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LUDOVICO GEYMONAT
Storia del pensiero ftlosoftco e scientifico VOLUME SESTO
Dall'Ottocento al Novecento Con specifici contributi di Ugo Giacomini, Pina Madami, Corrado Mangione, Franca Meotti, Felice Mondella, Mario Quaranta, Renato Tisato, Elena Zamorani
GARZANTI
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1 edizione: ottobre 1971 Nuova edizione: ottobre 1975 Ristampa 1981
© Garzanti Editore s.p.a., 1971, 1975,
1981
Ogni esemplare di quest'opera che non rechi il contrassegno della Società Italiana degli Autori ed Editori deve ritenersi contraffatto Printed in ltaly
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SEZIONE
OTTAVA
L'affermarsi c il diffondersi delle scienze: i loro riflessi sulla filosofia
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CAPITOLO PRIMO
Nota introduttiva
Il periodo cui è dedicato il presente volume coincide in gran parte con quello preso in esame nel volume v, spingendosi appena di qualche anno più avanti. Come già osservammo nel primo capitolo di tale volume, i grandi eventi sociali e politici dell'epoca in esame sono così noti, che sarebbe superfluo fermarci a darne un quadro riassuntivo. Essi, comunque, sono stati tenuti presenti nella stesura di questo come del precedente volume. Occorrerà invece chiarire fin dall'inizio la differenza fra i temi di fondo trattati in quella e in questa sede. Un tratto comune ai due volumi risiede nel fatto, che la scienza occupa in entrambi una posizione preminente. Ma le scienze prese in esame nei tre prossimi capitoli (n, m, Iv), non sono più quelle tradizionali - matematica, fisica, biologia- bensì scienze «nuove», cioè discipline, quali la psicologia, la sociologia, la pedagogia, considerate per l'innanzi di pertinenza quasi esclusiva dei filosofi; discipline cui si cerca ora di imprimere una impostazione prettamente scientifica. Il fatto è rilevante, perché da un lato conferma la sempre più diffusa fiducia (di cui già abbiamo tatto parola nel su citato capitolo del volume v) nel metodo scientifico considerato come l'unica via per conseguire delle conoscenze fornite di una effettiva validità; dall'altro lato perché sottolinea l'esigenza di elevare a un livello di autentica serietà anche delle discipline che non concernono la natura, bensì l'uomo come individuo o come collettività. Riferita ad esse, l'espressione « metodo scientifico » è tuttavia, nella maggioranza dei casi, poco più che una parola, in quanto- per lo meno all'epoca in esame- ben poche sono le analogie fra i metodi concretamente seguiti nelle nuove scienze e i metodi seguiti in quelle tradizionali. Se è ben comprensibile il desiderio di trattare i fenomeni psichici e sociali con strumenti radicalmente diversi da quelli solitamente adoperati dai filosofi, è fuori dubbio che per raggiungere questo scopo sarebbe stato necessario uno spirito critico di cui i primi cultori delle nuove discipline erano sprovvisti. È uno spirito senza dubbio presente in Marx «scienziato dell'economia», come cercammo di dimostrare nella sezione precedente; ma che ben di rado troviamo negli studiosi positivisti di psicologia, sociologia o pedagogia. 7
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Nota introduttiva
Furono proprio le ingenuità commesse da tali studiosi nella presunzione di poter applicare dovunque il medesimo« metodo scientifico», ciò che produsse in vaste schiere di filosofi una profonda diffidenza nei confronti non solo delle scienze dell'uomo ma della scienza in generale. Ampie tracce di questa diffidenza, come pure della più ingenua fiducia nella scienza, sono in effetti riscontrabili nell'ambiente filosofico dei maggiori paesi europei: Inghilterra, Germania e Francia. Di qui le significative oscillazioni (fra un positivismo spesso acritico e un antipositivismo che non di rado sfocia in autentico irrazionalismo) alla cui analisi sono dedicati i capitoli quinto, sesto e settimo: capitoli seguiti da altri due, più particolareggiati, rivolti ad esporre i dibattiti filosofici e pedagogici in Italia. Ma se le anzidette oscillazioni ci autorizzano a parlare di« crisi» dell'immagine della scienza nella seconda metà del secolo XIX e nei primi decenni del xx, non sarebbe esatto ritenere che questa crisi abbia investito direttamente la scienza stessa. V ero è invece che questa, per lo meno nei suoi settori classici (matematica, fisica, chimica, biologia), realizzò nel periodo in esame notevolissimi progressi. Di ciò daremo notizia negli ultimi capitoli del volume, dal decimo (dedicato alla biologia) in poi. Va notato che fra questo e il dodicesimo (dedicato alla logica e ai fondamenti della matematica) ne consacreremo uno allo studio della geniale figura di Freud e ai primi sviluppi della psicoanalisi. Un'attenzione particolare verrà rivolta alle trasformazioni di fondo realizzate dalla fisica, rese possibili proprio dalla maturazione dello spirito critico all'interno di questa scienza, ad opera dei grandi fisici (in particolare 'di Mach) dei quali abbiamo fatto parola nel volume precedente. Per sottolineare l'importanza non solo scientifica della teoria della .relatività (la teoria ove è più manifesta la dipendenza da Mach) verrà dedicato un intero capitolo, assai ampio, alla figura di Einstein, seguito da un altro, più breve, avente per oggetto le discussioni filosofiche svolte nella prima metà del nostro secolo su tale teoria. Da queste discussioni emerge, con tutta chiarezza, la grande influenza esercitata, proprio sulla filosofia, dalla rivoluzione einsteiniana. Non si tratta più di una influenza analoga a quella verificatasi durante il periodo positivistico (influenza, questa, che si prestò .a parecchie critiche,. non infondate, per aver favorito tra i filosofi una tend~nza a superficiali generalizzazioni dei ritrovati scienti-. fici), ma di qualcosa di assai più profondo. È una influenza che valse a richiamare la necessità di porre in discussione fondamentali nozioni, come quelle di spazio e di tempo, che erano parse da sempre assolute e immodificabili. Così ebbe inizio una nuova fase dello sviluppo aella razionalità: sviluppo gravido di conseguenze in tutti i campi deL sapere. · _ È ferma convinzione dello scrivente che questo sviluppo della razionalità, al di là degli schemi consolidati dalla tradizione, rappresenti una delle più vive esigenze del secolo xx. Ma è uno sviluppo che non dev~. soltanto siimolarci a rin8
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Nota introduttiva
novare il vecchio quadro categoriale delle scienze esatte (matematica, fisica ecc.); esso deve costituire la base anche per un rinnovamento radicale delle scienze qell'uomo e della stessa concezione filosofica del mondo nonché della funzione jvi spettante ali' opera umana. È un'esigenza presente in tutte le forme della nostra civiltà: esigenza legata alla consapevolezza via via più diffusa che non si possono affrontare seriamente i problemi enormemente complessi della nostra epoca senza impostarli con approfondite analisi razionali, ma di una razionalità più aperta e più critiça di quella trasmessaci dalle generazioni precedenti.
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CAPITOLO SECONDO
La nascita della psicologia scientifica DI FRANCA MEOTTI
I · CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
In questo capitolo, dedicato alla nascita e ai primi sviluppi della psicologia scientifica, si vuol mettere in luce come l'esigenza di scientificità e di rigore, che trionfa nell'Ottocento e che è comune alla matematica ed alle più progredite scienze della natura, tenti di affermarsi, tanto nelle premesse metodologiche che nelle situazioni sperimentali, anche in psicologia. Agli inizi del XIX secolo sembrava esaurita la possibilità di una psicologia filosofica a carattere razionalistico, di impostazione cartesiana e wolffiana, come conseguenza delle critiche che a questo modo di intendere la psicologia aveva mosso l'empirismo inglese, a partire da Hobbes e proseguendo poi con Locke, con Berkeley, con Hume. Ciò che l'empirismo inglese aveva in particolare dissolto era il concetto di io sostanziale, metafisica, affermando che la coscienza dell'io è semplicemente fenomenica. Kant, d'altro lato, raccogliendo e proseguendo le critiche degli empiristi inglesi per quel che riguarda la possibilità di una psicologia filosofica o razionale, di carattere aprioristico-deduttivo, aveva negato anche la possibilità di una psicologia empirica; egli risolveva quest'ultima in una antropologia descrittiva, esclusa dall'ambito delle vere scienze, in quanto di carattere elencatorio e classificatorio. Nei Metaphysische Anfangsgriinde der Naturwissenschaft (Primi principi metafisici della scienza della natura, I786), Kant sostenne che «deve rimanere sempre lontana dal grado di una scienza della natura, propriamente degna di questo nome, la dottrina empirica dell'anima(... ) poiché la matematica non è applicabile ai fenomeni del senso interno e alle loro leggi». Inoltre l'unico strumento di ricerca in tale disciplina è l'introspezione che, per sua natura, rimane confinata all'ambito dell'individuo e quindi non rende mai la psicologia « qualcosa di più che una descrizione naturale storica del senso interno (... ) una descrizione naturale dell'anima, ma non una scienza dell'anima». Anche Comte, d'altra parte, escluse dal rango delle scienze la psicologia, che egli risolse in fisiologia o in sociologia, cioè in discipline che soddisfacevano secondo lui a certi canoni di scientificità, non soddisfatti invece dalla psicologia. IO
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La nascita della psicologia scientifica
Egli imputò alla psicologia l'incongruenza del dividere l'individuo in due parti: una parte immersa nel flusso dei processi psichici e l'altra che dovrebbe osservare tali processi. Invece, l'identità di osservatore e di osservato preclude la possibilità di una valida esperienza scientifica e, inoltre, l'assenza di controlli adeguati impedisce la formulazione di leggi. Questo ha come conseguenza l'impossibilità di formulare previsioni attendibili, che è tra i fini principali della scienza in quanto consente all'uomo gli strumenti più idonei al dominio di un certo campo di fenomeni. La reazione a tale atteggiamento critico e sostanzialmente negatore della possibilità di una psicologia come scienza rigorosa non tardò a manifestarsi nelle opere di Herbart, prima, e, successivamente, di Weber e di Fechner, che sono caratterizzate dal tentativo prolungato, e anche faticoso, di introdurre in psicologia l'applicazione di procedimenti matematici particolari. Il proposito manifesto era quello di dimostrare che anche la psicologia poteva essere avviata a darsi quella veste di rigore cui tutte le scienze a partire dall'inizio del xrx secolo ambivano. Il carattere sperimenta_le della psicologia si venne sempre più affermando ad opera oltre che di Weber e di Fechner anche di Miiller e di Helmholtz (per questi autori si veda il capitolo xvu del volume quarto). Wundt, infine, ebbe il merito di raccogliere il metodo psicofisico a base matematica e di applicarlo a diverse situazioni sperimentali, dando così origine a quella che fu detta psicologia scientifica. Alla nascita della psicologia scientifica contribuirono inoltre gli sviluppi e gli avanzamenti che si verificarono in varie discipline nella prima metà dell'Ottocento. Particolare influsso esercitò il fiorire degli studi di fisiologia: basti ricordare la scoperta di Bell e di Magendie, che affermarono la fondamentale dicotomia delle funzioni sensorie e motorie del sistema nervoso; la definizione di arco riflesso data da Marshall Hall, che escludeva, nella trasformazione di un eccitamento centripeto (sensorio) in uno centrifugo (motorio), l'azione della volontà dell'uomo; la dottrina dell'energia specifica dei nervi di Miiller, che parve confermare la frattura, asserita dall'empirismo, tra soggetto percipiente e oggetto percepito; la scoperta della velocità dell'impulso nervoso dovuta a Helmholtz, che prospettava l'eventualità di poter misurare i processi psichici e, inoltre, l'importanza accordata, sempre da Helmholtz, allo studio degli organi di senso. Particolare influsso esercitarono, inoltre, la neurofisiologia ed anche la frenologia, che ebbe il merito di ipotizzare il concetto di molteplicità delle funzioni delle diverse parti del cervello (la quale parve confermata dalla scoperta di Broca, nonostante la reazione « unificatrice » di Flourens cui si è fatto cenno nell'anzidetto capitolo del volume quarto). Perfino dall'astronomia provenne alla psicologia scientifica un suggerimento fecondo connesso allo studio dell'equazione personale, dello scarto, cioè, tra le II
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La nascita della psicologia scientifica
misure ottenute da due osservatori, o tra due misure successive ottenute dal medesimo osservatore. Dallo studio dell'equazione personale si erano sviluppati dei metodi matematici di analisi dei tempi di reazione, di cui la psicologia sperimentale si appropriò in modo assai fruttuoso. In generale si può affermare che l'esigenza di scientificità venne avvertita in modo più vivo in ambiente tedesco: la psicologia scientifica è essenzialmente opera degli studiosi tedeschi. Perciò la nostra esposizione inizierà proprio dalla Germania. Qui nacquero i primi laboratori sperimentali, dove si formarono generazioni di studiosi non solo tedeschi, ma anche stranieri, in particoiare americani. In Germania, inoltre, trascorsero periodi di studio anche vari scienziati russi (tra i quali emergono le personalità di Sechenov e di Pavlov). In tal modo si affermò e si diffuse a livello internazionale una concezione della psicologia che risale essenzialmente a Wundt (alla valutazione dell'opera e del pensiero del quale è dedicato il paragrafo n). D'altra parte, ancora in ambito tedesco, è da ricordare l'opera di studiosi di indirizzo indipendente da quello wundtiano: tra questi Ebbinghaus, G.E. Miiller, Stumpf ed Ehrenfels (paragrafo m), la cui caratteristica comune può dirsi la tendenza a rendere oggetto di studio sperimentale i processi psichici superiori, in certo senso trascurati da Wundt e dalla sua scuola. Diversa è l'impostazione, dovuta essenzialmente a Galton, degli studi psicologici in Inghilterra (paragrafo Iv): l'orientamento prevalente fu quello dell'analisi delle differenze interindividuali, che diverge, nei metodi e negli intenti, dalla psicologia wundtiana, volta alla determinazione di leggi generali, valevoli per tutti gli individui indistintamente. Di qui il problema della misurazione delle capacità che rivelano tali differenze (tests) e l'introduzione in psicologia di metodi statistici. Del tutto caratteristici gli sviluppi della psicologia in Francia: strettamente legata alla psichiatria e, in parte sotto l'influsso di Taine, la psicologia francese si orientò in una certa misura verso la psicopatologia, la quale fu vista anche come strumento per approfondire la struttura dei processi intellettivi normali (paragrafo v). Negli Stati Uniti, invece, la psicologia, specialmente sotto l'influsso del pensiero di James e più tardi di Dewey, ebbe un orientamento essenzialmente pragmatico-funzionale e diede particolare rilievo ai campi applicativi della psicologia dell'educazione e del lavoro: in questo contesto fu ripresa e portata agli estremi sviluppi la tecnica dei tests. È innegabile che, da questo punto di vista, almeno in una prima fase, gli interessi psicologici dominanti negli Stati Uniti furono più di natura pratica che teorica (paragrafo vi). Una forte ripresa di interessi verso i problemi teorici della psicologia si ebbe con la diffusione negli Stati Uniti della psicologia della Gesta/t, che suscitò polemiche assai vivaci anche per la sua aspirazione a porsi come visione di carattere generale e filosofico. La teoria della Gesta/t era nata tuttavia in Germania, ove fu intesa come reazione radicale 12.
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La
nascita~della
psicologia scientifica
alla psicologia elementistica ed associazionistica wundtiana e come tentativo di introdurre una concezione olistica dei fenomeni psicologici (paragrafo vn). Un'importanza rilevante ebbero gli studi di psicologia animale per le loro implicazioni concettuali e metodo logiche: tali studi posero in termini moderni l'antico problema dell'esistenza di uno psichismo animale e l'ulteriore problema della adeguatezza dell'applicazione alla psicologia animale di categorie sorte all'interno degli studi di psicologia umana (paragrafo vm). Altri problemi di natura concettuale e metodologica furono posti dalla nascita della psicologia oggettiva, elaborata in Russia dagli studi di Pavlov e negli Stati Uniti dal behaviorismo di Watson (paragrafo Ix). Essi posero con vigore il problema di una base intersoggettiva, identificandola nei riflessi condizionati (Pavlov) e nei comportamenti osse:rvabili (Watson). Comune ad entrambi fu l'esigenza di dare alla psicologia un fondamento scientifico rigorosamente determinabile. Pavlov e Watson diedero i maggiori contributi alla nascita della psicologia scientifica come viene intesa attualmente e posero, insieme agli psicologi della Gesta/t, una serie di problemi aperti ancora oggi, di cui si parlerà nel capitolo dedicato nel volume ottavo alla psicologia più recente. II · WILHELM WUNDT
Wilhelm Wundt (I832-I92o), che viene tradizionalmente indicato come il primo psicologo sperimentale, seguì gli studi di medicina e di fisiologia. Pur rimanendo per tredici anni assistente di Helmholtz a Heidelberg, non collaborò mai strettamente con lui e anzi, proprio in questo periodo, maturò diversi interessi filosofici e psicologici. Nel I 8 58 pubblicò la prima sezione, dedicata al tatto, dei Beitriige zur Theorie der Sinneswahrnehmung (Contributi alla teoria della percezione sensoriale), che, da un lato, risente profondamente dell'opera di Weber, di Miiller e di Lotze e, dall'altro, presenta già la percezione sotto un aspetto più propriamente psicologico. I Beitriige completi furono pubblicati nel 1862. Nel I863 pubblicò un suo corso di lezioni universitarie dell'anno precedente con il titolo di Vorlesungen iiber die Menschen- und Tierseele (Lezioni sull'anima dell'uomo e degli animali), che contengono in nuce una enorme quantità di argomenti che Wundt svilupperà nel corso della sua lunga e laboriosissima carriera. Il corso universitario continuò con lo stesso nome fino al 1867, quando cominciò a chiamarsi corso di «psicologia fisiologica». Nel I 873-74, ultimo anno della sua permanenza a Heidelberg, Wundt pubblicava i fondamentali Grundziige der physiologischen Psychologie (Fondamenti di psicologia fisiologica), la sua opera più importante. Nel I875 fu chiamato a Lipsia a reggere, nella facoltà di filosofia, la cattedra di psicologia, anche se tradizionalmente questo insegnamento era riservato a un filosofo. Nel I 879 fondò il famoso laboratorio di psicologia dove si formarono un grandissimo numero di psicologi europei ed americani: Kraepelin, Kiilpe, Lehmann, Metimann,
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Stanley Hall, Cattell, Angeli, Titchener, Kiesow, Mobius, Klemm fra i più famosi. Organo del laboratorio fu la rivista « Philosophische Studien » («Studi filosofici ») che cessò nel 1903 ma riprese pochi anni più tardi col nome di «Psychologische Studien » (« Studi psicologici»). Nel I 896 compariva il « Grundriss der Psychologie » («Compendio di Psicologia») e negli anni seguenti Wundt continuava a lavorare instancabilmente a nuove edizioni delle sue opere, seguiva gli esperimenti di laboratorio, la rivista e inoltre completava la stesura dell'opera monumentale in dieci volumi, Viilkerpsychologie (Psicologia dei popoli), che finì l'anno della morte. Fin dai Beitriige Wundt sostiene la possibilità di una psicologia sperimentale, che trae la sua origine dall'auto-osservazione (Selbstbeobachtung) e procede secondo due filoni: l'esperimento, per i fenomeni psichici più semplici, e l'osservazione, la «storia naturale» dell'uomo per l'esame dei «prodotti» dell'attività psichica. Appaiono già qui delineati i due canali principali della ricerca psicologica di Wundt: psicologia sperimentale, da un lato, psicologia sociale, dall'altro. In quegli anni egli era influenzato dalla Psychologie als Wissenschaft (Psicologia come scienza) di Herbart, ma, diversamente da Herbart che riteneva che la psicologia dovesse fondarsi sull'esperienza, la metafisica e la matematica, la sua psicologia, per essere scienza, doveva fondarsi sull'esperimento. Benché per anni Wundt combattesse la tradizione herbartiana, tuttavia proprio da Herbart mutuò, come del resto fece Fechner, la concezione di una psicologia scientifica. Infatti sebbene secondo Wundt, la psicologia debba far ricorso all'esperimento, essa deve anche essere Erfahrungswissenschaft, scienza dell'esperienza, intendendo l'esperienza in senso globale, senza cioè la classica distinzione in esterna ed interna, ma !imitandola, nello stesso tempo, all'esperienza immediata. Qui, secondo Wundt, si pone la distinzione fra psicologia come scienza e le scienze fisiche, i cui dati non sono immediati, ma inferiti. Le scienze fisiche si fondano, quindi, sull'esperienza mediata. Tuttavia è importante notare come Wundt affermasse la possibilità di sperimentare anche in psicologia, come in fisica. Le modalità degli esperimenti sono diverse, ma entrambe hanno un carattere scientifico. La sperimentazione in psicologia è originale anche rispetto a quella della fisiologia, tuttavia proprio la fisiologia è di prezioso ausilio alla psicologia in quanto permette di stabilire e di variare le condizioni dell'esperienza controllata, cioè dell'esperimento. Correlativo all'oggetto della psicologia, che è l'esperienza immediata, è il metodo: cioè l'immediato esperire, di cui ci rendiamo conto per mezzo dell'auto-osservazione. La psicologia, scrive Wundt, «investiga l'intero contenuto dell'esperienza nella sua relazione col soggetto e nelle qualità che sono immediatamente attribuite ad esso dal soggetto ». Wundt considerava compito della psicologia stabilire, attraverso l'analisi dell'esperienza, gli «elementi» dei procedimenti di cui siamo consapevoli (sensazioni, percezioni, memoria) e successivamente i «modi» e le « leggi » delle loro « connessioni ». Egli traeva spunto in questo dalla tradizione associazionista inglese. Tuttavia tra la psicologia wundtiana e l'associazionismo 14
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classico vi erano importanti differenze: in primo luogo, gli elementi per Wundt non sono statici, benché possano venire isolati, ma fanno parte di un incessante fluire. In secondo luogo, gli elementi, e poi anche le leggi, non sono in Wundt ricavati da considerazioni filosofiche astratte, ma provengono dalla sperimentazione in laboratorio e sono in essa controllabili. Il metodo diretto, l'auto-osservazione, però, non è adeguato per i processi superiori, intellettivi e volitivi. Qui si è costretti a procedere indirettamente, e ad affrontare il problema fondandosi sullo studio comparato dei « prodotti » dci processi. superiori: il linguaggio, il mito, il costume e poi la religione, l'arte, il diritto: è quanto farà Wundt nella Volkersprycho!ogie. Dal momento che la psicologia è scienza dell'esperienza immediata, e che in questa esperienza non si presenta nessuna « sostanza », è assurdo pensare a una « sostanza anima ». I fenomeni che si presentano alla introspezione non sono che « atti concatenati »: i dati psichici sono interpreta bili solo « attualisticamente ». Nessuna « sostanza spirituale » sottointende l'attività psichica, che è «attuale », fenomenica, cioè immediatamente data e immediatamente osservabile. L'« elemento >> che Wundt voleva isolare, quindi, non era concepito come statico, né come una sezione staccata e a sé stante della coscienza, ma piuttosto come un flusso continuo, mutevole e soprattutto « attivo »: Wundt lo chiamò « processo mentale ». Il concetto, però, era alquanto ambiguo e si prestò a molti fraintendimenti: di fatto, tuttavia, l'elementismo esasperato, contro cui si appuntò sia la reazione della Gestalttheorie che quelhi. del behaviorismo, fu, più che di Wundt, dei suoi successori, i quali sembrarono spesso sottintendere ai processi mentali una sostanza spirituale e trattarono i processi medesimi come frammenti staccati e statici di coscienza. Se, dunque, l'attività psichica è « attuale » e non sostanziale, se è un processo attivo, essa seguirà una linea di sviluppo. Scoprire le leggi che regolano questo sviluppo è, secondo Wundt, un altro passo che la psicologia deve compiere. La legge basilare è quella della causalità psichica, che comprende tutte le leggi che regolano i rapporti reciproci dei dati della coscienza, quali si presentano in modo unicamente fenomenico. Wundt ritiene di poter parlare con rigore di causalità psichica poiché ha cura di stabilire esattamente il significato che tale concetto ha per lui: I) dal momento che non esiste una « sostanza psichica », non bisogna pensare che la causalità psichica regoli degli «oggetti» sostanziali, fissi, e divisibili gli uni dagli altri, come invece avviene in campo fisico; 2.) dal momento che non vi è una energia psichica, o comunque alcun comun denominatore cui tutta l'attività psichica possa essere ricondotta, non si deve intendere la causalità nel senso di un trasferimento di energia, per cui la causa si impoverisce trasferendo la propria energia sull'effetto. La causalità psichica è unicamente una «legge di successione», che regola lo svolgersi, l'espandersi, l'incessante fluire dell'attività psichica. La« causa» non è che il« prima», l'« effetto» non è che il
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« poi », e questo « prima » e questo « poi » sono essi stessi continui cambiamenti, «avvenimenti» e non «oggetti». Tutte le altre leggi rientrano in questa legge più generale della causalità psichica; e si possono dividere in leggi psicologiche di relazione e leggi psicologiche di sviluppo. Fra le prime, la legge delle « risultanti psichiche » o della « sintesi creatrice », che non si discosta molto dal pensiero di John Stuart Mill: il risultato di una combinazione di elementi ha proprietà e caratteristiche diverse e originali rispetto agli elementi che la compongono. Uno dei principali modi di combinazione fra elementi è l'« associazione» che Wundt studiò a lungo e che distinse secondo varie forme (fusione, assimilazione, complicazione). L'associazione è automatica, non richiede l'intervento attivo della coscienza. Quando, invece, questo si verifica si ha l'« appercezione» che, nei Grundziige è vista come «l'ingresso di una rappresentazione nel
visivo interno della coscienza» che costituisce il punto focale dell'attenzione. Anche l'appercezione è un continuo flusso e, secondo Wundt, può essere sperimentalmente misurata elaborando le misure dei tempi di reazione. L'appercezione attiva deve essere fenomenologicamente rintracciabile nell'esperienza immediata: l'accompagnarsi ad essa di un sentimento di attività sarebbe la sua manifestazione fenomenica. La connessione fra appercezione e sentimenti venne particolarmente sottolineata dopo che Wundt sviluppò la teoria della « tridimensionalità dei sentimenti », secondo la quale i sentimenti variano secondo tre assi distinti: piaceredispiacere, tensione-rilassamento, eccitamento-calma. (Con questa teoria, che fu forse una implicita ammissione dell'inadeguatezza del sensismo e dell'associazionismo, Wundt fu costretto a modificare la sua teoria precedente nella quale il sentimento era un contenuto dell'esperienza, sullo stesso piano delle sensazioni e delle immagini. Il sentimento, nella sua nuova definizione di «segnale» dell'appercezione, è la manifestazione di un'attività unificatrice della vita mentale dell'uomo. Wundt cercò poi di trovare sperimentalmente dei correlati fisiologici ai termini del sistema tridimensionale e la sperimentazione fu lunghissima sia nei laboratori tedeschi che in quelli americani, ma si concluse con un abbandono della teoria da parte dei successori di Wundt). L'appercezione, a differenza dell'associazione, agisce inoltre nelle connessioni logiche, può essere analitica o sintetica e, attraverso di essa, il pensiero può giungere fino al concetto. Tuttavia Wundt non chiarì mai del tutto l'aspetto logico-cognitivo dell'appercezione, né, tanto meno, la studiò mai sperimentalmente, ritenendo lo studio dei processi superiori compito della speculazione pura. Furono i suoi successori che si rivolsero a questi processi come a un tipo di « operazioni » particolari sì, ma non fondamentalmente diverse dalle altre attività della mente umana, e in quanto tali ne intrapresero lo studio. Un'altra importante legge stabilita da Wundt nell'ambito delle leggi di relazione è quella delle « relazioni psichiche », secondo la quale, coerentemente alla teoria associazionistica del significato, un contenuto psichico acquista il suo si-
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gnificato dagli altri contenuti coi quali è in relazione: È interessante notare che Wundt applicò questa legge per dare una sua interpretazione della legge di Weber-Fechner. La formula, secondo Wundt, non esprimerebbe né una relazione psicofisica come voleva Fechner né, come altri avevano proposto, una relazione puramente fisiologica fra processi nervosi periferici e centrali, bensì una relazione puramente psicologica. Wundt rimase sempre profondamente convinto del dualismo esistente fra mente e corpo: accettava il parallelismo psicofisico e quindi rifiutava la teoria della interazione, in quanto riteneva che il sistema causale della materia fosse un sistema chiuso che non poteva avere effetti sulla attività psichica né essere influenzato da essa. In questo senso Wundt agì per molti decenni sugli studi psicologici e solo in questo secolo il comportamento del corpo divenne nuovamente un dato, integrabile ad altri dati psichici, per la psicologia. Fra le leggi psicologiche di evoluzione, Wundt stabilì quella dell'« eterogenesi dei fini », secondo la quale i processi mentali sono atricchiti o comunque alterati da « effetti secondari », che si aggiungono via via nel corso dello sviluppo dei processi medesimi e la legge dello « sviluppo per contrari » secondo la quale la vita psichica dell'individuo e ancor più la società si sviluppano in un alternarsi di correnti opposte. L'elaborazione teorica di Wundt fu fiancheggiata da un'imponente massa di esperimenti di laboratorio che, condotti quasi esclusivamente dagli assistenti e dagli allievi, avevano il fine di sostenere e provare le teorie del maestro, conseguendo nello stesso tempo la dimostrazione pratica della possibilità di una psicologia sperimentale. Gli esperimenti sulla sensazione e la percezione sono la maggioranza (studi sulla visione, sull'udito, sul tatto, sul gusto, sulle stime temporali). Il gruppo di studi più importante dopo quello sulla sensazione è costituito dagli esperimenti sui tempi di reazione. Questi presero l'avvio dagli studi che il fisiologo olandese Franciscus Cornelis Donders aveva condotto partendo dal problema dell'equazione personale. Fra il I 88 5 e il I 89o gli esperimenti sui tempi di reazione vennero condotti in un clima di grande euforia perché parve che, mediante la loro addizione e sottrazione, si potesse giungere a misurare le attività associative, cognitive e volitive. Sembrava la smentita alle limitazioni che Herbart aveva posto: l'attività psichica, contrariamente a quello che egli pensava, poteva essere oggetto di sperimentazione. Più tardi, però, apparve che i tempi non erano costanti e che reazioni più complicate non potevano venire spiegate soltanto in termini di addizioni di reazioni più semplici. James McKeen Cattel e Cari Lange, fra gli altri, sostennero nuove interpretazioni. Lange, in modo particolare, dimostrò che la diversità fra la reazione sensoriale e la reazione motoria era dovuta alla predisposizione attentiva e in questo modo contribuì ad orientare le ricerche del laboratorio nel campo dell'attenzione. Infatti quando l 'interesse per i tempi di reazione cominciò ad affievolirsi, gli esperimenti sull'attenzione e contemporaneamente sulla teoria dei sentimenti presero piede, mentre continuavano gli studi sull'asso17
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ciazione ché non erano mai stati interrotti. Per quel che riguarda l'attenzione, ci furono esperimenti sulla complicazione, sull'ampiezza e sulla fluttuazione dell'attenzione, tutti divenuti classici. Così come enorme era stata l'influenza esercitata da Wundt per oltre mezzo secolo, così fortissima fu la reazione alla sua psicologia accusata di essere una « chimica mentale » limitata e di corto respiro. Queste accuse sono oggi solo il segno di una polemica che fu molto accesa e lunga, tuttavia attualmente è difficile non pensare che la psicologia di Wundt fu in un certo senso la prima fase che si concluse in sé della nuova psicologia che, con forti influssi fisiologici e biologici e pesanti ipoteche filosofiche non poteva ancora essere scienza pienamente autonoma. III · ALTRE CORRENTI DI PSICOLOGIA TEDESCA ALLA FINE DELL'OTTOCENTO E AGLI INIZI DEL NOVECENTO
Se per molti anni l'influenza wundtiana fu preponderante nelle università e nei laboratori di psicologia, non è meno vero che quasi subito si ebbero delle forti reazioni ad essa. In Germania, in particolare, vi furono molti studiosi, che seguirono delle vie indipendenti da quella segnata da Wundt, mentre altri continuarono la tradizione wundtiana, non fosse altro che nel mantenere un rigoroso metodo sperimentale, pur spostando la propria attenzione a quei processi superiori che Wundt aveva tralasciato, nella convinzione- come già si è detto - che non fosse nel compito e nella possibilità della psicologia l'affrontarli. Vogliamo ora ricordare brevemente alcune personalità che, con vari atteggiamenti, si resero indipendenti o si opposero alla psicologia wundtiana. Il panorama potrà indubbiamente apparire alquanto composito: ciò tuttavia è dovuto alla estrema varietà di interessi degli studiosi ricordati, il che rende assai arduo rintracciare un filo unificatore. Hermann Ebbinghaus (1850-1909) è uno dei pochi psicologi dell'Ottocento che si sia formato al di fuori di un circoscritto ambiente accademico, attendendo da solo, per anni, a studi ed esperimenti rigorosissimi. Tentò di usare il metodo psicofisico per lo studio e la misurazione della memoria: sua fonte quasi esclusiva di ispirazione furono gli Elemente di Fechner. Ebbe anche interessi metodologici e si occupò ad esempio, delle condizioni che rendono possibile la misurazione. Per la misurazione dell'attività mnemonica la condizione principale è la frequenza della ripetizione. Uno dei punti più originali della sua ricerca sta nell'invenzione e nella sperimentazione delle sillabe senza senso (ottenute, cioè, inserendo una vocale tra due consonanti scelte a caso); queste sillabe rappresentano per la memorizzazione un materiale neutro, in quanto c'è una probabilità minima che esse provochino nel soggetto delle associazioni che influirebbero poi sul risultato dell'esperimento. I procedimenti sperimentali di controllo adottati da Ebbinghaus sono 18 www.scribd.com/Baruhk
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sostanzialmente due: l' Erlernungsmethode (metodo del completo dominio) e l'Ersparnismethode (metodo del materiale :ritenuto). Dopo lunghissima e minuziosa spe:rimentazione pubblicò, nel I 88 5 Ueber das Gediichtnis (Sulla memoria), uno studio che ebbe immediato e clamoroso successo. Conteneva, oltre agli esperimenti già ricordati, anche varie concezioni originali sull'apprendimento, sulla ripetizione e l'elaborazione della famosa «curva di dimenticanza». Pe:r la prima volta la psicologia penetrava, con metodo sperimentale, nel campo dei processi mentali superiori. Nel I886 Ebbinghaus venne chiamato all'università di Berlino: da questo momento abbandonò completamente gli studi sulla memoria iniziandone molti altri. Nel I 89o il nostro autore fondò con A:rthu:r Konig la Zeitschrift fiir Psycologie und Physiologie der Sinnesorgane (Rivista di psicologia e fisiologia· degli organi di senso) che annoverò f:ra i suoi collaboratori, oltre a Helmholtz, tutta una serie di psicologi e fisiologi illustri e diventò, in un certo senso, l'organo della psicologia indipendente da Wundt. Pochi anni più tardi, p:rop:rio negli anni in cui Binet in Francia affrontava lo stesso problema, Ebbinghaus pubblicò anche un metodo pe:r la misurazione dell'intelligenza dei bambini in età scolare. Fu uno degli psicologi più famosi del suo tempo: due suoi volumi sistematici di psicologia ebbero larghissima risonanza e furono subito tradotti in varie lingue. Il successo e:ra dovuto in parte allo stile piacevole e vivace dell'autore, ma, in parte, anche all'estremo :rigore sperimentale e alla grande lucidità metodologica con la quale gli argomenti erano trattati! Ebbinghaus segnò un effettivo passo innanzi rispetto alla psicologia wundtiana, in quanto ebbe il merito di affrontare pe:r primo i processi mentali superiori senza tuttavia abbandonare il rigore sperimentale e senza incorrere nelle ambiguità e nelle difficoltà in cui invece caddero, ad esempio, Kulpe e la scuola della psicologia dell'atto. Geo:rg Elias Mulle:r (I85o-I934),laureato in filosofia, tenne pe:r quarant'anni, a Gottinga, la cattedra che e:ra stata di He:rba:rt e poi di Lotze. Ebbe un laboratorio secondo solo a quello di Wundt per fama e in esso si formarono, f:ra altri, Na:rziss Ach, Hans Rupp, e David Katz. Gli interessi di Miille:r furono rivolti verso tre campi di studio: la psicofisica e i suoi metodi, l'attenzione, la memoria. Per quel che riguarda la psicofisica, pubblicò, nel I 878, Zur Grundlegung der Psycophysik (Sui fondamenti della psicoftsica) e, l'anno successivo, un articolo sul metodo dei casi; questi lavori contengono delle innovazioni divenute classiche. Dopo la morte di Fechner, Muller divenne l'autorità indiscussa nel campo della psicofisica, anche se il suo interesse, dai problemi generali andò poi volgendosi ai campi più particolari della psicofisica della visione e della memoria. Benché negli ultimi tempi della sua vita fosse sempre più interessato a problemi metodologici e sistematici, tuttavia Muller fu veramente uno dei primi ad allontanarsi quasi completamente da una problematica filosofica e a dedicarsi quasi unicamente alla psicologia.
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Il suo interesse per l'attenzione - interesse di cui è già prova la sua tesi di dottorato, Zur Theorie der sinnlichen Aufmerksamkeit (Sulla teoria dell'attenzione sensoriale, I873) - andò sviluppandosi, dopo le ricerche di Ebbinghaus, verso il campo della memoria e, nel I893, egli pubblicò, insieme a Friedrich Schumann, allora suo assistente, gli importanti Experimentelle Beitrage zu den Untersuchungen des Gedachtnisses (Contributi sperimentali alle ricerche sulla memoria). Gli studi di Miiller sulla memoria si conclusero con la pubblicazione di Zur Ana(yse der Gedachtnistatigkeit und des Vorstellungsverlaufes (Sull'analisi dell'attività mnemonica e del processo rappresentativo, I911-17) un lavoro fondamentale, in cui la parte teorica ha una notevole importanza. Qualche anno più tardi, interessato ai problemi della visione, si avvicinò alle posizioni di Hering e di Mach: fra l'altro tentò di stabilire degli assiomi psicofisici a sostegno dell'ipotesi che i processi fisiologici siano fondamento dei processi coscienti. Questa teoria fu probabilmente il germe da cui si sviluppò l'isomorfismo degli psicologi della Gestalt. Che, del resto, Miiller fosse consapevole di una certa somiglianza fra alcune posizioni, sostenute dalla sua scuola sulla percezione e sulla visione, e le teorie gestaltiste, apparve chiaramente quando, nel I 92 3 egli pubblicò lo scritto Komplextheorie und Gestalttheorie: ein Beitrag zur Wahrnehmungsp!]chologie (Teoria del complesso e teoria gestaltista: un contributo alla psicologia della percezione), che tuttavia provocò un'aspra e prolungata polemica con Kohler. Ewald Hering (I 8 34- I 9 I 8) fu un fisiologo i cui contributi principali si ebbero nel campo della percezione visiva dello spazio (Beitrage zur Physiologie [Contributi alla fisiologia, I86I-64]) e della teoria dei colori (Zur Lehre vom Lichtsinne [Sulla teoria della percezione della luce, I 878]). La sua importanza perla psicologia risiede però essenzialmente nel fatto che Herlng fu assertore dell' « innatismo »della percezione visiva: egli asseriva, cioè, che l'ordine spaziale della percezione visiva era qualcosa di innato e non, invece, frutto dell'esperienza (come sosteneva, ad esempio, l'empirismo di Helmholtz, cui egli si oppose in una famosa e vivace polemica). A proposito del carattere della percezione visiva è interessante notare che si possono rintracciare chiaramente due filoni di spiegazioni: l 'uno che, partendo da Locke e dagli empiristi inglesi, passa per Helmholtz e poi per Wundt e per Kiilpe; l'altro che trae origine da Hering (che si ispirava a Johannes Miiller e, quindi, in definitiva, alla concezione kantiana dell'intuizione innata dello spazio) e che influenzò, attraverso Stumpf, la linea psicologica che sfociò nella Gestalttheorie. Karl Stumpf (I848-I936) seguì gli studi filosofici sotto la guida di Lotze. Legato da amicizia a Weber, Fechner, Brentano, Mach e James, l'interesse per lo studio dell'origine della percezione spaziale lo portò verso indagini di tipo psicologico. Il suo primo lavoro psicologico Ueber dem p!]chologischen Ursprung der Raumvorstellung (Sull'origine psicologica della rappresentazione spaziale, I873) è sotto 20
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l'influsso delle teorie innatistiche di Hering. Il contributo più importante di Stumpf riguarda però problemi di psicologia della musica ai quali egli applicò una rigorosa e paziente tecnica di sperimentazione di laboratorio. I risultati di questo lunghissimo studio furono raccolti in Tonpsychologie (Psicologia dei toni, 1883-90) e nei Beitrage zur Akustik und Musikwissenschaft (Contributi all'acustica e alla scienza della musica) che furono pubblicati in nove fascicoli dal 1899 al 1924. Dopo la pubblicazione della Tonpsychologie, Stumpf polemizzò violentemente con Wundt a proposito degli esperimenti sulla distanza tonale. Pur essendo metodologicamente convinto dell'importanza che riveste la sperimentazione in psicologia, e nonostante che dalla sua cattedra di Berlino incoraggiasse sempre la ricerca sperimentale, Stumpf, negli ultimi suoi studi, si dedicò soprattutto a questioni di carattere sistematico e teorico. Sotto questo aspetto risentì fortemente l'influenza della Psychologie vom empirischen Standpunkte (Psicologia dal punto di vista empirico, 1874) di Franz Brentano (r838-1917) e della nascente fenomenologia di Husserl che proprio a Stumpf dedicò le sue Logische Untersuchungen (Ricerche logiche, 19oo-01). Attraverso Stumpf questa corrente di pensiero di impronta fenomenologica sfocerà in parte nelle ricerche degli psicologi della Gestalttheorie (sia Kohler che Koffka furono allievi di Stumpf), sia, più apertamente, nella scuola dell'atto, cioè nella scuola di Kiilpe a Wiirzburg. A Ernst Mach, come fisico e filosofo si è già dedicato il capitolo XII del volume quinto: qui si vuol sottolineare solo l'influsso che egli ebbe sugli studi di psicologia. Egli partecipò al primo periodo della psicologia sperimentale con classiche ricerche sulla rotazione del corpo, sulla percezione visiva dello spazio e sulla teoria dell'udito. Nella sua Ana!Jse der Empftndungen (Analisi delle sensazioni) sostenne che il principio di causalità va ridotto a quello humiano di concomitanza e che le sensazioni sono i dati di qualsiasi scienza. Tutte le scienze, e quindi anche la psicologia, sono basate sulla osservazione e i dati primari dell'osservazione sono i dati sensoriali. In questo senso di equivalente dell'osservazione viene ammessa l'introspezione. L'io individuale è illusione: vi sono solo i dati sensoriali e, fra questi, anche i dati delle sensazioni spaziali e temporali. Fu proprio l'analisi machiana delle sensazioni di spazio e tempo che, rompendo la lunga tradizione delle categorie kantiane, accettata ancora da Wundt, influenzò Kiilpe, il quale considerò spazio e tempo come attributi della sensazione alla pari delle qualità e dell'intensità, e giunse fino alla teoria della Gestalt che insisté sull'aspetto fenomenico dello spazio e del tempo. Richard A venarius, del quale si riparlerà più a lungo nel capitolo vr, lavorò indipendentemente da Mach, ma entrambi riconobbero che erano giunti a risultati sostanzialmente simili per quel che riguarda il problema dell'esperienza e dei dati sensoriali. Nella sua Kritik der reinen Erfahrung (Critica dell'esperienza pura, I 8 89-90) A venarius sostiene che la coscienza dipende da un sistema fisico che è ZI
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sostanzialmente il sistema nervoso centrale. Anche l'esperienza dipende da questo sistema che tende a mantenersi in un equilibrio « vitale » fra tendenze opposte di catabolismo e anabolismo. Questo equilibrio però è teorico, perché in realtà esistono varie serie di « differenze vitali » che tendono ad esso. Queste serie vitali possono essere « indipendenti », possono cioè darsi nel sistema nervoso centrale e in tal caso si tratta di dati fisici; possono essere « dipendenti » dalle precedenti serie fisiche e allora sono dati psicologici. Questi concetti saranno ripresi in modo quasi integrale dalla psicologia di Kulpe. Fra il 1893 e il 1912 intorno a Oswald Kulpe (1862-191 5), assistente di Wundt e poi docente a Wurzburg, si radunò un gruppo di studiosi che tentarono per primi lo studio dei processi del pensiero e della volontà con metodo sperimentale. Fra di essi i più importanti furono Johannes Orth, Karl Marbe, Narziss Ach, H.J. Watt, August Messer e Karl Buhler. Il gruppo tuttavia si valse sempre di più degli apporti della fenomenologia di Brentano e di Husserl, allontanandosi progressivamente dall'esigenza di una trascrizione matematica dei risultati dei loro studi. Ti-· piea da questo punto di vista fu l'evoluzione del pensiero di Kulpe che, da una psicologia del contenuto di stretta derivazione wundtiana, passò attraverso varie influenze (fra cui, come si è detto, quella di Avenarius), per approdare a sostenere, nella sua opera postuma Vorlesungen iiber P.rychologie (Lezioni di psicologia, 1920), un compromesso fra le concezioni di Wundt e quelle di Brentano, ammettendo da un lato i «contenuti», dall'altro gli« atti» che egli chiamò « funzioni», indipendenti dai primi. La scuola di Wurzburg propose per lo studio dei processi superiori un metodo introspettivo sperimentale e sistematico (che venne però criticato da Wundt perché ampiamente condizionato dalle teorie degli sperimentatori e quindi non così obiettivo come avrebbe voluto apparire). Tutti gli studiosi della scuola rilevarono che nell'osservazione introspettiva del pensiero emergono dei contenuti di coscienza che non possono essere ricondotti solo alle sensazioni e alle immagini. Tuttavia le caratteristiche di questo «pensiero senza immagini» furono diversamente definite dai vari studiosi: Orth parlò di Bewusstseinseinlagen, atti o stati consci del soggetto; Watt sottolineò l 'importanza dell' Azd:gabe, cioè del compito soggettivo, e Ach sottoli"neò l'importanza della «tendenza determinante» che agirebbe inconsciamente contribuendo in modo decisivo al raggiungimento del risultato; Marbe e Ach rilevarono una Bewusstheit (presenzialità implicita alla coscienza) di significati mentali, la cui definizione rimase ambigua, che consentirebbe - a loro parere- il giudizio anche in assenza degli oggetti concreti cui corrispopde. La scuola di Wurzburg arrivò dunque a indicare l'esistenza di un pensiero senza immagini in cui l'orientamento del soggetto è attivo e può non essere cosciente; tuttavia non fu in grado di precisare né la sua natura né le sue leggi. La percezione, nella teoria wundtiana, era il risultato di un associarsi di ele22
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menti, le sensazioni. Tuttavia sembrava difficile :ricondu:r:re le percezioni spaziali e temporali a questo schema. Sotto l'influsso delle teorie machiane, Christian von Eh:renfels (I8j8-I932) pubblicò nel I89o un articolo Ueber Gestaltqualitiiten (Sulle qualità della forma) nel quale sosteneva che la fo:rma, nello spazio e nel tempo, è una qualità diversa dagli elementi che la compongono (Fttndamente) e non appartenente a nessuno di essi. Solo quando questi elementi compaiono tutti insieme formando una «base» (Grundlage) appare la fo:rma che ha delle qualità indipendenti. La forma tuttavia non è data indipendentemente dagli elementi anche se le qualità degli elementi di base possono va:ria:re senza che pe:r questo varino le qualità della fo:rma. A un primo sguardo le qualità della forma pot:rebbe:ro appa:ri:re soltanto come un altro tipo di elementi, di st:ruttu:ra più complessa dei primi (e ciò sarebbe abbastanza coerente con la teoria wundtiana delle :risultanti psichiche), ma Eh:renfels le considerò in :relazione all'atto, dipendenti cioè da una attività mentale organizzatrice. La scuola di G:raz fondata nel I894 da Alexius Meinong (I853-I9zo) continuò attraverso gli studi di Meinong stesso, quelli di Hans Cornelius e poi di Stephan Witasek nonché di Vittorio Benussi le teorie di Eh:renfels, arrivando a notevolissime formulazioni e precedendo in alcune teorie i principi della dottrina della Gestalt. IV · GLI INIZI DELLA PSICOLOGIA MODERNA IN INGHILTERRA
La psicologia in Inghilterra aveva, come si è già accennato nel pa:rag:rafo una lunga tradizione di ca:ratte:re, però, prettamente filosofico anche se non metafisica. La psicologia nel senso moderno, scientifico, del termine ha inizio con Galton. F:rancis Galton (I8zz-I9I I) fu una singolare figura di studioso. Di intelligenza acutissima, la sua versatilità lo po:rtò ad occuparsi di molti diversi problemi (dalla meteorologia alla biologia, alla antropologia, alla matematica, all'invenzione di strumenti di laboratorio ecc.) Benché il suo interesse pe:r i problemi psicologici sia accentrato in un a:rco di tempo che non supera i quindici anni, i suoi contributi alla psicologia moderna, pe:r novità e genialità di impostazione sono fondamentali. Studioso indipendente e svincolato da legami accademici, :risentì fortemente l'influsso delle teorie di Cha:rles Darwin- cui e:ra legato anche da :rapporti di parentela - e ne divenne acceso sostenitore. Da Darwin (cui si è dedicato il capitolo xm del volume quinto) attinse il problema della continuità f:ra specie animali e specie umana, l'interesse pe:r l'adattamento dell'individuo all'ambiente, pe:r il problema della ereditarietà e della variazione fra individui, cioè delle differenze inte:rindividuali. Mentre la psicologia tedesca cercava i principi universali di funzionamento, le leggi della attività psichica, con Galton ci si co-
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minciò a preoccupare dei diversi modi di funzionamento delle diverse persone. Forte dei principi darwiniani e delle sue personali esperienze di antropologo e di viaggiatore, Galton si opponeva alla teorizzazione di una « uguaglianza naturale » di tutti gli uomini. Inoltre sosteneva che le variazioni, fossero fisiche, intellettuali · o morali, dovevano essere ereditarie. La sua prima opera Hereditary genius (L'ereditarietà dell'ingegno, 1869) è uno studio basato sulle biografie di uomini celebri e sull'ipotesi che essi si presentino con maggiore frequenza in determinate famiglie. Anche se la identificazione fra persona geniale e persona celebre è assai discutibile, e l'asserzione che il genio si trasmetta unicamente per via biologica, senza tener conto dei fattori ambientali economici e sociali, era senz'altro parziale, tuttavia l'opera fu importante sia perché pose un problema di tipo nuovo, sia perché la trattazione che Galton fece dei dati raccolti era basata su metodi statistici. Per questo aspetto egli continuò e sviluppò i lavori del belga Adolphe Quételet (cui si è già fatto cenno nel capitolo vm del volume quinto) che aveva applicato la legge della distribuzione degli errori di Laplace e di Gauss a misure antropometriche e biologiche: l'uomo medio appariva come l'uomo perfetto e le variazioni dalla media venivano considerate come scarti sempre maggiori da questo ideale, approssimazioni, quasi sbagli" della natura. Galton ammise la validità di questa applicazione anche per i caratteri mentali e, nella convinzione che il metodo quantitativo è quello che più va incontro alle esigenze di scientificità di una disciplina matura, trasformò la frequenza del genio o della deficienza mentale in funzione della loro intensità. La trattazione statistico-matematica dei dati psicologici e biologici divenne per Galton un problema sempre più assillante. Nelle successive opere sull'ereditarietà formulò le leggi dell'ereditarietà ancestrale (per la quale i tratti individuali dipendono da quelli di tutti gli ascendenti del soggetto secondo una proporzione matematica) e della regressione verso il valore medio (secondo la quale i caratteri abnormi dei genitori, tendono ad avvicinarsi alla media nei figli). La trattazione matematica di quest'ultimo problema lo occupò per molti anni e lo condusse allo sviluppo di una misura di correlazione, l'« indice di co-relazione», poi chiamato, «funzione di Galton » e infine «coefficiente di correlazione» (indicato ancor oggi con r). L'applicazione del coefficiente di correlazione, anche per merito dei successivi sviluppi dovuti a Karl Pearson, è stata da allora grandemente usata nel trattamento statistico dei dati psicologici. I problemi dell'ereditarietà e della trasmissione dei caratteri più rilevanti portarono Galton al disegno di fondare una nuova scienza, cui dette il nome di « eugenetica », con la quale egli si proponeva di studiare e di isolare determinati tratti, allo scopo di rendere possibile, mediante opportuni incroci, un miglioramento della razza. Usò anche, per primo, lo studio dei gemelli identici per rafforzare la sua tesi dell'influenza determinante dell'ereditarietà (nature) rispetto all'ambiente (nurture).
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L 'interesse di Galton per i problemi della misurazione dei tratti e delle facoltà umane culminò nell'opera sua più conosciuta Inquiries into humatl faculty and its development (Ricerche sulla capacità umana e suo sviluppo, 1883). Questo libro viene comunemente considerato quello più propriamente psicologico di Galton e anche quello che diede origine alla psicologia individuale e differenziale, e a tutti gli studi sui reattivi mentali. Con questa opera Galton voleva fornire, nel momento in cui più aspra era la battaglia fra teoria dell'evoluzione e dogma religioso, un nuovo credo scientifico che avesse come meta quella di sostituire alla fede religiosa la fede in un progresso evolutivo il cui fine era la formazione di una umanità superdotata. I dati presentati nel libro avevano quindi lo scopo di presentare un campionario di attività mentali e di atteggiamenti umani in tutte le loro limitazioni (per indicare quanto fosse difettosa la situazione attuale) e in tutta la loro variabilità (per indicare come fosse possibile una selezione dei tratti migliori). Questo programma vagamente fantastico non impedì a Galton di compiere ricerche ed accertamenti minuziosi ed accuratissimi ed anzi lo spinse ad inventare degli strumenti di misura capaci di accertare le differenze interindividuali. Egli arrivò così al mental test, reattivo mentale, un metodo sperimentale di misurazione semplice e breve (in confronto agli elaboratissimi metodi psicofisici tedeschi) che tendeva a mettere in luce non la generalità ma la particolarità di un comportamento umano. (Il fatto che i tests misurino un « comportamento », non interessandosi dopotutto ai processi mentali sottostanti, contribuì non poco al loro successo negli Stati Uniti, specialmente dopo la nascita del behaviorismo). Connessa all'applicazione del test mentale fu l'invenzione di tutta una serie di strumenti di misurazione sensoriale (il famoso fischietto, la sbarra, i pesi, ecc.). Era sottinteso il principio che una prestazione di tipo sensoriale fosse indicativa di un livello di prestazione mentale. Nelle Ricerche Galton affrontò il problema dell'introspezione, notando la grande varietà dei processi associativi (il suo metodo di « associazione verbale » fu poi ripreso da Wundt), e anche il fatto che gran parte di questi processi si svolgono ad un livello inferiore a quello della coscienza, a un livello inconscio, cioè, che egli definì « anticamera della coscienza ». Si occupò anche della genesi, dei sentimenti religioso-superstiziosi e dei sentimenti paranoici, giungendo a provocarli sperimentalmente in se stesso. Un suo contributo fondamentale riguarda il problema della capacità individuale di ricreare mentalmente delle immagini (ideò anche un questionario per determinare i diversi tipi di questa capacità e per misurare l'accuratezza della figurazione in rapporto ai diversi sensi). Galton aprì anche un piccolo Laboratorio antropometrico per Ja misurazione delle capacità individuali, in occasione dell'esposizione internazionale di igiene (che ebbe luogo a Londra nel 1884) attraverso il quale cercò di ottenere un grandissimo numero di dati a supporto delle sue teorie sull'eugenetica. Era una prima· applicazione su larga scala dei tests e fu un avvenimento importante,
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anche se i dati raccolti non permisero delle generalizzazioni rilevanti per quel che riguarda il problema delle differenze interindividuali. Non va dimenticato che nel 1901 Galton e Pearson fondarono la rivista « Biometrika » che si occupò di ricerche matematiche in biologia e in psicologia e che, dagli studi statistici di Galton e di Ptarson, si sviluppò intorno al 19o4la ricerca di Charles Spearman (1863-1945) sulla teoria, bifattoriale dell'intelligenza (due serie di prestazioni intellettive differenti_ sono dovute a un fattore comune, generai factor, fattore G e ad un altro fattore specifico di ciascuna di esse). I lavori successivi dello stesso Spearman e di Godfrey H. Thomson su un sistema gerarchico di correlazioru portarono intprno al 1930, dopo varie formulazioni, allo sviluppo dell'« analisi fattoriale» per lo studio dell'intelligenza, dovuta oltre che allo stesso Thomson all'inglese Cyril Burt e all'americano Louis L. Thurstone. L'influsso immediato di Galton sulla psicologia inglese non fu molto grande, sia per la resistenza che le università opposero alla introduzione della psicologia, sia per il fatto che, quando questa resistenza fu vinta, si preferì attingere alle correnti tedesche. Fra gli psicologi inglesi di questo periodo si possono ricordare James Ward (1843-1925) che fu influenzato dalla psicologia dell'atto e da Brentano; Georges F. Stout (1860-1944) la cui posizione fu vicina a quella di Ward e a quella della scuola austriaca e che scrisse diversi manuali di psicologia che ebbero grande diffusione; William McDougall (1871-1938), trasferitosi poi negli Stati Uniti, del cui ambiente culturale sentì l'influenza, che cominciò i suoi studi di psicologia nel campo sperimentale e teorizzò un sistema in cui l'attività psichica è contraddistinta da un impulso finalizzato (psicologia ormica o impulsiva), si esprime in un comportamento, è provocata da istinti e accompagnata da stati affettivi. La condotta finalistica comporta una certa indeterminatezza ed una relativa libertà. La vicinanza ad alcune idee di James ed il linguaggio ambiguo attirarono su McDougall la reazione del behaviorismo, anche se egli ebbe qualche influsso su alcuni behavioristi come Edward C. Tolman e Edwin B. Holt e se il suo libro lntroduction to social psycology (Introduzione alla psicologia sociale, 19o8) ebbe un notevole peso sugli studi successivi in questo campo. V
· LA PSICOLOGIA IN FRANCIA
Nella prima metà dell'Ottocento, in Francia, come si è già accennato, si erano sviluppati gli studi di neurofisiologia ed era stato vivo l'interesse per la frenologia e il mesmerismo. Le correnti psicologiche francesi mantennero questo orientamento fisiologico, accentuando altresì il loro interesse (già presente in Comte e in Taine) per la psicopatologia più che per la psicologia dei processi normali. Di fatto lo sviluppo della psicologia in Francia è strettamente unito a
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quello della psichiatria (di cui Pierre Janet e Jean-Martin Charcot sono i principali esponenti). Théodule Armand Ribot (I839-I9I6), sotto l'influsso delle teorie di Taine e di Spencer, diede inizio in Francia ad una psicologia a carattere positivistico, orientata in senso fisiologico. I suoi interessi filosofici accompagnarono parallelamente l'evolversi della sua attenzione verso i campi di applicazione pratica della psicologia. Egli sostenne che la psicologia deve liberarsi dalla metafisica e servirsi di metodi empirici e biologici, limitando l'uso dell'introspezione. Le sue prime opere sono a carattere storico ed espositivo: La prychologie anglaise contemporaine (La psicologia inglese contemporanea, I 870) e La prychologie allemande contemporaine (La psicologia tedesca contemporanea, I 879) in cui egli esponeva per la prima volta in Francia le teorie di Fechner, quelle di Wundt e quelle di Helmholtz. In un secondo periodo Ribot si occupò soprattutto di psicopatologia. Les nJaladies de la mémoire (Le malattie della memoria, I 88 I), Les maladies_ de la volonté (Le tnalattie della volontà, I883), Les maladies de la personnalité (Le malattie della personalità, I 88 5) sono opere classiche che ebbero grande influenza sugli studi successivi: nella ricchezza dei dati clinici raccolti, il filo conduttore e unificatore è una posizione filosofica derivata da Taine, che nell'opera De l'intelligence aveva criticato la psicologia delle facoltà (come si vedrà nel capitolo vn). Termini quali « facoltà », « io », « ragione », « memoria », « volontà » non sono che astrazioni reificate: la loro apparente semplicità è ingannatrice e impedisce di afferrare la complessità dei meccanismi psichici sottostanti. L 'io non è una sostanza, ma una serie di eventi mentali. La psicopatologia scopre, nella dissociazione di questi processi, la loro complessità ed è di grande ausilio per la comprensione dei processi medesimi. Successivamente Ribot si occupò di processi psicologici normali, affrontando in modo particolare, da un punt? di vista biologico e fisiologico, il problema dei sentimenti. Alfred Binet (I 8 57- I 9 I I) fu inizialmente spinto proprio da Ribot ad occuparsi di psicologia; lavorò poi con Charcot alla Salpetrière. È famoso soprattutto per la sua scala per la misurazione dell'intelligenza dei bambini, che pubblicò insieme a Théodore Simon nel I9I 1. Questa scala è il primo tentativo di stabilire dei gruppi di prove attraverso le quali giungere a una misura delle prestazioni di un soggetto, e, successivamente, paragonare questa misura con quella ottenuta dalla maggior parte dei soggetti della medesima età. Binet fu perfettamente conscio del peso dei fattori culturali sui risultati ottenuti nel suo test e anche del fatto che la misura che se ne ricavava (quoziente intellettivo, QI = età mentale/età cronologica X 10o) non rispecchiava i diversi caratteri strutturali dell'intelligenza dell'individuo sottoposto a misurazione. Tuttavia, il successo ottenuto dal metodo, in particolare negli Stati Uniti, a causa dell'orientamento funzionale e pragmatico della psicologia americana, fu enorme e oscurò
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queste difficoltà, così come anche mise in ombra tutto il lavoro preparatorio che aveva condotto Binet alla formulazione della scala. Egli aveva iniziato nella scia della tradizione associazionista inglese e sotto l'influenza di Taine. Ben presto, tuttavia, si erano delineati altri interessi che l'avevano condotto allo studio delle differenze interindividuali e particolarmente al problema dell'intelligenza. Le sue opere maggiori rimangono La psycologie des grands talculateurs et joueurs d'échecs (La psicologia dei più abili calcolatori e giocatori di scacchi, I 894) e L' étude expérimentale de l'intelligence (Lo studio sperimentale dell'intelligenza, I9o3). Nella prima, Binet anticipò la scuola di Wiirzburg affermando l'importanza del pensiero senza immagini e soprattutto dimostrando che il suo svolgersi è influenzato dalla natura e dalla presentazione del problema, oltre che dalle attitudini individuali. Nella seconda, illustrò la sua ricerca sistematica, volta all'esplorazione del pensiero infantile, e, col suo interesse per l'aspetto genetico dell'intelligenza, segnò la strada da cui poi si svilupperanno le ricerche di Jean Piaget (n. I 896). VI · GLI INIZI DELLA PSICOLOGIA AMERICANA
William James (I842.-I9Io), sul quale si ritornerà nel capitolo v, viene comunemente indicato come l'iniziatore della psicologia americana. Fra le sue varie opere quella che ebbe maggiore influenza fu Principles of psychology (Principi di psicologia, I89o); in essa James espone accuratamente i risultati della psicologia wundtiana, ma finisce per respingerli. Secondo il nostro autore l'analisi wundtiana non riesce a cogliere la caratteristica più importante della coscienza: il suo fluire. La coscienza, invece, è continuamente mutevole, legata all'individuo, fondamentalmente selettiva secondo le esigenze di adattamento all'ambiente del soggetto. L'attività mentale ha una «funzione» nell'economia psicofisica dell'individuo: questa funzione è di tipo cognitivo e permette l'adattamento alle condizioni di vita. La teoria più specificamente psicologica di J ames è conosciuta come « teoria periferica delle emozioni ». Egli la elaborò contemporaneamente, anche se indipendentemente, al danese Cari Lange, sostenendo che nell'emozione il dato primario è l'aspetto fisiologico e somatico. Solo la presa di coscienza di tale aspetto permette lo scatenarsi dell'emozione in senso psichico. La teoria venne messa in dubbio da successivi studi di Walter Bradford Cannon, Henry Head e Philip Bard sul meccanismo nervoso e armonico, tuttavia oggi le si attribuisce il merito di aver posto l'accento sulle concomitanti fisiologiche e somatiche delle emozioni. Le concezioni di James offrirono molti spunti alla corrente della psicologia funzionalistica e al behaviorismo. James non era personalmente portato allo sperimentalismo, tuttavia inca2.8
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ragg1o sempre le ricerche sperimentali e la fondazione di laboratori presso le università; fu però Gran ville Stanley Hall (I 844-I 924) il grande organizzatore della psicologia americana: fondatore di importanti riviste, dell'associazione americana di psicologia, di molti laboratori. Fortemente influenzato dalla dottrina evoluzionistica, Stanley Hall propugnò una psicologia genetica, interessandosi particolarmente ai problemi dell'età evolutiva. La sua opera principale, immediatamente famosa, fu condotta con il metodo del questionario: Adolescence: its p~chology, and its relations to physiology, anthropology, sociology, sex, crime, religion and education (Adolescenza: la sua psicologia e i suoi rapporti con la fisiologia, l'antropologia, la sociologia, il sesso, la criminalità, la religione e l'educazione, I904). Stanley Hall sviluppò in seguito i vari campi indicati nel sottotitolo accogliendo anche degli influssi dalla psicoanalisi e dalla riflessologia di Pavlov. Fra gli autori che maggiormente contribuirono a diffondere la psicologia negli Stati Uniti si deve citare James McKeen Cattell (I86o-I944) primo assistente di Wundt a Lipsia, il quale, di ritorno in patria, si occupò di differenze interindividuali e di applicazioni del calcolo statistico oltre che di ricerche psicofisiche e dell'impiego dei reattivi mentali. Egli è considerato l'iniziatore della psicologia del lavoro. James Mark Baldwin (I86I-I934) fu uno psicologo sperimentalista anche se le sue opere gli procurarono una fama di teorico della psicologia. Notevoli furono i suoi studi sullo sviluppo mentale e la sua attività di editore di importanti riviste fra cui la « Psychological review » («Rivista di psicologia») fondata nel I894· Era inevitabile che ben presto si delineasse negli Stati Uniti il contrasto tra le correnti psicologiche di derivazione wundtiana e quelle originalmente americane che si affacciano già nelle impostazioni di J ames e di Cattell. Edward Bradford Titchener (I867-I927) indicò nel I898 questo contrasto come quello fra una psicologia «strutturale» e una psicologia «funzionale». Mentre la psicologia strutturale si interessa dei « contenuti » e tende a stabilire, attraverso l'introspezione, che cosa sono i fatti psichici e i loro elementi, e come avvengono, evitando gli aspetti soggettivi ed individuali (ed è la nuova psicologia scientifica), la psicologia funzionale si occupa invece degli stessi problemi considerandoli nel loro aspetto utilitario, cioè di operazioni che hanno importanza nella misura in cui tendono ad un costante migliore adattamento. La psicologia funzionale si pone l'antica domanda del perché delle attività mentali, facendo appello ai problemi vitali e a quelli dell'azione. Titchener, inglese, allievo di Wundt e rigoroso sperimentatore, fu per molto tempo strenuo difensore della psicologia strutturale di derivazione tedesca negli Stati Uniti dove insegnò e dove ebbe una famosa scuola. Tuttavia l'orientamento prevalente era funzionale. Già gli studi di Cattell e di Stanley Hall avevano mostrato la tendenza ad abbandonare i problemi di
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psicologia generale per occuparsi di applicazioni pratiche, di psicologia del lavoro, della educazione, di psicometria. Furono però in modo particolare gli scritti di Dewey a fornire un orientamento deciso alla psicologia funzionale. Questo indirizzo si sviluppò particolarmente nell'università di Chicago e nella Columbia University di New Y ork. A Chicago James Rowland Angeli (1869-I949) allievo di James sentì fortemente l'influenza di Dewey e fu il teorico della psicologia funzionale in Psychology (Psicologia, I9o4) e in The province of functional psychology (L'area della psicologia funzionale, I907). In quest'ultimo scritto Angeli sostiene che la psicologia funzionale si occupa: a) dello studio delle attività mentali e del loro fine; b) delle « fondamentali utilità della coscienza », per cui le operazioni mentali sono «impegnate in una mediazione fra l'ambiente e i bisogni dell'organismo»; c) delle relazioni complete fra mente e corpo, anche al di là degli stati di coscienza. Spinto dai suoi interessi pratici Angeli promosse anche gli studi di psicologia infantile, di psicologia animale e di psicologia del lavoro. . Alla Columbia University l'orientamento funzionale ebbe soprattutto l'impronta di Edward Lee Thorndike (1874-I949) famoso per i suoi studi sulla psicologia animale (vedi paragrafo vm di questo capitolo), sui problemi dell'apprendimento (19oi) e su quelli connessi all'uso dei tests mentali (I9o4). Ancora alla Columbia insegnò Robert Sessions Woodworth autore di importanti opere di psicologia sperimentale e di storia della psicologia, che tuttavia ebbe una posizione eclettica accogliendo influenze da altre correnti ed in particolare da quelle della psicologia dinamica. VII · LA PSICOLOGIA DELLA GESTALT
Gli psicologi cui si deve l'elaborazione della teoria della Gestalt sono Max Wertheimer, Wolfgang Kohler e Kurt Koffka. Wertheimer fu l'iniziatore e il pensatore più originale, tanto che generalmente si pone la nascita del movimento nel 19Iz, anno in cui egli pubblicò il suo articolo sul movimento apparente, ma l'elaborazione successiva e la diffusione della teoria è dovuta soprattutto agli altri due, legati a Wertheimer da stretti e leali vincoli di amicizia, oltre che da una lunga consuetudine di lavoro comune. Max Wertheimer (I88o-I943) frequentò la scuola di Kiilpe, con lui discusse la sua tesi di dottorato e senz'altro l'atmosfera di Wiirzburg, in cui in quegli anni ferveva lo studio del pensiero senza immagini, contribuì ad allontanarlo dall'elementarismo di tipo wundtiano. Intorno al I 9 I o egli cominciò lo studio del movimento apparente, facendovi partecipare anche Koffka e Kohler, e, nel I9Iz, pubblicò Experimentelle Studien iiber das Sehen von Bewegung (Studi sperimentali sulla visione del movimento) in cui sostiene che il movimento apparente non risulta da una
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serie di sensazioni, ma è un tutto a sé, un fenomeno sui generis, che egli chiamò « phi-Phenomenon ». Da quel momento Wertheimer, Koffka e Kohler intrapresero una comune battaglia per sostenere le nuove teorie della Gesta!t-psycho!ogie. Nel 192 r fondarono « Psychologische Forschung » («Ricerca psicologica»), la famosa rivista che continuò fino al 1938, e negli ultimi anni venne pubblicata negli Stati Uniti dove le persecuzioni naziste avevano costretto prima Wertheimer e poi Kohler (Koffka insegnava negli Stati Uniti già da molti anni). Proprio su « Psychologische Forschung » Wertheimer pubblicherà nel 1921 e nel 1923 i suoi contributi più rilevanti per la definizione della teoria. Uscì postumo un suo libro sul pensiero Productive thinking (Pensiero prodttttivo, 1945) in cui Wertheimer considera particolarmente il momento di formazione iniziale del pensiero, ritenendo carattere principale del pensiero produttivo quello di rivolgersi continuamente verso totalità strutturalmente organizzate, nello sforzo di impadronirsene. Wolfgang Kohler (r887-r967) fu allievo di Stumpf. Dopo i primi contatti con Wertheimer, e dopo averne assimilato le idee, fece (dal 1913) un lungo soggiorno a Tenerife dove compì importanti studi di psicologia animale (vedi para-. grafo v m di questo capitolo) alla luce delle teorie gestaltiste. Di ritorno in Germania nel 1920 ebbe la cattedra di psicologia prima a Gottinga poi a Berlino in seguito alla pubblicazione dell'opera Die pl!Jsischen Gesta!ten in Ruhe und im stazioniiren Zustand (Le forme fisiche in riposo e in stato stazionario, 1920). In essa tentava un approccio di tipo fisico (aveva un forte interesse per la fisica, avendo risentito dell'influenza di Max Planck) ai problemi di fisiologia del sistema nervoso e di psicologia, arrivando a formulare una ipotesi di isomorfismo tra le dinamiche in campo fisico, neurologico e psicologico. Questa ipotesi è sempre stata molto cara a Kohler nonostante le violente opposizioni suscitate ed è stata da lui sostenuta con rinnovato vigore dopo la pubblicazione di Brain mechanisms and intelligence (Meccanismi cerebrali ed intelligenza, 1929) di K.S. Lashley, che sembrò avvalorarla. Tra le opere più famose di Kohler bisogna ancora ricordare Gesta/t psycho!ogy (La psicologia della Gesta/t, 1929) che, scritta in inglese, è la più chiara esposizione complessiva della teoria e The piace of va!ue in a wor!d of facts (Il posto del valore in un mondo difatti, 1938) che introduce il significato fra i dati dell'esperienza. Kurt Koffka (r886-r94r), anch'egli allievo di Stumpf, si distinse poi per la lunga serie di studi sperimentali che dal 1913 al 1921 condusse a sostegno della teoria della Gestalt e i cui risultati pubblicò a più riprese sulla Zeitschrift fiir Psychologie (Rivista di psicologia). Nel 1921 pubblicò Die Grund!agen der psychischen Entwick!ung: eine Einfiihrung der Kinderpsychologie (l fondamenti dello sviluppo n1entale: una introduzione alla psicologia infantile), che allargò gli interessi della Gestaltpsycho!ogie ai processi dell'apprendimento ed ai problemi educativi. Koffka scrisse instancabilmente per anni in difesa della teoria accanendosi nella sua foga
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polemica contro una psicologia atomistica che, se mai era esistita così come lui la dipingeva, era comunque morta da tempo. Tuttavia si deve a lui il trattato sistematico più completo: Principles of Gesta/t P!ychology (Principi di psicologia della Gesta/t, I93 5). Fra gli altri gestaltisti i più importanti furono: Erich von Hornbostel (I877I936), Karl Duncker (I903-4o), di cui sono noti gli studi sul pensiero produttivo e, in certa misura anche Kurt Lewin (I87o-I947) che fondò su principi gestaltici le sue teorie dinamiche del campo in psicologia sociale (la trattazione delle teorie di Lewin esula però dai limiti di questo capitolo). Bisogna notare che anche precedentemente e comunque contemporaneamente ai primi studi di Wertheimer, altri psicologi stavano affrontando lo stesso tipo di problemi. Negli anni dal I9o9 al I9I 5 dal laboratorio di Miiller a Gottinga, uscirono degli importanti studi in questa direzione. È necessario ricordare almeno Zur Analyse der Gesichtswahrnehmungen (Sull'analisi delle percezioni visive, I9o9) di Erich R. Jaensch (I883-I94o), l'importante monografia sul colore di David Katz (il quale più tardi aderì- alla teoria della Gestalt): Die Erscheinungsweisen der Farben (L'aspetto apparente dei colori, I 9 I I) e soprattutto dello psicologo danese Edgard Rubin (I886-I93Z) i fondamentali studi sul rapporto fra figura e sfondo e sulle figure ambigue: Synsoplevede Figurer: S tudier i psykologisk Ana!Jse (I 9 I 5), tradotto in tedesco nel I92I: Visuell wahrgenommene Figuren (La percezione visiva delle figure). Passando ora ad esaminare brevemente i principi teorici della Gestalt, ricorderemo in primo luogo che, per questa teoria, una Gestalt, o forma, è essenzialmente un insieme strutturato, una totalità le cui parti sono connesse non per semplice giustapposizione o per casuale vicinanza, ma come elementi legati tra di loro da un rapporto intrinseco e significativo, tale che la percezione della totalità è primaria rispetto a quella delle parti e che la condizione di « una parte ... è determinata dalle leggi intrinseche proprie della Gestalt stessa» (Wertheimer). La percezione della forma è qualche cosa di immediato, originario e significativo; l 'analisi volta alla ricerca degli elementi componenti non è che un artificio metodologico, una forzatura che svia dalla comprensione centrale del problema. Gli psicologi della Gestalt considerarono le spiegazioni della scienza come qualche cosa di diverso e di opposto all'esperienza ordinaria dell'uomo e, sotto l'influsso della fenomenologia, rivendicarono l'importanza dell'esperienza immediata e posero l'accento sull'aspetto originario e innatistico della percezione. Ciò però non li portò a posizioni di realismo acritico e ingenuo: essi tentarono anzi - specialmente Kohler e Koffka - una mediazione tra scienza e teoria della forma sostenendo la validità delle leggi della Gestalt tanto nel mondo fisico quanto nel mondo dell'esperienza umana e la relativa concordanza delle teorie scientifiche e delle conclusioni dell'esperienza diretta e originaria, non influenzata dall'espe-
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Alcuni esempi portati da Wolfgang Kohler per illustrare le leggi della Gestalt.
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rienza passata: « Il concetto di Gestalt ... attraversa la divisione di campi di esistenza, poiché è applicabile a ciascuno di essi» (Koffka). Le Gestalten si possono ritrovare in natura (celebre l'esempio delle bolle di sapone), nei processi cerebrali, nell'esperienza cosciente. A proposito dell'esperienza va notato che, nonostante ciò che per amor di polemica si è spesso detto, i gestaltisti non hanno negato che l'esperienza passata possa influenzare la percezione (vedi Katz, Gesta/t Pvchology [Psicologia della Gesta/t]). La loro critica era rivolta piuttosto all'importanza concessa all'esperienza passata nei casi in cui si ha un'esperienza che non concorda con l'ipotesi della costanza percettiva (nei casi, cioè, in cui la visione di una figura non concorda con l'esperienza che di essa noi abbiamo avuto in passato); la questione va risolta, secondo i gestaltisti, non mediante un'inferenza che nulla nella nostra introspezione autorizza, bensì mediante le leggi di organizzazione delle forme, per cui, ad esempio, noi percepiamo più facilmente delle particolari strutture di stimoli (le «buone forme») rispetto ad altre (le «cattive forme»). Questo ci riporta all'esposizione delle leggi stabilite dalla Gestalt-pvchologie. Queste leggi sono numerosissime, tuttavia possono essere riassunte in alcuni punti di particolare importanza: a) Un campo percettivo è un sistema dinamico che tende a strutturarsi e in cui le singole forme compaiono già organizzate; le relazioni intrinseche alle forme ne costituiscono il significato che è immediato. b) L'emergere delle forme in un campo percettivo è dovuta alle condizioni del campo e alle relazioni formali esistenti fra gli elementi del campo stesso. Queste relazioni sono quelle di « somiglianza », « prossimità », « simmetria », « chiusura », « continuità di direzione ». c) Le forme si distinguono dallo sfondo, che è più indifferenziato, come figure unitarie; sono più o meno complesse, più o meno buone (quelle buone tendono a persistere; « pregnanza » delle buone forme) e più o meno forti (secondo che possano essere analizzate con maggiore o minore facilità). Kohler in particolare si spinse molto avanti nell'approfondimento della teoria: egli notò che nelle scienze fisiche si rinvengono degli insiemi che non possono essere spiegati mediante una semplice addizione di parti (il campo elettromagnetico, ad esempio). Anche in psicologia bisogna fare uso della nozione di « campo » e Kohler suppose che in corrispondenza di una percezione di una forma vi siano dei processi fisiologici a livello del sistema nervoso centrale analoghi a quelli che determinano la costituzione degli insiemi fisici. Questi processi sarebbero cioè dei sistemi in equilibrio che tendono ad essere massimamente semplici, simmetrici e regolari (esattamente come le forme fisiche). Queste caratteristiche di semplicità, simmetria e ordine vengono generalmente comprese entro quella di « pregnanza ». Kohler ipotizzò quindi un « isomorfismo » fra i sistemi di relazioni che si instaurano fra le zone corticali che ricevono gli stimoli prove34
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nienti da una determinata figura e le relazioni strutturali proprie al campo percettivo in cui è vista la figura stessa. Le nostre percezioni avrebbero dunque la stessa struttura dei processi corticali sottostanti. Era un tentativo di superare l'antico dualismo fra mente e corpo che suscitò infinite polemiche. La relativa debolezza di questa teoria non era tale però da fare vacillare l'intera costruzione dottrinale dei gestaltisti. La Gestalttheorie aveva obiettivi molto più vasti: Koffka sosteneva che il suo scopo più generale era l'integrazione della attività psichica col problema dei significati e dei valori. L'errore delle correnti scientifiche, quelle che Koffka chiamava« positiviste », e del comportamentismo, era di non lasciare posto alle categorie del significato e del valore. Kohler ammise in The piace of value che il « requisito significato » non è fisicamente inerente agli oggetti, e come tale non si può rinvenire nel mondo della fisica, tuttavia sostenne anche che il significato è immediatamente dato al soggetto, senza necessità di inferenze analogiche dall'esperienza passata. Il bambino è in grado di cogliere assai presto il significato di un volto, di una espressione e di riconoscerli nelle più diverse situazioni anche se non vi è nulla nello stimolo che possieda direttamente questo significato (e anche questo processo viene riferito allo strutturarsi delle facoltà percettive e non alla esperienza; come scrive Koffka, nei Fondamenti dello sviluppo mentale). Le tesi gestaltiste sulla percezione e in particolare quelle sulla priorità del tutto sulle parti e sulle relazioni di interdipendenza fra gli elementi, permisero un fecondo allargamento della teoria anche allo studio del pensiero e dell'intelligenza. La posizione classica sosteneva generalmente che l'atto di intelligenza interviene in un secondo tempo sui dati percettivi elaborandoli mediante un processo di astrazione. Kohler, attraverso i suoi studi sugli scimpanzè, respinse nettamente tale posizione, dimostrando l'immediatezza della percezione di determinati rapporti e non di singoli elementi (vedi paragrafo vm). L'atto di intelligenza si ritrova proprio in una comprensione subitanea e immediata del problema (Einsicht, Insight) in una trasformazione sia del campo percettivo che di quello neurofisiologico che avviene all'improvviso e che implica la percezione di collegamenti prima non percepiti. Anche Duncker ha studiato a lungo le modalità attraverso cui si attua, nel caso della soluzione di problemi, l'insight o i successivi processi di insight (On problem solving [Sulla soluzione dei problemi, 1945]); Wertheimer ha spinto più in là di ogni altro questo studio: egli ha distinto l'apprendimento meccanico dallo svolgersi del « pensiero produttivo » che scopre cioè nuove possibilità di strutturazione del campo e poi riesce a servirsene anche in condizioni che possono apparire molto dissimili. Nel campo strettamente psicologico la Gestalttheorie ha dato contributi fondamentali agli studi sulla percezione, sia indicando dei punti di vista completamente nuovi su fatti già conosciuti, sia mettendo in luce e dando una spiegazione a fatti mai studiati. Le leggi di strutturazione del campo hanno validità 35 www.scribd.com/Baruhk
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predittiva in condizioni e con stimoli prossimali normali e sono state almeno parzialmente accettate da tutte le correnti psicologiche del xx secolo. Anche lo studio del pensiero è stato della massima importanza e ha consentito numerosi sviluppi sia in campo teorico che nelle applicazioni pratiche. Per quel che riguarda l'aspetto teorico di più vasta portata, tradizionale appannaggio della ricerca filosofica, il contributo principale della psicologia della Gestalt è stata la tesi che qualunque sia il responso della scienza, il punto di partenza di ogni scienza è necessariamente la realtà quale ·è comunemente percepita: anche la fisica non avrebbe nemmeno potuto avere inizio se l'uomo non avesse percepito in determinati modi il mondo esterno. La scienza potrà sostenere che quello the noi pensiamo di percepire non è ciò che realmente percepiamo, tuttavia è alla realtà percepita che l'organismo reagisce e la psicologia non può dimenticarlo. Questo equivale a sostenere che il linguaggio descrittivo dell'esperienza comune non può essere ridotto al linguaggio della fisica. Merito della psicologia della Gestalt è di avere indicato e sostenuto questa tesi non nuova con una chiarezza ed un vigore prima sconosciuti. VIII · LA PSICOLOGIA ANIMALE
Il rigido dualismo cartesiano tra uomo ed animale- solo l'uomo è dotato di intelligenza, l'animale è semplicemente macchina- aveva dato luogo ad una accesa polemica con i sostenitori della continuità tra intelligenza umana ed intelligenza animale. In opposizione al dualismo cartesiano le filosofie di Locke e di Condillac avevano, con diverse modalità, assimilato i processi umani a quelli animali. Il problema era stato poi affrontato in modo radicalmente nuovo da La Mettrie, il quale aveva affermato che nell'universo non esiste che un'unica sostanza la quale assume varie modalità. La materia vivente è capace di attività, rigenerazione, sensazione, movimento e di tutte le altre proprietà, che, tradizionalmente, vengono spiegate ricorrendo ad un principio vitale o anima. L 'uomo non è che l'esempio più perfetto di organizzazione della materia, ma tale organizzazione non è qualitativamente diversa nell'animale: questo possiede una ragione e una coscienza. La catena degli esseri non conosce interruzioni. Furono in seguito le opere di Darwin ad imprimere una svolta fondamentale al modo di considerare il problema e a segnare l'inizio della moderna psicologia animale. Le sue opere più incisive sotto tale aspetto furono The descent of man (L'origine dell'uomo, 1871) e The expression of the emotions in man and animals(L'espressione delle emozioni nell'uomo e negli anintali, 1872.). Invece di concepire la mente umana come strumento ai fini della conoscenza. la teoria della continuità evolutiva prospettò le attività mentali come funzioni di adattamento all'ambiente. Da questo conseguiva che tra attività psichiche animali e attività umane non c'è salto qualitativo ma unicamente una differenza di grado. Con questo la psicologia animale
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si liberò da ipoteche metafisiche e teologiche per diventare, al pari della psicologia umana, una scienza strettamente legata alla fisiologia e alla biologia:. Soprattutto in The deJcent of man Darwin sviluppò queste posizioni, concludendo che solo il senso morale distingue gli uomini dagli animali, dal momento che anche gli animali posseggono le stesse qualità dell'uomo e, sia pure a differenti livelli, sono in grado di usare strumenti, di formare dei concetti, di servirsi di un linguaggio e possono anche dimostrare un rudimentale senso estetico e sentimenti di venerazione e di rispetto. La trattazione di Darwin era però ancora fondata su categorie acriticamente mutuate dall'associazionismo e trasposte direttamente dall'uomo agli animali: risentiva quindi di una forte tendenza antropomorfizzante. Queste limitazioni furono anche del contemporaneo e amico di Darwin, John Romanes (I848-94), scrittore, zoologo e sostenitore della teoria dell'evoluzione, il quale per primo in Animai lntelligence (L'intelligenza degli animali, I 88z) usò il termine « psicologia comparata ». Il metodo aneddotico descrittivo di Romanes e il suo ingenuo antropomorfismo furono più tardi violentemente criticati; tuttavia egli ebbe il merito di raccogliere una enorme massa di materiale, che una volta vagliata, permise lo svolgimento di un lavoro proficuo. Del resto Romanes stesso si pose il problema metodologico della scelta del materiale e stabilì dei canoni di selezione che, per quanto nelle sue intenzioni rigorosi, non erano tuttavia sufficienti. La tendenza ad antropomorfizzare trovava, d'altra parte, una spiegazione nello scopo principale dell'opera che era quello di sostenere le teorie darwiniane: il comportamento animale era perciò interpretato in base a processi simili ai processi superiori umani per dimostrare la somiglianza e la continuità tra le due specie. · La reazione al semp~cismo e alla scarsa scientificità dei metodi di Romanes non tardò a manifestarsi e prese tre direzioni diverse: quella metodologica di Lloyd Morgan, quella sperimentale di Thorndike, e quella meccanicistica di Loeb. Nel I894 in lntroduction to comparative P!ycholo!!J (Introduzione alla psicologia comparata) si ebbe da parte di Conwy Lloyd Morgan (I852-I936) la formulazione del « canone » o « legge di parsimonia », secondo il quale si deve rinunciare ad interpretare un'azione animale. come esercizio di un processo psichico superiore, se si può interpretarla come esercizio di un'attività psichica di livello inferiore. In questo modo si cercava di evitare ogni interpretazione antropomorfizzante; si insisteva inoltre sulla necessità della sperimentazione, che in Lloyd Morgan non fu mai tuttavia rigorosamente controllata in laboratorio. Questo fu merito di Edward Lee Thorndike (vedi paragrafo v1) che già nella sua tesi era arrivato ad importanti conclusioni sull'apprendimento (Animai lntelligence: An experimental study of the associative processes in animals [L'intelligenza anin1ale: studio sperimentale dei processi associativi negli animali, I 898]). Egli si servì
per primo di gabbie da cui l'animale poteva uscire solo muovendo uno o più 37
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meccanismi posti all'interno (puzzle-boxes); l'animale, un gatto o un cane, generàlmente, compiva vari tentativi del tutto casuali per liberarsi. Thorndike elaborò delle curve di apprendimento e sostenne che esso avviene attraverso prove ed errori (trials and e"ors) e che il successo, sempre casuale, agisce come fattore che accelera il raggiungimento del risultato in una prova successiva, poiché evidenzia, e quindi fa ripetere all'animale, i movimenti che precedentemente hanno portato ad una soluzione positiva(« legge dell'effetto»). Questa conclusione, come è chiaro, non implicava alcuna attribuzione di coscienza né di processi intellettivi superiori all'animale. L'effetto si aggiungeva dunque alla frequenza della ripetizione (Ebbinghaus) come fattore determinante l'apprendimento. Negli Stati Uniti la psicologia animale ebbe larga diffusione in quanto era congeniale all'atteggiamento funzionale, interessato allo studio delle capacità che portano al successo, più che allo studio della consapevolezza e dell'introspezione. Tra gli psicologi che più si distinsero in questa prima fase sperimentale della psicologia animale bisogna ricordare Willard Stanton Small, Robert M. Y erkes, e Walter Samuel Hunter. In generale questi studiosi tentarono di rendere più rigorosa, ma anche più « naturale », la situazione sperimentale, sostenendo che le condizioni di laboratorio alterano spesso la condotta animale. Il terzo tipo di reazione al carattere antropomorfizzante della prima psicologia animale provenne da Jacques Loeb (1859-1924), zoologo e fisiologo tedesco, che lavorò per gran parte della sua vita negli Stati Uniti. Egli sviluppò il principio meccanicistico dei movimenti forzati o « tropismi » nelle piante, in modo da poter spiegare in base ad esso il comportamento animale, nell'opera Der Heliotropismus der Tiere und seine Ueberstimmung mit dem Heliotropismus der Pflanzen (L'eliotropismo degli animali e la sua concordanza con l'eliotropismo delle piante, 1 89o). Altre sue opere famose furono Vergleichende Gehirnphysiologie und vergleichende Psychologie (Fisiologia comparata del cervello e psicologia comparata, 1899) e Forced movements, tropisms and animai conduci (Movimenti forzati, tropismi e condotta animale, 1918). Le teorie fisicochimiche erano per Loeb un fondamento sufficiente per lo studio della condotta sia cosciente che non cosciente; egli propose inoltre di scegliere la memoria associativa quale criterio della coscienza, e stabili quindi che solo gli animali che non mostrano di trarre profitto dall'esperienza sono privi di coscienza. (Negli stessi anni Herbert Spencer Jennings [1868-1947] si oppose a una distinzione fondata su tale criterio, dimostrando, attraverso i suoi esperimenti sui protozoi, che tutti gli animali, anche quelli ai limiti inferiori della scala, mostrano una varietà e una modificabilità di reazioni attraverso l'esperienza e che, quindi, anch'essi potrebbero essere ritenuti dotati di coscienza.) Con la diffusione delle teorie di Loeb si ebbe, soprattutto in Germania, una vasta reazione contro l'indeterminatezza, la confusione metodologica e l'assenza di rigore sperimentale della psicologia animale. Ampia risonanza ebbe in particolar modo un articolo di Th. Beer, Albrecht Bethe e Jacob von Uexki.ill
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Vorschlage zu einer objektivirenden Nomenklatur in der P~ysiologie des Nerven~ystems (Proposte per una terminologia obiettivante nella fisiologia del sistema nervoso, 1899), in
cui si proponeva di sostituire tutte le espressioni che potevano dare adito ad interpretazioni antropomorfizzanti con altre esclusivamente fisiologiche o almeno neutre. Il behaviorismo in seguito, non avrebbe ritenuto sufficiente tale obiettivismo poiché esso ammette ancora due serie parallele di processi, fisici e mentali; tuttavia avrebht! fatto sue queste impostazioni metodologiche portandole alle conseguenze estreme anche nel campo della psicologia umana. Del resto il behaviorismo (vedi anche il paragrafo IX di questo capitolo) trasse le sue origini proprio dalla psicologia animale sperimentale, e Watson stesso compì i suoi primi studi sull'orientamento dei topi nel labirinto (Kinaesthetic and organic sensations: their role in the reaction of the white rat to the maze [Le sensazioni cinestetiche ed organiche e il loro ruolo nella reazione del ratto bianco al labirinto,
I907]): egli concluse che l'apprendimento poteva dirsi l'effetto di una «memoria cinestetica » del ricordo, cioè, dei movimenti, evitando così di applicare agli animali le interpretazioni derivate dalla psicologia umana. (I più importanti studi di psicologia animale in campo behavioristico esulano tuttavia dai limiti cronologici di questo capitolo.) Gli esperimenti di Wolfgang Kohler di cui si parla nel paragrafo vn, compiuti tra il I 9 I 3 e il I 9zo, sulle scimmie antropoidi si differenziarono dagli altri studi di psicologia animale, sia per l'applicazione rigorosa dei principi gestaltisti, che per l'originalità delle situazioni sperimentali. Kohler offrì un rendiconto dei suoi studi in lntelligenzpriifungen an Menschenaffen (L'intelligenza delle scimmie antropoidi, 1917). Una parte di questi studi riguardano esperimenti di discriminazione visiva: Kohler · concluse che le scimmie (come del resto le galline, che egli aveva pure esaminato) non percepiscono degli stimoli isolati ma delle collezioni, o meglio delle relazioni tra stimoli; per cui possono imparare a scegliere, ad esempio, tra due stimoli lo stimolo più chiaro, anche se si mutano le gradazioni degli stimoli, purché il rapporto tra di esse rimanga il medesimo (legge della « trasposizione »; la stessa, del resto, che Ehrenfels aveva scoperto a proposito delle melodie). L'intelligenza si rivela proprio nella percezione di relazioni e può assumere la forma di insight anche presso le scimmie. Proprio per studiare l 'intelligenza degli scimpanzè, Kohler escogitò una serie di esperimenti che si differenziavano da quelli tradizionali di laboratorio, in quanto cercavano di rispettare le condizioni ambientali abituali dell'animale: egli sosteneva che la condizione sperimentale delle gabbie e dei labirinti poneva l'animale in una situazione a lui incomprensibile e quindi generatrice di panico (in tale situazione era quindi naturale che la soluzione fosse trovata solo per caso). Gli scimpanzé di Kohler, posti in grandi gabbie all'aria aperta, dovevano invece semplicemente raggiungere del cibo posto fuori dalla loro portata immediata, servendosi di strumenti (cordicelle, bastoni, casse) che trovavano all'interno 39
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della gabbia stessa, oppure seguendo un percorso che non era il più diretto, ma tuttavia l'unico utile (esperimenti del détour). Se la situazione non era troppo complicata l'insight avveniva in modo subitaneo, altrimenti per tappe successive. Il successo coincideva con lo stabilirsi di relazioni tra diversi oggetti, prima non organizzati in un insieme: in definitiva con l'emergere di una Gestalt. IX · LA PSICOLOGIA OGGETTIVA
L'aspirazione della psicologia a farsi scienza si era sempre scontrata con la che l'oggetto proprio di questa scienza avrebbe dovuto essere in gran parte costituito dai processi psichici. Questo portava a serie difficoltà per quel che riguardava i procedimenti di sperimentazione e di misura che volessero essere rigorosamente scientifici. I tentativi di risolvere queste difficoltà provennero da due correnti distinte, che ebbero un'evoluzione profondamente diversa, ma che si possono accomunare sotto il profilo dell'esigenza di rigore: la scuola russa e il behaviorismo americano. Ivan Michailovic Sechenov (I829-I905) può considerarsi il fondatore della scuola russa: i suoi stretti contatti con studiosi europei, non gli impedirono di sviluppare un'impostazione del tutto originale. Una delle sue prime opere. I riflessi del cervello 1 (I 8 6 3) suscitò immediata risonanza e tra l'altro gli procurò delle noie presso il comitato della censura di Pietroburgo: il libro fu proibito con l'accusa di materialismo. Sechenov sosteneva, sulla base dei suoi esperimenti, che i riflessi spinali sono sottoposti ad un'azione inibitrice della corteccia o meglio di un particolare centro di essa, e concludeva affermando che « tutti gli atti consci o inconsci sono riflessi » e che quindi ogni esplicarsi di attività psichica ed intellettiva dipende da uno stimolo. Se da un lato Sechenov tentò di ridurre la psicologia alla fisiologia, legittimando unicamente questo modo di affrontare i processi superiori, è tuttavia vero "che egli allargò il tradizionale campo della fisiologia, accogliendo tra i suoi oggetti di studio anche i processi logici e le azioni volontarie, che altrove non furono presi in considerazione che molti anni più tardi. Nessun altro studioso europeo aveva mai affermato la possibilità di studiare le attività superiori attraverso i riflessi: tuttavia va sottolineato che nessuno, all'infuori dei suoi continuatori russi, raccolse e continuò la prospettiva di Sechenov. Tra questi la figura di maggior rilievo è quella di Ivan Petrovic Pavlov (I 849- I 9 36), medico e soprattutto celebre fisiologo, che compì i suoi studi più importanti durante il lungo periodo in cui insegnò a Pietroburgo (I89o-r924). La sua formazione si era compiuta oltre che in Russia anche in Germania (con Ludwig a Lipsia e con Heidenhain a Breslavia: qui aveva scoperto i nervi secreconce~ione
nire il titolo della loro opera nella traduzione italiana.
1 Come già per altri autori russi, dei quali si parlò nel volume quarto, ci limitiamo a for-
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tori del pancreas nel 1899, iniziando così una lunga serie di ricerche in questa direzione). Fu proprio lo studio dei processi digestivi che condusse Pavlov alla sua più celebre scoperta: i riflessi condizionati. Egli aveva portato all'esterno lo sbocco dei canali digestivi nel cane per studiare la secrezione gastrica ed aveva osservato che l'animale cominciava a secernere i succhi gastrici o la saliva quando « anticipava mentalmente » la presenza del cibo. Pavlov parlò prima di « secrezione psichica »,più tardi dei «cosiddetti processi psichici »e ancora più tardi, con l'evolversi delle sue ricerche, si servì del termine « riflesso condizionato », che aveva il pregio di eliminare qualsiasi riferimento a fenomeni non sperimentabili obiettjv~mente. -, -Essenzialmente si tratta di questo: l'introduzione di cibo provoca sempre· una secrezione salivare (riflesso incondizionato); se, contemporaneamente all'ir1-: troduzione di cibo si fa agire un altro stimolo (elettrico, sonoro, ecc.), si nota che, dopo un certo numero di ripetizioni, tale stimolo « improprio » è sufficiente a provocare, da solo, la secrezione salivare (riflesso condizionato). Il riflesso condizionato, col passare del tempo, tende ad estinguersi e deve perciò di tanto in tanto essere « rinforzato » mediante la presentazione dello stimolo « proprio » accanto a quello « improprio ». Il riflesso condizionato è dunque un « apprendimento» che si attua attraverso l'associazione tra una reazione, che fa parte di un riflesso incondizionato, ed un nuovo stimolo improprio o condizionato. Le prime esperienze di Pavlov sembrarono portare ad una conferma neurofisiologica dell'associazionismo, ma in successivi esperimenti egli mise in luce differenze essenziali tra l'associazionismo classico e il condizionamento: da un punto di vista teorico, infatti, l'associazionismo si fonda sull'introspezione, mentre i riflessi condizionati sono obiettivamente osservabili in laboratorio; inoltre, da un punto di vista sperimentale, mentre per l'associazionismo l'apprendimento ottimale si ottiene nel caso in cui i due stimoli sono presentati contemporaneamente, nel condizionamento tale risultato ottimale si ha nel caso in cui lo stimolo condizionato precede, anche se di una frazione di tempo assai piccola, il riflesso condizionato: è un « segnale », che « prepara l'attesa dello stimolo incondizionato » e permette all'organismo di prevederne la presentazione e di reagire di conseguenza. D'altra parte, mentre il riflesso incondizionato appare dopo un tempo brevissimo dallo stimolo, il riflesso condizionato appare dopo un periodo molto più lungo.' Pavlov inferì da ciò che il riflesso condizionato deve percorrere delle vie nervose più lunghe che il riflesso incondizionato. Egli sostenne che la regione in cui si formano i riflessi condizionati è la corteccia cerebrale (più tardi però altri studiosi dimostrarono che i riflessi condizionati si hanno anche in animali decorticati). 'rutta la dinamica dei riflessi poggerebbe su centri anatomici distinti a livello corticale; a ogni stimolo differenziato (acustico, visivo, ecc.) corrisponderebbe un centro corticale particolare ( « analizzatore »); naturalmente è necessario am41
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mettere un grandissimo numero di tali analizzatori. Ogni presentazione simultanea o quasi simultanea di due stimoli aumenterebbe l'associazione nervosa tra due centri corticali, determinando l'« eccitazione ». Questa teoria del dinamismo nervoso è strettamente connessa con quella della « dominanza »: un centro nervoso particolarmente importante attira a sé l'attività dei centri subordinati, semplificando e facilitando tale attività. Lo spegnersi di un riflesso condizionato è dovuto all'« inibizione attiva » dello stato di eccitazione per il presentarsi di uno stimolo disturbante; (per evitare questo inconveniente, Pavlov aveva fatto costruire per i suoi esperimenti le famose «torri del silenzio», in cui gli stimoli erano rigorosamente controllabili e non era possibile l'interferenza di uno stimolo disturbante). Questo primo tipo di inibizione« esterna», va distinto dall'« inibizione interna», che si ha con lo spegnersi spontaneo del riflesso, sia per effetto del tempo che per cause connesse con rinforzi troppo prolungati. In questo caso, secondo Pavlov, si ha un processo che tende a preservare i centri e le vie nervose da uno stato di eccitazione troppo forte. Anche il processo di inibizione può essere, d'altra parte, condizionato, e l'inibizione è un fenomeno transitorio che tende a scomparire (questo spiega il ristabilirsi di riflessi condizionati che parevano dimenticati). Secondo Pavlov, durante l'inibizione zone corticali più o meno ampie sono inattive, tagliate fuori. Se questo fenomeno si estende a tutta la corteccia, l'animale si trova in una condizione di inibizione generalizzata che corrisponde a uno « stupore motorio » e che, a seconda dell'intensità, Pavlov chiamò «ipnosi» o «sonno». Soprattutto il problema dell'inibizione e della discriminazione fu sviluppato dagli studi di Pavlov e della sua scuola conducendo a contributi originali anche nel campo dei processi umani. Fu proprio in questo senso, infatti, che si tentò di estendere la teoria dei riflessi condizionati. Tale estensione· permise un 'impostazione nuova dell'osservazione dei comportamenti umani. È chiaro infatti che il riflesso condizionato è un mezzo obiettivo di osservazione che sostituisce l'introspezione, un tipo di «linguaggio» che permette l'osservazione e la misurazione diretta del rapporto stimolo-riflesso senza dover ricorrere a concetti ambigui e quantitativamente non definibili, quali coscienza, processo psichico, ecc. Pavlov si rese perfettamente conto dell'importanza metodologica della sua teoria e ne auspicò l'estensione anche ai campi classici della psicologia, dominio incontrastato fino ad allora del soggettivismo e dell'introspezione. Tuttavia egli ritenne fondamentalmente di muoversi nel solo campo della fisiologia, di cui la psicologia poteva al massimo essere una parte: egli negava cioè la possibilità della psicologia come scienza autonoma. Negli ultimi anni Pavlov propose varie interpretazioni su basi riflessologiche sia dei tipi caratteriologici che delle più note psicopatologie, e anche in questo senso i suoi studi hanno avuto degli sviluppi in anni recenti. È necessario ancora ricordare la teoria generale dei processi nervosi e del-
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l'adattamento all'ambiente che Pavlov fu in grado di elaborare in base ai suoi studi sperimentali. Gli animali superiori e l'uomo sono dotati di tre sistemi di segnalazione: un primo sistema, comune all'uomo e agli animali superiori, è costituito dai riflessi incondizionati (nella terminologia classica: istinti, emozioni, affetti, ecc.), che permettono un adattamento limitato e che sono integrati dall'attività dianalisi e di sintesi dei centri cerebrali, esclusi i lobi frontali. I centri cerebrali sono sede dei riflessi condizionati (secondo sistema di segnalazione) e permettono appunto un'attività associativa. Tale secondo livello è l'ultimo cui possono giungere gli animali superiori; l'uomo, invece, ha per di più la possibilità di un terzo sistema di segnalazione, costituito dal linguaggio, che consente l'elaborazione dei segnali del primo sistema, la loro simbolizzazione, astrazione e generalizzazione. Questo terzo sistema permette un grande adattamento dell'uomo all'ambiente ed è l'elemento costitutivo della scienza, intesa come espressione massima di questo adattamento. I tre sistemi sono dinamici e soggetti a continue oscillazioni ed il prevalere eccessivamente prolungato ed esclusivo dell'uno sull'altro può portare a diverse patologie. Secondo Pavlov, tuttavia, i diversi adattamenti cui il prevalere di un sistema sull'altro può condurre sono modificabili attraverso un apprendimento che, introducendo nuovi riflessi condizionati, muterà l'equilibrio (su questi principi infatti si baserà in gran parte lo sviluppo di alcune terapie in campo clinico). Estese anche al comportamento umano le teorie di Pavlov apparvero affini alle concezioni del materialismo dialettico e furono assunte come fondamento ufficiale della psicologia sovietica sia in campo teorico che nelle applicazioni pratiche della pedagogia, della psichiatria, dello studio del lavoro. Gli scritti di Pavlov contenenti le sue posizioni teoriche e i rendiconti dei suoi studi sono raccolti nell'edizione delle opere complete curata dall'Accademia delle scienze dell'Unione Sovietica; bisogna ricordare tuttavia in modo specifico almeno Le lezioni su/lavoro delle principali ghiandole gastriche 1 (I897) e la raccolta delle lezioni sui riflessi condizionati, la cui prima parte è Vent'anni di studio obiettivo sull'attività nervosa superiore degli animali (I923), mentre la seconda parte raccoglie gli studi sull'applicazione in campo psichiatrico della teoria dei riflessi condizionati. Ancora per quel che riguarda la psicologia russa di questo periodo va ricordata l'opera di Vladimir Michailovic Bechterev (I857-I927) più orientato verso la psichiatria e che continuò la battaglia contro la psicologia soggettivistica ed introspezionistica specialmente in Psicologia obiettiva (I 9 I o) e Principi generali della rijlessologia umana (I9I7)· Non fu uno sperimentatore, né respinse il concetto di coscienza, tuttavia sentì fortemente l'esigenza di una descrizione dei processi psichici unicamente in termini obiettivi. Continuò lo studio dei riflessi condizionati particolarmente per quel che riguarda il problema dell'apprendimento del linguaggio. 43
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Negli Stati Uniti l'esigenza di una psicologia obiettiva diede origine, come si è detto, al movimento behaviorista. Mentre da un lato esso risentì dell'influenza di Dewey, soprattutto quale mediatore, attraverso la psicologia funzionale, delle istanze dell'evoluzionismo e della dottrina dell'adattamento all'ambiente, dall'altro fu determinante l'ideale di scientificità cui miravano gli studiosi del comportamento animale nel loro ripudio di ogni indebita introduzione di concetti non osse:rvabili. Influenza decisiva sul behaviorismo ebbe infine la dottrina dei riflessi condizionati di Pavlov e di Bechterev e la loro rivolta antiintrospezionistica. Fondatore del behaviorismo è John Broadus Watson (1878-1958) che, come si è detto (vedi paragrafo vm) iniziò i suoi studi occupandosi di psicologia animale. Watson si propose la costruzione di una psicologia scientifica contrapposta al soggettivismo classico. Solamente metodi « obiettivi » avrebbero assicurato alla psicologia il raggiungimento di quei fini che egli reputava propri della scienza: la previsione e il controllo. « Obiettivo » era per lui un procedimento tale da consentire a diversi osservatori un accordo intersoggettivo riguardo ai medesimi oggetti di studio, mentre l'introspezione non usciva dalla sfera del soggetto. La fisiologia era per Watson la strada da seguire in questa trasformazione della psicologia; egli riteneva infatti, che la psicologia potesse essere ridotta alla fisica (i fenomeni psichici non sono che processi molecolari) previa la trascrizione dei processi psichici in processi fisiologici. Una delle sue prime opere, Behavior: an introduction to comparative psychology (Comportamento: una introduzione alla psicologia comparata, 1914) ripete l'affermazione che la psicologia animale deve essere obiettiva, sperimentale e non antropomorfizzante. Del pari obiettivo e sperimentale, si sostiene nella stessa opera, deve essere lo studio del comportamento umano. Successivamente in Psychology from the standpoint ofa Behaviorist (La psicologia dal punto di vista behavioristico, 1919) e in Behaviorism (Il behaviorismo, I 92.4) egli sviluppava le sue tesi fornendo un rendiconto del suo lavoro sperimentale nell'ambiente naturale e in laboratorio e concludendo con un rifiuto radicale del metodo introspettivo, della coscienza, oltre che dell'attività immaginativa e della mente stessa. Oggetto della scienza è il comportamento: da ciò consegue il rifiuto del dualismo di mente e corpo. La distinzione tra campo biologico e campo mentale è un falso problema perché, di fatto, solo il comportamento è osservabile e quindi scientificamente controllabile. Il comportamento non è che la risposta dell'organismo all'ambiente, risposta che si attua a vari livelli (livello dell'attività nervosa, ghiandolare, motoria) fino a giungere allivello massimo, costituito dal linguaggio, Watson affermò che «ogni comportamento, sia umano che animale, è analizzabile in termini di stimolo e di risposta, e l 'unica differenza tra uomo e animale ... è la complessità del comportamento ». Anche il linguaggio, tuttavia, è visto in termini puramente comportamentistici: dietro di esso non vi sono immagini mentali e il pensiero non è che un'« attività implicita 44
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della laringe ». La complessità del comportamento è descritta in termini di abitudini, integrazioni e modificazioni di reazioni semplici del tipo stimolo-risposta mediante una sostituzione di stimoli (egli adottò anche, in un secondo periodo, la terminologia pavloviana dei riflessi condizionati, sebbene di Pavlov respingesse le teorie neurologiche e tipologiche. Anche Bechterev fu da Watson criticato per la sua accettazione del concetto di mente, per quanto il metodo comportamentistico fosse assai vicino a quello della psicologia obiettiva dello psichiatra russo). Inizialmente Watson definì le emozioni e gli istinti come strutture innate di risposte che possono essere condizionate (le une interne, le altr.e esterne). Più tardi però egli ridusse di molto l'importanza delle strutture innate, affermando che il condizionamento, il quale può avere luogo anche prima della nascita, ha un ruolo preponderante. Tale affermazione era sostenuta anche dalle sue osservazioni e dai suoi esperimenti di condizionamento su neonati e bambini. Nelle sue formulazioni estreme il behaviorismo di Watson si rivelò piuttosto sterile e i suoi continuatori furono costretti ad allontanarsi, in misura più o meno rilevante, dal rigore metodologico iniziale, onde smuovere la teoria dall'immobilismo cui il rigido monismo del fondatore l'aveva confinata. Eliminato ogni antropomorfismo dalla psicologia animale, si era tuttavia ridotto l'oggetto della psicologia umana a quegli aspetti che più avvicinano l'uomo all'animale. L'uomo ~ppariva privo di mente, un semplice meccanismo. Le teorie fisiologiche di Watson, infine, non hanno mai ricevuto conferma. Dal punto di vista filosofico, d'altra parte, la teoria behaviorista trovò il suo sbocco più fecondo nelle elaborazioni datene dall'operazionismo e dall'empirismo logico, che ne posero in risalto l'esigenza di scientificità e di rigore. Le posizioni estreme del behaviorismo di Watson, tuttavia, non trovarono seguito in psicologia: le moderne teorie dell'apprendimento e la teoria comportamentale in campo clinico (behavioral theraP.y) sono più strettamente legate alle dottrine di Pavlov che a quelle di Watson.
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CAPITOLO TERZO
L'esigenza di una <<scienza sociale >>: il costituirsi della sociologia DI PIN A MA DAMI
I · PREMESSA
Nel XIX secolo in Europa, dopo la rivoluzione francese, che aveva ratificato un nuovo assetto economico e segnato internazionalmente sul piano politico la vittoria della classe borghese, detentrice dei mezzi di produzione, si assiste al consolidamento del dominio capitalistico. L'utopia dei pensatori della rivoluzione francese si era concretata in credenze !egalitarie, e nella fiducia che l'attuazione di tali ideali avrebbe condotto ad una società armoniosa. Contemporaneamente, la rivoluzione industriale dava nuove dimensioni alla classe proletaria salariata, sul cui lavoro si basava il profitto e l'accumulazione capitalistica e che già nella rivoluzione francese aveva avuto un sia pur relativo peso politico. L'affacciarsi alla ribalta politica di questa nuova classe, lungi dal dare ai rapporti economici un equilibrio stabile e definitivo, come era negli interessi della borghesia, creava delle contraddizioni profonde che mettevano in pericolo l'assestamento capitalistico già al suo sorgere. Con l'industrializzazione nasceva infatti il problema delle condizioni sociali del proletariato. In questa fase il proletariato mancava ancora di una sua organizzazione e, dato che il suo sviluppo va sempre di pari passo con lo sviluppo dell'industria, esso mancava anche delle condizioni materiali per la sua emancipazione. D'altra parte la letteratura rivoluzionaria del tempo, pur cosciente dell'antagonismo di classe e di molte contraddizioni esistenti, si limitava ad analizzarle in senso critico ma, non riuscendo ad avere una visione storica dello sviluppo del proletariato, ricercava una prospettiva al di fuori e al di sopra di questo stesso sviluppo. I suoi fini erano rivolti alla ricerca di una scienza sociale fondata su leggi che proiettavano il superamento della realtà immediata in condizioni immaginarie. I s~oi contenuti erano reazionari, in quanto il riferimento era alla società globalmente intesa e ai miglioramenti delle condizioni di esistenza del proletariato, concepito come classe che soffre, non come classe antagonista che ha potenzialmente la forza di lottare e di abbattere l'oppressione capitalista. A questa stregua le contraddizioni venivano risolte invocando come strumento adatto una scienza soda-
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le che si appellava ad una società senza distinzioni, ad una fantastica società futura. La sociologia risponde dunque a questa duplice esigenza: da un lato, il bisogno della classe al potere di conoscere le condizioni sociali del suo insediamento per meglio dominare gli antagonismi di classe; da un altro lato la prospettiva pacifica dei critici della società che, lasciando immutato lo status quo dei poteri migliorasse le condizioni del proletariato. L 'incontro di una esigenza profondamente reazionaria di dominio di classe e la mancanza di una visione storica dello sviluppo del proletariato convergono nella costituzione di una supposta scienza sociale che, rafforzando la coesione sociale, lasci immutati i rapporti di produzione. Socialismo utopistico e potere borghese concorrono alla edificazione di una pseudo-scienza: si costituisce la sociologia, la caratteristica della quale è la sua astoricità e cioè l'interpretazione del reale al di fuori del rapporto storico determinato. I suoi inizi sono empirici da un lato, con le grandi ricerche sociali in Francia e in Inghilterra, sistematici dall'altro con Auguste Comte e Herbert Spencer. II · IL SOCIALISMO UTOPISTICO
Charles-Auguste Comte ha gettato i fondamenti della sociologia in modo organico e sistematico, coniandone anche il termine; ma il suo contributo non può essere compreso se non ci si richiama alla situazione politico-economica della Francia e a coloro che immediatamente prima di lui hanno posto il problema dello studio della società con strumenti scientifici e postulato l'esigenza di una scienza sociale. Ci riferiamo soprattutto a Claude-Henri de Saint-Simon (di cui Comte fu per un certo tempo segretario e collaboratore) e a Charles Fourier. La nascita dell'industria capitalista moderna aveva definitivamente messo in crisi il vecchio ordinamento sociale e sanzionato la fine dell'organizzazione artigianale del lavoro, della tradizionale configurazione dei mestieri, e aveva generato una nuova classe sociale: il proletariato industriale urbano. Lo sviluppo dell'industria richiedendo grandi capitali, comportava l'accentramento della ricchezza nelle mani di pochi, mandava in rovina la piccola borghesia artigiana, e non lasciava posto ai piccoli produttori indipendenti. Il lavoro in fabbrica rendeva chiaro lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, determinava la divisione pa.rcellare del lavoro e il passaggio da condizioni stabili a condizioni insicure. L'organizzazione industriale aveva bisogno di masse operaie che dovevano vivere vicino al luogo di lavoro. Questo rendeva necessario l'addensarsi della popolazione, l'abbandono delle vecchie forme di vita ed esasperava il problema della separazione tra città e campagna. L'impiego delle donne e dei fanciulli nel lavoro di fabbrica metteva in crisi l'istituto familiare. Questa fase primitiva del capitalismo mancava di regolamentazioni e del minimo rispetto dei diritti dei lavoratori, i quali vivevano in condizioni sanitarie disastrose con salari bassissimi, e senza tutela alcuna. 47
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Nel campo politico la rivoluzione francese aveva segnato la vittoria della grande borghesia che cercava ora una stabilità di potere; ma le contraddizioni aperte, sia per la sopravvivenza di vecchie forme feudali, sia per l'organizzazione delle nuove forme borghesi rendevano precaria questa ricerca di stabilità; ne nacquero delle prolungate crisi politiche ed economiche che caratterizzarono la travagliata storia dell'assetto politico francese dopo la rivoluzione. Come aveva dimostrato il Terrore, le masse storicamente non erano ancora in grado di conquistare il potere perché la produzione capitalistica era solo agli inizi e non esisteva un proletariato organizzato capace di un'azione politica indipendente. Quest'ultimo si presentava come « un ceto oppresso sofferente al quale, nella incapacità in cui era di aiutarsi da se stesso, un aiuto poteva tutt'al più portarsi dall'esterno, dall'alto». (Engels) Le opere di Saint-Simon e di Fourier nascono dalla coscienza di questa realtà e ne sono una testimonianza. Lo stato secondo ragione auspicato dagli illuministi si era rivelato debole e contraddittorio, aveva acuito il contrasto tra ricchi e poveri, non aveva realizzato né gli ideali né le promesse proclamati dai filosofi della rivoluzione, aveva generato forme sociali di vita difficili e misere. Di conseguenza si erano prodotti uno scoraggiamento e una mancanza di fiducia nelle istituzioni politiche e amministrative che si erano rivelate incapaci di realizzare lo stato ideale fino allora vagheggiato. Come dice Engels: « Confrontate con le promesse degli illuministi, le istituzioni sociali e politiche istaurate con il trionfo della ragione si rivelarono caricature e amare delusioni.» Saint-Simon e Fourier attaccarono le vecchie teorizzazioni politiche e morali e attribuirono ad esse la responsabilità dello stato di cose che si era determinato. Rifiutando la metafisica, che per loro era retaggio di uno stadio non sviluppato della società, cercarono di fondare lo studio della società sulle scienze che in quel periodo avevano avuto un eccezionale sviluppo. La sfiducia nelle tradizionali forme di sapere e della conoscenza impostate su basi speculative li portò a concepire degli strumenti nuovi per affrontare il problema della società, strumenti non più desunti dalle vecchie filosofie politiche e morali, ma da esperienze scientifiche e ancorate alle solide basi dell'osservazione e dell'esperienza. Per spiegare lo stato presente dell'umanità era opportuno affrontare il problema della società e creare uno strumento di intervento efficace non più legato alle vecchie filosofie che nulla avevano prodotto. La soluzione doveva essere concepita in termini di società e non di individui, di scienza « positiva » e non « astratta »; bisognava creare un ordine nuovo legato a uno schema teorico e a un modello logico che servisse al progresso dell'umanità. L'analisi della società doveva partire da questi presupposti e trasformarsi in scienza sociale; inoltre le soluzioni date dovevano essere passibili di sperimentazione. La diagnosi che Saint-Simon e Fourier fanno delle contraddizioni esistenti è acuta ma essi
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non riescono a organizzarla in una prospettiva storica e una supposta scienza asciale ne diventa la utopistica soluzione. Questi scrittori che pur vedono nell'economia la base dell'organizzazione sociale non si rendono conto che lo sviluppo dell'industria contiene già in sé i prodromi di profonde contraddizioni che potranno essere risolte solo con l'organizzazione del proletariato e la rivoluzione socialista, che strapperà alla borghesia il suo potere. Abbiamo già sottolineato però che le condizioni storiche non erano mature per permettere agli utopisti di intravvedere i futuri possibili sviluppi della classe proletaria. Saint-Simon e Fourier colgono nella storia l'aspetto del progresso dell'umanità, già messo in luce da Condorcet, ma non la dialettica di questo progresso, e, rivolgendosi alla società globalmente intesa, finiscono per credere che le possibilità di sviluppo e di soluzione esistano all'interno stesso della borghesia . .La dottrina di Saint-Simon è stata già illustrata nel volume quarto: sottolineeremo come egli veda nell'epoca moderna lo sviluppo di una nuova epoca organica che deve organizzarsi intorno a una idea centrale, a un valore condiviso; questo valore Saint-Simon lo vede nello sviluppo dell'industria e nell'elevazione a ceto dirigente degli scienziati e dei tecnici. Egli divide il mondo tra lavoratori e oziosi e cerca di dimostrare che l'esistenza di una classe politica che non ha alcuna funzione utile porta sperpero e miseria, mentre una organizzazione della società con una gerarchia di scienziati e di tecnici tesa ad una maggior produttività avrebbe portato sicuri vantaggi sia alla classe borghese sia alla classe proletaria, e anzi la prima si sarebbe avvantaggiata del benessere della seconda. Il carattere utopistico di questo antistorico tentativo di stabilizzazione sociale, porterà Saint-Simon a tradire lo spirito razionalistico scientifico a cui egli si ispira e lo sbocco sarà quella nuova metafisica, che nulla ha più di scientifico, da lui annunciata nel Nuovo Cristianesimo. Egli traspone una contraddizione reale in una sognante utopia reazionaria che trasforma i problemi sociali in crisi delle coscienze individuali che sopperiscono ai mali della società in modo volontaristico e non scientifico. Charles Fourier (I772-I837) svela la miseria che sottende al progresso della società. Di questa egli critica ferocemente tutti gli aspetti, li denuncia come falsi e ipocriti e si rivolge allo studio del sistema generale della natura per cercare i fondamenti di sviluppo della società. Nella Théorie des quatre mouvements et des destinées générales (Teoria dei quattro movùnenti e dei destini generali, I 8o8) egli parte dalla constatazione che dopo la catastrofe del I 79 3 si vide chiaramente che i « lumi » acquisiti non avrebbero portato al bene sociale ma avevano prodotto calamità indicibili: prima fra tutte il pauperismo. Ne conseguiva che era necessario allontanarsi dalle strade seguite fino allora dalle « scienze incerte » (e per « scienze incerte » egli intende la morale, la politica, e l'economia) e rivolgersi alle «scienze fisse» che avevano posto l'os-
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servazione e la spe:rimentazione alla base dei loro :risultati. La storia, per Fou:rie:r, è passata attraverso quattro fasi di sviluppo: stato selvaggio, barbarie, stato patriarcale e civiltà; questa ultima coincide con lo stato borghese e si muove in un circolo vizioso dilaniato da contraddizioni irresolubili. Per superare questo circolo vizioso occorre che la :ragione si prefigga come unico studio :risoluto:re la teoria dei quattro movimenti (sociale, animale, organico e materiale) e quindi il sistema generale della natura. Procedendo attraverso il metodo del doute absolu, Fourie:r denuncia l'errore commesso dai filosofi illuministi cioè quello di aver posto in dubbio solo problemi di carattere secondario come la religione e non invece la necessità stessa delle scienze politiche e morali, a causa dei loro pregiudizi e del loro orgoglio. Attraverso il metodo dell'écart absolu :rifiuta le scienze incerte, non considera la civiltà come punto di arrivo e, vedendo nel« trono» e nell'« altare » delle inutili alternative, cerca una soluzione possibile sotto ogni tipo di governo. Come Newton e Leibniz nel campo materiale avevano svelato le leggi della gravitazione universale, così egli pensa di ricercare le leggi dell'armonia universale nel campo sociale. Le passioni dell'uomo fin qui dirette male debbono essere indirizzate verso il loro centro di gravitazione naturale, cioè l'armonia. La :realizzazione di questo ideale si compirà attraverso un esperimento verificabile, che è la creazione di falansteri; questi sono delle associazioni di Soo uomini e donne dove l'organizzazione, pu:r basandosi sull'interesse per il guadagno e per il piacere, viene a trasformarsi in un miglioramento per tutti nel lavoro collettivo e nella comunità. L'imitazione e la moltiplicazione per forza di attrazione di questi falansteri condurranno all'era felice, risparmiando all'umanità rivoluzioni sanguinose e lunghe pagine di storia di miseria e di dolore. La necessità dei falansteri è provata dal rapporto esistente tra associazioni agricole e monopolio commerciale, che esercita una funzione :repressiva ed è causa di gravi inconvenienti. Per eliminare questi inconvenienti si è dimostrata indispensabile la :rio:rganizzazione delle associazioni agricole, ma gli economisti indirizzati solo verso il perfezionamento industriale non hanno saputo impostare il problema del loro funzionamento. Esse debbono essere perciò studiate e concepite in modo « scientifico » sia riguardo al numero dei partecipanti sia riguardo alla loro organizzazione. Fourier costruirà un sistema prendendo a prestito le classificazioni matematiche e gli strumenti scientifici elaborati dalle « scienze fisse ». Egli tenterà inoltre di creare personalmente un falansterio a Condé-sur-Vire nel 1832 .. Nel tentativo di eliminare la miseria presente Fourier si rifugia in fantasticherie utopistiche :ricadendo nella irrazionalità e nella mancanza di scientificità. Così la sua costruzione risulta a sua volta una « scienza incerta » o meglio una pseudo-scienza astratta. Malgrado le carenze oggettive di queste visioni, questi uomini ci hanno lasciato un'ottima documentazione sulla realtà a loro contemporanea. Saint-Simon 50
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aveva capito che l'economia era un momento determinante della sua epoca; Fourier aveva acutamente denunciato i mali di cui era gravido il nuovo stato sociale. La loro esigenza di cercare degli strumenti razionali per analizzare la società in cui vivevano era legittima, ma essi non seppero sollevarsi all'ampiezza di una visione dialettica dell'uomo e della storia e non individuarono la possibilità rivoluzionaria della contraddizione tra proletariato e borghesia. Lo stesso loro bisogno di un ordine sociale definitivo si trasformerà in Comte in un piano organico funzionale al mantenimento dello status quo. La borghesia si approprierà di questa teoria e cercherà di definirla come « scienza razionale » per dimostrare che le contraddizioni al suo interno sono solo delle disfunzioni, passibili di superamento nella realizzazione del suo sistema. III · CHARLES-AUGUSTE COMTE
La valutazione critica del pensiero di Comte rispetto alla storia della sociologia deve necessariamente tener conto del fatto che « il fondatore della sociologia » non è un « sociologo » nel senso che oggi si attribuisce a questo termine. Comte concepisce la sociologia come la scienza dei fenomeni sociali e dei rapporti umani, ma la società stessa è considerata all'interno di un sistema di valutazione e comprensione di tutta la storia del pensiero. La preoccupazione di Comte di valutare ogni fenomeno con metodo positivo, scevro cioè da implicazioni di carattere metafisica, porterà in seguito alla misurazione del fatto sociale attraverso parametri oggettivi e assimilabili ai metodi delle scienze naturali (che per Comte sono già affrontate con metodo positivo), ma in Com te la sociologia non è una scienza autonoma bensì il compendio e il punto di arrivo finale di tutte le scienze. Vedremo meglio in seguito le ragioni di questa affermazione; ciò che importa sottolineare è il differente significato che ha per Comte la sociologia rispetto a coloro che dopo di lui si dedicheranno alla vera e propria definizione del campo di indagine e dei metodi che le sono propri. Nel volume quarto si è già parlato lungamente della filosofia di Comte e del positivismo; qui noi ci riferiremo soprattutto a quegli aspetti di Com te che serviranno in seguito come giustificazione « razionale » e « scientifica » per la creazione della sociologia vera e propria. Abbiamo già visto come coloro che in seguito verranno chiamati socialisti utopisti hanno reagito nei confronti della società industriale e come la delusione dello stato secondo ragione li aveva spinti a considerare che i mali presenti della società dovevano essere affrontati con strumenti nuovi che essi indicavano nella prospettiva di una scienza sociale, che si ispirasse nei metodi alle scienze naturali, che fosse come esse « esatta », che si articolasse intorno ad un « principio 51 www.scribd.com/Baruhk
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unico » come era stata la legge di gravitazione per le scienze naturali; avevano denunciato le contraddizioni tra l'affermazione della società industriale e i mali che essa generava, tra l'avanzare del progresso tecnico e la non corrispondenza di un miglioramento nelle condizioni di vita dei lavoratori, era stata adombrata nell'economia e nei rapporti di produzione una fonte delle contraddizioni e dei mali della società e perfino la proprietà era stata posta sotto accusa se non nel suo diritto di esistenza, almeno nei suoi modi. Essi però non erano andati al di là della denuncia delle condizioni della società a loro contemporanea e le fantasticherie utopistiche da loro create avevano poco a che fare con i presupposti razionali a cui pure avevano voluto ispirarsi. Carote mutua dai socialisti utopisti e in particolare da Saint-Simon l'esigenza di una scienza sociale e si accinge alla costruzione di essa per dare una solida base alla riorganizzazione della società. Ma se da Saint-Simon Carote deriva l'esigenza di una scienza sociale, da Condorcet e dagli illuministi mutua la nozione di progresso e in questa duplice prospettiva concepisce un sistema organico che, tenendo conto dei risultati delle scienze in continuo progresso, dia una prospettiva di equilibrio e di stabilità. Carote afferma che il problema sociale è tale che non può essere risolto immediatamente, che occorre risolvere prima altri problemi di ordine teorico e che la nuova organizzazione sociale deve poggiare su basi scientifiche, deve soddisfare alle due esigenze fondamentali del cammino dell'umanità: quelle dell'ordine e del progresso. Le soluzioni alle crisi presenti non possono essere empiriche o immediate come molto spesso i politici credono, ma debbono essere demandate alla scienza, che ·è previsione e quindi azione, quando la riflessione scientifica avrà indicato a cosa tendeva il cammino dell'uomo, allora solamente si potrà ancorare l'organizzazione sociale a qualche cosa di stabile e definitivo tale, che si compia il disegno a cui la stessa umanità era indirizzata. Comte vuole creare una politica positiva, che abbia la ragione come guida, che si ispiri ai principi scientifici e che sia coerente nelle sue realizzazioni e nelle sue prospettive. Ciò rappresentava a suo giudizio la risposta più soddisfacente allo stato di disorganizzazione e di anarchia in cui si dibatteva la società del suo tempo; tale condizione era conseguenza della rivoluzione francese e, piu in generale, della critica operata dalla cultura settecentesca. I politici si rifiutavano di considerare i fenomeni sociali nelle loro implicazioni teoriche più ampie; essi prospettavano risposte empiriche e soluzioni immediate ai problemi della società. La reale soluzione richiede invece di essere affrontata con l'ausilio di strumenti teorici adeguati. L'efficacia e la persuasività di tali strumenti viene posta in rilievo da Carote mediante un'accurata analisi dello sviluppo storico della società stessa. Egli ritiene che ormai sia possibile studiare la società con l'aiuto del metodo positivo, con un metodo cioè libero da implicazioni metafisiche, per cui si cessa di ricercare le cause dei fenomeni e se ne ricercano invece le leggi. L'età p.
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presente dimostra secondo Comte che il tipo di società teologico-militare che era stato predominante ma ormai in disfacimento, deve essere sostituito da una società nuova determinata dallo spirito positivo. Ciò viene provato sulla base della legge che Comte pensa di aver scoperto, la legge dei tre stadi, per cui l 'umanità passa necessariamente attraverso tre fasi: la fase teologica, quella metafisica e quella positiva. A ciascuna fase corrisponde un differente modo di riflessione sulla società; oggi l'umanità ha raggiunto la sua piena maturità perché ha visto nella scienza l'unico strumento capace di cogliere gli sviluppi della storia e del pensiero. La verità della legge dei tre stadi è dimostrata anche dall'evoluzione delle scienze che Comte classifica secondo un ordine che va dalla più semplice e più analitica (matematica) alla più complessa e più sintetica (sociologia). Ogni scienza ha progredito attraversando le tre fasi successive che si ripetono per ogni singola scienza come per la società nel suo complesso. Della legge dei tre stadi e della classificazione delle scienze secondo Comte si è già lungamente parlato nel capitolo xv del volume quarto; noi qui richiameremo il fatto che per Comte la sociologia è l'ultima tra le scienze, quella che può nascere al momento in cui l'umanità ha raggiunto la più alta possibilità di astrazione e di riflessione, cioè nel momento in cui prende per oggetto la sua stessa storia e la sua organizzazione. La sociologia, che Comte chiama in un primo momento fisica sociale, utilizza i risultati raggiunti dalle altre scienze, dimostra che il cammino dell'uomo è unitario e permette di capire meglio il passato stesso chiarendo quali sono state le leggi del progresso. La fiducia nella sociologia positiva deve scaturire, secondo Comte, dalla presa di coscienza dello stato di irrimediabile anarchia in cui si trova la società a lui contemporanea. Questo stato di anarchia è la conseguenza di un lungo processo storico che ha portato a deteriorarsi sempre di più le organizzazioni sociali conseguite allo stadio teologico contemporaneamente all'affermarsi dei principi dello stadio metafisica. Ciò che è caratteristico è il fatto che lo stato di grave confusione in cui versa la società cui Comte fa riferimento scaturisce principalmente dalle contraddizioni sorte all'interno della visione teologica che non trovano soluzione in quella metafisica. In effetti, la sola organizzazione coerente della società è quella teologica; la politica metafisica svolge una funzione eminentemente critica ed è incapace di proporre proprie soluzioni organiche. Ne risulta che, al deteriorarsi della coerenza e dell'armonia teologica, frutto della critica metafisica non è subentrata una nuova organizzazione della società e si è giunti a uno stadio ibrido della vita sociale caratterizzato necessariamente dalla sfiducia e dalla incapacità di operare secondo prospettive unitarie e sistematiche. Così lo spirito teologico si muove continuamente in contraddizioni; non c'è dubbio che lo sviluppo delle scienze, dell'industria e delle arti è stata la causa principale della crisi dello spirito teologico, ma la politica teologica non può opporsi a questo sviluppo perché non può impedire il cammino della storia e il progresso dell'uomo ed è quindi costretta 53
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continuamente da questo sviluppo a far concessioni che risultano contradittorie con i principi cui si ispira. Cosl lo spirito metafisica, nel suo momento più alto, nella fase più avanzata della rivoluzione francese, si è dimostrato incapace di ricostruire una unità organica ed ha proposto soluzioni ancor più utopistiche, incoerenti e superate di quelle teologiche; infatti lo stato di natura non appare altro che una trasformazione della condizione dell'uomo prima del peccato originale; il richiamo alla società greca e romana, le condanne dello sviluppo industriale, come le numerose derivazioni dallo spirito teologico (la dottrina della religione naturale per esempio) sono tutte manifestazioni gravi di incoerenza e indicative della incapacità intrinseca dello spirito metafisica a proporsi la riorganizzazione della società; una volta che l'antico regime politico è stato quasi completamente distrutto e che la dottrina critica ha assolto il suo compito, la sua incapacità da un punto di vista filosofico di procedere in modo coerente e sistematico diventa di grande ostacolo all'affermazione dei principi razionali. Il pensiero metafisico per Comte non è altro che una tappa necessaria del cammino dell'intelligenza umana, momento che lega la distruzione dell'antico ordine e l'affermazione del nuovo, ma il prolungamento di un simile stato può diventare negativo e ritardare l'avvento di una nuova armonia. Il modo che ha Comte di intendere lo sviluppo del pensiero discende dalla particolare concezione che Comte ha della ragione. Secondo Comte infatti è impossibile che il pensiero critico possa assurgere a ordine normale e permanente perché questo vorrebbe dire prendere l'eccezione per la regola in quan.to l'attività normale della ragione ha bisogno di punti fermi su cui far perno dogmaticamente; lo scetticismo invece costituisce una sorta di perturbazione patologica dell'attività della ragione (normali sono invece le conoscenze che si pongono secondo un piano organico e coerente, come quello teologico e positivo) necessaria, ma che occorre superare al più presto. Comunque, da un punto di vista più ampio, spirito teologico e spirito metafisico presentano la comune caratteristica di possedere un metodo fondato più sull'immaginazione che sull'osservazione e una dottrina volta esclusivamente alla ricerca di nozioni assolute. Tipico dello spirito positivo è invece la relativizzazione delle conoscenze. Il passaggio dall'assoluto al relativo è una dei più importanti risultati a cui è giunto il pensiero scientifico ed è da attribuirsi al passaggio dallo studio delle cause, necessariamente assoluto, allo studio delle leggi dei fenomeni, necessariamente relativo. « Ogni studio della natura intima degli esseri, delle loro cause prime e finali ecc., deve evidentemente essere sempre assoluto, mentre ogni ricerca delle sole leggi dei fenomeni è eminentemente relativa, perché essa presuppone immediatamente un progresso continuo della riflessione subordinata al perfezionamento graduale dell'osservazione, senza che l'esatta verità possa essere mai, in alcun genere, perfettamente svelata: di modo che il carattere relativo delle conoscenze scientifiche è necessariamente inseparabile dalla vera nozione delle 54
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leggi naturali, nello stesso modo che la chimerica tendenza alle conoscenze assolute accompagna spontaneamente un qualsiasi impiego di finzioni teologiche o entità metafisiche. » La relatività della conoscenza è dunque un'altra caratteristica che accompagna e caratterizza il pensiero positivo. Una volta affermata la superiorità dello spirito positivo sugli altri momenti e la necessità di un'affermazione generalizzata del medesimo che permetta la soluzione all'anarchia presente e la vera riorganizzazione della società, Comte si accinge a costruire la sociologia positiva, l'ultima e la più complessa delle scienze. Gli ultimi tre volumi del Cours de philosophie positive, l'opera più importante di Comte, sono interamente dedicati alla sociologia; essa si compone di due differenti branche: la statica e la dinamica sociale che corrispondono alle due categorie dell'ordine e del progresso. Le nozioni di ordine e di progresso sono essenziali per Comte, sono gli strumenti metodologici che gli permettono di analizzare la società; essi sono due aspetti coesistenti e non alternativi, come invece per lungo tempo si è creduto; infatti solo nel sapere positivo essi si integreranno mentre ancora sembrano essere contraddittori laddove i conservatori si rappresentano come i difensori dell'ordine e i rivoluzionari gli assertori del progresso. Ciò contrasta con la visione che ha Comte della totalità del fatto sociale nel suo complesso: «L'ordine e il progresso, che l'antichità riteneva come essenzialmente inconciliabili, costituiscono sempre di più, a causa della natura della civilizzazione moderna, due condizioni ugualmente imperiose, di cui l'intima e indissolubile combinazione caratterizza ormai sia la difficoltà fondamentale che la principale risorsa di ogni autentico sistema politico. Nessun ordine reale può essere stabilito, né soprattutto durare, se non è pienamente compatibile con il progresso; nessun grande progresso può effettivamente essere raggiunto, se non tende alla fine ad un evidente consolidamento dell'ordine.» (Il riferimento alle scienze biologiche è significativo « le nozioni reali di ordine e di progresso debbono essere in fisica sociale, rigorosamente indivisibili così come lo sono in biologia le nozioni di organizzazione e di vita, da cui agli occhi della scienza, evidentemente derivano». Ne consegue che ogni scissione in biologia come in.sociologia sarebbe inopportuna e irrazionale.) La statica e la dinamica sociale sono due elementi connessi entro la visione del tutto della società, che deve essere, qui come sempre, -l'assunzione fondamentale e primaria per Comte. La dinamica sociale è lo studio della società, l'indagine volta a determinare l'evoluzione necessaria della società attraverso la legge dei tre stadi.: La statica sociale è lo studio del modo in cui in ogni epoca l'umanità si è organizzata intorno a una idea centrale e come questa « idea centrale» ha determinato «il consenso» da parte di tutta l'umanità (La religione nello stadio teologico era il perno di coesione della società, essa generava il « consenso » e determinava la stabilità della società).
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« Lo studio statico dell'organismo sociale deve coincidere al fondo, con la teoria positiva dell'ordine, che non può in effetti consistere in fondo altro che in una giusta armonia permanente a diverse condizioni di esistenza delle società umane; si vede, parimenti, ancora più sensibilme~te che lo studio dinamico della vita collettiva dell'umanità costituisce necessariamente la teoria positiva del progresso sociale che, scartando ogni vano pensiero di perfezione assoluta e illimitata, deve naturalmente ridursi alla semplice nozione di questo sviluppo fondamentale. » Attraverso lo studio della statica e dinamica sociale apparirà chiaro lo stadio positivo come punto di arrivo della società; la generalizzazione del pensiero positivo permetterà il ricostituirsi dell'ordine e questo maggior livello di sviluppo raggiunto provocherà la fine dell'anarchia di cui è preda la società in mancanza di un « consenso » generale. Questo processo storico è già in atto poiché l'uomo tende a una solidarietà naturale spontanea; occorre solo che esso sia reso esplicito. C'è infatti un'armonia organica tra le parti del sistema sociale, specifica di ogni determinato stadio dello sviluppo, riflesso però di un'armonia più ampia e superiore che sussiste sempre anche nelle epoche rivoluzionarie propriamente dette. È chiaro quindi che statica e dinamica tendono a comporsi in una prospettiva organica e unitaria, a profitto della visione armonica generale. Si tratta di un rapporto derivato spontaneamente da una struttura naturale originaria che si deve assumere e perfezionare continuamente. Comte con questa sua prospettiva realistica si riconnette alla problematica generale dell'illuminismo. «La nozione dell'armonia sociale conduce direttamente a considerare l'ordine artificiale e volontario come un semplice prolungamento di quell'ordine naturale e involontario verso cui tendono senza posa necessariamente, sotto un rapporto qualunque, le diverse società umane. » Così, le diverse strutture sociali si realizzano, ad ogni stadio dello sviluppo, nel modo più avanzato possibile e sono manifestazioni necessarie di un movimento spontaneo, naturale; le anomalie che si possono riscontrare non inficiano la costante regolarità dell'evoluzione. I fenomeni sociali, come tutti i fenomeni, sono sottoposti a leggi invariabili e necessarie; le norme che regolano la coesione dei vari momenti dello sviluppo della società, come quelle che sono alla base dello sviluppo stesso sono scritte nella natura; la loro individuazione coincide con il progressivo disvelarsi della realtà sociale. Una volta che sarà ricostituito l'ordine intorno alla idea centrale, il consenso generato permetterà di dirigere le ricerche verso un sempre maggior sfruttamento delle risorse naturali e un aumento costante della ricchezza. Questa prospettiva si colloca all'interno del riassestamento dei :rapporti sociali creati dalla società industriale che è la realizzazione che si accompagna al pensiero positivo. La società industriale che implica l'organizzazione :razionale del lavoro sembra essere fonte di contraddizioni tra imprenditori e lavoratori solo perché ambedue non si ispirano nello svolgimento delle loro funzioni ad una politica positiva.
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«L'industria moderna tende evidentemente a espandere continuamente le sue imprese, ogni estensione raggiunta determina subito la nascita di una superiore. Ora questa tendenza naturale, lungi dall'essere sfavorevole ai proletari, è la sola che permetterà la sistemazione della vita materiale, quando sarà regolata da un'autorità morale. Poiché è unicamente a dei chefs puissants che il potere filosofico imporrà dei reali doveri abituali in favore dei loro subordinati. » Un'autorità morale deve regolare i rapporti tra gli uomini e imporre i principi dell'ordine universale. Gli interessi tra imprenditori e lavoratori dovranno convergere e questo impedirà l'aggravarsi di crisi e nuove guerre. Questa contraddizione è infatti esaltata e messa in luce dai « metafisici » che nella loro opera critica tendono alla distruzione e non all'ordine, e incapaci di soluzioni reali prospettano soluzioni utopiche quali il «comunismo». L'autorità morale è retaggio dei « savants » che forti del « pouvoir philosophique » determineranno le funzioni sociali di ciascuno. Nel Cours de politique positive Comte aggiungerà alla classificazione delle scienze l'etica. L'ultima parte del pensiero di Comte, come è stato già riferito nel capitolo anzidetto, è stata oggetto di molte discussioni e varie sono state le interpretazioni sul significato delle ultime affermazioni comtiane; noi non affronteremo questa disputa né ripeteremo affermazioni già esposte. Ai fini della concezione che Comte ha della sociologia non ci sembra che le sue ultime affermazioni siano contraddittorie con la sua concezione della medesima né che tolgano nulla al significato che Comte dà al termine sociologia. In realtà la religione della scienza creata da Comte con usi e costumi rigidamente definiti non è contraddittoria con la visione del mondo che egli ha, perché oggetto di venerazione sarà sempre la scienza stessa se pur trasferita nel campo del sentimento. Anzi questa stessa coerenza, o se si vuole ambivalenza, è sempre presente nel pensiero sociale di Comte; si ha nel momento stesso in cui Comte afferma che la forza di coesione di una società risiede nel consenso generale a una concezione del mondo. Questo consenso assurge allora a forza assoluta e diventa per ciò stesso un imperativo di carattere religioso; ma tale sentimento di partecipazione e di sottomissione non ancorato a elementi strutturali e oggettivi, diventa difficilmente assimilabile alla ragione. In realtà ciò che Comte afferma nella statica sociale, che la società si è sempre organizzata intorno a un sistema condiviso di valori morali, generalizzato e determinante il consenso, è una delle affermazioni essenziali di Comte. Se indubbiamente ha capito e sottolineato l'importanza della religione nello stadio teologico come fattore di coesione generante ordine e stabilità di potere, assumendo poi questo elemento a principio generale, è caduto nell'errore di credere che nella società industriale era fattore determinante per la società un'acquisizione intellettuale, quale quella del metodo di analisi positiva, piuttosto che la contraddizione creata dal conflitto capitale-lavoro. Tenuto conto di questo è evidente che la filosofia di Comte diventa, nell'analisi reale della
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società industriale, una visione parziale e incapace di cogliere il tessuto connettivo dei rapporti sociali. In questo senso i sociologi che verranno dopo di lui erediteranno da Comte gli elementi meno significativi del suo pensiero e attaccando in lui «il filosofo» daranno della sua opera una interpretazione riduttiva. L'entusiasmo di Comte per il pensiero positivo darà origine a una pseudoscienza apologetica della società borghese che nasconderà dietro l'obiettività della scienza i meccanismi di conservazione e di sfruttamento. Gli eredi di Comte in sociologia abbandoneranno lo storicismo e la finalizzazione della scienza e accoglieranno di lui proprio quella costruzione di ingegneria sociale che accettando la realtà come un punto d'arrivo indiscusso cercasse i modi in cui si determina «il consenso». Per molti sociologi, l'autorità morale può veramente fugare il fantasma della lotta di classe. IV · HERBERT SPENCER
La sociologia di Spencer nasce in una situazione politico-culturale assai differente da quella in cui era maturato il pensiero di Comte; essa riflette la tradizione culturale inglese specifica, differente da quella francese, e le conseguenze derivate dalle diverse modalità di ascesa al potere della borghesia inglese rispetto a quella francese. La borghesia francese infatti era diventata classe dominante di recente attraverso una rivoluzione violenta che aveva sconvolto l'assetto sociale esistente, mentre la borghesia inglese aveva già da due secoli preso il potere e lo aveva consolidato costruendo la società più avanzata nel processo industriale; inoltre la rivoluzione francese fu essenzialmente laica e combatté la religione cattolica perché strettamente legata al vecchio ordine sociale e perché oscurantista e antiprogressista, mentre la religione inglese protestante esaltava maggiormente i valori dell'individuo e non aveva costituito un grande sostegno politico-economico del feudalesimo. Se quindi per Comte la sociologia deve dare una risposta ai disordini e riassestare un equilibrio sociale che è minacciato (questo equilibrio può essere raggiunto attraverso l'affermazione dello spirito scientifico), per Spencer la sociologia deve giustificare l'ordine .già esistente, esaltando la funzione dell'individuo e del libero scambio e nello stesso tempo deve aprire alle innovazioni la società borghese lasciando immutata la sua ideologia e la sua sicurezza. Questa è la matrice di quella conciliazione operata da Spencer di cui si parlerà nel capitolo v del presente volume. Ai fini di questo capitolo l'interesse sarà appuntato sulla visione che Spencer ha della sociologia di cui fu, insieme a Comte, uno dei padri. La sociologia per Spencer è la scienza che verifica la legge generale dell'evoluzione nel campo dei fenomeni sociali. Come si vedrà nel capitolo già menzionato, secondo lui i principi più generali della scienza moderna sono quelli della conservazione della materia e dell'energia, nonché la legge dell'evoluzione che
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regola la continua ridistribuzione di materia e di energia. Questa legge è applicabile ad ogni specie di fenomeni; come in ogni altra scienza è infatti il principio evoluzionistico che potrà chiarire la genesi e lo sviluppo dell'organizzazione sociale. Il principio evoluzionistico si estende dunque nelle specie inorganica, organica e superorganicache sono momenti dell'unico sviluppo generale della natura. L'evoluzione superorganica riguarda i fenomeni psichici e si manifesta negli aggregati organici più sviluppati, nei quali è presente qualche forma di cooperazione, ma « quella forma di evoluzione superorganica che immensamente supera tutte le altre, in estensione, in complessità, in importanza è mostrata dalle società umane nei loro sviluppi, nelle loro strutture, nelle loro funzioni, nei loro prodotti... i fenomeni in essa compresi sono raggruppati sotto il nome di sociologia ». Dato che ògni specie di evoluzione si attua sempre attraverso il passaggio dal semplice al complesso, dall'omogeneo all'eterogeneo, dall'indefinito al definito, il parallelo tra sviluppo inorganico, organico e superorganico è per Spencer una costante che serve a dimostrare l'unità del processo e la possibilità di creazione di una scienza deduttiva. L'evoluzione sociale pur non sottraendosi alle stesse leggi delle altre specie, ha però la caratteristica di essere la più complessa perché avviene a un grado di sviluppo già raggiunto dalle altre. La genesi della società viene descritta da Spencer relativamente ai fattori che ne condizionano il sorgere. I fattori originari primi si riferiscono sia al mondo inorganico e organico sia alla natura dell'uomo, ai suoi sentimenti, alle sue emozioni. Nei suoi stadi primitivi l'evoluzione sociale dipende da una combinazione di circostanze favorevoli e i fattori esterni quali il clima, la flora, la fauna, il suolo e la superficie sono fondamentali perché generano le condizioni che permettono la sopravvivenza. L 'uomo primitivo è in preda a sentimenti ed emozioni immediate ed impulsive, ma è suscettibile di sviluppo e capace di accumulare progressivamente esperienze e riflessioni sulla sua stessa natura e su quella delle cose circostanti. Così il timore dei vivi è il sentimento che origina il potere politico, mentre il timore dei morti dà origine alle credenze religiose. Il processo evolutivo della lotta per la vita si snoda attraverso l'azione combinata dei fattori interni ed esterni all'uomo; la capacità di accumulazione spiega la genesi di tutti quei prodotti tipici dell'evoluzione superorganica, come il linguaggio, la scienza, l'arte. L'evoluzione rende l'uomo atto a modificare l'ambiente circostante e a cooperare con gli altri. Dalla prima forma di cooperazione esistente che è la famiglia, all'orda primitiva, alla tribù fino alle società più evolute le trasformazioni si svolgono secondo una prospettiva di sempre maggior integrazione che rende necessarie strutture e funzioni sociali sempre più elaborate, che evolvono verso una complessità crescente e una differenziazione progressiva. La società pur essendo una entità che ha una sua propria vita, nella misura in cui esistono relazioni permanenti tra le parti che contribuiscono alla conservazione dell'ordinamento, viene però da 59 www.scribd.com/Baruhk
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Spencer concepita essenzialmente per il vantaggio dei suoi membri. La sociologia di Spencer è fortemente individualistica: la società è spiegata solo attraverso i rapporti tra i suoi membri. « La scienza della sociologia, muovendo dalle unità sociali così condizionate, e così costituite in quanto al corpo, in quanto alle emozioni, in quanto all'intelligenza, e così imbevute di certe idee originariamente acquisite e dei correlativi sentimenti, ha il compito di spiegare tutti i fenomeni che risultano dalle loro azioni combinate. » Al sorgere dell'organizzazione sociale si delineano due differenti funzioni relative ai due caratteri della lotta per la vita: la necessità di aggredire e di difendersi e il bisogno di sostentamento. « Quando dalle tribù primitive, punto differenziate, si passa alle tribù immediatamente superiori, si trovano classi di padroni e schiavi; padroni che, come guerrieri, esercitano le attività difensive e offensive della tribù, e quindi sono particolarmente in relazione con le forze circostanti; schiavi che esercitano attività interne per il sostentamento generale, in primo luogo dei loro padroni, e in secondo luogo di loro stessi. » Da questa semplice struttura primitiva sorgono in virtù del processo evolutivo funzioni sempre più differenziate e strutture sempre più complesse. Si originano sistemi regoladvi e nutritivi più elaborati. La classe dominante che presiede al sistema regolativo organizzerà l'apparato statale, mentre il sistema nutritivo si differenzia in sistema produttivo e sistema distributivo con la creazione di canali di comunicazione; l'organizzazione religiosa sarà fornita di gradi gerarchici e cerimoniale, mentre la classe dominata moltiplicherà le sue funzioni sempre in posizione subordinata. La classificazione dei tipi di società viene condotta sulla base del genere predominante di attività sociale cui corrisponde una determinata fase dell'organizzazione della società. I due tipi sociali che si contrappongono essenzialmente sono il militare e l'industriale. La società militare tende a sviluppare strutture atte a compiere azioni offensive c difensive. Nella società industriale saranno predominanti le strutture che si occupano del sostentamento e le strutture difensive e offensive sono mantenute al solo fine di proteggere le attività industriali. È ovvio che i due sistemi coesistono sempre ma variano le proporzioni tra i due. Il tipo militare corrisponde a un momento arretrato dello sviluppo sociale. Caratteristica della società militare è l'accentramento dell'autorità, la cooperazione forzata tra gli individui, la forte disciplina, l'organizzazione della produzione vista solo in funzione delle strutture governative e militari, un clero fortemente gerarchizzato, e una religione vendicativa. « Questa struttura, che rende una società atta all'azione combinata contro altre società, è associata alla credenza che gli individui esistano a vantaggio del tutto, e non il tutto a vantaggio degli individui. » La società industriale ha invece strutture e funzioni molto diverse. Il governo politico è rappresentativo, si ha un alto senso dei diritti personali, una maggiore libertà politica, la cooperazione è volontaria. « Dalla primitiva condizione di vita predatoria, in cui il padrone mantiene gli schiavi affinché lavorino per lui, si 6o
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passa per gradi di libertà crescente fino a una condizione come la nostra, in cui imprenditori e lavoratori, compratori e venditori, sono tutti completamente indipendenti, e in cui v'è facoltà illimitata di costituire associazioni, che si governano con principi democratici.» Gli affari si effettuano attraverso il libero scambio, l'organizzazione religiosa è meno gerarchizzata, si hanno pluralità di credenze; in genere i rapporti tra cittadino e stato sono opposti a quelli esistenti nella società militare: «Invece della teoria che il dovere dell'obbedienza all'agente del governo è illimitato, sorge quella che suprema legge è la volontà dei cittadini, della quale l'agente del governo non è se non l'esecutore.» Spencer è un convinto assertore della società industriale; la vede come affermazione dell'individuo, trionfo della democrazia e della libertà e premessa di conquiste ancora maggiori. Prospettando una società futura come ulteriore sviluppo di quella industriale, contrappone alla credenza (propria di questa società) «la vita è fatta per il lavoro», la credenza « il lavoro è fatto per la vita». Abbiamo già detto come la sociologia di Spencer è strettamente collegata alla società inglese del suo tempo. Egli risente dell'ideologia della classe liberaiborghese, utilitarista e individualista, che plaude al libero scambio e afferma la superiorità della democrazia parlamentare. È soprattutto questo il lato importante della concezione di Spencer, lo spirito che pervade la sua opera non molto rigorosa, ma aderente al bisogno del suo tempo. La filosofia della storia di Comte pur nei suoi intenti indubbiamente conservatori, aveva elaborato, con rigore e coerenza, una prospettiva capace di cogliere e valutare tutto lo sviluppo della storia e del pensiero; Spencer invece costruisce tutta la sua opera sulla base dell'estensione generica e impropria del principio dell'evoluzione dalla biologia alla società, e coglie di quest'ultima gli aspetti superficiali ed esterni. Egli manca di un'approfondita analisi storica, riduce i fenomeni sociali a rapporti di relazioni all'interno della società, ricerca nel passato solo una verifica empirica di costanti parziali e astoriche, dà alla sociologia un compito eminentemente descrittivo e frantuma la realtà nei vari aspetti senza un collegamento storico. Non ha capito lo sforzo di Comte di cercare le leggi del processo storico in una visione unitaria, coerente e finalizzata, volta ad affermare una cultura laica e libera da ogni substrato metafisica. Pur ammettendo la relatività della conoscenza, Spencer riconosce un ruolo alla religione, descrive e non cerca nessi, giustifica e non finalizza; la stessa distinzione tra società industriale e militare è vaga e imprecisa senza una indagine storica che realmente dimostri l'avvicendarsi di questi tipi. Oggi della sua opera è rimasto poco; è però vero che insieme a Com te ha determinato lo sviluppo della sociologia che è rimasta fondamentalmente descrittiva e incapace di cogliere il reale senso del cammino della storia. La società americana, la cui ideologia molto deve a Spencer lo ha per lungo tempo glorificato, come assertore dei diritti dell'individuo, come sostenitore degli astratti ideali della libertà e della den;ocrazia. 61
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V · ÉMILE DURKHEIM
Con Émile Durkheim la sociologia precisa la sua fisionomia e acquista una sua autonomia. Comte era ancora un filosofo della storia, Spencer applica in modo generale la legge dell'evoluzione alla società, Durkheim entra invece nel vivo dei fenomeni sociali, delimita un campo di indagine e lo affronta con strumenti propri. Egli, pur riconoscendo a Comte e a Spencer di aver impostato il problema, contesta loro di non essere usciti da generalizzazioni sulla società, rimprovera loro di essere ancora filosofi e come tali, causa il loro soggettivismo, viziati da implicazioni metafisiche. Rivaluta l'empiria come fonte di conoscenza e l'uso di strumenti specifici e adeguati al campo che vuole studiare. Si riallaccia a Comte e a Spencer ma se ne discosta insieme; ha ancora bisogno di affermazioni teoriche generali sulla società, ma le verifica subito empiricamente nell'analisi di fenomeni sociali come il suicidio e la divisione del lavoro. Durkheim è già un « sociologo » moderno, con tutti i limiti che ciò comporta e con l'esposizione del suo pensiero entriamo nel vivo della sociologia moderna. Abbandonata la ricerca di leggi dello sviluppo storico, viene esaltata la funzione descrittiva dei singoli fenomeni sociali e dei nessi causali che essi presentano. Émile Durkheim nasce a Épinal da famiglia ebrea nel I858. Studia filosofia a Parigi all'École normale. Molto presto si dedica allo studio delle scienze sociali, nel I 887 a Bordeaux ottiene la cattedra di scienze sociali. Nel I 893 sostiene la sua tesi di dottorato De la division du travail social (La divisione del lavoro sociale) che è la sua prima opera importante. Egli afferma che questa opera è un tentativo di trattare i fatti morali secondo il metodo delle scienze positive. La sociologia è la scienza della morale; il suo oggetto di studio sono i fatti sociali, di cui la divisione del lavoro è un esempio. L'analisi della divisione del lavoro gli permette di opporre alla visione individualistica e utilitaristica della società la visione di una società che ha una propria entità e che è esterna e costrittiva rispetto all'individuo. Nel I 89 5 pubblica Les règles de la méthode sociologique (Le regole del metodo sociologico) che è un tentativo di sistemazione metodologica per affrontare lo studio dei fatti sociali in modo oggettivo e quindi scientifico. Nel I 897 pubblica Le suicide (Il suicidio) che è la prima ricerca empirica fondata sulla base di statistiche. In questa opera Durkheim esemplifica il suo metodo mediante l 'uso di parametri oggettivi quali le statistiche, e afferma che il suicidio è un fatto sociale e deve essere studiato indipendentemente dall'incidenza dei fattori individuali. Nel 1 898 inizia la pubblicazione de « L 'année sociologique », una delle più importanti riviste di sociologia. Nel I9oz diventa professore di scienza dell'educazione e di sociologia alla Sorbona; nello stesso anno pubblica L'éducation morale (L'educazione morale) che è una raccolta delle sue lezioni. È dello stesso anno la seconda edizione del De la division du travail social con una nuova prefazione nella quale propone in forma sistematica come soluzione ali 'anomia esistente il corpo-
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rativismo. Nel 1912 pubblica il suo ultimo lavoro Les formes élémefllaires de la vie religeuse (Le forme elementari della vita religiosa), altra opera fondata su dati empirici nella quale elabora una teoria delle religioni. All'avvento della prima guerra mondiale, Durkheim fu interventista contro la Germania. Muore nel novembre 1917. Viene pubblicato postumo Le socialisme (Il socialismo) che è la raccolta di una serie di lezioni tenute alla Sorbona. L'opera di Durkheim è accentrata intorno a quello che Comte definiva« statica sociale ». Più specificamente il problema che Durkheim si pone è quello dell'ordine e dei suoi fondamenti come elemento necessario alla salute morale della società. Egli nega validità alle teorie utilitaristiche e contrattualistiche che, basando sull'individuo l'analisi dei fenomeni sociali, sono insufficienti a chiarire le ragioni della struttura sociale e del sistema normativa e afferma che l'ordine è frutto di una coscienza collettiva e non di un contratto. Per dimostrare la sua tesi prende in esame la divisione del lavoro, che gli economisti ritenevano essere la risultante di un sistema teso al maggior soddisfacimento dei bisogni individuali e all'aumento della produttività, e gli attribuisce una funzione morale. La divisione del lavoro come ogni altro fenomeno sociale deve essere spiegato attraverso la causa che lo ha prodotto e il bisogno a cui corrisponde che equivale alla funzione che esso ricopre. Le cause oggettive della divisione del lavoro sono per Durkheim l'aumento della popolazione e la densità dinamica, cioè il moltiplicarsi del numero dei rapporti sociali; la sua funzione specifica è quella di ricreare un nuovo tipo di solidarietà. Il fondamento della società è infatti per Durkheim la solidarietà che non è determinata dall'individuo ma dalla coscienza collettiva, esterna rispetto all'individuo e cogente. Nelle società primitive, nei piccoli gruppi fortemente integrati, in cui gli individui sono intercambiabili e sono predominanti i sentimenti collettivi, domina un tipo di solidarietà che Durkheim definisce meccanica. Nelle società più avanzate, ad alto grado di differenziazione, dove è generalizzata la divisione del lavoro, si sviluppa un tipo di solidarietà che Durkheim chiama organica. Il consenso nella prima è generato dalla somiglianza, nella seconda dalla differenziazione. La divisione del lavoro non ha dunque fondamento negli interessi individuali utilitaristici ma ha una base morale extraindividuale perché l'accrescersi della società indebolendo la coscienza . collettiva deve ricrearla segmentandosi in gruppi omogenei quali appunto sono quelli che sorgono dalla divisione del lavoro e dalla specializzazione dei compiti. Durkheim arriva a teorizzare il corporativismo come fondamento morale dell'ordine all'interno di una società. Pretende che i risultati della sua indagine siano frutto di un'analisi scientifica della società quale è appunto l'analisi sociologica ancorata a una metodologia oggettiva e quindi scientifica. Per Durkheim la scientificità è strettamente legata all'oggettività e da questa considerazione deriva la regola fondamentale da lui enucleata: i fatti sociali devono essere considerati come cose. Quest'affermazione sarà la base per la costruzione di una pretesa me-
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todologia delle scienze sociali che superando il soggettivismo proprio dei filosofi permetterà la comprensione positiva dei fatti sociali. Nelle Règles de la méthode sociologique Durkheim chiarirà il suo metodo e fornirà gli strumenti per l'indagine sociale. Per Dutikheim i «grandi sociologi precedenti» (Comte, Spencer, ecc.) sono rimasti nell'ambito di una visione generale relativa alla natura della società, ai rapporti tra tl regno sociale e quello biologico, al cammino generale del progresso. Perché la sociologia sia effettivamente una scienza occorre invece liberarla da ogni implicazione metafisica, dagli arbitri soggettivi e considerare la società attraverso parametri oggettivi. Per compiere questa operazione occorre definire bene qual è la materia propria della sociologia e ciò che distingue la sociologia da ogni altro tipo di scienza. Se materia di indagine della sociologia sono i fatti sociali è necessario sapere quali sono i fatti sociali. Essi « consistono in modalità di azione, di pensiero e di sentimento, esterni all'individuo e che sono dotati di un potere di coercizione in virtù del quale si impongono a lui». Attraverso l'analisi dei fatti sociali si può conoscere lo stato di salute in cui versa la società in quel momento. Ciò che Durkheim sottolinea in tutta la sua opera è che il fatto sociale non può essere spiegato in termini individuali perché esso ha origine non dalla somma delle volontà individuali ma dalla struttura stessa della società. Una prova di questo è che un qualsiasi fenomeno sociale non può essere modificato dal singolo individuo e nemmeno da una somma di individui; perché esso sia modificato occorre che si modifichi la struttura stessa della società. Polemizzando con gli utilitaristi, egli osserva che se i fenomeni sociali sono il risultato del perseguimento del fine individuale del soddisfacimento dei bisogni e quindi della felicità, non si spiega come la società moderna e la divisione del lavoro che ne è la conseguenza abbiano provocato l'aumento di fenomeni come il suicidio che sono indice di uno stato di anomia (nel « suicidio » confronterà le statistiche dei suicidi con parametri che indicano un accresciuto benessere nella società e dimostrerà che all'aumento del benessere corrisponde un aumento dei suicidi). Neppure le teorie biologistiche ed evoluzionistiche della società riescono a spiegare quella sfera della morale che, sottratta all'arbitrio individuale, agisce e pesa sulle coscienze individuali in modo esterno a loro stesse. Se Durkheim invoca come causa di fenomeni quale la divisione del lavoro parametri come l'aumento della popolazione e la densità dinamica, la funzione dei fenomeni sociali risiede in quella coscienza collettiva che regola le azioni morali dell'uomo e che si riflette sull'individuo determinandolo dall'esterno. In questo senso gli elementi esterni all'individuo attraverso i quali possono essere spiegati e analizzati i fatti sociali sono il diritto e le statistiche. Il primo infatti rappresenta la regolamentazione che nasce dalla coscienza collettiva (per Durkheim, a differenti tipi di solidarietà corrispondono differenti tipi di diritto: alla solidarietà meccanica corrisponde il diritto a funzione repressiva, alla solidarietà organica il diritto a fun-
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zione restitutiva); le seconde forniscono i tassi e le percentuali dei vari fenomeni che segnalano le correnti esistenti nella società al di fuori del singolo individuo che nelle statistiche non è presente se non come espressione del tutto sociale, non con le motivazioni del proprio comportamento. L'oggettività di queste cifre e di quelle regole verificabili da tutti permetteranno di guardare ai fatti sociali come cose e alla sociologia di essere una scienza come tutte le altre, cioè oggettiva. Le regole metodologiche che usa Durkheim passano attraverso il problema della definizione dei fenomeni sociali, e la distinzione tra ciò che è normale in una società e ciò che è patologico. La categoria che usa Durkheim per stabilire ciò che è normale e ciò che è patologico è la generalizzazione dello stesso fenomeno. Proprio perché Durkheim ha proclamato l'eliminazione di ogni categoria individuale e del giudizio morale dalla sociologia, è evidente che ogni regola deve avere una sua caratterizzazione oggettiva; secondo Durkheim la generalizzazione è appunto la categoria oggettiva di definizione di uno stato normale della società. Lo stato normale di una società è sempre relativo a un momento dato della società. L'individuazione degli stati normali di una società permette la classificazione dei tipi sociali che partendo dall'unità primitiva, l'orda, si classificano e si differenziano in base alla loro successiva complessità; quindi anche la comparazione di differenti tipi sociali può essere fatta in relazione al momento di complessità che ha raggiunto una determinata società. È evidente che dal momento che Durkheim pone al centro delle sue ricerche il problema dell'ordine, ne deriva come conseguenza che lo studio della società nello stadio di sviluppo raggiunto è relativo alla solidarietà che si determina nella società in quel determinato stadio. Non solo, ma ne consegue anche che bisogna sempre di pil1 stringere i legami tra l'individuo e la società, legami che poggiano su imperativi morali; l'integrazione allo status quo esistente risulta essere il miglior fine da perseguire. Per questo la divisione del lavoro creando legami corporativistici è moralmente utile e ll.uspicabile. Tutto questo è per Durkheim oggettivo e scientifico e quindi ineluttabile. Quei presupposti dl asservimento alle strutture di potere della società del suo tempo di cui avevamo parlato diventano qui assolutamente espliciti e la formazione di una « scienza apologetica » che registra i fenomeni sociali e sottopone ad analisi critica solo lo stato morale della società è raggiunta. Questa stessa cosiddetta scienza è poi ulteriormente giustificata come ricerca di soluzioni morali e quindi utili alla società. Continuando nell'esposizione delle regole metodologiche di Durkheim egli, dopo aver definito il tipo normale e la morfologia dei tipi sociali, si pone il problema della spiegazione dei fenomeni sociali dei quali cerca « la causa efficiente » e la funzione che assolvono. Ogni fenomeno sociale ha la sua causa in un altro fenomeno sociale e la funzione di un fatto sociale deve essere sempre ricercata nel rapporto che ha con qualche fine sociale. Questo tipo
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di rapporto causale e il problema della funzione di un fenomeno sociale hanno un intento chiaramente antindividualista. Egli pone in rilievo ancora una volta che l'individuo così come la psicologia individuale sono insufficienti a spiegare l'origine di fenomeni sociali. Sottolineando l'importanza del sociale e della sua esteriorità rispetto all'individuo, l'ambiente sociale viene ad assumere una funzione di primaria importanza, ma mentre attacca le posizioni utilitaristiche ed individualistiche sottovaluta il problema dei rapporti di produzione e la causa efficiente viene da lui individuata solamente con il fenomeno della variazione concomitante. Nella sostanza il fine a cui tende la spiegazione della società è sempre vivo in termini di coesione sociale, di ordine e di moralità. Tutta la scientificità di Durkheim ha come unico fine la giustificazione dell'ordine. I parametri e le categorie di cui si serve sono prese a prestito da altre scienze (ad esempio la divisione tra normale e patologico è derivata dalla biologia e dalla medicina) e sono sempre giustificate in nome della loro oggettività e della loro verificabilità. Ogni opera di Durkheim osserva rigorosamente le sue regole metodologiche. Prendiamo la celebre analisi del suicidio. Nella prima parte del libro egli controbatte tutte le teorie sia biologiche (razza ecc.) sia psicologiche (cause mentali ecc.) che attribuiscono il suicidio a cause di tipo individuale, usando come parametri le statistiche (parametri, inutile dire, oggettivi e verificabili). Confrontando le statistiche relative ai vari fenomeni che prende in considerazione, nel caso in cui riscontra variazioni concomitanti le individua come rapporti di casualità. L'analisi delle statistiche dimostra una certa costanza nel numero dei suicidi e i tassi di incremento e di decremento sono significativi solo in relazione a determinate caratteristiche dell'ambiente sociale preso in esame. Dalla prima constatazione trae la conseguenza che esiste una co"ente suicida all'interno della società, la seconda gli permette una catalogazione dei vari tipi di suicidio esistenti, sempre legati allo status morale della società o del gruppo: suicidio altruistico, suicidio egoistico e suicidio anomico. Il primo si riscontra tra i gruppi sociali fortemente coesi, il secondo quando un gruppo sociale non dà sufficienti ragioni ad un uomo per stare in vita, il terzo quando in una società predomina l'anomia (il concetto di anomia è una creazione di Durkheim: designa una società in cui la coscienza collettiva è molto affievolita, la regolamentazione è debole e non c'è integrazione). Il correttivo al suicidio è una maggior coesione e integrazione della società. Tra gli altri scritti di Durkheim è particolarmente significativo Le socialisme. In questo libro violentemente anticomunista egli propone come soluzioni al disordine delle società industriali una serie di organizzazioni intermedie corporativiste che ricostituiscano nell'uomo quel senso di solidarietà e di appartenenza alla società. La prospettiva del comunismo sembra a Durkheim utopistica e la nega alla radice accusandola di anti-scientificità, ma in realtà è proprio la sua opera, contraddittoria, priva di ogni prospettiva storica, apologetica, a mancare
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di qualsiasi scientificità. Le categorie che usa sono infatti empiriche, non c'è alcuna astrazione generalizzante, né uno sforzo di andare al di là dell'esigenza astrattamente oggettiva. Per esempio l'affermazione del suicidio come fenomeno sociale, pur essendo valida in se stessa, rimane un presupposto astratto, in quanto viene usato senza mediazioni realmente significanti, ma puramente descrittive. Nella sostanza, il compito della sociologia deve essere per Durkheim quello di giustificare l'ordine all'interno della società; il fine quello di integrare gli individui e di sottrarli allo stato di caos e di disordine che genera anomia e infelicità.
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CAPITOLO QUARTO
L,esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica DI RENATO TISATO
I · CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE
Il periodo che viene preso in esame in questo capitolo è denso di eventi di enorme importanza nel quadro della storia dell'educazione, così come, d'altra parte, esso appare decisivo anche in tutti gli altri settori della storia della civiltà. Il mondo delle istituzioni educative cambia più in questo periodo di qmtnto non sia cambiato prima in venti secoli e bisogna rendersi conto, affrontando il suo studio, che ci si trova di fronte ad una realtà completamente nuova e, per di più, in continuo movimento. Le fondamentali linee di sviluppo della problematica pedagogica lungo l'arco sotteso fra la metà del ?'IX secolo e il primo decennio del xx secolo possono essere ridotte a tre: 1) l'attacco a fondo e progressivo che la società civile muove, per la prima volta nella storia, per la totale eliminazione dell'analfabetismo strumentale e il sorgere di una scuola di massa; z) l'affermarsi del culto della scienza nel campo dell'educazione, a duplice livello e cioè: a) come fiducia nella possibilità di elaborare una scienza pedagogica; b) come fiducia nel valore formativo dell'educazione scientifica; 3) il fiorire delle cosiddette «scuole nuove» e il successivo svilupparsi della riflessione critica sull'« educazione nuova» e del movimento, a livello sia teoretico sia pratico, della « scuola attiva ». Questi tre motivi saranno svolti partitamente nei paragrafi successivi. In essi cercheremo di identificare il loro fondamento comune e di cogliere il legame che hanno col generale processo di trasformazione economica, sociale, politica, culturale, dell'intera società nel periodo considerato. II · LA LIQUIDAZIONE DELL'ANALFABETISMO STRUMENTALE
L'idea che l'educazione spetti all'uomo in quanto tale e perciò a tutto il popolo e non solo ai membri delle classi dirigenti è un motivo che abbiamo incontrato in numerosi pensatori dei secoli precedenti, con limpidissima formulazione da 68
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parte di Lutero, successivamente ripresa e svolta da Comenio. Senonché si era sempre trattato di convinzioni personali di singoli. La rivoluzione francese aveva preso l'impegno di tradurre questo ideale in realtà ma, per i motivi che abbiamo a suo luogo esaminato, non aveva potuto realizzare il suo programma. Durante la prima metà del XIX secolo, nel campo liberale, per non parlare dei reazionari, prevale la tendenza a identificare la libertà con la pura garanzia formale che l'iniziativa del singolo non sarà turbata nella sua esplicazione, mentre viene generalmente respinta l'interpretazione positiva della libertà come effettivo « potere » di attuare le possibilità individuali. Ne risulta che il possesso della cultura finisce inevitabilmente per assumere, in pratica, l'aspetto di un privilegio. In Francia Adolphe Thiers definisce l'istruzione «un principio di agiatezza» che, appunto in quanto tale, non può essere esteso a tutti. Ma c'è di più: lo stesso Thiers dichiara la propria ostilità all'universale diffusione della cultura poiché l'esperienza dimostra che «gli operai più istruiti sono i più indisciplinati e pericolosi». In Inghilterra Sa:muel Withbread teme che l'istruzione, mettendo i lavolatori in condizione di leggere opere sediziose, contrarie alla morale e alla religione, li renda aggressivi, insolenti e ribelli. In Italia Rosmini trae dalla sua «legge» secondo la quale il potere, la ricchezza e la cultura tenderebbero ad equilibrarsi, la conclusione che il « sovrabbondare » del sapere nelle classi povere e subalterne sarebbe quanto mai pericoloso perché stimolerebbe tali classi ad esigere benessere e potere in misura adeguata all'acquisito sapere. Il che significa costruire un mirabile circolo vizioso: la massa non può pretendere di partecipare al potere e all'agiatezza «in quanto» è ignorante ma deve essere conservata nell'ignoranza «perché» non possa legittimamente aspirare al potere e all'agiatezza. Nella seconda metà del secolo la situazione si capovolge completamente. I sostenitori dell'integrale esclusione delle masse diminuiscono progressivamente di numero e di peso e comincia a prevalere la tesi della necessità di istruire ed educare i ceti subalterni per renderli atti a partecipare con senso di responsabilità alla vita economica e politica. I gruppi dirigenti assumono come fondamentale il compito di diffondere l'istruzione. I principi della gratuità e dell'obbligatorietà della scuola vengono progressivamente accettati ed applicati. È riconosciuto, in forma più o meno ufficiale e diretta, il dovere dello stato di provvedere all'educazione dei cittadini. A questo proposito, anzi, continua e si inasprisce la polemica tra fautori del « monopolio » statale in campo educativo e fautori della « libertà », nel senso, ovviamente, di facoltà per enti e privati di istituire e gestire scuole ed istituti di educazione. È una lotta che va ben distinta da quelle che si combattono per garantire al docente la massima libertà di coscienza, di orientamento ideologico, di metodo e per impegnare la scuola ad educare i cittadini allo spirito e alla pratica della libertà. Si tratta, anzi, di prog~ammi spesso addirittura antitetici, nonostante la confusione ingenerata dall'uso ambiguo del termine. Insomma, è lecito chiedersi fino a che punto si lotti per la libertà della scuola e fino a che
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punto, invece, per il libero controllo della scuola, riconosciuta, ormai, come il più formidabile strumento per la formazione di quel tipo di uomo, di lavoratore, di cittadino che l'esistenza della società emergente dalla rivoluzione industriale e liberale postula. Siamo di fronte ad un interrogativo destinato a farsi più pressante nel corso dei decenni, fino ad assumere un tono altamente drammatico ai nostri giorni, come vedremo in alcuni capitoli successivi. La spinta alla realizzazione della ciclopica impresa della diffusione universale della cultura è concepibile solo nel quadro del formidabile balzo in avanti dell'economia provocato dalla rivoluzione industriale. Che fra diffusione della cultura e livello del reddito complessivo di una società vi sia interdipendenza appare scontato. Indubbiamente c'è anche un problema di distribuzione e quindi di scelte, che possono esser fatte in base a criteri extraeconomici ma, oltre un certo limite, un'ulteriore diffusione della possibilità di educarsi presuppone un aumento del reddito. D'altro canto è ormai pacifico che se l'aumento del reddito è condizione del progresso dell'educazione, quest'ultimo, a sua volta, si :ripercuote positivamente sul primo. Di qui l'ineluttabilità del carattere aristocratico che l'educazione assume in una società a basso livello produttivo (e tali furono, in misura maggiore o minore, tutte le società che precedettero la :rivoluzione industriale) e, per converso, del carattere statico che assume l'economia in una società a basso livello culturale. Questo ci permette di capire come, al di là delle vicissitudini della politica interna dei singoli stati, che indubbiamente hanno una certa ripercussione nel campo dell'educazione, questa si evolva in maniera abbastanza continua ed eguale, secondo immanenti categoriche necessità, anche in stati differenti purché egualmente o quasi egualmente sviluppati dal punto di vista economico e sociale. Ma il rapporto fra rivoluzione industriale e :rivoluzione nel campo dell'educazione non si esaurisce a livello delle possibilità economiche. La :rivoluzione industriale non porta soltanto ad una trasformazione della tecnica e ad un incremento della ricchezza: essa provoca la trasformazione del modo di vita, un mutamento globale della società. Assume un nuovo significato l'intera esistenza dell'uomo e, in primo luogo, quella dell'uomo che lavora nell'industria, proprio in funzione delle modalità del lavoro industriale. Normalmente, nelle storie della pedagogia e delle istituzioni educative, ci si limita ad affermare che l'esigenza di una scuola di massa consegue allo sviluppo dell'industria e all'avvento dello stato liberale, prima, e democratico, poi. Si tratta di una considerazione ovvia, di una pura constatazione di fatti. Le cose si fanno alquanto più difficili allorché si passa al riconoscimento del tipo di nesso che tiene· collegati i due, anzi, i tre piani. Indubbiamente l'avvento della scuola di massa coincide con un :radicale cambiamento nelle forme di lavoro. Ma detto cambiamento è tale da giustificare quell'avvento? da costituirne, anzi, la ragiotJ. d'essere?
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La risposta appare facile e senz'altro affermativa qualora si pensi alla diffusione e differenziazione delle attività terziarie, impiegatizie e tecnico-direttive. Ma queste giustificano, semmai, il diffondersi e differenziarsi di scuole a livello secondario e superiore di tipo tecnico-professionale, nonché la progressiva acquisizione di maggiore importanza, in queste scuole, delle discipline scientifiche di fronte al tradizionale curriculum a carattere retorico-letterario. La risposta diviene però alquanto pìu ardua qualora si pensi alla caratterizzazione del lavoro manuale imposta alle masse dall'avvento del grande complesso meccanizzato. Grazie al perfezionamento della macchina la produzione si concentra e si realizza una divisione del lavoro sempre più spinta, in rapporto funzionale con l'aumento della produzione. I lavori unitari cedono il posto a lavori parcellari e si ha una generale degradazione dell'abilità professionale.« Dove prima occorreva un operaio completo, capace di abbracciare l'insieme del lavoro, di dirigerlo, di regolare gli utensili, ora basta un manovale specializzato che si limita a "servire" una macchina ... Scompare in tal modo tutto l'antico edificio professionale con i suoi modi di lavorare, le sue abitudini ... » (Georges Friedmann). La destrezza, il colpo d'occhio, la capacità di scegliere strumenti e pezzi, di valutare la temperatura di un forno, di prevedere le reazioni di una fibra tessile ecc., qualità che erano frutto di una lunga esperienza e di una lunga pratica, ora non servono più, tanto che sorge spontanea la domanda: a questo punto l'istruzione è ancora necessaria? E viceversa è proprio in questo momento che l'istruzione di massa diventa una realtà. D'altra parte non sembra riferibile al periodo in esame e all'educazione elementare la considerazione che, essendo « la tecnologia non... una serie di ricette o di descrizioni», ma, piuttosto, un complesso di «vedute d'irtsieme dei materiali e degli utensili», una guida a «ricavare rapporti astratti partendo dalla sperimentazione e dalla misura », l'istruzione sarà necessaria anche e soprattutto per l'operaio di tipo nuovo ma non più nella forma di acquisizione di abilità manuali, di astuzie del mestiere, di specializzazione precoce ed esclusiva, ma in quella di «un solido fondamento scientifico», di un'abilità avente per base un «fondamento tecnico e scientifico generale», atto, tra l'altro, a mettere l'operaio in condizione di «adattarsi con minor danno ai cambiamenti di funzione>> resi inevitabili dall'instabilità implicita nel continuo progresso della tecnica (Friedmann). Si tratta di considerazioni la cui validità si proietta in una fase molto più avanzata della :rivoluzione industriale, rispetto al periodo di .cui ci stiamo occupando. ' Tutto sommato appare più realistica l'ipotesi secondo la quale la spinta alla creazione della scuola di massa, se ha la sua possibilità nel sov:rabbondare di :ricchezza resa disponibile dalla macchina, ha la sua necessità in sede politica. Osserva acutamente il sociologo inglese A.K.C. Ottaway che, negli anni '6o, i lavoratori inglesi erano più interessati alla :riforma parla~entare che alla
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richiesta di educazione per classi inferiori e che appare una singolare caratteristica dello sviluppo della democrazia inglese il fatto « che il voto sia stato concesso al popolo prima, e che la sua educazione sia stata migliorata dopo ». Sintomatico, a questo proposito, è l'atteggiamento dello statista Robert Lowe, il quale, tenace avversario della riforma elettorale, dopo la realizzazione di questa diviene un fautore dell'Education act, visto che sarà pur necessario «educare i nostri padroni». Educarli a che? Ad integrarsi nella società, d'accordo: ma in quale veste? Di protagonisti o di gregari soddisfatti? Siamo di fronte, da un lato, alla dura realtà della spersonalizzazione conseguente dal lavoro parcellare, dall'altro, al sospetto di un'istruzione mirante a indottrinare, a manipolare e quindi a integrare saldamente nel sistema le masse. Dobbiamo dunque concludere che gli ideali delliberalismo e della democrazia sono soltanto colossali mistificazioni? È chiaro chç: le esigenze oggettive e le intime contraddizioni del capitalismo industriale costituiscono un formidabile impedimento all'attuazione di quegli ideali ma questo non implica, a parer nostro, la vanificazione degli ideali stessi; implica invece l'esigenza di ricercare attentamente le ragioni profonde di quell'impedimento e di identificare la via e i mezzi atti a tradurre in pratica quelle che, al di là di ogni mistificazione, rimangono pur sempre fra le più profonde aspirazioni dell'uomo moderno. L'esposizione analitica del processo attraverso il quale i paesi economicamente e culturalmente più progrediti affrontano, come deciso ed efficace impegno, durante la seconda metà del XIX secolo, il problema della liquidazione dell'analfabetismo strumentale, non solo richiederebbe una trattazione che trascende di gran lunga i limiti imposti dall'economia generale dell'opera al presente paragrafo, ma incontrerebbe ostacoli oggettivi ancor oggi difficilmente superabili a causa della scarsità, diversità, non eguale attendibilità della documentazione disponibile. Cercheremo pertanto di indicare al lettore i fatti e i dati statistici più importanti, sufficienti a permettere la costruzione delle linee tendenziali di sviluppo del fenomeno che qui d interessa, con particolare riguardo a Francia, Inghiltérra, Prussia e Russia. Della situazione italiana si dirà nel capitolo IX di questo stesso volume. In Francia, dopo la rivoluzione del '48 la vittoria dei conservatori inaugura una politica regressiva anche nel campo scolastico, politica che ha la sua attuazione concreta nella legge Falloux del 1 8 5o. Questa legge (i cui veri autori sono Montalembert, Mons. Dupanloup e Thiers) costituisce un grande successo dei clericali, che si vedono spianata la strada per una formidabile ripresa in base al principio della «libertà di insegnamento». Il titolo secondo organizza l'insegnamento primario. L'articolo 36 fa obbligo ad ogni comune di organizzare una o più scuole per i fanciulli di sesso maschile (senza precisare il rapporto numerico tra
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insegnanti ed alunni). Per quanto riguarda le femmine l'obbligo è fatto ai comuni con più di 8oo abitanti ma con una seria restrizione: « se le loro risorse ordinarie lo permettono». La gratuità è concessa solo a coloro che le amministrazioni comunali riconoscono ufficialmente come « indigenti ». Nelle comunità dove esistono differenti culti riconosciuti è autorizzata l'istituzione di scuole diverse per alunni di confessione diversa. Infine è previsto che una scuola « libera » possa tenere il posto di quella pubblica, dispensando in questo caso il comune dall'obbligo di aprirne una. Nel I867, verso la fine del secondo impero, una legge del ministro Duruy incoraggia, con opportune sovvenzioni statali, i comuni ad aprire scuole gratuite e stabilisce per tutti i comuni di più di 500 abitanti l'obbligo di aprire anche una scuola per le femmine. Neppure questa legge, però, sancisce il principio dell'obbligo. Nessuna limitazione è fatta all'attività delle congregazioni e la stessa scuola pubblica conserva il carattere prettamente confessionale impostale dalla legge Falloux. Secondo un rapporto dello stesso ministro Duruy gli analfabeti sarebbero, in Francia, nel I864, il I3,5 %Soltanto un decennio più tardi dopo la vittoria dei repubblicani, nel quadro di un 'intensa opera di democratizzazione e di laicizzazione della società francese, per opera del ministro Jules Ferry, saranno varate alcune leggi decisive, relative alla creazione di scuole normali per maestri (I879), alla gratuità (I88I), all'obbligo (I88z), leggi che, completate dalle «Istruzioni» del I887, caratterizzeranno la scuola primaria-popolare francese fino al I940. Sappiamo come la Prussia, dopo il disastro di Jena, punti, per la propria ripresa, prevalentemente sulla diffusione della cultura e, in particolare, sulla creazione di una efficiente scuola popolare. Wilhelm von Humboldt e Karl von Altenstein sono gli artefici principali di un edificio destinato, nel corso del XIX secolo, a ingrandirsi ed a perfezionarsi fino ad apparire, per alcuni decenni, un insuperabile modello a tutti i paesi civili. Nel I 848 sembra che l'innesto dei principi liberali sulla solida struttura prussiana possa fare veramente della scuola tedesca un formidabile strumento di progresso. L'assemblea di Francoforte si pronuncia per la separazione della scuola dalla chiesa e fa suo il programma froebeliano di educazione prescolastica. Senonché il fallimento della rivoluzione si fa sentire, anche qui, pesantemente. La costituzione del I85o sancisce, invero, all'articolo 24, il principio della gratuità per la scuola popolare; in pratica, però, tale principio tarderà alquanto ad essere universalmente applicato. Nel I 8 53 le Regulativen, dettate da un violento spirito di opposizione contro il movimento liberale e contro il cristianesimo troppo aperto « alla Pestalozzi », soffocano ogni aspirazione progressiva e attribuiscono, di fatto, il monopolio, nel campo delle direttive pedagogiche e del controllo, all'autorità religiosa. Bi73
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sognerà arrivare fino al I872. perché il governo torni ad affidare le funzioni ispettive ad autorità laiche. Il problema della coesistenza di fanciulli professanti religioni diverse è risolto con la formula della pluralità di scuole confessionali. Solo la Slesia, a causa della disseminazione di piccoli gruppi religiosamente eterogenei, è costretta a creare scuole « miste ». Ma quello che, a nostro parere, va maggiormente sottolineato, perché si giunga a comprendere l'autentico significato della scuola prussiana e poi tedesca, è il rigido centralismo burocratico della sua organizzazione e il suo spirito animatore. Scrive a questo proposito, nel I 87 z, Émile de L~veleye, con esplicita intenzione elogiativa: «L'organizzazione delle scuole è ricalcata su quella dell'esercito. Vi regna lo stesso ordine, la stessa disciplina, lo stesso spirito di precisione rigorosa nei particolari. «Il genio di Federico n si perpetua qui come in tutte le altre branche dell'amministrazione. » Ma, forse, ancora più significativo, in materia, è il passo contenuto nel libro di uno studioso dell'epoca, L. Finscher: «Bisogna che lo spirito cristiano penetri tutto l'uomo, perché il cittadino porti nella vita politica le virtù che vi sono indispensabili ... La scuola deve ispirare al fanciullo l'obbedienza, il rispetto, l'umiltà, il gusto del lavoro, la tolleranza, la giustizia nell'interesse della vita sociale, la devozione, la disciplina, lo spirito di sacrificio nell'interesse dello stato. » Si tratta di un brano che, se è stato scritto per la scuola prussiana, testimonia, però, dell'atmosfera largamente dominante in tutta l'Europa del tempo. La società, nonostante l'avvento delliberalismo e il primo delinearsi di prospettive democratiche, è ancora abbondantemente intrisa di spirito autoritario. La sua struttura è gerarchica a tutti i livelli, dalla famiglia allo stato, passando, ovviamente, per la scuola. Virtù supreme sono, ancora, il rispetto dell'ordine costituito e il volonteroso adeguarsi alle direttive e al pensiero dei « superiori », il tutto caratterizzato, in clima di incipiente imperialismo, da esaltazione nazionalistica e da una certa aggressività militaristica, in funzione della quale va considerata anche la progressiva importanza attribuita al rispetto delle norme igieniche, all'educazione fisica e alle prime manifestazioni sportive. In Inghilterra la scuola sorse e si sviluppò, come tutte le altre istituzioni, per l'opera di iniziative private, di individui o di gruppi, al di fuori di una schematica inquadratura teorica e legislativa. Durante la prima metà del XIX secolo l 'Inghilterra, come non possiede una organica costituzione né un vero e proprio codice, così non possiede neppure una legislazione scolastica sistematicamente coordinata, ma soltanto un'accozzaglia di leggi, emendamenti, compromessi, diversi da regione a regione, da scuola a scuola.
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Lo spirito centralizzatore e razionalistico della rivoluzione francese e del regime napoleonico lasciano ben poca traccia nelle isole britanniche. Pertanto, se già durante la prima metà del secolo si nota la tendenza dello stato.a cominciare ad interessarsi delle questioni scolastiche, ciò dipende, più che da influenza del pensiero e delle esperienze continentali, dalla pressione esercitata dalla rivoluzione industriale in pieno sviluppo. Il sorgere di grandi centri industriali, l'intensificarsi dei traffici, l'addensarsi di enormi masse di operai e di impiegati nelle città rendono urgente la creazione di scuole, istituti professionali d'arti e mestieri. Cominciano così a svilupparsi alcune scuole private, dette academies, che mirano a dare una preparazione meramente utilitaria e tecnica ai figli della piccola e media borghesia. Complessivamente, . però, lo stato dell'istruzione primaria è assolutamente deplorevole. Successive inchieste, fatte nel I8o3, nel I8I8 e nel I833, confermano che i progressi, nel settore della scuola popolare, sono minimi e del tutto impari al progresso economico e tecnico del paese. Nel I 8 I 6 il partito whig, sotto la pressione dell'opinione pubblica, solleva per la prima volta la questione ed invoca l'intervento dello stato. Vengono aperte le Birbeck Schools, per operai ed impiegati adulti, che, la sera e la domenica, possono iniziare o completare la loro educazione elementare. . Finalmente nel I 832-3 3 il Reform act, modificando la legge elettorale ed allargando il suffragio nei centri industriali, rende possibile la conquista del potere da parte del partito liberale col ministero capeggiato da Lord Grey. Tale governo prende di petto anche il problema della scuola. Vengono votate leggi che disciplinano l'impiego dei ragazzi negli stabilimenti industriali. I ragazzi non possono da questo momento essere impiegati nelle fabbriche prima che abbiano compiuto i nove anni. Bisognerà però attendere fino al I847 per giungere al Fielden's act (che sembrerà una grande conquista) per il quale la durata massima della giornata lavorativ-a dei fanciulli sarà portata a dieci ore! Si deve notare, inoltre, che l'intervento statale è di ordine puramente finanziario: l'iniziativa di istituire e gestire scuole viene lasciata ai privati ed in particolare alle chiese (principalmente alla chiesa anglicana); solo che ora lo stato assume la veste di un filantropo assai ricco che soccorre e tutt'al più consiglia, senza esercitare però alcun potere sovrano. Bisogna arrivare al I 840 perché lo stato inglese intervenga con intendimenti più propriamente tecnico-pedagogici, cercando di realizzare una certa uniformità di programmi nei vari istituti della scuola secondaria. (Va chiarito che la secondary school si contrappone alla primary non già nel senso di una scuola che succede, cronologicamente e logicamente, all'altra, ma nel senso di una scuola a fondamento umanistico, riservata alle classi dirigenti e distinta dalla scuola ri-· servata alle classi popolari.) 75
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Ancora una volta, però, lo stato inglese trova tenaci resistenze nelle vecchie public schools, gelose dei loro secolari privilegi e nelle chiese, le quali temono che l'intervento statale finisca prima o poi con lo scalzare il loro monopolio. Solo a partire dal I87o, in seguito alla riforma elettorale del I867, si cominceranno ad avere trasformazioni radicali. L'atto del I 870 prevede la creazione degli school-boards, corpi elettivi aventi il compito di organizzare e dirigere scuole elementari in quelle parti del paese dove non esistono scuole sovvenzionate da comunità religiose. Altri atti, del I 872, I 876, I 88o, completano l'opera e danno vita ad una scuola primaria obbligatoria, controllata dallo stato. Nel I9o2 una grande legge organica eliminerà molte delle incongruenze sopravvissute e definirà chiaramente il diritto e i doveri dello stato in questa materia. Questo non significa nazionalizzazione dell'insegnamento e neppure centralizzazione secondo lo stile francese ed italiano. Non significa neppure laicizzazione (in Inghilterra scuola « laica » significa, al più, scuola fondata su un insegnamento religioso « biblico » anziché confessionale). La scuola rimane prevalentemente privata e l'autorità statale si fa sentire mediante rigorose ispezioni periodiche. In Russia, nel I864 l'imperatore Alessandro dà forza di legge a un regolamento generale delle scuole popolari proposto dal ministro, principe Pavel Gagarin. Dalla :relazione premessa a tale :regolamento apprendiamo, per esempio, che a Pietrobu:rgo, capitale dell'impero e una delle città più occidentalizzate, su 40o.ooo abitanti esistono I 8 scuole elementari con una popolazione di I 28 I alunni, dei quali I 3 5 femmine. Secondo un altro documento ufficiale, alla stessa data, il :rapporto fra alunni e abitanti, nel complesso dell'impero, sarebbe di uno su centosedici. La legge del I 864 :resterà di fatto lettera morta e bis~gnerà arrivare alla :rivoluzione comunista perché il problema venga preso energicamente di petto. Un brevissimo cenno alla situazione negli altri stati europei. Prima di tutto si deve sottolineare la posizione d'avanguardia occupata, in questo settore, dai paesi scandinavi: Svezia, Danimarca e, sia pure a qualche distanza, Norvegia. Basti dire per la Svezia che una legge sull'obbligo della frequenza della scuola primaria risale addirittura al I 7 34 e che nel I 842 esiste ormai una completa rete di scuole e, per la Danimarca (dove già nel I 64 7 si comminano pene ai trasgressori dell'obbligo scolastico), che nel I 87o il 99,28% dei fanciulli in età frequenta regolarmente la scuola. L'Olanda merita di essere ricordata per aver introdotto, già nel I 8o6, il principio della laicità della scuola, portando anche nel campo dell'istruzione primaria le conseguenze della separazione della chiesa dallo stato: al maestro la morale, il dogma al sacerdote, ma fuori della scuola. Anche in Svizzera (dove l'obbligo si afferma intorno al I87o) si tende a eliminare il carattere :rigorosamente confessionale della scuola pubblica. Alquanto meno brillante è la situazione del Belgio.
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Comunque all'estremo opposto troviamo la Spagna, dove ancora attorno al 188o la percentuale degli analfabeti è circa dell'83% e la Grecia. Il primato dei popoli di stirpe germanica, anglosassone e scandinava risulta dunque evidentissimo. Ci limiteremo a ricordare che si tratta di popoli di religione riformata. L'esistenza di un rapporto funzionale tra protestantesimo e sviluppo della cultura sembra, dunque, confermato. Pensiamo che possa risultare di qualche utilità, a chiusura di questa illustrazione che, ripetiamo, vuoi essere soltanto indicativa, fornire, a titolo riassuntivo, alcuni dati contenuti in una « memoria »di Luigi Bodio, del1891. Questa « memoria» ci fornisce, fra l'altro, una tabella comparativa delle percentuali di analfabeti tra le reclute dei principali stati europei. L'anno base è il 1876. Ecco i dati: Italia 52%; Francia 16%; Impero germanico z,n%; Austria 41 %; Ungheria 57%; Svizzera 4,6%; Belgio 18,4o%; Olanda 12 %; Svezia o,9o%; Russia
So%. III · SCUOLA UMANISTICO-LETTERARIA E SCUOLA TECNICO-SCIENTIFICA
La critica al predominio assoluto del latino e del greco quali discipline eminentemente « formative » affonda le radici ben indietro nel tempo: basti ricordare Locke e gli sviluppi, in campo pedagogico, del cartesianesimo. È indubbio però che, sia pure con qualche riserva e sfumatura, l'umanesimo classico-letterario continua a prevalere nettamente nella scuola secondaria durante il XVII e XVIII secolo. Il primo serio attacco alla tradizione, sul piano delle iniziative concrete e non solo delle argomentazioni teoriche, viene portato dalla rivoluzione francese che si ispira agli argomenti messi innanzi da Diderot, d' Alembert, Condorcet, per non indicare che i più famosi. È sintomatico che Napoleone, nel quadro del suo progetto di restaurazione dell'ordine e di consacrazione dei privilegi ottenuti, mediante la rivoluzione, dalla borghesia, si preoccupi di rimettere in onore le cosiddette « umanità ». La vittoria del classicismo appare completa con la restaurazione e da questo momento si profila netto il legame di solidarietà fra tendenze conservatrici e difesa della scuola di tipo tradizionale, da una parte, tendenze progressiste e richiesta di un ctÙ:riculum scolastico imperniato attorno alle scienze matematiche e naturali, dall'altra, anche se, a prima vista, possa sembrare strano, come osserva Dina Bertoni Jovine, « che tutta una classe di cittadini e cioè l'alta borghesia, non avesse che interessi letterari, mentre tutta ùn'altra classe e cioè la media e la piccola borghesia non avrebbe avuto che interessi scientifici o tecnici ». In realtà il problema non è così semplice: il grandioso svilupparsi e diffondersi dell'industria nel corso del xix secolo non poteva non porre, a un certo momento, in primo piano, il problema della preparazione tecnico-professionale 77 www.scribd.com/Baruhk
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in tutte le direzioni ed a tutti i livelli. Già a partire dal xvn secolo, invero, i pietisti e in particolar modo Franke e, successivamente, il movimento filantropico di Basedow, avevano formulato la proposta di una scuola maggiormente rispondente ai bisogni della vita, ma, sebbene il programma fosse accolto favorevolmente da gruppi di tecnici, commercianti e agricoltori, in realtà di istituti ispirati a tale programma ne erano sorti ben pochi. Ora invece, sotto la spinta delle trasformazioni tecnologiche ed economiche, le vecchie proposte si rinsaldano e divengono operanti. Senonché, mentre da una parte c'è una folla- a dirla col nostro Aristide Gabelli - di « calzolai, pizzicagnoli, falegnami, gente senza tradizione culturale », che non può apprezzare il valore « formativo » del latino, del greco e della matematica pura e che alla scuola chiede soltanto un modesto diploma, atto a garantire ai figli un miglioramento di condizione economica e una certa promozione sociale, è vero, dall'altra parte, che l'industria non può più accontentarsi delle scuole di arti e mestieri o produttrici di impiegatelli di infima categoria e preme, per la sua stessa dialettica interna, verso l'alto, fino a istituzioni di livello universitario. Sotto questa spinta si profila la tendenza a trasformare i programmi delle preesistenti scuole umanistiche attraverso la concessione di maggiore spazio alle scienze, alle lingue moderne e, in generale, alle materie direttamente utili alla vita pratica. Contro questa tendenza, però, si organizza una fiera resistenza da parte dei fautori ortodossi della tradizione, i quali obiettano che «la molteplicità è sempre confusione ... [che] non si può fare senza danno dei fini educativi ... » (Filippo Masci). Sono, così, posti i termini per la giustificazione di una strutturazione « tripartita » della scuola secondaria: da una parte la tradizionale scuola umanistico-letteraria, che apre la strada a tutte le facoltà universitarie e fornisce la base culturale e la formazione intellettuale e morale alla futura « classe dirigente ». Di fronte ad essa la scuola tecnico-scientifica, prodotto della rivoluzione industriale, articolata a sua volta in due gradi: quello sfociante, dopo un curriculum di tre o quattro anni, in un piccolo diploma di tecnico subordinato o di impiegato d'ordine e quéllo che porta ad istituti a livello universitario ed a funzioni direttive nel campo dell'industria, del commercio, della ricerca scientifica e aspira, quindi, ad ottenere patenti di nobiltà almeno pari a quello della scuola tradizionale, in nome di un « umanesimo moderno » o « umanesimo del lavoro ». . In realtà, nella realizzazione concreta, le cose risultano alquanto più complesse dello schema sopra descritto e ciò non solo perché le scuole « tecniche », di entrambi i gradi, tendono -- e non può essere che così, dato il prevalere in esse di una componente che porta inesorabilmente ad una specializzazione sempre più spinta - ad articolarsi in molteplici istituzioni parallele (istituti per ragionieri, geometri, agronomi, esperti industriali, suddivisi a loro volta in meccanici, elettrotecnici, chimici ecc.) ma perché accanto o, meglio, al di sotto di questi
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due tipi di scuola secondaria vanno affermandosi delle ancora più modeste strutture post-elementari o di scuola popolare, senza sbocchi, il cui compito sarebbe quello di fornire qualcosa di più dei meri «strumenti» (leggere, scrivere, far di conto) alle grandi masse. Non dimentichiamo, poi, per quanto si riferisce a quest<: Ultime, che la liquidazione dell'analfabetismo strumentale è, sì, in corso di attuazione ma non per questo, specie nei paesi latino-cattolici e balcanici, attuata. Il dibattito pro e contro il « vecchio » e il « nuovo » umanesimo vede scendere in linea filosofi, letterati, scienziati illustri in tutta Europa. I temi portati a sostegno dell'una e dell'altra tesi hanno finito col trasformarsi, spesso, in luoghi comuni, parecchi dei quali sopravvivono ancora ai giorni nostri, nei residui dibattiti relativi a talune riforme scolastiche e in quelli, più alla moda, relativi ai rapporti fra le «due culture». Per questo crediamo di qualche interesse richiamarne, schematicamente, alcuni fra i più significativi. Tra gli argomenti« a favore» della scuola umanistico-letteraria possiamo operare un triplice raggruppamento: I) Lo studio del latino e del greco è praticamente utile: a) perché fa conoscere l'etimologia di molti termini scientifici; b) perché (questo vale specialmente per i popoli neolatini) permette di conoscere meglio l'origine e la struttura delle lingue moderne; c) perché permette di conoscere meglio il diritto romano; d) perché permette di studiare meglio la storia antica; e) perché il latino può costituire ancora una lingua universale per le persone colte. z) Lo studio del latino e del greco è un insostituibile strumento didattico perché costringe l'alunno ad una ginnastica mentale quale nessuna altra disciplina potrebbe proporre. 3) Lo studio del latino e del greco pone il giovane di fronte a un mondo di valori a) estetici, b) morali e civili, che rimangono esemplari ancora ai nostri giorni. Si nota, a questo proposito, da taluno (per esempio il francese Ferdinand Brunetière, il tedesco Tuiskan Ziller e il nostro Nicola Fornelli), che le letterature antiche, cioè prodotte da civiltà più giovani della nostra, risponderebbero allo spirito giovanile più e meglio delle creazioni letterarie dei nostri giorni. Gli argomenti portati dai fautori di una scuola ispirata ad un umanesimo più rispondente alle caratteristiche e alle esigenze dei tempi moderni ribattono punto per punto: la conoscenza dell'etimologia è superflua e talora, perfino, dannosa: l'essenziale è conoscere l'uso corretto dei vocaboli di cui ci si serve; discorso, questo, che può essere esteso dal campo dei singoli vocaboli a quello delle lingue nel loro complesso. Quanto al diritto romano, qualcuno si limita ad osservare che, semmai, il latino può servire al giurista ma non all'avvocato o al cittadino qualunque; qualche altro si spinge più in là, fino ad auspicare l'abbandono di un diritto nato
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in condizioni storiche profondamente diverse dalle moderne. Non abbiamo incontrato prese di posizione specifiche contro il mito della restaurazione della lingua universale, prova, questa, che ai critici l'argomento stesso è sembrato risibile e quindi trascurabile. Quanto all'argomento della «ginnastica mentale» è rifiutato con tutta una gamma di motivazioni. Si va da chi è d'accordo nell'attribuire alle lingue, in generale, questa importante prerogativa didattica ma, estendendola alle lingue moderne, più accessibili e più utili per altri aspetti, vorrebbe trasferito a queste ultime il privilegio delle prime; a chi invece rifiuta alle lingue, antiche o moderne, una prerogativa che sarebbe posseduta, in eguale o in maggiore misura, dalle scienze, a chi infine vede in ogni ginnastica astratta, grammaticale o scientifica, un aggravio delle menti giovanili, specie nei primi anni della scuola secondaria, dove varrebbe un insegnamento più intuitivo. L'obiezione più acuta, però, ci sembra quella mossa dal francese Raoul Frary il quale, dopo aver osservato che, comunque, l'unica giustificazione del duro sacrificio, che il perfetto possesso delle lingue antiche richiede, sarebbe costituita dalla possibilità di giungere, attraverso tale possesso, a penetrare lo spirito della classicità, così conclude: « Ma poiché tale coronamento è inaccessibile a diciannove alunni su venti, si è immaginata, d'altra parte abbastanza tardi, la tesi della ginnastica mentale ... » Del resto questo tipo di obiezione è implicato anche in quel passo di Arturo Graf dove è detto che « ormai », tenuto conto della degradazione subita attraverso i secoli dagli studi classici, quale che sia il punto di vista di principio, bisogna pur decidersi ad adeguarsi ai tempi, che vogliono in primo piano le scienze. "Infine la questione dei valori, estetici ed etico-civili. In generale i fautori di un uinanesimo moderno si battono per dimostrare la non-inferiorità o addirittura la superiorità delle letterature moderne rispetto alle antiche. Quanto agli esempi di virtù civica e morale che si troverebbero nei personaggi, storici o poetici, del mondo antico, prevale la tendenza a demitizzare tali virtù, riportando le entro i limiti di una società, schiavista e razzista (quella greca) che sarebbe assurdo proporre come modello ai giovani d'oggi. Nel complesso, però, in nessuno di questi « modernisti » è rintracciabile quell'atteggiamento iconoclastico e «barbarico» che taluno pre~enderebbe di trovarvi: da Spencer a Bain, da Mach a Graf, tutti mostrano di auspicare una scuola in cui sia realizzata l'armonia fra la dimensione estetica e quella tecnicoscientifica dell'uomo e, riguardo alla scuola classica, si limitano a chiedere la sua decadenza dal ruolo di custode dispotica della strada che porta agli studi superiori e il suo rientro nei ranghi, come scuola specialistica accanto ad altre scuole specialistiche.
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IV · PEDAGOGIA E SCIENZA
Che non si possa educare senza possedere una buona conoscenza dell'educando è tesi vecchia almeno quanto la letteratura pedagogica. Senonché, fin verso la . metà del XIX secolo, le descrizioni della psiche e dei suoi dinamismi proposte da filosofi e pedagogisti sono o dedotte da presupposti metafisici o, nel migliore dei casi, fondate su osservazioni personali, spesso casuali, quasi sempre asistematiche, mai verificate sperimentalmente. La seconda metà del XIX secolo vede, al contrario, l'impostazione di indagini autenticamente scientifiche anche in questo campo. In primo luogo abbiamo gli sviluppi dello herbartismo, cospicui in Germamania ma notevoli anche in altri paesi, compresa l'Italia. Secondariamente si ha l'affermazione del positivismo, al quale spetta indubbiamente il merito di avere affermato il diritto della scienza di andare «oltre il mondo visibile e tangibile degli astri, delle pietre e delle piante entro il quale la si confinava sdegnosamente» e di affrontare i problemi dell'anima «munita degli strumenti, esatti e penetranti, dei quali trecento anni di esperienze hanno provato la validità e stabilito la portata» (Taine). Fino a che punto i pedagogisti del positivismo svolgano in modo conseguente e criticamente controllato questo tema, è cosa che verrà considerata più avanti. Per ora ci basta osservare che solo nel clima generale creato dal positivismo può svilupparsi anche nel campo pedagogico quell'indagine autenticamente scientifica senza la quale verrebbe a mancare una delle condizioni essenziali per l'attuazione del piano educativo proposto dalla civiltà contemporanea. In terzo luogo si ha il costituirsi della psicologia come autentica disciplina scientifica. Si tratta di una delle più rivoluzionarie fra le imprese della scienza, destinata, pertanto, a promuovere accanite resistenze da parte dei ceti conservatori. Accanto alla psicologia vengono assumendo sempre maggiore importanza per lo sviluppo della pedagogia anche la psichiatria, la pediatria, la sociologia, l'antropologia. Delle polemiche, provocate dal tentativo di costruire una pedagogia come scienza, e specialmente delle gravi difficoltà incontrate dai protagonisti del tentativo stesso si dirà via via nel corso dei paragrafi seguenti. Qui ci limitiamo a indicare la ragione essenziale di tali difficoltà nella insufficiente consapevolezza critica della maggior parte dei pensatori del periodo in questione circa il significato, il fondamento, i limiti della conoscenza scientifica in quanto tale. Naturalmente la crisi, che colpirà il positivismo e la democrazia nei decenni a cavallo fra i due secoli, coinvolgerà anche la pedagogia. Avremo così una ripresa del vecchio umanesimo, rammodernato, raffinato nel linguaggio, rafforzato dalle argomentazioni delle più moderne filosofie idealistiche e spiritualistiche. La nota caratteristica di questa nuova pedagogia antipositivistica sarà co81
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stituita dal fatto che essa accetta, formalmente, la tesi secondo la quale l'educazione deve fondarsi sulla conoscenza scientifica dell'educando, ma nega la possibilità di una considerazione obiettiva, sperimentale, dello spirito, per cui l'autentica scientificità della pedagogia è fatta coincidere con la filosofia dello spirito e il rapporto maestro-scolaro viene ricondotto, in ultima analisi, a un mistico, cioè irrazionale, « contatto di anime ». Vedremo a suo tempo come lo spiritualismo pedagogico celi sempre un atteggiamento sostanzialmente antidemocratico. Naturalmente, fra i pedagogisti d~ questa tendenza troveremo, accanto a negatori espliciti e integrali della democrazia, anche sinceri assertori di una democrazia «più vera», di una democrazia« superiore». In realtà un'analisi attenta delle autentiche posizioni di questi ultimi ci rivelerà come, per usare una felice espressione di Francesco De Bartolomeis, il livello democratico dello spiritualismo tradizionalista non possa, nella miglior delle ipotesi, essere molto alto. a) Lo herbartismo La fortuna di Herbart pedagogista è piuttosto tardiva, specialmente fuori dalla Germania. Fin verso l'ultimo decennio del XIX secolo l'interesse degli studiosi si rivolgeva, semmai, preferibilmente alla psicologia e all'etica del pensatore tedesco (di cui si è parlato nel capitolo xm del volume quarto). In Germania, invece, le cose erano andate alquanto diversamente. Chiamato, più come noto conoscitore e rielaboratore del pensiero di Pestalozzi che come autore della Pedagogia generale, a Konigsberg, sulla cattedra che era stata di Kant, Herbart riuscì - grazie alle tendenze riformatrici del governo prussiano consigliato specialmente da Wilhelm von Humboldt - ad istituire in tale università un seminario pedagogico con annessa scuola, con la duplice funzione di fornire un campo di osservazione e di sperimentazione. Senonché l'istituto ideato, organizzato e diretto con zelo da Herbart, combattuto da misoneisti e ·ostacolato da génte interessata e da miopi funzionari, non sopravviverà alla partenza del grande pedagogista da Konigsberg (1833). I decenni successivi, caratterizzati dall'alternarsi di conati riformatori e rivoluzionari e da riprese conservatrici e reazionarie, vedranno diminuire grandemente l'interesse per le teorie pedagogiche herbartiane. Bisognerà arrivare fin verso la fine degli anni cinquanta per incontrare una ripresa dello herbartismo, per opera di Karl Volkmar Stoy (1815-85), il quale, all'università di Jena, terrà delle conferenze per illustrare il pensiero del grande pedagogista e riuscirà.~nche ad organizzare una scuola sperimentale analoga a quella di Konigsberg. Il più importante seguace di Herbart è, però, Tuiskan Ziller (1817-82), professore all'università di Lipsia, dove organizza anche un seminario pedagogico con annessa scuola di esercitazioni didattiche nella quale i futuri professori degli istituti secondari apprendono praticamente il metodo di insegnare e 82
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approfondiscono attraverso osservazioni dirette la loro conoscenza della psiche umana nell'età evolutiva. Nel r869 Ziller riesce a fondare, sempre a Lipsia, la Lega per la pedagogia scientifica che riunisce insegnanti di ogni grado, dal professore universitario, al direttore di scuole normali ed elementari, al maestro, al curato e al pastore che nel suo villaggio assolve al compito di ispettore scolastico. Il nostro autore, che taluno definisce « discepolo entusiasta e quasi cieco ammiratore .dell'Herbart... » tale da rappresentare, nella scuola herbartiana, «l'ortodossia e l'arido formalismo» (Luigi Credaro), è, in realtà, un autentico riformatore, tanto più importante in quanto lo herbartismo che si diffonderà in Europa e nel mondo, tra la fine del xrx secolo e l'inizio del xx, sarà caratterizzato precisamente da taluni motivi assai più zilleriani che ortodosso-herbartiani. In questa sede, ovviamente, è possibile solo un rapidissimo richiamo a tali motivi. Herbart, com'è noto, aveva parlato di « multilateralità » ma aveva respinto la« onnilateralità »degli interessi. L'onnilateralità, ammesso che fosse possibile, porterebbe alla dispersione e, quindi, alla stagnazione. È necessario, sì, che ogni disciplina sia presentata non come un organismo compiuto ma come il fondamento di un sapere più vasto; ma questo non esclude, e anzi implica, la concentrazione dell'interesse sopra una disciplina particolare. Insomma, se tutti devono avere un certo grado di amore e di gusto per tutte le cose, è non meno importante che ciascuno tenda a diventare « virtuoso » nel campo che· gli si rivela più congeniale. Questo tema è svolto da Ziller, il quale ne deriva la teoria della « concentrazione>>. Si tratta di far convergere tutto l'insegnamento su un unico problema, condizione essenziale per suscitare il sentimento, sorgente perenne di ogni interesse. Egli ritiene poi che la disciplina maggiormente dotata della capacità di focalizzare tutte le altre in vista della formazione del carattere sia la storia, intesa come compendio di ideali in fatti e persone. Il secondo dei temi che caratterizzano la dottrina zilleriana è costituito dal principio delle «epoche di cultura». L'ipotesi che esista una corrispondenza fra le successive tappe dello sviluppo dell'individuo e quelle dello sviluppo della specie, già sostenuta, in senso lato, da Vico, Rousseau, Pestalozzi e approfondita poi da Spencer, era stata rifiutata da Herbart che la trovava incompatibile con la sua concezione dell'anima inizialmente tabula rasa. Ziller, invece, la fa sua, dandole però un'interpretazione originale. Si tratta, per lui, di una corrispondenza fra i tratti essenziali dei vari momenti della storia della cultura e gli interessi e gli atteggiamenti espressivi dell'individuo nelle varie fasi dell'età evolutiva. Nello stabilire questa corrispondenza Ziller si spinge però fino all'autentica pedanteria. Un ultimo cenno merita la riforma zilleriana dei «gradi formali», che egli porta a cinque, suddividendo il primo (la «chiarezza» di Herbart) in «analisi» e « sintesi ». La nuova classificazione sarà largamente accettata dai seguaci,. in Germania e fuori.
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Nei paesi extratedeschi, come già si è detto, lo herbartismo pedagogico fiorisce solo a partire dalla fine del XIX secolo. In Olanda Hartse, in Francia Pinloche, in Italia Fornelli e successivamente Credaro si preoccuperanno di diffondere il pensiero di Herbart e della sua scuola. Nicola Fornelli crede di identificare la causa di questo quasi improvviso entusiasmo per la pedagogia herbartiana nella insofferenza per il crescente enciclopedismo che aduggiava la scuola italiana e per il carattere eminentemente «formativo» che di fronte ad esso lo herbartismo assume. Credaro, invece, scorge la causa di tale entusiasmo nella consapevolezza, che finalmente alla fine del secolo si fa strada anche in Italia, della necessità, per tutti i docenti, di disporre oltre che del possesso. della loro disciplina, anche di una chiara e valente preparazione didattica: in tal senso lo he:rbartismo, lungi dal contrapporsi al positivismo, finirebbe, almeno nel terreno dell'impegno metodologico, per convergere con esso. Negli Stati Uniti d'America lo herbartismo appare, durante gli ultimi decenni del XIX secolo, come la dottrina capace di offrire una filosofia e una psicologia dell'educazione di cui si sente il bisogno, ma che la cultura americana non ha ancora prodotto. Si giunge così alla fondazione, nel I 89z, di un club Herbart, per iniziativa di Charles McMurry, nell'Illinois. Tale club si trasformerà nel I 895 in società nazionale Herbart, della quale farà parte, per qualche tempo, anche John Dewey. Successivamente, come conseguenza di severe critiche mosse allo herbartismo (anche da Dewey), l'istituzione si trasformerà in società nazionale per lo studio dell'educazione.
b) Il positivismo Nella storia dell'educazione l'età del positivismo costituisce un momento d'importanza decisiva. Non c'è settore del campo che non venga profondamente scavato e nel quale non vengano attuate, o proposte, trasformazioni radicali: dalla scuola materna a quelle differenziali per subnormali e disadattati, alle secondarie di vario ordine e grado, all'università; dal problema dei fini a quello del metodo, del contenuto, della disciplina, dei sussidi didattici, dei rapporti fra istituzioni scolastiche ed esigenze della nuova società. Volendo, comunque, enucleare i motivi essenziali, ai quali, in ultima istanza, tutti gli altri si ricollegano, ci pare che essi possano :ridursi a due: I) l'impegno a costituire una pedagogia su basi scientifiche; z) la piena fiducia nel valore formativo della scienza. Per quanto riguarda il primo punto le difficoltà incontrate sono, a loro volta, di due ordini: I) l'estrema complessità dell'oggetto; z) la necessità di risolvere il problema dei :rapporti fra discorso scientifico e discorso normativa. Possiamo dichiarare fin d'ora che i positivisti del periodo «classico» sem·
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brano ignorare completamente il secondo ordine di difficoltà (conseguenza, questa, del loro sostanziale intellettualismo etico). Di fronte al primo ordine manifestano maggiore consapevolezza e preoccupazione, ciò che porta, qualche volta, taluno di loro ad assumere un atteggiamento di cautela e di attesa. In generale, però, anche di fronte alle difficoltà del primo ordine prevale nei positivisti una certa esaltazione ottimistica, chiara sopravvivenza romantica, che li spinge ad indulgere, spesso, ad affrettate generalizzazioni, senza valutare adeguatamente la· portata dell'impegno assunto. La possibilità di una pedagogia scientifica è più accettata come presupposto che dimostrata, così che ci si preoccupa di elaborare tale scienza assai più che di considerarne la possibilità, il fondamento, il metodo, i limiti. Il risultato di tutto questo è che le costruzioni dei positivisti si trovano sospese a mezzo fra l'empirismo ingenuo e un naturalismo filosofico assai più prossimo alla filosofia .della natura di tipo rinascimentale che alla scienza nel significato moderno della parola. A parziale giustificazione degli autori qui presi in considerazione bisogna però tener presente il fatto che durante il periodo della loro egemonia le scienze che possono fungere da ausiliarie della pedagogia (psicologia generale e dell'età evolutiva, sociologia, antropologia culturale) o non sono ancora nate o stanno appena movendo i primi passi. A questo punto, tenendo presente il fatto che qui non si sta considerando l'intero panorama della problematica pedagogica affrontata dal positivismo, bensì un problema specifico, apparirà chiara la ragione per cui, anziché addentrarci ad analizzare partitamente le singole « pedagogie scientifiche »proposte dai vari autori, ci limitiamo a prendere in esame il grado di criticità (o di acrisia) degli autori stessi di fronte al problema che ci interessa. Comte, partendo dal presupposto che il meccanismo sociale riposa, in ultima analisi, su opinioni e che la crisi della civiltà moderna è dovuta all'anarchia intellettuale, logicamente attribuisce una posizione primaria all'impegno pedagogico. Alla fine del Cours, anzi, egli promette di elaborare, in futuro, un compiuto « sistema » pedagogico. In una lettera a Clotilde de Vaux, del luglio 1845, egli afferma che« l'educazione ... costituisce sempre, per sua natura, la principale applicazione di ogni sistema generale destinato a governare spiritualmente l'Umanità». Che si tratti di fondare una pedagogia scientifica e che tale fondazione sia possibile, Comte ammette implicitamente là dove rifiuta l'ipotesi che i «fenomeni sociali» siano condanna:ti, «da una specie di fatale eccezione», a rimanere nello stadio teologico-metafisica e afferma la «possibilità» di concepire e di coltivare la scienza sociale « al modo di tutte le altre scienze interamente positive ». Senonché, mentre, a questo punto, sarebbe legittimo attendersi che proprio all'elaborazione e all'applicazione del «sistema» di pedagogia positiva fosse
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pedago~ia
scientifica
attribuita, secondo l'impostazione illuministica del problema, la funzione di fattore essenziale e primario nel processo di trasformazione dell'umanità, Comte dichiara« prematura» l'elaborazione immediata del sistema pedagogico, in quanto l'educazione dell'individuo riproduce necessariamente il grado di sviluppo della specie, ragion per cui ness?n piano di educazione positiva potrebbe essere saggiamente concepito finché l'evoluzione generale dell'umanità non sarà giunta allo stadio positivo, non soltanto sul piano della sistemazione generale delle conoscenze, ma anche su quello sociale e politico. Non è possibile addentrarci, qui, in un'approfondita analisi del problema che coinvolge la quest-ione di fondo della coesistenza e del contrasto di una tendenza intellettualistica e di una irrazionalistica nell'ambito del pensiero di Comte. Ci sembra, però, di poter tranquillamente affermare che, indubbiamente, è dal.Cours che emergono i motivi generali che fanno del pensiero comtiano uno dei pilastri della pedagogia del positivismo, e sia pure, come osserva Émile Littré, nel senso di una pura indicazione della linea di svolgimento tendenziale del movimento, « lasciando agli esperimenti fatti in classe e agli eventi la cura di indicare le soluzioni transitorie ». Nella sua Introduzione alla scienza sociale Spencer affronta, implicitamente, il problema della possibilità anche di quella particolare scienza sociale che è, appunto, la pedagogia. Il nostro autore osserva che i fenomeni affrontati dalle scienze sociali sono, fra tutti, i più complessi e quindi i meno suscettibili di un trattamento esatto. Quelli che si possono ricondurre alla generalizzazione possono essere generalizzati solo « entro larghissimi limiti di variazione » e molti, addirittura, si sottraggono all'attività generalizzante. «Ma fin dove è possibile la generalizzazione e la interpretazione che su di essa si fonda, fin là giunge la scienza.» Altrove, nello stesso libro, Spencer afferma che uno dei massimi ostacoli per la costruzione di una scienza sociale è quello derivante dall'impossibilità di afferrare tutti i fenomeni estremamente vari e complessi di cui tale scienza si occupa e di fissarli chiaramente nella molteplicità e varietà dei loro rapporti e nel gioco delle loro proporzioni. Nonostante questi gravissimi limiti, il filosofo inglese non si dichiara affatto disposto ad accontentarsi del punto di vista del senso comune: « Con i metodi ispirati dal senso comune non si viene a capo di nulla neppure [per riparare] una lastra di metallo. E che diremo, dunque, della società? "Credete che sia più facile suonare me che uno zufolo? " domanda Amleto. È forse più facile raddrizzar l'umanità che una lastra di ferro?» Nel suo trattato sulla Educazione intellettuale, morale e fisica, Spen~er, dando per scontata la possibilità di fon_dare la pedagogia su basi scientifiche, si limita ad osservare che l'attuale coesistenza di molti metodi contrastanti (riflesso, nel campo dell'educazione del declin~re del principio di autorità tipico dell'età presente) caratterizza la fase di trapasso dalla «unanimità degli ignoranti» alla « unani-
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mità degli scienziati». Non c'è dubbio, per il nostro autore, saldamente ancorato alla concezione della scienza quale rispecchiamento delle strutture intime della realtà, che semmai, un giorno, gli uomini scoprissero « il vero metodo educativo », questo non potrebbe non imporsi in modo assoluto a tutti, tanto che il discordare da esso costituirebbe errore e provocherebbe danno. I fondamentali motivi comtiani e, soprattutto, spenceriani ora illustrati, si ritrovano agevolmente, ad apertura di pagina, in tutti i pedagogisti della corrente positivistica, compresi quellÌ italiani. Di questi ultimi, però, ci riserviamo di trattare un poco più ampiamente nel capitolo vu di questo volume. Per ora, e in ordine al solo problema che qui ci ha interessati, ci limitiamo a segnalare come al dogmatismo acritico dell' Ardigò faccia riscontro una maggiore consapevolezza e una conseguente più attenta cautela in Gabelli, De. Dominicis e Siçiliani. Quanto al secondo aspetto di quello che abbiamo definito il culto della pedagogia positivistica per la scienza, vale a dire la fiducia nel valore formativo della scienza stessa, esso coinvolge tre ordini di problemi: quello concernente i rapporti fra cultura scientifica e cultura umanistico-letteraria, quello relativo al metodo e quello, infine, relativo alla laicità della scuola. Sul primo punto si deve segnalare l'atteggiamento (per dire il vero non sempre univoco e conseguente) dei positivisti di fronte al dibattito pro e contro gli studi umanistico-letterari. Vediamo, ora, di richiamare i motivi che maggiormente emergono dal corso della storia della pedagogia in rapporto al secondo e al terzo punto. Nessuna accusa è più infondata, nei riguardi della pedagogia positivistica, di quella di nozionismo. Vero è che per i positivisti le nozioni acquistano un valore prevalentemente strumentale, in vista del promovimento di una piena maturità di giudizio e, poiché proprio questo rovesciamento dei rapporti fra i contenuti del sapere e i modi del suo apprendimento costituisce uno dei motivi essenziali fra quelli che caratterizzano il passaggio dal « vecchio » al « nuovo » modo di intendere il fatto educativo - in quanto primato del metodo quale strumento atto a promuovere lo svolgimento autonomo del discente vuol dire primato di quest'ultimo di fronte al docente e, soprattutto, di fronte al sapere elaborato dalle generazioni passate ed affidato al «libro» -possiamo senz'altro affermare che i positivisti si pongono sul piano della scuola attiva e si possono «ricollegare ai grandi precedenti dei Rousseau, dei Pestalozzi, dei Froebel» (Ugo Spirito). Questo atteggiamento pedocentrico, antiintellettualistico, antilibresco, è particolarmente evidente nel già citato libro Educazione intellettuale, morale e fisica di Spencer (1861), di cui si ritroverà l'eco in quasi tutti gli scritti pedagogici fioriti in Europa nei decenni immediatamente successivi. Il motivo ispiratore della metodologia spence:riana è quello secondo il quale bisogna far entrare nella scuola tutte quelle attività spontanee, apparentemente senza scopo, mediante le
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quali il fanciullo, ma non solo il fanciullo, l'uomo in generale, apprende da sé, prima di andare a scuola, nelle attività extrascolastiche, durante tutta la vita post-scolastica. L'ordinamento delle materie deve corrispondere al processo di sviluppo delle varie attività psichiche. Niente verbalismo: il « dire » troppo al fanciullo trasforma quest'ultimo in un recipiente delle osservazioni altrui. La vecchia scuola presentava agli alunni «il mero prodotto dell'osservazione» anziché far loro ripercorrere, il processo di ricerca che ha condotto ad ottenere i prodotti stessi. Leggi e regole, tutto ciò che non sia direttamente osservabile, dimostrabile, verificabile sperimentalmente, condannerebbe inesorabilmente all' enciclopedismo rapsodico ed arido, privando i fanciulli di quella visione d'insieme, di quella prospettiva che, sola, riesce a dare un significato anche alle nozioni. Per quanto riguarda il terzo punto si deve riconoscere che spesso i positivisti del tardo Ottocento tendono, effettivamente, a identificare la laicità con la «neutralità» di fronte ai vari credi e alle varie ideologie, e col giustificare la neutralità mediante una confessione - spesso un tentativo ipocrita e provocatorio di «incompetenza». Non mancano però gli spiriti più coerenti e coraggiosi: citeremo, per l'Italia, Pietro Siciliani e Andrea Angiulli. Resta, comunque~ incontrovertibile, la constatazione che i tempi appaiono ancora immaturi per l'elaborazione di una teoria del laicismo come « positività » e cioè come piena consapevolezza del fatto che, nel mondo moderno, il supremo imperativo categorico è quello di impegnarci in attività socialmente rilevanti solo quando esse siano state dimostrate valide dal discorso scientifico - il solo valido intersoggettivamente- e di abituarsi, negli altri casi, all'epochè (sospensione di giudizio). c) Pedagogia e scienze ausiliarie Possiamo articolare il nostro discorso sul contributo fornito dalle scienze umane alla pedagogia in tre parti, relative, rispettivamente: alle scienze medicobiologiche, alla psicologia, alle scienze sociali. Ovviamente, in questa sede ~arà necessario limitarsi poco più che a un'elencazione indicativa. · Scienze medico-biologiche. La biologia propone alla riflessione dei pedagogisti il concetto di eredità. Si tratta, nientemeno, di distinguere e delimitare il campo accessibile alle influenze ambientali e, conseguentemente, di fornire un contributo rilevante per la fissazione dei confini entro i quali la stessa azione educativa, diretta o indiretta, potrà risultare efficace. Dal « divieni quel che sei » di Pindaro, per il quale« pieno valore ha soltanto colui nel quale il pregio glorioso è innato», fino alla proclamazione della onnipotenza dell'educazione da parte di Helvétius, e fino al sociologismo imperante, come vedremo, ai nostri giorni, una riconsiderazione dell'intera storia della pedagogia sotto questo particolare angolo di visuale potrebbe risultare ricca di spunti estremamente suggestivi. Si potrebbe, fra l'altro, controllare come l'alternarsi delle tre tesi sia andato di pari passo con l'affermarsi di concezioni politico-sociali «autoritarie» o «li88
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berali ». Nel periodo che stiamo esaminando, per esempio, è indiscutibile che il riconoscimento dell'esistenza di attitudini ereditarie è prevalentemente usufruito nel senso di addossare alla società la grave responsabilità di rintracciarle e di renderne possibile, anzi, di favorirne lo sviluppo, e d'altra parte, si tratta, per la prima volta nella storia della cultura, di trasferire il discorso su questo argomento dal piano delle declamazioni oratorie e delle pseudodimostrazioni speculative a quello dell'osservazione e del controllo sperimentale. Un altro concetto proposto dalla biologia è quello di « maturazione » intesa come sviluppo dell'organismo in funzione del tempo e dell'età, dipendente da mutamenti anatomofisiologico-biochimici e relativamente indipendente dalle condizioni ambientali, dalle esperienze e dall'esercizio. È evidente che, sul piano pedagogico, si tratta, qui, di convalidare o meno l'impostazione, potremmo dire, rousseauiana, per la quale è necessario che il bambino, in ogni stadio, riceva gli stimoli, il tipo di insegnamento compatibili con il suo potenziale cerebrale. Sviluppato, questo concetto porterà all'ipotesi dell'esistenza di un momento « ottimo » per ogni apprendimento specifico, prima del quale l'insegnamento sarebbe praticamente inutile e condannerebbe l'alunno ad uno sforzo dannoso e dopo del quale ogni rinvio darebbe poco vantaggio o, addirittura, porterebbe a una diminuzione di rendimento. Passando alla medicina vera e propria, si rivelano di grande importanza lo studio delle malattie infantili che rende possibile un'efficace profilassi e una razionale organizzazione dell'igiene scolastica; gli studi sulla fatica, e, soprattutto, le ricerche relative all'educazione degli anormali. Quest'ultimo punto ci porta a nominare quattro studiosi la cui opera deve essere considerata una fedele espressione delle esigenze di rinnovamento della scuola e dell'educazione in generale. Ci riferiamo ai francesi Jean-Marie-Gaspard Itard e Edouard Séguin, al belga Ovide Decroly e alla italiana Maria Montessori. ltard è noto soprattutto per il tentativo (fallito) di recuperare alla civiltà il cosiddetto Selvaggio dell' Aveyron, un fanciullo catturato nei boschi (del dipartimento, appunto, di A veyron) in condizioni del tutto animalesche e considerato per qualche tempo, da molti studiosi, come un provvidenziale, insostituibile caso di «uomo della natura». L'Itard, nel suo, pur vano, tentativo di recupero, ha modo di affermare alcuni principi che saranno confermati dalla pedagogia posteriore: il principio secondo il quale lo sviluppo psichico non può compiersi fuori della vita sociale e, pertanto, la deficienza è imputabile principalmente a fattori sociali (nel caso specifico: all'isolamento) e il principio secondo il quale l'azione dell'educatore deve lasciarsi guidare dalla progressiva comparsa delle facoltà intellettuali. Séguin evidenzia l'importanza del far leva su tutte le funzioni psichiche e in particolare sull'affettività e non sulla sola intelligenza, l'importanza determinante dell'ambiente e, nel quadro dell'ambiente, della libera attività dell'educando.
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Di Decroly e della Montessori si parlerà più ampiamente nel capitolo xi del volume settimo, in quanto l'influsso del loro pensiero e della loro opera si farà sentire, in Europa e nel mondo, soprattutto in pieno xx secolo. Per ora ci limitiamo a presentarli come due dei massimi esponenti di quel movimento che, partendo dalla psichiatria e passando attraverso la pedagogia dei subnormali, giunge ad elaborare una pedagogia generale. Potremmo aggiungere, per concludere questo rapido discorso indicativo, che il merito precipuo dei medici-pedagogisti citati consiste (facendo eccezione, in parte, per la Montessori) nell'aver capito che l'esperienza fatta sui subnormali è valida non in quanto fornisca procedimenti meccanicamente trasferibili ai normali, ma in quanto costringe a individualizzare la terapia, mette in luce la necessità di un costante collegamento fra medico, psicologo ed educatore e permette di approfondire meglio, attraverso le loro manifestazioni abnormi, talune funzioni essenziali della psiche normale. Pedagogia e psicologia. La necessità che l'insegnante e, in generale, l'educatore studi egli stesso psicologia e ricorra ai consigli dello psicologo specializzato, è stata sentita (dove pur lo è stata) solo in tempi recentissimi. Le ragioni di un così grande ritardo possono essere trovate nella pretesa per cui tutti si credono «naturalmente» dotati di quel tanto di «intuizione psicologica » indispensabile per essere maestro, e nella troppo recente nascita della psicologia scientifica generale e della psicologia dell'età evolutiva in particolare. Dal momento della sua apparizione, però, la psicologia dell'età evolutiva, e le sue applicazioni alla pedagogia hanno uno sviluppo rapido e imponente né si vede come potrebbe essere altrimenti, se è vero che la psicologia applicata all'educazione è uno dei due rami più importanti della psicologia applicata in generale (l'altro è costituito dalla psicologia industriale). Non a caso il tipo di indagine psicologica che qui ci interessa ha il massimo sviluppo precisamente nei paesi più industrializzati: USA, Inghilterra,. URSS, Germania, Francia. Uno degli aspetti più rilevanti nell'evoluzione della scienza in questione è quello che riguarda i metodi. Si prendono le mosse con alcuni tentativi di « biografie infantili» costruite per lo più da scienziati-genitori, i quali talora inseriscono nella loro indagine esperimenti e misurazioni. Verranno poi i tests e l'applicazione, effettuata in America a partire dal 1904, sui bambini in età scolastica, di vari sistemi di misurazione già applicati in altri campi. La nota più significativa, nell'evoluzione in campo metodologico, è chiaramente costituita dal progressivo passaggio dall'impiego dell'osservazione a quello dell'esperimento o di tecniche ad esso vicine. Ne consegue l'accentuarsi del rigore e, con esso, della difficoltà.
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Se passiamo ora a considerare le conclusioni teoriche più tipiche di questa psicologia pedagogica, la nostra attenzione è attirata soprattutto da tre ordini di mòtivi: I) Tendenza a stabilire un parallelismo tra fenomeni organici e manifestazioni psichiche. È una grande conquista della scienza moderna, esposta, però, sotto l'impulso del positivismo spenceriano e tedesco, alla tentazione di operare la riduzione di tutti i piani della realtà ad un unico piano fondamentale mediante un rigoroso rapporto causale e, quindi, al pericolo di slittare in un piatto materialismo. z) Tendenza all'analisi, alla determinazione degli «elementi» costitutivi della psiche, dei loro rapporti e delle leggi regolanti tali rapporti. Ora, come affermerà la scienza più matura, le scomposizioni possono essere necessarie a livelli di ricerca ma risultano pericolose nelle applicazioni, specialmente nel campo dell'educazione. 3) Tendenza ad estendere il criterio della misurazione alla vita psichica, usufruendo ddle tecniche via via perfezionate da altre scienze, quali la sociologia, l'economia e la statistica. L'adozione del criterio della misurazione riguarda, all'inizio, essenzialmente il campo dell'intelligenza; più avanti le tecniche della misura si estenderanno anche al campo del carattere e, infine, a quello della socialità. Nel complesso si può identificare come prevalente, fin dal primo attuarsi del connubio fra pedagogia e psicologia, l'impegno ad adeguare éoncretamente l'azione educativa alle fasi evolutive dell'alunno. E proprio questo concetto di «fase evolutiva » merita che ci si· soffermi un momento per una sia pur rapida riflessione. Nel corso della storia delle indagini sullo spirito umano, ben prima dell'affermarsi della psicologia scientifica, si rivelano, in rapporto al problema dello svolgimento della persona, due tendenze fondamentali: la prima, la più antica, descrive il passaggio dall'infanzia alla maturità come un'evoluzione graduale, un accrescimento essenzialmente quantitativo, una successione di età che segnano, poi, ed è questo l'aspetto pedagogicamente più rilevante della cosa, un passaggio dal meno al più, dall'imperfetto al perfetto o, per usare la classica terminologia aristotelica, dalla potenza all'atto. È un'impostazione che spiega il disinteresse degli antichi per la psicologia dell'età evolutiva e che, a sua volta, si spiega con tale disinteresse. È, ancora, un'impostazione connessa con una struttura statica e autoritaria della società, per la quale la generazione adulta si ritiene depositaria dei « valori » eterni ed immutabili e crede suo diritto-dovere trasmettere tali valori, intatti, nel più breve tempo possibile, alla generazione che cresce. L'altra tendenza, al contrario, descrive l'età evolutiva quasi come una successione di metamorfosi, in ognuna delle quali l'individuo assume tratti in parte
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eterogenei rispetto a quelli già assunti o da assumere nelle altre fasi, con le quali, comunque, la diversità è essenzialmente qualitativa anziché di grado. Il lettore ha trovato questa teoria fin dagli albori (e non a caso!) dell'età moderna: pensi a Comenio, Fénelon, Vico e Rousseau. Una civiltà convinta che la verità sia figlia del tempo e che l'infinita diversità degli individui sia la ragion prima del progresso umano, una società che afferma il diritto per ogni forma di vita, di cultura, di attività, di proclamarsi superiorem non recognoscens deve pure, alfine, giungere a proclamare l'eguale dignità, oltre che dei sessi, delle razze e dei livelli sociali, anche delle diverse fasi della vita individuale. Così si avrà la cosiddetta «rivoluzione copernicana» anche nel campo dell'educazione, con la collocazione, al centro del processo educativo, non più del contenuto culturale (depositato nel « libro » di cui è perfetto conoscitore ed interprete autorizzato il maestro) ma dell'alunno, con la sua personalità, i suoi bisogni, i suoi interessi. Questa teoria fornisce inoltre una solida giustificazione a quella strutturazione « ciclica » della scuola che costituisce una indubbia apertura verso la realizzazione di una diffusione di « tutto » il sapere fra « tutti » gli uomini entro i ben precisi limiti in cui tale realizzazione è possibile in una società divisa in classi. Infatti, a questo punto, il problema diventa quello di « tradurre » qualsivoglia contenuto nel tipo di « linguaggio » corrispondente al grado di maturazione dell'alunno al quale ci si rivolge: l'essenziale è che tutti vadano a scuola per un certo numero di anni (cinque-otto), senza che la società si impegni a far percorrere a tutti l'intero curriculum. Tra la fine del XIX secolo e gli inizi del xx, nel quadro di quella complessa ventata irrazionalistica che spazzerà l'Europa (e non solo sul piano culturale, se è vero che essa costituirà la preparazione ideologica della prima guerra mondiale e della successiva involuzione autoritaria) anche la psicologia e, in particolare, proprio la psicologia applicata all'educazione dovrà ·sostenere una serie di attacchi, i quali, se in alcuni paesi- fra i quali l'Italia- provocheranno un periodo di vera e propria stasi, altrove raggiungeranno l'effetto, ampiamente positivo, di favorire l'acquisizione da parte della psicologia stessa di una maggiore consapevolezza circa il proprio campo e i propri metodi. La nuova psicologia dell'età evolutiva sarà caratterizzata da maggiore autonomia nei riguardi delle altre scienze e dalla considerazione del fanciullo come personalità totale, dotata di caratteristiche irripetibili, in parte derivanti dal condizionamento sociale. Si aprono così le porte ad una tematica destinata ad occupare il centro del dibattito pedagogico nei decenni successivi: quella relativa all'individualizzazione del metodo, quella concernente l'educazione alla socialità e, infine, quella riguardante il carattere « strutturalmente » sociale sia della psiche sia della cultura. In questa direzione la nuova pedagogia seguirà i suggerimenti del behaviorismo, del gestaltismo, del globalismo, della psicoanalisi. Ma sugli sviluppi di questi motivi si tornerà più analiticamente nel volume ottavo.
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Pedagogia e sociologia. Il sorgere e l'affermarsi della sociologia permette che vengano affrontati a livello di indagine scientifica due ordini di problemi interessanti l'educazione. Si tratta in primo luogo di studiare l'azione che la società nel suo complesso, intenzionalmente o no, mediante tutti gli elementi, formali o meno, costitutivi della sua struttura e tra loro interagenti, esercita sull'individuo; in secondo luogo di determinare le caratteristiche strutturali che quel particolare gruppo associativo che è la scuola deve assumere per realizzare il fine di produrre il tipo di uomo (di lavoratore, di cittadino) richiesto da una determinata società in un determinato momento del suo sviluppo storico. Il primo punto, a sua volta, si articola in tre tipi di ricerche, relative: a) alla storia delle strutture particolari (quindi anche delle istituzioni educative) e della cultura nei suoi rapporti con la storia generale della società; b) al modo con cui ogni struttura particolare (famiglia, scuola, banda, chiesa, fabbrica, ecc.) influenza lo sviluppo dell'individuo; c) al rapporto fra maturazione biopsichica e trasformazione dei comportamenti sociali (qui, evidentemente, siamo in una fascia di competenze comuni a sociologia, psicologia e pedagogia). Lo stesso discorso può essere fatto anche sotto un'angolazione diversa. Possiamo, cioè, richiamare l'attenzione sul fatto che la sociologia mette in evidenza il carattere «strutturalmente» sociale dell'individuo e di tutti gli elementi costitutivi della cultura: dalla lingua, parlata e scritta, al calcolo e alla misurazione, alle norme del comune vivere civile a quelle del costume e a quelle più propriamente etiche e religiose, alla storia, alla geografia, all'arte, alla scienza, alla filosofia ecc. Ragion per cui gli individui che entrano in rapporto nel processo dell'educazione sono già, per se stessi, prima di tale rapporto, entità essenzialmente sociali. Ne deriva, ancora, che l'azione educativa è un evento sociale e socialmente rilevante non solo in quanto, introducendo l'educando in una vita di gruppo extrafamiliare, lo avvia a vivere nella più vasta« società» (attivamente o passivamente, questo dipende dal tipo di società in funzione del quale la scuola è chiamata a educare), ma anche in quanto i contenuti culturali che essa fornisce, da un lato, costituiscono altrettanti « strumenti » senza dei quali il vivere in società sarebbe impossibile ma, d'altro canto, essendo essi stessi «prodotti» di un certo tipo di società, predeterminano l'alunno a un certo tipo di comportamento sociale. Senonché il riconoscimento dell'esistenza di rapporti funzionali tra educazione e società può condurre a sbocchi diametralmente opposti: da un lato può portare ad attribuire all'educazione in generale e in particolare alla scuola, una virtù demiurgica, capace di trasformare la società. È l'atteggiamento che possiamo indicare come illuministico: basti pensare a Helvétius e a Condorcet, atteggiamento ancora presente in alcuni aspetti del positivismo di Comte. Indubbiamente, però, la tesi prevalente nella seconda metà del XIX secolo è quella che sottolinea, invece, la dipendenza dell'educazione dalla società. In tal senso si parla di « sociologismo pedagogico », chiaramente rileva93
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bile nel pensiero di Spencer. Secondo questa tesi, la sociologia dovrebbe elaborare, al limite, studi statistici delle abitudini, dei desideri, degli interessi, delle idee di fatto sussistenti, per derivarne il piano di lavoro da imporre ai vari gradi e tipi di scuola. La scuola, insomma, dovrebbe limitarsi ad offrire coscientemente il genere di educazione che l'insieme sociale fornisce inconsciamente, ivi compresi i suoi difetti e le sue perversioni. Il sociologismo pedagogico ha probabilmente la sua espressione più tipica nel pensiero del francese Émile Durkheim (di cui si è parlato nel capitolo m), per il quale l'educazione, « lungi dall'aver per unico e principale scopo l'individuo, è prima di tutto il mezzo col quale la società rinnova perpetuamente le condizioni della propria esistenza». Essa «è l'azione esercitata dalle generazioni adulte su quelle che non sono ancora mature per la vita sociale. Essa ha per scopo di suscitare e di sviluppare nel fanciullo un certo numero di stati fisici, intellettuali e mentali, reclamati e dalla società politica nel suo insieme e dall'ambiente sociale al quale egli è particolarmente destinato ». Senonché l'impostazione sociologica ammette anche uno sbocco di tipo rivoluzionario. Una volta dedotte le caratteristiche dell'individuo dalla condizione storica in cui gli è capitato di vivere, tutto il discorso pedagogico sulla selezione e sull'orientamento e lo stesso discorso psicologico sulle attitudini va rifatto su basi completamente nuove. Si tratta di eliminare i condizionamenti negativi e di arricchire l'ambiente di stimoli culturalmente positivi. Si tratta, soprattutto, di mettere tutti gli individui in condizioni di partenza sostanzialmente e non solo formalmente uguali. Questa tematica è tipica del marxismo, il quale, però, più che puntare sulla profonda trasformazione della scuola (scuola a tempo pieno, satura di stimoli vitali ed uguale per tutti almeno per un congruo numero di anni) gioca tutto sulla carta della rivoluzione, giungendo così, per altra via, alla svalutazione del processo educativo e alla negazione dell'autonomia dell'educazione. Se i valori, i contenuti culturali, le istituzioni scolastiche sono mere sovrastrutture rispetto alle condizioni socio-economiche dominanti, ne deriva l'impossibilità, e, al limite, la negatività, di un radicale rinnovamento del piano educativo entro il quadro della società esistente. L'uomo nuovo, pienamente e armonicamente sviluppato, potrà essere solo il risultato della trasformazione rivoluzionaria delle strutture. A questo punto sorge il problema della possibile convergenza della diagnosi sociologica marxistica e dell'esigenza che abbiamo definito illuministica: ma si tratta di un problema i cui termini cominciano ad ess'f!re chiaramente posti solo ai nostri giorni e che sarà pertanto affrontato nell'ultimo volume. d) Pedagogia sperimentale È necessario distinguere l'espressione «pedagogia sperimentale» non solo da altre quali « pedagogia positiva », « psicologia pedagogica » ma, anche, da
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« pedagogia scientifica ». Che una pedagogia la quale voglia atteggiarsi a disciplina autenticamente scientifica non possa configurarsi che come scienza sperimentale, è indiscutibile. In realtà, però, sappiamo come il termine « scientifico » sia stato usato talora per indicare concezioni fondate su procedimenti meramente speculativi (Herbart) o più o meno direttamente avallate da argomenti psicologici, sociologici ecc. Si tratta, invece, di costruire un tipo di discorso rigorosamente pedagogico (il quale, cioè, escluda dal proprio campo tutti quei fatti che non riguardino direttamente il processo educativo) e, altrettanto rigorosamente, sperimentale, conseguente, cioè a tutta una serie di lavori di carattere indiscutibilmente sperimentale (creazione di gruppi di controllo, controprove, misurazione, elaborazione statistica dei risultati ecc.). Si può far risalire l'origine della pedagogia sperimentale alla « pedologia » dello statunitense J.G. Stanley Hall (I884-I9z4), la quale si propone di studiare il fanciullo in tutti i suoi aspetti, somatici e psichici e di controllare con rigore sperimentale l'efficacia dei vari metodi e delle varie tecniche nel campo didattico. Stanley Hall è autore, fra l'altro, di un volume sull'adolescenza, Adolescence, che costituisce « il primo tentativo organico di studi di un periodo della vita umana, condotto col metodo del questionario » (Zunini). Sempre negli Stati Uniti merita di essere ricordato, fra i creatori della pedagogia sperimentale, J.M. Rice (I857-I934)· Dopo avere studiato in Germania, a J ena e a Lip sia, egli, tornato in America, si inserisce entusiasticamente nel movimento per lo studio del fanciullo e della didattica che aveva ricevuto gran parte del suo impulso dall'opera dello Stanley Hall. Colpito dall'esistenza, nel campo della pedagogia, di un inestricabile groviglio di teorie spesso decisamente in contrasto tra loro, egli giunge, nel I 894, alla conclusione che tale confusione derivi dal fatto che « noi possediamo innumerevoli opinioni ma non disponiamo di fatti a sostegno delle nostre opinioni, e che pertanto è necessario raccogliere fatti e, .soprattutto, interpretarli in maniera da ricavarne conclusioni universalmente valide». Si tratta, dunque, di trovare il criterio «oggettivo» per l'elaborazione e l'interpretazione dell'esperienza e tale criterio non può essere che il metodo sperimentale. I risultati delle ricerche di Rice furono pubblicati dapprima a partire dal I 896, nella rivista « The form » e successivamente coordinati sistematicamente nel libro Scientijic management in education (Direttive scientifiche nell'educazione), considerato «di grande interesse» ancora alla fine degli anni '3o da uno sperimentalista autorevolissimo come R. Buyse. Nello spirito dello sperimentalismo pedagogico operano, sempre negli Stati Uniti, organizzazioni come la National Association for the Study of Children (I893) o il centro di ricerca scientifico creato a Chicago nel 1899· Uno studioso delle origini e dello sviluppo del movimento che qui ci interessa, ha elencato, in The pedagogica/ seminary, ben 44I titoli di riviste ed opere di pedagogia sperimentale pubblicate, negli Stati Uniti, durante il solo anno r 899· 95
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Per quanto riguarda l'Europa e nell'ambito del periodo che in questo capitolo stiamo considerando, ci limiteremo a citare Ernest Meumann e Wilhelm A. Lay per la Germania, Alfred Binet per la Francia e William Winch per l 'Inghilterra. Ernest Meumann (I86z-I9I 5) consegue la laurea in filosofia, ma ben presto è attratto dalla psicologia: si reca a Lipsia (I 89 I) dove diventa dapprima discepolo e, successivamente, assistente e collaboratore di Wundt. Meumann ha ben chiara l'idea che una pedagogia sperimentale non può risolversi in psicologia applicata, ma deve configurarsi come una ricerca « nella quale l'obiettivo vero della esperienza è il decidere direttamente del valore dei procedimenti e dei metodi pedagogici ». In realtà, però, questa parte del programma è destinata a rimanere poco più che nelle intenzioni dell'autore il quale, fortemente influenzato dalla concezione di Wundt, non solo approfondisce assai più il settore della psicologia sperimentale di quello della didattica, ma anche, quando affronta ricerche propriamente pedagogiche, considera che il luogo adatto per queste ricerche sia il laboratorio piuttosto che la scuola, in quanto è nel laboratorio che sono nati e che si possono meglio utilizzare i procedimenti della ricerca sperimentale. Con ciò egli si espone alla facile accusa di creare un ambiente e una situazione artificiali e di perdere di vista proprio quel mondo concreto del fanciullo che si tratterebbe di indagare. Contemporanéo di Meumann "è Wilhelm A. Lay (I86z-I9z6). Ciò che differenzia massimamente Lay da Meumann è il maggior interesse che il primo rivela per le questioni metodologico-didattiche, e conseguentemente per l'elaborazione, per ogni materia, delle tecniche più redditizie. Insomma l'interesse circa i processi mentali è, nel Lay, in funzione dei risultati ottenuti sul piano dell'apprendimento. Oggetto degli studi di Lay, diversamente da quanto accadeva per Meumann, è assai più la classe, come gruppo ordinario di alunni, che il singolo alunno isolato nell'ambiente artificioso del laboratorio. La critica che, in generale, si muove a Lay (ma si tratta di una questione teorica di notevole importanza che verrà da noi ripresa più avanti) è dunque un'altra e riguarda la sua pretesa di ridurre tutta la pedagogia a pedagogia sperimentale, e la pedagogia sperimentale a didattica sperimentale, nella convinzione che la pedagogia sperimentale sia, semplicemente, «la pedagogia generale dell'avvenire ». Alfred Binet (I857-I9II) del quale si è parlato nel capitolo n del presente volume, allievo di Jean-Martin Charcot- uno dei massimi esponenti della neuropsichiatria francese, cui pure si è fatto cenno nel capitolo anzidetto - sebbene conservi l'interesse dimostrato dal suo maestro per i probletni di psicologia patologica, viene progressivamente concentrando la sua attenzione sui problemi della intelligenza e della personalità e, in particolare, della psicologia differenziale. Nel I9o4 il governo francese nomina una commissione con l'incarico di studiare le cause del ritardo fra numerosi alunni della scuola pubblica. Sviluppando il la-
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voro che gli è stato affidato nell'ambito di questa commissione, Binet, in collaborazione con Théodore Simon, prepara il primo « test » mirante a fornire un indice del grado di funzionamento intellettuale dell'individuo. Nel 1908, rielaborando la sua« scala», Binet raggruppa le prove in livelli di età, introducendo così il concetto di « età mentale » destinato ad assumere un'importanza fondamentale nella storia della pedagogia del nostro secolo. I reattivi Binet-Simon accendono ben presto l'interesse degli studiosi di tutto il mondo: la prima importante revisione sarà quella operata, negli Stati Uniti, all'università di Stanford, da Terman: è nella scala revisionata da L.M. Terman (scala StanfordBinet) che, per la prima volta, viene introdotto il concetto di « quoziente di intelligenza» (QI), rapporto fra età mentale (livello medio dei risultati raggiunti dagli alunni di una certa età) e l'età cronologica del singolo alunno. Un altro campo di indagine scavato dal Binet è quello che riguarda la fatica intellettuale. La Jat~!!,Ue intellectuelle ( 1898) è stata definita da R. Buyse un libro che contiene tutti gli elementi di una vera metodologia della ricerca scolastica. Al di là delle ricerche particolari Binet è un fervido assertore della pedagogia sperimentale anche sul piano dei principi. La vecchia pedagogia, per lui, è risultato di pregiudizi, procede per affermazioni gratuite, confonde le dimostrazioni rigorose con le citazioni letterarie, al posto dei fatti mette avanti discorsi ed esortazioni: di qui la necessità di trasferirsi sul piano dell'osservazione e, soprattutto, della sperimentazione. L'inglese William Winch (1864-193 5) non si sofferma sul problema generale della possibilità e legittimità di una pedagogia sperimentale, problema che considera, ormai, risolto in senso affermativo: per lui si tratta di passare a un'intensa opera di sperimentazione in campi specifici. Fra maestro, pedagogista e psicologo deve esserci, secondo Winch, un rapporto diretto e reciproco. La scuola senza i lumi della pedagogia sperimentale e della psicologia si· risolverebbe in «pratica», nel senso deteriore del termine. Pedagogia e psicologia, qualora non attingessero alla viva esperienza della scuola e al banco di prova di tale esperienza non verificassero le loro ipotesi, si risolverebbero in esercitazioni accademiche. Date queste premesse, appare logico che Winch si dedichi soprattutto a indagini sull'insegnamento delle singole materie scolastiche: ortografia, aritmetica ecc. Particolarmente efficaci sono alcuni suoi studi sull'insegnamento della lettura ai principianti, della geometria e alcuni esperimenti sulla memorizzazione. V · LE
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SCUOLE NUOVE
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Il fenomeno delle « scuole nuove >> deve essere considerato sotto due punti di vista ben distinti: da un punto di vista formale esse non costituiscono un fatto veramente nuovo. La storia delle istituzioni educative, è, in realtà, in lar-
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ga misura storia di « scuole modello », nelle quali maggiormente si incarnano le aspirazioni di un'epoca, l'ideale educativo di una determinata società: questo vale per la scuola di Isocrate come per la « Giocosa » di Vittorino da Feltre, per le «Piccole scuole» di Port-Royal, come per il Filanttopino e per Yverdun. Una chiara distinzione fra i caratteri presentati da alcune istituzioni esemplari, d'avanguardia, sorrette, di norma, da abbondanti mezzi, e le istituzioni destinate a più ampie masse (nei limiti in cui esistono) caratterizza tutto l'arco della storia della società e deve essere tenuto presente dallo studioso che voglia evitare pericolose confusioni. La novità del fenomeno che qui prendiamo in esame è costituita da taluni motivi ricorrenti in tutti gli esperimenti, tali, cioè, da poter essere assunti quale criterio per caratterizzare il tipo di scuola che faticosamente emerge dalla società liberale e successivamente democratica, della quale tende ad appagare le esigenze e ad incarnare gli ideali. Possiamo identificare il tema fondamentale delle scuole nuove nell'impegno di promuovere un'educazione fondata sull'attività dell'educando e adeguatasi via via alle caratteristiche delle fasi dell'età evolutiva, anziché incentrata sul contenuto culturale e sulle sue strutture. Di qui l'importanza attribuita all'interesse, l'impegno ad elaborare tecniche capaci di realizzare l'individualizzazione e la socializzazione del lavoro, il riconoscimento della necessità di ricorrere all'ausilio di scienze quali la psicologia e la sociologia. Un altro motivo essenziale nella pedagogia delle scuole nuove è costituito dalla convinzione che l'educazione indiretta sia di gran longa più efficace di quella diretta. È la vita, con le sue infinite e infinitamente varie e spesso inavvertite stimolazioni, che « forma » la personalità, assai più delle massime e delle stesse impostazioni dell'educatore. Ma, questo, anziché portare al deperimento e alla scomparsa della scuola, porta al fenomeno, inverso ma solo apparentemente contraddittorio, di una scuola che tende a farsi vita, ad abbracciare sempre più della vita ed è pertanto spinta a farsi scuola « totale », a tempo pieno ecc. Il lettore non stenterà a riconoscere, già in questa prima presentazione globale, tutti o almeno i fondamentali motivi ai quali si ispirano, ai nostri giorni, le forze progressiste (non più, ormai, sparute iniziative private ma vasti e poderosi movimenti politici) che si battono per la realizzazione di una scuola unitaria (e in questo senso veramente « popolare ») che estenda a tutti i fanciulli e gli adolescenti le conquiste delle ottocentesche « scuole nuove ». Si tratta di un ritmo che caratterizza l'intera storia delle istituzioni educative: realizzazioni di élite, che si contrappongono inizialmente alle strutture, ai contenuti, ai metodi ormai stantii della scuola a più larga diffusione e con frequenza più massiccia e che, successivamente, promuovono l'impegno a generalizzare le conquiste più geniali ed audaci. Senonché, alla luce di quanto si è detto nel paragrafo n del presente capitolo,
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l'intero fenomeno delle scuole nuove può essere riconsiderato sotto un'angolazione del tutto nuova: si tratta di veder~, nel fenomeno stesso, una radicale protesta contro quell'asservimento dell'uomo che il XIX secolo, sotto certi punti di vista, esaspera anziché ridurre. Non a caso la prima di tali scuole è quella aperta, nel 1859, da Tolstoj a Jasnaja Poljana, in Russia, cioè nel più chiuso e assolutistico fra gli stati cosiddetti « civili », e non a caso in questo primo esperimento viene avanzato il programma più radicalmente rivoluzionario: quello dell'anarchismo pedagogico. Con questo non si vuole respingere l'interpretazione più tradizionale di chi si limita a vedere nelle scuole nuove il punto d'approdo del lunghissimo processo di elaborazione della dottrina pedagogica moderna a partire dall'umanesimo e scorge nella nuova iniziativa il carattere di protesta essenzialmente contro la vecchia educazione « adultistica », incentrata sui contenuti, ispirata ad un ideale gerarchico ed autoritario della società. Vogliamo soltanto sottolineare il fatto che questa linea di sviluppo della pedagogia moderna, che rappresenta uno degli aspetti del più vasto processo di liquidazione del principio d'autorità a tutti i livelli, si trova ad un tratto in aperto contrasto con talune caratteristiche della società capitalistico-borghese e della scuola di massa a cui tale società ha dato vita, e come da questo contrasto si generi poi una convergenza fra i temi proposti dalla scuola nuova e il progressivo diffondersi della scuola di massa destinata a creare le condizioni per la più grandiosa rivoluzione di tutti i tempi nel campo dell'educazione e forse, anche molto più in là di questo campo. Possiamo ora considerare gli esempi più significativi di scuola nuova, quali si sono venuti configurando tra la metà del XIX secolo e, grosso modo, la prima guerra mondiale. Ricordiamo di aver deliberatamente tralasciato alcuni importanti esperimenti (quello di Dewey a Chicago, di Decroly a Bruxelles e della Montessori a Roma) perché, pur cadendo entro il periodo qui considerato, proiettano la loro importanza ben più in qua nel tempo e pertanto saranno considerati in seguito. VI · LEV TOLSTOJ
Il grande iniziatore del movimento delle « scuole nuove » in Europa è, indubbiamente, il russo Lev Nikolajevic Tolstoj (1828-1910). L'ispirazione di Tolstoj è senz'altro rousseauiana. Anche per lui «l'uomo nasce perfetto» e «il bambino offre un modello di naturalezza, d'innocenza, di bontà, di bellezza e di verità ». Partendo da questa premessa, Tolstoj giunge ad una radicale negazione del diritto di educare. L'educazione «è la premeditata formazione degli uomini secondo modelli dati», è «l'imposizione forzata, coercitiva, di un individuo sull'altro allo scopo di formare quel tipo d'uomo che a noi sembra opportuno». Il rifiuto dell'educazione, in quanto ingiusta, infruttuosa e in ultima analisi 99 www.scribd.com/Baruhk
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impossibile, non implica però un altrettanto radicale rifiuto dell'istruzione, intesa come « libero rapporto tra gli individui avente per base il bisogno di ognuno di essi di acquistare cognizioni già acquistate da altri ». Senonché l'organizzazione elaborata per il progresso e la diffusione della cultura è tale che nove lavoratori su dieci non godono dei frutti della scienza; e gli studiosi di scienze sociali si sforzano di aiutare la classe dominante a « tenere gli uomini nella schiavitù e nella miseria »; e le scienze naturali servono ad « aumentare il potere dei ricchi sui lavoratori sottomessi ed a rafforzare gli orrori della malvagità e delle guerre». D'altro canto, notando, specialmente durante i suoi viaggi in Occidente e in particolar modo in Francia, come il popolo, nonostante l'azione negativa della scuola, riesca ad essere vivace, intelligente, socievole, indagatore, in una parola: civile, Tolstoj giunge alla conclusione che l'autentica educazione deve essere libera, episodica, tratta dall'ambiente che offre le occasioni per il manifestarsi dell'interesse. Dal confluire dei motivi fin qui accennati nasce, intorno al 1858, a Jasnaja Poljana, la scuola sperimentale per i figli dei contadini. Si tratta probabilmente dell'esperimento più spregiudicato di educazione libera esprimente la protesta più radicale contro la tradizionale oppressione degli alunni. È una scuola senza programma, senza orario, senza disciplina formale. VII · CECIL REDDIE E LA SCUOLA DI ABBOTSHOLME
L'inglese Cecil Reddie (1858-1932), dopo aver studiato pedagogia in Germania, restando notevolmente influenzato dalla teoria herbartiana degli interessi, fonda nel 1889, ad Abbotsholme nella contea di Derby, una scuola-convitto, il cui scopo è quello di educare «quell'individuo superiore, pienamente formato sotto tutti gli aspetti, capace di organizzare, di vivere per gli altri e di lavorare con pieno disinteresse, che dovrebbe dirigere il nostro paese ». La scuola nuova del Reddie sorge e si sviluppa, dunque, nella tipica atmosfera di un aristocraticismo liberale. Bisogna formare caratteri virili, ma l'unico mezzo per giungere a tanto è l'autoconvinzione. Di qui il motto della scuola: «La libertà è l'obbedienza alla legge. » La vita, nella scuola di Abbotsholme, è regolata in base a una disciplina esteriore dura ed austera, e ad una organizzazione minuziosa. Lo scopo è, però, che il giovane giunga a comprendere le ragioni ultime di quella disciplina e di quell'organizzazione, accettandole consapevolmente e volontariamente. Grande importanza hanno l'educazione fisica, intesa nel senso di gioco sportivo all'aperto, e il lavoro manuale. · L'istruzione ha finalità eminentemente formativa, antinozionistica. Le lingue sono insegnate col metodo diretto; l'aritmetica trae spunto da problemi concreti, 100
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proposti dalla vita della scuola; le scienze sono studiate, per quanto possibile, intuitivamente. Sulla traccia di Cecil Reddie altre scuole « nuove » verranno create in Inghilterra da J. Haden Badley (fautore, contro Reddie, della coeducazione), da E.F. O'Neill e da Paul Robin. VIII· EDMOND DEMOLINS, GEORGES BERTIER E L'ÉCOLE DES ROCHES
All'esperimento di Abbotsholme si ispira anche il francese Edmond Demolins (r852-19o7), fondatore della École cles Roches, dal nome del piccolo castello in cui la scuola stessa viene sistemata nel 1 899, presso Verneuil, in Bretagna. Il Demolins è un grande ammiratore degli anglosassoni, la cui superiorità deriverebbe dalla sintesi armonica fra un vivacissimo spirito di intraprendenza individuale ed un altrettanto forte spirito di cooperazione. Egli si propone di far entrare anche nel costume francese la teoria e la prassi dell'iniziativa privata libera e pure rivolta a fini sociali: di qui la sua iniziativa pedagogica. Nominato presidente del consiglio di amministrazione, egli rifiuta però la direzione della scuola, che a partire dal 1903 viene affidata a Georges Bertier, il quale può essere considerato il vero realizzatore dei principi generali fissati da Demolins. Attorno al piccolo castello cles Roches sorgono ben presto alcuni padiglioni che permettono alla scuola-convitto di articolarsi in gruppi poco numerosi, capaci di riprodurre una certa atmosfera familiare. Anche qui, come ad Abbotsholme, si dà grande importanza all'educazione fisica e alla vita all'aria aperta. Il lavoro manuale è curato con l'intento di educare l'attenzione, la precisione, la padronanza dei movimenti e lo spirito di inventiva; di mettere a disposizione di ciascuno una « seconda attività » essenzialmente ricreativa ed anche di fornire gli elementi per esercitare, in caso di necessità, una professione artigiana. Comunque, dalle attività lavorative deve essere bandito il dilettantismo, la superficialità, il press'a poco. L'École cles Roches fa leva, come tutte le altre scuole nuove, sull'interesse, ma ha ben chiaro il principio per il quale l'interesse non esclude lo sforzo. La gioia del produrre non ha nulla a che vedere col futile divertimento. Bertier e Demolins risolvono il problema dell'orientamento con un atto di fede nello spontaneo manifestarsi delle attitudini in clima di libertà e nella perspicacia degli insegnanti. Nel complesso l'École cles Roches; come osserva Aldo Visalberghi, nonostante l'impostazione democratica e aperta, non poté non divenire un'òasi" di privilegiati, a causa delle altissime rette che dovevano essere pagate dai suoi ospiti.
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IX · SCUOLE NUOVE IN GERMANIA: LIETZ, WYNEKEN, GEHEB
Gli esperimenti di scuola nuova in Germania risentono dell'influsso romantico, per cui la concezione della civiltà come storia si traduce in rifiuto di ogni schema tradizionale, nell'affermazione del primato delle avanguardie e, conseguentemente, nel culto della gioventù. L 'incapacità della classe adulta nel I 848 di portare avanti la rivoluzione liberale, la sua rinuncia a continuare a battersi sul fronte politico e il suo concentrarsi nelle attività economiche e nello sviluppo scientifico-tecnologico in funzione economica, fanno sì che i giovani desiderosi di rinnovamento aspirino a rompere « globalmente » coi padri e, in genere, con la cultura ufficiale. Sorgerà, così, fra gli altri, il movimento degli « Uccelli migratori » (Wandervogel) costituito da giovani che si uniscono cameratescamente, in promiscuità di sessi, e si dedicano a viaggi a piedi, spesso notturni, danze e canti, in cerca di una cultura spontanea. Sul piano pedagogico rispondono a queste esigenze gli esperimenti di Lietz, Wyneken, Geheb. Hermann Lietz, già collaboratore di Cecil Reddie ad Abbotsholme, fonda tre scuole: a Feremburg (1898), a Haubinda (1901), a Bieberstein (1904), per alunni rispettivamente dai 7 ai 12, dai 12 ai 16 e dai 16 ai 20 anni. Spregiatore dei programmi precostituiti esclusivamente in vista degli esami, fautore del « sincero svolgimento di ogni anima secondo la propria natura individuale », e, conseguentemente, dell'esperienza personale quale unica via della verità, dà alle sue scuole la struttura di repubbliche di ragazzi, nelle quali l'ordine deve discendere assai più dal costume che dal regolamento. Sono i «Focolari di educazione in campagna» (Sanderzielhungsheime). Lo spirito, però, della scuola-convitto di Lietz finisce per rivelarsi profondamente diverso da quello del modello inglese, manifestando la presenza di alcuni dei più tipici e deteriori motivi della tradizione culturale tedesca: il nazionalismo, il culto del suolo patrio e degli eroi e il pregiudizio razziale antisemita. Antidemocratico, Lietz è nemico dichiarato del socialismo e vagheggia un ideale aristocratico, che è poi quello dei vecchi proprietari terrieri. L'autogoverno è ammesso esclusivamente in rapporto alle scelte « inessenziali », ma di fronte al « Necessario » si esige la più monolitica unità. Il Necessario, poi, è lo Spirito che si incarna nella Storia e nella Patria. Da Lietz si staccano due dei suoi principali collaboratori: Gustav Wyneken e Paul Geheb. Wyneken ostenta un totale rifiuto della morale e degli istituti «borghesi»,. considera l'educazione tradizionale uno strumento elaborato dalle generazioni adulte per asservire la giovinezza e si impegna in una rivoluzione pedagogica che promuova il risvegliarsi delle profonde forze irrazionali dell'animo tedesco. Adunate, divise, riti, canti, gite di più giorni durante le quali si dorme sotto la tenda e si fa cucina al campo, un senso romantico della vita che si mani102
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festa nell'avversione alla scuola e, in particolare, alla tradizione classica, alla correttezza dello spirito familiare, questa è la libera comunità scolastica di Wyneken. La scuola del Geheb, che si ispira a un neoumanesimo di tipo goethiano, è caratterizzata da un maggiore rispetto del principio democratico: in essa, fra l'altro, sono accolti numerosi stranieri, ciò che facilita l'affermarsi di un umanitarismo supernazionale,. Ciò spiega la persecuzione di cui Geheb sarà fatto segno da parte del nazismo. La comunità è divisa in « famiglie » di sei-otto alunni dei due sessi, affidati a un capo-famiglia: «padre» o «madre»; ogni famiglia abita una« casa» intitolata a un grande: Platone, Goethe, ecc. Nel complesso queste scuole, con le loro pratiche naturistiche e nudistiche, la spregiudicata coeducazione dei sessi, il ritorno a forme pagane di vita e in particolare a un certo spartanismo, il disprezzo per il costume «borghese», per la vita normale, il culto dei capi-superuomini, l'agnosticismo morale, il concetto della vita come « servizio sociale », contribuiranno a creare un fermento che, dopo la disfatta del I 9 I 8, finirà per convogliare imponenti gruppi di giovani tedeschi nelle file naziste. X · GEORG KERSCHENSTEINER
Profondamente diversa da quella di Lietz, di Wyneken e di Geheb è la ·concezione di Georg Kerschensteiner (I854-I932), rinnovatore. delle scuole professionali di Monaco e teorico della Scuola del lavoro (Arbeitschule). Nel suo pensiero sono facilmente identificabili motivi rousseauiani, kantiani, pestalozziani, fichtiani e, soprattutto, deweyani. L'attivismo è presente nell'esigenza di sostituire l'esperienza personale all'insegnamento libresco, ma nulla è più lontano da Kerschensteiner dell'attivismo puro, dello spontaneismo; così come lontanissimo da lui è il feticismo de~ lavoro manuale, concepito quale insegnamento da aggiungere agli altri. Per lui il lavoro costituisce il motivo essenziale di tutto il processo educativo, in quanto è la forma essenziale del processo della cultura. Il mondo è stato liberato dalle varie schiavitù per opera non tanto del sapere quanto del lavoro. I prodotti della cultura, dalla lingua alle arti, alle scienze, alle teorie economiche e politiche, diventano « beni » solo in quanto sono obiettivati, . resi concreti attraverso il lavoro. Ma per essere veramente educativo, il lavoro deve possedere tre caratteri essenziali : I) serietà non dilettantesca; 2) valore rio n formale, ma reale; 3) socialità. I) L'attività pratica nel laboratorio deve abituare gli alunni alla misura, al peso, al controllo, eliminando la tendenza alla presunzione· ed alla retorica e ridestando sentimento di sicurezz~, di abilità, di solidità interiore. '
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z) La formazione di un'abilità, lo sviluppo di una capacità, ha valore solo quando è al servizio di un valore reale. Questa subordinazione delle abilità ai valori è possibile solo se le abilità stesse siano state acquisite al servizio di essi. La scuola deve perciò badare a che il lavoro sia costantemente rivolto a un valore pregevole ed eterno, di verità, di moralità, di bellezza, di ordine e coerenza con se stessi. 3) Il più alto ideale della vita è vivere per servire gli altri. «Noi non diveniamo uomini che ponendoci volontariamente al servizio degli altri», lavorando con e per gli altri uomini. Così l'educazione civica e morale finisce per coincidere con quella professionale. Svolgere un'attività secondo le nostre attitudini, in modo consapevole, preciso e responsabile, persuasi che nell'adempimento del nostro ufficio, sia pure il più umile, operiamo per il bene della comunità a cui apparteniamo, convinti che il lavorare a servizio di un'idea è la cosa più importante di tutte, questo è il senso di una vita autenticamente umana e questo deve essere il fine che la scuola persegue ponendo il lavoro al centro della propria attività. 1 A conclusione del paragrafo è doveroso ricordare che l'intero movimento delle scuole nuove (comprese le sue basi scientifico-sperimentali) è stato fatto segno anche a critiche esplicitamente e radicalmente negative e ciò non solo da parte dei difensori della tradizione che vedono nella rivoluzione pedagogica il germe di una peste anarchistica destinata a dissolvere l 'intero tessuto sociale, ma anche da parte di movimenti che scorgono, invece, nelle scuole nuove e nella nuova pedagogia nient'altro che un'abile mistificazione per mezzo della quale vengono difesi interessi tutt'altro che nobili. L'Accademia delle scienze pedagogiche di Mosca per esempio, in una sua Storia della pedagogia, osserva: 1) La cosiddetta educazione nuova si basa sul presupposto della apoliticità della pedagogia, ma tale presupposto è falso. I Altri esperimenti di scuola nuova, effettuati entro il periodo di cui ci stiamo occupando e dei quali, per ovvie ragioni di economia generale, è impossibile dire di più, sono: la scuola di Niiiis (Svezia), fondata da August Abrahamson nel I872 e sviluppata successivamente da Otto Salomon, destinata, prima, all'insegnamento del lavoro in legno ai fanciulli, trasformata, quindi, in scuola normale di lavoro per maestri, aperta anche agli stranieri (l'Italia vi invierà una commissione capeggiata da Pasquale Villari). Le scuole dell'Ave Maria, fondate nella zona di Granada da Andrés Manjon fra il I888 e il I89o, scuole attive, prevalentemente all'aperto, incentrate attorno alla religione, destinate ai fanciulli dei ceti popolari. La scuola fondata a Mannheim, nel I9oo, da Siklinger e Moses, primo tentativo di struttura mirante a risolvere organicamente il problema della individualizzazione. Essa è articolata in classi
normali, classi di recupero (per fanciulli in ritardo per motivi estrinseci: ragioni di salute, familiari, ecc.), classi ausiliarie, per i veri e propri ritardati mentali e, successivamente, anche in classi per super-normali (Begabtenschulen). In Francia merita di essere ricordata l'opera appassionata e geniale di Pauline Kergomard, che, specialmente nel periodo fra il I 88 I e il I 896, si batte per la rigenerazione della scuola materna. In Italia, accanto agli esperimenti più importanti della Agazzi, della Pizzigoni e della Montessori (di cui si parlerà in altro capitolo), meritano d'essere almeno citati quelli di Luigi Melli a Milano (I884), di Pitagora Conti a Palermo (I887), di Pietro Nigra, nel mantovano (I888-89), di Emidio Consorti (che, dopo aver fatto parte della commissione inviata a Niiiis, apre, nel I889, a Ripatransone una scuola di lavoro manuale per i maestri) Nel volume settimo si parlerà altresì degli esperimenti fatti a Chicago da John Dewey.
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z) Lo sviluppo del fanciullo è visto esclusivamente nella sua dimensione biologica, mentre si rifiuta di riconoscere l'influenza delle condizioni ambientali. 3) La cosiddetta rivoluzione copernicana è un trucco, mediante il quale si cerca di diffondere l'illusione che il mondo possa essere rinnovato pacificamente mediante una nuova educazione, col risultato di distrarre i lavoratori dalla lotta di classe. 4) Le scuole nuove non cessano di essere selettive e mirano a convalidare la tesi reazionaria che i figli dei borghesi siano più dotati di quelli degli operai e dei contadini, facendo largo uso dei metodi di ricerca e di misurazione antiscientifici in quanto non tengono conto del condizionamento sociale. 5) In realtà l'educazione nuova, individualistica ed anticomunitaria, non fa altro che dotare fin dai primi anni i bambini borghesi di qualità atte a soddisfare gli interessi reazionari della borghesia. Lasciamo ogni giudizio su questa importante valutazione, parendoci che il giudizio stesso debba formarsi spontaneamente nel pensiero del lettore attraverso l'attenta riflessione sugli sviluppi storici della pedagogia nuova (e ci riferiamo anche agli argomenti che saranno affrontati in seguito), sulla base della documentazione che qui si cerca di fornire con la massima obbiettività possibile.
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CAPI'I'OLO QUIN'I'O
Il pensiero ftlosoftco anglo-americano
I
· CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
Abbiamo detto nel capitolo vn del volume quinto che in Inghilterra si ebbe un trapasso quasi senza discontinuità dalle ultime fasi del pensiero illuministico alla prima fase del positivismo, legata al nome di John Stuart Mill. Fu solo negli ultimi decenni del secolo che il filone empiristico subì una gtave crisi, e che un largo numero di pensatori sentì il bisogno di rivolgersi ad altri indirizzi filosofici, in particolare alla metafisica idealistica tedesca. Il fatto degno di nota è che la fioritura del neo-hegelismo inglese fu pressoché contemporanea alla grande diffusione dell'evoluzionismo, sia scientifico (Darwin) sia filosofico (Spencer); segno evidente, a nostro parere, che tanto nell'uno quanto nell'altro indirizzo dovevano riflettersi alcune esigenze profondamente sentite dalla società dell'epoca. Un accostamento delle due filosofie sembra dunque lecito, anche se in aperto contrasto con la consuetudine invalsa nella maggior parte dei trattati di storia della filosofia. Esso si rivelerà anzi opportuno, se potremo constatare che il positivismo di Spencer e il neo-hegelismo ebbero effettivamente qualche carattere in comune, e precisamente un carattere fra i più tipici della cultura del tempo. Ma, per poterei convincere di ciò, occorrerà premettere qualche considerazione generale. Senza volerei qui addentrare nella disamina delle complesse vicende economico-politiche verificatesi durante l'età vittoriana (il regno della regina Vittoria durò dal 1837 al 1902), basti ricordare che esso fu caratterizzato dall'affermarsi e consolidarsi della classe liberai-borghese, la quale finì per diventare la vera protagonista della vita del paese. Bisogna pertanto riconoscere che, se l'essenza dell'età vittoriana fu «l'equilibrio fra la tradizione e la democrazia» (come scrive lo storico George Macaulay Trevelyan), questo equilibrio doveva costituire una delle massime preoccupazioni della classe anzidetta. Questa preoccupazione si espresse in tutte le manifestazioni della vita civile, dai costumi alla politica, dalla letteratura alle arti figurative, e non dobbiamo quindi stupirei se coinvolse anche la filosofia. L'aspirazione ad un« giusto equilibrio» assunse qui la forma di ricerca di una conciliazione tra il nuovo, rappresentato dalle sempre maggiori esigenze della ragione, e il vecchio, rappresentato dalla 106
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tradizione religiosa; in altre parole, di una conciliazione tra la scienza e la fede. Orbene, il tratto comune al positivismo evoluzionistico e al neo-hegelismo va secondo noi cercato proprio nel tentativo, compiuto da entrambi, di fornire una risposta soddisfacente all'aspirazione testé accennata. Non importa che le risposte siano state diverse; l'essenziale ci sembra che alla base di entrambi gli indirizzi si ritrovi la medesima preoccupazione. La conciliazione tra scienza e fede propugnata dal positivismo spenceriano fu caratterizzata da una notevole grossolanità; e la cosa si spiega tenendo conto che esso fu la filosofia delle persone di media cultura. Quella invece propugnata dal neo-hegelismo fu assai più raffinata, proprio perché questo indirizzo rappresentò la filosofia dei «professori universitari». Ma, per convincersi che i due indirizzi avevano effettivamente qualcosa in comune, basta tenere presente il sostanziale moderatismo proprio di entrambi; è un moderatismo che salta all'occhio appena si cerchi di confrontarlo con le ben più intransigenti concezioni filosofiche sostenute- all'incirca nella medesima epoca - da Engels, che pur era senza dubbio profondamente influenzato sia dall'evoluzionismo sia dall'hegelismo. Riferendosi alla filosofia neo-idealistica inglese, Antonio Banfi scriveva, nel 1939, che« in essa risuona in toni eroici la crisi della cultura borghese, quasi come un suo ideale trascender se stessa in una sfera di pura incontaminata spiritualità». Riconosciamo appieno la fondatezza di tale osservazione, ma riteniamo di .dover precisare che la crisi della cultura accennata da Banfi non era altro che l'espressione di una crisi più profonda e più generale della borghesia (riscontrabile non solo in Inghilterra bensì anche nel continente europeo e in America), dovuta alla posizione ambigua assunta da questa classe, oscillante fra l'esigenza di conservare il proprio potere economico-politico e l'esigenza di presentarsi pur sempre come paladina di quei valori « eterni » in nome dei quali aveva combattuto e vinto (il valore dello spirito critico, del progresso scientifico, della ·libertà di ogni ricerca razionale). Se teniamo conto di ciò, non avremo difficoltà a riconoscere che la crisi culturale anzidetta - caratterizzata appunto da un perenne oscillare tra il vecchio e il nuovo- ebbe modo di manifestarsi in varie forme: e cioè non solo nel neo-hegelismo, ma, sia pure in toni meno eroici, nello stesso positivismo di Spencer (ci riferiamo in particolare alla sua famosa tesi dell'esistenza di un « inconoscibile », oggetto specifico della :religione, che il progresso della scienza non riuscirà mai a raggiungere e dissacrare). A conferma di quanto testé accennato circa le implicazioni della teoria spenceriana dell'inconoscibile, può essere opportuno ricordare che essa venne effettivamente recepita in molti paesi del continente europeo proprio come lo strumento più idoneo a stabilire un giusto e definitivo equilibrio fra scienza e religione, onde l'una non avesse alcunché a temere (né al presente né in futuro) dall'altra. Ecco ad esempio alcuni significativi brani, ricavati dall'avvertenza che Guglielmo Salvadori antepose nel ·I 90 I alla traduzione, da lui curata, dei Primi Principi di
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Spencer: «Nessuno può negare che mai concezione filosofica più perfetta e originale è uscita dalla mente di un pensatore; che nessun filosofo à mai mostrato cognizioni così vaste, o dato prova di critica così imparziale e serena. Herbert Spencer à creato con la potenza del suo genio una nuova filosofia, sintesi suprema dell'Universo, conciliando così la Religione e la Scienza; e à rinnovato l'idealismo, l'empirismo e la metafisica ... Quest'opera dev'esser nota non solo ai cultori della Filosofia e della Scienza, ma deve entrare a far parte del patrimonio intellettuale di ogni persona colta.» Dopo i paragrafi n e m, dedicati alla figura e al pensiero di Spencer, e il paragrafo IV in cui cercheremo di delineare per sommi capi il nucleo dell'idealismo anglo-americano (ove si vedrà che questo indirizzo conservò pressoché immutate le sue caratteristiche fondamentali nel diffondersi dall'Inghilterra agli Stati Uniti), ne verranno dedicati altri due al pragmatismo e al neo-realismo. Il pragmatismo nacque in America ad opera di un grande logico-matematico e filosofo, Charles Sanders Peirce, ed ebbe all'inizio interessi prevalentemente epistemologici. La sua origine teorica può quindi venir fatta risalire ad una esigenza di chiarificazione del sapere scientifico che si diffuse all'interno del campo stesso degli scienziati negli ultimi decenni del secolo (si ricordi che gli scritti di Peirce furono all'incirca contemporanei a quelli di Mach). Vedremo però che già pochi anni dopo la pubblicazione dei primi articoli di Peirce il pragmatismo mutò profondamente il suo carattere originario, diventando- ad opera dell'americano William James e dell'inglese Ferdinand Schiller- una filosofia vivamente interessata ai problemi religiosi, anzi soprattutto impegnata a salvare i diritti della fede accanto o perfino al di sopra di quelli della ragione. Il fatto che fu proprio questa seconda « varietà » del pragmatismo, e non la prima, ad ottenere il più ampio successo, conferma quanto poco sopra accennammo circa la vasta diffusione nella borghesia dell'epoca (fine dell'Ottocento e inizi del Novecento) dell'esigenza di salvare il patrimonio religioso- poco importa se in forma confessionale o no- di fronte all'incalzare della razionalità scientifica. Non molto diverse furono le vicende del neo-realismo, nato in Inghilterra nei primi anni del xx secolo ad opera di George Edward Moore. Se all'inizio ebbe un carattere spiccatamente metodologico di indubbia serietà, circa vent'anni più tardi un ramo di esso (l'unico che qui prenderemo in considerazione, poiché rinviamo a un altro capitolo l'esposizione del realismo di Bertrand Russell) imboccò una direzione di indagini completamente diversa, soprattutto rivolta ad esaltare i valori « profondi » dello spirito di fronte a quelli della fredda ragione. E ancora una volta fu proprio in questa forma che esso incontrò il più rapido successo. Una visione panoramica, come quella che qui ci proponiamo di delineare, dei quattro indirizzi testé accennati, ha il precipuo scopo di porre in luce la componente ad essi comune, componente che va fatta risalire assai più alla crisi della 108
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classe borghese che non a precise motivazioni teoretiche. Quando si afferma che le filosofie neo-idealistica, pragmatistica e neo-realistica scaturirono dalla reazione al positivismo si commette senza dubbio un'inesattezza, non solo per evidenti ragioni cronologiche, ma anche per l'esistenza in esse di una componente di grande rilievo, già presente nello stesso positivismo spenceriano. Esatta può essere invece l'osservazione, che tali filosofie assunsero un carattere via via più marcatamente polemico, quando risultò manifesto con crescente chiarezza che la scienza si stava imponendo come unica forma valida di conoscenza. Ma l'equivocità di tale polemica è posta in luce soprattutto dal fatto che si utilizzò in funzione antiscientifica proprio lo spirito critico che si stava diffondendo fra gli scienziati e che invece era sorto con il preciso scopo di rendere più rigorose le argomentazioni razionali, non di !imitarne il valore o di contrapporre alla scienza un presunto sapere superiore. Ritroveremo, sia pure con sfumature diverse, un analogo processo di dissoluzione del pensiero razionalistico anche in altri paesi, come la Francia e la Germania. Ciò che ci preme fin d'ora sottolineare è che, malgrado i subitanei successi delle varie correnti di filosofia antiscientifica, la scienza non cessò affatto di avanzare (sollevando sempre nuovi problemi e affinando i propri strumenti di indagine) e che tali correnti finirono tutte per rivelarsi meri strumenti di evasione, operati da uomini pavidi in funzione sostanzialmente reazionaria. II · VITA E OPERE DI SPENCER. CARATTERI GENERALI DEL SUO PENSIERO·
Herbert Spencer nacque a Derby nel I 8z.o da famiglia della piccola borghesia; i genitori erano entrambi assai religiosi ma di confessioni diverse - l'uno metodista, l'altra quacchera - e ciò fece sì che il ragazzo crescesse senza una convinzione dogmatica ben precisa. Il padre, che era maestro elementare, si occupò attivamente della sua educazione, indirizzandolo fin da fanciullo verso l'attenta osservazione dei fenomeni. Le discussioni che avvenivano in famiglia, tra il padre, la madre e altri parenti, su problemi di etica e di politica svilupparono in lui un sempre più vivo spirito di indipendenza. A tredici anni fu inviato presso uno zio paterno, parroco di un villaggio presso Bath, che esercitò una profonda influenza sul giovane. Qui rimase per circa quattro anni, impegnandosi con molta serietà negli studi; acquistò, in particolare, ottime cognizioni di matematica. A vendo compreso il valore del nipote, il reverendo Thomas Spencer gli propose di entrare nell'ùniversità di Cambridge, dove avrebbe potuto facilmen~e procurargli un posto di sicuro avvenire; Herbert oppose però un netto rifiuto, provando una troppo forte avversione per l'atmosfera chiusa e teologizzante che, come sappiamo dal capitolo vn del volume quinto imperava in quegli anni nelle università inglesi. Neanche in seguito abbandonerà 109
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questo atteggiamento antiaccademico, onde non svolgerà mai un'attività universitaria, malgrado i titoli dottorali conferitigli dopo il I87o da varie università inglesi e straniere (tra cui quella di Bologna). Nel I837 tenne per alcuni mesi la carica di aiuto maestro a Derby; ma nell'autunno di quel medesimo anno preferì entrare in un'impresa privata che si occupava della costruzione della ferrovia Londra-Birmingham. Da essa passerà nel I 8 38 in un'altra impresa ferroviaria, esercitandovi mansioni tecniche. In questi impieghi ebbe modo di dar prova di grande perizia, realizzando pure alcune piccole e ingegnose invenzioni. Dopo qualche anno trascorso nella casa paterna e completamente dedicato agli studi (nel I 84I cominciò a interessarsi di biologia), tornerà a lavorare come tecnico dal I 844 al I 846. Ma ormai si era convinto di dover cambiare professione, abbracciando la difficile carriera di scrittore. Nel I 848 ottenne il posto di vice-redattore dell'« Economist »,il più famoso periodico economico-finanziario inglese; nel I852 divenne collaboratore della « Westrriinster review », che era - come già ricordammo più volte- l'organo dell'indirizzo utilitaristico. Nel I853, avendo ricevuto una piccola eredità, poté rinunciare alla professione di giornalista per dedicarsi di nuovo interamente agli studi. Intanto aveva portato a termine nel I 848 uno scritto dal titolo Social statics (Statica sociale), che uscì nel I85o e gli procurò subito una discreta notorietà. Nel I 8 5I iniziò un accurato studio delle teorie del fisiologo von Baer (del quale si parlò nel volume quarto), studio che lo indusse ad abbracciare i principi dell'evoluzionismo respingendo la dottrina fissista e creazionista. All'argomento è dedicato l'importante saggio The development hypothesis (L'ipotesi dello sviluppo) scritto e pubblicato nel I 8 52. 1 Questa ipotesi viene anche largamente utilizzata nella prima grande opera del nostro autore Principles of psychology (Principi di psicologia, I 8 55) o ve Spencer sostiene che le attitudini e le facoltà dell'uomo non possono essere comprese sulla base delle sole esperienze individuali ma richiedono lo studio dei gradi attraverso cui vengono acquisite. Ormai i suoi interessi si stanno ampliando: egli si occupa di politica, di pedagogia, di musica, di scienza, e sarà proprio la facilità con cui scrive di tanti argomenti ad attirare su di lui l'accusa di essere più giornalista che vero scienziato e filosofo. Nel I 8 57 pubblica sulla« W est review» un articolo dal titolo Progress, its law and cause (Progresso, sua legge e causa) ove abbozza la tesi che l'evoluzione costituisca il principio esplicativo di tutte le scienze. Finalmente nel I 8 59 elabora un prospetto 1 Ecco ciò che Darwin scrisse di questo saggio: « Herbert Spencer ha messo a confronto con grande abilità ed efficacia la teoria della creazione e quella dello sviluppo degli organismi viventi. Muovendo dall'analogia delle forme domestiche, dai cambiamenti che subiscono gli embrioni
di molte specie, dalla difficoltà di distinguere le specie dalle varietà, e dal principio della gradazione generale, egli giunge alla conclusione che le specie si sono modificate, e attribuisce le modificazioni al cambiamento di condizioni ambientali. »
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del proprio sistema di « filosofia sintetica » (come egli la chiamò) basato appunto sul principio dell'evoluzione; sistema che negli anni successivi verrà svolto in una serie di numerosi, ponderosi e spesso ridondanti volumi. Ecco i loro titoli: First principles (Primi principi, pubblicati a dispense fra il I 86o e il '6z, poi rijmbblicati in un'edizione riveduta nel I867); Principles of biology (Principi di biologia, in due volumi, I 864-67, rielaborati nel I 898-99); Principles ofpsychology (Principi di psicologia, in due volumi, I 870-72, che sono una rielaborazione dell'opera del 185 5; un'altra edizione accresciuta uscirà nel I88o); Principles of sociology (Principi di sociologia, in tre volumi, I 877-96); Principles of ethics (Principi di etica, in due volumi, I 879-93). Sarebbe più che sufficiente l'elenco testé citato per dimostrare la straordinaria fecondità di Spencer come scrittore. Va tuttavia notato che ad esso bisognerebbe aggiungere un gran numero di altri volumi, saggi, articoli ove - riprendendo e ripetendo più volte le proprie argomentazioni - cerca di applicare la « filosofia dell'evoluzione» ai campi più diversi. Noi ci limiteremo a menzionare il titolo di due lavori di particolare interesse: Education intellectual, mora/ and pl!Ysical (Educazione intellettuale, morale efisica, I86I) che, con molti altri scritti di argomento analogo, dimostra la grande importanza attribuita dal nostro autore ai problemi pedagogici, e The genesis of science (La genesi della scienza, I 864) che vuol essere una critica positiva della classificazione comtiana delle scienze. Merita di venire ricordato che fino al I865 i libri di Spencer incontrarono scarsissima fortuna, ond'egli fu sul punto di interrompere la propria attività di scrittore; furono le parole di incoraggiamento ricevute da autorevoli amici come John Stuart Mill e gli aiuti finanziari di alcuni ammiratori americani, che lo indussero a persistere in essa. Nel giro di pochi anni le cose mutarono completamente, sicché egli finì per diventare uno degli autori più letti non solo in Inghilterra ma in tutta l'Europa. Malgrado alcune temporanee infermità, dovute soprattutto ad eccesso di lavoro, trascorse l'ultima parte della vita in serena tranquillità, turbata soltanto da un'aspra polemica avuta, nel I894, col biologo August Weismann che negò la fondatezza della teoria- sostenuta da Spencer- dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti. Morl nel I903. Nel 1904 uscirà la sua Autobiograpl!Y (Autobiografia), alla cui stesura si era applicato con l 'impegno e la cura che gli erano abituali. Nel corso del presente volume si sono già avute parecchie occasioni di esaminare le singole teorie di Spencer, nei capitoli dedicati alla sociologia, alla psicologia e alla pedagogia. Qui ci limiteremo pertanto ad esporre, per grandi linee, le sue concezioni filosofiche generali, soprattutto in riferimento al problema dei rapporti fra scienza e religione, al problema gnoseologico ed a quello morale; sarà un'esposizione critica, che si soffermerà più sulle deficienze che non sui meriti delle soluzioni proposte da Spencer. Ciò è ben naturale, dato che gli sviluppi subiti dal pensiero filosofico e scientifico a partire dall'inizio del nostro secolo hanno incon-
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testabilmente dimostrato la scarsissima consistenza dell'entusiasmo che il sistema spenceriano aveva suscitato in larghi strati della cultura ottocentesca. Sarebbe però un errore storico non sforzarci di comprendere nel contempo anche i motivi. di questo entusiasmo, cioè la funzione positiva che tale sistema effettivamente compì nel periodo in esame, come sarebbe ingiusto dimenticare i meriti, scarsi ma non del tutto inesistenti, che Spencer acquisì nel campo delle ricerche speciali. A nostro personale parere i motivi teoretici della fortuna della filosofia di Spencer - ai motivi di ordine pratico già si è fatto cenno nel paragrafo precedente -vanno soprattutto cercati nel legame che essa stabiliva (o riteneva di stabilire), sia pure in forma poco critica ma proprio perciò più facilmente divulgabile, tra la concezione generale dell'universo e le importanti idee recentemente impostesi nel campo della biologia. Molti aderirono con entusiasmo allo spencerismo, perché credettero di scorgervi una filosofia che poneva finalmente termine ai vecchi miti sulla «centralità» dell'uomo nel« creato», e riconosceva con franchezza che l'essere umano (così come la società in cui vive, le forme di civiltà via via prodottesi nel corso della storia, ecc.) non è altro che un momento dello sviluppo generale della natura. Orbene, noi abbiamo il diritto e il dovere di denunciare il carattere vago, dogmatico e spesso equivoco del naturalismo spenceriano, ma non possiamo negare la serietà dell'esigenza cui esso andava incontro. Così pure non possiamo negare la fondatezza dell'intuito, che portò Spencer (e con lui molti altri studiosi) a vedere nella scoperta del principio evoluzionistico non solo una grande conquista scientifica, ma un fatto culturale di enorme importanza. Era senza dubbio illusoria la pretesa spenceriana di cercare nell'evoluzione il segreto per risolvere tutti i problemi, teoretici e pratici, ma non era ingiustificato il richiamo a prendere atto della nuova importanza assunta - in seguito alla scoperta dell'evoluzione- dalla biologia entro il quadro delle nostre conoscenze, a tenere conto nello studio dell'uomo, della radice biologica degli stessi fenomeni che la tradizione considerava prettamente spirituali. III · LE LINEE GENERALI DEL SISTEMA FILOSOFICO DI SPENCER
I Primi principi hanno inizio con una lunga sezione dedicata alla discussione dei rapporti tra scienza e religione; anche noi, perciò, cominceremo la nostra esposizione con una breve analisi di questo argomento (centrale, come già ricordammo, per tutta la cultura inglese dell'epoca). Con evidente riferimento a tale discussione, Antonio Labriola ebbe a scrivere che Spencer rappresentava « l'ultimo avanzo ombratile del deismo inglese del secolo xvn »; il suo giudizio ci sembra tuttavia inesatto per la grande differenza tra la situazione della scienza nelle due epoche: giunta appena allora alle sue prime grandi vittorie, e ancora carica di implicanze teologiche, nel Seicento; completamente laicizzata nell'Ottocento e accolta ormai come forma fondamentale, se non unica, della conoscenza
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umana. Ma è noto che il filosofo italiano non aveva alcuna competenza di storia della scienza e - da studioso di mentalità idealistica - non provava forse per essa il benché minimo interesse. Certo è a buon conto che, mentre per Newton (che può venire considerato l'esempio più illustre di scienziato deista della fine del xvn secolo) spettava proprio alla fisica - rivelatasi incontestabilmente capace di risalire dai fenomeni alle loro leggi - offrire la via maestra per giungere a dio, per Spencer invece si tratta soltanto di dimostrare che la scienza, pur non avendo mai bisogno di far appello a dio, lascia ciomalgrado ai propri margini uno spazio inesplorato e inesplorabile riempito dalla religione. L'argomentazione di Spencer può venire così riassunta: la scienza si muove entro il campo del relativo o condizionato e, pur riuscendo a spiegare sempre nuovi fatti per l'innanzi ritenuti «inesplicabili o soprannaturali», non riuscirà mai a spiegare tutto, e in particolare non riuscirà a spiegare i principi generalissimi sui quali essa medesima si basa (lo scienziato « constata che le cose obiettive e su biettive sono del pari inscrutabili nella loro sostanza e nella loro genesi; in tutte le direzioni le sue indagini lo portano alla fine di fronte a un enigma insolubile, e sempre più chiaramente riconosce che esso è un enigma insolubile»); la religione invece, più risulta elevata e consapevole di sé, più decisamente assume a suo specifico oggetto proprio l'inconoscibile. Ed infatti, mentre le religioni primitive si ritenevano in grado di offrire all'uomo una ben determinata raffigurazione delle potenze che agirebbero sul mondo, quelle più progredite rinunciano interamente a tali rappresentazioni, attribuendo un'importanza via via maggiore al mistero e ad esso solo. Oggi diventa dunque sempre più manifesta la differènziazione fra scienza e religione, risultando chiaro che la prima è rivolta al « condizionato» e la seconda all'« incondizionato» (qui è evidente l'influenza di Hamilton il cui nome viene, del resto, citato più volte dal nostro autore); i loro conflitti «dovuti all'imperfetta separazione dei loro domini e delle loro funzioni» perdono di giorno in giorno la propria ragion d'essere, ed anzi i progressi conseguiti dall'una si ripercuotono favorevolmente sull'altra: «Esse sono il polo positivo e il polo negativo del pensiero, né l'uno né l'altro dei quali può crescere d'intensità senza aumentare l'intensità dell'altro.» Spencer può concluderne che « si raggiungerà una pace permanente, quando la.Scienza sarà p~enamente convinta che le sue spiegazioni sono prossime e relative, mentre la Religione sarà pienamente convinta che il mistero che essa contempla è ultimo e assoluto ». A questo punto sorge, ovviamente, la domanda quale sia il posto che il nostro autore riserva alla filosofia. Egli la colloca, com'è naturale, nel settore delle scienze, ma con un compito speciale: quello di integrare le conoscenze scientifiche, sempre ristrette anche se via via più generali, onde procurarci una nuova conoscenza, fermamente legata alle precedenti, ma fornita del « più alto grado di gen.eralità ». È fuori dubbio, secondo Spencer, che i principi più generali della scienza
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moderna sono quelli della conservazione della materia e dell'energia nonché la legge dell'evoluzione che regola la continua ridistribuzione di materia ed energia. Per risultare saldamente fondata sui principi testé riferiti, la filosofia dovrà dunque diventare una teoria generalissima dell'evoluzione, capace di porre in luce l'unità del processo evolutivo in tutti i campi della realtà: dal mondo inorganico a quello organico, e da questo al mondo superorganico (cioè al mondo umano). Mentre le singole scienze ci fanno scoprire tante evoluzioni (evoluzione astronomica, geologica, biologica, psicologica, socio logica, ecc.), la filosofia deve condurci a comprendere che la distinzione fra esse è solo convenzionale. In realtà esiste « un unico Cosmo », e così esiste « una sola evoluzione che ovunque procede nello stesso modo». Per cogliere questa suprema unità, occorrerà trovare una definizione generalissima di evoluzione. Il nostro autore ritiene di averla scoperta, definendo l'evoluzione come « trapasso da uno stato di dispersione a uno di integrazione, dall'omogeneo all'eterogeneo, dal meno coerente al più coerente». Egli vi perviene mediante considerazioni a priori, prive purtroppo di ogni valore sia scientifico che filosofico, cercando poi di verificarne la validità in tutti i settori particolari poco sopra elencati. Qui le sue considerazioni si fanno più interessanti, il suo discorso diventa più aperto e stimolante, le sue osservazioni più acute; l'impianto generale resta tuttavia dogmatico, il tipo di argomentazione più retorico che dimostrativo. Si ha spesso l'impressione che il vero motivo della larghissima applicabilità della nozione spenceriana di evoluzione risieda unicamente nella sua sostanziale genericità. Un punto per noi particolarmente interessante del sistema spenceriano è quello che concerne il problema della conoscenza; questo viene trattato in parte nei Primi principi in parte nei Principi di psicologia, le cui pagine conclusive sono rivolte alla discussione dell'idealismo di Berkeley, alla ricerca di un criterio della verità, e infine alla formulazione e difesa di un nuovo realismo critico. Non valendo la pena scendere in troppi particolari, ci limiteremo a dire che, secondo Spencer, la coscienza umana sarebbe, sì, costituita da elementi a priori e da elementi a posteriori come pensavano i razionalisti, ma gli elementi a priori risulterebbero tali solo per l'individuo, essendo invece a posteriori per la specie. In altri termini: egli non ha difficoltà ad ammettere che esistano nell'individuo forme a priori della conoscenza e del sentimento, forme cioè che l'individuo non ricava né può ricavare dalla propria esperienza diretta; tali forme, però, non costituirebbero altro che il patrimonio delle esperienze gradualmente accumulate dalle generazioni anteriori pervenute per eredità all'individuo in esame. Con ciò il punto di vista evoluzionistico - pur risultando « assolutamente empirico » e cioè irriducibile a quello di un Leibniz o di un Kant - risulterebbe in grado di differenziarsi nettamente «dall'antica concezione degli empiristi per l'estensione (nuova) che esso dà a questa concezione». II4
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Proprio perché le nostre conoscenze, sia a priori che a posteriori risultano di origine integralmente empirica, esse posseggono per noi - sempre secondo Spencer- un'indiscutibile validità: se è certo, infatti, che esse non ci fanno conoscere la verità assoluta, è altrettanto certo però che ci pongono a contatto con la realtà relativa del mondo fenomenico in cui viviamo e agiamo. Né basta: ché Spencer si crede in diritto di compiere un'affermazione ancora più impegnativa: se è certo che questo mondo ci appare sottoposto a continue trasformazioni, è anche certo che esso ci rivela, proprio nella sua perenne variabilità, qualcosa di permanente, ossia « la realtà inconoscibile, nascosta sotto tutte queste apparenze cangianti ». Si tratta, a rigore, di una realtà che noi non possiamo conoscere, ma della quale abbiamo comunque coscienza: « una coscienza che non può essere messa sotto alcuna forma». ' E inutile fermarci a sottolineare il carattere vago e inconsistente di questa presunta coscienza, della quale non si sa esattamente cosa sia. Possiamo solo aggiungere che la debolezza della tesi spenceriana diventa ancora più palese allorché egli afferma che sarebbe pure «un dato di coscienza» l'esistenza di un rapporto causale fra l'anzidetta realtà e il mondo fenomenico (rapporto causale in base a cui egli si ritiene in diritto di asserire che il mondo fenomenico sarebbe «un effetto condizionato della causa incondizionata»). È proprio questa ipotetica corrispondenza tra l'inconoscibile e il conoscibile che gli permette di parlare di «realismo trasfigurato». Una volta ammesso che noi abbiamo coscienza dell'esistenza dell'assoluto «come qualcosa, non come un nulla», e che anzi l'idea di assoluto è tanto intrinseca alla nostra coscienza quanto quella di relativo ( « dalla necessità di pensare per mezzo di relazioni, risulta che il relativo è esso stesso inconcepibile fuorché come riferito a un non relativo»), è evidente che non rimane più, nel sistema spenceriano, motivo alcuno per sostenere l'inconoscibilità dell'assoluto. Giunto a questo punto, il nostro autore dovrebbe limitarsi a parlare di inaccessibilità di esso alla conoscenza scientifica, e concluderne che esiste un altro tipo di conoscenza superiore a quella scientifica. Egli non ha avuto il coraggio di compiere questo passo, troppo incompatibile con i canoni del positivismo, ma il semplice silenzio non cela la sua incoerenza. Concluderemo il paragrafo con un breve cenno ai problemi dell'etica. Essi pure, a giudizio del nostro autore, non possono venire spiegati se non li inseriamo in una concezione evoluzionistica dell'umanità. Tale inserimento infatti, ed esso solo, ci permette di mantenere fede all'identificazione di bene e piacere, senza negare (come faceva il gretto utilitarismo) l'esistenza di ben precisi doveri nella coscienza del singolo. Questi doveri potrebbero venire spiegati - secondo il solito metodo spenceriano - quali frutto del patrimonio etico lentamente accumulato dalla specie e trasmesso ereditariamente a ciascuno di noi. La specie ha appreso dall'esperienza che, di solito, è più facile raggiungere il benessere lasciandosi gui~are da sentimenti bassi; unicamente in conseguenza di ciò, ciascuno {
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di noi sente in sé, quale coazione puramente interiore, il dovere di lasciarsi guidare da quelli anziché da questi. Il razionalista lo interpreterà come un dovere a priori, ma in realtà è anch'esso un frutto dell'esperienza. Il nostro autore non intende nascondersi, con ciò, l'esistenza di conflitti assai gravi nell'umanità: conflitti fra dovere e piacere, fra piacere mio e piacere altrui, ecc. Ritiene tuttavia che essi siano soltanto dovuti al grado di sviluppo ancora assai limitato attualmente raggiunto dalla società umana; proprio questa limitazione fa sì che oggi non risulti possibile una condotta perfettamente buona: « La condotta che ha qualche elemento di dolore, o qualche conseguenza dolorosa, è parzialmente cattiva; ed il termine più elevato a cui possa giungere tale condotta, è il minimo ingiusto possibile in date condizioni, il giusto relativo. » L'unica etica oggi possibile è, dunque, nulla più che un'etica relativa. Noi possiamo tuttavia elevarc1 alla concezione di un'altra etica, valida per «l'uomo ideale» considerato «come esistente in uno stato sociale ideale». In questo stato e in esso solo risulterà possibile una condotta perfetta, ove la libera attività dell'individuo sia limitata soltanto da un pari diritto degli altri individui alla libertà, e anzi ciascuno cerchi spontaneamente con tutte le proprie energie il bene degli altri insieme con il proprio. Lo studio filosofico di questa « condotta ideale » viene chiamato da Spencer « etica assoluta ». Questa ha il compito di formulare le regole di comportamento dell'uomo allorché sarà scomparsa ogni costrizione sia interna che esterna, e le azioni procureranno immediato beneficio tanto a coloro che le compiono quanto agli altri. Ciò sarà, ovviamente, realizzabile solo quando il processo evolutivo ci abbia portati ad una società in cui ciascuno possa esplicare in completa libertà la propria vita, nettamente differenziata da quella degli altri, eppure armonizzate, tutte, da un reciproco accordo spontaneo e infrangibile. Nell'attesa che l'evoluzione ci porti a questo grado perfetto di convivenza con i nostri simili, noi possiamo e dobbiamo lavorare - secondo Spencer - per rendere via via più simile la nostra società a quella testé delineata, senza illuderci però che si possa saltare da un grado all'altro senza percorrere tutti quelli intermedi. «Allo stesso modo che non si può abbreviare la via tra l'infanzia e la maturità, evitando quel noioso processo di accrescimento e di sviluppo che si opera insensibilmente con lievi incrementi, così non è possibile che le forme sociali più basse divengano più elevate, senza attraversare piccole modifiche successive.» Anche se per la lentezza dell'evoluzione non possiamo eliminare radicalmente i mali della società in cui ci tocca vivere, ciascuno di noi potrà tuttavia sentirsi contento se avrà « partecipato, anche in minima parte, allo svolgimento dell'umano». Il sostanziale conservatorismo di questa conclusione apparentemente « moderata » è evidente, e corrisponde molto bene al conservatorismo già dimostrato dal nostro autore sul primo argomento affrontato nel presente paragrafo, cioè sul 116 www.scribd.com/Baruhk
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problema dei rapporti tra scienza e religione. Esso risulta del resto confermato dallo stesso comportamento personale di Spencer, che si mostrò per tutta la vita inguaribilmente sospettoso di fronte a ogni programma di energiche riforme sociali, non esclusi quelli utopistici dei primi positivisti, né quello di pura marca liberale propugnato da J ohn Stuart Mill. Proseguendo sulla via aperta dal suo fondatore, il positivismo evoluzionistico finirà a poco a poco per diventare una teoria pericolosamente addormentatrice che, sotto la facciata della « fede scientifica» in un futuro immancabile progresso, permetterà a gran parte della società europea della fine Ottocento ,di cullarsi in un superficiale ottimismo. IV · L'IDEALISMO
Sappiamo dalle sezioni precedenti che in Inghilterra albergava da secoli, accanto al più fiorente empirismo una mai spenta tradizione platonica, sostenitrice di un tipo di filosofia strettamente collegata alla teologia. Fu proprio tale tradizione a costituire l'humus da cui trasse impulso l'indirizzo idealistico, diffusosi con straordinaria rapidità negli ultimi decenni del secolo. È chiaro però che esso non poteva ignorare le nuove strutture che l'idealismo aveva assunto qualche tempo prima in Europa, particolarmente presso le scuole tedesche. Fra queste- come spiega assai bene Antonio Banfi- fu soprattutto l'hegelismo ad esercitare sui filosofi inglesi una profonda influenza per « la sua forma più coerente e sistematica, ma insieme più ricca di tensione dialettica e - ciò che l'avvicinava alla tradizione inglese - più assetata di concreta :realtà spirituale ». L'assimilazione del pensiero hegeliano ebbe inizio nel 1865 con la pubblicazione, avvenuta in tale anno, di un libro di James Hutchison Stirling (1820-1909) dal titolo The secret of Hegel (Il segreto di Hegel). Questo segreto era da cercarsi secondo l'autore, in Kant, da cui Hegel avrebbe attinto la concezione dell'universale concreto, rendendola esplicita e mostrando come, a partire da essa, si giunga alla tesi generale che tutto il mondo si :risolve nel pensiero. Di qui fra l'altro l'affer~azione della spiritualità della natura, che non sarebbe altro se non l'espressione di un principio assoluto (divino), presupposto indispensabile dell' esperienza. A differenza di H egel, Stirling concepisce però questo principio come essenzialmente statico (più simile quindi alle idee di Platone che all'assoluto hegeliano) relegando il divenire dialettico alla coscienza umana. A lui si ricollegano Edward Cai:rd (1820-1908) e Thomas Hill G:reen (183682), il primo dei quali si dedicò essenzialmente a problemi di filosofia della religione, mentre il secondo rivelò un maggiore impegno teoretico soprattutto nell'opera Introduction to Hume's treatise of human nature (Introduzione al trattato di Hume sulla natura umana, 1874-75). Questo saggio è dedicato alla confutazione dell'empirismo di Hume, cui l'autore :rimprovera in primo luogo di non :riuscire a spiegare la vita interiore dell'uomo, proprio perché vorrebbe ridurre la coscienza 117
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a un pulviscolo di «stati» isolati l'uno dall'altro, in secondo luogo di non riuscire a rendersi conto che, se l'esperienza non è una congerie di apparenze illusorie ma una fonte di autentiche conoscenze, ciò dipende dal fatto che essa obbedisce a un ordine immutabile. Alla teoria humiana Green contrappone una concezione idealistica della realtà, secondo cui l'ordine dell'universo troverebbe il proprio fondamento metafisica in una coscienza eterna (dio) che includerebbe in sé tutte le relazioni costituenti il mondo; la nostra coscienza non sarebbe altro che la ripetizione imperfetta della coscienza divina, avendo la possibilità di diventare, attraverso i vari gradi del proprio sviluppo, ciò che la coscienza divina è
ab aeterno. Assai più complessa è la posizione di Francis Herbert Bradley (1846~1924), per quanto concluda essa pure, in ultima istanza, ad una filosofia sostanzialmente teologizzante. Professore all'università di Oxford (ove l'idealismo diverrà la filosofia dominante), autore di varie opere - tra le quali ci limitiamo a ricordare Ethical studies (Studi etici, 1876), The principles of logic (l principi della logica, 1883)Bradley si rende conto della debolezza teoretica delle concezioni sostenute dai precedenti filosofi hegeliani, e vuol trovare una nuova più solida fondazione dell 'indirizzo cui aderisce. Questa andrebbe secondo lui cercata in uno « studio scettico dei primi principi», cioè in uno studio espressamente rivolto a farci dubitare di « ogni preconcetto ». Il risultato di tale studio ci porterebbe, secondo il nostro autore, a scoprire che tutto il mondo dell'esperienza, e perfino la logica, sono pervasi di contraddizioni onde risultano in realtà incomprensibili. La fonte di queste contraddizioni andrebbe cercata nel fatto che non si può pensare senza stabilire relazioni, mentre proprio il concetto di relazione sarebbe - a giudizio di Bradley - in sé contraddittorio. Ogni relazione infatti modificherebbe i termini correlati e li renderebbe diversi da quello che erano senza relazione; in altri termini: li farebbe essere e non essere se stessi (è la cosiddetta teoria delle «relazioni interne»). Ecco come il nostro autore analizza le difficoltà che si incontrano allorquando si cerca di applicare una relazione a qualità diverse: « Se (la relazione considerata) non rappresenta nulla per esse, allora tali qualità non sono in relazione ... Se rappresenta qualcosa per esse, allora è chiaro che avremo bisogno di una nuova relazione che le connetta... Se essa stessa non ha una relazione con i termini, in quale materia intelligibile potrà riuscire ad essere qualcosa per essi? Ma qui di nuovo siamo risospinti nel flusso di un processo senza via d'uscita, perché siamo costretti ad andare avanti, trovando senza fine nuove relazioni. » Dall'insolubilità del problema concernente l'applicazione delle relazioni, Bradley è indotto a sostenere che l'autentica realtà va cercata nel pre-relazionale. Il mondo, nella forma in cui può venire da noi pensato, essendo intriso di relazioni è soltanto apparenza; la sua vera realtà, che sta al di sotto di ogni distinzione (di quella fra soggetto e oggetto, di cosa e cosa, di dato esistente e conteII8
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nuto ideale), sarà afferrabile solo attraverso successive negazioni di tutti quei caratteri che rendono «inconsistente» l'apparenza. Malgrado il presunto carattere « scettico » di tutta questa indagine, la sua conclusione è proprio la negazione dello scetticismo: è la scoperta dell'assoluto, da intendersi come «unità onnicomprensiva »in cui possono bensì farsi delle distinzioni ma non esistono delle divisioni, cioè come «totale unità d'esperienza» che non può venire colta dal pensiero ma soltanto da un « sentire » immediato e originario. Quanto alle apparenze, Bradley ritiene che esse possano venire ordinate in una scala gerarchica, secondo il grado con cui approssimano l'assoluto; al vertice di tale scala starebbero la verità, la bellezza e il bene, che, pur essendo apparenze, ci forniscono la massima approssimazione a noi accessibile. dell 'assoluto. Il carattere teologizzante e antirazionalistico della conclusione testé accennata è evidente, anche se le argomentazioni con cui il nostro autore si sforza di difenderla hanno spesso un aspetto di rigorose indagini logiche modernamente formulate. Il monismo che ne rappresenta il nucleo essenziale, per quanto sembri ispirarsi a quello di Hegel, è in realtà ben lontano dalle tesi più interessanti sostenute dal filosofo tedesco. Mentre l'assoluto hegeliano è immanente al mondo naturale ed umano, quello di Bradley trascende tutte le determinazioni del finito, sta al di sopra delle contraddizioni del divenire, non ha storia pur contenendo innumerevoli storie. È insomma assai più simile al dio dei vecchi mistici che alla razionalità dialettica dell'universo. Malgrado la scarsa consistenza della sua rielaborazione critica dell'hegelismo, la filosofia di Bradley esercitò una larga influenza sia sugli ulteriori sviluppi dell'idealismo inglese, sia sugli stessi più insigni avversari di questo indirizzo, come George Edward Moore e Bertrand Russell, che compresero la necessità di sottoporre ad attenta analisi le sottili argomentazioni svolte nelle opere poco sopra citate. Non si può escludere, ad esempio,,·che l'importanza attribuita da Russell alla nozione di relazione (in logica) possa essergli stata in parte suggerita proprio da Bradley; tuttavia Russell respinse con energia il modo bradleyano di concepire la relazione « come qualche cosa di tanto sostanziale quanto i termini (correlati) e non di genere radicalmente diverso » e cioè respinse la dottrina delle relazioni «interne» a favore di una teoria delle relazioni « esterne». Fra gli studiosi che più contribuirono allo sviluppo dell'idealismo in Inghilterra occupa un posto particolare Bernard Bosanquet (1848-1923), traduttore di Lotze e autore di varie opere, alcune delle quali rivolte alla logica e alla teoria della conoscenza, altre all'analisi dei valori etici ed estetici: Knozvledge and reality (Conoscenza e realtà, 1883), Logic (Logica, 1888), History of aesthetics (Storia dell'estetica, 1892), Principle of individuality and value (Principio di individualità e valore, 1912). A dimostrare la forte influenza esercitata su di lui da Bradley possono bastare le parole che egli scrisse a proposito degli Studi etici di questo autore: 119
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la loro pubblicazione «fu un avvenimento che fece epoca, non solo perché ristabilivano e concludevano la discussione sull'edonismo, ma per il loro senso filosofico che trascendeva di molto quell'argomento particolare». Anche per Bosanquet come per Bradley tutta l'esperienza è contraddittoria, onde il nostro compito essenziale consiste nell'eliminazione graduale e progressiva di tali contraddizioni. Questa eliminazione ci porta al possesso della « cosa reale » che « inghiotte » tutte le contraddizioni e ci rivela la sostanziale unità del mondo: «Tanto nell'esperienza più profonda quanto nella più semplice ... noi siamo in un mondo che è interamente uno e con se stesso e con noi ... N el nostro essere più semplice come nell'attività più alta, la "cosa reale" viene a noi come assoluto. » La filosofia, che trova « nella totalità il proprio criterio », viene così ad assumere il carattere di religione dell'assoluto, presentandosi come essenzialmente rivolta a farci trascendere il finito per sollevarci a cogliere la spiritualità dell'universo: « È chiaro che il Tutto è tale da potere, da una parte, includere il mutamento, e dall'altra da non lasciare che la totalità si spezzi. La totalità si esprime nel valore che è concentrazione e fuoco della realtà nella sua essenza reale, è centro reale positivo in cui si risolvono le contraddizioni e, fin dove si affe.rma nell'esperienza, è un concretarsi che si fonda sulle tensioni che si sono fuse in quel punto. » Non potendo prendere in esame ad uno ad uno tutti i numerosi rappresentanti dell'indirizzo in questione- John Stuart Mackenzie (186o-1935), Alfred Edward Taylor (1869-1945), James Black Baillie (1872-1940), ecc.·- ci limiteremo a riferire qualche breve notizia intorno a John Mc Taggart (1866-1925), che tentò di dare all'idealismo inglese un orientamento alquanto diverso da quello impressogli da Bradley. Questa diversità consiste essenzialmente nel riconoscimento del valore della pluralità e nella distinzione fra il parziale e il contraddittorio (onde il fatto, posto in luce da Bradley, che il parziale rinvii ad altro che lo completa non costituirebbe, di per sé, una contraddizione). Ma il merito di Mc Taggart fu soprattutto quello di avere intrapreso un esame assai preciso del sistema hegeliano, analizzato nei suoi diversi aspetti; ne sono una testimonianza i titoli stessi delle principali opere sull'argomento: Studies in the hegelian dialectics (Studi sulla dialettica hegeliana, 1896), Studies in hegelian cosmology (Studi sulla cosmologia hegeliana, 1901), A commentary on Hegel's logic (Un. commento sulla logica hegeliana, 1910). Le conclusioni, cui lo studioso britannico pervenne, sono alquanto sorprendenti: la dialettica, intesa come sviluppo della contraddizione, non costituirebbe la vera molla del procedimento hegeliano, ma rappresenterebbe soltanto l'incompiutezza del finito. Di qui una revisione generale dell'hegelismo in senso non meno teologizzante di quello che già riscontrammo in Bradley: l'autentico possesso della verità risiederebbe nell'eliminazione della dialettica, nella liberazione del pensiero dalle imperfezioni del finito. L'assoluto sarebbe cioè l'eterno, perfettamente compiuto in se stesso e perciò estraneo alla dialettica. 120 www.scribd.com/Baruhk
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Negli ultimi decenni dell'Ottocento l'idealismo si diffuse e acquistò presto un grande peso culturale anche negli Stati Uniti d'America, in parte conservando e in parte innovando i caratteri che aveva in Inghilterra. Il suo maggiore rappresentante fu ] osiah Royce (I 8 55- I 9 I 6), buon. conoscitore del pensiero tedesco (aveva studiato un anno a Gottinga con Lotze), professore dal I88z alla Harvard University. Tra le sue numerose opere ricordiamo: The spirit oj modern philosophy (Lo spirito della filosofia moderna, I 89z), The conception 4 God (Il concetto di dio, I895), The world and the Individuai (Il mondo e l'individuo, I9oo-oz), P.rycology (Psicologia, I903), Problem oj Christianiry (Problema del cristianesimo, I9I3)· Scrisse pure un saggio su Herbert Spencer (I9o4), uno su William James (I9I I), e vari altri di etica, politica ed epistemologia. Pur avendo subìto, come tutti gli idealisti inglesi dell'epoca, l'influenza di Bradley, si distaccò da lui in vari punti, tanto da non ammettere di venir considerato hegeliano, preferendo qualificare la propria filosofia come « volontarismo assoluto » o « idealismo sistematico e costruttivo ». In effetti, l'idealismo di Royce si avvicina, per certi aspetti, più a Fichte che a Hegel e, pur rifiutando le conclusioni pragmatistiche di James (del quale parleremo nel prossimo paragrafo), mutua alcuni temi dalla sua psicologia attivistica. Il nostro autore non ha difficoltà ad ammettere, con i realisti, che l'idea tenda sempre a qualcosa di « altro da sé »; ma questo « altro da sé » non è come essi ritengono - una realtà esterna, bensì una maggiore esplicitazione del « significato interno » che ogni idea possiede in se medesima. Così impostata, la polemica contro i realisti conduce Royce a concepire l'idea come una «idea-volontà» sotto la manifesta influenza della Critica della ragion pratica kantiana. Questa idea-volontà darebbe luogo a un processo di sempre maggiore autodeterminazione, continuamente stimolato dalla consapevolezza dell'errore (cioè dalle smentite che l'esperienza dà alle nostre previsioni intorno all'oggetto) e dallo sforzo di superarle. Il processo non può aver termine - secondo Royce - che nel raggiungimento di una « coscienza più larga », la coscienza di dio, ove siano compresenti la ricerca insita nell'idea-volontà e la soluzione del problema costituente la meta di tale ricerca. L'assoluto viene così a delinearsi come una totalità che contiene simultaneamente, da un lato, tutte le determinazioni dell'esperienza finita, e dall'altro il loro superamento. È la sua stessa infinità che gli permette di moltiplicarsi in infinite « parti » senza perdere la propria unità, e senza peraltro eliminare le individualità dei singoli « io » in cui si riflette. Esso è universalità e individualità in quanto è l'esperienza assoluta, totalmente realizzata in un eterno presente; è individualità in quanto è amore come sono centri di amore i singoli esseri, ma amore onnicomprensivo e perciò individualità perfetta. Non ci sembra il caso di sottolineare che la complessa filosofia di Royce si incentra - come già quella di Bradley e degli altri idealisti inglesi - sul pro-
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blema del rapporto uno-molti; ciò che si può aggiungere è che egli lo interpreta non solo come problema metafisica-religioso, ma anche come problema umano; onde giunge ad affermare l'esistenza di una profonda unità fra i singoli uomini e la società, intesa quale « comunità'» spirituale attuantesi nel divenire storico. V · IL PRAGMATISMO
È fuori dubbio che il positivismo evoluzionistico e il neo-hegelismo angloamericano, pur avendo avuto entrambi un peso notevole durante il periodo che sta a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, hanno perso da tempo pressoché ogni incidenza sulla problematica della filosofia e della scienza. Non così può dirsi invece dei due indirizzi, il pragmatismo e il neo-realismo, che ci accingiamo ad esaminare molto brevemente in questo e nel prossimo paragrafo. Per essere più precisi: sia l'uno che l'altro hanno posto in luce- pur frammisti a non poche speculazioni ormai prive di attualità - alcuni temi e alcuni metodi di indagine che il ricercatore di oggi non può fare a meno di prendere in seria considerazione. Proprio perciò noi ci limiteremo qui a fornire qualche rapida notizia sulla fase iniziale dei due indirizzi, riservandoci di tornare con maggiore ampiezza sui loro ulteriori sviluppi nel seguito della nostra trattazione; ci proponiamo ad esempio, per quanto riguarda il pragmatismo, di riprenderlo in esame nel volume settimo, dedicando un intero capitolo a Dewey, e discutendo in sede teoretica l'accettabilità o meno dei numerosi suggerimenti che da esso ricavarono alcuni epistemologi contemporanei. La prima formulazione del programma pragmatista risale a Charles Sanders Peirce su cui ci si è già soffermati a lungo nel capitolo IX del volume quinto (o ve si sono esaminati i suoi contributi allo sviluppo della logica), ed è contenuta nei due articoli che egli pubblicò sulla rivista« Popular Science Monthly » nel 1877-78 con il titolo The ftxation of belief(Come si fissano le credenze) e How to make our ideas clear (Come rendere chiare le nostre idee).l Oggi tutti ammettono che Peirce fu uno deI I due articoli possono venire considerati come il frutto delle vivaci discussioni che il nostro autore aveva avuto per anni con alcui).i amici, pressoché coetanei, legati direttamente o indirettamente all'università di Cambridge (Massachusetts) nel Metaphysical Club sorto in tale città verso il 187o. Come Peirce stesso scriverà, questo club - che costituì in certo senso la culla del pragmatismo era stato chiamato metaftsico metà « ironicamente » e metà «per sfida» contro l'agnosticismo imperante in quella università. Vi prendevano parte, oltre a Peirce e a James (di cui parleremo più avanti), un giovane scienziato, un cultore di storia, uno studioso di religione e - fatto alquanto singolare - quattro avvocati, tutti animati da una sincera passione speculativa al di fuori di ogni
preoccupazione accademica; i temi principali dei dibattiti erano la scienza, la religione, il diritto e la logica. Come spiega assai bene il sociologo Charles Wright Milis, gli avvocati membri del club erano particolarmente attratti dalle discussioni di logica (in ispecie sul problema della definizione) e proprio in questo campo riuscirono ad esercitare una notevole influenza sugli amici: «In questo contesto legale, e specificamente nel carattere logico del loro interesse per il diritto, troviamo un punto di ap-
poggio per il modo in cui la scienza e la logica furono affrontate da Peirce ... egli si accostò alla scienza non come a una materia di studio, ma come a un metodo, una tecnica, più precisamente una tecnica di definizione. »
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gli ingegni più acuti e più profondi vissuti negli Stati Uniti durante la seconda metà del XIX secolo, e ciomalgrado è fuori dubbio che non riuscì a far riconoscere i propri notevolissimi meriti ai contemporanei: pur appartenendo all'ambiente universitario (suo padre era, come sappiamo, uno dei più autorevoli matematici della Harvard University nella quale insegnò fisica e astronomia per vari decenni) non poté mai entrare- come avrebbe desiderato -nella vera e propria carriera accademica ed anzi non trovò nemmeno un editore disposto a pubblicare le originalissime opere che veniva scrivendo di logica e di filosofia. Dovette pertanto limitarsi ad esporre le proprie idee in articoli e recensioni che, sebbene numerosi, non forniscono se non una pallida idea della sua fecondissima attività di scrittore (le principali opere del nostro autore verranno pubblicate solo dopo la sua morte). Quando, verso la fine del secolo, egli vide attribuita a sé la paternità dell'indirizzo pragmatista che cominciava a diventare una «filosofia di moda», non ne rimase affatto lusingato, e qualche anno più tardi- per evitare ogni confusione in proposito - giunse a cambiare la denominazione della propria filosofia, chiamandola « pragmaticismo » anziché « pragmatismo ». Questa netta e rigida presa di posizione, anche se in parte dovuta all'infelice temperamento di Peirce, appare pienamente giustificata quando si tenga conto dei caratteri del tutto diversi che l'indirizzo veniva di fatto ad assumere, negli anni in esame, ad opera dei due autori (James e Schiller) che maggiormente contribuirono alla sua diffusione. L'italiano Mario Calderoni (di cui si parlerà nel volume settimo), in un interessante studio sulle varietà del pragmatismo, giungerà a scorgere una vera e propria antitesi fra il pragmatismo prevalentemente gnoseologico e logico - dovuto a Peirce- e quello sviluppato dagli altri due, rivolto soprattutto a questioni di valore, di apprezzamento dei fini, di utilità delle credenze. Volendo esaminare alquanto più da vicino queste differenze, occorrerà premettere qualche notizia sulla figura e l'opera dei sostenitori testé menzionati della «seconda varietà di pragmatismo ». William James (I84Z-191o) nacque a New York da un singolare tipo di teologo, seguace delle concezioni mistiche che erano state difese nel Settecento da Swedenborg. Il padre riuscì a influire così profondamente sull'educazione del ragazzo che, anche quando sarà divenuto illustre filosofo, William continuerà a considerare la religione come problema fondamentale dell'uomo. Dopo aver compiuto lunghi viaggi in Europa, il nostro autore - ritornato in America - provò una viva inclinazione verso gli studi naturalistici e, dedicatosi ad essi con passione, meritò in breve il posto di assistente di fisiologia presso la Harvard University (sono gli anni in cui divenne amico di Peirce, dal quale tuttavia non tarderà a distaccarsi). Nel 1889 fu nominato professore di psicologia in tale università, passando nel I 89z alla cattedra di filosofia. 1 Le sue opere più famose sono: The x Per il contributo dato da James al sorgere
degli studi di psicologia in America, rinviamo a quanto detto nel capitolo n, paragrafo vr.
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principles of psychology (l principi della psicologia, 189o), The wi/1 to believe (La volontà di credere, I897), The varieties of religious experience (Le varietà dell'esperienza religiosa, I9oz), Pragmatism: a new name for some old w~ys of thinking(Pragmatismo: un nome nuovo per alcuni vecchi modi di pensare, 1907). L'inglese Ferdinand Schiller (I864-I937) fu professore dapprima all'università di Oxford poi a quella di Los Angeles negli Stati Uniti. Risentì l'influenza delle concezioni evoluzionistiche di Spencer e di Darwin, ma cercò di svilupparle in senso metafisica-religioso. Tra le sue opere ricordiamo: Riddles of the spl!Jnx, a stut[y in the philosophy of evolution (Enigmi della sfinge: uno studio di filosofia dell'evoluzione, uscito anonimo nel 189I e poi ripubblicato nel I894 con il nome dell'autore), Axioms as postulates (Assiomi come postulati, I9oz), Humm;ism, philosophical essays (U manismo, saggi filosofici, I 907), Formai logic: a scientiftc and social proble m (Logica formale: un problema scientifico e sociale, I912.), Problems of belief (Problemi della credenza, I 92.4). Logic for use: an introduction to the voluntarist theory of knowledge (Logica per l'uso: una introdt~zione alla teoria volontaristica della conoscenza, I93o). La prima e più caratteristica tesi del pragmatistno gnoseologico di Peirce è stata così riassunta da Mario Calderoni: « Il solo mezzo di determinare e chiarire il senso di una asserzione consiste nell'indicare quali esperienze particolari si intenda con essa affermare che si produrranno o si produrrebbero date certe circostanze. » Queste parole ci fanno subito capire in che modo Peirce intendesse risolvere il problema centrale, sollevato nel suo famoso articolo del I 878 dal titolo Come rendere chiare le nostre idee: il significato delle nostre idee va sì cercato nell'esperienza, ma per una via diversa da quella usualmente seguita dagli empiristi. L'idea di un oggetto non consiste in un puro e semplice coacervo di dati osservativi: è invece la rappresentazione degli effetti che esso produce al presente o può produrre in avvenire, «è l'idea dei suoi effetti sensibili». E lo stesso può ripetersi, ovviamente, per un asserto: se esso non ci fornisce alcuna indicazione su « quali esperienze particolari si produrranno date certe circostanze », non risulta a rigore un autentico asserto. Potrà accadere infatti che un individuo lo accolga e un altro lo respinga senza che i due risultino in grado - né oggi né maidi decidere chi ha ragione e chi ha torto. Con che diritto sosterremo allora che asserivano effettivamente qualcosa? Ben diversa è la situazione se l'asserto in questione fornisce indicazioni precise su ciò che avverrà in determinate circostanze; in tal caso infatti basterà produrre realmente queste circostanze e controllare se accadono o no gli effetti previsti. La possibilità di un siffatto controllo è l'unica garanzia che noi possediamo di non aver parlato a vuoto. La portata della tesi testé accennata è assai più ampia di quanto potrebbe apparire a prima vista. Mentre la filosofia tradizionale ci aveva abituati a concepire la ricerca del significato di un asserto e il controllo delle sue conseguenze come due operazioni completamente distinte, Peirce sostiene invece che sono inseparabili l'una dall'altra. Non è vero cioè, secondo il nostro autore, che la prima riguardi 12.4 www.scribd.com/Baruhk
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la sfera della conoscenza e la seconda quella dell'azione: questa presunta distinzione delle due sfere è del tutto illusoria. La verifica pratica non è un « di più » che si aggiunge al puro pensiero; o questo si traduce in ben determinate azioni, o non è nulla (è un vuoto gioco di parole). In particolare, il significato di una teoria - per quanto astratta essa possa apparirci- è il complesso delle esperienze particolari che ci permette di prevedere. Non è il caso di scendere in particolari sulla complessa dottrina in cui Peirce ha cercato di sistemare l'interessantissima concezione ora delineata. Un altro lato di essa va comunque sottolineato, anche se a nostro giudizio trattasi di un lato meno valido e anzi passibile di sviluppi alquanto pericolosi. Peirce non ha ritenuto necessario discutere a fondo la natura (potremmo dire «metafisica») del soggetto che egli considera protagonista dell'attività teoretico.pratica di cui poco sopra parlammo. Ciò che gli interessa è studiare accuratamente come si esplichi in concreto - cioè con riferimento agli individui effettivi del nostro mondo - l'attività anzidetta, in che senso essa possa dirsi razionale, quali garanzie sussistano per il suo successo. Prpprio in rapporto a questi problemi leggiamo nelle opere di Peirce alcune affermazioni che, se per un lato conservano tutt'oggi un vivo interesse, per un altro lato però si prestano a gravi equivoci (come sarà dimostrato dagli stessi ulteriori sviluppi del pragmatismo). Il nostro autore dichiara esplicitamente che il fine di ogni indagine è quello di far sorgere in chi indaga una credenza. Fra i vari metodi effettivamente praticati a questo fine - il metodo dell'ostinazione, quello dell'autorità, quello a priori o metafisica, e infine quello scientifico - soltanto quest'ultimo viene studiato da Peirce con autentico interesse. Egli lo analizza con straordinario acume, ponendone in luce alcuni caratteri di cui solo l'epistemologia del Novecento ha compreso il pieno valore: per esempio quello importantissimo di riconoscere in linea di principio la propria fallibilità e quindi la necessità di procedere a ininterrotte autocorrezioni. Ne risulta con eccezionale chiarezza l'intima compenetrazione - oggi ammessa da ogni studioso serio - fra ricerca scientifica e metodo probabilistico. Ma che cosa si deve intendere per « credenza »? Peirce ne parla come di un « sentimento », di un « abito dello spirito radicatosi in noi », di una semplice «abitudine all'azione». Se però le cose stanno effettivamente così e se l'unico fine di ogni indagine è quello di fissare una credenza, ecco che, allora, tutta la filosofia di Peirce viene ad assumere -lo si voglia o no- un'intonazione nettamente soggettivistica. Il suo problema centrale non sarà più, infatti, quello di stabilire in via generale i nessi fra conoscere e agire (sulla base di un esame critico di queste due attività), ma sarà il problema di determinare come si formino nell'animo umano le varie credenze, quale mansione vi adempiano, come esse sorgano e si estinguano.
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Il pragmatismo si trasforma così in una specie di psicologia della credenza, rivolta a dimostrare l'essenzialità di questo sentimento in tutta la nostra vita, nell'elaborazione delle stesse categorie conoscitive e perfino nella costituzione della nozione di realtà. Era il primo passo verso la concezione del pragmatismo come difesa del valore delle credenze comunque originate, come esaltazione della volontà, come contrapposizione del soggettivo all'oggettivo. Gli altri passi verranno facilmente compiuti dai sostenitori di quella che abbiamo chiamato la seconda forma del pragmatismo. E così questo indirizzo che, a detta di Calderoni, era sorto come approfondimento del « positivismo di miglior lega », finirà di confluire nel grande alveo della reazione al positivismo, della rivolta irrazionalistica contro la scienza. Anche per J ames, come per Peirce, il vero banco di prova delle nostre conoscenze è l'esperienza futura, non quella passata; anche per lui ciò che caratterizza il pensiero è il porre dei fini e cercare dei mezzi per realizzarli; la stessa scienza può venire compresa solo se la si interpreta come strumento sempre correggibile, appositamente costruito per accrescere la potenza umana. Ciò che differenzia i due autori è il quadro filosofico generale in cui J ames inserisce queste concezioni. Il punto centrale di questo quadro è - nella filosofia di James --l'affermazione che l'essenza dell'uomo risiede nell'attività, onde egli non può non agire, né può di conseguenza rinunciare al rischio connaturato ad ogni azione. L 'individuo si trova sempre in una situazione empirica determinata e tende a modificarla in base a questa o a quell'idea; l'adesione a un'idea piuttosto che a un'altra è l'atto cui il nostro autore dà il nome di «credenza». L'espressione «volontà di credere » non significa altro se non il riconoscimento che le nostre credenze sono il frutto della nostra passione e della nostra libera volontà. Postulare una realtà oggettiva che stia immobile e compatta di fronte all'individuo e non si risolva nelle situazioni empiriche particolari che egli stesso concorre a determinare significa- secondo James- abbandonarsi al più vieto dogmatismo. L 'u,nica autentica realtà di cui sia lecito parlare è pertanto quella degli spiriti umani, cioè dei singoli individui che a buon diritto possono venir considerati spiriti in quanto centri di azione, in quanto esseri capaci di scegliere liberamente le proprie credenze e di affrontare il rischio che la loro scelta comporta. Il punto conclusivo a cui il nostro autore perviene è rappresentato da un pluralismo spiritualistico che, per un lato, ammette l'esistenza di innumerevoli spiriti umani fra loro solidali ma ben distinti; e per l'altro ammette l'esistenza di un dio (molto simile a quello di John Stuart Mill) fornito di maggiori conoscenze e di maggiore potenza degli spiriti umani, ma esso pure finito: un dio che ci aiuta nelle nostre azioni e che perciò può venire qualificato come « provvidenza », ma che nel contempo necessita del nostro aiuto perché non ha tracciato una volta per sempre la linea degli eventi, ma si trova ad ogni istante di fronte a più alternative le quali esigono sempre nuove scelte e nuove decisioni. Con questa conclusione
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James ritiene di essere riuscito a conciliare definitivamente scienza e religione; è il compito principale che egli attribuisce alla propria filosofia. Anche il pragmatismo umanistico di Schiller conduce in ultima istanza a una visione pluralistica, che riconosce all'operare umano una parte attiva di primaria importanza nell'organizzazione progressiva dell'universo. Ciò che caratterizza il nostro autore di fronte a James (verso il quale nutre comunque la massima stima e dal quale ammette di essere stato profondamente influenzato) è il tentativo di ricuperare l'assoluto come punto terminale di tale organizzazione progressiva, cioè come perfetta armonia, come « universo interamente soddisfatto di se stesso ». Schiller si rende ben conto che tale assoluto non costituisce una realtà, potendo venire soltanto postulato. Ma, secondo lui, è l'esperienza stessa che d conduce a tale postulazione; e proprio per questo motivo, ossia perché è l'esperienza che d porta a postulare l'assoluto, esso non può venire concepito come separato dal mondo dell'esperienza. Dovremo dunque pensarlo come ordine dell'universo, come« realtà ultima che includa in sé e armonizzi» tutto il mondo dell'esperienza. Una volta abbandonatosi ai sogni metafisico-religiosi, il nostro autore non riesce più a porre alcun freno alle proprie divagazioni filosofiche. E così non si accontenta più di postulare l'assoluto come ordine intellettuale dell'universo, ma lo postula pure come «ordine morale», il che gli permette anche di postulare l'immortalità dell'anima perché «senza l'immortalità non è possibile pensare il mondo come un tutto armonico, come un cosmo morale ». La gratuità di queste postulazioni è evidente, come pure il loro inserimento nel quadro che cercammo di delineare nel paragrafo 1. Esse rendono palesi senza ombra di dubbio i gravissimi pericoli insiti nella via, pur tanto affascinante, aperta dall'indirizzo pragmatista. Non va comunque dimenticato che vi sono stati anche altri sbocchi di ben maggiore serietà: uno è costituito dallo strumentalismo di Dewey; un altro dalle istanze pragmatistiche presenti nella moderna epistemologia (direttamente ricavate dalle analisi critiche di Peirce). Di queste e di quello si · riparlerà - come già si è detto - nel volume settimo. VI · IL NEO-REALISMO
Nei primi decenni del Novecento si assiste, in Inghilterra e negli Stati Uniti, alla rinascita di un indirizzo realista che, ricollegandosi per un verso alla filosofia del senso comune di Reid, per un altro verso a certe forme assunte dal neokantismo in Europa, intende opporsi sia al fenomenismo dei puri empiristi (cioè alla tradizione Hume-Mill), sia all'idealismo di Bradley e dei suoi seguaci, sia allo stesso pragmatismo. In Inghilterra il centro più importante dell'indirizzo in esame fu l'università di Cambridge ove insegnarono alcuni dei suoi maggiori rappresentanti quali
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George Edward Moore (I873-I958), Charlie Dunbar Broad (I887-viv.) e in un primo tempo Alfred North Whitehead (I86I-I947), che fu-professore di matematica in tale università fino al I9Io (in questo anno si trasferì, sempre come professore di matematica, a Londra e infine, nel I 924, venne chiamato in America per insegnare filosofia alla Harvard University). Nell'ambiente dell'università di Cambridge si formò pure Bertrand Russell, che però occupa nella storia del realismo inglese una posizione del tutto particolare, come verrà chiarito in altri capitoli della presente trattazione. Un autorevole sostenitore dell'indirizzo realista di provenienza completamente diversa fu invece Samuel Alexander (I859-I938), professore all'università di Manchester; egli era stato educato a Oxford ma aveva subito l'influenza, oltreché della filosofia idealistica insegnata in tale centro di studi, anche del positivismo evoluzionistico di Spencer: si schierò apertamente a favore del realismo nell'opera Space, time and deiry (Spazio, tempo e deità, I92o), sviluppandolo però in forma apertamente metafisica. Il grande successo di quest'opera fu dovuto, in notevole misura, allegarne che l'autore riteneva di poter stabilire fra la propria metafisica e le ultime conquiste della scienza, in particolare la teoria einsteiniana della relatività. Negli Stati Uniti la svolta della filosofia verso il realismo si compì in due fasi ben distinte fra loro. La necessità di contrapporre una concezione realistica del mondo a quelle dominanti nell'ultimo decennio dell'Ottocento e nei primi anni del Novecento fu per la prima volta proclamata nel I9Io, con molto vigore polemico, da un gruppo di sei giovani studiosi, il più illustre dei quali sarà William Pepperell Montague (I87S-I95 3) professore alla Columbia University di New York. Gli argomenti da essi addotti contro il fenomenismo e l'idealismo si richiamavano in modo diretto a quelli sviluppati in Inghilterra da Moore: il problema considerato come centrale era quello gnoseologico; il metodo usato per la sua trattazione era basato sull'analisi della mente e mirava a dimostrare che nel processo conoscitivo sarebbe immediatamente rilevabile la presenza di un fattore irriducibile all'attività psichica; la conclusione cui si riteneva di poter pervenire era che la mente costituirebbe un oggetto fra gli oggetti, di natura non diversa dagli oggetti fisici. Ma le difficoltà incontrate erano molte, tanto che pochi rimasero fedeli alle tesi ora accennate: lo stesso Montague cercherà di correggerle, pervenendo a una filosofia di tipo eclettico. Un rilancio dell'indirizzo realistico venne operato nel I92o da un altro gruppo di otto autori, che tuttavia vollero qualificare il proprio realismo come « critico » per sottolinearne le differenze rispetto a quello propagandato dal gruppo precedente (da essi qualificato come «realismo ingenuo»). Il più famoso dei nuovi realisti fu George Santayana- nato in Spagna nel I 869 e morto in Italia nel I 9 52 -professore alla Harvard University fino al I923 (nel I924 questa medesima università chiamerà Whitehead, come poco sopra accennammo). Il problema centrale non è più, ora, quello gnoseologico, ma quello dell'uomo, e più precisa128
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mente il problema di analizzare e sviscerare il significato dell'attività umana in tutte le sue varie estrinsecazioni e in tutte le sue componenti. Il punto conclusivo del pensiero di Santayana è che la vita dello spirito, pur risultando essenzialmente radicata nella materia (tanto da rappresentare il vertice dello sviluppo del mondo materiale), non si esaurisce però nel mondo della materia: tende invece a guardare al di là di esso, a intuire il regno delle essenze ideali contrapposto a quello della mera esistenza, a cogliere « le idee universali di bene e di bello » che il mondo della materia « suggerisce» e alle quali « si approssima». Le tesi testé accennate di Santayana ci dimostrano che anche nell'indirizzo neo-realistico erano presenti talune esigenze non molto diverse da quelle affiorate nelle scuole filosofiche che abbiamo preso in esame nei paragrafi precedenti. Malgrado le ripetute dichiarazioni circa la necessità di tenere in qualche modo conto degli ultimi risultati acquisiti dalla scienza, i sostenitori del neo-realismo non riuscirono, per lo meno nella maggioranza dei casi, a trovare un nesso realmente serio tra le loro speculazioni e il lavoro degli scienziati e dei tecnici. La filosofia continua pertanto ad apparire nei loro scritti come un'attività sostanzialmente affine a quella dei poeti, degli artisti, dei religiosi, rivolta cioè a soddisfare bisogni «profondi» dell'animo umano del tutto estranei ai problemi che investono il campo della vera e propria ragione. È una filosofia spiritualistica, anche se parla di spirito radicato nella materia; filosofia che riprende alcuni vecchi temi della metafisica irrazionalistica, anche se proclama di non essere una vera e propria metafisica. Di qui il grande successo che ottenne fra le « anime belle » in cerca di una comoda via per evadere dalle dure responsabilità del mondo moderno; di qui il suo rapido tramonto, il nessun peso avuto per la cultura più seria. Ovviamente non tutti i seguaci dell'indirizzo in esame sono altrettanto meritevoli quanto Santayana del duro giudizio testé accennato; tant'è vero che intorno al loro pensiero è ancora oggi accesa una seria discussione, mentre più nessuno può illudersi di apprendere qualcosa di culturalmente valido dalle opere di Santayana, fuorché dai suoi saggi estetico-letterari. Avremo più volte occasione di ritornare nel volume settimo su Whitehead e, pur criticando apertamente le tesi centrali della sua metafisica, daremo atto - con la nostra stessa polemica di ciò che egli ha rappresentato e rappresenta per la filosofia odierna. Il valore di un autore non consiste soltanto in quanto egli ci insegna di accettabile, ma anche · nelle argomentazioni che ci costringe a trovare per ribattere le sue proposte di soluzione (proposte che possono essere sollecitanti solo se precise e razionalmente formulate). Rinviando, comunque, a un punto più avanzato della nostra esposizione l'esame del realismo metafisica di Whitehead, sarà ora opportuno soffermarci alquanto più diffusamente su quello che può venire considerato il vero iniziatore del movimento, vogliamo dire su Moore; e ciò per due motivi: innanzi tutto per l'indubbia importanza storica che egli ebbe, in secondo luogo perché nel suo
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pensiero sono stati recentemente riscontrati alcuni temi di notevolissimo interesse, ben diversi da quelli che vennero portati al centro della speculazione filosofica dai successivi sviluppi, in senso metafisica, dell'indirizzo realistico. L'opera più nota di Moore è Principia ethica (Principi etici, 191 3), ma lo scritto in cui per la prima volta egli sostenne in forma esplicita le nuove tesi del realismo è un articolo, uscito sulla rivista« Mind »nel 1903, dal titolo The refutation of idealism (La confutazione dell'idealismo). Esso venne ripubblicato circa vent'anni più tardi, insieme con vari altri saggi, in un interessante volume cui il nostro autore diede il titolo Philosophical studies (Studi filosofici, 192.2.). Richiesto di delineare un rapido abbozzo. della propria filosofia per il volume Contemporary british philosophy (Filosofia britannica contemporanea, 192.4), Moore volle presentarla come «apologia del senso comune», esprimendo palesemente con queste parole il desiderio di ricollegarsi a Reid, nonché a William Hamilton che -come sappiamo dal capitolo vn del volume quinto- aveva curato l'edizione delle opere del pensatore scozzese e tentato una sintesi tra la filosofia del senso comune e il criticismo kantiano. D'accordo con il senso comune il nostro autore sostiene che le due proposizioni« vi sono e vi sono state cose materiali»,« vi sono e vi sono stati molti soggetti » sono certamente vere, ma che tutte le analis i di tali proposizioni finora proposte dai filosofi sono dubbie. Il carattere polemico di questa presa di posizione è evidente; gli avversari contro i quali Moore polemizza sono i fenomenisti e gli idealisti, che pretenderebbero far dipendere - secondo la famosa formula di Berkeley - l'esse dal percipi: « Se esse è percipi, ciò equivale senz'altro a dire che ogni cosa che è viene esperimentata; il che a sua volta equivale a dire, in un certo senso, che ogni cosa che è, è qualcosa di mentale. » In altri termini: le percezioni sarebbero effettivamente qualcosa di reale, mentre gli oggetti percepiti non possederebbero alcuna realtà loro propria. Questa tesi si fonda, secondo Moore, su di un grave equivoco: sulla confusione cioè tra oggetto delle sensazioni e contenuto delle medesime. Una volta commessa tale confusione, sarà naturale ricavarne che: poiché il contenuto delle sensazioni non esiste indipendentemente dalle sensazioni stesse, neanche il loro oggetto esisterà indipendentemente da esse. È dunque l'equivoco anzidetto ciò che va confutato; ed è appunto contro di esso che si accentrano le critiche del nostro autore. Le parole che egli scrive sull'argomento sono di una limpidezza cristallina. «Avere nella mente "conoscenza" del blu non significa avere nella mente una "immagine" della quale il blu sia un contenuto.» Nulla esclude- è vero-- che quando provo la sensazione del blu, la mia consapevolezza sia essa stessa blu (ossia abbia il blu come proprio contenuto); ma « la questione se lo sia o no è poco importante». Ciò che importa è un'altra cosa, e cioè che l'introspezione mi permetta di stabilire « che io sono consapevole del blu, e con questo intendo dire che
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la mia consapevolezza ha col blu un rapporto completamente diverso e distinto » dal rapporto tra contenente e contenuto. Proprio esso ed esso solo è il rapporto che «in ogni caso denotiamo con la parola "conoscenza"». Una volta eliminato l'equivoco poco sopra riferito, Moore può concludere che alle sensazioni e ai loro oggetti va attribuita la medesima realtà. « Io sono direttamente consapevole dell'esistenza delle cose materiali nello spazio come delle mie sensazioni; e quello di cui sono consapevole riguardo ad ambedue è precisamente lo stesso: cioè che, in un caso, la cosa materiale, e nell'altro la mia sensazione esistono realmente. Così, il quesito da formulare circa le cose materiali non è: qual motivo abbiamo per supporre che esista qualcosa in corrispondenza alle nostre sensazioni? bensì: qual motivo abbiamo per supporre che le cose materiali non esistano, dato che la loro esistenza ha la stessa evidenza delle nostre sensazioni? » Il nostro autore non trova motivi per escludere l'ipotesi che «non esistano» né queste né quelle; pone però in guardia contro le gravissime conseguenze che ne deriverebbero. «La sola alternativa ragionevole all'ammissione che la materia esista al pari dello spirito è l'assoluto scetticismo, ossia l'ammissione che è tanto probabile quanto no, che nulla affatto esista. Tutte le altre supposizioni... sono, se non abbiamo motivo per credere nella materia, altrettanto infondate quanto le più grossolane superstizioni. » Le argomentazioni testé riassunte hanno fornito il punto di partenza per tutto l'indirizzo realistico anglo-americano; a rigore, però, esse dimostravano soltanto la possibilità del realismo, senza determinare né che cosa fosse la realtà delle « cose materiali » né che cosa fosse il rapporto coscienza-oggetto. Fu proprio nel tentativo di rispondere a questi problemi lasciati aperti da Moore, che gli altri sostenitori poco sopra menzionati dell'indirizzo realistico incontrarono le più gravi difficoltà e finirono per abbandonarsi a vuote divagazioni metafisiche. L'inaccettabilità di tali conclusioni è manifesta. Essa non può tuttavia farci misconoscere i meriti dell'iniziatore del movimento, la sottigliezza delle sue indagini, la serietà delle critiche da lui mosse all'idealismo: sono appunto questi i motivi per i quali abbiamo detto- all'inizio del paragrafo v - che il neo-realismo (come il pragmatismo) conserva ancora oggi un notevole peso culturale. È stato soprattutto il metodo seguito da Moore nel condurre le proprie argomentazioni a interessare gli studiosi moderni: metodo essenzialmente basato sopra un'attentissima analisi delle opinioni accolte dal senso comune e sopra una scrupolosa ricerca del loro effettivo significato. Esso ha dato un impulso decisivo alla diffusione tra gli studiosi anglosassoni di nuovi indirizzi di pensiero, come il neoempirismo, orientati a interpretare la filosofia come analisi del linguaggio. A Moore si richiamerà in particolare la scuola dei cosiddetti « analisti oxoniensi », che assumerà come proprio oggetto di analisi per l'appunto il linguaggio comune, cioè quel linguaggio che con la sua illimitata ricchezza e le sue stesse ambiguità meglio riesce ad esprimere il modo spontaneo di pensare di tutti gli uomini.
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CAPITOLO SESTO
Il complesso quadro della ftlosofta tedesca
I
· CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
· Come è ben noto, la seconda metà del XIX secolo :rappresentò uno dei pe:riodi decisivi per lo sviluppo del popolo tedesco, sia dal punto di vista politico pe:r la schiacciante vittoria sulla Francia e la conseguente unificazione della Germania sotto l'impero di Guglielmo 1, sia dal punto di vista economico pe:r il :rapido formarsi di una potente, ben organizzata, industria moderna e il conseguente incremento del commercio europeo ed extraeuropeo. Parallelamente a tale sviluppo si acuirono anche le contraddizioni del sistema, ma la grande crisi da esse preparata non scoppierà che più tardi, con la p:rima guerra mondiale. Il pe:riodo in esame fu molto significativo anche sotto l'aspetto culturale. Esso vide infatti - come abbiamo già rilevato- una sorprendente avanzata degli studi tedeschi in pressoché tutti i rami della ricerca: da quelli delle scienze ormai ben consolidate da tempo (quali la matematica, la fisica, la chimica, la biologia e la stessa filologia) a quelli delle cosiddette scienze nuove (quale ad esempio la psicologia). Soltanto la filosofia parve sottrarsi a questo fenomeno generale, come risulta confermato dal fatto che- dopo il crollo dell'hegelismo- non sorse alcun nuovo indirizzo filosofico, capace di elaborare una concezione del mondo effettivamente in grado di soddisfare le esigenze dell'uomo moderno. Uno degli ostacoli più gravi che si opposero alla :rinascita delle ricerche filosofiche, fu senza dubbio costituito dalla :rivolta pressoché unanime degli scienziati contro i discorsi troppo vaghi della Naturphilosophie. Quale significato - ci si chiedeva - avrebbero potuto avere tali ricerche in mondo fattosi ormai adulto, seriamente interessato all'osservazione della realtà, non più disposto a lasciarsi trarre in inganno da vuote formule generali, onniesplicative solo perché in g:ran parte equivoche? Di fronte a una trasformazione così profonda, le stesse università mutarono volto: dalla vecchia struttura, imperniata sulla centralità degli insegnamenti filosofici, passarono nel gi:ro di pochi anni a una struttura nuova, interamente :rivolta alle discipline particolari. Ma dove avrebbe condotto tale evoluzione? non avrebbe portato, in ultima istanza, alla morte dello stesso istituto universitario, tradizionalmente concepito come universitas studiorum?
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Dobbiamo prendere francamente atto di questo stato di cose,_ per trovare una spiegazione al frantumarsi della filosofia tedesca - negli ultimi decenni del secolo -in scuole ~iverse pressoché isolate l'una dall'altra, assai deboli da un punto di vista teoretico e fornite di scarso peso sugli altri rami della cultura. Ciò non significa che fossero venute improvvisamente meno, fra gli studiosi tedeschi, le istanze filosofiche: al contrario, esse erano spesso assai vive nello stesso ambiente degli scienziati maggiormente impegnati in ricerche specialistiche; ma restavano allo stadio di semplici istanze, o tutt'al più si traducevano in sincere perorazioni dirette a porre in evidenza i pericoli dello specialismo. Il fatto è che la classe borghese, ormai padrona di tutte le leve di comando (del mondo economico come di quello universitario), non sentiva il bisogno di alcuna seria ideologia; temeva anzi che un'approfondita elaborazione di nuove concezioni del mondo, razionalmente impostate, potesse giungere prima o poi a porre in discussione il predominio da essa conquistato. Si spiega così il favore concesso ai vari indirizzi spiritualistici che contrapponevano (retoticamente) alla scienza vaghe aspirazioni religiose, prive di qualsiasi pericolosità proprio per la loro vaghezza; e si capisce, per contro, la freddezza con cui vennero accolte le validissime indicazioni provenienti da Marx e da Engels, che la cultura accademica si rifiutò di prendere in attento esame, qualificandole come prive di autentica portata filosofica. Per procedere con un certo ordine nell'intricato mosaico dei vari indirizzi, cominceremo ad esporre brevemente l'interessante posizione di Helmholtz che costituisce il più tipico esempio di scienziato seriamente preoccupato di riuscire in qualche modo a salvare l'unità del sapere; vedremo che il suo richiamo a Kant non ha, in fondo, altro significato se non quello di un onesto tentativo di far intervenire l' auctoritas del grande filosofo di Konigsberg a sostegno dell'anzidetto programma unitario. Passeremo poi a discutere nel paragrafo m il significato del cosiddetto « positivismo >> tedesco, dedicando i due paragrafi successivi a,H'esame delle conclusioni notevolmente divergenti raggiunte da tale movimento di pensiero ad opera di uno scienziato come Du Bois-Reymond e di un filosofo come Avenarius. Non ritorneremo invece sul « materialismo positivistico » già trattato nel capitolo v del volume quinto, né sull'oscuro e presuntuoso sistema di Diihring al quale abbiamo fatto cenno nel capitolo del volume precedente analizzando le serie critiche sollevate contro di esso da Engels. I paragrafi VI e vn saranno rivolti ad una rapida esposizione dei due indirizzi sol~tamente considerati come più rappresentativi della filosofia antipositivistica tedesca: lo spiritualismo e il neo-kantismo. Avremo agevolmente modo di constatare che il problema. della scienza è ancora dominante in entrambi, se non altro come tentativo di determinare quali compiti specifici rimangano aperti alla filosofia di fronte alla massiccia avanzata del sapere scientifico. L'esame - pur
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molto schematico - degli sviluppi dello spiritualismo ci farà prendere atto delle gravi implicazioni irrazionalistiche in esso contenute. L'irrazionalismo ben più radicale di Nietzsche costituirà l'oggetto del paragrafo conclusivo del capitolo. Un esame approfondito della sconcertante filosofia di questo autore fuoriesce, ovviamente, dai compiti di una trattazione come la nostra, prevalentemente rivolta alla storia dei rapporti fra pensiero filosofico e pensiero scientifico (sebbene risulti evidente anche in Nietzsche l'influenza di alcune fra le più significative conquiste della scienza della sua epoca). Comunque sia, la presenza nella cultura tedesca di un pensatore così ribelle e affascinante deve farci riflettere sulla molteplicità dei fattori in essa operanti, alcuni dei quali totalmente estranei agli ambienti universitari. Chi - come Gyorgy Lukacs - ha preteso vedere, nella fase del pensiero della quale ci stiamo occupando e in quelle ad essa immediatamente prossime, un processo di «distruzione della ragione», ha espresso un giudizio per noi inaccettabile; giudizio che conferma tra l'altro l'incapacità dei« filosofi-letterati», come appunto Lukacs, di tener conto dei fenomeni culturali prodottisi fuori dell'ambito della loro competenza (è ben noto infatti, che i progressi conseguiti dalla logica, dalla matematica, dalla fisica, dalla biologia lungo tutto l'arco dell'Ottocento costituirono senza alcun dubbio vittorie notevolissime della ragione). E pur tuttavia si deve ammettere che ha colto in certo senso nel segno, allorché ha denunciato i numerosi germi di irrazionalismo diffusi in una parte della cultura dell'epoca, accanto ai potenti filoni della ricerca razionalistica. Tali germi furono- come vedremo -particolarmente manifesti in Nietzsche, ma purtroppo non erano presenti soltanto in lui. E-se poterono dilagare con tanta rapidità fra le generazioni che si entusiasmarono alla lettura degli scritti nietzschiani, è perché le contraddizioni della società fornivano effettivamente una base all'evasione irrazionalistica. Occorreva una grande lucidità - come abbiamo cercato di dimostrare nei capitoli XIV e xv del volume quinto - per comprendere che tali contraddizioni avrebbero potuto venire risolte solo mediante una volontà guidata dalla ragione, non mediante improvvisazioni guidate dall'istinto o dal sentimento. II · HELMHOLTZ
Si è già parlato più volte di Hermann von Helmholtz (1821-94) in precedenza. In effetti egli occupò una posizione di primaria importanza entro il pensiero scientifico dell'Ottocento a causa delle sue notevolissime scoperte nei campi della fisica, della fisiologia e della psicologia; per valutarne a fondo la personalità occorre tuttavia prendere in esame anche la sua caratteristica posizione filosofica. Molti trattati di storia del pensiero filosofico sostengono ancora oggi che egli fu un kantiano. Come ora cercheremo di spiegare, l'affermazione può considerarsi 134
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sostanzialmente fondata (sia pure entro limiti ben circoscrivibili), anche se il posteriore neo-kantismo non si collegherà che in minima parte alla sua opera. È un fatto che Helmholtz studiò con molta serietà gli scritti di Kant - soprattutto durante la sua permanenza a Konigsberg, nella cui università insegnò fisiologia umana dal I 849 al I 8 55 - e che ne fu profondamente influenzato. Ritenne anzi, erroneamente, di scorgere una conferma dell'a priori kantiano in una delle scoperte allora più nuove della fisiologia: la cosiddetta legge della « specificità delle energie sensoriali »di Johannes Miiller. 1 Questo errore sta a indicare la tendenza del nostro autore ad interpretare il kantismo in chiave psicologico-fisiologica (è proprio per tale sua tendenza che gli indirizzi neo-kantiani della fine del secolo rifiuteranno, come si è detto, di connettersi direttamente a lui) . . Per comprendere i limiti dell'adesione di Helmholtz a Kant, va osservato tuttavia che una tesi della dottrina kantiana suscitò fin dai primi anni in lui le più decise obiezioni; è la tesi che concerne il carattere aprioristico dell'intuizione spaziale e che afferma - almeno secondo l'interpretazione helmholtziana l'apriorità degli stessi assiomi della geometria. Helmholtz si ritenne in dovere di respingerla con energia perché sostanzialmente « metafisica » e in palese contrasto con le ben note scoperte della geometria non euclidea (argomento, come sappiamo, da lui studiato a fondo e con molta originalità). «La geometria, >> leggiamo ad esempio nella conferenza Das Denken in der Medizin (Il pensiero nella medicina, I877), « farebbe per Kant qualcosa di analogo a quanto (in passato) si sforzava di fare la metafisica; egli affermò infatti che gli assiomi della geometria, da lui considerati come proposizioni vere a priori prima di ogni esperienza, sono dati mediante l'intuizione trascendentale. » V ero è che in altri scritti Helmholtz dimostrò una certa perplessità riguardo all'interpretazione testé accennata giungendo a sostenere, con ben maggiore ragione, che « lo spazio può essere trascendentale senza che lo siano gli assiomi »; è tuttavia incontestabile che proprio la tesi in esame finì - col trascorrere degli anni - per allontanarlo sempre più dal grande filosofo di cui, nella giovinezza, si era considerato discepolo. Nel I 884 confesserà di essere stato all'inizio dei suoi studi un « kantiano più convinto di ora », e di avere creduto « che si trattasse di mutare in Kant aspetti accessori di poco significato », mentre più tardi sarebbero stati proprio i kantiani di stretta osservanza a convincerlo del contrario. Secondo alcuni recenti studiosi, il vero kantismo di Helmholtz non andrebbe tanto cercato in questa o quella tesi particolare, quanto nel suo stesso modo di impostare e portare avanti la ricerca scientifica in stretta connessione con la gnoseologia; su tale argomento scrive Vincenzo Cappelletti: « La scoperta di Kant, che Helmholtz aveva fatto a Konigsberg, era quella stessa del vincolo fecondo tra la gnoseoI Sulla teoria, sostenuta da Miiller, dell'energia specifica degli organi sensoriali e sull'interpretazione datane da Helmholtz rinviamo a quanto detto nel capitolo xvu del volume quarto,
dove già vennero accennati i limiti del kantismo di Helrnholtz e gli effettivi nessi fra la sua posizione filosofica e quella degli empiristi (in particolare di Mill).
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logia e la scienza moderna. In nome di quella scoperta Helmholtz rimase fedele a Kant più di quanto non credesse. » Dal nostro punto di vista la cosa più importante è però comprendere il significato generale che ebbe, per la cultura tedesca, il «ritorniamo a Kant » di cui Helmholtz si fece per primo banditore poco dopo la metà del secolo. Esso può riassumersi in due punti fondament!lli: I) abbandoniamo decisamente la metafisica hegeliana, del tutto incompatibile con la scienza moderna; z) non diamo, tuttavia, a tale abbandono il significato di un netto e definitivo distacco della scienza dalla filosofia, poiché questa - se interpretata come ricerca dei fondamenti della conoscenza ~ ha tuttora molto da insegnare a quella. In breve: lotta contro la metafisica e difesa della filosofia. Per porre in chiaro il senso e le implicazioni di queste due tesi ci sembra estremamente utile riferire alcune notevolissime pagine di Helmholtz contenute nel suo celebre discorso Ueber das Verhaltniss der Naturwissenschaften zur Gesamtheit der Wissenschaften (Sul rapporto tra le scienze della natura e la totalità delle scienze, 186z) che citiamo nella traduzione di Vincenzo Cappelletti: « Negli ultimi tempi le discipline naturalistiche sono state il più delle volte accusate di aver percorso una strada isolata, e di essersi estraniate dalle altre scienze, che sono tra loro congiunte da comuni studi filosofici e storici. Tale opposizione si è fatta effettivamente sentire per un certo tempo, e a me sembra che si sia sviluppata sotto l'influsso della filosofia di Hegel, o almeno che sia stata messa in evidenza più di prima attraverso tale filosofia. Alla fine del secolo scorso, infatti, sottol'influsso delle teorie di Kant, questa separazione non si era ancora manifestata ... La filosofia critica di Kant cercava soltanto di esaminare le fonti e la giustificazione del nostro sapere, e di porre davanti alle singole altre scienze il metro della loro attività ideale. Una proposizione, trovata a priori mediante l'esercizio del puro pensiero, secondo Kant potrebbe sempre costituire una regola metodica per il pensiero, e non avere un positivo contenuto di realtà. La filosofia dell'identità 1 fu più audace. Essa muoveva dall'ipotesi che anche il mondo reale, la natura e la vita umana fossero i risultati del pensiero di uno Spirito creatore, il quale era considerato, quanto all'essenza, omogeneo allo Spirito umano. Perciò lo Spirito umano, anche senza esservi condotto dall'esperienza esterna, sembrò poter incominciare a riflettere sui pensieri del Creatore e a ritrovarli attraverso la propria interna attività. In questo senso la filosofia dell'identità cercò di costruire a priori i risultati essenziali di tutte le altre scienze. Questo assunto poteva realizzarsi più o meno relativamente alla religione, al diritto, alla scienza dello Stato, alla lingua, all'arte: relativamente insomma a quelle scienze, il cui oggetto riposa su un fondamento psicologico, e che sono, perciò, a ragione comprese sotto l 'unico nome di scienze ~ello Spirito ... Ma il fatto che la costruzione dei più importanti, essenziali 1
La «filosofia dell'identità» è a rigore
quella di Schelling; ma Helmholtz indica con questo termine anche la filosofia di Hegel.
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risultati delle scienze dello Spirito fosse riuscito più o meno bene non provava la giustezza della filosofia dell'identità, da cui aveva preso le mosse la filosofia di Hegel. I fatti della natura sono stati, invece, il decisivo banco di prova. Era ovvio che nelle scienze dello Spirito dovessero ritrovarsi le tracce dell'attività dello Spirito umano e dei suoi stadi evolutivi. Ma se la natura riflettesse il risultato del processo razionale d'un simile Spirito creatore, le sue forme e i suoi processi, d'una semplicità relativamente maggiore, dovrebbero lasciarsi inserire nel sistema in modo anche più facile. Ora proprio qui fallirono gli sforzi della filosofia dell'identità: e fallirono, possiamo dire, completamente. La hegeliana filosofia della natura sembrò ai cultori delle discipline naturalistiche quanto meno assolutamente priva di senso. Tra i molti insigni scienziati di quel tempo non ve ne fu uno, che avesse potuto appagarsi delle idee di Hegel. Poiché, d'altra parte, Hegel annetteva particolare importanza al fatto di conquistarsi proprio in questo campo quei riconoscimenti, che aveva trovato in copia altrove, egli dette vita a una pqlemica di insolita veemenza e asprezza, soprattutto rivolta contro Newton quale primo e massimo rappresentante della ricerca scientifica. Gli scienziati furono accusati dai filosofi di angustia mentale; questi furono accusati da quelli di vaniloquio. Gli scienziati incominciarono, a questo punto, ad attribuire un certo peso al fatto che i loro lavori fossero tenuti al riparo da ogni influenza filosofica, e si giunse presto al punto che molti di loro, e tra essi uomini eminenti, condannarono ogni filosofia come cosa inutile, o persino come una dannosa fantasticheria. Non possiamo negare che in tal modo si gettò via, insieme alle ingiustificate pretese di subordinare le altre discipline, accampate dalla filosofia dell'identità, anche la pretesa legittima della filosofia, ossia quella di svolgere una critica delle fonti conoscitive e di fissare una misura del lavoro concettuale. » Va notato - e la cosa non è di scarso rilievo- che il lungo brano testé riferito si inserisce in un discorso di pedagogia universitaria essenzialmente rivolto a denunciare e combattere i gravissimi pericoli dello specialismo onde trarne la conclusione che le varie facoltà debbono, malgrado le loro differenziazioni, continuare a far parte di una medesima universitas studiorum. « È stato fatto notare che vi sarebbe più d'un vantaggio entrinseco mandando i medici negli ospedali delle grandi città e gli studenti delle discipline naturalistiche nelle scuole politecniche ... Vogliamo sperare che le università tedesche possano essere preservate ancora per lungo tempo da un tale destino! Nel caso suddetto, infatti, la connessione fra le diverse scienze sarebbe rotta. » Il mantenimento (anzi il recupero) dei legami tra la filosofia e le scienze naturali è secondo Helmholtz importante, proprio perché costituisce il più efficace rimedio contro il destino testé accennato. In effetti tali legami sono in grado di farci comprendere meglio di ogni altro argomento che la scienza degna di questo nome non è un coacervo di singole discipline prive di connessione reciproca e tanto meno è una semplice raccolta disorganica di sempre nuovi e più numerosi
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dati empirici, ma è una costruzione unitaria, fondata su basi concettuali e sperimentali, che gradualmente accresce « il dominio dell'uomo sulle forze della natura»; è una conquista dell'umanità di valore etico non meno che teoretico. Chi ricordi la concezione comtiana - di cui si parlò a lungo nel volume quarto - imperniata sulla lotta contro il frantumarsi specialistico delle ricerche e sull'esaltazione della funzione civilizzatrice della scienza, non può fare a meno di riconoscere la profonda analogia esistente fra l'orientamento filosofico di Helmholtz e quello del fondatore del positivismo. Anche se il grande scienziato tedesco non lesse mai alcuna opera di Comte, e sostenne invece .più volte la necessità di un ritorno a Kant, è impossibile negare che il suo programma culturale rifletteva assai più le esigenze del nuovo clima positivistico della Germania che non quelle di un rigoroso kantismo. Non senza motivo lo vediamo spesso richiamarsi ad Alexander von Humboldt, che a Parigi era stato in stretto contatto con gli ambienti comtiani. La realtà è che, nella seconda metà dell'Ottocento, un certo kantismo e un certo positivismo apparvero tutt'altro che inconciliabili, come è confermato dal fatto che essi trovarono spesso innanzi a sé i medesimi avversari. III · L'ATMOSFERA POSITIVISTICA IN GERMANIA
Intitolando il presente paragrafo « atmosfera positivistica » abbiamo voluto sottolineare che, a nostro avviso, non si può parlare di una vera e propria « scuola positivistica tedesca » come si parla di quella francese o di quella inglese. In altri termini: il positivismo tedesco non ebbe il carattere di una ben costituita scuola filosofica, ma si frantumò in numerosi indirizzi, spesso in viva polemica gli uni con gli altri, uniti soltanto da un comune preponderante interesse per le scienze esatte o positive, e dal desiderio di ristabilire un serio legame fra esse e la speculazione filosofica, legame che si era spezzato durante il predominio della metafisica idealistico-romantica, in particolare per la polemica di quest'ultima contro la tradizione scientifica newtoniana. Di qui la difficoltà di stabilire quali autori debbano o non debbano venire qualificati come « positivisti ». Vi è per esempio chi fa rientrare nel « positivismo tedesco » i materialisti come V ogt e Moleschott che per la verità non condivisero affatto alcune tesi assai importanti del positivismo ufficiale; chi considera come positivista Diihring e nel contempo Engels che scrisse contro di lui un'opera di accesissima polemica; chi infine estende la qualifica di positivista a tutti gli psicologi sperimentali a partire da Wundt. A voler intendere il termine in senso sufficientemente lato, potremmo chiamare « positivista » anche Helmholtz e, prima di lui, lo stesso Alexander von Humboldt. Lasciando da ·parte quest'ultimo, che è meglio classificabile come continuatore dell'illuminismo, si deve senz'altro ammettere- come poco sopra ri-
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levammo - che in Helmholtz sono effettivamente presenti parecchi elementi caratteristici della cultura positivistica. È incontestabile, fra l'altro, che nel lungo brano da noi riferito nel paragrafo precedente, si trovano espressi alcuni giudizi storiografici che verranno poi fatti propri da gran parte dei positivisti tedeschi e che purtroppo contribuiranno non poco a indirizzare in modo sbagliato le ricerche sullo sviluppo della cultura ottocentesca (anche le ricerche condotte da studiosi idealisti e marxisti): tale ci sembra ad esempio l'affermazione- ovviamente infondata, come dimostrano le nostre analisi del volume quarto - che le filosofie della natura di Schelling e di Hegel non avrebbero esercitato alcuna influenza positiva sulle scienze della prima metà del secolo; e altrettanto può ripetersi per l'affermazione (risibile o poco meno) che la polemica di Hegel contro Newton avrebbe tratto origine dal mancato riconoscimento dei meriti dell'hegelismo da parte degli scienziati contemporanei, o per la semplicistica spiegazione del disinteresse di molti scienziati ottocenteschi per la filosofia come risultato della loro reazione alle fantasticherie della Naturphilosophie. Trattasi di tesi perfettamente giustificabili entro il tipo di cultura posseduta da Helmholtz, lilla che sono diventate oggi insostenibili, anche se molti continuano a ripeterle come luoghi comuni (basti pensare alla tesi, ovviamente derivabile dalla terza delle succitate affermazioni helmholtziane, che il positivismo sarebbe stato una reazione all'idealismo!). Fatte queste premesse, risulta ormai chiaro che non vale la pena discutere se un certo pensatore tedesco degli ultimi decenni del secolo sia stato o no effettivamente un positivista; l'importante è tenere presenti due fatti: x) che la rapidissima diffusione delle ricerche scientifiche in Germania durante l'epoca in esame portò in primo piano taluni problemi scientifico-filosofici, i quali erano stati considerati come poco signi~cativi o in ogni caso come problemi collaterali nei decenni precedenti (in questo quadro va anche inserito il rinato interesse per la logica e per i fondamenti della matematica); 2) che la qualificazione sommaria di « positivisti » attribuita agli autori che se ne occuparono è purtroppo servita a parecchi studiosi, quale comoda scusa per non interessarsi in alcun modo di essi e per delineare una storia della cultura germanica completamente incentrata sugli indirizzi irrazionalistici, neo-romantici, religiosi. Fra i problemi scientifico-filosofici testé accennati occupano un particolare rilievo, oltre a quelli fondamentali della logica e della psicologia, i problemi concernenti le basi della conoscenza scientifica della natura e quindi, in particolare, quelli connessi alla fisica e alla biologia. I primi fanno riferimento, diretto o indiretto, ai dibattiti intorno al meccanicismo; i secondi, ai dibattiti intorno all'evoluzionismo. Poiché tali argomenti sono già stati esaminati, ci riteniamo autorizzati a non ritornare qui su di essi. Dedicheremo comunque il prossimo paragrafo ad un autore, Emil Du Bois-Reymond, nei cui scritti l'esame del meccanicismo assume un particolare rilievo filosofico, anche perché, così impostato, esso investe in termini nuovi l'antico problema dei limiti della conoscibilità della natura. 1 39
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Fra i vari indirizzi « positivistici » tedeschi, uno possiede una particolare caratterizzazione filosofica: l 'indirizzo empiristico-fenomenista, collegato per un lato al problema della portata delle scienze empirico-sperimentali, per l'altro lato alle ricerche di psicologia. Uno dei suoi primi e più autorevoli rappresentanti fu Ernst Laas (1837-85), professore dal 1872 all'università di Strasburgo. L'opera principale di Laas ha per titolo ldealismus und Positivismus (Idealismo e positivismo, in tre volumi I 879, '8z, '84), e tratta, nel primo volume, i principi generali dei due indirizzi che secondo l'autore si sarebbero sempre contesi la guida del pensiero filosofico, nel secondo l'etica ide~listica e positivistica, nel terzo la teoria della scienza idealistica e positivistica. Nel ricostruire lo sviluppo millenario della grande contesa tra idealismo e positivismo, Laas, pur parteggiando ovviamente per il secondo indirizzo, riconosce onestamente che il primo - da lui qualificato in via generale come « platonismo » - ha dato parecchi contributi fondamentali al progresso della filosofia (sono i contributi di Aristotele, di Cartesio, Spinoza, Leibniz, Kant, ecc.); pochissimi furono invece gli autentici positivisti, nel senso rigoroso del termine: egli considera tali solo Protagora, Hume e Mill (escludendo dal novero lo stesso Com te, a causa della sua pretesa di fondare una religione dell'umanità). Richiamandosi per l 'appunto ai pochi positivisti del passato il nostro autore sostiene che la vera realtà è costituita di fatti di percezione, i quali non sarebbero in se medesimi né soggettivi né oggettivi; in ciascuno di essi si formerebbero da un lato il soggetto, dall'altro l'oggetto, distinti fra loro ma implicantisi a vicenda. « Gli oggetti della percezione non sono " soggettivi '', ma sono in quanto tali gli oggetti " originari·'', toto genere diversi dagli stati di coscienza ad essi correlati; i due sono simultanei... Soggetto e oggetto sono gemelli inseparabili: stanno in piedi e cadono assieme. » In altri termini: il soggetto non è che la coscienza di un dato fatto percettivo, e, analogamente, l'oggetto non è che l'aspetto oggettivo di una data percezione. In tale mondo di fatti percettivi, in cui è esclusa per definizione ogni possibile esistenza del trascendente, Laas propugna un'etica « positivistica », concepita come «un'etica per questa vita», esclusivamente fondata su motivi che si riconducono in ultima istanza al piacere e al dolore (pur senza essere, a suo parere, esclusivamente egoistici). . Il massimo rappresentante del fenomenismo tedesco fu Avenarius, di poco più giovane che Laas; a lui dedicheremo il paragrafo v, nel quale prenderemo, fra l'altro, in rapido esame i suoi complessi rapporti con Mach. Al fenomenismo si può pure ritenere collegato, sebbene in forma alquanto .indiretta, Wilhelm Schuppe (I836-1913), iniziatore della cosiddetta «filosofia dell'immanenza », da lui esposta e difesa in vari scritti, il principale dei quali ha per titolo Grundriss der Erkenntnis und Logik (Saggio di gnoseologia e logica, 1894). Anche Schuppe sostiene che la realtà prima sarebbe costituita da un dato di coscienza, an-
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teriore alla distinzione fra soggetto e oggetto; ciascuno di questi due, invece, esisterebbe solo in correlazione inscindibile con l'altro. Le indagini del nostro autore sono prevalentemente rivolte a determinare il graduale formarsi, a partire dal dato anzidetto, del soggetto e dell'oggetto, nonché le funzioni specifiche ad essi spettanti. Egli si sofferma in modo particolare sulla dimostrazione che l'oggetto del pensiero non è esso stesso pensiero; ciò sarebbe sufficiente, a suo credere, per garantire le esigenze del realismo comune.
IV
· DU BOIS-REYMOND
Del grande fisiologo tedesco (di origine francese) Emil Du Bois-Reymond (I 8 I 8-96) si è già parlato nel capitolo xvn del volume quarto, dedicato appunto al sorgere della fisiologia ottocentesca. In quella sede si è anche fatto cenno ai suoi profondi interessi per i problemi filosofici della scienza e in particolare al contributo che implicitamente diede alla critica del meccanicismo nel famoso discorso Sui limiti della conoscenza della natura del I 872. Le argomentazioni i vi esposte verranno da lui stesso riprese e ampliate in un'altra non meno celebre conferenza Die sieben Weltriithsel (l sette enigmi del mondo) tenuta 1'8 luglio I 88o all'Accademia delle scienze di Berlino per la celebrazione dell'anniversario leibniziano. È ora giunto il momento di esaminare un po' più da vicino la posizione sostenuta dal nostro autore in questi due discorsi, posizione che può esserci di prezioso ausilio per comprendere alcuni significativi atteggiamenti di una parte assai notevole della cultura scientifica dell'epoca. Va osservato che Du Bois-Reymond ammette esplicitamente, d'accordo in ciò con i maggiori fisici dell'epoca, che il più alto grado di conoscenza scientifica della natura ci viene fornito dalla meccanica celeste. In altri termini: questa continua a rappresentare per lui, come rappresentava per Laplace, il vero modello della scientificità. È per l'appunto in riferimento a tale modello (cui dà il nome di «conoscenza astronomica») che egli conduce la sua interessantissima indagine intorno ai limiti della nostra conoscenza della natura. « La conoscenza astronomica di un sistema materiale è la più perfetta conoscenza che possiamo ottenere del sistema. È quella di cui suole appagarsi la nostra istintiva tendenza alla spiegazione causale.» «La conoscenza della natura propria dell'Intelligenza di Laplace rappresenta il più alto grado immaginabile della nostra conoscenza della natura, e nell'indagare i limiti di questa conoscenza possiamo prendere quella come base. Ciò che l'Intelligenza di Laplace non riuscisse a penetrare, ciò stesso rimarrebbe interamente nascosto alla nostra mente. » Come ricordammo nel capitolo v, anche Spencer aveva parlato nei Primi principi (pubblicati per la prima volta in forma di dispense nel I 86o-6z, e poi in volume nel I 867) di limiti invalicabili della conoscenza scientifica, il che dimostra
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quanto la cultura scientifica europea fosse ormai sensibile a questo tema. Ma gli argomenti invocati da Du Bois-Reymond a sostegno della propria tesi sono indiscutibilmente più rigorosi; ed infatti mentre il pensatore inglese derivava il carattere limitato della conoscenza scientifica dalla constatazione assai vaga (di carattere più filosofico che non seriamente scientifico) che la conoscenza si muove sempre nel campo del relativo o condizionato, il tedesco perviene invece alla tesi predetta prendendo le mosse da una dettagliata analisi di alcuni problemi (tre nella prima conferenza, sette nella seconda) che si rivelerebbero insolubili con i metodi della meccanica laplaciana. Va osservato che la conclusione di questa analisi non può oggi stupirei, se teniamo presente ciò che accadde qualche decennio più tardi nella fisica (ave si renderà necessario, per far progredire le nostre conoscenze della natura, compiere un profondo rivolgimento proprio nell'ambito della meccanica classica). Giudicando le cose dal punto di vista odierno possiamo dire che l'errore di Du BoisReymond fu in certo senso opposto a quello di Spencer; egli peccò infatti non di genericità ma di eccessiva precisione, per avere dogmaticamente escluso che potessero esservi altri modelli di scientificità, altrettanto validi quanto quello di Laplace seppure diversi da esso. Il primo punto in cui i metodi laplaciani troverebbero - secondo l'analisi contenuta nella conferenza del1872- un ostacolo insuperabile, riguarda la natura della materia e della forza. Limitiamoci a illustrare la gravità dell'ostacolo di cui parla il nostro autore in riferimento al problema della materia, cioè dell'atomo. Se esso è indivisibile, come vuole la tradizione dell'atomismo filosofico, in che modo potremo sostenere che occupa una porzione di spazio - sia pur piccola ma finita - mentre la geometria ci insegna che ogni porzione siffatta può venire ulteriormente divisa? E se invece l'atomo si riduce a un punto geometrico, come potremo ancora parlare di materia, dato che in tal caso il substrato di essa essendo privo di dimensioni - non risulterebbe più in grado di riempire alcuno spazio? Il secondo ostacolo, non meno grave del primo, è costituito, sempre secondo Du Bois-Reymond, dalla «questione dell'inizio del moto». Se nello stato originario delle cose l'Intelligenza di Laplace «trovasse la materia immobile da un tempo infinito nello spazio infinito, e inegualmente suddivisa, non saprebbe donde si sia originata la diversa suddivisione, e se trovasse la materia già in moto, ignorerebbe l'origine di questo moto che le apparirebbe soltanto come stato casuale della materia. In entrambi i casi rimarrebbe inappagata la sua esigenza di spiegazione causale ». Du Bois-Reymond scorge il terzo «inintelligibile» nel fenomeno della «coscienza ». Anche se noi potessimo in futuro conseguire una conoscenza perfetta dell'« organo della psiche », i processi psichici resterebbero «per noi inspiegabili tanto quanto ora ... La conoscenza astronomica del cervello, la più alta conoscenza
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che possiamo raggiungerne, ci rivela in esso null'altro che materia in movimento. Attraverso nessuna disposizione o movimento delle particelle materiali è dato gettare un ponte verso il regno della coscienza. Il movimento può soltanto generare movimento o ritrasformarsi in energia potenziale. Questa può soltanto generare movimento, mantenere equilibri statici, esercitare pressioni o trazioni... La causalità meccanica si risolve puramente in un effetto meccanico. I processi psichici che si svolgono nel cervello accanto ai processi materiali sono dunque privi per il nostro intelletto della ragione sufficiente. Essi stanno al di fuori della legge di causalità e per questo sono incomprensibili ». La conferenza del I 87 2 ha termine con la famosa proclamazione del « verdetto rinunciatario »; esistono argomenti che non solo lo scienziato ignora oggi, ma che continuerà a ignorare anche in futuro: ignorabimus. Ai tre enigmi testé elencati, la conferenza del 188o ne aggiunge altri quattro (concernenti l'origine della vita, la disposizione finalistica della natura, il pensiero razionale e« l'origine del linguaggio ad esso strettamente connesso», la libertà del volere) rispetto ai quali, però, Du Bois-Reymond dichiara che non presentano difficoltà « trascendenti » cioè « insuperabili », ma tali soltanto da renderei « esitanti» di fronte ad ogni tentativo di soluzione. Nel concludere l'ampio discorso, disseminato di polemiche contro scienziati e filosofi (in particolare contro i materialisti), il nostro autore afferma che i sette enigmi potrebbero « venire COIJ;lpendiati in un unico problema, il problema del mondo». È un problema che Leibniz, come gli altri grandi metafisici del passato, riteneva di avere risolto solo perché « si era forgiato il mondo a suo piacimento », ma che lo scienziato moderno - il quale si pone di fronte al mondo così com'è, non come vorrebbe che fosse deve trattare con ben maggiore cautela. « Se Leibniz, sollevandosi sulle sue stesse spalle, potesse avere parte oggi alle nostre meditazioni, è certo che direbbe con noi: dubitemus. >> Sarebbe difficile trovare un altro testo, in cui l'agnosticismo positivistico riflette così fedelmente come nelle pagine di Du Bois-Reymond le difficoltà in cui si dibattevano le scienze dell'epoca (dalla fisica alla psicologia). Anche se oggi molte di queste difficoltà ci sembrano infantili - solo perché nel frattempo la ricerca scientifica ha compiuto straordinari progressi - va francamente riconosciuto che verso il 187o-8o esse erano reali, e ben meritevoli di seria meditazione. Il fatto grave è, però, che la conclusione generale che Du Bois-Reymond ricavò dalla propria meditazione su di esse, per quanto più seria di quella ottenuta da Spencer sulla base del carattere relativo di ogni conoscenza, era parimenti pericolosa. Se è vero infatti che il nostro autore non giunge, come l'inglese, a un'esplicita giustificazione della religione, vero è tuttavia che apre in ultima istanza la via a un discorso metafisica (come risulta evidente dalla stessa espressione poco sopra riferita:« problema del mondo»). Non senza motivo il nuovo indirizzo 143
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positivista, sorto nel Novecento, rifiuterà con asprezza le conclusioni di Du BoisReymond, affermando risolutamente che i suoi famosi sette enigmi non rappresentano degli « inintelligibili » ma soltanto dei problemi « vuoti di senso ». · V
· AVENARIUS
Richard A venarius nacque a Parigi nel 1843 da famiglia tedesca, originaria di Lipsia. Studiò filosofia e fisiologia a Lipsia e a Berlino laureandosi nel 1868. Nel 1876 fondò, con lo psicologo Wilhelm Wundt e altri, la rivista« Viertelyahrschrift fur wissenschaftliche Philosophie » («Rivista trimestrale di filosofia scientifica ») destinata ad assumere un 'importanza notevole nella cultura tedesca, e ne fu condirettore fino alla morte. Nel medesimo anno pubblicò un importante lavoro dal titolo Philosophie als Denken der Welt gemass dem Prinzip des kleinsten
Kraftmasses. Prolegomena zu einer Kritik der reinen Erjahrung (Filosofia come pensiero del mondo secondo il principio del minimo dispendio di forza. Prolegomeni ad una critica dell'esperienza pura). Nel I 877 venne chiamato presso l'università di Zurigo per insegnarvi «filosofia induttiva », insegnamento che continuerà a tenere per tutta la vita. L'opera principale di Avenarius si ricollega anche nel titolo a quella del 1876: Kritik der reinen Erfahrung (Critica dell'esperienza pura, in due volumi 1889-90). Nel 1891 egli pubblicò un altro lavoro assai importante, Der menschliche Weltbegriff (Il concetto umano del mondo), che in certo senso costituisce una integrazione della Kritik. Oltre ad essi, presentano un notevole interesse anche vari articoli, di filosofia e di psicologia, comparsi sulla rivista testé ricordata. Morì nel 1 896 a soli cinquantatré anni di età. Il pensiero filosofico di A venarius suole ancor oggi venire strettamente avvicinato a quello di Mach, quasi che essi siano stati due rappresentanti del medesimo indirizzo, il cosiddetto « empiriocriticismo ». Trattasi però, come già si è accennato nel capitolo xn del volume quinto, di un sostanziale equivoco, poiché i due autori - pur sostenendo, su alcuni punti, tesi pressoché identiche - divergono profondamente nell'impostazione generale della filosofia. Né la cosa deve stupirei, se pensiamo alla loro diversa formazione culturale e ai loro diversi interessi: ciò che spinse Mach all'epistemologia e, tramite essa, alla filosofia fu soprattutto l'esigenza di liberare la scienza moderna (in particolare la fisica) dai presupposti metafisici che - accolti inconsapevolmente nelle esposizioni « classiche » - ne ostacolavano gravemente a suo parere il libero e fecondo sviluppo; ciò che spinse Avenarius alle proprie ricerche fu invece, essenzialmente, l'esigenza di trovare una giustificazione moderna del sapere filosofico di fronte a quello scientifico, giustificazione basata non su dogmi metafisici ma sopra un'attenta analisi dell'esperienza, rigorosamente svolta con l'ausilio di sottili indagini psicologiche. Il problema testé accennato- di trovare una seria giustificazione della filoso144
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fia- è già al centro del lavoro del1876. Per risolverlo, il nostro autore prende le mosse da un principio che secondo lui risulterebbe dimostrabile mediante l'analisi dei nostri processi psichici: nell'anima è presente« una tendenza al risparmio di forza». Su tale principio (analogo al principio di «economicità» del sapere scientifico già abbozzato qualche anno prima da Mach e poi da lui ampiamente sviluppato nella Meccanica del 188 3) si fonderebbero, secondo Avenarius, tutte le conoscenze concettuali, e in primo luogo le scienze propriamente dette che lo applicano a settori particolari dell'esperienza. Orbene anche la filosofia non sarebbe altro che un'applicazione più elevata del medesimo principio, in quanto avrebbe come suo compito specifico quello di « abbracciare la totalità dei fenomeni »; con ciò stesso essa si porrebbe « al termine della serie delle scienze » quale loro unificazione a un livello più alto di generalità. Emerge qui un secondo punto di analogia con il pensiero di Mach. Già abbiamo detto, a proposito di quest'ultimo, che egli polemizzò a lungo ed efficacemente contro i fisici meccanicisti imperanti verso la metà del secolo, i quali ritenevano di poter ricondurre ogni altra scienza alla meccanica illudendosi di farne la base e l'elemento unificatore di tutto il sapere scientifico. Anche Avenarius condivide questa posizione antimeccanicista, sia pure da un punto di vista assai diverso: egli ritiene infatti che solo l'esperimento (e non la teorizzazione meccanica) risulti in grado dì fornire un solido fondamento alle scienze e ritiene di conseguenza che la filosofia - cui spetta, come si è detto, la funzione di unificare tutto il conoscere - possa adempiere al suo compito solo a patto di spingersi al di là delle esperienze prese in esame dai singoli scienziati ( « esperienze miste » in quanto permeate di categorie aggiunte dal soggetto), fino a cogliere la vera originaria esperienza o «esperienza pura». L'importanza capitale attribuita all'indagine filosofica, nonché la centralità riconosciuta all'esperienza pura quale oggetto specifico e fondamento di tale indagine, costituisce senza dubbio uno dei temi più caratteristici del pensiero di A venarius, e costituisce pure, a nostro avviso, uno dei punti che maggiormente lo differenzia dal pensiero di Mach. È bensì vero, infatti, come spiegammo nel capitolo xu del volume quinto, che anche in quest'ultimo sono implicite alcune tesi filosofiche (malgrado le ripetute dichiarazioni di Mach di non aver inteso costruire alcun sistema filosofico); ma un conto è accettare una certa posizione - nel caso specifico una posizione fenomenistica - per usarla come strumento critico nel proprio lavoro scientifico, un altro conto, ben diverso, è fare di essa l'oggetto essenziale, pressoché unico della propria ricerca. Confondere i due atteggiamenti significa non comprendere a fondo né l'uno né l'altro. A differenza di Mach, Avenarius è un vero e proprio filosofo; ·n suo fenomenismo vuoi essere cioè uria ben precisa filosofia che egli contrappone, a torto o a ragione, alle filosofie del passato e che cerca di fondare con argomentazioni prettamente filosofiche (quale ad esempio il « metodo di eliminazione » di cui 145
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ripetutamente si avvale per giungere all'« esperienza pura» partendo dalle« esperienze miste»). La sua posizione di filosofo, non di epistemologo, già presente nella prima opera del '76, diventa ancora più chiara nelle successive. In esse troviamo infatti una graduale precisazione della nozione di « esperienza pura», intesa quale unità indifferenziata, a sé stante, di psichico e fisico. L'esperienza pura è il primum di ogni conoscenza; è il punto da cui dobbiamo prendere le mosse per ricostruire il mondo soggettivo e oggettivo in tutta la loro complessità. Questa ricostruzione porrà a nudo il vero senso dei problemi via via formulati dalla scienza e dalla filosofia, evidenziando l'inconsistenza di gran parte di essi. Nell'esperienza pura emergono «situazioni di fatto», in ciascuna delle quali si ha un io e un ambiente circostante, inscindibilmente coordinati fra loro ( « è una coordinazione che non può essere sciolta»). Quando, per esempio, si dice che un determinato io scorge un albero, la reale situazione di fatto è che «l'io e l'albero sono, a pari grado, contenuto di un solo e medesimo dato. Io e l'ambiente stanno assolutamente sulla stessa linea per quanto riguarda il loro essere dato ». Per evitare ogni possibile interpretazione soggettivistica del « dato », il nostro autore lo descrive come un evento biologico, come uno stato del sistema nervoso. Un tale stato è costituito di elementi (le vere e proprie sensazioni) e di «caratteri» (quali il piacere e il dolore, la medesimezza e l'alterità, ecc., che esprimono il rapporto fra l'io e l'ambiente). Al di fuori di questi «elementi» e «caratteri» non v'è nulla. Le stesse cosiddette strutture razionali della natura e della mente si dissolvono secondo A venarius in « caratteri », onde risulta chiara l'infondatezza delle filosofie (come quella kantiana) che pretenderebbero considerarle come categorie a priori. Egli giunge a sostenere che perfino i concetti di materia e di spirito si dissolvono, se sottoposti ad un'analisi come la sua; essi derivano infatti dai due «caratteri» della medesimezza e dell'alterità. La materia viene tradizionalmente concepita come identica a se stessa e opposta allo spirito, e di contro, lo spirito come identico a se stesso e opposto alla materia; ma fuori del gioco di questa opposizione né la materia né lo spirito hanno alcuna consistenza. Cadono quindi, d 'un tratto, tutti i famosi problemi metafisici circa la possibilità di un 'interazione fra essi. Senonché, come tutti sanno, in ciò che abbiamo chiamato l'« ambiente circostante », non sono inclusi soltanto i corpi del mondo fisico (nel senso lato di questo termine), ma anche gli altri uomini: ossia quello che Avenarius chiama der Mittmensch («il prossimo»). Orbene - si domanda il nostro autore come può accadere che un« io» attribuisca ad una parte dell'ambiente circostante, cioè a quella porzione di esso che suol venire chiamata « un altro uomo », le stesse percezioni, gli stessi pensieri, la stessa volontà che avverte in sé? Avenarius risponde: ciò accade sulla base di un processo fittizio, ipotetico, « l'introiezione ». «In seguito all'introiezione l'individuo M trova da un lato le parti dell'ambiente 146
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come cose e dall'altro gli individui che percepiscono le cose; dunque cose e percezioni di cose. » È tale processo ed esso solo che ha fatto sorgere la distinzione tradizionale fra mondo interno e mondo esterno, dando l'avvio a tutti gli innumerevoli tentativi metafisici di unificar li riducendo questo a quello (idealismo) o quello a questo (materialismo). Una descrizione esatta dell'esperienza, nella sua purezza, basterà - secondo il nostro autore - a dissolvere anche questi problemi, permettendo finalmente al filosofo di costruire una concezione totale del mondo altrettanto valida quanto le concezioni settoriali di esso, elaborate dagli scienziati. E sarà proprio questa concezione unitaria a rendere possibile il massimo «risparmio di forza», di cui abbiamo fatto parola all'inizio del paragrafo. Nessuno può negare la grande coerenza della costruzione testé sommariamente delineata; è anche impossibile negare, però, il suo carattere artificiale e arbitrario. Essa si regge su argomentazioni puramente astratte, che parlano sì di psicologia e di fisiologia, ma che in realtà non fanno mai riferimento ad alcuna ricerca scientificamente fondata di queste discipline. Non è senza motivo che Avenarius scrive, nella Critica dell'esperienza pura, che la filosofia non ha bisogno di altro se non di « una trattazione puramente formale del sistema nervoso». Egli ha senza dubbio sentito vivissima l'esigenza di costruire una filosofia altrettanto seria quanto la scienza, da èontrapporre alle vecchie metafisiche romantiche, ma purtroppo non ha saputo compiere alcun passo veramente significativo verso la sua effettiva costruzione. Ben diversamente da ciò che è accaduto per Mach, i veri eredi di Avenarius dovranno venire cercati, nel Novecento, assai più fra le correnti di « filosofia pura >> (estranea ad ogni seria problematica scientifica) che non fra gli autentici filosofi-scienziati. VI · LO SPIRITUALISMO: LOTZE
Anche in Germania come in altri paesi europei (particolarmente in Francia) si ebbe, a partire dalla metà dell'Ottocento, una vivace rinascita dello spiritualismo, rielaborato in formule nuove che intendevano provare la piena compatibilità di esso con i grandi risultati della scienza moderna. Il rappresentante più illustre di questa rinascita fu Hermann Lotze, che esercitò una notevole influenza anche fuori dal proprio paese; come ricordammo nel capitolo v, vari suoi scritti vennero tradotti in inglese da Bernard Bosanquet. Lotze nacque a Bautzen nel 1 8 I 7; studiò medicina e filosofia all'università di Lipsia ove conseguì la docenza in entrambe le discipline. Ancora giovanissimo pubblicò due notevoli opere, una di metafisica e l'altra di logica, rispettivamente nel 1841 e nel 1843. Nel 1844 gli venne offerta dall'università di Gottinga la cattedra di filosofia, che era stata tenuta per vari anni da Herbart. A Gottinga 147
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insegnò dal I844 al I88o, quando venne chiamato presso l'università di Berlino. Qui però il suo insegnamento fu molto breve perché morì nel I881. Già si è fatto cenno, nel capitolo xvii del volume quarto, alla singolare posizione assunta dal nostro autore intorno ai problemi biologici, posizione che si può riassumere nelle seguenti due tesi, in apparente contrasto tra loro: per un lato, strenua difesa di un rigoroso meccanicismo e, per l'altro, franco riconoscimento della presenza nel mondo di un ordine teleologico. Volendo ora riprendere in esame il quadro generale della sua filosofia, occorrerà fare più diretto riferimento alle opere principali da lui scritte su questo specifico argomento, oltre - ben inteso - a quelle già menzionate nel capitolo predetto. La più nota di esse ha per titolo Mikrokosmus (Microcosmo, in tre volumi, I 8 56-64); è assai interessante perché cerca di esporre in forma semplice e chiara una psicologia in stretta connessione con la fisiologia e con la storia della civiltà, passando poi a trattare argomenti generali di carattere cosmologico e religioso. Di notevole interesse è pure la Geschichte der Aesthetik in Deutschland (Storia dell'estetica in Germania) che Lotze pubblicò nel I868. Qualche anno più tardi egli si accinse a rielaborare e riordinare tutte le proprie concezioni in una grande opera, System der Philosophie (Sistema di filosofia), che avrebbe dovuto consistere di tre parti rispettivamente dedicate alla logica, alla metafisica e all'estetica; la morte gli impedì tuttavia di stendere la terza. Le prime due hanno per titolo: Drei Biicher der Logik (Tre libri di logica, I874), e Drei Biicher der Metaphysik (Tre libri di metafisica, I879). Merita di venire notato che il nuovo trattato di logica, il quale non è altro che un rifacimento e un ampliamento di quello del I 843, è collocato, nel Sistema di filosofia, prima della metafisica, mentre negli scritti giovanili era quest'ultima a precedere la logica. Compito della logica è, secondo Lotze, di esaminare le concatenazioni dei pensieri, senza interessarsi degli atti psichici da cui scaturiscono. Questi esistono come determinati fenomeni temporali, e il loro studio rientra nell'ambito di un'altra disciplina, la psicologia. Ogni termine rinchiude un « contenuto di pensiero », e questo possiede in sé un ben preciso significato indipendentemente dal fatto di rinviare ad una rappresentazione. La logica pura si interessa per l'appunto di tali contenuti e delle loro connessioni; le sue leggi non sono, pertanto, esclusivamente formali in quanto si basano sui rapporti fra contenuti (in particolare sul rapporto fra il contenuto del soggetto di una proposizione e quello del suo predicato). È l'esame di questi rapporti che le permetterà di giungere ad enunciati forniti di validità generale. Essa si suddivide in tre capitoli fondamentali: teoria del concetto, del giudizio e del ragionamento. Tutti e tre possono venire svolti in forma rigorosamente astratta, con nessun altro riferimento fuorché ai contenuti di pensiero. Se poi si collegano questi contenuti a determinate rappresentazioni, si avrà la logica applicata. Non è detto però che tali rappresentazioni debbano venire
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ricavate dal mondo esterno; è possibilissimo che gli oggetti cui la logica viene applicata siano, essi stessi, meri enti concettuali. Ciò accade di fatto, secondo Lotze, nella matematica e nella giurisprudenza. Ecco ad esempio quanto egli scrive a proposito della prima di queste discipline: « La matematica non ricava dal mondo esterno né i propri oggetti né i metodi per trattarli; ciò che proviene dal mondo esterno può solo suggerirle di avviare la ricerca in questa o quella direzione, ma i veri oggetti della sua trattazione sono sempre e soltanto le immagini che la nostra intuizione trova in sé o il nostro pensiero costruisce. I fenomeni del mondo esterno possono soltanto richiamarcele in modo approssimato. La trattazione di tali oggetti consiste nell<;> svilupparne le infinite conseguenze necessarie, certamente non tratte da alcuna esperienza; conseguenze che scaturiscono dalle infinite molteplici combinazioni possibili delle anzidette immagini interne. E questo sviluppo è tutt'altro che breve: tali conseguenze infatti non si dispiegano di per sé innanzi a noi, sì da richiedere soltanto l'atto di contemplarle. In ogni tempo la logica si è applicata alla matematica dell'epoca per trovare esempi di metodi di ricerca più sottili, più profondi e più efficaci; chiaro segno, questo, che il pensiero trova un numero sufficiente di occasioni di lavoro anche se, prescindendo da un mondo esterno ad esso estraneo, si limita a scrutare nel fondo la natura delle proprie immagini. » Abbiamo riferito per disteso il brano testé citato, perché in esso affiora, con manifesta evidenza, la tendenza di Lotze a collocare in secondo piano il mondo esterno, dirigendo le proprie indagini verso qualcosa che possiede un altro tipo di esistenza. È una chiara propensione verso nuove forme di platonismo, propensione che ricomparirà poco più tardi in altri autori, influenzati in modo diretto o indiretto da lui (per esempio nella scuola neo-kantiana di Marburg, della quale ci occuperemo nel prossimo paragrafo). Una volta chiariti il significato e l'importanza della logica, resta ora da dire che una qualunque conoscenza veramente scientifica dovrà, secondo Lotze, assumere l'aspetto di teoria logicamente articolata. Tale è per l'appunto la cosiddetta meccanica razionale, che proprio perciò può costituire la base sicura di tutte le altre scienze (ivi inclusa, come già sappiamo, la stessa biologia). È proprio lo sviluppo coerente della concezione meccanicistica testé accennata che ci conduce però, sempre secondo Lotze, a scoprirne i limiti insuperabili. Una volta respinta nel modo più reciso - come venne spiegato nell'anzidetto capitolo del volume quarto - ogni forma di vitalismo, e respinto con essa qualunque uso non rigorosamente meccanico del concetto di forza (identificata cioè la forza con i suoi effetti meccanici), si dovrà riconoscere che il meccanicismo non è in grado di spiegare l'intero ordine dell'universo. Tale riconoscimento non va inteso nel senso che lo studio dei fenomeni concreti ci solleciti a cercare altre leggi, al di là di quelle della meccanica. Secondo Lotze questa scienza, strutturata in forma matematicamente (e logicamente) 149
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perfetta, esaurisce tutto intero il campo delle conoscenze scientifiche comunque possibili. Attenendosi agli insegnamenti di Herbart, egli ~ostiene che la stessa psicologia scientifica va trattata in forma matematico-meccanica, e giunge ad asserire che perfino i fenomeni sociali, se studiati scientificamente, devono venire spiegati in termini meccanici. Ma se vogliamo spingerei più a fondo, indagando il «perché» dell'ordine dell'universo, allora la meccanica non potrà più darci alcuna risposta. Questo « perché » potrà venirci fornito solo dalla metafisica. Dal nuovo punto di vista, il nesso necessario dei fenomeni assumerà, allora, l'aspetto di mera apparenza, rinviandoci a un ordine più reale, sottostante ai fenomeni. Per l'appunto qui, cioè nel presunto rinvio a un «reale più profondo», va cercata la vera radice dello spiritualismo di Lotze. Una volta ammessa l'esistenza di siffatta realtà, è chiaro che egli potrà sbizzarrirsi a descriverla con le più ardite metafore metafisiche. Senza soffermarci su inutili particolari, basterà aggiungere che il punto conclusivo di tali metafore è una concezione di tipo leibniziano, secondo cui la vera realtà - del mondo fisico come di quello psichico - sarebbe costituita di monadi, intese come sostanze spirituali. Constatata l'impossibilità di ridurre integralmente lo psichico al fisico, il nostro autore ritiene che solo la riduzione di questo a quello può farci raggiungere una visione unitaria dell'universo. Proprio come Leibniz, egli ammetterà poi che la pluJalità delle monadi ci rinvia a una monade suprema, cioè a dio, solo garante dell~ordine razionale del cosmo. Questa« monade delle monadi »si varrebbe dell'ordine meccanico dell'universo quale strumento per realizzare i propri fini, non diversamente da come opera l'anima di ogni singolo uomo che utilizza quale strumento il rispettivo corpo. Procedendo senza controllo lungo la via testé accennata, Lotze giunge infine ad asserire che il fine supremo di dio è proprio il bene del mondo. Si accorge sì che tale asserto è ancora più ardito di tutti i precedenti, ma ritiene di poterlo giustificare appellandosi alla «testimonianza interna della coscienza», all'invincibile speranza che sta alla base di tutta la nostra vita morale. Il carattere prettamente dogmatico di tutta questa costruzione, che rappresenta un gratuito ritorno a filosofie ormai vecchie di circa due secoli, è evidente a chiunque. La famosa conciliazione, che il nostro autore si era proposto di attuare, fra spiritualismo e scienza moderna, non poteva dar luogo a un fallimento più completo. Al termine della Logica, in manifesta polemica con il positivismo, Lotze esprime la speranza che la filosofia tedesca ritornerà sempre al tentativo di « comprendere il decorso del mondo, e non soltanto di calcolarlo » (« den Weltverlauf zu verstehen, und ihn nicht bloss zu berechnen »).È un fatto però, che l'unica via da lui indicata per giungere a questa comprensione superiore al calcolo, è stata quella della fede, cioè della rinuncia totale a comprendere.
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Dopo Lotze, l'indirizzo spiritualistico non trovò in Germania che sostenitori ancora più deboli di lui da un punto di vista rigorosamente teoretico. Il più celebre fra essi fu Eduard von Hartmann (I842-I9o6), autore di un'opera Philosophie des Umbewussten (Filosofia dell'inconscio, I869)- che incontrò una notevolissima, seppure passeggera, fortuna. Vi si sostiene che il principio del mondo è un assoluto spirituale inconscio, sintesi dello spirito assoluto di Hegel e della volontà di Schopenhauer; esso sarebbe l'uno-tutto, cioè un dio immanente all'universo ma che trascende ogni propria determinata manifestazione. Per giungere a tale principio, l 'uomo non avrebbe che a riflettere attentamente sia sui modi con cui risulta organizzata la natura (in forma finalistica ma inconsapevole), sia sulla nostra complessa e oscura vita istintiva e volitiva; sia infine sulla stessa attività del pensiero (che si regge su idee a priori, delle quali non possediamo in realtà un'effettiva consapevolezza in quanto le troviamo in noi come qualcosa di dato, indipendente dal nostro io). Meritano infine di venire ricordate le figure di due pensatori che, pur senza avere una forte tempra di filosofi, esercitarono una vasta e profonda influenza entro la cultura europea della fine Ottocento. La prima è quella di Afrikàn Spir (I837-9o), russo di nascita ma vissuto a lungo in Germania, che - partendo dall'opposizione, secondo lui netta e incontestabile, fra l'unità e la perfezione di dio e la molteplicità e malvagità del mondo - condusse per tutta la vita un'appassionata e «ispirata» polemica sia contro le filosofie materialistiche tendenti a negare il principio assoluto (divino) dell'universo, sia contro le filosofie romantiche tendenti a identificarlo con la natura. La seconda è quella di Rudolph Eucken (I 846-I926), valente scrittore (fu premio Nobel per la letteratura nel I9o8), il quale sostenne in numerose e affascinanti opere l'impossibilità di spiegare il mondo dell'esperienza se non facendo ricorso a uno spirito trascendente, che si manifesterebbe nell'attività estetica, filosofica ed etico-religiosa delle grandi personalità della storia. VII · IL NEO-KANTISMO
Abbiamo cercato di spiegare nel paragrafo n il significato e i limiti del richiamo a Kant da parte di Helmholtz. Fu solo nel decennio I 860-70 che ebbe inizio un vero e proprio movimento filosofico, diretto a riprendere e rinnovare i temi della filosofia kantiana. Nel I865 Otto Liebmann (I84o-I9I2) pubblicò quella che può considerarsi l'opera-manifesto del rinato criticismo; essa aveva per titolo Kant und die Epigonen (Kant e gli epigoni): ogni suo capitolo terminava col ritornello «occorre dunque ritornare a Kant ». L'anno successivo Friedrich Albert Lange (I828-75) diede alle stampe la sua famosa Geschichte des Materialismus und Kritik seiner Bedeutung in der Gegenwart (Storia del materialismo e critica del suo significato nel momento attuale,
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I866), che è un esame storico-critico del materialismo attraverso cui l'autore perviene al recupero del trascendentalismo kantiano. Il nucleo centrale del pensiero di Kant va cercato, secondo Lange, nella Critica della ragion pura, le cui complesse teorie possono venire riassunte nell'affermazione conclusiva che solo il mondo fenomenico risulta conoscibile, mentre la cosa in sé va unicamente ammessa come causa problematica dei fenomeni. Ogni tentativo di completare la conoscenza del mondo fenomenico con l 'introduzione di un mondo ideale, sarebbe esclusivamente giustificabile sul piano etico e su quello estetico. L'opera ebbe un notevole successo, anche perché cercava di convilldare la concezione kantiana con argomenti tratti da una seria riflessione critica sui risultati della scienza moderna. Non si può dire però che il suo autore avesse compreso a fondo il nucleo centrale della filosofia di Kant, in quanto si lasciava sfuggire il vero significato dell'lo penso e, pur non cadendo nello psicologismo e fisiologismo di Helmholtz, si limitava a sostenere una specie di parallelismo psicofisico, in base a cui la coscienza sarebbe la faccia interiore dei processi fisiologici che si compiono entro l'organismo nel momento in cui si attua la percezione. In breve, il kantismo di Lange era senza dubbio ancora fortemente condizionato dall'atmosfera positivistica, per quanto intendesse liberarsi da essa. L'autentico salto qualitativo, dal kantismo al neo-kantismo, ebbe luogo pochi anni più tardi ad opera delle due scuole di Marburg e di Heidelberg. La prima venne fondata da Hermann Cohen (I848-I9I8), che fu appunto professore a Marburg dal I876 al I912; l'indirizzo da lui iniziato venne poi proseguito da Paul Natorp (I854-I92.4), anch'egli professore a Marburg dal I88I fino alla morte, e più tardi da Ernst Cassirer (I874-I945), al quale ultimo dedicheremo, data la sua importanza, un intero capitolo nel volume settimo. La seconda invece (pure nota come « scuola del Baden » o « scuola sud-occidentale») venne fondata da Wilhelm Windelband (I848-I9I 5), professore prima a Zurigo, a Friburgo e a Strasburgo, poi (dal I903) a Heidelberg, e proseguita dal suo discepolo Heinrich Rickert (I863-I936), che successe al maestro in questa università. Fra il I 87 I e il I 89o Cohen scrisse tre importanti volumi dedicati all 'interpretazione della teoria kantiana: Kants Theorie der reinen Erfahrung (Teoria kantiana dell'esperienza pura, I87I, z.a edizione, molto ampliata, I885); Kants Begriindung der Ethik (Fondazione kantiana dell'etica, I877); Kants Begrundung der Aesthetik (Fondazione kantiana dell'estetica, 1889). Fra la prima e la seconda edizione della Teoria kantiana dell'esperienza pura, pubblicò un'opera che costituisce in certo senso un ponte fra le due: Das Prinzip der lnftnitesimalmethode und seine Geschichte (Il principio del metodo inftnitesimale e la sua storia, 1883). Essa è della massima importanza per comprendere lo sviluppo del pensiero di Cohen, in quanto si incentra sopra un tema che diventerà essenziale per la sua filosofia: la contrapposizione estensivo-intensivo che nell'opera in esame viene ricondotta all'antitesi
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fra « numeri ordinari » e « numeri infinitesimali »; ha tuttavia uno scarso valore scientifico come dimostra il giudizio datone da Gottlob Frege in una recensione del1885 (ove leggiamo che Cohen «non brilla per chiarezza e talvolta è addirittura illogico»). A partire dal1902. comincia infine a uscire il ponderoso System der Philosophie (Sistema di filosofia) che Cohen suddivide in tre parti: Logik der reinen Erkenntnis (Logica della conoscenza pura, 1902.); Ethik der reinen Willens (Etica della volontà pura, 1904); Aesthetik des reinen Gefiihls (Estetica del sentimento puro, 1912, in due volumi). Fra le molte opere di Natorp ricorderemo le seguenti: Descartes' Erkenntnistheorie (Teoria cartesiana della conoscenza, 188z); Forschungen zur Geschichte des Erkenntnisproblem im Altertum (Ricerche sulla storia del problema della conoscenza nell'antichità, 1884); Einleitung in die Psychologie nach kritischer Methode (Introduzione alla psicologia secondo il metodo critico, 1888); Platons Ideenlehre. Bine Einfiihrung in den Idealistnus (Dottrina platonica delle idee. Una iniziazione all'idealismo, 1903); Die logischen Grundlagen der exakten Wissenschaften (l fondamenti logici delle scienze esatte, 191o); Allgemeine Psychologie (Psicologia generale, 1912., vol. 1, il solo apparso); Kant und die marburger Schule (Kant e la scuola di Marburg, 1912.). Scrisse pure alcuni studi di argomento pedagogico, occupandosi in particolare di Pestalozzi. Il neo-kantismo di Cohen prende le mosse dal netto rifiuto dell'impostazione tradizionale degli studi kantiani, secondo cui il grande merito del filosofo di Konigsberg sarebbe stato di aver scoperto che l'atto del conoscere è la sintesi di due fattori eterogenei: il primo costituito dai dati percettivi, il secondo dalle forme a priori. Una volta ammessa l'assoluta distinzione di questi due fattori, risulta impossibile- secondo Cohen- giustificare l'unità dell'atto conoscitivo se non sacrificando arbitrariamente o il primo fattore, come fa l'interpretazione idealistica del kantismo, o il secondo, come fa l'interpretazione psicologistica. Contro entrambe queste interpretazioni il nostro autore sostiene che il vero senso della dottrina kantiana è un altro: è il metodo trascendentale, inteso come ricerca delle condizioni di possibilità dell'esperienza, in quanto oggettivamente valida, cioè in quanto esperienza scientifica (ovvero esperienza elaborata dalla fisica matematica). Dal nuovo punto di vista le forme a priori non sono più dei vuoti ricettacoli scissi dal loro contenuto; sono soltanto degli elementi trascendentali che possono venire considerati separatamente dalla particolarità dei singoli fenomeni. «La forma, » scrive Cohen, «non costituisce affatto l'opposto del contenuto; al contrario, designa la legge del contenuto. » Potremmo spiegare la cosa dicendo che essa è la legge immanente al contenuto. È inutile sottolineare l'importanza che viene ad assumere la scienza (cioè la fisica matematica) nel sistema coheniano. È precisamente essa a farci penetrare la struttura logica della natura, ossia a farci cogliere l'esperienza non come un caos di dati percettivi, ma come una costruzione coerente, universalmente e ne-
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cessariamente valida. In altri termini: essa costituisce un aspetto privilegiato dell'esperienza, di cui la filosofia critica deve fissare le condizioni di possibilità e di validità, correlandola non ai singoli oggetti pensati ma all'oggetto pensabile. Sviluppando fino alle estreme conseguenze questa linea interpretativa, Cohen giungerà a sostenere che la teoria del,l'esperienza si riduce in ultima istanza a teoria della scienza. Merita di essere rilevata la posizione che viene ad assumere, in questa interpretazione del kantismo, la famosa nozione della cosa in sé. Mentre gli studiosi idealisti vi avevano scorto- come ricordammo fin dall'ultimo capitolo del volume terzo - il punto debole della filosofia critica, Cohen invece « fa di essa il punto di partenza e il concetto supremo di tutto' il pensiero ... La cosa in sé non è altro (infatti) che l'autolimitazione del principio dell'esperienza possibile» (Jules Vuillemin), ossia ha la funzione di fondare la possibilità e nel contempo i limiti dell'esperienza. Il filosofo di Marburg si spinge ad asserire che essa è « l 'insieme delle conoscenze scientifiche », o il loro metodo; è la legge del pensiero che regola la conoscenza della natura, e che, in quanto tale, stabilisce un nesso fra concezione causale e concezione teleologica dell'esperienza. È un fatto incontestabile, secondo Cohen, che la fisica matematica ci conduce sì a stabilire leggi via via più generali, ma resta ciò malgrado incapace di farci scoprire l'unità sistematica dell'esperienza (compito specifico della concezione teleologica del mondo). Stando così le cose, per comprendere a fondo il significato e la ragione di tale incapacità, dovremo necessariamente fare appello a un principio di autolimitazione dell'esperienza: orbene è proprio la cosa in sé a fornirci tale principio. Resta ancora da chiarire come si costituisca, sulla base del trascendentale nel senso attribuitogli da Cohen, il dato stesso delle percezioni, ossia il cosiddetto «reale». Il nostro autore cerca di spiegarlo con un'analisi estremamente complessa della logica kantiana, in particolare della teoria dello schematismo. Fa ali 'uopo intervenire il cosiddetto principio delle grandezze intensive, in base a cui risulta possibile giungere a tali grandezze partendo dagli infinitesimi (che, in se medesimi, non sono né zero né grandezze finite). Ecco ciò che scrive in proposito: « Allo stesso modo che non conosciamo la natura se non come scienza della natura, e non conosciamo gli oggetti se non come oggetti dell'esperienza, ... così non possiamo legittimare il reale, considerato quale oggetto dell'esperienza, se non sulla base di un principio che lo renda partecipe della possibilità dell'esperienza. È il principio delle grandezze intensive. » Questo riesce a renderlo partecipe di tale possibilità, in quanto ci fa assistere al modo stesso come l'oggettivo (il reale dei dati sensoriali) si produce dal possibile attraverso infiniti gradi infinitesimi. Il calcolo infinitesimale, che è appunto il capitolo della matematica moderna ove si trovano esposti i metodi per operare con gli infinitesimi, assume così un'importanza centrale nel sistema di Cohen: non risulta più soltanto uno strumento fondamentale della fisica matematica, come tutti sanno, ma uno strumento (
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fondamentale anche per la filosofia. « Mediante le grandezze intensive, noi vediamo compiersi sotto i nostri occhi, non più nelle chimere metafisiche dell'autocoscienza ma nella positività scientifica del conoscere, il passaggio dal noumeno al fenomeno, dal pensiero alla conoscenza, onde la filosofia discende finalmente dal cielo alla terra» (Vuillemin). In breve: l'analisi infinitesimale ci fa cogliere il costituirsi stesso del dato, ci fornisce la vera chiave mediante cui comprendere il legame profondo fra la possibilità dell'esperienza e l'esperienza effettiva. Emerge in tal modo il carattere platonico, anzi pitagorico, della concezione coheniana: essa può dirsi platonica in quanto considera il mondo possibile come fondamento del mondo reale, e può dirsi pitagorica in quanto ci addita nelle entità numeriche (sia pure infinitesimali) lo strumento unico e indispensabile per il trapasso da quello a questo. Pur mantenendo in via generale l'orientamento platonico testé delineato, Natorp apporta però una notevolissima correzione alla filosofia del proprio maestro. Non accetta più infatti il privilegiamento coheniano dell'esperienza fisico-matematica, ma «reclama un'estensione del criticismo e dei suoi metodi anche fuori dello specifico ambito conoscitivo-scientifico ed esige che l'intera cultura umana sia argomento di considerazione filosofica » (Leo Lugarini), esige cioè che l'esperienza considerata dalla filosofia non sia più soltanto quella elaborata dalla scienza, ma anche l'esperienza morale, quella estetica, quella religiosa, ecc. E, proprio p~r rendere possibile questa considerazione più ampia, torna a riconoscere piena dignità alla psicologia sia pure intesa non come psicologia empirica ma come « psicologia generale », cioè come vera e propria scienza filosofica. Ritorneremo brevemente su questo ampliamento nel prossimo volume, allorché prenderemo in esame la profonda svolta apportata al neo-kantismo di Marburg dal suo ultimo e più illustre rappresentante, Ernst Cassirer. Qui basti rilevare che l'« idealismo critico» di Cohen rappresenta senza alcun dubbio uno dei più notevoli tentativi compiuti dall'idealismo di legare intimamente tra loro scienza e filosofia. Come tale, esso conserva ancora oggi un grande interesse storico; nulla di più, però, ché nel nostro secolo il pensiero filosoficoscientifico si avvierà per strade completamente diverse. Passando ora a parlare della seconda scuola neo-kantiana tedesca della fine Ottocento, va detto anzitutto che, mentre il neo-kantismo di Marburg prese le mosse dal problema della conoscenza scientifica, quello di Heidelberg pose subito al centro delle proprie ricerche il problema del valore. In effetti, secondo Wilhelm Windelband, conoscere significa giudicare e giudicare significa riconoscere un valore, onde si conclude che il valore deve costituire il punto focale di tutta la problematica filosofica. Fu appunto alla luce di questa tesi che egli delineò una nuova interpretazione del pensiero di Kant, cercando di sostenere che il suo insegnamento conserva ancora oggi un'immutata validità. Alla difesa di tale interpretazione sono dedicati
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vari saggi, raccolti nel volume Praeludien (Preludi, I883), che ottenne rapidamente un notevole successo di pubblico; ne uscirono, durante la stessa vita dell'autore, parecchie edizioni via via arricchite e ampliate. Il medesimo argomento verrà ripreso più tardi nella Einleitung indie Philosophie (Introduzione alla filosofia, I9I4)· Malgrado il vasto interesse suscitato da questi scritti, le opere più note di Windelband restano tuttavia. quelle dedicate a tratteggiare i problemi filosofici nel loro sviluppo storico: Geschichte der neueren Philosophie (Storia della filosofia moderna, I878-8o), eh~ presenta la gnoseologia kantiana come punto in cui troverebbero una soluzione conclusiva i grandi dibattiti tra empirismo e razionalismo, e Geschichte der Philosophie (Storia della filosofia, I889-92). Esse vennero a lungo annoverate fra i prodotti più validi della storiografia filosofica ottocentesca. Un carattere più organico e più teoretico hanno i numerosi lavori di Heinrich Rickert, fra i quali vanno ricordati: Der Gegenstand der Erkenntnis (L'oggetto della conoscenza, I892); Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung (l limiti della formazione dei concetti nelle scienze della natura, I 896-I9o2); Kulturwissenschaft und Naturwissenschaft (Scienza della cultura e scienza della natura, I 899); Geschichtsphilosophie (Filosofia della storia, I905); Grundprobleme der Philosophie (Problemi fondamentali della filosofia, I 9 34). Scrisse pure una monografia su Kant, dal titolo: Kant als Philosoph der modernen Kultur (Kant come filosofo della cultura moderna, I924). Come si è detto, la filosofia è, per i due autori in esame, essenzialmente teoria dei valori. A questa conclusione Windelband giunge attraverso la critica dei sistemi metafisici e la constatazione che tutti gli oggetti del sapere sono ormai «divisi senza residuo fra le scienze particola~i ». Non essendo più possibile, in questa condizione, attribuire alla filosofia un campo specifico di oggetti da indagare, e non avendo d'altra parte più alcun senso volerla intendere come « dottrina della totalità del mondo», non ci resterà che concepirla come «metafisica del sapere », cioè come ricerca del valore oggettivo da attribuirsi ai prodotti dell'attività umana (tanto alle conoscenze scientifiche quanto alle azioni etiche e alle intuizioni artistiche). «Essa indaga se vi sia una scienza, cioè un pensiero che possegga il valore della verità con validità universale e necessaria; se vi sia una morale, cioè un volere e un agire che posseggano il valore del bene con validità universale e necessaria; se vi sia un'arte, cioè un intuire e un sentire che posseggano con validità universale e necessaria il valore della bellezza. » I valori cui Windelband e Rickert ritengono di poter pervenire sarebbero, secondo essi, strutture permanenti della vita psichica, fornite di validità incondizionata, e costituirebbero nel loro complesso la « coscienza normale » cioè un imperativo al quale tutti debbono piegarsi. Il richiamo alla trascendenza implicito in questa conclusione è evidente; esso costituisce, malgrado le intenzioni dei nostri autori, un pesante ritorno alla metafisica. Nel quadro della concezione testé accennata, assume un'importanza particolare una tesi ripetutamente esposta e difesa da Windelband e da Rickert:
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la teoria della distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito. Questa distinzione viene fondata non sull'oggetto delle scienze medesime, ma sul loro metodo: le scienze della natura infatti, secondo la scuola di Heidelberg, studiano la realtà esclusivamente in rapporto alle leggi universali (scienze nomotetiche), le scienze dello spirito invece mirano a cogliere l'individualità con riferimento ai valori universali (scienze idiografiche). La più caratteristica scienza dello spirito è la storia, il cui vero compito viene fatto risiedere nello sforzo di conservare ciò che ha valore, abbandonando nell'oblio ciò che è privo di valore. La storia dunque non crea essa medesima i valori, ma li presuppone come qualcosa di eterno, che esiste al disopra dei fenomeni sviluppantisi nel tempo. È opportuno ricordare fin d'ora che all'incirca nei medesimi anni anche un altro celebre autore tedesco, Wilhelm Dilthey (I8 33-I9I I), avanzò la tesi della netta distinzione fra scienze dello spirito e scienze della natura, nel volume Einleitung in die Geisteswissenschaften (Introduzione alle scienze dello spirito, I883). Le argomentazioni da lui addotte a sostegno di tale tesi differivano però radicalmente da quelle di Windelband e di Rickert. «Per Dilthey, » scrive in proposito Pietro Rossi, che è uno dei migliori studiosi odierni del nostro autore, « le scienze storico-sociali fanno parte, insieme alla psicologia, delle scienze dello spirito; e queste si contr~ppongono alle scienze della natura in virtù di un'originaria differenza di campo di ricerca che condiziona la diversità del metodo impiegato. Le loro categorie costituiscono la traduzione in termini astratti delle forme strutturali della vita - categorie come quelle di valore, significato, scopo; ed i loro metodi consentono di risalire da ogni manifestazione determinata storicamente allo spirito degli uomini che l 'hanno prodotta- e in ciò consiste il procedimento della comprensione, analogo a quello dell'introspezione. Le scienze della natura si avvalgono invece della categoria di causa, e attraverso l'accertamento dei rapporti causali edificano un sistema di leggi: ma il mondo che esse indagano resta sempre estraneo all'uomo, un mondo con cui l'uomo è in costante rapporto, ma che riconosce altro da sé, e che può penetrare soltanto con altri strumenti. » Il tema della distinzione fra scienze della natura e scienze dello spirito fu al centro di numerosi dibattiti durante gli ultimi decenni del secolo scorso e i primi anni del nostro. L 'importanza filosofica di tali dibattiti risulta con chiarezza, appena si rifletta sui due più gravi problemi i vi implicati: I) esistono o non esistono due ambiti di ricerca radicalmente distinti: mondo della natura e mondo dello spirito? 2) esistono o non esistono due criteri di scientificità tra loro irriducibili, onde le scienze dello spirito dovrebbero avvalersi di metodi completamente diversi da quelli in uso presso le scienze della natura? Dilthey rispondeva positivamente al primo quesito, ricavando poi l'esistenza di metodi diversi -per i ·due anzidetti tipi di scienze- dall'esistenza di due mondi contrapposti (natura e spirito); Windelband e Rickert negavano invece questa contrapposizione, e giustificavano l'esistenza di metodi diversi per i due tipi di scienze sulla. sola
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base dei diversi compiti che esse si prefiggono (ricerca di leggi generali oppure determinazione dell'individualità dei fenomeni studiati). Ai dibattiti testé accennati partecipò pure vivacemente Georg Simmel (I 8 s8I9I 8), che tentò di determinare le condizioni di validità delle scienze storiche considerandole nel loro rapporto con le scienze sociali. In tal modo il problema centrale diventa per lui quello di caratterizzare il compito della sociologia differenziandolo da quello delle scienze della natura (differenziazione che, secondo lui, i sociologi positivisti si erano lasciata sfuggire). La diversità fra la posizione di Windelband e di Rickert da un lato, e quella di Simmel dall'altro, presenta un particolare interesse, dato che anche quest'ultimo prese le mosse da un punto di partenza sostanzialmente neo-criticista. Riteniamo di non poterla illustrare in modo migliore che riferendo, ancora una volta, un brano di Pietro Rossi: « In Windelband e in Rickert l'autonomia della conoscenza storica viene riconosciuta sulla base dell'antitesi metodologica tra orientamento generalizzante e orientamento individualizzante del conoscere; in Simmel la struttura categoriale della conoscenza storica viene definita sulla base di un'interpretazione relativistica del neo-criticismo, 1 elaborata attraverso l'analisi metodologica delle scienze sociali. » VIII · NIETZSCHE
Friedrich Nietzsche nacque nel I 844 a Rocken presso Liitzen, sul confine fra la Turingia e la Sassonia; suo padre, che era un pastore luterano, morì nel I 849, a soli trentasei anni, di una grave infiammazione cerebrale. Dopo aver compiuto i primi studi universitari in teologia e in lingue classiche a Bonn, il giovane passò nel I86s all'università di Lipsia per seguire il proprio maestro di filologia che si era allora trasferito in quest'ultima città. Nel I 868, appena ventiquattrenne, ottenne un incarico di filosofia classica presso l'università svizzera di Basilea. Nel I869 incontrò il grande musicista Richard Wagner con cui subito strinse una viva amicizia. L'anno successivo si arruolò nella Croce Rossa tedesca per partecipare in questo modo alla guerra franco-prussiana. Aveva intanto scoperto, quasi per caso, alcune opere di Schopenhauer: le lesse con passione e abbracciò con entusiasmo i principi della sua filosofia. Risalgono a questo periodo le due opere Die Geburt der Tragodie oder Griechentum und Pessimismus (La nascita della tragedia ovvero gr~cità e pessimismo, I 872.) e Unzeitgemiisse Betrachtungen (Considerazioni inattuali, I873-76). Nel I876 ebbe inizio nel nostro autore una grave crisi fisica e psichica; si manifestarono cioè i primi sintomi della malattia che lo porterà gradualmente alla pazzia. Risalgono a tale anno il suo distacco da Wagner (i rapporti fra i due I Con le parole « interpretazione relativistica » Pietro Rossi intende riferirsi al fatto che, secondo Simmel, le categorie storiografiche sa-
rebbero null'altro che presupposti psicologici, non assoluti ma relativi, « i quali assolvono la funzione di organizzare concettualmente il dato empirico ».
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cesseranno completamente nel '79) e il suo abbandono della filosofia di Schopenhauer. Già nel I 875 aveva provvisoriamente interrotto, per ragioni di salute, il proprio insegnamento a Basilea; nel I879 presentò regolare istanza al rettore dell'università per venire definitivamente dimesso dal posto che vi aveva coperto. Cominciò allora una vita inquieta, ansiosa, spostandosi continuamente, malgrado le notevoli ristrettezze finanziarie (poteva infatti contare soltanto su di una piccola pensione), da una località all'altra della Svizzera e dell'Italia settentrionale, proteso con tutte le proprie energie ad abbozzare quella che avrebbe dovuto essere a suo parere una grande riforma dei costumi e della cultura. Ne tracciò le linee fondamentali in numerosi e affascinanti scritti, fra i quali ricordiamo: Menschliches, Allzumenschliches (Umano, troppo umano, I 878-8o); Morgenrothe, Gedanken iiber die moralischen Vorurteile (Aurora, pensieri sui pregiudizi morali, I88I); Die frohliche Wissenschaft (La gaia scienza, I88z). Nel I883 ha inizio un terzo periodo dell'evoluzione spirituale di Nietzsche, caratterizzato dall'elaborazione della teoria del superuomo. Ad esso risalgono le seguenti opere: Also sprach Zarathustra (Così parlò Zaratustra), poema filosofico scritto fra il I 8 8 3 e il I 8 8 5, ma pubblicato solo nel I 89 I ; Jenseits von Gut und Bose (Al di là del bene e del male, I 885); Zur Genealogie der Mora! (La genealogia della morale, I 887); Gò'tzendammerung (Crepuscolo degli idoli, I 888); Der Antichrist (L'anticristo, I888); Ecce homo (una specie di autobiografia, composta nel I888); Der Wille zur Macht (La volontà di potenza), rimasta incompiuta e pubblicata postuma. Il 3 gennaio I889 fu colto da un accesso di pazzia mentre era a Torino, città nella quale amava soggiornare frequentemente. Pochi giorni dopo un amico, sceso dalla Svizzera, riuscì a riportarlo a Basilea, ove entrò in una clinica psichiatrica il I o dello stesso mese. L 'infermità lo accompagnò fino alla morte, avvenuta nel I9oo. Nella Nascita della tragedia, che può dirsi la sola opera veramente organica di Nietzsche, egli riconosce che l'arte si fonda sopra un'originaria dualità: la dualità fra spirito apollineo, ave è dominante l'armonia delle forme, e spirito dionisiaco, ove è invece dominante l'esaltazione scatenata dai sentimenti. La tragedia greca sarebbe sorta appunto dalla lotta e dalla conciliazione fra Apollo e Dioniso. Questa conciliazione non comportava però una visione ottimistica dell'universo: il cosiddetto ottimismo greco si radica in realtà, secondo il nostro autore, su di un profondo pessimismo (pessimismo che è tuttavia espressione di forza, non di decadenza). Pur riconoscendo, come abbiamo testé accennato, il peso spettante allo spirito apollineo, Nietzsche attribuisce comunque un'importanza assai superiore a quello dionisiaco: mentre il primo è la fonte delle impressioni del bello, il secondo ci pone in grado di trasfigurare nel sublime l'assurdo dell'esistenza umana. Il sublime e solo esso ci eleva al di sopra del mondo come rappresentazione (nel senso schopenhaueriano del termine), per farci entrare nel mondo come volontà.
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Nelle successive indagini sull'arte, Nietzsche finirà per insistere vieppiù sullo spirito dionisiaco, lasciando in ombra quello apollineo. Anche le ricerche sul pensiero filosofico greco riconfermarono nel nostro autore la convinzione che alla base di esso dovesse trovarsi un profondo pessimismo. Egli ne scorge le tracce soprattutto nella filosofia presocratica, che considera quale seconda grande produzione (accanto alla tragedia) della civiltà ellenica. Entrambe hanno raggiunto il loro massimo splendore nel v secolo a.C., ma già sul finire di esso in entrambe è cominciata ad affiorare una gravissima crisi legata ai nomi di Euripide e di Socrate. Di particolare interesse sono, per noi, le critiche che Nietzsche solleva contro il filosofo ateniese: critiche dirette soprattutto contro il suo razionalismo e contro il suo ottimismo. Socrate fu il primo a « contrapporre la tirannia del razionalismo alla tirannia dell'istinto»; e fu colpa tanto più grave in quanto era ben consapevole (come dimostra la sua ironia) delle catastrofiche conseguenze implicite in questa riforma. In altre parole: egli ebbe il torto di contrapporre alla vita Ja riflessione sulla vita, e così aperse la strada a Platone che giunse all'assurdità di voler negare valore alla vita corporea. Con la filosofia alessandrina la crisi assumerà un carattere manifesto e incontestabile. È inutile sottolineare l'antitesi fra questa interpretazione dello sviluppo del pensiero greco e quella data qualche decennio prima da Hegel. Basti far notare che Nietzsche compie, con essa, uno sforzo per l'innanzi mai visto di capovolgere completamente i giudizi tradizionali sulla civiltà greca. Più tardi egli cercherà con pari energia di capovolgere tutti i valori usualmente accolti dalla riflessione filosofica. Come poco sopra accennammo, il trapasso dalla prima alla seconda fase del pensiero nietzschiano ha inizio col distacco da Schopenhauer. Ciò che il nostro autore gli rimprovera è di avere ricavato dal proprio pessimismo un atteggiamento di rinuncia e di abbandono, analogo a quello della morale cristiana; a questo pessimismo pavido egli vuole invece- contrapporre un pessimismo eroico, che accetta la vita con tutte le sue contraddizioni e scorge proprio in esse un motivo di esaltazione, una spinta a superare ogni limite che l'uomo trova innanzi a sé. Liberatosi dal « romanticismo » schopenhaueriano (e wagneriano), Nietzsche può ora esaltare la volontà di vivere come volontà di affermarsi dell'individuo proprio in quanto individuo: volontà di espandersi, di infrangere gli ostacoli e, in particolare, di vincere le forze della natura. È ben comprensibile che in questa nuova fase egli senta il fascino dell'illuminismo (Umano, troppo umano è dedicato a V oltaire), e subisca entro certi limiti l 'influenza della stessa scienza positivistica. Lo scienziato che predilige è Darwin, in quanto ritiene di poter utilizzare ai propri fini l'idea, da lui sostenuta, di «lotta per l'esistenza». L'avvicinamento di Nietzsche al positivismo non va, comunque, inteso quale 16o
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accettazione dell'ideale della scientificità; ciò che egli riconosce è soltanto il valore della scienza come strumento per l'affermazione dell'uomo. Ma un conto è servirsi della ragione scientifica, un altro conto - completamente diverso è subire la tirannia di tale ragione. Il nostro autore si ribella contro di essa come già si era ribellato contro il razionalismo di Socrate. Le colpe che le rimprovera sono essenzialmente due: 1) di uccidere lo spirito della tragedia, la sincerità dell'istinto, l'irruenza della volontà naturale; z) di sostituirvi l'ipocrisia, l'equivoco, la finzione. In altri termini, subire la tirannia della ragione scientifica significa accettare una nuova forma di ascetismo, altrettanto innaturale quanto quello cristiano: ascetismo che opprime ciò che vi è di più vivo e profondo nell 'uomo, che investe i valori reali del nostro stesso essere. « I cosiddetti spiriti liberi di oggi, » egli scrive, « sono spiriti tutt'altro che liberi, perché credono ancora alla ·verità. » « Anche noi, odierni ricercatori della verità, noi atei e antimetafisici, anche noi prendiamo ancora il nostro fuoco dall'incendio che fu appiccato da una fede millenaria, da quella fede cristiana che fu anche la fede di Platone, e cioè che dio è la verità, che la verità è divina ... Ma come, ma come, se questo diventa sempre più inverosimile, se più nulla si palesa divino, fuorché l'errore, la cecità, la menzogna, e se dio stesso si rivela il nostro più lungo errore?» La teoria (o, più esattamente, il mito) del superuomo che - come già si disse - caratterizza la terza fase del pensiero nietzschianot affonda senza dubbio le proprie radici nel darwinismo, liberamente interpretato dal nostro autore. Il supertiomo viene infatti concepito come il frutto più alto dell'evoluzione, l'esponente più elevato della specie umana, formatosi attraverso la lotta per l'esistenza: lotta che porta necessariamente alla vittoria del più forte contro gli inetti, contro i deboli e gli impotenti. Proprio perciò il superuomo non si trova più vincolato dalle leggi della morale tradizionale, altrettanto ingannatrice quanto la ragione: sta al di là del bene e del male; compie un radicale rovesciamento della vecchia tavola dei valori creandone dei nuovi. Non è un egoista che cerchi meschinamente la propria felicità j è in certo senso un asceta in quantot se è vero che ha dei diritti che gli altri non hanno, ha pure dei doveri decisamente superiori a quelli dell'uomo comune (impastato di mediocrità). Il mondo che troviamo innanzi a noi non è razionale, né bellot né nobile; la sua condizione generale è il caos, la mancanza di qualsiasi ordine, l'assenza di qualsiasi finalità. Proprio perciò esso ritorna eternamente su se medesimo, si ripete necessariamente e perennemente senza avere né un principio né una fine. Il superuomo comprende questa intima necessità del cosmo e non tenta di mascherarla con menzogne di verun genere; ma neanche si lascia intimidire da essa e prosegue nella propria missione, che è quella di elevare il destino della nostra specie, di insegnarci a superare la natura umana. « L 'uomo è cosa che deve essere oltrepassata, è un ponte e non una meta: egli deve chiamare se stesso
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beato per il suo meriggio e per la sua sera, onde gli è segnato il cammino a nuove aurore.» A questo scopo il superuomo abbatte senza pietà i vecchi dogmi della metafisica, della scienza e dell'etica; non è tuttavia un nichilista, perché distrugge allo scopo di ricreare ( « sempre deve distruggere chi vuol creare »), cioè allo scopo di liberare l'io da ogni sovrastruttura posticcia e inessenziale. Tutto ciò che è od è stato diventa, per lui, « un mezzo, uno strumento, un martello »; il suo conoscere è un creare, un legiferare; il suo « volere la verità » equivale a «volere la potenza». Egli è l'uomo veramente libero, che cerca di dominare tutte le possibilità senza rinunciare ad alcuna, è l'incarnazione delle volontà di potenza. Il suo insegnamento aprirà al mondo una nuova era: aprirà la via alla vittoria di Dioniso su Socrate, dell'infinità della vita sull'autolimitazione della ragione. Proprio perché la natura non possiede alcun ordine, essa non è in grado di imporre alcun dovere. Al «tu devi» dell'etica tradizionale, Nietzsche oppone il « io voglio » del creatore. La volontà di potenza, di creazione, di continuo dispiegamento della propria forza è il carattere più profondo del superuomo; è la sua verità (verità nella quale risulta impegnato tutto il suo essere, non la sola sua coscienza); è l'espressione della perenne apertura dell'individuo umano, la cui autentica esistenza va sempre al di là di tutto quanto egli abbia di già realizzato. Il superuomo insegna la volontà di potenza non con le parole, ma con l'esempio; egli è il filosofo dell'avvenire perché- a differenza dei filosofi del passatonon pretende di provare con argomenti razionali la propria verità, ma la vive, e cioè lotta senza tregua (affrontando i più duri sacrifici) per abbattere ogni ostacolo al nostro libero divenire, per spronare l'uomo verso un orizzonte senza limiti. Come abbiamo scritto nel paragrafo r, e come ora risulta ben chiaro, il pensiero di Nietzsche rappresentò senza dubbio una forma radicale di irrazionalismo vitalistico; forse la più radicale che si sia mai presentata nella storia della filosofia, certo una delle più affascinanti proprio per la paradossalità delle tesi ivi sostenute. Né ci si deve stupire che, all'inizio del nuovo secolo, abbia potuto riscuotere tanti consensi in vastissime schiere di lettori, se si tiene presente che la sferza di Nietzsche seppe rivelare implacabilmente le mille falsità del mondo in cui ci si trovava costretti a vivere. La crisi dei valori tradizionali era in effetti reale, profonda, incontestabile. Ma la mera denuncia non costituisce ancora l'indicazione di una soluzione. Essa può anzi costituire la fonte dei più gravi equivoci, quando susciti l'impressione- come purtroppo suscitano molte pagine di Nietzscheche tale soluzione vada cercata non attraverso un approfondito rigore di analisi, ma con l'appello al semplice intuito, all'istinto e ai più oscuri moti dell'animo.
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CAPITOLO SETTIMO
Positivismo e antipositivismo in Francia
I
· CONSIDERAZIONI GENERALI
Non è il caso di richiamare le vicende politico-economiche della Francia dalla metà dell'Ottocento alla prima guerra mondiale. Basti ricordare, in via generalissima, che il periodo è contrassegnato dal consolidamento del potere della borghesia, la quale riesce due volte a sconfiggere il proletariato: una prima volta nel I 8 5I cqn il colpo di stato compiuto il .2 dicembre da colui che sarà Napoleone m; una seconda volta con la caduta della Comune (maggio I87I). Le due vittorie presentano però alcuni caratteri profondamente diversi: la prima infatti, dà luogo a un governo che, malgrado la sua debolezza e la manifesta corruzione, può ancora suscitare l'impressione di una certa stabilità e nascondere i numerosi contrasti interni sotto l'apparenza di un progresso generale (economico-politico) del paese; la seconda invece, che si accompagna a una gravissima sconfitta militare, scaturisce da un'esplosione violenta di contraddizioni sociali che, sebbene soffocate nel sangue, non possono essere facilmente dimenticate. Gli eventi del I870-7I hanno ormai posto irrimediabilmente in luce le malattie della Francia, suscitando parecchi dubbi sul suo futuro: la stessa classe dirigente, pur unita nella lotta contro il proletariato, rivela profonde spaccature nel campo ideologico, e sembra cercare qualcosa. di nuovo, che non sa definire con esattezza. La cultura del paese, pressoché interamente nelle mani della borghesia, riflette chiaramente queste oscillazioni. In un primo tempo abbiamo una rapida diffusione del positivismo, inteso soprattutto come fiducia nel progresso tecnico-scientifico. Esso esercita una profonda influenza anche nel campo della filologia, della letteratura, della storiografia politica, e fa sorgere l'esigenza di nuove discipline scientifiche come la psicologia (che Comte aveva escluso dalla propria famosa classificazione delle scienze fondamentali), della sociologia (intesa in un senso molto più preciso e meno filosofico di quello comtiano), della storia delle scienze (non limitata - secondo quanto Comte aveva previsto - allo studio del trapasso dagli stadi teologico e metafisica a quello positivo, ma estesa agli stessi sviluppi effettivamente conseguiti dal sapere durante la fase della sua piena scientificità). Permane, sì, accanto a questo
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filone essenzialmente laico un filone di cultura tradizionale cattolica, ma fra i due si stabilisce una specie di modus vivendi per il rapido abbandono - da parte dei più noti positivisti- della «religione dell'umanità» che nell'ultima fase del pensiero di Comte aveva assunto aspetti manifestamente risibili, e per la sostituzione di essa con un atteggiamento agnostico nei confronti dei problemi metafisico-teologici. È un atteggiamento che sminuisce la carica polemica, di origine illuministica, ancora contenuta nelle opere del fondatore del positivismo, ma che sembra sufficiente alla maggior parte degli scienziati, in quanto permette loro di proseguire le proprie ricerche specialistiche senza preoccupazioni di ordine extra-scientifico, e nel contempo non li obbliga a impegnarsi su temi che potrebbero rivelarsi pericolosamente sovversivi. Le cose mutano profondamente verso la fine del secolo. Lo spiritualismo acquista una nuova combattività, prende il sopravvento nell'ambito delle facoltà filosofiche, passa decisamente alla controffensiva contro le concezioni positivistico-scientifiche. Il bersaglio che esso prende soprattutto di mira è il determinismo, cui contrappone l'appassionata esaltazione della libertà (non intesa però, nella maggior parte dei casi, come libertà politica e tanto meno come libertà delle classi sfruttate, ma come libertà dello «spirito» che si manifesterebbe nelle creazioni dell'uomo di genio e negli stessi processi naturali). È un fatto innegabile che la cultura positivistica aveva assunto, nelle sue ultime fasi, un carattere manifestamente dogmatico e in certo senso addormentatore. Essa si limitava a una specie di rispettosa venerazione delle scienze, senza tentare di analizzarne la complessa dialettica interna; confondeva le leggi scientifiche con le grossolane generalizzazioni di esse tentate da filosofi scarsamente impegnati in ricerche specifiche; chiudeva gli occhi di fronte alle tragiche contraddizioni della società, nella fiducia che un immancabile «progresso» avrebbe finito per risolverle tutte in un tempo più o meno lungo. Di fronte a questo dogmatismo dilagante, due erano gli atteggiamenti possibili: o un ritorno al significato autentico del positivismo, cioè a uno studio critico approfondito della conoscenza scientifica (cioè della sua reale consistenza, degli affinamenti via via maggiori che essa esige, delle rivoluzioni metodologiche imposte dalle nuove scoperte della matematica e delle ricerche sperimentali), o una sommaria negazione della « razionalità scientifica », prima o poi destinata a sfociare in una negazione generale dei diritti della ragione. La cultura francese imboccò entrambe le vie, non senza equivoci contatti fra l'un:a e l'altra. Ma i sostenitori della prima furono assai più timidi di quelli della seconda, e si dimostrarono notevolmente meno agguerriti di essi, per lo meno dal punto di vista filosofico. Il primo indirizzo (che possiamo genericamente denotare come « indirizzo epistemologico») trovò il .suo più valido rappresentante in Henri Poincaré, grandissimo scienziato, ma non altrettanto grande filosofo. Il secondo ebbe vari
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seguaci, il più celebre dei quali fu senza dubbio Henri Bergson, grande scrittore, affascinante parlatore, capace delle più ardite costruzioni metafisiche. Purtroppo la palma della vittoria toccò senza dubbio a Bergson, non solo per le sue doti personali, ma anche perché il suo pensiero - scarsamente rigoroso poteva venire recepito con notevole facilità e si prestava alle più varie interpretazioni. Cosi la cultura francese divenne in grandissima parte bergsoniana, per lo meno nei campi della filosofia, della letteratura, dell'arte e perfino della politica; il campo degli scienziati rimase isolato e si rinchiuse in ricerche specialistiche, continuando in parecchi casi ad accettare un atteggiamento passivamente agnostico. L'antiintellettualismo, l'antipositivismo e l'antideterminismo portarono lo stesso Bergson- come spiegheremo nell'ultimo paragrafo- a conclusioni mistiche, che segnarono la definitiva spaccatura fra cultura filosofica e cultura scientifica, e ridussero quest'ultima al rango di mero strumento ptatico, privo di impegno universale. II · LA DIFFUSIONE DEL POSITIVISMO. TAINE
Come ricordammo nel capitolo xv del volume quarto e in particolare nel paragrafo ivi dedicato alla vi{a dì Comte, la « religione dell'umanità » da lui fondata durante la cosiddetta fase mistica degli ultimi anni (1845-57), sopravvisse per qualche tempo alla scomparsa del grande filosofo, raggiungendo una certa diffusione sia in Francia sia in Inghilterra e in America. Malgrado le sue stravaganze e i suoi molti equivoci essa aveva il pregio di andare incontro al desiderio - che sappiamo assai diffuso tra la borghesia dell'Ottocento- di fornire una sorta di conciliazione fra il nuovo spirito scientifico e l'esigenza religiosa. Se non conseguì un maggior successo, fu perché molti ritennero di poter raggiungere il medesimo scopo per altra via più sicura, cioè mediante una divisione dei compiti fra la religione tradizionale e la scienza (privata di pressoché ogni impegno filosofico). Fra i discepoli diretti di Comte meritano una particolare menzione Émile Littré (1801-81), che nel 1867 fondò la «Revue de philosophie positive» (la cui pubblicazione durerà fino al 1883), e Pierre Laffitte (1823-1903) che ebbe la prima cattedra di storia generale delle scienze al Collège de France. Mentre Littré fini per rifiutare ogni valore alla fase mistica del pensiero comtiano (egli aveva cominciato a esprimere le prime perplessità al riguardo allorché Comte era ancora in vita, e ciò aveva segnato un inizio di rottura fra i due, come ricordammo nel citato capitolo), Laffitte difese invece l'inscindibilità fra questa e le fasi precedenti, sostenendo che il pensiero comtiano doveva venire accolto nella sua globalità (egli si proclamava pertanto come l'unico vero erede del messaggio di Comte). Proprio per l'atteggiamento ora accennato, il «direttore del positivismo » (come appunto si presentava Laffitte) non riuscì ad ottenere un effettivo seguito nella cultura francese. I suoi scritti - fra i quali ci limitiamo a ricordare il Cours de
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philosophie première (Corso di filosofia prima, I889-9o)- non rivelano alcuna originalità in campo teoretico e sembrano essenzialmente rivolti a dimostrare alla borghesia francese l'utilità di appoggiare la diffusione della dottrina positivistica: «creata dall'umanità, la filosofia prima compie un ruolo essenziale al servizio di essa. È una forza per il nostro perfezionamento, nel perseguire il destino umano, che è quello di vivere per la Famiglia, per la Patria e per l'Umanità». Maggior peso ebbe invece la propaganda a favore del positivismo compiuta da Littré- ad esempio nell'opera A. Comte et la philosophie positive (A. Comte e la filosofia positiva, I863)- anche per l'indubbia fama che egli aveva saputo conquistarsi con le sue ricerche erudite. 1 A conferma di tale fama ricordiamo che nel I87I entrò nell'Académie française malgrado l'accanita opposizione del partito clericale, e nel I 875 venne nominato senatore a vita. Secondo Littré la vera grande scoperta di Comte sarebbe stata la dimostrazione che la filosofia può venire trattata con il medesimo metodo positivo in uso presso le scienze esatte. Così intesa essa dovrebbe però limitarsi ad affermazioni relative, respingendo agnosticamente qualsiasi ipotesi metafisica, sia spiritualistica sia materialistica. Questo tipo di agnosticismo - caratteristico di gran parte della cultura positivistica - costituì la comoda trincea dietro cui si ripararono parecchi studiosi «laici» dell'epoca, desiderosi, come si è già detto, di non impegnarsi nel difficile e scottante problema dei rapporti tra scienza e religione. Per quanto il pensiero di Littré abbia avuto una notevole risonanza, la formazione di un vero e proprio « clima positivistico » nella cultura francese fu soprattutto dovuta a due «letterati» (nel senso più generale di questo termine): Ernest Renan (I8z3-9z) e Hyppolite Taine (I8z8-93). Renan fu essenzialmente uno storico della religione ebraico-cristiana; le sue principali opere sull'argomento sono l' Histoire des origines du christianisme (Storia delle origini del cristianesimo) in vari volumi - il primo dei quali è la celeberrima Vie de Jésus (Vita di Gesù, I863)- e l'Histoire du peuple d'lsrael (Storia del popolo d'Israele, I887-94). La sua opera filosofica più importanteèL'avenir de la science, pensées de I 848 (L'avvenire della scienza, pensieri del z848), che costituisce un inno romantico alla scienza, esaltata come una religione cui sono legati « i destini dell'umanità» e la stessa« perfezione dell'jndividuo ».Anche se all'atto di pubblicarla circa quarant'anni dopo averla sctitta, e cioè nel I 890, l'autore vi antepose una prefazione in cui avanzava taluni gravi dubbi sulla potenza moralizzatrice della scienza, l'opera ci offre una sincera testimonianza della fede - non solo di Renan ma di pressoché tutta la sua generazione- nel sapere scientifico e nell 'umanità che ha saputo dar vita a una élite di studiosi capaci di afferrare i segreti 1 Vanno menzionate in particolare: la traduzione delle Opere di Ippocrate che Littré curò fra il 1839 e il 1861 (egli aveva iniziato la propria carriera come medico), e le sue ricerche in campo linguistico, che si conclusero con la pubblicazione
delle seguenti due opere: Histoire de la langue française (Storia della lingua françese, x86z) e Diçtionnaire de la langue jrançaise (Dizionario della lingua françese, in quattro volumi, 1863-73, oltre a un volume di supplemento, 1877).
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dell'universo (i riflessi di questa fede si possono per esempio riscontrare nel chimico Berthelot, amico di Renan, al quale si è già fatto cenno nel capitolo IV). Anche la fama di Taine fu soprattutto dovuta alle ricerche da lui compiute nel campo della storia; è celebre la sua opera Origines de la France contemporaine (Origini della Francia contemporanea in cinque volumi, I875-93), che, trattando la nascita e lo sviluppo della rivoluzione francese fino al I 8o8, ne forniscono un quadro aspramente negativo, quale poteva piacere - in quegli anni - alla parte più reazionaria della borghesia. Ma egli fu pure uno studioso assai acuto di filosofia, ove dimostrò una preparazione nettamente superiore a quella del contemporaneo Renan. Le sue principali opere di argomento filosofico sono tre: Les philosophes français du XIX siècle (l filosofi francesi del XIX secolo, I 8 57), Philosophie de l'art (Filosofia dell'arte, 1865), e De l'intelligence (Sull'intelligenza, 187o), solitamente considerate come testi fondamentali del positivismo francese, seppure assai lontane dalla vera e propria problematica comtiana. Nella prima Taine sostiene che lo scopo fondamentale del sapere è quello di giungere a una concezione unitaria dell'universo. Mentre la vecchia metafisica riteneva, per adempiere a questo scopo, di dover fare ricorso a qualche principio trascendente, la scienza ci insegna invece che esso può venire trovato nell'ambito stesso dei fatti. «Noi scopriamo l'unità dell'universo,» egli scrive, «e comprendiamo ciò che la produce. Essa non proviene da una cosa esterna, al di fuori del mondo, né da una cosa misteriosa nascosta nel mondo. Proviene invece da un fatto generale simile agli altri, da una legge generatrice da cui si deducono le altre come dalla legge dell'attrazione derivano tutti i fenomeni della pesantezza.» Già ricordammo nel volume quarto (capitolo xvi) che anche un grande scienziato come Joseph Fourier aveva parlato, nel 1822., di «fatti generali» e già sottolineammo, in quella sede, i pericoli di questa espressione; va notato però che, mentre essa era perdonabile nei primi decenni dell'Ottocento, ora però nella seconda metà del secolo - il farvi ricorso senza alcuna indagine critica diventa una colpa assai più grave. È la dimostrazione che il positivista Taine sta trasformando, senza avvedersene, lo studio rigoroso della scienza - iniziato con tanta serietà da Comte, proprio sotto l'influenza di Fourier, nell'intento di provare la superiorità della conoscenza scientifica dei fenomeni sulle presunte « spiegazioni » teologiche o metafisiche di essi - in mito della scienza intesa come sapere assoluto. Sarà per l'appunto ques~a interpretazione dogmatica del positivismo ciò che susciterà contro di esso la giusta rivolta di tanti scienziati. È invero innegabile che l'entusiastica ammirazione di Taine, e di molti altri positivisti della sua generazione, per il sapere scientifico non poteva non apparire - a chi era realmente impegnato nella ricerca matematica, fisica, ecc. - più come un atto di fede, una declamazione romantica, che non come il risultato di un'attenta analisi razionale; valgano a provarlo le seguenti parole: «L'oggetto finale della scienza è questa legge suprema; e colui che, d'un balzo, potesse trasportarsi nel seno di
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essa, vi vedrebbe discendere, come da una sorgente, lungo canali distinti e ramificati, il torrente eterno degli eventi e il mare infinito delle cose. » Alquanto diversa, e più complessa, è la posizione sostenuta dal nostro autore nella terza delle opere citate. Quanto alla seconda, Philosophie de l'art, basti ricordare che essa delinea i tratti più caratteristici dell'estetica positivistica: l'opera d'arte è il prodotto delle circostanze che la condizionano; è in queste pertanto, e non nell'attività creatrice dell'artista, che vanno cercate sia le leggi che regolano le forme generali dell'immaginazione umana, sia quelle che determinano le variazioni degli stili e le differenze fra l'arte di un popolo e l'arte di un altro. L'accennata maggior complessità dell'opera De l'intelligence, che suoi venire considerata il capolavoro di Taine, si rivela già dalla sua stessa impostazione, ove è manifesta l'influenza di Mill. L'autore si propone di ricostruire la vita della psiche a partire dai suoi elementi ultimi (le sensazioni) sulla base di leggi in tutto analoghe a quelle naturali, senza fare appello a forze metafisiche come l'intelligenza, la volontà, ecc., cioè alle « facoltà » postulate dalla vecchia psicologia filosofica. Il risultato cui tale ricostruzione lo conduce è che la psiche si riduce in realtà ad un flusso di sensazioni, le quali non possono venir considerate come qualcosa di soggettivo perché - esaminate sotto un altro aspetto - non sono altro che vibrazioni nervose. La presunta unità dell'io sarebbe soltanto un'armonia delle sensazioni, un effetto della loro mutua dipendenza. « Un flusso e un fascio di sensazioni e di impulsi, che, visti da un altro lato, sono pure un flusso e un fascio di vibrazioni nervose, ecco lo spirito. » Vale la pena elencare alcune difficoltà che Taine incontrava nella. dimostrazione della tesi testé riferita e accennare al tipico modo in cui egli ritiene di poterle superare: 1) come distinguere le allucinazioni dalle sensazioni? Il nostro autore ammette l'esistenza di una effettiva« lotta» fra esse, lotta che si conclude con un equilibrio nel quale consiste lo « stato di veglia razionale ». z) come si passa dalle sensazioni alla conoscenza delle qualità generali? Taine risponde che essa ha luogo con la « sostituzione dei segni alle percezioni »: i nomi, le idee generali, non sono altro che segni sorti per porre ordine a una « infinità di impressioni ». Un analogo processo sostit_utivo è ciò che produce la conoscenza di un oggetto individuale esterno come pure degli eventi futuri. 3) stando così le cose, che tipo di esistenza si potrà attribuire agli oggetti esterni? La risposta di Taine è qui analoga a quella di Mill: gli oggetti esterni non sono altro che possibilità permanenti di certi gruppi di sensazioni ovvero - il che in fondo è lo stesso - sono possibilità permanenti di serie di movimenti. 4) anche il problema tradizionale della verità, come corrispondenza tra eventi interni· ed eventi esterni, viene risolto sulla base della nozione poco fa riferita di sostituzione: « ogni sensazione normale corrisponde a qualche fatto esterno che 168
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essa trascrive con approssimazione più o meno grande e di cui è il sostituto interno.» Non è il caso di fermarci ad illustrare l'artificiosità della complessa costruzione di Taine, che tuttavia, malgrado l'intrinseca debolezza, esercitò una potente azione di stimolo sul sorgere delle ricerche psicologiche in Francia. Ciò che ci sembra opportuno porre in luce è il permanere in essa di parecchie tesi dell'antica metafisica, agevolmente individuabili malgrado la nuova formulazione in cui il nostro autore le presenta; tali per esempio: il parallelismo (di origine spinoziana) tra mondo fisico e psichico, l'appello a una tendenza mai rigorosamente analizzata per spiegare il fatto che un segno venga sostituito a un insieme di più percezioni, la concezione della natura come ordine cui l'uomo deve sottomettersi in ogf!i propria attività, ecc. Ma la carica metafisica di Taine, su cui hanno concordemente insistito tutti i suoi critici, emerge con particolare chiarezza· nella conclusione dell'opera in esame allorché, per rendere «scientificamente»' plausibile il ricorso alla categoria della possibilità come fondamento dell'esistenza reale, egli fa appello a una nota teoria matematica moderna, senza rendersi conto del carattere prettamente astratto delle entità da essa trattate: « I matematici ammettono oggi che la quantità reale è un caso della quantità immaginaria, caso particolare e singolare, in cui gli elementi della quantità immaginaria presentano certe condizioni che mancano neg~i altri casi. Non sarebbe lecito ammettere, in maniera analoga, che l'esistenza reale non è che un caso dell'esistenza possibile, caso particolare e singolare, in cui gli elementi dell'esistenza possibile presentano certe condizioni che mancano negli altri casi? Ciò posto, non si potrebbe passare alla ricerca di questi elementi e queste condizioni? Qui noi siamo alle soglie della metafisica. » Sebbene Taine si affretti a dire che ncin intende superarle, è chiaro che -col solo parlare nel modo testé accennato di «esistenza possibile» - egli si è già inoltrato entro il regno della disciplina tanto combattuta da Comte; e con ciò stesso ha dimostrato in modo definitivo l'aspetto illusorio del proprio positivismo. Malgrado il carattere incontestabilmente metafisica della conclv~ione testé accennata, è fuori dubbio- come già rilevammo- che gli scritti di'.Taine diedero un potentissimo contributo alla diffusione di un'atmosfera positivistica entro la cultura francese. A questo fine furono, forse, più determinanti le sue ricerche particolari (nel campo dell'arte, della storia e soprattutto della psicologia) che non le sue concezioni propriamente filosofiche. È certo, comunque, che queste finirono per esercitare un'influenza profondamente negativa sull'interpretazione corrente del positivismo, sicché molti videro in esso non tanto un indirizzo critico inteso a dimostrare l'inconsistenza della metafisica, quanto un semplice canone di prudenza che consigliava agli studiosi « seri » di preferirle altri, più sicuri, campi di indagine. Le conseguenze di questa interpretazione furono sostanzialmente due: per un lato l'abbandono dei problemi metafisici nelle mani di indirizzi filosofici com-
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pletamente diversi, per un altro lato il dirottamento di alcuni ricercatori di formazione positivistica verso un tipo di indagini più concrete di quelle metafisiche seppur sempre, in certo senso, filosofiche. Rinviando ai prossimi paragrafi l'esame degli indirizzi metafisici « antipositivistici » prosperati in piem~ clima positivistico, ci limiteremo qui a ricordare i principali settori di indagine sorti per influenza indiretta del positivismo: la psicologia, la sociologia, la storia delle scienze, l'antropologia. A proposito di quest'ultima, va ricordato il notevolissimo contributo che diede al suo sviluppo un valente studioso di indubbia formazione positivistica, Lucien Lévy-Bruhl (I857-I939), autore di una delle più pregevoli monografie su Comte: La philosophie d'A. Comte (La filosofia di A. Comte, I 900). Sollecitato, in parte, dagli stessi studi di Comte sullo sviluppo dell'umanità, in parte dall'esigenza di indagare la natura dell'uomo attraverso l'osservazione diretta dei fenomeni e non mediante considerazioni di mero carattere speculativo, egli si accinse allo studio dei popoli primitivi (dei loro costumi, delle loro religioni, delle loro concezioni sulla natura, ecc.) con un impegno veramente encomiabile. Se i risultati da lui ottenuti sull'argomento sono stati oggi di molto oltrepassati, le sue opere costituiscono, comunque, il punto di partenza di gran parte dell'antropologia moderna; di esse basti ricordare: Les fonctions menta/es dans les sociétés inférieures (Le funzioni mentali nelle società inferiori, I9Io), La mentalité primitive (La mentalità primitiva, I9zz), e Le surnaturel et la nature dans la mentalité primitive (Il sovrannaturale e la natura nella mentalità primitiva, I93 I). III · LO SPIRITUALISMO
Come sappiamo dal volume quarto lo spiritualismo francese è collegato, nei primi anni dell'Ottocento, al nome di Maine de Biran; nei decenni successivi Vietar Cousin tentò di assimilarne parecchi temi entro il proprio eclettismo. Verso la metà del secolo si assiste a un ritorno a concezioni schiettamente spiritualistiche, difese nella loro originaria purezza, che vengono considerate come il più valido baluardo della filosofia contro il rapido diffondersi della cultura empiristica e scientistica. Si giunge, da parte dei suoi più accesi sostenitori, ad affermare che esso rappresentò anche in passato l'unica autentica filosofia francese, mentre l'illuminismo fu un «pensiero di importazione», quasi un'onta di cui la Francia doveva trovare il modo di liberarsi al più presto e in forma definitiva. I rappresentanti più autorevoli di questa fase dello spiritualismo francese furono: Félix Ravaisson-Mollien (I8I3-I9oo), per qualche anno professore alla Sorbonne ove ebbe per discepolo Boutroux; Paul Janet (I823-99), egli pure professore alla Sorbonne; Jules Lachelier (I834-I9I8), professore dell'École Normale Supérieure; e lo svizzero Charles Secrétan (I 8 15-9 5), professore all'università di Losanna ma assai legato agli ambienti filosofici francesi.
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Le opere principali di Ravaisson sono: Essai sur la métapf?ysique d' Aristote (Saggio sulla metafisica di Aristotele, I837-46), De l'habitnde (L'abitudine, I838), Rapport sur la philosophie en France au XIX siècle (Rappòrto sulla filosofia in Francia nel XIX secolo, I868); quelle di Janet: Le matérialisme contemporain en Allemagne (Il materialismo contemporaneo in Germania, I864), Les causes fina/es (Le cause finali, I 877), Principes de psychologie et de métapf?ysique (Principi di psicologia e di metafisica, 1897); quelle di Lachelier: Du fondement de l'induction (Il fondamento dell'induzione, I871), Psychologie et métapf?ysique (Psicologia e metafisica, I885); e infine quelle di Secrétan: L-a philosophie de Leibniz (La filosofia di Leibniz, I 840), La philosophie de la liberté (La filosofia della libertà, I 849), La raison et le christianisme (La ragione e il cristianesimo, I863), Le principe de la morale (Il principio della morale, I884). Come .risulta dal titolo stesso della sua prima opera poco sopra citata, le ricerche di Ravaisson presero inizio dallo studio di Aristotele; egli era infatti convinto che, per ricuperare la vera dimensione del pensiero filosofico, fosse proprio necessario ritornare a quella gloriosa metafisica che aveva costituito il bersaglio comune degli iniziatori della filosofia moderna. La necessità di un riesame approfondito del pensiero di Aristotele era del resto sentita in quegli anni anche da altri seri studiosi; basti citare il nome di Adolph Trendelenburg (I80272), professore all'università di Berlino, che intendeva rifarsi al grande filosofo greco in funzione apertamente antihegeliana. Uno dei punti del sistema aristotelico che suscitano la più viva approvazione di Ravaisson, è la concezione del movimento come trapasso dalla potenza all'atto; proprio questa concezione, infatti, ci permette - secondo lui - di cogliere il moto ascensionale della natura, il suo tendere verso la perfezione. Veniamo così a scoprire che l 'universo può venire compreso solo facendo riferimento al principio divino che lo pervade (non alle cause meccaniche, come pretenderebbe la scienza moderna), e che in sostanza tutto il mondo è attività spirituale. . I temi fondamentali dello spiritualismo che il nostro autore elabora a partire dalle argomentazioni testé accennate sono: la materia non è che la degradazione dello spirito e la causalità meccanica non è che la degradazione della libera attività; l'abitudine (a cui, come sappiamo, è dedicato uno degli scritti principali di Ravaisson) costituisce un esempio di termine medio fra natura e spirito, in quanto ci dimostra come l'attività psichica possa degradare in qualcosa di inconsapevole e automatico; la forza organizzatrice dell'universo è un principio di libertà assoluta, di perfezione e di moralità. Il vero compito del filosofo sarà pertanto di farci cogliere tale principio nell'armonia dell'universo e nella struttura intima del nostro animo. Il risultato cui dovremo pervenire sarà la costruzione di una filosofia «eroica», « aristocratica »: la filosofia della nuova era, assolutamente inconciliabile con le « filosofie plebee» dei secoli precedenti, cioè con l 'illuminismo, l'empirismo, il positivismo. · La superiorità della nuova concezione rispetto alle precedenti dipenderebbe dal
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fatto che essa non si fonda più sul mero esame dell'esperienza esterna, ma su qualcosa di ben più profondo, cioè sull'analisi dell'esperienza interna o « esperienza di coscienza » (dove è evidente il richiamo a Pascal, cui Ravaisson dedicò un interessante saggio, pubblicato nel 1887). Una volta delineato il pensiero di Ravaisson, che fu senza dubbio il più originale degli autori poco sopra menzionati, potremo !imitarci - per gli altri ad alcuni brevissimi cenni. Janet fu soprattutto noto per le sue aspre polemiche nei confronti del materialismo, a cui contrappose una visione spiritualistica della natura, giungendo a sostenere che il principio esplicatore dei fenomeni naturali come di quelli umani può venire cercato soltanto in dio. Anche Lachelier attribuì molta importanza al problema della natura, affermando che il meccanicismo ne coglie unicamente l'apparenza esterna: il suo ordine autentico è, infatti, quello finalistico, onde il vero fondamento dell'induzione va esso pure cercato nella convergenza di tutti i fenomeni verso un fine. Il principio dell'universo è spirituale, e lo spirito è non solo volontà ma intelletto. Il compito essenziale della filosofia è quello di riportare tutta la realtà al pensiero e di attuare l'unione della nostra anima con dio. Per Secrétan il problema centrale non è più quello della natura, ma quello della libertà. Si tratta di comprendere in che cosa essa consista e di distinguere con chiarezza la libertà umana da quella divina. Solo questa è assoluta (essa si manifestò ad esempio nel «miracolo» della creazione); quella invece è limitata dalle condizioni in cui l'uomo si trova (essa si manifestò nella ribellione di Adamo e, successivamente, nel processo della redenzione). Merita di venire ricordato che Secrétan (come del resto anche Ravaisson) seguì per un certo tempo le lezioni di Schelling a Monaco; è un fatto assai significativo che può chiarirci il tipico orientamento assunto dall'indirizzo di cui ci stiamo occupando, tanto più se teniamo conto che il filosofo tedesco era pervenuto in quegli anni alla fase mistico-mitologica del suo pensiero. Per quanto. Secrétan abbia sostenuto che la propria filosofia era « essenzialmente una confutazione di Schelling » (ciò che il nostro autore gli rimprovera è in prhno luogo di non aver compreso l'assoluta libertà di dio), non v'ha dubbio che egli ne subì profondamente l'influenza. È un'influenza che incise in misura notevole non solo sullo sviluppo delle concezioni di Secrétan, ma anche su quello di parecchi autori a lui vicini. I caratteri di questo tipo di spiritualismo sono così evidenti, che non vale la pena soffermarci ulteriormente su di essi (trattasi di limiti che purtroppo peseranno a lungo sul pensiero filosofico francese). Ci sembra invece opportuno prendere in rapido esame la figura di un altro studioso che può in un certo senso venire considerato spiritualista, pur non collegandosi direttamente all'indirizzo finora trattato. Intendiamo riferirei a Augustin Cournot ( 1 802-77), cui si è già fatto cenno
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nel capitolo vm del volume precedente per i suoi studi sull'applicabilità del calcolo delle probabilità ai fenomeni di massa. Prescindendo dai numerosi lavori che scrisse su argomenti di matematica pura e di economia matematica, basti qui riferire il titolo di alcuni suoi volumi di carattere prevalentemente filosofico: Essai sur /es fondements de nos connaissances et sur /es caractères de la critique philosophique (Saggio sui fondamenti delle nostre conoscenze e sui caratteri della critica filosofica, 18 51), Traité de l' enchatnement des idées fondamenta/es dans /es sciences et dans l' histoire (Trattato della connessione delle idee fondamentali nelle scienze e nella storia, t86t), Matérialisme, vitalisme, ratio'nalisme; études sur l' emploi des données de la science en philosophie (Materialismo, vitalismo, razionalismo; studi sull'uso dei dati della scienza in filosofia, 1875). Anche Cournot, come tutti gli altri spiritualisti dell'epoca, elabora le proprie concezioni filosofiche ispirandosi in primo luogo a Leibniz.' Da lui attinge infatti l'idea che ritiene di dover collocare al centro delle proprie riflessioni sul sapere scientifico: l'idea cioè dell'esistenza di una netta distinzione fra «ordine logico» che regola il mondo delle espressioni (cioè il linguaggio), e «ordine razionale » che adegua la profonda natura delle cose. La ragione umana può, mediante la matematica (irriducibile, secondo il nostro autore, a mera logica), elevarsi a cogliere quest'ordine profondo delle cose; ma ciò non significa ancora che possa prevedere integralmente il succedersi dei fenomeni fisici (come pretenderebbe il determinista). Questi infatti contengono in sé qualcosa di contingente dovuto all'intrecciarsi, nella produzione di un singolo evento, di più cause concorrenti. Interviene allora il calcolo delle probabilità che opera una specie di mediazione fra i dati teorici e quelli fattuali. Fino a questo. punto la filosofia di Cournot non presenta ancora i caratteri dello spiritualismo; si limita ad essere una filosofia antideterminista, che il nostro autore ritiene di poter ricavare direttamente dalle proprie ricerche intorno al calcolo delle probabilità e alle sue applicazioni. Le cose mutano però non appena egli introduce, sotto l'influenza di Bichat e di altri biologi, una concezione vitalistica nel proprio primitivo razionalismo. Ciò che lo conduce a questa svolta è la riflessione sui fenomeni biologici, e poi su quelli psicologici, sociali e storici. Essi ci porterebbero di fronte a un ordine non completamente accessibile alla ragione, ma di cui questa può cionondimeno cogliere la natura (Cournot lo chiama « transrazionale »). È proprio la scoperta di tale ordine che fornisce al nostro autore le armi per combattere il materialismo e contrapporgli una visione spiritualistica dell'universo. Di importanza decisiva sono, a questo riguardo, le riflessioni di Coumot sulla storia che si intrecciano con le sue riflessioni sul cristianesimo, ove risultano ben evidenti i richiami a Pascal: « Più le nostre conoscenze scientifiche si ampliano, più l'uomo ha motivi per considerarsi come un atomo sperduto nell'immensità del creato e nell'immensità del tempo.» Come spiega Jean De La Harpe: «Quando si passa sul terreno della storia, dove la religione finisce per confondersi con il 173
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cristianesimo, vediamo emergere a poco a poco in lui (Cournot) il credente: la profondità delle sue vedute implica necessariamente una meditazione prolungata sopra delle cose vissute. Egli parla delle armonie funzionali cui il cristianesimo deve il proprio trionfo, armonie fra l'ambiente e la dottrina che le altre religioni non presentano; il suo immenso successo proviene dal fatto che, paragonato alle altre religioni, il cristianesimo non comporterebbe "che dei principi compatibili con i progressi ulteriori della civilizzazione ''. » Questa convergenza tra vitalismo, spiritualismo ed esaltazione della superiorità del cristianesimo su ogni altra religione, costituisce una dei tratti più significativi del pensiero filosofico di Cournot e di parecchi altri scienziati francesi a lui contemporanei. È una realtà che occorre tenere presente, quando si vuole davvero comprendere, in tutti i suoi aspetti, la cultura diffusasi in Francia nell'epoca di cui ci stiamo occupando. Allorché si parla della fortuna dello spiritualismo in tale paese, non ci si può limitare a prendere in considerazione i soli ambienti filosofici o letterari. E quando si lanciano facili accuse di dogmatismo agli scienziati positivisti, bisogna tenere conto del tipo di filosofia sempre più dogmatica che veniva ad essi contrapposta dagli scienziati cattolici. IV · RENOUVIER E BOUTROUX
Mentre sia il positivismo che lo spiritualismo rappresentarono due indirizzi forniti entrambi di una propria coerenza interna, non altrettanto può dirsi dei vari tentativi che pretesero conciliare in forma più o meno ambigua le istanze avanzate da questo e da quello; tale per esempio il tentativo di Alfred Fouillée (I 8 38- I 9 I z ), che ritenne di poter interpretare tutti i fenomeni, tanto fisici quanto psichici, con l'equivoco concetto di idea-forza; o quello del poeta filosofo JeanMarie Guyau (I854-88), che si illuse di trovare nell'ideale sociologico dell'umanità la spiegazione della morale, dell'arte e del sentimento religioso. Le loro dottrine, basate unicamente su compromessi, non conservano più, oggi, alcun interesse. Notevolmente diversa ci sembra invece l'importanza dei due autori cui è dedicato il presente paragrafo. Malgrado la debolezza teorica delle loro concezioni, essi ebbero un peso effettivo e duraturo nel successivo sviluppo del pensiero francese, soprattutto per quanto riguarda il problema dei rapporti tra pensiero filosofico e pensiero scientifico. La loro stessa posizione nei confronti del positivismo, da cui presero le mosse sia pure per combatterlo accanitamente, può essere molto istruttiva per farci valutare con esattezza il significato che ebbe - nella Francia della seconda metà dell'Ottocento - l'eredità della filosofia comtiana. Charles Renouvier (I 8 I 5- I 90 3) fu uno dei più rinomati maestri della filosofia francese della sua epoca; decisamente laico eppure non positivista (sebbene fosse I74
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stato nella giovinezza in contatto personale con Comte) egli rappresenta bene il tipo di cultura gradita a quella parte della borghesia che vuole mostrarsi aperta sia verso la scienza sia verso il pensiero metafisica, sensibile alle nuove istanze dello spiritualismo e nel contempo capace di conservare la migliore eredità dei philosophes settecenteschi (in ispecie per ciò che riguarda le loro critiche all'aspetto superstizioso delle religioni tradizionali). Tra le sue molte opere ci limiteremo a ricordare le seguenti: Essais de critique générale (Saggi di critica generale, 4 voli., (I 8 54-64), La science de la morale (La scienza della morale, I 869), Uchronie (Ucronia, I 876), Esquis-
se d'une classiftcation systématique des doctrines philosophiques (Abbozzo di una classificazione sistematica delle dottrine filosofiche, I 88 5-86), La nouvelle monadologie (La nuova monadologia, I899), Les dilemmes de la métaphysique (l dilemmi delle metafisica, I9o3). Renouvier si propone di tenere simultaneamente conto vuoi di alcune istanze del positivismo vuoi delle più profonde esigenze della filosofia kantiana. Del positivismo égli accoglie la riduzione della conoscenza a ricerca delle leggi che regolano i fatti: il « fatto » dei positivisti viene però da lui inteso come fenomeno, ossia come pura rappresentazione, oltre cui non esiste alcuna realtà (ciò che implica il ripudio completo della dottrina kantiana della« cosa in sé»). I fenomeni avrebbero due aspetti, uno oggettivo, che costituisce il mondo naturale, e uno soggettivo, che costituisce l'io. Del kantismo egli accoglie la concezione secondo cui i fenomeni non sussistono isolatamente l'uno dall'altro, ma sono sempre in relazione reciproca, onde non è possibile comprendere un fenomeno se non considerandolo in funzione di altri. Le leggi di natura scoperte dalle scienze sarebbero, . per l'appunto, esempi di queste relazioni; le categorie costituirebbero i modi più generali di riferire un fenomeno agli altri. Ciò che Renouvier respinge con decisione è che il riferimento ad altro si estenda all'infinito; l'infinito attuale è infatti per lui un concetto contraddittorio (si noti che egli sostiene questa tesi proprio nei medesimi anni in cui Georg Cantar elabora la famosa teoria degli insiemi infiniti che si rivelerà in breve tempo la base della matematica moderna!). Di qui la negazione della divisibilità all'infinito dello spazio e del tempo, la negazione della continuità del moto e, in ultima istanza, del determinismo meccanicistico. L'affermazione che tra i fenomeni vi è un'insuperabile discontinuità lo porta a sostenere che ogni fenomeno sarebbe un « cominciamento assoluto », e quindi in certo senso libero come le azioni umane. La conclusione di tutte queste argomentazioni è la pretesa risoluzione dell'antinomia kantiana fra mondo naturale della necessità e mondo morale della libertà. I due mondi vep.gono ad identificarsi; la causa fisica perde il suo carattere necessitante e la libertà si presenta essa stessa come una forma di causalità: « Gli atti liberi non sono effetti senza causa; la loro causa è l'uomo, nell'insieme e nella pienezza· delle sue funzioni.» È facile comprendere che in questo quadro la « personalità » come libera coscienza diventa il tema centrale della filosofia di Renouvier; non senza motivo i
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concetti di personalità e di finalità sono da lui aggiunti alle dieci categorie kantiane. Il suo kantismo si trasforma così in uno spiritualismo, di marca leibniziana, e il nostro autore può parlare di nuova monadologia. Per verità egli si rende conto che l'aver provato - come ritiene di essere riuscito a fare - che i rapporti dei fenomeni sono contingenti non significa ancora aver dimostrato che essi sono liberi; significa però aver dimostrato che possono esserlo. A questo punto interverrà la ragione pratica a integrare le argomentazioni teoretiche. Come spiega assai bene Piero Martinetti, la soluzione del problema « deve essere chiesta » - secondo Renouvier - « alla ragion pratica: la ragion pratica deve porre il proprio fondamento e con esso quello della ragione in genere perché la ragione è l'uomo e l'uomo è uomo pratico ... L'esistenza della ragione pratica e della morale è una contraddizione nel sistema della necessità: se la morale è vera, la necessità che la fa essere è in contraddizione con se stessa. Ed anche la scienza non è meglio garantita che la morale: l'errore è necessario quanto la verità, il falso è vero come necessario: tutto è legittimo alla sua ora e al suo posto ... Il puro intelletto, indifferente, impassibile sarebbe per sé condannato allo scetticismo: è la volontà che intervenendo nel giudizio decide sulla scelta de'Ile verità liberamente accettate. La verità non ci è straniera, non si impone a noi: noi la possediamo solo quando la dobbiamo a noi stessi. Quindi se noi affermiamo la libertà, non è perché si imponga all'intelligenza, perché la vediamo o la dimostriamo: noi la scegliamo perché vogliamo la moralità e la scienza ». La debolezza di questo volontarismo spiritualistico è evidente; esso poteva piacere alla borghesia francese dell'epoca solo perché le offriva una facile conciliazione tra libertà, scienza e moralità. Ma era una conciliazione illusoria, verbalistica, che traeva la propria capacità di risolvere i problemi solo dalla genericità e astrattezza con cui li formulava. Ne è una riprova il dualismo radicale che Renouvier scorge fra la morale e la storia, da cui deriva il suo accanito antihegelismo e irt generale il suo antistoricismo. Esso culmina nell'opera Ucronia, ove l'autore giunge all'assurdo di voler analizzare, con ricchezza di particolari, la « storia possibile » degli europei, descrivendo ciò che essi avrebbero potuto realizzare se avessero creduto nella libertà invece di lasciarsi dominare dagli odi e dagli egoismi. La filosofia antipositivistica rivela qui il suo più autentico carattere: di evasione dalla realtà, di elegante strumento per distrarre gli uomini dai loro veri e concreti problemi teoretici e pratici, per cullarli nella fantasia illudendoli che il mondo sia il regno della libertà. Émile Boutroux (I 84 5- I 92 I), fu discepolo di Ravaisson e ne seguì l'indirizzo spiritualistico. La novità della sua posizione rispetto a quella del maestro è soprattutto costituita dal tentativo di pervenire allo spiritualismo attraverso la critica del positivismo e, in particolare, attraverso l'analisi delle difficoltà che sarebbero riscontrabili nella scienza moderna.
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Fu professore alle università di Montpellier e di Nancy, poi (dal 1877) all'École normale e alla Sorbonne; la sua tenace, e talvolta acuta, polemica contro il positivismo caratterizza assai bene l'atteggiamento di una notevole parte della filosofia ufficiale francese di fronte all'avanzata della scienza. È una reazione che in certo senso simboleggia la grave spaccatura (che perdurerà fino ai nostri giorni) della .cultura francese in due schieramenti contrapposti: umanistico-letterario e razionalistico-scientifico. Non senza motivo Giovanni Gentile la esalterà come « la prima forte riscossa contro lo spirito materialistico della scienza e della filosofia». Le opere principali di Boutroux sono: De la contingence des lois de la nature (Della contingenza delle leggi della natura, 1874), che non è altro se non la tesi di dottorato con cui il nostro autore si laureò alla Sorbonne, De l'idée de loi naturelle dans la science et la philosophie contemporaines (Dell'idea di legge naturale nella scienza e nella filosofia contemporanee, 1895) che riassume il nucleo delle lezioni tenute da Boutroux alla Sorbonne nel 1892-93, Questions de morale et d'éducation (Questioni di morale e di educazione, 1895), Études d'histoire de la philosophie (Studi di storia della filosofia, 1897-1908), La nature et l'esprit (La nattlra e lo spirito, 1904-05), Science et religion dans la philosophie contemporaine (Scienza e religione nella filosofia contemporanea, 1908), William James (1911). Il punto di partenza di Boutroux sembra molto simile a quello dei positivisti: egli condivide con essi l'idea che esista un ordine naturale per le scienze fondamentali e che il primo compito del filosofo sia di riflettere sulla struttura di tali scienze nonché sulle loro relazioni reciproche. Come ordine naturale accetta, in sostanza, la classificazione comtiana con qualche ritocco: alla matematica non attribuisce più il primo posto, ma il secondo, in quanto le antepone la logica; all'astronomia sostituisce la meccanica; e infine riconosce (come del resto tutti i positivisti della generazione successiva a Comte) una piena autonomia scientifica alla psicologia, collocandola fra la biologia e la sociologia. Le più profonde divergenze affiorano, invece, appena si consideri il modo come Boutroux affronta l'esame della classificazione anzidetta. Egli non si limita, come Comte, ad analizzare le differenze esistenti tra i metodi delle varie scienze, la diversa generalità e complessità delle loro leggi, le ragioni per cui una scienza « superiore » non si sviluppa fin quando quelle ad essa « inferiori » non abbiano raggiunto lo stadio positivo; vuole invece scoprire qualcosa di più: il significato profondo delle verità da esse scoperto, la radice ultima della specificità di una scienza rispetto all'altra. E la cerca, con una impostazione caratteristicamente metafisica del problema, in una diversità che esisterebbe in oijecto tra gli ordini stessi dei fenomeni studiati. In altri termini: ritiene che ciasc~na scienza ci riveli un ordine ben preciso dei fenomeni, cosicché alle varie scienze corrisponderanno altrettanti ordini irriducibili uno all'altro. Postula, anzi, alla base di tutti questi ordini l'esistenza di un 177 www.scribd.com/Baruhk
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puro essere «ancora indeterminato», cui succederanno un «essere logicamente determinato » e poi via via un ordine matematico, meccanico, fisico, ecc. Ognuno di questi ordini si presenterebbe, come abbiamo detto, irriducibile agli altri, e quindi conterrebbe qualcosa di nuovo, di« contingente» rispetto ad essi (di qui il nome di «contingentismo» solitamente attribuito alla filosofia di Boutroux). Per esempio, l'ordine rivelatoci dalle leggi meccaniche risulterebbe totalmente originale rispetto a quello colto dalle leggi matematiche, e quindi sarebbe « contingente » rispetto ad esse; altrettanto accadrebbe per quello fisico nei confro1;1ti dell'ordine meccanico, e cosi di seguito. È inutile sottolineare, tanto la cosa appare evidente, che la concezione ora delineata offriva una giustificazione filosofica alla crisi che proprio in quegli anni anni (cioè fra il187o e il19oo) veniva affiorando da varie parti entro il meccanicismo: se infatti ogni o:çdine si presenta come irriducibile ai precedenti, che fondamento può avere la pretesa di spiegare tutte le leggi scientifiche in termini meccanici? Boutroux commette il manifesto errore di identificare il meccanicismo con il positivismo (noi sappiamo infatti - e lo rilevammo a suo tempo - che la stessa concezione comtiana delle scienze, come ben distinte una dall'altra, contiene già un germe indiscutibilmente antimeccanicistico); ma, a parte questo errore, fa qualcosa di ben più grave: sposta il problema dal campo metodo logico (potremmo anzi dire: dal campo della filosofia della scienza) a quello ontologico. È una svolta che darà luogo ai più pericolosi equivoci. Non si vuol negare, con ciò, che lo stesso Boutroux abbia compiuto alcune analisi abbastanza sottili della struttura delle varie scienze (analisi, comunque, assai meno rigorose e circostanziate di quelle ad esempio, svolte pressoché nei medesimi anni, dal posi tivista Mach); si deve anzi dare atto che fu particolarmente per suo merito che lo spiritualismo francese della fine del secolo riconobbe - ben diversamente da quello dei decenni precedenti - il fondamentale interesse filosofico spettante agli studi di epistemologia, diretti a porre in chiaro il significato e la portata del sapere scientifico. Si tratta però di un solo aspetto del contingentismo, che non può farci dimenticare altri lati ben diversi di esso: in particolare non può farci dimenticare quanto contribuì a rafforzare in Francia le correnti irrazionalistiche e misticheggianti. Una volta ammessa l'esistenza di veri e propri salti fra un ordine e l'altro del mondo, Boutroux ne deduce - come già abbiamo detto - che i fenomeni di un ordine inferiore non possono costituire la causa dei fenomeni appartenenti a un ordine superiore. Ma non si ferma qui; sostiene invece che proprio tale vuoto di causalità porrebbe in evidenza qualcosa di più profondo che è in grado di colmarlo, cioè la presenza, nella stessa natura, di un principio di libertà inafferrabile alla più rigorosa conoscenza scientifica. Per difendere questa tesi, prettamente metafisica, il nostro autore si sofferma, in modo particolare, su due dei salti testé accennati: quello tra ordine biologico
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e ordine chimico-fisico, e quello tra ordine psicologico e ordine biologico. Con il primo Boutroux si inserisce apertamente nei dibattiti che - come vedremo in un prossimo capitolo - tornarono ad agitare la scienza biologica verso la fine dell'Ottocento, schierandosi apertamente dalla parte dei vitalisti, e cioè polemizzando in modo molto energico contro ogni tentativo di spiegare i fenomeni biologici con semplici leggi tratte dalla chimica e dalla fisica. Scrive per esempio: « Le leggi della fisiologia appaiono, in conclusione, irriducibili ... Negli stessi sistemi in cui sono più strettamente avvicinate alle leggi fisico-chimiche, esse rimangono distinte e originali ... Il determinismo fisiologico, considerato in se stesso, differisce dal determinismo fisico-chimico, come questo differiva dal determinismo puramente meccanico. È più stretto, perché regola fenomeni che le leggi fisico-chimiche lasciavano indeterminati. Ma si fonda su di una nozione di legge più complessa e più oscura ... Il determinismo, restringendosi, diviene più impenetrabile e più irriducibile alla necessità. » Con il secondo dei salti poco fa riferiti (tra ordine psicologico e ordine biologico) Boutroux sottolinea l'irriducibilità, che a suo parere sarebbe scientificamente innegabile, tra « coscienza umana » e vita animale. Il riconoscimento di questa irriducibilità gli consente, infine, di salire - senza più preoccupazioni di sorta - dallo studio delle scienze naturali a quello dell'individualità intrinsecamente libera dell'uomo, e di giustificare, sulla base dell'originalità dell'ordine spirituale, le più ardite tesi della filosofia spiritualistica. La via verso la metafisica è ormai aperta; è una via che riscuote il plauso entusiastico di quanti vogliono conciliare il nuovo con il vecchio. Essa farà sorgere nel nostro autore e nei suoi numerosi seguaci l'illusione di poter riuscire financo a salvare la validità della religione tradizionale, dimostrandone la compatibilità con i risultati più moderni della critica delle scienze. La religione infatti, purificata dalle superstizioni, troverebbe la propria sede naturale nella coscienza e consisterebbe nella considerazione di un nuovo aspetto dei fenomeni irraggiungibile dal simbolismo di qualsiasi scienza: del loro « significato morale », cioè, dei « sentimenti che essi suggeriscono », della « vita interiore che esprimono e suscitano ». Proprio la considerazione di questo nuovo aspetto dei fenomeni sarebbe in grado di portarci all'accettazione dell'esistenza di dio e al riconoscimento dell'altissima funzione compiuta dal cristianesimo. Attraverso una serie di passaggi che qui non possiamo analizzare, Boutroux concluderà infine la parabola del suo pensiero con una dichiarazione aperta di misticismo che lo accomuna a gran parte dei filosofi antipositivisti. È inutile ripetere che il successo del contingentismo fu enorme; ad esso fecero appello più o meno direttamente tutti coloro che intendevano opporsi al «determinismo» delle scienze per« salvare la libertà». Il successivo sviluppo delle ricerche epistemologiche ha tuttavia dimostrato che esso era privo, in realtà, di qualsiasi valore teoretico. Era infatti fondato su di un gravissimo equivoco me1
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tafisico: la sostanzializzazione delle differenze di metodo fra scienza e scienza, di fatto constatabili a un certo livello dello sviluppo del pensiero, e quindi la loro trasformazione in differenze assolute, di carattere metafisica. Vedremo, nel seguito della nostra trattazione, che l'indeterminismo ha trovato molti difensori nella fisica più recente; ma nessuno di essi ha potuto ricollegarsi, nemmeno indirettamente, alle fragili argomentazioni del fondatore del contigentismo. V · L'EPISTEMOLOGIA. POINCARÉ
Come abbiamo riferito nei paragrafi III e IV, la polemica contro il meccanicismo fu assai vivace in Francia durante il periodo di cui ci stiamo occupando: basti pensare a Lachelier che accusava tale indirizzo di fermarsi all'aspetto esterno della natura senza riuscire a penetrarne l'autentico ordine essenzialmente finalistico; o a Boutroux il quale sosteneva l'esistenza di una vera e propria discontinuità fra un ordine di fenomeni e l'altro. Tenuto conto di ciò, e tenuto conto delle critiche alla meccanica« classica» che all'incirca nei medesimi anni cominciavano ad affiorare in vaste schiere di fisici (ne discutemmo a lungo nei capitoli x, XI e xn del volume quinto), taluni storici della filosofia hanno ritenuto di poter parlare di un unico movimento di « rivolta » contro il meccanicismo e, tramite questo, contro il positivismo, che avrebbe coinvolto tanto la migliore filosofia quanto la migliore scienza dell'epoca. Noi riteniamo invece che questa sommaria unificazione nasconda un grosso equivoco; troppo diverse ci sembrano infatti - per poter venire assimilate fra loro - le argomentazioni addotte contro il meccanicismo dai filosofi di ispirazione spiritualistica testé menzionati e quelle dei fisici come Mach, il cui fine non era certo di buttare a mare la scienza galileiano-newtoniana, ma, al contrario, di correggerne alcuni gravi difetti che ne frenavano lo sviluppo. Le prime erano argomentazioni dirette, in ultima istanza, contro tutta la razionalità .scientifica ed avevano quindi un manifesto carattere antipositivistico; le seconde invece erano rivolte contro le ipotesi metafisiche tacitamente accolte dai fisici « classici » e perciò costituivano, a ben guardare, un intelligente proseguimento del programma originario di Comte. Quanto ora detto non esclude che vi siano state effettive convergenze fra l'indirizzo spiritualista e la corrente che potremmo chiamare «degli epistemologi». Furono però convergenze in certo senso estrinseche, dovute per un lato al desiderio (cui già si fece cenno) di alcuni continuatori o innovatori dello spiritualismo, di rivelarsi aggiornati sulle più moderne ricerche critiche intorno alla scienza e, anzi, capaci di utilizzarle per una originale difesa della loro - in realtà assai vecchia - filosofia, per un altro lato all'orientamento personale di alcuni . epistemologi (come il cattolico Duhem), ansiosi di stabilire un qualche rapporto 180
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fra le proprie sottili indagini intorno alla struttura della scienza e la fede religiosa da essi sinceramente condivisa e appassionatamente difesa. I più noti epistemologi francesi della fine dell'Ottocento e dei primi anni del Novecento furono: il matematico Henri Poincaré (1854-1912.), uno dei massimi scienziati europei dell'epoca, che abbiamo già più volte ricordato nei capitoli precedenti; il matematico Gaston Milhaud (I858-I9I8), e il fisico Pierre Duhem (I86I-I9I6), testé menzionato, cui si era già fatto cenno alla fine del capitolo xr del volume precedente quale uno dei più accesi sostenitori dell'energetica. Milhaud e Duhem furono soprattutto celebri come storici della scienza: del primo ci limitiamo a ricordare gli Études sur la pensée scientifique (Studi sul pensiero scientifico, I9o6) che trattano sia problemi dell'antica Grecia sia problemi dell'epoca moderna; del secondo: Les sources des théories physiques. Les origines de la statique (Le sorgenti delle teorie fisiche. Le origini della statica, in due volumi, 1905-o6), Études
sur Léonard de Vinci: ceux qu'il a lu, ceux qui l'ont lu (Studi su Leonardo da Vinci: quelli che egli ha letto, quelli che l'hanno letto, in tre volumi, I 9o6-o9-I 3), Le système du monde. Histoire des doctrines cosmologiques de Platon à Copernic (Il sistema del mondo. Storia delle dottrine cosmologiche da Platone a Copernico, in cinque volumi I9I3-I7; un sesto volume uscirà, vari anni dopo la morte dell'autore, nel I954)· Come epistemologo, Milhaud sostenne che la dimostrazione logica non può ricavare nulla di nuovo dai principi convenzionalmente accolti; la vera conoscenza trae origine unicamente dall'osservazione empirica e, in quanto tale, si basa non sulla dimostrazione ma su una specie di evidenza intuitiva (o « certezza razionale ») : perciò il progresso scientifico è soprattutto dovuto alla libera inventività del ricercatore. Anche Duhem riconobbe un grande valore a questa libera inventività, ma in un senso alquanto diverso e più articolato. Nella sua celebre opera La théorie physique (La teoria fisica, I9o6) egli si fece infatti banditore di una concezione ipotetico-convenzionalistica delle teorie scientifiche, manifestamente ispirata a Mach: « La teoria fisica, » scrive, « è una costruzione simbolica dello spirito umano, destinata a dare una sintesi, quanto più possibile completa, semplice e logica, delle leggi scoperte dall'esperienza»; perciò essa può risultare soltanto« buona» o « cattiva », non vera o falsa (e proprio per questo non può entrare in conflitto con la metafisica, che è invece rivolta alla conoscenza dell'essere dell'universo). È interessante notare la funzione determinante che egli attribuisce, nell'elaborazione delle teorie fisiche, allo sviluppo storico da esse subito in passato: sarebbe proprio questo sviluppo a condurre il ricercatore in un dato momento della storia, a optare per una certa ipotesi a preferenza di altre, togliendo cosi alla sua scelta il carattere di arbitrarietà che essa avrebbe, se esaminata in via puramente astratta. Se ne conclude - sempre secondo Duhem - che lo studio della storia della scienza deve far parte integrante della stessa ricerca scientifica, quando naturalmente venga inteso come riflessione critica sulle grandi costruzioni del pasI8I www.scribd.com/Baruhk
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sato, sulle ipotesi via via accolte, sui motivi in base a cui queste ipotesi vennero col tempo abbandonate. Tale studio avrebbe inoltre l'incomparabile merito di farci comprendere la funzione esatta della scienza nello sviluppo globale della conoscenza umana: « È il mezzo migliore per dare, a quelli che studiano la fisica, un'idea giusta e una visione chiara dell'organizzazione così complessa e così viva di questa scienza. » Per quanto significative possano apparirci le ricerche storico-critiche di Milhaud e di Duhem, è tuttavia nostro parere che assai maggiore sia l'importanza spettante alle concezioni di filosofia della scienza ideate da Poincaré, e ciò tanto per il loro intrinseco valore, quanto per i loro stessi limiti (che eserciteranno un peso notevole sopra il successivo sviluppo delle indagini epistemologiche in Francia). Riteniamo quindi doveroso soffermarci alquanto più diffusamente su di esse, valendoci all'uopo delle tre opere fondamentali in cui risultano esposte: La science et 1'0'pothèse (La scienza e l'ipotesi, 1902), La valeur de la science (Il valore della scienza, 1904), Science et méthode (Scienza e metodo, 19o8). Questo esame ci sembra tanto più necessario, in quanto sul pensiero filosofico di Poincaré si sono da tempo creati grossi equivoci, come risulta dalla stessa denominazione (di « convenzionalismo») con cui tale pensiero suole venire indicato. La sottile e precisa analisi della struttura delle scienze, compiuta dal grande matematico, lo conduce alla conclusione che tale struttura presenta caratteri nettamente distinti per l'aritmetica, la geometria e la fisica. L'aritmetica ha senza dubbio - come tutti riconoscono - la struttura di sistema rigorosamente deduttivo, ma i fondamenti sui quali essa si regge non posseggono, secondo il nostro autore, né un carattere puramente logico né un carattere puramente convenzionale. Il più importante assioma di questa scienza cioè il cosiddetto « assioma di induzione completa » o « regola del ragionamento per ricorrenza » - non ha infatti un carattere puramente logico, essendo irriducibile al principio di non contraddizione in quanto « contiene, condensati per così dire in un'unica formula, un'infinità di sillogismi »; e, d'altra p~rte, non ha neppure un carattere meramente convenzionale, non potendo venire sostitùito (come accade per qualsiasi convenzione) da assiomi diversi da esso. Né infine sarebbe possibile ricavarlo dall'esperienza, poiché riguarda un'infinità di elementi (cioè la serie illimitata dei numeri naturali), infinità che sfugge per principio ad ogni osservazione. Poincaré ne conclude che l'assioma in questione è l'unico principio scientifico che possa « insegnarci qualcosa di nuovo », qualcosa cioè che non proviene dall'esperienza e che ciomalgrado arricchisce in modo effettivo la nostra conoscenza (non limitandosi a esplicitare nozioni già da noi possedute, come fanno le argomentazioni puramente logiche). Esso soddisfa dunque alle condizioni enunciate da Kant perché una scienza risulti autenticamente tale: « È il vero tipo di giudizio sintetico a priori. » Anche se il nostro autore non discute a fondo i suoi rapporti con il criti182
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cismo kantiano, basta quanto ora detto par farci escludere che egli possa venire catalogato come « convenzionalista». Completamente diversa è - sempre secondo Poincaré - la situazione della geometria. Anche questa ha senza dubbio, come l'aritmetica, una struttura eminentemente deduttiva; possiede però un carattere del tutto nuovo, in quanto nessuno dei suoi assiomi è dotato di quella intrinseca necessità che riscontrammo nel principio di induzione. In altre parole: tali assiomi sono mere convenzioni (a proposito della geometria potremo dunque dire che la posizione sostenuta dal nostro autore è certamente e apertamente convenzionalistica). Poincaré non ha difficoltà ad ammettere che queste convenzioni siano suggerite dall'esperienza; aggiunge subito, però, che si tratta di un suggerimento soltanto indiretto, in quanto la geometria non pretende affatto di parlare intorno ai corpi naturali, limitandosi a studiare le proprietà di « certi solidi ideali, assolutamente invarianti » che sono immagini estremamente semplificate dei solidi di fatto percepiti dai nostri sensi. Malgrado la tenuità del rapporto esistente fra i solidi geometrici e quelli naturali, esso sarebbe tuttavia sufficiente a far sì che la geometria risulti utilizzabile nella descrizione dell'esperienza, ove si stabilisca (e qui di nuovo interviene un atto convenzionale) di ragionare sui corpi naturali «come se fossero situati nello spazio geometrico ». Il carattere indiretto del suggerimento testé accennato escluderebbe, comunque, che l'esperienza possa mai entrare in contraddizione con i postulati in esame, onde l'inutilità di rivolgersi ad essa per trovare argomenti pro o contro l'accettazione del famoso postulato euclideo delle parallele. Il posto di favore che noi siamo soliti attribuire alla geometria di Euclide non dipende dal fatto che essa sia «vera» (mentre le altre sarebbero «false»), ma solo dal fatto che è «la più semplice» e perciò «la più comoda» fra tutte le geometrie possibili. Ancora maggiore è la differenza che il nostro autore ritiene di scorgere fra le due scienze anzidette e la fisica. Questa possiede, secondo lui, un legame incontrovertibile con l'esperienza, poiché contiene leggi direttamente ricavate dai fatti e proprio perciò sempre soggette a revisione (potendo i fatti venire osservati con strumenti via via più precisi). L'esperienza però non ci impone il linguaggio in cui esprimere tali fatti: questo sarà creato da noi e, per risultare sufficientemente ricco e preciso, non potrà essere altro che il linguaggio matematico: «Tutte le leggi sono ricavate dai fatti; ma per enunciarli è necessaria una lingua speciale; il linguaggio ordinario è troppo povero, e d'altra parte troppo vago, per esprimere dei rapporti così delicati, così ricchi e precisi... le matematiche ci forniscono il solo linguaggio che il fisico possa parlare. » La fisica che Poincaré analizza è dunque essenzialmente una fisica-matematica. Le teorie in cui essa si articola faranno capo, dal punto di vista logico, a principi generalissimi che possono venire formulati soltanto sulla base di analogie; ed è, ancora una volta, esclusivamente la matematica che, secondo il nostro autore,
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può guidarci a cogliere le analogie« autentiche, profonde» esistenti fra i fenomeni. Proprio per questa loro origine i principi in questione non potranno mai venire contraddetti direttamente dall'esperienza; potrà accadere tuttavia che ci troviamo costretti ad abbandonarli o a modifica:rli :radicalmente, se l'esperienza ci mostrerà che hanno cessato di essere fecondi. È manifesto, in questa concezione, il tentativo di Poinca:ré di :riuscire a conciliare due aspetti antitetici, secondo lui, simultaneamente presenti nella fisica: uno soggettivo e convenzionale, l'altro oggettivo di origine empirica. Ma il suo tentativo non si limita qui; esso investe la stessa nozione di «fatto». Significativa è, a questo proposito, la posizione che egli assume di fronte alla distinzione- proposta dall'epistemologo be:rgsoniano Edoua:rd Le Roytra «fatto bruto» e «fatto scientifico», il primo dei quali sarebbe dato dall'esperienza, mentre il secondo sarebbe creato dallo scienziato. Poinca:ré non ha difficoltà a :riconoscere la differenza fra i due, ma non ammette che fra essi esista una frontiera « esatta e precisa » come afferma Le Roy e che il fatto bruto « non essendo scientifico, sia al di fuori della scienza». In :realtà il fatto scientifico non è che il fatto bruto «tradotto in un altro linguaggio», più comodo e più esatto; non si può pertanto sostenere che esso sia « creato » dallo scienziato: tutto ciò che questi crea è esclusivamente « il linguaggio in cui lo enuncia». Qui la distinzione tra esperienza e linguaggio è ancora una volta utilizzata dal nostro autore per conciliare l'oggettività e la soggettività della scienza. Sarebbe certo possibile sollevare molte obiezioni contro questo tipo di conciliazione; non si può comunque negare che essa :riveli un'esigenza molto seria: esigenza profondamente sentita da Poinca:ré come da tutti gli scienziati militanti della sua epoca, che per un lato erano ben consapevoli di non poter più mantenere in vita la vecchia interpretazione dogmatica delle teorie scientifiche come rispecchiamento fedele della :realtà, per un altro lato si :rendevano chiaramente conto del pericolo di giungere- attraverso questo abbandono- ad un'interpretazione me:ramente soggettivistica dell'intera scienza. Taluni storici hanno creduto di poter :rilevare una certa differenza di impostazione tra la prima delle tre opere epistemologiche poco sopra citate di Poinca:ré (La scienza e l'ipotesi) e le due successive: più orientata in senso convenzionalistico la prima, e più preoccupate le altre di salvare l'oggettività del sapere scientifico. A nostro parere questa differenza in :realtà non sussiste, come sarebbe facile dimostrare riferendo le numerose dichiarazioni, contenute nel volume del 1902., contro ogni tentativo di confondere la convenzionalità e l'arbitrarietà, o di sfruttare lo spirito critico acquisito dall'epistemologia moderna per sostenere la tesi del « fallimento della scienza ». V ero è, invece, che lo stile :risulta alquanto mutato (in ispecie nell'opera Il valore della scienza) per un motivo personale ben comprensibile: perché Poincaré ha dovuto constatare, con vivo disappunto, che molte argomentazioni da lui svolte nel volume precedente erano state utilizzate dagli
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spiritualisti ad uno scopo pressoché antitetico a quello che le llVeva ispirate. La polemica contro il bergsoniano Le Roy già poco sopra ricordato è, non solo molto significativa da questo punto di vista, ma profondamente illuminante su tutto il pensiero di Poincaré. Da essa risulta infatti evidente che il grande matematico si rende ben conto del vero fine a cui l'avversario vuol giungere: la lotta contro l'intellettualismo e, di conseguenza, la svalutazione di tutta la scienza. « Se egli (Le Roy) considera l'intelletto come irrimediabilmente impotente, non è che per concedere il più largo spazio ad altre sorgenti del conoscere, al cuore, per esempio, al sentimento, all'istinto o alla fede.» È una tesi su cui lo scienziato Poincaré non può assolutamente trovarsi d'accordo; essa comporterebbe la negazione di tutte le conquiste più belle dell'umanità, di ciò che, solo, rende la vita umana degna di essere vissuta; e rinchiuderebbe il processo conoscitivo nell'animo del singolo, escludendo da esso quella collaborazione fra individui diversi, che costituisce un fattore essenziale del lavoro scientifico, e che anzi, è la condizione sine qua non del progresso del sapere. « Il fatto è che la filosofia antiintellettualistica, rifiutando l'analisi e il " discorso ", si condanna per ciò stesso ad essere non trasmissibile, risulta una filosofia essenzialmente interna, o per lo meno ciò che può esserne trasmesso sono soltanto le negazioni; come stupirsi allora che per un osservatore esterno essa assuma l'aspetto dello scetticismo? Qui sta il punto debole di questa filosofia; se vuole restare fedele a se stessa, esaurisce la propria forza in una negazione e in un grido di entusiasmo. Ogni autore può ripetere questa negazione e questo grido, variarne la forma, ma senza aggiungervi nulla. » Malgrado il vigore delle argomentazioni testé accennate, la battaglia di Poincaré contro la filosofia antiintellettualistica non ebbe esito favorevole. Le ragioni della sua sconfitta furono principalmente due: per un lato la situazione della borghesia francese (su cui torneremo nel prossimo paragrafo) che vedeva nell'irrazionalismo una facile evasione ai gravi problemi del momento, per un altro lato i non pochi equivoci che si annidavano nello stesso pensiero del nostro autore. Essi vanno dal mancato riconoscimento dei meriti storici del positivismo (errore tanto più grave se si pensa che tutta la critica della scienza della fine dell'Ottocento non era altro, in ultima istanza, che uno sviluppo moderno dell'originario programma di Comte), alle frequenti concessioni verbali alla filosofia «di moda» (come ad esempio le affermazioni circa « la potenza creatrice dello spirito » o circa l'esistenza di qualcosa che non sia pensiero, «il pensiero non è che un lampo in mezzo a una lunga notte, ma è un lampo che è tutto »); dal sistematico ricorso ad argomentazioni di mero tipo psicologico, che portano non di rado il nostro autore a fare riferimento a ricordi personali per descrivere « la libera iniziativa del matematico » nel momento più significativo dell'invenzione, all'uso inconttollato di termini che egli trasferisce pari pari dal campo della psicologia a quello dell'epistemologia senza compiere alcuno sforzo per dar loro un senso preciso e rigoroso (si pensi ai termini « semplicità», « comodità», e simili); dal rifiuto del-
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l'incontestabile valore spettante all'assiomatizzazione (a proposito delle teorie fisiche come a proposito della teoria del caso), alla caparbia incomprensione di quanto vi era di originale e di fecondo nelle nuove ricerche di logica simbolica. Soprattutto grave fu quest'ultimo punto, che finì per esercitare un'influenza negativa sull'orientamento generale dell'epistemologia francese, impedendole di raggiungere il livello di rigore formale che caratterizzerà le analoghe ricerche svolte pressoché nella medesima epoca in Germania e in Inghilterra. È un carattere che oggi ci fa sentire irrimediabilmente invecchiate molte pagine di Poincaré, malgrado lo straordinario acume del loro autore; e che talvolta sembrano quasi avvicinarle - a torto - agli scritti di alcuni filosofi spiritualisti, molto brillanti da un punto di vista retorico ma incapaci di accrescere sul serio la nostra consapevolezza intorno alla reale struttura del sapere scientifico. VI
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BERGSON
Henri Bergson (1859-1941) è universalmente considerato il maggior filosofo francese della prima metà del xx secolo. Il suo pensiero suole venire qualificato come spiritualista, sebbene alcuni interpreti vogliano piuttosto scorgervi una specie di naturalismo; il fatto è che egli - come del resto molti spiritualisti della generazione a cavallo fra l'Ottocento e il Novecento- fu tutt'altro che insensibile ai grandi progressi conseguiti dalle scienze dell'epoca e ritenne per così dire necessario far scaturire la propria concezione filosofica da un preliminare esame critico delle cosiddette « verità » scientifiche. Se pertanto è innegabile che si ricollegò sotto parecchi aspetti al vero e proprio spiritualismo di Ravaisson, bisogna peraltro riconoscere che intese pure presentarsi come continuatore di Boutroux e in un certo senso degli stessi epistemologi. Anche se negli anni giovanili aveva coltivato in modo particolare gli studi di matematica e di meccanica, si interessò poi soprattutto di argomenti biologici subendo in modo evidente l'influenza dell'evoluzionismo. Le sue opere principali sono: Essai sur /es données immédiates de la cosciente (Saggio sui dati immediati della coscienza, 1889), Matière et mémoire (Materia e memoria, 1896), Le rire (Il riso, 1899), L'évolution créatrice (L'evoluzione creatrice, 1907), Les deux sources de la morale et de la religion (Le due sorgenti della morale e della religione, 1932). Le tematiche in esse affrontate rivelano un certo sviluppo, incentrandosi la prima opera sulla contrapposizione fra tempo e spazio, mentre la seconda si impernia sul problema della materia e tenta, con riferimento a un esempio concreto (quello della memoria), di indicare una via- che verrà poi ulteriormente approfondita - per superare il dualismo metafisica tra materia e spirito. Il volumetto sul riso fa parte per se stesso, risultando essenzialmente diretto a cogliere l'essenza dell'arte attraverso l'analisi delle sue differenze dal «comico». L'evoluzione creatrice è lo scritto più sistematico, che si propone di delineare una conce186
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zione generale dell'universo: concezione che si basa su un tipo di evoluzionismo apertamente contrapposto a quello di Spencer. L'ultima importante opera affronta, infine, i problemi etici e religiosi alla luce delle idee elaborate negli scritti precedenti. Nel I922 Bergson sentì pure la necessità di sottoporre a un esame critico la teoria einsteiniana della relatività - nel volume Durée et simultanéité (Durata e simultaneità) - sollevando contro di essa alcune obiezioni. cui verrà fatto un breve cenno nel capitolo xn del volume settimo. Non intendiamo qui fermarci analiticamente sul contenuto dei vari scritti testé elencati; ci sembra infatti inutile- dal punto di vista della presente trattazione - prendere in esame le singole teorie (via via ideate dal nostro autore) che hanno perso da tempo gran parte del loro valore. La cosa essenziale è per noi 'un'altra: e cioè riuscire a dare un'idea di che cosa Bergson rappresentò per la cultura ufficiale francese; della forte impronta che vi segnò (ancora oggi rintracciabile in molti esistenzialisti); della svolta in senso anticartesiano e antiscientifico che impresse a gran parte della filosofia da lui influenzata. Quanto alla sua vita, basti ricordare che insegnò al Collège de France dal I 900 al I 92 I ottenendo uno straordinario successo, sì da diventare il « filosofo di moda». Impersonò così bene le esigenze della borghesia francese dell'epoca e i suoi gusti, le sue ansie e le sue aspirazioni, che sarebbe impossibile comprenderne la fortuna senza fare diretto riferimento al tipo dei suoi uditori e lettori. Nel I928 gli venne assegnato il premio Nobel per la letteratura. Di origine israelitica, aveva abbandonato nella giovinezza ogni religione positiva; più tardi si avvicinò gradualmente al cattolicesimo (anche se i più stretti difensori del dogma cattolico negarono la serietà dei presunti rapporti fra la concezione teistica ortodossa del mondo e quella bergsoniana). Si fermò tuttavia prima di compiere l'ultimo passo della conversione ufficiale, temendo che ciò avrebbe potuto venire interpretato come un atto di debolezza di fronte alla campagna antisemitica che si stava diffondendo in Europa. Si spense a Parigi mentre la città era occupata dalle truppe naziste. Uno dei punti essenziali di tutto il pensiero di Bergson consiste nell'esaltazione della coscienza interiore, capace, secondo lui, di rivelarci un « reale » originario che l'esperienza ordinaria e in particolare quella scientifica non arri verebbero a conoscere. Questa bipolarità fra coscienza interiore ed esperienza esteriore si andrà accentuando nelle opere della maturità fino a trasformarsi in vera e propria contrapposizione tra una facoltà intuitiva (profonda) e il mero intelletto (destinato a rimanere alla superficie delle cose); essa tuttavia è già presente- come vedremo meglio in seguito - nei suoi primi scritti e pone in luce il compito essenziale che Bergson sempre si prefisse: quello di delineare una nuova forma di spiritualismo che, riconoscendo la funzione indispensabile - ma su piani assolutamente diversi e inconfondibili - sia dell'interiorità sia dell'esteriorità, risultasse gradita ad una borghesia la quale non poteva certo rinunciare ai grandi ri-
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sultati della scienza moderna ma nel contempo voleva evitare nel modo ptu assoluto che se ne traessero spunti per una concezione materialistica del mondo. Il problema, che ha dato modo a Bergson di approfondire la bipolarità del nostro essere è quello del tempo, affrontato, come sappiamo, fin dal primo saggio del I 889. Per la meccanica, esso è puramente una serie di istanti che si susseguono in un ben determinato ordine rettilineo: passato, presente e futuro; per la realtà della coscienza, il tempo è invece qualcosa di irriducibile all'istante, è « durata », è un flusso continuo i cui successivi momenti si compenetrano a vicenda, senza poter venire separati l'uno dall'altro. La concezione del tempo di cui fa uso la meccanica è senza dubbio fornita - anche secondo Bergson - di un certo grado di verità; esteriorizzando il tempo, tale disciplina riesce infatti a ottenere innegabili successi pratici, a portare un'effettiva chiarificazione nell'analisi dei fenomeni concernenti il mondo inorganico. Essa cela però un gravissimo equivoco: quello di confondere il tempo con lo spazio, di considerare gli istanti come qualcosa di statico (quali sono i punti spaziali), di non comprendere che ogni istante porta al di là di se stesso, ci conduce quindi a svisare con ciò stesso alcuni dati fondamentali della nostra effettiva percezione: quei dati su cui si fonda la peculiarità della durata. Di qui l'inadeguatezza della meccanica, e in genere della fisica, a spiegare i fenomeni del mondo organico, a cogliere il profondo divenire della vita. Questo si sottrae per principio a ogni trattazione matematica e di conseguenza alla categoria della causalità unicamente valida per il mondo dell'estensione e dell'immobilità. La tenace, costante polemica di Bergson contro il determinismo in genere, e in particolare contro il determinismo della psicologia associazionistica, trova proprio la sua radice nella contrapposizione testé accennata fra il tempo (inteso come durata) e lo spazio. « In quanto gli oggetti non portano il segno del tempo trascorso », e cioè esistono in un tempo spazializzato in cui tutti gli istanti sono eguali, «l'analisi di essi può metterei in presenza di condizioni elementari identiche » e può pertanto farceli inserire in un quadro deterministico. Ciò non può invece accadere per la coscienza che serba le tracce della propria durata: «Non potendosi per essa presentare uno stesso momento due volte, non si potrà mai per i fatti di coscienza parlare di condizioni identiche. » Il nostro autore ne conclude che l'anima è libera, in quanto i suoi atti sono imprevedibili. Proprio perché è immersa nel perenne fluire della durata, i suoi atti sono sempre la creazione di qualcosa di nuovo, di irriducibile agli stati antecedenti, di essenzialmente originale. E neanche si può dire che l'anima sia la causa di questi atti, giacché non è una sostanza separata da essi, ma vive e si costituisce unicamente in essi. Nell'Evoluzione creatrice Bergson accuserà l'evoluzionismo di Spencer di essere meccanicistico, e perciò di non riuscire a spiegarci il vero senso dell'evoluzione. Questo può venire colto soltanto da chi comprenda che l'universo si evolve in quanto il suo esistere è un progredire nella durata, e che appunto nella durata si !88 www.scribd.com/Baruhk
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esprime il vero e proprio « slancio vitale », cioè una forza che agisce al di fuori di ogni schema deterministico. Tale forza sarebbe il nocciolo più profondo della realtà: presente nella vita dell'uomo come in quella della natura, sia pure in forme diverse, dando luogo - nel primo - a un unico tipo di vita, e invece - nella seconda - a una vita che si suddivide in innumerevoli tipi diversi (biforcandosi anzitutto in vita animale e vegetale). Merita di venire notato che l'opposizione di Bergson al meccanicismo non lo portò affatto a difendere il finalismo: anche questo, infatti, si lascerebbe sfuggire l'essenzialità del tempo; esso non sarebbe altro che un meccanicismo rovesciato, in cui tutto risulta determinato da qualcosa che esiste al di fuori del tempo (il fine futuro anziché la causa passata). Lo slancio vitale sarebbe invece spontaneità che fuoriesce da ogni schema, e che perciò è perennemente creatrice: «Il cammino da percorrere si crea a mano a mano che l'atto lo percorre.» Nel volume Materia e memoria il nostro autore compie uno sforzo notevole per analizzare in concreto, con ricchezza di particolari, i rapporti fra l'attività cerebrale e l'attività della coscienza; in questa analisi, giustamente famosa, viene attribuita un'importanza di primo piano alla percezione, considerata come atto di inserzione dell'immagine del nostro corpo nel sistema delle immagini costituenti il mondo. L'esame è condotto con diretto riferimento alle scoperte compiute in quegli anni dalla psico-fisiologia, sia pure per contestarne le conclusioni e dimostrare (contro ogni forma di materialismo) che «in una coscienza c'è infinitamente di più che nel cervello corrispondente ». Il medesimo problema della materia verrà ripreso nell'Evoluzione creatrice, ma - fatto estremamente significativo - con un'impostazione del tutto diversa, cioè con quella medesima ampiezza e vaghezza che già rilevammo a proposito dello «slancio vitale». Ed infatti, come questo viene ad assumere (secondo quanto abbiamo poco sopra ricordato) il carattere di forza cosmica, così anche la materia diventa un principio altrettanto generale, seppure in certo senso interno al precedente: diventa la materiaspazialità contrapposto allo slancio vitale-durata, principio - quello - di divisione e di contrasto, e questo, invece, di unità e di armonia. Siamo, come ognun vede, in piena metafisica; cioè in un tipo di trattazione puramente immaginativa, al di là di ogni possibile controllo sulla base dei risultati della scienza. Forte del largo consenso ottenuto dall'analisi della bipolarità spazio-tempo compiuta nel Saggio del I 889, Bergson si sente ormai autorizzato a scorgere ovunque rapporti bipolari ed a cercare proprio in essi la spiegazione di ogni problema della filosofia. Qui ci interessa in particolare la bipolarità - analizzata nell' Et;oluzione creatrice - fra istinto e intelletto, che pur essendo nettamente diversi, non sarebbero mai, secondo il nostro autore, totalmente separabili fra loro. L'istinto, presente negli animali come nell'uomo, è la facoltà di usare strumenti naturali (nel senso di «non creati artificialmente») e, in quanto tale, si trova in diretto contatto con le cose: precisamente con le cose cui gli anzidetti
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strumenti sono per natura preordinati. La sua azione è spontanea, quasi incosciente, tale però da condurci a cogliere le cose dal di dentro, senza lasciare che ci fermiamo ai loro rapporti estrinseci. L'intelletto invece è una facoltà prevalentemente sviluppata nell'uomo, intesa a fornirgli strumenti artificiali, capaci di accrescere la sua potenza difensiva contro altri uomini e contro le forze avverse della natura. Per costruire siffatti strumenti, l'intelletto è costretto a rivolgersi non direttamente alle cose ma ai loro rapporti, perché nell'ipotesi che questi restino costanti, potrà ricavarne preziosi suggerimenti onde affrontare con efficacia le situazioni che di volta in volta troverà di fronte a sé. Di qui il ricorso all'astrazione che fissa i caratteri fluenti della realtà in concetti chiari e precisi i quali, se pur si lasciano sfuggire l 'unità del reale, hanno però il vantaggio di risultare esattamente individuati e non mutevoli. Essi saranno i pezzi, ben solidi, con cui la scienza fabbricherà le proprie rappresentazioni del mondo: rappresentazioni che si riveleranno senza dubbio utilissime ai fini pratici ma prive, per il modo stesso con cui vennero costruite, di un contatto immediato con la realtà interna degli oggetti. È inutile sottolineare, tanto la cosa risulta evidente, che la caratterizzazione testé delineata dell'intelletto, pur riconoscendone l'indubbia potenza, tende in realtà a presentarlo come un'attività di secondo piano incapace di penetrare l'intimo essere dell'universo: inferiore, sotto un certo aspetto, allo stesso istinto che ci porta a guardare dentro alle cose simp~tizzando con esse. La vera facoltà conoscitiva non è comunque riducibile, secondo Bergson, né all'una né all'altra delle due attività finora prese in esame, ma proviene dalla loro fusione; o, per essere più precisi, costituisce uno sviluppo dell'istinto, allorché questo riesca a raggiungere la consapevolezza di cui era privo e ad acquistare un carattere pienamente disinteressato. Compiuto questo passo, esso cesserà infatti di essere mero istinto per diventare intuizione. L'intuizione è, per il nostro autore, l'atto supremo con cui noi riusciamo ad oltrepassare il campo dei concetti e delle leggi scientifiche, per spingerei - al di là dei rapporti esterni fra le cose - al vero cuore della realtà. Egli ritiene (confermando anche con ciò il carattere antiscientifico della propria filosofia) che una forma di intuizione sarebbe gia presente nell'arte, in quanto essa penetra nell'anima delle cose infinitamente più a fondo di qualunque pur minutissima descrizione scientifica, di qualunque riproduzione fotografica per quanto precisa. L'intuizione estetica sarebbe però qualcosa di limitato a questa o quella realtà particolare: il grado più alto, l'intuizione della vita in generale, sarà presente solo nella metafisica. Come organo supremo dell'uomo, l'intuizione è la base del vero sapere filosofico: anzi, di un'attività che non può nemmeno più venir chiamata «puro e semplice sapere ». Essa ci guida infatti a un « filosofare » che non è un mero conoscere, ma un inserirei nel flusso della realtà; un immedesimarci col divenire del-
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l'universo, un partecipare allo sforzo creatore. Cosl intesa, la filosofia« è l'approfondimento del divenire in generale, è il vero evoluzionismo e, per conseguenza, il vero prolungamento della scienza». Bergson ritrova la bipolarità di cui abbiamo parlato anche nel mondo sociale. Essa si esprime anzitutto, nella sfera etica, come distinzione tra morale dell'obbligo e morale assoluta: attuantesi la prima, nel rispetto statico delle leggi e delle consuetudini che garantiscono la solidità del corpo sociale; e invece la seconda nella vita del santo e dell'eroe che apre nuove vie al progresso morale. Nella sfera religiosa, la bipolarità anzidetta si esprime come distinzione tra religione statica e religione dinamica: la prima fondata sui miti e sui dogmi, la seconda sull'esperienza del divino, vissuta dal mistico. Mentre nelle opere della giovinezza Bergson aveva dimostrato un'incontestabile penetrazione dei fenomeni particolari, in ispecie psichici e biologici, il suo interesse si rivolge, nelle ultime, a concezioni generalissime, ove non è rimasto pressoché più nulla del primitivo acume di fine e attento osservatore. L'aperta e incontrollata esaltazione del misticismo religioso, del contatto diretto e immediato dell'animo umano con l'assoluto costituisce- da questo punto di vista- un fatto estremamente significativo. A ben guardare le cose, le premesse di questa conclusione erano già contenute, però, nella stessa impostazione originaria delle sue indagini. Ed infatti l'enorme importanza assegnata alla contrapposizione fra tempo (come durata) e spazio celava in realtà il desiderio di abbattere il primato della ragione per assegnarlo a un tipo di conoscenza totalmente diverso da essa. Né si trattava, a rigore, di combattere soltanto l'astrattezza dei concetti matematico-meccanici, ma di respingere in toto il metodo scientifico e soprattutto l'esigenza- in esso presentedi sottoporre a ininterrotti controlli, via via più precisi, ogni prova addotta a sostegno di questa o quella tesi, ogni categoria usata per esprimerla, ogni ipotesi implicitamente o esplicitamente ammessa. Si trattava in altri termini di ridare vita a un vecchio tipo di argomentazioni, essenzialmente retoriche, capaci di persuadere anziché di dimostrare, di suscitare passioni anziché ben precisi dibattiti logici, di offrire ai più difficili problemi soluzioni vaghe e nebulose, e proprio perciò fornite di un'apparente definitività. Era il tipo di discorso più gradito alla classe dirigente della Francia che amava cullarsi di illusioni, credendosi al centro della cultura mondiale, senza affrontare con il dovuto rigore i veri problemi dell'epoca. È ben comprensibile che una filosofia, partita dalle premesse testé accennate, abbia trovato il proprio coronamento nell'esaltazione dell'intuizione come vertice dell'attività umana: vertice che rivela apertamente il proprio carattere non conoscitivo, non razionale, in quanto dissolventesi nell'oscurità dell'atto mistico. Il pensiero di Bergson, esposto in stile affascinante e suadente, ha certo incontrato una grande fortuna. E non v'ha dubbio che abbia fornito ai suoi seguaci molte soddisfazioni emotive; certo è però che ha creato in loro le più forti diffi-
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Positivismo e antipositivismo in Francia
denze nei confronti della ragione e ha finito per costituire un comodo alibi per chi desiderava sottrarsi alle diuturne estenuanti fatiche della ricerca, volta ad accrescere il patrimonio delle conoscenze effettive in tutti i campi del mondo naturale e umano. Anziché essere una filosofia del movimento, della vita, del progresso, il bergsonismo ha cosi rivelato la sua vera natura: di filosofia dell'evasione, della protesta verbale, della fuga dalle più serie responsabilità.
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CAPITOLO OTTAVO
Positivismo cd hcgclismo in Italia DI MARIO QUARANTA
I · CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE
L'unificazione dell'Italia ha posto la classe politica dirigente di fronte a grandi problemi economici e sociali. L'Italia era un paese ancora arretrato e con profonde differenziazioni regionali. Il distacco tra il ristretto gruppo dirigente e le masse del paese fu un dato permanente, anche perché l'obiettivo prioritario del risanamento del bilancio dello stato e del pareggio venne raggiunto attraverso un prelievo fiscale sulla tassazione indiretta e una serie di misure che colpivano i ceti meno abbienti. In questo primo periodo venne dato un particolare impulso alla costruzione di opere pubbliche e di infrastrutture (con un impegno massiccio nel campo ferroviario). L'industria era ancora poco sviluppata e il proletariato si trovò per un lungo periodo diretto dagli anarchici, permanendo in uno stadio subalterno (in quanto appunto non si poneva il problema del potere). Le forze culturali organizzate erano poche e impegnate, per un lungo periodo, nei problemi posti dal compimento dell'unificazione (prioritaria la regolamentazione del rapporto fra stato e chiesa).« Il periodo 1861-7o segna il progressivo consolidamento dell'egemonia centro-settentrionale e la costituzione di uno Stato al servizio degli interessi di questo gruppo borghese ... Questo decennio segna lo svuotamento dell'iniziativa rivoluzionaria della Sinistra... L'opposizione istituzionale abbandona il terreno parlamentare, si chiarisce come opposizione sociale, confermando, con lo spostamento a sinistra della sua base sociale, il consolidarsi dello Stato borghese, ormai sicuro della sua egemonia sui ceti medi, riconciliati con le istituzioni, con la monarchia » (Eugenio Curiel). La cultura politica moderata non va oltre i miti tradizionalistici dell'umanesimo retorico e la cultura democratica rivela interne, profonde differenziazioni. Il processo di integrazione del ceto intellettuale è abbastanza rapido, in ragione diretta con la necessità di difesa del blocco dominante dalle forze eversive. La borghesia liberale, superate le resistenze feudali e della chiesa, l'ecupera, sul piano di una legittimazione storica e ideologica, i valori religiosi, sia con il riconoscimento dell'esistenza di un sentimento religioso di tipo laico, sia con la giustificazione teorica dei contenuti trascendentistici della religione. Inoltre restituisce
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Positivismo ed hegelismo in Italia
validità e potere alla chiesa nella misura richiesta dalla necessità della stabilizzazione dell'ordine. I contrasti sociali in Italia si erano rivelati subito assai acuti: di qui la necessità, propria di tutto il blocco borghese, di una revisione in senso moderato di quel patrimonio illuministico che pur era stato il tessuto culturale comune degli intellettuali meridionali e del nord Italia (sia attraverso la mediazione hegeliana, sia attraverso la tradizione italiana di Romagnosi e Cattaneo). Avviene pertanto la teorizzazione di una concezione utilitaristica della religione, ritenuta essenziale per la conservazione sociale. La religione deve essere conservata perché le masse dei contadini e piccoloborghesi tradizionalisti rimangano devote al clero, la cui alleanza diventa indispensabile per il contenimento dell'incipiente socialismo. Su questo terreno avviene una sostanziale unificazione fra gli hegeliani di Napoli e i positivisti moderati del notd; solo ristretti e isolati gruppi di repubblicani tentano un'opera di aperta critica alla gestione moderata della cultura, ma con scarsi esiti. Per troppo tempo è stata fatta una netta separazione fra l'hegelismo napoletano e il positivismo, collegati l'uno alla cultura della destra storica e l'altro alla« sinistra». E u~a differenziazione che a un attento esame non regge. Gli intellettuali napoletani fanno il loro apprendistato politico nel Piemonte e qui saldano il loro liberalismo di origine culturale hegeliana, con la lotta politica portata avanti dai moderati piemontesi. Il loro recupero della tradizione illuministica (anche italiana) è un dato di fatto che i recenti studi hanno messo in luce. D'altra parte l'esito positivistico di quasi tutti gli hegeliani è un dato abbastanza rilevante. Per questo riteniamo utile partire da un esame complessivo del positivismo ed evidenziare poi il contributo che a questa comune matrice illuministica hanno portato gli intellettuali di Napoli. Il positivismo italiano è stato urt fenomeno culturale assai complesso, con una differenziazione interna che ha risposto a precise esigenze di ordine politico-culturale e teoriche nell'ambito di quella unificazione culturale che la borghesia italiana si accinse a fare subito dopo l'unità d'Italia. Il positivismo si afferma nel nostro paese tra il 1870 e il 1900, in una situazione che vede la borghesia moderata italiana su posizioni assai arretrate, ad esempio, rispetto a quella francese, che in questo periodo segna una nuova svolta antitradizionalistica, con la «Terza Repubblica ». Il pensiero di Comte, considerato solitamente utile come termine comparativo, si afferma in Francia in un momento di grande sviluppo sociale, culturale e scientifico. La filosofia di Comte rappresenta proprio il momento egemonico della borghesia finanziaria francese, politicamente moderata, ma che però ha dietro di sé la stabilizzazione napoleonica delle conquiste irreversibili della rivoluzione giacobina. L'Italia ha invece appena concluso la sua unificazione politica, nei modi che abbiamo indicato. Nell'ambito del tradizionalismo cattolico-liberale le posizioni positivistiche straniere più avanzate vengono emarginate, assieme al filone illuministico 1om194
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bardo (Cattaneo). I positivisti più coerenti si trovano nella duplice necessità di affermare una cultura laica moderata, capace di sostituire lo spiritualismo dei decenni precedenti (Rosmini, Gioberti) e di elevare una barriera: contro i motivi idealistici che stavano diffondendosi nei centri hegeliani dell'Italia meridionale. Il positivismo rappresenta questa cultura laica, radicale, che estende la sua influenza anche fra gli intellettuali che hanno una funzione dirigente nel movimento operaio italiano. Lo stesso marxismo italiano si è configurato, nel suo filone dominante, come una variante positivistica. L'ideologia positivistica fu pertanto il tramite di un ruolo egemonico della cultura laica, che si estese fino al movimento operaio socialista. I motivi più validi sul piano teorico, sono stati la riaffermata necessità di collegare strettamente il sapere filosofico ai progressi metodologici della scienza, il mantenimento di un ruolo autonomo della filosofia, la critica di tutti i tentativi di ripresa della metafisica e della teologia, il rinnovamento degli studi antropologici, psicologici, giuridici e sociologici. Anche questi motivi non sempre sono stati difesi da tutti i positivisti; basti accennare al fatto che il pensatore positivista più fortunato in Italia è stato Spencer, e questo fatto va messo in relazione alla funzione tradizionalistica, conservatrice, rappresentata dalla soluzione che Spencer offriva del rapporto scienza-religione, considerato non antitetico ma pienamente legittimato sul piano teorico. Dove il positivismo italiano trovò uno dei punti di maggior forza fu nel campo scolastico, come si vedrà nel capitolo dedicato a questo argomento. Proprio in relazione ·ai suoi motivi più autentici, di promozione culturale, di promuovimento dell'elevazione sociale dei ceti popolari, condusse una grande campagna per la costituzione di una nuova scuola. Però il carattere moderato prima rilevato, emerge anche nella battaglia per l'ammodernamento della scuola, nella quale posizioni sostanzialmente conservatrici possono essere propagandate in funzione riformatrice e assumere un ruolo avanzato, solo rispetto alla stagnazione propria della situazione italiana. Anche l'hegelismo napoletano ha una matrice sociale non dissimile da quella del positivismo, in quanto costituisce una variante culturale meridionale di quel ceto intellettuale intermedio, che ha formato l'ossatura burocratico-amministrativa dell'Italia unita. Gli hegeliani di Napoli non costituiscono un gruppo culturale omogeneo, ma assai differenziato; la « lettura » di Hegel è stata fatta secondo diversi interessi teorici e culturali, pertanto è impossibile unificare sotto un'unica caratterizzazione un fenomeno culturale così variegato. L'incontro e la conoscenza di Hegel avviene in un primo momento, attraverso traduzioni e riassunti francesi e solo tardi con la lettura diretta dei testi del filosofo tedesco. 195
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Positivismo ed hegelismo in Italia
Il primo hegelismo napoletano, rappresentato da Domenico Mazzoni, Stefano Cusani, Giambattista Passerini, Stanislao Gatti, e dai primi scritti di Francesco De Sanctis e Bertrando Spaventa, utilizza Hegel più per un allargamento della cultura personale, che per una necessità di revisione teorica della cultura tradizionale, dal momento che passa largamente per la mediazione culturale operata da Vietar Cousin negli anni trenta. Un diverso discorso deve essere fatto a proposito dell'hegelismo elaborato da Spaventa e De Sanctis durante il forzato esilio e dopo, nel loro insegnamento napoletano. Nel decennio 185o-6o c'è un fluire di intellettuali meridionali nel Piemonte, tra i più noti: De Sanctis, Spaventa, Salvatore Tommasi, Angelo Camillo De Meis, Francesco Ferrara. Questi intellettuali hanno già consumato un'esperienza di lotta politico-culturale contro l'oligarchia feudale borbonica e il loro richiamo a Hegel ha avuto il significato della riaffermazione del liberalismo come rottura radicale rispetto a una situazione esistente nel regno di Napoli. In Piemonte questi intellettuali si trovano di fronte a una situazione caratterizzata dall'esistenza di un liberalismo moderato, in cui sono ancora forti gli elementi della cultura feudale e clericale. Nel meridione illegittimismo borbonico si era identificato con il cattolicesimo; di qui una radicalizzazione degli intellettuali liberali in senso laico e antichiesastico. Per questo la loro funzione in Piemonte è di avanguardia e di rottura rispetto all'equilibrio politico-culturale esistente. Gli intellettuali meridionali sono infatti i più accesi e convinti fautori di una modernizzazione e laicizzazione della cultura e della scuola; il loro hegelismo è proprio funzionale a questa battaglia, in cui evidenti sono i recuperi di istanze illuministiche. La soluzione monarchico-moderata è quella che si afferma, pur fra acuti contrasti, e molti di questi intellettuali, che in un primo momento a~evano sostenuto posizioni liberal-democratiche, prendono atto dello sbocco politico e in questo contesto adeguano la loro posizione. Assistiamo, dopo il sessanta e in particolare dopo il I 876, a « conversioni » positivistiche o ad atteggiamenti positivisteggianti di gran parte degli hegeliani. La motivazione di questo fenomeno ha più un'origine politico-culturale che teorica, proprio in relazione al progetto politico che sottese tutta la revisione filosofica degli hegeliani. Un fatto assai significativo nella storia degli intellettuali è rappresentato dall'andata al potere della «sinistra». In questo momento avviene una emarginazione della destra cattolico-liberale dal blocco moderato, e gli intellettuali laici, che erano stati fino allora emarginati o danneggiati, riprendono nuovo peso politico e culturale e si inseriscono nelle istituzioni politico-culturali del paese. Il tramite di mediazione culturale della radicalizzazione laicistica, che si accentua particolarmente in questo periodo, è rappresentato dal positivismo. Il nuovo
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blocco politico-culturale, che ha nello sviluppo della massoneria uno strumento efficace di elevazione e integrazione sociale di gran parte del personale burocratico meridionale, emargina parte del personale moderato liberal-cattolico, che inizia una lunga e violenta polemica contro il trasformismo degli « uomini nuovi ». Il ceto intellettuale intermedio si attesta così sulle posizioni di equilibrio politico raggiunto a livello nazionale e rappresentato sul piano culturale dal positivismo. D'altra parte le esigenze immanentistiche e antidualistiche erano accolte dallo stesso positivismo, con in più un'attenzione nuova verso l'affermarsi delle scienze nell'ambito del sapere. Per sostenere questo ulteriore sforzo di aggiornamento culturale e di rielaborazione teorica, gli hegeliani più attenti agli sviluppi della cultura laica europea si sentono impreparati. Questa posizione è espressa con lucidità e sofferta partecipazione da Spaventa in questi termini: « Noi che abbiamo visto tante mutazioni, tante fasi, tante nascite e morti, tanti trionfi e sconfitte (pars parva fui), proviamo un sentimento doloroso, portiamo dentro di noi due mondi, il vecchio e il nuovo, il passato e il presente, e gran parte dell'attività nostra si spende e si consuma nel difficile lavoro di combinarli e conciliarli insieme nell'unità dell'intendimento e del volere, ch'è la vita vera dello spirito. Sino a tanti anni fa, è stato il regno dell'apriori, delle entità astratte, della metafisica; ora è cominciato quello dell'aposteriori, dell'entità concrete, del positivo, del positivismo. È naturale che chi è stato suddito fedel~ e convinto del sovrano spodestato non si trovi bene nella vita nuova, e che o non si raccapezzi più (lo sconclusionato), o operi senza fede, senza coscienza (il Girella), o marcisca nell'isolamento o nell'impotenza (il filosofo fossile).» Lo studio del positivismo rappresenta l'ultima testimonianza della loro capacità di prendere atto di un mutato clima intellettuale e di nuovi ptoblemi che si impongono nella cultura nazionale più avanzata. Altri hegeliani, con in testa Augusto V era, tenteranno di polemizzare aspramente contro il positivismo e contro tutte le innovazioni metodologiche e teoriche che la cultura positivistica più valida e feconda produrrà, e questo sulla scorta di un'adesione a un hegelismo platonizzante e edificante. La precisa individuazione dei limiti teorici dell'hegelismo napoletano e del positivismo, oltre che la consapevolezza della funzione culturale esercitata da queste due correnti, sarà chiarita da Antonio Labriola, in un originale processo autocritico. Anche per qu.esto Labriola sopravanza le posizioni raggiunte dalla cultura meridionale di fine Ottocento. La sua ricerca solo molto tardi sarà rivalutata nella cultura italiana; egli rimase sostanzialmente un isolato sia sul piano politico sia su quello culturale. Pe1: questo rinviamo l'esame del suo pensiero al volume successivo.
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II ·VITA E OPERE DI ARDIGÒ
Roberto Ardigò nacque a Casteldidone (Cremona) il 28 gennaio I 828. Il padre, impoverito dopo un dissesto finanziario, si trasferl come custode di un magazzino a Mantova nel 1836. Dopo aver condotto a termine il ginnasio nel 1845, poté proseguire gli studi in seminario solo per l'intervento di un'agiata famiglia mantovana. Fu ordinato prete nel I 8 5I. Nel I 8 54 si reca, per poco tempo, a Vienna, per seguire il corso di perfezionamento all'istituto di teologia sublime Agostino da Ippona. Insegna nel ginnasio del seminario fino al I 867; nel I 866 si abilita all'insegnamento della filosofia e dal 1869 è titolare della cattedra di filosofia al liceo di Mantova. L'ambiente culturale mantovano, in cui crebbe Ardigò, era di orientamento spiccatamente cattolico-liberale ed è stato dominato a lungo dall'insegnamento di Enrico Tazzoli, verso il quale si accanì l'azione persecutoria delle gerarchie ecclesiastiche romane. Come è noto Tazzoli è stato sconsacrato alla vigilia della sua esecuzione a Belfiore e poi tutti i professori del seminario vennero destituiti di autorità perché il loro insegnamento era improntato all'indirizzo cattolicoliberale. Ardigò il 17 marzo z869, in occasione della festa del suo liceo, legge un discorso su Pietro Pomponazzi. In questo scritto esalta i tre momenti più importanti della vita politica e culturale della storia moderna: il rinascimento, la riforma e la rivoluzione francese. Egli individua nella filosofia di Pomponazzi « l'indipendenza della ragione nella scienza, la natura da per tutto, nel mondo della materia e dello spirito, il concetto psicofisico dell'anima; ecco dunque i grandi insegnamenti che trovammo nel Pomponazzi ». Quest'opera è importante perché è il primo contributo teorico di Ardigò e segna la sua separazione dalle precedenti credenze religiose. Non è casuale che il nostro autore abbia presentato Pomponazzi come punto di riferimento cultutale e teorico. Quest'opera segna con precisione il disegno della speculazione ardigoiana insieme ai suoi limiti. Le posizioni teoriche qui espresse saranno poi ulteriormente elaborate ed arricchite, nia mai superate. Questo scritto non ha importanza nella storiografia su Pomponazzi, è piuttosto il manifesto ideologico di Ardigò. Il problema dominante nella sua speculazione è e rimarrà quello gnoseologico; egli dichiara espressamente che il suo distacco dalla fede religiosa è stato successivo alla chiarificazione di questo problema, del quale egli accetta la soluzione prospettata da Pomponazzi: · monistica e immanentistica; questa conclusione costituirà la base di tutto il suo sistema filosofico. Egli tenta di collçgare queste conclusioni teoriche di carattere generale, con i risultati più avanzati della scienza contemporanea. Il suo pre-galileismo gli preclude però la possibilità di affrontare i problemi metodologici e filosofici più vivi della cultura scientifica europea. Egli delimita sostanzialmente il suo cam-
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po di indagine alla psicologia, che solo allora stava per avere una prima sistemazione scientifica. Ardigò scrisse una Succinta narrazione della mia vita scientifica il 1 5 aprile 1877, in allegato alla domanda per il concorso al~a cattedra di storia della filosofia presso l'Istituto superiore di Firenze, in cui espresse in modo assai preciso lo sviluppo interno del suo pensiero e per questo è opportuno riportarlo ampiamente: « M.j sono occupato della Storia dell'Arte; massimamente dell'Architettura, per la quale ho sempre avuto una certa passione. E della Storia in genere. Soprattutto in quanto è la Storia del pensiero. Quindi della Storia delle Letterature e delle Scienze. E più che d'ogni altra della Dogmatica Ecclesiastica, e della Filosofia. Di quest'ultima in moltissimi libri; tra le quali opere grandi di Ritter, Zeller, Kuno Fischer. E direttamente negli stessi scritti di Filosofi... Platonico nel senso di S. Agostino e di Malebranche, per più anni, la riflessione mia propria, promossa dalla insufficienza dei vecchi sistemi, dalle speculazioni della scuola critica e realistica; e soprattutto dai progressi e dai risultati delle scienze di osservazione, venne sempre più rinforzando le dubbiezze in me nate e cresciute per tempo, circa i principi della filosofia tradizionale. Al dubbio un po' alla volta sottentrò la persuasione della erroneità loro. Nel mentre che intanto si andavano disegnando nella mia mente i tratti fondamentali di una dottrina filosofica nuova, di indole analoga alle scienze positive, e con risultati collimanti con quelli da esse ottenuti. Queste mie idee nuove chiarite e completate per lo studio diretto da me intrapreso degli stessi fatti psicologici, coll'ajuto delle scienze sperimentali e coll'operazione e lo sperimento mio stesso, finirono poi per sostituirsi affatto, nella mia· convinzione scientifica, alle precedenti; e costituiscono ora la mia professione filosofica. » Nella biografia di Ardigò tutti gli studiosi si sono soffermati in modo particolare sul suo passaggio al positivismo, dopo che il libro su Pomponazzi fu messo all'indice e Ardigò sospeso a divinis. Nei 1870 legge all'accademia virgiliana di Mantova La psicologia come scienza positiva, in cui il suo pensiero trova una compiuta sistemazione; e nel 1871, dopo una presa di posizione contro l'infallibilità del papa, abbandona definitivamente l'abito ecclesiastico. Alcuni critici, fra cui Gentile, negano che Ardigò sia. mai stato cattolico ; altri al contrario vedono solo un passaggio da una metafisica trascendentistica a una naturalistica. Ora è indubbio che Ardigò sia stato un sincero credente e per più anni. Se integriamo le indicazioni date nella lettera a monsignor Luigi Martini, nella Morale dei positivisti (1878) e nella Prefazione (r88r) letta all'università di Padova, con la Narrazione citata, emerge un quadro preciso del sofferto travaglio intellettuale di Ardigò e della decisiva importanza assunta dallo studio delle scienze, come dice espressamente anche nell'articolo Guardando il rosso di una rosa del 1907 circa «l'avversione dei partigiani arrabbiati del clericalismo politico, congiurati ai danni della scienza, della civiltà, 1 99
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della patria». Che questa sia stata poi l'interpretazione corrente nel campo cattolico e liberale lo testimonia la lunga polemica che ne seguì. Nel I 88 I il ministro della pubblica istruzione, Guido Baccelli, offrì ad Ardigò il posto di insegnante straordinario di storia della filosofia all'università di Padova, e fino al collocamento a riposo nel I 909 Ardigò insegnò presso questa università. Con una ininterrotta operosità pubblicò nel I 877 La formazione naturale del fatto del sistema solare, nel I89I Il Vero, dedicato «all'illustre Pasquale Villari ... il quale col suo scritto La filosofia positiva e il metodo storico del I 866 giovò a fissare definitivamente l'indirizzo scientifico dell'autore», nel I894 La ragione in cui tentò di dimostrare che la ragione «non è altro che ciò, che, dell'organizzazione fattasi negli apparati anatomico-fisiologici, viene a manifestarsi nella coscienza, la quale poi ne rivela, come diciamo, solo una parte». Nel I898 pubblicò L'unità della coscienza che l'autore stesso riconobbe come il suo « testamento filosofico, che riassume con nuove applicazioni e nuovi sviluppi le dottrine esposte ed accennate in tutti gli altri, e completa la trilogia, promessa nel I89I, del Vero, della Ragione della Unità della coscienza». Durante i trent'anni del suo insegnamento padovano mantenne sempre una coerente posizione politica. Liberale ( « del liberalismo risoluto, notorio, ardente e battagliero di tutta la mia vita, e fino dalla prima giovinezza, posso offrire prove positive a centinaia») ma antimassone («la Massonerià in uno stato libero è un non senso: e a combattere l'oscurantismo è più efficace l'opera indefessa ed aperta di educazione e di elevazione civile che non l'opera tenebrosa e nascosta di una setta»), rifiutò di far parte della lista moderata nelle elezioni comunali del I 8 84; fu consigliere comunale dal I 8 7 I al I 879 dove si caratterizzò per un vivo interessamento ai problemi della sua città. Collaborò alla « Rivista repubblicana» di Arcangelo Ghisleri e di Alberto Mario e sostenne sempre, con polemico vigore, aspri scontri giornalistici con i clericali. Sul finire del secolo, polemizzò contro l'insorgente irrazionalismo, in patticolare contro «la brillante ed evanescente filosofia bergsoniana ... (che) è più che altro una specie di irrazionalismo, che può dar causa a nuove forme di nietzschianismo e imperialismo sociale antitetici all'etica e alla idealità del socialismo». Tentò di dimostrare negli ultimi due suoi scritti che l'idealismo era una negazione della scienza,, cioè della cultura europea più avanzata, ma questo lo riportava ad una rielaborazione di tipo panteistico-religioso della sua concezione della filosofia della natura. In una direzione cioè in cui più facile era la critica degli idealisti e degli scienziati. Ardigò morì a Padova il 15 settembre I92o, suicida. Nelle sue opere e nel suo insegnamento Ardigò rivela una preparazione culturale e filosofica di prim'ordine. Egli conosce le opere filosofiche dei classici e dei moderni oltre che le ricerche scientifiche (fisiche, chimiche e psicologiche) più importanti del tempo. Ha studiato gli scritti di Darwin, Bain, Mill, Taine, Littré, Fechner, Wundt, James, Mach, Avenarius, per citarne solo alcuni facilmente controllabili. 200
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Lesse sempre « La revue cles cours scientifiques », la rivista che assolse una funzione di aggiornamento e informazione superiore forse alla « Scientia » di Federigo Enriques e di Eugenio Rignano. Infine la padronanza dell'inglese, francese, tedesco oltre che del latino e greco, gli ha permesso di conoscere direttamente le opere scientifiche e filosofiche dei classici e dei contemporanei, in un periodo in cui i più dovevano ricorrere a traduzioni poco attendibili, ragguagli o riassunti. III · IL PENSIERO DI ROBERTO ARDIGÒ
a) Psicologia Ardigò assegna il primato alla psicologia, che egli intende portare a livello scientifico (positivo). Questa sua posizione non è conseguente al suo studio delle scienze, ma all'impostazione iniziale del problema della conoscenza, centrale in tutta la speculazione del nostro autore. La psicologia come scienza positiva, stampata nel I 87o, ha svolto un ruolo importante nella cultura italiana perché ha definitivamente screditato le psicologié spiritualistiche e metafisiche allora ancora dominanti (Rosmini, Mamiani). In quest'opera sono presenti istanze scientifiche che assumeranno un rilievo fondamentale nelle mccessive ricerche degli psicologi, come la necessità di usare strumenti scientifici e indagini statistiche. Già nel I 876 Ardigò propose la costituzione di un« gabinetto filosofico» al liceo di Mantova, e all'università di Padova fece pervenire da Lipsia degli strumenti per le indagini di psicologia. Per Ardigò la sensazione è l'oggetto primo dell'indagine psicologica e la percezione rappresenta uno stadio successivo e assai complesso perché implica «l'impressione dell'oggetto esterno sull'organo del senso ... i dati associativi integranti le sensazioni ... l'esperimento attuale che cimenta la verità dell'atto rappresentativo ... e quindi dà luogo al giudizio contenuto nella percezione ». La formazione delle idee si configura come un processo di integrazione delle percezioni. Le idee, la rete di concetti che formano le sistemazioni scientifiche hanno una validità provvisoria, variabile, perché l'osservazione più rigorosa del fatto può rendere necessaria una diversa sistemazione concettuale: « Insomma è sempre il fatto il punto di partenza. E questo è al tutto certo ed irreformabile. Dove invece il principio è un punto di arrivo, che può anche essere abbandonato, corretto, oltrepassato. » Qual è lo strumento conoscitivo che ci garantisce la validità di questa posizione? Per Ardigò è la legge dell'indistinto. Il pensiero procede costitutivamente per distinzioni, onde da un indistinto si passa a un distinto, che è a sua volta un indistinto rispetto a una successiva distinzione. Questa legge è del pensiero, ma anche della realtà perché è precedente alla caratterizzazione di soggetto e oggetto in cui solitamente si configura il rapporto conoscitivo. La giustificazione di questa legge è data dalla sua stessa capacità conoscitiva sia della natura che dell'uomo: 20I
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« Tale indistinto non si può spiegare perché la spiegazione è una distinzione, e questa, in quanto tale, è la negazione dell'indistinto; ma però si può pensare e si pensa realmente, anzi è la condizione sottintesa dei pensieri determinanti. » Su questo aspetto della sistemazione teorica di Ardigò si sono appuntate le critiche e le riserve più tenaci ed è indubbio che questo punto è fondamentale nella filosofia ardigoiana perché l'indistinto è l'elemento portante di tutta la gnoseologia. Alle richieste di spiegare quale sia l'origine di questa legge, Ardigò ha risposto o polemizzando e in modo efficace con le posizioni di altri positivisti (Spencer e Comte) o tentando di dimostrare l'insussistenza del problema stesso nell'ambito della psicologia positiva. L'indistinto non è né una realtà antologica, né un inconoscibile (Spencer), ma un ignoto, cioè una realtà non ancora conosciuta ma non inconoscibile per principio. La nostra conoscenza è sempre relativa, però « la cognizione empirica nostra per quanto imperfetta, è ciò nulla astante più certa della vecchia met~sica ». La relatività della nostra conoscenza non è determinata da un rapporto fra il soggetto conoscente e l'oggetto conosciuto, ma fra una serie di atti progressivamente coscienti. Il processo conoscitivo investe tutta la realtà, che però non può essere conosciuta in un unico, mistico atto, ma progressivamente. In questo processo naturale-psicologico l'unità e la continuità della coscienza (e della natura) sono suoi connotati essenziali: «La natura è la continuità di una cosa con tutte le altre. » Questa solidale relazione fra i fatti è parte integrante di una totalità cosmica che ha un suo ritmo in cui si attua e perciò si conosce: «L'universalità delle cose è essa stessa la causa prima, in quanto le si attribuisce la ragione di tutto ciò che vi succede; è essa stessa l'Infinito, in quanto si ~itiene senza limite sostanzialmente e potenzialmente, è essa stessa l'Assoluto, in quanto si concepisce avere in se stessa la ragione di ciò che è e eli ciò che si fa. » Nel processo di distinzione, la stessa differenza fra il pensiero e l'azione è uno dei risultati o momenti di questo stesso processo. Come elemento di mediazione fra i due piani della realtà Ardigò situa l'arte, che pertanto non è autonoma, ma strettamente relazionata e condizionata sia al conoscere che al fare: «I diversi stati affettivi i quali, anch'essi, si distribuiscono in una scala analoga alla chimica delle affinità. Una scala degli stati affettivi, nella quale dal più grossolanamente e brutalmente voluttuoso, si va al più schiettamente e umanamente ingenuo. Il primo, la soddisfazione ignobile prodotta dalla più bassa delle funzioni fisiologiche: il secondo, quella sublime della evidenza nella funzione più elevata dell'apprensione astratta ... Nel mezzo di questa scala degli stati affettivi si trovano gli stati estetici, o della bellezza. La quale perciò è l'anello di congiunzione tra l'evidenza o il vero di una parte, la voluttà o il buono dall'altra. E CO'\Ì queste dell'evidenza, della bellezza e della volontà, non sono trt: entità affatto e foto coelo disfarmi l'una dall'altra, e appartenenti, secondo l'opinione volgare comunissima, a tre regioni metafisiche diverse. E l'evidenza, non una sola, ma molte specie di evidenze diverse. E così la voluttà e la bellezza. Anche la bellezza; non una sola, ma molte zoz
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forme di bellezze diverse. Nella quale ultima sentenza si ha il concetto fondamentale della filosofia positiva dell'arte, della quale mi duole di non poter qui se non recare questo cenno. >> Come abbiamo visto la formazione naturale (non creazione) del pensiero rivela una legge costitutiva del mondo naturale, e nell'opera La formazione naturale ne/fatto del sistema solare (1877) Ardigò sviluppa e conferma questa sua posizione, analizzando l'ipotesi di Kant e Laplace. Questo stesso procedimento egli adotta in tutti gli altri campi del sapere. h) La morale e la sociologia Anche la morale è una formazione naturale che ha un aspetto bio-psicologico ed uno storico-sociale: « Le idealità morali non sono un assoluto fuori della natura. Sono dei fatti naturali. E precisamente delle formazioni della psiche umana collimanti colle formazioni umane esterne, ossia coi fatti sociali. Ma in quanto sono un dato fatto di un dato sito in un dato tempo, e sono realmente al sito e al tempo, e accidentali, come le circostanze di esso.» La condotta dell'uomo non è determinata né da imperativi etici né da idealità dedotte da un essere supremo. La morale di Ardigò è in netto contrasto con le teorizzazioni metafisiche e trascendentali; egli mette in evidenza i condizionamenti socio-culturali del comportamento morale. L'uomo è responsabile (libero) in rapporto a una normale costituzione psicofisica e a una adeguata impulsività potenziale, correttamente orientata. Nella determinazione della condotta morale concorrono anche le istituzioni politiche e educative perché «nella idealità. sociale è tutta la ragione della moralità». L'etica è pertanto una parte della scienza sociale (sociologia). «La morale individuale è essenzialmente dipendente dalla morale sociale; e ... l 'Etica è un ramo della politica, come diceva Aristotele, ossia della sociologia come si dice adesso». La sociologia ha per oggetto « la costituzione della società civile e quindi la giustizia che ne è la funzione caratteristica ». Ardigò raggiunge la persuasione che « mai non fu possibile in una coscienza individuale una Idealità etica, ossia un principio di Giustizia, di formazione inconsapevole che non corrispondesse al fatto della Legge sociale realmente stabilitasi nell'ambiente al quale la coscienza stessa fu. educata». L'uomo ha un comportamento eticamente giusto nella misura in cui concorre alla stabilizzazione dell'armonia sociale cioè a i~serire sé e gli altri individui allivello delle « idealità sociali già formate ». Esistono però nella società delle tensioni sociali che possono determinare anche delle rivoluzioni. Ardigò giudica queste possibili situazioni in questo modo: « Tale processo anormale della rivoluzione, nel fondo, è quello stesso normale detto sopra della evoluzione. Poiché anche in questo il Governo sociale è determinato dal consenso delle parti subordinate » e dal momento che la giustizia ha una funzione regolativa essenziale nella vita sociale, quando vengono meno le sue esigenze, avvengono le rivoluzioni. « La rivoluzione sociale ... suppone adunque ·una condizione avanzata di cultura morale dei membri
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della Società. Più è questa cultura morale e più irresistibile la forza rivoluzionaria. Ma più questa forza è irresistibile e più la sua azione è moderata e procede per moto evolutivo anziché sovversivo ». Queste posizioni sono il riflesso quasi speculare e la giustificazione del liberalismo di Ardigò, fatto proprio anche da quei socialisti, come Turati, che proprio sulla Morale dei positivisti compirono la loro prima educazione etico-politica. Ardigò non conobbe direttamente le opere di Marx e di Engels e del materialismo storico ebbe la conoscenza della « vulgata » positivistica. Egli respinse come unilaterale e insufficiente la concezione materialistica della storia perché « colla concezione materialistica della storia si vuole spiegare una formazione naturale, che ne dipende solo in parte e solo indirettamente, trascurando altri essenziali coefficienti ». E in altra parte: « Il fatto economico non è l'unico che determini il formarsi di un certo modo della società, mentre a ciò concorrono con esso altri fatti. » V a sottolineato che i pochi giudizi espressi da Ardigò su questa questione sono del tutto occasionali. Egli riteneva di aver risolto le questioni inerenti alla storia e alla società nella sua sociologia; è evidente comunque la differenza fra una concezione psicologistica dell'uomo e il marxismo. Solo Rodolfo Mondolfo ha tentato di intravvedere un possibile recupero marxiano (delle Glosse a Feuerbach) da parte di Ardigò perché anche in quella posizione di Marx « lo spirito umano appare quale attività che crea progressivamente le condizioni della sua azione ulteriore, e continuamente reagisce su di esse, generando, anzi che uno stagnante adattamento passivo, la perpetua vitalità del proprio sviluppo» (Mondolfo). C'è soltanto da aggiungere che proprio nelle Glosse Marx mette in evidenza: i limiti del materialismo di Feuerbach, e questa critica vale anche per il positivismo (materialismo volgare) di Ardigò, come vide anche Gramsci.
c) Osservazioni critiche Roberto Ardigò è stato, per riconoscimento unanime, il filosofo italiano che ha presentato nel modo più coerente e conseguente le posizioni positivistiche. Nel corso di oltre un trentennio egli ha sempre sostenuto, sia nelle opere sistematiche che in numerose e vivaci polemiche, un suo preciso disegno culturale: affermare la validità del positivismo come una concezione generale del mondo, autonoma e autosufficiente, contrapposta radicalmente a tutte le posizioni metafisiche, idealistiche e spiritualistiche. Il suo pensiero rappresenta pertanto il punto più avanzato ed elaborato raggiunto dal positivismo italiano, anche se oggi si possono elevare contro questo sistema ampie e motivate riserve. La filosofia di Ardigò presenta un'interna coerenza e una unitarietà di sviluppo; tutti i tentativi di individuare una differenziazione fra i primi scritti e gli ultimi sono stati poco convincenti. Ardigò ha tentato di offrire una siste-
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mazione sufficientemente organica di tutti i più importanti problemi gnoseologici, etici, politici partendo da un principio unitario ed unificante, che traeva la sua validità dall'essere il risultato più sicuro della scienza. Il privilegiamento della psicologia è una caratteristica che di'stingue la posizione di Ardigò da quella di Comte, il quale negava validità scientifica alla psicologia perché fondata sull'introspezione. Con Ardigò continua cosi il processo di svincolamento della conoscenza dalla pratica sociale; ormai l'economia politica non è più presente nella classificazione del sapere ed è sostituita dalla sociologia, intesa come la scienza che offre una spiegazione « naturale » dei fenomeni sociali. Bisogna però rilevare che in Ardigò è avvertita l'esigenza di considerare la psicologia come una scienza che utilizza i risultati di altre scienze collaterali. Siamo di fronte a un atteggiamento per certi aspetti nuovo e originale, tale da indurci a concludere che per Ardigò l'introspezione è uno dei mezzi, validi in un ambito delimitato e anche altri sono gli strumenti che dobbiamo utilizzare per un esauriente esame del complesso « fatto » psicologico. A questo proposito egli precisa: «Interrogo i gesti, le voci, gli atti, i costumi dell'uomo incivilito e incolto e del bruto selvatico e addomesticato nella gioventù e nella vecchiaia, nella calma e nella passione, nello stato normale di sanità, nelle malattie e nelle alterazioni mentali, sotto l'influenza di agenti che eccitano e paralizzano i nervi, coll'uso intero o solo parziale degli organi; insomma in ogni suo stato e condizione, naturale o artificiale. Né mi accontento di osservarne i modi e le forme, ma ne enumero i casi e ne faccio la statistica. » Per sottolineare gli aspetti innovativi della psicologia ardigoiana, è stato giustamente notato (Wilhelm Biittemeyer) che Ardigò fa proprie e generalizza, a proposito del meccanismo percettivo, i risultati raggiunti da Hermann von Helmholtz negli studi sulla fisiologia dei sensi. Di lui Ardigò studiò queste due pubblicazioni, uscite sulla « Revue des cours scientifiques » del I 868-70: D es progrès recents dans la théorie de la vision, Revue générale du développement des sciences dans /es temps modernes oltre il libro Théorie pf?ysiologique de la musique fondée sur l'étude des sensations auditives. L'importanza delle ricerche di Helmholtz è confermata dai più recenti studi di psicologi gestaltisti, che però sono orientati a porre una netta differenziazione fra la psicologia di Helmholtz e la Gestalt, anche se le ricerche del fisiologo tedesco hanno costituito un precedente necessario. Paolo Bozzi a proposito di questo problema sostiene che « il mutamento intervenuto con la teoria della Gestalt consiste principalmente nel riconoscere ai fatti della esperienza diretta e a tutte le loro proprietà un ruolo importante almeno quanto quello delle acquisizioni raggiunte attraverso lo studio degli aspetti fisici e fisiologici implicati nel processo percettivo ». C'è solo da aggiungere che in Ardigò è presente una insoddisfazione della prospettiva elementaristica, determinata dalla sua impostazione generale sempre tesa ad accentuare gli elementi e i meccanismi che evidenziano la continuità nel fatto percettivo. Z05
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Un altro aspetto interessante del pensiero di Ardigò è la funzione che assegna alla filosofia. A giudizio di Ardigò in Comte e Spencer la filosofia si riduce a una sistemazione dei risultati delle scienze; viene negata la capacità critica della filosofia nei confronti della società perché questa è stUdiata come un fatto « naturale »; la scienza della società non è diversa - in linea di principio - dalle scienze naturali. In Ardigò la filosofia mantiene una sua autonomia, una funzione critica all'interno delle scienze e della società. «La filosofia è il concepimento del problema scientifico. La scienza speciale ne è la soluzione. Perciò le scienze speciali sono state precedute dalla filosofia, e le succedettero. Ma, succedendo le scienze speciali alla filosofia, essa ricomparve sempre ancora, perché l'avvenimento delle scienze speciali produsse il concepimento di problemi nuovi. E così sarà in seguito senza fine. La filosofia in una parola è la matrice eterna della scienza, come la natura in genere lo è delle sue forme. » Questa capacità critica si manifesta anche nella sociologia ardigoiana, in cui emergono con maggiore evidenza i suoi orientamenti liberal-democratici, quando sostiene che « se una aspirazione sociale è legittima, ingiusta cosa e vana è il valeda contrariare, poiché è la stessa natura onnipotente che la vuole, ed è certo che trionferà ». Le idealità sociali sono strettamente connesse con la società in cui sorgono e la giustizia deve conformarsi a quelle idealità. La norma giuridica però non riuscirà mai ad 'esprimere adeguatamente quelle idealità, perciò i legislatori debbono apportare ai codici quei continui miglioramenti che la situazione esige. Questo è tanto più necessario dal momento che il comportamento etico è strettamente relazionato alla politica. Di qui il riconoscimento positivo di Ardigò delle ricerche di Cesare Lombroso e della sua scuola perché « incominciarono a fare una analisi nuova e socialmente importantissima della dinamica vera delle azioni umane, e delle diverse gradazioni di equilibrio degli agenti irresponsabili e responsabili che vi concorrono, e della valutazione più giusta della cosiddetta forza irresistibile. E in ispecial modo quelle del nostro Lombroso sugli individui, che esso chiama i rei di delitti senza movente». Pur con questi riconoscimenti positivi bisogna convenire che l'attività complessiva di Ardigò verso la scienza è stata sterile e dogmatica e ha avuto un ruolo positivo nel contesto di una situazione, come quella italiana, in cui lo stadio della conoscenza e dell'approfondimento delle scienze era relativamente modesto almeno fino alla fine del secolo. Egli accetta acriticamente i risultati delle scienze contempor~nee senza dimostrare alcun interesse verso quei problemi metodologici che proprio in quel periodo si manifestavano nella più avanzata cultura scientifica europea. Per questo è improponibile una convergenza filosofica fra Ardigò e Mach, anche se ci sono alcuni riferimenti culturali comuni. Ardigò non ha svolto nell'ambito della psicologia -l'unica scienza su cui si è impegnato lungo il corso della sua vita - la funzione che Mach ha avuto nella revisione critica della scienza
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di fine Ottocento. Anzi gli psicologi più seri non riconoscono nella psicologia di Ardigò un patrimonio scientifico da completare o integrare, ma una strada da abbandonare se si vuole procedere in feconde ricerche. Cosl tutta la ricerca e il progresso metodologico e teorico della scienza contemporanea e in particolare della psicologia è avvenuto al di fuori dell'orientamento positivistico sostenuto da Ardigò. Nel campo etico-politico il positivismo del nostro autore può essere catalogato come «socialismo borghese», di cui parla Marx nel Manifesto. L'etica non ha solo una funzione normativa di adattamento dell'individuo nella società, né il diritto penale si configura solo come una organizzazione difensiva della società nei confronti dell'individuo disadattato. L'una e l'altro si trasformano in stretta relazione con le modificazioni della stessa realtà (e mentalità) sociale, che ha il suo riflesso nelle istituzioni sociali. Queste vanno corrette, trasformate continuamente per adeguarsi al progresso sociale e culturale della collettività. In questa capacità risiede la stabilità della istituzione, il cui principio regolatore deve essere un ideale di giustizia. IV · LA SCUOLA DI ARDIGÒ
La sistemazione teorica di Ardigò costitul per oltre un ventennio il punto di riferimento più importante nella cultura laica e positivistica italiana. Si può dire che egli fu il promotore di una scuola perché non pochi fra i pensatori più significativi della generazione di fine secolo furono suoi allievi ed espressamente si richiamarono alle sue posizioni, pur in un originale e autonomo sviluppo delle proprie teorie. Questi sono: Giovanni Dandolo, Giovanni Marchesini, Giuseppe Tarozzi, Ludovico Limentani, Rodolfo Mondolfo, Alessandro Levi e altri. Ora ci soffermeremo solo sulle posizioni più interessanti espresse da due scolari di Ardigò sul problema della conoscenza, cioè sul rapporto filosofiascienza. Per comprendere nei suoi esatti termini i contributi filosofici che gli autori segnalati diedero al pensiero italiano bisogna sottolineare un dato culturale assai importante. La cultura filosofica italiana di fine secolo è caratterizzata dalla ripresa e dall'affermazione dell'idealismo di Croce e Gentile e alcuni filosofi posirivisti indicati operano una critica interna al positivismo ardigoiano tale da giustificare una integrazione con istanze filosofiche idealistiche. Questi positivisti iniziano cioè una revisione del patrimonio teorico di Ardigò in senso nettamente antirealistico, cosl com'era l'orientamento dominante della cultura italiana. Basterebbe esaminare i saggi che sull' Ardigò hanno scritto i suoi allievi per controllare a quale tipo di analisi e integrazione sottopongano il pensiero del filosofo mantovano. Bisogna riconoscere che i limiti del naturalismo di Ardigò offrivano possibili
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agganci per una critica antirealistica, anche se egli durante tutto il corso della sua operosa attività culturale criticò sempre l'idealismo e il pragmatismo. Il limite forse più evidente riguarda proprio la sua sistemazione scientifica. Egli, in polemica con il materialismo, aveva affermato che « la gradazione delle formazioni o degli esseri naturali è una gradazione di autonomie ». Non esiste cioè un determinismo che coinvolga tutti gli aspetti della formazione naturale, perché fra i vari livelli del processo ci sono condizionamenti, intersecazioni che producono risultati nuovi, non predeterminabili. Questa posizione, che nel complesso della filosofia di Ardigò assolve un compito preciso e delimitato, fu ripresa ad esempio da Tarozzi per legittimare l'accettazione di un contingentismo simile a quello di Boutroux e di Bergson. Per Tarozzi «l'idea di necessità come universale dominatrice dell'universo e dello spirito è una illegittima illazione dal determinismo metodo logico; essa ha un carattere non positivo ma metafisica». La sua ricerca approdò così a una sostanziale accettazione delle più note tesi idealistiche (L'infinito e il divino, I9S 1). Un'altra via scelse Giovanni Dandolo. Questi portò alcuni contributi di analisi psicologica assai penetranti, indagò particolarmente le condizioni che presiedono al processo conoscitivo; studiò i concetti di causa e di legge naturale in rapporto alla loro genesi psicologica, e tentò un approccio psicologistico, non privo di interesse, Intorno al numero (1896), con riferimenti ai dibattiti più avanzati dell'epoca. L'ultimo suo scritto, Intorno al valore della scienza (1908), è una riaffermazione del valore conoscitivo della scienza e della validità del realismo, in polemica con Mach. « Attraverso una concezione obiettivistica della causa e della legge, noi vorremmo difendere l'obiettività della scienza della natura, specialmente contro quella forma di soggettivismo che essa assume nella forma idealistica di Ernesto Mach. »Egli combatté sia la caratterizzazione descrittivo-economica della scienza, sia il carattere speculare del processo conoscitivo per riaffermare che « la causalità, legge inalienabile dell'intelligenza umana e fulcro della scienza», deve essere difesa e riaffermata come condizione stessa della conoscibilità scientifica. La legge scientifica ha un rapporto oggettivo ed è un'approssimazione, una tendenza verso la realtà. Queste due diverse interpretazioni pressoché antitetiche, emergenti dall'ambito del positivismo ardigoiano rivelano - pur nel diverso impegno speculativo -due esiti ugualmente improponibili o sterili perché tesi all'affermazione di principi o istanze, portati al di fuori di un effettivo lavoro scientifico. Ambedue le posizioni sono al di sotto di quel travaglio metodologico che investì le scienze di fine Ottocento e che ebbe in Mach uno dei più acuti interpreti. Individuare, sia pure correttamente, gli sbocchi idealistici di questo processo di revisione metodologica della scienza, era positivo ma insufficiente per poter saldare il sapere filosofico al rinnovamento che si svolgeva all'interno del patrimonio scientifico. La zo8
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lotta per l'affermazione di una razionalità che doveva avere nella scienza una delle più importanti matrici era pertanto soprattutto un'esigenza quasi solo declamata, perché non si sapeva poi farvi corrispondere un'adeguata riformulazione dell'indagine filosofica. Così il divorzio fra filosofia e scienza, che si indicava come uno dei limiti più negativi della cultura tradizionale, trovò, proprio nell'ambito del positivismo, un terreno quanto mai favorevole. V · CESARE LOMBROSO E LE RIVISTE POSITIVISTE
Uno dei rappresentanti più conseguenti del naturalismo positivisticoè stato Cesare Lombroso (r833-1907). Il suo pensiero si ricollega strettamente al materialismo di Moleschott (già esposto nel volume precedente), di cui tradusse nel r866 La circolazione della vita. Egli tentò un'originale utilizzazione dei risultati della fisiologia, psicologia, patologia e della teoria dell'evoluzione per dare una spiegazione di un fenomeno socialmente assai diffuso nell'Italia post-unitaria: la delinquenza; per questo è considerato il fondatore dell'antropologia criminale. Bisogna ricordare che in quel periodo era in corso la vasta azione repressiva contro il brigantaggio e proprio dall'esame del cranio ddb_rigante Vilella(r871) Lombroso ritenne di trovare una conferma delle sue tesi generali e cioè che la delinquenza è determinata dalla costituzione fisica anomala dell'individuo, per cui il delitto è un fenomeno naturale. Il delinquente è un irresponsabile e pertanto deve essere messo in condizione di non nuocere alla società. La « Scuola positiva del diritto penale », sorta su queste posizioni, contribuì in modo efficace al rinnovamento del diritto penale. Su queste posizioni si schierarono molti scienziati e giuristi d'Europa; una particolare influenza esercitò in America latina José Jngenieros, il più importante filosofo e sociologo a cui si richiamarono tutti i positivisti di quella regione. Le opere più importanti scritte da Lombroso sono: Genio e follia (I 864), Studi clinici sulla natura, causa e terapia della pellagra (r87o), L'uomo delinquente (1876), Sull'incremento del delitto in Italia e sui mezzi per arrestarlo (1879), La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, in collaborazione con Guglielmo Perrero (1893), Genio e degenerazione (1897). Un'altra delle tesi più discusse di Lombroso è quella che identifica il genio con la follia e in senso più generale con ogni atteggiamento ritenuto eccezionale. Lombroso fu direttore del manicomio di Pavia, uno dei più importanti d'Italia, e fece una brillante carriera universitaria (professore di psichiatria a Torino, di antropologia criminale, di medicina legale ed igiene). Condusse vaste ricerche e per primo avvertì la necessità di « un trattato completo di geografia medica di tutta Italia, una vera e intera carta igienica di questa penisola », per poter individuare quali sono le malattie più diffuse. Egli stesso condusse importanti ricerche su quelli che erano i due mali più gravi dell'Italia di àllora, il cretinismo e la pellagra. Sostenne frequenti e vivaci polemiche sia con gli scienziati sia con i
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sociologi, come Napoleone Colajanni il quale criticava la scuola antropologico-criminale perché non teneva conto dell'influenza dei fattori sociali della delinquenza, esagerando quelli fisici ed antropologici. Comunque anche Lombroso, in una revisione del suo pensiero, riconobbe l'importanza dei fattori sociali (L'eziologia
del delitto, 1893). Le ricerche di Lombroso sono state poi utilizzate e approfondite da una schiera innumerevole di allievi italiani ed europei: medici, neuropsichiatri, criminologi, giuristi, pedagogisti. La ricerca lombrosiana, improntata fondamentalmente ad un esame anatomico e fisico-chimico dell'uomo, era in quegli anni non molto dissimile dalle ricerche sperimentali del primo Freud. Poi intervenne un diverso orientamento nella ricerca psicanalitica di Freud e i lombrosiani cercarono di ridurre le posizioni di Freud nel quadro delle spiegazioni chimiche del loro maestro (Enrico Morselli). Le ricerche di Lombroso, dopo le lunghe polemiche e gli altrettanti lunghi silenzi, stanno subendo una revisione di giudizio più equilibrato e positivo. Ne riportiamo uno dei più accreditabili: « Lombroso ebbe anche lui certe intuizioni vicine a quelle di Freud. Oltre al rigido materialismo, al determinismo e all'ateismo che ebbero in comune, Lombroso ebbe vivissimo il senso dell'irresponsabilità dell'individuo anormale e delle possibilità di una terapia (fosse pure quella della "sembiosi" che può precorrere certe forme della psicanalisi post-freudiana). Anche lui sentì- ed è forse il suo maggior meritol'enorme valore del concetto di ''regressione '' in mezzo alla visione ottimistica di Darwin ... L'" atavismo" stesso, dal quale Freud fu condotto a poco a poco ad allontanarsi, era per Lombroso un fep.omeno stesso di protezione naturale a certi fattori traumatizzanti (alcool, clima, eredità, meteori) e, come scrisse, un" ritorno all'antico ". Perfino l'ipotesi sintetica finale dell'epilessia, la quale gli permise di aggiungere un fattore patologico al terreno della " degenerescenza atavica '' e di " spiegare " tutti i fenomeni anormali dell'uomo, era interpretata in direzione post-freudiana, forse meno semplicistica di quanto non si creda: l'epilessia veniva infatti ricondotta da Lombroso ad una serie di attività psichiche incoscienti » (Michel David). Da quanto siamo venuti dicendo risulta che nei centri italiani culturalmente più avanzati e più importanti dell'Italia post-unitaria (Torino, Bologna, Firenze, Padova) si trovano, in funzione preminente, i positivisti: Roma si configurò solo come il centro burocratico-amministrativo del nuovo regno e per Napoli valgono altre considerazioni che esporremo più avanti. In questi centri assistiamo al sorgere di una pubblicistica culturale di grande interesse. Attraverso questi strumenti culturali si ristabilisce uno stretto collegamento della cultura italiana con la cultura europea (tedesca, inglese e francese). Le due riviste più importanti sono state « La rivista di filosofia scientifica », diretta da Morselli e uscita a Torino dal 1881 al 1891, e« Archivio di psichiatria, scienze penali ed antropologia criminale », fondata nel 1 8So da Cesare Lombroso, con Enrico Ferri e Raffaele Garofalo come condirettori. Il programma della rivista filosofica è
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chiaramente delineato fin dal primo numero e sintetizzato nell'obiettivo di lavorare « per la vittoria del metodo sperimentale e la definitiva congiunzione della filosofia e dellà scienza anche in Italia ». Ciò che di meglio la cultura positivista ha prodotto nel suo tentativo di generalizzazione filosofica collegata con la scienza si trova in questa rivista. Vi hanno collaborato Ardigò, Siciliani, Angiulli, De Sarlo, Marchesini, T anzi, Fano, Pilo; economisti come Salvatore Cognetti De Martiis, il fisico Giovanni Cantoni, l'astronomo Giovanni Celoria, il matematico Enrico d'Ovidio, e moltissimi biologi. La preminenza dei biologi (fra cui Giuseppe Sergi) conferma l'importanza che assunse questa scienza in quel periodo. Ci furono frequenti dibattiti fra diversi scienziati (uno fra i più importanti fu quello fra Ettore Regàlia e Morselli-Sergi). Non si sottovalutò la ricerca e l'indagine sulla storia del pensiero filosofico italiano e si avvertì la necessità di rendere conto- attraverso una puntuale informazione degli articoli e saggi apparsi sulle riviste francesi, inglesi, tedesche, olandesi, spagnole, svizzere -- della ricerca filosofica e scientifica europea. Pertanto va condiviso largamente il giudizio positivo che Morselli esprimeva nell'ultimo numero della rivista: « Ha combattuto per un alto ideale, la unificazione della filosofia con la scienza; ha raccolto attorno a sé la falange dei pensatori più eletti e degli spiriti più indipendenti di cui si onori l'Italia, ha servito di tramite agli ingegni superiori per esercitare una benefica azione sui giovani studiosi. Non è dubbio che il nostro lavoro di dieci anni ha giovato a diffondere la coltura filosofica fra gli scienziati e la scientifica fra i filosofi. Una notevole riforma si è operata nel pensiero italiano durante gli ultimi due lustri». Un giudizio altrettanto positivo si deve dare sul contributo creativo della rivista di Lombroso. Uscì dopo un'accurata preparazione e consultnione fra Ioo psichiatri, medici legali e giuristi italiani e stranieri e la garanzia di una collaborazione dei migliori studiosi europei. Lombroso precisa nel programma « che la psichiatria e le scienze criminali fossero legate insieme da vincoli indissolubili, pochi erano i veri scienziati che non pensassero da un pezzo. Ma come e quanto quel vincolo si facesse sentire più stretto, lo prova ora vedere le pubblicazioni psichiatriche che toccano continuamente di criminalità, come quelle penali e carcerarie di alienazioni mentali ... A noi parve giunto il tempo di trarre da quell'unione un frutto fecondo in una rivista la quale riannodasse tutte queste sparse fila sorgendo come rampollo dalle eccellentissime Riviste di freniatria e di medicina legale, di discipline carcerarie e penali che onorano il nostro paese ». Anche qui la stessa esigenza di una unificazione del sapere scientifico e di una utilizzazione politica dei risultati delle ricerche per un serio rinnovamento degli ospedali psichiatrici, della legislazione carceraria e per una più precisa conoscePza delle gravi condizioni igienico-sanitarie dell'Italia. Anche su questa rivista si incontrano pregevoli studi <>ul pensiero sociale e filosofico italiano, con tentativi originali di revisione critica di alcuni autori. Una caratteristica comune alle due riviste fu un'impostazione non settaria ZII
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o esclusivistica: si trovano infatti scritti di scienziati o filosofi non tutti d'accordo con l'orientamento espresso dalla direzione delle riviste. Non si trattò di un facile eclettismo, ma di uno stile di lavoro e di ricerca orientato a sollecitare un ampio dibattito su problemi che solo allora venivano affrontati per la prima volta; di qui la necessità di ascoltare le diverse voci, a volte fra loro contrastanti. Si accesero dibattiti e polemiche improntati a un appassionato interesse per la ricerca scientifica e a una franca verifica delle rispettive posizioni filosofiche e ideologiche. VI · HEGELISMO E SCIENZA: DE MEIS E TOMMASI
Abbiamo già sottolineato che molti hegeliani, di fronte all'affermarsi della scienza nella cultura europea, o tentano un approccio di tipo idealistico, sterile di risultati, o accettano questa dimensione nuova della razionalità, dopo un profondo processo autocritico. Questi due esiti, opposti, si ritrovano nella ricerca di Angelo Camillo De Meis e di Salvatore Tommasi. Il primo sarà indicato come un classico esempio negativo di un uso hegeliano della scienza moderna; in Tommasi il pensiero scientifico italiano raggiungerà invece uno dei suoi risultati migliori anche sul piano metodologico. Il Tommasi non tenterà di legittimare una metafisica di segno contrario, ma indicherà nel metodo sperimentale uno strumento essenziale della ricerca scientifica e nel naturalismo l'integrazione filosoficamente più corretta; in una sistemazione sempre aperta a ulteriori apporti e approfondimenti. Il tentativo più impegnato di utilizzare la filosofia hegeliana per spiegare la natura è stato compiuto da Angelo Camillo De Meis (I 8 I 7-9 I), uno degli allievi più stimati da Francesco De Sanctis e Bertrando Spaventa, studioso di fisiologia e patologia del corpo umano e insegnante di storia della medicina all'università di Bologna dal I863. De Meis parte dal convincimento che la filosofia di Hegel è valida in quanto riesce a spiegare razionalmente tutto il processo della realtà e perciò anche la natura. Ora la filosofia della natura di Hegel è una parte essenziale e insostituibile di tutta la sua sistemazione filosofica anche se è l'aspetto meno giustificato dallo Hegel stesso. De Meis tentò per tutta la vita di trovare il punto di congiunzione fra la dialettica hegeliana e la scienza moderna, in quanto la validità complessiva del sistema hegeliano non doveva essere cercata in una revisione della logica hegeliana (come farà Spaventa) ma in un convincente riscontro e verificazione nello studio della scienza e in particolare della medicina. Per raggiungere questo scopo il nostro autore non ritiene essenziale lo studio dei problemi che la scienza storicamente pone all'attenzione dello scienziato, ma piuttosto precisare 1n via preliminare il significato teorico della scienza e della storia della scienza che per De Meis « non consiste in una serie di verità che sorgono l'una accanto all'altra ... ma è una verità sola, che si sviluppa in un 2.12.
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processo di forme tutte vere ... è una .ragione che si traduce in natura, è una natura che si risolve in pensiero ». Per questo motivo « la storia prammatica della medicina non è la vera sua storia». Con quèsta presa di posizione generale vengono rifiutati lo sperimentalismo e la pratica scientifica perché inutili o devianti rispetto alla caratterizzazione di una razionalità logicamente valida che la scienza deve solo far propria. De Meis giungerà così a condannare tutta la scienza contemporanea (,Parwin e la scienza moderna, 1886) e a proporre una nuova sistemazione« logica» delle specie naturali, nei volumi l tipi vegetali (1865), l tipi animali (1 872.-75), che ovviamente non è stata presa in seria considerazione da nessuno studioso. Egli tentò inoltre di ridurre i risultati della scienza ad alcune indicazioni così generiche da poter essere utilizzate per la sua riaffermazione di un « principio vitale, ipermeccanico superiore, con altre leggi diverse dalle leggi naturali che ne regola l 'uso ». Solo in questo contesto può essere utilizzato il materialismo degli scienziati contemporanei: « Il preteso materialismo di questi nostri giorni altro non è che la potente concentrazione della scienza medica, fisiologica e patologica, intorno a tre processi di cui si compone la vita ... che è quanto dire intorno a tre principi e a tre verità generali. Ma la verità in fondo è una... , e tutti e tre i processi, il chimico, il cellulare ed il fisico, possono apparire divisi e distinti, ma in realtà non formano che una sola unità, un solo processo vitale.» Il punto più importante, decisivo, rimane l'esame di quel momento del processo naturale in cui è riscontrabile l 'unificazione fra illogos e la natura (la vita): « La vita è una forza, ma questa forza è ragione, e questa ragione è natura; la ragione è la funzione, la natura è l'organo e la funzione effettuata dall'organo: la funzione crea l'organo, e l'organo ricrea ed esegue la funzione. Tale è il giro, tale è il processo della vita», che rimaneva però ancora non risolto negli schemi della dialettica hegeliana. E il nostro autore si convinse che il primum non poteva non trovarsi al di fuori della realtà indagata dalla scienza, in un atto di creazione (Deus creavi/, 1869). De Meis è noto anche per aver scritto due articoli Il sovrano (1868) in cui dà una giustificazione teorica della funzione mediatrice della monarchia fra il popolo e il ceto dirigente. Questi articoli suscitarono vivaci polemiche specialmente nell'ambiente bolognese perché con grande chiarezza precisavano i motivi dell'adesione di molti intellettuali alla direzione monarchica piemontese. Di De Meis è infine utile ricordare uno scritto autobiografico, Dopo la laurea (1868-69), in cui è delineata in modi assai efficaci la delusione di uno studioso di filosofia e letteratura di fronte alla scienza, ritenuta estranea ai più autentici sentimenti dell'uomo. È un tema questo che avrà altre e più ampie risonanze all'inizio del nuovo secolo quando assisteremo a un nuovo ritorno idealistico, che si configurerà come la più rigida negazione del valore conoscitivo della scienza. Altro esito ebbe lo studio della scienza (fisiologia) nell'hegeliano Salvatore Tommasi (1813-88), che fu professore di clinica medica a Pavia dal 1861 al 1864 e dal 1864 insegnante di clinica medica a Napoli. Qui fondò l'ospedale clinico e 2.13
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diresse « Morgagni », la più importante rivista di scienza medica di quel tempo. Tommasi passa da una concezione aprioristica, finalistica della natura a una aperta difesa del naturalismo sperimentale, attraverso una pratica di clinico e una acuta riflessione metodologica sulla scienza medica, in particolare della fisiologia, di cui privilegiò il ruolo. Nelle Istituzioni di fisiologia ( 1 8 5z) sono dominanti le preoccupazioni filosofiche generali: « Il concetto fondamentale che il fisiologista deve farsi dell'organismo, è quello di totalità; il quale concetto comprende la pluralità e l'unità... e l'organismo è appunto la coincidenza di molti particolari in una sola .individualità. Egli è pertanto l'accordo di due termini opposti... è la vera concretezza, perché esprime la dialettica degli opposti. » Nella prolusione al primo corso di lezioni all'ospedale clinico di Napoli del 1865 (Le dottrine mediche e la chimica) questa posizione è abbandonata: «Nelle scienze obbiettive e naturali, la dottrina non può consistere in un a priori, non può sorgere dalle speculazioni metafisiche ... quindi parlar di filosofia in medicina è un controsenso. » Bisogna affrontare i problemi che sorgono all'interno dello studio della scienza medica e « le dottrine in tutte le scienze naturali, e quindi anche nella medicina, non sono che la legge, o un insieme di leggi logicamente connesse ». È necessario individuare il compito preciso di ogni scienziato, quello deL clinico e del fisiologo; e dato che« non è la malatia che ammala l'organismo, ma è l'organismo stesso che si ammala ... ammesso questo postulato dell'indole essenzialmente fisiologica della medicina moderna, il gran passo è fatto: la medicina... diventa scienza umana». Con il discorso Il naturalismo moderno del 1866 Tommasi raggiunge la sua maturità come metodologo e come filosofo della scienza. Questo saggio fu considerato subito come il frutto più maturo del positivismo dove il suo riferimento a Galilei («noi siamo della scuola di Galilei ») è fatto proprio per rivendicare la validità di un metodo sperimentale contro gli apriorismi pseudoscientifici degli hegeliani e la necessità di un rapporto di collaborazione tra scienziati e filosofi tutti interessati al progresso del sapere scientifico e filosofico. « Non vuol dire che io intenda proclamare il divorzio tra le scienze naturali e le speculative e morali, ... al contrario, la natura e l'uomo, la geologia e la storia compongono necessariamente un tutto organico, ... che meraviglia adunque che il filosofo abbia da improntare dalla sola esperienza il materiale o il contenuto dei suoi concetti universali ... e d'altra parte che i naturalisti riconoscano, anzi invochino, una forma ideale al frutto delle loro esperienze? » Una discussione di grande interesse e ancora di viva attualità fu quella sollevata da Tommasi sull'origine delle psicopatie. L'originale posizione del nostro scienziato fu al centro di vivaci polemiche sia con i suoi amici hegeliani che con alcuni naturalisti (Moleschott). Tommasi, come abbiamo sottolineato, considera la fisiologia alla base dello studio scientifico della medicina, e la malattia come una rottura di un determinato equilibrio fisio214
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logico dell'organismo. Lo studio della malattia implica un esame complessivo dell'organismo umano e dei condizionamenti esterni. Per questo è impossibile raggiungere in questo campo una generalizzazione molto astratta delle « leggi », come in fisica. Tommasi procede prima di tutto a una caratterizzazione della psicopatia e raggiunge la persuasione che « la patologia delle psicopatie è una cosa a sé: ha qualche cosa di proprio, di caratteristico ». Questo elemento caratteristico non è né una alterazione chimica o anatomica, né un fatto ereditario, anche se questi elementi possono essere compresenti. La psicopatia investe l'equilibrio generale del malato con il mondo circostante. L 'uomo ha una lunga storia dietro di sé. Nella Commemorazione di Carlo Darwin (188z.) Tommasi, esaltando le conquiste del grande scienziato - in opposizione agli idealisti alla De Meis - precisa che «quanto maggiore è l'ambiente morale dell'uomo, tanto maggiore è la funzione delle sue cellule cerebrali, e il perfezionamento del suo cervello e del suo cranio » onde gli « istinti nuovi suppongono naturalmente una modificazione sostanziale delle cellule cerebrali; ... una forma nuova di organizzazione». Quando questa organizzazione, questo equilibrio, che è il frutto di un perfezionamento secolare si rompe, per ristabilire l'equilibrio bisogna operare non un intervento circoscritto a un organo, ma utilizzare quel complesso di mezzi educativi e morali, che sono stati essenziali nel processo storico dell'umanità. La coscienza, la personalità dell'uomo non è un dato acquisito e permanente, ma muta e si modifica nelle relazioni sociali che instaura; pertanto nella cura delle psicopatie l'accentuazione sarà data al processo educativo inteso in senso lato come « rieducazione » di processi fisici e morali da reinstaurare in un organismo « squilibrato ». VII ·VITA E OPERE DI BERTRANDO SPAVENTA
Bertrando Spaventa è riconosciuto come il filosofo più importante dell'hegelismo napoletano e attorno alla sua figura si è andato accumulando un ampio lavoro critico ed esegetico. Nell'affrontare l'esame del suo pensiero, terremo nettamente distinti due ordini di problemi: l'individuazione dell'oggettiva incidenza culturale e filosofica avuta dal nostro filosofo nella cultura italiana dell'Ottocento e l'uso che della filosofia di Spaventa è stato fatto in un secondo momento da Gentile prima e dai nuovi « marxisti » poi, per rivendicare due diverse e contrastanti interpretazioni del suo pensiero. Spaventa si è caratterizzato nella cultura italiana del periodo risorgimentale fondamentalmente per tre importanti contributi. Egli ha iniziato un riesame complessivo di tutta la nostra tradizione filosofica; ha operato una lettura e interpretazione di Hegel; e ha poi offerto gli strumenti teorici per una critica del positivismo. Bertrando Spaventa nacque a Bomba (Chieti) il z.6 giugno 1817; a dodici anni entrò nel seminario di Chieti. Insegnò poi per alcuni anni matematica e filo-
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sofia nel seminario di Montecassino. Nel I 840 accetta di farsi prete per poter usufruire di un benefizio e aiutare la numerosa famiglia. Lo Spaventa più tardi darà questa motivazione per la scelta fatta senza una sinct:ra adesione alle verità del cattolicesimo: « Io dissi nel farmi prete: Amo mio padre e mia madre e i fratelli miei più che me stesso. Questo è stato ed è la mia irreligione. » Solo dopo dieci anni decise di abbandonare l'abito sacerdotale. Nel I 846 aprl una scuola privata di filosofia a Napoli, che venne chiusa poco dopo per l'intervento della polizia borbonica, su delazione del professore Palmieri, che accusò Spaventa di fare propaganda per le idee liberali. Nel I847 entra in casa del generale Pignatelli come precettore e in seguito agli avvenimenti del I 848 è costretto a lasciare Napoli e a rifugiarsi a Firenze. Nel settembre I 8 5o lascia la famiglia Pignatelli e va in Piemonte. A questa data si è soliti stabilire la sua svestizione. Non si hanno sicuri dati sull'attività svolta durante il periodo napoletano. È stata avanzata l'ipotesi che Bertrando abbia partecipato segretamente all'attività pubblicistica sul giornale «Nazionale», diretto dal fratello Silvio, che uscì a Napoli nel I 844 e attorno a cui si unificò il movimento liberale nella lotta contro il regime borbonico. A Torino Spaventa inizia una intensa attività giornalistica - unico suo lavoro- sui giornali liberali «Il Progresso », « Cimento », « Piemonte », «Rivista contemporanea » e fissa, nel breve volgere di alcuni anni, i motivi centrali del suo pensiero politico e filosofico. Nel primo articolo precisa il suo obiettivo di fondo: « Ora importa a noi italiani di compiere l'opera cominciata dalla nostra rivoluzione: importa che la coscienza del diritto assoluto dell'uomo, della ragione, del pensiero, divenga per noi universale; importa che questa coscienza penetri in tutte le manifestazioni della vita nostra. » Il programma politico-culturale che egli delinea in tutta la complessità dei suoi motivi, è incentrato sulla necessità della lotta per l'unità e sulla rivendicazione della nazionalità perché « nazionalità è per noi unità; unità viva, libera e potente come Stato. E perché noi vogliamo questa unità come libero Stato? Perché noi sappiamo che solo nella unità come libero Stato possono spiegarsi liberamente tutte le potenze della nostra vita ». Ora, siccome «l'unità vera d'una nazione, la libertà d'un popolo, non si ottengono che con le grandi idee », bisognerà intraprendere un ampio lavoro politico e culturale verso gli intellettuali, che sono i naturali mediatori fra il popolo e le classi dirigenti; inoltre è urgente iniziare un lavoro storico per individuare gli elementi unitari della cultura italiana. E questo va fatto nel Piemonte, dove si sta forgiando la nuova classe dirigente, perché « il rinnovamento filosofico italiano, impedito in Napoli, dove ebbe principio, deve, come il movimento politico, incominciare in Piemonte ». Egli pubblicò una serie di articoli sulla libertà di insegnamento, fortemente polemici contro i moderati che volevano acconsentire alla gestione privatistica, cioè cattolica, delle scuole. Inoltre condusse una famosa polemica contro i gesuiti per difendere la politica liberale e nazionale del Pie.216
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monte. In queste polemiche, contro gli elementi « estranei » della nostra tradizione culturale più autentica, rivendica la funzione di avanguardia degli intellettuali laici e conferma l'urgenza del compito politico:« Bisogna che si restauri la vera nostra tradizione filosofica, mettendola in armonia con le nuove tendenze della civiltà; bisogna insomma che la filosofia sia per noi un principio vivente il quale animi ed informi tutte le manifestazioni della vita nazionale.» Qual è l'espressione più alta raggiunta dal pensiero filosofico europeo? Per Spaventa non ci sono dubbi: è la filosofia di Hegel; perciò« il far intendere Hegel, all'Italia, vorrebbe dire rifare l'Italia». Non si tratta però di fare una semplice diffusione del pensiero del filosofo tedesco perché, come avverte il fratello Silvio, « gli Italiani non intenderanno mai che cosa sia la filosofia moderna se non ricavandola dagli stessi loro filosofi; e di questo ci è una ragione forte, che non dà loro poi tanto torto se non capiscono niente di una filosofia che si vedono cadere in sul capo come dal cielo». Bertrando intraprende pertanto un attento esame della tradizione filosofica italiana per scorgere quale « traduzione », in termini filosofici autonomi, sia possibile fare del pensiero europeo che ha in Hegel il suo punto più avanzato. Già nel I 8 5o traccia questa prima conclusione : « Il pensiero filosofico italiano non fu spento sui roghi de' nostri filosofi, ma mutò stanza, e si continuò in più libera terra e in menti più libere; talché il ricercarlo nella nuova sua patria non è una servile imitazione della nazionalità alemanna, ma la riconquista di ciò che era nostro, ed ora sotto altra forma è diventato una proprietà dello spirito universale, e la condizione essenziale della civiltà nostra e di tutti i popoli. Non i nostri filosofi degli ultimi duecento anni, ma Spinoza, Kant, Fichte, Schelling ed Hegel sono stati i veri discepoli di Bruno, di Vanini, di Campanella, di Vico ed altri illustri. » È la prima formulazione della teoria della circolazione del pensiero che sarà poi integrata da ulteriori perfezionamenti, ma che rimarrà identica nell'impianto generale, specialmente dopo che nel I 8 57 scrive al fratello: « La mia scoperta consiste nell'aver trovato che la certezza sensibile hegeliana è né più né meno che la percezione intellettiva di Rosmini. » Spaventa riteneva cosi di avere dimostrato una continuità fra il pensiero filosofico italiano ed europeo, e che i nostri Galluppi, Rosmini, Gioberti avessero riportato in Italia, in diversa formulazione, quello che era il contributo filosofico più valido e autentico della filosofia europea, cioè l'idealismo tedesco. Per questo lo studio del pensiero di Gioberti assume un rilievo decisivo per condurre una duplice operazione politico-culturale e teorica. Per quanto riguarda il primo aspetto, rimane valido ciò che vide subito il fratello Silvio: « Il tuo lavoro su Gioberti potrà essere l'anello di comunicazione tra la filosofia ordinaria, che c'è in Italia, e quella che noi vorremmo che vi fosse. » Questa comunicazione, bisogna . aggiungere, toglieva legittimità e spazio agli spiritualisti che si richiamavano proprio a Gioberti, e vedevano così recuperato, ma come momento parziale, il cattolicesimo del loro filosofo. ZI7
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Sul piano teorico lo studio di Gioberti si inseriva nella tormentata lettura di Hegel e lo orientava in un senso nettamente soggettivistico, con il riconoscimento che «la vera Idea giobertiana: non è l'essere, ma il creare; non l'Ente, ma lo Spirito. Atto creativo è dialettica, assoluta dialettica; e la dialettica è l'organismo o vita ideale. La filosofia, come riproduzione fedele di tale organismo, è dunque essa stessa dialettica; è, a suo modo, creare». Spaventa opererà una sistemazione organica del suo pensiero ·dal I86o. In tale anno è nominato professore di storia della filosofia a BC>!0gna dove lesse la prolusione Carattere e sviluppo della filosofia italiana dal secolo XVI alla fine del nostro tempo, e l'anno successivo è chiamato da De Sanctis a Napoli a coprire la cattedra di filosofia; il 2 3 novembre legge la famosa prolusione, nota con il titolo La fi-
losofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea. La produzione dello Spaventa è classificabile abbastanza nettamente. Gli scritti pubblicati sulle riviste torinesi, di politica culturale, sono stati raccolti da Gentile nel I 9 I I e nel I 920 con i titoli La politica dei gesuiti nel ~ecolo XVI e nel XIX, e La libertà d'insegnamento. Gli scritti di storia della filosofia italiana sono: l principi di filosofia italiana del sec. xv (I 8 5I); Frammenti di studi sulla filosofia italiana del sec. xv (I85 2); Studi su Campanella (I8 54); Del principio della riforma religiosa,politica e filosofica del sec. XVI (I 8 55); L'amore dell'eterno e del divino in G. Bruno (I 8 55); Concetto dell'infinito in Bruno (I859). Scrisse anche una serie di studi sul pensiero europeo e su Hegel: Il sensismo del secolo XVII e V. Cousin (I859); La filosofia di Kant e la sua relazione con la filosofia italiana (I856); Studi sopra la filosofia di Hegel (I85o); Sul problema della cognizione in generale e dello spirito (I858). Negli anni successivi l'interesse di Spaventa· si concentra su un riesame della filosofia di Gioberti (La filosofia di Gioberti, I863) e di Hegel: Le prime categorie della logica di Hegel (I863); Principi di filosofia (I867); Studi sull'etica di Hegel (I869). Infine scrisse alcuni articoli e saggi di polemica verso il positivismo e per un recupero del kantismo in funzione antipositivistica: Paolottismo, positivismo, razionalismo (I868); Sulle psicopatie in generale (I872); La legge del più forte (I874); Idealismo o realismo? (I874); Note sulla metafisica dopo Kant (I873); Kant e l'empirismo (I88o). Nell'ultimo periodo Spaventa condusse vivaci polemiche politiche contro gli « uomini nuovi », per rivendicare la validità di una politica che ormai era impossibile riproporre: «Una volta quando si stava peggio (e quindi si stava meglio), si diceva: de rege nihil, ed era atto di assoluto timore, che significava: il re è tutto. » La posizione di Spaventa è una critica del trasformismo, ma fatta da posizioni conservatrici e reazionarie. Basti ricordare quali sono state le motivazioni delle critiche politiche di un Labriola al trasformismo, fatte « da sinistra », per rivendicare un diverso ordinamento sociale. Parallelamente a questa polemica Spaventa «traduce» lo Hegel politico, con l'intento di un recupero mondano delle attribuzioni « divine » dello stato. Egli condanna i nuovi integrati nel 2I8 www.scribd.com/Baruhk
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blocco oligarchico, dal punto di vista della componente liberai-moderata e perciò è polemico anche contro De Sanctis,'' il quale tenta di dare una soluzione alla vita politica italiana, proponendo il « centro sinistro ». VIII ·IL PENSIERO DI SPAVENTA
a) La teoria della circolazione europea della filosofia italiana Spaventa formulò la teoria della circolazione europea del pensiero filosofico italiano, su sollecitazioni politico-culturali e non per un interesse storiograficocritico. Egli voleva ricongiungere il pensiero italiano a quella che considerava la migliore e più valida tradizione filosofica europea, l'idealismo tedesco. Egli partiva dalla persuasione che « non ci sono due filosofie moderne; due, tre, quattro correnti filosofiche perpetue, quante sono le nazioni presenti in Europa: ma ci è una sola filosofia, essenzialmente una. Questa unità è lo sviluppo stesso della filosofia nelle diverse nazioni ». Lo studio del pensiero europeo è pertanto un fatto unitario, e gli arresti temporanei della comunicazione culturale in qualche nazione possono essere determinati solo da particolari congiunture politiche. Per quanto riguarda il « ritardo » italiano, Spaventa lo imputa fondamentalmente alla chiesa cattolica, che perciò viene considerata non solo come « la principale cagione della nostra rovina », ma soprattutto come l'istituzione che ha tentato di bloccare lo sviluppo del pensiero moderno con un intervento meramente repressivo. Ora è noto che la teoria di Spaventa non ha nessun valore scientifico anche se ha fatto da supporto.a tutto un orientamento della ricerca storiografica italiana contemporanea. Gli studi più seri in questo campo si sono orientati a rivedere criticamente e radicalmente i risultati raggiunti da Spaventa e dai suoi discepoli. L'organicità e l'interna coerenza della teoria di Spaventa è esemplata largamente, almeno per quanto riguarda il pensiero moderno, sulla Storia della filosofia di Hegel. Comunque inizia da questo periodo una rinascita di interesse di studi sul pensiero filosofico italiano. Non è su questo terreno che la teoria deve essere valutata, ma su quello politico-culturale, l'unico in cui abbia un significato preciso. Il progetto ideologico di Spaventa rispondeva a una complessa operazione politica, in funzione dell'unificazione culturale degli intellettuali del blocco moderato. Egli tendeva a emarginare e battere tutte le teorizzazioni di Gioberti e dei giobertiani i quali rivendicavano, come è noto, un'origine autoctona, pelasgica, del pensiero italiano e il suo primato rispetto al pensiero europeo. Spaventa invece intende rivendicare la matrice mondana, laica, antichiesastica del pensiero italiano, che sorge appunto nel periodo del rinascimento (e non durante la scolastica). Egli mette in evidenza che la validità di Bruno, Campanella, Vico è data proprio dal fatto che sono filosofi europei, in quanto affrontano i problemi filosofici che la civiltà europea pone. Solo a questa condizione è
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possibile un ricongiungimento del pensiero italiano con quello contemporaneo. E siccome il pensiero attualmente più avanzato è quello di Hegel, bisogna vedere quale « traduzione » di questo pensiero è stata operata in Italia in termini di autonomo sviluppo filosofico. Lo studio di Gioberti assume pertanto una grande importanza, non come semplice analogia più o meno valida, né come riferimento meramente culturale (di « fonti » culturali), ma come richiamo al filosofo che ha affrontato gli stessi problemi teorici di Hegel. In Spaventa lo studio di Gioberti sarà parallelo e contemporaneo a quello di Hegel, perché solo un superamento di questa posizione permetterà di far progredire il pensiero italiano-europeo. È stato notato che in questa teoria viene reciso il legame tra il pensiero filosofico e quello scientifico. Questa frattura non è casuale, né determinata dal fatto che Spaventa non sapesse che Galileo è un pensatore importante. Tanto è vero che uno degli ultimi scritti di Spaventa è su Galileo e questo incontro avviene proprio quando Spaventa tenta di rielaborare il suo pensiero in stretta tensione polemica con il positivismo; di qui la necessità di controllare se è possibile recuperare, nell'ambito della sua filosofia, anche alcune posizioni del grande scienziato, il che avviene, però, al prezzo di una interpretazione platonica di Galileo (comunque il breve scritto testimonia solo un insorgente interesse di Spaventa strettamente connesso con la necessità della sua battaglia antipositivistica). L'esclusione del pensiero scientifico dalla classificazione di Spaventa è pertanto strettamente connessa alla sua interpretazione di Hegel e al privilegiamento di una corrente filosofica, oltre che alla considerazione che la scienza e il sapere scientifico è al limite solo un momento subordinato e inessenziale del processo id~le e storico del pensiero moderno. La mediazione culturale operata in questo momento da Spaventa esclude in linea di principio la riconsiderazione di alcuni momenti dello sviluppo culturale e filosofico. È evidente che il privilegiamento della figura di Bruno è polemica rispetto alla valutazione di Galileo, perché si ritiene che Bruno abbia operato una sintesi teorica in cui i motivi del copernicanesimo erano inclusi e risolti. Non solo, ma tutta la polemica con la chiesa avrebbe assunto tutt'altro aspetto e consistenza se fatta rivendicando la validità del programma teorico e scientifico di Galileo. Proprio nell'incapacità di farsi erede dei risultati più significativi del pensiero laico europeo, si evidenziano i limiti di Spaventa. La sua linea di politica culturale è stata progettata in funzione difensiva verso una cultura (quella cattolica), che solo in un ambito assai delimitato esercitava ancora una influenza. b) Spaventa e Hegel Abbiamo già sottolineato quale importanza abbia attribuito Spaventa al pensiero di Hegel, di cui rielaborò le opere più significative. Egli affronta, fin dal periodo torinese, il problema di una utilizzazione e revisione del patrimonio teorizzo
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co di Hegel, nella persuasione che «il vero significato dell'hegelismo ... è quello di essere la filosofia della mediazione assoluta, cioè della creazione ». A raggiungere questa conclusione ha contribuito lo studio del pensiero di Gioberti, che per il nostro autore « compendia in sé i momenti anteriori, cioè Galluppi e Rosmini, come Hegel compendia Kant, Fichte e Schelling ». Alla conclusione dello studio del pensiero moderno, Spaventa mette in evidenza che il punto comune del pensiero italiano (Gioberti) ed europeo (Hegel) è «il conoscere come assoluta chiarezza. Tale è il pensiero puro di Hegel; tale è l'intuito di Gioberti. Pensare puro e intuito puro vuol dire: la realtà assolutamente chiara, assolutamente trasparente, cioè assolutamente conosciuta. Pensare puro e intuito è dunque l'orizzonte o il cielo della verità: il vero cielo della scienza. A questo cielo noi ci siamo elevati mediante la storia; il puro conoscere non è altro per noi che il risultato del processo storico ». Ora, perché il puro conoscere sia coscienza, bisogna che « apparisca come risultato del processo della coscienza stessa e in se stessa e non già del semplice processo storico ». Il problema sollevato, che è stato al centro della ricerca teorica del nostro autore, è quello del rapporto della Fenomenologia con la Logica, cioè della fenomenologia come parte dell' Enciclopedia delle scienze. Per Spaventa la fenomenologia « è la formazione in generale della coscienza la quale non si riposa, è sempre dialettica, finché non diventa coscienza scientifica, cioè... Scienza ». Il risultato del processo fenomenologico coincide con il principio della scienza. Il processo storico e ideale conduce alla conclusione che « non ci sono due specie di pensiero, o meglio, due forme di pensiero: il pensiero è uno, è lo stesso ». Il processo conoscitivo, inteso come creazione, induce a privilegiare la fenomenologia in quanto « scienza della scienza come fenomeno, cioè scienza dell'esperienza della coscienza». Che questa conclusione introduca un elemento di differenziazione nel sistema hegeliano, lo ha presente anche il nostro autore, per il quale « dopo Hegel noi non è che dobbiamo fare altro che ripetere e commentare macchinalmente le sue deduzioni come tante formule sacramentali». L'attualità e utilizzabilità di Hegel è strettamente condizionata alla possibilità di una rifondazione metafisica della realtà, che la Logica preclude e solo attraverso la Fenomenologia è possibile recuperare, come momento storico e ideale della processualità. Il primato accordato alla Fenomenologia lascia aperta la possibilità, non di una difesa sterile del « sistema » hegeliano nel suo complesso, ma di una conferma delle sue direttrici di fondo. L 'uso della Fenomenologia è cosl funzionale alla necessità di affrontare la discussione sullo sviluppo del pensiero filosofico tedesco, che dopo il 1 86o è prevalentemente posi tivista. Spaventa sa che Hegel è stato interpretato sia in chiave antropologico~aterialistica sia in chiave teologico-metafisica, ed egli tenta di salvarne la validità con una rifondazione della logica che precluda all'origine questi esiti. Per questo ZZI
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la discussione sull'importanza della fenomenologia è connessa con la revisione della dialettica hegeliana, che Spaventa intende utilizzare nella critica all'insorgente positivismo. La soluzione del problema teorico è anche l'approntamento di strumenti critici per la polemica filosofica antimaterialista dell'ultimo Spaventa. Ora «risolvere il problema del conoscere è provare l'identità come mentalità; provare l'identità come mentalità è provare la creazione, giacché l'identità come mentalità è appunto l'attività creativa; dunque risolvere il problema del conoscere è provare la creazione )). All'origine della logica hegeliana ci sono le categorie di essere, non essere e divenire; è di qui che deve partire un riesame di Hegel, che Spaventa compie ·sulla base della critica di Adolf Trendelenburg, il quale aveva sostenuto che l'unità di essere e non essere, in quanto identità assoluta, è assoluta quiete, onde sarebbe inspiegabile il divenire. « Il puro_ essere, uguale a se stesso, è quiete; il nulla, che è uguale a se stesso, è del pari quiete. Come mai dall'unità di due rappresentazioni in quiete deriva il divenire in movimento? )) (Trendelenburg). Spaventa ritornò più volte su questo problema, dallo scritto Sulle prime categorie della logica di Hegel, all'ultimo, Esame di un'obiezione di Teichmiiller alla dialettica di H egei, oltre al noto scritto inedito, pubblicato da Gentile per giustificare l'esito «attualistico)) della ricerca spaventiana. Questi raggiunge infatti la seguente conclusione: « Penso, cioè nasco come pensare; ma non posso afferrar me stesso come pensare, ma solo come pensato, e perciò perisco come pensare. Perendo come pensare, penso, e perciò nasco come pensare. E così sempre.)) Sulla base di questa soluzione, che esclude in linea di principio la dialettica di lago-natura-spirito come essenziale nel processo della realtà, egli affronta ora l'esame dei risultati del nuovo pensiero filosofico tedesco (materialista), non nel tentativo di dare « forme logiche ai fenomeni naturali )) come fece il De Meis, ma partendo dal riconoscimento che « il reale come reale non è vero; il reale è vero in quello che ha di ideale)). c) Spaventa e il positivismo Verso il I 870 Spaventa conclude la sua revisione dell 'hegelismo, raggiungendo una soluzione che ritiene più idonea per affrontare un riesame dei contributi del pensiero filosofico e scientifico contemporanei. Dopo il 1869 Spaventa affronta la lettura di Fechner, Herbart, Lotze, Helmholtz, Darwin, A venarius. Tutta la sua ricerca è ora tesa a criticare questo orientamento filosofico, attraverso una serie di prese di posizioni teoriche e culturali. Egli parte dal riconoscimento della necessità dello studio della scienza perché « il reale senza scienza è solo una parte del reale; la quale presa p el tutto e riprodotta semplicemente dalla scienza, è falsa, perché solo in quella unità, che è il tutto, essa ha il suo vero significato )). Spaventa non si limita a rivendicare l'« idealità)) del momento originario del pro2.2.2.
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cesso della realtà, perché « il vero Reale, non è il vero senza il fatto né il fatto senza il vero; l'uno senza l'altro sono due astrazioni: il vero Reale è il vero come fare e fatto ». Egli entra nel vivo delle posizioni teoriche degli autori citati, affermando la necessità di una teorica del conoscere che superi quelle che considera posizioni prekantiane, in particolare quelle che tendono a presentare la conoscenza come una formazione naturale, in cui sarebbe determinante il condizionamento biologico e psicologico. Di fronte a queste posizioni, Spaventa rivendica la validità della soluzione gnoseologica data da Kant con l'a priori, in quanto l'a priori «è la stessa potenza nuova della natura, la potenza umana, quale risulta e si concentra e si individua da tutta la sparsa attualità antecedente; e perciò è insieme un assoluto a posteriori». Gli orientamenti psicologistici del naturalismo approdano, secondo il nostro autore, a vecchie posizioni metafisiche meccanicistiche; il problema è pertanto quello di raggiungere la formulazione di una nuova metafisica del reale che sia più rigorosa nel risolvere le reali contraddizioni presenti nell'esperienza. Cosi nell'indagine del rapporto fra anima e corpo egli segnala «l'errore di considerare l'organismo come la combinazione di forze fisiche e chimiche, non come l'energia stessa dell'individualità». La polemica che egli conduce sull'origine delle psicopatie e poi nel saggio Idealismo o realismo? è nella direzione di una rivendicazione di ragioni antimaterialiste, che presiedono ai fenomeni psicologici e biologici. Su questa base egli giudica i presunti limiti del pensiero filosofico europeo, rivendicando la validità del criticismo. In questo modo egli prelude alla reazione antimaterialista che si sta prospettando nel pensiero europeo. Per Spaventa, insomma, Hegel, corretto in senso soggettivistico, ha già dato risposte persuasive a tutte le possibili obiezioni e istanze del positivismo. Esemplare quanto dice su Darwin; egli non lo condanna, come ha fatto De Meis, né lo giudica positivamente all'interno delle sue scoperte e generalizzazioni, come ha fatto Tommasi, ma si limita a dichiarare che «la metafisica hegeliana (è) come una profezia, cioè l'organismo e la correzione anticipata della moderna scienza dell'esperienza». Per riassumere, Spaventa di fronte al positivismo tenta una duplice operazione: considera le scienze necessarie ma in un ambito preciso e delimitato e solo nella misura in cui si possono saldare a una considerazione metafisica dell'esperienza non meccanicistica o naturalistica; da qui egli procede poi per rivendicare il suo « umanesimo » antropologico. Il risultato è importante perché è stato al centro dell'interpretazione di Spaventa da parte di chi rivendica un'apertura del filosofo all'esperienza e alle correnti più vive del pensiero filosofico. È indubbio che in Spaventa ci sia il tentativo di rivedere i termini stessi in cui si pone il positivismo; è nota la conclusione cui giunge nella famosa prefazione a Logica e metafisica del I 867: « Il positivismo non è un sistema particolare. Molti si dicono positivisti e non si accordano tra loro. Nelle scienze naturali, si confonde col na223
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turalismo. Ma la sua maggiore importanza, e direi quasi la sua origine, è nelle scienze che concernono l'uomo. Qui è il valore e il diritto del positivismo. Se la natura deve essere studiata quale essa è realmente e ci si mostra ne' suoi fenomeni, e non già con astratte e preconcette categorie, tanto più l'uomo e il mondo umano; il quale in tanto è ed esiste davvero, in quanto si fa quello che è; e si fa lui, da sé, colle proprie potenze; e si fa di continuo, e progredendo sempre, ecc. La vera natura, essere, esistere umano, è il fare umano. In altri termini, l'uomo è essenzialmente storia; e chi dice storia, dice positivismo, aposteriorismo. L'uomo a priori è l'uomo astratto, non reale: l'uomo senza storia. Il positivismo rappresenta, dunque, un elemento vero nella scienza dell'uomo. In brevi parole, per me esso è la vera espressione dell'esigenza contenuta nel vero idealismo: l 'infinita esistenza è attività delle cose e specialmente dell'uomo. Questa attività è il diritto del positivismo. In questo senso, io sono positivista. » In questa posizione, che rappresenta l'ultima e conclusiva acquisizione del nostro autore, sottolineiamo questi elementi: a) il riconoscimento che il positivismo non è un« sistema», una posizione filosoficamente autonoma, e perciò è bisognoso di integrazione; b) la separazione fra naturalismo e positivismo serve per recidere il legame esistente tra lo sviluppo delle scienze e le conclusioni filosofiche cui giunge il positivismo; c) il positivismo è pertanto circoscritto a una riconsiderazione dell'uomo, nell'ambito del processo storico e cosmico. È evidente che, privato il positivismo dei due elementi caratterizzanti (il processo conoscitivo come formazione naturale, lo sviluppo delle scienze come coessenziale nella determinazione dell'orientamento filosofico generale), Spaventa può dichiarare che il suo idealismo porta a compimento le istanze più autentiche del positivismo. La risoluzione della natura nel fare dell'uomo e nell'attività delle cose è la negazione dell'oggettività del mondo e del processo conoscitivo, che preclude qualsiasi possibilità di legittimare le scienze, considerate nel loro autonomo e oggettivo sviluppo. Spaventa tenta qui di rendere compatibile il proprio idealismo con il positivismo, depauperando quest'ultimo di quanto aveva di più significativo. È la stessa operazione che faranno poi i positivisti ardigoiani verso l'idealismo. Va sottolineato solo che questo genere di operazioni sono sempre condotte sotto il segno dell 'umanesimo. Anche Giovanni Marchesini si sforzerà di caratterizzare il pensiero dell'Ardigò come « umanismo naturalistico » o « naturalismo umanistico ». Il positivismo si viene pertanto a configurare «come filosofia della cultura (che si converte così nell'umanismo, affermazione dei valori umani che sgorgano dallo spirito dell'uomo, oggetto centrale della filosofia» (Rodolfo Mondolfo). È lo stesso terreno scelto da Spaventa. Ma l'uomo, privato dei suoi nessi storico-sociali determinati e del suo retroterra biologico-antropologico, può essere il « luogo » per le più diverse operazioni teoriche, sia nella
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direzione di un recupero di istanze « positive », che di quelle « ideali ». Siamo ovviamente sul terreno di un tentativo di conciliazione di opposte tendenze e in quanto tale criticabile sia per « troppo di idealismo » sia « per troppo di materialismo», come infatti avviene da parte degli hegeliani e da parte dei positivisti. Non siamo comunque di fronte a una sintesi nuova, ma al tentativo di una unificazione, o meglio di un ricongiungimento dell'idealismo hegeliano con la scienza contemporanea, compiuto al di fuori del progetto di De Meis o di una statica difesa di tutto l'impianto hegeliano. IX ·AUGUSTO VERA
Un altro significativo rappresentante dell'hegelismo napoletano è Augusto V era, di cui si è tentata una revisione critica, in senso accentuatamente positivo, rispetto a Spaventa. Nato ad Amelia, in Umbria, nel maggio I8I3, da una famiglia benestante, studiò molto presto le lingue classiche e straniere. Nel I 8 3 5 va a Parigi, poi in Svizzera. Nel I839 ritorna a Parigi e insegna in scuole di provincia; nel I845 si addottora alla Sorbona con le richieste due tesi, una in latino e una in francese: Platonis, Aristotelis et Hegelii de medio termine doctrina (I 84 5) e Problème de la certitude (I845). Queste due opere rivelano, più che vari articoli precedenti, l'orientamento eclettico .di Vera, in linea con Cousin, allora di fatto il vero responsabile della politica universitaria, sotto il dominio di Luigi Filippo. Nelle due opere citate Vera affronta il problema del medio termine, cioè della dimostrazione: « Dimostrare non è altra cosa che trovare un mezzo tra il finito e l'infinito.» Egli trova una soluzione del rapporto tra esistenza ed essenza, postulando l'esistenza di una intelligenza divina, che dà ragione della realtà del mondo. Noi possiamo però conoscere solo la manifestazione esistenziale di questo assoluto; il problema pertanto è quello di « trovare una idea che esprima il duplice carattere di questo essere e ne dimostri la realtà. Ora queste condizioni si trovano riunite nell'idea di causa», come fondamento della certezza nella conoscenza in quanto« è l'idea più adatta alla conoscenza dell'assoluto, che ... ci fa penetrare nella natura stessa della sostanza ». Sul finire del I847 egli passa da una sostanziale accettazione delle posizioni dell'eclettismo cousiniano all'hegelismo. Questo passaggio, fatto poi oggetto di polemiche e di varie interpretazioni, è segnato dallo scritto Saggio sulla filosofia della religione di Hegel (1848) e, definitivamente, dall'lntroduction à la philosophie de Hegel (I 8 55), dove la polemica antieclettica si fa precisa e puntuale. È stato da tutti sottolineato che questo passaggio non segna una radicale inversione nella speculazione di Vera, ma piuttosto una prosecuzione di sue precedenti posizioni. Per questo motivo è stato posto in evidenza l'aspetto politico-culturale generale che presiede a questa nuova posizione, dal momento appunto che non è possibile
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individuare elementi teorici di netta rottura. « L'" idea " di Hegel fissa, stabilizza, converte in principio la funzione ancora subalterna dell'" idea" nell'eclettismo, che nell'eclettismo resta a mezza via tra la validità oggettiva assoluta propria della ragione e la soggettività della scienza pensante. Ma il potenziamento d'uso, di funzione, corrisponde nella filosofia di Vera al mantenimento di una perfetta continuità con la tendenza del pensiero francese precedente per ciò che concerne il suo retroterra » (Guido Oldrini). È significativo pertanto che questo incontro con Hegel avvenga proprio sulla base di una accettazione sostanziale della « filosofia della religione ». II saggio citato inizia proprio con l'affermazione che « la filosofia si è, in ogni tempo, applicata a ricercare l'origine e i fondamenti della religione, e a distinguere i suoi elementi transitori e apparenti dai suoi principi e termini assoluti », per rimarcare poi che « la filosofia e la religione hanno un solo e medesimo oggetto, giacché loro oggetto è l'essenza delle cose, l'eterno, l'assoluto, Dio». Vera va in Inghilterra, per ragioni strettamente personali, negli anni 185218 59, mantenendo però stretti rapporti con gli ambienti culturali francesi. In questo periodo egli continua lo studio e la traduzione delle opere di Hegel, convinto che bisogna presentare il pensiero del filosofo tedesco nella integralità delle sue posizioni filosofiche. In Inghilterra pubblica l' lntroduction citata, la traduzione della Logica di Hegel in due volumi e An inquiry into speculative and experimental science (Una ricerca sulla scienza speculativa e sperimentale, 18 56): una violenta critica a tutta la tradizione filosofica empiristica inglese. Egli vuole così sottolineare un uso esclusivamente antirealista di Hegel, confermando quella che è e sarà una costante del suo pensiero, espresso con estrema chiarezza: «L'idealismo e il materialismo sono come i due limiti estremi entro cui si agita il pensiero umano... e rappresentano le due direzioni opposte dell'intelligenza che cerca il vero ora al di fuori, ora al di dentro di se stessa, ora nell'esperienza e ora nella ragione. » Questa posizione però lo isola completamente nell'ambiente culturale inglese, così nel 1859 ritorna in Italia perché Mamiani gli offre un incarico di storia della filosofia all'Accademia scientifico-letteraria di Milano, dove nel novembre 1861 pronuncia l'orazione Amore e filosofia. Alla fine dell'anno è chiamato da De Sanctis a coprire la cattedra di storia della filosofia all'università di Napoli dove insegnerà fino al collocamento a riposo. Morì a S. Giorgio a Cremano (Napoli) il 13luglio 1885. Nel periodo del suo insegnamento italiano, la polemica antipositivistica si fa sempre più insistente ed egli rivendica apertamente l'esclusiva validità di un esito religioso: «La filosofia hegeliana, checché si dica è la sola e vera filosofia; e lo è anzitutto, perché è essenzialmente religiosa, e religiosa nel senso profondo della dottrina cristiana. » In questo periodo scrisse, in tre volumi, Il problema dell'Assoluto (187z, 1875, 1879). La sua polemica all'interno degli hegeliani napoletani, in particolare con Spaventa, è volta a rivendicare la validità complessiva dell'idea hegeliana, nella sua assoluta autonomia logica e antologica. Di qui un privilegiamento delle opere sizz6
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stematiche di Hegel, in particolare dell'Enciclopedia, di contro alla Fenomenologia, considerata solo come un« frammento staccato dal tutto». È indubbio che l'accentuazione posta da V era, sia funzionale a una lettura di tipo metafisica-religioso di Hegel. Va sottolineato però che la posizione culturale e filosofica di Spaventa e Vera non si caratterizza nei termini contrapposti di « sinistra » e « destra », ma all'interno di una utilizzazione del pensiero di Hegel in funzione di una gestione moderata del blocco culturale meridionale, che aveva in Napoli il suo centro. Napoli, per complesse ragioni politiche e sociali, non riuscì mai ad assolvere una funzione di mediazione culturale nazionale, ma è stata sempre una componente di un articolato blocco sociale e politico, perciò la battaglia per assumere una funzione di direzione all'interno della cultura meridionale fu assai acuta in misura diretta del ristretto ambito in cui avveniva. In questo preciso contesto le posizioni di V era si caratterizzano sul piano politico come apertamente reazionarie e su quello culturale come tendenti a un recupero dell'esclusiva dimensione religiosa del filosofare. X · FRANCESCO DE SANCTIS
De Sanctis è senza dubbio l'intellettuale più avanzato sul piano politico e culturale espresso dall'hegelismo napoletano. Egli si soffermò a studiare il pensiero di H egel in tre momenti distinti: nel periodo della « scuola napoletana» (I 84 546), nel periodo del carcere e nel I 8 58 (la famosa Lezione quarta sulla Divina Commedia). In questi diversi momenti, se si esclude il periodo della « lettura » della Logica di Hegel fatta in carcere, De Sanctis assume un preciso atteggiamento critico di fronte alle posizioni hegeliane. Nel primo scritto affronta i due problemi della «morte dell'arte» e della definizione dell'arte, e in tutti e due i casi De Sanctis respinge le formulazioni hegeliane, in cui individua subito l'impianto platonico: « Volendo dimostrare che l'arte pur oggi esiste, che pure oggi essa può diventare creatrice, noi abbiamo da raggiungere uno scopo contrario a quello di Hegel, che l'ultima sua conseguenza fu questa: l'arte oggi è morta. E noi vedremo che, considerata l'arte nel senso di Hegel, necessariamente doveva giungersi a questa conseguenza; ma che, usciti che si sia da quel circolo, può ben dimostrarsi il contrario, e può dimostrarsi che la scienza non combatte, non distrugge l'arte.» Lo scritto del I858 è contemporaneo al dialogo Schopenhauer e Leopardi, il contributo filosoficamente più rilevante di De Sanctis perché non ~'esatta individuazione di un orientamento reazionario che stava assumèndo la cultura europea, con il lancio delle posizioni del filosofo tedesco, ma anche perché oltre a una critica sul piano teorico c'è una storicizzazione dei motivi che presiedono alla diffusione del pensiero di Schopenhauer. Inoltre De Sanctis indica una alternativa materialistica (Leopardi) a questa prospettiva spiritualistica, con una am-
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piezza di motivazioni di grande acutezza e attualità. In questo contesto va letta la critica all'estetica hegeliana, che è stata considerata da alcuni studiosi non compiuta sul piano teorico; è da notare che l'autore stesso non ritenne opportuno pubblicarla. Comunque va sottolineato che a De Sanctis interessa soprattutto cogliere il momento culturale e politico in cui viene operato un particolare uso dell'estetica hegeliana e della filosofia schopenhaueriana. Già nel primo scritto citato, la critica all'estetica hegeliana («il particolare di Hegel è un velo del generale, la sua forma è l'apparenza dell'idea ... Il sistema ha fruttificato nella scuola. Il contenuto, il significato interiore, l'idea, il concetto, ecco la calamita del critico hegeliano »), si innerva con un riferimento preciso allo Schopenhauer come colui « che ha portato alle sue ultime conseguenze la teorica. Il poeta, secondo lui, dee nell'individuo considerar solo l'essenziale, il genere di esso, e perciò sua materia sono le idee nel senso platonico, le specie delle cose, sciolte dalla loro temporanea esistenza ». Nel saggio sui due filosofi c'è, come abbiamo detto, la più radicale critica del nuovo spiritualismo: « "Cosa sei tu?" "Sono spiritualista. " E con questo talismano l'onestà ti spunta sulla fronte, e ti si fa lieta accoglienza in tutta l'Europa civile. Sono spiritualista, e Ferdinando n mi farà una lettera di raccomandazione al Papa, Luigi Napoleone mi farà girar Parigi senza accompagnamento, e Cavour mi farà cavaliere di San Maurizio. » Abbiamo scelto questo giudizio «politico» per rimarcare un'avvenuta consumazione dell'esperienza hegeliana e l'assunzione di una nuova posizione che si configurerà di aperto accoglimento del « realismo rivoluzionario » rappresentato dal positivismo, come nuovo e più persuasivo strumento interpretativo della cultura e della politica europea. Questa nuova prospettiva teorica e storica è dispiegata nella Storia della letteratura italiana, scritta da De Sanctis in un momento di eccezionale tensione intellettuale, nel I 870, dopo che ebbe criticato e radicalmente i due manuali scolastici del clericale Cesare Cantù e dell'anticlericale Luigi Settembrini e dopo avere individuato i limiti del tentativo conciliatorista del positivista Bonaventura Zumbini. Proprio nella polemica con questo raggiungerà una chiara ridefinizione, antihegeliana, della sua posizione estetica: «L'indipendenza dell'arte è il primo canone di tutte le estetiche e il primo articolo del Credo, né un'estetica è possibile che non abbia questo fondamento; sicché non solo questa non è una critica sentimentale, anzi è la sola critica razionale, la sola che si possa chiamare scienza ... Ogni scienza ha i suoi supposti, i suoi antecedenti. Il supposto della estetica è fra l'altro il contenuto astratto. E la scienza comincia quando il contenuto vive e si muove nel cervello dell'artista e diventa forma, la quale è perciò il contenuto medesimo in quanto è arte. La forma non è a priori, non è qualcosa che stia da sé e diversa dal contenuto, quasi orname.nto o veste, o apparenza, o aggiunto di esso; anzi è essa generata dal contenuto, attivo nella mente dell'artista: tal contenuto, tal forma. » zz8
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Positivismo ed hegelismo in Italia
La Letteratura italiana di De Sanctis ·non è strutturata secondo uno schema hegeliano, ma secondo )e acquisizioni storiografiche democratico-repubblicane. Se confrontiamo la ·storia della filosofia di Spaventa con quella di De Sanctis, dobbiamo riconoscere che questa presenta il pensiero filosofico, considerato parte essenziale della storia etico-politica e letteraria di una nazione, in netta antitesi a quanto afferma Spaventa. « Galileo, Bacone, Cartesio sono i veri padri del mondo moderno, la coscienza della nuova scienza. » Questa posizione giustifica un ricongiungiment.o con la cultura europea che riconosce nell'illuminismo le posizioni culturalmente più avanzate e l'antecedente del nuovo orientamento sperimentale, mentre Spaventa, riconoscendo in Galluppi, Rosmini e Gioberti i mediatori culturali della più avanzata cultura laica europea, accettava il cattolicesimo come tramite fondamentale della cultura liberale. In De Sanctis invece c'è l'aperto riconoscimento della validità del nuovo orientamento culturale, visto in stretta connessione con un più generale risveglio politico: « Nel suo cammino il senso del reale si va sempre più sviluppando, e le scienze positive prendono il di sopra, cacciando di nido tutte le costruzioni ideali e sistematiche ... La rivoluzione arrestata e sistemata in organismi provvisori ripiglia la sua libertà, si riannoda all'Ottantanove, tira le conseguenze. Comparisce il socialismo nell'ordine politico, il positivismo nell'ordine intellettuale. Il verbo non è più solo Libertà, ma Giustizia, la parte fatta a tutti gli elementi reali dell'esistenza, la democrazia non solo giuridica, ma effettiva. » La pubblicazione della Storia della letteratura fu un consapevole atto politico e culturale: quello di offrire appunto in un quadro complessivo e unitario la storia politica e intellettuale di una nazione, che attingeva così una nuova coscienza di sé. Con quest'opera la cultura borghese progressista dell'Ottocento raggiunge il punto più alto nella consapevolezza di una funzione egemone e rappresentativa dell'unità nazionale. Dopo, non sarà costruita nessun'altra storia letteraria con un impianto cosi organico e con direttrici di orientamento generale così avanzate. Anzi assisteremo al processo inverso, fino alle teorizzazioni crociane, tendenti a negare, in linea di principio, ogni possibile storia della letteratura italiana, se non come espediente didattico, per un buon uso divulgativo. Così l'adesione critica al positivismo, ampiamente motivata nella conferenza dell'I I marzo I883, Il darwinismo nell'arte, era preceduta dall'esatta definizione della funzione assolta da quell'idealismo che «piace alla colta borghesia, perché da una parte, rigettando il misticismo, prende un aspetto laicale e scientifico, e dall'altra, rigettando il materialismo, condanna i moti rivoluzionari, come esplosioni plebee di forze brute ».
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CAPITOLO NONO
Il dibattito sulla scuola in Italia fra la metà dell'Ottocento e gli inizi del Novecento DI RENATO TISATO
I
· CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE
Fra le critiche mosse alla classe cui toccò dirigere la politica italiana nei primi decenni seguenti l 'unificazione, assume particolare rilievo, per noi, a questo punto, quella di avere affidato all'educazione e in particolare alla scuola, il compito di « creare una unità nazionale operante nella coscienza dei cittadini », mentre il problema più urgente sarebbe stato quello di realizzare condizioni nuove di vita, eliminando i residui feudali, la miseria, le ingiustizie, le sopraffazioni. Tale inadeguatezza programmatica, poi, sembra imputabile, a volta a volta, ad « ignoranza» delle forze che obiettivamente dirigono l'andamento della storia (Dina Bertoni ]ovine) o a precisa volontà di far «credere che il progresso sociale si possa assicurare attraverso un sapiente cangiamento interno (alla struttura esistente) e non piuttosto attraverso il dialettico succedersi delle classi» (Massimo Salvadori). O utopisti in buona fede o consapevoli strumenti della conservazione del privilegio: pare che per i pedagogisti, gli uomini di scuola, i politici, che si interessano in questo periodo della creazione degli istituti, della determinazione dei contenuti e della elaborazione di metodi per una educazione di massa, non ci sia altra scelta. In realtà un aut-aut così assoluto finisce, per la sua stessa assolutezza, col risultare astratto. La questione coinvolge una valutazione non solo della realtà economica, sociale e politica italiana durante il periodo in esame, ma anche dei movimenti culturali contemporanei e, in primo luogo, del positivismo, che caratterizza l'epoca ed esercita un'influenza quasi egemonica nel campo pedagogico. Ovviamente, in questa sede, non possiamo che concentrare la nostra attenzione attorno a pochissimi punti essenziali, !imitandoci a identificare le linee direttrici per un approfondimento del discorso. La storiografia appare, oggi, pressoché unanime nell'accettare il giudizio di Gramsci secondo il quale l'argomento che vorrebbe ascrivere a «merito» delle classi colte di aver operato da « sole » nella lotta per il risorgimento nazionale, è un argomento « triviale e frusto » che va spazzato via. Al contrario, il non aver
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saputo agganciare e dirigere le masse popolari, impegnandosi per svilupparne i fermenti progressivi, va imputato a demerito, immaturità, debolezza intima. Senonché, qualora la mancata partecipazione delle masse venga ricondotta al ritardo generale sul piano della rivoluzione industriale e dell'accumulazione capitalistica- così che la rivoluzione nasce dall'esigenza di creare le condizioni generali perché le forze economiche capitalistiche possano nascere e svilupparsi, tesi anche questa sostenuta da Gramsci - si deve concludere che il mancato aggancio delle masse ebbe un complesso di cause « oggettive » e non si vede con quale coerenza, se è così, si possa parlare di« demerito» in rapporto all'« immaturità» e alla « debolezza » della borghesia italiana. È, comunque, indubbio che il periodo in esame è caratterizzato, per quanto riguarda la lotta politica, dall'antagonismo destra-sinistra, in un primo tempo, dal suo sbocco trasformistico in un secondo momento e dal suo superamento, alla fine, in funzione antisocialista. · Il problema, a questo punto, diventa: se esista oggettivamente una radicale opposizione tra le parti. La risposta, qualora si rifletta su quel che si è detto sopra e sulle caratteristiche della linea di sviluppo del rapporto fra i gruppi in questione, non può essere che negativa. La classe politica emersa dal risorgimento appare essenzialmente omogenea, indipendentemente dalle etichette ufficiali. Essa rappresenta gli interessi e le aspirazioni di un sottile strato della società italiana, ignorando i problemi delle grandi masse prevalentemente contadine.! Parrebbe facile inferire che, dunque, la funzione che una classe egemone così avulsa dai bisogni, dai problemi, dagli interessi delle masse deve attribuire alla scuola, non può essere che ipnotica, quietiva, caratterizzata dalla diffusione di dottrine provvidenzialistiche, razionalistico-oggettive. Senonché, una volta messo, ipoteticamente, fra parentesi il « pericolo » che le masse, istruite, diventino insofferenti del vigente stato di cose (supponendo, cioè, che tale pericolo possa essere completamente neutralizzato mediante un'opportuna saturazione della scuola di morale tradizionale e di ideologie religiose) è chiaro come una profonda trasformazione dell'organizzazione scolastica, anche sul piano meramente tecnico, non possa attuarsi senza un'altrettanto profonda trasformazione della società. Basti pensare, a titolo esemplificativo, l'immane sforzo finanziario ed economico che sarebbe richiesto dall'impegno a liquidare, nel tempo più breve possibile, l'analfabetismo strumentale di massa: creazione di infrastrutture edilizie, reperimento, formazione e retribuzione di insegnanti, fornitura gratuita di sussidi didattici, organizzazione delle refezioni e, al limite, mantenimento parziale o totale degli scolari. Emergono, evidentemente, enormi problemi di distribuzione del reddito nazionale, implicanti un dirottamento, a volte radicale, delle scelte e , . I Per dare un 'idea della pressoché universale accettazione di questa interpretazione, basterà ricordare che essa è com~ne:!; studiosi profondamen-
te diversi per orientamento e nettamente caratterizzati quali Croce, Saverio De Dominicis, Ivanoe Bonomi e Gramsci.
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al di là, problemi di incremento del reddito medesimo: dunque una vera rivoluzione, la quale, però, non può essere accettata da una classe politica caratterizzata dai tratti che sopra abbiamo considerato: la situazione si rivela, dunque, i:rrimediabilmente contraddittoria, almeno nel quadro di un capitalismo ancora tenacemente aggrappato ai principi dello stato liberale. A questo punto dobbiamo :riconsiderare lo stesso problema sul piano del pensiero :riflesso, esplicitato e :risolto con :rigore di metodo negli scritti dei principali pensatori. Si tratta, prima di tutto, di affrontare la questione della legittimità della :riduzione del positivismo a filosofia « borghese » in :rapporto funzionale con una determinata fase dello sviluppo capitalistico. Se si accetta dogmaticamente questa impostazione è facile giungere alla accusa amara e sarcastica secondo la quale i positivisti avrebbero giustificato il tentativo di compensare con la scarsa istruzione la grande miseria, le tasse insopportabili, le lunghe leve, in una parola lo sfruttamento (Be:rtoni ]ovine). Si può addirittura giungere, come abbiamo prospettato sopra, a sospettare che la ve:ra funzione attribuita alla scuola sia soprattutto quella di persuadere che il mondo attuale è il migliore dei mondi possibili. E, in verità, leggendo, per esempio, taluni passi di Aristide Gabelli, 1 in cui è scritto che «bisogna dire la verità alle masse» e che la verità consiste nell'affermazione che esistono «mali di cui non ha colpa nessuno e che nessuno, malgrado ogni buona volontà potrà mai guarire », non si può non :rimanere perplessi. Senonché sarebbe agevole dimostrare, testi alla mano, prima di tutto che Gabelli è f:ra i più moderati nei campo dei positivisti italiani; secondariamente che il passo citato si perde, negli scritti dello stesso Gabelli, in mezzo a tanti altri ispirati ad una concezione senz'altro più avanzata e progressiva. Complessivamente la tesi prevalente negli scritti dei positivisti non è quella pe:r cui si possa« compensare» la fame con l'istruzione, sebbene l'altra, per cui i I Aristide Gabelli nasce a Belluno nel I S30. Il padre, insegnante di matematica, è discendente di Gaspare Gozzi. Frequenta il ginnasio e il liceo a Venezia. Si iscrive in giurisprudenza all'università di Padova, dopo avere partecipato come volontario nella guardia nazionale alla difesa della repubblica, nel IS49· Dichiarato idoneo al servizio militare, si sottrae all'obbligo concorrendo a un posto di perfezionamento all'università di Vienna, dove rimane tre anni: dal I S54 al I S57. La permanenza a Vienna ha una grande importanza per la sua formazione, specialmente per il contatto in cui entra con numerosi tedeschi protestanti. Per sottrarsi ad una nuova çhiamata alle armi, nel IS59 esula e si stabilisce a Milano dove esercita l'avvocatura e collabora a numerose riviste giuridiche. Dopo l'unificazione entra nell'amministrazione pubblica: sarà provveditore agli studi di Roma e ispettore centrale. Nonostante l'incalzare di una
malattia inesorabile collabora in maniera decisiva alla creazione della scuola nazionale: fra l 'altro, nel ISSS, elabora i nuovi programmi per l'istruzione elementare. È deputato del collegio di Dolo e difende una linea di liberalesimo moderato. Muore nel IS9I. Scritti principali: Sulla corrispondenza dell'educazione alla civiltà moderna (IS66); L'uomo e le scienze morali (IS69); L'istruzione obbligatoria in Italia (IS7o); L'Italia e l'istruzione femminile (IS7o); L'insegnamento religioso e le scuole pubbliche (IS72}; Metodo di insegnare in relazione colla vita (IS73}; Del principio di autoritàpreuo le nazioni cattoliche (IS74}; Il metodo di insegnamento nelle scuole elementari d'Italia (ISSo); Su/lavoro manuale nelle scuole di Germania (ISS7); L'istruzione clauica (ISSS}; Sul modo di riordinare' l'insegnamento religioso (IS9o); Il metodo e gli asili Froebei(ISS9); Il positivi.rmo naturalistico in filosofia (IS9I).
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due problemi, quello della fame e quello dell'istruzione, vanno affrontati insieme. La consapevolezza non è, di per se stessa, né conservatrice né rivoluzionaria: diventa questo o quello a seconda della realtà obiettiva di cui prende atto. Non è una questione di scelta a priori fra conservazione e progresso. È piuttosto una questione di metodo nell'azione politica, discendente, a sua volta, dalla scelta operata fra il punto di vista secondo il quale l'idea fondamentale dell'etica democratica è l'idea del contratto sociale, e il punto di vista secondo il quale le contraddizioni, lungi dall'andar dissimulate, devono anzi essere approfondite, poiché solo quando esse sono insopportabili l'esigenza del superamento diventa più forte d'ogni resistenza. È facile, poi, dietro questa scelta, scorgere il più profondo significato dell'antitesi fra le due concezioni filosofiche che si dividono attualmente il mondo: quella empiristico-humiana e quella dialettico-hegeliana. Possiamo così avviarci a concludere questo discorso introduttivo: la fiducia nella diffusione della cultura fondata sulla scienza, quale strumento di rivoluzione pacifica non può a cuor leggero essere definita un 'utopia (o un tranello) « borghese », a meno che non si voglia declassare al rango di meramente borghese la rivoluzione metodologica del XVII secolo e, quindi, la nascita e lo sviluppo delle scienze; ragion per cui bisogna decidersi ad ammettere che rifiutare in toto il positivismo significa, se si vuoi essere coerenti, risalire il cammino percorso negli ultimi cinque secoli e ripiombare nella barbarie. Che la borghesia capitalistica, a un certo punto, abbandoni gli ideali del radicalismo illuminato non implica necessariamente la condanna di quest'ultimo: tutt'altro. In tale abbandono affiora, in realtà, la crisi di un paese troppo in fretta, e non per suo merito, approdato alla libertà. Così, mentre gli intellettuali si esaltano dei vari« ismi », rimasticando e mal digerendo gli scritti di Maurice Barrès e Charles Maurras, Bergson e Nietzsche, sognano avventure «uniche» ed «eroiche » e ringraziano la provvidenza che semina « il buon seme della morte nei pigri solchi dell'umanità », le masse, purtroppo ancora « pagane » proprio per carenza di cultura e in particolar modo di abito mentale « scientifico », si accingono a rendersi disponibili per la demagogia cattolica, per il massimalismo parolaio e imbelle e, da ultimo, per il fascismo. Del resto in questa interpretazione siamo confortati anche dal parere, sia pure singolarmente contraddittorio, di Antonio Banfi, il quale, dopo aver definito il positivismo frutto dell'euforia borghese in un periodo di prorompente progresso scientifico, tecnico ed economico ed aver aggiunto che, allorquando il capitalismo entra nella fase dell'imperialismo, la borghesia abbraccia principi regolativi di ordine irrazionalistico, mentre il positivismo rimarrebbe retaggio di intellettuali di secondo rango, piccolo borghesi riformisti, deve pur concedere che l'abbandono della fiducia nella scienza e nella tecnica (e nel positivismo che tale fiducia razionalizza e sistema) da parte della borghesia deriva dal fatto che scienza e tecnica « si sono mostrate capaci di spezzare il compromesso borghese tra idealità uni-
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versale e interessi particolaristici di una classe privilegiata e di estendere agli altri ceti la coscienza di un diritto e di una forza sociale». Si tratta di un'ammissione estremamente importante, in quanto libera la scienza e la tecnica dalla funzione meramente sovrastruttUrale a servizio della classe che le avrebbe generate e che se ne sarebbe servita al solo scopo di conquistare e di conservare l'egemonia, e le presenta come forze essenzialmente capaci di demistificare le ideologie e di promuovere l'universale acquisizione della coscienza delle forze che regolano la storia. Che l'intera politica italiana, nel periodo che stiamo esaminando, sia caratterizzata dalla tenace resistenza che le forze retrive o conservatrici oppongono ad ogni iniziativa mirante a realizzare forme di vita sociale più avanzate, è fuori discussione. Per il campo che ci interessa basterà pensare agli ostacoli incontrati dal principio dell'obbligo scolastico, sia in sede legislativa sia, e più, in fase applicativa e ai limiti finanziari e organizzativi che hanno svuotato di contenuto ogni tentativo di adeguare le scuole secondarie ai fini proposti dalle rinnovate esigenze della vita moderna o a rammodernare le strutture e la vita culturale dell'università. Quel che ci preme, qui, di porre in chiaro è in primo luogo il fatto che i positivisti furono tutti, sia pure con le sfumature di tono dipendenti dalla varietà delle angolazioni, contro questo stato di cose e che una lettura spassionata dei loro testi li rivela tenacemente e spesso lucidamente impegnati sulla via del progresso; secondariamente la validità del principio per cui ogni movimento che si proponga di attuare radicali, profonde, durature trasformazioni della vita sociale a tutti i livelli, non può non assumere un carattere essenzialmente pedagogico. Ciò vale particolarmente per la trasformazione della società in senso democratico, la quale dipende, sì, dalla crescente partecipazione di tutte le classi sociali alla direzione della cosa pubblica ma, appunto per questo, esige, perché tale partecipazione sia effettiva, la piena consapevolezza e, dunque, l'approfondimento della scienza dell 'uomo come realtà storica e la sempre maggiore diffusione della cultura. II ·LA LEGGE CASATI
Lo strumento fondamentale di cui la classe dominante si servirà per dirigere la politica scolastica italiana fino alla riforma del 192.3 e, in parte, anche oltre, è la Legge organica sulla Pubblica Istruzione del 13 novembre 1859, comunemente indicata col nome del ministro incaricato di redigeda, il vecchio patriota milanese Gabrio Casati, anche se la critica è ormai concorde nell'affermare che i veri autori della legge furono alcuni collaboratori del ministro: Achille Mauri e, soprattutto, il medico chioggiotto, rifugiato in Piemonte dopo il 1848, Angelo Fava. Questa legge, della quale Pasquale Villari dice che « è copiata, calcolata sulle migliori d 'Europa », mentre Gaetano Salvemini afferma trattarsi di un « sistema eclettico e composito» e alla quale la Bertoni Jovine muove l'accusa di rispondere
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solo agli interessi delle classi privilegiate, è varata, nonostante la sua ampiezza (ben 38o articoli) in soli quattro mesi, giovandosi il ministro e i suoi collaboratori del vantaggio loro concesso dal fatto di poter lavorare in regime di « pieni poteri » a causa dello stato di guerra. Ciò significa, in altre parole, che questa Magna Charta non fu mai sottoposta all'esame critico di alcun parlamento! Essa consta di cinque titoli, trattanti, rispettivamente (anche la distribuzione della materia ha il suo significato): dell'amministrazione centrale e locale (46 articoli); dell'istruzione superiore ( I4 I articoli); secondaria (84 articoli), tecnica (43 articoli), elementare e normale (58 articoli). Seguono otto articoli di disposi:doni finali e generali. Dal punto di vista amministrativo e disciplinare la legge impone alla scuola una struttura fortemente accentrata, .gerarchizzata, attribuendo estesissimi poteri al ministro e, localmente, ai funzionari (provveditori, ispettori) nominati dall'alto. Il consiglio superiore della pubblica istruzione, oltre ad essere costituito da membri di nomina regia, ha mera facoltà consultiva. La legge concede ad ogni cittadino che abbia compiuto i venticinque anni di età il diritto di aprire una scuola; esige però che possieda taluni specificati requisiti e lo impegna ad adottare i programmi delle scuole pubbliche e ad accettare il controllo delle autorità scolastiche statali. Diplomi e licenze possono essere concessi solo dalle scuole pubbliche, i cui insegnanti costituiscono le commissioni davanti alle quali sosterranno gli esami gli alunni provenienti dalla scuola privata. Vivaci proteste da parte di liberali e democratici provocherà, ad unificazione avvenuta, la progressiva estensione della legge ai territori via via annessi. Si vedrà, anche e specialmente in questa iniziativa, una chiara manifestazione della precisa volontà autoritaria di asservire le menti dei giovani allo stato mediante il .controllo della burocrazia e di instaurare un vero e proprio « monopolio dell'intelligenza nazionale». Dal punto di vista sociale il limite più grave è costituito, come vedremo, dalla scarsa sensibilità di fronte al problema della creazione di una seria e completa scuola popolare. Dal punto di vista culturale permane il distacco fra scuole tecniche e scuola umanistico-letteraria e il riconoscimento di una netta superiorità alla .seconda. Considerata, infine, come strumento di unificazione nazionale, la legge Casati rivela i limiti conseguenti all'impreparazione degli organi dirigenti piemontesi, per mancanza di indagini, statistiche e studi appropriati, ad affrontare il problema della creazione di un modello valido per tutto il paese. III · LA SCUOLA PRIMARIA
L'istruzione elementare è delegata ai comuni, ai quali spetta la creazione e manutenzione delle scuole, nonché la nomina e la retribuzione degli insegnanti. La legge, però, chiarisce che l'impegno fatto ai comuni è« secondo i bisogni degli 235 www.scribd.com/Baruhk
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abitanti» ma anche «in proporzione delle loro facoltà» (art. 3 I 7). Ora, è facile capire come fra i bisogni dei cittadini e le disponibilità delle finanze comunali la propo:rzionalità sia, di norma, inversa, ragion per cui dove il livello economico è più basso e l'istruzione meno diffusa il comune si trova ad essere sg:ravato dall'obbligo! Si aggiunga che le amministrazioni comunali, data la legislazione elettorale vigente, sono in mano ai gruppi più :retrivi e ci si :renderà facilmente conto della scarsa efficacia della legge quale strumento atto a liquidare l'analfabetismo strumentale. Si aggiunga che la legge stessa, mentre sancisce il principio dell'obbligatorietà e prevede, all'articolo 32.6, pene contro i trasgressori, :rimane sotto questo punto di vista, inapplicabile anche formalmente, dato che nessuna norma preciserà, fino al I877, quali siano queste pene. 1 Ma consideriamo, ora, questa scuola elementare un poco più da vicino. Due corsi, inferiore e superiore, biennali: solo del primo l 'istituzione è universalmente obbligatoria. La prima classe « può » (qualora ce ne siano i mezzi) essere sdoppiata in prima inferiore e prima superiore. In questo caso (che si verifica solo nei centri più popolosi e :ricchi) il corso completo viene ad essere quinquennale: perciò nei centri :rurali l'« obbligo » (e il diritto!) si esaurisce, quando va bene, in due anni, insufficienti anche a fornire un discreto possesso delle discipline strumentali, leggere, scrivere e fare di conto. Le materie di insegnamento sono: religione, lingua italiana, aritmetica. L'insegnamento del catechismo è obbligatorio e si svolge sotto il controllo dell'autorità ecclesiastica. È prevista la possibilità dell'esonero per gli acattolici. Il principio unificato:re è costituito dalla lingua materna. Di qui la funzione .p:reponderante attribuita alla lettura, attraverso la quale vengono offerte al fanciullo alcune nozioni di storia, geografia e scienze naturali. Le scuole si aprono il I 5 ottobre e si chiudono il I 5 agosto. Sono previste variazioni di calendario nei centri rurali, allo scopo di tener conto delle esigenze di lavoro nei campi. Le lezioni durano cinque ore, divise in due turni. Un maestro che insegni in due classi non dovrà avere più di settanta alunni. Qualora, invece, insegni in una sola classe gliene potranno essere affidati anche cento. L'articolo I37 del :regolamento del I86o prevede che «le scuole debbano essere salubri, con molta luce, in luoghi tranquilli e decenti ». Le scuole per maschi devono essere separate da quelle per femmine. In ogni scuola dovrebbe esserci una tettoia per la :ricreazione e un cortile attrezzato per esercizi ginnici. Il comune è tenuto a somministrare la legna da ardere; « è quindi abolito l'uso di costringere gli alunni a provvedere la legna o a pagare per ciò una tassa» (art. I4o). Per l'inchiostro, invece, il comune può chiedere un contributo alle famiglie. I
A sgravio, parziale o totale, degli obblighi
del comune, sono tenute in conto le esistenti scuole gestite da corporazioni o da privati.
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Il comune deve curarsi dell'istruzione militare degli alunni. Deve designare un istruttore e provvedere le armi necessarie(!) (art. I45)· Il problema della liquidazione dell'analfabetismo appare, all'indomani dell'unificazione, veramente ciclopico data la tragica situazione del paese. Nel I 865 il ministro della Pubblica Istruzione Natoli comunica le seguenti percentuali di analfabeti: complessivamente, per l'intero territorio, 75 %·In Basilicata, Calabria, Abruzzo, Campania si hanno punte sopra il 90%. I minimi sono quelli del Piemonte (57%) e della Lombardia (59%). Il minor numero di analfabeti si riscontra nelle province di Torino, Sondrio, Novara; il maggiore in quelle di Catanzaro, Reggio e Cosenza. Il quadro appare ancora più scuro se si considera la situazione della popolazione femminile: qui si passa dal 6o% del progredito Piemonte al 98% deila Basilicata e della Calabria. Una memoria pubblicata da Luigi Bodio nel I 89 I d fornisce una tavola còmparativa delle percentuali di analfabeti tra le reclute dei principali stati europei. Prendendo come campione l'anno I 876 abbiamo: Italia 5z %; Francia I 6 %; impero germanico z,3 7 %; Austria 4I %; Svizzera 4,6 %; Belgio I 8,40 %; Olanda I z %; Svezia o,9 %; Russia So%· Il lettore rifletta, poi, sul fatto che questi numeri si riferiscono all'analfabetismo «anagrafico». Ovviamente, considerando il fenomeno dell'analfabetismo cosiddetto «di ritJrno »,inevitabile per gente che ha malamente frequentato uno striminzito biennio come quello che abbiamo descritto, le cose andrebbero molto peggio. Per non parlare dell'analfabetismo intellettuale e civile, quello di chi sa alla meno peggio leggere scrivere e far di conto ma ignora le leggi della vita assodata e le conquiste della scienza, di chi, insomma, per usare una frase di Filippo Turati (I 9oS) «è al di sotto della civiltà moderna, inferiore alle esigenze dell'industria, del lavoro, dell'emigrazione » ed « è un impaccio alla democrazia, poiché democrazia è nome vano senza subbietto quando manca il cittadino nell'uomo». Una delle più gravi difficoltà da affrontare per la soluzione del problema dell'analfabetismo è costitl.;li.ta dal reperimento e dalla formazione dei maestri. Impresa veramente imponente, se si pens·a che gli alunni della scuola primaria, che sono 1.458.ooo nell'anno I870-7I, saranno 3.ooo.ooo nel I907-o8, anno nel quale, però, in base ai dati a disposizione del ministro Luigi Credaro, dovrebbero essere, se l'obbligo fosse universalmente rispettato, ben cinque milioni! Ora, anche se la legge Casati prevede, come sappiamo, di assegnare ad ogni maestro settanta e perfino cento alunni, resta pur sempre la necessità di poter disporre, in un tempo ragionevolmente breve, di molte. decine di migliaia di nuovi insegnanti. Riprendendo la legge Lanza del I 8 58, la legge Casati prevede l'istituzione di una scuola « normale » triennale, alla quale possono essere ammessi i maschi che abbiano compiuto i sedici e le femmine che abbiano compiuto i quindici anni, che abbiano completato il corso elementare e superato uno speciale esame. L 'anomalia costituita dalla mancanza di un corso inferiore che saldi la
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scuola normale alla primaria, sarà progressivamente eliminata mediante l'istituzione di un corso prima biennale (I 88o), successivamente triennale (I 888), indicato in un primo tempo come «preparatorio » e successivamente (I 896, legge Gianturco) come « complementare », in quanto assumerà anche la funzione di completare l'educazione delle ragazze della piccola borghesia. I maschi, perlopiù, arrivano alla normale dal ginnasio o dalla scuola tecnica. Lo stato dell'insegnante elementare è estremamente misero. Basti dire, per quanto riguarda il trattamento economico,· che esistono ben ventiquattro classi di maestri: rurali (di prima, seconda e terza classe a seconda del numero di abitanti del centro in cui prestano la loro opera) e urbani (ancora di prima, seconda e· terza classe) ; secondo il corso : inferiore (prima e seconda) o superiore (terza e quarta) e il sesso. Sì: perché la legge prevede che, ceteris paribus, una donna percepisca un terzo in meno di un uomo! Cosicché gli stipendi oscillano da un minimo di lire 366 annue ad un massimo di I 320. Si tenga presente che la stessa legge prevede che un professore di liceo percepisca lire 264o e un universitario 5000. (D'altra parte anche gli universitari si sentono umiliati quando confrontano le loro 5ooo lire con le I 5.ooo dei colleghi francesi e con le 3o.ooo dei prussiani!). Non sono previsti, fino al I886, «scatti» periodici e soltanto nel I 89o si liquideranno le prime pensioni a 32 maestri e a 29 maestre, benché il principio si trovi già nella legge del I 8 59 e il disegno in proposito sia stato presenta t o alla Camera nel I 87 2. Né le cose vanno meglio dal punto di vista giuridico. I maestri sono in balìa delle amministrazioni comunali: di qui innumerevoli piccoli e grossi arbitri nelle assunzioni e nei licenziamenti, ritardi nel pagamento del già misero stipendio, umiliazioni di fronte a qualche parroco o a qualche maggiorente urtato dalla relativamente notevole autorità morale che spesso il maestro ottiene. A questi mali verrà in parte a rimediare la legge che va sotto i nomi dei ministri Daneo e Credaro, la quale, nel I 9 I I, avoca l 'amministrazione di tutte le scuole primarie, eccettuate quelle dei capoluoghi di provincia e di circondario, alla diretta tutela dello stato. Per farsi un'idea adeguata della scuola non basta, però, considerarne la struttura e l'amministrazione; è necessario studiarne i contenuti culturali e valutarne i metodi. Un esame, sia pure a grandi linee, di argomenti così ampi e vari, richiederebbe un capitolo a sé. Ci limiteremo a richiamare l'attenzione su tre punti. È diffuso, anche fra gli studiosi, l'equivoco, di origine gentiliana, di identificare la scuola italiana del tardo Ottocento e del primo Novecento con una scuola nozionistica e al tempo stesso soffocata da un rigoroso didatticismo « in quanto » ispirata ai principi pedagogici del positivismo. I positivisti, cioè, sarebbero responsabili non solo, come abbiamo già visto, di aver affermato la tesi secondo la quale i grandi problemi della società avrebbero potuto e dovuto essere affrontati e risolti essenzialmente sul piano dell'educazione, ma anche di aver proposto un
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tipo di educazione fondato sulla despiritualizzazione, sulla naturalizzazione dell'educando, ridotto a macchina, a passivo vaso da riempire, strumento da manovrare secondo leggi esclusivamente biologiche. Ora, nessuna accusa è infondata, nei riguardi della pedagogia positivistica, più di quella di nozionismo. Ad apertura di pagina, leggendo (ovviamente senza prevenzione!) i testi di Comte e di Spencer, di Gabelli, Ardigò, Angiulli,l Siciliani,2 De Dominicis,a per non citare che i più noti, ci si rende conto che, per loro, le nozioni acquisite hanno un valore essenzialmente strumentale, in vista del pro movimento di una piena maturità di giudizio. In altri termini: precisamente negli scritti pedagogici dei positivisti si nota quel rovesciamento dei rapporti fra i contenuti del sapere e i modi del suo apprendimento che costituisce uno dei motivi essenziali fra quelli che caratterizzano il passaggio dal vecchio al nuovo modo di intendere il fatto educativo: l'attribuzione del primato non più al « sapere », allibro quale deposito del sapere e al maestro quale interprete del libro, bensì al discente, coi suoi interessi, le sue attitudini, le sue caratteristiche irripetibili. Nelle «Istruzioni generali» premesse ai programmi del 1888 (opera di Gabelli), leggiamo, per esempio, che «la mira ultima di tutto l'insegnamento non è riposta tanto nelle cognizioni stesse, quanto nelle abitudini che il pensiero acquista dal modo in cui vengono somministrate ... ». E in che consiste, concretamente, questo modo? Nel procedimento cosiddetto di filosofia teoretica p~esso l'università di Bologna I Andrea Angiulli nasce a Castellana (Bari) nel I 8 37. Studia scienze naturali e filosofia a Na- dove terrà anche, per alcuni anni, l'incarico di pepoli, dove acquista anche una sicura conoscenza dagogia. Le sue lezioni sono sempre affollatissime delle lingue francese, tedesca e inglese. Durante la di insegnanti, provenienti anche dalle province rivoluzione del I 86o funge da legame tra il comi- limitrofe e costituiscono uno dei più efficaci veicoli tato centrale di Napoli e quello di Bari. Dal I 862 di diffusione del positivismo nell'ambiente scolastico. Collabora al periodico l'« Avvenire dei maestri ~1 I865 è in Germania per studio. Successivamente si reca a Parigi ed a Londra. Professore di liceo a elementari», che si batte vigorosamente per il rinCatania e successivamente a Napoli, dove subisce novamento delle scuole magistrali e per la diffusioduri attacchi per le sue idee, è dal ministro Cor- ne di una letteratura pedagogico-didattica più seria renti incaricato dell'insegnamento della pedagogia ed ispirata ai moderni criteri scientifici. La divule dell'antropologia all'università di Bologna. Nel gazione da lui data al principio della laicità della I876 torna a Napoli quale ordinario di pedagogia scuola contribuisce a rafforzare quel movimento e, in seguito, anche quale incaricato di filosofia di opinione pubblica che renderà possibile l'approteoretica. Volendo conoscere da vicino la scuola vazione, nel I877, della legge Coppino. Muore a per l'infanzia, accetta di insegnare etica e psicologia Bologna nel I 88 5. Opere principali: La legge storica e il movimento in una scuola normale froebeliana fondata dalla filosofico del pensiero italiano (I 862); Sul rinnovamento signora Schwabe. Muore nel I89o. Opere principali: La filosofia e la ricerca posi- della filosofia positiva in Italia (I 872); Socialismo, tiva (I 868); La pedagogia e la filosofia positiva (I 872); darwinismo e socio!ogia moderna (I879); Discorsi peQuestioni di filosofia contemporanea (I 873); La pedago- dagogici (I88o-8I); Sull'insegnamento religioso ai bamgia, lo Stato e la famiglia (I876); La filosofia e la bini secondo i dettami della filosofia scientifica (I 8 8 I); scuola (I888). Nel I872 fonda la rivista «La cri- La scienza nell'educazione (3 ed. I88I); Rivoluzione e tica e la scienza positiva», che avrà vita breve. pedagogia moderna (I 8 8 2); S loria critica delle teorie Nel I 88 I comincia a pubblicare la « Rassegna cri- pedagogiche in relazione con le scienze politiche e sociali tica » che dirigerà fino alla morte. (I882); La scienza dell'educazione secondo i principii 2 Pietro Siciliani nasce a Galatina (Lecce) della sociologia moderna (3 ed., I 884). nel I 8 35. Si laurea in medicina ma il suo interesse 3 Saverio De Dominicis nasce a Buonalberprincipale è per la filosofia e la pedagogia. Profes- go (Benevento) nel I 846. Compie i suoi studi alsore di liceo a Firenze, ottiene nel I 867 la cattedra l'università e scuola normale superiore di Pisa,
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« oggettivo », « figlio legittimo del metodo sperimentale che ha rinnovato la scienza» (Gabelli). Partire dai «fatti» e procedere, induttivamente e gradualmente, verso i concetti, le leggi, i principi. Solo così si potranno creare « teste chiare », uomini nei quali le idee scendano al cuore per illuminare il sentimento, laddove, di fatto, spesso è il sentimento che dal cuore monta ad offuscare la mente. Non possiamo scendere nei dettagli: ci sembra però necessario mettere in evidenza come, per i positivisti italiani, l'adozione di questo metodo sia intesa come la condizione necessaria e sufficiente per port~re il popolo a superare l'abisso che attualmente separa l'arretratezza del costume dalla modernità degli istituti. Ci sembra doveroso dichiarare, a questo proposito, che se possiamo essere d'accordo nel ritenere intellettualisticamente ottimistica la fede nella« sufficienza» dell'educazione, e sia pure di un'educazione cosi intesa, non potremmo essere in alcun caso d'accordo con chi pretendesse di respingere anche la «necessità»: un simile rifiuto, infatti, dovrebbe giustificarsi solo mediante il ricorso ad una specie di astuzia della ragione attuantesi, però, con singolare contraddizione, attraverso incontrollate esplosioni irrazionali. «Bisogna creare l'abitudine al dubbio intellettuale, da cui nascono la critica, nel più fortunato dei casi la scoperta, nel più frequente il convincimento. » Ecco: creare convinzioni che si fondino sull'osservazione dei fatti, naturali e socialj e sul vaglio critico delle opinioni, nostre ed altrui. Solo per questa via sarà possibile fare degli italiani un popolo consapevole e resp~nsabile, maturo per affrontare i vantaggi ed i rischi della libertà. Scuola « formativa », dunque, in direzione di quella che oggi definiamo edu.cazione civica; scuola che educa non tanto informando quanto formando abitudini corrette di ragionamento e di comportamento. Che una simile formazione non possa risultare da quella misera cosa che è la « scaletta di due classi » resa veramente obbligatoria solo nel 1877 dalla legge Coppino, per di più, come nota amaramente Antonio Labriola, solo superando una sorda e tenace resistenza alla Camera, quella scaletta che « la sua piccineria rese quasi invisibile» è, purtroppo, ovvio. Resistenza di parte dell'opinione pubblica (di quella parte che «conta»), scarsa preparazione degli insegnanti, spilorceria <
dove si laurea con una tesi su Galilei e Kant o l'esperienza e la critica nella filosofia moderna, pubblicata nel I874· Professore di liceo a Cremona, Venezia, Bologna e Pisa, solleva dovunque grandi simpatie e altrettanto vivaci ostilità per le sue teorie darwiniane, per il suo carattere indipendente, a volte quasi eccentrico e per il suo orientamento politico democratico-radicale. Dal I88I è professore di pedagogia all'università di Pavia. Muore nel I930. Partecipa autorevolmente a numerosi congressi nei quali si dibattono le gravi questioni della preparazione dei maestri, della riforma della scuola normale e dell'università. I suoi scritti e in, particolare i suoi trattati di pedagogia generale costituì-
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ranno fino all'inizio del nuovo secolo la principale fonte per la preparazione degli insegnanti elementari. Opere principali: L'antropologia in relazione all'educazione nazionale (I87I); La dottrina dell'evoluzione (I878-8I); L'odierna missione dello stato nell'istruzione pubblica (I88I); La thttrinafroebeliana nel movimento della pedagogia moderna (I882); L'ordinamento della scuola elementare (I 88 3) ; La scuola popolare e i giardini Froebel (I884); Il concetto pedagogico di Augusto Com/e (I884); Studi pedagogici (I884); Linee di pedagogia elementare (I896-98); Idee per una scienza dell'educazione (I 908- II); Principi di morale sociale (I909).
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dello stato nei riguardi della scuola: tutto ciò non poteva non portare ad uno schiacciamento del programma pedagogico dei positivisti, ad una sua riduzione a schemi elementarizzati e stereotipi, ma in tutto questo l'impostazione positivistica c'entra ben poco! E sono precisamente i pedagogisti i quali, consapevoli di tutto ciò, si battono a fondo, non solo per il miglioramento della scuola, ma per la creazione, accanto ad essa, di tutta una serie di iniziative integratrici: università popolari, biblioteche circolanti, asili, ricreatori laici ecc. Sarà una campagna anche delle forze politiche democratiche e radicali ma, ancora una volta, destinata ad insabbiarsi a causa della tenace resistenza dei ceti privilegiati e dello scarso entusiasmo delle masse. Alla seconda accusa, quella di didatticismo, si possono contrapporre due _risposte: 1) In primo luogo è necessario non dimenticare lo scarso livello culturale dei maestri, che rende inevitabile l'elaborazione e l'imposizione di uno strumento capace di funzionare, per dirla con Pestalozzi, in modo autonomo, indipendentemente, o quasi, dalla capacità di colui che se ne serve, dalla cultura generale e speeifica e dalle particolari attitudini del docente. z) In secondo luogo si deve ricordare la sopravvivenza, nella società italiana del periodo in esame, di imponenti residui di spirito autoritario. Pretendere che in una società strutturata gerarchicamente in tutte le sue articolazioni, dalla famiglia allo stato; per la quale le virtù supreme sono il rispetto dell'ordine costituito e il volonteroso adeguarsi alle direttive e al pensiero dei « superiori », potesse affermarsi una scuola stimolatrice di iniziative personali, suscitatrice di problemi più che dispensatrice di soluzioni, una scuola del dialogo, identificante la disciplina con la sincerità e l'operosità anziché con l'immobilità e il silenzio, e il profitto con l'impegno nella ricerca anziché con la puntuale ripetizione del verbo del maestro cristallizzato nel « libro », sarebbe, più che velleitario, grottesco. Pochi cenni sulla questione dei contenuti: essi sono quelli che la situazione generale fin qui illustrata concede. È interessante, analizzando le circolari, le disposizioni generali, le riforme, rintracciare la linea sinuosa seguita dai vari ministri, ansiosi da un lato di accrescere il bagaglio culturale minimo delle masse e dall'altro timorosi di imporre piani di studio eccessivamente ampi, densi, difficili, per gli alunni ed anche ... per i maestri. Questo almeno fino alla legge Orlando (1904). Questa legge estende l'obbligo fino ai dodici anni ed anticipa alla fine della quarta classe l'esame di ammissione alle scuole secondarie. Quinta e sesta classe vengono così ad assumere il carattere di « scuola popolare ». Ne deriva la necessità da un lato di concentrare in quattro anni quel che prima era distribuito in cinque, dall'altro di fornire, nei due ultimi anni, al cittadino che lascerà gli studi, almeno gli elementi di quel contenuto culturale il cui possesso è ormai ritenuto indispensabile. Ben più ampio discorso meriterebbe, invece, l'« ideologia», che permeando
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l'atmosfera della scuola le attribuisce quella capacità formativa che la società richiede. Anche a questo proposito ci limiteremo a pochi tratti indicativi, cominciando dall'aspetto più evidente del problema dell'ideologia, vale a dire dalla sua dimensione religiosa. La legge Casati, all'articolo 3I 5, pone tale insegnamento al primo posto. Il regolamento applicativo del I 86o, agli articoli 2. e 38, stabilisce la possibilità dell'esonero, parlando, equivocamente, una volta di fanciulli «che non professano il culto cattolico» e un'altra di «allievi appartenenti a culto non cattolico». Il pasticcio è paradigmatico, l'equivoco sarà infatti la caratteristica dominante di tutte le disposizioni legislative e di tutte le circolari ministeriali emanate, in materia, durante i decenni successivi. · Già nei programmi del I867 (ministro Coppino) notiamo, non senza stupore, l'assenza di qualsiasi indicazione relativa alla religione. Nel I87o, esattamente il 2.9 settembre, vale a dire nove giorni dopo Porta Pia, il ministro Correnti precisa, con una circolare, che la religione dovrà essere insegnata solo ai fanciulli la cui famiglia ne abbia fatta esplicita richiesta, capovolgendo così la situazione prevista dalla legge del I859· La legge del I877 (Coppino) non solo non contempla la religione tra le materie obbligatorie, ma colloca al primo posto fra tali materie « le prime nozioni dei doveri dell'uomo e del cittadino». Ciò fa pensare a molti interpreti che l'insegnamento della religione debba considerarsi ufficialmente soppresso. Comincia a questo punto tutta una storia di « eleganti » casi giuridici, che vedono implicati amministrazioni comunali, gruppi di famiglie « impegnate » e il Consiglio di stato. Si sottilizza nel distinguere fra diritto-dovere delle amministrazioni e diritto-dovere delle famiglie, fra obbligatorietà della scuola e obbligatorietà delle materie di studio, fra legge e regolamento e così via. Da un'attenta lettura dei documenti e da una spassionata considerazione di questo equilibrismo, si inferisce la sostanziale incertezza della classe politica, la quale, pur nell'indiscutibile attrito, a volte molto aspro, con la chiesa, evita la definitiva rottura su di un terreno così delicato e, soprattutto, non vuole rinunciare completamente ad uno strumento di manipolazione delle masse rivelatosi, in ultima analisi, durante tanti secoli, il più efficace. La sostanziale omogeneità della classe dirigente comprende, ovviamente, anche quegli strati di borghesi clericali che il non expedit costringe fuori della vita politica attiva, per cui appare centrato quel giudizio di Croce che parla di «coincidenti interessi e di tacito accordo» tra Italia e chiesa« pur nel fragore delle invettive e delle controinvettive che l'uno e l'altra dovevano recitare sul teatro del mondo». Così, quando, nel I9o8, Leonida Bissolati cercherà di costringere il parlamento ad uscire dall'equivoco presentando una mozione che« invita il governo ad assicurare il carattere laico della scuola elementare, vietando che in essa venga impartito, sotto qualsiasi forma, l 'insegnamento religioso », il parlamento boccia la mozione concedendole solo 6o voti a favore su 407. Ma a quell'epoca, dopo il
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grande sciopero del 1904 e la liquidazione de facto del non expedit, la convergenza tra moderatismi, laico e clericale, è già in atto e muove fatalmente verso le decisive tappe del patto Gentiloni e dei patti lateranensi. Per quanto riguarda la« controparte», cioè la chiesa, c'è ben poco di nuovo da rilevare. Dal Sillabo (1854) alle encicliche Aeterni Patris (1879), Libertas (1883), Immortale Dei (1885) di Leone xm, alla Pascendi di Pio x (1907) è un continuo ribattere lo stesso tasto, sia pure con qualche differenza di maniera e di stile. La scuola è « libera » solo di insegnare il vero e il buono, fermo restando che il giudizio ultimo in materia è sempre e solo quello della chiesa. Se mai questa accetta, entro certi limiti, il gioco liberale, è solo in via di « ipotesi », in quanto, cioè, le circostanze lo rendano indispensabile o per lo meno opportuno, secondo il principio per cui dove è al potere la chiesa tien ferma l'idea di uno stato confessionale, mentre << dove si trova in minoranza essa reclama il diritto alla tolleranza e alla libertà di culto» (Alfredo Ottaviani). Per quanto riguarda, infine, l'atteggiamento che di fronte al problema in esame assume il pensiero laico riflesso, vale a dire il pensiero positivistico, ci limitiamo, per forza di cose, ad alcune rapide considerazioni. Prima di tutto: lo schieramento è tutt'altro che omogeneo e vede notevole distanza fra la posizione benevola verso la religione di un Gabelli (per il quale l'educazione religiosa, opportunamente riformata, costituirebbe un fattore di saldatura sociale e nazionale e l 'unica forma di educazione morale concepibile per le masse), l'atteggiamento rigorosamente scientista di Angiulli (per il quale tutti i gradi della scuola e perfino il giardino d 'infanzia devono essere permeati di una spiritualità filosofico-positiva) e quello estremamente battagliero e conseguente di Siciliani, il quale, solo, giunge a negare, in nome della libertà dell'educando, il diritto di imporre il proprio credo religioso non solo alla chiesa e allo stato ma anche alla famiglia. In generale, però, prevale una cauta tendenza a identificare la laicità con la neutralità, con l'agnosticismo, o addirittura con l'« incompetenza» dello stato in materia religiosa (è questa la formula che verrà più volte proposta anche da Gaetano Salvemini). Si tratta di un atteggiamento opportunistico che nasconde la già accennata disponibilità per un rinnovamento dell'alleanza con la chiesa e che ha le sue radici nella sostanziale sfiducia nelle masse, in quella teoria dei « due popoli», l'uno senziente l'altro raziocinante, cara alla tradizione culturale italiana dal rinascimento in qua: « un popolo di filosofi non lo avrete mai (Gabelli) ». Del resto, anche sul piano più propriamente filosofico, le soluzioni proposte dai positivisti nostrani al problema della collocazione del fatto religioso entro il quadro della vita spirituale, rivelano, pur nella varietà delle sfumature, incertezze e contraddizioni notevoli e non vanno più in là di un èclettico accoglimento delle tematiche già proposte da Comte e da Spencer. La dimensione religiosa, se costituisce l'aspetto più vistoso del problema 243 www.scribd.com/Baruhk
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dell '.ideologia, non ne è, però, fattore unico. Pur nella sua modestia e incertezza, il laicismo non rinuncia ad essere « formativo ». Al di là dei programmi e delle circolari che ne illustrano lo spirito e ne suggeriscono l'interpretazione, sono i libri di testo e soprattutto i libri di lettura che forniscono una incomparabile fonte d'informazione, purtroppo, finora, mai sfruttata in maniera sistematica. Ci limiteremo a toccare due punti, che permettono di concludere che soprattutto a questo livello si rivela quanto di indottrinante e di alienante c'è effettivamente nella scuola italiana e massimamente nella scuola primaria. Prima di tutto la trinità dio-patria-famiglia, che si traduce nella diffusione di una concezione provvidenzialistica della storia, di un filantropismo paternalistico e di un patriottismo retorico. Quest'ultimo è agevolmente rintracciabile anche nel particolare «tono» che viene assumendo l'educazione fisica, progressivamente distorta nel senso dell'esercitazione premilitare, chiaro sintomo dell'incipiente esplosione nazionalistica. Il secondo punto su cui ci sembra opportuno richiamare l'attenzione del lettore è quello che riguarda la coesistenza, accertabile ad apertura di pagina dei vecchi libri di testo e, soprattutto, dei libri di « amena lettura », di due tematiche morali, mirabilmente riassumibili in due proverbi: « Chi si contenta gode » e «volere è potere». Qualche studioso (Bertoni ]ovine) afferma che, dopo tanti secoli durante i quali si era abituato il popolo ad accontentarsi, ora lo si conduce ad una sorta di insofferenza e ad un esagerato desiderio di evasione. Ci sembra che, in realtà, i due temi coesistano, con finalità, ben inteso, nettamente distinte: da una parte l'invito al giovane borghese all'arrampicata sociale, ardita e magari spregiudicata; dall'altra il quietivo per i più, destinati ancora ad una vita meschina, il tutto in un'atmosfera moralistica e individualistica che esclude qualsiasi prospettiva di soluzione connessa con profonde trasformazioni strutturali. IV · LA SCUOLA SECONDARIA
Dei tre tipi possibili di ordinamento della scuola secondaria: scuola unica lungo l 'intero corso; pluralità di scuole lungo l 'intero corso; scuola unica durante un primo grado « inferiore » e pluralità nel grado superiore, in Italia prevale in modo assoluto, salvo alcuni tentativi nel Lombardo-Veneto e successivamente in Piemonte, fin dopo la metà del XIX secolo, il primo. Naturalmente si tratta di una scuola umanistico-letteraria. Scrive a questo proposito Isidoro.Del Lungo: « ... poco e mal curato italiano; storia appena di nomi e così la geografia; un pizzico di greco; filosofia in dose misurata e infine un picco! catechismo di scienze esatte schematizzato ... La cosa, poi in fondo, che sola si studiava a buono era il latino ... » Gabelli nota che «alla metà del secolo l'istruzione [secondaria] classica era l'unica che esistesse» e che ancora nel I 886 «noi avevamo, fra pubblici e privati, 737 ginnasi e 326 licei». 2.44
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Senonché, dopo l'unificazione, anche in Italia, sotto la spinta della rivoluzione industriale, si verifica la rottura dei quadri della cultura tradizionale. La legge Casati, sia pure con molta cautela, non può non prenderne atto, facendo posto, nel ginnasio e maggiormente nel liceo, alla matematica, allà fisica, alla chimica e alle scienze naturali, accanto alle discipline tradizionali} Questa apertura, che pure a molti tradizionalisti appare eccessiva, foriera di caos, vero cavallo di Troia atto a favorire la invasione del liceo da parte di giovani provenienti da ambienti socioculturalmente scadenti e, comunque, non destinati all'università, alle professioni libere ed ai posti di comando, si rivela tuttavia insufficiente. Ecco, allora, l'istituzione della scuola tecnica e dell'istituto tecnico entrambi triennali. 2 L 'istruzione tecnica « ha per fine di dare ai giovani• che intendono dedicarsi a determinate carriere del pubblico servizio, alle industrie, ai commerci ed alla condotta delle cose agrarie, la conveniente cultura generale e speciale » (art. 2.72.). Scuole ed istituti tecnici sono finanziati per metà dallo stato e per metà dai comuni (le prime) o dalle province (i secondi). L'insegnamento dovrà essere impostato in maniera da tener conto delle applicazioni e dei risultati pratici, con particolare riguardo alle condizioni naturali ed economiche dello stato e delle singole province. L'istituto tecnico può essere articolato in «sezioni» (per ragionieri, geometri, agronomi, esperti industriali, più la sezione cosiddetta fisicomatematica di cui diremo appresso). Fra istituto e scuola tecnica non c'è alcun legame organico né per quanto riguarda i contenuti e i metodi né per quanto si riferisce all'amministrazione e alla disciplina. La « scuola », infatti, assomma in sé ben tre finalità; quella di completare la cultura generale di chi non potrà procedere; quella di fornire una preparazione professionale di modesto impegno; quella di preparare all'istituto. Precisamente la contraddittorietà di questi fini toglie efficacia e chiarezza all'azione della scuola, come verrà subitp rilevato da numerosi critici. A questo punto appare chiaro come, anche in Italia, al vecchio sistema basato sulla scuola unica se ne sia sostituito, di fatto, un altro, fondato sulla tripartizione.a 1 Per dare al lettore un'idea più concreta dell'orario settimanale può essere utile segnalare che mentre in prima ginnasio sono previste: 8 ore d'italiano, 9 di latino, 3 di geografia, e 2 di matematica (totale = zz), in terza liceo si hanno: 3 ore di italiano, 4 di latino, 3 di greco, 41 / 1 di storia, 4 di matematica, 4 di fisica e chimica, 2 di storia naturale e geografia fisica, 3 di filosofia (totale = 271 /.). 2 Nel 1870 l'istituto verrà trasformato in quadrierinale. ~ In un certo senso la contrapposizione fra scuola umanistico-letteraria e scuola tecnico-Scientifica è meno grave di quella fra « scuola » tecnica
e « istituto ». La ·linea di demarcazione di classe, fra coloro che possono far studiare i figli fino verso i vent'anni e quelli che non possono mandarli a scuola oltre i quattordici-quindici passa all'interno dei due campi culturali. Indipendentemente dal problema della creazione di un triennio di scuola secondaria di primo grado unico, di cui si fa cenno più avanti, è indiscutibile l'esistenza di un processo di convergenza. Un decreto del 1888 istituisce l'esame di licenza ginnasiale inferiore, al duplice scopo di permettere a chi debba lasciare gli studi di avere un certificato che ammetta in uffici secondari e di facilitare il passaggio dalla scuola classica alla tecnica
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Il liceo-ginnasio continua a conservare la funzione specifica di preparare all'università, mediante lo studio delle lingue e delle letterature antiche, i giovani appartenenti alla classe egemonica. Però nel monopolio si apre una smagliatura allorché, già nel I 86I, si concede ai giovani che abbiano frequentato la sezione fisico-matematica di accedere a talune facoltà universitarie. 1 . Del resto gli istituti tecnici non risulteranno, per alcuni decenni, gran che rispondenti alle aspirazioni del pubblico. Nel I 874-75 gli iscritti alle scuole ed agli istituti tecnici sono 24.273 contro 41.997 iscritti ai licei-ginnasi. Ancora nel I89o-9I essi saranno 41.98I contro 71.751. Finalmente, nel I9oo-oi, passeranno a 48.054 contro 45.505 e nel I9o8-o9 a 91.357 contro circa 75.ooo. Particolarmente faticoso è il decollo delle sezioni agraria e industriale: la tenace convinzione che nulla, meglio dell'esperienza diretta sul campo e nella fabbrica, possa creare.il buon dirigente d'azienda agricola ed il buon capo officina, fanno sì che per parecchio tempo gli iscritti alle, del resto poche, sezioni siano in numero addirittura irrisorio, tale da far dubitare dell'opportunità di affrontare, per loro, spese ingenti. Contemporaneamente, la polemica contro il distacco esistente fra scuola tecnica ed istituto ed il prevalere della tesi secondo la quale la « scuola » dovrebbe fornire una cultura di base non professionale, generale e formativa per quanto diversa da quella impartita nei ginnasi sembra preludere ~Ila creazione di una scuola secondaria completa, parallela al liceo-ginnasio, diversamente ispirata ma di pari dignità. Così la scuola secondaria italiana si avvia verso la soluzione « binaria », sia pure con molta riluttanza a riconoscere pari diritti ai corsi paralleli. Si tratterà, però, di una gestazione assai lunga e faticosa se, come vedremo, non sarà ancora giunta a conclusione (se non attraverso improvvisazioni demagogiche e provvisorie) ancora nel I969! Ciò non vuol dire che non si riscontrino, nel periodo preso in esame, tentativi miranti a realizzare: .a) una secondaria unica lungo tutto l'arco: Cesare Correnti, nel I 870, presenta il progetto di fondere tutte le scuole secondarie in una sola, articolata in tre gradi, con poche materie fondamentali comuni a tutti gli studenti ed altre opzionali a seconda dell'indirizzo scelto via via. b) una scuola secondaria unica limitatamente al primo grado. È quest'ultimo il campo dei dibattiti più vivaci e frequenti che sembrano talora prossimi a sfociare in conclusioni positive. Terenzio Mamiani nel I 86 3; Giovanni Maria Bertini e viceversa. Significativa, sotto questo punto di vista, è anche la differenza delle tasse scolastiche. Per il ginnasio inferiore e la scuola tecnica esse sono (anno r884-85): ammissione lire 5; frequenza re; esame 15. Per il liceo, e l'istituto tecnico: ammissione 40; frequenza 6o; esame 75· Un ragazzo che frequenti l'ultimo anno di liceo o di istituto tecnico costa, dunque, solo di tasse, lire
r 3 5. Si tenga presente che, nello stesso tempo, lo stipendio mensile di un professore di liceo è di circa lire ~oo. r Matematica e scienze, biennio propedeutico per la scuola di applicazione di ingegneria, nonché, successivamente, altre scuole superiori di commercio, agricoltura, nautica, nonché scuole militari.
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nel I 8 6 5, Michele Coppino nel I 867, Paolo Boselli nel I 890 elaboreranno progetti che, però, o non giungeranno neppure alla discussione in parlamento o saranno insabbiati o bocciati. Un cenno particolare merita il punto di vista sostenuto da Giuseppe Tarozzi nel congresso del I905 della Federazione nazionale insegnanti scuola media. Egli nota, acutamente, che la posizione di privilegio attribuita alla scuola classica trae origine non solo dalla supposta sua maggiore attitudine a preparare all'istruzione universitaria mediante la formazione linguistico-letteraria, ma dalla convinzione che essa tuteli « il carattere etnico e patrio della cultura », collegando così educazione classica ed orgoglio patriottico-razziale. Tarozzi ritiene che il mondo classico non sia il più adatto a fornire un'educazione, sia pure larga e generale, alle nuove generazioni ed auspica l'attribuzione di maggiore importanza allo studio delle scienze e delle letterature moderne. Conseguentemente domanda libero accesso all'università anche per i provenienti dagli istituti tecnici e dalle scuole normali. Pensa, infine, che ai vari tipi di scuole secondarie superiori si debba giungere da un unico tipo di scuola media inferiore, senza latino. Particolarmente audace è il progetto elaborato nel I9I4, per la riforma della preparazione dei maestri, da Luigi Credaro. Questi (che in linea di principio vagheggerebbe una preparazione magistnle a livello universitario) prevede un corso settennale in cui gli studi compiuti in cinque anni di scuola normale vengano completati da un biennio di specializzazione teorica e di intenso tirocinio. V ·L'UNIVERSITÀ
Il dispotismo politico e l'ingerenza ecclesiastica specialmente nel campo della filosofia e della scienza, avevano fatto sì che, dopo Galileo, il primato scientifico passasse dall'Italia ad altri paesi e che, per quel tanto che era possibile, il movimento scientifico italiano si svolgesse nel corso del xvn e della prima metà del XVIII secolo, fuori delle università. Un certo risveglio, anche nel mondo universitario, è provocato dal diffondersi delle idee illuministiche durante la seconda metà del Settecento specialmente a Milano e a Napoli e dalla rivoluzione francese che fa assurgere al primato, nelle scienze come nelle lettere, l'ateneo di Pavia. Con la restaurazione si apre un nuovo periodo di generale decadenza, del quale è sintomo particolarmente evidente il fiorire di numerosi studi extrauniversitari, specialmente a Napoli. Il risorgimento vede, indubbiamente, l'università in primo piano ma, ancora una volta, l'incapacità di agganciare alla rivoluzione e di dirigere le masse popolari, denuncia la separazione del mondo della cultura dai problemi più gravi del paese; l'incapacità di ingegni pur brillanti di identificare i termini autentici di tali problemi e, quindi, il carattere astratto delle stesse correnti progressive della cultura italiana.
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A confermare questo giudizio sono sufficienti due considerazioni. La prima deriva dal confronto tra lo sviluppo che, durante il periodo prerisorgimentale e risorgimentale, hanno rispettivamente gli studi umanistico-letteterari e quelli scientifici. Alla schiera dei Prati, Tommaseo, Aleardi, Fusinato, Dell'Ongaro, Mazzini, Mameli, Mancini, Bonghi, Villari, Spaventa, per non citare che alcuni dei più famosi, non è possibile contrapporre un adeguato gruppo di scienziati, che equivalgano ai Fresnel, Arago, Ampère, Helmoltz, Faraday, Maxwell, Dalton, ecc., contemporaneamente fiorenti altr'Alpe. La seconda si basa sulla constatazione che, ancora una volta, quel che di meglio si fa nel campo scientifico esula dai confini del mondo accademico: basti ricordare il gruppo del Vieusseux, l'Accademia dei georgofili e quella della Valle Tiberina, nonché i congressi degli scienziati fra il I 838 e il I 848. In Italia non esiste nulla che corrisponda all'École Polytechnique francese: viceversa a Roma esiste ancora una cattedra di fisica sacra, avente lo scopo di magnificare, con una trattazione distinta in sei parti secondo i giorni della creazione, l'opera del creatore e di confutare gli abusi della scienza. La legge Casati si propone la ristrutturazione delle università del regno di Sardegna e della Lombardia, vale a dire di quelle di Torino, Pavia, Cagliari. Essa prevede la soppressione, per carenza di studenti, dell'università di Sassari e la istituzione di una Accademia scientifico-letteraria a Milano. Di pari passo con le annessioni la legge viene estesa o adattata alle università di Pisa, Siena, Bologna, Parma, Modena, Macerata, Palermo, Messina, Catania, Padova, Roma. A queste vanno aggiunte le università cosiddette «libere» di Ferrara, Perugia, Camerino, Urbino. Non è possibile, qui e, d'altro canto, sarebbe di scarso interesse, considerare minutamente il dibattito sull'università e le vicissitudini dei singoli atenei nel periodo compreso fra la realizzazione dell'unità italiana e la prima guerra mondiale. Ci limiteremo, pertanto, a richiamare l'attenzione del lettore sui principali gruppi di problemi. Il primo è quello che riguarda il numero, la distribuzione, l'estensione delle università. È chiaro, infatti, che la secolare divisione dell'Italia in numerosi stati di varia estensione, ognuno dei quali aveva avuto l'ambizione di costituire una sua università, aveva determinato una distribuzione estremamente irregolare nel quadro dell'intero territorio nazionale: basti pensare che mentre nella pianura padana si incontrano, a poche decine di chilometri l'una dall'altra, le università di Pavia, Parma, Modena, Bologna e Ferrara, e nell'Italia centrale quelle di Perugia, Urbino, Camerino e Macerata, l'intera Italia meridionale possiede la sola università di Napoli. Abbiamo, così, tutta un~ serie di richieste, e di progetti, mi, ranti a ridurre la grave sperequazione. Le soluzioni prospettate, però, sono profondamente contrastanti e vanno
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dalla proposta di creare nuove università nelle regioni meno favorite dallo svolgimento della storia e di completare le università già esistenti ma non provviste di tutte le facoltà, a quella di sopprimere le università incomplete e poco popolate (Ferdinando Martini) e di studiare un piano di radicale redistribuzione, tenendo conto del rapporto numerico fra studenti e università esistente in paesi stranieri progrediti e delle esigenze delle varie regioni (progetto di legge Martini-Ferraris, che riprende in partç il progetto Minghetti del I 86 I). In pratica, però, nessuno di questi piani verrà attu~to. Contemporaneo a quello sulla distribuzione è il dibattito sull'autonomia, avviato e sostenuto specialmente da Alfredo Baccelli. Si tratta di concedere alle università personalità giuridica ed autonomia didattica, amministrativa, disciplinare, prendendo ispirazione dagli statuti delle università-corporazioni medievali e da quelli di talune moderne università inglesi e statunitensi. Ma, da un lato, la tendenza fortemente accentratrice e, dall'altro, burocratica del nuovo stato che considera pericolosa ogni forma di decentramento e le insormontabili difficoltà oggettive - soprattutto quelle di ordine economico - che la ricostituzione dell'autonomia universitaria incontrerebbe, portano all'insabbiamento di questo e di simili progetti. Ben altro rilievo assumono invece, nel periodo che stiamo esaminando, i dibattiti relativi ai fini dell'insegnamento universitario e alla libertà di iniziativa in campo didattico. Per quanto riguarda i fini, ci si chiede se l'intento scientifico e quello professionale possano coesistere o se la loro diversità debba portare alla creazione di istituti differenziati. La legge Casati, all'articolo 47, afferma: «L'istruzione superiore ha per fine di indirizzare la gioventù, già fornita delle necessarie cognizioni generali, nelle carriere sì pubbliche che private in cui si richiede la preparazione di accurati studi speciali, e di mantenere ed accrescere nelle diverse parti dello Statola cultura scientifica e letteraria. » Essa accoglie, dunque, il carattere bivalente dell'università; senonché si tratta di un accoglimento acritico: niente di più naturale, perciò, che in fase applicativa, in una situazione resa difficile dal rapido incremento quantitativo e dall'imponente variazione qualitativa della popolazione studentesca, il problema si dproponga con forza drammatica. Progetti per attuare una netta distinzione fra corsi propriamente scientifici e corsi professionali vengono presentati dal ministro Domenico Berti nel I 866, da Diomede Pantaleoni nel I88I, da Giorgio Turbiglio nel I89z e dal Congresso Universitario nel I9IZ. Ma la tesi di gran lunga prevalente è quella sostenuta da coloro i quali osservano che la separazione sarebbe accettabile qualora i due intenti si escludessero o, comunque, si potessero conseguire meglio separatamente che uniti, e questo, a sua volta, varrebbe solo se si accettasse l'argomento per cui mentre lo scienziato,
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o chi vuol diventarlo, «guarda all'avvenire e discute» e non accetta dogmaticamente nessuna dottrina e nessuna affermazione, al professionista il continuo dubitare sarebbe più dannoso che utile, giacché nella vita pratica occorre operare e non si può attendere che la scienza abbia risolto tutti i dubbi né rifugiarsi sistematicamente nella sospensione di giudizio. Contro questo argomento si pronunciano tutti gli uomini di cultura più avanzata, e, in primo luogo, sia pure con sfumature alquanto diverse, si pronunciano contro di esso i positivisti. Se Ardigò si limita ad affermare che «l'istruzione superiore dovrà essere scientifica e professionale», Angiulli precisa che «l'università deve certamente apparecchiare al fine pratico delle così dette professioni liberali, ma innanzi tutto ha da compiere la cultura scientifica » e che « la perfezione delle applicazioni pratiche dipende dalla perfezione della cultura scientifica». Ma i più acuti, conseguenti e coraggiosi assertori della convergenza delle due finalità sono Carlo Cantoni 1 e Saverio De Dominicis. 2 Dopo aver chiarito come la struttura più adeguata alla formazione professionale quale è intesa da molti sarebbe una scuola secondaria di terzo grado o la facoltà a corsi fissi, Cantoni dimostra come questo tipo di « scuola » sia in realtà inadatta anche per la formazione dei professionisti, in primo luogo in quanto la stretta disciplina e il quotidiano accertamento del profitto riescono praticamente impossibili; secondariamente perché piani di studio troppo rigidi non possono preparare al grande numero di professioni diverse; infine perché non è possibile discriminare a priori lo scolaro atto ai lavori scientifici da quello meglio adatto per una professione e perché non si può accettare il principio secondo il quale chi esercita una professione debba accontentarsi di una scienza trovata da altri, senza minimamente impegnarsi alla sua revisione ed al suo sviluppo. De Dominicis, approfondendo con maggiore consapevolezza critica quest'ultimo motivo, non si limita a constatare che la preparazione scientifica è necessaria quale presupposto per la « applicazione » pratica, o, tutt'al più, quale strumento « formativo » della mente, ma giunge ad asserire che, oggi, come non c'è scienza che non diventi azione, così non c'è tecnica« che non sia stata pensiero 1 Carlo Cantoni nasce a Groppello di Lomellina (Pavia) nel 1S4o, da una famiglia di facoltosi agricoltori, Studia a Voghera, Mortara e Casale. Si iscrive, a Torino, alla facoltà di giurisprudenza ma due anni più tardi passa a quella di filosofia e lettere. Frequenta corsi di perfezionamento a Firenze e Pisa. Vince un concorso di studi all'estero e si reca in Germania, presso le università di Berlino e Gottinga. Tornato in Italia è professore di liceo a Torino ed a Milano, quindi all'Accademia scientifico-letteraria milanese; infine, nel 1S7S passa a Pavia quale professore di filosofia teoretica e preside di facoltà. È più volte rettore
dell'ateneo pavese e socio dell'Accademia dei lincei. Muore nel1906. Scritti principali: Studi critici e comparativi su G.B. Vico (1S67); La questione universitaria (1S74); (sullo stesso argomento pubblica due articoli ne «La nuova Antologia» del 1SS1); La facoltà di lettere e filosofia nei suoi rapporti coll'educazione scientifica e nazionale (1SSo) ;Emanuele Kant (l'opera prin-
cipale, grande monografia in tre voli., 1S79-S4). 2 Saverio De Dominicis, del quale si è fatto parola in una nota precedente, dedica alla questione un'importante conferenza del 1S9o, che verrà poi pubblicata nel volume già menzionato dal titolo Idee per una scienza dell'educazione.
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scientifico ». Le note caratteristiche della scienza moderna sono: da un lato la sua autonomia dalle altre attività dello spirito, dall'altro il concetto dell'intima unione dell'elemento tecnico e scientifico, della scienza con le professioni e l'azione. «L'Università tutta scientifica ... non è che la vecchia accademia ... L'Università del tutto professionale si risolve in un istituto tecnico ingrandito. Il concetto della scienza, quale si evolve dalla vita moderna, è invece il concetto di scienza che è tecnica e di tecnica che è scienza ... » Una volta esclusa, per l'università in generale e i singoli atenei in particolare, la facoltà di legem sibi dicere e di autoamministrarsi, cade anche la possibilità che l'università, in quanto tale, costituisca l'istituto mediante il quale ogni generazione trasmette alla seguente non solo i risultati più avanzati raggiunti nei vari campi della scienza dalle generazioni precedenti, ma anche quelli che essa ha saputo aggiungervi mediante la ricerca effettuata con le più progredite tecniche. Ragion per cui il massimo di libertà possibile finisce per identificarsi nell'estrinsecazione del pensiero del singolo docente, nel quadro di un ordinamento didattico vincolato dai regolamenti generali emanati dal potere centrale. Del resto in che cosa consistano le « guarentigie » concesse dalla legge Casati al docente lo precisa l'art. 106, il quale dichiara che un membro del corpo accademico può essere sospeso o rimosso non solo qualora abbia compiuto atti che gli abbiano alienato la «pubblica considerazione» (concetto abbastanza ambiguo) o abbia «persistito nell'insubordinazione alle Autorità» (! !) ma anche per «aver coJJ'insegnamento o cogli scritti impugnata la verità suJJe quali riposa l'ordine religioso e morale, o tentato di scalzare i principii e le guarentigie che sono posti" a fondamento deJJa costituzione civile deJJo Stato». Il fatto che questo articolo sia stato applicato assai di rado non ne riduce il carattere essenzialmente illiberale. Per quanto riguarda la libertas discendi si deve osservare come essa non possa, ovviamente, esercitarsi che all'interno dei ben precisi limiti imposti dalla legge e dai regolamenti. Il numero degli esami che dovranno essere superati per ottenere il titolo è rigorosamente fissato per ogni facoltà. L'art. 5I della legge Casati fissa anche quali esami debbano essere dati nelle diverse facoltà, e l 'art. 55 prevede che ciascuna facoltà determini, con un regolamento applicativo, « la durata, l'ordine e la misura, secondo i quali questi insegnamenti dovranno esser dati». Solo entro questo quadro lo studente può operare le proprie scelte e a questo si riduce il carattere liberale della legge Casati. Essa, infatti, dice, all'art. 2. 5, che i piani di studi formulati dalle facoltà avranno solo una funzione di « guida » e che « gli studenti sono liberi di regolare essi stessi l'ordine degli studi che aprono l'adito al grado a cui aspirano». Concetto ribadito all'art. I 3z in cui si afferma «gli studenti sono liberi di regolare essi stessi l'ordine dei loro esami ». 1 1 Anche a proposito della libertas docendi e discendi le posizioni di punta sono quelle occupate da Saverio De Dominicis e da Carlo Cantoni. È
interessante notare, a questo proposito (e la cosa può contribuire a liquidare certe interpretazioni schematiche) come, laddove Antonio Labriola,
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Il poco respiro concesso dalla legge ad un'autentica libera strutturazione del piano di studi da parte del singolo studente e il fatto che spesso i regolamenti delle singole facoltà e l'autoritarismo di numerosi docenti aggravano la situazione anche rispetto alla legge, sono uno dei fattori della diffusa e a sua volta grave irrequietezza che turba la vita universitaria durante gli ultimi decenni del secolo. L'altro fattore è costituito dalla tenace chiusura dell'università di fronte alle finalità utilitarie e pratiche, la sua incapacità di superare l'antitesi fra avviamento alla ricerca e preparazipne professionale, la persistente pretesa di lasciar fuori dall'università quei nuovi ordini di studi dei quali la borghesia viene reclamando l'istituzione richiesta dall'affermarsi dell'industria (la preparazione degli ingegneri continua ad essere affidata a Scuole d'applicazione). D'altra parte, sotto la spinta del progresso tecnologico ed economico, la popolazione universitaria aumenta rapidamente. È interessante notare come il periodo dei più gravi« tumulti» sia quello compreso fra il r88o e il 1900. Orbene gli studenti che nell'So erano complessivamente 13.ooo (come nel r87o), nel 1901 sono z7.ooo; cioè più del doppio. Da questo momento il numero si stabilizzerà fino alla prima guerra mondiale. Ovviamente l'incremento quantitativo porta con sé la necessità di profonde revisioni di contenuti e di metodi, in mancanza dei quali le violazioni disciplinari, gli scioperi, gli insulti ai docenti, il sottrarsi al peso degli esami, ecc. diventa un fenomeno doloroso sì, ma fatale. 1 VI · CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Per concludere l'analisi che abbiamo condotto nel presente capitolo ci sembra opportuno accennare a due ordini di considerazioni. L'avvento di una nuova classe a posizione egemonica al posto di un'altra è sempre stato accompagnato, nel corso della storia, non dal semplice assorbimento, da parte della prima, della cultura elaborata dai vecchi ceti dominanti, ma anche dalla elaborazione di una parlando agli studenti di Roma, li invita a non. lasciarsi trarre in errore da coloro che in nome della democrazia vagheggiano « non so che utopica città accademica » e respinge la pretesa degli studenti' di eleggere le magistrature accademiche (sarebbe come se i passeggeri di una nave volessero eleggere il comandante) e di elaborare liberamente i piani di studio (ci vuole una conoscenza « tecnica » delle discipline e dei loro nessi), l'evoluzionista De Dominicis (che secondo certe interpretazioni schematiche « dovrebbe » essere più «moderato»), difende e propugna entrambe queste richieste con argomentazioni acute e stringenti che potrebbero, salvo qualche ritocco stililistico, essere inserite di peso nei documenti dei gruppi studenteschi più avanzati dei nostri giorni. I Per quanto riguarda i « tumulti » vale la. pena di citare due episodi fra i pijl clamorosi: a
Bologna, nel marzo 1891, Giosuè Carducci è fatto segno a violente manifestazioni di ostilità da parte di gruppi di studenti e di operai repubblicani e radicali i quali lo accusano di essere un « transfuga », di essersi ridotto a poeta cesareo, a ciambellano, per avere accettato di essere padrino della bandiera di un circolo studentesco monarchico. Fischi, insulti, scambi violenti fra gruppi contrastanti, lo costringono ad abbandonare l'aula. A Napoli, nel gennaio del 1892., il professore Francesco Scaduto, noto per la sua competenza nel campo del diritto ma anche per la sua severità agli esami, dopo essere stato più volte disturbato durante le sue lezioni ed avere schiaffeggiato uno studente, è coinvolto in una vera e propria rissa. In entrambi i casi ci sono interrogazioni e interpellanze alla Camera. Il ministro (Villari) si indigna e promette di intervenire, ma la burrasca si risolve in nulla.
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cultura nuova. Così l'avvento della borghesia al posto della classe feudale non significò puro assorbimento da parte della borghesia della cultura feudale ma creazione di una cultura essenzialmente nuova, borghese. Questo, ovviamente, senza negare che alcuni valori possano acquistare un significato relativamente permanente che permetta loro di sopravvivere al di là della trasformazione strutturale. Sul piano della scuola, logicamente, questo dovrebbe tradursi nella creazione di istituti radicalmente diversi dai vecchi, per organizzazione, contenuti culturali, metodo, disciplina. Orbene, nel periodo che abbiamo preso in esame e che vede l'affacciarsi alla ribalta della storia delle masse contadine ed operaie, questo fenomeno non si è verificato. Assistiamo, come abbiamo visto, al moltiplicarsi di scuole classiche o al sorgere di scuole tecniche o « popolari » caratterizzate però dalle stigmate di una essenziale inferiorità nei riguardi del vecchio liceo. Le richieste di un curriculum diverso, più moderno, non mancano e talora sono anche parzialmente accolte ma sono episodiche e spesso contrastanti e la scuola non riesce a comporle, poiché non è risolta in unità la vita sociale che essa riflette. Anche i socialisti, fino a Gramsci, non assumeranno alcuna iniziativa mirante a mutare profondamente questa situazione. Il loro contributo al dibattito sulla scuola è notevole ma va misurato esclusivamente in rapporto all'opera svolta a favore dei ceti inferiori considerati come tali. Ragion per cui, se si moltiplicheranno le scuole riservate ai figli dei proletari o dei contadini poveri, ciò avverrà perché tali scuole saranno intese quali strumenti atti a cristallizzare le diversità sociali già esistenti. In questo senso è paradigmatico l'atteggiamento di Gaetano Salvemini, il quale sostiene la necessità di creare tre tipi di scuole, destinati rispettivamente: 1) agli alunni ai quali le condizioni di famiglia non consentono di aspirare se non a un 'istruzione postelementare di corta durata e di uso utilitario immediato; z) agli alunni ai quali le condizioni di famiglia permettono di aspirare agli studi universitari; 3) agli alunni di mediocre agiatezza i quali desiderano una scuola di durata intermedia. Che una società così strutturata sia ingiusta, Salvemini è il primo ad ammetterlo. Allo stato attuale delle cose, però, egli teme soprattutto l'invasione delle scuole superiori da parte di giovani provenienti da ceti socioculturalmente depressi: ciò che porterebbe allo scadimento della scuola e a gravi danni per l'intera compagine nazionale. Il secondo ordine di considerazioni riguarda le conseguenze che sulla vita della scuola non poteva non avere la crisi della fiducia nel progresso continuo e pacifico, lo scatenarsi dell'attivismo irrazionalistico, del nazionalismo, dell'imperialismo. Naturalmente, prima di gettarsi in avventurose imprese di conquista, il nazionalismo deve affondare le radici nell'animo degli italiani, attraverso una intensa e capillare azione educativa. Si tratta, in primo luogo, di conservare netta la distinzione fra quadri dirigenti e massa, il che, tradotto in termini scolastici, vuol dire separazione fra vari tipi di scuola, vuol dire evitare ogni « inquinamento » della scuola riservata alla élite, severità, selettività, espulsione dei « profani » dal
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« tempio ». Tutti questi motivi hanno il loro momento polemico nella violenta campagna da un lato contro la « mediocrità » e il « grigiore » della democrazia, dall'altro contro il « naturalismo » positivistico. Il fiorire di teorie genericamente spiritualistiche, volontaristiche, attivistiche, assolve allo scopo precipuo di imporre una concezione gerarchica e oligarchica della società, nella quale gli intellettuali si illudono di costituire la vera «aristocrazia». L'esaltazione della cultura classica va giudicata in tale situazione storica, sotto questo punto di vista è, per dirla con Luigi Salvatorelli, l'« analfabetismo degli alfabeti», consistente in una infarinatura storico-letteraria in cui i due elementi essenziali sono «l'esaltazione di Roma e dell'impero romano come nostri antenati e il racconto del risorgimento ad usum delphini ». In realtà, dietro i fumosi vaneggiamenti degli intellettuali sono chiaramente identificabili le forze delle quali l'ideologia irrazionalistica è ad un tempo prodotto e strumento: quelle forze che porteranno ben presto l'Italia nel gorgo della guerra e, subito dopo, al fascismo.
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CAPITOLO DECIMO
La biologia alla fine dell'Ottocento DI FELICE MONDELLA
I · IL DARWINISMO IN GERMANIA
Le opposizioni che neppure in Germania mancarono alla teoria di Darwin, non poterono impedire che proprio in questo paese essa trovasse le condizioni culturali e scientifiche più favorevoli al suo sviluppo. Qui la tradizione religiosa non si era arrestata come in Inghilterra alla concezione provvidenzialistica della teologia naturale che tendeva a ricercare nelle forme degli organismi la prova del disegno e dell'attività di dio nel mondo, ma attraverso lo stesso misticismo della Naturphilosophie e l 'interesse per la critica biblica si era articolata in sviluppi meno rigidi e teoreticamente più ricchi. A ciò si accompagnava una maggiore laicizzazione della cultura scientifica che si era spinta ad una sua forma estrema nel materialismo democratico radicale degli anni cinquanta. I rappresentanti di questo materialismo, Moleschott, Vogt, Biichner vedevano nelle scienze naturali una forma di sapere democratico che doveva opporsi alle dottrine ecclesiastiche ed alla filosofia insegnata nelle università. Chi si era schierato dalla loro parte salutò in Darwin non solo l'autore di una grande rivoluzione teorica, ma anche lo scienziato che aveva lavorato al di fuori dell'ambiente accademico, seguendo quella metodologia empiristica che si era vista con favore ed ammirazione teorizzata nell'opera di John Stuart Mill. Carl Vogt che aveva rifiutato l'evoluzionismo di Lamarck aderì prontamente alla concezione di Darwin, rinunciando alla sua precedente teoria secondo cui le forme viventi erano sorte per il solo effetto di forze naturali dopo ogni catastrofe geologica. Anche l'illustre patologo Virchow si pronunciò a favore del darwinismo rilevando che il principio della selezione naturale rende comprensibile il modo in cui nel tempo si realizza il progresso. Il fisico e fisiologo Helmholtz infine riconobbe che con la teoria di Darwin si poteva spiegare la finalità degli organismi viventi. Anche autori meno favorevoli ad una concezione empiristica della conoscenza scientifica come Schleiden e Fechner aderirono alla teoria dell'evoluzione. Nel complesso la nuova teoria rispondeva ad un'attesa profonda della cultura biologica e filosofica tedesca. La Naturphilosophie romantica, pur quasi
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universalmente riprovata, aveva lasciato tracce profonde. L'idea di uno sviluppo storico genetico di tutte le forme viventi culminanti nell'uomo era stata espressa speculativamente da Oken e da altri autori. Caduta tale impalcatura mitico-speculativa era tuttavia rimasta l'esigenza di una giustificazione e di una spiegazione razionale della molteplicità delle forme viventi. Questa esigenza si dispiegò negli studi di embriologia e soprattutto di anatomia comparata che venivano assumendo la comune denominazione di morfologia, termine introdotto da Goethe e con cui molti indicavano la ricerca di una struttura universale, geometrica od «estetica», degli organismi viventi. Tale indirizzo di studi, per cui si coniò verso l'inizio del xx secolo il termine più preciso di morfologia idealistica, si venne differenziando dagli studi anatomici ispirati dalla grande scuola francese di Cuvier, soprattutto per una loro coloritura pitagorico-platonica. Si perseguiva sino all'estremo l'analogia fra cristalli e viventi, individuando ovunque rapporti geometrici e costanti matematiche, come ad esempio nella famosa formula della distribuzione a spirale delle foglie lungo lo stelo della pianta. Vi si cercava anche il dispiegarsi di leggi dinamiche di alternanza o di ritmo nei più vari e complessi processi di metamorfosi, di ripetizione e di progresso. Argomento importante di questa ricerca fu quello della generazione alternante per cui certi organismi pur nascendo con forma diversa da quella dei genitori producono poi organismi a loro identici. I botanici Nees von Esenbeck (1776-1858) ed Alexander Braun (1805-77), il medico Carl Gustav Carus (1789-1869) furono fra i cultori di questi studi morfologici che riecheggiavano costantemente alcuni motivi della scienza romantica. Gli sviluppi più importanti della morfologia idealistica si ebbero in Inghilterra con l'opera del famoso anatomico Richard Owen, già da noi ricordato fra gli oppositori di Darwin, e riguardano fra l'altro il problema dell'omologia, cioè della somiglianza fra organi che mostrano una struttura comune originaria malgrado la loro diversità di funzione. Tale somiglianza era già da tempo ricercata nel piano comune alla struttura ossea dei vertebrati, riscontrando ad esempio un'unità morfologica nelle estremità degli arti superiori malgrado il loro differenziarsi in mani, zampe, pinne, ali ecc. Per stabilire questa identità originaria di parti diverse, cioè l'omologia, Owen si riferisce ad un archetipo o modello ideale, di cui l'esempio più tipico è appunto la struttura del vertebrato. Questi modelli o archetipi se da un lato erano intesi, secondo una concezione creazionistica, come l'espressione di idee divine nella natura, d'altro lato rispondevano all'esigenza di ritrovare in essa una sorta di ordine logico necessario. Ognuno di tali archetipi era infatti strutturato in modo tale che da esso potessero derivarsi il numero più ampio di forme fenomeniche naturali. Nel complesso dunque i vari indirizzi della morfologia idealistica, nella misura in cui ricercavano un fondamento comune alle molteplici forme di viventi,
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avevano preparato un terreno favorevole alla teoria di Darwin in quanto essa pure si pr!=!sentava come spiegazione di tale molteplicità. D'altra parte nella spiegazione evoluzionistica dell'autore inglese sembravano prevalere aspetti di casualità e di accidentalità storica sfuggenti ad ogni sistemazione logico-astratta o ad ogni forma di necessità razionale cui miravano molti studiosi di morfologia. Fra questi, ad esempio, il grande embriologo Karl Ernst von Baer, che già da tempo era giunto ad ammettere una trasmutazione delle specie, rifiutava interamente l'ipotesi della selezione naturale in base al principio che l'evoluzione, come lo sviluppo embrionale ed ogni altro fenomeno naturale, si realizza secondo un disegno teleologico divino, che non può assere misconosciuto in una autentica comprensione della natura. Anche autori che a differenza di Baer seguivano un'impostazione meccanicistica o materialistica rilevavano in Darwin la mancanza di una adeguata trattazione morfologica e fisiologica degli organismi, l'interesse limitato ai risultati dell'allevamento o delle esplorazioni geografiche e della classificazione a scapito delle ricerche più sistematiche e rigorose della recente biologia, in particolare della microscopia. Fra questi lo svizzero Rudolf Albert Kolliker (1817-1905), che fu a Zurigo allievo di Oken ed a cui si devono importanti contributi nel campo della biologia cellulare, ritiene inadeguata la spiegazione fornita da Darwin per il processo dell'evoluzione. L'adattamento nella lotta per l'esistenza non può essere criterio per comprendere la struttura degli organismi. Se in ciascuno di essi si può riscontrare una immediata utilità degli organi questa non può essere ritenuta la ~ola ragione della loro esistenza; occorre ammettere che l'evoluzione degli organismi sia il risultato di una legge generale per cui un grande piano evolutivo sottostà allo sviluppo di tutto il mondo organizzato ed agisce sulle fortne più semplici producendo stadi superiori di complessità. Egli ritiene in sostanza che nella formazione evolutiva dei viventi agiscano cause interne analoghe a quelle che producono la formazione dei cristalli, e che tale processo sia avvenuto per salti mediante la nascita di organismi sensibilmente diversi dai genitori (eterogenesi). Molti degli avversari (ma anche alcuni dei primi sostenitori) della nuova teoria dell'evoluzione si trovavano specialmente in Germania a condividere l'idea che la conoscenza scientifica dovesse fornire leggi e principi dotati di assoluta necessità, dovesse cogliere le cause o i fondamenti essenziali dei fenomeni e ciò, sia che essi fossero seguaci della morfologia idealistica o convinti assertori del più rigido meccanicismo biologico, li opponeva decisamente all'impostazione empiristica secondo cui Darwin aveva cercato di esprimere le cause e le leggi dell'evoluzione. Questa concezione rigidamente sistematico-razionalistica della conoscenza della natura riecheggiava indubbiamente alcuni motivi della Naturphilosophie e ·doveva sia pure con una accentuazione dogmatica caratterizzare tutta l'opera
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di Ernst Haeckel, cioè del maggiore sostenitore tedesco della teoria dell'evoluzione. In tale opera egli seppe unire un'adesione incondizionata alle idee di Darwin e agli ideali sistematici della morfologia e del meccanicismo con una visione del mondo di tipo materialistico. Il
· ERNST
HAECKEL
Figlio di un funzionario prussiano, Haeckel era nato a Potsdam nel 1834 ed aveva condotto gli studi di medicina a Wiirzburg ove insegnavano Kolliker e Virchow, di cui fu per breve tempo assistente. Un anno trascorso a Berlino, alla scuola di Johannes Miiller, gli ispirò un vivo interesse per gli studi di zoologia marina. In un viaggio a Messina egli potè così raccogliere del prezioso materiale su animali microscopici marini e pubblicare nel I 862. la sua prima opera importante Die Radiolarien (l radio/art). Abbandonata nel frattempo la fede religiosa, da lui sentita profondamente sino agli anni della prima giovinezza, aveva cominciato a nutrire una profonda avversione per la politica reazionaria della chiesa, che insieme agli junker prussiani ed ai principi tedeschi egli considerava un grave ostacolo alla unificazione della Germania. L'opera di Darwin aveva subito suscitato il suo entusiasmo e nel 1863 al congresso dei naturalisti tedeschi egli pronunciò un discorso lucido ed infiammato in cui si manifestava chiaramente il suo temperamento polemico e la venatura profetica della sua vocazione scientifica. « Sulla bandiera ... dei darwinisti stanno le parole: Evoluzione e Progresso! Dal campo dei conservatori avversari di Darwin suona il richiamo: Creazione e Specie! » Tale « Progresso è una legge naturale che nessuna potenza umana, né le armi dei tiranni né le maledizioni dei preti, potranno mai durevolmente reprimere.» Il suo fervore per il darwinismo lo condusse presto a stendere con un intenso lavoro un'ampia opera che apparve nel 1866: Genere/le Morphologie der organismen (Morfologia generale degli organismi), la quale portava come sottotitolo « Lineamenti generali della scienza delle forme organiche, fondata meccanicisticamente mediante la teoria della discendenza di Charles Darwin, riformata». Quest'opera, raccolta in due ponderosi volumi, suscitò pochissimo interesse probabilmente per il carattere ostico e prolisso e per l'eccessiva sovrabbondanza di neologismi. La sua importanza storica rimane nondimeno notevole poiché ci permette di cogliere nella loro primitiva formulazione quelle idee che l'autore svilupperà nelle opere successive destinate ad avere così profonda influenza sulla cultura degli ultimi decenni del secolo. Egli si propone innanzitutto di enunciare e realizzare per la morfologia quello stesso programma meccanicistico che circa due decenni prima era stato formulato per la fisiologia da Lotze, Du Bois-Reymond e Ludwig, e di ottenere così dall'innumerevole materiale empirico descrittivo degli anatomisti e dei micro-
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scopisti un'effettiva cognizione e spiegazione delle forme viventi. Dall'opera di Goethe, di cui premette ad ogni capitolo uno o più passi, egli sembra derivare la convinzione che la forma, come qualità fondamentale di ogni oggetto della natura, possiede un suo status preciso accanto alla materia ed alla forza. Morfologia chimica e fisica sono così le scienze che si occupano della triade forma, materia e forza. Egli afferma inoltre, facendo riferimento ad un passo di Johannes Miiller, che le verità più importanti delle scienze naturali non risultano dall'analisi filosofica né da una semplice esperienza, bensì da una esperienza pensante (denkende Erfahrung) che sa distinguere il casuale dall'essenziale per cogliere i principi fondamentali. Empiria e teoria devono così integrarsi in una unità che è quella stessa in cui si integrano la descrizione della natura e la filosofia della natura. Il termine Naturphilosophie, screditato dalle fantasticherie dei romantici, deve essere rivalutato per esprimere il nuovo tipo di conoscenza profonda dei fenomeni biologici aperto dalla teoria della selezione naturale di Darwin. Attraverso l'opera dell'autore inglese è infatti possibile inaugurare una nuova filosofia della natura che si contrappone a quella romantica per il suo carattere empirico, per il suo non distinguersi di principio dalla stessa scienza naturale. « Per conto nostro, » egli afferma, « noi siamo assolutamente convinti che nella scienza veramente "cognitiva" (erkennende) l'empiria e la filosofia non si lasciano distinguere l'una dall'altra. Questa è solo il primo ed inferiore, quella l'ultimo e più elevato grado della conoscenza. Ogni vera scienza naturale è filosofia ed ogni vera filosofia è scienza naturale. Ogni vera scienza è in questo senso filosofia della natura.» La tendenziale coincidenza di scienza e filosofia significava nel nostro autore, come nei materialisti degli aJ1ni cinquanta, il rifiuto della tradizionale filosofia spiritualistica delle università che operava in Germania molto spesso al servizio del potere costituito. Per Haeckel inoltre questa convinzione sembrava trovare una conferma nel pensiero di Goethe per il quale doveva essere possibile cogliere l'idea nella concreta intuizione della natura. A differenza di Goethe Haeckel non mostra però alcuna riluttanza alle formulazioni più generali ed astratte, al procedimento deduttivo che muove da rigidi assunti teorici. A questo proposito egli insiste ripetutamente sulla completa validità del meccanicismo teorico e dedica uno dei capitoli del primo volume della sua Genere/le Morphologie al tema « Teleologia e causalità». Al pari dei materialisti contemporanei egli muove dalla identificazione alquanto semplificatrice di teleologia e vitalismo da un lato e di meccanicismo e causalità dall'altro. «Tutto ciò,» egli afferma, « che nella natura ci può sembrare il risultato intenzionale di una libera causa finale, che domini le cause fisico-chimiche e sia indipendente da esse, tutto ciò non è in realtà che la conseguenza necessaria della interazione delle cause meccaniche esistenti.» La scoperta darwiniana della selezione naturale nella
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lotta per l'esistenza ha dimostrato in modo decisivo il valore esclusivo delle cause meccaniche nella biologia, affossando ogni considerazione teleologica e vitalistica degli organismi. Viene respinta quindi la posizione di Kant il quale- come afferma Haeckel- aveva espressamente sostenuto «a favore di un giudizio teleologico sulla natura organica che i suoi processi sono completamente inesplicabili ed inaccessibili alla capacità conoscitiva dell'uomo, e che specialmente il sorgere degli organismi più complessi è del tutto inconcepibile in base a cause meccaniche. Kant ammette esplicitamente che alle cause meccaniche competa il diritto di spiegare questi fenomeni ma ad esse è negata la capacità. Perciò egli volle ammettere la "finalità naturale" della teleologia solo come una massima del giudizio, non come principio di conoscenza. Disse perciò espressamente che la natura vivente non può essere oggetto di conoscenza (Erkenntnis), ma soltanto di osservazione, poiché proprio le forze motrici della materia non erano sufficienti alla spiegazione dell'organizzazione ». Secondo Haeckel questa concezione di Kant influì negativamente sui biologi durante i successivi decenni sinché l'opera di Darwin non rivelò chiaramente la natura di questo errore. È ora perciò possibile respingendo la teleologia ed il vitalismo, ed affermando la completa validità del metodo meccanico e causale, giungere al superamento di tutte le contrapposizioni dualistiche introdotte nella realtà fra spirito e materia, contenuto e forma, essenza e fenomeno. Tale superamento conduce al monismo. Come metodo il monismo non è che l'applicazione del principio generale di causalità: «Ogni causa, ogni forza ha il suo necessario effetto, ogni effetto, ogni fenomeno ha la sua causa necessaria. » Come sistema filosofico il monismo non è altro che il risultato generale della nostra visione scientifica del mondo, della nostra complessiva conoscenza della natura. Dopo aver esposto le sue considerazioni preliminari di carattere metodologico e filosofico l'autore svolge ampiamente la parte più specificamente sistematica della sua opera. Inizia dalla trattazione dei rapporti fra organismi e sostanze inorganiche (cristalli), rilevando per ambedue questi tipi di corpi sia una tendenza formativa interna (dovuta all'interazione delle forze atomiche) sia una tendenza formativa esterna (risultante dall'azione dell'ambiente sull'individuo). Per adattamento egli intende in generale l'interazione dell'individuo con l'ambiente. In questa profonda unità e continuità fra mondo organico ed inorganico vengono considerati vitali i processi caratteristici dei corpi proteici e degli altri composti complessi del carbonio, dotati di una particolare « capacità di imbibizione ». Seguendo coerentemente questa impostazione meccanicistica, condivisa da moltissimi biologi contemporanei, egli nega che si possa parlare di « creazione » della vita e sostiene invece l'ipotesi della sua generazione spontanea sulla terra. « Dobbiamo avanzare questa ipotesi come la conseguenza immediata ed il più
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necessario completamento della teoria universalmente riconosciuta della formazione della terra di Kant-Laplace e troviamo a questo proposito una necessità logica così stringente nel complesso dei fenomeni naturali, da poter indicare questa deduzione - come inevitabile - per quanto a molti possa apparire molto audace. » Ammette infatti che nel mare primitivo alcune sostanze inorganiche si siano riunite in complessi composti organici di carbonio e che questi abbiano formato organismi più semplici delle attuali cellule, da lui denominati monere. Il pnmo volume della Genere/le Morphologie si completa con una ampia trattazione estremamente ricca di suddivisioni sistematkhe e di neologismi che prospetta la stereometria o geometria spaziale dell~ forme viventi nel loro complesso. Più di quest'ultima trattazione era destinato a maggior successo ed a più significativi sviluppi l'insieme di problemi del secondo volume dell'opera che affronta il tema dello sviluppo degli organismi, sia nel senso di sviluppo embrionale od ontogenetico che in quello di sviluppo evolutivo o fi~ogenetico. Il nome di Haeckel è rimasto legato ad un principio generale che stabilisce un preciso legame fra questi due tipi di sviluppi e che venne da lui espresso come legge biogenetica fondamentale. Secondo la formulazione più compiuta che ne diede l'autore essa afferma che « l'ontogenesi è una ricapitolazione abbreviata ed incompleta della filogenesi». Questa rassomiglianza fra un processo da noi attualmente osservabile, quale lo sviluppo embrionale ed un altro processo che non lo è più, quale la passata evoluzione da forme ancestrali a forme attualmente viventi, permette di ricostruire quest'ultimo processo, almeno in via ipotetica, in base al primo. Tale ricostruzione agli occhi di Haeckel è tanto più importante in quanto « tutti i fenomeni che accompagnano lo sviluppo individuale degli organismi si spiegano soltanto in base allo sviluppo paleontologico dei loro ascendenti », cioè in quanto !'ontogenesi è l'effetto e la filogenesi è la causa. Questa rigida impostazione del principio biogenetico agì con un'enorme e suggestiva incisività sul pensiero biologico dei decenni successivi e suscitò alla fine un'altrettanto drastica reazione contro di esso. Sarà perciò opportuno soffermarci sulla sua origine storica per chiarirne meglio il significato e le limitazioni. Dalla fine del Settecento era stato più volte proposto ed elaborato il tema generale di un parallelismo fra le varie fasi dello sviluppo embrionale ed i vari stadi progressivi nei quali si dispiegava la scala animale, e nell'ambito della filosofia romantica della natura si vide in tale parallelismo un aspetto della più generale analogia fra microcosmo e macrocosmo. Già nel 1793 Karl Friedrich Kielmeyer aveva sostenuto che le varie forze organiche, quella vegetativa della riproduzione, quella.. della irritabilità e quella sensoriale si dispongono nella scala ascendente degli animali in quello ste~so ordine di successione con cui compaiono nello sviluppo del singolo individuo. 2.61
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Importante è il proseguimento di questo tema del parallelismo da parte di Johann Friedrich Meckel (178I-I833) il quale passando dalla considerazione delle forze a quella delle forme giunge a sostenere che gli animali superiori, nel loro sviluppo embrionale, ripercorrono gli stadi morfologici della serie animale ad essa inferiore. Altri autori sviluppano questa concezione in base all'idea di Robinet che ogni embrione animale tende a divenire !lomo e che, solo per l'arresto di questa tendenza in determinate fasi, si producono le forme animali a lui inferiori. Nel I 8z8 la critica acuta e penetrante di von Baer colpisce il presupposto fondamentale delle varie teorie del parallelismo e cioè l'idea di un unico piano e quindi di una serie lineare unica degli animali, sostenendo come Cuvier l'esistenza di quattro tipi animali fondamentali. Lo sviluppo dell'embrione avviene secondo i caratteri del tipo a cui esso appartiene e solo nelle primissime fasi si ha una somiglianza fra gli embrioni dei vari tipi. Lo sviluppo embrionale si realizza inoltre attraverso una progressiva differenziazione, per cui compaiono in primo luogo i caratteri più generali del tipo, poi quelli della classe, dell'ordine, della famiglia e infine della specie. Inoltre- secondo von Baer -l'embrione di un animale superiore non assomiglia mai all'adulto di un'altra forma ma soltanto al suo embrione. Von Baer contribuiva in tal modo al superamento dell'idea che il modello di perfezione ideale da porsi alla base di un'anatomia comparata fosse costituito dall'uomo, considerato come riassunto o sinopsi di tutto il regno animale. Il criterio che da ora verrà posto alla base dell'anatomia comparata non sarà più l'uomo ma lo sviluppo embrionale di ciascun gruppo; in tal modo lo stato iniziale con cui si presenta ogni organo in questo sviluppo dovrà rappresentare lo stato generale o tipico di quest'organo per quel gruppo. La critica serrata di von Baer alla teoria del parallelismo non impedì che questa venisse ripresa prima della metà dell'Ottocento dall'illustre zoologo svizzero-americano Louis Agassiz (1807-73). Questi era infatti giunto a sostenere una triplice somiglianza fra forme embrionali di alcuni pesci, forme adulte di pesci inferiori dello stesso gruppo e loro forme fossili di periodi più antichi. Questo triplice parallelismo, che secondo Agassiz doveva assumere il carattere di una legge generale, venne interpretato da Chambers in senso evoluzionistico. Anche Darwin riprese l'argomento in diversi passi della sua opera principale, rilevando ad esempio che la somiglianza ammessa da von Baer fra le prime fasi embrionali di animali appartenenti a tipi diversi, può essere opportunamente spiegata mediante la loro comune discendenza. Tale somiglianza può essersi mantenuta in quanto gli embrioni si accrescono in condizioni relativamente uniformi e sono quindi scarsamente soggetti all'azione della selezione naturale. Darwin ammette inoltre, seguendo Agassiz, che forme antiche ed estinte di viventi possano rassomigliare agli embrioni dei loro discendenti, ma 2.62.
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r1t1ene che questa possibilità debba essere vagliata attraverso ricerche paleontologiche. Nel 1864 un medico tedesco che risiedeva in Brasile, Fritz Miiller (1821-97), nella sua opera Fiir Darwin (Per Darwin) era giunto alla conclusione che alcune larve di crostacei attualmente viventi rappresentano degli stadi filogenetici di crostacei più antichi ed estinti e che da queste forme attuali noi possiamo desumere oggi la loro forma passata. Le successive fasi nell'attuale sviluppo di questi crostacei oggi viventi ci rappresentano cioè in modo abbreviato la storia della loro stirpe. Questa ricapitolazione della storia ancestrale non è del tutto fedele poiché il reperto storico, presente nello sviluppo embrionale' dall'uovo all'animale adulto, è frequentemente falsificato dalla lotta per l'esistenza che in passato hanno dovuto sostenere le larve libere. Queste considerazioni di Fritz Miiller insieme a quelle di Darwin vennero riprese e sviluppate da Haeckel con la sua legge biogenetica fondamentale. Egli accettando la distinzione posta da von Baer fra il tipo di organizzazione ed il grado di differenziazione, ritiene però che in base alla teoria dell'evoluzione o discendenza il tipo debba essere considerato come il prodotto della «forza formativa interna» della ereditarietà, mentre il grado di differenziazione sarebbe il risultato della «forza formativa esterna» dell'adattamento. Haeckel, pur tenendo costantemente valido il principio che l'ontogenesi è immediatamente condizionata dalla filogenesi del ceppo a cui l'individuo appartiene, riconobbe come Miiller che era possibile ricostruire la filogenesi sulla base dell'ontogenesi soltanto per quegli organi che nel corso dell'evoluzione si fossero conservati costanti in forza dell'eredità e non per quegli organi che si erano modificati in forza dell'adattamento. Per questi ultimi la forma originaria risulta offuscata o « falsificata » dalle circostanze a cui hanno dovuto adattarsi e perciò in questi casi non tanto le fasi dello sviluppo embrionale ma piuttosto l'anatomia comparata può illuminarci su di essa. L'importanza che assumono a questo scopo l'anatomia comparata ed il sistema generale di classificazione risulta evidente se si ricorda che classi, ordini, famiglie, ecc. rappresentano i rami dell'albero genealogico e che il grado della loro divergenza rappresenta la maggiore o minore affinità genetica degli organismi fra di loro e rispetto alla forma ancestrale comune. Ma se l'ontogenesi ricapitola la filogenesi essa riprodurrà dapprima i caratteri del progenitore del tipo, poi quelli del progenitore della classe e così via; si potrà allora, secondo Haeckel, ammettere un triplice parallelismo fra sistema naturale, ontogenesi e filogenesi. Se questa tesi del triplice parallelismo può considerarsi una estensione dell'analogo parallelismo formulato da Agassiz, in essa Haeckel si allontana dalle concezioni di von Baer in quanto, a differenza di questi, ritiene che i vari stadi embrionali rappresentino la forma adulta di animali più antichi e non i loro embrioni.
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L'idea che gli stadi embrionali rappresentino forme adulte di altri animali inferiori era già stata sostenuta da Meckel ammettendo che questi animali erano attualmente rappresentati nella scala naturale. Per Haeckel invece essi sono delle forme ancestrali per lo più ipotetiche e da lui ricostruite in modo spesso congetturale ed arbitrario per colmare dei vuoti specialmente ai livelli più antichi degli alberi filogenetici. La costruzione di questi alberi genealogici o filogenetici doveva costituire il programma più ambizioso di tutta l'opera morfologica di Haeckel e per quanto i suoi risultati suscitassero alcuni decenni più tardi le più ampie riserve essi agirono come uno stimolo molto fecondo sulla, ricerca. Questo programma fu uno degli apporti originali di Haeckel rispetto all'opera di Darwin. Nei confronti dell'autore inglese egli si distingue anche per il grande rilievo dato alla «legge» dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti e per un'impostazione del tutto rigida e priva di cautela nella trattazionè- di molti problemi dell'evoluzione. Sostiene ad esempio che nel complesso« il movimento evolutivo di tutto il mondo organico è continuo e progressivo anche se ci possono essere alcuni casi di regresso ». « Questi regressi, come avvengono nella storia dei popoli prevalentemente per il predominio dei preti e dei despoti, così nella restante natura organica sono prodotti prevalentemente attraverso il parassitismo. » Nella parte conclusiva della Genere/le Morphologie il nostro autore passa a considerare l'antropologia come parte della zoologia.·« L'enunciato che l'uomo si è sviluppato da vertebrati inferiori e più prossimamente da vere scimmie è una speciale conclusione deduttiva, che risulta con assoluta necessità dalla teoria della discendenza. » A questa esplicita conclusione, a cui Darwin non era ancora giunto nel 1866, Haeckel dà un significato fondamentalmente materialista. La distinzione fra la psiche umana e quella degli animali è infatti solo quantitativa e non qualitativa anche se l'uomo come «trionfo dell'evoluzione» ha superato tutto il mondo inorganico. L'ultimo capitolo dell'opera è dedicato al monismo e porta come titolo « Dio nella natura ». Il monismo non è materialismo né spiritualismo poiché non esiste materia senza spirito né spirito senza materia. Materia e spirito non sono però termini che Haeckel cerchi di chiarire con un'approfondita analisi critico-filosofica. Egli sembra confusamente identificare spirito e forza allorché afferma: «Noi conosciamo così poco una materia senza spirito, cioè una materia senza forza, quanto uno spirito senza materia, cioè una forza senza materia. » Le sue parole sembrerebbero riecheggiare il materialismo di Biichner e Moleschott se non emergesse in una citazione finale di Goethe un richiamo ad una concezione panteistica della natura. Cqntro ogni concezione di un dio architetto e creatore della natura egli rivendica infatti attraverso le parole del grande poeta tedesco l'unità di dio e natura.
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Was war' ein Gott, der nur von aussen stiesse, Im Kreis das Ali am Finger laufen liesse! Ihm ziemt's, die Welt im Innern zu bewegen, Natur in Sich, Sich in Natur zu hegen, So dass, was in Ihm lebt und webt und ist, Nie Seine Kraft, nie Seinen Geist vermisst.l
Il richiamo a Goethe, che costituisce un leitmotiv nell'opera ora ricordata ed in altre ancora di Haeckel, può in parte comprendersi se si considera il grande poeta come uno dei fondatori della morfologia. Meno giustificata è invece l'insisten~a con cui Haeckel ne fa un precursore della teoria dell'evoluzione, poiché Goethe ebbe si delle forme viventi una concezione dinamica ma in un senso più ideale-percettivo che non storico-temporale. Altri dubbi può suscitare il richiamo a Goethe da parte di un autore come Haeckel che si faceva aperto sostenitore del meccanicismo biologico. Questi dubbi possono in parte attenuarsi se si considera come tale meccanicismo fosse soprattutto programmatico e dovesse nel concreto della sua ricerca risolversi più nello stabilire un determinismo globale nella morfogenesi degli organismi che nel precisare i processi fisico-chimici ad essa sottostanti. Nel complesso Haeckel esaltava in Goethe il sostenitore di una visione panteistica della natura, colui che aveva riconosciuto la grandezza di Spinoza e mantenuto un illuministico distacco dalle religioni positive. Pur essendo ammirato come il grande poeta nazionale tedesco, molti ambienti ecclesiastici lo accusavano di libertinismo e libero pensiero e proprio per questo l'opposizione democraticoradicale ritrovava in Goethe una bandiera per la propria lotta politica. L'opera di Haeckel Genere/le Morphologie era dedicata con commosse parole di amicizia allo studioso di anatomia comparata Cari Gegenbaur (18z6-19o3) che aveva con la sua notevole competenza sostenuto ed aiutato il collega nella stesura dell'opera. Insegnò anch'egli a Jena, che doveva lasciare per Heidelberg nel 1872, ed i suoi Grundziige der vergleichende Anatomie (Lineamenti di anatomia comparata) divennero ben presto il testo classico della morfologia evoluzionista, che egli al pari di Haeckel riteneva la disciplina essenziale per lo studio della vita. L'approvazione di Gegenbaur e di altri studiosi non poté impedire il quasi completo insuccesso della Genere/le Morphologie. Essa- osserva E. S. Russel« come libro soffre molto per il modo di esposizione adottato, arido, schematico, quasi scolastico. Alla mania prussiana di Haeckel per l'organizzazione, per le distinzioni assolute, per il ferreo formalismo vien qui dato libero campo. Una trattazione meno adeguata alla varietà, alla fluidità e mutevolezza degli esseri viventi può difficilmente essere immaginata». I Cosa sarebbe un dio, che solo da fuori incalzasse, l che si facesse girare intorno al dito il tutto! l A lui s'addice piuttosto, che muova l'interno del mondo, l in sé la natura chiudendo, se
stesso nella natura, l così che q;;anto in lui vive, s'ingegna, opera, esiste, l della sua forza giammai non manchi, né del suo spirto.
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Doveva contribuire all'insuccesso dell'opera anche il tono aspramente polemico di molti passi, deprecato dallo stesso Gegenbaur, che pur condivideva quasi interamente le tesi scientifiche dell'amico. Anche Darwin, scrivendo ad Haeckel tutto il suo apprezzamento, gli raccomandava prudenza e moderazione. Più comprensivo appariva invece Huxley, pur non tacendo la sua perplessità di fronte ad una battuta con cui Haeckel, sollevando grande scalpore, aveva paragonato la corrente immagine antropomorfica di dio a quella di un vertebrato allo stato gassoso. Ma l'entusiasmo e la passione di Haeckel non si lasciavano facilmente trattenere. Nel 1868 egli pubblicò le lezioni di un corso divulgativo da lui tenuto a Jena con il titolo Natiirliche Schopfungsgeschichte (Storia naturale della creazione). Il contenuto della sua opera precedente è qui riesposto in modo più agile ed efficace ed il libro ebbe un successo enorme. Tradotto in molte lingue e attraverso numerose edizioni, fu l'opera che non solo fece più conoscere le idee di Haeckel ma che forse contribuì di più a diffondere la teoria dell'evoluzione. L'esposizione che egli fa di questa teoria si pone esplicitamente lo scopo di contribuire al progresso della libertà e del dominio della ragione guidando il lettore ad una comprensione della natura. A questo fine egli si diffonde ampiamente sulla visione materialistica della realtà che deriva dalla nuova scienza della vita, e ritiene di dover difendere il materialismo scientifico dalle accuse che lo vogliono intenzionalmente confondere con il materialismo etico. Questa ultima forma di materialismo la si cercherà invano presso « quei naturalisti e quei filosofi il cui più elevato godimento è quello spirituale della natura ed il cui fine massimo è quello della comprensione delle sue leggi. Questo materialismo occorre cercarlo nei palazzi dei principi della chiesa e di tutti quegli ipocriti che sotto la maschera esteriore di una pia devozione mirano soltanto alla gerarchia tirannica ed allo sfruttamento degli altri uomini». Haeckel si sofferma più a lungo sul problema dell'origine dell'uomo e precisa che «nessuna delle scimmie attualmente viventi, e nessuna neppure delle cosiddette. scimmie antropoidi può essere progenitrice della razza umana. I progenitori scimmieschi di essa sono da lungo tempo estinti». Questa precisazione non risparmiò ad Haeckel, nella violenta reazione che accolse l'opera, l'epiteto di « professor scimmia». Un altro motivo di attacco che venne ripreso per diversi decenni fu la cosiddetta « storia dei tre cliché», dovuta al fatto che nella prima edizione dell'opera Haeckel usò sconsideratamente (per sua stessa ammissione) tre figure identiche per rappresentare gli embrioni d'un cane, d'un pollo e d'una tartaruga, sia pure a uno stadio di sviluppo in cui questi embrioni sono effettivamente somiglianti. L'impegno politico-culturale di Haeckel, con gli scontri polemici e le violente ostilità che suscitavano, lungi dallo scoraggiare la sua attività lo incitavano a continuare un intenso lavoro anche sul piano strettamente scientifico e didattico. I viaggi ed i rapporti con studiosi di altri paesi gli permettevano inoltre z66 www.scribd.com/Baruhk
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di raccogliere prezioso materiale scientifico per le sue ricerche di morfologia. Nel 1872 pubblicò infatti un'altra opera Die Kalkschwiimme (Le spugne calcaree). In essa si trova la prima enunciazione della «teoria della gastrea » che egli approfondì in scritti successivi e che rappresenta forse la più importante applicazione della sua legge biogenetica fondamentale. Alcuni studiosi avevano già rilevato che negli embrioni di vari animali si presenta un tipico stadio iniziale di sviluppo, caratterizzato dalla formazione di un sacco in cui si ha uno strato interno che circoscrive la cavità destinata a formare il canale digerente (entoderma) ed uno strato esterno che si differenzia in epidermide, muscolatura e sistema nervoso (ectoderma). Haeckel ampliò queste considerazioni sostenendo che tale stadio embrionale, da lui denominato gastrula, si forma in tutti gli animali pluricellulari da una sfera vuota di cellule (blastula) per una depressione verso l'interno, analoga allo schiacciamento di una palla di gomma, e per un successivo restringimento dell'apertura verso l'esterno che viene a costituire l'orifizio del canale digerente. Egli concluse infine che questo stadio embrionale è la riproduzione o ripetizione di una forma ancestrale molto antica vivente in modo autonomo che denominò gastrea. La teoria della gastrea, per quanto fosse subito oggetto di serie obiezioni, ebbe un grandissimo successo e divenne uno dei punti di partenza della nuova morfologia evoluzionista, che a sua volta si poneva alla base od era strettamente collegata a tutte le ricerche per una classificazione naturale dei vari gruppi animali. A queste ricerche che costituivano la sua principale specializzazione scientifica Haeckel diede ancora un importante contributo, sempre nel campo degli animali marini, con Das System der Medmae (Il sistema delle meduse, 1879). Ma col passare degli anni si venne accentuando il suo impegno per la diffusione e la difesa della sua concezione filosofica, il monismo. Già in precedenti studi scientifici si era rivolto agli estremi più filosoficamente significativi del mondo vivente. Da un lato con gli studi sugli esseri unicellulari (1868, 187o) aveva toccato il problema dell'origine della vita, dall'altro con un'ampia opera Die Antropogenie (L'antropogenia, 1874) aveva cercato di ricostruire tutta la genealogia dell'uomo partendo dagli esseri più semplici. Circa l'origine delle prime forme vitali egli sostenne, come si è accennato, l'esistenza di esseri più semplici delle cellule, dette monere, che dovevano essere costituite da una semplice materia vitale, priva ancora della differenziazione in nucleo e protoplasma, chiamata plasson. Huxley credette di aver individuato sul fondo marino questa materia vitale durante la deposizione del primo cavo transatlantico, e creò per essa il nome di Bathybius Haeckelii, ma riconobbe poco dopo che si trattava di una banale gelatina inorganica. Se la teoria delle monere venne perdendo importanza con i successivi studi microscopici sulla cellula, il problema dell'origine dell'uomo mantenne tutta la sua importanza scientifica e filosofica. La sua Antropogenia destinata ad avere nwnerose edizioni suscitò subito un grande scalpore. Non mancarono le pressioni
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di ambienti ecclesiastici e politici per allontanarlo dall'università di Jena ma egli trovò nelle autorità preposte a questa istituzione comprensione ed appoggio. Se a differenza di Moleschott, di Vogt e di altri scienziati materialisti egli poté conservare la cattedra universitaria ciò fu anche dovuto alla particolare situazione politica che portò dopo il 1870 in Germania al consolidamento del potere di Bismarck. Nella lotta che questi conduceva contro i cattolici trovava infatti anche un certo spazio culturale la critica materialista alle tradizionali verità religiose condotta da Haeckel e dai suoi seguaci. Il radicalismo politico e filosofico che accompagnava questa critica, per la sua risonanza presso un vasto pubblico in particolare quello sensibile all'influenza dei socialdemocratici, doveva però apparire pericoloso a molti conservatori che passarono quindi al contrattacco. Haeckel fu cosi portato a vedere un atteggiamento reazionario di tal sorta nel discorso che Emil Du Bois-Reymond tenne nel 1872. denunciando i limiti della conoscenza umana e proclamando il suo famoso ignorabimus, ed in cui si affermava fra l'altro che gli alberi filogenetici di Haeckel sarebbero passati ai posteri come le genealogie degli eroi omerici. Se la sua risposta polemica a Du Bois-Reymond non risultò di grande peso filosofico, più interessante fu la polemica che sorse con Virchow nel congresso dei naturalisti tedeschi tenuto a Monaco nel 1877. In un suo intervento Haeckel prendeva spunto da una nuova legislazione scolastica, che stava per essere approntata dal governo prussiano, per sostenere che la biologia evoluzionistica doveva costituire la base del nuovo sistema educativo in quanto in essa potevano essere attinti i principi di una cultura comprensiva di tutta l'esistenza umana. Anche la vita psichica infatti non era che il risultato dell'attività del sistema nervoso o meglio delle sue cellule. In altri scritti egli aveva già affrontato il problema dell'origine della psiche risolvendolo con un'identificazione, del tutto semplicistica, fra energia ed anima. In base a quest'assunto egli ammetteva un'anima elementare degli atomi, una delle cellule ed infine un'altra più complessa che risulta nel cervello dall'interazione delle singole anime cellulari nervose. Virchow, che intervenne nel congresso alcuni giorni più tardi, ebbe buon gioco ad ironizzare sulla teoria haeckeliana delle anime cellulari ed espresse tutti i suoi dubbi anche sull'idea che l'uomo possa derivare dalle scimmie. Occorre - afferma Virchow- saper distinguere i risultati sicuri della scienza dai frutti della speculazione, mostrando moderazione nel godere della libertà ora concessa alla scienza. Nelle scuole bisogna insegnare solo ciò che è accertato scientificamente e da tutti condiviso e quindi la teoria dell'evoluzione vi potrà essere introdotta solo quando essa sarà definitivamente accertata, perdendo il suo carattere di ipotesi. E ciò potrà essere fatto anche se nella teoria evoluzionistica appaiono pericolose tendenze al socialismo. Quest'ultimo rilievo, in un periodo in cui vigevano in Germania le leggi antisocialiste, suonava quasi come un'accusa di alto tradimento. Haeckel re2.68
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plicò quindi polemicamente con uno scritto Freie Wissenschaft und freie Religion (Libera scienza e libera religione, 1878) che riscosse un grande successo presso il pubblico di idee radicali. In esso egli rileva che la teoria darwiniana può essere tutt'altro che favorevole al socialismo. La diversità nelle condizioni di esistenza, la stessa lotta che porta al soppravvento del migliore, attraverso la selezione naturale, possono essere addirittura considerati aristocratici e non democratici. Haeckel rileva poi giustamente come le trasposizioni di teorie biologiche al piano sociale politico (predilette da Virchow) siano arbitrarie e pericolose. Contro la netta distinzione fra insegnamento e ricerca, implicita nella posizione di Virchow, rileva poi la difficoltà di ammettere una «scienza oggettiva», poiché non vi è una netta distinzione fra fatto e teoria e non è possibile evitare atteggiamenti personali nell'attività. dell'insegnamento. All'ignorabimus di Du BoisReymond ed al restringamur che esprimerebbe la posizione di Virchow egli oppone concludendo un suo entusiasta Impavidi progrediamur! La lotta di Haeckel in favore dell'evoluzione non poté certo impedire che l'insegnamento di questa teoria venisse proibito nelle scuole tedesche, ma l'efficac;ia dei suoi scritti e del suo insegnamento suscitarono nella nuova generazione di biologi un profondo interesse per la morfologia evoluzionistica. Tuttavia i risultati delle ricerche che vennero moltiplicandosi in questo campo- come rileva Nordenskiold- «non furono affatto ciò che Haeckel aveva previsto. Invece di prove semplici e facilmente comprensibili della indiscussa validità del darwinismo, la giovane generazione di scienziati trovò masse di fatti complicati che contribuirono soltanto a confondere il principio biogenetico, la teoria della gastrea e le altre " leggi naturali ''. Ciò non .corrispondeva per nulla alle sue attese. Fiducioso di sé per natura e guastato dai successi degli anni giovanili egli si trovò smarrito in mezzo a questi nuovi sviluppi». ·J_/asse delle ricerche biologiche più avanzate si stava spostando infatti verso la microscopia delle strutture e dei meccanismi cellulari e la «forza dell'eredità» assunta come una entità semplice da Haeckel diveniva il campo di dibattiti sempre più intensi e di contrapposizioni sempre più complesse. Haeckel non seppe inserirsi agilmente nel nuovo corso della biologia e pur avendo abbandonato gli schematismi più rigidi derivanti dalla morfologia idealistica rimase fondamentalmente interessato al programma di una visione sistematica del grande quadro delle forme viventi, a cui dedicò ancora i tre volumi della sua Systematische Phylogenie (Filogenia sistematica, 1894-96). Se gli sviluppi scientifici degli ultimi anni del secolo rendevano problematico il primitivo edificio teorico della teoria dell'evoluzione, anche il clima filosofico culturale andava maturando una reazione a quella concezione materialistica della realtà che con tanta sicurezza si era pensato essere un risultato indiscutibile del XIX secolo. Haeckel fu tra i pochi a battersi con energia contro questa reazione ed il frutto più importante di questo impegno fu la sua famosa
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opera Die Weltriitsel (Gli enigmi dell'universo) che apparve nel 1899· In essa non incontriamo alcuna importante novità nelle idee dell'autore. L'uomo, l'anima, il mondo e dio sono i grandi enigmi riconducibili ad un unico enigma, quello della sostanza unica che si manifesta nelle infinite forme dell'universo sensibile e dietro cui è inutile cercare una metafisica cosa in sé. Contro ogni forma di dualismo egli dice di attenersi al monismo di Spinoza secondo cui materia e spirito sono i due attributi della sostanza. Continua però a identificare lo spirito con l'energia dei corpi, per cui tale monismo finisce col non poter essere chiaramente distinto dal materialismo. Oltre a queste e ad altre oscurità filosofiche di fondo si incontrano nell'opera errori ed affermazioni estremamente sbrigative e superficiali specialmente nei capitoli in cui tocca problemi di fisica o si dilunga sulla storia ecclesiastica. Benché nell'introduzione riconosca i limiti e le insufficienze della trattazione il tono è quello abitualmente perentorio e dogmatico, privo spesso di ogni cautela critica. Gli enigmi dell'universo sono tuttavia dominati da un entusiasmo e da una fiducia così profonda nel pensiero scientifico, capace di risolvere gli interrogativi che hanno assillato l'uomo sin dal più lontano passato, di cancellare le tenebre della superstizione e la credulità che lo hanno legato alle religioni positive, che questa opera apparve come una sorta di catechismo o di bibbia laici per le masse desiderose di emanciparsi dalle credenze tradizionali nell'immortalità dell'anima, .nei miracoli, nella divinità che premia e punisce. Il ~uccesso di questo libro fu enorme ed estremamente rilevante fu la sua influenza sulla cultura popolare in molti paesi del mondo. Tradotto in circa trenta lingue il numero· delle copie circolanti. ha probabilmente superato il milione. Non può quindi stupire che la reazione degli ambienti ecclesiastici fosse estremamente aspra e superasse in violenza ed intensità quella di filosofi o scienziati. Specialmente dopo la fondazione della « Lega monista » (Monistenbund), che si prefiggeva la diffusione delle idee di Haeckel, non si esitò ad usare contro di lui anche l'arma della diffamazione. L'organizzazione evangelica« Keplerbund » e quella cattolica « Thomasbund » ripresero infatti l'accusa di falsario già sollevata alcuni decenni prima a proposito dei famosi cliché. Lo scontro infierì a lungo fra gli opposti gruppi e si spense solo negli anni tragici della prima guerra mondiale. La filosofia accademica, ormai dominata dalla cosiddetta« reazione idealistica alla scienza», vi ebbe una parte solo marginale. La lotta attorno al materialismo di Haeckel, come anni prima attorno a quella di Moleschott e Biichner, più che filosofica era infatti una lotta politica per l'egemonia culturale delle masse, in cui i settori più radicali della borghesia e il movimento operaio continuavano a considerare il pensiero scientifico uno strumento importante per la propria emancipazione.
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III · GLI E
STUDI
LA TEORIA
MICROSCOPICI
SULLA
DELL'EVOLUZIONE
DI
CELLULA NAEGELI
La teoria dell'evoluzione, nella formulazione originale che le aveva dato Darwin, riconduceva l'origine della specie a due processi fondamentali, quello della variazione e quello della selezione naturale, che venivano caratterizzati soprattutto in base all'analisi della classificazione, dell'allevamento e della distribuzione geografica. Nella formulazione di Haeckel il processo evolutivo veniva invece ricondotto a due fattori che, nel linguaggio tradizionale della morfologia del periodo romantico, venivano espressi come tendenze formative, l'una esterna risolventesi nell'adattamento e nell'azione dell'ambiente e responsabile delle trasformazioni dell'organismo, l'alt1;a interna o eredità che fissa queste trasformazioni nella discendenza. Interessati soprattutto al grande edificio morfologico degli alberi genealogici ed ai suoi rapporti con l'embriologia, Haeckel ed i suoi seguaci si erano scarsamente preoccupati di approfondire il significato di questi due fattori che apparvero invece estremamente decisivi e problematici man mano che, a partire dagli anni settanta, si svilupparono nuove ricerche soprattutto di microscopia cellulare. Tali ricerche avevano cominciato ad assumere sempre più importanza da quando Virchow aveva individuato chiaramente nella cellula l'elemento portatore della vita e nello stesso tempo la struttura che assicura la continuità degli organismi nella riproduzione. Ogni organismo deriva infatti da una cellula ed ogni cellula deriva per divisione da un'altra cellula. Un importante risultato teorico era stato inoltre raggiunto verso il I86o allorché Max Schultze (I825-74) aveva definito la cellula « una piccola massa di protoplasma con un nucleo ». Se per protoplasma si poteva genericamente intendere la materia dell'organismo dotata di vita, più difficile era comprendere il significato e la costituzione del nucleo. Nei decenni successivi si compirono tuttavia dei passi molto importanti in questa direzione. Nella sua opera Zellbildung und Zellteilung (Forntazione e divisione della cellula, I875) il botanico Eduard Strasburger (1844-1912) stabilì che nelle piante i nuovi nuclei derivano sempre dalla divisione di altri nuclei e descrisse il processo di divisione indiretta del nucleo (mitosi) nelle sue fasi caratteristiche. Nello stesso anno I 875 lo zoologo Otto Biitschli (I 848-1920) precisò lo stesso processo di divisione del nucleo in cellule animali. Sullo stesso argomento un contributo molto importante venne fornito da Walter Fleming (1843-191 5) con la sua opera Zellsubstanz, Kern und Zellteilung (Sostanza cellulare, nucleo e divisione della cellula, 1882). In base a ricerche condotte su larve di anfibi egli distinse nel nucleo una parte fortemente colorabile (cromatina) ed una parte scarsamente colorabile (acromatina), rilevando come durante la divisione cellulare i granuli di cromatina si dispongono in filamenti, che successivamente (1888) vennero chiamati cromosomi. Stabilì inoltre che durante tale divisione cellu-
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Rappresentazioni della divisione del nucleo in cellula vegetale (da Naegeli, 1844) e in cellula animale (da Fleming, x88z).
lare si ha una scissione longitudinale di questi cromosomi. Il risultato forse teoricamente più significativo di queste indagini microscopiche venne ottenuto nel I 87 5 da un giovane allievo di Haeckel, Oskar Hertwig (I 849- I 9 22) chiarendo il secolare problema della fecondazione degli organismi. Con uno studio sullo sviluppo delle uova di riccio di mare, che presentano una particolare trasparenza, Hertwig poté infatti stabilire che la fecondazione si basa sulla fusione dei nuclei cellulari dell'uovo e dello spermatozoo. Negli anni successivi, mentre si venivano determinando sempre meglio i processi della divisione cellulare e della fecondazione, si ampliarono considerevolmente anche le indagini sulla struttura del protoplasma cellulare che presentavano particolari difficoltà per i problemi fisici ed ottici della tecnica microscopica. Sorsero così teorie divergenti che riconducevano la costituzione del plasma cellulare o citoplasma a vacuoli, a filamenti oppure a granuli. In contrapposizione a queste diverse teorie, che si basavano anche sulla diversità nella preparazione del materiale da sottoporre all'osservazione microscopica, alcuni autori sostennero che la composizione del plasma cellulare dovesse invece essere ricercata in particelle o strutture non visibili al microscopio. Fra le molecole rilevate dall'usuale indagine chimica dei corpi viventi e le formazioni cellulari otticamente visibili al microscopio vi dovevano cioè essere nella cellula delle unità o delle strutture intermedie le quali dovevano costituire gli elementi veramente essenziali per comprendere le proprietà della materia vivente. Si giunse a questa considerazione soprattutto in base all'analogia fra la cellula e l'organismo macroscopico dell'animale o della pianta. Se in quest'ultimo cioè le funzioni complessive risiedono in parti od organi differenziati e visibili allora anche nella cellula, che è in un certo senso un organismo elementare, le funzioni o proprietà devono essere ricondotte a parti o a elementi in qualche modo differenziati anche se invisibili. Fra le proprietà della materia vivente che questi elementi o ultrastrutture invisibili erano chiamati a spiegare vi erano innanzi tutto quelle dell'eredità e della variazione, su cui si accentrava evidentemente l'interesse dei biologi impegnati nello studio dell'evoluzione. Spencer fu tra i primi nel I864 a postulare l'esistenza di questi elementi
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invisibili ammettendo che i viventi sono costituiti da « unità fisiologiche », delle sorte di sostanze cristalloidi, fondamentalmente identiche in ogni organismo, salvo per alcune differenze nei vari tessuti. In queste unità, che ricordano le molecole organiche di Buffon, «vi è l'attitudine intrinseca ad aggregarsi nella forma della specie, così come negli atomi di un sale vi è l'intrinseca attitudine a cristallizzare in un modo particolare». Queste unità che si trovano in equilibrio fra loro possono venir modificate dalle influenze ambientali in ogni parte dell'organismo e quindi anche negli organi riproduttivi. Il che renderebbe conto della cosiddetta eredità dei caratteri acquisiti, cioè di quella capacità di trasmettere ai discendenti quelle trasformazioni che si sono prodotte nei vari organi di un singolo individuo come reazione alle sue condizioni di vita. Nel 1868 anche Darwin, come si è ricordato in un precedente capitolo, per spiegare questo tipo di eredità avanzò l'ipotesi che nell'organismo vi fossero delle particelle invisibili dette gemmule. A differenza delle « unità » di Spencer queste gemmule non sono dei veri e propri costituenti elementari del vivente, ma una sorta di agenti informatori che circolando nell'organismo imprimono ad ogni cellula i caratteri che le sono propri e nello stesso tempo trasmettono alle cellule sessuali, perché vi vengano fissati, i nuovi caratteri che le altre cellule del corpo hanno acquisito nel corso della loro vita. Queste ipotesi di Spencer e Darwin, che partivano dalla considerazione dell'organismo in toto, persero importanza dopo lo sviluppo delle ricerche microscopiche condotte sulle cellule durante gli anni settanta ed ottanta, ricerche che tendevano a ricondurre queste ipotetiche unità elementari al problema del plasma cellulare. In questa direzione spingevano ad esempio le riflessioni di uno dei più valenti studiosi di citologia, il belga Eduard van Beneden (I845-191o), il quale aveva sostenuto nel 1874 l'esistenza di una materia vivente più primitiva del protoplasma cellulare, una materia cioè che non presenta alcuna organizzazione otticamente visibile, ma soltanto una determinata composizione chimica. Haeckel accettò l'idea dell'esistenza di tale materia denominata plasson considerandola il punto di partenza del processo evolutivo. Egli ammise inoltre che tale plasson fosse costituito da particolari molecole, dette plastiduli, che costituirebbero i veri portatori dell'eredità. Questa funzione dei plastiduli non è però, secondo Haeckel, da ricondurre ad una particolare configurazione geometrica, bensì ad una speciale forma di movimento di tipo ondulatorio. Il processo ereditario non sarebbe perciò costituito soltanto dalla trasmissione di materia, cioè della sostanza chimica di questi plastiduli, ma anche dalla loro specifica forma di movimento. Questo modello della trasmissione ereditaria che può considerarsi di tipo energetico-dinamico non trovò molti sostenitori anche per l'interpretazione ilozoistica che ne dava Haeckel, associando ai plastiduli una dimensione psichica o più precisamente una memoria. Più successo ebbe invece un altro tipo di modello delle unità biologiche elementari che può definirsi di tipo corpuscolare-geometrico. 273
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Fra i primi che ne fecero ampio uso, costruendo su di esso un'ampia teoria biologico-evoluzionistica, vi fu l'illustre botanico svizzero Karl Wilhelm Naegeli (18I7-91). Nato nel cantone di Zurigo egli poté seguire in questa città l'insegnamento dello zoologo e filosofo della natura Lorenz Oken. Dopo aver studiato botanica a Ginevra con Alphonse de Candolle (18o6-9;) compì i suoi studi in Germania ascoltando a Berlino le lezioni di Hegel e soffermandosi anche a Jena ove insegnava Schleiden. Svolse la sua attività nelle università di Friburgo e Zurigo, compiendo la sua carriera in quella di Monaco. La concezione biologica di Naegeli è rigorosamente meccanicistica ed il suo meccanicismo oltre ad assumere una chiara impronta materialistica si presenta con una veste di tipo logico-geometrico che egli contrappone, come espressione dello spirito razionalistico tedesco, all'empirismo di Darwin. Il suo metodo di indagine si basa infatti, oltre che su sottili tecniche microscopiche, sull'uso molto esteso di modelli fisico-geometrici estremamente elaborati e complessi. Naegeli aveva iniziato la sua attività scientifica nel campo dell'anatomia e della fisiologia vegetale contribuendo in modo notevole anche agli studi di microscopia cellulare. Fu nello studio dei granuli di amido presenti nelle cellule vegetali che egli iniziò l'elaborazione dei suoi modelli ultrastrutturali miranti a spiegare l'igroscopia e la birifrangenza di tali particelle. Giunse così a sostenere che costituenti fondamentali della materia vivente sono le micelle cioè delle sorta di cristalli organici che tendono ad aggregarsi in lunghi filamenti. Nel I 884 egli pubblicò la sua opera più famosa cioè la Mechanische prysiologische Theorie der Abstammungslehre (Teoria meccanico-ftsiologica della dottrina della discendenza) in cui cerca di spiegare la sua concezione generale dell'evoluzione biologica in base ad una compiuta elaborazione delle sue idee sulla ultrastruttura della materia vivente. Egli parte dalla supposizione che le micelle, che possono dapprima considerarsi sciolte in un mezzo fluido, per le loro forze molecolari tendano ad orientarsi parallelamente in lunghi filamenti. Le micelle che non hanno subito questa disposizione rimangono libere allo stato fluido. L'insieme delle micelle orientate prende il nome di idioplasma, quello delle micelle non orientate prende il nome di plasma nutritivo o stereoplasma. L'idioplasma è per Naegeli la materia portatrice dei caratteri ereditari e costituisce la sorgente di tutte le specifiche funzioni vitali. Naegeli suppone che questo idioplasma si estenda come una rete in tutto l'organismo in modo che le sue maglie attraversino le pareti cellulari determinando le caratteristiche morfologiche e funzionali dei vari tessuti. La diversità di queste caratteristiche viene spiegata in base al particolare raggruppamento delle micelle costituenti la rete. Vi sono dei primi raggruppamenti di micelle che determinano i caratteri elementari. Questi raggruppamenti combinandosi a loro volta fra di loro come le lettere di un alfabeto producono i caratteri più complessi. Ma in che modo i vari gruppi di micelle si dispongono lungo la rete dell'idioplasma? La risposta a 274 www.scribd.com/Baruhk
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questa domanda viene data da Naegeli in modo da spiegare molte proprietà fondamentali dell'organismo. Ad esempio la proprietà di molti viventi di rigenerare da una loro parte un individuo completo. A questo scopo occorre ammettere che ogni frammento del cordone che si intreccia nella rete contenga tutti gli aggruppamenti di micelle che determinano i caratteri dell'organismo intero. Questa possibilità viene realizzata con un ingegnoso modello. Egli ammette cioè che il filamento più fine del cordone sia costituito da micelle identiche poste in successione lineare. Per determinare un carattere elementare questi filamenti più fini si aggruppano in fasci, per determinare un carattere più complesso questi fasci si riuniscono a loro volta in fasci più grossi. Il cordone, costitutivo della rete e che risulta dalla riunione di questi fasci più grossi, possiede in tal modo una struttura identica in ogni sua sezione trasversale e quindi in ogni suo frammento. Questo modello meccanico geometrico dell'idioplasma possiede anche altre proprietà, su cui non ci soffermiamo, tali da spiegare come la rete possa agire in modo diverso nei vari punti dell'organismo e nel contempo riproduca un identico processo quando una porzione di essa si trova ad esempio contenuta nell'uovo fecondato. Ma soprattutto l'idioplasma possiede una tendenza interna ad aumentare la sua complessità che sola può spiegarci l'origine delle variazioni evolutive. Questa teoria di Naegeli, se poteva colpire per la raffinatezza della sua elaborazione, presentava da un lato un'eccessiva astrattezza deduttiva nella ricostruzione meccanicistica degli organismi e dall'altro non poteva facilmente adeguarsi a tutti i dati empirico-osservativi che la ricerca veniva accumulando. La teoria doveva tuttavia costituire uno dei tentativi più importanti per soddisfare l'esigenza di una spiegazione causale del processo evolutivo, che secondo Naegeli non poteva essere interpretato mediante la teoria della selezione naturale di Darwin. « Per quanto riguarda il significato generale della teoria della selezione,» scriveva Naegeli nella sua opera del 1884, «l'azione indeterminata di cause indeterminate e la decisione che attraverso tale selezione viene lasciata troppo al caso, soddisfano poco la nostra coscienza scientifica. Inoltre questa teoria che, conformemente al suo principio, per giustificare un fenomeno si pone soltanto il problema dell'utilità con esso conseguita, si mette in contrasto con la vera ed esatta ricerca scientifica che tende innanzitutto a riconoscere le cause efficienti. » Fra le altre ed importanti obiezioni che Naegeli rivolge al principio della selezione questa è indubbiamente quella che esprime meglio il suo tipico meccanicismo di carattere razionalistico-deduttivo che gli derivava almeno in parte, attraverso Oken e Schleiden, dal filone matematico-pitagorico della Naturphilosophie e che indubbiamente non lo poteva disporre ad una giusta comprensione del metodo empiristico e probabilistico di Darwin. In uno scritto del 1865, aderendo alla teoria dell'evoluzione, egli si era già posto il problema della causa delle variazioni sostenendo che queste non cleri275
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vano tanto da fattori ambientali quanto dalle leggi interne della materia vivente, le stesse leggi che producono di necessità lo sviluppo dell'embrione ed in ultima istanza la generazione spontanea della vita dalla materia inorganica. Egli pensa cioè che negli organismi agisca un «principio di perfezionamento», il quale opera in modo che « le variazioni individuali non siano indeterminate e sempre uguali in ogni direzione, ma tendano preferibilmente e con un determinato orientamento verso l'alto, verso un'organizzazione sempre più complessa». Quale prova che le variazioni sono il prodotto di fattori interni e non esterni all'organismo, egli adduce le note osservazioni da cui risulta come le condizioni ambientali, costituenti i fattori esterni della lotta per l'esistenza, non alterano il tipo di una pianta posta in un nuovo ambiente. I nuovi caratteri adattativi che questa presenta vengono infatti a scomparire quando la pianta è ricondotta nell'ambiente di origine. Nel principio di perfezionamento di Naegeli, che esprime una tendenza automatica della materia vivente all'aumento della sua complessità di organizzazione, non pochi contemporanei videro un atteggiamento mistico-metafisico. Nella sua opera del 1884 egli cerca di difendersi da questa accusa. Come il sistema solare si muove all'infinito nell'universo per la sua forza interna, così anche la vita, una volta formatasi dalla materia inorganica possiede una sua forza d'inerzia, « un movimento di sviluppo che una volta avviato non può arrestarsi e deve continuare nella sua direzione». «Perfezionamento secondo me non è altro che il progresso verso una struttura più complessa ed una maggiore divisione del lavoro e se in generale si è propensi ad attribuire alla parola più significato di quanto vi sia nel concetto che le corrisponde, è forse meglio sostituirla con il termine più innocente di progressione. » L'impostazione materialistica che Naegeli cerca di difendere dalle accuse di misticismo, si riflette anche nella sua ferma accettazione e teorizzazione della generazione spontanea che non si sarebbe prodotta soltanto in epoche lontane ma si svolgerebbe tuttora. Egli pensa che la vita sia sorta in periodi successivi realizzando così delle linee evolutive indipendenti (concezione polifiletica). Gli organismi più complessi deriverebbero dai viventi sorti più anticamente, quelli meno complessi discenderebbero invece dai viventi generatisi in epoca più recente. Naegeli non misconosce tuttavia l'incidenza dei fattori ambientali nel processo evolutivo. Anche se questi provocano spesso delle variazioni soltanto transitorie, in alcuni casi agendo attraverso molte generazioni possono produrre delle reazioni stabili di adattamento che si inserivano nella sostanza ereditaria dell'idioplasma. D'altro lato Naegeli riconosce alla selezione operante attraverso vari fattori dell'ambiente la funzione negativa di eliminazione degli organismi meno adatti, allo stesso modo in cui il giardiniere può potare i rami di una pianta senza per questo modificarne le caratteristiche. È quindi nella variazione che va ricercato il nodo più profondo del processo evolutivo.
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L'opera di Naegeli ebbe nel complesso un'influenza notevole nel pensiero biologico degli ultimi decenni del secolo. Egli fu fra i sostenitori della teoria dell'evoluzione uno dei primi a sviluppare efficacemente le varie obiezioni alla selezione naturale rilevando inoltre la non ereditarietà di alcuni caratteri adattativi delle piante. Decisiva fu anche la sua teorizzazione di un'idioplasma o sostanza ereditaria separata dal restante plasma cellulare. La nettezza delle sue distinzioni concettuali e l'elaborazione estremamente analitica dei suoi modelli meccanicistici suscitarono contrasti ed opposizioni che offuscarono i pregi della sua impostazione teorico-raziona:listica rilevandone i pericoli di chiusura e di astrattezza. Pericoli non certo illusori se si ricorda come un oscuro naturalista boemo, Gregor Mendel (I8zz-84), nella sua corrispondenza con l'illustre botanico di Monaco non riuscì a convincerlo della importanza delle sue ricerche sull'eredità che indicavano una delle vie più. feconde della biologia contemporanea.
E
IV · LA TEORIA
DI WEISSMANN
L'ONNIPOTENZA
DELLA
SELEZIONE
Il misconoscimento da parte di Naegeli delle geniali ricerche di Mendel non può certo considerarsi un incomprensibile errore. Mentre l'abate boemo si era dedicato con estrema precisione ad individuare l'esistenza di certe regolarità statistiche nella trasmissione dei caratteri ereditari di alcune piante, l'interesse dei biologi contemporanei, specialmente in Germania, era volto in base ai risultati della microscopia cellulare alla elaborazione di teorie estremamente generali sulla evoluzione e la eredità in essa implicata. Lungo questa via, che era stata aperta soprattutto da Naegeli, doveva svolgersi anche l'opera di August Weissmann (I834-I9I4), che può forse considerarsi il maggior teorico dell'evoluzione dopo Darwin. Egli aveva svolto per breve tempo la professione di medico, allorché per una sua ricerca sulla evoluzione degli insetti gli fu offerta la possibilità di insegnare zoologia a Friburgo, dove rimase sino al termine della sua vita. Dopo un periodo di studi dedicato, sulla base di importanti ricerche microscopiche, all'evoluzione degli animali inferiori, fu colpito a trent'anni da una malattia agli occhi e si volse quindi ad un'attività prevalentemente teorica. Weissmann schierandosi sin dall'inizio fra i sostenitori del darwinismo aveva espresso dubbi ed infine rifiutato l'idea di Naegeli di un principio di perfezionamento, di una «forza filetica» interna alla materia vivente, trovandovi un'eccessiva somiglianza con la tradizionale forza vitale. Più che una tendenza progressiva alla differenziazione gli apparve importante nella materia vivente l'aspetto di continuità e di stabilità chiaramente dimostrate nella riproduzione per divisione degli animali cellulari. In tal caso, ad esempio nella divisione di un'ameba,
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non si ha morte dell'organismo ma una sua risoluzione, una sua continuità nelle cellule figlie. In questa circostanza la vita risulta chiaramente come un processo che non implica necessariamente la morte. Questa immortalità del protoplasma non si ha solamente negli organismi unicellulari. Anche in quelli pluricellulari esistono alcune cellule, quelle germinali o riproduttive, che godono di questa virtuale immortalità. A questa importante conclusione Weissmann era giunto sulla base di precise osservazioni le quali indicavano che nelle prime fasi dello sviluppo embrionale le cellule germinali derivano direttamente dall'uovo di cui conservano intatte le proprietà. Egli trasforma in questo modo la distinzione fondamentale già posta da Naegeli fra idioplasma e plasma nutritivo in una distinzione fra plasma germinale e plasma somatico o corporeo. Nell'uovo o più in generale nelle cellule riproduttive sono contenuti ambedue questi tipi di plasma che si separano allorché nell'embrione le cellule germinali si dividono dalle altre cellule destinate a costituire le restanti parti dell'organismo. Sono queste ultime cellule dette somatiche quelle destinate a morire con l'organismo che esse costituiscono, mentre le prime, quelle riproduttive, potranno continuare in una serie infinita di suddivisioni producendo nuovi organismi. Il corpo di un singolo organismo pluricellulare può così considerarsi come l'involucro mortale di cellule riproduttive virtualmente immortali o, con un'immagine più suggestiva, esso può essere paragonato ad una foglia con cui l'albero della vita rinverdisce e conserva la sua esistenza, ma d'autunno ingiallisce e cade morta a terra; il protoplasma delle cellule riproduttive è invece il fusto che sopravvive ad ogni generazione di foglie garantendo la loro unità di forma o somiglianza. Questa separazione fra soma e germe ha un carattere profondo e irreversibile, cioè le cellule somatiche non possono più ritornare ad uno stato originario indifferenziato producendo cellule germinali. Da ciò Weissmann trasse una conseguenza che ebbe una grande importanza teorica nella biologia dei successivi decenni, incentrando su sé quasi tutte le discussioni circa l'evoluzione e l'ereditarietà. Egli concluse cioè che tutti i nuovi caratteri acquisiti dalle cellule somatiche per effetto delle particolari condizioni in cui viene a vivere un organismo non si trasmettono ai discendenti. A questi vengono trasmessi solo quei caratteri fissati nel plasma germinale delle cellule riproduttive, le quali rimangono per così dire impermeabili agli effetti di trasformazione delle restanti cellule somatiche. Questa tesi fondamentale con cui si negava per la prima volta con precise argomentazioni l'ereditarietà dei caratteri acquisiti venne enunciata da Weissmann in un famoso discorso Ueber das Problem der Vererbung (Sul problema della ereditarietà) tenuto nel 1883. Egli cercò anche di provare sperimentalmente la sua argomentazione con varie ricerche. La più famosa fu l'allevamento di una grande quantità di topi ai quali veniva regolarmente tagliata la coda ad ogni generazione senza che mai nascesse un individuo con coda ridotta.
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Modello della struttura del cromosoma secondo Weissmann (r887): il cromosoma è suddiviso in segmenti visibili detti idi; ciascuno di questi contiene dei determinanti (disegnati come cerchi) che raccolgono le particelle ereditarie elementari, i biofori.
A
B
c
D
Schema con cui Weissmann illustra la progressiva trasformazione del plasma germinale attraverso il processo di mescolamento (anfimissi) del plasma germinale dei genitori in quattro successive generazioni (A-D). I singoli cerchi rappresentano il plasma germinale (o idi) di provenienza paterna (p]) e materna (m]): dall'opera Vortriige iiber Deszendenztheorie (Jena 1904) di August Weissmann.
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L'affermazione che i caratteri ereditari sono stabilmente fissati nel plasma delle cellule riproduttive poneva per Weissmann il compito, già fatto proprio da Naegeli, di elaborare una complessa teoria sulla microstruttura di questo plasma, tale da spiegare il comportamento osservabile nello sviluppo embrionale e quello ipotetico dell'evoluzione. Il presupposto preformista di Weissmann analogo a quello di Naegeli, è che alla molteplicità dei caratteri che costituiscono l'organismo adulto deve corrispondere nel plasma germinale una molteplicità di particelle materiali che producono tali caratteri. Rispetto al preformismo settecentesco, che tendeva a porre nell'uovo un piccolo organismo in miniatura, l'aspetto nuovo di questo preformismo ci sembra derivare dall'analogia con la molecola chimica d'una sostanza, le cui proprietà vengono ricondotte all'azione di fattori più semplici quali gli atomi. Weissmann ritiene infatti che i caratteri dei viventi debbano essere ricondotti a unità biologiche elementari, dette biofori. Queste sono grosse molecole invisibili dotate di specifiche proprietà vitali quali la nutrizione, l'accrescimento e la riproduzione. I biofori che costituiscono come le micelle di Naegeli l'idioplasma o plasma germinale, non sono contenuti, come aveva ritenuto quest'ultimo autore, in tutto il corpo della cellula ma soltanto nel nucleo. A questa conclusione Weissmann era pervenuto utilizzando i risultati più recenti delle indagini microscopiche sulla cellula. Nel 1883 si era infatti stabilita l'individualità dei cromosomi con la scoperta che ogni cromosoma deriva da un cromosoma preesistente realizzando così una continuità attraverso ogni divisione cellulare. Nel 1887 inoltre Theodor Boveri (186.z-19I 5) aveva stabilito che in tutte le cellule dell'organismo i singoli cromosomi derivano direttamente da quelli presenti nell'uovo fecondato e che la metà di essi proviene dai cromosomi dell'uovo, l'altra metà da quelli dello spermatozoo. Weissmann sostenne poi che i biofori presenti nei cromosomi non agiscono individualmente nella formazione del nuovo organismo ma cooperando fra loro in raggruppamenti da lui chiamati determinanti. Esisterebbero tanti determinanti quanti sono gli ambiti osservabili dell'organismo che possono variare indipendentemente l'uno dall'altro. I determinanti si raccoglierebbero infine a costituire dei granuli visibili nei cromosomi e chiamati idi. Se si deve ammettere l'esistenza dei determinanti, in base al principio che deve esservi qualcosa di materiale nel plasma che produce le strutture differenziate dell'organismo, più difficile è stabilire il modo in cui essi agiscono. Escluso che siano delle miniature che tendono semplicemente ad accrescersi è però necessario ammettere che questi determinanti non siano mescolati disordinatamente ma si dispongano in un ordine preciso. Sull'ordine ed il funzionamento dei determinanti Weissmann si cimentò con grande impegno elaborando e correggendo dei modelli dettagliati e complessi che a non pochi contemporanei apparvero
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del tutto speculativi e che comunque erano destinati almeno in parte a cadere di fronte al successivo sviluppo del pensiero biologico. Ci limiteremo a ricordare di queste ipotesi di Weissmann solo alcuni aspetti essenziali. Egli ammette innanzitutto che nello sviluppo embrionale, realizzantesi mediante la divisione della cellula uovo in nuove cellule, il plasma germinale di questa cellula uovo viene distribuito in modo ineguale, così che ciascuna delle cellule figlie abbia solo quella porzione di determinanti destinata a specificare gli organi o i tessuti che da essa derivano. Unica eccezione a questa ipotesi della ineguale divisione dell'idioplasma è rappresentata dalle cellule riproduttive le quali contengono tutti i determinanti che l'uovo riceve dai genitori e attraverso questi, dagli ascendenti della specie. Nello spiegare poi il processo evolutivo, avendo negato sia l'esistenza di una «forza filetica» sia la trasmissibilità dei caratteri acquisiti, Weissmann deve ammettere coerentemente che esso si produce unicamente per selezione naturale di variazioni che hanno la loro origine esclusivamente in modificazioni del plasma germinale cioè delle cellule riproduttive. Ipotizzare quali cause producano queste modificazioni rappresentò uno dei compiti più complessi della elaborazione teorica di Weissmann, che venne svolgendosi in numerosi saggi dalla fine degli anni 'So all'inizio del nuovo secolo. Una delle principali sorgenti di variazioni è per Weissmann il mescolamento (anfimissi) dei plasmi germinali provenienti dai genitori del nuovo organismo. Oltre questo assortimento casuale dei determinanti, fattore di variazioni può essere l'azione diretta dell'ambiente (ad esempio calore) sulle cellule riproduttive. Weissmann giunge anche ad ammettere che le stesse condizioni ambientali possano agire contemporaneamente e nello stesso senso sia sulle cellule riproduttive sia su quelle somatiche, dando così l'impressione che un carattere acquisito dall'organismo venga trasmesso ai discendenti. Nel complesso la teoria di Weissmann suscitò forti opposizioni. Se nelle sue argomentazioni contro la ereditarietà dei caratteri acquisiti venne riconosciuta a poco a poco una certa fondatezza, più difficile era nell'ultimo decennio del secolo che potesse venir accettata quella che egli, in uno scritto polemico contro Spencer (1893), chiamò la « onnipotenza della selezione naturale». In questo periodo la tendenza prevalente nel pensiero biologico era di sfiducia e di rifiuto della teoria di Darwin il cui punto più debole veniva individuato appunto nel principio della selezione. Ma proprio di questo principio Weissmann si fece il difensore più convinto formulando, per far fronte alle numerose obiezioni che ad esso venivano rivolte, mia nuova teoria pubblicata in uno scritto del 1895 Ueber Germinai-Selection (Sulla selezione germinale). Egli parte da un'ipotesi già proposta nel 1881 da Wilhelm. Roux (sul quale si ritornerà nel paragrafo vn), secondo cui esisterebbe una sorta di competizione o di lotta per l'esistenza fra le cellule all'interno stesso dell'organismo, ammettendo 2.81
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però questa competizione soltanto fra i determinanti del plasma germinale. Alcuni di questi finirebbero così per prevalere sugli altri in modo da produrre lungo direzioni precise e coerenti lo sviluppo o la regressìone dì certi organi, offrendo inoltre alla selezione producentesi attraverso l'ambiente la possibilità dì agìre su variazioni più marcate dal punto dì vista della loro utilità o dannosità. Egli pensa in questo modo di rimuovere l'apparente contraddizione che risulta nell'ammettere che le adattazioni necessarie agli organismi siano prodotte da variazioni accidentali e di spiegare inoltre come pur rimanendo accidentali queste variazioni possano accrescersi in una determinata direzione. Cercava cioè di ritrovare al disotto di processi apparentemente accidentali un preciso determinismo, per cui il caso più facilmente potesse essere considerato creatore di ordine. L'assunto da cui muoveva la teoria della selezione germinale, cioè una lotta per l'esistenza fra i determinanti, apparve a molti contemporanei come una ipotesi ad hoc priva di plausibilità che veniva a sorreggere un edificio teorico indubbiamente elaborato e preciso ma che aveva il fondamentale difetto di non poter essere sottoposto a una verifica sperimentale. Questo difetto tuttavia poteva essere riscontrato in molte teorie sostenute dagli oppositori di W eissmann, le quali se godevano il vantaggio di rinunciare a complessi ed ipotetici modelli di tipo meccanicistico, incorrevano però in altre difficoltà. V · IL NEOLAMARCKISMO
La maggioranza degli oppositori della teoria evoluzionistica di Weissmann può essere accomunata in quell'indirizzo teorico della biologia che venne designato come neolamarckismo. Pur sostenendo posizioni molto diverse i vari autori che si possono ricondurre a questo indirizzo potevano in genere accordarsi sia nella difesa dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti sia nel sostenere la natura non accidentale delle variazioni evolutive e la loro eventuale dipendenza da fattori ambientali. Poiché nella sua opera Darwin accetta almeno parzialmente queste tesi, più tardi attribuite specificatamente a Lamarck, i primi sostenitori della teoria dell'evoluzione non videro nelle idee di Darwin un'opposizione ma piuttosto un perfezionamento rispetto a quelle di Lamarck. Alcuni, in particolare Haeckel, guardarono anzi all'autore francese come a un precursore incompreso e sfortunato. Fu soprattutto in Francia che si venne a poco a poco considerando Lamarck quale vero padre del trasformismo, come in questo paese si chiamò la teoria dell'evoluzione. Qui la resistenza alla teoria dell'evoluzione fu particolarmente forte anche per la grande influenza che continuava ad avere l'insegnamento di Cuvier che già all'inizio del secolo aveva confutato le idee evoluzionistiche di Lamarck e di Geoffroy Saint-Hilaire. Furono perciò alcuni intellettuali non spe2.82.
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cialisti di biologia, come Renan ed Edgar Quinet, i primi a schierarsi a favore della nuova teoria. E quando illustri biologi come Alfred Giard (1846-1908) ed Edmond Perrier (1844-192.1) si allinearono fra gli assertori del neolamarckismo questo indirizzo aveva già trovato specialmente in Germania e negli Stati Uniti autorevoli sostenitori. Per quanto riguarda uno dei principi di questa dottrina, cioè la non accidentalità delle variazioni evolutive, in Germania già Kolliker e Naegeli se ne erano fatti sostenitori, cercando di individuare nella materia vivente una legge che porti necessariamente all'aumento della sua complessità organizzativa. Un altro autore tedesco che si associa a questo rifiuto dell'origine casuale delle variazioni fu Theodor Eimer (1843-98), specialmente con una sua opera del 1888 Von Entstehung der Arten auf Grund von vererbten erworbenen Eigenschaften nach den Gesetzen organisches Wachsens (Origine delle specie in base all'eredità dei caratteri acquisiti secondo le leggi dell'accrescimento organico). Sua considerazione fondamentale è che «il principio di utilità di Darwin non spiega l'origine prima delle nuove proprietà. Esso spiega soltanto ed anche parzialmente l'accrescersi e l'affermarsi di queste proprietà. Prima che alcunché sia utile, occorre innanzitutto che esista». Eimer nega tuttavia la concezione di Naegeli secondo cui l'origine di queste proprietà è dovuto al dispiegarsi di una legge interna di perfezionamento. I nuovi caratteri del vivente sorgono invece per un'interazione fra fattori interni, dovuti alla sua costituzione ereditaria, e fattori ambientali esterni quali la temperatura ed il nutrimento. Sorgono cioè secondo un processo che è caratteristico di ogni forma d'accrescimento e differenziazione dei singoli organismi. I nuovi caratteri che compaiono nella filogenesi non vengono a prodursi in ogni direzione ma secondo linee ben determinate, cioè secondo un processo che egli chiama ortogenesi. Eimer ritiene che fra le varie condizioni che decidono in quale direzione dovrà procedere un determinato filone evolutivo, l'uso e non uso degli organi e la lotta per l'esistenza abbiano un peso secondario. Più importanti sono invece le azioni fisiche dirette che vengono ad esercitarsi in modo continuativo su varie generazioni, come già aveva sostenuto all'inizio del secolo Geoffroy Saint-Hilaire. Eimer, che basa le sue considerazioni soprattutto sullo studio dei disegni e dei colori nel mantello protettivo di diversi animali, rileva inoltre che il prodursi dei caratteri secondo specifiche direzioni evolutive spiega il fatto che essi non siano necessariamente dei caratteri utili. Molti animali provvisti di colorazioni apparentemente mimetiche sono infatti altrettanto indifesi di altri che ne sono sprovvisti, poiché possono essere predati come questi ultimi ogni qualvolta essi abbandonino lo stato di immobilità. Il ritenere quale causa fondamentale dell'ortogenesi l'azione diretta dell'ambiente fisico è una tesi, come egli giustamente osserva, che non fu sostenuta da Lamarck, il quale affermò invece una sua azione indiretta attraverso l'uso e non
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uso degli organi. Al pari di Lamarck e della grande maggioranza dei biologi a lui contemporanei Eimer riteneva però del tutto fondata la teoria della eredità dei caratteri acquisiti. A differenza di Eimer gli autori più vicini al pensiero di Lamarck insistevano nel ritenere ereditari i caratteri acquisiti che costituivano un vantaggioso adattamento dell'individuo, ottenuto attraverso l'uso e non uso degli organi o la stimolazione funzionale di determinati organi. Tutto il problema di questa ereditarietà cominciò ad occupare le ricerche e le discussioni dei biologi a partire dagli anni ottanta, da quando Weissmann si impegnò nell'analisi dei casi che venivano addotti a suo favore, mostrando spesso la loro infondatezza o cercando di spiegarli in base alla teoria della selezione. Si poneva innanzitutto alla base di questa controversia un problema metodologico che aveva ampie implicazioni teoriche, cioè quello di definire che cosa propriamente fossero tali caratteri acquisiti. La definizione che alla fine prevalse per la sua maggiore fondatezza fu quella stessa di Weissmann, secondo cui sono acquisiti quei caratteri che compaiono per la prima volta nell'organismo di un individuo ma riguardano ·le sue cellule somatiche senza interessare né modificare le sue cellule germinali. Tale definizione implicava ovviamente la distinzione teorica fra i due tipi di cellule che non tutti gli autori erano inizialmente disposti ad accettare. Una diversa definizione davano invece altri autori sostenendo che tutti i caratteri che la materia vivente ha assunto nella sua storia, differenziandosi nelle varie specie, sono necessariamente acquisiti, cioè non contenuti nella materia vivente primitiva. Il problema corrisponde perciò alla domanda: « Quali sono fra i caratteri acquisiti quelli che si trasmettono ereditariamente? » Malgrado le divergenze nella definizione ci si poteva tuttavia accordare almeno sul .fatto che certe mutilazioni costituivano dei caratteri acquisiti. Di queste alcune si erano ripetute per generazioni, come la circoncisione, la lacerazione dell'imene femminile e la deformazione del piede nelle donne cinesi, senza divenire perciò ereditarie. Altri numerosi casi di mutilazioni che si pretendevano ereditarie furono addotti dai lamarckiani a favore della loro teoria, ma a lungo andare nessun caso fu trovato veramente convincente. Più difficile risultava il decidere se ereditari potessero considerarsi certi caratteri acquisiti per uso o non uso di determinati organi. Secondo alcuni acquisita in tal modo era ad esempio l'atrofia degli organi visivi degli animali cavernicoli. Secondo altri essa era il risultato di una selezione naturale esercitantesi di necessità su ogni variazione di un organo di grande importanza. Durante gli anni novanta la discussione sull'acquisizione di nuovi caratteri della specie, come risultato di modificazioni funzionali, fu particolarmente intensa ed un tipico esempio è la famosa polemica fra Spencer e Weissmann. La posizione di Spencer a questo proposito può considerarsi esemplare in quanto
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rileva con chiarezza le motivazioni ideologiche e filosofiche che in modo sia pure implicito o inconsapevole spinsero alcuni autori a sostenere le tesi neolamarckiane. Per Spencer gli organismi viventi si trasformano in base a quegli stessi principi che determinano il processo evolutivo di tutta la realtà naturale. Uno di tali principi è quello della instabilità dell'omogeneo e poiché la materia vivente è particolarmente instabile ne deriva che i fattori esterni agiscono su di essa producendovi delle ridistribuzioni di equilibrio che sono alla base dell'adattamento all'ambiente. Tali adattamenti si producono in genere col variare delle funzioni in rapporto al variare delle condizioni ambientali. Nei suoi Principles of biology (Principi di biologia) del I 864 Spencer considera come tipici esempi di modificazioni ereditarie prodotte da variazioni funzionali le più ampie dimensioni nelle mani dei lavoratori manuali e le dimensioni più ridotte delle stesse mani nelle classi più agiate. Spencer ritiene che proprio negli animali superiori e nell'uomo l'eredità dei caratteri acquisiti diviene un fattore sempre più importante del generale processo evolutivo e ciò comporta delle inevitabili conseguenze sul piano etico e sociale. Nel I 886 egli scriveva infatti: « Se una nazione subisce nella sua totalità delle modificazioni prodotte dalla eredità degli effetti che la natura dei suoi membri subisce per via di quelle forme dell'attività quotidiana che vengono determinate dalle istituzioni e dalle condizioni di vita, queste istituzioni e queste condizioni formeranno i cittadini assai più celermente ed in modo assai più completo di ciò che esse non potrebbero se l'unica causa dell'adattamento fosse la frequente sopravvivenza di quegli individui che si sono più favorevolmente modificati. » Se in questo modo Spencer vuole affermare la maggiore responsabilità etica e sociale che deriva dall'affermazione dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti è pur anche vero che rimane del tutto ambigua questa forma di responsabilità. Essa può infatti significare anche un maggior diritto al potere nella società di quelle stesse classi che l'hanno a lungo esercitato in passato, acquisendo così una particolare attitudine ad esso. La concezione evoluzionistica di Spencer si trovava dunque in netto contrasto con quella elaborata da Weissmann e contro questa l'autore inglese prese nettamente posizione in un articolo pubblicato nel I893 sulla« Contemporary Review » ove afferma che se non tutti i caratteri acquisiti vengono trasmessi vi sono alcuni casi in cui ciò sicuramente avviene. Egli adduce ad esempio la distribuzione della sensibilità tattile sulla superficie del corpo umano. I corpuscoli tattili sono cioè più numerosi non dove potrebbero essere più utili ma dove il corpo viene più frequentemente a contatto con gli oggetti esterni. Replicando a queste considerazioni W eissmann rileva che se tale distribuzione non può considerarsi utile per l'uomo può esserlo stato per i suoi ascendenti venendo così a fissarsi attraverso la selezione naturale.
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Ma a favore della sua concezione evolutiva Spencer adduce un argomento più importante di carattere generale. Si osserva cioè in quasi tutte le trasformazioni evolutive degli organismi un fenomeno di coadattazione, cioè una variazione correlativa di parti distinte morfologicamente ma collegate da un legame fisiologico. Così lo sviluppo poderoso delle corna in alcuni cervi può realizzarsi soltanto se variano le strutture ossee oltre che del cranio anche del collo e della parte anteriore del corpo. Poiché non si può sostenere che la variazione di una singola parte abbia come conseguenza la variazione delle altre parti ad essa funzionalmente collegate bisogna ammettere, seguendo la teoria della selezione, che tutte le parti fra loro correlate presentino al vaglio della selezione un'appropriata e contemporanea variazione. Il che appare inammissibile. Non rimane perciò che la spiegazione lamarckiana della graduale acquisizione di una nuova forma attraverso l'accentuarsi della funzione e la trasmissione ereditaria. Weissmann riconosce l'importanza di questo argomento a favore della tesi lamarckiana. Ritiene tuttavia che tali trasformazioni coadattative possano essere spiegate mediante la selezione naturale, senza trasmissione ereditaria di caratteri acquisiti. Una prova di ciò si ha nei cosiddetti animali neutri delle colonie di insetti, ad esempio nelle formiche operaie. Queste normalmente non si riproducono e tuttavia nella storia della terra si sono trasformate sensibilmente, presentando fra l'altro una regressione degli organi sessuali e delle ali ed uno sviluppo accentuato del cervello e delle mascelle. In questo caso non si può parlare di variazioni acquisite per uso o non uso di organi e trasmesse ai discendenti, poiché si tratta di animali sterili. L'unica spiegazione, secondo Weissmann, è che una selezione abbia agito a favore dei genitori e quindi delle colonie da cui sono nate operaie con variazioni più utili alla colonia. Il problema della formazione ed eredità delle coadattazioni, affrontato nel 1893 in questa polemica fra Spencer e Weissmann, così come quello già accennato della eredità delle mutilazioni non si risolsero apertamente a. favore di nessuno dei due contrapposti schieramenti dei neodarwiniani (così si chiamarono i seguaci di Weissmann) e dei neolamarckiani. Per questi ultimi, che si trovavano verso il volgere del secolo a costituire una maggioranza sempre meno compatta, una nuova e più convincente prova a favore della ereditarietà dei caratteri acquisiti venne offerta da una serie di interessanti ricerche sperimentali condotte specialmente sugli insetti. Uno degli esperimenti più discussi fu quello condotto all'inizio del Novecento su delle farfalle in cui si dimostrava che sottoponendo le uova di questi insetti a forti sbalzi di temperatura si ottenevano degli individui con nuovi caratteri nella forma e nel colore delle ali, trasmissibili ai discendenti. Questi esperimenti vennero però interpretati da Weissmann ammettendo la possibilità che si fosse avuto contemporaneamente un effetto della temperatura sia sulle cellule somatiche sia sulle cellule germinali (induzione parallela) e non z86
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un trasferimento alle cellule germinali di una trasformazione precedentemente avvenuta a livello delle cellule somatiche, come sostenevano i neolamarckiani (induzione somatica). Questa continua divergenza di interpretazione mostrava come fenomeni o esperimenti addotti a prova della eredità dei caratteri acquisiti potevano, sia pure con difficoltà, venire interpretati dai weissmanniani in senso favorevole alla loro teoria. Ciò mostrava ormai come il terreno dello scontro non poteva più essere limitato alla discussione di singoli dati, ma doveva fatalmente coinvolgere i principi e le teorie più generali su cui si fondava la concezione dell'organismo vivente. Non si può tuttavia affermare che i neolamarckiani potessero scendere in campo forti di una teoria così coerente ed elaborata come quella formulata da Weissmann. Lo stesso richiamo a Lamarck era spesso confuso e contraddittorio, ·effettuato senza alcuna precisa analisi storica tanto che nell'autore francese alcuni vedevano il precursore delle proprie posizioni materialistiche o meccanicistiche, altri invece un campione del vitalismo che si faceva ormai strada anche fra gli studiosi della teoria dell'evoluzione. Nel complesso si può concordare con Delage e Goldsmith quando affermano che « il lamarckismo non ha costituito una vera scuola. Le idee che lo caratterizzano non sono state sistematizzate da alcun teorico. Esso non è un sistema, ma piuttosto un punto di vista, una tendenza che si fa luce a proposito di tutte le grandi questioni biologiche». A proposito dell'evoluzione, come si è già accennato, questo indirizzo sostiene oltre la ereditarietà dei caratteri acquisiti anche l'origine non accidentale delle variazioni cioè il loro sorgere in dipendenza di fattori ambientali, per lo più secondo un processo funzionale di adattamento. A proposito della eredità e dell'ontogenesi questo indirizzo tende inoltre a rivendicare l'importanza primaria dei fattori ambientali e delle cause esterne contro la concezione che l'uovo contenga in modo predeterminato tutti i caratteri del futuro organismo; in tal modo si pone contro il preformismo e a favore della epigenesi. L'indirizzo neolamarckiano tende infine nella trattazione degli organismi a privilegiare l'aspetto fisiologico delle funzioni chimiche ed umorali rispetto a quello morfologico delle strutture macroscopiche e microscopiche. Fra i problemi che gli autori lamarckiani, specialmente a tendenza meccanicistica, cercarono di affrontare, già negli ultimi anni dell'Ottocento, vi era quello dell'ipotetico meccanismo che potesse spiegare la trasmissione dei caratteri acquisiti, cioè il modo con cui una variazione avvenuta a livello delle cellule somatiche potesse essere trasferita o inscritta nelle cellule germinali (induzione somatica). Alcuni autori, rifacendosi alla teoria delle gemmule di Darwin, supponevano che particolari sostanze attive, prodotte dai vari tessuti soggetti a trasformazioni, giungessero attraverso il sangue alle cellule germinali improntando queste dei
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nuovi caratteri. Altri autori invece ritenevano che l'induzione somatica si realizzasse mediante un'ipotetica stimolazione energetica trasmessa dalle cellule somatiche a quelle germinali attraverso il sistema nervoso od una supposta rete di collegamenti intercellulari. Alcuni dei sostenitori di quest'ipotesi della stimolazione energetica si sono orientati verso una concezione dell'organismo vivente in cui la propl'ietà fondamentale sarebbe la « memoria ». Questa concezione può farsi risalire ad uno scritto del fisiologo tedesco Edwald Hering (I834-I9I8) Ueber das Gediichniss als eine allgemeine Funktion der organisierten Materie (Sulla memoria come funzione generale della materia organizzata, I87o). Questi movendo dal presupposto del parallelismo psicofisico di Fechner sostiene che al processo psichico della memoria deve corrispondere nella sostanza nervosa una parallela trasformazione delle strutture molecolari, per cui tale sostanza è in grado di riprodurre gli stati di eccitamento a cui è stata precedentemente sottoposta. Se si estende questa capacità riproduttiva o mnemonica alla materia vivente in generale si può comprendere come le stimolazioni a cui essa è stata sottoposta vengano fissate e trasmesse ereditariamente. All'inizio del secolo il tedesco Richard Semon (I 8 59I9I9) e l'italiano Eugenio Rignano (I87o-I93o) ripresero e svilupparono questa dottrina mnemonica della vita, sempre nel tentativo di spiegare la ereditarietà dei caratteri acquisiti. Pur essendo esposta in termini energetico-funzionali e quindi contrapposti ai modelli morfologico-strutturali di Weissmann, questa dottrina mnemonica rimaneva sostanzialmente nell'ambito di un'impostazione materialistica. Altri seguaci dell'indirizzo neolamarckiano dovevano invece nello stesso periodo farsi sostenitori di una forma di psicovitalismo destinato presto a confondersi con il vitalismo sorto, come si vedrà oltre, quale reazione alla teoria dell'evoluzione. Ancor più che in Francia il neolamarckismo trovò già negli anni settanta dei convinti sostenitori negli Stati Uniti specialmente fra i cultori di paleontologia. La figura più rappresentativa di questo gruppo e forse di tutto l'indirizzo neolamarckiano è appunto un paleontologo illustre, Edward Drinker Cope (I 84097), dedicatosi soprattutto allo studio dei vertebrati. Anch'egli parte dalla fondamentale obiezione mossa a Darwin, secondo cui le variazioni puramente accidentali hanno una probabilità minima di produrre, attraverso la selezione, le mirabili strutture adattative degli organismi. Il sorgere di una variazione favorevole in un solo individuo o in una coppia verrebbe infatti annullata in breve tempo dall'incrocio con gli individui del gruppo che ne sono privi. Per assicurare la sopravvivenza di un nuovo carattere, cioè di un nuovo tipo di organismo, è perciò necessario che la variazione compaia contemporaneamente e successivamente in molti individui. Le uniche cause che possono assicurare questa comparsa sono i cambiamenti delle condizioni fisiche ambientali e le reazioni che necessariamente ne seguono negli organismi. 288
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In modo simile a Lamarck Cope distingue due tipi di influenze ambientali sugli organismi. Un'influenza diretta di tipo fisico-chimico che si esercita specialmente sulle piante e' gli animali inferiori a livello molecolare ed un'influenza indiretta che si produce attraverso il movimento o l'uso di determinati organi in risposta alle sollecitazioni dell'ambiente. Un esempio di questa influenza del movimento, che costituisce il fattore più importante di evoluzione negli animali, è l'ossificazione della corda dorsale in alcuni vertebrati. Questa ossificazione segue una linea a zig zag simile alle pieghe che si formano sulla manica di un vestito per i continui movimenti del braccio. Poiché Cope ritiene che i movimenti degli animali traggano origine da uno sforzo cosciente, giunge alla conclusione che l'attività psichica costituisce il fattore fondamentale della loro evoluzione. Tale attività non viene da lui considerata, come riteneva Lamarck, un prodotto della materia vivente bensì un principio energetico che precede e condiziona la sua organizzazione. Questa attività psichica originaria (archiestetismo) trapassa tuttavia dallo stato cosciente a quello incosciente man mano che le manifestazioni vitali divengono automatiche. Le teorie di Cope, esposte in numerosi scritti fra cui Primary factors of organic evolution (Fattori primari dell'evoluzione organica, I 896), non ebbero molta risonanza in Europa. Ancor meno noti e forse volutamente ignorati furono gli scritti di un altro neolamarckista inglese, Samuel Butler (1835-I902), sostenitore di una forma di psicovitalismo analoga a quella di Cape. Figura originale di letterato e di pensatore scientifico, nella sua opera Evolution o/d and new (Evoluzione vecchia e nuova, 1879) aveva attaccato direttamente Darwin contrapponendogli come più valide le concezioni evoluzionistiche di Lamarck e dello stesso Erasmo Darwin. In vari scritti egli sostiene infatti che le variazioni sorgono per i bisogni che gli organismi avvertono nelle loro diverse condizioni ambientali. I viventi sono esseri attivi ed intelligenti che progrediscono attraverso la continua tendenza a soddisfare i propri bisogni in modo analogo a quello con cui si perfezionano le invenzioni tecniche e si trasformano le società. Ciò che è acquisito attraverso lo sforzo cosciente dei genitori è trasmesso ai discendenti come un processo che diviene sempre più automatico e incosciente quanto più viene ripetuto. Butler giunge così non solo a sostenere una completa teleologia del mondo organico ma arriva anche ad ammettere una continuità psicologica dei viventi che si fonde in una sorta di unità panteistica della natura. VI · LE
ORIGINI
DEL
NUOVO
VITALISMO
Alcune formulazioni del neolamarckismo assumono come si è ora visto una netta impronta vitalistica che caratterizza alla fine dell'Ottocento anche altri sviluppi del pensiero biologico. Il risorgere del vitalismo durante questo periodo
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rappresenta per certi aspetti una svolta inattesa e sorprendente nella storia del pensiero scientifico. Le cause di questa svolta vanno ricercate non solo in alcuni sviluppi specifici delle scienze biologiche ma anche nel generale cambiamento del clima scientifico e filosofico che matura nel decennio fra il 188o ed il 1890. Prima di considerare queste cause più da vicino è opportuno ricordare alcuni aspetti del primo vitalismo ottocentesco tramontato negli anni cinquanta e nel complesso ben differente da quello che doveva sorgere alla fine del secolo. Tale vitalismo come era sorto nella seconda metà del Settecento e si era protratto nei primi decenni dell'Ottocento presentava due aspetti caratteristici. Da un lato esso poteva porsi come una teoria empirico-descrittiva e non considerava necessariamente i fenomeni vitali in un contrasto netto e inconciliabile con il restante mondo naturale. Il principio vitale sino al momento dei decisivi progressi della elettrologia, dell'elettromagnetismo e della termodinamica poteva infatti essere considerato un fluido od una forza inseribili nel quadro fisico dei fenomeni naturali. D'altro lato, specialmente nell'ambito del naturalismo illuministico, il vitalismo poteva considerarsi espressione di una concezione materialistica della natura. Il principio di conservazione dell'energia e l'imporsi della nuova chimica organica segnarono attorno alla metà del secolo il tramonto del vecchio vitalismo. Il meccanicismo biologico che gli successe, guidando i grandi sviluppi della teoria cellulare e della nuova fisiologia, poteva però essere interpretato filosoficamente in modo contrastante. Sin dall'inizio con Schawnn e Lotze esso venne assunto in una concezione creazionistica e spiritualistica con il ritorno ad una sorta di dualismo cartesiano. A questa interpretazione si opposero specialmente Moleschott e Biichner sostenendo l'identificazione di meccanicismo e materialismo che trovò un'imponente conferma nella concezione evoluzionistica di Haeckel. Il nuovo vitalismo che emerge invece verso la fine del secolo, specialmente nella cultura tedesca, non solo si oppone a questa concezione materialistica esprimendo spesso le esigenze di un nuovo spiritualismo irrazionalistico o metafisico, ma tende anche a considerare il mondo della vita come un ambito del tutto autonomo della realtà, irriducibile alla conoscenza fisica della natura. Per chiarire meglio il significato di questo vitalismo indicheremo dapprima alcune condizioni di ordine scientifico che favorirono il suo sorgere, in particolare la crisi del darwinismo, la confutazione della teoria della generazione spontanea, le difficoltà incontrate nell'ambito della fisiologia ed il ritorno al metodo teleologico. Successivamente accenneremo al nuovo clima culturale filosofico che al sorgere del nuovo vitalismo contribuì in modo preponderante. Che la crisi del darwinismo abbia costituito uno dei fattori decisivi per la nascita del nuovo vitalismo può essere suggerito già immediatamente dal fatto che tale crisi fu più acuta e profonda in Germania che può considerarsi la patria di tale vitalismo. La teoria di Darwin, che era apparsa agli autori tedeschi peccare
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di eccessivo empirismo e di un'inadeguata fondazione causale, doveva trovare proprio in Germania la sua sistemazione più ampia ma anche più rigida. Haeckel con enfasi dottrinaria ritrascrisse la teoria in termini di principi e leggi universali e necessarie. Naegeli e Weissmann cercarono per essa una rigorosa fondazione meccanica nelle ipotetiche strutture microscopiche della cellula. Negli anni ottanta la teoria dell'evoluzione appariva un sicuro e grandioso edificio concettuale della scienza moderna in grado di segnare una nuova visione del mondo. Ma ormai nel suo interno già si profilavano le divergenze e le contrapposizioni, alimentate dai nuovi risultati delle ricerche e da un'analisi più precisa dei suoi presupposti. Le divergenze presto destinate a moltiplicarsi in una serie di ipotesi inconciliabili e incontrollabili dovevano provocare sfiducia e delusione tanto più vive quanto più si era abituati a considerare il sapere scientifico come una conoscenza definitiva di fatti, priva di ogni problematicità teorica. Risultava in particolare una grave sconfitta il fatto che una teoria che era apparsa come la sicura spiegazione della molteplicità e della natura dei viventi si fosse ridotta ormai all'enunciazione di un ipotetico processo che richiedeva esso stesso una spiegazione. Nessuno pensava di negare l'evoluzione come fatto storico della natura, ma molti dubitavano ormai della teoria della selezione di Darwin, che si era posta non soltanto come spiegazione della molteplicità dei viventi ma anche come spiegazione dell'adattamento di ciascun organismo alle sue condizioni di esistenza, in breve della sua finalità. Le critiche che sin dalla comparsa dell'opera di Darwin erano state mosse numerose all'efficacia della selezione esprimevano in genere lo sforzo di individuare più appropriati fattori di evoluzione. Ora tali critiche venivano riprese e poste in una nuova luce come dimostrazione che la finalità degli organismi rappresenta una condizione originaria ed irriducibile. Questo nuovo atteggiamento emerge con particolare chiarezza in un articolo scritto nel 189o dal tedesco Gustav Wolff Beitrage zur Kritik der Darwin'schen Lehre (Contributi alla critica della dottrina di Darwin). L'autore osserva che quanto più grande è stata la conquista ottenuta in campo scientifico dalla spiegazione meccanicistica della finalità tanto più grave è la perdita che ci deriva dal fatto che tale spiegazione non risulta dimostrata. D'altronde il valore del principio di selezione viene a cadere completamente nel caso che si dia una sola disposizione finalistica che non risulti spiegabile in base ad esso. « Se cioè la teoria della selezione non spiega tutto, essa non spiega nulla. » Secondo Wolf infatti una formulazione rigorosa di questa teoria ci porta a concludere che essa presuppone ciò che dovrebbe spiegare. Le variazioni su cui deve agire la selezione sono infatti casuali ed in quanto tali devono essere del tutto prive di ogni regolarità. Ma se così fosse gli incrementi minimali delle
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macchie di pigmenti cutanei che portano alla formazione degli occhi, proprio perché privi di regolarità, non dovrebbero mai comporsi simmetricamente in modo da portare nell'animale alla formazione di due occhi. Analogamente lo sviluppo di un occhio risulterebbe del tutto inutile se non si avesse contemporaneamente lo sviluppo del corrispondente centro nervoso. Questi ed altri infiniti esempi mostrano che le variazioni avvengono in modo strettamente correlato, .cioè secondo un grado di complicazione e di regolarità che non solo contraddice l'assunto della casualità delle variazioni, ma che costituisce uno degli aspetti fondamentali della finalità, che la teoria dovrebbe spiegare. In un successivo articolo del 1894 Wolf osserva come i difensori del darwinismo abbiano risposto alle sue critiche limitandosi ad ammettere che le variazioni possono avvenire in modo correlato e che tali correlazioni devono essere ricondotte alla disposizione del plasma germinale ove esse devono essere in qualche modo potenzialmente contenute. Ma tale risposta osserva Wolf non fa che spostare il problema in un campo di ricerche ancora incompiuto facendo così appello a ciò che ignoriamo. Occorre invece affrontare direttamente il problema di ciò che è effettivamente un organismo, di ciò che è la vita. E la risposta a questo problema non può non riconoscere che «l'adattamento finalizzato è ciò che fa dell'organismo un organismo, è ciò che ci si presenta come l'essenza propria della vita». Ora il darwinismo vorrebbe spiegare l'origine di questa finalità, ma in realtà presuppone già la vita ed introduce successivamente la finalità negli organismi. Ma ammettere la vita senza finalità e poi aggiungervi questa mediante la selezione è evidentemente inammissibile. Occorre quindi concludere che l'origine della finalità coincide con l'origine della vita e rintracciare perciò la finalità primaria cioè il processo nel quale per la prima volta si mostra la finalità. Tale finalità primaria per Wolff doveva essere studiata nei processi dello sviluppo embrionale ed in quelli di rigenerazione. Questi apparivano ormai gli unici fenomeni di genesi della vita che potessero venir studiati direttamente in laboratorio dal momento che l'altro ipotetico processo di origine della vita, cioè la generazione spontanea, era ormai ritenuto inesistente dopo le ricerche compiute da Louis Pasteur (1822.-95) attorno al 186o. La teoria della generazione spontanea era stata riproposta e confutata già nel Seicento e nel Settecento ed in ambedue questi casi la sua negazione aveva significato una negazione del vitalismo. Nell'Ottocento la situazione doveva rovesciarsi e della dimostrata impossibilità della generazione spontanea dovevano avvalersi i vitalisti per affermare la irriducibilità della vita ai principi esplicativi del mondo inorganico. Nel Settecento le dimostrazioni di Needham a favore di questa teoria erano state invalida te dalle precise ed accurate ricerche sperimentali di Spallanzani, ma la convinzione che esseri viventi microscopici potessero prodursi spontaneamente
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dalla materia inorganica o da quella organica in decomposizione si era ugualmente diffusa ed anche nella prima metà dell'Ottocento la maggioranza dei naturalisti non si opponeva ad essa. Taie convinzione aveva trovato le sue basi filosofiche nel naturalismo e nel vitalismo materialistico settecenteschi, che avevano rivendicato l'autonoma capacità di movimento della materia e quindi anche la sua possibilità di produrre la vita. Nell'Ottocento il problema della generazione spontanea più che nei suoi aspetti filosofici veniva riproposto e discusso soprattutto nelle ricerche sulle fermentazioni che alcuni ritenevano processi capaci di produrre microrganismi, ad esempio i lieviti. Nel 1859 in Francia Félix-Archimède Pouchet (1800-72) aveva raccolto in un volume tutte le argomentazioni sperimentali a favore della eterogenesi o generazione spontanea. L'argomento suscitava un grande interesse anche nel vasto pubblico e l'Accademia francese delle scienze bandì un premio per chi riuscisse a chiarire in modo convincente la controversa questione. Il premio fu vinto da Pasteur che mediante esperimenti precisi e relativamente semplici confutò le argomentazioni di Pouchet, dimostrando che in nessun liquido sterile si possono produrre microrganismi se non per contatto con l'aria che già li contiene. Lo scontro fra le tesi contrapposte di Pouchet e di Pasteur aveva interessato largamente l'opinione pubblica. Il primo appariva come il difensore di una concezione materialistica della natura, nel secondo fervente cattolico si vedeva il difensore di una concezione tradizionale spiritualistica che riproponeva l'intervento creativo divino per il sorgere della vita. Lo stesso Pasteur nella sua estrema correttezza scientifica fu consapevole delle implicazioni filosofiche di questa polemica ed osservava in un discorso tenuto alla Sorbonne nel 1864: « Quale vittoria per il materialismo se potesse proclamarsi fondato sul fatto sicuro che la materia autorganizzandosi produce per se stessa la vita! Che cosa più naturale in questo caso che deificare la materia? » Dio diverrebbe in tal modo inutile come creatore della vita. La completa esclusione della generazione spontanea dei microrganismi contribuiva dunque all'affermarsi dell'idea di un distacco netto fra mondo inorganico e mondo della vita e quindi al sorgere del nuovo vitalismo di impronta spiritualista. I più coerenti sostenitori della teoria dell'evoluzione, come Haeckel, dovevano tuttavia ammettere che in epoche passate forme estremamente primitive di vita si fossero prodotte come solo effetto delle condizioni fisico-chimiche naturali della terra o eventualmente di altri corpi celesti. Le teorie che furono formulate a questo proposito non ebbero comunque una grande influenza sul pensiero biologico. Per poter in effetti chiarire la lontana origine della vita occorreva avere una più approfondita conoscenza delle basi fisico-chimiche degli attuali organismi. Ma anche l'intenso lavoro dei fisiologi in questa direzione non era destinato a soddisfare le attese e le speranze maturate attorno alla metà del secolo. Già
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nel 1872. l'illustre fisiologo Emil du Bois-Reymond aveva affermato che processi come la contrazione muscolare, la secrezione delle ghiandole, il chimismo delle cellule apparivano « oscuri senza speranza ». Anche il bilancio che poteva essere tratto alla fine del secolo appariva a non pochi del tutto insoddisfacente. L'interpretazione dell'organismo come una macchina termica incontrava ad esempio serie difficoltà. Appariva ad esempio oscuro come componenti strutturali della macchina, quali i muscoli, rimanessero in buona parte escluse dal processo di combustione. Inoltre, dato che il lavoro prodotto doveva teoricamente corrispondere al calore di combustione di una data quantità di sostanze nutritive, appariva oscuro il fatto che l'apporto di ossigeno all'organismo non fosse necessariamente proporzionale alla quantità delle sostanze che avrebbero dovuto essere bruciate per produrre una determinata quantità di lavoro. A queste ed altre difficoltà di carattere termodinamico se ne aggiungevano molte di carattere fisico-chimico. Analizzando l'attività delle cellule risultava ad esempio che l'assorbimento delle sostanze attraverso le loro pareti non si lasciava ricondurre alle proprietà di una membrana osmotica. Le cellule epiteliali dell'intestino assorbivano infatti con facilità alcune sostanze respingendone altre e mostravano così una tipica capacità selettiva. Queste e molte altre peculiarità nel comportamento fisico-chimico degli organismi, di cui i fisiologi si rendevano sempre più consapevoli, rendeva molti alquanto scettici sulla tradizionale analogia fra organismo vivente e macchina. A ciò si aggiungeva lo spazio sempre più ampio che assumevano nell'indagine fisiologica gli aspetti di regolazione e di coordinazione funzionale fra i vari organi. Questi aspetti portavano in modo più o meno esplicito a rivalutare quella considerazione teleologica o finalistica dei processi vitali che, specialmente in Germania, i primi sostenitori della nuova fisiologia meccanicistica avevano rigorosamente escluso dal loro programma. Più che dell'Ottocento il problema della finalità degli organismi può considerarsi tipico della cultura settecentesca. In questa possono rintracciarsi almeno tre modi di considerare la finalità dei viventi. Il primo corrisponde alla visione provvidenzialistica per cui ogni essere è armonicamente utile e necessario all'altro e tutti lo sono per l'uomo. Il secondo vede l'organismo come una macchina costruita e funzionante secondo un disegno tracciato in vista di un determinato scopo. Il terzo infine, espresso in particolare da Kant, considera l'organismo come un prodotto della natura in cui ogni parte è vicendevolmente fine e mezzo ed individua in tal modo una sorta di finalità interna ad esso. Nella prima metà dell'Ottocento ed oltre, il tema della finalità, anche presso i vitalisti, assume scarso rilievo e viene considerato di preferenza nelle complessive trattazioni della natura di ispirazione teologica o spiritualistica. Per quanto possa apparire paradossale, il ritorno ad una considerazione teleologica o finalistica, che si verifica nella biologia dell'ultimo Ottocento, deve molto
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all'influenza di Darwin. Ciò non risulta indubbiamente dall'atteggiamento di Haeckel e di altri darwinisti che come lui videro nell'autore inglese il vero instauratore del metodo causale nella biologia, il quale bandiva secondo l'ideale del meccanicismo ogni intenzione teleologica dalla trattazione dei viventi. Ma tale influenza può già scorgersi nelle parole di Helmholtz, quando nel I 869 osservava che secondo la teoria di Darwin «negli organismi la finalità della struttura poteva sorgere anche senza alcun intervento di una intelligenza attraverso la cieca potenza di una legge naturale». Darwin si era infatti proposto di spiegare mediante la selezione naturale le disposizioni teleologiche degli organismi rispetto all'ambiente, considerando il vantaggio o lo svantaggio di ogni carattere come la condizione necessaria dell'estinguersi o del variare delle specie. Vi era quindi implicita nella sua teoria una costante considerazione della finalità o meglio del rapporto di adattamento degli organismi, che veniva certo ricondotta a cause naturali o meccaniche, ma che rimaneva ciò non di meno la condizione per capire il sorgere di una specie. Ora l'idea darwiniana di ricondurre la finalità degli organismi all'interazione con l'ambiente apriva prospettive sempre più ampie alla stessa ricercà causale. Ciò nel 1881 veniva espresso chiaramente dal filosofo Christoph Sigwart (1830I 904): « L'osservazione teleologica costituisce una sollecitazione a rintracciare i legami causali in tutte le direzioni attraverso cui si realizza lo scopo. Essa ha il significato di un principio euristico; il presupposto che l'organismo è costituito finalisticamente costringe infatti a chiedersi qual è la funzione di ogni singola parte e a riconoscere il significato della sua forma, della sua struttura e delle sue proprietà chimiche e conduce anche alla spiegazione di eventuali effetti secondari che non si subordinano allo scopo, ma sono inevitabili dati i mezzi impiegati. Il significato generale del movimento darwiniano consiste proprio nel fatto che, riconoscendo spregiudicatamente la finalità degli organismi, si pone il compito di spiegare deterministicamente questa finalità in base a leggi generali e a parla per di più come la conseguenza necessaria di date cause e delle loro combinazioni. » Anche Wundt aveva rivendicato l'importanza nella biologia del metodo finalistico che egli, ispirandosi a Fechner, considera come il rovesciamento di quello causale, in quanto procede in senso inverso dall'effetto alla causa, che in questo modo diviene mezzo. Più che gli studiosi di morfologia evoluzionistica furono i fisiologi, come si è detto, a raccogliere queste sollecitazioni del darwinismo. Fra essi ricorderemo Eduard Pfliiger (I829-1910) per il famoso saggio Die teleologische Mechanik der lebendigen Natur (La teleologia meccanica della natura vivente, 1877) in cui si afferma che « la causa di ogni bisogno di un essere vivente è anche ciò che determina la sua soddisfazione ». Con tale principio egli indicava che col variare delle condizioni in cui si trova l'organismo, la risposta di esso a tali condizioni è in genere adeguata allo scopo della sua conservazione e più in particolare
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all'espletamento delle sue funzioni. Ad esempio la risposta dell'apparato digerente ai diversi tipi di cibo è tale da garantire di massima l'espletarsi della digestione. Tale adeguamento al variare delle condizioni è ovviamente realizzato mediante processi di tipo meccanico causale. Il principio generale secondo cui gli organismi rispondono o reagiscono finl!listicamente agli stimoli dell'ambiente è implicito anche nelle trattazioni di quasi tutti i sostenitori del neolamarckismo, alcuni dei quali danno di esso come si è visto un'interpretazione vitalistìca. La quasi totalità dei fisiologi si attiene invece all'impostazione meccanicista anche se viene riconoscendo all'organismo delle proprietà che appaiono nuove rispetto ai prodotti del mondo inorganico. Un'impostazione di questo tipo si ha già nel 1881 con Wilhelm Roux il quale considera la finalità come capacità di autoconservazione, cioè di durata dell'organismo attraverso il processo di ricambio delle sue parti e malgrado esso. In modo analogo Hering nel 1888 caratterizzava l'organismo come un sistema fisico capace di mantenere le sue peculiari proprietà di fronte all'ambiente esterno, manifestando così uno stato di equilibrio dinamico notevolmente stabile. Anche Mach in un capitolo dell'opera L'analisi delle sensazioni tratta con la sua usuale spregiudicatezza il problema della finalità biologica. Osserva cioè che siamo ben lontani dal poter derivare da cause efficienti molti fenomeni biologici i quali « possono essere in ogni modo parzialmente compresi quando prendiamo in considerazione lo scopo dell'autoconservazione nelle particolari circostanze di vita dell'organismo. Quali che siano le riserve teoriche che possiamo avanzare circa l'applicazione alla biologia della concezione finalistica, sarebbe certamente perverso rifiutarsi di usare le indicazioni offerteci dalla considerazione dello scopo, in un campo dove la teoria della "causalità" ci fornisce delle spiegazioni così imperfette». Mach secondo la sua concezione economicistica della scienza ammette quindi il valore euristico ed il ruolo provvisorio della finalità che, al pari della causalità, considera rapporti che si devono risolvere in quello per lui più comprensivo e valido di funzione. Un interessante tentativo di ricondurre il concetto di finalità a quello di una funzione si ha infatti nell'opera Empirische Teleologie (Teleologia empirica) pubblicata nel 1899 da Paul Cossmann (1869-1942.). Secondo l'autore un processo teleologico può essere caratterizzato da tre fattori, il fattore terminale (S) cioè lo scopo, da considerarsi una costante e da due fattori variabili, cioè l'antecedente (A) ed il Medium (M) collegabili in un rapporto di tipo funzionale M = f (A, S). Ad esempio un raggio di luce che colpisce l'occhio può costituire l'antecedente (A), un movimento riflesso il medium (M) ed infine lo stato di difesa dalla luce che ne risulta l'effetto costante terminale (S). La rivalutazione del metodo teleologico a cui si è ora accennato porta in genere, specialmente fra i fisiologi, a considerare la finalità come una proprietà empirico-descrittiva riconducibile ad una interpretazione meccanicistica. La
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possibilità di questa interpretazione veniva ammessa con relativa facilità dai fisiologi propensi a ricondurre dei processi finalistici a delle strutture preesistenti. Per chi invece considerava gli organismi dal punto di vista dell'evoluzione la finalità o poteva essere spiegata mediante la selezione naturale oppure doveva risultare come una proprietà primitiva e quindi un possibile argomento in favore del vitalismo. Il sorgere del nuovo vitalismo, che si osserva in Germania nell'ultimo decennio dell'Ottocento, non si può interpretare soltanto in base agli sviluppi teoricoscientifici della biologia da noi ora ricordati. Occorre riconoscere la grande importanza, per il prodursi di questa svolta del pensiero biologico, di un nuovo clima filosofico-letterario che rivalutava, come reazione al positivismo ed al materialismo, una ricca tematica irrazionalistica e mistico-religiosa. Questa nuova situazione culturale non riuscì ad impedire alla ricerca scientifica di compiere in tutti i campi passi estremamente importanti e decisivi. Né impedì che si svolgesse proprio in Germania un'approfondita analisi critico-filosofica delle scienze matematiche e fisiche. Risalgono agli anni settanta ed ottanta le prime indagini sui fondamenti della meccanica condotte specialmente da Kirchoff, Mach e Hertz. Queste indagini e la crisi del meccanicismo che portò nella fisica all'affermarsi dell'energetismo, scossero l'ingenua e dogmatica fiducia con cui si considerava la meccanica il modello e l'ideale della conoscenza scientifica della natura. Se tali sviluppi critici ebbero un'indubbia fecondità, d'altro lato apparvero a molti come un'ulteriore denuncia di quei limiti della conoscenza scientifica già proclamati da Du Bois-Reymond, ed un'affermazione della sua relatività che detronizzava la scienza della natura da quel ruolo privilegiato che la cultura positivistica gli aveva attribuito anche nei riguardi dei problemi dell'uomo e della storia. Alla luce di tali ricerche critico-filosofiche la conoscenza fisica poteva risultare come un sapere del tutto fenomenico che non coglieva l'essenza più profonda della realtà, ma si limitava a comporre l'esperienza in un ordine di cui l'uomo era l'unico e vero legislatore. Ai biologi che da neppure cinquant'anni avevano ritenuto di portare la loro disciplina ad una superiore dignità scientifica, instaurandola sulle basi sicure del meccanicismo, il fatto che questo fosse posto in crisi dagli stessi fisici non poteva non suscitare un certo disorientamento. Sorse così il dubbio che la vita costituisse una dimensione profonda della realtà destinata a sfuggire alle maglie concettuali della chimica e della fisica come già aveva sostenuto la filosofia di Schopenhauer, autore che era divenuto popolare in Germania negli ultimi decenni del secolo. La tarda fortuna di questo filosofo romantico, così come l'opera di Nietzsche, sono espressione di quel clima irrazionalistico di cui si è sopra accennato. Contro la deludente superficialità filosofica dei materialisti, Schopenhauer appariva il
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filosofo che aveva saputo riconoscere il carattere fenomenico della conoscenza scientifica della natura, la quale copre ma nello stesso tempo permette di svelare la sua essenza nascosta, cioè la volontà infinita che si esprime in modo più o meno oscuro e profondo nella vita degli organismi e dello stesso uomo. Contribuì al sorgere del vitalismo in Germania oltre al successo di questo pensatore anche un altro filosofo, che per alcuni aspetti può considerarsi suo seguace, cioè Eduard von Hartmann cui si è già fatto cenno nel capitolo VI. Meno originale filosoficamente ma meno proclive di Schopenhauer ad un totale pessimismo, egli aveva svolto la sua filosofia dell'incosciente attraverso una serie numerosissima di scritti in cui spesso si sofferma a illustrare con cura i risultati per lui più interessanti delle scienze naturali. Già nella Filosofia dell'inconscio (prima edizione I 869) e nella Warheit und l"tum des Darwinismus (Verità ed errore del darwinismo, 1875) egli aveva respinto il meccanicismo biologico sostenuto da Haeckel, ammettendo la necessità di riconoscere su un piano metafisico l'intervento negli organismi di un principio organizzatore immateriale che coopera con i processi fisico-chimici. Questo principio non è che un momento di quella volontà incosciente che costituisce il fondamento metafisico di tutta la realtà naturale. VII · IL VITALISMO,
PRIME
FORMULAZIONI
Fra le prime voci a favore del nuovo vitalismo che suscitarono interesse nel mondo scientifico vi fu quella del fisiologo Gustav Bunge (1844-19oo) che apriva nel 1887 un suo trattato di chimica fisiologica con un capitolo su «Vitalismo e meccanicismo ». Egli respinge dalla fisiologia l'uso del termine forza vitale ma rileva come dalla storia di questa scienza risulti che «quanto più si riesce ad approfondire ed esaminare i fenomeni vitali, tanto più vediamo che i processi che si ritenevano interpretabili con la fisica e la chimica sono di natura assai più complessa e sfuggono all'interpretazione meccanica ». A prova di ciò egli adduce i processi selettivi d'assimilazione e secrezione delle cellule, le complesse reazioni di adattamento mostrate dai protozoi e gli stessi processi dell'eredità. Devono passare migliaia di anni prima che la fisiologia riveli i fondamentali enigmi della cellula ed occorre perciò affrontare il problema della vita per un'altra via. Poiché è nell'attività che consiste l'enigma della vita, questa via non ci è offerta dalla conoscenza sensibile, ma dalla conoscenza di noi stessi, cioè dalla conoscenza psicologica inttospettiva. È perciò importante lo studio dell'uomo « poiché nell'interna essenza di esso possiamo penetrare mediante la coscienza interna per dar mano alla fisica che procede dall'esterno». L'utilità di questo duplice approccio all'enigma della vita è giustificato per il fatto che « i processi del mondo esterno nulla hanno di comunè con le nostre sensazioni e con le nostre idee. Il mondo esterno è per noi un libro con sette sigilli, e alla nostra osservazione e conoscenza sono
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immediatamente accessibili solo gli stati e processi della nostra coscienza. Questa semplice verità è la più grande e profonda che la mente umana abbia escogitato; ed essa ci porta a comprendere l'essenza del vitalismo. L'essenza del vitalismo consiste in ciò che noi battiamo la sola retta via, che noi partiamo dal conosciuto, dal mondo interno per spiegare l'ignoto, il mondo esterno. La via opposta tiene il meccanicismo, il quale non è altro che il materialismo; esso parte dall'ignoto, il mondo esterno, per spiegare il noto, il mondo interno ». L'oscurità e la superficialità, sia pure significative, con cui si profila il vitalismo in queste parole di Bunge appaiono ancora più accentuate in due discorsi tenuti nel 1883 e nel 1895 dal patologo Eduard Rindfleisch (1836-1908) il quale dichiara di rifarsi al « nuovo vitalismo » sostenuto negli anni cinquanta dal suo maestro Virchow. Ma mentre questi si era attenuto ad una posizione sostanzialmente materialistica Rindfleisch sembra staccarsene decisamente. Egli riconduce la cooperazione delle cellule, che culmina nell'unità dell'organismo, ad una loro reciproca sensazione e solidarietà le quali indicherebbero una sorta d'imperativo morale (uno per tutti e tutti per uno) ed una parziale rivelazione della divinità. Nelle formulazioni vitalistiche ora ricordate la vita appare come una condizione originaria ed autonoma che risulta nell'attività introspettiva dell'uomo o da una visione complessiva sull'unità dell'organismo, unità che non può essere compresa in base ai processi fisico-chimici, ma di cui neppure si dice come con questi processi si articoli e componga. La sola precisazione a tale proposito è il rifiuto di ricorrere alla vecchia forza vitale, che i meccanicisti avevano definitivamente respinto in base al principio di conservazione dell'energia e che non appariva perciò più proponibile. Doveva comunque essere con questo principio ed in generale con gli aspetti energetici dell'organismo che il vitalismo doveva fare i conti per assumere una relativa plausibilità scientifica. E a questo compito si accinse uno dei più seri sostenitori del vitalismo Johannes Reinke (1849-1931) che fu professore di botanica a Kiel. In un articolo del 1899 Gedanken iiber das Wesen der Organisation (Pensieri sull'essenza dell'organizzazione) ed in altri scritti successivi fra cui Einleitung in die theoretische Biologie (Introduzione alla biologia teorica, 1901) Reinke sviluppa la sua concezione basata su una netta distinzione fra i processi energetici da un lato e le condizioni che rendono possibile il defluire di tali processi in una determinata direzione dall'altro. Tale distinzione viene da lui espressa anche come opposizione . fra principio dell'energia e principio della direzione. Egli svolge le sue considerazioni partendo dall'analogia o parallelismo fra organismi e macchine. In ambedue si ha una configurazione delle parti, cioè una struttura, in cui si realizza un flusso d'energia. Le parti devono essere considerate in base alla loro reciproca disposizione in vista della finalità del tutto.
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filosofo che aveva saputo riconoscere il carattere fenomenico della conoscenza scientifica della natura, la quale copre ma nello stesso tempo permette di svelare la sua essenza nascosta, cioè la volontà infinita che si esprime in modo più o meno oscuro e profondo nella vita degli organismi e dello stesso uomo. Contribuì al sorgere del vitalismo in Germania oltre al successo di questo pensatore anche un altro filosofo, che per alcuni aspetti può considerarsi suo seguace, cioè Eduard von Hartmann cui si è già fatto cenno nel capitolo VI. Meno originale filosoficamente ma meno proclive di Schopenhauer ad un totale pessimismo, egli aveva svolto la sua filosofia dell'incosciente attraverso una serie numerosissima di scritti in cui spesso si sofferma a illustrare con cura i risultati per lui più interessanti delle scienze naturali. Già nella Filosofia dell'inconscio (prima edizione I 869) e nella Warheit und Irrtum des Darwinismus (Verità ed errore del darwinismo, I 8 75) egli aveva respinto il meccanicismo biologico sostenuto da Haeckel, ammettendo la necessità di riconoscere su un piano metafisica l'intervento negli organismi di un principio organizzatore immateriale che coopera con i processi fisico-chimici. Questo principio non è che un momento di quella volontà incosciente che costituisce il fondamento metafisica di tutta la realtà naturale. VII · IL
VITALISMO,
PRIME
FORMULAZIONI
Fra le prime voci a favore del nuovo vitalismo che suscitarono interesse nel mondo scientifico vi fu quella del fisiologo Gustav Bunge (I844-I9oo) che apriva nel I887 un suo trattato di chimica fisiologica con un capitolo su «Vitalismo e meccanicismo ». Egli respinge dalla fisiologia l'uso del termine forza vitale ma rileva come dalla storia di questa scienza risulti che « quanto più si riesce ad approfondire ed esaminare i fenomeni vitali, tanto più vediamo che i processi che si ritenevano interpretabili con la fisica e la chimica sono di natura assai più complessa e sfuggono all'interpretazione meccanica ». A prova di ciò egli adduce i processi selettivi d'assimilazione e secrezione delle cellule, le complesse reazioni di adattamento mostrate dai protozoi e gli stessi processi dell'eredità. Devono passare migliaia di anni prima che la fisiologia riveli i fondamentali enigmi della cellula ed occorre perciò affrontare il problema della vita per un'altra via. Poiché è nell'attività che consiste l'enigma della vita, questa via non ci è offerta dalla conoscenza sensibile, ma dalla conoscenza di noi stessi, cioè dalla conoscenza psicologica introspettiva. È perciò importante lo studio dell'uomo « poiché nell'interna essenza di esso possiamo penetrare mediante la coscienza interna per dar mano alla fisica che procede dall'esterno». L'utilità di questo duplice approccio all'enigma della vita è giustificato per il fatto che « i processi del mondo esterno nulla hanno di comunè con le nostre sensazioni e con le nostre idee. Il mondo esterno è per noi un libro con sette sigilli, e alla nostra osservazione e conoscenza sono
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immediatamente accessibili solo gli stati e processi della nostra coscienza. Questa semplice verità è la più grande e profonda che la mente umana abbia escogitato; ed essa ci porta a comprendere l'essenza del vitalismo. L'essenza del vitalismo consiste in ciò che noi battiamo la sola retta via, che noi partiamo dal conosciuto, dal mondo interno per spiegare l'ignoto, il mondo esterno. La via opposta tiene il meccanicismo, il quale non è altro che il materialismo; esso parte dall'ignoto, il mondo esterno, per spiegare il noto, il mondo interno ». L'oscurità e la superficialità, sia pure significative, con cui si profila il vitalismo in queste parole di Bunge appaiono ancora più accentuate in due discorsi tenuti nel 1883. e nel 1895 dal patologo Eduard Rindfleisch (1836-1908) il quale dichiara di rifarsi al « nuovo vitalismo » sostenuto negli anni cinquanta dal suo maestro Virchow. Ma mentre questi si era attenuto ad una posizione sostanzialmente materialistica Rindfleisch sembra staccarsene decisamente. Egli riconduce la cooperazione delle cellule, che culmina nell'unità dell'organismo, ad una loro reciproca sensazione e solidarietà le quali indicherebbero una sorta d'imperativo morale (uno per tutti e tutti per uno) ed una parziale rivelazione della divinità. Nelle formulazioni vitalistiche ora ricordate la vita appare come una condizione originaria ed autonoma che risulta nell'attività introspettiva dell'uomo o da una visione complessiva sull'unità dell'organismo, unità che non può essere compresa in base ai processi fisico-chimici, ma di cui neppure si dice come con questi processi si articoli e componga. La sola precisazione a tale proposito è il rifiuto di ricorrere alla vecchia forza vitale, che i meccanicisti avevano definitivamente respinto in base al principio di conservazione dell'energia e che non appariva perciò più proponibile. Doveva comunque essere con questo principio ed in generale con gli aspetti energetici dell'organismo che il vitalismo doveva fare i conti per assumere una relativa plausibilità scientifica. E a questo compito si accinse uno dei più seri sostenitori del vitalismo Johannes Reinke (1849-193 1) che fu professore di botanica a Kiel. In un articolo del 1899 Gedanken iiber das Wesen der Organisation (Pensieri sull'essenza dell'organizzazione) ed in altri scritti successivi fra cui Einleitung in die theoretische Biologie (Introduzione alla biologia teorica, 1901) Reinke sviluppa la sua concezione basata su una netta distinzione fra i processi energetici da un lato e le condizioni che rendono possibile il defluire di tali processi in una determinata direzione dall'altro. Tale distinzione viene da lui espressa anche come opposizione . fra principio dell'energia e principio della direzione. Egli svolge le sue considerazioni partendo dall'analogia o parallelismo fra organismi e macchine. In ambedue si ha una configurazione delle parti, cioè una struttura, in cui si realizza un flusso d'energia. Le parti devono essere considerate in base alla loro reciproca disposizione in vista della finalità del tutto.
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Oggetto particolare dell'indagine di Reinke non è propriamente l'aspetto energetico ma la legge strutturale che guida il flusso energetico. A questo scopo egli prende spunto da una considerazione di Lotze secondo cui le nostre macchine lavorano con « forze di seconda mano», cioè producono lavoro secondo una specifica regolazione. Tali « forze » possono essere considerate come le « condizioni di una macchina», basantisi sulla configurazione dei suoi elementi e denominate da Reinke «forze del sistema» o dominanti. Tali forze devono essere distinte dall'energia poichè esse dirigono l'energia, trasformandola, concentrandola, distribuendola, senza mai trasformarsi esse stesse in energia. In una macchina infatti il sistema dei dominanti che rende possibile le sue specifiche prestazioni rimane immutato mentre l'energia viene continuamente consumata e sostituita. I dominanti sono dunque « forze » a cui manca un equivalente energetico, essi non forniscono cioè lavoro meccanico ma indicano ad esso coattivamente la via da seguire, così come la volontà del timoniere imprime una direzione al peso di una nave. Ad esempio « le condizioni del sistema di un orologio caricato con la sua energia di funzionamento agiscono come forze del sistema ottenendo la specifica rotazione delle lancette. Che queste forze del sistema si realizzino con i mezzi energetici della durezza ed elasticità dell'acciaio è ovvio; esse sono tuttavia forze " non energetiche ''; io posso infatti con un colpo di martello distruggere tutte quelle forze del sistema senza un equivalente», cioè senza che esse possano trasformarsi in altre « forze » come avviene per le trasformazioni d'energia. Anche negli organismi i dominanti agiscono costringendo ad esempio gli atomi di composti semplici a riunirsi nelle molecole più complesse dei carboidrati e delle proteine. La conoscenza puramente energetica dell'organismo è insufficiente poiché considera soltanto ciò che esso assume dall'ambiente e gli restituisce, e non ci dice nulla delle «cause interne» della morfogenesi e dell'accrescimento. Queste cause interne sono appunto i dominanti cioè quelle proprietà specifiche del protoplasma che esso riceve e trasmette nel processo ereditario. L'analogia con la macchina porta inoltre Reinke ad accettare l'ipotesi che tutte le azioni finalizzate del vivente, dovute ai dominanti, abbiano la loro base in una configurazione o struttura microscopica ignota della cellula. In tal modo gli organismi risultano sistemi puramente materiali spiegabili mediante la loro struttura ed i loro movimenti. Sino a questo punto, malgrado la terminologia inconsueta, la posizione di Reinke non sembra discostarsi dalle forme tradizionali di meccanicismo biologico. Egli osserva tuttavia - ed in ciò sembra riecheggiare il meccanicismo creazionistico di Lotze - che la finalità sia in una macchina che in un organismo non può essere spiegata in base alle proprietà della materia. La finalità
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è del tutto estranea al mondo fisico-chimico e come nelle macchine vi è introdotta dall'uomo, così negli organismi vi è introdotta da dominanti che devono essere considerati delle « forze intelligenti » sia pure inconsce. Egli giunge a questa equivalenza decisiva di finalità ed intelligenza in modo alquanto sbrigativo, cioè in base all'assunto che nella nostra comprensione o descrizione della natura è solo partendo dall'analogia con il comportamento dell'uomo che ci è possibile chiarire il senso della finalità. « Mai, » scrive nel 1904, «si dovrebbe per spiegazione intendere altro che descrizione, ed ogni descrizione è più o meno antropomorfa. Il compito della biologia può consistere soltanto nell'ottenere con le nostre rappresentazioni una copia approssimativamente vera dei processi vitali. Anche nella scienza biologica viene ad assumere validità l'antica saggezza secondo cui l'uomo è misura di tutte le cose.» La conclusione a cui egli giunge nell'ambito della sua biologia teorica è dunque quella che esiste un abisso fra il mondo inorganico ed il mondo vivente di cui l'intelligenza costituisce una funzione naturale. Ma passando dal piano della biologia a quello della filosofia della natura egli perviene a conclusioni ancora più rilevanti cioè ad ammettere l'esistenza di una intelligenza creatrice che domina la natura. In un'opera dedicata a questo scopo Die Welt als Tat (Il mondo come azione,, 1899) era giunto a sostenere che noi troviamo dio nella natura attraverso quello stesso processo induttivo con cui troviamo una legge scientifica e concludeva le sue riflessioni esaltando il libro di Mosè in cui verità e poesia si uniscono nel racconto della genesi. L'identificazione di finalità ed intelligenza sostenuta da Reinke e le sue ulteriori considerazioni in favore di una creazione divina del mondo, rivelavano per molti un'inaccettabile im.postazione metafisica e soprattutto non chiarivano in modo adeguato sul piano filosofico le modalità d'intervento di una causalità di tipo ideale nella natura. Un'altra via verso il vitalismo che appariva invece, secondo alcuni, più consona ai risultati complessivi della scienza e meno irta di difficoltà filosofiche era quella di considerare il principio vitale di natura psicologica. Gli autori che si fanno in tal modo sostenitori di uno psicovitalismo possono avvalersi delle considerazioni che alcuni neolamarckiani avevano svolto a favore di un intervento dei fattori psichici nei processi di adattamento dei viventi all'ambiente e più in generale degli studi di psicologia animale che si erano iniziati per l'influenza del darwinismo e di cui uno dei maggiori cultori era stato George John Romanes (1848-94). Nel condurre queste ricerche di psicologia animale si ammetteva in genere che, per la continuità implicita nel processo dell'evoluzione, la psiche doveva costituire una proprietà estesa anche ai livelli più elementari della vita. I fautori di questo psicovitalismo ritenevano inoltre che l'attività psichica po301 www.scribd.com/Baruhk
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tesse costltUlre un fattore causale di natura non metafisica, in quanto l'uomo ne ha una esperienza diretta nei suoi atti di movimento. Contro l'idea che la psiche potesse intervenire come fattore causale nei processi fisici e più precisamente fisiologici si trovavano però schierati tutti i sostenitori del cosiddetto parallelismo psicofisico. Questa teoria, formulata in Germania da Fechner, era stata accettata dalla maggioranza dei fisiologi e psicologi in particolare da Wundt ed era sostenuta anche da filosofi come Spencer, Bain ed Hoffding. Questi autori ritenevano che la constatata correlazione fra eventi fisiologici ed eventi psicologici (ad esempio la stimolazione di un nervo e la corrispondente sensazione) non potesse interpretarsi come un rapporto causale ma come una coincidenza o concomitanza di due serie parallele di eventi. Il principio di causalità può infatti applicarsi soltanto fra eventi simili ed omogenei e tali non sono i processi psichici e quelli fisici. Questa teoria aveva l'indubbio vantaggio di permettere una rigorosa trattazione meccanicistica dei processi fisiologici, salvando contemporaneamente la completa autonomia d'indagine della psicologia; senza escludere la possibilità di diverse interpretazioni filosofiche sulla natura ultima di questo parallelismo. A partire dagli anni novanta, in un momento di crisi del meccanicismo, questa concezione cominciò tuttavia ad essere attaccata da vari autori che sostenevano la possibilità di una reciproca azione causale fra eventi psichici e fisici. Fra questi vi furono anche gli psicologi Stumpf e Kulpe. La polemica che sorse fra i due opposti gruppi si estese durante i primi anni del Novecento specialmente attorno al cosiddetto principio della chiusura della causalità naturale. I parallelisti sostenendo questo principio ribadivano che in una serie causale di eventi fisico-meccanici non può inserirsi alcun fattore esterno al sistema in cui questi eventi si producono e quindi neppure un fattore psichico. I sostenitori invece della causalità psicofisica ritenevano in genere di respingere l'assunto meccanicistico che in natura si diano soltanto serie causali di tipo fisicochimico. Altro punto controverso era se il principio di conservazione della energia fosse compatibile con l'intervento causale dei processi psichici in quelli fisiologici. Fra i sostenitori della causalità psico-fisica molti davano una risposta positiva mentre altri ritenevano che una parte dei processi cerebrali si sottraesse alla sua validità. Fra gli psicovitalisti si impegnò con serietà in questo tipo di discussione Erich Becher (1882.-192.9) che considera in generale la teoria dell'interazione psicofisica incompatibile con il meccanicismo biologico. Egli ammette inoltre la possibilità di spiegare i fenomeni finalistici mediante processi inconsci di appre;ndimento per tentativi ed errori i cui risultati vengono fissati nella memoria. Più speculativa appare invece la posizione di August Pauly (1850-1914) il quale attribuisce anche alle cellule un'attività psichica conscia di percezione e discriminazione che sola permetterebbe di spiegare le loro reazioni finalizzate.
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VIII · L'EMBRIOLOGIA MECCANICISTICA ED IL VITALISMO DI DRIESCH
La legge biogenetica fondamentale enunciata da Haeckel considerava l'embrione come la ricapitolazione approssimativa delle trasformazioni filogenetiche dei suoi antenati. L'embriologia appariva perciò un terreno privilegiato d'indagine per ricostruire le tracce di un passato estremamente lontano. I tessuti o gli organi che comparivano per primi nell'embrione venivano ad esempio ritenuti caratteristici degli organismi più antichi e quindi importanti per individuare i capostipiti ed i primi discendenti degli alberi genealogici dei vari gruppi animali. Questo programma di ricerca stimolò notevolmente gli studi embriologici conducendo a importanti risultati soprattutto nel campo dell'anatomia comparata, ma non favorì propriamente una analisi diretta delle cause dello sviluppo ontogenetico. Come osserva argutamente Radl: « Il predominio della legge biogenetica fondamentale non permetteva di ricercare queste cause altrove che negli stati morfologici precedenti; così come il fatto storico che nelle catacombe si usavano le candele è la causa per cui ancora oggi le si bruciano sugli altari, allo stesso modo veniva considerata causa delle tasche branchiali che si osservano oggi negli embrioni dei mammiferi la circostanza che essi una volta erano pesci; e la causa del fenomeno che gli animali cominciano il loro sviluppo con un uovo veniva vista nell'ipotesi che tutti gli animali pluricellulari derivano dalle amebe.» Anche se la causa di una determinata struttura embrionale veniva individuata in un'altra struttura dello stesso embrione, precedente di qualche ora o di qualche minuto, si trattava pur sempre della descrizione di un processo morfologico e non dei fattori fisico-chimici che lo producono. A questa impostazione dell'embriologia di tipo storico-morfologico tentò senza successo di opporsi già nel I 874 Wilhelm His (I 8 3 I- I 904) cercando ad esempio di ricondurre le pieghe che si susseguono nei foglietti embrionali all'accrescimento di alcune zone rispetto ad altre, cioè ad un effetto di tensione e di pressione. Nello stesso periodo anche Alexander Goette (I840-I9zz) propose di chiarire lo sviluppo embrionale ammettendo che l'uovo è costituito da una massa inerte in cui si esercitano correnti osmotiche e quindi dislivelli di pressione. A questi autori si deve aggiungere August Rauber (I84z-19I7) il quale, rifacendosi al programma meccanicistico di Lotze, espresse nel I 8So la convinzione che l'ontogenesi deve essere basata su una meccanica delle cellule, e occorre studiare di queste moltiplicazione, accrescimento, migrazione e differenziazione. Il programma di ricerca indicato da questi autori doveva essere formulato con estrema chiarezzza da Wilhelm Roux (I85o-I9z4) che era stato allievo sia di Haeckel che di Goette. Nella fase di crisi del darwinismo egli si schierò fra i sostenitori di questa teoria insieme a Weissmann, di cui condivideva alcune tesi fon-
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damentali. Lo stesso Weissmann, come si è accennato, aveva ripreso per la sua teoria della selezione germinale la concezione che Roux aveva espresso nel I 88 I nella sua opera Der Kampf der Teile im Organismus (La lotta delle parti nell'organismo) in cui si applica l'idea di selezione agli elementi interni del vivente per spiegarne il loro reciproco adattamento. -- . Nell'opera Die Entwicklungsmechanik der Organismen (~a meccanyca dello sviluppo degli'Oi'gànismi, I89o) ed in altri scritti successivi Rouxi traccia il/programma della nuova embriologia sperimentale, spingendosi in un'indagine estremamente lucida degli aspetti metodologici e filosofici della biologia. Il biologo deve comportarsi di fronte all'embrione come il fisico che non si limita a considerare un fenomeno quale un tutto inscindibile ma cerca di scomporlo nei suoi elementi più semplici. La pura constatazione che da una formazione visibilmente semplice si produce una formazione visibilmente più complessa non ci dice infatti nulla del reale processo di questo sviluppo. In esso si potrebbe avere una reale produzione di molteplicità, come sostengono gli epigenetisti, oppure l'emergere di una molteplicità precontenuta in modo latente nell'uovo, come sosteneva ad esempio Weissmann, con una sorta di nuovo preformismo. Il problema può essere affrontato soltanto attraverso l'analisi sperimentale. Se nell'ambito dei fenomeni fisici questa analisi può far riferimento a forze o azioni semplici quali pressione, tensione, attrito, ecc., in quelli organici invece queste azioni si presentano spesso in combinazioni nuove e peculiari, ci appaiono cioè quali azioni complesse di fecondazione, eredità, differenziazione, adattamento, ecc. Ora il compito della nuova embriologia sperimentale o, come viene designata da Roux, della meccanica dello sviluppo, è appunto quello di ricondurre i processi ontogenetici al minor numero possibile di azioni semplici ed in particolare al ricambio materiale ed energetico di tali processi. Roux riconosce che lo sviluppo embrionale è in un certo senso analogo al processo storico della filogenesi, ma a differenza di questo ultimo esso può essere costantemente ripetuto, in quanto è un tipico fenomeno che si presenta sempre di nuovo partendo dal suo stato iniziale con regolarità. È precisamente questa possibilità di ripetizione che rende applicabile anche nell'embriologia come nella fisica il metodo sperimentale e la conseguente individuazione di leggi. Roux insiste nella distinzione fra regole, a cui si perviene con il metodo descrittivo, e leggi che possono essere ottenute soltanto con il metodo sperimentale. Così la legge della caduta libera dei corpi può essere ottenuta solo sperimentando in condizioni appropriate e non descrivendo come i corpi cadono in condizioni usuali. All'enunciazione programmatica ed alle analisi metodologiche Roux accompagnò anche un'importante attività sperimentale mirante, per esempio, a stabilire il diverso peso che assumono nell'ontogenesi i fattori esterni rispetto a quelli interni ed in particolare il luogo ed il momento in cui i fattori determi-
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nant1 mterni agiscono nell'embrione. A questo proposito sia Weissmann che Roux, sostenendo la tesi di una divisione ineguale del plasma germinale, ritenevano che nella prima segmentazione cellulare dell'uovo i determinanti della parte destra e di quella sinistra del corpo embrionale potessero già trovarsi separati nelle due cellule risultanti da tale divisione. Roux trovò una iniziale conferma di questa ipotesi nel fatto che la linea di segmentazione fra queste due prime cellule tende a coincidere con il piano che dividerà l'organismo nelle due parti simmetriche. Ma una conferma definitiva sembrò risultare da un'esperienza da lui riferita nel 1888. Egli era cioè riuscito ad uccidere con un ago una delle due prime cellule di segmentazione di un uovo di rana ottenendo dall'altra cellula lo sviluppo di una metà completa dell'embrione. Anche in base a questo risultato egli pervenne alla teoria secondo cui i fattori determinanti delle varie parti dell'individuo sarebbero già ordinate a mosaico nell'uovo e opererebbero in modo indipendente durante lo sviluppo. Le ricerche teoriche e sperimentali di Roux sollevarono un grande interesse anche perché apparivano una conferma delle tesi estremamente dibattute di Weissmann. Esse incontrarono tuttavia una forte opposizione soprattutto da parte di uno dei più illustri biologi contemporanei Oskar Hertwig ( 1849- I 92.2), già da noi ricordato ed anch'egli allievo di Haeckel, il quale polemizzò vivamente con Roux sostenendo che oggetto tipico della biologia deve essere la cellula con le sue facoltà naturali, che non può essere ricondotta a qualcosa di più semplice. Egli inoltre, appellandosi alle ricerche di Kirchoff sui fondamenti della meccanica, contestò la distinzione metodologica sostenuta da Roux fra conoscenza descrittiva e conoscenza causale. L'opposizione di Hertwig al meccanicismo biologico di Roux e di Weissmann, condotta soprattutto in nome di una concezione empiristico-descrittiva e morfologica della biologia, doveva ben presto passare in secondo piano di fronte al ben più serio attacco che a tale meccanicismo venne portato sul terreno stesso dell'embriologia sperimentale da Hans Driesch(I876-1941), che sarà nel Novecento il maggior teorico del neovitalismo. Driesch, nato a Kreuznach da una ricca famiglia del Mecklenburgo, aveva compiuto nel 1889 gli studi zoologici a Jena come allievo di Haeckel. La lettura di uno dei primi critici spiritualistici del darwinismo, Albert Wigand (1812-86) e la conoscenza degli scritti di His e di Goette lo condussero ben presto ad abbandonare le idee evoluzionistiche del maestro e ad abbracciare il programma della meccanica dello sviluppo di Roux. Egli, condividendo sostanzialmente le critiche mosse nel 1890 da Gustav Wolff al darwinismo, in uno scritto del 1891 sosteneva che l'accettazione di una finalità biologica nello studio meccanicistico degli organismi non significa che questa finalità debba essere spiegata in modo meccanicistico mediante la teoria casualistica della selezione naturale. La teoria dell'evoluzione non può costituire alcuna base sicura per
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studiare le leggi dello sviluppo morfologico, ma può soltanto fornirci una galleria di antenati, come aveva affermato il filosofo neokantiano Otto Liebmann (1840-1912.). La lettura di quest'autore cosi come lo studio di Schopenhauer non lo avevano però distolto dal proposito di dedicarsi alle ricerche di embriologia sperimentale alle quali si applicherà con notevoli risultati per quasi un ventennio. Già nel 1891 nella stazione zoologica di Trieste egli compì uno dei suoi primi e più famosi esperimenti. Proponendosi di ripetere l'esperimento con cui Roux aveva ottenuto lo sviluppo di una metà dell'embrione di rana, giunse operando sulle uova di riccio di mare ad un risultato inatteso ed opposto. Separando cioè le due prime cellule derivanti dalla segmentazione di queste uova rilevò che ciascuna di esse si sviluppava in una larva completa. Questo risultato non solo contrastava con quello di Roux ma anche con la teoria sostenuta da Weissmann dell'ineguale divisione del plasma germinale, secondo cui ognuna delle due cellule avrebbe dovuto contenere soltanto la metà dei fattori necessari allo sviluppo del riccio. Trasferitosi alla stazione zoologica di Napoli, dove lavorerà per circa un decennio, condusse subito anche qui un esperimento di particolare interesse sulle stesse uova di riccio di mare, Le prime sedici cellule che si sviluppano da queste uova si dispongono normalmente in una forma sferica. Comprimendo lo sviluppo dell'uovo con un sottile vetro esse si disponevano a disco e allorché il vetro era tolto riacquistavano la forma sferica producendo una larva normale. Anche in questo caso secondo Driesch il risultato era inconciliabile con la teoria di Weissmann. Convinto ormai della difficoltà di realizzare una completa riduzione meccanicistica dei fenomeni biologici e sempre interessato alla riflessione filosofica, anche attraverso la lettura di Kant, nel 1893 pubblicò il suo primo scritto di carattere strettamente filosofico-metodologico, Die Biologie als selbststandige Grundwissenschaft (La biologia come scienza fondamentale autonoma). In esso egli comincia col rilevare come lo studio fisiologico dell'organismo, perseguito sulla base delle forze fisiche, deve ricondurre ogni sua azione specifica alla struttura stessa dell'organismo e quindi alla morfologia. In questo senso le azioni del vivente sono del tutto analoghe a quelle di una macchina. Ma se da un punto di vista meccanico possiamo capire l'interazione delle parti e l'effetto complessivo della macchina, non possiamo però capire la sua finalità cioè il motivo per cui le parti sono combinate in un modo o in un altro in vista di un determinato effetto globale. Non possiamo perciò capire del tutto lo scopo né in base a considerazioni causali, né logicamente derivandolo in modo necessario da leggi generali. Questa impossibilità deve valere non solo per le macchine ma anche per gli organismi e la forma risulta perciò un dato ultimo ed irriducibile così come lo sono le forze naturali o le sostanze chimiche acqua e ferro. « Anche in tutti i fenomeni
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puramente fisici incontriamo per conseguenza un "residuo '' non comprensibile meccanicamente; tutte le differenze qualitative delle forze naturali non sono più "meccanismo ". Questa verità, cioè che tutte le cause della natura sono propriamente cause occasionali è da tempo familiare ai filosofi. » Quest'ultima considerazione di Driesch esprime la concezione filosoficometafisica secondo cui le conoscenze scientifico-naturali non rivelano che una rete di connessioni logiche o causali dietro le quali può nascondersi una realtà più ricca e profonda. D'altronde la sua insistenza sulla natura rigorosamente logica e causale di ogni conoscenza scientifica lo porta a svalutare la trattazione storicodescrittiva della natura caratteristica della morfologia evoluzionistica. Il vero nucleo della teoria della discendenza è per Driesch la « capacità di trasformazione » delle forme, le loro proprietà e capacità di reazione. È del tutto indifferente dal punto di vista di una teoria generale della natura dove e quando in un certo punto della terra certe forme organiche si siano realizzate e susseguite. Allo stesso modo al chimico è del tutto indifferente che questo o quell'altro composto chimico sia sorto sulla terra. « A lui non interessa il casuale presentarsi di una sostanza, ma la legge della sostanza, la sostanza indipendentemente da un luogo e tempo determinati; per chi ha confidenza con la filosofia di Schopenhauer potrei dire: la sostanza come idea (platonica); e ciò che vale per le sostanze vale per le forme, indipendentemente dal fatto che la loro capacità di realizzarsi si sia data sulla terra in un dato tempo, oppure solo una volta i crostacei si siano potuti formare dagli anellidi. » Non potendosi quindi fondare su una rigorosa scienza della forma, la teoria dell'evoluzione viene di nuovo relegata da Driesch ad una «galleria di antenati» e su di essa ritornerà negli scritti successivi con accenni spesso liquidatori e sprezzanti. 1 L'unica conoscenza scientificamente valida delle trasformazioni delle forme è la « meccanica dello sviluppo » embrionale la quale considera i processi di accrescimento in termini fisici causali. Ma anche in questo caso i separati processi di accrescimento si svolgono come i processi fisiologici in funzione del tutto, per un fine che è la realizzazione dell'organismo. Ed anche in questo caso come per le funzioni fisiologiche i processi di accrescimento embrionale devono essere ricondotti ad una struttura; perciò « potremmo dire che nella struttura è tutto previsto finalisticamente. Ma per attenerci a questa concezione occorre però attribuire alla " struttura '' una complicazione che supera molto la nostra capacità di comprensione». Qualcuno perciò potrebbe appellarsi anziché ad una struttura ultima ad un qualche principio psicologico che guidi lo sviluppo. Ma poiché « tutta la scienza naturale procede nel mondo come rappreI In un articolo del 1896 Driesch osservava che il darwinismo« appartiene alla storia come l'altra curiosità del nostro secolo, la filosofia di Hegel ; ambedue sono variazioni sul tema "come prendere
per il naso una intera generazione ", e non sono propriamente tali da elevare il nostro secolo agli occhi delle prossime generazioni ».
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sentazione, noi non potremmo appellarci, per l'insufficienza della nostra capacità rappresentativa, alla realtà inconoscibile ». Come per una macchina se vogliamo spiegarne la finalità, così anche per l'organismo, non ci rimane altro che rifarci alla considerazione teleologica. Certo la scienza della natura diffida della teleologia, ma « per noi che in questo studio sosteniamo il punto di vista dell'idealismo kantiano, secondo cui causalità e teleologia sono forme soggettive del giudizio, non vi è alcuno scrupolo nell'annoverare anche la considerazione teleologica nella scienza naturale». Le idee esposte da Driesch in questo scritto, che potrebbero sintetizzarsi come un meccanicismo teleologico, vengono ribadite in un'opera dell'anno successivo Ana!Jtische Theorie der organischen Entwicklung (Teoria analitica dello sviluppo organico, 1894). In questo scritto egli esprime ancor più chiaramente i suoi dubbi sull'efficacia di una conoscenza meccanico-causale e ribadisce la necessità di considerare finalisticamente i processi embriologici « come se essi fossero fissati secondo qualità ed ordine da un'intelligenza», o come se in essi agisse un'interna «tendenza formativa». L'interesse di quest'opera sta principalmente nell'ampia elaborazione teorica degli ormai significativi risultati delle sue ricerche sperimentali, che tende a costituire una complessa e generale interpretazione dell'embriogenesi. Egli respinge innanzitutto la teoria di Roux-Weissmann dell'ineguale divisione del plasma germinale, sostenendo che ogni nucleo cellulare contiene tutti i fattori determinanti dell'uovo. Ma ritiene tuttavia che le disposizioni presenti nel nucleo delle cellule non determinino per sé sole la formazione dell'embrione. Questa avviene mediante processi elementari di divisione, accrescimento, migrazione, ecc., delle cellule che vengono prodotte da stimoli formativi i quali « scatenano » nelle cellule stesse risposte specifiche e differenti. Per chiarire meglio le trasformazioni delle varie porzioni dell'embrione egli introduce inoltre due concetti fondamentali. Il primo è quello di significato prospettico, che indica tutto ciò che concretamente e di fatto deriva nell'embrione dallo sviluppo di una determinata parte. Il secondo è quello di potenza prospettica che indica tutto ciò che può derivare, in particolari e diverse condizioni (come quelle sperimentali) dallo sviluppo di quella determinata parte. Ad esempio nella prima divisione dell'uovo di riccio di mare il significato prospettico di ciascuna delle due cellule è quello di una parte diversa di embrione, mentre quando ciascuna delle due cellule sia separata la sua potenza prospettica è quella dell'embrione intero. In base a queste considerazioni Driesch può enunciare alcuni principi generali. Ad esempio la potenza prospettica di tutte le parti dell'embrione si riduce progressivamente man mano che si compie l'ontogenesi. Ed inoltre il principio, d'importanza decisiva per tutta la sua teoria e per le conseguenze vitalistiche che da essa trarrà, secondo cui « il significato prospettico di ogni cellula è funzione della sua posizione rispetto al tutto » .
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Driesch illustra questo schema, che rappresenta un sistema equipotenziale armonico, con la seguente didascalia: «Secondo la teoria meccanicistica della vita questo sistema dovrebbe possedere una ignota e complicatissima macchina, completa: a) nella lunghezza totale del sistema; b) in ciascuno dei volumi uguali V l> V 2 , V., ecc... ; c) in ciascuno dei volumi ineguali W, X, Y; d) in ogni immaginabile volume, di grandezza qualsiasi. Perciò la teoria meccanicistica della vita è assurda», dall'opera Philosophie des Organischen (Lipsia 1909) di Hans Driesch.
Questo princ1p10 esprime l'idea fondamentale che sta alla base di tutta la concezione embriologica di Driesch e cioè che il processo ontogenetico deve essere ricondotto a due fattori fondamentali: a) le particolari disposizioni contenute nella cellula o meglio nel nucleo; b) gli stimoli formativi esterni alla cellula stessa, che agiscono a distanza su di essa, partendo da punti dislocati nell'ambito della normale simmetria e polarità dell'embrione. Egli avanza inoltre l'ipotesi che il nucleo sia fondamentalmente costituito da una miscela di fermenti; perciò, egli dice, « noi non parliamo di una struttura del nucleo; cosicché la nostra teoria rispetto alla forma in quanto tale è nel suo aspetto esteriore anche epigenetica: la forma iniziale, la struttura dell'uovo è molto più semplice che la sua forma terminale ». Egli si contrappone così in modo netto alla teoria preformistica dello sviluppo embrionale di Roux-Weissmann, che egli considera una semplice «fotografia del problema», in quanto non dice altro se non che ciò che deriva da una qualsiasi parte dell'embrione è latente in essa. Benché Driesch si sia limitato sinora ed anche in un successivo articolo del I 896 a formulare una teoria detla vita come macchina appare ormai chiara in lui la propensione verso il vitalismo, della cui necessità egli si convinse intimamente nel 1895, riflettendo sul problema dell'azione umana. Solo nel 1899 egli giunse però a dichiarare apertamente la sua posizione nell'articolo Die Lokalisation morphogenetischer Vorgange. Ein Beweis vitalistisches Geschehens (La localizzazione dei processi moifogenetici. Una prova del processo vitalistico). Egli prende qui l'avvio da un altro esperimento di rigenerazione da lui compiuto nel 1895 sull'embrione di riccio di mare. Tagliando a metà quest'embrione nella fase di gastrula, ciascuna delle due metà ricostituiva un embrione completo. Ciò che lo colpì in questo esperimento era il fatto che l'intestino primitivo dell'animale veniva ricostituito con la sua triplice partizione regolarmente proporzionata. Ora, egli afferma, nelle due metà della gastrula non è possibile ammettere che vi sia un punto da cui possa partire lo stimolo formativo
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che determina questa tipica tripartizione dell'intestino, vale a dire questa « localizzazione morfogenetica ». Ciò in quanto il materiale dell'intestino « è localmente uniforme e neppure si danno cause che siano in questo senso non uniformi». Si tratta perciò di un processo di localizzazione incomprensibile in base ai processi elementari della natura sinora conosciuti, e che deve quindi essere considerato di tipo non meccanico ma vitalistico. Egli osserva inoltre che questa considerazione va fatta anche per altri casi di rigenerazione in cui gli stimoli formativi non sono collegabili all'orientamento dell'uovo e quindi ad una tipica posizione della parte rispetto al tutto. Bisogna ammettere cioè, per quest1 processi, una specifica risposta regolativa che non può essere di tipo meccanico pur essendo inerente al sistema in quanto tale. Questa proprietà induce quindi a considerare tale stato dell'organismo come un sistema equipotenziale armonico. Equipotenziale perché da ogni parte ne può derivare ogni altra, armonico in quanto le parti così prodotte mantengono la loro proporzione rispetto al tutto. Tale risposta regolativa o « processo indeterminato » di adattamento assume un carattere vitalistico - come osserva Frederick B. Churchlll- proprio per il modo con cui Driesch intende il sistema stimolo-risposta. Cioè nei casi tipici di sviluppo gli stimoli formativi sono in grado di controllare meccanicisticamente la proporzionalità del nuovo tutto organico per via della loro normale sfera d'influenza attraverso una sorta d'azione a distanza. Nel caso invece dei sistemi equipotenziali armonici, che partono da uno stadio atipico, si ottiene una ridistribuzione proporzionale dei vari elementi nel tutto, prima che un'ipotizzabile catena regolativa di eventi fisico-chimici ristabilisca il sistema nell'orientamento che permette il normale meccanismo stimolo-risposta. Il motivo principale per cui Driesch non ritiene ipotizzabile una tale catena causale regolativa sembra dovuto all'omogeneità dj struttura che egli, in contrasto con Weissmann, attribuisce al nucleo o meglio alla sua cromatina. Tale omogeneità non permette infatti di supporre che nel nucleo sia predisposto un così complesso meccanismo di regolazione. Dopo aver così dimostrato, diversamente dalle altre forme di vitalismo, l'esistenza d'una «legge elementare specifica» dei processi vitali, Driesch si preoccupò in numerosi scritti successivi di svolgere sempre più accuratamente la sua nuova concezione. Il più noto di questi scritti è forse Der Vitalismus als Geschichte und Lehre (llvitalismo, storia e dottrina, 19os), in cui ribadisce la necessità di considerare il fattore regolativo dei sistemi equipotenziali armonici come un fattore specifico vitale. Se esso fosse infatti di natura fisico-chimica « sarebbe forza concludere che qualunque parte immaginabile di un sistema armonico dovrebbe di necessità racchludere in sé quel meccanismo infinitamente complicato in tutta la sua interezza. Di più poiché ciascuna parte del sistema, presa assolutamente, può compiere qualsivoglia funzione regolativa, quando venga arti-
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ficialmente separata dal tutto nell'esperimento (nel quale, si sa, i tagli sono fatti ad arbitrio ed in punti indeterminati); ciascun elemento del sistema dovrebbe contenere ciascuna parte del meccanismo infinitamente complicato, e questa parte dovrebbe essere, in ciascuna nuova esperienza, quella di un meccanismo diverso. Ma in tal modo avremmo di necessità nel sistema un numero infinito di meccanismi, l'uno sovrapposto all'altro ad una distanza infinitamente piccola, l'uno spostato rispetto all'altro di un differenziale». In queste riflessioni sembra che Driesch non consideri la cellula come l'elemento vitale minimo. Ma in un passo successivo considerando gli elementi del sistema afferma: « Sappiamo che tutti questi elementi procedono in fondo da uno solo, da una cellula, da cui si sono andati via via formando per divisione cellulare. Sicché il primo elemento dovrebbe necessariamente aver contenuto in sé quello stesso meccanismo. Ne verrebbe di conseguenza che l'ipotetico meccanismo, dotato di complessità tipica infinitamente grande, si è suddiviso ripetute volte pur rimanendo tuttavia intero nelle sue parti. Ma questo ancora una volta non avrebbe senso, sarebbe assurdo. È forza concludere perciò che nessun meccanismo immaginabile può aver subito una divisione ripetuta, senza pregiudizio della sua integrità. » Da queste e da altre affermazioni risulta chiaramente che per Driesch lo stesso fenomeno dell'eredità non poteva essere spiegato in termini fisico-chimici, ma richiedeva l'intervento di un fattore vitale. Ciò poteva ancora essere sostenuto all'inizio del secolo, ma doveva risultare un'affermazione sempre meno plausibile nel corso delle discussioni e degli studi che andavano sorgendo attorno alla genetica. Driesch si andava ormai distaccando dal lavoro sperimentale e dalla ricerca scientifica per occuparsi sempre più di filosofia, nel cui ambito egli voleva precisare innanzitutto il significato e le implicazioni generali del fattore vitale che egli aveva chiamato col nome aristotelico di entelechia. A questo argomento egli dedicò buona parte di un ciclo di conferenze che tenne in Inghilterra e che vennero pubblicate nel 1909 col titolo The science and philosopl!J of the organism (Scienza e filosofia dell'organismo), ed in cui espone e rielabora il contenuto di scritti precedenti. In questi egli aveva affermato che l'esistenza dell'entelechia non è dimostrata soltanto dai processi di rigenerazione e di riproduzione ma anche dalla «base storica » e dalla «individualità di coordinazione » che si rilevano nelle risposte o reazioni degli animali agli stimoli ambientali. L'entelechia risulta perciò il fattore per cui gli organismi possono costituire una classe di fenomeni autonomi accanto agli altri della natura. Essa è un agente della natura (non spirituale e non metafisica) che è privo di carattere spaziale, ma tuttavia opera nello spazio. Essa pur non essendo una forma d'energia interferisce nella causalità naturale pur senza violare il principio di conservazione dell'energia. Come ciò possa accadere è per Driesch un problema non insolubile; ad esemp10 l'entelechia può sospendere un processo trasformando la
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energia cinetica in energia potenziale o all'inverso può liberare qell'energia vincolata. Senza soffermarci sulle evidenti difficoltà di queste affermazioni, ricorderemo soltanto come Driesch si sia notevolmente impegnato nel tentativo d 'inquadrare il suo vitalismo in una concezione epistemologica generale. Nella sua opera Ordnungslehre (Dottrina dell'ordine, 191z) egli cercò ad esempio di derivare il vitalismo dalla categoria di causalità totale (Ganzheitkausalitiit) mentre nell'opera Wirklichkeitlehre (Dottrina della realtà, 1919) elaborò una metafisica induttiva sui temi della moralità, dell'anima e della natura. In altri numerosissimi scritti egli si occupò di vari problemi come quelli della psicologia e, negli ultimi anni, della parapsicologia (spiritismo, telepatia, ecc.). Un'intensa attività per la diffusione delle sue idee anche a livello internazionale accompagnò costantemente il suo insegnamento filosofico che egli intraprese nell'università di Heidelberg e continuò in quelle di Colonia e di Lipsia ove nel 1933 con l'avvento del nazismo egli fu costretto a dimettersi. Nel complesso l'opera di Driesch ha avuto un'influenza notevole nella cultura dei primi decenni del Novecento. Ciò non tanto per i suoi scritti filosofici, spesso astrusi e scarsamente convincenti, ma per il modo sorprendente con cui egli seppe presentare il suo vitalismo: cioè non quale riflessione filosofica sui fenomeni della vita, come era accaduto per Reinke, ma come una conseguenza necessaria di risultati sperimentali estremamente rigorosi e brillanti, condotti in un campo che allora costituiva uno dei settori più avanzati della ricerca biologica. Le sue argomentazioni dimostrative in favore del vitalismo non raccolsero il consenso degli specialisti ma cionondimeno suscitarono una profonda impressione. La sua teoria esprimeva la profonda crisi del pensiero biologico, ma fu anche uno stimolo profondo e decisivo per i dibattiti e le riflessioni scientifiche e filosofiche più consapevoli che in tale crisi maturarono.
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CAPITOLO UNDICESIMO
Freud e la psicoanalisi DI ELENA ZAMORANI
I
· PREMESSA
Psicoanalisi è il nome di un procedimento di indagine di processi psichici che altrimenti sarebbe impossibile raggiungere; di un metodo terapeutico per il trattamento di disturbi nevrotici, fondato su questa indagine; di una serie di conoscenze psicologiche, acquisite attraverso questo procedimento e che gradatamente convergono in una nuova disciplina scientifica. Come procedimento di indagine di processi psichici, la psicoanalisi si pone in modo rivoluzionario rispetto ai metodi della psicologia sperimentale che nella seconda metà del secolo scorso nasceva negli istituti e laboratori universitari, pur essendo sorta dallo stesso hu111Us culturale impregnato di spirito positivo. La psicologia sperimentale cercava di conferire rigore scientifico alle indagini sui fenomeni psichici, applicando ad essi misure quantitative in esperimenti basati sulle associazioni, i tempi di reazione, la raccolta di materiale per lo più tratto dall'osservazione sistematica di dati autopercettivi. In questa prospettiva l'individuo appare una variabile da misurarsi con opportune cautele metodologiche onde cogliere l'universalità del processo psichico e una tipologia delle devianze. Con la psicoanalisi l'accento viene invece posto sulla universalità della deformazione apportata dai desideri e le motivazioni inconscie dell'individuo, e quindi sulla tendenziosità del comportamento umano, compreso quello dello sperimentatore. Al posto delle cristalline leggi dell'associazionismo e del meccanicismo, la psicoanalisi si trova di fronte alle schegge di un cristallo frantumato dalla nevrosi, dal misterioso meccanismo dell'oblio, dalle distrazioni della mente vigile, dal delirio notturno del sogno; ma come in un cristallo le linee di sfaldatura non sono arbitrarie, bensì determinate in precedenza dalla struttura del minerale, così Freud ritenne che là dove apparivano lacune e strappi era possibile scorgere l'articolazione profonda dei processi psichici. Da questa analisi emerge soprattutto un dato: la coscienza non è che una qualità - per giunta incostante - dello psichico, che è in gran parte inconscio. È questo il campo di indagine della psicoanalisi. Il concetto non era nuovo alle teorie filosofiche, ma la psicoanalisi lo ha fatto proprio scientificamente, dandogli un nuovo contenuto.
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Come metodo terapeutico di specifiche condizioni morbose, la psicoanalisi tende ad agire non sintomaticamente, cioè sui soli sintomi, né procede solo descrittivamente, ma agisce sullo stesso processo morboso che si manifesta nei sintomi. Per questo usa del metodo delle associazioni spontanee, cui il paziente è invitato ad abbandonarsi, non escludendo dalla comunicazione al terapeuta nessuna delle improvvise idee, immagini, fantasie che possono emergere alla superficie della coscienza. Compito del terapeuta è quello di interpretare la direzione ed il significato del materiale fornito dal paziente con le libere associazioni, rintracciando il senso delle omissioni e delle discordanze per trasformare in processi coscienti i meccanismi inconsci. Ponendo il conflitto fra realtà e desideri al centro di ogni nevrosi, e considerando quest'ultima un soddisfacimento sostitutivo di desideri inappagati, la psicoanalisi mostra come anche altre manifestazioni della vita umana (quali l'arte, la morale, la religione) siano riconducibili almeno in parte allo stesso conflitto che può generare la nevrosi, come vie che gli uomini hanno preso per legare i loro desideri insoddisfatti, nel variare e mutare delle condizioni storiche di esaudimento e di rifiuto da parte della realtà. Desideri che Freud rintraccia nell'infanzia, portando alla luce il conflitto edipico, le inclinazioni narcisistiche o perverse, le fasi dell'erotismo e la brama di sapere sessuale, rimossi e sepolti nell'inconscio di ciascuno, e mostrando da quale terreno profondamente scavato nascano le nostre « migliori virtù », formazioni reattive e sublimazioni attraverso cui pulsioni asociali e perverse vengono distolte dalle loro mete originarie e dirette verso mete socialmente più apprezzate. La psicoanalisi ha quindi spostato il centro di gravità dell'indagine psicologica dalla sfera conscia a quella inconscia, interpretando il comportamento umano alla luce del suo passato infantile e irrazionale; da qui parte l'accusa di irrazionalismo rivolta a questa dottrina. Possiamo invece affermare che Freud ebbe il coraggio scientifico di non trascurare ciò che pareva assurdo e di non accontentarsi di ciò che pareva coerente, cercando di rintracciare il processo di costruzione della ragione, permeata di desideri, svelando le interferenze e le distorsioni rispetto alla realtà operate dai processi affettivi inconsci. Freud ha cioè scoperto un nuovo aspetto del reale, distruggendo non il valore della coscienza, ma le pretese della falsa coscienza, disvelando come questa travesta e giustifichi quei moventi che non vuole riconoscere: « Con tutto ciò, » scrive Freud, « non è detto che la qualità della coscienza abbia per noi perduto il suo significato. Resta la sola luce che splende nell'oscurità della vita psichica e ci guida.» Questa scoperta di un campo del reale, scoperta che è frutto della ragione, esprime una profonda tensione razionale a conoscere ed esaminare forze ed impulsi che - nel regno della naturalità immediata - ci dominano; aspetto questo che lega Freud alla cultura della tradizione illuministica, convinta che « il sonno ·della ragione genera
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mostri». L'aver mostrato la vastità delle forze estranee alla ragione è una delle cause delle resistenze alla psicoanalisi, che nasce dalla demistificante scoperta che l'io non è padrone incontrastato in casa propria. La validità scientifica ed euristica della teoria di Freud è inoltre comprovata dal fatto che non solo illumina con la luce della ragione zone prima di allora oscure, ma anche dal fatto che le sue categorie sistematizzanti ed interpretative dimostrano la loro efficacia con la capacità di sistemare grandi quantità di dati empirici che prima di allora non avevano trovato una spiegazione coerente. II · STUDI SULL'ISTERIA E NASCITA DELLA PSICOANALISI
Sigmund Freud nacque il 6 maggio I 8 56 a Freiberg (oggi Pribor, in Cecoslovacchia) da Jacob, mercante di lana ebreo, sposatosi in seconde nozze con Amalie Nathanson. Pochi anni dopo la sua nascita, il padre, coinvolto in una grave crisi della manifattura tessile, acutizzata dall'inflazione, si trasferì a Vienna, città in cui Sigmund compì tutti gli studi e in cui visse sino all'anno precedente la morte. Nel I873 Freud si iscrisse all'università; a quell'epoca la scelta per un ebreo era ancora limitata all'alternativa tra giurisprudenza e medicina: nella sua autobiografia, Freud rammenta come dal suo desiderio di studiare legge e di dedicarsi ad attività politiche e sociali, venisse distolto in virtù dell'attrazione che esercitarono su di lui le teorie di Darwin, che promettevano grandi progressi nella comprensione del mondo, e dell'entusiasmo suscitato dalla lettura di un saggio goethiano sulla natura. Alla base dei suoi interessi egli pone, accanto allo studio precoce della storia biblica, una curiosità, volta più ai rapporti umani che agli oggetti naturali, che non aveva ancora trovato nell'osservazione il suo principale mezzo di soddisfazione. Gli anni d'università costituirono per Freud un severo tirocinio: da una parte egli s'abituò, quale ebreo discriminato, al destino di trovarsi nelle file dell'opposizione e all'ostracismo della maggioranza compatta, dall'altra parte nell'istituto di fisiologia di Ernst Briicke (I8I9-92) egli trovò il modello di disciplina scientifica in cui incanalare la propria curiosità, soddisfacendo al bisogno di rigore e meticolosità. Qui inoltre si formò quella particolare cornice fisiologica in cui cercò poi d'inquadrare le sue scoperte in psicologia. Sono di questi anni (I8768z) gli studi sull'istologia delle cellule nervose, in cui appare una concezione unitaria della cellula, base della futura teoria del neurone; studi che dovette interrompere quando Briicke gli fece intendere che non gli sarebbe stato possibile continuare la carriera di ricercatore per la mancanza di un patrimonio personale e l'impossibilità per lunghi anni di trovare una sistemazione economicamente soddisfa~ente presso l'istituto. Freud, che si era appena laureato (I 88 I), cominciò dunque ad esercitare presso l'ospedale generale di Vienna, e divenne assistente di
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Meynert,l specializzandosi in neurologia (I 8 8 5) con alcuni lav ori sul midollo spinale, in cui fra l'altro metteva a punto un nuovo metodo di preparazione dei fasci nervosi (colorazione al cloruro d'oro). Dalle lettere e dagli scritti di Freud risulta come egli fosse soprattutto teso a compiere qualche importante scoperta, sia in campo clinico sia in patologia, cui legare la fama del proprio nome. Fu allora che gli capitò l'infortunio della cocaina, di cui parlerà con disappunto ancora quarant'anni dopo: entusiasmatosi delle virtù terapeutiche ed euforizzanti che riscontrava nella cocaina, i cui effetti non erano ancora noti, scrisse un saggio passionato su questa sostanza, accennando nelle conclusioni anche alla sua azione anestetizzante. Ma fu un altro medico suo collega, Karl Koller, a farne uso in chirurgia oftalmica, acquistando così fama per un uso benefico della cocaina. Non appena vennero conosciute le caratteristiche dello stupefacente, Freud venne gravemente incolpato dai medici viennesi per la sua apologia della « droga ». Nello stesso periodo intanto Freud si fidanza con Martha Bernays, che sarebbe divenuta la compagna della sua vita, e comincia ad occuparsi di quegli strani pazienti che erano i « malati di nervi», discutendone con un medico più anziano che gli fu nel contempo amico, maestro e mecenate: Josef Breuer. 2 Nel 1886, di ritorno da Parigi dove si era recato con una borsa di studio per assistere alle lezioni e al lavoro che Jean-Martin Charcot (182.5-93) svolgeva alla Salpetrière, a trent'anni Freud si sposa e apre il suo primo gabinetto medico, avendo deciso di « vivere con la cura delle malattie nervose ». Sceglieva così di guarire malati che sperimentavano tutte le cure passando da un medico all'altro, e inimicandoseli tutti con la loro refrattarietà ad ogni rimedio, malati dai sintomi più vari il cui quadro clinico non corrispondeva ad alcuna lesione · organica percepibile. Constatata subito l'inefficacia dell'elettroterapia, il rimedio di voga a quel tempo, Freud cominciò a curare i suoi malati facendo uso dell'ipnosi, tecnica che permetteva di eliminare i sintomi patologici (di natura varia: da contratture a paralisi senza base organica a fobie, idee fisse, ecc.), inibendoli attraverso la suggestione, e che Breuet usava anche come strumento esplorativo per indagare la genesi dei sintomi stessi. Si può affermare che l'origine della psicoanalisi coincide con il superamento e l'abbandono della tecnica ipnotica, compiuti da Freud sulla base deile conoscenze, delle esperienze, dei problemi e delle insoddisfazioni generati da quella pratica stessa. La storia della psicoanalisi e della sua origine è stata più volte scritta e tiscritta da Freud stesso, convinto come era della necessità di divulgate il più possibile al pubblico non specializzato il sapere di cui eta l'osteggiato portatore, anche se altrettanto convinto che un approccio libresco ed astratto dei suoi prinI Theodor HermannMeynert(1833-92.),anatomista del cervello e direttore della clinica psichiatrica. 2. Josef Breuer (184Z-I9Z5), noto fisiologo
ed internista ebreo viennese, seguace della scuola di Helmholtz e membro corrispondente dell'Accademia viennese delle scienze, fu strettamente legato a Freud negli anni x88Z-94·
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cipi non poteva sostituire la reale conoscenza di questi, che è essenzialmente pratica e coinvolge tutta l'esperienza personale. La ricostruzione che egli ci dà dei primi anni delle sue ricerche risulta però notevolmente più lineare di quanto non appaia dalla lettura diretta delle opere (e lettere), dalle quali emergono esitazioni, dubbi, tentativi di soluzioni in direzioni poi abbandonate e in generale il faticoso processo attraverso cui Freud giunse alla enunciazione dei suoi principi, mai come corollari di quel corpo istituzionalizzato che siamo oggi abituati a chiamare psicoanalisi, ma piuttosto come avvicinamenti progressivi all'esplicazione di fenomeni reali. In questo processo non mancarono momenti di dubbio totale in cui veniva messa in forse tutta la validità della ricerca. E dò sin dall'inizio, come nel 1886 quando Freud tenne una serie di lezioni sull'isteria che suscitarono reazioni molto sfavorevoli nella società medica viennese. In particolare non si riconosceva valore euristico alla tipologia stabilita da Charcot (distinzione fra la grande e la piccola isteria) ed alla sua teoria delle cause isterogene, che escludeva che la ricchezza stravagante dei sintomi fosse dovuta alla simulazione da parte dei malati e negava che l'origine di questi fenomeni fosse da ricondurre - come allora generalmente si riteneva - ad una modificazione degli organi genitali femminili. Sfidato da Meynert, Freud presentava un caso di isteria maschile, ma l'accoglienza dei medici viennesi diede a Freud un'impressione di rifiuto e disinteresse tali da dissuaderlo a cercare consensi su questo particolare argomento. L'autorità dei suoi maestri era tale che Freud stesso dubitò delle proprie intuizioni, né ciò avvenne per la prima volta: già quando aveva esposto a Charcot la storia clinica divenuta poi celebre come il « caso di Anna O. », di cui era stato messo al corrente da Breuer, lo scarso interesse dimostrato dal medico francese sembrò affievolire la sicurezza di Freud sul valore rivoluzionario del nuovo impiego della tecnica ipnotica ideato da Breuer. Ciononostante continuò ad occuparsi di quei fenomeni che la scienza ufficiale rifiutava di prendere in considerazione, ed anzi approfondì le sue conoscenze andando a Nancy (1 889), dove lavoravano Auguste Liebault (I8z3-1904) e Hyppolite Bemheim (1837-1919), noti psichiatri che facevano uso dell'ipnosi. Il buon nome di Freud, già compromesso· dall'incidente della cocaina, era molto decaduto, tanto che Meynert ironizzava sulla sua professione di « ipnotizzatore », come se dopo un brillante inizio quale fine fisiologo e anatomista si fosse abbandonato ad attività cialtronesche. In realtà, nonostante il livello un po' basso di queste accuse, ciò che i medici viennesi sentivano messo in pericolo dalle ricerche del giovane collega era qualche cosa di molto importante e su cui si basava tutto l'orgoglio della loro professione: dopo l'ubriacatura della Naturphilosophie, gli scienziati consideravano nebulose e fantastiche le astrazioni con cui la psicologia era costretta a lavorare, e si sentivano impegnati a ricondurre ogni fenomeno psichico, che come tale non era scientificamente trattabile, a cause somatiche anatomiche o chimiche. Ciò era in sintonia con
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la rivoluzione materialista così proficua per l'avvenire della biologia, fisiologia e neurologia, di cui è significativa espressione il giuramento della scuola di Helmholtz: «Nell'organismo non agiscono altre forze al di fuori di quelle fisico-chimiche. In tutti i casi che non possono esser spiegati in tal modo, o si deve trovare il modo o il tipo della loro azione servendosi del metodo fisico-matematico, oppure si devono introdurre nuove forze di dignità pari alle forze fisico-chimiche che reggono la materia, e riconducibili alla forza di attrazione e repulsione». Di questa scuola Briicke era uno dei massimi esponenti e - come egli amava considerarsi - « ambasciatore » a Vienna. Si spiega quindi come l'interesse di Freud per fenomeni così poco quantificabili quali l'ipnosi e l'isteria fosse vissuto come un tradimento, tanto più grave in quanto egli aveva fatto parte della schiera delle giovani promesse dell'istituto di fisiologia di Briicke, mentre ora sembrava essersi lasciato contagiare dalla brillante superficialità dei francesi. In verità il piano di Freud era molto ambizioso, ma p.on si scostava dal giuramento programmatico della Berliner Physikalische Gesellschaft: egli voleva rappresentare i processi psichici come degli stati quantitativamente determinati di particelle materiali discernibili, per scoprire una teoria del funzionamento mentale in cui introdurre il concetto di quantità: insomma una specie di economia delle forze nervose. Significativamente però questo « progetto » non venne mai completato, e ne siamo a conoscenza solo perché venne spedito da Freud all'amico Wilhelm Fliess, 1 il cui carteggio con Freud ci è fortunosamente pervenuto. Queste lettere sono un documento insostituibile per la ricostruzione dell'affascinante avventura che sta all'origine della psicoanalisi attraverso il discontinuo emergere delle ipotesi e il loro rivolgimento. Sino al 1892.,2 Freud non pubblicò nulla sull'isteria e le nevrosi in generale, nonostante che l'abbozzo del suo primo articolo sulla diagnosi differenziale delle paralisi organiche da quelle isteriche fosse già stato rielaborato nel periodo immediatamente successivo al suo ritorno da Parigi. Il problema tuttavia non cessava I Wilhelm Fliess (1858-I9z8), otorinolaringoiatra ebreo berlinese, autore della « teoria dei periodi». Nella sua opera principale, Der Ablauf des Lebens (Il corso della vita, 19o6), dall'osservazione della periodicità del ciclo mestruale formula una più ampia ipotesi (sorretta da errate deduzioni matematiche) sull'importanza della periodicità nell!! vita umana in generale. In particolare, rifacendosi alla costituzione bisessuale di tutti gli esseri umani, riconduce la natura specifica delle nevrosi a variazioni periodiche, postulando un interferire di periodi femminili e periodi maschili. Di formazione scientifica simile a quella di Freud, gli fu amico e corrispondente negli anni I897-19oz. 2 L'ultima opera di argomento neurologico scritta da Freud è del 1897, ma il maggior suo contributo alla neurologia è Zur Au.lfassung der Aphasien (Per la concezione delle afasie, 1891). In essa Freud dissente dalle teorie di Wemicke e
Meynert che tendevano a localizzare schematicamente in precisi « centri » del cervello le sedi del linguaggio e in genere di tutte le funzioni, e avanza una spiegazione funzionale, secondo cui i centri sono punti nodali di un circuito generaie responsabile delle funzioni, rifacendosi alla teoria della «disinvolution» di Hughlings Jackson, secondo la quale in caso di lesione, inibizione, ecc., essendo le funzioni di recente acquisizione più fragili, si tende a tornare a un modo di funzionamento anteriore (tale concetto verrà utilizzato da Freud, nella teoria della libido, come regressione ad una fase di organizzazione più arcaica). Anche come neurologo quindi Freud si era emancipato da una concezione atomistica di corrispondenza punto a punto fra condizioni organiche e fenomeni psichici, cioè dagli aspetti più meccanicistici della scuola di Helmholtz.
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di agitarlo e a Fliess comunicava continue riflessioni sulle nevrosi, il loro carattere e le loro cause. Da queste lettere veniamo a sapere che i problemi che più interessavano Freud in quegli anni erano la possibilità di arrivare a diagnosi differenziali tra sintomi psichici e sintomi somatici, le modalità attraverso cui distinguere sindromi differenziali di sintomi nevrotici e in particolare la ricerca della formula eziologica determinante l'insorgere di queste sindromi. Accettata quindi l'isteria come oggetto d'indagine scientifica Freud trae dalla scienza medica l'impalcatura di queste riflessioni che coinvolgono d'altronde il più generale problema dei rapporti tra processi organici e processi psichici. Egli notava come le paralisi e in generale tutti i disturbi della sensibilità di origine isterica «non conoscono l'anatomia», e affermava inoltre che le «due grandi nevrosi» (isteria e nevrastenia) differivano per il fatto che nella prima le rappresentazioni psichiche legate allo stato patologico non erano presenti. alla coscienza del malato, differenza alla quale attribuiva grande importanza dal punto di vista terapeutico. Rispetto alle idee dell'epoca, infine, Freud era sempre meno portato a concedere all'ereditarietà o alla degenerazione nervosa (oltre che alle modificazioni anatomiche degli organi sessuali) validità eziologica. I più importanti dubbi teorici, e in primo luogo quello riguardante il significato e la natura dei sintomi, furono originati dai problemi pratici posti dalla particolare terapia catartica che Freud aveva adottato. Metodo catartico era stato chiamato da Breuer un singolare metodo di cura che egli aveva sperimentato su un'unica paziente -la famosa Anna O.- una giovane donna affetta da molteplici disturbi di origine isterica che andavano da paralisi a stati di confusione mentale. Posta in ipnosi la ragazza rievocava una serie di situazioni penose legate al periodo in cui aveva assistito il padre, gravemente ammalato; in genere si trattava di intense emozioni la cui espressione era stata impedita. Breuer ne trasse la conclusione che i ricordi corrispondessero a traumi che non erano stati sufficientemente abreagiti, a cui cioè non fosse seguita una reazione di scarica della tensione, e notò inoltre il particolare legame fra tali ricordi ed i sintomi della malata: una volta rievocata la scena traumatica, che veniva rivissuta allucinatoriamente, senza che venisse impedita l'espressione degli affetti da essa provocati, il sintomo spariva. Il primo sintomo così guarito fu l'idrofobia isterica di cui soffriva Anna O.; nello stato di ipnosi risultò che questo sintomo era l'espressione di una emozione repressa, giacché la paziente narrò, visibilmente inorridita, come da bambina avesse visto il repugnante cane della sua istitutrice, da lei non amata, bere da un bicchiere, e come non avesse potuto dare sfogo alla propria repulsione. L'idrofobia era quindi l'espressione deviata di questa sua antica emozione; una volta rievocata la scena traumatica e manifestata violentemente durante lo stato di ipnosi la rabbia che le aveva provocato questo episodio, Anna O. chiese di bere e l'idrofobia sparì per sempre. Breuer rese sistematico questo procedimento traendone una terapia che con319
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sisteva nell'esaminare isolatamente ogni sintomo, cercando di giungere attraverso un percorso che invariabilmente assumeva il carattere di un viaggio a ritroso nel tempo, sino all'episodio originario che aveva determinato il sintomo, eliminando poi quest'ultimo mediante lo sfogo (abreazione) verbale. Il metodo, nato in parte dall'iniziativa dell'intelligente paziente, veniva da lei chiamato talking cure (cura parlata) o chimney sweeping (pulizia del caminetto). Freud applicò questo metodo ad altri pazienti e convinse il riluttante Breuer, che non riteneva si potesse generalizzare la terapia né l'ipotesi esplicativa a tutti i casi di isteria, a pubblicare un libro. Una «comunicazione preliminare» venne pubblicata nel I 892, e nel I 895 uscì Studien iiber Hysterie (Saggi sull'isteria), opera di collaborazione scritta e pubblicata proprio nel momento in cui l'amicizia personale e scientifica tra i due autori era in piena crisi. Nei Saggi sull'isteria troviamo le storie cliniche di Anna O. e di quattro pazienti curate da Freud, concluse da un capitolo di considerazioni teoriche scritte da Breuer e da un capitolo sulla psicoterapia dell'isteria scritto da Freud. Capitoli questi che rivestono particolare importanza in quanto vi si trovano esplicitate alcune ipotesi teoriche sull'apparato psichico che saranno implicitamente presenti anche nelle opere più tarde di Freud e contemporaneamente vi si possono trovare i punti di disaccordo fra i due autori e il superamento del metodo catartico operato da Freud. Rifacendosi alle recenti teorie sull'eccitazione e la conduzione delle fibre nervose e richiamandosi alle leggi dell'elettrologia, Breuer affermava che l'eccitazione nervosa provoca una perturbazione dell'equilibrio dinamico del sistema nervoso tale da necessitare una scarica adeguata (abreazione) poiché sussisterebbe la tendenza a mantenere costante il livello dell'eccitamento (o principio di costanza, ipotesi quest'ultima di Freud). Breuer postulava che alla base della formazione dei sintomi fosse un « ingorgo » di affetti determinato dal conflitto fra la forza dell'emozione e la forza delle rappresentazioni che ne impediscono l'espressione; la forza del sintomo risulterebbe quindi dall'er:tergia deviata dalla scarica adeguata e il suo significato starebbe nell'essere un residuo di esperienze emotive o per meglio dire un simbolo mnemonico di esse. Il fenomeno per cui l'eccitazione nata da una rappresentazione emotiva intensa si convertiva in sintomo somatico, sparendo dalla coscienza, era stato chiamato da Freud conversione, e Breuer ipotizzava che tale fenomeno si producesse in base ad un processo, analogo ad un «corto circuito >>, delle resistenze che presiederebbero alla suddivisione regolare dell'eccitazione. Rievocando mediante l'ipnosi la scena traumatica si poteva avere una scarica adeguata dell'affetto rimasto incapsulato e il sintomo spariva in quanto svuotato di energia. Tutto ciò era stato riassunto con la formula: «Gli isterici soffrono di reminiscenze. » Il particolare carattere di queste reminiscenze veniva dal fatto che non erano presenti alla coscienza: ciò comportava una distinzione tra coscienza e psichismo e in particolare esigeva una spiegazione dell'oblio delle scene trauma-
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tiche. Fin dall'inizio Breuer e Freud diedero spiegazioni contrastanti di tale fenomeno: secondo Breuer l'amnesia della scena traumatica dipendeva dal fatto che essa sarebbe stata vissuta in uno stato di coscienza particolare, ipnoide, assai simile a quello realizzato in ipnosi. Breuer spiegava in tal modo sia l'amnesia, sia il ritorno spontaneo del ricordo in ipnosi, della quale fondava così la necessità terapeutica, operando una netta distinzione tra stato normale e stato patologico. Freud supponeva invece che la «malattia » non presentasse processi qualitativamente diversi da quelli della «salute», e che quindi nell'un caso e nell'altro fossero da rintracciare i medesimi meccanismi: tendenze e inclinazioni analoghe a quelle della vita quotidiana e delle quali poteva variare l'intensità. Secondo Freud quindi dalla coscienza venivano allontanati stati o impulsi inconciliabili con l'io: il fenomeno della conversione isterica agiva quale meccanismo di difesa da tali rappresentazioni, deviandole verso l'espressione somatica ed eliminando drasticamente la loro contraddizione con i valori coscienti mediante l'esclusione dalla coscienza o rimozione. Si tratterebbe quindi di un atto di viltà morale, compiuto per proteggere l 'io: il prezzo di tale atto è che il residuo della reminiscenza, il simbolo mnemonico psichicamente isolato, continua ad agire provocando sofferenza e impedendo una vita normale. Freud supponeva che la stessa forza psichica che si opponeva a che le rappresentazioni patogene diventassero .coscienti, forza che egli chiamò resistenza, fosse una traccia della forza repulsiva che aveva allontanato dalla coscienza la rappresentazione per essa insopportabile. Il processo patogeno veniva quindi centrato sulla nozione di conflitto e raffigurato come un tentativo di fuga: se la risoluzione « normale » di un conflitto fra una tendenza (o pulsione) e quelle che le si oppongono (resistenze) comporta l'intensa partecipazione della coscienza e la sconfitta della pulsione a cui viene sottratta la carica energetica, nel caso della risoluzione nevrotica invece l 'io si ritira inconsciamente di fronte all'impulso, negandogli accesso alla coscienza e alla scarica diretta. Tale fuga comporta molteplici conseguenze: l'impulso infatti, conservata tutta la carica energetica, costringe l'io ad una deformazione e ad un impoverimento permanente come scotto del continuo sforzo per resistere alla persistente pressione dell'impulso allontanato, rimosso. Le tendenze rimosse, una volta inconscie, possonç> trovare espressioni sostitutive: tali sono i sintomi. Mentre Breuer dubitava della portata del metodo da lui scoperto, considerandolo quasi applicabile ad un'unica ammalata, Freud tendeva invece ad estenderlo ad ogni paziente, compresi quelli che non riusciva a porre in stato di ipnosi. Per vincere la resistenza a ricordare, che non dipendeva dunque da un « non sapere », ma piuttosto da un « non voler sapere », Freud usò di un artificio tecnico: esercitata una pressione sulla fronte del paziente lo esortava a raccontare quel che gli veniva in mente, assicurandolo che ciò sarebbe stato in connessione con il sintomo. Invece di ricercare in modo selettivo e direttivo gli episodi che riportano alla
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scena traumatica primaria, si giungeva alla esplicitazione dei ricordi così evocati e dei legami con la situazione patogena attraverso la catena delle associazioni. È il primo passaggio verso il metodo che sarà poi chiamato delle libere associazioni (Einfall), e già Freud enuncia la regola fondamentale di questa indagine: la rinuncia cioè da parte del paziente ad esercitare funzione critica nei confronti delle rappresentazioni che si presentassero spontaneamente alla mente. L'abbandono dell'ipnosi non comportava soltanto un ampliamento del numero di pazienti che ora erano passibili di analisi, ma permetteva anche di percepire meglio la forza della resistenza opposta al riaffiorare del ricordo e di esplorare lo stratificarsi attorno al nucleo patogeno dei temi rimossi. L'applicazione dell'ipnosi cela infatti le resistenze: rende accessibile una certa zona psichica, ma in compenso accumula le resistenze ai confini di questa zona, rendendo inaccessibile il nucleo da cui parte il processo patogeno. Le guarigioni ottenute ipnoticamente portarono inoltre delle delusioni, in quanto apparve chiaro che accanto all'effetto liberatorio della catarsi si instaurava, come causa del successo terapeutico un intenso rapporto di dipendenza dal medico, tale che quando questo veniva meno, tutti i sintomi tornavano a manifestarsi come se non avessero mai trovato una soluzione, o come se essa fosse stata possibile solo come effetto di suggestione. Nei Saggi sull'isteria troviamo l'enunciazione della regola fondamentale dell'analisi, l'interpretazione delle molteplici reazioni del paziente invitato ad associare come resistenze, una particolare attenzione al comportamento affettivo del paziente verso il terapeuta, la considerazione del sintomo come difesa incompleta, cicatrice dolorosa di un processo di rimozione dalla coscienza di immagini incompatibili con l'organizzazione dell'io, una prima ipotesi sulla struttura di uno stato psichico inconscio, quale prodotto della rimozione; la conclusione che il compito del terapeuta sta nel trasformare i conflitti inconsci che hanno ostacolato il comportamento adeguato e che sono alla base del processo patologico in conflitti coscienti tramite il superamento delle resistenze, e non più nel provocare semplicisticamente l'abreazione della emozione (o carica energetica) impedita. Poiché la rimozione è un atto di difesa opposto a rappresentazioni inconciliabili con l'io, Freud proponeva di chiamare « psiconevrosi da difesa» l'isteria, le fobie, le nevrosi compulsive ed alcune forme psicotiche quali i deliri allucinatori. Specifico dell'isteria rilevava essere il meccanismo di conversione nell'organico (vomito, paralisi, cecità isterica ecc.) dell'eccitazione psichica derivata da impulsi rimossi, mentre invece nelle nevrosi compulsive e nelle fobie si verifica una trasposizione di affetto dalla rappresentazione patogena (che può restare cosciente, ma separata dalla sua carica emotiva) ad un'altra legata ad essa da un «falso nesso» che le rende incomprensibili. I cerimoniali ossessivi e le fobie derivano da questi falsi nessi: i cerimoniali corrispondono ad autoaccuse inconscie dettate dal senso di colpa per desideri inconsci che essi tendono a «cancellare »; le fobie
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indicano timore di venir sopraffatti da questi desideri, da cui esse tendono a «proteggere ». 1 Freud dichiarerà più tardi che la teoria della rimozione (o della difesa) è la pietra angolare su cui si basa tutta la psicoanalisi, insistendo però sul fatto che tale teoria non è una premessa, ma piuttosto una acquisizione del lavoro analitico, una ipotesi che rende più comprensibili due fatti sperimentali insorti durante il tentativo di ricondurre i sintomi morbosi di un nevrotico alle loro fonti nell'ambito storico della sua vita: il fenomeno della resistenza opposto al lavoro analitico, che mira ad una presa di coscienza dei conflitti inconsci, e il fenomeno del rapporto affettivo con il terapeuta, o traslazione. Nell'analisi dei conflitti scatenanti i processi delle nevrosi, Freud giungeva alla conclusione che si trattasse sempre di conflitti fra gli impulsi sessuali del soggetto e le resistenze contro la sessualità. Anche questo fu il risultato del lavoro empirico come terapeuta, in quanto le associazioni dei suoi pazienti riconducevano sempre a questi temi. Soprattutto questa asserzione era inaccettabile per Breuer, e determinò la fine del loro rapporto di collaborazione e di amicizia: egli negò sempre l'esistenza di tale aspetto nel caso di Anna 0., così come non volle mai prendere atto del particolare legame che si era stabilito tra lui e la ragazza, mentre Freud ancora una volta colse l'aspetto generale di quello che sembrava un accadimento particolare, e invece di negare l'imbarazzante incidente della paziente che s'innamora del proprio medico, indicò l'ineliminabile presenza del fenomeno, che sarà più tardi il fulcro della terapia analitica: « Il fatto della traslazione amorevole od ostile, di carattere rozzamente sessuale, si presenta durante ogni trattamento di nevrosi, pur non desiderata suscitata da nessuna delle. parti. » L'analisi del materiale associativo aveva portato all'osservazione che all'origine di un sintomo non si trova un unico fatto traumatico, ma che il sintomo è sovradeterminato da molteplici situazioni traumatiche, spesso assai simili, la cui evocazione si dispone in una successione cronologica che invariabilmente porta ad episodi di carattere sessuale situati nell'infanzia.
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III · INTERPRETAZIONE DEI
SOGNI E AUTOANALISI
L'atteggiamento di ricettiva imparzialità di fronte alle sorprese che ogni caso gli presentava, portò Freud a prestare fede agli episodi di seduzione infantile che gli venivano narrati con sconcertante regolarità dai suoi pazienti, per cui ritenne 1 Dal gruppo delle psiconevrosi di difesa Freud distingueva le «nevrosi attuali» (nevrastenia, ipocondria, nevrosi d'angoscia), che sarebbero contraddistinte da sintomi che non solo si manifestano prevalentemente sul corpo (cefalee, tachicardie, stanchezze ecc.), ma che sarebbero essi stessi processi somatici nella cui genesi mancano i
meccanismi psichici della nevrosi. Le cause sarebbero rintracciabili nella vita sessuale attuale e dipenderebbero da processi chimico-biologici messi in atto dall'insufficienza del soddisfacimento sessuale. Solo nel 1932 Freud considerò l'angoscia, emozione caratteristica di questo gruppo di nevrosi, un processo interamente psichico.
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che episodi sessuali infantili fossero alla base di ogni nevrosi ed espresse chiaramente il suo punto di vista nel I 896 in un articolo che riportava alcune conferenze tenute alla Società di psichiatria e neurologia di Vienna. Dalle lettere a Fliess possiamo vedere come egli considerasse ormai risolto l'enigma delle psiconevrosi: la seduzione infantile (in genere perpetrata dal padre o da un fratello maggiore) determinava la malattia, a seconda se questo incidente sessuale primario fosse stato vissuto con disgusto (futura isteria) o con piacere poi colpevolizzato (futura nevrosi compulsiva). Si può trovare nella teoria della seduzione infantile una traccia della eziologia traumatica di Charcot, e Freud la considerò per un certo tempo il caput Nili di ogni nevrosi. Nelle relazioni che Freud mandava all'amico berlinese sui progressi da lui compiuti nella comprensione dei meccanismi nevrotici, troviamo un approfondimento delle conoscenze dei meccanismi di difesa che lo porta a studiare fenomeni quali l'oblio, il sogno e l'allucinazione. Il suo interesse per un fenomeno apparentemente così assurdo e indecifrabile come il sogno era acuito dal frequente intersecarsi dei sogni nelle associazioni dei pazienti. Nel I895 egli scrive a Fliess di aver trovato in un proprio sogno la conferma del fatto che il contenuto del sogno è l'appagamento di un desiderio: si tratta del celebre sogno della «iniezione a Irma», di cui Freud riporterà l'analisi nella Interpretazione dei sogni (Traumdeutung), e per cui si chiederà scherzosamente se verrà messa un giorno una lapide commemorativa sulla casa in cui gli si svelò il segreto del sogno. La concezione da lui esplicitata è infatti la chiave di volta su cui poggia la complicata architettura della sua opera sull'interpretazione del sogno, che verrà pubblicata solo nel I9oo, cioè dopo cinque anni che furono tra i più importanti per Freud e per la psicoanalisi. Al momento ne derivò lo Entwurf einer Psychologie (Progetto di una psicologia) (che inviato da Freud a Fliess, venne pubblicato solo nel I 9 5o), tentativo di spiegare in termini neurofisiologici l'intera psicologia, tenendo conto degli aspetti dinamici che veniva scoprendo nelle sue indagini. In tale manoscritto si trova lo sviluppo di una serie di concetti e principi fondamentali per una teoria generale del sogno e in particolare: l'affermazione che il carattere allucinatorio della scena onirica dipende dall'assenza di un normale contatto con la realtà; il principio che il significato del sogno va ricercato nel desiderio che vi si attua, e la scoperta della logica del sogno, assai diversa da quella del pensiero cosciente. La comprensione della natura particolare del linguaggio del sogno permetterà una migliore e più ampia comprensione di conflitti inconsci (« i sogni racchiudono in un guscio di noce la psicologia della nevrosi ») e Freud si avvalse di questo metodo soprattutto su se stesso. Fu mentre redigeva la parte dedicata alla rimozione, che Freud si convinse di aver individuato il fattore eziologico specifico e differenziale delle psiconevrosi nella seduzione operata in genere dai genitori sui propri bambini. Questo era un risultato che Freud accolse con riluttanza, ma che pareva sistematicamente confermato dal materiale fornito dalle analisi dei suoi pazienti.
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Alcuni sintomi che Freud riscontrò su se stesso e nei propri fratelli, dopo la morte del padre avvenuta nell'ottobre I 896, gli confermarono il sospetto che egli stesso potesse essere stato oggetto di seduzione da parte del padre. Sotto la spinta delle impressioni e dei conflitti interiori acuiti dalla morte del padre, Freud decise di applicare a se stesso un'analisi quale quella a cui sottoponeva i suoi pazienti. A Fliess egli scrive: « Il malato che oggi più mi preoccupa sono io stesso ... Questa analisi è più difficile di ogni altra ed anche la cosa che paralizza la mia capacità di scrivere e comunicare ciò che finora ho appreso. Tuttavia credo che debba essere fatta e che sia un preliminare necessario per il mio lavoro. » Il primo risultato di questa autoanalisi fu il crollo della teoria a cui egli legava la speranza di un avvenire sicuro dal punto di vista professionale e scientifico. In una lettera a Fliess del I 897 espone tutte le contraddizioni che si oppongono alla credibilità delle sue tesi sulla seduzione infantile, e nello stesso tempo avanza una possibile soluzione: il fatto che nell'inconscio non esista alcun indice di realtà (concetto già sviluppato nel Progetto), per mezzo del quale distinguere la verità dalla finzione emotiva, mentre da una parte riduceva da fatti realmente accaduti a fantasie gli episodi di aggressioni sessuali subite nell'infanzia, dall'altra rendeva assai significativo il fatto che queste fantasie ruotassero sempre intorno alle figure dei genitori. Molti anni dopo scrisse: « Quando questa eziologia crollò per la ~ua stessa inverosimiglianza e per la contraddizione con situazioni sicuramente accertabili, seguì uno stadio di totale perplessità. L'analisi aveva condotto per via cor- · retta a tali traumi sessuali infantili, e tuttavia questi erano falsi. Si era dunque perduto il terreno della realtà. A quel tempo avrei volentieri abbandonato tutto il lavoro come aveva fatto il mio predecessore B:reue:r in occasione della sua indesiderata scoperta. Forse perseverai soltanto perché non avevo altra scelta. Finalmente mi :resi conto che non si ha diritto a scoraggiarsi quando si è delusi nelle proprie aspettative, ma che bisogna :rivedere queste aspettative.» Il suo isolamento nell'ambiente scientifico viennese era pressoché totale e la considerazione che si era acquistato con i lavori di neurologia si era tramutata in biasimo e in aperta derisione non appena Freud aveva esposto le sue teorie sul ruolo giocato dalla sessualità nell'eziologia delle nevrosi. Tuttavia Freud riuscì assai bene a superare non solo l 'insicurezza provocata dalle critiche altrui, ma il più profondo disagio generato dai propri dubbi: « Se fossi depresso, sfinito, confuso, tali dubbi potrebbero essere presi come segno di stanchezza. Ma poiché mi trovo nello stato opposto, debbo :riconoscere che essi sono il risultato di un onesto ed effettivo lavoro intellettuale, e sono orgoglioso di poter fare una tale critica dopo essere andato tanto a fondo. Questi dubbi sono forse solo un episodio sulla strada che conduce verso ulteriori conoscenze? » E in effetti egli affrontava per la prima volta il nucleo centrale di ogni nevrosi, quello che più tardi verrà chiamato il conflitto edipico. L'esperienza dell'autoanalisi ha un carattere di grandezza e coraggio morale
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e nello stesso tempo di rinuncia ad ogni orgoglio che ne fa un momento di grande «bellezza intellettuale»; attraverso l'analisi dei propri sogni, fantasie e stati d'animo, Freud vive su se stesso le cose che da spettatore ha visto svolgersi nei suoi pazienti. Di fronte all'emergere della propria infanzia non commette però l'errore di chi volesse considerare come verità storiche le tradizioni mitiche e leggendarie, ma vede piuttosto in esse ciò che realmente sono: « formazioni reattive contro il ricordo di condizioni e di tempi assai miseri e probabilmente non sempre gloriosi». Come egli scrive: « Alcuni tristi segreti della vita vengono così rintracciati fino alle loro prime radici e ci si può così rendere conto delle umili origini di certi orgogli e privilegi. » Nei propri sogni egli trova soprattutto il desiderio di liberarsi da una colpa a lui sconosciuta, che si delinea poi come «colpa verso il padre »; sotto le proprie giustificazioni a discolpa egli trova ritorsioni dettate da un'ostilità nascosta, risentimenti, accuse. Ma l'accusa più acerba che egli muove al padre non copre in realtà un lontano episodio di seduzione, ma l'emergere indistinto e tumultuoso del mondo fantastico di Freud bambino e del suo contraddittorio deside~io nei confronti dei genitori. Nell'ottobre del 1897 Freud scrive all'amiCo: « Finora non ho trovato nulla di completamente nuovo, ma tutte le complicazioni· alle quali sono solitamente abituato. Non è una cosa facile. Essere interamente onesti con s.e stessi è un buon esercizio. Una sola idea di valore generale mi è Ho trovato amore per la· madre e gelosia verso il padre anche nel i:nio caso, e ora ritengo çhe questo sia un fenomeno generale della prima infanzia.» Non è quindi il misfatto del padre, ma il bambino come nodo di desideri assoluti è all'origine della nevrosi; non una storia di seduzione da parte dell'adulto, ma il doloroso avvicinarsi all'adulto attraverso U.confuso viluppo di odio e amore per il padre e per la madre, come nel mito di Edipo, di cui ognuno riconosce il senso di costrizione fatale per averlo vissuto personalmente: « Ogni membro dell'uditorio è stato una volta un tale Edipo in germe e in fantasia, e da questa realizzazione di un sogno trasferito nella realtà, ognuno si ritrae con orrore e con tutto il peso della rimozione che separa lo stato infantile da quello adulto. » È questa un 'acquisizione di importanza fondamentale: se le fantasie coprono desideri e impulsi incestuosi dell'infanzia, se la difesa nevrotica non si volge contro un accadimento esterno che viola l'innocente passività dell'infanzia, ma ha la funzione di cancellare e adulterare un capitolo doloroso della storia individuale, se quindi la nevrosi sta a testimoniare un'offesa dello sviluppo sessuale, si deve postulare l'esistenza di una vita sessuale infantile. Dall'interpretazione dei sogni alla autoanalisi, dal disvelamento del conflitto edipico alla sessualità infantile, dai meccanismi dell'oblio e del ricordo alla dimensione dell'inconscio: una nuova svolta nella tecnica analitica porta ad un accumulo di osservazioni che richiede di venir ordinato, modificando la primitiva sistematizzazione dei problemi delle nevrosi ed ampliando la ricerca in più direzioni: « Quando attraversata una stretta gola, si giunge improvvisamente ad un'altura dove le vie si separano e si dischiudono am-
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pie vedute per ogni parte, è lecito sostare un attimo e riflettere in quale direzione convenga anzitutto volgere i propri passi. Qualcosa di simile succede anche a noi, dopo aver superato questa prima interpretazione del sogno. Abbiamo raggiunto la chiarezza di una conoscenza improvvisa.» Così Freud scrive nella Interpretazione dei sogni, primo risultato di questa chiarezza di conoscenza, forse la più importante delle sue opere, certo la più rivoluzionaria. Questo il punto di partenza: «Il sogno può essere trattato come un sintomo», può cioè essere scomposto e dissolto nei suoi elementi attraverso il metodo delle libere associazioni già elaborato per il sintomo; in tal modo usando di un procedimento sperimentale è possibile inserire il sogno in una concatenazione psichica che porta alla ricostruzione ed alla interpretazione del suo significato. Con ciò vengono radicalmente contraddette solo due di tutte le contrastanti teorie che fino ad allora erano state avanzate: per Freud il sogno non è né un processo assurdo, né un processo somatico; il suo motivo è un desiderio, il suo contenuto l'appagamento di quel desiderio, o meglio l'appagamento allucinatorio di un desiderio rimosso. Ciò che il sognatore ricorda, al risveglio, è il contenuto maniftsto del sogno; attraverso l'analisi delle associazioni legate ad ogni singolo elemento del sogno si arriva alla ricostruzione del contenuto latente, costituito da pensieri onirici latenti. Il processo di trasformazione dei pensieri onirici latenti viene chiamato lavoro onirico. Per il loro rapporto con la vita vigile, i pensieri onirici latenti investono anche i cosiddetti residui diurni; dal lavoro onirico essi vengono condensati in modo peculiare, mediante lo spostamento di accento da elementi significativi su elementi apparentemente senza senso; vengono deformati, preparati per la rappresentazioni in immagini visive, e prima che si giunga al sogno manifesto sono soggetti ad una elaborazione secondaria, che al nuovo agglomerato presta un senso plausibile. Dal lavoro onirico deriva l'assurdità, la stranezza e l'irriconoscibilità del contenuto manifesto del sogno. In particolare il tratto di ·pensieri che dà origine al sogno subisce una serie di trasformazioni non più riconoscibili come processi psichici normali: una serie di pensieri « corretta» è stata tradotta in sogno mediante un trattamento « scorretto »: la condensazione agisce mediante la formazione di compromessi, mediante associazioni superficiali, mediante occultamento delle contraddizioni e procedendo nel senso della regressione. Il sogno quindi non solo può venir trattato come un sintomo, ma anche una volta scomposto nei suoi elementi si rivela costruito come un sintomo. 1 Poiché esiste piena identità tra le peculiarità del I Come il sintomo il sogno si avvale quindi dell'espressione indiretta e in particolare della rappresentazione per simboli. È questo un elemento che gli allievi di Freud e la cultura dei primi decenni del secolo assorbirono enfatizzandolo sino a giungere alla costituzione di una specie di iconografia statica (vedi ad es. gli archetipi di Jung), mentre Freud avvertiva che l'interpretazione di
ogni allusione simbolica può essere raggiunta soltanto attraverso l'indagine dei nessi che legano l'oggetto vero e proprio e il simbolo che ne fa le veci: se tra i simboli utilizzati, ve ne sono molti che regolarmente o quasi significano la stessa cosa, non si deve tuttavia dimenticare la straordinaria plasticità del materiale psichico che fa si che il simbolo non abbia mai un significato univoco e si
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lavoro omnco e quell'attività psichica che sboc~ nei sintomi nevrotici, Freud deduce che una tale elaborazione psichica si verifica solo quando quest'ultima è « traslazione di un desiderio inconscio che deriva dal materiale infantile che si trova in stato di rimozione ». Poiché il sogno non è un fenomeno patologico, dobbiamo dedurne che il meccanismo psichico di cui si serve la nevrosi non viene creato da una alterazione patologica che colpisce la vita psichica, ma si trova già pronto nella struttura normale dell'apparato psichico. Riportiamo un brevissimo e sintetico esempio di sogno e della sua interpretazione. «Il sogno consiste solo di due brevi immagini: " Suo zio fuma una sigaretta, benché sia sabato. Una donna carezza il sognatore e lo coccola come fosse suo figlio ". Riguardo la prima immagine, il sognatore (ebreo) osserva che suo zio è un uomo pio, che non ha mai commesso e mai commetterebbe una cosa così peccaminosa. Riguardo la donna della seconda immagine, non gli viene in mente nient'altro che sua madre. Queste due immagini, o pensieri, sono evidentemente da porre in rapporto tra loro. Ma come? Dal momento che egli ha espressamente contestato la realtà dell'azione dello zio, viene spontaneo introdurre un " se ". " Se mio zio, quel sant'uomo, fumasse una sigaretta di sabato, allora anch'io potrei farmi coccolare dalla mamma." Ciò significa evidentemente che anche essere coccolato dalla madre è qualcosa di illecito, come il fumare di sabato per l'ebreo devoto. » L'interpretazione ha reinserito la relazione fra pensieri onirici che sono stati omessi dal processo di lavoro onirico, mostrando quale sia il contenuto latente celato nel contenuto manifesto. Nell'Interpretazione dei sogni il primo esempio pratico, molto articolato e complesso, di un lavoro analitico di tal genere viene compiuto su di un sogno di Freud stesso. È questa una peculiarità del libro, poiché il materiale a sostegno della teoria scientifica che vi viene esposta è costituito da sogni dell'autore (perlopiù falsati per motivi di riservatezza). È vero che i sogni dei pazienti non possono essere riportati senza la storia della loro nevrosi con cui sono in stretto rapporto, e che inoltre possono essere considerati fenomeni abnormi in quanto sognati da persone malate, è vero anche che non è possibile utilizzare i sogni riportati dalla letteratura mancando il contesto associativo che solo permette di giungere al significato, ma è anche vero che la genesi di quest'opera singolare, che dall'indagine di una situazione psicologica apparentemente marginale quale quella del sogno trae ipotesi generali sul funzionamento della psiche umana, ha profonde radici nell'autoanalisi di Freud. Leggiamo nella prefazione: «Questo libro ha inpossa sempre rintracciare una motivazione individuale accanto a quella valida in modo tipico. Casi in cui la scelta di un simbolo appare enigmatica indicano che Il rapporto simbolico è di natura genetica. « Ciò che oggi è legato simbolicamente, in
epoche remote era probabilmente legato da identità concettuale e linguistica. Il rapporto simbolico sembra un residuo e un contrassegno di una arcaica identità. »
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fatti per me un altro significato soggettivo, che mi è riuscito chiaro, solo dopo averlo portato a termine. Esso mi è apparso come un brano della mia autobiografia, come la mia reazione alla morte di mio padre, dunque all'avvenimento più importante, alla perdita più straziante nella vita di un uomo. » La genesi della teoria analitica appare quindi intimamente legata alla persona di Freud, ma la sua generalità è basata sulla fondamentale uniformità dei processi che si svolgono nella psiche umana. Nell'interpretare il sogno, nel mostrare cioè la realtà che gli sta dietro e che in esso si esprime, Freud ha acquisito all'esplorazione scientifica un nuovo territorio: quello dell'inconscio, con ciò imprimendo un carattere ineliminabile all'indagine analitica, poiché suo strumento è necessariamente la persona nella sua totalità: come è necessario analizzare se stesso per analizzare gli altri, così è impossibile conoscere senza conoscersi, ed ogni opacità della propria persona diviene sordità agli altri, poiché solo in costante riferimento con il proprio inconscio è possibile comprendere l 'inconscio degli altri. Sulla realtà dell'inconscio, per sua intima natura altrettanto sconosciuta quanto quella del mondo esterno, e a noi presentata dai dati della coscienza in modo altrettanto incompleto quanto il mondo esterno dall'indicazione dei nostri organi di senso, è lecito fare ipotesi sotto l'esigenza di una interpretazione dei dati, allo stesso modo che la necessità di una spiegazione dei dati sensibili giustifica le ipotesi sulla costituzione della materia. In questa direzione l'interpretazione dei sogni è la via regia che porta alla conoscenza dell'inconscio nella vita psichica. L'inconscio negli studi sull'isteria era configurabile come un precipitato di oscure sensazioni penose da riportare alla luce della coscienza; dall'interpretazione dei sogni emerge una più vasta realtà che preme ed orienta gran parte della vita cosciente. Dal fatto della deformazione subita dal contenuto latente del sogno per divenire manifesto, Freud ipotizza l'esistenza di forze psichiche di cui una plasma il desiderio onirico (cioè il contenuto latente che prima del lavoro analitico è inconscio) mentre l'altra censura, dissimula il desiderio determinandone così l'accesso alla coscienza (nella forma del contenuto manifesto). «Riveliamo con ciò una ben determinata concezione dell' "essenza" della coscienza, il diventar cosciente è per noi un particolare atto psichico, diverso e indipendente dal processo di fissazione e rappresentazione, e la coscienza ci appare come un organo di senso che percepisce un contenuto che si dà altrove.» Ne deriva una concezione dell'apparato psichico quale strumento composito, le cui componenti Freud denomina sistemi: se schematicamente un processo psichico decorre dall'estremità percettiva a quella motoria, Freud assimila il sistema conscio alla percezione e accanto all'estremità motoria pone il sistema preconscio (cioè il patrimonio mnestico delle esperienze percettive passate che non essendo immediatamente presenti alla coscienza sono suscettibili di diventarlo senza subire modifiche), e dietro di esso pone il sistema inconscio, tutto ciò a cui l'accesso alla coscienza viene impedito o viene concesso solo a prezzo di profonde trasformazioni.
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Negli studi sull'isteria, il primo modello della rimozione ci era fornito dall'allontanamento dalla memoria di un evento penoso, ma ora per meglio esplicitarne il meccanismo Freud avanza la fondamentale ipotesi dell'esistenza di due processi che si attuano nell'apparato psichico e che corrispondono grosso modo . all'attività dei due sistemi dell'inconscio e del preconscio. L'attività del primo sistema, chiamata processo primario, consiste nella ricerca di soddisfacimento attraverso il libero deflusso dell'eccitamento secondo un decorso rigidamente regolato dalla percezione di piacere e dolore. Questo primo sistema può solo desiderare e costituisce il nucleo della nostra essenza: gli impulsi di desiderio provenienti dalla vita infantile. Dalla incapacità del sistema primario di provocare la cessazione del bisogno che è alla base del desiderio si sviluppa il processo secondario, che, per utilmente trasformare il mondo esterno, ostacola il deflusso dell'eccitamento, sottraendosi . parzialmente all'esclusiva regolazione del principio di piacere/dolore e sostituendo all'identità di percezione una identità di pensiero. Nel corso dello sviluppo l'appagamento degli indistruttibili desideri dell'infanzia può entrare in tale contraddizione con le rappresentazioni finalizzate del pensiero, da trasformare in dolore lo stato affettivo di piacere ad esso legato: è questa l'essenza della rimozione. Si è visto che gli impulsi di desiderio sessuali derivati dall'infanzia dopo essere stati sottoposti a rimozione possono tentare di riemergere alla coscienza e che il sintomo nevrotico rappresenta la soluzione di compromesso del conflitto cosi scatenatosi: il sogno dimostra che il materiale represso continua a sussistere anche nell'uomo normale e che esso rimane capace di prestazioni psichiche. Nel sogno le situazioni conflittuali hanno soluzioni drastiche ed elementari che la vita vigile rifiuta e che vengono rappresentate secondo modalità diverse da quelle del pensiero cosciente: il sogno rivela la storia arcaica individuale, nel sogno rivive il bambino con i suoi impulsi: quei desideri offensivi per la morale, ma impostici dalla natura, di cui viviamo inconsapevoli e la cui rivelazione distoglie il nostro sguardo dalle immagini dell'infanzia. L'Interpretazione dei sogni venne ignorata dagli ambienti scientifici, oppure considerata opera fantasiosa e ridicola alla stregua dei libri sui sogni « che si trovano nei cassetti delle cuoche »: in otto anni ne furono vendute 6oo copie. Da ipnotizzatore illusionista a indovino per cuoche, è forse difficile per noi immaginare a quale ostracismo totale fosse condannata la psicoanalisi nascente e il suo autore. Questa accoglienza poteva venir compresa da Freud come conseguenza necessaria delle fondamentali ipotesi analitiche: « La presunzione della coscienza che per esempio rifiuta il sogno con tanto dispregio, fa parte dei più robusti meccanismi protettivi previsti in noi contro l'infiltrazione dei complessi inconsci; ed è per questo che è così difficile convincere gli uomini della realtà dell'inconscio e insegnare loro a conoscere cose nuove, che contraddicano il loro sapere cosciente. » Ma questa accoglienza non poteva frenarlo: « Nessuno, però, vorrà attendersi che in quegli anni, in cui da solo rappresentavo la psicoanalisi, si fosse
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sviluppato in me un particolare rispetto per il giudizio del mondo o una tendenza alla remissività intellettuale. » Nell'Interpretazione dei sogni si può anche leggere la storia del distacco dai «padri scientifici », che tuttavia fu più rivoluzionario e nel contempo meno radicale di quanto apparisse. Ciò a cui Freud tendeva era la formulazione di una base teorica per le nuove scoperte che egli compiva in psicopatologia, per poter porre le basi di una teoria psicologica che tenesse conto dei peculiari caratteri dell'inconscio. L'esposizione più ampia di una siffatta teoria generale si trova nell 'ultimo capitolo dell'Interpretazione dei sogni: negli anni successivi ad essa verranno apportati pochi mutamenti. La grande speranza dell'epoca (e come abbiamo visto dello stesso Freud) era che il progredire delle conoscenze nel campo della fisiologia cerebrale avrebbe permesso di chiarire e descrivere in termini fisiologici i processi psichici, ma da Breuer Freud aveva imparato che, fin che ciò non fosse stato possibile, aggirare le difficoltà sovrapponendo all'oscurità totale delle conoscenze un linguaggio estrinsecamente mutuato dalla fisiologia sarebbe stato un'inutile mascherata. I maestri attraverso cui Freud si emancipò da una concezione rigidamente neurologica, passando da una posizione di materialismo restrittivo ad un atteggiamento di più ampio empirismo e sperimentalismo, furono Charcot, Bernheim e Breuer. Si può notare d'altronde che il modello di apparato psichico che viene descritto nell'Interpretazione dei sogni è costruito su linee assai simili a quelle del mqdello fisiologico e che la terminologia usata si avvicina a quella della fisica, il linguaggio appunto dell'istituto di fisiologia di Briicke. Inoltre alle fondamenta delle concezioni di Freud ritroviamo come ineliminabile portato della sua formazione scientifica una fede mai scossa nella universalità delle leggi naturali, e la convinzione che la storia dell'uomo è una parte della storia della natura e che quindi i fenomeni psichici sono regolati da leggi altrettanto precise che quelle che determinano gli accadimenti fisici: nell'aver dimostrato il significato e il determinismo dei fenomeni psichici apparentemente più oscuri e arbitrari risiede gran parte del valore teorico e sperimentale della psicoanalisi per una teoria psicologica generale. In un'opera di poco posteriore all'Interpretazione dei sogni e che a differenza di quella ebbe un certo successo di pubblico, Zur Psychopathologie des Alltagslebens (Psicopatologia della vita quotidiana), Freud prendeva in esame una serie di disfunzioni momentanee di poco conto (quale il dimenticare nomi o cose, i lapsus linguae o calami, ecc.) e di azioni sintomatiche e casuali (il giocherellare con oggetti, canticchiare, ecc.) dimostrando che anch'esse esprimono impulsi e intenzioni rimosse, e hanno quindi per l'uomo «sano» lo stesso valore di formazioni sostitutive che i sintomi hanno per i nevrotici. Molte delle premesse teoriche delle scoperte di Freud sono comuni a. tutto l'ambiente scientifico in cui egli lavorava, né bisogna sottovalutare l'indubbia influenza di Fechner e quindi di Herbart: dai libri di testo ginnasiali a Meynert, Briicke, e Breuer, tutta la cultura psicologica con cui Freud venne in contatto
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è permeata di herbartismo, teoria in cui si ritrova l'affermazione dell'esistenza di uno psichismo inconscio, risultante dalla inconciliabilità di due rappresentazioni in base al fondamentale dualismo dei processi psichici. Ma scandaloso era il contenuto che veniva dato alla dinamica di questi processi: alla base della concezione di Freud è l'esplorazione e la descrizione in termini dialettici dei processi psichici: se il desiderio è l'unica forza motrice dell'apparato psichico, sono i bisogni materiali che determinano tutto lo sviluppo mentale costringendo al passaggio dall'appagamento allucinatorio (o regressivo, processo primario) alla modificazione del mondo esterno (processo secondario) : la vita psichica nasce quindi dal contrasto tra realtà e appagamento dei desideri, e quando tale conflitto diviene troppo doloroso interviene la rimozione che modifica però con il proprio intervento la struttura dell'io a cui viene occultata così parte della realtà del mondo o parte della realtà dei suoi desideri. Il senso di un sintomo scaturisce da questo conflitto tra realtà e desideri, intendendo per senso contemporaneamente il suo « da che cosa » ed il suo « verso che cosa », cioè gli eventi da cui trae origine e gli intenti a cui serve. Tali eventi, con « regolarità sorprendente », risultano essere il soddisfacimento di desideri sessuali, o meglio il sostituto di quel soddisfacimento di cui il nevrotico è privato nella vita reale. Più precisamente i sintomi mirano ad un soddisfacimento sessuale (vedi soprattutto isteria) e ad una difesa dallo stesso (vedi soprattutto nevrosi ossessiva) o ad entrambe le cose, sono cioè risultanti da un compromesso e fanno le veci sia di ciò che viene rimosso sia della forza che rimuove e che ha cooperato alla loro formazione. Poiché i sintomi non offrono alcun reale soddisfacimento, ma si limitano a ravvivare una situazione, una sensazione o una fantasia il cui rapporto con la vita sessuale è stato cancellato, e poiché inoltre il preteso soddisfacimento sessuale a cui il sintomo allude mostra spesso un carattere infantile, tale che sembrerebbe dover essere piuttosto considerato come soddisfacimento di appetiti crudeli o mostruosi o addirittura innaturali, è necessario esaminare in che consista la vita sessuale. IV · LIBIDO, NEVROSI E
REALTÀ
Nel 1905 Freud pubblicò tre opere di grande importanza: Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten (Il motto di spirito e i suoi rapporti con l'inconscio), Bruchstiick einer Hysterie-Anafyse (Frammento di una analisi d'isteria), Drei Abhandlungen zur Sexualtheorie (Tre saggi sulla teoria della sessualità). Da una critica di Fliess, che notava come le interpretazioni dei sogni fossero assimilabili a motti di spirito e giochi di parole, Freud trasse lo spunto per analizzare i rapporti dei motti di spirito con l'inconscio, osservando che lo scopo del motto è quello di ottenere un peculiare piacere raggiungendo argomenti che sono stati soggetti a rimozione, mediante un procedimento i cui artifici hanno profonde
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analogie con il modo di funzionamento dell'inconscio, e che ricorda i giuochi dell'infanzia. Questo lavoro di Freud, il maggior suo contributo nel campo dell'estetica, venne ignorato dal pubblico ed è tuttora un libro poco letto e poco compreso. 1 Diversa sorte incontrarono le altre due opere: i Tre saggi furono fra tutte quelle che fecero più scalpore e che resero universalmente impopolare l'autore, accusato di possedere una mente fantasiosa, perversa ed oscena, accusa che venne aggravata da quella di aver violato l'obbligo del segreto professionale pubblicando la storia di una sua paziente, una giovanetta cui venivano attribuite tendenze per ogni genere di perversione sessuale. Il Frammento è infatti la storia di un caso clinico (trattato da Freud nel 1900 e divenuto poi famoso come quello di Dora), attraverso cui vengono esaminati i rapporti tra sogni e sintomi nevrotici e la loro comune origine nell'infanzia. Poiché i processi nevrotici, come quelli onirici, fornivano importanti contributi alla teoria generale della struttura psichica, Freud aveva pensato in un primo tempo ad un capitolo aggiuntivo alla Interpretazione dei sogni (« Sogni e isteria»), che eliminò poi per non interrompere la linearità dell'argomento; la storia di Dora è quindi la continuazione dell'Interpretazione dei sogni, e si impernia su due sogni che all'analisi manifestano la loro interdipendenza con i sintomi e i conflitti della paziente. Nei Tre saggi troviamo per la prima volta la « teoria della libido », o studio delle manifestazioni della funzione sessuale e delle complesse vicissitudini che essa può attraversare nel corso del suo sviluppo, studio i cui inizi risalgono al r 890 e che già prima della fine del secolo (come testimoniano le lettere a Fliess) aveva portato Freud alla scoperta di tutte le fasi essenziali dello sviluppo sessuale e alla rivoluzionaria affermazione che « il bambino ha i suoi istinti e le sue attività sessuali sin dall'inizio, li porta con sé venendo al mondo, e da essi, attraverso uno sviluppo significativo, ricco di tappe, emerge la cosiddetta sessualità normale dell'adulto ». Le tesi di Freud sulla sessualità infantile, fondate in un primo tempo quasi esclusivamente sui risultati delle analisi di adulti, retrocedenti verso il passato, suscitarono scalpore, scandalo, derisione e furono uno dei punti su cui più si basarono le resistenze contro la psicoanalisi. Fu quindi considerato un trionfo, anni dopo, il fatto che fosse possibile confermare questi risultati mediante l'analisi e l'osservazione diretta dei bambini: « un trionfo che gradualmente fu sminuito dalla considerazione che la scoperta era di tal fatta che in fondo bisognava vergognarsi di averla fatta», tanto era «ovvia». Lo scandalo nasceva inoltre dal fatto I Più noti sono altri sconfinamenti di Freud nel mondo della creazione artistica: il felice saggio sulla Gradiva, « nato in giornate luminose » (Der Wahn und die Trliume in W. ]enrenr « Gradiva» [Delirio e rogni nella « Gradiva» di W. Jenren, I 907]), l'analisi di Bine Kindheitrerinnerung der Leonardo
da Vinci (Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci, I9Io), e altri su Goethe, Shakespeare, Dostojevskij, ecc. Dedicata alle applicazioni non mediche della psicoanalisi fu la rivista «)mago», fondata nei I9II.
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che- al contrario di quanto avveniva nelle opere sessuologiche dell'epoca, in cui l'elenco delle perversioni rassicurava il lettore che nel confronto traeva una conferma della propria buona salute - nello scritto di Freud veniva abbattuta la frontiera fra normalità e perversione e soprattutto fra la sessualità dell'adulto e la pretesa innocenza del bambino. Se per convenzione si considera sessualità normale l'attrazione di un sesso verso l'altro, in individui adulti, allo scopo di raggiungere l'appagamento sessuale con il contatto dei genitali nel coito, Freud distingue le deviazioni della pulsione sessuale a seconda che riguardi l'oggetto e lo scopo, e nota come tali deviazioni siano presenti anche nella vita sessuale normale, tanto che, se non si comprendono queste forme morbose della sessualità e non si mettono in relazione con la normale vita sessuale, non è possibile comprendere quest'ultima, in quanto ciò che caratterizza le manifestazioni patologiche è la loro esclusività e la loro fissazione. Quando si afferma che i sintomi nevrotici assumono una funzione di soddisfacimento sessuale sostitutivo si devono considerare anche i cosiddetti bisogni sessuali perversi. Nelle nevrosi, anzi, si possono ravvisare quali formatrici dei sintomi le stesse componenti istintive delle perversioni, che nel nevrotico al contrario che nel pervertito agiscono nell'inconscio, hanno cioè subito una rimozione; le nevrosi sono in certo qual modo il negativo delle perversioni, sono cioè una difesa incompleta di fronte al premere di pulsioni sessuali che hanno il carattere delle perversioni. Ad un'idea convenzionale di una sessualità che appare con caratteri univoci e determinati in un preciso periodo della vita umana, Freud oppone il concetto di pulsione sessuale tendente alla ricerca di soddisfacimento dal momento della nascita, e destinata a passare attraverso stadi intermedi, prima di servire alla riproduzione; una sessualità quindi non strettamente dipendente dagli organi genitali, ma che può essere considerata funzione corporale di tutto l'uomo, suscettibile quindi di una complicata evoluzione. Come ogni processo di sviluppo anche quello così intricato della funzione sessuale può essere inibito, ritardato o svolto in maniera incompleta: la predisposizione alla nevrosi è anzi riconducibile ad un'offesa dello sviluppo sessuale. Freud chiama libido l'espressione dinamica dell'impulso sessuale nella vita psichica, e nota che è composta da impulsi parziali, in cui può sempre nuovamente scomporsi e che soltanto gradualmente si riuniscono in determinate organizzazioni o fasi. Fonte di questi impulsi parziali è un qualsiasi eccitamento proveniente dal corpo, in particolare da alcune precise zone erogene; meta è l'acquietamento di tale eccitazione. Se si osservano con imparzialità le manifestazioni della. sessualità infantile, si può notare che la pulsione sessuale è altamente composita, che ogni singola componente persegue il raggiungimento del piacere indipendentemente da ogni altra, che la funzione sessuale si appoggia dapprima su altre funzioni (ad esempio quella alimentare) importanti per la conservazione della vita, che l'attività sessuale è prevalentemente autoerotica, ma anche rivolta all'esterno, verso oggetti di cui non il sesso ha importanza, ma il loro 334
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originario rapporto con l'istinto di conservazione (donde la celebre affermazione di Freud «il bambino è un perverso polimorfo »). Attraverso un complicato processo la funzione sessuale si rende indipendente dalle altre funzioni e viene respinta la scelta autoerotica, sino al raggiungimento della sessualità adulta. Primo gradino della organizzazione sessuale infantile è quello orale, in cui conformemente all'interesse primario del poppante la zona orale sostiene la parte principale. Il piacere del succhiare può separarsi dal bisogno di assunzione di cibo, anzi si scinde inevitabilmente quando spuntano i denti: il bambino per succhiare non si serve di un oggetto esterno, bensì di un punto del proprio corpo, perché questo è più comodo e perché ciò lo rende indipendente dal mondo esterno che egli non è ancora in grado di dominare. A questa fase segue l'organizzazione sadico-anale, così chiamata perché la zona erogena principale è l'ano ed è legata ad un comportamento aggressivo del bambino; anche questa fase si appoggia su di una funzione fisiologica essenziale, ed è autoerotica giacché si astiene da qualsiasi oggetto sessuale. Il terzo e definitivo gradino di organizzazione consiste nella raccolta della maggior parte degli impulsi parziali sotto il primato della zona genitale: come gli altri impulsi parziali anche quelli della zona genitale passano generalmente per un periodo di intenso soddisfacimento autoerotico (verso i due-quattro anni) di particolare significato per lo sviluppo successivo. In epoca successiva tra la fase anale e quella genitale Freud ritenne di dover considerare una fase fallica (verso i due-tre anni) molto simile alla struttura sessuale definitiva e fase suprema della sessualità infantile, in cui bambino e bambina hanno cominciato a porre la loro attività intellettuale al servizio dell'indagine sessuale, ambedue partendo dal presupposto della presenza generale del pene. È il momento della fioritura delle teorie sessuali infantili, originate dall'oscurità in cui viene lasciata questa parte della vita umana e dalla gelosia del bambino nei confronti di possibili rivali; queste teorie infantili sono alla base delle fantasie di soddisfacimento sessuale infantile e si :ritrovano nelle fantasie patologiche dei nevrotici. A partire da questo momento i destini del bambino e della bambina si dividono. Dal punto di vista della scelta oggettuale il bambino entra nella fase edipica, comincia l'attività sessuale sul pene, accompagnata da fantasie di una qualsiasi attività di esso sulla madre, sua prima seduttrice nelle cure del corpo che egli cerca ora di sedurre. In una parola: la sua virilità precocemente ridestata cerca di sostituire presso la madre il padre, che era già stato suo modello invidiato, a causa della forza fisica che egli sente in lui, dell'autorità di cui lo trova investito. Adesso il padre è il rivale che gli sbarra la strada e che egli vorrebbe eliminare. In seguito, sotto l'effetto parallelo di una minaccia di castrazione reale o immaginaria (come punitiva conseguenza della sua masturbazione e della sua rivalità verso il padre) e della visione della mancanza del pene nella donna, subisce il grande trauma della sua vita che introduce il periodo di latenza con tutte le sue conseguenze: il timore di castrazione pone fine al conflitto edipico. Non così nella bambina, che dopo un vano tentativo di eguagliare il bambino, spe-
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rimenta la conoscenza della propria mancanza del pene o per meglio dire dell'inferiorità del clitoride con conseguenze durature per lo sviluppo del suo carattere, e spesso in seguito a questa prima delusione nella rivalità con il bambino la bambina si distoglie per la prima volta dalla vita sessuale. Un altro fattore di questo allontanamento è la difficile evoluzione degli investimenti oggettuali: data la pregnanza dell'attaccamento preedipico alla madre la bambina viene sospinta nel conflitto edipico dopo la scoperta della mancanza del pene e in conseguenza di essa; con il volgere del tempo la bambina dovrebbe quindi cambiare zona erogena ed oggetto, mentre il bambino li mantiene entrambi per tutto il corso della vita. L'allontanamento della bambina dalla vita sessuale viene poi rinforzato in epoche successive da tutto il peso delle convenzioni sociali morali e religiose e può portare la donna a maggiore inibizione sessuale, predisponendola quindi alla nevrosi e determinando una inibizione generale delle capacità intellettive. Nella pubertà, dopo un periodo di latenza dello sviluppo sessuale, si giunge alla fase genitale in cui molte cariche libidiche dell'infanzia sono rimaste conservate, altre vengono assunte nella funzione sessuale come atti preparatori, di sostegno (baci, carezze ecc.), altre ancora vengono escluse in quanto o soppresse (rimosse) oppure trasformate (in particolare quelle anali formano tratti del carattere), altre infine vengono sublimate andando incontro a spostamenti di scopo. Tutta l'esperienza infantile subisce una rimozione estremamente energica e, nel modo in cui le leggi dell'inconscio lo permettono, tutti gli impulsi affettivi contrastanti e le reazioni allora attivate restano nell'inconscio, incombenti a disturbare lo sviluppo ulteriore. Il processo somatico della maturazione sessuale ravviva le antiche fissazioni libidiche: a questo punto si svolgono processi emotivi molto intensi nella direzione del conflitto edipico o in reazione ad esso, e a partire da questo momento l'individuo umano deve dedicarsi al difficile compito di svincolarsi dai genitori e solo dopo la soluzione di questo compito può cessare di essere un bambino e diventa un membro della comunità sociale. Se ciò non avviene, la vita sessuale si rivelerà inibita, non unitaria, si frammenterà in aspirazioni contrastanti: si può parlare allora di infantilismo sessuale, situazione privilegiata per l'emergere di conflitti e quindi di soluzioni nevrotiche. Una inibizione totale dello sviluppo comporta la fissazione della libido su stati di fasi anteriori a quella genitale; se i processi di sviluppo avvengono in maniera incompleta, si ha una organizzazione genitale labile, di conseguenza in caso di difficoltà di appagamento la libido tende a tornare alle cariche pregenitali anteriori (regressione); a seconda che questi eventi siano accompagnati da rimozione o restino coscienti si ha nevrosi o perversione. Il punto culminante della vita sessuale infantile, il centro da cui partono gli sviluppi ulteriori è la risoluzione del conflitto edipico, ineliminabile « finché la comunità conoscerà soltanto la forma della famiglia », conflitto a cui il nevrotico resta attaccato, mentre nell'uomo sano gli investimenti oggettuali infantili rivivono solo nottetempo nei sogni perversi, incestuosi, omicidi. Come abbiamo visto
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l'eziologia della nevrosi va ricercata nella storia evolutiva, cioè nell'epoca primitiva dell'individuo, ma non esiste una causa specifica o un contenuto specifico della nevrosi: i nevrotici soccombono al peso di circostanze che i normali riescono a dominare felicemente in virtù, oltre che della possibilità di soddisfacimento reale, della mobilità della libido rispetto alle mete e agli oggetti e quindi delle capacità di sublimare tendenze sessuali non soddisfacibili. La nevrosi dipende da relazioni dinamiche e quantitative: i casi di malattia nevrotica si dispongono in una serie nella quale i due momenti della fissazione rigida della libido e della frustrazione causata dall'impossibilità di soddifacimento reale sono disposti in modo tale che quando uno cresce l'altro diminuisce: da una parte si hanno gli individui che per il singolare sviluppo della loro libido sono in grado di sopportare quantità minime di frustrazioni e che quindi si sarebbero comunque ammalati, dall'altra persone che in circostanze più favorevoli non avrebbero avuto necessità di rifugiarsi nella malattia. . La psicoanalisi considera quindi il fenomeno delle nevrosi e la vita psichiCa in generale da tre punti di vista: quello dinamico, quello topico e quello economico. Da un punto di vista dinamico essa riconduce tutti i processi psichici al gioco· di forze che si potenziano o si inibiscono, si associano o entrano in compromesso tra; loro: forze di provenienza organica, che scaturiscono da una grande riserva di energia somatica, in quanto tensioni di bisogno, e sono psichicamente rappresentate in immagini o idee con cariche affettive. Sono le pulsioni: le richieste che il corpo pone alla vita psichica. Dapprima sulla base dell'analisi empirica Freud credette opportuno distinguere due gruppi di pulsioni: le pulsio?i dell'io, la cui . meta è l'autoaffermazione (o meglio la conservazione individuale) e le pulsioni sessuali (o libidiche). Qui preme sottolineare il fatto che non solo Freud cambierà posizione su questo particolare punto della sua teoria, ma che inoltre considerò questa distinzione un'ipotesi di lavoro lecita in quanto nata dallo sviluppo storico della psicoanalisi, ma passibile di v:enir abbandonata per una diversa formula con cui raggruppare le pulsioni fondamentali, nel caso che questa meglio rispondesse alla necessità di generalizzazione teorica. La concezione delle nevrosi che risulta da questa sistematizzazione è la seguente: le nevrosi sono l'espressione di conflitti tra le pulsioni dell'io e le pulsioni sessuali, qualora queste appaiano inconciliabili con l'integrità dell'io: le pulsioni sessuali vengono colpite dalla rimozione con intensità massima, ma proprio nellor9 caso è più probabile che la rimozione fallisca, portando ad un soddisfacimento surrogativo della sessualità rimossa e ad un sistema permanente di difesa c~ntro ie. tendenze rimosse. Poich~ nessun'altra funzione nel corso dello sviluppo della ~iviltà ha subito un rifiuto così energico e così ampio come appunto la funzione sessuale, si può affermare che il punto debole dell'organizzazione dell'io risiede nel suo rapporto con la funzione sessuale quasi che l'antagonismo biologico tra la conservazione individuale e la conservazione della specie avesse qui trovato espressione psicologica. 337
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Il punto di vista economico o quantitativo ipotizza che l'apparato psichico tende a mantenere costante la somma delle eccitazioni che lo aggravano mediante la scarica dei bisogni pulsionali. Rifacendosi alla distinzione fra processi primari e secondari sviluppata nell'Interpretazione dei sogni, Freud nota che il passaggio dal principio di piacere al principio di realtà quale regolatore dell'attività psichica non si effettua in una volta sola e sincronicamente per le pulsioni dell'io e le pulsioni sessuali. Mentre la necessità di un adeguato rapporto con il mondo esterno determina una più stretta relazione fra le pulsioni dell'io e l'attività della coscienza, le possibilità di un appagamento autoerotico e il periodo di latenza fanno sì che la pulsione sessuale venga trattenuta nel suo sviluppo e rimanga molto più a lungo sotto il dominio del principio di piacere. Ciò crea uno stretto legame fra la pulsione sessuale e le fantasie e rende difficile nell'analisi delle nevrosi la distinzione fra le fantasie inconscie e gli eventi reali, poiché la realtà di pensiero è trattata come realtà di fatto. Ne deriva il particolare rapporto che l 'io nevrotico ha con la realtà: poiché non può fuggire da se stesso, esso tende a schivarne determinati elementi e a proteggersi da un incontro con essi, eventualmente sostituendo una parte indesiderata con una desiderabile fantasticata. Da questa evasione dalla realtà deriva all'io un certo tornac~>nto della malattia che rafforza le resistenze contro la guarigione; ma poiché liberarsi dal danno dei sintomi e mantenere il « guadagno » della malattia è impresa impossibile, il primo brano di realtà che il nevrotico deve accettare di riconoscere è la sua nevrosi stessa. Il punto di vista topico concerne il rapporto fra i sistemi psichici (inconscio, preconscio e conscio) e sarà ulteriormente arricchito negli anni successivi, con la scomposizione della personalità in tre istanze (io, superio, es). In quello che può essere chiamato il secondo periodo della storia della psicoanalisi, l'approfondimento di questi temi porterà a nuove acquisizioni e in particolare alla rielaborazione della teoria delle pulsioni, lo studio sul narcisismo e l'applicazione della psicoanalisi alle psicosi; esempi classici della finezza di analisi di Freud sono le storie cliniche che egli pubblicò in quegli anni. V · IL MOVIMENTO PSICOANALITICO
Dopo anni di lavoro solitario cominciarono a formarsi discepoli e collaboratori i cui contributi arricchirono in parte il patrimonio delle conoscenze psicoanalitiche, ma spesso furono l'occasione di contrapposizioni e di approfondimento delle posizioni di Freud; tali furono ad esempio i lavori sul simbolismo di Stekel, sulla psicologia dell'io di Adler e sulla libido di Jung. Nel 19oz, in occasione della nomina a professore straordinario dell'università di Vienna, Freud scrisse l'ultima lettera prima della definitiva rottura al suo« unico pubblico», W. Fliess: il loro distacco sembrava originato da un conttasto sulla valutazione del ruolo sostenuto dalla costituzione bisessuale dell'uomo nella ezio-
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logia della nevrosi, ma corrispondeva al bisogno di Freud di emanciparsi intellettualmente ed affettivamente da un amico la cui personalità e i cui lavori scientifici erano stati da lui in gran parte sopravvalutati. Ciò dipendeva dal rapporto tipicamente di traslazione che Freud aveva instaurato con lui: l'« altro» attraverso cui egli visse e decifrò i propri conflitti fu Fliess, ma quando quegli, lungi dal poter cogliere la propria reazione affettiva (fenomeno che la psicoanalisi chiama controtraslazione), divenne inconsciamente ostile al travaglio di Freud, lo scioglimento del nodo d'intensi e ambivalenti sentimenti, attraverso il chiarimento delle loro radici inconscie, dissolse anche il vincolo dell'amicizia. Negli stessi anni attorno a Freud cominciò a raccogliersi una piccola cerchia di amici e studenti che seguivano un corso di lezioni da lui tenuto all'università e con cui egli discuteva i progressi compiuti nella comprensione delle psiconevrosi e del sogno; contemporaneamente all'estero venivano tradotti alcuni suoi articoli e le riviste di psichiatria recensivano le sue opere riportandone anche lunghi resoconti; era insomma la fine di un lungo periodo di isolamento. Non è possibile stabilire l'anno di nascita della Società psicologica del mercoledì che raccolse i primi seguaci di Freud, fra cui Wilhelm Stekel (I868-I94o), Alfred Adler (I87o-I937), Otto Rank (I886-I939), ed altri che sostennero poi parti significative nello sviluppo del movimento psicoanalitico; la società venne sciolta nel I 908 per ricostituirsi subito dopo con il nome assai più celebre di Società psicoanalitica di Vienna. Il numero dei seguaci aumentava ogni anno, e questo in parte risarciva Freud del rifiuto oppostogli dalla scienza tedesca, di cui non poteva giustificare «l'eccesso di superbia, il ripudio più completo della logica, la grossolanità, il cattivo gusto». Molto pesava a Freud il fatto che la psicoanalisi per motivi storicamente comprensibili si diffondesse soprattutto negli ambienti degli intellettuali ebrei, per cui accolse con grande esuJtanza la notizia che Eugen Bleuler (I 8 57I939), direttore della clinica universitaria del famoso ospedale psichiatrico di Zurigo, il Burgholzli, al quale si deve il termine schizofrenia, e il suo assistente Carl Gustav J ung (I 87 5- I 96 I) si occupavano di psicoanalisi e ne ricercavano le possibili applicazioni in campo psichiatrico. Jung in particolare sembrava interessato ad una convalida sperimentale delle teorie analitiche, fatto che all'inizio entusiasmò Freud, il quale sentiva molto la mancanza di una base sperimentale che le sue prime ricerche al laboratorio di Briicke gli facevano considerare come unica base di una teoria scientifica. Gli esperimenti associativi di Jung 1 e l'opera che egli ne ricavò, Diagnostische Assoziationsstudien (Studi diagnostici sulle associazioni, I9o6), contribuirono a diffondere le teorie psicoanalitiche e costituirono una riprova spe1 Il metodo degli« esperimenti associativi» venne perfezionato da Jung sulla base delle ricerche della scuola di Wundt per lo studio delle associazioni e applicato alla diagnosi della demenza precoce. Esso consiste nel proporre. « parolestimolo » a cui il soggetto deve reagire con « pa-
role-risposta ». Valutando la velocità e la qualità delle risposte si notano perturbazioni o « indici di complessi », che denotano un legame tra la parolastimolo e i contenuti affettivi connessi con problemi profondi del soggetto.
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rimentale della tendenziosità del meccanismo della memoria (e quindi delle lacune della teoria associazionistica) e dell'esistenza di materiale rimosso sotto forma di ciò che veniva chiamato « complesso affettivo », espressione che ebbe grande fortuna, ed è entrata nel linguaggio comune ancorché usata in modo scorretto rappresentando pressappoco tutto ciò che il grande pubblico sa di Freud. Il 2.6 aprile I9o8 si tenne a Salisburgo il primo congresso internazionale di psicoanalisi; insieme ad altri ed ai già citati vi parteciparono Karl Abraham (I877-I92.5), Sandor Ferenczi (I873-I933), Max Eitingon (I88I-I943), Ernst J o n es (I 879- I 9 56); venne deciso di fondare una rivista, la prima interamente dedicata alla psicoanalisi: « Jahrbuch fiir psychoanalitische und psychopathologische Forschungen » («Annali di studi psicoanalitici e psicopatologici ») che si estinse allo scoppio della prima guerra mondiale. Sempre in quegli anni Freud strinse con Oskar Pfister (I873-I956), pastore zurighese che applicò i principi psicoanalitici alla pedagogia, un'amicizia destinata a rimanere inalterata nel corso della vita nonostante grandi divergenze di opinioni su punti anche importanti della teoria analitica (e soprattutto sulla valutazione della religione). Su invito del preside della Clark University di Worcester nel Massachusetts, Stanley Hall (I884-I92.4) che aveva introdotto la psicologia sperimentale negli Stati Uniti, Freud si recò negli Stati Uniti, accompagnato da Jung e Ferenczi e tenne in quell'università (I909) un corso di lezioni che diede inizio a quella che fu la conquista dell'America da parte della psicoanalisi, uscita così dal ghetto viennese. Freud commenterà anni dopo la diffusione delle teorie psicoanalitiche in America con queste parole: « Disgraziatamente la nostra scienza ha però dovuto subire colà alcune ingiustificate attenuazioni, mentre, d'altra parte, cose che non hanno nulla a che fare con essa si coprono talora abusivamente del suo nome. » Ormai Freud aveva raggiunto la completa maturità e aveva affinato la sua tecnica sì da acquisirne una padronanza sempre maggiore; era inoltre iniziata quella fase di riconoscimenti ufficiali e di fama alla quale aveva aspirato durante tutta la sua adolescenza di studente povero, mantenuto dai parenti e dai professori. La sua vita ripeteva il modello dell'uomo di scienza del secolo scorso nell'operosità instancabile e nella morigeratezza dei gusti: in estate vacanze con la moglie e i sei figli, dedicate a lunghe passeggiate, ai fiori selvatici e ai funghi, molte letture, viaggi soprattutto nel sud dell'Europa e in particolare in Italia, negli altri mesi molte ore di lavoro al giorno, e la comunicazione, attraverso gli scritti, dei progressi del suo sapere. «Tutto ciò insieme all'armonia familiare rese i primi dieci anni del secolo i più felici della sua vita, furono anche gli ultimi perché furono seguiti da quattro anni di dolorosi dissensi con i collaboratori più intimi, dalla tristezza dalle angosce e dalle privazioni degli anni di guerra, dal crollo della moneta austriaca e quindi dalla perdita di tutti i risparmi e poco dopo dall'inizio di quell'atroce e torturante malattia che avrebbe finito per ucciderlo dopo sedici anni di sofferenze» (Jones).
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I turbamenti e le contrù'versie successive agli anni di lavoro solitario dettarono a Freud parole di rimpianto per « quel tempo bello ed eroico »in cui non era necessario leggere bibliografie ed ascoltare oppositori mal informati, ma solo contemplare le cose fino a quando non cominciavano a parlare da sole. Né la celebrità e la diffusione della teoria psicoanalitica diedero a Freud una gioia piena; il modo con il quale la gente accoglieva ora la psicoanalisi e se ne serviva, non gli recò soddi-sfazione maggiore rispetto a quando, senza comprenderla, la gente la respingeva. Se non sempre le vicende della Società furono quali egli le avrebbe auspicate, ciò dipendeva anche da cause che egli stesso poteva ben analizzare: non fu possibile stabilire tra i membri l'amichevole accordo che dovrebbe regnare tra uomini che svolgono lo stesso lavoro, né soffocare sentimenti di gelosia e invidia che si traducevano in fastidiose dispute di priorità particolarmente spinose in caso di lavoro comune. Ma soprattutto erano chiare le difficoltà dell'esercizio psicoanalitico, causa ancor oggi di dissidi, perché da una parte Freud presentava una tecnica incompiuta e in continua evoluzione, dall'altra la ricerca di autonomia dei collaboratori senza una severa disciplina e un'educazione all'autocontrollo portava ad errori e pericolose deviazioni. Solo più tardi fu infatti chiaro che i futuri analisti debbono assolutamente compiere un'analisi didattica per superare le resistenze alla comprensione dei conflitti che vivono personalmente, mentre in quel periodo si può dire che l'unico ad essere stato «analizzato» fosse Freud, attraverso quel salto al di fuori di se stesso che fu l'autoanalisi. Egli conosceva la tendenza a fuggire di fronte alle sgradevoli verità analitiche, che fa sì che nella comprensione di ciascuno non sia possibile andare oltre un punto determinato, ma Freud non si aspettava che amici ed allievi, che erano giunti a comprendere l'analisi fino ad un certo punto di profondità, potessero poi rinunciare alle proprie conquiste nella conoscenza, anche se il fenomeno non gli era ignoto. «Tuttavia l'esperienza quotidiana fatta sui malati aveva dimostrato che il rigetto totale delle conoscenze analitiche può partire da qualsiasi strato profondo nel quale si trovi una resistenza particolarmente forte; se nel caso di tale malato con lavoro faticoso siamo riusciti a far sì che egli comprenda parti del sapere analitico e le maneggi come suo patrimonio, ciò non toglie che alla prima resistenza egli mandi all'aria tutto ciò che aveva appreso e si ribelli come nel bel mezzo dei suoi giorni di noviziato. Dovetti apprendere che con gli psicoanalisti le cose possono andare come con i malati durante l'analisi.» Fu il destino di Adler e Jung. Le tappe delle defezioni dal movimento analitico coincidono con le date dei congressi indetti allo scopo di garantirne l 'unità e la forza. Il secondo congresso di psicoanalisi, tenuto nel 1910 a Norimberga, sancì la fondazione dell'Associazione psicoanalitica internazionale, in cui vennero riuniti i tre gruppi originari di Vienna, Berlino e Zurigo, e si concluse con la nomina, sollecitata da Freud, di Jung a presidente, nomina che acui in modo insanabile le tensioni fra psicoanalisti viennesi e zurighesi. Quale contropartita a questa elezione, Adler e Stekel otten341
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nero la fondazione a Vienna dell'organo dell'associazione, il « Zentralblati: fiir Psychoanalyse » («Gazzetta ufficiale di psicoanalisi») di cui Freud assunse la direzione; Adler abbandonò un anno dopo la redazione, e l'anno seguente Freud a causa di dissensi con Stekel, rimasto unico redattore, si vide costretto a creare un nuovo organo per la psicoanalisi con la « Internationale Zeitschrift fiir (artzliche) Psychoanalyse » («Rivista internazionale di psicoanalisi [medica]»). Ambizione di Adler era quella di fornire una teoria completa della vita psichica, del comportamento umano e della nevrosi secondo un ordinamento unitario dei fatti, ma le sue doti di penetrazione del materiale inconscio erano assai scarse, come d'altra parte le sue capacità teoriche. Nella elaborazione di un sistema di esplicazione unitaria egli giunse quindi ad inevitabili divergenze con la realtà dell'osservazione e ad un impoverimento della teoria psicoanalitica che si concluse con l'allontanamento dalle premesse stesse della psicoanalisi. La base di partenza del sistema adleriano fu il contributo che egli diede alla conoscenza della psicologia dell'io, contributo che la psicoanalisi non ha rinnegato anche se pone maggiore attenzione alle componenti libidiche inconsce, mentre la psicologia individuale adleriana pone a fondamento di tutto il comportamento umano l'autoaffermazione dell'individuo come «volontà di potenza» e «protesta virile» contrapposta all'inferiorità oggettiva o soggettiva derivata dall'infanzia, la deformità o il sesso femminile. Il sistema adleriano non vede la radice conflittuale e inconscia della nevrosi e del comportamento umano in generale e pretenderebbe reinterpretare i fatti sperimentali unicamente alla luce della psicologia dell'io (a cui vengono attribuite solo mete aggressive); in tal modo i fenomeni perdono il loro corporeo spessore per allinearsi in interpretazioni di superficie in cui l'io «sostiene la parte ridicola del pagliaccio che vuole convincere gli spettatori che tutti i cambiamenti del maneggio avvengono per i suoi comandi ». Adler costituì, prima del congresso di Weimar, tenuto nel 191 I, una Società per la libera psicoanalisi, ma né la sua defezione, né quella successiva di Stekel colpirono Freud così profondamente quanto la scissione operata da Jung, divenuta ufficiale durante il congresso di Monaco del 1913 e conclusa l'anno seguente con le dimissioni di Jung dalla carica di presidente e membro della società nonché di redattore dello« Jahrbuch ». Come già con Adler anche con Jung l'allontanamento dalla psicoanalisi prese l'avvio da un'acquisizione fatta per essa: la scoperta dell'analogia esistente fra le rielaborazioni simboliche delle fantasie sessuali dei nevrotici relative alla famiglia e alla scelta incestuosa dell'oggetto e le rappresentazioni simboliche delle istanze religiose ed etiche. Di fronte al pericolo di « sessualizzare » l'etica e la religione, data la loro inconfutabile connessione con il conflitto edipico, Jung preferì affermare che il conflitto edipico stesso andava inteso quale simbolo di esigenze etiche e religiose. Nel saggio sui simboli della libido, Wandlungen und Symbole der Libido (Trasformazioni e simboli della libido, 191 1-12), prima opera di Jung in cui si possono riscontrare questi elementi di deviazione, veniva affermato che per 342.
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libido si doveva intendere una «tensione generale» non sessuale, in cui la madre, il padre, i « complessi» erano figurazioni miticamente investite di significati eternamente dati e trascendenti. Con ciò si poteva evitare l'indagine sulla vita sessuale infantile ed attuale che Jung stesso confidava di trovare imbarazzante, per dedicarsi allo studio dell'archeologia e mitologia comparate. Condividendo le preoccupazioni di Freud sui destini della psicoanalisi e colpito dai recenti dissensi, Jones prese l'iniziativa di costituire un comitato ristretto, formato da analisti della vecchia guardia, degni di fiducia e strettamente uniti fra loro da vincoli di amicizia e lealtà che assumevano su di sé il compito di difendere la psicoanalisi nelle polemiche scientifiche e l'impegno di consultarsi reciprocamente prima di dissentire pubblicamente nel caso che uno di loro volesse mettere in discussione uno dei principi fondamentali delle teorie psicoanalitiche quali il concetto di rimozione, inconscio, sessualità infantile, ecc. Sensibile alla necessità di una politica culturale, Freud accettò la proposta; il comitato fu composto da Jones, Ferenczi, Abraham, Sachs, Rank, più tardi Eitingon e la figlia di Freud, Anna, ed entrò in funzione poco prima che la guerra ne disperdesse i membri per l'Europa. Prima della fine della guerra, per iniziativa di Anton von Freund (I88o192o) ricco industriale ed intellettuale ungherese, ultimo acquisto alla psicoanalisi, Freud poté inoltre realizzare un progetto a cui teneva molto: la fondazione di una casa editrice (l'Internationaler Psychoanalytischer Verlag) che doveva assicurare alla letteratura psicoanalitica completa indipendenza rispetto alla politica commerciale degli editori e conferirle una garanzia di autenticità di fronte al proliferare di pubblicazioni meno serie. Nonostante gravi difficoltà economiche e le crisi fra i collaboratori si può dire che con le cinque riviste e le centocinquanta opere edite in venti anni, il Verlag abbia assolto questo compito di direzione e orientamento della letteratura psicoanalitica. Contrariamente alle speranze di Freud, e soprattutto a quelle di J ones che vedeva nel comitato anche una cerchia di paladini a difesa del patriarca, questa iniziativa non evitò a Freud nuove perdite e nuove solitudini: Sachs, Rank e Ferenczi, allievi prediletti, lo abbandonarono e il comitato fu sciolto; ciò avvenne poco dopo le prime dolorose operazioni alla mascella per quel cancro che procurò a Freud sedici anni di continue torture, di recidive e interventi chirurgici (ben trentatré) che lo costrinsero a portare una protesi mostruosa che gli impediva di parlare e di mangiare se non con sforzi penosi. Freud commentò amaramente: « Ho sopravvissuto al comitato che avrebbe dovuto sucçedermi; forse sopravviverò all'Associazione internazionale. Spero solo che la psicoanalisi sopravviva a me. » Eppure il fatto che venisse abbandonato dai suoi più appassionati e fedeli discepoli nel momento di maggior fragilità non è del tutto casuale, ma è anzi da ricondurre alle tensioni di gelosia fra allievi mista alla venerazione e al non del tutto risolto rapporto di dipendenza che li legava al maestro. Negli anni avvenire accanto a Freud sarebbe rimasto solo J ones: Abraham e von Freund erano morti, e Eitingon emigrato a Gerusalemme. 343
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VI · NARCISISMO E METAPSICOLOGIA
Nel 1914 all'analisi delle prime deviazioni dalla teoria psicoanalitica Freud dedicò un saggio particolarmente polemico, la cui nota più importante consisteva nel cogliere le reali difficoltà di alcuni aspetti della teoria analitica dalle quali era mossa la polemica dei due dissidenti, pur rifiutandone i punti di arrivo frettolosi e le soluzioni superficiali. Questi due moti a ritroso avevano una caratteristica comune: quella di porre fine allo « scandalo della sessualità ». La reazione di Freud alle scissioni e alle divergenze che si verificarono nel biennio 1911-13 all'interno della Società di psicoanalisi non fu esclusivamente organizzativa e polemica, ma si manifestò soprattutto nell'approfondimento teorico e scientifico. Certamente collegato alle ricerche di Jung sulle rappresentazioni mitiche dei popoli primitivi è uno dei più discussi contributi di Freud: Totem und Tabu (Totem e tabu, 1912-13), studio che rifacendosi alle ipotesi darwiniane sull'orda primigenia, si basa sulla constatazione che i due principali divieti del totemismo (non uccidere il progenitore totem, non aver rapporti sessuali con una donna dello stesso clan totemico) coincidono quanto a contenuto con le idee e i desideri di cui è composto il conflitto edipico. Discutibili possono essere le conclusioni che Freud ne trae sull'accadimento storico dell'originaria uccisione del padre dell'orda e l'evocazione di questo evento quale lontano fatto traumatico nell'infanzia del-. l'umanità; inoltre sia le fonti sia gli strumenti teorici che Freud aveva a disposizione per affrontare tale complesso problema erano inadeguati, ma è di indubitabile valore euristico la coincidenza che egli trovava fra le finalità della nevrosi e quella del mito, della religione e della morale, quali tentativi di compensare tensioni di desiderio e bisogni non soddisfatti dalla realtà oggettiva. Questo atteggiamento verso la religione che Freud ribadirà più volte e in particolare nel 1927 in L'avvenire di una illusione (Die Zukuf!ft einer 1/lusion), è quindi opposto a quello misticheggiante di Jung; e discende invece dal coraggioso e desublimativo riconoscimento dello stato di bisogno e impotenza da cui nascono e di cui sono nutrite le illusioni. Inaspettata e conturbante per i suoi stessi collaboratori fu la svolta teorica determinata dalla pubblicazione nel 1914 di uno studio sul narcisismo che affrontava il controverso problema della libido. In polemica con Adler, che la considerava una forza di coesione sociale, e con Jung, che ne faceva un equivalente di energia psichica in generale, giungendo entrambi al risultato di desessualizzarla, Freud arriva ad nuova prospettiva del problema che, con l'approfondimento di alcune ipotesi generalizzanti, lo porterà a ristrutturare parte della sua dottrina. Freud notava che l'analisi delle nevrosi di traslazione 1 che aveva reso necessario 1 Freud considera nevrosi di traslazione l'isteria d'angoscia (caratterizzata soprattutto da fobie), l'isteria di conversione (caratterizzata da somatizzazioni) e le nevrosi ossessive (caratterizzate da comportamenti compulsivi), poiché in esse la
libido è investita su oggetti reali o immaginari. Nevrosi narcisistiche o psicosi sono la paranoia, la schizofrenia, la malinconia e la mania, poiché in esse la libido si ritira sull'io.
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distinguere gli investimenti energetici dell'io sugli oggetti dei suoi impulsi sessuali (o pulsioni sessuali) da tutti gli altri investimenti che provengono dalle pulsioni di autoconservazione (o pulsioni dell'io), aveva portato alla conoscenza delle vicissitudini del destino degli inve'stimenti libidici, mentre aveva lasciato in ombra l'io, o meglio, la sua'è:omposizione risultante da pulsioni diverse che non poteva venir compresa se non attraverso lo studio di altre manifestazioni patologiche. Prendendo in considerazione lo stesso materiale su cui lavorava Jung e in particolare le manifestazioni megalomaniche e la fede nell'onnipotenza del pensiero che si ritrovano negli psicotici e nei popoli primitivi, Freud notava che in questi casi non è possibile parlare in termini di conflitto tra pulsioni dell'io e pulsioni libidiche poiché manca l'investimento libidico sugli oggetti, ma si attua piuttosto un riflusso sull'io di libido sottratta agli oggetti esterni. Con l'affermazione dell'esistenza di un io libidico sembrava si desse ragione all'accusa mossa alla psicoanalisi di sessualizzare tutta l'attività psichica. A questo argomento Freud aveva finora opposto l'importanza conferita dalla sua teoria al conflitto fra pulsioni sessuali e non sessuali, mentre ora l'opposizione si spostava all'interno della libido, fra libido narcisistica (che cioè rimane fissa e si riferisce all'io del soggetto) e libido oggettuale (che si sviluppa verso l'esterno e investe l'oggettualità: gli altri). Freud notava che tale fissazione della libido sul proprio corpo e sulla propria persona non è propria soltanto della perversione a cui il termine narcisismo in senso stretto si riferiva, ma può essere considerato lo stato originario da cui solo più tardi si sviluppa l'amore oggettuale, senza che ciò implichi la sparizione del nardsismo. Come un'ameba fa affluire la sostanza del proprio corpo in prolungamenti che poi di nuovo riassorbe, così l'io deve essere considerato un deposito di energia libidica che può venir trasformata in libido oggettuale e può venir ritirata. Stato normale in cui si verifica tale riflusso della libido Freud considera soprattutto il sonno (e da ciò trarrà importanti acquisizioni « metapsicologiche » sul funzionamento dell'apparato psichico) e secondariamente la malattia organica o la stimolazione dolorosa; un predominio delle componenti narcisistiche su que1le oggettuali è infine naturale nell'infanzia e nella vecchiaia .. All'accusa di pansessualizzare la vita psichica Freud oppone i risultati dell'analisi clinica: il narcisismo è il complemento libidico dell'egoismo proprio della pulsione di conservazione. L'io è quindi composto di due tendenze, l'una narcisistica e quindi sessuale, l'altra egoistica e conservatrice. Della necessità di chiarimento e approfondimento delle ipotesi di base in rapporto alla svolta operata con questa concezione del narcisismo dà testimonianza una serie di articoli del 1915 in cui Freud, per la prima volta dopo il famoso capitolo dell'Interpretazione dei sogni, tenta una sintesi generale delle sue concezioni psicologiche o, come egli diceva, una metapsicologia. In questi saggi Freud pensava di esporre la summa delle sue idee, il lavoro conclusivo della sua vita, e in effetti essi danno una visione definitiva della psicoanalisi in quella che
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può essere considerata la forma classica di tale dottrina, ma già in quelle pagine si possono trovare riflessioni attorno ad argomenti e idee che Freud avrebbe sviluppato nel terzo fecondo periodo della sua vita e della sua teoria. Esaminando le vicissitudini delle pulsioni e in particolare, in riferimento al sadismo ed al masochismo, la genesi dell'odio e il suo porsi in rapporto all'amore Freud elabora significative riflessioni. Considerando tre polarità da cui sarebbe dominata la vita psichica: soggetto (io )-oggetto (mondo esterno) o polarità della realtà; piacere-dolore o polarità economica; attivo-passivo o polarità biologica, egli nota che l'individuo è passivo nei confronti degli stimoli esterni, ma attivo per mezzo delle sue pulsioni. Il lattante in particolare, indifferente al mondo esterno nella misura in cui la sua sessualità è essenzialmente autoerotica, trae però dalla realtà esterna soddisfazione alle sue necessità di conservazione, avvertendo come spiacevoli gli stimoli interni. Freud ritenne che a questo punto il lattante introietti in se stesso ·n piacere derivatogli dalla realtà esterna e contemporaneamente proietti nel mondo esterno la sgradevole tensione determinata dallo stato di bisogno di cui le pulsioni sono l'espressione (tale concetto introdotto da Ferenczi sarà alla base di tutto lo sviluppo dato alla psicoanalisi, e in particolare alla psicoanalisi infantile, da Melanie Klein). L'odio nascerebbe quindi dal contrasto tra il piacere localizzato all'interno e la sofferenza localizzata all'esterno e deriverebbe in tal modo soprattutto dalle pulsioni di autoconservazione dell'io. Il tema della genesi dell'odio come costituente originario dell'io, distinto dalle pulsioni sessuali, quindi come parte non libidica dell'io, che verrà poi chiamata pulsione aggressiva, segna come vedremo l'inizio del successivo sviluppo del pensiero freudiano. In un altro saggio Freud affronta il problema del meccanismo della rimozione e del rapporto fra il materiale rimosso con l'incons~io, per giungere ad una trattazione completa degli aspetti dinamici, topici ed economici dei processi psichici: il nucleo dell'inconscio viene indicato nei desideri derivati dall'eccitazione pulsionale, nucleo che più tardi sarà denominato es. Importante è notare che Freud non considera l'inconscio un deposito passivo, ma un sistema vivo, in intercomunicazione con gli altri sistemi e a volte persino in collaborazione con essi. Infine Freud affronta il problema delle psicosi alla luce dell'analisi di due condizioni normali: la vita onirica e il lutto. L'indagine psicoanalitica, che secondo Freud è priva di efficacia terapeutica nel caso delle nevrosi narcisistiche (o psicosi) data la mancanza del fenomeno della traslazione, può però situare la genesi di esse in uno stadio di fissazione precoce della libido e soprattutto può esplicitarne le determinanti, poiché in esse appare evidente ciò che nelle nevrosi si riesce a portare in superficie solo con grande fatica: la significativa distorsione della realtà, permeata di desideri. In seguito a questi risultati Freud riprese in esame il problema della rimozione, reintroducendo il concetto più generale di difesa di cui la rimozione, fino allora considerata coincidente con essa, diveniva una forma particolare accanto alla .proiezione, la negazione ecc.
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VII · ULTIME IPOTESI
Come spinto da un'ansia di ricapitolazione Freud scrive la più estesa e completa esposizione divulgativa del suo pensiero: è del 1917 la pubblicazione delle lezioni da lui tenute in quell'anno all'università, le ultime dopo trent'anni di insegnamento. La guerra aveva preso Freud alla sprovvista e aveva provocato per la prima volta in lui una reazione che lo avvicinava ai suoi contemporanei: nonostante il suo pacifismo, l'orrore per la brutalità e soprattutto lo scetticismo sui moventi delle azioni umane, Freud reagì con una esplosione di patriottismo filoabsburgico, approvando la dichiarazione di guerra, ma, pochi mesi dopo, di fronte al massacro ed alla distruzione, tornava ad una posizione di pessimismo radicale: «L'umanità, non ne dubito, si rimetterà da questa guerra, ma sono certo che né io né i miei contemporanei ritroveremo un mondo felice. Tutto è troppo orribile. Ciò che vi è di più triste, è il fatto che tutto ciò accade proprio come avrebbe potuto prevederlo la psicoanalisi dalla sua conoscenza dell'uomo e del suo comportamento. Ecco la mia conclusione: dal momento che non possiamo considerare la nostra attuale civiltà, la più evoluta di tutte, altro che come una gigantesca ipocrisia, ne consegue che organicamente non siamo fatti per essa. Bisogna abdicare. » Contro il caos di questa visione apocalittica, Freud oppone quanto più di disciplina e chiarezza egli possa dare: la sintesi del suo lavoro scientifico. Nel 1918 si tenne a Budapest il quinto congresso internazionale di psicoanalisi, a cui parteciparono rappresentanti ufficiali dei governi d'Austria, Germania e Ungheria; l'interesse delle autorità era originato dall'importanza che la psicoanalisi pareva assumere in relazione ad un controverso fenomeno di estese dimensioni sociali: le nevrosi di guerra. Freud venne anche chiamato a far parte di una commissione speciale di inchiesta delle autorità militari austriache, quando, dopo la guerra, i medici militari vennero accusati di crudeltà nei confronti dei nevrotici di guerra, da loro brutalmente trattati come simulatori. Negli ambienti scientifici queste nevrosi venivano considerate la ~oncreta smentita delle teorie psicoanalitiche, in quanto parevano una clamorosa conferma dell'eziologia traumatica della nevrosi, ed in quanto i fattori sessuali non apparivano avere alcun ruolo nella esplosione della malattia; ma ad un'indagine non superficiale non poteva sfuggire il rapporto fra la nevrosi e i conflitti psichici inconsci, che Freud poneva in relazione con un conflitto all'interno dell'io. L'interesse degli ambienti ufficiali, anche se ancora una volta le possibilità d'intesa vennero meno non appena Freud precisò l'inconciliabilità degli interessi del malato con quelli dell'esercito, testimoniavano del mutato atteggiamento che dopo la prima guerra mondiale si ebbe nei confronti della psicoanalisi. Le società psicoanalitiche si diffondono, e nel 1920 Max Eitingon fonda a Berlino il primo policlinico psicoanalitico, con annessa biblioteca e istituto didattico. 347
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Nel dicembre 1920 uscì un saggio di Freud che sbalordì i suoi collaboratori, e che, lungi dall'essere accettato, è ancora oggi al centro di discussioni: Jenseits des Lustsprinzips(Al di là del principio di piacere). In esso Freud, rifacendosi ad alcune esperienze cliniche (come i sogni ricorrenti a contenuto spiacevole), ed in particolare all'osservazione della passione infantile per la ripetizione di giochi, racconti, ecc., indipendentemente dal fatto che siano piacevoli, afferma che oltre al principio di piacere-dolore agisce un altro principio che si manifesta nella coazione a ripetere. Tale tendenza alla ripetizione, più elementare che non il principio di piacere, il quale può raffinarsi nel principio di realtà, è anch'essa di natura pulsionale, è anzi un tipico carattere della vita pulsionale, di natura essenzialmente conservatrice; ne è esempio la stereotipia del comportamento istintivo ai gradini più bassi della scala animale. Per Freud scopo della coazione a ripetere è il ripristino di uno stato anteriore, cioè in ultima analisi il ritorno all'inorganico, la tendenza alla disintegrazione. Nasce così il concetto di pulsione di morte. Freud suppone ora l'esistenza di due pulsioni fondamentali: Eros e la pulsione distruttrice: « Scopo del primo è instaurare unità sempre più grandi e così conservarlo, dunque la connessione; scopo della seconda è invece dissolvere connessioni e così distruggere le cose. » L'esistenza di questa forza, che tende alla distruzione dell'individuo vivente così nella psiche dell'uomo, come in ogni cellula, e che svolge la sua opera in silenzio, può divenire manifesta solo quando si volge all'esterno: il comportamento aggressivo, o l'impulso sadico, sarebbero cioè una manifestazione secondaria di una primaria tendenza all'autodistruzione, di cui il masochismo è l'espressione erotizzata. In questo primo scritto sull'argomento, Freud avanza le sue ipotesi con cautela dubbiosa, ma più tardi dichiarerà di non poter più pensare altrimenti: « Ricordo bene l'atteggiamento di difesa che assunsi quando l'idea di una pulsione di distruzione comparve la prima volta nella letteratura psicoanalitica e quanto tempo mi ci volle per accettarla », ma « non riesco a capire come abbiamo potuto ignorare l'universalità dell'aggressione e della distruzione estranee ai fini erotici, e non dar loro il dovuto significato nella nostra interpretazione della vita. » Gli adleriani affermano che l'ipotesi di un istinto aggressivo era stata avanzata per primo da Adler; ma così come la libido narcisistica differisce dalla libido primordiale di Jung, fra le due concezioni della pulsione distruttrice vi è un abisso: quella di Adler è più sociologica che psicologica, determinata dalla lotta per la supremazia, mentre quella di Freud è quasi biologico-chimica. Come Freud stesso ammette, nei suoi ultimi anni egli diede « libero corso alla tendenza alla speculazione, così lungamente contenuta », e significativamente si possono ritrovare in questo saggio nomi quali quelli di Fechner, Breuer, Fliess, e problemi quale la possibilità di inquadrare in una cornice biologica le acquisizioni dell'indagine psicoanalitica, che avevamo visto all'origine;•delle sue ricerche. Freud sosteneva che questa nuova soluzione del problema delle pulsioni era teoricamente fruttuosa, poiché senza tralasciare né forzare i fatti, forniva
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quella semplificazione che è fra le caratteristiche principali del lavoro scientifico. È stato autorevolmente sostenuto che coazione a ripetere e ripristino di uno stato anteriore sono fenomeni diametralmente opposti, che la pulsione di morte è ipotesi biologicamente insostenibile e clinicamente o empiricamente in utilizzabile, in quanto psichicamente non percepibile. È stata inoltre sottolineata la coincidenza con altre correnti di pensiero, quali la filosofia di Schopenhauer e di Nietzsche, o la biologia di Lamarck, ma al di là di influenze, dirette o filtrate attraverso la cultura contemporanea, possiamo leggere in questo ulteriore tentativo di sistemazione del sapere che Freud aveva costruito, una sorta di allegoria anticipatrice. Freud usa qui un procedimento di sistematizzazione che ricorda i miti di Platone, e non tanto perché riappaiono nelle sue pagine principi quali Eros e Thànatos, ma soprattutto perché anche Freud persegue un'interpretazione generalissima di fatti empirici, esprimendone la bipolarità dialettica ed il movimento attraverso miti (allegorie) che ambiscono a cogliere- mediante una spiegazione anche analogica di quei fatti - la sostanza e la connessione interna del loro movimento, l'essenza delle forze che li regolano, il télos dei processi in atto. Potrà discutersi ancora a lungo sulla validità euristica di questi principi freudiani, ma certo è che i tragici eventi che di Il a poco avrebbero devastato in modo cosi terribile l'ambiente sociale e culturale della Mitteleuropa e degli ebrei, ambiente cui Freud era intimamente legato, mostrarono che questi miti avevano in qualche modo colto uno degli aspetti più oscuri e conturbanti della tempesta che si avvicinava. Due anni più tardi fu pubblicato Das !eh und das Es(L'io e l'es), libro che costituisce il punto di partenza di quasi tutte le ricerche psicoanalitiche successive: in esso, sulla base dell'elaborazione di fatti psicopatologici (in particolare i deliri di osservazione degli psicotici), vengono formulate nuove ipotesi sulla costituzione dell'apparato psichico, qui schematizzata nella scomposizione in tre istanze: io, es, superio. La più «antica» delle istanze è l 'es: suo contenuto è tutto quanto viene ereditato, acquisito con la nascita; da una estremità è aperto verso il somatico di cui accoglie i bisogni pulsionali; è dominato dal principio economico del piacere, quindi ricerca la scarica delle tensioni pulsionali; è atemporale ed estraneo ad ogni processo logico, non conosce né la negazione né la contraddizione. L 'io è originariamente una parte dell'es che si è costituita in organizzazione particolare sotto l'influsso del mondo esterno, di cui riceve gli stimoli attraverso l'apparato sensoriale ed a cui reagisce per proteggersi attraverso la motricità: accumula esperienza quale guida alla sua attività, fuggendo, adeguandosi ed infine modificando la realtà esterna; attraverso il controllo della motricità, decide se dare soddisfazione alle richieste pulsionali. Nell'io si forma, quale precipitato del lungo periodo di dipendenza infantile, una particolare istanza che prolunga l'influenza dei genitori (e attraverso di essi l'influenza della tradizione, della famiglia, dei valori e delle esigenze che essi rappresentano): il superio. «Come si vede, l'es e il superio, nonostante la loro fondamentale differenza, concordano nel fatto che H9 www.scribd.com/Baruhk
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rappresentano gli influssi del passato, l'es l'influsso del passato avuto in eredità, il superio sostanzialmente l'influsso del passato subito attraverso altre persone, mentre l'io è determinato principalmente da esperienze personali, dunque accidentali ed attuali. » Le relazioni tra le tre istanze (es, io, superio) ed i tre sistemi (inconscio, preconscio, conscio) dell'apparato psichico, non sono raffigurabili in tre pacifiche coppie, corp.e una semplicistica analogia potrebbe far supporre: durante lo sviluppo di una istanza dall'altra, alcune zone dell'io e del superio sono rimaste inconscie o sono state rimosse. Freud così descrive i reciproci rapporti delle tre istanze: «Un proverbio ammonisce di non servire contemporaneamente due padroni. Il povero io ha la vita ancora più dura: serve tre padroni, severi, e si dà da fare per mettere d'accordo le loro esigenze piene di pretese. Queste sono sempre divergenti e spesso sembrano essere inconciliabili; nessuna meraviglia se l'io fallisce tanto spesso nel suo compito. I tre tiranni sono: il mondo esterno, il superi o e l 'es. Se si seguono gli sforzi cui è costretto l 'io per soddisfarli contemporaneamente o, per meglio dire, per ubbidire loro contemporaneamente, non ci parrà fuori posto di avere personificato questo io, di averlo presentato come un ente a sé stante. Il poveretto si sente stretto da tre parti, minacciato da tre specie di pericoli, ai quali reagisce, in caso estremo, sviluppando angoscia. L'io, data la sua origine dalle esperienze del sistema percettivo, è destinato a rappresentare le richieste del mondo esterno, ma vuole anche essere il fedele servitore dell'es, rimanere con lui in buona armonia, raccomandarglisi quale oggetto e attirarne su, di sé la libido. Nel suo sforzo di fare da intermediario tra l'es e la realtà, è spesso costretto a rivestire i comandi inconsci dell'es con le proprie razionalizzazioni preconscie, a occultare i conflitti dell'es con la realtà, a far credere, con diplomatica insincerità, di aver preso in considerazione la realtà anche quando l'es è rimasto rigido e inflessibile. Dall'altro canto, viene osservato passo per passo dal severo superio, che esige determinate norme di comportamento, senza tener conto delle difficoltà provenienti dall'es e dal mondo esterno, e lo punisce, in caso di inadempienza, con i sentimenti spasmodici dell'inferiorità e del senso di colpa. Spinto così dall'es, stretto dal superio, respinto dalla realtà, l'io lotta per venire a capo del suo compito economico di stabilire l'armonia tra le forze e gli influssi che agiscono in lui e su di lui; e noi comprendiamo perché tanto spesso non ci è possibile reprimere l'eclamazione: " La vita è dura l '' Se deve ammettere le sue debolezze, l 'io prorompe in angoscia: angoscia reale dinanzi al mondo esterno, angoscia morale dinanzi al superio, angoscia nevrotica dinanzi alla forza delle passioni dell'es.» I rapporti strutturali della personalità psichica vengono esposti da Freud in uno schema sintetico, da cui risulta che il superio affonda nell'es; quale erede del complesso edipico ha infatti intime connessioni con lui ed è più distante dal sistema percettivo di quanto lo sia l'io. In questo schema l'es ha contatti con il mondo esterno solo attraverso l 'io.
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Scopo della terapia analitica è quindi quello di rafforzare l 'io, rendendolo più indipendente dal superi o, ampliando il suo campo percettivo, perfezionando la sua organizzazione così che possa annettersi nuove zone dell'es: «Dove era es, deve diventare io. » L'ultimo importante lavoro analitico, Hemmung, Symptom und Angst (Inibizione, sintomo e angoscia, 19z6), è una revisione del problema dell'angoscia ed è forse il contributo clinico di maggior valore che Freud abbia prodotto negli anni del dopoguerra, e può essere considerato una magnifica reazione alla deprimente contrarietà della defezione di Rank. Questi, dopo anni di lavoro pieno di dedizione per la Società di psicoanalisi ed il Verlag, contravvenendo alle norme del comitato aveva pubblicato, senza consultarsi con gli altri, un'opera in cui ogni successivo evento della vita veniva fatto risalire attraverso una catena di reazioni al trauma della nascita: l'angoscia che si oppone all'incesto non sarebbe che una ripetizione dell'angoscia provata al momento della nascita, e la rimozione nevrotica sarebbe essa stessa intimamente condizionata dalla natura del processo natale. Ancora una volta, invece di appellarsi esclusivamente all'ortodossia analitica, Freud fece sì che le fumose vedute di Rank si trasformassero in un fertile stimolo: rivedendo le sue concezioni di quarant'anni prima, secondo cui l'angoscia nevrotica è libido rimossa trasformata, e deriva quindi dal meccanismo della rimozione, egli considera ora l'angoscia quale un segnale dell'approssimarsi di un pericolo (o situazione d'impotenza in cui il soggetto non riesce a dominare una eccessiva stimolazione, di cui la situazione della nascita può essere il prototipo), a cui l 'io reagisce diffondendosi secondo molteplici modalità, di cui una è la rimozione. Le opere successive hanno un carattere diverso, che Freud così spiega: «Dopo una diversione durata tutta la vita verso le scienze naturali, la medicina e la psicoterapia, il mio interesse è nuovamente tornato ai problemi culturali, che una volta avevano affascinato il giovane quando si era appena affacciato al mondo del pensiero.» Die Zukunft einer Illusion (L'avvenire di un'illusione, 1927), Das U nbehagen der Kultur (Disagio della civiltà, 1 9 3o) e, negli ultimi anni, il « romanzo storico» Der .Mann Moses und die monotheistische Religion (L'uomo Mosè e la religio3P
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ne monoteistica, 1939) sono derivati dalla psicoanalisi, ma ne oltrepassano largamente i confini in quanto meditazioni sugli eventi storici esaminati quali riflessi di conflitti psichici profondi, ed hanno avuto sui contemporanei di Freud risonanza forse maggiore che non la psicoanalisi stessa. Quegli anni, assai dolorosi per le vicende che più da vicino toccano la vita di Freud, sanzionano infatti la sua fama: ovunque nel mondo si costituiscono società di psicoanalisi, le più importanti personalità (tra cui Thomas Mann ed Einstein) sono in corrispondenza con lui, Vienna gli conferisce un'alta onorificenza civile, e nel 1930, «culmine del successo borghese», gli viene attribuito il premio Goethe. Poco dopo a Berlino, con il trionfo dei nazisti, i suoi libri vengono dati alle fiamme, e Freud commenta: « Che progresso stiamo facendo l Nel medioevo avrebbero bruciato me. » Non seppe mai che le sue quattro vecchie sorelle avrebbero subito quella atroce sorte assieme ad altri sei milioni del suo popolo. Nel 19 38, occupata Vienna, le squadre d 'assalto naziste distruggono la casa editrice ed irrompono nella sua casa. Cedendo alle preghiere degli amici e per l'infaticabile intercessione di Jones, Freud decide di partire per Londra, ove muore il 2 3 settembre del 1939, dopo aver ricordato al medico la sua promessa di aiutarlo a« lasciare dignitosamente il mondo ».
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CAPITOLO DODICESIMO
Logica e problema dei fondamenti nella seconda metà dell'Ottocento DI CORRADO MANGIONE
I
· PRELIMINARI
La creazione dell'algebra della logica verso la metà del XIX secolo aveva portato alla luce due fatti di estrema importanza: la possibilità di costruire una teoria matematica della logica e l'esistenza di un legame profondo, anche se difficile da esplicare, fra logica e matematica. Mentre però il primo fatto, la costruzione di una teoria algebrica della logica, non tardò ad essere universalmente apprezzato (anche se, in verità, non sempre in modo entusiastico), il secondo, l'esistenza di strette connessioni fra logica e matematica, divenne sì un tema di cui si riconobbe ben presto l'importanza, ma del quale solo lentamente emersero le conseguenze meno immediate e più problematiche. La storia della logica nella seconda metà dell'Ottocento è in larga misura la storia di come andò lentamente prendendo forma, e quindi configurandosi stabilmente, questa nuova concezione dei rapporti fra logica e matematica. Sulle prime il fatto più rilevante e più sottolineato rimase pur sempre, come era stato per gli stessi creatori dell'algebra della logica, l'universalità d'applicazione del metodo simbolico e, quindi, del procedere matematico. Era soprattutto in questa prospettiva di matematica applicata che si valutava l'importanza dell'algebra della logica: si trattava di un campo d'applicazione di tipo nuovo, diverso dai tradizionali, che poneva in rilievo come il dominio d'impiego della matematica non si limitasse al mondo delle quantità, ma si estendesse ad ambiti non legati al mondo fisico, quantitativo, quale il mondo dei pensieri. L'algebra della logica era cosi una teoria matematica del pensiero: ma più che di prossimità, di legami fra il concetto di numero, di quantità e grandezza, con concetti puramente logici, si trattava di un'applicazione giustificata dalla universalità del solo procedere simbolico, che in questo modo veniva ad assumere un vero e proprio ruolo fondante. Veniva così prendendo forma, soprattutto in Germania per opera di Schroder e di alcuni suoi seguaci, una nuova concezione della matematica e della sua struttura logica, una concezione con decisi caratteri formalistici (in senso diverso, beninteso, da quello che sarà il formalismo hilbertiano) che vedeva soprattutto 3H
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Logica e problema dei fondamenti nella seconda metà dell'Ottocento
nella capacità della mente umana di astrarre e fare un uso appropriato dei simboli il fondamento dell'intera attività matematica; e in questa prospettiva la logica e la sua algebrizzazione non avevano alcun ruolo fondante ma costituivano solo un esempio, di particolare significato sistematico, di questo procedere simbolico. L'unico vero problema riguardava l'adeguatezza delle astrazioni e delle simbolizzazioni su cui si innestava il procedere matematico: che garanzie c'erano che alla regolarità data dalle leggi matematiche e dalle connessioni simboliche corrispondessero regolarità fra gli oggetti e le relazioni concrete designate? In altri termini, si trattava di indagare che cosa giustificasse la riconosciuta adeguatezza e l'innegabile successo del procedere simbolico, quali fossero le condizioni che rendevano possibile la sua applicazione. A questo punto il problema non riguardava più né la logica né la matematica ma la costituzione interna della mente umana, e la questione si spostava decisamente su un terreno filosofico tradizionale: era questo il problema dei fondamenti. Ora, le soluzioni filosofiche che si dettero al problema furono varie: si andava da forme di kantismo più o meno ortodosse a posizioni realistiche o decisamente empiristiche. Carattere comune di tutte queste soluzioni rimaneva però pur sempre il tentativo di agganciare la concreta struttura delle varie teorie matematiche a fatti del mondo esterno mediante il ricorso a capacità della mente umana che giustificassero la possibilità di rendere a livello simbolico queste molteplici situazioni esterne. Queste capacità innate (o acquisite, a seconda del contesto filosofico generale) dovevano giustificare la correttezza delle teorie matematiche, la loro applicabilità, il loro significato. Sia che, empiristicamente come faceva Mill, si vedesse nei simboli numerici (o geometrici) un nome per fatti del mondo esterno, sia che, come Schroder o Helmholtz, i simboli denotassero astrazioni da fatti fisici o psicologici, rimaneva tuttavia il problema di giustificare la possibilità stessa di queste astrazioni o denotazioni e, soprattutto, di trovare le condizioni che spiegassero la concordanza fra quanto aritmetica, analisi, geometria, affermavano a livello simbolico con quanto si sosteneva essere il substrato concreto, fisico o psicologico di queste simbolizzazioni. Non può stupire quindi che in questa prospettiv;a i legami fra logica e matematica non fossero che analogici, giustificati da comuni capacità della mente umana che si ponevano come condizioni della esistenza stessa tanto di logica che di matematica. Questa concezione, con tutte le svariate articolazioni sulle quali non è qui necessario insistere, se da una parte rifletteva l'atmosfera in cui si era sviluppata l'algebra della logica, sembrava dall'altra in grado di rendere conto dei grandi mutamenti che la pratica matematica andava registrando in quel torno di secolo. La scoperta delle geometrie non euclidee e il loro diffondersi a cominciare dai grandi lavori di Riemann, Helmholtz e Beltrami attorno al '68, l'accentuato processo di rigorizzazione dell'analisi con le contemporanee definizioni di numero reale di Weierstrass, Cantar e Dedekind nel '72, avevano sostanzialmente segnato 354
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la fine del più che millenario dominio della geometria sull'intero corpus della matematica: sotto gli urti convergenti delle geometrie non euclidee da un lato e delle definizioni puramente aritmetiche di numero reale dall'altro, l'univocità e necessità dei concetti geometrici diventavano di fatto insostenibili. Se per la pratica matematica questo significava un allargamento degli orizzonti, dal punto di vista dei fondamenti tutto ciò non poteva non far sorgere serie perplessità. Sino ad allora, il punto di riferimento per la quasi totalità dei concetti matematici era stata la geometria; era dall'« osservazione» delle grandezze geometriche che erano nati i concetti base dell'Analisi, quale la nozione di continuo, ed era la geometria il settore del sapere matematico che da sempre aveva avuto la struttura logica più chiara e articolata. Negare o « perdere » questo riferimento, significava abbandonare la fonte più sicura di conferme intuitive e porsi nella necessità di cercare nuovi fondamenti per l'intero edificio matematico. La costruzione di un concetto puramente aritmetico del continuo per opera di Weierstrass, Cantar e Dedekind aveva dato l'avvio a un totale cambiamento di rotta che portava in primo piano, al posto della geometria, l'aritmetica e il sistema dei numeri naturali. Questo mutamento aveva un profondo significato in quanto segnava un netto svincolarsi delle interpretazioni dei fatti matematici dal concetto intuitivo di spazio, orientandole verso nozioni almeno apparentemente più semplici e dirette, quale quella di numero naturale: nozione quest'ultima che sembrava decisamente immune da ogni difficoltà logica, legata, come sempre era stata ritenuta, alla comunissima operazione del contare. In tal modo sembrava possibile recuperare l'antica certezza: se infatti, via l' aritmetizzazione, l'Analisi poteva essere fondata sul concetto di numero naturale, modulo la « semplice » assunzione della possibilità di astrarre e considerare come entità numeriche sequenze fondamentali (con Cantar) o sezioni (con Dedekind), la stessa costruzione di geometrie non euclidee si poteva ricondurre a fondamenti aritmetici via una opportuna traduzione analitica. I lavori di Riemann e Helmholtz, del secondo più esplicitamente che del primo, mostravano infatti come la nozione intuitiva di spazio si potesse sussumere sotto il concetto analitico di varietà n-dimensionale ricevendo quindi una fondazione aritmetica. Naturalmente ciò non permetteva una discriminazione completa tra i diversi tipi di geometrie, ma era proprio questo carattere comune e unitario che costituiva una garanzia. Per l'ulteriore discriminazione accorrevano ipotesi (Riemann) o fatti (Helmholtz) aggiuntivi che fossero suggeriti non più dalla semplice intuizione, ma piuttosto dall'esperienza o da particolari necessità teoriche; ma in questo modo, si riteneva, veniva enucleato il substrato comune alle varie geometrie, substrato che, pur necessitando nei vari casi di aggiunte specifiche, poteva pur sempre costituire una fondazione comune. Per la prima volta nella storia, dunque, era il continuo definito aritmeticamente che fondava quello geometrico. Se tramite l'assunzione della continuità
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come caratteristica fondamentale della nozione di spazio era possibile :ricondurre geometria ad Analisi e questa a sua volta si poteva :ricondurre a concetti aritmetici, la base di tutta la matematica era allora data dai numeri naturali. Ebbene, su che cosa si fondavano questi, a loro volta? Questa domanda, anche se naturale da un punto di vista astratto, storicamente non si pose in modo altrettanto ovvio. La concezione « formalist~ » cui abbiamo sopra accennato sembrava rendere superflua e irrilevante una simile questione. Il numero naturale non era che la trascrizione simbolica della semplice attività del contare e del numerare, fatto questo così primitivo e semplice da non :richiedere ulteriore analisi; se specificazioni erano necessarie, si trattava di giustificazioni di carattere psicologico :riguardanti le condizioni che :rendevano possibile questa operazione. È su questa linea che si situano le fondazioni dell'aritmetica di Helmholtz, Schrode:r, Hankel, Thomae. e moltissimi altri (a parte ovviamente eventuali differenziazioni specifiche fra i vari autori) : se Helmholtz ricorreva alla successione temporale per spiegare l'ordinamento dei naturali, ponendosi cosi in una linea di pensiero tipicamente kantiana (seppu:re allargata), Sch:rode:r :ricorreva alle strutture psicologiche generali che giustificano i procedimenti astrattivi. Ma allora questo :rip:ropone il tema centrale già enunciato: punto di partenza comune :rimaneva sempre il :ricorso a teorie filosofiche generali che fornissero le condizioni per l'esistenza di particolari procedimenti concettuali. E l'aritmetica a sua volta diveniva un'attività simbolica :resa possibile (ed applicabile al mondo esterno) da particolari proprietà della mente umana che ne garantivano l'aggancio con il mondo intuitivo. Tuttavia, anche se queste posizioni potevano sembrare plausibili da un punto di vista estremamente generale, la loro debolezza diveniva manifesta una volta che, dalla generalità, si passasse alla considerazione di fatti più specifici. Come non tardarono a :realizzare Frege e Dedekind, la lacuna fondamentale di queste teorie stava nella loro assoluta incapacità di giustificare quello che era il principio fondamentale alla base di ogni concreto :ragionamento aritmetico, vale a dire il principio di induzione. Era questo principio che giustificava le definizioni stesse delle operazioni aritmetiche di somma e prodotto e che permetteva la formulazione e dimostrazione di teoremi aritmetici generali. Qualunque oggetto intuitivo si correlasse ai simboli numerici, qualunque assunzione generale si facesse sui processi psicologici soggiacenti alla costruzione dell'aritmetica, tutto ciò non poteva giustificare il :ragionamento per induzione in modo effettivamente definito e soddi$facente. Questa obiezione colpiva nella sua essenza tutto un modo di concepire là fondazione della matematica. Se l'aritmetica doveva essere la solida base del sapere matematico, dell'Analisi in particolare, non poteva certo essere sufficiente la certezza « morale » data dalla convinzione che dietro al procedere aritmetico esistessero processi mentali che lo giustificavano. Non era possibile spiegare in questo modo la validità del principio di induzione: il :ricorso
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alla struttura temporale o ad altri fatti empirici (fossero essi psicologici o fisici) non poteva dare alcuna certezza ma, al più, una mera plausibilità empirica. La soluzione che Frege e Dedekind proposero, si volgeva in tutt'altra direzione: ben lungi dal cercare fatti psicologici, leggi della mente o poteri taumaturgici dell'attività simbolica, essi, con modalità differenti, ma simili nelle motivazioni fondamentali, si volsero piuttosto all'enucleazione delle caratteristiche logiche che i numeri naturali dovevano possedere per giustificare a livello deduttivo le proprietà che ad essi l'aritmetica assegnava; sicché l'analisi condotta da Frege e Dedekind portava in primo piano l'intelaiatura puramente logico-deduttiva dell'aritmetica. In questo modo i numeri naturali non erano più simboli introdotti per rendere conto di fatti psicologici o fisici più o meno chiaramente intesi, bensì concetti, costrutti logici, definiti in modo tale da permettere la derivazione, per via puramente deduttiva, delle loro proprietà; e il principio di induzione, ben lungi dall'essere un principio inspiegabile se non col ricorso a fatti extramatematici, diveniva una delle proprietà definitorie dello stesso concetto di numero. Veniva realizzandosi così un nuovo tipo di rapporto fra logica e matematica: la logica diveniva la base stessa della matematica. Il concetto di numero naturale risultava completamente determinabile in base a concetti puramente logici o, nel caso di Dedekind, insiemistici generali; era cioè un costrutto ottenuto ricorrendo a poche nozioni logiche fondamentali. È principalmente in questo lavoro e nella continua insistenza sulla necessità di esplicitare la caratteristiche logiche dei concetti matematici da definirsi, piuttosto che ricercare le condizioni che rendono possibili ipotetici atti mentali, è proprio qui, dicevamo, che sta il carattere rivoluzionario dell'opera di Frege e di Dedekind. Dopo di essi la fondazione della matematica non poteva più configurarsi come ricerca delle condizioni psicologiche in grado di giustificare determinati procedimenti intellettuali: sono i concetti stessi e le loro mutue relazioni che vengono in primo piano, non più strutture dell'esperienza, ma strutture, vincoli logici, tra concetti. È in questa mutata atmosfera che si situa in effetti anche la costruzione cantodana della teoria degli insiemi e prende forma la «revisione» moderna che dell'assiomatica fa Hilbert. Si deve anche aggiungere che mai come in questo periodo si assiste alla reciproca incomprensione fra autori che sostanzialmente, a parte le specifiche differenze, lavorano in definitiva a uno stesso, grandioso progetto. Possiamo assumere ancora Frege come esemplare in questo senso: egli polemizza con Dedekind perché non vede la (allora) sostanziale equivalenza di teoria degli insiemi e logica (che, si noti bene, era Dedekind a esplicitare in modo consapevole e non, paradossalmente, Cantar); rimprovera, senza dubbio correttamente, a Cantar precise deficienze logiche, e ciò senza tener conto da una parte che egli stesso aveva riconosciuto che una rigorosa sistemazione logica segue e non accompagna la «creazione» matem~tica, dall'altra precludendosi una più approfondita disamina dei rapporti fra i due modi, il suo e quello di Cantar, di affrontare le questioni 357
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di fondazione; ha infine polemiche accese con Hilbert, perché gli sfugge completamente che la nuova concezione hilbertiana dell'assiomatica è in fin dei conti una conferma della situazione nuova che egli stesso aveva contribuito a determinare. D'altra parte anche Dedekind, Cantar e Hilbert trascurano e non comprendono le esigenze, oltre che le innovazioni di Frege (salvo forse Dedekind); sfugge loro il fatto che nel tentativo di Frege si potesse trovare un riferimento comune alle varie tendenze specifiche, o comunque un utile strumento di discussione e apertura, non di « lotta ». E a conferma che questa fosse effettivamente la situazione, che qualche autore ha definito « dolorosa », appare non casuale che la scoperta delle antinomie coinvolga in un unico « crollo » i sistemi di Dedekind, di Frege, di Cantar (da questo punto di vista Hilbert va considerato a parte). Ma riprendiamo brevemente il nostro discorso. Nelle mani di Frege la stessa algebra della logica veniva dunque ad assumere un carattere nuovo. La Begriffsschrijt fregeana, accanto ai potenziamenti tecnici che vedremo, possiede una caratteristica
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generali, mano a mano determinandosi, generava concetti aritmetici, analitici, ecc. La logica si presentava quindi, anche se con l'intermediario - allora non da tutti compreso - della teoria degli insiemi, come il tessuto connettivo dell'intero edificio matematico. In questa prospettiva il problema dei fondamenti, da questione vagamente empirico-psicologica si era trasformato nel problema ben più rilevante della individuazione della struttura logica dei concetti base, dei mutui rapporti fra essi e dei loro legami di deftnibilità. Teoria degli insiemi e logica (ripetiamo che i due campi erano allora, in gran parte almeno, coincidenti) si presentavano cosl come le basi più « vere » e adeguate della nuova pratica matematica, una pratica non più legata al mondo esterno e alle intuizioni che con esso la pongono in contatto, ma libera attività creatrice del pensiero umano. I I · L'ARITMETIZZAZIONE DELL'ANALISI E I SUOI SVILUPPI
Si è già ripetutamente indicata come elemento distintivo nell'impostazione della ricerca matematicadel primo Ottocento l'accentuata esigenza di rigore nella sistemazione dell'Analisi, esigenza che si era espressa con le precisazioni che autori quali Gauss, Abel, Cauchy, Bolzano, ecc. avevano dato di taluni concetti fondamentali, primo fra tutti il concetto di limite. Tuttavia, proprio approfondendo l'esame di tali precisazioni, analizzandole minutamente nei loro presupposti più o meno esplicitamente enunciati, risultò ben presto chiaro agli analisti della seconda metà dell'Ottocento che il fondamentale concetto di numero reale (presupposto ad esempio in modo stringente nel· celebre criterio di convergenza di Cauchy) non aveva ancora ricevuto una definizione rigorosamente « aritmetica »; esso veniva in generale assunto come fondato su intuizioni di tipo geometrico (in particolare, come rapporto fra grandezze geometriche) strettamente connesse, in modo sostanzialmente circolare, con l'altrettanto vaga nozione di continuità (e in particolare di continuità geometrica) di per sé considerata« evidente». In senso stretto, per aritmetizzazione dell'Analisi si può allora intendere l'affrancamento da questa «servitù» geometrica nella stessa definizione di numero reale e quindi, in una più ampia accezione, la conseguente edificazione dell' Analisi su basi chiarite non più sulla scorta di intuizioni geometriche inanalizzate, ma in termini di oggetti e processi. aritmetici elementari. Agli analisti della seconda metà dell'Ottocento spetta appunto il merito di aver decisamente affrontato il compito di stabilire una rigorosa teoria dei numeri reali, con un atteggiamento che si pone in «naturale>> e diretta continuazione di quell'esigenza di rigore con la quale si era aperto il XIX secolo matematico, e con esiti che andarono ben al di là del puro ambito analitico dal quale questa impresa era stata sollecitata e nel quale troverà una soddisfacente soluzione. A parte certe precisazioni che a rigore andrebbero fatte ma che in questa sede possiamo tralasciare, intendiamo pure l'insieme R dei numeri reali come 359
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costituito dall'insieme Q dei numeri razionali (anche qui, a parte certe precisazioni: le frazioni) e dall'insieme Z dei numeri irrazionali. Dato che - come vedremo -punto di partenza per le ricerche sui reali era l'insieme Q (gli elementi dei quali si sapevano già :ricondurre con metodo standard ai numeri naturali, si sapevano cioè definire in termini di naturali) è chiaro che il problema della fondazione :rigorosa dei numeri :reali si convertiva in quello di dare una definizione soddisfacente e non obiettabile del concetto di numero irrazionale; sicché le teorie che più avanti brevemente esporremo venivano appunto qualificate come « teorie degli irrazionali». Un numero :reale veniva concepito in generale come :rapporto fra grandezze, in particolare fra grandezze geometriche, fra segmenti. Era quindi la sola geometria che per così dire poteva garantire l'esistenza di un dato numero, in diretta dipendenza dalla possibilità o meno di effettuare, sulla base degli assiomi della geometria stessa, determinate costruzioni di segmenti che :rispetto a una data unità possedessero come misura il numero in questione. Ora è noto, ad esempio, che non è possibile costruire (con riga e compasso), nella geometria euclidea, un segmento di lunghezza poniamo {"-; o 1t; eppure si è convinti, e ciò proprio per :ragioni di continuità, dell'esistenza di tali segmenti, e quindi di tali misure, di tali numeri. Nel caso di {";-il segmento in questione risolverebbe il problema di Delo della duplicazione del cubo: orbene, se lo spigolo del cubo aumenta con continuità da I a 2, il volume del cubo aumenterà con continuità da I a 8 e a un certo momento dovrà quindi assumere proprio il valore 2. Ciò mostra da una parte l'immediata connessione del problema di una caratterizzazione dell'insieme R col classico problema della continuità (geometrica); e d'altra parte rende evidente come sia illusoria e circolare la pretesa di definire in generale un numero :reale come :rapporto di segmenti. La situazione è presentata con particolare evidenza e incisività da Dedekind 1 che col saggio S tetigkeit und irrationale Zahlen (Continuità e numeri irrazionali) del I 8 72 offrirà come vedremo una originale soluzione al problema. Fin da quando, nel I 8 58,. egli era docente al politecnico di Zurigo « ... discutendo la nozione del tendere di una grandezza variabile a un valore limite, e in particolare nella dimostrazione del teorema che ogni grandezza variabile che aumenta con continuità, :restando però limitata, deve certamente tendere a un vero limite dovevo :ricorrere, » afferma Dedekind nella citata opera, «all'intuizione geometrica». Se anche questa procedura :risulta essere didatticamente efficace, certamente «questa forma d'inI Julius Wilhelm Richard Dedekind nacque a Brunschweig il 6 ottobre I8p e ivi morì il Iz febbraio I9I6. Compì i suoi studi a Gottinga e nel I854 divenne docente nella locale università. Nel I858 insegna analisi al politecnico di Zurigo e nel I 86z si trasferisce come ordinario al politecnico della sua città natale, ove compie tutta la re-
stante carriera accademica. Autore di molte importanti memorie algebriche e sulla teoria delle funzioni modulati e abeliane; è noto tuttavia soprattutto per i due saggi Stetigkeit und irrationa!e Zahlen del I87z e Was sind und was so!!en die Zah!en? del I 888, le sole due opere che di fatto ci interesseranno nelle pagine seguenti.
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traduzione del calcolo differenziale non può pretendere di essere scientifica... ». Il calcolo differenziale veniva appunto presentato come quella branca della matematica che tratta di grandezze continue (e di variazioni continue di grandezze) senza che tuttavia si fosse mai pensato di dare una definizione o una soddisfacente spiegazione della continuità. « Anche le esposizioni più rigorose del calcolo differenziale, » prosegue Dedekind, « non basano le loro dimostrazioni sulla continuità beru;ì... o fanno ricorso a nozioni geometriche o comunque suggerite dalla geometria, oppure dipendono da teoremi che non sono mai stati stabiliti in maniera puramente aritmetica. » Da queste considerazioni scaturisce il compito che si presenta inderogabile per l'analista rigoroso (e che Dedekind assume come scopo del suo saggio) : quello di giungere a scoprire la « vera origine» della continuità «negli elementi dell'aritmetica, assicurando nel contempo una definizione reale dell'essenza della continuità», sicché essa, spogliata da ogni immagine intuitiva e da ogni inutile riferimento geometrico, possa costituire il punto di partenza per effettive «deduzioni corrette». Da questo punto di vista dunque tutta la revisione critica legata al problema della definizione dell'irrazionale può essere riguardato come il tentativo, che fu come vedremo effettivamente coronato da successo, di sostituire al continuo geometrico il continuo « aritmetico ». Su questo punto torneremo comunque più avanti, dopo aver brevemente esposto le principali « teorie degli irrazionali » proposte dagli analisti di questo periodo. Decisivo impulso a quest'opera di ricostruzione diede Karl Weierstrass. 1 Egli 'era venuto esponendo nelle sue lezioni all'università di Berlino una propria teoria degli irrazionali che fu successivamente presentata dal suo allievo Ernst August Martin Kossak (I 8 39-92), e alla quale si ispirò per la propria versione un altro suo più celebre allievo, quel Georg Cantor di cui dovremo occuparci lungamente in un prossimo paragrafo. L'importanza del problema era nel frattempo divenuta centrale per l~ stesso progresso dell'Analisi, sicché, con una contemporaneità non rara nella storia della scienza, nel I 87 2 apparvero almeno quattro lavori che proponevano sostanzialmente tre tipi diversi di soluzione. Si tratta del volume Die Elemente der Arithmetik (Gli elementi dell'aritmetica), dove Kossak esponeva appunto la teoria del maestro, che veniva anche presentata nello stesso anno dal francese Charles Meray (I 8 35- I 9 I 5) nel suo Nouveau précis d'ana!yse in.ftnitésimale (Nuovo compendio d'analisi in.ftnitesimale). Una propria soluzione ispirata alla teoria di I Karl Weierstrass nacque a Ostenfelde il 3 I ottobre I 8 I 5. Fu avviato dal padre alla carriera giuridica e studiò giurisprudenza e scienza delle finanze a Bonn fino al I834. Nel frattempo però egli si era applicato privatamente allo studio della matematica, e dopo aver vinto nel I84I una cattedra liceale di questa materia, si dedicò completamente ad essa, insegnando in varie scuole. Pubblicò nel I 8 54 e nel I 856 fondamentali memorie sul « Journal de Crelle » che gli valsero l 'assegna-
zione di una laurea ad honorem da parte dell'università di Konigsberg. Nel I864 venne chiamato a Berlino come professore ordinario. Divenne qui un caposcuola soprattutto per quanto riguarda la teoria delle funzioni ellittiche e abeliane, nonché, in generale, per l'intransigente ricerca di rigore nella sistemazione dell'Analisi. Morì a Berlino il I9 febbraio I897 (dopo che l'accademia di Berlino aveva iniziato già dal I894 la pubblicazione della sua opera omnia).
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W eierstrass, ma secondo le sue stesse parole « solo esteriormente simile » a quella, presenta succintamente Cantor in Ober die Ausdehnung eines Satzes aus der Theorie der trigonometrischen Reihen (Sull'estensione di una proposizione dalla teoria delle serie trigonometriche); Cantor darà un'ampia esposizione della propria teoria undici anni più tardi nell'articolo Ober unendliche lineare Punktmannigfaltigkeiten (Sugli insiemi infiniti lineari di punti). La terza teoria è infine quella presentata da Dedekind ed è contenuta nel saggio sopra citato Continuità e numeri irrazionali. Va ancora ricordato che sempre nel I87z Eduard Heine (I8zi-8z), nell'articolo Die Elemente der Funktionenlehre (Gli elementi della teoria delle funzioni) prospetta una soluzione sostanzialmente coincidente con quella di Cantor ma ottenuta indipendentemente da questi (sicché si parla anche di teoria di Heine-Cantor). Tale teoria fu ripresa nel I877 da Rudolf Lipschitz (I83z-I903) nelle Grundlogen der Ana(ysis (Fondamenti dell'Analisi). Del I 886 è infine l' Introduction à l'étude des fonctionsd'une variable (Introduzione allo studio delle funzioni di una variabile) ove Paul Tannery (I843-I904) presenta una teoria di tipo dedekindiano e che Dedekind stesso riconobbe essere stata ottenuta in modo indipendente dallo studioso francese (sicché si parla anche di teoria di Dedekind-Tannery). Si può dire che dalla fine del secolo è divenuto usuale far precedere ogni trattato d'Analisi da una teoria dei numeri reali esposta in generale o nella forma dedekindiana o, più usualmente, nella forma cantoriana. Illustriamo ora brevemente le tre definizioni. z. I. I. Definizione di Weierstrass. Questi parte dalla considerazione di insiemi infiniti {av}. di razionali positivi che soddisfino la condizione che tutte le somme di un numero finito di loro elementi siano complessivamente limitate, si mantengano cioè costantemente minori di un dato intero positivo n, arbitrario ma prefissato. A ognuno di tali insiemi viene « associato » un numero b e si dimostra quindi che per tali numeri possono definirsi le usuali relazioni di « uguale », « maggiore » e « minore », in termini di proprietà degli insiemi cui essi sono associati: con lo stesso procedimento è possibile definire tra tali numeri le usuali operazioni di somma e prodotto ecc. Il momento generatore nel metodo di Weierstrass è evidentemente quello della formazione di somme; va esplicitamente osservato che tale momento riguarda sempre e soltanto un numero finito di elementi dell'insieme considerato e che il numero b associato all'insieme {av} (o, come anche diremo, determinato da quell'insieme) non viene definito ponendolo uguale alla sommatoria sull'insieme stesso (I:~v), e ciò proprio per evitare quella circolarità di cui sopra si parlava, per evitare cioè di definire un numero tramite se stesso. Cantor attribuisce esplicitamente a Weierstrass il merito di essere stato il primo a comprendere la centralità di questo passaggio e di aver cosi evitato una definizione circolare. z.1.z. Definizione di Cantor. Oltre ad avere una similitudine solo esteriore con la teoria di Weierstrass, Cantor ritiene che la propria teoria abbia su quella il vantaggio di « adattarsi in modo più immediato >> al calcolo; tale vantaggio 362 www.scribd.com/Baruhk
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egli rivendicherà alla propria sistemazione anche nei riguardi della teoria di Dedekind. Anche Cantar considera come punto di partenza insiemi infiniti di numeri razionali positivi, che caratterizza tuttavia con una condizione diversa da quella di Weierstrass. Precisamente egli richiede che dato un tale insieme {av} si abbia che la differenza av +, -av fra due suoi elementi qualsiasi diminuisca indefinitamente al crescere di v, qualunque sia l'intero positivo m, o altrimenti detto che, comunque prefissato un e: positivo arbitrario « piccolo a piacere », risulti in valore assoluto
per v :::::.. n1 e m intero positivo qualunque. Con le precisazioni che seguiranno, si può esprimere la cosa con la scrittura più concisa lim l av + m -av l = o, per m arbitrario.
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Altrimenti detto, solo per un numero finito di termini di un insieme {av} siffatto tale differenza risulta maggiore o uguale a e:. Insiemi che soddisfano questa condizione vengono detti da Cantar successioni fondamentali (in terminologia moderna: successioni convergenti, o successioni di Cauchy); a ognuna di esse viene « associato» un numero b che può essere razionale (si costruiscono facilmente successioni fondamentali che hanno «limite» razionale) o irrazionale (e si introducono cosi questi «nuovi numeri»). Sulla base delle usuali relazioni di «uguale», « maggiore » e « minore » opportunamente estese alle successioni fondamentali {av} e {a'v}• si definiscono analoghe relazioni fra i numeri b e b' ad esse associati. Con lo stesso procedimento, alla somma {av +a'v} e al prodotto {av·a'v} di due successioni fondamentali {av} e {a'v} si associano rispettivamente i numeri b +h' e h·b' che rappresentano la somma e rispettivamente il prodotto dei due numeri determinati da quelle successioni. A questo punto Cantar ritiene di poter dimostrare rigorosamente che se b è il numero associato alla successione fondamentale {av} allora si ha lim
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{av} =b.
Si deve porre attenzione al fatto che, come per Weierstrass, il numero b non viene definito come limite della successione fondamentale {av}• altrimenti si incorrerebbe ovviamente nella circolarità più volte denunziata. Le cose stanno piuttosto, dice Cantar, esattamente al contrario: « ... attraverso la nostra definizione il concetto b è pensato e costruito con tali proprietà e relazioni con i numeri razionali che da esso può essere dedotto con evidenza logica la conclusione: lim {av} esiste ed è uguale ab».
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Resta da mettere in evidenza un aspetto della teoria di Cantor che potrà
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essere collocato nella sua giusta luce nel seguito di questo capitolo (si veda il paragrafo ru). Una volta avviato col metodo cantoriano sopra descritto il processo di introduzione di « nuovi numeri » (gli irrazionali) per mezzo delle successioni fondamentali di numeri razionali, è chiaro che sarà possibile iterarlo considerando successioni fondamentali i cui elementi siano numeri determinati da successioni fondamentali di numeri razionali: se conveniamo di chiamare questi ultimi « del primo ordine», chiameremo quelli «del secondo ordine». Iterando successivamente il procedimento avremo successioni fondamentali di elementi del secondo ordine cui saranno associati numeri del terzo ordine, e così via. Nei vari ordini superiori non si introducono numeri che non possano essere determinati con successioni fondamentali del primo ordine (e questa è l'espressione cantoriana della «completezza», del campo reale); così facendo però si tien conto a parere di Cantar della «diversa forma e contenuto concettuale dell'esser dato» di un numero, sicché si avrebbe così a livello definitorio un'adeguazione della «generazione» di un particolare numero col suo modo « naturale» di presentarsi nella pratica del calcolo analitico. z. 1. 3. Definizione di Dedekind. Dedekind parte dalla considerazione di tutti i numeri razionali, ossia considera l'intero insieme Q che intende come un dominio numerico ordinato di cui vengono assunte come rilevanti le seguenti caratteristiche: 1) si possono definire fra i suoi elementi le usuali relazioni di« uguale», « maggiore » e « minore » che godono della proprietà transitiva (ossia, per a, b, c, razionali: se a è maggiore [minore] di b e b è maggiore [minore] di c, allora a è maggiore [minore] di c); z)l'ordine così determinato in Q è denso ossia dati due qualunque elementi a e b di Q diversi fra loro esiste sempre (almeno) un elemento c che « giace >> fra di essi ossia che è maggiore del minore e minore del maggiore; 3) quella che possiamo chiamare la proprietà di « sezionabilità »: fissato un numero razionale a qualsiasi, tutti i numeri di Q risultano divisi in due classi A1 e Az entrambe infinite e tali che A1 contiene tutti i razionali minori di a, mentre Az contiene tutti i razionali maggiori di a. Risulta immediatamente che ogni numero della prima classe è minore di ogni numero della seconda; a stesso può essere indifferentemente assegnato alla prima classe come massimo o alla seconda classe come minimo. Ora nel saggio sugli irrazionali e la continuità, Dedekind effettua un confronto fra l'insieme Q considerato come sistema ordinato caratterizzato dalle proprietà precedenti e la retta L intesa come insieme ordinato di punti; individua quindi quella che a suo parere è l'« essenza » della continuità su L e propone poi la sua definizione di irrazionale nel senso di un « completamento » dell'insieme Q che ponga questo insieme in condizioni di « rendere » questa ulteriore proprietà della retta. Siccome noi ci dedicheremo più avanti in questo paragrafo al rapporto continuità-numeri reali, ci limitiamo a questo punto semplicemente a riferire la definizione dedekindiana di numero reale. Le premesse per tale definizione vengono individuate da Dedekind nel pro-
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cedimento « inverso » a quello che ci permette di constatare la proprietà di sezionabilità sopra vista: con questa si stabilisce, è forse opportuno ribadirlo, che ogni numero razionale a produce una « sezione » nel senso sopra chiarito, ossia una ripartizione di tutti i numeri razionali in due classi opportune A1 e A2 a ciascuna delle quali indifferentemente il numero a può essere pensato appartenere. Si può esprimere in modo diverso la cosa dicendo che ogni numero razionale determina una sezione (A1, A2) tale che o la sua prima classe contiene un massimo o la sua seconda classe un minimo. Orbene, operando appunto il procedimento inverso, partendo cioè da partizioni già effettuate, è chiaro che in linea di principio possono presentarsi quattro possibilità: I) si può ottenere una partizione dei razionali in due classi A1 e A2 tali che A1 ha un massimo e A2 un minimo; z) si può ottenere ... tali che A1 non ha massimo e A2 non ha minimo; 3) si può ottenere ... tali che A1 ha un massimo e A2 non ha un minimo; 4) si può ottenere ... tali che A 1 non ha massimo e A2 ha un minimo. Ora, per la proprietà di densità prima riscontrata nell'ordine assunto dei razionali, è facile convincersi che non può aversi il caso I). Si trovano invece facilmente esempi per i casi rimanenti; il caso 3) si ha ad esempio ponendo in A 1 tutti i razionali ~ 3/4 e in A2 i razionali rimanenti; il caso 4) ponendo ad esempio in A 1 tutti i razionali < 5/6 e in A2 i rimanenti. Un esempio infine del caso z) si ha ponendo, mettiamo, in A1 tutti i razionali il cui quadrato sia minore di 2. e in A 2 i razionali rimanenti. Si nota subito che anche in quest'ultimo caso sono interessati tutti i numeri razionali e che le due classi risultanti da tale partizione sono infinite, sicché si ottiene una sezione dedekindiana; ma è altrettanto facile convincersi che in questo caso non esiste un numero razionale che produca questa sezione, ossia che funga da « elemento di separazione » fra le due classi (o altrimenti detto, appunto, che possa porsi come massimo della prima classe o come minimo della seconda). Orbene, afferma Dedekind, « ogniqualvolta abbiamo una sezione (A1, A2) non prodotta da alcun numero razionale, noi creiamo un nuovo numero, un numero irrazionale, che riguardiamo come completamente definito da questa sezione. Da ora in avanti quindi a ogni sezione definita corrisponde un numero definito razionale o irrazionale; e noi riguardiamo due numeri come diversi o non uguali sempre e soltanto allora che essi corrispondano a sezioni essenzialmente diverse». Riassumendo, i numeri irrazionali vengono ottenuti per Dedekind mediante un « libero atto creativo dello spirito umano » e vengono quindi « associati » a particolari sezioni sull'insieme dei numeri razionali, precisamente a quelle sezioni non determinate da alcun numero razionale. Naturalmente si possono definire per le sezioni le usuali relazioni e operazioni fra numeri; la cosa è soltanto un po' laboriosa e delicata nel caso per cosi dire « ibrido », in cui siano implicate una « sezione razionale » e una « sezione irrazionale », ma non presenta difficoltà di principio.
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Cantor sollevò alcune obiezioni alla definizione di Dedekind (come del resto a quella di Weierstrass) e questi a sua volta mise in evidenza quelle che a suo parere erano delle imperfezioni nella teoria cantoriana; si tratta tuttavia di obiezioni marginali, perlopiù di ordine tecnico, e che si manifestavano fra due autori ognuno dei quali riconosceva di buon grado la perfetta rigorosità dei metodi escogitati dall'altro (fra Dedekind e Cantor si era tra l'altro stabilita una salda amicizia personale). Possiamo quindi tralasciare di considerare queste obiezioni e anzi, oltre a osservare, con Dedekind, che in ogni caso « si prende una sola base comune, sulla quale ci si deve essere accordati, l'aritmetica dei numeri razionali» è possibile concludere, con Jean Cavaillès, che le tre teorie sopra esposte si differenziano, in realtà, soltanto per la diversa presentazione: « Dedekind procede in modo più descrittivo caratterizzando l'insieme dei numeri reali attraverso le sue proprietà, Weierstrass analizza il concetto di numero per trovarvi motivo epossibilità dell'estensione cercata, infine Heine e Cantor si preoccupano soprattutto dei procedimenti di calcolo ». Ben più pregnanti, perché di natura logico-metodologica generale, le obiezioni sollevate contro tutte e tre le teorie proposte (in effetti ci si riduceva .poi ad esaminare solo quella cantoriana e quella dedekindiana, e così faremo anche noi) da Gottlob Frege nel secondo volume dei. Grundgesetze der Arithmetik (Principi dell'aritmetica, I 90 3) e da Bertrand Russell nei Principles of mathematics (Principi della matematica, I9o3). Tali critiche, pur indipendenti fra loro, colpiscono entrambe quello che è effettivamente un momento delicato delle teorie sopra esposte, e precisamente la questione della dimostrazione dell'esistenza dei numeri (in particolare irrazionali) in esse considerati. Viene così messo a fuoco un problema che sarà centrale in tutta la filosofia della matematica a partire proprio dal periodo che stiamo qui considerando e rispetto al quale si avranno posizioni assai differenziate: alludiamo al problema dell'esistenza degli enti matematici. Si sarà notato che dopo aver posto le rispettive premesse definitorie i vari autori compivano una «associazione» (a particolari insiemi di razionali, o) alle successioni fondamentali o alle sezioni sui razionali, di un nuovo « numero » la cui esistenza di fatto non veniva dimostrata in alcun modo; per essere più esatti, tale esistenza veniva data per scontata, in modo decisamente confuso e non giustificato, sulla base di un assioma di continuità di cui parleremo più avanti. Schematizzando le cose - in vista anche della discussione che segue possiamo quindi dire che se da questi autori veniva evitata la vecchia circolarità connessa con la definizione del numero come rapporto di grandezze geometriche, le rispettive teorie lasciavano sostanzialmente in sospeso due questioni di interesse fondamentale: I) che effettivamente esistesse un « oggetto » associabile a ognuno degli elementi caratteristici delle varie definizioni, vale a dire che le definizioni non fossero« vuote»; 2.) che tale oggetto, una volta riconosciutane l'esistenza, fosse un numero.
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Ora, mentre dalla prima difficoltà non sarebbe stato difficile uscire con opportune identificazioni, ben più problematico sarebbe stato in effetti superare la seconda. È chiaro che a questo riguardo intervengono ·le convinzioni « filosofiche» dei vari autori. Cantor ha una decisa concezione realistica circa l'esistenza degli enti matematici: a partire da classi di oggetti esistenti, fornendo una definizione corretta (ossia, per lui, non obiettabile ma soprattutto matematicamente feconda) si individuano ipso fa_cto enti della cui esistenza e realtà non c'è neppure da dubitare: infatti, con tale procedimento definitorio noi non facciamo altro che descrivere oggetti esistenti indipendentemente da ogni nostra considerazione linguistica o no, da ogni nostra esperienza, sensibile o no. Per Dedekind viceversa le cose stanno in modo completamente differente. Per verità egli si pone il problema dell'esistenza degli irrazionali e lo risolve con un «libero atto creativo della mente umana »; egli ha una visione che vogliamo chiamare funzionalistica, strutturale, della matematica. Come vedremo meglio più avanti, le caratteristiche con le quali Dedekind ritiene di individuare l'insieme dei razionali nella sua definizione, sono in effetti (anche se nel '72 ancora implicitamente) di natura astratta, qualificano ogni sistema ordinato di quel tipo. La garanzia dell'esistenza di irrazionali è allora per lui data semplicemente dal fatto che su ognuno di tali sistemi si possano operare delle sezioni (infinite sezioni); e l'attività creatrice della mente umana serve appunto a « generare » proprio numeri irrazionali, ossia specifiche « cose » che intrattengono certe relazioni con numeri già noti e per le quali è possibile definire certe operazioni fra loro e con numeri già noti. Dedekind, si potrebbe dire, non si riferisce a una data antologia realisticamente intesa, ma « lavora per isomorfismi », si riferisce cioè a un'antologia formale determinata solo algebricamente da un punto di vista strutturale. Le critiche di Frege e di Russell, al di là della loro portata diretta, servono a mettere in luce il salto di consapevolezza metodologica che in un ventennio circa si determinerà nella ricerca matematica. La critica di Frege, almeno nei limiti in cui essa è condotta, colpisce in particolare il punto 1). Anche Frege è realista convinto (e non a caso le obiezioni a Cantor si limitano sostanzialmente a evidenziare deficienze di tipo « logico ») ma ritiene che una volta posta una definizione corretta non v'ha convinzione personale né potenza creatrice alcuna che possa garantire che essa non è «vuota»: è necessario dimostrare l'esistenza degli enti postulati dalla definizione stessa. Per quanto riguarda il secondo punto, Frege non accetta il discorso dedekindiano (che qualifica tout court come formalista) semplicemente considerandolo superfluo: non si tratta di trovare isomorfie strutturali, bensl soltanto di presentare « oggetti » che godano di date proprietà. Comunque Frege, nell'opera citata, dopo una pars destruens estremamente dettagliata nella quale sottopone a critiche stringenti (anche se talora prolisse e venate di risentimento personale) le teorie presentate (con l'intento generale di dimostrare l'insostenibilità delle teorie formali dell'aritmetica), propone anche una
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propria soluzione al problema. Egli ribadisce la possibilità di definire il numero in generale come :rapporto di « grandezze » e indica in effetti in modo ipotetico di natura di tali « grandezze » e il tipo di proprietà che certe classi di tali grandezze debbono possedere per rendere possibile una definizione logicamente corretta e non vuota (il che gli risulterebbe addirittura per costruzione) dei numeri reali. Il suo metodo avrebbe inoltre il non indifferente vantaggio di consentire una definizione diretta dei reali, senza cioè richiedere alcun appello all'« aritmetica dei razionali ». Il fatto è che egli tronca la sua ricerca proprio lasciando aperto il compito di dimostrare l'esistenza di almeno una classe di «oggetti» (che Frege identificava con particolari relazioni) che giustifichino tale definizione. In altri termini, si può rivolgere contro la teoria abbozzata da F:rege, paradossalmente, la stessa critica da cui egli aveva preso le mosse per « emendare » le teorie esaminate. Vanno tuttavia notate la chiarezza e la coscienza critica con le quali egli riesce a cogliere le deficienze logiche nelle definizioni che prende in esame, nonché la franchezza con la quale denuncia l'insufficienza della propria costruzione. Russell rileva le stesse difficoltà nelle teorie correnti degli irrazionali, e mostra come le tre teorie in questione siano sostanzialmente equivalenti su un piano puramente formale. Per quanto riguarda i punti 1) e z) precedenti egli risolve il primo prospettando una teoria dei « segmenti » (da non intendersi in senso geometrico) di razionali con la quale in sostanza presenta un sistema la cui struttura è isomorfa (diremmo noi oggi) a quella :richiesta per il campo numerico reale (in particolare per quanto riguarda la «continuità»); opera quindi una opportuna identificazione (che appunto mancava esplicitamente in Dedekind e Cantor) degli elementi di questo sistema di segmenti con i numeri razionali e con i «numeri» irrazionali. Per quanto invece riguarda il punto z) la sua risposta è decisamente negativa: un numero reale è un particolare « segmento » e quindi non possiede in alcun modo, proprio in quanto oggetto, quelle caratteristiche « intuitive » che siamo soliti attribuire a un numero. Le due questioni sono quindi risolte nella stessa impostazione :russelliana, operando su particolari sottoinsiemi ordinati dell'insieme dei numeri razionali (i« segmenti», appunto). Ciò permette a Russell di evitare l'assioma di continuità (si veda più avanti) perché« se esistono numeri razionali, devono esistere segmenti di razionali ». Inoltre col suo modo di affrontare il problema Russell ritiene del tutto superata, come complicazione niente affatto necessaria, la questione di « creare » o comunque introdurre i numeri irrazionali « .. . giacché se i segmenti compiono tutto ciò che è richiesto dagli inazionali, appare superfluo introdurre una nuova serie parallela di entità [gli irrazionali, appunto] con precisamente le stesse proprietà matematiche ». Ci sembra superfluo in questa sede scendere in ulteriori particolari tecnici. Vogliamo in conclusione far notare come questioni del tipo sopra esposto ven-
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gano oggi di norma affrontate e « risolte » col metodo assiomatico risalente in sostanza a Hilbert (si veda il paragrafo v) che comprende da un punto di vista più astratto le varie definizioni particolari proposte (giusta l'osservazione di Russell sulla loro sostanziale equivalenza formale), elimina -in certo senso alla base la questione circa la natura geometrica, aritmetica, o altro degli enti che definisce implicitamente, e rimanda le questioni esistenziali (in questo caso facilmente risolubili) a un discorso semantico più generale. Ma avremo occasione di tornare nel seguito su questo aspetto della questione. 2.2. Numeri reali e continuo. Si può dire che l'ottenuta definizione del concetto di numero irrazionale costituisse una soluzione soddisfacente (almeno da un punto di vista puramente matematico e sul metro di « rigore » di quel momento) del problema di « aritmetizzare »l'Analisi, almeno in due sensi: in primo luogo perché l'aveva resa indipendente dalla geometria (in quanto momento intuitivo e vago della fondazione) e anzi aveva ribaltato il senso della dipendenza, perché veniva a fornire all'indagine geometrica un valido strumento, ora autonomamente fondantesi; in secondo luogo perché aveva assicurato all'Analisi, ossia alla scienza del continuo per eccellenza, un ben definito campo numerico « continuo » che ne rigorizzava in modo automatico il riferimento fondamentale. Alla connessione fra teoria dei numeri reali, infinità e continuità (geometrica) non è stato possibile non accennare ripetutamente nelle pagine precedenti anche se, per chiarezza, si è tentato di isolare da questo contesto globale i vari elementi di questo classico problema. Vogliamo ora occuparci (ovviamente in connessione con le discussioni precedenti) in particolare del problema della continuità. Afferma Russell in proposito, nei Principi: «Ci troviamo di fronte al problema che generalmente venne considerato come fondamentale della filosofia della matematica, intendo dire il problema dell'infinità e della continuità ... Fin dai tempi di Newton e di Leibniz si è cercata la natura dell'infinità e della continuità attraverso le discussioni sul cosiddetto calcolo infinitesimale. Ma è stato dimostrato che questo calcolo non riguarda affatto, in realtà, l'infinitesimale, e che un grande e importantissimo ramo della matematica è logicamente antecedente a esso. Il problema della continuità è stato, inoltre, in gran parte separato da quello dell'infinità. Si supponeva un tempo, e qui sta la vera forza della filosofia della matematica di Kant, che la continuità avesse un riferimento essenziale allo spazio e al tempo, e che il calcolo infinitesimale (come suggerisce la parola flussione) presupponesse in qualche modo la nozione di moto o almeno di cambiamento. Secondo quest'ipotesi la filosofia dello spazio e del tempo precedeva quella della continuità . . . Tutto ciò è mutato per opera dei matematici moderni. Ciò che si chiama l'aritmetizzazione della matematica ha fatto vedere che tutti i problemi presentati, a questo riguardo, dallo spazio e dal tempo, sono già presenti nell'aritmetica pura.» Sicché risulta ora possibile « ... dare una definizione generale di continuità, senza fare appello a quella massa di pregiudizi non analizzati che i
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kantiani chiamano " intuizione "; e ... vedremo che lo spazio e il tempo non implicano alcuna altra continuità ». Per quanto ora riguarda più particolarmente quest'ultima nozione, notato che essa venne in generale riguardata come non suscettibile di analisi, ossia assunta come primitiva, Russell osserva ancora che « si sono affermate molte cose su di essa, compreso il detto di Hegel, che ogni cosa discreta è anche continua e viceversa. Questa osservazione, che costituisce un esempio della solita abitudine di Hegel di associare gli opposti, venne pedissequamente ripetuta da tutti i suoi seguaci. Ma su ciò che essi intendevano per continuità e discretezza, essi hanno mantenuto un silenzio altrettanto continuo e discreto; una sola cosa era evidente: che qualunque cosa essi intendessero, questa non aveva importanza per la matematica, né per la filosofia del tempo e dello spazio ». Noi schematizzeremo il problema nelle pagine che seguono e ci atterremo principalmente al corso delle argomentazioni di Dedekind nel suo saggio del 1872. Supponiamo quindi di possedere intuitivamente la nozione di continuità (geometrica) e di concretizzarla per comodità nella retta L intesa come insieme dei suoi punti: assumiamo cioè come noto intuitivamente il concetto di continuo (lineare) geometrico. Tentiamo quindi di caratterizzare tale continuo, di individuare cioè delle proprietà della retta che ragionevolmente si possano porre come caratteristiche e peculiari della proprietà da essa goduta di essere « continua ». Un possibile modo di far ciò è il seguente: notiamo che la retta L può considerarsi come un sistema (totalmente) ordinato di punti, nel senso che due qualsiansi punti di L o coincidono oppure può dirsi che l'uno «precede» l'altro o viceversa che l'uno «segue» l'altro. Questa proprietà d'ordine è transitiva, ossia se A, B, C sono punti distinti della retta e A precede B e B precede C allora anche A precede C. Altra proprietà che individuiamo facilmente è quella della densità, per cui cioè dati sulla retta due punti distinti A e B qualunque, esiste sempre (almeno) un punto C (e quindi infiniti) che « giace » fra di essi, ossia che « segue » A e che « precede » B. Si noti che, una volta pensato definito su L un sistema di misura, questa proprietà comporta subito che non esistono sulla retta misure minime: considerati infatti due punti distinti A e B, esisterà fra di essi un punto intermedio C la cui distanza da A e da B sarà minore della distanza fra A e B. Lo stesso ragionamento può ripetersi per le due coppie di punti A, C e C, B ora determinate e cosi via. Nella misura quindi in cui riteniamo la retta continua, avremo intanto ottenuto che se in un insieme ordinato esistono « distanze minime », tale insieme non potrà essere continuo. L'ultima proprietà cui vogliamo rifarci per caratterizzare la continuità è la seguente (sezionabilità): comunque si prenda un punto A sulla retta, questa viene divisa in due parti P1 e P2 entrambe infinite, e tali che ogni punto di P1 precede ogni punto di P 2 (ogni punto di P 2 segue ogni punto di P1); il punto A può essere indifferentemente assegnato come « ultimo » punto a P1 o come « primo » punto a P2.
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Risulta chiaro che le proprietà con le quali abbiamo supposto di poter caratterizzare la continuità della retta L coincidono (salvo ovviamente il cambiamento di nomi) con le proprietà con le quali Dedekind aveva caratterizzato l 'insieme Q dei numeri razionali. Ciò comporta immediatamente che se veramente avessimo con tali proprietà colto quella che Dedekind chiama l'« essenza» della continuità, dovrebbe risultare continuo anche l'insieme Q. Detto in altri termini, - e a parte certe precisazioni - dovrebbe essere possibile associare ad ogni punto della retta senza esclusioni un numero razionale in modo per cosi dire che punti diversi ricevessero « nomi numerici » razionali diversi. Eppure disponiamo già di prove conclusive del fatto che ciò non è possibile: la scoperta dell'esistenza di segmenti incommensurabili è già sufficiente a mostrarci che la retta L è infinitamente più ricca di individui-punti di quanto Q non sia ricco di individui-numeri; vale a dire sappiamo già, grazie alla scoperta pitagorica dell'irrazionale, che non è possibile compiere. l'associazione nominale di cui sopra si parlava: non esistono abbastanza ((nomi numerici)) (razionali) che ci permettano di individuare punto per punto il continuo lin~are geometrico. Ne discende subito che le caratterizzazioni sopra date per Q e per L sulla base delle quali essi risulterebbero per così dire «equivalenti» rispetto alla continuità, non hanno colto l'essenza della continuità della retta. A questo punto intervengono le considerazioni « inverse » di Dedekind cui si accennava in riferimento alla sua definizione del concetto di numero irrazionale; infatti, se ora noi« ... come desideriamo, vogliamo rendere compiutamente in modo aritmetico tutti i fenomeni sulla retta, il dominio dei numeri razionali è insufficiente e diventa assolutamente necessario che lo strumento Q costruito per mezzo della creazione dei numeri razionali sia essenzialmente migliorato mediante la creazione di nuovi numeri tali che il dominio dei numeri ottenga la stessa completezza, o come diremo, la stessa continuità della retta ». Ecco che allora il problema diventa quello di indicare una caratteristica precisa della continuità che possa farne una base per effettive deduzioni valide; e come il lettore avrà certamente compreso, tale caratteristica viene da Dedekind ritrovata appunto in una proprietà inversa a quella di sezionabilità. È vero infatti che ogni punto della retta produce una sezione nel senso sopra accennato; ma, viceversa, afferma Dedekind, «io trovo l'essenza della continuità nel converso, ossia nel seguente principio: " Se tutti i punti della retta si dividono in due classi tali che ogni punto della prima classe giace a sinistra di ogni punto della seconda classe, allora esiste uno e un solo punto che produce questa separazione di tutti i punti in due classi, questa suddivisione della retta in due parti " ». Si può ritenere, a prima vista, che questa caratterizzazione sia banale, ma a questo, diceDedekind, «vorrei rispondere che ... sono felice se ognuno trova il principio sopra esposto così ovvio e così in armonia con la sua propria idea di retta; poiché io infatti non sono in grado di fornire alcuna dimostrazione della sua correttezza, né nessuno
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può far ciò. L'assunzione di questa proprietà della retta è nu/1'altro che un assioma in base al quale noi attribuiamo alla retta la sua continuità, per mezzo del quale troviamo la continuità nella retta» (corsivo nostro). Espresso in termini di sezioni, quanto sopra significa semplicemente che sulla retta non è possibile eseguire sezioni del tipo z) illustrato al numerò precedente, o, tenendo conto del contenuto intuitivo di tali sezioni, che sulla retta non esistono « lacune ». Assumere quindi per la retta L la validità di questo principio comporta immediatamente mettere in risalto il diverso comportamento a questo riguardo dell'insieme Q dei razionali: in quest'ultimo si individuano infatti facilmente - come abbiamo già esemplificato -- sezioni di tipo z) ossia non determinate da alcun numero razionale. Orbene, proprio in « questa proprietà che non tutte le sezioni sono prodotte da numeri razionali consiste l 'incompletezza o discontinuità del dominio Q di tutti i numeri razionali »; e risulta chiara ormai, d'altra parte, la motivazione all'ampliamento numerico dell'insieme Q. Considerando ora non più l'insieme Q, ma l'insieme R ottenuto come riunione di tutti i numeri razionali e di tutti i numeri irrazionali così introdotti, Dedekind può dimostrare che R, oltre a godere delle tre proprietà sopra viste e caratteristiche per Q, gode anche appunto della proprietà di continuità nel senso del principio sopra specificato, vale a dire che ogni sezione effettuata in R possiede, in R, un elemento di separazione. Riprendendo qui per inciso il discorso sulla teoria dedekindiana degli irrazionali, è chiaro che una volta postulata l'esistenza di un elemento separatore (punto) per ogni sezione sulla retta, l'atto creativo non fa che consentire il passaggio dalla geometria all'aritmetica e non è particolarmente problematico per Dedekind, dopo quanto si è detto sulla sua impostazione di filosofia della matematica. Va notato a questo punto che anche Cantar, già nella sua prima, succinta esposizione, tocca ovviamente il problema del rapporto fra insieme dei numeri reali e continuità della retta. In proposito afferma (la diversa terminologia non dovrebbe far sorgere difficoltà) che per «rendere completo il collegamento del dominio dei numeri reali sopra definito con la geometria sulla retta, va solo introdotto ancora un assionta, il quale semplicemente consiste in questo che reciprocamente anche a ogni numero reale corrisponde un punto determinato la cui coordinata (ascissa) è uguale a quel numero», aggiungendo che egli chiama « ... assioma questa proposizione perché è nella sua natura di non essere in generale dimostrabile ». È estremamente importante notare come tanto Dedekind quanto Cantar colgano esplicitamente la natura assiomatica, postulazionale del concetto di continuità. Da una parte questo pone fine a una ricerca antica di secoli sull'« essenza» della continuità tradizionalmente e definitivamente orientata verso una spiegazione riduzionistica, in termini di altri concetti, e quindi nello stabilirne la natura di « nozione primitiva » che viene spiegata appunto non riconducendolo a concetti « più originari » bensì tramite una caratterizzazione precisa, che illustra
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specifiche proprietà del concetto in questione; dall'altra questo riconoscimento concorre non poco, sia pure implicitamente, alla successiva revisione del metodo assiomatico che verrà puntualizzato nella sua forma moderna da Hilbert di lì a qualche decennio; più precisamente, mostra, da questo punto di vista, come esistessero già in questo periodo (e lo vedremo meglio nel paragrafo v) germi precisi per tale cambiamento. In questo ordine di idee, anticipando talune notizie per comodità del lettore e per completezza di esposizione, si possono fare alcune interessanti osservazioni sulla diversa portata dei due assiomi di continuità, quello dedek.indiano (che assumiamo nella forma su esposta), e quello cantoriano, che in termini di una successiva enunciazione del suo autore può essere espresso come segue: « Data su una retta una successione di segmenti a~o a2, ... an ... aventi le seguenti proprietà: I) ogni segmento contiene tuttll successtvt; z) prefissato comunque un segmento e piccolo a piacere esiste un segmento an della successione che ha lunghezza minore di e; allora esiste uno e un solo punto interno a tutti i segmenti della successione. » Questi due assiomi non sono infatti equivalenti; la critica successiva ha messo in luce che da quello di Dedekind (e dagli altri postulati abitualmente ammessi come fondamento della geometria) è derivabile una proposizione, nota come postulato di Eudosso-Archimede, 1 che non è invece derivabile da quello cantoriano. È immediatamente chiaro, pur senza scendere in particolari, che sarà quindi possibile, assumendo la continuità nel senso di Cantor, « costruire » geometrie che pur essendo continue non soddisfano il postulato archimedeo (le cosiddette geometrie non archimedee). Va infine detto che Hilbert, nella sua assiomatizzazione moderna della geometria, esprime appunto la continuità mediante due proposizioni (assiomi) una delle quali è equivalente al postulato di Archimede, mentre l'altra, e la cosa dovrebbe risultare comprensibile al lettore dopo quanto detto, afferma proprio la non estendibilità, la completezza del sistema cosi ottenuto ove siano soddisfatti tutti gli altri assiomi. Senza discutere in questa sede tutta una serie di altri interessantissimi problemi che questa nuova concezione del continuo pone in modo originale e fecondo (e ad alcuni dei quali accenneremo in seguito) vogliamo qui ricordare due classiche questioni filosofiche in questo contesto, che furono appunto poste in una luce completamente nuova dalle scoperte matematiche sopra delineate. I) Relativamente al problema se questa caratterizzazione matematica del continuo risulti per cosi dire indipendente dalla« materia» sulla quale è stata costruita, nella fattispecie avendo assunto come modello di continuità quella geometrica della retta, si può dimostrare che anche ogni altro tipo di continuo si può riporI Il postulato di Eudosso-Archimede può nCD > AB. In altri termini, dati due segmenti essere espresso dicendo che dati sulla retta due segmenti distinti AB e CD, supposto ad esempio AB> CD, esiste sempre un n naturale tale che
diversi, esiste sempre un multiplo del minore che supera il maggiore.
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tare a quello aritmetico. Come casi particolarmente importanti per la scienza e la filosofia ricordiamo i « classici » continui per eccellenza: il tempo e lo spazio. A proposito di quest'ultimo anzi, e in connessione evidentemente con le riflessioni conseguenti la scoperta delle geometrie non euclidee da una parte e con le idee di Riemann e Helmholtz dall'altra, viene sempre più imponendosi una visione non kantiana e il problema dello spazio viene drasticamente sdrammatizzato a livello matematico. Afferma ad esempio Dedekind: «Ammesso che lo spazio abbia un'esistenza reale, non è per esso necessario essere continuo; molte delle sue proprietà rimarrebbero uguali anche se fosse discontinuo. E se noi sapessimo per certo che lo spazio non è continuo, nulla ci impedirebbe di colmare le sue lacune, rendendo lo così continuo; questo colmare le lacune consisterebbe in una creazione di nuovi individui-punti e verrebbe effettuata secondo il principio di continuità sopra enunciato.» E Cantor, da parte sua, ritiene che «l'ipotesi della continuità dello spazio non è null'altro che l'assunzione, in sé arbitraria, della corrispondenza biunivoca e completa fra il continuo tridimensionale puramente aritmetico ... e lo spazio posto a fondamento del mondo dei fenomeni» (corsivi nostri). 2.) Relativamente invece al problema del rapporto fra continuo così concepito e gli elementi che implicitamente si ritiene lo costituiscano, le soluzioni proposte sono a tutt'oggi assai diverse; va menzionata in particolare la posizione intuizionista (che avremo occasione di discutere più avanti in dettaglio) secondo la quale il continuo è per così dire il fatto originariamente dato dal quale poi si « estraggono » i « punti costituenti » e non viceversa. Infine, nel rapporto continuità-infinità va segnalato l'insorgere di un'altra problematica che, da una sua peculiare angolatura, si pone come ulteriore soluzione al problema e che comporta altre caratterizzazioni di tipo ordinale e di tipo cardinale del continuo stesso: intendiamo alludere alla teoria degli insiemi di Cantor di cui ci occuperemo nel paragrafo III. 2.-3- L'assiomatizzazione dell'aritmetica. Nel contesto generale dell'esigenza di rigore della matematica del xrx secolo, l'aritmetizzazione dell'Analisi si pone quindi come un primo essenziale momento, conclusivo del grande processo di revisione critica teso ad assicurare alla matematica una fondazione autonoma e una posizione in certo senso privilegiata rispetto alle altre scienze. Felix Klein esprime molto bene questo concetto nel I 89 5 con le seguenti parole: « In Euclide - e in generale negli antichi pensatori matematici - la geometria è, grazie ai suoi assiomi, la base rigorosa dell'aritmetica generale, che comprende anche l'irrazionale. L'aritmetica ha conservato questa condizione di vassallaggio rispetto alla geometria fino al XIX secolo. Ma in seguito le condizioni si sono completamente modificate; oggi è proprio l'aritmetica che ha ottenuto il predominio, come la vera disciplina fondamentale. » Dopo che si era liberato da questo « vassallaggio » geometrico il concetto generalissimo di numero reale (e con esso l'Analisi) quello che con Weierstrass 374
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era divenuto il « problema di coscienza » della matematica ottocentesca - il problema cioè di una definizione rigorosa del concetto di numero - si specializza per così dire nella questione di dare una chiarificazione puramente « aritmetica » del concetto di numero naturale. Si specializza e non si «riduce» perché nella misura in cui l'aritmetica, questa «regina della matematica »1 poteva considerarsi come la struttura teorica fondamentale, risulta ben presto evidente che una giustificazione fondante del concetto di numero naturale, un chiarimento della natura delle leggi aritmetiche (in particolare dopo le note teorizzazioni kantiane in proposito) assumevano la portata generalissima di una più precisa collocazione della conoscenza e della stessa attività matematica nell'ambito di :una visione filosofica globale della conoscenza. In questo ambito, le posizioni dei vari autori cominciano a differenziarsi. Così, ad esempio, J. Stuart Mill, dopo che l'assolutezza del concetto di spazio e la stessa natura aprioristica della geometria erano state messe in crisi dalla scoperta delle geometrie non euclidee, tenta di inserire in un quadro empirista (di marca psicologistica) anche l'aritmetica (ossia, in definitiva, la matematica). Il numero è per lui una pura rappresentazione soggettiva dello spirito umano, e dietro a ogni numero c'è unfatto; le leggi aritmetiche non sono a suo parere che generalizzazioni empiriche, soggette quindi a variare al mutare delle contingenti condizioni del mondo esterno che le determinano. Da un punto di vista psicologistico prende le mosse anche Helmholtz, che in un volume ·del I887 definisce l'aritmetica come « ... un metodo costruito su fatti puramente psicologici, in base ai quali viene assegnata l'applicazione coerente di un sistema di simboli di portata illimitata e con illimitata possibilità di affinamento ». 2 A partire poi dalla psicologia dell'atto del contare, Helmholtz ritiene di poter giungere all'enunciazione di un sistema completo di assiomi per l'aritmetica, nel tentativo di gettare un ponte fra aritmetica e esperienza (si pensi alle sue analoghe posizioni riguardo alla geometria). Nello stesso volume in cui appare il contributo di Helmholtz, Leopold Kronecker (I 8 23-9 I) compendia nel suo famoso detto « Dio ha creato i numeri naturali, il resto è opera dell'uomo» quella che può essere considerata una prima «grossolana» manifestazione di un atteggiamento intuizionista; e già dal I 879 Frege tenta ripetutamente di imporre negli ambienti scientifici tedeschi il suo programma logicista sui fondamenti della matematica. Una posizione in certo senso intermedia fra quelle sopra delineate (e di alcune delle quali avremo occasione di riparlare nel corso delle nostre pagine) assume Dedekind nel saggio Was sind und was sollen die Zahlen? (Essenza e significato dei 1 Era, come noto, l'appellativo riservato da Gauss alla teoria dei numeri: «La matematica è la regina delle scienze e la teoria dei numeri è la regina della matematica. » 2 La citazione è tratta dal volume Philosophi.rche Aufsiitze zu E. Zellers JO-jiihrigen Doktorjubileum (Memorie filosofiche per il J0° anniversario
del dottorato di E. Zeller), pubblicato a Lipsia nel 1887. Helmholtz vi contribuì con l'articolo Ziihlen und Me.r.ren, erkenntni.rtheoreti.rch betrachtet (Contare e misurare, dal punto di vista della teoria della conoscenza) e Kronecker con l'articolo Ober den Zahlbegriff (Sul concetto di numero).
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numeri) del 1888 (seconda edizione 1893); posizione che a noi qui particolarmente interessa non tanto e non solo per l'intrinseco contenuto epistemologico ma anche perché essa sfocia in una prima assiomatizzazione dell'aritmetica. Dedekind dichiara esplicitamente di essersi deciso a pubblicare il suo saggio dopo aver preso conoscenza dei contributi sopra citati di Helmholtz e di Kronecker; e altrettanto chiaramente afferma che se pure le sue idee sono «per molti aspetti simili » a quelle di tali autori, tuttavia « in sostanza sono da esse essenzialmente differenti ». Si vedrà che in certo senso si potrebbe infatti parlare di uno « psicologismo » di Dedekind, che si manifesterebbe nel rimando alle « leggi del pensiero » per la giustificazione del numero; in questo senso Dedekind è in effetti l'ultimo anello di una catena che lo unisce a Boole, probabilmente con la mediazione di Schroder, che egli cita spesso e per il quale dichiara la massima stima e ammirazione. Ma l'eventuale momento psicologico interviene in Dedekind, a nostro parere, come « appendice » terminale di un discorso fondante che in· effetti si svolge su un piano puramente aritmetico (e quindi, per Dedekind, logico). La ricerca di Dedekind non è diretta a mettere in evidenza gli oggetti ultimi della conoscenza aritmetica (i numeri cioè) bensl a scoprire i processi che eventualmente possono generarli, le relazioni che fra di essi possono stabilirsi. È sì - come vedremo - una precipua «capacità» della nostra mente a permetterei la costituzione della successione numerica, ma tale capacità è specificamente matematica, è la possibilità di Abbildung, di rappresentazione, che viene intesa in senso puramente « formale », e cioè come operante astrattamente e su « cose » lasciate di principio indeterminate. L'atto creativo che conclude tanto nel caso degli irrazionali quanto, come vedremo, nel caso dei naturali, questo procedere dedekindiano, ha quindi più lo scopo - al limite marginale - di individuare specifici oggetti, che non quello di fondare l'aritmetica. La fondazione è astratta e strutturale. A nostro parere l'atteggiamento di Dedekind anticipa la posizione hilbertiana, ossia una posizione formalista matura; è indubbio tuttavia che un'interpretazione puramente « nominalistica » di quello che abbiamo altrove chiamato lo « strutturalismo » dedekindiano ha non poca responsabilità sulle manifestazioni prehilbertiane di un formalismo ingenuo, che riconosceva nel segno in quanto tale l'essenza del numero, e che eliminava cosi alla radice ogni questione esistenziale. Nel suo saggio Dedekind assume come fondamentale il canone che tutto ciò che nella scienza è suscettibile di dimostrazione debba essere dimostrato. Ritiene da questo punto di vista insoddisfacente la situazione della « più semplice di tutte le scienze», çlell'aritmetica, della quale parla come di una «branca della logica» nel senso che egli considera il concetto di numero come « interamente indipendente dalle nozioni o intuizioni di spazio e tempo », per considerarlo invece come un « risultato immediato delle leggi del pensiero ». La risposta che Dedekind dà alle domande che costituiscono il titolo del proprio saggio è brevemente la se-
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guente: « I numeri sono libere creazioni della mente umana; essi servono come mezzo per apprendere più facilmente e con maggior sottigliezza la differenza fra le cose.» In contrapposizione allo psicologismo helmholtziano, che finiva col trarre gli assiomi dell'aritmetica dalla pura forma intuitiva del tempo che è la base dell'atto del contare e ne costituisce la condizione di possibilità, Dedekind prosegue affermando: « È solo attraverso il processo puramente logico di costituzione della scienza dei numeri con la conseguente acquisizione del dominio continuo dei numeri che noi siamo accuratamente preparati a indagare le nostre nozioni di spazio e di tempo, portandole in relazione col dominio numerico creato dalla nostra mente. Se analizziamo più accuratamente ciò che facciamo contando un aggregato o un numero di cose, siamo c-ondotti a considerare la capacità della mente a collegare cose a cose, a far corrispondere cose a cose, o a rappresentare una cosa per mezzo di un'altra, capacità senza la quale non sarebbe neppure possibile pensare. Su quest'unica e quindi assolutamente indispensabile fondazione... dev'essere a mio parere basata l'intera scienza dei numeri» (corsivi nostri). Già nel saggio del '72 Dedekind aveva affermato di riguardare l'aritmetica come « una conseguenza necessaria o almeno naturale, del più semplice atto aritmetico, quello del contare », precisando poi. che il contare stesso non era a suo parere altro che « la successiva creazione della successione infinita di interi positivi nella quale ogni individuo è definito per mezzo di quello che lo precede immediatamente; la più semplice attività consiste nel passare da un individuo già formato al consecutivo nuovo da formarsi ». Questa precisazione è importantissima, perché mette in luce come già allora Dedekind assegnasse una funzione centrale all'induzione matematica nella costituzione e individuazione della successione dei numeri naturali, e come quindi c'era da aspettarsi che una precisazione dell'induzione stessa sarebbe intervenuta a livello definitorio in una più precisa sistemazione della materia. Si comprende allora che nel saggio dell'88 Dedekind annoveri fra i risultati fondamentali che gli sembra d'aver raggiunto, oltre a una precisa definizione dell'infinito (che riterrà punto essenziale di superiorità anche nei riguardi della teoria degli insiemi che Cantar veniva in quel periodo sviluppando), proprio la dimostrazione del fatto « che quella forma di argomento nota come induzione completa (ossia l'inferenza da n a n + 1) è effettivamente conclusiva ... e che di conseguenza la definizione per induzione (o ricursione) è determinata e consistente». Vediamo ora come Dedekind sviluppa il suo discorso. Egli prende le mosse dalla considerazione di sistemi (insiemi, classi) arbitrari S di « cose » (col che egli intende «ogni oggetto del nostro pensiero») e definisce fra di essi le relazioni e operazioni insiemistiche elementari di inclusione e riunione e intersezione. Consideriamo ora due sistemi qualunque Se T; la fondamentale nozione di Abbildung, rappresentazione o trasformazione del sistema S nel sistema T è intesa come una
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qualsiasi legge o prescrizione f in base alla quale a ogni determinato elemento s di S corrisponde un elemento f(s) di T, detto trasformato o immagine di s. Se la f è biunivoca (ossia tale che a un elemento s di S corrisponde come immagine uno e un solo elemento f(s) di T e viceversa) allora Dedekind chiama la trasformazione simile o distinta. Fra le varie rappresentazioni f che possono aversi per un sistema S, Dedekind fissa ora l'attenzione su quelle che rappresentano il sistema in se stesso, vale a dire sono tali che per ogni s S si abbia f(s) 5.1 Un sistema che goda di questa proprietà rispetto a una data trasformazione f viene detto una catena (rispetto a f). Consideriamo ora un sistema S e una trasformazione f di 5 in se stesso. Preso un qualunque sottoinsieme A di S, si considerino tutte le catene (rispetto ovviamente a f) che contengono A (di tali catene ne esistono certamente: S stesso ad esempio è una di esse, evidentemente la «massima»). Si faccia ora l'intersezione di tutte le catene che contengono A. Si dimostra che tale intersezione2 è ancora una catena: essa viene detta catena di A e indicata con Ao. A questo punto Dedekind può dimostrare per catene in generale quello che ora diventa il teorema di induzione completa, ossia la seguente proposizione: Per dimostrare che gli elementi di una catena A 0 godono di una certa proprietà P, è sufficiente dimostrare che a) tutti gli elementi di A godono di P; b) se a Ao gode di P alloraf(a) gode di P. È appunto questo risultato che costituisce la « base scientifica per quella forma di dimostrazione nota come induzione completa ». Dedekind introduce a questo punto la sua celebre definizione di sistema infinito, intendendo come tale un sistema S che sia rappresentabile biunivocamente su un suo sottoinsieme proprio, e quindi il concetto di sistema semplicemente infinito: un sistema S viene detto s.i. quando esiste una trasformazione biunivoca f di S in se stesso tale che S possa esprimersi come catena di un suo elemento non contenuto in f(S). Conveniamo con Dedekind di indicare col simbolo ~ tale elemento. Risulta allora dalla definizione e dalle proprietà delle catene che «l'essenza di un sistema semplicemente infinito S consiste nell'esistenza di una trasformazione f di S e di un elemento I che soddisfano le seguenti condizioni oc. f(S)
s
5a
~- S = Io
y. L'elemento I non è contenuto inf(S) 3. La trasformazione f è biunivoca». x Il segno « e », detto segno di appartenenza, abbrevia dizioni quali « appartiene », « è elemento di», sicché un'espressione della forma «a e A» indica il fatto che l'elemento a appartiene all'insieme A (o, come anche si dice, che a è membro o elemento di A). e denota cioè la relazione di appartenenza di un elemento a un msieme.
2 L'intersezione di due insiemi A e B è il più piccolo insieme, indicato di solito col simbolo A r. B, che ha come elementi tutti e soli gli elementi comuni ai due insiemi A e B dati. 3 Il segno « s;; », detto segno di inclusione, abbrevia dizioni quali « è incluso », « è contenuto» e simili, sicché un'espressione della forma A s;; B indica il fatto che l'insieme A è incluso
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È chiaro allora che un sistema semplicemente infinito può concepirsi come una successione generata e ordinata dalla trasformazione f; a partire infatti dall' elemento I di 5, che per definizione non è immagine di alcun altro elemento di S, si otterrà successivamente I,j(I),f(_f(I)),j(j(j(I))) e COSÌ via. È proprio a questo punto che si coglie l'« essenza», è il caso di dirlo, dell'impostazione dedekindiana. Se infatti - afferma Dedekind - «nella considerazione di un sistema semplicemente infinito S ordinato da una trasformazione f trascuriamo completamente il carattere peculiare degli elementi; ritenendo semplicemente la loro distinguibilità e tenendo conto soltanto delle relazioni fra essi determinate dalla trasformazione J, allora questi elementi sono chiamati numeri naturali o numeri ordinali, o semplicemente numeri ... In riferimento a questo liberare gli elementi da ogni loro contenuto (astrazione) siamo giustificati nel chiamare i numeri una libera creazione della mente umana » (corsivi nostri). Ci sembra che queste parole siano sufficienti a chiarire definitivamente la marginalità, la sostanziale « estraneità » del processo creativo in quanto inteso come momento «psicologico» nell'ambito globale dell'impostazione dedekindiana. Un momento soggettivo è semmai da cogliere, a nostro parere, nella concezione ancora ingenua e intuitiva che Dedekind sembra avere dell'astrazione. È una concezione che resterà ancora a lungo radicata nel discorso « fondamentalista » malgrado che già dal I884 nelle sue Grundlagen, Frege ne avesse dato una soddisfacente giustificazione in termini puramente logici (si veda il paragrafo rv); per sua stessa ammissione, Dedekind non conosceva ancora nell'88 il volume di Frege che pure come vedremo (e come del resto Dedekind stesso riconosce nella seconda edizione del suo saggio) si muoveva per certi versi, in particolare rispetto all'induzione, « in stretta connessione » col suo discorso. Ma a parte questo, la concezione strutturalista, hilbertiana potremmo dire, di Dedekind viene manifestata in tutta la sua portata quando egli afferma che « le relazioni o leggi che sono denotate interamente dalle condizioni oc, ~' y, 8, e quindi sono sempre le stesse in tutti i sistemi ordinati semplicemente infiniti, qualsiasi nome si dia agli elementi individuali, costituiscono l'oggetto immediato della scienza dei numeri o aritmetica ». In altri termini abbiamo definito una struttura relazionale in termini puramente matematici (logici): in questo sta l'essenza dell'aritmetica; il successivo atto creativo, giustificato proprio dall'astrattezza e quindi generalità della struttura individuata, non fa al limite che dare un corpo, o se si preferisce un nome proprio definito, agli elementi di un qualche insieme particolare fra i quali sussistano quelle relazioni. Se allora col simbolo I intendiamo de, nell'insieme B (o, come di norma si dice, A è un sottoinsieme di B). È chiaro che la relazione di inclusione simbolizzata da «. s » sussiste fra due insiemi A e B allora e solo allora che tutti gli elementi di A sono elementi anche di B. È
ovvia la sostanziale differenza fra la relazione di inclusione e quella di appartenenza definita alla nota 1 della pagina precedente; si osservi tuttavia che Dedekind usa lo stesso simbolo per entrambe.
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notare proprio il numero I, la successione N dei numeri naturali in senso intuitivo verrà per definizione ad essere quella particolare catena numerica (che si dimostra essere unica) che contiene (come elemento base, ossia non immagine di nessun altro) il numero I. Non ci sembra necessario discutere nei particolari, in questa sede, l'articolazione del saggio di Dedekind, e trascuriamo quindi alcuni importanti argomenti e risultati che vi vengono trattati o raggiunti; 1 va però messa in evidenza, per concludere il discorso, la dimostrazione (che Dedekind conduce nel paragrafo I o del suo saggio) che due qualunque sistemi semplicemente infiniti M e M* sono fra loro isomorfi relativamente alle rispettive trasformazioni et> e et>* e ai rispettivi elementi base I e I* : esiste cioè fra di essi una corrispondenza biunivoca f tale che I corrisponde a I* (ossia I = j(I*) e viceversa) e se a M corrisponde ad a* M* (a= f(a*) e viceversa) allora anche ct>(a) M corrisponde a et>*(a*) M* (et>(a) =/(cl>*(a*)) e viceversa). Questa dimostrazione è molto importante e anzi essenziale ai fini di Dedekind 2 : solo grazie ad essa egli può infatti affermare di aver completamente determinato a livello definitorio la struttura astratta degli insiemi semplicemente infiniti. In questa dimostrazione ha una parte decisiva e fondamentale proprio l'induzione o, in termini dedekindiani, il concetto di catena di. Considerato l'elemento base I, risulta infatti, grazie alla definizione di Io, che in essa sono contenuti tutti gli elementi raggiungibili con l'applicazione di et> (perché, in quanto intersezione, Io è la parte comune di tutte le catene che contengono I) e d'altra parte anche solo quegli elementi (in quanto, ancora, come intersezione, Io è la minima parte comune). Applicato alla catena N dei numeri naturali: in essa sono compresi tutti e soli gli elementi raggiungibili dal numero I con un numero finito di applicazioni dell'operazione di successore (che è la et> di questo caso particolare). In altri termini, il processo d'induzione permette a Dedekind di escludere dalla successione dei numeri naturali ogni altro eventuale elemento « estraneo »: in questo senso Dedekind pensa di aver caratterizzato univocamente, da un punto di vista strutturale, l'insieme N. La determinazione assiomatica dell'aritmetica che, pur operante come abI Ad esempio la prima trattazione generale in termini insiemistici delle definizioni per recursione. Dedekind dimostra un teorema generale (il I z6, paragrafo IX del suo saggio) sulle definizioni per induzione (come egli le chiama) e quindi lo applica alla definizione di somma (paragrafo xi), di prodotto (paragrafo xu), elevamento a potenza (o involuzione, nella sua terminologia, paragrafo xiii) fra naturali. È ancora degno di menzione il fatto che nel paragrafo XIV Dedekind conduce il primo confronto fra due diverse definizioni di infinito: quella nel suo senso, e quella nel senso intuitivo di «non finito». Per dimostrare l'equivalenza di tali definizioni Dedekind è costretto a fare un inconsapevole appello all'assioma di
scelta, per il quale si confronti il paragrafo III. z Ove si convenga di considerare la sistemazione di Dedekind come un'assiomatizzazione esplicita (si veda del resto quanto detto più avanti sul sistema d'assiomi di Peano) in termini moderni si dice che Dedekind ha dimostrato la categoricità del suo sistema: d'assiomi, ha fatto cioè vedere che due qualunque modelli di quegli assiomi sono fra loro isomorfi. Da questo punto di vista, la correttezza della sua dimostrazione può essere assunta solo sulla base di tutta una serie di precisazioni e distinzioni che la critica moderna ha messo in evidenza a livello espressivo (linguistico) e deduttivo (logico inferenziale).
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biamo creduto di mostrare, resta tuttavia solo implicita nella sistemazione dedekindiana, viene proposta per la prima volta nel I889 dal matematico e logico italiano Giuseppe Peano (I 8 58- I 9 3z) negli Arithmetices principia nova methodo exposila (Principi dell'aritmetica esposti con metodo nuovo). Il volume è scritto in latino ma in effetti del latino Peano si serve solo nella prefazione e per proporre un sistema di Logicae notationes che costituiscono non certamente il primo (al solito bisogna anche in questo caso far posto a Frege) ma certamente il più fortunato e indovinato fra i simbolismi sistematici escogitati in questo campo. Noi comunque, per comodità del lettore, enunceremo gli assiomi in linguaggio comune. Va subito detto che l'assiomatizzazione di Peano è nel contempo un progresso e un regresso rispetto alla sistemazione dedekindiana (di cui, come vedremo, è sostanzialmente una traduzione in termini esplicitamente assiomatici). È un progresso appunto perché esplicita e perché simbolica; ancora, perché viene in essa chiaramente enunciato come assioma il principio di induzione completa. È invece un regresso perché è raffrontabile con un'assiomatica euclidea di tipo classi-· co piuttosto che con un'assiomatica moderna di tipo hilbertiano di cui, come abbiamo detto, le conclusioni di Dedekind (alle quali in effetti Peano deve probabilmente molto di più di quanto non dichiari dal lavoro del I889) 1 possono in certo senso essere considerate una realizzazione ante litteram per l'aritmetica. Ci sembra in altri termini di poter dire che mentre nel caso di Dedekind siamo di fronte a un tentativo difondazione dell'aritmetica, nel caso di Peano siamo di fronte invece a un tentativo, anche se indubbiamente geniale per il suo tempo e decisamente significativo, di sistemazione della teoria dei numeri. Ma consideriamo ora il sistema assiomatico di. Peano. Esso è costituito da nove assiomi, quattro dei quali relativi all'identità (i primi tre descrivono l'identità come una relazione riflessiva, simmetrica e transitiva; il quarto afferma che se due oggetti sono uguali e uno di essi è un numero allora anche l'altro è un numero) mentre i rimanenti cinque sono« specifici» per l'aritmetica. Questi sono (a destra tra parentesi riportiamo la numerazione originale) · I) I è un numero (I); z) il successore di un numero è un numero (6); 3) se due numeri sono uguali allora hanno successori uguali (7); 4) I non è il successore di alcun numero (8); 5) se k è una classe tale che I appartiene a k e inoltre per ogni numero x se x appartiene a k allora anche x + r appartiene a k, allora k contiene la classe N (9). A questi assiomi Peano premette quattro explicationes con le quali fissa, predetermina, il significato dei quattro segni che compaiono nella versione simbolica I Anche se nel tomo secondo del Formulario, del I 898, Peano afferma esplicitamente: « La composizione del mio lavoro a. I 889 fu ancora indipendente dallo scritto menzionato del Dedekind
[Essenza e significato .•. ]; prima della stampa, ebbi la prova morale dell'indipendenza delle proposizioni primitive da cui io partivo, nella loro coincidenza sostanziale colle definizioni del Dedekind. »
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degli assiomi stessi (il lettore non avrà difficoltà a « immaginare » dove quei segni intervengono) : I significa unità; a + I significa successore; N significa numero (intero positivo); = significa è uguale (identità). N o n sarà difficile per il lettore rendersi conto del fatto che gli assiomi precedenti altro non sono che la « traduzione » delle quattro proposizioni dedekindiane sui sistemi semplicemente infiniti; e infatti si vede immediàtamente che l'assioma 2.) corrisponde alla proposizione ot di Dedekind; l'assioma 3) alla 8; l'assioma 4) alla y; infine gli assiomi I) e 5) corrispondono alla proposizione ~· Si noti tuttavia che mentre per Dedekind queste proposizioni determinavano un'intera classe di strutture possibili, per Peano, giuste le explicationes di cui sopra, il sistema assiomatico veniva vincolato a caratterizzare in modo univoco, antologico, il sistema dei numeri naturali. Cosi, mentre Dedekind si poneva il problema di dare una dimostrazione di categoricità, Peano assumeva intuitivamente come data questa proprietà e semplicemente l'affermava con i suoi assiomi. La cosa può essere meglio compresa se si pensa alle considerazioni con cui Russell mostrò che il sistema d'assiomi di Peano non caratterizzava l'insieme dei numeri naturali, ma sostanzialmente qualunque progressione: si pensi semplicemente di sostituire di volta in volta alle explicationes peaniane le seguenti: I significhi il numero Ioo (o qualunque altro numero naturale) e gli altri simboli conservino l'usuale significato; I significhi il numero 2., successore significhi a + 2., N significhi insieme dei numeri pari; e così si potrebbe continuare. Orbene, queste determinazioni dei significati dei segni, e i sistemi relativi cui esse danno luogo, mettono in crisi la pretesa caratterizzazione di Peano; ma non toccano da questo punto di vista quella di Dedekind, dal momento che i sistemi così ottenuti sono ancora tutti isomorfi fra loro. Per poter stabilire la «non categoricità» dell'aritmetica in questo senso è necessario far ricorso /a. proprietà e considerazioni di tipo più « profondo ». Ma di questo parleremo nel volume ottavo. Va ancora tenuto conto del fatto che Peano, nell'affrontare questi problemi, manteneva consapevolmente un atteggiamento per così dire « afilosofico »; il suo scopo era semplicemente quello di escogitare un simbolismo agile ed espressivo, capace di dare una presentazione chiara ed efficace di teorie e risultati matematici. In questo senso egli pubblica nel I894le Notations de logique mathématique (Notazioni di logica matematica) e lo stesso scopo persegue nelle cinque edizioni, dal I 89 5 al I9o8, del Formulaire de mathéntatique (Formulario matematico) che conduce con l'aiuto di tutta una schiera di valenti collaboratori. L'ultima edizione del Formulario è in latino sine fiexione, la lingua che Peano aveva escogitato come linguaggio internazionale. È interessante riportare da questa, le parole con le quali egli introduce il proprio sistema assiomatico (che dopo la prima versione subisce alcune modifiche non sostanziali; ad eccezione di quella, suggerita quasi certamente dalle analisi di Frege, di far cominciare N con lo o invece che con l'I). « Quaestione si nos pote definì No significa si nos pote scribe aequalitate de forma No = expres-
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sione composito per signos noto v, ""'' - , ... f""'., , quod non es facile. «Ergo nos sume tres idea N 0 , o, + ut idea primitivo, per que nos definì amni symbolo de Arithmetica. « Nos determina valore de symbolo non definito No, o, +per systema de propositio primitivo sequente » a cui seguono gli assiomi sopra detti. Riprenderemo comunque il discorso sulla situazione italiana nel volume ottavo, ora, per poter seguire in modo significativo l'evolversi del problema della fondazione della matematica abbiamo bisogno di acquisire due elementi indispensabili: l'analisi cantoriana del concetto di insieme e la nuova angolazione in cui Frege pone la logica e, con essa, l'aritmetica. III · LA TEORIA DEGLI INSIEMI CANTORIANA
Lo scopo ultimo della ricerca dedekindiana di fondazione dell'aritmetica può essere considerato quello di eliminare qualsiasi riferimento intuitivo o psicologico (in particolare qualsiasi riferimento al tempo) dalla definizione di numero. Abbiamo visto che Dedekind inizia il suo saggio trovando nel concetto di « sistema » di « cose » qualsiasi il supporto sufficiente alla successiva introduzione dell' Abbildung, ossia di quell'unica facoltà della mente umana che egli richiede come necessaria e sufficiente per il suo scopo. In sostanza, la prima parte del saggio dell'88 non è che un condensato di «teoria degli insiemi» sufficiente a introdurre il concetto insiemistico fondamentale di sistema semplicemente infinito tramite il quale Dedekind caratterizza la successione dei numeri naturali. Lo stesso Peano, nella sua assiomatizzazione, esprime l'assioma più delicato, quello di induzione, in termini di classe; e, ancora, vedremo che Frege finisce col riservare un posto fondamentale nelle sue ricerche a quelle estensioni di concetti che altro non sono che classi, insiemi, sistemi. 1 Sembra dunque non eliminabile, da questo tipo di ricerche, un riferimento più o meno essenziale, più o meno esplicito, agli insiemi e alle loro proprietà; anzi sembra in definitiva che la vera costante fondamentale non sia tanto quella di numero naturale quanto piuttosto quella di insieme o di classe. Georg Cantor,z che già più volte abbiamo indicato come il creatore di una I In questo capitolo, salvo esplicito avviso in contrario, o a meno che il contesto non indichi senza possibilità di equivoci una precisa distinzione, considereremo quindi come sinonimi termini quali « classe », « insieme », « sistema », « aggregato », « molteplicità», « estensione di un concetto», e simili. 1 Georg Cantor nacque il 19 febbraio 1845 a Pietroburgo. Nel 1856 si sposta con la famiglia a Francoforte, in Germania; qui si rivela ben presto la sua decisa inclinazione verso le discipline matematiche. Nel 1863 inizia a freq1;1entare l'uni-
Yersità di Berlino, ove si applica alla fisica, alla matematica e alla filosofia. Ebbe a maestri fra i matematici Weierstrass, Kummer e Kronecker. Sotto l'influenza di quest'ultimo si laureò nel 1867 e ottenne la libera docenza nel 1869 con lavori di tipo algebrico e di teoria dei numeri. I suoi interessi si spostarono successivamente, sotto l'influenza di Weierstrass, verso la teoria delle funzioni, concentrandosi in particolare sul problema della rappresentabilità di una funzione in serie trigonometrica. Nel 1871 viene chiamato come straordinario ad Halle; si può dire che da
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vera e propria teoria degli insiemi, va posto quindi di diritto nella schiera dei « fondamentalisti ». Egli comunque viene indotto a prendere specificamente in esame il concetto stesso di insieme, fino appunto a costituirne una teoria che va annoverata fra le conquiste maggiori della matematica (e della filosofia) di ogni tempo, a partire da un lato da tipici problemi matematici, al suo tempo dibattuti nell'ambito della teoria generale delle funzioni, dall'altro da annose discussioni filosofiche relative al concetto di infinito nella sua duplice accezione di infinito attuale e infinito potenziale. La teoria di Cantor nasce infatti come teoria « applicata», ossia come ricerca sulle proprietà di particolari insiemi costituiti di elementi di natura ben determinata, in generale numeri o punti. E si può segnare il suo atto di « concezione », se non di nascita, già nella memoria del I872, Sull'estensione di una proprietà... cui ci siamo riferiti nel paragrafo precedente. In quanto « applicata » e sempre riferita in generale a insiemi di numeri o di punti, la teoria cantoriana viene costituendosi con successivi risultati ottenuti fra il I 874 e il I 878, e presentati organicamente per la prima volta fra il I 879 e il I 8 84 in una serie di sei articoli dal titolo comune Vber unendliche lineare Punktmannigfaltigkeiten (Sulle molteplicità lineari infinite di punti); la trasformazione sistematica in teoria astratta (ossia riferentesi a insiemi qualsiasi, o se si vuole, al concetto di insieme) si ha infine nei famosi Beitriige zur Begrundung der transftniten Mengenlehre (Contributi alla fondazione della teoria transftnita degli insiemi) pubblicati in due parti nel I895 e I897 rispettivamente. Il problema matematico sul quale si innestano le prime considerazioni insiemistiche di Cantor è quello della ricerca di condizioni di unicità dello sviluppo di una funzione in serie trigonometrica.l Abbiamo visto che nel corso della memoria del '72 - dedicato appunto a questo problema- Cantor propone fra l'altro la propria teoria degli irrazionali che ottiene modificando sensibilmente la definizione weierstrassiana. In particolare, si ricorderà, Cantor giunge a una distinzione in « ordini » dei numeri reali, in dipendenza del tipo delle rispettive successioni fondamentali cui erano associati. Orbene, proprio a questa questo anno abbia inizio la costituzione del massimo risultato di Cantor: la teoria degli insiemi. Nel I879 diviene ordinario, sempre ad Halle, e nel I884 si ha la prima manifestazione della malattia nervosa che a più riprese dovrà colpirlo e che lo condurrà alla morte, avvenuta nella clinica psichiatrica di Halle nel I9I8. Sembra probabile che al manifestarsi di questa malattia abbia concorso l'ostracismo scientifico e accademico decretatogli dal suo vecchio maestro Kronecker, il quale, in particolare, bloccò ogni suo tentativo di lasciare Halle per insegnare a Berlino. Abraham A. Fraenkel, uno dei maggiori studiosi contemporanei di teoria degli insiemi, in un'appendice alvolume G. Cantor Abhandlungen mathematischen und philosophischen lnhalts (Memorie matematiche e ft-
losoftche) edito nel I 93 z da Ernst Zermelo, suddivide in quattro periodi la vita di Cantor (in quanto, in particolare, creatore della teoria degli insiemi): periodo della formazione (I845-7I), della massima creatività (I87I-84), della produttività ridotta (1884-97), della vecchiaia e del riconoscimento. Le opere di Cantor interessanti il nostro discorso verranno citate direttamente nel testo. I Quello dello sviluppo in serie trigonometrica di funzioni (di variabile reale) anche non analitiche era un problema sollevato da Eulero (I70783) e risolto poi da Fourier (q68-I83o). In connessione a tale fecondissimo problema giunsero a notevoli e originali risultati matematici come Dirichlet (I805-59), Riemann (I8z6-66), Hankel (I839-73) e, appunto, Cantor.
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distinzione è collegato il primo concetto « insiemistico » introdotto da Cantor (relativo sempre a insiemi di tipo particolare). Si tratta del concetto di «insieme derivato» di un insieme di punti (o, il che è lo stesso, dell'operazione di « derivazione » di un insieme di punti), che può illustrarsi come segue. Sia dato un insieme infinito di punti P; si dice come è noto punto d'accumulazione di P un punto tale che in ogni suo intorno siano contenuti infiniti punti di P. Per insieme derivato dell'insieme P Cantor intende l'insieme P' costituito da tutti i punti di accumulazione di P ;l se P' non consiste di un numero finito (o nullo) di elementi, si potrà considerare il suo derivato P" (derivato secondo di P) e così via; iterando questo processo per un numero finito n di volte, si giungerà al concetto di insieme P, derivato n-esimo di P. Per mostrare il collegamento di cui si parlava, fra i vari casi possibili (che i successivi derivati di un insieme coincidano con l'insieme stesso, che già il primo derivato contenga solo un numero finito di punti, ecc.) consideriamo il caso in cui dopo n derivazioni si giunga al derivato P dell'insieme P che contenga solo un numero finito di punti: in questo caso non essendo più possibile applicare a P il procedimento di derivazione, si dirà che P è un insieme di tipo n-esimo. Orbene, un esempio di insieme di tipo n-esimo è già fornito, secondo le parole di Cantor « ... da un singolo punto la cui ascissa sia un irrazionale di ordine n-esimo .. . Se infatti si risolve questo numero nei termini di ordine n-I della successione fondamentale cui è associato; questi termini successivamente nei termini che li costituiscono, di ordine (n-2.)-esimo e così via, si ottiene alla fine un numero infinito di numeri razionali; si pensi ora all'insieme di punti corrispondente a questi numeri, e questo insieme sarà di tipo n-esimo ». È probabilmente quindi nel giusto Cavaillès quando dichiara che è proprio la teoria « nascente » degli insiemi che determina le modifiche che Cantor apporta alla definizione di W eierstrass. Del resto questo concetto di derivazione di un insieme di punti rappresenterà un momento centrale nello sviluppo della teoria cantoriana: supponendo di iterare il processo di derivazione al di là di ogni indice finito, Cantor si troverà in certo senso «costretto» in modo naturale all'introduzione dei numeri ordinali transfiniti; e ciò avverrà, in particolare, nel 1879, nella prima delle memorie dedicate alle molteplicità infinite di punti. Giustamente afferma dunque Zermelo che «in questo concetto di " derivazione superiore " di un insieme di punti dobbiamo ravvisare il vero e proprio " germe embrionale " e nella teoria delle serie trigonometriche il luogo di nascita della " teoria degli insiemi " cantoriana ». Qualche considerazione ora sulla seconda motivazione di interesse generale per la concezione e lo sviluppo della teoria cantoriana: la problematica connessa l Va ricordato in proposito il teorema di Bolzano-Weierstrass, secondo il· quale ogni insieme infinito e limitato di punti ammette almeno un punto di accumulazione; si noti che
non si richiede che un punto di accumulazione di un insieme sia necessariamente elemento dell'insieme.
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al problema dell'infinito. Dopo le significative scoperte del I 874 e del 1878, 1 Cantor comincia a intravvedere la possibilità che questi risultati possano individuare un campo autonomo di ricerca, anche se in quel periodo egli lo vedeva ancora completamente inserito nell'ambito dell'Analisi. Afferma infatti di ritenere che le generalizzazioni - riguardanti appunto soprattutto questioni relative all 'infinito - resesi a suo parere necessarie dai risultati ottenuti sulle varietà lineari infinite di punti « ... abbiano un qualche interesse non solo per le loro applicazioni alla teoria delle funzioni, ma conducano anche a un nuovo punto di vista per quanto riguarda la conoscenza degli insiemi lineari di punti». Nel 1883, nella quinta delle memorie sopra citate Sulle molteplicità... (che venne anche pubblicata sotto forma di volumetto, nello stesso anno, a Lipsia, col titolo Grundlagen einer allgemeinen Mannigfaltigkeitslehre [Fondamenti di una teoria generale delle molteplicità]) egli prende netta posizione sul problema dell'infinito; e lo fa ovviamente tenendo conto dei risultati ottenuti fino ad allora con la sua teoria, e in particolare riferendosi all'estensione del concetto di numero che ivi egli aveva proposto (e che noi vedremo nelle prossime pagine). Sulla stessa questione Cantor torna a più riprese, in particolare con l'articolo Uber die verschiedene Standpunkte in Bezug auf das aktuale Unendliche (Sui diversi punti di vista relativamente all'infinito attuale) del I885 e con le due Mitteilungen zur Lehre vom Transfiniten (ComunicaziO?zi sulla teoria del transfinito) del I 887 e del I 888. Riferiremo ora brevemente sulla concezione cantoriana dell'infinito; la cadenza cronologica con cui tale concezione venne maturando risulterà sostanzialmente chiara dallo stesso contesto. A parere di Cantor l 'infinito matematico può essere considerato in primo luogo nel significato di grandezza che varia, o crescendo al di là di ogni limite o diminuendo al di sotto di una quantità piccola a piacere, ma che rimane sempre finita; detto infinito improprio questa forma di infinito, egli osserva che nella stessa ricerca matematica recente si era in certo senso imposta la necessità di una diversa considerazione dell'infinito. È importante notare che in queste prime riflessioni egli non si riferisce a propri risultati insiemistici ma, nel tentativo di vincere lo scetticismo della maggioranza dei circoli matematici (in particolare dalla scuola berlinese, ove primeggiava il suo antico maestro Kronecker che si era ben presto dichiarato del tutto contrario alle ricerche cantoriane), si rifà piuttosto a precise esigenze di «Analisi classica». Ad esempio, egli afferma che « ... nello studio di una funzione analitica di una variabile complessa, è divenuto necessario pensare, nel piano rappresentante la variabile complessa, un unico punto posto all'infinito, ossia infinitamente distante, ma determinato, ed esaminare il comportamento della funzione in prossimità di questo punto esattamente come nelle vicinanze di qualsiasi altro punto; ne risulta che il I Si tratta in particolare, come vedremo più avanti, dei risultati relativi alla « numerabilità » o meno di certi particolari insiemi di numeri e di
punti, e alla possibilità di rappresentare biunivocamente fra loro continui geometrici con diverso numero di dimensioni.
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comportamento della funzione in prossimità del punto infinitamente distante presenta le stesse " possibilità " che in ogni altro punto posto al finito, cosicché diventa pienamente legittimo in questo caso immaginare l 'infinito posto in un punto completamente determinato ». In casi del tipo qui esemplificato, quando cioè l'infinito si presenti come determinato, Cantor conviene di chiamarlo infinito proprio (sicché l'infinito improprio si presenta invece come «finito variabile»). In questo concetto di infinito proprio o attuale la critica filosofica contemporanea vede, rileva Cantor, un « cattivo » infinito; questa critica non è certamente nuova, ché risale ad Aristotele, ma viene ancor oggi sostenuta con argomentazioni che possono ricondursi sostanzialmente a quelle avanzate dallo stagirita contro l'infinito attuale e in favore dell'infinito potenziale. Le due principali obiezioni aristoteliche contro l'esistenza dell'infinito «reale» vengono eliminate da Cantor riconoscendo nella prima (sostanzialmente: «Possiamo contare solo insiemi finiti») l'indebita assunzione da parte di Aristotele, che esistano solo numeri finiti: ma tale assunzione si riconduce allora a una petitio principii, perché è chiaro che mediante il contare possiamo riconoscere solo insiemi finiti. Ovviamente Cantor ritiene di aver proposto precisi principi per dimostrare l'esistenza, accanto a numeri finiti, anche di numeri infiniti o, come dirà, transfiniti. Altra ragione avanzata da Aristotele contro l'infinito attuale è che se questo esistesse esso «annullerebbe» ipso facto il finito perché il numero finito verrebbe immediatamente « annientato » dal numero infinito. Ora le cose stanno in modo diverso, sostiene Cantor, perché è ben vero che l'aggiunzione di un numero infinito a uno finito «distrugge» in certo senso il primo, ma viceversa, l'aggiunzione di un numero finito a uno infinito produce una modificazione in quest'ultimo: « Questo esatto comportamento del finito e dell'infinito, totalmente trascurato da Aristotele, dovrebbe condurre a nuove suggestioni non solo nell'Analisi, ma anche nelle altre scienze, e precisamente nelle scienze naturali. » Le condizioni e principi posti da Cantor per l'introduzione legittima nella matematica dei numeri transfiniti sono tali, da un lato, come si richiede « ... da lasciar ben poco spazio ali' arbitrarietà »; e d'altro lato la concettualizzazione matematica ha per cosi dire intrinsecamente connaturato il correttivo contro assunzioni indebite o contraddittorie: essa esercita in modo quasi automatico una sorta di « rigetto » nei riguardi di quei concetti che siano sterili o contraddittori. I principi cantoriani si sono dimostrati particolarmente fecondi e vanno quindi assunti senza riserve nella matematica, per quanto arditi o « non standard » possano sembrare; deve essere cosi perché infatti« l'essenza della matematica sta proprio nella sua libertà » (corsivo nostro). Per quanto ora riguarda la concezione dell'infinito attuale esso può, secondo Cantor, presentarsi in tre forme o modalità diverse; come assoluto, in quanto realizzato nella sua perfezione nell'essere assoluto extramondano, in dio; oppure come transfinito, sia in quanto ricorre concretamente nel mondo dipendente delle
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creature, sia in quanto può essere concepito in astratto, come grandezza matematica, numero o tipo d'ordine del pensiero. L'infinito assoluto costituisce oggetto di studio della teologia speculativa, mentre l'indagine sul transfinito (in entrambe le sue forme) rientra nell'ambito della metafisica e della matematica. Nel caso comunque di accettazione dell'infinito attuale, per quanto riguarda le due forme del transfinito riconosciute da Cantar, si hanno quattro possibilità combinando in tutti i modi possibili una sua accettazione in concreto ejo una sua accettazione in astratto: Cantar si pone senza riserve nella posizione di accettazione di entrambe le modalità - astratta e concreta - dell'infinito attuale. È conscio con ciò di andare contro la tradizione filosofica (e matematica), ma ritiene d'altra parte di essere il primo e il solo ad affrontare il problema con spirito nuovo e « strumentazione » scientifica adeguata. Inquadrate cosi brevemente le principali motivazioni della teoria cantoriana, vediamone succintamente lo sviluppo. Il primo lavoro dedicato in modo esplicito a problemi insiemistici è una brevissima comunicazione (4 pagine) del 1874 dal titolo Ober eine Eigenschaft des lnbegriffes alter reeller algebraischen Zahlen (SII llnfl proprietà dell'aggregato di tutti i nunteri algebrici reali) il cui titolo, in realtà, dice molto meno di quanto il lavoro effettivamente comprenda. In esso infatti Cantar dimostra intanto che è possibile stabilire una corrispondenza biunivoca fra l'insieme A dei numeri algebrici reali 1 (e quindi in particolare dell'insieme Q di tutti i razionali) e l'insieme N dei numeri naturali, o nella successiva terminologia cantoriana, che gli insiemi A e Q sono « numerabili ». Si noti che ciò equivale a dire, sostanzialmente, che tutti gli elementi tanto di A quanto di Q possono porsi in una successione
rispettivamente dove l'indice numerico che assegna il posto di ogni elemento nella successione può essere semplicemente assunto come il numero naturale cui l'elemento in questione corrisponde. Questa dimostrazione, in effetti, non offre particolari difficoltà una volta che ci si sia posti il problema; ha tuttavia notevole interesse perché l'insieme Q e l'insieme A sono entrambi densi (si ricordi la definizione data al paragrafo n) nell'ordine «naturale» e quindi non sembrerebbe possibile poterli ordinare in modo discreto, ossia in modo tale che fra due elementi successivi nel1 Ricordiamo dalle pagine precedenti che una corrispondenza biunivoca fra due insiemi P e S è una trasformazione f di P in S tale che ad ogni elemento p e P esista uno e un solo elemento j(p) eS e viceversa. Qui e nel seguito ci interesseranno in generale corrispondenze biunivoche suriettive, tali cioè che ogni elemento di S (questo
insieme delle « immagini » viene detto in generale codominio della corrispondenza) sia immagine di un elemento di P (che viene detto dominio della corrispondenza). Un numero algebrico (reale) è un numero (reale) che è radice di un'equazione algebrica a coefficienti interi.
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l'ordine dato non esista alcun altro elemento dell'insieme. Tuttavia l'aver ottenuto tale dimostrazione rinforzò in un primo momento Cantor nella convinzione che in realtà vi fosse, per cosi dire, un solo ordine di infinito; in altri termini, un insieme o era finito o tout court era infinito senza che in questo secondo caso si potessero dare ulteriori specificazioni. Ma la dimostrazione, ottenuta dopo « molti sforzi e difficoltà» che l'insieme R di tutti i numeri reali non era associabile biunivocamente con l'insieme dei naturali, era cioè come dirà in seguito Cantor «non numerabile » o « soprannumerabile », portò alla rigorosa conclusione che si potevano considerare almeno due ordini di infinità: è proprio questo secondo importantissimo risultato che è contenuto nel lavoro qui considerato e che paradossalmente non figura nel titolo. Trascurando per brevità la dimostrazione relativa alla numerabilità dell'insieme A, riporteremo quella relativa alla numerabilità dell'insieme Q e alla non numerabilità dell'insieme R, non seguendo però il metodo usato da Cantor in questo lavoro, ma facendo uso di metodi impiegati in un momento più maturo dell'elaborazione della teoria. Per quanto riguarda l'insieme Q si pensino i suoi elementi disposti nella matrice doppiamente infinita
di cui è evidente la legge di composizione. Si ordinino quindi i razionali della tabella seguendo la « diagonale » in essa segnata, avendo cura di eliminare dall'elencazione ogni razionale di cui sia già stato scritto un equivalente (ad esempio non scriveremo zjz, 3/3,4/4, ecc. una volta scrittoI/I e cosi via). Si otterrà allora la successione I
z
I
I
I
I
z
3
-,
3
4
3 z
z 3
4
Si noti che la tabella contiene certamente tutti i razionali positivi (precisamente, il numero mfn comparirà nella n-esima riga, m-esima colonna) e si noti che non è
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difficile estendere l'elencazione a tutti i numeri razionali, positivi e negativi.l È anche facile descrivere «a parole» l'ordine che abbiamo scelto per la dimostrazione (!imitandoci per comodità ai soli numeri razionali positivi): si definisca infatti « altezza » di un numero razionale semplicemente la somma del suo numeratore e del suo denominatore. Gli elementi dell'insieme Q risultano allora ordinati « per altezza » (ossia fra due numeri diversi viene prima quello che ha altezza minore) e, a parità di altezza: per altezze pari i numeri si susseguono secondo il normale ordine di grandezza fra numeratori; per altezze dispari secondo il normale ordine di grandezza fra denominatori. La richiesta corrispondenza con l'insieme N si ottiene ora nel modo più semplice (ci limitiamo ancora ai razionali positivi) ponendo I
3
2
2
3
3
4
I
1 2
4
3
2
2
3
7
8
1
4
1 1
6
9
Il procedimento di dimostrazione (o p m precisamente, di ordinamento) sopra esposto viene detto « procedimento diagonale di Cauchy ». Veniamo ora alla dimostrazione (anche questa volta ci serviremo di un metodo messo a punto da Cantor in una fase successiva dell'elaborazione della teoria) 2 della non numerabilità dell'insieme R di tutti i numeri reali (o se si preferisce, per la discussione svolta nel paragrafo precedente, del continuo lineare). È chiaro che basterà dimostrare che non è numerabile un sottoinsieme proprio di R, ché a fortiori anche R risulterà in questo caso non numerabile. Consideriamo allora il sottoinsieme R1 dell'insieme R costituito da tutti i numeri reali compresi fra o e I. Ricordiamo intanto che ogni numero reale può essere scritto in forma decimale e che quindi l'insieme R 1 sarà composto da numeri della forma cxt = o, anat2ataat4 ... (il motivo dei doppi indici sarà subito chiaro). Tenendo inoltre conto che un numero decimale «limitato» (razionale) può essere scritto in due forme equivalenti (ad esempio o,5ooooooo ... = 0,49999999 ... ) conveniamo di scegliere in ogni,;.caso una (qualsiasi) delle due (ad esempio, quella di periodo 9). Ciò premesso, la dimostrazione prosegue per assurdo. Supponiamo che il nostro insieme sia numerabile; ciò vuol dire, come sappiamo, che è possibile ordinare i suoi elementi in una successione
I Per questo è sufficiente premettere il numero zero, ad esempio nella forma o/I, e far segufre a ogni numero della successione c~e così viene ottenuta il corrispondente negativo. S1 avrà allora
o I 2
I
2
2
3
3
Precisamente nella nota Ober eine elemen-
tare Frage der Mannigfaltigkeitslehre (Su una questione elementare della teoria delle molteplicità) del I 890.
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Supponiamo i numeri di questa successione disposti come nella tabella seguente
Costruiamo ora un numero reale ~ compreso fra o e I e tale che, comunque la successione sia costruita, ~ non figuri certamente in essa. Definiamo infatti il seguente numero reale z se au # z I
se au
=
z.
È chiaro che tale numero non compare nella successione precedente perché differisce da oc1 almeno per la prima cifra decimale, da oc.2 almeno per la seconda, in generale da otn almeno per l'n-esima. Osservando la «freccia>> tracciata nella tabella e dopo quanto detto è immediata la giustificazione di « procedimento diagonale di Cantar » dato a questo metodo di dimostrazione. 1 Abbiamo quindi visto che non è possibile coordinare biunivocamente già il sottoinsieme proprio R1 dell'insieme R con l'insieme N; l'insieme R risulta pertanto « non numerabile », appartiene per così dire a un tipo di infinità diversa da quella di N, o di Q, o di A. Tenendo anzi conto del risultato sull'insieme A dei numeri algebrici, risulta subito che i numeri trascendenti costituiscono a loro volta un insieme più che numerabile.z Infine, dal punto di vista della caratterizza1 In effetti nella dimostrazione precedente abbiamo trascurato di fare una serie di precisazioni che, se pur a rigore necessarie, non ci sembra tocchino la sostanza dell'argomento, che viceversa verrebbe di molto appesantito con la loro introduzione. Il lettore matematico potrà ovviare da solo a queste e altre imperfezioni che lasciamo (o avremo occasione di lasciare) in vista di un'esposizione più scorrevole.
2., Un numero reale è trascendente quando non è radice di alcuna equazione algebrica a coefficienti interi, ossia quando non è algebrico. Joseph Liouville (1809-82.) aveva dimostrato nel 1844 che in ogni intervallo prefissato (ex, [3) della retta reale esistono infiniti numeri trascendenti; nel 1873 Charles Hermite (1822-1901) aveva dimostrato la trascendenza di e (base dei logaritmi naturali) e nel 1882 Ferdinand Lindemann dimostrerà la
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zione del continuo si è con ciò ottenuta una sua distinzione di tipo cardinale, rispetto ad esempio all'insieme Q dei razionali, o all'insieme N dei naturali: in generale rispetto a ogni insieme « numerabile ». Altra proposizione sorprendente che si ricava immediatamente già con i metodi dimostrativi elementari sopra esposti, che si basano essenzialmente sulla possibilità o meno di stabilire corrispondenze biunivoche, è che ogni porzione di un continuo lineare può essere associata biunivocamente a tutto il continuo, o in altri termini che può stabilirsi una corrispondenza biunivoca fra qualunque segmento e tutta la retta reale. Allo scopo basta considerare la seguente figura, dove il segmento AB è stato « spezzato » in due parti uguali, ottenendo un triangolo isoscele, e quindi « proiettato » sulla retta r dal centro della sua base; risulta evidente che a ogni punto della retta corrisponde un punto, ed uno solo, della spezzata ACB, ossia del segmento AB.
s
Ma la conclusione ben più sconcertante per i matematici dell'epoca (e in effetti per lo stesso Cantor: a proposito della proposizione che ora dimostreremo in un caso particolare egli ebbe a scrivere a Dedekind: «Lo vedo ma non ci credo») fu la dimostrazione data da Cantor che un continuo con numero di dimensioni n qualunque (finito o infinito) può essere associato biunivocamente a un continuo lineare. Se si ricordano i lavori di Riemann e Helmholtz in particolare, nei quali veniva appunto assunto come caratteristica di un continuo a n dimensioni il fatto che ogni suo punto restava determinato da n variabili indipendet}ti, non sarà in effetti difficile capire con quanti dubbi e riserve i matematici accogliessero la dimostrazione cantoriana, che in effetti dovette attendere a lungo prima di essere pubblicata nel I 878 sul « Journal de Crelle)) col titolo Ein. Beitrag zur Mannigfaltigkeitslehre (Un contributo alla teoria delle molteplicità). Noi daremo qui la ingegnosa dimostrazione che risale a Cantor, !imitandoci al caso di un continuo a due dimensioni (un «quadrato»). Si consideri la figura seguente trascendenza di n:. La dimostrazione di Cantor si pone quindi come un'affermazione di esistenza
di portata più precisa e più ampia di quella di Liouville.
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6~----------~b P (a,b)
•
eR (dl,du) 8
A
o
C
D
x"
Si tratta di far vedere che esiste una corrispondenza biunivoca fra tutti i punti del segmento AB e tutti i punti del quadrato ABCD su di esso costruito. Allo scopo, assumiamo per semplicità che il lato del quadrato abbia lunghezza I, sicché le ascisse e le ordinate di ogni punto P(a, b) del quadrato (compreso il contorno) saranno del tipo a = o, .a1a2aaa4 ... , e b = o, b1b2bab4 ... Anche qui si può assumere per convenzione una particolare notazione per i numeri nel caso di notazioni non univoche. Orbene, si prenda adesso un punto qualsiasi P(a, b) del quadrato e con i due numeri reali a = o, a1a2aaa~sa6 .. . b = o, b1b2bab4bsbs .. . (coordinate di P) si costruisca un nuovo numero reale c ponendo semplicemente
la cui legge di formazione non ha bisogno di commenti. È chiaro inoltre che tale numero, essendo compreso fra o e I rappresenterà un punto C del segmento AB. Viceversa si prenda un punto D di tale segmento; a esso corrisponderà una certa ascissa reale
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Dal numero d costruiamo altri due numeri d1 dn
= =
o, dd3d5d7d9du .. . o, d2d4dadsd10d12 .. .
la cui legge di formazione è ancora evidente. Altrettanto evidente è che si è così individuato un punto R del quadrato, precisamente quello di coordinate R(d1, du).l La dimostrazione di Cantor significa sostanzialmente che la « variazione » di un dato insieme di n variabili indipendenti può essere rappresentata con la va. riazione di una sola variabile, vale a dire che da questo punto di vista non vi è distinzione di principio fra una « varietà » continua n-dimensionale e una « varietà » continua unidimensionale. In altri termini, questo risultato poneva una prima grossa ipoteca alla ulteriore sostenibilità del concetto di dimensione come fino ad allora caratterizzato. Un altro risultato, che metterà definitivamente in crisi tale concetto, sarà ottenuto da Peano nel I 890 con la presentazione delle equazioni di una curva che « riempie » tutto un quadrato. Si osservi che in certo senso la scoperta di Peano assume qui l'aspetto di un «esperimento» che conferma un risultato (quello di Cantor) che doveva essere accettato in forza della inoppugnabile dimostrazione che ne era stata data, ma che per così dire non concedeva appigli intuitivi, « sperimentali ». Con l'articolo del '78 si può dire abbia termine la fase iniziale, preparatoria della ricerca cantoriana. Già in questo articolo in effetti viene introdotto il concetto di « potenza » con una implicita estensione del concetto di numero al transfinito, che costituirà uno dei punti centrali dell'elaborazione sistematica della teoria; questa in effetti - come già si accennava - riceve una prima presentazione organica nei sei articoli del I 879-84 che, a detta di Zermelo, contengono la « quintessenza » di tutta l'opera creativa di Cantor: vi viene esposta infatti, anche se ancora in modo quasi completamente « applicato », la teoria dei numeri cardinali e ordinali transfiniti. La concezione « astratta » della sistemazione finale della teoria cantoriana è subito evidente nei Contributi del I 89 5; non ci si riferisce più, qui, a insiemi particolari, finiti o infiniti, lineari o no, di punti o di numeri, ma l'articolo inizia con la famosa definizione di insieme tout court: «Con "insieme", » afferma Cantor, «intendiamo ogni riunione M in un tutto di oggetti m (che vengono detti " elementi " di M) della nostra intuizione o del nostro pensiero. » A ogni insieme M spetta una ben determinata «potenza» o «numero cardinale» che è « ... quel concetto generale ... che si ottiene da M quando si astragga dalla natura particolare 1 Anche qui, oltre ad aver trascurato certe puntualizzazioni a rigore necessarie, non affrontiamo il problema della natura e delle proprietà
della rappresentazione, in particolare le relazioni fra biunivocità e bicontinuità della rappresentazione stessa.
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dei suoi elementi e dall'ordine col quale essi sono dati». Per tener conto anche simbolicamente della doppia astrazione dalla natura e dall'ordine degli elementi, Cantor, per indicare il cardinale di un insieme, pone due sbarrette sul simbolo dell'insieme stesso: cosi il cardinale di M, ad esempio, sarà indicato con M. Se chiamiamo « equivalenti » due insiemi M e N quando fra loro possa stabilirsi una corrispondenza biunivoca, risulta che l'equivalenza è condizione necessaria e = = sufficiente per l'equipotenza, ossia M= N allora e solo allora che M è equivalente a N. I numeri cardinali cosi definiti comprendono evidentemente, come facilmente si verifica, gli usuali numeri naturali che risultano essere quei particolari cardinali associati ad insiemi finiti; si noti tuttavia che mai Cantor, nel corso della esposizione della sua teoria, dà una definizione di insieme finito o di insieme infinito (si ricordi la critica di Dedekind). Fra cardinali cosi introdotti è possibile definire del tutto in generale (ricorrendo sempre a opportuni insiemi peraltro qualunque) le relazioni di « uguale », « maggiore » e « minore >>, come pure può svilupparsi tutta un'aritmetica cardinale sulla base di opportune e naturali definizioni insiemistiche per le operazioni di « addizione », « moltiplicazione », « esponenziazione », ecc., e in modo tale che, nel caso ci si limiti a considerare solo cardinali finiti (ossia: numeri naturali) queste relazioni e operazioni coincidono con le omonime relazioni e operazioni aritmetiche ordinarie. È tuttavia interessante notare come anche sulla base delle più generali definizioni relative a cardinali qualunque (ossia finiti o infiniti) queste operazioni godono delle usuali proprietà delle ordinarie operazioni aritmetiche. Si ha ad esempio
a·b = b·a a-(b·c) = (a·b)·c
a+b = b+a a +(b +c)= (a +b) +c a·(b+c)=a·b +a·c
ossia l'addizione e la moltiplicazione fra cardinali qualsiasi sono commutative e associative e inoltre la moltiplicazione è distributiva rispetto all'addizione. Anche l'esponenziazione, opportunamente definita relativamente a cardinali qualsiasi gode delle usuali proprietà rispetto alle altre operazioni, si ha cioè
ab.ac = ab+c aC.bC = (a·b)C (ab)c = ab·c Un solo comportamento «anomalo» si ha in questo grandioso tentativo di estensione e trasporto delle proprietà dell'aritmetica (cardinale) finita all'ambito generale delle potenze. La difficoltà sorge per le relazioni d'ordine sopra viste : vale ancora, per cardinali a e b qualsiasi che delle tre relazioni a = b (a uguale a b), a > b (a maggiore di b), a < b (a minore di b) se una è verificata non pos395
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sono verificarsi le altre due; ma non è possibile decidere- diversamente che nel caso dei soli cardinali finiti- se una di esse si verifichi necessariamente. In altri termini, non è detto che due cardinali qualsiasi siano sempre confrontabili rispetto alla loro « grandezza » o, brevemente: per cardinali qualsiasi non vale la tricotomia. Il problema della COf!frontabilità dei cardinali sarà, come vedremo, un'importante questione che malgrado tutti i suoi sforzi Cantar sarà costretto a lasciare aperta. Sviluppata brevemente la teoria dei cardinali finiti, Cantar introduce il primo (minimo) cardinale transfinito, che indica con No, ponendolo uguale per definizione al numero cardinale spettante all'insieme N dei naturali (cardinali finiti) pònendo cioè
No=N. Già l'introduzione di No comporta alcuni risultati «non usuali» nell'aritmetica cardinale (ferma restando ovviamente la validità delle leggi generali sopra ricordate). Ad esempio si ha
No +n= No +No= No No·n = No·No =No Non= No
(n finito) (n finito) (n finito).
Come esempio della fecondità di questo approccio, Cantar mostra come egli possa derivare «in modo puramente algebrico ... e in poche righe» l'intero contenuto della memoria del 1878 che tanta resistenza aveva incontrato fra i matematici. Indichiamo infatti con o il numero cardinale spettante al continuo lineare (o, il che è lo stesso, la potenza dell'insieme dei numeri reali compresi fra o e 1, estremi inclusi). Sulla base della definizione di esponenziazione si ottiene facilmente l 'uguaglianza
0=2
No
e dalle proprietà dell'esponenziazione si ha subito
on =o per n finito, ma anche 0 No
= (2No)No = 2No·No = 2No = 0
ossia: la potenza di un continuo n-dimensionale, per n finito o numerabile, è uguale alla potenza del continuo lineare. Come ultima osservazione, ricordiamo che Cantar aveva dimostrato col metodo diagonale già nel 1 89o un teorema (oggi noto semplicemente come teorema di Cantor) il quale in termini cardinali afferma che
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per m cardinale qualsiasi. Sulla base di questo fondamentale teorema, 1 a partire da ~o è possibile allora ottenere una successione infinita di cardinali della forma
2
~o
2
2
2~0
~o
2
... ecc.
2
ognuno dei quali è maggiore del precedente. Su questo modo di generare cardinali torneremo nel seguito. Cantar passa quindi a considerare la caratterizzazione ordinale degli insiemi, che fonda sul concetto di tipo d'ordine. Il tipo d'ordine di un insieme M è « ... il concetto generale che si ottiene da M quando si astrae soltanto dalla natura degli elementi m, ma non dall'ordine con cui sono dati». Questa «definizione» rende ragione della notazione M scelta da Cantor per indicare il tipo d'ordine dell'insieme M. Dati due insieme ordinati M e N (ossia su ognuno dei quali sia definita una relazione d'ordine, 2 che indicheremo, all'occorrenza, con <M e
un insieme A, allora per ogni x, y, z di A si avrà: Irriflessività x < x Transitività se x< y ey < z allora x< z Connessione x
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addizione e moltiplicazione, opportunamente definite in modo naturale, non godono più, in generale, della proprietà commutativa. Una sottoclasse particolare dei tipi d'ordine così individuati assume un'importanza fondamentale nella teoria di Cantor (e nelle successive ricerche ad essa collegate): si tratta dei tipi d'ordine di insiemi bene ordinati (tali cioè che sono ordinati e inoltre ogni loro sottoinsieme non vuoto ha un primo elemento rispetto alla relazione ordinatrice) che vengono detti da Cantor numeri ordinali o semplicemente numeri. Essi costituiscono l'estensione «canonica» del concetto di numero ordinale dal finito al transfinito e rappresentano per Cantor il « materiale naturale per una adeguata definizione delle cardinalità o potenze superiori ». I numeri ordinali inoltre godono della tricotomia, ossia si può dimostrare che, per ex, ~ ordinali qualunque, delle tre relazioni ex = ~. ex > ~. ex < ~. non solo ognuna di esse esclude le altre due ma anche una delle tre ha necessariamente luogo. In altri termini, per i numeri ordinali non esiste un « problema di confrontabilità » analogo a quello visto per i cardinali. Non possiamo qui purtroppo seguire nei particolari lo sviluppo fecondissimo della teoria degli ordinali di Cantor; ne esporremo solo alcuni punti che varranno a mettere in luce una serie di problemi generali, senza dare all'esposizione quella rigorosità che l'argomento, in particolare allo stadio della ricerca odierna, richiederebbe. Eventualmente richiameremo in nota o direttamente nel testo alcune proprietà degli ordinali che dovessero dimostrarsi necessarie per la comprensione del testo. Ciò premesso, vediamo come Cantor definisce le « cardinalità superiori » tramite i numeri ordinali. Pensiamo di riunire in una prima classe numerica tutti i numeri ordinali (di insiemi bene ordinati) finiti: questa classe (che come sappiamo coincide con l'insieme N dei numeri naturali), pensati i suoi elementi ordinati secondo l'ordine di grandezza naturale (relazione di «maggiore»), è caratterizzata dall'avere un primo elemento, 1, ma non un ultimo elemento; dall'essere bene ordinata dalla relazione di «maggiore» e dall'avere, in quanto classe, un numero cardinale No, che è maggiore di ogni elemento della classe. 1 Si riuniscano ora in una seconda classe numerica tutti i numeri ordinali (di insiemi bene ordinati) il cui cardinale sia uguale ad No (ossia uguale al cardinale della classe numerica precedente). Cantor dimostra che anche questa seconda classe ha un primo elemento (per il quale egli usa in un primo momento il simbolo w, successivamente il simbolo w 0 , e che per definizione è l'ordinale dell'insieme dei numeri naturali ordinati secondo l'usuale ordine di grandezza, ossia wo =N) ma non un ultimo elemento; è bene ordinata dalla relazione di « maggiore » ed è tale che il suo numero cardinale non solo è maggiore del cardinale di ogni suo I In realtà, contrariamente a quanto avverrà per le classi numeriche successive (si veda avanti nel testo) gli elementi della prima non godono della proprietà di avere una stessa cardinalità, sicché in
effetti ogni numero ordinale finito costituisce, singolarmente preso, una classe numerica. Si veda anche la nota I di pagina seguente.
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elemento (quindi di ~o) ma è anche il più piccolo cardinale transfinito che sia maggiore di ~o; Cantor indica tale cardinale con ~ 1 .1 Ora è chiaro come iterare il procedimento: alla terza classe numerica composta da tutti gli ordinali (di insiemi bene ordinati) di cardinalità ~ 1 spetterà un nuovo numero cardinale che risulterà essere maggiore di ~l e anzi risulterà essere il più piccolo cardinale transfinito con questa proprietà; esso verrà indicato con ~ 2 e così via. In questo modo Cantor ottiene una successione transfinita di alefs ~o, ~1, ~2, ... , ~w
O>
~w
o+J>
...
che egli ritiene di poter dimostrare essere bene ordinata dalla relazione di « maggiore ». In effetti Cantor non conduce questa dimostrazione e anzi nella sua costruzione si «ferma» alla considerazione della seconda classe (malgrado abbia ovviamente gli strumenti per spingersi oltre). È probabile che ciò dipenda dal fatto che già nel I 895 Cantor si era imbattuto in una «antinomia», detta del massimo numero ordinale che Cesare Burali-Forti aveva poi pubblicato nel I 897, relativa alla classe bene ordinata (secondo l'ordine naturale di grandezza) n di tutti i numeri ordinali; e che sostanzialmente si può esprimere dicendo che il numero ordinale n spettante a n sulla base di precisi risultati della teoria cantoriana, dovrebbe contemporaneamente essere e non essere l'ordinale di n (più semplicemente: risulta essere e contemporaneamente non essere il massimo numero ordinale).2 Del resto I Vediamo di renderei intuitivamente conto del fatto che a un insieme infinito di data cardinalità possono corrispondere più tipi d'ordine e, in particolare, più ordinali fra loro diversi. Rifacciamoci allo scopo a un esempio che già abbiamo usato quando abbiamo stabilito la numerabilità dell'insieme Q dei razionali. Sostanzialmente come si ricorderà -la dimostrazione si basava sul fatto che si riusciva a ordinare diversamente, rispetto all'ordine naturale di grandezza, gli elementi di Q (vale a dire: si definì va in esso una relazione d'ordine diversa da quella usuale di « maggiore »). Orbene, dovrebbe anche risultar chiaro che cosi facendo si era cambiato il tipo d'ordine dell'insieme Q (contrariamente a quanto avviene nel caso di un insieme finito, ove la diversa disposizione degli elementi non cambia il tipo d'ordine dell'insieme): e infatti, ad esempio, nell'ordinamento naturale per grandezza Q è denso mentre il nuovo ordine lo rendeva discreto; nell'ordine naturale Q non aveva né primo né ultimo elemento, mentre col nuovo ordine rimaneva sempre senza ultimo elemento, ma aveva un primo elemento e così via. In generale quindi- parlando intuitivamente -uno stesso insieme infinito si può ordinare in infiniti modi diversi cui corrispondono inli-
niti tipi d'ordine diversi. Sempre intuitivamente, una parte- ancora infinita- di questi ordini saranno buoni ordini e quindi, corrispondentemente, una parte di quei tipi d'ordine saranno numeri ordinali. Dovrebbe essere chiaro come si possa parlare di « cardinale » di un ordinale: basta pensare a un insieme che abbia quel cardinale e quell'ordinale. Così ad esempio si ha subito, conservando la notazione cantoriana, w0 = No· Per quanto riguarda la seconda classe cantoriana, i suoi elementi, ognuno dei quali è numerabile, saranno, nell'ordine W,
W
+
I,
W+ 2,.,, W • 2,
W
w· 3, w· 3+ I, .. . w•, w• +I, w• +
· 2 2,
+ I, .••
w• +w, ...
ws, ... w', ... wn, ... w(l), ... e così via. Come nell'aritmetica ordinale finita si conta il primo, il secondo, ecc. elemento di un insieme, ora, con la concezione dell'infinito attuale, conteremo anche l'w-esimo, l'w + I-esimo elemento e così via. 2 Si dimostra infatti: a) che n è un insieme bene ordinato; b) che ogni ordinale tX di n è l'ordinale spettante all'insieme bene ordinato degli ordinali che lo precedono («segmento» di 'X); che un segmento di n non è mai simile a n. Da ch'l si deriva imn1ediata1nentc un':1ntinon1i:1, :lp-
punto applicando tali risultati a
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n e n.
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lo stesso Cantar aveva scoperto un'altra antinomia, detta del massimo numero cardinale, che aveva comunicato a Dedekind in una lettera del I 899: pensiamo all'insieme V di tutti gli insiemi; si può facilmente dimostrare che ad esso spetta il massimo numero cardinale possibile, che conveniamo di indicare con~. D'altra parte consideriamo l'insieme &fJ(V) di tutti i sottoinsiemi di V; come sappiamo si ha &fJ( V) = 2. v e per il teorema di Cantar risulta 2. v> V, sicché essendo V = ~. ~ non è il massimo numero cardinale. È come dicevamo probabile che queste considerazioni inducessero Cantar a osservare una certa cautela nel parlare dell'insieme di tutti gli alefs o di tutti gli ordinali. Va però anche detto che egli non diede un peso essenziale a queste antinomie, che pensò di poter risolvere, come vedremo, proponendo una distinzione fra « molteplicità assolutamente infinite o inconsistenti » e « molteplicità consistenti o insiemi »; il suo problema centrale rimaneva sempre quello della confrontabilità dei cardinali, e una questione ad esso in certo senso subordinata, il cosiddetto problema del continuo. Ecco come Cantar stesso si esprime nella citata lettera a Dedekind del I 899: « Come Lei sa sono giunto già molti anni fa a definire una successione bene ordinata di potenze ... che chiamo " alefs " ... La grossa questione era se, oltre agli alefs esistessero altre potenze di insiemi; già da due anni sono in possesso di una dimostrazione del fatto che non ne esistono altre, cosicché ad esempio al continuo reale aritmetico (la totalità dei numeri reali) spetta come cardinale un alef determinato. »In questo passo sono chiaramente enunciati il problema generale della confrontabilità e quello particolare del continuo, sui quali è opportuno soffermarci brevemente. Il problema della confrontabilità consiste nel chiedersi (una volta individuato, grazie alla teoria degli ordinali, un metodo « standard » per costruire potenze sempre maggiori) se ogni altro possibile metodo di generazione di cardinali conduca necessariamente a individuare sempre e solo alefs. Ad esempio, noi conosciamo già un modo .diverso di generazione, quello basato sull'applicazione del teorema di Cantar: orbene, ogni cardinale ottenuto tramite « esponenziazione » coincide con qualche alef? Supponiamo ora, per un momento, che l'affermazione di Cantar rispondesse a verità, cioè che egli fosse riuscito effettivamente a dimostrare un teorema di confrontabilità, sicché ogni cardinale sarebbe un alef. A questo punto interviene l'altro problema. Abbiamo infatti visto che, in parti· l'meare geometnco · ha un numero card'ma le o = colare, 1'l contmuo
2.
~o ; per 1'l
risultato sopra ammesso, 2. ~o deve ora coincidere con qualcuno degli alefs. D'altra parte Cantar aveva dimostrato che ~ 1 è il cardinale immediatamente successivo a ~o in ordine di grandezza naturale, sicché sorge la questione di sapere se
2.
~o
è maggiore o uguale a
~1 :
è questo appunto il problema del continuo. A
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questo problema Cantar risponde formulando la cosiddetta ipotesi dd continuo che, sempre nel suo caso più semplice, si esprime affermando l'uguaglianza 1
Cantar tentò vanamente di dimostrare questa ipotesi, così come reiteratamente escogitò nuove dimostrazioni, che tuttavia presentavano sempre nuovi punti di oscuro ricorso all'« intuizione» e che quindi non lo soddisfacevano, per il teorema della confrontabilità. Mentre quest'ultimo veniva risolto agli inizi del xx secolo (precisamente nel 1904) da Zermelo, con l'impiego dell'assioma di scelta, la dimostrazione dell'ipotesi del continuo ha impegnato logici e matematici fino al 1963, anno in cui, come meglio vedremo nel volume ottavo. Paul J. Cohen giunge a una definita conclusione circa la sua dimostrabilità o meno. E l'esito di tali ricerche non è stato certamente quello che Cantor immaginava di poter ottenere. A questo punto è opportuna qualche considerazione generale sulla teoria degli insiemi di Cantor, e sulla sua impostazione. È chiaro che con essa Cantor vuole anche fornire una fondazione per la matematica, si inserisce cioè nella problematica cui ci interessiamo in modo particolare in questo capitolo; ma vuole fornirne una fondazione di tipo generale, che si possa considerare riferita all'accezione pil1 ampia possibile di « aritmetica » nella quale non sia lasciato spazio all'intuizione, psicologica o no, del dato ultimo della sua costruzione, quel concetto di insieme che va quindi considerato in tutta la sua oggettività matematica. Nella pratica operativa il «classico» Dedekind è indubbiamente molto più esigente, intransigente e rigoroso che non Cantor; il «romantico» Cantor, tuttavia, riesce ad aprire nuovi orizzonti alla ricerca e filosofica e matematica, convinto che al di là dell'esigenza immediata di rigore sia più importante e vitale mantenere alla ricerca astratta la totale libertà d'espressione, fondata, oltre che sulla «sicurezza» del procedimento tecnico su una sorta di ingenua fede nelle possibilità di « autocorrezione » del pensiero matematico. La teoria di Cantor è in effetti condotta assumendo la validità incondizionata di tre principi: 1) due insiemi che hanno gli stessi elementi sono uguali (principio di estensionalità); 2.) data una qualunque proprietà esiste sempre (ed è unico in virtù del principio precedente) l'insieme di tutti e soli gli «oggetti» che godono di quella proprietà (principio di comprensione); e infine 3) è sempre possibile operare un numero arbitrario di scelte arbitrarie da un insieme di cardinalità arbitraria di insiemi non vuoti (principio della scelta). Di questi tre principi Cantor enuncia esplicitamente (anche se non consapevolmente come principio generale) solo il primo; degli altri due si serve ogniqualvolta gli occorra in modo intuitivo e inI L'ipotesi generale del continuo viene invece espressa dall'uguaglianza generale
2
N "'
n:~le
= Noe + 1 che si afferma volere per ogni ordi-
x.
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conscio (e ciò avviene, come vedremo, in special modo per il terzo). Il primo principio non è particolarmente problematico; esso sta a significare sostanzialmente che un insieme è completamente determinato dai suoi elementi, indipendentemente dal fatto che possa essere caratterizzato tramite proprietà diverse. Il terzo principio è particolarmente importante nella teoria cantoriana perché proprio ad esso, ad esempio, Cantor si riferisce inconsapevolmente nelle sue dimostrazioni del teorema di confrontabilità. 1 Nella lettera sopra citata a Dedekind egli elimina, per così dire, le antinomie che sopra abbiamo presentato perché giunge alla conclusione che tanto la classe di tutti gli ordinali, quanto la classe di tutti gli alefs sono in effetti molteplicità inconsistenti, ossia tali che «l'ipotesi di un "essere assieme " di tutti i loro elementi conduce a una contraddizione sicché è impossibile concepire la molteplicità come un'unità, come una "cosa compiuta"». 2 D'altra parte, alla domanda se esista un insieme la cui cardinalità non sia un alef (che è ovviamente un altro modo di formulare il problema della confrontabilità) egli risponde (meglio: crede di poter rispondere) in senso negativo dimostrando analogamente che se esistesse una « molteplicità determinata V alla quale non spetti come numero cardinale un alef ... V deve essere inconsistente ». È proprio fra le assunzioni « intuitive » di questa dimostrazione che egli fa un ennesimo uso inconscio dell'assioma di scelta. Per dare un'idea della cosa, assumiamo questo principio nella sua formulazione equivalente come principio del buon ordinamento: in questa forma esso afferma semplicemente che ogni insieme può essere bene ordinato. È allora chiaro che ogni insieme avrebbe come tipo d'ordine un numero ordinale, che quindi sarebbe necessariamente compreso in una delle classi numeriche su definite i cui elementi, come sappiamo, hanno appunto un alef come numero cardinale. Ne verrebbe immediatamente che ogni cardinale è un alef. Abbiamo riservato per ultimo un breve cenno al secondo principio, principio di comprensione, perché esso, malgrado la sua evidente importanza, non risultò particolarmente problematico per Cantor durante l'elaborazione della sua teoria. In effetti sarà proprio un'ennesima antinomia scoperta da Russell e che chiamava I Nel I9I5 F. Hartogs dimostrerà che il problema della confrontabilità, l'assioma della scelta, il teorema del buon ordinamento (si veda avanti nel testo) sono proposizioni equivalenti. Zermelo aveva dimostrato nel I904 il teorema del buon ordinamento facendovi intervenire in modo essenziale l'assioma di scelta (sicché il principio della scelta veniva assunto esplicitamente fra le proposizioni matematiche fondamentali). Quest'ultimo era stato notato « di passaggio » da Peano già nel I 890 ed enunciato come principio indipendente da Beppo Levi nel I904. Poche proposizioni matematiche hanno provocato tante accese discussioni come questa. Avremo occasione di parlarne nel volume ottavo.
2 In altri termini, dal momento che la teoria riguarda « insiemi >> e non « molteplicità » qualunque, le antinomie non hanno più luogo. Così facendo Canton anticipa di fatto una delle vie poi seguite per uscire dalla cosiddetta crisi dei fondamenti della matematica (si veda il prossimo paragrafo) causata proprio dalla scoperta di antinomie nella teoria degli insiemi, in particolare dall'antinomia di Russell; in questo tipo di soluzione si dirà tecnicamente « classe » per quelle che Cantor chiamava « molteplicità inconsistenti » mentre si riserva il nome di « insieme» alle cantoriane «molteplicità consistenti». Vedremo meglio la cosa nel volume ottavo.
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direttamente in causa questo principio, che costrinse a rivedere tutta l'impostazione della teoria degli insiemi. L'antinomia in questione, la celebre antinomia di Russe/l, colpirà direttamente il sistema di Frege, che prenderemo in esame nel prossimo paragrafo, ma coinvolgerà in effetti qualunque tipo di fondazione della matematica che facesse appello a « insiemi », « sistemi », « aggregati » e via dicendo. Mentre nel caso del principio di scelta si trattava dell'esplicitazione di un fondamento sul quale era inconsapevolmente basata la teoria cantoriana, per il principio di comprensione si trattò piuttosto della necessità di una sua limitazione, pena appunto la vanificazione della teoria stessa per contraddittorietà. In effetti, altri punti della teoria degli insiemi, così come concepita e elaborata da Cantor, lasciano a desiderare dal punto di vista del rigore logico. Ad esempio la stessa definizione cantoriana del concetto di insieme è evidentemente circolare; la definizione di numero cardinale o ordinale ~ chiaramente basata su una concezione ingenua e psicologistica dell'astrazione, sicché ben a ragione Frege potrà dire che Cantor richiede al lettore « astrazioni impossibili ». Ancora, Cantor non si preoccupa mai di definire cosa intenda per insieme finito, eppure sull'insieme di tutti i numeri finiti (e quindi appunto, in sostanza, sul concetto di insieme finito) fonda tutta la sua aritmetica transfinita, grazie alla definizione che egli dà di ~o; egli impiega acriticamente l'induzione completa, senza preoccuparsi minimamente di giustificare questo procedimento e pur essendo certamente a conoscenza delle opere, se non di Frege, almeno di Dedekind. Per finire, tuttavia, vogliamo osservare che malgrado questi limiti obiettivi che la teoria di Cantor presenta da un punto di vista del rigore logico, essa rimane fra le conquiste più possenti e sorprendenti del pensiero umano. Questa teoria ha motivato e stimolato innumerevoli ricerche dopo la sua apparizione, è stata applicata praticamente in ogni campo della scienza e ha avuto notevolissimi riflessi nello stesso ambito filosofico. È stata feconda anche dopo che in essa furono scoperte antinomie, e anzi, si potrebbe dire in particolare dopo tale scoperta, se è vero che un intero importantissimo e fondamentale campo della logica si è sviluppato proprio nel tentativo di eliminare queste insorgenze contraddittorie. E una cosa che costantemente si riscontra (salvo casi particolarissimi che avremo occasione di prendere in esame nel volume ottavo) è che i vari indirizzi insiemistici hanno sempre agito nel senso di ridurre al minimo le limitazioni alla teoria cantoriana, che appunto si erano rese necessarie dopo la scoperta delle antinomie. Omaggio forse questo a quell'ideale cantoriano di libertà e ferma convinzione che, come ebbe a dire Hilbert nel 1 9z 5 « nessuno potrà cacciarci dal paradiso che Cantor ha creato per noi».
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IV· LA SISTEMAZIONE DELLA LOGICA MODERNA E LA LOGICIZZAZIONE DELLA MATEMATICA: GOTTLOB FREGE
Non è possibile comprendere compiutamente il senso della sistemazione della logica moderna compiuta da Gottlob Frege 1 se la si considera isolatamente, ossia separata dal contesto generale nel quale Frege la concepisce e la effettua, contesto che di tale sistemazione dà nel contempo la portata e i limiti. Il disegno complessivo di tutta l'opera di Frege si può riassumere in quello che oggi viene detto «programma logicista » di fondazione della matematica, che appunto risale al logico tedesco e che può enunciarsi come segue. Si tratta a) di definire in termini puramente logici i concetti della matematica pura, in particolare quelli tradizionalmente e comunemente riguardati come « primitivi », irriducibili: primo fra tutti, ovviamente, lo stesso concetto di numero naturale; b) di derivare le «verità» della matematica pura (e in particolare quelle ritenute più «evidenti») a partire da principi meramente logici, e impiegando metodi di ragionamento del tutto esplicitati. È chiaro che, per realizzare questo programma, si pone come essenziale per Frege una preliminare sistemazione della logica (in quanto teoria dell'inferenza); sistemazione che nel contempo risulta però anche subordinata, strumentale: il problema centrale rimane quello di assicurare una fondazione certa, incontrove:rtibile per la matematica. Frege è convinto che la sua proposta in questo senso « ... non potrà apparire come una delle tante opinioni, tutte ugualmente giustificabili »; egli :ritiene di giungere a una « soluzione definitiva del problema, almeno nei punti fondamentali ». E quali per lui siano questi « punti fondamentali » può essere già riconosciuto considerando le varie « polemiche » che Frege conduce, nelle direzioni più diverse, durante la sua attività scientifica. Lo sfondo filosofico, 1 Friedrich Gottlob Frege nacque a Wismar, nella Germania settentrionale, 1'8 novembre 1848. Compi i primi studi nel locale ginnasio, quindi frequentò l'università di Jena nel 1869 e nel 1871 quella di Gottinga, o\·e ebbe a maestro fra gli altri Hermann Lotzc, cbl quale con tutta probabilità trasse l'impostazione platonico-realista in filosofia. Laureatosi nel 18 73 a Gottinga, conseguì la libera docenza nel 1874. Nel 1879 viene nominato professore straordinario all'università di Jena presso la quale compirà tutta la sua carriera accademica che si conclude nel 1895 con la nomina a professore ordinario onorario. Nel 1917 chiede alle autorità accademiche di essere esonerato dall'insegnamento e nel1918 viene collocato a riposo. Mori il 25 luglio del 1925. Il carattere di Frege, già chiuso e polemico per natura, si inasprì pro-
babilmente ancor più per la totale indifferenza con la quale gli ambienti scientifici tedeschi accolsero le sue varie opere dedicate, dal 1879 in poi, all'esecuzione del proprio « programma logicista » di fondazione della matematica. Oltre alle opere inerenti questo programma, che verranno citate direttamente nel testo, ricordiamo alcune sue notevoli recensioni (a Cantor, Husserl, Cohen), vari saggi sui fondamenti della geometria e una trilogia logica composta dai tre saggi Der Gedanke - Bine logische Untersuchrmg (Il pensiero- Una ricerca logica) del 1918; Die Verneigung - Bine logische Untersuchung (La negazione- Una ricerca logica) dello stesso anno; Logische Untersuchungen Dritter Teil: Terza parte: Gedankengefiige (Ricerche logiche strutture di pensiero) del 1923.
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il punto di riferimento obbligato di queste ricerche rimaneva pur sempre (consapevolmente o no) la Critica kantiana; e indipendentemente dal fatto che ogni singolo autore si trovasse o meno in accordo con le tesi di Kant, la conseguenza notevole di questo stato di cose è l'instaurarsi di un abito mentale in base al quale problemi apparentemente specifici della matematica vengono costantemente inseriti in, o confrontati con, un contesto più generale; mentre d'altra parte, si riconosce che determinati problemi tradizionalmente assegnati all'ambito filosofico non possono risolversi senza l'ausilio della matematica (e abbiamo in questo senso già visto alcuni esempi tipici). Frege avverte in modo particolarmente acuto questa esigenza, e la dichiara esplicitamente: « ... una ricerca profonda del concetto di numero... costituisce un compito comune alla matematica e alla filosofia »; anzi, proprio in questo riferimento filosofico generale egli individua i « bersagli » delle sue diverse discussioni e polemiche: l'empirismo matematico e lo psicologismo logico di J.S. Mill e di Benno Erdmann; l'« intuizionismo » matematico di Kant; il formalismo prima ingenuo di Thomae e Hankel e successivamente più maturo e articolato di Hilbert. Il tenore di queste polemiche, che non risparmiano neppure Dedekind e Cantar, è assai diverso da caso a caso; sicché ci sembra che esponendo molto brevemente il loro contenuto si abbia per converso già una prima approssimativa delineazione della stessa posizione di Frege. 4· 1. Frege « contro » predecessori e contemporanei. Intransigente e irriducibile la sua presa di posizione contro Mill: a suo parere con le premesse di questo autore si giunge in definitiva, circolarmente, a confondere « sempre la pura proposizione aritmetica con le applicazioni che se ne possono fare, le quali sono spesso di ordine fisico e si riferiscono a fatti osservati»; ne può risultare al più un'aritmetica dei «granellini di pepe o dei sassolini», non certo la fondazione di una scienza dei numeri. Frege concluderà viceversa che le «proprietà dei numeri derivano dalla loro definizione ed è ... presumibile che il metodo induttivo stesso ... possa venir giustificato soltanto per mezzo dei teoremi generali dell'aritmetica». Le varie forme di psicologismo hanno d'altra parte precise e decisive responsabilità: «Se malgrado alcuni tentativi dalle due parti, una collaborazione fra matematica e filosofia non è ancora così feconda come sarebbe desiderabile e certo anche possibile, ciò dipende ... dal sopravvento preso dai metodi psicologici nella filosofia e dal loro infiltrarsi anche nella logica. » Perché, continua Frege, è ben vero che « ... può essere utile studiare il flusso di rappresentazioni 1 che accompagnano il pensiero matematico; non si illuda però la psicologia di poter contribuire con ciò alla fondazione dell'aritmetica». In altri termini, la base logica del ragionamento non va mai confusa con le condizioni soggettive interne o esterne al modo particolare con cui viene condotto. Viceversa - e qui interviene l'esplicita professione della sua propria convinzione - « quanto più la matematica deve asteI
Frege usa questo termine sempre ed esclusivamente in senso soggettivo.
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nersi da qualsiasi ricorso a considerazioni psicologiche, tanto meno può negare, invece, i suoi rapporti con la logica. Io mi trovo veramente d'accordo con coloro i quali ritengono impossibile tracciare una precisa linea divisoria fra le due ». Per quanto riguarda la confutazione della nota teorizzazione kantiana dei giudizi aritmetici come sintetici a priori, il tono è qui assai più impegnato e si direbbe riguardoso, come deve essere parlando « di un genio cui possiamo guardare solo con riconoscente ammirazione » e della cui teoria si mettono in luce solo « piccole manchevolezze ». Il fatto è che la reale e più profonda motivazione filosofica dell'opera di Frege è proprio quella di dare una risposta da una parte alla questione se gli oggetti aritmetici (i numeri) siano afferrabili grazie a un'intuizione interna o sensibile dell'uomo, oppure per altra via; dall'altra «se le leggi dei numeri siano verità analitiche o sintetiche, a priori o a posteriori». Questo è - per inciso - un tipico esempio per Frege qi problemi che pur assegnati tradizionalmente alla filosofia non possono risolversi «senza l'aiuto della matematica». Circa la prima questione Frege ritiene che Kant sia potuto giungere alla conclusione che il numero sia qualcosa di intuitivo e che le formule aritmetiche siano di conseguenza indimostrabili e immediatamente chiare (come gli assiomi e sintetiche) solo perché «ha tenuto conto soltanto dei numeri piccoli». Per quanto invece riguarda il discorso sulla natura delle leggi aritmetiche, Frege dichiara che non intende introdurre significati nuovi per i termini analitico, sintetico, a priori e a posteriori, ma anzi cogliere più compiutamente - ampliandolo lo stesso pensiero di Kant in proposito; egli afferma che a suo parere le suddette distinzioni non riguardano « il contenuto del giudizio, ma la sua giustificazione », tanto che ove « manca quest'ultima cade ... la possibilità stessa di una tale suddivisione ». Nel caso di giudizi matematici, tale giustificazione non può essere che una dimostrazione che li riconduca alle verità fondamentali; saremo allora di fronte a una verità analitica quando nel corso di tale dimostrazione « si fa esclusivamente uso delle leggi logiche generali e di qualche definizione precisa», mentre qualificheremo come sintetica una proposizione aritmetica nella cui dimostrazione deve intervenire « qualche verità che risulti non di natura logica generale, ma dipendente da un campo particolare della scienza». Frege concluderà che Kant ha sottovalutato i giudizi analitici, concorrendo così autorevolmente a mantenere in vita la «leggenda» dell'infecondità della logica pura; a suo parere invece in un giudizio analitico sono si contenute tutte le sue conseguenze, ma « come la pianta nel seme, non come una trave nella casa ». Per offrire una dimostrazione completa e convincente della sostenuta natura analitica delle leggi aritmetiche, occorre a Frege porsi in ,grado di condurre dimostrazioni, «lunghe catene di ragionamenti», senza lacune, ossia in modo tale che ogni presupposto intervenga esplicitamente nella catena deduttiva e se ne possa quindi valutare la « natura », giusto il canone di analiticità sopra enunciato. Una terza, caparbia e continua polemica che occupa Frege praticamente du-
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rante tutta la sua lunga attività scientifica, è quella che egli conduce contro il formalismo. La polemica si sviluppa sostanzialmente in due fasi. Dapprima egli si impegna contro una concezione formalistica dell'aritmetica intesa, ed effettivamente cosl presentata da Hankel e Thomae, come una concezione che molto semplicisticamente vede nel segno in quanto tale l'oggetto ultimo della ricerca matematica; a questa veduta Frege oppone la sua concezione contenutistica, secondo la quale il segno numerico non è che un fattore denotante di quello che è il vero e proprio oggetto dell'aritmetica, ossia il numero. Anche se già in questo contesto Frege avanza argomentazioni che poi saranno portate contro Hilbert, la sostanza della confutazione fregeana consiste nel dimostrare (in varie forme e momenti diversi) come un'aritmetica di tipo formalista riesce a «sostenersi» e a enunciare leggi aritmetiche generali soltanto se, inconsapevolmente ma ineluttabilmente, ricorre a quel « contenuto ».del segno numerico del quale di principio dichiara di poter fare completamente a meno. Il tono con cui Frege conduce questa polemica contro l'aritmetica formalista è decisamente presupponente e «antipatico»; va detto però che in questo caso le sue critiche « centrano » effettivamente il bersaglio, anche se ciò dipende soprattutto dalla pochezza e dallo scarso sostrato teorico con i quali i suoi oppositori sostenevano la concezione suddetta. Ben diverso l'impegno richiesto a Frege nella seconda fase di questa polemica, che ora egli conduce direttamente con Hilbert (o successivamente con qualche suo allievo). La posizione hilbertiana è indubbiamente più profonda e articolata, e ben diversa la statura intellettuale di Hilbert rispetto ai primi formalisti: ne viene che nella discussione vengono subito toccate questioni più significative e delicate delle rispettive concezioni dei due contendenti (per Hilbert si veda il prossimo paragrafo). Per Frege, la non contraddittorietà di un concetto non garantisce per nulla l'esistenza di oggetti che cadano sotto quel concetto: ché anzi, a suo parere, l'unico modo per dimostrare la non contraddittorietà di un concetto consiste proprio nell'esibire degli oggetti che cadano sotto quel concetto. Nel ruolo particolarmente delicato assegnato da Hilbert alla non contraddittorietà si potrebbe dunque riscontrare una sorta di circolarità. In particolare, continua la critica di Frege, quello di esistenza non è un concetto paragonabile ad esempio a « numero pari »: il primo riguarda (ossia è applicabile, in esso cadono solo) concetti, mentre il secondo invece riguarda (è applicabile, sotto di esso cadono soltanto) oggetti. Quelle che per Frege sono le ineliminabili deficienze costituzionali del formalismo hilbertiano sono proprio una non osservata rigorosa distinzione fra oggetti e concetti da una parte e, dall'altra, l'assenza di una gerarchizzazione dei concetti. Sta di fatto tuttavia che Frege dimostra di non aver compreso il senso della « definizione implicita » hilbertiana e in realtà questa polemica è più una dimostrazione di reciproca incomprensione che un proficuo scambio di idee. Ciò può essere dovuto a un certo «dogmatismo» da parte di Frege, derivantegli dalla convinzione di possedere la soluzione « definitiva » al problema della fonda-
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zione, e alla preoccupazione, da parte di Hilbert, di diffondere nel mondo matematico la sua nuova concezione assiomatica, il che non lo portava a indulgere a polemiche o a controbattere a certe troppo sottili distinzioni non « operative ». Sarebbe in effetti arduo trovare anche un solo contemporaneo di Frege interessato in un modo o nell'altro al problema della fondazione al quale egli non abbia rivolto precise e talora pedanti critiche almeno per quanto riguarda il momento più specificamente « logico » di questo interesse. Così ad esempio avviene con Cantar 1 al quale Frege - pur essendo uno dei pochi ad apprezzare in pieno il valore dell'estensione cantoriana del concetto di numero - rimprovera il residuo psicologistico nella concezione dell'astrazione e in generale una mancanza di rigore logico in tema di definizioni. 2 A Dedekind infine Frege contesta l'ammissibilità del preteso « potere creativo » delle definizioni (qui probabilmente mostra anche di non aver compreso a fondo il ruolo di questa «creatività» nell'elaborazione dedekindiana); ma fa in proposito dichìarazioni anche molto più impegnative come ad esempio: «Anche Dedekind è dell'opinione che la teoria dei numeri sia una parte della logica; ma il suo scritto [Essenza e significato dei nttmeri] dà ben pochi elementi per sostenere questa tesi, perché le espressioni da lui usate: "sistema", "una cosa appartiene a un'altra", non sono usuali in logica, né sonoriconducibili a qualcosa che sia riconosciuto come logica.» Per noi quest'affermazione è alquanto sorprendente perché.oggi riconosciamo che sostanzialmente i «linguaggi » di Dedekind e Frege si equivalgono; ma anche se Frege opponeva come logico, a quello di Dedekind, un linguaggio in termini di « concetti » (invece che di «sistemi» o classi) e «relazioni» (si potrebbe dire: una logica intensionale a una estensionale) proprio su questo punto le stesse determinazioni di Frege - come vedremo - non mancavano di notevoli ambiguità. Come abbiamo già avuto occasione di osservare, le analogie con Dedekind erano molto più accentuate - almeno nella sostanza del piano operativo -- di quanto Frege non fosse disposto ad ammettere; in particolare «sullo stesso terreno » essi si muovevano - come aveva riconosciuto Dedekind - relativamente alla giustificazione e al ruolo dell'induzione matematica. « Il presente studio,» scrive ad esempio Frege nelle Grundlagen del I 844, « mostrerà che anche un ragionamento come quello per passare da n a n +I, in apparenza caratterist~co I Si noti peraltro che Frege assume le difese di Cantor contro Illigens che, criticando la teoria cantoriana dell'irrazionale, lo aveva classificato fra i matematici formalisti. In questa occasione Frege ribadisce di considerare Cantor un contenutista e avanza poi contro ai lui, fra l'altro, le obiezioni di cui abbiamo già parlato ne;:! paragrafo u. 2. Qui ovviamente Frege ha ragione. Abbiamo già avanzato delle perplessità circa la definizione cantoriana di numero cardinale e di tipo d'ordine. Ora è chiaro che nel caso di un insieme con un solo elemento non è possibile « astrarre » nel senso di Cantor dall'ordine; o, pensando in-
vece all'insieme vuoto, non è possibile nemmeno astrarre dalla natura degli elementi. Queste sono le «astrazioni impossibili » che secondo Frege Cantor richiede: in effetti, sulla base della sua definizione non « esisterebbe » il cardinale O né l'ordinale I. Vedremo come Frege darà queste definizioni. Per quanto invece riguarda il momento psicologistico dell'astrarre nel senso di « trascurare delle proprietà », Frege trasporta la questione a livello logico traducendolo nella sostituzione di una variabile a una costante (si veda la nota I a pag. 4~I).
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per la matematica, riposa su leggi logiche generali, e non necessita di alcuna legge speciale del pensiero associativo »; e il metodo fregeano di caratterizzazione della successione dei naturali può essere senza difficoltà reso in termini di catene dedekindiane, ove per elemento base si assuma lo o invece dell'I. Le differenze fra i due autori andavano in effetti cercate in altra direzione, sostanzialmente nel concetto stesso di logica cui essi si riferivano. Dedekind identificava logica e aritmetica intendendo che la logica fosse aritmetica: e in questo senso può considerarsi come l'ultimo anello di quella catena che partendo da Boole giunge a lui attraverso Schroder; Frege ribalta questa posizione: l'identificazione fra logica e aritmetica avviene perché l'aritmetica è logica. In questo senso Frege compie un ulteriore passo, giungendo alla logicizzazione della matematica: i principi fondamentali della matematica non sono aritmetici, sono logici; è cosi che l'aritmetica « diventa soltanto una logica altamente sviluppata, ogni teorema aritmetico una legge logica, anche se derivata». Le stesse «applicazioni dell'aritmetica alla spiegazione della natura » sarebbero per Frege « rielaborazioni logiche di fatti osservati ». Pur se strettamente legata alla concezione stessa del suo programma, l'identificazione fra aritmetica e logica nel senso di Frege ha almeno una conseguenza generalissima, che trascende i limiti del programma stesso e in particolare è del tutto indipendente dal fatto che esso venga o meno realizzato. Mentre infatti in tutti i tentativi finora visti, il paradigma del procedere deduttivo rigoroso veniva individuato in modo naturale e non problematico nella logica intuitiva della matematica (e in questo senso oltre che ovviamente Dedekind si deve tenere ben presente in particolare anche Cantor), viene ora posta in evidenza da Frege la necessità di indagare sulla natura stessa dell'argomentazione deduttiva, di porre cioè al centro dell'analisi il concetto stesso di dimostrazione: è questo concetto che va rigorosamente reso esplicito in ogni suo passo operativo; vanno chiaramente isolati ed esplicitati le regole e i principi sui quali la deduzione si fonda, in modo tale che ogni passaggio avvenga secondo quelle regole e ogni proposizione suscettibile di dimostrazione venga ricondotta a quei principi (o, il che è lo stesso, da essi derivata).! 4.z. Scansione cronologica e momenti fondamentali della teoria logica di Frege. Sono già emersi nelle considerazioni precedenti, alcuni motivi fondamentali, alcune I Da questo punto di vista, il fatto che il ragionamento matematico abbia caratteristiche che più di ogni altro lo avvicinano a questo nuovo canone di rigore, non ha alcun particolare ruolo decisivo. In effetti, questa è la vera rivoluzione portata nella logica da Frege. In questo senso la sistemazione tecnica della stessa, che pur non perde minimamente la sua importanza decisiva, si presenta tuttavia nella sua giusta luce e refuta già all'origine tutta una serie di critiche (specialmente di parte filosofica) ancor oggi tranquillamente correnti (al solito, in particolare in Italia) circa la pretesa sterile « tecnicità » della logica al confronto
èon le speculazioni « dense di pensiero » del filosofo tradizionale. Il fatto è che Frege offre un esempio clamoroso di come si possano conciliare e affiancare armonicamente le due esigenze di un discorso significativo condotto con mezzi controllati e rigorosi. Probabilmente neppure Frege presagiva, quando si apprestava a concludere trionfalmente la sua fatica nel 1903, di quali e quanti sviluppi autonomi sarebbe stata capace quella logica che seppur fondamentale era da lui riguardata comunque come lo strumento, l'organon per eccellenza.
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« costanti », della teoria fregeana. Vediamo ora di precisare più da vicino gli elementi essenziali di tale teoria, premettendo un'elencazione delle principali opere nelle quali essa viene prendendo corpo, nell'ambito del programma generale di riconduzione della matematica alla logica. Tale programma è già presente in Frege nel I 879 quando nel volume Begrijfsschrift- Bine der arithmetischen nachge-
dildete Formelsprache des reinen Denkens (Ideografia - Un linguaggio in formule del pensiero puro a imitazione di quello aritmetico) presenta un simbolismo adeguato allo scopo di una completa esplicitazione dei passi e delle ipotesi del processo deduttivo, una logica che realizzi concretamente tale processo, e una teoria generale delle successioni che costituisce già di per sé materiale sufficiente alla giustificazione «logica» dell'induzione matematica. Più impegnati filosoficamente il già citato saggio del I 884, Die Grundlagen der Arithmetik. Bine logische-matematische Un-
tersuchung iiber den Begrijf der Zahl (l fondamenti dell'aritmetica. Ricerca logico-matematica sul concetto di numero) 1 e i saggi del periodo 1890-92: Ober das Tragheitsgesetz (Sul principio d'inerzia, I89o), Ober Begrijf und Gegenstand (Oggetto e concetto, I892), Ober Sinn und Bedeutung (Senso e significato, I892), Funktion und Begrijf (Funzione e concetto, I892). Nel saggio dell'84, un vero gioiello della letteratura filosoficoscientifica, Frege presenta a livello non simbolico tutto il suo programma, motivandalo ampiamente da un punto di vista filosofico, e rimanda esplicitamente alla necessità di una trattazione simbolica della parte propriamente esecutiva del programma stesso (che inizierà nel I893). Nel secondo e nel terzo dei saggi sopra citati, in chiave antipsicologistica tratta della distinzione fra rappresentazione (soggettiva) e concetto (oggettivo) da una parte e fra oggetto (in quanto «saturo», «in sé concluso») e concetto (in quanto« insaturo »)dall'altra. Nel quarto saggio presenta una propria originale teoria del significato, nell'ultimo infine dà un'interpretazione funzionale del concetto. La vera e propria esecuzione del programma logicista si avrà nei due volumi Grundgesetze der Arithmetik (Principi dell'aritmetica, rispettivamente del I893 e del I903), bruscamente interrotti dalla comunicazione da parte di Russell dell'antinomia che vanificava (almeno da un punto di vista programmatico) tutto il lavoro di Frege. Occupiamoci ora, molto brevemente di alcuni dei temi sopra citati. a) È già stata riconosciuta - e da più punti di vista - come essenziale per il programma generale di Frege, la possibilità di condurre dimostrazioni senza « lacune » e del tutto esplicite in ogni loro passo. Orbene, osserva Frege, se si tenta di procedere in questo senso servendosi del linguaggio comune, ci si deve ben presto fermare di fronte ad almeno due difficoltà: da una parte, la complessità sempre crescente delle formulazioni linguistiche ordinarie, in diretta conseguenza appunto della minuta analisi esplicativa dei vari elementi della dimostrazione stesI È molto probabile che Frege abbia presentato questo saggio in linguaggio ordinario per reagire alla fr~dezza con cui era stata accolta
l'Ideografia, che è a trattazione quasi esclusivamente simbolica.
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sa; dall'altra, la possibilità sempre crescente di fondarsi inavvertitamente su ipotesi intuitivamente accettate e non debitamente esplicitate, proprio per associazioni suggerite dalla assuefazione al linguaggio comune. Si impone quindi il ricorso a un simbolismo « asettico », pregnante solo su un piano logico. La scelta di Frege in proposito è molto complessa, elaborata e indubbiamente funzionale ai suoi scopi; ma certamente non felice: non è escluso che a tale scelta vada imputata buona parte almeno dell'indifferenza con cui i suoi contemporanei guardarono ai suoi lavori. L'Ideografia comunque contiene già, oltre appunto a una esauriente esposizione dell'apparato simbolico, un completo sistema di logica (predicativa del primo ordine con identità, diremmo noi oggi, e in subordine enunciativa) che si fonda su nove «assiomi» e su due regole (una sola delle quali esplicitata da Frege). Tale logica risulta da una sottile analisi nel corso della quale vengono tra l'altro introdotti : il concetto di funzione proposiziona/e; i quantiftcatori universale e esistenziale; in certo senso una distinzione sintassi-semantica; in certo senso una distinzione fra linguaggio oggetto e metalinguaggio («in certo senso »perché tali distinzioni sono sostanzialmente «operanti» ma non esplicitate)!. Si è già detto della teoria delle successioni. b) Momento centrale della teorizzazione di Frege è la sua costante preoccupazione di tenere separato e distinto in modo netto e rigido il concetto, dalla rappresentazione da un lato e dall'oggetto dall'altro. La prima distinzione avviene sostanzialmente, come si diceva in chiave antipsicologistica; il concetto è qualcosa di oggettivo e come tale va assegnato alla logica (che ne richiede peraltro l'esatta delimitazione); esso è per sua natura astorico. Un concetto rigorosamente delimitato non ha storia: più appropriato è, semmai, parlare di « storia dei tentativi per comprendere un concetto». La rappresentazione, viceversa, è essenzialmente un fatto soggettivo, « ha bisogno di un portatore »: come tale va « utilmente attribuita alla psicologia ». La seconda distinzione, quella fra concetto e oggetto, è invece di tipo prettamente logico: è proprio del concetto lo specifico carattere di « insaturazione », I Una funzione (o forma) proposizionale si ottiene da una proposizione « astraendo » nel senso di Frege da una o più costanti che in essa compaiono e ottenendo cosi qualcosa di « insaturo ». ~~ esempio, astrarre da « Antonio » nella propoS!Zl~ne. « Antonio ama Maria » significa per Frege sosutuue ad « Antonio » una variabile, poniamo x, ottenendo così « x ama Maria » che è appunto una funzione proposizionale, la cui insaturazione è denotata proprio dalla presenza della variabile. Tale funzione può essere « saturata» ponendo al posto della x un nome di individuo qualsiasi. È chiaro che viceversa l'operazione di« astrazione» può continuare, ottenendo nel nostro esempio, con una successiva applicazione, il concetto, la forma proposizionale « x ama y » che ora può essere saturata con due nomi di individui, ecc. I
quantiftçatori sono simboli per le espressioni « per tutti» (quantificatore universale) o «esiste» (quantificatore esistenziale) mediante i quali è appunto possibile rendere linguisticamente la generalità o l'esistenza. Questa introduzione è forse l'apporto fondamentale di Frege al costituirsi di una «logica dell'inferenza», il punto cruciale di confronto col sistema booleano. Frege in effetti assume un simbolo per il solo quantificatore universale, ed esprime poi l'esistenziale come negazione della generalità di una negazione, ossia come « non per tutti non ... ». Le due distinzioni sintassi/ semantica, linguaggio/metallinguaggio verranno trattate nel volume ottavo (e comunque non interessano immediatamente la problematica di questo capitolo).
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di predicatività, di fronte all'essenziale natura « satura», di ente «completo» dell'oggetto. A livello simbolico, a un oggetto corrisponde un nome proprio, a un concetto un nome di funzione (in questo senso noi diremmo oggi una « lettera predicativa»). In Funzione e concetto Frege in effetti identifica i concetti con particolari funzioni, precisamente con quelle funzioni il cui valore è sempre, per qualunque argomento, un valore di verità (si veda più avanti); e successivamente, nel primo volume dei Principi, stabilisce una gerarchizzazione in gradi e tipi delle funzioni (e quindi in particolare dei concetti) basata sulla natura e sul numero degli argomenti che possono « satutarle » (ossia che possano essere sostituite alle variabili contenute nella funzione). A noi non interessa qui approfondire la questione, il che tra l'altro appesantirebbe di molto l'esposizione; ci limitiamo a osservare che proprio a causa della rigida distinzione fra concetti e oggetti, questi ultimi non solo sono del tutto estranei alla citata gerarchia, ma anzi vengono assunti come del tutto indifferenziati, equivalenti fra loro, nel senso che un dato oggetto, qualunque sia la sua natura, la sua origine, il suo status antologico, è da un punto di vista logico del tutto indistinguibile da un altro. Questo fatto, come vedremo, avrà particolari ripercussioni se applicato alle classi. 1 c) Se la distinzione fra oggetto, concetto e rappresentazione (in particolare la prima) è uno dei temi più caratteristici della logica di Frege, la teoria del significato cl}e egli propone in Senso e significato è indubbiamente uno degli apporti fondamentali che egli diede alla speculazione logica in generale. Si tratta brevemente di una proposta di soluzione al problema di associare ad ogni nome proprio, predicato, enunciato (in generale, a ogni elemento linguistico« significante») un significato. Allo scopo Frege distingue due piani di significatività, quello che in terminologia moderna viene detto della connotazione o intensione (o del senso) e quello della denotazione o estensione (o del significato). Il piano dell'estensione si pone a livello oggettivo mentre quello della connotazione è intermedio fra questo e il piano puramente soggettivo della rappresentazione. A una data intensione corrisponde un'unica estensione; viceversa, una data estensione può essere individuata da più intensioni diverse. Un'intensione è, in sostanza, un modo di denotare un'estensione. Ogni simbolo linguistico significante, semplice o complesso, esprime una intensione e denota una estensione. Lasciando da parte il dibattuto problema delle intensioni, limitiamoci a precisare che per Frege la denotazione di un nome proprio è un oggetto; quella di un predicato è una funzione intesa estensionalmente ;2 infine la denotazione di un enunciato è uno dei due valori di verità: Vero o Falso. Nell'ambito di una decisa convinzione platonica, I Proprio in questo la gerarchia di Frege si differenzia dalla analoga gerarchia definita da Russell nella sua teoria dei tipi. Lo stesso Russell riconosceva nell'idea di Frege una precisa anticipazione della propria teoria .. 2. Forzando un po' il linguaggio di Frege
possiamo dire. che a un predicato viene assegnata come estensione l'insieme degli elementi che godono della data proprietà (se il predicato è a un posto) o fra i quali sussiste la data relazione (se il predicato è a più posti).
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BegrifFe fll.llt, nicht aber unter den ,. Begriffsschriftlich ktinnen wir das zweiten. so ableiten:
"~g(a)
Mp(-g((J))=a M p ( A g (fJ) ) =a M p(- g ((J)) = fJ
L
t
(!Ila):-----------
f(a) Mp(
g(fJ) )=a Mp(-g(fJ))=fJ f(a)= 8 g(a) LMp(-g(fJ))=a
L
8
Cs
(llb)::-------------
f(a) Mp(~g(p) )=a L Mp(-g(fJ))=fJ Mp(-f(fJ))=Mp (~ g(fJ) ) L Mp(-g(fJ))=fJ &
~(a)=~g(a) L Mp(-g(fJ))=a
Mp(-~(fi))=Mp (~ g(fJ)
)
L Mp(-g({J))=-(1
(IIb,illa):: =
(o
===============
h----n-f(a) Mp(-f({J))=a Mp (~ g(fJ) )=a L Mp(-g({J))=fJ
."
~(a)=@}(a)
Mp(-~((1)) =Mp(-®(fl))
("
.....-...-.•,.,. g {a) Mp(-g((J)) =a M p(~ ({l) ) =-a L M p(- g (/J)) = fl
g
•
& ~(a)=®(a)
M p(-~ (fJ)) =Mp(-® C{J)) (p): - - - - - - - - - - - - - - Una pagina dai Principi a illustrazione del simbolismo di Frege.
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(q
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Frege considera il Vero e il Falso due oggetti: ne viene che ogni enunciato è un nome proprio, e precisamente il nome appunto di uno dei dtie valori di verità. Ancora, tutti gli enunciati veri hanno significato parzialmente coincidente, e così dicasi ovviamente per tutti gli enunciati falsi. Un'ultima osservazione ci sembra opportuna in questo contesto. Si era detto che la logica di Frege si presentava come una logica intensionale, relativa cioè a concetti, non a estensioni di concetti; e nell'Ideografia le cose stanno effettivamente così. Ma avevamo anche detto che la questione è in Frege ambigua, perché talora egli afferma di poter trattare invece che con « concetti » con « estensioni di concetti» senza peraltro mai chiarire che cosa intenda effettivamente con la possibilità di questa sostituzione. È ben vero che Frege afferma esplicitamente, in proposito: « Si può forse avere l'impressione che nel conflitto fra logici estensionali e intensionali io mi ponga dalla parte di questi ultimi. In effetti io ritengo che il concetto è logicamente antecedente alla sua estensione e riguardo come futile il tentativo di fondare l'estensione di un concetto come classe non sul concetto stesso, ma sulle singole cose (sugli individui)»; ma questa è tutto sommato una dichiarazione di principio che non chiarisce in modo particolare la questione. Va invece detto che la logica dei Principi si annette una dimensione estensionale del tutto assente nella logica della Ideografia: e ciò dipende in modo diretto proprio dall'analisi, compiuta da Frege con la sua teoria del significato, del «contenuto concettuale » di una proposizione in senso della proposizione stessa e sua denotazione, o valore di verità. Nei Principi, Frege usa locuzioni quali ad esempio l'IX-concetto A e simili per indicare un concetto la cui estensione sia la classe IX. Se ne può concludere che pur mantenendo la priorità logica al concetto (si ricordino le osservazioni a proposito di Dedekind e la precedente dichiarazione di Frege) è semplicemente più « comodo » e meno complicato parlare in termini di estensioni di concetti, di classi. L'iniziale caratteristica intensionale della logica di Frege non viene cioè sostituita, nella più matura sistemazione dei Principi, da una concezione estensionale, bensì semplicemente affiancata da questa. Vogliamo osservare, per finire, che la questione è per così dire indifferente rispetto all'insorgere dell'antinomia di Russell: questi comunica a Frege la derivazione della contraddizione tanto in termini di classi (estensioni concettuali) quanto in termini di predicati (concetti). 4· 3. La definizione di numero naturale e la caratterizzazione della successione numerica. La definizione fregeana del concetto di numero cardinale coincide nella sostanza con quella di Cantar in due sensi precisi: primo che entrambi giungono a individuare lo stesso concetto (o, in termini di classe, la stessa classe di elementi) e secondo che si servono per così dire dello stesso « materiale »: le classi e una relazione fra di esse. Cantar, abbiamo visto, chiama equivalenza questa relazione, Frege invece la chiama equinumerosità; ma al di là della diversa terminologia si tratta della stessa relazione: in entrambi i casi infatti tale relazione sussiste fra
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due classi quando è possibile stabilire fra di esse una corrispondenza biunivoca. 1 Ben diversa è tuttavia la costruzione, se così si può dire, delle due definizioni dal punto di vista della correttezza logica. Come abbiamo visto, Cantor giungeva dapprima al concetto generale di numero cardinale o potenza tramite una « astrazione » di marca psicologista perlomeno problematica e quindi faceva intervenire la relazione di equivalenza fra classi come criterio di uguaglianza fra potenze; si può dire che Frege compia esattamente il cammino inverso, ossia prima riscontra nelle proprietà della relazione di equinumerosità i caratteri di un'uguaglianza (e vedremo subito in che senso); quindi sulla base di una rigorosa sistemazione della definizione per astrazione ne trae il concetto di numero cardinale. Sarà quindi opportuno, prima di presentare la definizione fregeana, vedere in che cosa consiste una definizione per astrazione (il che noi faremo in termini moderni, senza peraltro minimamente tradire lo spirito almeno, se non la lettera, della discussione di Frege a questo riguardo). Supponiamo data una classe A di elementi x,y, qualsiasi e supponiamo che fra questi elementi sia definita una relazione R che sia simmetrica, transitiva e riflessiva che cioè goda delle seguenti proprietà, comunque si prendano gli elementi x,y, z di A:
z, ...
I) xRx z) Se xRy allorayRx 3) Se xRy eyRz allora xRz
riflessività (ogni x di A sta nella relazione R con se stesso) simmetria transitività.
Consideriamo ora, per ogni elemento di A, la classe oc(x) di tutti gli elementi di A che stanno nella relazione R con x; la classe oc(y) di tutti gli elementi di A che stanno nella relazione R cony; la classe oc(z), ... e così via. Sulla base delle proprietà I), 2) e 3) si dimostra facilmente che la relazione R determina una ripartizione (che tecnicamente viene detta partizione) degli elementi di A in classi esaustive e disgiunte 2 a(x), a(y), a(z), ecc. tali che ogni classe contiene, con un dato elemento x di A, ogni altro elemento di A che stia con x nella relazione R e tali inoltre che ognuna di queste classi è tmivocamente determinata da ognuno dei suoi elementi (o, in altri termini, può essere « rappresentata » da uno qualsiasi dei suoi elementi). Orbene, si dice che la classe AR i cui elementi sono le classi oc(x), oc(y), oc(z), ... di elementi di A, è stata ottenuta da A mediante una definizione per astrazione rispetto alla relazione R. Tutto ciò significa sostanzialmente che r Analogamente, fra concetti: due concetti sono equinumerosi quando è possibile stabilire una corrispondenza biunivoca fra le rispettive estensioni, ossia fra gli oggetti che cadono sotto l'uno e gli oggetti che cadono sotto l'altro; vista questa possibilità di immediata traduzione e tenuto conto della doppia dimensione estensionale-
intensionale della logica di Frege, adotteremo in generale, per comodità, il linguaggio in termini di classe, per noi oggi più usuale. 2. Ossia ogni elemento di A appartiene almeno ad una di queste classi (esaustività) ed al più ad una di esse (disgiunzione), vale ~ dire appartiene a una e una sola classe.
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abbiamo identificato parzialmente (e opportunamente) gli elementi di A nd senso che, rispetto alla relazione dalla quale si astrae, ogni elemento di una classe è sostituibile in ogni (opportuno) contesto da un altro qualsiasi elemento della stessa classe salva veritate: in altri termini ogni classe della partizione contiene elementi ugttali rispetto a R (in questo senso dicevamo prima che Frege aveva colto i caratteri di un'uguaglianza nella particolare relazione da lui considerata). Ciò detto, veniamo al nostro caso specifico: si tratta di definire il concetto di numero nel senso di Frege. In questo caso la classe A è la classe di tutte le classi (indichiamola con V) e la relazione R è proprio la relazione di equinumerosità fra classi, che si dimostra immediatamente e facilmente essere riflessiva, simmetrica e transitiva. Tale relazione suddividerà allora la classe V di tutte le classi secondo una partizione in classi di classi: ognuna di queste classi di classi sarà caratterizzata, giusto quanto detto sopra, dal contenere, con una data classe IX di V, ogni altra classe equinumerosa con IX. Orbene Frege identifica il numero cardinale di una classe IX con la classe di tutte le classi ad essa equinumerose. Risulta allora che ogni numero cardinale è una classe di classi; certamente non sarà vero il viceversa, vale a dire non ogni classe di classi sarà un cardinale. Il concetto generale di numero cardinale (la classe dei numeri cardinali) si otterrà ponendo che un numero cardinale è una classe di classi che è il numero di una data classe (è la classe di tutte le classi di classi che sono numeri cardinali di una qualche classe). Si badi bene che questa definizione non è circolare come l'enunciazione verbale potrebbe far credere: infatti F rege dapprima definisce il cardinale di una classe; sulla base di questo concetto ottenuto correttamente per astrazione come abbiamo visto, definisce il concetto più generale di cardinale (senza ulteriori qualificazioni). Si pensi, per togliere ogni dubbio, di voler definire ad esempio la classe dei mariti: prima di tutto si vedrà di definire cosa significa essere marito di qualcuno quindi si potrà passare a definire la classe dei mariti come costituita da tutti coloro che sono marito di qualcuno; in questo procedimento non è insita ovviamente nessuna circolarità, ma semplicemente nei due casi si definiscono concetti (classi) diversi. Frege ha così definito il concetto (la classe) di numero cardinale che, ce lo ha mostrato Cantor, è ben più ampio del concetto di numero cardinale finito, o numero naturale. Per isolare nella classe dei cardinali la sottoclasse dei naturali, Frege si serve appunto della sua teoria generale delle successioni che sostanzialmente altro non è che una teoria dell'induzione generalizzata. È in questo contesto appunto che il discorso di Frege e quello di Dedekind coincidono nella sostanza, anche se i due autori fanno uso di terminologie diverse (a questo riguardo è bene notare che anche Dedekind si muove in modo perfettamente rigoroso). Non crediamo opportuno scendere qui in particolari. Ci limitiamo quindi a pochi cenni riassuntivi. Già nell'Ideografia, si ricorderà, Frege aveva dato un abbozzo consistente di una sua teoria generale delle successioni. Orbene è il concetto generale da
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« seguire in una successione» che dà a Frege la chiave dell'induzione, chL~ gli permette di « ... ricondurre a leggi logiche generali il processo ... che fa concludere da n a n + I ». Definito infatti il numero o come la classe di tutte le classi vuote (come il numero spettante a un qualunque concetto contraddittorio), Frege riesce, tramite appunto il concetto generale del seguire in una successione, a definire il concetto di successore immediato di un numero sostanzialmente come segue: il successore del numero (di termini) di una classe ex è il numero della classe formata da ex assieme con un elemento x che non appartiene ad ex, o più suggestivamente, in termini di concetto: « Il numero spettante al concetto " appartenente alla successione dei numeri naturali che termina con d" segue immediatamente d nella successione dei numeri naturali »; assume cioè come successore del numero n il numero della classe formata da tutti i numeri naturali che precedono o sono uguali a n, a partire dallo o :{o, I, z, 3, ... , n}. Frege dimostra quindi che la successione dei naturali è infinita e il concetto generale di numero naturale viene fatto semplicemente coincidere col concetto di appartenenza alla successione dei numeri naturali che inizia con lo o (si ricordi l'osservazione precedente). In altri termini, un numero naturale è «qualunque oggetto» possa essere raggiunto a partire dallo o applicando un numero finito di volte l'operazione di successore,! È ovvia - crediamo - l'analogia col procedimento dedekindiano; si noti però che Frege definisce i termini primitivi assunti da Peano nella sua assiomatizzazione e dimostra i cinque assiomi peaniani (e quindi le quattro proposizioni di Dedekind); ciò a dimostrare come l'analisi fosse condotta molto più a fondo e con mezzi molto più « potenti ». Di fatto troppo potenti: a far crollare il sogno di Frege giungeva la comunicazione di Russell. 4-4- L'antinomia di Russe/l. « A uno scrittore di scienza ben poco può giungere più sgradito del fatto che, dopo completato un lavoro, venga scosso uno dei fondamenti della sua costruzione.» Così Frege dà inizio all'appendice aggiunta al secondo volume dei Principi per dare pubblica comunicazione al mondo scientifico del fallimento del suo programma logicista. « Sono stato messo in questa situazione,» prosegue Frege, «da una lettera del signor Bertrand Russell quando la stampa di questo volume stava per essere finita. » Proprio quando Frege stava portando concretamente a termine la riconduzione dell'aritmetica alla logica, il I6 giugno I9oz Russell gli indirizzava una breve lettera nella quale lo informava di un'antinomia derivabile nel sistema logico dei Principi. L'antinomia in questione, forse la più celebre di tutte le antinomie antiche e moderne, o comunque senz'altro la più nota almeno per i riflessi immediati che ha avuto, si può brevemente descrivere come segue. In base al principio di comprensione (si veda la 1 In questa descrizione abbiamo in effetti un po' «tradito» Frege; ma è oltremodo difficile dare un'idea precisa di quanto sottile e minuziosa
sia l'analisi che egli conduce senza scendere in dettagli tecnici che ci paiono fuori luogo in questa sede.
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fine del paragrafo m) a ogni proprietà corrisponde una classe, un insieme ben determinato, il quale a sua volta può essere considerato come un elemento passibile di eventuali predicazioni, è cioè, in termini fregeani, un oggetto, un ente saturo. Orbene, consideriamo la proprietà « non essere elemento di se stesso »; sulla base di quel principio ad essa corrisponderà la classe di tutte e sole quelle classi che non contengono se stesse come elemento; indichiamo tale classe con R (da Russell) e chiediamoci: R appartiene o no a se stessa, è cioè elemento di se stessa oppure no? Supponiamo che R appartenga a se stessa: allora, in quanto classe di tutte le classi che non si appartengono, non dovrà appartenere a se stessa. Supponiamo allora che R non appartenga a se stessa: in questo caso, essa dovrà però appartenere a se stessa, in quanto per definizione è proprio la classe di tutte le classi che non si appartengono. Entrambe le ipotesi portano quindi a una contraddizione, siamo cioè di fronte a un'antinomia. Il ragionamento precedente può essere espresso chiaramente e sinteticamente in forma simbolica come segue. Per ogni classe X, R è definita ponendo Ponendo in questa X
=
X E R - X ft X R, si ha subito RER-... R ftR
.1
ossia un'equivalenza contraddittoria. Frege è comprensibilmente annichilito da questa comunicazione, ma non solo su un piano « personale »; egli rileva infatti « che tutti coloro che nelle loro dimostrazioni hanno fatto uso di estensioni concettuali, classi, insiemi, sono nella mia stessa situazione. Qui non è in causa il mio metodo di fondazione in particolare, ma la possibilità di una fondazione logica dell'aritmetica » (corsivo nostro). Dei sei assiomi che Frege aveva posto alla base del suo sistema dei Principi, l'antinomia colpisce il quinto, una equivalenza che può esprimersi come segue: se sotto due concetti cadono gli stessi oggetti allora i due concetti hanno estensioni uguali (Va) e viceversa se due concetti hanno estensioni uguali allora sotto di essi cadono gli stessi oggetti (Vb). Precisamente l'antinomia di Russell mette in crisi la parte Vb di tale assioma (e quindi ovviamente tutto l'assioma) e questo è abbastanza chiaro e comprensibile. Infatti, per stabilire la « verità » di Va non è necessario possedere uria precisa determinazione del concetto « estensione di un concetto » che anzi può pensarsi proprio definito per suo mezzo; in Vb al contrario, è necessario avere una rigorosa determinazione proprio del concetto « estensione di un concetto » per poter passare a stabilire che esattamente gli stessi oggetti cadono sotto le estensioni di cui si fa parola nell'assioma. Ora l'antinomia di Russell metteva in crisi proprio il concetto di estensione concettuale, perché faceva vedere che l'assumere, col principio di comprensione, l'esistenza e l'« oggettuaI La formula in questione va letta come segue: per ogni classe X, X appartiene a R se e solo se X non appartiene a se stessa, definisce cioè R
come la classe di tutte le classi che non si appartengono.
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Htà » di tale estensione relativamente a ogni concetto era un'assunzione contraddittoria. Del resto della stessa natura erano le difficoltà in cui si era trovato Cantar con l'antinomia di Burali Forti o con quella del massimo numero cardinale; e la soluzione cantoriana veniva proprio, implicitamente, a significare una limitazione del principio di comprensione. Quando infatti Cantar giungeva alla conclusione che era necessario distinguere fra « molteplicità inconsistenti » e « molteplicità consistenti » egli riconosceva la necessità di distinguere fra due tipi di estensioni concettuali: quelle che potevano considerarsi come una « unità », come un oggetto in termini fregeani, delle quali cioè potevano ulteriormente predicarsi delle proprietà, e quelle invece che esistevano soltanto come molteplicità, che cioè non potevano considerarsi come « insieme » dei loro elementi, ma erano troppo « sfumate », o troppo « grandi » per poter essere considerate come fatto unitario, come oggetto. È ovvio che nella rigida e indifferenziata determinazione fregeana degli oggetti non poteva trovar posto un tentativo di soluzione dell'antinomia che operasse una tale distinzione fra quei particolari oggetti che erano le estensioni concettuali o classi. Esclusa quindi la possibilità di una soluzione alla Cantar, Frege opera un tentativo che consiste nel mantenere inalterata la validità di Vb solo escludendo dai possibili oggetti che cadono sotto i dati concetti le estensioni stesse dei concetti. Vb diventa cioè: se due concetti hanno estensioni uguali, allora sotto di essi cadono gli stessi oggetti che siano diversi dall'estensione dei due concetti. Questa soluzione non soddisfece in effetti lo stesso Frege, e fu addirittura a sua volta dimostrata contraddittoria nel 1936. Frege comunque non tornò mai più esplicitamente sul problema dell'antinomia o delle sue soluzioni. Egli aveva indicato, alla fine dell'appendice ai Principi, come compito fondamentale dell'aritmetica quello di rispondere alla questione di come debbano intendersi gli oggetti logici, e in particolare i numeri, e di stabilire a che titolo siamo autorizzati a riconoscere i numeri come oggetti. Proprio nel periodo in cui, grazie a Russell, la sua opera cominciava a essere conosciuta e apprezzata in tutto il suo valore, Frege si ritira dalla ricerca logica attiva, quale veniva configurandosi in quel periodo, in gran parte proprio a causa dell'antinomia scoperta nel suo sistema: egli lascia il problema fondamentale di cui sopra alle nuove generazioni e si dedica alla trattazione di argomenti più filosoficamente impegnati in senso tradizionale. 1 V ·L'ASSIOMATICA MODERNA: DAVID HILBERT
La problematica relativa al sorgere delle geometrie non euclidee, lo sviluppo dell'algebra e il conseguente costituirsi dell'algebra della logica, gli stessi argomenti finora trattati in questo capitolo, in breve, buona parte di tutto il discorso re-I
Tali articoli sono stati da noi ricordati alla fine della nota
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lativo all'Ottocento, ci aveva portati in modo naturale ad anticipare le vedute di David Hilbert 1 come punto d'arrivo sistematico e fecondo di diversi filoni di sviluppo che avevano mutato lo stattts della ricerca matematica e avevano posto in nuova luce la questione dei suoi rapporti con la filosofia. Le considerazioni che seguono a proposito dell'opera di Hilbert ci offrono quindi in particolare l'estro per tracciare le prime linee del bilancio del periodo trattato in questo capitolo. Ci interesseremo sostanzialmente di un solo lavoro di Hilbert, le Grundlagen der Geometrie (Fondamenti della geometria) che dal 1900, anno in cui furono pubblicate, a oggi, hanno conosciuto oltre dieci edizioni e sono state tradotte praticamente in tutte le lingue. Già la data di pubblicazione pone questo volume simbolicamente come coronamento di un'epoca quanto mai feconda e decisiva per la ricerca matematica e per il problema dei fondamenti da una parte, e dall'altra ne fa quasi il punto di partenza ideale per ulteriori enormi sviluppi sui quali i metodi e le concezioni in essa contenuti agiranno da potente catalizzatore. Come sappiamo era già nota in quel tempo l'antinomia di Burali Forti e anche Cantar aveva partecipato a Dedekind la scoperta del paradosso del massimo numero cardinale; sappiano anche che Cantar stesso aveva avanzato una proposta di soluzione che nel complesso gli consentiva di non annettere importanza decisiva a tali antinomie. Frege, anche se misconosciuto, aveva già pubblicato il primo volume dei Principi e si accingeva a concludere la sua impresa. In sostanza, ad eccezione di particolari che nel complesso si potevano ritenere « trascurabili » la riduzione della matematica all'aritmetica e quindi, almeno in senso lato, alla logica, poteva dirsi compiuta. Da questo punto di vista le Grundlagen di Hilbert si pongono come completamento di un processo, nel senso che estendono anche a tutta la geometria questo nuovo punto di vista; o meglio, e più precisamente, compiono una esplicita distinzione fra geometria in quanto scienza dell'estensione, per usare un'espressione del Padoa, e geometria come sistema ipotetico deduttivo inteso però in senso puramente formale e sintattico, con le « ipotesi » iniziali del tutto indipendenti dal contenuto, empirico o no, che esse eventualmente potranno esprimere. Ji David Hilbert nacque a Konigsberg nel 1862. Compì i suoi studi nella città natale, salvo un semestre universitario passato all'università di Heidelberg. Si laurea nel 1884 con una dissertazione sulla teoria degli invarianti, argomento del quale continua a occuparsi sino al I 892; nel I 886 è libero docente, nel 1892 professore straordinario e nel I894 ordinario sempre all'università di Konigsberg. Nel I895 viene chiamato all'università di Gottinga dove rimane per tutta la carriera accademica, pur ricevendo numerose altre chiamate da varie università, in seguito alla posizione di preminenza che l'estensione e la profondità della sua cultura matematica gli procurarono ben presto: Lipsia I898, Berlino I902,
Heidelberg I904. I suoi interessi possono essere classificati in pure ricerche matematiche che lo occupano sostanzialmente nel periodo dal I 892 al I909 (anno della morte del suo migliore amico e collaboratore Hermann Minkowski) nell'ambito del quale tuttavia si innesta anche quell'aspetto delle ricerche sui fondamenti della matematica relativo ai fondamenti della geometria, circoscrivibile nel periodo 1893-I904; dopo il 1909 si interessa di fisica teorica, e dopo il I9I6 di fondamenti della matematica per il versante aritmetico. Muore a Konigsberg nel1943· Le opere di Hilbert che direttamente "interesseranno la nostra esposizione verranno citate nel testo, in questo e ne l capitolo v del volume ottavo.
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D'altra parte, dopo che la comunicazione di Russell a Frege apriva « ufficialmente » la crisi dei fondamenti ddla matematica, il metodo assiomatico inteso in questo nuovo senso si presenta per la prima volta, e ancora con lo stesso Hilbert in Uber die Grundlagen der Logik tmd Mathematik (Sui fondamenti della logica e della matematica) del 1904 come fecondo strumento per superare le difficoltà che sembravano intrinseche ai metodi fino ad allora escogitati per la fondazione della matematica; e, come tale avrà applicazioni e affinamenti sorprendenti e decisivi nel nostro secolo, come vedremo nel volume ottavo. Una volta che da parte matematica ne era stata segnalata l'esigenza, soprattutto grazie ai lavori di Dedekind e di Cantar, e quindi di Frege, il riconoscimento della natura «logica» degli assiomi dell'aritmetica si era nel complesso configurato come qualcosa di abbastanza « naturale »; un tale riconoscimento era in effetti molto più impegnativo e « innaturale » per quanto riguardava i principi della geometria, e trovava ben più gravi resistenze proprio per la innata convinzione che l'oggetto di quei principi fosse in fin dei conti pur sempre lo spazio fisico. Certo, le geometrie non euclidee avevano di molto contribuito a far vacillare la fede nell'assolutezza e evidenza dei principi della geometria; ma non avevano portato in generale all'esigenza di una considerazione puramente logica di tali principi e delle loro relazioni. Si era indubbiamente evoluta la concezione delle proposizioni geometriche fondamentali: accanto a coloro che ancora persistevano a considerarle come « evidenze », si parlava, con Riemann di « ipotesi » e con Helmholtz di « fatti » che stanno alla base della geometria; si intrecciavano fitte e impegnate discussioni sulla loro natura. di proposizioni date kantianamente dalla pura intuizione, o frutto di una ipotetica postulazione (Riemann), o ottenute da una idealizzazione dell'esperienza (Helmholtz) o ancora come proposizioni trascendenti la realtà (Klein). Non era però cambiato in effetti quello che era ritenuto essere il riferimento fondamentale e comune di queste proposizioni: la geometria era pur sempre considerata come la scienza dello spazio reale, e la sua organizzazione deduttiva dipendeva strettamente da tale interpretazione privilegiata e univoca, sicché le sue proposizioni fondamentali, comunque le si considerasse, intuitive, ipotetiche o fattuali, avevano sempre, in definitiva, un « contenuto » precisamente individuato. Certo, nel frattempo Dedekind e Cantar avevano mostrato come si potesse trattare aritmeticamente («logicamente») il continuo geometrico e anzi si erano anche espressi (si confronti la fine del paragrafo n) per una concezione «astratta» del riferimento geometrico spaziale, ossia, nella sostanza, avevano chiaramente indicato la strada per una considerazione della geometria come « indipendente » dallo spazio fisico; ma ancora Frege, ad esempio, riteneva corretta la posizione di Kant circa le proposizioni geometriche come sintetiche a priori e individuanti relazioni e proprietà di ben precisi elementi spaziali in senso reale (i «punti», le «rette», ecc.). Del resto questo riferimento fondamentale allo spazio fisico è 42.1
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ravvisabile anche nelle concezioni di quegli stessi geometri che possono considerarsi come diretti precursori di Hilbert, e che anzi talora esprimono nei loro lavori metodi ed esigenze della nuova assiomatica in modo anche più chiaro ed esplicitò dello stesso Hilbert: alludiamo in particolare a Moritz Pasch (I843-I93o) e ad alcuni componenti di quella che può ben essere chiamata la « scuola italiana » ossia Giuseppe Peano, Giuseppe Veronese (I854-I9I7), Mario Pieri (I86o-I9I3), Alessandro Padoa (I868-I937), Giovanni Vailati (I863-I909), Gino Fano (I87II9F), Federigo Enriques (I87I-I946) e altri. Felix Klein aveva tracciato nel I872 il suo «programma di Erlangen » in cui erano pure considerazioni gruppali, ossia algebriche, che determinavano i rapporti delle varie geometrie; e Pasch, nel I882, con le Vorlesungen iiber die neuere Geometrie (Lezioni di geometria moderna) aveva effettivamente dato una sistemazione « logica » in senso deduttivo alla geometria proiettiva, realizzando così il sogno accarezzato da von Staudt. L'eredità diPasch venne raccolta nell'ultima decade del secolo dagli italiani: Peano nel I 889 traduceva in veste logico-simbolica le idee di Pasch ne I principi della geometria logicamente esposti; nel I 89 I Veronese con i Fondamenti di geometria a piùdimensioni e a più specie di unità rettilinee dava veste concreta (anche se nel complesso alquanto oscura e confusa) al primo sistema di geometria n_on archimedea; e Pieri e Padoa, fra l'altro, ai congressi di matematica e di filosofia tenuti a Parigi nel I9oo esprimono con chiarezza, rigore e organicità idee relative a una considerazione della geometria come sistema puramente logico. Ma, ripetiamo, in tutti questi tentativi rimaneva sempre la costante comune di ricercare e assegnare contenuto empirico ai principi della geometria; la sistemazione logica era per così dire « esterna », riguardava le connessioni di proposizioni di cui per comodità si poteva eventualmente, nel corso della deduzione o comunque del procedimento logico, « dimenticare » il contenuto reale: questo tuttavia non veniva posto assolutamente in discussione. Si può ben dire che la vera innovazione delle Grundlagen hilbertiane sia proprio un reciso e netto « taglio » con la « realtà »: le proposizioni fondamentali della geometria, gli assiomi che Hilbert pone alla base del suo sistema non esprimono, in linea di principio, nessun contenuto che non sia quello dato dalle loro mutue relazioni di tipo puramente logico; la questione di come e se questi assiomi si applichino alla realtà diventa, come dice molto bene il Freudenthal, « ... esattamente la stessa che per ogni altra branca della matematica. Gli assiomi non sono verità evidenti. Essi non sono addirittura verità, nel senso usuale ». La geometria è così diventata matematica. Gli assiomi diventano «definizioni implicite» dei concetti e dei termini primitivi o indefiniti che essi contengono. Un rivolgimento di questo tipo non poteva certo non sollevare riserve e perplessità di ogni tipo, anche se, si noti bene, Hilbert non usa mai l'espressione «definizione implicita» che invece viene usata letteralmente dai geometri italiani prima nominati; egli in effetti tende a considerare i vari gruppi di assiomi di cui 422 www.scribd.com/Baruhk
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più avanti daremo qualche esempio come definizioni sì, ma esplicite, dei relativi concetti che in essi intervengono. Ma comunque si considerasse la cosa, che senso poteva avere « definire » dei concetti in modo non univoco? Come si poteva ad esempio pensare che venissero in tal modo definiti enti quali i punti, i piani, le rette, se di principio qualunque sistema di enti che soddisfacesse gli assiomi aveva lo stesso diritto di essere chiamato e inteso come costituito di punti, piani, rette? (e non è difficile nello stesso ambito geometrico trovare esempi di questo tipo). Tipiche a questo proposito, addirittura irridenti a volte, le obiezioni di Frege; e assai illuminanti, d'altra parte, le risposte che Hilbert dà a queste obiezioni. Frege sostanzialmente rimprovera a Hilbert di confondere i significati di termini quali « assioma», « definizione», « spiegazione», e in definitiva di non giungere, con i suoi assiomi, a « definire » alcunché per il semplice motivo che egli, in realtà, assume come noti i significati dei termini « punto », « retta », « piano », ecc. che figurano negli assiomi. A questo Hilbert risponde di non voler « ... presupporre nulla come noto » e di vedere negli assiomi « ... la definizione dei concetti punto, retta, piano . . . Se si cercano altre definizioni di " punto ", ricorrendo ad esempio a perifrasi come "privo di estensione " ecc.,» prosegue Hilbert, « si capisce che debbo oppormi nel modo più deciso a siffatti tentativi; si va infatti alla ricerca di qualcosa là dove non la si potrà mai trovare, per il semplice motivo che non è dove la si cerca; e cosi facendo tutto si disperde, diviene vago e confuso e degenera in un giocare a rimpiattino ». Altro punto cruciale, legato al precedente, ma che mette in evidenza il significato nuovo che certe proprietà dei sistemi assiomatici venivano acquistando nella concezione hilbertiana è quello circa la natura logica degli assiomi e l'esistenza di « modelli » degli assiomi stessi. Per Frege gli assiomi (in particolare, della geometria) sono proposizioni« ... vere; ma che non vengono dimostrate perché la loro conoscenza scaturisce da una fonte conoscitiva di natura extralogica, che possiamo chiamare intuizione spaziale. Il fatto che gli assiomi siano veri ci assicura di per sé che essi non si contraddicono fra loro, e ciò non abbisogna di alcuna ulteriore dimostrazione ... ». Proprio in risposta a questa frase Hilbert ribatte: « Mi ha molto interessato leggere ... questa frase, poiché io, da quando ho cominciato a riflettere, scrivere e tenere conferenze su questo argomento, ho detto esattamente il contrario: se assiomi arbitrariamente stabiliti non sono in contraddizione, con tutte le loro conseguenze, allora essi sono veri, allora esistono gli enti definiti per mezzo di quegli assiomi. Questo è per me il criterio della verità e dell'evi· denza. » In risposta a ulteriori obiezioni di Frege, Hilbert rileva: «Lei dice che i miei concetti, per esempio " punto " e " fra ", non sono stabiliti univocamente ... Certamente si comprende da sé che ogni teoria è solo un telaio, uno schema di concetti unitamente alle loro mutue relazioni necessarie e che gli ~lementi fondamentali possono venir pensati in modo arbitrario. Se... voglio "intendere ùtf qualunque
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sistema di enti, per esempio il sistema: amore, legge, spazzacamino, ... ,allora basterà che assuma tutti i miei assiomi come relazioni fra questi enti perché le mie proposizioni, ad esempio il teorema di Pitagora, valgano anche per essi. In altre parole: ogni teoria può essere sempre applicata a infiniti sistemi di enti fondamentali ... La circostanza ora menzionata ... non può mai rappresentare un difetto di una teoria (ne è piuttosto un grandissimo pregio) e in ogni caso è inevitabile» (corsivo nostro). Nelle parole precedenti è sostanzialmente contenuto il senso del « formalismo » hilbertiano (e viene naturale pensare ad alcune analoghe affermazioni di Dedekind), che verrà tuttavia affinandosi e precisandosi ulteriormente negli anni successivi e, come vedremo nel volume ottavo troverà piena e matura espressione attorno agli anni venti. E Hilbert in effetti dovrà superare ostacoli non indifferenti per imporre al mondo matematico queste sue vedute; in compenso esse acquisirono una portata del tutto generale e influenzarono enormemente il modo stesso di intendere la « matematizzazione » della realtà. Sono significative a questo proposito le parole che Einstein ebbe a scrivere nel I 92 I, nel suo saggio Geometria ed esperienza: «Nella misura in cui i teoremi matematici si riferiscono alla realtà essi non sono sicuri, e nella misura in cui sono sicuri essi non si riferiscono alla realtà ... Il progresso portato dall'assiomatica consiste nella decisa separazione della forma logica e del contenuto intuitivo e reale ... Gli assiomi sono creazioni volontarie della mente umana ... Io assegno grande importanza a questa concezione della geometria perché se non avessi preso familiarità con essa, non sarei mai stato in grado di sviluppare la teoria della relatività. » Per finire riportiamo alcuni degli assiomi dalle Grundlagen hilbertiane, cui faremo seguire alcune osservazioni conclusive. Hilbert divide gli assiomi della geometria in cinque gruppi: 1 Assiomi di collegamento (8 assiomi); II Assiomi di ordinamento (4 assiomi); m Assiomi di congruenza (5 assiomi); IV Assioma delle parallele; v Assiomi di continuità (2 assiomi). Così ad esempio si ha: I I Per due punti A, B c'è sempre una retta che appartiene ad ognuno dei due punti A, B; I 2 Per due punti A, B c'è sempre al massimo una retta che appartiene a ognuno dei due punti A, B; I 3 Su una retta ci sono sempre almeno due punti. Ci sono almeno tre punti che non giacciono su una retta; I 4 Per tre punti qualsiasi A, B, C, che non giacciono su una stessa retta, c'è sempre uri piano che appartiene a ognuno dei tre punti A, B, C. Per ogni piano c'è sempre un punto che gli appartiene. I 5 Per tre punti qualsiasi A, B, C, che non giacciono su una medesima retta, c'è al massimo un piano che appartiene a ciascuno dei tre punti A, B, C. I 6 Se due punti A, B, di una retta a giacciono in un piano oc, allora ogni punto di a è nel piano oc; I 7 Se due piani oc, ~hanno in comune un punto A, allora hanno in comune almeno un altro punto B; I 8 Ci sono almeno quattro punti che non stanno in un piano. II 1 Se un punto B giace fra un punto A e un punto C, allora A, B, C sono tre punti distinti di una retta e B giace pure fra C e A;
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z Per ogni due punti A e C, c'è sempre almeno un punto B, sulla retta AC, tale che C giace fra A e B; II 3 Di tre punti qualsiasi di una retta ce n'è al massimo uno che giace fra gli altri due; II 4 Siano A, B, C tre punti non allineati e a una retta del piano ABC che non passi per alcuno dei punti A, B, C: allora, se la retta a passa per un punto del segmento AB, essa passa certamente anche per un punto del segmento AC ovvero per un punto del segmento BC. III I Se A, B sono due punti di una retta a e inoltre A' è un punto sulla stessa retta ovvero su un'altra a', si può sempre trovare un punto B' da una data parte della retta a' rispetto ad A', tale che il segmento AB sia congruente, ovvero uguale, al segmento A' B'; III z Se un segmento A' B' e un segmento A" B" sono congruenti a uno stesso segmento AB, allora anche il segmento A'B' è congruente al segmento A"B", ovvero, brevemente: se due segmenti sono congruenti a un terzo, essi sono congruenti fra loro; ... IV (assioma euclideo) Siano a una qualsiasi retta e A un punto fuori di a: allora c'è, nel piano definito da A e a, al massimo una retta che passa per A e che non interseca la a. v I (assioma della misura o assioma archimedeo) Se AB e CD sono due segmenti qualsiasi, c'è un numero n tale che il trasporto del segmento CD reiterato n volte da A nella semiretta passante per B, porta al di là del punto B; v z (assioma di completezza lineare) Il sistema di punti di una retta con le sue relazioni di ordinamento e congruenza non è susctttibile di un ampliamento per il quale rimangono inalterate le relazioni sussistenti tra gli elementi precedenti come pure le proprietà fondamentali di ordinamento lineare e congruenza che seguono dagli assiomi I-III e anche v 1. Si osservi che i termini usuali della geometria «punto», «retta» ecc. che compaiono in questi assiomi non hanno alcun significato « proprio », il che del resto è chiarito dalle considerazioni che abbiamo svolto prima di riportare gli assiomi. Hilbert conserva questi termini per non dare una presentazione troppo « strana », come lui stesso ebbe a dire, di una serie di leggi e proprietà che - nell'intenzione dell'autore -- fra gli altri erano destinate ad avere come modello anche, in particolare, la geometria « fisica »; e per far rimarcare come questa sua nuova concezione dell'assiomatica gli provenisse anche dalle successive ricerche sugli effettivi presupposti della geometria euclidea, alcuni dei quali, ad esempio quelli relativi ali' ordine, erano stati posti in luce da critici suoi precursori, in particolare da Pasch. Dopo ogni gruppo di assiomi Hilbert dà una serie di teoremi che dipendono in particolare dagli assiomi del gruppo. È chiaro, da quanto sopra si è detto, che con questa nuova concezione venivano poste in evidenza determinate proprietà dei sistemi assiomatici perlopiù date per scontate nelle sistemazioni precedenti quella hilbertiana. Prima fra tutte, abbiamo visto, quella di non contraddittorietà, che per Hilbert assumeva un ruolo fondamentale contrariamente a quello che avveniva nell'antica considerazione degli assiomi (si veda l'obiezione di Frege). Un'altra proprietà estremamente importante che Hilbert però ritiene automaticamente verificata dalla scelta stessa dei suoi II
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assiomi è la proprietà di completezza (sintattica), nel senso tecnico che per ogni proposizione che possa scriversi in termini dei concetti indefiniti del sistema o la proposizione stessa o la sua negazione è derivabile dagli assiomi, è cioè un teorema; Hilbert quindi assume di avere a che fare con sistemi d'assiomi completi in questo senso. Altra proprietà richiesta a un sistema di assiomi è la proprietà dell'indipendenza, in base alla quale nessun assioma del sistema è derivabile dagli altri assiomi, non è cioè un teorema sulla base degli assiomi rimanenti. Questo che per noi è oggi, salvo casi particolari, uno Schiinheitsfehler, un difetto puramente« estetico » di un sistema di assiomi, assumeva per Hilbert un 'importanza fondamentale: era infatti solo tramite esso che poteva dimostrarsi l'effettiva natura «logica» del sistema assiomatico, la sua « indifferenza » verso modelli privilegiati di ogni tipo. In questo senso particolare importanza assume nella successiva discussione di Hilbert la dimostrazione di indipendenza degli assiomi di continuità: proprio· qui avviene, a livello tecnico, la dimostrazione della separazione del sistema delle Grundlagen da ogni presupposto « realistico » dello spazio fisico. Ancora un'osservazione vogliamo fare, di natura per così dire «esterna». Si sarà notato che fra i precursori delle idee hilbertiane abbiamo citato quella che abbiamo chiamato la « scuola italiana» che poi è sostanzialmente sparita dal nostro discorso. Va aggiunto qui che in effetti nei due congressi del 1900 sopra ricordati, la scuola metamatematica italiana, capeggiata da Peano, aveva indubbiamente la preminenza in campo europeo. Per Russelll'incontro con Peano e con i suoi allievi significò addirittura la rivelazione della possibilità di un approfondimento logico dell'analisi che lo determinò nell'indirizzare in questo senso le sue ricerche. Orbene, nel volume ottavo dovremo tentare di spiegarci come sia potuto avvenire quanto denuncia il Freudenthal e cioè che «il trionfo degli studiosi italiani dei fondamenti ricorda la vittoria di Pirro. Dopo le Grundlagen der Geometrie essi cessarono di interessarsi di fondamenti della geometria, e dopo i Principia mathematica essi diedero l'addio alla logistica ». Infine, per i problemi che abbiamo illustrato in questo capitolo e per le tendenze che abbiamo visto nascere in questo periodo, ci sembra che il miglior commento sia proprio quello di vedere come questi problemi si sviluppano fecondamente e come queste tendenze offrono dialetticamente nuovi tipi di soluzioni e di approccio alle diverse tematiche emerse dalle ricerche sui fondamenti: è quanto verrà fatto nel volume ottavo.
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CAPITOLO TREDICESIMO
Trasformazioni di fondo nella scienza fisica
I · CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE
Il lettore avvertirà immediatamente che i temi affrontati nel presente e nel prossimo capitolo si ricollegano in modo diretto al contenuto del capitolo vm del volume quinto (soprattutto a quanto ivi esposto nel paragrafo specificamente rivolto alla fisica), nonché agli argomenti del x, xi, xn del sopracitato volume rispettivamente dedicati alla teoria dei campi, alla termodinamica e alle critiche di Mach ai principi della meccanica newtoniana. Con una notevole differenza però: che nei capitoli testé citati a;bbiamo cercato di enucleare i più significativi passi compiuti dalla cosiddetta « fisica classica » nell'ultima fase del suo sviluppo (fase durante la quale cominciarono a emergere in essa le prime gravi incrinature); qui invece ci troviamo di fronte al compito di analizzare il vero e proprio trapasso dalla « fisica classica » alla « fisica moderna » o « fisica del xx secolo». L'importanza di questo trapasso per la storia della fisica è fuori discussione. Oggi però si comincia a riconoscere da varie parti che esso ebbe un rilievo di primo piano anche per la storia del pensiero filosofico, se non altro perché fece sorgere talune istanze metodologiche dalle quali prenderanno l'avvio parecchi indirizzi di pensiero molto diffusi e influenti nella nostra epoca. È ovvio che, dal punto di vista della presente trattazione, sono proprio queste istanze a costituire l'aspetto più interessante del trapasso anzidetto. Occorre però sottolineare che la pretesa di isolade dagli aspetti del complesso fenomeno storico sarebbe, a nostro parere, illusoria e fuorviante. In altri termini: se vogliamo davvero comprendere l'autentica portata dei nuovi problemi di metodo emersi durante la svolta subita dalla fisica tra il XIX e il xx secolo, dobbiamo fare diretto riferimento al laborioso travaglio che questa scienza subì durante il periodo in esame sia sotto l'aspetto sperimentale sia sotto quello teorico. Trattasi di un caso, fra i più tipici, in cui lo storico del pensiero filosofico non può compiere con serietà le proprie indagini se non include in esse anche lo studio della storia della sci~nza. Come è risaputo, due sono i fatti più salienti che contrassegnano la complessa
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svolta di cui abbiamo testé parlato: l'elaborazione della fisica dei quanti e quella della teoria della relatività. Per comodità di esposizione si è ritenuto opportuno separare la delineazione dell'una da quella dell'altra, dedicando loro due capitoli distinti (questo e il prossimo). Diversamente dalla consuetudine invalsa presso gli storici della fisica, si è fatta precedere la delineazione della teoria dei quanti, sia perché l'ipotesi quantistica venne effettivamente formulata da Planck alcuni anni prima che Einstein ideasse la teoria della relatività ristretta, sia perché la formulazione di tale ipotesi rappresenta soltanto una tappa (tappa di primaria importanza, come è ovvio) entro un articolato processo di ricerche che può venir fatto risalire al 1 890 circa. · Il nome di Einstein ritorna tanto in connessione ad un argomento quanto all'altro, ma la fama che lo circonda è senza dubbio legata soprattutto alla teoria della relatività, la cui ideazione fu opera essenzialmente sua. Per questo motivo, pur accennando nel presente capitolo al fondamentale contributo del grande scienziato all'elaborazione della fisica dei quanti, si è rinviato al prossimo il compito di tratteggiarne la singolare figura, così piena di interesse da tutti i punti di vista. Ci è sembrato d'altronde doveroso dedicare un intero capitolo ad Einstein, perché scorgiamo in lui uno dei massimi pensatori dell'inizio del nostro secolo, uno degli autori che più ha contribuito a trasformare la nostra concezione dell'universo e a rinnovare le categorie stesse della nostra conoscenza. Quanto ora detto non deve ovviamente venire inteso come una sottovalutazione- neanche dal punto di vista filosofico- dell'argomento affrontato nel presente capitolo; vedremo anzi che i problemi filosofico-scientifici irti di maggiori difficoltà, e perciò ancora oggi più discussi, sono proprio connessi ai temi di fondo della fisica quantistica (basti pensare al cosiddetto indeterminismo). Il fatto è, tuttavia, che essi emersero in tutta la loro gravità solo in un secondo tempo, in relazione agli sviluppi che tale fisica conseguì tra il 192.0 e il 1930. Nei prossimi paragrafi ci limiteremo a tratteggiare le prime tre tappe percorse dalla fisica dei quanti, e precisamente: la fase preparatoria - a carattere prettamente sperimentale- costituita dalla scoperta dei raggi catodici, dei raggi x e della radioattività, nonché della natura discontinua delle cariche elettriche; la vera e propria nascita dell'ipotesi quantistica (nei suoi complicati nessi con la fisica classica); e infine il confluire dei due ordini di ricerca in una nuova concezione dell'atomo.l Pur dovendo rinunciare a far menzione di varie scoperte assai significative per la storia della fisica, cercheremo di enucleare le direttrici - a nostro parere più importanti- lungo le quali si è attuata, nel ventennio a cavallo fra l'Ottocento e il Novecento, una delle_ svolte più decisive della scienza moderna. Il capitolo si concluderà con un paragrafo dedicato ad una prima sommaria I
Alle tappe successive si farà cenno nel capitolo
VI
del volume ottavo.
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analisi dei gravissimi problemi di metodo che in tale periodo cominciarono a profilarsi ai ricercatori più direttamente impegnati nel nuovo campo di indagini (problemi che dovranno venire ampiamente ripresi e discussi nel volume ottavo) II · l NUOVI ORIZZONTI APERTI DALLA FISICA SPERIMENTALE
Non si riuscirebbe a comprendere come poté nascere la nuova fisica del xx secolo, se non si guardasse innanzitutto a ciò che accadde durante gli ultimi anni dell'Ottocento nel campo delle ricerche sperimentali; se non si tenesse cioè conto del fervore di indagini che pervase l'ambiente dei fisici quando percepirono di trovarsi innanzi a un settore importantissimo dell'esperienza fin allora pressoché inesplorato. Il filosofo che intende prendere in esame le innovazioni categoriali prodottesi durante la grande svolta di cui parlammo nel paragrafo precedente, non deve dimenticare che esse affondano senza dubbio le proprie radici nelle innumerevoli e affascinanti scoperte di natura sperimentale conseguite per l'appunto in quel breve torno di tempo. Già ricordammo nel capitolo VIII del volume quinto l'enorme interesse suscitato dai primi studi sulle scariche elettriche nei gas rarefatti, e in particolare dalla scoperta dei raggi catodici seguita dalla dimostrazione della loro natura corpuscolare. Le misure eseguite con buona approssimazione fin dagli ultimi anni del secolo delle principali grandezze fisiche relative ai corpuscoli (elettroni) che costituiscono tali raggi, portarono a scoprire che essi posseggono sempre una massa e una carica (negativa) ben determinate; è precisamente questo che indusse il fisico inglese Joseph John Thomson (I 8 56- I 940) a sostenere che gli elettroni rappresentano gli elementi ultimi dell'elettricità. Già Helmholtz aveva intuito, fin dal I 88o, che l'elettricità deve avere una natura corpuscolare. Questa ipotesi gli era stata suggerita dall'esame dei fenomeni elettrolitici; ma ora essa veniva assumendo una ben maggiore plausibilità in base alle nuove :ricerche eseguite sia sui raggi catodici sia sui vari « flussi di elettroni » prodotti con altri metodi recentemente scoperti (effetto termoionico ed effetto fotoelettrico). Le prove risultarono così convincenti che nei primi anni del Novecento la tesi era ormai condivisa dalla quasi totalità degli scienziati. È inutile dire che ciò costituì una notevole vittoria per la fisica del discontinuo. La scoperta degli elettroni permise fra l'altro di :riprendere in modo approfondito lo studio dei processi elettrolitici e di formulare una spiegazione soddisfacente della costituzione degli ioni che vanno a scaricarsi sugli elettrodi dando luogo al passaggio di corrente. Analoga spiegazione fu trovata per la costituzione di quegli altri ioni che, vagando in un gas, fanno sì che esso possa venir attraversato da una scarica elettrica. Merita a questo punto ricordare che le ricerche intorno alla ionizzazione dei gas condussero l'inglese Charles Thomson Wilson (I869-I935) ad osservare che
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nell'aria soprasatura di vapore acqueo ogni ione attira a sé le molecole di vapore, dando origine a una gocciolina di acqua visibile; era un risultato apparentemente modesto, ma che gli permise (nel 191 1) di costruire la cosiddetta «camera di Wilson », uno dei dispositivi che si riveleranno più preziosi per le indagini sperimentali di fisica atomica. Ad illustrare l'interesse delle scoperte or ora accennate, ricorderemo inoltre che esse ponevano in evidenza l'esistenza- per i nuovi fenomeni osservati di leggi del tutto diverse da quelle che sarebbe spontaneo estrapolare dai fenomeni macroscopici. Basti citare l'esempio dell'effetto fotoelettrico, che consiste- come ormai sappiamo- nell'emissione di elettroni da parte di certe superfici metalliche allorché vengono colpite da un fascio di raggi luminosi: a prima vista parrebbe naturale ammettere che tale emissione debba dipendere solo dall 'intensità dei raggi di luce incidente; e invece si scoperse che essa dipende in primo luogo dalla frequenza di questa luce, tanto che, se una superficie è colpita da radiazioni intensissime ma di frequenza inferiore a un dato valore, il fenomeno non si produce affatto. Appariva sempre più chiaro, di fronte a risultati di questo tipo, che - nelle dimensioni submicroscopiche su cui si cominciavano ad accentrare gli studi - la natura può rivelare talune regolarità molto diverse da quelle che siamo soliti constatare nell'esperienza comune. Alla scoperta dei raggi catodici è strettamente connessa quella, non meno sorprendente, dei cosiddetti raggi x, compiuta nel 1895 dal fisico tedesco Konrad Ri:intgen (1845-1923). Poiché i nuovi raggi traggono origine - come tutti sanno - dal cosiddetto anticatodo quando è colpito dai raggi catodici, si poteva pensare che fossero di natura analoga a questi ultimi. Ebbene, ci si accorse invece ben presto che fra gli uni e gli altri intercorrono numerose e profonde differenze. Ma un conto era prendere atto della incontestabile diversità fra i raggi catodici e i raggi Rontgen, un altro conto stabilire che cosa fossero questi ultimi. Il mistero intorno a tale problema durò a lungo. Un primo importante passo verso la sua soluzione si ebbe solo nel 1912 allorché il fisico tedesco Max von Laue (1879-1959) riuscì ad eseguire, con l'aiuto di alcuni valenti collaboratori, una celebre esperienza mediante cui si dimostra che i raggi in esame subiscono una vera e propria diffrazione attraversando un cristallo: se ne ricavò che essi debbono possedere una natura ondulatoria. Ma dovettero trascorrere ancora altri undici anni, prima che venisse definitivamente provato che le vibrazioni elettromagnetiche costituenti i raggi x sono del tutto analoghe a quelle costituenti i raggi luminosi e gli ultravioletti. Risultò in tal modo chiaro che l'unica differenza fra esse è la lunghezza d'onda, molto minore nei nuovi raggi che nei raggi luminosi. Alcuni raggi x (solitamente qualificati come «molli») possono tuttavia avere una lunghezza d'onda eguale a quella di certi raggi ultravioletti; in tal caso si dirà che la medesima radiazione può venire considerata come appartenente sia all'un tipo sia all'altro di raggi. 430
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Mentre proseguivano, vivacissimi, i dibattiti intorno alla natura dei misteriosi raggi, si scopriva invece agevolmente la possibilità di utilizzare a fini pratici la loro doppia attitudine a impressionare le lastre fotografiche e ad attraversare parecchie sostanze non trasparenti ai normali raggi luminosi. Le applicazioni della radioscopia e della radiografia sono oggi così note, che non vale la pena pa:rlarne. Certo è che esse riuscirono a dimostrare rapidamente, anche ai non specialisti, l'eccezionale interesse delle nuove ricerche. A Rontgen fu conferito nel 1901 il primo premio Nobel per la fisica. Eppure, malgrado il numero e l'importanza dei risultati testé accennati, essi non esauriscono ancora il quadro davvero ricchissimo delle scoperte compiute durante il ventennio di cui stiamo parlando. Dobbiamo infatti aggiungervene un'altra, destinata ad esercitare un'influenza in certo senso ancor più decisiva sullo sviluppo della fisica: la scoperta dei fenomeni radioattivi. Ad essa pervenne un valente fisico sperimentale, interessato alle prime ricerche di Rontgen: il francese Henri Becquerel (18p.-19o8) mentre, su suggerimento di Poincaré, stava eseguendo nel 1896 alcune esperienze, dirette a determinare quali materiali fossero in grado di emettere raggi x se colpiti da fasci di raggi catodici. Il caso volle che egli prendesse in esame, fra gli altri, anche un sale di uranio; questo esame gli rivelò subito un fatto del tutto inatteso: che il sale anzidetto emetteva spontaneamente varie radiazioni, la cui esistenza non era ancora stata segnalata da nessuno. La sorpresa crebbe maggiormente quando poté provare che tutti i sali di uranio posseggono tale proprietà: ne concluse che il singolare fenomeno doveva provenire non dalle molecole (fra loro diverse) dei sali esaminati, ma proprio dall'atomo di uranio. Nel 1898 la polacca Maria Sklodowska (1867-1934), moglie del fisico francese Pierre Curie (I 8 59- I 9o6), dimostrò sperimentalmente che anche il torio possiede proprietà analoghe a quelle dell'uranio. Proseguendo le proprie ricerche, insieme al marito, essa riuscì a scoprire nel medesimo anno l'esistenza del polonia (così chiamato in onore della patria della scopritrice) e subito dopo del radio, una delle poche sostanze radioattive naturali che possono venire preparate in quantità pesabili a partire dai minerali che la contengono (pechblenda, ecc.): 1 la radioattività del radio si rivelò subito molto superiore a quella delle altre sostanze radioattive conosciute. Nel I 899 un discepolo dei Curie, André Debierne, scoprì una nuova sostanza essa pure molto radioattiva, l'attinio. Ormai la via era aperta a un nuovo, amplissimo e fecondissimo, settore di indagini. Si trattava di studiare, per un lato, la natura delle radiazioni emesse dalle sostanze testé accennate, per l'altro, le varie fasi attraverso cui si attua tale emissione e la natura delle sostanze stabili (cioè non più radioattive) prodotte dalla trasformazione di quelle naturalmente radioattive. I
Si noti però che occorrono parecchie
tonnellate di pechblenda per ricavare una piccola frazione di grammo di radio.
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Ci limiteremo a ricordare che studiando le radiazioni anzidette si riuscì fin dal I 899 a separare i cosiddetti raggi oc dai cosiddetti raggi ~· Questa separazione (dovuta soprattutto al fisico inglese Rutherford, sulle cui ricerche torneremo nel paragrafo IV) fu eseguita in base alla loro diversa capacità di attraversare fogli di alluminio (capacità notevolmente maggiore nei raggi ~ che nei raggi oc). In seguito (I902) furono scoperti anche i raggi y, capaci di attraversare schermi di piombo dello spessore di un centimetro. Ottenuta la separazione dei vari tipi di raggi, fu possibile determinare la natura di ciascuno di essi; si scoperse, così, che i raggi oc sono costituiti di particelle cariche positivamente (Rutherford dimostrò nel I 902 che si tratta di atomi di elio doppiamente ionizzati); i raggi ~ sono invece costituiti di particelle cariche negativamente (ben presto riconosciute come identiche agli elettroni); i raggi y sono analoghi ai raggi x ma più penetranti di essi. Lo studio delle fasi, attraverso cui si svolgono i processi radioattivi, impegnò i fisici per lungo tempo e poté venire condotto a termine solo quando cominciarono ad essere chiarite le idee sulla struttura dell'atomo; si comprese allora che tali processi avvengono per disintegrazione naturale del nucleo atomico. Qui basti ricordare che un'attenta sperimentazione permise di stabilire che in ogni processo radioattivo sono distinguibili un « elemento genitore » e un « elemento figlio », il primo dei quali diminuisce continuamente in quantità mentre il secondo appare in quantità complementari. Questo può a sua volta fungere da « elemento genitore» di un'altra disintegrazione, finché si giunge a un elemento non più radioattivo. La scoperta della radioattività ebbe ripercussioni enormi sullo sviluppo della fisica, sia per l'interesse intrinseco del fenomeno, sia per gli strumenti che esso forniva (in particolare con la produzione di raggi oc) per lo studio sperimentale degli urti fra atomo e atomo. Era stata, come già ricordammo, una scoperta dovuta in certo senso al caso; ma ormai non poteva più essere lasciato al caso il difficile compito di avanzare per la via da essa aperta. Gli sperimentatori avevano ottenuto dei risultati senza dubbio inebrianti; adesso occorreva elaborarli in teorie coerenti, capaci di fungere da guida verso nuove, più complesse, esplorazioni. III · LA NASCITA DELLA FISICA QUANTISTICA
Se le grandi scoperte delle quali abbiamo parlato nel paragrafo precedente furono sostanzialmente opera dei fisici sperimentali, l'innovazione concettuale che ora ci accingiamo a prendere in rapido esame è invece il risultato di ricerche di schietto carattere teorico. È però nostra profonda convinzione che sia quelle che questa debbano venire considerate come fattori ineliminabili del trapasso dalla fisica « classica » dell'Ottocento alla fisica « moderna » del nostro secolo. Avremo del resto modo di constatare, fin dal prossimo paragrafo, che entrambi 432
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i fattori concorsero in misura essenziale all'elaborazione del modello atomico di Bohr, unanimemente riconosciuto come l'autentico inizio di una nuova era della fisica. L'importantissima innovazione concettuale, cui abbiamo testé fatto cenno, è costituita dall'ipotesi che l'energia non sia una grandezza continua, ma discreta, e cioè che in qualunque processo fisico l'energia emessa, o assorbita, o scambiata da un sistema all'altro, debba risultare multipla di un certo valore elementare (non ulteriormente divisibile). Essa fu esplicitamente avanzata dal fisico tedesco Max Planck (I 8 58- I 94 7) nella celebre memoria dal titolo Zur Theorie des Gesetzes des Energieverteilung in Normalspektrum (Per la teoria della legge di distribuzione dell'energia nello spettro normale), da lui presentata all'Accademia delle scienze di Berlino il I4 dicembre I9oo.
Se già la concezione discontinua della carica elettrica poté apparire qualcosa di molto singolare, una singolarità ben maggiore fu universalmente riconosciuta all'ipotesi di Planck. Infatti, mentre gli elementi di elettricità, cioè gli elettroni, sono oggetti fisici, in qualche modo sperimentabili, dei quali si può misurare la massa e la carica, gli « elementi » di energia sono entità puramente teoriche, di cui viene postulata l'esistenza solo allo scopo di fornire una spiegazione coerente di fenomeni non altrimenti spiegabili. V a inoltre notato che gli elettroni, proprio perché forniti di una massa (sia pure piccolissima), appaiono come qualcosa di materiale, sicché l'ammissione della loro esistenza non rappresenta altro che una nuova tappa dell'antico indirizzo filosofico-scientifico che interpretava la materia come un ammasso di particelle indivisibili. Invece l'energia è una grandezza di altro tipo, che sembra denotare soltanto una proprietà - uno « stato » - dei corpi (onde si dice che un corpo possiede una certa energia come possiede un certo movimento), e perciò la sua concezione granulare appare qualcosa di nuovo, di completamente diverso dalla concezione atomica della materia. Malgrado queste considerazioni, ed altre analoghe addotte in particolare dai filosofi, si deve tuttavia far presente che l'idea di Planck non era totalmente priva di antecedenti, rintracciabili proprio nella storia della fisica ottocentesca. Un'idea molto simile era già stata infatti prospettata da Boltzmann nel trattato Weitere Studien iiber das Wi:irmegleichgewicht unter Gasmolekiilen (Ulteriori studi sull'equilibrio termico tra molecole di gas, I872), ed era poi stata da lui stesso ripresa
in una memoria del I 877 dedicata all'esame dei rapporti fra il secondo principio della termodinamica e il calcolo delle probabilità. L'ipotesi di Boltzmann riguardava l'energia scambiata durante le collisioni molecolari; essa affermava che tale energia assumerebbe soltanto valori discreti, in quanto le molecole non potrebbero avere « una serie continua di forze vive, ma solo quelle forze vive che sono multiple di una determinata grandezza e ». È bensì vero che il grande fisico austriaco formulava questa idea a titolo di mero artificio matematico; vero è però, che ne dimostrava poi la grande utilità per chiarire e determinare 433
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i rapporti anzidetti (fra secondo principio della termodinamica e calcolo delle probabilità). Un giovane storico della fisica, già ricordato nel volume quarto, Enrico Bellone, ha dimostrato che nemmeno Boltzmann fu del tutto originale nella formulazione dell'ipotesi anzidetta, poiché tecniche analoghe alla sua erano già state usate da Poisson e da altri fisici teorici del primo Ottocento che « vollero considerare il calorico alla stregua di alcunché di particellare ». Fatto sta, comunque, che queste tecniche non avevano riscosso- all'epoca di Poisson - un grande successo, probabilmente perché la fisica poteva agevolmente fare a meno di esse nell'elaborazione dei fenomeni allora in corso di studio. La situazione mutò radicalmente negli ultimi anni del secolo a causa di taluni ritrovati sperimentali assai nuovi e significativi e furono proprio questi mutamenti a indurre Planck - pur tra molte perplessità - a tentare di riprendere una vecchia idea, che era stata abbandonata come poco feconda nei decenni precedenti. Egli medesimo dichiara comunque, in termini espliciti, di non essersi mai proposto di rivoluzionare la fisica, troncando ogni nesso con la grande tradizione « classica »: « Io ho sempre sostenuto, » scrive a questo proposito, «che la connessione fra l'ipotesi dei quanti e la dinamica classica doveva essere la più stretta possibile, e che non si doveva uscire da quest'ultima sino a che i fatti sperimentali non avessero aperto una nuova strada. » I fatti che « costrinsero » il nostro autore ad abbandonare il principio della continuità dell'energia furono i nuovi dati raccolti dagli sperimentatori intorno all'irraggiamento del cosiddetto « corpo nero ». Già ricordammo nel capitolo vm del volume quinto che era stato Kirchhoff nel 1 86o a definire il corpo nero, e che poco più tardi era stato ideato un dispositivo abbastanza semplice capace di fornirne una realizzazione pratica; da quel momento in poi si erano moltiplicati gli studi su di esso, in particolare sulla densità specifica delle radiazioni che emette in corrispondenza alle varie temperature e alle varie lunghezze d'onda. Per spiegare l'importante fenomeno si era fatto ricorso a considerazioni assai complesse facenti capo alla teoria elettromagnetica della luce e ai principi generali della termodinamica. Sulla base di queste considerazioni erano state proposte varie formule che avrebbero dovuto riflettere in termini matematici l'andamento dei fatti. Due di esse sembravano particolarmente convincenti, pur essendo assai diverse l'una dall'altra. Si trattava di operare una scelta mediante uno scrupoloso confronto con i dati osservativi. Proprio qui, però, emerse improvvisamente una situazione pressoché scandalosa: ciascuna delle due formule appariva infatti confermata dalla reale distribuzione dell'energia irraggiata, ma solo relativamente ad alcuni intervalli di lunghezze d'onda, non a tutti. Nell'estate del 1900 Planck tentò di giungere ad una soluzione provvisoria, ideando- in sostituzione delle formule accennate-- una nuova formula « semi-em-
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pirica » che risultasse in accordo con i fatti sperimentali per tutte le lunghezze d'onda. Il tentativo venne effettivamente coronato da successo, ma la nuova formula non poteva - come è ovvio - soddisfare le esigenze dei teorici; era infatti, come si è detto, « semi-empirica », e cioè fondata più sui fatti osservati che non su di una rigorosa base razionale. Fu nei mesi successivi che il nostro autore si avvide, con notevole sorpresa, che essa poteva venire agevolmente dimostrata, purché si introducesse una nuova ipotesi: e cioè che l'energia E distribuita su N oscillatori di una data frequenza v «sia composta da un numero ben determinato di parti finite ed uguali fra loro». Allora, moltiplicando la frequenza v comune agli N oscillatori considerati per «la costante naturale h = 6,5 5. I0- 27 (erg. sec.)» cioè per quella che oggi porta il nome di costante di Planck, si avrà «l'elemento di energia e in ergs » e dividendo E per e si otterrà «il numero degli elementi di energia che sono distribuiti sugli N oscillatori ». L'enunciazione dell'ipotesi ora riferita e la dimostrazione, a partire da essa, dell'anzidetta formula «semi-empirica» costituiscono per l'appunto l'argomento centrale della famosa memoria, poco sopra citata, del dicembre 1900. Il lavoro di Planck, che oggi siamo soliti considerare come una delle tappe decisive della recente storia della fisica, non ottenne sul momento il consenso che meritava. Il principale ostacolo che impediva di comprenderne il grande valore venne indicato dallo stesso autore: era la difficoltà di trovare un'interpretazione fisica per la costante h, cioè per il cosiddetto «quanto universale d'azione». Senza questa interpretazione, l'ipotesi planckiana poteva apparire, come già quella avanzata oltre vent'anni prima da Boltzmann, un puro artificio matematico, e cioè una mera costruzione astratta, non idonea a incidere profondamente sulla nostra concezione della natura. Le cose mutarono completamente nel 1905 per merito di Einstein. In tale anno infatti, il grande pensatore pubblicò, oltre alla celebre memoria dedicata all'esposizione della teoria della relatività, un fondamentale lavoro sulla luce che delineò una soluzione assai valida della difficoltà testé accennata; essa aveva per titolo Ober einen die Erzeugung und Verwandlung des Lichtes betreffeunden heuristischen Gesichtspunkt (Sopra un punto di vista euristico concernente la produzione e trasformazione della luce). Dopo aver espresso la propria convinzione « che le osservazioni connesse alla radiazione del corpo nero, alla fluorescenza, alla produzione dei raggi catodici mediante luce ultravioletta e ad altri fenomeni collegati con l'emissione e la trasformazione della luce, vengano più facilmente comprese qualora si assuma che l'energia della luce è distribuita nello spazio con discontinuità», l'autore suggerisce l'idea che i quanti di Planck possano venir considerati, sotto certi aspetti, come pacchetti di radiazione luminosa. Essi cesseranno, così, di essere pure entità matematiche per acquistare un vero e proprio significato fisico;
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e i raggi di luce verranno di conseguenza concepiti come fasci di pacchetti di radiazione luminosa (fotoni) isolati l'uno dall'altro. Era, come ognun vede, un ritorno - sia pure in termini moderni - alla vecchia teoria corpuscolare, già avanzata da Newton, che i fisici dell'Ottocento avevano ritenuto definitivamente sconfitta. Il punto più interessante del lavoro di Einstein consisteva poi nella dimostrazione che proprio tale teoria risulta in grado di spiegare le leggi del fenomeno fotoelettrico, inspiegabili mediante la teoria ondulatoria. In breve tempo si comprenderà che essa deve venir invocata ogni volta che si voglia trovare una spiegazione soddisfacente dei fenomeni di interscambio fra materia ed energia. Proprio questi incontestabili successi della nuova concezione facevano però sorgere la domanda: in realtà la luce è un fenomeno ondulatorio o un flusso di fotoni? Dobbiamo cioè ritenere probanti gli esperimenti adducibili a favore della prima teoria o quelli adducibili a favore della seconda? È una domanda che sirivelerà molto stimolante sia dal punto di vista propriamente scientifico, sia da quello filosofico-metodologico. IV· VERSO UNA NUOVA CONCEZIONE DELL'ATOMO
Non è difficile rendersi conto che furono proprio le numero se e sorprendenti scoperte sperimentali alle quali abbiamo fatto cenno nel secondo paragrafo a imporre, nel giro di pochi anni, il completo e definitivo abbandono della vecchia concezione- ancora largamente diffusa nell'Ottocento - secondo cui l'atomo sarebbe qualcosa di semplice, cioè l'ultima particella di materia. Tra i fatti che resero del tutto inaccettabile tale concezione basti menzionarne tre: la constatata esistenza di particelle (gli elettroni) aventi una massa molto minore di quella degli atomi (circa duemila volte più piccola di quella del più leggero fra essi, cioè dell'atomo di idrogeno); la dimostrazione che, quando si producono flussi di elettroni, questi provengono senza alcun dubbio dall'interno degli atomi; la scoperta del complesso fenomeno della radioattività. Quello che era stato immaginato fin dall'antichità come « atomos », cioè indivisibile, si stava dunque rivelando- tra lo stupore generale- come un edificio assai composito; se infatti alcune sue parti, gli elettroni, risultano cariche di elettricità negativa mentre l'edificio nel suo complesso è neutro, non vi ha dubbio che dovranno esisterne altre elettricamente positive. Ma come saranno esse distribuite all'interno dell'atomo? come saranno disposte le une rispetto alle altre? L'importanza di tali domande è evidente. Era naturale infatti supporre, che le differenze riscontrate fra un elemento chimico e l'altro dovessero proprio dipendere dalla costituzione intima dei rispettivi atomi; era chiaro per esempio che i pesi atomici dei vari elementi dovessero risultare dal numero e dalla massa delle particelle contenute nei loro atomi; che lo spettro della luce emessa (spettro diver-
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Modello atomico di Thomson: configurazione sta tica con tre elettroni.
Modello atomico di Rutherford-Bohr: nucleo positivo nel centro, elettroni negativi in orbite planetarie.
so da un elemento all'altro) dovesse venire connesso alla disposizione di tali particelle, ecc. Va qui notato per inciso che la concezione testé accennata, per quanto nuova, non comportava in realtà l'abbandono dell'indirizzo seguito per secoli dalla fisica classica. Essa infatti continuava ad accogliere senza dis.cussione il vecchio principio che la spiegazione dei fenomeni macroscopici debba venire cercata nei loro costituenti ultimi; si limitava a spostare il livello cui fare riferimento per tale spiegazione, affermando che occorreva ormai scendere dal livello degli atomi a quello delle loro parti. Non è il caso di soffermarci a descrivere in dettaglio i primi tentativi di fornire un modello coerente dell'edificio atomico. Nel 1904 ne vennero proposti due: uno da Joseph John Thomson e un altro dal fisico giapponese Hantaro Nagaoka (I 86 ~19~o). Il modello di Thomson supponeva che la carica positiva fosse uniformemente distribuita entro una sfera, e che in questa fossero immersi gli elettroni unicamente soggetti a forze di natura elettrica (non sottoposti cioè ad alcuna forza di natura meccanica). Invece il modello di Nagaoka supponeva che la carica elettrica positiva fosse addensata in un nucleo centrale e che gli elettroni formassero degli anelli rotanti attorno ad essa. L'uno e l'altro concordavano nel ritenere che, data la leggerezza degli elettroni, la massa dell'atomo fosse pressoché interamente fornita dalla parte di esso carica di elettricità positiva. Il modello di Thomson riusciva a spiegare abbastanza bene parecchi fenomeni allora noti e soprattutto rendeva conto in modo relativamente chiaro della stabilità dell'atomo. Quello di Nagaoka appariva invece fornito di nessi assai più tenui con l'esperienza e andava incontro a gravi difficoltà per risolvere il problema della stabilità dell'atomo; perciò finì per incontrare scarso successo. Intanto, però, venivano eseguite sempre nuove ricerche sulla radioattività, in particolare sulla diffusione dei raggi ot. Orbene furono proprio queste ricerche a mettere in crisi il modello di Thomson; i calcoli eseguiti sulla base di esso fornivano infatti risultati in totale disaccordo con quelli realmente osservati. Se, come pensava
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lo stesso Thomson, la validità di un modello deve essere valutata in rapporto alla sua capacità di spiegare i fatti, appariva sempre più chiara la necessità di abbandonare quello da lui ideato, malgrado gli indubbi pregi che aveva fin allora rivelato. Fu a questo punto che nel 1911 l'inglese Ernest Rutherford (1871-1937), uno dei fisici più impegnati nella sperimentazione sui raggi a., ebbe l'idea di riprendere il modello di Nagaoka, apportandogli alcune sostanziali precisazioni. L'idea fondamentale resta la medesima: che le cariche positive siano riunite in un nucleo situato al centro dell'atomo e che attorno ad esso ruotino gli elettroni, lungo ben determinate orbite come i pianeti attorno al sole. Il loro numero sarebbe tale da neutralizzare la carica positiva contenuta nel nucleo. Il punto nuovo del modello rielaborato da Rutherford stava nella sua esatta formulazione; formulazione che poteva costituire il punto di partenza per ricavarne previsioni anche quantitativc sui vari fenomeni atomici. Effettivamente esso fornì il modo di spiegare così bene la diffusione dei raggi ot secondo grandi angoli, cioè di prevedere per tale diffusione dei risultati confermati in maniera così precisa dall'esperienza, che parve impossibile porre ~n dubbio la sua adeguatezza alla reale costituzione degli atomi. Scrive in proposito Mario Carassi: « La grande importanza del modello sta in una interpretazione quantitativa dell'esperienza veramente sorprendente; l'accordo con l'esperienza infatti non si limita ad una corretta previsione del numero di particelle ot diffuse in una certa direzione, ma prevede anche correttamente la variazione di questo· numero al variare di altre grandezze fisiche. » Non potendoci soffermare sull'analisi dell'interpretazione testé accennata, ci limiteremo a ricordare che nel 1913 venne anche scoperta la possibilità di collegare il modello di Rutherford alla tavola periodica di Mendeleev. Il fatto assunse una notevole importanza perché vi si scorse, da un lato una conferma indiretta della validità del modello, dall'altro una prova che la classificazione di Mendeleev, sebbene scoperta per via empirica, rifletteva in sé la struttura profonda degli elementi classificati. La difficoltà più grave, cui il modello di Rutherford andava incontro, era quella che già abbiamo accennato a proposito del modello di Nagaoka: la sua inidoneità a spiegare la stabilità dell'atomo. Il caso dell'elettrone risulta invero profondamente diverso da quello di un pianeta che ruota attorno al sole. Si può bensì pensare ad un equilibrio dinamico tra la forza centrifuga dell'elettrone, dovuta al suo moto rotatorio, e la forza elettrostatica che lo attira verso il nucleo, ma qui si aggiunge il fatto che l'elettrone - essendo una carica elettrica in movimento deve irradiare energia. Per una chiara esposizione del problema, ci varremo ancora una volta delle lucide parole di Carassi: « A differenza del caso gravitazionale, questo equilibrio non è stabile se vogliamo che unitamente alle leggi della meccanica siano valide anche le leggi dell'elettromagnetismo. Infatti, secondo le leggi dell'elettrodinamica classica, l'elettrone, soggetto ad una accelerazione costante verso il centro della sua orbita deve irradiare energia elettromagnetica. » Proprio
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questa perdita graduale di energia farà sì che« l'elettrone in base alle leggi dell'elettrodinamica cascherebbe ... sul nucleo percorrendo una sorta di traiettoria a spirale con velocità sempre più grande ed emettendo [per conseguenza] radiazioni di frequenza costantemente crescente». Quindi non solo l'atomo dovrebbe risultare instabile, ma per di più la luce da esso emessa dovrebbe dar luogo a spettri via via diversi. La gravità della situazione in cui venne a trovarsi la scienza di quegli anni è evidente: per un lato infatti il modello di Rutherford appariva fornito di incontestabile validità (soprattutto a causa delle conferme quantitative ottenute nello studio dei raggi et), per un altro lato invece si rivelava in aperto contrasto con l'esperienza. Come uscire da un paradosso così clamoroso? La soluzione venne trovata nel I 9 I 3 ad opera del fisico danese Niels Bohr (I885-I96z), e consistette nella sistematica utilizzazione- per il calcolo delle radiazioni emesse dall'atomo - delle nuove concezioni dell'energia, cui abbiamo fatto cenno nel paragrafo III. Furono proprio esse a permettergli di apportare al modello di Rutherford quelle sostanziali modifiche che ne faranno il primo modello veramente moderno dell'edificio atomico, aprendo con ciò stesso una nuova era alla scienza fisica. Il punto di partenza da cui Bohr prende le mosse è - come egli stesso scrive - «che l'elettrodinamica classica non è applicabile alla descrizione del comportamento dei sistemi atomici ». Utilizzabile risulta invece, secondo lui, la meccanica classica per calr.olare le orbite degli elettroni-pianeti. L'anzidetto abbandono dell'elettrodinamica classica implica che, nel percorrere un'orbita, l'elettrone non irraggi energia, cosicché possa permanere nell'orbita considerata senza avvicinarsi al nucleo atomico: si potrà dunque parlare di « orbita stazionaria ». Emissione e assorbimento di energia avranno luogo solo quando l'elettrone si sposta (per così dire «salta») dall'orbita stazionaria che stava percorrendo ad un'altra, caratterizzata da un'energia minore o rispettivamente maggiore. È proprio qui che interviene l'ipotesi di. Planck secondo cui « l'i:rraggiamento di un sistema atomico non è un processo continuo, come si suppone nell'elettrodinamica ordinaria, ma avviene attraverso processi distinti e separati e in modo che la quantità di energia emessa da un oscillatore atomico di frequenza v in un singolo processo sia eguale a 't' h v, dove " è un ·numero intero e h una costante universale » (Bohr). A partire da queste considerazioni, con calcoli che il lettore può trovare in qualunque trattato di fisica, il nostro autore riesce a determinare non solo i « salti » possibili, ma anche le orbite possibili (cioè quelle la cui energia cinetica assume valori in accordo con l'ipotesi di Planck). Giunge cosi a scoprire che ogni sistema atomico può soltanto trovarsi in una ben determinata « successione di configurazioni » che « corrispondono a stati del sistema nei quali non si verifica alcun irraggiamento, e che perciò sono stazionari fintantoché il sistema non viene perturbato da azioni esterne ». 439
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Il grande fisico riuscì ad applicare con straordinario successo la propria teoria alla spiegazione dello spettro dell'idrogeno. Proseguendo queste ricerche, i suoi allievi spiegheranno le proprietà specifiche di varie altre sostanze, e l'istituto di Copenaghen - ove egli insegnava - diventerà la scuola di avanguardia della nuova fisica atomica. V· NUOVE ISTANZE METODOLOGICHE
Perfino le istanze metodologiche affiorate nel periodo in esame provengono direttamente dal tipo di realtà fisica che le nuove esperienze vengono via via rivelando all'occhio stupito degli osservatori. Anche prima di allora i dispositivi sperimentali usati dai fisici avevano fatto loro scoprire alcune proprietà, non percepibili immediatamente dai sensi; ma fra queste proprietà e quelle rilevate nell'esperienza comune esisteva- per così dire- un rapporto. di continuità, onde si poteva presumere che le medesime categorie potessero venire usate per la descrizione sia del mondo ordinario sia di quello, più ricco, afferrato dalla scienza. Ora invece la nuova fisica si trova davanti a qualcosa di essenzialmente diverso, che obbedisce a leggi prive di qualsiasi analogia con quelle che valgono per i fenomeni macroscopici. Si rifletta per esempio al modo come erano stati tradizionalmente concepiti gli atomi (o le molecole): li si interpretava come particelle senza dubbio assai più minuscole dei più piccoli granellini di sabbia- e proprio perciò non percepibili nemmeno col più potente microscopio - ma pur sempre analoghe ad essi, tali cioè da risultare regolate dalle medesime leggi (meccaniche, elettromagnetiche, ecc.) che erano state scoperte per i corpi in generale. Non pareva neanche possibile sollevare il dubbio, che le leggi di natura dovessero risultare diverse per i corpi (grandi o piccoli) su cui possiamo compiere sperimentazioni dirette e per quelli che hanno invece una dimensione atomica. Scrive in proposito Kurt Mendelssohn: « Oggi ci rendiamo conto che una spregiudicata estrapolazione dalle palle da biliardo e dai granelli di sabbia alle proprietà di oggetti di dimensioni atomiche fu il vizio cardinale della fisica classica che portò alla sua caduta. Ma è sempre facile essere saggi dopo gli eventi... » Fu necessario constatare de facto che le cose in realtà andavano diversamente dal previsto per rinunciare ad una estrapolazione accolta da sempre come perfettamente naturale. Ed è ben comprensibile che tale forzata rinuncia abbia fatto sentire ai fisici l'urgenza di riesaminare criticamente tutto ciò che avevano fatto fin allora, di porre in discussione il significato stesso dell'espressione« conoscenza scientifica», nonché la funzione dei modelli, il ricorso (pur tanto comodo) alle analogie, e così via. Abbiamo ricordato nel capitolo vm del volume quinto, che un illustre fisico come Lord Kelvin riteneva che una condizione indispensabile per comprendere; fosse quella di poter «costruire un modello meccanico dell'oggetto studiato». 440 www.scribd.com/Baruhk
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Che senso potranno ora conservare le sue parole, di fronte alla nuova situazione? Senza dubbio ci si continua a sforzare di costruire ingegnosi modelli per spiegare come l'atomo possa assorbire od emettere radiazioni, come - opportunamente eccitato - possa anche emettere elettroni, e come, nel caso di alcune sostanze, irraggi spontaneamente sia elettroni che particelle più pesanti (le particelle dei raggi a). Ma, p~r ottenere risultati in qualche modo soddisfacenti occorre rinunciare alla pretesa che tali modelli siano «meccanici», come voleva Kelvin, e addirittura che obbediscano alle leggi della fisica classica (in particolare, che obbediscano ai principi dell'elettrodinamica maxwelliana). Senonché, una volta compiuta questa rinuncia, che valore esplicativo si potrà ancora riconoscere ad essi? Con che diritto si potrà sostenere che rendono davvero intuibile l' explicandum? ossia che ne fanno qualcosa di chiaro e distinto? Che dire poi della nuova teoria, in certo senso corpuscolare, ideata per spiegare certi fenomeni luminosi, come l'effetto fotoelettrico? È vero che tale teoria ci permette di dedurre le singolari leggi da cui esso è regolato, ma con che diritto possiamo accettarla in questo caso, mentre per altri dobbiamo continuare ad ammettere che la luce sia costituita di onde elettromagnetiche? Non è forse contraddittorio accogliere contemporaneamente due modelli, fra loro incompatibili, del medesimo fatto fisico (la luce)? Sarebbe eccessivo pretendere che i problemi metodologici, connessi ai quesiti cui ora accennammo, venissero immediatamente formulati con perfetta chiarezza. È certo comunque che essi non potevano più, ormai, venire evitati; era la stessa situazione venutasi a creare entro la fisica a sollevarli con urgenza via via maggiore. Essi nascevano all'interno della ricerca scientifica, non al di fuori di questa; cioè per opera di scienziati sinceramente preoccupati del proprio lavoro, e talvolta perfino un po' ingenui, non per opera di smaliziati filosofi. Come già accennammo all'inizio del capitolo, sarà solo verso il 1925-30 che i fisici quantisti raggiungeranno una piena consapevolezza intorno all'importanza delle questioni metodologiche, spinti a ciò sia dai nuovi sconcertanti sviluppi delle proprie ricerche (che li portarono a formulare il principio di indeterminazione, quello di complementarità, ecc.), sia dagli altri fondamentali quesiti metodologici nel contempo sollevati- come vedremo nel prossimo capitolo -dalla teoria della relatività (dei quali Einstein seppe intuire immediatamente il grande peso filosofico). Proprio per questo motivo ci sembra opportuno rinviare a un punto più avanzato della nostra trattazione, e precisamente al volume ottavo l'esame dell'ultima fase, più matura, raggiunta dalla metodologia della fisica quantistica. In tale sede occorrerà parlarne diffusamente, sia in riferimento agli specifici problemi incontrati dai fisici, sia in riferimento agli sviluppi che i dibattiti metodologici ebbero nel quadro generale della cultura filosofica. Malgrado questo rinvio, non vogliamo tuttavia chiudere il capitolo senza tentare di ricapitolare con un certo ordine i principali quesiti di fondo che i fisici dell'inizio del secolo co441
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Trasformazioni di fondo nella scienza fisica
minciarono a discutere intorno alla natura e al valore della propria scienza, in uno spirito diverso da quello delle generazioni precedenti. Un primo quesito concerneva in generale la validità da riconoscersi alla fisica dei secoli antecedenti. Questa aveva indubbiamente riscosso del grand! success1 1n tutti i campi, ma già da qualche tempo aveva visto sorgere notevoli riserve proprio intorno ai principi su cui si reggeva il suo maestoso edificio; basti pensare alla contrapposizione maxwelliana di una fisica del continuo a quella del discontinuo (di tipo newtoniano) e ancor più alle serie critiche sollevate da Mach contro il meccanicismo e in particolare contro la pretesa assolutezza dei principi della dinamica. Ora però entrano in crisi molti altri concetti che i fisici dell'Ottocento avevano perlopiù accolto come evidenti: la semplicità dell'atomo, la continuità della carica elettrica, la continuità dell'energia, ecc. Questo comportava la necessità di sottoporre ad un accurato esame, non solo il patrimonio di nozioni e principi trasmesso dalla più importante tradizione scientifica, ma il concetto stesso di evidenza. Ci si cominciò ad accorgere che esso varia da un'epoca all'altra ed è intimamente legato al modo di pensare e di esprimersi dell'uomo della strada. Di qui la necessità di studiare la struttura della scienza non soltanto in se stessa ma proprio in rapporto alla struttura del sapere comune. Era un inizio di considerazioni che avrebbero portato molto lontano e che avrebbero ben presto investito i filosofi non meno degli scienziati. Un secondo quesito riguardava i rapporti tra esperienza e teoria all'interno del sapere scientifico. Abbiamo più volte insistito sull'importanza decisiva che ebbe nel ventenni o in esame, la fisica sperimentale; abbiamo anche ricordato che alcune delle sue più sorprendenti scoperte - come ad esempio quella della radioattività -avvennero pressoché fortuitamente. D'altra parte si è anche visto che fu proprio la teoria, in taluni casi, a far compiere il passo rivelatosi poi più fecondo di conseguenze. Si pensi per esempio a quanto detto nel paragrafo m: finché Planck si limitò ad elaborare la sua formula « semi-empirica» che risultava in sostanziale accordo con la distribuzione dell'energia irraggiata dal corpo nero per tutte le lunghezze d'onda, il lavoro da lui eseguito poteva apparire come un semplice artificio di scarso interesse; quando invece riuscl a dedurla dalla famosa ipotesi della discontinuità dell'energia, le cose mutarono radicalmente. Anche se i contemporanei non percepirono immediatamente la portata del mutamento, dopo soli cinque anni l'ipotesi di Planck venne finalmente sfruttata da Einstein per spiegare le leggi del fenomeno fotoelettrico, e nel I 9 I 3 Bohr si valse di essa per delineare il nuovo modello di atomo che aprì la strada - come già abbiamo detto -ad una nuova fase della fisica (ricchissima non solo dal punto di vista teorico, ma anche da quello sperimentale). È chiaro che nulla di tutto ciò avrebbe potuto accadere senza l'accennato trapasso dal livello semi-empirico della prima ricerca di Planck al livello essenzialmente teorico della seconda. In breve: se ci fu un tempo in cui la sperimentazione. e la teorizzazione diedero entrambe contributi 442
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Trasformazioni di fondo nella sciem.a fisica
essenziali al progresso della fisica, questo è senza dubbio il periodo di cui ci stiamo occupando. Ma un conto è constatare questo fatto, un altro conto è dipanare il complesso rapporto tra i due fattori, chiarire in che modo essi riescano a intrecciare la loro opera, spiegare come mai la loro eterogeneità non vada a detrimento dell'unità della ricerca. Già Galileo aveva affermato che la conoscenza della natura si regge tanto sulle « sensate esperienze » quanto sulle « certe dimostrazioni »; ora però una dichiarazione del genere non basta più: occorre affrontare con piena consapevolezza il problema dell'effettivo nesso tra esperienza e teoria, per determinare la reale funzione dell'una e dell'altra. È una questione di schietto carattere metodologico, che si rivelerà sempre più urgente quanto più si affineranno i temi affrontati dalla fisica. L'ultimo quesito su cui vogliamo attrarre l'attenzione del lettore è strettamente connesso a quello testé accennato. Esso si riferisce alla funzione esercitata dai modelli entro la teoria. Finché si accettava la vecchia concezione meccanicistica degli scienziati seicenteschi, era facile spiegare il loro compito: essi dovevano darci un'idea del vero modo di operare della realtà al disotto delle sue apparenze fenomeniche. Per verità questa interpretazione aveva già dato luogo a non pochi dubbi nel corso dell'Ottocento; ciò era accaduto in particolare quando -all'inizio del secolo - i fisici si erano trovati di fronte a due diversi modelli sia dei fenomeni termici sia di quelli luminosi, e non era mancato chi (come Fourier e Hamilton) aveva cercato di matematizzare tali fenomeni senza impegnarsi per nessuno dei modelli alternativi di essi. Il successivo sviluppo della fisica aveva però risolto il dilemma, dimostrando l'attendibilità del modello cinetico per il calore e di quello ondulatorio per la luce. Ma all'inizio del Novecento il problema si ripresenta con ben altra drammaticità, come già sottolineammo alla fine del paragrafo m: esistono dei fenomeni (già studiati nell'Ottocento) che sembrano provare in modo incontestabile la natura ondulatoria della luce, ma ne esistono altri (scoperti proprio nel periodo di cui ci stiamo occupando) che non si spiegano se non ammettendo che essa sia costituita da fasci di fotoni. Su che base ci si dovrà fondare per compiere una scelta fra essi? Oppure si dovrà rinunciare a qualsiasi scelta? Una soluzione in quest'ultimo senso era già stata perorata da alcuni valentissimi scienziati, come Mach, che - criticando il meccanicismo - erano giunti a proporre che la fisica facesse a meno di qualunque modello, limitandosi a registrare fenomeni e nessi di fenomeni. Malgrado l'alto livello critico di questa posizione, la gran parte dei ricercatori aveva però continuato a valersi di modelli (anzi, a «credere» in essi). Proprio la fisica atomica dimostrava l'utilità di adoperarli sistematicamente nell'interpretazione dei dati osservativi, e perfino nella guida della sperimentazione; lo stesso fatto che si sentisse la necessità, di fronte a certi risultati, di sostituire un modello all'altro, confermava l'opinione generale circa l'importanza della funzione che esercitano nella scienza. Di nuovo qui, però,
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Trasformazioni di fondo nella scienza fisica
siamo costretti a riconoscere che un conto è percepire l'importanza di tale funzione, un altro conto è precisare in che cosa essa consista. Taluno sosterrà, in una fase più matura della ricerca metodologica, che l'unica funzione dei modelli è quella di « visualizzare » le teorie, e che proprio ciò autorizza a usare diversi modelli per « visualizzare » settori diversi della stessa teoria. Ma questa tesi esige che si precisi H significato di tale « visualizzazione » e si risponda al quesito se l'introduzione in un modello di talune ipotesi tutt'altro che intuitive, come ad esempio quella di Planck, non finisca per privarlo di ogni capacità « visualizzante ». Oppure dobbiamo francamente riconoscere che « visualizzazione», « intuibilità »ecc. sono termini che mutano il proprio significato da una situazione all'altra? La pregnanza di queste domande è evidente. Sono proprio esse che costringeranno i metodologi della fisica ad allargare il proprio interesse dal campo da cui erano partiti (strettamente connesso alla ricerca scientifica) a quello più generale della filosofia.
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CAPITOLO QUATTORDICESIMO
Einstein DI UGO GIACOMINI
I · IMPORTANZA DEL PENSIERO DI EINSTEIN
Il pensiero di Albert Einstein è stato uno dei più fecondi e dei più discussi del nostro secolo. Le critiche filosofiche alla teoria della relatività e le teorie fisiche alle quali essa diede impulso o nelle quali essa entra come parte essenziale sono nume:rosissime. Per ciò che riguarda le critiche alla teoria einsteiniana dello spazio e del tempo ed alle teorie cosmologiche da essa suscitate, rimandiamo il lettore al prossimo capitolo. Lo scopo che qui ci proponiamo è il seguente: vogliamo vedere quali sono alla luce della moderna filosofia della scienza, i punti salienti della teoria della relatività e vogliamo mostrare quanto essi siano importanti non solo per gli esperti di fisica teorica, ma anche per chiunque sia interessato alla filosofia in maniera moderna. Esporremo brevemen~e, dopo aver dato un cenno alla vita di Einstein, la teoria della relatività speciale (o ristretta) e quella generale. Questa esposizione ci fornirà la base per affrontare con cognizione di causa i problemi filosofici connessi alla teoria; prima, però, vedremo in breve la questione storicamente importante della paternità della teoria della relatività speciale. Senza anticipare il contenuto del capitolo, vale la pena accennare al suo fine. Non si tratta solo di dimostrare che esistono due filosofie nel pensiero di Einstein: nella giovinezza una filosofia di orientamento ope:razionista, fondata soprattutto sull'analisi critica dei concetti di spazio e tempo, nella maturità invece una filosofia più sostanzialistica, che lo portò a discutere sullo spazio-tempo come entità reale. Qui si vuole mettere in luce il grande numero di spunti di interesse filosofico ed epistemologico che si ricavano dall'opera einsteiniana, anche se non rientrano direttamente nelle idee generali di Einstein sulla filosofia. Gli spunti principali riguardano la portata della critica alla simultaneità temporale ed all'uniformità delle misure spaziali; il significato storico del principio di conservazione massa-energia; le relazioni fra i nuovi concetti einsteiniani di spazio e di gravitazione e quelli precedenti; ed altri ancora. Data l'importanza dell'argomento si è ritenuto opportuno ricordare, sia pure in nota, i brevi calcoli necessari a comprendere la relatività speciale. Per la :relatività generale, invece, si è preferito esporre
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Einstein
nelle sue linee generalissime il contenuto fisico della teoria senza far ricorso all'esposizione matematica. II · LA VITA DI EINSTEIN
Albert Einstein (I879-195 5) nacque ad Ulma, in Germania, da genitori israeliti. Il padre possedeva una piccola azienda elettrochimica a Monaco, dove Einstein fu portato all'età di un anno. Nel I894 tuttavia l'azienda andò in dissesto e tutta la famiglia si trasferì a Milano per alcuni anni. In Italia Albert seguì un corso di studi medi; poi, seguendo il consiglio del padre, sostenne gli esami di ammissione per entrare al politecnico federale di Zurigo nel r 895, senza superarli. Solo l'anno dopo, nel 1896, passò gli esami di ammissione. Dopo il diploma, incontrando notevoli difficoltà per trovare lavoro benché fosse divenuto cittadino svizzero nel 1902, accettò un posto all'ufficio brevetti di Zurigo e si sposò poco dopo con una compagna di studi, Mileva Maritsch. Il lavoro consisteva nel valutare le idee fondamentali di ogni progetto proposto ai brevetti, e ciò lo aiutò certamente a sviluppare la sua caratteristica mentale di vedere sempre il nucleo centrale di ogni problema. Il lavoro non lo impegnava tuttavia l'intera giornata, !asciandogli molto tempo per gli studi teorici. È senz'altro necessario ricordare l'anno 1905 come l'anno fondamentale nella vita di Einstein, perché allora (come si è già accennato nel capitolo precedente) egli pubblicò negli « Annalen der Physik » («Annali di fisica») quattro relazioni, tra le quali Ober einen die Erzeugung und Verwandlung des Lichtes betreffenden euristischen Gesichtpunkt (Su un punto di vista euristico concernente la produzione e trasformazione della luce), e Zur Elektrodynamik bewegter Kiirper (Sulla elettrodinamica dei corpi in moto). Il primo di questi due scritti è insieme con altri successivi alla base della motivazione con cui nel 1921 gli fu conferito il premio Nobel, e come già
sappiamo ha aperto importanti prospettive nel campo della fisica quantistica. Il secondo è lo scritto in cui compare per la prima volta la teoria della relatività ristretta. In esso Einstein, partendo da considerazioni elettrodinamiche, critica il concetto di quiete assoluta non solo nell'ambito della meccanica, ma anche dell'elettrodinamica. La nuova congettura in cui non si parla più di quiete assoluta viene da lui chiamata «principio di relatività» e viene presentata unitamente a un'altra ipotesi, quella cioè che la luce si propaghi nel vuoto con una velocità indipendente dalla velocità della fonte d'emissione. In questo scritto viene poi esaminato il concetto di simultaneità, di cui si propone una definizione operazionistica, e vengono chiariti i risultati dell'applicazione del principio di relatività. Dopo queste pubblicazioni alcune università tedesche cercarono di procurare ad Einstein una cattedra, ma solo nel 1909 egli ottenne un posto di insegnante all'università di Zurigo. Accettò poi una cattedra all'università tedesca di Praga e, nel 1912, al politecnico di Zurigo. Sempre più considerato nell'ambiente della fisica teorica, fu chiamato nel 1913 a Berlino come membro dell'Accademia prus-
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Einstein
siana delle scienze. In questo periodo divorziò dalla prima moglie e si risposò con una sua cugina, Elsa Einstein. A Berlino Einstein pubblicò Die Grundlagen der allgemeinen Relativitatstheorie (Fondamenti della teoria della relatività generale) sugli« Annalen der Physik » (I9I6) dove, utilizzando il calcolo tensoriale, estendeva il valore della teoria della relatività a tutti i sistemi in moto reciproco di qualunque tipo e per la prima volta raccoglieva in maniera completa i risultati degli scritti dell'anno precedente: Grundgedanken der allgemeine Relativitiitstheorie und Anwendung dieser Theorie in der Astronomie (Pensieri fondamentali della teoria della relatività generale e impiego di questa teoria nell'astronomia, I9I5), e Zur allgemeine Relativitiistheorie (Sulla teoria della relatività J!.enerale, I 9 I 5) pubblicati come estratti delle sedute dell'Accademia prussiana delle scienze. Di eguale importanza anche i lavori fondamentali di cosmologia, pubblicati nel I9I7· Durante la prima guerra mondiale egli non si schierò dalla parte di quegli intellettuali tedeschi che, da Max Weber a Thomas Mann, cercavano di sostenere moralmente il punto di vista dell'impero tedesco nella guerra, e ciò è un'anticipazione del suo atteggiamento pacifista ed umanitario davanti ai problemi della società che, come si vedrà in seguito, fu una delle caratteristiche del suo pensiero. Dal 1919, mentre la teoria della relatività generale veniva confermata da esperimenti astronomici e fisici, rimase a Berlino dove ebbe, tra l'altro, alcuni dispiaceri a causa dell'antisemitismo che si faceva sempre più virulento. Proprio allora cominciò a dare forma più rigorosa alle sue idee pacifiste che, come egli stesso ebbe a scrivere, partivano da sentimenti istintivi, non razionalizzati, contro l'odio e la violenza. «I rappresentanti delle scienze della natura, » egli scrisse, « per il carattere universale degli argomenti che trattano e per la necessità di una cooperazione organizzata su scala internazionale sono spinti ad assumere una mentalità internazionale che li predispone a favorire gli obiettivi pacifisti. » Alla fine del capitolo si farà cenno anche al pensiero di Einstein su questi argomenti. Per ora basti dire che, oltre a trattare il tema del pacifismo, egli si pronunciò, sia pure con molte riserve, a favore del sionismo. Non prese invece posizione definitiva sul socialismo, restando sempre nei limiti di un liberalismo illuminato per il quale gli Stati Uniti del New Deal erano ancora un modello. Nel 192I, come si è detto, ottenne il premio Nobel di fisica per le sue ricerche di fisica teorica e per la scoperta della legge sull'effetto fotoelettrico, ed il suo nome divenne notissimo anche presso il pubblico non specialista. All'avvento del nazismo riparò negli Stati Uniti dove restò fino alla morte, lavorando all'Institute for advanced study a Princeton. Il z agosto 1939 indirizzò al presidente degli Stati Uniti, Roosevelt, una lettera nella quale faceva cenno alla possibilità di trovare nell'elemento uranio una nuova ed importante fonte di energia per una bomba potentissima, dando ufficialmente inizio all'era atomica. Nel I945 abbandonò l'istituto di Princeton e 447
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Einstein
continuò i suoi studi in privato fino alla morte, avvenuta nel I95 5, sviluppando insieme ad alcuni allievi la teoria del campo unificato, che tenta di conciliare la veduta relativistica dell'universo con la teoria elettromagnetica dei fenomeni ondulatori. Come si è detto, anche prima della morte era diventato agli occhi di molti il nuovo Newton, ossia lo scienziato che nella fisica moderna occupava il ruolo che aveva avuto Newton nella fisica classica. La sua figura si presenta per un verso come quella dell'ultimo dei grandi fisici classici, poiché lavora per lo più da solo e ricerca un'unità fra i vari fenomeni studiati, e per un altro verso come quella del primo grande fisico moderno, capace di portare nella fisica concetti nuovi e profondamente diversi da quelli tradizionali. III · BREVE ESPOSIZIONE DELLA CONDIZIONE TEORICA DELLA FISICA FINO ALLA RELATIVITÀ RISTRETTA
Per poter capire l'origine storica della teoria della relatività ristretta o speciale il lettore dovrebbe rifarsi ai capitoli che trattano più particolareggiatamente la storia della fisica del XIX secolo. Là è possibile vedere che la validità della meccanica classica trovò un limite nello studio dei fenomeni luminosi. Fresnel aveva concepito l'idea dell'etere e Maxwell aveva sviluppato l'idea di campo proprio per affrontare le difficoltà incontrate nello studio di quei fenomeni. L'etere veniva concepito come un mezzo elastico presente in ogni punto dello spazio e capace di trasmettere le onde luminose con le proprie vibrazioni. L'introduzione di questo mezzo nell'edificio della fisica classica, se da un lato servì per molti anni come base per l'interpretazione meccanicistica dei fenomeni luminosi, dall'altro si rivelò un'ipotesi assai difficile da sostenere da un punto di vista sperimentale. In un periodo di intensissimo sviluppo degli esperimenti la teoria dell'etere non aveva fatti precisi che la sostenessero. Proprio la discussione sull'etere e gli esperimenti eseguiti per provarne l'esistenza furono i punti su cui si fondò la critica alla meccani~a classica di Albert Einstein. Il lettore dovrebbe tener presenti due punti di fondamentale importanza per tutta la successiva esposizione: I- Il principio di relatività galileiano, secondo cui le leggi della meccanica hanno la stessa forma in tutti i sistemi inerziali (cioè animati gli uni rispetto agli altri da un qualunque moto rettilineo uniforme). Chiamando S un sistema di coordinate cartesiane ortogonali x,y, e chiamando O un osservatore fisso all'origine del sistema S, un fenomeno meccanico che avviene in un tempo t può venir descritto esattamente da una funzione della forma f(x,y, t, w) = o, formula in cui w designa complessivamente grandezze meccaniche che intervengono nel fenomeno ed f è funzione delle cinque variabili poste fra parentesi. Se ci si domanda come appare lo stesso fenomeno ad un osservatore O' posto in un sistema di riferimento S' (x',y', z'), precisando che il sistema S' è in ttaslazione
z
z,
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Einstein
uniforme rispetto ad S, si tratta di trovare delle formule di trasformazione che consentano di tradurre la funzione come è espressa in S nella funzione come è espressa in S'. Per semplificare il calcolo facciamo coincidere all'istante inizialei centri O e O' delle coordinate e gli assi y e y', z e z', supponendo quindi che la traslazione di S' abbia luogo lungo l'asse delle x. Assumiamo come origine del tempo l'istante t= o in cui coincidono le origini delle coordinate. L'osservatore in S' giudicherà i valori delle coordinate y' e z' sempre uguali a quelli di y e z in ogni istante t' successivo a t e giudicherà i valori di x' uguali ai valori di x diminuiti dell'allontanamento nel frattempo avvenuto. In conclusione la trasformazione delle coordinate avverrà secondo le equazioni:
\X,'= x - vt ·y =y
( z' = z. Allora, per esprimere il moto di un corpo fisico descritto in S dalla funzione f(x,y, t, w) =o nelle nuove coordinate S', dobbiamo sostituire alla variabile x la nuova variabile x - vt. Potremmo allora aspettarci che la nuova funzione ottenuta f' (x - vt,y', z', t', w') = o sia diversa dalla f Ma il principio di relatività galileiano afferma invece che per ogni fenomeno meccanico le due funzioni sono identiche, cioè che: f(x,y, z, t, w)= f(x- vt,y', z', t', w')= o, ossia afferma l'invarianza dei fenomeni meccanici per ogni traslazione rettilinea uniforme. z - La legge newtoniana della sommazione delle velocità, che si può così definire: la velocità rispetto a K di un punto mobile M entro un sistema K' in moto rispetto al sistema di riferimento K è data dalla somma delle velocità di M relativa a K' e della velocità di K' rispetto a K (velocità di trascinamento ). Tenendo ben presenti questi due punti è possibile ora affrontare lo studio delle conseguenze degli esperimenti di Arago, Fresnel e Michelson-Morley, le cui conclusioni costituirono il punto di partenza della critica di Einstein alle basi della meccanica classica. Come si è visto nel volume quarto, verso i primi anni dell'Ottocento Young prima e Fresnel poi elaborarono una teoria completa della luce come vibrazione ondulatoria, nel tentativo di renderla del tutto adeguata alla spiegazione dei fenomeni di interferenza. L'etere, secondo l'idea di Fresnel, doveva essere considerato del tutto rigido per rendere possibile l'esistenza di vibrazioni trasversali, i cui spostamenti dovevano corrispondere alle onde luminose. Non vi era nessuna prova sperimentale dell'esistenza dell'etere, che serviva quindi come ipotesi ad hoc per tenere in piedi la teoria ondulatoria della luce. Il concetto di etere fu poi perfezionato da Maxwell, che gli tolse le caratteristiche più materiali !asciategli da Fresnel, quale la rigidità, e se ne servì per fondare la sua teoria delle onde elettromagnetiche. Però tale concetto, nato per garantire l'esistenza delle vibrazioni luminose, finì per essere considerato come
z,
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Einstein
denotante l'unica sostanza davvero fissa entro cui si sposterebbero tutt1 1 corpi in moto. In più, l'esistenza di una simile sostanza diffusa ovunque, anche nello spazio fra i pianeti, avrebbe dovuto dar luogo ad effetti speciali in campo ottico, a seconda della direzione in cui la terra la attraversava. Poiché alcuni esperimenti astronomici non avevano consentito di rilevare questi effetti, Fresnel propose di ammettere che la velocità della luce nell'etere cambiasse di un fattore opportuno. Quest'ipotesi fu brillantemente confermata nel I 8 5I da un esperimento di Fizeau. Anche Hendrik Antoon Lorentz (I85 3-I928) nel I895, studiando la teoria elettromagnetica, stabilì che se l'etere fosse stato considerato un mezzo di trasferimento delle onde luminose, avrebbe automaticamente portato alla deviazione delle onde luminose nella misura prevista da Fresnel. Si capì pure che era impossibile la ricerca degli effetti del passaggio della luce nell'etere allivello delle leggi dell'ottica macroscopica (ossia che era impossibile scorgere gli effetti di primo ordine dell'etere), onde essa doveva venire proseguita sui cosiddetti effetti di secondo ordine. Questo nuovo tipo di ricerca fu preso in considerazione verso la fine del secolo quando, servendosi di apparecchi estremamente perfezionati, Albert Michelson e Edward Williams Morley (I 88o) pensarono appunto di poter scoprire interferenze luminose di tale ordine. Se il loro esperimento avesse confermato i calcoli matematici, sarebbe stato possibile misurare in seconda istanza gli effetti dell'etere sul movimento dei raggi luminosi, dopo il fallimento delle ricerche nell'ottica macroscopica. L'esperimento si fonda sul comportamento dei raggi luminosi nello strumento detto interferometro. Se questi raggi dessero delle frange d'interferenza nel cannocchiale C della fig. I, il loro comportamento proverebbe l'esistenza dell'etere.
fig.
r-,l
l
I
--~
l
M2
l l
L-J
M2'
L'interferometro era organizzato secondo lo schema della fig. 1. Un raggio di luce da Scade sullo specchio semiriflettente P inclinato di 45°, che divide il raggio in due parti. Un raggio parziale riflesso da P viaggia fino allo specchio M1 da cui è riflesso in P e, attraverso P, nel telescopio C. La seconda parte del raggio
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Tipico interferumetro usato nell'esperimento Ji Michelson e Morley.
originario viene trasmessa in M 2 e parzialmente ancora in C formando le classiche righe d'interferenza con il primo raggio. Se entrambi gli specchi hanno la stessa distanza da P e tutto l'apparecchio si muove attraverso l'etere con velocità v, si verificano i mutamenti indicati nella figura dalle linee tratteggiate. Secondo il calcolo matematico, il tempo richiesto dai due :raggi per compiere i loro percorsi non è più uguale perché, applicando il principio di cui al punto z, per la legge di composizione delle velocità, il raggio che si muove verso M2 ha una velocità di c - v all'andata e di c +v al ritorno. Quindi il tempo totale impiegato da questo raggio è 1) /2
l
l
zlc
= - - + - - = --v
C -
c
+v
c2 -
v2
dove l è la distanza dallo specchio P dei due specchi M1 ed M2. Applicando la serie binominale 1 la 1) si può scrivere z) /2
=
zl
-
(
1
c
+ -ca . v2 )
Invece il raggio che va verso M1 percorre sia all'andata che al ritorno una 1 Come si può vedere in ogni testo di analisi, la serie binomiale si sviluppa così:
(~)x+ (~) x2 + ...
(1 +x)«= 1 +
Come caso particolare per x o rispettivamente ( l -
C(= -
~)- 1 = ç2
l
=
-112 ~
e
C(
=
1 = 1+ ~ (1 - ~)ç2 ç2
b) ( l -
1
~ si avrà: 2.
+ ~ ç2 +
a)
-
-
112 )-112 = ç2
l
1 112 +2. ç2
o
Ne segue che, applicando alla 1) la serie a) si ha: 2./c 2./c l 12 = ç2- v2 = ---ç2 . · - - T = l-
~ ç4
+ ...
=
v2 )-1/2 l v2 l 3 v4 ( l---ç2 =1+--;-ç2+z·4~-+··· Fermandoci ai soli due primi termini, dato che i successivi risultano trascurabili, possiamo scrivere:
-~ ç
(l - ~)ç2
1 = .!...!.____ ç
v2) 1 =2.1 ( + ç3 ç che è appunto la 2.).
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C'2
(l + ~) ç2 =
Einstein
distanza et' che è l'ipotenusa di un triangolo rettangolo avente per cateti l e vt'. Si ha dunque
+ (vt')2
= 12
3) (ct')2
da cui si ricava l
4) t'=
-
V
c 2 - v2
Di qui, applicando la serie binomiale e ritorno è doppio di t', si ottiene
5) !t = zt' = z -
l c
+ 1cv2-3 =
e tenendo conto che il tempo di andata
1
zl
(
-
I
c
I + -zc3 -v2 )
Le due onde interferiscono con una differenza di fase uguale a t 2 nendo conto della z) e della 5) vale
6) t2 - !t
l =
v2
!t che, te-
sec.
--
es
Questa differenza, espressa in lunghezze d'onda, dà
c(t2 7)
-
ft)
lv2 c2À
=
À
ove À rappresenta la lunghezza d'onda della luce; la struttura delle frange d'interferenza dovrebbe subire un adeguato spostamento, a causa del moto, per
v21
--frange. c2 À Poiché l'intero apparato vien fatto ripetutamente ruotare di 90° durante l'esperi-
1
Poiché si ha: l
_!_
t'=-===y c 2 - v2
c
l
l c
V I-__~~:_
(x- ~)-1/2 = _!_c (x+ _2_ ~) =
_!_ c
(l - ~)-1/2
2
l
lv2
=-; +ua-·
c2
=
c2
Ora h = 21' e quindi
2l
lv 2
h=-c-+~
ç2
applicando la serie b) della nota di pag. 451, si ha
che è appunto la 5)-
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ç2
. Sistema di frange visto attraverso il telescopio C della fig. I di pag. 450. quando gli specchi M 1 e M 2 non formano degli angoli retti.
mento e i due :raggi di luce scambiano illo:ro ruolo per questa rotazione, la struttura delle frange avrebbe dovuto mostrare un effetto addirittura doppio di quello sopra previsto . .,Questo esperimento in realtà non diede nessun effetto di interferenza; si poteva però supporre che in quel momento la terra non avesse nessuna componente di velocità parallela alla sua superficie e così si ripetè l'esperimento sei mesi dopo, quando la velocità orbitale della terra attorno al sole si era rovesciata e quando la sua velocità attraverso l'etere avrebbe dovuto essere due volte quella orbitale. Neppure in questo caso si ebbero però dep,li ~ffetti. A questo punto si deve tener presente che, se l'esperimento non rivela frange d'interferenza, ciò significa che la velocità dei raggi luminosi è la stessa in tutte le direzioni di un sistema sia in moto sia fermo e quindi pe:r essi non vale il principio di sommazione delle velocità.l Non valendo questo principio~ allora non è possibile :rilevare con i fenomeni luminosi un sistema privilegiato e cade l'ipotesi dell'etere, che dovrebbe appunto costituire questo sistema privilegiato. In realtà l'etere era nato come ipotesi particolare per la spiegazione dei fenomeni luminosi e precisamente al fine di offrire anche per questi fenomeni una spiegazione meccanicistica. Ora, proprio il fatto che esso non rispondeva ad una delle regole fondamentali· della meccanica classica, ne infirmava l'uso. Fu possibile tuttavia ideare una spiegazione del risultato negativo dell'esperimento; essa venne avanzata indipendentemente da George Francis Fitzgerald e da Lorentz, nel I 895. La spiegazione consisteva nel supporre che il moto attraverso l'etere contragga in qualche modo i componenti materiali dell'interferometro nella r La legge della costanza della velocità della luce verrà anche verificata sperimentalmente con un alto grado di accuratezza mediante l'osserva-
zione spettroscopica delle stelle doppie. Tale verifica sarà eseguita nel 1913 dall'astronomo olandese Willem de Sitter.
453
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Einstein
direzione parallela al moto. Basta infatti supporre che tale contrazione sia misurata dal fattore f
=
Y
v2
I -
-
=
c2
fc2 -v2
e se ne ricava subito
c
1
che l'inter-
ferenza fra i due raggi dell'interferometro si annulla. Questo tipo di spiegazione aveva però il difetto di essere un'ipotesi ad hoc, altrettanto arbitraria di ciò che voleva sostituire poiché, per principio, nessuna operazione di misura avrebbe potuto dimostrare questo accorciamento, in quanto ogni regolo applicato al corpo di cui si voleva misurare la contrazione si sarebbe, per ipotesi, esso pure contratto. IV· LE MEMORIE DEL
190~
ED IL LORO SIGNIFICATO
Il passaggio veramente importante fu invece quello compiuto da Einstein con l'abbandono sia dell'ipotesi dell'etere, sia della contrazione di Lorentz, che fu usata solo nell'ambito di una nuova fondazione della fisica su principi dello spazio e del tempo rinnovati, e perse così il suo carattere di ipotesi ad hoc. L'abbandono del concetto di etere come modello per la spiegazione dei fenomeni luminosi è una riaffermazione del principio di regolarità del comportamento meccanico dei corpi contenuta nel principio galileiano, cioè una riaffermazione della meccanica rigorosa contro il meccanicismo astratto della teoria dell'etere. A questo principio è però strettamente connesso l'altro, che la velocità della luce è indipendente dal moto della sua fonte. Questi due principi che Einstein pose insieme a poche altre considerazioni sullo spazio e sul tempo agli inizi della sua prima memoria del 190~, Sulla elettrodinamica dei corpi in moto, dipendono l'uno dall'altro nel modo seguente: se si vuole che i fenomeni elettromagnetici possano esser studiati con la meccanica classica, dev'essere vero il postulato di relatività galileiano; viceversa se il postulato è vero, la velocità della luce dev'esser indipendente dal ·moto della sua fonte. I
Dalla
I)
12
cioè divenga:
di pag. 45 I si ricava: 2/c 2/c
=
c2- v2
yc2- v2
l·-'----
=T
ove si è posto k = c2 - v2. Dalla 4) di pag. 452 si ricava: l l'=----
In tal caso si avrà: yc2- v2
l
21---- c c 12 = -----:k;---
yk
yc2- v2
z!yk =
e perciò: 2.
l
_z_l_.
k
Ossia risulterà:
h=--·
yk
Ora supponiamo con Lorentz che la lunghezza l dell'interferometro nella direzione M (direzione del moto) si contragga secondo un fattore costante
f=
e quindi: 12- tl =o.
In altri termini: le due onde non producono più alcuna interferenza, proprio come è dimostrato dali' esperimento.
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Einstein
La memoria è distinta in due sezioni: cinematica ed elettrodinamica. La sezione cinematica a sua volta consta di due parti ben divise fra loro: nella prima si può far rientrare la definizione di contemporaneità, nella seconda lo sviluppo formale di una teoria della trasformazione delle coordinate. Vediamo in forma semplificata queste due prime parti, una dopo l'altra. Per poter dire che due eventi, riferiti a diversi sistemi di coordinate, sono simultanei, dobbiamo, in primo luogo, aver costruito una scala del tempo in ognuno dei due sistemi, e in secondo luogo, essere in grado di paragonare queste due scale temporali. Senonché mentre la prima operazione è assai agevole, non così lo è la seconda. Ecco le parole di Einstein in proposito: « Se in un punto A dello spazio si trova un orologio, un osservatore in A può valutare temporalmente gli avvenimenti dell'immediato dintorno di A per mezzo di una ricerca delle posizioni delle sfere dell'orologio contemporanee a quegli avvenimenti. Se si trova nel punto B dello spazio un orologio di proprietà esattamente uguali a quelle dell'orologio nel punto A, è pure possibile una valutazione temporale degli avvenimenti nei dintorni immediati di B per mezzo di un osservatore che si trovi in B. Ma non è possibile senza ulteriori convenzioni paragonare temporalmente un avvenimento in A con un avvenimento in B. Quest'ultimo tempo può solo venir definito se si stabilisce per definizione che il tempo che la luce impiega per giungere da A in B è uguale al tempo che impiega per giungere da B in A. » Infatti, se si volesse superare la difficoltà del coordinamento dei due orologi nei due posti diversi semplicemente sincronizzandoli prima e poi muovendoli nelle posizioni dove avvengono gli eventi, si dovrebbe supporre che il moto degli orologi non abbia influenza sulla loro capacità di mantenere lo stesso ritmo. Per evitare questa presupposizione del tutto gratuita il procedimento più logico è invece c1uello di sincronizzare gli orologi per mezzo di segnali. Ma ogni segnale conosciuto richiede per venire trasmesso un tempo finito.
fig.
ì
r-4-va_ _ _--+o-·- - - - - - - ,
~
:
8
i
2 A
o
:
Consideriamo la fig. 2 che rappresenta due sistemi, uno fisso e l'altro in moto rispetto al primo, in ciascuno dei quali è posto un osservatore. Se dai punti A eB partono due segnali luminosi, questi vengono giudicati come eventi contemporanei dall'osservatore O, e come eventi successivi (nell'ordine, prima A e poi B) dall'osservatore posto in 0', che si muove verso A (in quanto egli ha com455
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'Einstein
piuto un certo tragitto verso A nel tempo finito, richiesto dai segnali considerati per raggiungere la posizione in cui si trova). Si potrebbe benissimo disegnare la figura in modo che i segnali siano simultanei per O' e non simultanei per O. Vi è dunque una relatività nella definizione di simultaneità, dovuta alla velocità finita con cui qualunque segnale sf trasmette, relatività che si riflette anche nella relatività delle lunghezze. Infatti misurare la lunghezza di un oggetto significa considerare simultaneamente i suoi due punti estremi e, poiché la simultaneità è una misura relativa all'osservatore, anche la lunghezza lo è. Non vogliamo qui anticipare le valutazioni filosofiche sulla grande importanza metodologica della teoria della relatività speciale, per le quali rimandiamo il lettore al paragrafo vu di questo capitolo. Aggiungiamo solo che la seconda sezione della prima memoria introduce già un concetto che Einstein svilupperà a fondo e generalizzerà nella relatività generale: vi sono delle leggi fisiche (oltre beninteso a quelle della meccanica), quali ad esempio le leggi di Maxwell sull'elettromagnetismo, che sono invarianti relativisticamente, ossia hanno la stessa forma in tutti i sistemi in moto relativo uniforme. Dopo aver visto in breve il contenuto della memoria, consideriamo ora in modo formale le sue conseguenze. La misura di una lunghezza presa entro due sistemi di riferimento S ed S' è relativa all'osservatore. Se il lettore ritorna al punto 1 del paragrafo 111, vedrà che le trasformazioni galileiane avvengono secondo le equazioni: \x;= x -vt 'Y =y
t z'
=
z.
Nella teoria della relatività ristretta si può supporre che, restando invariate le relazioni fray edy', z e z', se un certo evento E è individuato secondo un osservatore O in S dalle coordinate x e t (il tempo viene assunto come una coordinata, seppure di genere diverso dalle altre tre), lo stesso evento E, secondo l'osservatore O' in S'in moto relativo uniforme rispetto ad S, sarà individuato da x' e t'. Viene assunta una relazione fra i due sistemi che si esprime così:
I) ~ x' = rJ.X + ~t (t'= EX+ yt dove oc., ~' e, y sono costanti il cui valore resta da determinare. Ora all'origine degli assi coordinati di S' abb~amo sempre x' = o e x = vt, poiché i due sistemi sono in moto l'uno rispetto all'altro. Sostituendo questi valori nella prima delle I) si avrà:
2) o= oc.vt +~t= t(oc.v donde
+ ~) ~
= -oc.v.
Supponiamo ora che un segnale luminoso che parte dalle origini coincidenti nel
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Einstein
tempo t= t'= O viaggi verso il senso positivo dell'asse x in S. Dopo un tempo t esso sarà in x = et, dove c è la velocità della luce, ed anche in x' = et', perché la velocità della luce c è uguale in tutti i sistemi di riferimento. Sostituendo questi valori in I) ed eliminando t e t' tra le due equazioni così ricavate, otteniamo: o = a.c
= - a.c
(o
+~ -
+~ -
ec2 - yc
+ yc se il segnale va verso il senso negativo della x).
ec2
Di qui sottraendo e sommando termine a termine stabiliamo:
3) a. = y;
~
=
Ec2.
Infine, se il segnale segue l'asse y', esso viaggerà obliquamente rispetto ad S perché, mentre il segnale percorre una distanza et, l'assey' avanza di una distanza x= vt. Allora: donde
.Y = (c2 - v2)1/2 t=
(yc2 ~ v2) t.
Ma si ha anche: y' = et' =
C ( EV
+ y) t.
Ponendo y' = y otteniamo: 4) c (Ev
+ y) = (c2- v2) 112
Avevamo visto prima in 3) che: ~
-a.v
c2
c2
-yv c2
E=-=·---=----- •
Sostituendo nella 4) ad
-yv2 c ( -,-2-
+ y') = (c2 -
E
il suo valore - yv- si ottiene con calcoli elementari: 1 c2
v2)1/2 112 )1/2 ' (I - -
darà:
y=(
ç2
"2) c2
I--
donde:
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y=
112 )-112 (I--
c2
Einstein
Tutte le costanti che compaiono nella I) risultano così determinate, e le x', y', z', t'possono essere scritte in termini di x,y, z, t facendoci ottenere le cosiddette trasformazioni di Lorentz:
x'= y(x -vt) y' =y
z' = z '
t' = y (t - vx ). .c2
Risolvendo le equazioni I) per x, verse:
y, z, t otteniamo le trasformazioni in-
x= y(x' +vt') y=y'
z = z'
vx')
(
t= y t'+~
Le formule di Lorentz consentono anche la trasformazione della velocità da un sistema di riferimento ad un altro. In due casi particolarmente importanti esse portano subito a risultati di speciale interesse. Un corpo abbia lunghezza Lo quando sia in quiete rispetto ad S' sull'asse x' di questo, e sia invece in moto rispetto ad S. Definiamo per lunghezza L di tale corpo in S la distanza fra i due punti, fissi rispetto ad S, occupati dagli estremi del corpo simultaneamente e cioè nel medesimo tempo t. Se le coordinate di tali punti ·sono x1 e x2, la lunghezza è L = x2 - x1. La stessa definizione di distanza vale anche per S', in cui la lunghezza sarà: L 0 = x' 2 - x' 1 • Se sostituiamo a quest'ultima equazione i valori di x'2 e x'1 calcolati con la formula di Lorentz ed espressi dunque nel sistema S, si ottiene: L 0 = y (x2 - x1)
I
= yL
L=--L
o
y
dove Lo è la lunghezza in S'ed L è la lunghezza in S. Ciò mostra che ogni corpo risulta più corto nella misurazione effettuata in un sistema rispetto al quale si muove con velocità v, di quanto lo sia nella misurazione effettuata in un sistema rispetto al quale è fermo, e mostra pure che la contrazione è misurabile in ragione di
V~~--
l
v2
,
cioè proprio del fattore di con-
c2
trazione di Fitzgerald-Lorentz cui si è fatto cenno alla fine del paragrafo m. Vi sono effetti simili anche nel tempo: la differenza temporale fra due
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Einstein
istanti, nel sistema S (rispetto al quale l'orologio è in moto) è t2 - t1 e quella in S'è t' 2 - t'1. La relazione che connette le due misure è allora t2 - t1 = y (t'2 - t'1). Il fatto che l'orologio sia in moto rispetto ad S allunga l'intervallo temporale di un fattore y. Colle parole di Einstein si può dire che« come conseguenza del proprio moto l'orologio cammina più lentamente che non quando è in quiete». Anche qui la velocità c riveste il ruolo di velocità limite irraggiungibile. I risultati di questo fenomeno di dilatazione temporale sono visibili nel comportamento di alcune particelle subatomiche. Ma al di là del valore sperimentale di questi fatti si può scorgere un valore di metodo assai grande. Infatti, ancora nella prima sezione della prima memoria, Einstein ha mostrato come, a partire dalle definizioni di contrazione dello spazio e di dilatazione del tempo, sia costruibile ex novo una cinematica relativistica. Ecco allora apparire le definizioni di addizione di velocità relativistica, la spiegazione dell'effetto Doppler e, soprattutto, la definizione relativistica del momento e della dinamica delle singole particelle; ecco cioè, come si è detto, nascere tutta una nuova meccanica. Consideriamo ora brevemente la seconda memoria del 1905, 1st die Triigheit eines Korpes von seinem Energie in ha/t abhiingig? (L'inerzia di un corpo è dipendente dal suo contenuto di energia?), che contiene elementi ben diversi dalla prima, benché sia fondata su di essa logicamente. Pur essendo svolta in sole due pagine, essa estende i risultati della prima memoria, ed è fondata sul principio che « le leggi secondo le quali si cambiano gli stati dei sistemi fisici sono indipendenti dal fatto che questi cambiamenti di stato vengano riferiti all'uno o all'altro di due sistemi di coordinate che si trovino in reciproca traslazione uniforme ». Esaminando su questa base il rapporto fra l'energia cinetica di un corpo e l'emissione di luce da esso, Einstein enuncia il principio secondo il quale «se un corpo emette l'energia L [dove L non ha più ovviamente il significato di una lunghezza che aveva L nella pagina precedente] in forma di radiazione, diminuisce la sua massa di - - . c2 Qui è evidentemente inessenziale che l'energia sottratta al corpo sia proprio andata in energia di radiazione, così che siamo condotti alla deduzione più generale: la massa di un corpo è una misura per il suo contenuto di energia; se l'energia varia di L, la massa varia nello stesso senso di Lf9· 102°, quando siano misurate l'energia in erg e la massa in grammi. Non è escluso che con corpi dei quali il contenuto di energia è variabile in alta misura, per esempio con sali di radio, una prova della teoria possa riuscire ». Questo principio, che di solito viene scritto nella forma e = mc2 dove c è la velocità della luce, è la famosa legge di Einstein sulla equivalenza tra massa ed energia che sta alla base del funzionamento della bomba atomica e di tutte le trasformazioni delle particelle elementari. Esso è stato scoperto con semplici riflessioni sulla trasformazione relativistica dell'energia ed è quindi strettamente collegato ai risultati della prima memoria.
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Einstein
Esamineremo nel paragrafo vn il significato filosofico di questo princ1p10, mentre nel prossimo paragrafo esporremo schematicamente la teoria della relatività generale. V · LA TEORIA DELLA RELATIVITÀ GENERALE
Dopo che Einstein ebbe pubblicato nel 1916 l'altra fondamentale memoria sulla relatività, che estendeva la teoria dalla considerazione dai soli moti relativi uniformi ai moti relativi accelerati, si vide che i legami tra questa teoria generale e la relatività speciale erano molteplici e non univoci. Come già si è detto, non daremo un'esposizione matematica di questa teoria ma ci limiteremo a ricordare le tre grandi idee che Einstein ha applicato nella relatività generale prendendole dalla tradizione fisico-matematica della fine dell'Ottocento. Queste idee sono: il campo, lo spazio-tempo e la curvatura dello spazio-tempo. Dopo aver esposto nel punto a) queste tre idee, delineeremo brevemente i propositi e infine le conferme sperimentali della relatività generale. a) Per quel che riguarda l'idea di campo ricordiamo che, mentre nella meccanica classica è necessario conoscere la posizione e la velocità di una particella in un dato istante e le forze agenti su di essa per determinarne il percorso futuro, secondo la teoria dei campi di Maxwell basta invece conoscere il campo in un dato istante per dedurre il modo in cui esso si comporterà nel futuro. Le equazioni di Maxwell n~n connettono due eventi separati da grandissime distanze, come succede nella fisica newtoniana, ma permettono di conoscere le grandezze elettromagnetiche principali partendo dalle proprietà locali del campo elettromagnetico. Eppure la teoria di Maxwell non può essere già considerata moderna; se è vero infatti che costituì la base per i successivi lavori di Einstein è vero anche che Einstein poté arrivare ai suoi risultati innovatori solo negando alcuni punti fondamentali della teoria maxwelliana quali lo spazio ed il tempo assoluti. Inoltre Maxwell aveva sostanzialmente ritenuto le sue idee sul campo come ipotesi euriristiche utili ad evitare teorie premature; Einstein- capisce invece, fin dal r 90 5, che le equazioni maxwelliane non rappresentano un modello astratto della realtà fisica, ma delle invarianti di struttura speciale che richiedono il sacrificio di alcuni postulati della meccanica newtoniana. E mentre Maxwell non era del tutto consapevole della necessità di superare lo stadio dei modelli in una compiuta teoria matematica, Einstein pensa che il concetto di campo sia una via per arrivare a rinnovare le categorie della fisica, poiché esso esprime una realtà fisico-geometrica indipendente dal moto dell'osservatore. Einstein ha poi indicato in Hertz ed in Lorentz due altri precursori del concetto di campo; infatti noi siamo, a suo parere, debitori a Hertz della liberazione definitiva dell'idea di campo da ogni accessorio derivante dai concetti del meccanicismo, ed a Lorentz di avere sciolto quell'idea da ogni supporto materiale.
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La teoria dello spazio-tempo era stata elaborata dal matematico russo Hermann Minkowsky, che fu maestro di Einstein a Zurigo. In linea di massima essa si fonda sull'idea che sia possibile assegnare ad ogni evento, oltre alle tre coordinate spaziali, anche una coordinata temporale. In questa teoria matematica lo spazio ed il tempo cessano di esistere come entità indipendenti l'una dall'altra, quali erano nella meccanica classica. Non solo: le misure di spazio e di tempo non sono che componenti della misura dello spazio-tempo, entità entro la quale si trova ogni osservatore che compia delle operazioni fisiche. Einstein ha poi introdotto nello spazio-tempo di Minkowsky, che era pseudoeuclideo, la nozione di curvatura tratta da Riemann, postulando che la presenza di grandi masse di materia in una regione spaziale determini la curvatura di tale regione; ciò che ne risulta non è più lo spazio newtoniano fornito di una propria esistenza astratta, ma uno spazio interagente con la materia. In questo senso Einstein poteva affermare: « Cartesio non era dunque così lontano dal vero quando credeva di dover escludere l'esistenza di uno spazio vuoto. Tale nozione appare invero assurda finché la realtà fisica viene vista esclusivamente nei corpi ponderabili. Solo l'idea di campo come rappresentante la realtà, in combinazione con il principio generale di relatività, riesce a rivelare il vero senso dell'idea di Cartesio: non esiste spazio vuoto di campo. » L 'importanza di questa concezione della materia sta nel fatto che per un lato essa costituisce un superamento della concezione newtoniana che vede materia e spazio separati, e per l'altro è il tentativo di parlare geometricamente della materia per mezzo del concetto di campo. b) Vediamo ora quali erano i propositi della teoria della relatività generale. Abbiamo visto che la relatività speciale richiede una modificazione delle leggi della meccanica classica. Nella nuova meccanica le leggi classiche dell'elettromagnetismo restano invariate. Che dire dell'altro importantissimo gruppo di leggi classiche, quelle gravitazionali? Un grave dubbio relativo alla teoria newtoniana della gravitazione concerne il modo in cui le forze gravitazionali agiscono sui corpi. Secondo la teoria classica esse sono forze che agiscono a distanza, e questa azione si propaga con velocità infinita: ciò le rende incompatibili con la teoria della relatività. Oltre a questo, nella teoria newtoniana viene presupposta l'eguaglianza fra la massa inerziale e la massa gravitazionale di un corpo, senza che sia spiegato il perché fisico di questa eguaglianza. Una spiegazione di questa identità supposta dalla teoria newtoniana si ha chiaramente quando si impiega il concetto di campo. Per la definizione di intensità del campo, quando parliamo dell'attrazione di un corpo o di un sistema di particelle in un punto ad esso esterno, intendiamo la for~a di attrazione che il corpo o il sistema eserciterebbe su una particella di massa unitaria posta in quel punto. Deve esistere un valore ben definito di questa forza in ogni punto ave si può porre la particella. Si arriva così alla concezione di un campo di forze come regione di spazio nella quale ad ogni punto è associata una forza definita in grandezza e direzione.
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Ora, diversamente dai campi elettrici e magnetici, il campo gravitazionale non dipende né dal materiale né dallo stato fisico del corpo in questione. Con le parole di Einstein: « Secondo la legge newtoniana del moto, abbiamo (forza) = (massa inerziale) x (accelerazione) dove la " massa inerziale " è una costante caratteristica del corpo accelerato. Inoltre, se la gravitazione è la causa dell'accelerazione gravitazionale, avremo come definizione: (forza) = (massa gravitazionale) x (intensità del campo gravitazionale) dove la " massa gravitazionale '' è egualmente una costante caratteristica del corpo. Da queste relazioni segue che . (massa gravitazionale) x (intensità del campo gravitazionale). » (accelerazwne) = (massa inerziale) Poiché in qualsiasi punto di un campo gravitazionale l'accelerazione deve essere indipendente dalla natura e dallo stato del corpo che si trova in quel punto, ne segue che il rapporto fra massa gravitazionale ed inerziale dev'essere lo stesso per tutti i corpi e con un'opportuna scelta di unità di misura può essere reso uguale all'unità. Ossia le due masse risultano uguali. Secondo Einstein però non si tratta solo di registrare l'esistenza di questa eguaglianza, ma di spiegar la; ciò può esser fatto solo assumendo come principio quanto dev'essere dimostrato e fondando ex novo su quel principio la teoria della gravitazione, proprio come aveva proposto Mach, il quale aveva intravisto il problema. Questo programma inoltre va congiunto con un altro, che è l'estensione dei risultati della teoria della relatività speciale a tutti i sistemi di riferimento in moto reciproco qualunque (dunque non più solo in moto reciproco uniforme). Per far questo, Einstein elenca nell'Introduzione dei Fondamenti della relatività generale, del r9r6, tre gruppi di idee: l'uso della teoria spazio-temporale con cui Minkowsky aveva dato una forma particolarmente interessante alla relatività speciale; il calcolo tensoriale creato da Gauss, Riemann e Christoffel « eretto a sistema da Ricci e Levi-Civita e da essi applicato ai problemi della fisica teorica»; ed infine il principio di equivalenza fra masse inerziali e gravitazionali, di cui si è parlato poco sopra. c) Non possiamo dare qui, per ovvii motivi, un'esposizione matematica della relatività generale, che il lettore può trovare in forma rigorosa in ogni testo apposito. Esporremo invece le linee generalissime ed essenziali della teoria, precisando alcune sue giustificazioni di ordine fisico e alcune conferme sperimentali. Iniziamo con la descrizione di un famoso esperimento mentale ideato da Einstein per giustificare il principio di equivalenza fra sistemi gravitazionali e sistemi accelerati rispetto a quelli inerziali, principio che sta alla base della teoria della relatività generale: si considerino i due sistemi di riferimento S nel quale
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c'è un campo gravitazionale uniforme, ed S' uniformemente accelerato rispetto al primo, ma privo di campo gravitazionale. Per la relatività generale i due sistemi sono equivalenti, e ciò vuoi dire che gli esperimenti realizzati in condizioni per il resto identiche nei due sistemi danno gli stessi risultati. Supponiamo che esista un laboratorio chiuso e tirato nello spazio vuoto da una corda, secondo la fig. 3 e che in esso penetri un raggio luminoso l attraverso un foro della parete B.
fig. 3
Ei
----- ..........
M
o
Nel tempo in cui il raggio di luce l attraversa il laboratorio per la lunghezza k, il laboratorio si muove nella direzione D; per l'osservatore O fissato in qualche modo al pavimento del laboratorio, il raggio che colpisce la parete del laboratorio opposta a B è attratto verso M da una forza gravitazionale. Invece per un osservatore esterno O', il :raggio di luce ha proseguito in linea retta ed ha colpito la parete in M solo perché nel frattempo l'intero laboratorio si è spostato nella direzione D. Non esistono quindi pe:r O' delle forze gravitazionali, ma solo degli effetti dovuti all'accelerazione del laboratorio nei confronti del sistema S'. L'idea che esistano delle forze gravitazionali è dovuta allora alla scelta di un particolare sistema di riferimento. Le due descrizioni corrispondono a punti di vista particolari che dipendono dall'osservatore. Einstein vuole a questo punto trovare una forma che contenga ambedue le descrizioni come casi particolari. Pe:r determinare la forma generale assunta dall'equazione del moto, Einstein fa ricorso al calcolo tensoriale che, opportunamente usato, assicura a priori l'invarianza per ogni sistema di riferimento. Einsteia trovò parecchie formulazioni delle complesse equazioni che descrivono l'identità fra inerzia e gravitazione, nessuna delle quali lo soddisfece pienamente, e ne scelse una come ipotesi di lavoro, formulando alcuni esperi· menti che avrebbero dovuto confermarla. Il risultato ottenuto da Einstein è quello di mostrare come le cosiddette forze gravitazionali siano in realtà solo il modo in cui appare ad un osservatore la curvatura dello spazio-tempo. In un primo momento egli si limita a costruire la teoria dei campi gravitazionali in assenza di materia; in un secondo momento, trattando dei fenomeni materiali, suppone che questi siano il :risultato della curvatura dello spazio-tempo. Ma vale anche l'idea opposta, ossia che lo spazio-tempo si incurvi in presenza di grandi masse di materia.
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La nuova legge di gravitazione prevedeva fin dal I9I6 alcuni fenomeni osservabili e cioè: I) I raggi luminosi che passano vicino ad un corpo di massa assai grande debbono venire deviati in prossimità di esso. In effetti, nel I 92 I una spedizione scien::ifica in Sudafrica riuscì, durante un'eclissi di sole, a provare che un raggio passante vicino alla superficie del sole subisce una deflessione inversamente proporzionale alla distanza fra il punto più vicino del raggio e il centro del sole, deflessione che è pari a ~
*
stelle
posizione apparente
posizione vera
l
l
l
l l l l l
l l
l l
l
l
:e l
fig. 4
l
l-
l l l
l
osservatore
-
passa vicino al sole provenendo da una stella è deflessa verso il sole e fa apparire la stella scostata dal sole di un angolo ~
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3) Il moto dei pianeti dovrebbe essere lievemente rallentato in presenza di forti campi gravitazionali. Ciò dovrebbe spiegare un fenomeno che gli astronomi hanno osservato nel caso dell'orbita di Mercurio. L'orbita ellittica di questo pianeta ruota lentamente attorno al suo piano ed il suo perielio, o punto più vicino al sole, anticipa di 43" sec.farco ogni secolo rispetto ai valori stabiliti dal calcolo della astronomia newtoniana. Le osservazioni sperimentali confermano con una forte approssimazione le conseguenze testé accennate della teoria della relatività generale. In sostanza siamo davanti ad una pluralità di conferme che fanno ritenere valida la teoria della relatività generale per quel che riguarda le osservabili. Le idee di Einstein ebbero un ulteriore svolgimento in due campi importanti: quello della teoria del campo unificato che venne esposta in numerosi articoli tra i quali ricordiamo A generalisation of the relativistic theory of gravitation (Una generalizzazione della teoria relativistica della gravitazione, I 94 5) e quello della cosmologia. Per quest'ultimo argomento rimandiamo il lettore al capitolo ad esso dedicato nel volume ottavo. Per quanto riguarda invece la teoria del campo unificato, ci limitiamo a indicare qui i termini principali del problema. Einstein voleva trovare un'interpretazione geometrica di tutti i campi di forze elettriche, nucleari, magnetiche, gravitazionali noti ai fi~ici e voleva mostrare come geometria e fisica fossero solo due linguaggi diversi con i quali descrivere la stessa realtà. Negli anni successivi alla pubblicazione della memoria ora citata pochi scienziati affrontarono questi problemi, mentre dal I 9 55 in poi si tennero numerosi congressi dedicati alla relatività generale ed alla gravitazione. Hermann Bondi, F.A.E. Pirani, I. Robinson si interessarono al problema di trovare una formulazione matematica agibile delle onde gravitazionali. Nel I969 John Weber, dopo anni di delicatissimi esperimenti, è riuscito a provare sperimentalmente l'esistenza delle onde gravitazionali previste dalla teoria di Einstein. Da parte dei fisici più legati ai metodi della meccanica quantistica si è tentato di costruire una teoria quantistica del campo gravitazionale. È caratteristico dei campi quantizzati che l'energia ed il momento del campo appaiano in quantità discrete: la ·gravitazione stessa potrebbe essere espressa così in forma quantistica. Si sono tuttavia presentate delle difficoltà, sulle quali non è qui il caso di entrare in particolari. È difficile dire quali saranno gli sviluppi sperimentali capaci di permettere una scelta fra le due teorie, la quantistica e la relativistica, sui campi unificati. Se ambedue i tentativi si rivelassero non conclusivi, è probabile che la fisica andrebbe incontro ad una fruttuosa crisi e ad un riesame di alcuni presupposti. Resta da dire ancora che i recenti successi dell'astronautica consentiranno, insieme allo studio di corpi celesti, quali i quasars ed i pulsars, nuovissime possibilità di controllare sperimentalmente tanto la relatività generale quanto le teorie del campo unificato.
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VI ·LA PATERNITÀ DELLA TEORIA DELLA RELATIVITÀ RISTRETTA
Secondo uno storico della scienza moderna, Edmund Whittaker, la scoperta della relatività speciale va attribuita più a Lorentz ed a Poincaré che ad Einstein, benché questi abbia espresso la teoria in modo conciso e l'abbia presentata chiaramente nei suoi risultati sperimentali. Anche Percy W. Bridgman ha sottolineato l'apporto di Lorentz alla nascita della teoria della relatività speciale, poiché questi aveva mostrato che la nozione di quiete assoluta nello spazio, ossia l'esistenza di un sistema di riferimento privilegiato, era priva di fondamento. La tesi di Whittaker è storicamente e criticamente esatta? È vero che Poincaré e Lorentz hanno scoperto i risultati fondamentali della teoria speciale prima di Einstein? Dobbiamo chiederci, prima di tutto, se Einstein conosceva i lavori di Poincaré, Science et hypothèse (Scienza e ipotesi, 19oz), e di Lorentz, Versuch einer Theorie der elektrischen und optischen Erscheinungen in bewegten Kiirpers (Saggio di una teoria dei fenomeni elettrici e magnetici nei corpi in movimento, r 89 5) dove, secondo Whittaker, è prefigurata la relatività speciale. Oltre a ciò dobbiamo chiederci se egli ha davvero espresso gli stessi punti di vista dei due scienziati che lo avrebbero preceduto. È vero che fin dal 19oz Poincaré aveva messo in evidenza l'impossibilità di far risultare un movimento relativamente all'etere. In Scienza e ipotesi aveva asserito la relatività dei moti di due sistemi che siano in moto relativo uniforme l'uno rispetto all'altro, negando la contemporaneità di due eventi che avvengono in luoghi diversi. Egli però restava sempre nel campo delle ipotesi, supponendo che una nuova meccanica potesse nascere solo in seguito ad esperienze certe. Pare che Einstein abbia effettivamente letto. Scienza e ipotesi prima di pubblicare la sua Memoria del 1905 e che da quel libro abbia tratto il nome « relatività » per indicare la sua teoria. Lorentz aveva proposto le sue equazioni per spiegare l'esito dell'esperimento di Michelson-Morley, ed era riuscito a prevedere in base ad esse che l'aumento della velocità di un elettrone provoca un aumento di massa di questo. Einstein conosceva la memoria di Lorentz ed estese il risultato da questi ottenuto a tutti i corpi, togliendo alle equazioni il carattere preminente di ipotesi di circostanza, per dar loro un significato operativo. Mentre Lorentz riconobbe che il significato fisico delle sue formule era stato chiarito da Einstein e Minkowsky, Whittaker vuole attribuire non ad Einstein ma a Lorentz la scoperta della relatività. D'altro lato, benché Einstein affermasse di non avere studiato a fondo i lavori di Poincaré e di aver conosciuto solo l'opera di Lorentz sulla teoria elettromagnetica, bisogna tuttavia tener presente che già nel 1904 Lorentz aveva trattato del principio di invarianza, traendolo da Poincaré. Tutti questi fatti rendono lecito sostenere che Einstein fu in un certo senso
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l'ordinatore di temi e suggerimenti già esistenti nella fisica del suo tempo, purché non si dimentichi che egli resta comunque il creatore di una nuova meccanica. In pochi momenti della storia della fisica è più evidente, che le grandi idee sono frutto di una certa atmosfera scientifica più che di intuizioni geniali ed isolate. Sj può dunque concludere che, senza le anticipazioni di Poincaré, la teoria della relatività avrebbe trovato maggiori difficoltà ad imporsi sul piano filosofico, senza l'opera di Lorentz sarebbe forse mancata la possibilità di dare forma matematica a dei fatti operativi. Nulla è però tolto alla genialità di Einstein dalla constatazione del fatto che la sua opera ha coronato un insieme di critiche alla meccanica classica, più che aprirle. VII ·CONSIDERAZIONI FILOSOFICHE SULLA TEORIA DELLA RELATIVITÀ SPECIALE
L'esame della teoria della relatività speciale da un punto di vista filosofico offre alcuni temi di grandissimo interesse, sui quali accentreremo ora le nostre discussioni. In primo luogo si considererà il valore filosofico dell'esame operativo dei termini spazio e tempo; poi si tratterà della costruzione sistematica della meccanica relativistica, ossia del terremoto provocato dalla relatività speciale nel campo della fisica; infine è necessario considerare il valore dell'equazione che collega la massa all'energia dei corpi, in tutta la sua profondità teorica e nella particolare dimensione storica che connette tale equazione colle leggi di conservazione elaborate nel secolo XIX. Su questi tre punti si concentra oggi l'attenzione degli studiosi nella prospettiva di non lasciar cadere quell'unione fra scienza fisica e consapevolezza metodologica, che poi è filosofia, prospettiva nella quale è sorta e si è sviluppata la teoria della relatività speciale. Bisogna ricordare che nella prima memoria del 1905 Einstein ha indicato esplicitamente di aver di mira degli interessi critici oltre che scientifici. Infatti egli si proponeva di chiarire le difficoltà dovute ad una « non sufficiente considerazione » della cinematica del corpo rigido. Il risultato di questo suo proposito è l'edificio estremamente ricco e complesso che abbiamo cercato sopra di delineare nei suoi momenti principali. È bene sgombrare subito il campo da un equivoco purtroppo diffuso, nato subito dopo la prima guerra mondiale in un clima di crisi e di irrazionalismo, secondo il quale la teoria della relatività non sarebbe che un aspetto del relativismo filosofico. Non solo la teoria della relatività non è relativismo, ma potrebbe ben a ragione venir chiamata teoria delle invarianti, ossia delle grandezze fisiche non relative ai sistemi di riferimento. Per una mentalità tradizionalista la relatività delle misure di spazio e di tempo sarebbe il segno di una relatività delle nostre conoscenze più fondamentali; tale
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mentalità non può dunque riconoscere il senso profondo della relatività speciale. Siccome per spiegare la contrazione dello spazio e la dilatazione del tempo non si ricorre nella relatività speciale a teorie che riguardano la struttura della materia, ma si esamina solo il senso delle operazioni di misura, l'anzidetta mentalità ne conclude che tutto l'edificio della conoscenza fisica risulterebbe scosso dai risultati einsteiniani. La concezione operativa di Einstein trova il suo significato filosofico più profondo nel contributo da essa dato a superare, senza dubbio alcuno, la concezione kantiana che faceva dello spazio e del tempo delle forme a priori dell'intuizione. Converrà dunque, come prima cosa, riprendere in rapido esame la teoria di Kant su questo argomento. È vero che Kant aveva in mente lo spazio ed il tempo della teoria newtoniana, la quale distingueva fra spazio e tempo assoluti e spazio e tempo relativi, ma è anche vero che egli ha trasformato profondamente le idee newtoniane. Questa trasformazione cambia in due maniere quello che era il loro significato nella fisica newtoniana: da un lato infatti Kant trasforma quei concetti da « sensoria dei » in sensoria della mente umana e allontana, cosi facendo, ogni presunzione di sostanzialità della loro natura. Dall'altro lato, pur mantenendo allo spazio ed al tempo alcuni caratteri che Newton aveva attribuito loro, rende immutabile la loro forma affermando che essi sono a priori. Nel caso dello spazio Kant ritiene che questa forma sia fissa, immutabile ed eguale a se stessa in ogni direzione e, ciò che più conta, euclidea. Nel caso del tempo egli afferma che questa forma è immutabile e sempre uguale per tutti gli uomini. Siamo ora in grado di chiarire i rapporti fra teoria kantiana e teoria einsteiniana. Kant ha senza dubbio portato il concetto di tempo e quello di spazio più vicini alla concezione operativa e legata agli strumenti di misura, sviluppata da Einstein nella teoria speciale della relatività. Infatti il primo requisito logicamente necessario al tipo di impostazione einsteiniana è l'abbandono dell'idea di naturalità e di esistenza fisica dello spazio e del tempo, idea che era stata prevalente per grande parte della filosofia occidentale. Ma se l'abbandono dell'idea di naturalità dello spazio e del tempo è un passo verso la riduzione di quei concetti ad operazioni ed a misure, l'idea kantiana che essi siano forme a priori della mente umana viene invece eliminata dalle riflessioni einsteiniane. Tuttavia non si può dire che Einstein cada nel convenzionalismo, dopo aver mostrato le insufficienze dell'apriorismo. Tra questi due estremi la verità scientifica è consapevolezza dell'operare, superamento dell'ovvio in favore di ciò che è spiegabile concettualmente. Un'ultima osservazione sull'analisi operativa nella relatività speciale si impone: in Kant l'a priori non era soggettivismo, ma ricerca di una garanzia logica del sapere scientifico. Egli voleva fondare, infatti, la fisica della sua epoca su una solida base razionale. Nel superamento del concetto· di a priori e nell'esame operativo dello spazio e del tempo, notiamo che Einstein, pur trasformando spazio e tempo da costanti in misure, non solo non ritorna in alcun modo ad idee prekan-
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tiane sull'esistenza extra-mentale di tali realtà, ma anzi va nella stessa direzione del programma di Kant, ossia cerca di dare nuove e sicure basi alla fisica. Vedremo poi, trattando della relatività generale, come questo programma operativo del giovane Einstein non abbia retto totalmente davanti a sollecitazioni di altro tipo, ma ciò nulla toglie al valore critico delle memorie del 1905. Passiamo ora alla seconda considerazione filosofica, ossia al terremoto provocato dalla relatività nel campo della fisica. Sopra l'intelaiatura operativa che riduce lo spazio ed il tempo a misure metriche e cronometriche compiute da osservatori in moto reliltivo uniforme si fonda un'ampia revisione dei concetti di massa, di quantità di moto e di conservazione delle forze, che non sono uguali nella nuova meccanica relativistica ed in quella newtoniana. Le misure di spazio e di tempo sono strutture così fondamentali della fisica che compaiono in quasi tutte le formule significanti: quando esse vengono mutate, viene mutato anche il modo di comportarsi di tutti gli altri termini fondamentali. La trasformazione einsteiniana è dunque tale che si :riflette come un:'onda in tutte le strutture della fisica. Einstein aveva ammesso che alle velocità più piccole la meccanica di Newton :restava sempre valida, mentre doveva venire corretta per le velocità più elevate. Orbene, la meccanica :relativistica è valida per queste ultime e lo è anche per quelle minori, in quanto viene a coincidere colla meccanica newtoniana quando la velocità tende a zero. Quindi, come è stato sottolineato da molti studiosi, vi è una continuità formale fra le sue leggi e quelle che si possono trarre dalla meccanica classica. Ciò è del massimo interesse da un punto di vista epistemologico come esempio di ciò che è :realmente una :rivoluzione scientifica. L'edificio della fisica non esce distrutto ma confermato nel suo complesso dalla rivoluzione :relativistica. È caratteristico della fisica che i sistemi antiquati non vengano mai :rifiutati in blocco se possono valere a spiegare certe osservabili, ma vengano, al contrario, considerati come casi-limite della nuova teoria. Quello che abbiamo chiamato il «terremoto della :relatività» è anche la fecondità delle operazioni einsteiniane di misura che, a differenza delle formule di Lo:rentz create per :risolvere una singola difficoltà, consentirono di ottenere risultati sperimentali impensabili nell'ambito della fisica tradizionale. Infine possiamo considerare filosoficamente importante in questa prima fase dell'opera di Einstein l'equivalenza fra massa ed energia stabilita nella sua seconda memoria del 1905. Per questo principio, come si è detto, quando una massa originaria viene disintegrata o più masse vengono agglomerate fra loro, la somma della massa dopo la disintegrazione o la agglomerazione è inferiore a quella precedente. Questa perdita di massa è però compensata da una maggiore energia secondo la nota :relazione: e = m c2. Ciò vuol anche dire che massa ed energia sono fra loro equivalenti e formano un'unica inva:riante, che si può chiamare massa-energia.
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w
l
Futuro Assoluto
Passato As.soluto
La regione spazio-tempo attorno ad un punto posto nell'origine O.
Il principio einsteiniano di equivalenza fra la massa e l'energia non è altro che l'ultima forma assunta dai principi di conservazione della massa, enunciato nel XVIII secolo da Lavoisier, e dell'energia, la cui formulazione risale invece alla metà del secolo scorso. Qui ci limitiamo ad accennare che nel principio relativistico si fondono due filoni storiéi di ricerche scientifiche e filosofiche: quello della conservazione della materia e quello di conservazione dell'energia. Nella formulazione relativistica dunque i principi di conservazione preesistenti dell'energia e della materia spariscono per rinascere in forma nuova nella relazione che collega energia e materia. Questo principio lascia aperta la via alla cosmologia dello stato-stazionario dell'universo, che deve prenderlo in considerazione, sia pure per trasformarlo in principio di « creazione » continua di materia. Oltre a ciò, il principio ha un valore assai grande sia in campo pratico, perché senza di esso non sarebbe stato possibile pensare la trasformazione nucleare, che offre una conferma diretta della sua validità; sia in campo teorico, perché esso ci ha dato, ancora una volta, una grande apertura categoriale mostrando che anche i termini « materia >> ed « energia » non sono altro se non aspetti di una realtà che l'uomo viene interpretando, mezzi intellettuali creati nel corso della storia della scienza per venir incontro a determinati problemi.
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VIII ·CONSIDERAZIONI FILOSOFICHE SULLA TEORIA DELLA RELATIVITÀ GENERALE
Diciamo subito che, dal punto di vista della moderna metodologia, appare nella relatività generale una filosofia diversa da quella prevalente nelle memorie del . 1905. Nella relatività speciale Einstein ha impostato come sappiamo il discorso fisico sopra un accurato esame dei concetti di spazio e di tempo, ed ha terminato col negare l'esistenza di uno spazio e di un tempo assoluti. Nella relatività generale, invece, il fine è quello di abolire iÌ concetto di gravitazione come forza e il concetto di spazio assoluto immobile rispetto ad ogni sistema di riferimento. Tuttavia, se è vero che nella- teoria della relatività speciale la forma prevalente di ragionamento è quella operativa, Einstein non ha mai teorizzato filosoficamente tale operazionismo, di cui si è unicamente servito come strumento di pensiero. Questo ci autorizza a dire che anche la relatività speciale non può considerarsi conclusa nel suo aspetto operazionistico, ma che essa prelude, per quanto riguarda le formule di Maxwell, alla ricerca di invarianti che caratterizzerà la relatività generale. Non c'è dunque contraddizione fra il primo ed il secondo Einstein. Semmai c'è contraddizione fra i notevoli risultati scientifici e filosofici dovuti alla fecondità dell'esame operativo e la relativa incertezza dei risultati ottenuti con grande dispendio di mezzi matematici nella teoria generale. Esaminiamo ora i punti filosoficamente più importanti della teoria della relatività generale che sono il problema della convenzionalità della geometria e quello del valore della critica einsteiniana allo spazio assoluto di Newton. a) Come si è detto, con i tre strumenti, del campo, dello spazio-tempo di Minkowsky e della curvatura, Einstein ha affrontato il problema del rapporto tra geometria e fisica. In breve, questo problema che oggi riguarda tanto la fisica quanto le scienze matematiche altro non è che una formulazione particolare del grande problema filosofico della natura del convenzionalismo. Se è possibile scegliere una qualunque geometria, euclidea o non euclidea, per parlare di un certo spazio e di un certo tempo in cui avvengono dei fenomeni fisici, se è possibile cioè usare una metrica qualsiasi, nasce il problema se sia necessario cercare nelle osservazioni una prova sperimentale della metrica per cui si è optato o se la scelta del linguaggio geometrico con cui parlare della realtà sia del tutto convenzionale. Questo problema è cosi importante tanto per la scienza quanto per la filosofia che su di esso si qualificano, scontrandosi, i maggiori epistemologi del nostro secolo. Si usa di solito associare il convenzionalismo alla figura ed all'opera di Henri Poincaré, basandosi sulla sua opera fondamentale Scienza ed ipotesi. Sappiamo però dal capitolo vn di questo volume che Poincaré non spingeva il convenzionalismo 471
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fino ad affermare che esso sia una scelta assolutamente libera del tipo di linguaggio geometrico da usare. Anzi, in opere meno conosciute, quali Sur /es principes de la géometrie. Réponse a M. Russe/l (Sui principi della geometria. Risposta a Russe/l), uscito sulla « Révue de métaphysique et de morale» del 19oo, Poincaré ha sottolineato che la scelta di una convenzione geometrica dipende dalle osservazioni. Altri studiosi hanno invece commesso l'errore che di solito viene attribuito a Poincaré: tra questi si trova il giovane Carnap che, influenzato dal kantismo, ha sostenuto la non necessità di una prova empirica nella scelta di un linguaggio geometrico con cui descrivere la fisica. Con motivazioni molto diverse anche Russell è caduto nello stesso errore ed ha ritenuto che la scelta di una certa congruenza fosse del tutto convenzionale pur rilevando a posteriori le forme fisiche esistenti prima dell'applicazione di essa. Duhem ed Eddington hanno portato alle estreme conseguenze questa posizione anti-empiristica con una critica a Poincaré. Come si vede, il grosso problema è quello della natura del convenzionalismo. Sia chiaro che Poincaré ha sostenuto, contro il convenzionalismo piatto di Duhem e di Arthur Eddington, il quale riduce la scelta della congruenza ad un atto puramente formale, che la convenzionalità di una congruenza non è fine a se stessa ma svela la natura delle relazioni spaziali e temporali. Riemann aveva scritto nella sua memoria più volte citata Sulle ipotesi che stanno alla base della geometria, che « nel caso di un insieme discreto il criterio di lunghezza è già contenuto nell'insieme, mentre in un insieme continuo dev'essere portato da fuori». Orbene, le ricerche moderne hanno dimostrato che lo spazio da misurarsi, compreso fra due punti fisici, è un continuo matematico; e ciò parrebbe, a prima vista, dar ragione ai più intransigenti convenzionalisti, in quanto il « criterio di lunghezza» dovrebbe venire imposto a tale spazio dal di fuori (cioè convenzionalmente). Ma le stesse moderne ricerche indicano che per decidere quale congruenza applicare bisogna fare appello alla natura dei corpi e non alle caratteristiche della geometria scelta, e ciò dimostra che sono le cose stesse (non una mera convenzione) a imporci il criterio di lunghezza da usare. Analogamente si potrebbe mostrare che è falsa la tesi di Russell secondo cui le relazioni geocronometriche esistono prima dell'applicazione di una certa congruenza (e quindi non dipendono in alcun modo da tale applicazione). Non è vera nemmeno la tesi banalmente convenzionalista di Duhem ed Eddington, secondo cui qualpnque congruenza può essere imposta al continuo fisico. È vera invece la tesi di Poincaré che la scelta fra due tipi di congruenze dev'essere fatta in base alla natura del continuo studiato che si deve ricavare dalle osservabili. In quale posizione si pone Einstein quando dice che esiste una certa congruenza con la quale misurare lo spazio-tempo e la sua curvatura, e rilevare quindi la materia presente entro quella porzione di spazio-tempo? Se a volte egli sembra 472.
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accostarsi alla posizione duhemiana quando afferma che nessuna ipotesi di una certa geometria è falsificabile isolatamente, cioè quando sostiene che in pratica non sarebbe possibile decidere sperimentalmente tra le geometrie, in realtà egli assume una posizione simile a quella di Poincaré poiché ritiene inequivocabilmente che con un'unità di misura opportuna è possibile calcolare volta per volta quale geometria sia valida in base alle osservazioni. Nella teoria della relatività generale esistono tanto una posizione convenzionalistica quanto una posizione operazionistica, con una prevalenza a nostro parere dell'operazionismo che è indispensabile per conoscere le proprietà e le relazioni fra cose, esistenti fuori dalla scelta di un linguaggio geometrico. Si può dire cioè che Einstein ritiene che le nostre convenzioni non diano nessuna proprietà fisica alle cose, poiché queste cose hanno una loro presenza nel cosmo indipendente dal nostro linguaggio. In definitiva, la teoria einsteiniana delle lunghezze altro non è che un'estensione di quella di Riemann e non appoggia né il convenzionalismo, né il fenomenismo, né il realismo logico, ma è una tradizione autonoma di grande forza creativa, che finisce per considerare il problema della geometria come problema relativo alla realtà dello spazio-tempo. b) Volgendoci ora ad un secondo punto di interesse filosofico, bisogna chiedersi se Einstein è davvero riuscito a superare la concezione newtoniana dello spazio assoluto, ed in che senso si può parlare di superamento. Ricordiamo brevemente l'esperimento del secchia rotante, ideato da Newton per provare l'esistenza dello spazio assoluto. Un secchia pieno d'acqua, appeso ad una fune, avendo questa per asse di rotazione, se viene fatto girare comunica dopo un certo periodo il suo moto all'acqua. Quando il secchia ruota e l'acqua è ferma la superficie dell'acqua è quasi piana, quando invece il secchia ha comunicato il suo moto all'acqua la superficie è concava e l'acqua è ferma rispetto al secchia, avendo la sua stessa velocità angolare. Se si ferma il secchia, l'acqua continua a ruotare per un certo tempo con superficie concava, poi si ferma e la superficie ritorna piana. Quindi la superficie dell'acqua può essere piana tanto se, nei confronti dell'acqua, il secchia sta fermo quanto se si muove. Newton ne concluse che la forma della superficie è indipendente dallo stato di moto dell'acqua rispetto al secchia, e considerando la superficie concava come una deformazione della superficie piana, cercò la forza capace di produrre questa deformazione. Ma, per il secondo assioma espresso nell'equazione f = ma, questa forza deve essere accompagnata da una accelerazione. Poiché lo stato di moto dell'acqua rispetto al secchia è irrilevante, come si è or ora visto, Newton concluse che invece è rilevante l'accelerazione dell'acqua rispetto allo spazio assoluto. Come si ricordò nel capitolo xn del volume quinto, Mach aveva notato che l'incongruenza stava nel supporre che l'accelerazione testé considerata non potesse venire riferita se non allo spazio assoluto; sarebbe stato più esatto dire, 473
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secondo lui, che doveva venire riferita ad un altro sistema di corpi diverso dal secchio, per esempio alle stelle fisse. In fondo, Newton ha dato con il secondo assioma la formula generale di un movimento accelerato. Ha poi chiamato spazio assoluto quel sistema di riferimento rispetto al quale la formula è valida. Non ha scelto l'altra via, alternativa a questa, che consiste nell'usare come sistema di riferimento un sistema non inerziale. Einstein, proseguendo il programma di Mach secondo cui l'abolizione dello spazio assoluto avrebbe richiesto una nuova meccanica che consentisse di non assegnare ad alcuna classe di sistemi di riferimento uno status privilegiato, ha scritto la medesima equazione del secondo principio in forma tale da essere valida in ogni sistema di riferimento. Viene quindi meno la necessità stessa del concetto di spazio assoluto. Vi è stata una certa confusione su questo punto da parte di alcuni studiosi della relatività generale. Infatti si è pensato che le invarianti della teoria della relatività generale altro non fossero che una riformulazione in termini moderni della teoria dell'esistenza di uno spazio assoluto. È vero che in tale teoria le equazioni fondamentali del moto sono invarianti rispetto ad una classe molto vasta di trasformazioni di coordinate da un sistema all'altro, ed è anche vero che esse sono molto utili per rilevare le condizioni esatte in cui si compiono certi processi. Ma la confusione consiste nell'identificare l'invarianza con l'oggettività, e nel credere che sia reale ciò che ha forma invariante. Le equazioni del moto della relatività generale sono invarianti per una vasta classe di trasformazioni, ma non per tutte. Le equazioni generali non sono « più vere » delle equazioni particolari che si deducono da esse, applicandole a un singolo sistema di riferimento. Il significato fisico delle invarianti relativistiche non consiste dunque nell'esprimere una verità maggiore di quella espressa dalle equazioni di forma non generale, quali ad esempio le equazioni newtoniane; queste infatti possono sempre essere scelte per esprimere il moto dei corpi in un particolare sistema di riferimento a velocità basse a paragone di quella della luce. Piuttosto il significato più profondo delle invarianti einsteiniane sta nella forma particolarmente semplice, nel valore euristico che hanno. In generale sono invarianti nella relatività generale la massa, la carica elettrica, lo spin, le grandezze atomiche, ma non lo sono sempre le forze, eppure nessuno può dire che le forze non sono reali in un sistema di riferimento particolare. IX· IL POSTO DI EINSTEIN NELLA CULTURA MODERNA. LE SUE CONCEZIONI SOCIALI E
FILOSOFICHE
a) Visti gli sviluppi filosofici più importanti della teoria della relatività speciale e generale ci si deve chiedere qual è la posizione di Einstein nella cultura moderna. Appare evidente che egli ha un'importanza enorme non paragonabile
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a quella di qualsiasi altro scienziato moderno, per quanto grande. Questa importanza non dipende, com'è naturale, dalla sua persona, ma dai temi trattati nella sua opera. Prima di rispondere alla domanda che ci siamo proposti esaminiamo, sia pure in breve, le concezioni politiche e sociali di Einstein. Sarebbe infatti una manchevolezza non prendere atto delle posizioni di un uomo che non si è mai considerato lontano dalla vita, né si è astratto in un suo mondo particolare, ma si è sempre interessato, con molta apertura, anche di problemi estranei alla sua specialità. In questo dobbiamo vedere un tratto illuminista del suo pensiero, tratto che :ritroviamo poi in molti altri suoi atteggiamenti. Il pensiero sociale e politico di Einstein presenta alcune contraddizioni apparenti: egli e:ra decisamente pacifista, ma toccò p:rop:rio a lui dare inizio alle :ricerche sulle armi atomiche. E:ra convinto che il popolo ebreo dovesse trovare un posto f:ra le nazioni ed avesse una funzione di civiltà da assolvere, ma nel I 948 :rifiutò la presidenza del nuovo stato ebraico che gli e:ra stata offerta. Tutto ciò fa vedere, a nostro avviso, che egli e:ra un uomo estremamente sincero, che e:ra cioè incapace di sostenere fanaticamente un'idea pe:r se stessa, ma sapeva valutare i limiti delle tesi a lui care. La posizione di Einstein sul problema :religioso è altrettanto indicativa della sua larga umanità: metteva in discussione le chiese organizzate e sapeva, quando voleva, sottolineare i caratteri :rep:ressivi delle :religioni tradizionali. Tuttavia a volte parlava di esperienze :religiose «cosmiche» nascenti dal sentimento dell'armonia del mondo. Non confuse mai :religione e :ricerca scientifica; Keple:ro e Newton sono pe:r lui esempi di fede nella :razionalità del mondo, ma questa fede non è da confondersi con le credenze :religiose. Soprattutto egli e:ra contrario, da un punto di vista intellettuale, all'idea di un dio personificato. Einstein si preoccupava molto, inoltre, della funzione sociale dello scienziato e :riteneva che il lavoratore intellettuale potesse contribuire « con un'opera di illuminazione » a fa:r sì che nel mondo politico prevalessero gli uomini migliori. Riteneva cioè che, più che di :raggiungere il potere, lo scienziato dovesse cercare di controllarlo. È vero però che sul problema della neutralità dello scienziato egli distingueva, ancora con mentalità ottocentesca, f:ra lo scienziato al suo posto di lavoro e lo scienziato come cittadino fuori dal suo studio. Il mito di una scienza libera da valori, che non propone alcun fine agli uomini, coincide nel suo pensiero con l'onestà intellettuale : lo scienziato non può indicare dei fini agli uomini e, se lo facesse, mistificherebbe le sue conoscenze :reali, impegnandole in campi dove non c'è garanzia di :rigore. Oggi questa tesi suscita molte perplessità, ma è indubbio che si tratta, nel caso di Einstein, di una tesi dettata da un profondo :rispetto verso la mentalità dei non scienziati. b) Riesaminiamo ora la domanda già formulata all'inizio del paragrafo: Einstein occupa un posto enorme nella nostra cultura e la sua importanza non si :ridu475
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ce alle considerazioni filosofiche che si possono trarre dalle sue teorie, e neppure al grande impulso che queste hanno dato e danno al campo della fisica teorica. Anche se egli non ha scritto alcuna grande opera di filosofia, ha creato un atteggiamento filosofico nei confronti delle teorie scientifiche così :rilevante da influenzare tutto il pensiero moderno. Come è successo questo? Cerchiamo di :rispondere :richiamandoci al significato del suo lavoro. Einstein ha distrutto molte concezioni :ritenute valide in sé (ad esempio quella tradizionale di simultaneità e di distanza, quella di spazio assoluto, quella di forze gravitazionali) con la semplice analisi logica di concetti in certi casi, con la capacità di ideare esperienze mentali o con l'uso di teorie matematiche nuove in altri. Ma ha sempre ricostruito in forma nuova quello che ha distrutto; così i nuovi concetti di spazio-tempo, di campo, di inerzia e di materia sono entrati a far parte del patrimonio teorico dei fisici moderni. E le sue grandi idee direttrici, l'unità fra spazio e geometria, fra spazio e materia, la semplicità delle leggi inva:rianti, sono diventate patrimonio di tutta la cultura, anche di quella filosofica. Oggi non è più possibile fare una seria antologia o una seria filosofia della natura se non si tiene presente la fisica teorica; il grande merito di Einstein è stato proprio quello di aver posto su basi nuove il :rapporto fra fisica e filosofia. c) È assai importante a questo punto parlare delle concezioni filosofiche di Einstein. Quantunque esse non siano esposte in un'opera compiuta, Einstein ha lasciato numerose note ed osservazioni sparse come riflessioni sulla fisica e sulla storia della fisica, che sono più che sufficienti per farci capire quale fosse la sua posizione filosofica. Non ci interessano qui le idee generali di Einstein cui si è fatto cenno sopra; ci interessano invece le sue idee sul rapporto fra fisica e conoscenza filosofica. Da parte di alcuni si è sostenuto che Einstein non è stato capace in alcun modo di :rispondere colla propria filosofia ai problemi suscitati dalla teoria della relatività. A nostro parere ciò è del tutto inesatto: infatti seguendo le idee esposte da Einstein si :ritrovano tutti i temi che saranno poi discussi in forma :rigorosa dall'odierna filosofia della scienza. Anche se la maggior parte delle opere di Einstein fu scritta prima che il neopositivismo si sviluppasse completamente, bisogna riconoscere che tutti i problemi della più moderna epistemologia posti in luce da tale indirizzo sono già presenti nelle opere einsteiniane. Tra questi troviamo, per esempio, il rapporto tra i principi e le conseguenze delle teorie fisiche, il rapporto tra teoria ed osservabili, la rilevanza della geometria per la fisica, ed altri. Certo manca il rigore dell'analisi di Carnap o di Reichenbach, e cosi pure i termini del linguaggio filosofico non sono precisi come quelli usati da questi filosofi della scienza, ma quello che interessa è che un fisico di enorme notorietà come Einstein, dovendo trattare della sua specialità in un senso generale, si sia posto da solo nella direzione dell'epistemologia moderna.
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Si può aggiungere che Einstein riuscì ad evitare due grossi errori, il secondo dei quali sarà presente in parecchi neopositivisti. Infatti per un lato egli reagisce come i migliori neopositivisti con un profondo impegno metodologico all'ondata di irrazionalismo e di sfiducia nella scienza che le nuove teorie della fisica facevano sorgere presso i meno preparati; per l'altro lato si tiene lontano dal metodologismo fine a se stesso, pur nella consapevolezza critica che lo studio della fisica contribuisce a svuotare di senso molti falsi problemi. In definitiva Einstein non credeva all'intuizione priva di ogni controllo ma riteneva che il fine della fisica fosse la costruzione di un modo nuovo di vedere il mondo, ossia la ricerca di una moderna immagine del cosmo. Come egli stesso più volte ripete, uno dei compiti essenziali della filosofia è quello di riflettere sopra la storia della fisica e sulla sua funzione attuale. La filosofia ci può chiarire cos'è il metodo scientifico, senza sostituirsi ad esso, e ci permette di conservare la coscienza del collegamento esistente fra le teorie fisiche e il mondo quotidiano che ci circonda. Non solo: essa ci deve rendere consapevoli dello stato di strumento delle costruzioni scientifiche, che non sono delle verità immutabili ma possono essere sostituite e modificate nel corso del tempo. Certo, l'edificio della scienza fisica non può più essere ritenuto un'unità coerente nel senso ingenuo del meccanicismo; esso risulta però un'unità complessa e strutturata, della quale è sempre possibile recuperare il senso profondo. La ricerca di questo senso, che è poi la ricerca di una visione del mondo radicata nella scienza, è presente in Einstein soprattutto nel momento della relatività generale e delle teorie del campo unificato. È esatto dire che in gioventù Einstein era stato profondamente influenzato dalle idee di Mach, in particolare da quella che le leggi di natura si possono costruire solo sulla base di un sistema di principi e di simboli creato dall'immaginazione umana. Bisogna però aggiungere che Einstein si distacca decisamente da Mach su un punto: è vero che l'oggetto della scienza è la coordinazione delle esperienze umane e la loro riduzione ad un sistema logico coerente, ma per lui i principi di questo sistema non possono essere ricavati totalmente dall'esperienza, benché siano controllabili nell'esperimento, mentre per Mach quei principi sono sostanzialmente deducibili dall'esperienza. Infatti Einstein scrive:« I concetti che nascono nel nostro pensiero e nelle nostre espressioni linguistiche sono - se considerati dal punto di vista logico - libere creazioni del pensiero che non si possono ottenere induttivamente dalle esperienze dei sensi. » Einstein sostiene però che esiste anche un errore opposto a quello di Mach, quello cioè di voler considerare come concetti a priori i concetti che vengono costruiti dalla fisica sulla base di esperienze concrete. L'importanza dell'operazionismo einsteiniano non sta dunque nella sua origine machiana, ma nella consapevolezza ivi espressa che le formule ed i concetti matematici hanno nella fisica un valore a posteriori, sperimentale. 477
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Einstein
Ciò non significa affatto che Einstein, su certi punti, non sia venuto meno alla propria consapevolezza metodologica. La sua predilezione per la semplicità euristica nella formulazione delle teorie può averlo indotto a volte a confondere generalità ed oggettività delle teorie stesse. Anzi, vi è chi ha ritenuto che Einstein nell'ultimo periodo della sua vita, proprio per questo suo desiderio di trovare delle formule generali ed euristicamente perfette, abbia perso di vista la concretezza delle teorie fisiche. A nostro parere, tuttavia, come nella relatività speciale la filosofia di Einstein non si riduce all'empirio-criticismo, così nella relatività generale non si riduce a un atteggiamento sul tipo di quello ora accennato; nel suo pensiero infatti permane sempre un vivo interesse per la comprensione effettiva del mondo, nella sua più profonda realtà. A ben riflettere sui suoi scritti, noi scorgiamo che egli tratta dei problemi dello spazio, del tempo e della materia in una prospettiva che, presa con opportune cautele, in un certo senso lo avvicina al Platone del Timeo. Einstein come Platone dunque? Non certo nel senso che egli sia un platonico, ossia che ammetta delle forme immutabili nel mondo materiale, forme che l'uomo dovrebbe contemplare intuitivamente, ma nel senso che egli rinnova il tipo di problemi trattati dialetticamente da Platone. Purtroppo vi è un diffuso equivoco che è quello di intendere il rapporto fra Platone ed Einstein nel significato proposto da Eddington, secondo cui Einstein sarebbe platonico perché le sue teorie mostrerebbero l'assoluta libertà della mente d'imporre i suoi schemi al mondo fisico. Tuttavia se il lettore ritorna al paragrafo VIII, vedrà la grande differenza tra la posizione di Einstein e quella di Eddington nel modo d'intendere il convenzionalismo. Infatti Eddington crede che la necessità dell'esperimento venga a cadere e ritiene che la teoreticità delle strutture fisiche riposi su una pura scelta formale. Ma allora definire Einstein platonico nel significato di Eddington significa sbagliare due volte, sia perché si attribuisce ad Einstein una forma di convenzionalismo che in realtà egli non condivideva (ritenendo che una « convenzione scientifica» necessitasse sempre di conferma sperimentale), sia perché si fraintende in ultima istanza anche quello che diceva Platone. Invece il parallelo si deve svolgere ad un altro livello: Platone nel Timeo ha affermato che per quanto la scienza possa portare avanti la spiegazione dei fatti come conseguenza di una legge razionale, permane sempre una necessità, un dato puro, di cui la scienza deve tenere conto. « La mente persuade la necessità » vuoi dire proprio che attraverso l'analisi del dato è possibile razionalizzarlo, ma vuoi dire anche che la spiegazione lascia sempre dietro di sé un residuo che non è ancora chiarito. Orbene, Einstein ha riassunto nella nostra cultura tutti i temi di una grande tradizione matematica e li ha portati alle loro conseguenze filosofiche ed operative, senza ritenere però che la realtà si esaurisse in essi. Egli può dunque essere con-
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Einstein
siderato il Platone moderno proprio perché ha tenuto sempre presente come il grande filosofo ateniese l'esistenza di una realtà da spiegare, non costruita dalla mente ma da essa conoscibile. In questo senso la sua opera ha un'importanza insostituibile ed inesauribile: essa è il più grande edificio creato dalla scienza moderna, ed anche il più vero.
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CAPITOLO Q·UINDICESIMO
Esame delle discussioni filosoftco-scientiftche sulla teoria della relatività DI UGO GIACOMINI
I· GLI ORIENTAMENTI FONDAMENTALI DELLA DISCUSSIONE SULLA RELATIVITÀ
L 'influenza che il pensiero di Einstein ha avuto nel nostro secolo non può essere completamente afferrata se si tiene presente solo la trasformazione portata nella fisica dalle sue idee; per capirla a fondo bisogna infatti considerare anche quei dibattiti più propriamente filosofici che hanno fatto seguito alla comparsa delle sue teorie. È questo ciò che ci proponiamo di fare nel presente capitolo. A partire dal 1910 fino ad oggi, non c'è stato un grande pensatore o filosofo che non abbia cercato di capire quali siano state le direttrici del pensiero di Einstein e la loro rilevanza per la filosofia. Un'indagine anche affrettata dei riflessi che il suo pensiero ha avuto mostra che notevolissimi filosofi e scienziati, come Vaihinger, Whitehead, Russell, Cassirer, Bridgman e molti altri ancora hanno svolto le loro analisi sulla relatività servendosi delle categorie proprie delle loro filosofie. Poiché queste interpretazioni sono molto numerose e complesse, cercheremo di dare un'idea del loro significato raggruppandole con precisione, anche se necessariamente in maniera schematica, in due momenti principali: il primo, che va dal 1920 al 1930 circa, è quello in cui compaiono le critiche fondamentali neo-kantiane, machiane ed empiriocriticiste, oltre a quelle di Whitehead, Schlick e Bergson. Il secondo momento, che si può far giungere fino al 1950, è quello in cui si sviluppano le critiche dell'operazionismo di Bridgman e delle tendenze neopositiviste. Anche se si svolgono in questo periodo, cioè dopo il 1930, un posto a parte meritano le critiche dei marxisti russi, perché quello che avviene in Russia tra il 1930 ed il 1940 non ha relazione di sorta con gli studi di critica scientifica e filosofica nell'Europa occidentale di quel periodo. L'interesse che ~uove i filosofi sovietici è di affrontare, partendo dai presupposti del materialismo dialettico, le teorie di Einstein, e ciò provoca fra varie tendenze del marxismo sovietico un acceso dibattito che non ha nessuna controparte nell'epistemologia occidentale. Chiediamoci qual è il significato più profondo del primo gruppo di critiche. Esaminandole vediamo che esse sono tutte dei tentativi di porre in relazione il
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pensiero di Einstein con i problemi e le prospettive di una particolare filosofia, e cercano di sottolineare come la teoria della relatività abbia confermato vuoi il kantismo, vuoi la filosofia dell'evoluzione, e così via. A differenza di queste, dopo il 1930, quando cioè si sviluppano le critiche del materialismo dialettico e dei fondatori della meccanica quantistica, vediamo che non si tratta più di imporre certe categorie filosofiche per spiegare il significato della relatività, ma piuttosto si tratta di mostrarne i limiti e i difetti da certi punti di vista, in particolare da quello del valore conoscitivo delle teorie. Sono cioè critiche a prevalente carattere metodologico. In fondo, men1:re nel periodo 192.0-30 si tenta di spiegare filosoficamente la teoria della relatività, dòpo il 1930 le critiche sono volte alla valutazione della portata conoscitiva di questa teori~ Nel 1949 poi, quando molti autori collaborarono ad un celebre libro sul pensiero di Einstein: Albert Einstein: philosopher and scientist (Alberi Einstein scienziato efilosofo), noi vediamo che le critiche si spostano a punti particolari, diventando approfondimento di certi temi specifici, e che non sono più spiegazioni del significato globale della teoria della relatività, ma critiche al suo valore gnoseologico. Infine gli studi apparsi attorno al 1960 svolgono quasi tutti un solo tema, che d'altronde è il più importante nel pensiero di Einstein, ossia quello dei rapporti fra geometria e fisica. Percorrendo brevemente le critiche alla teoria della relatività, troveremo come fatti rilevanti l'opposizione permanente fra interpretazione operativa ed antologica della teoria, il rico~rente tentativo di far passare lo spazio-tempo o come una mera costruzione del soggetto conoscente o come una sostanza entro la quale si svolgono gli eventi. Come mai una teoria scientifica che pure ha ottenuto numerose conferme sperimentali e fa ormai parte integrante del corpo della scienza fisica ha potuto esser interpretata così variamente? La risposta sta nel fatto che essa toccava i problemi dello spazio e del tempo sui quali, nella filosofia occidentale, il dibattito era stato estremamente vario e vivo. Anzi; lo spazio ed il tempo erano temi tradizionalmente riservati ai filosofi o addirittura ai metafisici. Orbene, il fatto che Einstein partendo da riflessioni fisiche sullo spazio e sul tempo arrivasse a parlare dell'oggetto materiale nelle sue varie manifestazioni di massa, energia, velocità, poté far credere alla tradizione ontologistica della filosofia che fosse prossima la possibilità di ·un discorso « completo~> sul mondo fisico, fuori dal quadro del meccanicismo tradizionale. Davanti alla teoria della relatività risultarono insufficienti i vari convenzionalismi usciti dalla crisi del positivismo, i quali non potevano ammettere che la teoria di Einstein avesse una portata reale di trasformazione dei concetti. Le due tesi estreme del totale ontologismo e del totale convenzionalismo escono battute nel corso del dibattito, forse perché non possiedono gli strumenti sufficienti a capire l'origine storica delle idee di Einstein e la loro possibilità di realizzazione. Infatti nel pensiero di Einstein è presente tutta una tradizione, sorta nella Ger-
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mania del XIX secolo, di geometrizzazione della fisica, e che risale a Riemann e a Helmholtz. Questa tradizione non si pone il problema della differenza fra ontologismo e convenzionalismo, poiché ritiene di identificare la massima obiettività possibile della fisica con la più chiara ed euristicamente perfetta forma geometrica. Ecco perché le spiegazioni estreme spesso sono fallite nel giudicare la teoria della relatività: non contemplavano la possibilità di una tradizione di questo tipo. Avranno allora ragione le critiche spiritualistiche che vedremo in seguito? Certamente no dal punto di vista metodologico, perché insistono troppo sulla libera creatività della mente umana. Le critiche più penetranti sono invece quelle che distinguono tra teoria della relatività generale e speciale salvando la seconda e non impegnandosi sul valore conoscitivo della prima. Infatti tali critiche sono quelle che meglio servono agli scienziati impegnati nella ricerca; ovviamente esse non prendono in considerazione la teoria della relatività generale, ma evitano di cadere nei due pericoli, quello della metafisica e quello del convenzionalismo. Ugualmente interessanti sono le critiche che prendono le mosse dal centro della relatività, ossia dal rapporto tra fisica e geometria non già per affermare che il legame posto da Einstein fra le due discipline sia quello più giusto, ma per far. capire che l'importante della teoria della relatività è la direzione di ricerca, il tipo di indagine indicata, ossia la tradizione scientifica in essa presente. II ·INTERPRETAZIONI CONVENZIONALISTICHE, MACHIANE, KANTIANE, SPIRITUALISTICHE E NEO-POSITIVISTICHE NEL PERIODO 1918-30
a) I filosofi seguaci di Vaihinger
1
vengono di solito chiamati filosofi del
« come se ». Secondo questa filosofia, che si presenta come un movimento con-
venzionalista fondato su una particolare lettura di Kant, le teorie scientifiche non hanno un valore ontologico, ossia non riflettono in alcun modo delle strutture reali. Esse sono delle costruzioni deduttive ma ipotetiche, il cui valore è quello di un perfezionamento concettuale e astratto di realtà fittizie già presenti nella psiche. L'iniziatore del movimento, Vaihinger, non si interessò direttamente della teoria della relatività, ma alcuni suoi allievi si incaricarono di svolgere le critiche del « come se » alle teorie einsteiniane. Oskar Kraus e Friedrich Lipsius tendono a distinguere fra le ipotesi scientifiche ed i concetti « fittizi », altrimenti detti « fantasie». Il termine va preso in senso vaihingeriano come un equivalente di strutture mentali non corrispondenti alla realtà, ma valide solo entro un sistema finzionale. L 'utilità della « fantasia » è di stimolare una razionalizzazione della realtà, I Hans Vaihinger (I8P.-I933) insegnò filosofia a Strasburgo e Lipsia. Nel suo pensiero si fondono la tradizione neo-criticista, diffusa in Germania alla fine del XIX secolo ed una forma di pragmaticismo positivista. Il pensiero è considerato
dal filosofo funzione operante secondo determinati fini, e le categorie (principi logici, concetti ecc.) sono tutte finzioni che non riproducono nessuna realtà ma ordinano il mondo del sentire altrimenti disorganizzato.
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altrimenti troppo complessa e multiforme. Ipotesi e fantasia sono diverse tra loro perché ogni ipotesi cerca di essere un'espressione adeguata di qualche realtà non ancora conosciuta, mentre la fantasia viene portata avanti con la coscienza che essa è una maniera soggettiva e pittorica la cui coincidenza con la realtà è, dall'inizio, esclusa e che non può essere successivamente verificata come noi pensiamo di poter fare con l'ipotesi. In base a questi presupposti, i filosofi del «come se» tracciano una distinzione fra ipotesi einsteiniane e fantasie, tendendo a identificare queste ultime con gli esperimenti ideali di cui Einstein fa uso nella teoria della relatività speciale e generale. Ma criticare la teoria della relatività e ridurla ad un possibile « modo » di intendere le principali relazioni della fisica perché essa non fa uso di misure dirette, non significa valutaria secondo il suo valore effettivo. In certi casi non vi possono essere misure dirette perché gli esperimenti ideali proposti da Einstein, anche se di fatto non sono realizzabili, hanno valore per le loro implicazioni logiche. La richiesta di prove dirette assume il significato di richiesta di un esperimento cruciale che mostri la verità o la falsità di tutta la teoria. Si può obiettare ai critici del « come se » che, o essi dimostrano che le asserzioni di Einstein sono empiricamente false, o rinunciano a criticarle considerandole soltanto ipotesi o meglio fantasie. Infatti nella teoria della relatività non si fa uso di fantasie fine a se stesse, bensì di ipotesi che acquistano valore di verità dopo una lunga catena di deduzioni che le collegano alle osservabili. Oltre a compiere le distinzioni generali testé riferite, Kraus, uno degli interpreti del «come se», afferma che Einstein non può criticare il concetto di simultaneità analizzando gli effetti di un dato fenomeno fisico in più sistemi di riferimento in moto relativo uniforme, perché il concetto di simultaneità è un a priori dell'esperienza. Si nota qui lo scopo della critica dei filosofi del «come se», che è quello di ridurre la teoria della relatività non già ad una disamina dei concetti di spazio, tempo, materia ecc., ma dei metodi di misurazione dello spazio, tempo, materia ecc. Se questo fosse vero, avrebbero buon gioco quei filosofi nel dire che qualunque costruzione della fisica è in fondo un insieme di ipotesi e di fantasie senza valore conoscitivo. Se si deve muovere una obiezione a questi interpreti della relatività è proprio quella di non aver indagato più a fondo sul valore strumentale delle fantasie. Se avessero fatto ciò, avrebbero probabilmente raggiunto la conclusione che alcune fantasie possono servire a superare un presupposto concetto a priori. Si può poi discutere l'affermazione di Kraus secondo cui la teoria della relatività parlerebbe non del concetto di simultaneità ma delle misure di esso. Dicendo che la teoria della relatività dà soltanto conferme empiriche e non concettuali dei propri presupposti Kraus deve parlare di questi mezzi empirici di misura e non può quindi dimostrare che non esistono conferme dirette della teoria della relatività; può al massimo criticare «questo» uso degli strumenti di mi-
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sura. Inoltre Kraus si trova qui in una posizione prekantiana, pur volendo usare nella sua critica alcuni concetti kantiani: Kant infatti aveva già richiesto che i principi a priori dovessero essere dimostrati come condizioni necessarie all'esperienza. Kraus prende invece una evidenza logica tradizionale, qual è quella di simultaneità valida ovunque, e vuole farne un a priori di valore universale inattingibile dall'esperienza, il che rappresenta una arbitraria presupposizione. b) Un secondo gruppo di critiche è quello influenzato da Mach il quale, tra l'altro, benché Einstein stesso si fosse richiamato a lui nella spiegazione dei fondamenti teorici della relatività, si era dichiarato contrario alla teoria della relatività. Non pare tuttavia che il rifiuto di Mach fosse motivato da idee diverse da quella di salvare l'economia di ipotesi della meccanica. Tra i seguaci di Mach, Petzold 1 ha considerato la teoria della relatività come una teoria fenomenistica del moto, ossia una teoria che si sforza di essere più vicina ai dati immediatamente sensoriali di quanto non lo sia la dinamica newtoniana. Petzold afferma che il più grande contributo filosofico dato da Einstein è stato quello di fondare la meccanica non su assiomi ma su coincidenze di eventi; cioè su qualche realtà direttamente accessibile all'esperienza. Einstein, considerando come osservabili solo le coincidenze fra eventi fisici e relazioni metriche come invarianti matematiche astratte, avrebbe contribuito, da un punto di vista machiano, ad eliminare molta della metafisica contenuta negli schemi della meccanica classica. L'errore della fisica preeinsteiniana, spiega Petzold applicando ·a questa scienza alcune idee tipicamente machiane, è stato quello di voler dare una priorità alla meccanica anche quando i principi di questa, parziali e limitati perç:hé nati da un tipo particolare di esperienza, quella del senso del tatto, non potevano trovare applicazione. Einstein ha avuto il merito di rivedere i fondamenti della meccanica e di superarne le forme tradizionali costruendo una fisica capace di trascurare la nozione animistica di forza e fornendo gli strumenti adatti ad una eliminazione dell'elemento antropomorfico della fisica in favore di una posizione più apertamente convenzionalistica. Notiamo i meriti della critica di Petzold: egli anticipa Whitehead nel sottolineare l'importanza del concetto di «evento» come costituente fondamentale della nuova fisica di Einstein. Applica poi alla teoria della relatività delle convenienti indagini epistemologiche sottolineando la raffinatezza della teoria ed il suo distacco da ogni forma di presupposizione aprioristica. Per far questo egli è però spinto a sottolineare il carattere convenzionale della teoria e non riesce a mettere abbastanza a fuoco la sua portata antologica. Petzold ricapitola in questo suo errore il pensiero dei convenzionalisti maI Joseph Petzold (I 86z-I92.9), seguace di Mach, insistette sulla possibilità di riferire al soggetto empirico tutte le proprietà del reale, supe-
rando il concetto di sostanza; celebre è l'attacco che a lui farà Lenin in Materialismo ed empiriocriticismo.
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chiani e non coglie il carattere principale della relatività. Poiché Einstein stesso aveva però sottolineato le influenze del pensierù di Mach sulla propria: concezione dell'epistemologia, le critiche di Petzold verranno considerate dai marxisti russi come tipiche di una certa prospettiva idealistica sul problema trattato dalla teoria della relatività, ed avranno una diffusione. forse maggiore dei loro meriti.
c) Si entra in una prospettiva diversa quando si parla della interpretazione kantiana di Einstein, perché questa interpretazione tocca la teoria della relatività proprio in ·uno dei suoi punti principali ossia quello del rapporto fra spazio e tempo, che è anche uno dei problemi centrali del criticismo. È bene tenere distinte, quando si parla di interpretazione kantiana èlella teoria della relativim, due posizioni diverse ·tra. loro per impostazione: quella di Cassirer, second? cui la teoria einsteiniana completa e perfeziona il pensiero di Kant, e quella degli altri kantiatii, lise Schneider, Edwald Sellien e Leonore Ripke-:-Kiihn· per i quali nella teoria della relatività non si tratta di concetti ma solo di misure (osserviamo lasomiglianza di questa posizione con quella dei filosofi del« come se» che tendevano a svalutare la portata conoscitiva della relatività). Prima di esaminare le due posizioni vediamo quali sono i problemi principali avanzati dalla teoria della relatività alla filosofia di Kant. In primo luogo vi è quello che vogliamo chiamare il problema dell'a priori: la relatività è resa possibile da un insieme di giudizi sul comportamento dei corpi materiali e degli strumenti di misura. Se questi giudizi non sono empirici ma a priori, allora la teoria della relatività può venir considerata uria categoria perenne della conoscenza. Per dimostrare che le cose stanno così i filosofi kantiani devono far vedere in qualche modo che i giudizi fisici su cui si fonda la teoria della relatività non sono in contraddizione con le tradizionali idee di materia e di corporeità. Il secondo problema è quello delle forme trascendentali della conoscenza: io spazio e il tempo. Gran parte della discussione sulla relatività nasce appunto come proseguimento del dibattito fra gli interpreti di Kant sulla' importanza delle geometrie non euclidee. 1 Mentre alcuni critici ritenevano che le geometrie non euclidee non toccassero con la loro esistenza il nucleo dell'argomentazione kantiana sullo spazio e sul tempo, che secondo loro manteneva intatto il suo valore in quanto quelle geometrie erano pure variazioni dei concetti fondamentali già scoperti da Kant, un altro gruppo di critici riteneva che la co~cezione kantiana dello spazio e del tempO non fosse conciliabile con forme geometriche non omologhe a quelle che Kant aveva conosciuto. La discussione sulla teoria della relatività è complicata, rispetto a quella sulle geometrie.non euclidee, perché queste ultime sembravano riguardare soltanto i giudizi formali della matematica, mentre I
Rimandiamo il lettore a) capitolo
VII
del
volume quarto che tratta l'argomento, ricordando qui solo qualche punto di questo dibattito.
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la teoria della relatività cond~ce a risultati profondamente diversi da quelli della· fisica tradizionale . nella determinazione di alcuni concetti fondamentali, quali quelli di massa, di energia e di quantità di moto. La teoria di Einstein colpisce. con il fondamento stesso dell'a priori, cioè . i giudizi spaziali e temporali, anche l'idea di oggetto fisico tradizionale che, secondo Kant, ~si fondava su quelle forme trascendentali. Davanti a questi pro.. blemi se si vu~l dire che Einstein ha perfezionato le forme pure della percezione dandoci .una conoscenza più approfondita di queste, pur facendo in qualche ·modo violenza a Kant, si considera la teoria della relatività come non contrad-· dittoria con l'estetica trascendentale. In tal caso si tratterà di dimostrare che Kant ha in qualche modo precorso le idee einsteiniane. Oppure si può dire che gli. esperimenti della teoria della relatività sono convenzioni riguardanti gli strumenti ·che non toccano i concetti. Secondo Cassirer, ·che prende la prima posizione, si tratta di sapere in quale misura la filosofia kantiana, che sorge come sistemazione della scienza del S·ettecento, è coinvolta dai cambiamenti avvenuti nella fisica classica. Ciò che vi è di veramente ~uovo nella teoria della relatività è, per Cassirer, il concetto di campo che, superando i vecchi schemi meccaniclstici, permette di comprendere i legami fra fenomeni ottici ed elettromagnetici. Cassirer si chiede quale ruolo. abbiano avuto nella crisi dei concetti di sp~zio e di tempo newtoniani l'elemento empirico e quello concettuale. La constatazione che il principio di relatività delle misure di spazio e tempo e quello dicostanza della velocità della luce sono incompatibili con i postulati della meccaniCa .classica, non è stata sufficiente a fondare la nuova fisica. Occorreva che i due principi fossero assunti come postulati e posti alla base di un· sistema capace di sostituire quello antico. Risultato di questa assunzione fu la scoperta di tutto un insieme di nuove invarianti. Ed il fatto che tale risultato sia stato reso possibile non da un accumularsi di esperienze ma da una trasformazione di assiomi, fa dire a Cassirer che nella teoria della relatività non è st)l.to affatto abbandonato il concetto generale di oggettività, ma quel concetto di tipo meccanicistico, per il quale l'identità dei valori spaziali e temporali era il vero fondamento della realtà dell'oggetto, che separava e distingueva questo dalle semplici sensazioni. La teoria della relatività diventa per Cassirer la scoperta delle vere, nuove invarianti che contraddistinguono l'oggetto c<:>me costruzione concettuale. Non il riferimento all'esperienza determina allora il valore della teoria, ma la forma ideale che essa assume. La spiegazione di Lorentz che soddisfaceva tutte le richieste fisiche ma non considerava criticamente il rapporto fra l'esperienza di Michelson e tutta la meccanica classica, può venir considerata solo un artificio; quella einsteiniana invece, che sale alla sfera dei principi, no. Cassirer, contrariamente ad ogni tendenza convenzionalistica sottolinea che l'importanza della teoria della relatività è quella di liberare le leggi fisiche gene-
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rali da ogni connessione con il sistema di coordinate e di farne delle relazioni simboliche che risolvono matematicamente i rapporti fra oggetti fisici (notiamo il risorgere di questo ideale già presente in Helmholtz). Per Cassirer la relatività einsteiniana è una prova della validità delle teorie kantiane perché l'oggettività delle leggi fisiche viene collegata in questa teoria non alle esperienze empiriche ma al loro comportamento invariante rispetto a tutti i sistemi di riferimento. La teoria della relatività mostra così, per il critico neo-kantiano, che i concetti fisici più avanzati non possono più ridursi a copie di contenuti percettivi. In definitiva Cassirer vede la teoria della relatività come completamento del pensiero kantiano sia perché l'uso del concetto di spazio non euclideo ha il significato di ricerca di un ordine di successione e di coesistenza come legalità dei fenomeni fisici (significato che è kantiano perché considera spazìo e tempo come leggi strutturali della conoscenza) sia perché questa teoria rende valida quella kantiana dell'oggetto fisico come qualcosa che non è dato direttamente, ma costituito dalle leggi fisiche. Gli altri kantiani invece di insistere sul nuovo significato di oggettività della teoria della relatività, cercano di far vedere che l'uso dei concetti di spazio e tern.po è in essa eminentemente soggettivistico (quando non riescono a dimostrare ciò riducono la. teoria ad un procedimento convenzionalistico). Inoltre i kantiani di stretta osservanza tentano di difendere la concezione della fisica di . Kant senza riuscire a dissociarla dalla fisica ottocentesca a base newtoniana, alla quale la fisica kantiana è strettamente collegata. Certamente la difesa delle posizioni kantiane davanti al terremoto della relatività è possibile solo ~ercando di mostrare come Einstein realìzzi ~i fatto. certi igeali kantiani e non già cercando una corrispondenza alla lettera nella filosofia 'kantiana. Si corre altrimenti il grave rischio di dover ridurre la relatività ad una convenzione senza rilevanza reale, pur di difendere una filosofia del mondo naturale che è legata, come è ben noto, ad una certa fisica settecentesca. La posizione di Cassirer, che non vuo~e imporre Kant ma solo salvarne lo spirito, dà un'idea della relatività che, per quanto discutibile, aiuta a comprenderla come punto di arrivo della filosofia della natura 'edesca del XIX secolo, che ha sempre avuto l'opera di Kant come punto di riferimento ideale. Un'uguale carica interpretativa manca negli altri kantiani, ma è presente piuttosto nel pensiero di Weyl 1 sewndo il quale la teoria della relatività è un tentativo di connettere la geometria, modello di scienza pura, con il concetto di materia, intesa però come sostanza e non come realtà puramente meccanica. Il concetto di campo è la categoria nuova che coinvolge concetti fisici, matematici e filosofici. Ciò che è essenziale per Weyl nella relatività è la capacità di superare il realismo inI Hermann Weyl (1885-1955), professore al Politecnico di Zurigo, poi a Gottinga ed a Princeton, fu uno dei ·maggiori matematici del nostro se-
colo. Elaborò concezioni interessanti e personalissime di filosofia della matematica e diede una fondazione geometrica alla teoria della relatività_generale.
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genuo che era ancora presente nella fisica classica. Se si parte da questo realismo ingenuo, si arriva, è vero, alla fondazione meccanicistica della fisica. Solo con il criticismo kantiano, che pone lo spazio come forma della percezione, si arriva più vicini all'ideale della fisica, che è la geometrizzazione dei rapporti fra corpi. Il mohdo fisico per Weyl, che si richiama direttamente a Husserl, è un oggetto intenzionale che può venir dispiegato in un insieme di atti logici di coscienza, cioè in un insieme di enuncia~i geometrici. Egli però aggiunge: « Io non voglio con ciò suggerire in alcun modo che la concezione, secondo cui gli eventi del mondo sono un puro gioco della coscienza prodotto d~ll'Io, contenga un grado di realtà più alto del realismo ingenuo; soltanto si deve capire chiaramente .che i dati della coscienza sono il punto di partenza nel quale dobbiamo metterei se vogliamo capire il significato della realtà. » In altre parole la fisica dovrebbe servire a cogliere il significato della inesauribile varietà del mondo materiale. La nozione base con cui inizia l'interpretazione del mondo materiale è, per Weyl, quella di congruenza, nozione geometrica che sottintende la omogeneità dello spazio~ Essa serve come base per l'espressione dei contenuti delle categorie dello spazio e ael tempo, antecedenti ad ogni possibile esperienza ·tranne a quella del « sentirsi» attivamente o passivamente in relazione alla materialità del reale. È importante ricordare che Weyl sviluppa sulla base di questa fenomenologia (non a caso egli si richiama a Husserl) la sua impostazione della teoria della relatività, discutendo dapprima il formarsi dello spazio euclideo a partire dalle nostre sensazioni, poi l'amalgamarsi dello spazio e del tempo nell'esperienza della fisica ed infine la teoria della relatività generale che corona con una nuova teoria della gravitazione la categorializzazione dell'esperienza. Che dire di questi tentativi di arrivare alla teoria della relatività come momento fenomenologico di un vasto movimento della razionalizzazi<;>ne dell'esperienza? Sottolineiamo i pregi, che sono quelli di far capire che la relatività ha una notevolissima portata ·antologica, ma notiamo anche, come poi sarà fatto per l'interpretazione di Whitehead, che si corre il grosso rischio di impegnare il significato della teoria in una dimensione metafisica alla quale forse Einstein non voleva arrivare. Ricordiamoci però che il contrasto fra interpretazione operativa o convenzionalistica della relatività e interpretazione sostanzialistica è il punto più importante della discussione svoltasi fra il 1920 ed il 1930. A favore della prima interpretazione sono i filosofi del (( come se », i machiani, i kantiani di stretta osservanza; a favore della seconda, Cassirer, la fenomenologia weyliana e, come vedremo, anche Whitehead (della cui vita e del cui pensiero filosofico si parlerà nel capitolo v del prossimo volume). d) Whitehead ha affrontato la teoria della relatività in du.e modi: ha cercato di dare di questa teoria un'interpretazione filosofica nuova che mette in luce
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tutti quegli elementi del pensiero di Einstein che più si avvicinano ad un relazionismo sostanzialistico, e ha dato una fondazione personale al problema del rapporto fra fisica e geometria. Tra tutte le interpretazioni filosofiche la sua è quella che ha meglio sviluppato la potenzialità filosofica della relatività, spiegandola come teoria dell'insieme di eventi spazio-temporali. Per la fisica classica un ente materiale occupa un volume definito di spazio in un certo istante ed è quindi possibile parlare di un volume di spazio uguale per tutti gli osservatori. Invece quando si accetti che la simultaneità fra le parti di un corpo spazialmente separate è relativa, cade l'idea di un oggetto materiale definito. L'idea che due corpi siano separati spazialmente solo quando fra di essi non intercorrono relazioni causali è di Whitehead, che l'ha applicata alla teoria della relatività. Certo che il concetto di corpo non è nella sua filosofia quello· comune, e neppure quello usato dalla fisica, anche postrelativistica. Il corpo viene da Whitehead definito come · un insieme di «eventi» che non sono né fisici né psichici. Per Whitehead è evento la cosa percepita ed il percipiente, è evento la loro relazione, e così via. Raggruppamenti di eventi di un certo tipo costituiscono i corpi della fisica tradizionale e la percezione di eventi è un evento a sua volta. Dove la filosofia di Whitehead è nettamente influenzata dalle idee di Einstein è nell'affermazione che tutti gli eventi sono in qualche modo riuniti nello spazio-tempo che è il « mezzo » nel quale gli eventi si connettono, si sviluppano e vengono conosciuti. Solo dentro l'intelaiatura dello spazio-tempo è possibile concretare gli oggetti, obiettivando determinati rapporti fra eventi ed esprimendoli per mezzo di invarianti matematiche. Notiamo che queste invarianti matematiche con le quali nella teoria della relatività si esprimono le forze che intercorrono. fra oggetti fisici, sono da Whitehead considerate come relazioni di tipo logico-matematico valide assolutamente. Oltre a ciò, Whitehead, affermando che lo spazio-tempo è « lo schema più generale della potenzialità reale», cerca di servirsi della relatività generale per fondare, almeno in parte, la propria cosmologia. È però ben noto che il Whitehead cosmologo presenta una teoria in cui si accavallano l'eredità logistica, secondo la quale lo spazio-tempo è la sede di rapporti immutabili fra gli eventi, e le tendenze organicistiche e dialettiche, emerse più tardi nel suo pensiero, che lo spingono a vedere lo spazio-tempo come potenzialità. La contraddizione fra i due aspetti, statico e dinamico, della sua: filosofia non è risolta. È impossibile, d'altronde, seguire Whitehead laddove pensa di perfezionare in qualche modo i risultati raggiunti da Einstein trovando correlazioni fra il mondo del sentire quotidiano e quello rappresentato nelfa teoria, poniamo, della gravitazione. Per quel che riguarda le idee del filosofo inglese sulla fondazione del rapporto fra fisica e geometria, ricordiamo che il problema in questione è della massima importanza perché riguarda il valore di tutta l'epistemologia einsteiniana. Come vedremo nell'ultima parte, dedicata alle interpretazioni neo-positivistiche, la posizione di Whitehead sul problema non è conforme a quella che è davvero
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servita ad Einstein per fondare la teoria della relatività. Il difetto dell'idea di Whitehead è quello di confondere, nella fondazione dell'idea di simultaneità, l'evento in senso fisico e in senso percettivo (pare che Einstein stesso abbia sottolineato che, in hase alla teoria di Whitehead, sarebbe impossibile per due osservatori percepire « lo stesso » evento, e ciò proprio per le modalità della percezione nella filosofia whiteheadiana). Egli dice infatti, contrariamente al parere di Einstein, secondo il quale la geometria adatta a spiegare il mondo fisico deve essere spazialmente e temporalmente variabile, che per le descrizioni della fisica la geometria che serve è di tipo non variabile. Secondo la concezione einsteiniana, mutuata da Riemann, la metrica adatta a descrivere un certo tipo di spazio è determinata dalla quantità di materia presente in quello spazio. Whitehead invece, col suo metodo di « astrazione estensiva » pensa di poter descrivere la costituzione dello spazio a partire da semplici elementi percettivi, e perciò deve rifiutare l'idea di variabilità della metrica. La filosofia di Whitehead interpreta .lo spazio-tempo ipostatizzandolo e considerando questo schema astratto come una realtà concreta raggiungibile a partire da eventi sensoriali. In definitiva ci troviamo davanti ad un tentativo di estremo interesse che sottolinea più gli aspetti antologici che quelli operativi del pensiero di Einstein. L'evento di cui Whitehead parla è un momento dell'esperienza entro il quale cessano tutte le distinzioni fra qualità primarie e secondarie della vecchia fisica. Egli vede in questo .concetto di evento un mezzo per superare la concezione atomica della realtà e pensa che compito della nuova fisica sorta dalla rivoluzione einsteiniana sia quello di descrivere i « processi » del reale. La disamina della sua formulazione dei problemi della relatività deve muovere quindi contro la sua idea di oggettività dello spazio-tempo che è un'estrapolazione del concetto einsteiniano di invarianza delle leggi naturali, e contro la sua idea di evento che, se presa come base per la fondazione della fisica, rischia di portare ad una soluzione del problema dei rapporti fra fisica e geometria che è assai lontana da quella di Einstein. Anche Broad, cui si è fatto cenno nel capitolo v del presente volume, impostò un discorso metafisica sulla relatività' generale descrivendola come teoria critica dei concetti di spazio, tempo e materia. e) Una particolare interpretazione data della relatività fu quella che si può denominare spiritualistica. Essa è caratterizzata dallo sforzo di ricercare nella teoria della relatività significati profondi sulla fine della concezione materialistica. I lineamenti fondamentali delle critiche spiritualistiche, sono: l 'affermazione che con la relatività generale il concetto di materia viene messo in secondo piano rispetto a quelli di regolarità delle leggi fisiche e teoreticità delle strutture del mondo (in altre parole la materia viene considerata UQ effetto secondario di
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queste strutture nascoste); l'affermazione che la relatività pur svelando le caratteristiche più reali del mondo fisico (cioè le leggi eterne della materia), è in fondo solo uno dei possibili modi di risolvere i fenomeni del mondo materiale in relazioni matematiche. Quindi gli spiritualisti, tta i quali ricorderemo Eddington, l Jeans 2 e Carr, 3 sottolineano il carattere di libera creazione della teoria della relatività soprattutto nella sua seconda fase. Nel suo libro sulla relatività, Eddington afferma che lo studio del mondo esterno è più una ricerca di strutture che un problema di sperimentazione. Uria struttura può, per lui, essere rappresent;~.ta come un insieme di relazioni matematiche che riducano i ferionieni fisici a puri rapporti numerici. Egli cerca di individuare, per mezzo di calcoli, il valore numerico di 'un certo numero di costanti fisiche. Nel determinare questi valori, che egli cerca sempre di dedurre e mai di ricavare da esperimenti, Eddington mostra un atteggiamento che verrà poi chiamato neo-pitagorismo. In realtà è cattiva metafisica, fondata, è vero, sopra la grande conoscenza della matematica che egli aveva, ma che si rivela astratta ed aprioristica, assai lontana dagli sviluppi presi poi dalla fisica moderna. La teoria della relatività per Eddington dovrebbe servire ad individuare alcune delle costanti fondamentali del mondo fisico .. Egli dà particolare importanza alla fondazione geometrica della relatività, e la considera basata sulla misura degli intervalli spaziali e temporali che separano due eventi. In particolare egli mostra come una notevolissima caratteristica della teoria della relatività sia quella di eliminare, attraverso la scelta di un opportuno sistema di coordinate, lé forze dal" quadro della fisica. Aggiunge che la scelta del. calcolo tensoriale, che presenta le equazioni fisiche in forma indipendente dalla scelta del sistema di coordinare, è il solo mezzo possibile per esprimere i fenomeni in forma oggettiva. L'uso di questo strumento di calcolo è, per Eddington, già di per sé un superamento 'tlel meccanicismo del XIX secolo che si fondava sul calcolo differenziale. Esso ci dà una· soddisfazione spirituale maggiore del calcolo differenziale perché non è un semplice « modus operandi » ma spiega le leggi della fisica come combinazioni di leggi ancor più profonde, cioè quelle dello spazio-tempo. Eddington sviluppa poi una sua dimostrazione della relatività come teoria di un continuo a quattro dimensioni, inserendo delJe c;ostanti numeriche, il cui valore ritiene di aver stabilito una volta per sempre. Come Whitehead anch'egli parla di un legame tra geometria e fisica che la teoria della relatività metterebbe in luce. Supera però questo autore in tale direzione (dato che per Whitehead la biforcazione tr~r fisica e geometria era netta, benché la prima si fondasse sulla 1 Arthur Stanley Eddington (1882-1944), astronomo e fisico inglese, fu· uno dei maggiori divulgatori scientisti tra il '20 ed il '40, noto per i suoi studi cosmologici e termodinamici. 2 James Hopwood Jeans (I877-1946),matematico, fisico ed astronomo inglese, anch'egli di tendenza scientista e spiritualista.
3 Herbert Wildon Carr (1859-1931). Partito da posizioni bergsoniane sviluppò una sua concezione spiritualista sul problema in A theory of monads. Outlines of the philosophy of the principle of relati~ity (Una.teoria delle monadi. Lineamenti filosofici del principio di relati~ità, Londra 1922).
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seconda) identificando con date quantità tensoriali tutte le costanti necessarie alla fisica. In fondo egli anticipa alcuni tentativi che verranno svolti verso il 1930 da Milne ed altri, di spiegare a priori il significato della relatività, rendendo questa teoria più simile ad una cosmologia che ad una tr!lttazione dei fenomeni elettromagnetici e gravitazionali. Si può aggiungere che per Eddington la relatività, :riconducendo tutta la scienza della natura a scienza delle :relazioni, mostrerebbe che nel mondo fisico l'importante è la struttura e non la sostanza materiale. Per lui lo spirito umano, ricercando le permanenze delle strutture, crea l 'universo della fisica e riunisce le leggi della meccanica in un unico schema logico che è segno della sua libera creatività, capace di riflettere in qualche modo l'armonia più nascosta dell'universo. I gravi equivoci della posttione spiritualistica sono proprio nel suo tentativo di interpretare la teoria della rela:tività come una libera creazione dello spirito, che organizza in formule la realtà fisica una volta per tutte, senza tener mai conto di esperimenti o di imperfezioni della conoscenza. Lo spiritualista definisce la relatività come convenzione, perché ciò gli è comodo per mostrare che essa è una libera creazione; insieme però la definisce come struttura reale data una volta per tutte e vera a priori. In questa duplicità di prospettiva consiste indubbiamente il più grosso difetto della critica spiritualistica. Lo stesso difetto si può rilevare nella critica che Bergson ha dedicato alla relatività. Rimandando il lettore a quanto detto nel capitolo vu per ciò che concerne i fondamenti filosofici del bergsonismo, iicordiamo qui che la sua critica alla teoria della relatività si sviluppa nel senso di dare maggior importanza al tempo personale e coscienziale rispetto a quello misurabile ed osse:rvabile. Secondo Bergson una critica all'idea di simultaneità non priò.veni_t fatta che quandcdc;>_scienziato si ponga idealmente in ciascuno dei due sistemi .di riferimento in moto uniforme l'uno rispetto all'altro. In questo sdoppiiuriento ideale Bergson vede la prova dell'astrattezza dei concetti einsteiniani. Da un.lato la sua critica riprende dunque alcune osservazioni dei filosofi del «come se))~ dall'altro si serve di queste obiezioni per sottolineare la differenza fra J:empo viss.uto e tempo astratto della fisica. Notiamo però che, mentre la fisica di ispirazione reiativistica tende a ridurre il tempo allo spazio, almeno m3;temat~camente, Bergson presume sempre una prima:rietà della du:rat~ che .darebbe origine allo spazio in un suo momento di stanchezza. Pur tralasciando .ogni val\}tazione filosofica di questo punto, notiamo che Bergson, a causa della sua idea di tempo non riesce ad afferrare il problema più profondo della teoria: della relatività, quello cioè della fondazione geometrica della fis~ca. Poiché non vede ques~o, il filosofo svolge considerazioni inessenziali sul rapporto tempo-coscienza e. finisce, a nostro modo di vedere, per fraintendere la relatività, interpretandola come una teoria del fluire temporale. Anche Bachelard, di cui si parlerà ampiamente nel capitolo x del volume
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settimo, ha trattato la. dialettica filosofica delle nozioni della relatività nel volume La valeur inductive de la relativité e in altri successivi scritti, prendendo posizione su quanto della relatività aveva scritto Meyerson. Per Meyerson era essenziale stabilire il carattere spaziale delle spiegazioni della fisica einsteiniana e porsi al centro della formulazione geometrica del sistema per dedurre in seguito gli elementi e il carattere del reale. Bachelard giudica questa posizione di Meyerson troppo preoccupata dell'applicazione e della verifica della relatività. A suo parere invece è più importante insistere «sulle vie e i mezzi che portano al sistema, sulle condizioni in cui il pensiero alternativamente cerca di unificarsi e di completarsi ». Alla deduzione di Meyerson egli oppone la sua induzione e cerca di far vedere che la dialettica filosofica delle nozioni relativistiche ha portato ad uno choc epistemologico della meccanica classica risvegliandola dal suo sonno dogmatico. La funzione del razionalismo einsteiniano, che fa crollare le nozioni fondamentali di spazio, tempo, materia classici è quella di liberarci da un certo fantasticare falsamente profondo sullo spazio e sul tempo e in particolare arrestare l'irrazionalismo che è legato all'idea di una durata insondabile. La relatività è dunque una attività filosofica « centrale » e « dialettica». È evidente che le tesi di Bachelard sulla relatività tengono presente la storia interna della ~cienza fisica e ne sottolineano il procedere dialettico. È da notare però che il razionalismo bachelardiano tende a trascurare tutto il momento operazionistico della relatività, le sue applicazioni e cioè la prassi che può derivare da una tale teoria. Bisogna dunque ricordare il valore di stimolo filosofico della sua critica ma non limitarsi a ritenere che essa possa essere esaustiva degli sviluppi della teoria.
f) Tra tutte le critiche del periodo 1920-30 la più ricca e profonda è quella di Schlick, di cui si parlerà nel capitolo IX del volume settimo, che si può collocare tra quella kantiana e quella neo-positivistica. Infatti Schlick da un lato è contro l'idea che la teoria della relatività sia un proseguimento del pensiero kantiano, in quanto i concetti di spazio e tempo hanno a suo parere una base empirica sempre mutevole, dall'altro riconosce che la relatività in qualche modo contribuisce a dar ragione alla teoria kantiana che vuole lo spazio e il tempo come concetti a priori, perché distingue, più profondamente della fisica classica, tra tempo e spazio percettivi e concettuali. Svolgendo la sua analisi dello spazio (analoga a quella del tempo) Schlick afferma che questo termine nel linguaggio matematico e fisico ha un significato non intuitivo. In certo modo esso sta allo spazio percettivo come il termine « temperatura » della termodinamica sta alla sensazione di caldo; cioè è più preciso e nello stesso tempo più astratto. Nella relatività spazio e tempo sono considerati solo come fenomeni oggettivi. Tuttavia la riflessione filosofica non può sot493
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trarsi allo studio dei rapporti che passano fra termini teorici e dati della sensibilità. Vediamo che questo è un tipico problema neo-positivistico, che in Schlick viene affrontato con analisi assai interessanti sull'origine dei concetti di spazio e di tempo. È fuori dubbio che le nostre esperienze spaziali hanno un'origine sensoriale che le rende indefinibili e non quantificabili a livello di esperienza vissuta. Queste datità sensibili sono del tutto diverse le une dalle altre poiché nulla connette tra loro esperienze tattili, visive, psicocinetiche ecc. Come è possibile allora giungere allo spazio usato dalla fisica che è unico, immutabile e indipendente da ogni condizione empirica? Schlick risponde che lo spazio della fisica è una costruzione concettuale, che sos~ituisce in ogni ·occorrenza linguistica le esperienze sensoriali. Secondo luìla relatività precisa e perfeziona l'idea hntiana di soggettività dello spazio e del tenipo, perché aiuta a capire che lo spazio della fisica è una darità concettuale soggettiva con valore d 'uso oggettivo che non si confonde ton lo spazio sensorialmente sperimentabile del quale, in certo senso, non si può parlare. Il legame tra lo spazio (o il tempo) vissuto e quello concettuale viene dato, per Schlick, dalla prassi quotidiana attraverso concetti intermedi, quali corpo, luogo, momento. Alla base di questi concetti, inventati per sopperire alle esigenze della vita pratica, c'è l'idea di trasformazione, cioè di possibilità di mutamento, di localizzazione, e di funzione di un corpo. È chiaro che servendosi di quest'idea Schlick interpreta la teoria della relatività come compimento concettuale di un sistema fondato sull'idea di trasformazione, che va intesa anche nel suo significato matematico. Con la trasformazione si fonda la misurazione in cui riappare, per così dire, il mondo delle quantità fisiche concrete. Ecco perché egli non ritiene che la relatività confermi totalmente i concetti kantiani: lo spazio ed il tempo einsteiniani sono risultati di operazioni di misura e di trasformazione di coordinate. Anche il concetto di campo di cui Einstein fa uso nella relatività generale, è per Schlick il risultato di una concezione della materia che non la considera come qualcosa di puramente rispecchiabile ed osservabile, ma come un qualcosa da modificare attraverso l'azione. Il· concetto di campo nega quello di sostanza poiché non ammette nulla di permanente in sé, ma considera gli effetti di ogni parte di materia sulle altre. (Questa concezione è assai diversa da quelle sostanzialistiche che considerano il campo come la realtà più profonda della materia.) Per concludere questa breve rassegna sulle critiche degli anni venti, ripetiamo che il dibattito di questo periodo è prevalentemente filosofico. Ogni critico · inquadra la teoria della relatività entro la propria posizione. Tuttavia le critiche fin qui esaminate si dividono in due grandi gruppi: il gruppo che ritiene la relatività una convenzione matematica che mostra la libertà creativa della mente umana o che non tocca le conoscenze a·1'riori; ed il gruppo che vede la relatività come un'antologia vuoi della sos-tanza spazio-temporale (Whitehead) vuoi 494 www.scribd.com/Baruhk
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delle strutture mentali dell'uomo (Cassirer). A parte sta la posizione di Schlick che introduce i nuovi temi neo-positivistici del legame tra osservabili e termini teorici e di intervento dello scienziato nel mondo materiale, temi che vennero poi svolti negli anni 1 940-5 o. Bisogna ricordare inoltre, accanto a Schlick, anche Hans Reichenbach, che già dal 1921 in un lucido saggio sullo stato delle discussioni filosofiche sulla relatività metteva in luce come il principale compito epistemologico davanti all'opera di Einstein fosse quello di formulare le conseguenze filosofiche della teoria e ritenerle come parte permanente della conoscenza filosofica. L'analisi della rivoluzione einsteiniana permetteva a Reichenbach di concludere che non esistono concetti a priori. Questa critica all'a priori non è per Reichenbach un sottoprodotto del lavoro di Einstein in fisica, ma piuttosto la fondazione logica che rende possibile quel lavoro. Riesaminando alcuni passi di Kant sull'a priori alla luce della metodologia einsteiniana, Reichenbach affermava che, se la ragione ha il compito di adeguare i principi del comprendere all'esperienza, tale adeguamento risulta solo per mezzo di un metodo di <~approssimazione successiva». Gli stessi principi costitutivi possono venir cambiati e l'a priori perde il suo carattere apodittico, pur mantenendo la proprietà ben più importante di essere «costitutivo dell'oggetto». La posizione di Reichenbach non è cotivenzionalistica perché il convenzionalismo non riconosce, come Kant, che la convenzione determina il concetto di oggetto. Inoltre perché se i principi di una teoria possono essere arbitrari la loro combinazione non è arbitraria. Seguendo questa lineaReichenbach cercò di costruire una teoria della relatività in forma assiomatica fondata su definizioni che contengono regole sulla coordinazione empirica di certi fenomeni con certi concetti matematici, cioè tentò di dare a tutta la teoria della relatività, anche nella parte generale, quel rigore definitorio che ha la definizione della simultaneità. Egli precorse di circa venticinque anni analoghi tentativi compiuti da Milne e da altri cosmologi (cui si farà cenno nel capitolo vn del volume ottavo) di costruire assiomaticamente la teoria della relatività. Più discutibile è il suo tentativo di costruire una geometria adatta alla assiomatizzazione della relatività generale. Parlando di relatività geometrica egli sottolineava la dipendenza della geometria dalla nozione di congruenza, che postula l'esistenza di un regolo di uguale lunghezza in ogni punto. Questa nozione deve essere per lui sostituita da quella di congruenza relativa alle « forze universali » presenti in un punto (cioè: la lunghezza del regolo varia a seconda della posizione, dell'orientamento e delle forze presenti in un punto). Le critiche più recenti negano l'esistenza di una geometria intrinseca di una regione di spazio e negano quindi che la scelta di una geometria dipenda da altro che da una opportuna convenzione fondata sulla scelta ·di una certa nozione di congruenza tra dati fisici e proposizioni geometriche. Comunque, anche cercando di seguire la strada di Reichenbach, che è quella 495
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di ricercare la geometria vera di una certa regione di spazio, resta difficile accettare la sua distinzione fra forze «universali» e forze «locali». Ricordiamo però che i contributi di Reichenbach, apparsi più di quaranta anni or sono, stanno alla base delle idee attuali e questo è sufficiente per dire che la strada da lui scelta era la più feconda .. Ili · LE CRITICHE DEI QUANTISTI E DEGLI OPERAZIONISTI
a) La critica dei principi della relatività svolta dai fisici quantisti quali Bohr, Born e Pauli (sui quali si ritornerà nel capitoio VI del volume ottavo) occupa il decennio fra il 1930 e il 1940, ma non si esaurisce in esso. Contrariamente alle critiche degli anni venti che, come si è visto, sono più filosofiche, queste degli anni trenta cercano di far risaltare i difetti salienti della teoria della relatività, e rifiutano ogni estrapolazione metafisica che ad essa si appoggi. Bisogna anzitutto sottolineare che la critica dei quantisti è la più moderna anche fra quelle attuali proprio per le ragioni epistemologiche che stanno alla base di essa. Oltretutto l'apporto dato dagli scienziati che sostenevano l'indeterminismo ha contribuito all'avanzamento della fisica in misura di gran lunga superiore a quella di ogni altra tendenza, e di ciò si deve tener conto se si vuol capire l'estrema importanza della loro divergenza concettuale con la tesi einsteiniana. I ·punti salienti della discussione tra Einstein ed i quantisti si possono rintracciare negli articoli di Pauli e di Bohr che, fin dal 19z6, si trovarono in opposizione con i principi di Einstein. Questa opposizione si trasformò con l'andare del tempo in una radicale differenza di idee sui metodi e sugli scopi della fisica. Si è ricordato che Einstein diede un originale contributo alla teoria dei quanti formulando le basi di questa teoria fin dal 1905. Inoltre fino al 1917 Einstein, che in questo anno raggiunse i suoi massimi risultati nella teoria quantistica, non nutriva dubbi sul valore di tale teoria ed affermava tra l'altro di avere fiducia nell'indefettibilità del cammino intrapreso con le teorie quantistiche, benché notasse fin da allora che la teoria troppo spesso si rimetteva al caso circa lo studio dei processi elementari. Come ricorda Pauli, il problema che in quel momento sorgeva nella fisica quantistica era il contrasto tra le proprietà di interferenza della radiazione, descrivibili solo mediante la teoria ondulatoria, e le proprietà dello scambio tra energia ed impulso, fra radiazione e materia, descrivibili mediante una concezione corpuscolare dell'energia. Solo in un secondo tempo Einstein si oppose ai principi della teoria quantistica affermando che lo studio delle particelle deve essere intimamente connesso allo studio del campo che le accompagna e che tutte le forze elettriche e magnetiche e gravitazionali, oltre a tutte le forze di scambio fra le particelle che venivano via via scoperte, dovevano trovare un modello nel calcolo tensoriale. ·I quantisti preferiscono trovare nuove strade e nuovi metodi, insistendo
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nell'uso della matematica probabilistica, e la loro critica ad Einstein si svolge in una duplice direzione: da un lato essi accettano di servirsi della relatività speciale senza la quale, come è noto, diventa impossibile lo studio del comportamento di alcune particelle; dall'altro invece rifiutano la relatività generale perché essa non sa dare un'adeguata soluzione al problema dell'esistenza di numerose nuove particelle. Partendo da questa parziale indifferenza per i metodi e i risultati della relatività generale, i quantisti elaborarono altri tipi di dottrine fisiche entro le quali non c'era più posto per la fisica geometrica che Einstein veniva sostenendo, soprattutto nella terza fase della teoria della relatività. Born sostiene che il distacco fra Einstein e i quantisti si deve attribuire all'abbandono da parte di Einstein del credo empirico della sua giovinezza per vedute più sostanzialistiche. Infatti l'Einstein del 1916 scriveva che compito del pensatore è quello di abolire quei concetti che, utili una volta, abbiano « acquistato una tale autorità su di noi che ne dimentichiamo l'origine umana e li accettiamo come invariabili. Non è quindi gioco inutile abituarsi ad analizzare le nozioni correnti... così la loro esagerata autorità s'infrange». Invece nel 1944 scriveva in una lettera a Born diventata famosa: « Tu credi in un Dio che gioca a dadi ed io in leggi perfette che regolano il mondo delle cose esistenti come oggetti reali, e che cerco ansiosamente di afferrare con metodo speculativo. » Max Born sostiene che questo mutamento spinse Einstein a ricercare Ùna teoria generale del campo che conservasse la rigida causalità della fisica classica. In questa teoria la funzione della probabilità, centro della meccanica quantistica, perderebbe significato conoscitivo per diventare un mascheramento dell'ignoranza delle «vere cause» delle trasformazioni che avvengono nell'atomo. Secondo Niels Bohr l'atteggiamento di Einstein era dettato dal desiderio di non staccarsi completamente dagli ideali di continuità e causalità. Inoltre Einstein considerò sempre le descrizioni meccanico-q~antistiche come dei semplici mezzi per spiegare il comportamento medio di un gran numer·o di" sistemi ·atomici e mai una teoria coerente. Per lui semplicità e regolarità nelle ipotesi erano segno di validità di una teoria, e non ritrovava tali caratteristiche nella fisica quantistica. Per concludere: Einstein, per i quantisti, restando fedele al concetto di realtà materiale della fisica classica,. dal cui punto di vista una descrizio~e della natura che ammetta singoli avvenimenti non determinati da leggi sembra incompiuta, non ha saputo superare il rimpianto per l'impossibilità di applicazione pratica del suo vecchio concetto di campo fisico geometrizzato." Per i quantisti la teoria della relatività generale basata sulle equazioni di campo, non raccogliendo nessuna sollecitazione dalle teorie probabilistiche, non permette di capire che l'obiettività della fisica viene pienamente conservata dalla meccanica quantistica, che ha però il merito di staccarsi completamente da alcune idee aprioristiche della fisica tradizionale ed è molto più produttiva e fruttuosa della fisica del campo.
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b) Come ricordammo all'inizio del capitolo, il 1949 è un anno importante nella storia delle critiche filosofiche alla relatività per la comparsa di un volume di omaggio ad Einstein in cui, a guisa di riassunto, vengono raccolti i pensieri di diversi fisici e filosofi, molti dei quali. avevano da lungo tempo trattato dei problemi connessi con la relatività. Si staccano nel gruppo dei saggi, le critiche dei quantisti, ormai convinti del valore delle proprie tesi anche sul piano conoscitivo. Niels Bohr, Max Born, Henry Margenau, Walter Heitler attaccano da più punti alcuni dei presupposti epistemologici di Einstein, ripetendo le obiezioni esposte qui nel punto precedente. Un altro gruppo invece approfondisce le idee einsteiniane sia nel rapporto tra fisica e geometria, sia in cosmologia, sia nel tentativo di fondare a priori la relatività generale. Questo secondo gruppo che comprende gli scritti di H. P. Robertson, Leopold Infeld, Edward Arthur Milne, Georges Lemaitre, si può considerare quello dei seguaci, se non delle formule, almeno delle idee di Einstein. Il contrasto con il primo gruppo non costituisce la sua caratteristica più importante perché i q"!Jantisti lavoravano ormai in tutt'altra direzione e i dibattiti fra le due tendenze non potevano esistere per la divergenza di interessi e di idee di fondo. Invece il contrasto principale è quello tra Percy W. Bridgman, che esamina le teorie di Einstein da un punto di vista operativo nel libro The nature ofphysical theory (Sulla natura della teoria fisica, 1936) ed i sostenitori delle idee einsteiniane sulla geometrizzabilità della fisica. Bridgman aveva preso in considerazione la teoria della relatività molti anni prima, nel 1 929, con lo scopo dichiarato di portare tutta la fisica al livello di chiarezza concettuale e operativa della relatività speciale. Egli sostiene che Einstein « non ottenne nella sua teoria della relatività generale la profondità e gli insegnamenti ch'egli stesso ci aveva dato con la sua teoria particolare». Per lui infatti Einstein che nell'elaborare la relatività speciale aveva riconosciuto la necessità di ricercare il significato di un termine nelle operazioni che si compiono quando esso viene applicato (e così infatti si comportò per determinare il senso dei termini « lunghezza » e « simultaneità »), nella relatività generale introdusse solo coordinate e funzioni di coordinate senza determinare il modo in cui le coordinate si possono applicare a casi concreti. Non solo: mentre nella relatività speciale curò che ogni formulazione matematica fosse significante in relazione ad un sistema di riferimento, nella relatività generale usò coordinate generalizzate facendo perdere importanza al sistema di riferimento. Einstein, secondo Bridgman, si era trovato davanti ad un edificio scientifico provvisto di leggi, procedimenti sperimentali e apparati di verificazione che, malgrado fossero ordinati in una teoria armonica, non riuscivano a superare certe contraddizioni. L'atteggiamento di Einstein era stato allora quello di chiedersi come erano stati ottenuti quei concetti; senza inventare nulla di nuovo, ma analizzando attentamente le operazioni fisiche usate per determinare i concetti della teo-
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ria tradizionale, aveva messo in luce aspetti in precedenza trascurati, che erano però di fondamentale importanza. Divenne, per esempio, possibile ammettere dopo le sue analisi che la lunghezza di un corpo in quiete può non essere eguale alla sua lunghezza in movimento. I fisici acquisirono, dopo la relatività speciale, un nuovo ordine di idee, che consiste nell'ammettere che le operazioni convenzionali della fisica possono comprendere certi particolari di cui essi non sono generalmente consapevoli a causa della loro apparente futilità, ma che diventano importantissimi quando si passa a nuovi campi di indagine. I criteri della relatività speciale comportano una nuova metodologia perché, se fino ad Einstein i concetti della fisica erano stati definiti in termini di proprietà, dopo di lui essi devono venir definiti in termini di operazioni. Passando invece alla relatività generale, Bridgman nota che in essa sono contenute solo coordinate e funzioni di coordinate. Le equazioni matematiche non indicano il modo in cui le coordinate possono venir ridotte a casi concreti. Alla base di tutta la relatività generale è l'idea che l'intervallo infinitesimale ds sia fisicamente reale. Ma per Bridgman « in un mondo fisico il ds non è dato ma va trovato mediante operazioni fisiche», ed è ciò che Einstein non fa. L'uso delle coordinate generalizzate, fondato sull'idea che un fenomeno fisico descritto in un dato sistema di coordinate possa esser descritto ugualmente bene da un altro sistema di coordinate cui si può giungere mediante operazioni di trasformazione, fa perdere importanza ai sistemi di riferimento e presuppone che esistano eventi identicamente osservabili prima di aver detto da chi o come siano osservabili. Lo « stesso » evento potrebbe venir descritto in modo diverso da vari osservatori, e l'identità dei due fenomeni non è postulabile a priori. È appena il casq di notare che la critica di Bridgman al concetto di evento differisce da quella di Whitehead perché il primo critica l'idea che si possa chiamare « unico » un evento diversamente sperimentato da due diversi osservatori, il secondo invece insiste sulla necessità di arrivare a posteriori al concetto di evento partendo dagli elementi percettivi presenti ai singoli « soggetti » osservanti. Bridgman, pur criticando soprattutto gli aspetti matematici della relatività generale, sostiene che Einstein si comporta come se fosse convinto dell'esistenza di una realtà già data fuori della nostra mutevole esperienza. Sembrerebbe, dice Bridgman, che nell'ammettere questa realtà trascendente Einstein si sforzi di venire incontro alla richiesta di universalità e pubblicità del ragionamento, tipica della scienza, cioè che in qualche modo tenti di tornare .indietro ad un punto di vista newtoniano. Invece per Bridgman non è possibile arrivare, seguendo la via scelta da Einstein, a quel tipo di oggettività, né trovare delle « leggi generali » sulla natura dei fenomeni che non siano quelle locali e contingenti che la fisica consapevole, ossia quella operativa, scopre. La struttura dell'esperienza è fondata sul particolare e sull'individuale e anche le nostre operazioni fondamentali di 499
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descrizione e di misura non sono esenti da questa struttura. Einstein pensando possibile liberarsi da ogni sistema particolare di coordinate e col suo modo di intendere l'evento come qualcosa di dato e primitivo ritorna ad un punto di vista pre-einsteiniano. La critica di Bridgman è in pratica simile per le sue conclusioni a quella dei quantisti, ma si distacca da questa perché non arriva ad accettare la relatività speciale e a respingere quella generale sulla base della loro utilità, bensì sulla base di un'analisi epistemologica. Bridgman ha indubbiamente ragione nell'osservare che il formalismo matematico della relatività generale non rende conto appieno del contenuto fisico della teoria, ed ha ragione nel ritenere che questa teoria sarà una parte della fisica solo quando fornirà adeguate definizioni di coordinamento che mettano in relazione termini teorici ed osservabili. Per un esame più dettagliato di questi problemi si rimanda il lettore al capitolo IX del prossimo volume. La critica di Bridgman resta essenziale come modello di interpretazione non antologica e antimetafisica della relatività ed è un po' il riassunto di tutte le critiche convenzionalistiche ed operativistiche al pensiero di Einstein. IV· LE CRITICHE. DELLA TEORIA DELLA RELATIVITÀ NELL'AMBITO DEL MATERIALISMO
DIALET~ICO
SOVIETICO
Per comprendere correttamente la posizione della filosofia sovietica verso la teoria della relatività dobbiamo distinguere due periodi nella critica marxista. In un primo tempo fra i filosofi sovietici prevaleva l'idea che la teoria einsteiniana contraddicesse il materialismo perché non considerava i fenomeni ottici come fenomeni del moto che avvengono in un corpo materiale. In fondo questa opinione, sostenuta da A.K. Timiryazev, era ancora influenzata dall'idea meccanicistica che aveva il proprio modello nelle teorie newtoniane. È interessante notare che queste critiche materialistiche si rifacevano in parte a opere analoghe prodotte nella Germania del 1930, che scartavano le teorie di Einstein definendole « non ariane ». (Le critiche di questo tipo non possono trovar posto in un esame delle critiche filosofiche della relatività, perché prive di ogni fondamento epistemologico.) Questa confusione tra il materialismo di tipo settecentesco ed il materialismo dialettico fu chiarita verso il 1936. Il grande fisico e storico della scienza Serghej Vavilov scrisse allora che« lo spazio obiettivo senza proprietà materiali, il moto. separato dalla materia, sono fantasmi metafisici che prima o poi devono essere espulsi dall'immagine fisica del mondo>>. Secondo lui nella teoria di Einstein spazio e tempo sono proprietà inseparabili dalla materia stessa. Anzi la teoria di Einstein è una conferma di alcune fondamentali tesi del materialismo dialettico. È opportuno ricordare che questa posizione deve per forza criticare la fi500
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losofia che Einstein stesso aveva elaborato per chiarire il significato della teoria della relatività. Secondo i marxisti sovietici le interpretazioni filosofiche date della relatività in occidente errano nel voler presentare questa teoria come una confutazione dei principi del materialismo dialettico. Così facendo quelle interpretazioni impediscono di cogliere con chiarezza il nucleo di verità che la teoria di Einstein contiene, e che poi è quello che, come si è visto, conferma le principali tesi del materialismo dialettico. Nella Grande enciclopedia sovietica si. sottolineava fino dal 1932 che la critica einsteiniana allo spazio ed al tempo assoluti era rispondente a un'impostazione materialistica engelsiana. «Il concetto di un assoluto distinto dalla materia in movimento nello spazio e nel tempo è un'astrazione metafisica ... Spazio e tempo sono forme dell'esistenza della materia in movimento e non esistono come entità distinte, indipendenti dalla materia. » Nella stessa opera si sottolineava come il crollo dei vecchi concetti di spazio e di tempo, connesso con la teoria della relatività, fosse sfruttato in senso reazionario dalla filosofia borghese; e si aggiungeva che Einstein stesso in parecchie occasioni aveva favorito questa interpretazione presentando le sue ricerche come uno sviluppo delle idee di Mach. In una successiva edizione dell'Enciclopedia si riprendeva ed ampliava la tesi già sostenuta nel I 9 32 e si giungeva ad affermare: « Si può anche dire che la teoria della relatività è una teoria dei rapporti spazio-temporali della materia in movimento. I principi più importanti che essa investe sono: la conferma della concezione materialistico-dialettica dello spazio e del tempo c~me forme di esistenza della materia» e «la conferma dell'insegnamento del materialismo dialettico sulla connessione ed interdipendenza di tutti gli aspetti della realtà materiale ». Non bisogna però credere che la posizione ufficiale contenuta nella Grande endclopedia sovietica esaurisca l 'interesse dei filosofi russi per la teoria di Einstein e neppure che essa risolva tutti i problemi che sono aperti al materialismo dallo sconvolgimento relativistico. Infatti vediamo che sulla definizione di ciò che si deve intendere per nucleo fondamentale della relatività nascono tra i filosofi sovietici discussioni accanite. Vi sono da una parte coloro che sostengono come Vladimir Fock e più tardi Danilovic Aleksandrov che la relatività è una teoria che riguarda le proprietà generali dei corpi e delle loro relazioni spaziali e temporali, ed in questo senso è necessariamente analoga alla geometria. Questa teoria è vera nel senso che riflette correttamente la realtà, ed è basata su un grande numero di esperienze che la confermano; inoltre l'accordo tra questa teoria e le altre già esistenti in meccanica ed elettrodinamica depone a favore della sua verità. Accanto a questa concezione ve n'è un'altra nel marxismo dialettico sovietico che sottolinea maggiormente il carattere di sconvolgimento filosofico della teoria della relatività. Alcuni fisici vollero infatti vedervi la prova di una relatività nei rapporti fra oggetto osservato ed 50 I
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osservatore. Così Yakov P. Terletskij ed A. Maksimov che ritenevano che la scelta del sistema di riferimento fosse dettata da ragioni di convenienza di rappresentazione dei movimenti. Questi autori sottolineavano l'aspetto di convenzione operativa della relatività. Così Terletskij affermava che il sistema tolemaico nella sua sfera di osservabili era un sistema coerente, e sottolineava anche che la fo.rma delle leggi fisiche dipende, nella teoria di Einstein, dalla scelta delle coordinate. Nel dibattito fra i sostenitori della teoria della relatività come rispecchiamento e come convenzione operativa, la parola restò ai primi per l'ovvia aderenza alle tesi classiche del materialismo dialettico. Queste tesi, nel nostro caso, sono l' oggettività. della relatività, soprattutto quella generale, e la conferma che essa offre all'idea di connessione fra spazio, materia e movimento, avanzata da Engels e da Lenin. In particolare il principio dell'equivalenza fra massa ed energia confermerebbe le idee di Engels che il movimento non è qualcosa di accidentale per la materia ma è « un modo di essere della materia stessa ». Bisogna sottolineare però che la vittoria dell'interpretazione sostanzialistica ha avuto dei riflessi importanti perché, come è, ovvio, ha vincolato, assai più di quanto avrebbe fatto quella operativistica, i filosofi sovietici alle implicazioni fisiche che essa reca con sé. In primo luogo c'è il rischio di voler trovare significato per ogni passaggio della teoria della relatività che è, com'è noto, assai pesante matematicamente. Alcuni scienziati sovietici volevano ridurre la relatività ad una « teoria dei movimenti rapidi » non contraddittoria con le basi della meccanica newtoniana. Su tale tipo di ricerche essi si trovarono vicino ad analoghe ricerche compiute dall'astronomo olandese de Sitter sulle stelle doppie. Ma nel far questo trascuravano di tener presente un cardine della interpretazione sostanzialistica, che è quello di considerare la relatività soprattutto come una teoria dei rapporti fra spazio e tempo. Inoltre il punto che, secondo tale tendenza dei « movimenti rapidi », stava in maggior accordo con le tesi del materialismo dialettico era il legame fra materia ed energia che non dovrebbe manifestarsi soltanto ad alte velocità. I sostenitori della tesi sostanzialistica continuarono la loro opera di studio della teoria della relatività anche dopo la guerra, e indubbiamente la loro interpretazione costituisce un utilissimo correttivo di tanti mistificanti discorsi spiritualistici che prendono spunto dalla relatività. Più recentemente Kharin ha ricordato che è opportuno considerare la relatività non solo una teoria dei rapporti fra materia e spazio, ma anche una teoria « legata nel modo più stretto alla tecnica, attraverso la quale essa trova applicazione nella produzione. Non applicando la teoria speciale della relatività è impossibile effettuare molti calcoli tecmc1 connessi con la costruzione di acceleratori di particelle elementari e con l'utilizzazione della teoria atomica ... ». « I critici della teoria della relatività che la respingono in blocco non capi-
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scano che è impossibile risolvere la questione della valutazione di una qualsiasi teoria scientifica senza tener conto di quale rapporto tale teoria abbia con la produzione, senza considerare se essa sia applicata o no alla produzione. » Con queste parole Kharin vuole sottolineare che per la filosofia sovietica è importante anche il criterio della prassi, come prova della verità di una teoria, e vuole forse riproporre una valutazione pratico-operativa della teoria, che negli anni trenta era stata accantonata. Dobbiamo dunque affermare che l'unico sviluppo possibile della teoria della relatività nell'ambito della filosofia sovietica può realizzarsi solo sul piano della prassi, ossia della maggiore o minore utilità che la teoria ha per i fisici nella ricerca? È forse bene fare una pausa e riflettere meglio sul problema dei rapporti intercorrenti fra materialismo dialettico e reJatività, problema che è ben lungi dall'essere risolto. Infatti quando Einstein dice che la realtà fisica ha un'esistenza obiettiva, la sua tesi non deve esser confusa con quella del materialismo dialettico che la materia è :primaria e la mente secondaria, perché Einstein talvolta sembra sostenere proprio l'opposto. Quando Einstein dice che spazio, tempo e materia sono inseparabili non vuol dire che essi sono forme obiettive della materia. Soprattutto quando Einstein parla di unità fra spazio e materia ha in mente un'unità di tipo geometrico (nel senso che è lo spazio curvo di un continuo a n varietà a creare le condizioni gravitazionali a n-1 varietà; cioè è la curvatura che appare come materia e non viceversa) si distacca dalla prospettiva del materialismo dialettico per la quale l'unità è dovuta alla preesistenza della materia che assume «anche» la forma spaziale: Si potrebbe vedere un'altra contraddizione nel fatto che, per Einstein, l'intervallo spazio-temporale è una realtà data ed immutabile, mentre per il materialismo dialettico la materia in movimento è la base della realtà. Malgrado tutte queste difficoltà le posizioni più recenti dei filosofi sovietici tendono a ribadire ed approfondire il contenuto materialistico della relatività. Ad esempio Aleksandrov in « Voprosy filoso fii » ( « Questioni di filosofia ») nel 1971, nota come vi sia stata nella storia della fisica e della matematica occidentale una sostituzione delle precedenti rappresentazioni di spazio e di tempo con altre rappresentazioni più esatte. Così Leibniz definiva lo spazio come l'ordine delle cose esistenti. Questa definizione approssimata e poco produttiva viene sostituita da altre che trattano lo spazio ed il tempo come forme di esistenza della materia. Orbene la ricerca di leggi generali e universali che viene fatta nella teoria della relatività generale costituisce un ulteriore passo sulla via dell'approfondimento delle nozioni di spazio e di tempo intese come forme di esistenza della materia. Inoltre Aleksandrov ritiene che la maggiore universalità così raggiunta sia la prova dell'anticonvenzionalità di queste leggi. Le stesse definizioni della relatività speciale non sono convenzionali ma svelano un rapporto fra corpi fisici che è più reale di quello indicato dalla teoria dell'assolutezza della relatività.
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Lo sforzo dei filosofi sovietici per ridurre al minimo gli aspetti convenzionali della relatività va evidentemente inteso come un appoggio alla interpretazione reaUstica della relatività. In particolare il principio di equivalenza fra massa ed energia confermerebbe l'idea di Engels che il movimento norf è qualcosa di accidentale per la materia ma è un modo di essere della materia stessa. L'interpretazione realistica e dialettica della relatività è senza dubbio uno stimolo assai forte perfino per coloro che ritengono la relatività un puro strumento operativo perché li sfida a. negarne le implicazioni oggettive. · . · Indubbiamente il dibattito continuerà anche perché i filosofi so.vietici sonq ben decisi a non lasciare più la relatività nelle mani di persone che se ne servono contro il materialismo. · V · Q.RIENTAMENTI ATTUALI DELLA DISCUSSIONE SULLA TEORIA DELLA RELATIVITÀ
Oggi la problematica delle critiche ad Einstein si muove su di un piano diverso, che da uri lato prende a prestito gli strumenti più sottili dell'analisi metodologica e dall'altro cerca di comprendere la sua portata oggettiva. Non si cerca più la spiegazione filosofica della teoria della relatività e neppure si tenta di mastrame i limiti di applicabilità. Piuttosto si discutono le basi concettuali su cui Einstein si era appoggiato nel formulare la teoria. I pUnti su cui si insiste sono, in fondo, due: la fondazione dd rapporto fra fisica e geometria nella relatività, e il problema del valore delle invarianti nella teoria generale e nelle teorie del. campo unificato che Einstein ha sviluppato come proseguimento della teoria della relatività fin dal 1933. a) Per ciò che attiene al primo punto ricordiamo anzitutto che in passato la discussione sul rapporto tra fisica e geometria si fondava sul presupposto di poter trovare una risposta al problema di quale fosse la geometria «vera». Chiaramente non è più così oggi, proprio per la maggior consapevolezza critica sorta nell'ambito matematico-geometrico a proposito dell'ambiguità del termine «vero». Si può anzi dire che oggi non interessa più sapere quale geometria sia « vera » fisicamente; semmai oggi si vuole sapere quale impostazione fisico-matematica trova una maggiore e più ampia conferma da parte della geometria. Si è discusso a lungo sul fatto che Einstein sia riuscito o meno ad eliminare il concetto di spazio assoluto formulato da Newton. Anzi da parte di alcuni è stato sostenuto che Einstein errò quando volle insistere sull'uso di una geometria a curvatura variabile nella relatività generale. Come già abbiamo visto nel paragrafo rr, per Whitehead, Einstein avrebbe dovuto usare una geometria uniforme la cui curvatura doveva stabilirsi a partire da una base sensoriale.
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Orbene è interessante che Einstein abbia proprio fatto il contrario di questo quando ha affermato la necessità di una definizione sperimentale del coefficiente di curvatura della geometria; e si può dire che su questo problema egli abbia preso una posizione assai moderna. Con ciò si capisce che egli usava il termine geometria in un senso notevolmente diverso da quello tradizionale vuoi convenzionalistica vuoi pseudo-materialistica. Egli denotava col termine geometria tanto una teoria della meccanica quanto una teoria dei rapporti spaziali. Secondo questa definizione einsteiniana la geometria non è dunque qualcosa di riducibile ad un gruppo di teoremi, sia pure esposti con le tecniche più raffinate, ma è il nome da dare a tutto un gruppo di ricerche fisico-matematiche. Qui interviene una seconda concezione di Einstein sul rapporto tra fisica e geometria: per lui la geometria e le proprietà inerziali dello spazio non hanno senso in uno spazio vuoto. Tuttavia questa idea, che poi è quella che afferma che le proprietà fisiche dello spazio hanno la loro origine nella materia in esso contenuta, non trovò un'espressione completa nella relatività generale. Cosa significa questo? Che in un certo modo nella relatività generale Einstein non è riuscito ad eliminare del tutto il concetto di spazio assoluto newtoniano. Nella relatività generale, nota Adolf Griinbaum, uno dei più moderni critici della teoria einsteiniana, il rapporto tra spazio e materia trova solo un'espressione limitata perché anche se la curvatura spaziale è influenzata dalla distribuzione della massa, la geometria che ne deriva non è unicamente specificata da questa distribuzione. Per ovviare a questa permanenza dello spazio assoluto (sia pure nella forma del principio di Mach secondo il quale l'inerzia nei sistemi in traslazione e rotazione è dipendente dalla distribuzione e dal moto relativo della materia presente nell'universo) Einstein introdusse fin dal 1916 la costante cosmologica che riguarda la densità della materia e la sua distribuzione. Poco per volta egli abbandonò tuttavia il principio di Mach per sostenere la tesi che la materia è solo una parte del campo e non la sua causa. Come si dirà più ampiamente nel capitolo vn del volume ottavo dedicato alla cosmologia, l'abbandono del principio di Mach ebbe delle conseguenze notevolissime, che trovarono espressione nelle ricerche di Kurt Godei. Questa nuova tesi, cioè, porta la relatività molto al di là di quella eliminazione del concetto di spazio assoluto che alcuni critici come Max Jammer consideravano il suo principale merito. - -Negli anni settanta lo studio degli sviluppi della relatività è stato sviluppato in particolare da J .A. Wheeler, il quale attraverso un'indagine storica sulla formazione della relatività generale si chiede se non si delinei fin d'ora un passaggio dal concetto di relatività delle descrizioni fisiche da parte di vari osservatori in moto qualunque gli uni rispetto agli altri, a quello di mutabilità ossia di descrizione alternativa fornita da un osservatore- in base a costanti sperimentali che variano da zona a zona dell'universo e variano col tempo. Tale idea viene a Wheeler dagli studi portati avanti dai più moderni cosmologi sulla
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variazione delle cosiddette costanti fondamentali della fisica, variazione che è rilevabile con metodi geologici oltre che con lo studio delle particelle. Un'altra direzione di studi è la geocronometria (sviluppata sulla base di alcune idee di Reichenbach nelle opere di Griimbaum, Putnam, Massey, Van Fraassen e altri) che è un tentativo di fondare in maniera logica la relatività speciale e generale prescindendo dal momento sperimentale di questa teoria e rafforzando invece il suo valore di teoria della conoscenza operativa dei concetti. La geocronometria è un tentativo di assiomatizzare la relatività mostrandone i legami profondi con la logica moderna dei gruppi e con la filosofia della scienza. Può sorgere a questo punto la domanda se Einstein si sia preoccupato di dare una sistemazione assiomatica coerente della teoria della relatività. Alcuni fisici lo negano perché ritengono che per Einstein la matematica sia sempre stata uno strumento, sia pure preziosissimo, ma nulla di più. Einstein dà un'importanza enorme alla matematica, ma ciò non vuoi dire affatto che egli voglia presentare le sue teorie come un edificio perfetto e completo in ogni sua parte. Per esempio, secondo il premio No bel, Richard Philipp Feyman, sarebbe giusto dire che Einstein si avvale della matematica fin dove essa gli serve per sviluppare alcuni suoi concetti fisici ma non per formulare un sistema di rapporti completi. Einstein resterebbe al di qua della matematica in senso greco, nell'ambito di una matematica di tipo « babilonese », volta nel suo complesso alla soluzione di alcuni casi particolari. b) Il secondo centro di critiche è l'idea einsteiniàna che la generalizzazione matematica nella formulazione delle leggi fisiche sia simbolo di una realtà più profonda di quella espressa nei casi particolari. Riconoscendo la grande importanza teorica e pratica delle formulazioni invarianti molti hanno finito per confondere, aiutati forse dall'atteggiamento di Einstein, invarianza ed oggettività, che hanno un valore ben diverso in geometria ed in fisica, essendo coincidenti nella prima scienza ma non nella seconda. Ecco che la critica più recente mette in guardia contro queste confusioni. Esiste infatti, in generale, un numero indefinito di classi di trasformazioni che potrebbero venire scelte per definire l'invarianza e non c'è ragione perché la classe impiegata nella relatività generale sia intrinsecamente superiore alle altre. Bisogna perciò distinguere metodologicamente fra profondità di una teoria e sua oggettività. Infatti ogni volta che le invarianti devono venir applicate ad un sistema fisico concreto devono essere completate da enunciati su questioni particolari. Come in matematica una formula che abbracci tutto un genere di traiettorie, non è « superiore » alle singole traiettorie, così nella teoria della relatività generale una invariante non è «superiore» alla propria specificazione. Il problema delle invarianti è anche al centro delle ultime teorie
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di Einstein. Proprio per questo le teorie relativistiche del campo unificato hanno un interesse notevole matematicamente, ma il loro valore di modelli è diminuito assai dalla complessità della loro geometria. « Vien meno,» scrive Bruno Finzi, «nello spazio-tempo dell'estrema sintesi einsteiniana ogni concreta spiegazione geometrica dei fatti fisici del tipo, ad esempio, di quella di cui si vale la teoria della relatività gener;lle, quando trae la legge del moto gravitazionale di un corpuscolo dal principio della geodetica spazio-temporale. Tutto è ridotto a trovare attraverso identità geqmetriche le equazioni cui obbediscono gravitazione ed elettricità fuse in un campo geometrico unitario. » La incapacità di previsione di nuovi fatti fisici ha gravemente pregiudicato il valore delle teorie del campo unificato. Lo studio nel quale più vivacemente si applicano oggi le teorie della relatività generale è quello cosmologico, al quale abbiamo dedicato espressamente un intero capitolo, in quanto esso rappresenta, tanto per la sua portata. antologica che per quella matematica, lo sbocco più significativo dei dibattiti sul valore delle teorie einsteiniane. Per concludere queste discussioni riteniamo opportuno riportare le parole di Einstein stesso, parole che lasciano aperto il campo ad ulteriori dibattiti: lo scienziato appare « come un realista poiché cerca di descrivere il mondo indipendentemente dagli atti della percezione; come un idealista perché considera i concetti e le teorie come libere invenzioni dello spirito umano (non deducibili logicamente dal dato empirico); come un posi tivista perché ritiene che i suoi concetti e le sue teorie siano giustificati soltanto nella misura in cui forniscono una rappresentazione logica delle relazioni fra esperienze sensoriali. Può addirittura sembrare un platonico o un pitagoreo, in quanto considera il criterio della semplicità logica come strumento indispensabile ed efficace per la sua ricerca. »
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Bibliografia
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CAPITOLO SECONDO La nascita della psicologia scientifica
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CAPITOLO TERZO
L'esigenza di una «scienza sociale»: il costituirsi della sociologia Per quanto concerne le opere di Claude-Henri de Saint-Simon si veda: Oeuvres de J'aint-Simon et d'Enfantin, 47 voli., Parigi I865-78; Oeuvres, 6 voli., Parigi I966. Si veda anche: Oeuvres choisies, 3 voli. a cura di C. LEMONNIER, Bruxelles I859-6I. In italiano è tradotto il Nuovo cristianesimo, Torino I946. Si veda anche: Il socialismo prima di Marx, a cura di G.M. BRAVO, Roma I970. Sulla vita, sull'opera di Claude-Henri de Saint-Simon e sull'influenza che ha avuto la sua dottrina si veda: F. CAROVE, Der Saint-Simonismus und die heutige franzosiche Philosophie, Lipsia I93 I; J.F. OZANAM, Réflexions sur la doctrine de Saint-Simon, Lione I83 I; J. REYNAUD, De la société saint-simonienne, in« Revue encyclopédique » I832; M. VEIT, Saint-Simon und der Saint-Simonismus, Lipsia I834; N. HuBBARD, Saint-Simon, sa vie et ses travaux, Parigi I857; A. CASTELNAu, Saint-Simon, sa doctrine et son influence, in « Revue germanique » I 864; J. COMBES, Le saint simonisme et son influence sur la littérature, in « Revue contemporaine » I865; P. jANET, Le socialisme moderne: l'école saint-simonienne in« Revue cles deux mondes » I876; Io., Le fondateur du socialisme moderne: Saint-Simon, ivi I876; Id., Saint-Simon et le saint-simonisme, Parigi I878; G. GuÉROLT, Saint-Simon et le saintsimonisme, in « Revue bleue » I 878; E. VAN ELEWYCK, Saint-Simon et le naturalisme, in « Revue de Belgique » I 88 3; P. JANET, Les origines de la philosophie d'Auguste Comte. Comte et Saint-Simon, in « Revue cles deux mondes » I887; J. DE CROZALS, Saint-Simon, Parigi I89I; G. BoiSSIER, Saint-Simon, I892; O. WARSCHAUER, Saint-Simon Utld der Saint-Simonismus, Lipsia I 892; G. Weill, Un précurseur du socialisme: Saint-Simon et son oeuvre, Parigi I894; É. FAGUET, Le comte de Saint-Simon à l'occasion de pubblic~tions recentes, 514
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CAPITOLO QUARTO
L'esigenza di una scuola nuova della pedagogia scientifica In generale sulle scuole nuove si veda: E. CoNTOU, Écoles nouvelles et Landerziehungsheime, Parigi I905; E. CLAPARÈDE, Les nouvelles conceptions éducatives et leur vériftcation par l'expérience, Parigi I9I9; J.F. EISLANDER, L'école nouvelle, Parigi-Bruxelles I9zz; A. BANFI, Le correnti della pedagogia contemporanea tedesca e il problema di una teoria ftlosoftca dell'educazione, in « Levana » I 9z 5-z6; M.M. STEARNS e C. W ASHBURNE, New school in the o/d world, New York I9z6; In., Better schools, New York I9z8; A. FERRIÈRE, La liberté de l'enfant à l'école active, Bruxelles I9z8; In., La pratique de l'école active, Ginevra I9z9; A. RunE, Die neue Schule und ihre Unte"ichtslehre, Lipsia I9z9; L. DETAILLE, La pédagogie contemporaine; ses bases, ses méthodes, son histoire, Bruxelles I 9 3Z; J. AnAMS, The new teaching, Londra I935; A. EHM, L'éducation nouvelle, Parigi I936; F. CHATELAIN, Les principes de l' éducation nouvelle, Parigi I 9 37; E. ALBERT, L'éducation nouvelle, ses Jondetnents, son évolution et son expansion, Parigi I 9 38; A. FERRIÈRE, L'école active, Ginevra I 940; A. MEDICI, L'éducation nouvelle, ses précurseurs, son évolution, Parigi I94o; E. CoDIGNOLA, Le «scuole nuove» e i loro problemi, Firenze I946 (nuova ed. I969); P. FouLQUÉ, Les écoles nouvelles, Parigi I 948 ; M. BLOCH, Philosophie de l' éducation nouvelle, Parigi I 948; R. CouSINET, L'éducation nouvelle, Neuchatel-Parigi I950. Su Alfred Binet si veda: F. PAULHAN, A. Binet: la suggestibilité, in« Revue philosophique » I9oi; B. BouRDON, A. Binet: /'étude expérimentale de l'intelligence; F. DE SARLO, L'opera di A. Binet, in« Psiche» I9Iz; R. MARTIN, A. Bine!, Parigi I9Z5; F.L. BERTRAND, A. Binet et son oeuvre, Parigi I93o; E. VARON, The development of A. Binet's psychology, Princeton I93 5; C. BART, Binet's work on intelligence; J. LARGUIER DESBANCELS, L'oeuvre d'A. Bine!, nel volume: Centenaire de T. Ribot, Agen I939; A. MARZI, A. Binet, Brescia I 946; F. ZuzA, A. Binet et la pédagogie expérimentale, Lo vani o I 948 ; T. WoLF, A. Binet: un periodo de crisis, in « Revista de psicologia generai y aplicada » I963; G. AvANZINI, La société A. Binet et Théodore Simon, in« Revue beige de psychologie et de pédagogie » I968. Su Edmond Demolins di cui è tradotta in italiano L'educazione nuova: la scuola des Roches », Firenze I 96z, si veda: G. BERTHIER, La fondation de l'« école des roches », in « La science sociale» I907; P.F. NICOLI, L'« école des roches » e la formazione di una pedagogia nuova, in «Rivista pedagogica» I9I7; G. BERTHIER, L'école des roches, Juvigny I935· Su Hermann Lietz e sui Landerziehungsheime si veda: A. ANDREESEN, Das Landerziehungsheim, Lipsia I9z6; In., H. Lietz, der Schopfer der Landerziehungsheime, Mo-
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CAPITOLO QUINTO
Il pensiero ftlosoftco anglo-americano Su James Hutchinson Stirling si veda: A. H. STIRLING, ].H. Stirling, his !ife and his work, Londra I 9 I 2. Le seguenti opere di Edward Caird sono tradotte in italiano: H egei, a cura di G. VITALI, Palermo I9I I; Rousseau e altri saggi, a cura di E. CoOIGNOLA, Torino I9I7; Il cartesianesimo. Cartesio, Malebranche, Spinoza, a cura di M.C. BoMBELLI, Firenze I933; Il regno dello spirito, a cura di E. FERRANDO, Firenze I922 (rr ed. I949). Su E. Caird si veda: J. WATSON, E. Caird as teacher and thinker, in « Queen's quarterly » I9o8; Io., The idea!ism of E. Caird, in « Philosophical review » I9o9; J.S. MACKENZIE, E. Caird as a philosop~ teacher, in« Mind » I9o9; W. O. LEWIS, The fundamental principles involved in E. Caird's philosop~y of religion, Lipsia I909; G. VITALI, E. Caird, in «Cultura contemporanea» I9I I; H. JoNES-J.H. MmRHEAD, The /ife and
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Bibliografia « Revue internationale de philosophie » I967; F. 0PPENHEIM, Some new documents on Rf!Yce' s ear!J experiences of communities, in « Journal of the history of philosophy » I968; In., A ri!Jcean road to community, in« International philosophical quarterly » » I97o. Alcune opere di W. James sono state riedite di recente: Varie ties of religious experiences: a stuc!J in human nature, New York I963; The principles of psychology, Gloucester I962; Psychology. Briefer course, New York I962; The meaning of truth, New York I955; Talks to the teachers on psychology and to students on some of life's ideals, New York I963. I brevi saggi sono stati raccolti: Essays in radica! empiricism, New York I912; Memoirs and studies, New York I9I2; Collected essays and reviews, New York I920. Sono state inoltre edite delle Letters a cura del figlio HENRY, 2 voli., Boston I 920. Tra le antologie: The philosoply oj W. james, a cura di H.M. KALLEN, New York I925; W. James: a selection from his writings on psychology, a cura di M. KNIGHT, Harmondsworth I95o; The writings of W. james: a comprehensive edition, a cura di J. McDERMOTT, New York I968. Si veda anche: R.B. PERRY: Annotated bibliograply of the writings of W. James New York I92o. Le principali opere di W. James sono tradotte in italiano: Principi di psicologia, a cura di G.C. FERRARI, Milano I90I (m ed. I9Io); Compendio dei principi di psicologia, a cura di G. T AROZZI, Milano I 9 I I; Le varie forme della coscienza religiosa. Studio sulla natura umana, a cura di G.C. FERRARI e M. CALDERONI, Torino I9o4 (n ed., I9I7); Gli ideali della vita. Discorsi ai giovani e discorsi ai maestri, a cura di G.C. FERRARI, Torino I9o2 (vi ed. I942); La volontà di credere, Milano I912; Introduzione alla ftlosofta, a cura di M. MALATESTA, Milano I944; Saggi pragmatisti, a cura di G. PAPINI, Lanciano I9Io; Sapgi sull'empirismo radicale, a cura di E. Riverso, Padova I97o; In., a cura di N. DAZNI, Bari I97I. Sulla vita e sull'opera di W. James si vedano i seguenti studi: D.S. MILLER, The will to believe and the duty to doubt, in « International journal of ethics » I 899; G. V AILATI, W. james. « The will to believe » and other essays in popular philosoply, in « Rivista sperimentale di freniatria)) I 899; In., in (( Rivista italiana di sociologia)) I 899; In., La concezione della coscienza di W. james, in «Rivista di psicologia» I9o5; G.E. MooRE, Professar james' s pragmatism, in « Proceedings of the aristotelian society » I907-o8 (anche in Philosophical studies, Londra I 922, (ristampa I 96o); E. T AUSCH, W. ]ames, the pragmatist, a psychofogicaf ana!Jsis, in « The monist » I9o9; G.C. FERRARI, W. James, in «Rivista di psicologia» I9Io; G. TAROZZI, W. james, in «Nuova antologia» I9Io; G. PAPINI, W. ]ames, in «La voce» I9Io; A. LEVI, La ftlosofta dell'intuizione differenziata ( Bergson e james), in «Rivista di psicologia» I9I I; E. CRICCHETTI, Saggio di esposizione sintetica del pragmattsmo religioso di W. james e F.C.S. Schiller, in «Rivista di filosofia neoscolastica » I9I I; A. MENARD, Ana!Jse et critique des principes de psychologie de W. james, Parigi I9I I; C. BusH, W. James als Religionsphilosoph, Gottinga I9I I; T. FLOuRNOY, La philosophie de W. james, Saint-Blaise I9I I; E. BouTROux, W. james, Parigi I9II; J. RoYcE, W. James and other essays on the philosoply of !ife, New York I9I I; R.B. PERRY, Present philosophical tendencies. A criticai survry of naturaltsm, idealism, pragmatism and realism, togetherwith a synopsis of the philosoply of W.James, New York I9I2 (n. ed. I968); H. McKALLEN, W.]ames and Henri Bergson, Chicago I9I4; F. ALBEGGIANI, Il prammatismo di W. ]ames, in« Rivista di filosofia» I9I4; E.E. SABIN, W. James and pragmatism, Lancaster I9I6; J.E. TuRNER, An examination of W. James' s philosoply: a criticai essqy for the generai reader, Oxford I 9 I 9; J. WAHL, Les philosophies pluralistes d' Angleterre et d'Amérique, Parigi I92o; F. DELATTRE,
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Bibliografia
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Bibliografia of philosophycal, psychological and scientific methods » I 907; D. PARODI, Le pragmatisme d'après W. ]ames et Schil/er, in « Revue de métaphysique et de morale» I9o8; E. CHIOCCHETTI, W. ]ames e F. Schiller, in «Rivista di filosofia neo-scolastica» I9Io; Io., Saggio di esposizione sintetica di prammatismo religioso di W. James e F. Schiller, ivi I9I I; W. BLOCH, Der Pragmatismus von Schiller und James, in « Zeitschrift flir Philosophie und philosophische Kritik » I9I 3; R. B. PERRY, Dr. Schil/er on W. James and on realism, in « Mind » I9I 5; G. GRONAU, Der Pragmatismus von James und Schiller, in« Die Philosophie der Gegenwart », Langensalza I9I9; R. KNIGHT, M r. Schiller and non-pragmatist logic, in « Proceedings of the aristotelian'society » I930-3 I; W. YoLTON, F. Schiller's pragmatism and british empiricism, in « Philosophy and phenomenological research » I950-5 I; R. ABEL, The pragmatic humanism of F. Schiller, New York I95 5; Io., F. Schiller and pragmatism, in « Personalist » I964; K. WINETROUT, F. Schiller (1864-1937): some centennial thoughts, ivi; Io., F. Schiller and the dimensions of pragmatism, Columbus I967. Gli scritti di George Edward Moore pubblicati postumi sono i seguenti: Philosophical papers, Londra 1959 (n. ed., New York I962); Lectures on phi/osophy, a cura di C. LEwY, Londra I966; Commonplace book 1919-JJ, a cura di C. LEWY, Londra I963. Si vedano le seguenti recenti edizioni di opere: Ethics, Londra I966; Principia ethica, Londra I959· Quest'ultima opera è tradotta in italiano (Milano I 946). Il saggio di Moore La confutazione dell'idealismo è incluso, in traduzione italiana, nel volume Il neoempirismo, Torino I969, a cura di A. PASQUINELLI. Su G.E. Moore si veda: C.C. MacDUFFEE, Moore on genera/ analysis, in « Bulletin of the mathematical american society » I 9 36; AuTORI V ARI, The phi/osop~y of C.E. Moore, a cura di P.A. ScHILPP, Evanston-Chicago I942 (n ed., New York-Londra I953); P. LINDBLOM, Common sense och andamalretik: C.E. Moore," Lund I945; P. HAEZRAHI, Some arguments against C.E. Moore' s view of the function of « Cood » in ethics, in « Mind » 1948; V. PRESSION, C.E. Moore's theory of sensedata, in« Journal of philosophy » I95 I; N. MALCOLM, Moore's use of « Know », in « Mind » I95 3; L. VIGONE, L'etica di C.E. Moore, in «Rivista di filosofia neoscolastica » I95 3; F. Rossi LANDI, L'eredità di Moore e la filosofia delle quattro parole, in «Rivista di filosofia» I95 5; A.R. WHITE, C.E. Moore. A criticai exposition, Oxford I 9 58; C. W. GRINDEL, Ethics without a subject: the good in C.E. Moore, in « Thomistica morum principia» I96o; C.D. BROAD, C.E. Moore' s /atest pub/ished views on ethics, in « Mind » I 96 I; D. CAMPANALE, Filosofia ed etica scientifica nel pensiero di C.E. Moore, Bari I962; R.F. TREDWELL, On Moore's ana(ysis of goodness, in « Journal of philosophy » I962; N. ABBAGNANO, C.E. Moore e i «Principia Ethica », in «Rivista di filosofia» I963; R.B. BRAITHWAITE, C.E. Moore, New York I963; A. GRANESE, Origini e sviluppi della filosofia analitica (C.E. Moore), Cagliari I964; R.S. HARTMAN, The definition of good: Moore's axiomatic of the science of ethics, in « Proceedings of the aristotelian society » I964-65; A. G. GARGANI, Linguaggio e società in C.E. Moore e nell'ultimo Wittgenstein, in «Giornale critico della filosofia italiana» I965; L. ADDIS e D. LEWIS, Moore and Ryle: two onto/ogists, L'Aia I965; D. CAMPANALE, Studi su C.E. Moore, in «Rassegna delle scienze filosofiche» I 966; J .H. 0LTHUIS, Facts, va/ues and ethics. A confrontation with twentieth century british mora/ phi/osophy, in particu/ar C.E. Moore, Assen I968; Studies in the phi/osophy of C.E. Moore, a cura di E.D. KLEMKE, Chicago I969; R. JAEGER, Ana/iticity and necessi~y in Moore's ear(y work, in « Journal of the history of philosophy » 1969.
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Bibliografia Una raccolta di scritti di Charlie Dunbar Broad è stata pubblicata di recente (lnduction, probability, and causation, Dordrecht 1967). Su Broad si veda: B. BosANQUET, Broad on the external world, in « Mind » 1922; G. GENTRY, Broad's sensum theot:_y and the problem ofthe sensible substratum, in« The monist » I93 5; S. V. KEELING, Prof Broad's examination of McTaggart's philosophy, in« Philosophy » I935; W. KNEALE, C. DuNBAR, Broad, examination of McTaggart's philosopky, in « Mind » I939; K. MARC-WOGAU, Die Theorie der Veranderung bei C. Dunbar Broad, in« Theoria » I943; M. BLACK, Prof Broad on the limit theorems of probability, in « Mind » 1947; M. LEAN, Sense-perception and matter. A criticai ana(ysis of C. Dunbar Broad's theory of perception, Londra I 9 53 ; J. WrLD, An examination of criticai realism with special reference to C.D. Broad's theory of sense, in « Philosophical and phenomenological research » I953-54; The philosophy of C. Dunbar Broad, a cura di P. SCHILPP, New York-Londra I96o. Su William P. Montague si veda: AuTORI VARI, W.P. Montague, in « Journal of philosophy » I954; P. RoMANELL, L'idea direttiva della ftlosofta di Montague, in« Rivista di filosofia» I954 (trad. it.). Le opere di George Santayana sono state raccolte in una edizione complessiva (Works, I 5 voli., New York I 9 36-40). Numerose le singole opere ristampate di recente; In italiano: L'io nella ftlosofta germanica, a cura di L. ZAMPA, Lanciano I9zo; L'idea di Cristo nei Vangeli, a cura di A. e C. Guzzo, Milano I949· Su George Santayana si veda: G.I. EnMAN, The philosophy of G. Santayana, New York I936; C. CLEMENS, G. Santayana, an american philosopher in exile, Groves I937; G.W. HowGATE, G. Santayana, Filadelfia I938; M.K. MuNITZ, The mora/ philosophy of Santayana, New York I939; AuTORI VARI, The philosophy of Santayana, a cura di P.A. ScHILPP, Chicago I940 (n ed. a cura di G.I. EnMAN, Chicago I95 3); N. 0LDEGEERING, G. Santayana et problema epistemologicum, Roma I 9 5o; J. DuRON, La pensée de G. Santayana, Parigi I95o; N. Bosco, Il realismo critico di G. Santayana, Torino I95 5; R. BuTLER, The mind of Santayana, Chicago I95 5 e Londra I956; I. SINGER, Santayana's aesthetics. A criticai introduction, Cambridge Massachusetts I957; AuTORI V ARI, Dialogue on G. Santayana, New York I959; W.E. ARNETT, Santa;yana and the sense of beauty, Gloucester Massachusetts I96o; R. BuTLER, The !ife and world of G. Santayana, Chicago I96o; M.M. KrRKWOOD, Santayana: saint of the imagination, Toronto I96 I ; AuTORI V ARI, G. Santa;yana, in « Revue internationale de philosophie » I963; J. AsHMORE, Santayana, art and aesthetics, Cleveland I 966; M. CoHEN, Santayana on romanticism and egotism, in « J ournal of religion » I 966; A. RECK, Realism in Santayana' s !ife of reason, in « The monist » I 967; T. SPRIGGE, S antayana and veriftcationism, in « Inquiry » I 969.
CAPITOLO SESTO Il complesso quadro della filosofia tedesca
Per gli scritti di e su Helmholtz si veda la bibliografia del capitolo vm del precedente volume. Su Du Bois-Reymond si veda la bibliografia del capitolo XVII del volume
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Bibliografia quarto e inoltre: I sette enigmi del mondo, Firenze I957, trad. e ampia introduzione di V. Cappelletti. Su Ernst Laas: R. HANISCH, Der Positivismus von E. Laas, Hall e I 902; D. GJURITS, Die Erkenntnistheorie desE. Laas, Lipsia I9o3; ]. KoHN, Der Positivismus von E. Laas, Berna I 907; L. SALAMONOWICZ, Die Ethik des Positivismus nach E. Laas, Berlino I 9 3 5 ; N. KocH, Das Verhaltnis der Erkenntnistheorie von E. Laas zu Kant. Ein Beitrag zur Geschichte des Positivismus in Deutschland, Wi.irzburg I940. L'opera di Wilhem Schuppe: Allgemeine Rechtslehre mit Einschluss der allgemeinen Lehren vom Sein und vom Wissen, è stata edita a cura di W. FucHs, Berlino I936; l'opera: Grundziige der Ethik und Rechtsphilosophie è stata riedita (Aalen I963). Su W. Schuppe: R. HERRMANN, Schuppes Lehre vom Denken, Greifswald I894; A. ALIOTTA, G. Schuppe, in« Cultura filosofica» I9o8; L. KLJUBOWSKI, Das Bewusstsein und das Sein bei W. Schuppe, Heidelberg I9I2; A. PELAZZA, G. Schuppe e la filosofia dell'immanenza, Milano I9I4; R. ZocHER, Husserls Phèinomenologie und Schuppes Logik, Monaco I932; W. FucHs, W. Schuppe als Rechtstheoretiker und Rechtsphilosoph, in « Rechtswissenschaftliche Studien » I9 32; C. Go RETTI, La filosofia pratica di W. Schuppe, in « Rivista di filosofia» I93 3; W. FucHs, W. Schuppe und die Theorie des Rechts, in« Revueinternationale de la théorie du droit » I935; In., Scienza del diritto e scienza dell'unità (in ricordo di W. Schuppe nel centenario della sua nascita: J maggio, I l) J 6), in « Rivista internazionale di filosofia del diritto» I936; A. BANFI, Attualità dello Schuppe, in «Rivista di filosofia» I936; P. MARTINETTI, La filosofia di G. Schuppe, i vi (anche in Ragione e fede, Torino I942); R. TREVES, 11 concetto di diritto nella filosofia di G. Schuppe, ivi; G. ]ACOBY, W. Schuppe, Greifswald I936; P. MARTINETTI, La morale secondo Schuppe, in «Rivista di filosofia» I 9 37; R. TREVES, Il problema dell'esperienza giuridica e la filosofia dell'immanenza di G. S chuppe, Milano I938; L. LuGARINI, G. Schuppe e il problema dell'immanenza, in« Sophia » I949; R. TREVES, El problema de la experiencia en la filosofia de W. Schuppe, in «Filosofia» 1959. Su Richard Avenarius si veda:]. PETZOLDT, Kritik der reinen Erfahrung von Avenarius angezeigt, Dresda I 889; R. WILLY, Bemerkungen zu R. Avenarius' Kritik der reinen Erjahrung, in « Vierteljahrsschrift fi.ir wissenschaftliche Philosophie » I 892; W. ScHUPPE, Die Bestèitigung des naiven Realismus, ivi I893; R. WILLY, Das erkenntnistheoretische !eh und der nativistische Weltbegriff, ivi I894; F. CARSTANJEN, R. Avenarius' biomechanische Grundlegung der reinen allgemeinen Erkenntnistheorie, Monaco I 894; R. WILLY, Empiriokriticismus als einzig wissenschaftlicher Standpunkt, in « Vierteljahrsschrift fi.ir wissenschaftliche Philosophie » I 896; W. WuNDT, Vber naiven und kritischen Realismus, in « Philosophische Studien » I 896; H. DELACROIX, Avenarius: esquisse de l' empiriocriticisme, in « Revue de métaphysique et de morale» I 897-98; E. KocH, Die Kritik der reinen E~fahrung, in «Archi v fi.ir systematische Philosophie » I 898; F. CARSTANJEN, Der Empiriokriticismus, in« Vierteljahrsschrift fi.ir wissenschaftliche Philosophie »I 898; O. EwALD, R. Avenarius als Begriinder des Empiriokriticismus, Berlino I905; N. SMITH, Avenarius's philosopf?y oj pure experience, in « Mind » I9o6; A. AuoTTA, R. Avenarius, in «Cultura filosofica» I9o8; A. PELAZZA, R. Avenarzus e l'empiriocriticismo, Torino I909; ]. SuTER, Die Philosophie von R. Avenarius, Zurigo I9Io; F. RAAB, Die Philosophie von R. Avenarius, Lipsia I 9 I 2; A. HIRCHE, Das !eh des Empiriokriticismus (R. Avenarius), Li p sia I 9 I 3. Per le opere di Eduard von Hartmann si veda: Ausgewl:ihlte Werke, I 3 voli. Lipsia I885-I9o1. L'opera Vber die dialektische Methode è stata riedita (Darmstadt I963). 534
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CAPITOLO SETTIMO
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Bibliografia (Oeuvres complètes, 9 voli., Parigi I947-6o). Le principali opere di E. Renan sono state tradotte in italiano: La vita di Gesù, a cura di F. DE BoNr, Milano I913; a cura di S. SARACCHI, Milano I 92.2.; Napoli I 9 32.; a cura di B. REVEL, Milano I 949; L'Anticristo. Nerone, a cura di A. TREVES, Milano I936; San Paolo, a cura di C. SINISCALCHI, Milano I938; Gli apostoli, a cura di E. ToRELLI VroLLIER, Milano I936; Marco Aurelio e la fine del mondo antico, a cura di A. FERRARI, Milano I937; Studi di critica e di storia delle religioni, a cura di L. Grusso, Milano I 948. Su E. Renan si veda: A. REVILLE, La vie de Jésus devant /es ortodoxes et la critique, Parigi I864; N. RoussEL, Les deux Jésus, de Renan et de l'évangile, Parigi I864; J. NICOLAS, Renan et sa « Vie de jésus », Parigi I 864; A. PoNs, Renan et /es origines du christianisme, Parigi I88I; C. RENOUVIER, Le prétre de Némi ( Renan), in « Critique philosophique » I886; M. MILLIOUD, La religion de Renan, Losanna I89I; E. LEDRAIN, Renan, sa vie et ses oeuvres, Parigi I 892.; L. BRUNSCHVICG, Sur la philosophie de Renan, in « Revue de mét~physique et de morale», I893; S. PAWLICKI, E. Renans Leben und Schriften, Vienna I894; R. MAHRENHOLZ, E. Renan, in « Zeischrift ftir neufranzosische Sprache und Literatur » I894; G. SÉAILLES, E. Renan. Essai de biographie psychologique, Parigi I895; M. VERNES, E. Renan et la question religieuse en France, Bruxelles I 899; H. BRAUER, The philosophy of E. Renan, Wisconsin I903; W. BARRY, E. Renan, Londra I9o5; D. DE RoBERTO, Renan, Torino I9II; P. MICHAELIS, Philosophie und Dichtung bei E. Renan, Berlino I9I3; M. SAMON, La formation philosophique d'E. Renan jusqu'à « L'avenir de la science », Parigi I9I4; P. GuiLLOux, L'esprit de Renan, Parigi I92.o; L.F. MoTT, E. Renan, New York I92.I; G. SARTON, E. Renan, in « Nineteenth century » I922.; A. BLINKENBERG, E. Renan, Copenaghen I92.3; E. MEYER, La philosophie politique de Renan, Parigi I92.3; AuTORI VARI, La pensée d'E. Renan, in « Journal de psychologie normale et pathologique » I92.3; R. BERTHELOT, La pensée philosophique de Renan, in « Revue des deux mondes » I92.3; M. BARRÈS, E. Renan, Abbeville I92.3; L. MÉRAT, E. Renan, sa vie, son oeuvre, Troyes I92.4; P. LASSERRE, Lajeunesse de Renan, 2. voli., Parigi I92.5; J. PoMMIER, La pensée religieuse d'E. Renan, Parigi I92.5; J. BouLENGER, E. Renan et ses critiques, Parigi I92.8; E. RENARD, Renan et /es étapes de sa pensée, Parigi I92.8; H. PsiCHARI, Renan d'après lui-méme, Parigi I937; M. WEILER, La pensée de Renan, Grenoble I945; P. VAN THIEGHEM, Renan, Parigi I948; R. DussAuD, L'oeuvre scientifique d'E. Renan, Parigi I95 I; J. CHAIX RuY, E. Renan, Parigi I956; J. TIELROOY, Renan, un grand humaniste, Parigi I958 (trad. dall'olandese); F. MILLEPIERRES, E. Renan, Parigi I96I; B. RouNTREE, The role of Malebranche in E. Renan's philosophical development, in « Journal of the history of philosophy » I968. Di LuCIEN LÉVY-BRUHL sono tradotte in italiano le seguenti opere: L'anima primitiva, con prefazione di E. DE MARTINO, Torino I948; La mentalità primitiva, Torino I966; l quaderni, Torino I95 2.. Su L. Lévy-Bruhl si veda: F. RAUTH, Science et conscience de Lé1!)'-Bruhl, in « Revue philosophique » I904; E. FRAMON, Les fondements du devoir et /es théories de Rauh, Lé1!JBruhl et Zyromski, Parigi I 906; E. E v ANS-PRICTCHARD, Lé1!J-Bruhl' s theory of primitive mentality, Il Cairo I934; B. FONDANE, L. Lé1!J-Bruhl et la métaphysique de la connaissance, in « Revue philosophique » 194o; E. BRÉHIER, Originalité de L. Lé1!J-Bruhl, ivi I949; M. LEENHARDT, Les carnets de Lé1!_y-Bruhl, in « Cahiers internationaux de sociologie » r 949; AuTORI V ARI, Centenaire de L. Lé1!J-Bruhl, in « Revue philosophique » I 9 57; H. SEROUYA, Hommage à L. Lé1!J-Bruhl, in « Revue de synthèse » I957; J. CAZENEUVE,
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Bibliografia
Lévy-Bruhl, sa vie, son oeuvre avec un exposé de saphilosophie, Parigi I963. Di Félix Ravaisson-Mollien sono stati tradotti in italiano i Sa,f!J!,i filosofici, a cura di A. TILGHER, Roma I9I7 e il volume su Aristotele, a cura di A. TILGHER, Firenze I922. Sulla sua opera si veda: H. BERGSON, Notice sur Ravaisson-Mollien, in « Mémoires de l' académie d es sciences morales et politiques de l 'Institut de France » I 907; R. LENOIR, La doctrine de Ravaisson-Mollien et la penséee moderne, in « Revue de métaphysique et de morale» I9I9; L. DuGAS, Les idées de Ravaisson-Mollien sur l'éducation, in « Revue pédagogique » I922; J. DoPP, F. Ravaisson-}Jollien, Lovanio I933; C. VALERIO, RavaissonMollien e l'idealismo romantico in Francia, Napoli I936; D.JANICAUD, Une généalogie du Jpiritualisme franfais. Aux sources du bergsonisnJe: Ravaisson et la métaphysique, L'Aia I 969. Su Paul Janet si veda: A. GARNIER, P. ]anet: étude sur la dialectique dans Platon et Hegel, in « Séances et travaux de l'académie cles sciences morales et politiques » I86I; F. PILLON, Les origines du socialisme contemporaine de P. Janet, in « Critique philosophique » I 884; H. STANLEY, P. Janet on fina/ causes, in « The new englander » I 884; V. BROCHARD, P. Janet: Vietar Cousin et son oeuvre, in « Revue philosophique » I 886; A. FRANCK, Vietar Cousin et son oeuvre, par P. Janet, in « Journal cles savants » I886; L. DAURIAC, La philosophie de P. Janet, in « L'année philosophique >> I897; H. BERGSON, Principes de métaphysique et de psychologie, par P. Janet, in « Revue philosophique » I 897; E. BouTROUX, Notice sur P. Janet, Versailles I9oo; G. PICOT, P. Janet, notice historique, Parigi I903· Su Charles Secrétan si veda: P. JANET, La métaphysique en Europe depuis Hegel. La philosophie de la liberté. C. Secrétan et Schelling, in « Revue des deux mondes » I877; F. MARILLIER, C. Secrétan: le principe de la morale, in « Revue philosophique » I885; G. BELOT, C. Secrétan: /es droits de l'humanité, ivi I89I; L. DAURIAC, Dieu selon le néo-criticisme. Réponse a C. Secrétan, in « L'année philosophique » I 893; E. BouTRoux, La philosophie de C. Secrétan, in« Revue de métaphysique et de moral » I895; C. GmE, C. Secrétan, in « Revue d'économie politique » I895; A. FomLLÉE, Notice sur C. Secrétan. Examen critique de sa philosophie, in « Séances et travaux de l'académie cles sciences morales et politiques » I897; F. PILLON, La philosophie de C. Secrétan, in « Revue philosophique » 1897; In., La philosophie de C. Secrétan, Parigi 1897; J. DuPROIX, C. Secrétan et la philosophie kantienne, Parigi I9oo; L. SECRÉTAN, C. Secrétan, sa vie et son oeuvre, Losanna I9Io; F. ABOUZIT, L'énigme du monde et sa solution selon C. Secrétan, Parigi I922; E. PESSINA, Le basi della morale nel pensiero di C. Secrétan, Napoli I925; E. GRIN, Les origines et l'évolution de la pensée de C. S ecrétan, Losanna I 9 3o; A. BuRNIER, La pensée de C. S ecrétan et le problème du fondement métaphysique des jugements de valeur morale, Neuchatel 1934; L. FoucHER, Renouvier et Secrétan; in « Revue de métaphysique et de moral » I94I; A. REYMOND, C. Secrétan et la pensée philosophique au xix.e siècle, in « Études et lettres » I942; E. GRIN, L'influence de Secrétan sur la théologie moderne, Losanna I942; V. BEGUIN, Le fondement de la morale chez C. Secrétan, Neuchatel I942; E. GRIN, Der Schellingianer Karl-Friedrich Schimper. Ein verkanntner deutscher Gelehrte im XIX Jahrundert, und sein Einjluss auf den lausanner Philosophen C. Secrétan, in« Philosophisches Jahrbucb » I95 8; P.T. FuHRMANN, The philosophy of C. Secrétan I8IJ-I89J, in« Journal of the history of philosophy » I964; F. BRUNNER, C. Secrétan, métap~ysicien ou moraliste, in« Revue de théologie et de philosophie » I965; B. SALMONA, 11 pensiero di C. Secrétan, I. I temi de «La philosophie de la liberté>>, Milano I968; U. PERONE, La filosofia della libertà in C. Secrétan, Torino I968. 543
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Bibliografia L'Essai surles Jondaments de la connaissance, di Augustin A. Cournot è stato riedito a cura di C. KHoooss, Parigi I 9 58; il Traité de l' enchatnement des idées fondamenta/es dans !es sciences et dans l' histoire, e le Recherches surles principes mathématiques de la théorie des richesses, sono stati ristampati (Roma I968). Su A.A. Cournot si veda: T. CHARPENTIER, Cournot, in« Revue philosophique » I88I; C. BouGLE, L'opinion de Cournot surla crise universitaire, in « Revue de métaphysique et de moral » I 899; G. MILHAUD, Le hasard chez Ari.rtote et Cournot, ivi I9o2; F. MENTRE, Une thèse de Cournot: l'histoire des sciences n'est-elle plus possible?, in« Revue de synthèse historique » I905; « Revue de métaphysique et de morale», numero speciale dedicato a Cournot I9o5; F. MENTRE, A.A. Cournot, Parigi I9o7; Io., Cournot et la renaissance du probabilisme au XIX siècle, Parigi I9o8; R. DARBOT, Le concept du hasard dans la philosophie de Cournot, Parigi I9Io; J. SECOND, Cournot et la p~chologie vitaliste, Parigi I9Io; G. MILHAUD, La déftnition du hasard de Cournot, in« Revue philòsophique » I9I I; Io., Le dévelopement de la pensée de Cou~not, in « Revue du mois » I9II; R. RuYER, L'humanité de l'avenir d'après Cournot, Parigi I93o; F. BOMPAIRE, Du principe de la liberté économique dans l'oeuvre de Cournot et dans celle de l'école de Lausanne, Sirey I93 I; R. FEDI, Il probabilismo filosofico di A. Cournot, in «Archivio di storia della filosofia italiana» I934; J. DE LA HARPE, De l'ordre et du hasard. Le réalisme critique de A.A. Cournot, Parigi I936; E. DE MICHELIS, A. Cournot e la sua teoria della conoscenza storica, in « Scientia » I937; AuTORI VARI, Cournot nella filosofia e nell'economia, Padova I939; P. TAVIANI, Cournot e il positivismo, in «Rivista internazionale di scienze sociali» I94o; B. CAIZZI, La ftlosofta di A. Cournot, Bari I942; A. LANGMAYR, Cournots Preisgebiiude, Vienna I943; J. RosTAND, Cournot et la biologie, in « Revue d'histoire cles sciences » I953; E. CALLOT, La philosophie biologique de Cournot, Parigi I959; E. RocCHI, A.A. Cournot e gli odierni concetti di probabilità, in« De homine » I967. Su Alfred Fouillée si veda: C. RENOUVIER, Les oijections d'A. Fouillée contre la conciliation du fibre arbitre avec !es lois du mouvement, in « Critique philosophique >> I 882; F. PILLON, Le vrai principe de la morale selon A. Fouillée, ivi I883; E. BorRAC, A. Fouillée: ~stèmes de morale, in « Revue philosophique » I884; E. DuRKHEIM, A. Fouillée: la propriété sociale et la démocratie, ivi I885; C. RENOUVIER, La morale criticiste et la critique d'A. Fouillée, in « Critique philosophique » I 8 8 5 ; A. FRANCK, A. Fouillée: la propriété sociale et la démocratie, in « Séances et travaux de l'académie cles sciences morales et politiques » I886; G. TARDE, A. Fouillée: la morale, l'art et la religion, in « Revue philosophique » I889; E. BorRAC, A. Fouillée: l'avenir de la métapl!Ysique, ivi I89o; A. FRANCK, L'avenir de la métapl!Ysique par A. Fouillée, in « Journal cles savants » I89o; E. BorRAC, A. Fouillée: l'évolution des idées-forces, in « Revue philosophique » I89I; A. PAWLICKY, A. Fouillées neue Theorie der Ideenkriifte, Vienna I893; F. PAULHAN, A. Fouillée: p~ychologie des idées-forces, in « Revue philosophique » I893; G. RENACLE, La p~ychologie des idées-forces par A. Fouillée, in « Revue de métaphysique et de morale » I 89 3; L. DAURIAC, Idéalisme et positivisme d' après A. Fouillée, in « Revue philosophique » I 897; D. PARODI, A.· Fouillée: le socialisme et la sociologie reformiste, ivi I 909; L. WEBER, A. Fouillée: morale des idées forces, in « Revue de métaphysique et de morale » I 909; E.F. BLUM, À propos de Henri Poincaré et A. Fouillée, in « Revue de Belgique » I912; A. GuYAu, La philosophie et la sociologie d'A. Fouillée, Parigi I9I 3; Io., Le socialisme des idées-forces, étude surl'oeuvre d'A. Fouillée, in « Revue internationale de sociologie » I9I 3; E. CHAUFFORD, La philosophie d'A. Fouillée et la pensée contemporaine, ivi I 9 I 3; A.
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CAPITOLO OTTAVO
Positivismo e hegelismo in Italia Per quanto riguarda le opere di Roberto Ardigò si veda: Opere filosofiche, in II voli., Padova r88z-1918; Scritti vari, a cura di G. MARCHESINI, Firenze 19zz; La relatività del pensiero. Saggio storico-critico, a cura di G. MARCHESINI, Milano 19z8. Si veda inoltre: A. LEVI e L. LrMENTANI, Bibliografia ardighiana. Scritti su R. Ardigò, in« Rivista di filosofia» 19z8-z9; L. LIMENTANI, Appendice alla bibliografia ardighiana, ivi 1940; W. BtiTTEMEYER, Bibliografia ardighiana: Appendice II, in « Rivista critica di storia della filosofia » 1970. Sulla vita e sull'opera di R. Ardigò si vedano i seguenti studi: P. o'ERCOLE, La psicologia positiva di R. Ardigò, in «La filosofia delle scuole italiane» r88o; AuTORI VARI, Nel 70° anniversario di R. Ardigò, a cura di A. GROPPALI e G. MARCHESINI, Torino 1898; A. BARTOLOMEI, I principi fondamentali dell'etica di R. Ardigò e le dottrine della filosofia scientifica, Ragusa 1900; V. OsiMO, La filosofia di R. Ardigò e il socialismo, in « Critica sociale» 1901; A. GRAZIADEI, Le teorie sociologiche di R. Ardigò. La teoria etico-giuridica di R. Ardigò e il materialismo storico, in Sociologia e psicologia, Verona-Padova 19oz; U. BoNAMARTINI, Il positivismo e l'inconoscibile secondo R. Ardigò, Roma 1904; G. LoMBARDO RADICE, R. Ardigò. La perennità del positivismo, in «Critica» 1905; B. BRUGI, Il fattore psicologico nel diritto naturale secondo R. Ardigò, in « Rivista di filosofia e di scienze affini » 1905; G. NASCIMBENI, La teoria del diritto naturale nello Spencer e nell' Ardigò, ivi 1905; F. MoMIGLIANO, Il maestro del positivismo italiano, R. Ardigò, in «Nuova antologia» 1907; G. MARCHESINI, La vita e il pensiero di R. Ardigò, Milano 1907; C.E. AROLDI, Il problema dell'universo nella filosofia di R. Ardigò, Milano I9o8; B. BRUGI, La filosofia nel sistema delle scienze filosofiche secondo R. Ardigò, in «Atti dell'istituto veneto» I9o8; Io., L'opera di R. Ardigò nella filosofia del diritto, in« Archivio giuridico» 1908; F. FERRI, Sul positivismo di R. Ardigò, Lodi 1908; R. MoNDOLFO, Il pensiero di R. Ardigò, Mantova 1908; R. MuRRI, Roberto Ardigò, in «Rivista di cultura» 1908; P. REALI, Il positivismo di R. Ardigò nell'educazione infantile, Padova 1908; G. Tarozzi, 11 significato storico e moderno del pensiero di R. Ardigò, Mantova I9o8; Io., R. Ardigò pedagogista, in« Rivista pedagogica» 19o8; G. VAccARo, R. Ardigò e la crisi della coscienza moderna, Torino I9o9; E. DI CARLO, Il diritto naturale secondo R. Ardigò e il positivismo italiano, Palermo 1909; Io., Ardigò e Stammler, in «Rivista di filosofia» 1910; A. CARELLE, Naturalismo italiano: R. Ardigò, sua conversione, sue dottrine desunte dalle sue opere, Padova 19I I; E. TROILO, L'opera di R. Ardigò, in «Rivista pedagogica» 19I 3; G. MARCHIANO, Il posittvismo pedagogico di R. Ardigò, Napoli I9I7; R. MoNDOLFO, R. Ardigò, in «Critica sociale» I9zo; E. TROILO, La filosofia morale di R. Ardigò, in «Rivista pedagogica» I9ZI; G. ZAMBONI, Il positivismo scientifico di R. Ardigò nella sua «Conversione>>, Verona I9ZI; L. LIMENTANI, R. Ardigò, in « Logos » 19zi; G. MARCHESINI, Il naturalismo umanistico di R. Ardigò, in «Nuova antologia» 19zz; Io., R. Ardigò. L'uomo e l'umanista, Firenze I9zz; E. TROILO, R. Ardigò, Milano 19z6; M. CrNACIULLI, Ardigò, in« Idealismo realistico» 19z7; «Rivista di filosofia» 19z8, numero speciale dedicato a R. Ardigò nel centenario; A. LEVI, Diritto e società nel pensiero di R. Ardigò, Milano I 92 8; R. MONDOLFO, Nel primo centenario di R. Ardigò, in« Rivista internazionale di filosofia del diritto» 19z8; G. TAROZZI, Ardigò, Roma 19z8; R. CAMPANINI, L'indirizzo psico-sociologico in Carlo
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CAPITOLO NONO Il dibattito sulla scuola in Italia fra la metà dell'Ottocento e gli inizi del Novecento
Sulla situazione della scuola in Italia nella seconda metà del secolo xrx si veda: A. SELMI, Il governo della pubblica istruzione in Italia dal I86o al I8 marzo I8J6. Cronistoria e aneddoti, Firenze I877; G. SAREDO, Vicende legislative della pubblica istruzione in Italia dal I8J9 al I899, introduzione al Codice della pubblica istruzione, 7 voli., Torino I899-I903; F. CoRRIDORE, L'istruzione in Italia, Torino I9o8; A. GALLETTI E G. SALVEMINI, Lariforma della scuola media, Milano-Palermo-Napoli I9o8; G. CASTELLI, L'istruzione professionale in Italia, Milano I9I 5; L. FRANCHI, Le fonti della legge Casati, Modena I92.8; N. SPANO, La legislazione universitaria italiana dal I8J9 al I947, Roma I948; M. Dr DoMIZIO, L'università italiana, Milano I95 2.; D. BERTONI ]OVINE, Storia della scuola popolare in Italia, Torino I954; Io., La scuola italiana dal I87o ai giorni nostri, Roma I95 8 (n ed. I967); A. CARACCIOLO, Autonomia o centralizzazione degli studi superiori nell'età della destra, in «Rassegna storica del Risorgimento» I95 8; «I problemi della pedagogia» I959 (numero speciale in occasione del centenario della legge Casati); G. T ALAMO, La scuola. Dalla legge Casati alla inchiesta del I864, Milano I96o. Sulla pedagogia del positivismo italiano in generale si veda: G.B. GERINI, Gli scrittori pedagogici italiani del secolo xrx, Torino I9Io; G. GENTILE, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, n vol., Messina I92.I (n. ed. I957); S. CARAMELLA, Studi sul positivismo pedagogico, Firenze I92.I; G. TAuRo, Aspetti e figure della pedagogia italiana contemporanea, Roma I92.5; G. FLORES o'ARCAIS, Studi sul positivismo pedagogico italiano, Padova I 9 53 ; G. CALÒ, Il positivismo pedagogico italiano, Milano I 9 53 ; S. MANDOLFO, l positivisti italiani ( Angiulli, Gabelli, Ardigò), Padova I966; R. TrsATO, Studi sul positivismo pedagogico in Italia, Padova I967. Per le opere di A. Gabelli si veda: L'istruzione in Italia, scelta di scritti e documenti, a cura di P. VrLLARI, 2. voli., Bologna I89I-92. (n ed. I903); L'educazione nazionale. Sa,f!gi pedagogici raccolti da E. ComGNOLA; Firenze I92.3 (n ed. I92.4); L'istruzione classica in Italia, a cura di E. ComGNOLA; L'istruzione e l'educazione in Italia, Firenze I95o (n. ed. I964). Del Metodo di insegnamento nelle scuole elementari si veda l'edizione curata da E. ComGNOLA, Firenze I92.I (Iv ed. I93 I) e quella curata da E. CARRARA, Firenze I932. (n. ed. I963). Si vedano inoltre le seguenti raccolte: A. SALONI, Educazione e scuola in A. Gabelli, Roma I963 (con ampio studio introduttivo); Scritti pedagogici, a cura di N. SAMMARTANO, Urbino I965. Su A. Gabelli: F. PrETROPADO, Il positivismo naturalistico di A. Gabelli, in« Rivista di filosofia scientifica» I89I; A. AMATI, A. Gabelli, studio biografico, Padova I893; G. RussrNO, A. Gabelli: vita ed opere, A vezzano I 9 I o; L. CALVAUNA, Le idee pedagogiche di A. Gabelli, Napoli I9II; E. GuERRA, L'opera pedagogica di A. Gabelli, Torino I9I3; G. TAuRo, A. Gabelli nella storia del pensiero, in« Rivista d'Italia» I9I 3; M. ]oRI, l pedagogisti moderni: A. Gabelli, Firenze I9I 5; F. BrANCHI, A. Gabelli, nella filosofia positiva e nella pedagogia applicata, Milano I92.o; S. CARAMELLA, A. Gabelli di Belluno (I8Jo-I89I) filosofo e pedagogista, Roma I92.3; V. JomcE, Esposizione ria.rsuntiva del metodo d'insegnamento nelle scuole elementari di A. Gabelli, Napoli I 92.9; G. CALÒ, Un maestro: A. Gabelli, in Dottrine ed opere nella storia dell'educazione, Lanciano I 9 32.; R. MI CELI, Aspetti del positivismo italiano:
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Bibliogr.afia il Gabelli, in« Archivio di storia della filosofia» I934; G. FLORES n' ARcArs, Ilpositivismo di A. Gabelli, in «Rassegna di pedagogia» I95o; F. V. LOMBARDI, A. Gabelli, Brescia I959; T. ToMASI, Società e scuola in A. Gabelli, Firenze I965; D. CARBONE, Contributo per una rivalutazione di A. Gabelli, in« Teoresi » I967. Dell'opera: La pedagogia, lo stato, la famiglia di Andrea Angiulli si ha un'edizione recente, a cura di F. CAFARO, Firenze I96r. Su A. Angiulli si veda: F. ALTEROCCA, Sulla vita e sulle opere di A. Angiulli, Milano I89o; G. CowzzA, Vita e pensiero di A. Angiulli, Milano I89I; F. 0RESTAN, A. AnJ,iulli, Roma I9o7; G. GENTILE, A. Angiulli, in« La critica» I909 (anche nel volume Le origini della filosofia contemporanea in Italia, citato); G. T AURO, La vita e il pensiero di A. Angiulli, in« Rivista pedagogica» I9I4; F. GmFFRIDA, A. Angiulli e C.A. Colozza, in l/fallimento della pedagogia scientifica, Città di Castello I92o; G. CALÒ, L'antesignano del positivismo pedagogico, in Dottrine e opere nella storia dell'educazione, Lanciano I932; G. SILVESTRI, Il miglioramento nel pensiero pedagogico e filosofico di A. Angiulli, Trani I94I; G. FLORES n' ARCAIS, Scienza, filosofia e pedagogia nelpositivismo dell' Angiulli e dell' Ardigò, in «Rassegna di pedagogia» I95 I; E. LIGUORI, A. Angiulli, Milano I95 3· Su Pietro Siciliani: A. ANGIULLI, La pedagogia e l'educazione scientifica del prof. P. Siciliani, in «Rassegna critica» I884; G. GENTILE, P. Siciliani, Nicola Fornelli e Saverio De Dominicis, in «La critica» I9IO (anche nel volume, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, vol. n, citato); F. GruFFRIDA, P. Siciliani filosofo e pedagogista, Catania I9I4; M. LEVI, P. Siciliani e la sua «Scienza dell'educazione», in «Rivista pedagogica» I9I5; In., P. Siciliani e la sua« Enciclopedia pedagogica», Roma I9I6; G. CALÒ, P. Siciliani, in Momenti di storia dell'educazione, Firenze I95 5. Su Saverio De Dominicis: F. MoDUGNO, Roberto Ardigò e F.S. De Dominicis, ovvero i due sistemi di filosofia positiva in Italia, Torino I 882; F. GruFFRIDA, S. De Dominicis, in Il fallimento della pedagogia scientifica, Città di Castello I92o; G. FLORES D' ARCAIS, La pedagogia di S. De Dominicis, in« Rassegna di pedagogia» I95 I.
CAPITOLO DECIMO La biologia alla fine dell'Ottocento
L'opera più famosa di Ernst Haeckel, Die Weltriitsel, è stata riedita con introduzione di O. KLOHR, Berlino I96o. Di Haeckel sono tradotte in italiano le seguenti opere: Storia della creazione naturale, trad. di D. RosA e prefazione di M. LESSONA, Torino I 892; Antropogenia o storia dell'evoluzione umana, trad. di D. RosA, Torino I895; Il monismo quale vincolo fra religione e scienza, trad. di A. HERLITSKA, Torino I895; I problemi dell'universo, trad. di A. HERLITSKA, introduzione di E. MoRSELLI, Torino I904. Su E. Haeckel: L.A. DuMONT, Haeckel et la théorie de l'évolution en Allemagne, Parigi I873; R. KoEBER, 1st Haeckel Materialist?, Berlino I887; A. MICHELITSCH, Haeckelismus und Darwinismus. Bine Antwortauf Haeckels Weltriitsel, Graz I9oo; T. MENZI, E. Haeckels Weltriitsel oder der Neomaterialismus, Zurigo I90I; H. SCHMIDT, Der Kampf um das Weltriitsel, E. Haeckel, « Die Weltriitsel » und die Kritik, Bonn I9oo; A.H. BRAASCH, Ober Haeckels Weltriitsel, Tubinga I9oo; R. HoENIGSWALD, E. Haeckel, Lipsia I9oo;
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CAPITOLO UNDICESIMO
Freud e la psicoanalisi Una prima raccolta delle opere di Sigmund Freud è stata curata dall'autore stesso, Gesammelte Schriften, Iz voli., Vienna I92.5-34. Una nuova edizione delle opere complete è stata pubblicata da ANNA FREUD, Gesammelte Werke, I 8 voli., Londra I940-5 2.. Si veda anche la traduzione inglese delle opere, a cura di S. Strachey, Londra I95 3 segg. La traduzione delle opere complete di S. Freud è pubblicata a Torino, I966 segg. Su S. Freud: E. BLEULER, Die Psychoanafyse. Freud's Verteidigung und kritische Bemerkungen, Vienna I9II; F. WITTELS, S. Freud, der Mann, die Lehre, die Schule, Lipsia I92.4; E. MICHAELIS, Die Menschheitsproblematik der Freudschen P{ychoanafyse, lipsia I9Z5; A. HESNARD, La psychoanafyse, théorie sexuelle de Freud, Parigi I92.8; M. DoRER, Historische Grundlagen der Psychoanafyse, Lipsia I 9 32.; J .F. BRoWN, Freud and the scientific method, in « Philosophy of science » I934; W.J. DE HAAN, Psychoanafyse. Ontwikkeling van Freud's leer en critische beschouwingen, Amsterdam I 9 3 5 ; R. DALBIEZ, La méthode psychanafytique et la doctrine freudienne, 2. voli., Parigi I936; L. BINSWANGER, Freuds Auffassung des Menschen im Lichte der Anthropologie, in « Nederlandsch Tijdschrift voor Psychologie » I936; T. MANN, Freud und die Zukunft, in« Imago» 1936; F.H. BARTLETT, S. Freud: a marxian 5 57
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CAPITOLO DODICESIMO Logica e problema dei fondamenti nella seconda metà dell'Ottocento
Per le opere di GEORG CANTOR si veda: Gesammelte Abhandlungen: mit Anmerkungen sowie mit Erganzungen aus de m Briefwechsel Cantor- Dedekind, a cura di E. ZERMELO, Berlino I932 (ristampa, Heidesheim I966); Briefwechsel Cantor-Dedekind, a cura di E. NoETHER e J. CAVAILLÈS, Parigi I937· Su G. Cantor: A. FRAENKEL, G. Cantor, Lipsia I93o; W. BELLON, Cantor el conquistador del infinito, in « Universidad Nacional de Columbia» I945; H. MESCHKOWSKI, Aus den Briefbiichern G. Cantors, in « Archive for history of exact sciences » I965; P. LINGUA, Il significato topologico della dimensione, nella corrispondenza tra G. Cantor e R. Dedekind, in « Periodico di matematiche » I 966; H. MESCHKOWSKI, Probleme des Unendlichen. Werk und Leben G. Cantors, Braunschweig I967. Le opere di Richard Dedekind sono state raccolte e pubblicate: Gesammelte mathematische Werke, a cura di R. FRICKE, E. NoETHER, O. ORE, 3 voli., Braunschweig I930-32. In italiano sono tradotti gli scritti: Essenza e significato dei numeri. Continuità e numeri irrazionali, a cura di O. ZARISKI, Roma I 926. Su R. Dedekind: AuTORI V ARI, Festschrift zur Feierdes siebzigsten Geburtstagesvon R. Dedekind, Braunschweig I90I; P.E.B. JouRnAIN, R. Dedekind, in« The monist » I9I6; E. LANnAu, R. Dedekind, in« Nachrichten von der Gesellschaft der Wissenschaft zu Gottingen » I 9 I 7; K. BIERMANN, R. Dedekind im Urteti der Berliner Akademie, in « Forschungen und Fortschritte » I966. Un'ampia scelta delle opere di Giuseppe Peano è stata pubblicata nel I957-59 a cura di U. CASSINA in Roma (3 voli.). Il Formulario matematico è stato riedito a cura di U. CASSINA, Roma I96o. Su G. Peano: B. LEVI, L'opera matematica di G. Peano, in« Bollettino dell'unione matematica italiana» I 9 32; In., Intorno alle vedute di G. Peano circa la logica matematica, ivi I933; U. CASSINA, L'opera scientifica di G. Peano, in« Rendiconti del seminario matematico-fisico di Milano» I933; In., L'oeuvre philosophique de G. Peano, in « Revue de métaph,ysique et de morale » I 9 33 ; In., Parallelo fra la logica teoretica di Hilbert e quella di Peano, in« Periodico di matematiche» I937; AuTORI VARI, In memoria di G. Peano, a cura di A. TERRACINI, Cuneo I95 5; U. CASSINA, Un chiarimento sulla biografia di G. Peano, in «Bollettino dell'Unione matematica italiana» I957; L. GEYMONAT, Peano e le sorti della logica in Italia, in «Bollettino dell'Unione matematica italiana» I959; P. NmmTCH, Peano and the recognition of Frege, in « Mind » I963; H.C. KENNEnY, The mathematical philosophy of G. Peano, in « Philosophy of science » I963; Id., G. Peano at the university of Turin, in « Mathematics teacher » I968. Le più recenti edizioni di scritti di Gottlob Frege sono le seguenti: Begriffsschrift und andere Aufsatze, a cura di I. ANGELELLI, Hildesheim I964; Grundgesetze der Arithmetic, Hildesheim I 962; Die Grundlagen der Arithmetik, Hildesheim I 96 I. Si veda inoltre: Kleine Schriften, a cura di I. ANGELELLI, Darmstadt I967; Funktion, Begriff, Bedeutung, J logische Studien, a cura di G. PATZIG, Gottinga I962(n ed. I965); Nachgelas.rene Schriften und wissenschaftlicher Briefwechsel, a cura di H. HERMES, F. KAMBARTEL, F. KAULBACH, I vol., Amburgo I969. Un'ampia scelta di scritti di G. FREGE è stata pubblicata in italiano da L. GEYMONAT (Aritmetica e logica, Torino I947) e da C.
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Bibliografia MANGIONE (Logica e aritmetica, Torino I965; edizione ampliata della precedente con nuova introduzione). Su G. Frege si veda: W. PAPST, G. Frege als Philosoph, Berlino I932; E. KRENZ, Der Zahlbegriff bei Frege, Vienna I942; P. LINKE, G. Frege als Philosoph, in« Zeitschrift fUr philosophische Forschung » I 946; R. WELLS, Frege' s ontology, in « Review of metaphysics » I95 I; G. MoRTAN, G. Freges philosophische Bedeutung, Jena I954; W. V. O. QuiNE, On Frege' s wcry out, in « Mind » I 9 55 (anche in « Rivista di filosofia » I 9 55); P. GEACH, On Frege's way out, ivi I956; G. BERGMANN, Frege's hidden nominalismus, in « The philosophical review » I958; D. FoLLESDAL, Husserl und Frege, Osio I958; E.D. KLEMKE, Prof. Bergmann and Frege' s « hidden nominalismus », in « The philosophical review » 1959; H. JACKSON, Frege's ontology, ivi 196o; R. GROSSMANN, Frege's ontology, ivi 196I; A.B. LEVISON, Frege on prooj, in « Philosophy and phenomenological review » I 96o-6 I ; J.M. Bartlett, Funktion und Gegenstand. Bine Untersuchung in die Logik von G. Frege, Monaco I96I; R.M. MARTIN, On the Frege-Church theory of meaning, in « Philosophy and phenomenological research » 1963; R. EGim, Ontologia e conoscenza matematica, Firenze I963; M. TRINCHERO, La fortuna di Frege nell'Ottocento, in «Rivista di filosofia» I964; J. VuiLLEMIN, Sur le jugement de récognition (Wiedererkennungsurteil) chez Frege, in « Archiv ftir Geschichte der Philosophie » I964; J.D.B. WALKER, A study of Frege, Londra I965; C. THIEL, Sinn und Bedeutung in der Logik G. Freges, Meisenheim am Gian I965; M.D. RESNIK, Frege's theory of incomplete entities, in « Philosophy of science » 1965; A. STROLL, On the first jlowering of Frege's reputation, in « Journal of the history of philosophy » I966; R. STERNFELD, Frege's logica/ theory, Southern I966; M. TRINCHERO, La filosofia dell'aritmetica di G. Frege, Torino I967; I. ANGELELLI, Studies on G. Frege and traditional philosophy, Dordrecht I 967; K.E. ScHORR, Der Begri.lf bei Frege und Kant, in « Kantstudien » I967; Esscrys on Frege, a cura di E.D. KLEMKE, Urbana I968; I. AIMONETTO, Il concetto di numero naturale in Frege, Dedekind e Peano, in« Filosofia» I969; R. C. SoLOMON, Sense and essence: Frege and Husserl, in « lnternational philosophical quarterly » I97o; J. LARGEAULT, Logique et philosophie chez Frege, Parigi I97o; V.H. DuoMAN, Frege's judgement-stroke, in « Philosophical quarterly » I97o; I. AIMONETTO, Frege e la sintesi numerica, in «Filosofia» 1971. Gli scritti di David Hilbert sono stati raccolti: Gesammelte Abhandlungm, 3 voli., Berlino I 93 2-3 5. Sono usciti in trad. i t., a cura di P. CANETTA e con introd. di C. MANARA, i Fondamenti della geometria, con i supplementi di P. Berncrys, Milano 1970. Su D. Hilbert: A. SoMMERFELD, Zum Andenken D. Hilbert, in« Die Naturwissenschaften » 1943; G. KREYSEL, A variant of Hilbert's theory of the foundation of arithmetic, in« British journal for the philosophy of science » 1953-54; Io., Hilbert's programme, in« Dialectica » I95 8; W.ELERT, D. Hilbert und die Grundlagenkrise der modernen Mathematik, in « Deutsche Zeitschrift fiir Philosophie » I 9 58 ; H. ScHOLZ, D. Hilbert in Mathesis universalis, Basilea I96I; A. CARUGO, Ciò che resta vivo del «programma hilbertiano » nell'attuale situazione degli studi sui fondamenti della matematica, in « Atti del convegno nazionale di logica» Torino I96I; K. BIERMANN, D. Hilbert und die Berliner Akademie, in « Mathematische Nachrichten » I964.
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CAPITOLO TREniCESIM.O Trasformazioni di fondo nella scienza fisica
Su Joseph John Thomson si veda: LoRn RAYLEGH, The !ife of sir ].]. Tho11Json (I8;6-I940), Cambridge I942; D.J. PRICE,j.J. Thomson. A centenary biography, in« Discovery » I 9 5o; G. THOMSON, ].]. Thomson and the Cavendish laboratory in his dcry, New Y ork I964; R. Mc CoRMMACK, ].]. Thomson and the structure of light, in « British journal for the history of science » I967. Su Konrad Rontgen: O. GLASSER, W.K. Rontgen und di e Geschichte der Rontgenstrahlen, Berlino I93I (n ed. I959); P. DEBYE, Rontgen und seine Entdeckung, Berlino I934; A.R. BLEICH, The story of X-rays from Rontgen to isotopes, New York I96I; ]. NICOLLE, W.K. Rontgen et l'ère des rcryons X, Parigi I965; H. S. KLICKSTEIN, W.K. Rontgen on a new kind of rcrys. A bibliographical stuc!J·, Filadelfia I966; H. OTREMBA, W.K. Rontgen: ein Leben im Dienste der Wissenschaft: eine Dokumentation, Wi.irzburg I965; B. DIBNER, W.K. Rontgen and the discovery of X-rcrys, New York I968. Su Max von Laue, di cui sono stati raccolti gli scritti (Gesammelte Schriften und Vortréige, a cura di M. KoHLER, 3 voli., Braunschweig 1961), si veda: Zehn jahre LaueDiagram, in« Die Naturwissenschaften » I922 (numero dedicato a von Laue); M. PASLER, Leben und wissenschaftliches Werk M. von Laues, in « Physikalische Blatter » I96o; W.H. WESFAL, Der Mensch M. von Laue, ivi; P. FoRMAN, The discovery of the diffraction of X-rays hy crystals: a crttique of the myths, in « Archi ve for history of exact sciences » I 969. Su H. Becquerel: Conférences prononcées à l' occasion du cinquantième anniversaire de la découverte de la radioactivité, Parigi I 946; A. RANC, H. Becquerel et la découverte de la radioacttVité, Parigi I 947; L. BAnAsH, « Chance favors the prepared mind »: H. Becquerel and the discovery of radioactiviry, in « Archives internationales d'histoire des sciences » I965; In., Becquerel's « unexposed » photographic plates, in « Isis » I 966. Su Pierre e Marie Curie si veda: M. CuRIE, P. Curie, Parigi I924; C. BIALOBRZESKI, M. Sklodowska Curie, in « Organon » I936; A. LABORnE, P. Curie dans son laboratoire, Conférences du palais de la découverte, Parigi 1956; AuTORI VARI, Sur l'oeuvre et la vie de M. Sklodowska Curie, in « Annales Universitatis Mariae Curie Sklodowska » I967; M.L. CoNCASTY, P. et M. Curie, Parigi, Bibliothèque nationale 1967; « Annales de l 'université de Paris » I 967 (numero speciale dedicato a M. Curie nel centenario della nascita);]. HuRWIC, M. Sklodowska Curie, Varsavia I967; J.W. VAN SPRONSEN, Faradcry, M. Curie et le système périodique des éléments chimiques, in« Janus » I967. Su Max Planck, di cui sono raccolti e pubblicati i P~ysikalische Abhandlungen und Vortréige, 3 voli., Braunschweig I95 8, si veda: H. A. LoRENTZ, M. Planck und die Quantentheorie, in « Die Naturwissenschaften » I925; H. HARTMANN, M. Planck als Mensch und Denker, Monaco I 9 53; M.]. KLEIN, M. Planck and the beginnings of the quantum theo~v, in « Archi ve for history of exact sciences » I962; In., Thermoqynamics and quanta in Planck's works, in « Physics today » I966; ]. AGASSI, The Kirchoff-Planck radiation law, in « Science » I967; A. UNsòLn, M. Planck, seine Zeit und unsere Zeit, in« Physikalische Blatter » I967; H. KRETZSCHMAR, M. Planck als Philosoph, Monaco I967; B. STICKLER, _M. Planck, Mensch und Werk, in « Mathematische und Naturwissenschaftliche Unterricht » I967; E.N. HIEBERT, The conception of thermoqynamics in the scientific thought of Mach and Planck,
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Numerosi scritti di Albert Einstein sono tradotti in italiano: Sulla teoria speciale e generale della relatività, traduzione di G.L. CALISSE, prefazione ~i T. LEVI-CIVITA, Bologna
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Bibliografia I 92 I; Torino I 967; Prospettive relativistiche dell'etere e della geometria, a cura di R. CoNTU e T. BEMBO, Milano I9ZZ; L'evoluzione della fisica (in collaborazione con L. Infeld), a cura di A. GRAZIADEI, Torino I 948 (ultima ed. I 967); Il significato della relatività, a cura di L.A. RADICA TI DI BROZOLO, Torino I95 3 (ristampa I968); Relatività (Esposizione divulgativa), traduzione di V. GEYMONAT, Torino I96o (ristampa I967); Idee e opinioni, a cura di F. FoRTINI e C. LosuRDO, Milano I96o; Pensieri degli anni dif!icili, traduzione di L. BIANCHI, prefazione di C. CASTAGNOLI, Torino I965; varie memorie in Cinquant'anni di relatività, a cura di M. PANTALEO (con diversi articoli sull'opera di Einstein), Firenze I95 5, che contiene anche un'amplissima bibliografia. Per una bibliografia completa degli scritti di Einstein ve dasi: Alberi Einstein philosopher and scientist, a cura di P .A. ScHILPP, New York I949 (trad. it., A. Einstein scienziato e filosofo, Torino I95 8). L'elenco sistematico delle pubblicazioni sulla teoria della relatività per i primi venti anni successivi alla sua formulazione si trova in: M. LECAT, Bibliographie de la relativité, Bruxelles I924. Sulla vita e sull'opera di Einstein e in generale sulla teoria della relatività, si veda: M. VON LAUE, Die Relativitiitstheorie, 2 voli., Braunschweig I9I9-21 (v ed. I95 I-H); A.S. EomNGTON, Space, lime and gravitation. An outline of the generai relativiry theory, Cambridge I920 (ristampa, New York I966; trad. it., Torino I963); W. PAuLI, Relativitiitstheorie, in En€yklopiidie der mathematischen Wissenschaften, Lipsia I921 (trad. it., Torino I958); G. CASTELNUOVO, Spazio e tempo secondo le vedute di Einstein, Bologna I92I; E. CASSIRER, Zur Kritik der Einsteinschen Relativitiititheorie, Berlino I92I; A. S. EDDINGTON, The theory of relativity and its injiuence on scientific thought, Londra I922; ]. BECQUEREL, Le principe de relativité et la théorie de la gravitation, Parigi I 922; G.D. BIRKHOFF, Relativity and modern p~ysics, Cambridge Mass. I923; A.S. EDDINGTON, The mathematical theory of relativiry, Cambridge Mass. I923; A. KoPFF, I fondamenti della relatività einsteiniana, a cura di R. CoNTU e T. BEMBO, prefazione di G. ARMELLINI, Milano I923; ]. RICE, Relativity. A s;•stematic treatment of Einstein's theory, Londra I923; P. STRANEO, Teoria della relatività, Roma I924; 1'{1. PANTALEO, A. Einstein, Roma I925; T. DE DoNDER, The mathematical theory of relativiry, Cambridge Mass. I926; H. REICHENBACH, Philosophie der Raum-Zeit-Lehre, Berlino I928; U. FoRTI, l presupposti storici della teoria di Einstein, in «Rivista di cultura» I928; A.D. FOKKER, Relativitiitstheorie, Groninga I929; ]. CHAZY, La théorie de la relativité et la mécanique celeste, 2 voli., Parigi I93o; L. HoPF, Relativitiitstheorie, Berlino I93 I; D. REICHENSTEIN, A. Einstein, Berlino I 932; W.H. McCoLL, Relativiry p~sics, Londra I 9 3 5; R. C. ToLMAN, Relativity, thermodinamics and cosmology, Oxford I934; H.G. GARBEDIAN, A. Einstein, makerofuniverse, New York I939; B.T. WHITTAKER, Aristotle, Newton, Einstein, Londra I942; A. ALIOTTA, Il relativismo, l'idealismo e la teoria di Einstein, Roma I948; P. FRANK, Einstein, his !ife and time, Londra I 948 (trad. it., Milano I 949); AuTORI V ARI, A. Einstein philosopher, scientist, a cura di P.A. ScHILPP, New York (n ed. I95I; ristampa I959; trad. it., Torino I958); A. CosTA DE BEAUREGARD, Relativité restreinte, Parigi I949; A. DINGLE, The special theory of relativi~y, Londra I95o; G.Y. RAINICH, Mathematics of relativity, New York I95o; C. MoLLER, The theory of relativiry, Oxford I 9 52; H. TòRNEBOHM, A logica/ analysis of the theory of relativity, Stoccolma I 9 p.; Q. MAIORANA, Le teorie di A. Einstein, in « Sophia » I9H; V. MATHIEU, Il tempo ritrovato: Bergson e Einstein, in« Filosofia>> I9H; C. SEELIG, A. Einstein, Zurigo I954; A. VALLENTIN, Einstein: a biograpi?J', Londra 1954; Io., Le
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Bibliografia
drame d'A. Einstein, Parigi 1954; R. CAPEK, Relativiry and the status of the space, in « The Review of metaphysics » 195 5; V. ToNINI, La relatività a cinquant'anni dalla prima formulazione einsteiniana, in « Scientia » 195 5; B. FINZI, Il campo unitario, in «Il Pensiero», 19-57; M. PASTORI, Rassegna sulla relatività einsteiniana, in« Il Pensiero», I957; A. GRtiNBAUM, The philosophical retention of absolute space in Einstein's generai theor:_y of relativiry, in « Philosophical review » 1957; T. KAHAN, Sur /es origines de la théorie de la relativité restreinte, in « Revue d'histoire des sciences » 1959; P. SuPPES, Axioms for relativistic kinematics etc., in The axiomatic Method, Amsterdam 1959; J. AHARONI, The special theory of relativiry, Oxford 1965; AuTORI VARI, Einstein und die Sowjetphilosophie, a cura di S. MtiLLER-MARKUS, z voli., Dordrecht 196o-66; A. T. GRIGORYAN, Appraisal of Newton's mechanics and of Einstein' s « Autobiograpl!J », in « Archives internationales d 'histoire des sciences » 1961; M. BoRN, Einstein's theor:,y of relativity, New York 196z (trad. it., Torino 1969); T. KAHAN, Un document historique de l'académie des sciences de Ber/in sur l'activité scientiftque d'A. Einstein {I9IJ), ivi 196z; A. GRUNBAUM, The relevance of philosopl!J to the history of the special theory of relativity, in « J ournal of philosophy » I 96z; B.G. KuzNETsov, Einstein, Mosca 196z (m ed., I967; trad. inglese, Mosca I965; trad. francese, Parigi I 967); AuTORI v ARI, Einstein i razvitie ftziko-mathematicheskoi mysli, Mosca I96z; M.J. KLEIN, Einstein's ftrst paper on quanta, in «Natura! philosopher » 1963; F. HERNECK, Vber die deutsche Reichsangehorigkeit A. Einsteins, in « Forschungen und Fortschritte » 1963; R.S. SHANKLAND, Conversations with A. Einstein, in « American journal of physics » 1963; E. ScHRÒDINGER, Space-time structure, Cambridge 1963; H. TòRNEBOHM, Concepts and principles in the space-time theory within Einstein's special theory of relativity, Géiteborg 1963; A. GRUNBAUM, Philosophical problems of space and time, New York I963; H. HòNL, Galileo-Newton-Einstein. Von der klassischen zur Relativitatsmechanik, in « Naturwissenschaftliche Rundschau » I964; M.J. KLEIN, Einstein and the wave-particle quality, in «Natura! philosopher » I964; In., Einstein, speciftc heats, and the ear(y quantum theor:_y, in « Science » 1965; R. ADLER, M. BAZIN, M. ScHIFFER, Introductzon to generai relativity, New York I965; D. BoHM, The special theory of relativity, New York 1965; J.G. LEITHAUSER,A.Einstein, Berlino 1965; O. CosTA DE BEAUREGARD, Le paradoxe des correlations d'Einstein et de Schrodinger et l'épaisseur temporelle de la transition quantique, in« Dialectica » 196j; S. BADRI, A deductive theory of space and time, Amsterdam 1966; AuTORI V ARI, Einstein Symposium, Entstehung, Entwicklung und Perspektiven der Einsteinschen Gravitationstheorie, Berlino 1966; S. GoLDBERG, H. Poincaré and Einstein's theory of relativity, in « American journal of physics » 1967; A. METZ, Einstein et la philosophie des sciences, in « Archives internationales d 'histoire d es sciences » I 967; M. BORN, L. lNFELD, Erinnerung an Einstein, Berlino I967; F. HERNECK, A. Einstein. Ein Leben fiir Wahrheit, Menschlichkeit, (m ed. riveduta) Berlino 1967; M.J. KLEIN, Thermo4Jmamics in Einstein's thought, in « Science » 1967; J. PROKHOVNIK, The logic of special relativity, Cambridge I 967; AuTORI V ARI, Relativitatstheorie und Weltanschauung zur philosophischen und wissenschaftspolitischen Wirkung A. Einsteins, Berlino 1967; Einstein, the man and his achievement, a cura di G.J. WHITROW, Londra 1967; G. HoLTON, Mach, Einstein and the search for reality, in « Daedalus » I968; S. GoLDBERG, The Lorentz theory of electrons and Einstein's theory of relativity, in « American journal of physics » I969; G. HoLTON, Einstein, Michelson and the « crucial» experiment, in « Isis » 1969; P. JoRDAN, A Einstein. Sein Leben und die Zukunft der Pl!Jsiu, 1969; B.G. KuZNETsov,
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Bibliografia
Einstein et le principe de Mach, in« Organon » 1969; H. NoROENSON, Relativiry, time and a critica! investigation of the theory of relativiry from a logica! point of view, Londra 1969; AuTORI VARI, A pane! discussion of simultaneiry ect., in« Philosophy of science », 1969. Per ulteriori indicazioni bibliografiche si veda la bibliografia del capitolo seguente. reali~y:
CAPITOLO QUINDICESIMO Esame delle discussioni filosofico-scientifiche sulla teoria della relatività
Sul complesso delle discussioni attorno alla relatività si veda PH. FRANK, Einstein, his /ife and time, Londra 1948 (trad. it., Milano 1949); AuTORI VARI, Alberi Einstein philosopher and scientist, a cura di P.A. ScHILPP, New York 1949 (trad. it. A. Einstein scienziato e filosofo, Torino 1958); AA.VV., Cinquant'anni di relatività, a cura di M. PANTALEO, Firenze 195 5, con diversi articoli sull'opera di Einstein; H. REICHENBACH, Modern philosophy of science, Los Angeles 1959 (trad. it. L'analisi filosofica della conoscenza scientifica, Padova 1968). Hanno particolare importanza i seguenti articoli: A. SoM:MERFELO, Per il compleanno di A. Einstein (in A. Einstein scienziato e filosofo, cit.); L. DE BROGLIE, L'opera scientifica di A. Einstein, ibid.; W. HEITLER, Il distacco dal pensiero classico nella fisica moderna, ibid.; A. MARGENAU, La concezione di Einstein delle realtà, ibid.; PH. FRANK, Einstein, Mach e il positivismo logico, ibid.; H. REICHENBACH, Il significato filosofico della relatività, ibid.; V.F. LENZEN, La teoria della conoscenza di Einstein, ibid.; F.S.C. NoRTHROP, La concezione della Scienza in Einstein, ibid. Per i machisti vedi: J. PETZOLO, Mechanistische Naturauffassung und Relativitèitstheorie, in « Annalen der Philosophie », Lipsia 1919; Io., Das Verhèiltnis der Machschen Gedankenwelt zur Relativitèitstheorie, appendice a MACH, Die Mechanick in ihrer Entwicklung (vm ed.), Lipsia 1921. Per i kantiani: E. SELLIEN, Die Erkenntnistheoretische Bedeutung der Relativitèitstheorie, in « Kantstudien », Berlino 1919; L. RrPKE-KUHN, Kant contra Einstein. Beitrèige zur Philosophie des deutschen Idealismus, Erfurt 1920; I. ScHNEIDER, Das Raumzeit Problem bei Kant und Einstein, Berlino 1921; E. CASSIRER, Zur Einsteinschen Relativitèitstheorie, Berlino 1921. Per Vaihinger e la filosofia del come-se: H. V AIHINGER, Die Philosophie des Als Ob, Lipsia 1921 (trad. it., 1966); O. KRAus, Fiktion und lfypothese in der Einsteinschen Relativitèitstheorie, in « Annalen der Philosophie », Lipsia 1921; Io., Die Unmoglichkeit der Einsteinschen Bewegungslehre, in « Die Umschau », Francoforte 1921; F. Lrpsrus, Die logischen Grundlagen der speziellen Relativitèitstheorie, in « Annalen der Philosophie », Lipsia 1921; A. TrLGHER, Relativisti contemporanei, Roma 1922; S. WrLLROOT, Semifiktionen und vollftktionen, in Vaihingeres Philosophie des Als Ob, Lipsia 1934. Per Schlick si rimanda alla bibliografia del capitolo successivo, accennando qui solo a: M. SCHLICK, Die philosophische Bedeutung des Relativitèitsprinzips, in « Ztschr. f. Philosophic u. philos. Kritik », Lipsia 1915; Io., Raum und Zeit in der gegenwèirtigen physik, Berlino 1917 (rv ed. 1922); Io., Kritizistiche oder empiristische Deutung der neuen Physik?, in « Kantstudien »,Berlino 1921; Io., Anmerkunl{en zu Helmholtz. Schriften zur Erkenntnistheorie, Berlino 1 9 2 1.
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Bibliografia
Per Weyl: H. WEYL, Raum, Zeit, Materie, Berlino I92I; Io., Philosophy of mathematics and natura/ science, Princeton I 949 (trad. it., Torino I 967); E. CASARI, Le teorie predicative di H. W ryl, in Questioni di filosofia della matematica, Milano I 964. Per Whitehead e la relatività: A.N. WHITEHEAO, Space, time& relativi!y, in« Pr. ofthe ar. soc.», I9I5; lo., La théorie relationniste de l'espace, in« R. de mét. et de mor. », I9I6; P. UscHENKO, The logic of events, Berkeley I929; W.W. HAMMERSCHMIDT, Whitehead's philosophy of time, New York I947; E. NAGEL, The structure of science, New York I96I; P.A. RovATTI, La dialettica del processo, Milano I969. Per l'interpretazione spiritualistica vedi: S. ALEXANOER, Space, time and Deity, 2 voli., Londra I92o; H.W. CARR, A theory of monads, Londra I9zz; A. EomNGTON, The mathematical theory of relativity, Cambridge I 922; H. BERGSON, Durée et simultanéité, Parigi I929. Per i quantisti: M. PLANCK, Wege zur physikalischen Erkenntnis, I908-33, e Wissenschaftliche Selbstbiographie, I936-47 (trad. it. Conoscenza del mondo fisico, Torino I964); M. BoRN, Die Relativitiitstheorie Einsteins, Berlino I92o (trad. it., Torino I969); Io., Natura/ philosophy of cause and chance, Oxford I949 (trad. it., Torino I962); W. PAULI, Il contributo di Einstein alla teoria dei quanti, in A. Einstein scienziato e filosofo, cit.; M. BoRN, Le teorie statistiche di Einstein, ibid.; N. BOHR, Discussione con Einstein sui problemi epistemologici della fisica atomica, ibid.; Io., Teoria dell'atomo e conoscenza umana (raccolta di ventidue lavori - dal I92I al I957 - indicati dall'autore per la traduzione italiana), Torino I96I; AuTORI VARI,Quantum theory and reality, Berlino, Heidelberg, New York I967. Per le interpretazioni della relatività nel materialismo sovietico, vedi: N. KHARIN, Un dibattito sulla teoria della relatività, in «Rassegna sovietica», I95 5; A.D. ALEXANOROV, Recherches internationales à la lumière du marxisme, Parigi I957; V.A. FocK, Theory of space, time and gravitation, Mosca I96I; B. KouZNETZOV, Lénine, Laugevine et la préhistoire de la théorie de la rélativité, in« La pensée », I6I, I962; E. TxBOR, The epistemologica/ concept of A. Einstein, in «Varia studia philosophica academiae scientiarum hungaricae », Budapest I963; S. MtiLLER-MARKUS, Einstein und die Sovietphilosophie, Dordrecht I966; Y. TERLETSKIJ, Paradoxes in the theory of relativity, New York I967; A.D. ALEXANOROV, Lo spazio ed il tempo nell'odierna fisica alla luce delle teorie di Lenin, in Lenin e la scienza della natura contemporanea, Mosca I969 (in russo); Io., A contribution to chronogeometry, in« Canadian journal of mathematic », I969; L. ]ANOSSY, Theory ~~ relativity based on physical realitJ•, Budapest I969; S.J. VAVILOV, Lenin e la fisica moderna, Mosca I97o (in russo); L.R. GRAHAM, Science and philosophy in the Soviet Union, New York I972. Per Bridgman e l'~perazionismo, vedi: P.W. BRIDGMAN, The logic of modern physics, New York I927 (trad. it., Torino I952, I965); lo., The nature ofphysical theory, Princeton I936 (trad. it., Firenze I965); Io., Rejlections of a physicist, New York I95o; Io., The nature of some our physical concepts, New York I952. Sugli orientamenti attuali nella discussione della relatività: K. MENGER, La teoria della relatività e la geometria in Alberto Einstein scienziato e filosofo, cit.; K. GòoEL, Teoria della relatività e filosofia idealistica, ibid.; A. GRtiMBAUM, Philosophical probletns of space and ti111e, Londra 1964; R. C-\RNAP, Philosophical foundations of p~pics, New York I966 (trad. it., Milano I97I); A. GRtiMBAUM, Modern science and Zeno's paradoxes, Londra I967; L. SKLAR, The falsifiability ofgeometrie theory, in « The journal of philosophy », I967; AuTORI V ARI, Atti del convegno sulla filosofia naturale OJ!gi (Pubblicazioni per il IV centenario della
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Bibliografia
nascita di Galileo, vol. z), Firenze I 967; A. GRtiMBAUM, Ceometry and chronometry in philosophical perspective, Minneapolis I968; R. SwiNBURNE, Space and time, Londra-New York I968; AuTORI VARI, A pane/ discussion of Criimbaum's philosopf?y of science, in « Philosophy of science », I969; E. ScHMUTZER, New approach to interpretation problems of generai relativiry ecc., in AuTORI V ARI, Induction, pf?ysics and ethics, Dordrecht I970; L. BRIATORE, Le misure del tempo, Milano I97z; B.C. VAN FRAASSEN, An introduction to the philosopf?y of . time and space, New York I97o; J.R. LucAs, A treatise an time and space, Londra I973; G. TARSITANI, C. PETRUCCIOLI, P. Tucci, A. BEVILACQUA, Sulla genesi storica e sul significato teorico della relatività di Einstein, Domus Galilaeana, Pisa I 97 3; J. MEHRA (a cura di), The pf?ysicist conception of nature, con contributi sulla relatività di D. W. ScrAMA, S. CHANDRASEKAR, P.A.M. DIRAC, P. ]ORDAN, J. EHLERS, J. MEHRA, A. ZEITRAVT~ANN, J.A. WHEELER, Dordrecht-Boston I973; U. GIACOMINI, Spazio e tempo nel pensiero contemporaneo, Genova I975·
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INDICE DEI NOMI I numeri in çorri11o rimandano alla bibliografia
Abraham, Karl, 340 Abrahamson, August, 104 n. Adler, Alfred, 339, 341-342 Agassiz, Jean-Louis, 262 Alexander, Samuel, 128 Angell, James Rowland, 30, JIJ
Angiulli, Andrea, 88, 239 n., 250, ff4 Ardigò, Roberto, 198-207, 250, JJO-JJI
Avenarius, Richard, 21-22, 144147, JJ4 Badley, J. Haden, 101 Baer, Karl Ernst von, 257, 262 Baillie, James Black, 120 Baldwin, James Mark, 29, JIJ Becher, Erich, 302 Bechterev, Vladimir Michailovic, 43 Becquerel, Henri, 431, 162 Beer, Th., 38 Beneden, Eduard van, 273 Bergson, Henri, 186-192, J48-J49 Bernheim, Hyppolite, 317 Bertini, Giovanni Maria, 246 Bethe, Albrecht, 38 Binet, Alfred, 27-28, 96-97, f2J Bleuer, Eugen, 339 Bohr, Niels, 439, J6J Boltzmann, Ludwig, 433-434 Bondi, Hermann, 465 Bosanquet, Bernard, II9-120,
Bunge, Gustav, 298-299 Burt, Cyril, 26 Butler, Samuel, 289, ff6 Biitschli, Otto, 27I, fff
Duhem, Pierre, I81-I82, J47-J48 Duncker, Karl, 32 Durkheim, Émile, 62-67, f2I-J2J Ebbinghaus,
Caird, Edward, I17, J2J-J26 Cantoni, Carlo, 250 Cantor, Georg, 362-364, 366, 367, 372, 383-403, J60 Carr, Herbert Wildon, 49I Carus, Carl Gustav, 256 Cassirer, Ernst, I p, 486-487, J66 Charcot, Jean-Martin, 316 Cohen, Hermann, I5 2-I55, JJ6 Comte, Auguste, 5 I· 58, 85-86 Consorti, Emidio, I04 n. Conti, Pitagora, I04 n. Cope, Edward Drinker, 288-289 Coppino, Michele, 247 Correnti, Cesare, 246 Cossmann, Paul, 296 Cournot, Antoine-Augustin, 172174, !44 Credaro, Luigi, 247 Curie, Marie Sklodowska, 43 I, f62
Curie, Pierre, 431, 162
Hermann,
I8-I9,
JI2
Eddington, Arthur Stanley, 491492 Ehrenfels, Christian von, 23, JIJ Eimer, Theodor, 283-284 Einstein, Albert, 424, 435-436, 445-479> 480-507, J6j-J66 Eitingon, Max, 340 Esenbeck, Nees von, 256 Eucken, Rudolph, I 5I Fano, Gino, 422 Fava, Angelo, 234 Ferenczi, Sandor, 340 Fitzgerald, George Francis, 45 3 Fleming, Walter, 27I Fliess, Wilhelm, 3I 8 Fouillé, Alfred, I74, !44-!4! Fourier, Charles, 48-51, JI6-JI7 Frege, Friedrich Gottlob, 356358, 366, 367-368, 404-4I9, J60-J6I
Freud, Sigmund, 3I5-352, JJ7-
Dandolo, Giovanni, 208 Darwin, Charles, 36, 255-258 Debierne, André, 43 I Decroly, Ovide, 90 Dedekind, Julius Wilhelm Richard, 354-358, 36o-36I, 364382, J60 J28-J29 Boselli, Paolo, 247 De Dominicis, Saverio, 239-240 Boutroux, Émile, 176-179, J46 n., 250, J/4 Boveri, Theodor, 280 De Meis, Angelo Camillo, 2 I 2Bradley, Francis Herbert, u82I3, JJI Demolins, Edmond, IOI, J2J II9, f27-J28 Braun, Alexander, 256 De Sanctis, Francesco, 227-229, Brentano, Franz, 21 JJ2 Dilthey, Wilhelm, I57 Breuer, Josef, 316, 319-323 Bridgman, Percy, 498-500, 167 Driesch, Hans, 305-312, !!7 Broad, Charlie Dunbar, I28, JJJ Du Bois-Reymond, Emil, I4IBriicke, Ernst, 3I 5 I44, 294, JJJ-JJ4
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ff9
Freund, Anton von, 343 Gabelli, Aristide, 232, Galton, Francis, 23-26, Gegenbaur, Carl, 265 Geheb, Paul, I02-I03, Giard, Alfred, 283 Goette, Alexander, 303 Green, Thomas Hill,
JJJ-JJ4 JIJ J24
I 17-I I 8,
J26-J27
Guyan, Jean-Marie, 174, !4! Haeckel, Ernst, 258-270, !!4-JJJ Hall, J. G. Stanley, 95, 340, JIJ Hartmann, Eduard von, I 5I, 298, JJJ Heine, Eduard, 362
Indice dei nomi Helmholtz, Hermann von,
34- Mc Keen Cattell, James, 29 Mc Taggart, John, uo, f26 Herbart, Johann Friedrich, 82-84 Meckel, Johann Friedrich, 262 Hering, Ewald, 20, 288, f I 2 Meinong, Alexius, 23, fiJ Hertwig, Oskar, 272, 305, J!f Melli, Luigi, 104 n. Hilbert, David, 4I9-426, f6I Mendel, Gregor, 277 His, Wilhelm, 303 Meray, Charles, 36I Hornbostel, Erich von, 32 Meumann, Ernest, 96, f24 Hunter, Walter Samuel, 38 Meyerson, Émile Azriel, 493 I
I38
Reichenbach, Hans, 495-496, f66 Reinke, Johannes, 299-301, !!l Renan, Ernest, 166, J4I-J42 Renouvier, Charles, 174-176, !4fJ46
Ribot, Théodule-Armand, 27, JIJ Rice, J. M., 95 Rickert, Heinrich, 152, 156-157, !Jl
Meynert, Theodor Hermann, 3I6 Itard, Jean-Marie-Gaspard, 89 Michelson, Albert, 450 Milhaud, Gaston, I8I-I82, !41 Jaensch, Erich R., 32 Minkowsky, Hermann, 461 James, William, 28, I23-127, Montague, William Pepperell, JJO-fJI
Janet, Pau!, 170, 172, f4J Jeans, James Hopwood, 491 Jennings, Herbert Spencer, 38 Jones, Ernst, 340 Jung, Cari Gustav, 339, 342-343 Kergomard, Pauline, I04 n. Kerschensteiner, Georg, 103-I04, f24-J2J
Riemann, Bernhard, 354, 355 Rignano, Eugenio, 288, J!6 Rindfleisch, Eduard, 299 Robin, Pau!, 101 Robinson, I., 465 Romanes, George John, 37, 301 u8, fJJ Montessori, Maria, 90 Rontgen, Konrad, 430-431, 162 Moore, George Edward, I28, Rosmini Serbati, Antonio, 69 Roux, Wilhelm, 303-305, !!l IZ9-I 3 I, JJ2-f JJ Morley, Edward Williams, 450 Royce, Josiah, 1ZI, J2!J-JJO Miiller, Fritz, 263 Rubin, Edgard, 32 Miiller, Georg Elias, 19-20, fi2 Russell, Bertrand Arthur WilMiiller, Johannes, I35 liam, 366, 368-370, 4I7-4I9 Rutherford, Ernest, 438-439, J6J Naegeli, Karl Wilhelm, 274-277• Saint-Simon, Claude-Henri de !!f-!!6 Nagaoka, Han taro, 43 7-43 8 Rouvroy, conte di, 48-49, JI 4Natorp, Pau!, xp, 153, 155, JI6 Salomon, Otto, I04 n. !J6 Nietzsche, Friedrich, I 58-162, Salvemini, Gaetano, 253 Santayana, George u8-I29, fJJ !Jl-!40 Nigra, Pietro, 104 n. Schiller, Ferdinand, u4, 127,
Kielmeyer, Karl Friedrich, 26I Klein, Felix, 422 Koffka, Kurt, 31-32, fii Kohler, Wolfgang, 31, 34-35, 39 Kolliker, Rudolf Albert, 257 Kossak, August Martin, 361 Kraus, Oskar, 482-484 Kronecker, Leopold, 375 O'Neill, Edward F., 101 Kiilpe, Oswald, 22, f I 2 Owen, Richard, 256 Laas, Ernst, I4o, fJ4 Lachelier, Jules, 170, 172 Padoa, Alessandro, 422 Pasch, Moritz, 422 Laffitte, Pierre, I65-I66, J4I Lange, Friedrich Albert, I P-I 52, Pasteur, Louis, 292-293, !!6-J!l Pauli, Wolfgang, 161 JJJ-!J6 Pauly, August, 302 Laue, Max von, 430, f62 Pavlov, Ivan Petrovic, 40-43, Lay, Wilhelm A., 96, J24 Lévy-Bruhl, Lucien, 170, 142 JIJ-JI4 Lewin, Kurt, 32, fii Peano, Giuseppe, 38I-383, 422, Liebault, Auguste, 3I 7 J60 Peirce, Charles Sanders, IZ2-I26 Liebmann, Otto, xp, !Jf Perrier, Edmond, 283 Lietz, Hermann, 102, f2J-f24 Lipschitz, Rudolf, 362 Petzold. Joseph, 484-485, f66 Lipsius, Friedrich, 482 Pfister, Oskar, 340 Littré, Émile, 165, 166, J40-J4I Pfliiger, Eduard, 295 Pieri, Mario, 422 Loeb, Jacques, 38, fii Lombroso, Cesare, 209-211, JJI Pirani, Felix Arnold Edward, 465 Lorentz, Hendrik Antoon, 450, Planck, Max, 433-436, f62-J6J Poincaré, Henri, t8I, x82-x86, 453 Lotze, Hermann, 147-150 J46-J41 Pouchet, Félix-Archimède, 293 Mach, Ernst, 21, 484 Mackenzie, John Stuart, uo Rank, Otto, 339, 35I Mamiani, Terenzio, 246 Rauber, August, 303' Manjon, Andrés, I04 n. Ravaisson-Mollien, Félix, 170Mauri, Achille, 234 172, !4J Mc Dougall, William, 26, fiJ Reddie, Ceci!, 1oo-Io1, J24
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JJI-JJ2
Schlick, Moritz, 493-494, f66-J61 Schrooer, Ernst Friedrich Wilhelm Karl, 353-356 Schultze, Max, 27I Schuppe, Wilhelm, I40-14I, fU Sechenov, Ivan Michailovic, 40 Secrétan, Charles, 170, 172, !4J S~uin, Édouard, 89 Semon, Richard, 288 Siciliani, Pietro, 88, 239, J/4 Sigwart, Christoph, 295 Siklinger, I04 n. Simmel, Georg, I 58 Simon, Théodore, 97 Small, Willard Stanton, 38 Spaventa, Bertrando, 2I5-228, J!I-JJ2
Spearman, Charles, z6 Spencer, Herbert, 58-6I, 86-88, I09-117, 284-286, fll-J2I
Spir, Afrikàn, 151, fJJ Stanley Hall, Granville, 29 Stekel, Wilhelm, 339 Stirling, James Hutchison, 117, f2f
Stout, Georges Frederick, 26, JIJ
Stoy, Karl Volkmar, 82 Strasburger, Eduard, 271
Indice dei nomi Stumpf, Karl, 20-21, fi2
Trendelenburg, Adolph, 171
Taine, Hyppolite, 167-169, J4I Tannery, Pau!, 362 Tarozzi, Giuseppe, 208, 247 Taylor, Alfred Edward, 120 Terman, L. M., 97 Thiers, Adolphe, 69 Thomson, Godfrey H., 26 Thomson, Joseph J., 429, 437-
Uexkiill, Jacob von, 38
438, f62
Thorndike, Edward Lee, 30, 3738, fii
Thurstone, Louis l., 26 Titchener, Edward Bradford, 29 Tolstoj, Lev Nikolajevic, 99-100, f24
Tommasi, Salvatore, 614-615, !JI
Vaihinger, Hans, 482, f66 Vailati, Giovanni, 422 Vera, Augusto, 225-227, ff2 Veronese, Giuseppe, 422 Villari, Pasquale, 104 n.
Wheeler, J. A., 505 Whitehead, A. North, 128, 488490, f67
Wigand, Albert, 305 Wilson, Charles Thomson, 429430
Winch, William, 97, !24 Windelband, Wilhelm, 152, 155157, n6-n1 Withbread, Samuel, 69 Ward, James, 26, JIJ Wolf, Gustav, 291-292 Watson, John Broadus, 39, 44-45 Woodworth, Robert Sessions, 30 Weber, John, 465 Wundt, Wilhelm, 13-18, fi2 Weierstrass, Karl, 361-362 Wyneken, Gustav, 102, f24 Weissmann, August, 277-282, Yerkes, Robert M., 38 284-287, !J6 Wertheimer, Max, 30, 31, fii Weyl, Hermann, 487-488, f67 Ziller, Tuiskan, 82-83
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INDICE DELLE CITAZIONI CRITICHE
Bachelard, Gaston - sulla relatività 493 Banfi, Antonio - sulla filosofia neo-idealistica inglese I07 - sull'influenza dell'hegelismo sui filosofi inglesi I I 7 Bellone, Enrico - su L. Boltzmann 434 Bertoni ]ovine, Dina - sui problemi della cultura nel xix sec. 77, 244 - sui problemi seguenti l'unificazione dell'Italia 230, 232 - sulla legge Casati 234 Bridgman, Percy W. - sulla relatività 466
-su C. Lombroso 2IO
-
sulla postz10ne della Chiesa in Italia nel XIX sec. 243 Ottaway, A.K.C. - sul problema dell'educazione nel XIX sec. 7I
Finzi, Bruno - su Einstein 507 Fornelli, Nicola - sulla pedagogia herbartiana 84 Friedmann, Georges Radi, E. - sullo sviluppo professionale - sulla biologia nel XIX sec. 303 Rossi, Pietro nel XIX sec. 7I - su W. Dilthey I57 - su G. Simmel I58 Griinbaum, A. Russell, E. S. - sulla relatività 505 - su E. Haeckel 265 Harpe, Jean de la .Salvadori, Guglielmo - su A. Cournot I73-I74 - su H. Spencer I07-Io8 Salvatorelli, Luigi Kharin, N. - sui problemi della cultura 254 - sulla relatività 502-503 Calderoni, Mario Salvemini, Gaetano Littré, Émile - sul pragmatismo I 2 3, 124 - sulla legge Casati 234 Cappelletti, Vincenzo - sulla pedagogia del positivi- Spirito, Ugo - sulla pedagogia del positivi· - su H. von Helmholtz I35-I36 smo 86 Carassi, Mario smo 87 - sul modello atomico di Ru- Martinetti, Piero Villari, Pasquale therford 438 - su C. Renouvier I76 Churchill, Frederick B. - sulla legge Casati 234 Masci, Filippo - su H. Driesch 3IO - sui problemi della scuola nel Visalberghi, Aldo Credaro, Luigi - sull'« École des Roches » IOI XIX sec. 78 Vuillemin, Jules - su T. Ziller 83 - sulla pedagogia herbartiana 84 Oldrini, Guido - su H. Cohen I54, I55 -su A. Vera 226 David, Miche! Whittaker, Edmund Ottaviani, Alfredo - sulla relatività 466
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INDICE GENERALE
SEZIONE OTTAVA
L'affermarsi e il diffondersi delle scienze: i loro riflessi sulla filosofia CAPITOLO PRIMO
Nota introduttiva CAPITOLO SECONDO
La nascita della psicologia scientifica DI FRANCA MEOTTI Io I3 I8 23
v La psicologia in Francia. VI Gli inizi della psicologia americana. VII La psicologia della Gestalt. viii La psicologia animale. 40 IX La psicologia oggettiva.
I Considerazioni preliminari. II Wilhelm Wundt. III Altre correnti di psicologia
26 28 30 36
tedesca alla fine dell'Ottocento e agli inizi del Novecento. IV Gli inizi della psicologia moderna in Inghilterra.
CAPITOLO TERZO
L'esigenza di una
11
scienza sociale 11: il costituirsi della sociologia. DI PINA MADAMI
46 47 5I
I
Premessa.
58
II Il socialismo utopistico. III Charles-Auguste Comte.
62
IV Herbert Spencer. v Émile Durkheim.
CAPITOLO QUARTO
L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica DI RENATO TISATO
68 68 77 8I 97
I Considerazioni introduttive. II La liquidazione dell'analfabetismo
stru-
mentale. III Scuola umanistico-letteraria e scuola tecnico-scientifica. IV Pedagogia e scienza. v Le « Scuole nuove ».
99 IOO IOI I02 I03
VI Lev Tolstoj. vn Cecil Reddie e la scuola di Ahbotsholme. VIII Edmond Demolins, Georges Bertier e l'École des Roches. IX Scuole nuove in Germania: Lietz, Wyneken, Geheb. x Georg Kerschensteiner.
CAPITOLO QUINTO
Il pensiero filosofico anglo-americano Io6 I09 II 2
Considerazioni preliminari. Vita e opere di Spencer. Caratteri generali del suo pensiero. III Le linee generali del sistema filosofico I II
I I7 122 127
di Spencer. IV L'idealismo. v Il pragmatismo. VI Il neo-realismo.
573
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Indice generale CAPITOLO SESTO
Il complesso quadro della filosofia tedesca I32 I34 I38 I4I
I Considerazioni preliminari. II Helmholtz. III L'atmosfera positivistica IV Du Bois-Reymond.
in Germania.
I44 I47 I 51 I 58
v Avenarius. VI Lo spiritualismo: VII Il neo-kantismo. VIII Nietzsche.
Lotze.
CAPITOLO SETTIMO
Positivismo e antipositivismo in Francia I63 I65 I 70
I Considerazioni generali. II La diffusione del positivismo. III Lo spiritualismo.
I74
Taine.
ISo I 86
IV Renouvier e Boutroux. v L'epistemologia. Poincaré. VI Bergson.
CAPITOLO OTTAVO
Positivismo ed hegelismo in Italia DI MARIO QUARANTA I93 I98 20I 207 209
I Considerazioni introduttive. II Vita e opere di Ardigò. III Il pensiero di Roberto Ardigò. IV La scuola di Ardigò.
2I2
v Cesare Lombroso e le riviste positiviste.
2I5 2I9 225 227
VI Hegelismo e scienze: De Meis e Tommasi. VII Vita e opere di Bertrando Spaventa. VIII Il pensiero di Spaventa. IX Augusto Vera.
x Francesco De Sanctis.
CAPITOLO NONO
Il dibattito sulla scuola in Italia fra la metà dell'Ottocento e gli inizi del Novecento DI RENATO TISATO 230 234 235
I Considerazioni introduttive. II La legge Casati. III La scuola primaria.
244 247 2 52
IV La scuola secondaria. v L'università. VI Considerazioni conclusive.
CAPITOLO DECIMO
La biologia alla fine deii'Ottocenio DI FELICE MONDELLA 2 55 2 58
27I 277
Il darwinismo in Germania. Ernst Haeckel. Gli studi microscopici sulla cellula e la teoria dell'evoluzione di Naegeli. IV La teoria di Weissmann e l'onnipotenza della selezione. I
II III
282 289 298 303
v Il neolamarckismo. VI Le origini del nuovo vitalismo. VII Il vitalismo, prime formulazioni. VIII L'embriologia meccanicistica ed
talismo di Driesch.
CAPITOLO UNDICESIMO
Freud e la psicoanalisi DI ELENA ZAMORANI
3I 3 3I 5 323
Premessa. Studi sull'isteria e nascita della psicoanalisi. III Interpretazione dei sogni e autoanalisi. I
II
332 IV Libido, nevrosi e realtà. 338 v Il movimento psicoanalitico. 344 vi Narcisismo e metapsicologia. 347 vn Ultime ipotesi.
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il vi-
Indice generale CAPITOLO DODICESIMO
Logica e problema dei fondamenti nella seconda metà dell'Ottocento DI CORRADO MANGIONE
IV La sistemazione della logica moderna e la logicizzazione della matematica: Gottlob Frege. v L'assiomatica moderna: David Hilbert.
Preliminari. L'aritmetizzazione dell'analisi e i suoi sviluppi. III La teoria degli insiemi cantoriana.
I
II
CAPITOLO TREDICESIMO
Trasformazioni di fondo nella scienza fisica
427 429
Considerazioni introduttive. I nuovi orizzonti aperti dalla fisica sperimentale. I
II
432 III La nascita della fisica quantistica. 436 IV Verso una nuova concezione dell'atomo. 440 v Nuove istanze metodologiche.
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
Einstein DI UGO GIACOMINI
445 446 448
Importanza del pensiero di Einstein. La vita di Einstein. Breve esposizione della condizione teorica della fisica fino alla relatività ristretta. 454 IV Le memorie del I905 ed il loro significato. 460 v La teoria della relatività generale. 466 VI La paternità della teoria della relatività I
II II
ristretta. Considerazioni filosofiche sulla teoria della relatività speciale. 47 I VIII Considerazioni filosofiche sulla teoria della relatività generale. 474 IX Il posto di Einstein nella cultura moderna. L sue concezioni sociali e filosofiche.
467
VII
CAPITOLO QUINDICESIMO
Esame delle discussioni filosofico-scientifiche sulla teoria della relatività DI UGO GIACOMINI
480
Gli orientamenti fondamentali della discussione sulla relatività. 482 II Interpretazioni convenzionalistiche, machiane, kantiane, spiritualistiche e neopositivistiche nel periodo I9I8-3o. 496 III Le critiche dei quantisti e degli opera-
zionisti.
I
5oo
IV Le critiche della teoria della relatività
nell'ambito del materialismo dialettico sovietico. 504 v Orientamenti attuali della discussione sulla teoria della relatività.
Bibliografia INDICE DEI NOMI INDICE DELLE CITAZIONI CRITICHE
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