sviluppo della personalità; essa deve pertanto far leva prima di tutto sul senso, quindi sull'intuizione, sulla memoria, sulla fantasia, sul sentimento e rinviare ad un terzo momento l'appello alle facoltà razionali. Una verità astratta, nella migliore delle ipotesi, rimane incomprensibile ai fanciulli; nella peggiore, « assidera tutto il rigoglio delle indoli giovanili, lor accieca la fantasia, spossa la memoria, infingardisce l'ingegno, rallenta l'intendimento ». Per Vico non c'è dubbio che il solo piano di studi «naturale» sia quello elaborato dalla scuola umanistico-letteraria. Del significato e del valore formativo di questo piano di studi egli ci dà però un'interpretazione del tutto originale. L'apparire del linguaggio segna il distacco tra la ferinità e la civiltà: dalla lingua, pertanto, deve iniziare l'educazione, promuovendo lo sviluppo della memoria.
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Ma il primo linguaggio, così nella storia dell'umanità come nel processo evolutivo della persona, è poetico. Si leggano dunque i poeti, gli storici e gli oratori, favorendo il rafforzamento della fantasia «ch'altro non è che memoria o dilatata o composta ». Si studi infine la geometria lineare « che in certo modo è una pittura, la quale invigorisce la memoria ... ingentilisce la fantasia... e fa spedito l'ingegno ». L'ingegno, lo abbiamo già detto, è la facoltà di scoprire il nuovo, mentre la ragione è l'organo della verità dimostrativa. Nella scuola di impostazione cartesiana si dà troppa importanza alla critica, mirante a sviluppare le capacità razionali-dimostrative e si trascura la « topica », arte della scoperta degli argomenti. Ora è bensì vero che coloro i quali mirano solo all'abbondanza e varietà degli argomenti finiscono spesso per prendere per vero anche il falso, ma è altrettanto indiscutibile che, senza argomenti da criticare, la critica risulta condannata alla sterilità. Un altro tema essenziale della pedagogia vichiana è connesso al criterio del verum ipsum factum. Qui basterà ricordare che, in base a quanto spiegammo nelle pagine precedenti, secondo Vico «è verità umana quella che l'uomo compone e produce mentre la conosce », che « la scienza è la conoscenza del modo o della regola secondo cui la cosa si fa » e che, pertanto, « la mente, in quanto conosce il modo con cui compone gli elementi, produce la cosa ». Ne deriva non solo l'attribuzione di un valore primario, se non esclusivo, a quelle scienze le quali « si svolgono, ad imitazione della scienza divina, in effettiva creazione», ma anche l'affermazione che non c'è autentico sapere senza uno sforzo personale, senza un impegno soggettivo di creazione o, perlomeno, di attiva ricostruzione della verità. Un terzo motivo dominante nella pedagogia di Vico, è quello che riguarda l'importanza da attribuirsi alla «lezione della storia». Si tratta di un motivo che discende direttamente dal concetto dell'uomo come artefice e prodotto del processo storico. Se l'uomo non è nulla fuori della storia che egli stesso costruisce, è chiaro che egli diverrà tanto più consapevole di se stesso, e quindi tanto più libero, quanto più saprà uscire dall'isolamento della propria individualità astratta, prendendo coscienza della razionalità implicita in quella linea di sviluppo di cui la persona singola è il risultato e che, d'altro canto, essa contribuisce, sia pure inconsapevolmente, a portare avanti. L'importanza delle tre tesi ora menzionate è evidente, e risulta ben comprensibile che taluni autori del nostro secolo abbiano potuto scorgervi geniali anticipazioni della più avanzata pedagogia moderna. È però indispensabile sottolineare altri aspetti del pensiero vichiano atti a richiamarci ad una valutazione di esso più cauta e più realistica. In primo luogo la rivalutazione della sfera prelogica, operata con tanta insistenza dal nostro autore, corre senza dubbio il rischio di risolversi nella negazione
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della stessa possibilità del fatto educativo; è un pericolo da cui non è immune- su un piano più generale - la sua concezione dello sviluppo storico, che sembra talvolta sfociare, in aperta polemica con lo « spirito illuministico » del secolo, in una implicita negazione del concetto stesso di progresso. Né può venire passata sotto silenzio una singolare contraddizione in cui viene manifestamente ad urtarsi tutto il pensiero vichiano. Mentre per un lato Vico ammette, in modo esplicito, che anche la maggior parte degli uomini di oggi abbiano una vita attuantesi attraverso le forme della memoria e dell'immaginazione, per un altro lato esprime su di essi un giudizio molto severo, giungendo ad affermare che tale maggioranza sarebbe costituita di « stolti », di individui che operano «sconsideratamente», e di conseguenza definisce «lume d'ordine naturale » il fatto che i più lasciano governare i pochi « che sono per natura migliori », intendendo per « migliori » gli intellettuali che riescono a trasformare le sensazioni e le intuizioni in concetti e idee. Così una dottrina che taluni storici considerano essenzialmente progressiva in quanto rispettosa della struttura della persona umana, genera di fatto la teoria dei« due popoli» (a cui corrisponde una teoria dei due piani educativi), vero punto di forza del conservatorismo e ,della reazione fino ai giorni nostri. Scendendo ad argomenti più particolari, occorrerà infine far notare che la preclusione aprioristica di Vico contro tutti i nuovi fermenti politico-culturali in via di rapida diffusione nella sua epoca, lo portò ad assumere una posizione antiprogressista anche su punti specifici ove la paradossalità del suo atteggiamento risulta più manifesta. Ci limiteremo a citare a titolo di esempio due passi dell'orazione De nostri temporis, che ci sembrano particolarmente illuminanti. Con questa citazione non intendiamo, sia ben inteso, far dimenticare gli incontestabili meriti filosofici e pedagogici del grande pensatore, ma porre in luce ancora una volta i contrasti profondi che resero in certo senso equivoca la sua azione culturale. Nel primo, il nostro autore dopo aver ammesso che la « stampa è senza dubbio un grande aiuto ai nostri studi », in quanto per essa oggi « i libri si trovano in grande abbondanza e varietà in ogni luogo », dichiara esplicitamente di temere che la troppa abbondanza e il prezzo vile possano tradursi in un danno. Gli sembra che si legga e si scriva troppo e, invitando a concentrare l'interesse su poche opere di effettivo valore indica come criterio sicuro per identificare detto valore « il giudizio dei secoli ». « Prima leggiamo gli antichi, che sono di fede, diligenza e autorità provate; ed essi ci siano di norma per sapere quali dobbiamo preferire fra i moderni. » Nel secondo, trattando delle università, Vico rimpiange il buon tempo antico nel quale « un solo filosofo costituiva da sé una completissima università », in quanto «ciascun filosofo dominava tutte le cose divine ed umane». Oggi invece «le arti e le scienze, che la filosofia teneva unite come con un'unica anima, sono di~ise e disperse »; e ciò è un grave svantaggio. Gli sfugge, evidentemente, il 354
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significato dell'autonomia delle varie scienze come pregiudiziale per il loro progresso. Ma c'è di più: di fronte a quel « pervertimento » della cultura costituito dal fatto che nella stessa università insegnino contemporaneamente professori platonici, aristotelici, epicurei, cartesiani ecc., Vico, in nome della sintesi, invoca un intervento dei rettori, i quali dovrebbero formare un unico sistema di tutte le discipline, conveniente alla religione e allo stato, una dottrina uniforme da insegnare pubblicamente. Quanto siamo lontani dall'appello lockiano a non essere uomini che conversano con una sola specie di persone, che leggono una sola specie di libri e ammettono una sola specie di idee l Sarebbe facile osservare che la lontananza fra le due posizioni è pari alla differenza fra l'atmosfera dell'Inghilterra rivoluzionaria e borghese e quella dell'Italia meridionale, spagnolesca e bigotta. Possiamo accettare senz'altro l'osservazione, la quale però non ci esime dal dovere di mettere in evidenza i limiti e le ombre di una concezione che taluno pretenderebbe definire « più progressista » dell'empirismo e del razionalismo illuministici. VI ·ALTRI PENSATORI DELLA PRIMA METÀ DEL SETTECENTO
Nella prima metà del Settecento si assiste anche in Italia a una certa ripresa di studi sia in discipline particolari sia in considerazioni filosofiche connesse più o meno direttamente a tali discipline. Basterà ricordare - per il campo delle scienze propriamente dette - il gesuita Gerolamo Saccheri (I667-I733), di cui si parlò a lungo nel capitolo VI in riferimento ai suoi geniali studi sia di logica sia di geometria; e per il campo delle discipline storiche due nomi famosi; quello di Ludovico Antonio Muratori (I672.-I750) e quello di Pietro Giannone (I676I748). Il primo lavorò alcuni anni nella Biblioteca ambrosiana di Milano e poi quasi ininterrottamente dal I 700 fino alla morte nella Biblioteca estense di Modena, dedicandosi particolarmente allo studio del medioevo. La sua fama come storico è soprattutto legata alla monumentale opera Rerum italicarum scriptores (Scrittori di cose italiche, in ventiquattro volumi, I72.3-38) per la cui stesura ottenne la collaborazione di parecchi dotti dell'epoca; fra i suoi numerosi scritti di filosofia ci limiteremo a ricordare la Filosofia morale (I 7 3 5) e il volume Della regolata divozione de' cristiani (I747)· Pur rivelando più volte una sincera comprensione per le necessità delle classi inferiori e auspicando efficaci riforme da parte dei principi più illuminati, egli si mostra quasi sempre condizionato sia in storia che in filosofia dalla vecchia mentalità controriformistica e, come scrive Furio Diaz, resta ancora «ben al di qua dello spirito dei lumi». Il secondo (Giannone), nato in Puglia si trasferì ben presto a Napoli, ove coltivò le discipline giuridiche ed esercitò la carriera forense, inserendosi nella tradizione giurisdizionalista e anticuriale della città; subì l'influenza dell'ambiente filosofico napoletano cui abbiamo fatto cenno nel primo paragrafo, propendendo però più verso il pensiero 355
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II pensiero filosofico-pedagogico italiano
di Gassendi che non verso quello di Cartesio in cui scorgeva pericoli di un ritorno al platonismo. Ciò che lo avvicina in certo senso a Vico è la convinzione che lo studio della storia ci fornisca il mezzo indispensabile per comprendere la vera natura delle istituzioni umane; ciò che lo allontana da lui è però i'interpretazione di tale disciplina come arma di lotta politica (rivolta a liberare lo stato dalle inframettenze del potere chiesastico). La sua !storia civile (1723), che è un vero capolavoro polemico nel senso testé indicato, scatenò contro di lui l'odio dei preti e dei frati, ond'egli fu indotto ad abbandonare la patria per sottrarsi alla loro persecuzione. Trascorse alcuni anni a Vienna ove fruì di una pensione imperiale; ma nel 1734, espulso anche di lì, iniziò varie peregrinazioni riuscendo infine a raggiungere la Svizzera ove si convertì al calvinismo. A Ginevra condusse a termine nel 173 5 la sua seconda opera fondamentale, il Triregno (che aveva iniziata qualche anno prima a Vienna e che rimarrà inedita fino al 1895) nella quale, dall'attacco specifico contro la concezione mondana della chiesa cattolica, il nostro autore è condotto a sferrare una battaglia generale per il rinnovamento civile di tutta la società umana. Nel 1736, caduto in un tranello tesogli dalla polizia sabauda, fu arrestato dal governo piemontese che non lo rilascerà più; così Giannone morirà in carcere dopo dodici anni di durissima prigionia. Per quanto sia grande l'interesse degli autori testé citati, ci sembra tuttavia più istruttivo - al fine di raggiungere una visione globale delle principali, talvolta oscillanti, linee di sviluppo del pensiero italiano nel mezzo secolo considerato- prendere in rapido esame l'opera di due autori, Paolo Mattia Doria e Antonio Conti, che in certo senso impersonano le due tendenze antitetiche che si contesero il campo della cultura italiana: l 'una mirante a un graduale ritorno dal pensiero moderno - che aveva trovato tanti difensori in Napoli - alla tradizione platonica rinascimentale (prettamente italica), l'altra invece a un'intensificazione dei rapporti tra l 'Italia e il resto dell'Europa per assimilare, sia pur disordinatamente, le nuove e feconde concezioni filosofiche che stavano prendendo il sopravvento soprattutto in Francia e in Inghilterra. È necessario tener conto della effettiva presenza di entrambe le correnti, per spiegarci il ritardo con cui il così detto « spirito dei lumi » riuscì a diffondersi fra i nostri studiosi settecenteschi. Paolo Mattia Doria (1662-1746) nacque a Genova ma si trasferì ancor giovane a Napoli, onde può venir considerato un tipico rappresentante della cultura di questa città. Aveva iniziato i suoi studi con ricerche di matematica e di fisica, perseguite con successo lungo la grande via tracciata da Cartesio, in perfetto accordo, dunque, con gli spiriti più moderni appartenenti ai gruppi cui abbiamo fatto cenno all'inizio del presente capitolo. Ben presto però egli sente l'insufficienza delle ricerche testé menzionate; si accinge alla lettura delle Meditazioni dello stesso Cartesio, e sono proprio queste a suscitare in lui nuovi interessi di natura prettamente speculativa. Si persuade che il metodo geometrico è troppo ipotetico per poter dare seri frutti in filosofia; comincia a dubitare del criterio
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cartesiano delle idee chiare e distinte; contesta che esso possa venire applicato a penetrare gli arcani misteri dell'essere divino. Studia Spinoza e si convince infine che ogni coerente « renatista » corre il gravissimo rischio di abbracciare proprio le « empie » concezioni di quest'ultimo. Per salvarsi da questa pericolosa conclusione non vi è, secondo lui, che un mezzo: partire da Cartesio o meglio dalle idee della filosofia cartesiana, per ritornare a Platone. Abbiamo già ricordato, parlando di Fardella che anche in lui era emersa con chiarezza l'esigenza di inserire il cartesianesimo nella tradizione platonica; ma in Mattia Doria questa esigenza assume un carattere predominante e assoluto che lo conduce a proporsi niente meno che la completa confutazione della filosofia cartesiana. Come scrive assai bene Eugenio Garin, « nel Doria è evidente il viaggio di ritorno compiuto dal pensiero italiano dal cartesianismo al platonismo della tradizione rinascimentale, attraverso la riduzione del cartesianismo stesso ai motivi agostiniani in esso presenti ». Non è facile stabilire quanto questo cammino a ritroso del nostro autore sia stato influenzato da Vico o abbia a sua volta rafforzato in quest'ultimo il particolare sviluppo del suo pensiero. Certamente esso serve a spiegarci il legame di amicizia fra i due sorto fin dal I 699, come Vico stesso ci narra nella sua autobiografia: « E in questi tempi, praticando spesso il Vico e 'l signor don Paolo Doria dal signor Caravita, la cui casa era ridotto di uomini di lettere, questo egualmente gran cavaliere e filosofo fu il primo con cui il Vico poté cominciare a ragionar di metafisica: e ciò che il Doria ammirava di sublime, grande e nuovo in Renato, il Vico avvertiva che era vecchio e volgar tra' platonici. Ma da' ragionamenti del Doria egli vi osservava una mente che spesso balenava lumi sfolgoranti di platonica divinità, onde da quel tempo restaron congiunti in una fida e signorile amicizia.» Nel I7IO Vico dedicherà appunto a Doria il De antiquissima. Le opere principali di Doria sono: Discorsi critici filosofici intorno alla filosofia degli antichi e dei moderni (I72.4), La filosofia di Paolo Mattia Doria con la quale si chiarisce quella di Platone (172.8), Difesa della metafisica degli antichi contro il sig. Giovanni Locke ed alcuni altri autori moderni (I732)· Fermarci sul contenuto di ciascuna di esse sarebbe superfluo; essenziale è invece ribadire che il programma ivi perseguito voleva costituire una chiusura completa contro tutte le nuove filosofie del secolo, un richiamo al glorioso pensiero rinascimentale col risultato di isolare i nostri studiosi nel più sterile provincialismo culturale. Antonio Conti (I677-I749) nacque a Padova da ricca e nobile famiglia. Nel I 699 entrò nella congregazione dei padri oratoriani detti « della Fava » a Venezia, fu ordinato sacerdote e svolse attività di predicatore; ma quando gli si volle affidare l'incarico di confessore preferì rinunciarvi nel 1708, conservando solo il «collarino» dell'abate, come gli era consentito dalla sua congregazione. Anch'egli, come Paolo Mattia Doria, aveva iniziato la propria formazione di studioso moderno quale cartesiano, sotto la guida di quel Michelangelo Fardella 3 57
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che - secondo quanto ricordammo nel paragrafo 1 ~ insegnò la filosofia cartesiana all'università di Padova dal 1693 al 1709. A differenza però di ciò che accadde al genovese Doria, il cartesianesimo non servì a Conti come punto di partenza per un cammino a ritroso verso il platonismo rinascimentale, ma tutt'al contrario come avvio di un fecondo contatto con quanto di più vivo e più umano il pensiero filosofico-scientifico europeo veniva elaborando per risolvere le difficoltà insite nel pensiero cartesiano. (Il nostro autore fu favorito in quest'impresa dai molti viaggi che la sua posizione economica gli consentì di compiere in Francia, Inghilterra, ecc.) Dalla geometria di Cartesio prese lo spunto per studiare i ben più moderni calcoli di Leibniz e di Newton, cercando pure - ma senza alcuna fortuna - di intromettersi fra i due per ottenere una conciliazione. Si addentrò poi nella lettura di altri scritti matematici ancor più difficili, come quelli di Giacomo e Giovanni Bernoulli. Anche se Conti non riuscì a comprendere il significato profondo dei nuovi calcoli e le ragioni concettuali che contrapponevano i due punti di vista di Newton e di Leibniz, gli va riconosciuto il merito di avere capito che i motivi del completo successo conseguito (per lo meno nell'Europa continentale) dal simbolismo leibniziano andavano soprattutto cercati nella maggiore semplicità e comodità di esso rispetto al simbolismo newtoniano. Ma più che verso i problemi di alta matematica, Conti fu attratto verso quelli derivanti dall'osservazione sistematica dei fenomeni naturali, a ciò indotto sia dalla lettura delle opere di Galileo (delle quali uscì a Padova una prima edizione complessiva nel 1744 a cura dell'astronomo Toaldo, non senza l'intervento dello stesso Conti), sia dalla viva amicizia per il medico-biologo Antonio Vallisnieri, uno dei più autorevoli professori dell'università di Padova, strenuo difensore del metodo sperimentale e accanito oppositore della vecchia teoria della generazione spontanea; sia infine dalla partecipazione diretta, in Inghilterra, a varie sedute della Royal Society (della quale fece parte, su invito di Newton, già pochi mesi dopo il suo arrivo a Londra nel 1715). Prima di recarsi in Inghilterra, il nostro autore era stato circa due anni in Francia, entrando in contatto personale con Malebranche e con Fontenelle; si era però convinto che i cartesiani, malgrado le loro sottili indagini critiche sul problema del metodo, rivelavano in realtà un evidente dogmatismo nel difendere certe concezioni matematico-filosofiche intorno alla realtà mentre « i newtoniani non ammettono alcun principio generale, ma soltanto con certi princìpi spiegano certi effetti». In filosofia non ebbe una concezione originale, ma cercò di combinare giustapponendoli uno all'altro indirizzi fra loro assai lontani, come un certo platonismo rinascimentale, la metafisica di Leibniz, quella di Wolff (cui si farà cenno nel prossimo capitolo), l'empirismo di Locke, ecc., illudendosi di poter conciliare empirismo e razionalismo. I suoi abbozzi e propositi di opere filosofiche (rias-
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sunti in parte nel secondo volume delle Prose e poesie del signor abate Antonio Conti, a cura di Toaldo, uscito postumo nel 1756) testimoniano l'atteggiamento sincretistico del nostro autore, l'assenza in lui di un'autentica rielaborazione originale delle tesi trattate. Ben comprensibile è pertanto che negli anni successivi (in cui soggiornò di nuovo a lungo in Inghilterra e in Francia), egli si sia sentito più attratto verso dibattiti letterari, poetici, storico-politici che non verso autentici problemi filosofici. Gli va comunque riconosciuto il merito di avere contribuito in misura notevolissima a porre in circolazione nel nostro paese nuovi importanti temi culturali, diffondendo la conoscenza di dottrine filosofiche di cui intuì la ricchezza e la fecondità, anche se non riuscì a penetrarne tutto il significato e tutte le conseguenze. VII ·L'ILLUMINISMO
ITALIANO
Un vero e proprio movimento illuministico si formò in Italia con notevole ritardo rispetto alle altre grandi nazioni europee. Esso era stato senza dubbio preparato dal lungo e tenace sforzo - di cui parlammo nelle pagine precedenti di aggiornare la nostra cultura intorno alle più vive correnti del pensiero francese e inglese; sappiamo però che questo sforzo aveva trovato di fronte a sé parecchi ostacoli: sia esterni, dovuti alla forza tuttora posseduta dalle organizzazioni controriformistiche, sia interni dovuti alla struttura stessa della cultura italiana (e in particolare all'accanita polemica anticartesiana di Vico). La situazione cominciò a mutare rapidamente verso il 1750, favorita dal risveglio generale dell'economia del paese, nonché dallo spirito riformatore che stava ormai diffondendosi in tutta l'Europa, giungendo ben presto a far sentire i suoi effetti anche nella nostra penisola. Durante la seconda metà del Settecento, l 'Italia gode di un lungo e benefico periodo di pace, non turbato neppure dalla guerra dei sette anni. La popolazione cresce, e in particolare, riacquista peso numerico e qualitativo il ceto medio. Eccettuata la Lombardia (che peraltro dipende da una delle monarchie europee più decise a modernizzare le strutture amministrative dei propri domini), tutti gli altri stati usufruiscono di una notevole autonomia. Questa verrà meno solo negli ultimi anni del secolo, per ragioni più strategiche che politiche: l 'urto fra l'Austria (erettasi a baluardo della conservazione) e la Francia rivoluzionaria finirà infatti coll'imporre ai piccoli stati italiani il predominio ora dell'una ora dell'altra grande potenza. L'assolutismo principesco opera anche nel nostro paese, dietro il consiglio di ministri spesso stranieri, energiche· riforme, smobilitando numerosi superstiti ordinamenti medievali . .Il progresso è particolarmente sensibile in Lombardia, dove Maria Teresa diminuisce la pressione tributaria, eguagliando, di fronte alle imposte, la nobiltà alla borghesia, abolisce appalti e monopoli, inizia la liquidazione della mano359
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morta, riforma le amministrazioni locali, abroga i privilegi delle città a detrimento delle campagne, sopprime l'inquisizione e la tortura, favorendo una vera e propria resurrezione della regione. Anche in Toscana, specialmente per opera dell'arciduca Leopoldo, influenzato da elementi progressisti locali come Pompeo Neri e il vescovo Scipione de' Ricci, il movimento riformatore ottiene risultati notevoli. Gli stati più arretrati sono quello pontificio, il regno di Napoli e le due ormai fossili repubbliche aristocratiche di Genova e Lucca (a Venezia invece si ha qualche timido tentativo di rinnovamento). Data la secolare oppressione che l'Italia aveva subito da parte dell'autorità ecclesiastica, è chiaro che il moto innovatore assunse qui, prima di tutto, il carattere di ribellione contro lo strapotere dei preti e contro la concezione mondana (essenzialmente politica) del cattolicesimo. Fermenti in tal genere si erano già avuti, nel primo Settecento, in uomini che intendevano vivere nella più perfetta ortodossia (come ad esempio Muratori) e in sacerdoti che si erano invece di mostrati sensibili alle idee giansenistiche pervenute dalla Francia. È fuori dubbio però che il giansenismo italiano ebbe una notevole ripresa proprio nella seconda metà del secolo, parallelamente all'avanzare del moto illuministico (giansenista fu per esempio il vescovo di Pistoia Scipione de' Ricci, testé nominato, come parecchi dei suoi amici e seguaci); né la cosa deve stupirei perché, se in Francia le idee avanzate dai più coraggiosi illuministi si scontrarono con pari violenza contro gesuiti e giansenisti, in Italia la potenza dei gesuiti era tale da favorire una sorta di collaborazione fra tutti i loro avversari. Si pervenne perfino a una vera e propria alleanza fra giansenismo e giusnaturalismo (il cui più noto sostenitore era stato, nella prima metà del secolo, lo sventurato Pietro Giannone), favorita dagli stessi principi riformatori, desiderosi di avvalersi di tutte le forze che potessero in qualche modo appoggiare dal basso la loro opera diretta a svincolare l'autorità dello stato da quella della chiesa. Le difficoltà di un'intesa sostanzialmente equivoca quale quella ora accennata si fecero sentire, con tutto il loro peso, solo quando l'illuminismo assunse- particolarmente in Francia- forme sempre più estremiste e ancor più quando scoppiò la rivoluzione francese che parve collegare proprio a queste forme i suoi concreti programmi politici. Non va però dimenticato che, anche nella nuova situazione, non mancò qualche giansenista disposto a stabilire un'effettiva, solida alleanza fra le proprie aspirazioni religiose e il grande moto rivoluzionario; basti citare l'esempio del giansenista lombardo Pietro Tamburini (1737-I8z7), professore di teologia morale all'università di Pavia, che, animato da sincere esigenze etiche, non ebbe timore di aderire alla rivoluzione francese accogliendo alcune istanze degli stessi giacobini. Prescindendo dai nessi testé accennati col giusnaturalismo e il giansenismo, il movimento illuministico italiano trasse la sua linfa vitale dal graduale assorbimento (che divenne sempre più rapido col procedere degli anni) dei grandi temi degli illuministi francesi e inglesi.
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Quanto alla scienza propriamente detta, va anzitutto ricordato che nell'ambito della matematica i più valenti studiosi italiani (come i due fratelli Manfredi, Riccati, Gaetana Agnesi già ricordati nel capitolo vn) non ebbero alcuna difficoltà a comprendere che l'assimilazione dei nuovi metodi ideati da Newton e da Leibniz costituiva ormai la condizione indispensabile per qualunque ricerca aspirante a un minimo di serietà. Più impegnativi, perché più carichi di implicanze filosofiche, furono gli atteggiamenti assunti di fronte alle nuove concezioni della fisica; e qui va subito detto che il cartesianesimo, se fu sconfitto (non però senza tenaci resistenze), lo fu non già ad opera della vecchia fisica scolastica o per effetto delle obiezioni sollevate contro di esso da Vico, ma per il diffondersi delle più moderne concezioni newtoniane. Un tipico esempio di questo trapasso dalla fisica di Cartesio a quella di Newton ci è fornito dal bolognese Francesco Maria Zanotti (1692-1777) che, dopo aver seguito e propagandato con entusiasmo le teorie cartesiane, divenne un acceso sostenitore della legge dell'attrazione, tentando perfino di estenderne la validità dal mondo della materia a quello delle idee. Il fatto curioso è che i più validi difensori e diffusori della fisica e dell'astronomia newtoniana nei primi decenni della seconda metà del secolo furono proprio due sacerdoti (cui abbiamo fatto cenno nel predetto capitolo vn): il gesuita di origine istriana Ruggero Giuseppe Boscovich e il barnabita Paolo Frisi (sul quale ritorneremo nel paragrafo dedicato all'illuminismo lombardo). Gli è che in questi campi, come più in generale in tutte le indagini rivolte allo studio dei fenomeni naturali, lo spirito scientifico moderno era ormai divenuto una forza irresistibile, alla cui avanzata sarebbe stato vano opporre una qualsiasi barriera (filosofica o teologica). Una volta ammessa la libera circolazione delle idee scientifiche dibattute al di là delle Alpi, una volta riconosciuto cioè che tale circolazione costituiva la condizione indispensabile per qualsiasi progresso della ricerca matematica, fisica, biologica in Italia, è chiaro che anche la diffusione delle concezioni filosofiche sorte parallelamente a tali idee (e spesso in stretta connessione con esse) diventava una necessità incontenibile. Anche se molti illuministi italiani non sapranno abbracciare con pari profondità i due campi dell'indagine (sulla natura e sull'uomo) noi sappiamo da quanto esposto ·nei capitoli precedenti che lo sviluppo dell'illuminismo fu in realtà legato ad entrambi. È chiaro perciò che anche in Italia il progresso dello spirito dei lumi va visto come un fatto unico, che riguarda la nostra cultura nella totalità delle sue manifestazioni. Nel corso di pochi anni non ci si limita più a leggere Cartesio e Locke, ma ci si butta con avidità sulle opere di Montesquieu, di d' Alembert, di Helvétius, di V oltaire, di Rousseau, di Hume, molte delle quali vengono tradotte e vivacemente discusse. Fra il 1758 e il 1771 viene ristampata a Lucca l'Enciclopedia, e fra il 1770 e il 1779 ne esce a Livorno una seconda edizione italiana. Né è da sottovalutare l'influenza esercitata su larghi strati della cultura italiana da Condillac
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durante il decennio trascorso a Parma. Anche se l'illuminismo italiano non produrrà alcun filosofo di livello paragonabile ai grandi autori stranieri, il risveglio che esso produce nelle coscienze è sorprendente e carico di significato. Esso testimonia l 'urgenza con cui tutti i più seri studiosi sentono la necessità di ricuperare i lunghi anni perduti nell'isolamento e nel torpore intellettuale. In tutti si esprime, e finisce col prevalere, un atteggiamento nuovo, che vuol essere il punto di partenza per la ricerca di una nuova cultura. Un ultimo fatto importante, da non dimenticare, è che lo slancio innovatore di cui abbiamo testé parlato giunge presto a sollecitare profonde istanze riorganizzative anche nel campo scolastico, in particolare nelle università. Non si deve pensare al movimento pedagogico illuministico come a qualche cosa di omogeneo: nella comune atmosfera pensano ed agiscono personalità e temperamenti profondamenti diversi. In verità però, come il significato dell'illuminismo non è tanto nelle singole teorie, quanto nella rivendicazione dell'autonomia della ragione e della libertà morale e politica, così l'importanza della pedagogia illuministica risiede essenzialmente nel suo affermare la capacità e il diritto dell'uomo a plasmare la propria personalità in piena e responsabile libertà, contando solo sulle forze, insieme combinate, dell'esperienza e della ragione. Malgrado le buone intenzioni dei pedagogisti che si ispirano al grande moto innovatore, e malgrado un certo appoggio dato ad essi dai principi, la scuola italiana non riesce però a raggiungere le realizzazioni pratiche largamente auspicate. La stessa soppressione dei gesuiti non ha, nei vari stati italiani, una ripercussione nel settore scolastico pari all'importanza politica dell'avvenimento. Vale comunque la pena ricordare alcuni dei numerosi progetti di riforma, che possono meglio caratterizzare la nuova atmosfera. Uno dei progetti più significativi fu quello ideato da Gaspare Gozzi (I 7 I 383) - che pur non era certo, in via generale, un progressista- su incarico direttamente affidatogli dalla repubblica di Venezia. Esso spicca per la sua ampiezza, in quanto contempla sia una radicale riforma degli studi dell'università di Padova (delineata dal nostro autore nel I77o), sia l'organizzazione delle scuole da istituire invece di quelle dei gesuiti in Venezia e in Padova (I775). A questo proposito basterà ricordare che, dopo una severa critica ai gesuiti (considerati « maestri sommi nell'insegnare inutilità con pompose apparenze»), Gozzi ritiene doveroso liberare la scuola dall'eccessivo grammaticismo e, in genere, dalle troppe discipline inutili, ponendo come fine degli studi quello di formare uomini di buon senso, più che eruditi, capaci di giovare alla repubblica comportandosi assennatamente, sia nella vita pubblica sia in quella privata. Egli insiste anche sulla necessità di riconoscere le attitudini particolari dei singoli alunni e di determinare l'orientamento professionale in base a tali attitudini. Si mostra infine propenso ad estendere l'insegnamento anche alle donne e alle classi popolari; e, appunto in vista di ciò, sottolinea la necessità che il piano di studi e il metodo, special-
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mente nelle scuole inferiori, siano ispirati a un criterio di praticità: contabilità, economia, disegno, meccanica, dovranno essere altrettante materie fondamentali. Altri progetti di notevole interesse furono i seguenti: Leopoldo 1 di Toscana sembra voler tradurre in pratica i consigli del vescovo giansenista Scipione de' Ricci, riformando le università di Pisa e Lucca e trasformando alcune istituzioni monastiche in «Conservatori» per l'istruzione delle ragazze della classe media; a Parma il ministro Du Tillot ed il padre teatino Paolo Maria Paciaudi elaborano la Costituzione per i nuovi regi studi ( 1 768); ed anche Carlo m di Borbone pare mettersi sulla via delle riforme, incaricandone il ministro Tanucci, il quale si servirà a sua volta dei consigli del Genovesi e del siciliano Giovanni Agostino De Cosmi. Particolare interesse dal punto di vista scientifico assume infine la riforma promossa da Maria Teresa e da Giuseppe n nell'organizzazione dell'università di Pavia. È una riforma che vi introduce apertamente lo sperimentalismo e che riesce in tal modo ad aprire una nuova era al glorioso ateneo (i più noti frutti di tale innovazione saranno gli insegnamenti di Spallanzani e di Volta). Va però notato che, malgrado le buone intenzioni dei vari riformatori, manca pur sempre dai loro programmi quello che avrebbe potuto essere il motivo più autenticamente rivoluzionario delle riforme progettate: l'impegno a laicizzare la scuola. È una mancanza che rispecchia in sé la generale timidezza dell'illuminismo italiano. Cambia spesso l'organizzazione disciplinare e amministrativa degli studi; è potenziato l'intervento dell'autorità statale; ma il fine resta sostanzialmente quello .(essenzialmente conservatore) di formare dei cittadini amanti dell'ordine costituito, disposti a servirlo con intelligenza e senza alcun vero spirito critico. Tipico appare, sotto questo punto di vista, l'atteggiamento del Kaunitz, ministro di Maria Teresa, a proposito della riforma dell'ateneo pavese: mentre da un lato egli dimostra comprensione e fattivo interessamento per i problemi dell'università, dall'altro si rivela seriamente preoccupato per il fatto che dall'università stessa escono professori e scienziati « troppo eruditi », invece che dei buoni funzionari! Eppure, nonostante i numerosi difetti testé menzionati, non si può certo dire che il soffio innovatore portato dall'illuminismo in questo campo tanto importante della cultura sia stato vano. Le discussioni, i progetti e le pur modeste realizzazioni attuate nell'ultima parte del secolo decimottavo hanno contribuito in modo decisivo a creare una coscienza scolastica anche nella borghesia italiana, a diffondere la convinzione che scuola ed istruzione, fattori indispensabili del progresso e del benessere, sono, in quanto tali, uffici propri dello stato. Motivi, questi, destinati a imponenti sviluppi nel corso del secolo successivo, specialmente dopo il conseguimento dell'unità nazionale. Dopo esserci sforzati di delineare, in modo purtroppo assai sommario, i fattori e gli asl'etti essenziali dell'illuminismo italiano, i suoi meriti e i suoi limiti,
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non ci resta ora che da aggiungere qualche notizia più particolare sui maggiori rappresent~nti dei due centri più vivi di tale movimento: quello napoletano e quello lombardo. Il quadro che ne uscirà sarà ovviamente incompleto; ma questa incompletezza può venire giustificata tenendo conto che, per quanto importante anche per la storia della cultura italiana, il moto illuministico non ebbe il suo centro propulsore nel nostro paese, né qui trovò chi fosse in grado di portarlo alle estreme conseguenze o di gettare le basi per un suo effettivo superamento filosofico e scientifico. VIII · GLI
ILLUMINISTI
DEL
GRUPPO
NAPOLETANO
Con questo appellativo si suol indicare un gruppo di studiosi vissuti nel grande centro culturale del sud, appartenenti alla generazione successiva a quella di Vico, di Giannone e di Paolo Mattia Doria. Malgrado i pochi anni che li separano da tali autori, essi rappresentano istanze nuove, posseggono una conoscenza molto più ampia e agguerrita del contemporaneo pensiero europeo (in particolare francese), sono più restii ad accettare le impostazioni tradizionali della filosofia. Un altro carattere assai importante li distingue dalla generazione precedente: invece di lasciarsi affascinare dai problemi generali preferiscono affrontare questioni precise e concrete (specialmente di economia, di diritto, di politica, di etica), e, pur sforzandosi di dibatterle con cautela e rigore, si mostrano combattivi e spregiudicati nel proporre soluzioni nuove, capaci di incidere direttamente sulla realtà politica del momento. In questa ricerca di concretezza si inquadra pure l 'interesse della maggior parte di essi per i problemi della scuola, derivante dalla ferma convinzione che il miglioramento delle organizzazioni scolastiche costituisca uno strumento essenziale per il rinnovamento della società. Non di rado si ispirano a Vico, ma anche in questo caso lo fanno con spirito diverso da quello che aveva animato il grande pensatore, introducendo nelle concezioni da lui ideate intenti nuovi di marca prettamente illuministica. Uno degli elementi più rappresentativi del gruppo in esame fu Antonio Genovesi (1712-69), nato a Castiglione presso Salerno. Dopo aver compiuto i primi studi in seminario (fu ordinato prete nel 1737) si trasferì a Napoli dove ottenne ben presto una cattedra universitaria prima di metafisica e poi di etica. Ma in realtà si sentiva scarsamente attratto da queste discipline, e anche le opere (in latino) scritte su tali argomenti sono tutt'altro che dei capolavori. A poco a poco il suo interesse si dirige verso problemi più concreti (concernenti l'ordinamento sociale, l'agricoltura, l'economia). Nel 1754 gli viene conferita la cattedra di « commercio e di meccanica » (denominazione equivalente a quella moderna di «economia»), recentemente istituita. Questa gli consente finalmente di dedicarsi per intero agli studi preferiti, che cerca di sviluppare con intenti strettamente scientifici.
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Ad essi si sforza di legare anche la sua preparazione filosofica, proponendosi di ricavare dalla filosofia chiarezza di impostazione e impulso generale per la ricerca economica. Il sensismo di Condillac forma il quadro entro cui Genovesi articola tale ricerca; il materialismo di Helvétius gli fornisce i principali argomenti, che egli svolgerà nelle Meditazioni ftlosoftche sulla religione e sulla !Jlorale, del I 7 58. Essi tendono a presentare il « piacere di esistere » come fondamento della vita, e la ragione come funzione insostituibile dell'attività umana: ragione intesa proprio come « facoltà calcolatrice » in vista di fini concreti. Partendo dal presupposto della naturale eguaglianza degli uomini, Genovesi attribuisce un'importanza decisiva all'educazione: «Gli uomini sono più quel che si fanno per educazione che quel che nascono.» «Rispetto all'animo e alle sue doti, la differenza naturale è generalmente assai piccola ed il gran divario nasce non tanto dalla natura, quanto dall'arte ... Archimede sarebbe stato un Ciclope, se nasc~va in Sicilia al tempo di Ulisse; e quel Ciclope poteva essere Archimede, se vi nasceva nei tempi luminosi. » In aspra polemica con Rousseau, dichiara falsa la tesi che il progresso delle arti e delle scienze abbia nociuto al miglioramento dei costumi. Tutte le argomentazioni del ginevrino in proposito si possono ridurre ad una semplice ed ovvia constatazione: che « le scienze e le arti sono figlie del bisogno ». Ora, « se il nostro filosofo chiama vizi e delitti i bisogni, è crudele; se non istima di doversi pensare a soddisfarli, è iniquo; se crede di potersi ridurre le scienze e le arti al solo utile, con risecarne tutti i belletti, è rozzo; se vuol correggere il falso che vi è trascorso, per li vizi insuperabili della natura umana, è filosofo e sarà l'amico degli uomini ». L'impartire una buona educazione ai fanciulli è, pertanto, il più santo dei doveri che i padri di famiglia, gli uomini di stato e di cultura possano proporsi. Genovesi non ci dà un compiuto e particolareggiato piano di studi e nemmeno si addentra in una approfondita analisi del problema del metodo. Seguace di Vico nel ritenere che «gli uomini nei primi e selvaggi tempi delle nazioni dovettero essere gran parte tutti senso, fantasia e moti », e che la psiche del bambino sia analoga a quella del primitivo, egli afferma che nella prima età «può in noi più il senso e la immaginazione ed in conseguenza la imitazione che la riflessione e la ragione». Dopo la cacciata dei gesuiti, Genovesi propone l'istituzione di una scuola elementare interamente gratuita e una riforma dell'insegnamento medio, basata sulla sostituzione della matematica e della fisica alla filosofia scolastica e sulla riduzione della filosofia stessa alla morale, da studiarsi in particolar modo sui testi ciceroniani. Alla figura di Genovesi si ricollega per l'affinità degli argomenti trattati quella dell'abate Ferdinando Galiani (1727-87), ottimo conoscitore degli illuministi francesi e acuto osservatore delle situazioni economiche particolari. Let-
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terato di grande fama, ottenne larghi riconoscimenti: nel I 7 59 venne inviato da Carlo rn a Parigi come segretario dell'ambasciata napoletana. Tornato a Napoli nel 1770 vi ricoperse cariche di alta responsabilità nel consiglio supremo delle finanze. La sua opera più importante di carattere economico ha per titolo Della moneta (175 r); essa suscitò una vera sorpresa tra i contemporanei per l'acume con cui il giovane autore sapeva discutere un così difficile argomento. A Parigi fu in stretta relazione con i circoli culturali più avanzati della città, ove strinse parecchie amicizie; ebbe anche tuttavia aspre polemiche per le acute critiche sollevate contro i principi fisiocratici che dominavano i gruppi dirigenti dell'economia francese. Si interessò pure vivamente di letteratura, di politica e di filosofia componendo sull'argomento vari scritti di notevole originalità. Particolarmente significative sono le lettere che egli inviò a parecchie personalità del mondo parigino negli anni 1779-80. La personalità più eminente del gruppo napoletano fu però quella di Gaetano Filangieri (1752.-88), di nobilissima famiglia, che trascorse gran parte della propria breve vita negli studi e nel tentativo di tradurre in pratica alcune ardite idee di riforma (soprattutto in materia economico-amministrativa). Pur richiamandosi ad alcuni temi vichiani, le concezioni di Filangieri si ispirano soprattutto all'illuminismo di Montesquieu. Secondo esse il progresso dell'umanità e l'educazione del genere umano sono soltanto possibili in quanto le strutture della società attuale vengano radicalmente riformate, e in quanto le leggi rivolte a modellare le nuove forme sociali vengano adeguate alle più pure esigenze della ragione. Egli può forse apparirci animato da un eccessivo ottimismo, da una troppo ingenua fiducia nell'efficacia dei lumi, ma il suo sincero entusiasmo, la sua capacità di analizzare con crudezza i mali del mondo che lo circonda, fanno di lui uno dei pensatori più profondi della sua epoca. La forza morale che emana dai suoi scritti e· dalla sua vita costituisce una delle prove più evidenti dell'alto livello raggiunto, nel corso di pochi decenni, dal movimento illuministico italiano. La sua opera più importante ha per titolo La scienza della legislazione in otto volumi(i primi sette pubblicati fra il 1780 e l'85, l'ultimo- postumo- nel 1791). Essa suscitò uno straordinario entusiasmo in Italia e all'estero fra tutti coloro che sentivano l'urgenza di un profondo rinnovamento della società; ma fu naturalmente combattuta con pari accanimento da tutti i conservatori (la chiesa si affrettò a collocarla nell'indice dei libri proibiti). Non potendo soffermarci sui molteplici argomenti ivi trattati, ci limiteremo a riferire, a titolo d'esempio, un breve riassunto del contenuto del quarto libro, dedicato al fondamentale problema dell'educazione. Va subito detto che le idee ivi espresse non sono originali, in quanto riprendono e spesso giustappongono in modo eclettico motivi tratti dalla tradizione etico-educativa greco-romana, da Locke, da Rousseau e da Vico. Esse ci sembrano però estremamente sintomatiche, sia per dimostrare la penetrazione (avvenuta ormai su larghissima scala)
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del pensiero europeo nell'ambiente napoletano sia d'altra parte per confermarci il carattere sostanzialmente moderato dell'illuminismo italiano anche nelle sue punte più avanzate e sinceramente innovatrici. Conformemente alla tradizione illuministica, Filangieri vuole un'educazione « pubblica, universale, ma non uniforme ». Educazione per tutti, dunque, a cura dello stato, ma articolata in tipi di scuola diversi, conformemente alla divisione in classi,sociali. Le classi fondamentali sono due: quella di coloro che servono (o potrebbero servire) la società con le braccia e quella di coloro che la servono (o potrebbero servirla) con l'ingegno. Filangieri prevede la possibilità che fanciulli appartenenti alla classe dei lavoratori manuali, qualora rivelino doti eccezionali, possano essere assegnati alle scuole destinate ai futuri intellettuali ed ivi mantenuti mediante l'istituzione di una speciale «cassa» . . L'educazione pubblica comincia a cinque anni e termina a diciotto per i lavoratori manuali, a diciannove per gli intellettuali. Il piano educativo si articola, secondo la tradizione, in educazione fisica, intellettuale, morale. Per quanto riguarda la prima classe, l'educazione intellettuale si riduce al puro apprendimento del leggere, scrivere e far di conto in forma elementare. L'educazione morale mira a creare «cittadini laboriosi e industriosi in tempo di pace; difensori intrepidi in tempo di guerra; buoni coniugi e migliori padri; penetrati dal rispetto delle leggi e dall'idea della propria dignità». Premi e castighi debbono, secondo l 'insegnamento lockiano, far leva prevalentemente sullo spirito di emulazione e sul sentimento dell'onore. Quanto all'apprendimento di un'arte o di un mestiere, Filangieri si preoccupa della possibilità che un fanciullo venga avviato ad un'attività per la quale finisca per rivelarsi inadatto. Allo scopo di ovviare a questo inconveniente, egli suggerisce di far apprendere ai giovanetti un'arte o un mestiere supplementare; soluzione del tutto insufficiente, che però deve essere valutata più che altro in rapporto coi motivi, sia psicologici sia sociali, che l 'hanno suggerita. L'educazione dei futuri lavoratori intellettuali dura quattordici anni: dai cinque ai diciannove. Filangieri, con Vico, r~tiene che l'istruzione debba adeguarsi al progressivo sviluppo delle facoltà psichiche: percezione, memoria, immaginazione, ragione. Conseguentemente, egli imposta il piano di lavoro secondo i principi del metodo progressivo, anziché secondo quelli del metodo ciclico. Così vediamo succedersi via via, e, per alcuni anni, sovrapporsi, lo studio della lingua materna, quello di una lingua straniera, dell'aritmetica, degli elementi di scienze naturali. Col quinto anno comincia lo studio del latino, che Filangieri, ripetendo Locke, ritiene assai facile, purché venga appreso come lingua viva. Sopraggiungono la geometria, l'algebra, i principi del diritto, dell'economia, della morale. A proposito dell'educazione morale, Filangieri scrive alcune delle sue pagine migliori. Partendo dalla constatazione che l 'uomo da un lato ama se stesso in maniera originaria ed essenziale, mentre, dall'altro, ha bisogno della società,
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egli giunge ad asserire che tra individuo e società deve esistere un accordo fondamentale. Se tale accordo non esiste di fatto, ciò va attribuito al cattivo governo ed alle cattive leggi. Solo una profonda riforma politica e legislativa potrà, unitamente al rinnovamento dell'educazione, armonizzare la «libertà» e la « dipendenza », portando gli uomini a far coincidere il « volere », base della prima, col « dovere », fondamento della seconda. Al gruppo degli illuministi napoletani appartiene infine Mario Pagano (I74899), ben noto per il suo eroico sacrificio durante la rivoluzione partenopea. Il motivo fondamentale dei celebri Saggi politici dei principii, progressi e decadenza della società (I 78 3-8 5) è costituito dal tentativo di rielaborazione, alla luce dell 'illuminismo francese e in particolare di Rousseau, della concezione vichiana della storia. Quello che in Vico appare un netto distacco fra storia umana e mondo della natura, viene colmato da Pagano: l'ordine e le leggi che regolano il corso della natura, dirigono pure, secondo lui, le vicende delle nazioni. Assai degno di nota è anche il fatto che Pagano cerca di ricollegarsi a Vico nel sostenere il carattere primitivo della poesia; lo fa però su basi nuove, cercando di contemperare la teoria vichiana con esplicite considerazioni di carattere sensistico che egli ricava, come già Genovesi e altri illuministi napoletani, dalla filosofia di Condillac. IX · GLI
ILLUMINISTI
DEL
GRUPPO
LOMBARDO
Il risveglio generale dell'economia italiana, cui abbiamo fatto cenno nel paragrafo vn, fu particolarmente vivace in Lombardia, favorito sia dalla posizione geografica della regione che permetteva frequenti contatti (commerciali e anche culturali) con popoli diversi e più progrediti, sia dalle riforme dell'amministrazione pubblica introdotte da Maria Teresa e da Giuseppe n. È quindi ben comprensibile che, parallelamente a tale risveglio economico, si siano sprigionate proprio a Milano nuove energie intellettuali, protese a elevare il livello culturale della città introducendovi, senza remore di sorta, le idee che stavano raccogliendo tanti successi al di là delle Alpi. Sorse così, nell'inverno q6I-6z, la famosa Società dei Pugni, che voleva esprimere, col suo stesso nome, la piena libertà di discussione di cui dovevano fruire tutti i suoi componenti. Accanto al suo promotore, Pietro V erri, essa raccoglieva parecchi altri giovani della migliore società (Alessandro Verri, fratello di Pietro, Cesare Beccaria, l'abate marchese Alfonso Longo, ecc.), tutti vivamente interessati ai problemi della vita civile, studiosi di questioni economiche, agili scrittori di saggi etico-politici (sul tipo di quelli per cui erano diventati famosi i philosophes francesi). Il loro organo fu «Il Caffè», un periodico ideato sul modello dello « Spectator » inglese, che uscì ogni dieci giorni dal giugno I 764 al maggio I766. Malgrado la sua breve vita, esso ebbe una notevolissima rilevanza storica; fu una voce nuova che ridestò gli interessi spenti, ne accese dei nuovi,
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acuì quelli in corso di discussione. Leggendo« Il Caffè», il pubblico borghese respirava direttamente l'atmosfera della Francia e dell'Inghilterra illuministica. I suoi temi principali furono la lotta contro l'inerzia culturale (e non solo culturale), contro le leggi arretrate, contro il permanere dei vecchi costumi di vita, contro l'indifferenza, contro la sistematica sfiducia nel futuro, insomma contro tutte le forze che ritardavano la modernizzazione del paese. Vi erano anche trattati alcuni argomenti scientifico-tecnici, sia pure ad un livello non molto elevato. In questo senso« Il Caffè» esercitò pure un 'indubbia funzione pedagogica, che va in primo luogo cercata nel proposito, comune a tutti i suoi c;,ollaboratori, di liberare le menti dal pregiudizio e di rischiararle al lume della verità. La diffusione della cultura e della capacità di ragionamento sono viste come condizioni indispensabili perché gli uomini, valutando la situazione storica e i concreti rapporti che costituiscono l'attuale situazione sociale e civile, possano metter mano, consapevolmente e costruttivamente, ad una riforma della società in senso progressivo. Non mancano però, nei vari numeri del« Caffè», gli articoli che affrontano in maniera diretta argomenti di indole più specificamente pedagogica. Basterà ricordare qui, a guisa di esempio, la polemica di Alessandro V erri contro il costume d'insegnare le lettere «con la sferza e col pianto» e contro il pedantismo. A proposito di quest'ultimo, V erri scrive fra l'altro: « Dovrassi dalla studiosa gioventù prima d'ogni cosa dar buon ordine alle proprie idee, avvezzarsi a far uso della ragione ed a sentire la verità a preferenza della autorità d'opinione ... La sapienza non consisterà più nella sola memoria, né più dirassi scire est reminisci ma bensì scire est ratiocinari ... » Non potendoci soffermare, per ovvi limiti di spazio, sull'opera di tutti i collaboratori dell'interessantissimo e significativo periodico (opera che riguarda peraltro più la storia della cultura che non quella del pensiero propriamente filosofico) ci limiteremo a fornire qualche notizia sui due fratelli V erri e in particolare su Cesare Beccaria, con cui l'illuminismo italiano si fece - per così dire europeo. Pietro V erri (1728-97) partecipò con intelligenza ed impegno all'amministrazione della Lombardia, occupandosi in un primo tempo della riscossione delle imposte (che ottenne fosse gestita direttamente dal governo), fu poi nominato vice-presidente del consiglio generale dell'economia, e in seguito presidente del consiglio camerale; infine dal 17S3 all'86 fu «consigliere intimo di Stato». Il suo atteggiamento rispetto al governo asburgico subì un notevole mutamento dopo la morte di Maria Teresa (178o) perché anche Pietro Verri, come molti altri intellettuali lombardi, dovette riconoscere che le precipitose riforme imposte da Giuseppe n non corrispondevano alle reali esigenze del paese. Ritiratosi per qualche anno a vita privata, aderì dapprima con vero entusiasmo alla rivoluzione francese, continuando a difenderla, ma con maggior riserva, quando vi trionfa-
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rono le idee giacobine. Comunque nel I 796 accettò di far parte della municipalità di Milano e del consiglio dei rappresentanti istituitovi dagli eserciti francesi. Alessandro V erri ( 17 4 I- I 8 I 6) compì, dopo la fine della pubblicazione del «Caffè», un lungo viaggio a Parigi e in Inghilterra, al termine del quale si stabilì a Roma, ove subì una vera e propria involuzione politico-culturale. A Roma rimase pressoché ininterrottamente fino alla morte, salvo due brevi soggiorni a Milano, senza più partecipare comunque alle vicende storiche di questa città. Cesare Beccaria ( 17 38-94) si recò egli pure a Parigi nel q66 (in compagnia di Alessandro Verri), donde però fece ritorno a Milano alla fine del medesimo anno. Qui si dedicò alla carriera di funzionario e di insegnante, conseguendovi notevoli successi. Entrato a far parte del consiglio generale dell'economia, attenuò rapidamente i suoi giovanili entusiasmi di innovatore, e finì per urtarsi con lo stesso Pietro V erri che lo accuserà di essersi ridotto a semplice, se pur illuminato, burocrate. Questi brevi cenni biografici servono a confermarci, pur nella loro schemadeità, il carattere sostanzialmente borghese e moderato del movimento creatosi intorno al « Caffè»: il che non toglie nulla, comunque, al valore dell'iniziativa, purché ci si ricordi che essa non voleva e non poteva (tenuto anche conto dell'origine sociale dei suoi promotori) trasformare un programma - sia pur coraggioso - di riforme, in autentico programma rivoluzionario. Gli interessi culturali di Pietro Verri furono particolarmente rivolti all'economia e alla storia, cui dedicò parecchi saggi, assai informati ed acuti, pur se non ricchi di originalità: Memorie storiche sull'economia pubblica dello stato di Milano (I768), Meditazioni sull'economia politica (1773), Storia di Milano (1783) ecc. Si occupò anche, tuttavia, di problemi etico-filosofici, dimostrando di avere bene assimilato le premesse sensistiche e utilitaristiche di gran parte dell'illuminismo francese e inglese; ci limiteremo a citare i due suoi più noti scritti sull'argomento: Meditazioni sulla felicità (1763) e Idee sull'indole del piacere e del dolore (1773). Nei suoi ultimi scritti, rimasti in parte inediti, si nota una graduale radicalizzazione delle sue idee politiche (soprattutto nel senso di una minore fiducia nell'opera dei così detti monarchi illuminati). Anche Alessandro Verri si interessò inizialmente, con indubbia serietà, di problemi storico-economici; più tardi tuttavia si dedicò essenzialmente alla letteratura, scrivendo romanzi storici che ebbero un largo successo. Assai più importante, per la storia delle idee filosofiche, è la produzione di Cesare Beccaria, interessato egli pure a problemi civili ed economici. La sua fama di pensatore acuto e originale è soprattutto dovuta all'aureo libretto Dei delitti e delle pene (1764), che ottenne rapidamente uno strepitoso successo sia in Italia sia all'estero (fu condannato dalla chiesa cattolica che lo collocò nell'indice dei libri proibiti il 3 febbraio 1766). L'importanza del volumetto dipende in primo luogo dalla gravità delle domande lucidamente e lapidariamente espresse da Bee-
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caria (e che ci fanno ancora oggi pensosi) : la pena di morte è utile e necessaria per l'ordine della società? che legittimità riveste la tortura e quale scopo raggiunge? pene identiche rivestono identica utilità in tempi diversi? L'importanza del trattatello dipende inoltre da altri fattori: dal rigore della sua impostazione, dalla sottigliezza delle argomentazioni, dalla precisa visione dei fatti e delle loro connessioni; caratteri che fanno di esso il vero e proprio manifesto dell'illuminismo nel campo del diritto penale. Montesquieu e Rousseau sono, nello sfondo, ispiratori dei principi generali seguiti da Beccaria. Questi sono fondamentalmente tre: I) la vita associata ha un fine preciso: apportare la massima felicità al maggior numero possibile di individui; 2) lo stato nasce da un «contratto sociale», il che implica che unica autorità legittima sia quella dei magistrati, come rappresentanti della società; 3) le leggi sono le condizioni sotto cui venne pattuito il « contratto sociale » e le pene comminate rappresentano esclusivamente il mezzo per garantire e rafforzare l'azione delle leggi. È alla luce di questi principi che va interpretata, e acquista senso preciso, la famosa duplice conclusione cui perviene il nostro autore: I) « le pene che oltrepassano la necessità di conservare il deposito della salute pubblica sono ingiuste di loro natura »; 2) « tanto più giuste sono le pene quanto più sacra ed inviolabile è la sicurezza, e maggiore la libertà che il sovrano conserva ai sudditi ». Fra gli studiosi più significativi legati al gruppo del « Caffè» va infine ricordato il barnabita Paolo Frisi (I728-84) di cui già menzionammo (nel capitolo vn) i titoli di alcune fra le più note opere scientifiche. Sul « Caffè» scrisse vari articoli, il più importante dei quali è un Saggio su Galilei, ristampato come volumetto a parte nel I775 col titolo Elogio di Galileo. Esso è imperniato sopra un'accanita polemica contro i gesuiti, che durerà - molto aspra - per tutta la vita del nostro autore. Compì parecchi viaggi a Parigi, ove frequentò i filosofi enciclopedisti, a Londra, ove conobbe Hume, in Olanda, ecc, diventando- come sappiamosocio di numerose celebri accademie europee. A Vienna nel I 768 si conquistò il favore del ministro Kaunitz, su invito del quale scrisse un Ragionan;ento sopra la potestà temporale de' principi e l'autorità spirituale della Chiesa, rimasto però inedito; erano gli anni nei quali Frisi (come vari altri illuministi italiani) nutriva maggior fiducia nell'assolutismo illuminato, fiducia che andò tuttavia scemando verso la fine della sua vita. Fra i più interessanti scritti di carattere filosofico-culturale ci limiteremo a ricordare: l'Elogio del cavalier !sacco Newton (I 778), l'Elogio di Bonaventura Cavalieri (I779), l'Elogio del signor d' Alembert (uscito postumo nel 1786), gli Opuscoli filosofici (I78I). Lasciò pure alcune opere inedite di logica (cioè sostanzialmente di gnoseologia) e di metafisica (intesa come riflessione sull'uomo e sulla religione). Caratteristica della sua posizione filosofica è l'adesione all'empirismo di Locke e la critica a fondo contro l'innatismo, in tutte le sue forme. Pietro Verri scrisse su di lui nel 1787 le famose Memorie appartenenti alla vita
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ed agli studi del signor Don Paolo Frisi, sottolineando l 'impostazione illuministica generale del pensiero del nostro autore, nonché il grande contributo da lui dato alla sprovincializzazione della cultura italiana. Altri autori della medesima epoca tentarono invece di interpretare l'opera di Frisi in una chiave completamente diversa sforzandosi di dimostrare che egli non uscì dalla vera e propria ortodossia cattolica. Passando ora ad esporre per sommi capi ii pensiero filosofico della generazione immediatamente successiva, vogliamo accennare a tre autori che, pur sensibili ormai a una nuova problematica, si collegano ancora strettamente alla filosofia del gruppo illuministico milanese. I due primi sono il padre somasco Francesco Soave(1743-I8o6)eMelchiorre Gioia (I767-I82.8). Soave nacque a Lugano in Svizzera, ma si trasferì molto presto a Parma, ove subì fortemente l'influenza di Condillac. Trascorse gli ultimi anni a Pavia come professore di tale università. Dedicò alcuni lavori all'esposizione del pensiero di Condillac, ma in sostanza fu più favorevole a quello di Locke. Ebbe notizie della corrente francese degli ideologi di cui parleremo nella VI sezione e scrisse in particolare una memoria critica contro il progetto degli Elementi di ideologia di Destutt de Tracy; scrisse pure una critica del kantismo che uscì nel I8o6 col titolo La filosofia di Kant esposta ed esaminata. Tenutosi in contatto con gli elementi giansenisti italiani, cercò di apportare alcune correzioni all'empirismo onde renderlo in qualche modo accordabile con l'esigenza religiosa. Fu molto popolare per i suoi manuali scolastici di filosofia (Istituzioni di logica, metafisica ed etica preceduti da un Compendio· di storia della filosofia, 1791-94) e ancor più per i suoi interessi di pedagogia che lo indussero a scrivere numerose opere rivolte direttamente ai bambini. Melchiorre Gioia, nato a Piacenza, ebbe una personalità filosofica più notevole e intese la filosofia come studio dell'uomo nella società. Fu prete, ma poi abbandonò l'abito sacerdotale. Si occupò intensamente di statistica, di economia e di etica, subendo l'influenza dell'utilitarismo di Bentham (che verrà egli pure esaminato nella sezione vi). Le sue opere prip.cipali sono: Nuovo Galateo (r8o2.), Trattato del merito e delle ricompense (r8r8-19), Filosofia della statistica (182.6). Il suo orientamento generale resta quello empiristico, ma rivolto a studiare l'uomo non nelle proprie esperienze individuali, bensì nel suo effettivo comportamento entro l'esperienza complessiva delle azioni umane. Assai più importante delle due figure testé menzionate è quella di Giandomenico Romagnosi (I 76 I- I 83 5). Romagnosi non era lombardo (nacque infatti a Salsomaggiore), ma venne chiamato a Milano - durante il periodo napoleonico - dal governo del Regno d'Italia per coprire varie cariche pubbliche ed insegnare all'università di Pavia. Col ritorno degli austriaci, egli era caduto in sospetto a causa dei suoi sentimenti illuministici e filofrancesi. Quando si scoprì che aveva aderito alla congiura antiaustriaca ordita da alcuni ufficiali dell'ex-regno d'Italia, venne allontanato dal372. www.scribd.com/Baruhk
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l'insegnamento pubblico; più tardi - allorché rimase incriminato nei processi del 18zi contro i carbonari- gli venne proibito anche l'insegnamento privato. Continuò ciò malgrado a raccogliere nella propria casa· giovani intelligenti ed aperti, per trasmettere loro ciò che vi era di ancor valido nella propria filosofia. Furono per l'appunto questi giovani a dar vita all'interessante gruppo che raccolse- attraverso Romagnosi -l'eredità degli illuministi milanesi del Settecento sviluppandola in forme nuove, come vedremo nel prossimo volume. Come tutti gli altri illuministi lombardi si occupò a fondo di problemi giuridici ed economici, ma anche di scienze esatte come la matematica e di scienze applicate; le sue opere filosoficamente più significative furono: Che cosa è la mente sana? Indovinello massimo che potrebbe valere poco o niente (18z7), Vedute fondamentali sull'arte della logica (18z7), Sull'indole e sui fattori dell'incivilimento con esempio del suo risorgimento in Italia (183z), Giurisprudenza teorica ossia Istituzioni di civile filosofia (uscita postuma nel 1839). Collaborò attivamente a varie riviste fra le quali: il «Conciliatore», la «Biblioteca italiana», gli «Annali universali di statistica». Come già Soave e Gioia, anche Romagnosi si :rivolse, per la trattazione del problema gnoseologico, alla filosofia sensistica di Condillac, cui tuttavia portò durante il corso dell'indagine - profonde trasformazioni. La soluzione cui il nostro autore pervenne deve ritenersi più empiristica che sensistica: nella sensazione egli vede, infatti, un momento passivo e aurorale, da cui la conoscenza si eleverà a una fase di tutt'altro carattere: la percezione, che implica un'appropriazione sostanzialmente attiva del dato sensoriale. Quanto ai problemi della moralità e della società, basti ricordare che Romagnosi vi sostenne una direzione di pensiero nettamente naturalistica. Lo sviluppo della società dipende, secondo lui, da leggi costanti come quelle naturali. In modo analogo, la moralità è la ricerca di condizioni atte a realizzare la vita sociale dell'uomo ed a rispondere ai suoi triplici fini naturali: la conservazione, il perfezionamento, la felicità. Nel campo pedagogico Romagnosi segue attentamente lo svolgimento del pensiero europeo e medita sugli scritti di Locke, Rousseau, Pestalozzi (del quale ultimo parleremo nel volume IV). Convinto che l'istruzione elementare sia indispensabile al buon funzionamento della società, proclama la necessità di una scuola primaria obbligatoria e gratuita. Raccomanda il metodo del mutuo insegnamento; l'intuizione come fondamento dell'istruzione; l'istruzione educante, vale a dire tendente a sviluppare la facoltà di pensare, al posto di un addottrinamento enciclopedistico e mnemonico. L'azione educativa, secondo il nostro autore, può risultare efficace solo se tenga conto di tre leggi fondamentali: in primo luogo, essa deve corrispondere al grado di sviluppo psichico dell'alunno; secondariamente, deve suscitare l'attenzione e l'interesse; infine, deve limitarsi a dirigere l'attività personale del fanciullo, anziché determinarla meccanicamente con precetti imperativi. 373
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X · FILOSOFI
E
PEDAGOGISTI
ESTRANEI ALL'ILLUMINISMO
Il nostro, pur molto schematico, quadro del pensiero italiano nel Settecento risulterebbe gravemente incompleto se non facessimo un cenno, sia pur molto breve, a tre autori che elaborarono le loro concezioni al di fuori o contro la grande corrente illuministica. Diremo anzitutto poche parole di Ermenegildo Pini (I739-18z5), scienziato milanese, il quale fu - fra i tre - quello che più si occupò di filosofia teoretica nel senso tradizionale del termine. La sua opera principale è una Protologia ana!Jsin
scientiae sistens ratione prima exhibitam (Protologia che presenta l'analisi delta scienza, esibita dalla sua prima ragione, I 8o3): essa vuol cogliere la ragione prima (la base ultima, universale) della scienza in un primum gnoseologico ed antologico, che nulla ha ovviamente a che vedere con l'esperienza degli illuministi. Essa è l'Uno assoluto, cioè l'essere divino, che si articola nelle tre persone della divinità e quindi negli esseri finiti. Come scrive Eugenio Garin, «nel fondo del complicato e non sempre chiaro sistema di Pini non è difficile ritrovare qualche parentela con quelli del Gioberti e del Rosmini ». Più concrete e perciò più interessanti sono le concezioni degli altri due, direttamente rivolte a problemi pedagogici. Il siciliano Nicola Spedalieri (I740-95) è soprattutto noto per l'opera Dei diritti dell'uomo (1791), che pur ricollegandosi in qualche modo a Rousseau, vuol dimostrare che la più robusta difesa della libertà e il massimo rispetto della legge naturale risiedono nel cristianesimo, incarnato storicamente nella chiesa cattolica. La sua critica all'illuminismo si può riassumere nella tesi da lui amaramente sostenuta, in base a osservazioni talvolta acute, che è praticamente impossibile impartire a tutti i fanciulli una buona educazione. Egli confida assai poco infatti tanto nell'azione educatrice delle famiglie (sia affidata alle madri che ai padri), tanto in quella dei maestri e dei collegi. Non resterebbe che contare sui buoni esempi; ma l'esempio buono ha contro di sé la natura, che spinge al male e al trionfo quotidiano del male. Il giovinetto, confrontando la norma che incita al bene con la realtà pratica, finirà purtroppo per ritenere la prima del tutto astratta e illusoria e cercherà di adeguarsi alla seconda. È un atteggiamento radicalmente pessimistico che conduce il nostro autore ad accusare l 'illuminismo di risolversi in pure chimere. Merita di venire ricordato che nell'opera poco sopra riferita Spedalieri polemizza aspramente contro i giansenisti, accusandoli di «giacobinismo» e di «spirito sovvertitore dei troni». Gli risponderà con non minore durezza Pietro Tamburini in uno scritto dal titolo Lettere teologico-politiche sulla presente situazione delle cose ecclesiastiche ( 1794). Assai più importante è la figura di Giacinto Sigismondo Gerdil (nato in Savoia nel 1718 e morto a Roma nel 18oz). Entrato nell'ordine dei barnabiti, 374
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studiò a Bologna; venne poi inviato a insegnare teologia morale all'università di Torino, e qui esercitò pure la carica di precettore dell'erede al trono di Sardegna, il futuro Carlo Emanuele IV. Venne fatto cardinale da Pio VI nel 1787, e fu anche candidato alla tiara pontificia nel conclave del r 8oo. Nelle sue numerose opere, di teologia, diritto canonico, apologetica, politica, filosofia, pedagogia, storia e matematica, scritte ora in latino, ora in italiano ed ora in francese, Gerdil mostra sempre notevole competenza, lucidità di idee, chiarezza ed ordine nell'esposizione. I principali scritti pedagogici sono: Discorso accademico sopra gli studi della gioventù; Pian des études pour un jeune seigneur; Un abbozzo del piano di studi per il principe di Piemonte; e il famoso Anti-Émile, ou réflexions sur la théorie et la pratique de l'éducation, contre /es principes de M. Rousseau (L'anti-Emilio, ovvero riflessioni sulla teoria e la pratica dell'educazione, contro le teorie del signor Rousseau). Nel Discorso sopra gli studi della gioventù il nostro autore inveisce contro il facilismo e l 'utilitarismo che a parer suo imperversano nelle scuole. Egli sostiene che i metodi troppo facili non sono adatti a esercitare le facoltà intellettuali ed a svilupparne la capacità: come le forze fisiche si accrescono quanto più sono avvezzate alla fatica, così la mente si irrobustirà se sarà costretta ad impegnarsi duramente per giungere al sapere. Gli studi devono essere severi e formativi, tali cioè da educare all'amore del sapere in sé, indipendentemente da ogni speranza di lucro. L'utilitarismo infatti, unito ad un artificioso e ingannevole facilismo, porterà ineluttabilmente alla decadenza degli studi, al prevalere di un tecnicismo puramente professionale, all'invasione delle scuole superiori da parte di giovani inetti, al diffondersi di una pericolosa presunzione, congiunta con superficialità e confusione, assai più perniciosa per la società della stessa ignoranza. Nell'Anti-Emilio, pubblicato nel 1763, cioè un anno dopo l'uscita del capolavoro del ginevrino, il nostro autore colpisce, in realtà, più che altro aspetti particolari dell'Emilio, lasciandosi sfuggire il motivo essenziale del libro: cioè il diritto del soggetto a formarsi liberamente attraverso la propria esperienza. Gerdil afferma che il fanciullo di Rousseau è «fittizio e chimerico» e che nel sistema dei rapporti storicamente determinati la società è la condizione naturale e necessaria per la formazione dell'uomo. Quanto al problema dell'educazione religiosa, egli sostiene la necessità di parlare di dio anche ai bambini. Asserisce la necessità dell'eteronomia, dell'intervento diretto e della sistematicità dei programmi.
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CAPITOLO
QUINDICESIMO
L'illuminismo tedesco
I · CONSIDERAZIONI
PRELIMINARI
Nel xvm secolo si diffuse anche in Germania un movimento di idee in cui sono riscontrabili i caratteri specifici dell'illuminismo. Esso ebbe senza dubbio un'importanza decisiva per la storia della cultura tedesca, e portò contributi oggettivamente notevoli alla chiarificazione di problemi di incontestabile interesse teoretico. Il suo peso specifico nella storia generale del pensiero resta tuttavia assai minore di quello spettante all'illuminismo francese e inglese, cosicché dovremo !imitarci a trattarlo in forma molto schematica, riservandoci invece di dedicare - in questa stessa sezione - un più ampio capitolo a Kant che, partendo dall'illuminismo, seppe aprire nuove vie alla speculazione filosofico-scientifica non solo della sua epoca ma anche dei secoli successivi. Poiché la relativa debolezza dell'illuminismo tedesco può, almeno in parte, venire ricondotta all'arretratezza economico-politica della Germania nel secolo in esame, occorrerà premettere qualche breve considerazione proprio su questo argomento. Già sappiamo che la Germania aveva attraversato nel Seicento un periodo particolarmente calamitoso: la guerra dei trent'anni. l'aveva prostrata economicamente e moralmente; molti dei numerosissimi stati e staterelli in cui era spezzettata risultavano privi di qualsiasi consistenza politica; la pressione della vicina e potente monarchia francese costituiva una continua minaccia alla sua indipendenza. Eppure, malgrado questo bassissimo punto di partenza, anch'essa conosce nel Settecento una certa sia pur lenta ripresa: vengono create, sebbene fra mille impacci, nuove imprese manifatturiere, il commercio subisce un graduale incremento, la classe borghese riesce ad accumulare notevoli ricchezze. La situazione generale del paese è caratterizzata, per un lato, da questo lento ma irrefrenabile processo, per l'altro, dai gravi ostacoli che esso trova innanzi a sé. Fra tali ostacoli va anzitutto menzionata la sorda avversione della nobiltà e del clero che, traendo il proprio benessere da fonti più tradizionali di ricchezza, cioè dallo sfruttamento del lavoro contadino, non si sentono direttamente cointeressati all'anzidetta trasformazione. Finiscono così per esercitare una pericolosa
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azione rallentatrice, sia pure senza averne espressamente l'intenzione. Ricordiamo per esempio che i nobili, avvalendosi degli innumerevoli privilegi garantiti loro dalle leggi vigenti (di carattere pressoché feudale), impongono sempre nuovi balzelli ai dipendenti delle loro proprietà terriete che cercano di inserirsi nella nascente industria (per lo più come operai a domicilio), con l'evidente risultato di abbassarne il già misero livello di vita e in tal modo diminuire la produttività delle imprese. La radice più profonda del male può forse venire cercata, però, nella mancanza di un'unità politica del paese; non vi ha dubbio, infatti, che è proprio la suaccennata suddivisione territoriale e politica a favorire la sopravvivenza delle leggi anzidette, che solo un forte potere centrale sarebbe stato in grado di abolire. Tale suddivisione si ripercuote inoltre gravemente anche sul commercio, poiché impone pesanti dazi alle merci che attraversano i confini dei singoli stati, con l'effetto di elevarne i prezzi e di diminuire per ciò stesso sia il consumo interno di esse sia la loro esportazione. La mancanza di un'unità politica riesce perfino a rallentare la formazione di un'unità culturale della nazione. Le piccole corti dei vari prìncipi sono prive di vigore autonomo e perciò non riescono ad assumere alcuna efficace iniziativa. La loro massima ambizione è quella di imitare usi e costumi della grande corte dei re di Francia; seguono pertanto i gusti di oltre Reno nella letteratura, nell'arte, nella scienza, e giungono ad adottare la lingua francese come segno di raffinatezza e distinzione. I prìncipi più lungimiranti introducono sì qualche riforma nell'amministrazione dei loro stati, ma con estrema timidezza e sempre da un punto di vista esclusivamente paternalistico. Sono riforme indubbiamente utili, ma non sufficienti a produrre un salto qualitativo nella vita del popolo. Lo stesso Federico n non costituisce un'autentica eccezione. È vero che egli dichiara più volte di essere soltanto « il primo servitore dello stato », ma ciò non muta la sostanza delle cose. Egli continua a comportarsi come gli altri prìncipi tedeschi nel considerare lo stato quale sua proprietà personale e nel concepire la funzione del monarca come essenzialmente diretta a mantenere l'ordine costituito. Si preoccupa bensì, da buon amministratore, di migliorare tale proprietà, potenziandovi gli studi, instaurandovi una certa tolleranza religiosa (garanzia di pace interna e quindi di ordine), e anche favorendo qualche miglioria tecnica entro l'agricoltura; ma si guarda bene dal coinvolgere i sudditi nella direzione dello stato. La sua intelligenza lo porta senza dubbio a condividere il giudizio dei migliori intellettuali dell'epoca nei confronti della vecchia cultura, e può quindi lasciarsi facilmente convincere ad offrire la propria generosa ospitalità ai philosophes francesi costretti ad emigrare dal loro paese; ma ciò non significa affatto dare inizio a una vera, profonda riforma della cultura e tanto meno delle strutture da cui essa dipende. 377
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La borghesia, pur essendo la più diretta beneficiaria delle anzidette migliorie, non si sente sufficientemente forte da avanzare la propria candidatura alla direzione della società. Si accontenta delle riforme attuate dall'alto; accetta in sostanza l'ordine costituito; si rassegna ad essere una classe subordinata, sentendosi già soddisfatta degli indubbi progressi conseguiti. È sì in grado, in questo stato di cose, di lavorare seriamente per un sostanziale rinnovamento del vecchio patrimonio culturale, ma si guarda - salvo poche eccezioni - dal far proprio un qualsiasi programma che possa apparire eversivo della società. II
• LINEE GENERALI DELL'ILLUMINISMO TEDESCO
L'illuminismo tedesco viene solitamente suddiviso in due periodi: quello dominato da W olff (prima metà del secolo) e quello dominato da Lessing (seconda metà). Il periodo wolffiano sarebbe caratterizzato da un razionalismo dogmatico, tendente a inquadrare l 'intero universo (e cioè sia il mondo naturale sia quello umano) in rigide formule di tipo pressoché scolastico; il periodo lessinghiano, meno sistematico e quindi in un certo senso meno profondo, sarebbe invece caratterizzato da una maggiore varietà di interessi, e soprattutto da una maggiore apertura verso le più urgenti esigenze della società: sarebbe quindi più impegnato nella denuncia dei gravi difetti delle vecchie strutture sociali della Germania, nella critica del generale conformismo, nella ricerca di nuovi valori umani, nella difesa dei diritti dell'individuo (il famoso movimento dello « Sturm un d Drang », un tempo considerato come l'inizio dell'epoca romantica, non sarebbe altro che una particolare corrente di questo secondo periodo, corrente di aspra opposizione - senza dubbio - sorta però all'interno dell'illuminismo e non al di fuori del suo impianto concettuale). Negli ultimi anni del secolo avrebbe poi inizio una fase di rapida dissoluzione dell'illuminismo, essenzialmente dovuta al senso di smarrimento prodottosi nella gran maggioranza dei suoi sostenitori di fronte agli sviluppi via via più radicali della rivoluzione francese e in particolare alla notizia dell'esecuzione di Luigi xvi.l Pur riconoscendo l 'utilità di una tale periodizzazione per chi voglia accingersi a un rapido esame del complesso movimento, riteniamo però doveroso sottolineare che essa ci fornisce solo un primo sommario orientamento, da integrarsi sotto vari punti di vista. Riteniamo in particolare che non vi si tenga sufficiente conto del notevole, articolato apporto di parecchi illuministi tedeschi allo sviI Moltissimi furono gli intellettuali tedeschi di questo periodo che dopo un'iniziale adesione alla rivoluzione francese, se ne distaccarono decisamente quando apparve chiaro che il potere stava passando dalle mani dei foglianti e dei girondini (cioè dei partiti borghesi moderati) a quelle dei giacobini. Paradigmatico può considerarsi a questo
proposito l'atteggiamento di Christoph Martin Wieland (1733-r8r3), che sulla sua rivista « Deutscher Merkur » - fra le più diffuse della Germania dapprima approvò il giuramento della pallacorda e la politica dei rivoluzionari, poi si schierò a rabbiosa difesa del re, invocando apertamente l'intervento armato contro i repubblicani.
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luppo delle ricerche scientifiche (in primo luogo di quelle logiche, su cui ci si è soffermati a lungo nel capitolo v1). Malgrado l'impossibilità in cui ci troviamo - secondo quanto notammo nel paragrafo precedente - di dedicare all'illuminismo tedesco tutto lo spazio che in via assoluta meriterebbe, d sforzeremo pertanto di completare l'anzidetta caratterizzazione con qualche breve richiamo a taluni suoi aspetti non prettamente filosofici. Al fine di una rapida chiarificazione del quadro complessivo entro cui si inserisce l'indirizzo di cui d stiamo occupando, sarà utile premettere qualche schematica notizia sui più importanti filoni culturali del passato, che esercitarono su di esso una manifesta influenza, diretta o indiretta. In primo luogo va ricordato il filone leibniziano, che incise soprattutto sulla scuola wolffiana, pur non potendosi dire che Wolff sia sempre stato un interprete intelligente e fedele del pensiero di Leibniz (non lo fu, per esempio- come già sappiamo - nell'ambito della logica). Anche gli illuministi delle generazioni successive si appellarono spesso a tale pensiero, ma ne sottolinearono alcuni temi che erano stati lasciati relativamente in ombra dai seguaci di Wolff. Nel campo della fisica, e in particolare della meccanica, molti si ispirarono pure alle dottrine di Newton, che vennero così a far parte - in Germania come in altri paesi della più avanzata cultura scientifica dell'epoca; proprio ad esse farà costante riferimento Kant - pur assumendo varie volte una posizione originale rispetto ai newtoniani di stretta osservanza - sia nelle sue opere del periodo precritico, sia in quelle della piena maturità (quando si proporrà di dimostrare filosoficamente la possibilità della fisica-matematica). Un altro filone di pensiero che esercitò una profonda influenza sull'illuminismo tedesco fu quello spinoziano che, guardato a lungo con fortissimo sospetto per lo meno dai pensatori più moderati, assumerà un peso sempre maggiore nella seconda metà del secolo, fino a quando le concezioni di Spinoza verranno a costituire uno dei temi centrali dei circoli preromantici (ossia dei circoli che segneranno il trapasso dall'illuminismo al romanticismo). Assai significativa è la polemica sorta nel decennio 1780-90 sul panteismo spinoziano, quando Jacobi, poco dopo la morte di Lessing, scrisse- scandalizzato- che questi gli aveva confessato la propria adesione a tale pericolosa dottrina ed Herder sentì il dovere di reagire immediatamente a Jacobi, dichiarandosi egli pure favorevole allo spinozismo. Anche la diffusione del pensiero degli illuministi inglesi e soprattutto francesi fu molto importante, per la ricchezza di stimoli che riuscì a trasmettere all'illuminismo tedesco, indirizzandolo verso posizioni in certo senso più radicali. Di particolare efficacia fu la circolazione, in traduzioni tedesche, delle opere di Helvétius, Condillac e Holbach, il cui materialismo venne da alcuni autori utilizzato per rinvigorire la corrente genericamente materialistica che, a torto o a ragione, si faceva risalire a Spinoza. 379
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Per comprendere i caratteri dell'illuminismo tedesco non basta però tenere conto dei filoni culturali che ne stimolarono lo sviluppo; è necessario prendere in considerazione anche quegli indirizzi di pensiero che si opposero ad esso, condizionandolo in modo più o meno esplicito. Intendiamo riferirei in maniera particolare al pietismo che, sorto nella seconda metà del Seicento, aveva raggiunto una larga diffusione e un notevole peso nella Germania settecentesca. Come venne spiegato nella sezione rv, le tesi principali del pietismo erano due: netta opposizione all'elaborazione della dottrina cristiana in formule astrattamente razionali; ricerca dell'essenza del cristianesimo nel sentimento, nell'azione caritativa, nella contemplazione interiore. È ovvio che l'atteggiamento di sostanziale sfiducia nella ragione esprimentesi in queste due tesi non poteva far a meno di portare i pietisti su posizioni antitetiche a quelle degli illuministi; non stupisce perciò che la polemica tra i due indirizzi sia stata aspra e tenace. Eppure, malgrado questa polemica, si può constatare che essi ebbero alcuni importanti caratteri in comune, come è confermato dal fatto stesso che non pochi furono gli illuministi di provenienza pietista. Ci limiteremo a ricordare due di tali caratteri: in primo luogo la netta opposizione al processo di cristallizzazione del luteranesimo che era finito per diventare nel Settecento un elemento di pesante conservazione ideologico-politica; in secondo luogo la tendenza a cercare sul piano dell'azione l'unica valida giustificazione dell'atteggiamento etico-religioso. Nei due indirizzi questi caratteri si presentano, com'è ovvio, diversamente sfumati; essi dimostrano comunque che, malgrado tale diversità, il rapporto fra pietismo e illuminismo non era di pura antitesi cosicché l'antitradizionalismo dei pietisti poté col tempo preparare e alimentare la carica eversiva degli illuministi. Un'ultima osservazione è indispensabile aggiungere per tratteggiare, nelle sue grandi linee, il quadro culturale entro cui operò l'illuminismo tedesco; intendiamo riferirei alla rinascita nella Germania settecentesca di una nuova, appassionata ammirazione per il mondo classico. La figura che meglio impersonò questa rinascita è quella di Johann Joachim Winckelmann (1717-68), archeologo, erudito, storico dell'arte, che esercitò una profonda influenza sul tardo Settecento tedesco, in particolare durante il trapasso dall'illuminismo al romanticismo. A lui si deve non solo la riscoperta dell'antichità, ma l'affermazione, ripresa poi dal cosiddetto neoclassicismo, che l'unica via per diventare grandi consiste nell'« imitazione degli antichi». È un'affermazione che deriva dalla concreta presa di contatto con l'arte greca e nel contempo ne fornisce un'immediata idealizzazione. Dal punto di vista filosofico, la posizione di Winckelmann è contrassegnata dall'abbandono dell'estetica aristotelica per ritornare a un platonismo misticointellettualistico. Se è vero che, trasferitosi a Roma, egli non ebbe difficoltà ad abbracciare il cattolicesimo, è anche vero però che questa conversione, senza d'ub-
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bio dettata dal desiderio di accattivarsi la protezione del Vaticano, non modificò in nulla il suo platonismo sostanzialmente pagano. Come scriverà Goethe nel I 8o5, il fastidioso passo fu compiuto per « inserirsi non superficialmente » nella vita di Roma, e « gli fu grandemente agevolato dal fatto che per lui, pagano di fondo, il battesimo protestante non era valso a consacrarlo cristiano». La realtà è che una parte dell'alta cultura si sentiva ormai libera, anche in Germania, da ogni serio impegno religioso. III · WOLFF
Di Christian Wolff si è parlato a lungo nel capitolo vr e non riteniamo necessario aggiungere qui altre notizie sulla sua vita. Sarà invece opportuno ricordare che le due fondamentali opere di logica da lui scritte (in tedesco, nel I713, e in latino, I728), ivi esaminate, furono seguite da una lunga serie di altri lavori (essi pure scritti rispettivamente in tedesco e in latino) concernenti tutti i più importanti rami allora noti dello scibile. Vale la pena riferire i titoli delle opere delle due serie. Opere tedesche: Verniinftige Gedanken von Gott, der Welt und der See!e des Menschen (Riflessioni razionali su dio, il mondo e l'anima dell'uomo, I72o), generalmente nota col titolo di Metafisica tedesca; Verniinftige Gedanken von der Menschen Thun und Lassen (Riflessioni razionali sul modo di agire degli uomini, I72o), opera nota come
Etica tedesca; Verniinftige Gedanken von dem gese!!schaft!ichen Leben der Menschen (Riflessioni razionali sulla vita degli uomini in società, I72I), nota come Politica tedesca; Verniinftige Gedanken von den Wirkungen der Natur (Riflessioni razionali sugli effetti della natura, I723), la cosiddetta Fisica tedesca; Verniinftige Gedanken von den Absichten der natiirlichen Dingen (Riflessioni razionali sui fini delle cose naturali, I724), la cosiddetta Teleologia tedesca; Verniinftige Gedanken von de m Gebrauch der Theile in Menschen, Thieren und Pflanzen (Riflessioni razionali sull'uso degli organi in uomini, animali e piante, 1725), la cosiddetta Fisiologia tedesca. Opere latine: Philosophia prima sive Ontologia (Filosofia prima ovvero ontologia, I 7 29); Cosmologia genera/is (Cosmologia generale, I 7 31); Psychologia empirica (Psicologia empirica, I732); Psychologia rationalis (Psicologia razionale, I734); Theologia naturalis (Teologia naturale 1736-37); Philosophia practica universalis (Filosofia pratica universale, I738-39); Jus naturae (Diritto di natura, I740-48); ]us gentium (Diritto delle genti, I749); Philosophia moralis (Filosofia morale, I750-5 3). Questi due elenchi, pur nella loro aridità, possono darci un'idea della straordinaria vastità del lavoro scientifico del nostro autore; è stato un lavoro affrontato in forma manualistica, spesso pedante e con eccessive preoccupazioni didattiche, 1 ma che non poteva non imporsi - per la sua stessa ampiezza e sisteI Questo intento didattico è particolarmente presente nelle opere tedesche, mentre quelle latine
hanno palesemente maggiori ambizioni teoretiche; alcuni recenti storici della filosofia ritengono tut-
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maticità - a molti contemporanei. Certamente esso lasciò nella cultura accademica tedesca un'impronta assai profonda che durerà varie generazioni. I punti più caratteristici della concezione wolffiana sono: r) la completa fiducia nella capacità del nostro intelletto di chiarire ogni problema; 2) la convinzione che in questa opera di chiarificazione sta la radice profonda della dignità (e della vera felicità) dell'uomo. Come si raggiungerà tale chiarezza? Wolff risponde: elaborando concettualmente l'esperienza mediante le regole che dio ha prescritto all'intelletto (si ricordi la definizione di logica naturale riferita nel capitolo vr), cioè mediante rigorose concatenazioni di cui la matematica ci fornisce l'esempio più perfetto. Tale elaborazione avrà il compito di liberare l'esperienza dalle sue apparenti contraddizioni, dimostrando che queste dipendono esclusivamente dal procedere affrettato e scorretto della conoscenza comune. Ciò spiega perché - diversamente da Leibniz - Wolff abbia concepito la logica non nella sua generalità di scienza prima e autonoma, ma soprattutto come ausilio di ogni serio conoscere scientifico. Il presupposto generale di questa funzione gnoseologica della logica è che la realtà stessa sia esente da contraddizioni. È per l'appunto all'antologia che spetta il compito di fondare tale presupposto, enucleando la sostanza ultima delle cose, cioè la loro essenza (essenza che ne garantisce la possibilità, a prescindere dall'esistenza effettiva di esse), e cogliendo il nesso causale che collega tutti gli accadimenti (nexus rerum). Compito particolare della cosmologia sarà di determinare l'ordine razionale (necessario) del mondo fisico, ordine che esclude - proprio per il suo carattere necessario- ogni possibilità di miracoli (va notato che nella cosmologia Wolff accoglie sì la dottrina leibniziana delle monadi, ma riconducendo praticamente le monadi a semplici atomi formali, ed espungendone la spiritualità). Per l'appunto quest'ordine ci condurrà alla dimostrazione dell'esistenza di dio come architetto dell'universo. La filosofia proverà poi la razionalità del cristianesimo, dimostrando il carattere non contraddittorio dei suoi dogmi. A proposito della concezione dell'uomo, Wolff ammette che esso sia composto di anima e di corpo, facendo appello all'armonia prestabilita per spiegare l'accordo fra gli atti del nostro spirito e i moti del corpo (in particolare degli organi sensoriali). Il fine dell'uomo sarà il raggiungimento della propria perfezione di essere razionale, perfezione in cui consiste la sua vera felicità. Questo fine è anche il presupposto del progresso della società; progresso che il nostro autore concepisce come qualcosa di necessario e che certo non lo spinge mai ad assumere posizioni eversive contro lo stato come si è venuto storicamente costituendo nella Germania del Settecento. tavia che le opere tedesche- proprio perché meno
astratte e meno concettualistiche- esprimano meglio delle seconde il vero pensiero di Wolff.
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La logica che sorregge tutto questo sistema è estrinseca e superficiale. Ciò malgrado esso ha saputo diffondere entro la cultura tedesca dell'epoca una notevole fiducia nella ragione, e in questo senso ha compiuto una funzione incontestabilmente positiva. IV · SEGUACI
E
CRITICI
DI
WOLFF
Come sappiamo dal capitolo VI, dopo Wolff i problemi filosofici vennero trattati in Germania sulla scorta della concezione logico-metodologica wolffiana anche da parte di numerosi pensatori che non erano affatto seguaci fedeli dell'autorevole professore di Halle. È questo il motivo per cui ancor oggi risulta difficile tracciare una precisa linea di demarcazione tra wolffiani e antiwolffiani, tanto più che essa dipenderà in misura notevole dall'importanza maggiore o minore che si intende riconoscere al settore in cui si manifestano i principali punti di dissenso. È chiaro ad esempio che, se si accentra la nostra attenzione sull'ambito della logica, la linea di demarcazione dovrà passare tra i due filoni esaminati nel predetto capitolo (il filone dei logici wolffiani e quello leibniziano), mentre risulterà diversa se - come altri fanno - si considerano le ricerche logiche pressoché marginali per la filosofia. Data la complessità della situazione, ci sembra inutile discutere quale sia l'etichetta da attribuire ai singoli autori che prenderemo in esame. La cosa essenziale è renderei conto dell'atmosfera generale diffusasi nella cultura tedesca dell'epoca, onde porre in luce le nuove istanze che si vengono in essa affermando: soprattutto quella di una nuova apertura verso l'esperienza sensibile (apertura che alcuni ritengono conciliabile con le linee generali del sistema wolffiano, mentre altri ne fanno il punto di partenza per un rifiuto completo di esso). Fra i pensatori più originali di quel periodo - sebbene, come studiosi di logica, più direttamente legati a Wolff - si sono ricordati Martin Knutzen, Alexander Gottlieb Baumgarten, Georg Friedrich Meier e Hermann Samuel Reimarus. Ora occorre aggiungere qualche parola per illustrare, sia pure in termini molto schematici, la loro attività al di fuori del vero e proprio campo della logica. Knutzen, che fu maestro di Kant a Konigsberg, può venire qualificato un wolffiano indipendente, malgrado la sua manifesta incapacità di allontanarsi da Wolff nell'ambito delle ricerche logiche. Si staccò invece da lui nella concezione degli ultimi elementi della realtà, sostenendo (con un palese ritorno a Leibniz) che non esistono vere e proprie differenze qualitative tra le monadi psichiche e quelle materiali. Nell'ambito della cosmologia fu sostanzialmente un seguace di Newton, ed è da lui che Kant imparò ad apprezzare la meccanica del grande scienziato inglese.
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Baumgarten iniziò la propria attività scientifica con buone divulgazioni del sistema di Wolff; dal 1742 cominciò a tenere corsi di estetica all'università di Francoforte sull'Oder, e finalmente nel 1750 pubblicò sull'argomento l'opera che doveva renderlo celebre: Aestetica (Estetica), opera che segna per così dire la data di nascita di questa disciplina (fu proprio Baumgarten a idearne il nome nel 1739, ricavandolo dal greco àistesis che significa sensazione). La nuova disciplina viene concepita come scienza filosofica della sensibilità e, in quanto tale, essenzialmente rivolta alla conoscenza dell'individuo mentre la logica è essenzialmente rivolta alla conoscenza dell'universale. Fra le due scienze esiste comunque, secondo il nostro autore, un vero e proprio parallelismo, sicché l'estetica non sarebbe altro che la «sorella minore» della logica. Non è d'altra parte il caso di fermarci qui ad analizzare il ricco contenuto dell'estetica baumgarteniana; basti ricordare, al fine di segnalarne l'interesse anche per la storia della scienza, che essa affronta molto seriamente perfino il problema dell'induzione (problema assai discusso all'incirca in quegli anni dal fisico 's Gravesande, come abbiamo ricordato nel capitolo VIII), giungendo a invocare, per risolverlo, una apposita facoltà, la praesagitio sensitiva o aspettazione dell'uniformità dei fenomeni. La cosa essenziale dal nostro punto di vista è tenere presente che con queste ricerche Baumgarten riusciva a portare un'integrazione della massima importanza al sistema wolffiano, dandogli una nuova apertura verso il campo del sensibile, cui veniva così riconosciuta un'autentica «dignità filosofica », cioè « una sua propria relativa positività e autonomia ... sia pure entro certi limiti » (Nicolao Merker). Poiché, secondo Baumgarten, la nozione di bello appartiene alla sfera della sensibilità, è chiaro che l'estetica nell'accezione testé definita dovrà includere in sé anche la teoria della bellezza; come è noto, questo argomento assumerà in seguito un rilievo sempre maggiore onde oggi tutta intera l'estetica suol venire identificata con la teoria della bellezza. Quanto al discepolo di Baumgarten, Georg Friedrich Meier, basti qui aggiungere che egli accettò integralmente il parallelismo tra estetica e logica teorizzato dal maestro, sostenendo la necessità che esse si unissero nella conoscenza più eccellente. Come spiega Giorgio Tonelli, « Meier prenderà il maestro molto alla lettera, e... scriverà intorno a concetti, giudizi e sillogismi estetici... a " segni " estetici, e farà proposte a tal proposito per migliorare la sensibilità e la percezione ». Più interessante della posizione di Meier è quella di Reimarus, che pur potendosi qualificare sostanzialmente wolffiano (non solo nella logica), rivela senza dubbio una personalità assai spiccata in vari campi della filosofia. Ci limiteremo a ricordare il suo originale interesse per il mondo della natura (in particolare per le bellezze del regno organico che egli ritiene spiegabili solo in un quadro teleologico) e soprattutto il suo impegno nell'ambito dei problemi religiosi: impegno dimostrato sia nell'opera Abhand/ungen von den vornehmsten Wahr-
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heiten der natiirlichen Reltgion (Saggio delle principali verità della religione naturale, 175 4), sia ancor più in un'opera che Reimarus si limitò a far conoscere a una ristretta cerchia di amici e che qualche anno dopo la sua morte venne parzialmente pubblicata- in forma frammentaria e senza rivelarne l'autore- da Lessing, fra il 1774 e il 1778, sotto il titolo Fragmente eines Anonymus (Frammenti di un anonimo). Mentre la tesi centrale della prima è che dio non può volere se non la conservazione, nella sua totalità, del mondo che egli stesso ha creato, onde risulta inconcepibile che egli si presti a turbare quest'ordine mediante miracoli (l'unico vero miracolo è la creazione stessa), le tesi sostenute dei Frammenti sono assai più radicali, ed avranno larghe ripercussioni anche su tutta la cultura laica della Germania del XIX secolo. I Frammenti criticavano infatti sia in generale ogni religione rivelata, sia in particolare l'Antico e il Nuovo testamento. Sull'Antico, osservavano che i personaggi che in esso appaiono come messi di dio sono spesso così malvagi e corrotti, che una loro particolare intimità con il creatore getterebbe solo discredito su quest'ultimo. Ogni loro pretesa di essere mandati da dio è quindi calunnia. Delle leggi dell'Antico testamento, Reimarus dimostra che sono spesso tanto assurde e palesemente ingiuste, che attribuirle a dio sarebbe ingiuria e bestemmia. Quanto ai miracoli, richiamandosi al deismo inglese, afferma che si tratta di truffe e imbrogli perpetrati dalla casta sacerdotale per gabbare il popolo. Riguardo al Nuovo testamento, i Frammenti negano che sia dovuto a ispirazione divina, e ravvisano nelle azioni e nella predicazione di Gesù l'esistenza di un piano specificamente politico. Il battesimo di Gesù, ad esempio, sarebbe il sigillo di un patto di mutuo appoggio stipulato fra Gesù e Giovanni il battista, per far colpo sul popolo di Israele. Quanto alla crocifissione, Reimarus, nega che fosse stata prevista da Gesù: fu una sciagura che tagliò a mezzo i piani politici di Gesù e dei suoi seguaci, ponendo questi ultimi in una situazione insostenibile, dalla quale cercarono di uscire inventando la favola della resurrezione. Pur muovendo - come scrive Lessing nella sua presentazione - da una concezione filosofica basata per intero sul razionalismo wolffiano, le pagine di Reimarus portano manifestamente questa concezione a conseguenze radicali e del tutto eterodosse che vanno molto al di là del moderatismo di Wolff; e ciò costituisce una prova manifesta che la tendenza a superare il wolffismo stava ormai diffondendosi tra le file dei suoi stessi seguaci non meno che tra quelle dei suoi dichiarati avversari. Già sappiamo che tra questi ultimi vanno annoverati Joachim Georg Daries e Christian Augustus Crusius, malgrado che le opere di logica da essi pubblicate non si discostino sostanzialmente dalle linee della logica wolffiana. Le loro critiche a Wolff si incentrano sulla rivalutazione dell'esperienza contro il razionalismo dogmatico e sull'affermazione del carattere extra-logico dell'esistenza. 1 I
Tra i loro scritti sull'argomento ci limitiamo a rio::ordare una fra le più interessanti opere
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Se teniamo presente quanto venne poco sopra accennato a proposito di Baumgarten e di Meier, non ci è difficile comprendere che l'istanza di fondo affermata da questi come da quelli risulta all'incirca la medesima. È un nuovo segno che i più intelligenti pensatori dell'epoca, wolffiani o antiwolffiani che siano, si trovano ormai di fronte alla stessa problematica. Volendo aggiungere qualche notizia un po' più particolareggiata su Crusius, occorrerà dire anzitutto che egli fu senza dubbio influenzato da Andreas Rudiger (1673-173 r), il più autorevole rappresentante della coraggiosa schiera di studiosi che avevano mosso i primi seri attacchi a Wolff fin dal I7Io-zo. Per l'appunto da Rudiger il nostro autore eredita l'avversione al metodo matematico di Wolff, accusato di limitarsi a studiare la forma delle cose, senza giungere alla loro esistenza; e ancora da Rudiger deriva la tendenza a considerare l'esperienza come « unico principio » di tutte le nostre conoscenze (perfino delle verità logiche e matematiche). Sulla base di questo orientamento empiristico Crusius muove una serrata critica al principio leibniziano di ragion sufficiente, nega che il mondo sia regolato da un ordine necessario, combatte la pretesa wolffiana di derivare il principio di causalità da quello di non contraddizione; le sue argomentazioni in proposito eserciteranno una profonda influenza sulla gnoseologia kantiana. Va notato che a tale spirito critico nell'ambito dei problemi della conoscenza si accompagna invece, nell'ambito dei problemi religiosi, un singolare atteggiamento conservatore che si esplica nell'accettazione dogmatica della rivelazione (in quanto richiamantesi a un'esperienza immediata) e nel rifiuto di sottometterla al vaglio della ragione (proprio perché questa viene privata del rango privilegiato che le era stato assegnato da Wolff). Nei Sogni di un visionario del 1765 Kant rivolgerà una critica altrettanto mordace sia contro la metafisica di W olff sia contro quella di Crusius. Per completare la nostra rapidissima rassegna dei principali dibattiti filosofici, dai quali fu caratterizzata la cultura tedesca durante il periodo che potremmo chiamare «immediatamente post-wolffiano », non ci resta ora che da aggiungere qualche parola sul più illustre rappresentante del « filone leibniziano » della logica esaminato nel capitolo VI, cioè su Johann Heinrich Lambert. Già sappiamo da tale capitolo che Lambert occupa una posizione di notevole rilievo nella storia della logica, della matematica e della fisica settecentesche. Conosciamo pure i titoli dei principali scritti in cui egli espone le proprie concezioni filosofiche: Neues Organon del 1764 e An/age zur Architektonik... del 1771. Per sottolineare la sua importanza anche nel campo della filosofia, possiamo subito ricordare che intrattenne un'interessante corrispondenza con Kant (iniziata nel 1765) e che già prima di questa data il suo Neues Organon era noto al grande filosofo d; Konigsberg; per illustrare le analogie di fondo fra la formazione culturale dei due è di Crusius, Entwurf der nothwendigen Vernunftwahrheiten (Schema delle verità di ragione necessarie, 1745),
e una di Daries, Via ad veritatem (Via alla verità, 1755)·
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pure opportuno notare che in Cosmologische Briefe (Lettere cosmologiche, 1761) Lambert affronta il problema della genesi del sistema solare, già trattato qualche anno prima da Kant in un'opera che purtroppo il nostro autore non conosceva. Malgrado i contatti testé accennati, il problema dei rapporti tra Lambert e Kant resta assai complesso, come è per esempio dimostrato dal fatto che nell'ambito importantissimo della logica quest'ultimo si muove - secondo quanto si è detto nel capitolo V I - sostanzialmente sulla linea di Wolff e non su quella di Lambert. La tesi filosoficamente più significativa di Lambert riguarda ancora una volta il compito da attribuire all'esperienza: solo questa sarebbe secondo lui in grado di fornire alle nostre conoscenze una piena determinatezza e perciò un carattere di autentica realtà, mentre la logica, occupandosi esclusivamente di analizzare i concetti nei loro elementi ultimi onde evitare ogni contraddizione, non ci condurrebbe al di là del mondo possibile. Di qui la centralità dell'appello all'esperienza, come espressione dell'esigenza di concretezza. Il vero problema del conoscere diventa in tal modo, secondo Lambert, il problema di trovare un effettivo accordo tra ordine formale e contenuto empirico. Per garantire tale accordo egli farà appello a dio, quale fonte della realtà e della verità; ma questa soluzione costituisce forse la parte meno interessante della filosofia lambertiana. Ciò per cui il nostro autore merita di venire ricordato accanto a Crusius e a Baumgarten, è la chiarezza con cui enuncia il problema testé riferito (problema che egli trasmetterà a Kant e che formerà il punto di partenza della filosofia critica), è la forza con cui egli sostiene che la vera conoscenza può scaturire soltanto dalla combinazione della materia (sensibile) con la forma (logica). V · IL
DIFFONDERSI
DELLO
SPIRITO
ILLUMINISTICO
La filosofia wolffiana, pur essendo riuscita a imporsi in quasi tutto il mondo accademico tedesco della prima metà del Settecento, non poté conseguire proprio per il suo carattere eccessivamente sistematico - un pari successo nelle sfere più ampie della cultura. Queste erano sì desiderose di rinnovare le proprie concezioni, liberandosi dalle superstizioni del passato, ma volevano farlo in forme meno disagevoli, cioè mediante dibattiti concreti su problemi accessibili ad ogni persona aperta verso il mondo moderno, non esclusivamente su questioni astratte e generalissime di logica e di metafisica. Particolarmente utili a questo riguardo si rivelarono le suggestioni provenienti dali 'Inghilterra, dirette per un lato a ricordare la centralità dell'esperienza sensibile nei processi conoscitivi, per un altro lato a sottolineare l'urgenza di una coraggiosa chiarificazione dei problemi religiosi, morali, artistici, politici, ecc. L'aspirazione verso il rinnovamento culturale testé accennato diede luogo al sorgere e al rapido diffondersi della cosiddetta « filosofia popolare », una corrente
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di pensiero a cui contribuirono studiosi di interessi diversi (saggisti, letterati, cultori di ricerche scientifiche, ecc.), desiderosi di espandere lo spirito dei lumi, di convertire gli animi alla tolleranza religiosa, di aggiornare la Germania su tutte le grandi conquiste del pensiero europeo (onde un certo eclettismo di chi si accingeva a questa impresa). La nuova atmosfera culturale è già parzialmente presente in alcuni autori considerati nel paragrafo precedente, ma il suo rappresentante più caratteristico fu senza dubbio Moses Mendelssohn (1729-86), accanto a cui può venire menzionato Johann Georg Sulzer (I720-79), traduttore di Hume, e autore di interessanti scritti sulla morale e sull'arte. In Mendelssohn troviamo uno dei più fedeli interpreti dell'ala moderata dell'illuminismo tedesco. Cultore di estetica e di letteratura, di problemi religiosi, etici e in generale filosofici, scrittore efficace e chiaro, esercitò una profonda influenza sui contemporanei e fu in relazione con le maggiori personalità dell'epoca (per esempio con Lessing e con Kant). Tra i suoi molti scritti ci limiteremo a ricordare: Briefe iiber die Epinftndungen (Lettere sulle sensazioni, I 7 55); Betrachtungen iiber die Quellen und die Verbindungen der schonen Kiinste und Wissenschaften (Considerazioni sulle origini e i rapporti delle arti belle e delle scienze, I757); Briefe, die neueste Literatur betreffend (Lettere riguardanti la più recente letteratura, I759); Ueber die Evidenz in metaphysischen Wissenschaften (Sull'evidenza nelle scienze metaftsiche, I 764); Phaedon oder iiber die Unsterblichkeit der Seele (Pedone o sull'immortalità dell'anima, I767); Morgenstuden oder Vorlesungen iiber das Dasein Gottes (Ore mattutine o lezioni sull'esistenza di dio, 1785). La concezione filosofica generale di Mendelssohn è sostanzialmente eclettica in quanto costituita di elementi diversi, attinti in parte da W olff, in parte dagli empiristi inglesi e in parte da Spinoza. Quanto a quest'ultimo, va senza dubbio riconosciuto a Mendelssohn il merito di essere stato uno dei primi a sottolinearne l'importanza per la storia del pensiero; quando però nel I786 scoppiò la polemica su Spinoza cui accennammo nel paragrafo n, il nostro autore non tardò a dimostrare di aver frainteso fondamentalmente il significato dello spinozismo: a tal punto, da poter sostenere che esso ammetteva la trascendenza di dio rispetto al ·mondo. Il fatto è che i problemi di metafisica erano oggettivamente troppo ardui per la mente di Mendelssohn, e d'altra parte il suo desiderio di giungere a un compromesso con la tradizione era tale da impedirgli di capire anche le implicazioni più semplici delle tesi via via esposte. Ciò va detto in particolare per la sua posizione di fronte al problema del passaggio dalla possibilità (logica) alla realtà: passaggio che egli afferma impossibile nel campo delle singole cose finite (ove il dimostrare la loro coerenza non implica affatto dimostrarne l'esistenza), mentre lo ritiene invece possibile nel campo dell'essere infinito (in quanto varrebbe, qui, una specie di argomento antologico per provare che tale essere non può non esistere).
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Più interessanti sono le idee di Mendelssohn circa i problemi etici, in particolare il suo tentativo di ricavare la morale dall'analisi del concetto di libertà; e ancor più quelle sui problemi estetici nella cui trattazione rivela una finezza psicologica davvero notevole (assai significative sono le pagine che dedica alla bellezza della natura). Va sottolineata l'energia con cui afferma che l'arte non è un'attività inferiore rispetto alla conoscenza e all'etica, ma può considerarsi a buon diritto sorella di esse. Quanto alla religione, Mendelssohn ne cerca il fondamento entro la vita sentimentale dell'individuo, e tenendo conto di questo fondamento giunge senza difficoltà a sostenere che essa deve essere completamente libera (donde la tesi della totale separazione tra religione e potere politico). Oltreché nelle opere della cosiddetta « filosofia popolare», lo spirito illuministico dimostra la propria forza di diffusione entro la cultura tedesca anche mediante l'influenza che esercita sulle ricerche di pensatori che lavorano in campi più propriamente scientifici che non filosofici. Ricorderemo, a conferma di ciò, l'orientamento chiaramente illuministico di due autori come Tetens e Eulero. Johann Nikolaus Tetens (1736-I8o7) fu il maggiore psicologo tedesco del Settecento. Partendo da una seria analisi dell'associazionismo inglese (che collega, con spirito eclettico, alla psicologia di Wolff), egli riesce ad aprire una via che condurrà al suo superamento. Essa consiste nell'affermazione dell'attività della coscienza di contro alla passività della « materia » costituita dalle rappresentazioni originarie. È un'affermazione di sapore illuministico, che unisce l'esaltazione della razionalità con il riconoscimento dell'importanza dei dati empirici. Kant ne prenderà l'avvio per giungere alla sua famosa distinzione fra materia dei dati percettivi e forma trascendentale. Dell'opera di Eulero come grandissimo matematico e fisico già si è fatto cenno nel capitolo VII. Qui basti aggiungere che le sue famose Lettere a una principessa tedesca, pur contenendo numerose e vivaci polemiche contro gli esprits forts, cioè contro gli illuministi più decisamente e apertamente antireligiosi, non si sottraggono affatto alla nuova atmosfera della cultura europea. È anzitutto palesemente illuministica la preoccupazione di fornire un'informazione semplice ma corretta intorno a tutti i più dibattuti problemi scientifici e filosofici dell'epoca (dai problemi che concernono la gravitazione a quelli riguardanti la luce, l'elettricità e il magnetismo, dai problemi gnoseologici intorno al fondamento delle nostre conoscenze a quelli metafisici sull'essenza dei corpi o sul legame fra anima e corpo, infine ai classici temi etico-religiosi riguardanti la libertà degli spiriti e la conciliabilità del male con l'esistenza di un essere divino onnipotente e infinitamente buono); e inoltre è sostanzialmente ispirata a una forma, sia pur moderatissima, di illuminismo la costante preoccupazione di trattare tali problemi al lume della ragione, mostrando la fondatezza di una concezione ottimistica dell'umanità e la possibilità di conciliarla con un cristianesimo bene interpretato.
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VI · LESSING
Gotthold Ephraim Lessing (I729-8I) nacque a Kamenz nella Lusazia; dopo aver studiato a Lipsia, visse a Breslavia, Berlino e Amburgo e infine, dal I77o in poi, a Wolfenbiittel, piccola città della Bassa Sassonia ove era stato nominato bibliotecario del principe ereditario Carlo Guglielmo Ferdinando di Brunswick. Fu poeta, critico d'arte, filologo erudito, drammaturgo (come tale occupa una posizione di primo piano nella storia del teatro tedesco); pur essendosi interessato fin da giovane di filosofia, si occupò intensamente di essa solo negli ultimi dieci anni della propria vita. Nel 1760 fu nominato membro onorario dell'accademia delle scienze di Berlino, ma non è affatto vero- come sostenne una certa storiografia tedesca dell'epoca di Bismarck - che sia stato ammiratore di Federico n e abbia fatto assegnamento su di lui per un rinnovamento nazionale tedesco; al contrario denunciò varie volte i limiti della cosiddetta « politica illuminata » del re di Prussia, e giunse a sostenere che il suo dispotismo costituiva, non meno di quello degli altri prìncipi tedeschi, il primo ostacolo al rinnovamento della Germania. Attivissimo e brillante scrittore collaborò a molte riviste, sostenendo vivaci battaglie a favore di una riforma della letteratura tedesca (in particolare del teatro) che egli non voleva modellata sull'esempio di quella francese. In questo campo va soprattutto menzionato il gruppo di saggi scritti per la « Hamburgische Dramaturgie » («Drammaturgia di Amburgo», I 767-69), un periodico letterario sorto per difendere il teatro nazionale di Amburgo, istituito appunto in quegli anni. Compose vari saggi di filosofia dell'arte, tanto più interessanti in quanto le idee ivi sviluppate erano direttamente collegate alle esperienze personali di Lessing come poeta e come drammaturgo. Basti ricordarne tre: Abhandlungen iiber die P abel (Trattati sulla favola, I757), Literaturbriefe (Lettere sulla letteratura, I7596o), e soprattutto il Laokoon (Laocoonte, I766), ove l'autore sostiene che due sono le arti principali: la pittura e la poesia. La pittura « adopera figure e colori nello spazio », onde può descrivere oggetti che coesistono in un determinato luogo, mentre la poesia « adopera suoni articolati nel tempo », e perciò è in grado di raccontare azioni che si succedono l'una all'altra. Entrambe si propongono di imitare la natura e si reggono su di un canone fondamentale: la regola aristotelica dell'unità. Nell'ambito della filosofia, il problema centrale su cui convergono tutti gli interessi di Lessing è quello religioso. Ad esso sono dedicati molti saggi giovanili del nostro autore - fra i quali ci limiteremo a ricordare Das Christentum der Vernunft (Il cristianesimo della ragione, I753) e Ueber die Entstehung der geoffenbarten Religion (Sulla genesi della religione rivelata, I75 3-5 5) - e le più impegnative opere della maturità, alcune delle quali a carattere costruttivo, altre prevalentemente polemiche. Ecco i titoli di alcune fra le più significative: Ueber den Beweis des
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Geistes und der Kraft (Sulla prova dello spirito e della forza, I777); Bine Duplik (Una' replica, 1778); Anti-Goetze (un pamphlet contro il pastore Goetze, rappresentante dell'ortodossia protestante, I778), e soprattutto il suo capolavoro Die Erziehung des Menschengeschlechts (L'educazione del genere umano, di cui venne pubblicato un abbozzo nel I777 e la stesura completa nel I78o). Nel quadro di questa attività filosofico-religiosa, va pure inserita la pubblicazione (I 774-78) da lui curata dei Fragmente eines Anonymus (opera di Reimarus) di cui parlammo nel paragrafo IV. Ricorderemo infine i Gesprache fiir Freimaurer (Dialoghi per_ massoni, I778-8o) che rappresentano in certo senso il testamento politico del nostro autore. Tra le fonti del pensiero di Lessing vanno senza dubbio annoverati gli illuministi inglesi e francesi (egli nutriva una particolare ammirazione per Diderot), ma i due autori ai quali più costantemente si ricollega sono Leibniz e Spinoza. L'appello a Leibniz era, come sappiamo, un punto basilare di tutto l'illuminismo tedesco; più significativo è invece il riconoscimento del grande valore del secondo, condannato come empio da tutti i moderati dell'epoca. Lessing lo studiò con passione fin da giovane - ricordiamo in proposito il suo opuscolo Ueber die Wircklichkeit der Dinge ausser Gott (Sulla realtà delle cose fuori di dio, 1762) - e certamente verso la fine della vita si avvicinò sempre di più allo spinozismo. Come già accennammo nel paragrafo n, egli avrebbe dichiarato poco prima di morire, in una conversazione con Jacobi, di avere aderito alla filosofia spinoziana. Morto Lessing nel I 78 I, J acobi denunciò la cosa nelle famose Briefe iiber die Lehre des Spinozas (Lettere - a Mendelssohn - sulla dottrina di Spinoza, I785) che diedero luogo a un'accesa polemica in cui, come sappiamo, intervennero i maggiori studiosi dell'epoca. Malgrado il suo vivissimo interesse per la filosofia, Lessing non elaborò un proprio sistema filosofico. Come dichiara più volte, ciò che gli sta veramente a cuore è la libera e continua ricerca della verità, è lo sforzo, l'intimo impegno da essa richiesto (sforzo in cui « consiste la sempre maggiore perfezione dell'uomo»); assai meno importante gli pare invece il possesso della verità stessa (possesso «che rende l'uomo inerte, pigro, superbo»). Tale possesso spetta soltanto a dio, non all'uomo, che lavora nel tempo e può raggiungere solo delle verità parziali e limitate. Di qui la diffidenza verso qualunque sistema, che cela sempre in sé gravi pericoli di dogmatismo. In questo atteggiamento qualcuno vuole scorgere una certa insoddisfazione per l'illuminismo (Hoffding); altri sostiene invece che, malgrado tutto, Lessing starebbe ancora per intero entro tale movimento. Una cosa ci sembra comunque da rilevarsi, e cioè che la posizione anzidetta risulta mal conciliabile con la fede nella scienza propriamente detta, che animava gran parte degli autentici illuministi; ed infatti, mentre l'atteggiamento di Lessing appariva essenzialmente interessato all'insieme di atti con cui lo spirito umano indaga la verità, gli scienziati dell'epoca si mostravano proprio interessati ai risultati (sia pur parziali)
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di tale indagine, alla determinazione dei loro fondamenti, alla correzione degli errori delle vecchie teorie. È una differenza importante, se vogliamo comprendere le lontane radici di quella frattura fra scienza esatta e filosofia che verrà via via delineandosi nella cultura tedesca poco dopo la scomparsa di Lessing. L'interesse testé accennato per l'attività della ricerca (più che per i suoi risultati) condusse il nostro autor~ ad attribuire un'importanza, prima di lui non riconosciuta, al particolare, all'individuale, ricollegandosi in ciò a una tematica che era stata senza dubbio presente in Leibniz. Egli giunge tuttavia, diversamente da Leibniz, a collegare la stessa logica alla psicologia. Ma egli dirige la propria attenzione non solo verso l'individuo, bensì verso l'umanità, che ritiene sottoposta ad uno sviluppo in certo senso analogo a quello dell'individuo. Di qui l'importanza assunta dalla storia, che Lessing considera (in analogia a Vico) come realizzazione di un ordine ideale, come rivelazione dell'eterno nel tempo. Tenendo conto di questa centralità della storia, possiamo anche comprendere meglio la tesi più sopra accennata dell'irraggiungibilità del vero da parte del singolo ricercatore: attribuire all'uomo la capacità di pervenire a qualche verità assoluta, equivarrebbe riconoscergli l'assurda possibilità di uscire fuori dalla storia, di estraniarsi da quel flusso perenne in cui solo assumono un significato le verità concrete da lui via via conseguite. È un punto di vista nuovo e assai importante, che permetterà ad alcuni interpreti di considerare Lessing come uno dei padri dell'idealismo tedesco dell'Ottocento. Secondo Lessing, indagine storica e indagine filosofica non vanno però confuse l'una con l'altra. Ciò risulta con particolare chiarezza nel suo modo di discutere il problema dei fondamenti della religione. Egli sostiene infatti che la verità del cristianesimo non può venire provata con una semplice analisi dell'autenticità dei testi sacri: anche se fosse possibile provare storicamente la sovraumanità di Cristo (prova che Lessing ritiene irraggiungibile) e la realtà dei miracoli a lui attribuiti, questo non dimostrerebbe ancora la verità del dogma cristiano. Una religione non può venire giustificata dai miracoli, ma soltanto dal suo valore morale; le verità rivelate debbono venire tradotte in verità di ragione, se vogliamo che il genere umano possa effettivamente assimilarle e farle proprie. Se è manifesta, in questa tesi, l 'influenza del deismo, bisogna però subito notare che Lessing vi introduce una originale integrazione. Ricollegandosi a quanto poco sopra accennammo, circa l'analogia che secondo lui esisterebbe tra sviluppo dell'umanità e sviluppo dell'individuo, il nostro autore può sostenere che le religioni positive non sono state il frutto di semplici inganni; al contrario, esse hanno rappresentato una fase necessaria entro lo sviluppo dell'umanità. Come l'individuo ha bisogno, nei primi anni della sua vita, di essere educato, così si può ripetere per la stirpe umana: e le religioni positive hanno appunto assolto l'importantissimo compito di realizzare tale educazione. Il cristianesimo rappresenta il momento più elevato di questo processo educativo, 39Z www.scribd.com/Baruhk
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e come tale apre la via a una religione nuova, non più infantile ma razionale. È certo impossibile negare l'importanza della relativizzazione testé accennata delle religioni rivelate, che Lessing riduce a semplici (seppure essenziali) formazioni storiche; va però sottolineato il pericolo insito nella trattazione di Lessing, che sembra fare del problema religioso il problema centrale dell'intera indagine filosofica. Questa centralità attribuita a tale problema avrà un peso decisivo nel successivo sviluppo del pensiero tedesco che, per dibattere il valore spettante al cristianesimo perderà spesso di vista altre questioni più caratteristicamente moderne (come quelle concernenti il significato della conoscenza scientifica o i rapporti fra progresso scientifico-tecnico e progresso sociale). Se lo sviluppo della stirpe umana è concepito da Lessing come analogo allo sviluppo dell'individuo, ciò non significa che egli lo interpreti come qualcosa di limitato (come un'evoluzione che si concluderebbe col raggiungimento della maturità). Al contrario, egli concepisce questo sviluppo come un'evoluzione in inftnitum (Meinecke), come un processo che non trova la propria giustificazione in una presunta razionalità metastorica dello stato finale a cui condurrebbe l'umanità, ma la trova proprio in se stesso. Con ciò «si compie una nuova sintesi della storia e della razionalità. La storia non costituisce più l'antitesi del razionale, ma risulta la via per giungere alla realizzazione di esso: il vero anzi l'unico terreno possibile per il suo avveramento» (Cassirer). In questo quadro concettuale anche lo spinozismo di Lessif?.g assume un carattere assai nuovo: esso non significa più, come in Spinoza, il semplice riconoscimento dell'ordine razionale che regola l'intero universo (sia per quanto riguarda l'attributo dell'estensione, sia per quanto riguarda quello del pensiero), ma il riconoscimento della profonda razionalità immanente allo stesso mondo della, storia, ed estrinsecantesi concretamente nell'evoluzione in inftnitum dell'umanità. Resta da aggiungere solo più qualche parola sulle concezioni politiche di Lessing, concezioni che si ispirano, esse pure come quelle religiose, all'ideale del progressivo perfezionamento della stirpe umana. Impostato così il problema, è chiaro che il nostro autore non poteva far a meno di auspicare la realizzazione di una società egualitaria, atta a favorire il libero sviluppo di tutte le personalità. Ma il suo restò un mero auspicio, che non si tradusse in forma concreta di lotta politica (e proprio qui è il limite di gran parte dell'illuminismo tedesco). Il fatto singolare è, poi, che Lessing cercò di giustificare questa posizione attesista con un singolare appello alla vecchia teoria metafisica-religiosa della metempsicosi. Ecco le lucide parole con cui Nicolao Merker riesce a chiarire davvero molto bene l'aggrovigliato problema: «I Dialoghi per massoni trasferiscono lo scioglimento dell'intera questione delle diseguaglianze sociali sul piano speculativo di una lenta educazione morale dell'umanità, e ne demandano la soluzione al lontanissimo utopico e quindi già di per sé metafisica futuro dell'estinzione dello Stato. Parallelamente, sempre nel '78, Lessing giunse, in uno scritto occasionale, a
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staccare del tutto il problema delle diseguaglianze fra gli uomini dal contesto della realtà sociale, finendo per accettarle come altrettante inevitabili " fasi di sviluppo " sulla via del" perfezionamento etico": e ciò in base all'ipotesi ... che ogni" anima" diventa " uomo " ripetute volte, con un sempre diverso grado di forze e qualità, onde le reali disuguaglianze (morali e sociali) non sarebbero dunque che una sorta di necessario segno esteriore di questo esoterico processo metafisica. >> VII · LO
« STURM
UND DRANG
»
Lo« Sturm und Drang» (tempesta e impeto) fu un movimento culturale-politico che si diffuse in Germania nell'ultimo quarto del xvrrr secolo, esercitando una forte influenza in senso irrazionalistico su numerosi giovani scrittori dell'epoca; il suo nome è tratto dal titolo di un celebre dramma scritto nel I776 da Friedrich Maximilian Klinger (I 7 52- I 83 I). Il movimento riguarda soprattutto la storia della letteratura, ma indirettamente anche quella del pensiero filosofico in quanto alcuni filosofi (in particolare Hamann e Herder) presero viva parte alla nascita dell'indirizzo in esame, e altri - che possiamo qualificare filosofi almeno per una parte della loro attività - ne furono influenzati in misura notevole negli anni della loro formazione filosofica (per esempio Goethe e Schiller). Fra i numerosi poeti e drammaturghi che fecero parte del movimento basterà ricordare Friedrich Klopstock (I726-I8o3) e Heinrich von Kleist (1777-ISII). Nel presente paragrafo ci limiteremo a tentare una sommaria delineazione dei temi dello « Sturm und Drang » che hanno avuto una qualche importanza anche dal punto di vista filosofico, accennando in particolare al dibattuto problema dei rapporti tra tale indirizzo e l'illuminismo tedesco. Ci riserviamo invece di tornare nel seguito della nostra trattazione sull'opera filosofica dei singoli autori considerati: ad Hamann, Herder e Schiller dedicheremo due paragrafi dell'ultimo cal,Jitolo della presente sezione (ma su Herder si ritornerà a lungo anche nella successiva), a Goethe dedicheremo un ampio paragrafo nel capitolo n della sezione vr, riesaminando poi vari punti particolari del suo pensiero in altri capitoli. I temi anzidetti possono venire così schematizzati: I) esasperata difesa della libertà individuale e conseguente tendenza a far coincidere la vera moralità con la lotta contro ogni forma di oppressione; z) esaltazione del genio che osa sfidare - nella vita politica come in quella artistica - l'ordine costituito, rifiutando comunque di integrarsi nelle sue strutture; 3) ricerca del valore del popolo tedesco in qualcosa di più profondo che non le sue istituzioni sociali e culturali; 4) confusione tra ordine razionale del pensiero e ordine giuridico della società con la tendenza a trasformare la ribellione al secondo in ribellione anche al primo (onde l'inclinazione all'assurdo, ecc.);
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5) esaltazione di un contatto immediato, sentimentale, intlllttvo con la natura, al di là delle astratte formule con cui le scienze esatte pretenderebbero farcela conoscere. La presenza in questi temi di elementi diversi e in parte tra loro contraddittori è evidente; la ricchezza di questi elementi vale per un lato a dimostrarci la vivacità di interessi e di sincere aspirazioni che animarono i numerosi giovani i quali abbracciarono il nuovo indirizzo, per l'altro però a porre in luce la mancanza in essi di una concezione coerente sia nell'ambito politico-culturale sia in quello rigorosamente filosofico. Di qui la difficoltà incontrata dai critici per fornire un'interpretazione soddisfacente dello « Sturm und Drang ». La prima interpretazione di esso, ancora oggi accolta da molti storiografi, fu fornita dai romantici dell'Ottocento, i quali - mossi dal comprensibile desiderio di trovare dei precursori al proprio indirizzo - amarono presentare lo « Sturm und Drang » come un movimento preromantico, insistendo in particolare sull'aspetto irrazionalistico di alcuni temi degli Stiirmer e passando invece sotto silenzio le notevoli differenze fra altri temi degli Stiirmer e taluni caratteri fondamentali del romanticismo· (per esempio fra l'orientamento prevalentemente laico dei primi e quello prevalentemente religioso dei secondi). In tempi recenti, però, alcuni studiosi più avveduti (in particolare il marxista Gyorgy Lukacs) hanno messo in luce gli incontestabili punti di contatto fra lo « Sturm un d Drang » (o per lo meno fra alcuni dei suoi migliori rappresentanti) e l'illuminismo tedesco, giungendo a concludere che lo « Sturm und Drang » fu sì un movimento di opposizione, ma interno all'illuminismo, non esterno ad esso. A riprova di questa tesi interpretativa basterebbe citare la comune origine borghese dei due movimenti (quello degli illuministi e quello degli Stiirmer), la comune condanna dei difetti della vecchia società, ecc. L'ostacolo più grave ad accogliere integralmente questa tesi è costituito dalla difficoltà di chiarire il vero significato da attribuire alla sostituzione, tentata dagli Stiirmer, della categoria del «genio>> a quella della « razionalità». Certo è - come mette bene in luce Paolo Chiariniche fu proprio questa presunta sostituzione a opporre decisamente un illuminista come Lessing ai sostenitori del nuovo indirizzo, proprio nel campo dell'estetica, fondamentale per entrambi. Secondo Chiarini, la superiorità del primo sarebbe provata dalle seguenti parole (di Lessing) cui egli attribuisce giustamente un grande valore: « Affermare che le regole e la critica possono soffocare il genio significa non soltanto isolare il genio in se stesso, ma addirittura imprigionarlo nel suo primo tentativo. » Assai persuasiva ci sembra la tendenza di alcuni studiosi recentissimi (come ad esempio Merker) i quali, pur aderendo in via di massima all'interpretazione di Lukacs, ritengono che essa vada maggiormente articolata tenendo conto delle notevoli differenze esistenti sia all'interno dell'illuminismo, sia tra i vari seguaci dello « Sturm und Drang ». Dal nostro punto di vista ci sembra essenziale aggiun395
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gere che la ribellione degli Stiirmer contro la razionalità scientifica (fisico-matematica) non può venire considerata priva di collegamenti con lo scarso, o pressoché nullo interesse dimostrato verso di essa proprio da Lessing, che pure aveva sentito il dovere di difendere- contro gli Stiirmer -la razionalità, ma solo nell'ambito della critica letteraria e della filologia. Il fatto è che, a nostro parere, già in Lessing la frattura tra spirito illuministico e spirito scientifico (nel senso rigoroso di questo termine) aveva preso un avvio estremamente pericoloso. Tenuto conto di ciò noi riteniamo che, per cogliere il più coerente e fecondo sviluppo dell'illuminismo tedesco e il suo autentico superamento, occorra rivolgersi ben più a Kant che alle « insoddisfazioni » di Lessing o ai fermenti di violenta opposizione germogliati nello « Sturm und Drang ». È stato Kant infatti a far proprie nella loro integralità le esigenze razionalistiche dell'illuminismo, tedesco e non solo tedesco; è stato lui a spingere a fondo la ricerca di una completa fondazione di tali esigenze, ed a scoprire, proprio per questa via, i veri limiti della « razionalità » illuministica. VIII · NUOVE ISTANZE PEDAGOGICHE:
IL FILANTROPISMO
Prima di chiudere il capitolo vogliamo accennare ad un indirizzo pedagogico che ebbe larga diffusione nella Germania del xvm secolo: il cosiddetto filantropismo. Se per un lato esso si ricollega al pietismo, per un altro lato però si ricollega senza dubbio alle concezioni illuministiche delle quali subisce profondamente l'influenza. Questo doppio nesso costituisce in certo senso una riprova dei rapporti - non di pura antitesi -esistenti fra illuminismo e pietismo, secondo quanto abbiamo cercato di spiegare nel paragrafo n del presente capitolo. L'iniziatore del filantropismo fu Johann Bernhard Basedow (1724-90), autore di una celebre pubblicazione dal titolo Vorstellung an Menschenfreunde und vermogende Manner iiber Schulen, Studien und ihren Einfluss auf die offentliche Wohlfahrt (Relazione ai filantropi e ai potenti su/te scuole, gli studi, e la loro influenza sul benessere, 1768). Nato ad Amburgo, avviato - dopo una triste infanzia - agli studi nel ginnasio della città, nominato professore di filosofia, acquistò ben presto una grande notorietà con l'opera testé ricordata. Nel 1771 il principe di Anhalt, attratto dalle sue idee, lo chiamò a Dessau, e qui il nostro autore potrà creare nel 1774 il Philantropium, un istituto ispirato appunto al suo programma educativo. Basedow non è un pedagogista originale; in lui rivivono motivi di Locke, di Rousseau, del pietista Francke. I punti essenziali (di netta marca illuministica) della sua pedagogia sono: 1) La scuola deve essere indipendente da ogni chiesa; deve cioè essere cristiana, ma non luterana o calvinista o cattolica. Pur coltivando il sentimento patriottico, non deve aver legami con questa o quella nazionalità, non prussiana, né russa né danese, ma europea;
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z) la cultura che la scuola impartisce deve essere utilitaria e pratica; 3) circa il metodo, è necessario partire dall'intuizione, non pretendere di insegnare troppe cose, e soprattutto insegnare in modo piacevole. Nel Philantropium hanno un posto considerevole gli esercizi fisici e i lavori manuali. Le lingue vive sono curate più di quelle morte; il latino viene studiato come lingua parlata, mentre il greco è completamente bandito. La grammatica ridotta al minimo, notevole tempo è invece dedicato al disegno, alla musica, alla visita a botteghe e fabbriche. La disciplina è complessivamente assai dolce; le punizioni si riducono per lo più alla diminuzione dei voti di merito, alla sospensione della ricreazione, al temporaneo esercizio delle funzioni di servo, ecc. Le ricompense fanno leva sullo spirito di emulazione e sull'amor proprio; esistono albi d'onore e libri neri, distintivi e perfino vitto speciale per i migliori. Non mancano però vere e proprie esercitazioni di « indurimento », durante le quali gli alunni debbono allenarsi al digiuno, a sopportare le intemperie, a dormire sul nudo pavimento ecc. Per reagire contro gli eccessi della moda francese, Basedow introduce l 'uso della divisa, abolendo la parrucca e imponendo i capelli corti e la camicia aperta. Basedow è anche autore di un celebre Elementarwerk (Libro elementare), suddiviso in due parti: la prima costituente una specie di manuale di pedagogia per genitori e maestri, l'altra contenente una serie di trattati sugli elementi di tutte le discipline. Lo scopo di quest'opera, dove è evidente l'influsso di Comenius, è di sostituirsi all'inesistente seminario per maestri, mettendo uomini di buona volontà, anche se di mediocre cultura e preparazione specifica, in condizione di svolgere razionalmente il loro compito di insegnanti. I filantropici hanno il culto del metodo e ritengono che opportuni artifici didattici rendano possibile uno sviluppo pressoché illimitato della cultura nella direzione prescelta. Ciò costituisce ovviamente un'esagerazione, e parecchie delle trovate didattiche peccano di superficialità. Resta però il fatto, ed è questo il massimo merito di Basedow, che Dessau diventa per alcuni anni un centro di primaria importanza nel campo dell'educazione, e in questo senso appare giusto l'elogio rivolto al Philantropium da Kant. Per il resto, i filantropini non sono molto coerenti col loro nome: mentre Francke si era occupato degli orfani e dei diseredati, essi preferiscono educare i figli della. borghesia e della nobiltà (cioè appunto dei ceti più interessati al rinnovamento illuministico). Basedow non brilla per capacità organizzative, è propenso ad atteggiamenti un tantino ciarlataneschi, ed entra spesso in urto con i suoi collaboratori. Infatti l'istituzione da lui fondata precipita in soli tre anni dopo la sua morte; un suo seguace, Saltzman, fonda però un altro Philantropium a Schepfenthal, e altre scuole modellate su quelle di Dessau fioriranno in numerose località tedesche, eliminando molti dei difetti del primitivo istituto.
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CAPITOLO SEDICESIMO
Il problema della scuola durante la rivoluzione francese DI RENATO TISATO
I · SIGNIFICATO E LIMITI DELLA RICERCA
Lo studioso che si avvicini alla bibliografia relativa all'insegnamento in Francia prima del 1789 e durante il periodo rivoluzionario è colpito dal fatto che l 'interesse per tale argomento sembra esplodere improvvisamente negli anni attorno al 188o. Si tratta in un primo tempo di ricerche d'archivio miranti a mettere in luce l'esistenza (o la non esistenza) delle scuole in questa o in quella regione o provincia francese, la loro struttura, il loro funzionamento eccetera, seguite ben presto da opere di più vasto respiro, miranti a fornire una visione complessiva della situazione scolastica nell'intera Francia. L'interesse storiografico nasce dall'esigenza di risolvere un problema attuale. Gli anni attorno al 188o, infatti, vedono il mondo politico francese vivacemente impegnato nel dibattito sulla riforma della scuola, dibattito nell'ambito del quale le leggi (1879-82) che prendono il nome da Jules Ferry costituiscono altrettante tappe decisive. Orbene: la polemica fra progressisti e conservatori, democratici e liberali e, soprattutto, laici e clericali, trova le sue lontane premesse e al tempo stesso le più valide proposte di soluzione precisamente nella situazione del xvii e XVIII secolo e nelle vicende dell'età rivoluzionaria. Per gli uni, infatti, la rivoluzione non avrebbe fatto altro che distruggere un edificio tutto sommato efficiente, senza sostituirvi nulla di concreto, se si eccettuino alcuni principi astratti e spesso contraddittori; per gli altri, invece, prima del 1789 ben poco sarebbe esistito, in Francia, nel campo della scuola in generale e di quella popolare in ispecie: poche scuole, maestri ignoranti, metodi superati, attrezzature scadenti, ragion per cui il grande movimento che sfocia nelle concezioni scolastiche contemporanee troverebbe il suo impulso iniziale nella rivoluzione. Senonché, quantunque l'interesse per gli argomenti in questione sia tutt'altro che spento ai giorni nostri ed abbia, al contrario, promosso in questi ultimi decenni nuovi studi particolari e generali di notevole valore, scevri, per di più, da quella carica emotiva che spesso turbava l'animo dei ricercatori ottocenteschi, spinti a trasformarsi in apologisti o in detrattori, sembra complessivamente ancora più che mai valida l'osservazione del Mornet secondo la quale, mentre per
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conoscere il modo di pensare e di agire delle poche decine di migliaia di persone costituenti l'élite della nazione disponiamo di documenti numerosi, diretti, irrecusabili, la conoscenza del modo di pensare e di agire di quei diciotto-venti milioni di francesi che costituivano il popolo è affidata a documenti scarsi, incerti, di seconda mano, risolventisi per lo più in opinioni, apparenze, generalizzazioni di esperienze limitate. Quand'anche, osserva lo studioso citato, si giungesse a risultati abbastanza completi e sicuri in ordine al numero delle scuole ed alla percentuale dei frequentanti, rimarrebbe pur sempre l'interrogativo più grave: cosa si imparava di fatto in quelle scuole? In che modo e in quale misura gli elementi del leggere, dello scrivere e del far di conto potevano condurre i fanciulli del popolo a riflettere sulla loro condizione ed a concepire una politica atta a trasformarla? Da tutto questo deriva che per quanto riguarda il periodo prerivoluzionario la fonte principale che possiamo consultare è costituita ancora, in ultima analisi, dal pensiero riflesso. Ben diversamente stanno le cose per quanto si riferisce agli anni successivi al 1789. Non solo, qui, gli studi sono assai più numerosi ed impegnati, a causa della drammaticità degli eventi che ha attratto ed appassionato un numero sterminato di ricercatori, ma la documentazione è enormemente più abbondante, sicché è possibile lavorare su processi verbali, relazioni, progetti di legge, giornali ecc. Tenendo conto di questa situazione oggettiva cercheremo, entro i brevi limiti concessi dall'economia generale di questa Storia, di fornire al lettore un quadro sufficientemente completo di un periodo che, anche per quanto si riferisce alla storia delle istituzioni scolastiche e in generale educative, costituisce un momento esemplare nella storia dell'umanità. II
· LE IDEE DOMINANTI ALLA FINE DEL XVIII SECOLO
Le fonti delle idee in materia di educazione dominanti in Francia alla vigilia della rivoluzione, possono essere ridotte a tre: I) il pensiero filosofico degli enciclopedisti; 2.) il pensiero economico-politico dei fisiocratici; 3) gli esempi forniti da paesi stranieri. Cercheremo ora di fornire brevemente qualche notizia su ciascuna delle fonti testé menzionate: 1) per quanto riguarda gli enciclopedisti non si può parlare di una vera e propria dottrina unitaria in campo scolastico. Neppure si può affermare che nel quadro del pensiero enciclopedistico il problema della scuola occupi un posto particolarmente importante. Significativo, sotto questo punto di vista, è il fatto che, nell 'Enciclopedia, articoli come « Studi », « Educazione » ecc. sono stati redatti da autori secondari, nonostante la direzione di Diderot e la collaborazione di Rousseau. Questo non esclude che negli scritti degli enciclopedisti si possano identifi-
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care alcuni motivi ricorrenti, suscettibili di essere raggruppati in un programma comune. Tali motivi sono riducibili a due temi fondamentali: a) l'insofferenza per il monopolio ecclesiastico e l'aspirazione alla secolarizzazione delle scuole. Diderot ironizza contro gli ecclesiastici, definendoli « soggetti equi voci » per quel loro essere « sospesi fra il cielo e la terra ». Holbach considera i religiosi « i meno adatti a formare dei padri di famiglia, degli uomini di stato, dei magistrati, dei cittadini, degli esseri illuminati e ragionevoli ». Altrove egli sottolinea sarcasticamente la contraddittorietà insita nel fatto che delle persone votate al celibato pretendano di istruire la gente circa i doveri della vita coniugale. Condillac, dal suo canto, condanna le scuole tenute dagli ordini religiosi perché l'obbedienza assoluta a regole immutabili paralizza ogni spirito di iniziativa e cristallizza l'insegnamento in forme anacronistiche. Il rimedio contro il monopolio ecclesiastico è visto nell'intervento statale. Circa le forme e l'estensione di tale intervento, poi, esiste tutta una gamma di sfumature: dalla semplice «ispezione» (Voltaire) ad una regolamentazione organica (Rousseau, Holbach), alla piena e totale statalizzazione della funzione educativa, secondo l'ideale spartano (Diderot, Crevier, Morelly). Morelly, anticipando quanto, come vedremo più avanti, sarà proposto dal progetto del Lepeletier, vuole che « a cinque anni tutti i fanciulli siano strappati alla famiglia ed allevati in comune, a spese dello stato, in maniera uniforme ». b) La richiesta di un'istruzione orientata utilitaristicamente, sviluppando, da un lato, la conoscenza del mondo esterno attraverso l'attribuzione di maggiore importanza alle scienze naturali, organizzando, dall'altro, un piano di studi articolato in un'enciclopedia di discipline particolari. Si tratta, com'è facile vedere, di un'impostazione profondamente rivoluzionaria rispetto alla tradizione umanistica caratterizzata dal culto degli studi « liberali », dalla centralità dei problemi relativi all'uomo e dalla strutturazione sistematica e gerarchica delle varie branche del sapere. z) La dottrina fisiocratica, incentrata, com'è noto, attorno ai due temi della libertà quale condizione per promuovere l'attuazione dell'ordine divino nel mondo e dèll'agricoltura come unica vera fonte di ricchezza, vede nella diffusione dell'insegnamento nelle campagne un mezzo atto a promuovere l 'incremento del prodotto netto. Alcuni fisiocratici (Mirabeau, Turgot) si pronunciano in favore di un'istruzione elementare obbligatoria e gratuita. Tutti sono concordi nell'auspicare l'intervento statale, l'uniformità dei programmi in tutto lo stato, la laicizzazione dello spirito informatore. Queste prospettive, comuni alla maggioranza degli enciclopedisti, e dei fisiocratici, se pure si pongono nettamente più avanti della opinione media, presentano cionondimeno limiti ben precisi.
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a) L'educazione popolare, lungi dall'essere concepita come promozione del pieno sviluppo della personalità fino ai limiti costituiti dalle possibilità di ciascuno, è vista in funzione puramente utilitaristica e ridotta alla mera comunicazione degli elementi delle tecniche strumentali. b) Inoltre essa, anziché essere organizzata in modo da poter costituire un veicolo di promozione sociale, è differenziata in maniera da contribuire a cristallizzare le classi e da condizionare l 'individuo ai bisogni e alle caratteristiche della classe in cui è nato. La preoccupazione che l'istruzione stimoli i giovani ad abbandonare la terra e ad inurbarsi, il timore che vengano a mancare i braccianti, i manovali e i marinai, costituiscono motivi ricorrenti negli scritti degli autori in questione. « Il bene della società richiede che le conoscenze del popolo non si estendano più in là delle sue occupazioni» (Chalotais). c) Come del resto la maggior parte degli enciclopedisti, i fisiocratici trascurano, in generale, l'educazione delle donne. «La migliore educazione ch'esse possono ricevere è quella loro impartita dalla madre» (Léonard Bourdon). 3) Per quanto riguarda l'esempio dei paesi stranieri, esso viene soprattutto dal mondo tedesco. In verità, nonostante alcune iniziative come quelle di Francke e di Basedow, all'inizio del XVIII secolo la scuola è, in Germania, pressappoco nelle tristi condizioni dei secoli precedenti. Ancora gli stessi maestri ignoranti e spesso di dubbia moralità, mal pagati e peggio considerati. Frequenza irregolare, interrotta per lunghi periodi a causa delle altre attività che impegnano alunni ed insegnanti. In molte regioni la maggior parte dei fanciulli e quasi tutte le femmine manca di ogni istruzione. Il popolo, specialmente nelle campagne, considera la scuola come un peso; il clero, che ne dovrebbe essere il controllore e il propulsare, se ne cura ben poco, quando non ne impedisce addirittura lo sviluppo; molti principi e la nobiltà feudale sono decisamente sfavorevoli alla cultura popolare, poiché pensano che ignoranza e stupidità rendano l'esercizio del potere più agevole. Ciononostante, alcuni tentativi, anche notevoli, si fanno nel corso del secolo, per attuare un piano di educazione popolare. Fra i principi « illuminati » dobbiamo ricordare, in primo luogo, Federico Guglielmo 1 e Federico II il Grande, per la Pruss!a; Maria Teresa e Giuseppe II, per l'Austria. Federico n, specialmente dopo la guerra dei sette anni, fa notevoli sforzi per sviluppare l'istruzione del popolo. Stabilisce che i maestri debbano dare una prova di capacità davanti ad una commissione di esperti e nel I 76 3 emana il Regolamento generale delle scuole dei villaggi, nel quale si obbligano i bambini a frequentare la scuola dai cinque ai tredici anni e si fissano i principi fondamentali dell'amministrazione, della disciplina e del piano di istruzione per le scuole popolari. Senonché le enormi difficoltà di ordine oggettivo e soggettivo (mancanza di fondi e di un sufficiente numero di maestri capaci; pigrizia ed eccessiva povertà 401
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delle masse; resistenza dei ceti privilegiati, ecc.) fanno sì che in pratica si realizzi ben poco. Alla morte del grande Federico si ha un periodo di aperta reazione sotto Federico Guglielmo II (1786-97). Costui, per la verità, nel 1787 promulga un codice scolastico che sottrae all'amministrazione del clero la scuola e l'affida ad un ministro di stato, senonché sarà precisamente il ministro dell'educazione e del culto, l'intollerante pietista Woellner, a restaurare di fatto il predominio della chiesa, introducendo in tutte le scuole un « padre spirituale », il cui compito è quello di assicurarsi che i fanciulli vengano preparati a servire fedelmente la chiesa stessa e l'autorità, «nell'ambito dello stato sociale nel quale il destino li ha fatti nascere». Solo coll'ascesa al trono di Federico Gugliemo m (1797), si avrà una ripresa dell'influenza statale nel settore scolastico, in base al principio che «istruzione ed educazione formano il cittadino e tutte e due sono affidate alla scuola, ragion per cui l'influenza della scuola sulla prosperità dello stato è della massima importanza ». In Austria Maria Teresa sostiene il principio che l'« istruzione pubblica è un fatto politico » e pertanto si sforza per lunghi anni, servendosi di valenti collaboratori quali il Kaunitz e il Pergen, di creare una vasta rete di scuole pubbliche, e, soprattutto, di riformare o, meglio, di creare la scuola popolare. Essa fonda a Vienna (1771) una scuola «normale», il cui fine è «di servire da modello a tutte le scuole di città e di campagna, di istruire e formare i maestri, sia ecclesiastici sia laici, e di costituire un centro di irradiamento in tutto il paese di una cultura e di un metodo rinnovati». Di fronte ai buoni risultati della scuola normale fin dai primi anni del suo funzionamento, un consigliere di stato dichiara: «L'industria prospererà, il commercio fiorirà, il potere dello stato diverrà più grande! » Successivamente altre scuole normali sono create nelle province. Accanto ad esse vengono aperte numerose scuole « centrali », o scuole medie a carattere tecnico professionale (destinate a sostituire i vecchi e ormai superflui ginnasi), e numerosissime scuole elementari. Nel 1780, alla morte di Maria Teresa, vi sono in Austria (esclusa l'Ungheria) quindici scuole normali, ottantatré scuole centrali, quarantasette scuole medie femminili e ben 3848 scuole elementari, frequentate da più di duecentomila fanciulli. Maria Teresa ha fondato inoltre a Vienna, nel 1777, il primo istituto austriaco per sordomuti. Giuseppe II continua l'opera materna, accrescendo il numero delle scuole e soprattutto le loro risorse finanziarie; egli insiste per l'applicazione della legge sull'istruzione obbligatoria; sottolinea la necessità dell'esame per i maestri e crea una rete di ispettori scolastici, scelti dal corpo insegnante, che controllino il buon funzionamento di tutte le scuole.
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III · PROGETTI DI RIFORMA ALLA VIGILIA DELLA RIVOLUZIONE
Come risultato del confluire dei tre ordini di fattori presi in esame, i decenni immediatamente precedenti la rivoluzione vedono fiorire in Francia, accanto alle elaborazioni teoriche dei pedagogisti-filosofi, tutta ~na serie di appelli al concreto rinnovamento della scuola e di programmi tendenti alla pratica realizzazione dei principi illuministici. Particolarmente importante è, sotto questo punto di vista, il periodo compreso fra il 1762. ed il 1764, durante il quale i membri dei vari parlamenti premono per ottenere dal re l'espulsione dei gesuiti. Se è vero che la ragione prima di tale espulsione è di carattere politico, è però indiscutibile che nella condanna della compagnia entrano anche ragioni pedagogiche. Da tutte le regioni della Francia si alzano lamentele contro l 'idolatria del latino e la svalutazione della lingua e della letteratura nazionale; contro l 'insufficiente importanza attribuita alla storia, alla geografia e, in generale, alle scienze. Si protesta contro il fanatismo e la superstizione, contro l'indebita ingerenza di questioni religiose in argomenti letterari e scientifici, contro il casuismo e il lassismo morale. Ma criticare non basta: bisogna sostituire i maestri scacciati e soprattutto correggere i difetti dell'antica educazione. La campagna antigesuitica sfocia così nella elaborazione di numerosi progetti per una scuola adatta ai bisogni della moderna società civile. Fra gli autori di questi progetti, merita di essere particolarmente ricordato René de La Chalotais ( 1701-8 5), procuratore generale del dipartimento della Bretagna. Nel 1763 egli pubblica un Saggio di educazione nazionale che sarà ammirato da V oltaire e Didero t e verrà tradotto in parecchie lingue. Fiero gallicano, Chalotais non è contrario all'insegnamento della religione, ma considera che l'istruzione dei «figli dello stato» debba essere opera di « membri dello stato »; e tali non considera i preti, che obbediscono al papa e solo subordinatamente al re di Francia. Ma, al di là di questa ragione squisitamente politica, egli vede nella scuola confessionale una scuola che non prepara i giovani alla vita reale. « La maggior parte dei giovani non conoscono il mondo che abitano, né la terra che li nutre, né gli uomini che soddisfano i loro bisogni, né gli animali di cui si servono, né gli operai e gli artigiani a cui danno lavoro. Non sanno ammirare né le meraviglie della natura né i miracoli dell'arte ... » Nel Saggio si trovano numerosi spunti metodologici. Viene sottolineata la necessità di procedere dal sensibile all'intelligibile e dal prossimo al remoto. Si raccomanda di non insistere troppo sui particolari aridi e noiosi. Si prescrive che ai fanciulli diventino al più presto familiari la struttura ed il funzionamento di strumenti quali il microscopio, il barometro, il termometro. Si sottolinea la necessità che le composizioni scritte vertano su fatti e materie che rientrino nella normale esperienza e negli interessi concreti degli alunni.
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Chalotais è contrario al principio rousseauiano dell'educazione negativa. L'uomo al quale non viene positivamente insegnato il bene finisce per compiere il male. « Col pretesto di dare ai fanciulli una esperienza loro propria, li priviamo dei soccorsi dell'esperienza altrui. » Il limite del progetto Chalotais è costituito dalla totale chiusura di fronte al problema dell'educazione popolare. L'autore trova eccessiva la pur ridottissima opera svolta in questo campo dagli oratoriani! E, mentre auspica che lo stato si preoccupi del benessere e della felicità di tutti i cittadini, compresi gli operai e i contadini, ritiene che la cultura, lungi dall'essere un fattore essenziale di questa felicità, inciti gli umili ad uscire dal proprio stato, a rifiutare il modesto lavoro di pialla e lima, contribuisca a creare degli spostati, c~stituendo, in ultima analisi, un motivo di disordine. Ben più aperto verso le esigenze di un profondo rinnovamento sociale è Rolland (1734-94), presidente del parlamento di Parigi, il quale, in una sua :relazione del 17ll8 afferma: «L'educazione dev'essere così diffusa che ogni ordine di cittadini possa riceverne i benefici. » Naturalmente, non si tratta di dare la stessa istruzione a tutti: « Ogni terreno non richiede le stesse cure e non dà lo stesso prodotto; ogni intelligenza non ha bisogno dello stesso grado di cultura»; comunque, « la scienza di leggere e di scrivere, che è la chiave di tutte le altre scienze, deve essere propagata universalmente ». Senonché la diffusione della cultura è vista da Rolland non tanto come strumento di libertà, quanto come garanzia di uniformità del costume. È vero però che tale uniformità dovrà attuarsi mediante il superamento, da parte dei giovani della provincia, dei loro tradizionali pregiudizi e il loro allineamento con la più progredita cultura delle grandi città. Rolland, infine, vede chiaramente come il problema della riforma della scuola sia, in primo luogo, problema della formazione di insegnanti. Auspica pertanto la creazione di una scuola normale superiore, vero seminario laico, diretta dai migliori universitari tratti dalle varie facoltà. Anche il celebre Turgot (1727-81), nelle sue Memorie al re (1775), domanda che venga istituito un consiglio della pubblica istruzione col compito di organizzare la diffusione della cultura fra « tutti i sudditi ». Anche a Turgot, comunque, la scuola appare essenzialmente uno strumento di ordine, mirante, in primo luogo, a rendere manifesti a tutti i sudditi « gli obblighi che hanno verso la società e verso il potere regio che li protegge ». Certo, la posizione di Rolland e di Turgot è ben più avanzata di quella di Chalotais, che vedeva nell'ignoranza dei lavoratori manuali la fondamentale garanzia dell'ordine sociale; si tratta però di una posizione estremamente conservatrice, dalla quale traspare, già prima che la rivoluzione scoppi, la frattura che separa gli interessi e gli ideali della borghesia da quelli del quarto stato. Mirabeau, nei quattro Discorsi pubblicati postumi da Cabanis, sostiene
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la tesi che l 'istruzione è un dovere dello stato e un diritto per il cittadino. Così in nome del rispetto per un'astratta libertà individuale, naturalisticamente intesa, egli si oppone all'obbligatorietà dell'istruzione. A maggior ragione egli nega il principio della gratuità, ribadendo il carattere classista-borghese del suo programma. Non mancano, in verità, alcune affermazioni di intonazione democratica, come quella secondo la quale « coloro che vogliono che il contadino non sappia né leggere né scrivere si sono fatti un patrimonio sulla sua ignoranza ». Senonché anche questo appello alla diffusione della cultura è fatto, in realtà, in chiave conservatrice: i contadini ignoranti diventano bestie selvagge. Senza istruzione non v'è morale. Non è dunque al ricco che deve stare a cuore di propagarla? La garanzia delle sue sostanze non è la morale del popolo? IV · I
« CAHIERS »
Il documento di gran lunga più importante di cui disponiamo per conoscere l'opinione dei differenti strati sociali alla vigilia della rivoluzione è costituito dai cahiers de doléance. In verità la prima considerazione che si impone dopo averli scorsi è quella che l'insegnamento rappresenta una delle preoccupazioni minori di chi ha redatto i quaderni stessi. Come osserva Ferdinand Brunot «lo spirito pubblico si protendeva interamente verso i problemi immediati, politici ed economici». Soprattutto sono rare le analisi miranti a scoprire le cause profonde della gravissima situazione. Parimente risulta poco sentito il problema dell'istruzione popolare. Ci si lamenta, più che altro, del cattivo funzionamento delle scuole superiori che producono medici, giuristi e' magari anche levatrici, ignoranti e incapaci, ma poco ci si interessa della scuola elementare. In generale i cahiers escludono, almeno quando affrontano la questione scolastica, ogni idea di rivoluzione ed anche di trasformazione radicale. Lungi dal condividere i programmi più audaci di taluni filosofi, assumono un tono realistico e mirano al miglioramento di ciò che esiste già, rifiutando l'idea di una brusca rottura col passato. Naturalmente bisogna distinguere fra i quaderni dei diversi « stati » ispirati da interessi differenti e spesso contrastanti. r) Per quanto riguarda il clero, le richieste più frequenti possono essere così riassunte: a) le prerogative della chiesa in materia scolastica devono essere mantenute e qua e là rafforzate. Perciò la religione dovrà continuare a costituire la base e il coronamento dell'insegnamento. Le congregazioni dovranno essere aiutate a svilupparsi. I non cattolici dovranno essere esclusi dal magistero. b) In generale il clero è favorevole, sulla base sopra descritta, all'istituzione di una limitata istruzione popolare.
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c) Il clero deve rientrare con funzione primaria nelle università. z) I cahiers della nobiltà sono caratterizzati da ostilità o indifferenza nei riguardi dell'educazione popolare. Essi si limitano a talune formule generiche circa l 'utilità della pubblica istruzione. Viceversa, sul piano pratico, si preoccupano di chiedere l'istituzione di scuole speciali per giovani nobili, posti gratuiti nei collegi, scuole militari. In compenso la nobiltà dimostra uno spirito abbastanza tollerante in materia religiosa. 3) Ovviamente più interessanti sono i cahiers del terzo stato, nei quali sono contenute le lamentele e le richieste della borghesia ma sono riflesse anche le oscure aspirazioni delle grandi masse contadine e operaie. Il terzo stato chiede: a) la generalizzazione dell'educazione popolare. Qua e là si accenna all'obbligatorietà. Molto raramente alla gratuità, salvo che per gli indigenti. b) L'intervento del potere civile in materia scolastica. Il più delle volte, però, si auspica una forma di collaborazione tra stato e chiesa. c) Numerose sono le lamentele per il basso grado di preparazione dei maestri per i quali si chiedono un trattamento più conveniente ma anche seri esami e regolari controlli. d) Si domanda la creazione di borse di studio e un maggiore decentramento dei collegi per favorire la prosecuzione degli studi ai giovani borghesi meno agiati. e) Si auspica la parificazione dei giovani borghesi ai giovani nobili per quanto riguarda l'accesso alle scuole militari. f) Per quanto si riferisce allo spirito informatore della scuola, la borghesia è discretamente tollerante e chiede un « catechismo civico » accanto al catechismo religioso. g) Infine si auspica una riforma dei programmi in senso più realistico mediante l'attribuzione di maggiore importanza alle scienze, alla lingua materna e alle lingue moderne. V · COSTITUENTE E LEGISLATIVA · TALLEYRAND E CONDORCET
Sulla base dell'articolo della costituzione secondo il quale «sarà creata e ordinata un'istruzione pubblica, comune a tutti i cittadini, gratuita per tutte quelle parti dell'insegnamento necessarie a tutti gli uomini», Talleyrand elabora una lunga relazione, che però la Costituente non avrà il tempo di discutere. Il concetto fondamentale della relazione è quello che la costituzione sarebbe sterile, e la stessa rivoluzione risulterebbe svuotata del suo significato, qualora, dopo aver dato al popolo il potere, non gli si desse, mediante un'adeguata educazione, anche il senno. La rivoluzione si basa sui principi di libertà ed eguaglianza; ebbene,
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solo l'istruzione può diminuire la diseguaglianza delle menti, e al tempo stesso, creare delle persone veramente libere. Ciò non significa che tutti debbano avere lo stesso grado di istruzione: « In una società bene ordinata, sebbene nessuno possa giungere a sapere tutto, bisogna comunque che sia possibile imparar tutto. » Vi saranno così quattro gradi di scuole: quelle inferiori dovranno sorgere anche nei piccoli centri, le altre, via via, nei centri maggiori. Talleyrand vuole che l'istruzione di primo grado venga impartita gratuitamente e propone speciali provvidenze, le quali permettano ai giovani poveri di brillante ingegno di proseguire gli studi a spese dello stato. Non ammette però l'obbligatorietà, sempre in nome del non intervento dello stato nella sfera delle libertà naturali dell'individuo. Affronta anche il problema della educazione della «donna di casa» esclusa dalla vita politica e preparata esclusivamente ad assolvere con diligenza le faccende domestiche. Fra i vari documenti elaborati in materia scolastica nella prima fase della rivoluzione il più importante è senza dubbio il Pian et prqjet de constitution (Rapporto e progetto di costituzione), presentato all'Assemblea legislativa nell'aprile del 1792 da Jean-Antoine Caritat marchese di Condorcet. Pur non giungendo alla discussione pubblica, il Rapporto costituirà il modello al quale si ispireranno quasi tutti gli atti legislativi posteriori, anche all'epoca della Convenzione e del Direttorio. 1 Condorcet affronta il problema dell'istruzione pubblica anche in cinque Memorie, edite fra il 1791 ed il 1792, e nel breve scritto Rapport sur l'instruction publique (Rapporto sull'istruziofle pubblica). Le finalità delJ'istruzione pubblica sono tre: 1) mettere tutti gli individui in condizione di provvedere al benessere proprio e della collettività mediante il perfezionamento delle arti. 2) Assicurare a ciascuno la possibilità di svolgere, consapevolmente e bene, le funzioni civili alle quali può essere chiamato. 3) Coltivare le facoltà fisiche, intellettuali e morali di tutti i cittadini in I Del Condorcet matematico e teorico del progresso umano e della sua drammatica partecipazione alle vicende rivoluzionarie si è già detto nel capitolo xm. La Legislativa, il 14 ottobre 1791, affida il compito di elaborare un progetto generale di riforma scolastica a un comitato d'istruzione pubblica di 24 membri. Il comitato scarta subito il piano Talleyrand, che non corrisponde alle tendenze, più radicali, della nuova assemblea e designa, per redigere il progetto richiesto, una commissione ristretta di 5 membri. Nell'ambito di questa commissione finisce per imporsi la personalità di Condorcet, così che il progetto presentato a nome del comitato ben a ragione è indicato come opera di qucst'ul-
timo. La mancata pubblica di&cussione del Rapporto è dovuta, oltre all'ostilità dei giacobini in generale e in particolare di Robespierre, ad eventi veramente fatali. Il 21 aprile 1792, mentre Condorcet, ascoltato con grande attenzione, sta leggendo il suo testo, sopraggiunge improvvisamente il re che, su proposta del governo girondino, viene ad annunciare la dichiarazione di guerra ali'Austria. Ovviamente la lettura del progetto è interrotta e l'argomento viene aggiornato. I successivi tentativi di completarne la lettura e di giungere alla discussione e al voto falliscono a causa del progressivo deterioramento dei rapporti fra giacobini e girondini, sfociante, com'è noto, nella tragica fine di Condorcet.
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modo da contribuire a quel perfezionamento graduale e generale della specie umana verso il quale deve essere diretta ogni istituzione sociale. Ne deriva che per il pubblico potere l'istruzione è un obbligo imposto dall'interesse dei singoli, da quello della patria e da quello dell'umanità intera. Solo il diffondersi dell'istruzione renderà possibile la concreta attuazione degli immortali principi di libertà ed eguaglianza. Con riferimento alla libertà, Condorcet afferma: « Fin quando ci saranno degli uomini che non obbediranno alla lor sola ragione, che formeranno le loro opinioni su quelle altrui, inutilmente le norme politiche saranno delle utili verità; il genere umano continuerà ad essere diviso in due classi: quella di chi ragiona e quella di chi crede, quella dei padroni e quella degli schiavi. » Per quanto riguarda l'eguaglianza, il nostro autore reputa chimerico e assurdo un completo livellamento degli spiriti, facendo proprio il principio liberale per cui la diseguaglianza « va tutta a favore del genere umano », il quale approfitta dell'operosità varia degli ingegni. Ma, perché la diseguaglianza sia fattore di progresso, è indispensabile un'istruzione pubblica generale estesa, che abbracci l'universalità delle conoscenze; altrimenti essa va a favore dei ciarlatani di ogni specie e in primo luogo dei legulei e dei preti, i quali «cercano di ingannare gli uomini in tutti i loro interessi ». La stessa esistenza di uno stato costituzionale è subordinata all'istruzione pubblica: le leggi che proclam?no l'indipendenza personale e l'eguaglianza naturale, disgiunte dalla capacità e dall'abitudine di riconoscere la verità, «renderanno facile e temibile la tirannia che l'astuzia esercita sull'ignoranza, rendendola nel medesimo tempo suo strumento e sua vittima ». Anarchia e dispotismo sono l'avvenire di popoli fatti liberi senza istruzione. Naturalmente un'importanza tutta particolare deve essere attribuita ai « principi della giustizia naturale» e alla «scienza politica». La conoscenza dei primi fa sì che « i cittadini amino le leggi, senza cessare di essere veramente liberi »; il possesso della seconda attribuisce alla libertà quel carattere di sicurezza duratura che essa non può avere se l'entusiasmo dei cittadini per le istituzioni è basato sul sentimento anziché sulla ragione ed è quindi suscettibile di accendersi anche per ciò che non sia verità. In quanto servizio pubblico, la scuola è gratuita in tutti i suoi gradi. Anche nel progetto Condorcet, viceversa, è respinta la tesi della obbligatorietà, in nome della libertà individuale. Non sfugge al nostro autore che l'ignorante, in quanto di:sponibile per l'azione corruttrice dei demagoghi, costituisce un potenziale pericolo della libertà altrui; senonché egli, troppo ottimisticamente, pensa, come la maggioranza degli uomini illuminati del suo tempo, che la creazione di scuole gratuite sia sufficiente per attrarre alla cultura tutti i cittadini. Ciò premesso Condorcet svolge il suo progetto che prevede una scuola articolata in cinque gradi. Il primo grado è costituito dalla scuola primaria, il cui 408
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scopo è di « dare a tutti egualmente l 'istruzione che è possibile estendere a tutti »; gli altri gradi, la cui funzione è di impartire « quella istruzione più elevata che è impossibile partecipare all'immensa massa degli individui », comprendono: la scuola secondaria (scuola media inferiore con spiccato carattere tecnico-professionale); l'istituto (scuola media superiore a base scientifica); il liceo (università); la società nazionale delle scienze e delle arti. Il programma delle scuole elementari comprende: lettura, scrittura, nozioni di grammatica, aritmetica e geometria, descrizione dei prodotti del paese e di alcuni processi di lavoro agricolo ed industriale; i fondamentali principi della morale e dell'ordine sociale. La ginnastica deve soprattutto insegnare a correggere gli effetti delle abitudini forzate imposte dalle diverse specie di lavoro. La scuola secondaria è riservata alle città con almeno quattromila abitanti. Condorcet si rende conto che i figli dei contadini, indipendentemente dalle loro attitudini a proseguire gli studi, ne resteranno in gran parte esclusi. Egli però osserva: in primo luogo (e qui il suo ottimismo sfocia nella faciloneria, e, forse, nell'opportunismo) che i contadini, avendo durante l'anno notevoli periodi di riposo, possono occuparli istruendosi. In secondo luogo (e qui dà prova di eccezionale acutezza), osserva che la divisione del lavoro, semplificando, riducendo di numero e meccanizzando i movimenti degli operai, svuota quasi totalmente l'opera di questi ultimi di ogni contenuto spirituale, esponendo il lavoratore ad un progressivo istupidimento, avvilente per l 'individuo e pericoloso per la società. Unico rimedio è una istruzione più estesa. Per quanto riguarda gli istituti o scuole medie superiori, il problema centrale è quello della scelta fra orientamento scientifico-matematico e orientamento classico-letterario. Condorcet è, esplicitamente e decisamente, per la prima tendenza. Permeato di spirito empiristico-cartesiano, egli accorda assoluta preminenza alle scienze matematiche e fisiche. Non nega che gli studi linguistici, teorici e grammaticali, abbiano una funzione formativa. Ritiene però che, laddove la via dell'umanesimo classico, per giungere a buoni risultati, ha bisogno di molto tempo e di notevole approfondimento, lo studio delle discipline matematiche raggiunga lo scopo di sviluppare le facoltà intellettuali e la capacità di ben ragionare anche se contenuto entro limiti elementari. Poco dopo egli assume però un atteggiamento nettamente più drastico: per leggere il latino basterebbe una conoscenza elementare, senza dire che la maggior parte delle opere antiche importanti sono già state tradotte; d'altra parte, i classici sono zeppi di errori che il pensiero moderno ha corretto e quanto di universalmente valido c'è nei testi dei greci e dei romani rivive nei libri degli autori moderni. In conclusione, lo studio delle lingue antiche sia riservato a coloro i quali si vogliono dedicare a ricerche storiche specializzate. Senza soffermarci ad analizzare il piano per i licei, basterà ricordare come Condorcet voglia che esso sia «più adeguato allo stato attuale delle scienze
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in Europa » di quanto non lo sia « qualsiasi altro istituto di questo tipo esistente in Europa ». La scienza procede continuamente e « non superare ciò che è già stato fatto significherebbe rimanere al di sotto ». Della Società delle scienze e delle arti avremo occasione di parlare più avanti. Sospinto dalla fondamentale aspirazione all'eguaglianza ed alla libertà, Condorcet si preoccupa delle grandi masse destinate al lavoro manuale subito dopo i quattro anni di scuola elementare. Egli vede chiaramente il pericolo di quello che noi, oggi, chiamiamo « analfabetismo di ritorno ». La possibilità di ricevere una prima istruzione, egli dice, manca meno di quella di conservarne i vantaggi. Se permetteremo che, dopo aver frequentato le scuole elementari, i cittadini perdano completamente i contatti col mondo della cultura e vivano in un ambiente di miseria spirituale oltre che materiale, le prime nozioni, apprese nell'infanzia, saranno ben presto cancellate ed i poveri sentiranno nella loro ignoranza «non tanto la volontà della natura, quanto l'ingiustizia della società». Inoltre, anche per coloro i quali non ricadono nell'analfabetismo c'è sempre il problema di accrescere il patrimonio culturale, di perfezionare le tecniche già apprese e di apprenderne di nuove; di approfondire soprattutto la propria preparazione politica. A tutto ciò si dovrà provvedere con cicli di lezioni domenicali e con la creazione, nella scuola, di biblioteche e musei. Indubbiamente, il rimedio appare ai nostri occhi piuttosto ingenuo: è comunque notevole il fatto che Condorcet veda chiaramente un problema che noi, a tanta distanza di tempo, siamo ancora ben lontani dall'aver risolto. Ma il pensiero di Condorcet appare straordinariamente più liberale di quello dei vari Chalotais, Mirabeau ecc., là dove il Rapporto affronta il problema della libertà di cultura e di insegnamento. Lungi dal presentare l'istruzione come un mezzo atto a conservar~ e rinsaldare pacificamente l'ordine secondo le direttive del potere costituito, Condorcet afferma che « nessun potere pubblico deve avere l'autorità di impedire lo sviluppo di verità nuove o l'insegnamento di teorie contrarie alla sua particolare politica o ai suoi interessi contingenti ». «L'indipendenza dell'istruzione fa parte dei diritti della specie umana. Dal momento che l'uomo ha ricevuto dalla natura una perfettibilità i cui ignoti limiti, se pure esistono, si estendono ben oltre la nostra immaginazione, poiché la conoscenza di verità nuove è per lui il solo mezzo per sviluppare questa felice disposizione, fonte della sua felicità e della sua gloria, quale potere avrebbe il diritto di dirgli: ecco ciò che bisogna che sappiate, ecco il punto in cui dovete arrestarvi? Poiché solo la verità è utile, poiché ogni errore è un male, con quale diritto un potere, quale che sia, oserebbe determinare dove è la verità, dove si trova l'errore? ... Non si può arrestarsi senza tornare indietro; dal momento che si stabiliscono allo spirito umano degli argomenti che esso non potrà né esaminare né giudicare, questo primo limite posto alla sua libertà deve far temere che ben presto non rimanga alcun limite alla sua schiavitù. »
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Alla luce di questo geloso interessamento per la libertà di ricerca, di espressione, di insegnamento, va giudicata la netta distinzione posta da Condorcet fra istruzione ed educazione. La scuola deve insegnare solo ciò che è saldamente fondato sui fatti o chiaramente dimostrato dalla ragione; le « credenze politiche e religiose », in quanto opinabili, non possono pretendere di essere rafforzate dall'autorità che conferirebbe loro l'essere insegnate universalmente nella scuola pubblica. Così la scuola pubblica è laica non solo perché tenuta da laici, ma anche perché in essa non è ammesso l'insegnamento di alcuna religione positiva. Lo stato, mediante la laicità della scuola, libera l'alunno da ogni pressione mediante la quale gli adulti, forti della loro autorità, potrebbero imporgli di pensare in un dato modo. La trasmissione di « credenze » politiche e religiose è così abbandonata alla famiglia ed alle singole chiese. Questa impostazione del problema della libertà di insegnamento e della laicità della scuola, impostazione che tende a fare dello stato uno spettatore « neutrale » della gara fra le varie ideologie, sarà oggetto di aspre critiche, specialmente, come vedremo, nel corso del xrx secolo, allorquando il dibattito sul carattere educativo o semplicemente istruttivo della scuola verrà in primo piano. Si osserverà, e giustamente, che una scuola che prescinda da ogni principio unificatore della cultura, sia esso religioso o filosofico, è una scuola senz'anima, indifferente, e che la stessa istruzione che essa fornisce non è vera cultura, ma istruzione frammentaria ed enciclopedica, disintegratrice piuttosto che formatrice della coscienza. La critica, ci sembra, in astratto, validissima; ma è legittimo rivo lgerla a Condorcet? In realtà nulla ci pare più lontano dalle intenzioni del nostro autore di una scuola agnostica, indifferente, senza anima. Altrimenti, che significato avrebbe l'importanza attribuita alle scienze politiche? Evidentemente i numerosi storici che muovono una simile critica non hanno valutato abbastanza la distinzione, chiaramente introdotta nel Rapporto, fra « opinione » politicoreligiosa e « scienza ». Condorcet non esclude dalla scuola la politica e la morale, ma le «credenze» etico-politiche esclusivamente basate sulla fede e sul pregiudizio, giustificate dall'attaccamento al privilegio o dal rimpianto del privilegio. Politica sì, ma in quanto « scienza »; morale sì, ma in quanto fondata « sui soli principi della ragione »! Nella scuola vagheggiata dal progetto al posto del dogma non c'è, dunque, il vuoto, ma «i principi che, fondati sui nostri sentimenti naturali e sulla ragione, appartengono egualmente a tutti gli uomini ». Le religioni positive avranno tanto più possibilità di sopravvivere quanto più si accorderanno con la morale razionale, liberandosi dall'irrazionalismo fideistico e distinguendosi dagli interessi della classe sacerdotale, conservatrice, privilegiata, oscurantista. Così Condorcet supera le posizioni tradizionali del deismo e dell'ateismo illuministici, sostenendo l'autonomia della morale non solo per il filosofo, ma anche per l 'u?mo comune. 411
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Se mai, il più grave limite del pensiero politico-educativo del nostro autore consiste nel non essersi reso conto che la famiglia è, a sua volta, precisamente un gruppo di individui, dotati di un'autorità che rende loro possibile svolgere una azione coercitiva nel campo educativo, non solo imponendo ai figli, con suggestioni e pressioni extrarazionali, un certo orientamento politico-religioso, ma anche e soprattutto, impedendo loro di frequentare la scuola e di udire, nella scuola stessa, le voci concordemente discordi del pensiero moderno. È vero che Condorcet sembra non preoccuparsi tanto della libertà della famiglia quanto di quella dell'individuo e che la laicità della scuola dovrebbe assolvere, secondo il suo punto di vista, una funzione equilibratrice nei riguardi delle suggestioni familiari. Ma il principio della non obbligatorietà rende tale funzione equilibratrice estremamente problematica. Altri limiti del pensiero di Condo:rcet ci sembra di poter identificare nella incapacità di scorgere chiaramente l'identità di istruzione ed educazione, ciò che lo porta a giustapporre le discipline « istruttive » a quelle « educative » e nel ritenere che i principi della morale naturale appartengano a tutti gli individui, « in quanto » fondati sulla ragione, non comprendendo che, al contrario, la razionalità e la naturalità di quei principi si risolve precisamente nel loro essere accettati da tutti gli uomini, in base a procedimenti dimostrativi selezionati nel corso di una lunghissima esperienza storica. In verità, quest'ultimo residuo metafisica è parzialmente superato là dove si tratta della Società nazionale delle scienze e delle arti. Questo organismo è istituito « per sorvegliare e dirigere gli istituti di istruzione, per occuparsi del perfezionamento delle scienze e delle arti, applicare e diffondere le scoperte utili ». Alla Società nazionale spetta anche la nomina degli insegnanti, per cui l'istruzione pubblica diviene un corpo interamente libero e sciolto da ogni controllo dell'autorità centrale. Questo, che a qualche insigne storico della pedagogia sembra « un grave errore », è, a nostro parere, il più notevole merito di Condorcet, il quale porta così il laicismo a identificarsi col libero progredire della cultura. Ma c'è di più: di fronte al pericolo che la Società, istituzionalizzandosi, possa scivolare a sua volta nel dogmatismo, oppure che su di essa possa influire, magari indirettamente, il potere politico, il Rapporto afferma che, comunque, c'è sempre una autorità culturale alla quale nulla può opporsi. Essa è «l'opinione di tutti i dotti d'Europa (noi oggi diremmo: del mondo), che è impossibile indurre in errore e corrompere ». Così, al di sopra degli schemi organizzativi e dei confini nazionali, è la scienza, in via di continuo arricchimento e perfezionamento, che addita, nello scontro delle opinioni, la via da seguire per realizzare il progresso dei lumi, il perfezionamento delle leggi, la felicità degli uomini. Il Rapporto è accompagnato da una memoria sull'educazione della donna, che rappresenta un interessante corollario di quanto si è detto fin qui. La donna ha diritto alla stessa educazione dell'uomo, prima di tutto in base
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al princ1p10 dell'eguaglianza, e questo potrebbe anche apparire ovvio. Ma le argomentazioni di Condorcet risultano originali e straordinariamente moderne là dove egli afferma che l'eguaglianza di educazione è indispensabile: 1) perché le donne possano sorvegliare e seguire l'istruzione dei figli; z) perché la disparità culturale tra marito e moglie metterebbe in pericolo l'equilibrio, la felicità e la stessa solidità della famiglia; 3) perché l'uomo conserverà e perfezionerà tanto più la propria istruzione quanto più potrà farlo insieme con la propria compagna. Insomma la parità culturale costituisce un fattore indispensabile per liberare l'uomo dal peso dell'ignoranza e del pregiudizio. D'altra parte, sarebbe vano parlare di spirito di eguaglianza fra gli uomini, qualora, con l 'istruzione, non si abolisse la diseguaglianza fra le donne. La parità di istruzione porta alla coeducazione e al diritto, per le donne, di esercitare la funzione docente. La coeducazione, oltre a risultare praticamente più agevole ed economica, è moralmente positiva, in quanto libera maschi e femmine dall'ossessione del sesso, stabilisce fra di loro rapporti più franchi e sereni, stimola una emulazione benevola, facilita la realizzazione di quella «pace interiore che sola rende possibile la felicità e facile la virtù ». Senonché il lavoro delle due prime assemblee rivoluzionarie si conclude, come abbiamo già detto, senza nulla aver costruito, sul piano delle realizzazioni concrete, in ordine al problema scolastico. Progetti di grandissimo valore, come quello di Talleyrand ma, soprattutto, di Condorcet, che costituisce senz'altro la più lucida e nobile formulazione dell'ideale pedagogico illuministico, non trovano le forze politiche atte ad impegnarsi per la loro pratica attuazione. Ma c'è di più: la Costituente e la Legislativa, attraverso una serie di decisioni di carattere generale finiscono per demolire, spesso inconsapevolmente e involontariamente, i resti delle vecchie strutture scolastiche, avviando la Francia ad una situazione di crisi veramente drammatica. Per esempio: il decreto del 4 agosto 1789, sopprimendo i privilegi di ogni genere, sopprime anche taluni privilegi degli istitutori, rendendo la professione di maestro ancora meno appetibile che per il passato. Similmente la soppressione delle decime e dei diritti feudali viene ad estinguere una delle principali fonti di finanziamento delle istituzioni scolastiche. Il decreto del z novembre 1789 mette i beni del clero a disposizione della nazione. In verità i beni degli istituti e delle corporazioni insegnanti sarebbero esclusi. Senonché il passaggio della loro gestione ad autorità amministrative civili porta a una applicazione disattenta e spesso svogliata delle norme in favore dei beni scolastici. La soppressione dei dazi municipali, nel febbraio del 1790, dissecca una altra fonte di finanziamento.
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Assai più gravi sono le conseguenze della soppressione delle congregazioni religiose (febbraio '9o): da questo momento la maggior parte dei vecchi maestri comincia a disperdersi senza che l'iniziativa rivoluzionaria abbia previsto il modo di sostituirli. Ovviamente la situazione precipita fra il luglio del '9o ed il marzo del '91 a causa della costituzione civile del clero e dell'obbligo di giuramento fatto prima agli ecclesiastici e successivamente ai maestri. Il 18 agosto 1792 «considerando che uno stato veramente libero non deve tollerare nel suo ambito alcuna corporazione », « tutte le congregazioni scolastiche, di uomini e di donne ... sotto qualsiasi denominazione » sono soppresse. I membri delle congregazioni disperse potranno insegnare ancora solo a titolo personale. Alle conseguenze dei decreti sopra ricordati si debbono aggiungere altri fattori di dissoluzione. In primo luogo la crisi economica generale e l'inflazione incalzante rendono da un lato meno redditizi i vecchi salari e dall'altra più gravoso il pagamento del maestro da parte delle famiglie. D'altro canto la rivoluzione offre ai maestri, attraverso la creazione di numerosi incarichi politici ed amministrativi, possibilità di impieghi meglio remunerati. Quello che appare singolarmente interessante è il fatto che l'opinione pubblica si rivela ben presto consapevole di questo stato di cose e un gran numero di petizioni arrivano da ogni parte all'assemblea, segnalando l'ozio dei fanciulli, il vagabondaggio, il bisogno urgente di riorganizzare al più presto l'istruzione pubblica, soprattutto quella primaria. Si tratta non solo di una misura umanitaria ma di una necessità politica, addirittura di una misura di « difesa rivoluzionaria », nel momento in cui fanatismo e ignoranza minacciano di trasformarsi nei migliori alleati della reazione. Tutto questo rimane senza eco: la Legislativa si scioglie senza aver legiferato offrendo ai nemici della rivoluzione l'argomento per affermare che la rivoluzione stessa non ha accumulato che rovine. VI · LA POLITICA SCOLASTICA DELLA CONVENZIONE FINO AL TERMIDORO
«Dopo il pane, l'educazione è il primo bisogno dei popoli. » Questa massima di Danton riassume l'atteggiamento della Convenzione di fronte al problema dell'organizzazione dell'insegnamento. Eletta a suffragio universale, ispirata a principi democratici, la Convenzione è trascinata dagli eventi stessi ad impegnarsi a fondo nel settore scolastico: il progetto di riedificare la Francia fondandola su ceti nuovi, popolari, scartando i vecchi gruppi privilegiati, il clero, la nobiltà e la stessa borghesia ricca, implica la creazione di solide ed efficienti istituzioni per l'educazione delle masse. «I
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lumi costituiscono l'arma più potente che possa impiegare un popolo libero contro i suoi crudeli nemici, il dispotismo e il fanatismo, » dichiara un manifesto affisso a Marsiglia nel '94 e d'altro canto le autorità del distretto di Lacaune denunciano in un documento del '92 l'ignoranza come fonte delle crisi che travagliano la repubblica: « Di qui deriva la facilità con la quale i nemici della costituzione possono sedurre il popolo povero, ignorante e credulo, tenerlo nell'errore e ispirargli disgusto e disprezzo per le leggi. » Tutto sommato, osserva Maurice Gontard, « se le intenzioni bastassero per portare a compimento un'opera utile, nessun legislatore avrebbe mai fatto, per l 'istruzione popolare, tanto quanto la Convenzione ». Senonché, in pratica, la realizzazione di una radicale ed organica riforma della scuola risulta pressoché impossibile per due ordini di ragioni: da una parte l'ampiezza, la varietà, l'urgenza dei compiti dell'assemblea, che impediscono una discussione calma e sufficientemente distesa, dall'altra la lo~ta fra i partiti e fra le fazioni all'interno degli stessi partiti, tutti concordi nel volere una scuola popolare ma irriducibilmente discordi circa il modo di concepirla. Non è nostra intenzione, qui, di passare in rassegna i numerosissimi progetti élaborati e non presentati all'assemblea; presentati e non discussi; discussi e non approvati; approvati in tutto o in parte e non attuati; attuati e subito annullati da altre deliberazioni. Ci limiteremo a richiamare i progetti più importanti, cercando, nel contempo, di sottolineare i motivi fondamentali emergenti dal serrato e spesso drammatico dibattito. Nel periodo della Convenzione possiamo distinguere tre momenti: il primo contrassegnato dal predominio dei girondini, il secondo caratterizzato dal potere dei giacobini e in particolare di Robespierre, il terzo, successivo al Termidoro, che rappresenta il ponte di passaggio verso il Direttorio e la dittatura napoleonica. Nel periodo girondino, nel quale prevalgono ancora tendenze liberali moderate, abbiamo il progetto Lanthenas. Il progetto Lanthenas (ottobre 1792) non rappresenta gran che di nuovo rispetto al rapporto Condorcet. Si possono tuttavia ricordare di esso: l 'importanza attribuita al mutuo insegnamento (legato alla istituzione di « pluriclassi » per ragioni organizzative ed economiche); la lotta contro i dialetti, a favore dell'unica lingua nazionale, e il fatto che la nomina dei maestri spetta non già ad una autonoma società delle scienze, ma all'assemblea dei padri di famiglia, sulla base di una lista compilata da una commissione di persone istruite, insediata a sua volta dal consiglio comunale, con la chiara intenzione di contemperare le esigenze della pura democrazia con quelle della cultura e con quelle, prevalenti, del potere politico. Un tratto caratterizzante il progetto Lanthenas e denotante la sua impostazione sostanzialmente girondina è costituito dal suo accentuato orientamento
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anticattolico: « Tutto ciò che concerne i culti religiosi sarà insegnato esclusivamente nei templi... I ministri di qualsivoglia culto potranno essere ammessi alle funzioni di un qualunque grado dell'insegnamento pubblico solo se avranno rinunciato a tutte le funzioni del loro ministero. » L'articolo I del progetto, approvato senza incidenti, stabilisce: «Le scuole primarie formeranno il primo grado di istruzione. Vi si insegneranno le cognizioni rigorosamente necessarie a tutti i cittadini. Le persone incaricate dell'insegnamento nelle scuole saranno chiamate istitutori. » Senonché l'articolo I è anche il solo ad essere adottato. La discussione, infatti, si estende subito ed investe un grandissimo problema di fondo: lo stato dovrà regolamentare tutti i gradi di educazione o limitare il proprio intervento al primo grado, lasciando gli altri all'iniziativa privata? Su questo punto intervengono duramente Durand-Maillane e Masuyer denunciando il pericolo che si formi nello stato una formidabile « corporazione » e che si instauri una nuova superstizione, quella degli scienziati, in sostituzione di quella dei preti. Il progetto Lanthenas viene così insabbiato. Nel giugno del I793 viene presentato un nuovo progetto. Ne sono autori il Sieyès, il Daunou e il Lakanal, ma, per ragioni di opportunità, a quest'ultimo è affidato l'incarico di esserne il relatore alla Convenzione. Sebbene presentato dopo che l'insurrezione armata dei sanculotti, il 3I maggio, ha insediato al potere i montagnardi, questo progetto riduce l'intervento dello stato alla sola scuola primaria e abbandona i gradi superiori alla iniziativa privata. Solo la scuola statale-primaria è gratuita. Nulla è detto in ordine all'insegnamento della religione. A dirigere tutta l'istruzione pubblica è posta una commissione centrale che si rinnova periodicamente per via di cooptazione. Il progetto, ovviamente, è respinto dalla sinistra, di cui si fa portavoce il chimico Hassenfratz. Questi accusa Lakanal di essere soltanto l'uomo di paglia del « perfido prete » Sieyès, il quale mirerebbe, con formule subdole, a riaprire le porte all'invadenza clericale ed a costituire un comitato d'istruzione pubblica di cui egli stesso finirebbe per essere il dittatore. L'assemblea non solo boccia il progetto Lakanal, ma toglie la sua fiducia al comitato d'istruzione pubblica, nominando a suo fianco una« commissione» di sei membri della quale farà parte anche Robespierre. Senonché, prima che la commissione abbia elaborato un suo piano, la sinistra della Montagna si entusiasma per il progetto, fino allora ignorato, di Michel Lepeletier (ex marchese di Saint-Fargeau, assassinato il zo gennaio del '93 da un fanatico realista) trovato da suo fratello Felix e fatto proprio da Robespierre. Il 13 luglio 1793, il giorno medesimo dell'assassinio di Marat, lo stesso Robespierre presenta alla Convenzione il progetto Lepeletier. La lettura, secondo la cronaca del « Moniteur » è « spesso interrotta da numerosi applausi». Identiche
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accoglienze il progetto ottiene, pochi giorni dopo, all'assemblea dei giacobini, sicché appare valida l'espressione di B. Bois, secondo il quale in questo momento viene raggiunto « il punto culminante della curva !egalitaria in materia di istruzione ». È nel corso dell'acceso dibattito attorno a questo progetto che vengono messi in cruda luce i fondamentali motivi di divergenza tra le varie tendenze rivoluzionarie circa il problema educativo. In primo luogo, la questione dell'obbligatorietà. Appare chiaro, ormai, come la tesi, cara alla borghesia, della gratuità limitata alla sola scuola elementare senza obbligatorietà, si basi su una premessa assai lontana dal vero e cioè sulla presunzione che i poveri, da un lato, abbiano i mezzi materiali per poter mantenere i bambini a scuola; dall'altro, si interessino attivamente al problema dell'istruzione. In realtà, per rendere effettiva ed universale la frequenza, c'è bisogno dell'obbligatorietà che vinca la resistenza dovuta all'ignoranza, e di provvidenze economiche le quali vadano ben oltre la semplice gratuità. La legislazione borghese tutela di fatto il « diritto » dei genitori più poveri di usufruire del lavoro dei figli e sgrava i contribuenti del pesante onere che il concreto funzionamento della scuola implicherebbe per tutti. Ed ecco il progetto Lepeletier con i suoi convitti di stato, assolutamente gratuiti, nei quali vengono obbligatoriamente inquadrati tutti i bambini durante il periodo dell'educazione elementare, senza distinzione di censo. Questi convitti saranno sostenuti con le contribuzioni dei cittadini più agiati, con sovvenzioni statali e, reminiscenza lockiana, col reddito del lavoro manuale degli stessi alunni. Per garantire alle famiglie la possibilità di controllare ed anche di influenzare in debita misura l'educazione dei fanciulli, si istituiscono dei comitati di padri di famiglia, incaricati di vigilare i maestri dei loro figli. Altro motivo di vivaci discussioni è quello che riguarda il diritto della famiglia ad educare secondo i propri principi. È chiaro che il parlare del diritto dell'individuo a frequentare o meno la scuola è impostare il problema in modo astratto: in realtà è la famiglia che sceglie per conto del figlio. Ora, prescindendo dal caso limite in cui la famiglia scelga per il proprio rampollo l'ignoranza, i progetti moderati-borghesi, tranne, entro certi limiti, quello di Condorcet, intendevano la libertà come libertà delle famiglie di scegliere fra i vari tipi di scuola, ivi compresi quelli di impostazione dogmatico-clericale. Gli esponenti della democrazia radicale dominante con la Convenzione intravvedono che altro è la facoltà di scegliere fra dogmi diversi ed altro il liberarsi da ogni dogmatismo. Di qui la intransigente condanna di ogni educazione religiosa. Si capisce inoltre che l'azione formatrice delle scarse ore di scuola è poca cosa di fronte alle suggestioni ed alle pressioni dell'ambiente familiare e, comunque, extrascolastico, e che l'ineguaglianza di censo e di cultura dell'ambiente è
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destinata ad influire sul rendimento scolastico, ribadendo la diseguaglianza. Di qui la riesumazione dell'istituzione spartana dei convitti. Ovviamente proprio su questi punti si concentra l'opposizione. Il vescovo costituzionale Grégoire, che pur siede sui banchi della Montagna, osserva che «nulla può sostituire la bontà di un padre, le carezze di una madre». Riprendendo e approfondendo questo motivo, il deputato delle Ardenne Piette afferma che la casa d'educazione progettata da Lepeletier «presenterà uno spettacolo mille volte più abusivo, più disgustoso e mostruoso ... degli ospizi per trovatelli ». Thibaudeau, in un discorso più responsabilmente politico, pur accettando il principio dell'educazione comune, dichiara di temere le ostilità che l'applicazione del progetto Lepeletier incontrerà non solo fra i nobili ma in tutte le classi sociali, dato che il «grido della natura» sarà sempre più forte dei più sensati ragionamenti. Tutto sommato l'intervento decisivo è quello di Danton, il quale, dopo aver ribadito il principio che i figli sono della repubblica prima che della famiglia, suggerisce però che nel testo, all'espressione che indica obbligo se ne sostituisca una che indichi facoltà, lasciando cioè ai genitori il diritto di scelta fra il convitto ed altro tipo di educazione. È chiaro che a questo punto il progetto è svuotato del suo significato più originale ed è solo così svuotato, nonostante le proteste di Robespierre, che esso può essere votato il I 3 agosto. Il testo votato, d'altra parte, non si traduce in legge organica e non trova applicazione pratica. Dopo questo voto la questione scolastica esula per qualche tempo dalle preoccupazioni dell'assemblea. Quando la discussione è ripresa, il piano Lepeletier non incontra più il favore della maggioranza, tanto che il decreto votato il I 3 agosto è annullato il I 9 ottobre. Intanto le vicende precipitano verso il terrore; la costituzione del giugno non viene applicata (allo scopo di rinviare sine die lo scioglimento della Convenzione) e il IO ottobre, su rapporto di Saint-Just, il governo della Francia viene dichiarato « rivoluzionario fino alla pace», ciò che significa istituzionalizzare il coordinamento delle misure eccezionali sotto la direzione del comitato di salute pubblica. Ministri, generali, corpi costituiti sono posti sotto la sorveglianza del comitato « chiave di volta di tutto il nuovo ordinamento. Il principio autoritario prevale sul principio elettivo » (Soboul). Le conseguenze di questo formidabile accentramento si traducono in un accrescimento di efficienza anche nel settore scolastico. Già 1'8 agosto la Convenzione, dopo aver ascoltato gli interventi di Grégoire e soprattutto di David, decreta la soppressione di tutte le accademie e società culturali e stabilisce che gli orti botanici, i gabinetti, i musei, le biblioteche annessi a tali accademie e società siano posti sotto la sorveglianza delle autorità costituite finché la loro sorte non sia stata fissata dai decreti che riorganizzeranno l'istruzione pubblica. 4I8
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Invano Daunou denuncia il rallentamento dell'attività scientifica ed artistica a causa della crisi rivoluzionaria e invoca misure che accelerino la fine di « questo anarchico e fatale interregno nel quale la mediocrità si agita con audacia e i talenti, abbattuti, si paralizzano in silenzio »; il I 5 settembre anche le università sono formalmente soppresse. In ottobre, finalmente, sotto la pressione delle masse rivoluzionarie parigine sollecitate dai giacobini, si varano alcuni decreti, riguardanti la sola scuola primaria, che costituiscono la cosiddetta legislazione di brumaio. Si istituisce una scuola primaria per ogni comune la cui popolazione sia compresa fra i 400 e i I 500 abitanti. L'insegnamento è gratuito e gli istitutori sono funzionari pubblici. Il reclutamento degli insegnanti è fatto dai padri di famiglia sulla base di una lista proposta dal direttorio di distretto. I nobili, i religiosi e coloro che non possiedono il certificato di civismo non possono essere nominati. La lingua ufficiale della scuola è il francese (si tratta di un provvedimento contrario non tanto al latino quanto ai dialetti). Gli edifici e il materiale sono forniti dai comuni. Particolare importanza è attribuita all'educazione fisica e morale, il cui scopo deve essere quello di « sviluppare i costumi repubblicani, l'amor di patria e il gusto del lavoro». Come si vede, in questi articoli sono affermati alcuni principi di fondamentale importanza. Trattandosi però di un ammasso di affermazioni frammentarie, vien dato a Charles Gilbert Romme l'incarico di collegare e fondere il tutto in un insieme coerente. Senop.ché quando il progetto Romme viene presentato in assemblea gli si scatenano contro alcune critiche gravissime. In primo luogo lo si accusa di imporre allo stato un aggravio finanziario insopportabile. Sul piano religioso l'esclusione dei preti è ormai considerata impolitica. A partire dalla fine di brumaio, infatti, il processo di scristianizzazione non è più di moda: il 6 dicembre verrà ufficialmente proclamata la libertà dei culti. Robespierre accusa gli anticattolici intransigenti di fare il gioco dei provocatori e, quindi, della reazione. Di più: accingendosi ormai a varare il culto dell'Ente Supref!Jo, egli dichiara che« l'ateismo è aristocratico» laddove «l'idea di un grande Essere che veglia sull'innocenza oppressa e che punisce il crimine trionfante è essenzialmente popolare» (discorso del 2I novembre I793)· Infine alcuni oppositori notano che il rigore nella scelta dei maestri e la vastità dei programmi finirebbero per escludere dall'insegnamento «molti patrioti più devoti che istruiti, più zelanti che competenti». D'altra parte il sistema, proposto da Romme, di creare dei posti « fissi » di insegnante, unito alle già accennate eccessive pretese nel campo della cultura, porterebbe alla creazione di « una nuova specie di clero », più funesto di quello antico (Thibaudeau). Così il progetto Romme è bocciato e viene invece votato quello proposto da Bouquier, ispirato ai seguenti principi:
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I) libertà di insegnamento: qualunque cittadino può aprire una scuola. Nessun brevetto di capacità è richiesto: sono sufficienti i certificati di civismo e di buona condotta. z.) D'altra parte tutti i maestri sono pagati dallo stato, i libri sono imposti dallo stato e alla comunità dei cittadini è affidata la sorveglianza della scuola. 3) La frequenza è obbligatoria per almeno tre anni. Inoltre chi, avendo raggiunto i vent'anni, non dimostrerà di aver frequentato, oltre alla scuola primaria, anche un corso professionale, perderà i diritti civili. Il progetto Bouquier (fra l'altro alcuni studiosi si chiedono se per caso Bouquier non si limiti a riferire le idee di personalità ben più influenti che preferiscono rimanere nell'ombra) è avversato dai partigiani, in verità sempre più rari, d 'una forte organizzazione della scuola statale. Viceversa è sostenuto da tutta la Pianura, specialmente da Sieyès, Daunou e Durand-Maillane, da Danton e da alcuni specialisti di questioni scolastiche come Fourcroy e Thibaudeau. È indubbio che in esso si annida un profondo equivoco: formalmente esso spinge alle estreme conseguenze l'esigenza democratica ma in realtà apre ai preti costituzionali ed a tutti i religiosi « giurati » la via per rientrare nell'insegnamento, tanto più che esso mantiene un significativo silenzio per quanto riguarda l'istruzione religiosa. Appare così fondata la tesi di M. J. Guillaume secondo il quale lo sconcertante decreto Bouquier, liberale in pieno terrore, « non fu che una tacita transazione fra il partito giacobino e il clero cattolico » nel quadro della tortuosa politica ro bespierriana. Nessun'altra importante decisione in materia scolastica verrà presa dalla Convenzione fin dopo il Termidoro. Sembra pertanto opportuno fermarci a questo punto per un primo tentativo di valutazione. I motivi più salienti che emergono dalla considerazione dei progetti e dei conseguenti dibattiti, possono essere sintetizzati in tre ordini di considerazioni. a) In primo luogo il timore della « corporazione », la preoccupazione che l'autonomia della cultura e della scuola porti alla creazione di una nuova aristocrazia. Al di là dei progetti Lanthenas e Romme che, come abbiamo visto, principalmente per l'efficacia di questo argomento vengono respinti, è la tesi di Condorcet e, in ultima analisi, il programma degli illuministi che viene irrimediabilmente condannato. La volontà popolare, incarnata negli organismi politici rivoluzionari, non accetta la funzione di guida della cultura specializzata, anzi, nutre per questa una viva diffidenza e si preoccupa quasi esclusivamente di garantire il controllo diretto delle istituzioni culturali ed educative da parte della comunità. Questo timore della corporazione, unito alla preoccupazione, fondatissima, che i maestri i quali hanno insegnato nelle vecchie scuole costituiscano, nella scuola repubblicana, un fattore antirivoluzionario, porta alla eliminazione dal42.0
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l'insegnamento di quasi tutte le persone dotate di cultura ed esperienza didattica. Per essere ammessi ad insegnare, è ora necessario e sufficiente un « certificato di civismo », rilasciato dalle autorità politiche, il quale corrisponde, ironicamente, alla « licentia docendi » rilasciata dai vescovi al tempo dell'antico regime! L'intransigenza contro il pericolo del ricostituirsi di una nuova aristocrazia, quella dei « savants », ci aiuta a comprendere un secondo motivo: quello dell' odio implacabile contro le accademie e le università. Qui, veramente, il discorso diventa alquanto più complesso. È indiscutibile, infatti, che alcune delle più aspre critiche contro le istituzioni di alta cultura sono ispirate dal desiderio di rinnovare, di adeguare alle autentiche esigenze del sapere e non da quello di distruggere. Così è indiscutibile che la stessa proposta di sopprimere puramente e semplicemente le istituzioni in questione mira, in non pochi casi, a liberare l'iniziativa personale del singolo studioso dalle pastoie di strutture che « pretendono di accaparrarsi la gloria e di arrogarsi il privilegio esclusivo degli ingegni» (Grégoire). Ma ad un esame spassionato dei vari aspetti del dibattito non può sfuggire che il motivo più profondo e decisivo è un altro. L'avversione contro l'autonomia e la funzione di guida della cultura specializzata non investe, infatti, soltanto le accademie e l'università ma tutti i gradi e gli ordini di istituzioni culturali. Sintomatico, a questo proposito, è il fatto che, nel settembre del '93, allorché una petizione del dipartimento di Parigi chiede alla Convenzione che vengano creati, oltre alla scuola primaria, tre gradi di scuole: uno per gli operai e gli artigiani, uno per l'avvio delle altre professioni ed uno per «quegli oggetti d'istruzione il cui difficile studio non è alla portata di tutti gli uomini», la risposta dell'assemblea è negativa e indignata. Comban grida che per imparare a fare un paio di scarpe non è necessario usare il compasso in un'accademia. Chabot, di rincalzo, afferma che quando, finalmente, sarà stato elaborato un codice civile alla portata di tutti non ci sarà più bisogno di procuratori, di avvocati e, in generale; di scienziati. Ma è ancora in Robespierre che si trova l'enunciazione più interessante di questo tema. Nel suo discorso del 18 floreale n (7 maggio 1794), riprendendo l'attacco contro l'ateismo «aristocratico» degli illuministi «ciarlatani ambiziosi», « uomini piccoli e vani», egli afferma che i prodigi dell'epoca rivoluzionaria sono stati operati « senza gli scienziati e a malgrado degli scienziati » dal « buonsenso senza intrigo» e dal «genio senza istruzione». È la tesi, ribadita in tanti discorsi e in tanti articoli, per cui « la repubblica non ha bisogno di scienziati » e che la tradizione, con raro senso di opportunità, ha messo in bocca al mediocre Coffinhal, presidente del tribunale rivoluzionario che condanna Lavoisier. Cosi, dopo l'esaltazione della Società delle scienze fatta da Condorcet, assistiamo ora, in nome dell'eguaglianza, alla condanna di ogni «aristocrazia 42.1
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della cultura » e di ogni attività scientifico-speculativa, nonché alla proclamazione dei centri rivoluzionari quali fonti inesauribili di istruzione! Inoltre la Montagna giacobina non riesce ad eliminare la religione che sostituendole un'assurda religione nazionale, a base di celebrazioni patriottiche e di retorica dell'eroismo. Sarebbe facile ironizzare amaramente di fronte a una grossolanità così ingenua e al tempo stesso presuntuosa. Ma il problema non è semplice: si tratta di un dramma che si rinnova ogniqualvolta una classe per secoli esclusa dalla cultura e dal potere, avendo conquistato il secondo con la forza, si trova, data l'impossibilità di creare d'un tratto una cultura nuova, a dover scegliere fra l'accettazione di idee e soprattutto di maestri legati al vecchio mondo e un atteggiamento iconoclastico meramente negativo. La derivazione rousseauiana di questa impostazione e quindi la sua carica assai più preromantica che illuministica, non può sfuggire al lettore attento. E qui, indubbiamente, va cercata la saldatura fra la polemica contro le accademie e, in generale, contro l'aspirazione del sapere scientifico all'autonomia ed alla funzione di guida e il tentativo di restaurazione religiosa in chiave deistica. Che, poi, la convergenza di questi due motivi non possa, fatalmente, non generare il totalitarismo e la dittatura, è argomento che in parte abbiamo già affrontato analizzando il pensiero politico e pedagogico di Rousseau e che riprenderemo più ampiamente allorché dovremo trattare delle implicazioni politico-pedagogiche del romanticismo. b) Se la Francia non giunge in questo periodo alla completa débacle nel settore scientifico e tecnologico lo si deve a una causa tutto sommato ben triste: vale a dire alla necessità di sviluppare il potenziale bellico del paese. «Due scoperte,» affermerà Lakanal trent'anni dopo la rivoluzione, « sembrano contrassegnare soprattutto il xvlli secolo; tutte e due appartengono alla nazione francese: l'aerostato e il telegrafo.» 1 Joseph Fayet sottolinea acutamente la singolarità del fatto che dall'elenco è esclusa la macchina a vapore di cui pure Lazare Carnot aveva messo in evidenza la capacità di alleviare la fatica manuale nelle fabbriche. Vero è - nota lo studioso citato- che non si vede nella macchina a vapore l'attitudine ad influire immediatamente nelle operazioni militari. Già all'assemblea legislativa, nel marzo del 1792, si era parlato del telegrafo di Chappe e della sua capacità di far giungere ordini e notizie da Parigi alle frontiere e viceversa in poche ore. È soltanto nell'agosto del 1793, però, che, grazie alle pressioni di Romme, la Convenzione decreta l'attuazione del progetto, che verrà completato nella primavera del '94· L'invenzione dei Montgolfier è del 1783. Già nel 1784 Carnot scrive una memoria sull'argomento, sottolineandone le possibili importantissime applicaI
Si tratta del telegrafo ottico.
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zioni militari. Nello stesso 1784, a Digione, Guyton de Morveau, futuro presidente del Comitato di salute pubblica, fa interessanti esperimenti con un aerostato. Nel giugno del 1793 la Convenzione è interessata alla cosa. Ma il problema più difficile appare quello di ottenere idrogeno in grande quantità. La vecchia tecnica di far reagire l'acido solforico sullo zinco e sul ferro è estremamente costosa e inoltre sottrae grandi quantitativi di zolfo alla preparazione della polvere da sparo. È a questo punto che, ironicamente, la soluzione viene proprio dalle scoperte di Lavoisier (sulla cui figura rinviamo a quanto detto nel capitolo vm). E saranno alcuni di quegli stessi scienziati che non osarono intervenire per sottrarlo alla condanna capitale, saranno Monge, Fourcroy, Berthollet, a segnalare al Comitato di salute pubblica l'enorme utilità che la repubblica avrebbe potuto ricavare dall'applicazione su scala industriale della tecnica che fa passare una corrente di vapore acqueo sul ferro incandescente, recuperando l'idrogeno liberato dalla scissione dell'acqua. Il 2 aprile 1794, grazie alla scoperta dovuta a Lavoisier, può essere creata la prima compagnia di aerostieri. Ma il motivo più appassionante di questa aspra rivincita della scienza sull'« ingegno senza cultura» idoleggiato da Robespierre-Rousseau è costituita dalla lotta per la produzione della polvere da sparo. È Carnot, nell'agosto del '93, a mettere a fuoco il problema, ottenendo dal Comitato di salute pubblica quella che verrà definita la « requisizione degli scienziati ». Si tratta di reperire, in primo luogo, grandi quantitativi di salnitro. Ancora una volta bisogna escogitare tecniche nuove, più efficaci ed economiche e sarà il chimico Carny a fornirle. D'altra parte la fabbricazione del salnitro è legata all'estrazione della soda, in quanto quest'ultima è capace di sostituire in molti settori la potassa, indispensabile, a sua volta, per il raffinamento del salnitro. Saranno ancora Monge, Guyton e Fourcroy a mobilitare l'assemblea su questo punto e sarà, fra tanti, il chimico Leblanc a indicare la tecnica per la estrazione della soda dal sale marino. La necessità di sviluppare la produzione della polvere da sparo porta anche ad un tipico esperimento di pedagogia rivoluzionaria. Si tratta della organizzazione di corsi professionali accelerati per la formazione di operai specializzati nelle varie fasi del ciclo produttivo. È una vera e propria leva di uomini fra i 25 e i 30 anni, «.robusti, intelligenti e abituati al lavoro» che sappiano« leggere e scrivere», proposti dalle società popolari dei vari distretti. In tutto se ne raccolgono ottocento che frequentano, a Parigi, un corso di un mese, sotto la guida dei migliori professori, fra i _quali Fourcroy, Hassenfratz, Berthollet, Monge. L'esempio è destinato ad essere ripreso, come vedremo, sia pure con minor fortuna, per la formazione didattica dei maestri elementari. È dunque indiscutibile che se il Comitato di salute pubblica accetta la collaborazione degli scienziati è soprattutto per accelerare ed accrescere al massimo il po-
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tenziale bellico. È però altrettanto indiscutibile il fatto che tale collaborazione è destinata a costituire il germe di altre iniziative più importanti e più solide. «Così,» conclude Fayet, «dopo molte improvvisazioni, gli scienziati si avviano a poter lavorare alla creazione di istituzioni scientifiche durevoli, inserendosi nella tradizione alfine ritrovata.» Ma l'attuazione di questo definitivo e organico inserimento sarà possibile soltanto dopo la crisi termidoriana. c) Un ultimo ordine di considerazioni è suggerito dalla constatazione delle difficoltà, praticamente insormontabili, che il governo rivoluzionario incontra nel suo tentativo di applicare i decreti dell'assemblea. 1) In primo luogo figura la questione del personale. Già, trattando delle conseguenze nel settore scolastico della politica generale della Costituente e della Legislativa, abbiamo sottolineato il fatto che tale politica, dissolvendo le vecchie corporazioni insegnanti e inaridendo le fonti di finanziamento, non poteva giungere che a risultati negativi. La Convenzione non fa che raccogliere i frutti di quel seme. Così, in risposta ai proclami e alle ordinanze, da tutte le parti della Francia giungono rapporti che ripetono le stesse osservazioni: « N elle campagne mancano i cittadini che possiedano quel complesso di qualità, morali, civili e culturali, indispensabili per un efficace esercizio della funzione di maestro. » 2) Secondariamente si pone il problema della organizzazione materiale. Per quanto riguarda le sedi, infatti, gli ex presbiteri sequestrati risultano ormai quasi sempre venduti o affittati a profitto del tesoro. Aggiungansi le questioni relative alle suppellettili, al riscaldamento e ai libri (che, fra l'altro, non sono ancora stati scritti!). 3) In terzo luogo la legge è molto oscura per quanto si riferisce alla età di ammissione, al calendario e all'orario, al numero di allievi per ogni maestro e ai rapporti fra scuola per maschi e scuola per femmine. 4) Infine, e forse è questo il punto più scabroso, l'obbligo non è rispettato. La scuola repubblicana ispira diffidenza alla maggior parte dei cittadini, specie nelle campagne e vani, o quasi, risultano gli sforzi delle autorità costituite. Si giunge a vere aggressioni da parte delle masse contadine contro il maestro che pretende di fare scuola nella casa del vecchio curato, di insegnare anche la domenica, escludendo dal suo piano l'educazione religiosa. La rivoluzione si sta insabbiando, non solo p~r la reazione consapevole dei nobili e dell'alta borghesia ma anche e forse soprattutto per l'immaturità delle plebi. VII · IL PERIODO POST-TERMIDORIANO
Il periodo che va dal Termidoro all'avvento del Direttorio, mentre vede il moderatismo affermarsi progressivamente e gli ideali e le conquiste della Montagna accantonati o addirittura rinnegati, vede d'altro canto un indiscutibile
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impegno costruttivo da parte del potere politico, che risolve o perlomeno affronta con una certa organicità tutti i fondamentali aspetti del problema educativo. I decreti di carattere generale elaborati in questo periodo portano i nomi di Lakanal e Daunou. Nel novembre del 1794 Lakanal, su incarico della Convenzione, riprende in gran parte il suo vecchio progetto già bocciato dallo stesso Robespierre. Naturalmente la legge del 1794 rappresenta un ritorno a posizioni liberaiborghesi dopo la punta radical-democratica del 1793. Fra l'altro, si riafferma il diritto dei cittadini di aprire corsi e scuole private e dirigerle « a loro piacimento ». Nel novembre del 1795, in base alla nuova costituzione, la legge organica progettata da Daunou concede ulteriore libertà ai privati, sia per quanto riguarda il lato organizzativo, sia per quanto si riferisce ai metodi. La scuola primaria viene affidata ai comuni (cioè ai maggiorenti dei singoli comuni); la gratuità e l'obbligatorietà sono soppresse; il programma di cultura popolare è ridotto al minimo. La rivoluzione è rientrata nell'alveo primitivo; la spinta giacobina è servita solo a rendere definitiva la conquista borghese. Ma accanto a questi decreti di carattere generale tre altre iniziative legislative meritano di essere particolarmente ricordate: ci riferiamo a quelle relative alla creazione della Scuola Normale, alla fondazione delle Grandi Scuole, alla soppressione dei Collegi ed alla istituzione delle Scuole Centrali. a) La S cuoia Normale Nonostante le iniziative prese durante il xvn secolo da alcuni religiosi e in primo luogo, come abbiamo visto, da La Salle, si può affermare che, alla fine dell'ancien régime, in Francia il problema delle scuole per la formazione dei maestri è ancora interamente sul tappeto. D'altra parte, se si tien conto del fatto che fino alla rivoluzione le sole istituzioni che in qualche modo assolvevano tale compito erano i seminari e i noviziati delle varie congregazioni e che la rivoluzione stessa ha sciolto le congregazioni, chiuso i seminari ed escluso i religiosi dall'insegnamento proprio nel momento in cui si afferma l'intenzione di estendere universalmente l'educazione elementare, appare chiaro come il problema in questione si ponga, precisamente in questo periodo, con una drammaticità mai assunta nel passato. In verità, quantunque l 'idea di creare scuole speciali per maestri sia presente in numerosi cahiers, particolarmente nelle regioni del nord e dell'est maggiormente sensibili all'influenza ed all'esempio di quegli stati tedeschi nei quali, come sappiamo, tali scuole stavano ormai moltiplicandosi, i progetti di riforma scolastica sottoposti alle successive assemblee fino al Termidoro, non prendono in considerazione la creazione di scuole di questo genere. L'avversione per i vecchi seminari e noviziati, al di là di ogni polemica an-
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tireligiosa, assume un peso determinante: si ritiene, infatti, che l'ambiente chiuso dell'internato sia inadatto a formare uomini che dovranno un giorno educare dei cittadini e dei lavoratori. Pertanto si punta sui patrioti istruiti e, in generale, sui cittadini consapevoli per esperienza personale dei bisogni dei tempi. Sappiamo però come per questa via si siano raggiunti risultati così scarsi da rendere praticamente inoperanti le leggi varate dalla Convenzione. Il primo tentativo di organizzare una Scuola Normale si effettua agli inizi del 1794 a Strasburgo, per iniziativa del dipartimento del Basso-Reno, in applicazione di un decreto della Convenzione mirante a istituire l'insegnamento obbligatorio del francese nei paesi dove prevale l'uso del dialetto. Ma tale scuola, isolata, poco sostenuta dai poteri pubblici, avversata da buona parte della popolazione, scompare già alla fine del 1794. Il 3 brumaio dell'anno m (30 ottobre 1794) Lakanallegge alla Convenzione, a nome del Comitato d'istruzione pubblica, un rapporto e un progetto di Scuola Normale. 1 L'articolo I del progetto dichiara: «Sarà stabilita a Parigi una Scuola Normale alla quale saranno chiamati, da tutte le parti della repubblica, dei cittadini già istruiti nelle scienze utili, per imparare, sotto la guida dei professori più preparati nei singoli rami, l'arte di insegnare.» Gli alunni dovranno venire da tutti i distretti, in ragione di uno ogni zo.ooo abitanti. Essi seguiranno un corso di quattro mesi, riceveranno un compenso fisso di zoo « livres », impareranno « ad applicare all'insegnamento della lettura, della scrittura, dei primi elementi del calcolo, della geometria pratica, della storia e della grammatica francese i metodi indicati nei libri elementari adottati dalla Convenzione» (art. 8). Dopo i quattro mesi gli alunni, rientrando nei rispettivi distretti, vi apriranno « una Scuola Normale il cui compito sarà di trasmettere ai cittadini e alle cittadine che vorranno dedicarsi all'insegnamento pubblico, i metodi ch'essi avranno imparato alla Scuola Normale di Parigi». Senonché, come osserverà il Daunou, sembra che gli organizzatori e gli estensori dei programmi non abbiano ben chiara la differenza che intercorre fra una scuola che istruisce ed una che insegna ad insegnare e, subordinatamente, fra una scuola che prepara dei maestri ed una che forma dei professori. La scuola si apre il Io piovoso dell'anno III. La scolaresca è estremamente eterogenea: accanto a militari e marinai che hanno pensato ad ottenere una licenza, ci sono degli scrivani ma anche dei funzionari e dei magistrati. Le campagne hanno inviato soprattutto maestri di scuola primaria, le città professori di collegio. Fra i tanti spicca il celebre navigatore Bougainville, ormai quasi settantenne! La sede delle lezioni è l'anfiteatro del museo di storia naturale che può contenere da 6oo a 700 persone: senonché gli alunni sono 1400! I Lo stesso Lakanal chiarisce che il termine «normale» deriva dal latino «norma = regola»,
a indicare che tale scuola dovrà effettivamente costituire il modello e la regola per tutte le altre,
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Ma il fattore più negativo è costituito dagli insegnanti e dai programmi e precisamente, non sembri assurdo, dalla loro eccellenza. Lagrange espone la teoria delle equazioni, Monge insegna geometria descrittiva, Bernardin de SaintPierre grammatica, Berthollet si intrattiene sulle ultime scoperte della chimica, ecc. L'unico insegnamento propriamente didattico è quello impartito dall'abate Sicard, esperto nell'insegnamento ai sordomuti, che svolge un corso di « analisi del processo di apprendimento ». Nulla di più logico, tutto sommato, che la maggior parte degli alunni finisca, secondo quanto narra una celebre satira, per tendere invano l'orecchio, per addormentarsi con la testa sul banco, risvegliandosi solo per andarsene. I soli a trarre qualche profitto dalle lezioni sono i più colti, specialmente i professori di collegio: ma da questo, evidentemente, poco o nessun vantaggio trarrà la scuola popolare. Il 7 floreale Daunou interviene davanti all'assemblea con le critiche di cui abbiamo fatto cenno sopra e si pronuncia per la soppressione della scuola nella sua forma attuale. La Convenzione decreta la chiusura per il 30 floreale. « Gli allievi furono rimandati ai loro focolari, indennizzati delle spese di viaggio; i professori che non avevano terminato i loro corsi avevano la possibilità di farli stampare nel " Giornale della Scuola Normale " che sarebbe stato distribuito gratuito agli alunni. « Delle strofette satiriche assolsero il compito di orazione funebre: Allez-vous gens de l'École, on ne peut rien faire de vous. Allez-vous en très promptement reprendre votre premier ròle. Allez-vous en planter vos choux. «Lo scacco era completo. Dalla grande Scuola dell'anno III non era uscito né un maestro né un libro elementare; al suo ritorno al distretto nessuno degli alunni considerò la possibilità di aprire la scuola locale prevista dal decreto di brumaio» (Gontard). b) Le Scuole Centrali L'articolo 3 del capitolo 3 del decreto Lakanal (novembre 1794) prevede la soppressione dei collegi. In realtà, dal punto di vista formale, la soppressione dei collegi era già implicita in quella delle università (per quanto si riferisce alla facoltà delle arti) e, prima ancora, in quella delle congregazioni (per quanto si riferisce ai colleg1 religiosi). Di fatto, però, essi avevano continuato a vivacchiare
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a titolo transitorio. Di più: sia pure a titolo transitorio, un decreto dell'aprile I795, conseguente a numerosi reclami di professori e di cittadini, li autorizza a sopravvivere fino all'effettiva organizzazione delle Scuole Centrali. Comunque sono appunto queste Scuole Centrali c!-le, in base a un decreto del 2 5 febbraio I 79 5, dovranno sostituire i vecchi collegi nella loro funzione di ponte tra la primaria e le superiori. Si tratta di scuole caratterizzate dalla prevalenza delle discipline scientifiche e delle lingue viventi, articolate in corsi che gli alunni scelgono liberamente. Tutti gli insegnamenti saranno impartiti in lingua francese. Non esiste internato. Sarà creata una di queste scuole ogni 30o.ooo abitanti. In realtà il progetto primitivo subisce alcune modificazioni e le prime Scuole Centrali si aprono soltanto alla fine del I 796. Esse incontrano difficoltà ad affermarsi, sia per l'esclusione dal loro piano dell'insegnamento religioso sia per il loro orientamento antitradizionalista. Ciò spiega perché il maggiore successo esse lo ottengano in quelle province dove già in passato si erano affermati i collegi degli oratoriani. c) Le « Grandi Scuole» Abbiamo visto come la dittatura giacobina, animata da un egualitarismo radicale e da una mistica fede nel « genio senza istruzione », di evidente derivazione rousseauiana e dominata dal timore che gli intellettuali finissero per costituire una nuova aristocrazia, avesse lottato a fondo in particolare contro le roccheforti dell'alta cultura, fino alla soppressione delle accademie e delle università. Abbiamo sottolineato il fatto che le sole iniziative di alta cultura che riescono a sfuggire alla furia iconoclastica sono quelle direttamente impegnate nell'accrescimento del potenziale bellico. Nulla di più logico, pertanto, che il periodo termidoriano, durante il quale l'estremo conato democratico cede alla ripresa delliberalismo borghese, ponga come compito di primissimo piano la creazione di nuove strutture di cultura superiore da sostituire a quelle soppresse. La possibilità di seguire da vicino il processo di trasformazione delle singole istituzioni non rientra nel quadro della presente opera; ci limiteremo pertanto a richiamarne i momenti essenziali. Sotto l'antico regime c'erano in Francia trenta facoltà o collegi di medicina, il cui livello, per verità, era nella maggior parte dei casi mediocre. Senonché la soppressione non si rivela il migliore dei rimedi: essa, infatti, favorisce l'anarchia, spingendo molti individui privi di scrupoli ad esercitare la medicina, la farmacia, la chimica senza aver seguito un sufficiente corso di studi. Un decreto del frimaio anno m (dicembre I794) crea a Parigi, Montpellier e Strasburgo tre scuole per la formazione degli ufficiali sanitari. Il rapporto numerico fra studenti e professori è circa di I a zo; la pratica dell'arte medica diviene una delle parti essenziali dell'insegnamento.
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Una delle più importanti istituzioni scientifiche dell'antico regime era il Jardin du roi, fondato nel 16z6 da Luigi xm. Nel xviii secolo il Jardin era stato diretto per quasi un cinquantennio (dal 1739 al 1788) dal celebre Buffon. Tra il 1793 e il '95 l'ex Jardin du roi subisce alcune profonde trasformazioni, specialmente per iniziativa di Lakanal e diventa Jardin cles plantes e museo di storia naturale. Analogamente trovano la loro sistemazione in questo periodo il Conservatorio d'arti e mestieri, comprendente un museo tecnologico il cui scopo dovrebbe essere da un lato quello di riunire e salvare tutte le invenzioni meccaniche di cui il paese viene via via arricchendosi, dall'altro quello di stimolare, incoraggiare, illuminare altri possibili inventori; il Bureau per le ricerche nella longitudine e quello per l'unificazione dei pesi e delle misure; la Scuola di lingue orientali; la Biblioteca nazionale; gli Archivi nazionali e il Museo del Louvre. Ma le istituzioni più importanti, fra quelle sorte in questi anni, sono senza dubbio l'École polytechnique e l'Istituto nazionale delle scienze e delle arti. Riteniamo particolarmente efficace, allo scopo di precisare le finalità e il carattere dell'École polytechnique, riportare alcune righe del primo suo storico: «Nulla è più semplice della idea che sta alla base dell'istituzione di cui tratteggiamo la storia. Numerosi servizi pubblici richiedono che coloro i quali ne dirigono il funzionamento possiedano un 'istruzione abbastanza estesa nelle scienze matematiche e fisiche e nelle arti grafiche. Riunire, in una stessa scuola, i giovani che si orientano verso questi servizi, per fornire loro in comune l'istruzione fondamentale; far loro percorrere insieme la prima parte della loro faticosa carriera, fino al punto in cui la specializzazione delle conoscenze relative alle diverse destinazioni rende necessaria la ramificazione della scuola generale in parecchie scuole particolari; stabilire la scuola comune nella capitale, dove il fuoco dei lumi è più vivo, così che l'insegnamento possa essere affidato agli uomini più eminenti di ogni settore e mantenuto al livello, sempre crescente, delle scienze: ecco l'idea madre della scuola politecnica. » (A. Fourcy). In realtà l'incubazione di questo originale istituto è lunga e laboriosa. Conviene ricordare come in Francia esistessero numerose scuole superiori, se pure non inserite nel quadro generale dell'università, aventi lo scopo di preparare i tecnici di cui la società moderna aveva sempre più bisogno. Basti citare la Scuola di ponti e strade fondata nel 1747, la Scuola delle miniere, la Scuola degli ingegneri. di marina e quella, celeberrima, del Genio militare di Mezières. Ora, durante la rivoluzione, il reclutamento di giovani studenti si è andato facendo sempre più difficile, per la mancanza di una adeguata preparazione di base, conseguente alla generale crisi delle istituzioni scolastiche. Nasce così l'idea di creare una scuola preparatoria, comune per i vari rami di specializzazione dell'ingegneria civile e militare.
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Il grande matematico Monge sostiene con entusiasmo il progetto, riesce a farlo adottare dall'intero Comitato degli scienziati 1 e presentare all'assemblea da Fourcroy il 24 settembre 1794. Nasce così la Scuola centrale dei lavori pubblici che il primo settembre 1795 prende il nome di Scuola politecnica. Si tratta, dunque, di un'iniziativa che si inserisce direttamente nel clima di politica culturale creato dalla rivoluzione e destinato ad avere in seguito una enorme importanza non solo sull'organizzazione delle scuole inferiori ma anche sulla stessa concezione della scienza. Ci troviamo, infatti, di fronte all'abbinamento dell'interesse per la ricerca pura con quello per le applicazioni tecniche, conseguente alla constatazione che queste hanno bisogno, per progredire, di solide basi teoriche. D'altro canto la scienza e la tecnica appaiono ormai organicamente integrate nella realtà economica e politica della società. In terzo luogo la scuola superiore è costretta ad assumere una struttura nuova, radicalmente diversa da quella tradizionale delle università, avviando allo studio delle discipline scientifiche gruppi di giovani scrupolosamente selezionati attraverso difficili concorsi e tenendoli poi assiduamente impegnati con una disciplina severissima e costringendo i docenti a dedicarsi al compito dell'insegnamento con estrema serietà. In quarto luogo promuove la divisione del lavoro tra i vari studiosi e la specializzazione delle rispettive competenze, avviando al tramonto la figura dello scienziato universale e ponendo al suo posto il ricercatore di tipo moderno circoscritto ai propri ben delimitati problemi. Vedremo nel volume IV come questo orientamento sia destinato a costituire un fattore di primaria importanza nello sviluppo della civiltà del nostro tempo, a tutti i livelli: da quello tecnologico, sociale e pedagogico, fino a quello della più astratta riflessione filosofica. Il 25 giugno 1795 Daunou presenta alla Convenzione il progetto di unIstituto nazionale delle scienze e delle arti, articolato in tre classi: scienze fisiche e matematiche, scienze morali e politiche; letteratura e belle arti, destinato: « 1) a estendere il progresso delle scienze e delle arti; 2) a corrispondere con le società scientifiche straniere per arricchire la Francia delle scoperte delle altre nazioni; 3) a seguire, conforme agli ordini del Corpo legislativo e del Direttorio esecutivo, i lavori scientifici e letterari che avranno per oggetto l'utile generale della Repubblica ». Il progetto viene votato il 2 5 ottobre. Alcuni storici pretendono di vedere nell'istituto la concreta realizzazione della Società nazionale delle scienze e delle arti vagheggiata da Condorcet. In realtà ci pare che del progetto di Condorcet sia andato perduto precisamente il motivo essenziale: vale a dire lo scrupolo con cui il mondo della cultura è 1 Costituito da: Monge, Fourcroy, Guyton, Lakanal, Berthollet, D'Arçon, Prouy, Vandcrman-
de, Vanquelin, Jacotot, Dufournoy, Chaptal, Hassenfratz, Carny, Pluvinet, Clonet.
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strutturato come un corpo interamente libero e sciolto da ogni controllo dell'autorità politica e amministrativa. Il richiamo, fatto dall'art. 3 del progetto Daunou, agli « ordini » del potere legislativo ed esecutivo, ordini che debbono orientare i giudizi dell'istituto nel campo della scienza e dell'arte, ci sembra non lasciar adito a dubbi. D'altra parte aache la nomina dei membri è regolamentata in modo da attribuire al potere politico un peso determinante. Così l'ideale di una scienza autonoma e appunto in quanto autonoma ponentesi come guida dell'umanità, calpestata dall'antico regime e respinta dal governo giacobino, appare sostanzialmente falsato anche nel nuovo assetto che la società francese comincia a darsi nel periodo termidoriano, assetto che, pur rappresentando un enorme passo avanti rispetto al vecchio mondo feudale, denuncia pur sempre i limiti di una società classista.
VIII · CONCLUSIONE
Pretendere di fare un bilancio generale consuntivo dei risultati raggiunti dalla rivoluzione francese nel campo scolastico è compito estremamente rischioso, che espone al pericolo di tracciare degli schemi astratti e, tutto sommato, inadeguati. Prima di tutto: di quale rivoluzione vogliamo parlare? Della pre-rivoluzione del 1787-88, della rivoluzione liberale dell'89-91, di quella democratica del '92.-93 o del «dispotismo della libertà» del governo rivoluzionario del '93-94? E, si noti, anche questa periodizzazione è convenzionale ed astratta, in quanto, pur nel prevalere, nei successivi momenti, di questa o quella forza sociale, è ovvio che « tutte » queste forze sono « sempre » attive e si influenzano reciprocamente attraverso un sottilissimo gioco di sinergie e di opposizioni, così come il fascio delle forze complessivamente progressive è influenzato dalle forze, contro cui lotta, del feudalesimo e del cattolicesimo. D'altro canto, se consideriamo che la Convenzione termidoriana e il Direttorio non sono più rivoluzione o, meglio, che in essi lo sforzo di passare, dopo la distruzione violenta del vecchio ordinamento, alla seconda tappa della crisi, cioè alla costituzione di un ordinamento nuovo, rispondente alle esigenze essenziali della borghesia vittoriosa, è distorto e spesso addirittura falsato dalla inevitabile preoccupazione reazionaria di contenere le aspirazioni e di rintuzzare gli slanci delle masse contadine e, più in generale, di quello che taluni storici chiamano « quarto stato », vediamo che il periodo entro il quale, secondo le pretese degli studiosi più intransigenti, la rivoluzione avrebbe dovuto progettare e attuare un compiuto ed organico sistema di istituzioni educative, si riduce ad un quinquennio e a quale quinquennio! Nulla di più naturale che, come osserva Maurice Gontard, la Convenzione che aveva saputo far germogliare dal suolo francese i 14 eserciti della vittoria non sia riuscita a realizzare la leva dell'esercito di insegnanti necessario all'ap431
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Il problema della scuola durante la rivoluzione francese
plicazione delle sue leggi. « La riforma scolastica, vale a dire il reclutamento e successivamente la formazione dei maestri, esigeva molto tempo, pazienza, danaro, adesione degli spiriti, calma politica, pace esterna: nessuna di queste condizioni si realizzò. » Pertanto una critica del tipo di quella contenuta in un rapporto del I So I del ministro Chaptal, secondo la quale l'unico risultato della rivoluzione in materia scolastica sarebbe stato la distruzione della rete di istituzioni che, bene o male, aveva garantito l'istruzione del popolo francese fino all'89, merita di essere presa in considerazione solo come paradigma della mentalità antirivoluzionaria e antidemocratica che caratterizza i ceti dirigenti francesi all'inizio del secolo. Analogamente ci sembra da respingere la tesi di qualche studioso contemporaneo il quale afferma che « la scuola rivoluzionaria ... non poté mai sollevarsi a pubblica istituzione non già per cause estrinseche e accidentali, ma per mancanza di un'idea organica» (Ernesto Codignola). In verità alcuni di questi critici e fra essi il citato Chaptal, si sforzano di assumere un atteggiamento costruttivo affermando che « si sarebbero potuti ottenere migliori risultati se invece di voler creare ci si fosse limitati a perfezionare; se, approfittando della lunga esperienza del passato, non si fossero proposte che le modificazioni volute dalle circostanze e il progresso dei lumi ». A questo punto, però, si tocca una questione «classica» relativa all'interpretazione della rivoluzione francese e delle rivoluzioni in generale, questione che, per ovvie ragioni, non può essere approfondita in questa sede. Ci limiteremo a notare che le istituzioni educative dell'antico regime erano solidali coll'organizzazione finanziaria della Francia monarchica, con la struttura sociale aristocratica e con la posizione di privilegio della chiesa cattolica, ragion per cui una soluzione rifarmistica del solo problema scolastico non appare concepibile. La valutazione deve pertanto muovere da un punto di vista diverso. Precisamente il complesso dei problemi dibattuti, l'insieme dei progetti proposti e in gran parte non attuati (e la ragione stessa della mancata attuazione), la vivacità degli argomenti polemici, la retorica appassionata delle perorazioni e delle confutazioni, costituiscono un campo di incomparabile valore per chi voglia e sappia indagare con mente serena e la stessa astrattezza di piani cosiddetti utopistici assume il significato quasi di una sperimentazione in vitro o di un « modello » ideale. Prima di tutto: mentre nel passato le istituzioni educative erano state il risultato empirico di una evoluzione spontanea (fatta eccezione per poche iniziative di pedagogisti-organizzatori), ora la creazione della scuola è il risultato di una discussione deliberatamente e consapevolmente affrontata dall'assemblea rappresentativa di un intero popolo. Vengono messi a fuoco il problema del rapporto fra democrazia ed educazione civica dei singoli; quello della libertà di insegnamento, in tutte le accezioni,
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Il problema della scuola durante la rivoluzione francese
talora contrastanti, dell'espressione; quello dell'obbligatorietà da parte dello stato e da parte del cittadino; quello della gratuità (nel suo significato giuridico formale e in quello sostanziale economico-sociale); quello della uniformità del linguaggio ·quale strumento di unificazione nazionale e sociale. La scuola viene sottratta al monopolio ecclesiastico (e qui si tratta di una conquista reale, dato che, in seguito, i clericali potranno ottenere, al più, il diritto a gestire scuole « private » a fianco di quella pubblica). Lo stesso contenuto culturale è profondamente rinnovato, attraverso un'audace critica dei decrepiti programmi retorico-letterari e una decisa apertura verso le scienze, la tecnica, i mestieri. « Con un attivo così massiccio, » si chiede il già citato Gontard, « come parlare di fallimento scolastico della rivoluzione? » Il vero limite, come pensiamo di avere dimostrato nei paragrafi precedenti, è costituito dall'incapacità della sinistra giacobina di elaborare un piano di positivo inserimento delle masse nel mondo della scienza e, in generale, dell'alta cultura e nella sua pretesa di risolvere il problema della realizzazione di una cultura democratica mediante il ripiegamento mistico-demagogico sul culto rousseauiano-robespierrista del « genio senza istruzione ». Ma, ancora una volta, il problema trascende i limiti del campo scolastico per implicare una difficile questione di metodologia generale della storia e precisamente la questione della possibilità di elaborazione di un complesso di efficienti ed adeguate sovrastrutture da parte di una classe sociale ancora in fieri, informe e lontana dall'avere raggiunto l'autocoscienza.
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CAPITOLO DICIASSETTESIMO
Kant
I
· CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
Molti studiosi vedono in Kant il maggiore filosofo dell'età moderna. Anche se tale opinione non viene condivisa da tutti, è certo comunque che le sue concezioni esercitarono una profondissima influenza sull'intero corso del pensiero europeo dalla fine del Settecento ai primi decenni del nostro secolo: a lui si collegarono in forma diretta o indiretta grandi filosofi e grandi scienziati dei più vari paesi, appartenenti talvolta a scuole di indirizzo notevolmente diverso; il metodo kantiano di impostare i grandi problemi venne anche sottoposto, com'è naturale, a numerose critiche, e non di rado si partì proprio da esse per dare inizio a nuove correnti filosofiche, ma dopo qualche decennio si cominciò a parlare di un « ritorno a Kant » come di una fra le più profonde esigenze della cultura; a tali ritorni vennero via via attribuiti significati diversi (che comportarono fra l'altro tipi differenti di «lettura» delle opere kantiane) dando luogo ogni volta ad ampi e seri dibattiti da cui trassero preziosi stimoli sia gli studi di ordine teoretico sia quelli di ordine storico. Stando così le cose, è evidente che nel seguito della nostra trattazione dovremo riprendere varie volte in esame gli sviluppi della filosofia di Kant, l'influenza che essa esercitò nell'ambito ora di questa ora di quella disciplina, il vario articolarsi delle scuole neo-kantiane, il significato che il kantismo può ancora oggi conservare relativamente a certi temi di fondo del pensiero filosofico-scientifico (è sintomatico ad esempio, che all'inizio del nostro secolo il richiamo a Kant divenne pressoché d'obbligo nei più avanzati ambienti matematici e fisici tedeschi). Sarebbe perciò fuori luogo pretendere che il presente capitolo possa esaurire l'esame di un pensatore di tale portata. È comunque indispensabile fornire fin d'ora una esposizione sommaria della sua filosofia, affinché il lettore possa trovarvi un chiaro punto di riferimento per le successive più articolate discussioni. Data l'impostazione generale della nostra opera, è ovvio che dovrà essere attribuito al problema della conoscenza un particolare rilievo. Per porre in luce come l'originale soluzione kantiana di tale problema si radichi profondamente nella cultura scientifica settecentesca, ci si fermerà, sia pur brevemente, sulla 434
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Kant
formazione matematico-fisica del nostro autore ricordando, nelle loro linee generalissime, i temi da lui affrontati negli scritti del cosiddetto periodo precritico. Si passerà poi ad una esposizione più dettagliata della Critica della ragion pura nelle varie parti in cui essa si suddivide; sembra infatti opportuno che il lettore abbia presente non solo il contenuto filosofico di tale opera ma anche la sua struttura esterna. A questa esposizione farà seguito un breve paragrafo dedicato al problema, che ci sta particolarmente a cuore, del tipo di fondazione che il criticismo kantiano ritenne di poter fornire alle scienze fisiche. Il capitolo si concluderà con due paragrafi dedicati alla Critica della ragion pratica e alla Critica del giudizio; al primo verranno aggiunte alcune pagine sulla pedagogia di Kant, al secondo alcune considerazioni sull'importanza del punto di vista kantiano nei riguardi delle scienze biologiche (questo argomento verrà in ogni modo ripreso nel capitolo x della sezione VI). Il
· VITA E OPERE DI KANT
Immanuel Kant nacque a Konigsberg (ex capoluogo della Prussia orientale, oggi Kaliningrad) nel 1724 da famiglia assai modesta; il padre era un semplice sellaio. Durante la fanciullezza subì profondamente l'influenza dei genitori, in ispecie della madre, donna di elevato sentire, animata da fervente devozione religiosa orientata in senso pietistico.l Nella città natale compì tutti i propri studi, frequentando dapprima il Collegium Fridericianum (fino al 1740) che era appunto dominato dalle concezioni pietistiche; poi l'università (fino al 1746), ove si dedicò alla matematica, alla filosofia, alla teologia ed ebbe modo di approfondire il sistema di Wolff nonché la fisica di Newton. Già durante gli studi universitari fu costretto, per vivere, a fare l'insegnante privato; negli anni immediatamente successivi dovrà allontanarsi da Konigsberg per esercitare la professione- allora assai in uso - di precettore presso famiglie nobili. Al 1747 risale il primo scritto di Kant, iniziato l'anno precedente mentre era ancora studente universitario; esso verte su di un problema che in quell'epoca era- come sappiamo- di grande attualità presso i fisici: Gedanken von der wahren Schatzung der lebendigen Krajte und Beurtheilung der Beweise, deren sich Herr von Leibniz und andere Mechaniker in dieser Streitsache bedient haben, nebst einigen vorhergehenden Betrachtungen, welche die Kraft der Korper iiberhaupt betreffen (Pensieri sulla vera stima delle forze vive e valutazione delle prove, di cui si sono serviti in questa controversia il sig. Leibniz e altri meccanici, insieme con alcune considerazioni preliminari riguardanti la forza dei corpi in generale). Ricorrendo ad argomentazioni prevalentemente metafisiche, l'autore vi distingue due tipi di forza: una «forza morta» misurata dalla quantità di moto mv e una « forza viva » misurata da mv2 ; la prima connessa a una I Per alcune notizie sul pietismo, rinviamo al capitolo vr della sezione rv; per i rapporti tra
il pietismo e l'illuminismo tedesco rimandiamo al capitolo xv della presente sezione.
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Kant
considerazione puramente matematica dei ~orpi (presi nella loro reciproca esteriorità), la seconda invece facente riferimento alla loro sostanza interna non spaziale. Sulla base di questa distinzione risulterebbe possibile, secondo Kant, conciliare i due punti di vista difesi dai cartesiani e dai leibniziani, liberandoli dagli errori che derivano proprio dal loro esclusivismo. Ritornato a Konigsberg, nel giugno 175 5 consegue, presso l'università di tale città, il titolo di dottore con una dissertazione dal titolo Meditationum quarundarum de igne succincta delineatio (Breve esposizione di alcune meditazioni sul fuoco) e nel settembre successivo vi ottiene la libera docenza con lo scritto Principiorum primorum cognitionis metaphysitae nova delucidatio (Nuova delucidazione dei primi principi della conoscenza metafisica). In questa Delucidatio Kant riconosce al principio di identità una sorta di supremazia rispetto agli altri principi, sforzandosi di ricondurre ad esso anche il principio di ragion sufficiente (o determinante, come egli lo chiama seguendo la terminologia di Crusius). Al medesimo anno risale la prima importante opera del nostro autore: Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels, oder Versuch von der Verfassung und de m mechanischen Ursprunge des ganzen Weltgebaudes nach Newton' schen Grundsatzen abgehandelt (Storia naturale generale e teoria del cielo, o ricerca intorno alla costituzione e all'origine meccanica dell'intero sistema del mondo condotta secondo i principi newtoniani). Malgrado quanto asserito nel titolo, e cioè che l'opera risulterebbe condotta secondo i principi newtoniani, essa segna in realtà un notevolissimo passo innanzi rispetto alla concezione dello scienziato inglese. Infatti, mentre l'ordinamento presente dell'universo rinvierebbe in modo necessario - secondo Newton - a un essere divino quale architetto e signore del mondo, Kant ritiene al contrario che tale ordinamento possa venire integralmente spiegato col semplice ricorso alle leggi generali della natura: la spiegazione da lui proposta, oggi nota come ipotesi cosmogonica di Kant e Laplace, afferma che il sistema celeste trarrebbe origine dal moto vorticoso di una nebulosa primitiva (Laplace vi giunse nel r796 per via del tutto autonoma e, da grandissimo astronomo quale era, seppe darle una formulazione assai più soddisfacente di quella kantiana, dal punto di vista tecnico). Va notato tuttavia che Kant resta fedele alla concezione newtoniana su un punto assai importante, e cioè nell'attribuire alla materia alcune proprietà non puramente geometriche (afferma infatti che essa può avere densità diversa da un luogo all'altro e che è sottoposta a forze di attrazione e di repulsione); ciò chiarisce il motivo per cui la sua spiegazione meccanicistica dell'attuale ordine dell'universo si collochi più sulla linea di Newton che non su quella di Cartesio, sebbene faccia uso della nozione essenzialmente cartesiana di «vortice». Il fatto è che i vortici di cui parla Kant sono da lui concepiti come effetti delle forze elementari, attrattive e repulsive, che agirebbero sulla materia, e quindi risultano del tutto diversi da quelli ideati da Cartesio, il quale - partendo dall'identificazione della materia con la pura esten-
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Kant
sione geometrica - doveva escludere da essa ogni nozione di forza e doveva perciò concepire i vortici come moti assolutamente originari. Nel semestre 1755-56 ha inizio l'insegnamento di Kant all'università di Konigsberg quale libero docente; fu un insegnamento scrupoloso ed accuratissimo costantemente svolto dal grande pensatore con straordinario impegno ed anzi con vera e propria dedizione: vi teneva corsi di logica, di matematica, di fisica, di geografia fisica, di metafisica e talvolta anche di etica. Finalmente nel r 770 Kant venne nominato professore ordinario di logica e metafisica; conserverà questa funzione fino al I 796, quando dovrà ritirarsi per limiti di età. Fino a tale momento continuerà a dare all'università e allo studio la parte migliore di se stesso, conducendo per il resto una vita ritirata e regolarissima, con poche amicizie e senza distrazioni. Le letture da lui compiute si estendono a vari campi: da quello più propriamente scientifico a quello in vasto senso filosofico. Fra gli autori maggiormente studiati ricordiamo: Leibniz, Wolff, Baumgarten, Crusius, Hume, Rousseau. Fu particolarmente intorno al I76z-63 che Kant cominciò a subire in modo determinante l'influenza di Hume e di Rousseau: tale influenza si rivelerà decisiva per l'ulteriore sviluppo del suo pensiero. Fra gli scritti dei quindici anni successivi ci limitiamo a menzionare i seguenti: Neue Anmerkungen zur Er/auterung der Theorie der Winde (Nuove osservazioni sulla spiegazione della teoria dei venti, 56); Neuer Lehrbegriff der Bewegung und Rube und der damit verkniipftett Folgerungen in den ersten Griinden der Naturwissenschaft (Nuova dottrina del movimento e della quiete e delle conseguenze che vi sono collegate nei primi principi della scienza della natura, I 7 58); Versuch einiger Betrachtungen iiber den Optimismus (Esame di alcune trattazioni sull'ottimismo, I759); Die falsche Spitzfindigkeit der vier syllogistischen Figuren erwiesen (La falsa sottigliezza delle quattro figure sillogistiche, q6z); Der einzig mò"gligh Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes (L'unico argomento possibile per una dimostrazione dell'esistenza di dio, I763); Versuch den Begriff der negativen Grossen in die Weltweisheit einzufiihren (Tentativo di introdurre il concetto delle grandezze negative nella saggezza mondana, I 76 3); Traiime eines Geistersehers erlaiitert durch Traume der Metaphysik (Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica, I 766); Von dem ersten Grunde des Unterschiedes der Gegenden im Raume (Del primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio, I 768); De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis (Intorno alla forma e ai principi del mondo sensibile e di quello intelligibile, I77o). Come risulta dai titoli stessi, parecchi dei lavori ora elencati continuano ad essere incentrati su problemi di meccanica e di fisica, sia pure considerandoli da un punto di vista molto generale. Per lungo tempo tutti gli scritti kantiani di 437 www.scribd.com/Baruhk
Kant
argomento scientifico vennero arbitrariamente trascurati dagli studiosi del grande pensatore, quasi che rappresentassero un settore isolato della sua produzione. Oggi però la situazione sta rapidamente mutando e qualche studioso di indubbio valore (come ad esempio Jules Vuillemin) giunge invece a sostenere che proprio essi ci forniscono il filo conduttore per « cogliere il senso oggettivo della filosofia kantiana ». Per quanto riguarda i lavori di argomento non prettamente scientifico, va anzitutto ricordato che quello sull'ottimismo del I759 rappresenta una difesa di tale indirizzo contro le obiezioni di Voltaire. Anche se più tardi verrà ripudiato dall'autore, costituisce comunque una testimonianza assai interessante della fiducia che Kant nutriva, quando lo scrisse, nel mondo e nell'opera degli uomini. Universalmente riconosciuta è l'importanza dei tre scritti sull'unico argomento possibile per dimostrare l'esistenza di dio (1763), sui sogni di un visionario (I 766) e infine sulla forma e i principi del mondo sensibile e di quello intelligibile (I77o). Effettivamente essi rappresentano delle tappe assai significative verso l'elaborazione della concezione critica che caratterizzerà la fase più matura della filosofia kantiana. Qui basti ricordare che nel lavoro del I763 il nosrro autore sostiene in ultima istanza che solo l'argomento a contingentia mundi può fornirci una prova valida dell'esistenza di dio. Nei Sogni di un visionario Kant polemizza con grande arguzia non solo contro lo svedese Emanuel Swedenborg, che pretendeva spacciare per vere le proprie visioni spiritiche, ma anche contro la metafisica di W olff e di Crusius, che risulterebbe altrettanto priva di qualsiasi serio fondamento; questa polemica conduce il nostro autore a prospettare come vero compito della metafisica la determinazione dei limiti della ragione umana. La dissertazione del I 770 è il primo scritto in cui Kant delinea con chiarezza le idee basilari di quella che sarà la propria gnoseologia: distinzione fra conoscenza sensibile e conoscenza intellettiva, distinzione tra materia e forma, distinzione fra uso logico e uso reale dei concetti. Per quanto riguarda il breve scritto intorno alle figure del sillogismo (1762) rinviamo a quanto detto su di esso nel capitolo vr della presente sezione. Per quanto infine riguarda la ricerca sul concetto delle grandezze negative (I763) basti osservare che esso concerne un argomento di grande rilievo per Kant: l'utilizzabilità dei procedimenti matematici in filosofia. Su di esso il nostro autore ritornò in uno scritto inviato nel 1764 all'accademia di Berlino, come risposta a un quesito a premio da essa proposto intorno alla possibilità che le verità metafisiche abbiano la stessa evidenza di quelle matematiche e intorno alla natura della loro certezza. La risposta di Kant non vinse il premio (assegnato a Moses Mendelssohn), ma venne ampiamente elogiata e pubblicata (con la risposta del vincitore) sugli atti dell'accademia. Il nostro autore vi sostiene che la certezza della metafisica deve risultare della medesima natura di quella della matematica, pur distinguendosi da essa per la maggior complessità e difficoltà delle nozioni trattate.
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Kant
Se nel I 770 ha termine il cosiddetto periodo precritico del pensiero kantiano, va subito aggiunto però che a partire da tale data passeranno ancora oltre dieci anni prima che il nostro autore riesca a dare forma sistematica alla propria filosofia e che anche dopo il I 8So questa continuerà a subire notevoli trasformazioni. Comunque, durante il decennio I77o-8o egli non pubblicò che qualche articolo di scarso rilievo; ma dalle lettere e da varie annotazioni di quel periodo si sa che lavorava molto intensamente e veniva a mano a mano delineando nella propria mente ciò che avrebbe poi scritto durante gli anni successivi, nei quali viceversa darà prova di un'eccezionale, instancabile, fecondità. Nel q8I esce la prima edizione dell'opera capitale di Kant: Kritik der reinen Vernunft (Critica della ragion pura); nel 1787 ne pubblicherà una seconda edizione con notevoli mutamenti rispetto alla prima. Nel I783 esce una seconda opera che affronta il medesimo argomento da un punto di vista più semplice e con stile più agile: Prolegomena zu einer )eden kiinftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten konnen (Prolegomeni ad ogni futura metafisica che vorrà presentarsi come scienza); essa intendeva essere fra l'altro una risposta alla recensione - sfavorevole e superficiale- della Critica che i « Gelehrte Anzeigen » di Gottinga avevano pubblicato anonima nel gennaio del I782 (era stata scritta da Christian Garve e rimaneggiata da uno dei direttori della rivista, Heinrich Feder). Le due opere costituiscono la fonte principale per lo studio della teoria kantiana della conoscenza. Esse sono strettamente connesse a una breve ma importante opera del I786, che in certo senso vuol tracciare le nuove linee di una moderna filosofia della natura: Metaphysische Anfangsgriinde der Naturwissenschaft (Primi principi metafisici della scienza della natura). Fra gli scritti minori del periodo in esame merita particolare menzione una breve trattazione (I784) dal titolo: Beantwortung der Frage: was ist Aufkliirung? (Risposta alla domanda: che cosa è l'illuminismo?), ove Kant esprime la propria soddisfazione di vivere in un'epoca che, pur senza essere illuminata, compie decisi progressi verso la vittoria della ragione. Intanto diventa sempre più chiara la funzione che Kant attribuisce all'etica nell'ambito delle sue concezioni filosofiche; trattasi di un compito non meno importante di quello spettante alla critica della conoscenza: è il compito di riaprire in un senso completamente nuovo la via alla metafisica, ed entro certi limiti alla fede, dopo aver dimostrato la loro irraggiungibilità nel campo teoretico. Le due principali opere dedicate a questo argomento hanno per titolo: Grundlegung der Metaphysik der Sitten (Fondazione della metafisica dei costumi) e Kritik der praktischen Vernunft (Critica della ragion pratica); la prima di esse è del I785, la seconda del !788.
Finalmente nel I 790 venne pubblicata la terza delle « critiche » kantiane: Kritik der Urteilskrajt (Critica del giudizio), rivolta all'esame del problema della bellezza e della finalità della natura. Come cercheremo di spiegare nel seguito 439
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del capitolo, essa rappresenta una notevole tappa nell'evoluzione del pensiero di Kant. Nel I 79 3 esce il più importante scritto kantiano di filosofia della religione: Die Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft (La religione entro i limiti della semplice ragione). La sua pubblicazione- come ora chiariremo- diede luogo ad uno dei pochi eventi che venne a turbare la serena vita del filosofo. Malgrado la recensione negativa di Garve, la Critica della ragion pura era riuscita ad imporsi nel giro di qualche anno all'attenzione degli studiosi tedeschi, sicché il suo autore aveva visto sorgere intorno a sé la generale ammirazione. Egli era rimasto tuttavia indifferente di fronte a questa crescente celebrità e continuava a dedicarsi interamente ai propri studi, che spaziavano dai problemi in largo senso filosofici a quelli più strettamente scientifici (si occupava tra l'altro di medicina, di biologia, della struttura della luna, ecc.). Unico interesse estraneo al campo delle proprie ricerche era quello per gli eventi politici europei, da lui seguiti con grande passione (vivissimo fu per esempio il suo entusiasmo per la rivoluzione francese). Ma intanto la politica della Prussia aveva subito una grave svolta alla morte di Federico II (q86): il nuovo re Federico Guglielmo II non mostrava più alcuna simpatia per le idee illuministiche, permettendo al fanatismo religioso e alla reazione politica di prendere il più aperto sopravvento. Nel I79o veniva imposto a tutti i pastori luterani un catechismo ufficiale e nel I 79 I era nominata una commissione governativa per la censura dei libri pubblicati nello stato prussiano. Fu per l'appunto questa commissione a provocare lo spiacevole fatto cui abbiamo or ora accennato. Nel I794 essa segnalò al governo la pericolosità del volume sulla filosofia della religione che Kant aveva pubblicato l'anno precedente. In seguito a questa denuncia il re fece pervenire al nostro pensatore una minacciosa lettera, deplorando energicamente le sue teorie religiose e ingiungendogli di tacere nel modo più completo, da quel momento in poi, sul delicato argomento. Era un'intromissione gravissima, che poneva in luce di colpo la fragilità sostanziale dell'apparente libertà di pensiero di cui avevano creduto di godere gli intellettuali tedeschi. La risposta di Kant fu, se non coraggiosa come si sarebbe potuto desiderare, ferma e piena di dignità. Il filosofo respingeva infatti recisamente le accuse del re; soggiungeva però di essere disposto, nella sua qualità di suddito fedele, a sottomettersi all'ordine regio impegnandosi a non ritornare sul problema religioso. In effetti, Kant mantenne fede a questa promessa; continuò tuttavia a scrivere con piena libertà su argomenti altrettanto delicati. Nel 1795 pubblicò un interessante scritto dal titolo: Zum ewigen Frieden (Per la pace perpetua), che affronta con lucida perspicuità uno dei fondamentali problemi della vita dei popoli. Non trattasi del libro di un sognatore, come potrebbe farci presumere il suo titolo; è, al contrario, un'indagine sorretta dal più vigoroso realismo. Proprio questo 440
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realismo, però, conduce Kant a una visione abbastanza ottimistica della storia: secondo lui, infatti, saranno gli stessi mali derivanti all'umanità dalla barbarica libertà degli stati (paragonabile alla libertà di cui godevano - secondo Hobbes - gli individui prima di pattuire il contratto sociale) a spingere i popoli verso la creazione di istituti sovrastatali, capaci di garantire un ordine e un diritto cosmopolitico. Nel I797 esce l'ultima opera sistematica di Kant, Die Metaphysik der Sitten (Metafisica dei costumz), suddivisa in due parti: Metaphysische Anfangsgriinde der Rechtslehre (Primi principi metafisici della dottrina del diritto) e Metaphysische Anfangsgriinde der Tugendlehre (Primi principi metafisici della dottrina della virtù). Mentre quest'ultima si occupa delle applicazioni concrete del principio etico e indulge talvolta a una vera e propria casuistica, la prima parte è di notevolissima importanza costituendo il testo fondamentale della filosofia kantiana dd diritto. Vi sono trattati, fra l'altro, gravi questioni politiche e, in particolare, delicati problemi circa i rapporti fra stato e chiesa. Prescindendo da altri scritti minori ricorderemo infine che nel I798 il nostro autore pubblicò ancora una Anthropologie (Antropologia) che studia l'uomo sia sotto l'aspetto fisiologico (ossia come egli naturalmente è) sia sotto l'aspetto pragmatico (ossia come è in grado di farsi per sua libera volontà) e un interessante saggio Streit der Fakultaten (Conflitto delle facoltà) dedicato all'esame del conflitto- anche pratico - fra le varie scienze e alla necessità che esse vengano inserite in un superiore organismo unitario. Kant morì ottantenne nel I8o4; negli ultimi anni della vita aveva perso la memoria e la parola, e la sua intelligenza era andata lentamente declinando. Agli scritti testé elencati dovrebbero venire aggiunti quelli pubblicati, a partire dal I 8oo, dagli allievi di Kant diretti a raccogliere in forma sistematica gli insegnamenti del maestro sulla logica, la geografia fisica, la pedagogia, ecc. Ci limiteremo a ricordare, perché particolarmente importante dal punto di vista delle sue concezioni filosofico-scientifiche, le pagine che vanno sotto il titolo di Opus postumum. Esse rappresentano i frammenti di una grande opera sistematica che il filosofo aveva in animo di scrivere - ma che non riuscì mai a condurre a termine - sul passaggio dai principi metafisici della scienza naturale alla fisica. Dopo alcune edizioni parziali verso la fine dell'Ottocento, vennero pubblicate integralmente da Erich Adickes nel I93-o e costituiscono ancor oggi l'oggetto di studi molto impegnativi. III
· RAPPORTI FRA KANT E LE FILOSOFIE ANTECEDENTI
Nel pensiero di Kant possono riscontrarsi - come vedremo nelle prossime pagine - i profondi riflessi di gran parte della speculazione antecedente, non solo tedesca ma anche inglese e francese. Per questo motivo egli suole venire presen-
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tato come il punto di confluenza delle due correnti, razionalistica ed empiristica, che avevano dominato la filosofia europea del Seicento e del Settecento. Tale presentazione schematica, senza dubbio utile dal punto di vista didattico, si presta però ad alcuni gravi malintesi; sopra tutto quello di considerare il razionalismo e l'empirismo come due indirizzi antitetici sviluppatisi in completa indipendenza uno dall'altro per circa due secoli, e venuti a confluire tra loro per la prima volta in Kant. Ciò sarebbe decisamente inesatto, come risulta da quanto esposto in questa e nella sezione precedente, ove abbiamo avuto più volte occasione di sottolineare l'intrecciarsi di istanze razionalistiche ed empiristiche in parecchi autori solitamente classificati nell'uno o nell'altro dei due anzidetti indirizzi (basti pensare alle istanze razionalistiche presenti nell'empirista Locke). Gli interpreti più moderni, o per lo meno quelli che pongono in particolare rilievo i nessi riscontrabili fra le opere filosofiche del periodo critico e quelle scientifiche del periodo precritico, tendono semmai a vedere in Kant il mediatore fra le istanze razionalistiche presenti nella matematica pura e quelle sperimentalistiche presenti nella fisica osservativa. È fuori dubbio infatti che egli si rese perfettamente conto per un lato delle effettive diversità esistenti fra i due tipi di indagine, per l'altro della imprescindibile necessità di stabilire fra esse un valido ponte, qualora si voglia giungere alla fondazione di una fisica autenticamente razionale (traguardo questo che costituisce il primo compito dello scienziato moderno). In tale prospettiva sembra lecito affermare che il pensiero di Kant si riallaccia direttamente a quello di Galileo che, all'inizio dell'era moderna, proclamò l'accordo fra matematica e sperimento condizione indispensabile al progresso della scienza. Come sappiamo, Galileo cercò di ideare una tecnica che dimostrasse operativamente possibile tale accordo; lasciò tutta via ai posteri il difficile compito di giustificarlo sul piano filosofico. Proprio questa giustificazione è al centro della problematica filosofica kantiana. Una volta abbandonata la vecchia formula che voleva presentare Kant come punto di confluenza fra razionalismo ed empirismo, e indicato nella fondazione della fisica razionale (o fisica matematica) uno degli scopi precipui delle sue indagini, sembra opportuno - prima di accingerci a esporre il nucleo centrale del criticismo kantiano - cercar di chiarire, sia pure in forma molto schematica, i complessi rapporti fra il nostro autore e l'indirizzo illuministico. Già i titoli stessi delle opere precritiche di Kant, e i pochissimi cenni riferiti nel paragrafo precedente sul loro contenuto, valgono a dimostrarci il permanere in lui di parecchi motivi illuministici. Particolarmente degna di nota è la sua tendenza a sviluppare la concezione newtoniana nel senso di un naturalismo sempre più integrale, tendenza che gli proviene fra l'altro dallo studio del pensiero di Buffon e che in certo senso lo avvicina alla posizione dei più radicali materialisti francesi. È bensì vero che nella Critica della ragion pratica Kant cercherà una via per oltrepassare l'esperienza; resta però il fatto che egli riterrà di trovarla total442.
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mente al di fuori dell'ambito della conoscenza scientifica. Non mancherà mai, invece, di sostenere il carattere esclusivamente naturalistico di tutta la scienza. Anche l'opera La religione entro i limiti della semplice raJ?,ione riecheggia in modo evidente alcuni motivi presenti in tutto l'illuminismo. Ciò non significa, beninteso, che Kant si limiti a giustificare la religione con i vecchi argomenti deisti ci; significa però che egli eredita dal deismo il fondamentale problema di scoprire, attraverso la filosofia, una giustificazione della religione capace di garantirla da tutte le degenerazioni superstiziose. Quanto allo scritto (che verrà aspramente criticato da Hegel) Per la pace perpetua, è chiaro che esso si inserisce in modo diretto e inequivocabile nella grande corrente filosofico-politica del Settecento, rivolta a realizzare fra gli uomini un tipo nuovo di società, più razionale e più civile di quelli che riscontriamo nella nostra epoc.a e nelle precedenti. Come già ricordammo, la tesi più interessante ivi sostenuta è che, secondo Kant, sarà l'egoismo stesso degli uomini, se non la loro buona volontà, a condurli alla pace perpetua (o ve è manifesto lo sforzo di separare la sfera etica da quella sociale). In termini più precisi: sarà la miseria via via maggiore derivante dal moltiplicarsi delle guerre a dimostrare il vantaggio comune, per tutti i popoli, di rinunciare definitivamente ad esse. Malgrado la necessità storica di questo cammino degli uomini verso la pace, il nostro autore non rinuncia a cercare i mezzi per accelerarlo. In questa ricerca egli rivela una fede, tutta illuministica, nelle nostre possibilità di intervenire efficacemente entro il corso della storia; anche i mezzi indicati per tale intervento ricalcano la via delineata dai più noti pensatori settecenteschi, consistendo soprattutto nello sviluppo di forme di governo sempre più libere, cioè nella trasformazione dei vecchi regimi dispotici in regimi autenticamente democratici. « Quando si richieda,» scrive Kant, «l'adesione dei cittadini per decidere se una guerra debba o non debba farsi, non c'è niente di più naturale che essi riflettano bene prima di intraprendere un gioco così pericoloso, perché essi dovranno assumere su di sé tutte le calamità della guerra; ... mentre in uno stato dove il suddito non è cittadino, il decidere di una guerra è la cosa più semplice di questo mondo. » Uno scritto particolarmente significativo dal punto di vista del tema ora in esame è l'articolo del 1784 dal titolo Risposta alla domanda: che cosa è l'illuminismo? L'illuminismo vi è definito « la liberazione dell'uomo dallo stato di minorità intellettuale volontaria ». Minocità intellettuale è l'incapacità di risolvere i problemi che la vita ci viene proponendo mediante il nostro intelletto e la conseguente necessità di ricorrere alla guida dell'intelletto altrui. Questa minorità può essere definita volontaria quando la rinuncia a decidere non dipende da oggettiva mancanza di capacità, ma da pigrizia o da viltà. Indubbiamente, pensare con la propria testa costa fatica. È parimenti indubbio che, pensando colla nostra testa, ci troveremo, prima o poi, ad urtare suscettibilità, a contrastare tradizioni e pregiudizi, a suscitare ire e rancori. 443
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Kant si esprime con aspra ironia contro coloro che accettano la condizione comoda e tranquilla del minorenne e pongono al posto del loro cervello i ragionamenti dell'autore dotato di maggiore autorità e al posto della loro coscienza i consigli del «direttore spirituale». Le donne specialmente, egli osserva, vivono quasi senza eccezione in cotal guisa. Lo scritto kantiano rivela una carica polemica singolarmente vivace là dove afferma che i «tutori», cioè coloro che nelle condizioni attuali della vita sociale detengono la prerogativa di « maggiorenni », fanno di tutto perché la liberazione appaia, al resto dell'umanità, non solo incomoda, ma addirittura pericolosa. « Oopo aver reso stupido il loro bestiame e aver impegnato ogni cura perché questi tranquilli esseri non osino muovere un passo fuori del girello da bambini in cui li hanno rinchiusi, essi mostrano il pericolo che minaccia chiunque s'arrischi a camminare da solo. In verità il pericolo non è grande e, dopo qualche capitombolo, i minorenni alla fine imparerebbero a camminare. È indiscutibile però che un incidente di questo genere li rende timidi e li dissuade generalmente da ogni ulteriore tentativo.»« Il militare dice: non ragionate, ma fate l'esercizio l L'agente delle tasse dice: non ragionate, ma pagate l Il prete dice: non ragionate, ma credete l » Così l'umanità rimane torpida e inerte, in una passività intellettuale dìventata ormai quasi una seconda natura. Kant ritiene estremamente difficile, per il singolo, uscire da questa abitudine alla tutela. Lungi però dal concludere in modo integralmente pessimistico, dichiara di nutrire fiducia nella capacità di autoilluminazione della collettività. « Per questa illuminazione non si esige altro che libertà e invero la più innocente di tutte le libertà: quella di fare pubblico uso del proprio intelletto su tutti i punti.» Distinguendo fra uso « privato » della ragione, cioè l'uso che ogni individuo ne fa in un determinato ufficio a lui affidato, e uso « pubblico », l'uso, cioè, che della ragione rin uomo fa come studioso, davanti al pubblico dei lettori o degli ascoltatori, Kant domanda la più completa libertà per quest'ultimo e si dichiara convinto che l'esempio dei più audaci ed aperti uomini di cultura non mancherà di diffondere « lo spirito di un razionale apprezzamento del proprio valore e della vocazione di ogni uomo a pensare da sé». Non sarà però una conquista facile, in quanto gran parte del pubblico, avvezza al giogo e aizzata dai più retrivi fra i suoi tutori, farà di tutto per impedire o arrestare il generale processo di liberazione. Kant non crede che la rivoluzione politico-sociale costituisca, di per sé, un progresso verso l'universale illuminazione. « Una rivoluzione, » egli afferma, «potrà produrre la fine di un d·ispotismo personale e d'una oppressione cupida e dispotica, ma nuovi pregiudizi serviranno, come gli antichi, a dirigere ciecamente la grande moltitudine che non pensa. » Convinto che non si dia libertà di agire disgiunta dalla libertà di pensare, egli distingue però i due momenti e, lungi dal vedere nell'azione libera lo strumento che rende atti a pensare liberamente, postula 444
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il momento della libertà di pensiero come qualcosa di separato e precedente rispetto alla libertà d'azione, il che lo potta in certo senso a svalutare l'importanza delle libertà politiche. Solo quando, entro il duro involucro di un regime paternalistico e illuminato ad un tempo come quello di Federico n, la vocazione al libero pensiero si sarà rafforzata e diffusa nelle masse e avrà modificato il modo di sentire del popolo, quest'ultimo, ormai capace della libertà di agire, potrà legittimamente aspirare a una modificazione in senso liberale e democratico della struttura del governo. La tesi conclusiva di Kant, che « gli uomini si adoperano da sé per uscire a poco a poco dalla barbarie, purché non si lavori intenzionalmente a mantenerli in essa », costituisce una conferma dell'atteggiamento sostanzialmente (se pur cautamente) ottimistico che pervade l'illuminismo kantiano. Passando infine alla parte più caratteristica del pensiero di Kant, bisogna riconoscere che la stessa impostazione critica della sua filosofia porta chiaramente in sé l'impronta illuministica, ossia riflette, sia pure in forma originale, la fondamentale esigenza di sottoporre tutto alla ragione. Se è vero infatti che Kant respinge, con il suo criticismo, la pretesa di certi razionalisti dogmatici che tutto risulti accessibile alla ragione, è altrettanto vero però - come scrive molto bene Piero Martinetti - che egli accetta integralmente « la grande conquista del secolo XVIII, ... che di tutto debba decidere la ragione, e perciò anche dei propri limiti e della possibilità che essa ha di condurci fino ad un certo punto, di là del quale cessa per noi la possibilità di giudicare e di conoscere. Ma in tutto ciò che è nel campo del nostro conoscere, bisogna che la ragione rifletta la sua luce: che tutto sia chiarito, vagliato, giudicato dalla ragione ». Concludendo: sarebbe certo inesatto affermare che Kant si arresti alle posizioni illuministiche, mentre è vero che parte da esse per oltrepassarle. Il suo andar oltre l'illuminismo non significa però contrapporgli dal di fuori alcune istanze assolutamente antitetiche, bensì sviluppare con genialità i germi più vivi e profondi del movimento illuministico. IV · LA
« RIVOLUZIONE COPERNICANA »
Per dare un impianto solido e convincente alla critica della ragione, Kant prende le mosse dalla distinzione tradizionale fra giudizi analitici e giudizi sintetici, dei quali fornisce una definizione che per la sua importanza storica possiamo considerare « classica » anche se i logici moderni solleveranno contro di essa molte fondate obiezioni. Un giudizio deve dirsi, secondo lui, analitico, quando si limita, sulla base dei principi di identità e di non contraddizione, ad affermare nel predicato qualche proprietà già contenuta nel soggetto; per esempio « il triangolo ha tre angoli ». Il compito del giudizio analitico non è quello di estendere il nostro sapere, ma solo di scomporre le note costitutive del soggetto dando un particolare rilievo a una di esse. Si dirà invece sintetico un giudizio che 445
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affermi qualche proprietà non inclusa fra le note caratteristiche del soggetto; esso è un giudizio che estende il nostro sapere e non si basa sui soli principi logici di identità e di non contraddizione. Che tutti i giudizi analitici siano a priori, ossia non abbiano bisogno di reggersi sull'esperienza, risulta evidente in base alla stessa definizione testé riferita. Essi affermano qualcosa di incondizionatamente valido e perciò, se non contengono qualche banale equivoco terminologico, non possono dar luogo a dubbi di sorta. Sono però vuoti ed astratti, riguardando l'essere possibile, non quello reale. Parlare di giudizi analitici, che non siano giudizi a priori, sarebbe un assurdo logico. Assai più complessa si presenta invece la questione per i giudizi sintetici. Che esistano giudizi sintetici a posteriori, risulta secondo Kant evidente: tali sono tutti quelli che attribuiscono a un soggetto qualche proprietà direttamente ricavata dall'osservazione empirica (per esempio «i corpi sono pesanti», dato che la pesantezza non fa parte della definizione di corpo); è chiaro però, aggiunge il nostro autore, che essi dovranno risultare privi di necessità e di universalità, perché collegano al soggetto una qualità nuova, di cui non avremmo alcuna idea se non la traessimo dall'esperienza. Su questo punto il filosofo di Konigsberg accetta integralmente la tesi di Hume; ammette cioè che la semplice constatazione di un nesso empirico non sia in grado di fornirci alcuna base seria su cui fondare in modo legittimo giudizi universali e necessari. Ora sorge però la domanda: i giudizi sintetici sono effettivamente tutti a posteriori, o ve ne è invece qualcuno a priori? L'esistenza di giudizi sintetici che, per risultare a priori, godano di una validità superiore a quella delle semplici constatazioni empiriche è, secondo Kant, fondamentale per la scienza: solo questa esistenza infatti garantisce un sapere veramente scientifico, ovvero un sapere costituito di verità che estendano la nostra conoscenza e nel contempo risultino universali e necessarie. In realtà Kant non ha dubbi sulla questione di fatto: la matematica e la meccanica sono scienze ormai ben costituite e offrono, secondo lui, innumerevoli esempi di giudizi del tipo voluto (tale sarebbe per esempio, a suo parere, la proposizione 5 + 7 = 1 z, che attribuisce alla somma in esame un valore senza ·dubbio esatto il quale risulta però manifestamente non contenuto nei termini 5 e 7 costituenti il soggetto). Il problema è dunque un altro, e riguarda a rigore non tanto l'esistenza di giudizi sintetici a priori quanto la fondazione filosofica di tali giudizi: fondazione di tipo nuovo che non faccia appello né alle vecchie concezioni metafisiche della sostanza né - come si era preteso da alcuni filosofi - alla presunta bontà del creatore (il quale non potrebbe permettere che la ragione ci inganni). È precisamente a questo punto che interviene l'importante svolta, cui il nostro stesso autore dà il nome di rivoluzione copernicana. Invece di cercare la giu-
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stificazione filosofica dei giudizi scientifici in qualcosa di altro dal processo conoscitivo, Kant propone di cercarla proprio in questo processo, e cioè nelle condizioni che esso impone a ogni esperienza possibile. L'analogia con la rivoluzione copernicana è evidente: come Copernico « incontrando difficoltà insormontabili nello spiegare i movimenti celesti a partire dall'ipotesi che l'insiemé ordinato degli astri ruotasse intorno allo spettatore, si propose di indagare se le cose non procedessero meglio facendo star fermi gli astri e ruotare lo spettatore », così Kant si propone di cercare la base dei giudizi universali e necessari riguardanti il mondo della natura, non in una presunta realtà trascendente, che la conoscenza scientifica riuscirebbe a farci scoprire, ma nello stesso processo conoscitivo. Ecco dunque la necessità di porre anzitutto in chiaro come si articoli questo processo. L'attentissimo esame condotto in proposito da Kant gli fa concludere che « conoscere » non significa in realtà un puro e semplice ricevere dei dati, ma significa elaborarli, sintetizzarli, ordinarli secondo forme a priori, proprie di ogni soggetto pensante. Tutta la nostra esperienza, tutto intero il mondo della natura viene così a delinearsi come il frutto di una sintesi, operata sulla base dei dati percettivi (o materia) dall'attività formatrice o trascendentale del conoscente: un'esperienza che non si accordi con le forme a priori del conoscere è qualcosa di impossibile. Kant usa il termine trascendentale per indicare ogni forma che operi a priori all'interno dell'esperienza e riserva invece il termine trascendente per tutto ciò che starebbe al di là dell'esperienza stessa, ossia al di là dell'oggetto del processo conoscitivo. Non occorre aggiungere altro per porre in chiaro le differenze esistenti tra l'a priori di Kant e le idee innate della filosofia seicentesca: queste erano idee che - per esempio secondo Cartesio - la mente umana scoprirebbe in se stessa perfettamente compiute di forma e di contenuto, e che pertanto fornirebbero l'oggetto specifico di tal une conoscenze; quello invece è una condizione del conoscere, che, operando la sintesi dei dati, concorre in modo essenziale a costituire l'esperienza. Una volta stabilito che l'attività trascendentale ordina i dati percettivi secondo forme a priori, Kant cercherà per l'appunto in queste la base ultima dei giudizi sintetici a priori. Affermerà cioè che proprio tali forme (e solo esse) sono in grado di fornire una piena garanzia alle autentiche conoscenze raggiunte dalla ricerca scientifica: conoscenze che meritano il titolo di verità universali e necessarie perché non sono qualcosa di meramente soggettivo, di _provvisorio, di apparente, ma valgono realmente per tutto il mondo della natura (cioè per ogni esperienza possibile) pur non potendo - come è ovvio - venire applicate al di là del mondo empirico. Contro la soluzione kantiana del problema testé accennato potranno senza dubbio venire sollevate molte validissime obiezioni; esse non tolgono nulla, però, all'importanza- veramente storica- della rivoluzione copernicana compiuta dal nostro filosofo. Rivoluzione che, secondo alcuni autorevoli studiosi moderni, 447 www.scribd.com/Baruhk
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consiste soprattutto nella realizzazione di una vera e propria « rottura » fra « conoscenza e assoluto » ottenuta senza togliere alla prima il suo valore autenticamente conoscitivo, cioè consiste nel conservare un senso al « problema della differenza fra il reale e l'apparente, fra il necessario e il contingente, all'interno di una filosofia che pur vieta a se stessa di parlare di cose di sé» (Vuillemin). V · LA CRITICA DELLA RAGION PURA. ESTETICA TRASCENDENTALE
La Critica della ragion pura si articola in due sezioni: Dottrina trascendentale degli elementi e Dottrina trascendentale del metodo. La prima, che è di gran lunga la più ampia e importante, si suddivide a sua volta in due parti: Estetica trascendentale e Logica trascendentale. Il termine « estetica » viene usato da Kant nel significato, già introdotto da Baumgarten, di scienza filosofica della sensibilità, da cui però il nostro autore esclude ogni riferimento alla trattazione della bellezza. In accordo con quanto abbiamo detto nel paragrafo precedente, l'attributo «trascendentale» indica che la sensibilità viene esaminata nei suoi principi a priori. L'espressione « logica trascendentale » è usata in un senso che, pur collegandosi a quello tradizionale del termine « logica », deve venire rigorosamente distinto da esso. Per logica si suole intendere la « scienza delle regole dell'intelletto in generale », scienza che può venire suddivisa in una logica generale pura (la quale si occupa di tali regole nel loro uso formale) e in una logica generale applicata (che « ha in vista le regole dell'uso dell'intelletto sotto le condizioni empiriche soggettive insegnateci dalla psicologia»). Per logica trascendentale, Kant intende invece una scienza che ha senza dubbio a che fare con le leggi dell'intelletto e della ragione, ma non dal punto di vista formale bensì per determinarne «l'origine, l'estensione e la validità oggettiva », cosa che le riesce possibile « in quanto tali leggi sono riferite a priori ad oggetti, e non riguardano invece indifferentemente, come avviene per la logica generale, tanto le conoscenze empiriche quanto quelle razionali pure ». Per quanto riguarda il campo della sensibilità, Kant accetta la suddivisione tradizionale fra sensibilità esterna ed interna, intendendo che la prima indichi il mondo come dato esteriore, la seconda come coscienza della nostra vita interiore. Ripartisce pertanto l'estetica in due brevi sezioni, dedicate rispettivamente allo spazio ed al tempo. Anche la logica trascendentale viene suddivisa in due grandi sezioni: Analitica trascendentale e Dialettica trascendentale, sul cui specifico significato ritorneremo nei prossimi paragrafi. Qui basti far presente che tanto l'estetica quanto l'analitica hanno, nella concezione kantiana, una funzione essenzialmente positiva: quella di fondare, da un punto di vista essenzialmente filosofico, la matematica e la fisica. Invece la dialettica ha una funzione prettamente negativa: quella di dimostrare l'impossibilità della metafisica come scienza. Passando ora dalle linee generalissime dell'opera a un sommario esame del-
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Kant
l'estetica, conviene anzitutto soffermarci su di un punto particolarmente atto a caratterizzare la posizione di Kant rispetto a quella della filosofia tradizionale. Sappiamo che la maggior parte degli studiosi a lui anteriori avevano interpretato la conoscenza sensoriale come mera recezione e avevano anche visto in questa recettività la garanzia più sicura del valore effettivamente conoscitivo delle sensazioni. Partendo da questo presunto punto fermo, erano giunti. a considerare come argomento principe contro la validità obbiettiva delle idee di sostanza, causa, ecc., l'impossibilità di ridurle a puri e semplici dati recettivi. Kant si stacca nettamente da questa tradizione, sostenendo che anche il processo della conoscenza sensoriale - e cioè l'intuizione - avviene sulla base di alcune forme a priori: la forma della sensibilità esterna è lo spazio, quella della sensibilità interna è il tempo; su questa base la conoscenza sensibile non può più venir intesa dunque come semplice passività. Un'analisi un po' attenta. della realtà percepita dimostra in modo incontrovertibile, secondo Kant, come lo spazio e il tempo non siano né proprietà oggettive delle cose, né concetti empirici ricavati dall'esperienza: noi non potremmo infatti in nessun modo rappresentarci le cose come esterne a noi e come esterne fra loro, quando non possedessimo già da prima la rappresentazione dello spazio in cui collocare gli oggetti. Un'osservazione analoga vale anche per il tempo. Credere di poter percepire un oggetto qualsiasi come esterno, senza attribuirgli una posizione e una dimensione spaziale, è un assurdo; credere di poter avere una percezione interna,. senza collocarla nel corso della nostra coscienza, cioè senza ordinaria secondo un prima e un poi, è una pura illusione. Bisogna allora concludere che lo spazio e il tempo sono condizioni a priori della nostra sensibilità, forme soggettive dei fenomeni: « Il tempo non è altro che la forma del senso interno, cioè dell'intuizione di noi stessi e del nostro stato interno... Lo spazio non è altro che la forma dei sensi esterni, cioè la condizione soggettiva della sensibilità sotto la quale soltanto ci è possibile l'intuizione esterna. » Va osservato ben chiaramente che queste due forme sono intuizioni, non concetti (questi ultimi interverranno solo nella conoscenza intellettiva); spazio e tempo non sono però, secondo Kant, intuizioni particolari (ed infatti non intuiamo mai il tempo e lo spazio come oggetti a sé stanti), ma intuizioni pure; sono cioè, come abbiamo visto, condizioni a priori per la percezione di qualunque contenuto sensibile. 1 Tutto il mondo percepito - cioè, nella terminologia kantiana, il mondo fenomenico - si trova quindi inevitabilmente fondato sulle due forme a priori del tempo e dello spazio. Esse sono forme trascendentali cioè costitutive dell'esperienza, e le loro strutture avranno quindi, di necessità, il valore di leggi per ogni intuizione particolare. I
grafo
Si ricordi quanto venne detto nel paradel capitolo VI di questa stessa sezione,
VI
sui rapporti fra la concezione « infuitiva » dello spazio elaborata da Kant e la geometria ·euclidea.
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Sulla forma trascendentale dello spazio è fondata, secondo Kant, la geometria; su quella del tempo è fondata l'aritmetica. Il fatto che queste due scienze si basino su due intuizioni pure, nel senso sopra spiegato, è ciò che rende loro possibile raggiungere delle proposizioni veramente conoscitive (cioè estensive della conoscenza) e nel contempo universali e necessarie, cioè valide per tutto· il mondo fenomenico. Questo carattere sintetico della matematica non costituisce, a rigore, nulla di nuovo nel pensiero di Kant; egli aveva già sostenuto tale interpretazione durante il periodo precritico, attingendola dagli scritti di Crusius. Qui però la tesi assume un rilievo particolare perché induce il nostro autore a stabilire una dipendenza diretta delle discipline matematiche dall'intuizione pura, escludendo che esse possano venire considerate come un semplice sviluppo della logica. Tale fondamento intuitivo della geometria e dell'aritmetica permette inoltre a Kant di sostenere che - a differenza dalle al tre scienze - queste sono in grado di « costruire » i propri oggetti, onde non hanno in realtà da preoccuparsi se tali oggetti posseggano o no un'esistenza fattuale. çome spiega molto bene Jules Vuillemin, « esse vertono su quasi-oggetti a proposito dei quali il problema della verità in senso stretto non avrebbe motivo di essere posto, se questo è il problema ... dell'esistenza e del concetto». Kant sottolinea fra l'altro il fatto che proprio l'intuizione del tempo rende possibile il concetto di mutamento, e, collegata a quella di spazio, il concetto di mutamento locale o movimento. « Qui aggiungo ancora, » egli scrive, « che il concetto del mutamento, e con esso il concetto del movimento (come mutamento di luogo) è possibile soltanto attraverso la rappresentazione di tempo, e in essa. Inoltre aggiungo che, se questa rappresentazione non fosse intuizione (interna) a priori, nessun concetto, qualunque esso sia, potrebbe rendere comprensibile la possibilità di un mutamento, cioè di una connessione in un solo e medesimo oggetto di predicati contrapposti contraddittoriamente (ad esempio, l'essere in un luogo e il non essere della medesima cosa nel medesimo luogo). » Così anche la cinematica, come scienza pura del moto indipendentemente dalle cause che lo producono, viene a radicarsi in ultima istanza nella sfera delle intuizioni pure. VI
· ANALITICA TRASCENDENTALE
Questa, che è una delle parti più importanti della Critica, si suddivide in due libri dedicati rispettivamente all'analitica dei concetti e all'analitica dei principi (o proposizioni fondamentali). Mentre nella sensibilità noi siamo prevalentemente recettivi (cioè riceviamo i dati, sia pure inserendoli - come si è detto - entro le due intuizioni pure dello spazio e del tempo), nel pensiero invece siamo eminentemente attivi. Quest'attività si esplica nella elaborazione concettuale delle intuizioni sensibili.
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Kant
Anche il pensiero, come la sensibilità, dovrà basarsi - secondo Kant - su alcune forme a priori: queste vengono da lui chiamate concetti puri o categorie. Qui di nuovo si tratta non di concetti particolari, ma di forme concettuali o~sia modi di collegamento aventi una validità universale. Queste forme però debbono attingere il proprio materiale dall'intuizione, non possono cioè fare a meno dei dati intuiti vi: « concetti senza intuizioni sono vuoti, intuizioni senza concetti sono cieche ». La complementarità ora accennata tra intuizione sensibile e intelletto è fondamentale per la filosofia kantiana. L'intuizione ha una funzione discriminante, ossia costituisce la base indispensabile per cui il molteplice è conosciuto nella sua molteplicità; l'intelletto invece ha una funzione raggruppante, ossia costituisce lo strumento essenziale con cui la mente elabora il molteplice unificandolo. Il concetto, che è il prodotto di questa attività raggruppante, risulta sempre, per sua stessa natura, qualcosa di generale. Anche quando esso ci sembra individuale, in realtà è un tipo che si presta a diventare segno di una molteplicità di individui; la determinatezza del particolare deriva da qualcos'altro: dall'intuizione, che distingue questo individuo da quello riferendolo ad un qui e ad un ora. Senza questo riferimento spazio-temporale, non si può avere conoscenza effettiva ma solo qualcosa di illusorio (al cui esame Kant dedicherà la dialettica, come vedremo nel prossimo paragrafo). Come il compito dell'estetica trascendentale era stato quello di determinare le forme a priori dell'intuizione, cioè il tempo e lo spazio, così quello dell'analitica trascendentale è di sceverare l'a priori del pensiero, fissando il numero e la struttura delle varie categorie. Per Kant «pensare » significa« giudicare », e quindi l'analisi del pensiero deve partire dall'accurato esame di tutte le specie possibili di giudizio. Quest'esame ci fornirà il filo conduttore per giungere al quadro delle categorie. « Se noi facciamo astrazione da ogni contenuto di un giudizio in generale, » scrive Kant, « e se in esso poniamo mente soltanto alla semplice forma dell'intelletto, troviamo che la funzione del pensiero nel giudizio può essere ricondotta a quattro caratteri, ciascuno dei quali contiene in sé tre momenti.» Sulla base di questo esame egli giunge alla seguente tavola dei giudizi, raggruppati secondo i loro caratteri:
Quantità: universali, particolari, singolari. Qualità: affermativi, negativi, infiniti. Relazione: categorici, ipotetici, disgiuntivi. Modalità: problematici, assertori, apodittici. La determinazione delle categorie a partire dalla tavola testé riferita dei giudizi è una delle parti più artificiose dell'indagine kantiana, onde non merita di venire esaminata in dettaglio. Basti ricordare ancora una volta che la funzione 451
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essenziale del giudizio (ossia del pensiero) è per Kant quella di unificare il molteplice, e questa unificazione consiste nel ricondurlo sotto un concetto. Orbene « se il molteplice è dato in modo non empirico, cioè a priori (come quello nello spazio e nel tempo) », l'unificazione sarà pura, e il concetto in essa usato sarà un « concetto puro » o « categoria ». In altri termini: le categorie sono « i concetti puri dell'intelletto » che « si rivolgono a priori a oggetti dell'intuizione ». L'enucleare da ogni giudizio generale il concetto puro ivi adoperato ci permette, secondo Kant, di giungere a una determinazione sistematica (non rapsodica) di tutte le categorie. Otterremo così una tavola delle categorie che corrisponde biunivocamente a quella dei giudizi: Categorie della quantità: unità, pluralità, totalità. Categorie della qualità: realtà, negazione, limitazione. Categorie della relazione: inerenza e sostanzialità, causalità e dipendenza, comu-
nanza o reciprocità di azione. Categorie della modalità: possibilità-impossibilità, esistenza-non esistenza, necessità-contingenza. Le quattro classi di categorie vengono suddivise dal nostro autore in due gruppi: quelle del primo - cui dà il nome di « categorie matematiche » - sono « rivolte ad oggetti dell'intuizione », mentre quelle del secondo - cui dà il nome di «categorie dinamiche»- sono invece rivolte «all'esistenza di questi oggetti, o in relazione fra loro, o in relazione con l'intelletto» (si noti che «in relazione con l'intelletto» sono le categorie della modalità). Alle categorie, o concetti puri, si collegano poi altri concetti « altrettanto puri » ma derivati, cui Kant attribuisce il nome di « predicabili »; egli non si sofferma però ad analizzarli ritenendoli inessenziali al proprio lavoro, diretto a un esame critico generale del processo conoscitivo. Dedica invece numerose pagine alla «deduzione trascendentale» dei concetti puri, ossia alla «spiegazione del modo in cui tali concetti possono riferirsi a priori ad oggetti ». L'analitica dei concetti termina con alcune pagine dedicate a un problema della massima importanza: quello di giustificare l'unità essenziale del molteplice delle rappresentazioni, di spiegare cioè perché mai il mondo fenomenico mi si presenti come unitario, cioè come costituente una sola esperienza. Per rispondere a tale domanda Kant fa appello ad una unità più profonda, presupposta da tutti gli atti sintetici: l'io penso. Dopo aver dato il nome di «appercezione pura» o « appercezione originaria » alla « rappresentazione: io penso », egli aggiunge: «L'unità di tale rappresentazione, la chiamo anche l'unità trascendentale de[..:· l'autocoscienza, per designare la possibilità della conoscenza a priori fondata su di essa. » In altri termini: l'io penso precede a priori tutti i miei pensieri determinati, e fa sì che essi risultino connessi l'uno all'altro. « Solo per il fatto che posso comprendere in una sola coscienza il molteplice delle rappresentazioni, io le 452
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chiamo tutte quante le mie rappresentazioni: in caso contrario, difatti, io avrei tante variopinte e differenti personalità, quante sono le rappresentazioni, di cui ho coscienza.» L'io penso, come forma suprema dell'attività sintetizzatrice, è dunque la garanzia dell'ordine intrinseco di ciò che penso adesso, di ciò che ho pensato in antecedenza, e di ciò che penserò in futuro. Va però aggiunto che l'io, cui Kant si riferisce parlando dell'io penso, non è nulla di individuale, non è la psiche di questa o quella persona, ma è la coscienza in generale, che organizza tutti i pensieri. È il legislatore del mondo fenomenico, è il fondamento della razionalità dell'esperienza. E, come tale, è anche il fondamento ultimo della scienza. Mentre le precedenti metafisiche avevano cercato la garanzia della conoscibilità del mondo empirico in un essere trascendente la natura (in un dio capace di determinare dall'eternità la perfetta corrispondenza tra i singoli contenuti del pensiero e i singoli oggetti dell'esperienza), ora essa è cercata nell'io. Non però nell'io come sostanza, ossia come entità a sé, distinta dall'atto del pensare, bensì nell'io come funzione, ossia come attività sintetizzatrice dei dati dell'esperienza. La razionalità che ne scaturisce non è qualcosa di concluso una volta per sempre, ma è una razionalità aperta, in via di progressiva attuazione. È la razionalità concreta che si viene via via realizzando nel mondo, e che appartiene nel contempo all'io come pensante e all'esperienza come pensata. Dall'affascinante teoria kantiana dell'io penso si svilupperanno, come vedremo, le più ardite concezioni della metafisica idealistica del XIX secolo. Il secondo libro dell'analitica, dedicato all'analitica dei principi (o proposizioni fondamentali), esamina le regole per l'applicazione delle categorie al mondo dei fenomeni. Il primo compito cui Kant si trova di fronte è quello di spiegare come i concetti puri possano applicarsi al molteplice delle intuizioni 'sensibili, data la manifesta eterogeneità fra la natura (intellettiva) di quelli e la natura (sensibile) di questo. Per risolverla egli introduce la nozione di schema trascendentale, che è la « condizione, formale e pura, della sensibilità, condizione alla quale il concetto è ristretto nel suo uso ». La teoria dello schematismo trascendentale è uno dei punti più oscuri della Critica, sicché la sua interpretazione ha dato luogo a molti dibattiti. A noi basti qui ricordare che secondo Kant ad ogni categoria dovrebbe corrispondere uno schema, capace di costituire una specie di ponte fra essa e i dati sensibili. Così per esempio « lo schema della sostanza è la permanenza del reale nel tempo, cioè la rappresentazione del reale come un sostrato della determinazione empirica del tempo in generale: sostrato, dunque, che rimane, mentre tutto il resto varia »; « lo schema della causa e della causalità di una cosa in generale ... consiste nella successione del molteplice, in quanto essa è soggetta ad una regola »; « lo schema della possibilità è ... la determinazione della rappresentazione di una cosa in un qualche tempo»; «lo schema dell'effettualità è l'esistenza 453
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in un determinato tempo»;« lo schema della necessità è l'esistenza di un oggetto in ogni tempo»; ecc. Il risultato, che, secondo Kant, conseguirebbe dall'uso di questi schemi, è una continuità senza fratture tra intelletto e sensibilità. Pur non volendoci inoltrare nei complessi dibattiti circa il significato e la validità del ponte che gli schemi dovrebbero gettare fra le singole categorie e i dati sensibili, dobbiamo comunque sottolineare che in ogni schema Kant fa intervenire il tempo, o meglio una « determinazione di tempo »: «Gli schemi, » egli scrive, « non sono altro che determinazioni a priori di tempo, in base a regole, le quali si riferiscono, secondo l'ordine delle categorie, alla serie del tempo, al contenuto del tempo e, infine, all'insieme del tempo, nei riguardi di tutti gli oggetti possibili. » Per illustrare l'effetto dello schema, possiamo ad esempio considerare la categoria della sostanzialità e confrontarla con lo schema della sostanza: questo, come abbiamo poco sopra riferito, è la permanenza reale nel tempo, mentre « la sostanza, senza la determinazione del tempo, non significa altro se non un qualcosa che può venire pensato come soggetto (senza essere predicato di qualcosa d'altro)». Si noti che lo schema della sostanza trasforma questa categoria in una nozione essenzialmente fisica, liberandola dalla carica metafisica che essa aveva nella filosofia del Seicento (si ricordi la definizione cartesiana secondo cui la sostanza è «una realtà che esiste in modo tale da non aver bisogno di nessun'altra realtà per esistere»). Un altro problema fondamentale deriva dal fatto che l'intelletto « non è soltanto la facoltà delle regole, riguardo a ciò che accade, ma è altresì la fonte delle proposizioni fondamentali » cui sono soggette tutte le leggi della natura, senza distinzione. Esse emergono «nell'applicazione dei concetti puri dell'intelletto ad un'esperienza possibile». Proprio a questo punto risorge la distinzione poco sopra accennata fra categorie matematiche e categorie dinamiche, onde Kant parla di due usi della sintesi categoriale: matematico e dinamico. Poiché il primo si riferisce all'intuizione e poiché « le condizioni a priori dell'intuizione sono assolutamente necessarie a riguardo di un'esperienza possibile», Kant può affermare che « le proposizioni fondamentali dell'uso matematico suoneranno incondizionatamente necessa1:ie »; invece, poiché l'uso dinamico si riferisce all'esistenza degli oggetti di un'intuizione empirica possibile e poiché queste « sono in sé solo contingenti », ne segue che « le proposizioni fondamentali dell'uso dinamico, conserveranno bensì il carattere di una necessità a priori, ma soltanto sotto le condizioni del pensiero empirico in un'esperienza, e quindi solo mediatamente e indirettamente ». Kant si trova quindi costretto a riconoscere che queste ultime «non conterranno quell'evidenza immediata che è propria delle prime>>. Alle proposizioni fondamentali connesse ai quattro gruppi di categorie (della quantità, della qualità, della relazione e della modalità), egli attribuisce rispettivamente il nome di: assiomi dell'intuizione, anticipazioni della percezione, analogie dell'esperienza, postulati del pensiero empirico in generale. 454
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Ci basterà qui riferire, a mo' di esemplificazione, le analogie dell'esperienza che ci sembrano di particolare importanza dal nostro punto di vista. Esse sono tre: 1) « In ogni cambiamento dei fenomeni, la sostanza permane e il quantum di essa non viene né accresciuto né diminuito nella natura. z) Tutti i mutamenti accadono secondo la legge della connessione di causa ed effetto. 3) Tutte le sostanze, in quanto percepibili nello spazio come simultanee, agiscono sempre reciprocamente le une sulle altre. » L'interesse specifico di queste proposizioni risiede nel rapporto diretto che esse posseggono manifestamente con la fisica: in particolare la prima non appare altro, in ultima istanza, che un'enunciazione filosofica del principio di conservazione della massa, e la terza non altro che una generalizzazione del terzo principio della dinamica (o principio d'azione e reazione). Quanto alla seconda, essa costituisce senza dubbio il presupposto generale di tutte le ricerche fisiche e risulta in qualche modo connessa al secondo principio della dinamica, ove si identifichi la forza con la causa e l'effetto con la variazione dello stato di moto. Affiora qui chiaramente la preoccupazione di Kant, di ricavare dalla logica trascendentale un fondamento sicuro delle leggi generali della fisica, come leggi incontestabilmente valide sia pure entro i limiti dell'esperienza (e cioè non valide per una realtà che la trascenda). Già sappiamo che, diversamente da molti fra i più illustri -meccanici della sua epoca, Kant possiede una chiara consapevolezza della profonda differenza esistente fra scienze della natura e scienze matematiche pure (ammette infatti che le proposizioni fondamentali connesse all'uso dinamico della sintesi categoriale risultano sprovviste della ap0ditticità caratteristica di quelle connesse all'uso matematico di tale sintesi); lo scopo cui egli tende, nelle pagine in esame, è di dimostrare che, malgrado tale differenza, anche le prime posseggono un loro autentico rigore per cui meritano appieno l'attributo di scienze della natura. La diversità anzidetta non significa, d'altronde, contrapposizione, çhé -strettissimo rimane comunque - sempre secondo Kant - il legame tra i due tipi _di categorie (dinamiche e matematiche) se non altro per il comune fondamento che esse trovano nell'io penso. Proprio questo legame è ciò che gli perrnette di sostenere la necessità, per le stesse scienze fisiche, di utilizzare sistematicatnente la matematica: avvalendosi di questa larga utilizzazione, la fisica assumerà un aspetto matematico pur risultando irriducibile alla matematica pura; diverrà, in altri termini, una scienza autenticamente razionale, ovvero, per usare un'espressione coniata nell'Ottocento da Ampère, diverrà «fisica matematica». Dopo alcune pagine dedicate alla confutazione dell'« idealismo materiale», cioè di quella teoria che dichiara l'esistenza degli oggetti nello spazio, fuori di noi, o « semplicemente dubbia e indimostrabile » (Cartesio), oppure «falsa e impossibile » (Berkeley), l'analitica si conclude con ~n capitolo che affronta la distin45 5
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zione degli « oggetti in generale » in fenomeni e noumeni. Fenomeni sono, per Kant, tutti gli oggetti di un'esperienza possibile; noumeni, invece, gli« oggetti meramente pensati dall'intelletto » al di fuori di ogni intuizione empirica. L'importanza della distinzione risiede nel fatto, che Kant ritiene incontestabilmente provato - in base a tutte le complesse discussioni precedenti - che l'uso delle categorie « non ha alcuna possibilità di venire spinto » oltre i limiti del mondo fenomenico. VII · DIALETTICA TRASCENDENTALE
Prima di avviarci a delineare, sia pure per sommi capi, l'impianto della dialettica, occorre aggiungere qualche parola sull'importantissima distinzione fra fenomeno e noumeno accennata alla fine del paragrafo precedente. Già ricordammo che, secondo il nostro autore, è lo stesso studio della sensibilità a rivelarci la presenza di qualcosa che risulta irriducibile al soggetto: un materiale recettivo che rimanda ad una realtà diversa dal mondo fenomenico. Kant non si limita a constatare la presenza di siffatto materiale, ma aggiunge un'affermazione ancora più precisa e impegnativa: « Dal concetto stesso di fenomeno in genere, » egli scrive, « deriva che ad esso debba corrispondere qualche cosa che non è fenomeno. » In altre parole: nel mondo fenomenico le cose si presentano « non in sé », ma solo in quel modo che possono apparire, data la costituzione soggettiva; e pertanto, «se non vogliamo avvolgerci in un circolo senza fine», dobbiamo- secondo lui- ammettere che « la parola " fenomeno '' denota già un riferimento a qualche cosa che deve essere un oggetto indipendente dai nostri sensi ». Proprio questo qualcosa di assolutamente indipendente da noi è ciò che viene indicato con il termine noumeno; si tratta però di un concetto puramente negativo « che designa non una data conoscenza di qualche cosa, ma solo il pensiero di qualche cosa in genere, nel quale io faccio astrazione eia ._ogni forma dell'intuizione sensibile ». Anzi, più che un concetto, il noumeno è, a rigore, un problema, e per verità un problema assai indeterminato: « s,e vi possano essere oggetti del tutto indipendenti dalla nostra intuizione sensibile». La ragione della indeterminatezza di questo problema è facilmente spiegabile: da un lato, infatti, noi dobbiamo ammettere « che non estendendosi la nostra intuizione a tutte le cose senza eccezione, vi è posto per altri oggetti che non possono essere assolutamente negati »; dall'altro lato dobbiamo riconoscere che questi oggetti « in mancanza di un determinato concetto (poiché nessuna categoria vi è applicabile) non possono nemmeno essere affermati come oggetti per il nostro intelletto ». I metafisici dogmatici (Kant pensa in ispecie a W olfl) non si rendono conto di questa natura problematica del noumeno e pretendono di costruire una scienza di esso altrettanto rigorosa quanto la scienza del mondo fenomenico. Tale pretesa è intrinsecamente infondata, e ce lo conferma l'esito stesso delle ricerche
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perseguite per secoli e secoli dai filosofi; esse infatti non hanno mai dato luogo a nessun sistema durevole, a nessuna conoscenza, cioè, fornita di una solidità paragonabile a quella della matematica e della fisica. Nel denunciare questo fallimento, Kant si propone però qualcosa di più: si propone di indagare le origini stesse del bisogno metafisica, e di chiarire attraverso tale indagine il carattere necessariamente illusorio (cioè sofistico, « dialettico ») delle pretese dimostrazioni metafisiche. Questo appunto è il compito specifico della dialettica trascendentale. Già spiegammo il significato spettante, nella filosofia di Kant, ai termini « intuizione » e « intelletto »; ora dobbiamo chiarire che cosa significhi il termine « ragione » in senso stretto. Esso denota, secondo il nostro autore, una facoltà completamente diversa: «La ragione non si volge mai direttamente all'esperienza o a qualsiasi oggetto, ma invece all'intelletto, per fornire a priori, mediante concetti, un'unità al molteplice delle conoscenze di esso;· questa unità può venir detta unità razionale e risulta di genere del tutto diverso dall'unità che può essere prodotta dall'intelletto. » I concetti dei quali la ra,gione si vale al fine testé accennato sono da Kant chiamati idee; ciò che li caratterizza nei confronti dei concetti dell'intelletto, è che ad essi « non può venir dato alcun oggetto congruente nei sensi». Kant ritiene di poter ricavare le idee dall'esame della forma dei sillogismi, come nell'analitica aveva ricavato le categorie dall'esame della forma dei giudizi. Senza addentrarci in questa deduzione, basti aggiungere che egli pada di idee trascendentali quando considera i concetti della ragione non nel loro mero aspetto formale, ma nella funzione che essi compiono rispetto all'effettivo operare dell'intelletto, ossia nell'atto in cui determinano « in base ai principi, l'uso dell'intelletto nell'insieme globale dell'esperienza». i Le idee dovrebbero riflettere in sé le deteiminazioni ultime del noum~no, pensato come ciò che non è oggetto di alcuna! esperienza possibile ma che costituisce la condizione reale di ogni conoscenza fenomenica. Proprio questo sfuggire ad ogni esperienza possibile esclude però che il noumeno risulti in qualche modo soggetto a determinazioni di sorta; ed ecco allora la ragione tentar di risolvere il problema concependo il noumeno come «l'esperienza nella sua compiuta e perfetta totalità >>. « Il concetto trascendentale della ragione non è altro, quindi, che il concetto della totalità delle condizioni, per un certo condizionato », e come tale è « concetto dell'incondizionato ». « È solo l'incondizionato ciò che la ragione propriamente cerca nella sintesi delle condizioni ». Tutto l'esame della dialettica kantiana tende a dimostrare che l'esigenza di concetti siffatti è effettivamente una «necessità soggettiva» per la nostra mente, cui non corrisponde però una « necessità oggettiva », delle totalità che dovrebbero costituire l'oggetto delle idee. Di qui la conclusione, che è assolutamente impossibile trovare alcun contenuto da far corrispondere alle idee. Queste sono 457
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dunque null'altro che esigenze: necessarie sì, ma prive di contenuto. Considerarle come oggetti possib~li di scienza è un gravissimo errore; è la fonte di quel vano miraggio che sta alla base di tutta la metafisica. Secondo Kant le idee della ragione sono tre: psicologica, cosmologica, e teologica. Con la prima (idea dell'anima) noi cerchiamo una conoscenza compiuta e perfetta dell'esperienza interiore; con la seconda (idea del mondo) cerchiamo una conoscenza compiuta e perfetta dell'esperienza esteriore; con la terza (idea di dio) una conoscenza compiuta e perfetta di tutte le cose che esistono, fenomeniche o no. Le scienze, che l'illusione metafisica pretenderebbe fondare sulle tre idee ora riferite, sono: la psicologia razionale, la cosmologia razionale e la teologia razionale. Le pagine dedicate all'esame di queste pretese scienze sono fra le più vive e interessanti della Critica della ragion pura. Esse passano in rassegna tutti i principali argomenti delle grandi costruzioni metafisiche anteriori a Kant e li dissolvono ad uno ad uno con un acume e una finezza veramente mirabili. Gli argomenti sofistici sui quali si fonda la psicologia razi0nale sono chiamati « paralogismi ». Il ),pro errore consiste nel trasformare la funzione unificatrice dell'io penso in entità semplice e immortale: «La psicologia razionale trae origine da un semplice equivoco: quella unità della coscienza che sta a fondamento delle categorie, viene assunta come intuizione del soggetto preso come oggetto, per applicarvi poi la categoria di sostanza. » La psicologia come scienza non può, secondo il nostro autore, avere a proprio argomento questa presunta sostanza, ma solo i fenomeni della vita soggettiva. Essa ha dunque un carattere esclusivamente empirico e, come tutte le altre scienze, non può insegnarci nulla che trascenda l'esperienza; in particolare, essa non ci autorizza a trasformare la distinzione tra fenomeni corporei e fenomeni spirituali in distinzione tra due sostanze (come pretendeva Cartesio). Anche la cosmologia razionale risulta, secondo Kant, del tutto illusoria. Per porre in luce questa illusorietà, egli dimostra che tale presunta scienza finisce per urtarsi in una serie di quattro antinomie razionalmente insolubili. Ogni antinomia consiste di una tesi e di un'antitesi, tra loro contraddittorie, fornite entrambe di pari legittimità. Prima antinomia Tesi: il mondo ha avuto un inizio nel tempo e ha un limite nello spazio. Antitesi: il mondo è eterno ed infinito. Seconda antinomia Tesi: il mondo consta di atomi indivisibili. Antitesi: il mondo è divisibile all'infinito. Terza antinomia Tesi: esiste una causalità libera accanto alla causalità naturale.
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Antitesi: esiste soltanto la causalità naturale. Quarta antinomia Tesi: vi è qualcosa di assolutamente necessario che sta alla base degli esseri condizionati. Antitesi: non esiste nulla di assolutamente necessario ma ogni essere è condizionato. L'insolubilità dei problemi ora riferiti costituirebbe, secondo il nostro autore, la prova incontrovertibile del fallimento della razionalità umana quando pretenda affrontare questioni che esorbitano dal campo dell'esperienza. Malgrado l'apparente imparzialità di Kant di fronte alle due contrapposte soluzioni, pazientemente prospettate per ciascuno dei quattro problemi, sarebbe facile però dimostrare che in realtà egli propende ogni volta per l'antitesi (in cui trovano espressione le critiche degli empiristi), ed è invece tenacemente avverso alla tesi (che espone il punto di vista della metafisica dogmatica). Avremo modo di constatarlo-per la seconda questione-nel paragrafo IX, quando accenneremo alla concezione, da lui sostenuta in fisica, dell'infinita divisibilità dello spazio. Si rivela qui in modo incontestabile l'influenza che Kant subì dall'attenta lettura delle opere degli empiristi. Se non aderì apertamente a tale indirizzo, è solo perché scorse - e ben a ragione - anche al fondo di esso il grave pericolo di una postulazione dogmatica. « Se il filosofo empirista, con la sua antitesi, non mirasse ad altro che a moderare la curiosità impertinente e la boria di una ragione che, a dispetto della sua genuina destinazione, si ammanta di conoscenza e di scienza proprio nel campo dove l'una e l'altra vengono a cessare ... e tutto questo allo scopo di poter spezzare, allorché le faccia comodo, il filo della ricerca fisica e riattaccarlo, col pretesto di estendere la conoscenza, alle idee trascendentali che null'altro ci fanno conoscere fuorché il nostro non sapere ... il suo principio equivarrebbe a una massima di moderazione nelle pretese, d'autocontrollo nelle affermazioni e, nel contempo, a una massima della maggior estensione possibile del nostro intelletto, sotto la guida del maestro che ci è propriamente destinato, cioè dell'esperienza ... Ma se, come per lo più avviene, l'empirismo diventa esso stesso dogmatico rispetto alle idee e nega risolutamente quanto è al di fuori della sfera della sua conoscenza intuitiva, anche ad esso succede di cadere nel peccato dell'immodestia, tanto più riprovevole per l'irreparabile danno che ne deriva all'interesse pratico della ragione. » (Si vedrà più avanti il senso di questo accenno alla sfera della praticità.) La critica della teologia razionale è soprattutto costituita da una rigorosa analisi delle prove tradizionali dell'esistenza di dio. Queste sono, secondo Kant, essenzialmente tre: la prova antologica (di Cartesio, ecc.) che ritiene di poter dimostrare tale esistenza a partire dal concetto dell'essere supremo; la prova cosmologica, che muovendo dalla contingenza del mondo pretende di giungere a un essere assolutamente necessario; la prova fisico-teologica, che « vuol condurre 459
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dall'ordine e dalla finalità che si riscontrano universalmente nel mondo- come un assetto del tutto contingente- all'esistenza d'una causa che sia a ciò proporzionata». Alla prova antologica Kant obietta: l'esistenza di un oggetto non è un predicato insito nel concetto dell'oggetto medesimo, ma è affermabile soltanto per via sintetica: « Il nostro concetto di un oggetto può contenere quello che si vuole; ma noi dobbiamo sempre uscire da esso per affermarne l'esistenza.» È impossibile dunque derivare dall'essenza di dio la sua esistenza. Alcuni recenti studiosi di Kant hanno visto nell'inequivocabile rifiuto della prova antologica una implicita dimostrazione dell'accettazione, da parte del nostro autore, di un sostanziale realismo; tale rifiuto si basa infatti su di una netta distinzione tra sfera dell'essere e sfera del pensiero. Per quanto riguarda la prova cosmologica Kant osserva che essa rimanda inavvertitamente a quella antologica, in quanto identifica l'essere assolutamente necessario con l'essere assolutamente reale. Della prova fisico-teologica Kant dice che « merita sempre di essere ricordata con rispetto. È la più antica, la più chiara, la più adatta al senso comune ». Tuttavia non ha « certezza matematica», e riesce al massimo a postulare l'esistenza di un «artefice del mondo», non di un creatore, di un essere più perfetto di tutti gli esseri possibili. Il risultato ricavato da Kant a partire da queste argomentazioni è che la ragione umana resta incapace di concludere sul problema dell'esistenza di dio, non potendo né affermarla né confutarla. « Dunque, per l'uso semplicemente speculativo della ragione, l'essere supremo resta un semplice ideale, privo di ogni difetto, ossia un concetto che porta a conclusione e a coronamento l'intera conoscenza umana, e la cui realtà oggettiva non è certo suscettibile di dimostrazione, ma neppure di confutazione. » In breve: una vera e propria scienza teologica non è possibile, ma resta aperta la via ad una teologia morale che ci faccia pervenire a dio partendo da basi irriducibili alla sfera conoscitiva. Dimostrata l'assurdità di attribuire alle idee un contenuto oggettivo, Kant riconosce però la possibilità di usarle in un altro senso: come regole o massime atte a dirigere la mente umana verso la ricerca di un'unità sempre più comprensiva e più sistematica. Anche se è una semplice idea, l'unità è stata « in ogni tempo ardentemente cercata » dalla mente umana: ponendo a nudo le illusioni che vi si celano, la dialettica è in grado di guidare tale ricerca, di frenarla, di convogliarla sulla retta via, favorendo ogni serio tentativo di penetrare «negli estremi recessi della natura » ma nel contempo evitando che si presuma di varcare « i confini della natura, oltre i quali non esiste per noi che lo spazio vuoto ». Con le parole testé riferite, l'indagine kantiana sembra concludersi con un bilancio puramente negativo. Un esame accurato del problema dimostra però che i risultati ottenuti sono tutt'altro che trascurabili: l'abbattimento delle illusioni metafisiche ha infatti eliminato in modo definitivo tutte le concezioni superstiziose del trascendente é proprio questo costituisce la migliore introduzione
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all'ulteriore sviluppo della ricerca. La dialettica trascendentale con il suo bilancio negativo ha in realtà sgombrato la strada a quella fede morale che sarà la nuova metafisica di Kant. VIII
· LA DOTTRINA TRASCENDENTALE DEL METODO
La Dottrina trascendentale del metodo costituisce la seconda parte della Critica della ragion pura: parte meno ampia e meno originale della prima, ma pur essa ricca di interesse sia per il suo impianto generale sia per le osservazioni particolari. Kant vi trae le conseguenze metodologiche della Dottrina degli elementi e delinea alcune anticipazioni della Critica della ragion pratica, stabilendo in certo senso un anello di collegamento tra le due Critiche. La Dottrina trascendentale del metodo si articola in quattro capitoli. Il primo è dedicato alla disciplina della ragion pura, ove « per disciplina si intende la costrizione che frena e, infine, dissolve la persistente tendenza a deviare da certe regole ». Può sembrare strano, spiega Kant, « che la ragione richieda essa stessa una disciplina, quando il suo compito è quello di prescriverla a ogni altra attività »; il fatto è che una critica della ragione non è richiesta nell'uso empirico « visto che in questo caso i suoi principi sono sottoposti a continuo controllo con la pietra di paragone dell'esperienza» e nemmeno «per la matematica, in cui i concetti razionali debbono essere presentati in concreto nell'intuizione pura», mentre lo è « nell'uso trascendentale della ragione secondo meri concetti, in cui né l'intuizione empirica né l'intuizione pura mantengono la ragione su una carreggiata visibile » sicché essa ha bisogno « di una disciplina che freni la sua tendenza a oltrepassare i ristretti limiti dell'esperienza possibile, trattenendola dalla fantasticheria e dall'errore». Questo bisogno però non costituisce per la ragione nulla di umiliante perché essa è in grado di soddisfarvi con le proprie forze e con esse sole: «Essa trae sollievo e fiducia in se stessa dal fatto che questa disciplina può e deve essere esercitata dalla ragione stessa, senza dover riconoscere al di sopra di sé una ulteriore censura. » Il secondo capitolo è dedicato al canone della ragion pura, ove per canone si intende « l'insieme dei principi a priori dell'uso corretto di alcune facoltà conoscitive in generale ». Tale canone esiste effettivamente - secondo Kant - per l'intelletto puro, ed è costituito dall'analitica trascendentale; non esiste invece per la ragione pura nel suo uso speculativo, perché si è dimostrato nella dialettica che « ogni conoscenza sintetica della ragion pura nel suo uso speculativo è rigorosamente impossibile ». Si potrà invece trovare un canone della ragion pura, ma solo nel suo uso pratico ovvero in « ciò che è possibile mediante la libertà ». Le pagine dedicate a questo argomento, cioè alla dimostrazione che è possibile un canone della ragione nel suo uso pratico, sono appunto quelle che forniscono le anticipazioni delle grandi linee ispiratriei dell'etica kantiana.
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Il terzo capitolo è dedicato all'architettonica della ragion pura ossia all'« arte del sistema ». Scrive in proposito il nostro autore: «Essendo l'unità sistematica ciò che trasforma una conoscenza comune in scienza, ossia un aggregato in un sistema, l'architettonica è la dottrina di quanto nella nostra conoscenza in generale c'è di scientifico, e rientra dunque necessariamente nella dottrina del metodo. » L'importanza di questa tesi è evidente, anche dal punto di vista epistemologico; l'esame di essa offre a Kant l'occasione di chiarire con rara efficacia la differenza fra il proprio modo di intendere il sistema e quello del più autorevole indirizzo metafisica tedesco dell'epoca, cioè dell'indirizzo wolffiano. Il seguace di tale indirizzo si limita a ripetere i principi, le definizioni e lé dimostrazioni del sistema wolffiano, senza discuterlo. « Se gli contesterete una definizione, non saprà come sostituirla. Egli si è formato in base a una ragione estranea, ma la facoltà imitativa non è la facoltà produttiva: la sua conoscenza non gli viene dalla ragione, e quantunque, sotto l'aspetto oggettivo, si tratti d'una conoscenza razionale, sotto l'aspetto soggettivo si tratta d'una conoscenza semplicemente storica... Le conoscenze razionali, che siano oggettivamente tali, meritano questo nome anche soggettivamente solo se sono attinte alle sorgenti universali della ragione, cioè a principi dai quali può originarsi anche la critica, o addirittura il ripudio, di ciò che si è imparato. » Secondo Kant, una conoscenza oggettivamente e soggettivamente razionale è la matematica, che procede per costruzione di concetti. Essa« ci offre l'esempio più luminoso di una ragione pura che si estende felicemente da sé, senza l'aiuto dell'esperienza ». La causa del suo essere nel contempo oggettivamente e soggettivamente razionale risiede nel fatto « che le conoscenze razionali, a cui il maestro può attingere, stanno nei principi essenziali e più propri della ragione, sicché lo scolaro non può scoprirle altrove, né porle in contestazione; il che accade a sua volta perché qui l'uso della ragione è possibile in concreto, benché a priori, ossia nell'intuizione pura, e, proprio perciò, è esente da errori, e sono esclusi confusioni ed inganni ». Completamente diversa è la situazione della filosofia, che non può fare ricorso ad alcuna intuizione (le pagine dedicate da Kant all'analisi di questa differenza sono particolarmente sottili e rivelano in lui la preoccupazione di salvare la dignità di entrambe le discipline pur nella loro reciproca irriducibilità); proprio perciò il sapere filosofico, per quanto basato sulla ragione pura, non può articolarsi in un sistema chiuso, trasmissibile dal maestro allo scolaro. La filosofia consiste nella «valutazione di tutti i tentativi di filosofare», ciascuno dei quali sarà solo oggettivamente razionale, ma soggettivamente storico, in quanto chi lo studia, pur cogliendone la razionalità interna, non può far a meno - per valutario - di porne in contestazione i principi, cioè di considerarlo soltanto come un tentativo. « Si può soltanto imparare a filosofare, cioè a esercitare il talento della ragione mediante l'applicazione dei suoi principi universali ad alcuni ten-
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tativi dati, ma sempre con riserva del diritto della ragione di indagare su quei principi fino alle loro sorgenti, per confermarli o respingerli. » L'epistemologia moderna estenderà questa esigenza critica a tutta la scienza, ivi inclusa - diversamente da ciò che pensava Kant - la stessa matematica. Certo è, però, che prima del filosofo di Konigsberg nessuno aveva saputo esprimere con altrettanta chiarezza l'esigenza in questione, e nessuno aveva saputo scorgervi con altrettanta sicurezza l'essenza più profonda della razionalità. L'ultimo capitolo - la storia della ragion pura - contiene un brevissimo schizzo delle due più caratteristiche posizioni assunte dai filosofi sia in riferimento all'oggetto di ogni nostra conoscenza razionale (onde alcuni di essi sono stati sensisti e altri intellettualisti), sia in riferimento all'origine delle conoscenze pure della ragione (origine cercata dagli uni nell'esperienza, dagli altri nella stessa ragione), sia infine in riferimento al metodo (che Kant distingue in «naturalistico » e « scientifico », privo il primo di qualunque sistematicità, e invece essenzialmente sistematico il secondo). È inutile ripetere che per il nostro autore solo il secondo metodo (scientifico) è veramente in grado di soddisfare la nostra « brama di sapere », purché - tuttavia - non si articoli né in forma dogmatica (Wolfi) né in forma scettica (Hume), ma proprio in quella forma critica che abbiamo poco sopra illustrata. IX
· IL CRITICISMO E LA SCIENZA FISICA
Abbiamo più volte fatto cenno all'importanza attribuita da Kant al problema di giustificare la fisica, cioè di dimostrare - partendo dalle concezioni generali del criticismo - che essa è una vera e propria scienza, nel senso più rigoroso di questo termine, pur risultando inequivocabilmente distinta dalla matematica pura. Data l'importanza dell'argomento (che era senza dubbio di estrema attualità nel Settecento, come sappiamo dai capitoli VII e VIII della presente sezione) ci sembra opportuno ritornare ora su di esso con qualche maggiore dettaglio, facendo soprattutto riferimento alla breve ma interessantissima opera Primi principi metaftsici della scienza della natura del 1786. Dopo aver delimitato il concetto di natura (per natura, nel significato materiale del termine, Kant intende «la totalità di tutti i fenomeni, cioè il mondo dei sensi, con esclusione di tutti gli oggetti non sensibili»), e dopo aver precisato che egli vuole qui occuparsi esclusivamente della natura dei corpi (non dell'anima), il nostro autore dichiara in modo esplicito che l'oggetto della propria indagine non è costituito dai principi di tutte le teorie della natura, ma solo da quelli delle teorie razionali (sistematiche) di essa. Già sappiamo dal paragrafo precedente che, secondo Kant, la sistematicità è ciò che trasforma le conoscenze comuni in scienza; e sappiamo inoltre che, a suo parere, l'unico sistema. oggettivamente e soggettivamente razionale è la matematica (il che implica che la fisica,
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in quanto distinta dalla matematica, non sarà un sistema oggettivamente e soggettivamente razionale nel senso testé menzionato). Come dovrà dunque articolarsi una conoscenza della natura veramente degna del titolo di scienza? Quali dovranno essere i suoi principi? Kant è fermamente convinto che « una teoria della natura merita il nome di scienza solo quando le leggi della natura, che le stanno a fondamento, sono conosciute a priori e non sono solamente leggi dell'esperienza»; la possibilità di conoscenze siffatte è garantita, entro la sua concezione filosofica, dai risultati dell'analitica trascendentale esposti nel paragrafo VI: in altri termini, è il fondamento categoriale di ogni processo intellettivo ciò che rende possibile, secondo il nostro autore, la conoscenza a priori di leggi universalmente valide per il mondo dell'esperienza. Egli ritiene poi che una teoria scientifica della natura dovrà essere una conoscenza di oggetti determinati, perché tali sono gli oggetti naturali. Se teniamo conto che la conoscenza a priori di un oggetto determinato richiede in ogni caso che esso venga costruito, cioè che ne « venga data a priori l'intuizione corrispondente », e se teniamo inoltre conto che « la conoscenza razionale per mezzo della costruzione dei concetti » è conoscenza matematica, se ne ricava che « la dottrina della natura conterrà tanta scienza propriamente detta quanta è la matematica che in essa può venire applicata. » Possiamo concluderne che una teoria veramente scientifica della natura dovrà, secondo Kant, risultare fondata sulla sintesi categoriale e nel contempo avvalersi in modo essenziale della matematica, senza però identificarsi con essa. Tale era, a suo parere, la struttura della meccanica razionale, che veniva così a qualificarsi come scienza fisica per eccellenza. È interessante notare che, in base alla caratterizzazione ora accennata della scienza della natura, il nostro autore si trova costretto a negare la scientificità sia della chimica sia ancor pi>~ della psicologia intesa come « dottrina empirica dell'anima». «La chimica, » egli scrive, «non potrà diventare nulla più che arte sistematica o dottrina sperimentale, ma mai una scienza nel senso proprio della parola, poiché i suoi principi sono soltanto empirici, e non permettono nessuna rappresentazione a priori nell'intuizione, e di conseguenza non rendono minimamente comprensibili i fondamenti dei fenomeni chimici secondo la loro possibilità, perché incapaci dell'applicazione della matematica.» Quanto alla psicologia, i motivi in base ai quali Kant esclude la sua scientificità sono due: 1) « in primo luogo perché la matematica non è applicabile ai fenomeni del senso interno e alle loro leggi » ; 2) perché la psicologia non può neppure essere una dottrina sperimentale dato che un altro soggetto pensante non « si lascia sottomettere da noi alle nostre ricerche intenzionalmente accomodate e perfino l'osservazione del soggetto entro se stesso altera già e perturba la condizione dell'oggetto osservato». Ciò premesso, l'analisi dei principi della scienza della natura propriamente detta si riduce, per Kant, all'analisi dei principi della meccanica: analisi che si
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Kant
spinga però fino alla scoperta del loro fondamento filosofico, e non si limiti - come vorrebbero alcuni fisici - ad accogliere quei principi come semplici postulati « senza indagare sulle loro origini a priori » (la mera postulazione di essi servirebbe solo a mascherare i problemi, non a risolverli).l Per giungere al fine voluto, Kant ritiene necessario premettere alla fisica una vera e propria «metafisica della natura corporea», cioè« un'analisi completa del concetto di una materia in generale » rivolta a determinare tale concetto nonché quello di moto cui il nostro autore ritiene che il concetto di materia sia inscindibilmente connesso - alla luce delle quattro ben note classi di categorie: quantità, qualità, relazione, modalità. Di qui la ripartizione dell'opera in quattro capitoli: «Il primo dei quali considera il movimento come quantum puro, secondo la sua composizione, senza tenere conto di alcuna qualità del mobile, e può essere chiamato foronomia; il secondo prende in considerazione il movimento come appartenente alla qualità della materia, sotto il nome di una forza motrice originaria, e perciò si chiama dinamica; il terzo considera la materia, con questa qualità, in relazione reciproca in conseguenza del movimento ad essa proprio, e compare sotto il nome di meccanica; il quarto infine ne determina il movimento o la quiete solo in relazione del genere di rappresentazione, o modalità, perciò come fenomeno dei sensi esterni, e viene chiamato fenomenologia. » Prima di riferire schematicanÌente le successive determinazioni del concetto di materia, operate da Kant nei quattro capitoli testé menzionati, occorre ancora aggiungere qualche parola sulla funzione che egli attribuisce a questa determinazione: mentre la filosofia si limita a ricavare il concetto generale di materia (come qualcosa di esistente) dall'analisi degli atti trascendentali dell'io penso; mentre la matematica si limita a costruire oggetti determinati, studiandone l'essenza a prescindere dalla loro esistenza; la meccanica razionale - o, se vogliamo usare un termine più moderno, la « fisica matematica » - si propone di determinare proprio le effettive esistenze, « e così di fornirci una conoscenza della cosa naturale determinata ... [Essa] costituisce dunque l'oggetto reale a partire da due "possibilità", quella delle essenze o intuizione e quella dell'esistenza o concetto » (Vuillemin). Nella foronomia la materia viene determinata semplicemente come « ciò che si muove nello spazio », ove per movimento di una cosa si intende « il cambiamento dei rapporti di questa cosa rispetto a uno spazio dato ». Nella dinamica la materia viene definita come « ciò che si muove in quanto esso riempie uno spazio. Riempire uno spazio significa resistere a ogni mobile che tende per il suo movimento a penetrare in un certo spazio. Uno spazio che non è riempito è uno spazio vuoto ». Questa nuova definizione di materia suppone I Va sottolineata l'importanza di questa tesi che afferma energicamente la necessità di stretti rapporti fra scienza e filosofia. Essa contiene una chiara denuncia del dogmatismo di quegli scien-
ziati che «protestano solennemente contro ogni pretesa della metafisica sulla loro scienza », ma poi contrabbandano di fatto come scienza una cattiva metafisica.
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- come spiega Kant - « la definizione che ne dà la foronomia, ma vi aggiunge una proprietà che si riferisce come causa ad un effetto, cioè il potere di resistere a un movimento nei limiti di uno spazio determinato; di ciò non occorreva affatto parlare nella scienza precedente, avendosi ivi a che fare con movimenti di un solo e medesimo punto in direzioni opposte ». Nella meccanica la materia è definita come « ciò che si muove, in quanto esso, come tale, ha una forza motrice ». « Il concetto puramente dinamico poteva considerare la materia anche come in quiete; la forza motrice, che là veniva presa in considerazione, riguardava soltanto il riempimento di un certo spazio, senza che la materia che lo riempiva avesse bisogno di venire riguardata essa stessa come mossa. » Qui invece « viene considerata la forza di una materia già posta in movimento, forza volta a comunicare questo movimento ad un'altra materia». Appare chiaro il nesso fra questa terza determinazione del concetto di materia e ciò che, nell'analitica trascendentale, Kant chiamava «uso dinamico della sintesi categoriale »; considerare la materia ~ome « già posta in movimento » significa infatti introdurre nel concetto in esame qualcosa che non è « assolutamente necessario »per ogni esperienza possibile, ma che è specifico per la nostra esperienza, in cui la materia si presenta effettivamente in moto, e per l'appunto «in virtù del suo movimento possiede una forza motrice ». È il movimento proprio di un oggetto materiale ciò che lo mette in relazione con il sistema degli altri oggetti (con i quali per esempio esso potrà entrare in urto) e quindi lo pone come incontestabilmente esistente. Mentre nella foronomia il movimento ci appariva come qualcosa di relativo (l'assioma fondamentale di tale disciplina diceva: « ogni movimento, come oggetto di una esperienza possibile, può essere considerato ad arbitrio come movimento del corpo in uno spazio in quiete, o come quiete del corpo e, al contrario, movimento dello spazio nella direzione opposta, con velocità eguale»), qui esso assume un aspetto molto più reale (ben inteso, di una realtà empirica). Scrive in proposito J. Vuillemin: «La scelta del sistema di riferimento è arbitraria nell'intuizione. Al contrario, nell'esperienza essa diventa obbiettiva: l'urto dei corpi mi costringe ad attribuire loro tale e tal altra quantità di moto, indipendentemente dalle apparenze foronomiche. » È nel quadro della materia così intesa che Kant « dimostra », o per lo meno crede di poter dimostrare a partire dai principi generali dell'analitica (si ricordino le così dette «analogie» riferite nel paragrafo v1), le tre leggi fondamentali della meccanica dei corpi: 1) in tutti i cambiamenti della natura corporea, la quantità della materia rimane nella somma totale la medesima, né aumentata, né diminuita; 2) ogni cambiamento della materia ha una causa esterna (ogni corpo persiste nel suo stato di quiete o di moto, nella stessa direzione e con la stessa velocità, se non viene costretto da una causa esterna ad abbandonare questo stato); 3) in ogni comunicazione di movimento l'azione e la reazione sono sempre uguali l'una all'altra.
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Infine nella fenomenologia la materia viene definita come « ciò che si muove, in quanto esso può essere, come tale, un oggetto dell'esperienza». Da questo punto di vista Kant compie una netta distinzione fra movimento rettilineo e movimento circolare: « il movimento rettilineo di una materia rispetto ad uno spazio empirico, in opposizione al movimento in senso contrario dello spazio, è un predicato semplicemente possibile »; ed invece « Il movimento circolare di una materia è, a differenza del movimento inverso dello spazio, un predicato reale». Nel primo tipo di movimento i due casi (moto del corpo o moto dello spazio) si escludono soggettivamente ma non oggettivamente; nel secondo invece, è l'esperienza stessa- secondo Kant- a escludere il moto oggettivo dello spazio rendendo reale quello del corpo : « Il movimento in senso opposto di uno spazio relativo, sostituito al movimento (circolare) del corpo, non è affatto un movimento vero dell'esperienza, ma se lo si considera come tale ciò costituisce una pura apparenza. » Il carattere della necessità è riservato a un terzo caso: « Ogni movimento di un corpo, mediante il quale questo corpo esercita un'azione motrice su di un altro, è necessariamente accompagnato da un movimento uguale e contrario del secondo corpo. » Si tratta, ben inteso, di una necessità fisica, rela_tiva all'esperienza possibile, che nulla ha a che vedere con la necessità assoluta delle vecchie metafisiche. Il complesso di argomentazioni fin qui riferite può ovviamente apparire assai artificioso, ma costituisce senza dubbio una validissima testimonianza dell'impegno con il quale Kant ha affrontato il problema cui si è fatto cenno all'inizio del paragrafo. La serietà del suo impegno è inoltre dimostrata dal fatto che egli intendeva la propria indagine come rivolta, non solo a scoprire il fondamento filosofico della scienza della natura, ma anche a correggere alcuni grossi equivoci solitamente nascosti nelle concezioni fisiche dell'epoca. Ancor oggi interessantissime sono, per esempio, le sue critiche ai concetti di « forza d'inerzia », di « impenetrabilità assoluta » (e quindi di atomo), di« assoluta indistruttibilità », ecc. Riaffiora chiaramente nelle pagine kantiane la vecchia concezione dello spazio fisico come spazio continuo, senza interstizi vuoti, illimitatamente divisibile: secondo Kant, esso risulterebbe ovunque riempito di una materia (l'etere) avente una densità incomparabilmente minore di quella dei corpi « che noi possiamo sottomettere alle nostre esperienze »; vi sarebbero operanti, in modo diverso da luogo a luogo, due forze: una attrattiva (di tipo newtoniano) e l'altra repulsiva. «Nell'etere, bisogna rappresentarsi la forza repulsiva come infinitamente più grande, in rapporto alla forza attrattiva, che in tutte le altre materie a noi note. Questa è anche la sola cosa che noi ammettiamo, unicamente perché essa è intelligibile; e noi l'ammettiamo in opposizione ad un'ipotesi (quella del vuoto), la quale si appoggia su questa sola affermazione, che le cose non sarebbero intelligibili senza spazi vuoti. »l x È questo il nucleo centrale della teoria « dinamista » della materia, che Kant contrappone
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Kant
Una particolare menzione va fatta della critica kantiana alla nozione di spazio assoluto, critica che coglie acutamente i più caratteristici punti deboli di questa nozione tanto importante nella meccanica di Newton, denunciando con chiarezza l'assurdità di volere fare dello spazio assoluto - riconosciuto come «non materiale » cioè come « non oggetto di alcuna esperienza » - una condizione indispensabile «per rendere possibile l'esperienza, la quale però deve sempre in ogni caso esser posta senza di esso ». Di speciale interesse, sotto questo rispetto, è la tesi, poco sopra riferita, della realtà del moto circolare (si pensi al moto della terra) contrapposta alla« pura apparenza» del movimento in senso opposto dello spazio relativo che lo circonda (si pensi al moto dei cieli). Come giustamente sottolinea Vuillemin, nella prospettiva kantiana «l'opposizione del moto reale al moto apparente, resa necessaria dalla scoperta del movimento circolare, non si confonde in alcun modo con quella del moto assoluto al moto relativo ». Solo Mach riuscirà a compiere, nell'Ottocento, un'analisi ancora più esauriente degli equivoci che si nascondono nei principi della meccanica newtoniana. Nell'Opus postumum la critica alla fisica settecentesca subirà un nuovo approfondimento; Kant non si limiterà più a respingere la nozione di spazio assoluto, di impenetrabilità assoluta, di assoluta indistruttibilità e così via, ma affronterà criticamente, sia pure in forma oscura, il concetto stesso di oggetto fisico. La conclusione, cui perverrà, è che tale oggetto non costituisce qualcosa di dato, ma qualcosa che il soggetto può afferrare solo attraverso la progettazione di movimenti capaci di rivelarglielo « solo in quanto è cosciente delle proprie forze motrici, cioè di agire». Alcuni recenti studiosi hanno creduto di poter qui scorgere un primo nucleo della moderna epistemologia operativistica. « L'operativismo, » scrive Vittorio Mathieu, «ha ritenuto di poter giungere a un risultato analogo per una via " empiristica '' : la via di Kant è stata, al contrario, " razionalistica ". » Eppure, malgrado questa diversità, un confronto tra le due vie ci mostrerebbe - sempre secondo Mathieu - « che la via di Kant non è né tanto strana (quando si sia giunti a dare ai concetti dell'Opus postumum il loro giusto significato) né tanto oscura; e neppure, poi, tanto diversa da quella che l' operativismo batte, anche quando ritiene di partire da premesse opposte ». Senza pronunciarci sull'autentica portata di questa analogia fra Kant e gli operativisti, dobbiamo comunque prendere atto che gli ultimi scritti del nostro autore non furono conosciuti dai suoi contemporanei, sicché non poterono recare alla scienza dell'epoca i fecondi stimoli di cui, forse, erano oggettivamente capaci.
con vigore a quella atomistica, basata secondo lui sulle « qualità occulte » di « pieno assoluto » e di « vuoto assoluto ». Alla concezione kantiana si ri-
chiamerà negli ultimi anni del secolo il « dinamismo fisico » di Schelling, come verrà chiarito nel capitolo x della sezione vr.
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X
· ETICA E PEDAGOGIA
Come abbiamo più volte accennato, la Critica della ragion pura è stata scritta sotto l'evidente influenza di Hume; in modo analogo potremo ora riscontrare, nella Critica della ragion pratica, una viva influenza del pensiero di Rousseau. Abbandonata assai presto la posizione dogmatica di Wolff, secondo cui la vita morale risulterebbe fondata su inequivocabili e astratti principi della ragione, Kant fu attratto per un certo tempo dalle posizioni dei sentimentalisti inglesi. Neanche questo indirizzo, però, riuscì ad accontentarlo appieno, sia per l'insufficienza del metodo di indagine praticato dagli inglesi, che si riduceva per lo più ad una mera analisi psicologica, sia per il loro atteggiamento sostanzialmente aristocratico, sia infine per l'eccessivo ottimismo che li rendeva spesso ciechi di fronte ad uno dei più importanti caratteri dell'atto morale, l'obbligatorietà. La lettura di Rousseau ebbe, per il nostro autore, il valore di un'autentica rivelazione, confermandolo per un lato nella convinzione che la ragione pratica è qualcosa di irriducibile alla ragione teoretica, e convincendolo per un altro lato dell'eguaglianza morale che va riconosciuta a tutti gli uomini. Se è vero che anche il ginevrino fondava la morale sul sentimento, questo però assumeva in lui un significato nuovo e seriamente impegnativo: era il sentimento della indiscutibile dignità umana, insita nella natura di ogni individuo, indipendentemente dalla raffinatezza della sua cultura e dal grado delle sue conoscenze scientifiche. « Io sono, » scrive Kant, « uno studioso e sento tutta la sete di conoscere che può sentire un uomo. Vi fu un tempo nel quale io credetti che questo costituisse tutto il valore dell'umanità; allora io sprezzavo il popolo che è ignorante. È Rousseau che mi ha disingannato. Quella superiorità illusoria è svanita; ho imparato che la scienza per sé è inutile, se non serve a mettere in valore l'umanità. » I due caratteri ora illustrati- dell'indipendenza dell'atto morale dalla scienza e della sua irriducibilità a sentimento- resteranno fondamentali in tutta l'etica di Kant, come resterà costante la sua tendenza a identificare la moralità con l'assoluto rispetto della dignità umana. Il sentimento, anche elevato, non potrà mai identificarsi, secondo Kant, con la moralità. Esso infatti nasconderà sempre in sé qualcosa di debole, di impulsivo, di incostante:« Una certa dolcezza d'animo, che passa facilmente in un caldo senso di pietà, è cosa bella ed amabile, perché rivela una benevola partecipazione alle vicende altrui ... ma questo sentimento bonario è debole e cieco. » La moralità invece non può essere né debole né cieca; essa si fonda sopra qualcosa di assolutamente fermo: il dovere. La Critica della ragion pratica prende per l'appunto le mosse della consapevolezza, insita secondo Kant in ogni uomo, della morale come dovere. Questa consapevolezza originaria ed universale del dovere - che egli chiama « fatto di ragione» - non rientra negli schemi della causalità deterministica studiata dalla
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Critica della ragion pura: «Il dovere, quando si ha dinanzi il semplice corso della natura, non ha alcun senso. Noi non possiamo chiedere che cosa deve avvenire, come non possiamo chiedere quali proprietà deve avere il circolo: ma solo che cosa avviene e quali proprietà il circolo ha. » Il dovere infatti implica una volontà libera e capace di scegliere, irriducibile alle rigide leggi dei fenomeni naturali. Per Kant il dovere morale ha significato solo in quanto assoluto e necessario: come imperativo categorico. Quando si pronuncia un comando in vista di un determinato fine, questo comando non può essere che un imperativo ipotetico; per esempio: se vuoi raggiungere tale località, devi percorrere quella strada. Il comando morale, che ogni uomo trova in sé, possiede invece un carattere totalmente diverso: la sua imperatività non è condizionata da nulla, essa vale per tutti gli uomini e in tutte le condizioni; esprime una volontà « pura » cioè non limitata empiricamente. Per questo il comando morale prende il nome di imperativo categorico. La sua categoricità è per Kant il punto centrale della moralità. Essa implica due conseguenze molto importanti: I) l'imperativo morale non sarà formulabile mediante massime particolari, rivolte a prescrivere quèsta o quell'azione determinata (sempre connessa a situazioni storiche diverse da individuo a individuo); z) l'imperativo morale non potrà provenire da alcuna autorità esterna all'uomo, perché in tal caso esso varrebbe soltanto per gli individui disposti ad accettare questa autorità e perderebbe quindi il suo carattere universale. La prima delle conseguenze testé riferite conduce Kant a prendere posizione contro tutte le morali contenutistiche ed a cercare di esprimere l'imperativo categorico con una legge esclusivamente formale, una legge cioè che prescriva come la volontà debba atteggiarsi, non quali singoli atti debba compiere. Ecco i tre enunciati kantiani della legge morale: I) « Agisci in modo che tu possa volere che la massima delle tue azioni divenga universale » e cioè, quando ti trovi a compiere una determinata azione, scegli per tua guida quella massima che possa venire da te trasformata in legge universale (non potrai quindi, ad esempio, ammettere come massima morale il suicidio, perché esso non è universalizzabile). z) «Agisci in modo da trattare l'uomo, così in te come negli altri, sempre anche come fine non mai solo come mezzo » e cioè, ricordati che l'uomo come razionalità vivente, è il vero fine di ogni atto buono (in questo enunciato è evidente l'influenza di Rousseau). 3) «Agisci in modo che la tua volontà possa istituire una legislazione universale» e cioè fa' sì che la tua attività sia fonte di un regno della moralità (il «regno dei fini») al di sopra del regno della natura. Il carattere universale della volontà morale dimostra, secondo Kant, che essa è essenzialmente razionalità. In quanto tale, il nostro autore le attribuisce, nel campo pratico, una funzione analoga a quella attribuita alla razionalità nel campo 470
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teorico. «Abbiamo qui, » spiega bene Piero Martinetti, «un non troppo felice parallelismo con la ragione teoretica che tuttavia è facile comprendere. Le azioni impulsive possono essere assimilate ai giudizi sintetici a posteriori: la mia volontà è congiunta con il suo oggetto in questo caso da un rapporto psicologico dato dalla natura stessa della mia sensibilità: l'impulso cieco è ciò che li collega. Le azioni invece dettate dalla ragione, ma per fini egoistici (gli imperativi ipotetici) sono analoghe ai giudizi analitici; sta dinanzi alla mente una regola: se tu vuoi diventar ricco, devi agire in un determinato modo: la mia volontà afferma (o nega) la premessa: come conclusione è dato analiticamente il suo atteggiamento. Invece, nell'atto morale la mia volontà è congiunta con il suo oggetto da una necessità trascendente, che è bensì la rivelazione d'una unità, ma che a me si impone solo con un vincolo assoluto, la cui ragione non sta né in un impulso né in una regola concreta, bensì in una forma, in una unità a priori: perciò Kant l'assimila ad una sintesi a priori» (il corsivo è nostro). Anche la seconda conseguenza poco fa riferita della categoricità dell'imperativo morale - ossia il riconoscimento che tale imperativo, essendo categorico, non può dipendere da nulla di esterno all'uomo - possiede nella concezione di Kant la più grande importanza. Essa esprime la piena e totale autonomia della morale, e questa autonomia rivela la presenza in ciascuno di noi di un qualcosa di assoluto, intimamente legato al nostro essere. In altri termini: l'uomo, essendo sottoposto alla legge morale autonoma, non può costituire un essere meramente empirico; egli deve risultare qualcosa di più, ossia un essere intrinsecamente libero. L'uomo che decide, in obbedienza alla legge morale, di compiere una determinata azione, sa molto bene che - per quanto il suo comportamento possa venir spiegato naturalisticamente per mezzo di cause psicologiche - la vera sostanza del suo decidere non risiede in questa concatenazione causale, ma in una spontaneità che si esprime nell'atto stesso di assumere tale decisione. Con ciò egli rivela la propria duplice natura, e cioè si rivela come un essere che appartiene a due mondi: a quello sensibile e a quello intelligibile; in quanto appartenente al primo è sottoposto alla concatenazione causale, in quanto appartenente al secondo è essenzialmente libero. Questa sua libertà si manifesta proprio nell'obbedienza alla legge morale in quanto imperativo categorico. È evidente che con queste affermazioni Kant riapre alla metafisica, in sede pratica, quella porta che le aveva sbarrato in sede teoretica. Sarà una metafisica nuova, esclusivamente morale, tanto più salda però di quella teoretica, in quanto estranea - per la sua stessa struttura - a tutte le tradizionali polemiche sorte intorno alla metafisica dogmatica. Siamo ora in grado di spiegare il concetto di « sommo bene » e i « postulati della ragion pratica » che ne derivano. L'espressione « sommo bene» può avere, secondo Kant, due sensi diversi: quello di bene più alto e quello di bene più ,completo. Il primo consiste, senza 471
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dubbio alcuno, nella legge morale. Il secondo invece deve comprendere qualcosa di più, e cioè: la virtù come condizione prima e la felicità come conseguenza necessaria. Le condizioni per realizzarlo sono pertanto due: I) la continuazione all'infinito dell'esistenza umana, cioè l'immortalità dell'individuo, affinché egli possa progressivamente avvicinarsi alla santità; 2) la perfetta proporzionalità tra virtù e felicità, e cioè l'esistenza di un essere divino capace di attuare questa proporzionalità. L'esigenza del sommo bene ora accennato e l'esperienza della libertà di cui parlammo poc'anzi conducono l'uomo a formulare alcune affermazioni che Kant chiama« postulati della ragione pratica». In analogia alle idee della ragione pura, anche i postulati sono tre, e precisamente: il postulato dell'immortalità dell'anima, quello della libertà, e quello dell'esistenza di dio. Diversamente dalle idee, i postulati della ragion pratica non sono illusori, ma anzi costituiscono, secondo Kant, un solido punto di arrivo della filosofia. Si tratta infatti di determinazioni della realtà che, se risultano incerte dal punto di vista obiettivo, hanno però un valore certissimo dal punto di vista soggettivo. In altri termini: considerati come affermazioni teoretiche, ci forniscono soltanto raffigurazioni improprie, simboliche della realtà e non sono in alcun modo dimostrabili; considerati invece come atti di fede, hanno un grande valore pratico, esprimendo dei corollari della legge morale, al cui valore assoluto anch'essi partecipano. La base dei postulati della ragion pratica non è un so, ma un voglio : «io voglio che vi sia Dio, voglio che la mia esistenza in questo mondo sia anche un'esistenza nel mondo intelligibile, voglio che la mia durata sia senza fine.» Esprimono pertanto un conoscere meramente analogico né potranno mai convertirsi in un vero e proprio sapere: ma nemmeno potranno venire posti in crisi da alcun risultato, quale che esso sia, della ricerca scientifica. Per tutto ciò, essi ci offriranno sempre una guida sicura per la condotta pratica. Né è da credere che, se l'immortalità dell'anima e l'esistenza di dio fossero verità assolutamente certe dal punto di vista oggettivo, anziché esserlo soltanto dal punto di vista soggettivo, esse potrebbero offrirei una guida più sicura per la nostra condotta morale. Al contrario, esse finirebbero in tal caso di rendere, non maggiormente solida, ma impossibile ogni moralità. « Se noi avessimo, » è di nuovo Martinetti che scrive, «dinanzi a noi Dio e l'eternità in tutta la loro terribile maestà, noi non avremmo più alcun merito di operare bene: tutti gli uomini opererebbero bene, ma per paura·e per speranza, non per senso del dovere. Il mondo sarebbe trasformato quindi esteriormente in un regno della moralità, ma la moralità sarebbe scomparsa ... Quello che costituisce il merito della nostra vita morale è che noi operiamo per riverenza ad una legge che sentiamo in noi e della quale riconosciamo il valore, senza che essa abbia il suo appoggio in alcuna conoscenza della natura delle cose. » A questo punto è agevole comprendere che le due tesi del carattere formale 472
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dell'etica e della completa autonomia del volere morale dovranno pure costituire la base ultima della pedagogia di Kant (che peraltro attinge notevoli spunti anche da alcuni importanti temi della sua filosofia teoretica, quali per esempio la concezione non sostanzialistica dell'io, il netto distacco tra scienza e religione, ecc.). Ed infatti proprio da tali tesi il nostro autore ricava la linea direttrice di tutte le sue riflessioni pedagogiche: l'educazione deve tendere a formare uomini atti non solo a pensare, ma anche ad agire in termini universali; capaci di superare l'egoismo della individualità empirica per innalzarsi a volere ciò che, secondo ragione, dovrebbe essere voluto da tutti; uomini che non avviliranno il prossimo allivello della strumentalità, ma vedranno nei loro simili un fine assoluto e sacro che ogni azione deve tendere a realizzare. Mentre nei bruti il destino della specie si attua completamente in ogni individuo e ogni individuo è già, in virtù dell'istinto, tutto quello che può essere, l'uomo è spinto, secondo Kant, ad oltrepassare la natura animale producendo da sé gli strumenti necessari per l'attuarsi di un reale progresso. Certamente il progresso implica e provoca continui, rinnovati squilibri tra bisogni e mezzi; fatiche, dolori, inquietudini, antagonismi fra individui e fra classi; ma questa è la condizione indispensabile per giungere alla produzione di esseri pienamente ragionevoli e autonomi. Così il raggiungimento della piena ragionevolezza e autonomia si delinea come il fine, perennemente aperto, proposto sia alla vita del singolo, sia alle generazioni via via susseguentisi nella storia; in tal modo la pedagogia può, per la prima volta, svincolarsi dal compito attribuitole nel corso dei millenni di realizzare un modello definitivo di uomo. D'altro canto, proprio il fatto che lo sviluppo della ragione non abbia limiti e che il processo di perfezionamento della specie umana sia infinito, libera l'individuo dall'angoscia di dover lavorare alla costruzione di un paradiso dei cui beni non a lui, ma solo alle più tarde gent:razioni sarà concesso di godere. L'eternità del processo storico attribuisce un valore assoluto all'impegno, anche infruttuoso, del singolo, che si trova chiuso entro invalicabili limiti spazio-temporali. Senza entrare in dettagli circa i metodi che il nostro autore propone per attuare il fine testé delineato dell'educazione, basti aggiungere che egli è di principio contrario alla pedagogia puramente negativa proposta da Rousseau. Come già sappiamo, l'uomo non può - secondo Kant - accontentarsi dell'istinto per tracciare il piano della propria condotta: a tal fine egli ha bisogno della ragione e, poiché nei primi anni della sua vita la ragione è insufficientemente sviluppata, risulta necessario l'intervento altrui. Così l'uomo non può realizzare pienamente l'umanità che mediante l'educazione: egli è quale es~~T6 fa. A sua volta la stessa attività educativa non risulta qualcosa di spontaneo, che possa venire affidata al semplice istinto. Kant afferma risolutamente, in proposito, che « ogni educazione è un'arte » e pone l'arte dell'educazione sullo stesso piano dell'arte politica dichiarando essere queste due le più difficili tra tutte le 473
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arti. Com'è chiaro, egli usa qui la parola arte nel significato originario, greco, di « téchne », lavoro che richiede cognizione e perizia tecnica, insomma, e non libera creazione attuantesi in base ad una inconsapevole ispirazione. La difficoltà dell'educazione deriva dal fatto che essa progredisce col progredire delle cognizioni e della perizia, le quali, dal canto loro, dipendono dall'educazione stessa. Se un essere superiore, sommamente sapiente e potente, si prendesse cura del genere umano, noi potremmo sperimentare il grado massimo di perfezionamento del quale l'uomo è suscettibile per effetto dell'educazione. Ma, in realtà, l'educazione è opera di uomini a loro volta imperfettamente educati ed evoluti; così il progresso è sempre parziale e non ci è dato di sapere fin dove arrivino le facoltà umane. Una generazione educa l'altra e l'uomo si innalza lentamente e faticosamente dallo stato selvaggio a quello civile. Kant rivela qui la sua profonda fede illuministica nel progresso umano per opera della ragione e della cultura, affermando che oggi finalmente, dopo tanto brancolare, si comincia a vedere chiaro in che consista una buona educazione, e affermando inoltre che la constatazione del rapido e reciproco incremento dell'educazione e del progresso ci autorizza, senza tema di essere tacciati di utopismo, a prospettarci una futura felicità per la specie umana. È certo comunque che gli sforzi isolati di singoli maestri a ben poco possono approdare. «Per raggiungere il fine, è necessario il concorso dell'opera individuale e di quella di tutta l'umanità. » A questo proposito, Kant auspica che si giunga a tentare veri e propri esperimenti, con la collaborazione di molti esperti e dei potenti. Solo così si potrà passare da un'azione educativa frammentaria e casuale, subordinata alle circostanze e conseguentemente piena di errori e di lacrime, ad un'azione razionale e pianificata, veramente idonea a sviluppare le più alte doti dell'animo umano. XI
· LA CRITICA DEL GIUDIZIO
Nella terminologia della terza Critica, la parola giudizio indica una facoltà diversa da quella indicata con il medesimo nome dalla prima Critica. Sappiamo che Kant identifica il « pensare » con il « giudicare »; egli distingue tuttavia due tipi di giudizio: il primo- giudizio determinante- è proprio dell'attività conoscitiva (studiata nella Critica della ragion pura), dove esercita la funzione di sottoporre il molteplice, offerto dall'intuizione, alle categorie dell'intelletto; il secondo - giudizio riflettente - (trattato dalla Critica del giudizio) non presuppone l'universale (come accade nel caso del giudizio determinante che presuppone le categorie) ma lo ricerca procedendo dall'esperienza e riflettendo su di essa, in base all'idea che vi è un'unità delle cose della natura e che questa si accorda con l'universale. Il giudizio riflettente non può avere valore per la facoltà conoscitiva, perché si sottrae alle leggi rigorose fissate dalla Critica della ragion pura e fa appello ad idee della 474 www.scribd.com/Baruhk
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ragione, particolarmente all'idea di fine; esprime però una regola soggettiva: l'esigenza di stabilire un accordo tra il sensibile e il razionale. Per il suo carattere di esigenza il giudizio riflettente è posto da Kant in rapporto con il sentimento (mentre, come sappiamo, la conoscenza è posta in rapporto con l'intelletto, e la ragione con la volontà); esso figura come una facoltà intermedia tra intelletto e ragione. Per verità Kant gli attribuisce il difficile compito di stabilire il ponte tra il mondo naturale, conosciuto ed anzi costruito dall'intelletto, e il mondo della libertà, rivelato dalla volontà. La Critica del giudizio intende appunto superare l'evidente dualismo apparso tra i risultati della Critica della ragion pura e quelli della Critica della ragion pratica:« Sebbene ci sia un incommensurabile abisso tra il dominio del concetto della natura o il sensibile, e il dominio del concetto della libertà o il soprasensibile, di modo che nessun passaggio risulta possibile dal primo al secondo (mediante l'uso teoretico della ragione), quasi fossero due mondi tanto diversi, che l'uno non potesse avere alcun influsso sull'altro; tuttavia il secondo deve avere un influsso sul primo, cioè il concetto della libertà deve realizzare nel mondo sensibile lo scopo posto mediante le sue leggi, e la natura deve per conseguenza poter essere pensata in modo che la conformità alle leggi, che costituiscono la sua forma, possa almeno accordarsi con la possibilità degli scopi, che in essa debbono essere effettuati secondo le leggi della libertà. » La Critica del giudizio distingue due forme di giudizio riflettente: giudizio estetico e giudizio teleologico. Mentre i filosofi intellettualisti come Alexander Baumgarten ritenevano che la conoscenza del bello appartenesse alla sfera della conoscenza sensibile (inferiore, secondo essi, a quella intellettiva), Kant respinge tale asserzione perché essa, vincolando il bello alla sensibilità, impedisce che il giudizio estetico possegga una sua universalità, risulti cioè sintetico a priori. Pur negando che la conoscenza della bellezza abbia un carattere oggettivo, egli la libera da ogni elemento sensibile,. facendola derivare da due facoltà conoscitive, l'immaginazione e l'intelletto, e facendola consistere appunto nel libero gioco della prima con il secondo. Il giudizio estetico ci fa cogliere, secondo Kant, il bello e il sublime~ L'uomo percepisce il bello quando l'oggetto sensibile su cui egli riflette si presenta in accordo con la sua esigenza di libertà. Allora sorge in lui un vivo compiacimento: esso è il riverbero di questo libero e felice incontro del sensibile col razionale. Diversamente dal piacere, collegato alla reale esistenza dell'oggetto che ci piace, il sentimento suscitato dalla bellezza prescinde nella maniera più completa dalla realtà. Risulta, in modo analogo, indipendente da ogni considerazione di utilità e di moralità. Esso dipende soltanto dall'immaginazione la quale senza seguire alcuna regola e senza essere sollecitata da alcun piacere (che, come tale, è sempre, secondo le premesse della filosofia kantiana, di origine sensibile) crea li475
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beramente le sue rappresentazioni.l Questa libera espansione dell'io è prova della sua capacità di affermarsi al di là di ogni limite oggettivo. Le rappresentazioni, così create, infatti, possono accordarsi con l'intelletto, e dall'armonia di queste due facoltà (immaginazione e intelletto) nasce il sentimento della bellezza: cioè il sentimento, colto in modo immediato e diretto, di una unità in cui l'intelletto e la natura possono liberamente accordarsi. Malgrado questa libertà, il sentimento estetico è - secondo Kant - qualcosa di universale e necessario. La sua universalità è connessa alla capacità, che va presupposta in ogni uomo, di porsi in una disposizione ser.tim(;ntale disinteressata e pura. La sua necessità non è logica, poiché non esistono regole esplicite per il giudizio estetico, ma è una « normalità senza norma »: la stessa contemplazione degli oggetti belli sarà in grado di educare il gusto estetico e di portare l'uomo al riconoscimento necessario della loro bellezza. Il bello ha pure un valore simbolico, e proprio questo è ciò che avvicina il giudizio estetico a quello teleologico, ciò che fa del primo una divinazione del secondo.« L'esistenza della bellezza è per noi,» spiega Martinetti, «un segno dell'esistenza obbiettiva dell'intelligibile: per il senso del bello noi non vediamo, ma presentiamo nella realtà una finalità interiore di cui troviamo il senso soltanto nella finalità razionale nostra, nella vita morale. Nel bello lo spirito si sente come liberato dal senso, si sente richiamato da una misteriosa intuizione verso una realtà affine e vicina a quell'essere libero che, come intelligibile, è il principio di tutte le nostre aspirazioni. » Mentre nel sentimento del bello si manifesta l'accordo tra intelletto e immaginazione, e l'io, attraverso l'intelletto, tende all'intelligibile, nel sentimento del sublime (che è l'altro oggetto del giudizio estetico) l'io avverte l'incapacità della realtà naturale ad adeguarsi alle idee della ragione: di fronte alla grandiosità di alcuni fatti (l'immensità del mare, la profondità di un abisso, l'impetuosa violenza d'una bufera) l'immaginazione avverte l'impotenza sua a cogliere, nella totalità, il significato profondo di quella grandiosità, nella quale scorge il sovrastare infinito dell'idea della grandezza o della potenza assoluta. In questo senso del contrasto- che, si badi bene, è anch'esso un'emozione estetica- sta appunto il sentimento del sublime. Mentre nel bello il piacere è collegato alla qualità dell'oggetto che si rappresenta, nel sublime esso deriva dalla quantità illimitata dell'oggetto in questione. Questa può essere considerata sotto due distinti aspetti: dal punto di vista dell'estensione immensa dell'oggetto (sublime della grandezza o matematico), o dal punto di vista della potenza sterminata dell'oggetto dinanzi 1 L'immaginazione va distinta dallo schematismo trascendentale di cui si parla nella Critica della ragion pura; questo produce, in base alle sensazioni, solo degli schemi da sottoporre alle categorie, mentre l'immaginazione produce una
immagine determinata, senza riferimento a categorie o concetti: se dalla sensazione di cinque punti penso ad un numero in generale, questo è uno schema; se invece penso al numero cinque, questa è una immagine.
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a cui noi ci sentiamo annullati come esseri sensibili, ma innalzati come esseri razionali (sublime della potenza o dinamico). Il giudizio teleologico, propriamente detto, ci svela direttamente- sempre secondo Kant- la finalità oggettiva. Basandosi sul sentimento, esso ci fa cogliere, entro il flusso delle cose, e in particolare della vita, la presenza di un fine che sfuggiva al semplice intelletto. La tesi centrale di Kant è qui la seguente: i criteri interpretativi del mondo corporeo inerte non risultano sufficienti all'interpretazione del vivente. Se è giusto fare tutti i tentativi possibili per spiegare in termini meccanici anche i fenomeni della vita, non è però lecito nasconderei il fallimento di tali nostri tentativi ed escludere per principio la possibilità di introdurre un altro punto di vista per « ricondurre a regole tali fenomeni ». I risultati di tale nuova indagine non saranno, come è ovvio, dettati dalla natura, ma elaborati direttamente da noi; essi ci porteranno, comunque, a riconoscere che gli esseri organizzati posseggono una loro incontestabile peculiarità, in quanto realizzano un fine interno. L'importanza di questa tesi è evidente; essa segnò una vera svolta nell'indagine della natura, aprendo una via che, se pur discutibile, si rivelerà per tutto l'Ottocento, e anche oltre, straordinariamente feconda (sugli sviluppi di tale concezione si ritornerà con maggiore ampiezza nel capitolo x della prossima sezione). Scrive in proposito Vincenzo Cappelletti: «Con questi due termini [meccanica e teleologia] Kant formulava il problema di un'intera fase storica del pensiero biologico: una fase che incominciava alla fine del Settecento, e che sarebbe stata prolungata fino ai giorni nostri dalla revisione di quelle categorie meccaniche, alle quali Kant poteva guardare come al terreno, sicuramente conquistato, donde muovere i passi successivi. » Sia pur con estrema cautela Kant sostiene poi, che il nuovo punto di vista è anche in grado di farci riconoscere che i fini riscontrabili nei vari esseri viventi sembrano incontestabilmente derivare da una matrice comune. « È bello, » egli scrive, «percorrere con l'anatomia comparata la grande creazione degli esseri organizzati, per vedere se non si trovi una specie di sistema secondo un principio generatore ... L'accordo di tante specie animali in un certo schema comune, che sembra aver presieduto non soltanto alla struttura del loro scheletro ma anche alla disposizione delle altre parti... lascia cadere nell'anima un raggio di speranza ... Questa analogia delle forme, che con tutta la loro diversità sembrano essere state prodotte conformemente ad un tipo comune, fortifica l'ipotesi di una loro reale parentela nella derivazione da una madre comune. » Si tratta ovviamente di una mera ipotesi; ipotesi però che, secondo Kant, può portarci a poco a poco a intravedere nel mondo l'espressione di una volontà analoga alla nostra. Compiuto questo passo, sarà facile infine convincerci che lo scopo di tale volontà è il trionfo del bene, proprio come questo è lo scopo della volontà morale. Così il mondo della natura e quello della libertà non appaiono 477
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più come due mondi antitetici, ma come una sola e medesima realtà, e il problema posto all'inizio del paragrafo può considerarsi risolto. È, come ognun vede, una concezione veramente grandiosa, che conclude con una perfetta architettura il complesso sistema della filosofia kantiana: tale concezione tuttavia non potrà estendere la nostra conoscenza teoretica ma soltanto - e non è poco per Kant - la nostra interpretazione del mondo.
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CAPITOLO DICIOTTESIMO
Immediati prosecutori e critici dell'opera kantiana
I
· CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
Verso la fine del XVIII secolo si assiste in Germania a un rapido incremento di interesse per i problemi filosofici e, in generale, per i grandi problemi della cultura. Questo importante fenomeno storico è l'effetto di parecchi fattori politicoeconomici, sui quali ritorneremo nella sezione VI. Senza dubbio, però, è anche dovuto all'influenza di Kant, e cioè alla straordinaria ricchezza di suggestioni contenuta nelle sue opere. Abbiamo avuto modo di sottolineare, nel capitolo xv, la molteplicità di temi culturali che affiorano nell'illuminismo tedesco. Come ora vedremo, parecchi fra essi vennero ripresi e approfonditi durante la rinascita testé accennata: ma è incontestabile che, nella medesima impostazione di tali temi, si nota un'autentica svolta a partire dal momento in cui il pensiero kantiano comincia ad essere conosciuto e discusso. Gli stessi dibattiti, cui diedero luogo alcune tesi fondamentali avanzate dal filosofo di Konigsberg, costituiscono una prova sicura dell'enorme interesse suscitato dal suo pensiero. Tali dibattiti investono l'asserita esistenza e inconoscibilità della « cosa in sé », la distinzione operata da Kant fra intelletto e ragione, la limitazione che egli ritenne di dover imporre ai poteri della nostra mente, il primato da lui sostenuto della ragion pratica, ecc. Le soluzioni proposte da Kant vengono talora accolte talora invece respinte; alcuni studiosi le inseriscono in un contesto concettuale, altri in un altro, liberamente reinterpretandole o addirittura capovolgendole. Tutti debbono comunque ammettere che esse non possono assolutamente venire ignorate. Nel presente capitolo ci occuperemo soltanto delle più immediate reazioni che le idee kantiane suscitarono nella cultura tedesca; di altre, ben più importanti, ci occuperemo nel seguito dell'opera. Il nostro brevissimo esame- che prenderà le mosse da Reinhold e giungerà fino a Schiller - ci farà purtroppo constatare che sia i prosecutori immediati del kantismo sia i suoi più accesi critici furono spesso incapaci di comprendere il significato più profondo di tale indirizzo; le loro stesse poco esatte interpretazioni ci saranno però utili per renderei
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conto dell'estrema complessità dei problemi aperti dalla filosofia critica. Sono problemi che rappresenteranno, dalla fine del Settecento in poi, uno dei grandi nodi della ragione umana: un gruppo di quesiti che ogni serio pensatore sarà obbligato a prendere in attenta considerazione qualunque sia la soluzione che vorrà darne. II · L 'UNIVERSITÀ DI JENA CENTRO DI STUDI KANTIANI: REINHOLD
L'università di Jena esercitò una funzione di primaria importanza nel grande movimento di rinascita filosofica accennato nel paragrafo precedente. Essa fu, infatti, il primo centro di approfondimento e diffusione della filosofia kantiana e, negli anni a cavallo fra il Settecento e l'Ottocento, diverrà la prima sede ove insegneranno i più noti rappresentanti dell'idealismo tedesco (Fichte, Schelling, Hegel). L'importanza di tale università risale al 1787, l'anno in cui vi ottenne una cattedra Karl Leonhard Reinhold. Nato a Vienna nel 1758, Reinhold aveva subìto profondamente, da giovane, l'influenza del clima razionalistico e illuministico diffusosi in Austria durante il regno di Giuseppe n. Dopo alcuni contatti con gli illuministi tedeschi, si era accinto a studiare il pensiero di Kant, finché nel 1786 ne pubblicò sul« Deutscher Merkur » un'esposizione limpida e facile, che contribuì in misura notevolissima alla diffusione del criticismo; essa aveva per titolo Briefe iiber kantische Philosophie (Lettere sulla filosofia kantiana). Fu appunto la notorietà acquisita con questo scritto a procurargli la cattedra di Jena. Né egli si limitò ad esporre con chiarezza la filosofia del grande pensatore di Konigs berg; si sforzò, invece, di approfondirla e svilupparla, tentando di risolvere i non pochi lati oscuri che emergevano dalla sua stessa esposizione. Il principale frutto di questi tentativi è costituito dall'opera Versuch einer neuer Theorie des menschlichen Vorstellungsvermogens (Ricerca di una nuova teoria della facoltà rappresentativa umana, 1789). Nel 1793 lasciò Jena per Kiel;
ove insegnò per tutto il resto della sua vita. Morì nel 1 8z 3. Il duplice fine che palesemente guida tutta l'opera di Reinhold è il seguente: 1) semplificare la complessa costruzione della Critica della ragion pura, dimostrando che le forme e i principi stabiliti da Kant possono venire spiegati come modi particolari dell'unica« facoltà rappresentativa»; z) risolvere nell'unità della coscienza il dualismo kantiano. Per « facoltà rappresentativa » Reinhold non intende - come i vecchi metafisici- una « forza » da cui trarrebbero origine le rappresentazioni, ma semplicemente il complesso dei contenuti di coscienza e dei loro rapporti. Cercare una teoria rigorosa di tale facoltà significherà dunque esaminare la struttura dei contenuti di coscienza, nella loro purezza fenomenologica senza mescolarvi « i problemi, ad essa estranei, circa l'ente che esplica l'attività rappresentativa, cioè l'anima, e circa le cose esistenti fuori dell'anima»; significherà cioè determinare
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la forma delle funzioni conoscitive, prescindendo nel modo più completo dalla sostanza cui tali funzioni sarebbero inerenti. Questo studio è l'argomento principale dell'opera di Reinhold e ci condurrebbe, secondo l'autore, ad alcuni risultati molto importanti. Il primo di essi è la scoperta che intuizioni, concetti, idee non sono altro che rappresentazioni: le intuizioni sono rappresentazioni immediate; i concetti rappresentazioni mediate; le idee (nel senso kantiano) rappresentazioni dell'incondizionato. Il secondo, più importante, risultato è costituito dal principio generale della coscienza. Questo principio afferma che il contenuto della coscienza non può esistere come qualcosa di isolato, ma si ordina sempre e immediatamente secondo un duplice nesso: «La semplice rappresentazione deve necessariamente essere formata di due elementi diversi, che con il loro riunirsi e il loro distinguersi formano la natura o essenza di una rappresentazione semplice. » Essi sono l'elemento materiale e l'elemento formale, e costituiscono il soggetto e l'oggetto, intesi non come substrati preesistenti alla rappresentazione, ma come elementi radicati in essa e da essa inscindibili. (Di qui la denotazione del sistema di Reinhold come « filosofia degli elementi.») Il nostro autore era sinceramente convinto di avere compiuto un notevole passo innanzi rispetto a Kant, affermando che l'elemento materiale e quello formale si radicano nella rappresentazione. Ma che cosa è questa rappresentazione? Quale tipo di realtà dobbiamo attribuirle? Ed inoltre: in che senso potremo dire che gli anzidetti due elementi si radicano in essa? Se vogliamo davvero intenderli quali fattori della rappresentazione, come potremo negare che sono altrettanto reali quanto essa? E se lo sono, che cosa ci garantisce la possibilità di sintetizzarli armonicamente nella coscienza? Le difficoltà della « filosofia degli elementi » emergono con particolare chiarezza in riferimento alla «cosa in sé». Reinhold afferma da un lato che essa non può risultare qualcosa di rappresentabile, perché in tal caso non sarebbe un « in sé »; non può quindi risultare oggetto di intuizione né di concetto, né di idea, dato che queste sono- come si è detto- null'altro che forme di rappresentazione. La cosa in sé dovrà dunque ridursi a una semplice negazione, al « non rappresentabile », a un nihil negativum. Afferma d'altro lato che, sia pure così ridotta, essa deve necessariamente venire ammessa: « Le cose in sé sono quel quid che deve stare alla base della semplice materia di una rappresentazione, del quale però ... nulla ... è rappresentabile. » Ma come conciliare queste due affermazioni? In realtà esse non fanno che esasperare il problema della « cosa in sé », in quanto ne sostengono l'esistenza nel medesimo istante in cui ne fanno una pura determinazione concettuale, quanto mai vaga e fantomatica. Malgrado le difficoltà ora accennate, il tentativo di Reinhold costituirà comunque la base di tutti gli ulteriori approfondimenti del pensiero di Kant. Continuatori e oppositori di Kant si rifaranno, cioè, ad esso per spiegare i motivi
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del loro kantismo o anti-kantismo, e proprio questo rifarsi a Reinhold contribuirà in misura notevole allo sviluppo in senso idealistico della filosofia kantiana. È innegabile infatti, quale che fosse l'intenzione del nostro autore, che il principio generale della coscienza introduceva nel criticismo un punto di vista soggettivistico, estraneo all'autentico pensiero del filosofo di Konigsberg; i grandi problemi, per la cui trattazione Kant aveva ideato la complessa dottrina delle forme trascendentali, potevano apparire facilmente risolubili solo perché, con la riduzione dei fenomeni a mere rappresentazioni ossia a meri atti di coscienza, non aveva più senso chiedersi su quale base fosse raggiungibile una conoscenza universale e necessaria (cioè oggettiva e scientifica) del mondo fenomenico. III
· CRITICI DI REINHOLD: SCHULZE, MAIMON
Fra gli oppositori del kantismo, e in particolare della forma che questo assume nell'esposizione fattane da Reinhold, va anzitutto ricordato Gottlob Ernst Schulze (1761-1833), professore a Helmstadt e poi a Gottinga, autore di una celebre opera dal titolo Aenesidemus, oder iiber die Fundamente der von Herrn Professar Reinhold in ]ena gelieferten Elementarphilosophie (Enesidemo, o sopra i fondamenti della filosofia degli elementi esposta a jena dal sig. professar Reinhold, 1792.). La tesi centrale ivi sostenuta è che il vero filosofo critico, se vuol essere coerente, non può oltrepassare la posizione di Hume. Per giungere alla confutazione dell'empirismo scettico sostenuto dall'inglese, Kant ricorse - come è noto - al metodo trascendentale, ma questa confutazione è illusoria perché fa implicitamente uso del principio di causalità, cioè proprio di quel principio che Hume aveva messo in questione; ne fa uso sia quando invoca l'io penso come sorgente dell'oggettività del conoscere scientifico, sia quando postula la cosa in sé nell'atto stesso in cui la dichiara inconoscibile. Secondo Schulze il difetto è ancora più evidente in Reinhold, quando questi pretende di partire dalla rappresentazione per giungere all'esistenza dei due elementi (materiale e formale) che ne dovrebbero essere i fattori costitutivi. Reinhold afferma che la materia appartiene (o si riferisce) all'oggetto e la forma al soggetto; ma questa presunta appartenenza è una nozione essenzialmente equivoca che non solo implica - come si è detto - il rapporto causale, ma non riesce nemmeno a distinguere i due significati, del tutto diversi, che tale rapporto assume, quando è fatto valere per risalire dalla rappresentazione all'oggetto o dalla rappresentazione al soggetto.« Il concetto di appartenenza usato da Reinhold, » spiega molto bene Cassirer, « non è che una metafora dietro la quale si nascondono molte e complesse specie di relazioni del tutto diverse. Se parliamo dell'appartenenza della rappresentazione all'oggetto, intendiamo con questo un rapporto quale esiste fra segno e cosa designata: la rappresentazione "rappresenta'' idealmente ciò che esiste nell'oggetto stesso. Se invece usiamo lo stesso concetto per caratterizzare il rapporto della rappresentazione col
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soggetto, siamo costretti a dargli anzitutto un altro significato, poiché il singolo contenuto si trova con l'unità dell'io, con l'unità della coscienza in genere, nello stesso rapporto di una qualità col suo soggetto, di un " accidente " con la sua sostanza. >> Schulze ne conclude che la cosiddetta filosofia critica si rivela in ultima istanza essenzialmente dogmatica; essa esprime sì un'esigenza giusta, ma un'esigenza che può venire soddisfatta solo da un franco ed esplicito ritorno a Hume, cioè dal ritorno a una forma di empirismo integrale, ave risulta di principio impossibile giustificare il carattere oggettivo della conoscenza. Un altro critico assai acuto di Reinhold fu l'israelita di origine lituana Salomon Maimon (1754-18oo), trasferitosi in Germania a costo di mille sacrifici nel preciso intento di poter partecipare alla cultura occidentale. Sebbene di qualche anno più anziano di Schulze, sembra opportuno prenderlo in considerazione dopo di lui perché le obiezioni che egli solleva al kantismo (e in particolare alla filosofia degli elementi), pur approdando a tesi sostanzialmente scettiche, aprono in certo senso la via alle successive speculazioni dei grandi idealisti, mentre lo scetticismo di Schulze rappresenta in ultima istanza un mero ritorno al punto di vista di Hume. Le sue opere principali (oltre ad un interessante scritto autobiografico che descrive le gravi difficoltà incontrate per procurarsi una seria cultura scientifica) sono: una serie di appunti, via via annotati mentre leggeva la Critica della ragion pura di Kant, pubblicati nel 1790 col titolo Versuch iiber die Trascendentalphilosophie (Saggio sulla filosofia trascendentale), un lavoro più sistematico pubblicato nel 1794, Versuch einer neuen Logik oder Theorie des Denkens (Saggio di una nuova logica o teoria del pensiero), e le Kritische Untersuchungen iiber den menschlichen Geist (Ricerche critiche sullo spirito umano, 1797). Maimon prende le mosse da quella che, nella rielaborazione di Reinhold, è la tesi principale del kantismo- il principio cioè, secondo cui la coscienza costituisce un elemento essenziale di ogni rappresentazione - e ne ricava immediatamente che la « cosa in sé », dovendo esistere fuori della coscienza è un non-rappresentabile, ossia una non-cosa. Ciò non significa però secondo il nostro autore, che risulti illecito parlarne. Noi abbiamo certamente diritto di usare il termine « cosa in sé », purché teniamo presente che esso costituisce soltanto un simbolo, cui spetta una funzione analoga a quella che i matematici attribuiscono alla grandezza immaginaria v' - I. (Notisi che Maimon si era procurata una solida cultura in questa disciplina, onde può fare spesso riferimento ad essa nelle sue sottilissime analisi filosofiche.) Così interpretata, la «cosa in sé» diventa null'altro che il simbolo dell'oggettività: oggettività, però, il cui autentico significato deve venire cercato entro l'ambito stesso del sapere, non in un quid irrappresentabile e inconoscibile. Quanto ora detto non deve indurci - sempre secondo Maimon - a negare la distinzione tra materia e forma, cioè a negare che il dato empirico possegga
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alcune caratteristiche, ad esso specifiche, capaci di differenziarlo nettamente dai concetti e dalle idee; l'importante è non ipostatizzare la materia, non avere la pretesa che il dato empirico trovi il proprio fondamento in qualcosa di fittizio, che dovrebbe esistere al di là della coscienza. Il nostro autore è d'accordo con Kant nel ritenere, contro Hume, che la verità scientifica trovi il proprio fondamento nelle forme universali dell'intelletto e non nei dati empirici; cioè che questi possano venire riconosciuti come « impressioni oggettive » solo in quanto l'intelletto li unifica entro le proprie categorie. Aggiunge, però, che nulla può garantirci a priori che le leggi scoperte dalla scienza si applicheranno davvero ai singoli oggetti concreti via via incontrati nell'esperienza. Solo le discipline logico-formali sono in grado di raggiungere un'autentica universalità; quelle reali possono soltanto far sorgere in noi l'attesa che i dati si presenteranno in un certo modo anziché in un altro. Lo stesso carattere schematico delle leggi fisico-matematiche, le quali parlano di contenuti idealizzati, essenzialmente diversi dai contenuti concreti dell'effettiva esperienza, rende problematica la loro applicazione al mondo della natura. In conclusione: il dato empirico, inteso nella sua concreta immediatezza, rappresenta - nel complesso processo conoscitivo - non già qualcosa di esterno alla coscienza, ma unicamente il suo limite: qualcosa che la coscienza trova in sé come «determinabile», qualcosa cui essa cerca di porre ordine mediante le proprie forme, ma che non può assolutamente determinare a priori. Maimon interpretava questo risultato in chiave sostanzialmente scettica; i filosofi idealisti della generazione successiva ne prenderanno lo spunto per sostenere che il dato scaturisce dall'attività stessa del soggetto, esercitando nel processo conoscitivo l'unica funzione - per altro fondamentale - di offrirei il molteplice da ridurre all'unità. IV · LE OBIEZIONI A KANT IN NOME DEL SENTIMENTO E DELLA FEDE
Non meno interessanti delle critiche brevemente esposte nel paragrafo precedente sono quelle sollevate contro la « cosa in sé » da alcuni autori che potremmo chiamare« filosofi del sentimento». I principali fra essi sono: Johann Georg Hamann (1730-88), amico e concittadino di Kant, conosciuto col nome di « mago del nord », autore di vari scritti il più importante dei quali - uscito postumo nel 1788- porta il titolo Metakritik iiber den Purismus der reinen Vernunft (Metacritica sul purismo della ragion pura); Johann Gottfried Herder (1744-1803), che fu allievo di Kant e amico di Hamann a Konigsberg, egli pure autore di varie opere, tre delle quali meritano qui particolare menzione: Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menscheit (Idee per la filosofia della storia dell'umanità, 1784-91), Von Religion, Lehrmeinungen und Gebrauchen (Religione, dottrine, costumi, 1798), Metakritik
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zur Kritik der reinen Vernunft(Metacritica alla critica della ragion pura, 1799); Friedrich Heinrich Jacobi (I743-I8I9) di cui ci limitiamo a ricordare i seguenti scritti: Ueber die Lehre des Spinoza in Briefen an Herrn Moses Mendelssohn (Lettere al sig. Mosè Mendelssohn sulla dottrina di Spinoza, 1785), David Hume uber den Glauben oder Idealismus und Realismus (Davide Hume intorno alla fede o idealismo e realismo, I787), Ueber das Unternehmen des Kritizismus die Vernunft zu Verstande zu bringen (Sul tentativo del criticismo di ridurre la ragione a intelletto, r 8o I), Von den gi#tlichen Dingen und ihre Offenbarung (Delle cose divine e della loro rivelazione, I 8 I I). Mentre Jacobi occupa una posizione a sé, sia Herder che Hamann si ricollegano, direttamente o indirettamente, allo « Sttirm und Drang »,l'agitato movimento culturale cui abbiamo già fatto cenno nel capitolo xv. Qui vogliamo prenderli in esame limitatamente alla posizione da essi assunta nei confronti di Kant, pur risultando chiaro, da quanto diremo, lo stretto nesso di questa posizione con i più significativi temi dell'anzidetto movimento. Le obiezioni al kantismo, sollevate dai tre autori cui è dedicato il presente paragrafo, anziché dirigersi contro le difficoltà gnoseologiche della cosa in sé (connesse all'assurda pretesa di ammettere l'esistenza di tale entità nell'atto in cui la si dichiara inconoscibile), fanno soprattutto riferimento alle disastrose conseguenze che da tale teoria deriverebbero per la concezione dello spirito: l'antitesi, ammessa da Kant, tra soggetto conoscente e realtà inconoscibile sarebbe infatti, secondo essi, la radice ultima di tutti i dualismi riscontrabili nei vari sviluppi del criticismo. I filosofi in esame combattono quindi la cosa in sé in nome dell 'unità dello spirito, cioè in nome di una concezione sintetica della vita; e, insieme con essa, combattono l'impostazione eccessivamente analitica delle indagini di Kant, che risulterebbero troppo simili a quelle caratteristiche degli illuministi (è degno di nota che non hanno dubbi sull'esistenza di strettissimi nessi tra filosofia kantiana e filosofia illuministica). Le loro obiezioni si rivolgono insomma contro il razionalismo in genere, non solo contro quello kantiano, cui contrappongono con veemenza il valore del sentimento immediato e della tradizione storica. Volendo ora scendere a qualche considerazione più specifica, cominceremo a ricordare che Hamann non si rifiutò certo di riconoscere l'importanza di Kant (da lui chiamato lo Hume prussiano); ciò che egli rimprovera alla Critica della ragion pura è l'artificiosità delle sue analisi - per esempio della distinzione fra materia e forma, tra sensibilità e intelletto, ecc. - è la sua incapacità di comprendere per un lato la profonda unità della natura, per l'altro la preminenza del sentimento e della fede sull'astratta ragione. Sulla base di queste critiche, Hamann ritiene di poter concludere che il capolavoro kantiano è un tentativo fallito di rendere la ragione indipendente da ogni tradizione e da ogni esperienza concretamente vissuta. Anche Herder mira soprattutto a porre in luce che la prima fonte della
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conoscenza è l'esperienza interiore, immediata, intuitiva, non razionale. Di qui l'esaltazione che egli compie della poesia, del sentimento religioso, del misticismo contro ogni forma di razionalismo. La religione è per lui la prima forma di cultura spirituale; il sentimento religioso è ciò che eleva l'uomo al di sopra degli animali. La ragione invece non costituisce qualcosa di originario nello sviluppo dell'uomo ma solo di acquisito, e pertanto non può fare a meno della tradizione e del linguaggio. Come Hamann, egli rimprovera a Kant la distinzione tra materia e forma, tra mondo della natura e mondo dello spirito e della libertà. Il ripudio di quest'ultima distinzione è ciò che lo conduce ad esaltare Spinoza come il filosofo più conseguente. Il concetto della trascendenza divina gli pare una vera assurdità, che non può portare se non all'ateismo. Anziché condannare lo spinozismo quale sistema empio, bisogna dunque scorgervi il primo passo per un serio recupero dell'autentica religiosità. Il tema dell'unità sta pure alla base della concezione della storia, che il nostro autore interpreta, come già Lessing e Vico, quale realizzazione di un vasto piano divino per l'educazione dell'umanità. In altri termini: lo stesso dio che garantisce l'ordine e la perfezione della natura, garantirebbe pure lo sviluppo progressivo dell'umanità. Anche su questo punto il nostro autore trova modo di opporsi nettamente a Kant. Ed infatti, mentre l'antropologia kantiana, sorretta da un freddo impianto realistico, scorgeva un insanabile contrasto fra il concreto agire (pressoché istintivo) dei singoli e lo sviluppo della specie umana (capace, essa sola, di realizzare la nostra più profonda razionalità), Herder sostiene invece l'essenziale unità tra vita dell'individuo e vita della specie (nella quale ultima l'individuo troverebbe il suo naturale completamento e la sua più elevata esplicazione). È una visione entusiastica della natura umana, sostenuta con sincera passione, ma non posta mai seriamente a confronto con i comportamenti concreti e reali degli uomini. In questa visione ottimistica del mondo umano si inquadra pure l'interpretazione herderiana del cristianesimo come autentica religione dell'umanità: religione generica e spontanea, di cui le chiese cristiane ufficiali non costituirebbero altro che un mostruoso travisamento. Merita infine un breve cenno la teoria herderiana del linguaggio, quale espressione sensibile della ragione. Vi si trovano enunciate alcune interessantissime tesi già sostenute da Condillac circa la dipendenza della lingua dall'ambiente naturale e storico in cui essa si costituisce e si sviluppa. Il preconcetto anti-illuministico di Herder è però tale, che egli si sente in dovere, malgrado questa sostanziale coincidenza, di condurre un'aspra polemica contro la teoria condillachiana, cui rimprovera di non riconoscere la derivazione del linguaggio da una delle facoltà più essenziali della specie umana (la facoltà della riflessione). In realtà, ciò che separa i due pensatori è l'impostazione stessa delle loro argomentazioni: impo-
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stazione razionalistica ed empiristica nel francese, irrazionalistica e metafisica nel tedesco,! Mentre Hamann e Herder sviluppano il tema della fede in un senso apertamente panteistico, Jacobi riprendt. invece il medesimo tema in senso trascendente e cristiano. Egli si dichiara d'accordo con Kant nel riconoscere all'intelletto la sola funzione di sintetizzare i contenuti di precedenti rappresentazioni senza poter introdurre alcun contenuto nuovo; si serve però di questo risultato per concluderne che il sapere mediato dell'intelletto non è un vero sapere: l'unica autentica conoscenza sarebbe, secondo Jacobi, quella recettiva, attuata però - oltreché dal senso - anche dal sentimento, dall'intuizione, dalla fede, dall'ispirazione. Anche Jacobi considera la teoria della cosa in sé come il vero imbroglio di tutto il sistema kantiano, unicamente ideato per timore di ricavare dal criticismo le conseguenze idealistiche in esso logicamente contenute. Mentre lo sviluppo rigoroso del razionalismo prekantiano era stato - secondo il nostro autore - lo spinozismo ateo, considerato come filosofia che riduce tutto il reale a una concatenazione perfetta di cause senza distinzione fra condizionato e incondizionato, lo sviluppo del sistema kantiano non poteva essere che un soggettivismo assoluto, inteso come spinozismo che pone l'io quale primo anello della perfetta catena costituente la realtà. Per questo motivo polemico Jacobi saluterà in Fichte il vero continuatore di Kant, il « messia della speculazione ». Se nessuna dimostrazione può condurci al reale in sé, poiché essa si risolve sempre nell'ambito della coscienza, bisogna ricorrere a un'altra via per cogliere la vera realtà. Essendo indiscutibile che il sapere mediato si attua semRre per costruzione di concetti, non v'è nulla di singolare che esso si lasci sfuggire l'incondizionato. Un dio che risultasse dimostrabile dalla scienza non sarebbe più dio, ma un semplice anello del mondo fenomenico. Per uscir fuori dal circolo chiuso dell'idealismo, bisogna appellarsi al sapere immediato, prestare cioè ascolto al reale che si manifesta direttamente a ciascuno di noi nella conoscenza recettiva. Come prestiamo fede alle cose, che si rivelano a noi attraverso i sensi esterni, così dobbiamo avere fede in dio che si rivela immediatamente al nostro senso interno. Jacobi non si è accorto dell'equivocità insita nel termine «fede» da lui usato ora nel senso di « fiducia » nelle percezioni sensibili ed ora invece di « credenza religiosa ». Malgrado questa incertezza egli è riuscito a portare, con la sua esasperata contrapposizione tra fede e scienza, un notevole contributo alla chiarificazione dell'una e dell'altra, dei loro limiti reciproci, della profonda diversità fra i loro sviluppi. I Dell'opera di Herder, che esercitò una grande influenza su tutto il romanticismo, avremo occ.asione di riparlare più volte nella prossima sezione: verranno esaminati in particolare i con-
tributi che diede alla Naturphilosophie (capitolo x) e alla delineazione di alcuni fra i più significativi temi della pedagogia romantica (capitolo xr).
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V
· SCHILLER
Non è certo questa la sede per esaminare la personalità di Johann Christoph Friedrich Schiller (1759-1805) e i caratteri della sua vas~a produzione poetica. Basti ricordare che, malgrado fosse stato indirizzato dal padre alla carriera medica, egli si sentì irresistibilmente attratto fin da giovane vérso la poesia: nel 1782 scrisse il famoso dramma Die Rauber (l masnadieri) che, per il suo contenuto di aperta protesta contro la società dell'epoca, lo fece entrare in disgrazia del duca di Wiirttemberg alle cui dipendenze lavorava come medico militare. Dovette pertanto abbandonare il proprio impiego e lasciare il Wiirttemberg, il che lo decise a dedicarsi per intero all'attività artistica. Risale a questi anni la sua appassionata partecipazione al movimento politico-culturale dello « Sturm und Drang ». È stato lo studio dei sentimentalisti inglesi, in particolare di Shaftesbury, a far sorgere in Schiller i primi interessi per il problema morale; poco dopo, la lettura delle opere di Rousseau è valsa non solo a incrementare tali interessi ma ad allargarli verso nuovi orizzonti (critica della civiltà, esaltazione della vita libera e genuina dei primitivi, ammirazione per tutto ciò che è spontaneo e naturale). Sono temi comuni a tutti i seguaci dello « Sturm und Drang », ma che acquistano nel nostro autore un particolare rilievo per l'affiato poetico di cui li sa animare. Qualche anno più tardi (verso il 1787-88) sarà proprio la riflessione sull'attività artistica ad allontanarlo a poco a poco dalle posizioni più tormentate che aveva assunto sotto la diretta influenza di Rousseau, inducendolo a scorgere nell'arte medesima un elemento di sublime armonia per lo spirito. Intanto i grandi successi ottenuti dai suoi drammi gli hanno procurato una straordinaria celebrità: si reca a W eimar ove stringe una cordiale amicizia con Goethe che lo fa nominare professore all'università di Jena. Qui trova come collega Reinhold, e, sotto l'influenza dell'atmosfera kantiana che questi aveva creato intorno a sé, si sente spinto ad approfondire le opere del grande filosofo di Konigsberg, in particolare la Critica del giudizio proprio allora uscita (1790). Fu uno studio decisivo per la formazione filosofica di Schiller: da quel momento in poi egli si assunse il difficile compito di trovare una sintesi, capace di contemperare la concezione rigoristica dell'etica kantiana con il sentimentalismo di Shaftesbury. All'attuazione di tale programma sono dedicate le due più importanti opere filosofiche del nostro autore: Ueber Anmut und Wurde (Sulla grazia e la dignità, 1793), e Briefe iiber die asthetische Erziehung des Menschen (Lettere sull'educazione estetica dell'uomo, 1793-95). Nell'uomo esiste, secondo Schiller, una doppia natura: quella di uomo fisico e quella di uomo morale. Dalla prima deriva l'istinto sensibile che lo lega alla materia e al tempo; dalla seconda l'istinto razionale della forma, che tende ad affermare la sua libertà. Nessuno di questi due elementi deve essere sacrificato nella formazione della personalità umana: non quello razionale, ma nemmeno
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- come vorrebbe il rigorismo kantiano - quello sensibile. La vera libertà consiste nell'equilibrio armonico del primo col secondo. A questo punto della trattazione Schiller inserisce l'etica nell'estetica: poiché il mondo della bellezza è il mondo del perfetto equilibrio fra il sensibile e il sovrasensibile, solo in esso la natura umana trova la sua attuazione completa, senza mutilazioni e dissidi. In altri termini: vero uomo è soltanto l'artista. Questa tesi, largamente condivisa dalla cultura tedesca dell'epoca, costituì uno dei punti fermi del movimento culturale che teorizzava la convergenza di arte e filosofia. Conseguenza diretta di quanto ora detto è che, secondo Schiller, il problema di giungere alla formazione integrale della personalità umana potrà venire risolto solo dall'educazione estetica; questa sviluppa nel giovane la tendenza al gioco e, attraverso il gioco, la tendenza ad agire secondo le leggi della natura senza tuttavia sentirsi in alcun modo costretto da necessità materiali. Con ciò il gioco viene ad assumere un valore etico universale, come perfetta espressione della più profonda e armonica spiritualità. (Su tale tema si ritornerà nel capitolo xr della sezione vr.) Il risultato dell'educazione estetica sarà la formazione dell'uomo come« anima bella», cioè come anima che esplica la propria autentica natura in null'altro che il libero esercizio di tutte le energie interne all'io. «Bella si chiama un'anima,» spiega Schiller, « quando il sentimento morale si è alla fine assicurato di tutta la sensibilità dell'uomo a tal punto, da poter senza ritegno affidare all'affetto la direzione della volontà, e da non correre mai pericolo di trovarsi in contrasto con le decisioni di quello ... Con una facilità, come se nelle sue azioni si esprimesse soltanto l'istinto, essa assolve i più minuziosi doveri verso l'umanità; e il sacrificio più eroico, che costituisce una sua conquista sopra la naturale inclinazione, si offre come un effetto spontaneo di tale inclinazione. » La figura dell'« anima bella», cui anche Goethe attribuisce una notevole importanza, sarà invece criticata con straordinaria lucidità da Hegel, che giustamente vi scorgerà l'espressione di un atteggiamento pavido e sterile: l'atteggiamento di chi pretenderebbe rinchiudersi nella propria raffinata soggettività per timore di venire macchiato dall'azione. Ecco l'analisi che ne possiamo leggere nella Fenomenologia (il capolavoro pubblicato da Hegel nel 1 8o7): « La coscien_za vive nell'ansia di macchiare con l'azione e con l'esserci l'onestà del suo interno; e, per conservare la purezza del suo cuore, fugge il contatto dell'effettualità e s'impunta nella pervicace impotenza di darsi sostanzialità, ovvero di._ mutare il suo pensiero in essere. Quel vuoto oggetto ch'essa si produce la riempie ora dunque della consapevolezza della vuotaggine: il suo operare è l'anelare che non fa se non perdersi nel suo divenir oggetto privo di essenza, e che ricadendo, oltre questa perdita, in se stesso, si trova soltanto come alcunché di perduto: in questa trasparente purezza di tali momenti, una infelice anima bella, come la si suol chiamare, arde in se stessa e dilegua qual vana caligine che si dissolve nell'aria. »
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Immediati prosecutori e critici dell'opera kantiana
Sono parole molto significative, che abbiamo ritenuto opportuno citare non solo per il loro valore intrinseco, ma anche perché capaci di farci fin d'ora intuire il notevole passo che verrà compiuto- nell'approfondimento dei problemi- dalla generazione immediatamente successiva a quella dei pensatori presi in esame nel presente capitolo.
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Bibliografia A CURA DI GIANNI MICHELI
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CAPITOLO PRIMO
I l secolo dei lumi Per una valutazione storica generale del XVIII secolo nei suoi vari aspetti, si ricordano, oltre al citato volume di Spini, le seguenti opere: A. SoREL, L' Europe et la révolutionfranfaise, Parigi 1893; P. MuRET e P. SAGNAC, La prépondérance anglaise {IJIJ-6J), Parigi 1951; E. PRECLIN e V.L. TAP1É, Le XVIII siècle, 2 voll., Parigi 1952; P. SAGNAC, La ftn de I'Ancien Régime et la révolution américaine ( IJ6J-89), Parigi 195 2; R. MousN1ER e E. LABROUSSE, Le XVIII siècle, Révolution intellectuelle, technique et politique, Parigi 195 3· Su questioni generali, più specificamente politiche dell'Europa del Settecento, si veda: C. DuPUIS, Le principe de l'équilibre et le concert européen, Parigi 1909; K. KASER, L'età dell'assolutismo (trad. it., Firenze 1925); A. GERBI, La politica del Settecento. Storia di un'idea, Bari 1928; C. MoRANDI, Problemi storici italiani ed europei del xviii e XIX secolo, Milano 1937; Io., Il concetto della politica di equilibrio nell'Europa moderna, in «Archivio storico italiano» 194o; P. RoBERTS, The quest of security, IJIJ-IJ40, New York 1940; E. SESTAN, Europa settecentesca ed altri saggi, Milano-Napoli 1951; R.R. PALMER, The age of the democratic revolution. A politica/ history of Europe and America IJ6o-r8oo, vol. 1: The challenge, vol. n: The stru,f!J!,Ie, Princeton 1959-64; M.S. ANDERSON, Ettrope in the eighteenth century, IJIJ-IJ8J, Londra 1961; F. MAuRo, L'expansion européenne {I6oo-I8Jo), Parigi 1964. Sulle condizioni culturali ed intellettuali del xvm secolo, e specificamente sulla complessa problematica inerente all'illuminismo e alle sue interpretazioni generali, gli studi critici sono numerosi. Si veda: E. CASSIRER, Die Philosophie der Aufkliirung, Tubinga 19 32 (trad. i t. Firenze 19 35); sullo studio di Cassirer, molto importante, si veda: K.B. PRICE, Cassirer and the Enlightenment, in « Journal of the history of ideas » 1957; C.C. BECKER, The heavenly city of the eighteenth century philosophers, New Haven 1932 (trad. it. Napoli 1945; opera molto discussa; cfr. B. TAYLOR WILKINS, Cari Becker. A biographical stut!J in american intellectual histOT)', Cambridge, Mass., 1961); P. HAZARD, La crise de la conscience européenne, r68o-IJIJ, 3 tomi, Parigi 1935 (trad. it., Torino 1946); B. WILLEY, The eighteenth century background: .rtudies on the idea of nature in the tought of the period, Londra 194o; P. HAZARD, La pensée européenne au XVIII siècle de Montesquieu à Lessing, 3 tomi, Parigi 1946; M. HORKHEIMER e T. W. ADORNO, Dialektik der Aufkliirung, Amsterdam 1947 (trad. it., Torino 1966); J.L. TALMON, The origins of totalitarian democrary, Londra 1952 (trad. it., Bologna 1967); H. D1ECKMANN, On interpretations of the eighteenth century, in« Modern Language Quarterly » 1954; A. CoBBAN, In search of humanity: the role of enlightenment in modern history, Londra 196o; H. NxcoLSON, The age of reason: The eighteenth century in reason and violence, IJ00-89, Londra 196o; F. VALJAVEC, Geschichte der abendlandischen Aufkliirung, Vienna-Monaco 1961; L.I. BREDVOLD, The brave 493
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Sul problema della storia nell'illuminismo si veda il classico saggio di W. DILTHEY, Das achtzende Jahrhundert und die geschichtliche Welt, in « Deutsche Rundschau » I90I (trad. it., Milano I967), e la prima parte dell'opera di F. MEINECKE, Die Entstehung des Historismus, z voll., Monaco-Berlino I936 (trad. it., Firenze I954) e inoltre, C. LuPORINI, Il concetto della storia e la polemica intorno all'illuminismo, in « Belfagor » I95 I; R.N. STROMBERG, History in the eighteenth century, in « J ournal of the history of ideas » I 9 5I ; P. Rossr, La rivalutazione dell'Illuminismo e il problema del rapporto con lo storicismo, in « Rivista critica di storia della filosofia » I 9 57; H. TREVOR-ROPER, The historical philosopf?y of the enlightenment, in « Studies on Voltaire and the eighteenth century » I963.
Sui vari aspetti della situazione sociale e culturale della Francia durante il periodo dell'illuminismo, si vedano i seguenti studi: J.P. DAMIRON, Mémoires pour servirà l'histoire de la philosophie en France au XVIII siècle, Parigi I858-64; E. CARO, La ftn du dix-huitième siècle: études et portraits, z voll., Parigi I 88o; C. HIPPEAU, L'instruction publique en France pendant la Révolution; discours et rapports de Mirabeau, Talleyrand, Périgord, Condorcet, Lanthenas, Romme, Le Peletier-Saint-Fargeau, Calès, Lakanal, Daunou et Fourcroy, z voll., Parigi I 883 ; L. BRUNEL, Les philosophes et l' Académie fran çaise au XVIII siècle, Parigi I 884 (ristampa, Ginevra I967); G.V. PLEKHANOV, Beitriige zur Geschichte des Materialismus Ho/bach, Helvétius, Marx, Stoccarda I 896 (trad. francese, Parigi I 9 57); A. AuLARn, Histoire politique de la Révolution fran çaise: origines et développement de la democratie et de la République, Parigi .I90I; D. MoRNET, Le sentiment de la nature en France de Jean-Jacques Rousseau à Bernardin de Saint-Pierre; essai sur /es rapports de la littérature et des moeurs, Parigi I9o7; J. FABRE, Les pères de la Révolutionfrançaise (de Bt!Jle à Condorcet), Parigi I9Io; D. MoRNET, Les sciences de la nature en France au XVIII siècle, Parigi I9I I; In., Le romantisme en France au XVIII siècle, Parigi I9Iz; G. CHrNARn, L' Amérique et le reve exotique dans la littératurefrançaise au XVII et au XVIII siècle, Parigi I9I3; J.P. BELIN, Le commerce des livres prohibés à Paris de IJJO à I789, Parigi I9I3; In., Le mouvement philosophique de 1748 à 1789: étude sur la diffusion des idées desphilosophes à Paris, d'après /es documents concernant l'histoire de la librairie, Parigi I9I3; H. CARRÉ, La noblesse de France et l'opinion publique au dix-huitième siècle, Parigi I9zo; G. CAPONE BRAGA, La ftlosofta francese c italiana del Settecento, z voll., Arezzo I9zo (rrr ed., Padova I947); H. e G. BouRGIN, L'industrie sidérurgique en France au début de la révolution, Parigi I9zo; L. DucRos, La société jrançaise au xvni siècle, Parigi I9zz; G. ATKINSON, The extraordinar:y voyage in french literature from IJOO to IJ 20, Parigi I9zz; M. RouFF, Les mines de charbon en France au XVIII siècle, Parigi I9ZZ; H. SÉE, L'évolution de la pensée politique en France au XVIII siècle, Parigi I9Z5; In., La France économique et sociale au XVIII siècle, Parigi I9Z5; Y.Z. DuBOSQ, Le livre jrançais et son
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Trasformazioni nell'impostazione del problema religioso e morale Le migliori edizioni delle opere di Bossuet sono le seguenti: Oeuvres complètes, 3 I voli., Parigi I86z-66, a cura di F. LACHAT; Oeuvres complètes, a cura dell'abate GurLLAUME, I I voli., Bar le due I 877. Lo strumento bibliografico essenziale è il seguente: V. VERLAQUE, Bibliographie raisonnée des oeuvres de Bossuet, Parigi I9o8. I principali studi generali su Bossuet sono i seguenti: J.F. NouRRISSON, Essai sur la philosophie de Bossuet, Parigi I 8 52; H. FLOQUET, Études sur la vie de Bossuet jusqu'à son entrée en fonctions en qualité de précepteur du Dauphin (z627-I67o), 3 voli., Parigi I855; Io., Bossuet précepteur du Dauphin, jils de Louis xw et éveque à la cour, z67o-z682, Parigi I 864; A. RÉAUME, Histoire de Jacques Bénigne Bossuet et des ses oeu11res, 3 voli., Parigi I 869;
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Bibliografia J. LEBARCQ, Histoire critique de la prédication de Bossuet, Lille I 888; G. LANSON, Bossuet, Parigi I89I; A. RF.BELLIAU, Bossuet, Parigi I9oo; E. JoVY, Etudes et recherches sur JacquesBénigne Bossuet, évéque de Meaux, Vitry Le François I9o3; E. LoNGUEMARE, Bossuet et la sociétéfrançaise sous le règne de Louis XIV, Parigi I9Io; P. BouET, Bossuet moraliste, Parigi I9I2; A. RÉBELLIAU, Diversi studi in « Revue cles deux mondes » I9I9, I920, I927; C. DE CouTERN, Bossuet e il suo « Discours sur l'histoire universelle », Milano I 92 7; E. BAUMANN, Bossuet, Parigi I929; J. CALVET, Bossuet, l'homme et l'oeuvre, Parigi I94 I; A. AuNEAU, Bossuet, Avignone I949; J. TRUCHET, La prédication de Bossuet, 2 tomi, Parigi I 96o. Le edizioni settecentesche delle opere di Tillotson sono numerosissime. Il miglior studio sull'autore è quello di L. G. LOCKE, Tillotson: a stur!J in seventeenth-century literature, Copenaghen I 9 54· Il Dictionnaire historique et critique (2 tomi, 4 voli.), Rotterdam I697, fu riedito più volte nel corso del xvm secolo; a partire dalla IV ed.(I73o) è premessaall'opera la biografia di P. DESMAIZEAU, La vie de Pierre B~le; l'edizione definitiva è quella pubblicata da A.J. BEUCHOT, I6 voli., Parigi I820-24. Le altre opere di Bayle sono riunite in una classica edizione (Oeuvres diverses, 4 voli., L'Aia I727-31; ed. fot. Hildesheim I964-68). Dei Pensées diverses sur la comète si ha una edizione critica a cura di A. PRATT, 2 voli., Parigi I911-12; tale opera è anche tradotta in italiano (Milano I9H, a cura di G. BREGA). Sulla vita di Bayle è importante l'opera di EusABETH LABROUSSE, Pierre B~le, Tomo I, Du p~s de Foix à la cité d'Erasme, L'Aia I963. Gli studi su Bayle si sono molto sviluppati in questi ultimi anni; si veda: L. FEUERBACH, Pierre B~le, Ein Beitrag zur Geschichte der Philosophie und Menscheit, Lipsia I848 (nuova ed.; la I ed. è del I838); C. LENIENT, Etude sur B~le, Parigi I865; E. SAIGEY, La théologie de B~le, in« Nouvelle revue de théologie » I86o; E. JEANMAIRE, Essai sur la critique religieuse de Pierre Bayle, Strasburgo I862; E. HATIN, Les gazettes de Ho/lande et la presse clandestine aux XVII et XVIII siècles, Parigi I865; A. DESCHAMPS, La genèse du scepticisme érudit chez B~le, Liegi I 878; J .F. DENIS, B~le et Jurieu, in « Mémoires de l'Académie nationale des sciences, arts et belles lettres de Caen » I886; F.C.J. VAN GoEs, La tolérance selon B~le, in« Revue de théologie et de philosophie » I 889; J .B. KAN, B~le et Jurieu, in « Bulletin de la commission de I 'histoire cles eglises wallonnes », I 890; P. SouQUET, Pierre B~le, libre-penseur et politique (I647-IJ06), in« Révolution française » I89o; L.P. BETZ, P. B~le und die Nouvelles de la République des lettres (Erste popular wissenschaftliche Zeitschrift I684-I687), Zurigo I896; L. LÉVY-BRUHL, Pierre B~le, in« Open Court » I898; L. DuBOIS, Bayle et la tolérance, Parigi I9o2; J. DEVOLVÉ, Religion, critique et philosophie positive chez Pierre B~le, Parigi I9o6; C. BASTIDE, Bayle est-ill'auteur de l'Avis aux r~fugiés ?, in « Bulletin de la société de I 'histoire du protestantisme français » I9o7; C. SERRURIER, Pierre B~le en Ho/lande,· étude historique et critique, Losanna I9I3; G. AscoLI, B~le et l'avis aux réfugiés, in« Revue d'histoire Iittéraire de la France» I9I3; E. LICHTENSTEIN, Gottscheds Ausgabe von Btqles Dictionnaire. Ein Beitrag zur Geschichte der Aujkliirung, Heidelberg I 9 I 5 ; H. H. HAxo, Pierre Bayle and his literary taste, in « Publications of the modern language association » I923; L. LÉVY-BRUHL, Les tendances générales de B~le et de Fontenelle, in« Revue d'histoire de la philosophie » I927; E. LACOSTE, B~le nouvelliste et critique littéraire, Parigi I929; E.B. SuGG, Pierre B~le, ein Kritiker der 497
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Bibliografia
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Bibliografia L'opera Christianiry not mysterious è stata di recente ristampata (Stoccarda 1966, a cura di G. GAWLICK), come lo sono state le Letters to Serena (Stoccarda 1966, a cura dello stesso Gawlick). Sull'opera di Toland si veda: G. BERTHOLO, John Toland und der Monismus der Gegenwart, Heidelberg 1876; A. LANTOINE, Un précurseur de la Franc-Maçonnerie, John Toland, Parigi 1927; A. SEEBER,fohn Toland als politischer Schriftsteller, Freiburg i.B. 1933; C. DENTICE o' AccADIA, Il deismo inglese del Settecento. fohn Toland, in «Giornale critico della filosofia italiana» I934; F.H. HEINEMANN, Prolegomena to a Toland bibliography, in «Notes and Queries » 1943; Io., Toland and the age of enlightenment, in« Review of english studies » 1944; Io., Toland and Leibniz, in « Philosophical review » I945; Io., Toland, France, Holland and dr. Williams, in « Review of english studies » I944; Io., Toland and the age of reason ( with hitherto unpublished materia!), in « Archi v fiir Philosophie » I 9 5o; L. G. CROCKER, fohn Toland et le matérialisme de Didero!, in « Revue d'histoire littéraire >> 1953; P. CASINI, Toland e l'attività della materia, in «Rivista critica di storia della filosofia» I967. Si ha una edizione settecentesca delle opere di S. CLARKE, Works, 4 voli., a cura di B. HoAOLY, Londra I738-42; La Demonstration of the being and attributes of Godè stata ristampata (Stoccarda I964); l'importante corrispondenza con Leibniz è stata edita di recente: The Leibniz-Ciarke correspondence; together with extracts from Newton' s Principia and Opticks, a cura di H.G. ALEXANOER, Manchester 1956 (nuova ed. 1965); è anche tradotta in italiano in G. W. LEIBNIZ, Saggi ftlosoftci e Lettere, a cura di V. MATHIEU, Bari 1963. Su Clarke: J.E. LE RosSIGNOL, The ethical philosophy of S. Clarke, Lipsia 1892; G. VON LEROY, Die philosophischen Probleme im Briefwechsel zwischen Leibniz und Clarke, Mainz I 89 3; E. ALBEE, Clarke' s ethical theory, in « Philosophical review » I 928; E. GARIN, Samuel Clarke e il razionalismo inglese del secolo XVII, in (( Sophia)) 1934; J.H. GAY, Matter and freedom in Clarke, in « Journal of the history of ideas » 1963; H. ERLICHSON, The Leibniz-Ciarke controversy. Absolute versus relative space and lime, in « American journal of physics » 1967. Le opere di W. La w sono state edite in 9 voli. a Londra (I75 3-I776); si veda anche: Selected mystical writings, a cura di S. HoBHOUSE, Londra I938 (seconda ed. I948); The pocket William Law, a cura di A. W. HOPKINSON, Londra I950. Su Law si veda: R. TIGHE, A short account of the /ife and writings of Law I8I3; J.H. OvERTON, The l~fe and opinions of the rev. William Law, Londra I88I; S. H. GEM, The mysticism of William Law, Londra I9I4; S. HoBHOUSE, William Law and eighteenth century quakerism, Londra I927; J.B. GREEN, fohn Wes/V' and William Law, Londra I945; H. T ALON, William Law, a study in literary craftsmanship, Londra I 948 ; A. W. HoPKINSON, About William Law, a running commentary on bis works, Londra I948; C.W. THOMAS, William Law as an ethical religionist, in « J ournal of religious thought » I 9 55. Per quanto concerne le opere si veda l'edizione pubblicata a Londra in 5 voli., nel 1754, a cura di MoLLET, e quella pubblicata a Filadelfia in 4 voli., nel I84I. Su Bolingbroke si veda: W. SICHEL, Bolingbroke and bis times, z voli., Londra I90I-o2; A. HASSALL, Life of Viscount ~f Bolingbroke, Londra I9I 5; A. S. HuRN, Voltaire 499
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Bibliografia
et Bolingbroke: étude comparative sur leurs idées philosophiques et religieuses, Parigi I 9 I 5 ; C. PETRIE, Bolingbroke, Londra I937; P. BARATIER, Lord Bolingbroke et ses écrits politiques, Lione I939; D.G. jAMES, The /ife of reason: Hobbes, Locke, Bolingbroke, Londra I949; W. Mc lNTOSH MERRIL, From statesman to philosophe: a stuqy in Bolingbroke's deism, New York I949; D. HARKNESS, Bolingbroke: the man and his cause, Londra I957; G.H. NAOEL, New light on Bolingbroke's letters on history, in « Journal of the history of ideas » I962; I. KRAMNICK, Bolingbroke and his eire/e, Londra I968.
Le opere di W. Warburton furono pubblicate in 7 voli. a Londra tra il I788 e il I 794 a cura di R. HuRo. Su Warburton: J.S. WATSON, The /ife of William Warburton, ford bishop of Gloucester from 1760 to I77!J, with remarks on his works, Londra I 863; A. W. EvANS, Warburton and warburtonians: a study in some eighteenth controversies, Oxford I 9 32; R. H. GRIFFITH, Ear(y Warburton? or late Warburton, in « University of Texas studies in english » I94o; C. CHERPACK, Warburton and the En€yclopédie, in «Comparative Iiterature » I95 5; Io., Warburton and some aspects of the search for the primitive in eighteenth century France, in « Philological quarterly » I957· Le opere di Butler sono disponibili nell'edizione curata da W.E. GLAOSTONE, 3 voli., Oxford I 896, e in quella curata da J .H. BERNARO, 2 voli., Londra I900. Su Butler si veda: A.E. TAYLOR, Some Jeatures of Butler's ethics, in « Mind » I926; H.G. TowNSENO, The synthetic principle in Butler's ethics, in « International journal of ethics » I926; E.C. MossNER, Bishop Butler and the age ofreason, New York I936; J.W. NoRTON JR., Bishop Butler moralist and divine, New Brunswick 194o; W.G. HARRIS, Theology in the philosophy of Joseph Butler and Abraham Tucker, Filadelfia I94I; T.H. McPHERSON, The development of bishop Butler' s ethics, in « Philosophy » I 948; R. D. DAICHES, Bishop Butler's view of conscience, ivi I949; N. SYKES, Bishop Butler and the church of his age, in « Durham university journal » I95o; A.E. DuNCAN JoNES, Butler's mora! philosopf?y, Harmondsworth I95 2; K.G. RmoLE, The piace of benevolence in Butler's ethics, in « Philosophical quarterly » I 9 59; J. MuRPHY, The injluence of bishop Butler on religious thought, in « Theological studies » I963; P.A. CARLSSON, Butler's ethics, L'Aia I964; A. J OFFNER, Butler and Hume on religion. A comparative ana(ysis, Stoccolma I 966; J. KLEINIG, Butler in a cool hour, in « J ournal of the history of philosophy » I 969. Sugli altri autori citati nel capitolo si veda: R.E. STEDMAN, The ethics of William IV'ollaston, in « Nineteenth century » I93 5; C. MoTZO DENTICE o' AccADIA, Il deismo inglese del Settecento, IV: Tindal, Bolingbroke, in « Giornale critico della filosofia italiana» I936; J.S.L. GrLMAN, Some uncollected authors: Charles Blount I6J4-I6!JJ, in « Book Collector » I95 8; C. MoTZO DENTICE o' AccADIA, Il deismo inglese del Settecento, II: Collins, in «Giornale critico della filosofia italiana» I935; J.H. BROONE, Une collaboration: AnthOf!)' Collins et Desmaizeaux, in « Revue de littérature comparée » I 9 56; G. GIARRrzzo, Fra protestantesimo e deismo: le origini della moderna storiografta inglese sul cristianesimo primitivo. rra latudinari e ortodos.ri: Middleton (z68J-I7JO), in ((Ricerche religiose)) I954; E. CARPENTER, Thomas Sherlock I678-176I, Londra I936.
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Bibliografia La più recente edizione delle opere complete di Berkeley è la seguente: Works, a cura di A.A. LucQ e T.E. }ESSOP, 9 voli., Edimburgo I948-57. Numerose le traduzioni italiane delle principali opere di Berkeley; citiamo le seguenti: Trattato dei principi della conoscenza umana e Tre dialoghi tra Hjlas e Filonous, a cura di G. PAPINI, Bari I909 (m ed. I925); a cura di M.M. Rossr, Bari I95 5; Saggio di una nuova teoria della visione, a cura di G. AMENDOLA, Lanciano I92o; Alcifrone, a cura di A. e C. Guzzo, Bologna I963; Trattato dei principi della conoscenza umana, a cura di A. Guzzo, Torino I946; a cura di F. ALBERGAMO, Verona I 942; Antologia degli scritti filosofici, a cura di T .E. JEsSOP, Firenze I967. Tra i vari strumenti bibliografici su Berkeley, si veda: T.E. }ESSOP, A bibliography of George Berkelry, with an inventory of Berkelry's manuscripts remains lry A.A. Luce, Oxford I934; R.C. ARCHIBALD, Bibliography ofGeorge Berkeley, in« Scripta matematica » I 9 3 5 ; C.M. TuRBAYNE e R. W ARE, A bibliography of George Berkelry I 9 J 21962, in « The journal of philosophy » I963. Per quanto concerne la biografia e la trattazione generale del pensiero di Berkeley, si veda: J.N. NoRTON, The !ife of bishop Berkelry, New York I86I; A.C. FRASER, Life and letters of Berkelry, Oxford 187I; A. PENJON, Étude sur la vie et /es oeuvres philosophiques de George Berkelry, Parigi I 878; A. FRASER, Berkelry, Londra I 88 I (m ed. I 899); A. CooK, Ober die Berkelryschen Philosophie, Halle I886; T. LOEWY, Der Idealismus Berkelrys, in « Sitzungs berichte der Akademie der Kaiserlischen Wissenschaften » I89I; T. LoRENZ, Ein Beitrag zur Lebens-Geschichte Berkelrys e Beitriige zur Lebens-Geschichte Berkelrys, in « Archiv fiir Geschichte der Philosophie » I9oo, I9o8; A.C. FRASER, Berkelry and spiritual realism, Londra I9o9; B. CROCE, L'immaterialismo del Berkelry, in «La Critica» I9Io; M. DAvm, Berkelry, Parigi I9I2; E. CASSIRER, Berkelrys system, Giessen I9I4; A. JoussArN, Exposé critique de la philosophie de Berkelry, Parigi I92o; A. LEvr, La filosofia di George Berkelry, Torino I922; R. METZ, George Berkelrys Leben und Lehre, Stoccarda I925 (ristampa, Stoccarda I968); F. 0LGIATI, L'idealismo di George Berkelry ed il suo significato storico, Milano I926; J.M. HoNE e M.M. Rossr, Bishop Berkelry: his !ife, writings and philosophy, Londra I936 (nuova ed. New York I962); A.A. LucE, The !ife of George Berkelry, bishop ofClrryne, Londra I949; G.J. WARNOCK,Berkelry, Londra I95 3 (nuova ed., Harmondsworth I969); M.M. Rossr, Sa,ggio su Berkelry, Bari I95 5; A.L. LEROY, George Berkelry, Parigi I959; T.E. }ESSOP, George Berkel~y, Londra I959; A.D. RrTCHIE, George Berkelry: a reappraisal, Manchester-New York I967; M.M. Rossr, Introduzione a Berkelry, Bari I970. Sui vari aspetti dell'opera di Berkeley, si veda: S. BAILÈY, Review of Berkelry's theory of vision, in « Westminster review » I 842; T. HuGHES, The ideai theory of Berkelry and the ideai world, Londra I 86 5 ; T.C. SrMON, Berkelry's doctrine on the nature of matter, in « J ournal of speculative philosophy » I 869; J. GÉRARD, L'idéalisme de Berkeley, Parigi I 876; A. VON LECLAIR, Der Realismus der modernen Naturnùsenschaft im lichte der von Berkelry und Kant angebahnten Erkemztnisskritik, Praga I 879; J. J ANITZSCH, Kants Urteile iiber Berkelry, Strasburgo I 879; M.L. CARRAU, La philosophie religieuse de Berkelry, in« Revue philosophiquc » I886; G. DIECKERT, Ober das Verhiiltnis des Berkel~J'Schen Idealismus zur Kantischen Vernunftkritik, Konitz I 888; F. CLAUSSEN, Kritische Darstellung der Lehren Berkelrys iibn· },fathematik, Halle I889; H.W. 0RANGE, Berkelry as a mora/ philosopher, in « Mind » I 89o; R. BoHME, Grundlagen des Berkel~yschen l mtnaterialismus, Berlino I 892; E. MEYER, Humes und Berkelrys Philosophie der Mathematik, Halle I894; S. DrcK, The principle of 501
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Montesquieu e Voftaire Le più recenti edizioni delle opere di Montesquieu sono le seguenti: Oeuvres complètes, a cura di E. LABOULAYE, 7 voll., Parigi 1875-79; Oeuvres complètes, a cura di R. CAILLOIS, 2. voli., Parigi 1949-5 I; Oeuvres complètes, a cura di A. MAssoN, 3 voli., Parigi 1950-5 5· Tra le antologie degli scritti in lingua originale, importante è quella curata da F. STROWSKI, Parigi 1912.. Le principali opere di Montesquieusono tradotte in italiano:
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Bibliografia
I877-85 (è l'edizione più comunemente citata). La corrispondenza di Voltaire è ora disponibile nella monumentale edizione curata da T. BESTERMAN, I07 voli., Ginevra I953-65 (varie aggiunte successive}. Numerosissime sono le raccolte di vari scritti di Voltaire così come le edizioni di singole opere; di alcune si hanno anche edizioni critiche. Le principali opere di V oltaire sono tradotte in italiano. Si vedano gli Scritti filosofici, a cura di P. SERINI, 2 voli., Bari I962; Scritti politici, a cura di R. FuBINI, Torino I964; e inoltre: Le lettere filosofiche, a cura di M. MISUL, Torino I958; Il trattato di metafisica, a cura di P. Rossi, Città di Castello I947; Trattato sulla tolleranza, con prefazione di P. ToGLIATTI, Milano I949; Roma I966; L'A.B.C. con i dialoghi di Evemero, a cura di G. PASQUINELLI, Torino I96o; Dizionario filosofico, a cura di D., CINTI, Milano I93 5; a cura di M. BoNFANTINI, Torino I 9 5o (m ed. I 9 59); Milano I 962; Racconti filosofici, a cura di D. CINTI, Milano I939; Candido e altri racconti, Torino I95 3; Romanzi e racconti filosofici, Roma I954· Gli strumenti bibliografici essenziali per lo studio di V oltaire sono i seguenti: G. BENGESCO, Voltaire, bibliographie de ses oeuvres, 4 voli., Parigi I 882-90 (cfr. F. J. CROWLEY, Corrections and additions to Bengesco's bibliographie, in « Modern language notes» I 9 3 5 ; T. BESTERMAN, Some eighteenth-century Voltaire editions unknown to Bengesco, II ed. in « Studies on Voltaire and the eighteenth century » I959), e inoltre: J. MALCOM, Table de la bibliographie de Voltaire par Bengesco, Ginevra I95 3; M.M.H. BARR, A century of Voltaire studies; a bibliograplry of writings on Voltaire, I82J-IIJ2f, New York I929; Io., Bibliographical data on Voltaire from Il)26 to Il)] O e Bibliographical data on Voltaire from Il) JI to IIJ40, in « Modern language notes» I933 e I94I; H.B. EvANS, A provisional bibliography of english editions and translations of Voltaire, in « Studies on Voltaire and the eighteenth century » I959; T. BESTERMAN, A provisional bibliograp~y of italians editions and translations of Voltaire, ivi I961. Si veda anche: R. PoMEAu, Etat présent des études voltairiennes, in « Travaux sur Voltaire et le XVIII siècle » I95 5; P. ALATRI, Stttdi volterriani, in« Belfagor » I957; Io., Le renottveau roltairien en ltalie, in « Table ronde» I9 58. A partire dal I9 55 si pubblicano a Ginevra presso l'Institut et musée Voltaire, a cura di T. BESTERMAN, gli « Studies on Voltaire and the eighteenth century »(il primo volume fu pubblicato con il titolo di « Travaux sur Voltaire et le dix-huitième siècle ») dedicati principalmente allo studio di Voltaire. I principali studi generali sulla figura e sull'opera di Voltaire sono i seguenti: G. DESNOIRESTERRES, Voltaire et la société au XVIII siède, 8 voli., Parigi I867-76; D.F. STRAUSS, Voltaire, sechs Vortrage, Lipsia I 87o (trad. francese, Parigi I 876); R. MAHRENHOLTZ, Voltaires Leben und Werke, Oppeln I885; J. MoRLEY, Voltaire, Londra I885 (lo scritto fu già pubblicato nel I872); F. BRuNETIÈRE, Voltaire, in Études critiquessur l'histoire de la littérature française, VIII serie, Parigi I 8So- I 907 (cfr. R. MAHRENHOLTZ, Herr F. Brunetière als Voltairekritikert, in « Zeitschrift fiir franzéisische Sprache und Literatur» I89o; C. BECKER, Brunetière's Kampfgegen Voltaire, ivi I9I4); E. CHAMPION, Voltaire: Études critiques, Parigi I892 (m ed. I92I); J.F. NouRRISSON 1 Voltaire et le voltairianisme, Parigi I 896; L. CROUSLÉ, La vie et /es oeuvres de Voltaire, 2. voli., Parigi I899; E. FAGUET, Voltaire, in « Revue cles cours et conférences » I9oo-oi; Io., La politique comparée de Montesquieu, Rousseau et Voltaire, Parigi I9o2; G. LANSON, Voltaire, Parigi I9o6 (edizione rivista e aggiornata da R. PoMEAU, Parigi I96o); P. SAKMANN, Voltaires Geistesart und Gedankenwelt, Stoccarda I9Io; J.M. RoBERTSON, Voltaire, Londra
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Bibliografia
1922; G. BRANDES, Voltaire, 2 voll., Berlino 1923 (edizione tedesca dell'originale danese; si ha anche una trad. inglese, New York 193o); G. AscoLI, Voltaire, in« Revue cles cours et conférences » 1924-25; R. ALDINGTON, Voltaire, Londra 1925; A. BELLESSORT, Essai sur Voltaire, Parigi 1926; H.N. BRAILSFORD, Voltaire, New York 1935; A. NoYES, Voltaire, New York 1936; R. CRAVERI, Voltaire politico dell'illuminismo, Torino I937; N.L. ToRREY, The spiri! oJ Voltaire, New York I938; R. NAVES, Voltaire, l'homme et l'oeuvre, Parigi I942; IRA O. WADE, Studies on Voltaire, with some unpublis6ed papers ~ Madame du Chatelet, Princeton I947; B. GILLE, Voltaire: son temps, sa vie, son oeuvre, Parigi I952; F. VIAL, Voltaire, sa vie et son oeuvre (avec textes complets annotés), Parigi I953; N. AooAMIANO, Voltaire, Roma I956; L.G. CROCKER, Voltaire's struggle for humanism, in « Studies on Voltaire and the eighteenth century » I957; W. GIRNUS, Voltaire, Berlino I 9 58; IRA O. W ADE, The search for a new Voltaire: studies in Voltaire based upon materia! deposited at the american philosophical sociery, Filadelfia I 9 58 ; A. AoAM, Voltaire et !es lumières, in « Europe » I959; J.G. LEITHAUSER, Br nannte sich Voltaire; Bericht eines grossen Lebens, Stoccarda I96I; T. BESTERMAN, Voltaire esstD's, and another, Oxford I962; Y. BELAVAL, L'esprit de Voltaire, in« Studies on Voltaire and the eighteenth century >> I 96 3 ; J. ORIEUX, Voltaire ou la royauté de l'esprit, Parigi I 966. Su aspetti particolari dell'opera, soprattutto filosofica e storica, di Voltaire, si veda: E. HERTZ, Voltaire und diefranzosische Strafrechtspflege, Stoccarda I887; F. CAussY, Voltaire et l'affaire des Lettres philosophiques, in « Revue politique et littéraire » I 908; G. PELLISSIER, Voltaire philosophe, Parigi I9o8; G.R. HAVENS, The Nature doctrine of Voltaire, in « Publications of modern language association » I925; M. GAFFIOT, La théorie du luxe dans l'oeuvre de Voltaire, in « Revue d'histoire économique et sociale» 1926; R. GRoos, Le siècle de Louis XIV de Voltaire, in « Mercure de France» I929; N.L. ToRREY, Voltaire and the english deists, New Haven I93o; A. LANTOINE, Les lettres philosophiques de Voltaire, Parigi I93 I; D.M. McGHEE, Voltairian narrative devices as considered in the author's Contes philosophiques, Menasha, Wisconsin, I933; C.M. CRIST, The Dictionnaire philosophique portatif and the early french deists, Brooklyn I934; N.L. ToRREY, Voltaire' s reaction to Didero!, in « Publications of modern language association » I93 5; M. S. LIBBY, The attitude of Voltaire to magie and the sciences, New York ~93 5; A. R. MoREHOUSE, Voltaire and Jean Meslier, New Haven I936; E. H. PRICE, The opinions of Voltaire concerning Montesquieu theories of roman greatness, in « Philological quarterly », I937; J.R. CARRÉ, Consistance de Voltaire le philosophe, in« Revue cles cours et conférences » I938; R. NAVES, Legoutde Voltaire, Parigi I938; P. HAZARD, Voltaire et Spinoza, in « Modern philology » I940-41; IRA O. WADE, Voltaire and Madame de Chatelet; an esstD' on the intellectual activiry at Cirry, Princeton 194I; M. WATERMAN, Voltaire, Pasca! and human deslif!Y, New York I942; E.H. PRICE, Voltaire and Montesquieu's three principles ofgovernment, in « Publications of modern language association » I 942; M. T. MAESTRO, Voltaire and Beccaria as reformers of criminallaw, New York I942; M. DENECKERE, La conscience européenne chez Voltaire, in « Cahiers de Bruges » I 9 52; R. M. SAUNDERS, Voltaire' s view oJ the meaning of histor_y, in « University of Toronto quarterly » I 9 52-53; C. LuPOR1NI, Voltaire e Les lettres philosophiques, Firenze 195 5; J. RosENTHAL, Voltaire's philosophy of history, in « Journal of the history of ideas » 195 5; C. RowE, Voltaire and the state, New York 195 5; R. PoMEAU, La religion de Voltaire, Parigi 1956 (fondamentale: nuova ed. I969); C. DÉDÉYAN, Voltaire et la pensée anglaise, Parigi I956; J. DAGENS, p o
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Bibliografia
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CAPITOLO QUARTO Condillac e He/tlétius
Per le edizioni delle opere complete di Condillac, si veda: Oeuvres complètes de Condillac, revues, corrigées par l'auteur, imprimées sur ses manuscrits autographes et augmentées de la langue des calculs, ouvrage posthume, 23 voli., Parigi I798 (edizione preparata da MABLY e curata da G. ARNOUX e MouSNIER); Oeuvres complètes, 31 voli., Parigi I8o3; Oeuvres complètes, a cura di A.F. THÉRY, I6 voli., Parigi I82I-22. Per le opere filosofiche: Oeuvres philosophiques, 4 voli., Parigi I792; Oeuvres philosophiques, a cura di G. LE RoY e M. ROQUES, 3 voli., Parigi I947-5 r. G. LE RoY ha pubblicato anche le Lettres inédites à Gabriel Cramer, Parigi I95 3· Fra le traduzioni italiane delle opere di Condillac (numerose le versioni settecentesche e ottocentesche) citiamo le più recenti: Trattato sulle sensazioni, a cura di A. CARLINI, Bari I923 (rr ed. I925); a cura di R. MONDOLFO, Bologna I927; Saggio sull'origine della conoscenza umana, a cura di L. QuATROCCHI, Torino I96o. Per quanto concerne gli studi su Condillac, si veda: P. LAROMIGUIÈRE, Paradoxes de Condillac,ou réjlexions sur la langue des calculs, Parigi I 8o5; LE HARIVEL, Ana!J'se et critique 51 I
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Bibliografia
du Traité des sensations de Condillac, Caen 184I; F. RÉTHORÉ, Condillac ou l'empirisme et le rationalisme, Parigi I864; L. RoBERT, Les théories logiques de Condillac, Parigi I869; L. AnAMS, Condillac and the principle of identiry, in « New Englander » I 876; L. PION, Condillac et sa philosophie, in « Bulletin de l'académie delphinale » I883; K. BuRGER, Ein Beitrag z;;r Beurteilung Condillacs, Altenburg I885; L. DEWAULE, Condillac et la P!Ychologie anglaise contemporaine, Parigi I892; W. SALTYKOW, Die Philo.rophie Condillacs, Berl?-a I90I; R. MoNDOLFO, Spazio e tempo nella psicologia di Condillac, in «Rivista filosofica» I9o2; In., Uno psicologo associazionista: E.B. de Condillac, Palermo I9o2 (nuova ed., Bologna I924); A. LEBEAU, Condi/lac économiste, Parigi I903; J.L. MANN, L'éducation selon la doctrine pédagogique de Condillac, Grenoble I903; B. PERGOLI, Il Condillac in Italia, Faenza I903; S. STROZEWSKI, Bonnets Prychologie in ihrem Verhiiltnis zu Condillacs Traité des sensations, Berlino I905; G. BAGUENAULT DE PucHESSE, Condillac, sa vie, sa philosophie, son inftuence, Parigi I9Io; J. DmiER, Condillac, Parigi I924; H. HAVEMANN, Der erkenntnistheoretische Standpunkt Condillacs, Iena I9I 2; G. CAPONE-BRAGA, Gli errori dell'esperienza interna secondo il Condillac, in« Rivista di filosofia» I92I; R. LENOIR, Condillac, in« Revue philosophique » I923; F.B. KAYE, Mandeville on the origin of language, in « Modern language notes» I924; R. LENOIR, Condillac, Parigi I924; Z. ScHAUPP, The naturalisme of Condillac, Lincoln I 926; M. RADOVANOVITCH, La théorie de la connaissance chez Condillac, Ginevra I927; R. MoNDOLFO, Condillac contro Condillac. Critica della prima parte del Trattato delle sensazioni, in (( Rivista di psicologia » I92 7; L. RANZOLI, La pedagogia di Condillac, Parma I935; G. LE RoY, La p~ychologie de Condillac, Parigi 1937; M. DAL PRA, Condillac, Milano I942; P. MEYER, Condillac, Zurigo 1944; G. SoLINAS, Condillac e l'illuminismo, Cagliari I95 5; E. RYDING, La notion du moi chez Condillac, in « Theoria » 195 5; R. LEFÈVRE, Hommage à Condillac, in « Cahiers d'histoire >> I956; M. THOMAS, Condillac et «l'instinct n'est rien »,in « Scientia » I956; P. SALVUCCI, Lingua
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Bibliografia
Smith und Helvétius, ein Beitrag zum Adam Smith-Problem, Berlino I902; L. LIMENTANI, Le teorie psicologiche di Claudio Adriano Helvétius, Verona I9o2; R. MONDOLFO, Saggi per la storia della morale utilitaria. II: Le teorie morali e politiche di Claudio Adriano Helvétius, Torino I9o4; H.L. LOHMAN, Die ethischen Prinzipien des Helvetius, Wi.irzburg I9o6; A. KEIM, Helvétius, sa vie et son oeuvre, d'après ses ouvrages, des écrits divers, et des docu1nents inédits, Parigi I 907; J. ANGOT DE RoTOURS, Le bon Helvétius et l'affaire de l'Esprit ( avec documents inédits), in « Revue hebdomadaire » I9o9; A. ScHINZ, La profession de foi du vicaire savqyard et le livre De L'Esprit, in « Revue d'histoire littéraire de la France» I9Io; P.M. MAssoN, Rousseau contre Helvétius, ivi I9II; M. JusSELIN, Helvétitts et Mme de Pompadour, à propos du livre et de l'affaire de l'Esprit ... qJ8-6I, Le Mans I9I3; M. CHIRAY, La Jamille des Helvétius, in « Paris-Médical » I 92 I ; M. GROSSMAN, The philosop~ of Helvétius, with special emphasis on the educational implications of sensationalism, New York I926; L. LAFOND, La dinastie des Helvétius. Les remèdes du roi, Parigi I926; LP. VoRONITSUIN, A. Helvétius, Mosca I926 (in russo); G. RICHARD, Helvétius précurseur de Marx, in « Revue internationale de sociologie » I927; P. HoFFMANN, Kleist und Helvétius, in « Germanischromanische Monatschrift » I 9 3 5; E. FRAUENGLAS, Diderot and Helvétius, in « Revue cles cours et conférences » I937; J. LouGH, Helvétius and d'Ho/bach, in «Modern language review» I938; B. D'ANDLAU, Helvétius, seigneur de Voré (avec des documents inédits), Parigi I939; J. RosTAND, La conception de l'homme selon Helvétius et selon Diderot, in « Revue d'histoire dès sciences et de leurs applications » I95 I; R. KoEBNER, The authentici(y of the letters on the Esprit des lois attributed to Helvétius, in « Bulletin of the institute of historical research » I95 I; R. MAUBLANC, Un poète inconnu: Helvétius, in « Europe » I95 I; J.C. ALCIATORE, Stendhal et Helvétius; les sources de la philosophie de Stendhal, Ginevra I952; I.L. HoROWITZ, Claude Helvétius: philosopher of democracy and enlightenment, New York I954; V.W. ToPAZIO, Diderot's supposed contribution to Helvétius' work, in « Philological quarterly » I954; D. OzANAM, La disgrace d'un premier commis: Tercier et l'affaire de L'Esprit (I7J8-IJJ9), in« Bibliothèque de l'école de Chartres » 19 55; I. CuMMING, Helvétius: his life and piace in the history of educational thought, Londra I95 5; K.N. MoMDJIAN, La philosophie d'Helvétius, Mosca I959 (edizioni in lingue estere); G. BESSE, Un maitre du rationalisme franfais au XVIII siècle, Parigi I959; E. C. LADD JR., Helvétius and d'Ho/bach, in « J ournal of the history of ideas », I 962; I. CuMMING, Helvétius in England, in« Études anglaises » 1963; A . .Mc CoNNEL, Helvétius' russian pupils, in « Journal of the history of ideas » I963; D. W. SMITH, Helvétius, a stut!J in persecution, Oxford 1965; C. KIERNAN, Helvétius and a science of ethics, in « Studies on Voltaire and the eighteenth century » I 968; A. PosTIGLIOLA, Helvétius da Cirey al« De l'Esprit», in « Rivista critica di storia della filosofia » I 970.
CAPITOLO QUINTO Hume
L'edizione delle opere di Hume più comunemente citata è quella edita a cura di T.H. GREEN e T.H. GROSE (The philosophical works of David Hume, 4 voli., Londra 187475; ristampa, Aalen I964). Tale edizione comprende tutte le opere di Hume tranne
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Bibliografia
l'estratto del Trattato (An abstract of a treatise of human nature, Londra I74o; fu riscoperto nel I938 e reso disponibile nella edizione curata da J.M. KEYNES e P. SRAFFA, LondraNew York), la Storia d'Inghilterra (History of Great Britain from the invasion of Julius Caesar to the revolution of 1688, 6 voli., Londra I754-62; trad. it., 4 voli., Venezia I8I8; 12 voli., Venezia I8I9) e il saggio scritto in difesa del trattato riscoperto recentemente (A letter jrom a gentleman to his friend in Edinburgh, I 74 5) edito a Edimburgo nel I 967 a cura di E.C. Mossner e J.V. Price. Per quanto concerne la corrispondenza, si veda: The letters of David Hume, a cura di J.Y.T. GREIG, 2 voli., .Oxford I932; New letters of David Hume, pubblicate a cura di E.C. MossNER e R. KLIBANSKY, Oxford I954· Altre lettere inedite sono state pubblicate da E.C. MossNER (I962) e da T. KozANECKI (I963). Si hanno inoltre ottime edizioni di singole opere: del Trattato l'edizione curata da L. A. SELBY-BIGGE, Oxford I 888, con indice analitico, e quella curata da A.D. LINDSAY, 2 voli., Londra-New York I9II; delle Ricerche l'edizione curata da L.A. SELBY-BIGGE, Oxford I894 (II ed. I902); dei Dialoghi sulla religione naturale, quella edita da N. KEMP-SMITH (Oxford I935; II ed., Londra I947)· Quasi tutte le principali opere di Hume sono disponibili in italiano. Indichiamo le varie traduzioni: Trattato sull'intelligenza umana, libro I, a cura di A. CARLINI, Bari I926 (II ed. riveduta I967), libro II, a cura di M. DAL PRA, Torino I950 (nuova ed. I957), libro m, a cura di F. ALBEGGIANI, Milano I 9 3 5 ; Estratto del Trattato, a cura di L. Gui, Padova I 942; a cura di A. BARATONO, Milano I943; a cura di A. CARLINI, Bari I948; a cura di M. DAL PRA, Bari I968 (quest'ultima edizione comprende anche il saggio scritto in difesa del trattato prima citato); Ricerche, a cura di M. DAL PRA, Bari I957; Dialoghi sulla religione naturale, a cura di M. DAL PRA, Milano I947 (II ed. Bari I963); Storia naturale della religione, a cura di S. D'ANGELO, Milano 1950; Discorsi politici, a cura di M. MISUL, Torino I959; una traduzione completa dei saggi e di altri scritti, nonché la traduzione completa del Trattato sono in corso di stampa. Lo strumento bibliografico essenziale sull'opera di Hume è quello pubblicato da T.E. JESSOP (A bibliograpl!J of David Hume and of scottish philosopl!J jrom Francis Hutcheson to Lord Balfour, Londra I938, New York I966); tale repertorio è integrato da quello di E. RoNCHETTI (Bibliografia humiana dal 1937 al 1966, in «Rivista critica di storia della filosofia» I967. Le migliori biografie di Hume sono quelle di J.H. BuRTON (Life and correspondance of David Hume, 2 voli., Edimburgo I942) e di E.C. MossNER (The /ife of David Hume, Londra ed Edimburgo I954)· Sui vari aspetti del pensiero di Hume si veda: F. JooL, Davtd Humes Lehre von der Erkenntniss, Halle I87I; Io., Leben und Philosophie David Humes, Balle 1872; E. PFLEIDERER, Empirismus und Skepsis in Humes Philosophie, Berlino I874; A. MEINONG, Hume-Studien, I-II, in « Sitzungsber. d. Kaiserl. Akad. d. Wissensch., philos.-histor. Klasse », Vienna I 87782; T.H. HuxLEY, Hume, Londra I879; A. PRINGLE-PATTISON SETH, Scottish philosopl!J. A comparison of the scottish and german answers to Hume, Londra-Edimburgo I 89o (Iv ed. 1907); jAMES 0RR, David Hume and his influence on philosopl!J and theology, Edimburgo 1903; G.E. MooRE, Hume's philosop~y, in « New quarterly » I909 (ristampato in « Philosophical studies » 1922); L. LEVY-BRUHL, L'orientation de la pensée philosophique de David Hume, in « Revue de métaphysique et de morale», I9o9; A. THOMSEN, David Hume: hans /iv og hans Filosofi, vol. I, Copenaghen I9I I (trad. tedesca dal danese, Berlino I912); C. W. DoxsEE, Hume's relation to Malebranche, in« Philosophical review » 1916; F.C. SHARP, Hume's ethical theory and his critics, in« Mind » 1921; R. REININGER, 514
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CAPITOLO SESTO
Logica e fondamenti della matematica Per quanto concerne Saccheri, Wolff e gli altri autori tedeschi, si veda la bibliografia dei capitoli XIV e xv; per la geometria non euclidea, si veda la bibliografia del volume successivo. CAPITOLO SETTIMO
L'esigenza di sistematicità nella matematica e nella meccanica Sulle ricerche di matematica e di meccanica in generale si veda: J .B. DELAMBRE, Rapport historique sur /es progrès des sciences mathématiques depuis IJ 89, Parigi I 8 I o (ristampa, Amsterdam I966); P.E.B. JouRnAIN, The principle of least action, Chicago I9I3; R. MARCOLONGO, Il problema dei tre corpi da Newton (r686) ai nostri giorni, Milano I9I9; P. BRuNET, Étude historique sur le principe de la moindre action, Parigi I938; I. BACHMAcovA, Le théorème fondamentale de l'algèbre et la construction des corps algébriques, in « Archives internationales d'histoire des sciences » I96o; C. TRUESnELL, A program toward rediscovering the rational mechanics of the age of reason, in « Archive for history of exact sciences » I96o; J. RAVETZ, The representation of physical quantities in eighteenthcentury mathematical physics, in « Isis » I96I; E.N. HIEBERT, The historical roots of the principle of the conservation of energy, Madison I962; G. BouLIGANn, La mécanique théorique des corps flexibles (I6j8-IJ88) et /es premiers tentatives de spéculations fonctionnelles au XVIII sièc/e, in « Revue d'histoire des sciences », I964; T.L. HANKINS, Eighteenth century attempts to reso/ve the vis viva controversy, in « Isis » I965; In., The inftuence of Malebranche on tiJ..e science of mechanics during the eighteenth century, in « Journal of the history of ideas » I 967; In., The reception of Newton' s second law of motion in the eighteenth century, in « Archives internationales d'histoire des sciences » I967. Si veda inoltre: P. BRUNET, La vie et l'oeuvre de C/airaut, Parigi I952; H. AucHTER, Brook Tcrylor der Mathematiker und Philosoph, Beitrage zur Wissenschaftsgeschichte der Zeit des Newton-Leibniz Streites, Wiirzburg I937; PH.S. JoNES, Brook Tcrylor and the mathematical theory of linear perspective, in « American mathematical monthly » I95 I; C. TwEEDIE, A study of the /ife and writings of Co/in Maclaurin, in« Mathematical gazette » I9I 5; In., The Geometria organica of Co/in Mac/aurin, in « Proceedings of the Royal Sociey of Edinburg » I9I6; H.M. WALKER, Abraham de Moivre, in« Scripta mathematica » I937(di De Moivre è stata di recente ristampata l'opera principale, The doctrine of chances, Londra 1967); I. ScHNEIDER, Der Mathematiker Abraham de Moivre ( r667-IJJ 4), in « Archive for history of exact sciences » I968; C. TwEEDIE, ]ames Stirling, Oxford I922. Sui Bernoulli si veda: Jacques BERNOULLI, Opera, 2 voli., Ginevra I744 (ristampa, Bruxelles I967); Jean BERNOULLI, Opera omnia, 4 voli., Losanna I742 (ristampa, Hildesheim I968); conferenze tenute all'Accademia delle scienze di Pietroburgo in occasione del bicentenario della scoperta della legge dei grandi numeri di J acques, I 9 I 3 ; w. STIEnA, ]ohann Bernoulli in seinen Beziehungen zum preussichen Herrscherhause und zur Akademie der Wissenschaften, in « Abhandlungen der preussichen Akademie der Wisp8
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Bibliografia
senschaften)) I926; K. WoLLENSCHLAGER, Der mathematische Briefwechsel zwischen Johann Bernoulli und Abraham de Moivre, Heidelberg I 9 33; 0.]. REBEL, Der Briefwechsel zwischen ]ohann Bernoulli und de m Marquis de L'Hospitai in erliiuternder Darstellung, Heidelberg I934; O. SPIESS, Die Mathematiker Bernoulli, Basilea I948; J.O. FLECKENSTEIN,johann und jakob Bernoulli, Basilea I 949; K.R. BIERMANN, Die Methode der vollstiindingen Induktion bei und vor Jakob Bernoulli, in « Archives internationales d'histoire cles sciences » I956; ].E. HoFMANN, Vber Jakob Bernoullis Beitriige zur Infinitesimalmathematik, Ginevra I957; P. CosTABEL, Une leçon magistrale de jean I. Bernoulli, in Hommage à Gaston Bachelard, Parigi I957; F. HuBER, Daniel Bernoulli (qoo-q82) als P~siologe und Statistiker, Basilea I959; M. BouooT, Probabilité et logique de l'argumentation selon Jacques Bernoulli, in « Études philosophiques » I967. Le edizioni delle opere di d'Alembert non comprendono gli scritti scientifici, i quali non sono stati finora raccolti; infatti l'edizione edita da J.F. BASTIEN a Parigi, in I 8 voll., comprende le Oeuvres philosophiques, historiques et littéraires, così come la nuova edizione in 5 voll. edita a Parigi nel I821. Il Traité de 4Jnamique è stato riedito a Parigi in 2 voll. nel I92I (sulla base della seconda edizione del I758); ristampa dell'edizione originale, Bruxelles I967; anche le altre principali opere di d'Alembert sono state ristampate a Bruxelles nel I966 e I967. Si veda inoltre: Oeuvres et correspondance inédites de d'Aiembert, pubblicate da C. HENRY, Parigi I887 (ristampa, Ginevra I967). Numerose lettere inedite sono state pubblicate in vari periodi in diverse pubblicazioni. In italiano si ha, oltre al Discorso preliminare e a vari articoli dell'Enciclopedia, una traduzione settecentesca degli Elementi di filosofia e La storia della distruzione dei gesuiti (pubblicata con il titolo La compagnia di Gesù). Per quanto riguarda l'opera di D' Alembert, si veda, oltre agli studi che verranno citati più avanti per i capitoli sull' Enciclopedia: A.N. DE CoNDORCET, Eloge de M. d'Aiembert, in Oeuvres, ed. Arago-O'Connor; P. FRISI, Elogio del signor d' Alembert, Milano I 786; J. BERTRAND, D' Alembert, Parigi I 8 89; M. F6RSTER, Beitriige zur Kenntnis des Characters und der Philosophie d' Alemberts, Amburgo I 892; H. V AHLEN, Ferstrede iiber Friedrich der Grosse und d' Alembert, in « Sitzungsberichte der koeniglich preussichen Akademie der Wissenschaften » I899; J. BRIooux, Note sur d' Alembert, géomètre, littérateur, secrétaire perpetue/ de l' Académie française, in « Bulletin de la société du vieux papier » I 900; G. MISCH, Zur Entstehung des franzosischen Positivismus, Berlino I9oo; U. CISOTTI, Sul paradosso di d'Aiembert, in« Atti del regio istituto veneto di scienze, lettere e arti» I 904-06; L. KuNz, Die Erkenntnistheorie d' Alembert's, i~ « Archiv fiir Geschichte der Philosophie » I 907; M. MuLLER, Essai sur la philosophie de Jean d' Alembert, Parigi I 926; A. MASOTTI, Appunti storici sul paradosso di d' Alembert, in «Periodico di matematiche» I928; H. LEY, Zur Bedeutung d' Alemberts: eine philosophie geschichtliche Untersuchung, in « Wissenschaftliche Zeitschrift » dell'Università di Lipsia I951-52 (anche in francese Sur l'importance de d'Aiembert, in «La pensée » I95 2-53); L. DE BROGLIE, Un mathématicien homme de lettres: d' Alembert, in « Annales de l'Université de Paris » I95 2; ]. VON STACKELBERG, D' Alemberts Apologie der gelehrten Bildung (Apologie de l'étude), in « Deutsche Universitatszeitung » I95 8; R.E. BuTTS, Rationalism in modern science: d' Alembert and the esprit simpliste, in « Bucknell reviev » I958-59; J.N. PAPPAS, Rousseau and d'Aiembert, in « Publications of modern language association » I 96o; Io., Voltaire and d' Alembert, Bloomington I 962; R. GRIMSLEY, jean d'Aiembert IJIJ-.!78], Oxford I963; J. MoRTON BRIGGS JR., D'Aiembert: 519
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Bibliografia
vich) in « Rad Jugoslavenske Akademije » I9Io-12; D. NEDELJKOvré, La philosophie nature/le et relativiste de Boscovich, Parigi I922.; L. CERMELJ, Roger Joseph Boscovich als Relativist, in « Archiv fiir Geschichte der Mathematik, der Naturwissenschaften und der Technik » I9z9; I. TACCONI, I motivi psicologici dell'atomistica boscoviciana, in « Rivista dalmatica» I93o; P. BRUNET, Roger Joseph Boscovich, in « Archeion » I938; H. V. GILL, Roger joseph Boscovich, forerunner of modern physical theories, Dublino I94I; Gradja za zivot i rad Rugjera Boskovica (materiale sulla vita e l'opera di Boscovich), pubblicato dalla Accademia jugoslava di scienze e lettere, Zagabria I95o; B.M. ScuLLY, A great but forgottenjesuit scientist, Roger Joseph Boscovich modern humanist, Weston, Mass. I95 3; D. NEDELJKOVIé, Rugier Boscovic o prostoru, vremenu i relativnosti (sullo spazio, il tempo, la relatività), Belgrado I956; L.L. WHYTE, Roger .foseph Boscovich and the mathematics of atomism, in « Notes and records of the Royal Society » I 9 58; Atti del Simposio internazionale su Ruggero Giuseppe Boscovich, Belgrado I 9 58; P. CosTABEL, Le De viribus vivis de Roger Boscovich ou de la vertu des querelles des mots, in « Archives internationales d'histoire cles sciences » I96I; D. NEDELJKOVIé, La philosophie et l'oeuvre scientifique de Roger joseph Boscovich, in « Revue de synthèse » I96I; Roger .foseph Boscovich S.]. qp-q87, studies of his /ife and work on the 2JO!h anniversat:y of his birth, a cura di L.L. WHYTE, Londra I96I; P. CosTABEL, Le De rycloide de Roger Boscovich, in « Revue d 'histoire cles sciences » I 96z; Atti del Convegno internazionale celebrativo del z5o 0 anniversario della nascita di Boscovich, Milano I963; G. CosTA, Boscovich e Spallanzani, documenti di una polemica, in « Rivista critica di storia della filosofia » I 967; J.B. SPENCER, Boscovich' s theory and its relation to Faraday' s researches: an analitica/ approach, in « Archive for history of exact sciences » I967. Le opere di Lagrange sono state raccolte in I4 voll. e pubblicate a Parigi, a cura di J.A. SERRET tra il I 867 e il I 89z. Sulla vita e sull'opera di Lagrange si veda: P. CossALI, Elogio di L. Lagrange, Padova I83I; L. MARTIN!, Cenni biografici di Lagrangia, Torino I84o; A. FoRTI, Intorno alla vita e alle opere di Luigi Lagrange, II ed., Roma I 869; L. F. MENABREA, Luigi Lagrange in « Atti della regia accademia delle scienze di Torino », I 876-77; A. GENOCCHI, Luigi Lagrange, in Il primo secolo della R. Accademia delle scienze di Torino, Torino I883; G. V ACCA, Sui pritni anni di Giuseppe Luigi Lagrange, in « Bollettino di bibliografia e storia delle scienze matematiche» I90I; G. LORIA, G.L. Lagrange nella vita e nelle opere, in «Annali di matematica» I9I3; I. GuARESCHI, Notizie storiche intorno a Luigi Lagrange, in «Atti della reale accademia delle scienze di Torino» I9I4; N. NIELSEN, Recherches sur /es équations de Lagrange, Copenaghen I9Z3; G. LoRIA, Nel secondo centenario della nascita di G.L. Lagrange, IJJ6-I!JJ6, in« Isis » I938; F. BuRZIO, Lagrange, Torino I94z; G. SARTON, Lagrange's personaliry, in « Proceedings of the american philosophical society » I944; J. VurLLEMIN, La philosophie de l'algèbre de Lagrange, Réjlexions sur le mémoire de IJJO-IJJI, « Conférences du palais de la découverte », Parigi I964; J.D. DrvoN, Another proof of Lagrange's four square theorem, in « American mathematical monthly » I964.
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CAPITOLO OTTAVO
L'esigenza di una più ampia sperimentazione nelle scienze della natura Su questioni generali relative alle scienze nel XVIII secolo si veda: A.N. MELDRUM, The eighteenth century revolution in science: the ftrst phase, Bombay I93o; H.D. ANTHONY, Scientiftc books of the 18th century and the emergence of modern science, in « Proceedings of the Royal Institution » I959; A.E. MussoN e E. RoBINSON, Science and industry in the late eighteenth century, in «Economie history review », I96o; D. KRONICK, A history of scientiftc and technical periodicals: the origins and development ~~ the scientiftc and technological press, I66J-I790, New York I962; D.S.L. CARDWELL, Science and technology in the eighteenth century, in « History of science » I962; In., Power technologies and the advance of science, qoo-I82J, in« Technology and culture» I965; Late eighteenth century european scientists, a cura di R. 0LBY, New York I966 (biografie di diversi scienziati); W.P. JoNES, The rhetoric of science. A stu4J of scientiftc ideas and imaginery in eighteenth centut:y, Berkeley I966. Sugli strumenti scientifici e sulla tecnologia del xviii secolo si veda: C. WoLF Recherches historiques sur /es étalons des poids et mesures et /es appareils qui ont servi à /es construire, Parigi I 882; G. BIGOURDAN, Le ~ystème métrique, Parigi I 90 I ; C. VON KLINCKOWSTROEM, Zur Geschichte des Lenkballons, in « Geschichtblatte fiir Technik » I92o; D. BROWNLIE, The ear(y histor_y of the coal gas process, in « Transactions of the Newcomen society », I 924; T.S. AsHTON, Iron and steel in the industriai revolution, Manchester I924; T.S. AsHTON e J. SYKES, The coal industry of the eighteenth centur:_y, Manchester I 929; A. FA VRE, Les origines du s._ystème métrique, Parigi I 9 3 I ; R. MousNIER, Progrès scientiftque et technique au XVIII siècle, Parigi I95 8; E. G. FORBES, The origin and development ofthe marine chronometer, in « Annals of science » I966. Si veda inoltre: J. MASCART, La vie et /es travaux du chevalier de Borda {IlJJ-1799}, Parigi I9I9; C. CABANES, ]oseph de Montgolfter et le belier ~draulique, in « Transactions of the Newcomen society » I936-37; F. CAJORI, Note on the Fahrenheit scale, in « Isis » I92I; E. CoHEN e W.A.T. CoHEN, Daniel Gabriel Fahrenheit, Amsterdam I936; H. DANIEL, Gabriel Fahrenheit, ein deutscher Vertreter technischer P~ysik, in « Proteus » I93 7 f s.e. SMITH, A speculation on the origin of Fahrenheit's temperature e Fahrenheit' s temperature scale: postscriptum to a speculation, in « Isis >> I965. L'opera più importante di Réaumur, Mémoires pour servir à l'histoire des insectes, 6 voli., Parigi I734-42, è stata ampliata con la pubblicazione del tomo VII (Histoire des fourmis, introduzione di E.L. BouvmR e note di C. PEREZ, Parigi I928; Histoire des scarabées, introduzione di M. CAULLERY e note di P. LESNÉ e F. PICARD, Parigi I95 5). Si vedano inoltre le seguenti antologie: La vie et /es moeurs des insectes, a cura di M.C. DE MoNTMAHON, Parigi I868 (v ed. I885); Morceaux choisis, a cura di J. ToRLAIS, Parigi I939· Sui vari aspetti dell'opera di Réaumur si veda: L. GuiLLET, Réaumur {I68J-I7J7), sa vie, son oeuvre, in « Revue de métallurgie », I922; M. CAULLERY, Les papiers laissés par de Réaumur et le /ome VII des Mémoires pour servir à l' Histoire des insectes, Parigi I929; Io., Réaumur à travers ses papiers inédits, in« Revue de Paris » I93o; J. ToRLAIS, Réaumur, un esprit enryclopédique en dehors de I'En~yclopédie, d'après des documents inédits, Parigi I936 (nuova ed. I96I); R. BLAIS, Réaumur initiateur de l'expérimentationforestière, in «Revue
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Su Black si veda: W. RAMSAY, The /ife and letters oj joseph Black, Londra I 9 I 8; H. RmDEL, The great chemist} joseph Black} his Be/fast friends and family connections, in « Proceedings of the Belfast natura! history and philosophical society » I92.o; H. BuESS, joseph Black (IJ28-qjj) und die Anfange chemischer Experimentaljorschung in Biologie und Medizin, in « Gesnerus » I956; H. GuERLAC, Joseph Black and ftxed air} a bicentenary retrospective} with some new or little known materials, in« Isis » I957; M.P. CROSLAND, The use oj diagrams as chemical equations in the lecture notes of William Cullen and joseph Black, in « Annals of science » I 9 59; D. McKIE, On some letters ofJoseph Black and others, ivi I 960; In., On some ms. copies of Black}s chemica/ lectures, ivi I967. Le opere di Cavendish sono disponibili in una classica edizione: Scientiftc papers, edited from the published papers and the Cavendish manuscripts. Vol. I: The e/ectrica/ researches, a cura di J.C. MAxwELL con la revisione di J. LARMOR; vol. n: Chemica/ and dynamical, a cura di E. THORPE e altri, Cambridge I92.I. Su Cavendish si veda: G. WILSON, The /ife ~f the hon. Henry Cavendish} inc/uding abstracts of his more impor/an/ scient~fic papers and a criticai inquiry into the c/aims of ali the alleged discoverers of the composition of water, Londra I85 I; A.J. BERRY, Henry Cavendish} his /ife and scientiftc work, Londra I96o; B. S. ]0RGENSEN, On a text-book error: the accura€y of Cavendish's determination of the oxygen conteni of the atmosphere, in « Centaurus » I 967; R.McCoRMMACH, fohn Miche/l and Henry Cavendùh: weighù;g the stars, in « British J ournal for the history of science » I 968; In., Henry Cavendish: a stud)' of rationa/ empiricism in eighteenth-century natura/ philosophy, in « Isis » I969. Per quanto concerne i numerosissimi scritti di Priestley, si veda: Theological and mùcellaneous works, ed. a cura di J. TowiLL RuTT, 2.5 voli., Londra I8q-p; Writings on philosop~} science and politics, a cura di J.A. PASSMORE, New York-Londra I965; Joseph Priestlry: Se/ections from his writings, a cura di V.I. BROWN, Pennsylvania I962.; A scientiftc autobiograp~ of joseph Priestlry IJ.jj-I804. Selected scientiftc correspondence, a cura di ScHOFIELD, Cambridge Mass. I966. L'opera The History and present state of electriciry è stata ristampata (Londra-New York I966, con introduzione di R.E. ScHOFIELD). Su Priestley si veda: J. CORRY, Life of Priestlry, Birmingham I8o4; W. DE FoNVIELLE, Célébration du premier centenaire de la découverte de /'oxygène 1 Aout 1774· La vie et /es travaux du docteur Priestlry, Parigi I875; B. ScHOENLANK, Hartlry und Priest/ry} die Begriinder des Assoziationismus in England, Halle I882.; E. FAHS SMITH, Priestlry in America} IJ94-1804, Philadelphia I92.o; D.H. PEACOCK, joseph Priestlry, Londra I92.0; T.L. DAvrs, The /ast stand ofphlogiston: Priestlry' s defense oj the doctrine after his remava/ to America, in Studien zur Geschichte der Chemie} Festgabe E.O. von Lippmann, Berlino I92.7; A. HoLT, A /ife of Joseph Priest/ry, Oxford I93 I; P. HARTOG, joseph Priestlry and hù piace in the hùtory of science, Lecture delivered to Royal Institute ofGreat Britain 2.4 aprile I93 I; W. CAMERON WALKER, The beginnings oj the scientific career oj joseph Priest/ry, in « Isis » 1934; D. W. BRONK, Joseph Priestlry and the early hùtory of the american philosophical sociery, in « Proceedings of the american philosophical society » 1942.; E.G. CoNKLIN, joseph Priest/ry and the american philosophic sociery: his experiments on spontaneous generation, ivi 19 5o; P. HARTOG, A.N. MELI1RUM, H. HARTLEY, The bicentenary ofJoseph Priestlry, in« Journal of the chemical society » 1933; F. MATIGNON, Priest/ry et son oeuvre scientiftque, in« Revue scientifique» 1933; J.G. GILLAM, The crucible. The story ofJoseph Priestlry, Londra 1954;
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Bibliografia e l'accademia delle scienze di Pietroburgo), Mosca I96I; A.A. ELISEEV e I.B. LrTINETSKY, Michail Vasilevié Lomonosov, piervii russkii ftzik (Lomonosov, il primo fisico russo), Mosca 196I; P. SLAVÉNAS, Lomonosovas, Vilno I96r; S.I. VAVILOV, Michail Vasilevié Lomonosov, Mosca I96I; « Voprosy Istorii Estetvoznaniia i Tekhniki » I96z (diversi articoli su Lomonosov); E. S. KuLYABKO, Michail Vasilevié Lomonosov i ucebnaya deyatelnost Peterburskoi Akademii Nauk (Lomonosov e le attività educative dell'accademia delle scienze di Pietroburgo), Mosca I96z; A.T. GRIGORIAN, Michail Vasilevié Lomonosov and hi.r pl!Jsical theories, in « Archives internationales d'histoire cles sciences » I963; A.A. MoRozov, Michail Vasilevié Lomonosov, Mosca I965; Y.Y. KoGAN, Michail Vasilevil Lomonosov and religion, in « Cahiers d'histoire mondiale» I967. L'edizione delle opere di Lavoisier cui si fa continuamente riferimento è quella pubblicata in 6 voli. a Parigi tra il I863 e il I893· Per la corrispondenza si veda: Correspondence, a cura di F. FRIC, Parigi I95 5 segg. Fondamentale è il seguente strumento bibliografico: D.l. DuvEEN e H.S. KLIECKSTEIN, A bibliograpl!J of the works of Antoine Laurent Lavoi.rier, Londra I954 (supplemento, I965). Su Lavoisier si veda: E. GRIMAUX, Lavoi.rier (I74.J-I7N}, Parigi I888; M. BERTHELOT, La révolution chimique, Lavoi.rier, Parigi I 890; I. GuARESCHI, Lavoi.rier, sua vita e sue opere, Torino I9o3; M. SPETER, Lavoi.rier und seine Vorliiufer, in « Sammlung chemischer und chemisch-technischer Vortraage » I9Io; A. MIELI, La posizione di Lavoi.rier nella storia della chimica, in « Scientia » I9I 5; J.C. HEMMETER, Antoine Laurent Lavoi.rier, in « Janus » I9ZI; M.L. FosTER, Antoine Laurent Lavoi.rier, hi.r /ife and works, Northampton, Mass. I9z6; A. MIELI, Lavoi.rier, Roma I9z6; L. E. LEROUX, Lavoi.rier, Parigi I9z8; J .A. Co c HRANE, Lavoi.rier, Londra I 9 3 I ; A.N. MELDRUM, Lavoi.rier's three notes on combustion I772, in « Archeion » I9p; Io., Lavoi.rier's work on the nature of water and the supposed transmutation of water into earth (IJ68-IJ7.J), ivi I93z; H. METZGER, Introduction à l'étude du role de Lavoi.rier dans l'hi.rtoire de la chimie, ivi; A.N. MELDRUM, Lavoi.rier's ear{y work in science IJ6.J-IJJI, in « Isis » I933; H. METZGER, La philosophie de la matière chez Lavoi.rier, Parigi I93 5; D. McKrE, Lavoi.rier, the father of modern chemi.rtry, Filadelfia I 9 3 5; Exposition à l' occasion du deuxième centenaire de Lavoi.rier, Palais de la découverte, Parigi 1943; M. DAuMAS, Lavoi.rier, Parigi I94I; J.C. DoRFMAN, Lavoi.rier, Mosca I948; R. DuJARRIC DE LA RrvrÈRE, Lavoi.rier économi.rte, Parigi I949; G. BERTRAND, Lavoi.rier et la découverte de l'oxygène, in « Archives internationales d'histoire cles sciences » I95o; D. McKrE, Antoine Lavoi.rier. Scienti.rt, economi.rt, social reformer, Londra I95z; M. DAuMAS, Lavoi.rier théoricien et expérimentateur, Parigi I95 5; Io., Lavoi.rier et ses hi.rtoriens, in « Archives internationales d 'histoire d es sciences » I 9 57; L. ScHELER, Lavoi.rier et la révolutionfranfai.re, z voli., Parigi I957~6o; S.E. TouLMIN, Crucial experiments: Priestley and Lavoi.rier, in « Journal of the history of ideas » I957; M. DAUMAS e D. DuvEEN, Lavoi.rier's relative(y unknown large-scale decomposition and .rynthesi.r of water, february 27 and 28 I78J, in « Chymia » I959; R. DuJARRIC DE LA RIVIÈRE e M. CHABRIER, La vie et l'oeuvre de Lavoi.rier d'après ses écrits, Parigi I959; H. GuERLAC, The origin of Lavoi.rier's work on combustion, in «Archives internationales d'histoire cles sciences » I95 9; Io., Lavoi.rier. The crucial_year. The background and origin of hi.r ftrst experiments on combustion in IJJ2, Ithaca I96I; s.e. HOLLISTER, Antoine Laurent Lavoi.rier. An exhibition, Ithaca I963; W .A. SMEATON, Ne1v light on Lavoi.rier: the research of the last ten years, in « History of
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Bibliografia
science » I963; L. ScHELER, Lavoisier et le principe chimique, Parigi I964; R.B. MARcus, Antoine Lavoisier and the revolution in chemistry, New York I964; F.C. STORRS, Lavoisier's technical reports: q68-qg4, in « Annals of science » I966-68; L. VELLUZ, Vie de Lavoisier, Parigi I966; R. RAPPAPORT, Lavoisier's geologica/ activities, I763-I792., in« Isis » I967.
CAPITOLO NONO
Biologia e filosofia In generale sulle ricerche di biologia si veda: H. DAUDIN, De 'Linné à Jussieu. Méthodes de la classification et idée de série en botanique et en zoologie (q4o-qgo), Parigi I9z6; L. FEBVRE, Un chapitre de l'histoire de l'esprit humain. Les sciences naturelles de Linné à Lamarck et à Georges Cuvier, in « Revue de synthèse historique » I92.7; P. BRuNET, La notion d'évolution dans la science moderne avant Lamarck, in« Archeion » I937; P. 0MODEO, La disputa sulla generazione spontanea da Redi fino a Lamarck, in «Società» I957; S.L. KING, Rationalism in early eighteenth century medicine, in « J ournal of the history of medicine » I 96 3 ; PH. C. RITTERBUSH, Ouvertures to biology: the speculations of eighteenth century naturalists, Londra I964; G. SoLINAS, Il microscopio e le metafisiche. Epigenesi e preformismo da Cartesio a Kant, Milano I967. Si veda inoltre: R. ALBER, Die Philosophie Robinetes, Lipsia I9o3; SITKOVSKIJ, Filosoftja Z.B. Robiné, Mosca I936; J. MAYER, Robinet philosophe de la nature, in« Revue cles sciences humaines » I954; R. MOLINERY, Autour de Théophile de Bordeu (IJ22-IJJ6), Luchon I92.2.; E. FoRGUE, Théophile de Bordeu Jondateur de l'hydrologie, précurseur de la biologie moderne, Parigi I 9 37; J .R. BAKER, Abraham Trembley of Geneva, scientist and philosopher rpo-q84, Londra I952.; A. KIRCHHOFF, Caspar Friedrich Wolff Sein Leben und seine Bedeutung, in « Jenaische Zeitschrift flir Medizin und Naturwissenschaft » I868; G. UscHMANN, Caspar Friedrich Wolff ein Pioneer der moderner Embriologie, Lipsia I95 5. Si ha un'edizione settecentesca delle opere di Vallisneri, la seguente: Opere fisicomediche stampate e manoscritte raccolte da Antonio suo figliolo, 3 tomi, Venezia I733· Su Vallisneri si veda: L. CAMERANO, Antonio Vallisneri e i moderni concetti intorno ai viventi, in «Memorie della regia accademia delle scienze di Torino» I9o5; J. FRANCHINI, Antonio Vallisneri (M~ j, r66r-january r8, IJ.JO). On the second centenary oJ his death, in« Annals of medicai history » I93 I; R. SAVELLI, L'opera biologica di Antonio Vallisneri, in « Physis » I96I; AuTORI VARI, Il metodo sperimentale in biologia da Vallisneri ad oggi, atti del convegno tenutosi a Padova in occasione del terzo centenario della nascita di Vallisneri, Padova I962.. Le principali opere di Linneo sono state ristampate di recente (Systema naturae, I73 5; Stoccolma I96o; Genera plantarum, Weinheim I96o; Philosophia botanica, Weinheim I966 ecc.). La società svedese linneana pubblica periodicamente numerosi studi su Linneo (svenska Linné-sallskapets arsskrift). Oltre a questi si veda: O.E.A. HJELT, Cari v. Linné som liikare och hans berydelse fiir den medicinska vetenskapen i Sverige, Helsingfors I 877 (nuova ed. con il titolo, Cari v. Linné sdsom liikare och medicinskfiirfattare, Uppsala I907); J.v. GISTEL, Carolus Linnaeus. Ein Lebensbild, Francoforte I873; T.M. FRIES, Linné,
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Bibliografia
Lefnadsteckning, 2 voli., Stoccolma I9o3; O. LEVERTIN, Cari von Linné. Ndgra kapitel ur ett oafslutadt arbete, Stoccolma I 906; In., Cari von Linné, Stoccolma I 907; Cari von Linné als Naturforscher und Arzt, Jena I9o8; Cari von Linnés Bedeutung als Naturforscher und Arzt, Jena I9o9; H.M. CHURCH, Linnaeus as a pfD!sician, in « Edinburgh medicai Journal » I9I 3; C. FoRSSTRANn, Linné i Stockolm, Stoccolma I9I 5; E. RIBBING, Cari von Linné, Uppsala I918; E. ALMQUIST, Linné und naturliche Pjlanzenrystem, in« Beiblatt zu den Botanischen Jahrbtichern » I922; B.D. ]ACKSON, Linnaeus, Londra I923; W. JuNK, Linné im Lichte neurerer Forschung, Berlino I925; E. MALMESTROM, Linné som Kulturpersonlighet, Uppsala 1925; In., Linnés religiosa dskddning, Stoccolma e Uppsala I 926; In., Linnés religionsftlosoftska betraktelser i foretal och inledningsord ti/l 5_ystema naturae, Stoccolma e Uppsala 1926; G. NEANnER, Linné und die Lungenschwindsucht, in « Janus » I927; ]. ScHUSTER, Die Heilmittellehre Linnés, in Georg Sticker Festgabe, Berlino 1930; B.H. LARSSON, .Carolus Linnaeus, physician and botanist, in « Annals of medicai history » I938; K. HAGBERG, Cari Linnaeus, Stoccolma I939 (rr ed. I957i trad. tedesca, Amburgo I946; trad.inglese,New York 195 3); J.W. HELLER, Classica/ mythology in the Systemanaturae of Linnaeus, in « Transactions and proceedings of american philological association » I945; N. GouRLIE, The prince of botanists, Cari Linnaeus, Londra I95 3; A.]. BoERMAN, Carolus Linnaeus, a psychological study, in « Taxon » I 9 53; C.E. B. Bremekamp, Linné' s views on the hierarchy of Taxonomic group, in «Acta botanica neerlandica » I95 3; G.A. LINnEBOOM, Linnaeus and Boerhaave, in « Janus » I957i A.J. CAIN, Logic and memory in Linnaeus' s ~ystem of taxonomy, in « Proceedings of the Linnean Society of London » I958; A.H. UGGLA, Cari von Linné, Stoccolma I959i W.T. STEARN, The background of Linnaeus contributions to the nomenclature and methods of rystematic biology, in « Sistematic Biology » I959i E. MALMESTRÒM, Linnaei viig ti/l vetenskaplig klarhet. En Studie, Malméi I96o; In., Cari von Linné, Stoccolma I964; S. LINnROTH, Linné-legend och verklighet, in « Lychnos » I965-66; H. GoERKE, Cari von Linné, Arzt; Naturfoscher, Systematiker, IJOJ-IJJ8, Stoccarda I966; ].L. LARSON, Linnaeus and the natura/ method, in« Isis » I967; O. LEVERTIN, Cari von Linné, Stoccolma I968.
Fra le molteplici edizioni delle opere di Buffo n, si ricordano le seguenti: OeutJTes complètes, précédées d'une notice historique et de considérations générales sur le progrès de l'influence philosophique cles sciences naturelles depuis cet auteur jusqu'à nos jours par M. GEOFFROY SAINT-HILAIRE, 5 voli., Parigi I 8 37-3 8; Oeuvres complètes, avec la nomenclature linnéenne et la classification de Cuvier, revues et annotées par H. FLOURENS, I 2 voli., Parigi I 8 53-55; Oeuvres complètes. Nouvelle édition annotée et précédée d'une introduction par J.L. LANESSAN, suivie de la correspondance générale de Buffon recueillie et annotée par M. NADAULT DE BuFFON, I4 voli., Parigi I884-85. Ricordiamo inoltre l'edizione critica delle Epoques de la nature, a cura di J. RoGER, Parigi I962, e la raccolta delle Oeuvres philosophiques, a cura di J. PIVETEAu, M. FRÉCHET e C. BRuNEAU, Parigi I 9 54 (con una importante appendice bibliografica di E. GENET- V AREIN e J RoGER. Numerosissime le traduzioni settecentesche e ottocentesche in lingua italiana (come pure nelle altre lingue europee) delle opere di Buffon e della Storia naturale in particolare; citiamo la traduzione del primo volume della Storia naturale, a cura di M. RENZONI, Torino I959 e quella delle Epoche della natura, curata dalla stessa M. RENZONI, Torino I96o.
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Bibliografia
Sull'opera di Buffon si veda: G. LAMOIGNON DE MALESHERBES, Observations sur l'histoire nature/le générale et particulière de Buffon et Daubenton, 2 voll., Parigi I 798; P. FLOURENS, Buffon: histoire de ses travaux et de ses idées, Parigi I 845; Io., Des manuscrits de Buffon, Parigi I86o; HuMBERT-BAZILE, Buffon, sa famille, ses collaborateurs et ses familiers, Parigi I 86 3; J .F. NouRRISSON, La philosophie de Buffon, in « Compte rendu de l' Académie cles sciences morales et politiques » I 88 3; J .L. LANESSAN, Les facultés intellectuelles et mora/es des animaux et de l'ho m me d' après Buffon, in « Revue anthropologique » I 9 I 3; L. DIMIER, Buffon, Parigi I9I9; G. HERVÉ, Buffon et son oeuvre ethnologique, in« Revue anthropologique » I 9 I 8; E. EsTAUNIÉ, La vraie figure de Buffon, in « Revue hebdomadaire » I 924; L. RouLE, Buffon et la description de la nature, Parigi I924; L. BADEY, Buffon, précurseur de la science démographique, in « Annales de géographie » I929; P. BRUNET, La notion d'infini mathématique chez Buffon, in « Archeion » I93 I; ]. STROHL, Buffon, in « Nouvelle revue française » I935; H. BROWN, Buffon and the R'!}al Society of London, in Studies and essays in the history of science and learning offered to George Sarton, New York I947; Catalogue de l'exposition Buffon, Muséum national d'histoire naturelle, Parigi I95o; Buffon, studi vari pubblicati dal Muséum national d'histoire naturelle, Parigi I952; O. FELLOWS, Voltaire and Buffon: clash and conciliation, in « Symposium » I95 5; J.S. WILKIE, The idea of evolution in the writings of Buffon, in « Annals of science » I956; R. WoHL, Buffon and his prqject fora new science, in « Isis » I96o; O. FELLOWS, Buffon and Rousseau; aspects of a relationship, in « Publications of the modero language notes» I96o; Io., Buffon's piace in the Enlightenment, in « Studies on Voltaire and the eighteenth century » I 96 3; S.F. MILLIKEN, Buffon and james Bruce, in « Rocky Mountain review » I963-64; J. RoGER, Diderot et Buffon en 1749, in « Diderot Studies » I963; G. SoLINAS, Illuminismo e storia naturale in Buffon, in « Rivista critica di storia della filosofia » I 96 5 ; L. HANKS, Buffon avant l'histoire nature/le, Parigi I966. Si ha un'edizione moderna delle opere di Spallanzani pubblicata sotto gli auspici della reale accademia d'Italia, 6 voll., Milano I932-36. Indispensabile è il seguente strumento bibliografico: D. PRANDI, Bibliografia di Lazzaro Spallanzani, Firenze I952· Sulla vita e sulle opere di Spallanzani si veda: P. PoZZETTI, Elogio di Lazzqro Spallanzani, Parma I8oo; G. DE' BRIGNOLI or BRUNNHOFF, Dell'abate Lazzaro Spallanzani scandianese. Notizie biografiche con appendici, in Notizie biografiche in continuazione della Biblioteca Modenese del cavaliere abate Girolamo Tiraboschi, Reggio Emilia I833-37, tomo IV; AuTORI VARI, Nelle feste centenarie di Lazzaro Spallanzani 1799-1899, Reggio Emilia I899; AuTORI VARI, Nel primo centenario della morte di Lazzaro Spallanzani, 2 voll., I899-I9oo; J. RosENWALD, Étude sur Spallanzani biologiste, Parigi I912; B. CuMMINGS, Spallanzani, in « Science progress in the twentieth century » I9I7; G.E. BuRGET, Lazzaro Spallanzani (1729-I799), in« Annals of medicai history » I924; G. PIGHINI, Una scoperta ignorata di Lazzaro Spallanzani sulla struttura delle spugne, in « Archeion » I928; G. MoNTALENTI, Lazzaro Spallanzani, Milano I928; AuTORI VARI, Onoranze a Lazzaro Spallanzani ne/II centenario della nascita, Reggio Emilia I929; AuTORI VARI, Commemorazioni spallanzaniane, I1-14 aprile 1939, 4 voli., Pavia 1939-40; P. CAPPARON1, Spallanzani, Torino I941; ]. RosTAND, Les origines de la biologie expérimeni'ale et l'abbé Spallanzani, Parigi I95 I (trad. italiana, Torino I963). Si ha una edizione settecentesca delle opere di C. BoNNET (Oeuvres d'histoire nature/le
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Bibliografia
et de philosophie, IO voli., Neuchatel I779-83); si veda anche: Mémoires autobiographiques, a cura di R. SAVIOZ, Parigi 1948. Su Bonnet si veda: A. LEMOINE, Charles Bonnet de Genève philosophe et naturaliste, Parigi I85o; A. SAYOUS, Charles Bonnet, sa vie et ses travaux, in« Revue cles deux mondes » 185 5; M. 0FFNER, Die Psychologie Charles Bonnet's, Lipsia I893; C.O. WHITMAN, The palingenesia and germ doctrine of Bonnet, Boston 1896; Io., Bonnet's theory of evolution, ivi; J. SPECK, Bonnets Einwirkung auj die deutsche Psychologie des vorigen Jahrhunderts, in« Archiv ftir Geschichte der Philosophie » I 897-98; T. FLOURNOY, Le cas de C'bar/es Bonnet, in « Archives de psychologie » I90I-oz; O. W. FRITZSCHE, Die péidagogisch-didaktischen Theorien Charles Bonnets, Langensalza I905; K. IsENBERG, Der Einjluss der Philosophie Charles Bonnets auf Friedrich Heinrich Jacobi, Lipsia I9o6; E. CLAPARÈDE, La psychologie animale de Charles Bonnet, Ginevra I 909; A. ScHUBERT, Die Psychologie von Bonnet und Tetens mit besonderer Berucksichtigung des methodischen Verjahrens derse/ben, Zurigo 1909; F. DE SARLO, La psicologia di C. Bonnet, in «Cultura philosophica >> I9r6; G. BoNNET, Charles Bonnet {IJ20-I?9J), Parigi I92.9; R. SAVIOZ, La philosophie de Charles Bonnet de Genève, Parigi I948. Per quanto concerne Boerhaave si vedano i volumi Analecta Boerhaviana, Leida 1959 sgg., che comprendono fra l'altro una Bibliographia boerhaviana, a cura di G.A. LrNDEBOOM (I959) e la corrispondenza di Boerhaave. Sulla sua vita e sulla sua opera: W. BuRTON, An account ofthe /ife and writings of Hermann Boerhaave, Londra I743; « Janus >> I918 (numero unico in occasione del 2.50° anniversario della nascita); T.L. DAvrs, The vicissitudes of Boerhaave' s textbook of chemisfr:y, in « Isis >> I92.8; Io., Boerhaave' s account ~f Paracelsus and Van Helmont, in « Journal of chemical education >> I92.8; M. KERKER, Hermann Boerhaave and the development of pneumatic chemistry, in « Isis >> I 9 55; G.A. LrNDEBOOM, Boerhaaves Krankheiten, in « Sudhoffs Archiv >> I95 5; F.W. GrBBS, Boerhaave's chemicalwritings, in « Ambix >> 195 8; F.W. GrBBS, Boerhaave and the botanist, in « Annals of science >> I957; F.R. }EVONS, Boerhaave's Biochemistry, in «Medicai history >> 1962.. Alcuni dei numerosi scritti di Haller sono stati raccolti: Opuscula botanica, I 749; Opuscula pathologica, 1754; Opera minora emendata, 3 voli., Losanna 1762.-68. Sulla vita e sull'opera di Haller si veda: J.G. ZIMMERMAN, Das Leben des Herrn von Haller, Zurigo I75 5; H.E. }ENNY, Haller als philosoph, Basilea I9o2.; G. IMHOF, A/brecht von Haller als Physiologe, in« Archiv ftir Geschichte der Medizin >> I912.; M.J. HowARD, A/brecht von Haller and english philosophy, in « Publication of the modern language association » I92.5; s. o'IRSAY, A/brecht von Haller: eine Studie zur Geistesgeschichte der Aujkléirung, Lipsia I93o; P. DrEPGEN, A/brecht van Haller und die Geschichte der Medizin, in Georg Sticker Festgabe, Berlino I93o; M. HocHDOERFER, The conjlict between the religious and scientific views of Haller, Lincoln (Nebr.) I932.; R. BEER, Der grosse Haller, Sackingen 1947; R. DE SAUSSURE, Haller and La Mettrie, in« Journal of the history of medicine>> 1949; G.T. SCHWARZ, Die systematische Arbeitsweise A/brecht von Hallers, in « Centaurus >> I95 3; H. BuEss, Die Anfange der pathologischen Physiologie auf dem Gebiet der Kreislaufforschung nach A/brecht Hallers Elementa physiologiae (IJJ6-q6o), in « Gesnerus >> 1954; C. GuYoT, A. de Haller et C. Bonnetjuges de l' Encyclopédie, in Literature and science, Oxford I95 5; H. BuEss, Zur Entstehung der Elementa Physiologiae A/brecht von Hallers, in « Gesnerus >> I 9 58; R. ScHAR, Hallers neue anatomisch-physiologische Befunde und ihre heutige Cui-
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Bibliografia
tigkeit, Berna I 9 58; H. BuEss, A/brecht von Haller and his Eletnenta Physiologiae as the beginning of pathological physiology, in «Medicai history » I959; G. ToNELLI, Poesia e pensiero in A/brecht von Haller, Torino I96I; H.S. GuTHKE, Haller, La Mettrie und der ano'!)me Schrift L'homme plus que machine, in « Etudes germaniques » I962; C. SrEGRIST, A/brecht von Haller, Stoccarda, I967.
Numerose sono le edizioni settecentesche delle opere di La Mettrie; l'ultima è la seguente: Oeuvres philosophiques, 3 voli., Berlino e Parigi I796. Della più importante opera di La Mettrie, L'uomo-macchina, si ha ora l'edizione critica; la pubblicazione è dovuta ad A. VARTANIAN (Princeton I96o) che è anche l'autore di un importante studio introduttivo e di ampie note critiche al testo. L'uomo macchina è tradotto in italiano (Roma I885, ristampa I889; L'uomo macchina ed altri scritti, a cura di G. PRETI, Milano I955)· Per quanto concerne la teoria dell'uomo macchina si vedano i seguenti lavori: H. HASTINGS, Man and beast in french thought of eighteenth century, Baltimora I936; L.C. RosENFIELD, From beast fltachine to man machine. The theme of animai soul in french letters from Descartes to La Mettrie, New York I94I (nuova ed. I968); H. KrRKINEN, Les origines de la conception moderne de l'homme machine. Le problème de l'ame en France à la ftn du rè,gne de Louis XIV (z6JO-IJIJ), Helsinki r96o. Sull'opera di La Mettrie si veda: QuÉPAT NÉRÉE (René Paquet), Essai sur La Mettrie, sa vie et ses oeuvres, Parigi I873; F. PrcAVET, La Mettrie et la critique allemande, Parigi I889; J.E. PoRITZKY,julien Offrt9 de Lamettrie, sein Leben und seine Werke, Berlino I9oo; P. VÉZEAUX DE LAVERGNE, Du caractère médical de l'oeuvre de La Mettrie, Lione I9o7; E. BERGMANN, Die Satiren des Herrn Maschine; ein Beitrag zur Philosophie und Kulturgeschichte des 18 jahrhunderts, Lipsia I913; Io., The signiftcance of La Mettrie and pertinent materials, in « The Open Court » I 9 I 3; H. VON HENTIG, La Mettrie als Kriminalanthropologe, in « Archiv ftir Kriminalanthropologie und Kriminalistik » I9I3; P. CARUS, La Mettrie's view of man as a machine, in « The monist » I9I3; R. BOISSIER, La Mettrie, médecin, pamphlétaire et philosophe, Parigi I931; H. HASTINGS, Did La Mettrie write L'homme plus que machine?, in « Publications of modern language association » I936; G.F. TuLOUP, Un précurseur méconnu: Offrf!y de La Mettrie, médecin-philosophe {IJ09-JI), Dinard I95 I; A. VARTANIAN, Elie Luzac's r~futation of La Mettrie, in « Modern language notes» I949; Io., Trembl~y's po(yp, La Mettrie and z8th-century french materialism, in « Journal of the history of ideas » I95o; G. PFLUG, ju/ien Offrt9 de La Mettrie und die biologischen Theorien des 18. Jahrhunderts, in « Deutsche Vierteljahrsschrift fiir Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte » I95 3; P. LEMÉE, julien Offrt9 de La Mettrie, médecin, philosohe, polémiste; sa vie, son oeuvre, Mortain I954; J.E. PERKINS, Didero! and La Mettrie, in« Studies on Voltaire and the eighteenth century » I959; Io., Voltaire and La Mettrie, ivi; W. METZ, julien Offrf9 de La Mettrie, in « Janus » r96o; J.F. FALVEY, La Mettrie, L'homme plus que machine and La machine terrassée: a question of authorship, in « Modern language notes » I 960; W.E. STEIKRAUS, fs La Mettrie out of date ?, in « Personalist » I962; R. DESNÉE, L'humanisme de La Mettrie, in «La pensée » 1963; K. GuNDERSON, Descartes, La Mettrie, languages and machines, in « Philosophy » 1964; J.F. FALVEY, The individualism of La Mettrie, in « Nottingham french studies » I965; L. MENDEL, La Mettrie, Artz, Philosoph und Schr~ftsteller (IJ09-JI), Lipsia I965.
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Bibliografia
L'edizione comunemente usata delle opere di Diderot è quella curata da J. AssÉZAT e M. TouRNEux, Oeuvres complètes, 20 voli., Parigi I875-77 (da utilizzare con cautela soprattutto per la parte relativa ali 'Enciclopedia; alcune delle voci riprodotte non sono infatti di Diderot). Notevoli sono le seguenti raccolte di opere: Oeuvres, a cura di A. BrLLY, Bibliothèque de la Pléiade, Parigi I 9 3 5 (nuova ed., ampliata I 9 5I); Oeuvres philosophiques, Oeuvres esthétiques, Oeuvres politiques, Parigi I956, I959, I963 (nuova ed. I967) tutte a cura di P. VERNIÈRE. La corrispondenza viene pubblicata da G. ROTH, Parigi I95 5 sgg. Per le traduzioni italiane delle opere di Diderot, si veda: Scritti di estetica, Milano I95 7; Scritti ftlosoftci, a cura di P. Rossr, Milano I963; Interpretazione della natura, Torino I96o. Per gli strumenti bibliografici, si veda: J.J.C. LEYOS, Principaux écrits relatifs à la personne et aux oeuvres, au temps età l'inj!uence de Didero!. Compilation critique et chronologique, Parigi I887; H. DrECKMANN, Stand und Probleme der Diderot-Forschung. Ein Beitrag zur Diderot-Kritik, Bonn I93 I; Io., Bibliographical data on Diderot, in Studies in honor of Frederick W. Shipley, St. Louis I942; Y. BELAVAL, Le philosophe Didero!, in « Critique » I952; Io., Nouvelles recherches sur Diderot, ivi I955-56; P. CASINI, Studi su Didero!, in « Rassegna di filosofia » I 9 58. Gli studi su Diderot si sono enormemente ampliati soprattutto in questi ultimi anni; una pubblicazione specifica sono i Didero! studies, editi a cura di Ons E. FELLOWS e altri dal I949· Per quanto concerne la biografia di Diderot è molto importante le scritto di J.A. NAIGEON, Mémoires historiques et philosophiques sur la vie et !es ouvrages de D. Diderot, Parigi I82I, in quanto Naigeon fu intimo amico di Diderot ed editore delle sue opere. Gli studi biografici generali più importanti sono i seguenti: A. BruY, Didero!, Parigi I932; R. H. BowEN, The education of an enryclopedist, in Teachers of history: esst?ys in honor of Laurence Bradford Packard, Ithaca I954 (sulla giovinezza di Diderot); L.G. CROCKER, The embattled philosopher: a biograp~ of Denis Diderot, Londra I954 (nuova ed. New York I966); A.M. WrLSON, Diderot: the testingyears IJIJ-I7J9, New York I957· Sui vari aspetti dell'opera filosofica e politica di Diderot, si veda: E. BERSOT, Études sur la philosophie du XVIII siècle: Didero!, Parigi I 8 5I ; K. RosENKRANZ, Diderots Leben und Werke, 2 voli., Lipsia I866 (ristampa, Aalen I964); C. AvEZAc-LAVIGNE, Didero! et la société du baron d'Ho/bach, Parigi I875; P. }ANET, La philosophie de Didero!. Le dernier mot d'un matérialiste, in« Nineteenth century and after » I88I; L. DucROS, Diderot, l'homme et l'écrivain, Parigi I894; F. PAITRE, Didero! biologiste, Lione I904; J. CARPENTIER, Didero! et la science de son temps, in « Revue du mois » I 9 I 3; R.L. CRu, Diderot as a disciple of english thought, New York I9I3; B. GROETHUYSEN, La pensée de Didero!, in« Germanic review » I9I3; R. HuBERT, La morale de Diderot, in« Revue du dix-huitième siècle » I9I6; E. CoDIGNOLA, Didero! e le origini dell'utilitarismo pedagogico in Francia: il piano di una università russa, in «Rivista pedagogica» I9I7; P. HERMANO, Les idées mora/es de Diderot, Parigi I923; M.D. BusNELLI, Didero! et l' ltalie; rej!ets de vie et de culture italiennes dans la pensée de Didero!, avec des documents inédits et un essai bibliographique sur la fortune du grand enryclopédiste en Italie, Parigi I925; J. OESTREICHER, La pensée politique et économique de Diderot, Vincennes I936; I.K. LuPPOL, Didero!, Parigi I936 (trad. francese dal russo); H. GrLLOT, Denis Didero!. L'homme, ses idées philosophiques, estétiques, littéraires, Parigi I937; H. DrECKMANN, Diderots Naturempftnden und Lebensgefuhl, Istanbul I 9 37; Io., Théophile Bordeu und Diderots Réve de d'Aiembert, in « Romanische Forschungen » I938; L.G. CROCKER, Diderot and the idea of progress, in « Romanic review » I 9 38; J. THOMAS, L' humanisme de Didero t, 535
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Bibliografia 2. voli., Parigi I938; H.J. HuNT, Logic and linguistic; Didero! as «grammairien-philosophe », in« Modern language review » I938; F. VENTURI, La jeunesse de Didero!, Parigi I939 (trad. dall'originale it.; opera fondamentale); L.G. KRAKEUR e R.L. KRuEGER, The mathematical writings of Diderot, in « Isis >> I94I; D. MoRNET, Didero!, l'homme et l'oeuvre, Parigi I94I; A. AoAM, Rousseau et Didero!, in « Revue des sciences humaines » I949; A.C. LEREL, Diderots Naturphilosophie, Vienna I95o; Y. BELAVAL, L'esthétique sans parodoxes de Diderot, Parigi I95o; « Les Cahiers haut-marnais » I95 I (numero unico interamente dedicato a Didero t); L. G. CROCKER, Two Didero t studies; ethics and esthetics, Baltimora I95 2.; P. MESNARD, Le cas Diderot, étude de caractérologie littéraire, Parigi I 9 52.; Y. e T. FRANçms, Qt1elques remarques sur /es éléments de p~ysiologie de Didero t, in « Revue d 'histoire d es sciences et de leurs applications » I 9 52.; I. W. ALEXANDER, Philosop~y of organism and philosop1y of consciousness in Diderot's speculative thought, in Studies in Romance philology and french literature presented to fohn Orr, Manchester I95 3; L. G. CROCKER, fohn Toland et le matérialisme de Didero!, in « Revue d'histoire littéraire » I95 3; H. DIECKMANN, The ftrst edition of Diderot's Pensées sur l'interprétation de la nature, in « Isis » I95 5; R.J. GILLINGS, The mathematics of Denis Didero!, in « Australian mathematics teacher » I95 5; J. MAYER, Didero! et la quadrature du cere/e, in « Revue générale des sciences pures et appliquées » I95 5; J. SEZNEC, Essais sur Didero! et l'antiquité, Oxford I957; H. HINTERH.ii.USER, Utopie und Wirklichkeit bei Didero!. Studien zum Supplément au V'!_yage de Bougainville, Heidelberg I 9 57; H. DIECKMANN, Cinq lefons sur Didero!, Ginevra I959 (importante); J. MAYER, Didero/ homme de science, Rennes I959; J.A. PERKINS, Didero/ and La. Mettrie, in « Studies on Voltaire and the eighteenth century» I959; P. GARCIN, Didero! et la philosophie du sryle, in «Critique» I959; J.S. SPINK, L'échelle des étres et des valeurs dans l'oeuvre de Didero!, in « Cahiers de l'associadon internationale des études françaises » I 96 I ; J. EHRARD, Matérialisme et naturalisme: /es sources occultistes de la pensée de Didero!, ivi; R. MAUZI, Les rapports du bonheur et de la vertu dans l'oeuvre de Didero!, ivi; P. CASINI, Didero! philosophe, Bari I962.; M. GoT, Sur le matérialisme de Didero!, in « Revue de synthèse » I 962.; J. SZIGETI, Denis Didero!: une grande figure du matérialisnu militant du XVIII siècle, Budapest I 962.; R. ETIEMBLE, Structure et sens de.r Pensées philosophiques, in « Romanische Forschungen » I 962.; L. G. CROCKER, Didero/ et la loi nature/le, in « Europe » I963; Y. BELA VAL, Note sur Didero! e Leibniz, in « Revue des sciences humaines » I963; J.A. PERKINS, Diderot's concept of virtue, in « Studies on Voltaire and the eighteenth century » I963; J. RosTAND, La molécule et le philosophe, in « Nouvelles littéraires, artistiques et scientifiques » I963; H. VIANU, Nature et révolte dans la morale de Didero!, in « Europe » I963; A.M. WILSON, The development and scope'!_( Diderot's politica/ thought, in« Studies on Voltaire and the eighteenth century » I963; R. NIKLAUS, The mind of Didero!. An inquir:_y into the nature of Diderot's understanding and thought, Torino I963; Didero!, qr;-q84, catalogo dell'esposizione alla Bibliothèque nationale, Parigi I963; W. HoFMANN, Diderots Auffassungen von allgemeinen Empftndungsvermogen, von der Entstehung und Einheit des Bewusstseins, in « Berlin Universitat, Wissenschaftliche Zeitschrift » I964; M. NAUMANN, Didero/ und das Système de la nature, ivi; H. LEY, Diderots Réfutation des Helvétius, ivi; H. M0LBIERG, Aspects de l'esthétique de Didero!, Copenaghen I964; P. CASINI, Rousseau e Didero/, in «Rivista critica di storia della filosofia » I 964; L.K. LuxEMBOURG, Francis Bacon and Denis Didero!: philosophers of science, Copenaghen I967; G. RuoOLPH, Diderots Elemente der Physiologie, in
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Bibliografia « Gesnerus » I967; R. PoMEAu, Didero!, sa vie, son oeuvre, avec un exposé de sa philo.rophie, Parigi I967; R. MoRTIER, Didero! in Deutschland I7JO-I8JO, Stoccarda I967; J.L. LEUTRAT, Didero t, Parigi I 968. CAPITOLO DECIMO E UNDICESIMO
La critica dell'« esprit de système e l'ideale enciclopedico det sapere L'enciclopedia L'intera Enciclopedia è stata di recente ristampata, 3 5 voli., Stoccarda I966-67. Edizioni parziali dell'opera: L'esprit de I'Enryclopédie ou choix des article.r le.r plus agréables, le.r plus curieux et /es plus piquants de ce grand dictionnaire, a cura di R. 0LLIVIER, I 3 voll., Parigi I798-I 8o8 (riprende la silloge fatta da J. DE LA PoRTE, 5 voli., Parigi-Ginevra I768); The Enryclopédie of Didero! and d'Aiembert, .relected articles, a cura di J. LouGH, Cambridge I 9 54; Texte.r choi.ri.r de l' Enryclopédie, a cura di A. SoBOUL, nuova ed., Parigi I962 (trad. it., Roma I968); L'En€yclopédie, antologia a cura di A. PoNs, Parigi I963 (trad. it., Milano I966); Enciclopedia, antologia a cura di P. CASINI, Bari I968. Si hanno inoltre edizioni recenti delle tavole dell'opera: A Didero! pictorial Enryclopedia of trade.r and indu.rtry: manifacturing and the technical arts in plate.r .relected from l' En~yclopédie, a cura di C.C. GILLISPIE, 2 voll., New York I959· Sul significato e sul contenuto dell'Enciclopedia si veda: P. DuPRAT, Les enryclopédi.rte.r, Parigi I866; J. MORLEY, Didero! and the enryclopaedists, 2 voll., Londra I 878; L. DucRos, Les enryclopédistes, Parigi I 900; E. CHAMPION, D es mots équivoques, et en particulier du mot: En~yclopédi.rte, in « Révolution française, revue d'histoire moderne et contemporaine » I90I; E. FAGUET, L' Enryclopédie, in « Revue cles deux mondes » I90I; P. ALBIEN, Das Padagogi.rche in der Enryclopedie von Didero!, Magdeburgo I9o8; M. DuPONT-CHATELAIN, Les en€yclopédistes et /es femmes, Parigi I9II; A. LoMBARD, L'abbé Dubos, Parigi I9I3; R. HUBERT, Les sciences sociales dans I'Enryclopédie, Parigi I923; L. THORNDIKE, L'Enryclopédie and the hi.rtory of science, in « Isis » I924; R. LENOIR, Le.r sciences sociales dan.r l' En~yclopédie, in « Revue de synthése historique » I925; L.F. PoWELL, ]ohnson and the Enryclopédie, in « Review of english studies » I926; R. HuBERT, Rou.rseau et I'Enryclopédie; essai sur la formation des idée.r politiques de Rou.rseau (I742-I7J6), Parigi I928; J. LE GRAS, Didero! et l' Enryclopédie, Parigi I928; G.L. VAN RooSBROECK, Who originated the pian~~ the Enryclopédie?, in« Modern philology » I929-3o; H. ZELLER, Die Grammatik in der grossen franzosischen En'?!jklopadie, Heidelberg I93o; L'En~yclopédie et /es enryclopédiste.r. Exposition organisés par le centre international de synthèse, Parigi, Bibliothèque nationale I932; A. CAZES, Grimm et /es en~yclopédistes, Parigi I933; R. HuBERT, Introduction bibliographique à l'étude de.r source.r de la science ethnographique dans l' Enryclopédie, in « Revue d'histoire de la philosophie et d'histoire générale de la civilisation » I933; F. ScHALK, Einleitung in die Enziklopadie der franzo.ri.rchen Aufklarung, Monaco I936; B. BESSMERTNY-HEIMANN, L'hi.rtoire des sciences dans l' Enryclopédie, in« Archeion » I937; R. N AVES, Voltaire et l' Enryclopédie, Parigi I938; L.P. MAY, Histoire et .rources de I'En€ydopédie d'aprés le registre des déliberations e cles compte.r cles éditeurs et un mémoire inédit, in « Revue de synthèse » I938; In., Note sur /es origines maçonnique.r de l' En€yclopédie suivie de la liste de.r enryclopédistes, in « Revue de synthèse » I939; J.E. BARKER, Diderot'.r treatmmt ~f the christian religion in 537
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Bibliografia
the Encyclopedia, New York I94I; F. VENTURI, Le origini dell'Enciclopedia, Firenze I946 (nuova ed., Torino I963); D.H. GoRDON e N.L. ToRREY, Ttie censoring of Diderot's En€yclopédie and the re-established text, New York I947; J. DooLITTLE, Jaucourt's use of source materia/ in the Encyclopédie, in « Modero language notes » I 9 5o; Didero! et l' Encyclopédie, in « Revue d'histoire littéraire » I95 I (numero dedicato all'Enciclopedia in occasione del bicentenario della pubblicazione); Didero/ et l' Encyciopédie. Expositiott commémorative dtt deuxième cmtenaire de l' Bri€ydopédie, Parigi, Bibliothèque nationalt I 9 51; J. VARLOOT, Le bicentcnaire de I'Encyclopédie, in «La pensée» I95I; H. DENIS, Deux collaborateur.r économiqttes de l' Encyclopé.die: Quesnt!J et Rousseau, ivi; A. SoBOUL, L' Ettcyclopédie et le mouvement encyclopédique, i vi; M. PRENANT, L' Encyclopédie et /es origines de la science moderne, ivi; M. BARJONET, Une oeuvre révolutionnaire: l' Encyclopédie, in « Cahiers du communisme » I951; M. SoRIANO, Pour le bicentenaire de I'Encyclopédie (IJJI-rnr). Le matérialisme du XVIII sièe/e à travers l' Encyclopédie, in « Europe » I 9 5I ; P. GROSCLAUDE, Un audacieux message, l' Encyclopédie, Parigi I 9 5I; L' Encyclopédie et la pensée du XVIII siècle, in « Revue de synthèse >> I951 (numero speciale dedicato all'Enciclopedia); H. DE MoNTBAS, À propos d'un bicentenaire. Les encyclopédistes n'ont pas voulu la Révolution, in « Revue de Paris » I95 I; Io., Quelques en€yclopédistes oubliés (jean de Gua de Ma/ves, Cesar Chesneau-Dumarsais, Ch. Martin de Prades, Claude Yvon 1 Rt!Jna/1 Maorellet), in « Revue des travaux de l'académie des sciences morales et politiques » I952; R. METZ, Les racines sociales et politiques d'une idéologie nationale: l' Encyclopédie, in «La pensée » I95 2; G.B. WATTS, The Encyclopédie and the Descriptions des arts et métiers, in « The french review » I952; Le bicentenaire de I'Encyclopédie, in« Education nationale » I952 (diversi articoli sull'Enciclopedia); L' Encyclopédie et le progrès des sciences et des techniques, Parigi I952 (raccolta di articoli pubblicati nella «Revue d'histoire des sciences» I95I-52); Deuxième centenaire de l' Encyclopédie française, in « Annales de l'Université de Paris » I95 2 (numero speciale dedicato all'Enciclopedia); E. MARCU, Un encyclopédiste oublié: Formry, in« Revue d'histoire littéraire » I95 3; N. MATTEUCCI, Sugli studi intorno all' Encyclopédie, in « Il Mulino » I 9 53; F. VENTURI, Le origini dell'Enciclopedia in Inghilterra, in « Itinerari » I 9 54; G .H. LUQUET, L' Encyclopédie fut-e/le une entreprise maçonnique ?, in « Revue d 'histoire littéraire » I954; E. WEISS, Geschichtsschreibung und Staatsauffassung in der franzosischen E11'?Jklopiidie, Wiesbaden I956; R.N. ScHWAB, The chevalier de Jaucourt and Diderot's Encyclopédie, in «Modero language forum» I957; Io., The extent of chevalier de Jaucourt's contribution to Diderot's Encyclopédie, in «Modero language notes» I957; Io., Le chevalier de Jaucour/1 p~ysician and encyclopedist1 in« Jouroal of the history of medicine» I 9 58; F. ScHALK, Zur Vorgeschichte der Diderot' schen En'?fYklopiidie, in « Romanische Forschungen » I95 8; K. voN RAUMER, Zum Geschichtsbild der En'?fYklopadisten, in« Historische Zeitschrift)) I959; A. M. WILSON, w~ did the politica/ theory of the Encyclopedists not prevail? A SU/fgestion, in « French historical review » I96o; J. LouGH, Louis1 chevalier de Jaucourt (I704-178o) 1 a bibliographical sketch1 in Essf!ys presented to C.M. Girdlestone, Newcastle upon Tyne I96o; H. DIEKCMANN, The concept of knowledge in the Encyclopédie, in Essf!YS in comparative literature, St. Louis I 96 I; J. PROUST, Didero/ et l' Encyclopédie, Parigi I962 (seconda ed. I967); R.N. ScHWAB, Un encyclopédiste huguenot: le chevalier de jaucourt, in« Bullettin de la societé de l'histoire du protestantisme français » I962; J.L. CARR, Deslandes and the Encyclopédie, in « French studies » I 962; J .N. P APPAS, Didero t} DJ Alembert et l' Encyclopédie, in « Diderot studies » I963; J. LouGH, The contemporary
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inftuence of the Encyclopédie, in « Studies on Voltaire and the eighteenth century » I963; F. KAFKER, Diderot's Encyclopédie: A cali to reason or the arms, in « Historians » I963; T. CASSIRER, Awareness of the city in the Encyclopédie, in « Journal of the history of ideas » I963; J. LouGH, M.me Geoffrin and the Encyclopédie, in « Modern language review » I963; F. KAFKER, A /ist of contributors to Diderot's Encyclopédie, in « French historical studies » I963; J. LouGH, The prob/em of the unsigned articles in the Encyclopédie, in« Studies on Voltaire and the eighteenth century» I965; J. PROUST, L'Encyclopédie, Parigi I965; R. BIRN, The french-/anguage press and the EnC)'clopédie, IJJO-IJJ~, in « Studies on Voltaire and the eighteenth century » I967; J. LouGH, The Encyclopédie in Vo/taire's correspondence, in The age of the enlightenment, Studies presented to Theodore Besterman, Edimburgo I 967; R. SHACKLETON, The Encyclopédie and Freemasonry, ivi. Su Malesherbes e Berthier e le altre persone connesse con le vicende della pubblicazione si veda: P.C. SoMMERVOGEL, Essai historique sur /es Mémoires de Trévoux, Parigi I864; F. BRUNETIÈRE, La direction de la Librairie sous M. de Malesherbes, in « Revue des deux mondes » I882; H. FALK, Les privilèges de /ibrairie sous /'ancien Régime, Parigi I9o6; A. CAZES, Un adversaire de Didero/ et des phi/osophes: le père Berthier, in Me/anges offerts à Gustave Lanson, Parigi I922; G. DuMAS, Histoire du journal de Trévoux, Parigi I936; J. ALLISON, Lamoignon de Malesherbes difender and reformer of the french monarcky, IJ2I-Ilj4, New Haven-Londra I938; L.G. CROCKER, The prob/em of Malesherbes intervention, in« Modern language quarterly » I94I; J. DAOUST, Les jésuites contre I'Encyclopédie (IJJI-IJJ2), in« Bulletin de la société historique et archéologique de Langres » I95 I; In., Enr:_yclopédistes etjésuites de Trévoux (IJJI-IJJ2), in« Études » I952; A. JoLY, Le Dauphin et /es encyclopédistes, in « Revue de l 'histoire de Versailles et de Seine et Oise » I954; J.N. PAPPAS, Berthier's journa/ de Trévoux and the phi/osophes, in « Studies on Voltaire and the eighteenth century » I957; J. DooLITTLE, From Hack to Editor, Didero/ and the Booksellers, in « Modern language notes» I96o; P. GROSCLAUnE, Malesherbes, témoin et interprète de son temps, Parigi I96I; J. LouGH, The Encyclopédie and the remontrances of the Paris Parlement, in « Modern language review » I96I; In., Luneau de Boisjermain versus the pub/ishers of the EnC)'clopédie, in « Studies on V oltaire and the eighteenth century >> I963; F. KAFKER, The effect of consorship on Diderot's Encyc/opédie, in « The library chronicle » I964. Sulla diffusione e sull'influenza dell'Enciclopedia, si veda: E. LEVI MALVANO, Les éditions toscanes de I'Encyclopédie, in «Revue de littérature comparée» I923; L'Encyclopédie et son rt!Jonnement à /'étranger, in « Cahiers de l'association internationale des études françaises » I 9 52 (Lezioni tenute al Collège de France nell'agosto del I 9 5I); J. DAUTRY, La révo/ution bourgeoise et I'En~yclopédie (I78~-I8I4), in «La pensée» I95I; J. LouGH, The En~yclopédie in the eighteenth century England, in « French studies » I952 (tale articolo si trova anche in versione più breve nel fascicolo dei « Cahiers » citato prima); F. VENTURI, L' Encyclopédie et son rt!Jonnement in ltalie, in « Cahiers de l 'association internadonale des études françaises » I95 3; C. GuYoT, Le r~yonnement de L' Encyclopédie en Suisse franfaise, Neuchatel I955; G.B. WATTS, The supplément and the tab/e analytique et raisonnée of the En~yclopédie, in « French review » I954; In., The Swiss editions of the Encyclopédie, in « Harvard library bulletin » I95 5; P. CLÉMENT, Pierre Rousseau et l'édition des supplements de /' Encyclopédie, in « Revue des sciences humaines » I 9 57; M.M. STRANGUÉ, L'Enciclopedia di Didero! e i suoi traduttori russi, in « Frantsuzskii ezhegodnik » I 9 59 (in
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Bibliografia
russo); G.B. WATTS, The Geneva folio reprinting of the Encyclopédie, in « Proceedings of the american philosophical society » I 96 I ; P .M. SPURLIN, Didero t, D' Alembert and the Encyclopédie in the United States IJ60-I8oo, in« Studies on Voltaire and the eighteenth century » I967; F.A. KAFKER, Les encyclopédistes et la Terreur, in« Revue d'histoire moderne et contemporaine » I967. Sull'enciclopedia metodica si veda: V. GIRAUD, Pasca/, Condorcet et l'Encyclopédie, in« Revue d'histoire littéraire » I9o6; G.B. WATTS, The Encyclopédie méthodique, in« Publications of the modern language association » I 9 58; Io., Additional data on the Encyclopédie méthodique, in « Kentucky foreign language quarterly » I 9 58; C. F. CowAN, Encyclopédie méthodique, ~' in « Journal of the society for the bibliography of Natural History » I967 (rilievi sul vol. 9 relativo alla zoloogia).
CAPITOLO DODICESIMO
Rousseau Tra le numerosissime edizioni delle opere di Rousseau, si citano: Collection complète des oeuvres, a cura di P.A. Du PEYROU, I 5 voll., Ginevra I 782; Oeuvres complètes, a cura di V.D. MusSET-PATHAY, 25 voll., Parigi I823-26; Oeuvrescomplètes, a cura di C. LAHURE, I3 voll., Parigi I 865; Oeuvres complètes, edizione critica a cura di B. GAGNEBIN e M. RAYMOND, Bibliotèque de la Pléiade, Parigi I 9 59 sgg. Per la corrispondenza: Correspondance générale de ].]. Rousseau,a cura di T.DuFOUR e P.P.PLAN, 2ovoll.,Parigi I924-34 e inoltre: P.P. PLAN, Table de la correspondance générale de].]. Rousseau, Ginevra I95 3; Correspondance complète, a cura di R.A. LEIGH, Ginevra I965 sgg. Sono numerosissime le edizioni di singole opere e di antologie delle opere di Rousseau. Tra le antologie: Vie et oeuvres de).]. Rousseau, a cura di A. ScHINZ, Boston I92I; Morceaux choisis, a cura di D. MoRNET, Parigi I9II (xx ed. I933); The politica/ writings of ].]. Rousseau, a cura di C.E. VAUGHAN, Cambridge I9I 5; Pages immortelles de].]. Rousseau, a cura di R. RoLLAND, Parigi I938 (trad. i t. Milano I 9 5o). Le traduzioni italiane delle opere di Rousseau sono moltissime (si veda: M. ScHIFF, Éditions et traductions italiennes des oeuvres de].]. Rousseau, Parigi I9o8). Tra le versioni più recenti: Discorsi e contratto sociale, a cura di R. MoNDOLFO, terza ed., Bologna I 949; Contratto sociale, a cura di F. V ARVELLE, Torino I926; a cura di G. PERTICONE, Torino I927; a cura di V. GERRATANA, Torino I945 (ristampa, Milano I965, Torino I966); a cura di E. 0MODEO ZoNA, Bari I947; a cura di N. RusPANTINI e A. TESTA, Firenze I95o; a cura di G. SAITTA, IV ed., Bologna I95I; a cura di G.A. RoGGERONE, Milano I957; Discorso sull'origine della diseguaglianza fra gli uomini, a cura di L. MARCHEGIANI, Milano I968; a cura di V. GERRATANA, Roma I968; Emilio o dell'educazione, a cura di A. RIBERA, Milano I9Io; di C. VERDE, 2 voll., Torino I922-23; di G. CALÒ e L. DE ANNA, Firenze I923 (ultima ed. I954); di C. MoTzo DENTICE o' AccADIA, Napoli I964; di P. MASSIMI, Roma I969; Le confessioni, a cura di F. FILIPPINI, 2 voll., Milano I95 5; di M. RAGO, Torino I95 5; Le passel;giate del pensatore solitario, a cura di Z. ZINI, Torino I 9 53 ; La nuova Eloisa, a cura di G. RoMuzzr, Milano I 884. Gli strumenti bibliografici essenziali sono i seguenti: T .A. DuFOUR, Recherches bi-
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Bibliografia
bliographiques sur /es oeuvres imprilnées de].]. Rousseau, suivies de l'inventaire des papiers de Rousseau conservés à la bibliothèque de Neuchatel, Parigi I 9 2 5, 2 voll. ; J. SÉNELIER, Bibliographie générale des oeuvres de].]. Rousseau, Parigi I 949; A. ScHINZ, Etat présent des travaux sur ].]. Rousseau, New York I94I; J. VmsrNE, Etat des travaux sur ].]. Rousseau au lendetnain de son 2JO' anniversaire de naissance ( I7I 2-Ig62) in « Information littéraire » I964. A partire dal I905 si pubblicano inoltre gli « Annales de la société J.J. Rousseau »che contengono, oltre a studi critici, una bibliografia esaustiva degli scritti su Rousseau che si pubblicano ogni anno (cfr. l'indice analitico dei tomi r-xxxv, I905-62). I principali studi d'insieme in cui viene dato rilievo alle vicende biografiche, sono i seguenti: MADAME DE STAEL, Lettres sur /es ouvrages et le caractère de].]. Rousseau, II ed., Parigi I 798; G.H. MORIN, Essai sur la vie et le caractère de].]. RousseatJ, Parigi I 8 p; F. BROCKERHOFF, ].]. Rousseau, sein Leben und seine Werke, 3 voli., Lipsia I863-74; J. MoRLEY, Rousseau and his era, 2 voli., Londra I 873; S.M. GIRARDIN,j.J. Rousseau, sa vie et ses ouvrages, 2 voli., Parigi 1875; R. MAHRENHOLTZ,].J. Rousseau Leben, Geistesentwicklung und Hauptwerke, Lipsia 1889; H. BEAUDOUIN, La vie et /es oeuvres de].). Rousseau, 2 voli., Parigi I89I; A. CHUQUET, ].]. Rousseau, Parigi I893 (v ed. I9I9); H. GEHRIG, ].]. Rousseau, sein Leben und seine Werke, 3 voll., Lipsia I9oo-oi; E. RoD, L'affaire ].]. Roussea11, Parigi I9o6; L. BRÉDIF, Du caractère intellectuel et morale de].). Rousseau, étudié dans sa vie ei ses écrits, Parigi I 906; F. McDoNALD, ].]. Rousseau, a new criticism, 2 voll. New York-Londra I9o6 (trad. francese ridotta, Parigi I909); J.H. BERNARDIN DE SAINT PIERRE, La vie et /es ouvrages de].]. Rousseau, edizione critica dell'opera del letterato, amico e discepolo di Rousseau, a cura di M. SouRIAU, Parigi I907; J. LEMAITRE, ].]. Rousseau, Parigi I 907; L. GEIGER, ].]. Rousseau, sein Leben und seine Werke, Lipsia I 907; L. DucRos,j.J. Rousseau, 3 voli., Parigi I9o8-I8; C. VON DER LIPPE GRAN,].]. Rousseau, Cristiana I9Io (trad. inglese, New York I912); E. FAGUET, Vie de Rousseau, Parigi I9II; G. VALLETTE,j.J. Rousseaugenevois, Ginevra I9II; L.J. CouRTOIS, Chronologie critique de la vie et des oeuvres de].]. Rousseau, in« Annales J.J. Rousseau » I923 (ristampato a parte Ginevra I924); R. GERIN,].J. Rousseau, Parigi I93o; M. JoSEPHON,J.J. Rousseau, New York I93 I; R.B. MowAT, ].]. Rousseau, Bristol I938; P. CHAPONNIÈRE, ].]. Rousseau, Zurigo I945; J. GuÉHENNO,jean]acques, 3 voli., Parigi I948-I952 (nuova ed., 2 voli., Parigi I962); D. MORNET, Rousseau, l'homme et i'oeuvre, Parigi I95o; F.C. GREEN, .f.]. Rousseau: a criticai stut!J of his /ife and writings, Cambridge I 9 55 ; H. ROHRS, ].]. Rousseau, Vision und Wirklichkeit, Heiddberg I956 (II ed. I966). I principali lavori d'insieme sull'opera di Rousseau, sono i seguenti: A. DE LAMARTINE, ].]. Rousseau, Parigi I 878; A. S. ALEKSIEV, Studio su].]. Rousseau, Mosca I 887; A. 0LTRAMARE, Rousseau, Losanna I896; H. HoFFDING, ].). Rousseau og haus Filosofi, I 896 (trad. ted., Stoccarda I 897; trad. frane. della II-ed. danese, Parigi I9I2; trad. inglese sulla II ed., Londra I93o); J. NouRRISSON, ].]. Rousseau et le rousseauisme, Parigi I903; A. STOPPOLONI, G.G. Rousseau, Roma I9o6 (II ed. Milano I9I4); E. CAIRD, Rousseau, nell'opera, Ess~s on literature, Glasgow I909 (trad. it., Torino I9I7); G. ALLIEVO, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, Torino I9Io; A. DmE, ].]. Rousseau, le protestantisme et la révolution française, Parigi I 9 I o; B. BouviER; ].]. Rousseau, Ginevra I 912; E. F AGUET, Rousseau penseur, Parigi I9I2; P. SAKMANN, ].). Rousseau, Berlino I9I3; G.P. FoNSEGRIVES, Rousseau, Parigi I9I3; E.A. SEILLIÈRE,].J. Rousseau, Parigi I92I; H. HARTZFELD, ].]. Rousseau, Monaco I922; G. TAROZZI, G.G. Rousseau, II ed., Roma I926; E.H. 54 I
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Ulteriori sviluppi dell'illuminismo francese: Ho/bach e Condorcet Sulla storia dell'idea di progresso, si veda: J. DELVAILLE, Essai sur l'histoire de l'idée du progrèsjusqu'à la fin du xvm siècle, Parigi I9Io; J.B. BuRY, The idea of progress, Londra I92o (trad. it., Milano I964); C. FRANKEL, The faith of reason, New York I948; E.L. TuvESON, Millennium and utopia: a study in the background of the idea of progress, Berkeley I949; R. V. SAMPSON, Progress in the age of reason, Cambridge I956. Sulla disputa tra gli antichi e i moderni; E. RrGAULT, Histoire de la querelle des anciens et des modernes, Parigi
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I 8 56; H. GILLO, La querelle des anciens et des modernes, Parigi I 9 I4; La disputa sei-settecentesca sugli antichi e i moderni, a cura di M.T. MARCIALIS, Torino I970. La più completa edizione delle opere di Fontenelle è la seguente: Oeuvres, a cura di G.B. DEPPING, 3 voli., Parigi I8I8. Recenti edizioni di opere singole sono le seguenti: Entretiens sur la pluralité des mondes. Digression sur /es anciens et /es modernes, a cura di R. SHACKLETON, Oxford I95 5; Entretiens sur la pluralité des mondes, a cura di A. CALAME, Parigi I 966. In italiano sono tradotte le Conversazioni sulla pluralità dei mondi e I dialoghi dei morti, a cura di M. MESCHINI, Milano I 94 5. Su Fontenelle si veda: A. CHARMA, Biographie de Fontenelle, Caen I 846; P. FLOURENS, Fontenelle ou de la philosophie moderne relativement aux sciences physiques, Parigi I 847; L. LEVY-BRUHL, Fontenelle, in « The Open Court » I 898; A. LABOROE-MILAÀ, Fontenelle, Parigi I905; L. MAIGRON, Fontenelle, l'homme, l'oeuvre, l'influence, Parigi I9o6; A. CHAUMEIX, Un précurseur de la littérature scientiftque ( Fontenelle), in « Revue hebdomadaire » I9I4; F.E. GuYER, C'est nous qui sommes /es anciens, in « Modern language notes» I92.I; J .R. CARRÉ, La philosophie de Fontenelle ou le sourire de la raison, Parigi I932.; F.H. GARRIsaN, Fontenelle as a popularizer of science, in « Bulletin of the New York Academy of medicine» I932.; J. RoDIGER, Darstellung der geographischen Naturbetrachtung bei Fontenelle, Pluche und Buffon in methodischer und stilistischer Hinsicht, Lipsia I 9 3 5; S. DELORME, La vie scientiftque à l'époque de Fontenelle, d'après /es Éloges des savants, in « Archeion » I937; S.A. BREINBAUER, Bedingungssiitze bei Fontenelle, Wi.irzburg I937; F. GRÉGOIRE, Fontenelle, une philosophie désabusée, Nancy I947; G. ATKINSON, Précurseurs de B'!Jie et de Fontenelle (La comète de r664-r66J et l'lncrédulité savante), in « Revue de Iittérature comparée » I95 I; F. GRÉGOIRE, Le dernier défenseur des tourbillons, in « Revue d'histoire cles sciences et de leurs applications » I954; G. CANGUILHEM, Fonter.elle philosophe et historien des sciences, in« Annales de l'Université de Paris » I957; anche in Études d'histoire et de philosophie des sciences, Parigi I968; S. DELORME, Tableau chronologique de la vie et des oeuvres de Fontenelle, avec /es principaux synchronismes littéraires, philosophiques et scientiftques, in « Revue d'histoire cles sciences et de leurs applications » I957; Io., Contribution à la bibliogt·aphie de Fontenelle, i vi; A. RoBINET, Considérations sur un centénaire (notes soumises aux historiens de Fontenelle), in« Revue de métaphysique et de morale» I95 8; J.F. CouNILLON, Fontenelle, écrivain, savant, philosophe, Parigi I959; L.M. MARSAK, Bernard de Fontenelle: in defence of science, in « J ournal of the history of ideas » I 9 59; Io., Bernard de Fontenelle: the idea of science in the french enlightenment, Filadelfia I 9 59; In., Cartesianism in Fontenelle andfrench science, r686-I7J2, in« Isis » I959; « Revue de synthèse » I96I (serie di articoli su Fontenelle); A. PIZZORusso, Considerazioni sul metodo e sulla filosofia di Fontenelle, in «Saggi e ricerche di letteratura francese» I96I; In., Fontenelle e l'idea di progresso, in « Belfagor » I963. La più recente edizione delle opere di Turgot è la seguente: Oeuvres de Turgot et documents le concernant, avec biographie et notes, a cura di G. SCHELLE, 5 voli., Parigi I9I3-2.3. Su Turgot si veda: J .A. DE CoNOORCET, Vie de Monsieur Turgot, Londra I 786 (molto importante come fonte); A. NEYMARCK, Turgot et ses doctrines, 2. voli., Parigi I885; L. SAY, Turgot, Parigi I 888; O. FENGLER, Die Wirtschaftspolitik Turgots und seiner Zeitgenossen im Lichte der Wirtschaft des Ancien Régime, Lip sia I 9 I 2.; H. E. BARRAULT, L' évolutionisme sociologique chez Turgot, in « Nouvelle revue » I92.7; C. ELLWOOD, Turgot, une philo-
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Bibliografia
raire » I947; G. GRoss, Ho/bach oder Voltaire?, in« Rostock Universitat. Wissenschaftliche Zeitschrift » I954-55; V. W. ToPAZIO, Diderot's supposed contribution to d'Ho/bach works, in «Publications of modern language association» I954; In., D'Holbach's conception of nature, in « Modern language notes» I954; V.W. ToPAZIO, }f)' Ho/bach, apostle of atheism, in « Modern language quarterly » I956; In., D'Ho/bach mora! philosophy; its background and development, Ginevra I 9 56; J. LouGH, Le baron d'Ho/bach: que!ques documents inédits ou peu connus, in« Revue d'histoire littéraire » I95 7; V.P. VOLGIN, Le idee sociali e politiche di d'Ho/bach, in « N ovaia i noveichaia istoriia » I 9 57 (in russo); F. CAGNETTI, Morale umana e metafisico-materialistica nella filosofia di d'Ho/bach, in « Giornale critico della filosofia italiana » I 9 58; R. MAUBLANC, L'athéisme de d'Ho/bach, in « La pensée » I958; F. VENTURI, Postille inedite di Voltaire ad alcune opere di Nicolas-Antoine Boulanger e del barone d'Ho/bach, in « Studi francesi » I 9 58; E. C. LADD JR., Helvétius and d'Ho/bach: la moralisation de la politique, in « Journal of the history of ideas » I962; M. ANSART, Note sur le sensualisme et le matérialisme dans la pensée de d'Ho/bach, in« Revue philosophique » I966. CAPITOLO QUATTORDICESIMO Il pensiero filosofico-pedagogico italiano
Sulla situazione culturale in cui è maturato il pensiero di Vico si veda: G. MAUGAIN, Étude sur l'évolution intellectuelle de l' Italie de I6J7 a I7JO environ, Parigi I909; R. CoTUGNO, La sorte di Giovan Battista Vico e le polemiche scientifiche e letterarie dalla fine del XVII secolo alla metà del XVIII secolo, Bari I9I4; L. BERTHÉ DE BESAUCÈLE, Les cartésiens d'Italie. Recherches sur l'inftuence de la philosophie de Descartes dans l'évolution de la pensée italienne au xvii et XVIII siècle, Parigi I92o; N. BADALONI, Introduzione a G.B. Vico, Milano I96I. Più in particolare: A. AcETI, Un genio cosentino negletto, Cosenza I933 (su T. Cornelio); R. CoTUGNO, Gregorio Caloprese, Trani I9I I; G. CANDIO, Michelangelo Fardella, Padova I9o4; E. GARIN, Michelangelo Fardella, in «Giornale critico della filosofia italiana» I933; In., Aneddoti di storia della cultura in Italia. IV: M. Fardella e Antonio Magliabechi, ivi I956. Le opere di G.B. Vico sono state raccolte da G. FERRARI, 6 voli., Milano I835-37 (n ed. I852-54), ma l'edizione cui si fa ora costante riferimento è quella curata da F. NICOLINI, con la collaborazione di B. CROCE e di G. GENTILE, 8 voli., Bari I9I4-4L Si vedano anche le antologie degli scritti di Vico curate da F. NICOLINI (Milano-Napoli I953) e da PAOLO Rossi (Milano I959)· Strumento bibliografico essenziale su Vico è la Bibliografia vichiana, di B. CROCE e F. NICOLINI, 2 voli., Bari I947-48. Sulla vita e sull'opera di Vico si veda: J. MrcHELET, Discours sur le s_ystèn1e et la vie de Vico, Parigi I8z.7; G. FERRARI, La mente di Giambattista Vico, Milano I837; C. CANTONI, G.B. Vico, studi comparativi e critici, Torino I 866; K. WERNER, G. Vico als Philosoph und gelehrter Forscher, Vienna I879; R. FLINT, Vico, Edimburgo I884 (trad. it., Firenze I888); G. SoREL, Étude sur Vico, in « Devenir social » I 896; B. LABANCA, G.B. Vico e i suoi critici cattolici, con osservazioni comparative su gli studi religiosi del secolo XVIII e XI x, Napoli I 898 ; G. Rossi, Vico nei tempi di Vico, in «Rivista filosofica italiana» I 899-I907; A. OLIVIERI, Gli studi omerici di G.B. Vico, in« Atti dell'accademia di archeologia, lettere e belle arti di Napoli» I905; O. KLEMM, G. B. Vico als Geschichtsphilosoph und Volkerp.rycholog, Lipsia I9o6; 549
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Bibliografia
Per il 2J0° anniversario della nascita di L.A. Muratori, Modena I9zz; A.C. }EMOLO, Il pensiero religioso di L.A. Muratori, in « Rivista trimestrale di studi filosofici e religiosi » I923; G. BERTONI, Muratori, Roma I926; AuTORI VARI, Miscellanea di studi muratoriani, Modena I933; C. CAVAZZUTI, L.A. Muratori, Torino I939; Io., Scritti sul Muratori, numero della rivista « Convivium » I95o; Io., Miscellanea di studi muratoriani, Modena I95I; A. VECCHI, L'opera religiosa del Muratori, Modena I95 5; A. AnDREOLI, «Patria», «Italia», «Nazione», in relazione all'opera del Muratori, in «Atti e Memorie dell'accademia di scienze lettere ed arti di Modena» I956; Io., Nascita dei Rerum italicarum Scriptores, ivi I95 8; G. FALCO, Momenti e motivi dell'opera muratoriana, in «Rivista storica italiana» I959; S. BERTELLI, Erudizione e storia in L.A. Muratori, Napoli I96o. L'Autobiografia di P. GIANNONE è stata pubblicata da F. NICOLINI (Napoli I9o5) e da S. BERTELLI (Milano I96o). Il Triregno è disponibile nella edizione curata da A. PARENTE (3 voli., Bari I94o). Su Giannone: G. FERRARI, La mmte di P. Giannone, Milano I 868; R. BIAMONTE, La storia civile e il Triregno, Napoli I 878; B. LABANCA, Saggio di storia del cristianesimo nel Triregno di P. Giannone, Roma I 896; G. BoNACCI, Saggio sull'« !storia civile» di P. Giannone, Firenze I903; G.A. ANDRIULLI, P. Giannone e l'anticlericalismo napoletano sui primi del Settecento, in «Archivio storico italiano» I9o6; F. NicoLINI, Gli scritti e la fortuna di P. Giannone, Bari I 9 I 3; A. 0MODEO, Il Triregno di P. Giannone, in «La critica» I94I; L. MARINI, P. Giannone e il giannonismo a Napoli, nel Settecento, Bari I95o; E. MALATo, Introduzione a P. Giannone nel quadro dell'anticurialismo napoletano, Napoli I95 6; B. VIGEZZI, P. Giannone riformatore e storico, Milano I96I; G. RICUPERATI, Alle origini del Triregno: la philosophia adamitico-noetica di A. Costantino, in « Rivista storica italiana » I 96 5 ; Io., Illuminismo e deismo a Vienna: Spinoza, Toland e il Triregno, ivi I967. Sul Doria si veda: E. V mAL, Il pensiero civile di P.M. Doria negli scritti inediti, Milano I95 3; B. DE GIOVANNI, Sul pensiero civile di P.M. Doria, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto» I95 5; S. BoNo, Studi intorno a P.M. Doria, in «Rassegna di filosofia» I955; E. GARIN, P.M. Doria, in« Giornale critico della filosofia italiana» I956. Sul Conti si veda, oltre alla recente edizione delle Versioni poetiche a cura di G. GRONDA, Bari I966: F. MOFFA, Le teorie filosofiche di A. Conti, Napoli I9o2; M. MELILLO, L'opera filosofica di A. Conti, in «Ateneo veneto» I9I I; A. BoBBIO, Il pensiero estetico di A. Conti, in «Atti dell'accademia degli arcadi» I940-4I; V. MAc HAMM, A. Conti and english aestetics, in« Comparative Literature » I956; F. Uuvi, A. Conti e il classicismo del primo Settecento, in «Lettere it:1liane » I95 5; A.M. BARONIO, Il pensiero estetico di A. Conti, in« Lettere moderne» I959; G. GRONDA, L'opera critica di A. Conti, in« Giornale storico della letteratura italiana» I964; Io., A. Conti e l'Inghilterra, in « English miscellany >> I964; N. BADALONI, A. Conti. Un abate libero pensatore tra Newton e Voltaire, Milano I968. Sull'Italia del Settecento, in generale, si veda: L. SALVATORELLI, Il pensiero politico italiano dal qoo al I8JO, Torino I935 (vi ediz. I959); La cultura illuministica in Italia, a cura di M. FuBINI, Torino I957; E. LAMA, Il pensiero pedagogico dell'illuminismo, Firenze 195 8; F. VALSECCHI, L'Italia nel Settecento, Milano 1959; G. QuAZZA, Il problema italiano e l'equilibrio europeo, Torino I965; F. VENTURI, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino I969. Più in particolare sulla Lombardia e il Napoletano: S. PuGLIESE, Condizioni economiche e finanziarie della Lombardia nella prima metà del secolo XVIII, Torino
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Per quanto riguarda i testi degli autori trattati, si vedano le ampie antologie degli Illuministi italiani, tomo 111, Riformatori lombardi, piemontesi. toscani, Milano-Napoli 195 8; Riformatori napoletani 1962, a cura di F. Venturi. Sul pensiero del Genovesi si veda: R. BoBBA, Sa,l!,giO intorno alla vita e alle opere di A. Genovesi, Benevento 1867; G. RACIOPPI, A. Genovesi, Napoli 1871; L. GIORDANO, La filosofia etico-giuridica di A. Genovesi, Città di Castello 1897; E. GAMBINI, A. Genovesi, la sua filosofià el' istruzione in Napoli nel secolo XVIII, Vicenza 1910; E. MARTORELLI, L'opera educativa di A. Genovesi, in «Rivista pedagogica» 1923; F. PERSICO, L'insegnamento di A. Genovesi e i suoi effetti sulla società napoletana, in «Atti dell'accademia pontaniana » 1924; F. GuASTELLA, Le idee morali di A. Genovesi, in «Rivista internazionale di filosofia» 1928; M. TROISI, Considerazioni generali su! sùtema di economia civile di A. Genovesi, in «Annali della facoltà di economia dell'università di Bari» 1939; C. BARBAGALLO, A. Genovesi economista, in «Nuova rivista storica» 1940; M. TROISI, Le premesse eticopolitiche del pensiero di A. Genovesi e fonti critiche e influenze del pensiero economico di A. Genovesi, in «Annali della facoltà di economia dell'università di Bari» 1942; A. SANTUCCI, Il problema della conoscenza nella filosofia dell'abate A. Genovesi, in ((Il Mulino)) 1953; AuTORI VARI, Studi in onore di A. Genovesi, a cura di A. DEMARCO, Napoli 1956; L. VILLARI, Il pensiero economico di A. Genovesi, Firenze 1959; F. ALDERISIO, La morale necessità ed universalità della le,l!,ge naturale umana secondo Genovesi, in « Rassegna di scienze filosofiche » 1962. Sul Galiani: L. DIODATI, Vita di F. Galiani, Napoli 1788; A. MARGHIERI, L'abate Galiani, Napoli 1878; S. MATTEI, Galiani e i suoi tempi, Napoli 1879; C. PASCAL, Sulla vita e sulle opere di F. Galiani, Napoli 1885; E. DESSEIN, Galiani et la question de la monnaie au XVIII siècle, Langres 1902; Il pensiero dell'abate Galiani, antologia degli scritti a cura di F. NICOLINI, Bari 1909; B. CROCE, Il pensiero dell'abate Galiani, in Saggio sullo Hegel, Bari 1913; G. ARIAS, F. Galiani et /es p~siocrates, in « Revue cles sciences politiques » 192z; Io., Il pensiero economico di F. Galiani, in« Politica» 1925; Le più belle pagine di F. Galiani, a cura di F. FLORA, Milano 1927; E. TROILO, Considerazioni sul pensiero filosofico dell'abate Galiani, in« Atti del Regio Istituto veneto di scienze, lettere ed arti», 193031; L. EINAUDI, Galiani economista, in «Atti dell'Accademia nazionale dei Lincei » 1948; F. VENTURI, Galianifra enciclopedisti e fisiocrati, in «Rivista storica italiana» 196o. Su Filangieri: G.B. BIANCHETTI, Elogio a G. Filangieri, Venezia 1819; F.S. DE DoMINICIS, G. Filangieri e l'idea dello stato nella filos~fia italiana del secolo XVIII, Bologna 1873; A. PIAZZI, Ilpiano di educazione di G. Filangieri, Lodi 1895; U. SPIRITO, Il pensiero
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Bibliografia
pedagogico di G. Filangieri, Firenze I924; A. BERTOLINO, Il problema della popolazione nel pensiero di G. Filangieri e le sue relazioni con le correnti intellettuali del secolo XVIII, in « Studi senesi » I928; S. CoTTA, G. Filangieri e il problema della lel!ge, Torino I954; E. MALATO, L'antiassolutismo di G. Filangieri, in «Nuova Antologia» I957; C. MoNGARDINI, Politica e .sociologia nell'opera di Gaetano Filangieri, Milano I964; A. SIGNORINI, Società e lel!g,e in Filangieri, in « Rivista internazionale di filosofia politica e sociale » I 96 5. Su Pagano: G. ZITo, Vita e opere di M. Pagano, Potenza I90I; R. PETTI, Saggio critico sulle opere di F.M. Pagano, Napoli I905; A. PALADINO, Il pensiero pedagogico di M. Pagano, Roma I9I3; G. SoLARI, M. Pagano e la politica annonaria, in« La riforma sociale » I 9 I 7; Io., Vico e Pagano. Per una storia della tradizione vichiana in Napoli nel secolo XVIII, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto» I925; F. CoLLOTTI, Sul pensiero ftlosoftco e civile di M. Pagano, in «Civiltà moderna» I932; G. SoLARI, Le opere di M. Pagano. Ricerche bibliografiche, in «Atti Reale della Accademia delle scienze di Torino» I936; Io. Studi su Mario Pagano, a cura di L. Firpo, Torino I963; Sul Verri: A. VISMARA, Bibliografia verriana, in« Archivio storico lombardo» I884; A. 0TTOLINI, P. Verri e i suoi tempi, Parlermo I92I; L. NEGRI, Saf!gio bibliografico su P. Verri, in« Archivio storico lombardo» I926; C. MoRANDI, P. Verri e la rivoluzione francese, ivi I928; M. R. MANFRA, P. Verri e i problemi economici del tempo suo, Roma I932; N. VALERI, P. Verri, Milano 1937; . Sul «Caffè»: L. FERRARI, Del Caffè, periodico milanese del secolo XVIII, in «Annali della scuola normale di Pisa» I9oo; «Il Caffè», raccolta completa a cura di S. RoMAGNOLI, Milano 196o. Sul Beccaria: C. CANTU, Beccaria e il diritto penale, Firenze I865; F. ScADUTO, C. Beccaria, Palermo 1913; C.A. VIANELLO, La vita e le opere di C. Beccaria, Milano 1938; E. PHILIPSON, Three criminallaw reformers: Beccaria, Bentham, Romil(y, Londra 1943; C.A. VIANELLO, C. Beccaria e gli economisti minori del Settecento lombardo, Milano I943; G. DE MENASCHE, C. LEONE, F. VALSECCHI, Beccaria e i diriti dell'uomo, Roma I964. Sul Frisi: A. MASOTTI, Scritti inediti di P. Frisi, in «Rendiconti dell'Istituto lombardo di scienze e lettere» I942-45; S. ToMANI, l manoscritti ftlosoftci di P. Frisi (con appendice di testi), Milano I968. Su F. Soave si veda: L. FoNTANA, F. Soave, Pavia I9o7; V. LoziTo, F. Soave e il sensismo, in «Rivista rosminiana » 1911-14. Su M. Gioia, di cui si ha una edizione delle opere migliori in 17 voll., Lugano I832-39, si veda: F. MoMIGLIANO, Un pubblicista, economista e filosofo del periodo napoleonico, in «Rivista di filosofia» I903-o4; G. CAPONE BRAGA, E. CACCIATO, Il pensiero pedagogico di M. Gioia, Acireale I921; F. LuzzATTO, La politica agraria' nelle opere di M. Gioia, Piacenza 1929; P. RoMANO, M. Gioia, Roma I93o; G. SEMPRINI, M. Gioiaelasuadottrina politica, Genova I 9 34; A. MACCHI ORO, L'economia politica di M. Gioia, in « Studi storici» 1963; P. BARUCC1, Il pensiero economico di M. Gioia, Milano 1965. Le opere di Romagnosi sono state raccolte in 8 voli., a cura di A. DE GIORGI, Milano 1841-48 (ristampa, Napoli 1850-77); un'ampia antologia è stata edita da E. SESTAN, Opere (insieme con quelle di Ferrari e Cattaneo), Milano-Napoli 1957. Sul Romagnosi: C. CANTÙ, C.D. Romagnosi, Torino I86I; G. FERRARI, La mente di C.D. Romagnosi, Milano I 869 (m ed. 191 3); A. NoRSA, Il pensiero ftlosoftco di C.D. Romagnosi, Milano 1930; G.A. BELLONI, Romagnosi, profilo storico, Milano 1931; A. LEVI, Romagnosi,
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Bibliografia
Roma I93 5; G. PERTICONE, La filosofia civile di C.D. Romagnosi, Firenze I93 5; M. BARILLARI, Il diritto pubblico del Romagnosi, Bari I936; A. LEVI, Il centenario della morte di C.D. Romagnosi, bibliografia, in «Archivio storico italiano» I936; G.A. BELLONI, Sa,zy,i sul Romagnosi, Milano I94o; A. DRAETTA, Della filosofia civile di C.D. Romagnosi, Bari I95o; L. RICCI GAROTTI, G.D. Romagnosi nella critica recente, in «Società» I959; A. GALIMBERTI, La mente di G. D. Romagnosi, in «Giornale critico della filosofia italiana» I96o; A. DENTONE, Il problema morale in Romagnosi e Cattaneo, Milano I968. Tra le varie edizioni delle opere di Gerdil si ricordano quella in 6 voli. pubblicata a Bologna tra il I 784 e il I 79 I e quella pubblicata a Napoli in 7 voli. tra il I 8 53 e il I856. Su Gerdil si veda: G. GRILLO, Il cardinale G.S. Cerdil, Torino I865; G. ALLIEVO, G.S. Gerdil educatore e filosofo, Torino I 896; A. LANTRUA, G.S. Gerdil filosofo e pedagogista nel pensiero italiano del secolo XVIII, Padova I 9 52; A. GNEMMI, Fondamento speculativo ed affermazione di Dio in C.S. Gerdil, in «Rivista di filosofia neoscolastica » I967.
CAPITOLO QUINDICESIMO L'illuminismo tedesco
Sulle condizioni culturali e sociali della Germania nel secolo xvm si veda: E. ZELLER, Geschichte der deutschen Philosophie seit Leibniz, Monaco I873; G. ZART, Einfluss der englischen Philosophen seit Bacon auf die deutsche Philosophie des XVIII ]ahrhunderts, Berlino I88I; R. SoM11.1ER, Grundziige einer Geschichte der deutschen P{ychologie und Aesthetik von Wolff-Baumgartetl bis Kant-Schiller, Wi.irzburg I 892; M. DESSOIR, Geschichte der neuren deutschen Prychologie, volume I, Von Leibniz bis Kant, Berlino I894; F. MEHRING, Die Lessing-Legende. Zur Geschichte und Kritik des preussischen Despotismus und der Klassischen Literatur, Stoccarda I9o6 (n ed., trad. italiana, Roma I952); J. SCHULTZE, Die Auseinandersetzung zwischen Ade/ und Biirgertum in den deutschen Zeitschriften der letzten drei Jahrzehnte des XVIII Jahrhunderts {I77.J-I8o6), Berlino I925; P. KLASSEN, Die Grundlagen des aufgekliirten Absolutismus, J ena I 929; W.H. BRUFORD, Germany in the eighteenth centur_y: the social background of the literar_y revival, Cambridge I 9 3 5 ; H. FRIEDERICI, Das deutsche biirgerliche Lustspiel der Friihaufkliirung (I 7 j6-I7 J o) unter besonderer Beriicksichtigung seiner Anschauungen von der Gesellschaft, Halle I 9 57; H. HuBRIG, Die patriotischen Gesellschaften des XVIII Jahrunderts, Berlino I957; W.O. HENDERSON, The state and the industriai revolution in Prussia 1740-I87o, Liverpool I958; E. STAHLEDER, Absolutismus und Aufkliirung (r6481789), Ebenhausen I964: N. MERKER, L'illuminismo tedesco. Età di Lessing, Bari I968. Le opere di Winckelmann sono state edite da J. EISCHEIN in I 2 voli. (Donauschingen, I 82 5-29, traduzione italiana delle opere, 3 voli., Prato I 8 30-33); la corrispondenza è stata edita da W. REHM e H. DIEPOLDER, 4 voli., I952-57· Su Winckelmann: C. J USTI, Winckelmann und seine Zeitgenossen, 3 volumi, Lipsia I866-72; C. FRIEDERICHS, Winckelmann. Ein Vortrag, Amburgo I862; E. BERGMANN, Das Leben und die Wunder Winckelmanns, Monaco I92o; B. VALLENTIN, Winckelmann, Berlino I93 I; W. ZBINDEN, Winckelmann, Berna I93 5; W. REHM, Winckelmann und Lessing, Berlino I94I; L. CuRTIUS, Winckelmann und seine Nachfolge, Vienna I94I; H. RuPPERT, Winckelmann Bibliographie, in « Jahresgabe der Winckelmann Gesellschaft » 554
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Bibliografia
I942; W. WAETZOLnT, ].]. Winckelmann, Lipsia I946; A. RtinrGER, Winckelmann und Italien, Krefeld I956; In., La personalità di Winckelmann, in « Paideia » I956; A. SeHULZ, Winckelmcmn und seine Welt, Berlino I962. Le seguenti opere di Wolff: Philosophia prima, Cosmologia generalis, Verniinftige Gedanken von den Kraften des menschlichen Verstandes sono state ristampate ad Hildesheim nel I962 e nel I964, a cura di J. BeoLE e nel I965 a cura di H. W. ARNnT. Su Wolff si veda: F. W. KLUGE, C. Wolff der Philosoph, Breslau I 83 I; J. CA.sAR, C. Wolff in Marburg, Marburgo I879; W. ARNSPERGER, C. Wolffs Verhaltniss zu Leibniz, Heidelberg I897; P.A. HEILEMANN, Die Gotteslehre des C. Wol.lfs, Versuch einer Darstellung und Beurteilung, Lipsia I9o7; H. PieHLER, Uber C. Wolffs Ontologie, Lipsia I9Io; E. KoHLMEYER, Kosmos und Kosmogonie bei C. Wolff. Ein Beitrag zrtr Geschichte und Theologie des Aufklarungszeitalters, Gottinga I9I I; H. LEVY, Die Religionsphilosophie C. Wolffs, Wiirzburg I928; E. UTITZ, C. Wolff, Halle I929; C. JoESTEN, C. Wolffs Grundlegung der praktischen Philosophie, Lipsia I93 I; H.J. DE VLEESeHAUWER, La genèse de la méthode mathématique de Wo(lf, in (( Revue beige de philologie et d 'histoire )) I 9 32; M. CAMPO, Wolff e il razionalismo precritico, 2 voli., Milano I939; H.W. ARNnT, Der Moglichkeitsbegriff bei C. Woljf und ].H. Lambert, Gottinga I959; R.J. BLAeKWELL, C. Wolff'sdoctrine ofthe soul, in« Journal of the history of ideas » I96I; J. BeoLE, La Philosophia prima sive antologia de C. Woljf. Histoire, doctrine et méthode, in «Giornale di metafisica» I96I; In., Un essai d'explication rationnelle du monde ou la Cosmologia generalis de C. Wollf, i vi I 96 3; In., Cosmologie woljjìenne et t!J'namique leibnitienne, in « Études philosophiques » I964; J.V. BuRNS, Dynamism in the cosmology of C. Wolff, New York I966; N. MERKER, Cristiano Wolff e la metodologia del razionalismo, in «Rivista critica di storia della filosofia» I967-68. Su Knutzen: B. ERnMANN, M. Knutzen und seine Zeit. E in Bcitrag zur Geschichte der Wolffschen Schule und insbesondere zur Entwicklungsgeschichte Kants, Lipsia I876; M. VAN BIEMA, M. Knutzen et la critique de l'armonie préétablie, Parigi I9o8. Su Baumgarten, di cui sono state ristampate l' Aesthetica e la .Metaphysica (Hildesheim, I96I e I963): H.G. PETERS, Die Astetik A.C. Baumgartens und ihre Beziehungen zum Ethischen, Berlino I934· Su Meier: E. BERGMANN, G. F. Meierals Mitbegriinderder deutschen Astetik. Unter Benutzung ungedruckter Quellen, Lipsia I9Io; J. SeHAFFRATH, Die Philosophie des G.F. Meier, ein Beitrag zur Geschichte der Aufklarungsphilosophie, Eschweiler I940. Su Reimarus: D.F. STRAuss, H.S. Reimarus und seine Schutzschrift fiir die verniinftigen Vereherer Gottes, Lipsia I 862; W. BtiTTNER, H. S. Reimarus als Metaphysiker, Paderborn I 909; H. KosTLIN, Das religiose Erleben bei Reimarus, Tubinga I 9 I 9; M. LOESER, Die Kritik des H.S. Reimarus am alten Testament, Berlino I94I; P. GRAFFIN, La théologie nature/le de Reimarus, in« Études germaniques » I95 1. Su Crusius, di cui sono state ristampate le principali opere filosofiche (a cura di G. TONELLI, 4 voli., Hildesheim I964-66), si veda: A. MARQUARnT, Kant und Crusius. Ein Beitrag zum richtigen Verstiindnis des crusianischen Philosophie, Kiel I885; C. FESTNER, C.A. Crusius als Metaphysiker, Halle I 892; A. VON SEITZ, Die Willensfreiheit in der Philosophie des C.A. Crusius, gegeniiber de m Leibniz- Wollffschen Determinismus, Wiirzburg I 899; H. HEIMSOETH, Metaphysik und Kritik bei C.A. Crusius, Berlino I926 (anche in Studien zur Philosophie lmmanuel Kants, Colonia I956); W.R. ]AITNER, Thomasius, Riidiger, Hoffmann und Crusius, Bleicherode I939· Su Ploucquet: K. ANER, Gottfried Ploucquets Leben und Lehre, Bonn I909; P. BoRNSTEIN, Gottfried Ploucquets Erkenntnistheorie und Metap~ysik, Potsdam I 898. Le Gesammelte philosophische
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Bibliografia Werke, di Lambert sono state ristampate a Hildesheim (I965-68), l'Opera f!lathematica è pubblicata da A. SPEISER, voli. I e n, Zurigo I946-48. Su Lambert: R. ZIMMERMANN, Lambert, der Vorgiinger Kant.r, Vienna I879; J. LEPSIUS, )~H. Lambert, Monaco I88I; O.J. BAENSCH,j.H. Lambert.r Philo.rophie und .reine Stellung zu Kant, Tubinga I9o2; K. KRIENELKE,j.H. Lambert.r Philo.rophie der Mathematik, Berlino I9o9; M. STECK, Bibliographia lambertiana, ein Fiìhrer dureh da.r gedruckte Schrifftum von ].H. Lambert I 7 23-IJJl, Berlino I943; P. BERGER, ].H: Lamberts Bedeutung in der Naturwissen.rchaft de.r XVIII jahrhunderts, in « Centaurus » I959; W.S. PETERS, ].H. Lamberts Konzeption einer Geometrie auf einer imaginiiren Kugel, in « Kantstudien » I96I-62. Per quanto concerne le opere di Mendelssohn si veda: Werke, a cura di G.B. MENDELSSOHN, 7 voli., Lipsia I843-44; Ge.rammelte Schriften, a cura di I. ELBOGEN, J. GuTTMANN, E. MITTWOCH, Berlino I929 sgg. Sull'opera di Mendelssohn si veda: M. KAYSERLING, M. Mendelssohn. Sein Leben und .reine Werke, Lipsia I862 (n ed. I888); G. KANNGIESSER, Die Stellung M. Mendelssohns in der Geschichte der Astetik, Francoforte sul Meno I868; E.D. BACHI, Sulla vita e sulle opere di M. Mendel.rsohn, Torino I872; D. SANDER, Die Religionsphilo.rophie M. Mendel.r.rohns, Erlangen I894; L. GoLDSTEIN, M. Mendelssohn und die deutsche Astetik, Konigsberg I9o4; B. BERWIN, M. Mendel.rsohn im Urteil seiner Zeitgenossen, in « Kantstudien » suppl. I 9 I 9; B. CoHEN, Ober die Erkenntnislehre M. Mendels.rohns, Giessen I92I; N. CAHN, M. Mendelssohn.r Moralphilosophie, Giessen I92 I; F. BAMBERGER, Die geistige Gesta/t M. Mendelssohns, Francoforte I 929; E. CASSIRER, Die Idee der Religion bei Lessing und Mendelssohn, in Festgabe zum zehnjahrigen Bestehen der Akademie fiìr die Wissenschaft des judentums, Berlino I929; F. PINKUS, M. Mendels.rohns Verhiiltniss zur englischen Philo.rophie, Wiirzburg I929; H. WALTER, M. Mendelssohn, critic and philosopher, New York I93o; H. LEMLE, Mendelssohn und die Toleranz, Augsburg 1932; O. ZAREK, M. Mendelssohn, Amsterdam I936; H. HoELTERS, Der Spinozistische Gottesbegriff bei M. Mendel.rsohn und F.H. Jacobi und der Gottesbegriff Spinozas, Bonn 1938; L. R1CHTER, Philosophie der Dichtkunst. M. Mendelssohns Astetik, Berlino I948; T.C. VAN STOCHUM, Lavater contra Mendelssohn: q6!)-IJJI," Verlicht rationalisme en Christelijke bekeringsijver, Amsterdam I953; F.J. WILL, Cognition, thought, beaury in lvf. Mendels.rohn's ear!J aesthetics, in «Journal of aesthetics and art criticism» I955-56; LE. BARZILAY, M. Mendelssohn, in « Jewish quarterly review » I96I-62; H.M. MEYER, M. Mendels.rohns Bibliographie, Berlino I 96 5. Le opere principali di Tetens, Ober die allgemeine spekulativische Philo.rophie, 1775 e Philosophische Ver.ruche iìber die men.rchliche Natur und ihre Entwicklung, I777, sono state ristampate a Berlino nel I9I3· Su Tetens si veda: O. ZIEGLER, ].N. Tetens Erkenntnistheorie in Beziehung auf Kant, Lip sia I 888 ; G. STORRING, Die Erkenntnistheorie von Tetens, Li p sia I 90 I ; M. BRENKE, ].N. Tetens Erkenntnis- Theorie vom S tandpunkte des Kritizismus, Rostock I 90 I ; W. U EBELE, Herder und Tetens, in « Archiv fiir Geschichte der Philosophie » I9o5; ]. LoRSCH, Die Lehre vom Gefiìhl bei Tetens, Giessen I9o6; M. ScHINZ, Die Moralphilo.rophie von Tetens, Lipsia 19o6; W. UEBELE,j.N. Tetens na,,h seiner Gesamtentwicklung betrachtet mit besonderer Beriìcksichtigung des Verhiiltnisses zu Kant, in « Kantstudien » I 9 I I ; K. ZERG1EBEL, Tetens und sein System der P.rychologie, in « Zeitschrift fiir Philosophie un d Padagogik » I 9 I I- I 2; A. FucHs, ].N. Tetens piidagogische Anschauungen, Langensalza I 9 I 8 ; A. SEIDEL, Tetens Einjluss auf die kritische Philosophie Kants, Lipsia I932; W. GoLEMBSKI, Die deutsche
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Bibliografia
Aujkliirungsphilosophie als Quelle des Transzendentalismus. l, Die Ontologie des ].N. Tetens, in « Bulletin international de l' Académie polonaise des sciences et des lettres » 1934· L'opera di Eulero viene pubblicata in una monumentale edizione a Lipsia e a Berlino (Opera omnia sub auspiciis Societatis scientiarum naturalium, Helveticae 191 I sgg.). In italiano è stata tradotta l'opera più nota e diffusa di Eulero, Le lettere a una principessa tedesca, Torino I958. Su Eulero: G. ENESTROM, Verzeichnis der Schriften Lehonard Eulers, Lipsia I9Io; Io., Die ersten Untersuchungen Eulers iiber hohere lineare Differentialgleichungen mit Variabeln Koeffìzienten, in « Bibliotheca Mathematica » I912; K. BoPP, L. Eulers und Johann Heinrich Lamberts Briefwechsel, in « Abhandlungen der preussischen Akademie der Wissenschaften » I924; R. BREMECKE, Die Verdienste L. Eulers um den Potentialbegriff, in « Zeitschrift fiir Physik » I924; L.G. ou PASQUIER, L. Euler et ses amis, Parigi I927; o. SPIESS; L. Ett!er, Ein Beitrag zur Geistesgeschichte des XVIII Jahrhunderts, Frauenfeld I 929; Raccolta di vari studi in occasione del I 5o0 anniversario della morte, Mosca I 9 3 5; R. FuETER, L. Euler, Basilea I 94 8; Die deutsche-russische Begegnung und L. Euler. Beitrage zu den Beziehungen zwischen der deutschen und der russischen Wissenschaft und Kultur im XVII Jahrhundert, a cura di E. WrNTER, Berlino I958; J.E. HoFFMANN, Ober Zahlentheoretische Methoden Fermats und Eulers, ihre Zusammenhiinge und ihre Bedeutung, in « Archive for history of exact sciences » I96r. Numerosi inoltre gli studi in russo pubblicati in particolare tra il I 9 57 e il I 96o. Le più recenti edizioni delle opere di Lessing sono le seguenti: Werke, a cura di J. PETERSEN e W. VON 0LSHAUSEN, 25 voli., Berlino I925-I935; Gesammelte Werke, a cura di P. RILLA, IO voli., Berlino I954-58; Fra le traduzioni italiane: L'educazione del genere umano, a cura di S. CARAMELLA, Lanciano I 9 27; a cura di F. CANFORA, Bari I 9 5I ; Laocoonte, a cura di M. CARPITELLA, Milano I96r. Su Lessing si veda: K. FrscHER, Lessing als Reformator der deutschen Literatur, 2 voli., Stoccarda I 88 I; P. WERNLE, Lessing und das Christentum, Lipsia I912; H. KoFINK, Lessings Anschauungen iiber die Unsterblichkeit und Seelenwanderung, Strasburgo I9I2; W. 0EHLKE, Lessing und seine Zeit, 2 voli., Monaco I92o (n ed. I929); C. ScHREMPF, Lessing als Philosoph, Stoccarda I9o6 (n ed. I92I); P. MILANO, Lessing, Roma I93o; H. GoNZENBACH, Lessings Gottesbegriff in seinem Verhiiltnis zu Leibniz und Spinoza, Lipsia I94o; F.J. ScHMITZ, Lessings Stellung in der Entfaltung des lndividualismus, BerkeleyCambridge I94 I; A. VON ARx, Lessing und die geschichtliche Welt, Francoforte I944; H. THIELICKE, Vernunft und Offenbarung. Bine Studie zur Religionphilosophie Lessings, Giitersloh I936 (m ed., I957); O. MANN, Lessing, n ed., Amburgo I96I; M. GHro, Fra Illuminismo e Romanticismo: Lessing, in « Filosofia » I 96 3 ; Io., Lessing e il concetto di progresso, i vi I 964; H.E. ALLISON, Lessing and the enlightenment. His philosophy of religio11 and its relation to XVIII century thought, Ann Arbor I 966. Sullo Sturm und Drang si veda: Sturmer und Dranger, a cura di A. SAuER, 3 voli., Berlino I883; C.G. VoLLMOELLER, Die Sturm und Drangperiode und der moderne deutsche Realismus. Ein Vortrag, Berlino I897; A.M. WAGNER, H.W. von Gerstemberg und der Sturm und Drang, 2 voli., Heidelberg I920-24; H.K. KoRFF, Geist der Goethezeit, l, Sturm und Drang, Lipsia I923; H. KINOERMANN, Entwicklung der Sturm und Drang Bewegung, Lipsia I925; S. MELCHINGER, Dramaturgie des Sturm und Drangs, Gotha I929;
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Bibliografia
H. WERNER, Religiose Problematik im Schriftum der Sturm und Drangperiode, Marburgo I937; R. PASCAL, The german Sturm und Drang, Manchester I95 3 (tr:!d. i t., Milano I957); E. STAIGER, Stilwandel. Studien zur Vorgeschichte der Goethezeit, Zucigo I963. Per quanto concerne le opere di Basedow si veda: Ausgewiilte Schriften, a cura di H. GòRING, Langensalza I88o. L'opera Vorstellung an Menschenfreunde è stata edita in edizione critica a Lipsia nel I904, a cura di T. FRITZSCH; è tradotta in italiano da G. SANTINI, Palermo I9I4. Su Basedow e il filantropismo si veda: A. PINLOCHE, La réforme de l'éducation en Allemagne au dix huitième siècle. Basedow et le philantropisme, Parigi I889; G. GossGEN, Rousseau und Basedow, Strasburgo I89I; R. DIESTELMANN, ].B. Basedow, Lipsia I 897; H. ZIMMERMANN, Die Piidagogik Basedows vom Standpunkte moderner Geschichtsauf!assung, Langensalza I9I2; A. PIAZZI, L'educazione filantropica nella dottrina e nell'opera di G.B. Basedow, Milano I92o; J. RAMMELT, ]. Basedow, der Philanthropinismu.r, und das Dessauer Philanthropin, Dessau I 929; G. DIONISIO, Il pietismo. Dal realismo pietistico al filantropismo del Basedow, Milano I95 8.
CAPITOLO SEDICESIMO Il problema della scuola durante la rivoluzione francese
In generale, sul problema della scuola durante il periodo della rivoluzione francese si veda: V. PIERRE, L'école sous la Révolution française, Parigi I88I; E. ALLAIN, L'instruction primaire en France avant la Révolution, Parigi I 88 I; A. DuRUY, L'instruction publique et la Révolution, Parigi I882; L. LIARD, L'enseignement supérieur en France, q8j-I7jJ, volume I, Parigi I882; G. DuMESNIL, Lapédagogie révolutionnaire, Parigi I883; A. SICARD, L'éducation morale et civique avant et pendant la Révolution, Parigi I 884; A. BABEAU, L'école de vii/age pendant la Révolution, Parigi I 88 5 ; E. ALLAIN, L' oeuvre sco/aire de la Révolution, Parigi I 89 I; E. BERTRAND, L' enseignement technique en Allemagne et en France, Montpellier I 9 I 3; E. CODIGNOLA, La pedagogia rivoluzionaria, Firenze I9I9, (n ed. I925); F. DE LA FoNTAINERIE, French liberalism and education in the eighteenth century, New York I932; L. GRIMAUD, Histoire de la liberté d'enseignement en France, 4 voli., Grenoble I944; L.P. WILLIAMS, Science, education and the french revolution, in « Isis » I954; M. GoNTARD, L'enseignement primaire en France, q8j-I8JJ, Parigi I959; F. PoNTEIL, Histoire de l'enseignement en France, Parigi I966; F.B. ARTZ, The development of technical education en France, IJOO-I8oo, Cambridge, Mass. I966; A. LÉoN, La révolutionfrançaise et l'éducation technique., Parigi I968; H. C. BARNARD, Education and the french revolution, Cambridge I969. Per quanto concerne i testi e i documenti si veda: LA CHALOTAIS, Essai d'éducation nationale ou pian d'études pour la jeunesse, Ginevra I763; Recueil de plusieurs des ouvrages de monsieur le président Rolland, Parigi I 78 3; La législation de l'instruction primaire, a cura di O. GRÉARD, vol. I, I789-I833, Parigi I889; Procès-verbaux du Comité d'instruction publique de l' assemblée legislative, Parigi I 889; Procès-verbaux du Comité d'instruction publique de la Convention Nationale, 6 voli., Parigi I89I-I9o7; Note sur l'instr~~ction publique de 1789-I8o8, suivie du catalogue des documents originaux existants au Musée pédagogique et relatifs à l'histoire de l'instruction publique durant cette période, Parigi I 888 (questa pubblicazione e le due precedenti sono a cura di J. GmLLAUME); si veda inoltre: C. HIPPEAU, L'instruction
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Bibliografia publique en France pendant la Révolution, 2 voli., Parigi I88I-83 (contiene numerosi documenti e progetti di riforma); E. ALLAIN, La question de l'enseignement en r789 d'après /es cahiers, Parigi I 886; J. RuTTEMBERG, An examination of the important educational projects presented in the french revolutionar_y assemblies, Ithaca I927. Sulle grandi scuole: A. FouRCY, Histoire de l'Eco/e po{ytechnique, Parigi I827; G. PINET, Histoire de l'Eco/e po(ytechnique, Parigi I 887; Eco/e polytechnique, livre du centenaire, 3 voli., Parigi I893; P. ALVIN, L'école polytechnique et son quartier, Parigi I932; J.P. CALLOT, Histoire de l'école pofytechnique, Parigi I95 8; J.P. DELEUZE, Histoire et description du muséum rqyale d'histoire nature/le, 2 voli., Parigi I823; P. CAP, Le muséum d'histoire nature/le, histoire de la fondation et des développements successifs de l' établissement, Parigi I 8 54; E. T. HAMY, Les derniers jours du jardin du roi et la fondation du muséum d'histoire nature/le, Parigi I893; Muséum d'histoire nature/le, le centenaire de la fondation, Parigi I893; E. T. HAMY, Le muséum d' histoire nature/le il_y a un siècle, Parigi I 896; A. DE MoNTZIE, Histoire du conservatoire des arts et métiers, Parigi I949; R. TESSE, Les origines du Conservatoire des arts et métiers, in « Revue cles travaux de l'académie cles sciences morales et politiques » I952; R.M. DuPUY, L'école normale, Parigi I884; Livre du centenaire de l'école normale, Parigi I 89 5.
CAPITOLO DICIASSETTESIMO Kant
Le principali edizioni delle opere di Kant sono le seguenti: Sammtliche Werke, a cura di G. HARTENSTEIN, Io voli., Lipsia I838-39; Sammtliche Werke, a cura di K. RosENKRANZ e F.W. ScHUBERT, 12 voll., Lipsia I838-42; Werke, a cura di J.H. VON KIRCHMANN, Io voli., Berlino I 868-78; edizione a cura di K. VoRLANDER ed altri, « Philosophische Bibliotek », Lipsia I904 sgg.; Werke, a cura di E. CASSIRER, Io voll., Berlino I9I2-22; Sammtliche Werke, a cura della Koniglich-Preussischen Akademie der Wisscnschaft, 23 voli., Berlino I902-5 5 (la più completa ed autorevole). Le principali traduzioni italiane delle opere di Kant sono le seguenti: Critica della ragion pura, a cura di G. GENTILE e G. LoMBARDO RADICE, Bari I9Io (vrr ed. riveduta da V. MATHIEU, I958, IX ed. I965, ed. economica, I966); a cura di G. COLLI, Torino I957 (ristampa I965); Critica della ragion pratica, a cura di F. CAPRA, Bari I909 (vrr ed. riveduta da E. GARIN, I955, IX ed. I966; ed. economica I97o); Critica de/giudizio, a cura di A. GARGIULO, Bari I907 (Iv ed. riveduta da V. VERRA, I96o, VI ed. I967); Scritti precritici, a cura di P. CARABELLESE, Bari I923 (rr ed. riveduta e ampliata, a cura di R. AssuNTO e R. HoHEMEMSER, I 9 53); Pro/ego meni ad ogni metafisica futura, a cura di P. MARTINETTI, Milano I9I3 (ristampa I94o), a cura di P. CARABELLESE, Bari I925; Fondazione della metafisica dei costumi, a cura di P. CARABELLESE, Firenze I 9 36; a cura di G. GALLI, Padova I946; Opusposthumum, a cura di V. MATHIEU, Bologna I963; Primi principi metafisici della scienza della natura, a cura di L. GALVANI e L. GEYMONAT, Bologna I959; Lettere, scelta a cura di A. PASTORE, Torino I925; e inoltre: Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, traduzione di G. SoLARI e G. VIDARI, a cura di N. BoBBIO, L. FIRPO e V. MATHIEU, Torino I956 (rr ed. I965); Opere, a cura di P. CHIODI, 3 voll., Torino I967. Essenziali i seguenti strumenti bibliografici: E. ADICKES, German kantian
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Bibliografia .
bibliograp*'. Bibliograp*' of writings lry and on Kant wich have appeared in Germatry up to the end of 1887, in« The philosophical review » 1893-96; R. E1SLER, Kantlexicon, Berlino 1930 (ristampa, Hildesheim 1964). Dal 1896 si pubblica la rivista « Kantstudien » che contiene studi su Kant e il kantismo. Le principali fonti per la conoscenza della vita di Kant sono tre memorie pubblicate a Kéinigsberg nel 18o4; L.E. BoROVSKI, Darstellung des Lebens und Characters Immanuel Kants; R.B. JACHMANN, Immanuel Kant, geschildert in Briefen an einen Freund; E.A.C. WASIANSK1, Immanuel Kant in seinen letzten Lebensjahren (le tre memorie sono tradotte in italiano, a cura di E. GARIN, Bari 1969). Sulla vita e l'opera di Kant in generale si veda: K. FISCHER, Kants Leben und die Grundlagen seiner Lehre, Mannheim 186o, in Geschichte der neuren Philosophie, IV e v, VI ed. 1928; O. LIEBMANN, Kant und die Epigonen, Stoccarda 1865 (nuova ed. a cura di B. BAUCH, Berlino I9I2); A. RIEHL, Der philosophische Kritizismus, 3 voll., Lipsia 1876-87 (rr ed. 19o8); R. AoAMSON, On the philosop*' of Kant, Edimburgo 1879; B. SPAVENTA, Kant e l'empirismo, Napoli 188o; C. CANTONI, E. Kant, 3 voll., Milano 1879-84 (rr ed. 1907); E. ARNOLD, Kants ]ugend, Kéinigsberg 1882; E. CAIRO, The critica/ philoso#y of Kant, 2 voll., Glasgow 1889 (rr ed. 1909); F. PAULSEN, Kant: Sein Leben und seine Lehre, Stoccarda 1898 (vi ed. 192o; trad. italiana 1904); T. RuYSSEN, Kant, Parigi 19oo; G. SIMMEL, Kant,Lipsia 1904 (vi ed. I924; trad. italiana, Padova 195 3); H. S. CHAMBERLAIN, l. Kant. Die Personlichkeit als Einfiihrung in das Werk, Monaco 1905 (rrr ed. 1921); O. KtiLPE, l. Kant, Lipsia 1907 (v ed. 1921); A. VON AsTER, Kant, Lipsia 1909; R. GILLOUIN, Kant, Parigi 1909; B. BAUCH, Kant, Lipsia 19II (rr ed. Berlino 1916); A. LINDSAY, The philosop~y of Kant, Londra 1913; R. KRONER, Kants Weltanschauung, Tubinga 1914; B. BAUCH, l. Kant, Berlino 1917 (rr ed. 1921); E. CASSIRER, Kants Leben und Lehre, Berlino 1918; K. VoRLANDER, Kants Weltanschauung, Darmstadt 1919; K. VoRLANDER, l. Kants Leben, Lipsia 1922; J. WARD, Kant, Londra 1923; E. KtiHNEMANN, Kant, 2 voll., Monaco 1923-24; H. RICKERT, Kant als Philosoph der modernen Kultur, Tubinga 1924; K. VoRLANDER, l. Kant, der Mann und das Werk, Lipsia 1924; P. LAMANNA, Kant, Milano 1925 (ristampa, Firenze 1965); E. BouTROux, La philosophie de Kant, Parigi 1926 (ristampa 1965); P. CARABELLESE, La ftlosofta di Kant, Firenze 1927; A. RENDA, Il criticismo. Fondamenti etico-religiosi, Palermo 1927; R. KYNAST, Kant, sein SJ'Stem als Theorie des Kulturbewusstseins, Monaco 1928; M. HEIDEGGER, Kant und das Problem der Metap*'sik, Halle 1929 (rr ed. Francoforte 1951; trad. it., Milano 1963); P. LACHIÈZE-REY, L'idéalisme kantien, Parigi 1931 (rr ed. 195o); H.J. DE VLEESCHAUVER, L'évolution de la pensée kantienne, Parigi 1939; H. KNITTERMAYER, l. Kant, Brema 1939; A. PASTORE, L'acrisia di Kant, Padova 1940; K. ScHILLING, Kant, Monaco 1942; P. MARTINETTI, Kant, Milano I943 (nuova ed., Milano 196&); S. V ANNI RoviGHI, Introduzione allo studio di Kant, Milano 1945 (nuova ed., Brescia I968); L. GoLDMANN, Mensch, Getneinschaft und Welt in der Philosophie Kants, Zurig 1945; A.O. DéiRING, Das Lebenswerk I. Kants, Amburgo I947; M. AEBI, Kants Begriindung der deutschen Philosophie, Basilea 1947; K. STAVENHAGEN, Kant und Konigsberg, Gottinga 1950; A. BANFI, La ftlosofta critica di Kant, Milano 195 5; S. KoRNER, Kant, Harmondsworth 195 5; R. ZocHER, Kants Grundlehre, Erlangen 19 59; E. WEIL, Problèmes kantiens, Parigi 196 3 (rr ed. 197o); F. DELEKAT, l. Kant, Heidelberg 1963 (rrr ed. 1969); G. RABEL, Kant, Oxford 1963; L. ScARAVELLI, Scritti kantiani, Firenze 1968. Sul pensiero precritico si veda: F. PAULSEN, Versuch einer Entwicklungsgeschichte der
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Berlino I 900 (n ed. I 920); A. RrEHL, Der philosophische Kritizismus und seine Bedeutung fiir die positive Wissenschaft, 3 voli., Lipsia I876-87 (n ed. I9o8); K. VoRLANDER, Kant und Marx. Ein Beitrag zur Philosophie des Sozialismus, Tubinga I9I I (n ed., I926); v. DELBOS, De Kant aux postkantiens, Parigi I94o; M. CAMPO, Schizzo storico della esegesi e critica kantiana, Varese I959; A. NEGRI, L'etica kantiana e la storia. Istanze etiche dello storicismo marxista, Firenze I96I; J. LACROIX, Kant et le kantimte, Parigi I966.
CAPITOLO DICIOTTESIMO Immediati prosecutori e critici dell'opera kantiana
Su Reinhold si veda: E. REINHOLD, K.L. Reinholds Leben und literarisches Werken, Jena I825; H. ADAM, K.L. Reinholds philosophischer Systemwechsel, Heidelberg I93o; M. SELLING, Studien zur Geschichte der Transzendentalphilosophie (r. K.L. Reinholds Elementarphilosophie in ihren philosophiegeschichtlichen, Zusammenhang), Lund 193 8; P. OLIVER, Zum Willensproblem bei Kant und Reinhold, Berlino I94I; A. PIERINI, C.L. Reinhold; il metodo della .filosofia elementare, il principio della coscienza e il problema della cosa in sé, in «Giornale critico della filosofia italiana» I94I; A. KLEMMT, K.L. Reinholds Elementarphilosophie, Amburgo I95 8; A. PUPI, Società e morale in alcuni scritti di K.L. Reinhold, in « Rivista critica di storia della filosofia>> 1965; In., La formazione della .filosofia di K.L. Reinhold, IJ84-IJN, Milano 1966. L' Aenesidemus di G.E. Schulze è stato edito a Berlino a cura della Kantgesellschaft nel I9I 1. Su Schulze si veda: H. WIEGERHAUSEN, Aenesidem. Der Gegner Kants und seine Bedeutung in Neukantianismus, in « Kantstudien » I9Io; V. VERRA, « Enesidemo » e la problematizzazione della critica, in « Filosofia » I 9 52; A. PuPr, Le obiezioni all'« Aenesidemus », in « Rivista di filosofia neoscolastica » I 967-69. Le opere di S. Maimon sono edite da V. VERRA (Gesammelte Werke, Hildesheim 1965 sgg.). L'opera Versuch einer neuen Logik è stata pubblicata a Berlino nel 1912 a cura della Kantgesellschaft; la Versuch iiber Transzendentalphilosophie è stata ristampata a Darmstadt nel I963. Su Maimon: F. KuNTZE, Die Philosophie S. Maimons, Heidelberg 1812; B. KATZ, Zur Philosophie S. Maimons, in« Archiv fi.ir Geschichte der Philosophie » 1915; M. GuEROULT, La philosophie transcendentale de S. Maimon, Parigi 1929; H.J. }ACOBS, L'imagination selon S. Maimon, in « Iyyum » I957; L. SrcHIROLLO, Lettere di Maimon a Kant sulla Critica della ragion pura, in « Il pensiero » I 9 58; H. J. J ACOBS, Maimon's theory of language, in« Iyyum » I959; D. BAUMGARD, The ethics of S. Maimon, in « Journal of the history of philosophy » I963; S. ATLAS, From criticai to speculative idealism. The philosophy of S. Maimon, L'Aia I964; S.H. BERGMANN, The philosophy of Maimon, Gerusalemme I967. Si hanno le seguenti edizioni delle opere di Hamann: Schriften, a cura di F. ROTH e G.A. WIENER, 8 voli., Berlino I82I-43; Leben und Schriften, a cura di C.H. GrLDEMEISTER, 6 voli., Gotha I857-73; Siimtliche Werke, a cura di J. NADLER, 6 voli., Vienna I949-57· Su Hamann: R. UNGER, Hamann und die Aufkliirung, 2 voli., Jena I925 (ristampa, Jena I963); J. BiuM, La vie et l'oeuvre de ].G. Hamann le mage du nord, Parigi I912; F. BLANKE,j.G. Hamann als Theologe, Tubinga I928; J. NADLER, Der Zeuge des
s:
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Bibliografia Corpus mysticum, Salisburgo I949; J.C.O'FLAHERTY, Uniry and language. A stutfy in the philosopl!Y of H.G. Hamann, Chapel Hill I952; V. VERRA, Hamann e l'incontro di tempo, poesia e filosofia, in «Filosofia» I954; F. BLANKE, Hamann Studien, Zurigo I956; M. SEILS, Theologische Aspekte zur gegenwiirtigen Hamann-Deutung, Berlino I957; H.A. SALMONY, ].G. HamantJ und F.H. Jacobi, Heidelberg I963; V. VERRA, Hamann in lta(y, in « The Hamann News-letter » I963; W.M. Alexander, ].G. Hamann's philosopl!J and faith, L'Aia I966. Le opere di J acobi sono state edite a Lipsia in 6 voli. tra il I 812 e il I 825 ; sempre a Lipsia, una scelta della corrispondenza a cura di F. RoTH, è stata edita nel I826. Le traduzioni italiane sono le seguenti: Idealismo e realismo e altri saggi, a cura di N. BoBBIO, Torino I948; La dottrina di Spinoza, a cura di F. CAPRA, Bari I969 (edizione riveduta da V. VERRA); Dell'Idealismo trascendentale, a cura di N. BOBBIO, in «Rivista di filosofia» I948; a cura di C. LACORTE, in« Giornale critico della filosofia italiana» I962; Scritti e testimonianze, a cura di V. VERRA, Torino I966. Su Jacobi: J. KuHN, Jacobi und die Philosophie seiner Zeit, Magonza I834 (ristampa, New York I967); F. DEYCKS, Jacobi in Verhiiltnis zu seinem Zeitgenossen besonders zu Goethe, Francoforte I 849; E. ZIRNGIEBL, F.H. ]acobis Leben. Dichten und Denken, Vienna I867; L. LEVY-BRUHL, La philosophie de Jacobi, Parigi I894; F.A. ScHMIDT, F.H. jacobi. Bine Darstellung seiner Personlichkeit und seiner Philosophie als Beitrag zu einer Geschichte Wertproblems, Heidelberg I9o8; O. BoLLNOW, Die Lebensphilosophie F.H. Jacobis, Stoccarda I933 (nuova ed. I966); F. HEBEISEN, F.H. Jacobi. Seine Auseinandersetzung mit Spinoza, Berna I96o; L.S. FoRD, The controversy between Schelling and Jacobi, in « Journal of the history of philosophy » I965; H. NICOLA!, Goethe und Jacobi. Studien zur Geschichte ihrer Freundschaft, Stoccarda 1965. Per le edizioni delle opere di Schiller, si veda: Siimtliche Werke, a cura di E.voN DEN HELLEN e di O. WALZEL, 17 voli., Stoccarda 1904-05; Werke, in « National Ausgabe » Weimar 1943 sgg. Per le traduzioni italiane: Del Sublime, a cura di L. MARINO, Torino 1967; Sa,{',gi estetici, a cura di C. BASEGGIO, Torino I95 I. Sul pensiero di Schiller: K. FxscHER, Schiller als Philosoph, Heidelberg 1891 (n ed.); K. ENGEL, Schiller als Denker, Berlino 1908; V. BASCH, La poétique de Schiller, Parigi I9I 1; C. BAUMECKER, Schillers Schonheitslehre, Heidelberg 1937; F. UsiNGER, F. Schiller und die Idee des Schones, Magonza 195 5; B. VON WIESE, F. Schiller, Stoccarda 1959; A. NEGRI, Schiller e la morale di Kant, Lecce 1968. Per quanto concerne Herder, si veda la bibliografia del quarto volume.
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INDICE DEI NOMI I numeri in torsiH rimandano alia bibliogra6a
Aepinus, Franz Ulrich Theodor, 206 Agnesi, Maria Gaetana, 174 Alembert, Jean-Baptiste Le Rond de, 164, 172, 184, 185-186, 256, 269-278, 281-295· JI9-J20
Amontons, Guillaume, 195 Anarizio (Al Narizi), I 56
Bonnet, Charles, 236-238, JJ2-JJJ Borda, Charles, 193 Bordeu, Théophile, 240, JJO Borelli, Giovanni Alfonso, I 57 Boscovich, Ruggero Giuseppe,
Dilthey, Wilhelm, 15 Dodwell, Henry, 38 Dollond, John, 194 Doria, Paolo Mattia, 356-357, J!I Du Fay de Cisternay, Charles, 205
174-175, J20-J2I
Bossuet,
Jacques-Bénigne,
21, Euclide, 152-155
Euler, Leonard (Eulero), 171Boyer, F., 283 172, 258-259, 259 n., 389, !!l Bacone, Francesco (Francis Ba- Bradley, James, 202 Buffon, Georges Louis Ledere, Fahrenheit, Gabriel Daniel, I 94 con), 264-265 Fardella, Michelangelo, 341 conte di, 227-232, JJI-JJ2 Basedow, Johann Bernhard, 396Butler, Joseph, 43-45, 55-56, JOO Filangieri, Gaetano, 366-368, JJ2397, J!8 Baumeister, Friedrich Christian, !!J Caloprese della Scalea, Gregorio, Fontenelle, Bernard Le Bouvier 134 Baumgarten, Alexander Gottlieb, de, 429, 146 341 Carnot, Lazare-Nicolas, 164, Fourier, Joseph, 164 134, 384, ' " 181 n, Bayes, Thomas, 187 Franklin, Benjamin, 206, J24·J2J Cassini, Cesare Francesco, 203 Fréron, Elie-Chatherine, 284 Bayle, Pierre, 25-32, 497-498 Cataldi, Pietro Antonio, I 57 Beccaria, Cesare, 370-371,!!J Frisi, Paolo, 174, 371, !!J Beccaria, Giambattista, 206 Cavendish, Henry, 206, 209, J27 Becker, Joachim, 208 Celsius, Anders, 195 Galiani, Ferdinando, 365-366, J!2 Beeldsnyder, François Gerard- Chalotais, René de la, 403-404 Galvani, Luigi, 207, J2J Chambers, Ephraim, 280 zoon, 194 Genovesi, Antonio, 364-365, J!2 Gerdil, Giacinto Sigismondo, Berkeley, George, 45-51, JOI-JOJ Chubb, Thomas, 37 Bernoulli, Daniel, 171, JI8-JI9 Clairaut, Alexis, 173-174 374-375, !N Gherardo di Cremona, I 56 Bernoulli, Jacques, 171, 187, 188, Clarke, Samuel, 34-36, 499 Clavio (Christoph Clau), 157 JI8-J20 Giannone, Pietro, 355, J!I Bernoulli, Jean (x667-1748), 171, Collins, Anthony, 39-40 Gioia, Melchiorre, 372, J!J Commandino, Federico, I 57 Gozzi, Gaspare, 362 JI8-JI9 Bernoulli, Jean (1744-I8o7), 171, Condillac, Étienne de, 82-93, 260- Graham, George, 195 Grandi, Guido, 174 264, 6rr-6rz JI8-JI9 Berthier, Guillaume-François, Condorcet, J ean-Antoine-Nico- s'Gravesande, Willem Jacob, 212282 las Caritat de, 332-338, 407214, !24 Bézout, Étienne, 172 Gray, Stephen, 205, J24 413, Nl·J48 Black, Joseph, 195, 205 n., 209, Conti, Antonio, 357-359, J!I Haller, Albrecht, 24o-241, JJJCook, James, 194 J26-J27 Blanchard, Jean-Pierre, 195 Cornelio, Tommaso, 340, 341 !U Blount, Charles, 39 Coulomb, Charles, 206-207, J24 Halley, Edmund, 202, J2J Blumenbach, Johann Friedrich, Couppé, Pierre, 59 Hamann, Johann Georg, 484Crusius, Christian August, 135, 252-253 487, J6J-J66 Boerhaave, Hermann, 238-239, Harrison, John, 194, 195 385, 386, ' " Hartley, David, n-58, JOJ 257-258, !JJ Bolingbroke, Henry, 38, 499-JOO Darjes, Joachim Georg, 135, 385 Heilbronner, J. C., 161 Bolyai, Jànos, x66-167 Diderot, Denis, 245-250,264-278, Helvétius, Claude-Adrien, 93-98, Bolyai, Wolfgang, x66 280-296, !J!-!Jl JI2-JIJ 496-497
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Indice dei nomi Herder, Johann Gottfried, 484487 Herschel, Frederik William, 194, 2.02., J24 Hoffmann, Friedrich, 2.39-2.40 Holbach, Paul-Henri Dietrich, barone di, 318-32.8, J48-149 Holland, G. J., 138-139 Hume, David, 99-12.4, JIJ-JIJ Hutcheson, Francis, 56-57, JOJ Hutton, James, 2.03 Jacobi, Friedrich Heinrich, 485487, J66 Jenner, Edward, 190 n. Jurieu, Pierre, 26-27 Jurin, James, 49 Kant, Immanuel, 145-149, 434478, JJ9-J6J Kleist, Ewald Jiirgen von, 206 Kleist, Heinrich von, 394 Klinger, Friedrich Maximilian, 394 Klopstock, Friedrich, 394 Klugel, George Simon, 161 Knutzen, Martin, 134, 383, JJJ Koenig, Samuel, 173 Lagrange, Joseph-Louis, 164, 175-176, 186, J2I Lambert, Johann Heinrich, 139144, 162-164, 386-387, JJ6 Lamettrie, Julien Offroy de, 243245, JJ4 Lamy, Guillaume, 242 Laplace, Pierre Simon de, 164, 200-201 Lavoisier, Antoine Laurent de, 209-211, 214, J29-JJO Law, William, 37, 499 Legendre, Adrien-Marie, 165166 Leibniz, Gottfried Wilhelm, 13 5136 Leland, John, 37 Leonardo da Capua, 341 Leslie, Charles, 39 Lesser, Friedriech Christian, 219 Lessing, Gotthold Ephraim, 390394, !Jl Linneo, 221-223, JJO-JJI Locke, John, 32-33 Lomonosov, Michail Vasil'evic, 209, J28-J29 Maclaurin, Colin, q6 Maillet, Benoit de, 232 Maimbourg, Louis, 26 Maimon, Salomon, 483-484, 161 Malves, Gua de, 281
Mandeville, Bernard, 53-55, J04- Robinet, Jean-Baptiste-René, 2.33236, JJO JOJ Manfredi, Eustachio, 174 Rolland, 404 Romagnosi, Giandomenico, 372Manfredi, Gabriele, 174 Marat, Jean-Paul, 2.05 n. 373, JJJ-JJ4 Maupertuis, Pierre-Louis Moreau Romé de l'Isle, Jean-BaptisteLouis, 2.03 de, 172-173, 183-184, 22.4-226, Rousseau, Jean-Jacques, 297-316, J20 Mégnié, Pierre-Bernard, 195 J40-J4J Meier, Georg Friedrich, 135, 384, Rozier, François Pilàtre de, 195 Rudiger, Andreas, 386 Mendelssohn, Moses, 388-389, Saccheri, Giovanni Gerolamo, JJ6 Messier, Charles, 2.02 128-130, 158-161, !JI Salton, François-Laurent de, 195 Middleton, Conyers, 41-42. Saunderson, Nicolas, 2.46 Mirabaud, Jean-Baptiste, 6o Mirabeau, Honoré-Gabriel, 404- Savary, Thomas, 197 Scheele, Cari Wilhelm, 2.09, 128 405 Moivre, Abraham de, 176, 187, Schiller, Johann Christoph Frie18.8 drich, 488-490, 166 Montesquieu, Charles-Louis de Schulze, Gottlob Ernst, 482.-483, Secondat, barone di La Brède J6J Segner, Johann Andreas von, e di, 62.-68, JOJ-J08 Montgolfier, Joseph-Michel, 195 136 Montmort, Pierre-Raymond, 187 Shaftesbury, Anthony Ashley Cooper, lord di, p-53. JOJ-J04 Montucla, Jean, 161 Sherlock, Thomas, 41 Morgan, Thomas, 37-38 Muratori, Ludovico Antonio, Smeaton, John, 198 Smith, Adam, 58 355, JJO-JJI Musschenbroek, Peter van, 2.06, Soave, Francesco, 372, JJJ Spallanzani, Lazzaro, 2.29, JJ2 2.14 Spedalieri, Nicola, 374 Stahl, Ernst, 208-209, 239, p6 Naigeon, Jacques-André, 294 Stirling, James, 176, 188 Nasir ed Din, 157 Needham, John Turberville, 228 Sulzer, Johann Georg, 388 Newcomen, Thomas, 197-198, Swammerdam, Jan, 2.16, 217 Symmer, Robert, 206 J2J Newton, Isaac, 255-256 Talleyrand Périgord, CharlesNollet, Jean-Antoine, 206, J24 Maurice de, 406-407 Tamburini, Pietro, 360 Pagano, Mario, 368, JJJ Taylor, Brook, q6 Papin, Denis, 197 Tetens, Johann Nikolaus, 389, JJ6 Perrault, Claude, 32.9 Thumming, Ludwig Philipp, 134 Pini, Ermenegildo, 374 Ploucquet, Gottfried, 136-138, Tilloston, John, 2.4, 497 Tindal, Matthew, 36-37 Posidonio di Apamea, 155-156 Toland, John, 33-34, 499 Trembley, Abraham, 228, JJO Prades, Jean-Martin de, 2.82. Priestley, Joseph, 58, 209, J2J- Turgot, Robert-Jacques, 32.9-332., J28 404, J46 Proclo, 155-156 Vallisnieri, Antonio, 2.18, JJO Vandermonde, Alexandre, 172. Ray, John, 221 Réaumur, René-Antoine Fer- V erri, Alessandro, 370 Verri, Pietro, 369, 370, JJJ chault de, 195, 284, J22-J2J Reid, Thomas, 12.4-12.5, JIJ Vico, Giambattista, 342.-3 55, !49Reimarus, Hermann Samuel, 13 5, JJO Vitale, Giordano, 157 384-385, " ' Reinhold, Karl L., 480-482, J6J Volta, Alessandro, 207, J2J-J26 Voltaire, François-Marie Arouet, Reusch, Johann Peter, 134 Riccati, Jacopo, 174 69-81, 256, J08-JII
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Indice dei nomi Whiston, William, 40 Wachter, Ludwig, 167 Wieland, Christoph Martin, 378 n. Wallis, John, 157 Winckelmann, Johann Joachim, Walton, John, 49 Warburton, William, 42.-43, JOO 380, !!4 Winkler, Johann Heinrich, 134 Waterland, Daniel, 41 Wolff, Caspar Friedrich, 2.52., Watt, James, 198-199, J2J Werner, Abraham Gottlob, 2.03 JJO
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Wollf, Christian, 130-134, 381383, " ' Wollaston, William, 36 Woolston, Thomas, 40-41 Zanotti, Francesco Maria, 361
INDICE
DELLE CITAZIONI CRITICHE
Abbagnano, Nicola - su D. Hume I02, I09-IIO - sull'illuminismo tedesco I3I Derathé, Robert - su ].-]. Rousseau 303, 304 Diaz, Furio Barone, Francesco - sull'illuminismo tedesco I30 - sull'Enciclopedia 299 - su G. Plocquet I36, I37-I38 -su L. Muratori 355 Dieckmann, Herbert - su J. H. Lambert I4I - su D. Diderot -su Kant I48 Bourbaki, Nicolas 265-266, 272 n. - su Kant e la logica I46 Braithwaite, Richard Bevan Forti, Umberto - sui modelli in fisica 205 n. - sulla macchina a vapore I99 Brunot, Ferdinand - sui « Cahiers de doléance » Garin, Eugenio - su P. M. Doria 357 405 - su E. Pini 374 Cambursano Pesenti, Orietta Gille, B. - sulle applicazioni del calcolo - sull'Enciclopedia 290 delle probabilità nel Sette- Giua, Michele - sulla chimica nel XVIII sec. cento I89 208 Cappelletti, Vincenzo Gliozzi, Mario -su Kant 477 Casini, Paolo - sulla fisica nel XVIII sec. 207 Gontard, Maurice - su J.-B. d'Alembert I69 Cassirer, Ernst - sulla scuola durante la rivo- su ].-]. Rousseau 304 luzione francese 4I5, 427, - su G. E. Lessing 393 431. 433 - su K. L. Reinhold 482 Granger, G. G. Chiarlni, Paolo - su Condorcet 33 8 - sullo«SturmundDrang»395 Claparède, Édouard Heath, T. L. - su ].-]. Rousseau 3II n. - su G. Saccheri I59 Codegone, Cesare Henderson, L. J . - sul rapporto scienza-tecnica ...:.__ sulla macchina a vapore I 99 nel XVIII sec. I 97 Hoffding, Harold Codignola, Ernesto - su G. E. Lessing 39I - sul problema della scuola durante la rivoluzione francese Kemp, Norman - su D. Hume I02 432 Connell, D. ]. K. Kiernan, Colm - su R. G. Boscovich I68 - su Voltaire 256 n. Corsano, Antonio Kneale, W. e M. - su G. B. Vico 342 -su Kant l46 Dal Pra, Mario - su É. de Condillac 85
Lecercle, Jean-Louis - su ].-]. Rousseau 309, 3 I6
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Lovejoy, A. O. - sulla biologia nel XVIII sec. 2I9, 220 Lukacs, Gyorgy - sullo « Sturm und Drang » 395 Martinetti, Piero - sulla morale kantiana 47I, 472 Masson, P. M. - su ].-]. Rousseau 304 Mathieu, Vittorio -su Kant 468 Meinecke, Friedrich - su G. E. Lessing 393 Merker, Nicolao - su A. G. Baumgarten 384 - su G. E. Lessing 393-394 - sullo« Sturm und Drang » 395 Mornet, D. - sull'Enciclopedia 286 Naville, P. - su Holbach pi, 322 Price, Derek J. - sullo sviluppo degli strumenti scientifici nel xviii sec. I 96 Proust, Jacques - sugli enciclopedisti e l'Enciclopedia 285, 286, 287 Roger, ]. - su Diderot 249 Roggerone, Giuseppe - su ].-]. Rousseau 308, 3IO Scholz, Heinrich - su G. Saccheri I 30 - su Kant I45-I46 Solinas, Giovanni - su É. de Condillac 86, 92 Taton, René - sull'Enciclopedia z88 Tonelli, Giorgio - su G. F. Meier 384
Indice delle citazioni critiche Venn, John - su Kant 145 Venturi, Franco - su D. Diderot 268 - sull'Enciclopedia 287 Via!, Francisque
-su J.-J. Rousseau 309, 316 Visalberghi, Aldo - su J.-J. Rousseau 305 Vuillemin, Jules - su Kant 448, 450, 465, 466, 468
571
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Waismann, Friedrich - sui matematici del xvrrr sec.
!79
Wallon, Henri . - su J .-J. Rousseau 309, 31 r n.
INDICE GENERALE
SEZIONE QUINTA
L'illuminismo. Kant CAPITOLO PRIMO
Il seçolo dei lumi
7 9 I2
I 5 IV Il problema della storia. I7 v L'importanza del pensiero illuministico.
Trasformazioni economiche e sociali. Situazione politica generale. III L'illuminismo. I
II
CAPITOLO SECONDO
Trasformazioni nell'impostazione del problema religioso e morale
zo
I
32
22
II
Considerazioni preliminari. Caratteri generali del deismo. 2 5 III Pierre Bayle.
45 5I
Il deismo inglese. v George Berkeley. VI I moralisti inglesi.
IV
CAPITOLO TERZO
Montesquieu e Voltaire
59
I
62
II
64 66
69 v Vita e opere di Voltaire. VI Gnoseologia ed etica. 75 VII Critica delle religioni positive. 78 VIII L'inizio di una stori6grafia moderna.
Considerazioni preliminari. Vita e opere di Montesquieu. III Moderatismo e senso storico. IV Le forme di governo.
72
CAPITOLO QUARTO
Condil/aç e Helvétius
Vita e opere di Condillac. Posizione di Condillac di fronte a Cartesio, Leibniz e Locke. 86 III Lo sviluppo della vita psichica. 89 IV Il linguaggio. 82
I
84
II
v Il problema pedagogico. VI Vita e opere di Helvétius. vii Dalla gnoseologia sensistica all'etica fondata sull'utilità. 97 vm L'onnipotenza dell'educazione. 92
93 95
CAPITOLO QUINTO
Hume
99 Io2
104
u6
Vita e opere. Il rinnovamento del metodo filosofico. III La logica. IV La morale. I
II9
II
uo I 24
·
v Estetica. politica. filosofia del senso comune. T. Reid.
VI La VII La
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Indice generale CAPITOLO SESTO
Logica e fondamenti della matematica DI CORRADO MANGIONE
u6
I
128 I3o I35 145
II Gerolamo Saccheri. III Christian Wolff e i « wolfiani IV Il filone « leibniziano ».
Considerazioni preliminari.
Le geometrie non euclidee: generalità. Gli elementi di Euclide. I 55 VIII La critica al quinto postulato fino al Saccheri. I 58 IX I precursori delle geometrie non euclidee.
I50 I 52
».
v Kant e la logica formale.
VI VII
CAPITOLO SETTIMO
L'esigenza di sistematicità nella matematica e nella meccanica I68
qo I77
I Considerazioni generali. II I principali protagonisti. III
I8I I
87
IV La meccanica razionale. v Il calcolo delle probabilità.
Analisi infinitesimale e algebra. CAPITOLO OTTAVO
L'esigenza di una più ampia sperimentazione nelle scienze della natura I92 I
93
I Considerazioni generali. II Rapidi progressi nella costruzione
200 204 208
degli
strumenti scientifici. I complessi rapporti tra tecnica e scienza.
I 96 . III
2I2
IV Astronomia, geodesia, geologia. v Le ricerche fisiche. VI La chimica. VII Il sorgere di alcune istanze critiche.
CAPITOLO NONO
Biologia e filosofia DI FELICE MONDELLA
216 220 223
I Preformismo II Linneo. III
e creazionismo.
238 245 250
Il naturalismo evoluzionistico.
Medicina e fisiologia. v Il materialismo di Diderot. VI Conclusione.
IV
CAPITOLO DECIMO
La critica dell'« esprit de vstème » e l'ideale enciclopedico del sapere DI GIANNI MICHELI 254
I Considerazioni critiche intorno ai sistemi interpretativi della realtà.
266
II
Il vero sistema del sapere.
CAPITOLO UNDICESIMO
L'Enciclopedia DI GIANNI MICHELI 279 28I 284
Considerazioni preliminari. Le vicende della pubblicazione. III Collaboratori e lettori.
286 29I 292
I
II
Il contenuto dell'Enciclopedia. v Il successo commerciale. VI Gli sviluppi.
IV
CAPITOLO DODICESIMO
Rousseau DI LUDOVICO GEYMONAT E RENATO TISATO 2 97 300
I Vita e opere. n Ragione e sentimento. Il problema religioso. III La volontà generale, base della società civile.
IV
Il pensiero pedagogico: fonti e metodo
dell'Emi/e. 3IO
v I principali motivi della pedagogia rousseauiana: educazione naturale ed educazione negativa.
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Indice generale CAPITOLO TREDICESIMO
Ulteriori sviluppi dell'illuminismo francese: Ho/bach e Condorcet DI GIANNI MICHELI 3I7
317 3I9
I Considerazioni generali. II Il materialismo. III Il barone d'Holbach.
328 IV La dottrina del progresso. 332 v Condorcet.
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
Il pensiero ftlosoftco-pedagogico italiano DI LUDOVICO GEYMONAT E RENATO TISATO
339
Il trapasso della cultura italiana dal Seicento al Settecento. 342 II Vita e opere di Vico. 344 m La polemica anticartesiana di Vico; la scoperta di un nuovo criterio della conoscenza scientifica. 347 IV La concezione vichiana della storia. 3 ~I v La pedagogia. Limiti del pensiero vichiano. I
3~ ~
VI Altri pensatori della prima metà del Settecento. 3~9 VII L'illuminismo italiano. 364 VIII Gli illuministi del gruppo napoletano. 368 IX Gli illuministi del gruppo lombardo. 374 x Filosofi e pedagogisti estranei all'illuminismo.
CAPITOLO QUrNDICESIMO
L'illuminismo tedesco
376 378 381 383 387
Considerazioni preliminari. Linee generali dell'illuminismo tedesco. m Wolff. IV Seguaci e critici di Wolff. v Il diffondersi dello spirito illuministico. I
II
390 394 396
VI Lessing. VII Lo « Sturm und Drang ». VIII Nuove istanze pedagogiche:
il filantro-
pismo.
CAPITOLO SEDICESIMO
Il problema della scuola durante la rivoluzione francese DI RENATO TISATO 398 399 403
I Significato e limiti della ricerca. II Le idee dominanti alla fine del xviii secolo. III Progetti di riforma alla vigilia della ri-
40~
voluzione. IV I « Cahiers ».
406 4I4 424 43 I
v Costituente e Legislativa. Talleyrand e Condorcet. VI La politica scolastica della Convenzione fino al Termidoro. VII Il periodo post-termidoriano. VIII Conclusione.
CAPITOLO DICIASSETTESIMO
Kant 434 43 ~ 44I 44~ 448
I Considerazioni preliminari. II Vita e opere di Kant. III Rapporti fra Kant e le filosofie
antecedenti. IV La «rivoluzione copernicana». v La Critica della ragion pura. Estetica trascendentale.
4~0 4~6 46 I 463 469
VI Analitica trascendentale. VII Dialettica trascendentale. VIII La dottrina trascendentale del IX Il criticismo e la scienza fisica.
474
XI
x Etica e pedagogia. La Critica del giUdizio.
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metodo.
Indice generale CAPITOLO DICIOTTESIMO
Immediati prosecutori e critici dell'opera kantiana 479 480
482 49I
Considerazioni preliminari. n L'università di Jena centro di studi kantiani: Reinhold. m Critici di Reinhold: Schulze, Maimon. I
484 488
Le obiezioni a Kant in nome del sentimento e della fede. v Schiller.
IV
Bibliografia A CURA DI GIANNI MICHELI INDICE DEI NOMI
no
INDICE DELLE CITAZIONI CRITICHE
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