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LUDOVICO GEYMONAT
Storia del pensiero ftlosoftco e scientifico VOLUME S...
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LUDOVICO GEYMONAT
Storia del pensiero ftlosoftco e scientifico VOLUME SECONDO
Il Cinquecento - Il Seicento Con specifici contributi di Corrado Mangione, Gianni Micheli, Renato Tisato
GARZANTI
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1 edizione: luglio 1970 Nuova edizione: ottobre 1975 Ristampa 1981
©
Garzanti Editore s.p.a., 1970, 1975, 1981 Ogni esemplare di quest'opera che non rechi il contrassegno della Società Italiana degli Autori ed Editori deve ritenersi contraffatto Printed in Italy
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SEZIONE TERZA
Il rinascimento e la rivoluzione scientifica
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CAPITOLO PRIMO
Fattori e caratteri della rivoluzione rinascimentale DI LUDOVICO GEYMONAT E RENATO TISATO
l
·
VARIE INTERPRETAZIONI DELLA
RIVOLUZIONE
RINASCIMENTALE
Col termine « rivoluzione rinascimentale » vogliamo qui intendere quell'ampio e articolato processo storico che ha profondamente rinnovato il mondo europeo, portandolo - in poco più di due secoli - dalla civiltà medievale alle soglie di quella moderna. Per un lato esso vede il progressivo abbandono di tutte le regole che durante il medioevo avevano costituito altrettanti limiti invalicabili all'attività umana, sia teoretica sia pratica (nel campo della morale come in quello della metodologia scientifica, in quello della politica come in quelli della religione e dell'arte); per l 'altro vede il sorgere di nuove strutture economicopolitiche, e di nuovi valori culturali. Le trasformazioni realizzate nell'ambito della cultura durante il periodo in questione possono venire raggruppate intorno a tre fatti fondamentali : I) recuper_~del mondo_ classico e formazione di una nuoya_concez~()!le _deJl'u~!ll()_~ della_!l_at~ra_ e di _dio; 2) trll,y_agliQ_t:f:J!gi()S e frattura del corpus christianum in chiesa riformata e chiesa cattolica; 3) elaborazione del ID:_(!!_c;>_d~ _ma~(!~..3:!i~g-spe rimen!ale e conseguente avvio ..a:ll~_sc::ienz.ll. moder_f!a. Per lungo tempo gli storici della cultura si interessarono soprattutto al primo (cioè al vero e proprio rinascimento) e al secondo (riforma protestante e controriforma o riforma cattolica). Oggi si comincia a comprendere che il terzo fu forse più importante, da un punto di vista storico generale, dei primi due, ai quali peraltro - in ispecie al primo - è strettamente connesso. Proprio per sottolineare il nostro intento di prendere in esame il grandioso fenomeno nella sua globalità, abbiamo parlato, nel titolo del capitolo, di « rivoluzione rinascimentale ». Per quanto riguarda la valutazione del primo dei tre grandi fenomeni storici ora riferiti, va notato che si tratta di un problema storiografico di notevolissima importanza, poiché l 'interpretazione che si dà della civiltà rinascimentale coinvolge e condiziona l 'interpretazione di tutta la storia e di tutta la cultura moderna. Non per nulla lo studio del rinascimento ha attirato in ogni tempo l 'attenzione dei grandi storici ed è tuttora al centro degli interessi di un forte numero di stu-
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Fattori e caratteri della rivoluzione rinascimentale
diosi. Uno storico americano, Wallace K. Ferguson, ha tracciato, in un libro molto utile, un quadro abbastanza analitico delle varie interpretazioni del rinascimento susseguitesi a partire dalle origini, cioè dall'ambito della stessa cultura umanistica, fino ai tempi più recenti. Chi legge tale libro non può non rimanere colpito dall'enorme varietà di interpretazioni sostenute, sulla base di accurate e approfondite analisi, da illustri storici e poi sempre rimesse in discussione da altri storici e da essi sostanzialmente respinte. Lungi dal suscitare una sorta di scetticismo o di relativismo, ciò costituisce un indice abbastanza significativo, da un lato del grande rilievo che ha sempre avuto questo cruciale problema storiografico, dall'altro dell'estrema complessità della questione e della grande difficoltà che si incontra per giungere, in essa, ad una sintesi soddisfacente, non basata sopra una documentazione parziale o unilateralmente interpretata. Le due grandi correnti, in cui si è soliti dividere le interpretazioni che vennero date del rinascimento, sono quelle designate con i termini di: _!:~orie ciella frattura e teorie della continuità. Le prime considerano il rinascimento in netta opposizione al medioevo, valutato come un'età di regresso nello sviluppo civile. Questa tesi, che per certi aspetti ha le sue origini negli stessi umanisti i quali si opponevano polemicamente allo spirito dell'età medievale, trovò il suo più ampio rilievo nella storiografia dell'illuminismo, ma sopravvisse a lungo anche in seguito, almeno in linea generale, malgrado il cambiamento di prospettiva nei confronti del medioevo operatosi durante il romanticismo. Essa fu riespressa in una nuov~_ ~§\lgg_es~iva formulazione, verso la metà del secolo scorso, dallo storico ~s>b Burckh3:~_cl_~ in una celebre opera dal titolo Die Kultur der Renaissance in ltalien (La civiltà del rinascimento in Italia, 11i6ob. La tesT~~tral~d~l:B~;~kh~~dt-è-~he la civiltà rinascim~!J.tale abbia rappresentato una netta e improvvisa contrapposizione al f!!l~_-J _c:!is>c;:yq. Quest'ultimo è da lui visto come un:~~_l:>_!l:ta, d.!!l:i_nata dallo J>piri~p,ji· _Qarbarie e __4~ mi~~i(:~S_Il19 __cl'_is_tiano, avverso all'antica luminosa civiltà pagana. Pertanto la rinascita della cultura avrebbe significato necessariamente anche un ritorno al ~ganesi~-~· Un altro motivo tipicq di questa interpretazione è la tesi che proprio l'imitazione dell'antico sarebbe stata la «causa» della rinascita. Di qui la distin;i;;-~~-fra un primo periodo della civiltà rinascimentale, il cosiddetto <4..!!.II1~~!glol», caratterizzato dal culto delle humanae litterae in opposizione alle divinae litterae dominanti nell'età di mezzo, e un secondo periodo, cioè il «(i~-:. ~Cl..ijieQ_i:g in senso stretto », caratterizzato da una nuova concezione di dio, della natura, della vita umana conseguente al rinnovato culto delle lettere classiche. La tesi di Burckhardt ha avuto un grande successo, ma palesava pure gravi insufficienze metodologiche e, in particolare, una scarsa fecondità, onde venne da più parti sottoposta a critiche assai radicali. Proprio da queste critiche trassero origine alcune fra le più interessanti teorie della continuità, che miravano essenzialmente a porre in luce gli elementi comuni al medioevo e al rinascimento. 8
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Fattori e caratteri della rivoluzione rinascimentale
Si è negato che il medioevo possa essere considerato un'era di oscurità e barbarie, sottolineandone e valorizzandone la produzione culturale, specialmente dei secoli successivi al Mille. Si è negato altresì che il medioevo possa essere considerato monoliticamente cattolico, richiamando l 'attenzione sui numerosi moti ereticali anticipatori della riforma. Si è creduto di scorgere nell'aspirazione ad una renovatio religiosa, caratterizzante il movimento gioachimita e quello francescano, un'anticipazione di quella renovatio di tutte le manifestazioni della vita in cui consiste, per l'appunto, il rinascimento. Infine si è messo in luce il rapporto che lega la rinascita culturale alla generale rinascita economica e alla conseguente trasformazione sociale e politica. Per questa via si è giunti ad anticipare di alcuni secoli l'inizio del rinascimento ed a stabilire una linea continua fra il tramonto del medioevo e l 'inizio dell'età moderna. Alcuni studiosi poi, che accettavano la tesi della continuità storica, hanno preteso rovesciare la tesi del Burckhardt, mettendo in evidenza proprio i caratteri cristiano-cattolici del rinascimento, e arrivando a scorgere in quest'ultimo non già il ritorno del paganesimo o il trionfo del pensiero laico, ma un 'alleanza del tradizionalismo classico col tradizionalismo cattolico, contro l'eresia e la scienza eterodossa, largamente diffuse nel tardo medioevo. Come si vede, il problema dell'interpretazione del rinascimento è intimamente connesso con quello della sua periodizzazione. Tipica a questo proposito è la questione dei rapporti fra umanesimo e rinascimento in senso stretto. Già ricordammo che il Burckhardt considerava l'umanesimo quale fenomeno a carattere prevalentemente letterario e collocava il suo apice nel xv secolo. Altri invece, accusando di unilateralità questa tesi, tendono ad identificare fra loro umanesimo e rinascimento ed a sottolineare, come caratteristica comune di tali due età, una nuova concezione dell'uomo, della storia, della società (concezione elaborata appunto nel xv e xvi secolo). Nuove ed interessanti periodizzazioni sono state suggerite di recente: esse hanno introdotto il concetto di anti rinascimento o controrinascimento. Il termine, che è stato ovviamente formulato in analogia con quello di controriforma, venne diffuso in particolare da Hir~~H~Y4.l! nel volume intitolato appunto__!!_contr()!inascif11.ento. L'analisi dello Haydn, ricca e affascinante se pur discutibile sotto molti aspetti, tende a considerare come antirinascimentali quegli aspetti antintellettualistici insiti sia in Lutero e in Calvino, sia in Montaigne e (parzialmente) in Machiavelli, sia negli scienziati che professano un empirismo piuttosto accentuato, rivolti prevalentemente contro le concezioni razionalistiche della scolastica e dell'umanesimo, accomunate dall'autore in una prospettiva di umanesimo cristiano. Altri invece preferiscono indicare con il termine « antirinascimento » il periodo caratterizzato dal costituirsi della nuova scienza, che considerano sorta in opposizione ai metodi e alle prospettive rinascimentali. Anche senza voler sottoporre queste tesi al vaglio di un accurato esame critico, i pochi cenni qui riferiti possono risultare suffi-
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Fattori e caratteri della rivoluzione rinascimentale
denti a porre in luce come il problema dei rapporti fra umanesimo, rinascimento e scienza moderna sia oggi più c:he mai un problema molto dibattuto e variamente risolto. Vive discussioni ha suscitato, in particolare, la questione dei rapporti fra umanesimo e scienza moderna. Alcuni storici della scienza hanno osservato come gli umanisti non abbiano in realtà apportato alcun sostanziale contributo allo sviluppo della nuova scienza; anzi, l'atteggiamento di molti umanisti ostile all'effettiva e concreta indagine del mondo naturale ed il loro prevalente interesse per i problemi della retorica e della morale avrebbero costituito più un ostacolo che un avanzamento verso la formulazione della scienza moderna. Tali storici hanno invece sottolineato il ruolo e l 'importanza - per la nascita della scienza della tradizione aristotelica e dei risultati conseguiti dall'indagine della tarda scolastica, a scapito degli elementi del platonismo insiti nella tradizione umanistica. Notevole rilievo hanno pure assunto, per una nuova valutazione generale del rinascimento, sia alcuni studi sociologici, sia le ricerche sul ruolo svolto dai tecnici e dagli artigiani. Ciò che importa comunque sottolineare è il fatto che in questi ultimi anni è venuta via via crescendo l'attenzione degli studiosi verso gli aspetti -troppo a lungo trascurati- della civiltà rinascimentale costituiti dall'indagine naturalistica, tecnologica e scientifica, nel preciso intento di chiarire quell'evento di cruciale importanza che è la rivoluzione scientifica. Ne è scaturita una profonda modificazione nel modo di considerare l 'intero rinascimento, con il definitivo abbandono dei vecchi schemi che facevano di esso un indirizzo di idee esclusivamente o prevalentemente accentrato intorno ai problemi dell'arte, della letteratura, della religione e della politica. L'impostazione data alla presente sezione e l'articolarsi dei suoi capitoli provano in modo manifesto che gli autori di questo volume condividono il parere di quei critici i quali vedono nella elaborazione del metodo matematico-sperimentale il risultato più rilevante del complesso fenomeno storico costituito dalla rivoluzione rinascimentale. A convalidare fin d'ora il peso di questa tesi interpretativa basti riferire le chiare e incisive parole dell'autorevole storico inglese Herbert Butterfield sull'importanza della rivoluzione scientifica e sull' opportunità di fare ormai esplicito riferimento ad essa ai fini di una periodizzazione della storia moderna: « Dal momento che questa rivoluzione rovesciò l 'autorità non solo della scienza medievale, ma anche di quella del mondo antico, dal momento che non solo portò all'eclisse della filosofia scolastica, ma anche alla demolizione della fisica aristotelica, essa supera per importanza ogni avvenimento dal sorgere del cristianesimo, e riduce il rinascimento e la riforma al livello di semplici episodi, semplici spostamenti interni entro il sistema della cristianità medievale. Dal momento che la rivoluzione scientifica cambiò il carattere delle abituali operazioni mentali degli uomini anche nei riguardi delle scienze non materiali, trasformando l 'intero diagramma dell'universo fisico e la struttura della stessa IO
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Fattori e caratteri della rivoluzione rinascimentale
vita umana, essa appare tanto chiaramente come la vera origine del mondo moderno e della moderna mentalità, che il nostro modo abituale di suddividere la storia europea in determinati periodi è divenuto un anacronismo e un dannoso pregiudizio. » II
· CENNI DI STORIA ECONOMICO-POLITICA
Prima di analizzare i caratteri secondo noi più tipici della nuova cultura, gradualmente elaborata nel periodo in esame, sarà opportuno richiamare alcune elementari notizie sulle complesse vicende storiche di tale periodo, in particolare su quelle italiane. Uno dei problemi politici più intricati e più importanti del mondo occidentale durante la fase di trapasso dal medioevo all'evo moderno fu, come ben noto, quello della riforma della chiesa; possiamo quindi dare anzitutto qualche brevissimo cenno ad esso, per passare poi a discutere - in forma un po' meno schematica - l'effettivo significato storico e sociale dell'anzidetto trapasso. Un anno dopo il ritorno del pontefice Gregorio XI da Avignone a Roma (I377) aveva avuto inizio, in occasione della nomina del suo successore (I378), il famoso scisma di occidente che per vari anni contrappose l 'uno all'altro due papi (quello di Roma e quello di Avignone), sostenuti da due gruppi diversi di potenze cattoliche. Questa gravissima scissione aveva acuito il profondo travaglio già da tempo presente nella chiesa, portando in primo piano il problema di provvedere con urgenza ad una radicale riforma delle sue vecchie strutture. Ma su che base procedere a tale riforma? Riconfermando il potere assoluto del papa o sostenendo la preminenza dei concili ecumenici? Come è noto, nel I409 il concilio ecumenico di Pisa aveva creduto di poter porre fine allo scisma deponendo i due papi avversari e nominandone un terzo. Senonché questi non era riuscito ad imporre la propria autorità, sicché l'unico risultato era stato quello di accrescere il numero dei papi da due a tre. Di fronte a questa enorme confusione, si rese necessaria la convocazione di un altro concilio a Costanza (I4I4-I8), concilio che apparve ben presto come la vera assemblea costituente del mondo cattolico. Esso deliberò anzitutto che ogni fedele, ivi incluso il papa, avrebbe dovuto rispettare i deliberati del concilio e provvide a deporre tutti e tre i papi contendenti (due di essi si sottomisero al decreto, il terzo morì qualche anno più tardi). Era l'unica via per porre termine allo scisma, ma era anche il trionfo delle correnti che intendevano riorganizzare la chiesa su basi conciliari e federative. L'importante svolta doveva però rivelarsi di breve durata. Apertosi nel I43 I un nuovo concilio a Basilea, il papa Eugenio IV, vedendo che esso tornava ad orientarsi nel senso di quello di Costanza, si affrettò a scioglierlo ed a convocarne un altro a Bologna. La lotta fra le due correnti poco sopra accennata si rifece II
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Fattori e caratteri della rivoluzione rinascimentale
aspra: i padri conciliari rifiutarono di sottomettersi al disposto pontificio e nel 143 8 diedero inizio a un nuovo scisma: il cosiddetto scisma del concilio di Basilea. Ma questa volta il papa riuscì a manovrare le cose in modo da prendere il sopravvento, e in poco più di dieci anni sconfisse in maniera definitiva gli avversari. Il nuovo scisma ebbe termine nel 1449 con la piena vittoria dell'autorità papale. Il problema della riforma della chiesa era ancora una volta rinviato, ma questo rinvio era soltanto destinato a renderlo più acuto e più drammatico. Intanto il papa riusciva a conseguire un altro notevole successo, di grande rilievo seppure di breve durata. Nel concilio da lui indetto a Firenze (1439) realizzava un solenne accordo con la chiesa d 'oriente (accordo caduco, che durerà solo ventitré anni), ristabilendo l'unità di tale chiesa con quella d'occidente. Vedremo nel prossimo capitolo che questa riunificazione ebbe una grande importanza anche per la storia della cultura. Essa infatti favorì nuovi contatti con i dotti bizantini e contribuì in misura notevolissima a rinvigorire il movimento umanistico, inteso proprio nel senso di un ritorno allo studio dei classici. Gli eventi di storia ecclesiastica testé richiamati servono assai bene a caratterizzare una situazione politica in rapido movimento. Essi saranno seguiti a breve distanza da un altro fatto di rilievo ancora maggiore: la_<:~duta di C~~~ll:!ltinop~y ad opera dei turchi nel ~145 3.~ Alcuni storici fanno iniziare proprio da questa data l'età moderna; altri preferiscono invece spostarla a circa mezzo secolo più tardi, cioè alla scoperta dell'America (1492). Da un punto di vista politico sia l'uno che l'altro evento furono senza dubbio di enorme importanza per la storia d'Europa; sarebbe tuttavia erroneo cercare particolarmente in essi i motivi profondi del mutamento di un'epoca. In realtà questo mutamento affonda le proprie radici in fenomeni sociali assai anteriori. Se consideriamo carattere predominante della società medievale l'economia chiusa, mirante al puro soddisfacimento immediato del bisogno, ispirata a quei principi del giusto prezzo, del giusto salario, del divieto di usura che riducono al mtnimo il profitto, dobbiamo concludere che l'inizio dell'età moderna, almeno per le più importanti città mercantili dell'occidente e particolarmente per quelle italiane, risale al XIII secolo. Come già ricordammo nella sezione II, il XIII secolo vede, contemporaneamente al sorgere della borghesia, la decadenza dei due istituti universalistici tipicamente medievali: il papato e l 'impero. La varietà trionfa sull'unità. L 'Europa si avvia a trasformarsi in un complesso di stati regionali o nazionali. In Italia, durante il XIV secolo, i reggimenti comunali sono a poco a poco sostituiti dalle città-stato. La discordia tra le fazioni, la pressione esercitata dalle arti minori e dal popolo minuto contro i privilegi del popolo grasso e delle arti mediane, l'incapacità del comune di risolvere il problema dei rapporti col contado e con le città ridotte a sudditanza, portano all'avvento della signoria, che, sostanzialmente, rappresenta l 'assunzione del potere da parte di un singolo, capace di eliminare 12.
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Fattori e caratteri della rivoluzione rinascimentale
il governo dei partiti e di imporre una volontà imparziale a tutte le contrastanti forze costitutive dello stato. La classe che viene maggiormente avvilita dal regime signorile è la vecchia nobiltà. La borghesia trova nella maggiore sicurezza un clima adatto alla prosperità economica. Il popolo minuto gode, sia pure di riflesso, dell'accresciuto benessere e si compiace della tranquillità. Le città minori e il contado, già sottoposti alla città principale, vengono progressivamente pareggiati a quest'ultima sotto l'uguale dominio del signore. Col trascorrere del tempo la mera unione personale viene integrata da un complesso di istituti uniformi e di magistrati comuni, da una burocrazia accentrata. In tal modo la signoria e successivamente il principato, se per un certo aspetto costituiscono la soppressione di fatto dei venerandi e gloriosi istituti comunali, considerati da un altro punto di vista si rivelano come un passo innanzi verso lo stato moderno. Prima conseguenza di questa lenta e profonda rivoluzione social-politica, che segna il vero trapasso da un'epoca all'altra è, sul piano economico, la dilatazione del mercato. All'economia eminentemente locale si viene sostituendo, nell'ambito dei grandi complessi regionali e nazionali, un'economia basata sulla _eliti!inazione di barriere e___E!Qtezig_f!L _loç~li, sull 'unifica?_iof!~_ 4~!~_!!1_9_E~ta, ~ei_ _Eesi,__qc;:lle ~_S_\1_!_(:!. Ciò porta ali 'affermazione - accanto alla piccola borghesia che tenta di impedire la concorrenza, il rialzo dei prezzi, la libera circolazione delle merci e della manodopera, aggrappandosi disperatamente alle norme della vecchia etica medievale-scolastica - di una nuova classe di grandi mercanti. Si tratta di uomini i quali non lavorano più soltanto per vivere di giorno in giorno, secondo gli schemi della tradizione e della morale della chiesa, ma per accrescere le proprie fortune, per acquistare onore e potenza. Nasce così una nuova aristocrazia, assai diversa da quella militare e guerriera che aveva dominato per tutto il medioevo. Né si tratta di mera plutocrazia, giacché molti di questi nuovi grandi imprenditori eccellono anche per cultura, gusto, passione per le opere d'arte, sagacia nella valutazione degli eventi storici e delle azioni politiche. Ma il principato incide sulla struttura sociale e sui caratteri della cultura anche per altre vie. In primo luogo, sostituend~, come abbiamo visto, k-~~g!_-_ stra!~!'~ __rl_f:_!!iV:C::fQ!:! __~!!_a_~~~~~~iE~:_ __F!ltu~--~!icok, I 'irrigazi_9_!1~_Qi _yaste ar_c;:~ ~QJ!iy_a]Jili. Così, sotto la pressione combinata della politica e del commercio, si trasformano le tecniche relative alla nautica, all'idraulica, alle fortificazioni, alla
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Fattori e caratteri della rivoluzione rinascimentale
contabilità. Coronamento dì questo fecondo periodo, e al tempo stesso punto di partenza dì un periodo incomparabilmente più fecondo, sono le gran~i.__-~c()p~r!~ geog!"~fj._ç_h~, J'ìnVc:!f!?:Ìo~g~JI~ pql_yere dan§pll:rQ_ e quella della__~~~!I!P~:. Sulla base di questa fino allora sconosciuta prosperità economica si sviluppa una irresistibile aspirazione verso il benessere, verso forme di vita più comode e piacevoli. Non ci si limita a costruire bellissimi i templi della divinità o le residenze dei principi e delle magistrature, ma si costruiscono per i più ricchi cittadini palazzi grandiosi, forniti di ogni comodità, ville adorne di statue ed affreschi. La nuova borghesia, come abbiamo già detto, apprezza l 'arte, le belle sculture e pitture, il bello scrivere. Fino alla seconda metà del xv secolo la vita economica europea vede l 'incontrastata egemonia dell'Italia. Venezia e Genova conservano una netta superiorità nel settore mercantile e promuovono quello industriale delle città lombarde e toscane. « Lombardo » è sinonimo di banchiere. Nel corso del xv secolo, perdurando il primato italiano, si assiste però al fenomeno della diffusione del commercio capitalistico in tutta Europa, specialmente in Francia, nei Paesi Bassi e in Inghilterra. l metodi che erano stati prerogativa degli uomini d'affari italiani divengono pratica corrente. D'altra parte la democratizzazione del mercato comincia a far prevalere in taluni campi i prodotti più rozzi ma più a buon mercato provenienti dall'Inghilterra o dalla Francia. Così, quando a questi fattori si aggiungeranno le ripercussioni dell'occupazione turca del vicino oriente e delle scoperte geografiche, la crisi sarà inevitabile. Ma l'eclisse italiana non avrà solo cause economiche. Sul piano politico risulterà determinante il fatto che i principati italiani per la loro recente origine hanno una stabilità molto minore delle grandi monarchie (francese, inglese, ecc.). Aggiungasi la funzione nefasta dell'impero e, specialmente, quella del papato, accanitamente avverso ad ogni possibilità di quell'unificazione nazionale in cui scorge la ragion sufficiente della fine del potere temporale, e ·si comprenderà agevolmente quanto sia precario l'equilibrio di questo paese proprio nel momento della massima prosperità e del più fulgido splendore. III
· DISCRIMINAZIONE FRA LA NUOVA CULTURA E QUELLA MEDIEVALE-COMUNALE
Siamo ora in condizione di poter fare alcune precisazioni indispensabili allo scopo di evitare confusione e fraintendimenti circa l 'inizio e il significato della nuòva cultura. Qualora si facesse cominciare il rinascimento dall'inizio del processo di trasformazione delle strutture economiche e sociali, accennato nel paragrafo precedente, si dovrebbe concludere che tutta la produzione culturale del XII e XIII 14
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secolo fino alla metà del XIV rientra nel quadro rinascimentale. Questo riassorbirebbe pertanto il romanico e il gotico, la lirica provenzale, la scuola siciliana, lo stil nova e tutta la scolastica. Orbene, senza voler negare il nostro pieno diritto di imporre al termine rinascimento l'ampliamento testé accennato, resta però il fatto che l'identica denominazione non annulla la profonda diversità esistente fra la cultura del medioevo comunale e borghese e quella dell'umanesimo quattrocentesco e del rinascimento in senso stretto. Si tratta, dunque, di determinare con precisione l'essenza e i limiti di tale diversità, non di discutere se valga la pena indicare quelle due diverse culture con il medesimo nome o con nomi differenti. Va d'altra parte osservato, se vogliamo fissare un rapporto di dipendenza diretta tra il rinascimento e la trasformazione dell'assetto economico-politico della società, che l'umanesimo fiorisce quando ormai l'esplosione rivoluzionaria del comune ha ceduto alla reazione signorile, tanto che qualche storico ha creduto di dover capovolgere, per così dire, i termini tradizionali della questione, giungendo a considerare - come ricordammo nel paragrafo I - quale espressione della virtù creativa sprigionantesi con la nascita e la maturazione di un mondo nuovo (cioè come vero rinascimento) proprio la cultura volgare fiorita nel periodo comunale, laddove il rinascimento in senso stretto e l'umanesimo come culto dell'antichità classica costituirebbero invece un moto regressivo. Ci sembra che, per evitare pericolose schematizzazioni, si debba distinguere in primo luogo fra la vita vissuta e la realtà culturale (arte, filosofia, ecc.) in cui tale vita è riflessa, idealizzata, giustificata concettualmente. Che nei secoli immediatamente successivi al Mille si costruiscano case più belle e più comode, si aspiri a vestirsi ed a mangiare meglio; che i mercanti e i banchieri del XIII secolo agiscano in conformità con le spietate leggi del mercato e non con quelle che la chiesa vorrebbe imporre; che gli uomini politici facciano della ragion di stato il fine supremo che giustifica tutti i mezzi atti a conseguirlo, tutto questo non è semplicemente vero: è addirittura ovvio. Senonché l'etica medievale, fondata sulla rivelazione e imperniata attorno al concetto della trascendenza del fine della vita, destituisce di valore, almeno nelle sue formulazioni più conseguenti, gli sforzi, le lotte, le conquiste degli uomini. Il medioevo comunale è perciò caratterizzato da un profondo contrasto tra l'operare e il pensare, dalla coesistenza di due concezioni del mondo, una che si manifesta nell'azione, l'altra, che è poi quella cristiano-feudale, sostenuta dalla chiesa e accettata ormai solo ufficialmente e per forza di tradizione dalla maggior parte dei gruppi sociali. Nel complesso l 'uomo del medioevo comunale non riesce a giustificare teoricamente il suo modo di operare praticamente; c'è in lui una coscienza ereditata dal passato in contrasto con quella implicita nel suo comportamento. Le figure di Petrarca e di Boccaccio sono, sotto questo punto di vista, veramente esemplari. Possiamo pertanto assumere come criteriQ_atto a rendere possibile la discri-
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minazione fra cultura medievale-comunale e cultura umanistico-rinascimentale l 'apparire della co~E-~-1!~~--~~~~_<:>E!_~~~!~-~~~~!c:!!!!(! Jra _v_ita_yissut_a e i_4c::~l<;>gia. La coscienza del contrasto diviene consapevolezza della frattura formatasi tra medioevo e tempi nuovi, anzi diviene consapevolezza del medioevo come età a sé stante, in antitesi alla nuova età iniziatasi col rinascimento. Abbiamo detto poco fa che dal mondo dei grandi affari e dalla lotta politica, l'esigenza della libera espansione del singolo in tutte le direzioni prorompe irresistibile e porta alla instaurazione di un nuovo metro valutativo. « V era e perfetta nobiltà, » scrive Poggio Bracciolini, « è quella che sta in noi; non quella che abbiamo ereditata, ma quella che abbiamo conquistata con le veglie, con le fatiche, con gli studi ... » Pico della Mirandola svolgerà lo stesso tema in chiave neoplatonica, affermando che la dignità dell'uomo consiste nel fatto che « il suo destino dipende dalla sua libera volontà e che egli reca in sé i germi di ogni specie di vita». Così l'individuo si viene sempre più convincendo di essere autore della vita propria e della storia, « artefice della propria fortuna ». Ora possiamo però aggiungere che i mercanti, i politici, i banchieri del Duecento e del Trecento erano sì disposti a contravvenire alle norme della chiesa quando queste contrastavano con le loro imprese, ma sentivano questa contravvenzione come peccato. Nella nuova situazione, invece, Poggio Bracciolini (nel dialogo De avaritia) illustra la naturalità della brama del denaro e mette in rilievo la sua utilità: « Allo stato il denaro è nerbo necessario e gli avari ne debbono essere considerati base e fondamento.» Se tutti si accontentassero di ciò che è indispensabile, la civiltà scomparirebbe. Il lavoro è una benedizione; esso rappresenta l'espansione della personalità umana. La ricchezza è quasi un segno tangibile dell'approvazione divina. D'altro canto, in polemica con l'ideale ascetico del medioevo, Leonardo Bruni esalta Dante perché, pur essendo uno studioso, partecipa alla guerra e prende moglie e procrea figli, e per motivi analoghi loda Cicerone e Catone. Contro la tesi medievale per la quale « anche l 'amate della gloria è un vizio » e « un umile contadino che serve dio è certo al di sopra del filosofo », la gloria torna ad essere intesa come il ripercuotersi della virtù nel cuore degli altri uomini, come il segno tangibile del suo valore sociale. Ritorna così un motivo già presente nella concezione greca del mondo: l'onore come unica misura oggettiva del grado di areté realizzato; la fama come unico modo di prolungare nei secoli la breve e travagliata vita terrena. È, ovviamente, un motivo destinato a rafforzarsi tanto più quanto più debole si va facendo la fede nell'altra vita. Così da un lato si afferma il mecenatismo, dall'altro la figura dell'uomo di cultura, artista o letterato o scienziato che, mentre dà l 'immortalità al protettore, chiede immortalità per se stesso. «L'epoca dell'architettura anonima delle cattedrali gotiche, » osserva lo storico inglese H.A.L. Fisher, « costruite da generazioni e generazioni di operai sconosciuti, è definitivamente chiusa. »
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Fattori e caratteri della rivoluzione rinascimentale
Da tutto questo deriva l'attribuzione di una fondamentale importanza alla volontà ed una concezione del tutto nuova del « sapere ». Le maggiori correnti filosofiche del medioevo concepivano il sapere essenzialmente come « teoria », contemplazione della verità. Ora, invece, il sapere diventa un mezzo per conquistare il dominio di sé, per creare opere belle, per inserire la propria azione nel corso della storia e, in un momento successivo, della natura. Si delinea una nuova concezione della virtù, efficacemente e sinteticamente indicata col termine humanitas, dal quale deriveranno, successivamente, le espressioni « umanista » e « umanesimo ». IV
· DUE TEMI FONDAMENTALI
CARATTERISTICI DELLA NUOVA CULTURA
Quanto ora esposto ci pone in grado di comprendere, nel loro intimo significato e nelle loro molteplici implicazioni, due temi fondamentali che caratterizzano la nuova cultura: 1) il rili<::_\'?_~~ eSS:J. ~ato~lJ~~~~re. cleÙ'~m~~~j~:d:iy_ig~_aJ!t_àl e conseguentemente (poiché l'individualità si radica soprattutto nell'azione) la preminenza accordata alla volontà sull'intelletto; 2) ~TrttOrno__~l__P.l_Q_~Q -~I~s-~çgL nella letteratura, nell'arte, nelle scienze e nella filosofia, con una più vasta, profonda e spregiudicata conoscenza dei latini e con la scoperta dei greci. Quanto al significato del primo tema, esso risulta già sufficientemente chiarito dall'analisi (compiuta nel paragrafo m) delle differenze fra la nuova cultura e quella medievale-comunale. Sarà tuttavia opportuno approfondire da un punto di vista filosofico tali differenze, integrando la precedente analisi con un brevissimo raffronto fra il concetto medievale di individuo e di volontà, e quello suggerito dalle concrete strutture della nuova società in formazione. È risaputo che anche nella storia della filosofia medievale si incontrano varie filosofie a carattere volontaristico; ne abbiamo parlato a lungo nella sezione n. Proprio allora abbiamo fatto però rilevare che esse sogliano inserire la volontà in una problematica spiccatamente religiosa. Per tali filosofie il problema dei rapporti fra volontà e intelletto coincide, in ultima istanza, con quello dei rapporti tra fede e ragione. Orbene, la differenza tra esse e il nuovo pensiero filosofico sta per l'appunto qui: diversamente dal filosofo medievale, il filosofo del rinascimento interpreta la volontà come qualcosa di essenzialmente terreno; come capacità effettiva, posseduta dall'uomo, di inserire la propria azione nel mondo dell'esperienza. In altri termini: essa è, per lui, forza, energia, impulso ad operare. In conclusione: pur ammettendo l'esistenza nel medioevo di importanti antecedenti filosofici dell'individualismo e volontarismo rinascimentali, dobbiamo 17
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riconoscere che è il significato stesso dei termini « individuo » e « volontà » che ora risulta rinnovato. Non si indaga più la loro essenza metafisica, né più ci si interessa dei problemi religiosi loro connessi. Si afferma il valore dell'individuo e della volontà, per attestare la fede della nuova epoca nella potenza invincibile del cittadino, dell'artista, dello scienziato. Individuo e volontà cessano di essere puri concetti filosofici, e designano invece qualcosa di concreto: designano cioè le effettive esperienze della vita umana che è lavoro e lotta, non mai semplice contemplazione. Anche il secondo tema risulta in parte chiarito da quanto abbiamo detto nel paragrafo m. Qui pure, però, si rende necessario un ulteriore approfondimento (tra l'altro per sottolineare i rapporti fra questo secondo tema e il precedente). Dobbiamo in primo luogo sgomberare il terreno da una questione preliminare. È vero che l'età dell'umanesimo vede un accrescimento quantitativo della conoscenza degli autori latini e greci? La risposta non può essere che affermativa. In circa un secolo si viene a conoscere, del mondo latino, assai più di quanto non se ne conoscesse nel medioevo. Per quanto riguarda il greco, la conoscenza di quell'antica letteratura è alimentata dalla venuta in Italia, dall'impero orientale, di numerosi dotti, in occasione del concilio di Firenze (1439) e, più tardi, in seguito alla caduta di Costantinopoli. 1 Ma, ovviamente, il motivo essenziale dell'umanesimo non va cercato nel numero delle opere ritrovate e lette, bensì nel « modo » della lettura. Abbiamo visto come l'etica del medioevo destituisse di valore gli sforzi, le lotte e le conquiste degli uomini. D'altro canto, la struttura cristiano-feudale della società riduceva l'educazione, come strumento formativo delle classi dirigenti, ad essere educazione cavalleresca oppure ecclesiastica. La società nuova esige, invece, da un lato una concezione del mondo e della vita che giustifichi i suoi bisogni, le sue aspirazioni, il suo comportamento, dall'altro un'educazione che formi l'individuo non più in quanto cavaliere o religioso, ma in quanto cittadino e uomo. Ebbene: pare agli studiosi del Tre-Quattrocento che la giustificazione delle passioni, delle aspirazioni, proprie di quegli « uomini non perfecti, co' quali comunemente si vive», e l'esaltazione della personalità in tutta la sua interezza, nella sua essenzialità umana, abbia costituito il motivo fondamentale della civiltà greco-romana, in base a quanto di tale civiltà è possibile giudicare attraverso la letteratura e i ruderi giunti fino a noi. Alla cultura classica non si chiedono nozioni che servano all'acquisizione di capacità specifiche, bensì l'innalzamento a un livello superiore dell'intera personalità ed il potenziamento di tutte le sue attitudini particolari. Ritorna la figura dell'oratore come « vir bonus dicendi peritus », uomo che attraverso la meditazione delle cose divine ed umane giunge al pieno ed armonico svolgimento 1 Sui riflessi di questi due eventi storici sopra la cultura umanistica ritorneremo più am-
piamente capitolo.
come si è già detto -
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nel prossimo
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di tutte le proprie facoltà. La cultura generale (classica), anche se non fornisce immediatamente una tecnica usufruibile in un determinato campo professionale, si rivela utilissima, indirettamente, anche in rapporto a quest'ultimo a causa della maturità di giudizio, del senso di equilibrio, del ponderato autodominio che da essa conseguono. Così la tensione verso una nuova concezione del mondo approda alla rinascita della concezione greco-romana. Il termine « rinascimento » acquista di conseguenza un significato più ristretto ma più stimolante. A questo punto però sorge spontanea una domanda: il ricordo di Roma non era presente anche nel medioevo? Indubbiamente sì. Senonché la memoria del passato non implica necessariamente l'esaltazione di quel passato e la speranza di una sua resurrezione. Ora, in primo luogo, nel medioevo prevale la concezione agostiniana di Roma quale «nuova Babilonia». Secondariamente, l'idea di Atene e di Roma sopravvive nelle espressioni di una cultura ormai fossile, ridotta perlopiù entro gli schemi di mediocri compendi. Infine, non bisogna dimenticare che l'idea di Roma nel medioevo è estremamente complessa e vede mescolato al mito della città classica quello della sede della cattolicità. In Cola di Rienzo, Coluccia Salutati, Leonardo Bruni e specialmente nel Machiavelli, troviamo invece il concetto nuovo di )-zmzTa!ff!j; ed è precisamente questo il motivo che contraddistingue l'atteggiamento umanistico di fronte all'antichità da quello medievale. L'umanità greco-romana è vista come quella che da un lato ha raggiunto pienezza ed armonia di vita e dall'altro è riuscita ad esprimere tale pienezza ed armonia in modo perfetto, nelle opere d'arte e di pensiero. «L'antichità classica,» scrive lo Chabod, «diventa l'ideale momento della storia umana in cui si sono realizzate le più alte aspirazioni degli uomini, il momento modello in cui bisogna specchiarsi per avere chiara e sicura guida a più alto operare, nelle lettere come nelle arti, nella politica e nella milizia. » Il richiamo all'antichità assume così il carattere di un programma che traccia una chiara linea d'azione alle aspirazioni verso nuove forme di vita. Un altro aspetto, esso pure molto importante, del ritorno al mondo classico è costituito dall'amore per il testo: testo che si vuole non più interpolato o deformato con pie intenzioni, bensì trascritto nella sua originalità; non più studiato per trovarvi conferme a una concezione teologico-filosofica ben consolidata, ma per servire alla co_l:lO~~en?_~__Q_~assa~o nel~~~S.':l!J.()ggettiyità. Una s.~~_i_;~,jn~pettiva storica. Il filologo umanista percepisce con estrema chiarezza la differenza fra autentica cultura classica e permanenza di temi classici nella cultura posteriore; coglie
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l 'irreducibilità del mondo greco-romano a quello instaurato dalla cristianità; perde ogni illusione circa l 'unità e continuità tra antico e moderno. Si rivolge insomma ai testi classici, per studiarvi il pensiero degli antichi, per cercarvi il passato in quanto passato: il suo amore per la purezza del testo antico diventa consapevolezza della diversità fra antico e presente, cioè consapevolezza del fluire della storia. Anche se lo sforzo di cogliere il mondo antico nella sua obiettività storica è compiuto, dagli umanisti, nella speranza di trarne suggerimento per la risoluzione dei nuovi problemi del secolo in cui vivono, il presupposto da cui essi partono è l'esistenza di una frattura fra questi problemi e quelli dell'antichità. Tale frattura è rappresentata, secondo essi, dal pensiero medievale: e proprio la loro polemica contro il medioevo non fa che accentuare sempre più la profondità della frattura stessa, cioè rendere via via maggiore la distanza fra il presente e l'antico. Al rinnovato amore per il mondo classico si ricollega, infine, un fatto di grande importanza, non solo per la storia della lingua ma anche per la storia del pensiero: il ritorno all'uso del l~_tlQ:9_S:1llc~~i_cQ nella composizione di nuove opere, specialmente di argomento etico-filosofico. Dobbiamo intendere questo ritorno al latino come una diminuzione di originalità, rispetto ai primi autori che scrissero in lingua volgare? La nostra risposta non può essere che negativa. Innanzi tutto perché il ritorno al latino classico viene attuato, non per tutti i generi letterari, ma per quel tipo di opere che nemmeno nei secoli antecedenti erano state scritte in volgare (e cioè per orazioni, dialoghi dottrinali, ecc.). In secondo luogo, perché il latino degli umanisti, se pur modellato su quello classico, non fu mai una passiva e pedestre imitazione. Voler opporre il latino degli umanisti al volgare, è quindi inesatto: vero è, invece, che il volgare si venne formando lessicalmente e sintatticamente proprio all'ombra del latino vivo degli umanisti a mano a mano che se ne approfondiva lo studio e l'uso ne diveniva più sciolto. Negare l'originalità degli umanisti, significa non intendere la consapevolezza storica, che sta alla base del loro interesse per gli antichi: consapevolezza che impedisce loro qualsiasi confusione tra mondo presente e mondo passato; consapevolezza che fa loro cercare il mondo passato, non per riprodurlo passivamente in una situazione del tutto diversa, ma per trarne suggerimento a ideare nuove e più mature soluzioni dei problemi presenti. Una volta sottolineate le implicanze positive dell'amore degli umanisti per la classicità, non possiamo però fare a meno di segnalare anche un pericolo, assai grave, che si celava in tale amore: il pericolo che il gusto per la purezza classica finisse, col trascorrere degli anni, per alimentare nel ceto colto una relativa chiusura rispetto al mondo circostante. Così accadde effettivamente, specie in Italia, ove si giunse purtroppo alla fatai~ costituzione di_ una f.l~~~_Q_L_g.Qt_ti)~Q!!l:!!.9-aJ p()polo, incapaci di comuni-
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care alle masse i frutti della loro cultura e di ricavare da questa comunicazione nuovi argomenti di riflessione filosofica. L'uso di una lingua diversa dal volgare divenne, per tali dotti, la più evidente espressione della propria posizione di privilegio entro la società. Proprio quest'isolamento fu la causa dellçnto iste_rilirsi della cultura strettamente umanistica, cioè del venir meno di quella viva originalità che era senza dubbio presente nei primi umanisti. Toccherà a uomini di altra formazione - per esempio a Le~~~q<:>_« JlQJ:llQ,_sanza Jitt~re » - infrangere questa chiusura aristocratica e immettere nella cultura problemi nuovi: sarà per l'appunto loro merito procurare alla seconda parte del rinascimento un carattere più vivo, originale e fecondo della prima (l'umanesimo); saranno i loro problemi a far germogliare dal rinascimento il pensiero moderno. V
· ALTRI TEMI FONDAMENTALI
CARATTERISTICI DELLA -NUOVA CULTURA
L'accenno contenuto nella conclusione del paragrafo precedente ci avvia all'analisi dei due ulteriori temi fondamentali che caratterizzano la nuova cultura: 1) p uovo interessç_Q~!"__~_§_t_rut!_l!~--P.~!ico!_~ri della p.atura, e pet:__~p_~~!iv~ _!~nici diretti a dgmln&A<::. e utilizzarle a vantaggio dell'uomo; z) nuovo atteggiamentQ_gi_J:rQ.l!!~ al rnond9 natutale (nella sua globalità), considerato non più come ombra di un mondo ideale e i tanto meno come luogo di tentazione o di espiazione, ma come -~()l?.H!_~!_l!!_~-~~~~t~[ o, addirittura, co11:1e..~e.9,~ e corpo di qjg. Anche questi due temi della cultura rinascimentale, in particolare il primo, risultano parzialmente spiegati dalla breve analisi che abbiamo compiuto nel paragrafo III. Va subito osservato, però, che essi riuscirono a imporsi solo gradualmente, e non senza contrasto, sicché l 'ultimo non poté trionfare pienamente che nella seconda parte dell'epoca rinascimentale, ossia nel Cinquecento. Che la valorizzazione dell'individuo attivo e volitivo dovesse dar luogo a una rinnovata valorizzazione della tecnica, è cosa pacifica; ciò corrispondeva, del resto, alle nuove esigenze della società, in fase di rapida ascesa economica. Abbiamo visto d'altra parte, nel capitolo vu della sezione u, che anche molti importanti indirizzi filosofici del tardo medioevo erano fortemente propensi a tali valorizzazioni, onde si può dire che, su questo punto, vi è stata una sostanziale continuità fra pensiero medievale e pensiero rinascimentale, o - se preferiamo - che la frattura si è prodotta già nello stesso medioevo tra le maggiori correnti filosofiche tradizionali e quelle innovatrici del XIV secolo. Va anzi sottolineato che, in un primo tempo, furono proprio i fautori dell'umanesimo a guardare con molto sospetto al risorgente interesse per la natura. Già ricordammo nel capitolo testé menzionato gli sprezzanti giudizi del Petrarca sulle ricerche matematico-fisiche dei « sofisti britannici »; qui va precisato
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che tali giudizi non erano soltanto diretti (cosa abbastanza comprensibile) contro il modo formale ed astratto con cui erano condotte le anzidette ricerche, ma proprio contro il rivolgersi dello spirito umano al mondo dell'esperienza. «Io mi domando, » egli scriveva per esempio, « a che giovi il conoscere la natura delle belve e degli uccelli e dei pesci e dei serpenti ed ignorare o non curar di sapere la natura dell'uomo; perché siam nati, donde veniamo, dove andiamo.» Questa incomprensione però non poteva durare a lungo; e, se essa si perpetuò - come abbiamo fatto presente nelle ultime righe del paragrafo precedente - in alcuni gruppi di dotti, isolati dal popolo, non riuscì certo a impedire che l 'interesse per la natura (i vi compresa la natura del corpo umano) si diffondesse rapidamente e incidesse con profondità nei caratteri della nuova cultura. Ce ne forniscono ampia prova le opere sempre più efficienti degli ingegneri e dei tecnici; ma ce lo provano anche quelle degli artisti. Così vediamo l'arte quattrocentesca modellare in modo sempre più plastico la figura umana, e costruire intorno ad essa un paesaggio sempre meno squallido e schematico, sempre più ricco e gioioso. Anche sul costume sociale si manifesta senza ritegni l'amore per la natura, che diventa qualcosa di vivo e concreto, trasformandosi in amore per le belle creature. Con il trapasso dalla prima alla seconda parte dell'epoca rinascimentale, l'amore per la natura e l'interesse per la tecnica cresceranno via via maggiormente, spingendo anche i filosofi a elaborare nuove concezioni del mondo, capaci di garantire alla natura una piena autonomia. La prima tendenza degli umanisti fu di ravvisare!neoplatqp}èaine~nella natura e nelle sue creature la rivelazione della saggezza e della bellezza di dio. A questa visione filosofica si affianca, in rm..gbli_1ìdçr:l~i~J:i, ~!i_S.gE_ç_ezi~Q~_~!_l:i mistica che si accentuerà sempre di più, in tutto il Cinquecento: essa popola la natura di geni e di demoni, che l'uomo si illude di poter conoscere e dominare attraverso pratiche occulte. Ne rimangono tracce nello stesso panteismo dei grandi « filosofi della natura », che interpreteranno la materia come sostanza animata o vedranno nella natura il grande corpo di dio (ove è palese l'abisso fra il naturalismo del rinascimento e quello mistico di un Bonaventura, che nella natura ricercava vestigie, immagini e similitudini della divinità trascendente). Discuteremo nei prossimi capitoli se la filosofia della natura del Cinquecento abbia esercitato un peso effettivo sull'elaborazione del metodo scientifico galileiano, che a nostro giudizio rappresenta la più valida conclusione della cultura rinascimentale. Qui vogliamo comunque sottolineare, ancora una volta, che all'origine della filosofia della natura sta il nuovo interesse dell'epoca per la tecnica, per l'intervento operativo dell'uomo sul mondo dei fenomeni, per il dominio delle forze naturali. E questo atteggiamento, attivo e non più solo contemplativo, sarà senza dubbio determinante - come spiegheremo meglio in seguito - per la nascita della scienza moderna. 22
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Per ora ci limitiamo a far presente, in via del tutto generale, che è proprio dall'atteggiamento tecnico-operativo che l'uomo venne condotto a trasformare radicalmente il proprio metodo di studiare la natura, rinunciando in modo definitivo a far coincidere la scienza con la ricerca di teorie generali volte a spiegare tutto l'universo. Fu la sterilità di queste teorie, ai fini della trasformazione dei fenomeni, che dimostrò il loro scarso valore scientifico. Fu la necessità di ottenere risultati utili che costrinse gli studiosi a circoscrivere le proprie indagini, ad accontentarsi di schemi particolari, validi per gruppi limitati di fenomeni. L'accentrarsi dell'indagine naturalistica su problemi particolari e concreti anziché su teorie generali, è soprattutto dovuto all'insistenza con cui la nuova società chiede, ai suoi uomini maggiormente preparati, di fornirle mezzi di produzione via via più efficienti, di aiutarla cioè a compiere passi sempre più rapidi sulla strada del progresso. È questa atmosfera di generale rinnoyamento, questa continua ricerca di accrescere la potenza dell'uomo sulla natura, che pone decisamente fine all'antico divorzio tra teoria e pratica, tra scienza e tecnica. Come abbiamo visto nella sezione I, la società antica non seppe avanzare una richiesta altrettanto pressante agli scienziati alessandrini, e ciò fu una tra le cause del mancato sviluppo di tutte le possibilità insite nelle loro conoscenze teoretiche. La società del rinascimento non commette più lo stesso errore, e con le sue fortissime istanze pratiche impedisce alla nuova scienza di isterilirsi come quella antica. Va infine aggiunto, che proprio le ricerche particolari pongono in luce l 'imp9rtanz3:. de_!!:t I.!l~t~~~-ti<:::t. p~r: ..!q .!'!.~~lt2_.d~l1 '~~peri~_n_zll. Nulla infatti risulta più idoneo che le linee e i numeri, a formulare schemi precisi dei singoli fenomeni, a stabilire con esattezza i loro effettivi rapporti. In questo modo anche la più astratta delle scienze conosciute dall'umanità, acquista un significato nuovo: il significato di strumento indispensabile per leggere e penetrare il grande libro della natura. VI
· RINASCIMENTO E CRISTIANESIMO
Una volta delineati i temi più caratteristici della cultura rinascimentale, siamo ora in grado di riprendere uno dei problemi più difficili cui abbiamo fatto cenno nel paragrafo I: il problema dei rapporti fra rinascimento e cristianesimo. A renderlo più complesso intervengono spesso fattori sentimentali o comunque extrascientifici. Si va dalla posizione di chi ritiene lo spirito cristiano del tutto assente dal rinascimento e afferma che la pur frequente ripetizione di formule cristiane da parte degli umanisti è meramente esteriore, a quella che vede invece nell'umanesimo la restaurazione cattolica contro l'eresia (eresia presente proprio negli ultimi indirizzi filosofici del medioevo). Orbene: se intendiamo il concetto di cristianesimo in senso estremamente lato, sottolineandone alcuni aspetti e !asciandone altri nell'ombra, non solo
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dovremo ammettere che il rinascimento può dirsi cristiano, ma dovremo anche dichiarare che alcuni motivi introdotti nella civiltà europea dal cristianesimo sono addirittura esaltati dal rinascimento. Così va detto per il valore assoluto attribuito alla personalità individuale, così per l'importanza concessa alla volontà libera e responsabile, così infine per l'azione operante in vista del bene comune rispetto all'ideale ellenico della pura contemplazione. Ma se consideriamo come motivi essenziali del cristianesimo la trascendenza del fine dell'uomo, il concetto di rivelazione e la morale della carità, scorgiamo facilmente quanto sia radicale l'antinomia fra la religione di Cristo e la concezione rinascimentale del mondo. Il borghese rinascimentale, che si è liberato dai pesanti legami della società feudale, non prova più il bisogno di evadere dal mondo terreno. Mira invece a conquistarselo e interpreta la stessa religione in funzione di questa conquista. Scompare quindi, per lui, ogni opposizione tra l'umano e il divino. L'ascesa a dio assume il carattere di attuazione completa della più profonda umanità. Quanto alla rivelazione, sono chiaramente identificabili nel rinascimento le due direttrici lungo le quali si verrà svolgendo il pensiero moderno : da una parte la tendenza ad elaborare i concetti scientifici escludendo ogni presupposto teologico; dall'altra l'accettazione delle Scritture e della rivelazione, collegata però col diritto dell'individuo di porsi come unico interprete e delle Scritture e della rivelazione. Col rifugiarsi della fede nell'intimo della coscienza, fuori di qualsiasi valutazione oggettiva e ufficiale, si apre la strada ad una religiosità puramente naturale e razionale. Per quanto, infine, si riferisce alla carità, la necessità di giustificare teoreticamente la libera iniziativa economica e di riaffermare l'autonomia dell'azione politica, induce a fare del successo la misura del valore e a identificare la forza con la virtù, in evidente contrasto col dettato della morale evangelica. D'altra parte, il rinascimento è fortemente caratterizzato dalla tendenza a sopprimere la classica contrapposizione tra uomo e natura o ritornando all'antico naturalismo che riassorbe l'uomo nel cosmo o approfondendo la tematica neoplatoniGa della divinità del mondo. Comunque, nell'uno e nell'altro caso, viene sconvolta l 'impostazione cristiana dei problemi riguardanti i rapporti fra libertà e determinazione, razionalità e spontaneità, uomo e dio. I punti di convergenza di queste direttrici rinascimentali saranno da una parte la moderna scienza laica, dall'altra la riforma religiosa e le filosofie spiritualistiche da essa derivanti. Il fatto che talune correnti umanistiche, specialmente italiane, confluiscano nella controriforma cattolica significa solo che, nel quadro della crisi politica, sociale ed economica che ha travolto l'Italia, tali correnti hanno ormai perso ogni virtù creativa e possono fornire l'apparato culturale ad una chiesa la quale, a sua volta, va di grado in grado assumendo una funzione storica sempre più esclusivamente politica.
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VII
· TENDENZA DELLA CULTURA
A FRANTUMARSI IN DISCIPLINE AUTONOME
Crediamo di non poter chiudere questa rapida analisi dei motivi essenziali della nuova cultura senza sottolinearne un tratto particolarmente importante, un tratto che, mentre la caratterizza ulteriormente di fronte alla cultura medievale, la rende d'altro canto intimamente contraddittoria, aprendo la via ad un contrasto profondo che nei secoli successivi costituirà l'oggetto di ampie discussioni, variamente orientate, e che oggi stesso appare tutt'altro che risolto. Ci riferiamo all'aspirazione, manifestata da ogni singola attività spirituale, a divenire autonoma, a porsi un fine particolare, ad elaborare un proprio metodo ed una propria tecnica. Le « cattedrali di idee », le concezioni grandiose e organiche nelle quali arte, filosofia, scienza e politica erano strettamente connesse fra loro in un sistema di rapporti reciproci e, tutte, subordinate ai principi universali della metafisica e della teologia, cadono a pezzi ed ogni settore dello scibile proclama la propria indipendenza, sia dagli altri settori particolari, sia, e soprattutto, da ogni visione d'insieme. Spesso si attribuisce alla politica la prerogativa di essere, per prima, uscita dal sistema e di essersi affermata, per usare la formula famosa del giurista Bartolo da Sassoferrato, « superiorem non recognoscens ». In tal senso il primo grande pensatore del mondo moderno sarebbe Mas;_h!_:~::yelli, il quale considera la politica al di fuori di ogni criterio morale e svincola lo stato da qualsiasi presupposto e finalità di carattere etico-religioso. In realtà è stato notato che lo stesso discorso si può fare anche, e prima, per l'arte. L'artista del Quattrocento concepisce l'arte per l'arte (anche se non giunge a teorizzare questa autonomia), e si ribella alla concezione dell'arte-allegoria, vale a dire dell'arte ridotta ad ancella del vero e del buono. In questo senso, come ebbe ad osservare Lionello Venturi, l'eroe dell'arte, chiuso ad ogni altra vita che non fosse quella del suo immaginare poetico, precede l'eroe machiavellico della politica. « La novità essenziale del rinascimento, » scrive sempre a tale proposito Chabod, « consiste nel fatto che il suo cosiddetto naturalismo e individualismo conduce, come nell'arte e nelle lettere così nella scienza, nella teoria politica e nella storiografia, ali' affermazione del valore autonomo, indipendente da premesse e fini metafisici e dell'opera d'arte e della politica e della storia; con una linea di sviluppo continua dali' Al berti, attraverso il Machiavelli, fino a Galileo. » Così la cultura umanistico-rinascimentale, mentre da un lato afferma la dignità della persona umana come unità armonica del corpo e di tutte le facoltà spirituali, dall'altro dà l'avvio alla civiltà moderna con ciò che essa ha di più caratteristico e di più conturbante: lo sviluppo e l'accentuazione illimitata della specializzazione. ------La prima conseguenza di ciò, conseguenza già chiaramente avvertibile nel
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pensiero filosofico del più maturo rinascimento, è la perdita della capacità di sistemare logicamente in un'organica unità le varie forme di vita. Si tratta di un motivo destinato a divenire più drammatico via via che, col passare dei secoli, le singole discipline progrediscono, assumendo profondità ed ampiezza un tempo assolutamente inconcepibili e, conseguentemente, scavando un solco sempre più profondo fra se stesse e le altre discipline, anche prossime ed affini. Come tale drammatica situazione possa essere superata; per quale via la persona possa venire reintegrata nella sua unità armonica senza che vadano per ciò perduti i vantaggi, ormai definitivamente acquisiti, di una tecnica fondata sull'alto grado di specializzazione, è problema ancora oggi aperto, problema per il quale appunto - almeno a giudizio degli autori del presente capitolo - la filosofia e la scienza del nostro secolo sono seriamente tenute a proporre, come vedremo a suo luogo, una valida soluzione.
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CAPITOLO SECONDO
Il pensiero ftlosoftco nel Quattrocento
I
· DAL TRECENTO AL QUATTROCENTO
Il Quattrocento è essenzialmente un secolo di trapasso: secolo ricco di fermenti nei quali si sta senza dubbio maturando qualcosa di nuovo e di molto importante, che però non riesce ancora - o vi riesce con difficoltà - a porre in chiaro i motivi più profondi da cui scaturiranno la sua fecondità e la sua validità. È ben noto che l 'umanesimo, come movimento letterario, aveva già avuto inizio nel Trecento; basti ricordare che proprio in tale secolo visse e operò uno dei massimi animatori del ritorno al pensiero classico, Francesco Petrarca. Anche se da un punto di vista rigorosamente filosofico il pensiero del grande poeta non è molto rilevante (abbiamo già ricordato in precedenza la sua insensibilità per lo studio della natura, e la sua incomprensione per i più significativi indirizzi della tarda scolastica), è certo però che esso esercitò una vasta e profonda influenza, anche al di là dei suoi meriti teoretici. È proprio nel Quattrocento che l'insistente richiamo di Petrarca alla cultura classica susciterà più profondi consensi non solo fra i letterati, ma anche fra i filosofi. Un altro autorevole umanista trecentesco del quale dovremo tenere ampio conto esponendo la filosofia del Quattrocento è Coluccia Salutati (I330-I4o6), nelle cui opere sono palesi le tracce dello stoicismo di Seneca. Caratteristica è per esempio la sua tendenza (che influenzerà profondamente tutti i pensatori del primo umanesimo) a far coincidere virtù e verità. Per essere più precisi, la verità è, secondo lui, teoretica e al tempo stesso produttiva; non si esaurisce, cioè, nella contemplazione, ma si traduce in abito morale e in azione. Per attuarla sono necessari intelletto e volontà, ma quest'ultima ha il sopravvento su quello. L'attività teoretica finisce, così, di esser ridotta ad una funzione eminentemente strumentale, di fronte alla quale l'attività pratica si rivela intrinsecamente nobilior. ll vir sapiens si trasforma pertanto nel vir faber la cui caratteristica è la vita attiva, estrinsecantesi nella cultura, nell'eroica lotta dell'uomo contro la fortuna (ave affiora il concetto stoico dell'autosufficienza), nella partecipazione alla vita civile e politica. Merita, a questo proposito, di venire ricordato che Salutati stesso ci ha fornito personalmente un notevole esempio di vir faber,
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Il pensiero filosofico nel Quattrocento
con la sua intensa opera di studioso e con l'energica partecipazione alle lotte politiche di Firenze (in particolare contro il papato). Caratteristico il fatto, che egli inserisce il proprio amore per Firenze e per la libertà nell'amore per il mondo classico. In Firenze egli vede, infatti, l'erede moderno della missione civilizzatrice di Roma. Si ricordino le celebri parole: « Qui d est, Florentinum esse, nisi tam natura quam lege civem esse Romanum, et per consequens liberum et non servum? » ( « Che cosa è, essere fiorentino, se non essere cittadino romano sia per natura che per legge, e di conseguenza essere libero e non schiavo? »). Una volta precisato che il richiamo a Petrarca e a Salutati costituì senza dubbio un anello di collegamento fra il pensiero quattrocentesco e quello trecentesco, non dobbiamo neanche dimenticare che fra i due secoli si ebbero pure altri numerosi elementi di continuità. Se è ben comprensibile che, pensando ai successivi sviluppi della filosofia, noi tendiamo spontaneamente - nell'esporre il pensiero del Quattrocento - a porre soprattutto in luce i nuovi temi germogliati entro l 'umanesimo, cadremmo però in grave errore se non menzionassimo che, accanto ad essi, continuarono a venire ampiamente discussi per tutto il secolo parecchi temi tradizionali fra i più caratteristici della scolastica. Proseguirono in particolare i dibattiti fra i nominalisti (continuatori di Occam) e i realisti (continuatori delle antecedenti filosofie medievali), cosicché le università dell'inizio del secolo sembravano non preoccuparsi d'altro che di questa polemica. Essa investiva anzitutto questioni propriamente logiche, ma si estendeva anche ai rapporti tra teologia e filosofia. Mentre i realisti intendevano mantenerli strettissimi, i nominalisti volevano vieppiù allentarli, sia per rendere più autonoma l'indagine filosofico-scientifica, sia per liberare la religione dall 'intellettualismo, dando maggior peso agli elementi volontaristici e fideistici. Abbiamo già fatto cenno, nel capitolo vn della sezione n, al diffondersi dell' occamismo e del misticismo nel Quattrocento, ricordando che essi concorsero in forte misura ad orientare la cultura europea (in particolare centroeuropea) verso un modo di intendere la ragione e la fede, che troverà il suo naturale sbocco nella riforma protestante. Qui non vogliamo soffermarci ulteriormente sull'argomento, sia perché i nomi che potremmo ricordare non sono di grande rilievo, sia perché non riteniamo - come già cercammo di spiegare nel capitolo 1 - che la riforma costituisca una svolta decisiva nel laborioso trapasso dal pensiero filosofico medievale a quello moderno. Questo silenzio non deve però favorire nel lettore una visione unilaterale del secolo in esame. In particolare non deve fargli dimenticare che le correnti umanistiche, alle quali dedicheremo i prossimi paragrafi, non monopolizzarono affatto il pensiero del Quattrocento, e che, nella stessa Italia del Cinquecento, la generale rinascita della filosofia e della scienza non riprenderà soltanto i grandi temi posti in luce dall'umanesimo, ma si ricollegherà pure - dando loro nuove aperture - a indirizzi profondamente diversi (come l'aristotelismo naturalistico affermantesi a Padova e a Bologna). 2.8
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II
· IL PRIMO UMANESIMO
Il grande centro dell 'umanesimo, sia nella prima che nella seconda delle sue fasi, è Firenze. Qui era particolarmente vivo il ricordo degli insegnamenti di Petrarca e di Salutati; qui operò il primo gruppo di umanisti, cui intendiamo dedicare il presente paragrafo; qui si costituì la famosa accademia di Marsilio Ficino. Il gruppo di studiosi, generalmente denotato con l'espressione «primo umanesimo », non costituì una vera e propria scuola filosofica, perché diverse erano le tendenze dei suoi rappresentanti; ciò che li univa era soprattutto l'amore per il mondo classico, la convinzione di poter trovare in esso un ideale di vita più autenticamente umano di quello offerto dalla cultura tradizionale. Fra tali rappresentanti ci limiteremo a ricordare da un lato: Leonardo Bruni (1374-1444), cancelliere del comune di Firenze, e Poggio Bracciolini ( 13 8o- I 4 59); dali' altro Pier Paolo Vergerio (1370-1444) e Guarino Veronese (1374-146o), entrambi di origine veneta ma collegati all'ambiente fiorentino. Leonardo Bruni fu soprattutto un letterato, buon conoscitore della lingua greca, dalla quale tradusse vari dialoghi di Platone nonché l'Etica a Nicomaco e la Politica di Aristotele. Senza seguire un determinato indirizzo filosofico, cercò di dare particolare rilievo ai problemi morali, affermando la superiorità della vita attiva su quella puramente contemplativa: vita attiva che deve esplicarsi soprattutto nella partecipazione alla « società civile ». Difese inoltre la sostanziale coincidenza fra il pensiero classico e l'insegnamento cristiano. Anche Poggio Bracciolini ebbe interessi più di letterato e di erudito che di autentico filosofo. Come Bruni, fu acceso sostenitore della superiorità della vita attiva, in cui l 'individuo realizza la sua più profonda personalità, dedicandosi al lavoro e al bene comune. Proprio in nome di questo ideale, svolse una serrata critica contro il modo di concepire la vita che stava alla base dell'ascetismo medievale. Fra le sue maggiori scoperte di carattere filologico va ricordata quella del testo integrale del De rerum natura di Lucrezio. La conoscenza approfondita del grande poema lucreziano eserciterà, per tutto il rinascimento, una profonda influenza sul modo di concepire la natura. Di maggior rilievo filosofico fu il pensiero e l'opera degli altri due, soprattutto per i decisivi contributi da essi portati al rinnovamento dell'educazione (rinnovamento che costituisce uno dei temi più interessanti del programma culturale del nascente umanesimo ). Pier Paolo Vergerio nacque a Capodistria, studiò a Padova e poi a Firenze (ave conobbe Colucci o Salutati); più tardi ritornò a Padova. Partecipò ai lavori del concilio di Costanza schierandosi contro i sostenitori dell'assolutismo papale. Fallito il programma riformatore, abbandonò l'Italia, per ritirarsi prima in Boemia e poi a Budapest, ave morì. Nel suo pensiero filosofico si ritrovano vari motivi stoici, ricavati da Cicerone
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e da Seneca, che si inseriscono nel culto generale per il pensiero classico. La sua opera principale, dal titolo De ingtnuis moribus et liberalibus studiis adolescentiae, è un trattato sull'educazione, dedicato al più giovane dei figli naturali di Fr~n cesco Novello da Carrara, signore di Padova, ma rivolto a tutti coloro che un giorno potranno esser chiamati ad assolvere una funzione dirigente nell'ambito dello stato. Diviso in due parti, tratta, nella prima, di problemi generali concernenti la natura dell'animo umano e la possibilità di rafforzare in esso le tendenze buone (Vergerio è convinto che il fanciullo sia sempre suscettibile di miglioramento, purché il processo educativo abbia inizio sufficientemente presto); nella seconda delinea un piano di studi liberali, dei quali fornisce la seguente celebre definizione: « Chiamo io liberali quegli studi che a uomo libero convengono, pei quali si esercita o coltivasi la virtù e la sapienza, e il corpo e l'animo ad ogni miglior bene si educa, e coi quali siamo soliti di procurarci gloria ed onore, premi promessi, dopo l 'altro della virtù, all'uomo sapiente. Poiché, siccome le arti ignobili hanno per fine il guadagno e il piacere, così la virtù e la gloria rimangono lo scopo degli studi liberali. » Va notato che la condanna del guadagno e del piacere (nella quale è palese l'influenza stoica) non significa, per Vergerio, esaltazione della pura vita di pensiero; chi si dedica solo allo studio, egli scrive, « forse riuscirà buono per sé, ma certamente poco utile alla città ». 11 rendersi utile alla comunità, mettendo al massimo profitto le nostre capacità e, se possibile, compiendo qualcosa di grande è, in ultima istanza, ciò che dà un senso alla nostra esistenza: «Non dobbiamo temere di aver vissuto poco tempo la vita, ma piuttosto di averla vissuta poco. » Guarino dei Guarini nacque a Verona, studiò a Verona, a Venezia e a Padova. Nel 1403 si recò a Costantinopoli per studiare il greco; ritornato in Italia nel 1408, insegnò in varie città (a Firenze, dal 1412 al 1414). Nel 1429 si trasferì a Ferrara ove aprì una celebre scuola-convitto, trasformatasi in scuola pubblica e poi in università, ove egli rimase, quale attivo maestro di retorica, fino alla morte, connettendo strettamente la sua attività di studioso con quella ·di insegnante. Gli interessi culturali di Guarino sono molto larghi; essi vanno dalla retorica alla geografia, dalla filosofia morale pagana a quella cristiana. Egli traccia un piano educativo completo e particolareggiato (dove è evidente l'influenza di V erg eri o) che si articola in tre corsi: elementare, grammaticale e retorico, consacrato quest'ultimo allo studio di Quintiliano e soprattutto di Cicerone. Il compito che si propone è quello che caratterizza tutta la pedagogia umanistica: creare uomini di specchiata onestà, animati da un nobile senso della dignità personale, socievoli, aperti verso tutto ciò che sia bello, sano, giusto, ordinato. Se tutti hanno il dovere di agire secondo virtù, tanto più lo ha il maestro, tenuto oltretutto a comportarsi in modo coerente coi propri insegnamenti. Guai al letterato che della dottrina si faccia scudo al male operare anziché innalzarla a madre della onestà ed ornamento della vita! In questo vivo senso della responsabilità
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che grava sulle spalle dell'uomo di cultura è il valore sociale della pedagogia guariniana, mirante a formare cittadini integri ed illuminati nell'amministrare, alacri nel promuovere il pubblico bene. Oltre a Vergerio e a Guarino, troviamo nel Quattrocento vari altri pedagogisti che si muovono nell'ambito culturale del primo umanesimo, pur senza appartenere all'ambiente fiorentino. Basti ricordare Vittorino da Feltre (I373I446), che fondò a Mantova una celebre scuola (la «casa giocosa») per educarvi i figli del marchese e altri giovinetti dell'aristocrazia (accogliendovi anche qualche fanciullo povero particolarmente intelligente); e Maffeo Vegio (I 407- I 4 58) autore di un trattato dal titolo De educa tione liberorum clarisque eorum moribus, in cui sono affrontati vari problemi di pedagogia e di morale, con il prevalente intento di conciliare la cultura classica e la spiritualità cristiana. Il rapido diffondersi nel primo Quattrocento di un così vivo interesse per l'educazione è estremamente significativo. Esso conferma che, in questa fase dell'umanesimo, il culto dei classici esercita una funzione incontestabilmente positiva nella società: esso non induce l 'uomo di studi a rinchiudersi entro una stretta cerchia di dotti, ma lo spinge ad interessarsi degli altri, per rinnovare ed elevare il mondo che lo circonda. III
· I DOTTI BIZANTINI IN ITALIA
Già accennammo nel capitolo precedente al valido ausilio, che la riunificazione tra chiesa d'oriente e chiesa d'occidente portò alla rinascita degli studi classici, favorendo la conoscenza diretta delle grandi opere greche. È ora il momento di aggiungere sull'argomento qualche notizia più precisa, sottolineando anzitutto l 'importanza del fatto che proprio a Firenze si sia tenuto il concilio, da cui tale riunificazione fu consacrata. Molti furono infatti i dotti dell'impero orientale che vennero in questa città nell'occasione di tale concilio al seguito dell'imperatore Giovanni VIII Paleologo e del patriarca di Costantinopoli. Il contatto tra oriente e occidente divenne via via più intenso negli anni successivi, finché la caduta di Costantinopoli costrinse tutti i maggiori rappresentanti della cultura orientale ad emigrare in occidente. Questa emigrazione ebbe, come sappiamo, un peso decisivo sullo sviluppo della filosofia dell'umanesimo. Uno dei più autorevoli maestri orientali, che parteciparono al concilio di Firenze, fu Gemisto Pletone; egli si conquistò ben presto grande fama fra gli studiosi nostrani per la sua vastissima cultura e per la approfondita difesa, svolta dinanzi al concilio, dell'antica teologia greca. La sua breve opera (scritta in greco verso il I44o) sulle differenze fra Platone e Aristotele venne ampiamente studiata ed esercitò subito una profonda influenza. Malgrado l'aspetto neutrale del titolo, essa era in realtà un'esaltazione di Platone contro Aristotele. Va però notato che
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il platonismo difeso dal nostro autore non coincideva a rigore con l'autentico pensiero dell'antico filosofo di Atene, ma piuttosto con il neoplatonismo, ben vivo - come sappiamo - in tutta la tradizione filosofica bizantina. La tendenza a interpretare il platonismo in senso neoplatonico risulterà dominante in tutto l 'umanesimo ed il rinascimento. L'opera di Pletone provocò la virulenta risposta di un altro maestro orientale, Giorgio di Trebisonda, diretta a capovolgere il confronto a favore dello stagirita; essa aveva per titolo Comparationes philosophorum Aristotelis et Platonis (I45 5). Così si accese una polemica che doveva proseguire per oltre un secolo, delineando due tipi di mentalità che si contrasteranno vivacemente il terreno non solo nel campo della filosofia ma anche in quello della scienza. Senza ~ntrare nei dettagli della polemica, basterà qui ricordare altri due nomi di maestri immigrati in Italia dall'oriente, i quali diedero un serio contributo alla conoscenza diretta dei testi di Platone e di Aristotele, partecipando con autorità ai dibattiti circa la superiorità dell'uno o dell'altro. Il primo di essi è Basilio Bessarione (1403-1472) che, nominato cardinale dal papa Eugenio rv, trascorse in Italia gli ultimi decenni della sua vita. Uomo di straordinaria cultura, egli difese Platone con grande equilibrio; la sua difesa riuscì tanto più efficace in quanto basata su di una perfetta conoscenza non solo del pensiero platonico ma pure di quello aristotelico. Proprio al Bessarione si deve una mirabile traduzione della Metafisica. Il secondo è Giovanni Argiropulo ( r 4 I 5- I 48 7), chiamato nel I 4 57 a Firenze, come lettore di filosofia greca. Pur avendo dedicato molti corsi all'esposizione del pensiero aristotelico, anche Argiropulo fu un platonico, o per meglio dire, un neoplatonico, convinto però della sostanziale armonia fra i due massimi filosofi della Grecia: diede pertanto un carattere neoplatonico anche ai suoi commenti ad Aristotele. Curò fra l'altro, l'edizione del testo completo delle Enneadi. Argiropulo va particolarmente ricordato, perché contribuì più di ogni altro a diffondere in Firenze quell'amore per Platone da cui trarrà origine l'accademia fiorentina. IV
· LORENZO.VALLA E LEON BATTISTA ALBERTI
I due pensatori ai quali dedichiamo il presente paragrafo possono senza dubbio venir considerati fra i massimi rappresentanti della prima fase dell 'umanesimo. Lorenzo Valla (14o7-I457), professore all'università di Pavia, grande filologo e acuto filosofo, fu un vigoroso sostenitore dell'epicureismo, che per lui significava soprattutto rivalutazione dell'uomo nella sua integrità, contro ogni residuo medievalistico. Scrisse varie opere, delle quali ricordiamo: il De voluptate ac de vero bono, che è una serrata critica dei primi quattro libri del De consolatione philosophiae di Boezio; il dialogo De libero arbitrio che è una critica del quinto
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libro di tale opera (Valla scorge in Boezio un seguace della morale stoica); le Dialecticae disputationes, che sono una critica della logica aristotelica e scolastica; le Elegantiae, che sono una esaltazione della filologia, intesa quale scienza del linguaggio e, nel contempo, del pensiero che si esprime nel linguaggio, nonché scienza delle cose attinte dal pensiero e della storia in cui il pensiero lascia l 'impronta della propria potenza. Fra gli scritti minori merita una particolare menzione il famoso discorso in cui è dimostrato - sulla base di una rigorosa analisi filologica - il carattere leggendario della donazione costantiniana al papa. A Pavia strinse rapporti di buona amicizia col Vegio, da noi ricordato nel paragrafo u, tanto che poi lo introdusse come interlocuto:re nel citato dialogo De libero arbitrio.
Il pensiero di V alla è in viva polemica con l'aristotelismo e con lo stoicismo. Alla concezione aristotelica egli oppone quella epicurea sia nella spiegazione dei fenomeni naturali (ave nega, per esempio, che le stelle siano dotate di anima e cerca di assimilarle al fuoco terreno), sia nel campo dell'etica, ove combatte con energia ogni forma di intellettualismo. « Se fosse vero,» sostiene, «che l'intelletto comanda alla volontà, questa non peccherebbe mai; la realtà è, invece, che la volontà possiede in sé la propria guida. La volontà autonoma include in sé la ragione e, come tale, è la dominatrice dell'intero essere umano; nella volontà si rivela la creatività del nostro essere, che decide, in un atto improvviso, del proprio destino. » Contro lo stoicismo, Valla sostiene che il movente delle azioni è sempre il piacere; anche i più celebri eroi di Roma, che affrontarono eroicamente il suicidio, agirono per un piacere (per non vivere sotto il tiranno, ecc.). Il saggio, però, antepone i danni minimi ai maggiori, e i piaceri più grandi ai più piccoli; il piacere, così misurato (cioè l'utile, secondo la terminologia di Valla) amplia l'azione del singolo dal campo della pura sensibilità a quello più vasto della vita civile. La stessa religione tende alla realizzazione del piacere, sia pure ultraterreno (cioè alla divina voluptas). Particolare attenzione merita la filologia di Valla: essa non è una semplice raccolta di osservazioni empiriche sui fenomeni linguistici, ma una vera filosofia del linguaggio. Riesce in tal modo ad assumere il carattere di implacabile strumento contro la tradizione, contro la vecchia cultura, e in particolare contro Aristotele e contro le astrattezze dei filosofi medievali (astrattezze che essi esprimevano mediante vocaboli spuri come entitas, quidditas, perseitas, ecceitas, illecitamente costruiti a partire dalle espressioni del linguaggio comune ens, quid, per se, ecce). La lotta contro il latino barbarico dei parigini si trasforma nella lotta generale contro la servitù della mente, per la completa autonomia della ragione, per la vittoria della libertà. 1 1 Accanto al nome di Valla dobbiamo ricordare quello del tedesco Rudolf Huisman, detto
Agricola (144Z-1485), autore di una celebre opera dal titolo De inventione dialectica. Egli assunse, co-
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Lcon Battista Alberti (14o6-1472) fu uno dei più tipici ingegni universali prodotti dalla cultura umanistica: architetto insigne, pittore, scultore, commediografo, matematico, filosofo, pedagogista. Riservandoci di ritornare sulla sua produzione scientifica nel capitolo III, qui ci limitiamo a ricordare fra le sue numerose opere l 'interessante e filosoficamente significativo trattato Della cura della famiglia, composto nel 1432-33, in cui vengono delineati gli insegnamenti atti a formare l'uomo culturalmente completo del Quattrocento, ben inserito nella città-stato italiana dell'epoca, pienamente capace di «bene et beate vivere». L'opera è articolata in quattro libri. Nel primo si parla dei doveri reciproci tra adulti e bambini e si espongono i principi generali della buona educazione. Nel secondo si tratta della vita coniugale, e si fissano le condizioni della buona armonia familiare. Nel terzo si fissano i criteri della sana amministrazione. Nel quarto, infine, si affronta il problema dei rapporti tra le varie famiglie e tra la famiglia e lo stato. La filosofia di Leon Battista Alberti ci fornisce un esempio preclaro di cristiano stoicizzante che, pur nell'accettazione dell'ortodossia cristiana, mira a un'assoluta autonomia dell'uomo, considerato come dominatore di tutta la realtà, spirituale e materiale. In perfetta coerenza con questa concezione, egli interpreta la religione stessa, non come lotta contro una presunta disposizione al male che sarebbe radicata nel nostro animo, ma come esaltazione dei valori intrinseci all'umanità, cioè come sforzo dell'uomo onde perfezionare se stesso elevandosi a dio; significativa, sotto questo rispetto, la sua polemica contro le preghiere, i voti, i digiuni propiziatori, ecc. Il volontarismo che anima la concezione ora accennata della religione, conduce l'Al berti a sostenere che, per riuscire virtuosi, basta volere seriamente la virtù:« Non ha virtù se non chi la vuole. » Di fronte ad una volontà decisa ed energica, nemmeno la fortuna può avere il sopravvento: «Tiene giogo la fortuna solo a chi sé gli sottomette. » L'uomo virtuoso estrinseca la propria natura nella vita politica, nella lotta per il progresso della cultura, nell'investigazione dei fenomeni, nella creazione· di opere d 'arte. V
· IL NEOPLATONISMO DI CUSANO
Gli insegnamenti dei dotti bizantini, della cui importanza abbiamo parlato nel paragrafo III, esercitarono senza alcun dubbio una forte influenza sul pensatore che ora ci proponiamo di esaminare brevemente. Nicola Krebs (detto Cusano) nacque a Cusa, presso Treviri sulla Mosella, nel 1401, ma si inserisce direttamente nella cultura del nostro paese, per aver studiato a lungo nell'università di Padova, valido ossia se le conclusioni cui esso ci conduce sonò giuste o false. Come arte, essa è legata alla grammatica e alla retorica. Agricola fu il primo a introdurre il programma umanistico in Germania.
me V alla, una posizione nettamente critica nei confronti della logica medievale, sostenendo che la dialettica è soltanto un'arte: arte di trovare gli argomenti onde risolvere i problemi, e, in secondo luogo, arte di giudicare se l'argomento trovato è
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perché in Italia trascorse vari anni presso la corte papale, e infine perché italiani furono molti suoi amici sui quali esercitò la maggior influenza. Partecipò attivamente alla vita politico-religiosa, dapprima associandosi al concilio di Basilea poi passando al campo del papa; elevato da Pio n alla dignità cardinalizia, fu in Germania come legato pontificio. Di particolare importanza per la sua formazione culturale, è il viaggio da lui compiuto in Grecia come capo di una missione inviatavi dal concilio di Basilea; durante questo viaggio ebbe contatti diretti con i più autorevoli pensatori greci del tempo. Morì a Livorno nel 1464. L'ampia cultura di Cusano, in cui sono ben visibili i caratteri della nuova epoca, fu soprattutto orientata verso problemi filosofici e teologici. Distaccandosi nettamente dalle correnti aristotelico-scolastiche, e riprendendo temi della teologia mistica, egli contribuì in misura notevolissima alla rinascita del platonismo (o più esattamente neoplatonismo), che diverrà la filosofia umanistica per eccellenza. Nel quadro del neoplatonismo si interessò pure vivamente di matematica (come cercheremo fra poco di spiegare), intendendola quale scienza eminentemente speculativa, atta a fornire efficaci simboli per rappresentare il nucleo più profondo della realtà. Le più importanti opere filosofiche di Cusano sono: il trattato De docta ignorantia, composto nel 1440, e il De cof!iecturis. Ricordiamo inoltre alcuni scritti minori: il De visione dei, il De beryllo, e il De quadratura circuii. Nei vari problemi matematici particolari che egli affronta, possiamo riscontrare - frammiste a speculazioni generali di tipo metafisica - alcune osservazioni assai pertinenti, che rivelano nel loro autore un autentico acume scientifico. Il punto di partenza del pensiero di Cusano è costituito dal più netto rifiuto della presunta via razionale per giungere a dio. Ad essa egli contrappone una via che si ricollega esplicitamente alla grande tradizione del misticismo medievale pur trasformandolo profondamente: la via della dotta ignoranza. Questo concetto, apparentemente contraddittorio, contiene due nozioni che risultano entrambe fondamentali nella filosofia di Cusano: la nozione della superiorità di dio rispetto al mondo, per cui ogni conoscenza di lui risulta più negativa che positiva (cioè più ignoranza che conoscenza); e quella espressa dal termine «dotta», che tende ad escludere dalla posizione ora spiegata ogni tono di scetticismo. In altre parole: l 'ignoranza nasconde, quando diventa consapevole, un contenuto più profondo di ogni pretesa conoscenza positiva. L'inafferrabilità di dio in termini logici, che vien contrapposta all'identificazione aristotelica di dio col primo motore, è connessa al fatto che nell'essere supremo si verificherebbe - secondo Cusano - la coincidenza degli opposti, l'unità di tutte le cose. Dio sarebbe quindi afferrabile unicamente per via intuitiva, non per via razionale. In altre parole: nella realtà di dio e nella derivazione del mondo dall'essere divino la nostra mente non potrà formulare altro che «congetture »: non arbitrarie, però, in quanto basate sulla profonda "unità tra la nostra
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mente e dio. Il termine congettura indica sì un « non-sapere », ma un non-sapere che, per essere rivolto alla meta autentica del sapere, ci stimola ad « avvicinarci continuamente ad essa, la quale rimane pur tuttavia sempre irraggiungibile nella sua essenza assoluta ». Entro questa concezione, è chiaro che la sensibilità non potrà costituire il vero fondamento della nostra conoscenza; essa può costituire soltanto lo stimolo psicologico che spinge l 'intelletto a sviluppare la potenza pura dello spirito: «L'intelletto è una descrizione vivente della sapienza eterna e infinita: ma all'inizio questa vita, nel nostro intelletto, è simile a un uomo che dorme, fino a quando lo stupore che suscita in esso il sensibile non lo spinge a muoversi. » Ma come potrà avvenire la descrizione della sapienza eterna, se questa supera - nella sua infinità - la finitezza del nostro intelletto? Cusano pensa che essa possa avvenire solo per simboli, e pensa che i simboli più idonei a questo fine ci possano proprio venire forniti dalla matematica. La matematica infatti contiene, essa pure come la divinità, taluni procedimenti che rivelano in modo palese casi di coincidenza degli opposti: allorché, per esempio, si suddivide all'infinito la circonferenza, si giunge a un arco minimo il quale coincide con il suo opposto, cioè con la corda che lo sottende; e ancora, se si aumenta il diametro della circonferenza, questa diminuisce sempre più la propria curvatura, onde giunge al limite a identificarsi con il suo opposto, cioè con la retta; anche in un triangolo otteniamo una coincidenza degli opposti, se rendiamo infinite le sue dimensioni, poiché al limite i tre lati verranno a fondersi in un'unica retta. Da notarsi che qui non è solo la matematica a fornire un ausilio alla teologia, ma è anche questa a potenziare quella; come scrive acutamente il Cassirer, « è la matematica che, solo mediante il passaggio attraverso la teologia, può venir sollevata al più alto grado della sua perfezione ». Se l'antitesi fra l'infinità di dio e la finitezza della natura (in particolare della natura umana) è assoluta, va comunque osservato che essa risulta mediata, secondo la teologia cristiana fatta propria dal Cusano, dalla personalità del verbo incarnato. Da questo mistero il nostro autore deduce però un tema squisitamente umanistico : come il verbo incarnato, così anche l 'uomo (inteso nella sua concretezza di anima e corpo), unifica in sé i due opposti della luce e delle tenebre. Egli può quindi venir considerato come un « dio umano » cioè come microcosmo in cui «vi è un'unità, che è l'infinità stessa, umanamente contratta». Dalla nozione della coincidenza in dio di tutti gli opposti, Cusano ricava infine la relatività delle rappresentazioni che non sanno cogliere la coincidenza anzidetta; ricava in particolare la relatività delle rappresentazioni di luogo e di movimento. È un'idea molto feconda per la critica della conoscenza: essa conduce, fra l'altro, alla conclusione che ogni punto può dirsi, a pari diritto, centro dell'universo. Non è ancora l'ipotesi copernicana, ma è certo la distruzione della base filosofica, su cui si fondava la teoria geocentrica.
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Per l'interesse di questa concezione, e per l'importanza attribuita alla matematica nella conoscenza del vero essere del mondo, il neoplatonismo di Cusano può considerarsi come una delle filosofie che esercitarono maggiore influenza su tutto il pensiero del xv e xvi secolo. VI
· L'ACCADEMIA PLATONICA DI FIRENZE
A differenza dei vecchi istituti universitari, ormai disseminati in tutta l'Europa e ovunque dominati da rigidi schemi dottrinali, l'accademia platonica di Firenze, sorta per la protezione di Cosimo de' Medici, intende rappresentare un centro culturale di tipo nuovo. Essa è un'organizzazione più aperta delle università, più libera, più sensibile alla nuova atmosfera culturale in via di rapida formazione. La sua stessa nascita la pone al di fuori della pesante tradizione medievale; in essa non vi sono più maestri e discepoli, separati da rigidi gradi gerarchici, né argomenti di insegnamento rigorosamente determinati. Vi partecipano filosofi, letterati, artisti, scienziati; vi si riflette, insomma, tutta la parte più viva della cultura che si sta sviluppando in Toscana. A sua volta l'accademia potrà esercitare la sua opera stimolante in ambienti nuovi, sfuggiti fino allora all'azione diretta dei dibattiti filosofici. Il maggiore personaggio dell'accademia fiorentina fu Marsilio Ficino. Nato a Figline nel 143 3, chiamato a Firenze da Cosimo de' Medici, traduttore (in latino) e commentatore di Platone, Plotino e vari altri neoplatonici, Ficino espose il proprio pensiero in numerose opere, di cui ci limiteremo a ricordare la Theologia platonica de immortalitate animorum. Morì nel 1499· Il problema centrale del suo pensiero è quello religioso; l 'intento che si propone nei suoi scritti è fondamentalmente apologetico. Il modo, però, che egli sceglie per difendere il cristianesimo è quanto mai caratteristico della nuova atmosfera umanistica. Ficino non oppone il cristianesimo alle altre religioni; sostiene, al contrario, che, in ultima istanza, le varie religioni coincidono tra loro, derivando tutte da una profonda religiosità che è naturale nell'uomo (come, egli spiega, è naturale il nitrito per i cavalli, l'abbaiare per i cani, ecc.). Il cristianesimo non è che la più perfetta delle religioni, quella che meglio interpreta la religiosità insita nella nostra natura. Poiché la consapevolezza di tale religiosità costituisce la docta religio, identificantesi con la filosofia, ne segue che questa viene praticamente ad assorbire in sé quanto vi è di più elevato nel cristianesimo. Non occorre aggiungere altre parole, per spiegare il carattere filosofico e aristocratico della religione ficiniana; il suo autore crede di muoversi nella tradizione cristiana, ma in realtà appartiene per intero alla corrente neoplatonica. Dal neoplatonismo egli attinge, per esempio, la concezione di dio come l 'uno che raccoglie nella semplicità del suo essere gli esemplari ete,rni di tutti i singoli oggetti esistenti nel mondo; attinge inoltre la concezione del!' anima cosmica,
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che pervade tutto l 'universo, facendo della stessa natura apparentemente inerte qualcosa di animato; e infine l 'interpretazione del processo conoscitivo, attuantesi nel nostro intelletto, come un immergersi di questo intelletto nell'infinito della coscienza divina. Sulla base di tale concezione di dio e dell'uomo, Ficino deve ammettere che dio ha potuto rivelarsi all'umanità anche prima della comparsa storica di Cristo; ed effettivamente si è rivelato al « divino » Platone, come a tutti gli autentici filosofi, capaci di afferrare la vera natura ddl 'universo. Egli si rivela però, sia pure in forma meno elevata, anche ai non filosofi, quando sappiano prestare ascolto alla propria coscienza interiore. Così Ficino giunge a riconoscere che la salvezza è possibile anche fuori del cristianesimo (problema, questo, che da secoli preoccupava i più nobili spiriti cristiani, come risulta per esempio dai versi 70-90 del canto xxrx del Paradiso dantesco); ammette cioè che tutti gli uomini i quali - senza conoscere la religione cristiana - osservano scrupolosamente i dettami dell'etica naturale, possono conseguire uno stato di perfetta beatitudine come le anime cristiane. Non occorre aggiungere altre parole per spiegare per qual motivo il cristianesimo filosofico di Ficino dovesse risultare insensibile di fronte alle esigenze ben più concrete di una religione sofferta e combattiva quale fu quella del Savonarola. Di qui l'assoluta incomprensione fra i due; di qui la sistematica ostilità del filosofo nei confronti dell'opera riformatrice del coraggioso frate. Alla religione immanente, ora delineata, Ficino collega vari motivi di ispirazione schiettamente umanistica, che costituiscono la ricchezza della sua filosofia: esaltazione della bellezza del mondo, considerato come emanazione vivente dell'assolutezza divina; appello all'arte, per trovarvi la garanzia suprema del valore universale delle idee; certezza della dignità dell'anima umana, concepita come aemula dei; energica affermazione della superiorità dell'amore rispetto all'intelletto, al fine di raggiungere la visione di dio, ecc. Sono tutti temi molto caratteristici, evidentemente rivolti a conciliare in armoniosa unità la complessa esperienza spirituale dell'uomo. Pur senza includere direttamente il problema della conoscenza naturalistica, essi finiscono per aprire nuove e mirabili possibilità ad un fiducioso contatto con la natura. Alla filosofia di Ficino si ricollega quella di Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494), che, dopo aver studiato a Bologna ed essere stato in relazione con gli averroisti padovani, entrò in contatto coll'accademia fiorentina nel 1484. Anche Pico è attratto dalle concezioni neoplatoniche; egli vorrebbe però giungere ad una nuova più ampia filosofia, capace di conciliare e sintetizzare platonismo, aristotelismo e perfino la tradizione misterica della cabbala, da lui profondamente studiata. E analogamente nel campo religioso, egli mira ad una integrazione delle varie religioni fra loro. Nel quadro della concezione, a sfondo neoplatonico, di Pico trova un'am-
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pia giustificazione la magia, rivolta a cogliere le strutture numeriche che costituiscono la realtà profonda delle cose. Egli si oppone invece energicamente ali 'astrologia e, proprio in nome della libertà del volere umano, che ritiene condizionato dal carattere empirico dell'individuo (oltreché dalle leggi della provvidenza divina), ma non necessitato dagli influssi degli astri. Nella polemica contro l 'astrologia si inquadra la coraggiosa esaltazione pichiana del valore dell'uomo, considerato non più soltanto quale microcosmo o essenza media dell'universo (come pensavano Cusano e Ficino), ma quale creatore del proprio destino, simile a dio e perciò « degno di rispetto e di adorazione ». Si tratta, come ognuno vede, di un atteggiamento ricco di viva modernità, che si trova tuttavia costantemente mescolato ad un senso del misterioso e del fantastico, caratteristico non solo di Pico ma di quasi tutti gli uomini della sua epoca. Prima di chiudere questo paragrafo, è doveroso aggiungere un cenno alla vasta e profonda influenza che Ficino e Pico esercitarono anche al di là delle Alpi. Tre nomi potranno bastare a darci un'idea dello stretto legame fra tutto il movimento umanistico europeo e la gloriosa accademia di Firenze: quelli di J ohannes Reuchlin (I 4 5 5- I 5 2 2 ), grande umani sta tedesco che subì soprattutto l'influenza di Pico; di John Colet (I467-I519) celebre studioso inglese, il quale ebbe preziosi contatti con Ficino e con Pico, traendone impulso per tentare un rinnovamento della religione; e infine di Jacques Lefèvre d'Etaples (I45 5-I 5 36), l'iniziatore dell'umanesimo francese, che si educò egli pure al platonismo di Ficino e di Pico. VII
· LENTO RISVEGLIO DELL'INTERESSE PER LE SCIENZE
Abbiamo avuto modo di constatare, seguendo lo sviluppo dell'umanesimo, come esso riveli un'apertura via via maggiore verso i problemi naturali, senza dubbio dettata dalla tendenza a vedere nella natura un'espressione diretta dell'essere divino. Se però confrontiamo l'impostazione data a tali problemi dagli umanisti con quella, per esempio, di Biagio Pelacani (di cui abbiamo parlato nel capitolo vu della sezione u), dobbiamo purtroppo riconoscere un inn~gabile regresso in questo settore della ricerca. Il fatto è che Pelacani non riuscì a trovare neanche negli indirizzi filosofici estranei ali 'umanesimo, chi fosse veramente capace di proseguire e approfondire il suo pensiero. Lo spirito d'osservazione si sviluppò, durante tutto il Quattrocento, non tanto negli scienziati e filosofi quanto nei tecnici e negli artisti come cercheremo di chiarire nel prossimo capitolo. Solo nel Cinquecento esso travalicherà i confini della tecnica e dell'arte, e, trovando ormai negli eredi dell'umanesimo una disposizione d'animo favorevole allo studio della natura, darà luogo a un fiorire davvero imponente di ricerche scientifiche. La scienza che ha maggiormente interessato, anche nel suo aspetto tecnico, i filosofi umanisti è stata - come sappiamo - la matematica, che, sia pure
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inquadrata in' una concezione generale assai poco scientifica, ha trovato in alcuni di essi dei valentissimi cultori (si pensi per esempio a Nicola Cusano). È doveroso, però, segnalare un altro, assai valido, contributo fornito dall'umanesimo alle scienze: esso consiste nella traduzione di testi classici di argomento scientifico, condotta direttamente sull'originale e con uno scrupolo filologico prima ignoto. Anche questo benefico effetto si farà sentire soprattutto nel Cinquecento; tuttavia già nel Quattrocento se ne hanno i primi risultati. Il più illustre .traduttore di opere scientifiche, vissuto in pieno clima umanistico, è stato Johannes Miiller (1436-1476) detto Regiomontano, dal nome della città natale (Konigsberg). Fin da giovane si dedicò con passione allo studio dei classici e delle scienze matematiche. Venne in Italia per porsi a contatto col cardinale Bessarione (sopra ricordato nel paragrafo m) e per completare la propria cultura di astronomo; dopo vari trasferimenti (a Vienna, a Budapest, a Norimberga), tornò a Roma chiamatovi dal papa per preparare la riforma del calendario, e quivi restò fino alla morte. Regiomontano impersona mirabilmente il gusto umanistico per l'erudizione, rivolto però soprattutto alle grandi creazioni della matematica e dell'astronomia greca. Studioso molto serio di Euclide e di Tolomeo, condusse a termine una rigorosa traduzione latina dell'Almagesto, iniziata dal suo maestro Georg Purbach (I423-146I), ed espose il sistema tolemaico in· un'opera famosa dal titolo Epitome in Almagestum (pubblicata postuma nel 1496), nella quale rifulge la sua perizia di astronomo e di ottimo conoscitore dei testi originali greci. Si interessò pure di storia della matematica, contribuendo a diffondere la conoscenza di Euclide, e compose un grande trattato di trigonometria dal titolo De triangulis omnimodis (pubblicata solo parecchi anni dopo la sua morte, nel I 53 3). I suoi studi di trigonometria verranno ripresi e approfonditi da Copernico. Una menzione particolare va fatta dell'italiano Giorgio V alla (1447-1 5oo), professore a Pavia, Milano, Genova e Venezia che - come scrive C. Vasoli ci fornisce «la dimostrazione forse più evidente dell'incontro fra la tradizione umanistica degli studia humanitatis e larghi interessi scientifici ». Il suo contributo più importante a questo incontro è costituito da due volumi, usciti nel qo1 col titolo De expetendis et fugiendis rebus opus, che formano una raccolta a carattere enciclopedico di ampi squarci di scritti scientifici, fino ad allora ignoti, di autori greci e latini (Ippocrate di Chio, Aristarco di Samo, Erone, Archimede, Boezio, ecc.). In essa «motivi logici di vicina e chiara ispirazione umanistica si uniscono alla conoscenza e all'uso di tecniche proprie della "fisica " nominalistica, e alla conoscenza diretta e originale dei grandi documenti della scienza classica » (Vasoli). A lui si deve pure una traduzione latina della Poetica di Aristotele. Chiuderemo il paragrafo con qualche cenno al matematico Luca Pacioli (1445-15 14) che, senza essere un umanista, ris~ntì assai da vicino l'influenza dell'interpretazione neoplatonica della matematica, propria dell 'umanesimo.
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Le principali opere di Pacioli furono: una specie di en~iclopedia matematica dal titolo Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalità composta nel 1494 e pubblicata qualche anno più tardi (essa è scritta in una lingua che vorrebbe essere volgare, ma è uno strano miscuglio di parole italiane, latine e greche), e il De divina propor/ione (1 509) in tre parti, la prima delle quali è illustrata da splendide figure disegnate da Leonardo da Vinci. Luca Pacioli non è un ricercatore originale; infatti la sua Summa attinge largamente dalle opere di Fibonacci e il De divina proportione non è che il rimaneggiamento di uno scritto di Pier della Francesca. Egli ha però il merito di saper diffondere tra vasti strati l 'interesse per la matematica, e soprattutto la conoscenza dell'algebra (al livello, già notevole, a cui l'aveva portata Fibonacci); inoltre comincia a introdurre, nelle espressioni algebriche, alcune felici abbreviazioni, avviando tale scienza verso la cosiddetta scrittura sincopata. Se gli algebristi italiani del Cinquecento riusciranno - come vedremo nel capitolo VI - a realizzare nello studio delle equazioni straordinari progressi, bisogna riconoscere che è stato Luca Pacioli a preparar loro efficacemente il terreno. Quanto al significato che egli attribuisce alla matematica, sono degne di nota le sue oscillazioni fra due interpretazioni pressoché antitetiche: in tal uni casi (come testé ricordammo) accoglie. con disinvoltura le più caratteristiche istanze del neoplatonismo umanistico, cercando nei numeri recondite qualità mistico-magiche; in altri casi invece interpreta la matematica in funzione essenzialmente tecnica (nella Summa si preoccupa perfino di esporre il cosiddetto metodo della partita doppia, già in uso da circa un secolo nei grandi empori commerciali). Sono oscillazioni che denunciano i limiti della preparazione scientifica di Pacioli; ma possono tuttavia valere come sintomi generali di profonde contraddizioni che esistevano, relativamente a questo settore, in tutta la cultura del Quattrocento.
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CAPITOLO TERZO
La tecnica nel Quattrocento. Leonardo da Vinci
l
·
SGUARDO PANORAMICO AI VARI PROGRESSI DELLA TECNICA
Il risveglio della tecnica nel mondo occidentale risale, come è ben noto, al medioevo. Ma il Quattrocento vede senza dubbio un rapido moltiplicarsi delle ricerche tecniche e soprattutto degli sforzi per applicare i nuovi ritrovati a tutte le attività della vita civile. Così per esempio l'arte della lana poté trarre notevoli vantaggi dai perfezionamenti meccanici apportati ai telai: un nuovo tipo di essi, il cosiddetto « telaio a tirella » è descritto in un codice quattrocentesco fiorentino dal titolo Trattato dell'arte della seta di autore anonimo. Sempre nuove tecniche vennero pure introdotte nella lavorazione del vetro (concentrate a Murano). E dovevano essere molto preziose, se il governo di Venezia sentì l'esigenza di provvedere con severità a sorvegliarne la segretezza. È risaputo che già nel Trecento aveva cominciato a diffondersi sulle navi l'uso del timone (comparso sui mari del nord alla fine del xm secolo); furono però i successivi perfezionamenti di tale utilissimo dispositivo di guida e lo sviluppo delle velature a provocare un'autentica rivoluzione della navigazione. Intanto i progressi della carpenteria rendevano possibile la costruzione di navi da guerra e da trasporto di dimensioni sempre maggiori. Nel contempo si rinnovavano e perfezionavano gli strumenti di bordo: la bussola (già in uso, probabilmente, fin dal xn secolo), il solcometro per la misura delle distanze in navigazione (un nuovo tipo di solcometro fu ideato da Leon Battista Alberti), il batometro per la misura delle profondità, l'astrolabio marittimo (il cui uso è per la prima volta registrato in un documento del 1481), ecc. È sulla base di tutti questi piccoli e grandi progressi tecnici che, a partire dalla fine del Quattrocento, i grandi navigatori potranno realizzare le loro storiche imprese. Anche l 'invenzione della polvere da sparo risale, con probabilità, al XIII secolo; certo è che i primi cannoni fanno la loro comparsa nella prima metà del secolo successivo, ma ancora con scarso successo. Perfino nel Quattrocento essi si rivelano, talvolta, più pericolosi per chi li usa che per colui contro il quale vengono usati. Sono stati soprattutto i progressi realizzati dalla metallurgia a 42
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rendere possibile il loro graduale perfezionamento. Nel 1412 si cominciarono a fabbricare a Lilla i primi cannoni in ghisa; nella seconda metà del secolo i miglioramenti ottenuti nella fusione del bronzo e del ferro consentono la fabbricazione di pezzi sempre più resistenti. La tecnica della guerra sta per rinnovarsi completamente. Anche i primi passi della stampa sono resi possibili dai progressi della metallurgia. Se la xilografia era già in uso nel secolo precedente, e l'impressione con tipi mobili era già nota prima del 1440, l'utilizzazione sistematica di questi tipi si ebbe in Europa solo fra il 1440 e il '5o. Sappiamo con certezza che nel 1447 era in funzione a Magonza una tipografia condotta da Hans Gensfleisch detto Gutenberg e da Johannes Fust: fu essa a stampare le prime opere pervenute fino a noi (qualche verso di un poemetto tedesco sul Giudizio universale e un Calendario per il 1448). Oggi la più avveduta critica storica tende a sminuire la funzione innovatrice dell'invenzione della stampa (scrive per esempio Adriano Carugo: « La stampa, in un primo tempo, fu messa al servizio della tradizione, ossia fu utilizzata come potente strumento per consolidare e diffondere più estesamente verità e nozioni già saldamente acquisite dal sapere tradizionale »); è tuttavia un fatto innegabile che essa costituirà uno dei punti di partenza del mondo moderno. Gli studi di idraulica compiono, essi pure nel Quattrocento, notevoli progressi, e - come vedremo nelle prossime pagine- sollevano problemi che esigeranno, con sempre maggiore urgenza, una più stretta collaborazione fra tecnica e scienza. Così accadrà anche per la tecnica della progettazione architettonica, a cui dedicheremo, per la sua importanza, un intero paragrafo. Vogliamo infine accennare al nuovo interesse per la pratica del calcolo aritmetico, che sorge dal diffondersi del commercio e dalla importanza sempre maggiore assunta dai problemi amministrativi. È assai sintomatico che il primo libro di matematica cui spettò l'onore della stampa --l'Aritmetica di Treviso del 1478fu proprio un manuale didattico specialmente rivolto agli apprendisti del commercio, e cioè- come scrive l'anonimo autore-« ad alchuni zovani a mi molto dilectissimi; li quali pretendevano a dover voler fare la merchandantia. » Il carattere tecnico-pratico di questi studi determinò il formarsi, nel Quattrocento, di una interpretazione della matematica completamente diversa da quella che nei medesimi anni era sostenuta dai platonici del gruppo fiorentino, come fondamento della loro concezione del mondo. Abbiamo accennato, alla fine del capitolo precedente, alla simultanea presenza delle due antitetiche interpretazioni in Luca Paci oli; e vedremo, parlando fra poco di Leonardo da Vinci, che anche in lui si possono trovare tracce dell'una e dell'altra. Leonardo, però, saprà elevare la matematica pratica ad un nuovo più alto livello riprendendo la via che era sta~a aperta nell'antichità dal grande Archimede.
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II
· NUOVE ISTANZE CULTURALI
PROVENIENTI DALLO SVILUPPO DELLA TECNICA
Singolarmente prese, le innovazioni tecniche menzionate prima non potevano avere un effettivo peso culturale. Tutte insieme, però, esse sono riuscite a creare nella società del Quattrocento un nuovo ambiente, che ben presto fu in grado di porre alla cultura dell'epoca nuovi problemi fortemente stimolanti. Riassunta in poche parole, la situazione era questa: i tecnici, formatisi nella pratica artigianale, non erano più in grado, da soli, di affrontare e risolvere i problemi che venivano via via aperti dai progressi recentemente conseguiti; d'altra parte la società non poteva tollerare che la soluzione di tali problemi venisse rinviata o comunque rallentata, tanto era ormai chiaro a tutti che la forza degli stati e la ricchezza dei cittadini dipendeva strettamente dai successi della tecnica. Di qui la necessità di formare una nuova categoria di tecnici, o più propriamente ingegneri, capaci di impostare gli anzidetti problemi in forma più razionale. Ma quale doveva essere la preparazione di questo nuovo tipo di studiosi? Donde avrebbero essi potuto attingere le informazioni delle quali avevano tanto bisogno? Era purtroppo ben evidente che non sarebbero state in grado di fornirgliele né la filosofia ufficiale insegnata nelle università, né quella a indirizzo prevalentemente letterario elaborata dagli umanisti. Malgrado i suoi limiti intrinseci, l 'umanesimo riuscì tuttavia a fornire un ausilio prezioso per colmare la grave lacuna; questo consistette nei testi di scienziati e ingegneri dell'antichità, che i filologi misero a disposizione degli studiosi dell'epoca. «La scoperta di un nuovo testo non era soltanto un fatto di importanz& archeologica,» scrive George Sarton, «essa era (o almeno poteva essere) un'aggiunta positiva alle conoscenze che stavano a disposizione degli scienziati o medici contemporanei. » Da questo punto di vista fu soprattutto positiva la conoscenza degli Elementi di Euclide e ancor più delle opere di Archimede e di Erone (se è vero che alcuni di tali testi erano già noti ai medievali, vero è pure che la presentazione critica di essi, fatta dai nuovi filologi, ne permetteva uno studio molto più approfondito e completo). La scoperta o riscoperta delle grandi opere scientifiche dell'antichità esercitò un'azione determinante sullo sviluppo della scienza pura e applicata in tutto il rinascimento. È chiaro comunque che lo studio dei classici non poteva bastare. La soluzione dei difficili problemi sollevati dalla tecnica richiedeva innanzi tutto e soprattutto un nuovo modo di esaminare la natura, non più rivolto a coglierne i principi generali, ma a determinare il corso dei singoli fenomeni, a descriverli esattamente in tutti i loro particolari per poterli riprodurre, controllare e regolare a nostro vantaggio. Gli innumerevoli studi di Leonardo sul volo degli uccelli costituiscono un tipico esempio di questo nuovo modo di osservare la natura. Senza dubbio, per conseguire qualche effettivo risultato furono necessari 44
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molti tentativi, pazienti e accuratissimi, e in tal uni casi (come appunto in quello del volo) neanche la tenacia e la genialità di Leonardo riuscirono a realizzare l'intento voluto (che, nel caso citato, era quello di costruire una macchina capace di farci volare). Comunque i successi, sebbene parziali, valevano senza alcun dubbio a compensare le fatiche e spingevano altri studiosi ad avviarsi per la medesima strada. Si formava così, a poco a poco, una nuova categoria di scienziati che portavano nelle proprie indagini un tipo non tradizionale di interessi: che certamente studiavano a fondo la matematica ma per servirsene subito nelle più varie applicazioni, che osservavano la natura ma non solo per comprenderla bensì per riprodurla, che leggevano i più difficili testi scientifici ma non disdegnavano di avvalersi della collaborazione dei tecnici, riflettendo seriamente sui risultati della loro modesta ma prolungata esperienza. È una mentalità nuova, quella ora accennata, che trova senza dubbio un'effettiva rispondenza e un certo appoggio (sia pure indiretto) nel clima creato dagli umanisti, esaltatore dell'uomo attivo e costruttivo. Malgrado questo appoggio, essa incontrerà tuttavia ancora molte resistenze, prima di giungere ad affermarsi in modo definitivo. Alla fine, comunque, riuscirà a prevalere, e la sua vittoria varrà ad introdurre profonde modificazioni nella stessa problematica filosofica, se non altro perché proporrà una nuova concezione del sapere scientifico (come spiegheremo meglio parlando di Galileo). Per ora vogliamo !imitarci a far presente una conseguenza assai più banale e immediata: la favorevolissima ripercussione che il sorgere del nuovo tipo di studiosi ebbe sulla valutazione sociale dello scienziato. Proprio perché lo « scienziato-ingegnere » è capace di fornire qualcosa di concreto alla società, questa è disposta a riconoscere concretamente il suo valore, anche nella retribuzione delle sue prestazioni. Come scrive bene Adriano Carugo« l'ingegnere diventa un personaggio ufficiale, ascende a una posizione di prestigio pari, e talvolta superiore, a quella di cui avevano fino allora goduto il medico e l'astronomo di corte, ed è mantenuto dal principe o dall'amministrazione dello stato per i bisogni del governo e della collettività ». Sarà proprio questo prestigio ad attirare alla scienza nuove energie, con indiscutibile vantaggio per il progresso degli studi. III
· PITTURA, ARCHITETTURA E GEOMETRIA
Un discorso del tutto particolare è richiesto dal contatto arte-scienza-tecnica che si realizzò nella pittura e nell'architettura del Quattrocento. È risaputo che queste arti parteciparono direttamente al movimento umanistico di ritorno alla classicità. Ciò che qui occorre sottolineare è che il nuovo stile, elaborato dall'architettura e dalle arti figurative del Quattrocento, richiese un rinnovamento della tecnica (in particolare del disegno) il quale recò un contributo di fondamentale importanza allo sviluppo della scienza geometrica. 45
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Prima di addentrarci in qualche più specifica considerazione sarà opportuno richiamare alcuni nomi. Filippo Brunelleschi (1377-1446), sommo architetto dell'epoca, comprese chiaramente l'importanza della prospettiva, non più intesa nel senso medievale di scienza generale della luce, ma nel senso prettamente geometrico che essa conserva anche nei trattati odierni. Introdusse la costante considerazione del cosiddetto «occhio», che compie una funzione essenziale nell'impianto del disegno prospettico. Di Leon Battista Alberti abbiamo già parlato nel capitolo precedente. Qui basti aggiungere che egli fornisce una prima definizione della prospettiva di un corpo, come intersezione del quadro con la corrispondente superficie visuale. Fra le sue opere di argomento artistico e matematico ricordiamo: Gli elementi di pittura, De re aediftcatoria, e infine i Ludi matematici. Quest'ultima è una raccolta di vari problemi, alcuni dei quali di interesse puramente teorico, altri di interesse pratico (è in quest'opera che egli descrive il nuovo solcometro di cui parlammo nel primo paragrafo); anche se non mancano gli errori, la trattazione rivela un notevole acume e una grande cultura scientifica. Pier della Francesca (1406-1492) può venir considerato il vero teorico della nuova prospettiva. Su di essa compose un trattato, dal titolo De perspectiva pingendi, che affronta i vari argomenti di questo ramo della geometria con un'ampiezza e profondità veramente esemplari. L'opera fu letta da molti contemporanei, ma non pubblicata fino a tempi recenti. Scrisse pure un libro di geometria pura, De corporibus regularibus, che tratta problemi classici di poligoni, poliedri e altre figure piane e solide: è lo scritto utilizzato con molta disinvoltura da Luca Pacioli, come ricordammo nell'ultimo paragrafo del capitolo n. Albrecht Diirer (1471-1528), uno dei maggiori pittori tedeschi dell'epoca (ma legato all'ambiente italiano) scrisse egli pure un'opera di geometria, con il precipuo scopo di insegnare questa disciplina agli artisti. Tutti gli autori ora menzionati attribuiscono alla prospettiva· il preciso compito di determinare le regole tecniche onde costruire un disegno esatto, quando siano dati l'oggetto e la posizione dell'occhio. Per risolvere tale compito, hanno anzitutto bisogno di una buona conoscenza della geometria classica; ma poi vanno al di là di essa, inoltrandosi in quel campo di indagini specifiche che oggi porta il nome di geometria descrittiva. Essi non posseggono ancora una visione sistematica di questa disciplina (che verrà elaborata solo alla fine del Settecento da Gaspard Monge), ma ne introducono alcune nozioni fondamentali e alcuni metodi caratteristici che adoperano con grande perizia. Così riescono a dipingere quadri o a progettare opere architettoniche, che soddisfano pienamente il nuovo gusto dell'epoca. Pur riprendendo temi delle antiche opere romane, raggiungono una autentica originalità. La loro passione per la purezza geometrica, che si traduce in esattezza di proporzioni, in armonioso equilibrio delle parti entro il tutto,
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dimostra che, in essi, la concezione artistica e quella scientifica si sono compenetrate perfettamente una con l'altra, senza alcuna frattura. Proprio questa perfetta compenetrazione è stata forse uno degli elementi più stimolanti nella cultura del Quattrocento. Essa infatti è riuscita a sviluppare nel mondo umanistico - inizialmente così diffidente nei confronti del rigore geometrico- una nuova disposizione d'animo verso la matematica, di cui bisognava ormai riconoscere l'apporto essenziale alla stessa creatività artistica. Va inoltre sottolineato che la matematica rivelava qui il proprio valore, non tanto da un punto di vista filosofico astratto (come espressione della divina armonia dell'universo) quanto da un punto di vista umano, cioè come strumento indispensabile all'homo faber per ideare e realizzare le più belle costruzioni di cui egli sia capace. Era un passo di fondamentale importanza per la riconquista di una profonda, concreta, unità della cultura. IV
· LEONARDO DA VINCI
La produzione artistica di Leonardo da Vinci (1452-1 519) è notissima. Non altrettanto può dirsi tutt'oggi dei suoi contributi al rinascere della scienza. Gli è che questi contributi non vennero da lui raccolti in qualche opera sistematica, ma lasciati in forma di appunti disorganici, spesso di semplici annotazioni suggerite dagli argomenti più diversi che si presentavano alla sua riflessione. Esiste sì un Trattato della pittura che porta il suo nome, pubblicato per la prima volta nel 1651, ma è opera di un suo allievo, che lo compilò su passi del maestro. È certo tuttavia che, seppure allo stato di appunti, i pensieri di Leonardo dovettero circolare largamente nel Cinquecento, esercitando un'influenza tutt'altro che trascurabile su quanti si occupavano di ricerche scientifiche. In tempi recenti, sono stati in buona parte pubblicati e formano oggetto di approfonditi studi da parte degli storici dell'arte, della scienza, e in generale della cultura. Di particolare importanza è il cosiddetto Codice atlantico, di cui si cominciarono a pubblicare ventiquattro tavole scelte nel r872; l'edizione completa in otto volumi venne poi eseguita fra il 1891 e il 1904 a cura dell'accademia dei Lincei. L'interesse dell'opera di Leonardo, dal punto di vista della storia del pensiero filosofico-scientifico è enorme. In lui confluiscono vari filoni culturali: innanzitutto quello che si stava maturando nel mondo dei tecnici e del quale abbiamo parlato nei primi paragrafi di questo capitolo; in secondo luogo quello dei cosiddetti fisici parigini, che, come sappiamo dalla sezione rr, era stato introdotto in Italia da Biagio Pelacani; in terzo luogo il filone neoplatonico degli umanisti, da cui Leonardo attinge alcune idee fondamentali come il parallelo fra l'uomo e l'universo. Va però notato che egli fonda questo parallelo più su analogie fra la costituzione materiale del corpo umano e quella del mondo, che non su considerazioni filosofiche generali: inoltre respinge la concezione animistica . 47
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dell'universo, ammettendo sì che esso provenga da dio, ma interpretando in senso meccanicistico l'ordine impresso da dio al mondo. Per quanto riguarda l'anima, egli si rifiuta di entrare nelle discussioni metafisico-teologiche sulla sua natura e le sue funzioni, !asciandone la teorizzazione ai frati « li quali per ispirazione sanno tutti li segreti ». Di particolarissima importanza è la sua concezione del sapere scientifico e del metodo che occorre seguire per conquistarlo. Dal punto di vista metodologico, egli può venir considerato un precursore di Galileo, per l'importanza essenziale attribuita sia all'esperienza che alla matematica; anzi, non si può escludere che Galileo,· nell'elaborazione del suo metodo matematico-sperimentale, abbia proprio subito, sia pure indirettamente, l'influenza di Leonardo. Ma per comprendere meglio la concezione leonardesca della scienza, sarà bene riassumere brevemente alcuni dei maggiori contributi scientifici da lui lasciati. Cominciando dalla meccanica, di cui Leonardo si occupò innumerevoli volte sia dal punto di vista teorico che da quello applicativo, va subito segnalata la sua geniale intuizione del principio di inerzia. Abbiamo detto « intuizione », e non « scoperta », poiché Leonardo non giunse propriamente alla formulazione di tale principio, né poteva giungervi essendo rimasto costantemente legato alla teoria dell'i!llpetus, di provenienza parigina. Come sappiamo, questa teoria affermava che, allorquando un motore imprime a un corpo un determinato movimento, gli fornisce con ciò stesso una realtà - l'impeto - che sarà la causa del proseguimento del moto. Questa realtà sarebbe proporzionale al peso del mobile e alla sua velocità. Orbene, mentre i creatori della teoria dell'impeto immaginavano che la quantità di impeto, posseduta all'inizio dal mobile, andasse via via estinguendosi, Leonardo sostenne invece che essa rimaneva naturalmente immutata (e di conseguenza rimaneva invariabile il moto del corpo), salvo a disperdersi per effetto di forze esterne agenti da freno. Non è ancora l'enunciato esatto del principio di inerzia, ma è senza dubbio una notevolissima approssimazione di esso. Basti pensare all'intuizione che ne aveva avuto Democrito, per comprendere l'enorme progresso costituito dall'enunciato di Leonardo. Sempre restando nel campo della meccanica, va inoltre ricordato che Leonardo intuì pure il principio della composizione delle forze e quello del piano inclinato, da lui assunto come base per la spiegazione del volo degli uccelli. La cosa veramente meravigliosa è che queste intuizioni non restano, in lui, su di un piano esclusivamente teorico, ma si traducono in tentativi di realizzazione o per lo meno di progettazione tecnica. Sono progetti che egli illustra con accuratissimi disegni, sui quali tenta di variare ora un particolare ora un altro, traendone motivo per nuove riflessioni scientifiche. È la prima volta nella storia dell'umanità che la dialettica tecnica-scienza viene attuata con tanta consapevolezza: ciascuna delle due fornisce all'altra ausili, suggerimenti, motivi di seria meditazione.
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Passando dalla meccanica agli altri campi della fisica, basterà menzionare due genialissimi risultati: l'intuizione dell'analogia fra il fenomeno della luce e i fenomeni ondulatori, e la scoperta del principio dei vasi comunicanti (sia per il medesimo liquido che per liquidi diversi). Quest'ultima scoperta si ricollega alle approfondite indagini che Leonardo compì nel campo dell'idraulica applicata, raggiungendovi una perizia senza dubbio notevolissima per la sua epoca, perizia che egli mise a disposizione dei più attivi e intraprendenti principi della sua epoca (in particolare di Ludovico il moro). Fra i suoi numerosi progetti o lavori idraulici ricordiamo: la partecipazione alla bonifica della Lomellina; il progetto di serraglia mobile sull 'Isonzo per poter allagare, in caso di guerra, la pianura padana; gli studi sulla sistemazione dell'Adda e del canale della Martesana, ecc. Né meno geniali e anticipatrici furono le scoperte di Leonardo in altri campi della scienza. In geologia spiegò l'origine dei fossili. In astronomia intuì che la Terra può venire considerata come una stella, ed anzi si propose di dimostrare che essa deve riflettere la luce in modo analogo a quanto fa la Luna. In anatomia, descrisse la struttura e il funzionamento dell'occhio, fece parecchie osservazioni esattissime sulla circolazione del sangue, studiò i muscoli del cuore disegnandone le valvole. L'interessante di questi studi di anatomia, è che Leonardo li compiva in vista di un doppio fine: per conoscere meglio la natura e nel contempo per migliorare le proprie capacità di artista. D'altra parte proprio queste capacità gli permettevano di riprodurre in disegno le cose osservate, con una precisione e una fedeltà eccezionali. Se non possiamo scindere in lui il tecnico dallo scienziato, ancor meno possiamo scindere lo scienziato dall'artista. L'uso sistematico del disegno per studiare i fenomeni naturali pone in luce uno dei caratteri essenziali del metodo scientifico di Leonardo: metodo che non consiste mai nella pura osservazione, ma nella interrogazione della natura, nel tentativo di riprodurla, di immaginare il meccanismo dei suoi processi, di riconfrontare poi immediatamente queste « immaginazioni » con la realtà. In ciò egli poteva valersi dell'eccezionale potenza della propria fantasia, che utilizzava non meno nella scienza che nell'arte; con la differenza che, quando la utilizzava nella ricerca scientifica, si sforzava subito di precisarla e razionalizzarla con l'uso della matematica. Già abbiamo ricordato la straordinaria competenza di Leonardo nel campo dell'ingegneria idraulica. Bisogna però aggiungere che egli seppe ideare nuovi geniali dispositivi per tutti i campi allora noti della produzione, anche assai distanti dall'idraulica: dalla fabbricazione delle armi alla progettazione di opere difensive, dall'industria tessile all'industria tipografica. Ciò che ha ricavato dai suoi studi di idraulica, e che non perderà mai di vista, è la consapevolezza dell 'importanza dell'energia idraulica come forza motrice: il problema centrale per potenziare e perfezionare qualunque campo della produzione sarà, a suo parere, quello di sfruttare al massimo tale energia, da un lato con la regolamentazione
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La tecnica nel Quattrocento. Leonardo da Vinci
delle acque, dall'altro con la costruzione di macchine motrici sempre più efficienti. Ovviamente, nel suo straordinario fervore di idee, Leonardo non può non cadere talvolta in errori. Ciò che senza dubbio gli nuoce - come abbiamo già osservato a proposito del principio di inerzia - è il suo trovarsi condizionato da vecchie teorie, che egli eredita dalla tradizione medievale. A svincolarsi almeno praticamente da esse gli sono però di ausilio le letture dei classici, in specie di Archimede, che egli assunse a propria guida e modello. Ciò che lo attira in Archimede è la sua mentalità di « scienziato-ingegnere » che interpreta la scienza non come scienza di spiegazioni generali, ma come studio di problemi ben determinati, come ricerca di strumenti per intervenire concretamente sulla natura, per riprodurla, per correggerla, per dominarla. Certamente la sostituzione di Archimede ad Aristotele non significava ancora elaborazione di una nuova filosofia, da sostituire a quella aristotelica. Significava però graduale maturazione di una nuova coscienza dei veri compiti di una qualunque seria indagine conoscitiva. Proprio questa coscienza avrebbe poi costretto i filosofi a porre in crisi tutti i vecchi sistemi (e non solo quello aristotelico) per aprire la via a nuovi più moderni indirizzi di pensiero.
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CAPITOLO QUARTO
L'aristotelismo rinascimentale. Piero Pomponazzi
I
· SVILUPPI DELL'ARISTOTELISMO
Abbiamo ripetuto più volte che gli indirizzi filosofici caratteristici dell'umanesimo, sui quali ci siamo particolarmente soffermati nel capitolo II, non riuscirono affatto a soppiantare dalle università dell'epoca le più importanti correnti filosofiche tradizionali; riuscirono tuttavia a esercitare su di esse una certa influenza, sia pure esterna, dovuta soprattutto al nuovo materiale scoperto e messo a disposizione dai filologi. Ciò accadde in particolare per l'aristotelismo. Non è il caso di ricordare che due erano state le versioni principali dell'aristotelismo latino, determinatesi durante i vivi dibattiti del xm secolo: la cosiddetta versione ortodossa (Alberto Magno e Tommaso d'Aquino), e la versione averroista. In un primo tempo, sia l'una che l'altra erano state colpite da severe condanne da parte delle autorità ecclesiastiche. Ma all'inizio del XIV secolo i difensori dell'aristotelismo tomista (cioè i domenicani) ottennero la revoca di esse - ben inteso, nei limiti che riguardava direttamente la loro dottrina - e anzi ottennero perfino la canonizzazione dell'aquinate. Nei secoli successivi l'aristotelismo tomista consolidò e perfezionò la propria struttura sistematica, riuscendo a caratterizzarsi quale uno dei baluardi più sicuri dell'ortodossia; questa posizione riceverà una specie di sanzione ufficiale ad opera della controriforma. Più vario e complesso fu invece lo sviluppo della versione eterodossa. Già ricordammo, nel capitolo VII della sezione II, l'importanza assunta dall'università di Padova nella storia dell'aristotelismo eterodosso; qui possiamo subito aggiungere che nel Quattrocento e nel Cinquecento Padova si affermò sempre più come il grande centro dell'averroismo, in antitesi a Firenze (centro del platonismo). A Padova comparve nel 1472-74 la prima edizione latina delle opere di Aristotele, che includeva pure il commento di Averroè; a Padova insegnarono Paolo Nicoletti da Udine detto Paolo Veneto (m. 1429), soprattutto noto per due limpide e profonde opere di logica, Logica parva e Logica magna, nonché per un commento al De anima di Aristotele chiaramente ispirato alle teorie averroiste, e il più acceso sostenitore quattrocentesco della filosofia di Averroè, Nicoletta V ernia (1420-1499), il cui allievo Agostino Nifo (1473-1 546)
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si farà portatore dell'averroismo nelle varie città italiane ove si recherà ad insegnare (Pisa, Bologna, Salerno, Roma). Un secondo grande centro dell'aristotelismo eterodosso, essenzialmente rivolto come quello di Padova ai problemi di scienza e filosofia della natura ma - come vedremo nel paragrafo III - con un'impostazione filosofica alquanto diversa da quella averroista, fu l'università di Bologna. Per ora ci limitiamo aricordare, come rappresentanti di questo centro dell'aristotelismo eterodosso, il bolognese Alessandro Achillini (r463-I512), professore di medicina e filosofia prima a Padova e poi, appunto, a Bologna. Non dobbiamo però dimenticare che anche a Firenze si ebbe nel frattempo una rinascita di studi aristotelici ad opera di quei dotti bizantini, dei quali abbiamo parlato nel capitolo II di questa medesima sezione. Come abbiamo ivi accennato, furono proprio tali dotti a proclamare la necessità di una migliore conoscenza dei testi aristotelici, per cogliere l'autentico pensiero dello stagirita, al di là delle interpretazioni (tomista e averroista) che se ne erano date nel medioevo. Se la maggioranza dei dotti bizantini venuti in Italia propendeva per il platonismo o meglio il neoplatonismo, vi era però stato qualcuno di essi che - nel grande confronto fra Platone ed Aristotele - aveva difeso la superiorità di quest'ultimo; già ricordammo nel capitolo testé citato il nome del più acceso sostenitore di questa tesi, Giorgio di Trebisonda. Il richiamo a una miglior conoscenza dei testi aristotelici ebbe notevole risonanza anche entro l'ambiente padovano; e, con i testi di Aristotele, si vollero studiare più a fondo anche gli antichi commenti della filosofia aristotelica, composti da quei vari studiosi dei quali abbiamo fatto parola nel capitolo XVI della sezione r. A tale proposito va ricordato il nome del filologo Ermolao Barbaro (I45 3-1493), nato a Venezia, eminente studioso della medicina greca, e professore a Padova, che tradusse dal greco la Retorica di Aristotele e il commento di Temistio, sostenendo l'assoluta superiorità degli interpreti greci di Aristotele rispetto ai suoi interpreti medievali. Di notevole importanza sarà pure, qualche decennio più tardi, l'esatta conoscenza dei commenti di Giovanni Filopono a varie opere di Aristotele: al De anima, al De generatione animalium, ai primi quattro libri della Fisica; per questi ultimi l'interesse suscitato fu tale, che ne vennero pubblicate ben tre diverse traduzioni latine nel I 55 4, nel 1 55 8 e nel I 55 9· Il fatto nuovo, che suscitò un'autentica svolta entro l'aristotelismo rinascimentale, fu tuttavia un altro: fu la meditata riflessione sui commenti aristotelici e sulle opere originali di Alessandro di Afrodisia. 1 È proprio dall'approfondita interesse degli studiosi come è dimostrato, fra l 'altro, dalle numerose edizioni cinquecentine dei suoi libri originali e dei suoi commenti. Ci limiteremo a ricordare, fra le prime, la traduzione del De anima pubblicata nel 1502; fra le seconde,
r Alcuni scritti di Alessandro erano già noti fin dal medioevo, come il commento al De sensu, tradotto da Gherardo da Cremona alla fine del xn secolo; ma nell'epoca di cui ci stiamo occupando è l'intera sua opera che suscita il più vivo
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conoscenza dell'interpretazione di Aristotele data da Alessandro, che prese origine quella notevolissima variante dell'aristotelismo eterodosso rinascimentale solitamente nota col nome di « aristotelismo greco o alessandrista ». Data l'importanza dell'alessandrismo, occorrerà fermarsi a delineare con qualche cura i principali punti di accordo e di dissenso fra il nuovo indirizzo aristotelico ed il vecchio averroismo. II
· ALESSANDRISTI E AVERROISTI
Innanzi tutto va ricordato che sia l'alessandrismo sia l'averroismo, per essere entrambe filosofie aristoteliche, non possono fare a meno di avere in comune i caratteri tipici di tutto l 'aristotelismo; per esempio, l 'impianto metafisica della fisica (cioè la tendenza a far intervenire la causa finale nella spiegazione di un qualsiasi fenomeno), l'importanza attribuita alla logica assai più che alla matematica, l'impostazione rigorosamente razionalistica di tutta l'indagine filosofica. Il maggior divario tra i due indirizzi riguarda l'arduo problema dell'anima. Come sappiamo, gli averroisti lo risolvevano contrariamente agli aristotelici seguaci di Tommaso d'Aquino, con la separazione totale dell'intelletto (vuoi di quello attivo, vuoi di quello passivo) dagli individui concreti; essi ritenevano cioè che, secondo il pensiero aristotelico rettamente inteso, il processo intellettivo si svolga per intero al di fuori dell'individuo concreto e ne deducevano che solo l'intelletto separato, cioè la vera sede del processo intellettivo, è immortale, mentre l'individuo concreto risulta soggetto alla morte non diversamente dal corpo. Anche gli alessandristi sostengono la mortalità dell'anima individuale; giungono però ad una tesi ancora più estremista: negano l'esistenza di un'anima universale (l'intelletto separato degli averroisti), e quindi concludono che nulla dell'uomo (né l'anima individuale né quella universale) può sopravvivere alla morte. Essi accusano averroisti e tomisti di travisare il pensiero di Aristotele ammettendo la separabilità della forma dalla materia; non si può parlare di aristotelismo - dicono - ove non si riconosca nel modo più esplicito che la realtà è sinolo inscindibile di materia e di forma. Da questo fondamentale principio aristotelico ricavano poi, come caso particolare, l'impossibilità che l'individuo umano viva al di fuori dell'unità di corpo e anima. La morte, dissolvendo questa unità, non può che eliminare ogni specie di vita. È una tesi di estrema importanza, non solo per la sua parte negativa, cioè per la negazione dell'i mAlexandri quod fertur in Aristote/is Sophisticos elenchos commentarium (tre diverse traduzioni pubblicate nel I54I, nel I557 e nel I559), In Aristotelis Topicorum !ibros octo commentaria (I 542), In Aristotelis Analyticorum librum 1 (r ed. I 543), In Aristotelis Meteorologicorum libros commentaria (due diverse traduzioni pubblicate nel I548 e nel q66).
Merita particolare menzione il fatto che il commento di Alessandro alla Metafisica di Aristotele venne tradotto dallo spagnolo Juan Gines Sepulveda che risiedette a lungo in Italia e fu allievo del Pomponazzi (di cui parleremo nel paragrafo m); il Sepulveda si trasferì poi alla corte di Carlo v del quale divenne lo storico ufficiale.
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mortalità dell'anima, ma anche per la sua parte positiva, cioè per il riconoscimento ali 'individuo di un peso via via maggiore. Malgrado la divergenza ora accennata, i due indirizzi di aristotelismo averroista e alessandrista hanno però molti caratteri in comune, che li collegano entrambi alla tradizione dell'aristotelismo eterodosso padovano. Ci limiteremo a ricordarne due. Il primo è costituito dalla loro impostazione decisamente naturalistica. Essi polemizzano con energia contro tutti gli indirizzi a carattere metafisica-religioso: vuoi quello aristotelico dei tomisti, vuoi quello platonico. Il vero oggetto della filosofia è la natura, e l'unico metodo per indagarla è la ragione. In questa comune impostazione naturalistica, l'averroismo si trova però ancora impacciato dall'ammissione di una realtà attiva (l'intelletto) totalmente separata dagli individui, e dalla conseguente interpretazione della materia come pura passività; invece gli alessandristi, negando con la massima decisione la possibilità di separare la forma dalla materia, giungono a sostenere una tesi che dà un nuovo senso a tutto il naturalismo: la tesi che la stessa materia possiede un'autentica attività e determinatezza. È il passo più avanzato della corrente aristotelica verso le posizioni che caratterizzeranno la ·cosiddetta filosofia della natura del rinascimento. Altro punto fondamentale di accordo tra alessandristi e averroisti è costituito dal loro atteggiamento nei confronti della religione. Non esiste-- essi pensanoche un modo e uno solo per ottenere che essa non ostacoli la piena e completa libertà spettante alla ragione: riconoscere una frattura totale fra le due. In altri termini: fede e ragione non possono che muoversi su due piani diversi, separati e indipendenti; ciascuna di esse possiede la sua verità che non può intralciare quella dell'altra. Vedremo in questo e in altri capitoli l'enorme influenza della teoria della doppia verità in tutto il pensiero rinascimentale; per ora basti accennare che essa trovavasi in netta antitesi con la tendenza dei platonici, miranti a identificare religione e filosofia. Come sappiamo, mentre i platonici dominarono in modo assoluto l'accademia fiorentina, gli aristotelici eterodossi dominarono molte università, in ispecie quelle di Padova e di Bologna. Malgrado le polemiche interne tra averroisti e alessandristi, essi si trovarono spesso coinvolti nelle medesime battaglie filosofiche, e in comune furono tacciati di « barbarie » dai raffinati umanisti che lottavano nel campo avversario. Così accadde che il nome di « averroista » finì col perdere il suo significato specifico e, col trascorrere del tempo, venne usato per indicare indistintamente tutti gli aristotelici eterodossi.
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III
· PIERO POMPONAZZI
La figura più eminente dell'aristotelismo eterodosso fu quella di Piero Pomponazzi, seguace del commento alessandrista. Nato a Mantova nel 1462, egli fu professore di filosofia prima a Padova, poi a Bologna, ove morì nel r 52 5. La sua opera principale, De immortali/ate animae, è una serrata critica delle teorie intorno all'anima, sostenute dagli averroisti, dai platonici e dai tomisti.l L'anima, secondo il Pomponazzi, è « actus corporis physici organici » e non può quindi vivere separata dal corpo. Le conseguenze che il Pomponazzi ricava dalla teoria ora accennata sono molteplici e di grande significato filosofico : esse vanno dal campo metafisica a quello etico, dal campo gnoseologico a quello religioso. Qui basti ricordare che, nel campo gnoseologico, il Pomponazzi nega con fermezza all'intelletto umano la possibilità di concepire l 'universale puro: questa possibilità era invece affermata dagli averroisti e costituiva, secondo essi, la prova che il processo intellettivo si sviluppa del tutto al di fuori dell'esperienza sensibile, in cui è ovviamente indispensabile la funzione del corpo. Ciò che - secondo il filosofo mantovano l'intelletto umano può fare è soltanto astrarre il concetto dal fantasma; ma il fantasma sensibile non può prodursi senza gli organi corporei, e perciò questi risultano alla fin fine indispensabili anche all'azione dell'intelletto. Agli averroisti Pomponazzi concede che esistano altre intelligenze (le intelligenze celesti) che procedono in modo diverso: esse non hanno corpo, e quindi non ricevono impressioni; muovono i cieli, ma non ne sono mosse. Il loro intelletto, puramente attivo, non ha però nulla a che fare con il nostro. Erra pertanto Tommaso quando afferma che la nostra anima può sopravvivere alla morte del corpo: con tale affermazione egli finisce per trasformare la nostra anima in quella divina, per sostituire-- all'uomo concreto, costituito di anima e corpo-un concetto astratto di uomo, che non ha più nulla a che vedere con la realtà. Nel campo etico, Pomponazzi sostiene con energia che la virtù non ha bisogno dell'immortalità. La pretesa di condizionare la pratica della virtù alla promessa di un premio nell'aldilà o alla minaccia di un castigo, è assolutamente infondata. Il premio essenziale della virtù è la virtù stessa. Un'autentica morale può e deve essere fondata su basi autonome rispetto alla credenza fantastica in una vita eterna. Il problema veramente difficile non è quello di giustificare la morale senza far riferimento a questa credenza, ma di ammettere o non ammettere la libertà umana. A proposito di essa, il nostro autore si rivela alquanto oscillante: per un lato, infatti, egli sostiene che la libertà umana va affermata, per l'altro sostiene che l'universo è regolato da un ordine necessario e immutabile. Pomponazzi I Altre opere di Pomponazzi sono: De incantationibus, contro presunte cause sovrannaturali di eventi naturali, e De fato sui nessi na-
turali che legano fra loro le cause e gli effetti (fra questi nessi, egli riconosce esplicitamente gli influssi degli astri sulle vicende del mondo).
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non spiega come possano conciliarsi le due affermazioni: ciò che gli sta veramente a cuore è solo riconoscere la completa naturalità e necessità di tutto ciò che accade; da ciò la sua fede nell'astrologia, che in lui assume l'aspetto di fede nell'assoluta razionalità dell'universo. In questo quadro concettuale egli giunge a sostenere che gli astri determinano anche il corso dei fenomeni collettivi: lo stesso sorgere e declinare delle religioni risulterebbe, secondo lui, determinato dalle congiunzioni astrali. Ma come conciliare queste ardite tesi con la religione cristiana? Pomponazzi non ha dubbi: solo la teoria della doppia verità può conciliare il suo intransigente naturalismo filosofico con l'accettazione della fede cristiana; secondo tale teoria, sarebbe perfettamente possibile, da un lato, ammettere per fede ciò che non è giustificabile secondo ragione, dall'altro, respingere in sede religiosa le conseguenze delle verità filosofiche più apertamente in contrasto con il dogma cristiano. È probabile che Pomponazzi fosse realmente convinto di riuscire, con l'accettazione della doppia verità, a mantenersi cattolico pur seguendo in filosofia un indirizzo schiettamente razionalistico. È chiaro, però, che la sua posizione doveva portare ad una esaltazione sempre più completa della ragione a tutto detrimento della fede. IV
· ALTRI ARISTOTELICI DEL CINQUECENTO
Uno dei più illustri rappresentanti dell'aristotelismo padovano del Cinquecento fu Giacomo Zabarella (I 533-15 89), autore di un commento al De anima di Aristotele, nonché di varie opere di logica, che godettero di grande notorietà per circa un secolo. Sul problema dell'anima, Zabarella assunse una posizione assai prossima a quella degli alessandristi, e in particolare di Pomponazzi; ed infatti, pur ammettendo che l'intelletto umano risulti, nella sua attività, libero dal corpo, sostenne però che, nel suo essere, non è altro che forma del corpo e pertanto da esso inseparabile. Ne segue che l'anima, come perfezione del corpo, non può esistere senza di esso perché la perfezione non può esistere senza ciò di cui è perfezione (« quia perfectio non potest esse sine illo cuius est perfectio >?). Ma a che si ridurrà allora l'intelletto attivo, la cui esistenza aveva costituito una delle tesi centrali di tutto l'averroismo? Zabarella non nega tale intelletto, ma nega che esso sia in qualche modo presente, da un punto di vista sostanziale, entro l 'intelletto umano; esso non appartiene alla realtà umana, bensì a quella divina: è il primo motore. In altre parole: l'intelletto attivo agisce senza dubbio su di noi per rendere intelligibili le immagini del nostro intelletto, ma proprio perciò la sua è un'azione che non si svolge in noi; esso opera come operano gli oggetti, non come fattore interno della nostra anima(« intellectus activus agit ad modum obiecti »).Quanto al primo motore, Zabarella nega che lo si possa concepire senza
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il mondo; noi possiamo dimostrare l'esistenza di dio, ma solo ammettendo l'eternità dei cieli di cui esso è il motore. Particolare importanza hanno avuto, come si è testé accennato, gli studi di Zabarella sulla logica. Va detto anzitutto che egli intende la logica come arte, non come scienza; essa infatti non costituisce un'autentica conoscenza poiché non si occupa delle nozioni prime che denotano oggetti, bensì delle nozioni seconde che esistono solo nella nostra mente (quali « genere » e « specie ») nonché dei loro nessi reciproci. La sua funzione è dunque essenzialmente metodologica, e consiste soprattutto nel fornire gli strumenti onde collegare in modo inferenziale le proposizioni delle singole discipline, portandoci dal noto alla conoscenza dell'ignoto. Di qui l'ampliamento del concetto stesso di logica che dovrà comprendere e ordinare- come scrive Cesare Vasoli- «strumenti molto vari e diversi che vanno da quelli propri della dimostrazione, valida per quei campi del sapere dove regnano principi necessari e universali, agli argomenti dialettici, validi soltanto nell'ambito del possibile e del probabile (e dunque soprattutto nelle scienze che hanno per oggetto l 'uomo), alle " forme " retoriche e poetiche che servono in quelle innumerevoli occorrenze della vita ove più vale la persuasione che la fredda verità scientifica ». Come dovrà venire operato l'anzidetto collegamento? È a proposito di questo problema che Zabarella introduce la sua più importante novità: al metodo « compositivo » della sillogistica tradizionale (che, partendo dalle premesse, ne compone i vari elementi in un risultato unico, costituente la loro conclusione), egli aggiunge un metodo « risolutivo » il quale consiste nel ridurre un determinato oggetto concettuale nei suoi elementi e nelle sue condizioni. Mentre il primo trova applicazione nelle scienze, di cui ci sono già noti i principi, il secondo la trova nelle discipline, i cui principi « non ci sono noti, a causa della debolezza del nostro spirito ». È chiaro che la resolutio di Zabarella, proponendosi di risalire dai fatti ai loro principi costitutivi, prelude al metodo induttivo, che starà alla base della rivoluzione metodologica di Bacone; da ciò la sua notevole importanza entro lo sviluppo del processo storico che condurrà alla nascita della scienza moderna. Ciò che invece manca a Zabarella, come a tutti gli aristotelici, è la comprensione del valore della matematica nell'elaborazione dei dati empirici. Al pensiero di Zabarella è collegato quello di Cesare Cremonini (I 5 5o-I63 I), che fu collega di Galileo a Padova, ed anzi ne fu sincero amico, pur avversando caparbiamente le dottrine galileiane; è famoso per essersi rifiutato di guardare nel cannocchiale: « Quel mirare per quelli occhiali m'imbalordiscon la testa; basta, non ne voglio sapere altro. » Cremonini accentua la separazione di dio dal mondo, sostenendo che questo non può assolutamente essere creato da quello: dio infatti è verità immobile; nulla gli manca e proprio perciò egli non può né volere né agire (ché volontà e azione derivano dalla constatazione di una qualche mancanza da colmare). Per quanto riguarda il problema dell'anima, ne sotto57
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linea sempre più il legame con il corpo, concludendo che non può in alcun modo sopravvivergli. Malgrado la sua tendenza naturalistica, resta intransigentemente fedele ai principi della fisica aristotelica. Citato più volte dal tribunale dell'inquisizione, fu validamente difeso dalle autorità della repubblica di Venezia. Una posizione particolare spetta, nell'ambito dell'aristotelismo, ad Andrea Cesalpino (r 519-r6o3), professore a Pisa e poi a Roma, il quale, oltreché filosofo e logico, fu medico, studioso di anatomia e botanico. In logica, pur difendendo l 'insegnamento del suo Aristotele, cercò di delineare una nuova concezione della razionalità, pienamente aperta sia all'esperienza, sia alla creatività del conoscere. In filosofia fu fortemente influenzato da Pomponazzi, di cui accentuò l'orientamento naturalistico. A differenza di Zabarella e Cremonini, invece di difendere un distacco sempre più netto di dio dal mondo (distacco che garantisca l'autonomia di questo da quello), tende a concepire il reale come concretamente partecipe del divino, onde finisce per ammettere dio soltanto come anima dell'universo (concepito nella sua totalità). L'orientamento panteistico di Cesalpino ci aiuta a comprendere il suo panpsichismo, che lo spinge a cercare ovunque l'esistenza di demoni, e ad elaborare una medicina strettamente connessa alla stregoneria. Molto significativa è pure la sua concezione delle piante come organismi non dissimili dagli animali : fornite quindi esse pure di una testa (le radici) e di un'anima (localizzata nel midollo). La stranezza di queste idee non impedì a Cesalpino di avere un fortissimo spirito di osservazione, e di giungere, proprio attraverso di essa, ad alcune scoperte di autentico valore scientifico. Basti ricordare i suoi contributi allo studio della fisiologia delle piante e la sua descrizione del funzionamento delle vene e delle arterie che fanno di lui un vero precursore di Harvey (lo scopritore della circolazione del sangue, di cui parleremo nella sezione IV). Possiamo dire che questa messe di risultati vale per un lato a confermarci l'effettivo impulso che l'aristotelismo naturalistico seppe imprimere alla ricerca empirica (nel più ampio senso di questo termine), per l'altro a dimostrarci che la scienza non poteva scaturire dal semplice sviluppo di tale impulso senza una radicale rivoluzione metodologica. V
· L 'INFLUENZA DELL'ARISTOTELISMO N ATURALISTICO. SUO VALORE E SUOI LIMITI
L'influenza dell'indirizzo esaminato nei paragrafi precedenti fu assai vasta e profonda per tutto il XVI secolo. Va innanzi tutto segnalata l'importanza della distinzione, tenacemente propugnata da averroisti e alessandristi, fra ordine delle verità filosofico-scientifiche e ordine delle verità di fede: essa condusse a poco a poco non soltanto a riconoscere la piena autonomia delle prime, ma a considerare le altre come proposizioni inferiori, fornite non tanto di una autentica verità
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quanto, piuttosto, di una semplice validità (a fini diversi dalla conoscenza del vero). Era un primo passo verso un nuovo atteggiamento nei confronti della religione; atteggiamento che porterà a discuterla, non più sotto l'aspetto filosofico della pura razionalità (per decidere fino a che punto siano razionali i fondamenti della fede e dove invece essi rivelino un tipo di conoscenza sovrarazionale), bensì sotto l'aspetto terreno: per esempio sotto l'aspetto politico di strumento utile ai reggitori degli stati. Considerato da questo punto di vista, l'aristotelismo del Cinquecento si profila come la premessa diretta delle indagini di « filosofia della politica », che da Machiavelli in poi assumeranno in quel secolo una notevole importanza. Con ciò non intendiamo sostenere che Machiavelli sia stato, a rigore, un aristotelico; ma certo il suo modo di guardare alla religione è molto simile a quello maturatosi entro l'averroismo. Invece non ha proprio nulla a che vedere con le correnti platoniche, le quali- indipendentemente dall'essere più o meno ortodosse- interpretavano la religione come l'espressione più alta della razionalità. Oltre a questo legame con la « filosofia della politica », alcuni recenti storiografi scorgono pure uno stretto legame tra l'aristotelismo eterodosso e il complicato movimento culturale generalmente noto con il nome di « libertinismo ». Ciò accrescerebbe molto l'influenza dell'aristotelismo sul movimento filosofico e non solo filosofico del Cinque e Seicento. Ma su Machiavelli e sullibertinismo ritorneremo nel capitolo vn. Dal punto di vista più propriamente filosofico, l'aristotelismo del Cinquecento rappresentò una difesa intransigente della conoscibilità del reale, contro il misticismo da un lato, e dall'altro contro ogni forma di nominalismo. Purtroppo però questa difesa si spingeva ad asserire che la conoscenza del reale deve venire ottenuta mediante certe ben determinate categorie di tipo tradizionale, con la condanna di ogni tentativo volto a rinnovarla. Così esso finì per assumere una funzione sostanzialmente conservatrice, che, se gli procurò l'appoggio di taluni strati sociali, gettò un profondo discredito nei confronti di qualsiasi discorso filosofico che aspirasse ad essere sistematico e controllato (in particolare, gettò un grave e ingiusto discredito nei confronti della logica). Il merito principale dell'aristotelismo, come abbiamo già detto più volte, fu l'interesse suscitato per i problemi della natura, che fece passare in secondo piano quello per l'oltremondo e per dio. Anche qui tuttavia non seppe conseguire risultati veramente decisivi, perché rimase impacciato dalla rigidità delle proprie formule. Ci limiteremo a ricordare tre pregiudizi, che ostacolarono gravemente il suo sviluppo: 1) l'esclusione, dall'indagine naturalistica, dei procedimenti matematici, accusati di fermarsi alla descrizione dei fenomeni senza risalire alle loro cause; questo pregiudizio condusse gli aristotelici a tentar di imbrigliare la natura 59 www.scribd.com/Baruhk
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in schemi dialettici, definizioni, principi generali, ecc., che finirono col dare alla loro ricerca un carattere di astrattezza e generalità, in contrasto con il proclamato empirismo e incapace di tenere conto dei risultati conseguiti dal lavoro pratico dei tecnici; toccherà soprattutto ai platonici contrapporre l 'uso della matematica a quello della logica nella conoscenza dei fenomeni; z) l'accettazione della fisica aristotelica, come costruzione scientifica perfetta, e la pretesa di spiegare con i suoi schemi, in particolare con la causa finale, tutti i dati scoperti e scopri bili dall'osservazione; questo pregiudizio graverà in modo specialissimo sulle concezioni meccaniche e astronomiche, e costringerà la nuova scienza a entrare in drammatico urto con l'aristotelismo; 3) il ricorso alle anime (sia pur intese come anime naturali) per rendere conto dell'azione reciproca di un corpo sull'altro, e, per conseguenza, l'attribuzione di un valore scientifico all'astrologia come studio dell'azione del mondo celeste su quello terrestre. Caratteristico, sotto questo rispetto, il ragionamento col quale Pomponazzi ritiene di poter dimostrare la necessità dell'esistenza degli uomini; distrutto l'uomo verrebbe meno la finalità agli esseri generabili; in tale ipotesi il moto dei cieli non servirebbe più a nulla, e non esistendo i cieli mossi da dio neanche il primo motore avrebbe più ragione di esistere. Se, per le gravi deficienze interne che ora abbiamo accennato, l'aristotelismo diverrà nel Seicento uno dei bersagli preferiti della nuova scienza, non bisogna comunque dimenticare il contributo positivo che esso diede allo sviluppo dell'interesse per la natura, ed alla formazione- nei campi più diversi dell'indaginedi una mentalità realistica e razionalistica interamente spregiudicata nei confronti della fede.
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CAPITOLO QUINTO
Riforma e controriforma
I
· RAPPORTI TRA RINASCIMENTO, RIFORMA E CONTRORIFORMA
Abbiamo più volte fatto cenno, nei capitoli precedenti, ai fermenti di rinnovamento religioso che da vari secoli agitavano il mondo della cristianità. Lo spirito di protesta contro il disordine morale e disciplinare della chiesa, la profonda avversione alla gerarchia ecclesiastica considerata responsabile di tale disordine, l'aspirazione a un coraggioso ritorno al «cristianesimo primitivo» erano motivi già presenti nelle sette ereticali del Duecento; vennero ripresi e teorizzati - come sappiamo - da Occam e da Marsilio da Padova; e poi approfonditi e arricchiti di contenuto sociale dai movimenti di popolo collegati ai nomi di Wyclif e di Huss. In forma diversa, ma non meno drammatica, li abbiamo visti ricomparire negli appassionati dibattiti dei concili di Costanza e di Basilea. Ebbene, sono proprio essi che - dopo un breve periodo di calma apparente si impongono con rinnovato vigore a tutta la cristianità nei primi decenni del Cinquecento. Questa volta i problemi non possono più venire elusi né tollerare rinvii. I vecchi fermenti acquistano una formidabile carica esplosiva. Essi sfoceranno nei due ben noti movimenti politico-religiosi, che siamo soliti chiamare riforma protestante e controriforma (o riforma cattolica). Lo studio della riforma e della controriforma fuoriesce ovviamente dai limiti della presente opera. Cercheremo tuttavia, nei prossimi paragrafi, di richiamare - per comodità del lettore - alcuni motivi che determinarono tali profondi sommovimenti del mondo cristiano, essendo incontestabile che essi ebbero notevoli ripercussioni anche sullo sviluppo del pensiero filosofico. Prima, però, riteniamo opportuno fare qualche breve considerazione sul complesso problema dei rapporti fra essi e il rinascimento. Il fatto stesso che la riforma (e successivamente la controriforma) si ricolleghi ai fermenti religiosi testé menzionati, e ne tragga motivo per programmare una radicale riorganizzazione della chiesa, pone subito in chiaro che i problemi affrontati dai riformatori sono del tutto diversi da quelli che stavano al centro ~egli indirizzi di pensiero esaminati negli ultimi due capitoli (indirizzi che fanno 61
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Riforma e controriforma
capo a Leonardo da Vinci e a Pomponazzi). Dalla breve esposizione del prossimo paragrafo risulterà poi altrettanto manifesta la sostanziale irriducibile differenza fra la religione predicata da Lutero e quella, essenzialmente filosofica, presa in considerazione dal platonismo degli umanisti; la religione di Cusano e di Marsilio Ficino, muovendosi su un piano esclusivamente culturale, non includeva né poteva includere alcun effettivo impegno pratico, quella di Lutero invece si traduceva immediatamente in azione riformatrice, volta a soddisfare le secolari richieste di un rinnovamento dei costumi, dei dogmi e delle strutture organizzative: pur usando le medesime parole (fede, insufficienza della pura ragione, amor di dio, ecc.), esse si muovevano in realtà su piani del tutto diversi e un loro incontro era impossibile. Se ne può concludere che la pretesa di far rientrare la riforma nel movimento umanistico-rinascimentale è del tutto infondata. Non vogliamo con ciò negare che esistessero fra essi alcuni punti di convergenza - come per esempio la polemica contro il medioevo, giudicato dagli umanisti età di barbarie, e dai riformatori epoca di trionfante mondanizzazione della chiesa - ma appena si passi dalla polemica alla parte costruttiva, risulta subito chiaro che i due movimenti divergono in modo radicale: la riforma si proponeva di costruire immediatamente una chiesa più seria, più profondamente cristiana (fine questo che verrà perseguito, sia pure in modo del tutto diverso, anche dalla controriforma); il rinascimento invece si propone soltanto di rinnovare la cultura e non specificamente quella religiosa, tant'è vero che il più importante risultato cui darà luogo (la nascita della moderna ricerca scientifica) non avrà immediate ripercussioni né sull'organizzazione politica né su quella ecclesiastica, anche se - nel corso di qualche secolo - trasformerà completamente i mezzi di produzione e quindi le strutture più profonde della società. Senza dubbio la riforma si avvale - nello studio della sacra scrittura - del medesimo metodo critico già applicato dagli umanisti allo studio dei classici; ma nell'un caso questo metodo deve servire a recuperare l'autentico spirito religioso dei primi cristiani, nell'altro a recuperare l'autentico patrimonio filosofico, letterario e scientifico dell'antichità classica. Quanto alla controriforma, vedremo che essa pure si proclamerà erede degli umanisti e cercherà di introdurre lo studio dei classici per riorganizzare il curriculum scolastico dei giovani; ma qui lo studio dei classici perderà ogni funzione di rottura (così importante nel vero umanesimo) per diventare invece strumento di conservazione e di severa disciplina degli spiriti. È incontestabil6 che la riforma e il rinascimento tendono entrambi a riformulare il problema dei rapporti dio-mondo in termini diversi da quelli della teologia tradizionale; ma la riforma mira ad accentuare la trascendenza di dio e nel contempo a rendere più vivi e immediati i contatti fra dio e il singolo uomo, mentre il rinascimento o sostiene tesi panteistico-immanentistiche che ovviamente attenuano tale trascendenza, oppure teorizza sì un assoluto distacco fra
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dio e il mondo (come abbiamo visto, esponendo il pensiero di alcuni averroisti), ma al ben preciso scopo di rendere sostanzialmente impossibile ogni contatto diretto fra essi. Gli è che i due movimenti differiscono profondamente fra loro nel modo stesso di intendere l 'uomo: essere irrimediabilmente corrotto dal peccato originale, secondo la riforma, e quindi salvabile solo per l 'intervento diretto e vivificatore della grazia divina (essere naturalmente peccatore se abbandonato alle sue sole forze, anche per la controriforma, ma sicuramente recuperabile se assistito e guidato dalla chiesa); ricco invece di innumerevoli risorse interiori, per il rinascimento, e proprio perciò capace di esprimere in via autonoma i più alti valori spirituali, nonché di strappare i segreti dell'universo e conseguentemente di correggere a proprio vantaggio il corso dei fenomeni. II
· NATURA E CAUSE DELLA RIFORMA
Un esame, anche sommario, del complesso fenomeno non può far a meno di attrarre la nostra attenzione su alcune cause di carattere sociale ed economico. Ci limiteremo a sottolineare la crescente ostilità della borghesia finanziaria dei vari paesi per l'ormai insopportabile e dannoso fiscalismo papale e, per quanto riguarda la Germania, il nascente sentimento nazionale, sfociante in avversione per la romanità, nonché le agitazioni sociali che muovono le masse contadine contro i proprietari terrieri, i proletari cittadini contro i capitalisti, i cavalieri contro i grandi feudatari e contro la monarchia. Si aggiunga la protesta dei sempre più numerosi intellettuali laici contro il monopolio culturale del clero e degli ordini religiosi. Cavalieri, proletari, contadini, intellettuali, borghesi, ardono dal desiderio di rivoltarsi contro i poteri costituiti, dei quali Roma - centro della chiesa pare il simbolo. Espressioni come « affrancamento dalla servitù », « liberazione dalla tirannia », « scotimento del giogo romano », sono usate da scrittori tedeschi dell'epoca come equivalenti, anche se in realtà ognuno attribuisce loro significati diversi e talora perfino contrastanti. Ma che cosa scorgono di così intollerabile, nei dogmi e nella prassi della chiesa romana, da non poter più oltre frenare la grande rivolta contro di essa? L'essenza della chiesa consiste, secondo la dottrina cattolica, nel suo essere stata costituita mediatrice fra l 'uomo e dio, sia come interprete e dichiaratrice delle verità rivelate nelle sacre scritture, sia come dispensiera della grazia, di cui sono canale i sacramenti che essa amministra. L'impostazione cattolica del problema della grazia implica poi che l'individuo, dotato di libero arbitrio, debba e possa con le proprie opere buone rendersi degno di usufruire dei meriti di Cristo, allo scopo di conseguire la salvezza eterna.
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Le opere buone, a loro volta, hanno efficacia anche per diminuire la pena delle anime nel purgatorio. Senonché l'istituzionalizzarsi della morale cristiana ha fatto sì che per «opere buone» si sia finito con l'intendere, pur senza escludere l'esercizio della virtù e le opere di carità, tutta una serie di comportamenti estrinseci, controllabili e addirittura misura bili dal di fuori: preghiere, digiuni, penitenze, voti, pellegrinaggi, offerte a pii istituti ed alla chiesa, oltre, beninteso, il frequente accostarsi ai sacramenti e l'assistere alla messa. L'uso, generalizzatosi durante le crociate, di concedere benefici spirituali anche a chi, non potendo prendere la spada, contribuiva almeno alla spesa delle spedizioni, si è andato allargando ad ogni offerta di denaro fatta per fini approvati dalla chiesa, finendo con l'attribuire all'indulgenza il carattere di una vera e propria operazione finanziaria senza alcun contenuto spirituale. Il protestantesimo, e in primo luogo Lutero, batte in breccia precisamente i due pilastri sui quali poggia la chiesa cattolica. Il principio del « libero esame » toglie alla chiesa la sua funzione docente; il principio della «salvezza per la sola fede » le toglie la funzione di veicolo della grazia. Lutero non nega la rivelazione, ma, in primo luogo, considera ispirata soltanto la sacra scrittura, respingendo la tradizione, le interpretazioni dei papi e dei concili, i commenti dei dottori; secondariamente, rimette l'interpretazione della Scrittura al raziocinio di ciascun fedele, che si suppone assistito dallo spirito santo. Per Lutero l'indossare abiti consacrati, lo stare in chiesa o in luoghi pii, il pregare materialmente, il digiunare, il recarsi in pellegrinaggio, ecc. è un « compiere opere buone per mezzo del corpo e nel corpo ». Si tratta di opere e riti che possono essere compiuti anche da « un uomo malvagio, un ipocrita, un baciapile». Di qui egli trae l'audace conclusione che «compiendo tali pratiche, gli uomini non possono diventare altro che dei perfetti ipocriti». Da questa critica delle opere, intese come puro comportamento esteriore, egli passa alla svalutazione delle opere anche nel loro significato più profondo e genuino di impegno ad agire in base a un'intima adesione alla legge divina. I comandamenti, è vero, insegnano e prescrivono ogni sorta di opere buone, ma non per questo esse si realizzano. Essi forniscono precise indicazioni, ma non donano alcuna forza per realizzarle. L'uomo, dopo la caduta originale, non è capace di azioni virtuose; egli può solo peccare; qui la tema ti ca agostiniana viene portata alle sue estreme conseguenze. I comandamenti della legge possono solo guidarlo a riconoscere la propria incapacità a fare il bene, a disperare di se stesso, a constatare che tutta la sua vita e le sue opere non sono niente al cospetto di dio. Se l'uomo non va oltre questo riconoscimento della propria colpevolezza e insufficienza, la sua perdizione è sicura. Ma a questo punto interviene il se-
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condo insegnamento della Scrittura: la promessa. L'uomo; perduta la confidenza in se stesso, cerca altrove l'aiuto e tale aiuto soprannaturale altro non è che il Cristo e la sua parola. « Dovrai abbandonarti a lui con fede robusta e confidare con coraggio in lui. Allora, in ragione di questa fede, tutti i tuoi peccati ti saranno perdonati, tu trionferai della tua perdizione e diverrai giusto, veritiero, pacifico, pio e avrai adempiuto a tutte le leggi e sarai libero. » Senonché, circa il vero significato della capacità salvifica della fede, il pensiero luterano appare oscillante fra due concezioni profondamente diverse. Talora sembra che la funzione della fede sia quella di rendere possibile, con l'aiuto di Cristo, l'adempimento di quei comandamenti che, da solo, l'uomo non potrebbe in alcun caso attuare. Talaltra sembra invece che l'atto di fede, in quanto tale, contenga in sintesi l'adempimento di tutti i comandamenti, così che per esso il cristiano « non ha bisogno di opere buone per essere giustificato. » Indubbiamente questa seconda tesi, fondata sulla teoria della persistenza del peccato come concupiscenza anche dopo il battesimo, racchiude il pericolo di uno sviluppo nel senso di un diffuso lassismo morale (contro questo aspetto del luteranesimo reagirà il calvinismo); appare comunque ovvio che la famosa massima, « pecca fortiter sed crede fortius » non va intesa, come vorrebbe una critica grossolana e maliziosa, quale invito a peccare liberamente, ben_sì quale ammonimento ad avere una fede così salda che, vivendo in essa e per essa, la buona volontà purifichi qualsiasi azione, anche apparentemente peccaminosa, nel senso del motto: « omnia munda mundis ». III
· CONSEGUENZE POLITICO-SOCIALI DELLA RIFORMA
La storia della rivoluzione religiosa è largamente dominata da fattori di ordine politico, i quali, spesso, deformano alcuni dei principi fondamentali o, perlomeno, ne ritardano l'attuazione. Consideriamo, per esempio, il principio del soggettivismo religioso: durante un lungo periodo lo sviluppo di questo fondamentale motivo del cristianesimo riformato sarà impedito dal sopravvivere dell'organizzazione chiesastica, conseguenza, a sua volta, della forza della tradizione, dell'aspirazione ad una ortodossia uniforme da partè delle varie comunità e, soprattutto, delle esigenze organizzative degli stati. Ciò non toglie che, alla fine, il soggettivismo apra la strada allo slancio individuale e prepari l'avvento del razionalismo filosofico. D'altra parte il fattore religioso reagisce sui fattori politici. Esso contribuisce, fra l'altro, al rafforzamento del particolarismo (Paesi Bassi, Germania). Il calvinismo, poi, con la sua concezione della chiesa quale società di eletti saldamente organizzata ma a base democratica, condurrà alla formazione di organismi repubblicani (Svizzera, Olanda, colonie inglesi d'America). Ma è soprattutto nel campo sociale che il protestantesimo, come nuovo
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ideale morale-religioso, basato sopra un rapporto tra la persona e dio, realizzantesi fuori dei sensi, nell'interiorità, porta a una radicale trasformazione. Non è infatti possibile respingere la disciplina come complesso di comportamenti esteriori senza lasciar cadere - come necessaria conseguenza - la distinzione medievale fra clero e laicato, fra azione religiosa e azione mondana. Che si tratti di un'innovazione di enorme importanza storica è fuori discussione; non altrettanto chiari sono, però, i suoi riflessi immediati sui rapporti individuosocietà. Taluno vede, nel ripiegamento del protestante in se stesso e nella svalutazione delle opere, la tendenza a « lasciare a sé il mondo, mero dominio del diavolo »; ciò non escluderebbe, tuttavia, che questo mondo, lasciato al diavolo, possa subire una propria evoluzione raggiungendo mirabili risultati di ordine scientifico, economico, sociale. Ad altri sembra invece più valida la tesi secondo cui il protestante finisce per identificare l'attività religiosa con quella civile. Campo delle opere della fede diverrebbe allora la società secolare e il suo ordinamento; la società secolare sarebbe l'unico strumento in grado di tendere all'attuazione dell'opera di dio nel mondo. Sono, se ben si riflette, i logici sviluppi delle due interpretazioni del valore della fede, sulle quali ci siamo precedentemente soffermati. Essi racchiudono due concezioni senza dubbio antitetiche della società: concezioni nuove, comunque, rispetto a quella medievale e inconciliabili con essa, in quanto concludenti entrambe col riconoscimento - alla società civile - di un'autonomia piena e completa che l'uomo del medioevo non avrebbe mai potuto ammettere. In nessun settore i risultati di questa rivoluzione sono così radicali ed evidenti come in quello del lavoro. Tutta la civiltà classica ha svalutato il lavoro; non solo il lavoro manuale, ma qualsiasi attività mirante al conseguimento di un guadagno. Tale criterio è stato ripreso dagli umanisti, specialmente da quelli italiani. Il cattolicesimo medievale non è andato più in là della parziale rivalutazione, implicita nell'attribuzione al lavoro di un carattere penale e pedagogico insieme (remedium peccati). Anche Lutero accetta questa definizione. Egli rimane inoltre su posizioni sostanzialmente medievalistiche là dove, partendo dal presupposto che ognuno è collocato da dio nel posto che gli compete, nega all'individuo il diritto di passare da una professione all'altra allo scopo di ascendere nella gerarchia sociale. Senonché la sua energica negazione della gerarchia e del culto lo porta a sopprimere ogni differenza tra servizio divino e lavoro quotidiano, tra culto e professione. Ogni distinzione tra professioni spirituali e professioni mondane è negata alle radici. Il lavoro - tutto il lavoro - diviene servizio divino. Si serve dio assolvendo nel miglior modo possibile i compiti che la professione comporta. Ozio, mendicità, viver di rendita sono contro natura.
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Ma colui che porta la trasformazione del significato del lavoro alle sue estreme conseguenze è Calvino. A prima vista la cosa può apparire strana, quasi contraddittoria. A ben riflettere, però, essa risulta assolutamente chiara e coerente. Il motivo centrale della visione calvinistica del mondo è il concetto di predestinazione. Tra l'uomo e dio c'è un abisso, dio è tutto, l'uomo nulla. Dio ha giudicato opportuno che solo una piccola parte degli uomini sia destinata alla vita eterna. La destinazione dell'individuo è indipendente da ogni considerazione di opere e di meriti; è un decreto imperscrutabile e immutabile, fissato ab aeterno. Un simile principio sembrerebbe condannare l'uomo ad un'assoluta inazione. Vero è invece il contrario. L'uomo,. nella sua terribile solitudine, cerca un segno, una garanzia della propria elezione. Orbene, questo segno egli lo trova in primo luogo nel fatto stesso di sentire angosciosamente il problema della salvezza e di aver fede nel proprio destino; secondariamente, però, egli lo trova proprio nel suo stesso contegno e nelle sue opere. Le opere non sono fattore di salvezza, ma ratio cognoscendi dell'avvenuta elezione. Se l'amore per la natura e le creature è essenzialmente peccaminoso, ciò non toglie che sia necessario agire sulla natura e sulle creature, per piegarle a divenire lo specchio della divinità e per provare l'avvenuta elezione di colui che in tale attività si impegna con un ritmo che l'angoscia rende inesorabile e frenetico. Il calvinista diviene così un attivista duro e teso, continuamente autocontrollato, convinto che in lui è dio stesso che agisce. Nasce così un tipo di asceta mondano, il quale lavora non per godere della ricchezza, per adagiarsi nel riposo e nella quiete, ma per instaurare il regno di dio in terra e per accrescere dentro di sé la fede nella propria salvezza. Il frutto del lavoro sarà usato legittimamente solo in quanto verrà investito in nuovo lavoro, e così all'infinito. Il risparmio diviene fonte di nuova produzione e si creano le condizioni per il sorgere della civiltà capitalistica. Il lavoro grato a dio è quello metodico, disciplinato, razionale e cioè specializzato. Di qui l'importanza della divisione del lavoro stesso e, da un punto di vista soggettivo, della scelta della professione. Qui Calvino supera decisamente la concezione classista medievale accettata da Lutero. L'individuo ha l'obbligo di lavorare nel settore più confacente alle sue attitudini, più redditizio per lui e per la società. Per arrivare a tanto, egli ha non solo il diritto, ma addirittura il dovere di mutare, se sia necessario, la propria condizione sociale. Con questo appello a non legarsi al mondo, ma a lavorare nel mondo producendo e guadagnando senza tregua e senza riposo, il calvinismo contribuisce in maniera decisiva a fondare il mondo moderno.
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IV
·
CONSEGUENZE DELLA RIFORMA
NEL CAMPO
DELL'EDUCAZIONE
Le conseguenze della riforma nel campo generale della cultura verranno via via esaminate, quando se ne presenterà l'occasione, nel seguito dell'opera. Sembra tuttavia opportuno dire subito qualche parola intorno ad esse limitatamente al campo dell'educazione, sia perché le innovazioni qui realizzate ebbero un peso immediato e rilevante nella storia della cultura, sia perché valgono a illuminare piuttosto bene alcuni caratteri della riforma sui quali desideriamo attrarre l'attenzione del lettore. Gli argomenti che occorrerà a tal fine prendere in esame sono due: le conseguenze che l'introduzione del libero esame ebbe nell'ambito della cosiddetta «politica scolastica», e quelle che ebbe nell'ambito della vera e propria educazione morale. Quanto al primo punto, basterà osservare che il diritto-dovere di ogni cristiano ad interpretare liberamente la Bibbia presuppone, come è ovvio, che egli abbia la capacità di leggerla direttamente. Pertanto il principio del libero esame implica la « scuola per tutti », almeno nel suo grado elementare. Ma scuola per tutti significa scuola gratuita e obbligatoria. La gratuità e l'obbligatorietà, poi, esigono l'intervento dello stato o, comunque, di un'autorità pubblica la quale possegga mezzi e forza sufficienti a fare della frequenza una realtà concreta e non una mera dichiarazione di principio. Va notato, inoltre, che fu proprio l'universale obbligo scolastico una delle cause che più stimolò l'affermarsi delle varie lingue nazionali. Lutero traduce la Bibbia in tedesco, assolvendo nella storia del suo paese un compito analogo a quello assolto in Italia dai grandi toscani del Due-Trecento. Il latino, che pur continuerà ad essere insegnato nelle scuole superiori, cessa di separare il clero dal laicato, e di conferire al culto un carattere misterioso, esoterico. La gerarchia ecclesiastica perde un fondamentale strumento di distinzione, e d'altronde- col libero esame -la funzione sacerdotale viene in certo senso estesa a tutti i credenti. Quanto al secondo punto, va osservato che senza dubbio il libero esame non è ancora la libertà di pensiero in senso moderno, dal momento che viene pur sempre accettato il concetto di rivelazione. Il fatto, però, che al posto della chiesa subentri direttamente dio la cui verità e la cui legge parlano dall'interno del soggetto stesso, il fatto soprattutto che venga negato a una qualunque autorità umana il .diritto di dirigere il pensiero e di !imitarne la manifestazione, crea i presupposti per la futura affermazione dell'autonomia della ragione. L 'interiorizzazione della fede, poi, escludendo ogni possibilità di formalismo farisaico e collegando la speranza nella salvezza ad una interiore autentica conquista di perfezione morale, pone l'uomo di fronte a se stesso, in condizione di realizzare la propria personalità in un'atmosfera di spietata sincerità finora sconosciuta.
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Tutti i grandi riformatori- Lutero, Zwingli, Calvino - diedero, con l'azione e con la predicazione, un forte impulso alla realizzazione del programma educativo testé delineato. Lutero, in particolare, scrisse varie opere di interesse schiettamente pedagogico: An die Ratsherren aller Stiidte deutschen Landes (Ai consiglieri di tutte le città della Germania, I 524), Deutscher Catechismus e Kleiner Catechismus (Catechismo tedesco, detto pure Grande catechismo e Il piccolo catechismo, I 529), Ein Predig, dass man Kinder zu Schiilen halten so/le (Sermone sulla necessità di mandare i fanciulli a scuola, I 530). Senza scendere in particolari sui suoi piani didattici, basti osservare che, pur affermando che il fine ultimo dell'educazione resta quello religioso, egli cercò di sottolineare varie volte l 'importanza della scuola anche in rapporto alla vita terrena. È proprio in nome di questa importanza, che Lutero può richiamare energicamente le autorità statali al dovere di creare e finanziare la scuola per tutti: « Se ogni anno si spende tanto denaro per comperare macchine da guerra, per costruire strade, per sistemare i ponti e per mille altri oggetti di utilità pubblica, perché non impiegarne molto di più, o almeno altrettanto, per nutrire dei maestri di scuola, uomini attivi e intelligenti, capaci di allevare e di istruire i nostri giovani? » Lutero si occupa pure della scuola superiore, ed è interessante notare a conferma dell'influenza esercitata su di lui dall'umanesimo- che prevede per essa, tra gli insegnamenti fondamentali, quelli del latino, del greco, dell'ebraico, la cui conoscenza è reputata indispensabile affinché almeno qualcuno sia in grado di risalire alle fonti della Scrittura. La lingua materna deve invece venire usata per leggere la Bibbia e per cantare (ricordiamo che nella liturgia luterana al canto popolare, spontaneo, melodico è assegnata una funzione di grande rilievo, perché lo si ritiene atto al sincero esprimersi dello slancio .interiore). Per quanto riguarda l'organizzazione della scuola non diretta al popolo, non può venire dimenticato il contributo decisivo ad essa dato da Philipp Melancthon 1 (I 497- I 56o), dottissimo professore e umanista; la cui adesione al movimento protestante incise profondamente sui rapporti fra riforma e umanesimo. Senza voler qui discutere entro quali limiti il pensiero di Melantone possa dirsi effettivamente protestante (è fuori dubbio che egli ripudiò alcuni temi più nuovi e rivoluzionari della riforma), dobbiamo comunque riconoscere che a lui si deve se un importante nucleo del pensiero umanistico-rinascimentale riuscì, nei paesi riformati, a inserirsi in larghi strati e ad influire in modo decisivo sulla formazione di una vera e propria cultura nazionale tedesca. L 'istruzione superiore, riorganizzata nelle linee tracciate da Melantone, contribuì efficacemente a formare il primo nucleo di una classe (di funzionari e professori) che saprà ben presto acquistarsi la stima generale per solidità di sapere, fedeltà al dovere, energia spiI Il vero nome dell'autore in questione è Schwarzerde (terra nera), di cui Melancthon è la
grecizzazione, secondo una consuetudine assai diffusa nell'epoca.
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rituale: la classe, come dirà lo storico Harmack, onorata e illuminata, non sacerdotale, degli impiegati con cultura accademica e dei maestri superiori, degna di porre la propria candidatura alla direzione della nazione. Bisogna invece riconoscere, purtroppo, che i motivi più schiettamente democratici della riforma rimasero in gran parte inattuati, proprio in campo educativo, ed anzi vennero spesso persi di vista dagli stessi pedagogisti presi da eccessivo entusiasmo per l'umanesimo letterario. Si può d'altra parte osservare che questo concentrarsi dell'interesse verso le scuole superiori-latine rispondeva all'esigenza più urgente: quella di formare ecclesiastici, maestri e magistrati illuminati, senza di che il progresso dell'educazione popolare sarebbe rimasto mera velleità. Comunque, resta il fatto che la scuola popolare non riuscì a trovare, nel xvr secolo, un solido assetto; i generosi tentativi dei pochi isolati saranno poi annientati dalla guerra dei trent'anni. V
· LA CONTRORIFORMA
Abbiamo più volte fatto presente che nell'ambito della cristianità l'esigenza di riformare la chiesa era vecchia di secoli; ora dobbiamo aggiungere che nello stesso XVI secolo essa continuò ad essere vivamente sentita anche negli ambienti che non intendevano seguire l'eresia protestante. È chiaro però che la condanna di Lutero (I 5zo) limitò notevolmente le possibilità di azione dei « riformatori cattolici ». Per un lato la frattura della cristianità confermava in modo irrefutabile la necessità e l 'urgenza di un profondo rinnovamento della chiesa romana, se non si voleva andare incontro alla sua definitiva rovina; per un altro lato, però, ogni tentativo innovatore era tenuto a muoversi con la massima cautela, per il timore di venire accusato di simpatie luterane. Ed erano senza dubbio molte, intorno al papato, le forze conservatrici che minacciavano contro tutto e tutti accuse del genere, al fine di poter conservare intatti i loro privilegi. Con l'elezione al soglio pontificio di Paolo m Farnese (I 534-49) i movimenti di riforma riescono finalmente a salire dalle « membra » periferiche al « capo », e il papa stesso prende finalmente l 'iniziativa di convocare un concilio che prepari le basi della riforma cattolica. Come non ci siamo fermati ad esporre, neanche in forma schematica, le varie fasi di sviluppo della riforma protestante, così non ci fermeremo ora a delineare l'andamento del concilio di Trento (I 545-63) e delle successive iniziative con cui si cercò (in taluni casi con forti limitazioni) di attuarne sul piano pratico i dettami. Una cosa non va comunque dimenticata: che, alla conclusione del concilio, molti ritenevano in buona fede che stesse per iniziare una nuova epoca della storia della chiesa. Il concilio aveva formulato con chiarezza i capisaldi del dogma, respingendo decisamente le innovazioni che i protestanti avevano cercato di introdurvi: in
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primo luogo aveva confermato che l'intervento della grazia, nella salvazione del cristiano, non annulla l'efficacia delle opere; in secondo luogo aveva confermato il valore di tutti e sette i sacramenti; in terzo luogo aveva riaffermato l'essenzialità della funzione esercitata - nella storia della comunità cristiana dalla chiesa, perennemente illuminata dallo spirito santo e perciò custode sicura della rivelazione e della salvezza. Esso aveva inoltre indicato alcuni provvedimenti indispensabili, per ridare vigore alla chiesa, per rimetterla in condizione di presentarsi ai cristiani come vero centro di vita religiosa. Di fatto vennero attuate alcune riforme disciplinari del clero, venne dato nuovo impulso alle pratiche di pietà (preoccupandosi però di rinserrarle in una rigida regolamentazione), vennero incrementati gli studi biblici e quelli filosoficoteologici; si appoggiò lo sviluppo degli ordini religiosi (di nuova o di antica istituzione) assegnando loro il triplice compito di fronteggiare e fermare l'avanzata protestante, di riconquistare al cattolicesimo le popolazioni che avevano accolto l'eresia, e infine di espandere (per mezzo di una coraggiosa azione missionaria) la religione cattolica nei paesi extraeuropei. Oggi si dibatte frequentemente tra gli studiosi di storia, se l'insieme di tutte le iniziative del genere testé accennato meriti davvero il nome di « riforma cattolica », e soprattutto se sia possibile tracciare un precisa linea di demarcazione fra tale movimento riformatore e la cosiddetta controriforma che ben presto finì per avere il sopravvento, irrigidendo e cristallizzando la vita di tutto il cattolicesimo (sia pure su posizioni diverse da quelle antecedenti al concilio di Trento). Non intendendo entrare in tali dibattiti, abbiamo spesso parlato nelle pagine precedenti di « controriforma, o riforma cattolica », senza voler negare con ciò la possibilità di stabilire fra esse una distinzione. Il fatto è, però, che le fortissime pressioni politiche esercitate sulla chiesa dagli stessi monarchi rimasti fedeli al cattolicesimo, le resistenze frapposte ad ogni iniziativa autenticamente riformatrice da parte di molti prelati conservatori, l'irrigidimento delle nuove chiese protestanti e la stessa forma delle lotte apertesi fra esse e la chiesa romana, incisero fin dall'inizio sul movimento riformatore cattolico, sì da fargli assumere immediatamente (o quasi) molti caratteri tipicamente controriformistici (ricordiamo che la nascita del tribunale del sant'uffizio risale al 1 542). D'altra parte bisogna riconoscere che, anche durante il periodo indiscutibilmente controriformistico, non mancarono nell'ambito della chiesa uomini fedelissimi a Roma, i quali erano sinceramente convinti di lavorare per il rinnovamento del cattolicesimo. Il motivo per cui rinunciamo a compiere una sottile distinzione fra « riforma cattolica » e « controriforma », è agevolmente spiega bile: ciò che interessa - dal nostro punto di vista- non è il riuscir a differenziare fra loro gli elementi validi e gli elementi reazionari presenti nel complesso fenomeno, ma è il riuscir
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a spiegare la nuova atmosfera che esso creò nella cultura di paesi cattolici, e che senza dubbio condizionò in notevole misura lo sviluppo del pensiero filosoficoscientifico. Se - come abbiamo più volte ripetuto - non riteniamo lecito scindere questo sviluppo dal parallelo sviluppo della società, entro la quale vengono via via sollevati i problemi filosofici e scientifici, sarà necessario tenere costantemente presenti nel nostro studio le trasformazioni obiettive di tale società, indipendentemente dal giudizio che possiamo pronunciare su di esse. VI
· CONSEGUENZE DELLA CONTRORIFORMA
NEL CAMPO DELL'EDUCAZIONE. I GESUITI
Avremo parecchie occasioni, nei capitoli seguenti, di soffermarci sulle profonde influenze esercitate dalla controriforma nel campo generale della cultura. Qui vogliamo però subito accennare, come si è fatto per la riforma, alle influenze del movimento controriformistico nell'ambito dell'educazione, ambito a cui esso dedicò senza dubbio molte energie, come era del resto ben naturale dati gli scopi che la controriforma si proponeva. Già si è fatto cenno nel paragrafo precedente all'impulso che la chiesa cattolica diede, durante e dopo il concilio di Trento, alla rinascita degli studi teologico-filosofici; ora vale la pena di precisare in quale senso si orientò tale impulso, che immediatamente si rifletterà nel campo dell'istruzione. Sappiamo dai capitoli precedenti che la cultura umanistica aveva diffuso in larghi ambienti un senso di vivo scontento nei confronti della filosofia scolastica, tuttora dominante nelle università. Orbene la controriforma non vuole, né può, negare la fondatezza, almeno parziale, di tale scontento; sa tuttavia che le critiche degli umanisti sono state specificamente dirette contro gli ultimi indirizzi della scolastica, e si vale proprio di ciò per rinnegare esclusivamente tali indirizzi rivalutando - contro di essi - i classici della prima scolastica (Anselmo, Tommaso, Bonaventura, Duns Scoto). Questa intelligente operazione le consente di abbandonare il nominalismo e le troppo sottili ricerche logiche, che davano tanto fastidio agli umanisti, cercando invece negli autori testé accennati le linee di una metafisica organica, capace di venire sviluppata criticamente onde collegarsi ai nuovi problemi dell'epoca. Il filosofo medievale che meglio risponde a questa esigenza è Tommaso; perciò il suo pensiero diventa la base della rinascita filosofico-teologica promossa dalla controriforma. Già abbiamo detto che nel I 56 5 il papa Pio v lo proclama dottore della Chiesa; da quel momento in poi il tomismo diventerà la filosofia ufficiale delle scuole organizzate dall'autorità cattolica. Quanto ora detto ci porta ad illustrare un secondo punto di contatto fra la controriforma e l 'umanesimo. Sappiamo che questo aveva sostenuto la ne-
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La mano di colui che prega: illustrazione da un manuale di preghiere del periodo della controriforma.
Chantilly, Scuola dello Scolasticato.
cessità di ritornare allo studio dei testi nella loro autentica purezza. Ebbene anche la controriforma sostiene la necessità di un accostamento diretto alle fonti della dottrina cristiana; promuove pertanto lo studio dei testi sacri, delle opere degli antichi padri della chiesa, dei deliberati dei primi concili, ecc. dando avvio alla cosiddetta «teologia positiva» che si colloca degnamente accanto alla teologia filosofica. Si potrà in tal modo parlare di un vero e proprio « umanesimo cristiano » che prosegue ed estende le indagini dell 'umanesimo quattrocentesco. Quanto alle opere dei classici greci e latini, non ne rinnega affatto l 'importanza, ma ne limita il valore, proponendoli, non più come modelli di pensiero filosoficamente valido, bensì come modelli di stile limpido e perfetto. In questi limiti essi costituiranno - accanto alla filosofia tomistica - uno dei cardini dei rinnovati programmi scolastici. Abbiamo fatto cenno, nel paragrafo precedente, al pullulare di nuovi ordini religiosi nel Cinquecento: barnabiti, teatini, somaschi, gesuiti, ecc. Fra essi, quello di gran lunga più importante fu senza dubbio l'ordine dei gesuiti, nato nel I 534, con propositi apertamente riformistici (ben inteso di « riforma cattolica »), ad opera di Ignazio di Loyola e di alcuni suoi compagni di studi; un abbozzo di regola venne approvato nel I 540 dal papa Paolo n r. Già nel I 556 l'or73
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Riforma e controriforma
dine annoverava circa un migliaio di membri. In conformità col passato militare del suo fondatore esso prende il nome di « compagnia » e assume il carattere di un vero e proprio strumento di guerra (in un primo tempo diretto a convertire i musulmani, poco più tardi alla difesa della cattolicità e alla sua espansione in ogni paese). La struttura della compagnia è rigidamente gerarchica, animata da spirito di combattività e, soprattutto, di obbedienza. I gesuiti non riconoscono come superiore nessun principe della chiesa; sono esenti dalla giurisdizione di ogni prelato che non sia del loro ordine. Loro capo supremo è il preposto generale, soggetto alla costituzione, alle leggi dell'ordine e in base ad uno speciale vincolo, direttamente al papa. Essi svolgono nel modo più conseguente i principi della restaurazione cattolica. Da un lato appaiono ottimisti nei riguardi dell'umanità, nella cui iniziativa e nelle cui opere scorgono una vera e propria collaborazione con l'opera di dio, collaborazione indispensabile perché la grazia possa a sua volta intervenire e compiere l'azione salvatrice. D'altro canto rivelano un sostanziale pessimismo nei riguardi della personalità individuale, alla cui autonoma iniziativa negano la capacità di raggiungere la perfezione morale e religiosa. Questo li porta per un lato a respingere la interpretazione del cristianesimo come libertà interiore ed esaltazione della soggettività, interpretazione già cara allo spirito francescano e portata alle sue estreme conseguenze dal protestantesimo; per l'altro ad accettare, del cristianesimo stesso, una interpretazione che possiamo definire « politica ». Secondo le direttive generali della controriforma, poco sopra accennate, i gesuiti accettano in linea di massima il tomismo, quale strumento di recupero dell'egemonia culturale della chiesa. Non hanno tuttavia difficoltà, per poter attuare una certa apertura verso istanze più moderne, ad apportarvi alcune rettifiche, purché non tali da scalfire comunque i principi del dogma. Fra tali tentativi di apertura, ricordiamo: quello di Francisco Swirez (I548-I617) autore di un grande trattato di metafisica scolastica (ricca di corollari sulla dottrina politica e giuridica) con qualche interessante concessione al nominalismo occamista per quanto riguarda il riconoscimento dell'individualità del reale, e quello di Luis Molina (I 53 5- I 6oo) che, preoccupato di trovare un accordo (in funzione antiprotestante) fra libertà e prescienza divina, giunge a talune posizioni ove i suoi avversari riscontreranno germi di semipelagianesimo (dottrina questa, come si ricorderà, vivacemente combattuta da Agostino). Un'apertura ancora maggiore essi dimostrano nei problemi scientifici e in quelli morali. Rinviando ad altri capitoli la discussione della posizione assunta dai gesuiti su certi problemi di fondo del pensiero scientifico, come il copernicanismo, qui ci limitiamo a ricordare che la compagnia annoverò per lungo tempo dei cultori senza dubbio valenti di parecchie scienze speciali. Quanto all'apertura morale, va menzionato il loro lassismo, mediante cui cercarono di richiamare entro il grembo della chiesa uomini dai più discutibili costumi. È rimasto celebre 74
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Riforma e controriforma
l'acrobatismo della loro casistica, che tutto riesce a giustificare (tranne, ben inteso, l'eresia o lo scisma) mediante una sottile distinzione fra morale minore e maggiore. Lo strumento pratico più efficace per la costruzione di un nuovo tipo di cultura (moderna ma assolutamente fedele alla chiesa) è fornito dai« collegi» che essi fondano numerosi in ogni paese cattolico. L'educazione vi è impartita, secondo precise regole fissate dalla Ratio studiorum ( 15 99), in base a un programma di insegnamento che rispecchia in sé la tendenza generale (già da noi accennata) della controriforma a far propri alcuni motivi dell'umanesimo, integrandoli però con una concezione del mondo e di dio ricavata dalla filosofia tomistica. I collegi dei gesuiti non sono aperti al popolo (l'educazione popolare ed elementare è affidata ad altri ordini), ma appositamente istituiti per la formazione dei ceti dirigenti. Si prevede che gli allievi ivi formati continueranno, anche dopo concluso il ciclo scolastico, a mantenere stretti legami con la compagnia, tramite l'opera del «direttore spirituale», che impartirà loro consigli e prescrizioni adeguati alle varie circostanze della vita. Non si può negare l'efficienza di tutta questa complessa organizzazione, che plasmerà molte coscienze, e riuscirà ad esercitare una notevolissima influenza sui costumi sociali dell'epoca nonché sulla stessa politica degli stati cattolici. Se però ci domandiamo in che misura essa riuscirà davvero a dirigere la cultura, riconducendola nell'alveo del cattolicesimo, dobbiamo francamente riconoscere che non è stata in grado di raggiungere il suo scopo. Gli è che l 'autentica cultura non si lascia imbrigliare da alcuno schema precostituito, né illudere da alcuna maschera. Proprio dalle scuole dei gesuiti uscirono, non di rado, i più severi critici della loro concezione politico-filosofica; coloro che denunciarono con maggior vigore la reale inconsistenza della loro apertura al mondo moderno. Nuovi problemi si affacciarono all'umanità, per la cui soluzione fu necessario elaborare nuovi indirizzi di pensiero. Di fronte ad essi il movimento controriformista si trovò perlopiù disarmato, malgrado la sua efficientissima organizzazione, e finì per essere sconfitto.
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CAPITOLO SESTO
Progressi delle scienze e delle tecniche nel Cinquecento
I
· CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
SUL MOLTIPLICARSI DELLE RICERCHE SCIENTIFICHE
Non è certo possibile fornire in poche pagine un quadro completo dei numerosi progressi conseguiti, durante il XVI secolo, dalle singole scienze; purtuttavia riteniamo indispensabile segnalare alcune fra le più significative scoperte che risalgono a tale periodo, poiché dovremo fare di frequente riferimento ad esse nel seguito della nostra esposizione, sia trattando di problemi filosofici generali sia trattando di problemi più specificamente metodologici. Ciò che va, comunque, posto bene in chiaro è che questi progressi, malgrado il loro numero rilevante e la loro incontestabile importanza, non segnano ancora, di per se stessi, la vera e propria nascita della scienza moderna. Essi costituiscono senza dubbio una premessa essenziale per tale nascita, uno dei fattori determinanti per il suo avverarsi; non l'unico, però, come cercheremo di spiegare nel capitolo IX. Il fatto è che il trapasso delle varie ricerche dalla fase prescientifica a quella autenticamente scientifica non è tanto contrassegnato dal moltiplicarsi dei risultati particolari, quanto da una svolta metodologica, che muta nelle sue più profonde strutture l'impianto stesso della ricerca. Questa constatazione, però, fa subito sorgere un problema. Poiché la grande svolta metodologica che segna l'inizio della scienza moderna venne realizzata solo nel Seicento (in pratica con Galileo), e poiché di conseguenza essa può venire invocata solo per spiegare l'accresciuta produzione scientifica di tale secolo e dei successivi, che cosa potrà spiegare il moltiplicarsi dei risultati raggiunti (mediante vie talvolta assai discutibili) dai ricercatori del Cinquecento in pressoché tutte le scienze particolari? Le cause di questa rinascita della scienza, che precede la sua rivoluzione metodologica, vanno cercate in alcuni fatti di natura generale verificatisi durante il Cinquecento, oltreché in talune circostanze particolari che possono aver favorito questa o quella singola disciplina (tra queste circostanze particolari va collocata ovviamente la « fortuna » di avere trovato dei cultori di eccezionale ingegno).
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Progressi delle scienze e delle tecniche nel Cinquecento
Limitandoci alle cause del primo tipo, che spiegano la rinascita generale delle ricerche scientifiche nel Cinquecento, riteniamo opportuno richiamarne subito tre. La prima di esse è senza dubbio costituita dal progresso economico dell'intera società, che favorì il risveglio di tutta la cultura in ogni sua manifestazione: artistica, filosofica e scientifica. Poiché di questo argomento ci siamo già occupati a lungo nel capitolo I, non è qui necessario dedicarvi ulteriori considerazioni. La seconda causa va probabilmente cercata nelle sempre più precise e pressanti richieste che venivano da ogni parte rivolte ai tecnici per rendere più efficienti i mezzi di produzione, di comunicazione, di distruzione, ecc.; e nella impossibilità - da parte dei tecnici - di risolvere i nuovi, ognor più difficili, problemi senza l'ausilio di meditate riflessioni, sistematicamente condotte con tutti gli strumenti teorici e pratici allora posseduti. Su questo interessante tema rinviamo il lettore a quanto detto nel capitolo III. La terza causa, di cui pure abbiamo già fatto cenno in tale capitolo, va connessa al rinnovato risveglio delle ricerche filologiche, che misero a disposizione degli studiosi rinascimentali molte opere greche (tradotte in latino o in lingue moderne) e latine - fino allora ignote o mal note - di argomenti scientifici e tecnici. A tal proposito possiamo aggiungere a quanto detto nel capitolo m qualche indicazione più precisa sulle traduzioni eseguite e pubblicate nel Cinquecento. Questo ci confermerà quanto fosse vivo e diffuso, nel secolo in esame, l 'interesse per gli scienziati antichi, da cui i moderni sapevano di poter attingere tanti preziosi insegnamenti. Com'è facile comprendere, gli Elementi di Euclide furono l'opera scientifica che venne pubblicata in maggior numero di edizioni. La prima, che risale al I482 (Venezia), è una traduzione latina (dall'arabo) dovuta a Giovanni Campano, vissuto nel XIII secolo; essa fu ristampata nel I49I (Vicenza). Nel I 505 ne venne pubblicata, pure a Venezia, un'altra traduzione latina, a cura di Bartolomeo Zamberto, assai migliore della precedente. Al I 5 33 risale l' editio princeps del tes~o greco, pubblicata a Basilea, che rimarrà a lungo la fonte principale delle edizioni posteriori. Nel I 543 Nicolò Tartaglia diede alle stampe una traduzione italiana degli Elementi, non molto soddisfacente ma ampiamente commentata. Nel I 562 ne uscì la prima traduzione tedesca, limitata ai primi sei libri; nel I 564 la prima traduzione francese, essa pure limitata ai primi sei libri, seguita però nell'anno successivo dalla traduzione dei libri VII, VIII, IX. La prima traduzione inglese, basata su quella del Campano, venne pubblicata nel I 570; la prima spagnola (limitata ai libri I-VI) nel I n6. Non potendole ricordare tutte, ci limiteremo a segnalare due versioni latine particolarmente curate sia dal punto di vista filologico che da quello scientifico: una uscita a Pesaro nel 15 7 2 a cura di Federico 77
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Commandino (tradotta in italiano nel 1575) e l'altra a Roma nel I574 a cura del gesuita padre Clavio. 1 I quattro libri allora noti delle Coniche di Apollonia vennero pubblicati a Venezia nel I 53 7 in traduzione latina a cura di Giambattista Memo. Nel I 566 Commandino ne pubblicherà un'altra versione, assai migliore, arricchita di alcuni testi di Pappo e di altri matematici dell'antichità. La prima importante traduzione latina di alcune opere di Archimede (fra cui il primo libro del famoso trattato Sui galleggianti) venne pubblicata, a Venezia, nel I 543 da Tartaglia. Nel I 544 uscì a Basilea un'accurata edizione greca di quasi tutte le opere allora note del siracusano, con acclusa traduzione latina di Jacopo da Cremona (un discepolo di Vittorino da Feltre); nel I 55 8 Commandino ne farà una nuova più soddisfacente traduzione latina. Intanto era uscita nel I 55 7 una traduzione commentata dell'Arenario a cura del francese Pasquier Duhamel. Nel I 588 Guidobaldo del Monte pubblicherà una traduzione dei suoi scritti di S fatica. Per quanto riguarda gli altri matematici greci, basti ricordare che nel I 57 5 il tedesco Wilhelm Holzmann pubblicò una traduzione latina completa delle Cose aritmetiche di Diofanto. Fra le traduzioni di scritti di Erone segnaliamo quella italiana degli Pneumatica-ad opera di Giovan Battista Aleotti (dal titolo Gli artifttiosi et curiosi moti spirituali di Herone) e quella pure italiana degli Automa/a ad opera di Bernardino Baldi (Di Herone alessandrino degli automati overo machine se 1noventi), entrambe del I 589. Numerose furono pure le edizioni di testi di medicina e di scienze naturali. Uno dei primi libri mandato alle stampe fu il trattato De medicina di Celso, riscoperto nella prima metà del xv secolo; la prima edizione di esso risale al I478 (Firenze) cui ne seguirono varie altre: nel I492, nel I495, nel Ip6, ecc. Non si ebbe invece, nel Quattrocento, alcuna edizione di Ippocrate; la prima risale al I 52 5 (Roma) ed è una traduzione latina di tutti gli scritti ippocratici allora noti, curata da Fabio Calvi. L'anno successivo uscirono: un'altra traduzione latina (Basilea) dell'« intera» opera di Ippocrate e il testo originale greco (Venezia). Una nuova edizione del testo greco, notevolmente migliorata, verrà pubblicata nel I 59 5 a Francoforte. Più immediata diffusione delle opere di Ippocrate conobbero invece i numerosissimi scritti di Galeno, sia di medicina che di anatomia e fisiologia, alcuni dei quali vennero stampati in traduzione latina già nell'ultimo quarto del xv secolo. Basti ricordare l'edizione del I49o (Venezia) che ambiva presentarsi come completa. Nel I525 (Venezia) e nel I538 (Basilea) uscirono due edizioni «complete» r Clavio dimostrò con fondatezza l'impossibilità di confondere l'autore degli Elementi con il filosofo Euclide di Megara, discepolo dì Socra-
te. Tale confusione compariva nello stesso titolo di molte edizioni dell'epoca, per esempio nelle traduzioni di Zamberto, di Tartaglia, ecc.
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delle opere galeniche nell'originale greco. Durante tutto il Cinquecento Galeno sarà uno degli autori più letti in Francia, Inghilterra, Italia. Basti ricordare che nel I 528 furono pubblicate a Parigi le traduzioni latine di vari suoi trattati, fra i quali il famoso De usu partium; nel I 55I venne pubblicata a Lione la traduzione latina, curata dal medico umanista tedesco Johannes Giinther, del trattato De anatomicis administrationibus (Sui procedimenti anatomici). Ancora più numerose furono le edizioni della Naturalis historia di Plinio il vecchio: non meno di quindici in latino e. tre traduzioni italiane nella seconda metà del Quattrocento; più di quaranta in latino nel Cinquecento oltre a varie traduzioni in tutte le lingue dell'Europa occidentale. L'elenco delle edizioni rinascimentali di opere scientifiche dell'antichità (e anche del medioevo) potrebbe proseguire per pagine e pagine; ma i titoli riferiti sono sufficienti a dimostrare che i testi greci tradotti e pubblicati- malgrado la prevalenza di opere matematiche e mediche- riguardavano all'incirca tutte le discipline. Possiamo concluderne che la rinascita delle ricerche scientifiche nel Cinquecento costituisce un proseguimento diretto della scienza greca: è un fatto che va tenuto presente se v_ogliamo spiegarci l'alto livello rapidamente raggiunto da tali ricerche. Il
- ASPETTI NON SCIENTIFICI DELLE INDAGINI SCIENTIFICO-TECNICHE RIN ASCIMENTALI
Come si è ribadito nel paragrafo precedente, lo studio accurato e sistematico della scienza antica costituì senza dubbio un elemento fondamentale della rapida rinascita delle ricerche scientifiche durante il XVI secolo. Non fu l'unico, però; e il fatto singolare è che un altro elemento di questa rinascita fu invece costituito dall'accresciuto interesse per un gruppo di indagini che oggi noi qualifichiamo senza ombra di dubbio come antiscientifiche mentre nel Cinquecento erano da tutti ritenute strettamente affini alla ricerca scientifica. Intendo riferirmi alle indagini di astrologia, di alchimia, di magia. Anche di esse è necessario tener conto, per comprendere i caratteri della scienza cinquecentesca; per non rimanere malamente sorpresi quando si leggerà che un dato personaggio (ad esempio Cardano) era nel contempo grande matematico, medico e mago. Il fatto che la medesima persona si dedicasse con pari serietà a ricerche che oggi noi consideriamo autenticamente scientifiche e ad altre che consideriamo estranee alla scienza, sta semplicemente a confermare che la rivoluzione scientifica non era ancora stata condotta a termine, e cioè che la vera e propria scienza (nel senso moderno del termine) a rigore non era ancora nata. La critica odierna tende tuttavia ad annettere un valore in certo senso positivo anche all'astrologia, all'alchimia, alla magia, riconoscendo che esse hanno
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compiuto una funzione assai importante nel laborioso processo che ha preparato l'anzidetta rivoluzione. 1 Dell'astrologia abbiamo già più volte fatto cenno, osservando che essa era generalmente ammessa dagli aristotelici padovani mentre era considerata con sospetto dai platonici (era per esempio combattuta da Giovanni Pico della Mirandola). Gli è che quelli non avevano nulla, in via di principio, da obiettare contro la tesi dell'interconnessione generale dei fenomeni e, nell'ambito di questa tesi, erano disposti ad ammettere l'esistenza di ben determinate influenze degli astri sulle vicende del nostro mondo (in particolare sulla vita dell'uomo); Pico si rifiutava invece di ammetterla, non perché avesse dimostrato l'inaccettabilità scientifica di tale influenza, ma solo perché riteneva che essa comportasse una troppo grave limitazione alla libertà dell'uomo. Dall'ammissione dell'astrologia fra le discipline scientifiche era poi naturale passare a quella dell'alchimia: le stesse cause occulte che presiedono agli influssi astrologici presiedono anche agli influssi fra elementi. La famosa tavola astrologico-alchimistica consacrava l 'interdipendenza delle due discipline stabilendo precise corrispondenze di pietre e metalli con gli astri. Le ricerche alchimistiche possedevano però una caratteristica specifica (potremmo dire di «attività») assente da quelle astrologiche. L'astrologo infatti non può intervenire operativamente sul moto dei corpi celesti per produrre o impedire questa o quella combinazione astrale; egli potrà tutt'al più consigliare che una certa impresa venga o non venga tentata in un certo momento perché la posizione degli astri è o non è ad essa favorevole. L'alchimista invece può fare ben di più: può sforzarsi di isolare certi elementi, per combinarli o ricombinarli con altri, al fine di creare certi composti che - in virtù delle forze occulte in essi operanti ·- dovranno risultare capaci di diffondere intorno a sé proprio le «influenze>> da noi desiderate. Così vi è chi accetta l'alchimia, mentre respinge l'astrologia, tale accettazione o rifiuto dipendendo peraltro dalla teoria filosofica che si accoglie per l 'interpretazione generale della natura. Quanto alla magia, essa non è una disciplina chiaramente circoscritta: il termine « mago » denota, in generale, chiunque riesca a provocare eventi singolari, agendo in modo più o meno misterioso sulle forze occulte della natura (uno strumento prezioso per tale azione sarà, appunto, fornito dai procedimenti alchimistici). Il principio fondamentale di gran parte della magia cinquecentesca è che il mondo della natura sia mosso da forze spiritiche, intrinsecamente simili a quelle dell'anima umana: le principali tecniche per intervenire su tali forze dovranno quindi avere, esse pure, un carattere spiritico: Il nesso fra tale princirispetto alla magia medievale, si ritornerà, da un diverso punto di vista, nel paragrafo II del capitolo VIII della quarta sezione.
1 Sui motivi che favorirono la reviviscenza della magia nell'umanesimo e nel mascimento, nonché sul nuovo significato che questa assunse
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pio e la concezione animistica, sostenuta da molti umanisti neoplatonici, è così evidente che non vale la pena fermarsi ulteriormente su di esso. Né questo intromettere forze occulte o forze spiritiche in indagini che pretendevano essere a loro modo serie deve costituire un motivo di eccessivo stupore. Nel Cinquecento tutti vedevano la natura interamente pervasa da forze di tipo siffatto: popolo e preti parlavano continuamente di miracoli compiuti da dio o dal demonio, streghe e stregoni eseguivano ogni giorno i più strani esorcismi; nulla di più comprensibile, dunque, che anche studiosi autentici ricorressero senza alcuna ripugnanza concettuale a tipi di forze che oggi non potrebbero venire invocati se non da persone in mala fede o visionarie. La magia seria, però, ossia la « magia naturale », dava alle proprie ricerche una impostazione ben diversa da quella che stava alla base dei vari generi di esorcismi. Il mago ammetteva sì l'esistenza di fenomeni «strani» (cioè non rientranti nelle solite norme dell'esperienza quotidiana), e riteneva di poter intervenire sulla loro produzione, ma li considerava in ogni caso come « naturali », cioè come effetti di forze occulte di carattere naturale e non sovrannaturale. Bisogna d'altra parte tener presente che l'interesse per tali fenomeni «strani» proveniva esso pure - come l'interesse autenticamente scientifico - da una curiosità perfettamente legittima: dal desiderio cioè di osservare la natura in tutti i suoi aspetti, più o meno reconditi. E se il mago, per cercare di darne una spiegazione « naturale », non faceva ricorso alle categorie che potevano venirgli fornite dalla «scienza ufficiale» dell'epoca (che era poi la scienza aristotelica), si trovava in ciò perfettamente giustificato dal fatto che tali categorie non risultavano sicuramente in grado di spiegare i fenomeni anzidetti (per esempio i « parti mostruosi », certe illusioni ottiche, certi effetti magnetici, per non parlare delle grandi catastrofi, delle pestilenze, e financo di taluni fenomeni celesti come comete, apparizioni di nuove stelle, ecc.). Il tentare di connettere fra loro tali fenomeni (poniamo, la comparsa di una cometa con il verificarsi di una particolare catastrofe) rientrava abbastanza bene nel quadro di un'indagine, se non scientifica, almeno ipotetico-scientifica (e le ipotesi usate da maghi, astrologi, alchimisti apparivano, in quel secolo, perfettamente plausibili). È infine comprensibilissimo il legame tra la magia e la tecnica. Già abbiamo detto che il mago non si accontenta di contemplare passivamente i fenomeni della natura, ma vuole modificarli (favorendo il verificarsi degli uni e impedendo il verificarsi degli altri). La sua non è una disciplina puramente speculativa; vuole essere attiva, operativa, capace di accrescere in concreto la potenza dell'uomo. Ed è presumibile che le tecniche del mago qualche successo (reale o apparente) riuscissero a conseguirlo, se tanto profonda e tanto diffusa era la fiducia in esso riposta. Egli osservava pazientemente (se pure senza sistematicità) il corso dei fenomeni, tentava di compiere autentici esperimenti (ovviamente senza condurli con «metodo scientifico»), si sforzava di dare una qualche interpretazione dei 81
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pochi e disorganici risultati scoperti (interpretazione per lui plausibile, anche se per noi pazzesca); nulla di sorprendente, quindi, se le sue indicazioni per intervenire sulla natura (per correggerla, trasformarla, ecc.), dovessero, almeno in qualche caso, risultare più efficaci delle azioni istintive dell'uomo comune non fondate su alcuna forma di « sapere » ! Fino a che punto possiamo dire che gli artifizi ideati dal mago e dall'alchimista fossero veramente degni del nome di tecniche? Oggi noi sappiamo, per esempio, che gli alchimisti avevano scoperto molte proprietà effettive di talune importanti sostanze chimiche, e che in qualche caso queste proprietà si erano rivelate assai utili nella preparazione di medicinali, nella lavorazione di metalli, ecc. Ma spesso ritroviamo, accanto ad esse, altre nozioni alchimistiche assolutamente inaccettabili, cui veniva tributata altrettanta fiducia. Dove passava la linea di demarcazione effettiva fra tecniche serie e tecniche non serie, fra nozioni fondate e nozioni cervellotiche? È tutt'altro che facile rispondere a questa domanda. E forse è inutile, o almeno storicamente erroneo, tentare di rispondervi. L'unica cosa da fare è prendere atto che la ricerca in quell'epoca si svolgeva veramente così, e che- bene o male - essa costituì l'humus dal quale nacque l'autentica osservazione scientifica. Per studiare seriamente la « scienza cinquecentesca » bisogna tener conto anche dei fattori irrazionali (non scientifici) in essa presenti; e invece di discutere fino a che punto i loro risultati fossero veri o falsi (nel senso che lo scienziato di oggi attribuisce a questo termine), bisogna cercare di chiarire quale fu il « fatto nuovo » che a un certo momento intervenne a separare, nel complesso delle indagini sulla natura, quelle autenticamente scientifiche da quelle puramente magiche. Gli odierni storici della scienza ritengono che tale fatto nuovo fu la sistematica alleanza di essa con la meccanica; di qui l'importanza centrale - per tutta la scienza- della rivoluzione delle ricerche meccaniche maturatasi nel Cinquecento e portata a termine da Galileo. Comunque, non sarebbe esatto ritenere che magia e astrologia siano state d'un tratto respinte fuori dal campo delle ricerche «serie». Al contrario, molti continuarono a lungo a prestar loro una certa fiducia. Furono soprattutto i risultati pratici a sgretolare questa fiducia: si vide infatti che, mentre le ricerche scientifiche razionali erano feconde di applicazioni via via maggiori, le arti occulte non portavano ad alcun effettivo successo. Fu così sempre più chiara la frattura tra scienza e non-scienza, e l'uomo finì col considerare la ricerca scientifica come unico strumento efficace per la conoscenza e il dominio dei fenomeni. Fatte, a titolo di semplice chiarimento introduttivo, tutte queste considerazioni, possiamo ora finalmente passare alla nostra breve e schematica rassegna dei più notevoli progressi conseguiti, nel Cinquecento, dalle scienze e dalle tecniche. Cominceremo dalla matematica, la scienza meno sottoposta al pericolo di infiltrazioni non scientifiche.
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III
· MATEMATICA
Gli studi matematici del Cinquecento furono anzitutto diretti ad approfondire la conoscenza della matematica greca, onde assimilarne metodi e risultati; in secondo luogo a cimentare su nuovi problemi le capacità così acquisite. Il settore ove le ricerche si rivelarono più feconde fu quello dell'algebra. I progressi ivi conseguiti (il cui merito spetta per la maggior parte ad autori italiani) riuscirono veramente a iniziare una fase nuova nella storia di questa scienza. Il problema algebrico di fronte a cui avevano dovuto fermarsi sia i matematici greci (che avevano trattato la questione soprattutto per via geometrica) sia quelli arabi, era l'equazione generale di terzo grado. Proprio esso fu affrontato e risolto dai matematici italiani del Cinquecento. Il successo delle loro indagini ebbe un valore tanto più grande, in quanto dimostrò che 'i moderni erano in grado di oltrepassare, in qualche campo della scienza, il pur altissimo livello raggiunto dagli antichi. La risoluzione dell'equazione algebrica di terzo grado fu intravista, per la prima volta, da Scipione Dal Ferro (I465-15z6); la moì:te gli impedì tuttavia di perfezionare la propria scoperta. Qualche anno più tardi il problema venne riesaminato a fondo da Nicolò Tartaglia (1506-15 57), cui servì di sprone la notizia dei successi ottenuti da Dal Ferro. Questo riesame condusse Tartaglia a scoprire la regola, assai complicata, che permette di risolvere il problema in tutta la sua generalità. In quel tempo, i matematici non usavano rendere immediatamente pubbliche le loro invenzioni, ma si limitavano a darne implicita notizia attraverso i cosiddetti « cartelli di matematica disfida ». In questi cartelli lo sfidante proponeva ai dotti dell'epoca qualche problema di particolare difficoltà dando assicurazione di possedere - per proprio conto - la regola per risolverlo. Fu durante lo sviluppo di una di queste disfide che Tartaglia comunicò, in forma del resto assai velata, la propria regola al medico, astrologo, filosofo e mago Girolamo Cardano (I 5o II 57 I). Questi seppe immediatamente rendersi conto del funzionamento della regola, e anzi vi apportò notevoli sviluppi. Intuita l'importanza dell'eccezionale scoperta, si affrettò a renderla pubblica, inserendola esplicitamente nella sua celebre Ars magna data alle stampe nel 1545, 1 senza fare cenno ai meriti di Tartaglia. Com'è naturale, la pubblicazione suscitò subito, da parte di costui, la più energica protesta. Ne sorse, così, un'aspra e lunga polemica che ebbe il merito di rendere sempre più vivo l'interesse per i problemi algebrici. Furono pertanto affrontate le equazioni di quarto grado, la cui risoluzione venne ben presto I Questo è il motivo per cui la formula, pur essendo stata senza dubbio inventata da Tar-
taglia, passò di fatto ai posteri col nome di formula cardanica.
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scoperta per opera di Ludovico Ferrari (1522-1565), discepolo e amico di Cardano. Si trattava però di una scoperta abbastanza facile, una volta risolte le equazioni di terzo grado. La vera difficoltà era contenuta nella formula di TartagliaCardano, anche perché essa faceva riferimento a strane entità, pressoché incomprensibili per i matematici dell'epoca: vogliamo dire le radici quadrate dei numeri negativi. Oggi sappiamo che, effettivamente, queste radici non esistono nel campo dei numeri reali, bensì soltanto in quello dei numeri complessi. La regola di Tartaglia-Cardano godeva però di una singolare fortuna: di essere cioè combinata in modo che, nei successivi passaggi, le predette entità finivano per eliminarsi, e il risultato ultimo tornava a contenere soltanto numeri reali. Il delicato argomento venne ripreso, qualche decennio più tardi, da Raffaele Bombelli (di cui sono ignote le date di nascita e di morte) che, nella sua celebre Algebra del I 572, ebbe il coraggio di parlare esplicitamente delle nuove strane entità. L'opera di Bombelli costituì il testo principale, fino ai tempi di Leibniz, per tutti coloro che volevano affrontare gli studi algebrici. Un'altra difficoltà delle ricerche ora accennate era costituita dal linguaggio seguito per la loro trattazione. Questo era, sostanzialmente, il linguaggio comune, con qualche abbreviazione già introdotta dal Pacioli, e con l'uso costante di determinati vocaboli per indicare certi termini del problema (per es. il vocabolo «cosa» era usato a indicare l'incognita). Fu solo verso la fine del XVI secolo che il linguaggio algebrico venne interamente rielaborato, ad opera di un matematico francese, François Viète (I540-I6o3), autore di un fondamentale scritto dal titolo: In artem ana!Jticem isagogé, pubblicato nel 1591. Le innovazioni più significative introdotte da Viète sono fondamentalmente due: la legge di omogeneità, che esclude ogni possibilità di confronto fra grandezze geometriche aventi un numero diverso di dimensioni, e il sistema notazionale che segue il definitivo trapasso dall'algebra sincopata a quella simbolica. Per la prima volta vengono prese in considerazione equazioni algebriche con coefficienti letterali anziché numerici, e formulate in tutta la loro generalità le regole che ne forniscono la soluzione. Da un punto di vista matematico la trattazione è assai rigorosa, ma lo stile è notevolmente oscuro; proprio per questa oscurità l'opera fu compresa da pochi e non esercitò sui contemporanei tutta la influenza che avrebbe meritato di esercitare. Per quanto riguarda altri campi della matematica, ricordiamo le ricerche di Guidobaldo del Monte (I 545-I6o7) intorno ai metodi di rappresentazione geometrica già studiati con tanto successo dai pjttori e architetti del Quattrocento (come spiegammo nel paragrafo m del capitolo m). Ricordiamo inoltre le ricerche, suggerite dall'approfondito studio delle opere di Archimede intorno al calcolo di aree e volumi: esse porteranno i matematici del secolo successivo all'invenzione del calcolo infinitesimale. Qui basti segnalare gli studi di Luca V alerio
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(I 55 z- I 6 I 8) in applicazione del metodo di esaustione e quelli di S1mon Stevin (I 548-I6zo) sulla ricerca dei centri di gravità e in genere sul problemi della sta-
tica. Essi costituiscono una magnifica prova dell'energia stimolatrice che l'epoca moderna ricavò dall'assimilazione del pensiero del grande siracusano. Va fatto cenno, in ultimo, a un gruppo di problemi che appassionò parecchi studiosi dell'epoca: essi scaturivano dal confronto tra le argomentazioni usate in matematica e quelle analizzate e sistematizzate dalla logica classica. Già sappiamo da quanto detto nei capitoli precedenti che la tesi della superiorità delle argomentazioni matematiche era unanimemente sostenuta dai platonici, mentre quella della superiorità delle argomentazioni sillogistiche era caratteristica degli aristotelici. Alcuni di questi ultimi giunsero a sostenere che, per provare il rigore delle argomentazioni matematiche, sarebbe stato necessario dimostrarne la traducibilità in termini di logica tradizionale. Fu il carattere estremamente artificioso e la sostanziale sterilità degli sforzi diretti a questo fine ciò che ebbe l'effetto di scoraggiare i difensori di tale tesi. È degno di nota che fu proprio un gesuita tedesco- precisamente il padre Christoph Clau (Clavio, I 573-I612, già citato nel paragrafo I) - a dimostrare, in uno scolio alla sua traduzione di Euclide, l'inutilità di tutti i tentativi diretti a ridurre i procedimenti matematici in forma sillogistica. Così la scienza dell'epoca venne a trovarsi di fronte a due tecniche inferenziali, diverse tra loro eppure entrambe rigorose: quella matematica e quella logica. Se ciò poteva sicuramente dare dignità e autonomia alla matematica, non poteva non costituire motivo di scandalo per quanti percepivano l'esigenza del carattere unitario della ragione. Il tema verrà ripreso varie volte nei secoli successivi, e ancora nel nostro sta al centro di molti seri dibattiti intorno alla natura della matematica (l'integrale riconducibilità di questa disciplina alla logica viene per esempio sostenuta dal cosiddetto indiriz~o « logicista » di cui parleremo a lungo nel capitolo v del volume vm). IV
· ASTRONOMIA
L'importanza delle ricerche algebriche e infinitesimali testé accennate, per quanto notevolissima nell'ambito scientifico, non va al di là dei limiti della matematica. Ben diverso è l'interesse della rivoluzione compiutasi - nel medesimo periodo - entro l'ambito delle teorie astronomiche. È un interesse che oltrepassa di molto i confini della pura e semplice astronomia, e investe direttamente le più alte questioni filosofiche intorno all'uomo e al mondo. Lo sviluppo della grande rivoluzione si impernia su quattro nomi: Copernico, Tycho, Keplero e Galileo. Rinviando al capitolo x1 l'esame dell'opera di Galileo e del drammatico urto di culture che si accese attorno ad essa, ci limiteremo qui ad un'esposizione molto schematica delle principali scoperte di Copernico, Tycho Brahe e Keplero. La discussione del significato filosofico generale
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della rivoluzione copernicana verrà svolta nel capitolo VIII, in riferimento al pensiero di Giordano Bruno; lo studio dell'opera di Keplero sarà invece ripreso nel capitolo XI della sezione IV, ove si porrà in luce, tra l'altro, il suo importante contributo al rinnovamento, non solo della scienza astronomica, ma della stessa cosmologia. Nikolaus Kopernicki(Copernico) nacque a Thornin Polonia nel I473 da famiglia agiata. Compì i primi studi di umanità, matematica e astronomia nella fiorente università di Cracovia. Nominato canonico, venne in Italia ove frequentò le università di Bologna, Padova e Ferrara, completando la propria cultura specialmente in matematica. Tornato in patria, si dedicò in prevalenza a studi astronomici. Fu verso il I 505-6 che ideò le linee fondamentali del suo sistema. Impiegò tuttavia molti anni per stenderne e limarne l'esposizione. Nel I 530 pubblicò un breve estratto di essa, ottenendo l'approvazione del papa Clemente vn, che anzi lo incitò a pubblicare l'opera in extenso. Malgrado questo incitamento, attese ancora dieci anni prima di darla alle stampe. La prima copia stampata gli fu portata alletto di morte nel I 543, quando ormai la sua coscienza si era pressoché spenta. L'opera, che avrebbe dovuto acquistare tanta celebrità, portava per titolo: De revolutionibus orbium coelestium libri VI (Sei libri sulle rivoluzioni dei mondi celesti). In Italia Copernico aveva subìto l'influenza del platonismo matematizzante di Pico della Mirandola, e, attraverso ad essa, aveva assorbito vari elementi dell'antica concezione pitagorica. Posto sull'avviso dai matematici di Bologna delle molte difficoltà insite nel sistema tolemaico, aveva avuto la geniale idea di cercarvi una soluzione nelle dottrine astronomiche dei pitagorici. Furono queste a suggerirgli di sostituire l'ipotesi geocentrica con quella della mobilità della Terra. Il teologo luterano Andreas Hosemann, detto Osiander, supervisore della prima edizione dell'opera di Copernico, vi antepose una prefazione per spiegare che la nuova teoria voleva soltanto essere un'ipotesi matematica, senza alcuna pretesa di rispecchiare la verità fisica. In parte, la spiegazione trovava conferma nella struttura dell'opera: molte pagine erano infatti dedicate a calcoli, nel preciso intento di provare con essi che l'ipotesi della mobilità della Terra avrebbe apportato un'enorme semplificazione nei confronti della teoria tolemaica troppo impacciata dall'artificioso ricorso agli epicicli. Accanto a tali calcoli, Copernico ·sviluppava, però, parecchi argomenti di carattere non puramente matematico, per risolvere le varie obiezioni sollevate da Tolomeo contro la mobilità della Terra. All'obiezione, per esempio, che la Terra - sottoposta ad un rapidissimo moto rotatorio - avrebbe dovuto sfasciarsi, egli rispondeva che ciò dovrebbe accadere a maggior ragione per le sfere celesti le quali, avendo un raggio assai più lungo di quello della Terra, si muovono ovviamente con velocità maggiore. Malgrado l'esattezza di questa e altre risposte, è un fatto che l'ipotesi copernicana doveva apparire - nel Cinquecento - tutt'altro che esente da serie
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difficoltà di ordine scientifico. A quell'epoca infatti non erano ancora note le leggi della meccanica moderna, e si poteva quindi pensare che l'ipotesi della mobilità della Terra fosse incompatibile con parecchi fatti della vita quotidiana, come per esempio la caduta dei gravi secondo la verticale (saranno le scoperte di Galileo sulla dinamica, a togliere ogni base scientifica a questo tipo di difficoltà). Va inoltre osservato che Copernico non sapeva far altro che ricorrere a motivazioni teologiche, per rendere ragione del moto dei pianeti attorno al Sole e per giustificare la pretesa circolarità delle loro orbite. Ed infine, mentre da un lato invocava l'argomento della semplicità a favore della propria ipotesi, mostrava dall'altro di non saper spiegare perché mai la natura debba seguire proprio le vie più semplici anziché quelle più complesse. Più temibili, comunque, di tutte le difficoltà ora accennate, erano quelle connesse alle conseguenze filosofiche che l'ipotesi copernicana racchiudeva in sé. È chiaro, infatti, che essa veniva a privare l'uomo della posizione di privilegio, riconosciutagli dal pensiero tradizionale col collocarlo al centro dell'universo. Queste difficoltà, che saranno sollevate in modo concorde da cattolici e luterani, non assunsero però - nel Cinquecento - il tono esasperato che caratterizzerà l'anticopernicanismo del secolo successivo. È probabile che nemmeno Copernico abbia avuto di esse una chiara consapevolezza: toccherà ai filosofi della natura, che accoglieranno la teoria eliocentrica, porne in luce tutte le capitali conseguenze, e attrarre con ciò l'attenzione sul suo carattere profondamente rivoluzionario. 1 Il maggiore astronomo della generazione immediatamente posteriore a Copernico fu Tycho Brahe (1546-I6oi), che- vale la pena ricordarlo per caratterizzare l'epoca di cui ci stiamo occupando - scelse di dedicarsi alla disciplina alla quale avrebbe poi recato tanto lustro, muovendo proprio da interessi astrologici, e non abbandonò mai la sua preoccupazione per l'astrologia. Egli non accettò nella sua interezza il sistema copernicano, ma sostenne una teoria intermedia tra quella di Copernico e la concezione tradizionale. Da un lato, infatti, rimase fedele all'immobilità della Terra, dall'altro affermò che i pianeti ruoterebbero intorno al Sole, pensato come moventesi esso stesso attorno alla Terra. Era, nelle sue linee essenziali, l'antica teoria di Eraclide Pontico, arricchita soltanto di un più moderno apparato scientifico. Più che un teorico, Tycho Brahe fu, però, un grande osservatore. Riuscì infatti- pur senza avvalersi ancora del cannocchiale - a descrivere con mirabile precisione i movimenti della Luna e dei pianeti. Le tavole dei suoi dati di osservazione costituirono, qualche anno più tardi, un materiale preziosissimo per Keplero. I Malgrado le difficoltà testé accennate, la teoria di Copernico trovò non pochi sostenitori tra gli scienziati del xvi secolo. Ci limiteremo a ricordare i matematici inglesi Robert Recorde (m. I 55 8)
e Leonard Digges(morto verso il I 570). Quest'ultimo merita di venire menzionato anche come costruttore di ingegnosi strumenti astronomici, alcuni dei quali basati sulla combinazione di lenti.
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Johann Kepler nacque nel I 57 I a Weil nel Wiirttenberg. Dapprima studiò teologia, filosofia, matematica e astronomia a Tubinga. Qualche anno più tardi, nominato professore di matematica al ginnasio di Graz, abbandonò la teologia per dedicarsi interamente all'astronomia, nell'intento di conciliare il sistema copernicano con l'antica teoria degli spiriti planetari. Nel I 597 scrisse la sua prima opera, Mysterium cosmographicum, di evidente ispirazione pitagorica. A vendo la sottoposta al giudizio di Tycho Brahe, ne ottenne un parere abbastanza favorevole e riuscì in tal modo a cattivarsene l'amicizia. Allorché Tycho si stabilì a Praga, anche Keplero si trasferì in tale città e lavorò assiduamente con lui, ereditando poi il ricchissimo materiale d'osservazione che egli aveva raccolto. Trascorse gli ultimi anni della sua vita in mezzo alla sorda persecuzione del fanatismo protestante e cattolico esercitando la professione abbastanza remunerativa di astrologo; pubblicava, infatti, gli almanacchi astrologici allora in gran voga. Morì nel I63o. Pur staccandosi a poco a poco dall'animismo che aveva ispirato la sua prima opera, testé menzionata, Keplero mantenne per tutta la vita una concezione del mondo sostanzialmente improntata al pitagorismo e al neoplatonismo, nella quale sono chiare le tracce dell'influenza di Ficino. Considerò pertanto l'armonia come legge generale dell'universo, pensando che essa si esprima in rigorose proporzioni numeriche. Non si nascose la necessità di appoggiare la scienza ai dati sensoriali; cercò tuttavia di giustificare questa concessione all'empirismo, affermando che già le sensazioni contengono un fattore matematico, sia pure allo stato embrionale. Interpretò la matematica, non come scienza di concetti astratti, ma come studio di rapporti reali e delle configurazioni effettive degli oggetti. È nella celebre opera Astronomia nova, pubblicata nel I6o9, che egli formulò le prime due leggi intorno al moto dei pianeti, ancora oggi note col suo nome. Solo nel I6I9 pervenne alla formulazione della terza, nell'opera Harmonices mundi. Elaborò pure con notevole chiarezza, relativamente alla sua epoca, il concetto di forza e quello di massa, e definì arditamente la gravità come attrazione reciproca del grave da parte della Terra e della Terra da parte del grave. Prese in considerazione l'ipotesi (più tardi elevata da Newton a legge universale) che la forza di attrazione fra due masse sia inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza; ritenne però di doverla respingere. Fu pure competentissimo ottico e matematico geniale. Per quanto riguarda l'ottica, ricordiamo le sue due opere fondamentali: Ad Vitellionem paralipomena (Prolegomeni all'ottica di Witelo, I6o4), che l'autore presentò come un semplice ausilio all'astronomia, ma che in realtà era la prima trattazione veramente moderna dell'ottica geometrica, e la Dioptrica (I6I I) ove è esposta la teoria completa del cannocchiale. Per quanto riguarda la matematica, va segnalato l'interessantissimo scritto Nova stereometria doliorum (Nuova stereometria delle botti, I6I 5) ove è provata, con 88
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brillanti esempi, la possibilità e anzi l'utilità di applicare al calcolo delle aree e dei volumi metodi infinitesimali di carattere intuitivo. Ebbe frequenti rapporti epistolari con Galileo e mostrò sempre una grande stima per lui. Resistendo alle forti pressioni che da varie parti gli venivano fatte ad opera dei molti avversari del pisano, convalidò con la sua grande autorità in campo astronomico la scoperta, compiuta da Galileo, dei celebri pianeti medicei. Eppure fra le due personalità di Keplero e Galileo esisteva un profondo divario; diremmo quasi, una impossibilità di intendersi. Lo conferma, per esempio, il fatto che Galileo non fece mai ricorso - nelle sue molte speculazioni astronomiche - alle leggi di Keplero sui pianeti. Sarebbe inesatto spiegare questo divario, limitandosi a fare appello ad una, pur innegabile, gelosia di mestiere che essi potevano nutrire uno per l'altro. Tale divario aveva radici più profonde: era dovuto alla loro posizione filosofica nettamente diversa. Keplero, infatti, rimase per tutta la vita un neoplatonico (o, se vogliamo, un pitagorico); Galileo, invece, fu sensibile non solo alle istanze platoniche, ma pure a quelle aristoteliche, e riuscì a superare le une e le altre mediante una concezione filosofica radicalmente nuova. Se pertanto è giusto riconoscere a Keplero una genialità di scienziato senza dubbio eccezionale (per taluni lati anche superiore a quella di Galileo), è però doveroso prendere atto che, sotto alcuni aspetti, quest'ultimo realizza meglio del primo il tipo dello scienziato moderno. Per tale motivo Galileo occupa, nella storia del pensiero, una posizione in certo senso superiore a quella di Keplero. V
· MECCANICA
Già ricordammo alla fine del paragrafo n l'importanza che ebbe- per tutto il pensiero scientifico del rinascimento e dell'età moderna - il trasformarsi della meccanica in vera e propria scienza. Questo processo, che sarà concluso da Galileo, compì nel Cinquecento alcuni notevoli passi, soprattutto per l 'impulso fornito agli scienziati dai tecnici (con i loro ben precisi quesiti di stati ca e dinamica applicate). Le teorie del moto, dominanti in tale secolo, erano principalmente due: la vecchia teoria aristotelica e la teoria dell'impetus difesa dai «fisici parigini» del Trecento e poi fatta propria (sia pure con sostanziali rettifiche) da Leonardo da Vinci. La teoria aristotelica non poté reggere a lungo di fronte alle obiezioni dei tecnici, che ne avevano constatato più e più volte la non corrispondenza ai fatti. Ben più resistente si rivelò la teoria dell'impetus. I tre autori che diedero il più notevole contributo allo sviluppo della meccanica (statica e dinamica) nel Cinquecento sono: Nicolò Tartaglia, Giambattista Benedetti (r 530-1 590), e Simon Stevin (il primo e il terzo dei quali vennero già ricordati nel paragrafo rn). Le loro opere più rilevanti da questo punto di vista
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sono: per Tartaglia, La nova scientia (15 37) e i Quesiti et inventioni diverse (1546), ave sono trattati anche vari problemi di algebra; per Benedetti, il trattato Diversarum speculationum mathematicarum et physicarum liber (I 58 5); per Stevin, Gli elementi dell'arte del pesare ( 15 86, in lingua fiamminga). Mentre i contributi di quest'ultimo riguardano soprattutto la statica e l 'idrostatica (assai originale è per esempio la sua dimostrazione della legge di equilibrio di un corpo appoggiato a un piano inclinato), quelli di Tartaglia e di Benedetti concernono proprio la teoria del moto, e meritano quindi dal nostro punto di vista una maggiore attenzione. La nuova scienza, cui Tartaglia fa cenno nel titolo del primo dei suoi due scritti or ora citati, è la balistica, della quale viene unanimemente considerato il fondatore. Già la natura stessa di questa scienza - rivolta a studiare « scientificamente » un problema pratico come il moto dei proiettili - è enormemente significativa; come scrive molto bene Adriano Carugo, Tartaglia è il primo che sottopone« a una trattazione teorica, di carattere matematico-geometrico, un'" arte ",una tecnica, rimasta fino ad allora puramente empirica ». Sappiamo, da quanto più volte cercammo dÌ spiegare, quale importanza abbia poi avuto per lo sviluppo della scienza questo nuovo legame che per merito di Tartaglia essa viene ad assumere con la tecnica. Assai interessante è pure il metodo con cui il nostro autore conduce la trattazione, basato su una astrazione semplificatrice della realtà empirica, che - così idealizzata - si presta assai bene ad una elaborazione matematica. I concetti dinamici usati da Tartaglia sono ancora di tipo aristotelico; i risultati raggiunti contengono parecchi errori. Ma nella trattazione riscontriamo un fatto nuovo, assai importante: che il moto viene studiato nelle sue caratteristiche cinematiche, e non più - come accadeva in Aristotele- nella sua presunta natura metafisica. Questo mutamento (che verrà sviluppato nell'opera successiva) costituisce già un notevole passo verso la tipica trattazione del medesimo problema svolto qualche decennio più tardi da Galileo. Benedetti prosegue lo sforzo di matematizzazione iniziato da Tartaglia. Partendo dalla teoria dell'impettts egli compie una critica radicale della teoria aristotelica del moto, e dimostra l'infondatezza dell'argomento con cui Aristotele riteneva di provare l 'impossibilità di qualsiasi movimento nel vuoto. Affronta poi il problema della caduta dei gravi, giungendo ad alcuni risultati veramente notevolissimi (come per es. l'affermazione che, nel vuoto, due gravi di diverso peso ma costruiti col medesimo materiale devono cadere con un'identica accelerazione). Assai interessante è anche la sua scoperta di uno degli elementi costitutivi del principio d 'inerzia: la rettilineità del moto inerziale (questa tesi viene da lui espressa, com'è naturale, in termini della teoria dell'impetus). Tutto sta a dimostrare che siamo ormai alle soglie della meccanica galileiana; ma per giungere davvero ad essa, occorrerà abbandonare definitivamente i principi della teoria dell'impetus per sostituirli con principi non più filosofici ma soltanto matematici. È
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un passo di grande significato concettuale, che Benedetti non riesce a compiere, onde la sua trattazione, pur così ricca di risultati particolari senza dubbio validi, resta ancora - come è stato acutamente scritto - al di là della linea di demarcazione «che separa la scienza del rinascimento dalla scienza moderna». VI
· MEDICINA. ANATOMIA
Tra le discipline scientifiche, quella che fu in più stretto contatto con la magia e l'astrologia, è senza dubbio la medicina. Medico e mago fu, per esempio, Cardano, già ricordato nel paragrafo nr per i suoi importanti contributi all'algebra; medico e mago oltreché poeta fu l'italiano Gerolamo Fracastoro (1483-1533); medico e mago fu lo svizzero Philipp Theofrast von Hohenheim, latinizzato in Paracelsus (1493-1 541), valente studioso anche di mineralogia e di arti meccaniche. È interessante ricordare che Paracelso si proponeva di riformare la medicina proprio per mezzo della magia. Con ciò egli si rendeva interprete della grande esigenza innovatrice della scienza rinascimentale; a questo fine, però, indicava una via destinata a rivelarsi ben presto profondamente sterile. Data la corrispondenza fra macrocosmo e microcosmo, Paracelso sosteneva la necessità di indagare il primo per agire sul secondo; le forze magiche, che reggono il macrocosmo, sarebbero infatti - secondo lui - le più idonee ad agire anche sul microcosmo, domandone le infermità. Altro strumento indispensabile per la medicina era, a suo parere, l'alchimia, intesa come arte di scegliere e combinare le sostanze che meglio condensano in sé le virtù degli astri (sull'impulso da lui dato alla costruzione di una medicina a base chimica, ritorneremo nel prossimo paragrafo). Se oggi noi possiamo sorridere della base teorica di questa medicina, non abbiamo però diritto di dubitare - tante sono le testimonianze in merito della capacità dimostrata da Paracelso nel sedare e guarire varie infermità con i suoi strani medicamenti. Anche il filosofo Andrea Cesalpino, di cui abbiamo parlato nel capitolo IV, fu convinto della stretta connessione tra medicina e magia. Medico illustre, nonché autore di un trattato di medicina tra i più diffusi dell'epoca, non disdegnò di compiere egli stesso numerose pratiche di magia nelle quali nutriva la massima fiducia. In Andrea Cesalpino noi troviamo però, come già ricordammo nell'anzidetto capitolo IV, accanto alle credenze medico-magiche ora accennate, anche un fortissimo spirito di osservazione che egli aveva appreso dalle famose scuole anatomiche di Padova e Bologna, su cui ritorneremo fra breve. Per comprendere l'ansia di rinnovamento dei medici-maghi testé citati, bisogna ricordare che la medicina ufficiale, imperante nelle università europee dell'epoca, era ancora quella di Galeno, il quale costituiva nel suo campo una auctoritas altrettanto indiscutibile quanto Aristotele nelle facoltà filosofiche (di
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qui l'interesse di uno studio diretto dei suoi trattati, pari all'interesse dello studio diretto alle opere aristoteliche). A rendere la concezione galenica più rispondente ai gusti culturali del secolo aveva, d'altra parte, magistralmente provveduto il francese Jean Fernel (I497-I 55 8), chiamato dai suoi ammiratori «il Galeno di Francia », fondendo il galenismo con motivi neoplatonici e con dottrine astrologiche. Che cosa è che gli innovatori rimproveravano a Galeno? La sua teoria troppo rigida e sistematica dell'organismo (di essa abbiamo fatto cenno nel capitolo XIX della sezione I), fondata sulla distinzione gerarchica dei tre famosi « spiriti » (naturale, vitale e animale): teoria così perfetta ed esauriente che sembrava rendere inutili ulteriori ricerche. Questa accusa di immobilismo era certo tutt'altro· che priva di fondamento; è un fatto, però, che le vedute contrapposte a Galeno dai medici-maghi come Paracelso erano troppo generiche per poter offrire una vera e seria alternativa al galenismo. La strada che doveva condurre (nel Seicento) alla sconfitta scientifica di esso fu aperta da ricercatori di tutt'altro orientamento, voglio dire dai maestri delle scuole anatomiche di Padova e di Bologna. Essa si basava in ultima istanza sul principio che, per rinnovare la scienza medica, occorre rivolgere le nostre indagini non al macrocosmo, bensì al microcosmo (cioè all'uomo, o meglio al corpo umano) per stabilire innanzi tutto con esattezza l'anatomia dei suoi organi. È interessante notare che gli anatomisti di Padova e di Bologna erano ancora fedeli, in fisiologia, al sistema galenico; modificando ne radicalmente la base anatomica, essi ne preparavano però la prossima definitiva sconfitta. Il fatto nuovo, nel loro modo di procedere, è che, per descrivere l'anatomia umana, non fanno più appello ai testi galenici, bensì alla sola osservazione. Con questo metodo, in cui possiamo riscontrare il medesimo spirito che aveva animato Leonardo, essi riescono in breve tempo a ottenere notevolissimi risultati, correggono errori degli antichi, integrano e precisano numerose teorie consacrate dalla tradizione. In un primo tempo vi può essere chi nutre dubbi, se per rinnovare la medicina siano più utili questi studi sul microcosmo o le dissertazioni di Paracelso sul macrocosmo: man mano, però, che gli studi del microcosmo riescono effettivamente a perfezionare le conoscenze anatomiche, e le nozioni così raggiunte riescono a suggerire alla medicina nuovi metodi di cura, le incertezze scompaiono e la vera strada si impone. Non è, insomma, un complesso di considerazioni teoriche a distinguere il metodo giusto da quello sbagliato; è il successo dell'uno e l'insuccesso dell'altro che finiscono per eliminare ogni prevenzione. La scuola di anatomia di Padova, che fu senz'altro la più gloriosa delle scuole anatomiche dell'epoca, può considerarsi fondata dal belga André Vésale (Vesalio, I 514-1564) che, dopo aver studiato medicina a Parigi, si trasferì a Padova nel I 53 7, attrattovi dalla libertà di cui godeva questo famoso ateneo. Reso ce-
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lebre dalle dissezioni di cadaveri che sapeva eseguire con eccezionale maestria, tenne pubbliche lezioni a Padova, a Bologna, a Pisa, riscuotendo ovunque successi ma anche creandosi parecchi nemici per le critiche sollevate contro l'anatomia di Galeno. A trent'anni interruppe la carriera di professore essendo stato nominato medico personale d eli' imperatore Carlo v (che dovette seguire nei suoi vari spostamenti attraverso l'Europa). La sua opera più famosa è il trattato De humani corporis fabrica (pubblicato nel I 543), ricco di splendide tavole disegnate da un allievo di Tiziano. Attenendosi alla più scrupolosa osservazione, Vesalio rettifica numerosi errori tramandati dalle scuole medievali (dimostra, fra l'altro, che il setto interventricolare del cuore non è traversato da minutissimi pori, come aveva sostenuto Galeno). Ma ciò che più conta non sono le sue scoperte, be1;1sì l'entusiasmo e l'acume con cui Vesalio difende il proprio metodo, basato sull'esperienza e non sull'autorità di Galeno o di altri. Quando egli lascia l'università di Padova, la sua cattedra viene coperta da Realdo Colombo ( 15 20- I 559) che eseguì notevoli ricerche sul movimento del sangue, giungendo a scoprirne la piccola circolazione (descritta anche - come sappiamo - da Cesalpino). 1 A Colombo succede - nella cattedra di anatomia di Padova- Gabriele Falloppio (I523-I562), celebre per le sue ricerche sul sistema urogenitale; ed a Falloppio succede un altro valente anatomista, Girolamo Fab:dci d'Acquapendente, le cui lezioni vennero seguite da William Harvey, lo scopritore della circolazione del sangue, del quale parleremo nella sezione IV. Fra i maestri di anatomia dell'università di Bologna, ci limitiamo a ricor,. dare Giulio Cesare Aranzi (I no-q 89) e Costanzo Verolio (I 543-I 575)· All'incirca contemporaneo ad essi fu Bartolomeo Eustachi (nato fra il I 500 e il I 5Io, morto nel I 575), professore a Roma. Egli è celebre per la scoperta delle tube che vanno dall'orecchio alla retrobocca, e che ancor oggi portano il suo nome. VII
· FISICA E ALTRE SCIENZE
Anche nella fisica (intesa come non includente in sé la meccanica), e così pure nella chimica, nella botanica, ecc., il rinato interesse per la natura fece sorgere vivaci fermenti di ricerca, senza dubbio assai significativi, sebbene meno profondamente innovatori e meno ricchi di conseguenze generali di quelli, delineati nei paragrafi precedenti, concernenti l'astronomia, la meccanica e la medicina. Il minor rilievo di queste innovazioni per la storia del pensiero filosofico-scientiI Prima che da Colombo e da Cesalpino, la piccola circolazione era stata scoperta da Michele Serveto (I 509-I 55 3), celebre medico spagnolo che fu condannato al rogo da Calvino. Serveto
però vi era giunto partendo da considerazioni di tutt'altro genere (era stata in fondo la sua posizione antitrinitaria a fargli respingere i « tre spiriti» di Galeno).
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fico ci autorizza ad essere ancora più schematici di quanto siamo stati finora, !imitandoci a ricordare qualche opera o qualche personalità particolarmente rappresentativa delle trasformazioni in atto nella cultura del xvr secolo. Una figura di scienziato-mago, che non può fare a meno di attirare la nostra attenzione, è quella di Giambattista della Porta (r 54o-r6r 5), autore di una famosa Magia naturale (prima edizione in quattro libri 1 558, seconda edizione in venti libri 15 89). In quest'opera egli intende trattare, come dice il titolo stesso, la « magia naturale » basata sullo studio diretto dei fenomeni, e non quella « infame » basata sul commercio con gli spiriti immondi. Per verità anche il primo tipo di magia conteneva non poche stranezze, ingenuità e fantasticherie; eppure si deve riconoscere che accanto ad esse vi erano (specialmente nella seconda edizione dell' opera di Della Porta) alcune osservazioni assai interessanti, alcune intuizioni di autentico valore scientifico. Vi si parla di mille argomenti: dal magnetismo all'ottica, dai prodotti di bellezza agli afrodisiaci. Sono di particolare interesse le pagine dedicate agli strumenti ottici, nelle quali Della Porta descrive la camera oscura, vari tipi di specchi e di lenti, prendendo anche in considerazione la possibilità di combinare più lenti fra loro (così egli potrà sostenere di aver inventato - non però costruito - il cannocchiale astronomico molti anni prima di Galileo). Il libro settimo della Magia, rivolto ai fenomeni magnetici, sviluppa l'argomento con un certo ordine e una certa sistematicità, onde qualcuno è giunto a vedervi il primo « trattato » italiano sul magnetismo. Anche volendo condividere questa tesi, dobbiamo però riconoscere che un semplice raffronto tra le pagine del nostro autore sull'ottica e le opere dedicate pochi anni più tardi a questa scienza da Keplero (delle quali abbiamo fatto parola nel paragrafo rv), o un raffronto tra le sue pagine (testé accennate) intorno al magnetismo e l'opera De magnete pubblicata nel r6oo dall'inglese William Gilbert (154o-r6o3), ci dimostra quale sia la profonda differenza che corre tra la magia (sia pure «naturale») e l'autentica fisica (sia pure del xvr-xvn secolo). Quanto a Gilbert, ci limiteremo a notare che egli fu un valente sperimentatore, capace di procedere nelle sue ricerche con vero e proprio metodo induttivo. Nell'opera testé citata egli studia le proprietà magnetiche e quelle elettriche dei minerali, raccogliendo e rielaborando criticamente tutto ciò che si sapeva in passato sui due argomenti, eseguendo egli stesso nuove osservazioni, introducendo nuove concezioni di notevole portata scientifica e filosofica (interessantissimo è il paragone che egli stabilisce tra le calamite esaminate in laboratorio e la « gran calamita» costituita dalla Terra). A titolo di curiosità si può menzionare che fu proprio Gilbert a coniare il termine « elettricità » dal greco électron che significa ombra. Il De magnete diede pure un valido contributo alla elaborazione del concetto di massa, introdotto dall'autore nella descrizione dei fenomeni magnetici. Egli lo inserisce tuttavia in generalissime speculazioni filosofico-cosmologiche di 94 www.scribd.com/Baruhk
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impronta neoplatonica, di cui non possiamo trovare una spiegazione se non inquadrandole nella mentalità dell'epoca. L'opera di Gilbert fu ampiamente studiata e apprezzata da Keplero, Bacone e Galileo. È tuttavia significativo che Bacone, pur elogiando Gilbert per le sue osservazioni sull'ago calamitato, non mostri per lui un'eccessiva simpatia a causa, per l'appunto, delle anzidette speculazioni cosmologiche. Passando dalla fisica alla chimica occorre premettere che questa rimase, assai più a lungo di quella, in uno stato prescientifico. Basti segnalare che il maggior «teorico» della chimica durante l 'epoca rinascimentale fu il mago Paracelso, del quale abbiamo già fatto parola nel paragrafo VI. Le sue idee su questa disciplina sono estremamente fantasiose, e più vicine all'alchimia che non alla chimica moderna. Egli fu tuttavia un autentico innovatore. Paracelso ritiene che ogni sostanza racchiuda in sé un principio essenziale, che però è spesso mascherato dalla presenza di materie estranee. Si tratta dunque di eliminare queste materie per enucleare l'essenza (o meglio « quintessenza ») di ogni sostanza: tale è appunto il compito del chimico, che all'uopo si servirà di tutti gli strumenti della vecchia alchimia, di volta in volta perfezionati sulla base di attentissime osservazioni dell'esperienza. Alla teoria della quintessenza, Paracelso collegava anche la spiegazione della genesi delle malattie, e l'indicazione di metodi curativi basati appunto su preparati chimici. Con ciò egli diede inizio alla iatrochimica che troverà per oltre un secolo accesi sostenitori. Malgrado il carattere tutt'altro che scientifico dei medicamenti applicati, non si può negare - come già osservammo nel paragrafo VI che in taluni casi questi ottenevano un relativo successo. Più legata all'esperienza, e più controllata nei metodi, fu quella parte della chimica che potremmo chiamare « chimica tecnica ». Basti ricordare l 'importante trattato De la pyrotechnia dell'italiano Vannoccio Biringuccio (1480-1539?) e quello De re metallica del tedesco Georg Bauer, detto Agricola (1499-1 55 5). Il primo fornisce ampie notizie sulle miniere e sull'arte mineraria; sulla preparazione dei metalli e delle leghe metalliche; sulla costruzione e sull'uso delle armi. Le molte edizioni, che se ne fecero in pochi decenni, dimostrano il grande successo dell'opera. Anche lo scritto di Agricola tratta dell'arte mineraria e metallurgica, rivelando che l'autore ne possedeva una conoscenza sicura e diretta (infatti aveva lavorato a lungo come medico nelle miniere di Boemia). Esso verrà letto da Francesco Bacone ed eserciterà su di lui una profonda influenza. Le opere di Biringuccio e di Agricola sono assai importanti anche per la storia della tecnica; perciò ritorneremo brevemente su di esse nel paragrafo VIII. Passando infine dalla chimica alle cosiddette scienze naturali, ci limiteremo a ricordare la generale rinascita degli studi di botanica e di zoologia, senza dubbio sollecitata dalle singolari notizie portate in Europa dagli esploratori, su nuovi tipi di piante e di animali che vivevano nelle terre recentemente scoperte. La
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fondazione dei primi orti botanici presso varie università testimonia l'accresciuto interesse per l'argomento. Fra i cultori di botanica meritano una particolare menzione: l'italiano Andrea Cesalpino, di cui già parlammo nel capitolo IV, il tedesco Leonhart Fuchs (I 50 I-I 566), autore di un grosso volume dal titolo De historia stirpium commentarii insignes, che può venir considerato una delle migliori opere dei primordi della botanica, e il francese Jacques Daleschamps (Ip3-1588) nella cui opera Plantarum seu stirpium historia si trovano i primi tentativi di una classificazione delle piante che si discosta da quella tradizionale. Fra i cultori di zoologia ricorderemo: i francesi Pierre Belon (rp7-1564), autore di numerose opere sui pesci e sugli uccelli, e Guillaume Rondelet (I 5o7I 566), egli pure studioso di pesci e altri animali acquatici; e gli italiani Ippolito Galviani (1 514-1 572), autore di una notevole opera, Aquati/ium animalium historia, e Ulisse Aldrovandi (I 522-I6o5), professore a Bologna e fondatore di quell'orto botanico, autore di un'opera enciclopedica sugli animali in dodici volumi. VIII
· LA TECNICA
Le opere di Biringuccio e di Agricola, delle quali abbiamo fatto cenno nel paragrafo precedente, pur costituendo due documenti assai importanti per la storia della chimica, rientrano a rigore più nella storia della tecnica che in quella della scienza. Esse infatti non si soffermano soltanto ad esaminare le proprietà chimiche dei metalli, delle leghe metalliche, ecc., ma dedicano ampio spazio anche alla descrizione del macchinario usato nelle miniere, al suo funzionamento, ai suoi difetti; al modo di correggerli, cioè a problemi di carattere prettamente ingegneresco. Né esse sono le sole opere del! 'epoca dedicate a questo tipo di argomenti (anche se sono fra le meglio riuscite); al contrario, si inseriscono in una trattatistica scientifico-tecnica che vede gradualmente accrescersi il numero dei collaboratori e soprattutto dei lettori. Ricordiamo per esempio il Thédtre des instruments mathématiques et mécaniques (Teatro degli strumenti matematici e meccanici, I 579) di Jacques Besson, Le diverse e artificiose macchine (1588) di Agostino Piancelli, il Novo theatro di machine et ediftcii (r6o7) di Vittorio Zonca. . In molti di questi trattati (anche di autori non italiani) riappaiono disegni di macchine già abbozzati da Leonardo, eventualmente precisati e ritoccati per renderli di più facile costruzione. Ciò dimostra per un lato che gli appunti del grande scienziato-pittore dovevano effettivamente circolare in larghi strati, per l'altro che la sua ingegnosità era da tutti riconosciuta e apprezzata. A questo proposito va menzionato che, proprio sotto l 'influenza di Leonardo, si formò, nell'ambito degli studi tecnici, una vera e propria «scuola italiana» che riuscì a fornire i migliori e più ricercati ingegneri dell'epoca. Ciò che caratterizza il trapasso dalla fase quattrocentesca a quella cinque-
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centesca delle ricerche tecniche è che, in generale, i ritrovati conseguiti da tali ricerche non vengono più custoditi segretamente dalle singole aziende industriali, ma diventano argomento di trattati, cioè vanno a costituire e via via arricchire un patrimonio di nozioni, comune a tutta la società. Così ha origine una vera e propria cultura di tipo nuovo, non più filosofico o scientifico, ma espressamente tecnica o meglio tecnologica. Non è il caso di sottolineare che ciò accresce, insieme con la diffusione, anche il prestigio della tecnica. Non è questa la sede per elencare i singoli progressi delle varie tecniche. Ci limiteremo a ricordare che essi investono tutti i rami dell'attività umana e incidono sempre più profondamente sull'organizzazione stessa del vivere civile. Importantissimi furono, ad esempio, i progressi compiuti nel campo delle pompe; dapprima esse vennero ideate per agevolare lo sfruttamento delle miniere, ma col trascorrere del tempo furono largamente usate per rendere più efficienti gli acquedotti e quindi migliorare l'approvvigionamento idrico delle città. Come spiega molto bene Umberto Forti, gli impianti a tal fine costruiti a Toledo, Brema, Londra, Gloucester «furono guardati con ammirazione dai contemporanei, specie dai viaggiatori stranieri, quali meraviglie della nuova tecnologia ». Uno dei campi ove le innovazioni della tecnica fecero sentire più prontamente la loro influenza fu, com'è ovvio, quello dell'arte bellica. Per quanto riguarda la guerra terrestre il fatto più significativo è l'accresciuta potenza delle artiglierie (è proprio essa a sollecitare la nascita della balistica, di cui parlammo nel paragrafo v), che ben presto richiese, come conseguenza, la trasformazione delle opere di difesa. Per quanto riguarda la guerra sul mare, il più importante progresso riguarda la sostituzione di navi a vela in luogo delle vecchie galee: navi di grandi dimensioni che possono venire armate di cannoni via via più numerosi e pot.::nti; sulla fine del Cinquecento la presenza di questi cannoni assumerà un valore decisivo per l'esito delle battaglie. Anche le varie industrie di pace cercano di applicare gli ultimi ritrovati della tecnologia per accrescere la loro produttività e battere la concorrenza. Già abbiamo fatto cenno alla importanza, per lo sfruttamento delle miniere, dell'uso di pompe ognor più perfette. Altrettanto dicasi per le industrie tessili, ove l'introduzione di un nuovo tipo di telaio può raddoppiare la produzione diminuendo i costi. L'aumento delle dimensioni, e quindi della stazza, delle navi da trasporto facilita, e quindi incrementa, il commercio. Un'invenzione destinata a grandi sviluppi fu la sostituzione, negli orologi, della molla al peso. Essa fu realizzata per la prima volta a Norimberga (all'inizio del Cinquecento); e poiché i nuovi tipi di orologi avevano la forma di sfere un po' allungate, si applicò loro il nome di «uova di Norimberga ». I progressi conseguiti nell'arte del vetro portarono a un miglioramento delle lenti, il che renderà possibile (nei primi anni del Seicento) la costruzione di cannocchiali e microscopi, che rivoluzioneranno la ricerca scientifica. Ma tali pro-
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gressi ebbero anche notevoli conseguenze per l'organizzazione della casa, in quanto resero possibili notevoli miglioramenti nella chiusura delle finestre. Si tratta di innovazioni ora piccole ora grandi, che concorrono tutte insieme a trasformare le condizioni di vita, sia pur solo per una parte della popolazione. Esse diffondono la sensazione che il mondo stia rapidamente mutando; e cioè l 'uomo stia sul serio avviandosi verso una nuova era. A ben riflettere sul corso reale della storia, il rinnovarsi della tecnica è uno dei fattori determinanti per il risveglio generale della società rinascimentale; non l 'unico, senza dubbio, ma pur sempre un fattore di enorme rilievo. Che cosa sarebbe stato, senza di esso, il puro rinascimento filosofico-letterario? Tutti sono disposti oggi a riconoscere il peso decisivo della tecnica entro la nostra epoca; sembra tuttavia necessario tener conto di essa (delle sue trasformazioni e innovazioni) anche per comprendere le grandi tappe attraverso cui si giunse al mondo contemporaneo.
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CAPITOLO SETTIMO
L'arricchimento della !ematica filosofica
I
· LA NUOVA STORIOGRAFIA E LA SCIENZA DELLA POLITICA
Come sappiamo, la civiltà occidentale è scossa, nel Cinquecento, da profondi sommovimenti che investono la vita economico-politica, l'organizzazione della comunità religiosa, il mondo delle arti, delle scienze e delle tecniche. Non c'è quindi da rimanere sorpresi se nuovi problemi - direttamente o indirettamente filosofici - si affacciano all'orizzonte, dando luogo ad appassionati dibattiti e a nuovi indirizzi. Noi ci limiteremo ad un semplice sguardo panoramico su tale composito e variamente articolato processo di ampliamento della tematica culturale; non ci è infatti possibile addentrarci in un esame analitico dei singoli elementi che lo compongono, poiché questo ci porterebbe troppo lontano dal problema specifico su cui abbiamo accentrato la nostra indagine. Del fervore di appassionate discussioni e di vivace operosità che infiammò gli animi degli uomini del rinascimento è specchio fedele la storiografia. Abbandonata l'idea che in tutte le vicende umane vi sia un intervento provvidenziale, come pensavano gli uomini del medioevo, per gli uomini del rinascimento fare della storia significa ripercorrere le azioni umane cercando di coglierne il senso e di ritrovarne l'insegnamento nascosto. È merito degli storici di quest'età l'aver sostituito alla credenza dell'intervento provvidenziale divino l'acuta analisi dei caratteri e degli interessi degli individui, sicché essi possono a buon diritto essere considerati i più precisi interpreti della nuova mentalità e della nuova concezione della vita e del mondo. Un altro carattere dominante della storiografia dell'epoca, in stretta connessione con la tendenza generale del tempo, è la vicinanza dello storico ai fatti e alle azioni che deve esporre e giudicare: infatti, per la maggior parte, coloro che si accinsero a scrivere opere di storia, furono uomini politici, ambasciatori, cancellieri, governatori e capi di città e di corporazioni, i quali narrano le vicende cui presero parte, allo scopo di definire, con la propria posizione personale, quella dei diversi personaggi e dei gruppi politici. Questo tipo di storiografia fu definito « prammatistico », per la sua tendenza a spiegare le azioni storiche attraverso le vicende dei diversi individui che ne furono autori, senza collegare in modo profondo le persone con i fatti. Sono evi99
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denti i limiti di questo genere di storiografia; mancando la possibilità di unificare il complesso degli avvenimenti, non si poteva esprimere un fondato giudizio storico e, più che di storie, si può parlare, in molti casi, di « memorie e ricordi»; inoltre, l'intenzione di narrare i fatti passati allo scopo di trarne un insegnamento per le azioni presenti viziava la serenità dell'autore. Tuttavia anche attraverso questi difetti e questi limiti, forse inevitabili, si aspirava al raggiungimento della consapevolezza critica di sé e del passato: lo stesso intento dell'imitazione e il concetto della storia come magistra vitae non miravano ad una piatta e meccanica riproduzione degli avvenimenti, ma alla libera costruzione del futuro. Se con questi intenti si rileggono le opere storiche di Machiavelli, di Guicciardini, di Leonardo Bruni, di Poggio Bracciolini, sentiremo ancora oggi la loro vivacità e ne comprenderemo l'importanza. Fra questi autori occupa una posizione del tutto particolare Nicolò Machiavelli (I467-15z7), le cui indagini oltrepassano di molto i limiti della semplice storiografia per impegnarsi in considerazioni di carattere filosofico, che aprono la via a una nuova scienza: la scienza della politica. Come già accennammo nel capitolo rv, negli scritti di Machiavelli sono rintracciabili parecchie concordanze con l'aristotelismo eterodosso, non soltanto per il modo di considerare la religione, ma più in generale per il modo di impostare l'indagine intorno al mondo sotto l'aspetto della naturalità (quello studiato da Machiavelli è, come noto, il mondo umano). Non intendiamo negare, con ciò, che siano presenti in Machiavelli anche altre ben diverse influenze; è certo, tuttavia, che il collegarlo al modo di filosofare del suo contemporaneo Pomponazzi può essere utile a chiarire taluni lati particolarmente caratteristici del suo pensiero. Se è vero che Machiavelli porta alle estreme conseguenze la valorizzazione umanistica dell'intelligenza, vero è però che egli non la vuole unicamente diretta a cogliere i principi universali dell'essere, bensì ad osservare e comprendere i fatti concreti. In altri termini: di essa si serve per indagare la natura umana, non solo nella sua generalità, ma proprio nella sua realtà integrale, mista di energia e di debolezza. È per l'appunto questa integralità che gli sta a cuore; è per riuscire a sviscerarne tutti i fattori, a illuminarla con la ragione, che egli costruisce una rigorosa scienza politica, consapevolmente realistica, capace di penetrare in ciò che vi è di più autentico nella storia e nella politica, senza veli religiosi né veli morali. Se il ricorso costante e intransigente di Machiavelli alla spiegazione razionale presenta, come abbiamo detto, delle indubbie analogie con l 'impostazione razionalistica dell'indagine filosofica propria degli aristotelici eterodossi, molto più matura però è, rispetto alla loro, la sua metodologia scientifica. Il metodo, infatti, che egli segue per la costruzione della scienza politica non è ostacolato da schemi a priori di alcun genere, ma unicamente basato sull'osservazione dei fatti nella loro concreta realtà (e perciò può dirsi, a ragione, antintellettualistico). 100
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L'essenziale è, per lui, non già riuscire a inserire i fatti in forme logiche predeterminate, ma penetrare il fondo di essi, ricavandone le leggi che regolano la vita della collettività. Chi avrà saputo cogliere, con questo metodo, le autentiche differenze che corrono fra stato bene ordinato e stato corrotto, conoscerà « scientificamente » in che cosa consiste la virtù politica. Il razionalismo di Machiavelli ha, inoltre, questa caratteristica: di non essere puramente contemplativo, ma rivolto all'azione per instaurare praticamente il nostro dominio sulla realtà conosciuta. L'idea direttrice che guida tutta la sua indagine è la ferma convinzione che l'intelligenza possa forzare la natura, anche quella umana, dirigendo gli eventi verso fini da noi stessi predeterminati. Personalmente, egli si propone il fine di creare in Italia una forte compagine statale. Il mezzo indispensabile a questo scopo è l'esame obiettivo dei principi dello stato; l'analisi spietata dei fattori su cui esso si regge (inclusa la violenza, necessaria per fondare i principati) e la conoscenza, razionalmente attuata, della sfera dell'utile entro cui operano (ed entro cui vanno giudicate) le istituzioni politiche. A tal proposito è bene osservare che le crudeltà, di cui Machiavelli fa spesso parola nel Principe, non vengono affatto da lui presentate - come potrebbe sembrare a prima vista - quali « valori » umani, bensì quali realtà che fanno parte della vita politica e delle quali pertanto occorre tener conto. La tesi di Machiavelli non mira a difendere siffatte crudeltà, ma a dimostrare che anch'esse possono venire razionalizzate mediante un rigoroso utilitarismo, e, di conseguenza, dominate dalla ragione umana. In altre parole: sotto il freddo realismo si nasconde in Machiavelli la fervente passione di spiegare ai suoi connazionali la struttura di uno stato perfettamente efficiente e di indicare la via per giungere anche in Italia alla formazione di una di quelle monarchie nazionali che unificarono sotto un unico stato le nazioni di Francia e di Spagna e la cui assenza in Italia era ritenuta, a ragione, da Machiavelli la causa delle sventure della nostra terra. Le sue stesse opere vanno considerate, più che come una riflessione su questi problemi politici, come un diretto e personale contributo del loro autore alla soluzione concreta di essi; quindi, più che come opera storiografica, il Principe, i Discorsi, le /storie fiorentine e gli altri scritti vanno considerati come veri e propri atti storici. Ciò spiega quindi il carattere prammatistico di esse e alcuni evidenti loro limiti. Uno degli aspetti più tipici di queste opere è la trasformazione che in esse subisce il concetto di « virtù » e, parallelamente, quello di « fortuna ». In tutto l'umanesimo, col termine «virtù» si intende umanità, operosità, attività saggia e prudente, non aliena dal calcolo sottile dell'utile, abilmente inserita nel gioco delle forze mondane. Virtù significava cioè l'agire dell'uomo, visto in tutta la pienezza del suo valore etico e politico e in tutta la sua autonomia: e~a un significato analogo a quello classico, quando si riteneva « virtuoso » l 'uomo intrepido, valoroso, coraggioso, quando potevano considerarsi virtuosi sia Achille 101
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che Ettore. Per Machlavelli, questo significato è troppo ristretto: nel termine «virtù» deve venir compresa secondo lui anche l'azione scellerata, l'astuzia della volpe e la violenza del leone purché intelligentemente rivolte al raggiungimento del fine perseguito. Da questo punto di vista anche Cesare Borgia può venire considerato virtuoso. Quando però si intende prendere in considerazione anche il problema del successo - e non si può fare a meno di tenere conto di esso - allora interviene, accanto al concetto di «virtù», quello di «fortuna». Per gli umanisti (ad esempio per Leon Battista Alberti) la virtù non è in alcun modo limitata od ostacolata dalla fortuna: essa mantiene intatto il suo carattere di virtù anche se è sfortunata; l'uomo sfortunato ma virtuoso finisce sempre per trionfare, almeno per l'esempio altamente educativo che riesce a dare col proprio sacrificio. Agli occhi di Machlavelli questa rassegnazione stoica è inaccettabile. E poiché la realtà degli eventi storici - così come l'esperienza ce li presenta - dimostra incontestabilmente che la virtù non è sempre fortunata, bisognerà concluderne, con assoluta obiettività scientifica, che accanto alla « virtù » esiste anche la « fortuna » e che questo secondo concetto è irriducibile al primo. In altri termini: la nostra ragione deve tenere seriamente conto dell'esperienza, deve cioè prendere atto che al « virtuoso » sfugge talvolta una parte della fortuna, e cioè sfugge il controllo sul nesso effettivo delle diverse circostanze e delle diverse azioni umane, onde il risultato finale, mentre per una parte dipende certamente dalla destrezza dell'uomo «virtuoso», per un'altra parte viene a dipendere, in ultima analisi, dal caso. Poiché - secondo Machlavelli - le cose stanno incontestabilmente così, l'autentico scienziato dovrà attribuire lo sviluppo e il corso delle vicende storiche per metà alla fortuna e per l'altra metà alla prudenza umana; pur cadendo l'accento sulla prudenza, non si riesce ad eliminare la forza dell'altra, della fortuna, che resta misteriosamente inaccessibile e inesplicabile. Questo pensiero di Machiavelli è segno evidente di una mutata situazione spirituale, di un diverso convincimento sulle capacità dell'uomo, la cui causa è da ricercare negli stessi avvenimenti politici in cui l 'Italia si trovò coinvolta verso la fine del xv secolo e che portarono, con l'affermazione politica delle signorie, alla riduzione e anche alla soppressione delle libertà cittadine. Per questo, mentre il primo umanesimo fu tutta una esaltazione della vita civile, la fine del Quattrocento è determinata da una forte tendenza ad evadere dagli impegni mondani, a rifugiarsi nella riflessione e nella contemplazione. Così, mentre nasceva l'epoca del platonismo.ascetico e misticheggiante, che si incentrò soprattutto nell'accademia fiorentina, si spegneva l'ideale di quella libertà civile e morale che aveva animato il primo umanesimo. Analogo realismo e cioè analoga aderenza ai fatti empirici si ritrova pure in Francesco Guicciardini (148z-1 540), non unita, però, ad una pari capacità di elaborare razionalmente i fatti, né tanto meno ad una pari passione politico-nazioIOZ
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nale. In lui ha il sopravvento il punto di vista del « particulare », cioè dell 'interesse personale, inquadrato in una visione essenzialmente pessimistica. Il suo ideale umano infatti è quello di un uomo che è riuscito a dominare ogni impulso di generosità e a controllarsi in nome della più oculata prudenza e del più sottile calcolo dell'utile suo, un uomo cioè dominato soltanto dalla preoccupazione di emergere sempre in ogni situazione della vita. Questo è per Guicciardini il savio. Anche attraverso questo schema della vita pratica e mentale dell'uomo, Guicciardini mette in evidenza la capacità della intelligenza umana di agire efficacemente sul mondo, purché ci si affidi alla guida della prudenza e ad una rigorosa osservazione dei fatti. La nostra breve esposizione del pensiero di Machiavelli può essere sufficiente, pur nella sua schematicità, a porre in luce il carattere schiettamente razionale, modernamente scientifico e proprio perciò non intellettualistico, delle sue indagini intorno alla politica. Da quel momento in poi la scienza della politica troverà molti cultori, e diventerà una delle discipline più caratteristiche dell'epoca moderna. Limitandoci qui al Cinquecento, basterà ricordare il nome del francese Jean Bodio (I 530-I 597), autore di un importante trattato, ]..,a République, pubblicato nel I 576 in francese e dieci anni più tardi in latino. Bodio, il quale si colloca sulla via aperta da Machiavelli, è un deciso sostenitore della potenza assoluta che deve spettare allo stato, affinché esso possa compiere la sua funzione essenziale nella storia. La sovranità dello stato non conosce limiti, tranne quelli che provengono dalla legge di dio o della natu.ra."l cittadini sono tenuti ad obbedire al potere sovrano, che è inalienabile e perpetuo; non possono tentare di limi tarlo perché ogni tentativo del genere comprometterebbe la stessa esistenza dello stato. Non è il caso di sottolineare il profondo significato che aveva una difesa siffatta del potere sovrano, proprio nel momento in cui la compagine dello stato francese era gravemente minacciata dalle lotte religiose, e mentre la controriforma pretendeva di subordinare tutti gli stati cattolici alla direzione suprema della chiesa. Sintomatico è il fatto che, all'incirca nei medesimi anni, l'italiano Giovanni Botero (1544-I6I7), il cui pensiero si muoveva nell'orbita della controriforma, prendesse invece netta posizione contro Machiavelli. La sua opera fondamentale, La ragion di stato (I 589), presenta tuttavia un notevole interesse, per le acute indagini che svolge Sl,l problemi particolari economico-politici. La concretezza di tali indagini conduce non di rado il nostro autore a ricuperare, suo malgrado, parecchi temi caratteristici del pensiero di Machiavelli. II
· SVILUPPI DELL 'UMANESIMO
Abbiamo visto nei capitoli precedenti che il grande tema umanistico del « ritorno ai classici » esercitò una profonda e duratura influenza su tutta la cultura dell'epoca rinascimentale: sul pensiero _filosofico come su quello scientifico, sul
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movimento della riforma come. su quello della controriforma. Ora però vogliamo aggiungere qualche breve parola su quei particolari autori del Cinquecento che si inseriscono più direttamente nel filone umanistico in quanto attingono da esso, non solo il più sincero culto della classicità, ma anche talune caratteristiche impostazioni filosofiche come il netto rifiuto della logica aristotelico-medievale. Inizieremo la nostra rapida rassegna dai paesi d'oltr'alpe, per concluderla con i continuatori dell 'umanesimo in Italia. Cominciando dalla Francia, ci limiteremo a ricordare Charles Bouillé (Bovillus, 1470-15 53), autore di vari scritti tra cui particolarmente significativo il De sapiente, e Pierre de la Ramée (Ramus, 15 q-1 572) il cui scritto più famoso porta il titolo lnstitutionum dialecticarum libri tres. Al movimento umanistico francese si ricollegano pure Rabelais e Montaigne, ai quali però - data la loro particolare importanza - dedicheremo due speciali paragrafi. Richiamandosi a ben noti temi neoplatonici, Bovillo attribuisce all'uomo la funzione di mediatore e sintesi dell'universo. Egli distingue però l'uomo puramente naturale dal sapiente: questi è l 'uomo che si fa vero uomo mediante virtù e arte, rispecchiando nella propria coscienza soggettiva la totalità del mondo oggettivo. Pietro Ramo accentrò la propria polemica antimedievale contro la logica di Aristotele, proponendone una radicale riforma. Il primo passo di questa riforma consiste nel prendere atto che esiste nella mente umana (impressavi da dio stesso con caratteri eterni) una logica originaria o naturale: quella che informa il comportamento normale di ogni uomo allorché discute con i suoi simili di uq,_qualsiasi argomento scientifico o no. Di qui l'interpretazione della logica come ars bene disserendi. La dialettica artificiale rappresenta solo un secondo momento della logica, che nasce dalla riflessione sui ragionamenti naturali: essa è un'arte che deve rispecchiare nelle proprie formule i procedimenti della logica naturale. In quanto tale, dovrà suddividersi in due parti: logica dell'invenzione e logica della sistemazione, risultando chiaro che la sillogistica occupa solo in quest'ultima una posizione preminente. A proposito dei legami inferenziali mediante cui più giudizi vengono raccolti in un sistema, Ramo sostiene che la forza delle inferenze non va cercata nei principi generalissimi dai quali i logici medievali volevano farli dipendere, bensì soltanto nell'evidenza del nesso inferenziale stesso. Non potendoci addentrare più oltre nel complesso e interessante edificio della logica di Ramo (ove si intrecciano influenze nominalistiche, influenze della logica stoica, e dottrine caratteristicamente umanistiche) ci limiteremo a due ultimi rilievi: per un lato, a sottolineare l'importanza che il nostro autore attribuì alla matematica, da lui interpretata come scienza-tipo, su cui dovrebbe modellarsi la stessa dialettica artificiale; per l'altro, a ricordare il notevolissimo impulso che diede allo spirito enciclopedico, ossia alla delineazione dell'albero del sapere,
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inteso come complesso di tutte le varie conoscenze, diramantesi in base a successive biforcazioni (che richiamano il famoso principio della dicotomia svolto negli ultimi dialoghi platonici). L'indirizzo ramiano raggiunse ben presto una larga diffusione nel Cinquecento, onde parecchi studiosi moderni vi scorgono una delle componenti essenziali della cultura di tale periodo. È fuori dubbio, per esempio, che esercitò una profonda influenza su Francesco Bacone. Passando ora dalla Francia alla Spagna, ricorderemo Luis Vives (14921 540), autore di vari scritti, fra cui meritano particolare menzione il De disciplinis e il De anima et vita. Ricollegandosi alle polemiche dell'umanesimo, Vives sviluppò un'accanita lotta contro Averroè, da lui considerato come rappresentante caratteristico della mentalità medievale. Questa polemica contro la metafisica averroistica, e più in generale contro tutta la metafisica, si connette in modo manifesto alla posizione assunta da Vi ves (come da parecchi altri umanisti) in logica: è una posizione apertamente antirealistica, secondo la quale gli universali non posseggono alcuna realtà, ma sono soltanto parole che denotano classi di individui effettivamente percepiti. Poiché gli individui denotati da un universale risultano infiniti, ne segue - secondo Vives - che la conoscenza di un universale non potrà mai essere completa. Nel secondo degli scritti poco sopra citati egli rivela una profonda esigenza empiristica, sostenendo che l 'uomo va studiato nella sua concretezza di anima e corpo, non da un punto di vista astrattamente metafisica (punto di vista che caratterizzava le discussioni degli aristotelici sull'unità dell'intelletto e sull'immortalità dell'anima). Proprio questa esigenza porta il nostro autore a interessarsi attivamente di pedagogia e di psicologia, tanto che suol venire considerato come il fondatore della psicologia empirica. Il maggior rappresentante dell 'umanesimo in Inghilterra fu Thomas More (Moro, 1486-15 3 5), valente letterato e statista, ben noto per la sua opposizione ad Enrico vm che lo fece decapitare. Fra le opere di Moro ci limitiamo a ricordare la celebre Utopia, in cui sono esposte, in forma romanzata, le sue vedute filosofiche e politiche. Egli prende le mosse da un'aperta critica della società inglese dell'epoca, a cui contrappone l'ordinamento che vige nell'isola di Utopia; questo si regge su tre punti. fondamentali: inesistenza della proprietà privata, carattere elettivo dei magistrati, completa tolleranza religiosa (solo gli atei e coloro che negano l'immortalità dell'anima non possono tentare di diffondere fra i concittadini la propria dottrina). Per quanto riguarda la diffusione dell 'umanesimo in Germania possiamo ritenere sufficienti il cenno compiuto nel capitolo u all'opera di Rudolf Agricola, e quanto abbiamo detto nel capitolo v circa il contributo di Melantone all'inserimento, nella cultura protestante, di alcuni temi caratteristicamente umanistici.
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Alla complessa figura di Erasmo da Rotterdam verrà dedicato il prossimo . paragrafo. Fra i continuatori italiani dell 'umanesimo basterà ricordare tre nomi: quello di Mario Nizolio(1488-1 576), quello di Gian Francesco Pico della Mirandola (q ozI 533) nipote di Giovanni Pico, e infine quello di Francesco Patrizi ( 1529-15 97). Mario Nizolio condusse una serrata polemica contro la logica aristotelicoscolastica, riprendendo e approfondendo le critiche già elevate contro di essa da V alla, Agricola e Vives; egli riprese in particolare la critica di V alla contro l 'uso dei numerosi termini artificiali, che facevano del linguaggio logico - così come era stato costruito dagli studiosi medievali - qualcosa di totalmente diverso dal linguaggio comune. Nizolio si dichiara disposto ad introdurre termini nuovi, solo quando essi servano a denotare cose nuove (sotto l'esplicita condizione che queste risultino vere, o utili, o necessarie, o dilettevoli). Di speciale importanza è la sua posizione rispetto agli universali: posizione radicalmente nominalistica, secondo cui un universale non è altro che una classe di individui, onde il passaggio da un giudizio universale a un giudizio singolare sarà soltanto l'applicazione di una proprietà- riconosciuta vera per tutti gli elementi di una classe a qualche particolare elemento di essa. Se la realtà è sempre individuale mentre gli universali sono unicamente nomi, ne segue che un'autentica scienza potrà essere soltanto scienza di individui; gli universali che essa usa per collegare più individui dovranno venire considerati come meri strumenti, e non ipostatizzati. La scienza potrà pertanto valersi, nella determinazione dei nessi fra un oggetto e l'altro, di tutti i risultati di un serio studio del linguaggio (cioè potrà valersi della retorica), ma non dovrà fare ricorso alle vane sottigliezze dei logici, che ci allontanano dalla realtà concreta per farci inseguire inesistenti astrazioni. Così impostata, la ricerca scientifica sfocerà in sistemi di autentiche conoscenze, libere dalle diatribe dei filosofi. 1 Gian Francesco Pico della Mirandola subì profondamente l'influenza dello zio, ma più ancora quella del Savonarola. Dalla predicazione savonaroliana trasse infatti la convinzione dell'inconciliabilità della vera filosofia cristiana con quella greca; dallo zio, invece, la convinzione della sua inconciliabilità con i principi dell'astrologia. Polemizzò con particolare vivacità contro l'aristotelismo e contro tutte le filosofie ad esso ispirate, compresa la scolastica. Trasformò l'eros di Platone e dei platonici nell'eros cristiano, rivestendolo di un forte misticismo, non scisso tuttavia da una sincera fede nel progresso dell'ingegno umano. Francesco Patrizi dedicò gran parte della sua produzione alla lotta contro Aristotele, giungendo a porre in dubbio l'autenticità di varie sue opere. I conI V aie la pena ricordare che la principale opera di Nizolio, De veris principiis et vera ratione
I 55 3), esercitò una profonda influenza su Leibniz, il quale ne curò due edizioni, corredandole di note esplicative e critiche.
ftlosoft,
philosophandi contra pseudophilosophos (Intorno ai veri principi e al vero metodo di filosofare contro gli pseudo-
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cetti aristotelici da lui più energicamente combattuti sono quelli di materia inerte e di fine trascendente. Al primo contrappose il concetto di natura come una totius mundi vita (unica vita dell'intero mondo); al secondo il concetto di armonia immanente all'universo. Lo sviluppo di questi concetti lo portò a dare una spiccata tendenza panteistica al proprio platonismo, o meglio neoplatonismo. Ebbe pure alcune interessanti polemiche con Telesio, di cui subì l'influenza malgrado la diversità delle posizioni filosofiche. III
· ERASMO DA ROTTERDAM
Il maggiore e più originale umanista del Cinquecento fu senza dubbio Desiderio Erasmo da Rotterdam l (I467-1536), uno degli uomini più influenti dell'epoca, in relazione con tutto il mondo dei dotti, unanimemente riconosciuto come la massima autorità nel campo degli studi filologici. La sua personalità occupa una posizione di notevole rilievo nella storia del pensiero filosofico, sia in se stessa, sia per la luce che riesce a gettare sui complessi rapporti (dei quali abbiamo già più volte discusso) fra umanesimo e riforma. L'umanesimo acquista nelle opere di Erasmo, quali la Stultitiae laus (Elogio della pazzia, I 5I I) e i Colloquia familiaria (Colloqui familiari, I 5I 8), una nuova sensibilità e consapevolezza morale. Vengono sferzati con finissima ironia la grettezza della pura erudizione e gli eccessi del razionalismo; ad essi è contrapposta la «follia», cioè l'immediatezza della vita nella sua irrazionalità creatrice. Accanto a quest'ironia emerge però uno sdegno veramente nobile contro l 'immoralità dell'epoca, la superstizione, il mercato delle indulgenze, ecc. Animato da questo sdegno, Erasmo ci presenta le humanae litterae soprattutto come mezzo per combattere l'immoralità, gli abusi della chiesa, le astruse e dogmatiche argomentazioni dei teologi, l'ignoranza monastica, l'intolleranza, le imposture. Nelle critiche ora accennate sono ovviamente contenuti molti germi di quelle che saranno - come abbiamo visto nel capitolo v - le principali obiezioni dei protestanti alla chiesa cattolica nel campo etico. Ma i punti di contatto fra Erasmo e la riforma non si limitano a queste critiche. È chiaro, infatti, che l'applicazione, da lui iniziata, della critica filologica ai testi sacri (con le edizioni di Girolamo, Ambrogio, Agostino, con la versione critica del Nuovo testamento, ecc.) può considerarsi come l'antecedente diretto del metodo che sarà propugnato da Lutero per l'interpretazione della parola di Cristo. Eppure, quando nel I 5I9 Lutero chiederà ad Erasmo di pronunciarsi apertamente a favore della riforma, questi - come già si è detto - gli rifiuterà il suo appoggio. Anzi, cinque anni più tardi, entrerà in aspra polemica con le tesi teologiche protestanti, nello scritto Diatriba de libero arbitrio (Dissertazione su/libero arbitrio, I 524). ~ I
Il suo vero nome era Geer Geertsz.
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Il rifiuto di Erasmo non è un fatto che riguardi soltanto le sue vicende personali, ma un fatto di notevolissimo rilievo per tutta la cultura europea. Esso pone nella massima evidenza la reale, insuperabile antitesi che effettivamente esisteva, malgrado ogni apparente convergenza, fra concezione umanistica e concezione protestante della religione. La prima infatti tendeva ad avvicinare sempre più dio al mondo e ad esaltare il valore dell'uomo, concepito come natura libera, fornita per se stessa delle forze necessarie onde elevarsi a dio e raggiungere la beatitudine (si pensi all'interpretazione ficiniana della religione); la seconda, invece, tendeva a mettere in risalto via via maggiore la dipendenza dell'anima umana da dio, l'origine divina di ogni nostro impulso veramente buono. È vero che la convinzione di questa dipendenza dava all'uomo una forza nuova (se la grazia deriva direttamente da dio, chi possiede la grazia dovrà pure possedere il sostegno divino per attuare il bene); tale forza però, che non trae origine dall'uomo, era qualcosa di interamente estraneo alle linee del pensiero umanistico. Il contrasto fu posto in luce, con tutta la sua asprezza, dalla risposta di Lutero ad Erasmo; essa aveva per titolo De servo arbitrio, e non faceva che sviluppare ed approfondire il principio della « giustificazione per fede ». 1 Sarebbe tuttavia erroneo attribuire all'opposizione Erasmo-Lutero un significato puramente teologico-filosofico; essa celava in realtà anche un'altra grossa questione di ordine politico-sociale. Erasmo era un dotto filologo, un aristocratico umanista, non uno spirito rivoluzionario. La sua mentalità cosmopolita lo portava a sentirsi vicino a tutti gli spiriti colti dell'epoca ed a condividere con essi i più raffinati problemi filosofico-letterari, non a mescolarsi nelle lotte concrete tra paese e paese o fazione e fazione, dominate da interessi tutt'altro che puramente culturali. Se pertanto sostenne apertamente - come gli uomini più illuminati del secolo - la necessità di una riforma della chiesa, lo fece soltanto da un punto di vista morale, senza rendersi conto delle gravissime questioni di altro genere che essa avrebbe sollevato. Ciò che egli vagheggiava era una riforma lenta, graduale, senza sovvertimenti: completamente diversa, insomma, dall'azione decisa e concreta di Lutero, basata sulla stretta connessione tra aspirazioni religiose e problemi politico-economici della Germania. Posto di fronte alle conseguenze storiche di quest'azione, Erasmo si sgomentò e volle scindere completamente la propria responsabilità. Il rifiuto di Erasmo può davvero considerarsi - come abbiamo detto uno dei fatti più significativi della storia culturale del Cinquecento. Esso dimostra incontestabilmente l'avvenuto divorzio tra cultura e politica. Dimostra, cioè, che l'azione in cui si trovava impegnato l'umanesimo e quella in cui si trovava impegnata la riforma, si svolgevano ormai su piani ben distinti e tra loro in1 Erasmo replicherà immediatamente a Lutero con lo scritto Hyperaspùtes adversus servum ar-
bitrium Lutberi (Difesa contro il servo arbitrio di Lutero, Ij2j).
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confondibili: muovendosi la prima nelle astratte sfere della cosiddetta « repubblica letteraria », e la seconda, invece, nel campo ben più complesso dei problemi vivi e reali. Agli umanisti mancò il coraggio di spostarsi da un piano all'altro; perciò il loro movimento si rinchiuse a poco a poco in se stesso e finì per isterilirsi completamente. IV
· RABELAIS
Nella corrente umanistica possiamo anche far rientrare lo scrittore francese François Rabelais (I493 ?-I 563), per quanto la sua posizione riveli parecchi spunti che vanno al di là del puro umanesimo. Il suo famoso romanzo Vie inestimable du grand Gargantua père de Pantagruel (Vita inestimabile del grande Gargantua padre di Pantagruel, I 534) è di contenuto essenzialmente pedagogico; esso risulta tuttavia così ricco di pensiero, così penetrante nell'analisi del grande conflitto fra cultura umanistica e cultura medievale, che merita senza dubbio un posto di rilievo anche in una storia della filosofia, almeno come viene da noi intesa. I due protagonisti del romanzo sono il gigante Gargantua e suo figlio Pantagruel. Rabelais ci narra la nascita e la giovinezza sia dell'uno che dell'altro, e in entrambi questi racconti il tema più significativo (dal nostro punto di vista) è la contrapposizione fra l'insulsa educazione scolastica impartita nelle vecchie università e un nuovo tipo di educazione, che l'autore vuole basata sull'immediato contatto con la natura e sullo studio dei classici. Dato l'interesse del problema, e data l'efficacia del metodo satirico con cui Rabelais lo tratta, vale la pena accennare a qualche punto particolarmente caratteristico della sua trattazione. Riferiremo dunque, a titolo d'esempio, le tipiche vicende dell'educazione di Gargantua. In un primo tempo questi è affidato ad uno scolastico, il quale lo educa secondo il più rigido metodo tradizionale. I libri vengono letti e riletti finché l'alunno è in grado di ripeterli a memoria, anche partendo dall'ultima parola. Infiniti esercizi di grammatica e di logica formale; filze interminabili di sillogismi; dispute cavillose su argomenti del tutto privi di contenuto concreto. Nessuna cura per il corpo: né ginnastica, né pulizia e, sotto questo disinteresse ammantato di falso ascetismo, il trionfo della pigrizia e della trivialità. In questa caricatura dei maestri scolastici, e dell'assurdo metodo adottato nelle scuole dei conventi, Rabelais sfoggia una abilità satirica veramente eccezionale, pari a quella dei numerosi narratori che, a partire dall'ultimo medioevo, hanno, da Boccaccio a Machiavelli, scelto la via monastica come uno dei bersagli favoriti. Il risultato di questo processo di diseducazione progressiva è che, quando il giovane Gargantua viene condotto davanti a suo padre, altro non sa fare che nascondersi il viso dietro il berretto, piangendo come un vitello e dando a pensare di essere diventato pazzo e scimunito.
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A questo punto avviene il cambiamento. Gargantua è affidato a Ponocrate. Costui comincia col sottoporre il cervello del nuovo alunno a un lavacro medicinale, allo scopo di liberarlo dalle incrostazioni dannose. Da questo momento per Gargantua ha inizio una nuova vita. Il cielo, i campi, i boschi, i fiumi, gli animali, sono i migliori libri. Anche la lettura dei libri antichi deve servire soprattutto per le cose, le nozioni concrete che in essi sono contenute, non per la loro forma letteraria, che Rabelais considera del tutto secondaria. Comunque, anche il testo classico deve essere considerato non come un deposito di sapere definito, ma come uno strumento che insegni in primo luogo il metodo della ricerca. Perciò il commento al testo non sarà un altro libro di carta, ma la natura. Si stabilisce così quel circolo dialettico fra cosa e interpretazione della cosa in cui è l'essenza del progresso scientifico moderno. Lo stesso mondo del lavoro, oltre la natura fisica, costituisce campo di ricerca. Gargantua visita le botteghe di pittori e scultori, gioiellieri, tessitori e operai d'ogni specie, «apprendendo e meditando sull'industria e l'invenzione delle arti». Grande importanza è attribuita alla educazione fisica. Caccia, corsa, nuoto, canottaggio, esercizi con le armi: il medico Rabelais mette la sua profonda conoscenza dell'anatomia e dell'igiene a servizio dell'educazione. In questa contrapposizione del libro della natura al libro di carta, Rabelais si trova in polemica non solo con la scolastica, ma anche con la pedanteria libresca dell 'umanesimo degenere, del formalismo ciceroniano, del grammaticismo. In tale senso egli è sulla strada di Galileo e procede ben oltre i letterati della rinascenza. Quanto all'educazione morale e religiosa, Rabelais è assai vicino allo spirito della riforma. Le Scritture vanno studiate sui testi religiosi. Dio va onorato non ascoltando decine di messe o infilando litanie su litanie, ma con un atto di adorazione intimo e sincero. Quel che conta è amare ed aiutare il prossimo a mettere al massimo profitto i mezzi che dio ci ha forniti. Per un giovane il primo dovere è quello di progredire nello studio e soprattutto nella virtù, giacché sapere senza virtù è rovina dell'anima. Non occorre aggiungere altro per illustrare l'enorme interesse dell'opera, la sua eccezionale apertura verso un tipo di educazione, e quindi di cultura, che andava molto al di là anche di quella umanistica. Se c'è un aspetto del programma rabelaisiano che gli storici siano concordi a criticare, esso consiste nel suo prevedere che il giovane debba apprendere una quantità veramente smisurata di cose. Ma anche questo è un difetto molto indicativo, poiché pone in luce come si profili ampia (direi sconfinata) la nuova cultura che in tale programma avanza le proprie esigenze. Qui Rabelais si rivela davvero figlio della grande epoca rinascimentale; di quell'epoca in cui l'uomo, dopo secoli di umiliazione, si erge quale copula mundi e ritiene possibile riprodurre IlO
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in quel microcosmo che è la sua mente, l 'infinità e la ricchezza dell'intero macracosmo. V
· MONTAIGNE
Michel de Montaigne (15 33-1592), nobiluomo della Francia meridionale, formò la propria raffinata cultura sulle medesime opere che avevano entusiasmato tutti gli umanisti. Non conservò tuttavia, per esse, la fanatica ammirazione che aveva caratterizzato gli uomini del Quattrocento; ebbe invece chiara coscienza dei loro limiti e delle loro debolezze: per esempio, fra tutti gli antichi filosofi, soltanto Socrate gli apparve un uomo effettivamente superiore, per la nobiltà del suo carattere morale e per il suo spirito sottilmente ironico. Una delle letture alle quali Montaigne si applicò con maggiore attenzione furono - 01la cosa è assai significativa - gli Schizzi pirroniani di Sesto Empirico: essi costituivano una delle più profonde lezioni di scetticismo che la cultura classica poteva fornirgli. Fra il 1 5So e il 15 88 Montaigne pubblicò il proprio capolavoro, che è una delle più affascinanti opere della letteratura filosofica francese: trattasi di tre volumi di Essais (Saggi), i quali espongono con stile agile ed elegante le sue esperienze di studio e di vita, e i frutti delle sue riflessioni morali. Con Montaigne ci troviamo completamente fuori del platonismo; i problemi che lo appassionano non sono più quelli religiosi e metafisici; ma innanzi tutto quelli morali; il metodo che egli segue per risolverli è l'analisi dell'animo umano, rivolta a coglierne con mirabile precisione tutte le sfumature. È pertanto allo stoicismo, all'epicureismo e al pirronismo che egli rivolge il proprio interesse, e ne ricava un ideale di saggezza che accentua tutti i pregi e i difetti della concezione umanistica. Trattasi infatti di una saggezza eminentemente aristocratica e raccolta, la quale accoglie, sì, il carattere integralmente umano della virtù (intesa, non già come mortificazione dei piaceri, bensì come consapevole moderazione di essi) e identifica tale virtù con la libertà, ma dimostra palesemente di intenderla, non come energia rivolta a trasformare la cultura dell'umanità bensì come ricerca di una pura e semplice indipendenza dell'individuo, chiuso nella propria vita interiore e indifferente di fronte al mondo. L'antitesi fra questa posizione in fondo rinunciataria e quella, piena di energia rinnovatrice, di un Salutati o di un Valla, non potrebbe essere più completa. L'ideale di saggezza aristocratica e chiusa di Montaigne non poté non riflettersi anche sulla posizione da lui assunta nei confronti del valore da attribuirsi alla filosofia e alla scienza. Il risultato cui egli giunge è una forma di raffinato scetticismo letterario, tendente a limitare l'eccessiva fiducia dei precedenti umanisti nella nostra conoscenza. « Se da un lato la ragione ha il compito di controllare i dati dei sensi, dall'altro però,» osserva Montaigne, «essa stessa avrebbe bisogno di un controllo. » Nessuna forma di conoscenza - né razionale né sensoriale ·può dunque condurci ad una verità assolutamente certa. È un segno di rozza
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ingenuità giurare in un sistema filosofico o accogliere, senza discussione, tutto ciò che è stato detto da un autore, per quanto autorevole. L'uomo saggio dubita di tutto: il dubbio è l'espressione della sua saggezza. Si ricorderà che anche da taluni autori medievali era stata sostenuta l'impossibilità, per l'uomo, di raggiungere, con la ragione o con i sensi, una conoscenza assolutamente certa. Di questo risultato, però, essi si valevano per affermare l'esigenza di una conoscenza di altro tipo (di un'intuizione mistica), cioè per proclamare la superiorità della fede rispetto alla ragione. Nulla di tutto ciò in Montaigne; nessun appello a forme sovrarazionali di conoscenza. La consapevolezza dei limiti del nostro sapere non costituisce, per lui, nulla di umiliante e di insopportabile; al contrario, è la via per giungere all'autentica saggezza. Possiamo anzi dire qualcosa di più: tale consapevolezza è, in ultima istanza, la migliore garanzia di libertà: solo essa, infatti, è in grado, secondo Montaigne, di garantirci contro la presunzione di sapere; solo essa riesce a porre il nostro animo nella condizione di piena apertura culturale. Qui di nuovo però va osservato - come poco sopra, a proposito della libertà - che l'apertura culturale predicata da Montaigne interessa soltanto il saggio, senza oltrepassare in alcun modo l 'intimità del suo animo. Libertà teoretica (cioè scetticismo) e libertà pratica non hanno bisogno di esplicarsi in azioni esterne. L'atteggiamento esterno del saggio non può consistere in altro, che nell'attenersi alle leggi costituite, e rispettare i costumi esistenti. Questa remissiva accettazione del mondo costituisce l'ultima parola dell'umanesimo, e segna irrimediabilmente i limiti della sua azione rinnovatrice. L'indirizzo di Montaigne fu proseguito dal suo amico Pierre Charron (r 541r 6o 3), canonico di Condom. Egli sviluppa il motivo della saggezza, come liberazione da tutti i presupposti dogmatici e indipendenza da ogni pregiudizio, e quindi come sprone a regolare le nostre azioni in base alla «equità» e alla «ragione naturale ». Si preoccupa tuttavia di salvare la religione, che, provenendo direttamente da dio, non può non approvare le regole della saggezza; ed inoltre si preoccupa di evitare che il dubbio scettico coinvolga gli ordinamenti giuridici. Così lo scetticismo finisce per profilarsi come un'elegante, raffinata difesa di posizioni sostanzialmente conservatrici. VI
· IL MOVIMENTO LI BER TINO: VANINI
I pensatori rapidamente esaminati nei paragrafi precedenti ci hanno fatto senza dubbio intravedere, nella cultura del Cinquecento, forti aperture verso nuovi orizzonti. Ma l 'indirizzo di cui ora ci accingiamo a parlare rappresenta, malgrado la sua estrema debolezza teoretica, qualcosa di assai più sconcertante: un'autentica rottura entro la tradizione del pensiero occidentale, un preciso tentativo di fare a pezzi il patrimonio di idee e di valori che - sia pure in forme diIIZ
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verse - era sempre stato accolto da tutti i maggiori indirizzi culturali. Per questo motivo esso verrà giudicato estremamente pericoloso anche da menti aperte come quella di Mersenne (che dedicherà alla sua confutazione una notevole parte delle proprie ricerche) e persino dal maggiore filosofo della prima metà del Seicento : Cartesio. L'influenza, diretta o indiretta, dell'aristotelismo eterodosso è chiaramente rintracciabile (secondo alcuni autorevoli storiografi moderni) nel movimento libertino come già nel pensiero di Machiavelli. Essa risulta connessa, non alla metafisica aristotelica, ma all'idea di naturalità, faticosamente elaborata e vigorosamente difesa da tale indirizzo (fatto questo che può venire considerato - se ve ne era bisogno- come incontestabile riprova dell'importanza di tale idea). Nel caso del movimento libertino l'idea di naturalità viene applicata, non più al campo dei fenomeni fisici come facevano per esempio gli aristotelici padovani, e neanche a quello delle istituzioni politiche come faceva Machiavelli, ma al campo ben più delicato dei fatti religiosi. Si trattava, in altri termini, di considerare le religioni, e in particolare quella cristiana, come puri e semplici fatti naturali, cercando di spiegarli senza fare il benché minimo appello ad alcunché di estraneo alla natura. Partendo da questa esigenza, il movimento libertino - che si ricollega a una lunga tradizione di miti anticristiani 1 già viva nel medioevo - giunge, attraverso un complicato sviluppo, all'esplicita difesa dell'ateismo ed all'aperta beffa del dogma e della morale cristiana. La vasta diffusione di tale movimento costituisce, però, un fenomeno che oltrepassa i limiti della storia del pensiero filosofico-scientifico; per trovarne una spiegazione bisogna riferirsi al fatto che il libertinismo costituisce una spontanea reazione alla pesante atmosfera prodottasi, non solo nella filosofia, ma in tutta la cultura, con il trionfo della controriforma. Il principe dei libertini italiani fu Giulio Cesare Vanini. Nato in Puglia nel 1585, entrò da giovane nell'ordine carmelitano: studiò prima all'università di Napoli, poi in quella di Padova; caduto in sospetto dei suoi superiori, fuggì nel 1612 in Inghilterra ripudiando il cattolicesimo per abbracciare la confessione anglicana; due anni più tardi, fuggì dall'Inghilterra per tornare nel continente e fare un nuovo atto di sottomissione al cattolicesimo. Nel 1615 pubblicò una grossa opera - Amphitheatrum aeternae providentiae (Anfiteatro dell'eterna provvidenza)- che, sotto l'apparenza di difendere il dogma cattolico, ne costituiva una evidente canzonatura. Nel 1616 giunge a tal punto di spregiudicatezza da pre1 Come esempi di tali miti ricordiamo: a) il famoso De tribus impostoribus, d'oscura origine, forse islamica e attribuito da taluni a Federico n di Svevia (secondo esso, Mosè, Cristo e Maometto sarebbero ingannatori di popoli e la loro predicazione volgare impostura); b) alcune redazioni, più violente, della parabola de « i tre
anelli» (cfr. G. Boccaccio); c) la concezione della religione come puro e semplice instrumentum regni, che si collega alla leggenda dell'empietà di Averroè; d) alcuni aspetti dell'« oroscopo delle religioni », secondo cui la comparsa di nuove religioni dipenderebbe dall'influenza di particolari combinazioni astrali.
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sentare alla facoltà teologica di Parigi un volume di dialoghi - De admirandis naturae reginae deaeque mortalium arcanis (l meravigliosi arcani della natura, regina e dea dei mortali)- per averne l'autorizzazione e, attenutala, pubblicare poi il volume in un testo profondamente rimaneggiato, avendovi a bella posta introdotte varie eresie. Costretto a fuggire anche da Parigi, riparò sotto falso nome a Tolosa, ove riprese a diffondere le proprie teorie. Arrestato nel 161 8 e processato come bestemmiatore e ateo, fu, nel 1619, condannato al taglio della lingua e alla morte sul rogo. Affrontò la pena con coraggio, mostrando fino alla fine il suo totale disprezzo per chi lo aveva condannato. L'artificio a cui il Vanini ricorre, per esporre le sue teorie libertine, è di presentarle non come proprie, ma come apprese da qualche immaginario miseredente: egli finge, sì, di esserne rimasto scandalizzato, ma dal modo con cui le riferisce e dalla debolezza degli argomenti che vi contrappone, non vi ha dubbio che concorda con esse. In questo modo affronta le questioni più varie, da quelle di schietta teologia a quelle di morale spicciola, e vi sostiene le tesi più sconcertanti, dall'affermazione che Gesù e Mosè non furono che abili impostori alla celebrazione del libero accoppiamento sessuale. Quando, poi, discute qualche problema filosofico serio, non ha difficoltà a spacciare come proprie teorie attinte dalle opere altrui. Un esame serio e obiettivo delle opere di Vanini non può non !asciarci delusi, tanto è scarso il loro valore scientifico-filosofico. Eppure questa constatazione non ci autorizza a sottovalutarne l'importanza e tanto meno a sottovalutare l'importanza del movimento che in esse si esprime. La realtà è che Vanini riuscì a enucleare, portandoli al parossismo, alcuni caratteri senza dubbio tipici di una mentalità largamente condivisa dai suoi contemporanei. È certo infatti che non pochi atteggiamenti libertini possono venir riscontrati, come ha dimostrato la critica odierna, in filosofi di ben altra tempra, quali Cremonini, Bruno, Campanella. Il fatto può a prima vista stupire, ma si spiega assai bene, tenendo conto della crisi che travagliava la cultura europea del Cinque e Seicento durante la difficile fase di trapasso dall'epoca rinascimentale a quella moderna. Una volta compiuto questo trapasso, alcuni temi della polemica libertina potranno venire ripresi - con ben altra serietà - dal movimento illuministico, e allora riveleranno una validità e un'efficacia che certo non riscontriamo nelle opere di Vanini o dei suoi seguaci diretti. Il fatto è che l'illuminismo non costituirà soltanto uno sviluppo del movimento libertino, ma - come vedremo nella sezione v - un complesso fenomeno culturale, in cui convergeranno profonde istanze, scaturite vuoi dai libertini vuoi da altri movimenti, assai più agguerriti da un punto di vista filosofico.
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CAPITOLO OTTAVO
La filosofia della natura
I
· RAPPORTI DEI FILOSOFI DELLA NATURA
CON ALTRI INDIRIZZI DEL PENSIERO RINASCIMENTALE
Nel XVI secolo l'Italia meridionale diede i natali a tre interessantissime figure di filosofi: Telesio, Bruno e Campanella. Sarebbe eccessivo affermare che essi abbiano formato una vera e propria scuola filosofica; è indiscutibile però, che le loro filosofie furono legate da rapporti abbastanza stretti. Particolarmente chiara è l'influenza esercitata dal primo sugli altri due. Si tratta, comunque, non di una identità di dottrine filosofiche, ma di un comune orientamento; di una sensibilità presente in tutti e tre per i medesimi problemi, in ispecie per quello naturalistico. Il primo, più appariscente, carattere di tale comune orientamento è un aperto antiaristotelismo. Pur nella sua genericità, questo carattere permette di distinguere ben nettamente l'indirizzo di Telesio, Bruno e Campanella da quello seguito, nei medesimi anni, dalle scuole dell'Italia settentrionale in gran parte dominate da Aristotele, sia pure interpretato in modi diversi, e cioè ora secondo il commento averroistico ora secondo quello alessandrista. L'atteggiamento apertamente polemico dei nostri tre autori nei riguardi dell'aristotelismo, non esclude però che l'aristotelismo abbia esercitato, di fatto, un'influenza abbastanza profonda su di essi, sia pure in forma indiretta. Se ne ha una prova indiscutibile nella sostanziale continuità riscontrabile tra il naturalismo sostenuto da Telesio e quello che era stato propugnato dal maggiore aristotelico del secolo, cioè da Piero Pomponazzi. Su Bruno e su Campanella l 'influenza dell'aristotelismo giunge inoltre attraverso il movimento libertino, da cui i due autori attingono alcuni temi filosofici e alcuni orientamenti. È, per esempio, evidente una certa analogia tra la distinzione bruniana del piano filosofico da quello religioso, e la dottrina della doppia verità, condivisa dagli averroisti e dagli alessandristi e portata alle conseguenze estreme dai libertini. Accanto alle influenze testé accennate sono però riscontrabili, in Bruno e in Campanella, anche talune ben precise influenze controriformistiche. La cosa non può stupirei, se ricordiamo il rapporto di complementarità esistente tra liberti-
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La filosofia della natura
nismo e controriforma. Senza dubbio in Bruno sono più evidenti le prime; in Campanella le seconde. Il fatto è però (e si tratta di un fatto fondamentale per comprendere il loro pensiero) che entrambe le influenze hanno lasciato una certa impronta sia nell'uno che nell'altro. Più stretti risultano senza dubbio i loro rapporti con il neoplatonismo, che esercitò su di essi un'azione profonda, sia direttamente (in ispecie su Bruno, che alcuni interpreti moderni amano senz'altro considerare come un neoplatonico), sia indirettamente attraverso il magismo di Paracelso, Della Porta, ecc. Leggendo le opere dei filosofi della natura si ha, tuttavia, l'impressione, che - criticando Aristotele - essi tendano a risalire non tanto a Platone quanto ai presocratici (Pitagora, Empedocle, Democrito), alle cui teorie fanno spesso riferimento, or più or meno fedelmente. Come dice l'appellativo stesso di «filosofi della natura», essi pongono in primissimo piano il problema della natura; ed è certo che - anche se le soluzioni che ne propongono vanno al di là del platonismo - i termini in cui lo impostano sono molto simili a quelli che ritroviamo negli ultimi rappresentanti del platonismo (per esempio in Patrizi). L'impostazione che ne danno è, cioè, non scientifica ma essenzialmente filosofica. Malgrado questa impostazione, e malgrado che non abbiano recato (salvo in qualche argomento particolare) alcun autentico contributo alle ricerche scientifiche, hanno tuttavia dato un impulso di decisiva importanza al diffondersi dell'interesse per la scienza, e soprattutto al riconoscimento della grande importanza delle nuove scoperte scientifiche sul piano della filosofia generale. II
· TELESIO
Bernardino Telesio nacque a Cosenza nel I 509; studiò a Milano e Padova subendo in notevole misura l'influenza dei medici patavini; poi ritornò nella città natale, ove fu a capo dell'accademia cosentina (dopo di lui chiamata accademia telesiana), che si proponeva il compito di raccogliere e descrivere il maggior numero di fenomeni fisici, senza alcuna preoccupazione, tuttavia, per la loro elaborazione quantitativa e la loro rigorosa sistemazione. Fu autore di una celebre opera, De rerum natura iuxta propria principia (Intorno alla natura delle cose secondo i loro principi), i cui due primi libri uscirono nel 1565, gli altri nel 1586, l'anno in cui il filosofo morì. Negli ultimi tempi della sua vita, e ancor più dopo la sua morte, contro le idee da lui propugnate sorsero profonde opposizioni da parte degli ambienti ecclesiastici. Come si è detto nel primo paragrafo, Telesio è un implacabile avversario di Aristotele, non meno di quanto lo erano stati i platonici, in un senso però ben diverso da essi. La sua rottura con il sistema aristotelico risale, probabilmente, agli anni da lui trascorsi a Padova. La prima fondamentale opposizione di Telesio 116
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ad Aristotele investe il metodo stesso con cui studiare la natura. Per Telesio la natura va studiata « iuxta propria principia » e non secondo concetti precostituiti, come quelli di atto, di potenza, ecc. che traggono origine dal nostro intelletto, anziché dalla natura stessa. « Coloro che prima di noi hanno scrutato la ricostruzione di questo mondo e la natura delle cose in esso contenute, » egli scrive, « sembra che abbiano lavorato molto, con poco risultato. Che cosa infatti sono riusciti a vederne, se tutti i loro discorsi contrastano gli uni con gli altri e con le cose? ... Certamente però gli uomini non dovevano compiacersi di sé e insuperbire a tal punto, da dare essi stessi alle cose ... quei caratteri che non avevano osservati nelle cose e che avrebbero dovuto essere ricavati dalle cose stesse ... Noi invece amatori e cultori di una sapienza affatto umana ... ci proponiamo di osservare il mondo e le sue singole parti e le passioni, le azioni, le operazioni e le specie delle sue parti e delle cose in esso contenute. » Osservare rettamente il mondo significa, per Telesio, seguire le indicazioni dei sensi, ricavare da essi i principi interni dei fenomeni, enuclearne le nozioni e le leggi generali che debbono stare alla base delle nostre scienze. Anche la matematica deve fondarsi sull'esperienza, e non venire pensata come una costruzione aprioristica di concetti che l'intelletto imporrebbe, dall'alto, ai dati empirici. V a comunque notato che la conoscenza scientifica resta, per il nostro autore, essenzialmente qualitativa, non quantitativa. Telesio non ha dubbi sull'esatta corrispondenza fra la testimonianza dei sensi e i fatti di natura. Se i principi della scienza vengono davvero formulati in modo da attenersi a tale testimonianza, la conoscenza scientifica potrà certamente cogliere la realtà naturale. Nel quadro dell'antiaristotelismo testé delineato, i due concetti contro cui si accende con maggior vigore la polemica telesiana sono quelli di materia e di forma; ad essi Telesio sostituisce, nella spiegazione dei processi naturali, i due nuovi concetti di massa materiale e di forza. La massa materiale è diversa dalla materia di Aristotele, perché non è astratta potenzialità, bensì qualcosa di più concreto e positivo: qualcosa di indistruttibile, che «non avendo facoltà di agire e di generarsi, non può né aumentare né diminuire ». La massa materiale è identica sugli astri e sulla Terra e la sua caratteristica fondamentale è quella di occupare delle porzioni di spazio pur senza identificarsi con lo spazio (tanto è vero che Telesio ammette l'esistenza di uno spazio assolutamente vuoto). Mentre la materia è unica le forze invece - secondo Telesio - sono due: una dilatante, che egli chiama « calore », ed una restringente, che chiama « freddo ». Calore e freddo sarebbero, dunque, non proprietà della materia, ma energie che la mettono in moto; esse sono imponderabili perché penetrano in qualunque punto, tuttavia non possono agire senza massa corporea. Dalla lotta del calore e del freddo scaturirebbero tutti gli esseri del mondo. L'analogia di queste due forze con l'amore e l'odio di Empedocle, è evidente.
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La sede del calore è il Sole, mentre la sede del freddo è la Terra. Sole e Terra vengono ad essere così i due corpi elementari che non mutano, mentre tutti gli altri corpi sono soggetti al divenire. Su questo punto è evidente il legame di Telesio con la concezione tradizionale del cosmo: Telesio infatti, diversamente da ciò che farà Bruno, non abbraccia ancora la concezione copernicana né si rende conto della sua importanza vuoi scientifica vuoi filosofica. La natura dello spirito non è, secondo Telesio, nettamente distinta da quella della massa materiale. Alla teoria aristotelica dell'anima come forma incorporea, Telesio obietta che l'anima, se fosse effettivamente incorporea, non potrebbe subire l'azione delle forze materiali né fungere essa stessa da centro propulsore del movimento dei corpi. Ne conclude che l'anima deve risultar costituita di materia; più sottile che quella dei corpi, ma pure sempre materia. Essa è lo spirito vitale che pervade tutti i nostri organi e li rende capaci di compiere le loro funzioni; dalla sua sede centrale, che è il cervello, essa dirige i moti delle membra, in cui si diffonde come calore. Proprio questa conclusione permetterà al nostro autore di collegarsi a tutto l'animismo rinascimentale, pur rovesciandone la posizione; poiché l'anima è materiale, tutti i corpi sono animati; le stesse forze del freddo e del caldo sono animate e, come tali, sono fornite di una certa sensibilità. Le vecchie filosofie presentavano la coscienza come una prerogativa dello spirito, inteso come un principio antitetico alla materia; ad esse Telesio oppone che la coscienza è una facoltà primitiva e ineliminabile di tutta la materia. Sarà ora facile rinnovare i termini stessi del problema della conoscenza. Secondo Telesio, solo un'impostazione artificiosa e illusoria di questo problema può farci credere che il processo conoscitivo si compia esclusivamente nell'uomo; in realtà esso ha luogo in ogni essere, non potendo venir scisso dai processi che costituiscono la vita del tutto. Esso trae origine dal contatto dinamico del percepito con il percipiente,. anzi è questo contatto (diretto, immediato, per la cui attuazione non occorrono speciali organi di senso) : proprio perché i corpi sono in contatto dinamico gli uni con gli altri, essi sono, tutti, forniti di una vera e propria sensibilità. Nell'uomo il contatto con gli altri esseri del mondo provoca i diversi atti conoscitivi (i cui rapporti e le cui differenze hanno provocato tante discussioni tra i filosofi); in ultima istanza, però, questi atti non sono che modi particolari di percezione tattile. Dato, dunque, che ogni conoscenza è sensazione, bisogna concludere - secondo Telesio - che tutte le nostre teorie debbono fondarsi, se vogliono possedere un valore di verità, interamente sui sensi e soltanto su di essi. Di qui l'energica lotta di Telesio contro l'intellettualismo aristotelico, e il carattere empiristico di tutta la sua filosofia. La sostanza spirituale possiede, secondo il nostro autore, una sola attività che la distingue nettamente dalle altre sostanze: quella di poter conservare i movimenti II8
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che vennero in essa impressi e di poterli in qualche modo riprodurre. Tale attività costituisce la memoria, il cosiddetto intelletto non è altro che una ripetuta applicazione di essa. Poiché, tuttavia, la memoria è soltanto una sensazione prolungata, non è lecito farne una facoltà contrapposta ai sensi. Accanto alla concezione ora esposta dello spirito come materia, troviamo però in Telesio una singolare riserva: l'ammissione, cioè, di una sostanza spirituale analoga all'intelletto attivo di Aristotele. Questo genere superiore di sostanza spirituale resta, comunque, privo di sviluppi, quasi un elemento estraneo della sua filosofia, non collegato alle altre parti del sistema. È un'incoerenza del suo materialismo, pressoché ingiustificabile dal punto di vista teoretico. Non si può escludere che essa esprima solo un compromesso, con il quale Telesio cercò di attenuare il contrasto fra il proprio pensiero e gli insegnamenti della chiesa. Se l'ammissione testé accennata può venir invocata ad aprire una qualche prospettiva religiosa, certo è comunque che essa non risulta in alcun modo collegata all'etica di Telesio, la quale ha un impianto prettamente naturalistico. Anche nell'etica, il punto di partenza del nostro filosofo è costituito da una presa di posizione antiaristotelica. Mentre Aristotele sosteneva che il fine supremo dell'uomo risiede nell'esercizio della ragione, Telesio sostiene invece che il fine dell'uomo, come di qualunque essere, è la propria conservazione (di cui è strumento la stessa conoscenza). Poiché il piacere e il dolore sono il senso della nostra conservazione o distruzione, essi dovranno fornirci, in ultima istanza, il criterio del bene e del male. L'esperienza ci insegna, però, che non tutte le azioni, che producono immediatamente piacere, sono veramente in grado di dare il massimo incremento alla conservazione. Ne s~aturisce la necessità di distinguere la virtù dal piacere. La virtù così determinata avrà comunque, essa pure, un carattere essenzialmente naturalistico, sia perché ispirata - come si è detto - al fine della conservazione, sia perché tutta rivolta ai fatti del mondo umano nella sua naturalità: cioè alla comunione di azione tra individuo e individuo ed alle virtù sociali, di carattere consapevolmente terreno, che si sviluppano da tale comunione (fiducia, benevolenza, fierezza, ecc.). III
· BRUNO
Giordano Bruno nacque a Nola, in Campania, nel I 548. Entrato diciottenne nell'ordine domenicano, vi rimase per una decina d'anni. L'insofferenza della disciplina ecclesiastica e i timori suscitati in lui dai primi sospetti dell'autorità per le sue dottrine filosofiche, lo indussero - nel I 576 - a gettare l'abito e fuggire dall'Italia. Ebbe così inizio un lungo periodo di peregrinazioni per l'Europa. Innanzi tutto fu a Ginevra, ove aderì, almeno formalmente, al calvinismo. Ben presto però, urtato dalla chiusura mentale di questa chiesa e dall'intollerante
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regime teocratico ginevrino, abbandonò anche la Svizzera. Il ricordo della triste esperienza ginevrina suscitò, anzi, in lui un risentimento così aspro contro il protestantesimo, da fargli più volte prendere in considerazione la possibilità di rientrare nella chiesa cattolica. Dalla Svizzera passò in Francia, ove insegnò filosofia e astronomia riscuotendo entusiastici consensi, ma incontrando pure vari ostacoli soprattutto da parte degli aristotelici più intransigenti. Gli anni più fecondi per la sua attività di scrittore furono quelli trascorsi in Inghilterra (al servizio dell'ambasciatore francese), dal I 58 3 al I 58 5. Lasciata l 'Inghilterra, visse di nuovo due anni a Parigi; poi fu in Germania, o ve insegnò per qualche tempo a Wittenberg. Dopo varie altre peregrinazioni a Praga, Francoforte, ecc., accettò nel I 59 I l'invito di tornare in Italia, ospite del nobile veneziano Giovanni Mocenigo. L'anno successivo, però, lo stesso Mocenigo lo denunciò come eretico al tribunale dell'inquisizione di Venezia. Dopo un primo processo a Venezia, durante il quale Bruno non ebbe difficoltà a sconfessare sul piano pratico le teorie sostenute su quello filosofico, 1 fu consegnato all'inquisizione di Roma che iniziò contro di lui un nuovo processo durato sette anni, dal I 593 al I6oo. Questa volta il comportamento di Bruno fu completamente diverso. Compresa ormai con chiarezza l 'impossibilità di una qualsiasi riconciliazione con il cattolicesimo, non solo egli rifiutò con sdegno di rinunciare alle proprie teorie filosofiche e di ritrattare le eresie di cui veniva accusato, ma neppure si preoccupò di tenere celato il proprio disprezzo per la chiesa che lo stava giudicando. Consegnato al braccio secolare, fu arso vivo in Campo dei Fiori il 17 febbraio I 6oo. Molti e assai diversi sono gli argomenti di cui Bruno ha trattato nelle sue opere: dalla tecnica della memoria all'esame critico delle teorie di Aristotele, dall'esaltazione del sistema copernicano ai problemi generali di una concezione filosofica dell'universo. Ci limiteremo a ricordare qualche titolo: quelli dei dialoghi italiani scritti e pubblicati in Inghilterra, e quelli dei poemetti latini pubblicati a Francoforte. I primi sono: De la t"ausa, principio et uno; De l'infinito universo et mondi; La cena de le ceneri, tutti del I 584, di argomento prevalentemente metafisica; Spaccio de la bestia trionfante (I 584) e De gl' heroici furori (I 58 5), di argomento prevalentemente etico. I secondi: Summa terminorum metaphisicorum (Somma della nomenclatura metafisica); De monade, numero et figura (Della monade, del suo numero e della sua forma); De immenso et innumerabilibus (Dell'immenso e degli innumerevoli), tutti del I 59 r. Data la complessità del pensiero di Bruno, qualche studioso ha ritenuto di potervi distinguere tre fasi diverse: una prevalentemente neoplatonica; una naturalistica (improntata alla filosofia di Telesio); ed una terza, di ispirazione 1 Pare che Bruno fosse così convinto della completa separabilità dei due piani, pratico e filosofico, da illudersi di poter ottenere - partendo
da essa - una sorta di compromesso con le autorità cattoliche, accettabile da ambo le parti.
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pitagorica e democritea, rivolta a cercare il fondamento dei fenomeni in una infinità di atomi o « monadi ». Contro questa schematizzazione si è tuttavia osservato che le concezioni ora accennate sono spesso presenti nella medesima opera e rappresentano, quindi, più tre aspetti che non tre fasi del pensiero bruniano. Né va dimenticato che si trovano presenti, in Bruno, anche altri interessi, non inquadrabili in alcuno dei tre stadi sopraddetti. Di particolare importanza l'interesse per l'Ars magna di Raimondo Lullo, 1 appassionatamente studiata da Bruno nella convinzione di ricavarne regole per il perfezionamento della nostra memoria e il potenziamento della nostra capacità di scoprire sempre nuovi veri; è all'Ars magna che si ispirano le opere di argomento mnemotecnico fra le quali ricordiamo: De umbris idearum (Delle ombre delle idee, 15 8z), Sigillus sigillorum (Il sigillo dei sigilli, 15 8 3), De imaginum compositione (Composizione delle immagini e delle idee, 1591). Comunque sia, dobbiamo prendere atto che un tema resta costante in tutta la produzione di Bruno: l'antiaristotelismo. Esso è riscontrabile anche nelle opere di argomento mnemotecnico, che mirano in ultima istanza a contrapporre la fecondità dell'arte lulliana alla sterilità della logica aristotelica. Il neoplatonismo ha influito su Giordano Bruno soprattutto attraverso le opere di Nicola Cusano. Senonché, mentre il dio di Cusano è un essere che trascende il mondo, quello di Bruno, invece, ne è l'artefice interno, causa e principio di tutti i fenomeni naturali. Infatti, proprio l 'influenza neoplatonica spinge Bruno a ricercare non la divinità come essere antologicamente separato, ma piuttosto la presenza delle tracce divine nella natura, il « vestigio del primo principio e causa ... in tutte le cose dipendenti ». Partendo da questo atteggiamento Bruno scopre che dio si rivela nel mondo innanzi tutto come intelletto universale, che è « uno e medesimo... empie il tutto, illumina l 'universo ed indirizza la natura a produrre le sue specie come si conviene ... Da noi si chiama artefice interno perché forma la materia e la figura da dentro: come da dentro del seme o radice manda ed esplica il stipe; da dentro il stipe caccia i rami; da dentro i rami le formate brance; da dentro queste ispiega le gemme; da dentro forma, figura, intesse, come di nervi, le frondi, gli fliori; gli frutti; e da dentro, a certi tempi, richiama gli suoi umori da le frondi e frutti alle brance, dalle brance agli rami, dagli rami al stipe, dal stipe alla radice». L'intelletto universale è per Bruno la causa efficiente dell'universo, la prima e principale facoltà dell'anima del mondo; sulla base di questa visione della natura Bruno può concludere affermando che tutte le cose sono animate perché « lo spirito si ritrova in tutte le cose ed empie tutta la materia». Come spiegammo nella sezione n, l' Ars di Lullo mira a presentare la logica quale Scienza assolutamente distinta dalla metafisica: mentre quest'ultima studia l'essere delle cose, la I
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prima sarebbe invece rivolta ai puri termini del sapere. Dallo studio di tutte le possibili combinazioni di tali termini, la logica dovrebbe risultare in grado di scoprire i principi di qualsiasi scienza.
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Di conseguenza l'anima è assunta come la forma del mondo, forma che determina e dirige tutte le diverse trasformazioni dell'universo; tuttavia - osserva Bruno -- la forma non è sufficiente a spiegare i fenomeni naturali; perciò accanto ad essa è necessario postulare un altro principio: la materia. Infatti:« Non vedete voi che quello che era seme si fa erba, e da quello che era erba si fa spica, da che era spica si fa pane, da pane chilo, da chilo sangue, da questo seme, da questo embrione, da questo uomo, da questo cadavere, da questo terra, da questa pietra o altra cosa, e così oltre, per venire a tutte le forme naturali? ... Bisogna dunque che sia una e medesima cosa che da sé non è pietra, non cadavere, non uomo, non embrione, non sangue o altro. » Pur accogliendo i due tradizionali principi della materia e della forma, Bruno critica però la teoria aristotelica della separazione tra forma e materia. Questa critica investe soprattutto il concetto di materia inteso dall'aristotelismo come pura potenzialità: Bruno osserva che la materia non può essere un prope nihil, perché in tal caso non si spiegherebbe la sua unione con la forma. Nella realtà - rileva Bruno - non si può dare una materia senza forma (che risulterebbe inesistente) e viceversa non ha senso concepire una forma senza materia. Alla potenza aristotelica Bruno sostituisce una materia intesa come principio attivo, tensione interna, vera e propria energia produttrice. La negazione della trascendenza divina e l'affermazione dell'unità materiaforma, si lega ad un'altra idea fondamentale della concezione monistica di Bruno: il principio della coincidentia oppositorum. Sappiamo che per Cusano la coincidentia oppositorum ha luogo soltanto in dio; la mutata prospettiva di Bruno lo porta invece ad affermare arditamente questa coincidenza non solo in dio ma nella stessa natura: « Se ben misuriamo, veggiamo che la corruzione non è altro che la generazione e la generazione non è altro che la corruzione; l'amore è un odio, l 'odio è un amore.» Da questo radicale mutamento del rapporto dio-mondo, discende una delle idee più importanti della filosofia bruniana: quella dell'infinità del mondo giustificata con il celebre argomento che all'infinità della causa deve corrispondere l'infinità dell'effetto. Malgrado l'indubbio atteggiamento monistico che domina tutta l'opera bruniana, tuttavia bisogna osservare che si trovano in Bruno non poche concessioni alla trascendenza: tale per esempio il riconoscimento di una mens super omnia, oltre alla mens insita omnibus. Si tratta però di concessioni poco più che verbali. Sta comunque il fatto che la mens, per cui l'animo di Bruno si accende di ardore, è soltanto quella insita omnibus, raggiungibile mediante la ragione, non quella che starebbe al di sopra di tutte le cose e che potrebbe venir appresa soltanto dalla fede. Ne segue che le accese parole di Bruno nei riguardi di dio, non possono venire interpretate - come vorrebbe qualche studioso moderno - quali espressioni di misticismo, bensì quali esaltazioni della meravigliosa potenza della ra12.2.
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gione. Esse esprimono, in altri termini, la sua ammirazione per l'unità, che l'uomo riesce a cogliere con la ragione nel complesso dei fenomeni, non per la mente suprema che, secondo la fede, esisterebbe al di fuori di essi. Su questa base teorica l'unità della natura diventa una delle "idee fondamentali della filosofia di Bruno. Essa ~on va, però, interpretata in senso letterale, come rigida affermazione dell'unità del mondo. Bruno pensa, al contrario, che esistano, non uno, ma più mondi; li immagina tuttavia immersi in un unico spazio infinito, ave non esiste destra né sinistra, alto né basso, ma ogni punto può venir considerato come centro dell'universo. È precisamente in questa concezione che si inserisce l'entusiastica accettazione, compiuta da Bruno, del sistema copernicano. È indubbio che Bruno cercò di studiare a fondo il sistema di Copernico, anche se probabilmente non riuscì a seguire in dettaglio tutte le dimostrazioni matematiche del De rivolutionibtts orbium. Intuì comunque molto bene che quest'opera non intendeva soltanto presentare un'ipotesi matematica per il calcolo dei fenomeni celesti - come aveva suggerito il teologo Osiander - bensì intendeva prospettare una nuova concezione fisica del mondo, una nuova cosmologia. Proprio come tale egli la difese con tutte le proprie energie, abbozzando alcune acute osservazioni di dinamica che in certo modo precorrono quelle di Galileo; basti segnalare le bellissime pagine della Cena de le ceneri in cui Bruno dimostra (sulla base di un esperimento mentale molto simile a quello che verrà poi sviluppato da Galileo) che « con la terra si muovono tutte le cose che si trovano in terra», onde si deduce non potersi addurre a favore dell'immobilità della Terra il fatto che i gravi, abbandonati a se stessi, cadono verticalmente. È questa verità fisica che interessa al nostro autore, perché essa ed essa sola è in grado di abbattere la vecchia concezione aristotelica che faceva dell'universo uno spazio chiuso, limitato, fornito di un unico centro. La stessa infiammata celebrazione delle scoperte di Tycho Brahe circa la natura delle comete e circa la localizzazione delle loro traiettorie è compiuta dal nolano essenzialmente per il significato filosofico cosmologico di tali scoperte. Significato filosofico, dovuto al fatto che, col dimostrare che le comete attraversano le varie regioni del cielo, si pone definitivamente termine all'antica credenza nelle sfere celesti, rinserranti il nostro mondo quali impenetrabili barriere. È, come ognun vede, una difesa della nuova astronomia che ne approfondisce assai poco il valore scientifico: è però una difesa che ha avuto il merito di attrarre l'attenzione di tutti gli studiosi sull'importanza del copernicanismo, trasformandolo da problema tecnico in problema filosofico, da pura e semplice ipotesi matematico-astronomica in porta di ingresso verso una nuova concezione del mondo. Anche nella terza fase della sua filosofia, la cosiddetta fase atomistica, Bruno mantiene molte delle idee che abbiamo illustrato. È conservato per esempio il 123
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principio della coincidentia oppositorum; infatti, mentre cerca di spiegare il mondo per mezzo degli atomi e delle monadi, Bruno sostiene che in essi si realizza un intimo nesso tra l'infinitamente piccolo e l'infinitamente grande, tra il minimo e il massimo. Lo stesso può ripetersi per l'idea dell'unità, la quale diventa, in questa terza fase, unità della forza che anima gli innumerevoli atomi; essa è dio, cioè - nella terminologia bruniana - la « monade delle monadi ». Basta questo a farci comprendere la radicale differenza fra l'atomismo di Bruno e quello di Democrito. Mentre l'atomismo di Democrito era esclusivamente meccanicistico, quello di Bruno è fortemente permeato di motivi neopitagorici. Saranno questi a spingere Bruno verso la ricerca di una matematica magico-simbolica, capace di spiegare la derivazione delle infinite monadi dalla monade divina. È una delle parti del suo pensiero più lontana dalla mentalità scientifica moderna. L'unità della natura è, senza dubbio, un'idea che avvicina profondamente la filosofia di Bruno a quella di Telesio. Due differenze assai importanti separano, però, le loro concezioni. La prima riguarda la nozione di materia. Mentre, per Telesio, ogni essere è materiale (compresa l'anima), per Bruno invece corpo e anima sono ancora qualcosa di distinto. Non che esistano corpi animati e corpi inanimati (secondo Bruno, tutti i corpi sono animati); data, però, l 'irriducibilità tra anima e corpo, il puro materialismo telesiano sarebbe insufficiente a rendere conto della realtà. La concezione del nolano è, su questo punto, così arretrata, che egli persiste nel ritenere inconcepibile ogni azione diretta tra corpo e corpo; ricorre pertanto, al fine di spiegare tale azione, ad un rapporto che intercorrerebbe fra le rispettive anime. Accetta, di conseguenza, la magia e l'astrologia come indispensabili strumenti di indagine. La seconda differenza riguarda il problema gnoseologico. Mentre, per Telesio, ogni conoscenza si riduce in ultima istanza alle sensazioni, per Bruno invece le sensazioni non sono in grado di farci cogliere l'unità del tutto. Questa è raggiungibile solo dall'intelletto, che ci eleva al di sopra delle particolarità afferrate dai sensi. Telesio potrebbe obiettare che l'opposizione tra sensi e intelletto rompe l'unità della natura, ma Bruno si sente troppo legato al platonismo per essere disposto a rinunciarvi.l Se l'unità e l'infinità costituiscono la base ultima del mondo, esse devono anche costituire - secondo Bruno - l'aspirazione somma dell'animo umano. Questa aspirazione viene chiamata « eroico furore » e collocata da Bruno al vertice delle virtù. Nell'aspirazione ad una animazione dell'universo, l'attività 1 Ci si potrebbe chiedere se questa posizione di Bruno esprima soltanto un ritorno al passato, come pensano tal uni suoi interpreti, o non costituisca invece un passo verso il futuro, cioè verso il razionalismo cartesiano, come altri ritiene (trascurando o sottovalutando le differenze
tra l'atto intellettivo di cui parla Bruno e quello, a carattere matematico, di cui parla Cartesio). Il problema, di non facile soluzione, vale a confermarci la complessità della posizione di Bruno, che non di rado oscilla fra due fasi assai diverse del pensiero filosofico.
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morale, liberando lo spmto dell'uomo dalla schiavitù delle passioni, trasforma la supina accettazione della natura in una riconquista spirituale cosicché, mentre la metafisica non scorge altro che la immobilità dell'uno eterno e perfetto, la moralità riesce a cogliere l'afflato spirituale che anima l'universo. In questo modo essa trasforma la base animalesca - o l'« asinità» come dice Bruno - della stirpe umana in vera e propria umanità o meglio in una divinità terrena; l'asinità e l 'accettazione supina sono l'« essere cose nel mondo », e da esse ci si riscatta con un atto imperioso di liberazione morale. Questo significa vittoria sulla passività (predominio della carne) e conquista da parte dell'uomo della consapevolezza di sé. Bruno ritiene che le si possa raggiungere mediante la negazione della propria individualità, l'annullamento dei limiti propri di quest'ultima e quindi, mediante un atto di dedizione a dio, cioè al tutto. La storia di questa emancipazione dell'uomo è la storia della vittoria della moralità sulla naturalità, che si conclude in quella unificazione tra dio e l 'universo per mezzo dell'uomo, posta a conclusione della filosofia bruniana. La forza che spinge l 'uomo a questa impresa è appunto l'« eroico furore »; esso è insieme conoscenza e amore, e costituisce la più alta religiosità umana. Il pensiero di Bruno infatti non sembra ammettere altra religione oltre quella ora descritta, e cioè la religione dell'infinito. A parte infatti alcune pagine (delle quali già parlammo) in cui egli parla di una mens super omnia raggiungibile per fede, Bruno concede alle religioni comuni il solo compito, inferiore, di efficaci strumenti per l'educazione e il governo delle incolte masse popolari. È evidente, a proposito di questo delicatissimo punto, l 'influenza esercitata su Bruno dal movimento libertino. Proprio ad essa è dovuto quel profondo equivoco, che gli fece ritenere possibile la pacifica convivenza, su piani diversi, di ciò che egli chiamava « dogmatismo dei teologi » e « libertà dei filosofi », « perché gli uni e gli altri sanno che la fede si richiede per l 'istituzione di rozzi popoli che devono esser governati, e la demonstrazione per gli contemplativi che sanno governar se stessi». Fu, probabilmente, questo equivoco che gli dettò molti atteggiamenti della sua vita, che a noi possono sembrare inspiegabili; in particolare il suo ritorno in Italia e il suo comportamento durante il primo processo davanti all'inquisizione di Venezia. Toccò alla logica degli inquisitori romani dimostrargli, con tragica coerenza, che la separazione del piano teologico da quello filosofico era questione tutt'altro che pacifica sia per la religione che per la filosofia, e che comunque essa non poteva dispensarlo, sul piano personale, dalla stretta e completa osservanza dei doveri religiosi. IV
· CAMPANELLA
Tommaso Campanella nacque a Stilo in Calabria nel r 568. Entrato ancor giovanissimo nell'ordine domenicano, trascorse parecchi anni spostandosi da
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una città all'altra d'Italia (Napoli, Roma, Firenze, Padova), sottoposto a vari processi per sospetto di eresia, intentati contro di lui a causa della sua adesione all'indirizzo filosofico di Telesio. Più volte imprigionato, torturato e liberato, nel I 598 ritornò a Stilo. Qui vi organizzò una congiura contro gli spagnoli, nell'illusione di poter dare inizio ad una riforma del cristianesimo e fondare in Calabria una repubblica teocratica di cui egli avrebbe dovuto essere il legislatore. Scoperta la congiura venne di nuovo arrestato ( 15 99) questa volta sotto la doppia accusa di sedizione e di eresia. Sottoposto a tortura, riuscì a salvarsi fingendosi pazzo. Rimarrà in carcere fino al I6z6. Varie testimonianze ci provano che negli anni giovanili subì l'influenza dei libertini. La lunghissima prigionia non domò il suo forte animo, ond 'egli proseguì - anche in carcere - i suoi studi filosofici e politico-teologici, scrivendo varie opere che in parte gli vennero sequestrate e distrutte, in parte riuscì a far pubblicare, e in parte rimasero inedite fino a tempi recentissimi. Intanto inviava suppliche al papa e a diversi prìncipi e sovrani per essere liberato, nonché per impartir loro consigli sui grandi problemi concernenti l'organizzazione del mondo: egli era sempre più convinto che si stavano maturando grandi eventi storici, i quali avrebbero dato luogo all'instaurazione di un unico grande stato e di un'unica religione. Nell'opera Monarchia di Spagna (scritta verso il I6oo e pubblicata nel I6zo) esaltava questa monarchia, in quanto atta a porsi alla testa di tale movimento rinnovatore (negli ultimi anni della sua vita riterrà invece che il grande compito sarebbe spettato alla Francia). Dopo i primi anni di carcere, l'approfondimento dei problemi filosofici lo condusse ad una evoluzione spirituale, che alcuni recenti studiosi interpretano come una vera e propria conversione dall'irreligiosità al cattolicesimo. Secondo altri sembra più esatto vedervi una semplice crisi, che servì a rinvigorire la sua fede: nulla ci garantisce infatti che, negli anni precedenti, Campanella abbia davvero attraversato un periodo di effettiva e totale irreligiosità. La lettura dei suoi scritti ci insegna che esiste una profonda continuità nella struttura del suo pur complesso e tormentato pensiero, fra gli anni della giovinezza e quelli della piena maturità. A buon conto, l'opera che rappresenta la conclusione della crisi ha per titolo Atheismus triumphatus (L'ateismo debellato); essa venne composta nel I6o5 e pubblicata nel I63 1. Dopo il I 6z6 Campanella visse a Roma sotto la sorveglianza del san t 'uffizio; la protezione di Urbano VIII gli valse a riottenere a poco a poco la piena libertà. Essendo stato però coinvolto in una congiura contro il viceré di Napoli, fuggì in Francia per consiglio dello stesso Urbano vm. A Parigi riuscì a guadagnarsi i favori del re e del cardinale Richelieu, il che gli consentì di vivere in relativa tranquillità, malgrado le sorde persecuzioni degli invidiosi. Così poté attendere alla conclusione di alcune opere e alla pubblicazione di altre, come la Philosophia realis, la Metap~sica, ecc. Morì nel I639·
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Fra gli scnttl pm significativi di Campanella ricordiamo: De sensu rerum et magia (frutto delle conversazioni che aveva avuto con Della Porta); Philosophia realis (la cui composizione durò parecchi anni, fin verso il I6I9) che comprende scritti assai interessanti di fisica; La città del So le (composta nel I 6oz); Discorsi ai principi d'Italia (composti nel I 6o7); Philosophia rationalis (composta fra il I 6o6 e il I 6 I 4) suddivisa in Poetica, Rethorica e Dialectica; Apologia pro Galilaeo (I 6 I 6); Metaphysica (compiuta dopo lunga elaborazione nel I 6z 3); Theologia, in 29 libri (iniziata a comporre verso il I6I 3 e conclusa a Parigi). Altri scritti, meno importanti dal punto di vista filosofico, trattano argomenti di astrologia, medicina, ecc. Una sì vasta produzione dimostra anzitutto la straordinaria fecondità di Campanella come scrittore. Dimostra anche, però, la complessità del suo pensiero, in cui si intrecciano motivi diversi, ora di indubbia modernità e ora invece strettamente legati al passato. Per cogliere il senso profondo della sua filosofia bisogna tener conto di questi motivi, nonché del graduale sviluppo delle sue concezioni (e talvolta anche dei compromessi che egli dovette accettare per sopravvivere). Certo è che ancor oggi permane viva la discussione sul filo conduttore cui ci si debba affidare per la sua autentica interpretazione. Comunque, per il problema assunto come centrale dal presente volume-- cioè il problema dei rapporti fra pensiero filosofico e pensiero scientifico - la posizione di Campanella non sembra di particolare interesse, mentre è certo importantissima da altri punti di vista. Un semplice confronto fra il nostro autore e il suo contemporaneo Galileo ci dimostrerebbe agevolmente quanto poco abbia capito Campanella sia di ciò che veramente caratterizza la conoscenza scientifica moderna, sia dei problemi nuovi che essa suscita alla filosofia e in generale alla cultura. Per questo motivo siamo costretti a limitare la nostra esposizione a pochi punti essenziali, evitando di entrare in qualsiasi dibattito interpretativo. L'influenza del naturalismo telesiano sul pensiero di Campanella è chiaramente riscontrabile non solo nelle opere del primo periodo, ma pure nelle successive. Anche se col passar degli anni se ne aggiungono varie altre (particolarmente forte quella del platonismo), un punto sembra fermo in tutta la concezione campanelliana: che alla natura e solo ad essa va riconosciuta la possibilità di fungere da base originaria delle nostre verità. Ad una natura animata, però, come quella di Bruno; ad una natura la cui anima sia attività di senso. Questa concezione della natura come essenzialmente animata permette al naturalismo di Campanella di assorbire in sé (ancor più di quanto abbiano fatto Bruno e lo stesso Telesio) i grandi temi del magismo del Cinquecento, inquadrandoli in una fantastica ricostruzione della natura a partire dal suo creatore. L'ammirazione per Telesio e il netto rifiuto della filosofia aristotelica si inseriscono in un atteggiamento assai singolare di Campanella nei riguardi del pensiero greco e di quello latino-italiano: mentre il primo gli appare sofistico e menzognero, il secondo gli sembra invece racchiudere la vera grande tradizione della
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filosofia di Pitagora, Filolao, Timeo, ecc. fino appunto a Telesio. Sarà proprio questa fiducia nel senno latino che lo spingerà a scrivere - oltre l'apologia di Galileo - una lettera a lui direttamente indirizzata, per incitarlo a perseverare, malgrado ogni sorta di ostacoli, nelle libere ricerche astronomiche. Ciò che Campanella rimprovera agli avversari di Galileo, non è la loro opposizione scientifica al sistema copernicano (neanche Campanella lo condivide appieno), ma la loro pretesa di impedire - in nome della Bibbia - che tale sistema venga seriamente studiato e difeso. È stato dio stesso a darci i sensi e l'intelletto per conoscere le verità fisiche; perciò noi abbiamo il dovere di valerci di essi superando qualunque pregiudizio. L'ammirazione, sincera e completa, di Campanella per il naturalismo telesiano non gli impedisce però di elevarsi decisamente al di sopra di esso. Il distacco fra le due posizioni è segnato dal modo con cui il Campanella interpreta il processo sensoriale. Questo, infatti, non è riducibile - secondo lui - a pura passività, ma contiene oltre ad essa la percezione della passività (perceptio passionis). L'atto conoscitivo, in altri termini, è sempre costituito da un sensus abditus, o conoscenza di sé, e da un sensus additus o conoscenza delle cose esterne al percepiente. Il primo risulta non di rado quasi nascosto dalla massa delle percezioni; · proprio esso però è il più sicuro. Il richiamo ad Agostino è qui evidente: anche volendo dubitare di ogni cosa, non si può porre in dubbio l'esistenza del soggetto che percepisce. 1 Il sensus abditus offrirebbe - secondo Campanella - la base sicura di ogni conoscenza. L'intus existens diventa così, per lui, la garanzia ultima, non solo dell'essere del soggetto percepiente, ma anche dell'essere di ciò che si trova al di là del soggetto: «Noi sappiamo gli altri per questo, che sappiamo noi mossi e affetti dagli altri.» Proprio di qui prenderà l'avvio gran parte della filosofia moderna: essa, infatti, concepirà l'esteriorità essenzialmente come modificazione dell'io che percepisce. Il principio testé accennato costituisce, per il nostro autore, un punto fermo che gli consente di andare molto al di là della conoscenza sensoriale, inizialmente assunta - con Telesio - quale garanzia originaria di tutto il nostro conoscere. A partire da tale punto fermo egli può ormai salire a una vera e propria metafisica oltreché alla stessa religione. Limitandoci alla metafisica, ci accontenteremo di menzionarne alcuni punti, fra i più caratteristici. Campanella ritiene di poter scoprire nell'essere tre primalità (o principi costitutivi): potenza, sapienza e amore. Ogni essere è in quanto può essere; ogni essere è in quanto sa di essere; ogni essere, in quanto è e sa, ama il 1 Un argomento analogo ricomparirà in Cartesio; il significato attribuitogli dal filosofo francese sarà, tuttavia, completamente diverso. In Cartesio, infatti, costituirà il punto di partenza
per l'affermazione della realtà del pensiero; nel Campanella invece costituisce solo il punto di partenza per l'affermazione di un 'attività insita nel percepire.
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proprio essere. Il maggiore o minore possesso di queste primalità, permette, infine, al Campanella di stabilire una gerarchia tra gli esseri: al suo vertice sta dio, che le possiede in misura infinita; sotto di lui stanno gli esseri finiti, nessuno dei quali si trova nella condizione di potere, sapere e volere tutto. Con geniali ma artificiosi argomenti Campanella ritrova, tra tali esseri - per una via che ritiene « naturale» - tutte le distinzioni della metafisica e della teologia tradizionali. L'interesse di questa metafisica non risiede tanto nei singoli passaggi in cui si articola, quanto nel suo carattere generale: nel fatto, cioè, che per un lato essa offre a Campanella il modo di concepire l'esistenza di dio in una forma ·- diremmo noi- abbastanza ambigua onde poter soddisfare nel contempo sia l'esigenza immanentistica che gli deriva dal naturalismo rinascimentale, sia quella trascendentistica che gli deriva dalla tradizione cattolica; per un altro lato, gli offre la possibilità di conservare sia l 'impostazione sensi tiva della gnoseologia telesiana, sia la concezione panteistico-animistica della natura, di marca neoplatonico-magica. In questa concezione si inquadra, infine, molto bene il compito etico-metafisica che Campanella attribuisce ali 'uomo: il compito di costituire - con la propria intrinseca libertà, con la possibilità di scegliere il bene - una specie di collegamento magico fra dio e gli esseri finiti. Senza insistere più oltre su questi argomenti possiamo ora aggiungere qualche parola sulla concezione politico-teologica del nostro autore, che a ben guardare ha sempre occupato il punto focale dei suoi interessi. Basterà a tale scopo prendere in rapido esame la più nota fra le opere di Campanella: La città del Sole. Vi è chi ha visto, in questo breve ma interessantissimo scritto, nient'altro che una delle tante fantasiose esposizioni di città e stati ideali che sempre hanno suggestionato le menti degli uomini, dal medioevo al rinascimento; chi l 'ha collegata alla Repubblica di Platone, chi all'Utopia di Tommaso Moro, e chi nientemeno, per quest'opera, ha fatto del Campanella un precursore del comunismo moderno. In essa si descrive l'ordinamento, la vita e le vicende di uno stato ideale, la città del Sole, il cui scopo è soprattutto quello di educare gli uomini ad una vita fondata esclusivamente sulla ragione. I cittadini di questo stato, i cosiddetti Solari, debbono mirare ad una educazione enciclopedica: debbono sapere e fare tutto, debbono conoscere le lingue, le scienze, le arti e i mestieri. Un programma educativo che nulla esclude, che impegna completamente l 'individuo in ogni suo atteggiamento e in ogni suo pensiero. L'ordinamento di questo stato ideale è fondato su un consiglio del popolo, cui partecipano tutti i cittadini d'ambo i sessi, e che è convocato, normalmente, due volte al mese, e su un consiglio minore, formato dagli ufficiali maggiori e dai capi delle squadre di cittadini; poi vi sono tre prìncipi ufficiali, che sarebbero i capi delle tre branche dell'amministrazione e che sono denominati: il Podestà della guerra, il Sapienza delle scienze, e l'Amore della generazione (si noti la coincidenza di questi tre nomi con le tre primalità dell'essere di cui abbiamo par-
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lato poc'anzi); e, al di sopra di tutti, il capo supremo, il Metafisica, che nella lingua del posto è chiamato Sole. La vita della città del Sole è interamente regolata secondo ragione. I due canoni fondamentali che questa ha dettato ai cittadini sono: lavoro e abolizione della proprietà privata. I « solari » lavorano, si nutrono, dormono in comune; allevano i figli in comune; vestono tutti i medesimi abiti, che variano solo col variare delle stagioni. La loro religione è una forma di cristianesimo naturalistico, che comporta l'adorazione dell'universo quale immagine di dio. Credono nell'immortalità dell'anima, ma hanno forti dubbi sull'eternità delle pene che i rei dovrebbero subire nella vita ultraterrena. Sono nemici di Aristotele, che accusano di pedanteria. Non accettano le teorie astronomiche di Tolomeo né quella di Copernico. Accolgono invece l'astrologia, ammettendo però che le influenze degli astri determinino soltanto il corso dei fenomeni e non le concrete azioni umane. Noi «apparterremo alla provvidenza di dio, e non del mondo e delle stelle, perché rispetto a loro siamo casuali; ma rispetto a dio, di cui essi sono stromenti, siamo antevisti e previsti ». La proclamazione della fede nella libertà, intesa proprio come capacità di resistere alle imposizioni e alle torture oltre che all'influsso degli astri, costituisce la conclusione dell'opera: «E dicono che, se in quarant'ore di tormento un uomo non si lascia dire quel che si risolve tacere, manco le stelle, che inchinano con modi lontani, panno sforzare. » I pochi punti particolari, qui riferiti, dell'opera sono sufficienti a provare che essa può venir compresa solo se la si pone in diretto rapporto con la vita e il pensiero di Campanella: con la vita perché essa rappresenta la idealizzazione e, anche, la giustificazione dei suoi tentativi di insurrezione e ài ribellione (si noti che le deposizioni dei suoi seguaci al processo intentato contro Campanella sono delle grossolane anticipazioni degli argomenti contenuti nella Città del Sole); e con il suo pensiero, per i continui riferimenti ai principi della sua metafisica. Essi inoltre pongono in luce le innumerevoli contraddizioni del pensiero di Campanella, che si rispecchiano sinteticamente nelle credenze dei « solari »; contraddizioni che lo fanno oscillare fra l'ammirazione per le scoperte di Galileo e la fede nella magia e nell'astrologia; tra la ferma difesa della libertà individuale e la speranza di instaurare, in un mondo rinnovato, la monarchia papale universale. Il fatto è che in Campanella confluiscono correnti di pensiero profondamente diverse e pur tutte egualmente vive. La sua incertezza non fa che rispecchiare l'incertezza stessa dell'epoca cui appartiene, travagliata da insanabili conflitti culturali e sociali. Malgrado le oscillazioni cui abbiamo fatto cenno, Campanella ha lasciato, comunque, alla filosofia moderna una grande eredità: il suo tentativo di costruire una religione universale, parallela alla scienza della natura e altrettanto solida quanto essa. È un tentativo che, pur inserendosi nel movimento della controriforma, va senza dubbio molto al di là di esso. È vero, infatti, che Campanella
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crede di poter identificare questa religione con il cattolicesimo, e parla quindi di rivelazione, di grazia, di trascendenza, proprio come i teologi tradizionali; ma le parole che usa, hanno ormai cambiato significato. Il cattolicesimo non è, per lui, che la religione dell'umanità, volta a superare la propria limitatezza con uno slancio verso l'infinito. Il futuro sviluppo del pensiero europeo dimostrerà l'inconsistenza della sua illusione controriformistica. In realtà la religione campanelliana eserciterà la sua influenza ben più sui sostenitori della religione naturale, come Herbert di Cherbury, che non sui rappresentanti ufficiali dell'ortodossia cattolica.
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CAPITOLO NONO
Confluenza di fattori diversi nella nascita della scienza moderna
I
· FATTORI ECONOMICO-SOCIALI. TECNICA E SCIENZA
Abbiamo esaminato nei capitoli precedenti i principali indirizzi del pensiero rinascimentale e ci siamo costantemente preoccupati di porre in luce l'apporto, che ciascuno di essi recava alla graduale ma sempre più profonda trasformazione dell'atteggiamento dell'uomo nei confronti della natura. Sembra ora opportuna una breve riflessione di carattere globale che metta a fuoco la complessità del grande processo storico, conclusosi con la nascita della scienza moderna. Il medesimo argomento verrà ripreso da un altro punto di vista nel capitolo VIII della sezione IV, per meglio sottolineare le profonde trasformazioni concettuali implicate dalla rivoluzione scientifica. I mutamenti di fondo dell'economia europea costituiscono- come abbiamo accennato nel capitolo I - la base ultima di tutto il movimento di rinascita del xv e xvi secolo; essi hanno avuto riflessi ben evidenti in ogni campo di attività (dall'arte alla filosofia, dalla religione alla politica), determinando il sorgere di nuove prospettive per ciò che riguarda la funzione stessa dell'uomo nel mondo. È pertanto ovvio che a tali trasformazioni faccia capo, direttamente o indirettamente, anche la rivoluzione scientifica. È stato il generale incremento della produzione e dei commerci a provocare un nuovo assetto delle classi sociali, che ha favorito l'accesso agli studi di un numero crescente di giovani; è stato esso a sviluppare l'interesse per la vita terrena, lo spirito di iniziativa, la fiducia dell'individuo nelle proprie forze. Il processo di laicizzazione della cultura, che costituisce lo sfondo della rivoluzione scientifica, nasce in questo ambiente e in esso si consolida. Ma per individuare un'azione diretta delle nuove energie economiche sulla nascita della scienza, abbiamo soprattutto considerato le richieste sempre crescenti che privati e stati rivolgono ai tecnici per migliorare le industrie, i mezzi di trasporto, gli armamenti, le fortificazioni, ecc. A loro volta i tecnici sono costretti - per rispondere a queste pressanti richieste - a impostare in forma nuova i lavori di progettazione e fabbricazione, per l'innanzi affidati all'abilità di uomini senza cultura. Debbono elevarsi dal campo pratico a quello teorico, dal
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campo ove imperava la spontaneità delle ingegnose invenzioni a quello ove è richiesto lo studio razionale dei problemi. L'alleanza dei tecnici con gli scienziati diventa una necessità: assume l'aspetto di un fenomeno sempre più diffuso e imponente. Abbiamo visto nel capitolo VI quali effetti innovatori questo fenomeno produca nelle scienze: le aggancia a problemi ben delimitati, ove le varie teorie debbono mettere alla prova la loro validità; le sollecita a uscire dal vago delle affermazioni puramente qualitative, le costringe a prendere interesse per il mondo dei tecnici. Favorisce nel contempo la formazione di una nuova categoria di scienziati-ingegneri, che possono aspirare ad alte retribuzioni perché sono in grado di fornire pareri e consigli di indiscussa utilità pratica. Si sblocca il tradizionale isolamento dello scienziato, aumenta la sua reputazione sociale, cresce la fiducia del pubblico nelle sue capacità. Si affacciano alla cultura due grandi problemi di non facile soluzione: quello di elaborare teorie scientificamente serie (e quindi astratte, generali) che pur tuttavia si rivelino capaci di incidere nel progresso tecnico, e quello di tracciare una linea di netta demarcazione fra l'opera della scienza e l'opera della magia nel vastissimo campo dei problemi pratici. I due problemi sono fra loro strettamente connessi, perché anche il mago pretende di ricavare dalle sue fantastiche concezioni della natura le formule segrete con le quali risolvere i problemi della vita quotidiana. Si tratta di provare che queste formule - pur promettendo risultati miracolistici - sono in definitiva sostanzialmente sterili, mentre le soluzioni suggerite dalla scienza, che non fuoriescono da campi ben delimitati, rivelano in questi campi un'autentica efficacia. La grande vittoria dell'alleanza fra tecnica e scienza nasce proprio dal pieno riconoscimento - definitivamente acquisito all'inizio del xvu secolo dell'efficacia pratica della scienza e della sua incomparabile superiorità (anche da questo punto di vista) nei confronti della magia. Uno dei cardini dell'era moderna sarà costituito da tale riconoscimento, e dalla ferma convinzione che i progressi delle più rigorose ricerche potranno estendere, gradualmente ma sicuramente, il campo di validità pratica della scienza, accrescendo sul serio la potenza dell'uomo sulla natura. L'azione determinante esercitata dalla società rinascimentale sulla nascita della scienza si trasformerà in un legame dialettico fra progresso scientifico e progresso sociale, ove ciascuno dei due si rivelerà nel contempo causa ed effetto dell'altro. E attraverso l'alleanza fra tecnica e scienza la ragione potrà imporre i propri diritti al mondo moderno. Non vi è infatti motivo di ritenere che solo per motivi ideali l'umanità sia oggi più propensa di una volta a riconoscere questi diritti; essa li riconosce, perché vi è costretta dall'esigenza stessa del proprio sviluppo economico, che non può più fare a meno degli apporti della razionalità tecnicoscientifica.
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II
· CONTRIBUTI DELLE SCUOLE FILOSOFICHE RINASCIMENTALI ALLA NASCITA DELLA SCIENZA MODERNA
Come abbiamo spiegato nei capitoli precedenti, i maggiori indirizzi filosofici del rinascimento (neoplatonismo, aristotelismo, filosofia della natura) hanno senza dubbio contribuito in modo notevole a far emergere l'importanza centrale del problema della natura. Da questo punto di vista è dunque certo che tutti e tre hanno preparato efficacemente l'atmosfera culturale che doveva rendere possibile la nascita della scienza moderna. Essi però hanno anche fatto qualcosa di più, qualcosa cui conviene rivolgere brevemente la nostra attenzione. I neoplatonici hanno ritenuto di scorgere nella natura l'espressione della divinità, e perciò hanno impresso allo studio della natura un carattere misticoreligioso. L'impronta della divinità nella natura era, secondo essi, rintracciabile soprattutto nelle regolarità matematiche che noi possiamo riscontrare entro il mondo dei fenomeni. Di qui l 'importanza fondamentale della matematica per la conoscenza della natura. Non importa - secondo l'indirizzo in esame - che la matematica si lasci sfuggire le qualità dei fenomeni; essa fa qualcosa di più: ne coglie l'essenza, l'autentica realtà. Abbiamo più volte sottolineato che non tutti i pensatori del rinascimento interpretarono la matematica nel senso testé menzionato; altri la interpretarono infatti in senso ben diverso: non mistico-religioso, ma tecnico-operativo. È comunque innegabile il contributo del « divino Platone » ad orientare in direzione matematica gli studi intorno alla natura. Un orientamento mistico-magico si ritrova anche negli autori che abbiamo qualificato come « filosofi della natura » (pur con notevoli differenze fra l 'uno e l'altro di essi). Ciò che li caratterizza nei confronti della corrente neoplatonica è l'accentuazione dell'immanenza di dio nell'universo, onde lo studio della natura assume un valore più autonomo: non appare più come via per salire alla conoscenza mistica di dio, ma come studio che realizza già in se stesso tale conoscenza. Anche questo è stato un passo di notevole importanza nella preparazione della rivoluzione scientifica: e infatti ha posto in chiaro che l'oggetto della scienza non è una realtà inferiore -la cui unica funzione sarebbe quella di rinviarci a un'altra, più profonda, realtà- ma che è una realtà piena e completa, la quale ha in sé i propri principi e deve quindi venire studiata alla luce di null'altro fuorché questi principi. Quanto all'aristotelismo, sappiamo che esso costituì per tutti gli innovatori della scienza, come della filosofia, l'avversario più diretto e più tenace. Eppure, malgrado questa costante polemica antiaristotelica, la scienza moderna è stata fortemente debitrice anche nei riguardi dell'aristotelismo. Proprio a tale indirizzo, infatti, essa deve la fiducia nella piena conoscibilità della natura (con mezzi razionali, e con l'ausilio dei sensi, senza il benché minimo ricorso ad intuizioni
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Confluenza di fattori diversi nella nascita della scienza moderna 0 illuminazioni di carattere sovrarazionale). Pur con le sue mille pedanterie, l'aristotelismo fu inoltre il custode intransigente dei diritti sovrani della «ragione scientifica » contro ogni sopraffazione da parte della fede; la scienza moderna dovrà riempire tale « ragione » di nuovi più ricchi significati, ma- nel difenderne i diritti - sarà proprio l'erede diretta dei più seri maestri aristotelici. Né va infine dimenticata la continuità ideale, esistente fra gli aristotelici e i creatori della nuova scienza, per quanto riguarda il netto rifiuto (da parte degli uni come degli altri) di una interpretazione puramente nominalistica delle teorie scientifiche: quando Galileo respingerà il suggerimento del cardinale Bellarmino, di esporre il copernicanesimo solo come ipotesi matematica e non come verità fisica, egli si comporterà da coerente aristotelico, pur nell'atto di difendere una concezione cosmologica antitetica a quella di Aristotele. Questi brevi richiami sono sufficienti a farci concludere che la nuova scienza ha effettivamente e palesemente desunto alcuni motivi ideali assai importanti, vuoi dai neoplatonici, vuoi dagli aristotelici, vuoi dai filosofi della natura (pur senza legarsi per intero all'uno o all'altro di tali indirizzi), e che pertanto non ha affatto preteso di rompere ogni legame con la filosofia. Se è vero, come abbiamo sottolineato nel paragrafo precedente, che la scienza ha ricevuto un impulso di decisiva importanza dalle richieste dei tecnici, vero è però che la rivoluzione da essa attuata non si esaurisce nel campo della pura tecnica. È una rivoluzione che intende affrontare e risolvere in modo nuovo problemi di grande rilievo filosofico, e che proprio perciò non disdegna di avvalersi degli ultimi risultati acquisiti dai dibattiti dei filosofi. Lo scienziato del Cinque e Seicento è fermamente convinto che la conoscenza della natura sia un problema essenziale per la filosofia, e quindi ritiene che l 'introduzione di un nuovo metodo per attuare tale conoscenza non possa non avere un peso decisivo anche sul piano filosofico. Tale convinzione gli proviene dall'unanime consenso dei filosofi di tutti gli indirizzi testé ricordati; questi potranno dissentire fra loro sui motivi in base a cui giustificare l'importanza attribuita al problema della conoscenza della natura - e lo scienziato non si pronuncerà a favore dell'una o dell'altra giustificazione - ma il loro pieno accordo circa l'impossibilità di elaborare una seria concezione della realtà senza includervi una ben precisa concezione della natura, basta ad elevare il problema della conoscenza scientifica a un rango di primo piano nel quadro culturale dell'epoca. La filosofia, come studio dei soli problemi dell'uomo e di dio, o come studio dei soli problemi etici, è un non-senso per l'uomo del rinascimento. Si potranno discutere i rapporti fra conoscenza scientifica della natura e conoscenza religiosa di dio; si potrà discutere se l 'uomo faccia, o no, integralmente parte della natura; ma ciò che resterà fuori discussione è che la natura esiste e che costituisce un problema essenziale per qualunque filosofo. Né basta: ciò che ve~rà pure ritenuto indiscutibile - soprattutto per merito dei filosofi della
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natura - è che essa vada studiata in base ai propri principi. Quali siano poi questi principi, e quale sia il metodo più efficace per scoprirli, sarà un altro problema, su cui i. creatori della scienza moderna riterranno di poter dire una parola nuova, per l 'innanzi sfuggita a tutti i filosofi. III
· IL CONTRIBUTO DELLE SINGOLE SCIENZE
ALLA RIFORMA DEL METODO SCIENTIFICO
Come abbiamo visto nel capitolo VI le scienze che realizzarono più significativi progressi nel Cinquecento, furono senza dubbio l'astronomia, la matematica, l'anatomia e la meccanica. Sull'importanza dell'ipotesi copernicana per lo sviluppo generale della cultura abbiamo già parlato varie volte. La nuova cosmologia, che privava l'umanità della sua posizione centrale nell'universo, non poteva non incidere profondamente sulla concezione filosofica dell'uomo e dei suoi rapporti con la natura; essa costituiva inoltre una tappa neces&aria per liberare lo scienziato (ogni scienziato) dal peso del « sapere » tradizionale, « sapere » che la scienza deve poter mettere in discussione come qualunque altra ipotesi, rifiutandosi nel modo più assoluto di vedere in esso una barriera invalicabile alle proprie indagini. Per questo motivo Galileo sarà convinto che la nascita della scienza moderna non poteva non passare attraverso il copernicanesimo, e che l'opposizione delle autorità religiose a Copernico implicava la loro opposizione a tutto il rinnovamento della ricerca scientifica. Se il De revolutionibus orbium aveva ancora un prevalente carattere teorico, si vedrà presto tuttavia che l'accettazione della tesi ivi contenuta costituiva una premessa indispensabile alla franca accettazione dei dati dell'esperienza. Il grande astronomo Tycho Brahe, pur ritenendo che le proprie osservazioni celesti non richiedessero l'immediata adesione. all'eliocentrismo, aveva però riconosciuto la loro totale incompatibilità con le teorie aristotelica e tolemaica. Nel r610 Galileo, d'accordo con Keplero, non avrà dubbi sul fatto che le nuove scoperte rese possibili dall'uso del telescopio portavano direttamente all'accettazione della nuova cosmologia. Anche le famose scoperte anatomiche delle scuole di Padova e di Bologna ebbero anzitutto il significato di una decisa ribellione contro il peso del « sapere » tradizionale. Questo si imperniava, nel caso presente, sul nome di Galeno anziché su quelli di Aristotele e di Tolomeo; ma il risultato metodologico era identico a quello testé accennato a proposito di Copernico: la scienza non può ammettere nessuna limitazione aprioristica alla propria indagine, deve essere libera di ripudiare qualunque teoria - per quanto antica e autorevole - qualora i fatti osservati non si inquadrino in essa. L'essenziale sarà sviluppare al massimo l'osservazione; persegui da con scrupolo e sistematicità, senza prevenzioni di sorta;
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non mescolare inavvertitamente i dati con un'interpretazione precostituita di essi. Da questo punto di vista la coraggiosa lezione, impartita dalle grandi scuole anatomiche del Cinquecento, fu veramente un modello prezioso per tutto il successivo sviluppo della scienza. Il contributo della matematica cinquecentesca alla preparazione della rivoluzione scientifica va innanzi tutto cercato nella perfetta assimilazione dei teoremi e dei metodi di Euclide, di Archimede e di Apollonia, che costituiranno gli strumenti essenziali per lo sviluppo della meccanica, dell'astronomia, della ottica, dell'ingegneria, ecc. Un notevole peso va anche attribuito, però, alle grandi scoperte degli algebristi, soprattutto perché esse provarono che la matematica moderna era in grado di superare quelle stesse difficoltà da cui erano stati fermati i greci. Nel Seicento questa lezione di coraggio verrà seguita da altri valentissimi matematici, i quali ne trarranno impulso per andare oltre Archimede, dando inizio a quelle ricerche infinitesimali che costituiranno (già per Galileo) l'indispensabile strumento della scienza moderna. Ma la disciplina i cui progressi costituirono, senza alcun dubbio, la svolta determinante da cui prende inizio la scienza moderna fu la meccanica. Possiamo anzi a buon diritto affermare che, se Galileo suole venir considerato - e ben a ragione - il padre della scienza moderna, ciò è soprattutto dovuto al nuovo decisivo passo che egli ha saputo far compiere alla meccanica. I valenti cultori di questa disciplina, che incontrammo nel capitolo VI, contribuirono certamente, e molto, a renderlo possibile, ma il merito di averlo realizzato spetta a Galileo. Come spiegheremo diffusamente nel capitolo XI, gli studi galileiani di meccanica ebbero anche una fondamentale importanza metodologica, perché riuscirono - per la prima volta nella storia del pensiero umano - a offrire un esempio del tutto soddisfacente di combinazione sistematica fra « certe dimostrazioni » e « sensate esperienze ». Il nuovo tipo di « razionalità scientifica », che si attua in questa feconda combinazione, costituisce il nerbo del metodo sperimentale. I progressi realizzati da tutte le scienze con l'applicazione rigorosa di questo metodo (adattato di volta in volta alle particolari condizioni delle singole discipline) dimostrarono ampiamente che la via da esso aperta era quella giusta: era una via capace di farci penetrare i segreti della natura, incomparabilmente meglio sia della scienza tradizionale di tipo aristotelico sia di qualunque magia o stregoneria. Senza dubbio i vigorosi, ripetuti, richiami di Bacone alla necessità di rinnovare completamente i vecchi metodi di indagine della natura hanno compiuto una funzione essenziale nella storia del pensiero, illustrando la portata culturale, filosofica, sociale di tale rinnovamento. Essi avrebbero avuto però un'efficacia ben minore, se nel frattempo alcuni serissimi studiosi, personalmente impegnati nella ricerca scientifica, non avessero già indicato in concreto la via per realizzare la svolta auspicata.
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IV
· LA SCIENZA COME NUOVO MODO DI STUDIARE LA NATURA
Abbiamo richiamato nei paragrafi precedenti i tre principali fattori che confluirono nella nascita della scienza moderna: la nuova collaborazione fra tecntci e scienziati, il rilievo preminente dato dai filosofi al problema della natura; i successi concretamente conseguiti dalle principali discipline scientifiche, sulla base di uno studio spregiudicato e sistematico dei fatti, al di fuori dei quadri del sapere tradizionale. Per porre in luce il significato rivoluzionario di tale nascita, sarà ora opportuno aggiungere qualche parola su ciò che esso rappresentò per la cultura dell'epoca in esame. La conoscenza della natura era sempre oscillata fra due poli opposti: elaborazione di teorie generali, dirette a cogliere i principi primi della realtà, dai quali dedurre una spiegazione razionale di tutti i fenomeni; semplice descrizione di un settore limitato dall'esperienza, onde ricavarne - con ingegnosi tentativi, ora più ora meno fortunati - qualche orientamento pratico per le nostre azioni. Nel primo tipo di conoscenza era la ragione ad avere una prevalenza assoluta sull'esperienza, anche se- almeno in via teorica - si riconosceva pure a quest'ultima, da parte di alcuni autori (per esempio Aristotele), un compito rilevante nel dare inizio al processo conoscitivo. Nel secondo tipo, le posizioni erano rovesciate, e il fattore « elaborazione razionale » era sostituito dal ricorso all'ingegnosa fantasia del singolo ricercatore. La nascita della nuova scienza dimostrò che era possibile un terzo tipo di conoscenza, in cui l'elaborazione teorica e l'osservazione dei fatti si intrecciano inscindibilmente fra loro, con straordinario vantaggio di entrambe. I risultati di questo nuovo tipo di conoscenza sono ancora autentiche teorie (la cui razionalità è garantita dal forte apparato matematico), legate però - costantemente e sistematicamente - all'esperienza, sia pure, come vedremo, non in ogni loro singola posizione ma soltanto nella globalità della teoria stessa. Ovviamente, questo loro costante legame coll'esperienza fornisce alle conoscenze così acquisite un carattere di ineliminabile provvisorietà, perché l'emergere di fatti prima non osservati, potrebbe in un qualunque momento - se tali fatti non risultano spiegabili all'interno della teoria - costringerci a rettificarla, modificarla e forse abbandonarla. Il fatto è, però, che, nella storia ormai lunga della scienza moderna, queste modificazioni hanno sempre (o quasi sempre) costituito, non un abbandono completo della teoria incriminata, ma un suo inserimento come caso particolare in una teoria più articolata e più generale. Senza dubbio affiora qui un nuovo concetto di conoscenza che, pur potendosi dire « vera », in quanto garantita dalla sua logicità e dall'accordo con i fatti realmente osservati, non pretende di essere né assoluta né onnicomprensiva. Conoscenza che ha questa singolare prerogativa: di risultare essenzialmente dinamica,
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Confluenza di fattori diversi nella nascita della scienza moderna
cioè di cercare ininterrottamente nuovi confronti con i fatti, nuove estensioni a settori per l 'innanzi non presi in esame; e inoltre di non considerare come una sconfitta l'eventuale scoperta di qualche fatto che ponga in crisi le antecedenti costruzioni, ma al contrario di considerarla come un elemento preziosissimo per autocorreggersi, per impostare nuove ricerche. A ben esaminare i caratteri di questa conoscenza, si vede che essa consiste assai più in un processo di continue interrogazioni del~a natura e di continui tentativi di interpretare il senso delle risposte ottenute, che non in una serie ben definita di atti destinata a concludersi con la scoperta di una verità definitiva (o presunta tale); processo sempre incompleto, e che malgrado questa incompletezza ci pone in grado di fare ben precise previsioni, estremamente utili per orientarsi nell'esperienza. I problemi filosofici suscitati da questa nuova forma di conoscenza sono senza dubbio molto grossi e di ardua soluzione. Essi possono in ultima istanza riassumersi nella domanda: è o non è, questa forma di conoscenza, un autentico sapere? Come può esserlo, se non giunge mai, né pretende giungere, a verità assolute? E se non è un autentico sapere, come mai trova innumerevoli, sempre nuove, applicazioni? Come mai ci porta a risultati, anche teorici, che possono sì venire corretti e perfezionati dal proseguimento della ricerca scientifica ma non da alcun altro tipo di conoscenza (metafisica, teologica, mistica)? Pochi pensatori si resero conto, nell'epoca che stiamo considerando, della complessità e difficoltà delle domande testé accennate. Ma nei secoli successivi questi problemi si collocheranno sempre più al centro dei dibattiti filosofici, e ancor oggi vi occupano una posizione di cruciale importanza, come spiegheremo nel capitolo vn del volume IX. Una cosa, comunque, apparve certa fin dall'inizio: che questa nuova forma di conoscenza era l 'unico modo serio di studiare la natura. Filosofi, scienziati, metodologi saranno liberi di discutere sui caratteri, i fondamenti, le garanzie della conoscenza scientifica; anzi, avranno il dovere di farlo (tra l'altro perché le loro discussioni, se ben impostate, avranno il risultato di rendere tale conoscenza via via più efficiente). In ogni caso però, l'uomo non potrà rinunciarvi: essa costituisce ormai uno dei patrimoni più preziosi della civiltà moderna.
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CAPITOLO DECIMO
Francesco Bacone
I
· VITA E OPERE
Francis Bacon nacque a Londra nel 1561 da un dignitario di corte; la prematura morte del padre lo gettò tuttavia, fin da giovane, in gravi difficoltà finanziarie. Dedicatosi alla vita politica, riuscì a poco a poco a far carriera, dimostrando - nella lotta per la propria affermazione - una spregiudicatezza assai poco raccomandabile (si affrettò, per esempio, a rompere con il suo protettore Essex, appena si accorse che questi stava cadendo in disgrazia). Coprì, sotto Giacomo 1, uffici molto importanti; fu nominato Lord cancelliere e barone di V erulamio. Nel 162I, accusato di corruzione, riconobbe subito la propria colpa; dalla camera alta venne privato della dignità di Lord cancelliere, condannato ad una pena pecuniaria ed all'incarcerazione a discrezione del re. L'appoggio regio gli valse tuttavia a non pagare la multa e non scontare che pochi giorni di carcere. Si ritirò, quindi, a vita privata, interessandosi solo di studi. Morì nel 1626. Senza voler anticipare un giudizio sul pensiero baconiano, che ci riserviamo di delineare al termine del capitolo, dobbiamo avvertire fin d'ora che Bacone, pur senza essere stato un metodologo autenticamente moderno (cioè senza aver colto con chiarezza quali sono i punti più significativi e più complessi del metodo scientifico) e tanto meno essere stato un vero e proprio scienziato, fu senza dubbio uno degli uomini della sua epoca che più contribuì a diffondere la convinzione che la scienza avrebbe potuto nascere solo da una radicale riforma del sapere e che la sua nascita avrebbe avuto un significato rivoluzionario nell'ambito di tutta la civiltà. In questo senso egli fu veramente un profeta dei tempi nuovi, ed è ben comprensibile che a lui abbiano guardato - come a proprio maestro - i filosofi dell'illuminismo, e che anche la famosa Royal Society (che, come vedremo nella sezione IV, fu per secoli uno dei massimi centri propulsori del progresso scientifico) si sia esplicitamente richiamata alla « filosofia sperimentale » di Bacone come ad ispiratrice e guida della propria attività. Le opere filosofiche del nostro autore sono abbastanza numerose, ma pressoché tutte incentrate su di un medesimo tema. Lo ritroviamo già nel suo primo
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brevissimo scritto, Discourse in praise of knowledge (Discorso in elogio della conoscenza, I 592 ), che termina con queste significative parole: «Se ci lasceremo guidare dalla natura nell'invenzione, noi la comanderemo nell'azione. » Lo stile, incisivo e ricco di immagini, contribuirà non poco al successo della sua produzione, anche di quella non propriamente filosofica. Agli anni I6o3-o8 risale uno degli scritti più interessanti di Bacone (breve, in due soli capitoli), che però non venne pubblicato durante la sua vita: Temporis partus masculus sive instauratio magna imperii humani in universum (Il parto mascolino del tempo o la grande instaurazione dell'impero dell'uomo sull'universo). Nel I 6o9 egli pubblicò il De sapientia veterum (Della sapienza degli antichi), che ottenne subito un largo favore di pubblico: è una raccolta di
trentun miti dell'antichità da lui interpretati secondo gli interessi della sua filosofia politica, morale e naturale. Nel I6zo viene alla luce l'opera più importante di Bacone che porta il titolo assai impegnativo di lnstauratio magna (La grande instaurazione). In realtà l'autore lo dà alle stampe in forma incompiuta: essa contiene infatti soltanto una lunga prefazione e il piano generale del lavoro in cui si spiega la distribuzione della materia (che dovrà essere suddivisa in sei parti), nonché i sommi capi (distribuiti in aforismi) della seconda parte, avente per titolo Novum organum sive indicia vera de interpretatione naturae (Nuovo organo o veri indizi dell'interpretazione della natura). Mentre questa espone i principi generali del metodo, la prima parte avrebbe dovuto fornire- secondo il piano anzidetto un'enciclopedia generale delle scienze. Le altre quattro parti avrebbero dovuto esporre, nell'ordine: « fenomeni dell'universo cioè la raccolta delle esperienze di tutti i generi, quella storia naturale che può servire a fondare la vera filosofia », « modelli della ricerca e della scoperta secondo il nostro metodo », « quanto abbiamo scoperto noi stessi o verificato o aggiunto, anche al di fuori dei metodi e delle regole di interpretazione », antecedentemente spiegati, e infine « quella filosofia, che il nostro metodo di ricerca... ha preparato e diretto » intesa nella sua pienezza di conoscenza attiva capace di trasformare il mondo obbedendo alle leggi di natura. Nel I6z3 esce la seconda grande opera di Bacone, in nove libri: De dignitate et augmentis scientiarum (Della dignità e del progresso delle scienze), che rielabora uno scritto più breve (in due soli libri) pubblicato in inglese nel I Go 5, il quale portava il medesimo titolo. Nel I6zz e nel I6z3 escono pure due volumi che vogliono costituire la terza parte dell' lnstauratio; il loro titolo è Historia naturalis et experimentalis, ad condendam philosophiam, sive phaenomena universi (Storia naturale e sperimentale a fondamento della filosofia, ovvero fenomeni dell'universo). Infine nel I6z 5 sono pubblicati gli Essqys (Saggi), in parte di argomento letterario, ove tro-
vasi esposta con particolare chiarezza la famosa classificazione baconiana delle scienze (già delineata per altro in opere precedenti), che verrà poi fatta propria, nel Settecento, dagli enciclopedisti. Essa è fondata sulla distinzione delle tre facoltà: memoria, fantasia e ragione (vi ritorneremo nel paragrafo rv). Nel I627 William Rawley, segretario di Bacone, pubblicherà una miscellanea
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di appunti, concernenti più di mille esperienze, dandole il titolo di Sylva .rylvarum or a natura/ history (Selva delle selve ovvero una storia naturale), e aggiungerà, al termine del volume, il celebre frammento intitolato New Atlantis (Nuova Atlantide), che delinea la struttura di una società perfetta (presentandola come descrizione dei costumi di un'isola immaginaria, abitata da un popolo felice) e adombra l'esigenza di una costante collaborazione fra gli scienziati. II
· LA SCIENZA QUALE FULCRO
DEL RINNOVAMENTO DELLA SOCIETÀ
Come già abbiamo accennato nel paragrafo precedente, la grandezza di Bacone non va tanto cercata nella sua opera di innovatore dei metodi scientifici, e ancor meno in quella di autentico scienziato, quanto nella sua chiarissima percezione del peso culturale, e non solo culturale che la scienza era destinata ad assumere. Se è vero che tutti gli spiriti più illuminati della sua generazione e di quella immediatamente successiva furono fermamente persuasi, come lui, che il rinnovamento della scienza e della tecnica avrebbe accresciuto in misura enorme il potere dell'uomo sul mondo, è vero però che nessuno intuì con chiarezza pari alla sua che questo rinnovamento avrebbe coinvolto, non solo una riforma generale della filosofia, ma una profonda rivoluzione della stessa società. Considerato sotto questo aspetto, egli ci appare effettivamente come una delle personalità più rappresentative del nuovo ambiente in formazione nell'Europa del suo secolo (e soprattutto in Inghilterra); anzi una delle più consapevoli di ciò che la società europea sarebbe diventata, sia pure in un futuro non immediato, in seguito alla rivoluzione scientifica. Qualche studioso moderno, come per esempio il Farrington, giunge a presentarlo come l'autentico profeta della società industriale moderna. Anche la polemica vivacemente condotta contro la « filosofia degli alchimisti » così diffusa nel Cinquecento, riconferma questa modernità del nostro autore. Ed infatti solo un esame superficiale ed estrinseco potrebbe farci credere che la rivoluzione industriale costituisca il coronamento dei sogni di potenza dei maghi e degli alchimisti; in realtà essa è un'altra cosa, e cioè non il frutto del miracolistico segreto strappato alla natura da un mago più fortunato degli altri, ma il frutto di una interrogazione sistematica dei fenomeni, della collaborazione franca e costante fra più ricercatori, dello sforzo comune per ricavare a poco a poco, dalle sicure scoperte della scienza, un numero sempre maggiore di applicazioni pratiche, veramente utili a tutti. Particolarmente significativa ci appare, da questo punto di vista, l'utopistica descrizione - che Bacone abbozzò nella Nuova Atlantide - del tipo di società che egli considera ideale e perfetta. Se la confrontiamo con la società ideale descritta da Tommaso Moro nella sua Utopia o con quella descritta da Tommaso
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Campanella nella Città del Sole, vediamo che la società ideale di Bacone ha questo di caratteristico: la sua struttura è interamente fondata sulla scienza e sulla tecnica e tutta rivolta a farle progredire per il bene dell'umanità. Anche i rapporti tra scienza e religione vengono notevolmente illuminati dall'opet'a anzidetta: la società ideale di Bacone non vuol essere, infatti, una società irreligiosa; la sua religione, però, è costituita in modo da non trovarsi in contrasto con la scienza, e da assumere anzi fra le proprie funzioni più caratteristiche quella di appoggiare la scienza e garantirne il valore morale. Si tratta comunque di un accordo, che non richiede alcun riferimento a presupposti metafisici generali, basandosi più su esigenze pratiche che su ragioni filosofiche. È evidente che esso riflette la convinzione dei pionieri della rivoluzione economica in atto nell'Europa (convinzione particolarmente diffusa tra i protestanti), che le nuove strutture sociali, necessarie per portare a termine tale rivoluzione, avrebbero finito per trovare, non un ostacolo, ma un ausilio al proprio sviluppo nella serietà di concezioni e di costumi predicata dal cristianesimo. III
· LA POLEMICA CONTRO ARISTOTELE
Se Bacone, esponendo il suo programma di rinnovamento della società sulla base della scienza e della tecnica, crede sinceramente di non intaccare la religione, è invece ben convinto di trovarsi in posizione antitetica nei confronti della filosofia tradizionale. Questa- sull'esempio di ciò che pensavano Telesio e i naturalisti italiani - viene da lui identificata con la filosofia di Aristotele. In realtà Bacone conserva, su vari punti particolari della filosofia e della scienza, alcune idee di carattere nettamente aristotelico: esse sono molto più numerose di quanto egli non immaginasse. Malgrado questa indiscutibile realtà, la polemica da lui condotta contro il pensiero antico e medievale è senza dubbio fra le più energiche e intransigenti che la storia della filosofia ricordi; così energica da apparire, non di rado, persino intemperante. Essa si inserisce in una visione generale della storia, basata sulla considerazione del sapere umano come un complesso di energie in continuo sviluppo, che percorrerebbero varie fasi analoghe alla vita dell'uomo. In questo secolare sviluppo, i filosofi antichi rappresenterebbero l'età infantile, i moderni invece la piena maturità. È perfettamente naturale, quindi, che le concezioni dell'antichità siano del tutto simili al balbettio dei bambini, senza confronto meno solide delle nostre che sono il frutto di lunghissima esperienza. Il laborioso movimento per liberare la ricerca scientifico-filosofica dalla pesante autorità della tradizione (movimento di cui incontrammo i primi coraggiosi passi negli iperdialettici nel xrr secolo e di cui seguimmo poi i difficili sviluppi nella storia delle scienze particolari, dalla matematica alla medicina) raggiunge qui la sua piena attuazione. L'antichità di una dottrina non è più consi143
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derata come garanzia della sua solidità. Al contrario: si prospetta arditamente la concezione della verità come figlia del tempo. « In ogni caso, » leggiamo nel Temporis partus masculus, « la scienza si deve cercare nel lume della natura, non nelle tenebre dell'antichità. Non importa quello che è stato fatto; bisogna considerare quello che si può fare. Se ti venisse offerto un regno soggiogato con le armi in una guerra vittoriosa, faresti tu questione se i tuoi antenati lo avessero posseduto o no, andando a sollevare la polvere delle genealogie? » Passando ora ad un esame più dettagliato della polemica di Bacone contro Aristotele, diremo subito che il primo e più importante argomento affrontato dal filosofo è la logica. L'obiezione centrale che Bacone solleva contro la logica aristotelica è l 'invincibile sterilità delle sue artificiose regole deduttive. Esse affermano di dedurre il caso particolare dalle premesse generali del sillogismo; si tratta, però, di una pura e semplice illusione. Non ci dicono infatti la cosa più importante, e cioè come sia possibile ottenere tali premesse; in altri termini, non ci dicono nulla o pressoché nulla su quella parte della logica (dialettica dell'invenzione) di cui già molti studiosi del Cinquecento avevano cominciato a comprendere, e sottolineare, l'essenziale funzione entro la scienza. A rigore, qualcuno potrebbe rispondere a Bacone che il problema non era affatto sfuggito ad Aristotele: tant'è vero che lo stagirita aveva ideato, per risolverlo, il famoso processo di induzione. Proprio questo però è - a giudizio dell'inglese -il punto più debole della logica aristotelica. Essa, infatti, non riesce in alcun modo a giustificare le proposizioni universali, lasciando fra queste e i dati di osservazione un vuoto incolmabile. Illusorio è, dunque, ritenere che essa giustifichi sul serio le premesse dei sillogismi, e sia in grado di fornire loro un'effettiva solidità. L'errore di Aristotele è di balzare da pochi dati di osservazione ai pretesi principi generali, invece di servirsi di principi intermedi. « Due sono, o possono essere, » scr~ve Bacone nel Novum organum, « le vie per la ricerca e la scoperta della verità. L'una dal senso e dai particolari vola subito agli assiomi generalissimi, e giudica secondo questi principi, già fissati nella loro immutabile verità, ricavandone gli assiomi medi: questa è la via comunemente seguita. L'altra dal senso e dai particolari trae gli assiomi risalendo per gradi e ininterrottamente la scala della generalizzazione, fino a pervenire agli assiomi generalissimi : questa è la vera via, sebbene non sia stata ancora percorsa dagli uomini. » Aristotele ha scelto la prima via, la più spontanea; perciò la sua logica non ci serve più. Noi dobbiamo invece crearci gli strumenti per imboccare con sicurezza la seconda, più difficile via. Dovremo sì, anche noi, prendere le mosse dai dati empirici; ma sottoponendoli ad una più accurata elaborazione. Osservazioni casuali e imperfettamente analizzate, constatazioni disorganiche di singoli fenomeni, non sono in grado di fondare alcun principio scientifico. Occorre sì appellarsi ai sensi ma soprattutto sapersi elevare alla experientia litterata.
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IV
· LA RIFORMA DEL SAPERE IN SENSO PRATICO-OPERATIVO
La polemica baconiana contro Aristotele non si arresta alla logica, ma investe l'intero problema della conoscenza in tutta la sua complessità. Secondo Bacone, la filosofia di Aristotele è macchiata, come in genere tutti i sistemi filosofici dell'antichità escluso quello di Democrito, da un gravissimo vizio d'origine: un autentico peccato di presunzione. Essa presume, infatti, di ricavare la conoscenza del mondo dalla mente umana, invece di cercarla pazientemente nell'osservazione della natura. Considerato da questo punto di vista, il ricorso all'esperienza, che viene contrapposto da Bacone al sillogismo aristotelico, acquista un significato più profondo e quasi religioso: il significato, cioè, di liberazione dall'anzidetto peccato d'origine e dalle sue perniciose conseguenze. Per punire l'uomo della sua peccaminosa presunzione, dio lo aveva privato di ogni reale potere sopra le cose. Volendo ora evitare questa punizione, non ci resta che un mezzo: liberarci dal peccato originale di presunzione ora menzionato, ripudiando con esso tutta la filosofia greca. La riforma proposta da Bacone oltrepassa quindi, di molto, i confini della logica. Essa non implica soltanto un'integrazione dell'antico modo di argomentare, ma una svolta decisa della filosofia, un totale capovolgimento di indirizzo. Si tratta, in altri termini, di abbandonare il modo di procedere essenzialmente teorico degli antichi filosofi, per instaurarne uno nuovo, essenzialmente praticooperativo, capace di tenere conto di ogni arte o mestiere che ci ponga a diretto contatto con la natura. Sono qui ben evidenti i riflessi di un atteggiamento comune a gran parte degli scienziati e dei filosofi del rinascimento. Ma in Bacone vi è qualcosa di più: vi è l'aperta dichiarazione che la filosofia non poté progredire a causa del suo atteggiamento speculativo, mentre la tecnica - per il suo impegno pratico riuscì a perfezionarsi in modo pressoché ininterrotto: « Se queste scienze, » scrive nella prefazione dell'lnstauratio magna, «non fossero cose morte, non sarebbe potuto accadere quello che per tanti secoli è accaduto, che esse siano rimaste quasi immobili sulle loro stesse tracce, senza mai arrecare validi progressi all 'umanità... Nelle arti meccaniche vediamo accadere il contrario; quasi fossero partecipi di qualche spirito vitale, s'accrescono e si perfezionano ogni giorno di più; presso gli iniziatori erano rozze, quasi informi e pesanti, ma poi hanno preso nuove forze ed una certa snellezza, tanto che verrà a mancare il desiderio umano di sapere o muterà l'interesse prima che esse siano giunte al vertice della loro perfezione. La filosofia, invece, e le scienze intellettive, come statue, sono adorate e celebrate, ma non son mai fatte avanzare. » La necessità di abbandonare lo sterile speculativismo della vecchia filosofia è, per ~acone, qualcosa che non ammette dubbi; la nuova scienza non dovrà pre145
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sentarsi come continuatrice di quella antica, ma scaturire da un radicale mutamento di rotta, che le consenta di risultare, nel contempo, lucifera et fruct[fera. « Vano è attendere un gran rinnovamento nelle scienze dalla sovrapposizione e dall'inserimento del nuovo sul vecchio: bisogna compiere una completa instaurazione del sapere iniziando dalle fondamenta stesse della scienza, se non ci si vuole aggirare sempre in un circolo, con un progresso scarso e quasi trascurabile. » È per l'appunto questa esigenza di una svolta radicale, senza mezzi termini, ab imis fundamentis, ciò che spinge Bacone a progettare la strutturazione della scienza in una nuova enciclopedia (instauratio magna) totalmente diversa da quella di Aristotele. Essa si fonda - come già accennammo nel paragrafo I - sulla distinzione di tre gradi di conoscenza: a) conoscenza storica, basata sulla memoria, e cioè sulla pura raccolta di materiali d'osservazione; h) conoscenza poetica, basata sulla fantasia, e cioè sulla libera costruzione di piacevoli sogni, senza alcun contatto con i dati; c) conoscenza filosofica, basata sull'intelletto, cioè sulla elaborazione razionale dei dati: questa comprenderà la teologia naturale, la fisica, la medicina, e culminerà nella philosophia activa ossia nella costruzione di strumenti utili ali 'uomo. Lavorare per la costruzione di una philosophia activa non significa però - sia detto ben chiaramente - cercare precipitosamente delle cognizioni che risultino d 'immediata utilità. Significa invece cercare i principi dei fenomeni; significa determinare con assoluta limpidità le leggi della natura; non però nell'intento di !imitarci a contemplarle, bensì di ricavare proprio da esse efficaci regole di azione, cioè di farne la base sicura delle nostre arti. « Il fine della nostra scienza non è di scoprire argomenti, ma arti; non le conseguenze che derivano da principi posti, ma gli stessi principi; non ragioni di probabilità, ma designazione e indicazioni di opere. » Ma saremo noi in grado di realizzare una svolta così radicale, di intraprendere sul serio quel complesso di indagini che ci porterà alla philosophia activa testé delineata? Bacone non ha dubbi in proposito. Egli è sicuro che potremo raggiungere il fine voluto, purché sappiamo guidare bene la nostra ricerca: « Ci occorre un filo conduttore per guidare i nostri passi, e tracciare la via fin dalle prime percezioni dei sensi. » V
· LA LOGICA DI BACONE
Il filo conduttore, di cui abbiamo fatto parola nelle ultime righe del paragrafo precedente, ci è fornito- secondo Bacone- dal novum organum. L'arte che esso ci insegna è « una specie di logica, sebbene sia ben lontana, anzi immensamente lontana, dalla logica volgare ». La logica di Bacone si suddivide in due parti: la liberazione dall'errore (pars destruens) e la costruzione del sapere (pars adstruens).
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La prima parte è costituita dalla teoria degli idola. Errori e pregiudizi sono, infatti, paragonabili - secondo Bacone - agli idoli che nascondono la visione del vero dio. Gli idoli, che celano all'uomo il vero sapere, sono di quattro tipi. Gli «idoli della tribù» sono quelli comuni a tutti gli uomini, e richiedono quindi un esame critico della stessa natura umana; tali, per esempio, la limitatezza e fallibilità dei sensi, la tendenza della mente a vedere una uniformità e regolarità anche ove essa non esiste affatto, ecc. Gli «idoli della spelonca» dipendono, invece, dalla natura dell'individuo e debbono venir corretti cercando di superare le limitatezze del singolo uomo, i suoi gusti, le sue tendenze particolari, le abitudini contratte dall'educazione, dall'ambiente in cui è sempre vissuto, ecc. Gli «idoli del foro» (cioè del mercato, o ve gli uomini vengono a contatto gli uni con gli altri) derivano soprattutto dal linguaggio, che crea parole vuote per cose inesistenti e viceversa non dispone di vocaboli specifici per indicare cose effettivamente esistenti; l'eliminazione di questi idoli implica l'eliminazione di tutti i concetti puramente illusori e delle infinite controversie verbali che si accendono intorno ad essi. Infine gli «idoli del teatro» sono quelli dovuti all'influenza delle teorie tradizionali, che ingannano gli uomini proprio allo stesso modo degli istrioni, i quali, recitando in teatro, ingannano il pubblico degli spettatori: la loro eliminazione coincide con la critica del sapere tradizionale, accennato nelle pagine precedenti. La pars adstruens consiste nella determinazione delle regole, che caratterizzano l'experientia litterata (di cui poco sopra parlammo), unico serio fondamento del sapere. Esse sono le regole dell'induzione baconiana, contrapposte a quelle dell'induzione aristotelica. Come già spiegammo più sopra, anche l 'induzione baconiana, non diversamente da quella aristotelica, prende l'avvio dai fatti empirici, ossia dalla cosiddetta « storia naturale ». Questi fatti però non devono essere soltanto osservati, contemplati, ma posti a confronto gli uni con gli altri mediante opportune « tavole ». « Ma la storia naturale e sperimentale è tanto varia e sparsa, che confonde e disgrega l'intelletto, se non è fissata e disposta secondo un ordine idoneo. Perciò si devono preparare "tavole " o "condizioni delle istanze ", disposte in modo tale che per mezzo di esse l'intelletto possa lavorare attivamente. » Possiamo schematizzarle in tre tipi: I) si tratta innanzi tutto di elaborare, per ogni fenomeno studiato, la tabula presentiae, che registra con la massima precisione tutti i casi in cui tale fenomeno si verifica; 2) si elaborerà poi la tabula absentiae, registrando i casi in cui il fenomeno non ha luogo, mentre si sarebbe creduto di trovarlo; 3) si passerà, infine, alla tabula graduum, che studia i casi in cui il fenomeno aumenta o diminuisce. Soltanto la costruzione rigorosa di tutte e tre le tavole ci permetterà, secondo Bacone, di penetrare a fondo la natura del fenomeno. A tale scopo sarà 147
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necessario un accurato esame comparativo delle tavole stesse, cui seguirà la formulazione di una ipotesi, e, in ultimo, la sua verifica empirica. Bacone osserva, tuttavia, che la prima ipotesi (o prima vendemmia) non può avere- in genere- che un valore orientativo. Essa è quindi nulla più che un 'ipotesi provvisoria, destinata a venire smentita, nel momento stesso in cui cercheremo di verificarla. Proprio quest'errore, però, chiarirà le nostre idee, e faciliterà la formulazione di altre ipotesi più approssimate. Senza fermarci più oltre nell'esame delle nuove istanze che Bacone suggerisce per il graduale perfezionamento delle nostre ipotesi (determinazione dei casi eccezionali, studio dei fenomeni sul loro nascere, ecc.), basti sottolineare l'acume di questa teoria, la sensibilità che essa rivela per lo sforzo tenace e prolungato, indispensabile in ogni ricerca veramente scientifica. VI
·
LE FORME DEI FENOMENI
Se l'induzione baconiana si presenta fin qui ben articolata e con molti caratteri di novità e di concretezza, da questo punto in poi essa rivela, invece, alcuni gravissimi difetti, che ne sottolineano i pesanti legami col passato. Per porre in luce tali difetti basterà chiederci: qual è il risultato che Bacone si propone di raggiungere con l'esame dei fenomeni, rigorosamente condotto secondo le regole logiche or ora delineate? Diversamente da ciò che potremmo attenderci, il risultato, cui mira l'induzione baconiana, è molto simile a quello cui mirava la ricerca scientifica intesa nel senso tradizionale. Bacone ci dice infatti con parole molto esplicite che il risultato della ricerca scientifica deve essere costituito dalla « forma » dei singoli fenomeni studiati. Per esempio, il risultato di un'indagine logicamente rigorosa intorno al calore - egli stesso si sofferma a lungo su questa esemplificazione - deve essere la « forma » del calore, ossia la determinazione della nota caratteristica, effettivamente comune a tutte le cose calde. Si è discusso a lungo, dagli interpreti moderni, sull'esatto significato da attribuire alle « forme » baconiane. Taluno ha voluto vedere in esse qualcosa di molto simile a ciò che noi chiamiamo le « leggi naturali » dei fenomeni. Questa interpretazione sembra, tuttavia, alquanto artificiosa e dettata da eccessiva benevolenza verso il pensatore inglese. Contro di essa stanno: da un lato l'evidente analogia tra le forme baconiane e quelle ricercate dai fisici aristotelici; dall'altro, le profonde differenze tra le forme baconiane e le « leggi di natura » nel senso che la scienza moderna attribuisce a questa parola. Sarà opportuno spiegare, pur molto in breve, queste differenze; esse riguardano in particolare il carattere matematico delle leggi fisiche. Mentre, come vedremo, questo carattere sarà pienamente riconosciuto da Galileo e dai grandi scienziati dei secoli successivi, esso sfugge nel modo più totale a Bacone, sicché
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la scienza che dovrebbe costituire la grande conquista della sua nuova logica, risulta una scienza puramente qualitativa non dissimile dalla fisica aristotelica. Né basta: l 'indifferenza di Bacone di fronte alla matematica, la sua incomprensione per il valore di questa scienza (vuoi in se stessa, vuoi nella sua funzione strumentale per tutte le altre scienze) lo porta a un punto tale di cecità, da fargli trascurare il problema di una precisa collocazione di essa nella sua nuova enciclopedia del sapere. Per comprendere la ·gravità di questa posizione, basti riflettere all'enorme influenza progressiva esercitata su gran parte degli scienziati del rinascimento dalla lettura dei testi di Archimede; non afferrando il significato e il valore di questa influenza, Bacone si collocò inconsciamente fuori dell'indirizzo più fecondo del pensiero scientifico-filosofico rinascimentale. La sordità di Bacone per la matematica trova perfetto riscontro nella sua incomprensione del gravissimo conflitto culturale venuto alla luce nelle grandi controversie astronomiche dell'epoca. «Nessuno,» egli scrive, «può sperare di risolvere il problema, se il cielo oppure la terra debbano subire una rotazione quotidiana, qualora prima non abbia compreso la natura dello spontaneo movimento circolare. » È una posizione agnostica, che nasconde una vera e propria arretratezza scientifica. In effetti, Bacone non cerca la natura del movimento circolare nell'analisi matematico-meccanica del movimento stesso, cioè nelle «misure» e nei «periodi dei moti celesti», ma nella gioia o nell'orrore che i corpi proverebbero per tale moto. Questo ritorno a concezioni prescientifiche, nei medesimi anni in cui Keplero e Galileo conducevano con metodi quasi interamente moderni la loro battaglia in favore dell'ipotesi copernicana, non può che confermarci l'esistenza di molti lati equivoci nella concezione dell'inglese. Bacone sostiene che la forma dei fenomeni scaturisce, non dall'esame quantitativo dei fenomeni stessi, ma dalla composizione interna delle cose (cioè dallo schematismus latens) e dagli intimi processi che stanno alla base di tale composizione (cioè dal processus latens). Anche di questi due concetti- dello schematismus latens e del processus latens - si è tentato di dare interpretazioni molto lusinghiere per il loro autore, quasi che costituissero geniali intuizioni di quelli che saranno gli sviluppi più recenti della scienza moderna. Si tratta però, ancora una volta, di interpretazioni prive di fondamento, non potendosi attribuire a Bacone il dono di intuire gli sviluppi lontani della scienza, quando egli si mostrava incapace di comprendere i più basilari progressi della scienza del suo secolo. In realtà i due concetti ora accennati non sono altro che semplici residui dell'alchimia rinascimentale, cioè di una dottrina che proprio Bacone aveva energicamente combattuto come arretrata ed esecrabile. L'appello ad essi in funzione esplicativa dei fenomeni, dimostra soltanto il permanere in lui di una concezione sostanzialistica del mondo che, a ben guardare, non si accorda affatto con le linee generali della sua filosofia. È una incongruenza grave, che ci conferma quanto fosse difficile 149
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- anche per un pensatore come Bacone - rinnovare a fondo la filosofia senza tenere seriamente conto dei progressi scientifici oltreché di quelli tecnici. VII
· VALORE E LIMITI DELL'OPERA DI BACONE
Può essere utile riassumere i punti essenziali, gradualmente emersi dalla nostra pur sommaria esposizione, cui occorre far riferimento per una valutazione critica dell'opera di Bacone. I motivi che ci hanno fatto riconoscere il grandissimo valore di tale opera sono fondamentalmente i seguenti: I) la ferma convinzione, ripetutamente espressa da Bacone, dell'assoluta necessità di operare una frattura completa entro la vecchia filosofia e la vecchia metodologia per dare inizio a un tipo di sapere scientifico veramente nuovo, esente dagli impacci che ostacolavano le precedenti indagini sulla natura; 2) la chiarissima intuizione che questo nuovo tipo di sapere non potrà essere né puramente speculativo né solo preoccupato delle immediate applicazioni tecniche, ma volto a cogliere i principi che regolano il corso dei fenomeni nell'intento di ricavarne i mezzi per dominare questi fenomeni, cioè per modificarli e dirigerli a vantaggio dell'umanità (sarà proprio questa capacità dei principi di diventare base per l'azione ciò che ne garantirà, secondo Bacone, l'effettivo valore di verità); 3) la piena consapevolezza che la nuova forma di sapere dovrà risultare essenzialmente basata sull'osservazione, ma che questa non dovrà consistere in una semplice registrazione dei fatti via via presentatisi dall'esperienza, bensì in una elaborazione attiva di essi; 4) la sicura previ~ione che le conquiste realizzate dal nuovo tipo di sapere condurranno l'umanità a trasformare profondamente la propria cultura e firianco le proprie strutture sociali, onde il progresso scientifico diverrà la molla più efficace di tutto il progresso del mondo moderno, e dovrà quindi stare al vertice degli interessi di ogni stato civile, realmente preoccupato del bene dei suoi cittadini. I punti nei quali abbiamo invece dovuto riconoscere i limiti dell'opera di Bacone sono: I) le sue proposte per il rinnovamento della metodologia scientifica; 2) il fine che egli ritenne di dover attribuire alla conoscenza scientifica. Tali proposte infatti, pur facendo appello alla giusta esigenza di non ridurre la induzione a una semplice registrazione dei fatti, non ci sono parse in grado di uscire dal generico e soprattutto di comprendere (e precisare) il compito spettante alla matematica nell'elaborazione dei dati empirici. Quanto al fine che Bacone attribuì alla conoscenza scientifica, quello cioè di cogliere la « forma » dei fenomeni, ci è parso non discostarsi sostanzialmente da quello attribuitole dalla vecchia concezione aristotelica, e quindi inadeguato a caratterizzare le spiegazioni dei fenomeni ricercate dalla scienza moderna. Se ci proponessimo di individuare le ragioni profonde dei limiti testé accennati, dovremmo probabilmente cercarle nel fatto che Bacone, pur intuendo
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così chiaramente il significato e la portata della rivoluzione scientifica, restò al di fuori del laborioso e complicato processo storico che stava di fatto attuando tale rivoluzione, e che all'inizio del Seicento l'aveva condotta pressoché a compimento. Egli fu molto attento ai numerosi progressi della tecnica cinquecentesca (sappiamo che riconobbe la grande importanza dello scritto di Agricola, da noi accennato negli ultimi paragrafi del capitolo v1); si interessò pure vivamente dell'ampia letteratura magico-alchimistica (delle opere di Paracelso, di Cardano, ecc.), contro la quale scagliò - e gliene va dato merito- numerose e ben circostanziate accuse; ma si lasciò sfuggire l 'importanza scientifica e filosofica della nuova meccanica, della nuova astronomia e della nuova matematica, cioè per l'appunto di quelle discipline i cui rapidi progressi stavano dando (nel Cinque e Seicento) i contributi più decisivi alla nascita della scienza moderna (nel senso rigoroso di questo termine). È un limite, quello ora accennato, che non impedì a Bacone di prender parte - sia pure dall'esterno - alla grande rivoluzione scientifica che segna l'inizio dell'era moderna, e anzi di occuparvi un posto eminente (posto di autentico profeta che riuscirà a far giungere la sua autorevole voce a generazioni e generazioni di studiosi, impegnati nella piena attuazione del nuovo programma scientifico). E tuttavia è un limite grave, che gli impedì di essere un diretto protagonista di tale rivoluzione. Esso va tenuto presente da chi voglia comprendere e spiegare tal uni pericolosi equivoci sorti, in tempi non molto lontani dai nostri, intorno al pensiero di Bacone. È probabile, infatti, che sia stato proprio tale limite a suscitare intorno a Bacone l'interesse entusiastico di studiosi, il cui indirizzo filosofico (a impronta idealistica) sta agli antipodi di quello baconiano. Così è accaduto che il più acceso difensore del valore della scienza finì per diventare - col trascorrere dei secoli uno degli autori prediletti da chi nutriva per la scienza un sostanziale disprezzo e nulla conosceva dell'autentica, complessa, storia della rivoluzione scientifica.
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CAPITOLO UNDICESIMO
Galileo Galilei
I
· VITA, OPERE E PERSONALITÀ DI GALILEO
Galileo Galilei nacque a Pisa il I 5 febbraio I 564 da antica famiglia fiorentina, appartenente alla buona borghesia (un antenato paterno « magister Galilaeus de Galilaeis » era stato, nella prima metà del Quattrocento, medico illustre e gonfaloniere di giustizia), ma alquanto decaduta da un punto di vista finanziario. Il ·padre Vincenzio, che era un valente musicologo oltreché un ottimo suonatore di liuto, gli impartì fin dalla prima giovinezza un'educazione molto aperta, a carattere nettamente umanistico. Immatricolato, nel I 58 1, all'università di Pisa come studente di medicina, si dimostrò assai poco interessato a questa scienza e cominciò ben presto a coltivare, in luogo di essa, la matematica studiandola con molto impegno - sotto la direzione di un amico del padre, Ostilio Ricci, già discepolo di Nicolò Tartaglia sulle grandi opere dei greci, in particolare di Euclide e di Archimede. Né soltanto alla matematica teorica rivolse le sue cure; dimostrò al contrario, fin da quegli anni, una grande propensione per la matematica applicata, la tecnica, e in genere l'osservazione dei fatti empirici. Basti ricordare, a conferma di ciò, la celebre scoperta dell 'isocronismo delle oscillazioni del pendolo, da lui compiuta nel I 58 3. Dell'isocronismo continuerà a occuparsi per tutta la vita, cercando di dimostrarlo per via matematica. Mentre per la matematica, pressoché trascurata all'università di Pisa, aveva dovuto cercarsi un maestro nell'ambiente di Firenze, non altrettanto accadde per la fisica. Questa veniva infatti insegnata in tale università da un dotto professore di formazione aristotelica, Francesco Bonamico; Galileo ne seguì i corsi e ne subì per qualche tempo una certa influenza, come risulta dai suoi appunti risalenti a quegli anni, che sono raccolti nell'edizione nazionale degli scritti galileiani sotto il generico titolo di luvenilia. Dal Bonamico apprese la cosmologia generale di Aristotele e la centralità del problema del moto per tutta la scienza fisica. Ritornato a Firenze nel I 58 5, trascorse quattro anni in famiglia, cercando di arricchire le proprie conoscenze nei campi più diversi - matematico, filosofico, letterario - in fecondo contatto con il vivace ambiente culturale frequentato dal IjZ
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padre. Nel I 586 inventò una bilancetta idrostatica per determinare il peso specifico dei corpi, scrivendo sull'argomento un breve ma interessante opuscolo che porta appunto per titolo La bilancella. Nel I 587-8 8 si occupò del baricentro dei corpi, dimostrando su di essi alcuni teoremi che verranno poi pubblicati nel I638 in appendice ai Discorsi intorno a due nuove scienze. Sempre nel q88 tenne all'accademia fiorentina due Lezioni circa la figura, sito e grandezza dell'Inferno di Dante per difendere l 'ipotesi del Manetti sulla topografia dell'Inferno dantesco; tale difesa gli fornisce l'occasione di trattare alcuni precisi problemi geometrici, nel cui esame Galileo dimostrò, per un lato, una rigorosa perizia matematica, per l'altro, una perfetta padronanza del testo da interpretare. Finalmente nel I 589 riuscì a ottenere, per l'appoggio di alcuni illustri scienziati dell'epoca che avevano appreso ad apprezzare il suo vivace ingegno (in particolare del matematico Guidobaldo del Monte), un posto di lettore di matematica presso l'università di Pisa. Così poté ritornare, come professore, in questa gloriosa univerf>ità, che quattro anni prima aveva dovuto abbandonare senza avervi concluso alcun ciclo di studi. L'insegnamento affidato a Galileo era, però, di carattere complementare, e gli procurava una scarsissima retribuzione a mala pena sufficiente per vivere. Due anni dopo, le ristrettezze finanziarie si fecero ancora più gravi per la prematura morte del padre e la conseguente necessità di aiutare la famiglia (Galileo era il primogenito). Intanto continuava a interessarsi vivamente di problemi letterari. Molto probabilmente risalgono a questo periodo pisano le Considerazioni sul Tasso o almeno una parte di esse. Queste Considerazioni, come le Postille all'Ariosto (di data incerta), consistevano di varie annotazioni, ora aggiunte da Galileo a margine dei volumi da lui posseduti della Gerusalemme liberata e dell'Orlando furioso, ora scritte su fogli sparsi, intercalati fra le pagine di tali volumi. Inserendosi nel dibattito, allora di grande attualità, circa la superiorità artistica dell'Ariosto o del Tasso, Galileo prende nettamente posizione a favore del primo, esaltandone la meravigliosa fantasia e spregiudicatezza che non turbano l'armonia delle immagini e l 'unità organica del poema pur così vario, mentre rimprovera al secondo la scarsezza di immaginazione e la lentezza dei versi. Sempre al periodo pisano risale pure un « capitolo», Contro il portar la toga, in cui il giovane professore sferza, con versi mordaci e irriverenti, i costumi accademici tradizionali e la mentalità retrograda che si cela sotto di essi. Nel I 592 riuscì a migliorare notevolmente la propria situazione, ottenendo la nomina a professore di matematica presso l 'università di Padova. Ben presto, però, anche la nuova retribuzione si rivelò insufficiente, soprattutto a causa delle continue richieste di aiuto da parte della madre, delle sorelle e del fratello. Dovette varie volte rivolgersi al governo veneziano, dal quale dipendeva l'università, per avere anticipi di stipendio e anche veri e propri aumenti; pur avendoli atte153 www.scribd.com/Baruhk
Galileo Galilei
nuti, non riuscì tuttavia a quadrare il proprio bilancio che facendo ricorso al provento di lezioni extrauniversitarie, frequentate da numerosi e illustri discepoli, attratti a Padova dalla sua fama crescente. Malgrado queste persistenti difficoltà, i diciotto anni trascorsi da Galileo a Padova (159z-I6Io) furono senza dubbio i migliori della sua vita, sia a causa della grande libertà di pensiero di cui poté godere - come del resto tutti i docenti di quell'università - per la garanzia fornita dalla protezione della repubblica di Venezia (si pensi al sicuro appoggio che questa diede al Cremonini, contro i vari tentativi di incriminarlo per eresia, compiuti dal tribunale dell'inquisizione), sia a causa del pieno vigore delle sue energie fisiche e mentali che gli permisero di dedicarsi con tenacia ed entusiasmo alle più difficili ricerche scientifiche, senza rinunciare perciò alle gioie della vita. In questo periodo Galileo convisse, pur senza giungere a regolari nozze, con Marina Gamba da cui ebbe due figlie e un figlio, verso i quali nutrì sempre il più grande affetto. Tra i molti amici veneziani di Galileo ricordiamo, in particolare, il gentiluomo Gianfrancesco Sagredo (immortalato nei dialoghi galileiani) e Paolo Sarpi. Le principali opere scritte da Galileo fra il I 592 e il I 6o9 sono le seguenti: una Breve introduzione all'architettura militare e il Trattato di fortificazioni (composti verso il I 593-94); Le mecaniche (composte probabilmente nel I 593 ma pubblicate solo nel I634 in una traduzione francese dovuta al Mersenne); il Trattato della sfera o Cosmografia (I 597) che espone il sistema tolemaico; Le operazioni del compasso geometrico e militare (I6o6) che diede luogo a un'aspra polemica da parte di un certo Baldassarre Capra, il quale tentò di presentarsi come il primo inventore dello strumento; la Difesa contro alle calunnie ed imposture di Baldassar Capra (I6o7), con cui Galileo dimostrò l'infondatezza della pretesa del suo avversario. A questi anni risalgono pure le prime dichiarazioni di Galileo a favore del sistema copernicano; esse sono contenute in due lettere private del I 597, una diretta a Iacopo Mazzoni, professore di filosofia all'università di Pisa, l'altra a Keplero. Anche le famose ricerche sulla caduta dei gravi, e la formulazione delle leggi ad essa relative, vennero in gran parte compiute in questo periodo, come è testimoniato da parecchie lettere private di Galileo datate appunto dai primi anni del Seicento; tali leggi verranno in seguito da lui rielaborate e precisate, formando uno dei principali argomenti esposti nei già citati Discorsi del I638 .. Al I6o9 risale infine la scoperta del cannocchiale, indubbiamente suggerita a Galileo dalla notizia che strumenti del genere stavano diffondendosi nei Paesi Bassi e in Francia. Questa circostanza non diminuisce affatto i meriti del nostro autore, che vanno riferiti non tanto alla priorità dell'invenzione (è certo, del resto, che il telescopio di Galileo riuscì assai più potente degli altri), quanto al fatto che egli fu indubbiamente il primo ad attribuire al cannocchiale un effettivo valore scientifico. Ricordiamo che vetri a forma di lenti erano noti da molto tempo agli
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Galileo Galilei
artigiani occhialai e da essi usati per la correzione dei difetti della vista, ma fino a Galileo tutti i rappresentanti della scienza ufficiale li avevano sempre guardati con sdegnoso disprezzo. Galileo invece ebbe il coraggio e l'intelligenza di servirsene per le proprie ricerche astronomiche, combinandoli con perizia sì da ottenere una potenza di ingrandimento per quei tempi veramente notevole. 1 Puntato il suo telescopio al cielo, Galileo ebbe la fortuna e la gioia di scoprirvi nuovi meravigliosi fenomeni, dei quali capì subito l'eccezionale importanza: i quattro satelliti di Giove (da lui chiamati « medicei » in onore del granduca di Toscana), le macchie della luna, le fasi di Venere. Era tutto un mondo nuovo che per la prima volta giungeva a conoscenza degli uomini; Galileo diede la grande notizia nel Sidereus nuncius (Avviso astronomico), pubblicato a Venezia il I2 marzo I6Io. (Nello stesso anno si accorse che «l'occhiaie» poteva anche venire adattato alla visione da vicino, rivelandosi in grado di farci scoprire « minuzie » altrimenti invisibili; riuscirà così, nel I 6 I 4, a compiere alcune osservazioni del massimo interesse sulle mosche.) Il carattere delle scoperte galileiane doveva, evidentemente, suscitare ostilità e diffidenza fra i pensatori più ligi alla tradizione. In breve volgere di tempo ne sorse infatti un'aspra polemica, nella quale gli avversari di Galileo fecero ricorso contro di lui ad ogni sorta di armi: dall'accusa di aver semplicemente riprodotto un apparecchio già costruito da altri, a quella di avere cercato in cielo le cause di luci e macchie che erano semplicemente dovute alla struttura difettosa delle lenti (è un fatto, che queste erano allora assai difettose, e producevano immagini ben lontane dalla chiarezza di quelle prodotte dai telescopi moderni). In breve, però, Galileo riuscì a sbaragliare gli avversari e ad ottenere il riconoscimento delle proprie scoperte da parte dei più autorevoli scienziati dell'epoca, prima di tutti da Keplero, e in seguito anche dai potentissimi astronomi e filosofi della compagnia di Gesù. Le grandi scoperte comunicate nel Sidereus nuncius accrebbero enormemente la sua fama e gli procurarono l'offerta di un magnifico posto da parte di Cosimo n de' Medici: il posto, cioè, di «matematico straordinario dello studio di Pisa» senza obbligo di lezioni, e di « filosofo del serenissimo granduca ». Era finalmente la risoluzione del problema pratico di Galileo, da lui invano cercata per tanti anni; il posto gli avrebbe consentito una notevole larghezza di mezzi finanziari, senza la necessità di disperdere le proprie energie in lezioni pubbliche e private (energie che stavano rapidamente declinando per gli anni e la malferma salute). Galileo accettò, pur senza nascondersi la gravità del passo, che lo obbligava a trasferirsi dalla libera repubblica di Venezia in una città ove la potenza dell 'inquisizione era enormemente maggiore. I primi anni del periodo fiorentino furono molto intensi per l'attività scienti1
Maggiori notizie storiche sulla scoperta del cannocchiale verranno fornite nella sezione
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IV.
Galileo Galilei
fica di Galileo. Nel I 6 I I egli scrive, in polemica con gli aristotelici, il Discorso intorno alle cose che stanno in su l'acqua o che in quella si muovono pubblicato nel I612. Deve intanto affrontare una polemica con il padre Cristoforo Scheiner, che vantava la priorità della scoperta delle macchie solari (delle quali per verità Galileo, pur avendole osservate, non aveva dato notizia che privatamente ad amici): su di esse e sulla loro interpretazione egli scrive nel I6IZ a Mare Welser decunviro di Augusta tre famose lettere pubblicate nel I 6I 3 e raccolte in un volumetto dal titolo !storia e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti. Nei due scritti ora citati la guerra fra Galileo e i sostenitori della cultura tradizionale è ormai condotta in modo aperto e intransigente. Gli è che il nostro autore, rafforzato dalle proprie scoperte in campo astronomico e in meccanica, non ha più dubbi sulla verità del sistema copernicano, e sulla rivoluzione che esso comporta in tutta la vecchia concezione del mondo. Proprio in quegli anni, però, incominciano a diffondersi le prime accuse di eresia contro il copernicanesimo galileiano: l'accusa è pubblicamente lanciata nel I612 da un padre domenicano, Nicolò Lorini, e verrà ripetuta due anni più tardi da un altro domenicano, Tommaso Caccini. Galileo decide subito di intervenire contro queste voci minacciose, e scrive in proposito le famose lettere copernicane, che pur essendo inviate a privati vengono fatte appositamente circolare fra numerosi amici e conoscenti. Queste lettere sono quattro: una indirizzata al frate Benedetto Castelli, discepolo di Galileo e lettore di matematica a Pisa (I 6 I 3), due a monsignor Dini (febbraio e marzo I6I 5) e infine una a madama Cristina di Lorena, granduchessa di Toscana (I6q). Esse affrontano il problema dei rapporti fra scienza e fede sotto aspetti differenti: la prima sulla base della diversità fra il linguaggio scientifico e quello biblico, la seconda e la terza con esplicito riferimento all'opera di Copernico, la quarta con argomentazioni fondate sull'interpretazione del testo biblico. Alcuni potenti amici di Galileo, assai vicini al sommo pontefice, lo avevano avvertito che le massime gerarchie ecclesiastiche si stavano orientando contro il copernicanesimo. Malgrado i loro consigli a trattare l'argomento con la dovuta cautela, egli volle affrontarlo con la massima decisione. Donde derivava questa sua imprudenza? Per comprenderne l'effettivo significato, dobbiamo tenere conto di tre circostanze: I) Galileo era assolutamente certo della verità fisica del sistema eliocentrico e non era quindi disposto a considerarlo quale pura ipotesi matematica (come veniva suggerito dal potente cardinale Bellarmino); z) non era filosoficamente disposto ad ammettere, come gli aristotelici padovani, la coesistenza di verità tra loro antitetiche; 3) ancor meno era disposto a considerare (come i libertini) la religione quale puro e semplice complesso di regole pratiche, inventate per dominare i popoli e ingannare gli ingenui. Al contrario, egli era convinto della possibilità di dimostrare che i testi sacri non contengono - se bene interpretati- alcuna affermazione in reale antitesi con la verità copernicana.
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Questo stato di cose non basta, però, a spiegare perché mai egli non si sia accontentato - come gli consigliavano gli amici - di tenere per sé la propria convinzione, analogamente a ciò che facevano altri scienziati dell'epoca, discorrendone tutt'al più in una ristretta cerchia di conoscenti, senza discuterne in pubblico e senza sfidare quasi apertamente le ire degli inquisitori romani. È evidente che a decidere l'atteggiamento di Galileo intervennero altri fattori. Da un lato i successi organizzativi della controriforma dovevano averlo convinto dell'enorme peso dell'organizzazione cattolica nel campo culturale e della necessità di impedire che questa organizzazione si ponesse erroneamente contro la scienza. Dall'altro, il riconoscimento ottenuto - da parte delle autorità ecclesiastiche più elevate - delle proprie scoperte astronomiche (esistenza dei satelliti di Giove, ecc.) doveva avergli fatto sperare che un riconoscimento analogo sarebbe stato ottenibile anche per altri risultati scientifici. Infine, la coscienza della propria grande autorità in campo scientifico, ormai universalmente riconosciuta, doveva fargli sentire l'imprescindibile dovere di esporre le ragioni della scienza nella grande controversia. Ecco dunque delinearsi, nell'animo di Galileo, l'ambizioso programma di evitare l'irrigidimento della chiesa in una posizione scientificamente sbagliata. Bisognava, evidentemente, non fermarsi alle prime difficoltà sollevate in buona o mala fede dagli inquisitori, persistere con cautela nell'opera di chiarificazione, appoggiarsi agli uomini di mente più aperta esistenti anche nelle maggiori gerarchie della chiesa. Alla fine - pensava Galileo - la forza delle argomentazioni avrebbe ottenuto il sopravvento, e la scienza avrebbe trovato nella potenza della chiesa, non un ostacolo, ma un appoggio al proprio sviluppo. Nel dicembre I 6 I 5 si recò a Roma per difendere personalmente la propria tesi. Era pieno di fiducia, sia perché sicuro del valore scientifico della teoria copernicana, sia per gli autorevoli appoggi che era riuscito a procurarsi. Le cose si svolsero però in modo ben diverso da quello sperato. La sua appassionata difesa non fece che accelerare la decisione contraria dell'autorità ecclesiastica. La teoria copernicana fu dichiarata incompatibile con la fede cattolica e i libri che ne sostenevano la compatibilità vennero condannati; l'opera di Copernico «sospesa » fino a correzione. Le lettere copernicane di Galileo, essendo private, non furono incluse nell'elenco dei libri colpiti dalla condanna; egli· fu però ammonito a non interessarsi ulteriormente della questione. Un verbale - sulla cui autenticità storica si possono tuttavia sollevare molti dubbi - dice che gli fu ufficialmente ingiunto di non più accogliere la teoria copernicana, né insegnarla, o farla oggetto di dimostrazione in qualsiasi modo, a parole o con scritti; secondo tale verbale, Galileo avrebbe acconsentito e promesso di obbedire. La sconfitta appariva dunque completa. Essa non era però tale da far desistere Galileo dalla prosecuzione, sia pure più cauta, del programma di «politica culturale » poco sopra delineato.
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Nel 1619 comparvero in cielo tre comete, e questo fatto straordinario riaccese le discussioni sulla loro natura. Nel 1619 il padre gesuita Orazio Grassi pubblicò sull'argomento un'opera in cui riprendeva e sosteneva l'interpretazione di Tycho Brahe. Galileo volle approfittarne per entrare in polemica con lui; egli era convinto che la colpa dell'atteggiamento anticopernicano assunto dalla chiesa risalisse sostanzialmente al potente ordine ed ora intendeva gettare il discredito scientifico su tutti i gesuiti. Così nacque Il sa,ggiatore, pubblicato nel 1623. L'interpretazione del fenomeno delle comete ivi proposta da Galileo era sbagliata (essa riprendeva una vecchia tesi della fisica aristotelica), ma lo spirito innovatore che pervade tutto lo scritto, la chiarezza della visione metodologica, l'acume delle argomentazioni ne fanno ciò malgrado un vero capolavoro. Nel medesimo anno l'elezione alla cattedra di Pietro del cardinale Barberini (Urbano vm) fece sorgere nello scienziato pisano nuove speranze, sembrandogli naturale che un uomo di mente così aperta come il Barberini, a cui egli era legato da una certa dimestichezza, avrebbe appoggiato il suo sforzo per far uscire la chiesa dalla posizione reazionaria che i gesuiti le avevano fatto assumere. (A dimostrazione dello spirito aperto del nuovo papa, si ricordi la benevolenza che egli usò- fra il 16z6 e il '3o- verso il Campanella.) Ripreso l'antico programma, Galileo si decise pertanto a condurre a termine una grande opera, diretta a porre a confronto gli argomenti scientifici a sostegno delle due tesi contrastanti, geocentrica ed eliocentrica. Per dare alla trattazione un'apparenza di neutralità, scelse la forma dialogica, immaginando che un aristotelico (Simplicio) e un copernicano (Salviati) fossero stati invitati ad esporre ciascuno la propria concezione, da un terzo interlocutore (Sagredo) non desideroso di altro che di conoscere a fondo i termini esatti della grande controversia. Ottenuta, con questo stratagemma, l'autorizzazione ecclesiastica, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo poté uscire nel 1632. Ma i gesuiti attendevano al varco il loro avversario e subito scatenarono contro di lui la più dura battaglia. Allo scienziato vecchio e malaticcio venne ingiunto di recarsi a Roma per comparire dinanzi al tribunale del sant'uffizio. Invano egli cercò di difendere, con ogni mezzo, la propria posizione; invano cercò di evitare che la chiesa pronunciasse una sentenza, che avrebbe pesato per secoli e secoli contro di lei. I suoi avversari sostenevano con accanimento che il libro era «esecrando e più pernitioso per la chiesa delle Scritture di Lutero e di Calvino ». Galileo fu processato, riconosciuto colpevole e costretto ad abiurare. Fu inoltre condannato alla prigione a vita, immediatamente tramutata in isolamento dal mondo, prima a Siena (nell'abitazione dell'arcivescovo della città, suo amico), e poi nella propria villa di Arcetri. La vittoria dei gesuiti non poteva essere più netta; essa segnò la fine del programma, tenacemente coltivato da Galileo per anni e anni, di indurre la chiesa a riconoscere la libertà della scienza. Ai futuri scienziati cattolici non restava or-
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mai altra via, che quella di evitare con la più scrupolosa cautela qualunque dibattito con l'autorità ecclesiastica. Il fallimento del proprio programma gettò nell'animo di Galileo una profonda amarezza, che non lo abbandonò più fino alla morte. Unica consolazione rimase, per lui, l'affetto dei familiari, soprattutto della figlia Virginia (suor Maria Celeste). Essa tuttavia mori nel I634 ed un nuovo gravissimo dolore si aggiunse all'animo, già affranto, del grande scienziato. Col trascorrere del tempo, i divieti dell'inquisizione vennero a poco a poco attenuati. Galileo ottenne il permesso di scendere qualche volta da Arcetri a Firenze, e poté anche ricevere la visita di qualche straniero (per es. di Hobbes nel I636). Ma la salute peggiorava irrimediabilmente; soprattutto grave fu la perdita pressoché completa della vista. Malgrado tante disgrazie, egli trovò tuttavia la forza d'animo di proseguire con immutato acume scientifico le proprie ricerche, pubblicando nel I638 (in Olanda, presso il celebre editore Lodewijk Elzevier) quella che è forse - dal punto di vista scientifico - la maggiore delle sue opere:
Discorsi e dimostrazioni matematiche itttorno a due nuove scienze. Anche quest'opera, come quella del I6p., presenta forma dialogica fra i medesimi interlocutori (Simplicio, Salviati, Sagredo); e reca, come già sappiamo, un'appendice sui baricentri. Essa si svolge in quattro giornate; una quinta e una sesta verranno pubblicate postume (nella sesta non comparirà più Simplicio, comparirà invece un nuovo interlocutore, Paolo Aproino, che fu discepolo e amico di Galileo). Le due nuove scienze di cui parla il titolo sono: la resistenza dei materiali e la dinamica. Particolare importanza hanno le giornate terza e quarta, dedicate a quest'ultima; esse riprendono argomenti già studiati da Galileo a Padova, approfondendoli notevolmente e dando loro una elevata forma matematica. Da un punto di vista formale, i Discorsi non discutono più il sistema copernicano; in realtà, però, ne costituiscono un 'ulteriore validissima difesa, in quanto eliminano definitivamente le obiezioni di carattere meccanico che gli avversari elevavano contro di esso. Come ha scritto il Timpanaro, i Discorsi « non sono meno copernicani del Dialogo dei massimi sistemi. I teologi non li condannarono perché non li avevano capiti ». Anche dopo il I638 Galileo continuò a occuparsi attivamente di problemi scientifici, nei limiti concessigli dalla sua salute; coadiuvato, a partire dal I639, da Vincenzo Viviani e negli ultimi mesi anche da Evangelista Torricelli. Si spense 1'8 gennaio I 642. II
· COMPITI E CARATTERI DELLA SCIENZA FISICA
Compito essenziale della scienza fisica è, secondo Galileo, la conoscenza della natura. Questa però non dovrà consistere, come ritenevano gli aristotelici, nella conoscenza delle essenze dei fenomeni, bensì nella determinazione delle leggi che regolano il loro corso.
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La conoscenza delle essenze era ritenuta necessaria, perché si pensava che esse costituissero le cause (nel senso metafisica di questo termine) degli eventi naturali; e la scienza doveva proprio distinguersi dalle conoscenze volgari, in quanto non rivolta unicamente, come queste ultime, alla descrizione di ciò che accade nel mondo, ma rivolta a cogliere i motivi profondi del perché i singoli accadimenti avvengono in un certo modo anziché in un altro. La scienza, insomma, poteva meritare il nome di scienza solo in quanto era una conoscenza per causas. Il distacco fra le due posizioni non poteva risultare più netto. Ecco per esempio le parole che Galileo fa pronunciare a Salviati (terza giornata dei Discorsi) nell'atto in cui legge e spiega agli interlocutori un trattato in latino, dal titolo De motu locali, del « nostro accademico », cioè di Galileo, e precisamente spiega il modo seguito in tale trattato per studiare il moto naturalmente accelerato dei gravi che cadono verso terra: «Non mi par tempo opportuno di entrare al presente nell'investigazione della causa dell'accelerazione del moto naturale, intorno alla quale da varii filosofi varie sentenzie sono state prodotte, riducendola alcuni all'avvicinamento al centro, altri a restar successivamente manco parti del mezo da fendersi, altri a certa intrusione del mezo ambiente, il quale, nel ricongiungersi a tergo del mobile, lo va premendo e continuamente scacciando; le quali fantasie con altre appresso, converrebbe andare esaminando e con poco guadagno risolvendo. » Invece di perdersi a discutere tali « fantasie », lo scienziato si limiterà a studiare le «passioni», cioè il comportamento del moto in esame, qualunque abbia ad essere la causa che lo produce. « Per ora basta al nostro Autore che noi intendiamo che egli ci vuole investigare e dimostrare alcune passioni di un moto (qualunque si sia la causa che lo produce) talmente, che i momenti della sua velocità vadano accrescendosi, dopo la sua dipartita dalla quiete, con quella semplicissima proporzione con la quale cresce la continuazione del tempo, che è quanto dire che in tempi eguali si facciano eguali additamenti di velocità. » Si osservi che quel « per ora » è puramente pleonastico, perché Galileo non vorrà mai trovare il tempo per aggiungere, all'indagine sulle« passioni» del moto, anche quella sulle sue cause. La svolta testé accennata è così importante, che ne verrà fuori una nuova concezione - scientifica, non più metafisica - del rapporto causale, inteso come successione necessaria tra due fenomeni: il fenomeno-causa e il fenomeno-effetto (tale cioè che, tolto il primo, debba venir meno anche il secondo). Come vedremo nel volume m, questa definizione starà alla base della critica humiana del concetto di causalità. Qui possiamo sottolineare due fatti: 1) che essa richiama alla mente la concezione della causalità sviluppata e discussa dagli occamisti, con la differenza che questi la svolgevano su di un piano filosofico mentre Galileo la mantiene su di un piano rigorosamente scientifico; 2) che la definizione galileiana ebbe tra l'altro il merito di liberare il concetto fisico di causalità da ogni riferimento antrox6o
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pomorfico e quindi da ogni indagine sui « fini » della natura, sul « significato » dei singoli fenomeni nell'ordine complessivo dell'universo, ecc. (l'astronomia, per es., deve indagare le leggi meccaniche regolanti il moto di Giove e Saturno, non chiedersi a che cosa servano questi due pianeti, quale sia il loro scopo nei piani generali del creatore). Quanto ora detto non va inteso nel senso che la scienza dovesse avere, per Galileo, il solo compito di « descrivere » i fenomeni. Al contrario, egli pensa che la scienza debba anche « spiegarli », in un nuovo senso però del termine « spiegazione». Spiegare un gruppo di fenomeni significa, secondo il nostro autore, costruire una teoria di tipo matematico (costituita cioè di definizioni generali, assiomi e teoremi) dalla quale possa venir dedotto il comportamento dei fenomeni stessi. Ciò appunto egli è riuscito a fare per i fenomeni del moto locale. Galileo sa molto bene che gli assiomi e le definizioni generali non saranno, salvo casi eccezionali, ricavati dall'esperienza, anzi il più delle volte non potranno neanche venire in essa controllati. Questo controllo risulterà impossibile, ad esempio, per la definizione generale di moto naturalmente accelerato, la quale usa concetti infinitesimali come quelli di velocità all'istante e di accelerazione (concetti che gli epistemologi moderni qualificano come irriducibilmente « teorici »); anzi l'assioma o la definizione generale potranno, a un primo esame, apparire addirittura contrari all'esperienza, come per l'appunto accade per la definizione testé citata. «Mentre io mi v o figurando, » obietta Sagredo a Salviati, «un mobile grave descendente partirsi dalla quiete ... entrare nel moto, ed in quello andarsi velocitando secondo la proporzione che cresce il tempo dal primo istante del moto, ed avere, verbigrazia, in otto battute di polso acquistato otto gradi di velocità, della quale nella quarta battuta ne aveva guadagnato quattro, nella seconda due, nella prima una, essendo il tempo subdivisibile in infinito, ne seguita che, diminuendosi sempre con tal ragione l'antecedente velocità, grado alcuno non sia di velocità così piccolo ... nel quale non si sia trovato costituito l'istesso mobile dopo la partita ... dalla quiete: tal che, se quel grado di velocità ch'egli ebbe alle quattro battute di tempo, era tale che, mantenendola eguabile, avrebbe corso due miglia in un'ora, e co'l grado di velocità ch'ebbe nella seconda battuta avrebbe fatto un miglio per ora, convien dire che ne gl'instanti di tempo più e più vicini al primo della sua mossa dalla quiete si trovasse così tardo, che non avrebbe (seguitando di muoversi con tal tardità) passato un miglio in un'ora, né in un giorno, né in un anno, né in mille, né passato anco un sol palmo in tempo maggiore; accidente al quale pare che assai mal agevolmente s'accomodi l'immaginazione, mentre che il senso ci mostra un grave cadente venir subito con gran velocità. » Anche in tale caso, però, la teoria fondata su assiomi così lontani dall'esperienza potrà - secondo Galileo- risultare un'autentica teoria scientifica, purché soddisfi alla condizione che le conseguenze rigorosamente dedotte dai principi anzidetti trovino conferma nell'esperienza. In altri termini: non è necessario che tutte le proposi-
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zioni della teoria risultino aderenti ai fatti; è necessario invece che tutti i fatti del campo di fenomeni studiati risultino inquadrabili nella teoria. Quanto ora detto ci fornisce l'occasione di fissare le differenze esistenti, secondo Galileo, fra teoria fisica e teoria matematica pura. Quest'ultima non richiede alcun controllo dell'esperienza, continuando a valere indipendentemente dal fatto che le figure studiate esistano o non esistano nella realtà; quella invece si propone, in modo essenziale, di giungere ai fenomeni, e se le sue conseguenze non trovano in essi conferma, cessa di avere valore scientifico. Nel primo dei due lunghi brani poco sopra citati, Salviati- dopo aver chiarito che l'autore del De motu locali non indaga le cause, ma solo le «passioni» del moto antecedentemente definito in via del tutto astratta, cioè del moto in cui la velocità risulti proporzionale al tempo- aggiunge: «E se s'incontrerà che gli accidenti che poi saranno dimostrati si verifichino nel moto de i gravi naturalmente descendenti ed accelerati, potremo reputare che l'assunta definizione comprenda cotal moto de i gravi, e che vero sia che l'accelerazione loro vadia crescendo secondo che cresce il tempo e la durazione del moto. » Ma se questa fortunata circostanza non si verificasse? Se gli « accidenti » che logicamente derivano dai principi della teoria non si verificassero nella realtà? Galileo non ha dubbi nel rispondere che, in questo caso, la teoria conserverebbe soltanto un valore matematico, non più fisico; conserverebbe cioè un valore molto grande nel campo delle idee astratte (un valore senza dubbio capace di giustificare ampiamente la nostra fatica nel costruirla), ma non un valore esplicativo dell'esperienza. In altri termini, egli non ha difficoltà ad ammettere che la sua teoria del moto è un 'argomentazione ex suppositione, e che in quanto tale (cioè in quanto discorso teorico) non ha bisogno di verifiche: « Tornando al mio trattato del moto,» scrive in una famosa lettera a Baliani del 1639, «argomento ex suppositione sopra il moto, in quella maniera diffinito; sicché quando bene le conseguenze non rispondessero alli accidenti del moto naturale, poco a me importerebbe, siccome nulla deroga alle dimostrazioni di Archimede, il non trovarsi in natura alcun mobile che si muova per linee spirali »; subito dopo aggiunge però di avere avuto la fortuna che le conseguenze della propria teoria trovino rispondenza nei fatti, e così questa assume un autentico valore fisico: « Ma in questo io sarò stato, dirò così, avventurato, perché il moto dei gravi et i suoi accidenti rispondono puntualmente alli accidenti dimostrati da me del moto da me definito. » Concludendo: il discorso ex suppositione possiede senza dubbio un altissimo valore matematico, ma non potrà mai portarci a trascurare i fenomeni, a credere che essi si comportino diversamente da come effettivamente si comportano; esso deve condurci a capire l'esperienza, non a fare a meno di essa. Nel Dialogo Galileo aveva scritto: «Quello che l'esperienza e il senso ci dimostra si deve anteporre ad ogni discorso, ancorché ne paresse assai ben fondato. » Ormai credo che risulti abbastanza chiara l'importante funzione spettante
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alla matematica nell'elaborazione della scienza fisica: essa ci permette di formulare con estrema esattezza i principi delle teorie, e di determinare con assoluto rigore le conseguenze da essi deducibili. In tal modo ci pone in grado di non ripudiare 'una concezione solo per il fatto che a prima vista essa ci appare contraria all'esperienza; prima di decidere se essa corrisponda o no ai fatti, occorrerà precisare il significato delle conseguenze particolari ricavabili dalla teoria stessa: più a fondo sarà condotto questo lavoro di precisazione, più sicura sarà la risposta all'ultima, decisiva, domanda: se esse risultino o no confermate dall'esperienza. Alla precisazione testé accennata del significato e della portata delle proposizioni particolari, ricavabili da una teoria, deve però corrispondere una parallela precisazione dei dati osservati. Potrebbe anche accadere, infatti, che l'esperienza sembrasse smentire una di tali proposizioni, solo perché non siamo stati capaci di registrare con esattezza i dati empirici. Di qui l'importanza di perfezionare la nostra osservazione, vuoi con l'uso di precisi strumenti di misura capaci di descrivere i dati quantitativamente anziché qualitativamente, vuoi potenziando i nostri sensi con opportuni strumenti (per esempio con il telescopio e il microscopio), vuoi ancora introducendo opportuni accorgimenti i quali ci permettano di ripetere l'esperienza in condizioni di più agevole controllo (per esempio facendo rotolare un grave lungo un piano inclinato, ove assumerà un'accelerazione minore, anziché lasciando}o cadere a terra verticalmente). Galileo è stato un incomparabile maestro nel fornire esempi efficaci di tutti e tre i tipi di perfezionamento dell'osservazione, testé menzionati; con questi esempi ha aperto una via che sarà arditamente seguita da tutti gli scienziati moderni e li condurrà a straordinari successi. È una via che richiede l'uso shìtematico, in campo scientifico, dei più raffinati suggerimenti della tecnica, e che viene quindi a stabilire un sicuro ponte fra il lavoro dello scienziato e quello del tecnico. Il contatto fra scienza e tecnica non si riduce però soltanto a quello ora accennato, che implica un dare da parte della tecnica e un ricevere da parte della scienza. Al contrario, nell'epoca moderna, si verificherà ancora più spesso un rapporto inverso: sarà cioè lo scienziato a fornire precise istruzioni al tecnico, indicandogli la via per risolvere i più difficili problemi. Ancora una volta, ciò che rende possibile questo ausilio dello scienziato al tecnico, è l'aspetto matematico della scienza; è la capacità della scienza di ricavare - dai suoi principi generali - delle risposte estremamente precise, adeguate alle circostanze specifiche in cui si presentano i singoli quesiti tecnici. Galileo comprese questo inestimabile merito della tratta~ione matematica, e comprese che ogni successo applicativo delle teorie scientifiche avrebbe costituito una concreta efficacissima conferma della loro validità. I successivi progressi della scienza e della tecnica hanno ampiamente confermato la sua intuizione. La grande eredità del rinascimento è qui presente in Galileo: essa gli insegna che la scienza non può rinchiudersi in sé, non può isolarsi dal mondo.
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Il vero scienziato deve saper utilizzare, nelle proprie indagini, le più vaste esperienze umane: deve saper razionalizzare i risultati dei più umili lavoratori, e trovare conferma alle proprie verità in applicazioni che possano venire apprezzate anche dai non-scienziati. Teoria e pratica non risultano più separate da un abisso: esiste invece un continuo interscambio fra esse. Tanto più la scienza è radicata nella pratica, tanto maggiore è la sua forza di conquista del mondo. L'idea di una scienza sterile, puramente contemplativa, è abbandonata: l'applicazione non è più considerata come un sottoprodotto della ricerca scientifica, ma inserita nella stessa scienza. Hanno un valore particolarmente sintomatico, da questo punto di vista, i tentativi (pur falliti) di Galileo al fine di trovare un'applicazione della sua stessa scoperta dei satelliti di Giove per la determinazione della longitudine. Possiamo dunque riassumere i caratteri della scienza galileiana in due punti fondamentali: rigore dell'indagine scientifica e sua apertura verso il mondo della tecnica. L'esigenza del rigore viene soddisfatta dall'uso sistematico della matematica nello sviluppo teorico della fisica, e dall'uso sistematico di apparecchi sperimentali sempre più potenti e precisi nel campo dell'osservazione. L'esigenza di apertura verso la tecnica viene soddisfatta dal doppio sforzo dello scienziato, per un lato di utilizzare tutte le scoperte dei tecnici (esemplare per questo aspetto l'utilizzazione compiuta da Galileo dei suggerimenti che gli provenivano dagli artigiani occhialai), e per l'altro di utilizzare le proprie scoperte per la risoluzione di problemi tecnici (tutti i Discorsi sono da questo punto di vista estremamente istruttivi, tant'è che qualche studioso moderno ha voluto vedere in essi un vero e proprio trattato di ingegneria). Sulla base di questi caratteri, Galileo è sicuro che la scienza sarà in grado di risolvere ogni difficoltà, di superare ogni ostacolo: « Quanto alla scienza stessa, » egli scrive, « ella non può se non avanzare. » Ma donde traeva Galileo la sicurezza che l 'indagine scientifica, se svolta nei termini e nei modi testé delineati, avrebbe effettivamente condotto la ragione umana a scoprire le leggi che regolano i fenomeni naturali? E - quesito ancora più grave - donde traeva la sicurezza che la natura sia veramente regolata da leggi, non sia un insieme caotico e irrazionale di eventi? Discuteremo queste domande negli ultimi due paragrafi del capitolo. III
· CRITICA DEL PRINCIPIO D'AUTORITÀ
Dalla concezione della scienza delineata nel paragrafo precedente si ricava che essa non può sottostare ad alcuna autorità diversa da quella della ragione (che le impone soltanto, come spiegammo, coerenza interna e scrupoloso rispetto dei dati empirici). È ben comprensibile, dunque, che tutta la battaglia di Galileo per il trionfo della scienza implicasse una parallela battaglia contro il principio d'autorità.
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Tale principio era soprattutto operante, nell'epoca di Galileo, lungo due direttrici: quella della tradizione religiosa e quella della tradizione filosofica. Due sono dunque gli aspetti della lotta tenacemente combattuta contro di esso dal nostro pensatore. La lotta contro le intrusioni dell'autorità religiosa nella ricerca scientifica costituisce il sottofondo della politica culturale di cui parlammo nel paragrafo 1. Come abbiamo cercato di spiegare illustrando tale politica, Galileo non nega che l'autorità religiosa sia in possesso di un prezioso patrimonio di verità: quellé rivelatele direttamente da dio. Ciò che egli nega, è che questo patrimonio esaurisca tutta la verità, e che pertanto i testi sacri ci offrano l'unica via per giungere al vero. Secondo lui oltre a questa via, e ben distinta da essa, vi è anche la via della ricerca scientifica. Ma chi può escludere a priori un conflitto fra le due? Galileo ritiene che esso sia oggettivamente impossibile proprio perché entrambe le vie possono condurci solo alla verità e non all'errore. In altre parole, egli sembra ammettere, con Tommaso, che le verità raggiunte dall'una o dall'altra via, là ove riguardino gli stessi argomenti, debbono in ultima istanza coincidere necessariamente fra loro. Egli rovescia però la posizione del pensatore medievale: ritiene, cioè, che se sorgesse tra le verità religiose e quelle scientifiche un apparente contrasto, l'uomo dovrebbe partire ·- per risolverlo - non già dalla presunzione tomistica che sia errata la scienza e vera la religione, ma dalla franca e completa accettazione dei risultati della scienza, con la riserva di rivedere l'interpretazione dei testi sacri sui quali si appoggiano i dogmi, potendo - proprio essa - risultare la causa del loro contrasto con la scienza. Natura e Bibbia, spiega il filosofo nelle lettere copernicane, derivano dallo stesso verbo divino: la natura come osservantissima esecutrice degli ordini di dio, la Bibbia come libro ispirato dallo spirito santo. Senonché, nella Bibbia, la parola di dio ha dovuto adattarsi all'intelletto degli uomini cui era diretta; nella natura, invece, la volontà di dio si attua con inesorabile necessità. È inutile, quindi, voler conoscere la natura attraverso la sacra scrittura; più giusto è, se necessario, servirsi delle leggi naturali per comprendere il vero significato di talune espressioni, necessariamente velate, della Bibbia. Ecco per esempio le parole che Galileo scrive a Elia Di oda ti nel gennaio 16 33, riferendosi alla lotta che il Framondo sta combattendo contro il copernicanesimo: « Quando il Framondo o altri haves se stabilito che il dir che la Terra si muove fosse heresia, e che le dimostrazioni, osservationi e necessari riscontri mostrassero lei muoversi, in che intrigo havrebbe egli posto se stesso e santa chiesa? » E altrove ribadisce: « Se la Terra si muove de facto, noi non possiamo mutar la natura e far che ella non si muova. » A prima vista questa posizione può apparire moderata e anzi piena di rispetto verso la chiesa; in realtà essa esprimeva però il più franco e assoluto riconoscimento del valore della scienza e della sua piena autonomia di fronte al
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dogma. Se i teologi si rifiutavano di accoglierla, il loro rifiuto era tutt'altro che immotivato: essi temevano che, una volta resa autonoma, la scienza avrebbe finito per invadere anche il campo della morale e della religione, che Galileo riteneva di poter riservare alle verità rivelate. Passando al secondo aspetto della battaglia di Galileo contro il principio d'autorità, basterà dire che egli rivendica alla ricerca scientifica una piena e completa autonomia, non solo rispetto al dogma, ma pure rispetto al patrimonio tradizionale della filosofia e in genere della cultura. Autonomia significa, per lui, «indipendenza», non« opposizione»; egli infatti non prova alcun senso.d'insofferenza verso i grandi pensatori dell'antichità. Li studia, anzi, con il massimo scrupolo, e non solo Euclide ed Archimede, ma anche Platone ed Aristotele; riserva, invece, tutto il suo disprezzo per i seguaci pedissequi di tali pensatori, cioè verso quelli che considerano gli antichi (in particolare Aristotele) come depositari assoluti della verità. In realtà - obietta loro - il vero discepolo di Aristotele è lui (Galileo), non essi (i presunti aristotelici). Se infatti Aristotele tornasse in vita, praticherebbe il suo metodo di indagine, non il loro: e cioè per conoscere la natura, interrogherebbe direttamente i fenomeni naturali, non i testi che parlano di tali fenomeni. « Voglio aggiungere per ora questo solo, » scrive a Liceti, « che io mi rendo sicuro che se Aristotele tornasse al mondo, egli riceverebbe me tra i suoi seguaci... molto più che moltissimi altri che, per sostenere ogni suo detto per vero, vanno esplicando da i suoi testi concetti che mai non li sariano caduti in mente. E quando Aristotele vedesse le novità scoperte novamente in cielo, dove egli affermò quello essere inalterabile et immutabile, perché niuna alterazione vi si era allora veduta, indubitatamente egli, mutando opinione, direbbe ora il contrario. » In altri termini: per autorevole che sia il libro di un filosofo o di un poeta, più autorevole di esso è il libro della natura, che, solo, può fornirci delle verità realmente sicure quando sappiamo interpretarlo con rigoroso metodo scientifico. Polemizzando con il Sarsi (pseudonimo di Orazio Grassi) Galileo scrive nel Saggiatore : « Parmi di scorgere nel Sarsi ferma credenza, che nel filosofare sia necessario appoggiarsi all'opinione di qualche celebre autore ... ; e forse stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d'un uomo, come l'Iliade o l'Orlando furioso, libri ne' quali la meno importante cosa è che quello che vi sia scritto sia vero. Sig. Sarsi, la cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. » La contrapposizione fra sapere scientifico e cultura ex libris non poteva venire x66 www.scribd.com/Baruhk
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espressa in forma più efficace. Essa è uno dei temi che ritornano più frequentemente in tutte le opere di Galileo; la ricerca scientifica si vale di ciò che sta scritto nei libri, ma va decisamente al di là di essi. Se tutti i libri del passato sostenessero unanimemente una tesi, e l'esperienza ci mostrasse che questa tesi è falsa, noi dovremmo attenerci ai dati dell'esperienza (letti attraverso la matematica), non a ciò che insegnano tali libri. «Tra le sicure maniere per conseguire la verità è l'anteporre l'esperienza a qualsivoglia discorso, essendo noi sicuri che in esso, almanco copertamente, sarà contenuta una fallacia, » qualora sia in contrasto con i dati empirici, « non essendo possibile che una sensata esperienza sia contraria al vero; e quanto è pure precetto stimatissimo da Aristotele e di gran lunga anteposto al valore et alla forza dell'autorità di tutti gli huomini del mondo.» Lotta intransigente contro il principio d'autorità e lotta per l'attuazione di una scienza autenticamente fondata sulle sensate esperienze e sulle certe dimostrazioni, non sono che due facce della medesima battaglia per il rinnovamento del sapere. IV · CONTRIBUTI SCIENTIFICI
Sarebbe ora giunto il momento di elencare i principali contributi effettivamente dati da Galileo al progresso del sapere scientifico. Trattandosi però di contributi universalmente noti, perché facenti parte ormai da lungo tempo del patrimonio culturale del mondo moderno, potremo !imitarci a brevissimi cenni. Le sue principali scoperte scientifiche riguardano la meccanica e l'astronomia. Per quanto concerne la prima di queste due scienze, spetta a Galileo l 'incomparabile merito di aver dato inizio alla dinamica nella sua struttura moderna (i grc;ci, in particolare Aristotele e Archimede, avevano stabilito i principi scientifici della statica, ma non della dinamica). Fra quelli che oggi portano il nome di «principi fondamentali della dinamica» (vedremo nella sezione IV che è stato Newton a riconoscere loro questa funzione basilare nell'assetto di tale scienza), i primi due vennero sostanzialmente scoperti da Galileo. Anche se egli non si preoccupò .mai di dare l'enunciato generale del primo (il principio di inerzia), è certo che ne afferrò la validità e l'importanza, vuoi parlando ripetutamente della costanza della velocità iniziale di un qualsiasi mobile (qualora non intervengano forze esterne a modificare il suo moto), vuoi determinando come si compone questa velocità iniziale costante con le velocità variabili prodotte da forze acceleratrici estranee, sopraggiunte d~rante il corso del movimento. Galileo comprese la possibilità di applicare questa composizione anche ai casi in cui le forze sopraggiunte non hanno la stessa direzione del moto iniziale; ne ricavò, in particolare, la spiegazione del moto dei proietti. Va tuttavia osservato che Galileo non si rese ancora perfettamente conto che il moto circolare non è inerziale, richiedendo la presenza di una forza centri-
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peta. Questo errore fu, però, almeno in un primo tempo, tutt'altro che dannoso: esso eliminò infatti la tentazione di ricorrere, come facevano gli aristotelici, a cause non fisiche per spiegare il moto dei pianeti (di ricorrere, per esempio, al primo motore). Toccherà a Huygens il merito di studiare con esattezza le forze centripete, ed a Newton quello di fare intervenire l'attrazione delle masse celesti per spiegare il carattere non rettilineo del moto dei pianeti. Altro fondamentale contributo di Galileo alla costituzione della meccanica moderna, è la scoperta del cosiddetto secondo principio della dinamica, cioè la scoperta che le forze applicate ai corpi non imprimono loro delle velocità, bensì delle accelerazioni, e che queste accelerazioni risultano direttamente proporzionali alle forze che le hanno causate. Al secondo principio della dinamica sono connesse: I) la determinazione del concetto di accelerazione come variazione di velocità; z) la determinazione del concetto di massa di un corpo, come rapporto di proporzionalità fra le forze ad esso applicate e le accelerazioni prodotte da tali forze. La forza presa in esame da Galileo è quella di gravità; essa - che nel medesimo luogo risulta proporzionale alle masse dei corpi - gli permise di provare sperimentalmente le conseguenze del principio or ora riferito. Va segnalato che il fatto stesso di considerare la gravità come una forza costituiva - ai tempi di Galileo - una innovazione della massima importanza. Le leggi ricavabili dal seconqo principio della dinamica nel caso che la forza applicata ai corpi sia quella di gravità, suscitarono una particolare meraviglia tra i contemporanei di Galileo: sono le leggi del moto naturalmente accelerato e dei moti composti che ne derivano. Esse ebbero, fra l'altro, il grande merito di porre in luce l'esistenza di esatte proporzioni matematiche anche nel campo dei fenomeni dinamici. La loro scoperta segnò la definitiva sconfitta della teoria aristotelica del moto. Sebbene enunciate per un campo particolare di forze, non fu difficile comprendere che esse rappresentavano le leggi generali del movimento. Per quanto riguarda l'astronomia, già ricordammo alcune delle fondamentali scoperte compiute da Galileo puntando al cielo il suo famoso ·cannocchiale: ad esse va ancora aggiunta la correzione degli errori (in eccesso) commessi da Tycho Brahe nella valutazione del diametro apparente delle stelle fisse. Tra le molte conseguenze, ricavabili dalle osservazioni celesti di Galileo, basti sottolinearne tre: I) la confutazione della teoria aristotelica della incorruttibilità dei cieli, ovviamente incompatibile con l'esistenza di macchie sul Sole e sulla Luna; z) la dimostrazione dell'esistenza di moti celesti aventi un centro diverso dalla Terra; 3) l'eliminazione delle obiezioni sollevate da Tycho Brahe alla teoria copernicana, obiezioni che si basavano essenzialmente sulla eccessiva grandezza che dovrebbe venir attribuita alle stelle fisse, qualora, pur essendo a distanza molto grande dalla Terra come vuole Copernico, esse avessero effettivamente il diametro misurato da Tycho. r68
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È ovvio che le scoperte ora accennate costituivano altrettanti argomenti a favore dell'ipotesi copernicana. Ma esse non avrebbero potuto avere alcun valore probativo, se non si fosse riusciti ad eliminare le obiezioni mosse da Tolomeo alla mobilità della Terra. Ebbene, l'eliminazione di queste obiezioni è una conseguenza diretta della nuova meccanica galileiana: tale meccanica spiega infatti, con matematica chiarezza, la perfetta compatibilità del moto della Terra con i fenomeni da noi osservati nella caduta dei gravi (compatibilità che Tolomeo non aveva potuto comprendere, perché partiva da una teoria del moto decisamente erronea). Essa è dovuta al famoso principio, oggi universalmente noto come principio deila relatività galileiana, il quale afferma che è impossibile decidere, sulla base di esperienze meccaniche compiute all'interno di un sistema, se esso sia in quiete o in moto rettilineo uniforme. 1 Eliminate anche le obiezioni di Tolomeo, e riconosciuti gli enormi vantaggi matematici dell'ipotesi di Copernico nella descrizione dei fenomeni celesti, la verità fisica del copernicanesimo era praticamente assicurata. Va invece fatto presente che Galileo non prese mai in considerazione le scoperte compiute in quegli anni da Keplero circa la forma ellittica delle orbite dei pianeti; da questo punto di vista egli rimase ancora condizionato dall'astronomia tradizionale, che fra tutte le forme di moto privilegiava in modo inequivocabile il moto circolare. Oltreché di meccanica e di astronomia egli si occupò con grande interesse anche degli altri rami allora noti della fisica, accentuando ovunque l'orientamento sperimentale della ricerca. Già abbiamo parlato delle sue indagini di ottica, che lo condussero alla costruzione del cannocchiale e del microscopio; se esse non raggiunsero una solida concezione scientifico-matematica dell'ottica, ebbero però ùn'eccezionale forza innovatrice non solo per l'astronomia ma per tutta la scienza (parleremo nella sezione rv della rivoluzione recata nell'anatomia dall'osservazione microscopica) ed ebbero inoltre il merito di far prendere in seria considerazione dagli scienziati i progressi dei tecnici. Altre importanti ricerche Galileo compì nel campo dell'acustica, collegando lo studio delle vibrazioni sonore a r Vale la pena, data la sua bellezza letteraria e la sua limpidezza scientifica, riportare per disteso una delle pagine in cui Galileo spiega l'argomento: « Nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio rinserratevi con qualche amico, e quivi fate di aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; pigliatevi anco un gran vaso con acqua, e dentrovi de' pescetti; accomodate ancora qualche vaso alto che vada gocciolando in un altro basso e di angusta gola: e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza; i pesci, gli vedrete andar vagando indifferentemente verso
qual si voglia parte delle sponde del vaso; le stille cadenti entreranno tutte nel vaso sottoposto ... Osservate che avrete bene tutte queste cose, fate muover la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e 'n là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutte le nominate cose, né meno da cosa che sia in voi stesso, potrete assicurarvi se la nave cammina o sta ferma... E se voi di tutti questi effetti mi domanderete la ragione, vi risponderò per ora: perché il moto universale della nave, essendo comunicato all'aria ed a tutte quelle cose che in essa vengono contenute, e non essendo contrario alla naturale inclinazione di quella, in loro indelebilmente si conserva. »
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quello delle vibrazioni del pendolo; nel campo del magnetismo, ove subì l'influenza di Gilbert; in quello della termologia, ove ebbe il merito di ideare e costruire il primo termometro (o, per essere più esatti, termoscopio) che verrà poi notevolmente perfezionato dai suoi immediati discepoli. Si occupò anche ripetutamente di problemi di ingegneria, fornendo alle autorità - prima di Venezia e poi di Firenze - utili consigli per la soluzione di importanti problemi pratici. Meritano particolare menzione i suoi studi di ingegneria idraulica, soprattutto i pareri che egli diede a proposito della sistemazione del fiume Bisenzio e dell'Arno. Non rivelò invece un autentico interesse per le ricerche di matematica pura, pur avendo il titolo di professore di questa disciplina. Ciò non va inteso - sia detto ben chiaramente - nel senso che Galileo abbia trascurato o sottovalutato gli studi matematici: già sappiamo, al contrario, che fin da giovane studiò con la più grande passione le opere dei grandi matematici greci, e che nella sua concezione della scienza fisica attribuì alla matematica una funzione di essenziale importanza per l'interpretazione dei dati osservativi e l'elaborazione della teoria. Il fatto è, però, che la matematica lo interessava quasi esclusivamente in questa funzione, onde egli portò i più notevoli contributi allo sviluppo delle concezioni matematiche proprio nell'applicarle alla definizione generale dei moti e alla rigorosa dimostrazione delle loro proprietà. La sua genialità ebbe modo, comunque, di rivelarsi anche in problemi di matematica pura, come per esempio nell'esame dei paradossi dell'infinito. Galileo si soffermò in particolare sulle serie di numeri naturali, sottolineando lo strano fatto che essa risultava altrettanto numerosa quanto la serie dei quadrati perfetti; mentre questa risulta ovviamente solo una parte di quella. Egli meditò a lungo sulla scomposizione di un segmento finito in infiniti elementi indivisibili (punti), dando- anche in riferimento a questo problema- notevoli contributi al sorgere dell'analisi infinitesimale. V ·
IL METODO SPERIMENTALE
Siamo ora in grado di riprendere, con maggiore consapevolezza, l'esame già iniziato nel paragrafo n della concezione galileiana della scienza, soffermandoci in particolare sul significato e sul fondamento del metodo sperimentale. Gli interpreti del pensiero galileiano sono soliti oscillare tra due tesi opposte: gli uni insistono sul carattere prevalentemente empirico del suo metodo di ricerca, gli altri invece sul carattere prevalentemente matematico-razionalistico di esso. Queste oscillazioni dipendono dal fatto che Galileo non scrisse alcuna opera direttamente rivolta allo studio del metodo, sul tipo del Novum organum di Bacone. La teoria metodologica di Galileo deve dunque essere ricavata, indirettamente, dalle descrizioni (a volte contrastanti) che egli compie del
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proprio modo di procedere in questa o quella indagine e dalle critiche che muove al modo di procedere altrui. In realtà, come già spiegammo nelle pagine precedenti, sia l'istanza empirica sia l 'istanza matematica sono presenti in Galileo; nessuna di esse, però, esaurisce il suo metodo di indagine. Non l'esaurisce l'istanza empirica, che- già affermata nell'antichità da Aristotele in antitesi a Platone- risulta soltanto in grado di produrre una generica fisica qualitativa; e neanche l'esaurisce l'istanza matematica, che da sola non è in grado di farci discendere dal campo dei concetti astratti ed inserirei nella realtà effettuale. Per comprendere il metodo di Galileo bisogna dunque comprendere il modo con cui egli combina le due istanze predette, trasformandole in un processo unico che è, nel contempo, razionale ed empirico. L'atteggiamento iniziale di Galileo non differisce da quello di Bacone: la natura non va soltanto « ascoltata », ma « interrogata ». Il più profondo divario sorge però, tra l'italiano e l'inglese, non appena essi cercano di precisare il tipo di questa interrogazione. L'interrogazione baconiana è, infatti, strutturata in modo da cercare nei fenomeni la loro « forma », il loro « schematismo latente », le loro note comuni; quella galileiana mira, invece, a scoprire le leggi dei fenomeni, cioè le proporzioni matematiche tra fenomeno e fenomeno. Per parlare di proporzioni matematiche tra fenomeni occorre ovviamente trovare il modo di far corrispondere ad ogni fenomeno un particolare numero. Le correnti neoplatoniche e neopitagoriche avevano tentato di giungere a questa corrispondenza tra fenomeni e numeri, facendo appello al valore magico-simbolico posseduto - secondo esse - dalla matematica. In base a questo valore, certi numeri o figure avrebbero la «virtù» di rappresentare simbolicamente certi fenomeni; e tale « virtù » permetterebbe di ricavare senz'altro le proprietà dei fenomeni dallo studio dei numeri che li rappresentano. Galileo risolve il problema in modo completamente diverso: per far corrispondere i numeri ai fenomeni, occorre, secondo lui, procedere alla misura dei fenomeni stessi. Soltanto la misura è in grado di creare la compenetrazione di esperienza e matematica, indispensabile al procedere scientifico. Ma - come già sappiamo - l'intervento della matematica nella scienza fisica non si esaurisce per intero nella misura; la matematica esercita una funzione essenziale anche nella costruzione delle teorie, cioè nell'esatta enunciazione dei loro principi e nella rigorosa deduzione, da questi principi, delle conseguenze particolari da controllarsi empiricamente. (Notiamo, fni: parentesi, che solo nella dinamica Galileo seppe giungere a una rigorosa e soddisfacente teorizzazione dei fenomeni studiati; negli altri campi, invece, si limitò a osservarli con la massima precisione possibile, valendosi all'uopo di tutti gli ausili che in quel momento poteva fornirgli la tecnica.) Una volta chiariti i punti in cui la matematica interviene nel processo sperimentale, resta ancora aperto il problema se Galileo scorgesse davvero nella
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verifica di una legge sui dati empirici (determinati nel modo più esatto possibile attraverso opportuni strumenti d'osservazione e di misura) una garanzia sufficiente della sua validità. Il problema ci può lasciare alquanto perplessi sia per la rozzezza degli strumenti che Galileo aveva a propria disposizione, sia per il fatto che, in non pochi casi, egli « immaginò » dei dispositivi di verifica che in realtà - con la tecnica della sua epoca - egli non era affatto in grado di costruire e far funzionare (ricorse cioè ai cosiddetti esperimenti teorici o ideali, che anche in epoche più recenti si riveleranno assai utili alla scienza). Proprio fondandosi su questa motivata perplessità, alcuni interpreti - a tendenza platonica - del pensiero galileiano sostengono che il nostro autore dovesse in realtà fare appello nel proprio animo a un'altra più sicura fondazione della validità delle leggi di natura. Ad essi si può tuttavia obiettare: 1) che se i mezzi di verifica sperimentale a disposizione di Galileo erano ancora molto rozzi, anche le sue pretese di verificare esattamente l'accordo fra una legge e i dati osservativi erano senza dubbio molto primitive (e cioè incomparabilmente meno esigenti di quelle dei fisici moderni); z) che gli stessi esperimenti ideali da lui immaginati - e descritti con una sorprendente dovizia di particolari - gli permettevano, sebbene provvisoriamente irrealizzabili, di formulare un effettivo confronto fra la singola legge fisica e ben precise situazioni empiriche, cioè di calarla nel particolare, rendendo palese a se stesso e agli altri la plausibilità di quanto asserito dalla legge in questione. Con ciò non si vuol negare che Galileo nutrisse una fiducia istintiva nella semplicità e nella conoscibilità della natura; essa gli proveniva senza dubbio dalla filosofia rinascimentale (in particolare dal platonismo, per quanto riguarda l'esprimibilità in termini matematici delle leggi di natura), ma gli proveniva anche, ed io credo in misura maggiore, dalla ripetuta constatazione dei successi conseguiti dai tecnici (i quali stavano a dimostrare che la natura può venire effettivamente dominata dall'uomo, quando questi cerchi di operare su di essa in certi modi anziché in altri), e soprattutto dalla constatazione che tali successi venivano conseguiti proprio imitando la natura che, per attuare le sue opere, suole far uso dei mezzi più immediati, più semplici e più facili ( « uti consuevit mediis primis, simplicissimis, facillimis »). 1 Ma non è possibile che l'esperienza ci inganni, facendoci credere che la natura sia regolata da certe leggi (quelle appunto verificate sperimentalmente) mentre in realtà è regolata da leggi del tutto diverse? L'obiezione viene avanzata da Simplicio, nell'ultima pagina del Dialogo e costituisce il cosiddetto argomento di I A sottolineare le differenze fra Galileo e il platonismo rinascimentale, possiamo ancora ricordare la sua vivacissima polemica contro la distinzione, tanto cara ai neoplatonici e ai neopitagorici, fra numeri e figure perfetti e
numeri e figure imperfetti; egli ci dice invece esplicitamente che, allorquando si tratta di matematica applicata alla fisica, l'unica perfezione o nobiltà delle leggi matematiche consisterà nel loro adeguarsi ai reali rapporti tra i fenomeni.
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Urbano VIII. Essa può essere così riassunta: nulla d autorizza ad escludere che, nella sua « infinita potenza e sapienza », dio abbia fatto in modo che tutte le prove escogitabili dal nostro intelletto sembrino confermare una determinata dottrina scientifica (nel caso specifico, la teoria copernicana) mentre in realtà essa è erronea. Pertanto nessuna prova dovrà essere stimata « verace e concludente ». Probabilmente questa obiezione venne suggerita a Galileo dal censore stesso, che, volendo autorizzare la pubblicazione del Dialogo, desiderava che almeno nella conclusione esso non apparisse così copernicano come in realtà era. Di fatto il Dialogo termina con il riconoscimento che è impossibile trovare una risposta alla suddetta argomentazione « mirabile e veramente angelica ». Tuttavia lo stratagemma - come già sappiamo - non riuscì a ingannare il tribunale dell 'inquisizione, e non inganna neppure noi. La realtà è che Galileo non era disposto a prendere sul serio l'obiezione testé riferita; essa era in antitesi con tutto il suo lavoro di scienziato e di metodologo. L'esperienza, intelligentemente interrogata e scrupolosamente osservata, non d inganna. Lo scienziato serio non può perdere tempo a dibattere sottigliezze così artificiose e capziose; egli ha ben altro da fare: ha da studiare con metodo la natura così come essa si esprime nei fatti empirici, non come potrebbe ipoteticamente essere in una « realtà » che sfugge per principio ad ogni controllo. VI
· SCIENZA E FILOSOFIA
Con le ultime osservazioni del paragrafo precedente siamo ormai giunti ai margini della filosofia. Può avere un senso, per Galileo, parlare di una realtà non identificantesi in modo completo con quella da noi percepita? Il problema trova una parziale risposta nella distinzione galileiana fra due tipi di qualità (cui, alcuni decenni più tardi, Locke darà il nome di «primarie» e «secondarie»). «Io dico,» scrive nel Saggiatore, «che ben sento tirarmi dalla necessità, subito che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch'ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch'ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch'ella è in questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch'ella si muove o sta ferma, ch'ella tocca o non tocca un altro corpo, ch'ella è una, poche o molte, né per veruna immaginazione posso separarla da queste condizioni; ma ch'ella debba essere bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali condizioni necessariamente accompagnata: anzi, se i sensi non ci fossero scorta, forse il discorso o l'immaginazione per se stessa non v'arriverebbe già mai. Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori, etc., per la parte del soggetto nel quale d par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sì che rimosso l'animale, siano levate ed annichilite tutte queste qualità ... Ma che ne' corpi ester173
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ni, per eccitare in noi i sapori, gli odori e i nomi, si richiegga altro che grandezze, figure, moltitudini e movimenti tardi o veloci, io non lo credo; e stimo che, tolti via le orecchie le lingue e i nasi, restino bene le figure, i numeri e i moti, ma non già gli odori né i sapori né i suoni, li quali fuor dell'animai vivente non credo che siena altro che nomi, come a punto altro che nome non è il solletico e la titillazione, rimosse l 'ascelle e la pelle intorno al naso. » La tesi qui enunciata, che verrà ripresa e svolta da molti pensatori del Seicento, costituisce la base di una vera e propria concezione del mondo, la cosiddetta concezione meccanicistica. Nell'antichità essa era già stata sostenuta dagli atomisti, e non è escluso che una certa influenza del! 'indirizzo atomistico fosse presente in Galileo, quando scrisse il brano testé citato. Come non è escluso che fosse proprio questa concezione a rinvigorire in lui la fiducia sulla matematica (che si occupa appunto di numeri e di figure) quale strumento efficacissimo per la conoscenza del mondo. Tutto ci fa escludere però che egli intendesse - con tale concezione - tracciare le linee di una vera e propria filosofia nel senso tradizionale del termine. Contro questa interpretazione stanno invero due fatti incontestabili: I) che, in contrasto con Aristotele, Galileo ha sempre rifiutato di occuparsi dell'essenza della realtà; z) che egli non ha mai cercato di ampliare e approfondire la tesi accennata nel brano testé riferito. In verità essa assume in lui un carattere p rettamente scientifico, operativo: ci dice che la considerazione delle qualità primarie risulta sufficiente a spiegare tutto intero il corso dei fenomeni, senza impegnarci sul problema se queste rappresentino o no l'essenza metafisica della realtà. Il meccanicismo come concezione filosofica del mondo, o perlomeno del mondo materiale - fisico e biologico, - troverà ampi sviluppi e seri tentativi di giustificazione in altri autori del Seicento (su di esso si ritornerà ampiamente nel capitolo vnr della sezione rv); nelle opere di Galileo resta una semplice indicazione, un canone di ricerca rivolto più allo scienziato che al filosofo. Né la cosa è difficile a spiegarsi. Se Galileo non ha sentito la necessità di analizzare i presupposti del meccanicismo, ciò dipende dal fatto che la filosofia, nel senso specifico del termine, era sostanzialmente al di fuori dei suoi interessi. Proprio per questo motivo troviamo nelle sue pagine tante oscillazioni fra posizioni filosofiche profondamente diverse. Galileo non si è mai proposto di creare una nuova filosofia, da sostituirsi a quelle che gli venivano presentate dalla cultura tradizionale. Il compito che egli aveva in animo era manifestamente un altro: egli mirava a costruire una nuova scienza, a farne capire a tutti l 'importanza per la concezione generale della natura, e nel contempo a fornirla di metodi efficienti, capaci di fornire soluzioni valide a problemi concreti e particolari. Stando così le cose, sorge spontanea la domanda: ma allora, che peso ha avuto Galileo nella storia del pensiero filosofico? Una prima, ovvia, risposta si ricava dalla semplice riflessione sull'enorme peso che ha avuto ed ha la scienza per la 174
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cultura moderna, e quindi anche per il pensiero filosofico che dibatte i problemi di fondo di questa cultura. Poiché la nascita della scienza moderna è inscindibilmente legata al nome di Galileo, va da sé che questi occupi una posizione importantissima sia nella storia del pensiero filosofico sia in quella del pensiero scientifico. Vi è però anche un altro motivo, per cui a Galileo va riconosciuto un peso determinante nello sviluppo del pensiero filosofico. Esso va cercato in quell' altissima fiducia nella ragione, che prorompe da tutte le sue opere, dalle sue polemiche, dal suo stesso programma culturale. È una fiducia che egli non si limita a coltivare nel proprio animo, o a diffondere in ristretti circoli scientifici; ritiene invece che vada predicata a tutti, che debba pervadere ogni strato sociale, perché essa sarà una delle colonne fondamentali della futura società. Ed è proprio in vista di questo scopo, che Galileo scrive gran parte delle sue opere in lingua volgare, affinché esse possano venire lette e meditate anche da chi non appartiene al mondo dei dotti. «Io l 'ho scritto vulgare, » spiega a Paolo Gualdo, parlando dell'!storia intorno alle macchie solari, « perché ho bisogno che ogni persona la possi leggere, e per questo medesimo rispetto ho scritto nel medesimo idioma questo mio ultimo trattato (il Discorso intorno alle cose che stanno in su l'acqua) e la ragione che mi muove, è il vedere, che mandandosi per gli studi indifferentemente i giovani per farsi medici, filosofi, etc., sì come molti si applicano a tali professioni essendovi inettissimi, così altri, che sariano atti, restano occupati o nelle cose familiari o in altre occupazioni aliene dalla litteratura ... ; et io voglio ch'e' vegghino che la natura, sì come gl'ha dato gli occhi per veder l'opera sua ... gli ha anco dato il cervello da poterla intendere e capire.» È tutto un nuovo clima culturale che si riflette in queste dichiarazioni; è una nuova visione dell'uomo e della civiltà. È quella nuova impostazione della cultura che, come abbiamo precedentemente spiegato, portava Galileo a concepire la scienza inscindibilmente legata alla tecnica e gli permetteva di sostenere il valore pienamente scientifico di uno strumento non ancora spiegato scientificamente, quale il cannocchiale. È l'intuizione del valore della scienza, come elemento propulsare e rinnovatore della società. Per i caratteri testé delineati della fiducia di Galileo nella ragione, egli è stato giustamente considerato come uno dei più validi precursori dell'illuminismo. E ciò basta a fare di lui, anche a prescindere dai suoi grandissimi meriti di scienziato, uno dei punti nodali della storia del pensiero filosofico.
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CAPITOLO DODICESIMO
Umanesimo, rinascimento, riforma, controriforma nez loro riflessi di ordine pedagogico. Comenio DI RENATO TISATO
I ·CHIARIMENTI PRELIMINARI
Si è accennato più volte, nel corso di questa sezione, agli importanti riflessi che ebbero, sul problema educativo, le profonde innovazioni del pensiero realizzatesi durante l 'umanesimo e il rinascimento (in senso stretto). La trasformazione della cultura promossa da tali movimenti non poteva non comportare come diretta conseguenza anche una trasformazione dell'educazione e in particolare delle istituzioni scolastiche. È la stessa posizione centrale che l'uomo occupa nella concezione umanistica, il concentrarsi degli studi filosofici sull'uomo, sul valore e sul significato della sua vita, sulla sua storia, che conducono logicamente ad attribuire primaria importanza al problema educativo. Queste osservazioni valgono, a maggior ragione, per la riforma e la controriforma, nei cui programmi il rinnovamento dell'insegnamento occupa una posizione di primissimo piano, tanto che non è stato possibile discutere il significato politico-culturale dell'una o dell'altra senza esaminare in breve le loro idee e le loro realizzazioni pedagogiche. Sembra tuttavia opportuno - giunti alla fine della sezione - completare e riordinare gli accenni contenuti nei capitoli precedenti, ricapitolando, in poche pagine, quelle che furono le linee direttrici delle innovazioni pedagogiche elaborate dagli indirizzi in parola, cosa che ci ripromettiamo, appunto, di fare nei paragrafi successivi del presente capitolo. Non si tratta, evidentemente, di delineare, neppure sommariamente, una storia della pedagogia del periodo in esame: se infatti è chiara, da un lato, l'inscindibilità di tale storia da quella del pensiero filosofico e scientifico, altrettanto chiaro - e, vorrei aggiungere, estremamente significativo - è dall'altro lato il fatto che, mentre i filosofi dell'antichità e del medioevo avevano trattato dell'educazione solo nel quadro e in funzione del problema politico-religioso, parecchi dei capolavori letterari del periodo in questione sono costituiti invece da trattati d'argomento specificamente pedagogico. Un esame approfondito della problematica pedagogica nella formulazione datale dai maestri e trattatisti più insigni verrebbe ad assumere dunque, a partire dal xv secolo, un'estensione incompatibile con la struttura e con l'equilibrio della presente opera.
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Ci limiteremo, pertanto, a richiamare al lettore il significato e l'importanza di alcuni nuovi temi affioranti nel xv e XVI secolo. Il capitolo si concluderà con un paragrafo specificamente dedicato alla notevolissima figura di Comenio che, pur essendo vissuto in pieno Seicento, può essere considerato in un certo senso il punto conclusivo dei più significativi indirizzi pedagogici dell 'umanesimo e della riforma. Proprio questa sua posizione permette di avvicinare la figura di Comenio a quella di Galileo, nella quale venne riscontrato il punto d'approdo di gran parte del pensiero filosofico-scientifico del rinascimento (in senso largo). D'altro canto a Comenio si deve una rivoluzione in ordine al problema dell'educazione che, pur non realizzando nel campo pedagogico quell'avvento di un metodo rigorosamente scientifico promosso da Galileo nel settore dell'astronomia e della fisica, è comunque caratterizzata da grande modernità di impostazione generale e da profondità di parziali vedute. II ·CARATTERI GENERALI DELLA PEDAGOGIA UMANISTICA
Il motivo essenziale della pedagogia umanistica è quello per cui l'educazione deve mirare alla formazione dell'uomo completo: corpo ed anima, senso e ragione, intelletto e carattere. Tutte le virtualità dell'essere umano devono essere armonicamente sviluppate, senza che alcuna rimanga atrofizzata. Gli studi soltanto professionali interessano poco i maestri ed i tecnici dell'educazione e, comunque, la formazione dell'uomo deve precedere l'istruzione e la preparazione tecnica dello specialista. D'altro canto si ritiene che per ottenere buoni risultati anche in uno specifico campo professionale sia necessario aver prima equilibratamente sviluppato le molteplici e varie attitudini, promossa la maturità del giudizio, la capacità di autodominio, il senso dell'armonia. Sotto questo punto di vista, dunque, la« cultura generale» è esattamente agli antipodi dell'enciclopedismo erudito. Scegliere una sola via, sia pure allo scopo di giungere per essa alla perfezione in un singolo campo, sarebbe per l'umanista come sottoporsi ad una mutilazione. L'educazione umanistica disdegna l'orientamento tecnico. Essa aspira a formare l'uomo che, a suo tempo, potrà essere disponibile per qualsiasi compito, ma che non si vuole anticipatamente limitato mediante una precoce specializzazione. Le esigenze sociali o la vocazione personale assegneranno, più tardi, a ciascun individuo il suo compito particolare. Per ora l'essenziale consiste, come scrive efficacemente il Marrou, nel produrre « un tessuto umano indifferenziato, ma di altissima qualità intrinseca, pronto ad ubbidire a tutte le ingiunzioni dello spirito o della congiuntura ... L'importante è d'essere un uomo intelligente che sappia veder chiaro e giudicare rettamente. In quanto al mestiere, si tratta solo d'uno sforzo d'iniziazione rapida; chiunque, purché sia un uomo di qualità, è capace di fare qualunque cosa ». 177
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Questa esigenza di impedire alla cultura di disintegrare l'unità armonica della persona umana urta inevitabilmente contro due difficoltà pressoché insormontabili: da una parte, la crescente esigenza di specializzazione, che si farà sentire tanto maggiormente quanto più progrediranno la scienza e la tecnica, dall'altra, il pericolo di scivolare in una cultura superficiale e nozionistica, agli antipodi rispetto allo spirito dell'autentico umanesimo. Il modello dell'uomo che l'educazione umanistica aspira a creare è l'oratore dell'età ellenistico-romana e un simile tipo d'uomo può formarsi solo mediante l 'assimilazione dei frutti della più « perfetta » civiltà: quella classica. Gli autori dai quali si attingono i principi pedagogici e le norme didattiche sono, in primissimo luogo, Quintiliano e Plutarco. La perfetta conoscenza delle lingue antiche è indispensabile per l 'assimilazione dei valori universali della civiltà classica. Ma c'è di più: restaurare il piano di studi della scuola classica vuoi dire attribuire valore fondamentale alla parola. Strumento di espressione dei concetti e dei sentimenti, mezzo di contatto e di scambio tra gli uomini, essa non può non assumere una funzione dominante nella nuova educazione. Ancora una volta è l 'ideale di Isocrate che prevale contro quello, filosoficomatematico, di Platone. Questo, naturalmente, non vuoi dire rifiutare la filosofia e la matematica. Solo che filosofia e matematica si rivelano, appena si superi il loro grado elementare, inaccessibili alla maggior parte degli ingegni normali e quindi atte a selezionare e formare più un ristretto gruppo di intellettuali ad altissimo livello che un'intera classe sociale. Per realizzare la formazione culturale di un'intera classe non bisogna abbandonare il terreno proprio delle persone di normale intelligenza. Matematica e filosofia possono concorrere, purché conservino il valore di discipline formali e preparatorie. La lingua latina è considerata dagli umanisti italiani uno strumento di espressione incomparabilmente più perfetto del volgare e, conseguentemente, il suo possesso appare condizione necessaria per un più vivo e, al tempo stesso, rigoroso discorrere intorno a ciò che pensiamo. Di qui il programma di restaurazione del latino quale lingua viva. Ne viene una serrata polemica contro il grammaticismo pedante degli scolastici. La grammatica, afferma il Valla, non è affatto, come pretendevano i medievali, l'espressione delle leggi eterne ed immutabili del pensiero, da esso inseparabile, ma un sommario dell'uso classico. Pertanto lo studio delle lingue deve farsi sui testi, eliminando il ciarpame delle vecchie grammatiche aride e noiose. Riassumendo quanto siamo fin qui venuti esponendo, possiamo affermare che l'assunzione del linguaggio, della letteratura e della civiltà classica quale paradigma di una perfetta formazione umana fa nascere una serie di problemi appassionanti, attorno ad alcuni dei quali il dibattito non può dirsi chiuso nemmeno ai nostri giorni:
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1) si deve accertare se, entro quali limiti e come, la cultura classica possa costituire un fattore formativo valido anche per i tempi moderni, in condizioni storiche profondamente mutate; z) è necessario chiarire come possa attuarsi l'armonizzazione di cultura pagana e di spiritualità cristiana; 3) è necessario risolvere l'antitesi tra formazione retorico-letteraria da una parte e formazione filosofico-scientifico-matematica dall'altra. Altri temi circolanti nella letteratura pedagogica umanistico-rinascimentale sono: l 'aspirazione ad un addolcimento della disciplina, o meglio, al suo trasferimento dal piano del formalismo e della violenza fisica a quello del reciproco affetto tra maestro e scolaro, della stima, dell'interesse per l'oggetto di studio, dell'equilibrio psicofisico; la coscienza della necessità di individuare i tratti essenziali del carattere di ogni scolaro allo scopo di adeguare ad essi il metodo e di favorire l'orientamento. Sotto quest'ultimo punto di vista il pensiero pedagogico dell'umanesimo si discosta alquanto dalla tradizione classica, della quale, come a suo luogo abbiamo visto, era caratteristico il disconoscimento della psicologia del fanciullo. D'altra parte non si deve dimenticare il fatto che le scuole umanistiche si rivolgono essenzialmente agli adolescenti ed ai giovani fra i dieci-dodici ed i diciotto-vent'anni e che assai scarso è, nel periodo del quale stiamo occupandoci, l'interesse per quel grado di scuola che noi chiamiamo primaria o elementare e per i suoi problemi. Un ulteriore motivo di polemica contro la scuola medievale è costituito dalla generale rivalutazione del mondo fisico, manifestantesi nella duplice direttiva delle cure da concedere al corpo attraverso il gioco e la ginnastica, e della osservazione delle cose quale integrazione e commento dei testi. Un cenno particolare merita l'attributo di «liberali» che gli umanisti danno agli studi da loro coltivati. Il termine ha una duplice accezione. Da un lato vuoi significare quegli studi che « liberum hominem efficiunt », in quanto lo guidano a liberarsi dal servaggio della passionalità irrazionale, dell'animalità; dall'altro, indica quel tipo di cultura disinteressata attraverso la quale l'uomo tende al sapere, alla virtù e, tutt'al più, alla gloria, senza aspirare al guadagno e, comunque, al vantaggio materiale. Questo secondo significato implica una interpretazione rigidamente aristocratica della cultura. Secondo un criterio valutativo che già abbiamo incontrato ed esaminato nel pensiero greco, l'esercizio di una qualsiasi attività lucrativa è giudicato indecoroso e tale da provocare gravi deformazioni psicofisiche in chi vi si dedichi. Naturalmente non manca, nel complesso quadro, chi reagisce contro questa chiusura ed auspica una cultura che esca dalle torri d'avorio, dilaghi per le strade e investa ed animi la vita quotidiana, l'industria, il commercio. Tale è l'atteggiamento di Leon Battista Alberti, di Matteo Palmieri, di Enea Silvio Piccolomini.
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Quest'ultimo, per esempio, sostiene che, essendo il valore dei libri antichi nel loro contenuto, tanto varrebbe tradurli: lo studio delle lingue morte da un lato implica notevole perdita di tempo, dall'altro porta all'esclusione di moltissimi dal possesso dei valori reali della cultura antica. Nel suo complesso, però, l'ideale pedagogico rinascimentale conserva e viene accentuando col trascorrere del tempo un carattere essenzialmente aristocratico. Ci sembra inaccettabile la tesi secondo la quale alla valutazione in base alla nascita, operata dal feudalesimo, ed a quella in base al censo, tipica della borghesia cittadina, l'umanesimo sostituirebbe una valutazione fondata sulla cultura. In realtà l'educazione umanistica, nella sua espressione più elevata, porta alla formazione di un ristretto ordine di dotti, minoranza privilegiata, libera da ogni impegno di lavoro che non sia lo studio. Ma tale minoranza di intellettuali ha ben poco in comune con la classe dei filosofi della repubblica platonica. La sua funzione va progressivamente svuotandosi di ogni contenuto autenticamente politico e diviene a poco a poco decorativa. Così, mentre il progresso della tecnica e le grandi scoperte geografiche danno vita al capitalismo e la grossa borghesia si distacca dalla piccola e dà la scalata alle posizioni della nobiltà di sangue, la cultura scava un abisso invalicabile fra sé e il sapere comune. L'artista e l'artigiano si separano; il primo viene accolto nelle corti, il secondo è relegato nella plebe. Il pittore non vuole più essere confuso con l 'imbianchino nell'ambito della stessa confraternita. Gli architetti si vogliono differenziare dai capimastri (che pure avevano costruito le cattedrali). L'esponente tipico di questa nuova aristocrazia, Lorenzo il magnifico, banchiere, principe, umanista, può scrivere senza sollevare scandalo: « Solo chi è di sangue nobile può portare le cose alla perfezione. Non v'è genio nella gente da poco che lavora con le mani e non ha modo di coltivare la propria intelligenza. » Attraverso i secoli sembra di riascoltare lo sdegno sarcastico di Pindaro! Così, con l'avvento del dispotismo principesco, la cultura italiana si svuota di ogni motivo « civile » e perde ogni contatto con quella realtà quotidiana che pure l 'aveva generata. I suoi germi fecondi potranno fiorire e fruttificare solo in altri paesi, come l'Inghilterra, la Francia, la stessa Germania, nei quali lo sviluppo della realtà economica, sociale, politica e religiosa sarà più favorevole. Nel nostro paese i migliori cercheranno nella poesia e nella filosofia un'evasione; i peggiori trasformeranno l'erudizione e la fantasia in strumenti cortigianeschi, dando vita ad una cultura puramente formalistica, ad una specie di nuova scolastica decadente e pedante, raggelata in formule senza vita. E, come tale, cioè come un puro gioco di forme, sterile ed inutile, l'umanesimo dominerà per secoli la cultura italiana.
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III ·LA PEDAGOGIA DEL TARDO RINASCIMENTO
Si è visto, nel capitolo rr, come il rinascimento, in senso largo, sia stato fin verso la metà del xv secolo (cioè durante il primo umanesimo) un fenomeno prevalentemente italiano; nel capitolo I avevamo accennato ai fattori di ordine economico, politico, religioso, la cui convergenza doveva mettere in crisi l'Italia avviandola ad un lunghissimo periodo di involuzione generale proprio nel momento in cui si consolidavano definitivamente le grandi monarchie nazionali e specialmente la Francia e l'Inghilterra. Questo fatto non poteva rimanere senza conseguenze nel campo della cultura in generale e della problematica pedagogica in particolare. Così, mentre in Italia la più cospicua fioritura di opere dedicate specificatamente al problema educativo caratterizza principalmente il xv secolo, nei paesi d'oltralpe essa si verifica prevalentemente nel XVI secolo. Questo sfasamento di un secolo e la profonda divergenza delle linee tendenziali di sviluppo della storia rispettivamente dell'Italia e delle grandi potenze europee fanno sì che la tematica pedagogica presentata dal rinascimento europeo (extraitaliano) si presenti alquanto diversa rispetto a quella strettamente umanistica e precipuamente italiana di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente. Non sarà ovviamente possibile, qui, seguire da vicino, nei singoli autori, lo svolgimento del pensiero pedagogico dei vari paesi europei. Per alcuni di tali autori qualche accenno alle implicazioni in ordine al problema dell'educazione contenute nei loro scritti è già stato fatto là dove si è esaminato in generale il loro pensiero filosofico. Ci limiteremo pertanto a tentare di mettere in risalto taluni punti, dal cui collegamento può emergere con maggior chiarezza un disegno abbastanza persuasivo della pedagogia europea del rinascimento in senso stretto. Abbiamo precedentemente messo in evidenza le difficoltà che si incontrano allorché si cerca di stabilire un rapporto troppo stretto fra il rinascimento e la trasformazione dell'assetto economico-politico della società europea. Tali difficoltà sono connesse, fra l'altro, ai noti aspetti degenerativi del J:I?-Ovimento umanistico, che sfociano nella sostituzione dell'autorità dei classici a quella dei dottori della chiesa, nello svuotamento della cultura di ogni motivo «civile», nella riduzione della cultura a puro formalismo gelido e pedante, strumento di evasione o di piaggeria cortigianesca. È chiaro che facendo questo discorso avevamo avuto presente in modo precipuo la situazione italiana. ·ora il rinascimento europeo, quale risultato della diffusione di un fenomeno inizialmente italiano, nasce, per dir così, già maturo ed ignora il travaglio rivoluzionario da cui trae impulso e caratterizzazione il primo umanesimo italiano. D'altro canto, in Francia e in Inghilterra, proprio in questo momento sta iniziando quel periodo di prodigioso sviluppo economico-politico che farà di tali
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paesi le massime potenze mondiali e le promotrici della rivoluzione capitalisticoborghese. Sembra dunque che esistano, in Francia e in Inghilterra, le condizioni indispensabili per garantire, alla cultura in generale e all'azione educativa in particolare, quell'impegno «civile» che vien perso di vista, contemporaneamente, in Italia. In realtà anche nei paesi in questione esistono limiti ben precisi ad uno sviluppo d'una cultura e d'un'azione educativa civilmente impegnate: limiti identificabili in primo luogo con la struttura ancora prevalentemente aristocratica della società e con l'affermarsi, sul piano politico, del dispotismo principesco. Per poter determinare con chiarezza i riflessi che l 'umanesimo ebbe nella struttura sociale dei paesi europei, occorre distinguere due momenti. Nel primo l 'insieme dei letterati di tutta Europa viene costituendo una specie di società di spiriti raffinati, uniti, in mancanza di contatti personali diretti, mediante la fitta rete dei legami epistolari. Successivamente questa società di spiriti raffinati si dilata alquanto, fino a coincidere con quel complesso di persone ben nate e bene educate, allontanate in tutto o in parte dall'attività politica a causa dell'invadenza monarchica, che occupano il loro tempo libero a gustare i piaceri dello spirito e che in Francia verranno chiamate /es honnetes gens. Si tratta di una società ristretta, reclutata negli ambienti della nobiltà, tutt'al più in quelli della borghesia più agiata e avente come suo centro e modello la corte. Osserva il sociologo francese Émile Durkheim che già nei secoli precedenti nel mondo dei castelli, sotto l'influsso delle donne, i costumi erano caratterizzati da un'eleganza e da una finezza che non si riscontravano altrove. Ma nel xvr secolo questo bisogno di raffinatezza, questo gusto per i piaceri più delicati si intensificherebbe e al tempo stesso si generalizzerebbe alquanto. Di qui un diffuso orrore per la rusticità, la «barbarie», la violenza del medioevo. Il solo mezzo per liberare gli spiriti dalla loro grossolanità, per ingentilirli e raffinarli sembra essere il contatto assiduo, lo scambio familiare con una civiltà elegante come quella classica, così com'essa si è espressa nelle opere dei grandi scrittori, poeti, oratori. Erasmo da Rotterdam (al quale venne dedicato un paragrafo del capitolo vn) appare sotto questo punto di vista il più tipico esponente della pedagogia rinascimentale in senso stretto. Nei suoi scritti, termini quali barbarus, stoliditas, rusticitas, ritornano con grande frequenza. D'altro canto per lui non c'è dubbio che il passaggio dalla rozzezza dell'età della pietra a forme di vita più propriamente umane sia stato essenzialmente merito delle lettere. « Sono esse, » egli scrive, « che formano lo spirito, addolciscono le passioni, spezzano gli slanci irruenti del temperamento. » La classicità ha, per lui, il carattere sacro di un modello ideale perfettamente realizzato: non ci può essere progresso che non sia al tempo stesso restaurazione 182
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dell'esemplare classico. Lungi dallo scorgere un contrasto fra l'antica cultura e le esigenze del mondo cristiano, Erasmo ritiene che solo l'educazione umanistica sia in grado di promuovere la formazione di una civiltà cristiana autenticamente universale. A chi gli obietti che un'educazione di tal fatta esclude le grandi masse dei lavoratori poveri, egli risponde che non si può esigere dal potere di spingersi così lontano come il volere e che al pedagogista si può chiedere dj descrivere il migliore processo educativo, non di fornire i mezzi per attuare l'ideale. Qui, come nota il già citato Durkheim, il grande umanista pecca non solo di scarso impegno sociale ma anche di scarsa consequenzialità, giacché mostra di non capire che il suo ideale educativo, quand'anche, per ipotesi, fosse generalizzabile, non risponderebbe ancora ai bisogni della maggioranza, che, ovviamente, non può risolvere i propri problemi vitali mediante il possesso dell'arte oratoria e del più raffinato gusto estetico. In tal senso ci pare assai più civilmente impegnato e tale da meritare una posizione centrale nel quadro della pedagogia rinascimentale, il pensiero che Baldassar Castiglione espone nel suo Cortegiano, 1 di gran lunga il più celebre fra i trattati pedagogici del rinascimento italiano, tradotto ben presto in francese, spagnolo ed inglese e destinato ad ispirare più generazioni di trattatisti fra i quali, come vedremo, lo stesso John Locke. I cortigiani, la corte, costituiscono, nella società che il Castiglione considera, un gruppo di persone gravitanti attorno al signore e assolventi compiti non bene differenziati ma costituenti l'impulso centrale e il modello riconosciuto di ogni attività superiore della società stessa. Tutte le iniziative di qualche peso ricevono il loro impulso dalla corte. Per quanto si debbano considerare essenziali le doti naturali individuali, pure è bene che il cortigiano sia di nobile famiglia, poiché la nobiltà di nascita infiamma alla virtù, rende coraggiosi nel trattare con altri nobili e immunizza contro l'invidia popolare. Il cortigiano sarà uomo di lettere e d'arme, ma non sarà letterato né soldato di professione; sarà coraggioso, ma non millantatore; sarà espertissimo in ogni sorta di giochi ed esercizi (equitazione, caccia, nuoto, salto, scherma, scacchi, ecc.); saprà anche danzare, ma con misura. Il cortigiano compie ogni gesto con abilità consumata, ma al tempo stesso con un distacco da gran signore. Nella conversazione si fa apprezzare senza mostrarsi affettato, è spiritoso, ma sa contenersi entro i giusti limiti e, soprattutto, sa adottare il tipo e la vivacità dello spirito dell'ambiente nel quale si trova. Sa gustare la buona musica eseguita da altri e sa anche eseguirla e in ciò trova il migliore riposo dopo il lavoro. Anche la I Abbozzato in pochi giorni nel I 508, il dialogo viene completato nel I 5I 6. Sottoposto ad u?- ulteriore lavoro di lima, soprattutto dal punto di vista linguistico, è stampato solo nel I 5z8. L'autore immagina che, per quattro sere, nel pa-
lazzo di Urbino, alla presenza della duchessa Elisabetta Gonzaga, alcuni gentiluomini colti discutano per giungere a una descrizione quanto più possibile completa e soddisfacente del perfetto cortigiano.
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scultura, la pittura e il disegno debbono far parte del bagaglio culturale del cortigiano. Disegno e pittura hanno anche una funzione pratica in quanto permettono di tracciare schizzi topografici, rilievi di fortificazioni, ecc. Essi però debbono soprattutto affinare il gusto e rendere possibile una più profonda comprensione dell'armonia del creato. Il cortigiano veste dignitosamente, adeguandosi alle circostanze. La formula dell'eleganza aristocratica consiste nel seguire la moda riuscendo a non attirare l'attenzione su di sé. Ma tutto questo (l~ cultura, lo sport, l'eloquio elegante, la finezza di spirito, ecc.) è, per il Castiglione, soltanto il fiore della cortigianeria. Nessuno, fra i trattatisti del pieno rinascimento, sente come il Castiglione il motivo, già essenziale in Vittorino da Feltre, della perfetta corrispondenza tra il comportamento esteriore e l'intima vita spirituale. Il portamento, il tono di voce, gli atteggiamenti signorili, non sono mera forma, ma coinvolgono la sostanza medesima della personalità, il cui frutto consiste nell'impegno ad aiutare il principe a ben operare. Così la cortigianeria assume il carattere di una vera missione pedagogico-politica e il cortigiano è posto davanti al principe e alle masse popolari quale modello di perfezione. Di fronte all'ideale educativo tratteggiato negli scritti di Erasmo e del Castiglione, 1 statico e formalistico, il rinascimento europeo produce l 'ideale dinamico e realistico espresso plasticamente da Rabelais (cui abbiamo dedicato il paragrafo IV del capitolo vn). Il romanzo di Gargantua e Pantagruel, fantasioso ed eroico, sembra assai lontano da un'opera pedagogica e, invece, al di là delle facezie, delle grossolanità e delle esagerazioni miranti a colpire l'immaginazione popolare, contiene il primo abbozzo di una educazione moderna, basata sull'osservazione della realtà più che sulla lettura dei libri, sul lavoro, sull'armonico sviluppo delle facoltà conoscitive e pratiche. Movendo dal presupposto della fondamentale bontà della natura umana, Rabelais dimostra orrore per tutto ciò che costituisce regola e disciplina, ostacolo alla libera espansione dell'attività. Regolamentare la natura è imporle dei limiti e, conseguentemente, mutilarla. Ne consegue, nel campo pedagogico, che tutte le facoltà del fanciullo, spirito e corpo, debbono essere esercitate al massimo grado e portate al più alto livello di sviluppo di cui sono suscettibili. Ma questa amplificazione in tutti i sensi della persona umana non può essere il risultato di mere esercitazioni formali: è indispensabile che l 'individuo si appropri nella maniera più piena e completa della scienza più progredita. Di qui quel gusto intemperante per l'erudizione, quella sete di sapere che nulla può appagare, che rischia di degenerare nell'enciclopedismo nozionistico e che tanti storici della pedagogia hanno rimproverato al Rabelais. I Motivi analoghi sono contenuti nelle opere dello spagnolo Luis Vives, cui si è fatto
cenno nel capitolo vn, allorché si sono esaminati gli sviluppi dell'umanesimo.
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È chiaro come Rabelais rappresenti, di fronte al mito della restauratio ed al culto dell'umanità greco-romana quale momento-modello unico e definitivo, mito e culto sfocianti necessariamente in un ideale metastorico e quindi statico, l 'altra faccia del rinascimento: l'acquisizione della consapevolezza storica, la scoperta della verità figlia del tempo, la meraviglia e l'entusiasmo per le nuove invenzioni e le nuove scoperte, il rinnovato atteggiamento di fronte alla natura e, in generale, di fronte al mondo delle « cose ». Il pericolo di scivolare nell'enciclopedismo nasce non tanto, o non solo, da un certo ingenuo, giovanile entusiasmo dell'autore, quanto dal carattere intimamente contraddittorio della cultura umanistico-rinascimentale, la quale, mentre da un lato afferma la dignità della persona umana come unità armonica di tutte le facoltà, dall'altro dà l'avvio a ciò che la civiltà moderna ha di più essenziale e al tempo stesso di più conturbante: lo sviluppo e l'accentuazione illimitata della specializzazione. Ci sembra che non si possa chiudere il presente paragrafo senza un cenno a Michel de Montaigne, della cui importanza, nel quadro della cultura e della filosofia rinascimentale, è già stato detto nel capitolo vn, paragrafo v. Il suo rifiuto di inserirsi nel mondo di corte, il suo amore per la solitudine e la meditazione, il suo disprezzo per la retorica e la sua sfiducia nella scienza, collocano questo pensatore al di fuori dei due campi, conservatore e progressista, precedentemente tratteggiati e possono attirargli l'accusa di negativismo rinunciatario. In realtà questo non impedisce al nostro autore di cogliere con occhio straordinariamente acuto alcuni dei problemi pedagogici che appaiono maggiormente scottanti ancora ai giorni nostri. Nei Saggi gli spunti e i motivi pedagogici abbondano. Due di essi, poi, intitolati rispettivamente Della pedanteria e Dell'educazione dei fanciulli, sono intera-' mente dedicati al problema educativo. Nel saggio Della pedanteria Montaigne si domanda perché i maestri debbano, in genere, essere disprezzati non solo dal volgo, ciò che dimostrerebbe soltanto l'ignoranza di quest'ultimo, ma anche dalle persone colte e intelligenti. È purtroppo indiscutibile che molti precettori, pur conoscendo tante cose, rivelano un'anima meschina, come se, per far posto agli altri, la loro personalità si fosse quasi rimpicciolita e contratta. Ora, nell'autentico processo di assimilazione, la nostra anima si allarga quanto più si riempie. Bisogna concludere dunque che, in genere, i maestri di scuola possono conservare uno spirito rozzo e volgare, pur albergando in sé le idee dei più eletti spiriti, in quanto si applicano alle scienze in modo pessimo. Questo pessimo metodo consiste nel mnemonismo, nel gusto dell'erudizione, nel riempire la testa di nozioni senza preoccuparsi del rafforzarsi della capacità di giudizio e della virtù morale. Sappiamo citare le opinioni di Cicerone, di Platone e di Aristotele come pappagalli, senza formarci un'opinione nostra. Ma non basta riempire il ventre di cibo per crescere ed acquistare forza:
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l'essenziale è digerire ed assimilare! Senza l'assimilazione lo studio riesce nocivo, poiché fa perdere quella capacità di comportarsi naturalmente e di parlare semplicemente delle poche cose veramente conosciute che riscontriamo nei contadini e negli artigiani, laddove gli pseudoeruditi s'impastoiano e s'imbarazzano di continuo per quel sapere che galleggia alla superficie del loro cervello. Montaigne biasima, conseguentemente, l'abuso dei libri e vuole che quel poco che di veramente buono si legge divenga come il succo dei fiori che le api colgono qua e là trasformandolo in saporoso e nutriente miele. Quanto alla causa profonda della diffusa degenerazione del metodo educativo, essa consiste nel fatto che gli uomini più attivi si dedicano agli affari, i più nobili alle carriere onorifiche, non dedicandosi affatto o dedicandosi per breve tempo alle lettere. Restano, per queste, individui di mediocre ingegno e di poca fortuna che nelle lettere cercano i mezzi per campare e portano negli studi una mentalità disadatta, giacché, come gli zoppi non sono adatti alla ginnastica, così le anime zoppe, cioè volgari, sono indegne dell'alta cultura. Nel saggio Dell'educazione dei fanciulli Montaigne affronta una serie più varia e copiosa di motivi pedagogici. Ci limiteremo a sottolineare il fatto che Montaigne vede chiaramente come per giungere a formare un nuovo tipo di uomo sia indispensabile rinnovare il metodo, anticipando con finezza d'intuito eccezionale tutta una seria di metodi fondamentali della moderna scuola « attiva ». Il maestro deve seguire le attitudini del fanciullo, osservandolo ·mentre agisce, ascoltandolo mentre parla. Egli deve far « trottare » il piccolo innanzi a sé per determinare il ritmo del suo passo, altrimenti rischierà di andare troppo in fretta o troppo adagio, con risultati disastrosi in entrambi i casi. Non è possibile insegnare a tanti alunni diversi usando l'identico metodo: saremmo seguiti da uno o da due al massimo; il metodo deve essere individualizzato. Quanto alla valutazione, essa non deve poggiare sulla capacità del bambino di ricordare, ma su quella di giudicare. La maturità di giudizio, poi, si rivela con l'applicazione dei principi a casi diversi e nella traduzione della teoria in pratica. Nulla sarà appreso in base al principio di autorità. Il fanciullo deve imparare a non valutare a priori Aristotele più di Platone, gli stoici più degli epicurei. Legga, mediti, confronti e scelga e se non si sentirà in grado di scegliere rimanga nel dubbio, ché la libertà di giudizio è prova di uno spirito maturo. Essenziale è che il giovane sia sempre disposto a cedere di fronte alla verità, da qualunque parte essa venga. Abbiamo qualcosa da imparare da tutti, dai sapienti come dagli operai e dalle cose. Per la formazione di questa mentalità serenamente scettica ha un'importanza decisiva il commercio con gli uomini più diversi: quindi conversazioni, viaggi, letture, specialmente di libri di storia che mettono a contatto coi grandi !86
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del passato. Così il giovane imparerà a non vedere, come fa il vecchio parroco, nella gelata delle viti l 'ira di dio o in una guerra civile il segno della fine del mondo. Bisogna osservare l'universo in tutta la sua immensa maestà: vedere come la nostra vita e quella di un intero popolo altro non siano, in quel quadro, che un segno tracciato da una punta sottilissima. La riflessione sulla varietà delle opinioni, dei costumi, delle leggi, ci insegna a riconoscere i limiti del nostro intelletto. La meditazione sui rivolgimenti della fortuna ci induce a non far caso della nostra. La considerazione delle migliaia di uomini sepolti prima di noi ci incoraggia a non temere di andarci a unire con loro nell'altro mondo. IV · RIFORMA E EDUCAZIONE
Come già si è detto nel capitolo v, il diritto-dovere che ogni cristiano ha di interpretare liberamente la Scrittura presuppone, ovviamente, la capacità di leggere. Pertanto il principio del libero esame implica la scuola, almeno nel suo grado elementare, per tutti. Ma scuola per tutti vuoi dire scuola gratuita e obbligatoria. La gratuità e l'obbligatorietà, poi, esigono l'intervento dello stato, o, comunque, di un'autorità pubblica la quale possegga mezzi e forza sufficienti a fare della frequenza una realtà concreta e non una mera dichiarazione di principio. L'obbligo di apprendere a leggere, pur avendo una dichiarata finalità religiosa, è destinato ad assumere, al di là delle stesse intenzioni dei riformatori, la funzione di uno strumento di liberazione dell'individuo, di diffusione della stampa e, in ultima analisi, di progresso scientifico. Un'altra conseguenza dell'universale obbligo scolastico è l'affermarsi delle varie lingue nazionali. Lutero traduce la Bibbia in tedesco, assolvendo nella storia del suo paese un compito analogo a quello assolto in Italia dai grandi toscani del Due-Trecento. Il latino cessa di separare il clero dal laica t o e di attribuire al culto un carattere misterioso, esoterico. La gerarchia ecclesiastica perde il suo valore e la funzione sacerdotale viene estesa a tutti i credenti. L'identificazione dell'attività religiosa con la normale attività economica, civile, politica, nonché la rivalutazione del lavoro, aprendo la strada al formarsi di una rigida morale professionale, impongono di affrontare il problema della identificazione delle attitudini individuali e pongono le condizioni di ordine ideologico per il fiorire di scuole professionali. Ma i motivi più tipicamente moderni sono quelli che la pedagogia deriva dal principio del libero esame e dalla interiorizzazione del fatto religioso. Indubbiamente il libero esame non è ancora la libertà di pensiero in senso moderno, dal momento che viene pur sempre accettato il concetto di rivelazione; però il fatto che al posto della chiesa subentri direttamente dio, la cui verità e la cui legge parlano dall'interno del soggetto stesso; il fatto, soprattutto, che ven-
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ga negato il diritto di dirigere il pensiero e di limitarne la manifestazione a una qualunque autorità umana, crea i presupposti per la futura affermazione dell'autonomia della ragione. L'interiorizzazione della fede, escludendo ogni possibilità di formalismo farisaico e collegando la speranza nella salvezza con una interiore autentica conquista di perfezione morale, pone l 'uomo di fronte a se stesso, in condizione di realizzare la propria personalità in un'atmosfera di spietata sincerità finora sconosciuta. Sarà opportuno ricordare ancora una volta le già citate opere di Lutero che hanno particolare interesse pedagogico. Esse sono: Lettera ai consiglieri di tutte le città della Germania (1524); Grande e piccolo catechismo (1529); Sermone sulla necessità di mandare i fanciulli a scuola (1 53o), oltre, naturalmente, la traduzione tedesca della Bibbia. Da esse appare chiaro che, per il loro autore, l'educazione ha un fine essenzialmente religioso. È necessario che tutti siamo messi fin dalla fanciullezza in grado di leggere la Bibbia, allo scopo di realizzare, sotto la guida della Scrittura, il rapporto personale con Cristo. Lutero non ritiene che la Bibbia presenti difficoltà eccessive per i fanciulli: le verità più alte, egli dice, finiscono per essere le più semplici. Il primo centro educativo è la famiglia. I rapporti tra genitori e figli hanno un carattere sacro, in quanto analoghi a quelli intercorrenti tra dio e gli uomini. D'altro canto il padre e la madre sono i migliori educatori, in quanto la loro opera è illuminata e riscaldata dall'amore. «L'amore è il migliore maestro,» dice Lutero; «con l'amore si ottiene assai più che con una paura servile e con la costrizione. » Ma i genitori, assai spesso, non sono all'altezza del compito educativo o, perlomeno, non possono assolverlo oltre un certo limite. Alcuni sono indifferenti; altri sono incapaci o indegni; altri, infine, sono tutti presi dagli affari. È dunque necessario l'intervento del maestro o, meglio, della scuola. Lutero, infatti, è sostenitore dell'educazione pubblica e comune, perché «il giovane allevato lungi dalla società è simile all'albero piantato in un vaso troppo stretto». La missione del maestro è altissima e la sua efficacia è forse superiore anche a quella del pastore: nessuno dovrebbe, comunque, essere pastore senza essere stato prima maestro. L utero si preoccupa che il passaggio dall'atmosfera familiare a quella scolastica non abbia a risultare troppo brusco. Egli pertanto vuole messe al bando le maniere aspre, rigide, crudeli. Il bambino ha bisogno di aria, ~i sole, di gioia; perciò nella scuola luterana si fa posto alla ginnastica e ai giochi e si favorisce il nascere di liete compagnie. Un cenno particolare merita l'importanza attribuita alla musica. Il rinnovamento luterano in campo liturgico, chiamando direttamente il popolo ad officiare, esige che anche i laici, oltre ai chierici, facciano sentire la loro voce. Ma la musica 188
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polifonica della chiesa cattolica è divenuta, attraverso i secoli, qualcosa di eccessivamente complesso. Inoltre il canto gregoriano, del quale essa è il monumentale sviluppo, è ormai lontanissimo dalla sensibilità popolare. Lutero introduce audacemente nella liturgia, accanto alla lingua tedesca, il canto popolare, spontaneo, melodico, atto al sincero esprimersi dello slancio interiore. Il nuovo tipo di canto religioso tedesco prenderà il nome di «corale» e avrà un successo tale da far esclamare a un gesuita: « I canti di L utero hanno ucciso più anime che non tutti i suoi scritti e discorsi. » Nulla di più naturale, dunque, che venga attribuita grande importanza alla musica e in particolare al canto corale anche nella scuola. La musica rende gli uomini più indulgenti e più dolci. Un maestro che non sappia cantare è inconcepibile. Se il fine ultimo dell'educazione è religioso, non sfugge però a Lutero l'importanza dell'educazione stessa anche in rapporto alla vita terrena. «Quand'anche non ci fosse né anima, né cielo né inferno, » egli scrive, « sarebbe sempre necessario avere delle scuole per le cose di quaggiù, come ce lo prova la storia dei greci e dei romani. Che! Sarebbe indifferente che il principe, il signore, il consigliere, il funzionario fosse un ignorante o un uomo istruito, capace di soddisfare ai doveri della propria carica? Il mondo ha bisogno di uomini e di donne istruite, perché gli uomini possano governar bene il paese e le donne sappiano educare i figli, vigilino sui servi e dirigano saggiamente la casa. » Nelle citate lettere ai consiglieri ed ai magistrati di tutte le città tedesche, L utero attribuisce allo stato l 'importantissimo compito della creazione e del finanziamento della scuola per tutti. Lo stato, poi, come ha il dovere di creare e finanziare le scuole così ha il diritto-dovere di costringere alla frequenza. Con ciò, come abbiamo già detto, vengono gettati i pilastri fondamentali della scuola moderna. Come già si accennò nel capitolo v, Lutero si occupa pure della scuola superiore, ed è interessante notare - a conferma del! 'influenza esercitata su di lui dall'umanesimo - che. prevede per essa, tra gli insegnamenti fondamentali, quelli del latino, del greco, dell'ebraico, la cui conoscenza è reputata indispensabile affinché almeno qualcuno sia in grado di risalire alle fonti della Scrittura. La lingua materna deve invece venire usata per leggere la Bibbia e per cantare (ricordiamo che nella liturgia luterana al canto popolare, spontaneo, melodico è assegnata una funzione di grande rilievo, perché lo si ritiene atto al sincero esprimersi dello slancio interiore). Per quanto riguarda l'organizzazione della scuola non diretta al popolo, venne pure segnalato nel capitolo v il contributo decisivo ad essa dato da Filippo Melantone, dottissimo professore e umanista, la cui adesione al movimento protestante incise profondamente - come già sappiamo - sui rapporti fra riforma e umanesimo. Senza ripetere quanto venne spiegato nel predetto capitolo, occorre ribadire che proprio a Melantone si deve se un importante nucleo
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del pensiero umanistico-rinascimentale riuscì, nei paesi riformati, a inserirsi in larghi strati di popolazione e ad influire in modo decisivo sulla formazione di una vera e propria cultura nazionale tedesca. Accanto a Lutero e a Melantone vanno ricordati, fra i massimi rappresentanti della pedagogia della riforma, oltre, ovviamente, Zwingli e Calvino (i quali, pur nella molteplicità delle loro cure, trovano modo di occuparsi del problema educativo che sentono fondamentale), Valentin Trotzendorf (14901556), Johannes Sturm (1507-1589) e Johann Bugenhagen (1485-1558). Quest'ultimo è il solo che, nel corso del xvi secolo, si impegni con serietà e consapevolezza per realizzare la scuola popolare come la voleva Lutero. Malgrado la serietà del suo impegno, egli non poté ottenere risultati sostanziali e duraturi. Onde si può concludere che la scuola popolare non riuscì a trovare, nel xvi secolo, un solido assetto; i generosi tentativi dei pochi isolati saranno poi frustrati dalla guerra dei trent'anni. V · CONTRORIFORMA E EDUCAZIONE
Già sappiamo che tutta la cultura fu investita dall'ondata di ritorno della controriforma. Rinascimento e riforma, pur partendo da considerazioni diverse, avevano attaccato la filosofia medievale e in particolare l'Aristotele di Tommaso d'Aquino. Ora si ritorna al medioevo e ad Aristotele; anzi si può dire che mai, come in questo periodo, lo stagirita, nell'interpretazione tomistica, viene esaltato ed innalzato a simbolo della filosofia perenne, ancella della teologia. Viene aggredito il Machiavelli, accusato d'essere il creatore di quella realtà ch'egli, di fatto, si è limitato a descrivere ed interpretare, e si riafferma la subordinazione della politica morale, giustificando ideologicamente la subordinazione dello stato alla chiesa. Come la tesi della filosofia per la filosofia e della politica per la politica, viene respinta la pretesa dell'arte di avere come fine esclusivo il bello. Tutto ciò che non s'inquadra nella visione cattolica del mondo e non serve la religione è, in sostanza, spregiato e condannato. La letteratura è sotto stretta sorveglianza. Il teatro specialmente, come quello che agisce con maggiore efficacia sul sentimento e sul pensiero delle masse, viene sottoposto, per iniziativa di Carlo Borromeo, il più zelante fautore dell'« indice dei libri proibiti», ad un sistema di controllo così rigido da ridurre la tragedia ad uno spettacolo riservato ad un pubblico ristrettissimo e selezionato, e da far degenerare la commedia nell'umile e volgare commedia dell'arte. Questo mentre in Inghilterra fiorisce Shakespeare. La controriforma è, dunque, nel suo insieme, un'immane, complessa iniziativa pedagogica. Nulla di più logico, pertanto, che al problema educativo 1n senso stretto essa attribuisca importanza fondamentale.
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Prima di tutto bisogna educare gli educatori, cioè i religiosi, scegliendoli con i più severi criteri selettivi, formandoli ad una maggiore consapevolezza della grave missione. Viene ribadito l'obbligo del celibato e della residenza; è intensificata la sorveglianza; sono precisati i compiti. Sorgono i seminari, nuova, fondamentale istituzione educativa dell'occidente europeo. Si cerca di combattere l'influsso della riforma e del rinascimento sul loro stesso terreno: quello della scuola. Si fa obbligo specifico ai sacerdoti di occuparsi dell'istruzione, almeno elementare, dei fanciulli. Si concedono mezzi notevoli agli ordini insegnanti. Si creano collegi universitari cattolici. Vedremo però nel paragrafo successivo come questo programma di larga diffusione della cultura elementare, proprio per la funzione strumentale che è attribuita alla cultura stessa, rimanga in larga misura allo stato velleitario, risolvendosi perlopiù in un mero programma di istruzione catechistica. Alla pedagogia della controriforma manca il fattore indispensabile per essere strumento di progresso: la fede nella cultura per se stessa, quella fede ch'è invece l'essenza stessa del rinascimento e che ha tanta parte anche nella concezione luterana della scuola. Taluno sostiene trattarsi di « necessità strategica », di « pedagogia di guerra », ma, come altri ribatte acutamente, queste posizioni finiranno per cristallizzarsi in forme definitive; ciò costringerà l'umanità a un lungo, faticoso travaglio culturale ed a nuove esplosioni rivoluzionarie. Massimo scrittore di pedagogia della controriforma può essere considerato Silvio Antoniano ( 1 540-160 3), autore dei Tre libri dell'educazione cristiana dei figlioli ( 1 58 3), guida precisa e minuta messa a disposizione dei padri di famiglia di tutte le classi sociali. Il pensiero dell'Antoniano si svolge partendo da tre motivi fondamentali. In primo luogo, la constatazione che i tempi presenti sono pieni di calamità e di corruzione. In secondo luogo, la convinzione che le calamità e la corruzione siano conseguenza del moltiplicarsi dei falsi profeti. In terzo luogo, la ferma persuasione che per rimediare ai mali della società sia indispensabile agire sui giovani mediante una precoce azione educativa. Tutta la vita deve risultare subordinata, fin nelle sue più minute manifestazioni, alla finalità religiosa. Fuori della chiesa non c'è possibilità di salvezza e rimanere nella chiesa non significa accettare solo, in linea generale, le definizioni dei concili e del papato, ma anche tutto ciò che viene insegnato quotidianamente sulle singole questioni dal magistero ordinario della chiesa stessa. Così l'Antoniano giunge ad affermare che non solo l'idiota e la femminella e l'artigiano, ma tutti i laici, in quanto tali, debbono rinunciare a « sottilmente discutere delle cose della nostra santa fede », a « ricercare curiosamente cose al di sopra del loro intendimento » e devono, in materia, limitarsi a « credere semplicemente quello che la nostra santa madre chiesa ci propone ». E, perché
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nell'applicazione dei dettami della chiesa non ci sia posto per interpretazioni soggettive, arbitrarie, il nostro autore dichiara « cosa importantissima e quasi la somma della vita cristiana» l'affidarsi in modo « stabile e ordinario» ad un padre spirituale che guidi tutte le azioni del fedele, ispirandosi alla scienza della verità della fede che la sua posizione sacerdotale comporta, alla profonda cognizione dell'anima umana, e soprattutto, al lume speciale che dio gli concede perché egli possa condurre sicuramente in porto la vita di chi a lui si è rivolto. Sul piano dell'attività organizzativa le figure più salienti sono quelle di Filippo Neri ( 15 I 5- I 59 5), il fondatore dell'oratorio, primo esempio di istituzione destinata ad un uso sano e sereno del tempo libero; Carlo Borromeo (I 538I 584), il cui nome è legato, oltre alla istituzione dell'Indice dei libri proibiti, alla fondazione del grande seminario di Milano e di alcuni collegi universitari destinati ad istruire giovani di predare doti intellettuali nella lotta contro il protestantesimo e l'eresia; Giuseppe Calasanzio (I556-I648), spagnolo, creatore delle Scuole Pie, le prime scuole popolari dei tempi moderni e perciò accusato di essere il «maestro dei lazzaroni »; Jean Baptiste de La Salle (I6p-I7I9), organizzatore di quella che può essere considerata la prima vera scuola normale (Reims I 68 5). Per quanto riguarda le congregazioni ci limitiamo a ricordare quelle dei barnabiti e dei somaschi. Di gran lunga più importante, però, e tale da imporre che ci si soffermi, sia pure brevemente, è la compagnia di Gesù. I gesuiti svolgono nel modo più conseguente i principi della restaurazione cattolica. Come già si è detto nel capitolo v, essi appaiono da un lato ottimisti nei riguardi dell'umanità, la cui iniziativa e le cui opere definiscono collaborazione all'opera di dio, indispensabile perché la grazia possa a sua volta intervenire; da un altro lato, però, rivelano un sostanziale pessimismo nei riguardi dell'individuo, alla cui autonoma iniziativa negano la capacità di raggiungere la perfezione morale e religiosa. Questo li porta a respingere l'interpretazione del cristianesimo come libertà interiore ed esaltazione della soggettività, per accettarne invece una interpretazione « politica ». Il singolo può trovare la salvezza solo mediante l'inserimento in una società perfetta. Questa società, poi, non si riduce ad una collettività meramente spirituale, ma assume il carattere di un sistema rigidamente organizzato, gerarchizzato e accentrato, le cui norme positive rappresentano il solo criterio d'azione, seguendo il quale è possibile all'individuo di raggiungere la salvezza. Ne deriva, logicamente, che la via della restaurazione cattolica non è, per i gesuiti, quella della riconquista dei singoli, del riaccendimento della religiosità nell'intimo d'ogni singola coscienza, ma quella del successo terreno della chiesa. Il primitivo programma missionario si concretizza, per quanto riguarda l'Europa, nei seguenti punti: materiale riconquista dei territori passati al protestantesimo, ferreo controllo della classe dirigente e di tutti i gangli vitali della società nei paesi cattolici.
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Dalla teoria della struttura organica della società i gesuiti derivano la convinzione che la discussione sui fondamentali problemi della vita e del mondo, sulle grandi questioni politiche e religiose, esuli dalle possibilità intellettuali come dagli interessi e dallo stesso mondo ideale degli individui normali. Solo la chiesa possiede la verità assoluta, conosce i fini assoluti e può elargire la forza miracolosa indispensabile per raggiungere tali fini. E, quando si parla di chiesa, è ovvio che non si intende la comunione di tutti i fedeli, ma soltanto la gerarchia, i successori degli apostoli e, in primo luogo, il successore del principe degli apostoli: il papa. Tutti coloro che esercitano il potere in nome dell'autorità papale partecipano della funzione di « superiorità », divengono « anelli della catena di autorità che governa il mondo ». La perfezione della condotta umana non può consistere che nella perfetta obbedienza al papa quale unico diretto rappresentante di dio in terra. È evidente come questa dottrina contenga in nuce il dogma dell 'infallibilità pontificia. La compagnia di Gesù nasce non come ordine insegnante ma come ordine missionario e solo sulla base dell'esperienza si viene formando e progressivamente rafforzando fra i suoi membri la convinzione che la più efficace forma di attività missionaria sia precisamente l'insegnamento. La legge organica in cui sono fissati i capisaldi del governo dei collegi, dell'ordinamento degli studi, della formazione degli studenti, è la parte quarta delle Costituzioni elaborate dallo stesso Ignazio fra il 1541 e il 1550. Sulle tracce di questa legge organica sorgono ben presto numerosi collegi, in Italia, Austria, Portogallo, Spagna, Germania, Francia, Boemia e viene elaborata la Ratio studiorum, promulgata nella sua forma definitiva dal padre Acquaviva nel I 599· La Ratio, nei suoi trenta capitoli, costituisce un insieme organico di regole che rimarrà, attraverso i secoli, lo strumento rigido di un'educazione governata da regole fisse. Il carattere militare della compagnia fa sì che la virtù essenziale sia l'obbedienza. Nelle Costituzioni ignaziane leggiamo: «La santa obbedienza sia sempre in noi perfetta in ogni parte, nell'opera come nella volontà e nell'intelletto, sì che mettiamo in effetto ciò che ci viene comandato con grande prestezza, gaudio e perseveranza; persuadiamoci che tutto [quello che ci viene comandato] è giusto, annegando in ciò con una certa obbedienza cieca quanto il giudizio e parere nostro ci dettasse in contrario... Ciascuno si persuada che quelli che vivono ubbidendo debbono lasciarsi guidare dalla divina provvidenza per mezzo dei superiori, come se fossero un corpo morto [" perinde ac si cadaver essent "] che si lascia volgere per ogni verso; ovvero a guisa di un bastone da vecchio [" vel similiter atque senis baculus "], il quale serve a chi lo tiene in ogni luogo ed a qualsivoglia uso.» L'obbedienza perfetta, dunque, non è mero agire secondo gli ordini, ma conformare la volontà alla volontà dei superiori e l'intelligenza (che dirige la volontà) all'intelligenza di chi comanda. L'ossequio all'autorità pura for-
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male, all'autorità in quanto tale, diviene l'essenza stessa della virtù. L'educazione deve quindi creare l'abito dell'obbedienza e, conseguentemente, dell'autodominio come capacità di reprimere tutti gli impulsi che potrebbero spingere al rifiuto d'obbedienza. La mancanza di fiducia nell'uomo comune e la recisa negazione di ogni egualitarismo democratico portano la compagnia a trascurare deliberatamente l'istruzione popolare ed a puntare solo alla formazione dei ceti dirigenti. La mancanza di fiducia nella capacità dell'uomo di raggiungere da solo la perfezione morale si riflette anche sulla famiglia. I gesuiti sono assertori decisi di un'educazione «totale», realizzabile solo mediante l'internato. Il fanciullo deve essere alienato dalla famiglia. A tale scopo l'anno scolastico prevede vacanze abbastanza frequenti ma brevi, specialmente per gli alunni dei corsi inferiori, più sensibili all'influsso diseducativo dell'ambiente extrascolastico. L'intero curriculum è suddiviso in tre corsi: l'umanistico, di cinque anni (tre più due); il filosofico, di tre; il teologico, di quattro. Il passaggio da una classe all'altra avviene sempre attraverso esami. La commissione è costituita dal prefetto e da due insegnanti estranei alla classe. Il giudizio deve tener conto dei risultati ottenuti dal candidato durante l'anno e del parere dell'insegnante di classe. La prova può concludersi con la promozione, con l'ammissione sub judice alla classe successiva (con possibilità di restituzione alla classe di provenienza), con una bocciatura o, infine, con una dichiarazione di inettitudine e conseguente allontanamento del giovane dal collegio. In ciascuno dei tre corsi c'è una sola materia di insegnamento. In ognuna delle cinque classi del corso umanistico insegna un solo maestro. Attorno al latino e al greco ruota la cosiddetta « erudizione » avente la mera funzione di rendere intelligibili i classici. I testi vengono accuratamente purgati da tutto ciò che potrebbe turbare la morale cattolica. Dal punto di vista didattico il lavoro scolastico si articola nei momenti della « prelezione » (« magister legendo praeit discipulis »), della composizione (basata sul criterio fondamentale della imitazione dei classici), della ripetizione (la stessa materia viene ripetuta, in varie guise, fino sette volte!), della declamazione (di passi di autori o di composizioni degli stessi alunni), della disputa fra singoli alunni o fra gruppi debitamente preparati e, infine, dell'« accademia», specie di gruppo di studio costituito di alunni che si siano distinti per diligenza, profitto e pietà. La storia, definita « rovina di chi la studia », non trova posto nel piano gesuitico e, se mai, è ridotta entro i limiti della mera erudizione. Quanto ai corsi di filosofia è sufficiente sottolineare la rigorosa fedeltà ad Aristotele e a Tommaso d'Aquino. Un cenno speciale merita la posizione che, nel quadro delle Costituzioni e della Ratio, occupa il maestro. Indubbiamente i gesuiti attribuiscono grande
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impurunza alla ligura ddl 'insegnante. La stessa gratuità dell'insegnamento, svincolando il maestro da ogni dipendenza economica nei riguardi degli alunni, contribuisce ad attribuirgli maggiore dignità. Inoltre il maestro della scuola gesuitica è un uomo che ha seguito un lungo e severo curriculum; si è formato una buona cultura ed ha acquistato esperienza didattica con almeno tre anni di tirocinio. È, soprattutto, un uomo dedito completamente all'insegnamento, che considera come una missione. Senonché, qualora si considerino più da vicino le regole della Ratio, questo maestro, così seriamente preparato e severamente impegnato, si trasforma ai nostri occhi in un mero ingranaggio privo di spirito di iniziativa, al quale è fatto assoluto divieto di introdurre nella scuola alcunché di originale. Non deve affrontare nessuna questione non prevista dai programmi, « neppure nelle cose nelle quali non v'è pericolo per la fede e la pietà». Dev'essere parco anche nella citazione dei dottori ed appoggiarsi preferibilmente alle sentenze dei pontefici, dei concili, dei padri della chiesa. Insegnando filosofia, non solo non deve mostrare simpatie per qualche dottrina non perfettamente ortodossa, ma deve anche evitare di intrattenersi troppo sulla tesi da confutare, per non fissare su di essa l'interesse degli alunni. Deve armonizzare il proprio insegnamento con quello degli insegnanti delle classi precedenti e di coloro che eventualmente lo abbiano preceduto nella sua stessa classe. Sia nelle cose riguardanti la disciplina, sia in quelle concernenti lo studio non deve discostarsi dalle disposizioni del rettore e del prefetto, dai quali, del resto, è costantemente controllato. Ed eccoci ad affrontare, da ultimo, l'aspetto forse più interessante e controverso dell'educazione gesuitica: quello della disciplina. Si afferma sovente che i gesuiti tingono di oro tutte le sbarre allo scopo di rendere la gabbia più accetta a chi vi è rinchiuso. Indubbiamente la vita dei collegi della compagnia non è particolarmente pesante. La Ratio si preoccupa di evitare qualsiasi forma di aggravio, intercalando al lavoro periodi adeguati di riposo e ricreazione. A questo scopo sono previsti, accanto alle declamazioni, alle dispute ed agli spettacoli teatrali, di cui già abbiamo fatto cenno, anche giochi ed esercizi sportivi. Per ottenere buoni risultati in clima di dolcezza, i gesuiti contano molto sullo spirito di emulazione. Tutta l'attività scolastica è trasformata in gara. Gare tra individui e tra gruppi. Ma il fattore principale di disciplina, quello che più d'ogni altro rende possibile una disciplina dolce, è la vigilanza continua e reciproca e la delazione. L'alunno sa di essere continuamente spiato dai compagni ed a sua volta continuamente li spia. La denuncia delle malefatte altrui è apprezzata e stimata. Chi abbia commesso una colpa sarà perdonato, qualora denunci un compagno reo della stessa mancanza! Indubbiamente non troviamo qui nessun cenno a quella obbedienza pe-
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rinde ac cadaver che invece rappresenta il motivo fondamentale nella formazione del futuro gesuita. Tanto nelle Costitttzioni quanto nella Ratio non si esige, in materia di disciplina, nulla più che una moderata obbedienza qual è indispensabile in ogni ben ordinato collegio. Perciò quei critici i quali attribuiscono il perinde agli esterni anziché ai futuri membri della compagnia confondono i due piani educativi. Ma la situazione del laico che esce dal collegio gesuitico è forse sostanzialmente diversa? L'individuo, nel collegio gesuitico, diviene un recipiente di informazioni e di capacità accuratamente selezionate e scelte da coloro che hanno l'incarico di istruirlo. Anziché promuovere l'autonomo sviluppo della potenzialità individuale, si mira, come a massimo risultato, ad ottenere che tutti pensino in identica maniera, almeno sulle questioni fondamentali. Si evitano gli argomenti che possono far nascere discussioni sui principi, si sottolineano o si mettono in ombra i fatti in modo da indirizzare il pensiero ed il sentimento dell'alunno in un senso prestabilito. Ci si serve dell'istruzione come di uno strumento soggettivo, atto a far assumere ai ceti privilegiati, nei riguardi della chiesa, un atteggiamento essenzialmente identico a quello che si fa assumere alle masse per mezzo dell'ignoranza. Così l'ex alunno dei gesuiti sarà un uomo dall'atteggiamento a un tempo fine e riservato; dotato di una certa cultura formale e strumentale; funzionario abile, spregiudicato, ambizioso, pronto alla delazione e alla riserva mentale; avvezzo a raggiungere i fini che gli vengono additati senza esclusione di mezzi; pago di una religiosità estrinseca; disposto all'ossequio davanti ad un'autorità che lo ripaga consentendogli un notevole lassismo morale. VI · COMENIO
Jan Amos Komensky (latinamente Comenius) è indubbiamente il più grande educatore fiorito nel clima della riforma ed uno dei più grandi in senso assoluto. Figlio di un mugnaio, nasce in un villaggio ai confini tra Moravia e Ungheria nel I 592. La sua famiglia appartiene alla comunità religiosa dei fratelli boemi, derivata dal movimento hussita e caratterizzata da una radicale opposizione alla chiesa di Roma. Comenio abbraccia la carriera di pastore e studia teologia nelle università tedesche di Herbon e Heidelberg. Ritornato in patria, si dedica alla duplice attività di predicatore e direttore delle scuole della sua comunità. Ma sopraggiunge la guerra dei trent'anni. I boemi protestanti, sconfitti alla Montagna Bianca, vengono costretti dai cattolici a convertirsi o ad emigrare. Comenio ripara in Polonia, dove svolge attività di insegnante e si dedica alla stesura di alcuni fra i più importanti dei suoi scritti. La fama comincia a circondare il suo nome, ma il destino avverso si accanisce ancora contro di lui privandolo della moglie e dei due figli. Dopo una permanenza in Inghilterra, Svezia ed
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Olanda (dove conosce Cartesio), ritorna in Polonia nel I648. È l'anno della pace di Westfalia i cui articoli, lungi dal sancire la libertà religiosa, si limitano a riconoscere lo status quo, applicando il criterio « cuius regio eius religio », in base al quale è vietato il rientro dei fratelli boemi in patria. Così Comenio ed i suoi correligionari debbono rimanere esuli in Polonia. Qui sembra che l'intervento svedese fornisca agli evangelici libertà e possibilità di riorganizzazione; senonché una feroce puntata delle forze aristocratico-cattoliche polacche assale e distrugge (I 6 56) la città di Lissa, roccaforte dei riformati. Lo stesso Co meni o salva a stento la vita ma perde nell'incendio tutti i suoi manoscritti, i preziosi appunti fissati durante trent'anni e l'intera biblioteca. Ciononostante ha ancora la forza di reagire, sia pure abbandonandosi ad una ingenua fede in taluni « profeti », i quali, in mezzo alla tragica realtà, vanno qua e là vaticinando il prossimo avvento di un'era migliore, destinata a durare un millennio. Finalmente, negli ultimi anni, il grande pensatore gode di una certa tranquillità ad Amsterdam, dove riprende alacremente il lavoro, che prosegue fin quando lo coglie la morte, nel I67o. Gli storici attribuiscono a Comenio 42 opere di varia mole. Ci limitiamo, qui, a ricordare quelle che per il nostro studio hanno importanza fondamentale: Janua linguarum reserata (La porta delle lingue aperta, I6I8-28), Didactica magna (I628-32), Linguarum methodus novissima (I644), Orbis sensualium pictus (Il mondo delle cose visibili illustrato, I 639-6 5). Comenio non vede nel problema educativo tmo dei tanti problemi che l'umanità deve risolvere per realizzare una forma di vita più perfetta e felice, ma il problema essenziale, risolto il quale tutti gli altri risulteranno risolti e non risolvendo il quale ogni tentativo di dare agli uomini pace, benessere, felicità, è destinato inesorabilmente a fallire. Insegnare, per Comenio, non è guidare all'apprendimento di una tecnica particolare né fornire gli strumenti per una evasione contemplativa dal mondo né formare una ristretta classe di dirigenti. Superando decisamente gli atteggiamenti aristocratici dell'umanesimo classico, egli svolge i motivi democratici insiti nel nucleo dottrinale della riforma, realizzando al tempo stesso un nuovo umanesimo, più moderno e più autentico. « Insegnare », per il nostro autore, è «avvezzare tutti a vivere, senza che nessuno dimentichi mai più la dignità e l'eccellenza umana». Il sapere è la base della vita morale e religiosa; questo spiega perché alla sua fondamentale opera pedagogica Comenio dia l'appellativo Didactica. Motivo di sdegno è per lui il dover constatare come, a un secolo di distanza, i consigli di Lutero non siano stati ancora applicati e l'educazione sia lasciata in uno stato di grande abbandono. Le poche scuole funzionano male; i maestri, nella maggior parte dei casi, ignorano tutto circa il metodo e un razionale piano di lavoro. Nella formulazione dei programmi non si sa sceverare il necessario dall'utile; si studia disordinatamente; si impara non osservando le cose, ma con 197 www.scribd.com/Baruhk
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la mediazione, talora corruttrice, sempre astratta e convenzionale, della parola. Eppure, se l'errore e, conseguenza inevitabile, l'immoralità e l'irreligiosità, imperano su tanta parte del genere umano, ciò non dipende dalla natura dell'uomo. La grandissima maggioranza degli uomini, ai quali si dovrà rivolgere una nuova scuola, se non è costituita di geni, non è neppure composta di idioti, ma di ingegni normali. Se molti, oggi, incontrano gravi difficoltà nello studio, ciò è dovuto da un lato alla brevità della vita, dall'altro all'immensa vastità e varietà dello sci bile: Comenio vuole, con la sua Didactica magna, insegnare agli uomini a prolungare la vita sfruttando bene tutto il tempo disponibile e afferrando tutte le occasioni opportune per apprendere. Egli vuole inoltre dimostrare come sia possibile abbracciare almeno i fondamenti di tutte le branche dello scibile, purché si organizzi razionalmente il curriculum studiorum e si sveglino gli ingegni ad una più acuta capacità di giudizio. Comenio ha scarsa fiducia nell'educazione familiare e afferma la necessità della scuola. Egli fa sua la tesi cara a tutti i pedagogisti dell'umanesimo, secondo la quale l'ambiente scolastico è il più adatto all'azione educativa come quello in cui maggiormente si fa sentire il benefico effetto dello spirito di emulazione. Ma, al di là di questo argomento, egli sostiene la necessità della scuola in nome di un argomento caro alla nascente civiltà capitalistica, quello della specializzazione. Se uno ha bisogno di scarpe, egli osserva, si rivolge al calzolaio e se avrà bisogno di un mobile, di una casa, di un vomere, si rivolgerà rispettivamente al falegname, al muratore, al fabbro. Perché non cercherà un maestro per l'educazione dei figli? E, come ci sono chiese per il culto e tribunali per discutere le cause, perché non ci saranno scuole per l'educazione della gioventù? «C'è un bel risparmio di fatica e di tempo quando uno fa una cosa sola, senza esser distratto da altre cose; perché in questo modo uno solo" può di mano in mano servire molti e molti di mano in mano possono servire uno solo. » Naturalmente, i maestri della scuola futura non dovranno essere come quelli di oggi, privi di una chiara visione dei fini da perseguire, ignoranti del metodo, incapaci di elaborare un piano organico di lavoro. Comenio vede chiaramente che se il problema della scuola è problema di maestri, cioè di uomini, il nodo della questione diventa quello della formazione degli uomini destinati ad esercitare il magistero. E precisamente alla formazione dei futuri maestri egli dedica quella grande« summa »che è la Didactica. Non ci si deve illudere di poter riformare la scuola mediante un esercito di uomini eccezionali, animati dalla « vocazione », dotati di attitudini straordinarie. Bisogna dunque fornire ai maestri, anche ai meno dotati, uno strumento ben congegnato, atto a far perseguire risultati se non ottimi almeno buoni, sempre e dovunque. E tale strumento vuoi essere appunto il metodo comeniano. Si suoi dire, da parte di molti storici della pedagogia, che Comenio avrebbe
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applicato alla pedagogia le teorie filosofiche di Bacone. Orbene, se è vero che negli scritti di Comenio risuonano spesso ampie lodi del filosofo inglese è altrettanto vero che negli stessi scritti è frequentemente usato il linguaggio aristotelico e sono rintracciabili risonanze neoplatoniche. In realtà l'analogia fra Comenio e Bacone va cercata prima di tutto nel singolare contrasto, presente in entrambi, per cui l'uno e l'altro sono suscettibili di essere giudicati, di volta in volta, o un precursore dei temi essenziali del pensiero moderno o un metafisica che non coglie neppure le esigenze più autentiche della ricerca sperimentale. D'altro canto è difficile porre chiaramente in evidenza le linee fondamentali del pensiero comeniano, trovandosi in questo notevoli oscurità e numerose, almeno apparenti, contraddizioni. In particolare, come nota il Piaget, nella concezione del grande pedagogista c'è un profondo contrasto fra l'aspirazione alla speculazione generale e quella alla fondazione di una scienza dell'educazione, fra la pretesa di dedurre il sistema a priori e il riconoscimento, in definitiva prevalente, della necessità di ricorrere all'esperienza sensibile. In realtà Comenio si inserisce in quella corrente filosofica che ha le sue radici nel rinascimento e che tende a superare la barriera posta dal pensiero medievale fra materia e spirito. Abbiamo già visto come il superamento di tale barriera apra la strada a due soluzioni: da una parte, l 'intero universo può venir concepito come qualcosa di animato, spiritualmente divino; dall'altra, lo spirito può venire risolto in un complesso di fenomeni puramente fisici. Comenio ondeggia fra l'una e l'altra soluzione, a volte riferendosi ad uno spirito che, dall'interno, animerebbe la materia cosmica, a volte considerando la natura come qualcosa di inconsapevole e meccanico. Nell'uno e nell'altro caso l'uomo è definito « microcosmo » che riproduce in sé il « macrocosmo » e, in certo modo, in sé lo comprende mediante la capacità potenzialmente infinita del pensiero. Più che di intendere il mondo partendo da un processo di introspezione ed applicando per estensione all'universo intero le strutture della persona umana si tratta, comunque, di applicare all'uomo le leggi scoperte mediante lo studio del macrocosmo .. Lo sviluppo dell'uomo, la tecnica con la quale l'uccello costruisce il nido, nutre e difende la prole, la crescita di un arbusto che si fa albero, l'alternarsi delle stagioni, l'azione termica e illuminante del sole, questi e innumerevoli altri di questo tipo sono i fenomeni naturali sui quali Comenio riflette, ricavandone altrettante norme pedagogiche con un rigore talvolta pedantesco ed eccessivo. I due principi che reggono la natura sono: la fondamentale unità delle strutture e la gradualità dello sviluppo. L'unità delle strutture porta alla conclusione che il processo educativo è esso medesimo una manifestazione naturale, è uno degli aspetti di quel complesso sviluppo che anima il processo di formazione di tutti gli esseri. L'uomo, se da un lato costituisce un elemento di quel tutto che è il cosmo, dall'altro costituisce, come abbiamo già detto, un microcosmo le cui strutture,
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pur rimanendo sostanzialmente identiche durante tutto l'arco della vita individuale, evolvono gradualmente verso forme più alte, in un processo che tende all'infinito. La sostanziale identità delle strutture nell'evolvere delle forme, pone Comenio fra i precursori della psicologia dello sviluppo e della didattica progressiva. L'umanità è sempre completa, a tutte le età. La personalità del bambino non è qualcosa di parziale che manca: è già intera, armonica, e la visione che del mondo si forma il bambino non è tanto « inferiore » quanto «diversa » rispetto a quella che se ne forma l'adulto. Movendo da questa premessa, Comenio giunge ad intuire che ai diversi livelli sono pur sempre necessari contenuti di conoscenza uguali in quanto rispondenti ai bisogni permanenti e che l'unica differenza ammissibile è quella che riguarda il «modo » in cui tale contenuto è di volta in volta rielaborato e ristrutturato. Da queste premesse derivano i principi della « ciclicità » del metodo e della « pansofia ». Il metodo ciclico prevede che nelle varie fasi della vita scolastica non si insegnino successivamente discipline diverse, ma sempre le stesse, con maggiore ricchezza di particolari e maggiore approfondimento. Il principio pansofico è sintetizzato nella celeberrima formula « tutto a tutti » e stabilisce che a tutti e quindi agli alunni di tutte le età e di tutti i gradi debbono essere insegnate tutte le discipline ritenute essenziali. Ma il « tutto a tutti » non ha solo un significato metodologico; esso ne ha anche e· soprattutto uno sociale. Comenio, superando non solo la posizione aristocratica degli umanisti ma anche quella ben avanzata di Lutero, afferma la necessità di istituire almeno una scuola di primo grado unica, comune ai fanciulli di tutte le classi sociali e d'ambo i sessi. Ciò perché « chiunque è messo al mondo è messo perché faccia non solo da spettatore ma anche da attore». Indubbiamente la concezione comeniana, introducendo la possibilità di fornire tutto a tutti, previa l'opportuna traduzione in linguaggi adeguati e nei limiti dei « fondamenti » delle « principali » conquiste della scienza, costituisce un importante passo avanti, parallelamente al primo affermarsi della borghesia capitalistica e all'avvento della concezione moderna-operativa del sapere, rispetto alla concezione ellenistico-medievale di una scuola a struttura « lineare », movente dalle discipline più semplici, elementari, strumentali per giungere alle più complesse, ardue e finali, e quindi eminentemente selettiva. Senonché la concezione comeniana è ancora inserita in una visione della società come organismo costituito di parti diverse, tutte necessarie, ma alcune più ed altre meno nobili. E se progressiva è l'affermazione per cui ogni giovane deve essere avviato alla carriera per la quale appare più adatto, sostanzialmente conservatrice è l'ignoranza del fatto che le attitudini possono essere profondamente influenzate dall'ambiente familiare e dal gruppo sociale nel quale il fanciullo è inserito. Comunque, la scuola unica renderà possibile un processo di reciproco incoraggiamento e raffinamento; insegnerà ai fanciulli provenienti dai
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ceti elevati a non disprezzare gli altri; rinvierà ad un'età più matura la selezione e la destinazione delle varie carriere (selezione e destinazione che Comenio vuole effettuate esclusivamente in base al merito); inoltre, e soprattutto, essa, in grazia del metodo ciclico, farà conoscere a tutti, anche ai futuri lavoratori manuali, « il fondamento, la ragione, il fine di tutte le cose principali », mettendoli in condizione di partecipare coscientemente, e quindi effettivamente, alla vita della società.l Con ciò è chiarita anche la portata di quel « tutto ». Non si tratta di enciclopedismo deteriore. Nulla è più lontano dal programma del nostro autore. La confusione fra necessario ed utile è, come abbiamo visto, una delle ragioni maggiori del pessimo funzionamento della vecchia scuola. Solo ciò che è utile va insegnato e di tutto ciò che si insegna deve essere messa in chiara luce l'utilità. Ma Comenio non identifica grettamente l'utile col vantaggio immediato. Utile è, per lui, ciò che contribuisce a realizzare pienamente la persona umana secondo le sue strutture e il suo fine. « Come nell'utero della madre si formano le medesime membra per ogni essere, che dovrà diventare un uomo, e per ciascuno si formano tutte, le mani, i piedi, la lingua, ecc., benché non tutti abbiano a diventare artigiani, corridori, scrivani e oratori, così nella scuola a tutti si devono insegnare tutte quelle cose che riguardano l'uomo anche se dopo una sarà per tornare più utile a uno e una ad un altro. » Sulla base di questi argomenti poggia la suddivisione della scuola in quattro gradi successivi: scuola materna; scuola di lingua nazionale; scuola di latino o ginnasio; accademia. La scuola materna educa il bambino durante i primi sei anni di vita. Già in questi anni il bambino segue, in forma intuitiva, spontaneamente sotto la guida amorosa dei genitori e specialmente della madre, un vero e proprio corso generale di studi. Comenio, in base alla sua premessa essenzialmente intellettualistica, pensa di scrivere un opuscolo contenente consigli e avvertenze elementari, da far leggere ed applicare a tutti i genitori ed a tutte le balie. Inoltre pensa di creare per i bambini un libro illustrato con figure atte a fissare le nozioni scientifiche elementari di cui si è detto. Questo libro avrà il vantaggio di familiarizzare il bambino con i libri in genere e, poiché sopra ogni figura sarà scritto il corrispondente nome, rappresenterà anche un avviamento alla lettura secondo un procedimento assai prossimo a quello che noi, oggi, chiamiamo «globale». La scuola di lingua nazionale ha essa pure la durata di sei anni. Il suo scopo è di insegnare a leggere e scrivere speditamente in lingua nazionale; a fare i conti; a misurare dimensioni e distanze; a cantare melodie e inni sacri. Detta scuola darà inoltre nozioni di storia ed economia politica (perché tutti possano « capire ciò x Un cenno particolare merita la posizione di Comenio di fronte al problema dell'educazione delle ragazze. Scavalcando tutti i cosiddetti « precursori >> in materia fino al xx secolo, egli dichiara esplicitamente che le donne sono atte a capire la
scienza quanto gli uomini c come questi disponibili per la politica, la medicina, ecc. Parimenti degna di menzione è la difesa fatta da Comenio dei tardivi, bisognosi di un aiuto superiore a quello fornito ai normali.
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che giornalmente vedono fare in casa ed in città»), di geografia e di cosmografia. Alla fine della scuola nazionale unica tutti i giovani dovranno essere in condizione di non imbattersi « mai in nessuna cosa tanto nuova da non averla già assaggiata prima». Tutto ciò che capiterà loro di udire o di leggere dovrà risultare «o una più ricca dilucidazione o una deduzione più particolareggiata delle cose già conosciute prima». Gli uomini saranno così stimolati a capire meglio tutte le cose. Il metodo deve essere oggettivo ed attivo: l 'alunno deve vedere da sé (autopsia), fare da sé (autopraxia) e applicare da sé (autocresia). Il problema dell'apprendimento della lingua occupa un posto eminente nell'opera del nostro autore. Negli scritti intitolati rispettivamente Janua linguarum reserata e Linguarum methodus novissima (che riprendono l'opera, intitolata anch'essa Porta delle lingue, del gesuita Bateus) egli svolge il principio che le parole sono soltanto segni delle cose. Perciò « le parole senza le cose sono dei gusci senza mandorla, un fodero senz'arma, ombre senza corpo, corpi senz'anima ». Lo studio della lingua deve camminare di pari passo con quello delle cose; si devono imparare contemporaneamente le cose e le parole che le designano. Quella che per molto tempo fu l'opera più conosciuta di Comenio, l'Orbis sensualittm pictus, è il compimento delle opere precedenti e l'applicazione dei principi in esse contenuti all'insegnamento della lingua materna. È costituita da una serie di vignette e da un testo che spiega il significato di ognuna. L'illustrazione è provvista di numeri che si riferiscono da una parte ai singoli elementi delle figure, dall'altra alle parole o alle frasi del testo. L'Orbis pictus è il capostipite di tutti i libri illustrati per fanciulli e costituisce un serio tentativo di fornire -alla scuola uno strumento che possa eccitare l'attenzione e allettare l'immaginazione degli scolari. Ma i principi esposti nella Janua non sono validi esclusivamente nella scuola di lingua nazionale; essi trovano applicazione pure nel ginnasio. Anche questo grado ha la durata di un sessennio. Durante questo periodo gli alunni riprendono · ed approfondiscono via via tutte le materie già affrontate nella scuola nazionale. Il latino, come ogni altra lingua, deve essere imparato più con la pratica che a forza di regole. Ogni esercitazione in latino deve essere fatta su materia già conosciuta. Dalla Didactica magna è possibile ricavare una serie di precetti metodologici estremamente attuali anche per noi. In primo luogo la necessità di affiatare gli alunni fra di loro e con l'insegnante. Poi l'unità di insegnamento, realizzabile mediante l'unicità del maestro per ogni classe, l'identità di metodo fra insegnanti di classi successive, la connessione fra le varie materie in modo che l'una integri le altre e viceversa; infine, la gradualità dell'insegnamento, per la quale non si deve affrontare una difficoltà nuova e maggiore prima di aver accertato che siano state effettivamente superate le precedenti e inferiori. Comenio è contrario ad ogni forma di sovraccarico e all'apprendimento puramente mnemonico. Il maestro deve pianificare il proprio lavoro, non solo a 202
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Umanesimo, rinascimento, riforma, controriforma nei loro riflessi di ordine pedagogico. Comenio
grandi linee, anno per anno, ma giorno per giorno e quasi ora per ora, sicché nulla rimanga abbandonato all'improvvisazione. Alcuni capitoli della fondamentale opera comeniana sono dedicati alla didattica speciale delle varie materie. Non potendo qui riassumere tutti questi capitoli, ci limiteremo a sottolineare il punto di vista di Comenio riguardo alla disciplina, alla morale e alla storia. Circa la disciplina, Comenio fa suo il detto popolare «una scuola senza disciplina è un mulino senz'acqua ». La disciplina non deve costituire una specie di vendetta (in quanto « il fatto è fatto e non si può disfare »); essa deve tendere ad impedire che il peccatore pecchi ancora. Deve essere esercitata senza debolezza, senza ira e senza odio, in modo che il punito ·si accorga che la pena è inflitta a lui per il suo bene, consigliata da affetto paterno. Comenio esclude che sia legittimo usare mezzi disciplinari per stimolare allo studio; la disciplina riguarda solo il costume. Per quanto riguarda la morale, Comenio è schiettamente intellettualista. Il suo pensiero è efficacemente espresso dalle seguenti parole: «La prudenza s'attinge da una buona istruzione e da una buona educazione, imparando le vere differenze delle cose e del valore delle cose. Il vero giudizio delle cose è il fondamento d'ogni virtù. » Circa, infine, lo studio della storia, Comenio assume una posizione estremamente avanzata, così avanzata da costituire ancora oggi più un ideale cui tendere che una realtà attuata. Superando decisamente la concezione umanistica che riduceva la storia alla biografia, vedendo nel celebre personaggio l'incarnazione di questa o quella virtù, di questo o quel vizio, Comenio considera la storia come «l'occhio di tutta la vita» e vuole che il suo insegnamento sia distribuito in tutte le classi. Inoltre - ed è questo, a nostro parere, il motivo di maggiore modernità - accanto alla storia politica e alla storia sacra, egli vuole introdotta nella scuola anche la storia delle religioni, la storia delle scienze fisiche e naturali e quella delle invenzioni tecniche. Il curriculum studiorttm culmina nell'accademia, essa pure di sei anni. Ad essa però Comenio dedica un solo capitolo, limitandosi ad auspicare il rinnovamento dei metodi, la realizzazione di un piano di studi veramente universale 'e l'ammissione agli studi, e successivamente alle cariche pubbliche, in base non al privilegio ma al valore personale. Infine Comenio vagheggia l'istituzione di una «scuola delle scuole», una specie di società didattica, o società di persone istruite, consacrata a scoprire i fondamenti delle scienze, ad applicare le scoperte a nuovi utili ritrovati ed a diffondere la luce della sapienza tra il genere umano.
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SEZIONE QUARTA
Il pensiero ftlosoftco da C arte sio a Ne wton
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CAPITOLO PRIMO
L'inizio dell'era moderna
I
·L'AVANZATA DELLA BORGHESIA
E L'AFFERMARSI DELLO STATO ASSOLUTO
Le vicende politiche dell'Europa durante il xvn secolo furono così complesse che non avrebbe senso tentare qui di riassumerle. Riservandoci di tornare nei prossimi capitoli con qualche maggiore dettaglio su alcune di esse, più strettamente collegate alle trasformazioni culturali dei singoli paesi, riteniamo tuttavia opportuno richiamare fin d'ora alla memoria del lettore un gruppo di eventi fra i più significativi della nuova epoca. Trattandosi di fatti notissimi, basterà elencarli in forma schematica senza nemmeno accennare ad una loro valutazione: rapido declino della Spagna per l'aggravarsi della crisi economica interna nonché per il pesante scacco subìto nella politica estera, in seguito al disastro della famosa « invincibile Armata » (I 58 8); fallimento del tentativo absburgico di rilanciare in Germania la politica controriformistica (fallimento confermato dalla pace di Westfalia nel 1648, con la quale si chiudeva la guerra dei trent'anni); graduale affermarsi in Francia del potere centrale dello stato, dopo la conclusione delle guerre religiose e l'editto di Nantes (I 598); tra vagliate lotte fra parlamento e corona in Inghilterra, che portarono alla prima e alla seconda rivoluzione; arricchimento dell'Olanda e rivalità anglo-olandese per il predominio navale; consolidarsi del dominio spagnolo in Italia e decadenza della repubblica veneta; avanzata dei turchi nei Balcani e vittoriosa lotta degli Absburgo per arrestarli; grandioso emergere della potenza russa con la vittoria dello zar sui boiari e la creazione di uno stato centralizzato efficiente; diverso sviluppo degli imperi coloniali spagnolo, portoghese, francese, olandese, inglese, e conflitti per la libertà dei commerci. Entro un quadro politico così vario e aggrovigliato, sembra comunque profilarsi con crescente chiarezza - per lo meno nei paesi economicamente e politicamente più progrediti- un grande processo sociale di vastissima portata: la graduale ma irresistibile avanzata della borghesia, in stretto parallelismo con l'affermarsi dello stato assoluto. Nel Seicento, «stato assoluto» significa stato moderno: cioè stato che sotto-
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pone a sé le vecchie forze feudali, centrifughe e disgregatrici; che instaura in tutto il paese un effettivo, e sostanzialmente uniforme, ordine giuridico e amministrativo. Uno dei primi e più ardui compiti che nello stato assoluto il potere centrale assume direttamente su di sé, è quello di trasformare la chiesa (non importa se cattolica o riformata) in strumento di potere, mantenendo e ampliando le proprie competenze in materia religiosa già conseguite nei secoli precedenti. Di fronte allo stato assoluto anche la supremazia di Roma, proclamata dalla controriforma, deve arrestarsi. Altro compito fondamentale, cui lo stato assoluto dedica le proprie energie, è quello di incrementare l'attività economica dei cittadini. Lo spinge a ciò la chiara coscienza dell'intimo rapporto esistente fra potenza politica e ricchezza economica. I produttori, dal loro canto, ritengono che solo un intervento statale, dinamico e stimolante, possa promuovere e sorreggere l 'iniziativa industriale e commerciale. Si viene affermando la convinzione che la prosperità economica e finanziaria di uno stato vada considerata in funzione della sua bilancia commerciale, del rapporto fra importazione ed esportazione: è l 'indirizzo che viene comunemente chiamato « mercantilismo ». Sul piano della politica estera il mercantilismo si propone due fini: la realizzazione dell'indipendenza economica dello stato e l'espansione dello stato medesimo attraverso la conquista di territori coloniali che riforniscano di materie prime l'industria nazionale e costituiscano altrettanti mercati sicuri per i suoi manufatti. Quanto alla politica interna, il mercantilismo si concretizza in una serie di misure tendenti a creare un vasto mercato, grazie all'abolizione di antiche barriere, la costruzione di strade e canali; ad abolire i dazi di esportazione, elevando invece quelli di importazione; a promuovere le manifatture locali con privilegi e monopoli; a richiamare nel paese tecnici stranieri competenti; a comperare, o addirittura a rubare per mezzo di spie, segreti di fabbricazione. Anche l'incremento della popolazione è favorito, allo scopo di assicurare alla produzione un grande numero di braccia a buon prezzo. In una situazione siffatta, i motivi dell'alleanza fra classe borghese e stato assoluto sono evidenti: lo stato favorisce l'arricchimento della borghesia e nel contempo ha bisogno di essa, sia per farsi finanziare le proprie iniziative di politica interna ed estera, sia per reclutarvi un numero via via crescente di funzionari obbedienti ed efficienti. Nel xvm secolo la dasse borghese, ormai in pieno sviluppo, potrà aspirare a governarsi da sé, attuando fino in fondo la riforma dello stato anche a costo di entrare in urto col potere del monarca; ma nel Seicento essa intuisce con chiarezza di averne bisogno, non essendo sufficientemente forte per sconfiggere, da sola, i numerosi difensori delle vecchie istituzioni feudali. 2.08
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II · RIFLESSI GENERALI SULLA CULTURA FILOSOFICO-SCIENTIFICA
Anche la cultura subisce profonde trasformazioni in corrispondenza a quelle economico-politiche menzionate nel paragrafo precedente. Il processo di laicizzazione, già iniziato nel rinascimento, si accelera e si approfondisce dando luogo ad un accresciuto interesse per la natura, da un lato, e per l'organizzazione statale, dali' altro. Si cercano nuove vie nella filosofia, nella scienza, nelle teorie politiche, nelle stesse discussioni religiose. Gli studiosi si fanno più arditi nel delineare ambiziosi sistemi generali da sostituire a quelli che avevano costituito la base della vecchia cultura. Col definitivo tramonto delle istituzioni politiche tradizionali, anche gli indirizzi di pensiero che avevano trovato in esse più diretto appoggio, perdono gradualmente la loro autorevolezza. Si allentano i controlli del potere feudale ed ecclesiastico: il creatore di nuove idee sa di poter trovare nella classe borghese simpatie ed appoggi. Le nuove correnti del razionalismo e dell'empirismo raggiungeranno in tutta l'Europa una rapida, sbalorditiva, popolarità. Ci si convince che spetta essenzialmente all'uomo decidere la validità di questa o quella teoria, la superiorità di questa o quella organizzazione del vivere civile. È nei mezzi di cui l'uomo dispone - la ragione e l'esperienza - che si cerca il punto fermo per ricostruire la cultura, con i caratteri cui aspira la società in formazione. Se il nemico di fondo resta la vecchia metafisica e la vecchia scienza, un nuovo nemico però si profila all'orizzonte: lo scetticismo. Esso riprende vigore per il franamento generale delle vecchie concezioni, e non di rado sembra costituire, in taluni ambienti, un autentico gravissimo pericolo. La necessità di combatterlo accomuna i più vari pensatori: si tratta di difendere, contro di esso, la fiducia nell'uomo e nei mezzi umani di conoscere la realtà. Si ricorre a tal fine, per un lato al criterio dell'evidenza razionale, considerato come caratteristico delle discipline matematiche ma estendibile a tutti i tipi di argomentazione (perfino a quelli concernenti l'etica e la politica), per l'altro all'attento esame dei fenomeni empirici, considerati nella loro purezza senza le usuali inframmettenze del pensiero filosofico tradizionale. Particolare attenzione viene attribuita, da questo punto di vista, alla nuova messe di fenomeni empirici resi osservabili dai mirabili apparecchi via via ideati dalla tecnica, che, potenziando in modo sorprendente i nostri sensi, rivelano aspetti del mondo fisico e organico rimasti per l 'innanzi ignoti. Gli stessi pensatori più fedeli al messaggio cristiano vanno alla ricerca di nuove concezioni filosofiche, da utilizzare nella difesa di tale messaggio. Essi comprendono che, per salvarlo, è necessario scinderne coraggiosamente le sorti
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da quelle della vecchia filosofia scolastica; è necessario trovare la via per conciliarlo con l'avanzante cultura laica (in particolare con quella scientifica). Uno dei maggiori ostacoli alla realizzazione di questo programma è costituito dalle lotte religiose, che danno luogo ad atti di indicibile ferocia da parte di tutti i combattenti (sia cattolici sia riformati). Proprio in seguito a queste lotte si diffonderà, verso la fine del secolo, fra i ceti più colti la convinzione che, per salvare i grandi principi religiosi, occorra separarli non solo dalle vecchie metafisiche ma anche dai vecchi dogmi sui quali si era incentrato il dissenso tra le varie confessioni cristiane. Così si giungerà a convincersi che la vera religione è costituita dalla « religione naturale » di cui quelle « positive » sarebbero soltanto parziali realizzazioni, tutte più o meno corrotte e sostanzialmente contingenti. III
· IL PROGRESSO DELLA TECNICA
Il progresso della tecnica trasse, come è ben evidente, sempre nuovi impulsi dall'avanzata della borghesia e a sua volta la favorì in modo notevole per l'indubbio incremento che diede alla produzione. Si costruiscono per esempio nuovi tipi di telai, nuove pompe per le miniere, nuovi generi di mulini, nuove e più potenti armi da fuoco, nuove fortificazioni; si diffonde la professione di « progettante », cresce il numero di brevetti. Non tutte le invenzioni risultano valide, non tutti i progetti realizzabili, ma nel complesso lo sviluppo della tecnica si impone ovunque, perfino nelle opere ornamentali (per esempio, il capolavoro dell'ingegneria francese del Seicento è proprio costituito dal sistema di pompe che regolano gli splendidi giochi d'acqua nei giardini del palazzo reale di Versailles). Un particolare rilievo acquista la strumentazione scientifica: telescopi, microscopi, barometri, termometri, macchine pneumatiche, ecc. Tra le famiglie più ricche - a partire da quelle dei sovrani - si diffonde il gusto per le collezioni di tali apparecchi, capaci di ottenere effetti di singolare interesse; viceversa la possibilità di disporre di apparecchi via via più moderni stimola il desiderio di compiere sempre nuove osservazioni. Eppure, malgrado il peso crescente che la tecnica assume nel mondo scientifico e in quello produttivo, essa non riesce a compiere alcun passo in avanti di importanza paragonabile a quelli che verranno realizzati nel secolo successivo. Mentre dal punto di vista della ricerca scientifica il Seicento è una delle epoche più feconde della storia dell'umanità, dal punto di vista del progresso tecnologico esso rappresenta un periodo di assestamento: ciò che si rinnova è soprattutto l 'organizzazione delle attività produttive, con l 'applicazione sistematica delle conquiste operate durante il rinascimento. Non si può ancora parlare di una vera e propria organizzazione industriale, ma senza dubbio di un notevole passo verso di essa: è un passo che, almeno nei paesi ove la compagine statale ha rag2.10
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giunto una solida unità, permette un immediato incremento della produzione e del commercio. Furono soprattutto l 'Inghilterra e la Francia a beneficiare di tale incremento: la prima sulla base di libere iniziative individuali, la seconda per l 'impulso fornito alla produzione dal potere centrale (basti a tal proposito menzionare l 'illuminato protezionismo del ministro Colbert). Le industrie che realizzarono maggiori progressi furono: in Inghilterra quelle tessili, in Francia quelle del vetro e degli specchi, dei merletti e dei tappeti (per incrementare l 'industria vetraria la Francia favorì con ogni mezzo l'immigrazione di abili artigiani di Venezia, in possesso dei più efficaci segreti di lavorazione in uso sul territorio della repubblica). Il paese, invece, nel quale si ebbe un più cospicuo e rapido progresso nella produzione metallurgica fu la Svezia, a causa della sua ricchezza mineraria e delle fabbriche i vi impiantate da alcuni imprenditori provenienti da Liegi: fabbriche che utilizzarono in modo organico i processi di lavorazione che erano già stati introdotti nel principato di Liegi fin dal xvr secolo. Furono esse a costruire le numerose e potenti artiglierie di Gustavo Adolfo, che lo posero in condizione di ottenere nella guerra dei trent'anni successi bellici folgoranti. Dal Seicento la Svezia fu sempre all'avanguardia nell'industria siderurgica; per secoli essa riuscì ad esportare i suoi prodotti (utilissimi alla costruzione di armi via via più perfette) in tutta l 'Europa, traendo notevoli profitti dalle guerre che travagliavano il continente. Passando al problema dell'energia, basti ricordare che le principali fonti energetiche rimasero, per tutto il Seicento, quelle dell'acqua e del vento già utilizzate da secoli. Ciò che invece subì notevoli perfezionamenti fu la costruzione degli ingranaggi per lo sfruttamento di tali energie. Come scrive Vittorio Somenzi, «venne tentata anche la trasmissione a distanza dell'energia dell'acqua e del vento, mediante sistemi di leve che collegavano l'impianto motore con gli impianti utilizzatori ». Se, come poco sopra si è accennato, non è ancora lecito parlare di vera e propria rivoluzione industriale, se ne possono comunque riconoscere le sicure avvisaglie. Né va del resto dimenticato, a proposito delle risorse energetiche, che nei primi decenni del suo affermarsi la stessa rivoluzione industriale continuerà ad utilizzare - per un buon tratto del Settecento - i medesimi mulini ad acqua e a vento già in uso nel Seicento. Solo qualche tempo più tardi essa sfrutterà in modo sistematico le nuove fonti di energia rese accessibili dalle grandi scoperte tecnologiche del secolo (sulle quali ci soffermeremo nella sezione v), e allora il progresso assumerà un ben diverso ritmo e una forza incontenibile.
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IV
· NUOVA ORGANIZZAZIONE DELLA VITA SCIENTIFICA: LE ACCADEMIE
La trasformazione sociale a cui abbiamo poco sopra fatto cenno è anche importante per ciò che riguarda il reclutamento dei giovani studiosi e la loro successiva sistemazione. I ceti da cui essi provengono sono in genere quelli della piccola nobiltà, della media borghesia cittadina, dei piccoli proprietari terrieri; proprio perché si tratta di strati abbastanza vasti di popolazione, la scelta può risultare assai migliore e permettere l'avvio alla carriera degli studi a giovani particolarmente dotati. Anche la loro sistemazione pratica non va più incontro a speciali difficoltà: aspirando soltanto ad una vita modesta ma dignitosa, essi non hanno più bisogno di cercarsi un posto in qualche università (ove troverebbero colleghi di idee, non di rado, assai retrograde) o di ricorrere all'appoggio di qualche principe più o meno munifico; la loro massima preoccupazione è di svolgere liberamente le proprie ricerche, tenendosi a contatto dei soli studiosi che a loro interessano. A tale scopo qualcuno (come Cartesio) si accontenta di vivere con una piccola rendita, altri (come Fermat) esercita qualche modesta professione amministrativa che non gli assorba troppo tempo, altri ancora (come Spinoza) accetta di esercitare un mestiere umile ma non umiliante. Così accade che gli autori più geniali del periodo in esame vivono, quasi sempre, al di fuori delle università, le quali fungono per lo più da custodi fedeli della vecchia cultura, opponendo talvolta una sorda resistenza al diffondersi delle nuove idee, sia scientifiche che filosofiche. Svolgendosi prevalentemente fuori delle università, la cultura deve crearsi nuovi mezzi di scambio; ricorre quindi ai contatti personali fra studioso e studioso, attuati o direttamente o per il tramite di qualche comune amico. Non di rado vari studiosi si riuniscono periodicamente in cenacoli privati, per ripetere collegialmente qualche esperienza scientifica o per discutere di scienza e di fi:.. losofia. Tali contatti danno luogo a preziosi carteggi, talvolta più interessanti delle stesse opere passate alle stampe. In questo campo emerge, nella prima metà del Seicento, la figura del padre Marin Mersenne ( 15 8 8-1 648), dell'ordine dei minimi,! del quale avremo varie occasioni di parlare nei prossimi capitoli. Uomo di vastissimi interessi filosofici, teologici, musicali, matematico-fisici (tradusse in francese alcune opere di Galileo), egli divenne il centro di collegamento di quanti si occupavano con serietà di ricerche e dibattiti in largo senso scientifici. Di lui fu scritto da un uomo come Hobbes: « La sua cella era migliore di tutte le scuole. » La delicata funzione di collegare fra loro i vari ricercatori sollecitandoli a impegnarsi in questa o quella ricerca fu anche uno dei compiti principali delle I Quest'ordine era stato fondato, verso il 1436, in Calabria da Francesco da Paola, e
venne introdotto, circa mezzo secolo più tardi, in Francia da Carlo VIII.
ZIZ
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accademie, le quali assumeranno verso la fine del secolo e poi -in tutto il Settecento un'importanza via via maggiore. Esse diverranno gli organi ufficiali per il coordinamento della produzione scientifica, sviluppando l'opera che - in forma privata- era stata appunto iniziata da uomini di intelligenza e animo aperto come il testé ricordato padre Mersenne o come l'abate Nicolas Claude Fabri de Peirex, consigliere al parlamento di Aix-en-Provence, grande amico di Gassendi. Fu la difficoltà di proseguire su di un piano meramente personale iniziative del genere, che rese necessario sostituire l'azione del singolo benemerito organizzatore con quella, più continuativa e sistematica, di veri e propri organi ufficiali. Fu l'indiscusso riconoscimento, da parte dell'intera società, dell'importante funzione compiuta dalla ricerca scientifica, a indurre i più illuminati sovrani a finanziare e potenziare i nuovi istituti. Il nome di « accademia » si ricollega ovviamente a quella platonica di Firenze resa celebre da Marsilio Ficino. Ma la struttura delle accademie del Sei e Settecento è profondamente diversa. Esse assumono in breve tempo un carattere di ufficialità e di internazionalità che quella era ben lungi dal possedere. È loro vanto reclutare i propri membri fra gli studiosi più eminenti di ogni disciplina e di ogni pa~se; e viceversa è vanto degli scienziati ottenere la nomina a soci (ordinari o corrispondenti) dal maggior numero possibile di illustri accademie. Ciò dà luogo alla formazione di una classe di dotti, universalmente riconosciuti come tali da tutta la società civile, tendenti a considerare se stessi e i propri colleghi come gli « eletti dal destino » a far progredire la scienza e la cultura. È un tipo di mentalità di cui sarebbe facile sottolineare i gravi e numerosi difetti; va comunque notato che essa continuerà a dominare massicciamente pressoché tutta la cultura settecentesca e - sia pure in minore misura - sopravviverà ancor oggi presso alcuni strati di studiosi (in particolare fra cultori di discipline specialistiche). Accanto alle accademie, per lo più come « atti » delle medesime, sorsero pure le prime pubblicazioni periodiche di carattere scientifico; esse divennero gli organi specifici per la comunicazione delle scoperte, per le loro discussioni, per lo stesso sviluppo delle polemiche. Le accademie inoltre cominciarono a bandire regolari concorsi a premio, su questioni specifiche esattamente formulate, e i dibattiti che ne seguirono esercitarono la maggior influenza sul progresso della ricerca. Nel Settecento alcuni eminenti scienziati, come per esempio Eulero e Lagrange, troveranno dignitosa sistemazione economica come segretari di potenti accademie o anche solo di una sezione delle medesime. Le prime accademie del xvn secolo sorsero in Italia ove però non ebbero lunga vita. Nel 1603 fu fondata a Roma dal principe Federico Cesi- validamente coadiuvato da G.B. della Porta, il celebre autore della Magia naturale - l'accademia dei Lincei, i cui atti vennero pubblicati in un apposito periodico dal 2.13
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titolo « Gesta lyncaeorum ». Ne fece parte, come già sappiamo, Galileo Galilei. L'attività di tale accademia venne interrotta nel I63o per la morte del suo fondatore; sarà ripresa per qualche anno nel secolo successivo, e poi su basi molto più ampie alla fine del XIX secolo, dopo ricostituita l'unità italiana. Nel I657 fu fondata a Firenze, dai discepoli di Galileo, e con l'appoggio del granduca, l'accademia del Cimento. La sua attività scientifica fu molto intensa, ma venne interrotta dopo soli dieci anni dalla sua fondazione. La più celebre accademia dell'epoca sorse in Inghilterra verso la metà del secolo. Dapprima cominciò a organizzarsi in forma privata (nel I645) come libera associazione di scienziati; le sue riunioni - che solevano tenersi a Oxford - vennero però interrotte dallo scoppio della prima rivoluzione e ripresero soltanto nel I 66o. Nel I 662 ottenne il riconoscimento ufficiale del re, e prese il nome di Royal Society. Ne fecero parte sia Locke sia Newton, sotto la presidenza del quale essa divenne una delle più importanti accademie dell'epoca. La sua pubblicazione periodica ebbe per titolo « Philosophical transactions of the Royal Society » e venne edita, all'inizio, a spese personali del segretario della società. In Francia Luigi xrv, salito al trono nel I66I, accolse favorevolmente la proposta del ministro Colbert di creare un importante periodico scientifico - il famoso « Journal cles savants » - e una grande accademia francese delle scienze. Questa iniziò la sua attività nel 1666. Seguirono, negli ultimi del Seicento e all'inizio del Settecento, le accademie di Berlino, Vienna, Pietroburgo, Dresda, la fondazione delle quali ricevette il maggior impulso dall'opera personale di Leibniz. Questi riuscì pure a dar vita, nel r68z, agli« Acta eruditorum »,che divennero uno dei più efficaci strumenti di collaborazione scientifica dell'epoca. I significativi titoli dei due periodici testé menzionati caratterizzano molto bene la concezione, di cui già segnalammo i difetti, della ricerca scientifica come attività nobilissima, riservata però a un gruppo chiuso e ristretto di dotti, additati alla concorde ammirazione di tutto il mondo civile. V
UNITÀ DI FONDO TRA SCIENZA E FILOSOFIA
Abbiamo sottolineato, rtel paragrafo u, la profonda fede nella ragione, diffusa fra pressoché tutti i pensatori del Seicento: è una fede comune ai cultori di ricerche matematiche come a quelli di ricerche sperimentali, ai filosofi razionalisti come agli stessi empiristi. Essa proviene dalla netta convinzione che, in seguito ai più recenti sviluppi della scienza, l'umanità abbia finalmente scoperto la via per conoscere la verità e che ormai si tratti solo più di seguitare in essa con impegno e intelligenza. È la fede che si esprime nella generale venerazione per i dotti, e che corrisponde sul piano culturale, alla fiducia della società nel nascente mondo moderno. Essa raggiungerà il suo vertice nel secolo dei 214
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lumi, allorché si diffonderà la convinzione che la ragione possa anche indicare gli strumenti sicuri per riorganizzare da cima a fondo le strutture sociali e per guidare rettamente il corso degli eventi storici. L'esigenza di discutere pregiudizialmente i limiti dell'intelligenza umana affiorerà senza dubbio in Locke (per svilupparsi poi, in forma ben più radicale, nel Settecento e costituire un primo germe di autentica crisi entro l 'illuminismo); essa non lo condurrà tuttavia a porre in dubbio la potenza della ragione, bensì a determinare la via, basata appunto sull'esatta conoscenza dell'origine delle idee, onde far sì che la ragione pervenga a conclusioni valide e non illusorie. Un'esigenza sostanzialmente analoga, sebbene assai più circoscritta, sorgerà pure fra i matematici circa l 'effettiva validità di alcuni metodi dimostrativi; anch'essa non pretenderà di negare il valore della ragione, ma solo la perfetta razionalità dei metodi in questione (basati su procedimenti infinitesimali). Se è vero che, col trascorrere del tempo, la fiducia nei metodi infinitesimali avrà il sopravvento, vero è però che alla fine del Seicento le riserve contro di essi avranno ancora la forza di indurre Newton a non basare esplicitamente e unicamente su tali metodi le proprie argomentazioni; ed inoltre è vero che, allorquando - all'inizio dell'Ottocento - si cercherà di trovare per essi una base autenticamente razionale, ciò costringerà i matematici a rivoluzionare la loro scienza non meno a fondo di quanto l'empirismo più intransigente abbia rivoluzionato la filosofia. A parte l'istanza critica testé accennata, il più urgente problema dei pensatori del Seicento sarà di scoprire una giustificazione metafisica alla comune fiducia nella ragione. Cartesio riterrà di trovarla - c?me vedremo nel prossimo capitolo - nell'esistenza e perfezione di dio, il quale non può permettere che ci inganniamo quando abbiamo fiducia nelle idee chiare e distinte; altri invece ne cercherà assai diverse giustificazioni. Tutti però, o almeno tutti i pensatori di maggior rilievo, saranno concordi nell'opporre allo scetticismo disgregatore la loro fede nella conoscenza umana: conoscenza che, se guidat~t dalla ragione, non può secondo essi non risultare in grado di portarci alla scoperta della verità. · Le più gravi divergenze sorgeranno invece circa i risultati che le nostre indagini, condotte col massimo scrupolo razionale, sembrano farci conseguire; gli uni ritenendo che esse ci permettano di concludere con una tesi, gli altri con un'altra tesi profondamente diversa. È insomma il contenuto del sapere, ciò che suscita le più accese discussioni; non la possibilità stessa di sapere. E, sia detto ben chiaramente, questo contenuto verte sulla natura dei fenomeni celesti come su quella dei fenomeni terrestri, sulla natura del nostro organismo corporeo come su quella dei no!>tri sentimenti. Non esiste alcuna separazione fra oggetto della conoscenza filosofica e oggetto della conoscenza fisica e biologica: ciò che lo studioso del Seicento mira a conoscere è la totalità del reale, anche
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se - per motivi contingenti - deve limitarsi a indagarne soltanto dei singoli settori. Comunque, il risultato sicuramente conseguito in un settore non potrà, secondo lui, non ripercuotersi direttamente o indirettamente su tutti i settori; e proprio perciò dovrà in qualche misura interessare ogni persona che ami effettivamente la verità. Così tutti potranno sentirsi partecipi delle nuove straordinarie conquiste della conoscenza umana: sia che esse riguardino i costumi dei popoli che abitano le terre recentemente scoperte, sia che riguardino il funzionamento dell'organismo animale, sia che riguardino i moti dei corpi celesti. Il carattere enciclopedico del sapere deriva proprio dalla convinzione dell'unità del mondo, di cui il nostro intelletto vuole scoprire i principi. Vero filosofo è ritenuto chiunque contribuisca in modo effettivo alla scoperta di questi principi; non importa se lo si preferisca qualificare come fisico o come matematico o come metafisica. Così vengono qualificati filosofi tanto Cartesio quanto Newton, tanto Hobbes quanto Leibniz. Sarebbe un grave errore voler separare, nell'attività di questi pensatori (persino in quella di uno spirito prevalentemente religioso come Malebranche), l'aspetto scientifico da quello filosofico: la loro cultura è incontestabilmente unitaria, sicché la concezione che ciascuno di essi elabora in un settore è inscindibilmente connessa a quelle che ha negli altri settori. Senza dubbio questa realtà può apparire difficilmente comprensibile allo studioso moderno, che vive un mondo culturale completamente diverso. Ma i nostri gusti e le nostre limitazioni non possono modificare lo stato reale dei fatti. Per dei giustificatissimi motivi pratici, noi saremo costretti a fermarci più su una teoria che sull'altra di ciascuno degli autori citati (tenendo conto dei fini della nostra esposizione storica); ma non dovremo mai dimenticare che questa scelta è unicamente dettata dal nostro particolare punto di vista, e quindi va almeno di principio corretta con qualche rapido accenno alle altre teorie ad essa connesse. Quanto ora detto ci spiega il carattere filosofico assunto nel Seicento da varie concezioni scientifiche (basti ricordare il meccanicismo ), e l'aspetto scientifico assunto da non poche teorie filosofiche. Ci spiega pure il motivo per cui allo stesso dibattito (poniamo, intorno all'atomismo) partecipassero indifferentemente autori che oggi consideriamo soprattutto filosofi o soprattutto scienziati. Ci spiega infine perché certe teorie prettamente scientifiche (come la teoria newtoniana della gravitazione) venissero inquadrate in ben determinate concezioni teologiche e perché tale inquadramento venisse considerato dal loro autore come qualcosa di essenziale e indispensabile. È stata proprio questa unità a far tramontare in modo definitivo parecchi indirizzi di pensiero largamente diffusi nel Cinquecento (per esempio l'animismo) dimostrandone l'inconciliabilità con le più recenti scoperte della scienza e della tecnica. È essa che ha fatto sorgere l'esigenza di una religione razionale, capace 216
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L'inizio dell'era moderna
di adeguarsi - ben diversamente dai dogmi delle religioni positive - con il progresso generale del sapere. Abbiamo indugiato a lungo su questo carattere unitario della cultura scientifico-filosofica del Seicento per chiarire con franchezza al lettore le gravi difficoltà cui siamo andati incontro dovendo esporre il pensiero di autori che, nella maggior parte dei casi, si occuparono attivamente di discipline diverse, trasferendo nell'una la consapevolezza metodologica e - se appena possibile - anche i risultati maturati nell'altra. Stando così le cose, si aprivano innanzi a noi due soluzioni, entrambe assai semplici ma assai pericolose: di rinchiudere l'esame di ogni singolo autore in un unico capitolo col rischio di porre in ombra i suoi strettissimi legami con l 'ambiente culturale che stava dibattendo i vari problemi da lui studiati, e quella invece di dedicare capitoli separati allo sviluppo storico delle diverse discipline precisando di volta in volta per ciascuna di esse l'apporto dei singoli autori col rischio di far perdere la visione unitaria della loro personalità scientifico-filosofica. Per evitare almeno in parte questi difetti si è optato per una terza soluzione intermedia: quella di accentrare in qualche capitolo o paragrafo l'esposizione della vita degli autori più significativi nonché delle linee generali del loro pensiero, riservandoci però di riprendere in esame aspetti particolari della loro opera in altri capitoli espressamente dedicati alla presentazione panoramica dei progressi di fondo realizzati, durante il Seicento, in questo o quel gruppo di problemi (politici, logici, matematici, ecc.). Questa via ci ha purtroppo costretti a qualche ripetizione, ma ci ha consentito -cosa a nostro giudizio di estrema importanzadi porre in luce i grandi fili conduttori dei singoli settori della ricerca. L'essenziale è che il lettore, reso consapevole di questa difficoltà, si sforzi per proprio conto di colmare le inevitabili fratture emerse entro la nostra trattazione, tenendo ben presente che nel Seicento pressoché ogni scienziato ha avuto profondi interessi filosofici e pressoché ogni filosofo ha avuto, in misura maggiore o minore, precisi interessi scientifici. La specializzazione delle ricerche, che già aveva cominciato ad affiorare nel rinascimento, riprenderà un autentico rilievo solo in epoche successive: nel Settecento per alcuni particolari settori della scienza, e nell'Ottocento per zone sempre più vaste del sapere.
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CAPITOLO SECONDO
Cartesio
I
· NECESSITÀ DI UNA NUOVA FILOSOFIA
Come abbiamo visto nella sezione precedente, il rinascimento lasciò in eredità al pensiero moderno un complesso veramente mirabile di ricerche scientifiche, ormai ricche di sicuri risultati e in via di rapido sviluppo. Non lasciò invece alcun sistema filosofico, che fosse in grado di sostituire quello aristotelico, sottoposto alle critiche più dure da parte di molti e valenti studiosi, pur tra loro diversamente orientati. Oggi gli scienziati non provano più la necessità di cercare fuori delia scienza un fondamento per le proprie indagini; o, se la provano, danno solitamente a tale ricerca un ben altro significato: quello, cioè, di chiarire ed eliminare i presupposti metafisici della scienza, acquistando una consapevolezza sempre maggiore dei suoi procedimenti e problemi. Nel Seicento la situazione era completamente diversa; l'indagine scientifica cominciava, sì, a fornire le prime dimostrazioni della propria efficienza, ma pareva ancora richiedere qualche garanzia, esterna e superiore, per la verità assoluta della nuova via intrapresa. Pareva soprattutto necessario, di fronte al procedere frammentario delle ricerche particolari, trovare il modo di accertarsi a priori che esse non sarebbero cadute fra loro in contraddizione, ma avrebbero dato origine a un sapere coerente e fecondo, non più sottoposto al pericolo di nuove crisi e nuovi capovolgimenti. Il maggior tentativo di soddisfare l'esigenza ora riferita fu rappresentato, all'inizio dell'era moderna, dalla filosofia di Cartesio. Essa venne interpretata dai suoi primi entusiasti seguaci come il « nuovo aristotelismo», non meno accordabile dell'antico con la religione cristiana, ma capace, nel contempo, di offrire alla nuova scienza quantitativa della natura una base altrettanto sicura e generale quanto era stata quella offerta dall'aristotelismo alla vecchia fisica qualitativa. Con queste parole non intendiamo sostenere che il solo ed unico intento di Cartesio sia stato quello di giustificare, da un punto di vista filosofico, la verità delle nuove ricerche scientifiche; è certo però che proprio questo fu uno dei motivi determinanti del poderoso sforzo metafisica compiuto dal grande fran218
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Cartesio
cese. E bisogna riconoscere che fu uno sforzo fecondo dei più brillanti risultati, proprio nel campo scientifico, anche se la scienza moderna, una volta saldamente costituita, non tarderà a lottare per liberarsi dalla metafisica cartesiana, come si era liberata da quella aristotelica. II
· VITA E OPERE DI CARTESIO
René Descartes (Cartesio) nacque il 3 I marzo I 596 a La Haye nella Turenna, da famiglia di piccola e recente nobiltà. Ragazzo di appena otto o dieci anni, fu inviato al collegio di La Flèche, nell'Angiò, che - fondato qualche anno prima dai gesuiti, con la protezione di Enrico IV - era senza dubbio una delle migliori scuole dell'epoca. Quivi ricevette una solida istruzione classica e scientifica, orientata secondo i principi della filosofia scolastica che, come sappiamo, sembravano all'autorità cattolica i più adatti alla difesa del dogma contro tutti i pericoli di eresia. Uscito nel I6I4 dal collegio di La Flèche, e proseguiti per qualche tempo i propri studi presso l'università di Poitiers, Cartesio decise nel I6I8 di dedicarsi alla carriera delle armi. Si arruolò pertanto, al fine di apprendere l'arte militare, helle truppe di Maurizio di Nassau, che in quegli anni combatteva contro la Spagna in favore della libertà olandese. Nel I6I9 lasciò l'esercito di Maurizio di Nassau, per arruolarsi in quello che l'elettore di Baviera stava allestendo contro i boemi da poco insorti. In Olanda entrò in relazione con il fisico Isaac Beeckmann (1588-I637), noto per i suoi studi di meccanica e di idrostatica. Le discussioni fra i due intorno a vari problemi geometrici e soprattutto intorno ai principi del moto, valsero a far rinascere in Cartesio l'interesse per gli studi. Riprese pertanto a occuparsi seriamente di essi, approfittando del parecchio tempo libero che gli era consentito dal trovarsi arruolato non come militare effettivo, ma come semplice allievo volontario. Nella notte del Io novembre I6I9 - mentre era accampato a Neuburg sul Danubio - ebbe una profonda crisi di esaltazione mistico-scientifica, durante la quale, come egli stesso racconta, riuscì a intuire « pieno di entusiasmo ... il fondamento di una scienza meravigliosa », da ricavarsi mediante una scrupolosa riflessione dell'animo su se stesso. Il giorno successivo, fece voto alla madonna di compiere un pellegrinaggio a Loreto, se essa lo avesse aiutato a condurre a termine il piano scientifico-filosofico concepito durante la notte (anche se non adempierà mai questo voto, il solo fatto di averlo pronunciato dimostra quanto fosse viva nel suo animo la traccia impressagli dall'educazione dei gesuiti). Dopo essere stato in Boemia e in Ungheria, tornò in Francia per dedicarsi interamente allo studio (alcuni beni, ricevuti in eredità, gli permisero di condurre da allora in poi una vita modestamente indipendente). Salvo quak~1e tempo tra-
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Cartesio
scorso in Italia, fra il I 62 3 e il '2 5, rimase a Parigi fino al I 628. Furono anni assai fecondi, durante i quali entrò in contatto con gli spiriti più colti dell'epoca, in particolare con il padre Marin Mersenne, già da noi ricordato nel capitolo 1. Nella primavera del I629 Cartesio si stabilì in Olanda, ove rimase, salvo brevi interruzioni, fino al I 649. Pur amando vivere con estrema riservatezza (il suo motto era: « Bene vixit qui bene latuit »), ebbe una corrispondenza assai vasta; basti ricordare il suo carteggio con la principessa Elisabetta, figlia dell'elettore palatino già re di Boemia, e quello con la regina Cristina di Svezia. Quest'ultima ottenne, nel I 649, che Cartesio accettasse il suo invito di recarsi a Stoccolma per insegnarle personalmente la propria filosofia. La gracile salute del grande pensatore non resistette, però, al rigido freddo ed egli morì l'I I febbraio I65o. La prima opera importante di Cartesio risale al I628-29 e porta per titolo Regulae ad directionem ingenii; essa non fu mai condotta a termine, e venne pubblicata postuma nel I70I. Appe~a sistematosi in Olanda, Cartesio iniziò la stesura di un grande lavoro di fisica: Monde ou traité de la lumière. Al I632-33 risale anche la sua prima opera biologica, che ha per titolo De l'ho m me; essa è strettamente collegata al precedente trattato, di cui costituisce una specie di appendice. Verrà pubblicata nel I662 in traduzione latina e due anni dopo nell'originale francese. Nel I633, quando il Mondo era pressoché finito, la notizia della condanna di Galileo dissuase il nostro autore dal consegnare alle stampe il frutto del proprio lavoro, che venne alla luce solo nel I 664. Questo atteggiamento di prudenza, che ci può sembrare eccessivo, si accorda perfettamente al carattere di riservatezza di Cartesio; esso sottolinea la diversità fra il programma culturale del pensatore francese e quello del grande italiano. Mentre quest'ultimo è convinto - fino al momento della definitiva condanna - di poter trasformare radicalmente la condotta della chiesa nei riguardi della scienza, Cartesio non nutre illusioni sull'efficacia della propria azione; egli sa che l'inquisitore ha sbagliato in questa come in altre occasioni (per esempio a proposito degli antipodi), ma lascia al tempo il compito di rimettere le cose a posto. Egli ha deciso di dedicare la propria vita individuale alla ricerca della verità, e non vuole lasciarsi invischiare in polemiche, che servirebbero soltanto a disperdere le sue energie ed a turbare la serenità indispensabile ali 'indagine scientifica. Non rinuncia tuttavia a far conoscere le proprie idee; si limita a dar loro un'altra forma, meno ostica ai teologi. In realtà vi riesce solo parzialmente, tant'è vero che la sua filosofia verrà condannata con molta asprezza dai teologi protestanti dell'università di Utrecht; in modo sufficiente, comunque, ad evitare le amarezze e le delusioni di Galileo. Nel I637 vengono pubblicati tre saggi scientifici: la Dioptrique, le Météores e la Géométrie, preceduti dal celeberrimo Discours de la méthode. Va sottolineato che quest'ultimo, anche se viene spesso considerato come opera autonoma, fu in realtà concepito dall'autore quale introduzione ai tre saggi predetti. Ciò vale a 220
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Cartesio
spiegarne alcuni caratteri abbastanza singolari :-1 'inizio autobiografico, la non sistematicità, l'evidente preoccupazione di condurre gradualmente il lettore a riconoscere l 'importanza della riforma metodologica proposta. Esso è suddiviso in sei parti; la quinta costituisce una specie di riassunto ragionato del Mondo e contiene inoltre un'interessante trattazione di fisiologia, ove travasi esposta la dottrina della circolazione del sangue. Nel I64I escono le Meditationes de prima philosophia, la cui prima composizione risale al I629-3o. Rielaborate una decina d'anni più tardi (cioè verso il I64o) e fatte circolare, con l'aiuto del padre Mersenne, tra vari studiosi di filosofia e di teologia, anch'esse hanno suscitato molte obiezioni: Cartesio le ordina in sette serie diverse e prepara per ciascuna un'attenta risposta; nel I647 uscirà, a cura del duca di Luynes, la traduzione francese dell'opera (Méditations métaphysiques) seguita dalle obiezioni e dalle relative risposte. Nel I644 si ha la pubblicazione di un'opera sistematica di fondamentale importanza: Principia philosophiae. Essa è costituita di quattro libri: il primo di argomento filosofico, gli altri tre di argomento fisico. Nel I 64 7 viene pubblicata una traduzione francese dei Principia. L 'ultima grande opera, T raité des passions de l'dme, uscì nel I 649; la sua stesura era stata iniziata qualche anno prima, subito dopo la pubblicazione dei Pritzcipia. Va ricordato che, nella terminologia cartesiana, passione significa: percezione causata all'anima da un movimento corporeo. L'opera costituisce un tentativo di presentare in forma sufficientemente sistematica i fenomeni concernenti l 'unione dell'anima con il corpo. Oltre a questi problemi, essa tratta con una certa ampiezza questioni riguardanti l'etica. Assai interessante è pure il ricchissimo epistolario di Cartesio. Vi si ritrovano lettere di argomenti scientifici, filosofici e morali, che illuminano efficacemente il carattere e la posizione del nostro autore, nonché la natura delle obiezioni che il suo pensiero sollevava nel più avanzato ambiente culturale dell'epoca. Meritano una particolare menzione le sue lettere sulla morale, indirizzate alla principessa Elisabetta del Palatinato e alla regina Cristina di Svezia. III
· IL METODO DI CARTESIO E LE SUE REGOLE
Come viene condotta, da Cartesio, la ricerca di un fondamento assoluto di tutto il sapere? Sulla base di due argomentazioni, entrambe essenziali: una negativa e l'altra positiva. Le troviamo esposte nel Discorso sul metodo in forma autobiografica estremamente caratteristica. Il momento negativo è costituito dalla critica del tipo di istruzione ricevuta al collegio di La Flèche; quello positivo dalla proposta di alcune regole fondamentali per compiere le indagini scientifiche. La critica del vecchio tipo di istruzione è contenuta nella prima parte del Discorso stt! metodo. Essa investe tutta la cultura tradizionale, di carattere prevalenZZI
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Cartesio
temente umanistico-letterario, basata più sull'esercizio della fanta~ia e sullo studio delle grandi opere altrui, che non sulla ricerca diretta, razionalmente sviluppata. Nelle Regulae Cartesio giunge a sostenere, come chiariremo meglio in seguito, una tesi ancora più radicale: afferma cioè che anche la matematica tradizionale risulta poco soddisfacente. Sono proprio le dimostrazioni di Euclide a non accontentarlo, malgrado la loro apparente perfezione logica. Egli accusa il procedimento dimostrativo dei greci di essere estrinseco, artificioso, capace, sì, di provare la verità dei singoli risultati ma non di rivelarne l'origine profonda né di farci scoprire nuove verità. La scienza che Cartesio si propone di costruire, nella parte positiva della sua ricerca, vuol essere più comprensibile alla mente umana, più chiara in tutti i suoi minimi particolari, e perciò più feconda. A tale scopo dovrà essere una scienza che ciascuno di noi conquista con le proprie forze, senza accettare nulla sulla sola base dell'opera altrui. Dovrà risultare, insomma, uno strumento interamente nostro. Il metodo che Cartesio propone per questa umanizzazione della scienza non vuol essere qualcosa di meccanico, da imporre identicamente a tutti gli studiosi come gli aristotelici imponevano le loro formule logiche; ciò lo renderebbe estrinseco al processo concreto di indagini e perciò inidoneo allo scopo voluto. Egli è, sì, convinto fermamente del valore delle proprie regole metodologiche, ma solo perché scorge in esse il frutto di una scrupolosa indagine personale, perché - in altre parole - ha avuto innumerevoli occasioni di constatarne direttamente l 'inesauribile efficacia. Ogni altro scienziato potrà, col metterle alla prova, convincersi altrettanto bene della loro fecondità, ossia della loro capacità a guidarci nella ricerca di una nuova scienza e di una nuova filosofia. Il metodo proposto da Cartesio si fonda su quattro canoni: .I) « regola dell' evidenza »: non accettare mai per vera alcuna cosa, che non sia da noi afferrabile con perfetta evidenza; z) «regola dell'analisi»: scomporre le asserzioni complesse, fino a giungere agli ultimi elementi che le costituiscono; ;) «regola della sintesi»: ricomporre gli ultimi elementi in tal modo raggiunti, sì da scoprire in qual maniera essi si colleghino fra loro nelle asserzioni complesse; 4) «regola dell'enumerazione »: percorrere con movimento continuo e ininterrotto tutte le singole verità conseguite nell'indagine, fino ad abbracciarle simultaneamente in un unico sguardo. Si tratta di regole distinte più in apparenza che non in realtà. A rigore infatti esse mirano, tutte e quattro, àd un medesimo scopo: a farci cogliere con la massima chiarezza e distinzione ogni verità di cui risulta costituito il nostro sapere, per quanto astrusa e complessa possa apparire. Tali regole non celano in sé nulla di miracolistico; non portano automaticamente alla verità assoluta; ma ci costringono ad acquistare una piena consapevolezza dei singoli passi in cui si snoda la nostra ricerca scientifica. La garanzia che forniscono al nostro sapere risiede per intero nell'evidenza dei risultati via via raggiunti. 2ZZ
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Sul significato di questa evidenza ritorneremo diffusamente nel prossimo paragrafo, allorché esamineremo quali risultati del nostro conoscere Cartesio ritenga, e quali non ritenga, davvero evidenti. Fin d'ora però occorre sottolineare la presenza, in essa, di un sostanziale riferimento al soggetto, riferimento che imprimerà un incontestabile carattere soggettivistico non solo alla metodologia cartesiana, ma anche, per esempio, alla sua logica (per la quale rinviamo al capitolo rx). Taluni interpreti ritengono di poter affermare che Cartesio ricavò il metodo ora spiegato dalla matematica. In parte essi hanno ragione, perché non v'ha dubbio che Cartesio giunse alla formulazione ·delle anzidette regole soprattutto dalla riflessione sul modo di procedere della matematica (ricordiamo, tra l'altro, che già i matematici greci avevano parlato di «analisi» e di «sintesi»). Sarebbe tuttavia erroneo supporre che Cartesio si sia limitato a ricavare il suo metodo dalla matematica per applicarlo a tutta la scienza. La realtà è invece, come vedremo nel paragrafo vnr, che Cartesio parte proprio da esso per elevare contro la matematica classica una critica non meno seria di quella mossa contro tutto il sapere ordinario, e per proporne una riforma non meno radicale di quella propugnata per ogni altro ramo della scienza umana: riforma che deve rendere la matematica più permeabile alla ragione, più limpida nei suoi principi e nei suoi procedimenti, più perfettamente afferrabile dal nostro pensiero. «Con questo mezzo,» egli spiega alla principessa Elisabetta, « io vedo più chiaramente tutto ciò che faccio. » IV
· DAL DUBBIO ALLA PRIMA CERTEZZA
Cartesio non dice esplicitamente se il suo metodo valga soltanto per la scienza o anche per la filosofia. È facile però riconoscere che egli lo applica sistematicamente ad entrambe. Ciò viene del resto a confermare quanto abbiamo detto nel capitolo I circa l 'unità di fondo esistente, nel Seicento, tra scienza e filosofia. Cominciamo, a buon conto, dall'applicazione che ne fa all'indagine filosofica. L'atteggiamento più caratteristico in cui si riflette il metodo cartesiano è il « dubbio metodico ». Volendo essere più espliciti, potremmo dire che questo dubbio è la ricerca esasperata di quell'evidenza che abbiamo già illustrato.! I L'attributo «metodico» sta ad indicare, nel pensiero di Cartesio, che il dubbio da lui propugnato non va confuso con il dubbio degli scettici; è anzi diretto proprio contro di essi, essendo d!.!stinato a dimostrare l'esistenza di una verità superiore a qualsiasi critica. Come abbiamo fatto cenno nella sezione III, la cultura francese aveva annoverato, nel Cinquecento, due valenti sostenitori dello scetticismo (Montaigne e Charron), e senza dubbio Cartesio pensa innanzi tutto ad essi nella sua polemica antiscettica. Egli è tuttavia preoccupato anche di un altro nemico, ben più pericoloso: il movimento
libertino che - come sappiamo - si era fatto sostenitore di alcune tesi scettiche, dirette a sovvertire tutta la tradizione culturale cristiana. Della diffusione del movimento libertino in Francia, all'epoca di Cartesio, fanno testimonianza le molte opere scritte contro di esso da autorevoli studiosi; basti qui ricordarne due dell'amico di Cartesio padre Mersenne: f}impiété des déistes, athées et libertins de ce temps combattue(Contro l'empietà dei deisti, atei e libertini, x6z4) e La vérité des sciences, con/re /es sceptiques ou pyrrhoniens (La verità delle scienze, contro gli scettici o pirroniani, x6z5).
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Cartesio
Cercare l'evidenza significa prima di ogni altra cosa respingere con decisione tutto ciò che non è evidente, e cioè tutto ciò che viene erroneamente accolto come conoscenza vera, mentre è oscuro, incerto, illusorio. Tali sono, per esempio, secondo Cartesio, i dati dei sensi, il cui carattere ingannatore è così palese da poter spesso venire riconosciuto dalla stessa esperienza comune. Se abbiamo constatato anche in una sola occasione che essi ci ingannano, con che diritto potremo prestar loro fede nelle altre occasioni? Il nostro dubbio deve investire, secondo Cartesio, non solo i singoli dati dei sensi, ma tutta la conoscenza comune: non accade forse - egli si domanda - che gli oggetti empirici si presentano con i medesimi caratteri tanto nella veglia quanto nel sogno? Nessuno di essi, dunque, gode di una effettiva evidenza; nessuno può venire accolto come verità assoluta. Ma vi è di più: vi è il fatto gravissimo che ali 'istanza del dubbio non si sottraggono a rigore nemmeno le verità dimostrate dalla matematica. Chi ci assicura, infatti, che i ragionamenti usati per dimostrarle non ci ingannino? Non ci accade spesso, anche nella matematica, di commettere qualche errore senza a_;vedercene? La conoscenza discorsiva è necessariamente basata sulla memoria (in essa, infatti, debbo servirmi di verità che attualmente non vedo, ma per le quali mi limito a ricordare di averle viste altra volta con evidenza); ma quale garanzia possediamo che la memoria non ci inganni? E infine: chi garantisce che sia ancora vero oggi ciò che ieri si rivelò tale? Chi garantisce che l 'evidenza stessa non sia illusoria? Con quest'ultimo passo il dubbio metodico è diventato« dubbio iperbolico»,l e giunge così a scuotere le basi dell'intera realtà, comunque conosciuta. Proprio il suo coraggioso sviluppo fino alle estreme conseguenze ci porta però, secondo Cartesio, a scoprire una verità che sfugge a qualsiasi dubbio, che è fornita cioè di una evidenza tale, da resistere a qualunque obiezione. Il mio dubbio, anche quello più esasperato, rivela direttamente il mio essere; dubitare significa pensare, e pensare significa essere: «Cogito, ergo sum ».Anche se io stessi sognando o farneticando il mio stesso sognare o farneticare sarebbe incontestabilmente un essere. Va subito notato che, malgrado la forma apparentemente discorsiva (malgrado, cioè, il termine ergo), non si tratta qui di un sillogismo. Non si tratta, in altri termini, di ammettere in generale che « tutti gli esseri, i quali pensano, sono », e di dedurne come caso particolare che « io penso e dunque sono ». La verità del cogito cartesiano è di altro tipo: è un'intuizione che si impone a noi con indiscutibile immediatezza al di fuori e al di sopra di ogni dubbio. È il primo, più caratteristico, esempio di una verità assolutamente evidente. I
È degno di nota che nel Discorso su! me-
todo Cartesio non fa cenno a questa forma iper-
bolica (o metafisica) di dubbio; ovviamente egli riteneva che, in uno scritto di carattere prcvalcn-
temente introduttivo, essa avrebbe potuto disorientare il lettore, distogliendolo dall'attento esame dei tre saggi scientifici di cui l'opera risultava composta.
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Cartesio
Con la scoperta del cogito Cartesio dà 1mzw alla metafisica soggett1v1st1ca moderna: a una metafisica, cioè, che prende a proprio fondamento l'essere del pensiero, non quello degli oggetti ideali o reali (come facevano Platone, Democrito e Aristotele). Con essa si riconosce al pensiero una situazione assolutamente privilegiata, quale « sostanza » che non richiede nulla di altro da sé, cui venire riferita o appoggiata. Il pensiero, così inteso, non risulta soltanto la prima verità, ma il punto di partenza di qualsiasi ulteriore verità. V
· DALL'ESSERE DEL SOGGETTO ALL'ESSERE DIVINO
L'impostazione soggettivistica della filosofia di Cartesio gli impedisce di passare direttamente dali' essere del soggetto che conosce a quello d eli' oggetto conosciuto. Per giungere dall'io al mondo, la strada percorsa da Cartesio attraversa una tappa intermedia di fondamentale importanza: l'essere divino. Che nell'io pensante si trovi una vasta molteplicità di idee (di oggetti empirici, geometrici, ecc.), non può- secondo Cartesio- venire posto in dubbio; il dubbio sorge, però, appena si cerchi di passare da queste idee alla realtà. Sarà opportuno, per spiegare il ragionamento di Cartesio, fermarci anzitutto sulla distinzione da lui compiuta nel campo delle idee. Questa distinzione non può venire, per ora, interamente giustificata, in quanto occorrerà proprio, per giustificarla, invocare l'esistenza di un mondo esterno; può tuttavia venire ammessa senza difficoltà, in quanto si attribuisca alle parole « mondo esterno» il puro e semplice significato, non rigoroso né metafisicamente fondato, attribuitogli dal linguaggio comune. Cartesio distingue, dunque, nel vasto campo di idee esistenti nel soggetto, tre tipi fondamentali: le idee « avventizie », quelle « fattizie » e quelle « innate ». Sono « avventizie » le idee che provengono dal mondo esterno e che risultano estremamente fallaci; tali, per esempio, le rappresentazioni degli oggetti, come il sole, che ci appare quale un piccolo disco luminoso mentre senza dubbio è qualcosa di ben diverso. Sono « fattizie » le idee da noi stessi fabbricate, in modo arbitrario, come le sirene, gli ippogrifi, e altre simili chimere. Sono « innate » le idée che non procedono né dagli oggetti esterni, né dalla nostra volontà, ma dalla sola facoltà di pensare; idee, cui lo spirito non può togliere né aggiungere alcunché, ma che gli si impongono in modo necessario (Cartesio non pensa affatto, come lo accuseranno i critici dell'innatismo, che le idee innate si trovino in noi fin dalla nascita, anteriormente a ogni esperienza). Spieghiamo ora come l'idea di dio costituisca, per Cartesio, un'idea innata. Il nostro pensiero non è perfetto: tutta la sua struttura è una prova inconfutabile di questa imperfezione. L'esistenza di conoscenze imprecise, illusorie, erronee -diciamo di più, l'esistenza stessa del dubbio- ce ne fornisce continue dimostrazioni. Eppure è un fatto che noi possediamo l'idea della perfd~one: la stessa
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consapevolezza della nostra imperfezione d prova che noi sappiamo che cosa è un essere perfetto. Come potremmo sostenere, altrimenti, di non essere, proprio noi, perfetti? L 'idea di perfezione è dunque innata in noi: essa è l 'idea di dio. Dal riconoscimento che questa idea esiste in noi al riconoscimento della reale esistenza di dio, il passo è breve, secondo Cartesio. È chiaro - egli osserva - che l 'idea di dio non può provenire da noi; il perfetto non può, infatti, provenire dall'imperfetto. Bisogna dunque riconoscere- ne conclude -che esiste in realtà un essere divino, capace di far sorgere in noi l 'idea della perfezione assoluta. All'argomento ora accennato, che implica l'uso del concetto di causa, Cartesio ne aggiunge un altro, provvisto, secondo lui, di una forza persuasiva ancora maggiore, perché connesso soltanto ali 'idea di perfezione senza alcun riferimento al mio stato di essere imperfetto. È l'antico argomento antologico, già da noi esposto nella sezione n parlando di Anselmo d'Aosta. Qui, però, esso assume un nuovo rilievo. Per Anselmo l 'idea di dio era prevalentemente un concetto di ordine logico, e la difficoltà della sua argomentazione consisteva nella pretesa di passar dali' ordine logico ali' ordine antologico; per Cartesio, invece, l'idea di dio è - come tutte le idee vere - una effettiva realtà, una certezza immediata che non possiamo far a meno di pensare. « Non è in mia facoltà pensare dio senza esistenza, come lo è immaginare un cavallo con o senza ali. » In altre parole: io mi trovo obbligato a pensare dio fornito di esistenza; questo pensiero è in me una realtà effettiva, innegabile. Non può essere altro fuorché l'esistenza stessa di dio ciò che mi determina a pensarlo proprio così. L'analisi ora riferita, ponendo fuori di ogni possibile discussione l'esistenza di dio, ci rivela - secondo Cartesio - che egli è una sostanza nel più pieno e completo significato della parola. Dio infatti, non solo esiste, ma esiste proprio per virtù interna, non potendosi concepire la sua perfezione senza la sua esistenza. Così inteso, dio diventa il piedistallo fermissimo di tutta la filosofia cartesiana. Diventa, in particolare, la garanzia metafisica del criterio stesso di verità, esposto nel paragrafo m. Ed invero : se dio esiste come essere perfetto, e quindi verace, non può permettere che noi ci inganniamo; non può, cioè, permettere che noi abbiamo idee chiare e distinte cui non corrisponda nulla di reale. Basta dunque prendere in esame le idee chiare e distinte esistenti nella nostra mente: esse non potranno non rivelarci una vera ed effettiva realtà. Senonché, obietteranno Arnauld e Gassendi,l non si cela qui un palese circolo vizioso? Il criterio dell'evidenza è stato, infatti, assunto come punto di partenza per giungere al riconoscimento dell'essere pensante e poi per salire da questo all'essere divino: con che diritto si potrà, ora, sostenere che l'esistenza dell'essere divino fornisce una garanzia al criterio di partenza? La risposta di Cartesio può venire riassunta così: l 'evidenza della verità, nell 'attimo in cui essa è intuita, costituisce certamente la base per l'esclusione di ogni x Per una più ampia esposizione dell'obiezione di Gassendi si veda il capitolo m.
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dubbio; ma la scienza non si esaurisce in conoscenze immediatamente intuite, richiedendo pure l'appello al discorso logico, che implica- come si è accennato nel paragrafo rv - il ricordo di verità già intuite con evidenza. Contro il discorso logico, e in particolare quello matematico, si possono elevare, proprio perché essi implicano l'appello alla memoria, dubbi tutt'altro che privi di efficacia: ebbene, tutti questi dubbi saranno dissolti dall'appello all'esistenza di dio. « Così ad esempio, » scrive Cartesio, « quando esamino la natura del triangolo, io, un po' versato negli studi di geometria, conosco con evidenza che la somma dei suoi tre angoli è eguale a due retti, e mi è impossibile dubitarne finché concentro la mia mente in questa dimostrazione. Ma appena io distolgo da essa la mia attenzione, anche se continuo a ricordare d'averla chiaramente intesa, può tuttavia facilmente accadere che io venga a dubitare della sua verità ... Ma, dopo aver riconosciuto che c'è un Dio poiché ho in pari tempo riconosciuto anche che tutte le cose dipendono da lui e che egli non è mendace, e ho, in conseguenza di ciò, giudicato che non può non essere vero tutto ciò che penso con chiarezza e distinzione; anche se non penso più alle ragioni per cui l'ho giudicato vero, purché mi ricordi d'averlo inteso chiaramente e distintamente, non vi è obiezione che possa ancora farmelo porre in dubbio. E così ne ho una scienza vera e certa.» A noi, che ci troviamo a vivere in un tipo di cultura tanto diversa da quella di Cartesio, la risposta testé accennata può apparire tutt'altro che persuasiva. Essenziale è però comprendere che, per Cartesio, l'appello a dio costituiva la premessa indispensabile di tutto il sapere filosofico-scientifico. Ed infatti, soltanto l'esistenza di dio come essere assolutamente perfetto può- secondo lui- fornirci la garanzia reale e definitiva dell 'indiscutibile validità delle nostre più complesse argomentazioni razionali. A questo punto si rende indispensabile un'ultima precisazione; proprio perché dio è, secondo Cartesio, il garante supremo delle verità evidenti (che potremmo anche chiamare «eterne» in quanto esprimono l'essenza immutabile delle cose) egli ne è pure il creatore: creatore libero, cioè non vincolato da esse, così come è il creatore libero del mondo, che - volendolo - avrebbe anche potuto non creare. Ma appunto perché tali verità non dipendono da altri che da dio, la sua veracità (inscindibilmente connessa alla sua perfezione) può garantirci nel modo più certo che egli le ha effettivamente create così come noi le intuiamo con limpida evidenza. Forti di questa assoluta garanzia noi possiamo dunque avviarci con fiducia per la difficile via della ricerca scientifica, sicuri che non cadremo in errore se applicheremo con scrupolo i dettami della nostra ragione.
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VI
· DALL'ESSERE DI DIO ALL'ESSERE DEL MONDO
Prima di esporre il passaggio da dio al mondo, sarà bene chiarire più distesamente il concetto già accennato di sostanza. Per Cartesio dicesi sostanza « una realtà che esiste in modo tale da non aver bisogno di nessun'altra realtà per esistere ». In senso assoluto, il termine di sostanza non conviene che a dio; in un senso relativo, è applicabile anche alle realtà create, allorché esse non abbiano bisogno, per esistere, di null'altro fuorché del concorso divino. In questo secondo senso, il termine di sostanza è contrapposto a quello di attributo: gli attributi, infatti, non esistono di per sé ma solo in quanto attributi di una certa sostanza. Come tali, essi rivelano la sostanza di cui sono attributi, ma non possono venire identificati con essa. Secondo quanto si è spiegato nel paragrafo precedente, dio non può - a giudizio di Cartesio - venire concepito in altro modo fuorché come sostanza: egli è la sostanza perfetta e increata. Ma anche l'io, come abbiamo visto, è sostanza. Fu la scoperta del cogito a provarcelo; essa ci provò pure - secondo Cartesio - che questa sostanza ha un attributo fondamentale: il pensiero. La sua imperfezione dimostrò, poi, che è una sostanza finita. Essa non può non dipendere dalla sostanza perfetta, cioè da dio. Si tratta ora di spiegare come Cartesio giunga a concludere che, oltre alle anime (intese come sostanze pensanti), esiste pure un secondo ordine di sostanze finite e create: quello dei corpi, provvisti di un nuovo attributo fondamentale, l'estensione. Innanzi tutto Cartesio ammette che il nostro intelletto trae motivo, dalla testimonianza dei sensi, a formarsi un'idea chiara e distinta dell'estensione. Tale idea è la base di una scienza provvista di perfetta evidenza, la geometria; questa ci fornisce, insieme con l'idea dell'estensione (cioè dello spazio), anche l'idea del movimento come spostamento da un punto all'altro dello spazio. Orbene, un rigoroso confronto tra l'idea dell'io pensante e quella del corpo esteso ci mostra indiscutibilmente - secondo Cartesio - che si tratta di due idee « interamente e realmente distinte ». Si ha cioè, da un lato, l'idea chiara e distinta dell'io pensante e non esteso, dall'altro, l'idea chiara e distinta del corpo esteso e non pensante. Qualunque dubbio in proposito è privo di senso (salvo, ovviamente, il dubbio iperbolico, che però è stato eliminato una volta per sempre dall'esistenza di dio). Che dovremo concluderne? Potremo ammettere che l 'idea del corpo esteso provenga dall'io pensante? No certamente - risponde Cartesio - perché io «in quanto sono soltanto cosa pensante» non posso produrre l'idea di una cosa tanto diversa dal pensiero. Ma vi è di più: vi è il fatto, pur esso indiscutibile, che io ho « una grandissima inclinazione a credere » che tale idea provenga proprio 228
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dalle cose materiali. Se, pertanto, le cose materiali non esistessero nella realtà, «non vedo come non potrei accusare d'inganno» la divinità. Già sappiamo però, dalle argomentazioni del paragrafo v, che dio, essendo per sua natura verace, non ci inganna. Dunque non ci resta che una sola conclusione possibile: ammettere l'esistenza effettiva delle cose materiali. Qui, come alla fine del paragrafo v, non è il caso di discutere il valore che noi moderni possiamo attribuire a questa dimostrazione; importante è sottolineare che essa si fonda su due cardini fondamentali: l 'esistenza in noi dell'idea di una realtà senza analogia con il pensiero, e l'esistenza di dio come essere assolutamente perfetto e quindi assolutamente verace. Da tali due cardini scaturisce non solo l'esistenza del mondo dei corpi, ma l'irriducibile diversità tra la sostanza corporale e la sostanza spirituale. In altri termini: l'esistenza dei corpi estesi risulta, nella concezione filosofica di Cartesio, inscindibilmente collegata al più rigoroso dualismo. Stabilita con l'argomentazione ora esposta l'esistenza dei corpi, non è difficile comprendere perché Cartesio attribuisca loro soltanto le proprietà dell'estensione e del movimento, affermando invece che le qualità sensibili che da Locke saranno chiamate secondarie (colore, sapore, odore, ecc.) costituiscono semplici modificazioni della nostra coscienza. Il motivo è palese: dell'idea chiara e distinta della sostanza corporale possono far parte soltanto le proprietà che noi siamo in grado di concepire con chiarezza e distinzione. Ma le proprietà della geometria speculativa possono venire chiaramente e distintamente concepite, mentre non lo possono le proprietà oscure e confuse suggeriteci dalle qualità sensibili come il colore, il sapore, ecc.; le prime dunque, e non le seconde, appartengono effettivamente alla realtà dei corpi. L'attribuzione ai corpi di tutto il contenuto delle nostre percezioni sensibili sarebbe in netto contrasto con il criterio dell'evidenza. L'attribuzione ora accennata è, per Cartesio, un tipico esempio di errore. Esso trae origine dalla nostra volontà di affermare che i corpi posseggono le qualità sensibili come colore, sapore, ecc., senza che nessuna forza esterna ci costringa a farlo. È un errore che non risiede nelle idee, ma nei giudizi che formuliamo su di esse. Secondo la filosofia di Cartesio il giudizio non è un atto dell'intelletto, ma della volontà. In questa perciò, non in quello, va cercata la fonte dell'errore: e cioè esso risulta di ordine pratico, non teoretico. In altri termini: la causa dell'errore va cercata nel fatto che la nostra volontà è più estesa del nostro intelletto. Quando la volontà giudica su argomenti c:he oltrepassano la sfera della conoscenza chiara e distinta, i suoi giudizi sono sbagliati ed essa è responsabile di questi errori.
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VII
· CONSEGUENZE DEL DUALISMO CARTESIANO
Le conseguenze del dualismo tra sostanza pensante e sostanza estesa si riflettono su tutti i maggiori problemi della filosofia tradizionale. Ci limiteremo a segnalarne alcune fra le più importanti. Secondo la tradizione aristotelico-scolastica, il concetto di anima era intimamente legato a quello di vita, e, in corrispondenza ai vari tipi di vita, si avevano vari tipi di anima (vegetativa, sensitiva, razionale). Per Cartesio, invece, l'anima che è puro pensiero non ha nulla a che vedere con la vita. È vero che essa si separa dal corpo umano allorché questo muore; ciò non significa tuttavia che tale dipartita sia la causa della morte del corpo (questa causa va unicamente cercata all'interno dell'organismo corporeo); ne è piuttosto una conseguenza, perché, con la morte, il corpo cessa di poter servire all'anima e diviene quindi, in certo senso, ad essa inutile. Occorre pertanto tenere ben distinti fra loro lo studio dell'anima, caratterizzata essenzialmente dall'intelletto e dalla volontà, e quello del corpo, caratterizzato essenzialmente dall'estensione; e ciò soprattutto in relazione al fatto che non percepiamo in modo chiaro e distinto le nozioni di anima e di corpo. A vendo identificato lo psichico con l'inesteso, Cartesio può comunque concepire l'anima come connessa, non più a tutto il corpo, bensì a un solo organo di esso (precisamente alla ghiandola pineale). Egli insiste varie volte sull'originarietà della nozione di questa connessione, in base alla quale siamo in grado di sentire che l'anima agisce sul corpo e viceversa, ma non di comprendere alla luce dell'intelletto tale reciproca azione. In realtà la comprensione non corretta della distinzione fra anima e corpo costituisce, secondo Cartesio, un autentico pregiudizio radicato in noi fin dall'infanzia, che si prolunga gravemente in alcuni settori del pensiero scientifico, come ad esempio nella filosofia scolastica tradizionale. Per fare vera scienza è necessario liberarsi da tale pregiudizio, in base a una comprensione esatta di ciò che è proprio dell'anima e di ciò che è proprio del corpo. Così, mentre nelle antiche concezioni della natura, largamente accolte ancora dai filosofi rinascimentali, si era soliti ricorrere alle anime dei corpi (degli astri, per esempio) onde spiegare le connessioni causali fra fenomeno e fenomeno, ogni appello del genere è bandito dalla concezione di Cartesio. La causalità è pensata come rapporto che connette corpo a corpo, senza il benché minimo intervento di forze occulte. Non solo non si sente più il bisogno di concepire il mondo quale animale fornito di propria vita, ma - come verrà chiarito meglio nel paragrafo IX - si spiega la stessa vita mediante le leggi meccanico-matematiche della sostanza estesa. Proprio perché strutturata in netta antitesi alle dottrine magico-occultistiche fiorite nel rinascimento, che tanti dubbi avevano osato sollevare contro la verità cristiana, la nuova scienza assume - nel pensiero del nostro autore - un'importante funzione per la difesa dell'autentica ortodossia.
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Nemmeno gli animali sfuggono, secondo Cartesio, alla concezione rigorosamente meccanicistica. Se avessero un'anima, egli scrive, la rivelerebbero usando un « vero linguaggio », poiché « la parola è l 'unico segno e la sola prova sicura del pensiero nascosto e rinchiuso nel corpo ». Mancando questa prova, bisogna concluderne che essi sono dei puri e semplici automi. Con la separazione assoluta del mondo dei corpi da quello delle anime, l'indipendenza delle scienze della natura è metafisicamente garantita. Esse possono ormai sviluppare liberamente le proprie indagini, senza temere che i risultati raggiunti abbiano a interferire comunque nelle questioni tradizionali concernenti l'anima e dio. D'altra parte risulta anche definitivamente sconfitta la tesi dei libertini e degli atei, mirante a fare dell'uomo qualcosa di molto simile all'animale; la comprovata diversità tra uomini, dotati di anima, e bruti, assolutamente privi di essa, toglie a tale tesi qualsiasi fondamento. VIII
·
GEOMETRIA
Una delle prime applicazioni essenzialmente scientifiche del metodo spiegato nel paragrafo m è fornita dalla geometria analitica. Già accennammo in tale paragrafo che - proprio partendo dal metodo in questione - Cartesio eleva alcune serie critiche alla matematica greca. Queste possono così riassumersi: le indagini geometriche erano svolte dagli antichi con procedimenti diversi, facenti uso di artifici variabili da un caso all'altro, non di rado oscuri ed ambigui. Se siamo certamente in grado di seguirne passo passo le argomentazioni controllandone l 'indubbia coerenza, non riusciamo però a renderei conto del motivo per cui in un caso si facesse ricorso a un tipo di dimostrazione, in un altro caso ad un altro. Restiamo quindi disarmati di fronte a un qualsiasi problema nuovo, dovendo procedere per tentativi, senza alcuna guida sicura. Per eliminare questi inconvenienti, Cartesio introduce l 'uso sistematico degli assi coordinati (ancora oggi solitamente denominati« assi cartesiani») che permettono di :rappresentare i punti con coppie o terne di numeri e le relazioni geometriche fra punti con relazioni algebriche. Così i problemi geometrici possono venire tradotti in problemi algebrici e risolti con le regole in certo senso automatiche dell'algebra. Questa traduzione presenta due notevoli vantaggi: per un lato, di rendere pressoché uniforme la trattazione di tutte le questioni geometriche; per l'altro, di far scomparire d'un tratto le differenze inessenziali tra figura e figura permettendo così di raggiungere risultati di amplissima generalità. La geometria diviene, in tal modo, una scienza essenzialmente analitica nella quale ogni problema ben formulato diventa, se di grado non superiore al quarto, automaticamente risolubile. Cartesio è tanto sicuro dell'efficacia del proprio metodo, da scrivere che non si sofferma a « spiegare minutamente » tutte le questioni,
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Cartesio
solo per lasciare ai posteri la soddisfazione di « apprenderle da se stessi ». « Ed io spero che i nostri nipoti mi saranno grati, non solo delle cose che io ho spiegato, ma anche di quelle che ho volontariamente omesso, allo scopo di lasciar loro il piacere di inventarle. » Torneremo, nel capitolo VIII, su questa concezione della geometria analitica, per confrontarla con la diversa interpretazione data di essa da Pierre Fermat, che la inventò contemporaneamente a Cartesio. Fra i risultati più importanti ottenuti da Cartesio con i procedimenti testé accennati, merita una particolare menzione la determinazione generale della normale a una qualsiasi curva algebrica piana in un suo punto qualunque e la conseguente determinazione della tangente. Questa determinazione risolveva uno dei problemi geometrici più discussi nel Seicento; essa si prestava inoltre a molte applicazioni, nel cui studio Cartesio diede ripetute prove di una perfetta padronanza delle regole algebriche (contribuendo anzi a migliorarle in parecchi punti di notevole interesse). Egli ebbe pure il merito di comprendere che il procedimento seguito nella determinazione della normale a una curva piana poteva venire esteso a una curva gobba; commise tuttavia l'errore di non avvedersi che una curva gobba ammette, in un punto generico, non una ma infinite normali. IX
· FISICA E BIOLOGIA: IL MECCANICISMO CARTESIANO
Il fondamento ultimo della fisica e della biologia di Cartesio è costituito dalla tesi filosofica generale, illustrata nei paragrafi precedenti, affermante che il mondo della natura - assolutamente distinto da quello dello spirito - è costituito unicamente di materia (sostanza estesa), onde tutti i fenomeni naturali dovranno risultare spiegabili facendo riferimento alla materia e ai suoi movimenti. La via seguita dal nostro autore per giungere ad una spiegazione effettiva dei singoli processi fisici e organici, consiste nell'ideare ben precisi modelli teorici, costituiti di elementi puramente geometrici e meccanici, capaci di riprodurre con esattezza, nel loro funzionamento, quello che l'esperienza ci insegna essere il funzionamento dei fenomeni del mondo reale. Tre caratteri vanno subito rilevati in tale impostazione dei compiti della fisica e della biologia: 1) essa implica una vera e propria collaborazione tra ra.gione e fantasia (quest'ultima interviene infatti nella combinazione di figure e movimenti ideata dal modello, quella invece nella deduzione rigorosa delle conseguenze ricavabili da tale combinazione); 2) il risultato cui ci si propone di giungere è una ricostruzione ipotetica della natura (Cartesio afferma ripetutamente che il mondo e l 'uomo dedotti dai suoi modelli, pur senza essere reali, funzionano come il mondo e l'uomo effettivi, il che ci autorizza a presumere che dio li abbia creati proprio in questo modo o in modo analogo); 3) la ricerca scientifica non viene concepita quale semplice osservazione dei fenomeni naturali, ma quale attività costruttrice (analoga a quella del costruttore di macchine, seppure tenuta su
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di un piano puramente ideale), nel presupposto che il costruire possegga un'intrinseca evidenza non posseduta dal mero contemplare. La concezione testé delineata della natura (e, di conseguenza, delle scienze che hanno per oggetto lo studio dei fenomeni naturali) rientra in un grande indirizzo filosofico-scientifico, del quale dovremo parlare a lungo nel seguito della presente opera: l'indirizzo meccanicistico. Già abbiamo fatto cenno ad esso nella sezione nr, esponendo il pensiero di Galileo; nella presente sezione verrà ampiamente e specificamente ripreso nel capitolo vm, dedicato appunto a cogliere i caratteri generali del meccanicismo. Ma anche nelle sezioni successive saremo costretti a ritornare varie volte su tale indirizzo, perché i suoi sviluppi e le sue crisi segneranno i punti nodali della storia del pensiero scientifico moderno. Per quanto riguarda in particolare il meccanicismo di Cartesio, basti per ora sottolineare che esso costituiva- per così dire -l'altra faccia del suo spiritualismo, onde uno dei più autorevoli critici del meccanicismo vissuto nella seconda metà dell'Ottocento, Ernst Mach, sosterrà che, per sconfiggere lo spiritualismo, occorre proprio liberarsi dalla concezione meccanicistica della natura basata sulla presunta totale estraneità di spirito e materia. È una tesi che si presta, ovviamente, a parecchie obiezioni, ma che serve assai bene a porre in luce l'enorme importanza dell'argomento. Volendo ora scendere dalle considerazioni di ordine generale, a quelle più propriamente scientifiche (nel significato specifico di questo termine), cominceremo a ricordare che la fisica cartesiana si basava essenzialmente su due principi: 1) inesistenza del vuoto; z) costanza della quantità di moto. La negazione dell'esistenza del vuoto è una diretta conseguenza della concezione cartesiana dell'estensione come attributo della sostanza corporea. Da essa discende, infatti, che l'estensione, essendo un attributo e non una sostanza, non può esistere di per sé senza appoggiarsi a qualche corpo. Cartesio ne deduce l'esistenza di una materia primaria, entro la quale i corpi si muoverebbero come pietre nell'acqua. Essi agirebbero, poi, uno sull'altro, solo in quanto entrano in contatto tra loro. L'inesistenza del vuoto è il principale argomento adottato da Cartesio contro i fisici atomisti. Nella fisica cartesiana tutti i fenomeni si spiegano - coerentemente al programma poco sopra accennato - per mezzo del movimento. Questo sarebbe caratterizzato dalla « quantità di moto », ossia dal prodotto della massa del corpo in movimento per la sua velocità. Cartesio ammette il principio di inerzia, sia come conservazione della velocità iniziale, sia come conservazione della direzione rettilinea del moto (o ve non intervengano cause perturbatrici). I corpi però possono urtarsi, e cioè entrare in contatto uno con l'altro, modificando ciascuno il proprio stato di moto; ,tale modificazione consisterà nel fatto che uno dei due cede all'altro, in tutto o in parte, la quantità di moto di cui era antecedentemente provvisto. Esiste tuttavia
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qualcosa che permane immutato in questa variazione: è la somma delle quantità di moto dei due corpi che si sono urtati, cioè la quantità di moto risultante del loro sistema. Partendo da questo risultato - che secondo il punto di vista odierno della meccanica è esatto, quando e solo quando venga applicato a un sistema di masse unicamente soggette alla forza che esercitano una sull'altra il nostro autore giunge, con un'ardita generalizzazione, ad affermare che in tutte le innumerevoli trasformazioni dell'universo la sua quantità di moto complessiva resta costante. Egli ritiene anzi di poter inquadrare questo principio nella concezione cristiana del mondo quale creatura di dio: questi infatti, nell'atto di creare il mondo materiale, gli avrebbe impresso una quantità di moto destinata a rimanere immutata nel suo valore globale pur potendosi variamente distribuire fra i singoli corpi. Di particolare importanza è il fatto che Cartesio concepisce l'anzidetta permanenza della quantità di moto come la legge fondamentale che regola il passaggio dalla causa all'effetto. Ed invero, tenendo presente che la quantità di moto è una grandezza prettamente matematica, egli può concludere che tutto il processo di causazione è esso pure esclusivamente matematico. Per questa via riesce a concepire la nozione di causa in termini puramente matematico-meccanici, spogliandola di ogni oscura implicanza mistico-magica. Oggi sappiamo che l'uno e l'altro dei due principi testé accennati (inesistenza del vuoto e costanza della quantità di moto dell'universo) sono inesatti; è certo però che, nel Seicento, essi esercitarono un'influenza decisamente positiva per il progresso non solo della fisica ma anche della biologia e della fisiologia. Partendo da tali principi, Cartesio formulò la sua famosa teoria dei vortici. Come una pagliuzza che galleggi sull'acqua è attirata da un vortice formatosi nella corrente, così una pietra è attirata verso la Terra da un vortice. Analogamente i pianeti (inclusa la Terra) roteano, con i vortici che li circondano, in un vortice più grande attorno al Sole. Newton dimostrerà matematicamente che la teoria dei vortici non regge. Essa rappresentò tuttavia una tappa fondamentale nella storia del pensiero scientifico: un'ipotesi ardita, che tentava di unificare in una sola macchina tutti i processi dell'universo. Come tale, esercitò un grande fascino su tutti gli spiriti scientifici dell'epoca, finché non fu sostituita dalla ben più solida teoria newtoniana della gravitazione universale. Tra le ricerche particolari di Cartesio, ricordiamo la scoperta delle leggi della rifrazione della luce. Con queste e con le leggi della riflessione egli riuscì, poi, a dare una spiegazione scientifica esatta del fenomeno dell'arcobaleno, eliminando la vecchia teoria dei vapori. Quanto alla biologia, per Cartesio essa fa interamente parte della fisica: in questa concezione si inquadra appunto la teoria degli animali-macchina, già accennata nel paragrafo vu.
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Il settore della biologia più particolarmente studiato da Cartesio fu la fisiologia. Anche se egli non riuscì a portarvi alcun risultato nuovo di speciale importanza (fu, ad esempio, preceduto da Harvey nella tesi della circolazione del sangue), è certo però che diede un contributo decisivo a mutarne il quadro sistematico. Il suo meccanicismo segna, in questo senso, il vero inizio della fisiologia moderna: esso si oppone in modo risoluto, non solo alla fisiologia galenica sostanzialmente accettata dai grandi anatomisti del Cinquecento, ma ad ogni forma di finalismo (di impronta aristotelica) ancora presente in molti scienziati del Seicento, per esempio nello stesso Harvey. Il principio generale su cui il nostro autore fonda la sua fisiologia è quello della fermentazione (attinto dall'indirizzo iatro-chimico del quale parlammo nella sezione m), principio cui egli attribuisce un significato schiettamente scientifico, svuotandolo di ogni sottinteso extrafisico. Per ciò che riguarda il corpo umano, già sappiamo che Cartesio lo interpreta come una macchina, né più né meno che i corpi degli animali. Come tale, esso funziona in base a principi puramente meccanici, che regolano - connettendoli uno all'altro - i moti (volontari e involontari) dei diversi organi. L'anima può agire su questi solo mediatamente, in base ai loro legami con la ghiandola pineale ove ha luogo il contatto tra essa e il corpo. È quindi possibile eseguire un completo studio fisiologico del nostro organismo, prescindendo da ogni considerazione sull'anima. X
· LA MORALE DI CARTESIO
Non abbiamo parlato finora della morale di Cartesio. Egli non dedicò all'etica una trattazione sistematica, pur riconoscendo che essa costituisce uno dei rami fondamentali della filosofia. Ne parlò, sì, nella parte terza del Discorso sul metodo, ma soltanto come « morale provvisoria ». · « Ultimo e supremo grado della saggezza », la morale presuppone le altre scienze e in particolare la metafisica; non è dunque possibile pretendere di costruirla, finché si sta lavorando per l'elaborazione rigorosa delle altre scienze. Di qui la necessità di adottare per l'intanto, in via provvisoria, alcune regole di vita fornite, se non di una certezza assoluta, almeno di una certa efficacia « per vivere quanto più felicemente possibile ». Le regole della « morale provvisoria » di Cartesio sono tre: I) obbedire alle leggi e alle usanze del proprio paese « conservando costantemente la religione in cui Dio mi ha fatto la grazia di essere educato sin dall'infanzia, e regolandomi, in ogni altra cosa, secondo le opinioni più moderate e più lontane da ogni eccesso»; z) essere «quanto più fermo e risoluto» nelle proprie azioni, e seguire le opinioni adottate « con non minore costanza che se fossero state certissime »; 3) sforzarsi sempre di cangiare i propri desideri «più che l'ordine del mondo»,
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e abituarsi a credere «che non v'è nulla che sia interamente in nostro potere tranne i nostri pensieri ». Alla fine di esse, egli ne aggiunse una quarta che esprime la propria vocazione personale: di continuare a « impiegare tutta la vita a coltivare la mia ragione e a progredire quanto più possibile nella conoscenza della verità», seguendo il metodo dell'evidenza posto alla base della sua filosofia. Se non dedicò alcuna opera sistematica alla morale, Cartesio tuttavia - come già ricordammo nel paragrafo n - ritornò varie volte su di essa: nel Trattato sulle passioni e in molte lettere. 1 La teoria svolta in queste riflessioni rinvia esplicitamente alle tre regole, riferite nel Discorso sul metodo, e dimostra che esse persero, col tempo, gran parte della loro provvisorietà. Ciò spiegherebbe, tra l'altro, per qual motivo Cartesio non ritenne necessario dedicare un'opera specifica alla morale definitiva. Sarebbe tuttavia ingiusto non prendere atto che, nelle riflessioni ora accennate, se vi è un riferimento alle regole della morale provvisoria, vi è pure qualcosa di profondamente nuovo. È qualcosa che rivela l'influenza dei filosofi stoici, in ispecie di Seneca, e che corregge in parte il conformismo delle regole provvisorie. Si tratta di un'affermazione, via via più accentuata, della funzione-guida spettante alla ragione. Essa finisce per condurre Cartesio a identificare la virtù con l'accettazione della ragione, cioè con il proposito di «eseguire tutto ciò che la sua ragione gli consiglierà, senza che le sue passioni o i suoi appetiti lo distolgano ». Proprio per attuare tale proposito, Cartesio cercherà di studiare con la massima cura le passioni umane, che secondo lui dipendono dal fisico; e le studierà non già per liberarsene, il che sarebbe impossibile, ma per frenarle e farne quindi un retto uso. L'accettazione della guida della ragione e il conseguente retto uso delle passioni costituiscono i cardini della « saggezza », in cui va cercato uno dei fini principali della filosofia cartesiana. XI
· SIGNIFICATO E LIMITI DEL RAZIONALISMO CARTESIANO
Abbiamo detto or ora che uno degli scopi della filosofia di Cartesio fu, senza dubbio, la conquista della saggezza. Questo pone in luce l'interesse che egli ebbe per il fattore della volontà. Tale importanza venne già da noi sottolineata allorché, per spiegare l'origine dell'errore, ricordammo che, secondo Cartesio, l'errore risiede nel giudizio e il giudizio è proprio opera della volontà, non dell 'intelletto. I Notiamo ancora una volta che il termine « passione » non ha, per Cartesio, il significato ordinariamente attribuitogli dal linguaggio odierno. Come egli stesso spiega in una famosa lettera alla principessa Elisabetta del Palatinato, de h-
bono chiamarsi passioni tutti i pensieri « eccitati nell'anima senza il concorso della sua volontà ... dalle sole impressioni che sono nel cervello », sicché, in conclusione, « ciò che non è azione è passione».
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Per comprendere appieno il peso attribuito al fattore della volontà nella filosofia di Cartesio, occorre ancora ricordare il suo interesse per le applicazioni pratiche del sapere. È un interesse che indubbiamente lo avvicina a Galileo e a Bacone, e gli fa difendere, con energia non minore dell'inglese, l'ideale di una scienza utile alla vita e capac;:e di assicurare all'uomo il dominio sulla natura. La parte sesta del Discorso sul metodo contiene un'appassionata difesa di questa concezione baconiana del sapere e una precisa esposizione del dovere, spettante a ogni scienziato, di collaborare « ciascuno secondo la propria inclinazione e il proprio potere » al progresso della scienza e della tecnica « affinché, cominciando gli ultimi dove i primi hanno terminato, e riunendo così le vite e le opere di molti, procediamo tutti insieme molto più lontano di quanto potrebbe fare ciascuno in particolare». Occorre tenere presente l 'interesse, ora menzionato, di Cartesio per la volontà e per le realizzazioni pratiche, se non si vuol correre il rischio di interpretare falsamente il suo razionalismo. Se è vero, infatti, che tutta la costruzione filosofica di Cartesio si appoggia sul criterio dell'evidenza razionale, non è meno vero, però, che il fine, cui è rivolta tale costruzione filosofica, non consiste nella pura e semplice acquisizione di un'immagine chiara e distinta dell'universo, ma nell'elevazione della ragione a norma di vita morale e nella trasformazione delle verità teoretiche in strumenti pratici di azione sul mondo. Esaminato il problema da questo punto di vista, pare dunque doveroso concludere che il razionalismo di Cartesio rappresenta soltanto un momento della sua filosofia, fondamentale sì alla costruzione del sapere, ma subordinato a un superiore volontarismo. In altri termini, se è vero che nella storia del pensiero filosofico-scientifico Cartesio esercitò soprattutto la funzione di energico assertore dei diritti della ragione (ragione che non può venire sottoposta ad alcuna limitazione nella ricerca di una chiarezza assoluta e integrale delle idee), vero è però che egli inserì questa ricerca di chiarezza in una concezione concreta dell'operare umano che è, insieme, attività e razionalità. Trasformare la filosofia di Cartesio in un intellettualismo astratto significa, dunque, non comprenderne la reale complessità. Non si tratta di negare il carattere razionalistico di tale filosofia, o di sottovalutare l'importanza storica e teoretica di questo carattere, ma di riconoscere che il razionalismo cartesiano non può venire inteso se non si tiene presente che il suo fine supremo (il fine cui tende lo stesso criterio dell'evidenza) è quello di umanizzare la scienza, formando di essa qualcosa che non sta al di sopra dell'uomo ma si immedesima talmente in lui, da costituire tutt'uno con la sua attività teoretica e pratica. Senza dubbio, in quest'opera di umanizzazione della scienza intervengono molti temi dogmatici di carattere schiettamente metafisica (tale, per esempio, il tentativo di ricorrere all'esistenza di dio per dedurne la realtà del mondo, in2.37
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vece di affidarsi direttamente all'esperienza concreta che l'uomo ha di questa realtà); bisogna però tenere presente, per giustificarlo, che Cartesio ricorre a questa deduzione della realtà del mondo, perché vuol dimostrare che il mondo reale non è quello dell'antica metafisica, intessuto di forze che sfuggivano alla conoscenza umana, ma è un colossale meccanismo interamente afferrabile dalla nostra ragione e proprio perciò dominabile e plasmabile da una tecnologia non di tipo magico ma scientifico. La filosofia e la scienza posteriori a Cartesio si libereranno a poco a poco dei suoi dogmi metafisici, ma continueranno a far tesoro della sua concezione dell'uomo, come essere capace di afferrare, con la ragione, l'intima struttura di se stesso e del mondo, e di rivolgere questa conoscenza alla costruzione del regnum hominis.
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CAPITOLO TERZO
Gassendi e Hobbes
I
· CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
Nel presente capitolo intendiamo esporre le concezioni filosofiche di due fra i più significativi pensatori al cui esame il padre Mersenne sottopose le Meditazioni metaftsiche di Cartesio. Le obiezioni che essi sollevarono, pur nella loro diversità, hanno alcuni caratteri comuni: esse denotano la presenza - nel primo Seicento - di esigenze molto serie che non si trovavano in alcun modo espresse nell'opera testé citata e che anzi spingevano verso indirizzi di pensiero in certo senso antitetici a quello cartesiano. Sia Gassendi che Hobbes sono estremamente attenti, non meno che Cartesio, ai grandi progressi delle scienze matematiche e naturali, anche se non riescono a portare ad alcun ramo di esse contributi paragonabili a quelli del loro grande antagonista. Collaborano però in misura pari alla sua all'affermarsi della concezione meccanicistica del mondo fisico, pur inquadrandola in filosofie di indirizzo nettamente diverso. Ciò che essi respingono nel modo più deciso è invece la presunzione di dover ricorrere ad una metafisica spiritualistico-religiosa come appunto quella di Cartesio, per dimostrare la validità del sapere scientifico; secondo Gassendi come secondo Hobbes il problema della validità di tale sapere è un problema del tutto autonomo: il dogma religioso potrà trovare un accordo con la scienza, ma non ne costituirà in alcun modo il fondamento. L'antitesi fra i nostri due autori e Cartesio assume un rilievo particolare nel campo della gnoseologia, poiché Gassendi e Hobbes, pur rendendosi conto dei pericoli insiti nello scetticismo, non intendono affatto combatterlo alla stessa maniera di Cartesio. Innanzi tutto si rifiutano di respingerlo nella sua totalità, sembrando loro che gli argomenti degli scettici siano sostanzialmente validi nel limite in cui colpiscono la metafisica (o per l~ meno la metafisica nella sua interpretazione tradizionale): l'unico vero pericolo si avrebbe quando tali argomenti venissero estesi al sapere scientifico. In secondo luogo si rifiutano di ammettere che lo scetticismo possa venire sconfitto con l'appello cartesiano all'evidenza, criterio che appare ai loro occhi di incerta applicabilità e fondamentalmente dogmatico.
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Gassendi e Hobbes
Ciò che soprattutto respingono è la pretesa cartesiana di « salvare » la validità dell'esperienza attraverso una lunga e contorta catena di argomentazioni, che parte dal dubbio metodico per fare successivamente appello all'evidenza del cogito, all'esistenza di dio e alla sua veracità. Pur dissentendo fra loro nella valutazione generale dei processi conoscitivi, Gassendi e Hobbes sono d'accordo nell'attribuire all'esperienza uno stattts completamente diverso da quello attribuitole da Cartesio. Sono cioè concordi nel vedere in essa un primttm conoscitivo, una attività originaria, che può fornire un materiale (forse discutibile) alla ragione, ma che non può in alcun modo venire « fondato » con argomentazioni razionali. Sarà eventualmente possibile porre in dubbio, con gli scettici, l'effettiva capacità dell'esperienza di farci raggiungere il reale; ma non sarà mai lecito pretendere, con Cartesio, di fornire una garanzia assoluta all'esperienza facendo appello all'evidenza razionale o ad altre argomentazioni aprioristiche. Ciò non comporta - sia detto ben chiaramente - alcuna svalutazione della ragione. Al contrario, tanto Gassendi quanto Hobbes (particolarmente questo ultimo) le attribuiscono una funzione determinante nell'elaborazione della conoscenza scientifica, che in ultima istanza è l 'unica forma di conoscenza che essi vogliono ad ogni costo salvare dagli attacchi dello scetticismo. Ma ciò che, dal loro punto di vista, va coraggiosamente rimesso in discussione - al di fuori degli schemi cartesiani - è il problema dei rapporti fra ragione ed esperienza, è il problema di delimitare i compiti dell'una rispetto all'altra, di precisare il loro peso specifico nella costruzione e fondazione del sapere scientifico. Prima di accingerci, nei prossimi paragrafi, ad esporre le linee generalissime delle differenti soluzioni avanzate - per i problemi testé riferiti - dai due autori qui presi in esame, occorre dedicare un breve cenno ad una questione pregiudiziale. Noi ci troveremo in questo e nei successivi capitoli di fronte a indiririzzi spesso profondamente divergenti (come appunto quelli di Cartesio e dei suoi oppositori), tutti seriamente impegnati nei dibattiti intorno al problema della conoscenza, e in particolare della conoscenza scientifica. Orbene, quale effettiva incidenza dovremo loro riconoscere sul processo costitutivo della grande scienza del Seicento? Come è possibile ammettere che tutti abbiano esercitato un'azione realmente positiva su tale processo, quando sono ben noti i profondi contrasti filosofici che li contrapponevano l 'uno all'altro? In qual modo hanno potuto tutti contribuire all'elaborazione di quella che suol chiamarsi la «concezione moderna » dell'uomo e della natura, quando le concezioni da essi concretamente ideate e appassionatamente difese divergevano proprio su temi essenziali? La cosa può venire spiegata tenendo conto delle reali difficoltà insite nei, problemi gnoseologici e metafisici emersi nel Seicento, e del « vuoto » che la cultura dell'epoca trovava innanzi a sé, in seguito alla manifesta incapacità rivelata dalle filosofie tradizionali di offrire una base adeguata alla nuova scienza. In altri termini: i problemi generali, suggeriti dalla riflessione critica sul processo
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Gassendi e Hobbes
conoscitivo scientifico, si rivelavano così ardui e complessi, che ogni serio sforzo di metterne a nudo un qualche aspetto, sia pure limitato, non poteva non riuscire della massima utilità. La chiarificazione di tale processo nella sua globalità sarà proprio il risultato degli sforzi ora accennati nonché delle polemiche cui essi diedero luogo; e sarà una chiarificazione preziosissima, indispensabile allo sviluppo delle ricerche generali come di quelle particolari. Questo riconoscimento non deve d'altronde farci dimenticare che l'indagine filosofica intorno al significato e ai fondamenti del conoscere fu soltanto uno, ma non l 'unico fattore del processo costitutivo della scienza. Accanto ad esso intervennero pure altri fattori, legati allo sviluppo più specificamente tecnico delle singole discipline (in primo luogo all'arricchirsi degli algoritmi matematici, in secondo luogo alla costruzione di sempre nuovi strumenti d'osservazione). Le numerose innovazioni particolari, realizzate nei campi più diversi, costituiscono lo sfondo che va tenuto costantemente presente nello studio di quell'importantissimo fenomeno culturale che fu la scienza del Seicento. Esso ci fornisce il punto sicuro di riferimento che accomuna tutti i pensatori « moderni » dell'epoca: è il glorioso patrimonio, in via di rapido sviluppo, cui gli uni come gli altri guardano con orgoglio, nel preciso intento di chiarirlo, approfondirlo, potenziarlo. Né si limitano a considerarlo come l'oggetto centrale dei propri dibattiti intorno alla conoscenza; fanno anche qualcosa di più: cercano di ricavarne preziosi suggerimenti proprio per lo sviluppo di tali dibattiti. Fra questi suggerimenti, il più caratteristico e in certo senso il più singolare sarà senza dubbio quello costituito dai cosiddetti esperimenti mentali. Sappiamo dal capitolo xi della sezione rrr, che già Galileo Galilei fece varie volte ricorso a questo metodo, ideando parecchi esperimenti, non propriamente eseguibili (a causa· delle difficoltà tecniche ivi implicite) ma senza dubbio utilissimi alla chiarificazione di ben precisi fenomeni fisici. Ebbene, i filosofi del Seicento si appropriano con entusiasmo di tale procedura galileiana facendone le più ardite applicazioni. Nelle loro mani gli esperimenti mentali diventano sottili accorgimenti della fantasia per evidenziare recondite difficoltà del sapere comune, smascherando le ipotesi surrettizie su cui questo si regge. Ne troveremo un singolare esempio nella famosa annihilatio mundi di Hobbes, cui faremo cenno nel paragrafo VI; altri esempi non meno istruttivi ci verranno forniti dagli stessi empiristi del Seicento e del Settecento. È un metodo che pressoché tutti i pensatori dell'epoca ritengono incontestabilmente scientifico, malgrado il suo manifesto carattere speculativo; e che adoperano disinvoltamente nella dimostrazione delle tesi più diverse. Il largo uso, che essi ne fanno, è una riprova di quanto siano a volte artificiose le vie della ragione, di quanto sia tortuoso il progresso del pensiero.
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Il
· VITA E OPERE DI GASSENDI
Pierre Gassendi nacque a Digne nel I 592, fu canonico in tale città, professore di filosofia ad Aix, e più tardi di astronomia e matematica al Collège de France. Oltre alla filosofia, all'astronomia e alla matematica, coltivò con passione la fisica e le scienze naturali; studiò, fra l'altro, la composizione microscopica delle cristallizzazioni saline, a ciò sollecitato dal già citato abate Peiresc (del quale il nostro autore scriverà la vita a testimonianza dell'amicizia provata per lui). Contrariamente a quelli che saranno i suoi impegni nell'età matura, Gitssendi aveva avuto, da giovane, una formazione prevalentemente umanistica. Era stato infatti avviato agli interessi filosofici dalla lettura di Seneca, Plutarco, Cicerone, Lucrezio, Erasmo, Montaigne, Charron, subendo specialmente l'influenza di quest'ultimo. Fu proprio questa influenza ad orientarlo verso un impianto empiristico-scettico dei problemi, impianto che lo guiderà in tutte le successive indagini, anche quando egli le orienterà verso nuovi temi, di carattere prevalentemente scientifico. Dai più vivi filoni del pensiero rinascimentale Gassendi aveva in particolare ricavato una forte diffidenza nei confronti della metafisica aristotelico-scolastica, contro la quale scrisse la sua prima grande opera filosofica Exercitationes paradoxicae adversus Aristoteleos (I624), frutto dei corsi di lezioni tenute ad Aix. Ma fu ben lungi dall'accettare tutta intera l'eredità del rinascimento; ne respinse ad esempio, con decisa intransigenza, le diffuse correnti magico-occultiste, polemizzando vivacemente contro il medico inglese Robert Fludd (I 574-I637) che di tali correnti era, all'inizio del Seicento, uno dei più autorevoli prosecutori. Fu invece sinceramente aperto verso la migliore scienza rinascimentale e grande ammiratore di Galileo, dal quale ricevette perfino in dono un telescopio; se non ebbe il coraggio di assumere pubblicamente la difesa del copernicanesimo, è certo però che non nutrì dubbi circa la sua validità scientifica. Legato da vivissima amicizia con il padre Mersenne, ebbe da lui le prime notizie intorno al sistema che Cartesio. veniva gradatamente elaborando; non rimase però affatto convinto dalla nuova metafisica cartesiana che giudicò non meno dogmatica di quella aristotelica, cosicché, allorquando Mersenne sottopose al suo giudizio le Meditazioni metaftsiche, egli formulò contro di esse alcune sottili obiezioni di chiara ispirazione empiristica. Ne nacque, fra il nostro aqtore e Cartesio, un'aspra e lunga polemica, che ebbe termine solo nel I647 per la paziente opera di riconciliazione interposta da amici comuni. Fu Gassendi ad assistere, con devoto affetto, il padre Mersenne nella lunga malattia che lo portò alla morte (I 648). Merita di venire ricordato - a segnalare la diversità dei due caratteri - che Cartesio, non solo non fece nulla di simile, ma anzi partì da Parigi per fare ritorno in Olanda proprio cinque giorni prima della morte di Mersenne. Egli era soprattutto preoccupato di evitare i disordini
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Gassendi e Hobbes
della Fronda, che avrebbero potuto turbare la serenità da lui ritenuta indispensabile alla ricerca scientifica. Intanto l'originario orientamento empiristico-scettico aveva spinto Gassendi ad uno studio sempre più approfondito del pensiero di Epicuro. Già nel I626 egli raccoglieva del materiale per scrivere un'apologia di Epicuro, che nelle Exercitationes era stato ricordato come un seguace di Pirrone. Pare che in un primo tempo egli si sia interessato soprattutto dell'etica di Epicuro, ma dal I 6 3o cominciò ad affrontare direttamente anche la sua fisica, facendone propria la concezione atomistica, in ciò confortato dalle numerose ricerche scientifiche che veniva personalmente svolgendo. Come scrive molto bene Tullio Gregory: « Gassendi, " restaurando " una filosofia obsoleta, vuole mostrare come questa possa accordarsi alle esigenze del nuovo spirito scientifico, offrendo un'ipotesi di lavoro capace di spiegare le recenti esperienze. » Su Epicuro, Gassendi pubblicò, in vita, due interessanti lavori: Commmtarius de vita et n;oribus et placitis Epicuri (1649), che è un attento studio sulla personalità del filosofo greco, e Animadversiones in decù;;um librum Diogenis Laertii (I649), ove si hanno numerosi riferimenti a problemi di fisica antichi e moderni. Il canonico di Digne morì nel I 6 55. Tre anni dopo la sua morte uscì il Syntagma philosophicum, che vuoi essere un'esposizione sistematica della concezione epicurea, rielaborata in modo da accordarsi con la rivelazione cristiana. Per quanto si tratti di un'opera assai importante, nella quale Gassendi raccolse molti risultati conseguiti in lunghi e pazienti studi, i critici più moderni ritengono che essa non possa costituire l 'unica fonte per la ricostruzione del suo pensiero. Si limita infatti a fornircene l 'ultima fase, ma non ci informa sul laborioso e interessante processo che condusse il nostro autore dall'iniziale posizione empiristico-scettica all'appassionata difesa della filosofia etica e naturale di Epicuro. III
· LA POLEMICA DI GASSENDI CONTRO IL DOGMATISMO
La polemica contro la metafisica, accusata di dogmatismo, trovava numerosi antecedenti nel pensiero rinascimentale: non solo in Montaigne e in Charron, ma più ancora nei libertini che - come si è visto nella sezione m - esercitarono, negli anni a cavallo fra il Cinque e il Seicento, una profonda influenza anche su autori appartenenti ad altri indirizzi, sì da rappresentare un autentico pericolo per la cultura europea. In tale situazione, l 'unico modo serio per combattere le conclusioni più pericolose dello scetticismo era di riconoscere con piena sincerità la fondatezza delle sue critiche contro la metafisica, evitando però che queste assumessero un'ampiezza tale: da coinvolgere tutti i campi dell'attività umana. La forza degli argomenti usati da Gassendi contro tutti gli indirizzi che egli ritiene dogmatici (da quello aristotelico a quello magico-occultista, allo stesso indirizzo cartesiano) è veramente notevole. Nei riguardi degli aristotelici riprende,
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Gassendi e Hobbes
ad esempio, le più sottili obiezioni sollevate dai nominalisti (in particolare da Occam) contro la presunta realtà degli universali e contro la pretesa di dover fare riferimento ad essi per dare un fondamento sicuro alle nostre conoscenze. Egli si rende ben conto delle critiche cui travasi esposto per il fatto di ricollegarsi alla tradizione nominalistica, ma le affronta con assoluta calma e serenità: « Aderisci dunque, chiederai, alla dissennata opinione dei nominalisti, i quali non riconoscono altra universalità se non quella dei concetti e dei nomi? È proprio così; vi aderisco, ma credo con ciò di aderire ad una opinione del tutto assennata. » E come i più conseguenti nominalisti Gassendi oppone al scire per causas aristotelico un sapere interamente collegato all'esperienza, e cioè un sapere che parta da essa e rimanga in essa: «Se dici poi che l'intelletto può, a partire dalle cose che cadono entro l'esperienza o appaiono ai sensi, ricavarne altre molto più interne, risponderò che ragionando non può giungere al di là di cose che risultino ancora esperibili o di cui risulti possibile esibire una qualche apparenza. » Proprio questo legame ininterrotto con l'esperienza gli fa respingere con pari energia il canone metodologico propugnato dall'indirizzo magico-occultista, consistente nel cercare la spiegazione dei fenomeni in essenze occulte e artificialmente inventate, come pure la pretesa di alcuni teologi che volevano scorgere ovunque, nella natura, l 'intervento miracoloso della volontà divina. Ciò che Gassendi oppone ad essi, e cioè il ricorso sistematico ad una spiegazione meccanica del mondo fisico, non vuole tanto essere una tesi di filosofia generale, quanto un metodo efficace per eliminare definitivamente dai nostri discorsi l'appello al fantastico e all'irrazionale, e di conseguenza spingerei a ricerche concrete e feconde di risultati. Anche le critiche a Cartesio provengono dall'impostazione nominalisticoempirista testé accennata. Per non diffonderci troppo a lungo, ci soffermeremo su due sole di esse: la critica al criterio dell'evidenza e la critica alla dualità delle sostanze. Contro l'evidenza cartesiana Gassendi osserva anzitutto che, per poter basare su di essa un sapere assolutamente certo, occorrerebbe possedere un più profondo criterio onde riconoscere se un'idea è davvero chiara e distinta o se invece non ci appare soltanto tale, mentre in realtà la sua chiarezza risulta puramente illusoria. Poiché Cartesio non ci fornisce questo criterio, ne possiamo concludere che, quando egli assume una verità come incontrovertibile perché chiara e distinta, non fa altro se non compiere un'assunzione meramente dogmatica. In particolare ciò vale per l'idea di dio (inteso come essere perfettissimo, creatore del mondo), che è senza dubbio vera perché ci viene garantita dalla rivelazione, ma non è affatto così evidente come Cartesio pretende, tanto che molti popoli non la posseggono affatto e molti filosofi la concepiscono in maniera del tutto diversa da quella cristiana. Contro l'esistenza di due sostanze fra loro totalmente diverse, quali la res 244
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extensa e la res cogitans, Gassendi obietta che essa si basa su una mera peti/io principii: se invero è già poco giustificata l'affermazione di una sostanza pensante in base alla semplice constatazione che io penso, ancor meno giustificabile è l'affermazione dell'esistenza dei corpi come autentica sostanza e non solo come fenomeni. Che dire poi della presunzione che si tratti di due sostanze separate, mentre l'esperienza ci mostra che il nostro pensiero è in continua comunicazione con il nostro corpo il quale gli trasmette le percezioni ricevute dagli organi sensoriali? Più evidente parrebbe, al contrario, supporre un'unica sostanza quae extensa sit et cogitans sit; ma nemmeno questa conclusione è accettata dal nostro autore, sembrandogli più prudente ammettere con franchezza l'inconoscibilità di ciò che sottostà all'esperienza, e limitare le nostre affermazioni a quanto ci viene fornito direttamente dall'esperienza. È, come ognun vede, una conclusione che può a buon diritto venire considerata scettica; ma si tratta di uno scetticismo che Gassendi intende far valere nei soli confronti del sapere metafisica, non nei confronti del sapere scientifico, direttamente emanante- secondo lui -dai dati dell'esperienza. In altre parole, è uno scetticismo che preserva l'uomo da qualunque sogno metafisica proprio per poterlo indirizzare a un altro sapere, meno presuntuoso ma più utile. Come scrive Tullio Gregory in un'opera che è stata qui largamente utilizzata (Scetticismo ed empirismo, studio su Gassendi, 1961): «Quello che distingue la posizione di Gassendi da quella di Charron, e lo porta ad approfondire e sviluppare il significato del suo pirronismo, è la pratica quotidiana della ricerca empirica unita ali 'intuizione che essa può adeguatamente soddisfare il " naturale desiderio " di conoscere dell'uomo: l'atteggiamento scettico si fa in Gassendi premessa indispensabile per la nuova scienza e vi trova il suo logico sviluppo. » IV · L'ATOMISMO DI GASSENDI
Abbiamo ricordato nel paragrafo n che verso il 1630 Gassendi comincio ad avvicinarsi, in forma sempre più accentuata, alla filosofia di Epicuro, sia pure correggendone alcune tesi nel senso che fra poco chiariremo. Che ciò abbia rappresentato una svolta nel suo pensiero è innegabile; ma non fu una svolta completa e radicale, perché Gassendi non intese accogliere l'atomismo di Epicuro come una verità assoluta, di carattere metafisica, bensì come una teoria molto probabile, particolarmente utile a spiegare con rigore scientifico i fenomeni fisici (rigore che mancava totalmente sia alla vecchia fisica aristotelica sia all'astrologia e alla magia). Il ragionamento cui egli faceva appello per difendere la concezione atomistica era incentrato sulla difficoltà di concepire i mutamenti fisici se non si postula l'esistenza in essi di qualcosa che permane: tali sarebbero appunto gli atomi, che nessuna forza fisica risulterebbe in grado di suddividere o di alterare.
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Gassendi e Hobbes
Le scoperte operate in quegli anni dalla microscopia gli parvero inoltre costituire una seria (seppur non diretta) convalida dell'atomismo. Molto interessante, a questo proposito, è la netta distinzione che Gassendi fece tra gli atomi (minima naturae), i punti matematici (minima mensurae) e i più piccoli oggetti percepibili col microscopio (minima sensus): questi ultimi non si identificherebbero secondo lui con gli atomi potendone contenere parecchi, e gli atomi a loro volta non si identificherebbero con i punti matematici poiché il più piccolo atomo può contenere infiniti punti. Coerentemente a questa posizione, Gassendi sostenne che la matematica non va confusa con la fisica, in quanto quest'ultima opera nel regno della materia, mentre quella opera nel regno dell'astrazione. Proprio perché tratta di astrazioni, la matematica deve procedere con particolare cautela, e - secondo Gassendi - questa cautela non sarebbe sufficientemente rispettata dai procedimenti infinitesimali: di qui l 'accesa polemica che egli condusse contro i matematici innova tori, dei quali parleremo a lungo nel capitolo vm; di qui l 'accusa di « vanità » che egli mosse contro tutte le « pretese » dimostrazioni basate sull'equivoco calcolo degli indivisibili. La posizione di Gassendi nei confronti della matematica (scienza, ricordiamolo, da lui stesso insegnata) è molto significativa, perché pone in luce diffidenze e perplessità che erano comuni - nella sua epoca - a parecchi cultori, pur modernamente orientati, di discipline fisico-naturali. È un atteggiamento che va tenuto presente onde valutare le effettive resistenze incontrate dai più fedeli continuatori della metodologia galileiana. Certo è che Gassendi esprime ripetutamente nei riguardi della matematica numerosi dubbi, che vanno anche al di là delle comprensibili riserve or ora accennate contro i procedimenti infinitesimali: sono dubbi che investono la struttura stessa dei ragionamenti matematici, pericolosamente basati - secondo Gassendi - su ipotesi troppo astratte e generali. Egli giunge a sostenere che esiste una vera e propria affinità fra la scienza dei matematici e quella degli aristotelici, onde riversa in parte sulla prima le accuse di dogmatismo valide per la seconda. La concezione atomistica viene infine utilizzata da Gassendi non solo per spiegare - come poco sopra ricordammo - i mutamenti che si producono nel mondo dei fenomeni fisici, ma anche per spiegare gli stessi procedimenti conoscitivi. Ogni conoscenza deriverebbe, secondo lui, dai sensi e sarebbe prodotta da atomi che si staccano dagli oggetti conosciuti per giungere all'organo del senso. Ma gli atomi non sono soltanto causa delle nostre sensazioni; risultano invece essi stessi forniti di sensibilità, onde si conclude che l'anima vegetativa e sensitiva, presente negli esseri viventi, sarebbe per l'appunto costituita da atomi. L'atomismo di Gassendi ottenne fra i suoi contemporanei un enorme successo, perfino superiore a quello della stessa filosofia cartesiana. Ciò fu dovuto, da un lato, al sostanziale accordo fra la concezione atomistica e le più ammirate
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conquiste scientifiche dell'epoca (in particolare quella della microscopia), dall'altro alle rettifiche che egli cercò di apportarvi onde renderlo conciliabile con il dogma cristiano. Queste possono riassumersi in tre punti fondamentali: I) l'affermazione che gli atomi e il loro movimento vennero creati da dio; 2) l'affermazione che l'atomismo non esclude affatto la presenza nella natura di una finalità impressavi dal creatore; 3) l'affermazione che negli uomini si avrebbe, accanto all'anima vegetativa e sensitiva esistente in tutti gli esseri viventi, anche un'altra anima incorporea e libera (anima rationalis o intellectus). Dio e questa anima razionale farebbero eccezione al principio - valido, secondo Gassendi, per il resto del mondo - che tutte le cause sono materiali. V
VITA E OPERE DI HOBBES
Thomas Hobbes nacque a Malmesbury, in Inghilterra, nel I 588. Viaggiò a lungo in molti paesi europei, e già abbiamo detto che nel I636 poté visitare Galileo, malgrado l'isolamento in cui il grande scienziato era costretto a vivere; trascorse, in particolare, vari anni in Francia, ove godette - egli pure - la preziosa amicizia del padre Mersenne. Hobbes partecipò attivamente alle lotte politiche che travagliavano la società inglese del suo tempo. Tenace sostenitore del re, dovette fuggire dall'Inghilterra nel I64o, rifugiandosi in Francia; ritornerà in patria nel I65 1. Malgrado alcuni aspri urti sorti fra lui e i realisti di stretta osservanza, che lo accusavano di aver difeso l'assolutismo in forma tale da poter venire interpretato a favore di Cromwell anziché a favore del solo potere regio, fu, dopo la restaurazione della monarchia, vivamente protetto dal re Carlo n, di cui vari anni prima era stato insegnante di matematica. Morì ultranovantenne nel I 679. Va subito fatto presente che l'accostamento, operato nel presente capitolo, delle due figure di Hobbes e di Gassendi non intende affatto significare che i due appartengano in qualche modo a un medesimo indirizzo filosofico (vedremo anzi, fin dalle prossime righe, la profonda distanza che li separa nella valutazione della matematica); esso ci è parso nondimeno opportuno per porre in luce quanto fossero estesi gli ambienti in cui la metafisica cartesiana incontrava le più tenaci resistenze, e quanto fossero articolate e varie le critiche sollevate contro la metodologia scientifico-filosofica posta alla base di tale metafisica. Hobbes iniziò lo studio di Euclide all'età di quarant'anni circa, cioè verso il I63o, e ne rimase affascinato a tal punto, che da quel momento in poi considerò il tipo di argomentazione matematica come l'esempio più perfetto di razionalità, da prendersi a modello di ogni discorso rigorosamente scientifico. Questo atteggiamento nei confronti della matematica lo avvicina, per un certo aspetto, al suo avversario Cartesio, apponendolo a Bacone da cui peraltro era stato profondamente influenzato. 247
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Strettamente connessa all'atteggiamento testé accennato è l'enorme importanza che Hobbes attribuisce alla meccanica, in cui giunge a scorgere la base autentica di tutta la fisica. Di qui la sua profonda ammirazione per Galileo, che aveva saputo imprimere una forma rigorosamente matematica alla teoria del moto. Di qui l'ambizioso programma di sottoporre ad analoga trattazione anche le discipline del mondo umano. Questo programma costituisce il presupposto della grande opera tripartita, concepita da Hobbes nel I637. Essa avrebbe dovuto esporre le leggi della materia, dell'uomo e dello stato con metodo quanto più possibile deduttivo, sulla base appunto delle leggi generali del moto. L'ordine logico delle tre parti subì tuttavia un notevole mutamento in fase di esecuzione. La prima ad uscire fu infatti la terza parte, De cive (I 642); in seguito venne pubblicata la prima parte, De corpore (I65 5), ove è contenuta- nella sezione iniziale - un'ampia esposizione delle concezioni logiche di Hobbes; infine, nel I 6 58, uscirà la seconda, De homine. Nel frattempo aveva pubblicato un'altra opera di argomento politico, il Leviathan (I 6 5I), che subito gli procurò la massima celebrità. Questo titolo, che richiama il nome di un mostro gigantesco ricordato nel libro di Giobbe, doveva simbolizzare - nella concezione dell'autore - il potere assoluto dello stato. Anche l'esposizione del Leviathan è svolta con metodo rigorosamente naturalistico. In tempi recenti si sono scoperti e studiati interessanti inediti di Hobbes; fra essi ci limitiamo a ricordare varie redazioni del De corpore, la prima delle quali risale probabilmente al I637. Va infine ricordato che già nel I64o egli aveva elaborato un'opera generale, in cui erano delineate, a grandi tratti, le sue concezioni dell'uomo e del cittadino. Essa circolò manoscritta fra i contemporanei e venne poi pubblicata nel I 888 col titolo originario di Elements of law (Elementi di diritto). Lo studio di questi scritti si è rivelato di grande utilità per la ricostruzione della genesi della filosofia naturale del nostro autore e per la determinazione delle varie fasi da essa attraversate. Dato tuttavia il carattere della presente opera, non riteniamo necessario analizzare qui le trasformazioni subite dal pensiero di Hobbes e discuterne l'effettiva portata. Ci limiteremo pertanto ad esporre in forma molto schematica le linee generalissime della sua filosofia, cercando soprattutto di porre in luce il significato che essa ebbe nella storia del pensiero filosofico-scientifico del Seicento. D'altra parte ci riserviamo di ritornare su Hobbes nei capitoli v e IX onde prenderne in rapido esame il pensiero politico e, rispettivamente, logico. La decisione di spezzare in tre parti separate la trattazione della filosofia hobbesiana (decisione presa in base ai motivi chiariti alla fine del capitolo 1) può forse comportare qualche difficoltà al lettore, in quanto può influire negativamente sulla chiarezza della nostra esposizione. Riteniamo tuttavia che queste eventuali
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Gassendi e Hobbes
difficoltà vengano in effetti compensate da un duplice punto di vista: da una parte infatti il lettore viene agevolato dall'accostamento e raffronto diretto fra le più autorevoli critiche sollevate contro Cartesio in sede di filosofia generale; dall'altra gli viene offerta la possibilità - attraverso visioni d 'assieme, sia pure schematiche ed essenziali - di meglio comprendere le analogie e le differenze esistenti fra i più caratteristici indirizzi del pensiero politico e logico del Seicento. Come già si disse nel capitolo I, l'avere scelto di trattare in sedi separate i vari aspetti del pensiero hobbesiano non deve comunque farci perdere di vista la sostanziale unità della filosofia del nostro autore, per cui concezione della logica, concezione del mondo naturale e concezione del mondo politico si connettono e si integrano a vicenda. A conferma di tale sostanziale unità basti richiamare fin d'ora l'attenzione sull'intransigente convenzionalismo che sta alla base dell'interpretazione hobbesiana sia della logica, sia delle leggi scientifiche sia di quelle etico-politiche. VI
· LA GNOSEOLOGIA HOBBESIANA
Uno degli argomenti più singolari della gnoseologia di Hobbes, argomento che compare fin dalle prime redazioni del De corpore, è l'ipotesi dell'annihilatio mundi: se d'un tratto l'intero mondo reale venisse annientato in modo però che si salvasse un uomo, questi, operando sulle sole immagini conservategli dalla memoria, ed elaborandole concettualmente come si sogliano elaborare le immagini forniteci dal mondo presente, sarebbe in grado di ragionare nell'identico modo con cui noi ragioniamo nella vita quotidiana. La concezione generale del conoscere, risultante da questa argomentazione, è ovviamente fenomenistica; da essa si deduce che i nostri ragionamenti, ivi inclusi quelli scientifici, essendo in ultima istanza elaborazioni di immagini (nel preciso senso che fra poco verrà spiegato), non hanno nulla a che vedere con la realtà esterna, ma sono unicamente collegati alle idee. Una volta preso atto che la nostra mente ha a che fare soltanto con le idee, Hobbes può sostenere che l'elemento basilare di ogni sapere è costituito dai nomi, in quanto questi risultano direttamente collegati alle idee. Ne segue che la verità riguarda proprio i nomi, non la realtà. Tenuto poi conto che le idee possono combinarsi fra loro, onde più idee semplici possono formarne una composta, se ne ricava che anche i nomi potranno sommarsi o sottrarsi gli uni con gli altri, sempre che ciò risulti attuabile fra le idee corrispondenti. Somma e sottrazione sono pertanto le due operazioni fondamentali per un lato della mente e per l'altro del ragionamento. Quanto alla proposizione, essa non sarà altro che l 'unione di due nomi: « La proposizione poi è un'espressione costituita di due nomi, mediante la quale chi parla notifica che il primo e l 'ultimo nome sono nomi della medesima cosa. » 249
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Risulterà quindi vera, se il nome che vien dopo e quello che vien prima sono effettivamente nomi dello stesso oggetto (oggetto inteso, come è ovvio, quale insieme di idee e non già quale realtà esterna); in caso contrario, risulterà falsa. False saranno per esempio le proposizioni che intendono copulare nomi di corpi con nomi di accidenti, o con nomi di fantasmi o con nomi di nomi. Il carattere nominalistico di questa logica è ormai evidente, come è evidente la sua stretta connessione con l'anzidetto fenomenismo gnoseologico. Si può anche parlare tuttavia di concettualismo, in quanto i nomi valgono, per Hobbes, non in se stessi ma per il loro riferimento alle idee cui sono direttamente collegati. Se per Hobbes ogni proposizione universalmente vera non può essere altro che una definizione, o parte di una definizione, è chiaro che tale carattere dovrà pure essere presente, secondo lui, nei primi principi di qualunque sapere autenticamente scientifico: « Sunt propositiones primae nihil aliud praeter definitiones vel definitionis partes. » Partendo dai principi si dovranno poi dedurre con estremo rigore tutte le conseguenze ricavabili dalle combinazioni dei concetti ivi definiti; così la scienza verrà a trovare il proprio unico fondamento nelle definizioni iniziali, senza doversi preoccupare di apporti diretti o indiretti che le possano provenire dall'esperienza. Il modello di ogni sapere scientifico va cercato nella geometria, e anche la fisica - se ha da essere autentica scienza - deve procedere con metodo geometrico. La convinzione di poter raggiungere una scienza assolutamente rigorosa (nel senso testé accennato), non solo per ciò che riguarda il mondo fisico ma anche per ciò che riguarda il mondo umano, è la base su cui si regge il grandioso programma perseguito dal nostro autore con la stesura delle tre opere fondamentali - De corpore, De homine, De cive - cui abbiamo fatto cenno nel paragrafo precedente. VII
· LA «FILOSOFIA PRIMA»
Se la logica ci fornisce il metodo generale con cui ha da essere costituita ogni autentica scienza, la « filosofia prima » ha invece il compito di formare le definizioni dei concetti più semplici che stanno alla base della conoscenza dell 'intera realtà. Questi concetti sono lo spazio, il tempo e il corpo. Mentre lo spazio è la considerazione delle cose nel loro generico essere fuori di noi, e il tempo nel loro muoversi secondo il prima e il poi, il concetto di corpo - che costituisce il fondamento dell'intera filosofia hobbesiana - denota secondo il nostro autore tutto ciò che, non dipendendo dal nostro pensiero, occupa una porzione dello spazio. Proprio in quanto non dipende dal pensiero, il corpo viene nettamente distinto quale sostanza dai suoi accidenti: l'accidente non è altro, per Hobbes, che il modo con cui si concepisce il corpo; esso potrebbe mancare senza che il corpo cessi perciò di esistere. Si tratta, come ognun vede, di definizioni cariche di profondo significato.
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Da esse si può fra l'altro ricavare: 1) che la nozione di sostanza incorporea è contraddittoria; 2) che le proprietà essenziali dei corpi sono l'estensione e il movimento 1 (onde, se vogliamo dare anche a queste due proprietà il nome di accidenti, dobbiamo però aggiungere che si tratta di accidenti permanenti, cioè accidenti che non possono non essere presenti nella sostanza). L'importanza filosofica di queste tesi è così manifesta, che non occorre fermarci ad illustrarla. Possiamo comunque sottolineare che esse costituivano i pilastri di una complessa concezione materialistico-meccanicista dell'universo, in cui Hobbes riteneva di poter coerentemente inquadrare le più avanzate scoperte scientifiche della sua epoca. Sulla base della « filosofia prima » testé accennata egli delinea infatti una « geometria » intesa come dinamica cioè come studio delle leggi matematiche del moto, e una « fisica », intesa come studio degli effetti del moto cioè come spiegazione di tutti i fenomeni - per esempio della luce - a partire appunto dalle leggi della dinamica. Non potendoci soffermare, per ovvi limiti di spazio, sulle particolari spiegazioni che il nostro autore delinea dei singoli fenomeni, basti ricordare che egli riconduce al movimento anche il fenomeno della vita nonché quello stesso della conoscenza. Afferma pertanto che le sensazioni non sarebbero altro che movimenti verificantisi entro il corpo che percepisce. Così ad esempio - dopo aver spiegato, in sede fisica, che la luce è solo un movimento prodottosi nel corpo luminoso e di lì trasmesso fino all'occhio - Hobbes sostiene che la sensazione luminosa non sarebbe altro che la continuazione di tale movimento attraverso l'organo della vista fino al cuore (« usque ad cor sive sensionis organum ultimum »). Ne segue, fra l'altro, che le famose «qualità secondarie» costituirebbero soltanto gli effetti di alcuni particolari tipi di movimento, onde anche le leggi che regolano i fenomeni osservati nell'esperienza andrebbero spiegate in base alle leggi generali del moto. Il nostro autore giunge così a sostenere che la stessa mente non è altro se non movimento verificantesi in tal une parti del corpo organico: « Mens nihil aliud erit praeterquam motus in partibus quibusdam corporis organici. >> Se, come già risulta chiaro dai pochi brani testé citati, le singole spiegazioni hobbesiane ci appaiono il più delle volte fantastiche, l'indirizzo di indagine da esse delineato risulta tuttavia della massima importanza: è un indirizzo che non si inquadra più nei vecchi schemi aristotelici né in quelli magico-occultistici, ma esige un nuovo impianto della scienza. Né meno importante è l'impostazione data da Hobbes allo studio dell'uomo, interamente basato sul tentativo di ricondurre a tipi speciali di moto i sentimenti 1 Per estensione di un corpo si deve intendere, secondo Hobbes, la porzione di spazio da esso occupata; per movimento l'abbandono, da parte
di tale corpo, di un determinato luogo e l'acquisizione senza discontinuità di un altro (« loci unius derelictio et alterius acquisitio continua »).
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più profondi dell'animo, nonché gli istinti e la stessa volontà. Particolare rilievo viene attribuito, in questo quadro, all'istinto della conservazione, che starebbe alla base dell'etica e - come vedremo - della politica. Il carattere naturalistico e razionalistico di tutta la trattazione è una conquista altamente significativa; è un carattere che ricomparirà dopo Hobbes - con varie sfumature - in parecchi indirizzi di pensiero, e che segna un'autentica svolta nella storia delle discipline umane. Ma come si accorda questa concezione materialistico-meccan!cistica del mondo e dell'uomo con l'intrinseca ipoteticità di ogni sapere, della quale abbiamo parlato nel paragrafo VI? La risposta a questo grave quesito è uno dei problemi più difficili che si presenti agli studiosi di Hobbes. Entro le sue opere vi sono infatti molti punti che ci spingono a vedere nella concezione testé delineata una semplice se pur grandiosa costruzione ipotetica atta a dimostrarci come tutto il mondo possa venire razionalmente spiegato con un rigoroso sistema materialistico, senza però alcun impegno diretto circa la verità di tale sistema. Esistono tuttavia anche altre pagine le quali parrebbero invece suggerirei un'interpretazione alquanto diversa: alcune di esse, ad esempio, sembrano attribuire una vera e propria autoevidenza al principio proclamante l'universale causalità del moto, onde non risulterebbe più lecito considerarlo come puramente convenzionale (e perciò ipotetico). Se queste ed altre incertezze di Hobbes poterono far sorgere alcune perplessità tra i suoi contemporanei, onde la filosofia naturale da lui elaborata non esercitò immediatamente un 'influenza pari alla sua filosofia della politica, ciò non scalfisce però l'importanza del sistema che troviamo esposto nel De corpore e nelle altre sue opere. Esso costituisce comunque uno dei più notevoli capolavori della filosofia del Seicento, e può venir considerato, come scrisse Hoffd.ing, «il sistema materialistico più profondo dell'età moderna». VIII
· LE DIVERGENZE TRA HOBBES E CARTESIO
Uno dei meriti principali della filosofia della natura di Hobbes fu di fornire una seria alternativa al sistema cartesiano. Va notato che i due sistemi hanno senza dubbio parecchi caratteri comuni: entrambi si oppongono nettamente alla vecchia fisica aristotelica e a quella magico-occultistica, entrambi attribuiscono il massimo valore alla razionalità matematica, e, soprattutto, entrambi vogliono fornire una seria base filosofica alla scienza più avanzata dell'epoca, orientata in senso meccanicistico. Eppure esiste fra essi un profondo incolmabile divario, che li contrappone in certo modo uno all'altro. Questa contrapposizione si estende dalla gnoseologia alla concezione della realtà.
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Per quanto riguarda il problema della conoscenza, va dato atto che tanto Cartesio quanto Hobbes prendono le mosse da un dubbio iniziale, molto serio, sulla effettiva corrispondenza delle nostre idee con la realtà, dubbio che secondo l'uno come secondo l'altro può venire risolto solo con l'appello alla ragione; subito dopo questo primo passo comune, le loro posizioni cominciano però a divergere. Mentre per Cartesio esistono idee (come ad esempio quella dell'io) che non derivano dai sensi, per Hobbes invece tutte le idee derivano dall'intuizione sensibile. Inoltre, mentre per Cartesio appellarsi alla ragione significa imboccare una via la quale non ha nulla a che fare con la sensibilità, per Hobbes invece significa elaborare il mondo dei sensi, affinandolo e precisandolo. Ma è sul modo stesso di concepire la ragione e la sua funzionalità che emergono le differenze più profonde. Per Cartesio infatti la ragione trova il proprio fondamento e la propria garanzia nell'evidenza di alcune idee chiare e distinte; per Hobbes al contrario l'appello all'evidenza fuoriesce dai compiti veri e propri della ragione. Questi compiti consistono essenzialmente nella rigorosa precisazione dei principi dei nostri ragionamenti, cioè nell'enunciazione esatta delle definizioni da cui essi partono; e poiché ogni definizione è in ultima istanza frutto di una convenzione, ne segue che il procedere della ragione è ineliminabilmente convenzionale. La garanzia assoluta, che Cartesio ritiene di avere scoperto, risulta per il filosofo inglese puramente illusoria. Se è vero, come abbiamo ricordato alla fine del paragrafo precedente, che anche Hobbes sembra talvolta ammettere una sorta di autoevidenza dei principi della fisica (mai, comunque, di quelli della metafisica), vero è però che queste ammissioni non risultano facilmente conciliabili con il resto del suo sistema e in ogni caso non ne costituiscono gli elementi più caratteristici. In altre parole: non sono esse ciò che imprime al sistema di Hobbes il suo incontestabile vigore. La vera scaturigine di questo vigore (nonché del fascino che il sistema hobbesiano esercita ancora oggi su di noi) è un'altra: è il suo intransigente convenzionalismo, è la sua fredda coerenza, è il rigore con cui tale convenzionalismo viene sviluppato fino alle sue estreme conseguenze. Se oggi noi ci sentiamo spesso più vicini a Hobbes che a Cartesio, è perché il nominalismo hobbesiano conserva a distanza di secoli una sua effettiva validità (sicché occorrono le più serie argomentazioni per riuscire a superarlo), mentre l 'intuizionismo cartesiano ci appare ormai lontanissimo dalle esigenze della cultura moderna, e comunque inconciliabile con i caratteri che la scienza è venuta assumendo nel corso dei secoli. Ancora più manifesto è il divario tra i due pensatori a proposito della concezione della realtà. Esso costituisce il punto nodale delle obiezioni sollevate da Hobbes contro le Meditazioni meta.fisiche cartesiane. Ciò che l'inglese contesta a Cartesio è in primo luogo l'esistenza di una sostanza spirituale, è la liceità di passare dal cogito al sum res cogitans. Questo salto dal cogitare inteso come fatto
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d'esperienza, all'essere come sostanza che trascende l'esperienza è - per Bobbes- un vero e proprio errore di logica. Non è il caso di sottolineare l'analogia di questa obiezione con le critiche di Gassendi a Cartesio, riferite nel paragrafo 111. Hobbes osserva inoltre che, se ci limitiamo a quanto ci è autenticamente dato dall'esperienza, non possiamo far a meno di riconoscere che il cogitare risulta sempre collegato a un soggetto corporeo; perciò l'unica esistenza di cui possiamo correttamente parlare è quella dei corpi. Solo dei corpi noi possediamo davvero un'idea, non dell'anima: questa è unicamente frutto di un'argomentazione della ragione: «Quando penso un uomo, ho in mente un'idea o un'immagine costituita di figura e di colore, di cui posso dubitare se sia o no la :raffigurazione di un uomo ... L'idea di me stesso, se si considera il corpo, mi sorge dalla visione: se si considera l'anima, non vi è assolutamente alcuna idea dell'anima, ma con la :ragione :ricaviamo che esiste qualcosa di interno al corpo umano, qualcosa che gli imprime un moto animale, e mediante cui egli sente e si muove; e questo, checché esso sia senza idea, lo chiamiamo anima. » Coerentemente alla posizione ora delineata, Hobbes respinge infine con la massima energia l'argomento antologico, e cioè la pretesa cartesiana di passare dall'essenza di dio alla sua esistenza. In quanto la si distingue da quest'ultima, l'essenza non risulta altro che la connessione di nomi mediante la copula è, perciò si :riduce ad una pura definizione verbale(« consta che l'essenza, in quanto viene distinta dall'esistenza, non è altro che connessione di nomi mediante la copula è: e pertanto l'essenza, a prescindere dall'esistenza, è una nostra invenzione»). È dunque vuoto di senso pretendere di dedurre da questo mero «nostro commento» qualcosa che dovrebbe possedere una :realtà indipendente da noi, cioè l'esistenza di dio. Quanto ora detto non significa che Hobbes negasse l'esistenza di dio; ciò che egli negava era la pretesa di darne, con la prova antologica, una dimostrazione razionale a priori e di invocare poi - come voleva Cartesio - la bontà di dio (l'impossibilità che egli intenda ingannarci) a garanzia dell'esistenza del mondo. Meno netta è la posizione del nostro autore riguardo all'altra prova «classica» dell'esistenza di dio, cioè all'argomento della causa prima; infatti nel De corpore egli sembra contrario ad ammettere la necessità di chiudere la serie delle cause con una causa incausata, mentre nel De cive sembra invece propenso a riconoscere la possibilità di risalire dal mondo a dio. Una cosa è comunque certa, che Hobbes non ammette mai la possibilità di conoscere razionalmente gli attributi divini. Quando noi affermiamo che dio è infinito, onnipotente, buono, ecc., queste nostre affermazioni hanno un solo significato: di esprimere la nostra ammirazione per lui ed escludere la possibilità di potergli applicare gli attributi che valgono per gli esseri finiti. Ciò vale in particolare per l'attributo incorporeo, che va inteso soltanto come un termine onorifico; infatti, se tutto ciò che esiste è corporeo, anche dio dovrà essere tale.
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L'impossibilità di conoscere razionalmente gli attributi divini comporta la necessità di escludere la religione dal campo delle indagini filosofiche; ogni confusione fra regole della religione, che prescrivono il culto dovuto a dio, e regole scientifiche che concernono il retto uso della ragione, è dannosa· ad entrambe. La fede religiosa non fa parte della scienza, ma della legge civile. Nelle pagine dedicate alla filosofia della politica di Hobbes (capitolo v) aggiungeremo qualche precisazione sul posto che egli assegna alla religione, o meglio alla chiesa, entro la compagine statale.
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CAPITOLO QUARTO
Malebranche e Spinoza
I ·CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
Uno dei più gravi e più importanti gruppi di problemi che il cartesianesimo, inteso proprio nel suo aspetto filosofico, trovò innanzi a sé e su cui dovette accentrare gran parte delle discussioni, concerne la determinazione della nozione di sostanza e la conseguente possibilità di concepire due sostanze separate una dall'altra (quella estesa e quella pensante). Se le due sostanze sono davvero, come sosteneva Cartesio, assolutamente estranee l 'una all'altra, come si spiega che nei processi conoscitivi la sostanza pensante riesce a cogliere alcuni messaggi provenienti dalla sostanza estesa e, viceversa, nei processi volitivi riesce ad agire su di essa? Ed inoltre: quale rapporto avranno la sostanza estesa e quella pensante con la sostanza divina, che sta alla base dell'una come dell'altra? Le più significative risposte a questi interrogativi sono senza dubbio costituite dall'occasionalismo, dal panteismo e dal monadismo, collegati rispettivamente ai nomi di Geulincx e di Malebranche il primo, di Spinoza e di Leibniz gli altri due. Rinviando al capitolo XIV l'esposizione del pensiero di Leibniz - che richiede, per essere compreso in tutta la sua vastità, di venire riferito all'intero sviluppo della filosofia e della scienza del Seicento - intendiamo qui soffermarci sulle prime due risposte, segnalando subito, però, che nell'ambito dell'occasionalismo Malebranche occupa una posizione del tutto particolare per i legami singolarmente stretti che egli ha con la tradizione filosofica platonico-agostiniana. Anche il pensiero di Spinoza - come vedremo negli ultimi paragrafi è ben lungi dal poter venire compreso alla sola luce dei suoi rapporti con quello cartesiano; ci sembra tuttavia indubitabile che l'esame di questi rapporti possa costituire un ottimo avvio per l'approfondimento della sua amplissima e originale concezione. Quanto al suo pensiero politico, è parso utile - come già si fece per Hobbes - rinviarne l'esposizione al capitolo v; è una decisione dettata dal desiderio di presentare al lettore una visione unitaria dello sviluppo della filosofia seicentesca della politica, che ne possa mettere in luce le linee direttrici fondamentali. È bene avvertire fin d'ora che nessuna delle teorie filosofiche, prese in esame
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nel presente capitolo, ebbe un'incidenza immediata sullo sviluppo della scienza; nel loro complesso, però, esse concorsero in misura notevole ad approfondire il significato del razionalismo seicentesco ed a chiarirne i presupposti metafisici, onde finirono per esercitare, sia pure indirettamente, una non trascurabile influenza sul costituirsi della concezione scientifica moderna, di cui tale razionalismo fu un fattore essenziale. II
· GEULINCX
Arnold Geulincx nacque ad Anversa nel r6z4 da genitori cattolici. Dopo aver studiato a Lovanio, che era già da tempo un autorevole centro di cultura cattolica, insegnò alcuni anni in tale università, fortemente osteggiato però dalle autorità accademiche a causa della sua adesione al cartesianesimo. Si trasferì quindi a Leida convertendosi al protestantesimo. Morì di peste nel r669. Le sue opere principali sono: una Logica (r66z), ove si rivela ancora sostanzialmente cartesiano, un'Ethica (r665) che già delinea la dottrina occasionalistica, e infine una Physica vera e una Metap~ysica vera pubblicate postume. Elaborando e approfondendo il pensiero cartesiano Geulincx si convinse che occorreva introdurvi una radicale modificazione per ciò che concerne il rapporto fra la sostanza pensante e quella estesa. Come già sappiamo dal capitolo n, lo stesso Cartesio era convinto che noi non possediamo un'idea chiara e distinta dell 'interazione fra esse: la loro reciproca alterità parrebbe anzi escludere una qualsiasi influenza diretta dell'una sull'altra. Né, certamente, l'avere localizzato nella ghiandola pineale il contatto dell'anima col corpo poteva bastare a farne qualcosa di perfettamente comprensibile. Orbene, si chiede Geulincx, è possibile ammettere che l'anima agisca sul corpo quando essa non sa come dovrebbe avvenire tale azione? Questa ammissione verrebbe ad urtarsi in modo evidente col seguente principio (che è in certo senso un diretto ampliamento del cogito cartesiano) : « Impossibile est ut is faciat qui nescit quomodo fiat. » Bisogna dunque concluderne che la presunta azione dell'anima sul corpo è una semplice illusione. Come scrive molto bene Augusto Del Noce, « la critica cartesiana della facoltà incosciente di produrre le idee viene prolungata nella negazione del potere dell'anima di causare movimenti fisici ». Come spiegare, allora, che gli atti di una sostanza si svolgono in perfetto accordo con quelli dell'altra? Come spiegare, per esempio, che se voglio muovere il braccio, il braccio si muove effettivamente? Questo accordo, prettamente estrinseco, non può venire spiegato, secondo il nostro autore, che mediante l'intervento della volontà di dio. Dio, egli spiega, è come un orologiaio che abbia costruito due orologi, diversi e indipendenti fra loro ma perfettamente sincronizzati: un osservatore esterno potrà immaginare che i movimenti dell'uno siano 257
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causa o effetto dei movimenti dell'altro; la realtà però è diversa: il sincronismo tra i due dipende esclusivamente dal modo in cui li ha costruiti l'orologiaio. La critica di Geulincx alla concezione cartesiana non si ferma qui. Eliminata l'azione dell'anima sul corpo e viceversa, egli è condotto - dalla coerenza interna delle sue argomentazioni- ad escludere, per analoghi motivi, ogni azione reciproca di un corpo sull'altro. In realtà, egli osserva, il concetto di un corpo non implica in alcun modo la possibilità di una sua azione su qualcosa che risulti ad esso esterna: dunque questa azione è inesistente. Non è un corpo che agisca sull'altro, ma è soltanto dio che agisce su entrambi. Dio, dunque, è l'unica causa di tutto. Le cause naturali (compresa l'azione umana) sono soltanto occasioni al manifestarsi della causalità divina. La conclusione potrà apparire assurda; proprio questa assurdità, però, ha esercitato un compito assai importante nella storia della filosofia. Essa, infatti, ha posto in luce l 'insostenibilità della concezione cartesiana della sostanza, e in particolare l'insostenibilità dell'identificazione dei corpi reali con i corpi geometrici provvisti soltanto di estensione (con l'esclusione di qualunque forza che possa spiegare una qualche azione reciproca). È facile comprendere come, dalla conclusione poco sopra riferita (che dio è l'unica causa di tutto), Geulincx ricavi un'etica interamente fondata su dio, avente perciò un carattere prevalentemente mistico e ascetico. È un'etica che assegna ali 'uomo, quale suo compito fondamentale, quello di obbedire alla legge che dio ha posto in noi, rifiutando invece ogni valore morale alla ricerca della felicità (punto, questo, in evidente antitesi con l'etica aristotelica). Entro tale quadro concettuale, la virtù principale diventa l'umiltà, in aperto contrasto con la concezione rinascimentale dell'uomo. III
· VITA E PERSONALITÀ DI MALEBRANCHE
Nicolas Malebranche nacque a Parigi nel I638 da famiglia borghese. Nel 66o entrò nella congregazione degli oratoriani, sostenitrice di una concezione filosofico-religiosa di impronta agostiniana (su tale congregazione verrà aggiunta qualche notizia nel capitolo VI); anch'egli resterà per tutta la vita fortemente influenzato dal platonismo di Agostino. Venutigli fra le mani alcuni scritti di Cartesio, il nostro autore rimase subito avvinto dalla limpidezza delle argomentazioni ivi svolte, e non tardò a persuadersi che la scienza e la filosofia cartesiana dovevano offrire la via più sicura per condurre l'uomo a quell'« unico necessario » che è costituito dalle verità della fede. Ne accolse pertanto con entusiasmo la regola metodologica fondamentale ( « non si deve mai dare, » ripete Malebranche sulla scia di Cartesio, «consenso completo se non alle proposizioni che appaiono così evidentemente vere, da non poter loro rifiutare tale assenso senza provare una pena interiore e i segreti rimproI
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veri della ragione»), ma non ritenne che ciò dovesse comportare di accettarne anche le tesi filosofiche generali. Al contrario, si convinse che queste tesi non potevano reggere ad un approfondito esame, condotto appunto secondo la regola metodologica testé riferita, e finì quindi per proporre una radicale modifica di esse, analoga a quella già suggerita dalle opere di Geulincx (di cui peraltro pare che non avesse conoscenza diretta). Nel 1674 pubblicò a Parigi i primi tre libri della sua opera più famosa, La recherche de la vérité (La ricerca della verità), che nel 167 5 uscirà presso lo stesso stampatore in edizione completa (sei libri).l Questa non tardò a procurargli grande ·notorietà, sicché Male branche, pur restando quasi sempre chiuso nella sua cella, poté ben presto entrare in contatto con i maggiori scienziati e filosofi dell'epoca, in particolare con Leibniz. Va osservato che Malebranche, malgrado la conclusione mistica della sua filosofia e malgrado la serrata critica condotta contro l'efficacia delle cause naturali (argomenti sui quali torneremo ampiamente nel prossimo paragrafo), si interessa vivamente di tutti i grandi problemi scientifici dibattuti dai contemporanei e dà ripetute prove di saperli padroneggiare con indiscutibile competenza. 2 La sua cultura si estende dalla matematica alla fisica, alla biologia. Alla prima fa riferimento ogni volta che deve esibire esempi di verità universali e necessarie; gli esempi citati sono esatti e dimostrano che egli possiede un'ottima conoscenza di parecchi problemi classici e moderni. In fisica si interessa soprattutto di meccanica e di ottica, ove scende spesso ad analisi circostanziate e rigorose di parecchi fenomeni particolari; difende, con qualche modifica, i grandi principi della fisica cartesiana (suddivisibilità della materia all'infinito, esistenza di una materia sottilissima - l'etere - che riempie tutto lo spazio, teoria dei vortici, ecc.) e ammette un unico principio organizzatore dell'universo: il movimento. In biologia si entusiasma per le grandi scoperte operate dall'osservazione microscopica e partecipa con passione ai dibattiti sulla generazione. A proposito di questi ultimi è degno di nota che Malebranche si schieri decisamente a favore della dottrina preformista (su cui si ritornerà nel capitolo xr) secondo la quale ogni essere vivente- animale o pianta- sarebbe stato contenuto, in dimensioni piccolissime, entro gli embrioni o i germi dei primi organismi creati da dio: «Questo tuttavia non significa,» egli precisa, «che l'embrione dell'animale, o il germe della pianta, abbia fra tutte le sue parti la stessa esatta proporzione di grandezza, solidità, figura degli animali e delle piante, ma vuol dire che tutte le parti essenziali dell'organismo degli animali e delle piante sono così sapientemente disposte nei loro germi, che devono assumere, col tempo e in conseguenza delle leggi generali del moto, la figura e la forma _ ~ Nelle edizioni successive vi aggiungerà van Eclaircissements (Chiarimenti). z Va ricordato che Malebranche scrive di es-
sere debitore « a Descartes più che a tutti gli altri assieme di quel poco di apertura che ho per le scienze».
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che vi osserviamo in seguito. » Malebranche giunge a tentar di calcolare le dimensioni che doveva possedere, nella prima ape creata da dio, l'ape vivente mentre egli scrive, e - di fronte all'enorme piccolezza di essa- spiega che la cosa non deve stupirei se teniamo presente l'infinita divisibilità della materia: « Capisco senza difficoltà, benché la mia immaginazione vi si rifiuti, che potendo si, quello che noi chiamiamo atomo, dividere all'infinito, ogni parte dell'estensione è in un senso infinitamente grande, e Dio vi può fare in piccolo tutto ciò che vediamo in grande nel mondo che ammiriamo. Sì, la piccolezza dei corpi non può mai fermare la potenza divina ... Infatti, la geometria dimostra che non c'è unità nell'estensione, e che la materia può dividersi senza fine.» La lunga citazione testé riferita è interessante non tanto per la tesi ivi sostenuta, quanto perché ci mostra come si mescolino intimamente - nel pensiero di Malebranche - le considerazioni che egli attinge dalle varie scienze, nonché dalla filosofia e dalla stessa teologia: manifesta conferma, come ognun vede, di quell'unità degli interessi conoscitivi, della quale abbiamo parlato nel capitolo I della presente sezione. Ma nel nostro autore vi è, a questo proposito, qualcosa di più che nei suoi contemporanei: la convinzione (assente, per esempio, in Cartesio) che la scienza moderna possa offrirei, con le sue verità razionalmente dimostrate, validissimi argomenti a favore della fede cristiana; per esempio la teoria preformista, poco sopra accennata, riuscirebbe fra l'altro a spiegarci il mistero del peccato originale, secondo cui tutti gli uomini avrebbero partecipato della colpa commessa dal loro antico progenitore. Vedremo, del resto, nel prossimo paragrafo, come uno dei punti essenziali della concezione filosofica di Malebranche, e cioè la sua tesi che non esistono effettive cause naturali, si collegasse proprio ad un'accurata analisi « scientifica» del fenomeno meccanico dell'urto. Già il padre Mersenne era convinto che la nuova scienza potesse avere un significato apologetico, in quanto capace di sconfiggere il pensiero magico rinascimentale; Malebranche, affermando l'esistenza di un accordo intrinseco ed essenziale tra la fede e la ragione, si presenta come iniziatore di una « scolastica » moderna che parta proprio dalla scienza per giungere alla giustificazione del dogma cristiano (non senza motivo venne da taluno definito «l'ultimo dei medievali»). Parecchi suoi contemporanei compresero però che questa tesi era del tutto insostenibile; ne nacquero così numerose polemiche, che afflissero profondamente l'animo del nostro filosofo. Egli morì nel I 7 I 5, pieno di amarezza per vedere che il suo programma scientifico-filosofico-religioso non otteneva i risultati sperati. Fra le sue molte opere ci limiteremo a ricordare, oltre quella fondamentale già citata, le seguenti: Conversations chrétiennes (Conversazioni cristiane, 1676), Traité de la nature et de la gr/ice (Trattato della natura e della grazia, r68o), Méditations chrétiennes et métapf?ysiques (Afeditazioni cristiane e metaftsiche, r683), Traité de morale (Trattato di morale, r68 3), Entretiens sur la métapi!Jsiqtte et sur la religion (Dialoghi z6o www.scribd.com/Baruhk
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sulla metafisica e sulla religione, 1688) da cui è ricavata l'ampia citazione testé riferita, e il significativo dialogo Entretien d'un philosophe chrétien et d'un philosophe chinois sur l'existence et la nature de Dieu (Dialogo di un filosofo cristiano e di un filosofo cinese sull'esistenza e la natura di dio, 1708) ove affiora la necessità di trovare un'effettiva giustificazione della cultura cristiano-occidentale di fronte ai primi seri rapporti sulla tanto diversa cultura cinese (non meno antica della nostra ed essa pure rispettabilissima). IV
· IL PENSIERO FILOSOFICO DI MALEBRANCHE
La Recherche ha inizio con un'accurata indagine sulle sorgenti dei nostri errori e sui mezzi per liberarcene. Malebranche prende anzitutto in esame gli errori dei sensi e della immaginazione (libri I e n). Per spiegarne l'origine, analizza la struttura degli organi percettivi, in particolare della vista, rivelando un'ottima conoscenza dei più avanzati risultati scientifici; lo studio del funzionamento dell'occhio gli dà, inoltre, modo di approfondire vari argomenti di ottica. Ma vi sono anche errori specificamente connessi all'intelletto; essi derivano dalla nostra inesatta comprensione dell'effettiva origine delle idee (è questo l'argomento del libro m). Dopo avere rapidamente criticato la vecchia teoria delle species (secondo cui gli oggetti materiali ci invierebbéro delle «specie» ad essi simili, muovendo dalle quali l'intelletto costruirebbe le idee), Malebranche affronta l'errore più comune, quello di ritenere che le idee vengano direttamente prodotte in noi dai corpi. La critica di questo « errore » si inquadra in una critica generale del processo di causazione come esso viene solitamente inteso. « lo credo che non si possa dubitare, » scrive il nostro autore, « che coloro, i quali assicurano che lo spirito può formarsi le idee degli oggetti, si sbagliano ... La causa del loro errore è che gli uomini non mancano mai di giudicare che una cosa è causa di un qualche effetto quando l'una e l'altro sono congiunti assieme e non si conosce la vera causa di questo effetto. È perciò che tutti concludono che quando una palla di biliardo che si muove ne incontra un'altra, la prima risulta la vera e principale causa del moto che essa comunica alla seconda; e analogamente concludono che la volontà dell'anima risulta la vera e principale causa del muoversi del braccio, ecc.; il motivo è che accade sempre che una palla si muova quando viene incontrata da un'altra che la urta, e che quasi sempre le nostre braccia si muovono quando noi lo vogliamo, e che noi non scorgiamo con i sensi quale altra cosa potrebbe essere la causa di questi movimenti. » Merita di venire sottolineata l'insistenza con cui Malebranche ritorna sull'esempio delle due palle che si urtano; essa è dovuta ai lunghi studi dedicati dal nostro autore al fenomeno meccanico dell'urto, uno dei problemi più studiati dagli scienziati dell'epoca. Egli stesso vi dedicò un trattatello dal titolo Des lois de la
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communication des mouvements (Sulle leggi della comunicazione dei moti, I 7 I 2 ).l Gli uomini « non devono giudicare che una palla in movimento sia la vera e principale causa del movimento di un'altra palla da essa incontrata sul proprio cammino, perché quella non ha nemmeno la potenza di muoversi. Essi possono soltanto giudicare che questo incontro delle due palle fornisce all'autore del movimento della materia l'occasione per eseguire il decreto della propria volontà che è la causa universale di tutte le cose ... ». Secondo Malebranche basta spingere a fondo la nostra analisi del processo di causazione, per accorgerci che non esiste altra forza motrice se non la volontà di dio: « Qualunque sforzo di spirito io faccia, non posso trovare forza, efficacia, potenza fuorché nella volontà dell'Essere infinitamente perfetto. » In altri termini: « Causa vera è una causa tale che lo spirito colga un legame necessario fra essa e l'effetto; orbene non c'è che l'Essere infinitamente perfetto ad essere tale che lo spirito percepisca un legame necessario fra esso e l'effetto: dunque non c'è che Dio, il quale sia vera causa, e abbia veramente la potenza di muovere i corpi. » Noi potremo dunque determinare con esattezza le leggi che regolano l'urto di due palle da biliardo, ma nulla ci autorizzerà a concludere che il moto dell'una sia la vera causa del moto dell'altra. Affiora qui un antico problema, che ebbe grande rilievo nella tradizione ebraico-cristiana: il problema' di distinguere la causazione dalla creazione. Malebranche non riesce a stabilire nettamente tale distinzione, e perciò ne conclude che il creatore è non solo la prima ma l 'unica vera causa del creato: le cause naturali o « seconde » vengono ridotte al rango di mere cause « occasionali ». Dio sarà dunque l 'unica vera causa anche delle nostte idee. In altre parole: noi vediamo le cose in lui; da lui ci provengono direttamente le idee delle sue opere. Anche quando ci sembra di percepire un oggetto, in realtà noi lo vediamo in dio. È un esplicito ritorno alla teoria agostiniana del contatto immediato fra l'anima e dio. Una volta stabilito che dio, nella sua infinita potenza, è la vera causa di tutti gli esseri finiti e di tutte le idee, nonché delle loro molteplici connessioni, è chiaro che dovremo fare risalire a lui anche l'ordine razionale vigente nel mondo. Sorge pertanto spontanea la seguente domanda: l'ordine razionale testé accennato costituirà una libera creazione di dio, oppure dio - nel momento in cui creò il mondo - dovette sottostare alla razionalità come a un complesso di regole cui non poteva sottrarsi? La risposta di Male branche è in certo senso antitetica a quella che potremmo a prima vista attenderci da un pensatore mistico come lui: la volontà di dio dipende da un ordine anteriore alla creazione; i principi che regolano il creato non sono prodotti liberamente da dio (come pensava I L'interesse di questo opuscolo dipende pure dalla sua parte negativa, e cioè: a) dalle critiche che Malebranche solleva contro il Traité de la percussion (Trattato della percossa) di Edme
Mariotte; b) dalle critiche cui sottopone il principio cartesiano della conservazione della quantità di moto, che in anni precedenti Malebranche aveva accolto ed ora invece respinge.
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Cartesio), ma sono verità eterne: « Se è vero che la ragione a cui tutti gli uomini partecipano è universale; se è vero che è infinita; se è vero che è immutabile e necessaria: è certo che essa non risulta affatto diversa da quella di Dio stesso, poiché non vi è che l'essere universale e infinito che racchiuda in sé una ragione universale e infinita. Tutte le creature sono degli esseri particolari: la ragione universale non è dunque creata. Tutte le creature sono finite: la ragione infinita non è dunque una creatura. Ma la ragione che noi consultiamo non è soltanto universale e infinita, essa è anche necessaria e indipendente, e noi la concepiamo in un senso più indipendente che Dio stesso. Dio infatti non può agire che secondo questa ragione; egli dipende da essa in un senso: è necessario che la consulti e la segua. Orbene Dio non consulta che se stesso: non dipende da nulla. Questa ragione dunque non è distinta da lui: essa gli è dunque coeterna e consustanziale. » Trattasi di una concessione estremamente significativa del misticismo al razionalismo. Essa si inquadra perfettamente in quanto abbiamo accennato nel paragrafo precedente, circa l'ausilio che la ragione è in grado di fornire alla fede; ma dice anche qualcosa di più: che la razionalità costituisce un primum assoluto, e che il nostro intelletto, quando riesce ad afferrarla, coglie davvero la struttura più profonda dell'essere (quella struttura che il creatore stesso non può non dare al creato). Come ognun vede, il platonismo prende qui il sopravvento su ogni forma di volontarismo: esso deve sì garantire le verità della fede, ma deve nel contempo garantire il valore delle verità razionali raggiunte dalla scienza. Esso tuttavia, come osservarono a Malebranche parecchi suoi obiettori, non è in grado di dimostrare l'effettiva realtà del creato. Se noi conosciamo le opere di dio in dio, se « non possiamo vedere altrove che nella sua saggezza l'ordine che dio stesso è obbligato a seguire», che necessità vi è che il creato possegga una propria autentica esistenza? Poiché la realtà del creato non è necessaria alla nostra conoscenza, quali motivi potremo addurre per sostenere che esso non costituisce una mera illusione? Malebranche stesso ammette che « è molto difficile dimostrare che esistono dei corpi». La dimostrazione che egli delinea in proposito è assai simile all'argomentazione cui aveva fatto ricorso, circa il medesimo problema, la filosofia di Cartesio. « È assolutamente necessario, » scrive il nostro autore, « per assicurarsi positivamente dell'esistenza dei corpi esterni, conoscere Dio che ce ne dà il sentimento e sapere che, essendo infinitamente perfetto, egli non può ingannarci. » Eppure, malgrado la validità di questo argomento, « si può dire che l'esistenza della materia non è ancora perfettamente dimostrata, intendo con rigore geometrico ». « Per essere pienamente convinti che vi sono dei corpi, è necessario che ci si dimostri non solo che vi è un Dio e che Dio non è ingannatore: ma inoltre che dio ci ha assicurati che egli ne ha effettivamente creati; ciò che non si trova provato nelle opere di Descartes. »
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Le sole maniere, osserva Malebranche, con le quali dio ci obbliga a credere sono l'evidenza e la fede. Orbene, l'evidenza razionale ci fornisce senza dubbio molti motivi capaci di rendere plausibile l'ipotesi che esistono dei corpi («noi abbiamo più ragione di credere che ve ne siano, anziché di credere che non ve ne siano affatto»); ma non è in grado di darci in proposito una sicurezza assoluta. Questa ci proviene invece dalla fede: da ciò che ci mostrano la sacra scrittura e i miracoli « noi apprendiamo che Dio ha creato un cielo e una terra, che il Verbo si è fatto carne, e altre simili verità che suppongono l'esistenza del mondo creato. Dunque è certo per la fede che esistono dei corpi, e tutte queste apparenze diventano - per effetto della fede - delle verità ». Qui il misticismo prende il sopravvento sulla ragione: questa non riesce, secondo Male branche, a dimostrare con rigore geometrico la realtà del mondo esterno (e neanche degli spiriti finiti); solo la rivelazione è capace di tanto. Se per un lato tocca alla ragione fornirci la via onde giungere alla fede, per l'altro lato è proprio la fede a fornirci la via onde sconfiggere definitivamente la tentazione idealistica. Ragione e fede si sostengono dunque a vicenda; esse danno luogo a una costruzione che è, nel contempo, razionalistica e mistica. Anche l'etica di Malebranche si inserisce coerentemente in questo quadro grandioso. Ogni nostra aspirazione non può essere, in ultima istanza, che una aspirazione verso dio, verso la realizzazione dell'ordine che egli ha voluto (e non poteva non volere): «La corruzione del cuore consiste nell'opposizione all' ordine. » Come si concili l'onnipotenza di dio con l'esistenza del male e del peccato, come questo sia qualcosa di reale oppure di non imputabile a dio, in che senso si possa parlare di una effettiva libertà dell'uomo, sono problemi che riguardano più la teologia di Malebranche che non la sua filosofia. Secondo lui, il male dipende dal considerare i beni finiti quali supremi, proprio come il più grave errore dipende dal considerare gli esseri finiti quali vere cause di ciò che esperiamo intorno a noi. L'eliminazione radicale e completa di questa confusione costituisce il presupposto di tutti i suoi scritti di argomçnto morale: il punto conclusivo cui intendono portarci è l'ascesa mistica verso il bene supremo, cioè verso dio. V
· PERSONALITÀ DI SPINOZA
E SIGNIFICATO DELLA SUA OPERA
Abbiamo visto nel paragrafo precedente che Malebranche, pur sforzandosi di mantenere la nozione tradizionale di creazione, vi introdusse alcune profonde limitazioni, sostenendo che dio, nell'atto di creare il mondo, deve consultarsi con la ragione e seguirne i dettami (a lui coeterni). Spinoza fece un ulteriore importante passo sulla via aperta da Malebranche, sopprimendo la nozione stessa di creazione e giungendo di conseguenza a una forma di panteismo, che si rias-
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sumeva nell'identificazione di dio con l'ordine razionale dell'universo. Per questo motivo egli suscitò un vero scandalo fra i metafisici della sua epoca (Malebranche lo chiamava «il miserabile Spinoza »), e viceversa otterrà - nei secoli successivi - la più viva ammirazione di pressoché tutti i filosofi che sosterranno una qualche forma di immanentismo (idealistico o materialistico); a lui si richiameranno, per esempio, i filosofi romantici, che invocheranno la sua autorità per contrapporsi a Newton, e soprattutto per respingere la concezione -dovuta a quest'ultimo- di un dio (il famoso « architetto dell'universo »)i legiferatore della natura ma ad essa trascendente. Oggi, come fra poco vedremo, i giudizi sull'opera di Spinoza sono più complessi e in certo senso più equilibrati. Per un lato si continua ad ammettere che egli diede senza dubbio un contributo decisivo alla trasformazione del vecchio concetto del dio creatore, proprio della tradizione ebraico-cristiana; per l'altro si sottolinea che, malgrado l'aspetto panteistico della sua filosofia, permangono in lui taluni motivi tradizionali, come la separazione tra l'essere divino, causa infinita di tutti i processi naturali, e gli esseri finiti che conseguono da tale causa. Baruch (Benedetto) Spinoza nacque nel r632. ad Amsterdam da una famiglia di israeliti che si era trasferita in Olanda dal Portogallo, per sottrarsi alle persecuzioni religiose. Da giovinetto frequentò la scuola israelitica della città, ove apprese l'ebraico e studiò sia l'Antico testamento sia il pensiero ebraico-medievale (cioè la tradizione talmudica). Ben presto, però, sentì la necessità di ampliare la propria cultura accostandosi al pensiero filosofico rinascimentale, nonché a quello del Seicento (in particolare alla filosofia di Cartesio), e cercando di assimilare il nuovo spirito scientifico dell'epoca. Nel 1656 venne espulso dalla comunità ebraica, a causa delle sue dottrine in materia di filosofia e di religione. Abbandonò quindi Amsterdam per ritirarsi nei pressi di Leida e, più tardi, all' Aia, ove visse assai modestamente traendo i propri mezzi di sostentamento dalla professione di tornitore di lenti, in cui aveva raggiunto una notevole abilità. Il primo scritto pubblicato da Spinoza fu un'esposizione della filosofia cartesiana, dal titolo Principia philosophiae cartesianae (r663), assai interessante in vista del futuro sviluppo del suo pensiero, anche perché costituiva un primo tentativo di applicare la forma matematica alla filosofia. Esso fu seguito a breve distanza dai Cogitata metaphysica (r663). Altro scritto giovanile di Spinoza è il Tractatus brevis, che però non venne pubblicato né durante la vita né subito dopo la morte dell'autore; esso fu ritrovato dagli studiosi di Spinoza solo verso la metà del xrx secolo e pubblicato nel r 8 52.. È di grande importanza perché contiene un primo abbozzo del sistema filosofico che verrà esposto nelle opere della maturità. Le pubblicazioni testé accennate non tardarono a procurare al nostro autore una larga notorietà e alcune solide amicizie (fra gli studiosi non disposti a lasciarsi influenzare dalla sua fama di ateo e di scomunicato): meritano in parti-
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colare di venire ricordate l'amicizia con il fisico Huyghens e quella con Jan de Witt, capo del partito repubblicano olandese. Ricevette l'offerta di una cattedra presso l'università di Heidelberg, ma la rifiutò con ferma decisione, prefereqdo mantenere un tipo di vita che gli garantisse la più completa indipendenza. Nel I 670 pubblicò anonimo, all'Aia, il Tractatus theologico-politicus, che contiene, fra l'altro, un esame critico acutissimo dell'Antico testamento. Esso suscitò subito molti aspri attacchi da parte dei teologi protestanti, e verrà ufficialmente proibito quando in Olanda assumeranno il potere gli Orange. Intanto Spinoza lavorava alla sua opera più famosa, Ethica ordine geometrico demonstrata, in cinque libri, che portò a termine nel I 675. Pur non avendola data subito alle stampe, la fece circolare tra vari amici che godevano la sua particolare fiducia e stima; è significativo che in un primo tempo si rifiutò di farla leggere a Leibniz (vi acconsentirà solo dopo averlo meglio conosciuto personalmente). Morì, a nemmeno quarantacinque anni di età, nel I 677, lasciando alcune interessanti opere incompiute: il Tractatus de intellectus emendatione, di argomento gnoseologico; il Tractatus politicus, cui stava attendendo negli ultimi anni della vita, e un Compendium grammatices linguae hebraeae. Nello stesso anno della sua morte gli amici più fedeli pubblicarono un volume di opere postume che includeva l' Ethica, il De intellectus emendatione, il Tractatus politicus e alcune lettere. Si è già detto che fin da giovane Spinoza studiò con grande impegno le opere di Cartesio, ed anzi dedicò il suo primo scritto a stampa per l'appunto all'esposizione della filosofia cartesiana. L'influenza di Cartesio è chiaramente presente sia nella strutturazione dei concetti-base della filosofia di Spinoza (per esempio nel concetto di sostanza), sia nel compito da lui attribuito alla conoscenza razionale (riassumi bile nella doppia funzione di liberarci dall'illusione dei sensi e di farci raggiungere la visione del vero essere che è anche il vero bene). Gli studiosi moderni hanno tuttavia potuto rintracciare nel pensiero spinoziano anche altre influenze non meno importanti: anzitutto quella della tradizione mistica ebraica; poi quella dei filosofi della natura del rinascimento; quella di Hobbes (assai chiara nelle opere politiche ma anche nel libro m dell' Ethica); e perfino quella della filosofia scolastica (ancora assai diffusa, alla sua epoca, nelle università della Germania e dei Paesi Bassi). Come abbiamo già accennato, Spinoza si interessò molto di scienza: ciò risulta ampiamente dimostrato dalla ricca corrispondenza che intrattenne con eminenti scienziati (ad esempio con Henry Oldenburg, segretario della Royal Society di Londra), nella quale il nostro autore dà notizia di avere ripetuto per proprio conto alcunè significative esperienze assai dibattute in quegli anni (come le esperienze di Boyle sulla pressione dei gas) e di averne egli stesso ideate delle nuove. Nell'ambito della matematica ciò che lo impressionò più di tutto fu il rigore delle argomentazioni; il fascino di Euclide lo spinse a considerare il metodo
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geometrico come la più alta espressione della razionalità, tant'è vero che, per fornire un'impronta di indiscutibile serietà ai Principia phi!osophiae cartesianae e all'Ethica, volle dar loro una veste «euclidea», articolandone l'esposizione in definizioni, assiomi, teoremi, intercalati solo di tanto in tanto - nell' Ethica - da qualche scho!ium, ove il pensiero dell'autore viene spiegato in forma più discorsiva. Molto si è discusso sulla funzione compiuta da quest'ordine geometrico nel sistema di Spinoza, se cioè esso costituisca soltanto un aspetto estrinseco della sua filosofia o vada interpretato come qualcosa di intrinseco ad essa. A prima vista appare più fondata la prima tesi, per il carattere manifestamente artificioso dell'anzidetta suddivisione del discorso spinoziano in definizioni, assiomi e teoremi. A favore della seconda tesi va però sottolineato che, per Spinoza, il reale è essenzialmente razionale, onde segue che la filosofia, per essere in grado di esprimere adeguatamente tale realtà, dovrà essa pure venire esposta nella forma più razionale possibile (e tale forma è proprio, secondo il nostro autore, quella deduttiva della geometria). Come si è detto all'inizio del capitolo, noi ci limiteremo qui ad esporre la parte più propriamente filosofica del pensiero spinoziano, rinviandone la parte politica al capitolo v (o ve potrà venire meglio illustrata mediante il confronto con il pensiero politico di Grozio e di Hobbes). Suddivideremo pertanto la nostra esposizione in due paragrafi dedicati, l'uno, ai problemi teoretici generali, l'altro, ai problemi concernenti l'uomo e il significato della morale. VI
· IL PANTEISMO
Già si è detto che uno dei compiti essenziali della filosofia consiste, secondo Spinoza, nel liberarci dall'illusione dei sensi. Va subito precisato però che, a suo parere, i dati dei sensi non sono falsi in se stessi; l'errore potrà sorgere solo nel momento in cui, partendo da tali dati, ci permettiamo di pronunciare frettolosamente dei giudizi inadeguati che rivelano la carenza delle nostre conoscenze. Le sorgenti di questi giudizi inadeguati sono parecchie, ma la più importante è, senza dubbio, l 'immaginazione che concede esistenza anche a cose inesistenti. Il risultato degli errori così commessi è di confondere la semplice esistenza degli oggetti (percepita attraverso i sensi) con la loro autentica essenza (afferrabile solo attraverso lo studio della concatenazione causale che li lega al tutto). Data la natura testé accennata dell'errore, risulta manifesto che esso è sempre in ultima istanza di origine pratica, onde sarà necessario - per correggerlo - educare la nostra mente a distinguere con cura ciò che è frutto di semplice immaginazione da ciò che è frutto di effettiva intellezione, evitando di confondere idee false, finte o dubbie con idee vere. Il Tractatus de inte!!ectus emendatione è appunto lo scritto in cui Spinoza si sforza di compiere tale opera educativa, esponendo - attraverso dettagliate
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analisi - il processo con cui la mente umana può liberarsi dai vari tipi di errore e giungere gradualmente alla visione della realtà, cioè di dio. L' Ethica segue invece un percorso inverso, in quanto parte da alcune definizioni generalissime e da alcuni assiomi la cui verità è colta per così dire intuitivamente, onde ricavarne deduttivamente le singole verità particolari. Spinoza dichiara di essere, entro certi limiti, d'accordo con i veteres (ossia con i filosofi scolastici) nel ritenere che la vera conoscenza scientifica debba procedere dalla causa all'effetto. In luogo della causa egli sostituisce però il concetto o definizione della cosa considerata ( « conceptus seu definiti o rei »). Come in geometria si suol ritenere perfetta la definizione del cerchio, allorché risulti possibile dedurne tutte le proprietà di tale figura, così egli ritiene perfetta la definizione di un oggetto quando sia possibile dedurne tutte le proprietà di tale oggetto (ben inteso le proprietà che questo ha in se stesso e non quelle che acquista per trovarsi in connessione con altre cose). La scienza dovrà consistere, secondo lui, di definizioni esatte, capaci di fornirci idee chiare e distinte (« claras et distinctas ideas ») di ogni oggetto, onde possiamo di esso comprendere razionalmente « quomodo et cur sit aut factum sit» («come e perché sia o sia stato fatto»). Nel quadro testé delineato è ben evidente che l' Ethica debba proprio iniziare con alcune precise definizioni. Esse sono le sei seguenti: I) Per «causa di sé» (causa sui) intendo ciò la cui essenza implica l'esistenza, ossia ciò la cui natura non può venire concepita se non come esistente. z) Si dice «finita nel suo genere» quella cosa, che può venire limitata da un'altra cosa della medesima natura. 3) Per «sostanza» intendo ciò che è in sé e che per sé viene concepito: ossia ciò il cui concetto non necessita del concetto di altra cosa, da cui debba venir formato. 4) Per« attributo» intendo ciò che l'intelletto apprende della sostanza come costituente l'essenza della medesima. 5) Per « modo » intendo le affezioni della sostanza ossia ciò che è in altro ed anche viene concepito per mezzo di quest'altro. 6) Per« Dio» intendo l'essere assolutamente infinito, e cioè una sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un'essenza eterna ed infinita. Ad esse fanno seguito sette assiomi: I) Tutto ciò che è, o è in sé o è in altro. z) Ciò che non può venir concepito per mezzo di altro, deve venire concepito per sé. 3) Data una causa determinata, da essa segue necessariamente l 'effetto, e per contro, se non viene data alcuna causa determinata, è impossibile che segua l'effetto. 4) La conoscenza dell'effetto dipende dalla conoscenza della causa e la implica.
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5) Le cose che non hanno fra di loro niente in comune, non possono neanche venire comprese una per mezzo dell'altra, ossia il concetto dell'una non implica il concetto dell'altra. 6) L'idea vera deve convenire con il suo ideato. 7) Di tutto ciò che può essere concepito come non esistente, l'essenza non implica l'esistenza. Fra le prime proposizioni ricavate con metodo geometrico da questo sistema alcune meritano di venire riprodotte letteralmente per la loro specialissima importanza: (vr) Una sostanza non può venire prodotta da un'altra sostanza. (vn) Alla natura della sostanza è pertinente l'esistere. (vnr) Ogni sostanza è necessariamente infinita. (xr) Dio, cioè la sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un'essenza eterna ed infinita, esiste necessariamente. (xrv) Oltre a Dio non può venir data né concepita alcuna sostanza. (xv) Tutto ciò che è, è in Dio, e nulla può essere né venire concepito senza Dio. (xvr) Dalla necessità della natura divina debbono seguire in infiniti modi infinite cose (ossia tutte quelle cose che possono cadere sotto un intelletto infinito). (xvn) Dio agisce in base alle sole leggi della propria natura e non costretto da alcunché. (xvnr) Dio è causa immanente, non transeunte, di tutte le cose. (xrx) Dio cioè tutti gli attributi di Dio sono eterni. (xx) L'esistenza di Dio e la sua essenza sono una sola e medesima cosa. (xxv) Dio non è soltanto la causa efficiente dell'esistenza delle cose, ma anche della loro essenza. Le proposizioni ora riferite non hanno bisogno di molti chiarimenti. La vn, direttamente preparata dalla VI, fa aperto ricorso, per dimostrare l'esistenza della sostanza, ad una considerazione aprioristica sul tipo dell'argomento antologico (invocato - come sappiamo - da alcuni filosofi medievali e poi da Cartesio per dimostrare l'esistenza di dio). Su di essa si basano l'vni, la XI, la xvu, la XIX rivolte a dimostrare l'infinità, l'esistenza, l'unicità, la libertà (o necessità interna), e l'eternità di dio; la xx ribadisce il fulcro dell'argomento ontalogico, riferito non più alla sostanza in generale ma specificamente a dio. Le altre concernono il problema del rapporto fra dio e il mondo; la xvm in particolare riprende una tesi già esplicitamente affermata nel Tractatus brevis, dove Spinoza aveva scritto: « Dio è causa immanente, non transeunte, perché opera tutto in sé e nulla fuori di sé; poiché fuori di Dio non vi è nulla. » Essa sintetizza in una breve formula la concezione panteistica del nostro autore. Riservandoci di riesaminare fra poco l'autentico significato di questo pan-
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teismo, qui ci limitiamo a osservare che - come risulta in modo ovvio dalle proposizioni citate - il dio di Spinoza non ha nulla a che fare né con il primo motore di Aristotele né con il dio personale del cristianesimo (Spinoza polemizza anzi vivamente contro tutte le concezioni antropomorfiche di dio e contro la pretesa di attribuirgli azioni compiute in vista di un fine). 1 È, se mai, simile al dio di Bruno, in quanto causa immanente del mondo che agisce internamente ai fenomeni con assoluta necessità. Per discutere con una certa serietà la portata del panteismo di Spinoza, occorre soffermarci anzitutto, sia pure molto in breve, sul significato e sulla funzione che egli assegna agli attributi e ai modi. Già abbiamo visto che gli attributi della sostanza divina sono infiniti, e che costituiscono autentiche manifestazioni obiettive di tale sostanza. Noi però ne conosciamo, secondo Spinoza, due soli: il pensiero e l'estensione. Ciascuno di essi è infinito come la sostanza di cui è attrjbuto; con la differenza, però, che ogni attributo è infinito soltanto « in sé », ma esclude gli altri attributi, mentre la sostanza è assolutamente infinita. I modi sono invece gli esseri particolari cioè le determinazioni (e quindi limitazioni) degli attributi. Così, per esempio, un corpo è un modo della sostanza in quanto estesa, ossia ne è una limitazione, una parziale negazione. Analogamente un pensiero è un modo della sostanza in quanto pensante, ossia ne è una particolarizzazione, una determinazione. Fra attributi e modi vi è questa differenza: che i primi sono la sostanza, i secondi invece nella sostanza. Ogni attributo è, nel suo genere, coestensivo alla sostanza e perciò deve stare con essa in rapporto di identità; invece ogni modo è un depotenziamento della sostanza. La sua caratteristica è di stare in altro. Possiamo a questo punto ricordare che Spinoza ammette oltre ai modi finiti, di cui abbiamo testé riferito due esempi, anche altri modi che chiama necessari ed infiniti. Si tratta di una fra le questioni più delicate della sua teoria, sulla cui interpretazione vi è un certo disaccordo fra gli studiosi. Qui basti citare due esempi di questi modi infiniti: l'« intelletto infinito » o « idea di Dio » che è una determinazione della sostanza in quanto pensante, e il moto e la quiete che sono determinazioni della sostanza in quanto estesa. I modi infiniti emanerebbero direttamente dalla sostanza, entro l'ambito di un attributo; i modi finiti invece, pur esistendo in un attributo come quelli infiniti, non trarrebbero origine immediatamente dalla sostanza, ma da altri modi finiti che li condizionano. Il rapporto tra la sostanza e i modi infiniti è la causalità divina; il rapporto dei modi finiti gli uni con gli altri è la causalità empirica, che appare svolgersi nel tempo. Un risultato è comunque certo, secondo Spinoza: a rigore, tutti i modi esistono soltanto in dio, anche quando sembrano svolgersi nel tempo. Dio è im1 Straordinariamente interessante è, da questo punto di vista, l'appendice alla prima parte deiI'Ethica, diretta a confutare l'opinione di coloro i quali affermano che « Dio ha fatto tutte le cose per
l'uomo, e l'uomo perché adorasse lui»; a questa tesi il nostro autore oppone che « la natura non si è prefissa alcun fine, e che tutte le cause finali non sono che finzioni umane ».
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manente a tutti i modi e determina con assoluta necessità ogni loro rapporto. Spinoza distingue tuttavia (riecheggiando Scoto Eriugena) natura naturans e natura natura/a: la natura naturans è dio in quanto causa libera ed essenza infinita; la natura natura/a è il mondo in quanto cosa che è in dio e non può esistere indipendentemente da lui. Non si tratta evidentemente di due realtà distinte, ma si tratta comunque di due maniere diverse di considerare l'uno-tutto. La concezione di dio come unica sostanza, causa immanente di tutta la realtà, giustifica il famoso parallelismo spinoziano: se tutto è dio, allora pensiero ed estensione non sono che due aspetti della medesima sostanza; sia che noi consideriamo la sostanza divina attraverso l'attributo del pensiero, sia che la consideriamo attraverso l'attributo dell'estensione, troveremo dunque un solo e medesimo ordine, una sola e medesima connessione di cause. L'accordo tra atti del pensiero e atti del mondo fisico, che a giudizio degli occasionalisti costituiva la massima difficoltà del cartesianesimo, perde nella filosofia di Spinoza ogni carattere problematico, come asserisce la famosa proposizione settima della parte seconda: « Orda et connexio idearum idem est ac ardo et connexio rerum » («L'ordine e la connessione delle idee coincide con l'ordine e la connessione delle cose»). L'introduzione nella sostanza divina degli attributi e dei modi risponde ovviamente allo scopo di giustificare il trapasso dall'unità di dio all'infinità dei pensieri e degli oggetti. L'influenza di Cartesio è qui manifesta, sia per la speciale importanza riconosciuta ai due attributi del pensiero e dell'estensione sia per la completa separazione interposta fra essi (Spinoza accentua anzi tale separazione negando decisamente che pensiero ed estensione possano entrare in contatto fra loro nella ghiandola pineale); è altrettanto chiaro però che il problema dei rapporti fra dio e mondo è impostato dal nostro autore in un quadro concettuale del tutto diverso da quello di Cartesio (che risolveva tali rapporti ricorrendo a un libero atto di creazione). La concezione spinoziana di essi sembra invece ricollegarsi alla grande tradizione neoplatonica, che indubbiamente era ben nota al nostro autore, se non altro perché giuntagli attraverso il pensiero ebraico medievale. Va subito rilevato, però, che fra il monismo dei neoplatonici e quello di Spinoza sussiste un profondo divario nel modo stesso di concepire l'essere divino. Per i neoplatonici, infatti; dio è l 'unità ineffabile, superiore alla ragione, da cui procedono le successive emanazioni per una misteriosa e non chiaramente comprensibile degradazione; per Spinoza, invece, dio è perfettamente razionale e non emana la natura, ma si identifica con essa. È poi vero, però, che il dio di Spinoza si identifichi effettivamente con il mondo? Alcuni interpreti moderni sollevano in proposito parecchi dubbi, non solo sulla base dell'innegabile oscurità dei rapporti fra sostanza, attributi e modi, ma invocando la stessa distinzione poco sopra accennata fra natura naturans e natura natura/a, e sottolineando infine che nel sistema spinoziano si può soltanto parlare di una «analogia», non di una perfetta identità, fra l'essere di
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dio e quello del mondo. « Lo studio del concetto di ente nell'opera di Spinoza, » scrive Piero di V ona, « permette di concludere che in Spinoza rimase intatta l'analogia entis di Dio e degli esseri altri da Dio, sebbene gli esseri altri da lui derivassero da lui necessariamente. » Trattasi senza dubbio di argomentazioni che possono valere a farci comprendere assai bene, per un lato i legami di Spinoza con il pensiero antico e medievale (nessuno può negare, per esempio, che il concetto di analogia entis fosse stato largamente utilizzato nel medioevo per illustrare le differenze fra l'essere di dio e quello del creato), per l'altro lato il carattere equivoco di molti concetti di fondo della filosofia spinoziana. L'autore del presente capitolo ritiene tuttavia che non riescano tanto a porre in crisi il significato generale dello spinozismo (imperniantesi sulla tesi dell'identità, in dio, fra ordine logico e ordine esistenziale), quanto a mettere in luce le difficoltà cui esso non poteva sottrarsi, data l'impostazione essenzialmente metafisica di tale tesi. È comunque incontestabile che, pur nei limiti di questa impostazione (comune, del resto, a gran parte dei pensatori del Seicento), lo spinozismo riuscì ad aprire al pensiero moderno una via estremamente feconda: cioè una prospettiva razionalistica, non più condizionata dalla presenza di alcun essere, ipotizzato come superiore alla ragione. VII
· L 'UOMO E IL PROBLEMA ETICO
Per quanto sia grande l'importanza della concezione teoretica di Spinoza, non v'ha dubbio che il tema preminente di quasi tutte le sue opere fu quello etico-politico. L' Ethica, come dice il titolo stesso, si presenta appunto quale un trattato di filosofia morale: delle sue cinque parti solo le prime due prendono in esame argomenti metafisici o gnoseologici (metafisici la prima dal titolo De Deo, gnoseologici la seconda dal titolo De natura et origine mentis); le ultime tre invece trattano argomenti in largo senso morali (la terza si occupa De origine et natura affectuum, la quarta De servitute humana seu de affectuum viribus, la quinta De potentia intellectus seu de liberiate humana). Ma anche le altre opere più significative appaiono orientate nel medesimo senso: per esempio il Tractatus brevis considera la conoscenza sotto l'aspetto etico, nel fermo convincimento che essa sia la causa prossima di tutte le passioni, e così pure il Tractatus de intellectus emendatione è impostato fin dall'inizio come un'indagine sui beni desiderati dagli uomini, sul bene vero e sommo, nonché su alcune regole del vivere (senza dubbio esso tratta anche della conoscenza della natura, ma solo nei limiti in cui questa è indispensabile al raggiungimento della vera beatitudine). Quanto al Tractatus theologico-politicus e al Tractatus politicus è manifesto che il loro tema risulta di ordine prevalentemente pratico, non teoretico. Eppure non si può negare, dopo quanto abbiamo cercato di spiegare nel paragrafo precedente, che il problema di definire con chiarezza che cosa sia l'uomo risulta proprio uno dei più ardui del sistema spinoziano, per
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la difficoltà di conciliare la capacità, incontestabilmente presente nell'individuo umano, di agire (e perfino di errare) con l'esistenza di un ordine metafisicamente necessario che regola tutto l 'universo. Data la definizione su riferita della sostanza, come ciò che è in sé e che per sé viene concepito, è chiaro che l'uomo non può risultare, secondo Spinoza, una sostanza; alla natura della sostanza è infatti pertinente l 'esistere, mentre «l'essenza dell'uomo non ne implica l'esistenza necessaria, ossia l'ordine della natura può far sì che questo e quell'uomo esista come pure che non esista» (assioma primo della parte seconda). Ne segue che l'uomo è un modo finito, separabile dall'unica sostanza divina, cioè che la sua essenza è costituita da certe modificazioni degli attributi di dio. Di quali attributi? Del pensiero (inteso nel senso più ampio assegnato a questo termine da Cartesio) e dell'estensione. Come modificazione del pensiero, l'uomo è anima o mente; come modificazione dell'estensione, è corpo. Ne segue, in particolare, che l'anima dell'uomo partecipa dell'intelletto divino, cosicché «quando diciamo che l'anima umana percepisce questa o quella cosa, non diciamo altro se non che Dio ha questa o quella idea, non in quanto è infinito, ma in quanto costituisce l'essenza della mente umana». Tenendo poi conto del parallelismo esistente in generale fra i due attributi, Spinoza riesce a spiegare abbastanza agevolmente il parallelismo fra la nostra anima ed il nostro corpo: sia l'una sia l'altro obbediscono esclusivamente alle leggi vigenti nel proprio ambito della natura (cioè alle leggi del pensiero o, rispettivamente, a quelle della natura corporea) senza interferire in alcun modo tra loro («né il corpo può determinare la mente a pensare, né la mente può determinare il corpo a muoversi o a stare in quiete »); ma poiché le leggi del pensiero e quelle della natura corporea esprimono lo stesso ordine razionale, l'anima rifletterà in sé tutta la serie dei movimenti del corpo e il corpo tutta la serie delle idee dell'anima. Da questa concezione deriva che nessuna idea, la quale si presenti con chiarezza alla mente umana, può essere falsa (la mente umana, infatti, partecipa dell'intelletto divino); e in particolare non può essere falsa una singola percezione sensoriale. Ma, come abbiamo accennato all'inizio del paragrafo precedente, l'uomo può errare quando, con l'immaginazione, aggiunge all'idea qualcosa che essa non contiene, senza rendersi conto che ciò che le ha aggiunto è privo di esistenza (come è privo di esistenza l'oggetto ad esso corrispondente nella parallela natura corporea). Mentre nel De intellectus emendatione il nostro autore aveva studiato concretamente il sorgere dei vari errori, nell'intento di educare la nostra mente a non esserne vittima, nell' Ethica egli studia - per così dire - la natura metafisica dell'errore, per concluderne da un lato che l'errore non è nulla di positivo ma è solo una privazione (una limitazione), dall'altro che le idee non sono inadeguate e confuse se non in quanto si riferiscono alla mente singola di un individuo 273
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(« nisi quatenus ad singularem alicuius mentem referuntur »).In altri termini: è l'individuo umano ad errare, in quanto non si rende conto della propria natura di modo finito; e pertanto non si rende conto che, per la propria finitezza, egli è portato a fabbricarsi idee monche, isolate dall'ordine generale dell'universo. « Gli uomini errano in quanto si credono liberi; e questa opinione consiste in ciò solo, che sono consci delle proprie azioni e ignari delle cause che le determinano. La loro idea di libertà è dunque questa: di non conoscere alcuna causa delle proprie azioni. Ciò che essi dicono, ossia che le azioni umane dipendono dalla volontà, sono infatti parole, delle quali non posseggono alcuna idea. Tutti ignorano invero che cosa sia la volontà ed in qual modo essa muova il corpo; quelli che hanno altre pretese, e fingono sedi e dimore dell'anima, sogliono destare riso o sprezzo. » Questo isolare i singoli enti (idee o corpi) dal tutto si chiama, dal punto di vista teoretico, « errore», dal punto di vista pratico, « male». Fra i tanti errori o mali possibili, il più grave sarà ovviamente, secondo Spinoza, isolare dio stesso dagli altri esseri, per fame qualcosa di simile a noi, provvisto di volontà personale e di passioni umane. L'introduzione - che, seguendo il nostro autore, abbiamo qui presentata come ovvia e naturale - dei due punti di vista, teoretico ed etico, è in realtà una delle tesi più oscure e più discutibili di tutto lo spinozismo. Ed infatti: che giustificazione potrà essa mai trovare, entro una concezione filosofica che identifica l'ordine logico con quello essenziale dell'universo? A conferma delle gravissime difficoltà incontrate dallo spinozismo per giustificare razionalmente la distinzione fra «intelletto » e « volontà », è opportuno sottolineare che il nostro stesso autore è, su questo punto, quanto mai impreciso ed incerto. Ora, infatti, egli sembra deciso a negare l'effettiva realtà di tale distinzione (così, per esempio, quando scrive che « voluntas et intellectus unum et idem sunt »); ora invece, sembra ammetterla (quando definisce la volontà come tendenza consapevole alla propria conservazione). Senza fermarci qui a indagare il significato e l'origine di tale contraddizione, basti far presente che proprio questo punto permette a Spinoza di sviluppare un'etica nel senso comune del termine. Anche l'etica viene trattata da Spinoza con metodo rigorosamente razionale, né più né meno di ogni altra disciplina; egli ci spiega infatti che - data la natura delle azioni e delle passioni, non diversa da quella di tutte le altre cose è possibile studiarle, esse pure, « proprio come si trattasse di linee, di piani, di corpi». Alla base dell'etica spinoziana sta il concetto di affetto, inteso come « affezione del corpo » e insieme come « idea di questa affezione », in quanto capace di accrescere o diminuire la sua capacità di agire; nel primo caso l'affetto andrà inteso come « azione », nel secondo come « passione ». Partendo da questa definizione il nostro autore compie nella terza parte dell'Ethica un'analisi estremamente rigorosa degli affetti, che ritiene riconducibili a tre affetti primari: la 274
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letizia, la tristezza e la cupidità (ove per letizia si deve intendere « il passaggio dell'uomo da una minore ad una maggiore perfezione», per tristezza invece «il passaggio dell'uomo da una maggiore ad una minore perfezione», e per cupidità «l'essenza stessa dell'uomo, in quanto da una qualsiasi data affezione di lui si concepisce determinata a fare qualcosa»). Compito della ragione è frenare e moderare le passioni, di cui va conquistata la piena consapevolezza, perché « un affetto che è passione cessa di essere passione appena ci formiamo l'idea chiara e distinta di esso»; l'uomo deve cioè mirare alla coscienza della necessità di tutte le cose facendo sì che anche tutte le proprie affezioni si riferiscano alla sostanza divina. Al problema etico è infine connesso quello della libertà. La causalità divina è, come già abbiamo affermato, assolutamente necessaria perché agisce secondo leggi logiche che non ammettono eccezioni. Essa tuttavia può anche venir considerata come libera, in quanto non è limitata da cause che le siano esterne. L'uomo è schiavo quando, rinchiuso nell'immaginazione, isola i singoli oggetti (e perciò i singoli beni) dall'unità della infinita sostanza divina; diventa invece libero, quando riesce ad inserire ogni cosa nella universale necessità. Così facendo, egli comprenderà, in particolare, che « la perfezione delle cose va misurata dalla natura e potenza loro, perché esse non sono più o meno perfette per il fatto di dilettare i sensi degli uomini, o di offenderli, oppure per il fatto che si accordano o ripugnano all'umana natura». L'uomo libero, avendo compreso la vera natura di tutte le cose e perciò anche delle passioni, saprà, proprio per questo, agire indipendentemente da esse. Afferrata la necessità dell'universo, egli godrà la pace perfetta. La sua conoscenza di tutte le cose sub specie aeternitatis sarà un amore perfetto di esse coincidente con l'amore razionale di dio («amor Dei intellectualis ») e potrà assicurare la vera libertà dell'individuo. Questo amore intellettuale di dio costituisce - secondo Spinoza - il terzo grado (il più elevato) della conoscenza umana, essendo gli altri due la conoscenza inadeguata di origine empirica e la conoscenza razionale dei principi universali dell'essere. Non è una conoscenza innata, nel senso ordinario del termine, ma è certo una conoscenza insita nell'uomo perché questi può giungervi con le sole proprie forze (senza bisogno di alcuna rivelazione). Essa possiede un carattere intuitivo, immediato, e costituisce il vero coronamento di tutta la più profonda vita umana (sia dal punto di vista etico che teoretico): « Il supremo sforzo e la suprema virtù della mente è il comprendere le cose secondo la conoscenza del terzo genere ... Da questa conoscenza del terzo genere scaturisce la più alta serenità possibile della mente. »
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CAPITOLO QUINTO
Il giusnaturalismo
I
· CARATTERI GENERALI
Sappiamo dal capitolo 1 l'importanza che ebbe, nella storia politica e non solo politica del Seicento, la formazione dello stato moderno. Questa pose tra l'altro in primo piano il problema dei rapporti tra individuo e stato, due termini che sembravano irriducibili tra di loro e, al tempo stesso, nella loro esclusività, rimandavano incessantemente l'uno all'altro. Lo sviluppo delle dottrine politiche, che si succederanno in questo secolo e nel Settecento, si impernia essenzialmente sulla discussione di tale problema, elaborandone con chiarezza talune fondamentali soluzioni tendenti a riconoscere una sostanziale preminenza ora all'individuo, ora allo stato. Il giusnaturalismo moderno è per l'appunto la corrente di pensiero che porta innanzi questa discussione, prospettando l 'idea - che sarà poi ripresa e reinterpretata nei modi più diversi - che la costituzione delle comunità statali fosse da far risalire ad un patto originario fra individui « per natura » liberi. Nel suo intento sistematico e di perseguimento di una verità « oggettiva », il giusnaturalismo è profondamente connaturato al generale indirizzo filosofico del Seicento, come bene appare dalla seguente definizione datane da Norberto Bobbio: «All'inizio dell'età moderna, quando la natura viene intesa come l'ordine razionale dell'universo, per diritto naturale s'intende l'insieme delle leggi della condotta umana, che, al pari delle leggi dell'universo, sono iscritte in quest'ordine, contribuiscono a comporre quest'ordine, e sono, in quanto razionali, conoscibili attraverso la ragione. Ancora una volta questo diritto può dirsi naturale, nel senso originario della parola, perché è un diritto " trovato ", non " posto " dall'uomo. » Il giusnaturalismo moderno svolse una profonda funzione eversiva, dissolvendo definitivamente il pensiero medievale sullo stato: « La teoria giusnaturalistica dello stato fu una guida per tutti gli sforzi e le lotte politiche da cui nacque lo stato moderno» (Gierke). Esso si distingueva dalla giurisprudenza positiva -giurisprudenza che continuò a svolgere anche nel Seicento una funzione conservatrice di strutture politiche ed ecclesiastiche ormai superate dallo sviluppo storico -per la propria radicalità: antistorico nella sua fondazione (che, appunto,
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era « naturale », quindi universale ed eterna, non storica), esso si applicava con tenacia non alla spiegazione del passato, ma alla costruzione di una nuova società. Tra i caratteri distintivi del giusnaturalismo v'è quello razionalistico. Esso comportava la costruzione di sistemi giuridici basati su deduzioni assolutamente rigorose; di sistemi laici, che non facessero ricorso a dio per la fondazione del diritto. Ed infatti, nonostante che i giusnaturalisti fossero in massima parte protestanti o riformati, e quindi abbondassero di riferimenti alla Bibbia, tuttavia essi deducevano il loro sistema con argomenti esclusivamente razionali a partire da un concetto di società del tutto profano. Le parole della Bibbia « servono solo di conferma e gli esempi storici, sacri o profani, soltanto come illustrazioni per i risultati già prima raggiunti in base a conclusioni della ragione» (Gierke). Queste costruzioni politiche giusnaturalistiche erano assai diverse tra loro, ma avevano una radice comune: in esse lo stato veniva spiegato con se stesso, senza il ricorso a dio. Questa spiegazione era il «contratto». Una società laica e razionale poteva infatti reggersi su due punti: l'esistenza naturale di una societas civilis intesa a soddisfare i bisogni della convivenza, e l'esistenza di un potere sovrano (che poteva essere indifferentemente un re, l'imperatore, un'assemblea rappresentativa, o una forma mista) il cui scopo era di reggere la società civile per il conseguimento dei fini che essa si proponeva. Questo rapporto tra governante (depositario della sovranità) e governato (cittadini della società civile) poteva assumere molte forme, che oscillavano tra due estremi: o l'assolutismo della sovranità, o l'esaltazione dei diritti del cittadino, dell'individuo. In un certo modo, lo stesso assolutismo poteva essere ridotto ali 'individualismo; la teoria di Hobbes, ad esempio, era in certo senso un'esaltazione massima dell'individualismo, la sua reductio ad absurdum: anche la sua base infatti era esclusivamente costituita da una interpretazione della natura dell'uomo individuale, valutata pessimisticamente. Un altro carattere proprio del diritto naturale è - come già poco sopra accennammo - il radicalismo; carattere strettamente collegato a quello razionalistico. Per sua natura, il razionalismo non tollera compromessi, sviscera con implacabile coraggio le estreme conseguenze dei suoi presupposti, e proprio perciò giunge a conclusioni radicali. Inoltre esso, come si è detto, è più proiettato verso il futuro che non ripiegato ed interessato al passato. Non per nulla il giusnaturalismo ispirÒ largamente la rivoluzione americana (I 776) e la rivoluzione francese ( 1789). II
· ALTHUSIUS, GROZIO E PUFENDORF
Come primo esponente del giusnaturalismo possiamo ricordare Johannes Althusius (1 557-1638), la cui opera maggiore vide la luce nel 1603: Politica methodice digesta et exemplis sacris et profanis illustrata. All'inizio del xvn secolo
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Althusius ottenne anche una chiamata all'università di Leida - dove si formerà Grazio - ma rifiutò, preferendo esercitare la carica di sindaco della cittadina tedesca di Emden, ove si trattenne sino alla morte. Il fondamento della dottrina di Althusius è il concetto della sovranità popolare. La sovranità è per lui « connaturata » al popolo, sicché il popolo non può alienarla, neppure se volesse farlo. Essa trae origine dal modo stesso onde si è costituita ogni società umana: società che non può venir concepita se non facendo appello a un contratto espresso o sottinteso(« pacto expresso vel tacito») che ha organizzato gli individui in un corpus .rymbioticum. Il popolo, una volta costituito come tale, si troverà poi spinto - dall'esigenza di convivere in società civile- a delegare ad uno o più individui l'esercizio effettivo della propria originaria e indivisibile sovranità. Ma il re o l'assemblea rappresentativa che esercitano la sovranità sono depositari solo dell 'usufrutto di un bene che spetta al popolo. Anche l'esercizio della sovranità viene revocato a sé dal popolo non appena colui che ne era usufruttuario cessa dalla carica o viene meno ai suoi compiti; chi volesse conservare il potere dopo la revoca popolare, cessa di essere sovrano e diviene tiranno. Althusius distingue due tipi di procuratori: gli efori ed un summus magistratus. Gli efori sono le colonne dello stato, la sua infrastruttura: sorvegliano l'applicazione delle leggi ed assistono il sommo magistrato; lo sostituiscono nei periodi di vacanza. Non si deve tuttavia sopravvalutare la democraticità di Althusius: egli prevede sì che gli efori siano eletti con plebiscito, ma non esclude che poi conservino la carica per via ereditaria o, addirittura, che ne vengano investiti per iniziativa del sommo magistrato. Al culmine dello stato è il sommo magistrato, la cui funzione è regolata dalle leggi ed intesa all'utile della società. Egli è «sommo» rispetto agli efori ed a tutti gli inferiori di grado, ma è solo « ministro » di un potere altrui: quello popolare. Anche qui però Althusius introduce sostanziali limitazioni al radicalismo democratico, ed ammette che il sommo magistrato possa trasmettere la sua carica per via ereditaria. Egli insiste anche sul fatto che se il contratto da un lato vincola il sommo magistrato al rispetto delle leggi ed al perseguimento del bene pubblico, dall'altro vincola i cittadini all'obbedienza. Ma il vero e proprio fondatore del diritto naturale può essere considerato Huig van Groot (latinizzato in Grotius) (1583-1645). Nato a Delft, in Olanda, ancora giovanissimo venne ammesso all'università di Leida, che svolgeva allora la funzione di fornire quadri dirigenti (sia amministrativi, sia letterari, sia scientifici e sia ecclesiastici) alle Province Unite. L'università di Leida era uno dei principali strumenti di cui la ricca borghesia commerciale riformata si avvaleva per mantenere il potere; fondata nel 1575, mentre ancora durava la lotta con la Spagna, aveva anche lo scopo di opporsi all'egemonia culturale cattolica, rappresentata dall'università di Lovanio. Di questa ricca borghesia sovrana Grazio faceva parte per
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nascita e per censo, e tutta la sua opera culturale trova un centro unitario nello sforzo di modellare il diritto, la storiografìa ed anche la religione in modo da consolidare il potere della propria classe. Oltre alle molte opere di carattere giuridico, Grazio ci ha lasciato infatti anche scritti sto:riografìci, come gli Anna/es et historiae de rebus belgicis (la prima stesura è del I6u) e l'opera De antiquitate rei publicae batavicae (I 6 10), il cui intento era di mostrare il « diritto » e la « vocazione » storica delle Province Unite all'indipendenza, ed opere di carattere teologico, come il De veritate religionis christianae (I627). Queste opere teologiche furono motivate, più o meno mediatamente, dalla violenta crisi religiosa e politica che colpì le Province Unite all'inizio del xvn secolo. Essa traeva origine da violenti contrasti dottrinari tra i liberali e tolleranti arminiani da un lato, ed i fanatici ed ortodossi gomaristi dall'altro (il nome dei due schieramenti derivava da Jakobus Arminius, q6o-I6o9, e François Gomarus, 1563-164I). Dal punto di vista esclusivamente teologico, la disputa riguardava la dottrina calvinista della predestinazione; ma ciò che interessava Grazio erano soprattutto le sue implicazioni politiche. Gli arminiani sostenevano una predestinazione « condizionata »: ammettevano cioè che gli uomini fossero ab aeterno predestinati o alla salvezza o alla dannazione, ma negavano che gli atti dell'uomo non avessero alcun peso in questo destino, giacché nel formulare il decreto di predestinazione dio avrebbe tenuto conto, sin dall'eternità, della perseveranza, della fede di ogni singolo uomo. I gomaristi sostenevano invece la predestinazione assoluta, rigorosa, senza nessun intervento da parte dell'uomo per condizionarla o tanto meno modifìcarla. Dal punto di vista politico e dei rapporti tra stato e chiesa, gli arminiani erano assai tolleranti, e riconoscevano allo stato il diritto di dirimere questioni di carattere teologico, stabilendo una base dottrinaria comune alle varie scuole e sette, al di sopra della quale poteva vigere una varietà di confessioni religiose. Indicativamente, per debellare i gomaristi, gli arminiani si rivolsero all'autorità civile, esponendo le proprie tesi in una Rimostranza (donde il nome di « :rimostranti » e « controrimostranti » con cui spesso si designano arminiani e gomaristi). Uscito dall'università, Grazio si era dedicato all'avvocatura ed aveva iniziato una intensa attività politica, svolgendo importanti mansioni pubbliche nell'ambito della élite dirigente delle Province Unite. Tra l'altro svolse importanti missioni sia in Francia, presso Enrico IV, sia in Inghilterra, presso Giacomo r. Grazio appoggiò il partito dei rimostranti, ma il suo scopo non era tanto di ottenere la vittoria della tesi della predestinazione condizionata contro quella della predestinazione assoluta, bensì di mantenere le dispute teologiche entro un ambito di reciproca tolleranza, che non rischiasse di mettere in crisi la compagine politica e sociale di cui egli era interprete e :rappresentante. Grozio e la classe di ricchi e colti borghesi cui apparteneva erano ben coscienti del pericolo che le divergenze teologiche paralizzassero la vita civile e tornassero a vantaggio della
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vecchia aristocrazia feudale, favorevole ai gomaristi perché contraria ad ogni liberalizzazione economica, giuridica, politica e sociale. Ma i rimostranti e la borghesia liberale di Grozio vennero sconfitti: al sino do di Dordrecht (I 6 I 8- I 9) agli arminiani fu imposto il silenzio; essi vennero banditi e perseguitati, e Grozio condannato al carcere a vita. Dopo due anni riuscì fortunosamente ad evadere ed a raggiungere Parigi, ove nel I6z5, facendo tesoro dell'esperienza politica che aveva vissuto, dettò il suo capolavoro, De iure belli ac pacis. La grande novità di quest'opera è soprattutto di carattere metodologico. Prese una per una, molte delle norme proposte dal De iure belli ac pacis possono essere trovate nel diritto romano, medievale e nella seconda scolastica spagnola. Ma profondamente nuovo è l'atteggiamento di assoluto razionalismo con cui Grozio tratta il diritto, ed a ragione, per questi motivi, il suo giusnaturalismo viene chiamato « moderno». Di fronte alla constatazione della caducità e parzialità delle convinzioni giuridiche e politiche, caducità e parzialità prodotte dalle divisioni fra gli uomini riguardo ai problemi della religione e della vita, Grozio ritiene di dover ricercare altre basi, più solide e più costanti, sulle quali fondare i principi del diritto; basi che egli pensa si possono « trovare » nella natura delle cose e degli uomini. I concetti giuridici che così si possono enucleare sono indipendenti dalla fede e da qualsiasi ordinamento. teologico. Grozio è tutt'altro che ateo, ed ha grande cura di evitare che gli possa esser mossa questa accusa; tuttavia egli afferma con decisione che i fondamenti del diritto si trovano nella natura, e come tali avrebbero validità anche se dio non esistesse: « Tutto ciò che abbiamo detto sinora sussisterebbe in certo modo ugualmente anche se ammettessimo - cosa che non può farsi senza empietà gravissima - che Dio non esistesse o che Egli non si occupasse dell'umanità. » Un altro importante corollario del razionalismo giuridico di Grozio è che se il diritto ha un fondamento naturale, esso può essere dedotto in modo sistematico, secondo la sua intima coerenza e necessità. «Per essere una scienza, il diritto deve fondarsi non sull'esperienza ma sulle definizioni, non sui fatti ma sulle deduzioni logiche. Ne consegue che soltanto i principi del diritto di natura possono propriamente costituire una scienza; e tale scienza deve essere costruita lasciando da parte tutto quello che è soggetto a cambiamento e che muta da un luogo ad un altro » (Passerin d 'Entrèves). Scrive infatti Grozio: « Anzitutto mi sono preoccupato di ricollegare le prove del diritto naturale a nozioni così evidenti che nessuno possa negarle senza far violenza a se stesso: infatti i principi di tale diritto, se appena si guardi attentamente, sono manifesti di per sé ed evidenti quasi come ciò che percepiamo per mezzo dei sensi esterni. » Come tutto il razionalismo del Seicento, anche Grozio è portato a sottolineare l'analogia tra il proprio metodo e quello della scienza ritenuta assolutamente rigorosa, la matematica. Come dio non può far sì che due per due non faccia quattro, così non può z8o
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far sì che le norme del diritto naturale siano altre da quelle che per natura sono. La mia scienza del diritto, afferma Grozio, è, sotto questo riguardo, altrettanto rigorosa, necessaria ed astratta quanto la matematica: « In verità io dichiaro esplicitamente che, come i matematici considerano le figure facendo astrazione dai corpi, così io, nel trattare del diritto, ho distolto il pensiero da qualsiasi fatto particolare. » Premesso che la natura dell'uomo è la socialità, bisogna ammettere l'esistenza di un istinto sociale nell'individuo, che è così spinto ad unirsi agli altri individui: questa forma istintiva e spontanea di agglomerazione sociale, è appunto lo stato di natura (di cui tanto discorreranno i filosofi posteriori), e la sua legge è il diritto naturale: un diritto cioè che non comporta alcun atto imperativo o volontario, ma che è fondato esclusivamente sul consenso spontaneo dell'individuo. Per la complessità delle sue esigenze e dei suoi interessi, l'uomo costituisce, mediante libero contratto con i suoi simili, lo stato; con il contratto sorge il diritto civile che ha sempre come fondamento il diritto naturale, ma che presenta come sua caratteristica la volontarietà e la obbligatorietà dei suoi precetti (s'intende che questi precetti trovano la loro giustificazione nel diritto naturale, dal quale quello civile non può allontanarsi, a pena di perdere la sua base). Con il patto stipulato, gli uomini si impegnano all'obbedienza al potere politico e alla tutela delle reciproche proprietà. Per quanto riguarda il patto originario, Grozio sostiene che esso, essendo l'emanazione di un atto consensuale verificatosi nello stato di natura, non può più essere messo in discussione, una volta stipulato, ed è pertanto superiore ad ogni potere costituito, essendo di questo la fonte e la causa. Nei confronti del potere politico, Grozio non è molto chiaro e sicuro, poiché, pur ammettendo che esso possa essere limitato o sottoposto a controlli, nega che ad esso ci si possa ribellare. L'insegnamento di Grozio ed Althusius verrà ripreso, nella seconda metà del xvn secolo, da Samuel von Pufendorf (1632-1694), autore del De iure naturae et gentium ( 167 z); egli si sforzerà di tener conto anche della rivoluzione portata nel giusnaturalismo dalla teoria di Hobbes, che - come vedremo - sostenne fermamente la necessità di riconoscere la preminenza del fattore utilitaristico e volontaristico nella costituzione del contratto statale. Secondo il Pufendorf, nello stato di natura si può rilevare uno sviluppo di forme associative elementari e primitive, che precedono e preludono alla costituzione dello stato; tali forme sono basate sul principio dell'eguaglianza dei loro membri, e sull'assenza di una autorità più alta che ne regoli la vita, determinata soltanto dalla legge naturale. Ma, poiché questo è uno stadio imperfetto e insoddisfacente della civiltà, si giunge alla formazione dello stato mediante un pactum unionis, che unifica le diverse societates aequales, e poi mediante un pactum subiectionis il quale, dando origine al potere sovrano, divide i membri della societas aequalis unificata in sovrano e 281
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sudditi: questi soggiacciono' al potere del sovrano, o imperium, che, pur potendo essere condizionato dalle norme del pactum subiectionis e dagli organismi appositamente predisposti, non può essere ceduto o diviso. III
· IL PENSIERO POLITICO DI HOBBES
Hobbes è il più coerente, il più spregiudicato ed il più conseguente teorico della supremazia del potere statale. Il suo pensiero politico è indissolubilmente ancorato a tutto l 'impianto materialista della sua opera, tanto che uno dei suoi maggiori scritti politici, il De cive ( 1642.) fa parte - come sappiamo dal capitolo m - della grande trilogia (insieme al De corpore e al De homine) con la quale Hobbes ambiva dare una sistemazione scientifica rigorosa a tutto il mondo naturale ed umano. Attento lettore di Tucidide e di tutta la pubblicistica politica rinascimentale, nonché attivo partecipe della lotta politica del suo tempo (quale convinto assertore dei diritti della corona contro il parlamento) nel De cive e nel Leviathan ( 16 51) Hobbes elevò una poderosa costruzione a sostegno dello stato centralizzato, assoluto, efficiente e retto da criteri esclusivamente utilitaristici. L'età in cui Hobbes si formò fu sconvolta dalle più grandi, e anche atroci, lotte che le forze nuove, sostenitrici dello stato moderno, dovettero combattere per vincere gli ostacoli che si opponevano alla sua affermazione. Fra questi ostacoli il primo era costituito dall'autorità religiosa che, in nome dello spirito, pretendeva di sottoporre l'autorità statale al suo controllo; un altro ostacolo era costituito dall'educazione individualistica, risalente all'età rinascimentale, che tendeva a contenere la giurisdizione dello stato, in modo che non fosse toccata in alcuna misura l'indipendenza dell'individuo. Contro queste forze avverse, Hobbes afferma perentoriamente l'unità del potere statale entro l'ambito del suo territorio. Nessuna autonomia può rivendicare l'individuo, parte integrante della compagine statale; nessuna indipendenza spetta alla chiesa, rigidamente subordinata al potere civile. In questo atteggiamento, il nostro autore si ricollega direttamente a Machiavelli; da lui attinge infatti il concetto dell'autorità statale, la nozione dell'assoluta indipendenza di questa da ogni limitazione moralistica o fideistica, e la spregiudicata dichiarazione dell'illimitatezza della sovranità dello stato sui suoi sudditi. Senonché, mentre Machiavelli, per convalidare le sue asserzioni e comprovare i consigli sull'arte di governare dati al suo principe, si rifaceva all'autorità della storia, magistra vitae (e in ciò non differiva molto dai suoi seguaci dell'epoca della controriforma, che s'appelleranno all'autorità dei testi sacri, per dimostrare l'origine divina del potere sovrano), Hobbes, invece, ripudiando il metodo dell'autorità, si rifà apertamente al proprio razionalismo filosofico, e da questo trae le conseguenze di carattere politico. Le tesi giusnaturalistiche trovarono in Hobbes una notevole valorizzazione e una grande estensione ma al tempo stesso vennero capovolte. Egli parte dalla 2.82. www.scribd.com/Baruhk
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considerazione dello stato di natura così come era stato esposto, nei suoi elementi e nei suoi aspetti, da Grozio, ma - avendo accertato ed asserito, in concordanza con i principi della propria gnoseologia, che l'uomo, fuori della civiltà, è pura sensibilità - giunge alla conclusione che la sua condizione, nello stato di natura, è quella dell'« homo homini lupus ». È, in altri termini, uno stato di « bellum omnium contra omnes », fondato sull'istinto di aggressione, e, per converso, su quello di paura: situazione palesemente contraddittoria, per cui, mentre da un lato l'uomo è portato a nuocere al suo simile, seguendo il proprio istinto aggressivo, per un altro lato è succube di uno stato di terrore, cioè della paura di restare a sua volta vittima dell'altrui spirito aggressivo. Tale stato di guerra potrà aver termine solo con la costituzione dello stato; di qui la necessità in cui vengono a trovarsi gli individui di dare origine, mediante il contratto sociale, allo stato. Questo consiste in un potere superiore agli stessi individui, dotato della capacità di reprimere e impedire il ricorso alla violenza individuale, capace quindi di por termine allo stato di guerra e di instaurare la pace. Si osservi, a questo proposito, che mentre lo stato di natura è una situazione assurda di istintività (assurda per l'anzidetta contraddizione insita in esso), lo stato civile, che è invece un'opera della ragione, è l'antitesi di uno stato di natura. Perciò lo stato non può avere altra origine che quella derivante da una convenzione stipulata dagli individui che lo compongono. Rispetto ad Althusius e Grazio, Hobbes apporta però una fondamentale innovazione alla teoria del contratto. Prima di lui il giusnaturalismo aveva sempre ritenuto che quello tra governati e governante fosse un contratto tra « uguali », per cui, anche dopo la stipulazione di esso, al popolo restavano inalienabili diritti, che potevano concretarsi nello scioglimento del contratto e nella revoca del potere concesso (al sovrano, al sommo magistrato o all'assemblea). La base di questa convinzione di Grozio ed Althusius consisteva nella assunzione che anche prima del contratto gli uomini fossero riuniti in una « società civile », seppur meno efficiente e meno perfetta, e che la delega di poteri al sovrano o ad un'assemblea fosse fatta da due persone giuridiche: il popolo costituito in società civile da un lato, ed il delegato all'esercizio della sovranità dall'altro. Secondo Hobbes, questa concezione dà luogo ad una diarchia di potere che intralcia in modo pernicioso la vita dello stato, scatena la lotta delle fazioni, induce continuamente gli ambiziosi e gli ecclesiastici a mettere in questione il potere sovrano basandosi sulla supposizione che anche a loro, in quanto membri del popolo contraente, spetti qualche diritto alla sovranità, o quanto meno al controllo su di essa. Per scalzare dalle fondamenta questa diarchia, Hobbes sottopone ad una analisi assai più attenta di quella svolta dai suoi predecessori lo stato di natura anteriore al contratto, ed arriva alla concezione, veramente rivoluzionaria per il giusnaturalismo, che lo stato civile non è affatto nato da un contratto stipulato tra una società civile già esistente ed il sovrano. Scrive Hobbes
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nel De cive: «Tutte le leggi si possono dividere in primo luogo, in base alla differenza dell'autore, in divine e umane. La legge divina è di due specie, secondo i due modi in cui Dio può rendere nota la sua volontà agli uomini: naturale (o morale) e positiva. Naturale è quella che Dio ha manifestato a tutti gli uomini per mezzo della sua parola eterna, in loro innata, cioè per mezzo della religione naturale. Positiva è quella che Dio ci ha rivelata attraverso le parole dei profeti ... Tutte le leggi umane sono leggi civili. » La novità di Hobbes sta in questo: nel rivelare come le leggi naturali, seppur poste negli uomini da dio, sono in pratica inefficaci. Nello stato di natura il singolo uomo avverte senza dubbio la legge naturale « Tu non ucciderai ». Ma questa legge lo obbliga soltanto in coscienza, non di fatto; per rispettarla di fatto, l 'uomo singolo dovrebbe essere certo che anche i suoi simili la rispetteranno, cioè che egli non sarà ucciso. Ma poiché gli manca questa garanzia di reciprocità, egli di fatto non è tenuto all'osservanza della legge naturale, che resta allivello di una mera sollecitazione inefficace. Lo stato di natura non è quindi affatto, come affermavano Grozio e Althusius, uno stato in cui già vigeva una forma di convivenza civile tra gli uomini, una comunità che come tale aveva la personalità giuridica atta a farle stipulare un contratto statale; esso è fatalmente, come si è detto, uno stato di guerra totale. Se dunque gli uomini naturali non sono una società civile, non hanno nemmeno la personalità giuridica per stipulare un contratto. Il contratto quindi per Hobbes non è più tra due persone giuridiche (popolo come società civile e sovrano), ma un contratto fatto fra molti individui « singoli ». Hobbes quindi « sostituisce al contratto tra popolo e sovrano un contratto tra ogni singolo e gli altri. Solo per un istante, in forza di questa unione di volontà singole (che vogliono sfuggire alla calamità della libertà naturale) la folla diventa persona (giuridica), per perdere tale qualità immediatamente dopo e in quell'atto stesso, in forza dell'inevitabile alienazione di ogni volontà e di ogni sovranità in favore del sovrano. Costituito lo stato, l 'intera sovranità del popolo passa senza riserve in quella del sovrano, sia questo la personalità fisica di un singolo, sia essa invece la personalità artificiale dell'assemblea: soltanto in essa (personalità sovrana) e per essa il popolo è persona, mentre senza di essa, è semplice folla e quindi non può assolutamente essere pensato soggetto di un qualsiasi diritto di fronte al sovrano» (Gierke). Il contratto hobbesiano è ovviamente indissolubile, dato che potrebbe essere sciolto solo da un atto che riunisse di nuovo tutti gli individui singoli e che ottenesse anche il consenso del sovrano, unico detentore di personalità giuridica. In certo modo, Hobbes si è quindi avvalso del giusnaturalismo per abbatterlo. Come ha rilevato Norberto Bobbio, «per Hobbes le leggi naturali sono quelle leggi che nello stato di natura non vigono ancora e nello stato civile non vigono più»; «la legge naturale mette tutta la sua forza al servizio del diritto positivo,
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Il giusnaturalismo
e così facendo muore nel momento stesso in cui dà alla luce la sua creatura ». Nella società civile infatti ha valore solo la legge emanata dal sovrano, cosicché si torna al principio « quod principi placuit, legis habet vigorem ». Il potere sovrano è assolutamente illimitato ed illimitabile, non responsabile di fronte a nessuno, onnipotente, libero da ogni obbligo o dovere nei confronti dei sudditi. Anche affermare che il sovrano è sì il « sommo » potere, ma esclusivamente rispetto ai sudditi presi singolarmente non rispetto al popolo nel suo complesso, è per Hobbes una assurdità: «Vi è poco fondamento all'opinione di quelli,» scrive nel Leviathan, « i quali dicono che i re, quantunque siano singuli majores, con più grande potere che ciascuno dei loro sudditi, sono però universis minores, con potere minore di tutti i loro sudditi insieme. » Si noti il metodo assolutamente razionalistico di cui si serve Hobbes nel suo ragionamento: egli applica alla scienza politica, o - come si diceva - alla filosofia civile, il metodo delle scienze naturali, della composizione (o sintesi) e della scomposizione (o analisi) e tutto con una logica stringente, con una serrata argomentazione che sconvolge e smarrisce gli avversari. Ma la forza principale del discorso hobbesiano sta nella sua assoluta spregiudicatezza e, se si vuole, nel suo cinismo. Come in logica egli è nominalista, così nell'etica è un convenzionalista: non esistono verità eterne, che traggano forza dall'origine divina, o verità naturali, ma solo norme convenute fra gli uomini. Ma il suo cinismo trae motivo dalla necessità di affermare, in modo chiaro e senza mezzi termini, l'autorità indiscutibile dello stato, e di difendere questa autorità dalla minaccia di soggezione all'autorità di una chiesa. Di fronte a tutti gli attacchi che venivano mossi all'autorità dello stato in nome di altri principi (quali quello della libertà dell'individuo o dell'autorità religiosa), Hobbes conclude che solo nello stato vi è il trionfo della ragione, della pace e della sicurezza. IV
· IL RAZIONALISMO POLITICO DI SPINOZA
Abbiamo già menzionato, parlando di Spinoza, il Tractatus theologico-politicus e il Tractatus politicus, le due opere di argomento prevalentemente politico da lui scritte. Se per un lato esse si inseriscono coerentemente nel complesso quadro del pensiero filosofico spinoziano, per l'altro si legano strettamente allo sviluppo generale del giusnaturalismo; ed è proprio per questo motivo che abbiamo preferito parlarne qui anziché nel capitolo precedente. Il tema specifico che il nostro autore mutua dall'indirizzo giusnaturalistica è la teoria hobbesiana dello stato di natura e del passaggio da tale stato a quello civile. Vi introduce però alcune importanti innovazioni, derivate dalla concezione generale che egli possiede della natura e dell'uomo. « Poiché Dio ha diritto ad ogni cosa e questo diritto non è altro che la stessa potenza di Dio, in quanto questa viene considerata come assolutamente libera,
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Il giusnaturalismo
ne segue, » scrive Spinoza, « che ogni cosa naturale ha per natura tanto di diritto quanta è la sua potenza ad esistere e ad operare. » Ciò vale in particolare per l'uomo; e poiché la potenza dell'individuo umano è connessa alla sua capacità di vivere secondo ragione, ne segue che il diritto di natura risulta a rigore determinato per lui dalla sola potenza della sua ragione(« sola rationis potentia »). «Ma gli uomini si regolano più in base alla cieca cupidigia che in base alla ragione; e pertanto la " potenza naturale degli uomini ", cioè il loro " diritto ", deve venir definita non mediante la ragione, ma mediante l'appetito, qualunque esso sia, da cui sono determinati ad agire e sono indotti a conservare se stessi. » Ne segue che essi, in quanto dominati dagli appetiti, agiscono nel proprio esclusivo interesse senza badare a quello altrui, e cioè « sono per natura nemici » ( « homines ex natura hostes »).In questo stato- che ricorda da vicino lo stato di natura di Hobbes- il loro diritto naturale si rivela in realtà nullo, perché nulla è la loro sicurezza. Di qui la necessità di uscire dal primitivo isolamento, per costruire una collettività cui devolvere, mediante un patto, i propri fondamentali diritti. Lo stato civile, sorto da questo patto, dovrà dunque avere un'autorità assoluta sui suoi cittadini, e non dovrà esistere altra autorità al di fuori di quella statale. Fino a questo punto Spinoza sembra non allontanarsi dal modello hobbesiano. A ben esaminare la questione, non è però difficile scorgere nel sistema spinoziano un'intonazione nuova, che differenzia profondamente la sua concezione da quella del filosofo inglese: l'inserimento dei singoli individui nella compagine statale è esclusivamente dovuta, secondo il nostro autore, alla maggiore sicurezza che l'organismo statale offre al benessere dei singoli; solo per questa prospettiva essi sono disposti a rinunciare a quella libertà di cui godevano nello stato di natura. In effetti, se tutti i cittadini si lasciassero guidare dalla ragione, comprenderebbero agevolmente che soltanto nell'ordinamento dello stato essi possono fruire della loro vera libertà, poiché liberi da ogni attrattiva della passione possono seguire la via indicata dalla ragione. Da quanto ora detto risulta chiaro che Spinoza considera l'ordinamento politico come la causa strumentale per il conseguimento degli ideali etici della sua filosofia. La differenza che egli stesso poneva fra le proprie idee e quelle dell'inglese Hobbes sta appunto nel fatto che, mentre lo stato hobbesiano assorbe in sé i sudditi per annientare la loro autonomia, il suo mira invece a proteggere e ad assicurare le prerogative dei cittadini, conglobandole nei fini per i quali è sorto. L'attribuzione al potere statale di tutta la sovranità popolare fu fatta a ragion veduta; sono quindi gli stessi sudditi che gliela conferiscono, per riceverne sicurezza e protezione. E del resto questo conferimento non potrà mai essere tale che l 'individuo cessi in seguito ad esso di essere uomo: « Nemo unquam suam potentiam, et consequenter neque suum jus ita in alium transferre poterit, ut homo esse desinat » ( « Nessuno potrà mai trasferire ad altri le proprie potenze, e di conseguenza neppure il proprio diritto, in modo da cessare di essere uomo»). 2.86
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Il giusnaturalismo
In altri termini lo stato, pur nella sua onnipotenza, non può - secondo Spinoza - rendere schiavo il pensiero individuale, non può assoggettare la ragione. Perciò il cittadino che è capace di imporre a se stesso il dominio della ragione, non sarà mai schiavo. La schiavitù è causata solo dal fatto che un individuo esegua delle azioni che giovino non a lui ma a chi le ha comandate; poiché lo stato comanda azioni utili a tutti, esso non può avere per fine la schiavitù dei cittadini, ma la loro autentica libertà: « Finis rei publicae revera libertas est. » Certo, possono esservi delle forme imperfette di stato, le quali non sono tali da realizzare perfettamente i propri fini; fra le tre forme di governo - monarchico, aristocratico e democratico - dettagliatamente analizzate nel Tractatus politicus, Spinoza preferisce quest'ultima, che è la più naturale, e insieme la più sicura garante dell'uguale libertà dei suoi sudditi; le altre due sono considerate deformazioni della forma democratica. È comunque evidente che il nostro filosofo mira qui a comporre la discordanza tra la sua concezione monistica dell'universo, per cui ognuno è parte di un'unica sostanza, e i suoi ideali di libertà, ideali per i quali egli affrontò diverse rinunce nella sua vita ed ai quali si mantenne sempre fedele. Non è tanto importante che egli sia riuscito nel suo scopo, quanto che abbia saputo impostare il problema con assoluta chiarezza. In questa parte della speculazione spinoziana, come anche nell'etica, sono forse più evidenti che altrove le difficoltà che derivano dalla impossibilità di stabilire un effettivo accordo tra l 'ideale teoretico di un universo ordinato (senza possibilità di eccezioni) in base al principio della razionalità geometrica, e l'ideale pratico della libertà e dell'autonomia della persona umana. Non sarebbe giusto far carico a Spinoza di non averle sapute risolvere: solo nella successiva filosofia kantiana i due ideali riusciranno a raggiungere un primo punto di contatto.
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CAPITOLO SESTO
Il problema dell'educazione nel XVII secolo. Il giansenismo DI RENATO TISA TO
CONSIDERAZIONI GENERALI
Lo sviluppo della cukura europea nel corso del xvii secolo presenta un andamento molto diseguale a seconda che lo si consideri nei paesi che si avviano ad assumere una funzione di guida nel concerto delle potenze europee, quali la Francia e l'Inghilterra, oppure in quelli che, come la Spagna e l'Italia, sentono maggiormente l'azione frenante della controriforma o, come la Germania, vengono addirittura ributtati indietro dalla tragedia della guerra dei trent'anni. Il quadro che ci accingiamo a dare assume, pertanto, un carattere meramente indicativo e comunque si ispira prevalentemente alla situazione francese. D'altro canto alcuni elementi essenziali di tale quadro sono già stati introdotti nei capitoli della sezione m nei quali si è parlato della riforma e di Comenio, della controriforma, dei gesuiti e del La Salle; altri, viceversa, saranno presi in esame più avanti, quando tratteremo delle ripercussioni, nel campo della cultura, della rivoluzione inglese ed esporremo il pensiero pedagogico di Locke. Il XVII secolo è caratterizzato da un sensibile allargamento degli ambienti intellettuali e, conseguentemente, dal carattere meno specialistico della loro preparazione media. Uno dei fenomeni più notevoli di questa età è costituito dal progressivo affermarsi dei ceti borghesi e dal generale avvicinarsi e mescolarsi delle varie classi. Vaste masse sono animate da ambizioni politiche e culturali. La borghesia si nobilita; anzi si arriverà ad asserire che «un perfetto mercante è quanto v'ha di meglio come gentiluomo nella nazione e che in fatto di cultura, di buone maniere, di buon senso, il mercante è di gran lunga superiore a molti nobili». Con l'impetuoso affacciarsi della classe borghese laica al mondo della cultura si registrano importanti mutamenti d'impostazione generale, come si è visto nel capitolo I. La maggiore novità è l'imporsi di problemi pratici, legati al mondo dei fiorenti commerci marittimi, della produzione agricola ed artigianale, delle prime manifatture. Il nuovo pubblico al quale le opere culturali, sia filosofiche sia tecnico-scientifiche, si rivolgono impone una sempre maggiore diffusione del2.88
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Il problema dell'educazione nel xvu secolo. Il giansenismo
l'uso del volgare, e grandi autori come Cartesio, Hobbes e Locke composero in volgare parte dei loro capolavori. Alla mutata situazione politico-culturale va in gran parte ricondotta anche l'esigenza di filosofare ed esporre in modo chiaro e piano, accessibile alla mentalità agile e pratica della classe sociale in ascesa, per sua natura indifferente a sottili disquisizioni teologiche o metafisiche, ansiosa di appropriarsi di strumenti culturali che le permettano di sopperire ai bisogni della ricca e varia vita profana e di conseguire sempre maggiori successi economici e politici. Sul piano strettamente pedagogico, vien fatto di chiedere quale sia l'influsso esercitato dalla nuova scienza e, in particolare, dalla nuova metodologia. Qual è l'influenza esercitata nel campo dell'educazione dal clima in cui sorgono e si svolgono le grandi correnti dell'empirismo e del razionalismo? Nota il Compayré che il Discorso sul metodo contiene parecchi dei grandi principi che servono di base alla pedagogia moderna: l'affermazione della relativa eguaglianza delle intelligenze e, conseguentemente, del diritto di tutti all'istruzione; il diritto di ogni uomo a costituirsi artefice delle proprie convinzioni, a pensare con la propria testa; l'opportunità di estendere al campo dell'educazione il procedimento di indagine adottato dalla scienza; la necessità di muovere da conoscenze certe prima di abbandonarsi alle sottigliezze della dialettica. Nota ancora, il suddetto storico della pedagogia, come su questi punti si realizzi una convergenza del pensiero di Descartes e di quello di Bacone. Naturalmente, parlando di Descartes e del cartesianesimo, vien fatto di mettere in primissimo piano l 'importanza che la centralità della matematica non può non assumere anche nel settore pedagogico. Orbene: è indiscutibile che tanto fermento scientifico e filosofico non ha una ripercussione adeguata nel campo dell'educazione. Invano cercheremmo, nel secolo di Galileo e di Descartes, una radicale e generale riforma degli ordinamenti scolastici corrispondente al rinnovamento della coscienza scientifica. Sarà necessario giungere alla seconda metà del Settecento per assistere ad un apprezzabile processo di rinnovamento. Ciò non significa, ovviamente, che taluni importanti fermenti non costituiscano, già nel xvrr secolo, altrettanti sintomi del maturare dei tempi nuovi; in tal senso deve essere considerata l'opera degli oratoriani, dei giansenisti e dei pietisti che precisamente sotto questo punto di vista analizzeremo nei prossimi paragrafi. Complessivamente, però, dall'università alla scuola primaria e popolare alle iniziative per l'educazione della donna, prevale nettamente, ancora, lo spirito della controriforma incarnato nelle istituzioni gesuitiche e lasalliane.
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II
· GLI ORATORIANI E L 'EDUCAZIONE SCIENTIFICA
L'influenza del nuovo clima culturale nel campo dell'educazione è specialmente ravvisabile nel programma della congregazione degli oratoriani, fondata nel 16II dall'abate e futuro cardinale Pierre De Berulle. L'ordine dell'Oratorio di Gesù Cristo nasce, in realtà, con lo scopo primario di promuovere, mediante la vita di comunità, il perfezionamento di un certo numero di sacerdoti, rendendoli atti a diffondere e consolidare la religione in mezzo al popolo. Ben presto, però, assume il carattere preminente di ordine insegnante. Si ispira al principio dell'accettazione volontaria della regola e alla libera pratica delle virtù cristiane. Non esistono voti irrevocabili: i religiosi possono abbandonare l'Oratorio senza essere accusati di apostasia. L'obbedienza è basata essenzialmente sul potere dell'amore cristiano. Il superiore dell'ordine risiede in Francia, è sottomesso alla giurisdizione dei vescovi francesi e la sua autorità è subordinata a quella dell'assemblea generale. «La nostra politica, » si vantano, « è di non far politica ... » Questi propositi ed ordinamenti mettono in rilievo la profonda diversità che separa e spesso contrappone gli oratoriani ai gesuiti. Questi ultimi, effettivamente, non perdonano ai concorrenti i loro successi e non perdono alcuna occasione per nuocere loro, giungendo, col padre Le Tellier, confessore di Luigi XIV, fino ad insistere per la radicale soppressione dell'ordine. Senonché la già accennata sottomissione ai vescovi e la residenza del superiore in Francia hanno fatto dell'Oratorio un'istituzione nazionale. Perciò a nulla approdano le congiure gesuitiche: ed anzi, dopo l'espulsione dei gesuiti, cioè a partire dal 1 76z, toccherà ai seguaci del Berulle di assumere la pesante eredità lasciata dalla compagnia. Ciò non toglie che, non potendo e neppur volendo entrare in diretta ed aspra concorrenza, gli oratoriani evitino le grandi città, impiantando i loro collegi in città medie o in semplici borghi. Questo fatto assume una grande importanza storica in quanto permette l'accesso allo studio secondario da parte di ragazzi appartenenti alla piccola borghesia artigianale e contadina. In questa direzione opera anche la creazione degli internati e di piccoli pensionati nella casa degli stessi maestri. A causa del numero limitato dei sacerdoti disponibili, le classi vengono spesso affidate a « confratelli » laici, integrati nella congregazione in base a uno statuto speciale. Si tratta perlopiù di giovani usciti di fresco dal collegio e attratti dal desiderio di imitare e proseguire l'opera dei loro insegnanti. Dopo un anno di formazione spirituale, essi vengono mandati nelle scuole dove cominciano a svolgere la loro opera nelle classi inferiori. Teorizzando l'opportunità di un simile procedimento, il padre Houbigant scrive nel 1732 che la funzione insegnante giova ai giovani confratelli per tre
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Il problema dell'educazione nel xvu secolo. Il giansenismo
ragioni: appaga il loro bisogno di comunicare quello che sanno; prospetta loro un fine sociale e concreto da raggiungere; li mette nella necessità di imparare e di perfezionarsi per insegnare meglio. Un altro aspetto della formula oratoriana relativa al reclutamento riguarda i frequenti cambiamenti di residenza dei giovani insegnanti, abitudine che viene considerata valida garanzia contro il pericolo di cadere in una routine. Durante i primi decenni i collegi oratoriani non usano un metodo uniforme. L'unificazione disciplinare, programmatica e didattica verrà realizzata fra il 1634 e il I 64 5 con la Ratio studio rum a magistris et professoribus Oratorii Domini Jesu observanda, opera dei padri Condren e Morin. Contrariamente a quella gesuitica e alla Condotta lasalliana, la Ratio dell'Oratorio si limita a fissare delle norme essenziali. Per il resto non solo concede, ma addirittura raccomanda agli insegnanti di sforzarsi di perfezionare il metodo sulla base di esperienze personali. Gli storici della pedagogia sono soliti sottolineare l'amicizia del Berulle per Cartesio e l'influenza cartesiana sullo spirito delle scuole oratoriane. A . questo proposito è doveroso notare come la fondazione di dette scuole preceda di parecchi anni la pubblicazione del Discorso sul metodo (1637) e delle Meditazioni metaftsiche (1641). In realtà il pensiero del Berulle e dei suoi confratelli si muove lungo la linea platonico-agostiniana, ciò che lo rende particolarmente idoneo ad assimilare i motivi fondamentali della speculazione cartesiana, anch'essa influenzata da motivi platonizzanti. Il fine del Berulle, nel campo dell'educazione, è l'attuazione di un piano in cui l'amore sincero e disinteressato della verità, e quindi il metodo della libera ricerca, si armonizzi con i principi della vita cristiana. Nelle scuole oratoriane si studia in primo luogo la lingua nazionale. L'uso del latino è vietato fino al terzo anno. Il padre Condren redige per il collegio di Juilly una grammatica latina in lingua francese. Un altro motivo di originalità dell'insegnamento umanistico nelle scuole dell'Oratorio è costituito dall'importanza attribuita alla spiegazione dei testi, alle traduzioni orali e alla posizione di netta inferiorità imposta al greco. Particolarmente curato è lo studio della storia, connesso, secondo un criterio che resterà in vigore in parecchie scuole fino ai nostri giorni, con quello della geografia. Le lezioni di storia e geografia sono impartite sempre in francese. In taluni collegi esistono corsi di musica, danza ed equitazione. Ma il punto più interessante è quello che riguarda l'insegnamento delle scienze matematiche e naturali. Finora è stato quasi di prammatica, nelle storie della pedagogia, fare abbondanti e appassionate lodi all'Oratorio in questo senso. Attualmente, però, in base ad accurati studi fatti sui documenti, si è giunti a ridimensionare tutta la questione. In realtà l'insegnamento propriamente detto delle scienze matematiche, fisiche, chimiche e naturali, integrato nei due ultimi anni di « filosofia », non è mai stato oggetto, ali 'Oratorio, di una codificazione generale.
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Il problema dell'educazione nel xvn secolo. Il giansenismo
Se le direttive ufficiali tacciono, abbiamo però almeno tre testimonianze importanti: le esercitazioni pubbliche sostenute dai migliori alunni in occasione di distribuzione di premi o di cerimonie straordinarie (molte di esse, poi pubblicate, vertono su questioni scientifiche che spesso si dimostrano al corrente delle più recenti scoperte); l'esistenza, accertata, di gabinetti scientifici in tutti i collegi; l'esistenza, nelle biblioteche dei collegi, di libri scientifici molto moderni. Comunque l 'insegnamento delle scienze varia da collegio a collegio in estensione, intensità e orientamento, ed è evidentemente legato alle circostanze, alle risorse locali e alla disponibilità di maestri. La prova migliore che, sia pure entro i limiti qui sopra accennati, l 'insegnamento delle scienze nelle scuole dell'Oratorio deve, tutto sommato, essere considerato una cosa seria, è la pubblicazione 'degli Entretiens sur /es sciences (1684) e degli Éléments de mathématiques del padre Lamy. Sul piano più propriamente filosofico gli oratoriani seguono (fino al 1684, anno in cui è rimesso ufficialmente in onore il peripatetismo) l 'indirizzo cartesiano, che svolgono però in senso misticheggiante, ciò che aiuta a capire il fatto che dalle schiere degli ex alunni dell'Oratorio possa emergere un Malebranche. Assai mtnore è l'originalità dell'Oratorio per tutto quanto si riferisce all'organizzazione materiale e alla disciplina. Quest'ultima è nel complesso mite, cosa resa più facile dal fatto che ogni insegnante, anziché essere legato ad una unica classe, segue la propria scolaresca lungo tutto il corso di studi; ciò implica, dato che il piano di lavoro concentra lo studio delle singole materie in questa e quella classe, il passaggio dello stesso maestro da una materia all'altra, con evidente svantaggio della specializzazione, compensato però dal maggior affiatamento fra maestro ed alunni. III
· L'INDIRIZZO RELIGIOSO GIANSENISTA
L'indirizzo giansenista trae il suo nome da Corneille Jansen (latinamente Jansenius), vissuto dal 1585 al I638, il quale fu vescovo di Ypres, cittadina dei Paesi Bassi. Un fondamentale contributo a questo indirizzo religioso fu dato anche dal teologo Antoine Arnauld(r6u-1694)- che nel 1643 pubblicò un trattato La fréquente communion- e dall'abate Saint-Cyran (1 581-1643), direttore spirituale della comunità benedettina femminile di Port-Royal, da qualche decennio trasferita a Parigi. L'opera di questi tre religiosi confluì in un unico indirizzo nel corso di violente polemiche con la curia romana e con i gesuiti. Giansenio, pur essendo vescovo cattolico, si distingueva nettamente dall 'indirizzo controriformistico, rappresentato soprattutto dai gesuiti. Egli affermava che la pietà cristiana non consiste in una serie di atti rituali stereotipati, ma nella devozione interiore. Inoltre era risolutamente avverso alla famosa « casistica » dei gesuiti, che consisteva in una minutissima classificazione dei « peccati », in una causidica distinzione tra « atti » ed « intenzioni », e riduceva
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Il problema dell'educazione nel xvn secolo. Il giansenismo
di fatto la vita spirituale ad una sorta di commercio tra il penitente ed il confessore, per cui a tale peccato corrispondeva talaltra penitenza. Basandosi sulla differenza tra «attrizione» (pentimento dei peccati per paura della dannazione) e « contrizione » (pentimento dei peccati per il dolore che essi arrecano a dio), i gesuiti in sostanza riducevano la vita religiosa a mera apparenza formale: essi insistevano sulla tesi che per la salvezza basta l'attrizione che, unita alle opere penitenziali, mette l'uomo in grazia di dio e gli assicura la vita eterna. Così, essi prospettavano la salvezza dell'anima come una meta relativamente facile, e facevano ampio ricorso ad indulgenze; a pratiche per la riduzione delle pene del purgatorio, e simili. Contro questa tendenza Giansenio combatté vigorosamente, anche se il suo capolavoro teologico, Augustinus, venne pubblicato solo postumo (1640). La tradizione agostiniana, profondamente caratterizzata dalla polemica antipelagiana svolta dall'antico vescovo di Ippona, aveva sempre insistito sui valori dell'interiorità spirituale contro quelli del formalismo esteriore. Anche la riforma luterana era del resto in larga parte imbevuta di agostinismo (Lutero era stato monaco agostiniano), come gran parte delle sette ereticali medievali. Di Agostino, Giansenio accetta e svolge principalmente i seguenti temi: l'uomo è sì libero « per natura », ma ciò significa solo che esso è uscito « libero » dalle mani di dio all'atto della creazione, prima della caduta originale; con la caduta, la natura dell'uomo è irrimediabilmente corrotta: egli ha perduto la libertà di fare il bene, ed anche il battesimo, che gli restituisce l'innocenza, non lo reintegra nello stato edenico e non lo preserva dalla corruzione. L'immediata conseguenza di questa tesi è che l 'uomo non può sperare di salvarsi per mezzo delle opere (e la salvazione per opere, ricordiamolo, è un punto irrinunciabile della confessione cattolica): solo la grazia di dio può dargli una salvezza sempre immeritata. La grazia è quindi un dono che dipende esclusivamente dalla libera volontà di dio, sulla quale l 'uomo non può sperare di influire in alcun modo. E giacché dopo la caduta gli uomini sono necessariamente peccatori, possiamo legittimamente supporre che solo pochi eletti saranno salvati. Sperare che una condotta virtuosa, una confessione dei peccati o altro possa determinare la libera decisione di dio è blasfemità: le scelte del signore sono imperscrutabili, ed egli è il solo arbitro della salvezza dell'uomo. Si tratta, come si vede, di una confessione influenzata dalla predestinazione assoluta del calvinismo. Ma il giansenismo, contrariamente ai grandi movimenti riformatori del xvi secolo, non cercava la rottura istituzionale con la chiesa di Roma: esso accettava la dottrina della transustanziazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo, riconosceva l'ordinamento sacerdotale romano, accettava l'autorità del soglio pontificio, anche se riprendeva le tesi conciliariste di Erasmo da Rotterdam e di Nicolò da Cusa e negava la supremazia assoluta del papa in materia dottrinale. Inoltre esso era fieramente avverso al
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Il problema dell'educazione nel xvn secolo. Il giansenismo
potere temporale del Vaticano, che giudicava gravemente lesivo dello spirito evangelico. All'opera di Giansenio seguì il trattato di Arnauld sull'eucarestia. I gesuiti favorivano in ogni modo la frequenza della comunione, e l'ideale di perfezione era addirittura accostarsi ad essa quotidianamente. Arnauld ravvisava in questo ripetersi meccanico ed esteriore di un rito una svalutazione dell'interiorità spirituale della cena mistica. La vita religiosa, affermava, è soprattutto ascesi spirituale individuale, e l'eccessiva frequenza di atti esteriori e pubblici genera ottundimento della pietà ed è molto nociva. Non solo: l'eucarestia, essendo un contatto immediato con il corpo di Cristo, dev'essere consumata quando il nostro animo sia pervaso da ispirato fervore. È inoltre da tenere presente che la pratica gesuitica di una comunione molto frequente era ovviamente legata a quella di una confessione molto frequente, sicché rafforzava la tendenza alla casistica, alla causidica distinzione tra peccati « capitali » e « veniali », tra attrizione e contrizione, favorendo illassismo morale. Come sempre, al contrasto teologico si accompagnava anche un contrasto politico. La dottrina cattolica della controriforma esaltava l'obbedienza cieca ed assoluta, il principio di autorità, l'inquadramento dell'uomo in un ordine di pratiche e di riti che, anche se la sua fede era debole e i suoi peccati gravi e frequenti, lo avrebbe portato alla salvezza. Era, in sostanza, una dottrina profondamente avversa alla libertà ed all'autonomia individuali. Il giansenismo, al contrario, esaltava la libertà interiore dell'individuo, pu:r facendo g:rava:re su di essa la maledizione del peccato originale e della corruzione umana. Ad un sereno giudizio storico la posizione dei giansenisti appare utopistica. Far :rifiorire uno slancio mistico ed ascetico in un secolo che vedeva l'affermarsi della borghesia, tendenzialmente disinteressata a questioni di carattere religioso e tesa al conseguimento di beni profani, era impresa disperata. Certo Port-Royal conobbe una splendida fioritura, anche scientifica e filosofica (soprattutto logica), ma :rimase un fenomeno di élite. Nel :resto della Francia non mancarono grandi e severe famiglie patriarcali che professarono il giansenismo, ma questo non divenne mai, come era invece avvenuto per i movimenti luterani e calvinisti del secolo precedente, un grande fenomeno di massa. Con dò, non vogliamo far nostra la tesi di coloro i quali pretendono che !'.impulso dato dal giansenismo al progresso della civiltà moderna sia stato esclusivamente indiretto e involontario. Secondo questa interpretazione storiografica, i giansenisti contribuirono allo sviluppo della scienza ed all'affermazione della borghesia solo perché, predicando il ripiegamento interiore ed il disprezzo della vita profana, contribuirono indirettamente a far sì che il mondo profano e scientifico fossero meno sottoposti all'oppressivo controllo ecclesiastico esercitato dai gesuiti, veri paladini della controriforma. Certo questa interpretazione ha degli elementi di verità, ma :resta parziale e setto:riale. Essa è avallata, ad esempio, da
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Il problema dell'educazione nel xvn secolo. Il giansenismo
molti Pensieri di Pascal e da passi del moralista e logico Pierre Nicole (16zj-1695), il quale affermava che «nell'eternità non si conoscono più le piccole differenze che tanto ci spaventano»; sempre Nicole s~rive che all'uomo che abbia a cuore la salvezza « tutto apparirà uguale: ricchezza, povertà, salute, malattia, grandezza, bassezza, gloria, ignominia ». Questa è certo una posizione molto distante da quella della borghesia più dinamica ed attiva, ed anche da quella di quei calvinisti che nel successo mondano vedevano un segno della grazia divina ed un presagio di salvezza. Ma c'è un altro aspetto del giansenismo, non meno importante, che limita alquanto il pessimismo rinunciatario (rispetto al mondo terreno) delle proposizioni testé riportate, e rappresenta una esaltazione dell'individuo e del suo spirito di libera iniziativa. Quest'altro aspetto è riassunto nella famosa massima: « Bisogna pregare come se tutto dipendesse da Dio ed agire come se tutto dipendesse da noi. » Questa « azione » non riguarda solo le pratiche della pietà religiosa, ma anche la vita dell'uomo nel mondo, giacché i giansenisti mostrarono di non ignorare che l'uomo deve pur passare vari decenni in questa vita, seppur solo come viatico all'altra. Riappare così, anche se con minore energia, un concetto tipico del calvinismo: la fede deve dimostrarsi anche nelle azioni comuni: l'amore al lavoro ed alla vita ordinata, la capacità di amministrare il patrimonio e di non dissiparlo per negligenza o per stolido amore del lusso, la probità e la serietà morale, il disprezzo dei giochi d'azzardo, dei piaceri mondani, dei balli, ecc., e soprattutto un distacco «in spirito» dalla ricchezza (distacco che non esclude il possesso « di fatto » di grandi ricchezze che vengono amministrate in modo saggio ed economo) sono virtù che aiutano il giansenista a primeggiare anche nella parte profana della vita. Giustamente quindi i giansenisti sono stati definiti i « puritani della chiesa cattolica ». Si può quindi concludere che, mentre secondo la morale dei gesuiti un uomo è da ritenersi virtuoso « in quanto » osserva i propri doveri sociali e si sottomette all'autorità, secondo la morale dei giansenisti l'uomo è da considerarsi virtuoso se osserva i propri doveri sociali e si sottomette alla verità « in quanto » ciò gli è comandato dalla coscienza, dall'interiorità. Una conseguenza è che quando questa coscienza venisse a mancare, o suggerisse all'uomo che la ribellione ad una determinata autorità è giusta e doverosa, il giansenista si ribellerà, e farà consistere la virtù nel più radicale anticonformismo. Proprio quest'apertura verso l'eterodossia e l'indocilità anche sul piano politico spiega la violenza delle lotte tra giansenisti e gesuiti e l'appoggio deciso dato da Luigi XIV a questi ultimi. Questo monarca, che revocò anche l'editto di Nantes con cui Enrico IV aveva concesso la tolleranza agli ugonotti, vedeva nei giansenisti dei possibili scismatici sul piano religioso e ribelli sul piano politico, tanto più che il giansenismo aveva alcuni legami con gli esponenti dell'aristocrazia feudale, insofferenti dell'assolutismo di Luigi (che li aveva ridotti
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a semplici valletti della reggia di Versailles), sensibili allo spirito delle « fronde » antiassolutiste. Si forma così un'alleanza tra gesuiti, corona di Francia e curia romana, e ad essa i giansenisti non possono opporre che una resistenza di carattere spirituale. Nel I 6 53 il papa Innocenza x condanna cinque proposizioni attribuite all' Augustinus. I giansenisti si difendono osservando che le cinque proposizioni sono bensì eretiche, ma non sono affatto presenti nell'opera di Giansenio. Ma queste disquisizioni teologiche e legali non possono fermare un'ondata repressiva le cui motivazioni sono, come si è visto, soprattutto di carattere politico. Arnauld viene giudicato alla Sorbona, la sua opera viene condannata, egli stesso è espulso. In questo culminante momento, nella lotta· si gettò con tutto il suo prestigio Blaise Pascal, sostenendo i giansenisti con le famosissime Let tres provincia/es (I 6 56-57), sulle quali ci si soffermerà nel prossimo capitolo. Ma anche questo non valse a nulla: le Lettere provinciali vennero condannate e pubblicamente bruciate per mano del boia. Si ebbe poi un periodo di tregua, ma i gesuiti aspettavano soltanto il momento opportuno per inferire un colpo decisivo: l'eliminazione del cenacolo di Port-Royal, la cui direzione venne assunta da un gesuita. Tuttavia nei secoli successivi il giansenismo continuò a serpeggiare nelle file del cattolicesimo: sconfitto sul piano istituzionale, non lo fu mai altrettanto radicalmente sul piano delle coscienze, tanto che persino in autori molto vicini a noi, ad esempio Antonio Rosmini ed Alessandro Manzoni, si parlò di venature gianseniste. IV · LUCI ED OMBRE DELL'EDUCAZIONE GIANSENISTICA
Sul piano dell'educazione, se per i gesuiti il problema essenziale è la formazione di quadri dirigenti della società cattolica, per i giansenisti esso si identifica con la formazione religiosa agente sulle corde più riposte dell'animo. L'uomo è un decaduto; la sua natura è stata corrotta dal peccato originale. Il battesimo gli ha ridato, è vero, l 'innocenza, ma le ricadute sono probabili e terribili: l'assoluzione, infatti, presuppone la grazia che dio concede solo per propria libera scelta. È necessario dunque sforzarsi di conservare l 'innocenza restaurata dal battesimo, e poiché il demonio attacca i fanciulli che sono deboli, dobbiamo combattere in loro difesa: questo è il compito dell'educazione, che si innalza pertanto a servizio reso a dio e costituisce la professione più elevata, la più degna degli uomini migliori (Saint-Cyran). Un'azione formativa così intesa presuppone la conoscenza approfondita di ogni alunno da parte del maestro e un'opera assidua, ininterrotta, di vigilanza, assistenza, consiglio. Ne deriva che ogni maestro deve avere solo un piccolo numero di educandi: cinque o sei al massimo. I giansenisti nutrono una profonda sfiducia nei collegi, dove il gran numero dei fanciulli impedisce l'insegnamento
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individuale e favorisce il diffondersi dei vizi. D'altra parte, l'opera educativa dei genitori è falsata dal puerocentrismo, che comporta l'eccessiva tenerezza, dalla vanità e dalle preoccupazioni utilitaristiche. Nascono così le « piccole · scuole ».1 I giansenisti esigono di poter disporre in modo totale ed esclusivo dei fanciulli: la famiglia deve rinunciare a qualsivoglia interferenza. D'altro canto sono rigidamente intransigenti contro chiunque, alunno, maestro, domestico, possa fornire esempi diseducativi. Trattandosi, infatti, di esseri ancora prevalentemente assoggettati ai sensi, l'esempio acquista un'importanza fondamentale. I fanciulli non devono né vedere né udire nulla che possa guastare la loro innocenza. Il comportamento degli adulti, assai più che il ragionamento, costituisce il fattore primario della loro formazione. Vincere il male è impresa che alla luce della teoria della predestinazione potrebbe sembrare irrimediabilmente superiore alle forze umane. Ma i giansenisti applicano anche qui, anzi soprattutto qui, la formula « agire come se tutto dipendesse da noi ». È vero che il bambino viene ghermito dal demonio mentre -è ancora nelle viscere materne, che durante i primi anni di vita la sua mente è quasi totalmente ottenebrata dalla ignorantia veritatis, che le sue facoltà pratiche sono prese dalle vanae cupiditates; ma questa concezione non si risolve in severità sprezzante, bensì in profondo sentimento di pietà e in totale dedizione ad impiegare tutte le energie per il bene degli educandi. Bisogna afferrare i piccoli raggi luminosi che fendono le tenebre della mente infantile, spiegando tutto e solo ciò che da essi viene illuminato: questo significa proporzionare le difficoltà alle capacità e non proporre alcuna nozione che non possa essere autenticamente intesa. Ma bisogna anche promuovere l'aumento di quella luminosità, cioè insegnare a ragionare. I A Port-Royal, nei pressi di Chevreuse, esisteva una comunità di religiose fin dal I2o4. Nel I6z6 la superiora, Angélique Arnauld (sorella di Antoine Arnauld), tra~ferisce questa comunità a Parigi, nel faubourg Saint-Jacques. È a questo punto che, sotto la direttiva di Saint-Cyran, confessore delle religiose e amico di Giansenio, si costituisce, nelle immediate vicinanze del convento, una << piccola ~cuoia » di educandi e di maestri, dove riceverà la sua formazione anche Jacqueline Pasca!. Le «piccole scuole» seguono le alterne vicende del movimento giansenista: costrette ad abbandonare Parigi e a rifugiarsi nell'abbandonata casa di Port-Royal, tornano a Parigi nel I646. Ricacciate di nuovo in provincia nel I 6 5o, vengono definitivamente disperse tra il I 6 56 e il I66I: l'edificio di Port-Royal-des-Champs è raso al suolo nel I7IO. Il periodo di maggior fiori~ura delle « piccole scuole » è quello compreso tra Il I65o e il I656: sono gli anni dell'adesione di Pasca! e della più intensa attività dell'Arnauld e
del Le Maistre de Sacy. Secondo il Buisson il numero degli alunni non avrebbe mai superato i cinquanta e, complessivamente, dalle « piccole scuole» sarebbe passato poco più di un centinaio di fanciulli. Il Compayré invece porta il numero complessivo a un migliaio: è chiaro comunque che si tratta di entità trascurabili. Da un regolamento riguardante la casa di Parigi nel periodo '46-'50 sappiamo che ventiquattro fanciulli sono suddivisi in quattro camere. Ci sono quattro maestri: Nicole, Lancelot, Guyot, Caustel. È incerto se ognuno dei maestri sia assegnato ad una sola classe o se ognuno insegni una sola materia a turno nelle quattro classi. Anche il criterio di composizione delle classi è sconosciuto. La giornata degli educandi inizia alle cinque e mezzo del mattino e termina alle nove di sera. Le ore di studio si alternano con quelle di ripetizione e di correzione individuale. I ragazzi della stessa camera vanno a tavola con il loro maestro. Dopo i pasti ci sono le ricreazioni.
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L'apprendere a ragionare non è visto in funzione di una finalità astrattamente teoretica, tutt'altro: saper giudicare vuoi dire in primo luogo saper discernere il bene dal male. Da questa premessa derivano alcune fondamentali conseguenze di carattere pedagogico, prima di tutto l 'importanza attribuita allo studio. Lo studio, afferma il Nicole, non deve essere considerato come una fra le numerose e varie occupazioni dei fanciulli ma come il loro lavoro, tutto il loro lavoro. In secondo luogo, il possesso delle scienze non è un fine ma uno strumento per la formazione del giudizio. La misura e il modo dell'applicazione scientifica saranno determinati tenendo conto di questo fine. Tanto più che la suprema verità sfugge alla pura ragione e solo un vivo spirito di carità cristiana è capace di portarci fino ad essa. 1 Se questa tesi appare in contrasto col punto di partenza della filosofia cartesiana, l 'influsso cartesiano-agostiniano è viceversa indiscutibile là dove i maestri delle «piccole scuole» sottolineano la necessità di giungere, nell'insegnamento, alla massima chiarezza e fanno appello al lume interiore che solo rende possibile un'autentica partecipazione personale alla verità. Non sfugge ai portorealisti che nell'infanzia il senso prevale sulla ragione. Pertanto, mentre si preoccupano di favorire in tutti i modi lo svilupparsi del raziocinio, essi ritengono utile e talora indispensabile l'appello al senso, all'osservazione, quale unica fonte di rappresentazioni efficaci nell'ambito dell'imperfetta psiche infantile. Le difficoltà devono essere semplificate ma non eliminate: lo studio non è gioco. Il problema del maestro è quello di rendere piacevole, in quanto attivamente accettato, anche lo sforzo. Circa l'apprendimento mnemonico, i portorealisti ritengono di potersene servire solo per ciò che prima sia stato chiaramente compreso. Un cenno particolare meritano le ricerche fatte dai portorealisti circa il metodo per l 'insegnamento del leggere e dello scrivere. Per secoli e secoli, dal primo apparire della scrittura fino all'inizio dell'età moderna, aveva costantemente dominato, con trascurabili eccezioni, il cosiddetto metodo alfabetico, secondo il quale si imparano anzitutto i nomi delle lettere, poi le loro forme ed il loro valore, quindi le sillabe e infine le parole. Si tratta di un metodo profondamente erroneo in quanto attribuisce valore concreto all'alfabeto (che in realtà è un'astrazione grammaticale, lontana dalla mentalità, e quindi dall'interesse, del bambino) e in quanto confonde il suono delle lettere con il loro nome, generando ovviamente una dannosissima confusione. Abbiamo visto come Comenio si fosse preoccupato di elaborare un metodo I Sul valore da attribuirsi all'insegnamento a ragionare, ecco alcune significative affermazioni di Nicole: «Formare il giudizio è dare a uno spirito il gusto del vero e la capacità di discernerlo; è renderlo sensibile nel riconoscere i falsi ragio-
namenti un po' nascosti; è insegnargli a non accontentarsi di parole o principi oscuri, a non ritenersi soddisfatto se non sia penetrato fin nel fondo delle cose. »
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che, collegando le parole alle cose, rendesse l'apprendimento della lettura e della scrittura più concreto e perciò più interessante. Tra i portorealisti il Guyot, l'Arnauld e i fratelli Pascal giungono, all'incirca contemporaneamente, ad impostare il metodo fonico, secondo il quale si imparano prima le vocali e i dittonghi e successivamente le consonanti; queste ultime non vengono insegnate isolatamente, ma solo nelle loro combinazioni con le vocali. È il metodo che si affermerà nelle migliori scuole fino ai nostri giorni, quando cederà il passo, come vedremo, al metodo cosiddetto globale. L'insegnamento comincia dalla lingua materna. Per gli esercizi di lettura si usano perlopiù testi latini tradotti. Per abituare alla composizione si fanno molti riassunti scritti ed orali, nonché narrazioni o lettere ispirate alla vita vissuta. Anche le grammatiche latine sono scritte in francese. A Port-Royal però le lingue si imparano essenzialmente con l'uso. Ciò non significa che si cada nell'equivoco, in cui era caduto il padre di Montaigne, di voler insegnare il latino come lingua viva. L'unico «uso», trattandosi di lingue morte, può essere la lettura degli antichi autori. Le regole grammaticali sono ridotte al minimo e sempre derivate da casi particolari incontrati leggendo. La riduzione della grammatica al minimo, si badi bene, non significa però la sua eliminazione. La grammatica rende i fanciulli veramente padroni di quello che vengono via via apprendendo, fa loro imparare in una volta sola ciò che per via pratica richiederebbe centinaia di ripetizioni e, soprattutto, sviluppa la facoltà di riflettere, universalizzare, ragionare. Dopo la lettura, il migliore esercizio per imparare il latino è la versione. Ci si serve molto della versione « a senso », con lo scopo di evitare il ripetersi di meccaniche forme stereotipate. La composizione latina, tanto cara ai gesuiti, è alquanto svalutata. I classici e le opere da leggersi vengono scelti con estrema cautela. I giansenisti non seguono i gesuiti nel costume di cristianizzare e moralizzare gli autori con arbitrarie modificazioni dei testi, ma anche in loro l'esigenza moralistica supera ogni criterio di valutazione puramente estetica. Accanto alle lingue antiche trovano posto quelle moderne, la storia e la geografia. Anche la filosofia rientra nel curriculum di studi. Essa però deve venir affrontata con ponderatezza. Le simpatie dei portorealisti vanno prevalentemente ai moralisti. Ciò non impedisce loro di eccellere anche negli studi di logica. È qui, anzi, che si rivela maggiormente l'entusiasmo dei giansenisti per la filosofia cartesiana. La logique ou l'art de penser di Arnauld e Nicole può venir considerata come il miglior trattato di logica cartesiana. Essa si fonda sopra un serio tentativo di combinare Aristotele con Cartesio, come si potrà vedere nel capitolo IX. Il moralismo giansenistico si manifesta anche nella poca simpatia che i maestri di Port-Royal dimostrano per i viaggi, per gli spettacoli e, in genere, per
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ogni forma di svago. « Il divertimento, » dirà Pascal, « è la più grande delle nostre miserie, in quanto ci impedisce di pensare a noi stessi e fa sì che a poco a poco ci perdiamo. » 1 Anche l'emulazione, vero cavallo di battaglia dell'educazione gesuitica, è bandita dalle « piccole scuole ». Qui si ha invece il culto del silenzio, dei modi controllati, della modestia. Anche le cerimonie religiose vengono celebrate senza sfarzo. La disciplina è ottenuta con la vigilanza, con la pazienza, con la dolcezza. Di fronte alle manifestazioni della malvagità umana è assai meglio affidarsi alla preghiera che ai castighi. Pregi notevoli della scuola portorealista sono il profondo rispetto della personalità umana, la subordinazione delle pratiche del culto a un sincero sentimento religioso, il fatto che la devozione sia consigliata e raccomandata, ma non imposta. Tutto sommato, però, da questa concezione pedagogica emana un senso di tristezza e quasi d'angoscia. L'amore non è tanto per il fanciullo quanto per il Cristo ch'egli porta in sé. La grazia della fanciullezza, la tenerezza paterna, la dolcezza poetica della famiglia sono sconosciute. Il metodo di Port-Royal è per la sua stessa essenza aristocratico: non può essere generalizzato. L'aumento degli alunni, infatti, ne corromperebbe lo spirito; d'altra parte, è impossibile trovare un gran numero di educatori di grande valore. Per di più il tipo di struttura adottato dai portorealisti risulta estremamente costoso (l'odio implacabile nutrito verso di loro dai gesuiti non può derivare, pertanto, dal timore di una concorrenza, ed è invece dovuto ad un'autentica incompatibilità spirituale). Eppure, come osserva acutamente il Buisson, quei pochi anni e quelle piccole scuole furono sufficienti per formare uomini costituenti quasi « una razza a parte », per creare un tipo umano destinato a distinguersi fra la gente del suo secolo ed a sopravvivere anche al di là di esso, a lasciare una traccia profonda e duratura nella storia dell'educazione. V · IL PIETISMO. AUGUST HERMANN FRANCKE
In quello stesso clima che nel mondo cattolico dà origine al giansenismo sorge, nel mondo protestante, il pietismo, un fenomeno nel quale confluiscono motivi calvinistici e luterani. Suoi presupposti fondamentali sono: la ribellione ad ogni inquadramento entro rigidi schemi concettuali; la tolleranza, sia religiosa sia politica, tendente ad un rigorismo etico aconfessionale; l'esaltazione della fede come unica forma di esperienza del divino, contro ogni ricerca intellettualistica di dio e dei suoi attributi; una forte diffidenza per la retorica e per l 'umanesimo letterario e una grande aderenza alla realtà. Decisiva importanza è atI Il Nicole giunge a definire gli autori drammatici «pubblici avvelenatori »; il de Sacy, per esprimere la propria avversione ai viaggi, afferma
che « viaggiare è vedere il diavolo vestito in tutte le possibili guise: alla tedesca, all'italiana, alla spagnola e ali 'inglese ».
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tribuita al travaglio del pentimento, condizione indispensabile di una rigida vita morale e della rigenerazione. Fondatore del movimento pietista è considerato Philipp Jakob Spener (I 6 3 5- q o 5), alsaziano, predicatore celebre a Strasburgo, Francoforte, Dresda, Berlino. Perfetto catechista, egli riesce come nessun altro ad esporre, con la massima semplicità e la più grande efficacia, la storia sacra e la dottrina cristiana ai fanciulli che riunisce attorno a sé ogni domenica. Egli è convinto che l'essenza del cristianesimo vada cercata non nel sapere dottrinale, bensì nella prassi stessa dell'esperienza religiosa, e proprio perciò oppone alle complicate elaborazioni razionalistico-filosofiche della concezione cristiana (Spener pensava in particolare agli scritti di Melantone) un'esposizione volutamente semplice di essa, soprattutto rivolta a infiammare i sentimenti più genuini che albergano in ogni animo veramente puro, come per l'appunto quello dei fanciulli, onde riuscire per questa via a porre il credente in contatto diretto con dio. 1 Ma la personalità dominante del pietismo è senza dubbio August Hermann Francke (I663-I727). Nato a Lubecca, studia in un ginnasio organizzato secondo i principi rdi Ratcke e di Comenio. A Dresda stringe amicizia con lo Spener. Viene chiamato ad insegnare greco e lingue orientali nell'università di Halle, ove soggiorna per ben trentacinque anni, fino alla morte; quivi crea una serie di istituzioni educative che diverranno celebri sotto il nome di Fondazioni di Francke. Tali istituti sono: I) la scuola dei poveri, gratuita, sostenuta dalle donazioni di pii benefattori, destinata a quei fanciulli che altrimenti sarebbero rimasti nella più completa miseria intellettuale oltre che economica; 2) la scuola borghese o scuola tedesca, destinata ai fanciulli provenienti dai ceti agiati. È caratterizzata dal fatto che in essa ha importanza fondamentale l'insegnamento della lingua tedesca; 3) l'orfanotrofio, nel quale vengono non solo istruiti ma anche educati e nutriti orfani e trovatelli; 4) la scuola latina, cioè una scuola media preparatoria all'università, di tipo sostanzialmente tradizionale; 5) il Paedagogium, specie di liceo destinato ai giovani dei ceti superiori, mirante ad armonizzare la vita pratica con la cultura classica. È articolato in corsi paralleli, nei quali prevale o l 'insegnamento linguistico-letterario, o quello scientifico, o quello artistico o quello tecnico-pratico, allo scopo di offrire agli studenti la preparazione adatta alla professione alla quale essi intendono dedicarsi. Nel Paedagogium gli alunni non sono divisi per classe ma a seconda del loro rendimento nelle singole materie; I
Per l'influenza che queste idee esercite-
ranno sulla cultura tedesca del XVIII secolo, rinviamo al capitolo xv della sezione v.
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6) il seminario, o scuola normale, per la preparazione dei futuri maestri. Accanto a queste istituzioni strettamente scolastiche il. Francke crea una stamperia, una libreria, una biblioteca ed una farmacia. Quest'ultima diverrà celebre e, insieme alla libreria, costituirà una cospicua fonte di finanziamento per le altre iniziative. Alla morte del fondatore, nelle varie scuole di Halle sono ospitati più di duemila studenti con oltre cento maestri. Il Francke è assertore di una istruzione universale ma non uniforme: tutti debbono essere messi in condizione di realizzare la loro missione nel mondo; tutti debbono quindi essere istruiti, ma ognuno procederà negli studi a seconda delle sue capacità. L'istruzione deve, comunque, essere subordinata alla educazione religiosa: su sei ore quotidiane di insegnamento tre sono destinate alla religione. La cultura va congiunta con la vita: di qui la condanna dell'umanesimo verbalistico-letterario. Oltre alla pietà ed alla devozione, anche il lavoro deve essere considerato un essenziale fattore educativo. Quanto al metodo, a base dell'istruzione è posta l 'intuizione. Le scuole del Francke si servono, allo scopo di rendere possibile l'uso del metodo intuitivo, di copiosi sussidi didattici: gabinetti scientifici, carte, modelli. Inoltre, specialmente agli orfani e ai poveri, si fanno frequentemente visitare le officine. La disciplina è assai rigida: il gioco e perfino il riso sono vietati. Si dà, in compenso, molta importanza al moto. È molto curata l'educazione della volontà e si ritiene che fattori importanti per il rafforzamento della volontà siano il sentimento religioso e la preghiera; naturalmente, non la preghiera biascicata a fior di labbra, ma la preghiera che fa soffrire, che porta alla disperazione ma successivamente libera dall'angoscia e rende sereni e sicuri di sé. L'uomo che sa pregare così, che vive così intensamente la propria fede, non ha bisogno di nulla e di nessuno fuori di sé, e realizza l'autonomia e l'autodisciplina. La sua energia si realizza nel mondo come attività produttiva, lavoro, secondo un motivo 'tipicamente calvinistico. La diffidenza pietistica per il razionalismo si manifesta non solo contro la pretesa di giungere per via di ragionamento a conoscere dio, ma anche contro la pretesa di costruire su basi meramente razionalistiche la comunità sociale. La ragione non può non rendere individualisti, egoisti. Essa può suggerire, per motivi utilitaristici, la reciproca tolleranza, ma non potrà mai generare il rispetto, la simpatia, l'amore. Questi sono opera del sentimento e su quest'ultimo, perciò, l'individuo deve far leva per stabilire rapporti veramente umani col prossimo. Le scuole del Francke costituiscono un modello che verrà ben presto imitato in numerose città tedesche. Specialmente la creazione di scuole a indirizzo scientifico-moderno o addirittura tecnico-professionale (Realschulen) sarà in larga misura effetto del diffondersi dei principi educativi del pietismo. Anche il Collegium Fridericianum di Konigsberg, nel quale studierà Emanuele Kant, sarà profondamente influenzato dallo spirito pietistico.
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VI
· TENTATIVI DI RIFORMA NELL'UNIVERSITÀ FRANCESE
Già nel I 571 il protestante Hubert Languet scrive da Parigi al suo amico Camerario: « I gesuiti eclissano in reputazione tutti gli altri professori e a poco a poco fanno precipitare nel disprezzo i doce~ti della Sorbona. » Durante gli ultimi decenni del xvi secolo le continue agitazioni della guerra civile non fanno che aggravare il male e accentuare la crisi. Non si tratta solo di disorganizzazione esteriore e di indisciplina ma anche e soprattutto di scarso livello degli studi e di insufficienza metodologica; carenze inevitabili se si pensa che, ufficialmente, l'università è retta ancora dagli statuti fissati nel 1452. « Il rinascimento aveva compiuto la sua opera nel campo delle arti, delle lettere, delle scienze, nel gusto generale della nazione, » scrive il Compayré, « la riforma aveva profondamente modificato le condizioni religiose dello stato; il mondo materiale s'era fatto più vasto con la scoperta dell'America; la stampa aveva dato ali al pensiero; i gesuiti organizzavano le loro scuole con crescente successo; Rabelais, Montaigne avevano scritto, Ramus aveva parlato; tutto nel corso di un secolo si era trasformato: poteva l 'università sola, in mezzo ali 'universale cambiamento, rimanere immobile? » Il problema è inteso da Enrico IV che instaura una commissione che elabora un nuovo statuto per il 16oo. Dopo le riforme di Innocenza 111 e di Urbano v, dopo la già citata riforma del 1452, realizzata da un cardinale in nome della santa sede, per la prima volta l 'iniziativa è presa dal potere laico: gli ecclesiastici non figurano nella commissione che a titolo consultivo. «Gli statuti del 16oo, » dirà uno storico francese, « furono una clamorosa rivincita della ragione, del diritto pubblico, della religione illuminata sulla follia e i principi sovversivi. » In realtà la riforma corrisponde solo in parte a una simile interpretazione. Per quanto riguarda il controllo statale si può notare da un lato che l'onnipotente facoltà teologica della Sorbona continua ad essere dominata dalla chiesa e dall'altro che la crescente importanza dei collegi religiosi ridimensiona in partenza qualsiasi velleità statale di ridurre il potere ecclesiastico nel campo dell'insegnamento medio e superiore. In base alla riforma del 16oo l'università risulta così strutturata: un collegio, articolato in cinque anni dedicati allo studio del latino e degli autori antichi e due dedicati alla filosofia e alla lettura di Aristotele ed Euclide; facoltà delle arti; facoltà superiori (medicina, diritto, teologia). Le facoltà superiori conferiscono i gradi di baccelliere, licenziato e dottore. Il baccellierato delle facoltà superiori si ottiene in cinque o sei anni~ ·11 dottorato in medicina in sette, il dottorato in teologia in dieci; non si è dottore in teologia prima dei trentacinque anni di età. La qualità degli studi rimane però ancora scadente. L'insegnamento letterario continua ad essere impartito in latino; l 'insegnamento filosofico è immutabilmente aristotelico e accanitamente anticartesiano, pedantemente attaccato a
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Il problema dell'educazione nel xvn secolo. Il giansenismo
un formalismo rituale. La scienza moderna non trova cittadinanza all'università: nessuno dei grandi scienziati dell'epoca, da Descartes a Pasca!, a Mersenne, a Fermat, appartiene all'università. È proprio per ovviare a questa carenza e allo scopo di fornire un minimo di strutture organizzative agli scambi fra scienziati che, come abbiamo visto nel capitolo I, sorgeranno l'Accademia delle scienze, quella di chirurgia e quella di medicina. VII
· LA SCUOLA ELEMENTARE-POPOLARE
Circa l'esistenza di una rete abbastanza fitta di scuole popolari-elementari, gli storici sono tuttora divisi. Anche se oggi tende a prevalere l'opinione che, sotto la spinta combinata dell'invenzione della stampa, delle esigenze dello sviluppo commerciale e dei principi della riforma, il xvn secolo debba essere visto come un periodo di accresciuta diffusione delle scuole a tutti i livelli, è indiscutibile che il fenomeno assume proporzioni e caratteri profondamente diversi nei diversi paesi e nelle singole regioni e province di uno stesso paese. D'altro canto gli studi storici approfonditi sono ancora molto rari, e spesso risultano del tutto impossibili per mancanza di documenti. Lo stato, che in generale si occupa ben poco delle scuole, non si interessa per niente di quelle di primo grado. Queste, pertanto, sono in prevalenza sostenute direttamente dalle famiglie degli scolari. Alcune si reggono sulle rendite di donazioni, e in questo caso possono accogliere gratuitamente alcuni alunni. Altre, ma poche, sono istituite dalle municipalità. Ci sono infine le scuole di carità, gratuite, organizzate perlopiù dai curati e condotte da loro stessi o da qualche altro prete. I maestri sono, di norma, scelti dalle autorità locali fra coloro i quali, avendo la licentia docendi rilasciata dàll'autorità religiosa, dimostrino di possedere capacità sufficienti. Di solito la cultura di questi maestri è miserevole, trattandosi di persone dedite soprattutto anche ad altri mestieri, prive di qualsivoglia preparazione specifica. Così un certo Jean Merlier, maestro a Parigi in faubourg Saint-Marceau, può, riprendendo forse inconsapevolmente un tema caro a Comenio (e, del resto, anche ad Aristotele!), lamentarsi perché « mentre per fare delle scarpe, tagliare dei vestiti, forgiare delle serrature e delle chiavi è necessario aver fatto apprendistato sotto qualche maestro durante parecchi anni e aver superato l'esame davanti ai più esperti dell'arte, si dà a chicchessia il permesso di esercitare la prima istruzione dei fanciulli, che è cosa tanto importante». D'altra parte, le condizioni di vita dei maestri sono misere, tanto che la maggior parte può campare solo alternando l'insegnamento con un altro mestiere. Spesso, addirittura, è lo stesso contratto col quale una comunità assume un maestro ad impegnare quest'ultimo anche (se non principalmente) come sacrista, campanaro, chierico, pubblico banditore, ecc. I locali e le suppellettili sono ad analogo livello. Qualche volta il
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Il problema dell'educazione nel xvn secolo. Il giansenismo
maestro accoglie i fanciulli nella sua casa, ma può accadere che faccia lezione in una stalla o in una scuderia. Un cenno particolare merita il fatto che l'insegnamento è individuale. Mentre il maestro insegna a leggere (la scrittura e l'aritmetica rappresentano già un grado superiore che non sempre si raggiunge) a un bambino, gli altri giocano o studiano liberamente sparsi nella stanza. Si deve notare però che non si tratta di un metodo particolare qelle scuole popolari. L'insegnamento nelle piccole scuole digrammatica frequentate dai fanciulli dei ceti agiati, destinati al collegio, si svolge nello stesso modo. Del pari, quando la scolaresca è numerosa, abbiamo l'uso di quello che all'inizio del XIX secolo sarà definito « mutuo insegnamento ». VIII
· IL PROBLEMA DELL'EDUCAZIONE DELLA DONNA
L'educazione femminile è ancora estremamente arretrata: e se non mancano donne di eccezionale cultura (basti ricordare madame de Sévigné), l'opinione dominante è sempre quella sintetizzata da un celebre personaggio di Molière: « Per molte ragioni non sta bene che una donna studi e sappia molte cose. Educare i suoi figli secondo i buoni costumi, curare la casa, sorvegliare i domestici, regolare giudiziosamente le spese, questo è il suo studio e la sua filosofia. » Di fronte alle poche eccezioni, la regola generale è rappresentata dalla moglie di Racine, che certamente non ha mai visto rappresentate e probabilmente non ha mai letto le tragedie del marito. Le giovanette della buona società ricevono, quando la ricevono, un po' di istruzione nei conventi. Fra le congregazioni che si occupano di educazione femminile meritano di essere particolarmente ricordate, in Italia, quella delle Orsoline, fondata intorno al I 540 da Angela Meri ci e quella delle Angeliche, fondata (I 53 5) dalla contessa di Guastalla. In Francia il problema è affrontato da Fénelon, dai portorealisti e da madame de Maintenon. François de Salignac de la Mothe-Fénelon, noto col più breve appellativo di Fénelon, nasce nel Périgord nel I65 I e muore nello stesso anno di Luigi XIV: I 7 I 5. Appartiene a famiglia non ricca ma nobilissima. Prende gli ordini sacri nel I675 e, dopo essere stato per qualche tempo vicino ai gesuiti, rivolge le proprie simpatie ai giansenisti. Viene nominato dall'arcivescovo di Parigi superiore delle « nuove cattoliche » nella Saintonge e nel Poitou. È noto come fin dai primi anni di effettivo esercizio del potere da parte di Luigi XIV sia cominciata, nel quadro della realizzazione di uno stato integralmente assoluto, una lotta implacabile contro ogni tendenza a una qualsiasi forma di autonomia, sia pure sul piano meramente religioso. Ne fanno le spese i giansenisti, come abbiamo detto, e gli ugonotti. Contro questi ultimi, tuttora protetti dall'editto di Nantes (emanato da Enrico IV nel I 598), si cominciano ad applicare misure restrittive per passare poi a forme aperte di violenza e di spietata persecuzione. Una delle
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più odiose di queste misure persecutorie è costituita dallo stanziamento di truppe n.elle case dei protestanti, col permesso, anzi con l'ordine, di perpetrare ogni specie di soprusi. Un'altra è l'istituzione di case in cui si rinchiudono con la violenza giovanette protestanti strappate alla famiglia e spose rapite ai mariti, col duplice scopo di convertire le donne e di ricattare gli uomini. Il convento in cui Fénelon può appagare le proprie aspirazioni missionarie è appunto uno di questi luoghi creati dal fanatismo e dalla bricconeria. Però, anche in un ambiente così sinistro, egli dimostra un sincero spirito di carità, così che i « nuovi convertiti » piangeranno quando lascerà l'incarico. Nel 1689, su proposta del suo amico ed ammiratore duca di Beauvilliers, Fénelon diviene precettore del duca di Borgogna, figlio del Delfino. L'incarico dura otto anni, durante i quali Fénelon sogna di riuscire, attraverso l'azione esercitata sul giovane principe, su alcuni consiglieri del re e sulla signora di Maintenon, ad influenzare lo stesso sovrano. Senonché una vivace polemica col Bossuet si conclude con l'intervento del papa e con la condanna di un libro scritto dal nostro autore sull'abuso che spesso si fa delle massime dei santi. Prima conseguenza di questa condanna è la perdita dell'incarico a corte. Nominato in seguito arcivescovo di Cambrai, Fénelon dedica gli ultimi anni della sua vita alle cure della diocesi e al tentativo di persuadere pacificamente alla conversione giansenisti e protestanti. Ciò non gli impedisce di scrivere ancora alcune opere importanti. Fra i suoi scritti hanno importanza pedagogica specialmente i seguenti: Traité de l'éducation des .ftlles (1687); Fables (pubblicate postume nel 171 8); Dialogues des morts ( qoo); Les aventures de Télémaque ( 1699). Le Favole sono una raccolta di vere e proprie fiabe, di apologhi e di novelle, scritte da Fénelon ogni qual volta il principe educando abbia commesso una mancanza particolarmente grave o sia ricaduto in un vizio abituale. Ogni racconto mira a richiamare l'attenzione del fanciullo sul fallo compiuto, a sottolinearne il carattere odioso e la contraddittorietà rispetto alla posizione sociale del pupillo. Le più riuscite sono quelle in cui prevale l'elemento fantastico e avventuroso. Si tratta delle prime favole scritte veramente per bambini. L'elemento moralistico non è quasi mai dichiarato; l 'immaginazione è viva; nel complesso si tratta di autentica, buona letteratura. I Dialoghi dei morti (essi pure dedicati all'alunno, quando ormai si era fatto ragazzo) introducono personaggi illustri dell'oltretomba ed hanno, oltre allo scopo di dare ammaestramenti morali, quello di insegnare in modo interessante e divertente la storia e la mitologia e di giudicare il comportamento dei personaggi sia dal punto di vista morale sia da quello della prudenza politica. Il Trattato sull'educazione delle fanciulle, dedicato alla duchessa di Beauvilliers, è un libro scritto più per le madri che per gli educatori di professione. Il libro lamenta l'insufficienza dell'educazione femminile, affronta il problema pedagogico (femminile e maschile) in generale e tratta dei difetti delle donne e della
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loro educazione. L'opera, nel complesso, è asistematica e priva di una profonda unità. Essa affronta il delicato problema senza uscire dallo spirito del tempo. Fénelon pensa quasi esclusivamente a quelle ricche gentildonne che tanto contribuiscono a determinare l'atmosfera di corte e il costume dell'epoca. In verità non mancano alcune considerazioni valide per l'educazione di donne di tutte le classi, ma ogni qual volta accenna esplicitamente ai compiti più specificamente sociali della donna, il nostro autore ce la presenta invariabilmente come :responsabile di una grande casa, alla testa di numerosi servi, in frequente contatto con i grandi della nobiltà. Ma, anche prescindendo da ciò, il libro rimane entro lo spirito del tempo in quanto non accenna neppure al problema di una possibile parità della donna. La donna ha indubbiamente una missione importante nella vita, ma l 'ha proprio in quanto donna, vale a dire come madre, come massaia e come ispirat:rice delle buone o cattive azioni degli uomini. Dal punto di vista della pedagogia in generale, Fénelon mostra di non essere entusiasta del puro sapere e dell'alta specializzazione, nemmeno pe:r gli uomini. Il fine di quell'educazione che deve essere impartita a tutti è la realizzazione della ragionevolezza, dell'assennatezza. Educazione formativa, dunque, senza però che egli giunga ad attribuire una funzione speciale a quelle che ai suoi tempi erano considerate discipline formative per eccellenza: il latino oppure la matematica. Pe:r lui, si tratta solo di realizzare un certo equilibrio di vita sentimentale, una certa compostezza del comportamento, di affinare il gusto, di realizzare quell'autodominio che è avviamento alla moralità: il complesso di tutto ciò è, pe:r lui, la :ragionevolezza. Una delle tesi più interessanti di Fénelon, anche se non esplicitamente svolta, è quella secondo la quale il bambino non è un uomo in miniatura, debole, incapace ma pur sempre tale che a lui ci si possa :rivolgere con il linguaggio valido per gli adulti. Il bambino ha una st:ruttu:ra psichi ca sua propria; in lui prevalgono il sentimento, la memoria, la fantasia. Su queste attività psichiche bisogna dunque far leva. Egli raccomanda pertanto un grande uso di stampe e quadri, possibilmente a colori. Grande importanza Fénelon attribuisce alla conoscenza delle irripetibili caratteristiche personali del singolo educando; egli fa acute osservazioni sui vari tipi di bambini, con i lo:ro pregi e difetti, indicando poi come l'educatore debba adeguare al singolo alunno il metodo che, dunque, non può essere definito una volta per sempre, ma deve variare di caso in caso, secondo l'agile inventiva del maestro. Un altro spunto interessante è quello che :riguarda l'educazione indiretta. È bene che il fanciullo non abbia l'impressione che gli si stia facendo la predica e che si pretenda di farlo agire secondo la volontà altrui. Fénelon, anticipando Rousseau, ritiene che si debba «far credere» all'educando di essere libero, salvo manov:ra:rlo indirettamente con opportuni accorgimenti, in modo da guidarlo
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Il problema dell'educazione nel
XVII
secolo, Il giansenismo
senza deprimere lo slancio della sua iniziativa e del suo interesse. Anche le lezioni debbono perlomeno «apparire» improvvisate. Lo studio sia divertente. Non si deve concentrare tutta la pena nel lavoro scolastico e tutto il piacere nel gioco; bisogna che la gioia si comunichi anche allo studio. Quanto alla disciplina, Fénelon raccomanda di non abusare delle punizioni e, soprattutto, di non punire mai quando l'educatore o l'educando siano in preda alla collera. Per i portorealisti e in particolare per Jacqueline Pascal, sorella del filosofoscienziato a cui verrà dedicato il prossimo capitolo, il punto di partenza teologicomorale dell'educazione è, naturalmente, lo stesso su cui si basa il programma delle «piccole scuole» delle quali abbiamo parlato nel paragrafo IV. Senonché, mentre nelle scuole maschili la coscienza religiosa si forma soprattutto attraverso lo studio, in quelle femminili essa è suscitata con mezzi psicologici essenzialmente esteriori, il cui :risultato a noi appare come una sostanziale violazione della persona umana. Va chiarito però che le alunne, cui la Pascal si rivolge, sono in prevalenza orfanelle destinate alla vita monastica. Il silenzio regna sovrano nel collegio femminile di Port-Royal. Le alunne non possono parlare tra loro che per giustificati motivi e tramite la maestra. Quando si spostano, debbono camminare tra due monache, l'una davanti l'altra di dietro, affinché, rallentando o accelerando, non possano raggiungere le compagne e comunicare con loro. Passano gran parte della giornata in meditazione e in preghiera. Lavorano sempre isolate e in silenzio. La regola raccomanda inoltre che si eviti un eccessivo entusiasmo della giovane per il lavoro che sta compiendo: l'opera infatti è tanto più gradita a dio quanto meno piace a chi la fa. Anche il cibo deve essere accettato quantunque non piaccia, per spirito di sacrificio. Il corpo « è destinato a servire di pasto ai vermi » e pertanto non merita alcuna cura. Ogni atteggiamento familiare è condannato, non solo nei rapporti delle alunne con le maestre, ma anche in quelli delle alunne tra loro. La giornata delle educande dura da quattordici a sedici ore, e ciò per sei oppure otto anni, in cupa solitudine, rotte solo dal suono della campana che annuncia il cambiamento di attività. La scuola femminile giansenistica non può dunque essere considerata che una delle più tetre e malinconiche creazioni di un sentimento religioso esasperato fino all'aberrazione. Tutt'altra atmosfera troviamo, perlomeno in un primo periodo, nell'istituto di Saint-Cyr, fondato nel 1686 da madame de Maintenon. Si tratta di un collegio mirante ad assicurare asilo ed educazione ad alcune centinaia di fanciulle della nobiltà decaduta o figlie di ufficiali caduti in guerra, secondo una concezione sociale che, nonostante la limitazione classista, rappresenta pur sempre un motivo di modernità. Le alunne entrano a Saint-Cyr a sei o sette anni e vi rimangono fino ai diciotto o venti. Coloro che si orientano alla vita monastica sono l'eccezione. L'istituto mira a formare delle buone mogli e madri di famiglia. Fra le ex alunne si scelgono, di norma, anche le istitutrici del collegio.
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Il problema dell'educazione nel xvn secolo. Il giansenismo
Dal momento in cui è entrata nel collegio, la fanciulla deve considerarsi definitivamente staccata dalla famiglia (in questo Saint-Cyr ricalca le orme dei gesuiti): potrà vedere i genitori solo quattro volte all'anno, mezz'ora per volta, alla presenza di una maestra. Per quanto riguarda il piano di studi e, in generale, l'attività delle alunne, bisogna distinguere due periodi storici: fino al 1692 lo spirito dell'istituto è largo e liberale. Sebbene ci sembri eccessivo il giudizio di chi parla di educazione «laica», è indiscutibile che a Saint-Cyr, in questi anni, domina un'atmosfera anche troppo allegra. Il centro dell'attività del collegio è costituito dalle famose rappresentazioni drammatiche, preparate dalle alunne sotto la guida di Racine e di Boileau e messe in scena alla presenza del re e della corte. Ma a madame de Maintenon parve che tutto ciò sollecitasse pericolosamente la vanità delle fanciulle; pertanto essa diede un energico, decisivo colpo di timone. Lo spirito della casa venne riformato; Saint-Cyr diventa un monastero affidato alle suore dell'ordine agostiniano. L 'istruzione diviene una cosa secondaria: si impara a leggere, a scrivere, a far di conto e poco più. I libri profani sono proibiti e la storia si riduce alla serie dei re di Francia. La disciplina diviene più rigorosa e mira al perfezionamento della virtù dell'obbedienza, secondo il modello gesuitico, e grande importanza acquista il lavoro manuale. Si escludono però i lavoretti inutili, i ricami troppo fini: le ragazze debbono soprattutto cucire biancheria e vestiti, fare la calza, pulire i dormitori e le classi, preparare e sparecchiare la tavola; devono insomma prepararsi alla vita domestica. La formazione religiosa, ovviamente, è assai curata, ma in una forma semplice e realistica, senza eccessive ore di preghiera e, soprattutto, conservando un'atmosfera di giovanile serenità. In complesso, l'opera della Maintenon, che per più di trent'anni non cessa di visitare quotidianamente l 'istituto, contribuisce ad impedire che la corruzione della corte si diffonda troppo rapidamente in provincia e fornisce ai vecchi castelli donne educate all'antica, di solide virtù e semplici costumi.
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CAPITOLO SETTIMO
Pasca/
I
· VITA E OPERE
Blaise Pasca! nacque a Clermont nel I623 da famiglia agiata, appartenente alla piccola nobiltà di toga. Aveva due sorelle: Gilberte, di tre anni più anziana di lui, e Jacqueline, di due anni più giovane. Morta la madre quando Blaise aveva appena tre anni, l'educazione dei figli fu assunta con molto impegno dal padre, Étienne, che era un magistrato di grande moralità e cultura, ricco di interessi per le scienze esatte (godeva l 'amicizia del padre Mersenne ed era in relazione epistolare col grande matematico Fermat). Da lui il nostro autore venne abituato, fin dai primi anni, a cercare in ogni questione una piena evidenza intellettiva. Di intelligenza estremamente precoce, Blaise rivelò subito una tendenza eccezionale per la matematica. Essendosi il padre trasferito a Parigi nel 1631, il giovane cominciò a frequentare con lui (dal I 6 3 5) le famose riunioni che si tenevano presso il Mersenne; poté così seguire da vicino gli appassionati dibattiti che contrassegnarono il rinnovamento scientifico della cultura europea di quegli anni, traendone sprone ad approfondire i problemi di matematica e di fisica allora di maggiore attualità. Nell'autunno 1639-40, essendo appena sedicenne, scrisse un brevissimo ma geniale Essai pour /es coniques et génération des sections coniques che venne stampato a Parigi nel 1640. La trattazione del classico argomento veniva svolta nel quadro di quella che oggi chiamiamo « geometria proiettiva »; essa conduceva il giovane autore a un risultato nuovo del massimo interesse, che ancora oggi 'suoi venire denominato «teorema di Pasca!», concernente l'esagono iscritto in una conica qualsiasi. Non ancora ventenne Blaise ideò la sua famosa macchina calcolatrice, capace di eseguire speditamente le principali operazioni aritmetiche (la caratteristica nuova e fondamentale di questa macchina era l 'esecuzione del riporto automatico); ciò che lo aveva indotto a dedicarsi a tale argomento, era il desiderio di agevolare i conti del padre, che doveva occuparsi - per motivi di ufficio - della ripartizione delle tasse in Normandia. Il modello definitivo della « pascaline » risale al 1645 e rappresenta, per l'epoca, un vero capolavoro.
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Pasca!
Intanto si occupava intensamente del problema del vuoto, che era allora di grande attualità, come comprovato dalla celebre esperienza di Torricelli. Pascal lo affrontò con metodo prettamente sperimentale, nel più schietto spirito galileiano. Non solo riuscì a confermare l'esperienza torricelliana, ma pervenne inoltre a un fondamentale principio, noto appunto come « principio di Pascal », sulla uniforme trasmissione della pressione (entro i fluidi) in tutte le direzioni. Nel 1647 pubblicò sull'argomento lo scritto Expériences nouvelles touchant le vide (Nuovi esperimenti intorno al vuoto); ritornerà poi su di esso in alcune lettere scientifiche ( 1647 e 1648), dedicate alla difesa e ali 'approfondimento dei risultati raggiunti. A diciotto anni la salute del giovane pensatore, sottoposta a prove eccessive per l'intenso studio, aveva cominciato a destare serie preoccupazioni. Nel 1646 subì un ulteriore peggioramento. Proprio in questo anno egli entrò in contatto con il movimento giansenista, che subito suscitò le più profonde simpatie sia in lui che nei suoi familiari (in particolare nella s_orella Jacqueline). In questa caratteristica situazione Pascal ebbe le prime crisi religiose (in seguito alle quali condusse vita ritiratissima), ricavandone la ferma convinzione di non dover rimanere chiuso nelle « scienze astratte », ma di doversi dedicare soprattutto allo studio dell'uomo. Ciò non significa çhe da quel momento egli abbia perso ogni interesse per le ricerche scientifiche; al contrario, continuerà ad occuparsene a lungo e vi conseguirà ancora notevolissimi risultati. Ma i problemi etico-religiosi finiranno per prendere il sopravvento, diventando negli ultimi anni la ragione • fondamentale della sua vita. Al 1648 risale una nuova pubblicazione di Pascal sul vuoto e un nuovo scritto sulle coniche ( Traité des coniques) che però è andato smarrito: di esso ci è giunta solo la prima parte e un'analisi schematica fattane da Leibniz. Allo studio dei fluidi dedicherà ancora due notevoli scritti dal titolo Équilibre des liqueurs (Equilibrio dei liquidi) e De la pesanteur de la masse de l'air (La pesantezza della massa dell'aria), composti tra il 1651 e il '54, ma pubblicati solo postumi nel 1663. Il 1648 segnò pure il rientro di Pascal nella vita mondana; dapprima egli riprende a frequentarla per ordine del medico, ma poi ci si appassiona e giunge perfino a progettare « di acquistare una carica e di prendere moglie ». Intanto nel 1651 muore il padre e nel 165 z la sorella Jacqueline entra nel convento di Port-Royal ave ,rronuncerà i voti nel 165 3· Al 1654 risalgono una importantissima lettera di Pascal a Fermat sul calcolo delle probabilità (l'interesse per questo tipo di calcolo era stato suggerito al nostro autore dalla sua viva e intelligente partecipazione ai giochi d'azzardo, molto diffusi nei salotti mondani dell'epoca) e il Traité du triangle arithmétique che verrà stampato postumo nel 1665 con altri brevi lavori su argomenti analoghi. In tale anno però (1654) ha inizio una nuova crisi di misticismo, che si risolve nella notte del z3 novembre: Pascal stesso descrive ciò che ha provato durante quella notte, per lui tanto importante, in alcune celebri pagine solitamente note col
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Pasca!
titolo di Mémorial. Nel I65 5 trascorre qualche settimana nell'abbazia di PortRoyal e scrive La conversion du pécheur (La conversione del peccatore). Acuitasi nel frattempo la polemica dei gesuiti contro i giansenisti, Pascal interviene in difesa di questi ultimi, scrivendo fra il gennaio del I 6 56 e il marzo del I 6 57 diciotto celebri lettere, le Provincia/es, raccolte poi in volume nello stesso 1657. Il suo scopo è di sferzare la morale dei gesuiti e di criticarne a fondo i presupposti filosofico-teologici. Esse suscitarono una dura e violenta reazione da parte del potentissimo ordine: vennero inserite nell'Indice dei libri proibiti e condannate ad essere pubblicamente bruciate per mano del boia. Pascal progetta di scrivere una grande opera apologetica, rivolta a dimostrare la verità della religione e a convertire l'animo degli increduli. Ma proprio nell'intento di rendere più efficace tale opera, decide di attirare su di sé, in forma clamorosa, l'attenzione del mondo scientifico. Avendo scoperto, nel I657, alcune notevolissime proprietà della cicloide (o roulette) - curva che in quegli anni aveva costituito l'oggetto di studio di parecchi matematici - all'inizio del I658 indice (sotto lo pseudonimo di Dettonville) un pubblico concorso a premi sopra sei quesiti intorno ad essa, con il proposito di rispondervi egli stesso nel caso di insuccesso altrui. Nell'ottobre del medesimo anno pubblica una Histoire de la roulette ove - sempre al fine di accrescere l 'interesse della sfida - espone, con innumerevoli inesattezze cronologiche ed anzi alcune vere e proprie calunnie, i precedenti e il complicato sviluppo del concorso. Infine, il I 0 gennaio I 6 59, abbandonata ormai la veste dell'anonimato, rende finalmente nota la propria soluzione dei sei quesiti. Il Traité général de la roulette fa parte di un volume dal titolo Diverses inventions en géométrie, che raccoglie pure vari altri opuscoli, ove sono dimostrati parecchi interessantissimi teoremi di argomento geometrico e in fini tesimale. Il carattere paradossale di tutta la vicenda, che suscitò innumerevoli e astiose polemiche, non può venire spiegato in altro modo se non mediante il singolare scopo poco sopra accennato, di ordine non scientifico ma pratico. Esso non toglie nulla, però, al valore dei risultati raggiunti, che costituiscono un vero capolavoro di indagine matematica. Al I 6 58 risalgono pure (perlo meno secondo alcuni studiosi di Pascal mentre altri li collocano nel I654) due brevi ma interessantissimi scritti di argomento epistemologico e metodologico: De l'esprit géométrique e De l'art de persuader. Essi hanno una forma frammentaria, e probabilmente costituivano la traccia della prefazione che il nostro autore si proponeva di premettere all'anzidetta opera apologetica. Vi si trovano esposte alcune assai importanti regole metodologiche, per le quali rinviamo al capitolo IX dedicato alla logica. Quanto all'opera apologetica, essa non venne mai completata; ma le numerose pagine che Pascal ne lasciò scritte (a volte in forma di semplici appunti) ci permettono di intuirne la struttura generale. Esse vennero pubblicate nel I67o 312.
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Pasca l
con il titolo Pensées de M. Pasca/ sur la religion et sur quelques autres st!Jets (Pensieri del St;g. Pasca/ sulla religione e su alcuni altri argomenti). Pur nella loro frammentarietà costituiscono il testo principale per l'esame della concezione filosofica pascaliana. Dal 1659 in poi si dedicò pressoché interamente all'attuazione dell'ideale di perfezione cristiana, delineato per l'appunto nei Pensées. Prese ancora parte però alle lotte che si svolgevano intorno al centro di Port-Royal, non celando la propria vivissima amarezza per la persecuzione di tale centro ad opera delle autorità politiche e religiose. Morì, dopo lunghissima malattia sopportata con rara forza d'animo, nell'agosto 166z, a soli trentanove anni di età. II
· MATEMATICA E FISICA
Quanto abbiamo accennato per sommi capi nel paragrafo precedente potrebbe già essere sufficiente a dimostrare la vastità dei contributi forniti da Pascal allo sviluppo della scienza del suo secolo. Sarà tuttavia opportuno aggiungere qualche ulteriore informazione che metta in luce la profondità e novità di tali contributi, anche per poter poi discutere - sia pur molto brevemente - i rapporti fra il pensiero scientifico e quello filosofico del nostro autore. Per ciò che riguarda le sue ricerche giovanili di geometria, ci limiteremo a osservare che il metodo adoperato da Pascal si ispirava a quello introdotto qualche anno prima da Girard Desargues, di cui pochi contemporanei compresero l'importanza (tant'è vero che venne praticamente trascurato per oltre un secolo e mezzo, onde solo nell'Ottocento darà i suoi grandi frutti). Il nostro autore non si sofferma a discutere la portata generale del metodo, ma lo applica con eccezionale perizia, oltrepassando di molto i risultati raggiunti da Desargues. Sorge quasi spontanea la domanda: che svolta avrebbe potuto subire la geometria se Pascal avesse proseguito con impegno le sue ricerche? Ma è un problema che non vale la pena affrontare perché priv,o di senso storico. Di non minore genialità furono gli studi di Pascal sul calcolo delle probabilità e sul calcolo combinatorio. Il più importante quesito probabilistico discusso può venire così riassunto: se due giocatori interrompono la loro partita dopo un certo numerp di giocate, come dovrà venire fra essi suddivisa la posta in gioco, affinché tale ripartizione risulti « giusta », e cioè proporzionale alle probabilità che ciascuno ormai possiede di vincere? Si tratta in altri termini di determinare come varii, dopo ogni singola giocata, la probabilità di vittoria di ognuno dei giocatori. Il metodo ideato a tal fine da Pascal è ingegnosissimo e di notevole efficacia. Per quanto concerne il calcolo combinatorio, basti ricordare che esso sta alla base della costruzione del « triangolo aritmetico » di Pascal, da lui esposta nel trattato su questo argomento del 1654; è una costruzione assai interessante anche per il largo uso che vi si fa del cosiddetto principio di induzione completa,
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che tanta importanza assumerà nelle più moderne sistemazioni assiomatiche dell'aritmetica. Ma il settore in cui Pascallasciò un'impronta più profonda, fu senza dubbio quello che potremmo genericamente indicare col nome di « analisi infinitesimale ». Riservandoci di tornare su queste sue indagini nel capitolo x, soprattutto per porre in luce le feconde suggestioni che gli scritti pascaliani pubblicati nella citata raccolta del 1659 fornirono agli «analisti» dell'epoca (in particolare a Leibniz), basti qui precisare che i più geniali risultati conseguiti in qt;esto campo dal nostro autore concernono la rettificazione di archi, il calcolo di aree, il calcolo di volumi di rotazione, la determinazione di baricentri. Il metodo seguito per giungere ad essi non risulta però esattamente determinato, oscillando spesso fra le due posizioni antitetiche degli innova tori e dei fedeli ad Archimede (che verranno illustrate appunto nell'anzidetto capitolo); non che Pascal non abbia intuito altrettanto bene quanto i più avanzati innovatori del suo tempo l'importanza dell'impostazione moderna dell'analisi (cui diede anzi un impulso di eccezionale valore) ma si sente disarmato di fronte alle obiezioni sollevate da varie parti contro di essa, cioè contro l'uso matematico dell'infinito; ne prova un vero sgomento, giungendo a scorgervi una sorta di conferma della crisi metafisica finito-infinito. È, come vedremo, un tratto caratteristico del suo spirito inquieto, ma è anche una dimostrazione della sua serietà scientifica, poiché è fuori dubbio che, ai tempi di Pascal, l'analisi infinitesimale non aveva ancora raggiunto una sistemazione razionalmente soddisfacente. Quanto alle ricerche di fisica, non occorre sottolineare - tanto la cosa è nota - l'enorme importanza dei risultati da lui raggiunti sull'elasticità dei fluidi e sulla loro capacità di trasmettere immutate, in tutte le direzioni, le pressioni su di essi esercitate. Le principali esperienze che avevano condotto Pascal alle sue celebri scoperte vennero scrupolosamente ripetute dall'accademia del Cimento, e il risultato fu una conferma completa della validità delle scoperte in questione. La cosa che merita invece di venire più sottolineata è l'impostazione delle ricerche stesse. Pascal accetta pienamente da Cartesio il dualismo spirito-materia, e anzi vede in esso, d'accordo con il èartesianesimo, la più soddisfacente giustificazione dell'autonomia assoluta delle ricerche fisiche (rivolte esclusivamente alla materia) rispetto agli studi intorno all'anima. Respinge però la pretesa cartesiana di ricostruire idealmente la macchina della natura, deducendo le proprietà concrete del mondo fisico dai principi generali della materia e del movimento. Si· oppone in particolare all'argomentazione con cui Cartesio vorrebbe dimostrare a priori l'impossibilità del vuoto: contro di essa si appella all'esperienza che, opportunamente interrogata, ci prova in modo incontestabile che il vuoto può venire realizzato. La cosa importante è, per Pascal, che lo scienziato il quale si occupa di fisica, 314
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sappia concretamente interrogare la natura con accurati e precisi esperimenti e inoltre sappia leggere le risposte che essa gli fornisce, risalendd dai dati particolari ai principi semplici che regolano il corso dei fenomeni. Egli ha senza dubbio il diritto, anzi il dovere, di formulare ipotesi, ma a patto di non confonderle con la verità (può essere degno di venir menzionato che il nostro autore attribuiva un valore meramente ipotetico alla teoria di Copernico come a quelle di Tolomeo e di Tycho Brahe). Se in un momento qualunque un'ipotesi venisse contraddetta dai fatti, dovremmo essere immediatamente disposti ad abbandonarla. Nessuna dimostrazione a priori può valere più dei fatti. L'elaborazione teorica, per quanto importante, non può venire anteposta all'evidenza dei dati sperimentali. Trattasi di un atteggiamento estremamente significativo, in cui l 'influenza di Galileo appare manifesta; si potrebbe anzi aggiungere che questa influenza assume un carattere di ribellione al cartesianesimo, tanto più interessante in quanto la cultura scientifica di Pascal si era formata in un ambiente dominato da tale indirizzo scientifico-filosofico. Ma il fatto è che egli aveva una sensibilità per il concreto (sia in fisica che in filosofia) più accentuata che non quella di Cartesio. III
· VALORE E LIMITI DELLA CONOSCENZA SCIENTIFICA
Il fatto stesso che Pascal sia più e più volte ritornato alla ricerca scientifica, dopo aver deciso di abbandonarla per una vita dedicata completamente ali 'interiorità (e ciò fino al I659), sta a dimostrare che tale ricerca rappresentava effettivamente per lui un grande valore: valore mondano, senza dubbio, ma pieno di fascino; valore tanto più pericoloso, in quanto atto ad esaltare la nostra presunzione, facendoci dimenticare la nostra fragilità (e perciò facendo passare in secondo piano il problema della salvezza dell'anima). La polemica di Pascal contro la scienza - polemica che diventa via via più accesa col trascorrere del tempo - si spiega proprio col fatto che la ricerca scientifica, e in particolare quella matematica, costituì per anni la sua più viva tentazione; egli solleva pertanto contro di essa alcune gravi critiche, accusandola di essere inutile (certamente inutile alla salvezza dell'anima), astratta, incapace di autentica certezza. Si direbbe che vuole soprattutto convincere se stesso del dovere di abbandonarla. « Per parlarvi francamente della geometria, » scrive r in una lettera a Fermat dell'agosto I66o, «io la trovo il più bell'esercizio dello spirito; ma nel medesimo tempo la riconosco come così inutile, che faccio poca differenza fra un uomo, il quale non sia che geometra, e un abile artigiano. Pertanto la chiamo il più bel mestiere del mondo; ma infine non è che un mestiere.» E nei Pensées ribadisce: « A v evo trascorso gran tempo nello studio delle scienze. Quando cominciai lo studio dell'uomo, capii che quelle scienze astratte non si addicono all'uomo, e che dalla mia condizione mi sviavo di più io con l'approfondirne lo studio che gli altri con l 'ignorarle. »
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Pasca!
Nel muovere alla scienza l'accusa di non condurci ad un'autentica certezza Pascal si ispira senza dubbio allo scetticismo di Montaigne e talvolta sembra perfino indulgere ad alcune tesi dei pirroniani. Lo scienziato non può pervenire alla certezza assoluta perché non può attingere gli elementi primi della realtà; lo stesso perenne accrescersi della scienza ci conferma il carattere incompleto e provvisorio delle sue tanto decantate conquiste. « Quanti astri che non esistevano per i filosofi del passato ci sono stati rivelati dal cannocchiale!. .. Sulla Terra ci sono erbe: noi le vediamo - Dalla Luna non si vedrebbero - E su queste erbe, peli; e in questi peli, piccoli animali; ma poi, più nulla - O presuntuoso! - I corpi misti son composti di elementi; e gli elementi no -- O presuntuosi, ecco un punto delicato! - Non bisogna affermare che esiste ciò che non si vede - Bisogna, dunque, parlare come gli altri, ma non pensare come loro. » Pascal tuttavia non si propone soltanto di umiliare la ragione. Egli vuole anche dimostrare che proprio la scienza - malgrado i suoi limiti - ci porta a riconoscere la presenza dell'infinito, sia pure di un infinito che essa non potrà mai raggiungere. «Noi sappiamo che esiste un infinito, e ne ignoriamo la natura. Dacché sappiamo che è falso che i numeri siano finiti, è vero che c'è un infinito numerico. Ma non sappiamo che cosa è: è falso che sia pari, è falso che sia dispari, perché, aggiungendovi l'unità, esso non cambia natura. Tuttavia, è un numero, e ogni numero è pari o dispari (vero è che ciò s'intende di ogni numero finito). Perciò si può benissimo conoscere che esiste un Dio senza sapere che cos'è.» Né è solo una scienza particolare (la matematica) a provarci l'esistenza dell'infinito; è tutto il complesso delle scienze che ci pone di fronte ad esso, facendocelo ritrovare nella stessa struttura dell'edificio che veniamo gradualmente costruendo. « Così, vediamo che tutte le scienze non conoscono termine nell'estensione delle loro ricerche: perché chi può mettere in dubbio, per esempio, che la geometria non comprenda un numero infinito di proposizioni? Le scienze sono infinite altresì nella moltitudine e nella sottigliezza dei loro principi: perché chi non vede che quelli che vengono proposti per ultimi non si reggono da sé, ma ne presuppongono altri, i quali, presupponendone a loro volta altri ancora, non ne ammettono nessuno che sia l'ultimo? Ma noi ci comportiamo con i principi che la ragione conosce per ultimi come con le cose materiali: dove chiamiamo punto indivisibile quello di là dal quale i nostri sensi non percepiscono più nulla, sebbene sia divisibile all'infinito, e per sua natura.» Merita di venire sottolineata l'esattezza dell'osservazione contenuta nel brano testé citato: è indubbiamente vero che la struttura del sapere scientifico non può ammettere limiti né relativamente all'ambito degli argomenti trattati, né relativamente ai principi invocati nelle spiegazioni. L'epistemologia moderna svilupperà ampiamente l'analisi di questa doppia apertura della scienza, liberando la però da ogni velo di mistero e quindi lasciando cadere in modo completo quel senso di meraviglia che Pascal sembra provare di fronte ad essa. L'averne
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rilevato la presenza e l'importanza è comunque un segno della straordinaria perspicacia del nostro autore; è una conferma della serietà con cui egli cercò di riflettere sui caratteri del sapere scientifico. Proprio perché espertissimo nelle ricerche particolari, Pasca! si rende perfettamente conto della sostanziale diversità fra la struttura « aperta » del sapere scientifico (sempre incompleto, sempre passibile di radicali ampliamenti) e quella « chiusa » della metafisica (concepita come un sapere totale e definitivo). Rifiuta pertanto qualsiasi confusione fra i due tipi di sapere, e respinge in particolare la pretesa cartesiana di ricavare la spiegazione scientifica del mondo fisico da principi generali di carattere filosofico. Ma non sapendosi liberare dal mito della totalità (« stimo impossibile conoscere le singole parti senza conoscere il tutto, come conoscere il tutto senza conoscere le singole parti »), ne conclude che la conoscenza scientifica è una conoscenza limitata, rozza, superficiale. Il punto più interessante di questa conclusione è che essa non lo spinge dalla scienza alla metafisica; ché anzi egli investe nella propria critica anche le nozioni tradizionali con cui le varie me:tafisiche hanno preteso di spiegare l'universo («l'uomo non può intendere che cosa sia la corporeità e ancor meno che cosa sia lo spirito, e meno di tutto come un corpo possa essere unito a uno spirito»). Lo spinge invece a riconoscere la nostra debolezza, e a considerare questo riconoscimento come il risultato più profondo di ogni indagine scientifica. L'opposizione fra esprit de fìnesse ed esprit géométriqtte trova qui la propria radice. La geometria è senza dubbio la più eminente delle scienze perché sa prendere in considerazione un gran numero di principi astratti deducendone con rigore le conseguenze logiche (in ciò essa risulta superiore alla fisica, che si basa su un numero assai più limitato di principi). Ma lo spirito geometrico non è in grado di cogliere la situazione poco sopra accennata, che non emerge da lunghe catene di ragionamenti, bensì da una presa di coscienza - immediata e intuitiva - dell'effettiva realtà del sapere scientifico. E analogamente esso risulterà inidoneo a trattare tutte quelle questioni ove occorre «finezza», ove cioè le cose « si scorgono appena; si sentono più che non si vedano; è molto difficile farle sentire a chi non le senta da sé ». In tale tipo di questioni rientrano per eccellenza, secondo Pasca!, l 'uomo e le faccende umane. Prima di passare ad esporre le concezioni elaborate dal nostro autore relativamente al campo (delle faccende umane) ove è più che mai necessario lo spirito di «finezza», sarà comunque opportuno ribadire ancora una volta che l'opposizione dei due esprits non implica affatto, secondo Pasca!, una parallela opposizione fra il campo delle conoscenze umane e il campo indagato dalle scienze matematico-fisiche. Anche in quest'ultimo infatti, come abbiamo visto, emergono nozioni che possono venire colte soltanto mediante l'esprit de fìnesse. Tali soprattutto le nozioni concernenti l 'infinito, sia come infinita divisibilità sia come infinita accrescibilità. Coloro che le avranno studiate seriamente «potranno 317
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ammirare la grandezza e la potenza della natura in questa doppia infinità che ci circonda da ogni parte, e potranno imparare da questa considerazione meravigliosa a conoscere se stessi, vedendosi posti fra una infinità e un nulla di estensione, fra una infinità e un nulla di numero, fra una infinità e un nulla di movimento, fra una infinità e un nulla di tempo. Sulla base di ciò, l 'uomo può imparare a stimarsi al suo giusto prezzo, e può elaborare delle riflessioni che valgono più di tutta intera la geometria ». Estensione, numero, movimento, tempo, sono ovviamente oggetti specifici delle scienze matematico-fisiche; ma quando riflettiamo su di essi con esprit de ftnesse, cessano di essere oggetti di un sapere puramente astratto, per diventare parti integranti di una ben più valida conoscenza concreta. IV
· LA CONOSCENZA DELL'UOMO
Abbiamo poco fa ricordato che nella conoscenza dell'uomo è più che mai necessario - secondo Pascal - l'esprit de ftnesse. Non avrebbe senso infatti voler applicare allo studio delle faccende umane lo stesso metodo deduttivo applicato nello studio della geometria « perché non se ne possiedono nella stessa maniera i principi» e la ricerca di essi comporterebbe «un'impresa senza fine». Per svolgere la sua analisi della realtà umana con esprit de ftnesse, Pascal si richiama spesso agli insegnamenti di Montaigne (le cui opere erano, con quelle di Epitteto, fra le sue più consuete letture): è la concretezza delle osservazioni del grande saggista, è la loro penetrante sottigliezza, la loro serietà e profondità appena mascherata da una scintillante veste ironica, ciò che più lo impressiona. Pur opponendosi alle conclusioni di Montaigne, il nostro autore cerca di imitarlo, e perfino giunge talvolta a ripeterne le medesime parole, perché è convinto che solo questo tipo di trattazione è veramente in grado di farci intuire l'autentica realtà della situazione umana. Pascal condivide appieno la spietata denuncia, operata da Montaigne, del fallimento cui va incontro la fiducia « diabolica » nelle capacità umane. A riprova di questo fallimento si sofferma, quasi compiaciuto, ad elencare con estremo acume le minime circostanze che sono in grado di porre in difficoltà le nostre più superbe azioni. Ecco per esempio due celebri « pensieri » di particolare efficacia: « Il naso di Cleopatra: se fosse stato più corto, tutta la faccia del mondo sarebbe cambiata »; « Lo spirito di questo sovrano giudice del mondo non è così indipendente da non poter essere turbato dal primo rumore che si faccia intorno a lui... Non dovete stupire se in questo momento non ragiona bene: una mosca gli ronza intorno all'orecchio, e ciò è sufficiente a renderlo incapace di una saggia decisione. Se volete che possa trovare la verità, scacciate via quell'insetto, che tiene in scacco la sua ragione e turba quel possente intelletto, che governa la città e i reami ». Potremmo senza difficoltà citare altri esempi altret-
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tanto significativi; l 'importante è però far presente come, nel pio intento di umiliare la « superba ragione », Pasca! riesca in verità a porre in luce - con eccezionale realismo - l'effettiva dipendenza, nell'individuo concreto, della mente dal corpo, il quale viene così ad assumere un rilievo sfuggito per l'innanzi a molti pensatori anche assai spregiudicati. Autorevoli studiosi moderni di antropologia giungono a vedere, nelle realistiche analisi pascaliane della situazione umana (se le leggiamo prescindendo dallo scopo di edificazione per cui egli le svolgeva), un autentico contributo al sorgere della loro disciplina. A differenza di Montaigne, il nostro autore inserisce però l'anzidetta denuncia della debolezza umana in un quadro più ampio, nel quale essa compare come momento importantissimo, ma non unico, della nostra situazione. Accanto ad esso sottolinea infatti la presenza di un altro momento, altamente positivo, che dà luogo -insieme col primo- ad una dialettica molto simile a quella fra infinitamente piccolo e infinitamente grande delineata alla fine del paragrafo precedente. Nel caso della realtà umana come nel caso del tempo, dello spazio, del movimento, ecc., è proprio l'esprit de ftnesse che ci conduce a questa scoperta, quando ci affidiamo all'immediatezza dell'intuito per cogliere il nucleo più profondo dei problemi. È il pensiero, è la coscienza, ciò che fornisce ali 'uomo questa nuova dimensione, essenzialmente contraddittoria con quella poco sopra descritta. «L'uomo è solo una canna, la più fragile della natura; ma una canna che pensa. Non occorre che l 'universo intero si armi, per annientarlo; un vapore, una goccia di acqua bastano a ucciderlo. Ma, quand'anche l'universo lo schiacciasse, l'uomo sarebbe pur sempre più nobile di quel che l'uccide, perché sa di morire e (sa) la superiorità che l 'universo ha su di lui; mentre l 'universo non ne sa nulla. » In questa contrapposizione fra il pensiero e il mondo corporeo è ovviamente riconoscibile uno dei temi fondamentali della filosofia cartesiana: la distinzione fra res cogitans e res extensa. Ma tale tema assume in Pasca! un aspetto nuovo: diventa il drammatico contrasto fra la nostra dignità di esseri pensanti e la nostra finitezza di fragili esseri corporei, circondati da un mondo infinitamente più grande e più forte di noi. È ben spiegabile quindi che, nel riflettere su di esso, Pascal preferisca ricollegarsi al mito biblico del peccato originale anziché all 'idea cartesiaM - chiara e distinta - della differenza fra le due sostanze: vede pertanto, nella nostra miseria, l'effetto disastroso della caduta di Adamo e, nella nostra dignità, la traccia indelebile della primitiva grandezza dell'uomo. In tal modo la scoperta della realtà contraddittoria del nostro essere viene a costituire, per Pasca!, il più serio avvio ad un'autentica meditazione religiosa.
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V
· L'APOLOGETICA PASCALIANA
Pascal non ammette in alcun modo che le cosiddette prove razionali dell' esistenza di dio siano veramente in grado di condurci al dio del cristianesimo. Le sue dichiarazioni sull'argomento sono di una chiarezza inequivocabile. Egli giunge anzi a riconoscere una vera e propria opposizione fra il « dio dei filosofi e dei dotti » e quello della tradizione religiosa ebraico-cristiana, sicché il puro teismo risulterebbe « altrettanto lontano dalla religione cristiana quasi quanto l'ateismo». Nessun altro autore cristiano prima di lui aveva mai riconosciuto con altrettanta franchezza e lucidità l'abisso che separa la filosofia dall'autentica religione: nessuno cioè aveva sottoposto ad una critica così radicale l 'idea stessa di una filosofia cristiana. Le conseguenze che egli ricava da questa critica sono lineari: il vero dio non può venire raggiunto con la mera ragione. La via che ci conduce a lui è un'altra, ma non perciò meno sicura: è la via del cuore. Via che ce lo fa« sentire» come essere personale, che ama e consola chi crede in lui. Col termine « cuore » Pascal indica una nuova facoltà conoscitiva, non solo antitetica, all'esprit géométrique ma diversa dallo stesso esprit de .ftnesse: essa ha un carattere intuitivo come quest'ultimo, ma è diretta, non più a cogliere la natura contraddittoria degli esseri relativi, bensì ad afferrare l'essere assoluto. È la fede, che opera in noi producendo una totale conversione del nostro animo. Come bene scrive Vittorio Enzo Alfieri: « Nessun tentativo di dimostrare Dio partendo dalla natura può giungere a risultati indubitabili, anzi accrescerà i dubbi, fornirà armi agli atei, e insomma in nessun caso approderà alla religione rivelata ... L'oggettivismo dei teologi e dei filosofi dà per posseduta e conosciuta la realtà trascendente. E invece la trascendenza dev'essere riconosciuta come esigenza di ammettere ciò che sta fuori e al di sopra di noi, realtà correlativa al nostro senso del limite e della finitezza. Bisogna partire dal soggetto e non dall'oggetto: dall'uomo, dalla nostra realtà interiore, da ciò che ci è più noto e maggiormente possibile conoscere, non già da ciò che presumiamo noto ma che solo afferriamo sotto mille illusorie apparenze. » Stando così le cose, l'apologetica di Pascal - manifestamente influenzata dal pensiero agostiniano - consisterà soprattutto nella delineazione dell'itinerario che l'uomo ha da seguire per giungere alla fede, e proprio, come si è detto, alla fede nel dio ebraico-cristiano. Secondo il nostro autore, il primo passo di questo itinerario consiste per l'appunto nella presa di coscienza della situazione contraddittoria dell'uomo, rapidamente analizzata nel paragrafo precedente. Comprendere a fondo questa situazione significa provare l'esigenza di un essere che ci trascenda, cioè di un essere capace, proprio perché assolutamente superiore a noi, di risolvere la nostra intima contraddittorietà. Sarà questa esigenza a farci afferrare l'assoluto,
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a farcelo amare, a farci scoprire in lui la sorgente della felicità totale cui aspiriamo. « La vera natura dell'uomo, » scrive Pascal, « il suo vero bene, la vera virtù e la vera religione son cose la conoscenza delle quali è inscindibile. » Non è il caso di soffermarci ad analizzare i sottili (e artificiosi) argomenti con i quali il nostro autore pretende di provare che proprio la tradizione ebraicocristiana, e solo essa, è in grado di soddisfare pienamente l'esigenza anzidetta. Basti sottolineare che il nucleo della prova consiste, secondo Pascal, nei due stessi misteri che stanno al centro di tale tradizione: il mistero del peccato (del peccato originale come pure della sua trasmissione) e quello della salvezza: « Le grandezze e le miserie dell'uomo son così evidenti che è necessario che la vera religione ci insegni che è in lui qualche gran principio di grandezza e un grande principio di miseria; e ci renda ragione di così stupefacenti contrasti. » « Perché una religione sia vera, è necessario che abbia conosciuto la nostra natura. Bisogna che ne abbia conosciuto la grandezza e la miseria, e le cause dell'una e dell'altra. Chi, tranne la religione cristiana, l'ha conosciuta?» «Tutta la fede consiste in Gesù Cristo e in Adamo. » « ... Appena la religione cristiana ci rivela questa verità - essere la natura umana corrotta e decaduta da Dio subito i nostri occhi si aprono a scorgerne dappertutto i segni, perché la natura è così fatta che attesta in ogni dove un Dio perduto, e nell'uomo e fuori dell'uomo, e una natura corrotta. » « Soltanto la grazia può far di un uomo un santo; e chi ne dubita ignora che cosa sia esser santo e che cosa esser uomo. » Ma come possono due misteri (per loro stessa natura superiori alla ragione) fornirci la base di un'autentica prova, nel vero e proprio senso di questo termine? Non vi è un manifesto circolo vizioso nella pretesa di fare appello ad essi, per convincerci di una dottrina il cui centro risulta proprio costituito dai due misteri in questione? Pascal si rende perfettamente conto della validità di questa obiezione sul piano astratto della logica. Non ne resta tuttavia intimorito perché è proprio questo piano astratto ciò che occorre secondo lui abbandonare. A che servirebbero, altrimenti, tutte le precedenti meditazioni sullo scacco della ragione? Di fronte al quesito se dio esista o no, sarebbe assurdo voler ricorrere a pure argomentazioni razionali, che già sappiamo inconcludenti; occorre invece assumere un altro ~tteggiamento, adeguato all'incertezza in cui di fatto ci troviamo a vivere, e nel contempo capace di suggerirei una via d'uscita, la «più razionale» possibile (il che non significa, come è ovvio, «via assolutamente razionale»). È il nuovo atteggiamento che sta alla base del famoso argomento pascaliano del «pari »(scommessa). Molto si è discusso sul significato filosofico di questo appello alla scommessa, cioè a un tipo di certezza strutturalmente diversa da quella logico-matematica (basata- quest'ultima- su un rapporto necessitante e quella invece su una semplice speranza, sia pure fortificata da serie argomentazioni). Vi è chi è p. I
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giunto (Lucien Goldmann) a vedervi una svolta fondamentale del pensiero moderno, svolta che ricomparirà- sotto forma diversa ma con significato altrettanto pregnante- nella filosofia di Marx. Non potendo soffermarci a discutere questa interpretazione, che ci porterebbe troppo lontano dall'argomento del presente capitolo, ci limiteremo a riportare il più fedelmente possibile i vari passaggi attraverso cui si articola il singolarissimo ragionamento pascaliano. Il punto di partenza è - secondo il nostro autore - il tremendo quesito: esiste o non esiste dio? Di fronte ad esso non si può che rispondere con un sì o con un no. Orbene, si domanda Pascal, « da quale parte inclineremo? La ragione qui non può determinare nulla: c'è di mezzo un caos infinito. All'estremo di quella distanza infinita si gioca un gioco in cui uscirà testa o croce. Su quale dei due punterete?». Mentre nei comuni giochi d'azzardo, la persona che non sa o non vuole decidersi può rinunciare a giocare, qui tale rinuncia è impossibile poiché il vivere stesso - comunque si viva - coinvolge una scelta fra le due risposte (esistenza o inesistenza di dio). Bisogna allora mettere da parte la pretesa di una dimostrazione rigorosamente razionale ( « secondo ragione, non potete puntare né sull'una né sull'altra; e nemmeno escludere nessuna delle due»), e accingersi - come appunto fa il buon giocatore- a valutare con serietà i vantaggi e gli svantaggi di ciascuna delle due puntate: « Pensiamo il guadagno e la perdita, nel caso che scommettiate a favore dell'esistenza di Dio. Valutiamo questi due casi: se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. » E allora non possono esservi dubbi sulla conclusione: « Scommettete dunque, senza esitare, che egli esiste. » Il nostro autore non si nasconde che l'argomentazione ha in sé un fondo ineliminabile di incertezza: ma egli ci ricorda che quando si lavora per il domani si lavora forzatamente per l'incerto. Aggiunge però: «Avrei molto più paura di ingannarmi e di trovare poi che la religione cristiana sia vera, che non di ingannarmi credendola vera. » L'unico serio ostacolo che ci trattiene dallo scommettere a favore dell'esistenza di dio è costituito - secondo Pascal - dalle nostre passioni. « Adoperatevi dunque,» egli conclude, «a convincervi, non già con l'aumento delle prove di Dio, bensì mediante la diminuzione delle vostre passioni... Imparate da coloro che sono stati legati come voi e che adesso scommettono tutto il loro bene ... Seguite il metodo con cui hanno cominciato: facendo cioè ogni cosa come se credessero, prendendo l'acqua benedetta, facendo dire messe, ecc.» Il significato sostanzialmente irrazionalistico di questa conclusione è così evidente, che non vale la pena insistervi. Può invece risultare opportuno onde porre in luce il peso centrale della fede, nella concezione generale di Pascal -ricordare che egli giunge a scorgere nella fede cristiana l'unica autentica base della verità, cosicché per chi non fosse illuminato da tale fede, l'unica filosofia seria sarebbe lo scetticismo pirroniano: « Il pirronismo è nel vero; perché, in
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Pasca!
fin dei conti, prima di Gesù Cristo gli uomini ignoravano come fossero e se fossero grandi o miseri. E coloro che affermavano l'una cosa e l'altra non ne avevano nessuna cognizione, e indovinavano senza ragione, per caso; e anzi, erravano sempre, in quanto escludevano l'una cosa o l'altra.» Come ognun vede, le parole testé citate costituiscono una conferma inequivocabile della diffusione che avevano - nel xvrr secolo - gli indirizzi scettici, e delle gravissime difficoltà incontrate dai pensatori più seri a trovare una convincente risposta alle obiezioni da essi sollevate. Se l'appello pascaliano alla «scommessa» sull'esistenza di dio (e proprio del dio cristiano) non troverà molti seguaci nella grande filosofia del Seicento, e se il suo invito a seguire le pratiche religiose prima ancora di aver acquistato la fede non tarderà ad apparire qualcosa di assurdo, assai più efficace si rivelerà invece - col trascorrere del tempo - il suo appello all'irrazionale, inteso come forma di conoscenza più autentica di quella scientifica. Esso eserciterà una profonda influenza su vaste correnti del pensiero moderno, tutte le volte che entrerà in crisi lo spirito scientifico. Ancora oggi costituisce una forte tentazione per molti pensatori, incapaci di comprendere il valore delle conoscenze essenzialmente relative, quali appunto quelle raggiunte dalla ragione umana e in particolare dalle scienze.
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CAPITOLO OTTAVO
Caratteri e prospettive del meccanicismo nel Seicento DI GIANNI MICHELI
I
· CONSIDERAZIONI
PRELIMINARI
Il XVII secolo è il periodo in cui sorge e si afferma quel complesso di conoscenze scientifiche che si è soliti designare con il termine di scienza moderna. Tale espressione tradizionale pone già di per sé nella massima evidenza il fatto che in quel periodo la scienza ha acquisito una dimensione nuova, qualitativamente differente dall'antecedente, cioè quella dimensione considerata veramente scientifica, che non si era riscontrata in forma esauriente prima e che poi non è stata più abbandonata. Ciò è senz'altro vero. Ci si porrebbe però in una prospettiva storicamente inadeguata se si considerassero le ricerche sulla realtà naturale ed umana antecedenti, nel loro complesso, come meramente « prescientifiche »: ogni indagine sulla realtà fondata su osservazioni e dimostrazioni che sono in grado di essere comprese e accolte da tutti perché si rifanno all'uso di una facoltà, la ragione, posseduta da tutti e vincolante per tutti, deve, in linea di principio, considerarsi scientifica. In questo caso non c'è un vero e proprio iato tra le indagini razionali sulla realtà che si erano svolte fin dall'età greca classica in cui si eta acquisita tale prospettiva, e quelle che si svolgeranno dal Seicento in poi. È però anche evidente che le ricerche scientifiche effettuate nel corso del XVII secolo esercitarono un'azione di rottura profonda: in tutte le discipline di fondo (dall'astronomia alla matematica, dalla meccanica alla biologia) si ebbero svolte radicali che costituiscono gli elementi di un generale e sostanziale processo di rinnovamento. Il carattere rivoluzionario della scienza secentesca è innegabile, ma esso va esplicitamente riaffermato e chiarito anche alla luce degli aspetti posti in rilievo da quegli studiosi che, sottolineando gli elementi di continuità tra le ricerche scientifiche compiute dagli uomini del Seicento e quelle anteriori, sono inevitabilmente portati a non dare il giusto risalto agli ele.menti di rottura insiti nella scienza secentesca. Una precisa caratterizzazione del significato della scienza del XVII secolo è problema di importanza cruciale in quanto è necessariamente collegato con l 'interpretazione che si dà alle linee di fondo dello sviluppo ulteriore della scienza. Non a caso è la questione su cui si sono cimentati i più grandi
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Caratteri e prospettive del meccanicismo nel Seicento
studiosi e che ha dato origine ad un gran numero di scritti, di polemiche, di controversie. Uno dei punti da tener fermo è comunque non solo il fatto che la scienza secentesca è rivoluzionaria, ma anche, e principalmente, che essa è rivoluzionaria essenzialmente per l'impostazione nuova che palesa e per i metodi nuovi di cui si avvale e non tanto per i suoi contenuti, cioè per le numerose nuove acquisizioni e le importantissime scoperte cui ha pur dato luogo. Si tratta in sostanza di un nuovo atteggiamento verso la realtà naturale ed umana che si è venuto faticosamente elaborando fin dal XVI secolo in un rapporto che è di sviluppo, ma anche di opposizione. II · IL SIGNIFICATO DELLE NUOVE PROSPETTIVE RINASCIMENTALI
È impossibile dare una valutazione adeguata della nuova scienza del xvii secolo senza considerare direttamente le prospettive e le tendenze di fondo dell'età rinascimentale, in quanto la scienza secentesca è lo sbocco e la naturale conseguenza di quella crisi della cultura scientifica e filosofica tradizionale che si viene delineando nel corso del Cinquecento. In tale secolo le prospettive di fondo delle dottrine tradizionali non esulano sostanzialmente dal quadro generale del razionalismo qualitativo a sfondo finalistico che era prevalso su altre tendenze nell'ambito della scienza greca, soprattutto per opera di Aristotele. Per razionalismo qualitativo a sfondo finalistico, concezione che rimase dominante per tutto il medioevo e ancora durante il rinascimento, si intende, grosso modo, una concezione generale in cui la realtà viene indagata e studiata a livello della percezione, viene cioè sistemata e inquadrata entro schemi che tendono a tradurla, così com'è, nella forma astratta della concettualizzazione. Il processo di« traduzione» coincide con quello dell'astrazione, per il quale, dal flusso continuo delle percezioni si derivano quelle caratteristiche essenziali o forme concettuali che determinano le qualità sensibili: queste forme vengono sistemate in un complesso gerarchico e costituiscono la base per un'organizzazione scientifica della realtà, di carattere definitorio e classificatorio, ma ad un tempo causale. La dottrina aristorelica delle cause è adeguata a tale concezione: la costituzione di un oggetto (e quindi la sua valutazione scientifica) è vista in relazione ad una serie di nessi esplicativi che servono a dare una interpretazione funzionale ed organica dell'oggetto in questione. Le quattro cause stesse (materiale, efficiente, formale e finale) hanno un senso solo se viste in modo funzionale ed organico in rapporto al singolo oggetto o al singolo essere di cui la forma o essenza concettuale (vista in stretta connessione con la materia) è l'elemento caratterizzante. La causa formale tende pertanto ad identificarsi con la finale, in quanto, per la realizzazione di un determinato oggetto, la natura, come l'artista, opera avendo
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in vista come fine l'attuazione, appunto, di quella determinazione formale specifica che, realizzandosi nell'oggetto che gli è proprio, realizza il suo fine costitutivo. L'esplicazione scientifica tende quindi a riprodurre l'atto creativo della natura: in questo senso va intesa la distinzione fondamentale tra la materia e la forma, tra l'elemento attivo e l'elemento passivo, che, insieme, determinano la formazione dell'oggetto. Anche dottrine come quella dei quattro elementi o quella dei luoghi naturali risultano adeguate ad una concezione che tende a risolvere la realtà in elementi qualitativamente differenziati·, connessi fra di loro in modo potenziale e quindi già organicamente strutturati, e non in elementi costitutivi omogenei. Questa visione essenzialistica o sostanzialistica dei fenomeni dominò la ricerca scientifica nell'età medievale e costituì la struttura di base della scienza tradizionale ancora operante nell'età rinascimentale e nel primo Seicento. Si tratta di un atteggiamento di fondo cui è intrinsecamente connessa una visione della realtà naturale ed umana permeata di finalismo, visione che trova il suo adeguato correlato nella concezione antropocentrica di un cosmo finito e gerarchicamente costituito, con la Terra come punto centrale di riferimento. Il sorgere della scienza moderna è ~ conseguenza diretta della crisi di questa impostazione della ricerca. Tale crisi si manifesta già nel corso dell'età medievale ed è il frutto di parecchi fattori che, combinandosi fra di loro, determinano una situazione di rottura: scaturisce da essa una nuova concezione per la quale si tende ad operare non già una« traduzione» della realtà naturale ed umana in concetti che neriproducono la differenziazione qualitativa, bensì una « riduzione » di tale realtà ad elementi univocamente determinati. Se si vuole, si può dire che la nascita della scienza moderna coincide con il ricupero di un'altra tradizione scientifica, elaborata anch'essa dai greci e rimasta viva per tutto il medioevo, secondo la quale la realtà viene interpretata sulla base di entità materiali quantitativamente determinate (atomi o corpuscoli); è bene però tener presente che il ricupero di tale tradizione, che comprende sia il platonismo che l'atomismo, cioè concezioni profondamente diverse fra di loro, è anche accompagnato da una trasformazione radicale. I motivi che hanno provocato il profondo mutamento di questa impostazione tradizionale sono molteplici, come si è visto, e si distendono ovviamente in un periodo di tempo molto lungo. Si può dire che già le ricerche metodologiche della tarda scolastica accentrate attorno al ruolo dell'esperienza e della matematica nell'ambito delle scienze fisiche, nonché le critiche alla dottrina aristotelica del movimento condotte dalla scuola dei fisici parigini del xrv secolo, portino alla crisi di alcuni punti essenziali dell'aristotelismo: esse però non intaccano quella prospettiva generale più ampia, quell'approccio ai fenomeni basato sulla concettualizzazione, di cui l'aristotelismo rappresenta solo l'espressione più tipica e sistematica. Del resto il pensiero di Aristotele, come quello degli altri maestri del pensiero scientifico greco (da Euclide a Galeno, da Ippocrate a Tolomeo), almeno nella forma tradizionale in cui veniva insegnato nelle scuole, aveva asp.6 www.scribd.com/Baruhk
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sunto una notevole schematizzazione e un'altrettanto notevole elaborazione conseguita attraverso i tramiti arabi. Le ricerche sulla realtà erano pertanto condotte in modo lato, generico, sulla base, più che delle opere degli autori, delle schematizzazioni tradizionali: vertevano prevalentemente sugli schemi formali del discorso scientifico e avevano preso un andamento estremamente analitico ed astratto. Si può capire come le critiche degli umanisti fossero volte soprattutto contro le sottigliezze e le astruserie degli scolastici. Gli umanisti rivendicavano una dimensione più concreta nella ricerca, ma perlopiù limitavano tale concretezza al ristretto campo dei rapporti civili e sociali tra gli uomini (i loro studi erano prevalentemente di carattere retorico, linguistico e storico) e mostravano un certo disinteresse per l'indagine sulla realtà naturale: ciò fu a lungo una caratteristica tipica della cultura umanistica. Il movimento culturale dell'umanesimo tuttavia diede un efficacissimo contributo alla crisi della cultura scientifica tradizionale e indirettamente allo sviluppo della nuova scienza in quanto propugnò il desiderio di far rivivere i fastigi della cultura classica e conseguentemente un rinnovato interesse per lo studio dei classici greci e latini nell'originale, al di là di ogni schematismo e di ogni deformazione ulteriore. La lettura diretta e appassionata di Euclide, Archimede, Galeno, Ippocrate, Aristotele provocò il ricupero di una massa enorme di conoscenze scientifiche, la cui assimilazione si rivelò particolarmente ricca e feconda di sviluppi. Si trattava in effetti di accogliere e di dare un senso operante a tutta una serie di fatti, di asserzioni, di teorie: occorreva far collimare i testi fra di loro, far concordare le asserzioni di un'autorità con quelle di altre, vagliare i dati e le testimonianze alla luce dell'autorità delle proprie esperienze. Si può dire che il ricupero dc::i testi scientifici classici, accolti e intesi in tutta la pienezza dei loro effettivi contenuti, coincise con la scoperta della loro inadeguatezza, della loro scarsa efficacia. Questa scoperta fu il risultato di gran lunga più fecondo di tutta la cospicua e rilevante ricerca rinascimentale, nella quale ebbe un ruolo determinante il richiamo all'esperienza. L'insistenza con cui si sottolinea la necessità di interrogare direttamente la natura, necessità alla quale l 'uomo di scienza del xvi secolo fu spinto anche dall'esigenza di superare le discordanze esistenti nei testi del pensiero scientifico classico, è infatti uno dei temi più caratteristiçi della cultura rinascimentale. 1,1 rifarsi all'esperienza diretta nell'indagine sulla natura è una conseguenza di quell'atteggiamento di maggior concretezza rivendicato dagli umanisti che si estende, nell'età rinascimentale, oltre che al mondo storico e a quello dei rapporti civili e sociali tra gli uomini, anche allo studio del mondo esterno. In verità, il rapporto che l 'uomo di scienza rinascimentale ha verso la natura è ancora abbastanza analogo a quello puntuale, concreto dell'esperienza comune e senza quell'esigenza di ordine e sistematicità che, nell'aristotelismo, aveva costituito un efficace correttivo a tale tipo di esperienza. La puntualità e la concretezza, ovviamente si 327
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accompagnano all'imprecisione e alla mancanza di rigore tipiche del linguaggio e dell'esperienza comuni: il controllo critico è sommario e generico e le cose più stravaganti o inconsuete, appunto perché tali, attirano maggiormente l'attenzione. L'entusiasmo e la passione con cui si propugnano e si conducono nuove esperienze si connette con il fatto, tipico e caratteristico, che si hanno poche esperienze effettivamente vincolanti, in grado di dirimere una questione. È q11indi naturale che questa curiosità insaziabile, questa foga di nuove conoscenze, trovi il suo naturale campo di indagine nelle scienze descrittive e pratiche: è il secolo in cui prevale l'anatomia sulla fisiologia, la biologia descrittiva sulla sistematica, l'aritmetica e l'algebra sulla geometria. «È la curiosità senza limiti, l'acutezza di visione e lo spirito d'avventura che conducono ai grandi viaggi di scoperta e alle grandi opere di descrizione. Ricorderò solamente la scoperta dell'America, la circumnavigazione dell'Africa, la circumnavigazione del mondo che arricchiscono prodigiosamente la conoscenza dei fatti e che nutrono la curiosità per i fatti, per la ricchezza del mondo, per la varietà e la molteplicità delle cose. Ovunque sia sufficiente una raccolta di fatti e una accumulazione di sapere, ovunque non si abbia bisogno di teoria, il XVI secolo ha prodotto cose meravigliose » (Koyré). Anche il notevole interesse che suscita la tecnica nel xvi secolo, pur avendo contribuito a far cadere il tradizionale disprezzo dell'intellettuale per le arti meccaniche, risente di questa tendenza eccessivamente concreta. Se pertanto viene rivendicata la necessità dell'unione della teoria con la pratica e, conseguentemente, la necessità di una nuova valutazione del mondo degli artigiani, ciò resta pur sempre una mera esigenza che non si traduce in considerazioni teoriche generali sui principi delle macchine. Malgrado si possano già vedere in Leonardo osservazioni specifiche sui singoli meccanismi, resta pur sempre vera questa acuta considerazione di Reuleaux che ben caratterizza il mondo della tecnica rinascimentale sottolineandone la concretezza e l'organicità. «Una volta si considerava ogni macchina come un tutto costituito dagli organi che le erano propri: quei " gruppi " di organi che noi chiamiamo " meccanismi " sfuggivano del tutto all'occhio dello scienziato, od erano appena intraveduti. Un mulino era un mulino, una pila una pila e null'altro. Ecco perché nei libri più antichi si descrive ogni macchina dal principio alla fine. Così, per esempio, Ramelli descrive nel 1 58 8 diverse pompe mosse da ruote idrauliche, come se fossero sempre cose nuove, dal canale motore della ruota, o perfino dal fiume, fino al tubo d'afflusso della pompa. » Tutti questi nuovi interessi intaccano, e solo parzialmente, l'antologia aristotelica, ma non quell'atteggiamento di fondo sostanzialistico e finalistico, basato sull'esperienza comune su cui poggiava l'aristotelismo. Ne risulta che le critiche anche radicali che i maggiori uomini di scienza rinascimentali rivolgono ad Aristotele risultano puramente verbali o perlomeno poco centrate. È giusto ribadire, come fa Cardano, che « se ad Aristotele fu consentito di lasciare Pla-
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tone per la verità, perché non sarà consentito anche a noi di lasciare lui per quella stessa verità?», ma ciò che manca all'uomo rinascimentale è appunto un concetto di verità saldo, sistematico, omogeneo. Dice molto bene Koyré: «Dopo aver distrutto la fisica, la metafisica e l'antologia aristoteliche, il rinascimento si è trovato senza fisica e senza antologia, cioè senza la possibilità di decidere anticipatamente se qualcosa è possibile o no ... Una volta che questa antologia è distrutta e prima che un'antologia nuova, che si è elaborata solamente nel xvn secolo, sia stata stabilita, non si ha alcun criterio che permetta di decidere se il rapporto che si riceve da tale o talaltro fatto è vero o no. Ne risulta una credulità senza limiti. » A questa fede cieca nei fatti concreti, a questo vivissimo interesse per le cose nella loro molteplice e multiforme varietà, fa da naturale contrappunto una visione globale e unitaria in senso immediato. La grande diffusione delle dottrine magiche e animistiche è un altro degli aspetti caratteristici della cultura rinascimentale: è connessa al ricupero della grande tradizione platonica a cui i testi classici dell'occultismo si ricollegano. Risorge a nuova vita la teoria della corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo, quella dell'armonia del mondo, e, in generale, l'idea di un universo animato in cui tutti gli elementi sono collegati fra di loro da simpatie, da nessi nascosti, da colleganze misteriose che l 'uomo può cogliere in virtù di pratiche occulte per soddisfare i suoi fini di potenza. La reviviscenza della magia presenta, nell'uruanesimo e nel rinascimento, caratteri abbastanza diversi da quelli originari e da quelli formatisi nell'età medievale in cui si accentuano le componenti ritualistiche e religiose in un senso che viene ritenuto deteriore. « La distanza tra medioevo ed età nuova è la distanza medesima che corre fra un universo conchiuso, astorico, atemporale, immoto, senza possibilità, definito, ed un universo infinito, aperto, tutto possibilità. Nell'ordine del primo, il mago è solamente la tentazione demoniaca che vuole incrinare un mondo pacificato e perfetto. Per questo è combattuto, perseguitato, bruciato, e la magia è relegata fuori delle scienze degne dell'uomo: è solo un precipitare nell'informe, un ascoltare la seduzione del diavolo, che è la seduzione del mostruoso» (Garin). Ora invece nelle discipline magiche si fanno luce due diverse tendenze. Una si può definire storica in senso lato in quanto la tradizione occultistica viene in;;erita in un quadro teologico molto ampio in cui è predominante il tema della concordanza con la tradizione cristiana: basti pensare alla concezione della prisca theologia e ai tentativi grandiosi di Marsilio Ficino e di Giovanni Pico, le cui opere, tutte volte in questa direzione concordataria, assumono un valore tipico. L'altra tendenza, a carattere naturalistico, trova il suo più ampio sviluppo nel pieno rinascimento e tende a contrapporsi alla magia cerimoniale e demoniaca del medioevo: in tale senso la magia è l'apice della filosofia naturale ( « naturalis philosophiae consummatio », Della Porta) e il mago è il ministro della natura, colui che sollecita le forze oscure e misteriose che nella natura operano perché 329
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abbiano luogo quegli effetti meravigliosi che il volgo reputa miracoli. La distinzione tra magia e magia si trova già in funzione apologetica negli scrittori di occultismo del rinascimento ed è stata ripresa dagli storici moderni che hanno visto da un lato « già albori di ricerca scientifica», dall'altro « relitti di antiche religioni e spunti di superstizioni nuove ». Garin ha contestato la validità di tale distinzione sostenendo che « la connessione fra magia e religione, intesa come uso di forze spirituali in senso lato rimane indissolubile, solo che il mago " nero " si serve delle forze inferiori o diaboliche, e quello " bianco " delle forze superiori e divine. La magia, sempre, è dominio di forze capaci di inserirsi attivamente entro la struttura ordinata e solidificata delle cose, modificandone le forme in guise nuove e non ordinarie ». La distinzione tra magia cerimoniale e naturale conserva però ancora, a mio parere, un valore storico ben preciso soprattutto se si sottolinea il fatto che, pur avvalendosi entrambe del medesimo tipo di apparato concettuale (principalmente il mero rapporto analogico), nei maghi naturalisti del xvr secolo il carattere religioso (in senso rituale) è meno avvertito. Se è certo che ogni forma di magia ha un procedere religioso, nel senso sopra delineato da Garin, tra una magia e l'altra c'è un elemento discriminante nei modi con cui si attua tale procedere: che sono essenzialmente liturgici (e quindi meramente pratico-volontaristici) nell'un caso e operativi (nel senso proprio del termine, cioè come attive operazioni della mente umana aperta ad un contatto diretto con la realtà) nell'altro. Una« cattiva» empiria collegata ad una altrettanto «cattiva» generalizzazione sono quindi le caratteristiche essenziali della cultura scientifica rinascimentale: gli intellettuali tipici del periodo sono dei maghi sperimentatori come Cardano o Della Porta che attestano in sommo grado tale lacerazione. Il tentativo più grandioso per superare questo dissidio e per dare ad un tempo una sistemazione complessiva delle conoscenze scientifiche fu operato da Francesco Bacone, personalità filosofica di grande rilievo, in cui le caratteristiche precipue del rinascimento che abbiamo testé delineato si riscontrano in modo accentuato, ma contemporaneamente in una forma che viene già considerata moderna, almeno per le funzioni che assegna alla scienza e al sapere. Pochi pensatori hanno insistito quanto lui sia sulla necessità di un ritorno alla concretezza, ad un sapere costantemente legato ai bisogni pratici, sia sulla necessità di unire la teoria alla pratica, di dare una interpretazione plausibile e razionale all'esperimento (si pensi alla immagine della formica, del ragno e dell'ape). Ma la sua concezione della ricerca scientifica non esula sostanzialmente dal quadro tradizionale di una « traduzione » della realtà entro schemi concettuali solo apparentemente omogenei: le sue simpatie per l'atomismo si tramutano sì in una concezione nuova dell'indagine scientifica mirante ad interpretare in forma riduttiva la realtà, ma si tratta in effetti di quel medesimo approccio generico ai fenomeni, tipico dell'atomismo antico, che del resto si amalgama in un complesso ed oscuro
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coacervo di dottrine che sfocia in una visione ancora sostanzialistica della realtà, concepita come un insieme di forme o qualità assolute essenziali. Il suo metodo induttivo, complesso, farraginoso, legato troppo alla concretezza dei fenomeni (basti pensare alle complicate tavole delle istanze), la sua incomprensione dell'efficacia della matematizzazione della natura, si riverbera in una concezione unitaria della scienza che è di tipo enciclopedico e non sistematico-deduttivo. Lo stile stesso delle sue opere palesa in Bacone l 'uomo del rinascimento: il linguaggio è spesso retorico, allusivo, fantasioso, la polemica contro la dittatura di Platone e di Aristotele è acre e violenta, l'aforisma brillante e la metafora incisiva ·prevalgono spesso .sull'osservazione metodica. III · LA RICERCA DELL'ELEMENTO ESSENZIALE NELLA COSTITUZIONE DELLA SCIENZA MODERNA COME PROSPETTIVA STORIOGRAFICA DI FONDO
La discussione sulla nascita della scienza moderna verte oggi principalmente su ciò che si ritiene l'elemento dominante o la prospettiva essenziale che ha causato appunto quel profondo rivolgimento che si manifesta nel corso del XVII secolo: la risposta che si dà a tale quesito si ricollega ad una interpretazione generale delle linee di fondo dell'evoluzione del pensiero moderno. Così, se si ritiene di importanza decisiva il fatto che in tale periodo si abbandoni il metodo di autorità, cioè quella fiducia inveterata in dottrine depositate in testi classici da una lunga tradizione con la conseguente esaltazione della capacità della ragione umana di esplicare autonomamente la propria attività, si collega direttamente la nascita della scienza moderna al movimento dell'umanesimo che aveva divulgato, ma anche storicizzato, i maestri del pensiero greco, oppure, indirettamente e con diversa valutazione, all'attività degli artigiani, nelle cui botteghe ed officine si crede si sia acquisita la nozione di un sapere collettivo e progressivo. Se invece si dà grande risalto all'idea di un universo infinito come concezione che, diffondendosi con l'opera di Copernico e soprattutto di Bruno e contrapponendosi a quella classica di un cosmo finito, ordinato e gerarchicamente strutturato, ha creato una dimensione nuova dell'uomo e della natura, ricca di fecondi sviluppi appunto perché non più limitata, le nuove prospettive del XVII secolo vengono connesse con la tradizione neoplatonica e magica, la quale ha potentemente contribuito a rompere i rigidi schemi del cosmo aristotelico. Ancora, se si accentra attorno all'idea della matematizzazione della natura il rinnovamento che si è operato nel corso del xvii secolo, inevitabilmente si è portati a considerare la scienza secentesca come la diretta conseguenza di tutte quelle ricerche logiche e metodologiche iniziatesi nel tardo medioevo ed entro le quali tale idea era a poco a poco maturata. Infine, si può anche ritenere che il meccanicismo sia sorto in funzione apologetica come acquisizione di un punto 331 www.scribd.com/Baruhk
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saldo al fine di salvaguardare, mediante la riaffermazione di leggi stabili nella natura, la possibilità del miracolo: in tal senso il meccanicismo è il fattore essenziale di un programma che nella sostanza riprende, contro le deviazioni irrazionalistiche della magia rinascimentale, che mettevano appunto in dubbio il miracolo, la stessa linea razionalistica, propria dell'aristotelismo. Non è il caso di analizzare qui da vicino tali tesi, sostenute da diversi ed importanti storici: basterà rilevare che ciò pone in luce ancora una volta la complessità dei problemi relativi ad una valutazione della nascita della scienza moderna. A mio parere, una svolta così radicale nella storia dell'umanità non può aver avuto luogo se non in virtù di un mutamento di ciò che di più generale v'è nell'attività della ragione umana, cioè delle prospettive filosofiche di fondo alla cui elaborazione hanno contribuito, oltre ai fattori indicati prima, il sorgere di nuove condizioni intellettuali, sociali, economiche e civili. Quel che va sottolineato è il fatto che, se in ogni analisi storica è opportuno porsi dal punto di vista più ampio possibile adottando un criterio di giudizio globale ed organico, ciò risulta assolutamente necessario per valutare a pieno un periodo di crisi e di rottura com'è quello della rivoluzione scientifica. Il punto di riferimento più sicuro da questo punto di vista è costituito dal meccanicismo, che può essere assunto come elemento catalizzatore di tutto il periodo, in quanto è il risultato teorico in cui sfociano tutti i fattori di rinnovamento che si sono segnalati ed è ad un tempo una concezione così generale da investire non solo tutte le discipline, scientifiche e no, ma da condizionare anche il modo di pensare e di vivere di tutto un secolo. Il meccanicismo è infatti l'idea che rivendica e riafferma in modo netto e incontrovertibile nell'indagine sulla realtà l 'autorità della ragione sull'autorità storica e pone le basi, operanti e feconde, per la fondazione della moderna nozione di progresso (si ricordano qui le bellissime e famose pagine della Prefazione per il trattato sul vuoto di Pascal 1 che costituiscono forse la più alta rivendicazione dei diritti della ragione nella ricerca scientifica operata da uno scrittore del Seicento); è l'espressione più concreta dell'infinita potenza cox Si vedano, a mo' di esempio, i seguenti passi estremamente significativi: « Nelle materie in cui si cerca di sapere soltanto ciò che gli autori hanno scritto - quali la storia, la geografia, la giurisprudenza, le lingue, soprattutto la teologia insomma, in tutte quelle che hanno per principio o il fatto puro e semplice o l'istituzione, divina od umana, bisogna necessariamente ricorrere ai libri degli autori, poiché in essi è contenuto tutto ciò che si può saperne: dal che segue evidentemente che se ne può avere una conoscenza intera, cui non sia possibile aggiungere nulla ... Non è lo stesso per gli argomenti che cadono sotto i sensi o sotto il ragionamento: qui l'autorità è inutile e la sola ragione riesce a conoscerli. Queste due cose, autorità e ragione, hanno i loro diritti separati: là aveva il so-
pravvento l'una, qui tocca all'altra di dominare. Ma siccome gli argomenti di questo genere sono proporzionali all'ambito della mente, questa vi trova un'intera libertà di dispiegarvisi, la sua inesauribile fecondità vi produce continuamente e le sue invenzioni possono essere senza fine e senza interruzione ... Perciò la geometria, l'aritmetica, la musica, la fisica, la medicina, l 'architettura e tutte le scienze che dipendono dall'esperienza e dal ragionamento per perfezionarsi devono venire accresciute. Gli Antichi le hanno trovate appena sbozzate da coloro che li avevano preceduti, e noi le lasceremo a quelli che ci seguiranno in uno s~ato di maggiore perfezione di come le abbiamo rtcevute » (traduzione di Giulio Preti).
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struttrice dell'uomo che, come tale,· si estende anche al cosmo che viene interpretato in modo adeguato ad essa; è la nozione teorica che permette di accogliere il tema della matematizzazione della natura, di dare ad esso una efficace generalizzazione su basi precise e rigorose; è una dottrina che implica e propugna un nuovo razionalismo, che si riallaccia, se si vuole, alla grande tradizione dell'aristotelismo ma proprio per la sua dimensione umana e mondana (le preoccupazioni di ordine apologetico e il tema del miracolo non sono affatto elementi centrali, almeno nelle personalità che hanno dato un'impronta decisiva alla ricerca filosofica e scientifica del Seicento). Nel meccanicismo trova la sua più compiuta realizzazione una nuova formulazione dell'esplicazione scientifica, che rifiuta programmaticamente quel tipo di approccio verso la realtà - basato sulla traduzione mediante la concettualizzazione - che abbiamo cercato di delineare nel paragrafo n. Cartesio sottolinea in modo preciso che tale modo di procedere, di cui l'aristotelismo era l'incarnazione più autorevole, risultava difficile da sradicare non solo per il fatto di essere collegato ad una tradizione illustre, ricca di autorità e di prestigio secolari, ma soprattutto perché basato su asserzioni di immediata evidenza insite nella natura dell'uomo fin dai primi anni di vita. Per il nuovo scienziato meccanicista, preliminare doveva essere pertanto il superamento di questo pregiudizio, che dall'infanzia si prolunga nell'uomo adulto, sulla base del quale si proiettano i contenuti delle proprie percezioni in enunciati scientifici. La radicalità delle posizioni che, in misura maggiore o minore, si riscontra nei pensatori del Seicento, deriva in gran parte dalla precisa consapevolezza del carattere profondamente innovatore del meccanicismo, proprio (prima di tutto), come modo di affrontare i tradizionali problemi dell'esplicazione della realtà. IV · IL METODO DEL MECCANICISMO: IL MODELLO MECCANICO
È naturale che la disciplina scientifica che ebbe i maggiori sviluppi fin dagli albori del mondo moderno sia stata la meccanica. Il carattere privilegiato che la meccanica ha sempre avuto rispetto alle altre scienze fisiche risiede essenzialmente nel fatto che, trattando del movimento dei corpi in generale, in movimento o in eqmlibrio, è possibile in essa fare astrazione da ogni altra considerazione e ricondurre quindi l'analisi alle condizioni più semplici. Non per nulla nella meccanica, già nell'ambito del mondo greco, soprattutto ad opera di Archimede, si erano conseguiti risultati notevoli (relativamente alla statica) basati su postulati sperimentali e formulazioni matematiche; non per nulla la meccanica fu la disciplina che contribuì in modo determinante alla fondazione della scienza moderna, in quanto fu la prima a darsi un assetto rigoroso. Gli innegabili successi che si conseguirono in questo ambito di ricerche a partire già dal xvi secolo, furono uno sprone per indirizzare in modo analogo altre ricerche, e furono di
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tale portata da condizionare tutto lo sviluppo ulteriore della scienza. L'aver stabilito infatti in modo fermo i principi e ~lcune relazioni fondamentali in tale disciplina, diede un carattere esemplare alla meccanica, e ciò fu il punto di partenza per quell'audace generalizzazione che fu il meccanicismo. Nella sostanza, nel meccanicismo si diede una portata universale ai principi fondamentali della meccanica, nel senso che la realtà naturale veniva ridotta ad una mera struttura di corpi in movimento, interpretabile mediante le precise regole del movimento dei corpi fra di loro. Fondamentale in questa direzione fu la scoperta del principio di inerzia; esso venne stabilito in forma precisa e rigorosa solo con Newton, ma la sua grande importanza fu compresa dagli scienziati meccanicisti anteriori, da Galileo che seppe sempre servirsene in modo appropriato, e soprattutto da Cartesio che ne colse il valore di generalizzazione assoluta in esso implicito e ne fece il punto centrale di riferimento di tutta la sua dottrina, che fu la più organica, coerente e ampia sistemazione del meccanicismo. Il principio di inerzia, così enunciato da Cartesio (ciascuna cosa, in quanto è semplice rimane per quanto è in sé, sempre nel medesimo stato, e non è mai mutata se non da cause esterne), permette appunto di valutare ogni singolo fenomeno, o gruppo di fenomeni, nelle sue relazioni con gli altri sulla base di un unico parametro di riferimento. Ogni fenomeno viene così risolto in una serie di operazioni complesse, ma definibili e comprensibili chiaramente: nel medesimo tempo si toglie ogni specificità di comportamento ai corpi, i quali vengono tutti interpretati secondo un unico punto di vista. Una valutazione dinamica della realtà, correlata esclusivamente mediante il movimento (la causa del movimento non è più un fattore operante ai fini della singola analisi in quanto essa, riposta in dio, diventa un nesso esplicativo generalissimo che coinvolge tutti i corpi), subentra alla tradizionale interpretazione statica dei fenomeni correlati mediante rapporti organicamente e gerarchicamente strutturati in vista dei fini generali della natura. La scoperta della macchina come modello teorico di indagine, operata anche essa nel xvn secolo, è connessa con la generalizzazione dei principi della meccanica. È evidente che la scoperta teorica della macchina ha il suo presupposto nel grande sviluppo che hanno avuto le tecniche nel xvr e nel xvn secolo. In questo periodo si scoprono nuove macchine (rilevantissime, le armi da fuoco), se ne perfezionano altre (specie quelle idrauliche), se ne mettono a punto altre ancora in grado di dare rilevazioni precise (orologi, telescopi, ecc.). L'uso di tutte queste macchine, con gli effetti evidenti che arrecano nella vita reale degli uomini, suscitano la convinzione che, proprio poggiandosi su di esse, si possa instaurare un sapere non contemplativo, inserito attivamente nella vita pratica. In Bacone questa consapevolezza, pur rimanendo una pura esigenza, è già diventata una convinzione ferma e sicura, ed assume un rilievo preminente per lo scienziato secentesco. Per i fondatori della scienza moderna, il mondo della tecnica è ormai divenuto una parte integrante dei loro interessi: 334
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non è più un fatto che suscita curiosità o un interesse generico o parziale. Ma quel che più importa sottolineare è che nel xvn secolo si riuscì a dare alla tecnica una dimensione teorica adeguata, che fino ad allora non si era realizzata. I maggiori scienziati di questo periodo, a partire, come si è visto, da Galileo, compirono passi decisivi in questa direzione: riflettendo sul valore, il significato, l'utilità della macchina, giunsero ad una nuova concezione della realtà e della scienza. La scoperta della macchina come strumento teorico adempie alla funzione di un vero e proprio principio operativo che dà concretezza alla struttura astratta universale della realtà basata sui principi della meccanica (materia, movimento e loro reciproco rapporto) e la rende ricca di conseguenze straordinariamente efficaci. L'operazione di ricerca dello scienziato meccanicista equivale, in pratica, a trovare il modello meccanico che sostituisca il fenomeno reale che si vuole analizzare. Trovato questo, il fenomeno è inserito in quella struttura generale in cui è risolta tutta la realtà, è cioè spiegato. La macchina, intesa come modello esplicativo, riunisce un insieme di elementi materiali che rimarrebbero di per sé astratti e dà ad essi una correlazione significativa; è una unificazione totale della realtà costituita di una serie infinita di unificazioni parziali (i modelli meccanici particolari) varie e variamente modifica bili. Nella sostanza la macchina strumentoteorico ripete le caratteristiche essenziali della macchina strumento-tecnico nel senso che in entrambi i casi si tratta di aggregare dei pezzi in modo che adempiano una funzione precisa, chiaramente determinata in virtù di fattori noti (posizione, figura, rapporto dei pezzi). Ora, per rozza che sia, una macchina strumento-tecnico deve essere costruita in modo che siano osservate alcune relazioni precise tra i pezzi: solo allora funziona, si hanno cioè le conseguenze previste, quelle e non altre, in virtù del fatto che è stata costruita in modo univocamente determinato. Del pari, nel modello teorico esemplato su una macchina strumento-tecnico, o su una macchina costruita appositamente o solo immaginata, l'adeguazione con il fenomeno deve essere fatta in modo tale che questo sia ridotto ad una dimensione univocamente determinata, sia cioè semplificato (poco importa il grado di semplificazione) stabilendo fra i vari elementi di esso delle relazioni precise. Risulta in modo evidente che ciò che permette una elaborazione precic<>a del modello meccanico e quindi del fenomeno reale è il fatto che esso è costruibile solo mediante elementi puramente quantitativi e quindi solo mediante formulazioni geometriche. L'ausilio dello strumento matematico è essenziale: un fenomeno sarà spiegato in modo tanto più rigoroso quanto più preciso sarà il modello meccanico. Il modello meccanico per eccellenza è quindi il modello puramente geometrico, che è il più elaborato, il più sicuro, il più preciso. L'uso di tale metodo permise successi clamorosi (a partire dalla scoperta della legge della caduta dei gravi operata da Galileo) e costituì la linea di fondo di tutto l'ulteriore sviluppo della scienza; il suo successo e la sua efficacia si
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basavano essenzialmente sul fatto che il modello teorico matematico era pienamente adeguato al fenomeno, il quale, ridotto appunto alla semplicità del modello, possedeva la stessa incontestabile plausibilità di esso. Altrettanto importante dell'elaborazione puramente teorica del modello meccanico, fu per lo scienziato secentesco la costituzione di un adeguato rapporto tra il modello e il fenomeno reale: è proprio nel primo Seicento che iniziano le prime osservazioni sperimentali nel senso moderno del termine. Allo scienziato meccanicista non interessa il fenomeno nella sua peculiarità e nella sua concretezza immediata e neppure il fenomeno strano e curioso: quel che gli interessa è ricostruire il fenomeno in base ai propri postulati. Ne deriva un approccio alla realtà non più generico, ma determinato: tale determinazione è soggetta, secondo lo scienziato meccanicista, ad un progressivo perfezionamento in relazione alla sottigliezza dello sperimentatore e alla capacità con cui sarà in grado di costruirsi macchine strumenti-tecnici atte a fornirgli dati empirici più elaborati, proprio applicando quelle conquiste teoriche di mano in mano acquisite, ma non è contestabile nei suoi fondamenti. La scoperta filosofica del modello meccanico come strumento di indagine appartiene senza alcun dubbio a Cartesio che ne fece un'analisi ampia ed approfondita e ne colse, in tutta la sua generalità, gli aspetti essenziali. Egli, tra l'altro, pose in rilievo il ruolo importante che gioca l'immaginazione nella formulazione meccanicistica e nei metodi che usa. È ben vero infatti che il meccanicismo, nel suo complesso, rappresenta il trionfo dell'immaginazione sulla ragione astratta di cui si serviva la ricerca tradizionale: in luogo di pure postulazioni razionali astratte, come le forme sostanziali o le facoltà naturali, lo scienziato meccanicista si avvale di modelli meccanici, comprensibili ed evidenti perché dotati di un contenuto immaginativo concreto. La concretezza effettiva di cui il modello meccanico è intrinsecamente dotato non è però immediata: è il frutto di lunghe e laboriose operazioni della ragione, per le quali si riesce a dare all'immaginazione quella evidenza figurativa, e quindi quella concretezza che è indice di effettiva comprensione. È ovvio che l'immaginazione non opera arbitrariamente proprio perché i modelli sono costruiti, esclusivamente, in base a precisi postulati, fissati · dalla ragione. Con il meccanicismo si conquista quindi una nuova dimensione della concretezza empirica e dell'evidenza razionale che contrasta in modo radicale sia con le concezioni tradizionali, sia con le nuove formulazioni rinascimentali. Si ha pertanto una nuova unità di esperienza e ragione, intimamente compenetrate nella ricerca effettiva e un altrettanto proficuo connubio tra ricerca teorica e tecnica, fondate entrambe sulle stesse basi ed entrambe protese verso le applicazioni pratiche. Si comprende come il momento della verifica sperimentale fosse il punto cruciale dell'esplicazione scientifica: l'attenzione degli scienziati meccanicisti si rivolse, in effetti, alla ricerca di modelli meccanici adeguati per l'interpreta-
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zione dei fenomeni. L'enorme sviluppo che ebbe la ricerca sperimentale nel xvn secolo e i notevolissimi risultati che conseguì sono la naturale conseguenza di questa tendenza. Si venne pertanto sempre più accentuando l'esigenza di rigore nell'indagine scientifica e quindi sempre più sviluppando l'uso del modello matematico. Si capisce come ciò abbia condotto alla crisi della fisica cartesiana, costruita con un apparato teorico matematico molto scarso. In effetti, il rilievo dato all'immaginazione non rimase senza conseguenze nell'ambito delle ricerche svolte da Cartesio e dalla sua scuola. La chiarezza con cui pose in evidenza i principi fondamentali della prospettiva meccanicistica, congiunta con la forte esigenza sistematica, condusse Cartesio ad impostare in modo fecondo, rigoroso ed efficace la ricerca; ma nel contempo ad edificare in modo troppo <\ abbreviato » il nuovo mondo meccanicistico. Egli si avvalse molto spesso non dell'ausilio dell'immaginazione matematica ma della visualizzazione immaginativa, accorrendogli solamente, per spiegare un fenomeno, immaginare un modello meccanico (una macchina strumento-tecnico, oppure un'immagine sensibile interpretata meccanicamente) spesso dotato di una inadeguata corrispondenza con i termini reali del problema: la sola efficacia esplicativa, cioè il solo criterio pragmatico del successo nella semplificazione del fenomeno, era sufficiente per dare validità alla sua ricostruzione meccanica. Questo innegabile difetto, che portò uno dei fondatori della moderna fisica-matematica al risultato paradossale di scrivere un trattato completo di fisica (i Principia philosophiae) quasi del tutto privo di formulazioni matematiche, non attenua però per nulla l'importanza del lavoro di Cartesio, il quale seppe per primo non solo dare una portata universale al meccanicismo, ponendone in rilievo le implicazioni e le conseguenze filosofiche, ma anche cogliere le qualità essenziali del metodo meccanicistico. Le numerose critiche, cui il cartesianesimo venne sottoposto nella seconda metà del Seicento e nei primi decenni del Settecento, anche se di fondo, non intaccarono quella prospettiva generale, filosofica e metodica, che rimase esemplare e di cui la ricerca ulteriore fu sostanzialmente uno sviluppo. Da tutto ciò si può vedere come il problema della verifica sperimentale coincida con quello della costruzione di modelli teorici adeguati, e come il tema della costruibilità dei mezzi della ricerca sia essenziale nella pro,spettiva meccanicistica. Lo scienzi~to secentesco è ben consapevole che il fatto di crearsi in modo del tutto autonomo gli strumenti teorici per l'indagine, sulla scorta degli strumenti-tecnici, è un modo del tutto originale di affrontare la realtà. Come l'uomo, per incidere più efficacemente sulla natura si avvale di strumenti tecnici, che egli si costruisce tenendo presente certi criteri e le loro conseguenze e con un grado di complessità adeguato alle proprie possibilità, così per conoscere la realtà si serve di strumenti concettuali che « si è costruito » ripetendo gli stessi principi che presiedono alla costruzione degli strumenti-tecnici e che per ciò è in grado di comprendere e di dominare. 337
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Ne consegue non solo la coscienza che il mondo della conoscenza è artificiale, nel senso che lo è quello della tecnica, frutto dell'arte dell'uomo, ma anche quella, e vivissima, che il sapere ha valore e significato solo in relazione alle possibilità di azione pratica che ha: conoscere la realtà vuoi dire pertanto ricostruirla, renderla artificiale ma in modo tale che si possa modificarla. All'ideale speculativo del conoscere, volto a tradurre la realtà, nella sua organicità, in schemi concettuali logici, subentra un ideale pratico, per il quale la costruzione teorica che riduce la complessità del mondo alla semplice dimensione del rapporto quantitativo, tipico del mondo della meccanica e della tecnica, trova il suo coronamento e la sua giustificazione nei risultati cui dà luogo. V · LA CONCEZIONE DELLA MATERIA E DELLA NATURA
Accanto ai problemi di carattere più propriamente metodologico, gli scienziati secenteschi vennero sviluppando, in forma più o meno ampia e accentuata, anche prospettive filosofiche generali volte a dare un significato antologico preciso al meccanicismo. La preoccupazione per un problema così squisitamente metafisica che venne a mescolarsi con questioni di carattere puramente scientifico, fu censurata da alcuni moderni critici della scienza come una colpa da cui la scienza riuscì solo a fatica a liberarsi e che costò diatribe infinite, enormi sprechi di energie con magri risultati, dato che le asserzioni metafisiche non erano soggette a prove decisive analoghe a quelle che si potevano addurre per le asserzioni veramente scientifiche, e non potevano essere inserite in quella linea di acquisizioni progressive, tipica della scienza. È certo comunque che gli scienziati secenteschi poterono edificare la scienza moderna solo a prezzo di un profondo mutamento della filosofia e della metafisica tradizionali, e proprio in virtù di una nuova filosofia. Se colpa fu, fu una felice colpa quella che permise loro, mediante il meccanicismo, di considerare i nuovi metodi introdotti dalla scienza in modo solidale con tutto il complesso della realtà umana e civile, e che diede loro la volontà di vederli come un mezzo per elevare la condizione dell'uomo, per renderlo più sicuro dei propri destini, mercé una conoscenza più « reale» del mondo e di se stesso. In effetti la prospettiva metodologica del meccanicismo è strettamente collegata con quella antologica (almeno come tendenza di fondo), tanto che risulta molto difficile poterle separare. Anzi, ali' origine, il discorso sulla macchina è in stretta connessione con quello sulla struttura della materia, dato che uno strumento teorico, costruito nel modo con cui lo è il modello meccanico, postula necessariamente una struttura materiale adeguata. Ciò non toglie che alcuni dei maggiori filosofi del periodo abbiano avuto una piena consapevolezza del rapporto estremamente delicato che sussiste tra il piano antologico e il piano metodologico e abbiano cercato di risolverlo (massime Cartesio) in modo rigorosamente critico.
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Alla base della nuova filosofia del Seicento sta la dottrina della soggettività delle qualità sensibili. La scoperta di questa grande idea filosofica (una delle poche veramente rivoluzionarie ed innovatrici) appartiene incontestabilmente al xvn secolo: tutti i grandi pensatori di questo periodo, da Galileo a Cartesio, a Hobbes, hanno ben viva la consapevolezza della centralità di questa dottrina, cosa che sottolineano con particolare insistenza ed energia. La considerarono come una sorta di presa di coscienza preliminare per il conseguimento di ogni ulteriore conoscenza: occorreva infatti, prima di tutto, riconoscere che il mondo concreto della sensibilità non era « reale », che cioè non aveva alcun riscontro obiettivo. Non è affatto evidente che la dottrina della soggettività delle qualità sensibili sia stata formulata nell'ambito dell'atomismo antico; è certo comunque che essa non si trova tra i molti esponenti di quella reviviscenza dell'atomismo antico che si ebbe nel xvn secolo. Come giustamente osserva Frithiof Brandt, sarebbe incomprensibile che Hobbes e Cartesio accentuassero il fatto di aver realizzato la soggettività delle qualità sensibili se tale teoria fosse già stata formulata da quei filosofi naturalisti che furono gli atomisti secenteschi. La novità della dottrina, che venne poi designata con il termine di distinzione tra qualità primarie e secondarie, non risiede però essenzialmente nel suo contenuto precipuo - nell'aver cioè osservato che qualità come il colore, l'odore, ecc. sono formate esclusivamente dalle nostre facoltà sensibili, e che altre invece, come la figura, il movimento, ecc. appartengono in proprio alla realtà materiale - bensì nel modo con cui è stata formulata la dottrina. Se si vuole, già Aristotele aveva distinto i sensibili propri dai sensibili comuni (il movimento, il riposo, il numero, la figura, la grandezza). Del resto, la grandezza di una teoria filosofica non sta nella scoperta di nuovi contenuti speculativi, bensì nelle conseguenze che da essa si possono derivare, cioè nella sua fecondità. Così i sensibili comuni aristotelici, intesi come le caratteristiche essenziali di un mondo pienamente determinato, vengono trasvalutati e costituiscono il mezzo per creare una struttura antologica omogenea e non differenziata del tutto adeguata al solo tipo di valutazione che si vuole accettare, quella quantitativa, che viene ad articolarsi in un sistema di relazioni di tipo matematico. La grandezza filosofica e la straordinaria importanza storica della scoperta della soggettività deJ,le qualità sensibili risiede quindi nel fatto che ha reso possibile appunto la fondazione della scienza moderna. Ciò che v'è di reale nel mondo naturale per lo scienziato secentesco è pertanto la materia con la sua sola determinazione essenziale, il movimento: ciò implica naturalmente che essa si risolva in corpuscoli. Spiegare scientificamente vuoi dire allora non solo descrivere la realtà, ma interpretarla in modo operativo e non già in modo essenzialistico. Significa che la ricerca empirica delle qualità sensibili del fenomeno che si vuole spiegare è il punto di partenza per una interpretazione funzionale di esse, sulla base di entità materiali situate oltre la soglia 339
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della sensibilità; la valutazione delle caratteristiche e dei movimenti dei corpuscoli permettono di derivare quelle determinazioni sensibili su cui verte l'analisi. Logicamente la ricerca meccanicistica su di un fenomeno consta di tre operazioni essenziali: analisi o scomposizione degli elementi sensibili; semplificazione meccanicistica, ossia riduzione a entità materiali subsensibili; interpretazione (almeno in linea di principio, matematica) sulla scorta del modello meccanico. Le due ultime operazioni sono intimamente connesse e rivelano in modo evidente l'origine operativa che ha nel meccanicismo secentesco la concezione della materia. Non c'è dubbio però che da esse risultasse per lo scienziato meccanicista una presunzione di carattere antologico molto forte, tale da instaurare una fiducia nella « realtà » del meccanicismo che non venne mai meno. I discorsi ipotetici e pragmatici che spesso si trovano nei testi dell'epoca se sottolineano l'interesse preminentemente operativo che aveva l'uomo di scienza meccanicista, non attenuano l'importanza di una credenza antologica di fondo, anche se a volte non bene esplicitata. Il discorso sulla materia implica necessariamente un riferimento preciso al tipo di causalità cui fa ricorso la scienziato meccanicista, che è solo la causalità efficiente. La scomparsa della considerazione organicistica del fenomeno comporta pure quella del discorso organico sulle cause di tipo aristotelico. La generalizzazione meccanicistica, risolvendo l'universo in una serie di relazioni consequenziali univoche, ha reso infatti inoperanti schemi interpretativi speciali, interni ai singoli fenomeni, come le forme sostanziali: la costituzione del fenomeno è stabilita in base a nessi operativi ben determinati (movimenti della materia opportunamente e rigorosamente interpretati), ma esterni al fenomeno stesso. Del pari scompare, nell'analisi della natura, ogni considerazione finalistica, soprattutto a livello dei metodi di indagine. L'uomo non deve più riscontrare i fini speciali che dio ha posto in ogni singola cosa, ma costruire esso stesso le forme e i fini della natura: ciò facendo egli scopre le cose nella loro realtà più vera, poiché operando mediante la ragione (che è una sua dote naturale) non fa che sviluppare naturalmente la conoscenza del mondo esterno e di se stesso che fino ad allora aveva avuto. Pertanto, facendo coincidere lo sviluppo nella conoscenza dei fini della natura con il grado di appropriazione di essa da parte dell'uomo, viene conseguita una nuova dimensione della finalità come prospettiva di sviluppo totale, il cui senso è riposto nella volontà infinita di dio. L'immagine che di dio si fa lo scienziato meccanicista è del resto adeguata alla concezione che ha della realtà. Dio è il costruttore della natura, il meccanico per eccellenza, colui che, in virtù della sua infinita potenza, ha costruito le macchine di cui si compone la natura con grande sottigliezza, dotandole di straordinaria perfezione; l'attività conoscitiva dell'uomo non fa che ripetere, in relazione ai mezzi costruttivi limitati (ma perfezionabili) di cui dispone, l'attività posta in opera da dio nella creazione del mondo. Il postulato che fa coincidere la capacità conoscitiva con quella costruttiva, è uno dei punti cardinali della 340
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filosofia e della scienza secentesca: esso traspare anche nel nuovo rapporto tra arte e natura che si instaura. L'arte non è più come nella concezione tradizionale, la goffa imitatrice della natura, che tenta invano di adeguarsi a qualcosa che è inimitabile e ineguagliabile; è invece un'attività umana che riproduce sostanzialmente l'attività della natura. Tra i prodotti dell'arte e della natura non c'è più, infatti, una sostanziale differenza: l 'unica diversità sta nella grossolanità e rozzezza dei primi e nella grande elaborazione dei secondi, dato che i principi che hanno presieduto alla loro costruzione sono i medesimi. Una volta che sia ammessa e provata la validità obiettiva del meccanicismo, si scopre allora una nuova dimensione dell'imitazione della natura: le cose naturali costituiscono un punto di riferimento di ineguagliabile perfezione su cui esemplare la ricerca dell'uomo. VI · IL NUOVO SISTEMA DELLE SCIENZE E GLI SVILUPPI DEL MECCANICISMO
L'elemento dell'operatività è quello che più di ogni altro caratterizza il meccanicismo nel suo complesso, e si riverbera in tutti i suoi aspetti. Si manifesta anche e particolarmente, come si è visto, nella concezione della materia e nella conseguente idea che essa è interpretabile mediante la matematica; le origini di tale dottrina hanno indubbiamente una matrice pratica, funzionale, che trovano il loro punto di riferimento più diretto e costante nel mondo della tecnica in cui la tendenza operativa appariva nella maniera più evidente. Il tratto più originale dei filosofi e degli scienziati meccanicisti è, come si è cercato di porre in rilievo, quello di aver dato una dimensione teorica al mondo delle macchine, di aver saputo compiere un'opera di generalizzazione filosofica, rivoluzionaria soprattutto perché, conservando i principi operativi di base della tecnica anche nella formulazione teorica, diede un nuovo senso .alla scienza e alla filosofia collegandole direttamente alla vita reale degli uomini. Vista in questa direzione non possono che apparire in una luce non molto adeguata, le discussioni sul platonismo nella fondazione della scienza moderna: il solo fatto che Platone era stato il più noto ed autorevole rappresentante di quella concezione « speculativa » della filosofia cui i meccanicisti si opposero nel modo più À.eciso, costituisce di per sé un limite obiettivo per ogni valutazione « platonica » della scienza moderna. Ciò non toglie che alcuni elementi costitutivi dei fondamenti logici e filosofici della scienza moderna siano di schietta derivazione platonica, come per esempio l'uso del metodo ipotetico; tali temi però, inseriti in un contesto del tutto diverso, assumono un carattere radicalmente nuovo. Anche la nozione più caratteristica della nuova scienza meccanicistica, quella della matematizzazione della natura, trova un riferimento immediato nell'ambito del platonismo tradizionale. Nei numerosi testi legati alla tradizione platonica e magica, che si 341
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pubblicarono e si diffusero nell'età rinascimentale, viene dato infatti rilievo e grande importanza al numero e alle figure geometriche nell'indagine sulla realtà naturale. Ma la concezione della matematica che traspare da questi testi è contemplativa e misticheggiante: tende a realizzarsi in una visione globale ed armonica e riflette nella impostazione del rapporto con la realtà la tradizionale dicotomia tra inondo sensibile ed intelligibile. Anche quando in questo ambito di cultura si parla di macchina del mondo, è alla tradizionale concezione armonica che ci si riferisce: se si vuole, essa è il correlato cosmologico della teoria organicistica della macchina strumento-tecnico che hanno molti scrittori di macchine rinascimentali. Il termine macchina è solo un'immagine che simbolizza la nozione del mondo come un tutto le cui parti sono organizzate in modo ordinato e preciso: è una pura e semplice variante del termine organismo. Oltre all'esigenza operativa è fondamentale nel meccanicismo anche quella riduttiva che sfocia necessariamente in una nuova concezione dell'unità delle scienze. Il sistema delle scienze non è più legato alla natura degli oggetti collegati fra di loro mediante l'analisi delle caratteristiche essenziali oppure mediante una classificazione di tipo enciclopedico; è invece basato su di un solo postulato fondamentale, puramente razionale, a cui si riconduce e ricollega tutta quanta la realtà naturale ed umana. Tutto ciò dà un rilievo preminente alla facoltà unificatrice dell'intelletto umano che dà certezza e coerenza logica, mediante i collegamenti che opera, alle cose concrete. L 'interpretazione meccanicistica del reale, tramite il modello, diviene così la chiave che permette di spiegare tutta la realtà. Non solo il mondo dei corpi ma anche quello degli organismi viventi diventa interpretabile meccanicamente. Lo stesso campo delle scienze umane viene indagato sulla scorta dei principi del meccanicismo; si hanno così una psicologia ed un'etica meccanicistiche, e una teoria politica che fa della concezione dello stato inteso come una macchina il punto nodale nello studio della vita associata degli uomini. Nel corso del xvn secolo si sono avuti diversi tipi di meccanicismo: se risultano diversi per certi aspetti (natura delle entità materiali subsensibili, affermazione circa l'esistenza o meno del vuoto), non esulano però sostanzialmente da quel quadro unitario, per impostazione metodologica e filosofica, che si è cercato di delineare. Lo stesso sistema newtoniano si inserisce pienamente nella prospettiva meccanicistica (l'introduzione di forze agenti a distanza non era pensabile infatti senza la mediazione di qualcosa di materiale) anche se la tendenza dello scienziato inglese a escludere dalla scienza ogni valutazione antologica operò nel_meccanicismo una frattura profonda che ebbe ripercussioni di rilievo sulla interpretazione generale della realtà. Dopo Newton il meccanicismo, come formulazione scientifica, venne inteso sempre più come possibilità di ridurre le altre scienze entro l'ambito esplicativo della meccanica; come formulazione filosofica generale, si scisse sempre più dalla ricerca scientifica nel senso proprio
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del termine e subì nel corso del xviii secolo una evoluzione in senso schiettamente materialistico. Le conseguenze furono di non lieve entità. Gli elementi materialistici, insiti nel meccanicismo, vennero utilizzati e sviluppati in funzione di polemica politica contro le istituzioni e lé ideologie tradizionali, specie quelle religiose, e in tal senso svolsero una efficacissima azione eversiva. La tematica generale del meccanicismo risultò però impoverita e schematizzata nelle sue prospettive filosofiche e metodo logiche; e di conseguenza, si ebbero concezioni senza dubbio meno rigorose e meno critiche di quelle elaborate nel xvn secolo da Cartesio o da Hobbes, appunto perché non direttamente connesse alla ricerca scientifica più avanzata.
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CAPITOLO
NONO
La logica nel Seicento DI CORRADO MANGIONE
I
· CONSIDERAZIONI
PRELIMINARI
Nel corso della sezione II è stato ripetutamente accennato alle significative conquiste del pensiero logico medievale che - come è stato messo in evidenza nei primi decenni del nostro secolo - lungi dal limitarsi a un mero rifacimento delle teorie sillogistiche aristoteliche, aveva sviluppato autonomamente (oltre a quella peripatetica) anche la tradizione stoica giungendo a costituire un originale corpo di dottrine puramente formali (la cosiddetta« logica terministica »).Il carattere formale e linguistico, tipico della logica medievale, agì indubbiamente come catalizzatore nell'indirizzare il pensiero in senso razionalistico; ma si prestò anche, in certo senso, a che la pratica logica degenerasse in molti casi in un vuoto e sofisticato schematismo formalistico o fosse strumentalizzata in funzione delle dispute e dei dibattiti più eterogenei. Avvenne così, come afferma il Moody, che « mentre la logica continuava a essere insegnata su questa base formale nelle facoltà delle arti, i teologi del tardo XIII secolo, influenzati dalla nuova letteratura filosofica tradotta dal greco e dall'arabo, si impegnavano in dibattiti e speculazioni epistemologiche e metafisiche che davano origine a una sorta di "logica filosofica ". Poiché la terminologia tradizionale della logica formale veniva regolarmente impiegata in quelle discussioni filosofiche, essa venne gravata da connotazioni speculative e ambiguità che l'hanno accompagnata fino al periodo moderno». Avviene così che nella reazione umanistica alla scolastica la polemica si indirizza in particolare anche sulla logica formale, della quale appunto viene (e giustamente) disprezzata la vuota e inutile sottigliezza, lo sterile barocchismo fine a se stesso nelle dispute, senza peraltro che al di là di questo aspetto, per così dire sovrastrutturale, ne venisse colto e apprezzato l'autentico spirito critico e scientifico; tale reazione veniva condotta in nome di una logica che non si fermasse al mero aspetto formale e strutturale del discorso e risultasse così più aderente al naturale evolversi del pensiero e della realtà. Essa si sviluppa essenzialmente in due direzioni: da una parte s'intende opporre alla logica medievale un'ars disserendi che accentui le possibilità persuasive del discorso e che prenda 344
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quindi a proprio· modello - in aperta polemica con Aristotele - gli autori latini e in particolare Cicerone (vale a dire, la retorica); dall'altra parte invece si è più preoccupati di costituire un'organizzazione del discorso che non si esaurisca sul piano logico puramente formale, ma che, fondandosi sull'esperienza e a partire da essa, permetta di raggiungere la formulazione di verità generali; in altri termini si sviluppa quell'aspetto della logica trascurato da Aristotele, ossia il capitolo dell'inferenza induttiva. Il rappresentante più eminente del primo indirizzo è Pietro Ramo di cui si è parlato nel capitolo vn della sezione m (e del quale ricordiamo qui l'aggiunta dei sei nuovi modi con termini singolari, due per ogni figura, che egli fa alla sillogistica aristotelica); il secondo indirizzo viene invece notevolmente sviluppato nel xvr secolo dagli aristotelici padovani (Fracastoro, Zabarella, Cremonini). Il disinteresse per il formalismo logico si converte in vera e propria drastica condanna per i fautori del primo indirizzo, mentre è piuttosto un fatto marginale, ossia non riveste particolari accenti polemici, nel caso della scuola padovana, dove invece l 'interesse è concentrato in una concezione e in uno sviluppo della logica come metodologia generale. Sarà proprio quest'ultimo aspetto che - come si è visto nel capitolo x della sezione m - verrà portato alle estreme conseguenze da Bacone, col suo Novum organum del 1620. La prima opera in senso lato « logica » del Seicento testimonia quindi di una concezione radicalmente mutata, rispetto alle tradizioni classica e medievale, della logica stessa; e, in generale, «il problema del metodo» è problema schiettamente di questo secolo. Tuttavia vedremo che nelle diverse concezioni di tale metodologia generale, i vari autori avranno posizioni notevolmente diverse nei riguardi della logica. Dalle drastiche posizioni di Cartesio e (pur se, come vedremo, con modalità e spunti completamente diversi) di Pascal, per i quali il «metodo» è sostitutivo in tutto e per tutto della «logica», si passa all'atteggiamento di Hobbes, che invece fa della sillogistica una parte integrante della propria filosofia, e infine alle vedute di Leibniz, il quale non solo difende la inderogabile e insostituibile presenza della logica nel suo momento formale in una metodologia generale, ma ne proclama l'autonomia come scienza della dimostrazione e dell'invenzione. Tratto comune ai pensatori di questo periodo, che verranno esaminati nelle pagine seguenti, è che la tradizione logica è per essi rappresentata esclusivamente dalla sillogistica (sono andate cioè praticamente del tutto perdute le acquisizioni veramente originali della logica medievale), l'impiego della quale in vuote arguzie verbalistiche viene da tutti senza eccezione (ma naturalmente con atteggiamenti notevolmente diversi) decisamente condannata. Tuttavia non sarebbe appropriato parlare tout court della « logica» di questo periodo senza opportune specificazioni: se da una parte infatti - tramite quella che è considerata la tipica opera logica del Seicento, ossia la Logique de Port- Ro_yal - ottiene enorme dif345 www.scribd.com/Baruhk
La logica nel Seicento
fusione la « logica » metodologica cartesiana, dall'altra, attraverso le opere di Hobbes, ml!. in sommo grado di Leibniz, si vengono impostando e precorrendo i temi e le caratteristiche che saranno tipici della moderna logica formale. Ci sarebbe anche da considerare il delicato problema del rapporto fra « logica » e matematica nel Seicento; ma esso verrà abbozzato nel capitolo successivo, e cioè dopo aver riferito sullo sviluppo della matematica in questo secolo. Il presente capitolo si articola invece in tre paragrafi: il primo destinato alla logica di Port-Royal (che richiederà necessariamente, per quanto detto sopra, un breve cenno alle vedute logiche di Cartesio e di Pasca!), il secondo alla presentazione della logica di Hobbes e il terzo infine al pensiero logico di Leibniz. II · LA «LOGICA DI POR T-ROY AL»
Nel r66z viene pubblicata (anonima) La logique ou l'art de penser, contenant, outre /es règles communes, plusieurs observations no11velles propres à former le jugement. Ne sono autori Antoine Arnauld e Pierre Nicole ai quali già si è fatto cenno nel capitolo VI parlando del giansenismo. Per quanto riguarda la logica, essi accettano la teoria cartesiana della conoscenza, la sua metodologia e la sua tesi generale sulla possibilità di una conoscenza scientifica della realtà. Converrà quindi soffermarsi dapprima sull'atteggiamento di Cartesio nei riguardi della logica, accennando pure alle vedute di Pasca! in proposito; anche quest'ultimo infatti, come vedremo, ebbe notevole influenza sull'opera di Arnauld e Nicole, almeno nella sua parte metodologica. Va detto subito comunque che la Logica di PortRoyal (come viene brevemente indicata l'opera in questione) rappresenta il tipico frutto del disinteresse per il formalismo logico, caratteristico in generale del Seicento preleibniziano; in essa si assiste d'altra parte a un eterogeneo frammischiamento di confuse osservazioni metodologiche, di abbozzi di teorie della conoscenza, di tentativi di analisi dei concetti generali, che sarà destinato ad avere una grande influenza sulla produzione logica posteriore, costituendone una specie di cliché fedelmente seguito - secondo alcuni storici moderni - per oltre duecento anni. Ma veniamo alla posizione di Cartesio nei riguardi della logica. Nelle Regulae egli tocca con una certa frequenza il problema, a cominciare dalla prima ove, dopo aver riconosciuto che solo l'aritmetica e la geometria sono scienze cui conduca l'osservazione della regola in questione, prosegue dicendo di non volere con questo condannare « quella maniera di filosofare che gli altri hanno finora escogitato, e le macchine dei sillogismi probabili, adattissimi alla polemica, proprie degli scolastici: poiché esercitano, e stimolano per via dell'emulazione, l'intelligenza dei fanciulli, cui è di gran lunga cosa migliore dar forma con opinioni di tale specie, sebbene appaia che sono incerte ... »; sicché alla « incerta » sillogistica viene assegnato un valore al più didattico-pedagogico. Ma poche
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righe più avanti, considerato come si possa giungere alla conoscenza per la duplice via dell'esperienza o della deduzione, rileva che quest'ultima, «ossia la semplice illazione di una cosa da un'altra, può certamente venir omessa, se non è scorta, ma non può mai essere fatta male da un intelletto che sia poco poco capace di ragionare. E mi sembra che poco giovino al riguardo le pastoie dei dialettici, con le quali essi reputano di governare la ragione umana, sebbene io non voglia negare che esse siano adattissime ad altri usi »; sicché in effetti la deduzione, questo fondamentale modo di conoscenza, viene considerata, assieme all'intuizione, un'operazione che nessun metodo può insegnare in quanto operazione « fra le più semplici di tutte e primitiva ». Ma la polemica contro la logica prende dimensioni ancor più precise nella regola decima, da cui conviene riportare per esteso la considerazione seguente: « Si meraviglierà forse qualcuno, che in questo luogo, ove ricerchiamo in qual maniera ci possiamo rendere più atti a dedurre le verità le une dalle altre, noi tralasciamo tutti i precetti con i quali i dialettici stimano di dirigere la ragione umana, allorché prescrivono certe forme di ragionare, le quali concludono con tanta necessità, che affidandosi ad esse la ragione, sebbene si disinteressi in certo modo dalla evidente e attenta considerazione della stessa inferenza, possa tuttavia concludere in virtù della forma qualcosa di certo: egli è che noi ci accorgiamo che la verità spesso si sottrae a cotali vincoli, mentre coloro mede.simi che se ne servono vi rimangono irretiti. Questa cosa agli altri non accade tanto di frequente; e sappiamo per esperienza che un sofisma, anche acutissimo, non suole ingannare quasi mai nessuno che usufruisca della schietta ragione, bensì i sofisti medesimi. » In altri termini, l'arte di ragionare dei dialettici, oltre a non contribuire assolutamente alla conoscenza della verità, è cosa del tutto inutile, in quanto è naturalmente posseduta da chi faccia uso della «schietta ragione». D'altra parte la natura formale di tale logica è del tutto apparente, o passa comunque in secondo piano, in quanto, prosegue Cartesio, « i dialettici non possono formare con arte nessun sillogismo che concluda il vero, se prima non abbiano il contenuto di esso e cioè se non abbiano conosciuto già da prima quella verità che in esso viene dedotta ». Ne discende immediatamente che « mediante tale procedimento essi stessi non vengono a conoscere nulla di nuovo e che pertanto la dialettica comune è in tutto e per tutto inutile a chi brama indagare la verità delle cose, ma soltanto può giovare talvolta a esporre agli altri più facilmente le ragioni già conosciute, e perciò va trasferita dalla filosofia alla rettorica ». Essenzialmente, quindi, la critica di Cartesio alla logica può riassumersi dicendo, che egli la ritiene non necessaria per concludere rettamente e la ritiene inoltre viziata da sterilità nel senso che non permetterà mai di raggiungere conoscenze nuove; sicché nel Discorso egli potrà affermare concisamente che « i suoi sillogismi e la maggior parte delle altre sue istruzioni servono piuttosto a spiegare agli altri cose che già sanno, ovvero anche, come l'arte di Lullo, a par347
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lare senza discernimento di quelle che si ignorano invece di impararle; e sebbene essa logica contenga realmente molti precetti verissimi e ottimi, ce ne sono tuttavia, mescolati con quelli, tanti altri o nocivi o superflui che separarli è cosa tanto difficile quanto trarre una Diana o una Minerva fuori da un blocco di marmo appena sbozzato ». In luogo guindi di quel gran numero di precetti di cui la logica è composta, Cartesio ritiene di poter proporre le sue quattro regole. Esse sono state già illustrate nel capitolo II, ma è forse opportuno riportarle ancora qui, e per esteso, allo scopo di agevolare il lettore nel confronto con le analoghe regole proposte da Pascal e quindi dai portorealisti. Afferma quindi Cartesio di proporsi come canoni quelli di: « ... non accogliere mai nulla per vero che non conoscessi evidentemente essere tale; cioè di evitare accuratamente la precipitazione e la prevenzione; e di non comprendere nei miei giudizi niente di più di quello che si presentasse così chiaramente e distintamente alla mia mente che io non avessi alcuna possibilità di metterlo in dubbio. » « .. . dividere ciascuna delle difficoltà da esaminarsi in tante piccole parti quante fosse possibile e necessario per risolverle nel miglior modo. » « ... condurre con ordine i miei pensieri, cominciando dagli oggetti più facili a conoscere per salire a poco a poco come per gradi fino alla conoscenza dei più complessi e supponendo pure un ordine tra quelli di cui gli uni non precedono naturalmente gli altri.» « ... fare ovunque enumerazioni così complete e revisioni così generali da es· sere sicuro di non omettere nulla. » È chiaro che la polemica di Cartesio contro la logica dei dialettici (che, come si è già notato, per lui si riduceva praticamente alla sillogistica) ha radici più profonde di quelle che non possano apparire da una generica condanna dell'uso comune che di tale logica veniva fatto nelle dispute erudite sì da ridurla, per usare una felice espressione kantiana, a una sorta di « atletica dei dotti »; si noti ancora che Cartesio non ha nulla da obiettare al sillogismo in quanto tale se, rispondendo a uno dei suoi corrispondenti, sostiene che i propri scritti «fanno ben vedere che io non disapprovo assolutamente i sillogismi, e anche che non ne cambio né ne corrompo la forma, poiché io stesso me ne sono servito tutte le volte che ne ho avuto bisogno ». La questione va quindi inquadrata nella contrapposizione di fondo fra il pensiero cartesiano e quello aristotelico; ma per questo rimandiamo il lettore al capitolo II, !imitandoci qui a osservare che è proprio l 'intrinseco carattere formale della logica quello che con ogni probabilità accende Cartesio nella sua polemica: Cartesio non concepisce un ragionamento in cui lo sviluppo del pensiero non coincida con lo sviluppo della realtà, mentre col sillogismo (secondo l'impiego che di esso tramandava buona parte della tradizione scolastica) si correva il rischio di perdere il terreno del reale, per cadere in un giro vuoto di parole, nell'esercizio sterile della disputa fine a se stessa.
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Si comprende anche, allora, perché nella dodicesima delle regulae per addestrarsi nel suo metodo deduttivo Cartesio consiglia, piuttosto che il sillogismo, l'esercizio nell'aritmetica e nella geometria ove, malgrado la loro astrattezza, non si correvano tali pericoli. Resta però il fatto che se pure la deduzione viene riconosciuta come una delle due fonti principali di conoscenza, essa viene risolta come una qualità «naturale»: dai principi primi l'uomo deduce grazie a un lumen naturale proposizioni che in ultima analisi vengono garantite solo dall'evidenza. E cioè, sebbene Cartesio assuma come modello di «rigore» la geometria, egli non è per nulla preoccupato di precisare o illustrare quale sia la « logica» soggiacente a tale tipo di argomentazione, assumendola appunto come «naturale » e « primitiva». Ora, si può tranquillamente concordare con Cartesio per quanto riguarda la critica all'impiego della logica ridotta ad atletica dei dotti; ma non si può non restare perplessi di fronte alla vaghezza e all'esplicita natura soggettiva delle quattro regole da lui proposte come sostitutive anche di quella logica; qualora si volesse poi scoprire in esse un contenuto in certo modo « tecnico», questo risulterebbe esposto in modo così vago da rendere perlomeno assai problematico l'impiego concreto delle regole in questione. Cartesio insomma non coglie il valore intrinseco della struttura formale del discorso inferenziale; va cioè annoverato come esponente principale fra i fautori di quel disinteresse per il formalismo logico caratteristico di questo periodo. Ben diverse ci sembrano, da questo punto di vista, le esigenze di Pascal. Non che questi si faccia propugnatore di una tradizione logica o si professi apertamente favorevole a un formalismo logico purchessia; vedremo anzi che anch'egli si porrà in aperta polemica nei riguardi della sillogistica. Ma da una parte propone delle regole nelle quali sono esplicitamente adombrati alcuni temi che diverranno centrali nella moderna logica formale, dall'altra traccia un rapporto molto più preciso e delineato fra il suo proprio modello di rigore deduttivo, il modello geometrico, e la logica tradizionale. Non è cioè improprio che i due trattatelli dai quali trarremo ora qualche citazione, ossia Esprit géométrique e Art de persuader, siano stati da alcuni definiti come i primi trattati di logica moderna non in simboli; Pascal li scrisse in data incerta fra il 1654 e il 1658, ma essi vennero pubblicati, e solo parzialmente, nel 1728. Proponendosi di far capire al lettore le regole da seguire « per rendere le dimostrazioni convincenti » Pascal ritiene che il metodo migliore sia quello di illustrare le regole che segue la geometria, la quale « senza soffermarsi sulle regole del sillogismo che sono tanto naturali che non si può ignorarle, si sofferma e si fonda sul vero metodo di condurre il ragionamento su tutte le cose, il quale è ignorato da quasi tutti ed è tanto utile da sapersi che vediamo come fra spiriti uguali e in pari condizioni, colui che possiede un po' di geometria la vince e acquista un vigore tutto nuovo». Ora, afferma Pascal, ci sarebbe un metodo «vero », 349
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che va addirittura al di là della geometria; e tale metodo consisterebbe nel definire tutti i termini (ove per definizioni si considerino solo definizioni nominali) e nel dimostrare tutte le proposizioni. Ma tale metodo non è concretamente realizzabile, perché spingendosi sempre più a fondo nella ricerca si finirebbe col trovare necessariamente parole primitive che non sappiamo definire e principi così chiari «che non se ne trovano altri che lo siano di più in modo da servire come una prova di quelli ». Ecco allora che il modello più prossimo a questo «ordine ideale» è quello della geometria, il quale è tuttavia «inferiore nel senso di meno convincente, ma non nel senso di meno certo ». Su questo modello si uniforma l'arte del persuadere, la quale è essenzialmente il modo di condurre prove metodiche perfette e « consiste di tre parti essenziali : nel definire i termini di cui ci si deve servire con definizioni chiare; nel postulare dei principi o assiomi evidenti per provare la cosa di cui si tratta; nel sostituire sempre mentalmente nelle dimostrazioni le definizioni al posto dei definiti ». Già questa concisa caratterizzazione è di natura nettamente diversa dalla cartesiana; la sua portata è, se si vuole, molto più circoscritta e forse meno ambiziosa di analoghi argomenti cartesiani, ma è nel contempo assai più informata a una concreta possibilità di fungere quale effettivo metodo per condurre dimostrazioni; in altri termini, qui il carattere tecnico-linguistico è del tutto evidente e operante, mentre la possibilità di una sua applicazione generale e oggettiva viene ancora più ribadita dalla struttura stessa delle seguenti otto regole nelle quali Pascal compendia la costituzione del proprio metodo: « a) " regole per le definizioni ": I) non cercare di definire nessuna cosa che sia tanto nota di per se stessa che non si abbiano termini più chiari per spiegarla; z) non lasciare senza definizione nessun termine un po' oscuro o equivoco; 3) non usare nelle definizioni dei termini che parole già conosciute o già spiegate; « b) " regole per gli assiomi " : I) non tralasciare di chiedere se venga ammesso o no nessun principio necessario, per quanto chiaro ed evidente esso sia; z) non postulare negli assiomi che cose perfettamente evidenti di per se stesse; « c) " regole per le dimostrazioni ": I) non cercare di provare nessuna cosa che sia tanto evidente di per se stessa da non esserci nulla di più chiaro per provarla; 2) provare tutte le proposizioni un po' oscure, e non usare nella prova di esse che assiomi evidentissimi o proposizioni già accordate o dimostrate; 3) sostituire sempre mentalmente le definizioni al posto dei definiti per non ingannarsi con l'equivocità dei termini di cui le proposizioni hanno ristretto il senso. » Queste regole potrebbero essere ridotte a cinque, secondo Pascal, eliminando la prima regola di ogni gruppo. Si osservi che se esse vengono lette prescindendo dall'indubbio «soffio» cartesiano che le pervade (l'evidenza, la chiarezza) queste regole esprimono in modo non formale alcune fra le tipiche esigenze avan-
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zate dalla logica formale moderna: appello alla completezza e all'indipendenza degli assiomi, criterio di eliminabilità delle definizioni, concetto rigorosamente precisato di dimostrazione. Anche i rapporti del suo metodo, della sua « logica » con la logica tradizionale vengono lumeggiati da Pascal meglio e più di quanto non abbia fatto Cartesio. La sillogistica, abbiamo visto, viene assunta come naturale, troppo elementare, insufficiente a fondare e costituire un metodo logico completo; tuttavia la logica in quanto tale è «più ampia» della geometria, poiché contiene anche le regole di quest'ultima; solo che non ne ha «capito la forza» e così, ponendo queste regole a caso « fra quelle che le sono proprie, non ne segue che i logici siano entrati nello spirito della geometria ». Ciò naturalmente non torna a vantaggio della logica, la quale appunto ha commesso un errore fondamentale: non si è accorta di avere inglobato le regole dell'unica scienza, la geometria, che insegna « il vero metodo di condurre la ragione ». Infatti, aggiunge Pascal, «l'aver detto per incidenza, e senza essersi accorto che tutto è racchiuso là [nella geometria], e il perdersi sconfinatamente dietro a ricerche inutili inseguendo ciò che queste offrono e non possono dare invece di seguire quei lumi [della geometrja], è veramente un mostrare poca chiaroveggenza, ben più che se non si fossero seguite per non averle scorte. Il metodo di non errare è ricercato da tutti. I logici fan professione di condurvici, i geometri solo ci arrivano; e, fuori della loro scienza, non ci sono vere dimostrazioni. Tutta la loro arte è racchiusa nei soli precetti che abbiamo esposti: essi soli bastano, essi soli provano, tutte le altre regole sono inutili o nocive ». Non meno pesante quindi che nel caso di Cartesio la polemica di Pascal contro la logica tradizionale, che anche qui viene praticamente limitata alla sillogistica, trascurando la parte più originale, creativa e schiettamente formale dei contributi elaborati dai medievali sulla tradizione peripatetica e stoica. Questo atteggiamento che sarà comune anche alla logica portorealista (e che del resto è ampiamente diffuso in tutto il '6oo) più che dimostrare una scarsa o superficiale conoscenza storica dimostra a nostro avviso la presenza di un vero e proprio giudizio totalmente negativo per questo aspetto della logica medievale: non mancano infatti, come vedremo, parecchi manuali di logica contemporanei ai nostri autori e che mostrano una competente conoscenza di tutta la logica medievale. Abbiamo già accennato d'altronde che questo atteggiamento svalutativo sarà destinato a permanere praticamente fino ai primi decenni del nostro secolo. Pascal comunque prosegue la sua polemica affermando che « per scoprire tutti i sofismi e tutti gli equivoci dei ragionamenti capziosi [i logici] hanno inventato dei nomi barbari che stupiscono chi li ode; e, mentre non si possono sciogliere tutti gli imbrogli di quel nodo così complicato che tirando uno dei capi che i geometri insegnano, essi ne hanno elencati uno strano novero in cui
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quelli sono compresi, senza che sappiano qual è il buono »; e ancora, ribadendo che le regole usate dalla geometria sono riassunte nelle proprie e sono le sole vere, egli non si meraviglia che siano in effetti semplici, ingenue e naturali come realmente sono, e prosegue: «Non sono barbara e baralipton che formano il ragionamento. Non bisogna agghindare lo spirito; i modi sostenuti e penosi lo riempiono di una sciocca presunzione con una elevazione eterogenea e una gonfiatura vana e ridicola invece di un nutrimento solido e vigoroso. »1 Possiamo ora riferire in breve su quella che, come si è detto, viene considerata solitamente l'opera tipica della logica seicentesca preleibniziana, la Logica di Port-Royal. È già stato fatto cenno alla chiara confessione cartesiana dei suoi autori in materia di logica; essi dichiarano inoltre subito la loro « scarsa pazienza per le sottigliezze medievali » e considerano peraltro sterile anche la reazione ramiana alla logica aristotelica; Ramo infatti è essenzialmente un pedante, per aver ammesso solo «suddivisioni con due membri» (dicotomie) e per essersi preso « tanta pena per limitare la giurisdizione di ogni singola scienza ». Rifiutano anche la definizione ramiana della logica come ars bene disserendi, ritenendola invece «l'arte di ben condurre la ragione nella conoscenza delle cose, per istruire tanto se stessi, quanto gli altri ». L'opera è divisa in quattro parti che trattano, nell'ordine, dei concetti (idee), del giudizio, del ragionamento, del metodo, in relazione «alle quattro operazioni principali dello spirito, concepire, giudicare, ragionare e ordinare »; si noti che questa impostazione è significativamente chiarificatrice della profonda differenza fra questa logica e quella tradizionale: alla scientia sermocinalis dei medievali, che ha per oggetto il linguaggio, viene qui contrapposta una logica che oggi diciamo « mentalistica », che ha cioè per oggetto le operazioni dello spirito pensante. Nella prima parte della loro opera Arnauld e Nicole assumono la teoria cartesiana delle idee opponendosi al sensismo e volendo dimostrare che le idee « strettamente intellettuali » sono più chiare e distinte di quelle di origine sensibile. Le qualità di chiarezza e distinzione, che venivano definite separatamente da Cartesio, vengono qui assunte globalmente, come un'unica qualità: noi concepiamo qualcosa chiaramente e distintamente quando sappiamo giustificare con un'analisi intellettuale delle affermazioni determinate e strettamente pertinenti quella cosa. In questa parte gli autori effettuano la distinzione fra intensione e estensione di un termine generale (una delle poche cose effettivamente interessanti della loro opera, dal punto di vista della moderna logica formale) e considerano quindi l'astrazione e le sue applicazioni. Per quanto concerne la teoria della definizione, uno dei classici argomenti «logici» di quest'opera, gli autori ribadiscono giustamente la necessità di distinguere le definizioni nominali da I Per quanto riguarda i nomi « barbari » introdotti dai medievali ad indicare i modi sillogi-
stici, si veda ciò che è stato detto nel capitolo della sezione 1.
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XIII
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quelle reali, affermando inoltre che le prime non vanno considerate « rispetto alla loro verità ». Nella seconda e terza parte, pure in un'opera che presenta la logica non come l'arte del discorso corretto ma come l'arte di ben pensare, di «ben condurre la propria ragione », non mancano tuttavia accenni e discussioni di carattere diciamo così linguistico-discorsivo. È caratteristico però che in genere ciò viene fatto solo per una sorta di esigenza di completezza, perché è opportuno trattare di «tutto ciò che è utile ai fini dell'arte cui appartiene» e che quando i nostri autori riferiscono sui principali capitoli della logica classica (leggi: sillogistica) viene fatta una premessa ove si avverte il lettore che può tranquillamente trascurare quelle parti senza pregiudicare la comprensione del resto. La quarta parte è rivolta a presentare la metodologia portorealista, che viene compendiata nelle seguenti otto regole: « r) N o n lasciare senza definizione nessun termine un po' oscuro o equivoco; 2) non impiegare nelle definizioni che termini perfettamente noti o già spiegati; 3) non assumere come assiomi che cose perfettamente evidenti; 4) assumere come evidente solo ciò che non ha bisogno che d'un po' d'attenzione per essere riconosciuto come vero; 5) provare tutte le proposizioni un po' oscure non impiegando nella loro dimostrazione che definizioni precedenti, e assiomi accordati, oppure proposizioni già dimostrate; 6) non abusare mai della equivocità dei termini, trascurando di sostituire mentalmente le definizioni che li restringono e li spiegano; 7) trattare le cose, nella misura in cui ciò è possibile, nel loro ordine naturale, a cominciare dalle più generali e dalle più semplici, e spiegando tutto ciò che appartiene alla natura del genere prima di passare alle specie particolari; 8) dividere, nella misura del possibile, ogni genere in tutte le sue specie, ogni tutto in tutte le sue parti e ogni difficoltà in tutti i suoi casi. » Se pure nel complesso di queste regole è evidente e predominante la « marca» cartesiana, sarà tuttavia utile che il lettore le confronti con le regole pascaliane sopra riportate per ritrovare anche con queste ultime notevoli analogie (gli autori avevano potuto leggere il manoscritto dei due trattatelli di Pascal sopra ricordati prima della stesura della loro opera). Osserva il Kotarbinski, a proposito di queste regole e del metodo che su di esse si fonda, che « essendo meno vivo l'interesse per la forma delle dimostrazioni e, di conseguenza, meno strette le esigenze relativamente a questa forma, diventa più facile costruire delle pseudodimostrazioni. Un esempio lampante a questo riguardo ... è l'Etica di Spinoza, cartesiano per quanto riguarda le intenzioni metodologiche e l'esposizione, la quale pretende di seguire un " ordine geometrico " ... ». Sempre nella quarta parte gli autori conducono inoltre un confronto fra il metodo analitico, introdotto da Cartesio nella geometria, e il metodo sintetico fino ad allora usato dai geometri. I portorealisti sono evidentemente a favore del primo; il fatto è però, come osserva ancora il Kotarbinski, che « disgraziatamente i nostri autori illu-
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strano il metodo analitico ... applicandolo non a dimostrazioni precise, ma al problema dell'immortalità dell'anima e dandone, invece di un esempio di ragionamento corretto, l'immagine di una pseudodimostrazione illusoria e scorretta>>. Il nuovo spirito della logica portorealista, oltre a essere caratteristico per la valutazione della logica seicentesca preleibniziana, entrerà stabilmente nella concezione stessa della logica praticamente fino al sorgere della logica matematica nella seconda metà dell'Ottocento. Anche per questo ci siamo soffermati più a lungo nella descrizione dell'opera di Arnauld e Nicole che inoltre, per la sua « rappresentatività » del metodo cartesiano, abbiamo per così dire « spostata » da uno stretto ordine cronologico rispetto ad altre opere di logica di questo periodo, e di fattura perlopiù manualistica, che ricorderemo ora brevemente. Cominciamo col rammentare un Opus logicum (1633) di Christian Scheibler (1589-1633) e una Logica vetus et nova (1654) del cartesiano tedesco Johannes Clauberg (1622-165 5) « tematicamente quanto mai problematica, infarcita per la prima volta con tutte le possibili questioni di psicologia e tecnica del processo conoscitivo in generale» (Scholz). Il cartesiano belga Arnold Geulincx, che è stato ricordato nel capitolo IV, pubblica una Logica a fundamentis suis a quibus hactenus collapsa fuerat restituta, nello stesso anno in cui appare la Logica di PortRoyal. In essa l'autore si ripromette, come appunto afferma il titolo, di ricostituire la logica dallo stato di decadimento nel quale gli sembrava essere caduta. L'opera contiene l'esposizione competente di alcune dottrine medievali e della sillogistica; vi vengono espresse le condizioni di verità per una disgiunzione, e derivate quelle che oggi chiamiamo leggi di De Morgan. Oltre agli Erotema/a logica pro incipientibus (167o) del maestro di Leibniz, Jakob Thomasius (1622-1684), va ricordato anche l'Essai de logique contenant /es principes des sciences et la manière de s'en servir pour faire de bons raisonnements (SaJ!gio di logica contenente i principi delle scienze e il modo di servirsene per compiere dei buoni ragionamenti, 1678) del fisico francese Edme Mariotte (16zo-1684). Particolare menzione merita la Institutio logica (1686) del matematico inglese John Wallis (1616-1703) dove l'autore critica le
aggiunte ramiste alla logica aristotelica, sostenendo che esse si sarebbero potute evitare pur di identificare formalmente le proposizioni singolari con le universali: « propositio singularis, in dispositione sillogistica, semper habet vim universalis », pur se a giustificazione di questa sua tesi adduceva argomenti del tutto insostenibili. L'opera logica (formale, di tradizione medievale cioè) di maggior profondità e originalità di questo periodo è però senza dubbio la Logica hamburgensis (1638) di Joachim Jungius (15 87-165 5). Il volume conobbe numerose edizioni e venne molto apprezzato da Leibniz; in esso la logica viene trattata con « raro acume intellettuale». Fra i contributi originali in esso contenuti, ricordiamo l'introduzione di alcuni tipi di inferenza non sillogistica e un'acuta discussione e correzione della teoria dei sillogismi obliqui.
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III · LA
LOGICA
DI
HOBBES
Degli autori del XVII secolo finora considerati, i filosofi tendono in generale a sostituire la logica formale di tradizione medievale con una più generale e feconda metodologia, mentre gli autori dei numerosi manuali in circolazione in questo secolo si limitano perlopiù - salvo qualche rara eccezione - a tramandare la tradizione medievale, poco o niente aggiungendo di originale alle elaborazioni dei logici che li avevano preceduti. Una profonda novità per quanto riguarda l'impostazione dello sviluppo della logica formale moderna ci giunge invece da un altro grande filosofo di questo secolo, quel Thomas Hobbes di cui si sono trattate le idee filosofiche nel capitolo III, nell'ambito delle reazioni seicentesche al cartesianesimo, e i principi politici nel capitolo v, nell'ambito di una discussione generale sul giusnaturalismo. In effetti, già nel capitolo III si è accennato abbastanza diffusamente alla logica di Hobbes, nella misura in cui non è possibile prescindere, trattando della sua gnoseologia, dalle sue vedute logiche che di quella gnoseologia sono parte integrante. Qui vogliamo seguire più da vicino, basandoci sull'opera logica fondamentale di questo autore, l'articolazione della concezione hobbesiana della logica, che metterà in luce la portata che i suoi tratti fondamentali hanno avuto sugli sviluppi posteriori di questa scienza, a partire dalla riconosciuta influenza su Leibniz, cui dedicheremo il paragrafo conclusivo di questo capitolo. Proprio questo accostamento a Leibniz del resto ci ha consigliato di considerare la prima parte del De corpore, che è del I65 5, dopo opere ad essa posteriori, in particolare dopo la logica portorealista. Le innovazioni fondamentali e significative portate da Hobbes in questo campo sono le seguenti: 1) egli introduce la considerazione del « raziocinio » come « calcolo » ossia come combinazione e trasformazione di certi « simboli » eseguite in genere in base ad analogie puramente formali con le corrispondenti operazioni aritmetiche; z) egli afferma una considerazione convenzionalistica del discorso e in particolare dei principi fondamentali del discorso rigoroso, anche se poi, come si accennava nel capitolo III, resta ancor oggi aperto alla critica hobbesiana il problema di intendere in tutta la sua reale portata la natura di questo «convenzionalismo». Va detto subito che i logici immediatamente posteriori a Hobbes assunsero, delle sue sopracitate innovazioni, solo la prima, ossia quella del calcolo, mentre la seconda, relativa alla natura convenzionale degli elementi e delle regole logiche, si ritroverà adottata fra i logici solo in tempi moderni. Hobbes espone le sue idee logiche nella prima parte del De corpore, che porta il titolo già di per sé significativo di Computatio sive logica. L'opera si compone dei sei capitoli seguenti (oltre a una lettera dedicatoria e una lettera al let-
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tore): la filosofia; i vocaboli; la proposizione; il sillogismo; l'errore, il falso e gli inganni sofistici; il metodo. Nel primo capitolo Hobbes inizia definendo la filosofia come « la conoscenza per mezzo del retto ragionamento degli effetti o dei fenomeni in base alla concezione delle loro cause ... » e ribadisce qualche riga più avanti: « Per ragionamento intendo poi il calcolo. Calcolare è "cogliere la somma di più cose aggiunte l'una all'altra" o" conoscere che cosa resta quando una cosa viene tolta da un'altra ". Ragionare è pertanto lo stesso di " addizionare " e " sottrarre "; se uno volesse aggiungere il moltiplicare e il dividere, non avrei nulla in contrario, perché la moltiplicazione è addizione di termini uguali e la divisione è sottrazione di termini uguali tante volte quanto è possibile. Sicché ogni ragionamento si risolve in queste due operazioni della mente, addizione e sottrazione.» Naturalmente per Hobbes ciò non va inteso in senso strettamente pitagorico, nel senso cioè che sia possibile il solo ragionamento con i numeri; infatti, egli spiega, «si possono aggiungere e sottrarre anche una grandezza a una grandezza, un corpo a un corpo, un movimento a un movimento, un grado di qualità a un altro grado, un'azione a un'azione, un concetto a un concetto, una proporzione a una proporzione, un discorso a un discorso, un nome a un nome; ed in ciò consiste ogni genere di filosofia ». Il secondo capitolo, dedicato ai nomi, si apre col riconoscimento che per la conoscenza sono necessarie tanto delle « note » ( « cose sensibili scelte a nostro arbitrio con lo scopo che, mediante la loro sensazione, si possono richiamare alla mente pensieri simili a quelli per indicare i quali esse sono state scelte ») quanto dei « segni » ( « antecedenti dei loro conseguenti e i conseguenti dei loro antecedenti, ogni volta che rileviamo che essi precedono e seguono perlopiù nella stessa maniera»). Le note sono destinate a far sì che ognuno possa ricordare i propri pensieri, i segni a far sì che egli sia in grado di comunicarli. Ora, osserva Hobbes, i nomi compiono entrambe queste funzioni, e precisamente un nome è quella « voce umana adibita ad arbitrio dell'uomo ad essere una nota con cui si possa suscitare nella mente un pensiero simile ad un pensiero passato e che, disposta nel discorso e proferita ad altri sia per questi segno di quale pensiero abbia o non abbia prima avuto nella mente colui che parla». Tutta la nostra conoscenza è quindi essenzialmente collegata con i nomi; questi sono segni dei concetti e noi diamo nomi a oggetti della natura (come « uomo », « albero », « pietra »), ad altri nomi (così un universale non è che un nome di un altro nome), ma anche a cose inesistenti (ad esempio nomi quali «futuro», «nulla», «impossibile», ecc.). Questa posizione nominalistica hobbesiana risulta con particolare evidenza - tra l'altro - nel corso della classificazione dei nomi che egli intraprende nel prosieguo di questo stesso capitolo (suddividendoli in positivi e negativi, di prima e di seconda intentio, ecc.). Bobbes afferma infatti che il nome negativo e quello positivo sono fra loro contraddittori, di modo che non possono essere nomi della stessa cosa. Ora, « coloro
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che enunciano questa cosa dicendo che " la stessa cosa non può essere e non essere" parlano oscuramente, mentre coloro che la esprimono dicendo "tutto ciò che è, o è o non è " parlano anche in modo assurdo e ridicolo » mentre « è principio certo di ogni ragionamento, cioè di tutta la filosofia » affermare assiomaticamente che « di due nomi contraddittori, uno è nome di una cosa qualunque, l'altro no ». Nel terzo capitolo, dedicato alla proposizione, Hobbes afferma che in filosofia va ammessa una sola specie di «discorso», l'aristotelica proposizione apofantica che ha la proprietà di risultare vera o falsa, escludendo quindi « discorsi » di preghiera, o promessa, o minaccia, ecc. Una proposizione è insomma quel « discorso formato dali 'unione di due nomi, con cui chi parla vuoi significare che egli pensa che il nome che viene dopo è nome della stessa cosa cui si riferisce il nome che precede, ossia, il che è lo stesso, che il nome che viene prima è contenuto nel nome che viene dopo ». Hobbes riconosce poi sei «distinzioni» per la proposizione, che può essere universale o particolare, affermativa o negativa, necessaria o contingente, vera o falsa, ecc. A proposito di quest'ultima distinzione egli afferma che «le voci "vero ", "verità ", "proposizione vera " si equivalgono. Infatti la verità consiste in quello che vien detto, non nella cosa». D'altra parte «le verità prime nacquero dall'arbitrio di coloro che per primi imposero i nomi alle cose o che li accolsero dopo che altri li avevano posti » e quindi anche le proposizioni prime non sono altro che « definizioni, ed esse sole sono i principi della dimostrazione, cioè verità arbitrariamente costituite da parte di coloro che parlano e di coloro che ascoltano; per questo sono indimostrabili ». Le proposizioni necessarie sono quelle sempre vere e anche da ciò risulta allora evidente che «la verità appartiene non alle cose, ma ai discorsi; ci sono infatti delle verità eterne; sarà sempre vero infatti che " se è uomo è animale ", ma non è necessario che esista in eterno l'uomo o l'animale». Il nominalismo hobbesiano risulta qui in tutta la sua radicalità: non esistono universali, ma nomi; un ordinamento, una qualunque scala di valori può essere soltanto stabilita dalla mente dell'uomo. La verità diventa essenzialmente una funzione linguistica e la verità di una proposizione perde ogni connotazione antologica, diventa solo logica,. ,analitica: dire che la proposizione « l 'uomo è mortale » è vera, significa semplicemente affermare che il nome « uomo » contiene nella sua definizione il nome « mortale ». Ogni ragionamento avrà il compito di dimostrare che i « copulati » sono effettivamente « copulabili ». In particolare una proposizione si rivelerà necessaria quando il nome che in essa funge da predicato risulterà parte del nome che vi funge da soggetto (o di un nome ad esso equivalente). La sua verità universale dipenderà quindi, in ultima istanza, da una convenzione definitoria: « Ogni proposizione universale vera o è una definizione, o è parte di una definizione, o è dimostrata da una definizione. » Assieme quindi all'esplicito carattere nominalistico di questa logica si avverte immediatamente
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anche la sua natura convenzionalistica, dal momento che il linguaggio è una istituzione arbitraria e il significato delle parole viene stabilito a sua volta per convenzione o libero accordo. Va inoltre sottolineato che sulla base di questa impostazione Hobbes riesce a dare a tutto lo sviluppo della logica un rigore davvero ammirevole. Poiché in questa prospettiva i ragionamenti sono combinazioni di nomi con nomi o con parti di nomi, essi possono assumere una vera e propria veste calcolistica, e ciò li rende più efficacemente controllabili. Questo aspetto costituisce una conferma della profonda impressione che - si osservava al capitolo m - il modo di argomentare della matematica esercitò su Hobbes. Ma ritorniamo alla Computatio. Nello stesso terzo capitolo, dopo la classificazione, Hobbes tratta l'« equipollenza» delle proposizioni (che comprende tra l'altro la teoria delle conversioni) dando quattro casi in cui ha luogo questa relazione fra proposizioni; particolarmente interessante la dichiarata equipollenza fra una proposizione categorica necessaria e la corrispondente ipotetica (a ulteriore evidenza del nominalismo logico di Hobbes, e che troverà riscontro in una analoga relazione fra sillogismi categorici e sillogismi ipotetici). Nei paragrafi successivi espone le classiche relazioni fra proposizioni che danno luogo al quadrato aristotelico e definisce quindi semanticamente il « seguire » di una proposizione da altre due: una proposizione segue logicamente da altre due quando, essendo vere queste ultime (premesse), non può non risultar vera la prima (conclusione). Queste considerazioni sulla proposizione « che forma quasi il primo passo nel cammino della filosofia, come se avessimo portato avanti un solo piede » introducono al sillogismo che permette di compiere « il passo completo » e che viene trattato nel capitolo quarto. Del sillogismo Hobbes dà un'esposizione succinta e tuttavia molto agile ed esauriente, condotta in modo classico, senza cioè fare appello diretto alla terminologia medievale; in alcuni punti tuttavia si stacca dall'esposizione aristotelica. Hobbes vede nel sillogismo «la raccolta della somma che risulta da due proposizioni congiunte fra loro per mezzo di un termine comune che si chiama " medio "», onde esso risulta essere «l'addizione di tre nomi al modo stesso in cui la proposizione lo è di <;lue »; tratta quindi brevemente delle quattro figure, mostrando come le ultime tre possano attenersi « o dalla inflessione o dall'inversione della prima figura diretta»; e notato che possono aversi in tutto tre o quattro figure a seconda del criterio che si assume per distinguerle, riguarda come uno pseudoproblema («apparenza») la «controversia che ha luogo fra i logici intorno alla quarta figura ». Non ritiene di dover scendere in particolari ulteriori, in quanto « tutto quel che altri hanno utilmente trattato in modo diffuso intorno ai modi e alle figure è chiaramente contenuto in quello che abbiamo detto». È d'altra parte convinto che la pratica del ragionamento serva molto di più di ogni regola: « Impareranno infatti molto più presto la vera logica coloro
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che dedicano il loro tempo alle dimostrazioni dei matematici di coloro che lo dedicano a leggere le regole per fare i sillogismi, prescritte dai logici. » Nel quinto capitolo Hobbes stabilisce una distinzione fra errore in generale e quel particolare tipo di errore che è il falso (solo quest'ultimo è un fatto linguistico, proveniente dalla errata associazione dei nomi, errata in quanto non rispetta le convenzioni pattuite fra gli uomini circa i nomi di certe cose) e tratta quindi degli errori del ragionamento distinguendo nettamente fra sillogismi errati «per materia» (che derivano dall'assunzione di premesse false) e sillogismi errati «per forma» (che invece dipendono dall'inferenza scorretta). Segue quindi l'analisi dei «sette modi di incoerenza dei nomi, nei quali la proposizione è sempre falsa ». Al di fuori di questi modi si può riconoscere la verità o la falsità di una proposizione con metodo risolutivo, esaminando successivamente le definizioni dei termini che così risultano; se neppure con questo metodo si riesce a stabilire il valore di verità di una proposizione, è necessario un processo dimostrativo (filosofico) a partire dai primi principi. Il capitolo termina con un brevissimo accenno agli errori formali dei sillogismi (che sono essenzialmente di due tipi); questi si possono scoprire facilmente e si mettono in luce mostrando che in un dato sillogismo intervengono in realtà non tre bensì quattro termini; tuttavia gli inganni sofistici peccano più spesso nella materia che non nella forma. Il sesto capitolo infine è dedicato al metodo, definito come « la ricerca più breve possibile degli effetti per mezzo delle cause note o delle cause per mezzo degli effetti noti ». Distinto il metodo analitico, o risolutivo, da quello sintetico, o compositivo, ai quali tuttavia è tratto comune « il procedere dalle cose note a quelle ignote », Hobbes non vede una supremazia di uno dei due metodi sull'altro, ma riconosce la convenienza dell'impiego dell'un metodo o dell'altro o infine di entrambi nel corso di una stessa ricerca, in corrispondenza alla gran varietà dei fini dell'indagine filosofica. Sicché in generale il metodo di ricerca «è in parte analitico e in parte sintetico, cioè è analitico dai sensi al ritrovamento dei principi, ed è sintetico per tutto il resto ». Così ad esempio è puramente analitico il metodo per la ricerca delle nozioni universali delle cose, mentre da considerazioni sintetiche è nata la geometria, a partire dai concetti di luogo e movimento; nella ricerca delle cause, ossia della « somma o aggregato di tutti gli accidenti », occorre impiegare entrambi i metodi; alla filosofia civile invece si può giungere o con metodo sintetico a partire dai principi primi della filosofia (e cioè passando attraverso la geometria e la fisica) oppure con metodo analitico. Sintetico è tuttavia l'intero metodo della dimostrazione, in quanto esso consiste «nell'ordine del discorso che comincia dalle proposizioni prime o universalissime note per se stesse, prosegue con la continua composizione di proposizioni in sillogismi, finché chi impara abbia inteso la verità della conclusione cercata». Ribadito il carattere nominale della 359
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definizione ( « i nomi definiti si usano in filosofia soltanto per brevità ») ed elencatene alcune proprietà, Hobbes definisce la dimostrazione come « un sillogismo o una serie di sillogismi derivati dalla definizione dei nomi fino all'ultima conclusione». In conclusione, con Hobbes si introduce nella logica quell'atteggiamento convenzionalistico che, se pure a tanta distanza da lui, si rivelerà uno dei fattori più significativi per liberare la logica stessa da ogni presupposto dogmatico e metafisica; e appare in tutta la sua efficacia quella considerazione del pensiero rigoroso come calcolo, che sarà anch'esso un aspetto peçuliare della logica moderna. Si comprende quindi come Leibniz - lo vedremo nel prossimo paragrafo - vagheggiando una meccanizzazione computistica del sapere umano, annoveri Hobbes fra i suoi ispiratori, considerandolo il «profondissimo scrutatore dei principi in tutte le cose » e lo studioso che giustamente aveva affermato « che ogni opera della nostra mente è calcolo ». IV · LA
LOGICA
DI
LEIBNIZ
Al pensiero di G. W. Leibniz verrà dedicato un intero capitolo, il XIV, ove verrà tracciato un quadro generale delle sue concezioni filosofico-scientifiche. In queste concezioni le vedute logiche del grande pensatore tedesco hanno avuto una parte determinante, anzi, secondo alcuni autori, esse costituirebbero addirittura il fondamento della stessa metafisica leibniziana. Il rapporto logica-metafisica in Leibniz, comunque esso venga risolto, sia cioè che si assegni la priorità alla logica o invece la si assegni alla metafisica, è in ogni caso assai stretto e significativo; tuttavia non tratteremo in questa sede di tale rapporto, rimandandone per ovvi motivi la discussione al capitolo XIV. In questo paragrafo ci limiteremo quindi a isolare, nella misura in cui un tale isolamento è possibile, le idee e i programmi più propriamente « logici » di Leibniz nel contesto generale della sua concezione filosofica. La posizione di Leibniz nella logica del Seicento assume un aspetto del tutto particolare: egli infatti è ormai universalmente riconosciuto come l'autentico precursore della logica formale moderna, per le geniali e numerose anticipazioni che i suoi scritti offrono delle tematiche e delle caratteristiche di questa logica. Col suo stile alquanto enfatico, Heinrich Scholz ha esposto questa situazione proclamando che « è come si facesse giorno, quando viene citato il nome di Leibniz. Con lui comincia la "vita nova" per la logica aristotelica, la cui più bella manifestazione è ai nostri giorni quella moderna logica esatta che va sotto il nome di logistica ». A prescindere dalle colorite immagini dello Scholz, è tuttavia un fatto acquisito che le concezioni logiche di Leibniz, le sue anticipazioni in questo campo, la sua sensibilità nei riguardi della struttura formale dell'inferenza, ne hanno fatto l'ideale punto di riferimento cui i creatori ottocenteschi della moderna
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logica formale, Boole e Frege, si sono - si direbbe quasi necessariamente ispirati (sia pure da punti di vista e con concezioni profondamente diverse). Dalle posizioni critiche nei riguardi della logica che abbiamo visto nei pensatori seicenteschi sin qui esaminati (ad eccezione, naturalmente di Hobbes), oltre alla comprensibile e giustificata svalutazione della sillogistica in quanto fine a se stessa come strumento polemico nelle discussioni erudite, è anche emersa una precisa accusa di sterilità (la logica non permetterà mai di scoprire nuove verità) e di inutilità (si può ben «ragionare» senza bisogno della logica, cui viene sostituito un più fecondo «metodo» generale) e avevamo convenuto che si poteva riscontrare un fattore comune in quelle critiche, una motivazione costituita dall'intrinseca svalutazione del più schietto significato del carattere formale della ricerca logica. Orbene, la mentalità matematica di Leibniz coglie invece appieno l'importanza essenziale di questa dimensione formale, coglie cioè «mirabilmente ... la fecondità dell'analisi della molteplicità di conseguenze ricavabili dalla posizione di rapporti qualsiasi fra enti qualsiasi» (Barone). Naturalmente, anche Leibniz riconosceva che l 'impiego del sillogismo nelle dispute scolastiche correva il serio pericolo di degenerare in un vuoto schematismo cavillatore, ma d'altra parte era ben conscio che non poteva darsi un vero e proprio rigore argomentativo se non in veste logico-formale. È proprio in base a questa concezione di dimostrazione formale che Leibniz afferma che le regole cartesiane sono sostanzialmente strumenti psicologici di ben scarsa importanza e che anzi l'effettiva debolezza di Cartesio quale scrittore sul metodo consiste proprio nel non aver afferrato e compreso l 'importanza della forma logica. Ci sembra interessante del resto precisare più esplicitamente la posizione di Leibniz con le sue stesse parole: esse paiono voler controbattere punto per punto alle critiche contro la logica tradizionale che abbiamo visto nel paragrafo n. In una lettera a Gabriel Wagner, Leibniz si sente costretto a concedere che « ... tutte le nostre logiche non sono finora che un'ombra di ciò che io tanto desidero e intravvedo da lontano »; ma ritiene altrettanto doveroso confessare « a onor del vero e per dare a ciascuno quel che gli spetta, di trovare anche nella logica tradizionale molto di buono e di utile». È già qui espressa, con estrema semplicità, la diversità di prospettiva nella valutazione della logica; ma sempre nella stessa lettera, Leibniz ribadisce, a proposito della sillogistica, che « ... è ritenuta la più inutile e si parla con scherno di Barbara, Celarent, ecc.; ma io l'ho trovata diversa, e sebbene il sig. Arnauld ritenga nella sua logica che difficilmente gli uomini errino nella forma bensì quasi soltanto nella materia, le cose stanno ben diversamente e il sig. Huygens ha osservato con me che in generale gli stessi errori matematici che sono chiamati paralogismi provengono da forma errata. Non è cosa da poco che Aristotele abbia sottoposto queste forme a leggi esatte, e sia stato così in realtà il primo a scrivere matematicamente al di fuori della matematica ». La diversità di prospettiva è
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sostanziale: la logica non solo non è inutile come ars demonstrandi, ma essa è tutt'altro che sterile, in quanto comprende anche una più ampia e importante ars inveniendi, «un'arte ammirevole d'inventare, e un'analisi che fa in altre materie qualcosa di simile a ciò che l 'algebra fa nei numeri». E infatti per logica Leibniz intende «l'arte di usare l'intelletto, quindi non soltanto di giudicare ciò che è stabilito, ma anche di trovare ciò che è nascosto », sicché può affermare con sicurezza che «tutto quanto è stato scoperto dall'intelletto è stato scoperto con le buone regole della logica, quantunque tali regole inizialmente non fossero enumerate o codificate in modo esplicito ». Tocchiamo un ultimo punto per concludere questa specie di « confronto indiretto» fra Leibniz e i cartesiani sulla logica. Il lettore ricorderà il disprezzo con cui Cartesio aveva accennato nel Discorso all'« arte » di Lullo; anche a questo proposito Leibniz sembra dare una risposta puntuale: molto degli scopi e delle realizzazioni dell' ars magna lulliana 1 lascia a desiderare, ma il principio donde essa parte è esatto e fecondo e ciò che Leibniz si augura è solo che (( un uomo di ingegno vastissimo penetri più profondamente di Lullo ... in intima rerum e compia quelle cose che noi preconcepimmo, di cui tracciammo i lineamenti e che ponemmo fra i desiderata. E tali cose noi non le destinammo tanto all'ampliamento dell'aritmetica - anche se facemmo pure ciò - quanto all'apertura delle fonti della logica inventiva». Quest'ultima citazione è tratta dalla decima « applicazione » della Dissertatio de arte combinatoria del I 666 che è la prima opera logica di Leibniz e l 'unica del periodo giovanile (Leibniz aveva appena vent'anni quando essa veniva pubblicata). Non si può propriamente parlare di veri e propri «periodi» di produzione logica del Leibniz come a se stanti e distinti dal contesto generale della sua produzione filosofica; le ricerche del Couturat gli hanno tuttavia permesso di fissare tre fasi di particolare attività logica del nostro autore nel I 679, nel I 686 e nel I69o (cui va almeno aggiunto il I704, anno in cui vennero composti i Nouveaux essais sur l' entendement humain). Tra la produzione giovanile edita e gli scritti inediti della maturità vi è tuttavia una completa continuità che lo stesso Leibniz riconosce e afferma esplicitamente in varie occasioni. Va inoltre notato che la De arte combinatoria contiene già in nuce quelli che saranno i temi fondamentali degli sviluppi successivi della logica leibniziana; anche questo fatto viene dichiarato esplicitamente da Leibniz, ma è già parzialmente intuibile dall'ambizioso sottotitolo che accompagna l'opera giovanile: « Dai fondamenti aritmetici si costruisce con nuove regole la dottrina delle combinazioni e delle permutazioni e si mostra l'uso di entrambe attraverso l'universo mondo delle scienze, e si gettano nuovi semi dell'arte di pensare, ossia della logica dell'invenzione. » I motivi per noi interessanti che possono trarsi già dalla De arte combinatoria I
Per l'ars magna di Lullo vedasi quanto brevemente esposto nel capitolo
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VI
della sezione n.
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e che costituiscono le tematiche logiche principali del pensiero leibniziano oltre a una nuova trattazione della sillogistica - e nell'ambito del grandioso progetto di una scienza generale, di una enciclopedia, sono i seguenti: r) la concezione della possibilità di costituire una classe di termini semplici dai quali ottenere per combinazione i termini complessi, cioè la costituzione di una sorta di alfabeto dei pensieri umani; 2) la concezione di una lingua characteristica, di una ideografia logica cioè, e di un calculus ratiocinator, ossia di un calcolo logico, ad essa associato. Alle trattazioni di specifica natura logica sono dedicate nella De arte combinatoria le applicazioni sesta e decima dei primi due problemi, e concernono, oltre ad argomenti tradizionali relativi alla sillogistica, i fondamenti di quell'ars inveniendi che è il contributo leibniziano all'ampliamento della logica. Per quanto riguarda la sillogistica, prendendo in esame il sillogismo categorico, Leibniz considera, oltre alle due qualità affermativa e negativa delle proposizioni, quattro quantità, aggiungendo alle tradizionali universale e particolare, anche l'indefinita e la singolare. Ammettendo valida, come fa Leibniz, anche la quarta figura, ne risultano 2048 modi sillogistici possibili; applicando le regole classiche della sillogistica e assumendo la portata universale delle proposizioni singolari (si ricordi Wallis) ne risultano in definitiva 24 modi validi, ripartiti in 6 per ogni figura. Dal punto di vista logico formale è qui interessante notare un accenno a un'eventuale sistemazione assiomatica della sillogistica che verrà poi estesa in opere successive. Oltre a comprendere nella logica tradizionale altri tipi di sillogismi (i composti, gli ipotetici, ecc.) Leibniz ne amplia ulteriormente il campo comprendendovi anche quegli argomenti non sillogistici che nel paragrafo n abbiamo visto essere stati introdotti dallo Jungius. Il progetto di un'enciclopedia o scienza generale (anch'esso già in germe nell'opera logica giovanile di Leibniz) viene maturato dopo il soggiorno parigino e londinese (che va dal marzo del r672 all'ottobre del 1676). Questa scienza generale « contiene i principi di tutte le altre scienze e il modo di servirsi dei principi... Deve quindi trattare sia del modo di pensare bene, cioè di trovare, di giudicare, di governare gli affetti, di ritenere e di ricordare, sia degli elementi di tutta l'enciclopedia e dell'investigazione del sommo bene, a causa del quale si intraprende ogni meditazione; la sapienza non è altro infatti che la scienza della felicità». In epoche successive Leibniz abbozza diversi progetti di quest'opera grandiosa che tuttavia non riuscirà a concretare. Delle varie parti di cui doveva constare l'enciclopedia, una avrebbe dovuto contenere la trattazione propriamente logica: tale trattazione avrebbe appunto dovuto essere costituita da una ars demonstrandi e da un'ars inveniendi «che è rivolta, oltre alla dimostrazione delle verità note, alla scoperta di nuove verità, quasi filo d'Arianna che, come la combinatoria aritmetica, porti alla realizzazione di nuove sintesi. All' ars demonstrandi e all' ars inveniendi si dovrà infine aggiungere un inventarium della conoscenza
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umana, in cui si riportino "tutte le cose più utili, più certe, più universali e più sufficienti per determinare tutte le altre "» (Barone). È in questo contesto che - come si è già accennato - vanno situati quei temi fondamentali della logica leibniziana di cui parlavamo qualche pagina addietro: I) Leibniz ritiene che si debba giungere « necessariamente a questa ammirevole concezione che si possa escogitare un alfabeto delle nozioni umane, e che con la combinazione delle lettere di esso e dei vocaboli che se ne formano si possano trovare e giudicare tutte le cose per mezzo dell'analisi». Deve cioè essere possibile isolare una classe di costituenti ultimi, di concetti primitivi, tali che tramite le loro combinazioni si possano ottenere tutte le proposizioni complesse. Ai termini primitivi possono essere associati dei numeri e le nozioni composte dovranno potersi ottenere per combinazione, così come, ad esempio, un numero composto è ottenibile dal prodotto dei suoi fattori primi. Su questa idea Leibniz tornerà ripetutamente con vari tentativi effettivi di associazione numerica. È a questo proposito che egli cita (fra gli altri) Hobbes come suo ispiratore. Va notato che qui Leibniz parte dall'erroneo convincimento, proprio della logica aristotelica, che ogni composto sia originato da una predicazione; gli sfugge cioè la maggior duttilità e fecondità del nesso relazionale, non ultima ragione, questa, del fallimento della sua impresa. z) In stretta connessione con l'idea precedente si pone anche quella della characteristica universalis, ossia di una lingua ideografica che stabilisca una corrispondenza biunivoca fra segni e idee semplici e fra segni e idee composte: «L'arte caratteristica è l'arte di formare e ordinare i simboli (characteres) in modo che esprimano i pensieri, e cioè abbiano tra loro la stessa relazione che hanno fra loro i pensieri. Espressione è un aggregato di caratteri rappresentanti la cosa espressa. La legge delle espressioni è la seguente: l'espressione della cosa sia composta dai caratteri di quelle cose dalle cui idee è composta l'idea della cosa da esprimere. » A questa characteristica doveva associarsi un calculus ratiocinator che rendesse inutili le dispute e le polemiche privandole di ogni significato. Infatti, scrive Leibniz, « io penso che mai le controversie possono essere condotte a termine e che mai si può imporre silenzio alle sette se non siamo ricondotti dai ragionamenti complicati ai calcoli semplici, dai vocaboli di significato incerto e vago a caratteri determinati ... Si deve fare in modo che ogni paralogismo non sia null'altro che un errore di calcolo ... Fatto ciò, quando sorgano controversie non ci sarà più bisogno di dispute fra due filosofi di quanto non ce ne sia fra due computisti. Basterà infatti prendere la penna, sedersi all'abaco e dirsi vicendevolmente: calcoliamo! ». Abbiamo sempre parlato di Leibniz come del « precursore » della logica moderna e non come il « fondatore » o se si preferisce il « creatore » della stessa (malgrado non manchino autori che propendono tout court per la seconda qualificazione) in considerazione soprattutto del fatto che dei vari grandiosi
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progetti sopra accennati Leibniz, in effetti, non ne realizzò concretamente nessuno. È quindi in certo senso lo « spirito » della logica leibniziana che è stato tramandato e che ha assicurato quella continuità riscontrabile tra la logica aristotelica e la logica moderna. Anche a questo proposito però è assolutamente necessario usare un'adeguata cautela critica che si esplica sostanzialmente nel non separare il corpus delle ricerche logiche leibniziane dal complesso delle sue idee filosofiche, nel non considerare cioè in modo monco e unidirezionale quel rapporto logicametafisica cui accennavamo all'inizio di questo paragrafo. Si eviterà così di operare una troppo affrettata e avventata« identificazione» fra la logica di Leibniz e la logica moderna che falserebbe completamente la vera essenza di questo rapporto. Basti un esen;1pio per tutti: il simbolismo leibniziano si sviluppa in una prospettiva del tutto diversa da quella moderna, in quanto nel caso di Leibniz è per così dire un simbolismo semantizzato, cioè « di qualche cosa », di un contenuto ben determinato mentre da un punto di yista moderno esso è solo operativo e passibile poi, se del caso, di una interpretazione. Gli esempi si potrebbero ovviamente moltiplicare ma ci basta qui aver accennato alla questione. Un altro problema cui vogliamo infine accennare, e che è del resto strettamente legato al precedente, concerne i motivi che hanno impedito alla logica di Leibniz, pur così vicina alla logica moderna, di imporsi subito negli ambienti scientifico-filosofici a lui immediatamente posteriori, esigendone invece una « riscoperta » a quasi due secoli di distanza. Anche in questo caso, a parte l'ovvia e semplicistica spiegazione avanzata da alcuni studiosi secondo i quali ciò sarebbe da imputarsi esclusivamente al fatto che gli immediati successori di Leibniz non vennero a conoscenza della sua opera perlopiù manoscritta e andata dispersa nelle biblioteche, le ragioni più profonde vanno ricercate proprio nella impostazione filosofica generale nel cui contesto sorgeva il discorso logico di Leibniz; ma non è questa la sede per trattare più ampiamente la delicatissima questione, per la quale rimandiamo il lettore, oltre che al citato capitolo XIV, all'ottimo volume di Francesco Barone (Logica formale e logica trascendentale. I. Da Leibniz a Kant, 1957) di cui ci siamo peraltro molto serviti in queste pagine. Sullo sviluppo delle idee di Leibniz nei logici del Settecento, ci riserviamo comunque di ritornare nella sezione v.
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CAPITOLO
DECIMO
Il pensiero matematico
I · CONSIDERAZIONI GENERALI
Nel quadro della grande svolta prodottasi entro il pensiero scientifico durante il XVII secolo - della quale sono stati discussi nel capitolo vm il significato più profondo e i tratti più caratteristici - lo sviluppo del pensiero matematico occupa una posizione non centrale ma cionondimeno di altissimo interesse: non centrale, perché non direttamente impegnata nel mutamento della concezione generale della natura che sta alla base dell'anzidetta svolta, ma purtuttavia di altissimo interesse, sia per l 'importanza intrinseca dei nuovi capitoli che entrano a far parte del sapere matematico, sia per le innovazioni metodologiche rese necessarie dalla singolarità degli argomenti trattati, sia infine per la potenza degli strumenti concettuali che tali capitoli ben presto forniranno alle scienze della natura (in primo luogo alla meccanica). I nuovi importantissimi capitoli testé accennati sono la geometria analitica e l'analisi infinitesimale (dei quali peraltro si possono trovare antecedenti assai significativi nel pensiero greco, in quello medievale e ancor più in quello rinascimentale). Il loro ingresso nella matematica può venire ragionevolmente assunto come l'inizio, per questa scienza, della sua fase propriamente moderna. Accanto ad essi il XVII secolo, che fu senza dubbio uno dei periodi più fecondi per la matematica, vide anche sorgere altri capitoli nuovi della nostra disciplina e vide compiere notevoli progressi in quelli già precedentemente da essa acquisiti. Ma si tratta, come ora spiegheremo, di sviluppi che non raggiunsero certamente - perlomeno nel pensiero scientifico del Seicento - un peso paragonabile a quello spettante alla geometria analitica e all'analisi infinitesimale. Fra le innovazioni «minori» dell'epoca in esame meritano una particolare menzione: la geometria proiettiva ideata da Desargues, nell'ambito della quale eseguì alcuni lavori particolarmente acuti anche il giovane Pascal (come ricordammo nel capitolo vii); il calcolo delle probabilità, già intravisto da Cardano ma seriamente studiato solo nel Seicento ad opera soprattutto di Fermat e di Pascal; il calcolo dei logaritmi inventato da Nepero e consolidato da Briggs. Senza voler negare che anche questi siano argomenti di grande rilievo, va tut-
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tavia notato che solo all'inizio dell'Ottocento la geometria proiettiva assurgerà al rango oggi unanimemente riconosciutole, diventando anzi il fulcro della rinascita delle discipline geometriche pure (come vedremo nella sezione vr), e che analogamente il calcolo delle probabilità comincerà a suscitare un serio e autentico interesse fra i matematici solo nel Settecento per assumere poi un sicuro assetto scientifico agli inizi del secolo successivo ad opera di Laplace (sarà proprio questo assetto a rendere possibili le larghe e feconde applicazioni che più tardi tale calcolo troverà nella fisica). Quanto ai logaritmi, basterà osservare che essi ebbero all'inizio un'importanza esclusivamente pratica, come prezioso strumento per l'esecuzione di calcoli numerici approssimati; se è vero che si scopersero ben presto le interessantissime proprietà della funzione logaritmica e i legami che essa possiede con altre importanti funzioni elementari, vero è però che lo studio di tali proprietà e di tali legami non tardò a inserirsi, come argomento particolare, nel più vasto argomento della teoria delle funzioni, oggetto specifico della geometria analitica e dell'analisi infinitesimale. Per ciò che riguarda i progressi apportati nel Seicento ad alcuni capitoli già acquisiti dalla matematica antecedente, ci limiteremo a dire che essi concer. nono essenzialmente l'algebra e la teoria dei numeri naturali. Gli studi di algebra furono strettamente collegati a quelli di geometria analitica, sicché non è il caso di trattarli a parte; quelli di teoria dei numeri furono soprattutto coltivati da Fermat, che diede prova anche qui del proprio eccezionale ingegno ma - nonostante i notevolissimi risultati da lui raggiunti - non riuscirono a conseguire un autentico peso al di là del settore propriamente aritmetico, onde non incisero (o incisero assai poco) sulla storia generale del pensiero scientifico. Per i motivi testé accennati, e tenuto conto che non rientra fra i compiti del presente trattato il delineare una storia dettagliata di tutte le singole ricerche matematiche, abbiamo ritenuto opportuno accentrare la nostra esposizione sui due soli capitoli più nuovi e più caratteristici: la geometria analitica e l 'analisi infinitesimale. Nel prossimo paragrafo avremo comunque occasione, nell'elencare i nomi dei principali protagonisti della matematica del Seicento, di far cenno ai loro più interessanti contributi anche al di fuori dell'ambito dei due capitoli predetti. I punti sui quali ci soffermeremo più a lungo sono quelli connessi ai problemi di fondo sia della geometria analitica sia dell'analisi infinitesimale. E poiché i problemi più sconcertanti erano proprio quelli che affioravano nell'analisi infinitesimale (in connessione all'infinitamente piccolo e all'infinitamente grande, come già ricordammo nel capitolo dedicato a Pascal), è particolarmente ad essi che rivolgeremo la nostra attenzione. A tale scopo cercheremo anzitutto di porre in luce i molti temi particolari - di meccanica, di geometria, ecc. - che imponevano ai matematici del Seicento di affrontare, con nuovo coraggio, le nozioni di infinitesimo e di infinito che la
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grande matematica greca aveva cercato accuratamente di evitare. Esporremo poi le autentiche difficoltà cui dava luogo tale trattazione, illustrando i motivi molto seri atddotti dai «matematici conservatori» contro l'abbandono - in certo senso spericolato - della tradizione classica. È un fatto incontestabile che tale abbandono comportò rinunce assai forti nell'ambito del rigore; rinunce che pesarono gravemente su tutta la matematica del Sei e del Settecento. Eppure malgrado questo pericoloso arretramento sul fronte del rigore, la graduale elaborazione del calcolo infinitesimale si rivelerà estremamente feconda vuoi dal punto di vista pratico vuoi da quello concettuale. Fu proprio questa fecondità a dimostrare che la via intrapresa era quella giusta; onde si proseguì in essa, sia pure con non pochi tentennamenti, fino a quando i grandi analisti dell'Ottocento riusciranno a dare a tutto il complesso-e delicatissimo argomento una sistemazione radicalmente nuova, che consentirà finalmente di trattarlo col massimo rigore (anche superiore a quello che aveva costituito il vanto della matematica classica). II · I
PRINCIPALI
PROTAGONISTI
DELLA
RICERCA MATEMATICA
NEL SEICENTO
A due dei maggiori matematici del XVII secolo, che furono nel contempo grandissimi filosofi, Cartesio e Pascal, sono già stati dedicati i capitoli II e VII della presente sezione; ad altri due, altrettanto famosi, Leibniz e Newton, saranno dedicati i capitoli XIV e xv. Della figura di Huygens, più celebre come fisico che non come matematico, si tornerà a parlare nel capitolo xi. Pertanto non ci soffermeremo qui a fornire notizie sulla vita e le opere di tali autori, pur dovendo fare spesso riferimento, nel seguito del capitolo, al loro pensiero per esaminarne i rapporti con quello dei loro contemporanei. Quanto agli altri, dei quali ci accingiamo a dare un breve elenco, ci limiteremo a fornire solo qualche notizia sommaria, non perché come matematici siano minori di quelli testé nominati (ché anzi uno di essi, Fermat, suole giustamente venire considerato come uno dei più geniali matematici di tutti i tempi), ma perché occuparono una posizione meno centrale nella storia complessiva del pensiero filosofico-scientifico. Per dare un certo ordine alla nostra esposizione li ripartiremo in tre gruppi, secondo che appartennero alla cultura italiana, a quella francese o a quella inglese; negli anni fra Keplero e Leibniz la Germania non diede i natali ad alcun matematico di particolare valore, e anzi - come vedremo nel capitolo XIV - lo stesso Leibniz formò la propria cultura scientifica a contatto con centri culturali non tedeschi (in particolare con l'ambiente francese). Iniziando dal gruppo italiano, occorre prima di ogni altra cosa osservare che i matematici più degni di venire ricordati furono quasi tutti discepoli diretti o indiretti di Galileo, il che conferma quanto sia stata profonda l'impronta da lui segnata nella cultura del nostro paese.
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Il più anziano fra essi fu il frate Bonaventura Cavalieri (1 591-1647) dell'ordine dei gesuati, autore - oltreché di alcuni scritti sul calcolo dei logaritmi e sulla trigonometria piana e sferica - di un'opera assai importante sul calcolo delle aree e dei volumi: Geometria indivisibilibus continuo rum nova qttadam ratione promota (Geometria promossa con gli indivisibili dei continui mediante un metodo nuovo, 1635). L'idea direttrice di Cavalieri è analoga a quella avanzata, circa due millenni
prima, da Archimede nella lettera ad Eratostene, di cui abbiamo fatto cenno nella sezione I (lettera, però, che era completamente ignota agli studiosi del Seicento): l'idea, cioè, di ricavare la misura delle aree, e dei volumi, dal raffronto degli indivisibili rettilinei di cui esse risultano composte. Già sappiamo, dai brevi cenni compiuti nella sezione m sulle indagini matematiche di Keplero e di Galileo, che molti matematici sostenevano- all'inizio del Seicento- la necessità di sostituire il metodo classico di esaustione (per il calcolo di aree e di volumi) con procedimenti più agili e intuitivi; il proposito di Cavalieri è quello di indicare a tal fine una via che, pur introducendo il concetto non classico di indivisibile, si approssimi quanto più possibile alla limpidezza argomentativa dei greci. Questa preoccupazione non fu sufficiente a salvarlo dalle severe critiche dei « puristi », fedeli custodi della via classica (allora chiamata « archimedea »); il loro portavoce fu il dotto gesuita svizzero Paul Guldin o Guidino (1577-1643) che cercò di provare, anche con esempi, l'impossibilità di prestar fede alle dimostrazioni basate 'sul principio di Cavalieri. Questi gli rispose in un'opera dal titolo Exercitationes geometricae sex (1646), pubblicata quando Guidino era già morto. Il metodo di Cavalieri venne accolto molto favorevolmente da Evangelista Torricelli (r6o8-r647) ·-forse il più grande allievo di Galileo- che già abbiamo avuto occasione di ricordare nella sezione III, avendolo incontrato accanto al maestro, negli ultimi mesi della sua vita. Non solo Torricelli accettò il ricorso agli indivisibili, ma ampliò questa nozione includendovi gli indivisibili curvilinei oltre a quelli rettilinei. Pur conservando sempre una grande devozione per Galileo, seppe dimostrare nei suoi riguardi la dovuta indipendenza, rettificandone con profonda originalità parecchie vedute. Purtroppo una morte prematura gli impedì di raggiungere quelle altissime vette di cui il suo intelletto era capace. Nelle sue ricerche matematiche egli pervenne, fra l'altro, ad alcuni teoremi sul calcolo delle aree e dei volumi che - non entrati immediatamente nel patrimonio culturale dell'epoca- richiesero tempo e fatica per venire riscoperti dagli analisti d'oltralpe durante la seconda metà del secolo. La colpa di ciò va cercata sia nella forma oscura usata da Torricelli per esporre i propri risultati, sia nell'incompiutezza in cui fu costretto a !asciarli, sia nell'imperizia di chi ebbe il compito - dopo la sua scomparsa - di riordinarne gli appunti. Solo nel nostro secolo gli storici della matematica, ricostruendo con scrupolosa obiettività i suoi scritti, hanno potuto precisare i notevolissimi risultati da lui conseguiti, togliendolo dall'oblio in cui era stato abbandonato.
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Il più giovane discepolo diretto di Galileo fu Vincenzo Viviani (1622-1703) che - come sappiamo -- trascorse circa tre anni, dal 1639 al 164z, in casa del grande scienziato come suo segretario, assistendolo con vivace intelligenza nella stesura degli ultimi lavori e confortandolo col suo affetto durante la malattia che lo portò alla tomba. Più tardi scrisse, per incarico del principe Leopoldo de' Medici, il Racconto istorico della vita di Galileo, pubblicato postumo nel I7I7, che, pur traboccando di affetto per lo scomparso, tende però a velarne il conflitto con la chiesa. Grande conoscitore dei matematici greci, egli fu anche uno strenuo difensore dei loro metodi dimostrativi e, come tale, si oppose tenacemente alle innovazioni dei moderni. Il suo maggiore contributo alle indagini geometriche è costituito dallo studio di una interessante figura, nota appunto come « finestra di Viviani », che lo rese celebre in tutto il mondo scientifico dell'epoca. Merita infine di venire ricordato, fra i matematici italiani della seconda metà del secolo, Michelangelo Ricci (I6I9-I683) allievo di Benedetto Castelli di cui già abbiamo parlato nel capitolo su Galileo - nonché legato da una viva amicizia con Torricelli. Intraprese la carriera ecclesiastica e due anni prima di morire fu nominato cardinale. La sua opera principale, dal titolo Exercitatio geometrica (I 666), era dedicata allo studio, per via puramente geometrica, di uno fra i problemi di maggiore attualità nel Seicento: il problema dei massimi, dei minimi e delle tangenti. Passando ora dal gruppo italiano a quello francese, vi è anzitutto da ricordare Pierre de Fermat, che, se si prescinde da Newton, fu senza dubbio il maggiore matematico del Seicento. Nato il zo agosto I6oi nei pressi di Montauban, Fermat studiò scienze giuridiche a Tolosa, ove trascorse tutta la vita come magistrato, con la carica di consigliere al parlamento della città. Dedicò il tempo !asciatogli libero dalla professione a studiare i grandi matematici dell'antichità, in ispecie Apollonia e Diofanto, ed a compiere egli stesso nuove genialissime ricerche. Fu in stretti rapporti con gli ambienti scientifici di Parigi, presso i quali godeva di grande stima. Nel I637 ebbe un'animata polemica con Cartesio a proposito dell'invenzione della geometria analitica, ma più tardi si riconciliò con lui per i buoni uffici interposti dal padre Mersenne, che era amico di entrambi. Morì nel gennaio I 66 5 a Castres, ove si era recato per doveri di ufficio. Pochi e brevi furono i lavori pubblicati durante la sua vita; assai numerose invece le ricerche (talvolta appena abbozzate) contenute nel ricco carteggio o in appunti ritrovati dopo la sua morte. Un primo volume di esse fu pubblicato nel I679 a cura del figlio; l'edizione completa delle opere di Fermat uscirà solo alla fine del xrx secolo. Malgrado il carattere frammentario dei suoi scritti egli esercitò un'influenza decisiva sullo sviluppo di tutti i principali rami della matematica: dalla geometria analitica all'analisi infinitesimale, dal calcolo delle probabilità alla teoria dei numeri. In quest'ultimo campo di studi, che gli venne suggerito dalla lettura della famosa opera aritmetica di Diofanto, il nostro autore
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pervenne a due risultati che resteranno famosi nella storia di questa disciplina. Il primo afferma che, se a è un numero intero arbitrario e p un qualsiasi numero primo, la differenza a P- 1 - I risulta divisibile per p. Il secondo afferma che è impossibile trovare tre numeri interi x, y, z i quali soddisfino all'equazione
allorché n è maggiore di 2. Osserviamo che, per n= 2, l'equazione corrisponde all'antichissimo teorema di Pitagora, e può venire soddisfatta da varie terne di numeri interi (per es. dai numeri 3, 4, 5). È interessante ricordare che Fermat si limitò ad enunciare il risultato ora riferito, affermando di possederne sì la dimostrazione, ma di non poterla esporre nel poco spazio a sua disposizione (egli soleva annotare i risultati delle sue indagini nei margini bianchi dei fogli, dove aveva reso le sentenze del parlamento di Tolosa). Malgrado i tenaci sforzi compiuti da grandi studiosi nei tre secoli che ci separano da lui, non fu possibile finora né dimostrare il teorema - o meglio la « congettura » di Fermat - per tutti i valori dell'esponente n (bensì soltanto per ampie categorie di essi) né d'altra parte trovare nemmeno un caso in cui l 'asserto risulti falso. L'asserto in questione viene pertanto considerato, oggi, come uno dei più tipici esempi di problema matematico indeciso e, forse, indecidibile. Oltreché di matematica, Fermat si occupò pure di ottica, criticando i postulati di cui Cartesio si era servito per dimostrare le leggi della rifrazione. Fermat dimostrò queste, nonché le leggi della riflessione, ricavandole da un principio di minimo, ancora oggi assunto come fondamentale in molte teorie fisiche. Accanto a Fermat, seppur di livello notevolmente inferiore al suo, meritano di venire menzionati: Gérard Desargues (I 593-I66I), ingegnere militare del cardinale Richelieu, che in appunti rimasti a lungo inediti sviluppò alcune idee fondamentali di geometria descrittiva comprendendo per primo l'enorme importanza spettante alle nozioni di « punto all'infinito » e di « retta all'infinito »; Gilles Personnes, detto Roberval (I6o2-I675), professore al Collège de France e uno dei primi membri dell'Accademia francese delle scienze, che portò contributi interessanti a vari problemi di analisi infinitesimale; Guillaume-Prançois de l'Hòpital (I66I-1704), amico di Leibniz e autore del primo trattato a stampa di analisi infinitesimale ( 1 696); Michel Rolle (16p-J719), che si occupò soprattutto di algebra, opponendosi invece energicamente all'« algebra degli infinitesimi » (riuscì ciò malgrado a dimostrare uno dei teoremi elementari più significativi di quest'ultima disciplina, ancora oggi noto come « teorema di Rolle »); Pierre Varignon (1654-1722), che fu amico di Leibniz e convinto difensore dell'analisi infinitesimale (ond'ebbe una vivace polemica con Rolle). Passando infine al gruppo dei matematici inglesi, ricorderemo:
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John Napier o Nepero (I55o-I6I7), di nobile famiglia scozzese, che partendo da considerazioni cinematiche riuscì a definire i logaritmi - nell'opera Miriftci logarithmorum canonis descriptio del I6I4 - mediante la corrispondenza tra due successioni: l'una geometrica (quella dei numeri) e l'altra aritmetica (quella dei loro logaritmi); Henry Briggs (1561-163o) che, sviluppando le idee di Nepero, definì i logaritmi decimali e ne calcolò le famose tavole ancora oggi note col suo nome; John Wallis (16I6-17o3), il maggior matematico inglese prima di Newton, autore della celebre Arithmetica inftnitorum (I 6 55): studioso di analisi infinitesimale, di algebra, di geometria, di logica (onde venne già ricordato nel capitolo Ix), di teologia, oltreché influente uomo politico, intrattenne una fitta corrispondenza con i più noti scienziati dell'epoca, in particolare con Newton, che gli espose in due celebri lettere del 1692 i principi del calcolo delle flussioni (queste lettere, incluse poco più tardi in un volume del Wallis, costituirono la prima pubblicazione newtoniana sull'importante argomento); Isaac Barrow (I63o-1677), ottimo conoscitore della matematica classica e di quella moderna, ricco di interessi filosofici e teologici, legato al gruppo dei platonici di Cambridge (dei quali si parlerà nel capitolo xu), fu maestro di Newton a cui cedette nel 1669 la propria cattedra presso l'università di Cambridge; William Brouncker (I 6zo- I 684) che fu presidente della Royal Society, Nicolaus Kaufmann, detto Mercator (I62o-1687), tedesco di nascita ma vissuto prevalentemente in Inghilterra; J ohn Gregory ( 16 38-167 5) che studiò in Italia ove pubblicò alcuni dei propri lavori matematici: tutti e tre particolarmente noti per le loro ricerche sulle serie (o somme infinite di numeri e di funzioni). III
· IL SIGNIFICATO INNOVATORE
DELLA GEOMETRIA ANALITICA
Abbiamo brevemente illustqHo, nel capitolo u, il significato « filosofico » generale attribuito da Cartesio all.a .. geometria analitica, la quale, traducendo in termini algebrici le nozioni di punto, retta, piano e le relazioni intercorrenti fra essi, risulterebbe in grado di rendere chiara e uniforme la trattazione di tutti i problemi geometrici e rappresenterebbe quindi una tappa del tutto nuova rispetto alla matematica greca (che non aveva saputo indicare una via davvero evidente per l'impostazione di tali problemi, limitandosi a risolverli caso per caso con ingegnosi accorgimenti, senza dubbio efficaci per le singole questioni ma di portata intrinsecamente circoscritta). Pressoché antitetica è l'interpretazione della geometria analitica avanzata da Pierre de Fermat; egli vi scorge, sì, un metodo efficacissimo per dare forma algebrica a parecchi problemi geometrici e per porci quindi in grado di utilizzare- nella loro trattazione- gli strumenti recentemente acquisiti dall'algebra,
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ma non è disposto a riconoscerle alcuna funzione di autentica rottura. Osserva infatti, e con ragione, che già gli antichi avevano compiuto molti passi verso la nuova disciplina; anzi, a saper le leggere, si ritrovano già nelle loro opere (in particolare nelle Sezioni coniche di Apollonia) quasi tutti i principi e gli accorgimenti usati ora in modo sistematico dalla geometria analitica. Né la validità di questi principi e accorgimenti può - secondo Fermat - venire stabilita a priori; in verità essa risulta provata soltanto dagli effettivi successi conseguiti in relazione a problemi particolari, che i vecchi metodi non erano riusciti a risolvere. Questi temi di fondo costituiscono il punto di vero dissenso fra i due autori della grande invenzione, anche se esso appare spesso mascherato da altri dibattiti, concernenti soprattutto la priorità dell'invenzione stessa. Oggi è fuori dubbio che Cartesio e Fermat vi pervennero indipendentemente uno dall'altro e anzi per vie del tutto diverse; come pure è fuori dubbio che l'interpretazione - concreta, operativa - datane da Fermat risulta assai più valida di quella - filosofica, per non dire metafisica - sostenuta da Cartesio. Eppure non si può negare che nel Seicento fu proprio quest'ultima ad ottenere il maggiore successo: riuscì infatti a suscitare intorno al nuovo metodo l 'interesse generale degli studiosi, ponendolo in grado di influire sullo sviluppo generale di tutte le più importanti teorie matematiche dell'epoca, ivi inclusa l'analisi infinitesimale. Prescindendo dai numerosi risultati particolari che l'applicazione sistemàtica della geometria analitica consentì di raggiungere agli studiosi del Seicento, la svolta più importante che essa impresse al pensiero matematico concerne senza dubbio la nozione di curva. I greci avevano avuto al riguardo delle idee non molto precise: ed infatti, una volta incluse in tale nozione le coniche, erano però rimasti assai perplessi circa la possibilità di considerare come autentiche curve geometriche anche quelle definibili soltanto per via meccanica, come la quadratrice di Ippia ed altre analoghe; proprio questa perplessità aveva loro impedito di ritenere soddisfacenti le risoluzioni dei tre famosi problemi - duplicazione del cubo, trisezione dell'angolo, quadratura del cerchio - raggiunte mediante curve non tracciabili con riga e compasso. Il punto di vista instaurato dalla geometria analitica riesce d'un tratto a portare sul fondamentale argomento una luce del tutto nuova: ogni equazione algebrica in due variabili, stabilendo una ben determinata relazione fra le ascisse e le ordinate di un piano, individua su di esso una « curva », suggerendo così per questo termine una nozione che potrà poi venire generalizzata al caso in cui l'anzidetta relazione non risulti definibile per via algebrica. Né basta; il metodo analitico suggerisce anche per la nozione ampliata di curva - alcune classificazioni fondamentali: innanzitutto la distinzione fra curve algebriche e non algebriche, e poi, nell'ambito delle curve algebriche, la loro classificazione in ordini diversi, secondo il grado dell'equazione cui si deve fare ricorso per definirle. Una volta stabilito che le curve di secondo ordine sono le coniche, sorgerà pertanto il problema di studiare 373
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sistematicamente quelle di ordine superiore; risulterà in tal modo aperta la via alla cosiddetta « geometria algebrica ». Spetterà a Newton il merito del primo studio sistematico intorno alla generazione delle curve del terzo ordine (cubiche) e alla loro ulteriore suddivisione in vari tipi. L'influenza poco sopra accennata della geometria analitica sull'analisi infinitesimale è per l'appunto connessa a questa generalizzazione della nozione di curva, e ai nuovi problemi che essa fa sorgere. Questo per esempio: come potrà y
Q
La roulette di Cartesio.
venire definita, per una curva nel senso generalizzato del termine, il concetto di tangente? e come si potrà, fissato un punto generico di una curva, trovare la equazione della retta tangente (alla curva considerata) passante per quel punto? Gran parte dello sviluppo della matematica durante il Seicento si svolse lungo la seguente via: definita, in qualche modo intuitivamente accettabile, una curva (per esempio definita la cicloide o roulette come la curva descritta da un punto ben determinato di un cerchio allorché questo rotoli su di una retta prefissata), trovare innanzi tutto l'equazione della curva e poi, a partire da questa equazione, studiarne le proprietà geometriche fondamentali. Era una nuova messe di problemi, che si aprivano d'un tratto alla mente umana: la geometria analitica ebbe il merito di farli scoprire, ma per avviarne in modo sistematico la trattazione era necessaria un'altra disciplina: l'analisi infinitesimale. IV · IL
GRADUALE AI
ACCOSTARSI
PROBLEMI
DELLA
MATEMATICA
INFINITESIMALI
Già sappiamo dal penultimo capitolo della sezione m, che nelle opere di Galileo affiorano più volte argomentazioni di evidente carattere infinitesimale. Ciò accade soprattutto quando egli affronta le nozioqi di ~elocità all'istante e di accelerazione. Né poteva essere altrimenti; come possiamo infatti « immaginare» la velocità all'istante se non pensandola quale rapporto fra spazio (percorso dal corpo che si muove) e tempo (impiegato a percorrere tale spazio), allorché questo tempo assuma dimensioni infinitamente piccole? È vero che la 374
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nozione di tale rapporto diventa estremamente oscura allorché il tempo risulti infinitesimo, ma, oscura o chiara che sia, non possiamo farne a meno quando vogliamo definire un moto vario, cioè un moto che cambi la propria velocità da un istante all'altro, e _quando - una volta fissata la sua accelerazione, cioè la misura della variazione della sua velocità istantanea - ci proponiamo di ricavarne le leggi del moto stesso (per esempio di ricavarne la proporzione che dovrà sussistere tra gli spazi percorsi e i tempi impiegati a percorrerli, allorché si tratti di spazi e tempi finiti, non più infinitesimi). Nella terza giornata dei Discorsi Galileo riesce a risolvere esattamente questo problema nel caso della caduta libera dei gravi, cioè di un moto uniformemente accelerato che parta dalla quiete. Egli dimostra infatti che « se un mobile scende, a partire dalla quiete, con moto uniformemente accelerato, gli spazi percorsi
da esso in tempi qualsiasi stanno tra di loro come i quadrati dei tempi ». È il risultato che oggi siamo soliti esprimere con la notissima formula s =i- a 12 • Esaminando un po' da vicino la dimostrazione datane da Galileo, constatiamo agevolmente che essa si basa sulla rappresentazione del generico intervallo di tempo mediante un segmento AB, dove a ogni punto di questo corrisponderà un istante dell'intervallo considerato. Se ora, a partire da ciascun punto di AB tracciamo un segmentino (perpendicolare ad AB) che misuri la velocità posseduta dal mobile nell'istante corrispondente al punto stesso, ne :risulta che tutti questi segmentini assieme riempiranno un triangolo ABE, avente, come base, il segmento adoperato a rappresentare il tempo e, come altezza, il segmentino BE adoperato a rappresentare la velocità nell'istante finale. Ciò posto, Galileo riesce a dimostrare che il tempo impiegato dal mobile in esame a percorrere uno spazio prefissato sarà eguale al tempo che verrebbe impiegato a percorrere quel medesimo spazio da un altro mobile, il quale si muovesse di moto uniforme con velocità (costante) eguale alla metà della velocità raggiunta- nel moto uniformemente accelerato-all'istante finale. La rappresentazione di questo secondo moto sarà data dal rettangolo ABFG, avente per base il segmento AB che rappresenta il tempo, e come altezza il segmentino BF eguale - come si è detto - alla metà di BE. Di qui alla legge poco sopra riferita il passo è quasi immediato e non presenta più alcuna difficoltà. Galileo però si rende assai bene conto che la prima parte della dimostrazione risulta, invece, estremamente delicata: egli stesso infatti, nel corso del dialogo, 375
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si fa sollevare l'obiezione che un ragionamento del genere suppone l'esistenza di « infiniti gradi di velocità» (cioè di infiniti valori della velocità istantanea) i quali, proprio per essere infiniti, « non si consumeranno mai tutti ». Ad essa risponde, osservando che il mobile può consumarli perché « passa solamente » per ciascuno di tali gradi « senza dimorarvi oltre a un istante ». In realtà noi ci accorgiamo che Galileo riesce ad operare senza errori sull 'anzidetta infinità perché la riporta ad altre più note: all'infinità dei punti del segmento e all'infinità delle corde (parallele) che riempiono un triangolo o un rettangolo. In altri termini: sia il singolo «grado di velocità» sia, a maggior ragione, l'infinità di gradi di velocità non sono altro, per Galileo, che nozioni intuitive (delle quali non fornisce alcuna definizione esatta); è soltanto la possibilità (ovviamente solo postulata, non dimostrata) di porle in corrispondenza con altre più manovrabili nozioni intuitive ciò che lo pone nella condizione di inserirle in un discorso coerente e conclusivo. Ma fino a che punto sarebbe stato sufficiente, un tale stratagemma, per risolvere i pròblemi -- sempre più difficili - sollevati dalla dinamica? Che aiuto avrebbe esso potuto fornire, ad esempio, per risolvere i problemi connessi ai moti nei quali risulta variabile non più, soltanto, la velocità istantanea ma la stessa accelerazione? Non occorre aggiungere altre parole per comprendere che lo sviluppo stesso della dinamica era ormai destinato a portare i matematici del Seicento a prendere in serio esame le grandezze infinitesimali e il modo come esse determinano le grandezze finite, ricavabili dalla composizione di un'infinità di grandezze infinitesimali. La rinuncia ad affrontare questi problemi avrebbe avuto, prima o poi, come effetto la rinuncia a proseguire nello studio dei vari tipi di moto. Ma non basta. Era ormai la stessa geometria (e cioè proprio quella disciplina che aveva offerto a Galileo lo strumento indispensabile per risolvere i problemi della dinamica) a sollevare ovunque questioni di carattere infinitesimale. Già sappiamo, dalla sezione III, che Keplero aveva proposto di calcolare aree e volumi suddividendoli in infinite parti infinitesime. Anche Galileo e la sua scuola si pongono per questa via e, pur senza nascondersi le difficoltà da essa sollevate, ne dimostrano con parecchi esempi la straordinaria fecondità. Il problema è all'incirca sempre il medesimo: di ricavare le proprietà del tutto (cioè della figura nella sua interezza) partendo dalle proprietà delle infinite parti infinitesime che lo compongono. Ma esso risulta preceduto da un altro problema, ancora più profondo: in che modo dovremo intendere l 'anzidetta composizione? Bonaventura Cavalieri ritiene di poter evitare le difficoltà insite in questo quesito, limitandosi a confrontare le proprietà di due figure (per esempio le aree di due superfici o i volumi di due solidi) sulla base del rapporto fra gli « indivisibili » staccati dall'una e dall'altra sopra un medesimo fascio di rette parallele; è chiaro però che
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il ricorso a una infinità di grandezze infinitesime resta sostanzialmente presente anche nella sua argomentazione (per esempio la superficie, che è una figura a due dimensioni, viene da lui considerata come ottenibile a partire dall'infinità delle corde, unidimensionali, che essa stacca sopra un fascio di infinite rette parallele). Si dovrà o non si dovrà avere il coraggio di considerare il trapasso dagli infinitesimi al finito (o meglio la costruibilità di questo a partire da un'infinità di quelli) come un'operazione matematica lecita? Una volta applicato questo tipo di considerazioni a un problema, diventa immediato vedere che sono moltissimi i problemi della geometria i quali suggeriscono spontaneamente considerazioni analoghe. Essi risultano proprio collegati ai quesiti di cui si è fatto cenno alla fine del paragrafo precedente. Così, ad esempio, il concetto di « retta tangente » a una curva data, in un suo generico
punto P, sembra agevolmente definibile considerando tale retta come caso particolare della retta secante che passa per P e per il punto Q allorché questo, assumendo le posizioni Q', Q", ecc., si avvicini infinitamente a P. Risulta poi evidente che la curva considerata avrà nei punti P o P' un « massimo », o rispettivamente un « minimo », se la tangente in tali punti è parallela
o
all'asse delle ascisse e se nei punti vicini a P (o vicini a P') la curva giace, sia a sinistra che a destra del punto, al di sotto di tale tangente, o rispettivamente al di sopra. Considerazioni alquanto più complicate, ma sempre dello stesso genere, saranno necessarie per definire in termini matematici le nozioni « intuitive » di
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« curvatura » di una curva, di « asintoto » (retta a cui la curva si avvicina infinitamente, senza mai raggiungerla), di «piano tangente» a una superficie, ecc. Sorge di nuovo, a proposito di tutti questi concetti, la domanda già emersa a proposito dei problemi poco sopra accennati di meccanica: dobbiamo o non dobbiamo considerarci in diritto di definirli facendo ricorso a considerazioni infinitesimali? Il fatto grave, del quale ben si accorsero i matematici del Seicento, era che, rinunciando a tale ricorso, si sarebbe dovuto rinunciare a tradurre in termini analitici le nozioni anzidette, per quanto intuitive esse appaiano all'uomo comune. Ma non bastava, com'è ovvio, giungere a una definizione analitica delle nozioni in esame: bisognava poi essere in grado, facendo perno su tale definizione, di calcolare speditamente - a partire dall'equazione della curva l'equazione della sua tangente e il valore della sua curvatura in un punto generico, di trovarne gli eventuali massimi, minimi, asintoti, ecc.; bisognava cioè costruire ali 'uopo un opportuno calcolo, capace di operare proprio sulle grandezze infinitesime. Sarebbe stata, senza dubbio, un'innovazione assai difficile e rischiosa; ma era chiaro che, senza di essa, sarebbe risultato impossibile affrontare l'amplissima categoria di problemi che la geometria veniva ormai imponendo ali 'attenzione degli studiosi. Né erano soltanto la meccanica e la geometria a esigere, in forma sempre più pressante, il ricorso alle nozioni di infinito e di infinitesimo; la stessa aritmetica spingeva in questa medesima direzione, mostrando nelle più varie occasioni (connesse perlopiù a problemi sorti entro le due discipline anzidette) l'utilità di estendere le due operazioni fondamentali della somma e del prodotto al caso in cui i termini (da sommare e da moltiplicare) non siano più in numero finito ma infinito. La possibilità di ottenere un risultato finito, sommando infiniti termini sempre più piccoli, era già stata intravista dai greci. Erano state proprio le famose antinomie di Zenone ad attrarre l'attenzione su di essa. Una di tali antinomie aveva, per esempio, fatto comprendere che un segmento può venire identificato con la somma di questi infiniti termini: la sua metà, più la metà della metà residua, più la metà del quarto residuo, e così via. Ma i pericoli di cadere nell'assurdo, connessi a tipi siffatti di operazioni, avevano indotto i matematici classici ad evitarle con scrupolo o ad usarle solo con la massima cautela, adoperando ali 'uopo laboriosi artifici, capaci di fornire serie garanzie contro ogni spiacevole sorpresa. I matematici del Seicento non sono più disposti a una rinuncia del genere; essa appare loro troppo gravosa, mentre un numero sempre maggiore di esempi mette in luce l'enorme utilità di ampliare somme e prodotti nel senso accennato. È vero che non si sa con chiarezza che cosa si debba intendere per somma di infiniti addendi o prodotto di infiniti fattori, e tanto meno si sa se tali somme e prodotti continuino a godere delle proprietà possedute nel caso finito. Ma è un
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fatto che - considerando i risultati di tali operazioni come valori « veri », che possono venire approssimati in misura sempre più esatta sommando (o moltiplicando) i loro primi n termini ove questo n venga preso opportunamente grande - si ottiene in parecchi casi una soddisfacente soluzione dei più ardui problemi; e quando questi sono suggeriti dalla fisica, tale soluzione risulta proprio confermata dai dati dell'osservazione. Perché dunque escludere dalla matematica uno strumento così potente? V
· OBIEZIONI ALL'AMPLIAMENTO DELLA MATEMATICA VERSO L 'INFINITO
E
L 'INFINITESIMO
Se sono ben comprensibili i motivi -- in certo senso di ordine pratico, come abbiamo or ora spiegato - che da più parti sollecitavano i matematici del Seicento a spingersi, con ardita spregiudicatezza, dall'algebra delle «grandezze finite » a quella delle « grandezze infinitesime » (per usare la terminologia dell'epoca), altrettanto comprensibili, però, sono anche i motivi che trattenevano alcuni di essi dal pericoloso passo. Non potendo qui addentrarci in un'analisi particolareggiata delle molteplici obiezioni sollevate contro l'anzidetto ampliamento, ci limiteremo a illustrare due temi di fondo (uno di carattere geometrico, l'altro più propriamente algebrico) che affiorano, in modo più o meno esplicito, in tutte le riserve mosse contro la grande innovazione. Va subito sottolineato comunque che i «conservatori» si trovavano, qui, in una posizione ben più solida di quella difesa- nell'ambito delle scienze della natura -dai sopravvissuti seguaci dell'aristotelismo. Ciò che essi predicavano non era infatti la fedeltà a concezioni ormai palesemente insostenibili come la fisica e la cosmologia di Aristotele, ma la fedeltà a metodi matematici senza dubbio serissimi, come quelli che tutti potevano apprendere dalle opere di Euclide e di Archimede. Se i conservatori amavano chiamarsi « archimedei », accusando gli avversari di essere « antiarchimedei », è un fatto che né gli uni né gli altri ponevano in dubbio i risultati di Archimede o la sua rigorosa coerenza; il problema era un altro: se fosse lecito o no andare « al di là» dei greci, e cioè far uso di considerazioni che questi avevano scrupolosamente evitate. Quali conseguenze ne sarebbero derivate per la matematica? Non avrebbe ciò significato la perdita della più eminente caratteristica di questa scienza, cioè della sua non-contraddittorietà? Abbiamo ricordato nel capitolo vn che lo stesso Pascal, pur avendo dato contributi preziosissimi allo sviluppo del nuovo calcolo, era tutt'altro che sicuro della sua validità scientifica; e nel capitolo xv do'vremo osservare che ancora Newton era ben !ungi dal sottovalutare le critiche dei fedeli ad Archimede. Il fatto è che queste critiche sollevavano obiezioni senza dubbio fondatissime, alle quali gli antiarchimedei non erano in grado di dare risposte davvero soddisfacenti. Il nuovo calcolo introdurrà effettivamente nella matematica non poche 379
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propos1z10ni contraddittorie, che ne oscureranno la « rispettabilità » lungo tutto il xvru secolo (come vedremo nella sezione v). Eppure la storia ha dimostrato che gli antiarchimedei avevano ragione: il loro coraggio sarà infatti largamente « premiato » dalla straordinaria fecondità che il nuovo capitolo della matematica rivelerà assai presto in tutti i più importanti rami della scienza; e qualche tempo più tardi, lo stesso acuirsi delle antinomie da esso generate provocherà una svolta radicale nei suoi fondamenti, che non solo aprirà nuove vie a tutta la matematica ma inciderà in modo essenziale sullo stesso sviluppo del pensiero filosofico. Il primo tema che affiora ripetutamente nelle obiezioni degli archimedei riguarda la struttura delle grandezze geometriche continue (linee, superfici, solidi), a proposito delle quali essi sostengono l'impossibilità che vengano costituite col riunire grandezze aventi una dimensione in meno (le linee riunendo punti, le superfici riunendo linee, ecc.). Ecco per esempio ciò che scrive Guidino nella sua critica a Cavalieri: « Che dunque quella superficie sia, e in linguaggio geometrico possa chiamarsi " tutte le linee di tale figura ", ciò a mio avviso non gli sarà concesso da nessun geometra; mai infatti possono essere chiamate superficie più linee, oppure tutte le linee; giacché la moltitudine delle linee, per quanto grandissima essa sia, non può comporre neppure la più piccola superficie. » La profondità della questione è incontestabile: essa verte su uno dei punti nodali del pensiero geometrico, già preso in esame con la massima serietà dai filosofi e dai matematici greci. La tesi di Guidino si ricollega appunto al risultato più maturo di tale esame, che egli contrappone con tenacia alla leggerezza dei pretesi innova tori moderni: «Rispondo che il continuo è divisibile all'infinito, ma non consta di infinite parti in atto, bensì soltanto in potenza, le quali [parti] non possono essere mai esaurite. » La conclusione dell'accuratissima analisi che egli compie di ogni singolo teorema di Cavalieri è sempre la medesima: « Concludiamo dunque dalle cose che abbiamo addotto che questa proposizione sulle figure piane non è stata in alcun modo dimostrata in maniera valida. » Ci siamo soffermati sulle obiezioni dei puristi al primo esempio -fra quelli elencati nel paragrafo precedente - di trattazione di un quesito geometrico con metodi non archimedei; ma è chiaro che anche gli altri esempi vanno incontro ad analoghe difficoltà. Così potremmo chiederci: che significato ha l'affermazione che la tangente a una curva in un suo punto P è la secante che passa per P e per il punto Q infinitamente vicino a P? Con quale diritto si pretende parlare di due punti infinitamente vicini? Non sappiamo forse, in b:,~.se ai risultati ottenuti dai matematici greci nelle loro ricerche intorno al continuo lineare, che fra due punti distinti, per quanto prossimi, esiste sempre - su quel continuo - un 'infinità potenziale di altri punti? Il bersaglio di questi interrogativi è proprio il concetto di « vicinanza infinita », che ovviamente sfugge ad ogni tentativo di definizione geometrica seria.
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Ma non basta. Supponiamo di avere in qualche modo accolto nel quadro della geometria le nozioni di « grandezza infinitesima » (quale per esempio la distanza fra due punti infinitamente vicini), di « infinità in atto », di « totalità delle linee di una superficie », e così via. Sorge ora il problema, non più geometrico ma aritmetico, di instaurare un calcolo coerente ed efficace sugli infiniti e gli infinitesimi. Qui di nuovo si possono sollevare innumerevoli obiezioni. Questa per esempio: se introduciamo un particolare simbolo per le grandezze infinitesime (se ad esempio le indichiamo con E secondo la proposta di Fermat) dovremo operare con esso come si opera con lo zero o come si opera con un numero finito diverso da zero? Poiché abbiamo accennato a Fermat, vale la pena fare riferimento proprio ai suoi scritti per illustrare il groviglio in cui fatalmente ci si viene a scontrare. Egli ha enunciato una regola per la determinazione dei massimi e minimi di una funzione. Esposta in termini moderni essa dice: se f(x) è la funzione presa in esame, ne calcolo anzitutto il valore quando l'argomento x sia accresciuto di E; poi eguaglio le due espressionif(x) edj(x +E) pur sapendo che non sono eguali; opero tutte le semplificazioni possibili considerando E come un numero diverso da zero (cosicché si possa dividere per questo numero); infine pongo E eguale a zero e risolvo l'equazione risultante; la radice di questa equazione risolverà il problema. 1 Le oscillazioni concettuali di questa regola sono palesi; esse si riflettono, del resto, nelle stesse parole dell'autore: «Id comparo tamquam essent aequalia, licet revera aequalia non sint, et hujusmodi comparationem vocavi adaequalitatem » («Ne ammetto l'equivalenza, come se fossero eguali, sebbene in realtà non siano eguali, ed a siffatta equivalenza ho dato il nome di adeguaglianza »). Come è ovvio non basta certo introdurre il nuovo termine «adeguaglianza » per rimettere le cose a posto. Esso può solo servire a nascondere (ma in realtà non ci tiesce) le incertezze di Fermat. Se non è una vera e propria eguaglianza, con che diritto ne ricaviamo un'equazione? E con che diritto consideriamo il simbolo E che vi compare, ora come diverso da zero e ora invece come ad esso eguale? È un fatto che tale regola conduce in molti casi a risultati esatti; ma basta questo a render la matematicamente accettabile? O non rischiamo invece, col pretendere che essa sia una regola matematica, di porre in crisi il carattere più profondo di questa scienza, cioè la sua razionalità? . r Supponiamo ad esempio che si vogliano trovare i massimi (o i minimi) della funzione x (h- x), ove b indica un valore prefissato. La regola di Fermat ci prescrive anzitutto di calcolarne il valore quando l'argomento x sia accresciuto di E; così facendo otterremo: (x+ E)(b-x-E) che, svolto c semplificato, ci dà: xb- x 2 - zxE + Eb- E 2 • Ora scriviamo l'adeguaglianza proposta da Fermat: x(h-x) = xb-x 2 - zxE + Eb- E 2 •
Operate tutte le semplificazioni possibili, considerando E come diverso da zero, essa si trasforma nella seguente: o= -zx +b-E. Se ora vi poniamo E eguale a zero otterremo infine: 2X = b che, riso! t a, ci dà: b X=--. 2
Ebbene, è facile constatare che questo è proprio il valore che rende massima la funzione assegnata.
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Tutto il nuovo calcolo, nella sua fase di graduale elaborazione caratteristica dell'epoca che stiamo esaminando, prestava il fianco a domande del genere (né esse troveranno una risposta davvero soddisfacente in Leibniz e in Newton); non dobbiamo dunque stupirei, se molti matematici seri lo guardavano con profonda diffidenza malgrado i suoi crescenti successi. VI · IL COSTITUIRSI DEL CALCOLO INFINITESIMALE
La serietà delle obiezioni cui abbiamo testé accennato non valse a fermare lo slancio dei costruttori del nuovo calcolo. Questo venne inizialmente impiantato su due direttrici: I) ricerca delle tecniche atte a determinare le aree di superfici racchiuse da curve di equazione nota, i volumi di solidi di rotazione (e in seguito di solidi più complessi), i baricentri di figure piane e solide; z) ricerca delle tecniche atte a determinare le tangenti a curve di equazione nota, in un loro punto generico, gli eventuali massimi e minimi di tali curve, i loro punti di flesso, la loro curvatura, ecc. Il primo ordine di problemi era già stato sistematicamente affrontato dai matematici greci, che - come sappiamo dalla sezione I - avevano ideato per risolverlo il cosiddetto metodo di esaustione. Si trattava ora di scoprire nuove tecniche di più agevole applicazione, capaci non soltanto di ritrovare i risultati raggiunti da Euclide e da Archimede, ma anche di risolvere problemi analoghi, che essi non avevano studiato o non avevano risolto. Il metodo degli indivisibili di Cavalieri, accolto e generalizzato da Torricelli, fu appunto una delle tecniche moderne che rivelò particolare efficacia allo scopo anzidetto. Va però notato che Torricelli, pur utilizzando largamente gli indi visibili (rettilinei e curvilinei), continuò ad applicare spesso il metodo classico. Fra i molti interessantissimi risultati da lui raggiunti, ci limiteremo a citarne uno che subito suscitò - e ben giustamente - una notevole sorpresa; esso riguarda, per un lato, l'area racchiusa fra un ramo di iperbole e i suoi asintoti (riferita appunto agli asintoti, tale curva ha l'equazioney =+),per l'altro, l'analoga area racchiusa fra un ramo di iperbole generalizzata (di equazione y = -In con n > I) e i suoi asintoti. Nel primo caso Torricelli dimostrò che l'area è infinita, nel secondo caso invece - e proprio qui risiedeva la singolarità del risultato - che essa è finita sebbene la superficie si estenda ali 'infinito. Le tecniche seguite, per il calcolo delle aree, dai matematici francesi (Fermat, Roberval, Pascal) e da quelli inglesi (in particolare da Wallis) furono a volte ispirate dal metodo degli indivisibili, altre volte basate su geniali artifici geometrici e algebrici diversi da un caso all'altro. Merita una speciale menzione il metodo praticato da Wallis, che consiste nel generalizzare con grande disinvoltura risultati ottenuti (per via aritmetica) in casi particolari; sembra talvolta dalle sue stesse parole (« facto enim experimento, patebit ») che egli consideri questo tipo di calcolo
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più come una scienza empirica che non come una scienza rigorosamente razionale. Comunque sia, i risultati conseguiti - con dimostrazioni più o meno soddisfacenti - dai matematici dell'epoca in esame furono davvero sorprendenti: tradotti in termini moderni, essi equivalgono al calcolo di parecchi integrali semplici e multipli, che estendevano in misura notevole il campo di nozioni raggiunto dai greci. Il confronto con i classici è sempre presente alle loro menti, e vivissimo il desiderio di superarli; basti citare gli sforzi eseguiti per misurare il rapporto fra la circonferenza e il diametro (cioè il numero 1t) con valori assai più approssimati di quello dato da Archimede: i risultati migliori in questo calcolo furono ottenuti da Wallis, da Brouncker e da Huygens. Il problema delle tangenti era assai più nuovo di quello delle aree; i greci infatti non lo avevano trattato nella sua generalità; ma solo per tipi speciali di curve (in particolare per le coniche). Mentre la ricerca delle aree equivale al calcolo degli integrali, la determinazione delle tangenti (nonché dei massimi e minimi, ecc.) equivale al calcolo delle derivate. Anche a proposito di tale determinazione furono ideati vari metodi, spesso diversi da un autore all'altro, perlopiù viziati da gravi inesattezze anche se capaci di condurre allo scopo voluto. Già illustrammo alla fine del paragrafo precedente i gravi equivoci presenti nel metodo fornito da Fermat per il calcolo dei massimi e minimi, e da lui stesso esteso allo studio delle tangenti. Altri (Torricelli, Roberval, Pascal) fecero invece ricorso con successo a considerazioni cinematiche; così furono determinate le tangenti a varie curve (per esempio alle cicloidi, da Pascal) e Huygens potrà poi impostare con sufficiente generalità lo studio delle evolute. In questo tipo di ricerche un merito particolare spetta a Pascal che per primo mostrò l'enorme importanza, nello studio di una curva di equazione y = f(x), del suo «triangolo caratteristico», cioè del triangolo rettangolo avente per ipotenusa la corda che collega il punto generico P della curva ad un punto Q (sempre sulla curva) molto prossimo a P, ed avente per cateti l'incremento tl.x subito dall'ascissa e quello ~y subito dall'ordi,nata nel passaggio da P a Q. L'uti-
Y .;!(x)
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lità di considerare questo triangolo costituirà uno dei più preziosi suggerimenti, che Leibniz ricaverà dalla lettura delle opere di Pasca!. L'importanza del triangolo caratteristico fu scoperta, indipendentemente da Pasca!, anche dali 'inglese Barrow (il maestro di Newton). Il punto più delicato, nello sviluppo del calcolo infinitesimale, consisteva senza dubbio nel trovare una precisa relazione fra i due tipi di problemi testé delineati (oggi è ben noto che il calcolo delle derivate e quello degli integrali sono l'inverso uno dell'altro). Il cosiddetto teorema di inversione, che risolveva il difficile problema, fu pressoché raggiunto - limitatamente però ad alcuni casi particolari - da Torricelli, e intuito in forma generale ma esposto molto oscuramente da Barrow. La scoperta di tale teorema e la chiara formulazione di esso costituirà uno dei meriti fondamentali di Newton e segnerà un'autentica svolta nella storia di questo capitolo della matematica moderna. Le notizie molto sommarie, riferite nel presente paragrafo, possono essere sufficienti a darci un'idea del fervore di ricerche, spesso molto acute ma anche assai disorganiche, che si andavano sempre più diffondendo con l'avanzare degli anni intorno ai problemi dell'infinito e dell'infinitesimo. Oggi esse sogliano venir considerate, dagli storici della matematica, come costituenti la prima fase dell'elaborazione del calcolo infinitesimale, fase che verrà gloriosamente conclusa da Newton e da Leibniz: ai quali non si può dunque attribuire il merito di avere «inventato» (nel senso preciso di questo termine) il nuovo calcolo, ma solo quello - peraltro notevolissimo - di avergli fornito una prima solida sistemazione. La cqmplessa situazione è stata chiaramente descritta da Paul Tannery in un brano ill~minante che desideriamo citare per intero: « Nel momento in cui Newton e Leibniz cominciarono ad occuparsi di matematica, si può dire che un metodo infinitesimale era già stato costituito, nel senso che i principali geometri si erano abituati a maneggiare gli infinitamente piccoli (almeno quelli del primo ordine), sia come elementi di somma, sia come elementi di rapporti. Per il primo caso (quadratura), essi possedevano, nel processo di riduzione all'assurdo imitato dagli antichi, un metodo di dimostrazione rigoroso fondato implicitamente sulla nozione di limite. Per il secondo caso (problema delle tangenti), la teoria non era stata così approfondita; ma i procedimenti di calcolo avevano ricevuto, nell'un caso come nell'altro, ampi sviluppi e bastavano in realtà per la risoluzione dei problemi allora sollevati. » Ciò che mancava era l 'uniformità dei simboli: « Ogni geometra aveva le sue notazioni particolari e le sue abbreviazioni, che il più delle volte riservava per sé. » Proprio questa è la lacuna che verrà colmata in modo pressoché definitivo dai due cosiddetti « inventori » dell'analisi infinitesimale.
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VII · RIFLESSIONI
METODOLOGICHE
I tormentati sviluppi del pensiero matematico, rapidamente esposti nelle pagine precedenti, non possono far a meno di suggerirei alcune considerazioni di carattere critico-filosofico. V'è da notare anzitutto che l'affermarsi del nuovo calcolo, reso possibile unicamente dal parallelo affievolirsi dell'esigenza del rigore, scoraggiò in partenza ogni tentativo di enuclearne e precisarne la struttura logica (il compito di questa precisazione spetterà al XIX secolo, e sarà un compito che richiederà un notevole affinamento dagli studi logici). Così vediamo che anche gli autori del Seicento, i quali si occuparono contemporaneamente di logica e di calcolo infinitesimale, non riuscirono a stabilire un qualsiasi ponte fra questi due rami della loro attività. Tipico è il caso di Pasca!, il quale non solo non fu in grado di applicare le regole della logica - da lui pur tuttavia attentamente studiata, come si spiegò nel capitolo IX - a chiarire i fondamenti delle operazioni infinitesimali, ma anzi giunse a vedere in queste ultime un esempio manifesto delle contraddizioni del nostro spirito, cioè uno scacco dell'esprit géométrique che ci spinge obbligatoriamente al di là di esso. Altro caso non meno istruttivo è quello di Wallis, che pur essendosi occupato egregiamente di logica, a proposito della quale difese con tenacia il classico impianto datole da Aristotele, non ebbe scrupoli a svolgere le sue ricerche infinitesimali con sconcertante disinvoltura, come abbiamo accennato nel paragrafo precedente. Poté in tal modo accadere che, mentre nelle indagini matematiche si creavano nuove e ardite aperture le quali assumeranno ben presto un peso determinante in tutto il pensiero scientifico, gli Elementi di Euclide continuavano a venire considerati - in sede di logica - come il più elevato prodotto della ragione umana, come l'unica opera da prendersi in serio esame per studiarvi l'articolarsi dei processi dimostrativi. Un esempio molto significativo di questo atteggiamento ci è fornito proprio da Wallis, che si occupò senza dubbio a lungo del cosiddetto «problema dei fondamenti», ma limitando le proprie ricerche in proposito ai soli postulati euclidei. Vedremo del resto, nel volume m della presente opera, che anche nei secoli successivi le indagini critiche dei matematici continuarono a venire prevalentemente dirette ai fondamenti della geometria piuttostoché a quelli dell'analisi infinitesimale, e ciò non solo per la maggiore difficoltà di una rigorosa analisi logica di quest'ultima disciplina ma anche, e soprattutto, perché proprio la geometria era considerata la più completa realizzazione dello spirito matematico. Ciò che invece l'analisi infinitesimale riuscì a fare emergere, in tutta la sua importanza, fu la funzione veramente essenziale compiuta - nella matematica dalla sistemazione dei simboli. In effetti, come poco sopra osservammo, uno dei principali contributi di Newton e di Leibniz allo sviluppo di questa disciplina
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-contributo che meritò loro il titolo di «inventori » di essa- fu proprio l 'introduzione di ben precisi e comodi simboli per le operazioni fondamentali della derivazione e dell'integrazione (i simboli ideati da Leibniz risultarono migliori di quelli newtoniani e perciò il sorgere della nuova disciplina venne spesso collegato più a lui che non allo scienziato inglese). Va del resto subito messo in chiaro, che l'anzidetta sistemazione era un compito tutt'altro che facile; essa comportava infatti la riorganizzazione generale della materia, l'esatta enunciazione delle regole da usarsi per le varie operazioni, la precisazione delle analogie e delle differenze fra i simboli della nuova disciplina e quelli dell'algebra delle grandezze finite. Sarebbe illusorio ritenere che il pensiero umano possa ampliarsi a campi di indagine veramente nuovi senza introdurre all'uopo un apposito - e idoneo - simbolismo; in mancanza di esso, lo sforzo di applicare alle idee più caratteristiche di tali campi il simbolismo proprio di altri già noti finisce per impedire di coglierne l'autentica novità, onde crea gravi confusioni e, col trascorrere del tempo, può far sorgere problemi equivoci, e perciò insolubili. La storia dell'analisi infinitesimale è, sotto questo punto di vista, assai esemplare, in quanto ci dimostra che il primo passo veramente essenziale per il costituirsi di una disciplina del tutto nuova è la sua sistemazione simbolico-operativa; in un secondo tempo si renderà ovviamente necessario un passo ulteriore, altrettanto e forse ancor più essenziale, costituito dall'elaborazione logica dei principi della disciplina in questione, ma esso può venire seriamente eseguito solo se la disciplina stessa possiede già una sua consistenza, sia pure provvisoria e non del tutto soddisfacente. In altri termini: la riflessione logica interviene su un edificio già in via di costruzione, ed è richiesta proprio dalle esigenze interne del suo sviluppo; è una riflessione che non dà inizio alla costruzione di una disciplina, ma ne rende possibile il consolidamento e l'elevazione a gradi sempre più alti. Quanto alle riflessioni filosofiche sull'analisi infinitesimale, è chiaro che, nel Seicento, esse non potevano fare a meno di riflettere tutte le incertezze ancora presenti nelle nozioni di infinito e di infinitesimo. Non possiamo quindi rimproverare a Leibniz - che fu, in quell'epoca, il più eminente filosofo della nuova disciplina - di non aver compreso con la dovuta chiarezza l'autentico significato delle anzidette nozioni, ma averle spesso agganciate a presupposti metafisici, rivelatisi poi inaccettabili. Questi presupposti ebbero la funzione, assai importante, di accrescere - in lui e nei suoi seguaci - la fede nel calcolo appena costituito, dandone una giustificazione, non logica, ma neanche meramente pratica. Solo dei pensatori a noi molto più vicini forniranno in proposito delle elaborazioni filosofiche assai più valide; ma potranno farlo, unicamente perché nel frattempo l'accurata analisi dei logici avrà messo a punto l'autentica struttura dell'importante disciplina.
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CAPITOLO UNDICESIMO
Sviluppo delle scienze reali nel XVII secolo: )1sica, chi~ica, biolo~ia DI GIANNI MICHELI
I
· CONSIDERAZIONI
GENERALI
Si è osservato in precedenza che il meccanicismo rappresenta la concezione generale entro cui si organizza tutta l'attività scientifica del XVII secolo. È questa una tendenza di fondo innegabile; anche se tutta la ricerca specifica del Seicento non si esaurisce nella prospettiva meccanicistica, essa si inserisce in un processo generale di rinnovamento che trova nel meccanicismo il suo culmine e la sua naturale sistemazione. I risultati cui pervengono grandi scienziati come Keplero o come Harvey, indubbiamente non meccanicisti, trovano obiettivamente il loro significato più vero solo nella concezione meccanicistica entro cui vengono accolti. Con ciò si vuole sottolineare che le rivoluzionarie innovazioni metodologiche e filosofiche che caratterizzano la scienza del xvii secolo non sono qualcosa di astratto, di avulso dalla ricerca scientifica concreta. L'impostazione generale scaturisce in gran parte dalle sollecitazioni di problemi specifici e rimanda necessariamente alla ricerca particolare, la quale trae motivo di validità dai successi esplicativi e sistematici che consegue. La ragione del successo della generalizzazione meccanicistica risiede essenzialmente nel fatto che si rivela una concezione capace di inglobare tutti i fatti (e le interpretazioni fondate di essi) in modo soddisfacente. Essa si viene formulando poco a poco fino a definirsi chiaramente nel corso del quarto decennio del Seicento come la nuova struttura di base della scienza. Da allora in poi essa sarà la concezione di fondo entro cui si verrà articolando la ricerca specifica. Questa fu notevolissima per l'ampiezza (mai prima ci fu un così gran numero di studi particolari originali) e per i risultati che conseguì (in tutte le discipline vi furono svolte di importanza decisiva). In questo capitolo si cercherà di dare uno sguardo complessivo a tutta la messe di contributi scientifici che si sono avuti nel corso del Seicento, relativamente alle scienze reali, la fisica, la biologia e la chimica. Questa distinzione tra varie discipline ha un carattere pratico, necessario per ordinare la materia che esamineremo, ma non corrisponde completamente agli studi che si venivano svolgendo nel periodo in questione che sono profondamente permeati di spirito unitario. Le frontiere tra le varie discipline non sono molto
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Sviluppo delle scienze reali nel xvn secolo: fisica, chimica, biologia
nette, né risulta che lo scienziato secentesco abbia coscienza del carattere specifico di esse; come si vedrà, molti autori si applicano a diversi campi di studio e non solo per motivi soggettivi. Permane ancora nella scienza del xvii secolo la tendenza tipicamente filosofica a considerare la ricerca della realtà in modo globale, collegata alla fiducia in una comprensione unica e sistematica, quella meccanicistica, che si riverbera in ogni campo di indagine, mercé l'affinità sostanziale delle prospettive metodologiche (e perciò anche strutturali). Tipici sono per esempio gli stretti ed « obiettivi » legami che sussistono tra meccanica, fisiologia e chimica. Ciò non toglie che in ogni branca della ricerca scientifica vi siano esperienze e teorie specifiche che si sono rivelate di importanza cruciale e che hanno segnato svolte decisive per le implicazioni generali che hanno avuto. Sono a queste che si volgerà maggiormente l'attenzione. II · GLI STRUMENTI SCIENTIFICI
L'elemento forse più immediatamente evidente nella nuova scienza meccanicistica è l'esigenza di affrontare l'indagine sulla natura in modo preciso e articolato, esigenza derivante naturalmente dalla matematizzazione della realtà, intesa nel senso generale chiarito in precedenza, su cui venne ad appoggiarsi stabilmente la ricerca. In tale direzione diventa sempre più essenziale l'ausilio di strumenti per l'indagine che permettono di ampliare notevolmente le capacità di osservazione (di vedere cioè a fondo nella natura) e di controllo (di avere cioè delle misure esatte ed univocamente determinate dei fenomeni) dello scienziato. p diffondersi dell'uso dello strumento scientifico è ad un tempo il frutto dello sviluppo e del perfezionamento delle tecniche artigianali e una conseguenza operativa dei principi generali del meccanicismo (gli apparecchi che vengono adoperati per l'indagine costituiscono un potenziamento e quasi un prolungamento dello strumento metodo logico meccanicistico). Per valutare pienamente il significato che ha avuto lo strumento scientifico alle origini della scienza moderna, occorre tener presente questa duplice componente, teorica e pratica, che ne ha condizionato la nascita e lo sviluppo. Se, infatti, nel xvii secolo lo scienziato cominciò a cogliere l'effettiva importanza dello strumento come mezzo di potenziamento della propri~ capacità osservativa e a credere (è noto che la cultura tradizionale nutriva una inveterata diffidenza per ogni esperienza che facesse ricorso a dei mezzi di ausilio per i sensi) soprattutto nei dati che risultavano da esso, è pur vero che egli dovette assimilare e fare proprie le tecniche artigianali per poter essere in grado di costruire quegli apparecchi. Significativa è a questo proposito l'attività di Galileo: come è stato bene posto in rilievo, egli riuscì a fare del cannocchiale un formidabile ausilio nella ricerca scientifica proprio perché non conosceva molto a fondo l'ottica teorica del tempo e dovette egli stesso farsi artigiano e ricavare in modo empirico, con rozzi tentativi, quegli
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Sviluppo delle scienze reali nel xvn secolo: fisica, chimica, biologia
elementi teorici che gli permisero di costruire un telescopio abbastanza perfezionato per fare quelle sensazionali scoperte che diedero subito dignità scientifica allo strumento da lui costruito. Pertanto, in virtù depe nuove scoperte cui potevano dare luogo, vennero imposti al mondo della cultura quegli artifici nati nelle botteghe degli artigiani e fino ad allora disprezzati o non presi in considerazione. La matrice artigiana degli strumenti scientifici non va dimenticata: ancora una volta appare in modo evidente che alle origini della scienza moderna sta l 'instaurarsi di un proficuo connubio tra il mondo della pratica e quello della teoria, che si viene svolgendo, in questo campo specifico, in modo non subitaneo né lineare. I ritardi e le numerose deficienze che si riscontrano nella costruzione e nell'uso degli strumenti sono in gran parte dovuti al fatto che tale processo di simbiosi fu necessariamente lento e irto di difficoltà. Conseguita in parte la teoria dei più comuni strumenti e acquisita una giusta valutazione del loro uso, fu molto difficile conseguire su vasta scala degli ottimi procedimenti costruttivi e soprattutto quella manualità indispensabile per costruire dei buoni apparecchi, molto spesso non eccelsa nello scienziato. Comunque, malgrado gli ostacoli obiettivi che si incontravano, verso la fine del xvn secolo la diffusione dello strumento scientifico era generalizzata e si erano poste le basi per uno sviluppo sempre più cospicuo di essa. Se la scoperta del valore dello strumento scientifico nella sua generalità appartiene incontestabilmente al xvn secolo, è pur vero che anteriormente esistevano degli apparecchi di osservazione (per la maggior parte astronomici) consacrati da una antica tradizione (astrolabi, sfere armillari, ecc.). Fin dagli albori dell'età moderna esistevano vere e proprie officine specializzate nella costruzione degli strumenti classici: alcuni di essi subirono nel corso del xvr secolo importanti modificazioni e permisero osservazioni di notevole precisione ed accuratezza (basti pensare all'opera di Tycho Brahe). Nel xvn secolo, però, l'apparizione di apparecchi radicalmente nuovi introdusse una dimensione qualitativamente differente nella strumentazione scientifica tradizionale. Si può ben dire che i nuovi strumenti ottici, come il telescopio e il microscopio, o di misura, come il termometro, il barometro e l'orologio a pendolo abbiano caratterizzato in modo decisivo la nuova scienza. Gli strumenti che portarono alle prime e più essenziali scoperte, furono senza dubbio quelli ottici, e anzitutto il cannocchiale. La storia di questa invenzione è abbastanza conosciuta nelle sue linee generali. La sua origine è certamente empirica e casuale: nacque nelle botteghe degli artigiani che fabbricavano lenti per la correzione della vista (già note fin dall'età medievale). Accenni e notizie sull'uso e le proprietà delle lenti si trovano inoltre in molti autori, dal medievale Ruggiero Bacone fino a Giambattista Della Porta, contemporaneo di Galileo, nella cui opera si trovano anche espressioni che sembrano far riferimento al cannocchiale. Agli inizi del Seicento, tale strumento era conosciuto e adoperato in Olanda: nel r6o8,
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infatti, un occhialaio di Middelburg, Hans Lippershey, presentò agli Stati generali la domanda per ottenere una licenza di esclusiva per la vendita del cannocchiale; la domanda non fu accolta perché si era venuto a sapere che altri avevano fabbricato apparecchi simili. Secondo una testimonianza di Isaac Beeckmann (I 58 8I637), scoperta da Cornelis de Waard, Zacharias Janssen rivendicò la priorità dell'invenzione per suo padre Hans che aveva costruito nel I604 un telescopio sulla scorta di un esemplare giunto dall'Italia datato I 590. Risulta però abbastanza chiaramente che l 'invenzione non fu presa in seria considerazione dagli scienziati o dagli uomini di cultura: suscitò curiosità e un interesse limitato. Spettò indubbiamente a Galileo il merito di aver compreso tutte le enormi possibilità racchiuse nello strumento e di avere realizzato i primi esemplari abbastanza perfezionati di esso, con i quali poté compiere la sua celebre scoperta dei satelliti di Giove e le sue non meno note osservazioni della Luna e del Sole. Egli stesso, pur riconoscendo di avere avuto notizia nel I6o9 di un cannocchiale costruito in Olanda, si attribuisce giustamente la paternità dell'invenzione ottenuta in virtù dell'illuminazione della grazia divina. Questo brano famoso del Saggiatore attesta in modo evidente la sua consapevolezza. «Noi siamo certi che l'Olandese, primo inventor del telescopio, era un semplice maestro d'occhiali ordinari, il quale casualmente, maneggiando vetri di più sorti, si abbatté a guardare nell'istesso tempo per due, l'uno convesso e l'altro concavo, posti in diverse lontananze dall'occhio, ed in questo modo vide ed osservò l'effetto che ne seguiva, e ritrovò lo strumento: ma io, mosso dall'avviso detto, ritrovai il medesimo per via di discorso; e perché il discorso fu anco assai facile, io lo voglio manifestare a V.S. Illustrissima, acciò, raccontandolo dove ne cadesse il proposito, ella possa render, colla sua facilità, più creduli quelli che, col Sarsi, volessero diminuirmi quella lode, qualunque ella sia, che mi si perviene. Fu dunque tale il mio discorso. Questo artificio o costa d'un vetro solo, o di più d'uno. D'un solo non può essere, perché la sua figura o è convessa; cioè più grossa nel mezo che verso gli estremi, o è concava; cioè più sottile nel mezo, o è compresa tra superficie parallele: ma questa non altera punto gli oggetti visibili col cresergli o diminuirgli; la concava gli diminuisce, e la convessa gli accresce bene, ma gli mostra assai indistinti ed abbagliati; adunque un vetro solo non basta per produr l'effetto. Passando poi a due, e sapendo che 'l vetro di superficie parallele non altera niente, come si è detto, conclusi che l'effetto non poteva né anco seguir dall'accoppiamento di questo con alcuno degli altri due. Onde mi ristrinsi a volere esperimentare quello che facesse la composizion degli altri due, cioè del convesso e del concavo, e vidi come questa mi dava l'intento: e tale fu il progresso del mio ritrovamento, nel quale di niuno aiuto mi fu la concepita opinione della verità della conclusione. » La teoria del telescopio di Galileo (analogo a quelli costruiti in Olanda con una lente convessa come obiettivo e una lente concava come oculare) venne data
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Sviluppo delle scienze reali nel xvn secolo: fisica, chimica, biologia
da Keplero in una delle sue opere più importanti, la Dioptrica, pubblicata nel I6I I, in cui si ha, tra l'altro, uno studio accurato delle lenti concave e convesse e delle loro combinazioni. Keplero diede anche la teoria del cannocchiale, chiamato astronomico, avente una lente convessa anche come oculare, che però non realizzò praticamente. Tale telescopio che presenta il notevole vantaggio di offrire un campo visivo più ampio fu costruito per la prima volta alcuni anni più tardi da C. Scheiner, 1 e in seguito fu lo strumento più comunemente usato per l'osservazione astronomica. Nel corso del xvn secolo si moltiplicarono anche i tentativi per introdurre efficaci perfezionamenti nella costruzione di tali strumenti. Le difficoltà erano notevoli ed innanzitutto di natura tecnica relativamente alla fabbricazione delle lenti: occorreva disporre dell'ottimo vetro,' difficile a procurarsi (il migliore era quello di Venezia) e inoltre svolgere delicate_ operazioni per il taglio e la pulitura dei vetri, che restarono perlopiù affidate all'abilità di pochi artigiani veramente capaci (godettero per lungo tempo di una riputazione europea le lenti fabbricate da due celebri costruttori italiani, Eustachio Divini e Giuseppe Campani, attivi a Roma nella seconda metà del Seicento). Inoltre si cercò di ovviare in vari modi all'aberrazione di sfericità che rendeva indistinte le immagini oltre un certo grado di ingrandimento dell'oggetto, tentando di costruire lenti con superficie non sferica, ma iperbolica (ma lenti simili erano di difficile realizzazione), oppure usando lenti con curvatura più piccola (l'aberrazione diminuisce al crescere della distanza focale) aumentando quindi la lunghezza dei telescopi fino ai limiti della maneggevolezza (si costruirono esemplari lunghi anche qualche decina di metri e numerosi anche privi di tubo). Tali tentativi passarono in secondo piano quando Newton mostrò che i maggiori difetti nelle immagini dei telescopi a rifrazione erano dovuti non tanto all'aberrazione sferica, quanto a quella cromatica, per la quale si formavano ai lati delle immagini delle frange colorate. Egli si era convinto che tale difetto era eliminabile nei telescopi a lente e quindi, riprendendo i tentativi operati da J. Gregory (I638-I675), volse i suoi sforzi alla costruzione di un telescopio in cui l'immagine ottenuta servendosi di uno specchio concavo era riflessa da uno specchio piano inclinato verso il lato ove era posto l'osservatore. Il primo esemplare fu costruito da Newton nel I 668; un secondo, più grande, fu presentato alla Royal Society nel I67I. I telescopi a riflessione non ebbero però una immediata utilizzazione pratica. La diffusione dei nuovi apparecchi ottici provocò anche un perfezionamento degli strumenti di misura astronomici e geodetici (quarti di cerchio, ecc.) in cui gradualmente i traguardi telescopici sostituirono, per merito soprattutto di Jean Picard (I6zo-I68z circa) le pinnule tradizionali; nella secon1 Cristoph Scheiner (1579-165o) gesuita e
astronomo tedesco, è noto soprattutto per aver osservato, nel 16u, le macchie solari.
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Sviluppo delle scienze reali nel xvu secolo: fisica, chimica, biologia
da metà del secolo apparvero anche i primi micrometri (il primo fu costruito dall'inglese G. Gascoyne nel I639, ma restò praticamente ignorato). L'altro rivoluzionario strumento ottico, il microscopio, risale anch'esso agli inizi del secolo; la sua costruzione fu suggerita dall'uso del telescopio. È noto che Galileo adattò il suo « occhiaie » per osservare da vicino gli oggetti e che nell'ambito dell'accademia dei Lincei si svolsero esperienze al microscopio: ne è testimonianza la tavola dell'ape (Melissographia) che Federico Cesi (I 585-I63o) aggiunse al suo Apiarium (I6z5). Ma nella prima metà del Seicento le osservazioni al microscopio furono molto limitate: gli ostacoli di ordine tecnico che si opponevano alla costruzione di microscopi ottimi, erano maggiori che nel telescopio, in quanto, oltre a tutto, occorreva ottenere una buona illuminazione dell'oggetto e una precisa messa a punto. Le prime esperienze veramente importanti furono quelle pubblicate da Malpighi nel De pulmonibus (1661). Molto diffusi erano nella seconda metà del Seicento i microscopi composti: uno dei più famosi fu quello costruito da Robert Hooke 1 e da lui descritto nella sua Micrographia (I 66 5). Constava di un tubo lungo sei o sette pollici con una lente piano convessa (la parte convessa rivolta verso l'oggetto) come obiettivo e una lente piano convessa (la parte convessa rivolta verso l'occhio dell'osservatore) come oculare: l'oggetto, posto su un supporto era illuminato dalla luce solare o da quella di una lampada condensata perlopiù attraverso un globo di vetro. Notevoli furono pure i microscopi costruiti da John Marshall verso la fine del secolo. I migliori risultati furono però conseguiti dai microscopi semplici, cioè dalle lenti di ingrandimento; celebri furono i minuscoli microscopi fabbricati da Leeuwenhoek, 2 con i quali lo scienziato olandese compì memorabili osservazioni. Il microscopio di Leeuwenhoek, mirabile anche per la sua semplicità, consta essenzialmente di una piccola lente biconvessa montata entro due piccole lastre di metallo: l'oggetto da esaminare è fissato da una parte delle lastre di montatura su di una barretta che si avvita entro un blocchetto di metallo in cui si muove una seconda vite più lunga (questa, come le seguenti termina con un appiattimento a forma di spatola per la manovra) che serve per gli spostamenti vertiI Robert Hooke nacque a Freshwater (isola di Wight) nel I635. Abilissimo sperimentatore, fu assistente di Willis e poi di Boyle, a cui diede spesso un aiuto decisivo, come nel caso della costruzione della macchina pneumatica. Nel I662 divenne cura/or of experiments della Royal Society, fellow nel I663 e, alla morte di Oldenburg (I677), segretario; tenne tale carica fino al I682. La sua attività scientifica, strettamente connessa con quella pratica che svolse presso la Royal Society, fu troppo vasta e dispersiva; come si potrà constatare, si occupò di ogni argomento allora in discussione facendo, in ogni campo, interessanti osservazioni, e formulando geniali teorie: manèò tuttavia di rigore e di tenacia nell'analisi. Morì a
Londra nel I703. Nel I705 fu pubblicato un volume postumo dei suoi scritti. 2 Il naturalista olandese Antony van Leeuwenhoek (Delft I6p- ivi I723) fu un empirico geniale. Ricevuta una educazione sommaria, si dedicò ad attività commerciali, dapprima ad Amsterdam, dove si era recato nel I648, poi, dal I654 nella città natale; dal I 66o ebbe un impiego nel comune. Fu soprattutto un tecnico abilissimo e un sagace osservatore. Le sue mirabili osservazioni, che descriveva nei resoconti che cominciò a mandare alla Royal Society a partire dal I 67 3, gli diedero ben presto una fama europea; illustri personaggi, tra cui si ricorda lo zar Pietro il grande, visitarono il suo laboratorio.
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secolo: fisica, chimica, biologia
XVII
cali dell'oggetto; essa si inserisce in un pezzo di metallo ad angolo che, mosso da un'altra vite manovrata nella parte opposta delle lastre di montatura, assicura i movimenti laterali dell'oggetto (l'oggetto può essere fatto ruotare muovendo direttamente la barretta portaoggetto filettata); la messa a fuoco è data da una altra vite che preme il blocchetto di metallo contro le lastre di montatura. Molto diffusi erano anche al tempo di Leeuwenhoek i microscopi semplici con una sferula di vetro al posto della lente. Grande sviluppo ebbero nel XVII secolo anche gli strumenti fisici di misura, e soprattutto il termometro e il barometro. L'idea del termometro si riscontra in parecchi autori (Bacone, Porta, Santorio, ecc.) verso la fine del xvr secolo e gli inizi del xvii; sembra che Galileo sia stato uno dei primi a costruire (nell'ultimo decennio del Cinquecento, a detta del Viviani) uno strumento per misurare la temperatura. Lo strumento galileiano era un termoscopio ad aria molto semplice. Secondo quanto afferma B. Castelli (1577-1643) in una lettera al Cesarini nel 1638 era costruito in questo modo:« In questo mi sovvenne un'esperienza fattami vedere già più di trentacinque anni or sono dal nostro Sig.r Galileo, la quale fu, che presa una caraffella di vetro di grandezza di un piccol uovo di gallina, col collo lungo due palmi in circa, e sottile quanto un gambo di pianta di grano, e riscaldata bene colle palme delle mani la detta caraffella, e poi rivoltando la bocca di essa in vaso sottoposto, nel quale era un poco d'acqua, lasciando libera dal calor delle mani la caraffella, subito l'acqua cominciò a salire nel collo, e sormontò sopra il livello dell'acqua del vaso più di un palmo; del quale effetto il medesimo Sig.r Galileo si era servito per fabbricare un istrumento da esaminare i gradi del caldo e del freddo. » Termoscopi ad aria più perfezionati furono costruiti in seguito, ma migliori risultati diedero quelli a liquido, di cui la prima menzione si trova in Jean Rey (1583 ca.- 1645). Secondo quanto egli stesso scrive a Mersenne nel r632, lo strumento ideato dal medico francese era molto rozzo. Si tratta in sostanza di una boccia di vetro con un collo lungo e sottile; posta, piena d'acqua (tranne il collo), al sole o nelle mani di un febbricitante, «il calore, dilatando l'acqua, fa sì che essa salga: il più e il meno indicano il calore grande o piccolo ». I termometri a liquido furono molto perfezionati nell'ambito dell'accademia del Cimento. I termometri fiorentini (così erano chiamati) erano chiusi e l'acqua era stata sostituita con l'alcool. Lorenzo Magalotti 1 nei suoi Saggi di naturali esperienze (r667) ne descrive parecchi esemplari sostanzialmente analoghi. Essi erano graduati, ma, come si può vedere da questi passi del Magalotti, la scala non era molto razionale: al vetraio «s'apparterrà di formare la palla dello strumento d'una tal capacità e grandezza e d'attaccarvi I Lorenzo Magalotti nacque a Roma nel 1637 e morì a Firenze nel 171z. Erudito, letterato e curioso di cose scientifiche, si formò nell'ambito della scuola galileiana. Svolse incarichi politici per
il granduca di Toscana, Ferdinando II e poi per Cosimo m, e fu segretario dell'accademia del Cimento; i Saggi sono il resoconto delle esperienze svolte dagli accademici.
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un cannello di tal misura di vano, che riempiendolo fin a un certo segno del suo collo con acquarzente, il semplice freddo della neve e del ghiaccio non basti a condensarla sotto i zo gradi del cannellino; come per lo contrario la massima attività de' raggi solari, eziandio nel cuore della state, non abbia forza di rarefarla sopra gli So gradi ... È ancora da avvertire, che i gradi sopra il cannello vengano segnati giusti; e però bisogna scompartirlo tutto colle seste diligentemente in dieci parti uguali, segnando le divisioni con un bottoncino di smalto bianco. Poi si segneranno gli altri gradi di mezzo con bottoncini di vetro o smalto nero ... ». I termometri fiorentini si diffusero ampiamente in Europa nella seconda metà del xvn secolo; in tale periodo si fecero le prime applicazioni del mercurio alla termometria e si cercarono di realizzare delle scale metriche rigorose (scale di d' Alencé, di Newton, ecc.). L'invenzione del barometro, strumento che ebbe una importanza scientifica notevolissima in quanto la sua costruzione è connessa con la scoperta della pressione atmosferica e la disputa sul vuoto, risale, come è noto, a Torricelli. La classica esperienza di Torricelli è descritta in una famosa lettera a Michelangelo Ricci (I6I9-168z), scritta l'II giugno 1644. Così egli si esprime: «Noi abbiamo fatti molti vasi di vetro come i seguenti segnati A, et B grossi, e di collo lungo due braccia, questi pieni d'argento vivo poi serratagli con un dito la bocca e :rivoltati in un vaso dove era l'argento vivo C si vedevano votarsi, e non succeder niente nel vaso che si votava; il collo però AD restava sempre pieno all'altezza d'un braccio, e un quarto, e un dito di più. Per mostrar che il vaso fusse perfettamente voto, si riempieva la catinella sottoposta d'acqua fino in D, et alzando il vaso à poco à poco, si vedeva quando la bocca del vaso arrivava all'acqua, descender quell'argento vivo dal collo, e riempirsi con impeto horribile d'acqua fino al segno E affatto. Il discorso si faceva mentre il vaso AE stava voto, e l'argento vivo si sosteneva benché gravissimo nel collo AC, questa forza che regge quell'argento vivo contro la sua naturalezza di ricader giù, si è creduto fino adesso, che sia stata interna nel vaso AE, o di vacuo, o di quella robba sommamente rarefatta; ma io pretendo che la sia esterna, e che la forza venga di fuori. Su la superficie del liquore, che è nella catinella gravita l'altezza di cinquanta miglia d'aria; pe:rò qual maraviglia è se nel vetto CE, dove l'argento vivo non ha inclinazione, ne anco repugnanza per non esservi nulla, ent:ri, e vi s'inalzi fin tanto, che si equilibri colla gravità dell'aria esterna, che lo spinge? L'acqua poi in un vaso simile, ma molto più lungo, salirà quasi fino a diciotto braccia, cioè tanto più dell'argento vivo, quanto l'argento vivo è più grave dell'acqua pe:r equilibrarsi con la medesima cagione, che spinge l'uno e l'altro.» Questa esperienza traeva le sue origini dal fatto, osservato nell'ambito dei costruttori di pomp~, che era impossibile sollevare l'acqua oltre una certa altezza (I 8 braccia): a questo fatto, cui fa cenno qui lo stesso Torricelli, aveva rivolto l'attenzione Galileo, il quale ne discute nei Discorsi. Galileo aveva sostenuto che era la forza 394 www.scribd.com/Baruhk
'E
c--q·--'> ~ Termometri ideati dall'accademia del Cimento; illustrazione da Saggi di naturali esperienze fatte nell'accademia del Cimento (Firenze 1667).
L'esperienza barometrica; illustrazione dalle Opere (vol. m) di Evangelista Torricelli.
del vuoto a determinare il fenomeno: il valore della resistenza del vuoto è dato appunto dalle 18 braccia a cui si innalza l'acqua contenuta nei cilindri di sollevamento. Torricelli ebbe il merito di studiare questo fenomeno con il mercurio il quale, più denso dell'acqua, si innalzava quindi ad un'altezza proporzionalmente minore di quella dell'acqua (l'esperienza risultò molto più chiara e convincente rispetto a quella contemporanea, svolta con l'acqua, di Gaspare Berti) e inoltre quello di aver posto in rilievo la funzione della pressione atmosferica e l'importanza delle differenze di valore di essa. L'esperienza barometrica, conosciuta in Francia tramite Mersenne, fu ripresa da Pascal, il quale fece compiere il famoso esperimento del Puy de Dome (eseguito il 19 settembre 1648) che confermò gli assunti torricelliani: si constatò che l'altezza della colonna di mercurio diminuiva di mano in mano che si saliva sulla montagna. Alcuni anni più tardi, ricerche sulla pressione atmosferica furono svolte anche da Otto von Guericke 395
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(16oz-1686), il quale realizzò uno spettacolare barometro ad acqua, e fu il primo a porre in relazione le variazioni giornaliere nella pressione atmosferica con i cambiamenti nel tempo. Altri tipi di barometro furono ideati nella seconda metà del Seicento (si ricordano quelli di Hooke e del fisico francese Guillaume Amontons, 1663-1699) mentre le ricerche sull'atmosfera si venivano arricchendo in virtù della realizzazione di rudimentali anemometri ed igrometri. Le esperienze sui fenomeni di aspirazione e sulla pressione atmosferica sono particolarmente importanti perché esse ponevano nella massima evidenza un problema di grande attualità verso la metà del xvn secolo, quello del vuoto: si appuntavano soprattutto contro l'opinione tradizionale che faceva riferimento ad una generale ripugnanza della natura per il vuoto. Gli scritti polemici di Pascal sulla questione sono forse il miglior documento di una delle discussioni scientifiche di maggior rilievo di tutto il secolo. Connesse con il problema del vuoto furono anche le ricerche che condussero all'invenzione della macchina pneumatica operata da Otto von Guericke e descritta nel volume Experimenta nova ( ut vocantur) magdeburgica de vacuo spatio (167z). I suoi studi risalgono però a parecchi anni prima e furono resi noti da C. Scott nell'opera Mechanica hidraulico-pneumatica, pubblicata nel 1657. Gli esperimenti di von Guericke, volti a realizzare il vuoto, furono molto laboriosi. Dapprima riempì di acqua una botte e cercò poi di estrarre l'acqua per mezzo di una pompa applicata alla base della botte; secondo i suoi intendimenti, la progressiva estrazione dell'acqua avrebbe creato uno spazio vuoto. Questo non gli riuscì perché l'aria entrava attraverso gli interstizi della botte; non ottenne un risultato pienamente soddisfacente anche con una botte più grande anch'essa piena di acqua. Tentò allora con una sfera di rame che però si ruppe per il fatto che (arguì Guericke) il globo di metallo non era stato costruito in modo perfettamente sferico e non aveva potuto sopportare la pressione dell'aria esterna. Fattasi costruire allora una sfera perfettamente rotonda, riuscì alla fine ad ottenere il vuoto. Guericke perfezionò in seguito la sua invenzione (altri esemplari ulteriormente perfezionati furono costruiti da R. Boyle che si avvalse anche della particolare abilità costruttiva di R. Hooke) e compì numerosi altri esperimenti sul vuoto, tra cui quello spettacolare, conosciuto come esperimento degli emisferi di Magdeburgo: due semisfere di bronzo di circa 50 cm di diametro tenute insieme da una striscia di cuoio e nelle quali era stato fatto il vuoto, non poterono essere separate malgrado gli sforzi di otto cavalli attaccati a ciascuna sfera. Gli strumenti che conseguirono i maggiori sviluppi furono i misuratori meccanici del tempo che raggiunsero un grado di elaborazione e di precisione veramente notevole. La costruzione di orologi meccanici aveva una lunga tradizione che risale al medioevo in cui si era già realizzata l'idea dello scappamento, cioè di un meccanismo che permetta la realizzazione di oscillazioni re-
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golari. Gli orologi che si fabbricavano nel XIV secolo si avvalevano del cosiddetto scappamento a verga, costituito da una barretta posta ad angolo retto su di un bilanciere dentellato con due pesi alle estremità. La barretta è munita di due palette che si inseriscono alternativamente nella ruota dentata principale mossa dalla discesa di un peso attaccato ad una corda arrotolata su di un albero; ad ogni movimento corrisponde una oscillazione nel bilanciere, in un verso e in quello opposto. Questi orologi, costruiti per chiese e monasteri, erano molto grandi: verso la fine del Quattrocento apparvero i primi orologi portatili, in cui il peso fu sostituito da una molla. Gli orologi con scappamento a verga non erano però molto precisi; un decisivo perfezionamento venne conseguito dalla applicazione del pendolo ai misuratori del tempo. Galileo, come è noto, diede una prima formulazione della teoria del pendolo fin dagli anni giovanili, ma solo poco prima della morte pensò di costruire un orologio basato sull 'isocronismo del pendolo: suggerì il meccanismo al figlio Vincenzo, ma pare che l'orologio non fosse stato costruito. La completa teoria delle oscillazioni pendolari e uno studio accurato delle sue applicazioni alla misura del tempo furono compiuti da Huygens, il quale cominciò a svolgere le sue prime ricerche sul pendolo e sugli orologi verso il 16 56; la più compiuta formulazione di essi si ha in una delle sue opere più importanti l'Horologium osci/latorùml pubblicato nel 1673. Huygens scoprì che le oscillazioni del pendolo sono perfettamente isocrone solo se seguono una curva cicloidale (come è noto lo studio della cicloide era nel xvrr secolo di grande attualità; ad esso si erano dedicati i maggiori matematici del tempo) e applicò questa scoperta alla costruzione degli orologi. Gli orologi di Huygens si servivano del comune scappamento a verga, ma il bilanciere fu sostanzialmente modificato nel senso che ad uno dei bracci di esso erano applicate delle ganasce entro cui era sistemato il filo del pendolo. La curvatura cicloidale delle ganasce assicurava un perfetto movimento isocrono. Huygens adattò anche il suo pendolo per la costruzione di un orologio marino perfezionato per la determinazione della longitudine in mare (era questo un problema che l'aumentato traffico marino aveva reso particolarmente urgente; esso però fu risolto in modo soddisfacente solo nel corso del xvm secolo) e fu inoltre uno degli ideatori, insieme con R. Hooke, del bilanciere a molla, meccanismo che doveva modificare sostanzialmente la fabbricazione degli orologi portatili. Un ulteriore e decisivo perfezionamento dell'orologio fu operato dall'introduzione dello scappamento ad ancora, tuttora in uso, inventato ali 'incirca verso il 1 67o da William Clement. Nello scappamento ad ancora le palette sono situate sullo stesso piano di rotazione dei denti della ruota di scappamento; ciò rese possibile l'uso di pendoli con una ampiezza minore di quella necessaria per gli orologi con scappamento a verga (quando le oscillazioni non sono molto ampie sono praticamente isocrone) e modificò il pendolo stesso. 397
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III · LO STUDIO DEL MONDO INANIMATO
In questa parte del capitolo, dedicata all'esame delle scienze che studiano il mondo dei corpi inanimati, si volgerà particolarmente l'attenzione verso quei campi di indagine, di rilevante importanza, in cui si conseguirono effettivi rinnovamenti strutturali o rigorose sistemazioni, e cioè, specialmente, la meccanica, l'astronomia, l'ottica e la chimica. La ricerca in altre direzioni portò a risultati interessanti o a formulazioni nuove, foriere di importanti sviluppi, ma non diede luogo a svolte di importanza paragonabile a quelle che si sono avute nelle discipline ricordate sopra: ci riferiamo in particolare agli studi sul magnetismo e l'elettricità. L'analisi dei fenomeni magnetici aveva assunto un assetto sistematico e una formulazione basata su osservazioni ed esperienze già verso la fine del XVI secolo per merito particolarmente di W. Gilbert. L'opera di Gilbert fu molto conosciuta ed apprezzata dagli scienziati del xvii secolo, da Galileo a Descartes, a Keplero che la utilizzò ampiamente nella sua cosmologia, ma non ebbe uno sviluppo apprezzabile. Il magnetismo suscitò grande interesse nell'ambito della compagnia di Gesù: coloro che scrissero maggiormente sull'argomento furono infatti dei gesuiti, da Nicolò Cabeo CI585-r65o, autore di un trattato completo sull'argomento, la Philosophia magnetica, accurato e preciso) a A. Kircher, 1 a Fabri. Gli scienziati meccanicisti erano particolarmente cauti nei confronti dei fenomeni magnetici, a causa del fatto che questi ponevano nella massima evidenza uno degli elementi esplicativi fondamentali delle teorie magiche, quello dell'attrazione. Essi però non avevano sottovalutato il problema e avevano cercato di spiegare i fenomeni magnetici in modo meccanico: tra questi tentativi assume un rilievo tipico l'esplicazione cartesiana, per la quale il magnetismo si spiega con il flusso di gruppi di particelle di quelle più fini del mondo cartesiano Cdesignate con il nome di primo elemento) che escono dal corpo della terra Ce di ogni altro corpo magnetico) dalla parte dell'emisfero boreale e rientrano poi dalla parte dell'emisfero australe, oppure escono dalla parte dell'emisfero australe e rientrano dalla parte dell'emisfero boreale. Le particelle dei due emisferi, in virtù di una loro specifica forma scanalata, sono in grado di entrare nei pori del corpo magnetico, che sono dotati di una forma adeguata per accogliere, gli uni (quelli situati nell'emisfero boreale) i corpuscoli che escono dall'emisfero australe e viceversa. Se nel xvii secolo era stata chiaramente rilevata (fin da Gilbert) l'effettiva diversità che intercorre tra i fenomeni magnetici e quelli elettrici, è pur vero che lo studio dei fenomeni elettrici rimase per tutto il secolo ad uno stadio primorr Atanasius Kircher, nato a Geisa nel r6or e morto a Roma nel r68o, fu professore a Wtirzburg e poi a Roma. Oltre che di fenomeni magnetici, si occupò dei più svariati argomenti. Nelle sue numerose opere, ampie e farraginose (Ars
magna lucis et umbrae, r646; Musurgia universalis, 2 voli., r65o; Mundus subterraneus, 2 voli., r665, ecc.) traspare una viva curiosità per ogni problema scientifico, commista però con una acritica credulità.
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diale. I più noti esperimenti sull'elettricità, oltre a quelli di Boyle, furono quelli di Guericke, ma appare chiaramente dai suoi scritti che essi non furono condotti con l'intento di indagare le proprietà dell'elettricità. Le osservazioni del geniale sindaco di Magdeburgo si riferiscono ad un globo di zolfo sottoposto a rotazione e poi a frizione mediante il contatto di una mano non umida; Guericke osservò che la sfera così trattata attirava corpi molto leggeri (pezzi di carta, piume, ecc.) i quali venivano poi respinti fino 'a quando non avevano toccato altri corpi dai quali erano stati attratti a loro volta; notò anche che se si avvicinava una candela ad una piuma mentre era nel raggio d'azione del globo, questa si volgeva ancora verso la sfera senza avere bisogno di toccare un altro corpo. L'osservazione di questi e di alcuni altri curiosi effetti che si verificavano attorno alla sfera di zolfo, rimase senza alcun seguito e non portò al riconoscimento delle più elementari proprietà dell'elettricità. « Quando ci si ricorda come, con il solo fatto dell'attrazione del ferro per mezzo del magnete, i pensatori dell'antichità e del medioevo sono giunti alla nozione di magnetizzazione, si è stupefatti che Otto von Guericke, come Boyle, non sia giunto alla nozione di elettrizzazione, che era tuttavia suggerita loro da tanti fatti ed esperienze. Il legame del fenomeno di ripulsione ad una proprietà acquisita al contatto di un corpo elettrico e persa al contatto di un altro corpo, conduce in modo diretto alle nozioni di elettrizzazione e di scarica. L'elettrizzazione appare anche nella piuma che al contatto di un corpo elettrico distende le sue estremità (perché tutte elettrizzate con lo stesso segno) e si attacca agli altri corpi. E tuttavia in nessuna parte la nozione di elettrizzazione è stata formulata » (Daujat). Fu solo nel corso del secolo seguente che le ricerche sull'elettricità assunsero un carattere specifico e articolato. a) La meccanica Nel capitolo precedente in cui si è cercato di porre in rilievo alcuni dei motivi che hanno determinato il grande sviluppo della meccanica si è sottolineato, come elemento di capitale importanza, lo stretto legame tra meccanica e meccanicismo. Orbene, se si dà uno sguardo complessivo all'evoluzione di tale disciplina in tutto l'arco del secolo e se si considerano i momenti teorici più importanti di essa, risulta chiaramente il ruolo determinante che ha avuto la generalizzazione meccanicistica anche nell'impostazione stessa dei problemi specifici. È noto che anche nella coscienza dei fondatori della meccanica, la nuova scienza del movimento è vista come un ritorno ad Archimede, colui che nella antichità aveva posto le basi per una concezione matematizzante della natura. Per creare le condizioni per uno sviluppo della concezione archimedea che si era applicata alla statica, cioè allo studio dei corpi in equilibrio fra di loro, occorreva sovvertire la tradizionale esplicazione qualitativa dei corpi e del movimento
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(principalmente la tradizionale distinzione tra moto naturale e violento). Per fare ciò si operò una audace generalizzazione dei principi della meccanica: sia i corpi che il movimento furono concepiti in modo univoco, furono cioè resi suscettibili di una sola esplicazione, quella quantitativa, esprimibile mediante relazioni geometriche e nel contempo, mediante una nuova dimensione dell'astrazione scientifica, la materia venne risolta in corpuscoli. I due momenti della generalizzazione, quello filosofico e quello antologico, sono strettamente collegati e si trovano in forma implicita (o meglio in una forma non troppo elaborata, ma non per questo meno viva e consapevole) in Galileo, il fondatore della dinamica moderna. Ma, considerata da un punto di vista generale, questa imperfetta elaborazione appare, se si vuole, necessaria perché consentì allo scienziato italiano di semplificare enormemente lo studio del movimento riferendolo ad un singolo corpo e ad una situazione ideale, cioè non sperimentabile direttamente, quella in cui non si abbia resistenza dell'aria. Così, mercé appunto il suo meccanicismo operativo e pragmatico che gli permise quella feconda semplificazione dei problemi, riuscì, pur dopo lunghe ricerche, a stabilire in forma precisa il comportamento di un grave in caduta libera e quello di un proiettile in movimento: i modelli geometrici introdotti da Galileo (la nozione dell'accelerazione e della traiettoria parabolica) permisero di dominare completamente quei fenomeni spiegandoli con relazioni astratte semplici e valide universalmente. È significativo che anche Descartes si sia occupato, su istanza di Beeckmann, della caduta libera dei gravi e sia caduto nelle stesse incertezze di Galileo (aveva inteso la velocità di caduta dei gravi proporzionale alle distanze percorse e non ai tempi, proprio come aveva creduto Galileo prima di essere pervenuto alla corretta definizione della legge) ed è significativo anche il fatto che in seguito si sia occupato solo occasionalmente della questione e che di essa non parli nel suo ampio trattato di fisica. Tutto ciò si comprende se si pensa che nel corso del quarto decennio del secolo, Descartes era ormai giunto a dare coerenza sistematica e una fondazione filosofica adeguata alla generalizzazione meccanicistica: le sue preoccupazioni erano volte ad una esplicazione totale del mondo sulla base solo della materia in movimento. « È impossibile dire alcunché di buono e di solido relativamente alla velocità, senza avere spiegato veramente che cos'è la pesantezza, e, insieme, tutto il sistema del mondo, » così dice scrivendo a Mersenne il I 2 settembre I 6 38: è questa la sua critica abituale all 'impostazione delle ricerche di Galileo. Si comprende anche il grande risalto dato da Descartes nei Principia philosophiae alle leggi dell'urto fra i corpi. Tali leggi, permettendo di spiegare il comportamento di un corpo in relazione, risultavano essere della massima importanza in quanto era l'unico mezzo possibile per operare la costruzione di un mondo meccanicistico che escludeva l'esistenza del vuoto. Egli giunse quindi a considerare la caduta di un grave come un caso 400
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particolare dell'urto fra i corpi e a porsi il problema di considerare la caduta non nel vuoto, ma in vero aere, e di determinare il ritardo dei gravi in caduta causato dalla resistenza dell'aria. Descartes quindi, a differenza di Galileo, impostò chiaramente, in linea di principio, il problema della costituzione di una dinamica di più corpi in relazione fra di loro, proprio in virtù della sua metafisica del pieno e per le sue esigenze di esplicazione globale. Anche Galileo aveva più volte affrontato il problema della percussione, ma non in forma generale e, malgrado le sue interessanti ricerche in questo settore, non aveva fatto altro che sottolineare le difficoltà per una soluzione del problema, come risulta da questo passo dei Discorsi, più volte ricordato da Huygens. In tale opera Galileo fa dire a Sagredo queste significative parole: « Il ricordar V.S. questi colpi e queste percosse mi ha risvegliato nella mente un problema o vogliam dire questione mecanica, della quale non ho trovato appresso autore alcuno la soluzione, né cosa che mi scemi la maraviglia o al meno in parte mi quieti l'intelletto. E 'l dubbio e lo stupor mio consiste nel non restar capace onde possa derivare, e da qual principio possa dependere, l'energia e la forza immensa che si vede consistere nella percossa, mentre col semplice colpo d'un martello, che non abbia peso maggiore di 8 o 10 libbre, veggiamo superarsi resistenze tali, le quali non cederanno al peso d'un grave che, senza percossa, vi faccia impeto, solamente calcando e premendo, benché la gravità di quello passi molte centinaia di libbre. » Il problema fu studiato dagli scolari di Galileo, soprattutto da Giovanni Alfonso Borelli, 1 il quale pubblicò sull'argomento un'opera di notevole importanza, il De vi percussionis (1667). Ma colui che diede una soluzione precisa e fondata alla questione dell'urto fra i corpi fu Huygens,z il quale, come ben ha rilevato Mach, può essere considerato il vero fondatore della dinamica di più corpi. Il punto di partenza delle ricerche di Huygens fu l'analisi delle leggi cartesiane dell'urto: i primi dubbi sulla veracità di esse sorsero allo scienziato olandese già nel 1652. « Se tutte le regole di Descartes, ad eccezione della prima, non sono false, non so distinguere il vero dal falso,» scrive a Schooten il 29 ottobre 1654. Egli nota anche acutamente che « Descartes non si è servito affatto delle sue regole della I Giovanni Alfonso Borelli nacque a Castelnuovo, Napoli, nel r6o8 e morì a Roma nel 1679· Studiò a Roma dove seguì le lezioni del galileiano padre Benedetto Castelli. Fu professore a Messina e poi dal 1656 a Pisa ove fu un membro molto attivo dell'accademia del Cimento. Nel r667 ritornò a Messina dove rimase per qualche tempo; passò gli ultimi anni della sua vita a Roma in grande povertà, ospite dell'Istituto delle Scuole Pie, nella casa di S. Pantaleo. Più che per le sue opere di meccanica (oltre al De vi percussionis scrisse anche il De motionibus naturalibus a gravitate pendentibus, r67o), Borelli è noto, come si vedrà in seguito, per la sua attività come astronomo (Theoricae mediceorum planetarum ex causis physicis de-
ductae, r666) e soprattutto come biologo. z Figlio del poeta Constantijn, amico e corrispondente di Descartes, Christiaan Huygens (L'Aia r6z9- ivi 1695) fin da giovane si interessò di problemi scientifici con lusinghieri risultati. Dopo aver fatto numerosi viaggi in Francia e in Inghilterra, nel r666, su invito di Colbert, entrò a far parte dell' Académie cles sciences e si trasferì a Parigi, dove visse con una ricca pensione datagli da Luigi xrv. Tornò in patria solo nel r68r. Huygens fu uno dei più grandi scienziati del secolo; diede i maggiori contributi nella meccanica e nell'ottica, ma in tutte le questioni (di matematica, di astronomia, di tecnica) a cui si interessò conseguì risultati di rilievo.
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percussione: così, ancorché false, non distruggono nulla nel resto della sua fisiu ». In effetti pare che lo stesso Descartes non ritenesse tali regole necessarie per la sua fisica; è bene però sottolineare che ciò non implicava una rinuncia al calcolo preciso dell'urto fra i corpi, ma solo il fatto che, per «l'analisi immaginativa» dei fenomeni naturali, tipica dei Principia philosophiae, era sufficiente che tale calcolo fosse implicito. Rilevate le contraddizioni delle regole cartesiane e il loro disaccordo con l'esperienza, Huygens ritenne, nel I656 (è di quest'anno il suo primo trattato sull'argomento), di aver formulato delle leggi esatte sul fenomeno della percussione. Non pubblicò i suoi risultati, ma ne parlò con amici e corrispondenti, e discusse le sue regole negli ambienti scientifici di Parigi e di Londra, ove si era recato, rispettivamente nel I66o e nel I66I, ravvivando così l'attenzione su di un problema che era allora di grande attualità. La Royal Society si mostrò particolarmente interessata, tanto che la questione delle leggi dell'urto fu posta all'ordine del giorno il I6 gennaio I667: Wren, 1 Huygens e poi Wallis furono invitati a mandare i risultati dei loro lavori. Le memorie di \Vren e di Wallis (dedicate rispettivamente allo studio dei corpi elastici e non elastici) furono pubblicate nelle « Philosophical transactions » l'I I gennaio I 669; la comunicazione di Huygens (riguardante anch'essa il caso di urto fra corpi elastici e contenente leggi analoghe a quelle trovate per via empirica da Wren) fu pubblicata solo più tardi, dopo che Huygens, irritato per il fatto che la sua memoria non era stata pubblicata insieme a quella di Wren, aveva inviato al « Journal cles savants » una lettera (pubblicata nel marzo I669), in cui dava l'annuncio delle sue leggi e si lamentava del comportamento della Royal Society. Le leggi dell'urto furono esposte da Huygens in modo rigoroso e con le relative dimostrazioni nel classico trattato De motu corporttm ex percussione (pubblicato postumo nel I 70 3). La dimostrazione si basa su cinque ipotesi fondamentali: I) il principio di inerzia; z) un postulato per il quale si ammette che due corpi duri, eguali e con eguale velocità, si separano con la medesima velocità che avevano prima dell'urto (è implicito in ciò il riferimento a corpi elastici); 3) un principio di relatività molto importante reso chiaro mediante l'artificio di considerare il fenomeno come svolgentesi su una barca che scorre su di un fiume; e inoltre due altre ipotesi per le quali si ammette 4) che quando un corpo più grande incontra un corpo più piccolo in riposo gli comunica un certo movimento perdendo una parte del movimento di cui era dotato prima dell'urto, e che 5) quando due corpi si incontrano, se uno di essi conserva il suo movimento, lo conserva anche l'altro. Sulla base di questi postulati Huygens dimostra quindi che quando un corpo incontra un altro corpo eguale in riposo quest'ultimo prende la velocità che 1 Christopher Wren nacque a East Knoyle nel 1632. Studiò a Oxford, dove divenne professore di astronomia. Fu uno degli scienziati che maggiormente contribuirono alla fondazione della
Royal Society. Oltre che di meccanica e di astronomia, si occupò anche di matematica con notevoli risultati; è però noto soprattutto come architetto. Morì nel 1732.
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aveva il primo, il quale entra in riposo (proposizione 1 ). Il fenomeno avverrà infatti nella forma ammessa nell'ipotesi 2 per un osservatore posto nella barca e nella forma della proposizione 1 che si vuoi dimostrare, per un osservatore posto sulla riva, qualora la barca si muova con la velocità CE di uno dei due corpi: la velocità della barca si somma con quella del corpo urtante F (la velocità FE è doppia di CE e si ha quindi zv e O prima dell'urto e O e zv dopo l 'urto. La dimostrazione è analoga nel caso in cui si urtino due corpi uguali con velocità disuguali: i corpi si scambiano reciprocamente le velocità. Huygens inoltre dimostra, sviluppando l'assunto galileiano della infinita potenza della percossa, che un corpo, per grande che sia, è messo in movimento qualora sia spinto da un corpo, per piccolo che sia. A questa proposizione, chiaramente rivolta a confutare la quarta legge cartesiana dell'urto, segue l'importante proposizione rv che afferma essere eguale la velocità relativa di avvicinamento e di allontanamento, dei due corpi. Il caso generale per l'urto diretto dei due corpi ineguali è dato dalla proposizione vm. Infatti, come per i corpi eguali si è mostrato per tutti i casi in che modo un movimento si trasferisce all'altro, una volta concesso che dei corpi eguali che si incontrino con eguale velocità rimbalzino in modo eguale, così si possono determinare i casi d'incontro fra corpi di grandezza diversa riducendoli al caso di due corpi ineguali, con velocità inversamente proporzionale alle grandezze, in cui, dopo l 'urto, ritornano con la medesima velocità che avevano prima (enunciato della proposizione vm). La dimostrazione si basa sul principio che il centro comune di gravità dei corpi il cui moto provenga dalla gravità non può elevarsi, e si avvale della rappresentazione delle velocità con le altezze da cui possono scendere o risalire i corpi prima e dopo l 'urto. È degno di nota il fatto che Huygens abbia ben presente nella sua analisi i due principi essenziali della meccanica dell'urto, quello della conservazione della quantità di moto (non però in senso assoluto, come voleva Descartes) e della conservazione della forza viva (che permane appunto inalterata nel caso dell'urto fra corpi elastici) espressa nella proposizione xr. «La somma delle grandezze moltiplicate per i quadrati delle loro velocità sarà eguale prima e dopo l'urto. » La questione delle quantità di movimento e della forza viva fu del resto una delle più note discussioni scientifiche della seconda metà del Seicento: in essa furono particolarmente impegnati i cartesiani e Leibniz, a cui si deve l 'introduzione del termine forza viva per indicare l'energia cinetica. Ma forse ancor più essenziali per la fondazione di una dinamica di più corpi furono gli studi di Huygens sui centri di oscillazione e sulle forze centrifughe, in quanto si trattava di valutare in modo preciso relazioni molto complesse relative ad un corpo in movimento. È noto che fu Mersenne il primo ad impostare le ricerche sul centro di oscillazione dei corpi. Egli partì dalle osservazioni di Bernardino Baldi (I 553-1 6 I 7) sulla ricerca del punto di una spada in cui il corpo risulta essere più efficace. Mersenne osservò che il punto di massima ·percussione
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doveva dipendere dalla figura della spada: quel che importa sottolineare è però il fatto che Mersenne generalizzò il problema collegando il centro di percussione con il centro di agitazione o di oscillazione di un corpo in movimento sospeso. Egli sollecitò le osservazioni del padre Honoré Fabri (I6o7-I688), Descartes e Roberval sul modo di trovare il centro di oscillazione e interessò anche Huygens nel I 646, quando ancora era un giovinetto, alla questione. I risultati degli studi sul centro di oscillazione che lo scienziato olandese condusse in stretto collegamento con la sua attività di costruttore di orologi, sono esposti nella sua opera monumentale l' Horologium oscillatorium (I 67 3) e costituiscono indubbiamente il più geniale contributo dato da Huygens allo sviluppo della meccanica. Egli puntualizza il problema studiando il pendolo fisico o composto che definisce come « quel pendolo che consiste di più pesi i quali mantengono tra loro e con l'asse di oscillazione distanze eguali. Perciò qualsiasi figura sospesa e fornita di gravità, può essere detta un pendolo composto, dal momento che è concettualmente divisibile in un numero qualunque di parti ». Le parti del corpo appeso che costituisce il pendolo fisico si comportano come altrettanti pendoli dotati di una particolare durata di oscillazione; per calcolare il valore unico del centro di oscillazione del corpo, Huygens si volge a stabilire la durata intermedia delle oscillazioni delle singole particelle, resa equivalente a quella di un pendolo semplice, isocrono al pendolo composto. Il principio su cui si basa la dimostrazione di Huygens è quello che, come si è visto, aveva già utilizzato nello studio delle leggi dell'urto e che costituisce una modificazione in senso dinamico di un principio fondamentale della statica, formulato da Torricelli, per il quale il centro di gravità di un sistema materiale che resti in equilibrio si trova nel punto più basso. Esso è così enunciato da Huygens: « Se si suppone che un numero qualunque di pesi inizi il suo movimento in forza della propria gravità, il loro comune centro di gravità non si potrà innalzare a un'altezza. superiore a quella alla quale si trovava all'inizio del movimento. » Ciò comporta che nel pendolo la velocità di discesa del peso sia esattamente eguale a quella della salita in punti simmetrici rispetto alla posizione di equilibrio; per cui, eliminata la :resistenza dell'aria e tolto qualsiasi altro ostacolo, il peso deve risalire alla medesima altezza da cui è disceso. Tale principio - osserva, tra l'altro, Huygens - rende sterili gli sforzi volti a realizzare il moto perpetuo con mezzi meccanici. Applicando il principio suddetto e notando che le velocità delle particelle materiali del pendolo sono proporzionali alle distanze dell'asse di sospensione e che il movimento delle part~.:elle è, sottoposto alle leggi che regolano la caduta dei gravi, per cui le altezze di caduta delle particelle stanno fra loro come i quadrati delle velocità, Huygens giunse a stabilire che la lunghezza del pendolo semplice iso crono al pendolo composto (cioè la cosiddetta lunghezza ridotta del pendolo composto) è data dal rapporto fra la somma dei pesi delle particelle materiali del pendolo composto moltiplicate per i quadrati delle loro rispettive distanze
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D
N
A
Disegno tratto dall' Horologium oscillatorium di Christiaan Huygens (e,j, g sono le distanze AD, BD, CD).
dall'asse di sospensione e, j, g... (tale somma suole venire chiamata momento d'inerzia del pendolo composto rispetto all'asse di sospensione) e il prodotto della somma dei pesi a, b, c... (questa somma non è altro che il peso complessivo del pendolo composto) per la distanza del baricentro del pendolo dal medesimo asse di sospensione. Di grande importanza, e anch'essi volti nella direzione di valutare in modo preciso la dinamica di più corpi, furono gli studi di Huygens sul movimento circolare e in particolare sulla forza centrifuga. La questione della forza centrifuga era stata affrontata già da Keplero (il quale aveva sostenuto contro coloro che affermavano che, se la Terra girasse, i mobili sarebbero scagliati in aria, l 'esistenza di una virtus attractoria che avrebbe tenuto legate le pietre alla Terra), particolarmente da Galileo e Descartes. Galileo aveva a sua volta affrontato il problema fisico del comportamento dei mobili in relazione alla velocità della rotazione terrestre. Nel Dialogo dei massimi sistemi aveva sostenuto la falsità dell'opinione tradizionale. Dice infatti Salviati: «Noi aviamo sin qui trapassato e conceduto a Tolomeo come effetto indubitabile, che procedendo lo scagliamento dd sasso dalla velocità della ruota mossa intorno al suo centro, tanto si accresca la causa di esso scagliamento, quanto la velocità della vertigine si augmenta; dal che si inferiva che essendo la velocità della terrestre vertigine sommamente maggiore di quella di qualsivoglia macchina che noi artifiziosamente possiam far girare, l'estrusione in conseguenza delle pietre e de gli animali etc., dovesse esser violentissima. Ora io noto che in questo discorso è una grandissima fallacia, mentre noi indifferentemente ed assolutamente paragoniamo le velocità tra di loro. » Egli invece aveva posto in relazione lo scagliamento della pietra con il raggio della circonferenza di rotazione e osservato che la causa della proiezione diminuisce al crescere del raggio.
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Anche Descartes aveva più volte considerato il movimento circolare e il comportamento di un sasso roteato da una fionda: aveva inoltre posto come una delle regole generali del suo sistema il fatto che il movimento circolare fosse una risultante e che le parti del corpo tendessero sempre a continuare in linea retta il loro movimento. I risultati degli studi di Huygens sull'argomento, che si rifanno in particolar modo a quelli cartesiani, furono esposti per la prima volta, alla fine dell' Horologium oscillatorium, sotto la forma di semplici proposizioni; già però nel 16 59 lo scienziato olandese aveva composto un trattato specifico De vi centrifuga, pubblicato postumo nel 1703. Huygens, che considerava come naturali, secondo una lunga tradizione, solo il movimento rettilineo e quello circolare, pare abbia creduto per lungo tempo che il movimento circolare fosse assoluto (per quanto riguarda il movimento rettilineo fu sempre relativista) e solo verso la fine della vita, in contrasto con Newton, assunse una concezione relativistica generale del movimento. Questa sua nota è abbastanza significativa: « Il movimento retto non è che relativo tra diversi corpi, il circolare altra cosa e ha il suo kriterion (costituito dalla tensione del filo che regge il peso in movimento) che il retto non ha.» Per studiare la forza centrifuga, che Huygens considera una forza reale analoga a quella di gravità, si avvale di un originale artificio che gli permette di studiare il fenomeno. Suppone che un uomo, che abbia tra le mani un filo con peso attaccato all'estremità, sia legato ad una ruota che si muove attorno al proprio asse. Ad ogni piccolo spostamento dell'uomo, rappresentato da un arco di cerchio sulla circonferenza della ruota, il peso, se fosse lasciato libero, percorrerebbe un tratto uguale all'arco di cerchio rappresentabile sulla tangente alla circonferenza. Ora, per l 'uomo il filo è diretto sempre come un prolungamento del raggio di rotazione, e le distanze in cui si porrebbe il peso crescono come la serie dei quadrati a partire dall'unità, in relazione al punto (sulla ruota) in cui si suppone sia stato lasciato libero. Il peso però non cade esattamente sulle rette di prolungarilento del raggio di rotazione: sussiste un piccolo scarto verso il punto di inizio del movimento, per cui il peso si muove non lungo una retta che parta dal centro della ruota, ma secondo una curva che tocca la retta nel punto in cui l 'uomo si trova. Il rapporto tra la retta e la curva rappresenta il rapporto della forza centrifuga con quella di gravità: per i momenti iniziali del moto, linee curve e rette, essendo prese secondo un rapporto minore di qualsiasi rapporto immaginabile, sono praticamente eguali e la forza centrifuga corrisponde a quella di gravità. L'importanza della determinazione precisa della forza centrifuga fu ben colta dallo stesso Huygens, anche in relazione alla teoria newtoniana dei movimenti dei corpi celesti, come ben risulta da questa sua nota: « Mi meraviglio che Newton si sia preso la briga di costruire tanti teoremi e come una teoria intera delle azioni dei corpi celesti. Dico la sua ipotesi per cui tutte le piccole particelle dei diversi corpi si attirano mutuamente, e ciò in ragione doppia reciproca delle distanze. Ha potuto essere condotto alla sua teoria delle orbite ellittiche dal libro di Barelli sul
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movimento dei satelliti di Giove, che considera anche la diminuzione della pesantezza per l'allontanamento (sebbene non ne abbia notato la proporzione) e cerchi di trovare le orbite ellittiche per mezzo della forza centrifuga che controbilancia la pesantezza, ma non ha saputo penetrare i veri fondamenti come Newton che ha avuto il vantaggio di conoscere la misura della forza centrifuga per mezzo dei teoremi che ho dato io. » Da questo passo risulta anche la diffidenza di Huygens per la teoria newtoniana dell'attrazione. In effetti, malgrado le numerose critiche su punti precisi della fisica di Descartes, l 'impostazione generale delle ricerche huygensiane fu sempre meccanicistica, nel senso cartesiano del termine, anche se la sua teoria corpuscolare della materia è più collegabile all'atomismo gassendista che non alla teoria cartesiana degli elementi. L'esigenza cartesiana di una fisica « intelligibile », fondata su principi chiari ed evidenti, quali sono quelli che dipendono dai corpi considerati senza qualità, e dai loro movimenti, rimarrà sempre una costante nella sua multiforme attività scientifica. Descartes era stato l'autore sul quale si era formato, che aveva suscitato in lui grande entusiasmo e per il quale aveva composto, all'indomani della morte, versi pieni di devota ammirazione: per tutta la vita egli si sentì un continuatore di Descartes, molto più fedele alla sostanza che non alla lettera del suo pensiero. Così si esprime in proposito nella prefazione al Discours de la cause de la pesanteur: «Ma siccome la maggior difficoltà consiste nel far vedere come tante cose diverse sono effettuate da quei soli principi, è per ciò che non è molto riuscito in parecchi soggetti particolari che si è proposto di , esaminare, tra i quali è, tra gli altri, quello della pesantezza. Se ne giudicherà dalle note che faccio in alcuni luoghi su ciò che ne ha scritto; ad esse avrei potuto aggiungere altre. E tuttavia confesso che i suoi saggi e le sue vedute, ancorché falsi, sono serviti ad aprirmi il cammino verso ciò che ho trovato su questo medesimo soggetto. » L'opera di Huygens va intesa dunque essenzialmente come uno sviluppo armonico della prospettiva meccanicistica cartesiana nel senso che tende a costituire le premesse fondate, quantitativamente determinate, per uno studio «concreto» della natura: esemplare è da questo punto di vista l'analisi del pendolo composto, che rappresenta senza alcun dubbio il primo rilevante successo nella costituzione della dinamica dei solidi. I mezzi matematici di cui si avvale Huygens sono ancora sostanzialmente quelli geometrici tradizionali: in questo senso Huygens si può considerare l 'ultimo grande scienziato archimedeo. Le dimostrazioni sono però di un rigore esemplare: una delle esigenze più sentite di Huygens fu appunto quella di formulare i propri teoremi con rigore euclideo e questo spiega perché tardasse tanto a pubblicare i risultati dei suoi studi e molti opuscoli e trattati rimanessero inediti. I nuovi procedimenti infinitesimali furono solo parzialmente usati da Huygens e rimasero sostanzialmente estranei ai suoi interessi, anche per quell'esigenza cartesiana di intelligibilità tipica del suo pensiero. Invece, fu proprio in virtù del nuovo strumento matematico del calcolo che la meccanica poté essere impostata su nuove basi. Con l'opera di Newton, in cui tutte le ricerche
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anteriori trovano il loro coronamento e la loro sistemazione generale, si può dire che inizi, nello sviluppo della disciplina in questione, una nuova era.
b) L'astronomia Il tema predominante attorno a cui, per tutto il Seicento, si svolge il dibattito scientifico nel campo dell'astronomia è costituito dal copernicanesimo. Nella prima metà del secolo la ricerca volta a corroborare la veridicità e la fondatezza della teoria eliocentrica è strettamente collegata con la polemica contro la tradizionale concezione tolemaica. Si trattò di una battaglia che vide impegnati i maggiori esponenti della nuova scienza, tutti più o meno fautori dell'eliocentrismo, e .che ebbe il suo maggiore alfiere e la vittima più illustre in Galilei. La battaglia fu lunga, difficile e tenacemente combattuta perché, lungi dall'essere una semplice controversia scientifica, la dottrina eliocentrica costituì il più appariscente elemento di rottura di una tradizione culturale e scientifica che si era fortemente saldata con le strutture, dottrinarie e istituzionali, del potere ecclesiastico. I modi con cui i vari copernicani condussero questa lotta (conclusasi con la loro completa vittoria) furono diversi: si va dall'aperta polemica ad una prudenza perfino eccessiva. Quel che importa però sottolineare è che il copernicanesimo fu solo uno degli elementi del complesso rinnovamento, scientifico e culturale, che si venne operando nella prima metà del Seicento. Nella lotta contro la tradizione, lotta necessaria per la fondazione della scienza moderna, la polemica culturale si confonde spesso con quella politica, ed è molto difficile distinguere i due momenti. Ora, il motivo per cui il copernicanesimo è stato sopravvalutato dalla tradizione storiagrafica, consiste essenzialmente nel fatto che esso fu il centro della battaglia politica condotta dai fondatori della scienza moderna: dal punto di vista generale dell'evoluzione progressiva della conoscenza, il copernicanesimo va valutato solo come una conseguenza (certo la più notevole e quella di più immediata evidenza) della nuova scienza del movimento. « È ugualmente improbabile che i due primi principi della dinamica siano stati concepiti a priori (per rimpiazzare un sistema condannato come insufficiente) o che siano stati stabiliti a posteriori (seguendo i procedimenti del metodo sperimentale).. Al contrario l'origine di questi principi si rischiara immediatamente, se si avvicina l'ipotesi copernicana alle tesi di Aristotele: questi principi sono stati, di fatto, delle macchine da guerra costruite per difendere il sistema di Copernico, e sono non solo così appropriate a questo scopo,. ma ancora così indispensabili che si deve considerarle come delle conseguenze immediate di questo sistema, conseguenze già dedotte dal suo autore. Se non le ha formulate esplicitamente, è fino a lui nondimeno che bisogna farle :risalire logicamente. » Asserzioni così neùe e :recise, come questa che si :ricava dal passo citato di P. Tanne:ry, sono, a mio parere, difficilmente sostenibili, come pure quelle che, con diversa motivazione, tendono a po:r:re in rilievo come carattere essenziale della scienza moderna l'apertura mentale e l'allargamento psicologico derivanti dalla
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scoperta dell'infinità del mondo, conseguenza immediata della rottura del cosmo tradizionale operata dal copernicanesimo. Il giudizio di Tannery deve essere rovesciato; infatti la dottrina copernicana fu entusiasticamente accolta e sostenuta dagli scienziati meccanicisti perché, allo stesso modo che la teoria della circolazione del sangue, offriva una base per corroborare efficacemente la nuova concezione del movimento. È noto che il dibattito sul copernicanesimo divenne particolarmente impegnativo sul piano culturale e politico, quando l 'interesse, per opera specialmente di Galileo, si spostò dall'ambito specificamente astronomico a quello più propriamente fisico, quando cioè venne inserito nella più ampia discussione sui principi generali della natura. La scoperta della incompatibilità della fisica archimedea con quella tradizionale e l'analisi articolata dei singoli problemi, come per esempio il moto di un proiettile, posti in forma precisa da esigenze di ordine tecnico, con la coscienza della incapacità di dominare tali fenomeni con l'ausilio degli strumenti teorici tradizionali, aveva, per così dire, costretto i fondatori della scienza moderna a portare alle estreme conseguenze il processo di critica alla concezione aristotelica del movimento. Non occorre ricordare che il tema principale dei Dialoghi galileiani è appunto la critica della nozione aristotelica del movimento, e che tale critica coinvolgeva necessariamente la cosmologia aristotelica e tolemaica, fondata sul principio che la Terra fosse il centro dell'universo e il punto di riferimento di ogni movimento. È stato giustamente affermato da parte degli storici che la dottrina copernicana rimane ancora sostanzialmente legata agli schemi metodologici tolemaici, malgrado la sua nuova prospettiva generale. In effetti la teoria copernicana divenne veramente il punto di riferimento essenziale della rivoluzione astronomica, quando essa fu assunta da Keplero 1 come la base per la critica radicale di alcune delle convinzioni fondamentali della concezione tradizionale. Come bene ha rilevato Koyré, per Keplero la grande superiorità del sistema copernicano rispetto a quello tolemaico non consiste solo nella sua maggior semplicità (credenza già viva ai tempi di Copernico stesso e ribadita dallo stesso Keplero) ma nel fatto« di poter spiegare delle cose che, per Tolomeo, non sono che dei dati bruti dell'osservazione; di poter così spiegare- e, per ciò stesso, sopprimere - certe irregolarità apparenti dei movimenti pianetari - stazioni, retrogradazioni- che Tolomeo è obbligato ad ammettere e che Copernico spiega; e li spiega inoltre tutti, e nel medesimo tempo, con un fattore unico, cioè il movimento della Terra e la variazione dei rapporti relativi tra il luogo occupato da quella sulla sua orbita, e quelli c~e gli altri pianeti occupano sulle loro; di poter spiegare - ciò che Tolomeo è incapace di fare - perché i pianeti inferiori non possono mai allontanarsi dal Sole e mettersi in opposizione con esso come fanno i pianeti superiori; di poter spiegare del pari - ancora qualcosa che Tolomeo è obbligato a ricevere come un semplice fatto- perché in questi ultimi, l'apogeo è sempre in congiunzione, e il perigeo sempre in opposizione col Sole; perché, nel sistema dei I
Alcune essenziali notizie biografiche su Kcplero vennero già fornite nel cap.
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VI
della sez. m.
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cerchi su cui si muovono i pianeti, ce n'è sempre uno- il deferente dei pianeti inferiori e l'epiciclo dei pianeti superiori- che compie il suo circuito nel medesimo tempo che il Sole compie il proprio ». Sostanzialmente, per Keplero, la grande efficacia del copernicanesimo risiedeva nel fatto che esso permetteva di soddisfare meglio quelle esigenze, sistematiche e strutturali, che sono preminenti nell'opera dell'astronomo tedesco, largamente influenzato dalla tradizione pitagorica e platonica. L'obiettivo fondamentale cui Keplero tenderà per tt;~.tta la sua vita sarà pertanto fondamentalmente quello di superare l'eccessivo frazionamento dell'astronomia antica, che spiegava separatamente il movimento di ciascun pianeta e non si preoccupava di dare una spiegazione reale dei fenomeni celesti; Keplero, infatti, prende una posizione risoluta ed energica contro le interpretazioni « ipoteticistiche » elaborate fin dall'antichità, per cui le teorie astronomiche dovevano essere intese come meri modelli matematici atti a « salvare i fenomeni »: tale interpretazione era divenuta abituale ai fini di evitare conflitti con gli ambienti ecclesiastici ed era stata fatta valere anche a proposito della teoria copernicana da Osiander nella sua prefazione al De revolutionibus orbium coelestium. Significativo, a questo proposito, è l'avvertimento che il teologo Hafenreffer dà al giovane Keplero, il quale voleva inserire nella sua prima opera, il Mysterium cosmographicum, un capitolo introduttivo sulla concordanza tra teoria copernicana e sacra scrittura. Egli tra l'altro così si esprime: « Se il mio fraterno consiglio ha, come fermamente spero, qualche rilievo, comportatevi, nel dimostrare ipotesi siffatte, da puro matematico, senza preoccuparvi se ciò corrisponde o no alle cose create. Credo che il matematico abbia conseguito il suo fine, se propone ipotesi tali che ad esse i fenomeni corrispondano il più esattamente possibile e voi stesso, credo, vi pieghereste a chi potesse produrne di migliori. » La risposta di Keplero palesa chiaramente la sua incapacità di cogliere le ragioni dell'atteggiamento del teologo che, mentre da un lato sollevava obiezioni su delle teorie per il fatto che potrebbero offendere l 'animo di molti cristiani, dali 'altro lo invitava a perseverare strenuamente in tali ipotesi, qualora esse fossero ristrette all'ambito astronomico. L'imbarazzo del giovane astronomo, manifesto nella sua significativa espressione: « Che fare? », è estremamente indicativo del clima culturale dell'epoca, come lo è il comportamento verso cui infine egli propende, quello di professare, come i pitagorici, le proprie idee in privato e di non esporle pubblicamente. L'atteggiamento antologico è quindi strettamente collegato in Keplero, come nei fondatori della scienza moderna, con quello scientifico: la ricerca di teorie maggiormente esplicative fa tutt'uno con la ricerca delle strutture reali. « La conseguenza vera da premesse false,» dice Keplero, «è fortuita, e la sua naturale falsità sidisvelada sé, non appena viene accomodata ad una cosa affine, a meno che non si conceda a colui che argomenta così di assumere infinite altre proposizioni e di non fermarsi mai nella progressione e nella regressione. » La credenza nella « verità » della dottrina copernicana era profondamente radicata in Keplero perché soddisfaceva pienamente al-
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l'esigenza, tipicamente razionale, di stabilire un ordine nell'universo, e ciò costituiva una indubbia presunzione di verità. La ricerca delle strutture reali dell'universo è appunto il tema precipuo del Mysterium cosmographicum; essa costituisce, si può dire, la tendenza di fondo di tutta l'opera di Keplero. Il copernicanesimo è dunque per Keplero solo il punto di partenza per lo studio degli elementi strutturali dell 'universo che egli conduce sulla scorta degli strumenti matematici del pitagorismo e del platonismo, fondati sulle proprietà armoniche e simmetriche delle figure geometriche. Il presupposto di base da cui parte è che i corpi celesti debbano essere stati creati da dio secondo un preciso piano architettonico: dopo un lungo travaglio, egli ritenne di avere trovato tale piano ponendo in rapporto le orbite dei pianeti con i cinque solidi regolari. Il modo con cui stabilisce le relazioni è esposto da Keplero in modo succinto nella prefazione al Mysterium. Così egli si esprime: « La Terra è la sfera che misura tutte le altre. Circoscrivi ad essa un dodecaedro: la sfera che lo comprende sarà Marte. Circoscrivi a Marte un tetraedro : la sfera che lo comprende sarà Giove. Circoscrivi a Giove un cubo: la sfera che lo comprende sarà Saturno. Ora iscrivi alla Terra un icosaedro: la sfera iscritta ad essa sarà Venere. Iscrivi a Venere un ottaedro: la sfera iscritta ad essa sarà Mercurio. Hai la ragione del numero dei pianeti. » La tendenza ad unire strettamente la ricerca esplicativa con quella eminentemente antologica si rivela chiaramente nel fatto che Keplero si pone già in quest'opera il problema delle cause fisiche del movimento dei pianeti e introduce un'importante modificazione nella teoria copernicana. Il problema essenziale di Keplero era quello di porre il più esattamente possibile le orbite dei pianeti entro l'impianto strutturale da lui elaborato e fondato sui solidi regolari. Quel che interessava a Keplero era pertanto una correzione dei dati di Copernico, i quali erano viziati dal fatto che l 'astronomo polacco, sebbene avesse posto il centro di tutto l'universo nel Sole, per aiutarsi nel calcolo e per non allontanarsi troppo da Tolomeo e turbare così il lettore, aveva calcolato le distanze e i luoghi dei pianeti non in relazione al centro del Sole, ma a quello dell'orbita terrestre. Egli osservò che l'intento di Copernico non era cosmografico, ma astronomico e quindi per lui non era molto importante stabilire l'esatta proporzione delle orbite dei pianeti, essendo per lui necessario trovare, sulla base delle osservazioni, dei numeri atti a computare i movimenti e i luoghi dei pianeti. La differenza tra il suo atteggiamento fisico e quello tradizionale astronomico nella considerazione dei corpi celesti fu pertanto ben colta dallo stesso astronomo tedesco; il suo comportamento in tal senso fu oggetto di dispute fra i contemporanei. La modificazione della teoria copernicana, certo una delle più ·grandi scoperte di Keplero, era di grande importanza per l'astronomo tedesco, soprattutto perché aveva un evidente significato fisico: i piani delle orbite dei pianeti si intersecavano infatti in un punto non immaginario ma reale, e tutto il sistema era così collegato al Sole, da cui si spandeva quella forza motrice che spiegava il movimento dei pianeti. Qui già Keplero si pone non solo il problema di una 411
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forza unica (anima motrice) che spieghi il moto dei pianeti, ma anche quello di un calcolo di essa che intende decrescente al crescere della distanza dal Sole. Il lavoro successivo di Keplero fu determinato dalla ricerca di dati e di osservazioni precise relativamente alle distanze e alle eccentricità dei pianeti al fine di provare la sua teoria cosmologica. Di grande importanza per questa sua prospettiva fu l'incontro che ebbe con Tycho Brahe, che aveva raccolto una massa di osservazioni estremamente precise in relazione ai mezzi di osservazione del tempo. Nel r6oo Keplero si recò in Boemia dove poco tempo prima l'astronomo danese si era trasferito al servizio dell'imperatore Rodolfo n; divenne collaboratore di Tycho che gli affidò lo studio del movimento di Marte. In questo fatto Keplero vide un effetto della divina provvidenza, poiché, egli dice, « per giungere alla conoscenza degli arcani dell'astronomia, si deve assolutamente passare attraverso i moti di Marte, oppure essi ci resteranno perpetuamente celati». Lo studio di Marte era infatti particolarmente difficile a causa della grande eccentricità della sua orbita. Le osservazioni preliminari di Keplero sono di critica alla teoria di Marte elaborata da Tycho costruita sulla base delle opposizioni di tale pianeta con il Sole: essa calcolava abbastanza bene le longitudini ma non le latitudini. La critica di Keplero assume come punto di partenza ancora il riferimento al Sole vero per lo studio dell'orbita del pianeta, ed era ancor più radicale in quanto rompeva uno dei cardini delle concezioni fisiche tradizionali, quello dell'uniformità reale del movimento dei pianeti, cui Copernico si era mantenuto scrupolosamente fedele. Per essere in grado di eliminare l 'irregolarità del movimento del pianeta Copernico e Tycho avevano infatti posto il centro dell'orbita nel centro dell'orbita terrestre (o nel Sole medio) e spiegavano l'irregolarità del movimento con l'eccentricità dell'orbita rispetto al centro dell'universo; avevano cioè considerato il centro dell'orbita come spostato rispetto al centro dell'universo, così come aveva fatto Tolomeo. Tale assunzione non era però sufficiente per spiegare il movimento del pianeta; Copernico e Tycho pertanto avevano introdotto nuovi cerchi con movimento uniforme .. Keplero invece si avvale del punctum aequans cioè dell'artificio usato da Tolomeo per rendere apparentemente uniforme il movimento dei pianeti; ciò implicava che Keplero era giunto a ritenere, proprio come Tolomeo, che il movimento reale del pianeta era non uniforme. Dopo calcoli molto laboriosi, egli riuscì a conseguire dei dati che si avvicinavano con una buona approssimazione alle osservazioni di Tycho (lo scarto era di soli z' r z"). Ma nel cercare una ulteriore conferma della sua teoria che egli in seguito designò con il nome di ipotesi vicaria, e servendosi del procedimento tolemaico nella bisezione dell'eccentricità, trovò invece un errore di 8' tra i calcoli e le osservazioni· relativamente alle posizioni del pianeta. Questi 8' furono molto importanti per lo sviluppo successivo dell'opera di Keplero. Egli osservò che Tolomeo poté acquietarsi benissimo, poiché l'errore era inferiore ai ro', cioè ai limiti di accuratezza, sotto il quale le sue osservazioni non potevano scendere. Ciò non era però 412.
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più possibile ai suoi tempi « dal momento che,» egli dice, «la bontà divina ci ha concesso Tycho Brahe, il più diligente degli osservatori: le sue osservazioni rendono palese l'errore di 8' del calcolo tolemaico su Marte ed è giusto che noi si riconosca con animo grato questo beneficio e che lo si coltivi. Ingegnamoci, cioè, di indagare la forma genuina dei movimenti celesti (sostenuti da questi argomenti sulle fallaci ipotesi accolte). Nel seguire tale via, io stesso precederò gli altri, in relazione alla mia misura. Se infatti avessi ritenuto di non dover tener conto di questi 8( di longitudine, avrei, con la bisezione dell'eccentricità, corretto a sufficienza l'ipotesi del capitolo xvr. Ora, poiché non si poté non tenerne conto, questi soli 8' mi suggerirono la via per riformare tutta l'astronomia». Proseguì pertanto la sua ricerca volgendo l 'attenzione al movimento della Terra: pensò che la Terra doveva comportarsi esattamente come gli altri pianeti e che doveva perciò muoversi in un modo realmente non uniforme. Provò tale assunzione con una originale argomentazione, prendendo cioè come punto di riferimento una posizione fissa nell'orbita di Marte e calcolando le distanze della Terra dal Sole e del Sole dal centro dell'orbita: giunse così ad avere il valore dell'eccentricità dell'orbita terrestre. La teoria relativa al movimento della Terra fu posta da Keplero in stretta relazione con la ripresa di quegli interessi per una esplicazione fisica, causale del movimento dei pianeti, presente in Keplero, come si è visto, fin dal tempo del Mysterium cosmographicum: ciò lo fece volgere verso una soddisfacente soluzione del problema. Invece di servirsi dell'equante tolemaico, cioè di un artificio matematico atto a compensare l'effettiva irregolarità di movimento, assunse in modo esplicito tale irregolarità e cercò di spiegarla in modo diretto. Pose che la causa del movimento dei pianeti si trovava in una forza centrale derivante dal Sole e che l'effetto di tale forza, soggetto a variazione in relazione alla distanza, combinato con una forza propria a ciascun pianeta, determinava l'irregolarità effettiva del movimento del pianeta e la sua eccentricità. Suppose pertanto che la forza motrice - che egli considera affine alla luce e alla forza magnetica - agisse in modo inversamente proporzionale alla distanza dal Sole e che il tempo impiegato dal pianeta per percorrere un piccolo arco dell'orbita fosse proporzionale alla distanza del punto dal Sole. Dopo aver provato ciò per i punti vicini agli apsidi, estese l'assunzione per ogni punto dell'orbita, risolvendo il problema grazie ad un metodo di integrazione analogo a quello usato da Archimede per trovare il valore di 1t. Keplero fu così in grado di dare la legge che misura la velocità di un pianeta lungo l'orbita (designata come seconda legge planetaria) e che viene così espressa: il raggio vettore dal Sole al pianeta copre aree eguali in tempi eguali. Si può sicuramente affermare che a questo stadio delle sue ricerche, Keplero avesse già maturato la sfiducia nella circolarità delle orbite planetarie: dopo aver supposto che l'orbita fosse ovale e dopo aver constatato che tale supposizione non corrispondeva perfettamente con i calcoli, giunse infine alla soluzione del problema osservando che, posto che l'orbita di Marte fosse ellit-
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tica, si aveva una corrispondenza soddisfacente con la legge delle aree. Keplero aveva così stabilito la prima legge planetaria: l'orbita di ogni pianeta è una ellissi e il Sole è uno dei fuochi. L'importanza della scoperta dell'ellitticità delle orbite planetarie è giustamente sottolineata dagli studiosi, in quanto essa ruppe, in modo esplicito, uno dei cardini della fisica tradizionale: la credenza nella circolarità dei moti dei corpi celesti. Lo stesso Keplero era ben conscio di ciò, ed egli stesso rileva l 'immane sforzo intellettuale che gli era costata. «Il mio primo errore, » egli dice in un passo famoso, « fu di credere che il percorso del pianeta fosse un perfetto circolo, e ciò fu una perdita di tempo tanto più nociva, quanto più insegnata dall'autorità di tutti i filosofi e quanto più conveniente con la metafisica. » La sua opera Astro~ nomia nova, octnoÀOY'YJ"6c;, seu p~ysica coelestis tradita commentariis de motibus stellae Martis (16o9), che fa ripercorrere, via via, al lettore le tappe della lotta per la conquista di Marte, è una delle più vive testimonianze di quanto travaglio psicologico e quanto coraggio intellettuale occorra per rompere una tradizione culturale. Le altre opere astronomiche di Keplero, Epitome astronomiae copernicanae (161 7) e Harmonices mundi (1619), costituiscono un ritorno ai temi pitagorici e platonici del Mysterium, cioè a quei genuini interessi cosmologici che sono alla base di tutta l'opera dell'astronomo tedesco. L'esigenza di comprendere il cosmo sulla base dello schema dei solidi regolari non viene abbandonato, ma, se mai, potenziato alla luce di un principio più generale, quello dell'armonia, che contiene in sé e trasvaluta il modello strutturale geometrico. L'armonia rappresenta quell'elemento unitario che dà un senso ai singoli fenomeni e li connette in una trama di relazioni strutturali: è la chiave che permette di comprendere la creazione divina e di adeguarsi ad essa. La scoperta della terza legge planetaria contenuta nell'Harmonices mundi (i quadrati dei periodi di rivoluzione dei pianeti sono proporzionali ai cubi delle loro distanze medie dal Sole) che stabilisce un legame fra i pianeti, è, del resto, in stretta relazione con la sua visione architettonica e organica del cosmo. Il ruolo che ebbe Keplero nella fondazione della scienza moderna è notevolissimo e consiste soprattutto nell'energico richiamo all'antologia che sottende tutta la sua opera, nel suo essere stato, come egli ha ben detto, non un astronomo, ma un cosmologo. Certo, gli strumenti concettuali di cui si avvale per la sua ricerca sono tradizionali: sono da un lato, gli strumenti della tradizione platonica, fondati sul principio dell'armonia del creato, e gli strumenti geometrici classici. Ciò non toglie che Keplero abbia saputo fondare la moderna dinamica celeste, riproponendo e riscoprendo quel proficuo connubio tra indagine teorica e verifica sperimentale che sta alle radici della scienza moderna. Ma, da un punto di vista strettamente filosofico, la sua più essenziale innovazione risiede nel fatto che, con la sua opera, contribuì in maniera determinante a mutare il senso dell'uso tradizionale della matematica nell'astronomia: gli strumenti matematici non sono più schemi geometrici introdotti per« salvare i fenomeni», ma veri e propri modelli di indagine atti a scoprire movimenti reali. Il meccanicismo non fu che una genera-
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lizzazione di questo procedimento, anche se in un quadro strutturale diverso, più innovatore, omogeneo e articolato di quello platonico, kepleriano. L'eccezionale rinnovamento che subì nel xvn secolo l'astronomia è dovuto tanto ai progressi conseguiti nella ricerca teorica che, prima di Newton, raggiunsero il loro culmine nell'opera di Keplero, quanto allo straordinario sviluppo, sia quantitativo che qualitativo, delle osservazioni. I cospicui risultati ottenuti nel campo dell'astronomia d'osservazione sono dovuti senza dubbio all'introduzione dei nuovi strumenti, principalmente del telescopio: le sensazionali scoperte compiute da Galileo costituirono un enorme incentivo per il diffondersi della pratica dell'osservazione scrupolosa del cielo. Numerosi furono per tutto il secolo gli astronomi amateurs: il più famoso di questi Nicolas Claude Fabri de Peiresc (158o-I637), amico di Gassendi, osservò la nebulosa di Orione e fece stendere la prima carta della luna. Nella seconda metà del secolo furono costituiti grandi osservatori astronomici, come quello di Parigi, fondato nel I667, a cui collaborarono Huygens, Jean Picard, 1 Adrien Auzout (I63o-I69I), Gian Domenico Cassini, 2 e quello di Greenwich, fondato nel I 67 5, in cui lavorarono Flamsteed 3 e Halley. 4 Le più importanti scoperte furono compiute da Huygens che individuò l'anello di Saturno e il più grosso satellite del pianeta, da Cassini che perfezionò lo studio di Saturno di cui scoprì altri quattro satelliti, e diede una tavola con valori precisi dei satelliti di Giove, da Flamsteed, a cui si deve soprattutto un catalogo di stelle, superiore per precisione a tutti quelli precedenti, e da Halley che apprestò egli pure un catalogo di stelle e studiò la cometa, conosciuta con il suo nome, apparsa nel I68I-8z. L'importanza di queste nuove scoperte e del conseguimento di misure più perfezionate non va sottovalutata: basti pensare al fatto che il raggiungimento di una grande precisione nella misura di un grado di meridiano, ottenuta da Picard nel I 669-70, permise a Newton di verificare la legge gravitazionale. La legge gravitazionale, lo strumento che permise a Newton di considerare unitariamente tutti i pianeti, rappresenta, del resto, solo l'ultimo anello di una lunga e faticosa ricerca teorica che si era protratta per tutto il secolo : la sua origine diretta si trova nel tentativo kepleriano di stabilire un collegamento tra i vari pianeti, riasI Jean Picard nacque a La Flèche. Fu professore di astronomia al Collège de France. Nel I669-70 eseguì, per incarico dell'Accademia, la misurazione dell'arco di meridiano tra Parigi ed Amiens. La pubblicazione dei risultati di tale misurazione avvenne nel I671. Morì nel I684. 2 Gian Domenico Cassini, capostipite di una illustre famiglia di astronomi, nato a Perinaldo nel I625, fu professore di astronomia a Bologna. Invitato in Francia da Colbert, ebbe l'incarico di organizzare l'osservatorio. Morì nel I7I2. Rinviamo al capitolo vur della sezione v per quanto riguarda la tesi da lui sostenuta circa la forma dello
sferoide terrestre e le polemiche che ne seguirono con i newtoniani. 3 John Flamsteed nacque nel I646 nei pressi di Derby e morì nel I7I9. Collaborò con Isaac Newton, fornendogli molti dati di osservazione. 4 Edmund Halley (Londra I 6 56 - Greenwich I742). Studiò ad Oxford; nel I676 andò nell'isola di S. Elena, ove rimase due anni per compiervi osservazioni sulle stelle australi; si recò inoltre nell'Atlantico occidentale (I698-17oo) per studiare il magnetismo terrestre. Nel I 720 divenne direttore dell'osservatorio di Greenwich. Su di lui si ritornerà brevemente nel capitolo vm della sezione v.
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sunto nella terza legge planetaria, i suoi sviluppi nelle ricerche di Boulliau,l Barelli, Hooke (considerati da Newton come suoi precursori), il suo culmine nella sintesi newtoniana. Nella grandiosa opera di Newton, che seppe costituire in modo unitario e preciso la dinamica celeste e la dinamica terrestre, trovarono una compiuta sistemazione tutti gli straordinari progressi compiuti dall'astronomia e dalla meccanica nel xvii secolo. c) L'ottica Gli studi di ottica che si svolsero nel xvii secolo apportarono numerose ed importanti innovazioni nello sviluppo di tale disciplina, ma esse devono essere considerate da un punto di vista particolare, in quanto si inserirono in un tessuto di ricerche tradizionali certamente meno sviluppato di quanto non fosse quello dell'astronomia o della meccanica. Scarsi e non certo grandemente innovatori furono infatti i progressi compiuti in tale disciplina nell'età rinascimentale. Praticamente furono gli studi di Keplero sulla teoria della visione e delle lenti, nonché quelli sulla rifrazione, che apportarono le prime sostanziali modificazioni rispetto all'ottica greca e medievale. Keplero viene giustamente considerato come il fondatore dell'ottica moderna: la sua opera costituì il punto di partenza obbligato per ogni ulteriore sviluppo in tale disciplina. La stessa, fondamentale, scoperta della legge di rifrazione, legata ai nomi di Willebrood Snell (qSo-1626) e di Descartes, è in gran parte dovuta alle ricerche di Keplero che avevano correttamente impostato il problema e avevano dato dei valori approssimati della legge. Keplero diede inoltre un'analisi corretta e precisa del processo di formazione della visione nell'occhio che fu il punto di riferimento costante per tutti gli studiosi dell'argomento dell'epoca: del pari classica rimase la sua formulazione della teoria del telescopio. Nel corso del secolo si analizzarono nuovi e importanti fenomeni ottici, come quello della diffrazione, scoperto dal gesuita Francesco Maria Grimaldi 2 e descritto nell'opera P~sico-mathesis de lumine, coloribus et iride (1665) e quello della doppia rifrazione che si manifesta quando un raggio di luce passa attraverso lo spato d 'Islanda, osservato da Erasmo Bartolino (I 62 5- I 698), e si ebbero alcune notevoli acquisizioni sperimentali, tra cui quella, importantissima, della determinazione della velocità della luce, compiuta da Ole R0mer (I644-17Io), sulla base dello studio delle eclissi dei satelliti di Giove. Malgrado la scoperta di questi nuovi e complessi fenomeni luminosi e malgrado le numerose ricerche che si vennero svolgendo lungo tutto il secolo, il raggiungimento di una soddisfacente teoria generale della luce fu un problema molto difficile. Formulazioni di stampo tradizionale erano pur sempre diffuse in pieno r L'astronomo Ismael Boulliau nacque a Londra nel r6o5 e morì a Parigi nel 1694. Tra le sue opere: De natura /ucù (1638), Astronomia philolaica (1645).
2 Francesco Maria Grimaldi (Bologna r6r8r663). Gesuita, dapprima insegnante di filosofia, insegnò poi matematica nel collegio di Bologna.
IVI
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Seicento: teorie astruse, come quella sostenuta da un autore di rilievo come Ismael Boulliau nel libro De natura lttcis, in cui si affermava (cosa che aveva suscitato il riso di Descartes) che« la luce era il medio proporzionale tra la sostanza e l'accidente », o teorie puramente verbali come quella, criticata da Pascal, del padre Noci, che definiva la luce «un movimento luminare di raggi composti di corpi lucidi, cioè luminosi», erano tutt'altro che rare. Non aveva tutti i torti padre Grimaldi il quale affermava che, « sebbene nessuno, che non sia cieco, può ignorare la presenza della luce, è tuttavia difficilissimo penetrare completamente la sua natura e la sua essenza ». Un rinnovamento teorico sostanziale si ebbe quando si applicarono allo studio dei fenomeni ottici i principi generali del meccanidsmo e si costituirono le prime moderne teorie della luce. A Descartes spettò il merito di aver dato la prima esplicazione generale dei fenomeni luminosi, in termini meccanicistici. L'esplicazione cartesiana della luce procede secondo il metodo chiarito in precedenza; si basa su alcuni modelli « sensibili », atti a rendere evidenti le caratteristiche essenziali dei fenomeni luminosi. Ciò è dichiarato in modo esplicito da Descartes nella Dioptrique. «Non c'è bisogno che mi accinga a dire veramente qual è la sua natura, e credo che basterà che mi serva di due o tre paragoni, che aiutino a concepirla nella maniera che mi sembra più comoda, per spiegare tutte quelle sue proprietà che l'esperienza d fa conoscere, e per dedurre in seguito tutte le altre che non possono essere notate così agevolmente. » Il modello principale assunto da Descartes per spiegare il particolare carattere del movimento o azione (propriamente una pressione) della luce e la sua istantaneità, è costituito da un bastone, nel senso che, quando è tenuto da un cieco o è tenuto nelle mani di una persona qualunque, quando è ali' oscuro, riesce a dare una qualche idea degli oggetti che sono attorno. «Quindi la luce non è altro, nei corpi che si chiamano luminosi, che un certo movimento o un'azione molto pronta e viva, che passa verso i nostri occhi per il tramite dell'aria e degli altri corpi trasparenti, allo stesso modo che il movimento o la resistenza dei corpi che incontra il cieco, passa verso la sua mano, per il tramite del suo bastone.» Un ulteriore modello, complementare del primo, viene introdotto da Descartes per spiegare la natura del mezzo trasparente, la materia sottile o particelle del secondo elemento attraverso cui si propaga la luce: questo è rappresentato dal vino che in un tino (in esso vi sono anche i grappoli che rappresentano le parti più grossolane dell'aria e dei corpi trasparenti) tende a fuoriuscire in linea retta da dei fori posti nel fondo del tino stesso. «Così tutte le parti della materia sottile che tocca il lato del Sole volto verso di noi, tendono in linea retta verso i nostri occhi nel medesimo istante che sono aperti, senza impedirsi le une con le altre e anche senza essere impedite dalle parti grossolane dei corpi trasparenti, che sono tra i due. » I fenomeni di riflessione e di rifrazione sono poi spiegati da Descartes con il modello di una palla che si infrange contro un ostacolo: i vari colori, inoltre, sono spiegati con particolari movimenti delle particelle del mezzo.
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Questi modelli, pur non essendo molto omogenei (e ciò è un indice del pragmatismo scientifico di Descartes), sono però tutti adeguati nel senso che danno una rappresentazione rigidamente meccanicistica dei fenomeni luminosi: essi sono tutti ricondotti a movimenti della materia e sono sottomessi esclusivamente, almeno in linea di principio, alle leggi dell'urto fra i corpi. La teoria cartesiana, a cominciare dall'assunto dell'istantaneità del movimento della luce posto in crisi dall'esperienza di R0mer, apparve però ai contemporanei poco fondata e soggetta a numerose critiche. Huygens giunse a scrivere che « a me e a molti altri è sempre parso che lo stesso Descartes il cui assunto è stato quello di trattare tutti gli argomenti di fisica in modo intelligibile e che, senza dubbio ha avuto in ciò più successo di tutti i suoi predecessori, non abbia detto nulla, nel trattare il problema della luce e delle sue proprietà, che non sia zeppo di difficoltà, quando non addirittura incomprensibile ». Ciò non toglie che la teoria della luce elaborata da Huygens ed esposta nell'opera Traité de la lumière (169o) fosse rigidamente meccanicistica e legata, per molti aspetti, alla teoria cartesiana. Dice, infatti, esplicitamente Huygens: «Non si può dubitare che la luce consista nel movimento di una determinata materia. E, infatti, sia che si consideri il suo prodursi, si trova che qui sulla terra essa è generata principalmente dal fuoco e dalla fiamma, i quali senza dubbio contengono dei corpi che sono in rapido movimento, dal momento che essi dissolvono e fondono molti altri corpi fra i più solidi, sia che se ne considerino gli effetti, si vede che, quando la luce è fatta convergere, come nel caso degli specchi concavi, essa ha la capacità di fondere come il fuoco, cioè a dire, di disunire le parti dei corpi, e ciò è sicuro segno di movimento, almeno nella vera filosofia nella quale le cause di tutti gli effetti naturali sono concepite meccanicisticamente. E, a meno di rinunciare per sempre a ogni speranza di comprendere alcunché in fisica, questo è ciò che a mio parere si deve fare. » Che la luce sia un fenomeno motorio e non una entità materiale viene provato da Huygens con l'assunzione che la teoria corpuscolare della luce contrasta sia con l'alta velocità della luce stessa, sia con il fatto che i raggi, quando provengono da diverse parti, non si ostacolano a vicenda. L'analisi della luce come un movimento di materia viene evidenziato mediante il tradizionale raffronto con il suono (la cui propagazione avviene chiaramente per onde) che Huygens svolge in dettaglio cercando di stabilire le caratteristiche e le differenze dei due fenomeni. Ora, mentre il movimento che determina la produzione del suono coinvolge interamente un oggetto, o una parte di esso, quello che provoca la luce si risolve in movimenti puntiformi dell'oggetto. È evidente inoltre che il suono si propaga attraverso l'aria dato che non si trasmette, come si può facilmente sperimentare, nel vuoto; la luce, invece, passa attraverso il vuoto e quindi occorre, a parere di Huygens, supporre l'esistenza di un mezzo, una materia eterea, idonea a spiegare il concretarsi del movimento che determina il fenomeno luminoso. Se si nota infine, che il suono si trasmette in virtù di una determinata reazione dell'aria alla compressione,
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manifestantesi nelle particelle dell'aria stessa immerse nella materia eterea, e che tale reazione (cioè la forza elastica) è tanto più grande quanto maggiore è la durezza delle particelle, risultano in modo abbastanza evidente le caratteristiche del modello di cui si avvale Huygens per spiegare le proprietà del mezzo attraverso cui si manifesta la luce. Data l'alta velocità della luce, Huygens è infatti portato a supporre che l'etere sia composto di particelle perfettamente dure ed elastiche, tali cioè da provocare una fortissima reazione e a spiegare però nel contempo, contro l'assunto cartesiano, che il movimento, pur essendo rapidissimo non è istantaneo, ma successivo, mercé l 'ausilio di un modello costituito da una fila di sfere: se si muove la prima, non si muovono tutte le rimanenti, ma solo l 'ultima, a cui si è comunicato il movimento trasferito dalle altre. Un altro modello meccanico (di tipo strettamente cartesiano) serve a Huygens per spiegare l'elasticità delle particelle: suppone, cioè, che le particelle eteree siano dotate di una particolare struttura atta a favorire e ad accogliere il passaggio di una materia sottile, e che tale passaggio determini appunto l'elasticità della sostanza. L'analisi della propagazione delle onde luminose viene operata sulla scorta delle regole della percussione nei corpi elastici studiati, come si è già visto, anteriormente da Huygens: da esse si può desumere, fra l'altro, l'utilità di studiare i fenomeni luminosi supponendo che le particelle siano eguali, « altrimenti si dovrebbe avere qualche riflessione del movimento all'indietro, quando esso passi da una particella maggiore ad una minore». Lo studio dell'urto sta, ovviamente, alla base anche del modo con cui Huygens cerca di spiegare la propagazione nell'etere delle onde luminose, dal momento che, appunto, egli concepisce che l'onda tragga la sua origine dalla percussione di ogni piccolo punto del. corpo luminoso (Sole, candela, ecc.). Per superare poi la difficoltà costituita dalla esiguità della forza che origina le piccole onde, che non sarebbe in grado di far apparire la luce alla nostra vista, Huygens introduce l'originale concezione dell'inviluppo delle onde; ammise cioè «che, a una grande distanza dal corpo luminoso, una infinità di onde, sebbene originate da differenti punti di tale corpo, si uniscono fra loro in modo da comporre all'apparenza una sola onda, la quale può ben avere l'intensità che basta a farsi percepire dagli occhi ». Sulla base di questo principio Huygens riuscì a spiegare la propagazione rettilinea della luce, la riflessione, la rifrazione e la doppia rifrazione: il quinto capitolo del trattato dedicato alla spiegazione di quest'ultimo fenomeno, capitolo che aveva suscitato l'ammirazione di Leibniz, viene unanimemente considerato dagli studiosi come un vero modello di indagine scientifica. La teoria ondulatoria huygensiana era abbastanza generale da poter spiegare tutti (o quasi tutti) i fenomeni luminosi allora conosciuti (è stato notato che Huygens non affrontò il problema della spiegazione della diffrazione e si è cercato di spiegare il fatto con la scarsa preparazione matematica relativamente alla cinematica e alla dinamica dei moti oscillatori che si aveva in quel tempo); essa si contrappose alla teoria corpuscolare elaborata da Newton (su cui si ritornerà nel
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capitolo xv). L'opposizione tra queste due teorie se si vuole, riprende, come è stato osservato, pur su di un piano diverso, il tradizionale dibattito sulla sostanzialità della luce, dibattito che sta al centro, per esempio, dell'opera di padre Grimaldi. L'analisi dei fenomeni luminosi fu uno dei primi argomenti delle ricerche di Newton, che ad essa fu spinto principalmente dai suoi tentativi volti a perfezionare il telescopio. I primi risultati degli studi di Newton sull'argomento sono contenuti nella memoria A ne1v theory about light and colours, pubblicata nei « Philosophical transactions »della Royal Society nel r672. Tale memoria propone la1celebre e rinnovatrice teoria dei colori, per la quale si afferma che i raggi di luce differiscono per la rifrangibilità e che i colori non sono qualificazioni della luce derivanti da rifrazioni o riflessioni dei corpi naturali, ma qualità originarie e connaturate della luce; che allo stesso grado di rifrangibilità corrisponde sempre lo stesso colore e viceversa (così i raggi meno rifrangi bili sono tutti disposti a mostrare il colore rosso e viceversa); che la specie del colore e il grado di rifrangibilità propri ad una particolare specie di raggi non sono muta bili per qualsiasi causa; che si hanno due specie di colori, i primari e i composti (tra questi viene posto il bianco, per la cui composizione occorrono tutti i colori primari in una determinata proporzione). In questa memoria Newton, diversamente che nelle Lectiones opticae, che raccolgono i corsi tenuti nel r669-71 come professore lucasiano a Cambridge in cui non si hanno allusioni circa la natura della luce, indulge a sostenere, sia pur cautamente, dopo avere esposte le sue esperienze con il prisma, la natura sostanziale della luce. «Non conosceremmo i corpi come sostanze se non fosse per le loro qualità sensibili: essendosi ora trovato che la principale tra queste è dovuta a qualcosa d'altro, abbiamo una buona ragione per credere che esso (la luce) sia una sostanza. » L'accenno alla sostanzialità della luce è però subito mitigato dalla frase seguente che termina con queste significative parole: « Non mescolerò congetture con certezze. » La memoria di Newton suscitò vivaci reazioni da parte dei sostenitori della teoria ondulatoria e soprattutto da parte di Hooke il quale, pur riconoscendo la sagacia e l'esattezza degli esperimenti di Newton, espresse un dissenso circa l'interpretazione che ne aveva data Newton. Secondo Hooke il bianco non è che un impulso o movimento che si propaga attraverso un mezzo omogeneo uniforme e trasparente e il colore si spiega con un disturbo nel raggio di luce, quando, per la rifrazione, per esempio, l'impulso si comunica ad altri mezzi trasparenti; Hooke, come aveva già sostenuto in forma generale nella IX osservazione della Micrographia, in cui esponeva i suoi importanti studi sui colori delle lamine sottili, intende infatti la luce come un movimento vibratorio di particelle, dotato di grande velocità e di piccola vibrazione; gli impulsi motori danno origine ad onde sferiche che si propagano attraverso il mezzo omogeneo tagliando ad angolo retto i raggi di luce. Il modo con cui Newton rispose a Hooke palesa chiaramente ancora una volta l'estrema cautela che egli manifestava verso teorie o ipotesi generali: ribadì, infatti, in modo espii420
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cito, che la teoria della corporeità della luce era stata da lui assunta con la piena consapevolezza della sua non assoluta certezza. Riconobbe senz'altro la necessità anche per la sua teoria dell'ammissione delle vibrazioni dell'etere per poter spiegare un gran numero di fenomeni luminosi, ma ritenne insuperabile per la teoria ondulatoria la spiegazione della propagazione rettilinea della luce: « È impossibile, infatti, » egli afferma, «che le onde o vibrazioni di un qualsivoglia fluido possano propagarsi in linea retta, senza una continua e imprevedibile diffusione e inflessione del mezzo in riposo che le circonda. » La teoria newtoniana che tende, come si è visto, ad unire i vantaggi della teoria ondulatoria con quelli della teoria dell'emissione, piuttosto vaga nelle sue implicazioni strutturali, ma precisa nelle determinazioni concrete, è già pienamente formulata, nelle sue linee essenziali, nella risposta ad Hooke: non varierà in seguito, tanto nella seconda memoria inviata nel 1675 alla Royal Society, quanto nei Queries posti come appendice all'Opticks (pubblicata più tardi nel 1704), la grande opera di Newton che raccoglie il risultato di tutte le sue magistrali ricerche sperimentali di ottica. Si può qui ancora ricordare la grande importanza che ebbe il dibattito sulle opposte teorie della luce (Newton, benché avesse assunto un atteggiamento di compromesso tra le due teorie, venne universalmente considerato un corpuscolarista) che si venne formulando nella seconda metà del secolo; esso fu l'inizio di una controversia che rimase, con alterne vicende, tradizionale nello sviluppo dell'ottica ed è ancora, come si vedrà in seguito, al centro degli interessi degli studiosi. d) La chimica Diversamente dalla meccanica, dali' astronomia e dall'ottica, la chimica, malgrado la messe copiosa di ricerche e di osservazioni, conseguì nel corso del xvn secolo risultati meno rigorosi: il peso della tradizione alchimistica rimase ancora notevole, anche se l'influenza generale del meccanicismo portò, massime nella seconda metà del secolo, ad una critica radicale dei temi alchimistici, nella forma rinnovata che aveva dato loro Paracelso. Però, se è vero che permasero a lungo in tale ambito di studi elementi della tradizione alchimistica, è anche vero che alcuni di essi furono soggetti a varie critiche ancor prima che si diffondessero i principi del meccanicismo; in generale si può dire che nel corso del secolo la tendenza ali 'indagine empirica fu prevalente su quella basata sulla ricerca di rapporti analogici tra i vari fenomeni. L'opera di sintesi delle ricerche medico-alchimistiche del XVI secolo, pubblicata nel 1597, l'Aichemiadi Andreas Libavio,I manifesta già una viva tendenza critica nei confronti di certe assurdità e arbitrarietà contenute nelle opere pi Paracelso. Gli autori più rappresentativi di quel relativo rinnovamento che subì la ricerca chimica nella direzione di una accentuata tenr Andreas Libau (o Liebau) nacque ad Halle, all'incirca nel 1540 e morì a Coburg nel r6r6. Studiò a Jena; dopo aver insegnato in parecchie
città tedesche, divenne direttore del Gymnasium Casimiarianum di Coburg.
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denza verso l'indagine empirica furono Johann Rudolph Glauber (16o4-167o), Johann Kunckel (1630-1703) e soprattutto Joan Baptista van Helmont.l V an Helmont, come Glauber, Kunckel e moltissimi altri autori del Seicento, credeva nell'alchimia, ma indubbiamente gli studiosi concordano nel ritenere la sua opera meno arbitraria e più fondata di quella di Paracelso e dei paracelsianidi stretta osservanza. Spirito molto religioso, egli inquadrò le proprie ricerche in una vera e propria filosofia naturale che ritenne di poter derivare anche dalla Bibbia: in particolare fu spinto dal racconto del Genesi a dare un rilievo preminente all'acqua come principio costitutivo delle cose. La sua teoria, che si oppone tanto alla dottrina aristotelica dei quattro elementi quanto a quella paracelsiana dei tre principi, postula come elementi primari l'acqua e l'aria: come egli afferma nel trattato Complexionum atque mixtionum elementalium ftgmentum, la terra è derivabile dall'acqua; il fuoco non è un elemento e una sostanza, ma « una morte artificiale posta per grandi usi nella mano dell'artefice, una morte artificiale, dico, non naturale, creata dall 'Onnipotente per le arti »; i tre principi, inoltre, si ottengono per una trasmutazione operata dal fuoco. La credenza nell'acqua come elemento costitutivo delle cose è corroborata da van Helmont anche con alcune esperienze che sostiene di aver compiuto con l' alcaest, il menstruum universale, che si credeva avesse appunto la prodigiosa proprietà di dissolvere ogni corpo. Insieme con l'acqua van Helmont pone come origine dei corpi un altro principio, il fermento, una sorta di energia che plasma la materia originaria, l'acqua, e la dispone in modo da costituire tutti i corpi, organici e inorganici. Il principio del fermento si combina poi, a sua volta, con una forza direttrice di origine spirituale, l'archeus (nozione che van Helmont deriva da Paracelso), che presiede alla vita dei corpi. Van Helmont studiò a lungo anche delle sostanze aeriformi speciali che designò con il nome di gas, stabilendo però fra di esse differenze di carattere puramente qualitativo. Se è vero, come si è già osservato, che van Helmont e molti altri autori del periodo erano largamente influenzati dalla tradizione alchimistica, è pur vero che, verso la fine del secolo si era giunti alla convinzione che l'alchimia fosse ormai un'esperienza conchiusa e che fosse sorta ormai una nuova disciplina, permeata dello spirito innovatore del meccanicismo, più concreta nelle sue formulazioni e nelle sue ricerche, e soprattutto nei risultati. Il diffondersi poi dei presupposti fondamentali della nuova filosofia corpuscolare radicalmente diversi da quelli alchimistici, accentuò infine il crollo definitivo della dottrina alchimistica. Infatti, « mentre gli alchimisti supponevano nella natura una tendenza al perfezionamento, i corpularisti la supponevano immobile nel tempo; mentre i 1 Joan Baptista van Helmont (Bruxelles 1579- ivi 1644), nato da una nobile e antica famiglia, studiò a Lovanio, dove si familiarizzò con testi mistici e con i classici della medicina. Viaggiò
in varie regioni d'Europa; si ritirò poi a Vilvorde dove si dedicò interamente allo studio ed alle ricerche di chimica.
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XVII
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primi non arrivavano a spiegarsi le resistenze che impedivano ai metalli di conseguire immediatamente il loro stato finale di equilibrio, i secondi, volendo ridurre ogni fenomeno a un cambiamento di luogo, non tentavano in alcun modo di giustificare la specificità delle particelle di ogni corpo, le diversità irriducibili delle differenti particelle materiali» (Metzger). C'è però da osservare che la critica meccanicistica dell'alchimia non diede luogo ad una strutturazione articolata e fondata, adeguata ad analizzare in modo specifico la costituzione dei corpi. Le teorie e i modelli di stampo corpuscolare, elaborati nella seconda metà del Seicento al fine di indagare i fenomeni della trasmutazione, scomposizione e alterazione dei corpi, risultarono, infatti, essere dei correlati meccanicistici troppo grezzi e non sufficientemente adeguati alla complessità dei fenomeni; la costituzione della chimica moderna appartiene incontestabilmente al secolo seguente. Anche per la fondazione meccanicistica della chimica giocò un ruolo importante la concezione cartesiana. Un esempio tipico può essere dato dall'esame della spiegazione del fenomeno della fermentazione, spiegato da Descartes, come un movimento di particelle che si trasferisce da una sostanza all'altra. Al tipo di esplicazione corpuscolare cartesiana si ricollegano direttamente concezioni di autori di :rilievo, come F:ranciscus Sylvius de le Boe, 1 Thomas Willis, 2 e soprattutto John Ma yow. 3 Questi scienziati erano dei medici; c'è da notare che l'influenza di Pa:racelso (in Sylvius e in Willis si hanno ancora delle concessioni alle dottrine del fantasioso medico :rinascimentale) permane anche nel senso che la :ricerca chimica è per la maggior parte del secolo ancora sostanzialmente legata alla medicina. L'opera di Pa:racelso costituì la testimonianza più imponente di quella dottrina, designata col termine di iatrochimica, che spiegava l'attività dell'organismo in base a principi chimici e che p:ropugnava, in medicina, l'uso di preparati minerali. Nell'ambito della iat:rochimica ebbe grande rilievo nella seconda metà del secolo la teoria che spiegava i fenomeni in base all'antagonismo di due principi generali, l'acido e l'alcali. Tale teoria venne criticata da Boy le 4 (che la definì teoria dei duellisti) nell'opuscolo Reflections upon the ~pothesis ~falcali and acidum, con argomentazioni sensate e plausibili. Egli osserva che l'acido e l'alcali sono principi troppo limitati e troppo indeterminati I Franciscus de le Boe (nome latinizzato: Sylvius) nacque ad Hanau nel I6I4 e morì a Leida nel I672. Studiò a Leida e a Basilea; esercitò con successo la professione di medico; dal 1658 fu professore di medicina all'università di Leida. 2 Thomas Willis (Great Bedwyn 162 I - Londra I675) studiò medicina ad Oxford, ove fu poi professore di filosofia naturale; nel I 666 si trasferì a Londra come medico del re. Fu uno dei fondatori della Royal Society. 3 John Mayow(Mordal I64I- Londra I679). Studiò diritto e poi medicina; esercitò la professione di medico a Bath.
4 Robert Boyle nacque a Lismore Castle in Irlanda nel I627. Dopo aver compiuto un viaggio di studio nel continente con un precettore, visse per qualche tempo nella casa di famiglia a Staibridge. Nel 1654 si recò ad Oxford dove lavorò in un laboratorio nei pressi dell'università insieme con R. Hooke; nel I 668 si trasferì a Londra dove visse fino alla morte. Oltre che di chimica, si occupò anche di ricerche sull'elasticità e la compressibilità dell'aria che lo portarono a formulare la legge che collega il volume e la pressione di una quantità di gas, conosciuta con il suo nome.
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per dare una spiegazione soddisfacente di tutti i fenomeni ed anche se ci si limita all'analisi dei fenomeni specificatamente chimici, si può facilmente notare che la sistemazione operata sulla scorta dell'antagonismo acido-alcali non è adeguata all'esperienza, perché molte sostanze definite acide si comportano in modo contrario e viceversa. I problemi specifici attorno a cui si accentrò l'attenzione degli studiosi del tempo e che diedero luogo ad esperienze di notevole rilievo furono i fenomeni della calcinazione dei metalli, della respirazione e della combustione: fu su queste questioni che l'allora nascente chimica sperimentale conseguì i suoi primi successi, i cui sviluppi, nel secolo successivo, determinarono la nascita della chimica moderna. Sulla calcinazione dei metalli i migliori risultati furono conseguiti da ] . Rey (1 582 ca. - r645), autore dell'opera Sur la recherche de la cause pour laquelle l'estain et le plomb augmentent de poids quand on /es calcine (r63o), e da Boyle che espose i risultati dei suoi studi sull'argomento particolarmente nello scritto New experiments to make fire and ftame stable and ponderable (r673). Le ricerche più importanti sulla combustione furono compiute da Boyle e da R. Hooke. Boyle fece delle esperienze molto precise sulla funzione dell'aria nella combustione, che pubblicò nell'opera New experiments touching the relation beflvixt ftame and air (r672). Osservò che, posto a contatto dello zolfo avvolto in una carta con una lastra di ferro incandescente situata in un recipiente in cui era stato fatto il vuoto, dallo zolfo e dalla carta si sprigionava del fumo, ma che tutto il calore del ferro non era in grado di suscitare la fiamma: constatò invece che si producevano delle fiamme non appena si immetteva dell'aria. Compì altri esperimenti con l'intento di conservare la fiamma senza aria, ma senza successo, e giunse alla convinzione che l'aria era necessaria per la produzione e il mantenimento del fuoco. Una teoria più generale sulla relazione dell'aria con il fuoco fu però stabilita da R. Hooke, sulla base delle sue esperienze sul carbone di legna esposte nelle xvr Observations della Micrographia. Egli affermò che l'aria è il menstruum o dissolvente universale di tutti i corpi sulfurei, che è questa azione di dissoluzione che provoca il fuoco, e che la dissoluzione dei corpi sulfurei è determinata da una sostanza inerente all'aria e mescolata con essa, simile, se non proprio la stessa, a quella che è fissa nel salnitro. Alle proprietà e al ruolo di determinate particelle, che si riscontrano nell'aria, e nella composizione del salnitro, dedicò molta attenzione anche John Mayow nei suoi Tractatus quinque medico-p~sici (r674). In tale opera Mayow sostiene che il salnitro consta di un sale acido molto igneo, e inoltre di un alcali, oppure di un sale volatile che subentra al posto del sale alcali; la parte alcalina proviene, secondo Mayow, dalla terra, mentre quella acida dall'aria. Riflettendo sugli esperimenti di Boyle sulla funzione dell'aria nella fiamma, Mayow fu indotto a ritenere che ciò che contribuiva ad alimentare la •fiamma fossero appunto quelle particelle igneo-aeree, che costituivano, secondo le sue
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vedute, la parte aerea del salnitro; tali particelle non costituivano totalmente l'aria, ma erano solo la parte più attiva e sottile di essa. Mayow estese le sue concezioni anche al problema della respirazione che analizzò in connessione con il fenomeno della combustione; esperienze in tal senso furono svolte anche da Hooke, Boyle e da Richard Lower, 1 autore di un Tractatus de corde (I669) in cui sono esposte idee analoghe a quelle di Mayow. Mayow giudicò che le particelle nitro-aeree, introdotte nell'organismo mediante la respirazione, fossero necessarie per il mantenimento della vita, in quanto, unendosi con delle particelle sulfuree (elemento presente in ogni corpo combustibile) nel sangue, determinassero il calore vitale. Il medico inglese espose le sue vedute sulla respirazione, per le quali fu a lungo e piuttosto impropriamente considerato un precursore di Lavoisier, oltre che nei Tractaftts quinque, anche in un'opera Tractatus duo, quorum prior agit de respiratione, alter de rachitide, pubblicata anteriormente nel I668. Queste ricerche particolari ed altre siffatte che si vennero svolgendo particolarmente nella seconda metà del secolo utilizzavano sempre meno gli strumenti concettuali tradizionali e sempre più, pur con diverse eccettuazioni, quelli meccanicistici: tali ricerche postulavano pertanto in linea di principio una teoria generale della materia adeguata. Lo studioso che più di ogni altro avvertì l'esigenza di dare una nuova formulazione generale della materia, più consona alle nuove prospettive meccanicistiche, ormai dominanti nella seconda metà del secolo, e più funzionale per la ricerca sperimentale, fu R. Boyle. Egli, nella sua opera più nota The sceptical cqymist (I 66 I), diede una critica radicale e di fondo della tradizionale teoria aristotelica dei quattro elementi e di quella paracelsiana dei tre principi, rivendicando la superiorità della nuova filosofia corpuscolare. Più che nei risultati effettivi, il più rilevante contributo della chimica secentesca sta in questa energica rivendicazione critica, necessaria per la fondazione della chimica moderna. Come si può ricavare da un interessante opuscolo (Of the excellen~y and grounds ofthe corpuscular or mechanical philosopqy) le ragioni dell'efficacia del meccanicismo, poste in rilievo da Boyle, sono piuttosto generali e non molto originali. Egli osserva sostanzialmente che la materia e il movimento sono i principi più semplici e limitati nel numero senza essere insoddisfacenti, che si possono assumere per spiegare le cose; in base ad essi è possibile render conto della composizione e della contestura dei vari corpi semplicemente con movimenti di particelle differenti per figura e grandezza. Il ricorso alle qualità tradizionali o a qualche principio immateriale dà luogo a concezioni non intelligibili; ogni principio materiale invece è necessariamente riconducibile a quelli sopra menzionati, poiché non ve ne sono altri di più semplici e generali. 1 Richard Lower {Tremeer 1632 - Londra 1691) studiò ad Oxford dove visse fino al 1666, anno in cui si trasferì a Londra; qui vi esercitò con
successo la professione di medico. È ricordato anche per i suoi esperimenti sulla trasfusione del sangue.
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La concezione boyliana nel suo complesso risulta del resto, malgrado le molte diversità, abbastanza analoga nelle sue impostazioni alla concezione cartesiana, esemplata anch'essa eminentemente su presupposti derivati dalla fisica, e non è certo più avanzata sul piano metodologico. La stessa definizione boyliana di elemento, che venne a lungo considerata la prima definizione moderna di elemento chimico, risulta, alla luce degli studi più recenti, molto meno rivoluzionaria di quanto possa sembrare. Essa dice che gli elementi sono « certi corpi primigeni e semplici o perfettamente non mescolati che, non essendo costituiti da alcun altro corpo, o l'uno dall'altro, sono gli ingredienti di cui sono immediatamente composti tutti quei corpi chiamati misti perfetti e in cui essi sono per ultimo risolti. Ora la cosa che io cerco di sapere ora, è se qualcuno di questi corpi si trovi costantemente in tutti e in ciascuno dei cosiddetti corpi composti ». Come ha ben notato Marie Boas tale definizione differisce radicalmente dalla moderna nozione di elemento chimico, in quanto parte dall'assunto che gli stessi pochi elementi si trovino in tutti i corpi e che tutti i corpi siano risolvibili negli stessi elementi. Si tratta, in sostanza, di una definizione inserita in un discorso meccanicistico generale, cioè in un contesto tipicamente secentesco e che non ha nulla di moderno, almeno nel senso sopraindicato. IV · LO STUDIO DEL MONDO ANIMATO
Le discipline naturalistiche in senso lato subirono progressi notevoli nel corso del xvu secolo, ma rinnovamenti sostanziali (la cosa dovrebbe apparire ormai evidente) si ebbero solamente in quei campi di indagine (principalmente, se non quasi esclusivamente, la fisiologia) in cui erano facilmente e immediatamente applicabili i principi generali del meccanicismo. Tra le scienze descrittive e classificatorie, la botanica progredì molto più della zoologia, di cui solo l'opera di John Ray (r627-1705), Synopsis methodica quadrupedum(I693), mostra qualche avanzamento rispetto alle grandi enciclopedie rinascimentali. In botanica si hanno invece delle classificazioni meno estrinseche, basate su elementi strutturali dei vegetali, come le corolle e i petali dei fiori, o la composizione dei frutti. Lo stesso Ray e J. Pitton de Tournefort (I656-17o8) sono gli scienziati a cui si devono in questo campo le opere di maggior rilievo. Il primo, autore di una monumentale Historia p!antarunJ genera!is (I686-I7o4) in cui sono descritte più di I 8.ooo piante, è noto soprattutto per aver introdotto la prima nozione moderna di specie; il secondo utilizzò ampiamente nella sua altrettanto grandiosa opera (É!éments de botanique, I 694) una precisa nozione di genere e molte delle sue classificazioni furono conservate. In questo periodo si ha anche un rinnovato interesse per lo studio dei fossili, di cui Hooke osservò al microscopio alcuni esemplari, e della struttura della terra e dei suoi componenti (la prima moderna storia della terra è quella, meccanicistica, data da Descartes). In questo campo di indagine si devono ricordare oltre 426
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all'opera pionieristica di A. Bocce da Boodt (15 5o-16p), l' Historia gemmarum et lapidum (16o9) sui minerali, i lavori di Hooke, Kircher, Leibniz, Huygens, Boyle, i quali, pur su piani diversi e con diverse prospettive danno inizio a nuovi filoni di ricerca. Un posto a parte meritano gli studi di Nicolò Stenone 1 che costituiscono il maggior risultato cui sia giunta la ricerca secentesca sulla struttura e la composizione della crosta terrestre: la sua opera, Prodomus de solido intra solidum natura/iter contento (1669), viene concordemente considerata la prima moderna opera di geologia. a) La fisiologia Nel xvn secolo la disciplina biologica guida fu la fisiologia: essa conseguì successi sorprendenti e determinò un cambiamento radicale nell'impostazione stessa della ricerca biologica, paragonabile solo, per l'importanza e le conseguenze, a quello che operò la meccanica nelle scienze fisiche. La prima e più sostanziale innovazione si ebbe nella caratterizzazione stessa della disciplina e nelle funzioni ad essa attribuite. L'influenza della meccanica fece sì che la struttura dell'organismo fosse vista in strettissima relazione con le sue funzioni valutate esclusivamente sotto il profilo del movimento (il movimento considerato era ovviamente solo quello locale): tutta la ricerca venne quindi orientata in tale senso. Lo studio della struttura anatomica viene pertanto a coincidere con lo studio della sua funzione motoria: questa connessione è il punto di riferimento obbligato per ogni ricerca. La prospettiva della nuova ricerca biologica secentesca è radicalmente diversa da quella tradizionale, e da quella rinascimentale in particolare, anche se apparentemente può apparire analoga. Infatti anche nella scienza medico-biologica rinascimentale non si ha una distinzione netta tra anatomia e fisiologia: il discorso sulla struttura delle parti dell'organismo si prolunga in quello sul loro uso. Questo procedimento si ricollega alla più pura tradizione classica, volta ad indagare la perfetta aderenza tra organo e funzione come manifestazione della suprema arte costruttrice della natura, che realizza nell'organismo, come in tutto il mondo, i suoi fini costitutivi. Compito dello studioso risulta quindi essere quello di ripercorrere quei fini che hanno presieduto alla «fabbrica» del corpo umano (De humani corporis fabrica è il titolo dell'opera di Vesalio) da parte della natura-artista. La ricerca biologica rinascimentale, pur essendo completamente tradizionale in questa impostazione generale, mutò notevolmente i termini della questione, in quanto, in virtù di quella tendenza di fondo empirica di cui si è cercato di spiegare la ragione in precedenza, si volse all'esame diretto dell'organismo e ciò diede luogo in breve tempo ad una più precisa ed accurata conoscenza delle strutture I Nils Steensen (nome italianizzato: Nicolò Stenone) nacque a Copenaghen nel 1638 e morì a Schwein nel 1686. Studiò a Copenaghen e ad Amsterdam. Nel 1667 si convertì al cattolicesimo. Fu a lungo in Italia, a Firenze. Divenuto
sacerdote nel 1675, due anni dopo divenne vescovo di Eliopoli e vicario apostolico ad Hannover. Notevoli furono le sue ricerche anatomiche sul cuore, sui muscoli e soprattutto sul cervello.
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anatomiche. Certo, le scoperte anatomiche rinascimentali non alterarono il quadro esplicativo tradizionale (significativo è a questo proposito il fatto che l'acquisizione forse più importante del xvi secolo nel campo delle discipline medico-biologiche, la constatazione della non pervietà del setto interventricolare del cuore, non porti ad una nuova valutazione del movimento del sangue nell'organismo), ma contribuirono in modo determinante a rendere evidente la insufficienza e la non congruenza con la realtà delle esplicazioni tradizionali. In vero la nascita della biologia moderna si può far coincidere con l'affermarsi della teoria della circolazione del sangue, il primo schema concettuale qualitativamente diverso (almeno nelle conseguenze) da quelli anteriori: tale dottrina costituì infatti il punto di partenza per lo sviluppo della nuova fisiologia meccanicistica. La scoperta che il sangue circola nell'organismo appartiene incontestabilmente al medico inglese William Harvey 1 e al primo Seicento. Il lungo e controverso dibattito sulla priorità della scoperta che ha travagliato a lungo gli storici soprattutto nel XIX secolo e che ancora di recente ha avuto appendici, se ci appare oggi del tutto sfasato rispetto alla sostanza reale del problema, testimonia tuttavia dell'effettiva importanza che si è attribuita, anche in sede storica, ad una questione su cui si è accentrata l'attenzione degli scienziati per quasi tutto il Seicento. In effetti l'opera di Harvey appare come il magistrale coronamento di tutta una serie di ricerche, le cui tappe fondamentali sono costituite specialmente dai lavori di Vesalio, Serveto, Realdo Colombo, Andrea Cesalpino, che hanno contribuito a porre gli elementi stessi del problema, provati e risistemati dal medico inglese in una dottrina omogenea e unitaria. La grandezza di una scoperta scientifica non sta tanto, del resto, nei determinati contenuti che vengono proposti, quanto nel modo con cui vengono presentati e nella coscienza della reale importanza di essi che si è acquisita. In questo senso si può dire che il contributo più grande che Harvey abbia dato al progresso delle scienze, sia stato quello di aver scritto un libro De motu cordis, cioè un'opera accentrata esclusivamente attorno ad un singolo problema di cruciale interesse, analizzato e sviscerato in tutti i suoi aspetti e nell'aver presentato una dottrina scientifica nuova con un grado di rigore enormemente superiore a quello usuale nel suo tempo, e tale da imporsi, immediatamente o quasi, come fondata per tutti. Anche se Cesalpino avesse realmente descritto in forma adeguata la teoria della circolazione del sangue più di cinquant'anni prima di Harvey, ciò non avrebbe alcun peso, in quanto la dottrina della circolazione del sangue divenne importante ed ebbe rilievo nello sviluppo della scienza solo per opera di Harvey che seppe dimostrarla con una efficacia allora inusitata e seppe imporla all'attenzione degli studiosi, difendendola con energia e vigore contro William Harvey nacque a Folkestone nel Studiò medicina a Cambridge e poi a Padova ove seguì le lezioni di G. Fabrizio d'Acquapendente. Nel r6o4 ritornò in patria ed esercitò la professione a Londra divenendo medico del 1
I
ns.
S. Bartolomew's Hospital, medico straordinario del re Giacomo r, e poi medico ordinario del re Carlo r, a cui fu sempre strettamente legato. Dopo la fuga del re, si ritirò a Londra ove morì nel 1657.
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le numerose critiche cui venne sottoposta. Da un punto di vista generale la dottrina della circolazione del sangue è importante soprattutto per le sue conseguenze: come il copernicanesimo, essa servì a corroborare la teoria meccanicistica ed è significativo a questo proposito, come è stato ben rilevato, il deciso accoglimento di essa da parte di Descartes e di Hobbes. Posto infatti che il sangue si muovesse in circolo nell'organismo, tutto il movimento del corpo animale poteva essere interpretato meccanicisticamente alla stregua di una macchina idraulica. Come Keplero che, pur essendo un pitagorico, seppe dare un fondamento antologico preciso al copernicanesimo e fare della matematica un rigoroso strumento di indagine, così Harvey seppe dare una sicura base sperimentale alla dottrina della circolazione del sangue, pur non essendo un meccanicista ma più propriamente un aristotelico ligio all'osservanza di una prospettiva sostanzialmente finalistica. Il puntiglioso e continuo richiamo ali 'esperienza, caratteristico della sua opera, è in un certo senso il prolungamento, anche sul piano metodologico, dell'insegnamento aristotelizzante ricevuto a Padova e, in genere, della grande tradizione anatomica padovana, cui egli idealmente si ricollega. La ricerca, secondo Harvey, deve procedere tenendo presente esclusivamente solo i fatti di cui si può avere una diretta esperienza. Egli non vuole dimostrare da cause e principi probabili, ma scoprire per mezzo di osservazioni sensibili: una conoscenza scientifica è vera solo nella misura in cui è possibile riscontrarla con autopsie ed esperimenti: è quindi il senso che discrimina la conoscenza vera da quella falsa, non il vaniloquio mentale. Chi si tiene lontano dall'esperienza non è atto alla scienza: i suoi giudizi sono simili a quelli dei ciechi sui colori o dei sordi sulle consonanti ed è inutile tener conto delle sue osservazioni. Di fronte all'esperienza passa in secondo piano anche l 'autorità degli antichi; c'è infatti un'autorità ben più grande e ben più antica della loro, la natura, che non si cura degli argomenti degli uomini. La critica delle teorie tradizionali su alcuni punti specifici relativamente al movimento del cuore e delle arterie, che si ha nell'introduzione alla classica opera di Harvey, il De motu cordis (1628), è condotta alla luce di un rigoroso criterio empiristico. Così, per esempio, quasi tutti gli anatomisti, i medici, i filosofi, vissuti fino al suo tempo avevano sostenuto l'analogia sussistente tra pulsazione e respirazione. Secondo essi il sistema cardiaco è visto in stretta connessione con il sistema polmonare: le pulsazioni del cuore e delle arterie servirebbero ad aerare e refrigerare tutto il corpo ed i polmoni sarebbero stati creati dalla natura al fine di agevolare e completare questa funzione. A parte le incongruenze e le assurdità di tali teorie, rilevate da Harvey, contro di esse al medico inglese appare veramente cruciale, e tale da dirimere la questione, l'esperienza di Galeno, facilmente riscontrabile del resto, secondo la quale le arterie contengono sangue e basta. Le arterie quindi non attraggono per niente l'aria ed il loro movimento e la loro funzione sono totalmente dissimili da quelle della respirazione. Così,
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l'opinione cOrrente sostiene una completa diversità nel cuore tra ventricolo destro e sinistro: il primo servirebbe ad alimentare i polmoni, mentre nel secondo si produrrebbero gli spiriti vitali, fonti della vita di tutte le parti del corpo. Orbene l'esperienza, afferma Harvey, ci mostra che la loro struttura anatomica non è sostanzialmente differente, e non si vede per quale motivo si debbano avere strutture simili per funzioni così varie e diverse. Così si sostiene l'esistenza di pori invisibili nella parete intermedia del cuore attraverso cui il sangue può passare dal ventricolo destro al sinistro. Non si vede, dice Harvey, perché mai «d si rifugia, per il passaggio del sangue nel ventricolo sinistro in porosità incerte, oscure, cieche ed invisibili, quando si ha un passaggio così aperto per l'arteria venosa? È certamente motivo di meraviglia per me che si sia preferito aprire una via per il setto cardiaco spesso, duro, denso, estremamente compatto, o piuttosto inventarsela, che non per il vaso venosa ben aperto, o anche per la sostanza dei polmoni che è rara, lassa, molto molle e spugnosa ». Già da queste considerazioni critiche si può vedere che il criterio harveyano dell'esperienza si integra con quello finalistico tradizionale che considera l'esplicazione della struttura anatomica in base alla sua aderenza alle funzioni che manifesta. Alla luce di questi criteri Harvey è però in grado di dare una spiegazione generale della fisiologia cardiaca tot'almente diversa da quella corrente. Osserva che il vero movimento del cuore si ha quando l'organo si erge, si tende, si indurisce, e, elevandosi a punta percuote la parete toracica determinando la pulsazione, cioè quando si ha la fase di sistole. È in questa fase che viene espulso dal cuore il sangue in esso contenuto: infatti, specialmente negli animali a sangue freddo, il cuore, quando si muove, è più pallido, mentre nella stasi riprende il colore rosso vivace, indice evidente della presenza del sangue. L'opinione tradizionale riteneva invece che i ventricoli si distendessero e si riempissero di sangue nella fase di diastole. L'osservazione anatomica mo.stra ad Harvey dei dati in contrasto con la concezione tradizionale anche sulla questione della pulsazione arteriale: appare evidente, infatti, che il battito delle arterie è dovuto esclusivamente alla pressione del sangue che passa attraverso di esse e che la diastole del cuore è in opposizione a quella delle arterie, che cioè mentre il cuore, contraendosi, si vuota, le arterie si dilatano e si riempiono, e si dilatano e si riempiono per la forza e il peso del liquido che preme, non per una dilatazione delle pareti come nei mantici (comunemente si credeva invece che le arterie si muovessero in virtù di un movimento trasmesso nelle loro pareti dal cuore). La vera spiegazione del movimento del cuore e delle arterie è la premessa che introduce alla comprensione della nuova teoria sulla circolazione generale del sangue. La notevole quantità del sangue che scorre nel corpo umano, osserva Harvey, è già un fatto che fa pensare ad un moto circolare del liquido nutritivo dell'organismo. La massa di sangue che il ventricolo sinistro spinge nelle arterie, anche in una sola mezz'ora, è veramente enorme, del tutto sproporzionata alla quan430
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tità che ne possono fornire gli alimenti e a quella che vi può essere contemporaneamente nelle vene. Si è del tutto impotenti a rendere conto di questo fatto se non si ammette il movimento circolare. Esso si svolge nel modo seguente: il sangue viene spinto dal ventricolo destro nella vena arteriosa (arteria polmonare) verso i polmoni, dove attraverso l'arteria venosa (vene polmonari) passa nel ventricolo sinistro, il quale lo immette nella grande arteria; di qui esso viene inviato in tutte le parti del corpo. È questo un sangue caldo, ricco di vapori e di spiriti che nutre, riscalda, vivifica le membra; alla periferia del corpo però si raffredda, si condensa, si esaurisce, passa dalle arterie alle vene e riunendosi nella vena cava ritorna al suo principio, si restituisce cioè al cuore, come alla fonte della vita e ai lari del corpo, per riacquistarvi l'intera sua perfezione. Di tale teoria l'esperienza ci dà ampia prova. Innanzi tutto che il sangue viene trasmesso attraverso le arterie è un fatto reale che risulta da un esperimento abbastanza noto: se si apre un'arteria qualsiasi, anche la più piccola, nel breve giro di mezz'ora tutto il corpo si dissangua interamente. Una prova ancor più netta che le arterie non ricevono sangue dalle vene se non dopo il passaggio nei ventricoli la si può avere legando l'aorta vicino al cuore e aprendo poi un'arteria qualunque; si constata allora che solo le arterie si svuotano, mentre le vene rimangono piene, appunto perché al sangue in esso contenuto è impedito di fluire liberamente nell'aorta. I punti veramente centrali della nuova dottrina sono costituiti dalla corretta interpretazione delle funzioni delle anastomosi artero-venose, comunemente ammesse, di cui Harvey è in grado però di dare prove solo indirette e delle valvole delle vene scoperte dagli anatomisti rinascimentali. Egli aveva osservato che tutti i medici, fin da tempi remoti, nella pratica chirurgica usuale, facevano uso delle legature delle membra, senza che nessuno si fosse reso ben conto delle cause degli effetti di esse. Egli distingue due tipi di legature: le strette e le lente. Una leg~tura è stretta quando una parte del corpo è legata così strettamente da una fascia o da un laccio da impedire che si avverta al di là della legatura stessa il battito delle arterie; è lenta invece quella che comprime da ogni parte un membro ma non provoca dolore e permette all'arteria di pulsare un poco oltre la legatura. Ora, osserva Harvey, si pratichi una legatura stretta al braccio di un uomo: al di sopra di essa l'arteria ha un battito più rilevato, si gonfia in modo anormale, quasi cercando di aprirsi un varco e la mano comincia a raffreddarsi, dato che non riceve più nemmeno una goccia di sangue. Se però si allenta un poco il legaccio si nota che la mano riprende il suo calore e il suo colorito naturale e che le vene si gonfiano al di sotto della legatura. Tutto ciò si spiega e risulta coerente ammettendo l'assunto proposto da Harvey. La legatura stretta infatti comprime fortemente il braccio e di conseguenza il sangue proveniente dal cuore viene arrestato e ristagna sopra il laccio provocando il rigonfiamento delle pareti arteriali. Con la legatura lenta invece il flusso arterioso non viene impedito e quindi il sangue dalle estremità scorre continua431
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mente nelle vene; si interrompe il flusso di ritorno venosa e si gonfiano le vene sotto la legatura. Anche le valvole delle vene confermano la verità della circolazione. La loro funzione, osserva Harvey, non è quella di impedire che il sangue per il suo peso precipiti in giù nelle parti inferiori, come voleva Fabrizio d' Acquapendente, bensì quella di impedire che il sangue venosa refluisca dal centro alle estremità e si diriga dalle vene grandi in quelle piccole. Come si è già accennato, la dottrina della circolazione del sangue divenne uno dei punti cardinali del meccanicismo biologico, la cui fondazione generale, dal punto di vista del metodo e dei contenuti, fu dovuta a Descartes. Nel capitolo su tale autore si è visto come l'analisi meccanicistica dei fenomeni vitali sia una diretta conseguenza di una impostazione generale della realtà, e come in tale ambito la fisiologia sia divenuta una parte della fisica. Considerazioni relative alla valutazione meccanica della vita animale e specialmente sulle notevoli implicazioni filosofiche che tale tesi comportava (la considerazione degli animali come macchine poneva non trascurabili problemi circa l'appartenenza o no ad essi dell'anima) si riscontrano in tutte le opere pubblicate da Descartes; in alcune, come nel Discours de la méthode o nella corrispondenza, si hanno descrizioni dettagliate di alcuni fenomeni come il movimento del cuore. Una trattazione unitaria e complessiva dell'argomento si ha solo però in opere che rimasero inedite, l'Homme et la Description du corps humain. L' Homme, il più importante trattato cartesiano sull'argomento è, come il De motu cordis di Harvey, un'opera moderna anche per il modo sintetico e selettivo, ma ad un tempo esauriente, con cui affronta l'argomento che vuole trattare. Descartes coglie e pone in evidenza quegli aspetti che sono i più significativi al fine di sostenere la tesi che gli interessa, la valutazione generale del movimento dell'organismo sotto il profilo del meccanicismo e cioè il sistema cardiovascolare, la fisiologia del movimento muscolare e il meccanismo dell'apprensione sensoriale. Tutti questi problemi sono indubbiamente complessi, ma erano comunque i più semplici che potesse affrontare con lo scarso livello di conoscenze empiriche di cui poteva disporre; essi trovano comunque una trattazione generale, ma non generica, sufficientemente analitica e dettagliata, anzi molto densa e ricca relativamente ai criteri di indagine del tempo, spesso estremamente sommari. Nel complesso la trattazione era tale da presentare un insieme di conoscenze fondate e paradigmatiche per la ricerca ulteriore. Essa si svolse nel senso di tendere a dare un contenuto effettivo sempre più preciso alla concezione dell'organismo come una macchina, anche se assunse caratteri generali diversi: basti pensare alla dottrina atomistica di Marco Aurelio Severino ( 15 So- I 6 56), autore della Zootomia democritea, idest anatome generalis totius animantium opiftcii (1645), o a quella di Giovanni Alfonso Barelli, legata ad una prospettiva rigidamente fisica e che tenta di armonizzare in una forma non molto articolata il tradizionale tema finalistico della Natura sapientissima con l'analisi meccanicistica delle strutture dell'orga432
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nismo. Sta di fatto che il meccanicismo influenzò enormemente' la ricerca concreta nella seconda metà del secolo: lo stesso Borelli diede minutissime applicazioni della concezione meccanicistica sia nell'opera Delle cagioni delle febbri tnaligne della Sicilia negli anni z647-I648 in cui cercò di dare una nuova interpretazione della malattia, sia nella sua classica opera De motu animalium (I68o-8I) in cui si ha una esposizione molto estesa e dettagliata della fisiologia dell'organismo e del movimento muscolare in particolare. All'opera di Borelli, largamente influenzata dall'insegnamento di Galileo, si ricollega direttamente l'attività di Marcello Malpighi, 1 forse il più grande biologo del Seicento, che di Borelli fu amico e con il quale a Pisa, dove erano entrambi professori all'università, svolse le sue prime ricerche sulle fibre spirali del cuore e assistette a quelle dell' Auberius sui tubuli seminiferi del testicolo. Malpighi fu il maggior esponente di quel nuovo tipo di ricerca biologica che venne designata con il termine di anatomia artificiosa e sottile; questa, combinando la tecnica dell'artificio anatomico, come l'essiccamento, la co ttura, ecc. della parte che si vuole esaminare, con la prospettiva teorica meccanicistica volta alla ricerca delle strutture sottili degli organi, prospettiva che venne enormemente potenziata dall'uso del microscopio, diede origine alla moderna ricerca strutturistica. Nella sostanza, essa realizzava l 'esigenza più tipica del meccanicismo, che si è delineata in precedenza, cioè quella di trovare una strutturazione razionale nella natura a livello sensibile, mediante modelli meccanici. Alla ricerca nell'organismo di macchine che siano in grado di dare una spiegazione esauriente e precisa dei vari organi e delle loro funzioni si ricollega anche quello strumento teorico largamente usato da Malpighi e chiamato da alcuni «microscopio della natura», per il quale è possibile studiare una struttura complessa nelle forme più semplici che appaiono in organismi meno elaborati, dato che, dice Malpighi, «è costume della natura intraprendere le sue grandi opere soltanto dopo una serie di tentativi a più bassi livelli, e abbozzare negli animali imperfetti il piano degli animali perfetti». Sulla base di questi principi lo scienziato italiano fu in grado di dare contributi specifici di importanza fondamentale, a partire dalla scoperta dei capillari che completò, dal punto di vista sperimentale, la dimostrazione della circolazione del sangue . .Le opere numerose e sui più svariati argomenti in cui espone i risultati delle sue ricerche (De pulmonibus, I66I; De lingua, I665; De externo tactus organo, I65 5; De cerebro, I 66 5 ; De viscerum structura, I 666; De bom~yce, I 669; D t forma tione pulii in ovo, I672; Anatomes plantarum, I675-79), brevi, concise, rigorose, sono delle vere e proprie monografie scientifiche nel senso moderno del termine. L'anatomia sottile presenta anche deficienze; essa era particolarmente esposta «alla fallibilità non soltanto dell'analogismo, ma anche dell'artificio anatomico e dell'ingrandimento ottico: 1 Marcello Malpighi nacque a Crevalcore nel 1628. Studiò medicina a Bologna; nel 1656 divenne professore di medicina teorica alla università di Pisa; tre anni dopo ritornò a Bologna ove fu professore di medicina all'università; qui
rimase (tranne che per il periodo dal 1662 al I 666 in cui fu insegnante a Messina) fino al 1691, anno in cui si trasferì a Roma come archiatra del papa Innocente n. Morì a Roma nel 1694.
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XVII
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ossia all'artefatto e alla illusione ottica. A tre secoli di distanza, l'esemplificazione è facile, e potrebbe anche apparire ingenerosa, se non mirasse a mettere in risalto le insidie, gravi e di varia natura, da cui era minato un sentiero che, data l'apparente linearità e l'importanza dei risultati raggiunti, potrebbe sembrare a tutta prima percorso con la massima facilità e sicurezza » (Belloni). Comunque, fu assumendo i principi su cui si basò la ricerca di Malpighi che la biologia secentesca conseguì i maggiori successi. L'analisi microscopica, soprattutto, diede luogo a risultati di importanza notevolissima: basterà citare, oltre le ricerche di Malpighi, quelle di Hooke, di Francesco Redi 1 e di Jan Swammerdam 2 sugli insetti, quelle di Nehemiah Grew (I64I-J7I2) sull'anatomia vegetale e soprattutto quelle di Leeuwenhoek che svelarono per la prima volta l'esistenza del mondo microbiologico (a lui si deve fra l'altro la scoperta dei protozoi e dei batteri).
b) L'embriologia Contributi numerosi e notevoli, ma nel complesso meno sostanziali, si ebbero anche attorno al problema della generazione. L'embriologia trasse nuovi motivi di sviluppo dalle opere di Gerolamo Fabrizio d'Acquapendente (De formato foetu, I 6o4; De forma tione ovi et pulii, pubblicato postumo nel I 6z I) che costituiscono uno dei risultati più sostanziali della scienza biologica rinascimentale. Sulla stessa linea delle ricerche di Fabrizio, a cui del resto si ricollegano direttamente, si trovano quelle svolte da Harvey ed esposte nelle Exercitationes de generatione animalium (I 6 5I), opera che riflette in modo più accentuato che non il De motu cordis, l 'influenza del finalismo aristotelico. È riferendosi all'insegnamento aristotelico che Harvey si mostra un deciso sostenitore della teoria dell'epigenesi, per la quale gli animali dotati di sangue (per gli insetti egli ammetteva un tipo di sviluppo per metamorfosi) si formano per progressiva aggiunzione di parti. « La formazione degli animali dotati di sangue comincia da una determinata parte che costituisce l'origine, e per mezzo di tale parte, vengono ad aggiungersi le membra rimanenti: diciamo che questa formazione si fa per " epigenesi ", a poco a poco cioè, per parte dopo parte, ed è, rispetto all'altra (cioè quella degli insetti) la generazione propriamente detta. » La teoria epigenetica si opponeva direttamente ad un'altra dottrina tradizionale, quella preformista: se infatti la prima si può far risalire ad Aristotele, la seconda è riconducibile ai presocratici. I preformisti consideravano l'organismo come uno sviluppo armonico di entità già precostituite, 1 Francesco Redi, medico e poeta, nacque ad Arezzo nel 1626 e morì a Pisa nel 1698. Studiò a Pisa medicina e filosofia; esercitò la professione di medico con grande successo e fu medico del granduca Ferdinando II e poi di Cosimo m. Tra i suoi scritti scientifici: Osservazioni intorno alle vipere (1664); Esperienze intorno alla generazione degli insetti (1668); Osservazioni intorno agli animali viventi che si trovano negli animali viventi (1684). Note-
vole fu inoltre la sua attività come poeta e come linguista. 2 Jan Swammerdam (Amsterdam 1637- ivi 168o). Studiò medicina a Leida. Svolse una intensissima attività scientifica; indagò soprattutto le strutture di insetti e crostacei raggiungendo una grande perfezione nell'analisi. In seguito, sotto l'influenza di Antoinette. Bourignon, cadde in una crisi mistica che Io condusse alla pazzia.
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per cui si aveva all'origine una sorta di individuo epitomizzato; ciò portava, nelle formulazioni più esplicite, come per esempio in quella di Malebranche, alla nozione dell'« incapsulamento» degli individui, per la quale veniva ricondotta ad un atto creativo iniziale l'origine di tutti gli individui di una medesima specie. Il dibattito su queste opposte teorie condizionò per più di un secolo la ricerca embriologica. C'è da dire che esso non è strettamente legato alla concezione generale del meccanicismo; mentre, infatti, l'embriologia cartesiana, rigidamente meccanicistica, è più propriamente epigenetistica, quella, altrettanto meccanicistica, di Gassendi, è di spirito preformistico. Trova, se mai, il suo terreno di sviluppo più propizio, nella ricerca sperimentale vera e propria: così le teorie preformiste si inseriscono nelle discussioni tra ovisti e spermatisti, discussioni che ebbero un rinnovato vigore in seguito alla scoperta dei follicoli ovarici e dello spermatozoo. La prima scoperta appartiene specialmente al medico olandese Reinier de Graaf, 1 che la espose nell'opera De mulierum organis generalioni inservientibus tractatus novus (1672) in cui sono descritte le sue classiche esperienze sulla coniglia: i follicoli ovarici, interpretati come le uova dei mammiferi, permisero di dare una qualche base sperimentale alla concezione per la quale si considerava che l'uomo e tutti gli animali vivipari nascessero da uova come gli ovipari. La seconda, operata da Leeuwenhoek nel 1677, fece sì che si pensasse subito ad un ruolo essenziale nella riproduzione di quei piccoli esseri mobili, gli spermatozoi, che si riscontrano nel seme maschile. Malgrado i nuovi apporti della ricerca sperimentale, il problema generale della generazione non subì significativi sviluppi: la discussione tra epigenesi e preformismo, ovismo e animalculismo restò piuttosto sterile, almeno nella forma che ebbe nel xvn secolo. 2 Del resto, anche le prime discussioni sulla inveterata credenza nella generazione spontanea dei viventi, che diedero luogo alle classiche esperienze di Francesco Redi, volte a provare che la nascita dei vermi della carne era dovuta al contatto degli insetti, non diedero luogo immediatamente a sviluppi particolarmente significativi.
I Reinier de Graaf nacque a Schoonhoven nel 1641 e morì a Delft nel 1673. Studiò medicina a Leida ed esercitò poi la professione a Parigi c a Delft.
2 Per i suoi sviluppi nel secolo successivo rinviamo alla sezione v.
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CAPITOLO
DODICESIMO
Trasformazioni nella società e nel pensiero inglese DI RENATO TISATO
I
· LE DUE RIVOLUZIONI INGLESI DEL XVII SECOLO
Le due rivoluzioni inglesi del xvrr secolo rappresentano il secondo grande sollevamento della borghesia contro il regime feudale, a metà strada tra la rivoluzione protestante di L utero e Calvino e la rivoluzione francese del I 789. Non ci è però possibile ripercorrere qui la storia d'Inghilterra del periodo prerivoluzionario, e quindi ci limiteremo a richiamarne alcuni tratti essenziali, allo scopo di inquadrare brevemente le rivoluzioni contro gli Stuart e di meglio comprendere il contesto dello sviluppo scientifico, filosofico e pedagogico di tale paese. Terminata la guerra dei cent'anni, che aveva visto la sconfitta del sogno della dinastia dei Plantageneti di unire le corone di Britannia e di Francia, sogno quasi avverato ma poi inesorabilmente dissipato con la cacciata degli inglesi dal continente e l'affermazione della monarchia assoluta francese, l'Inghilterra cade preda di gravissime lotte civili (guerra delle due rose), le quali portano la nobiltà ad uno stato di crisi che ne intacca irrimediabilmente il prestigio e la forza politica. Chi trae vantaggio da queste lotte intestine sono da un lato la piccola nobiltà del contado, cioè i rami cadetti delle grandi famiglie aristocratiche o i discendenti dell'antica nobiltà anglosassone schiacciata dalla conquista normanna, e dall'altro i possidenti e i commercianti agiati delle città, che approfittano dell 'indebolimento delle strutture feudali per sviluppare i propri redditizi traffici. La piçcola nobiltà è perlopiù legata alla terra, ed esercita l'agricoltura o l'allevamento di bestiame. Essa e la borghesia urbana hanno gli stessi interessi (l'espansione dei mercati interni ed esteri) e lo stesso nemico (il sistema feudale, basato soprattutto sulla chiesa -e la grande nobiltà). Dall'unione di questi due strati sociali nasce la classe sociale tipica dell'Inghilterra moderna: una classe attiva e spregiudicata, energicamente proiettata verso la conquista del potere politico. Essa ha infatti già tutte le caratteristiche di una classe borghese capitalistica, e quindi viene a trovarsi in un contrasto irriducibile con le strutture feudali e con le forze che le rappresentano.
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Trasformazioni nella società e nel pensiero inglese
Sotto la forte ed abile dinastia dei Tudor, la nuova classe sociale era alleata alla corona contro l'aristocrazia e la chiesa. I suoi rappresentanti, che sedevano al parlamento (nei comuni), erano ligi alla volontà di Enrico vm e di Elisabetta perché costoro esprimevano meglio i suoi interessi di quanto non lo facessero i lords, che auspicavano un ritorno alle strutture feudali arcaiche. Inoltre questa classe appoggiava i Tudor perché voleva la pace, condizione indispensabile per l'espansione dei commerci e della prosperità. Essa sostenne quindi risolutamente la riforma anglicana di Enrico VIII e si appropriò, grazie al proprio danaro, della maggior parte delle terre confiscate ai conventi. Analogamente sostenne la politica anticattolica ed antispagnola di Elisabetta, politica che le consentì una espansione commerciale oltremare. Il fatto che il parlamento venisse convocato raramente e solo per brevi sessioni aveva poca importanza, dato che i comuni erano sostanzialmente concordi con la politica della corona. Elisabetta emanò una serie di leggi che proteggevano i commerci, la produzione e l'artigianato. Inoltre aprì l'Inghilterra all'immigrazione dei francesi e dei fiamminghi che lasciavano le loro terre per motivi religiosi, e che portavano nella nuova patria ingenti capitali ed una grande esperienza commerciale, agricola ed industriale (soprattutto nella produzione del vetro e della carta). Anche il contrasto tra stato e chiesa era pressoché assente: l'ostilità alla curia romana era di antica data, sicché l'azione di Enrico VIII aveva immediatamente avuto l'appoggio popolare, e nell'isola si diffuse un sentimento anticattolico che restò vivissimo per secoli, e lo è ancora oggi. La nuova chiesa anglicana, d'altra parte, aveva una struttura fortemente gerarchizzata e dipendeva direttamente dal re, sicché non poteva in alcun modo intralciare la politica della corona. Lo scisma ebbe insomma un carattere prevalentemente politico. Ma una volta raggiunta la pace e la stabilità, i due alleati di ieri, corona e nuova borghesia urbana e agricola, divengono rivali. Sconfitto il comune nemico, appare il contrasto di classe tra una borghesia che vuole sempre più chiaramente avere un peso determinante nell'ordinamento della società, e la monarchia che, per affermare le proprie aspirazioni assolutistiche, si appoggia al nemico di ieri: l 'aristocrazia feudale. Avviene così, con più di un secolo di anticipo sulla Francia, una crisi politica e sociale che dà luogo, con una rivoluzione cruenta, ad un ordine sociale nuovo, moderno: l'ordinamento della borghesia capitalistica. Alla morte di Elisabetta Tudor, seguita dalla salita al trono di Giacomo I Stuart, l'Inghilterra era un paese prevalentemente agricolo. D'altra parte durante il secolo precedente si era avuta una grande espansione marittima; gli inglesi traversavano gli oceani diretti alle Indie orientali ed occidentali, avevano fiorentissime compagnie commerciali, si spingevano persino in Russia e in Cina. L'espansione del mercato interno ed estero aveva portato un forte aumento dei prezzi, con le conseguenze classiche di ogni svalutazione: arricchimento 437
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delle classi intermedie che vivevano di investimenti ed impoverimento sia dei salariati, sia di coloro che vivevano di rendite (inclusi il re, l 'alta nobiltà e i vescovi). La corsa agli investimenti divenne generale, con conseguenze profonde per l'ordinamento sociale: la terra veniva sfruttata sempre più intensivamente, data in affitto a prezzi altissimi. Per secoli i canoni di affitto erano rimasti più o meno stabili, fin tanto che l'ordinamento feudale aveva considerato più importante la stabilità che il reddito in danaro. Ora essi subiscono un brusco e continuo aumento, e se ne avvantaggiano quegli esponenti della piccola nobiltà che, grazie alle loro abitudini parsimoniose ed al fatto che amministrano personalmente i propri poderi, sono in possesso di capitali. Vanno in rovina, invece, i grandi latifondisti, che non sanno assicurare una conduzione moderna della terra e sperperano il proprio sempre più scarso danaro nel lusso della vita di corte. D'altro canto la legislazione dello stato era ancora in larghissima parte feudale: infinite erano le restrizioni agli investimenti, al libero commercio delle terre e dei prodotti. Questa bardatura feudale frenava l 'espansione capitalistica e la taglieggiava con balzelli e dazi, imposizioni e freni, che fruttavano solo all'aristocrazia feudale, alla chiesa ed alla corona. Gli alleati naturali di questi nobili di campagna (yeomen) erano i mercanti delle città. D'altra parte, l'espansione capitalistica e l'aumento dei canoni sulla terra colpivano spietatamente sia i piccoli contadini, sia i braccianti agricoli (il proletariato urbano era ancora scarsissimo, ed esisteva in pratica solo a Londra). Ridotti al vagabondaggio, questi disgraziati venivano perseguitati penalmente per il fatto stesso di essere disoccupati. Le classi in lotta erano dunque tre: i grandi proprietari e la chiesa, con a capo il re; la borghesia urbana e agricola; il nascente proletariato, alleato dei secondi contro i parassiti del paese, ma potenzialmente avverso anche ai borghesi. Con l'avvento degli Stuart, la borghesia prese coscienza che non aveva più alcun bisogno di una monarchia assoluta. Da parte loro i feudatari scoprirono invece che ne avevano un bisogno imprescindibile: con la svalutazione incessante diminuivano le loro rendite, e quindi solo dagli appannaggi concessi dal re potevano sperare di trarre nuovo danaro. La corona stessa traeva i propri redditi dalla proprietà feudale, e quindi era colpita in prima persona dalla svalutazione e dalle trasformazioni sociali in atto. Ad essa non restavano aperte che tre vie: un aumento della pressione fiscale, che logicamente colpiva soprattutto la borghesia ricca del contado e delle città; la costituzione di « monopoli della corona », cioè delle tassazioni indirette con le quali il tesoro reale si riservava il commercio di prodotti particolarmente fruttuosi (ad esempio il carbone, il sapone, il sale); dopo il fallimento di entrambe queste vie a causa della vigorosa reazione della borghesia, tentò la restaurazione integrale del feudalesimo: Carlo r Stuart scatenò la guerra civile, e finì sconfitto e decapitato.
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La lotta investì tutti i campi: quello religioso, quello economico, quello costituzionale. La chiesa anglicana era alleata del re e si reggeva sulla rendita feudale, e quindi predicava l'obbedienza gerarchica. La borghesia la contrastava, e quindi accusava il re di papismo, protestava contro il lusso liturgico, ed esaltava, con il puritanesimo, le virtù di frugalità e severità religiosa che costituivano il motivo principale della sua forza ascendente. Gli Stuart, spaventati da queste conseguenze rivoluzionarie dell'atteggiamento protestante, si riaccostarono se non alla confessione cattolica, quanto meno alle potenze cattoliche (Austria e Spagna), che stavano conducendo una generale offensiva antiprotestante sul continente con la guerra dei trent'anni (I 6 I 8-48). I comuni, d'altra parte, negavano al re i finanziamenti, sia per timore che li usasse per armare un esercito contro di loro, sia per timore di un'alleanza organica con le potenze cattoliche. Nel I6z8 il parlamento votò una «petizione dei diritti», con la quale dichiarava illegale l'imposizione di tasse senza il suo consenso, ed impediva di fatto al re di avere un esercito permanente proprio. Nel I629 Carlo I sciolse il parlamento, che restò vacante per undici anni. Vi furono allora manifestazioni di rifiuto di massa a pagare le tasse. Carlo I Stuart cercò di imporre il proprio volere asservendosi anche la chiesa scozzese, che era tradizionalmente più indipendente. Fu la rivolta armata. Invano il re, per farvi fronte (impossibilitato com'era a finanziare un forte esercito) convocò il parlamento: venne di nuovo sconfitto, e si passò alla lotta armata generalizzata (I64I). Da una parte erano il re ed i «cavalieri», nobili abituati all'uso delle armi, che costituivano una cavalleria efficiente ma indisciplinata. Dall'altra, vi fu una forma di guerra popolare e l 'abilità militare di Oliver Cromwell: questi organizzò una cavalleria di yeomen, estremamente disciplinata e coraggiosa (i famosi «cavalieri dai fianchi di ferro») e, grazie alla disponibilità di capitale fornitogli dalla classe borghese, una efficiente artiglieria. Nel I646 Carlo I era sconfitto e prigioniero. Scoppiarono allora i contrasti tra i vincitori. La borghesia, raggiunto il suo scopo, voleva un compromesso con la corona per contrastare le tendenze democratiche molto avanzate (con punte anche di comunismo utopistico) formatesi nell'esercito rivoluzionario. Dopo un periodo confuso, durante il quale il re venne decapitato (I649) ed i capi democratici fucilati, venne instaurata una repubblica con a capo Cromwell, poi un protettorato affidato sempre a Cromwell. Questi fece una politica tipicamente borghese: espansione in Irlanda ave massacrò ogni forma di opposizione, predominio marittimo per ottenere il quale sconfisse la concorrenza olandese, abolizione dell'ordinamento feudale. Il popolo povero è sconfitto, ma continua a rappresentare un pericolo. La borghesia, ormai padrona del campo, cerca una stabilizzazione istituzionale, che culmina con la chiamata al trono d'Inghilterra, dopo la morte di Cromwell (I658), del figlio di Carlo I, Carlo n Stuart. 439 www.scribd.com/Baruhk
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Carlo u e suo fratello, Giacomo n (che per di più era cattolico), si illusero di approfittare del fatto che la borghesia aveva avuto bisogno di loro per tentare una restaurazione effettiva, e non solo formale, del potere assoluto. Nel r688-89 si ebbe quindi una seconda rivoluzione, quasi incruenta (tanto schiacciante era ormai la forza della borghesia): essa chiamò al trono l'olandese Guglielmo d'Grange, sposo di Maria Stuart, e sanzionò definitivamente l'equilibrio politico favorevole alla borghesia, dando vita ad un ordinamento di monarchia parlamentare che rimase praticamente inalterato fino all'inizio del XIX secolo. II
· RINNOVAMENTO
SOCIALE
E
CULTURALE
Trasformazioni economiche, sociali e politiche così profonde non possono non avere importanti ripercussioni sul piano culturale, e difatti in Inghilterra, durante l'ultima parte del xvi e tutto il xvu secolo, si assiste ad un vasto rinnovamento scientifico, religioso e filosofico, che esercitò una decisiva influenza sulla cultura europea. In tale rinnovamento si congiungono strettamente cause di ordine politico, problemi di organizzazione sociale dello stato, stimoli di natura economica (dovuti alle nuove esigenze poste dall'impetuoso sviluppo dei commerci e della produzione, dall'allargamento del mercato mondiale e dalla conseguente primaria importanza assunta da problemi fisici, geografici e matematici inerenti alla navigazione transoceanica), nonché suggestioni di carattere religioso. Il movimento puritano, come si è visto nel paragrafo precedente, fu infatti la forza motrice delle due rivoluzioni soprattutto perché esprimeva, seppur nella forma confusa della rappresentazione religiosa, l'esigenza di sempre più vasti strati borghesi ed agricoli ad emanciparsi socialmente e politicamente. Il modo in cui il puritanesimo venne vissuto da questa classe in ascesa la portava del tutto naturalmente ad occuparsi sia di politica, sia di scienza: di politica perché il puritanesimo chiedeva l'instaurazione della «giustizia», il che concretamente significava l'abbattimento dei privilegi feudali difesi dagli Stuart ed il modellamento della società secondo le proprie esigenze; di scienza perché uno degli aspetti fondamentali del puritanesimo era la realizzazione, nel mondo profano stesso, di « buone opere », e la scienza, baconianamente intesa come scientia propter potentiam, si palesava vieppiù come uno strumento irrinunciabile per la realizzazione storica di questa « ascesi mondana ». Questa stretta interazione tra scienza moderna, calvinismo puritano e rinnovamento politico non deve stupire: si tratta di diverse manifestazioni di uno stesso fenomeno storico, cioè dell'ascesi della moderna borghesia capitalistica e della sua nuova egemonia. Su alcuni degli aspetti che toccheremo nel corso di questo paragrafo e del prossimo ci si è già soffermati, sia in questa sezione sia in quella precedente, ed ancora ci si soffermerà nel corso della trattazione, ad esempio, della filosofia 440
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e della scienza di Locke e di Newton. Riteniamo tuttavia utile lumeggiare di nuovo, seppur solo di sfuggita, vari punti già toccati, ed accennare a temi che verranno trattati in seguito, soprattutto perché desideriamo offrire al lettore una visione quanto più possibile articolata di quel fenomeno estremamente complesso che fu la nascita della civiltà e della scienza moderna. Tra i problemi tecnico-pratici che contribuirono al sorgere delle nuove concezioni decisiva importanza ebbero, come dicevamo, quelli inerenti al calcolo delle rotte nautiche e quelli sollevati dalle sempre più complesse contabilità di grandi e potenti compagnie commerciali. Molti matematici di quei decenni, ad esempio Robert Recorde (rpo-1558) e John Dee (I527-r6o6), furono consulenti scientifici di compagnie che commerciavano con le Americhe, con l'India, con la Russia e con la Cina. Caratteristica è da questo punto di vista la figura di un banchiere dell'età elisabettiana, Thomas Gresham (I 5I 9- r 579) : versato negli studi scientifici, teorico dell'economia, morendo destinò la propria fortuna alla fondazione di un college dotato di sette cattedre, tre delle quali dovevano obbligatoriamente essere riservate allo studio della matematica per scopi nautici. Il Gresham College fu un fecondo punto d'incontro tra progresso scientifico e sviluppo economico: il primo professore di geometria dell'istituto fu Henry Briggs già ricordato nel capitolo x. Caratteristica la circostanza che egli fosse anche socio della compagnia della Virginia, fiorente impresa commerciale che trafficava con le colonie americane. Questo essendo il contesto sociale, economico e culturale, non è da stupire che uno dei capolavori della scienza del tempo, il De magnete di William Gilbert (I 54o-r6o3), medico personale ed amico di quella regina Elisabetta Tudor che tanto aveva fatto per assicurare al proprio regno il dominio dell'Atlantico, fosse in larghissima parte dedicatoai problemi della navigazione. Tutti questi fermenti trovarono una prima sistemazione nel capolavoro di Francesco Bacone, Novum organum (I 6zo), la cui importanza è stata illustrata nella sezione precedente; non per nulla questo grande pensatore dell'empirismo inglese è stato definito «filosofo dell'età industriale» (Farrington). Intrecciato a queste feconde ricerche e teorie filosofiche e naturali si sviluppa il movimenta puritano. Un professore di astronomia del Gresham College, Henry Gellibrand (r 597-1637), fu perseguitato dalla chiesa anglicana perché aveva compilato un almanacco astronomico senza santi. Samuel Foster (morto nel I652) venne espulso dal Gresham perché «anticonformista» (cioè dissidente dalla chiesa anglicana). Reintegrato nella carica allo scoppio della guerra civile, contribuì a far sì che il Gresham divenisse un punto d'incontro tra tecnici, scienziati e teologi puritani, dando vita a un'istituzione denominata Philosophical College, che fu l'immediata precorritrice della Royal Society. Animatore del gruppo fu un teologo puritano, John Wilkins (r6r4-167z), legato agli yeomen e cognato di Cromwell; egli fu poi il primo segretario della Royal Society (r66o). Wilkins si dedicò al compito di mostrare la stretta connessione tra teo441 www.scribd.com/Baruhk
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logia calvinista e scienza moderna e fu un deciso sostenitore della teoria copernicana nonché della dottrina bruniana della pluralità dei mondi. Il parallelismo tra teologia calvinista e teoria eliocentrica moderna era dato soprattutto dal fatto che i calvinisti si opponevano alla concezione secondo cui l 'universo era ordinato gerarchicamente: secondo la cosmologia scolastica si partiva da dio e si scendeva, degradando di perfezione e passando attraverso le varie sfere celesti ed i vari ordini di angeli, sino a giungere dall'empireo alla sfera sublunare, cioè all'uomo ed al suo mondo. Calvino respinse questa concezione perché offensiva della perfezione e della potenza divine: per lui, dio soltanto regge e governa tutto l'universo, senza delegare ad alcuno i suoi infiniti poteri, e la sua volontà assoluta ed inflessibile pervade ogni angolo del mondo. Da qui la dottrina della predestinazione, che si accorda con un punto fondamentale della scienza moderna: « Dio non altera alcuna legg~ della natura, » come disse il teologo puritano John Preston (1587-16z8). «Cancellare gli esseri angelici dal governo dell'universo, come fece la teologia calvinista, significava veramente criticare l'idea che l'universo fosse popolato da creature ordinate gerarchicamente, o meglio ancora significava una critica del concetto stesso di gerarchia. La Divinità non governava più l 'universo delegando i Suoi poteri ad una gerarchia di esseri spirituali, con autorità degradante man mano che si scende nella scala dei valori, ma governava ora direttamente, come un Potere Assoluto, con decreti inizialmente stabiliti una volta per sempre. E non essendo questi decreti altro che le leggi della natura, la dottrina teologica della predestinazione preparava il terreno alla filosofia del determinismo meccanico » (Mason). Abbiamo visto in Galileo quanto importante fosse allora il contrasto tra il senso letterale della Bibbia e la teoria eliocentrica. Merito di Wilkins fu di aver operato per appianarlo. Nel 1638 egli pubblicò un'opera intitolata The discovery oj a world in the Moone (Scoperta di un mondo nella Luna), nella quale sosteneva l'esistenza di esseri razionali sulla L una: se la Terra è solo uno dei pianeti, argomentava, perché mai un altro pianeta non potrebbe essere una Terra? In un'altra opera, A discourse concerning a new piane t (Un discorso concernente un nuovo pianeta, 164o), riprese l'argomento galileiano che la Bibbia fosse stata dettata da dio per rivelare non verità scientifiche, bensì religiose e morali, e quindi non avesse alcun peso per infirmare le nuove scoperte astronomiche e scientifiche. Egli usava anche l'argomento della maggiore «semplicità» del sistema copernicano rispetto agli epicicli di quello tolemaico, e sosteneva che dio agisce sempre seguendo la via più semplice. Anche in questo caso quella che vediamo qui è la versione teologica di principi che si andavano affermando in campo scientifico, in particolare quelli del « minimo sforzo » e della « conservazione ». 1 1 I due scritti testé citati vennero ripubblicati, nello stesso anno 1640, come primo e come secondo volume di un 'unica opera avente per ti-
tolo A discourse concerning a new world and another planet (Un discorso concernente un nuovo mondo ed un altro pianeta).
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Una delle conseguenze di questo vasto sommovimento politico, sociale, culturale e religioso fu che dopo le due rivoluzioni inglesi la Bibbia e la scolastica medievale avevano ormai perduto ogni autorità in campo scientifico. Quando nel 1687, proprio alla vigilia della seconda rivoluzione, appariranno i Principia di Newton, susciteranno pochissime contestazioni di carattere religioso: Wilkins e gli altri autori che abbiamo ricordato avevano già vinto la battaglia contro il conservatorismo antiscientifico della chiesa anglicana. Anche l'ordinamento parlamentare, sanzionato dalla fuga di Giacomo n e dall'ascesa al trono di Guglielmo d'Orange e di sua moglie Maria, trova un riscontro in questo sommovimento. Se per un verso infatti la tesi teologica dell'assolutezza del potere divino e quella cosmologica dell'immutabilità delle leggi della natura poteva favorire una concezione rigidamente assolutistica in campo politico (così fu per Hobbes, come sappiamo dal capitolo v di questa sezione, e così fu anche per Harvey, che istituì uno stretto parallelismo tra la posizione del cuore nel corpo umano, quella del Sole nell'universo e quella della corona nel regno d 'Inghilterra, sostenendo che Carlo 1 dovesse essere il solo centro e la sola fonte del potere), per altro verso va osservato che questo assolutismo era già profondamente « moderno », cioè antifeudale. Come infatti in campo cosmologico il nemico dell'assolutismo erano le gerarchie angeliche e gli epicicli, così in campo politico l'assolutismo di Hobbes, che pure sosteneva la corona contro il parlamento ed i puritani, non era certo per la difesa dei privilegi e delle immunità feudali. Pur essendo filomonarchico, Hobbes aveva evidentemente una concezione antifeudale, ed in questo senso moderna e persino progressiva, dello stato. Seppur con altri mezzi, egli ricercava quella efficienza pratica dello stato che anche i puritani ambivano istituire. Non può quindi stupirei che, dopo i travagli delle sue rivoluzioni, la tesi dell'uniformità della natura e dell'assolutezza delle leggi divine abbia portato ad un sostanziale accordo di pressoché tutta la cultura inglese nel sostenere la monarchia parlamentare. La stessa dottrina che le leggi della natura ed i decreti divini debbano essere concepiti come fissati una volta per sempre portava a svuotare l'idea di dio di ogni carattere autenticamente personalistico, ad esaltare la « legge » e ad escludere l'« arbitrio ». Così si venne diffondendo la concezione, già elaborata da Bruno e ripresa potentemente da Spinoza, dell'identità tra dio e mondo, tra spirito di dio e spirito dell'uomo, tra legge divina e legge naturale. Dio veniva così sempre più avvicinato non ad un despota che agisce secondo il proprio arbitrio, ma ad un re costituzionale che governa sottostando egli stesso ali 'imperio della legge.
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III · LA SCUOLA PLATONICA DI CAMBRIDGE
Nella cultura inglese del xvn secolo, un posto del tutto particolare occupa la scuola neoplatonica di Cambridge: isolata dalle altre grandi correnti filosofiche, scientifiche e religiose, nemica del meccanicismo e quindi della scienza moderna, essa ebbe una certa importanza perché toccò temi e problemi che più tardi furono fecondi nella storia del pensiero occidentale e vennero ripresi e sviluppati da Leibniz, Kant e dali 'idealismo tedesco del XIX secolo. La scuola di Cambridge si ispirava non tanto a Platone, quanto piuttosto alla tradizione del neoplatonismo rinascimentale, soprattutto a Pico della Mirandola, a Ficino ed all'accademia fiorentina, quindi anche a tutta la tradizione ermetica del Cinquecento. Ma mentre l'accademia fiorentina non era riuscita, nonostante gli sforzi, a raggiungere un equilibrio tra ragione e fede, in Inghilterra questo equilibrio fu raggiunto grazie all'opera dell'umanista John Colet (1467?-15 I9), di Tommaso Moro e di Erasmo da Rotterdam, che soggiornò a lungo in Inghilterra e fu amico di entrambi. Questi tre pensatori si avvalsero della tradizione platonica e della dottrina dell'eros per operare un profondo rinnovamento di carattere religioso, denominato devotio moderna, che, anche se restò nell'ambito della confessione cattolica e non si unì alla riforma protestante, aveva vari punti di contatto con il rinnovamento propugnato da Lutero, Calvino e Zuinglio. Caratteristiche della devotio moderna erano il richiamo ad fontes, cioè alla lettura diretta della sacra scrittura, il rifiuto dei pedantismi teologici della scolastica e l'affermazione che soprattutto nell'amore e nell'interiorità della vita spirituale si realizzasse lo spirito evangelico. Tra l'opera di Colet, Erasmo e Moro e la scuola platonica di Cambridge va ricordato Edward Herbert di Cherbury (1583-1648), il primo esponente del deismo razionalistico inglese, che nella sua opera maggiore, il De veritate, prout distinguitur a revelatione, a verisimili, a possibili, et a falso ( 1 624), tentò una fondazione esclusivamente razionale della conoscenza di dio e della religione, prescindendo dalla rivelazione e cercando di dimostrare l'infondatezza dello scetticismo. Herbert stabilisce sette principi fondamentali che dichiara essere immediatamente evidenti (di cui il primo suona «Est veritas ») e su di essi fonda una teoria secondo la quale « tot sunt veritates quot sunt rerum differentiae » (principio quinto). Ad ogni verità corrisponde una nostra facoltà per conoscerla (principio sesto: « differentiae rerum a potentiis sive facultatibus, no bis insitis, innotescunt »), ferma restando l'esistenza di una verità generale che tutte le abbraccia («est veritas quaedam harum veritatum, » afferma il settimo principio). La più importante delle facoltà è quella che coglie la « verità dell'intelletto ». Si tratta di una facoltà innata, dataci direttamente da dio, e che ci fornisce una serie di « nozioni comuni » mediante cui conoscere le altre verità, e che quindi non dipende in alcun modo dall'esperienza. Herbert pensa che sviluppando in 444
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modo sistematico e razionalistico questi principi si possa giungere ad una religione universale, naturale, certa, accettabile per tutti gli uomini, riassumibile in poche proposizioni fondamentali: dio esiste, gli uomini devono adorarlo, l'anima è immortale e sarà punita o premiata da dio. Gli aspetti più problematici del De veritate sono da un lato di carattere logico, dall'altro di carattere religioso. La difficoltà logica consiste in questo: se la verità dell'intelletto ci è data da dio e ci serve per conoscere le altre forme di verità, come risulta possibile che spesso gli uomini cadano in errore? Herbert tornò sul problema nell'opera De causis errorum (1645) nella quale riprende ed approfondisce una trattazione delle verità, suddivise in quattro categorie: oltre alla verità dell'intelletto, egli enumera la «verità della cosa», la «verità della apparenza » e la « verità del concetto ». La verità della cosa (veritas rei) è la conformità degli oggetti a se stessi, mentre le altre verità esprimono la conformità tra le nostre facoltà e gli oggetti. Ora, osserva Herbert avvicinandosi insensibilmente allo scetticismo che voleva combattere, perché questa conformità si realizzi, occorrono determinate condizioni. Per essere raggiunta, la veritas apparentiae richiede, ad esempio, una sufficiente quantità di tempo, l'esistenza di un medio adatto, una giusta distanza dalla cosa che ci appare, ed infine anche che la cosa si trovi in una posizione conveniente. Come si vede, Herbert cerca di controbattere gli antichi tropi scettici, al suo tempo ripresi con insistenza da Gas se n di. La religione naturale, cioè il deismo razionalistico, viene sviluppata da Herbert nell'opera De religione gentilium (edita postuma, nel 1663). Egli ribadisce come i principi del deismo razionalistico si ritrovino, seppur spesso distorti da favole e superstizioni, in tutte le religioni storiche, sia quella cristiana sia quelle pagane. Herbert cerca anche di spiegare il perché del sorgere delle superstizioni, ed inizia uno studio comparato delle religioni che sarà ripreso dall'illuminismo. Fu soprattutto alla devotio moderna che, nel xvn secolo, si richiamarono i platonici di Cambridge. In campo religioso e teologico, essi accettavano con estrema spregiudicatezza fonti tra di loro disparatissime, come la Bibbia da un lato, ma anche Platone, Platino, Ermete Trismegisto, Pitagora e Zoroastro dall'altro. Filosofi pagani e filosofi cristiani, autori classici e padri della chiesa erano messi sullo stesso piano, perché tutti partecipi dell'originaria rivelazione divina e della ragione. Ancora una volta, come già nel rinascimento, si cerca un'unione tra vita e ragione, si cerca di superare i diaframmi delle definizioni teologiche scolastiche ed ortodosse, di evitare l'intolleranza che essi inevitabilmente producono. All'interno della scuola di Cambridge si possono distinguere soprattutto due filoni d'interessi: uno rappresentato da Benjamin Whichcote (I6o9-1683), John Smith (161 8-165 z) e Nathaniel Culverwel (161 8-16 51), nei quali è predominante la preoccupazione del rinnovamento religioso; l'altro da Ralph Cudworth (1617445
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1688) e Henry More (1614-I687), nei quali prevale l'interesse speculativo. In realtà la distinzione è solo formale, poiché la religiosità dei primi ha una fortissima impronta di razionalismo platonico e lo speculativismo dei secondi ha un netto carattere religioso. L'unione dei due filoni è dato dalla forte tensione di entrambi verso una unificazione di ragione e vita mediante la dottrina platonica dell'eros. John Smith, nell'opera Discourse concerning the true wqy of method of attaining to divine k11owledge (Della vera via per raJ!giungere la conoscenza di Dio), afferma infatti che come nel nostro corpo il cuore (principio della vita pratica) alimenta, irrorandolo di sangue, il cervello (principio della vita speculativa), così per raggiungere la conoscenza di dio dobbiamo avere in noi stessi un vivente principio di santità. Quello della scuola di Cambridge non è dunque un « razionalismo teologico» senz'altro assimilabile a quello di Herbert di Cherbury: oltre al momento razionale, ed intimamente fuso con esso, vi è anche quello morale, e lo sforzo per unificare questi due diversi aspetti dell'uomo è indubbiamente il punto più interessante della scuola, per altri versi così anacronistica. Essa contribuì infatti a portare il baricentro dell'esperienza religiosa e morale dalla« oggettività »alla «soggettività», dall'aspetto « sacramentale e dogmatico » a quello della «convinzione» e del «consenso» etici. Un aspetto fondamentale della scuola di Cambridge è dunque la dottrina dell'eros, utilizzata per unificare il momento razionalistico con quello etico-pratico. Nathaniel Culverwel, nel Discourse of the light of nature (Discorso sulla luce della natura, 1652), distinse nettamente tra ciò che poteva essere accettato, per il proprio indirizzo, dell'opera di Herbert, e ciò che andava rifiutato: si doveva accettare l'esigenza della tolleranza religiosa e della fondazione a priori della conoscenza, ma andava respinto il deduzionismo esclusivamente razionalistico del fondatore del deismo inglese. Grazie al suo atteggiamento antidogmatico, la scuola di Cambridge rappresenta anche un punto di rottura nelle violente polemiche del Seicento inglese tra anglicani, puritani e cattolici. Essa non è infatti contraria a differenze di confessione, purché non si traducano in forme di settarismo; sottolinea però la preminenza non degli articoli di fede e delle definizioni ed argomentazioni teologiche, bensì della vita pratica interiore. Per i platonici di Cambridge venne quindi usato l'appellativo di « latitudinari », che stava ad indicare la loro tolleranza ed il loro antisettarismo. Anche sotto questo riguardo, essi anticiparono temi che saranno di Leibniz e di Kant, rivendicando la fondamentale armonia tra uomo e dio, tra fede e ragione: « Andare contro la ragione è andare contro Dio, » scrisse Whichcote. La pretesa che i disegni provvidenziali di dio siano del tutto imperscrutabili e la negazione di una sostanziale omogeneità tra ragione umana e sapienza divina erano per loro blasfeme. Se, nonostante questi aspetti fecondi, i pensatori di Cambridge restarono degli isolati e non seppero incidere in modo sostanziale sulla formazione della filosofia e della scienza moderne, ciò fu dovuto soprattutto alla loro profonda
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incomprensione del contesto in cui stava nascendo la scienza moderna, ed in particolare alla loro polemica contro l'empirismo, il meccanicismo e contro l'uso dello strumento quantitativo matematico per conoscere la natura. Gli aspetti predominanti del Seicento inglese furono, come si è visto, l'empirismo, il meccanicismo ed il puritanesimo. La scuola di Cambridge si oppose risolutamente a tutti e tre. In particolare essa metteva in connessione l'empirismo ed il puritanesimo, che presentavano entrambi un'esaltazione dell'attività pratica e della utilità come metro di giudizio del pensiero e dell'azione. «Come il puritanesimo proclamava l'ideale di una vita attiva, così l'empirismo poneva l'esigenza di una filosofia attiva. Tutt'e due sono concordi nel rigettare la pura contemplazione e la pura speculazione; esigono per le verità che sostengono una nuova attuazione concretamente pratica» (Cassirer). La scuola di Cambridge invece, pur respingendo le ragnatele di sofismi della scolastica ed esaltando il momento pratico ed etico dell'uomo, concepiva platonicamente la scienza come disinteressata contemplazione. Dell'empirismo i platonici respingevano proprio il fondamentale concetto baconiano della « scientia propter potentiam ». Né potevano essere più favorevoli al meccanicismo di Cartesio e di Hobbes, entrambi basati sulla scomposizione analitica della natura nei suoi fenomeni semplici e sulla successiva ricomposizione secondo un modello meccanico astratto. La scuola di Cambridge è insomma fieramente avversa a tutto ciò che mette in causa una concezione organicistica e vitalistica dell'universo, ed anche sotto questo riguardo appare come una propaggine rinascimentale nel secolo che vide la nascita della scienza moderna. Uno dei principali bersagli della scuola di Cambridge fu, ovviamente, Hobbes; non solo per la sua logica e la sua fisica, ma soprattutto per la sua filosofia civile. Anche in questo campo, come abbiamo visto, Hobbes applicava il metodo della scomposizione analitica e della ricomposizione sulla base del movimento meccanico: egli atomizzava la vita sociale, e poi la ricomponeva mediante un calcolo materialistico e del tutto profano. Ai platonici ciò non poteva che sembrare un tradimento della ragione e di dio, giacché secondo loro « in realtà tanto per l'essere sociale quanto per l'essere fisico vale il principio che così l'uno che l'altro sono "esseri organici", tali cioè che non le parti condizionano il tutto, ma il tutto condiziona le parti» (Cassirer). Sia in politica sia in religione, il fatto primario resta per loro il «consenso», basato sull'eros, ed ogni forma di contratto non può essere altro che un prodotto « derivato », secondario. I platonici di Cambridge sostengono quindi l'esistenza di un universale diritto di natura, di un'etica eterna ed immutabile, con cui giudicare lo stato ed a cui commisurare tutti gli istituti storici. In ultima analisi, la validità dello stato è fondata da un a priori etico innato nell'uomo. Quest'affermazione giusnaturalistica non era nuova nella storia del pensiero politico. Ma più che a Grazio, qui si deve pensare ancora una volta soprattutto 447
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alla dottrina di Ficino e dell'accademia fiorentina, oltre che ai testi evangelici ed allo stoicismo antico. Il merito del maggior esponente del platonismo seicentesco inglese, Cudworth, consiste nell'aver tentato, nello scritto The true intellectual rystem of the universe (Il vero sistema intellettuale dell'universo, 1678), una fondazione generale dell'apriorismo, non solo etico ma anche gnoseologico. Richiamandosi a Platone ed a Platino, Cudworth afferma che ogni forma di conoscenza è « azione » non già « reazione », è libera attività a priori che informa ed unifica i suoi contenuti, non mera reazione passiva. Anche questi sono temi che saranno ripresi da Leibniz e da Kant. Criticando l'empirismo, Cudworth fa rilevare come la semplice presenza in noi di immagini non implichi affatto la conoscenza, ed anche come la percezione non possa spiegare la « consapevolezza » del percepire. Nessun oggetto sensibile, ad esempio, potrebbe essere riconosciuto come triangolare e definito per tale se la nostra mente non avesse la capacità di concepire l'essenza pura, assoluta, del triangolo. Il problema che Kant risolverà con l'attività trascendentale del soggetto è qui ancora risolto con gli strumenti classici del platonismo: ogni autentico conoscere è « riconoscere ». Cudworth sottolinea con particolare insistenza il momento dell'« attività » del soggetto conoscente, tuttavia la scuola di Cambridge non seppe distinguere tra a priori logico e a priori temporale, e ciò la portò a sostenere non solo il valore aprioristico dei principi conoscitivi ed etici (il che farà, seppur in altro modo, anche Kant), ma altresì che questi a priori siano innati nell'uomo e precedano cronologicamente l'esperienza. Ciò portava a tutta una serie di gravissime aporie, sulle quali ci si soffermerà nel capitolo dedicato a Locke: la polemica contro l'innatismo contenuta nel primo libro del Saggio sull'intelletto umano è appunto diretta contro le tesi gnoseologiche della scuola di Cambridge. Questa opposizione all'empirismo non discende però da una repugnanza preconcetta contro lo sperimentalismo preso in sé. Anzi, alle ricerche sperimentali sulla natura ed alla loro diffusione la scuola di Cambridge mostrò di credere appassionatamente: Cudworth e More furono entrambi membri della Royal Society, ed un altro platonico, Joseph Glanvill (1636-168o), compose uno scritto, Plus ultra, nel quale proponeva un programma filosofico generale per tutta l'istituzione. Ciò ci aiuta a comprendere come non fosse il diritto stesso dell'esperienza ciò che i platonici mettevano in questione, bensì la concezione che di essa avevano il meccanicismo e l'empirismo. La concezione che dell'esperienza avevano mostrato di avere sia Bacone, sia Cartesio, Galileo e Hobbes pareva loro unilaterale, orientata esclusivamente verso una conoscenza analitica e strumentale della natura intesa come mera estensione senza vita. I platonici propugnarono dunque un concetto di esperienza che abbracciasse tutti gli aspetti della natura intesa come organismo vivente. La quantificazione matematica uccideva, secondo loro, la vita vera della natura; era intesa cqme un atto di sfiducia verso il principio spirituale che impregna di sé ogni parte dell'universo. La scuola di Cambridge giunse ad una forma di fisica qualitativa e vitalistica
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profondamente contraria allo spirito della scienza moderna, e ciò apparve chiaro non appena tentò di opporre alla scienza della natura meccanicistica ed empiristica una propria costruzione positiva. Henry More, ad esempio, raccolse esperienze su esperienze, ma non seppe vagliarle ed ordinarie, mancandogli ogni norma con cui interrogare ed esaminare criticamente le singole osservazioni che veniva affastellando. Da un tale modo di procedere non poteva non risultare un caotico agglomerato del tutto privo di interna unità e rigore. I suoi scritti di filosofia della natura, ad esempio la Conjectura cabbalistica e l' Antidotus adversus atheismum, sono zeppi di elementi magici e occultistici, un coacervo indistinto di osservazioni empiriche e di fantasie del tutto analogiche, un variopinto florilegio di fatti spiritici considerati concrete manifestazioni della spiritualità della natura. Con il suo fallimento nel tentativo di costruire una fisica antiquantitativa, antiempiristica ed antimeccanicistica, il platonismo inglese palesò la contraddittorietà della sua difesa della pura ragione. « Si assiste al singolare spettacolo che la scuola di Cambridge, che nel campo della filosofia della religione aveva dovunque sostenuto l'inalienabile privilegio della "ragione ", rinunzia, e diviene infedele a questa ragione là dove questa si volge a spiegare la natura. Se là era stata razionale, essa diviene qui mistica e cabalistica. Sta qui la vera debolezza sistematica della scuola, ed appare qui storicamente comprensibile la scarsa efficacia che la sua opera ebbe al suo tempo» (Cassirer). La manifestazione macroscopica del fallimento della scuola di Cambridge nel campo delle scienze naturali è soprattutto il suo radicale rifiuto della quantificazione matematica. More, che inizialmente era stato un sostenitore della filosofia di Cartesio, essendogli essa parsa in un primo momento un modo di pervadere - platonicamente - la res extensa con la res cogitans, non appena si avvide che il pensatore francese mirava a tenere separati i due campi ed a fondare una conoscenza meccanicistica, basata sulla matematica, della natura ruppe con l'autore del Discorso sul metodo, accusandolo di essere affetto dal perniciosissimo morbus mathematicus. Ai platonici di Cambridge non interessa affatto, ad esempio, studiare le leggi del moto e darne una formulazione matematica, bensì ricondurre il moto direttamente a dio, ed avvalersene per speculare sulla creazione e la fondamentale omogeneità tra mondo e dio. Il risultato più fecondo della scuola di Cambridge non fu dunque di carattere scientifico, bensì etico, religioso e, in parte, politico. Fu principalmente nell'opposizione al settarismo degli anglicani, dei puritani e dei cattolici che la scuola svolse una funzione progressiva, propugnando un programma di tolleranza limpidamente espresso in una professione di fede di Whichcote: « Non sum christianus alicujus nominis. » Per i platonici, come si è detto, tutte le confessioni erano sullo stesso piano, discendevano tutte da un 'unica rivelazione universale. A prima vista può sembrare strano che essi, sostenitori dell'interiorità morale, siano stati avversi al puritanesimo. Ma in realtà nel puritanesimo combattevano
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lo stesso nemico che nell'empirismo: lo stesso spirito rigorosamente pragmatico, per cui la conoscenza è concepita esclusivamente come organo della volontà e determinata come tale. Sia nel puritanesimo sia nell'empirismo si rifugge da una concezione di quieta contemplazione del vero, e si tende alla produzione, all'azione, all'asservimento della natura per i propri fini. Questo è il carattere per cui si parlò del puritanesimo come di una « ascesi mondana »: il lavoro, la produzione, la volontà di credere e di agire ne costituiscono l'essenza. Cambridge difese invece sempre la contemplazione. Ma, come dicevamo, nella lotta contro il settarismo puritano la scuola platonica svolse una funzione positiva. Il calvinismo sottometteva la volontà umana ad una forma di predestinazione assoluta che ne limitava irrimediabilmente la libertà. Cambridge protestò contro ogni pretesa, fosse religiosa e fosse politica, di sottomettere la libertà morale ad una legge del tutto esterna ali 'uomo ed all'individuo. La ricordata opera di Cudworth, Il vero sistema intellettuale dell'universo, è anche un'appassionata difesa della libertà morale. E nel maggiore scritto morale di questo autore, A treatise concerning eternai and immutable morality ( Trattato sulla morale eterna ed immutabile, edito postumo nel 173 r), si possono rintracciare motivi che esaltano l'autonomia morale come legge formale pura ed anticipano la riflessione kantiana sugli imperativi morali. Dal punto di vista politico e sociale, è da ricordarsi che la seconda rivoluzione inglese fu, in certo modo, un successo dei latitudinari (Guglielmo d'Orange stesso era latitudinario). La scuola di Cambridge contribuì a quella trasformazione di cui dicevamo alla fine del paragrafo precedente: a far sì che una concezione del mondo retta da una ragione universale e necessaria non fosse supporto dell'assolutismo politico, bensì di un regime tollerante e di una monarchia parlamentare. Tuttavia anche qui bisogna guardarsi dal sopravvalutare il suo apporto, e dal sottovalutare la carica liberale implicita nell'empirismo. Ciò apparirà chiaro nel capitolo dedicato alla filosofia di Locke, che fu sia il maggior critico del platonismo di Cambridge, sia il maggior teorico dello stato tollerante, il più deciso avversario dell'assolutismo di Hobbes. Non si può infatti dimenticare che nell'innatismo platonico e nella sua tesi che «la direzione del divenire è dall'alto verso il basso, sicché l'origine di tutte le cose va ricercata nel perfettissimo e non nell'imperfetto» è implicato il pericolo di una concezione decisamente autoritaria, come del resto apparve già nella Repubblica di Platone. IV · L 'ORGANIZZAZIONE
PEDAGOGICA
Un esame, sia pure sommario, delle dottrine pedagogiche e dei progetti di riforma scolastica fioriti durante il xvn secolo in Inghilterra può riuscire veramente illuminante sia per una miglior comprensione della linea di sviluppo della rivoluzione, sia per un esatto intendimento dei rapporti intercorrenti fra la storia 450
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politico-economico-sociale e la storia delle idee e delle istituzioni educative. Possiamo distinguere da un lato, i dibattiti sul contenuto culturale e sul metodo; dall'altro, i progetti e le lotte miranti a trasformare il sistema scolastico dal punto di vista organizzativo, disciplinare, amministrativo. Già nel XIV secolo si erano avute sempre più frequenti iniziative laiche in concorrenza con le corporazioni scolastiche di tipo medievale completamente controllate dalla chiesa. La riforma, sciogliendo le comunità monastiche e le organizzazioni da esse dipendenti, scardinò il vecchio sistema, provocando, fra l'altro, anche l'eliminazione di numerose scuole per i poveri. Le scuole superstiti risultarono ben presto sovraffollate, con una popolazione estremamente eterogenea. Inoltre la liquidazione del controllo cattolico non significò libertà per la scuola: tutt'altro. Sotto Elisabetta l'istruzione fu completamente assoggettata alla censura religiosa e politica e similmente sotto gli Stuart. Ciò comportava una tenace sopravvivenza dei vecchi metodi, nonostante la guerra che ad essi muovevano gli scienziati ed i borghesi più consapevoli del legame che unisce la scuola al progresso tecnico-economico. Anche l'opera di Bacone, come quella dei numerosi protestanti continentali profughi della controriforma e quella dello stesso Comenio, trovarono scarsa eco. Solo la lotta politica delle due rivoluzioni provocherà la caduta delle vecchie cittadelle culturali. Utilitarismo, individualismo, sperimentalismo sono i motivi della vita borghese ai quali ormai si vuole sia ispirata anche la scuola. Alcuni auspicano una istruzione elementare obbligatoria sotto il controllo dello stato. Si vorrebbe che le vecchie discipline « scolastiche » fossero sostituite con altre più pratiche, quali la geografia, la matematica, la chimica. Si chiedono corsi professionali, si invoca l'introduzione del metodo oggettivo in quanto più proficuo e più facile perché naturale. William Petty si batté per la creazione di un Gymnasium mechanicum, inteso alla preparazione professionale e al tempo stesso attivo come centro di studi tecnologici atti a promuovere il progresso scientifico. Il Comitato per il progresso dello studio creato dal parlamento elaborò un documento nel quale si stabiliva che lo stato dovesse mantenere e controllare: 1) scuole pubbliche per tutti i bambini; z) scuole di meccanica applicata; 3) scuole « nobili » per futuri funzionari; 4) scuole « nobili » per futuri insegnanti. Lo stesso documento affermava che nelle scuole vi si dovesse insegnare un metodo unitario, e che il metodo sottolineasse l'utilità di tutto ciò che veniva insegnato. Prima di passare alla riforma, rilevava il documento, era indispensabile fare un censimento delle scuole esistenti e del loro indirizzo. Esso stabiliva poi di dare assoluta precedenza alle scuole elementari ed a quelle tecniche. Le università dovevano essere strutturate in modo da garantire la migliore preparazione degli insegnanti e la elaborazione dei programmi relativi ai vari tipi di scuola. Ma tutti questi audaci e suggestivi progetti erano destinati a rimanere sulla carta. La loro attuazione avrebbe richiesto la soluzione radicale di tutta una serie 451
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di problemi economici, sociali e politici che la rivoluzione aveva bensì posto sul tappeto nella sua fase più acuta, ma che in certa misura precorrevano i tempi e quindi non vennero risolti. Qualcosa si fece, qua e là, in Scozia o nel Galles. L'università di Cambridge viene epurata e vi entrano rappresentanti della cultura moderna. Successivamente venne epurata anche quella di Oxford, roccaforte legittimista durante la guerra civile. Ma l'avvento del protettorato segnò una prima vittoria del conservatorismo e della restaurazione. Le polemiche contro le tendenze pratico-utilitarie si fecero più aspre, ed i sostenitori della vecchia cultura passarono al contrattacco. La restaurazione della dinastia degli Stuart provocò il ritorno all'indirizzo precedente il 164o. Ai programmi per la creazione di una scuola popolare si sostituì un gretto paternalismo. Il ritorno della corte all'antico splendore rimise in primo piano il problema della formazione del gentleman: vedremo come lo stesso Locke sia invischiato in questa concezione. Le poche scuole tecniche effettivamente aperte vengono declassate a scuole professionali riservate ai poveri. Naturalmente, anche nel campo pedagogico, nonostante la restaurazione e il successivo compromesso del 168 8, molte nuove idee si salvarono: queste idee, insieme alle conquiste rivoluzionarie che, sia pure entro i limiti che abbiamo illustrato, rappresentavano un gigantesco passo avanti a paragone coi regimi dispotici dell'Europa continentale, rifioriranno in Francia e costituiranno un formidabile lievito ideologico per il terzo e decisivo sollevamento della borghesia.
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CAPITOLO
TREDICESIMO
Locke DI
LUDOVICO
GEYMONAT
I
· VITA
E
E
RENATO
TISATO
OPERE
John Locke nacque a Wrington, presso Bristol, nel 1632. da famiglia puritana appartenente alla media borghesia; il padre, avvocato, parteciperà attivamente - anche con le armi - alla guerra civile scatenata dalla classe borghese contro Carlo 1. Nel I 6 s2. il futuro filosofo entrò all'università di Oxford, ove consegul i gradi di baccelliere e di maestro delle arti. Gli studi ivi compiuti e soprattutto i contatti che poté avere con le maggiori personalità della cultura inglese dell'epoca, segneranno una notevole impronta sulla formazione della sua personalità. L'università di Oxford, tradizionalmente aristotelica, era diventata in quegli anni - assai più della platonica Cambridge - un centro di studi particolarmente aperto verso la nuova scienza. Vi occupavano una posizione predominante il teologo-scienziato Wilkins, la cui opera innovatrice è stata più volte ricordata nel capitolo XII, e il matematico Wallis, del quale si è fatto parola nel capitolo x. Anche la facoltà di medicina era molto viva, e fu proprio con essa che il giovane Locke strinse i suoi primi legami scientifici. Così ebbe modo di procurarsi una conoscenza abbastanza approfondita delle teorie iatrochimiche (brillantemente sostenute in quegli anni, a Oxford, dal professore Thomas Willis), e dei numerosi dibattiti sorti intorno ad esse. È probabile che sia stata proprio la iatrochimica a fare sorgere nel nostro autore un vivo interesse per la chimica; certo è che, allorquando Boyle nel 16s4 si stabilì a Oxford, il giovane studente non tardò ad avvicinarlo, a diventargli amico, ed anzi a collaborare attivamente con lui (il che dimostra che la medicina non veniva intesa da Locke quale chiusura verso le altre branche del sapere). Malgrado i vasti e seri studi di medicina compiuti in quegli anni, Locke non volle mai conseguire il dottorato in questa disciplina; volle invece esercitare la professione di medico, convinto che, in vista di essa, risultasse assai più importante l'effettiva competenza pratica che non un mero titolo accademico. Questo atteggiamento fornisce una prova manifesta, per un lato, della sfiducia che il nostro autoré nutriva verso l 'università, da lui considerata sede naturale 453
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Locke
della vecchia cultura (teologico-filosofica), per l'altro della sua convinzione che solo un ambiente più libero e aperto di quello universitario potesse offrire autentici stimoli alla ricerca. Certo è che fino al I 666 la medicina e la scienza, nel senso anticonformistico testé accennato, costituiranno l 'interesse prevalente del giovane studioso. In questa situazione risulta alquanto singolare il fatto che i primi scritti di Locke, risalenti proprio agli anni intorno al '6o, siano stati non di argomento scientifico ma di argomento storico-politico o politico-religioso (come due saggi sulla tolleranza). La realtà è che, pur interessandosi vivamente di scienza, egli non intese mai diventare uno scienziato nel vero e proprio senso di questo termine; ciò che si proponeva era invece di assimilare a fondo lo spirito più nuovo del sapere scientifico onde poterlo trasferire in tutte le attività dell'uomo, facendo leva su di esso per un rinnovamento generale della cultura e della società. Per quanto riguarda, in particolare, l'atteggiamento di Locke di fronte ai problemi politici, va ricordato che il I659 - anno della restaurazione monarchica - segna un momento di arresto nello sviluppo del suo pensiero: prima di allora, infatti, egli si era decisamente schierato a favore di una concezione critica e tollerante dello stato e della religione; invece nei due saggi intorno al problema della tolleranza scritti fra il '6o e il '6z rivela, proprio su tali argomenti, notevoli incertezze non senza qualche propensione verso il nuovo regime. La cosa si spiega, forse, tenendo conto per un lato degli eccessi compiuti dai settari durante l'ultimo periodo del protettorato di Cromwell, per l'altro dal carattere inizialmente moderato del programma fatto proprio da Carlo r. Negli anni successivi sarà la stessa involuzione del governo monarchico a fargli superare l'anzidetto punto critico, spingendolo verso quelle posizioni di « filosofo ufficiale » della rivoluzione liberale che saranno caratteristiche della sua piena maturità. Parallelamente alle ricerche medico-scientifiche e a quelle politico-religiose testé accennate, Locke coltiva con molta serietà anche i problemi filosofici più generali, studiando con grande impegno le opere di Cartesio, di Gassendi, di Hobbes. Sono del I664 gli Essays on the law oJ nature (Saggi sulla legge di natura), che costituiscono la prima opera lockiana in cui venga trattato il problema della conoscenza: pur senza prendere posizione contro il platonismo di Cambridge, l'autore vi si preoc~upa di sottolineare i nessi fra la ragione e l'esperienza comune. Egli sta intanto lavorando intorno a una nuova opera sui problemi religiosi - An essay concerning toleration (Saggio sulla tolleranza), in inglese, che verrà pubblicato soltanto nel XIX secolo (precisamente nel I 876) - la cui redazione definitiva sembra collocabile nel I667. Trattasi di uno scritto assai importante, che segna il definitivo abbandono delle incertezze emerse durante gli anni '6I-'6z. Questa volta l'orientamento del nostro autore è prettamente razionalistico e rivela, per un lato, la consapevolezza critica via via maggiore da lui acquisita a
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Locke
contatto con gli scienziati, per l'altro, la forte influenza che egli sta subendo da parte del cosiddetto Tew Circle. 1 Nel I 667 si verificò uno degli eventi determinanti della vita di Locke: in tale anno infatti egli conobbe lord Anthony Ashley (divenuto poi conte di Shaftesbury) e se ne guadagnò l'amicizia e la stima in modo tale, che questi lo tenne presso di sé con funzioni di segretario. Locke poté così passare con lui da Oxford a Londra, ove ebbe modo di frequentare i ceti più elevati della società inglese, interessandosi di importanti questioni economiche e politiche, soprattutto a partire dal I672, quando il suo protettore fu nominato lord Cancelliere. Era diventato nel frattempo membro della Royal Society. Il trasferimento di Locke da Oxford a Londra segna il definitivo maturarsi, nel suo animo, della vocazione filosofica. In un primo momento l 'analisi dei rapporti fra esperienza e principi generali è ancora svolta con particolare riguardo alla medicina (così nel frammento dal titolo Ars medica che porta la data del I669); ma poco dopo il medesimo problema viene esaminato su di un piano più espressamente filosofico, il quale già prelude alla trattazione che ne verrà fatta nel capolavoro del I69o. Al I67o-7I risalgono due abbozzi, solitamente noti come Draft A e Draft B che vennero di recente pubblicati (rispettivamente nel I 9 36 e nel I 9 31); essi costituiscono uno dei documenti più interessanti per la ricostruzione dello sviluppo del pensiero lockiano. Nel I 67 5 lord Ashley cadde in disgrazia, e Locke preferì ritirarsi in Francia, anche per godervi un clima più mite di quello inglese e più confacente alla sua assai debole salute. Nel I679, essendo lord Ashley ritornato al potere, il nostro autore rientrò in Inghilterra onde essere a lui vicino; non volle tuttavia partecipare alla vita pubblica, per dedicarsi interamente alla stesura delle opere che pubblicherà dieci anni più tardi. Intanto lord Ashley veniva nuovamente travolto dalle lotte politiche; accusato di alto tradimento, riuscì a malapena a. fuggire in Olanda ove morirà nel I68z. Sentendosi sospettato e spiato dagli avversari di quello che era stato il suo grande amico e protettore, anche Locke fuggì in Olanda (nel I683), legandosi decisamente al partito che stava guidando la lotta contro gli Stuart. Ritornerà in Inghilterra nel febbraio del I689, al seguito della principessa Maria, consorte del re Guglielmo d 'Orange. Nel nuovo regime Locke avrebbe potuto facilmente ottenere i più alti incarichi; era infatti in buoni rapporti col re e con i maggiori uomini politici, godeva la stima universale e l'amicizia dei più noti studiosi dell'epoca (per I Con questo nome si suole indicare un gruppo di teologi razionalisti, che per discutere i problemi di fondo della religione usavano riunirsi (nell'epoca in esame) a Great Tew, presso Oxford, nella casa di Lucius Cary, visconte di Falkland. Essi consideravano il giudizio individuale essenziale alla fede; vedevano nel dubbio
sincero la prova dell'impegno ad emanciparsi con serietà dalle negative influenze dell'ambiente originario cioè dalle influenze dell'educazione, dell'autorità, e del privilegio; respingevano inoltre il consenso generale e la tradizione quali fonti di verità, e giungevano alla quasi totale negazione del dogma.
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esempio di Newton). Seppe tuttavia rinunciare alla vita pubblica per dedicarsi febbrilmente all'attività di scrittore. Il I689 e il '9o vedono la pubblicazione delle più importanti opere di Locke. Nel I 689 esce, anonima, la sua famosa Epistola de tolerantia, che contiene la formulazione più completa e più soddisfacente del pensiero lockiano sull'arduo problema. Nel I69o vengono alla luce, essi pure anonimi, Two treatises of government (Due trattati sul governo), la cui composizione risale probabilmente al I68I-8z (questa datazione giustificherebbe il coraggioso radicalismo di alcune tesi ivi sostenute, assai più avanzate di quelle tradotte in pratica dal compromesso del I688); e infine, sempre nel I69o, An essqy concerning human understanding (Saggio sull'intelletto umano) che costituisce senza dubbio la sua maggiore opera filosofica. N el I 69 3 escono Some thoughts concerning education (Pensieri sull'educazione), ricavati da una serie di lettere inviate all'amico Edward Clarke che si era rivolto a Locke per consigli intorno alla educazione da impartire ai propri figlioli; nel I 69 5 il saggio su The reasonableness of christianity (La ragionevolezza del cristianesimo) e, tra il I69z e il '95, vari scritti minori sulla moneta, l'interesse del denaro, il commercio, ecc. Fra le altre opere del nostro autore ricordiamo: alcuni saggi rivolti a difendere la propria filosofia dagli attacchi dei teologi più tradizionalisti; un trattatello dal titolo The conduci of the understanding (Guida dell'intelletto); lo scritto polemico Examination of P. Malebranche's opinions of seeing ali things in God (La visione in Dio di Malebranche). Meritano infine una particolare menzione una seconda, una terza e una quarta lettera sulla tolleranza (in inglese), scritte da Locke rispettivamente negli anni I69o, I69z, I704 per rispondere alle accuse sollevate da Jonas Proast contro l'Epistola del I689. La quarta rimase incompiuta e uscì postuma nel I 70 5. La grandissima fama da lui raggiunta non gli impedì di condurre una vita sempre più ritirata. Trascorse gli ultimi anni a Oates, nei pressi di Londra, ospite di Lady Mashan, nella cui casa - rallegrata da bimbi e frequentemente visitata da amici - regnava la più accogliente intimità. Furono anni interamente dedicati allo studio della sacra scrittura. Morì nel I 704. Prima di accingerci ad esporre il suo pensiero, che eserciterà una così profonda influenza su tutta la cultura illuministica del XVIII secolo, occorre accennare alle numerose controversie sorte fra gli storici a proposito di quello che deve venire considerato il nucleo centrale della filosofia lockiana, e in particolare sul posto spettante, in questa filosofia, alle opere politiche. Non potendoci addentrare nel difficile dibattito, basti menzionare le due tesi estreme: quella di chi interpreta tali opere come null'altro che un tentativo di giustificare razionalmente la politica dei whigs, negando che la dottrina politica lockiana possa essere considerata una derivazione dell'empirismo e considerando i Due trattati rilevanti più per la biografia che non per la filosofia del nostro autore; e quella
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Locke
invece di chi, movendo dalla definizione dell'empirismo quale filosofia della libertà e scorgendo nella polemica antinnatistica soprattutto un tentativo di colpire l'autoritarismo che nell'innatismo stesso si cela, giunge ad affermare che il Saggio sull'intelletto è solo una grande introduzione ai problemi che veramente stanno a cuore a Locke: vale a dire i problemi politici, educativi, religiosi. II · LA COSCIENZA DELLE IDEE, PUNTO DI PARTENZA PER L'ANALISI DELL'INTELLETTO UMANO
La filosofia di Locke è senza dubbio connessa a quella di Bacone, per il grande valore che l'una e l'altra attribuiscono all'esperienza come origine delle umane conoscenze. Essa è però strettamente collegata anche alla filosofia di Cartesio, di cui Locke subì assai viva l'influenza durante i quattro anni trascorsi in Francia. Basti elencare alcuni punti in cui questa influenza è particolarmente visibile: Locke attribuisce all'intuizione chiara e distinta il valore di criterio fondamentale della verità; ammette, con Cartesio, che «lo spirito non conosce le cose in modo immediato, ma solo attraverso le idee »; accoglie la distinzione da lui compiuta fra le qualità geometrico-meccaniche e quelle costituite dai colori, dai suoni, dalla temperatura, ecc. Considerare - come usavano taluni vecchi interpreti - la filosofia di Cartesio quale bersaglio principale dell'analisi di Locke, sarebbe dunque inesatto. Allorché egli combatte l'innatismo, non è contro il grande francese che rivolge la propria critica, ma principalmente contro i platonici che in quegli anni dominavano nell'università di Cambridge, insegnandovi una filosofia di carattere nettamente scolastico. Quando poi estende la propria critica dai platonici di Cambridge a Malebranche, anche in lui combatte soprattutto il platonismo, di cui sono ben evidenti le tracce nella teoria malebranchiana della visione in dio. Se è vero, come abbiamo detto, che Locke è indubbiamente collegato sia a Bacone sia a Cartesio, non è meno vero però che esiste in lui un carattere nuovo, il quale lo separa nettamente da entrambi; questo carattere riguarda l'impostazione stessa della filosofia. Mentre per Bacone e per Cartesio il problema centrale è quello della scienza, ossia è il problema di determinare un criterio assoluto della verità scientifica - che Bacone cerca nell'esperienza e Cartesio nell'evidenza razionale - per Locke invece il vero problema è quello di indagare i molteplici processi della nostra mente, qualunque sia la loro natura. Egli non si interess.a più della sola conoscenza degna di chiamarsi scientifica, ma studia tutti gli atti dell'intelletto umano, tanto quelli compiuti dallo scienziato nella costruzione delle più difficili teorie, quanto quelli compiuti dall'uomo comune nell'esercizio ordinario delle sue attività quotidiane. Veniva così a cadere 457
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come scrive molto bene Carlo Augusto Viano - « il privilegiamento assoluto e preliminare della scienza, che diventava uno degli ordini possibili (delle idee acquisite attraverso l'esperienza), non privilegiato in partenza». In questa nuova impostazione generale merita di venire particolarmente sottolineata una tesi, che vale a porre in chiarissima luce la distanza esistente - malgrado i vari punti comuni - tra la filosofia di Locke e quella di Cartesio; trattasi dell'abbandono, da parte di Locke, dell'interpretazione cartesiana della matematica come modello perfetto di sapere. Vedremo che il nostro autore continua a riconoscere un alto valore a questa disciplina; ciò che non può tuttavia ammettere è che essa possegga un primato assoluto nell'ambito del conoscere. La negazione di tale primato rispondeva del resto all'esigenza, ben presente nel filosofo inglese, di riconoscere un'autentica, se pur diversa, dignità anche alle discipline (come la medicina) incapaci di raggiungere il rigore della matematica e della meccanica. Se dobbiamo prestar fede a quanto Locke ci racconta nell'Epistola a/lettore, premessa al Saggio sull'intelletto umano, il proposito di compiere quest'indagine sarebbe nato in lui, non da una preoccupazione metodologica generale, ma da una modesta conversazione tra amici, familiarmente riuniti nella camera dello stesso Locke (in un giorno dell'inverno 1 67o) per discorrere sui principi della morale e della religione. Furono le effettive difficoltà incontrate in quella conversazione a convincerlo che, prima di risolvere i grossi problemi trattati, sarebbe stato necessario compiere «un'indagine pregiudiziale sui poteri e gli oggetti dell'intelletto umano». All'inizio egli era convinto che si trattasse di un'indagine assai semplice, da potersi espone in poche pagine; fu solo più tardi, mentre tentava di stendere il lavoro, che si accorse con meraviglia della vastità e difficoltà dell'impresa, e dovette constatare come, da un problema all'altro, la ricerca finisse per investire le più profonde e delicate questioni della filosofia. Che risponda o no all'esattezza storica, il racconto testé accennato è estremamente significativo; esso pone in luce, per un lato, che il programma lockiano si configura come la prosecuzione diretta di quello cartesiano, in quanto sollecitato proprio dalla medesima istanza critica, per un altro lato invece, che si distacca nettamente da esso in quanto impostato in forma nuova, e cioè in modo da respingere ogni delimitazione aprioristica del campo ove attingere i mezzi per soddisfare l'anzidetta istanza. «Assumendo queste posizioni,» chiarisce Viano, « Locke faceva valere la tesi che la filosofia, come ricerca sui poteri intellettuali dell'uomo, non ha nessun mezzo - e perciò nessun diritto -- di limitare a priori i materiali da cui la conoscenza è costituita, e il modo in cui essi possono essere manipolati. » È per l'appunto questa concretezza e ampiezza dell'indagine ciò che colloca Locke su un piano decisamente nuovo. È vero, per esempio, che egli assume da Cartesio la nozione di « idea »; il significato però che attribuisce a questo
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Locke
termine non è più quello cartesiano, ma è il significato ordinariamente attribuitogli dall'uomo comune. «Essendo essa (l'idea) il termine che, a mio credere, serve meglio a significare qualunque cosa sia oggetto dell'intelletto quando un uomo pensa, io l'ho usata ad esprimere tutto quel che si significa con "fantasma, nozione, specie", o checché sia ciò intorno a cui lo spirito può adoperarsi pensando. » Proprio perciò egli non può ammettere che esistano idee non attualmente pensate; « ognuno è conscio di averne in sé » e questa coscienza è l 'unica prova che una data idea esiste effettivamente in noi. Quanto all'esistenza di idee nel resto dell'umanità, «le parole e le azioni assicureranno ognuno di noi che ci sono idee anche negli altri ». Identificare il possesso di un'idea con la consapevolezza attuale della medesima, è dunque per Locke un'ammissione spontanea; qualcosa che egli assume dall'esperienza quotidiana di ogni uomo (non dei soli scienziati); un punto di partenza di cui non può, secondo lui, fare a meno qualunque onesta indagine sull'intelletto. Eppure sarà proprio questo punto di partenza, tanto semplice e spontaneo, ad avviare il nostro autore per una strada che lo porterà, quasi senza che egli se ne avveda, alle più straordinarie conseguenze. III · CLASSIFICAZIONE DELLE IDEE E LORO ORIGINE
La prima conseguenza che Locke ricava dalla onesta premessa ora spiegata è la critica dell 'innatismo. Esistono - si domanda - idee possedute da tutti gli uomini? cioè dagli adulti come dai ragazzi, dagli intelligenti come dagli idioti? Locke le cerca tra i principi più semplici della logica, della morale, della religione; ma ovunque è costretto a riconoscere che nessuna idea si trova nelle condizioni testé accennate. Dunque - ne conclude - non esistono idee innate. Evidentemente questa facile dimostrazione non risulterebbe sufficiente agli occhi di Cartesio, secondo cui un'idea è innata quando l'essere pensante è in grado di ricavarla da se stesso; bisogna però riconoscere che per Locke, il quale identifica l'esistenza di un'idea in noi con la coscienza della medesima, essa è perfettamente calzante. Se nella nostra mente non esistono idee innate, bisognerà concluderne - secondo Locke - che la mente è come un foglio bianco, una tabttla rasa. Ciò non significa che la nostra coscienza risulti interamente passiva; significa soltanto che essa non troverà in sé, fin dall'inizio, alcuna idea già completa e perfetta. Nemmeno significa, d'altra parte, che la coscienza, non trovando in sé nulla di innato, debba costruire con le proprie forze tutte le idee. Esclude però che esista in ogni uomo, fin dalla sua nascita, una zona di nozioni precostituite: zona identica per tutti e assolutamente immodificabile, che sfuggirebbe perciò a qualsiasi tentativo di elaborazione.
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Per determinare la natura delle idee, Locke si rivolge all'esperienza, intesa come abbiamo visto in modo molto largo; esamina cioè il complesso della nostra vita psichica, cercando di districarla dalle molte nozioni confuse, sovrappostesi a poco a poco per opera di artificiose concezioni filosofiche. Giunge così alla conclusione che esistono due categorie ben distinte di idee: quelle « semplici » e quelle « complesse ». Nelle idee semplici la nostra mente è passiva; possiamo dire che per Locke essa è cosciente della propria passività; lo spirito non può in alcun modo « né farle né distruggerle ». Esse sono « i materiali di ogni nostra conoscenza ». Proprio perciò il loro contenuto è comune a tutti gli uomini. Esse ci pongono dunque a contatto con qualcosa di non costruito da noi; ci fanno riconoscere l'esistenza di un mondo che sta alla base di tutti i processi mentali (realismo gnoseologico). «Le nostre idee semplici sono le reali apparizioni o fenomeni delle cose ... e, in quanto tali, il cerchio delle nostre idee coincide con il cerchio della realtà delle cose. » Una volta stabilito in modo inequivocabile questo punto fermo, il nostro autore asserisce che, osservando accuratamente la maniera con cui tali idee si costituiscono in noi, possiamo agevolmente constatare che esse «sono suggerite e fornite alla mente solo per due vie: " sensazione " e " riflessione ". Quando l'intelletto si è una volta provveduto di queste idee semplici, ha il potere di ripeterle, compararle e unirle, fino a una varietà quasi infinita ... Ma non è in potere dell'ingegno più esaltato, o di un vasto intelletto, ... inventare o foggiare una sola idea semplice nello spirito, non ricevuta per le vie menzionate; né può una qualsiasi forza dell'intelletto distruggere quelle che ci sono: il dominio dell'uomo in questo piccolo mondo dell'intelletto essendo pressoché lo stesso di quello che è nel gran mondo delle cose visibili, in cui il suo potere, per quanto diretto con arte e abilità, non giunge oltre il comporre e dividere i materiali che sono a portata delle sue mani; ma non può far nulla per creare la menoma particella di nuova materia, o per distruggere un atomo di ciò che già esiste ». Le idee semplici possono dunque provenire innanzi tutto dai sensi esterni (da uno solo, come per esempio i colori e i suoni, o da più sensi come le idee di figura, di moto e di quiete, ecc.); ma possono anche provenire dalla riflessione, cioè dal senso interno (tali sono le idee delle azioni che noi stessi compiamo, e cioè principalmente il pensiero e il volere); o infine dalla combinazione di sensazione e riflessione (per es. le idee di piacere o diletto, di esistenza e di unità). Data la passività della nostra mente nelle idee semplici, Locke ne conclude senz'altro che esse ci rinviano- come già abbiamo detto- a qualcosa di reale. Tuttavia non ogni idea è la copia fedele dell'oggetto che l'ha provocata..Oò vale in particolare per le idee provenienti dai sensi esterni, onde il nostro autore introduce, a proposito delle qualità da esse rivelateci, una fondamentale distinzione che egli ricava da Boyle, ma che già era in qualche modo presente in Ga-
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lileo e in Cartesio. Tratta si della famosa distinzione in qualità di primo tipo: estensione, figura, solidità, ecc., e qualità di secondo tipo: colori, suoni, temperature, e così via. Alle prime dà il nome di « qualità primarie », affermando che esistono effettivamente negli oggetti; alle altre dà il nome di « qualità secondarie », affermando che gli oggetti le producono in noi « mediante le loro qualità primarie ». Ricordando quanto è stato detto nel capitolo vm circa l'intimo nesso fra la distinzione testé accennata e il meccanicismo, dovremmo concluderne che anche Locke aderì al meccanicismo. Tale conclusione non può tuttavia venire accolta alla lettera, se si tiene conto che Locke respinse uno degli altri cardini dell'indirizzo meccanicista, cioè il concetto di sostanza. Taluno afferma pertanto che egli si limitò a sostenere un « meccanicismo metodologico », consistente nel riconoscere che, per essere perfetta, la scienza della natura dovrebbe riuscire a spiegare tutte le correlazioni fra qualità secondarie mediante correlazioni fra qualità primarie. Passando ora dalle idee semplici a quelle complesse, va subito ricordato che il nostro autore vede in queste ultime il risultato della riunione di più idee semplici. Pertanto, mentre nelle idee semplici la nostra mente è passiva, in quelle complesse è essenzialmente attiva. Per quanto infinite di numero, le idee complesse possono venir ricondotte- secondo Locke- a tre categorie fondamentali: « modi », « sostanze » e « relazioni ». I modi sono le idee complesse « che, comunque composte, non contengono in sé la supposizione di sussistere per se stesse, ma san considerate come dipendenze o affezioni di sostanze; tali sono le idee significate dalle parole triangolo, gratitudine, ecc. »; le sostanze sono « combinazioni di idee semplici, prese a rappresentare cose particolari, distinte, sussistenti per se stesse »; le relazioni sono idee complesse che consistono « nel considerare e comparare un'idea con un'altra». Questa riduzione delle idee complesse a veri e propri elaborati della nostra mente costituisce una delle tesi più caratteristiche dell'empirismo lockiano. Da essa prende le mosse la famosa critica del concetto di sostanza, che è il punto di più profondo contrasto tra la filosofia di Locke e le filosofie di derivazione cartesiana. IV· LA CRITICA DELL'IDEA DI SOSTANZA. IDEE GENERALI E LINGUAGGIO
Sappiamo che il concetto di sostanza, sia pure variamente interpretato, ha sempre svolto un ruolo di primaria importanza in tutti i maggiori sistemi metafisici: dal sistema di Platone a quello di Aristotele, dal sistema di Cartesio a quello di Spinoza. Le filosofie che Locke trova innanzi a sé, e delle quali deve tenere conto in modo del tutto speciale, sono il platonismo di Cambridge, la filosofia di Cartesio e .quella di Malebranche. Esse concordano nel considerare
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la sostanza quale substrato oggettivo della realtà: substrato fornito di una propria ben determinata struttura razionale, capace di garantire metafisicamente l'ordine dell'universo. Ebbene, a tutte queste pur autorevolissime concezioni, Locke obietta che la sostanza non può adempiere le importanti funzioni che le vengono attribuite per il fatto - in sé ovvio - che è soltanto una collezione di idee semplici. Noi non possediamo quindi alcuna intuizione chiara e distinta di essa; sono le idee semplici che la compongono a metterei in contatto con la realtà, ma la combinazione di queste idee semplici, essendo opera nostra, non ci fa cogliere nessuna « nuova » esistenza. Gli argomenti che Locke adduce a riprova di questa tesi sono di una semplicità sconcertante. Egli comincia ad osservare che la nozione stessa di « substrato » o « sostegno » è qualcosa di oscuro e confuso; proprio il modo di usar la, applicandola ai casi più diversi (dio, spiriti finiti, corpi) dimostra secondo lui il carattere vago di tale nozione. «Io mi appello, » egli scrive, « all'esperienza propria di ogni uomo, se si abbia altra idea chiara oltre certe idee semplici coesistenti insieme. Sono le ordinarie qualità osservabili nel ferro o nel diamante, messe insieme, che costituiscono la vera idea complessa di quelle sostanze, che un fabbro o un gioielliere conosce meglio di un filosofo. » In altri termini: è la comprensione tecnica, operativa, che ci fa cogliere le singole sostanze, non la speculazione filosofica astratta; proprio questa tecnicità, tuttavia, ci dimostra che ha senso parlare di sostanze particolari, non di sostanza in generale! Nella sua apparente semplicità, questo atteggiamento di Locke è così rivoluzionario, da scardinare le basi stesse della più antica e rispettata metafisica; accettare questo atteggiamento, significa far compiere al lavoro del filosofo una delle svolte pii1 radicali di tutta la storia del pensiero. Per !imitarci a segnalare alcune conseguenze immediate della critica lockiana della sostanza, osserveremo innanzi tutto che essa implica l'inconoscibilità non solo della presunta essenza reale della materia (cioè della res extensa), ma anche della presunta essenza reale della sostanza spirituale (res cogitans). L'intera metafisica cartesiana costruita a partire dall'« io penso» viene quindi a cadere d'un semplice tratto. Quanto all'identità della persona umana, Locke la riconduce molto semplicemente a un dato dell'esperienza: alla «coscienza che accompagna ogni sua (dell'individuo concreto) operazione conoscitiva e volitiva ... Quindi l'identità di una persona si estende fin là dove un essere intelligente può ripetere come proprie, ossia percepire attualmente, le operazioni passate con la stessa coscienza che ne ebbe primieramente e con la stessa ch'egli ha di un'operazione attuale». Per quanto riguarda la sostanza materiale, o più esattamente le sostanze materiali, è chiaro che avremo diritto di parlarne solo nei limiti in cui le varie proprietà attribuite a una sostanza si presentano « di fatto » concomitanti entro la nostra esperienza. La pretesa di dimostrare a priori che esse « debbano » risultare
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concomitanti è del tutto illusoria; come è illusorio escludere a priori che l'esperienza, osservata con strumenti più perfetti, possa un giorno rivelarci nuove concomitanze. Si tratta, com'è ovvio, di una concezione che garantisce all'indagine sperimentale un'illimitata apertura. Locke non si sofferma invece a compiere un'analisi particolareggiata della relazione di causalità; si limita a liberare l'idea di causa da ogni riferimento all'esistenza oggettiva di una sostanza materiale. Secondo lui, noi constatiamo nell'esperienza che un corpo agisce su di un altro, e quest'azione è perfettamente comprensibile in se stessa senza che la si colleghi a un'altra (incontrollabile) azione che la presunta sostanza soggiacente al primo dovrebbe esercitare su quella soggiacente al secondo. Toccherà a Hume, qualche decennio più tardi, dimostrare che l'azione causale non risulta affatto così agevolmente definibile, entro l'esperienza, come Locke riteneva. Di speciale importanza è la concezione lockiana delle idee generali, essa pure direttamente ricavabile dalla teoria delle idee complesse delineata nel paragrafo precedente. Poiché le idee generali appartengono ovviamente alla categoria delle idee complesse, risulta chiaro, secondo il nostro autore, che esse non posseggono alcun corrispettivo nella realtà. Per comprenderne la natura, occorrerà quindi esaminare con la massima precisione la funzione che compiono nei nostri discorsi: secondo Locke questo esame ci fa concludere che sono dei puri e semplici modelli, in cui classifichiamo le cose particolari esistenti: « In quanto specie o classi, esse esistono soltanto nella nostra mente. » È una conclusione non nuova, nella quale riaffiora la nota tesi dei logici nominalisti. Con essa, la filosofia di Locke rivela il profondo nesso che la collega alla grande tradizione inglese iniziata da Occam. Occorre aggiungere che il nominalismo testé accennato si inquadra in una concezione convenzionalistica generale di tutto il linguaggio. Il terzo libro del Saggio sull'intelletto umano, dedicato appunto al linguaggio, sviluppa con ampiezza la tesi dell'arbitrarietà dei segni; in primo luogo Locke sostiene che il linguaggio rappresenta le idee, non la realtà; in secondo luogo, che le parole di cui esso è costituito designano le idee « non per alcuna connessione naturale... ma per imposizione volontaria ». Se non fosse così, egli osserva, « non vi sarebbe fra gli uomini che un solo linguaggio »; in realtà « ogni uomo ha una così inviolabile libertà di far che le parole stiano per le idee che a lui piacciono, che nessuno ha il potere di far sì che altri abbiano nella mente le stesse idee che ha lui, quando pur usino le stesse parole che egli usa». È stata soltanto l'esperienza comune degli abitanti di un medesimo paese a far sì che essi foggiassero certe idee complesse (non di rado diverse da quelle elaborate dagli abitanti di altri paesi) e le designassero con certe parole: sono stati, in altri termini, i costumi e le istituzioni sociali, storicamente determinati, dei popoli a dar origine al costituirsi delle varie lingue oggi usate dall'umanità.
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V · LE DIVERSE VIE DELLA CONOSCENZA
Abbiamo detto nei paragrafi precedenti che Locke è nominalista in logica e realista in gnoseologia (in quanto le idee semplici riescono, secondo lui, a porci in contatto con la realtà). E poiché è l'esperienza a fornirci questo tipo di idee, sarà essa e soltanto essa a renderei accessibile l'esistenza del reale. In particolare ci rende accessibile l 'esistenza dell'io, nel senso non metafisica (cioè non sostanzialistico) chiarito nel paragrafo precedente, e l'esistenza delle cose. Anche l'esistenza di dio, che è il terzo ordine di realtà ammesso da Locke, può venire secondo lui raggiunta solo con un processo argomentativo che parta dall'esperienza: egli usa all'uopo il classico argomento causale respingendo invece come illusorio l'argomento antologico (e questo è un altro punto, assai importante, che separa nettamente la filosofia lockiana da quella cartesiana). Quanto ora chiarito non deve tuttavia farci ritenere che, per il nostro autore, la conoscenza si riduca tutta intera a prendere atto delle idee semplici; già l 'ultimo cenno, testé riferito, circa l'esistenza di dio ci segnala che la questione è più complessa. Conoscere è, secondo Locke, qualcosa di più che possedere idee: « Cono..: scere è percepire con la mente l'accordo o il disaccordo, la connessione o ripugnanza tra alcune delle nostre idee. Dove questa percezione non ha luogo, potrà esserci l 'immaginare, il congetturare, il credere, ma non il conoscere. » Tale accordo può venir percepito o per via diretta o per via indiretta. La prima è costituita dalla intuizione, a cui Locke attribuisce un'importanza non minore di quella attribuitale da Cartesio (afferma per esempio che essa è « irresistibile, e non costa alla mente nessuno sforzo»). Quando invece la mente non percepisce per via diretta l'accordo o il disaccordo tra le idee, può ricorrere ad altre idee «perché facciano da intermediario, finché arrivi a vedere l'accordo o il disaccordo di quelle prime». L'operazione ora accennata è la dimostrazione, intesa - proprio come voleva Cartesio - quale ausilio dell'intuizione. Il parallelismo tra il filosofo inglese e quello francese è su questo punto così completo, che noi finiamo di ritrovare nell'uno le medesime espressioni e i medesimi problemi già incontrati nell'altro. «La dimostrazione, » scrive per esempio Locke, « è una serie di intuizioni incatenate mediante idee intermedie, ed esige che ogni anello della catena (ossia ogni intuizione) sia non soltanto percepito ma anche ricordato nel momento di stabilire l'accordo o il disaccordo fra le due idee estreme. Ma la memoria può anche stancarsi nello scorrere tutti gli anelli della serie ... e allora il ragionamento perde di efficacia, oppure si prende per dimostrazione una falsità. » Proprio alla memoria ricorreva anche Cartesio, come abbiamo detto nel capitolo n, per spiegare la possibilità che sorgano errori nelle catene degli atti intuitivi, ciascuno dei quali è di per sé infallibile. Ove il sopraddetto accordo non risulti percepibile tramite l'intuizione o la
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dimostrazione, accade tuttavia in taluni casi che esso possa venire «presunto» mediante una nuova facoltà: il giudizio. Allora però non avremo più una conoscenza certa, ma soltanto probabile. Ciò ha luogo per esempio quando accogliamo una proposizione sulla sola base della testimonianza altrui, come accade nelle discipline storiche. Locke ammette, com'è ovvio, che la matematica sia una scienza essenzialmente dimostrativa; afferma però che non è l'unica scienza di questo genere: « Quando le nostre idee siano chiaramente stabilite, a qualunque specie appartengano, sono sempre capaci di dimostrazione. » In realtà egli ritiene che, oltre la matematica, solo la morale possa mantenersi interamente su di un livello dimostrativo. Il motivo di ciò è secondo lui molto semplice: esso consiste nel fatto che sia la matematica sia la morale sono scienze, non di realtà, ma di modelli o idee generali (anche la morale si trova, a giudizio del nostro autore, in questa situazione perché non ha altro compito se non quello di stabilire con precisione i nessi fra le varie regole di condotta nonché l'efficacia di tali regole a risolvere certe ben determinate situazioni oggettive). In altri termini: il carattere rigorosamente dimostrativo delle due scienze testé accennate dipende proprio dall'astrattezza e convenzionalità dei loro enunciati. Se dal punto di vista formale risultano superiori a tutte le altre, esse pagano questa loro superiorità con l'assoluta mancanza di contatto fra ciò che esse dimostrano e la realtà effettivamente esistente. Ciò non esclude, com'è ovvio, che anche le altre scienze possano, e anzi debbano, valersi di processi dimostrativi più o meno complessi. Questi non potranno mai, comunque, raggiungere in tali scienze il rigore delle dimostrazioni proprie della matematica e della morale, perché si articoleranno sempre su nozioni e principi in diretto rapporto con l'esperienza e non puramente convenzionali; e del resto i risultati raggiunti non potranno mai avere un valore assoluto, richiedendo in ogni caso un controllo empirico. Su questo punto la posizione di Locke è molto esplicita: nessuna scienza della natura può venire trattata con metodo meramente dimostrativo; nessuna argomentazione puramente razionale può sostituire l'appello all'esperienza o !imitarne il valore. Precisata in questo modo la portata delle scienze di tipo dimostrativo e di quelle di tipo naturalistico, resta in ultimo da chiederci quale compito il nostro autore intenda attribuire alla filosofia. Questa viene interpretata da Locke non già come una forma autonoma di conoscenza, diretta a cogliere le verità eterne o i principi generali dell'essere, ma come una riflessione sui poteri intellettuali dell'uomo. Da tale punto di vista, l'esatta determinazione del significato e dei limiti delle varie scienze rientra appieno nei compiti della filosofia, come vi rientrano tutte le analisi svolte nel Saggio sull'intelletto umano.
Possiamo affermare che la riflessione filosofica possegga, secondo Locke,
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un carattere razionale? Senza dubbio sì; non però nel senso che essa debba articolarsi in dimostrazioni astrattamente logiche, sul tipo di quelle matematiche. La ragione di cui deve avvalersi la filosofia è qualcosa di più ampio, è lo sforzo di trattare criticamente i problemi, di non lasciarsi condizionare da schemi preconcetti, di chiarire tutte le attività dell'uomo, per orientarlo con la massima efficacia nei suoi comportamenti. È questo il senso della ragione, che verrà fatto proprio dall'illuminismo settecentesco. VI · LA FONDAZIONE DEL LIBERALISMO POLITICO
Il carattere innovatore della filosofia lockiana rispetto a quella cartesiana dalla quale tuttavia il nostro autore fu profondamente influenzato - non emerge soltanto nell'ambito dei problemi teoretici ma anche in quello dei problemi pratici, ove la mirabile concretezza del pensatore inglese trova ampio modo di manifestarsi. È la stessa impostazione del problema centrale della libertà a mettere in luce il divario che separa i due filosofi. Come spiega efficacemente Carlo Augusto Viano, mentre per Cartesio « il problema verte tutto sulle volizioni, e la libertà è una funzione dell'autosufficienza della volontà», per Locke invece «esso può essere risolto solo se è impostato nella sfera delle cose che l'uomo può "fare", non in quella delle cose che l'uomo può " volere "». Basterà tenere conto dell'importanza che il nostro autore attribuisce al fare, per comprendere l'alto significato filosofico che assumono, nel quadro della sua produzione, le numerose opere da lui dedicate ai problemi politici, politicoreligiosi, e pedagogici. Senza addentrarci nel complesso problema - accennato alla fine del paragrafo I - dei rapporti fra l'empirismo di Locke e il suo liberalismo, inizieremo questa seconda parte del nostro capitolo con una rapida esposizione dei temi più caratteristici svolti nei Due trattati del r69o. Il primo di essi è scritto in aperta polemica con uno dei testi fondamentali del partito tory, il Patriarcha di sir Robert Filmer, pubblicato nel r68o. In questa opera Filmer (della cui vita si sa pochissimo oltre al fatto che parteggiò per il re nella guerra civile) sostiene, sulla base dell'interpretazione della Bibbia, che i primi re furono padri di famiglia, che la dispersione delle nazioni sulla terra dopo la confusione di Babele avvenne per le famiglie intere sulle q~ali regnavano i padri, e che pertanto ancora oggi tutti i re sono i padri del loro popolo. Conseguentemente è contro natura che il popolo governi o elegga i governanti; il popolo non può giudicare né correggere il re, e l'unico governo conforme alla volontà divina è il governo regio assoluto, che prosegue la naturale funzione di autorità assegnata da dio al padre di famiglia. Lo.cke, nella sua polemica accetta di scendere sullo stesso terreno dell'avversario, contrapponendo passo scritturale a passo scritturale, interpretazione
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ad interpretazione. Il risultato di tutto ciò è che la lettura del primo trattato risulta oggi notevolmente pesante e al tempo stesso moderatamente efficace. Il secondo trattato, invt:ce, ha come bersaglio Hobbes (che pure non è mai nominato), e costituisce di gran lunga lo scritto politico più importante del nostro autore, la cui lettura risulta stimolante e talora affascinante anche ai nostri giorni. Per Hobbes, com'è noto, nello stato di natura ognuno ha diritto su tutte le cose(« jus omnium in omnia »),col conseguente scatenarsi della guerra di ognuno contro tutti ( « bellum omnium contra omnes »). La definizione lockiana appare, tutto sommato, assai meno rigorosa e convincente, anche se in ultima istanza più feconda di sviluppi nel senso della giustificazione di uno stato permeato dei principi di ragionevolezza e di libertà. Lungi dall'avere un illimitato quanto problematico diritto su tutte le cose, l'uomo naturale ha alcuni diritti ben definiti, che Locke chiama, con termine generico, « proprietà ». Si tratta del diritto alla vita, alla libertà e agli averi. È chiaro che tali diritti possono ridursi facilmente ai primi due, in quanto il terzo sgorga come logica conseguenza dal primo. Se ha diritto alla vita l'uomo ha diritto, infatti, anche al sostentamento. Ne deriva che - qualora non siano sufficienti le cose che la natura offre a tal fine spontaneamente, e sia necessario modificare la natura stessa mediante il lavoro -l'uomo, essendo padrone della propria persona, è padrone pure degli atti di questa e cioè del lavoro, ed acquista diritto di proprietà anche sui risultati del lavoro stesso. Così, accanto alla « proprietà » in senso generico, viene affermata « la » proprietà nel senso specifico che a tale parola attribuisce la civiltà borghese. Il jus in omnia hobbesiano era l 'indiscriminato espandersi del primitivo e irrazionale impulso vitale, sicché l'unico strumento capace di sottrarre la vita associata al dominio delle passioni e conseguentemente al caos, appare il principe, vera e unica incarnazione della ragione. Così la sicurezza, l'ordine, la prosperità si pagano a prezzo della rinuncia della libertà individuale. Come abbiamo visto, Locke afferma invece, accanto ali 'impulso vitale, il diritto primitivo - essenziale e quindi inalienabile - alla libertà. Ma cos'è la libertà? Nel secondo trattato, ancora in polemica con Filmer, egli respinge la tesi che libertà sia per ciascuno far quel che gli pare e piace senza vincolo di alcuna legge. Libertà naturale significa « avere per .propria norma la sola " legge di natura " » che, come vedremo, è in ultima analisi la stessa ragione. D'altro canto e conseguentemente, Locke capisce di dover porre precisi limiti a quello dei tre diritti fondamentali che, implicando la presa sull'« altro», può facilmente tradursi in cagione di scontro e di guerra. Così il diritto di proprietà in senso stretto riceve precisi limiti: l 'uomo è proprietario solo di ciò che ha prodotto col proprio lavoro e, per di più, solo nella misura corrispondente
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alla sua capacità di usufruire dei beni prodotti a serv1z1o della propria vita: « Tutto ciò che oltrepassa questo limite eccede la parte di ciascuno e spetta ad altri. » 1 Ma a quali condizioni è possibile il concreto godimento dei diritti costituenti la struttura della persona umana da parte della totalità degli uomini? È pensabile il concreto godimento di questi diritti nello stato di natura? Lo stato di natura è definito da Locke « uno stato di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e disporre dei propri possessi e delle proprie persone, come si crede meglio; " entro i limiti della legge di natura ", senza chiedere permesso o dipendere dalla volontà di nessun altro». In che consiste la legge di natura? Si tratta, afferma esplicitamente Locke, di nient'altro che della «ragione», la quale « insegna a tutti gli uomini, pur che vogliano consultarla, che, essendo tutti eguali e indipendenti, nessuno deve recar danno ad altri nella vita, nella salute, nella libertà o nei possessi », sicché lo stato di natura può anche essere definito come lo stato in cui gli uomini « vivono insieme secondo ragione senza un superiore comune sulla terra ... ». D'altra parte la legge di natura è per le creature ragionevoli altrettanto e forse più chiara delle leggi positive, in quanto queste sono spesso rese oscure e intricate dagli interessi inconfessabili che vi si celano. Senonché la linearità del discorso lockiano è solo apparente. Da un lato infatti l'empirismo rifiuta, non solo l'innatismo delle idee, ma anche quello dei principi pratici. Perciò è escluso che la ragione trovi in se stessa, come « date », norme di vita capaci di guidare l'uomo al superamento dell'egoismo e all'instaurazione delle virtù sociali. Una volta che la ragione sia intesa non come facoltà delle verità definitive innate, ma come facoltà di scoprire connessioni e comraddizioni fra idee - derivate sempre, in ultima istanza, dali 'esperienza sensibile la conoscenza chiara e distinta di leggi atte ad assicurare la pacifica convivenza tra gli uomini non appare più il punto di partenza ma la meta ultima a cui tende quel processo indefinito di ricerca in cui si risolve la ragione stessa. Secondariamente Locke, mentre afferma che noi « nasciamo .liberi in quanto nasciamo ragionevoli », si affretta a precisare che ciononostante « non abbiamo subito l 'esercizio della libertà e della ragione », e che « l 'età che apporta l 'una apporta anche l'altra». Ne deriva che se il fanciullo deve attendere, per essere libero in proprio e per sottrarsi all'autorità paterna, di avere raggiunto pienezza di discernimento, questo vale anche per l'umanità primitiva, sicché sembra accettabile la tesi secondo la quale - come scrive Alfredo Sabetti - lo stato di natura non è, per Locke, « una condizione dalla quale l 'uomo deve uscire, ma un ideale morale da perseguire al fine di realizzare una società civile più rispondente ad una norma di vita ispirata alla ragione ». I Locke consente tuttavia che, scambiando i propri oggetti con la moneta, l'individuo possa divenire proprietario di tutto ciò che con questo mezzo di scambio si può acquistare. La moneta
quindi, non solo permette la formazione di proprietà diseguali, ma inoltre fa sì che sia legittimo possedere più di quanto si usa direttamente per la propria esistenza.
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Comunque, sembra indiscutibile che lo stato di natura lockiano nulla ha in comune con lo stato primitivo più o meno idealizzato. Anzi, allorquando il nostro autore accenna a passare dalla definizione paradigmatica alla descrizione della situazione concreta, vediamo emergere dallo stato di natura tali e tanti difetti da far apparire ineluttabile il passaggio allo stato sociale. «Se l'uomo nello stato di natura è così libero come s'è detto, se egli è signore assoluto della propria persona e dei propri possessi, eguale al maggiore e soggetto a nessuno, perché vuol disfarsi della propria libertà? » La risposta è celebre: « Sebbene allo stato di natura egli abbia tale diritto, pure il godimento di esso è molto incerto e continuamente esposto alla violazione da parte di altri... Il che lo rende desideroso di abbandonare una condizione che, per quanto libera, è piena di timori e di continui pericoli. » Altrove, Locke afferma che « l 'unico, fondamentale motivo » per cui gli uomini entrano in società è il desiderio di uscire dallo « stato di guerra » in cui ineluttabilmente si cade permanendo nella condizione naturale, dove la analogia con la tematica hobbesiana balza evidente, anche se talvolta sembra assumere maggior rilievo una motivazione squisitamente « positiva », quale il desiderio di fruire dei molti vantaggi del lavoro associato. A parte queste incertezze, ciò che in questa sede merita di essere sottolineato è la preoccupazione, veramente centrale nel secondo trattato, di precisare i limiti del potere statale. Coloro che, per un qualunque fine si riuniscono in società, debbono rimettere all'autorità, cui è affidato il compito direttivo, quel tanto di potere che è necessario per la realizzazione degli scopi in vista dei quali la società stessa si è costituita. Orbene la società civile ha lo scopo di rendere concretamente godibile l'uso delle «proprietà» fondamentali dell'uomo: la vita, gli averi e la libertà. L'aver posto la libertà individuale quale fattore costitutivo della persona umana è un tratto veramente originale ed essenziale del pensiero politico lockiano e costituisce il punto di partenza di tutte le dottrine liberali che saranno elaborate nei secoli successivi. Mentre per Hobbes gli uomini rinunciano a tutti i loro diritti a favore del sovrano, tanto che lo stato dovrà essere concepito come « fonte » degli eventuali diritti di cui potranno godere nel quadro della vita associativa, per Locke lo stato non è in alcun caso « fonte » di diritti, ma soltanto strumento che garantisce i singoli contro la violazione che da qualunque parte potrebbe tentarsi dei diritti stessi. Le conseguenze sono di incommensurabile portata. Mentre Hobbes identifica il pactum unionis e il pactum subjectionis, onde conclude che gli uomini sono cittadini soltanto « nello » stato, Locke distingue chiaramente i due momenti e può pertanto concludere che essi sono cittadini anche « di fronte » al potere statale. Con ciò egli inaugura la tradizione autenticamente liberale per cui libertà è prima di tutto libertà « dallo stato», cioè libertà di se-
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guire la propria volontà « in tutto ciò in cui la norma non dà precetti ». Uno stato che non sia concepito al servizio delle « proprietà » dei singoli è, per Locke, nient'altro che tirannide. Dopo aver chiarito come una delle principali garanzie della libertà civile consista nella divisione dei poteri che, per lui, sono il legislativo, l'esecutivo e il federativo, Locke dedica alla tirannide tutta la parte conclusiva del secondo trattato, con pagine nelle quali la stessa compostezza dello stile apparentemente freddo non riesce a celare la vibrante determinazione dell'autore. Tirannide è « ogni esercizio del potere oltre il diritto, a cui nessuno può avere diritto ». « Là dove la legge finisce comincia la tirannide. » « Chiunque nell'autorità ecceda il potere conferitogli dalla legge e faccia uso della forza di cui dispone per compiere nei riguardi dei sudditi ciò che la legge non permette, cessa in ciò di essere magistrato e, in quanto delibera senza autorità, ci si può opporre a lui come ci si oppone a un altro qualsiasi che con la forza viola il diritto altrui. » E ciò vale non solo per i magistrati subordinati ma anche e più per i magistrati più alti. Al limite, dunque, è nettamente affermato il diritto del popolo alla resistenza contro il sovrano tirannico, fermo restando che, nelle controversie fra sovrano e popolo, al popolo e soltanto al popolo spetta giudicare. Non è certo difficile scorgere l'immensa carica rivoluzionaria contenuta in questa e simili affermazioni. VII · ACONFESSIONALITÀ DELLO STATO E TOLLERANZA RELIGIOSA
In una espos1z10ne sintetica del pensiero di Locke in ordine al problema religioso, è opportuno distinguere due gruppi di problemi. Il primo riguarda l'adesione del nostro autore alla concezione deistica 1 e la difesa del cristianesimo quale ((religione razionale». Il secondo riguarda l'elaborazione e la fondazione critica del concetto di tolleranza. Quanto al primo gruppo di problemi, ci limiteremo ad osservare che Locke si muove indubbiamente nel quadro di quel fervido e complesso movimento di idee, centrale della cultura francese e inglese del Seicento, che mira a purificare la fede dalle credenze superstiziose e fissate nella tradizione. Con ciò egli si accosta all'impostazione genericamente cartesiana, secondo la quale la ragione soltanto può fornire il criterio di orientamento nelle scelte religiose; ed anzi procede acutamente oltre tale impostazione. Senonché, se la ragione appare capace sul piano del diritto di riconoscere da sola i fondamenti della vita autenticamente religiosa, le cose vanno assai diversamente sul piano dei fatti. Qui bisogna fare i conti con le passioni e la legI
Sul significato del deismo ritorneremo con maggiore ampiezza nella sezione v.
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gerezza, l 'ignoranza e la superstizione, di fronte alle quali la ragione ha dimostrato storicamente di costituire un rimedio inefficace. Di qui l'inserimento sulla base deistica del riconoscimento della « necessità » della rivelazione e, conseguentemente, della funzione privilegiata del cristianesimo giudicato, ora, come l'evento centrale della storia sia soprannaturale che terrena degli uomini. Per adeguarsi agli scopi assegnatigli da Locke, il cristianesimo deve tuttavia, secondo lui, liberarsi non solo dalla « idolatria » cattolica, ma anche dal « fanatismo » della scelta personale e deve rinunciare alla pretesa di isolare un corpo univoco di verità necessarie. L'essenza del cristianesimo finisce così per identificarsi col metodo della persuasione f~ndata sulla libera discussione. In tal modo Locke si distacca dal deismo classico e al tempo stesso gli rimane fedele, in quanto la posizione privilegiata fatta al cristianesimo deriverebbe proprio, secondo lui, dal fatto che il cristianesimo stesso sarebbe una delle vie per la realizzazione della ragione. Orbene è chiaro che l 'identificazione del cristianesimo con l 'imposizione dell'osservanza della legge naturale può sfociare da un lato nel completo svuotamento del cristianesimo stesso, nella sua totale formalizzazione e nella sua assimilazione in un sostanziale razionalismo, dall'altro nell'annullamento del compito critico e della funzione orientatrice della ragione di fronte alle pretese arbitrarie della fede, sia pure in forza della tesi della necessaria armonia tra fede e ragione. Su questo duplice pericolo Locke non sa dirci una parola precisa e soddisfacente; la cosa non deve comunque stupirei se teniamo conto sia della difficoltà intrinseca del problema, sia della complessa e aggrovigliata condizione in cui versava, ai suoi tempi, il cristianesimo inglese. Analoghe incertezze si ripresentano, nella posizione di Locke, anche a proposito del secondo gruppo di problemi, concernenti la tolleranza. Già accennammo nel paragrafo r alla lunga serie di scritti nei quali Locke affrontò la delicata questione, di sommo interesse sia politico che religioso. Qui possiamo !imitarci a esaminare brevemente il documento fondamentale del pensiero lockiano sull'argomento, cioè l'Epistola del 1689. In primo luogo va detto che la definizione ivi esposta di tolleranza si fonda sul duplice presupposto dell'inalienabile libertà individuale dell'uomo e dei limiti connaturati all'intelletto, che vietano di imporre ad altri come assolutamente e universalmente vere le proprie credenze religiose. Una volta riconosciuta a tutti, almeno in linea di principio, una libertà religiosa « assoluta, giusta, vera, eguale e imparziale », Locke pone però dei limiti precisi che riguardano: 1) coloro che riservano per sé e per i membri della propria setta qualche prerogativa contraria al diritto civile o ai costumi necessari per conservare la società; 2) coloro i quali pretendono per i fedeli pii e ortodossi (cioè, in altre parole, per se stessi) particolari privilegi e la facoltà di esercitare una forma di privilegio sugli altri; 3) coloro per i quali la comunità 471
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religiosa è sotto la protezione e al servizio di un sovrano d'altro paese; 4) coloro, infine, che negano l'esistenza di dio. Si tratta, indubbiamente, di limitazioni importanti, che devono però essere giudicate nel contesto di una particolare situazione storica. Per quanto riguarda i primi tre punti, è ovvio che si riferiscono ai cattolici, o, come allora venivano chiamati in Inghilterra, ai « papisti »: nei loro riguardi, evidentemente, il principio puro della libertà e soverchiato, nel pensiero del nostro aurore, dall'esigenza della sicurezza dello stato. D'altra parte, se consideriamo specialmente i punti r) e z), appare chiaramente come la preoccupazione di ~ocke non si limiti a riguardare l'eventualità dell'intervento di una potenza «straniera» nelle faccende interne dello stato inglese, ma si riferisca, anche e soprattutto, alla possibile iattura della conquista del potere da parte di una setta che accetti la libertà solo strumentalmente, quale via per giungere al potere e per instaurare un regime di illibertà. Che il pericolo insito nella conquista del potere da parte dei cattolici sia precisamente questo, lo aveva inteso chiaramente già Guglielmo di Occam per cui il processo di liberalizzazione della vita sociale, se ha la sua condizione prima nella separazione dello stato dalla chiesa, non può dichiararsi compiuto finché nell'ambito stesso della chiesa non sia stato abbattuto il dispotismo papale. Più difficile, indubbiamente, si fa il discorso qualora si consideri l'atteggiamento del nostro autore nei riguardi degli atei. La tesi lockiana è che « né una premessa, né un fatto, né un giuramento, tutte cose che costituiscono i legami della società, possono costituire qualcosa di sacro e quindi di stabile per un ateo ... e d'altra parte non può invocare nessun diritto alla tolleranza" in nome della religione "chi, con l'ateismo, elimina completamente ogni religione». È la religione stessa, dunque, e in particolare la religione cristiana, la fonte della tolleranza: ci troviamo ancora una volta di fronte a una teoria la quale anziché fare della ragione qualcosa di superiore e cioè di più comprensivo rispetto alla religione in generale, e in particolare alle singole concezioni religiose, identifica la religione - in ispecie il cristianesimo - con la ragionevolezza e quindi con la tolleranza. Senonché, come abbiamo già osservato poco sopra, o la risoluzione della religione nella ragionevolezza è totale, e in tal caso la stessa parola religione si svuota del suo più autentico significato, oppure, in nome della « necessaria » armonia tra le due, si consacra di fatto l'asservimento della ragione ad «una» religione. Ancora una volta dobbiamo riconoscere che la spiegazione di queste gravi incertezze di Locke va soprattutto cercata nelle particolari vicende politico-religiose attraversate dall'Inghilterra durante il xvn secolo. Un merito comunque non può essergli negato: quello di avere compreso che l'attuazione della tolleranza non è solo un problema religioso, ma in primo luogo un problema politico; essa è infatti uno dei modi più efficaci con cui lo stato può risolvere il dif-
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ficile problema della convivenza tra i suoi cittadini, allorché questi - come appunto accadeva nell'Inghilterra di allora- appartengono a fedi religiose diverse. Questa chiara consapevolezza costituirà un punto basilare della concezione moderna del vivere civile. VIII · IL
PENSIERO
PEDAGOGICO
L'importanza di Locke come pedagogista non emerge soltanto dai suoi scritti espressamente dedicati al problema dell'educazione, ma anche da quelli dedicati alla politica o alla religione e dallo stesso Saggio sull'intelletto umano. Un primo tratto da sottolineare in tutto questo ampio settore della produzione del nostro autore, è che egli si occupa quasi esclusivamente della formazione del gentleman. Nei Pensieri sull'educazione tale limitazione può risultare giustificata dall'origine stessa dell'opera (nata, come già abbiamo detto, quale serie di lettere scritte da Locke all'amico Edward Clarke, appartenente all'aristocrazia inglese, che gli aveva chiesto consiglio circa l'educazione dei propri figli); è però un carattere che si riscontra in pressoché tutti gli altri scritti lockiani sull'argomento. Il fatto va spiegato tenendo conto del pesante condizionamento che la società inglese dell'epoca esercita sul nostro autore. Già sappiamo dal capitolo XII che era una società profondamente divisa in classi, ove le classi subalterne non esercitavano alcuna funzione direttiva nella vita politica e culturale né in quella economica. Proprio perciò sembra a Locke sufficiente « formare dei perfetti gentiluomini; poiché una volta che i giovani di questo ceto, per mezzo dell'educazione loro impartita, lo .siano diventati, essi faranno presto a indurre tutti gli altri a seguire il loro esempio». Senonché - come appunto ricordammo nel capitolo testé citato - i gentlemen del xvii secolo sono ben diversi dai nobili francesi, italiani, spagnoli, tedeschi della medesima epoca. Indipendentemente dal grado e dall'antichità del titolo nobiliare, essi costituiscono una classe dirigente attiva che non teme di « sporcarsi le mani» col commercio e l'industria; una classe che si dedica all'impresa economica come alle professioni liberali, alla diplomazia, alla magistratura; una classe che realizza direttamente la propria egemonia in tutti i settori della vita nazionale. Il gentiluomo inglese per affermarsi deve c;:ontare soprattutto sulle doti e sulle abilità personali. Non gli è sufficiente pertanto un'educazione puramente retorico-letteraria: a lui si addice un'educazione nobile ma nel senso che già il Milton aveva attribuito a questa parola, vale a dire quell'educazione «che mette l'uomo in grado di assolvere con giustizia, abilità e coraggio tutti i compiti pubblici e privati, in pace e in guerra ». Di qui il secondo tratto caratteristico dell'opera pedagogica di Locke: il suo rifiuto di un'educazione puramente classicistica, che faccia perno sul latino come materia formativa del giovane (il nostro autore non giungerà ad escludere
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Locke
il latino dal curriculum scolastico, mentre escluderà il greco, ma proporrà che esso venga insegnato come una lingua viva, moderna). Quale ha dunque da essere, secondo Locke, il fine dell'educazione? Il suo punto di vista in proposito è mirabilmente sintetizzato nelle seguenti parole, ricavate dai Pensieri sull'educazione: «Conservare forte e vigoroso il corpo, in modo da renderlo idoneo ad obbedire alla mente e ad eseguire gli ordini ... dare alla mente un retto indirizzo affinché in ogni contingenza non sia disposta a consentire se non a ciò che è conforme alla dignità e all'eccellenza di una creatura ragionevole.» Ma che cosa è conforme alla dignità e all'eccellenza di una creatura ragionevole? Ancora nei Pensieri troviamo questa rapidissima risposta: virtù, saggezza, civiltà, cultura. Virtù è l'amore e la reverenza per l'essere supremo, l'abitudine alla sincerità e alla benevolenza verso il prossimo. Saggezza è la capacità di regolare i propri affari con abilità e previdenza senza ricorrere all'astuzia e all'inganno. Civiltà è la dote di non ispirare i propri rapporti con gli altri né a un troppo basso sentire di sé né a un concetto troppo basso dei nostri simili. Quanto alla cultura, basti per ora sottolineare il fatto che deve essere subordinata alle altre doti, senza delle quali finirebbe per costituire un fattore di squilibrio e di disordine. Solo una classe costituita da uomini virtuosi, saggi, civili e colti potrà dirigere lo stato in modo tale che esso conservi e promuova i beni civili, vale a dire la vita, la libertà, l'integrità, il benessere del corpo, la proprietà privata. Questo, dunque, il fine dell'educazione. Ma è l'uomo suscettibile di perfezionarsi fino al raggiungimento di tale fine? A questo proposito può sembrare che Locke oscilli fra due posizioni antitetiche. Nei Pensieri, infatti, troviamo scritto che « i nove decimi di tutti gli uomini sono quel che sono ... per effetto dell'educazione ricevuta»; e nella Guida dell'intelletto leggiamo: «La più parte degli uomini non arrivano là dove potrebbero perché trascurano di coltivare il loro ingegno.» D'altro canto, negli stessi Pensieri Locke afferma che «Dio ha impresso nell'anima degli uomini certi caratteri che possono forse venir leggermenti modificati... ma che difficilmente possono essere trasformati in altri caratteri opposti ». Analogamente, nella Guida, egli dichiara che nessuna tecnica o arte può rendere un uomo atto a fare ciò per cui sia naturalmente refrattario. In realtà, la prima tesi risulta nel complesso prevalente e Locke finisce con l'ammettere che l'esercizio non solo conduce verso la perfezione le facoltà e i poteri nativi, ma addirittura può far fiorire la maggior parte di quelle qualità eminenti che sono generalmente considerate doti eccezionali. L'uomo insomma, sia in quanto corpo, sia in quanto mente, «è quale lo rende l'esercizio». In questa funzione determinante attribuita all'esercizio riecheggia chiaramente quel significato concreto ed attivo dell'esperienza che abbiamo più volte cercato di spiegare nelle pagine precedenti: esperienza che non va intesa, secondo 474
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Locke
Locke, come una mera fabula rasa, ma come il risultato di un profondo e complesso impegno costruttivo dell'uomo. Chiariti così alcuni punti generali, ci sembra ora opportuno affrontare un esame alquanto più particolareggiato dei Pensieri sull'educazione. I primi capitoli sono dedicati all'educazione fisica. Si tratta di irrobustire il corpo e di disciplinarne gli impulsi fino a renderlo un efficiente strumento della ragione. Il metodo consigliato è quello cosiddetto dell'indurimento, che potrebbe riassumersi in questa breve massima: « I signori trattino i propri bambini come fanno con i loro i buoni agricoltori. » Il fanciullo deve avvezzarsi a sopportare il caldo dell'estate e il freddo dell'inverno, l'umidità e le fatiche. Impari quanto prima a nuotare, stia e giochi molto all'aria aperta; dorma a sazietà ma si avvezzi alletto duro e all'alzata mattiniera; si nutra con cibi comuni e semplici e impari a consumare i pasti a qualunque ora, per non diventare schiavo delle abitudini contratte dallo stomaco. Niente vino e bevande alcooliche; possibilmente niente medicine. Solo così, una volta cresciuto, potrà godere della salute necessaria per i suoi affari e di una costituzione robusta capace di sopportare privazioni e fatiche, atta a farlo procedere lungo la strada della felicità. Per essere felice l'uomo ha tuttavia bisogno non solo di un corpo robusto e sano ma anche di una mente sana che lo guidi. Così all'educazione fisica succede quella morale e civile. Si tratta, in verità, di una successione più logica che cronologica. Locke infatti insiste perché si cominci a rendere obbediente alla disciplina e pieghevole alla ragione l'animo del bambino quando, nella prima infanzia, esso è maggiormente sensibile e facile ad essere plasmato. Chi non impara a rinunciare ai propri desideri, ad opporsi alle proprie inclinazioni, a seguire la ragione contro gli appetiti fin dai primi anni, rischia di non impararlo mai più. Locke critica duramente quei genitori i quali, per un malinteso amore, amano nei loro piccoli anche i difetti, giustificandosi col dire che i capricci e le mancanze dei bambini sono, in sé, poca cosa. Non è il contenuto, la materia dell'azione che conta; è l'atteggiamento di chi la compie. Risulta chiaro da tutto questo che il nostro autore intende il fanciullo non come un essere dotato di una psiche « qualitativamente » diversa da quella degli adulti, ma semplicemente come un uomo in fieri, meno esperto e quindi meno saggio; più malleabile perché meno formato ma sostanzialmente identico al futuro uomo. Il bambino, insomma, è l'uomo allo stato di natura, geloso della sua indipendenza, desideroso di agire liberamente (di qui l'amore per il gioco), bramoso di potenza (di qui i capricci) e di dominio (di qui la tendenza a impadronirsi e a disporre di tutte le cose). Il bambino non è irragionevole nel senso che in lui prevalgano facoltà diverse dalla ragione; egli è soltanto meno :ragionevole dell'adulto, in quanto la :ragionevolezza si forma e si sviluppa con l'esperienza, con l'esercizio. 475
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Locke
I limiti entro i quali Locke intende che si possa parlare di ragionevolezza dei bambini, sono chiaramente segnati dall'importanza che egli attribuisce al momento dell'eteronomia nella prima fase dell'educazione. Il maggior rigore, egli dice, è necessario precisamente con l'età tenera, incapace di autogoverno. «La ragionevolezza, a quest'età, deve essere più nelle cose, nell'ambiente, nel comportamento dei grandi, nell'esempio, che nei discorsi. Più tardi verranno la confidenza e le discussioni, e fra educando ed educatore si stabiliranno rapporti di amicizia e collaborazione. Per ora il rapporto deve essere del tipo di quello intercorrente fra il suddito e il sovrano, ispirato a rispettoso timore. Ciò che stimiamo necessario sia fatto dal bambino, bisogna inculcarglielo mediante l'esercizio. Ciò formerà le abitudini le quali, una volta prese, agiranno da sole in modo facile e naturale. » Ma come potremo armonizzare il momento, ora accennato, dell'eteroeducazione con quello - altrettanto importante per Locke - dell'autoeducazione, direttamente connesso a ciò che egli ritiene più caratteristico dell'attività umana, la libertà? La difficoltà del quesito è fin troppo manifesta: se infatti si identifica semplicisticamente la libertà del bambino con la spontaneità, non si vede perché, né quando, né come egli possa e debba riconoscere ed accettare l'imperativo di una legge oggettiva; se, al contrario, sottoponiamo il bambino alla costante azione di una volontà e di una ragione a lui esterne, non si vede perché, né quando né come egli debba acquisire la capacità di autogovernarsi. Locke vede chiaramente i termini della questione e il suo principale merito, nel campo pedagogico, è forse proprio quello di avere, con finezza ed equilibrato realismo, lumeggiato il difficile cammino lungo il quale il fanciullo passa, dalla condiscendenza e arrendevolezza di fronte agli educatori, alla pienezza dell 'autogoverno. La finezza e l'equilibrato realismo del nostro autore si rivelano particolarmente nelle pagine dedicate al gioco, ai castighi, alle ricompense e al sentimento dell'onore. Per quanto riguarda il gioco, Locke afferma da un lato, che « non vi può essere svago senza gioia », e che, dipendendo questa più dalla fantasia che dalla ragione, « bisogna permettere ai bambini non soltanto di divertirsi, ma anche di farlo a modo loro »; dall'altro che « tutti i giochi e tutti gli svaghi dei bambini debbono essere diretti a formare abitudini buone ed utili ». L'armonizzazione di queste due esigenze apparentemente inconciliabili sarà attuata nella misura in cui riusciremo a ottenere, con pazienza e saggezza, che i fanciulli « facciano sempre con gioia quelle cose che per loro sono di vantaggio ». Il segreto per giungere a tanto è nel sapere interrompere le occupazioni utili e serie prima che i bambini ne siano stanchi e annoiati, così che vi tornino con desiderio, e nel disavvezzarli con la sazietà dai giochi puerili. Alternando gli esercizi del corpo e quelli dello spirito, ridestando con la varietà l 'interesse e la
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Locke
gioia per ogni tipo di lavoro utile, potremo rendere tutta la vita e il progresso « un succedersi continuo di svaghi in cui la parte stanca trova sempre sollievo e ristoro ». Per quanto riguarda i castighi e le ricompense, il criterio informatore di Locke è molto chiaro. Dal momento che uomo buono, saggio e virtuoso è quello che sa resistere ai propri appetiti e rinunciare alle proprie inclinazioni ogni qualvolta la ragione glielo consiglia e il dovere lo esige, la punizione e la ricompensa - e in particolar modo la punizione corporale e la ricompensa costituita da piaceri e beni materiali - invertono l'ordine dell'educazione, facendo dipendere la virtù, anziché dali 'interiore convincimento e dalla retta ragione, dal timore del castigo o dal desiderio del piacere fruibile nella ricomP,ensa. Con ciò Locke non giunge a condannare in maniera assoluta l 'uso delle punizioni corporali, ma le vuole, comunque, usate in casi di estrema necessità, dopo che tutti i modi persuasivi siano stati sperimentati e siano dimostrati inefficaci. Esclusa la punizione e la ricompensa, in attesa che la ragione instauri un saldo autogoverno, il più efficace fattore educativo risulterà il sentimento dell'onore. L'approvazione e la disapprovazione non costituiscono il vero principio né la misura della virtù. La virtù infatti consiste nella conoscenza che l'uomo ha del proprio dovere e nella soddisfazione che prova obbedendo al creatore. L'approvazione e la disapprovazione costituiscono però « il vero tronco su cui si potranno innestare in seguito i giusti precetti della morale e della religione». In esse, intese come prova del comune consenso degli uomini circa la virtù, quest'ultima è per così dire riflessa in termini universali. Così il sentimento dell'onore rappresenta il ponte gettato fra il piano del mero edonismo e quello della moralità. I censori di questa dottrina lockiana mostrano di non aver tenuto nel dovuto conto il fatto che egli parla del valore educativo del desiderio di approvazione solo in rapporto ai bambini. Che poi anche molti adulti non riescano a spingersi più in là significa solo che essi non hanno saputo svolgere completamente la loro ragionevolezza. La vera difficoltà, semmai, nasce dal fatto - di cui Locke, come appare da alcuni appunti del suo diario, dimostra di essere ben consapevole - che il « comune consenso » degli uomini non ha sempre quale oggetto i precetti della morale e della religione, ma spesso si forma a proposito di beni materiali ed è, comunque, soggetto a variare da luogo a luogo, da epoca a epoca. «Il sentimento dell'onore in un paese foggia dei mercanti, in un altro dei soldati, e in un altro dei fisici e dei matematici. Dove i ricchi sono tenuti in considerazione, la furfanteria e l 'ingiustizia che hanno prodotto la loro ricchezza non incontrano disfavore. » Il costume ha un'importanza primaria nella formazione dei giovani, assai più delle leggi. Ma come creare un costume conforme alla morale e alla religione? Attraverso l'educazione? Ma in questo caso ci troveremmo in un circolo chiuso! 477
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Locke
D'altra parte Locke se ne rende conto quando afferma: «Sto esponendo c1o che secondo me dovrebbe farsi; e se ci fosse già l 'abitudine di farlo, non avrei bisogno di seccare il prossimo con un discorso su questo argomento. » Il problema è precisamente quello di rompere il cerchio, cominciando a riformare la classe dirigente: gli altri seguiranno. Dopo quanto abbiamo detto sul difficile problema dell'armonizzazione fra auto ed eteroeducazione, possiamo ora riprendere il tema che abbiamo di proposito lasciato da parte alcune pagine addietro. Si è ricordato che nei Pensieri, rispondendo al quesito «che cosa è conforme alla dignità e all'eccellenza di una creatura ragionevole?», Locke elenca nell'ordine: virtù, saggezza, civiltà, cultura. Dobbiamo concluderne che, trovandosi la cultura al quarto posto, il nostro autore attribuisca al sapere un valore secondario nella formazione dell'uomo? La discussione del problema è particolarmente importante, perché ci costringe a collegare l'argomento specifico del presente paragrafo con quanto abbiamo detto nei precedenti circa la profonda innovazione recata dal nostro autore alla nozione stessa di « sapere ». Locke è lontanissimo dal negare che la cultura sia di grande aiuto agli uomini « quando essi abbiano l 'intelletto equilibrato »; però è fermamente convinto che, «quanto a coloro che non sono equilibrati, essa li aiuti soltanto ad essere più sciocchi o peggiori ». Il mero possesso di nozioni non è « sapere ». Sapere è ragionare e ciò vuoi dire « appoggiarsi a principi fissi e indubitabili ... osservare la concatenazione delle idee e seguirle per ordine ». Ragionare vuoi dire saper conservare un atteggiamento di sereno equilibrio di fronte alle opinioni finché non ne siamo convinti per mezzo di prove irrefutabili, « nel che consiste quella libertà dell'intelletto che si richiede in ogni creatura ragionevole e senza della quale non vi sarebbe più intelletto ». Il fine dello studio non è dunque di rendere i giovani « perfetti in tutte le scienze », e neppure in una sola, « ma di dare al loro intelletto quella libertà, quella disposizione e quelle abitudini che possono metterli in condizione di pervenire da soli, in un momento ulteriore, a quelle cognizioni a cui aspirano e che potranno essere loro di giovamento». Il tema della libertà, come superamento della logica degli affetti da un lato e del principio di autorità dall'altro, domina in tutta l'opera lockiana, ma specialmente nella Guida. L'uomo deve imparare a trovare solo nella propria ragione la misura di ogni verità, la norma di ogni azione. Non ci si deve rinchiudere per pigrizia, per ristrettezza mentale o per paura in vedute parziali, unilaterali. Guai a coloro che conversano con una sola specie di persone, leggono una sola specie di libri, ammettono una sola specie di idee! Chiunque avrà il coraggio e l 'onestà di informarsi delle diverse correnti di idee e su di esse eserciterà senza preconcetti la ragione, vedrà la sua mente acquistare nuove forze, la sua intelligenza farsi più agile, tutte le sue facoltà
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Locke
accrescersi. Nessuna parzialità è ammessa: né a favore degli antichi o dei moderni, né contro gli antichi o i moderni, né in pro del!' opinione popolare né contro l'opinione popolare. « Non dobbiamo giudicare le cose secondo le opinioni, ma le opinioni secondo le cose ... Conoscere è vedere, ed è la più solenne di tutte le pazzie il credere di poter vedere con gli occhi di un altro, per quanto egli ci assicuri con tono fermissimo che nulla è più visibile di ciò che egli dice. Finché non vediamo con i nostri occhi e non comprendiamo con il nostro intelletto, noi andiamo fra le tenebre ... Non deve mai il rispetto o il pregiudizio render belle o deformi le opinioni altrui. » Qui, veramente, l 'umanesimo lockiano. si rivela in tutta la sua straordinaria modernità. L'ideale moralistico-religioso è ormai nettamente superato. L'unica moralità è quella del sapere, umile ed eroico ad un tempo, impegnato a costruire in uno sforzo corale di tutti gli individui e di tutte le epoche un mondo migliore. Prescindendo da molti altri punti particolari - sui quali, per evidenti limiti di spazio, non possiamo qui soffermarci - sembra lecito considerare la tesi testé accennata come la vera conclusione di tutta la pedagogia di Locke. Essa prova in modo manifesto che le varie riflessioni sul problema educativo non costituiscono un settore isolato nell'ambito della vasta produzione filosofica del nostro autore, ma si connettono intimamente ai temi più profondi della concezione lockiana dell'uomo e della civiltà. Abbiamo ritenuto doveroso sottolinearne, insieme con i pregi, anche i numerosi e gravi limiti, che possono riassumersi nell'incapacità di Locke di impostare il problema educativo indipendentemente dalle strutture politico-economico-sociali dell'Inghilterra del suo tempo. Una cosa non va comunque dimenticata: che la pedagogia di Locke, come il suo empirismo e il suo liberalismo, segnò una tappa fondamentale nella storia del pensiero moderno; tappa a cui dovranno fare costante riferimento sia i seguaci sia gli avversari dell'indirizzo da lui aperto.
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CAPITOLO
QUATTORDICESIMO
Leibniz
I
· VITA
E
OPERE
Gottfried Wilhelm Leibniz nacque a Lipsia nel I646 da una famiglia di elevata cultura; il padre e il nonno materno erano stati professori di materie giuridiche in quella università. Rimasto orfano di padre a soli sei anni, il giovane orientò da sé i propri studi, trascorrendo gran parte della giornata nella biblioteca paterna e leggendovi di propria iniziativa tutto ciò che gli sembrava importante. Fu quindi la sua stessa formazione a spingerlo verso quella universalità di interessi, che rimarrà una delle caratteristiche principali di tutta la sua attività di studioso. Vennero da lui seriamente approfonditi sia gli autori medievali sia quelli moderni, onde il suo animo si trovò molto presto di fronte al conflitto fra la concezione teologica degli scolastici e la concezione meccanicistica dei cartesiani. Non soddisfatto né dell'una né dell'altra, egli cominciò fin da allora a proporsi il compito di trovare una filosofia che riuscisse a conciliarle entrambe. Dal I661 al '64 studiò discipline filosofiche (scrivendo in proposito una breve Disputatio metapi?Jsica de principio individui) e discipline giuridiche, dapprima nell 'università di Lipsia, poi in quella di Altdorf ove si addottorò con una tesi dal titolo De casis perplexis in jure. Nei medesimi anni si rivolse pure con ardore a indagini di logica formale, pubblicando nel 1666 la Disserta/io de arte combinatoria della quale si è già fatto parola nel capitolo IX. Vale la pena qui ribadire che, in tale scritto, il giovane autore difende il valore della logica non solo come ars dentonstrandi ma anche come ars inveniendi, riproponendo in un nuovo senso l'ambizioso programma del logico medievale Raimondo Lullo. Un anno più tardi (1667) scrisse un importante saggio di argomento giuridico, dal titolo Nova methodus discendae docendaeque jttrisprudentiae. Poco dopo conseguita la laurea aveva ricevuto dall'università di Altdorf l 'invito ad assumervi un insegnamento di diritto, ma Leibniz non accettò, preferendo dedicarsi alla carriera di uomo di corte, cui sentivasi spinto da un vivo interesse per la diplomazia. Nel 1670 ottenne, con l'appoggio di amici, un impiego di consigliere presso
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Leibniz
la cancelleria di corte dell'elettore di Magonza, Giovanni Filippo. Due anni più tardi questi lo inviò a Parigi per una missione diplomatica, sul cui significato politico torneremo tra breve. Fu un viaggio molto importante per la formazione di Leibniz. A Parigi, infatti, egli entrò in contatto con il più alto ambiente culturale francese, di cui riuscì subito a conquistarsi la stima, e in particolare con Christiaan Huygens che lo orientò verso le ricerche matematico-fisiche moderne. Nel 1673, sempre in missione diplomatica, passò qualche tempo a Londra, ove fu presentato al segretario della Royal Society, che lo informò sulle importanti ricerche in quegli anni perseguite dai maggiori scienziati inglesi, e innanzitutto da Newton. Essendo morto nel frattempo l'elettore Giovanni Filippo, Leibniz decise di tornare in patria per cercare una nuova sistemazione. Tuttavia rimase ancora, per circa due anni, a Parigi; e durante il viaggio di ritorno in Germania, passò di nuovo a Londra e quindi in Olanda, ove conobbe personalmente Spinoza. Risalgono al 1675-76 le prime invenzioni leibniziane nell'ambito dell'analisi infinitesimale. Continuava nel frattempo a interessarsi profondamente anche di filosofia, ma i suoi scritti di una certa importanza su questo argomento sono posteriori di qualche anno. Va comunque ricordato il dialogo di tipo platonico, dal titolo Pacidius Philalethi, composto dal nostro autore nel 1676 e rimasto inedito fino ai primi anni del secolo ventesimo: esso è molto significativo sia per il pensiero matematico sia per il pensiero filosofico leibniziano. Nel medesimo anno entrò, con la carica di bibliotecario, nella corte di Giovanni Federico di Braunschweig-Liineburg, duca di Hannover; vi rimarrà, con funzioni di responsabilità via via maggiore, anche dopo la morte di Giovanni Federico. Stabilitosi ad Hannover, Leibniz fu subito occupato da una gran massa di lavoro amministrativo e politico, il che tuttavia non gli impedì di proseguire con successo i suoi studi scientifici e filosofici. Basti tener presente che proprio al 1679 risale- come venne ricordato nel capitolo I X - una nuova fase di particolare attività logica. Già sappiamo dal capitolo I che nel 1682 egli fondò gli «Acta eruditorum ». Nel 1684 vi pubblicherà una celebre memoria contenente l'esposizione chiara e precisa delle principali :regole del suo calcolo differenziale; il titolo di tale memoria era: Nova methodus pro maximis et minimis itemque tangentibus. Ad essa faranno seguito, sempre sul medesimo periodico, altre importanti memorie di argomento matematico e fisico. Fra quelle di argomento fisico ci limitiamo a ricordarne una, pubblicata nel 1686, volta a dimostrare «un rimarchevole errore di Cartesio e di altri, concernente la legge naturale in base a cui essi pensano che il Creatore conservi sempre la medesima quantità di moto, legge da cui viene pervertita l'intera scienza della meccanica». Quanto alle memorie di argomento matematico, basti dire che esse si susseguono con notevole frequenza fino ai primi anni ,jel Settecento e che contengono quasi tutti i contributi di
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Leibniz
Leibniz all'analisi infinitesimale: studio del problema dell'angolo di contatto in rapporto con la teoria generale dell'osculazione (I686), determinazione della linea isocrona(I689) e della catenaria(I69I-92), integrazione per serie(I7o2), ecc. Nel I 68 5 elaborò una breve trattazione di filosofia, dal titolo Discours de métaphysique (Discorso di metafisica), che l'anno successivo inviò (in sommario) ad Antoine Arnauld, di cui era diventato amico a Parigi. Ricevuto l'incarico di scrivere una storia della casa di Braunschweig-Liineburg, iniziò nel I687 un secondo grande viaggio, per cercare nelle biblioteche e negli archivi delle maggiori città europee precisi documenti sugli eventi della nobile famiglia. Visitò pertanto la Baviera, l'Austria e l'Italia ove si spinse fino a Roma. Nel I 69o era di ritorno ad Hannover. Anche nella sua opera di storiagrafo Leibniz fu ammirevole, sia per i criteri di rara serietà con cui seppe eseguire le ricerche, sia per la vastità degli interessi in esse rilevati. Ed infatti non si occupò soltanto degli eventi della casa di Braunschweig-Liineburg, ma allargò le sue indagini alla storia di tutta la Germania, in particolare di quella più antica. Al medesimo ordine di interessi vanno pure collegati gli studi da lui rivolti all'antica lingua germanica e all'antica lingua celtica. Non ci si può formare un quadro fedele della complessa personalità di Leibniz, senza tenere conto della sua attività di storiografo e di filologo accanto a quella di logico, matematico, fisico, giurista e filosofo. Il fatto davvero straordinario è che questa attività scientifico-filosofica proseguì intensissima negli anni in esame, come è testimoniato non solo dai vari scritti del nostro autore risalenti a quest'epoca ma anche dal suo ricco epistolario. Si appassionò pure di problemi biologici per i quali conserverà anche in futuro un vivo interesse, secondo quanto risulta dalle sue lettere, da parecchi cenni a problemi di biologia contenuti nelle opere filosofiche, e dall'opuscolo Considérations sur /es principes de vie et sur /es natures plastiques (Considerazioni sul principio vitale e sulle nature plastiche) che scriverà nel I705. Nel I692 il duca di Hannover ottenne l'elettorato, e questo rappresentò senza dubbio un successo anche per Leibniz, che vi aveva collaborato validamente con la sua opera di storiografo di corte. La fama del nostro autore crebbe in tutta l'Europa ond'egli ottenne i più ambiti riconoscimenti. Nel I699 venne nominato membro dell'accademia delle scienze di Parigi; nel 1700 consigliere di giustizia dell'elettore di Brandeburgo e presidente perpetuo dell'accademia di Berlino, nel I7I I consigliere segreto dello zar Pietro r, e, nello stesso anno, consigliere aulico dell'imperatore e barone del sacro romano impero. Va osservato che l'attribuzione di tanti onori veniva a coronare l'opera di Leibniz non solo nel campo scientifico-filosofico, ma anche in quello della politica, opera che faceva di lui l'uomo più rappresentativo della nuova cultura germanica. A testimoniare la sua attività di studioso nel campo della filosofia, ci limiteremo a ricordare alcune delle opere principali composte - tutte in francese - per l'appunto nell'ultima fase della sua vita, cioè dal I69o in poi (facendo
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Leibniz
notare però che nessuna di esse contiene tutto intero il pensiero di Leibniz e che, anzi, questo può venire ricavato, meglio che dalle opere, dal suo epistolario e dai molti appunti e frammenti lasciati inediti) : Système nouveau de la nature et de la communication des substances (Nuovo sistema della natura e della comunicazione delle sostanze), pubblicato nel I695; Nouveaux essais sur l'entendement humain (Nuovi saggi sull'intelletto umano), in risposta al Saggio di Locke (poiché l'inglese morì prima che l'opera fosse terminata, Leibniz non volle pubblicarla; essa venne stampata solo nel I 76 5); Essais de théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l'ho m me et l'origine du mal (Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell'uomo e l'origine del male), pubblicato nel I 7 I o; La monadologie (Monadologia), composta durante un soggiorno di Leibniz a Vienna nel I 714, per esporre brevemente la teoria delle monadi al celebre generale, e suo amico, principe Eugenio di Savoia (essa venne pubblicata dopo la morte dell'autore); Principes de la nature et de la grace fondés en raison (Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione, I 7 I4)· Nel I699 ebbe inizio però uno dei più spiacevoli episodi della vita di Leibniz: la sua controversia con Newton circa la priorità nell'invenzione del calcolo infinitesimale; controversia che non fece onore né all'uno né all'altro, e che allo storico moderno del pensiero matematico appare completamente ingiustificata, dato che il calcolo infinitesimale non fu a rigore « inventato » né da Newton né da Leibniz, i quali non fecero altro - come cercammo di spiegare nel capitolo x - se non dare una forma sistematica alle idee già elaborate dai matematici delle generazioni precedenti. Volendo comunque dare qualche notizia, sia pur molto breve, dell'episodio che tanto incise sulla vita del nostro autore occorrerà premettere uno schematico cenno ad alcuni antefatti, indispensabili per comprendere lo sviluppo della controversia: I) come si è poco sopra ricordato, il segretario della Royal Society aveva nel I673 informato Leibniz (allora di passaggio a Londra) che qualche anno prima Newton aveva compiuto sull'argomento alcune importanti ricerche, non pubblicate ma rese privatamente note a vari amici; 2) ritornato a Parigi, Leibniz aveva sollecitato con insistenza ulteriori notizie, ottenendo - solo nel I 676 - due lettere di Newton, nelle quali questi spiegava i risultati raggiunti, usando però un linguaggio così oscuro, da non poter venire compreso se non da chi fosse già a conoscenza delle regole del nuovo calcolo; 3) nel I684 Leibniz aveva avuto il grave torto di non ricordare - nella sua famosa memoria - il nome di Newton; 4) questi invece aveva esplicitamente fatto cenno alle ricerche leibniziane nei suoi celebri Principia del I687 (vero è che la memoria di Leibniz era stata pubblicata sugli « Acta eruditorum » e quindi non era lecito ignorarla). Fu nel I 699 che la controversia scoppiò in modo clamoroso; essa venne iniziata da un discepolo di Newton, Nicola Faccio di Duiller (di origine ticinese),
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Leibniz
che in quell'anno pubblicò uno scritto in cui sosteneva non essere Leibniz il primo inventore del nuovo calcolo. Questi gli rispose sugli « Acta » e fece respingere una replica inviata da Faccio al medesimo periodico. La polemica riprese più violenta nel 1705, in seguito alla comparsa sugli «Acta» di una recensione anonima (probabilmente scritta da Leibniz stesso) del Tractatus de quadratura curvarum pubblicato da Newton nel 1704 in appendice al suo celebre volume di ottica. Si ebbero accuse e controaccuse e ne fu interessata la Royal Society della quale erano membri sia Newton sia Leibniz. Questa nominò una commissione incaricata di dirimere il problema in base a un attento esame dei documenti; essa era però indubbiamente manovrata da Newton (dal 1703 presidente della medesima Royal Society) sicché concluse le proprie indagini con un esplicito riconoscimento della priorità dell'inglese. Leibniz non accettò il verdetto, e al Commercium epistolicum elaborato dall'anzidetta commissione ne oppose un altro, in cui cercava di provare la tesi opposta. A questo punto si intromisero nella vertenza gli antagonismi politici fra inglesi e tedeschi, e Leibniz si trovò a dover lottare da solo contro la potentissima Royal Society, onde ne usci completamente sconfitto, coperto dal disprezzo generale. Prima di delineare i motivi del suo isolamento e della sua sconfitta, occorre dire con chiarezza che - se è incontestabile che Newton lo precedette di parecchi anni nelle sue ricerche sul calcolo infinitesimale - vero è però che non per questo Leibniz può venire seriamente accusato di plagio. Innanzitutto perché egli seppe ideare per tale calcolo un algoritmo assai migliore di quello newtoniano; in secondo luogo perché vi giunse a partire da una concezione filosofica generale, e non, come Newton, essenzialmente sollecitato dalla preoccupazione di potenziare gli strumenti della matematica e della fisica. Da questo punto di vista il divario fra lui e lo scienziato inglese è strettamente analogo a quello esistito tra i due inventori della geometria analitica, Cartesio e Fermat. Volendo ora schematicamente esporre le complesse vicende politiche che a un certo momento si intromisero nella controversia fra Newton e Leibniz, determinandone la conclusione, sarà opportuno rifarci alquanto indietro negli anni, onde cercar di enucleare le linee direttrici rintracciabili in pressoché tutta l'opera politica del nostro autore, fin dagli anni della sua giovinezza. Questa opera fu costantemente ispirata ad un unico fine: la rinascita culturale, religiosa, politica del popolo tedesco. Esso si rivela in qualche modo presente perfino nel suo pensiero filosofico-politico, malgrado l 'universalismo delle dottrine leibniziane. 1 All'anzidetto fine dobbiamo, comunque, collegare le varie 1 Come pensatore politico, Leibniz non ri- , velò un'originalità e profondità pari a quelle dimostrate negli scritti di filosofia, di logica, di matematica e di fisica. Egli si ricollegò alle teorie giusnaturalistiche e ammise che lo jus naturale sa-
rebbe costituito dalla armonica unione del diritto e della giustizia, unione eterna e propria della stessa natura divina. Il diritto naturale, in cui si trovano insieme l 'utile e il giusto, può secondo lui venir considerato sotto tre diversi aspetti: il
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Leibniz
iniziative diplomatiche di Leibniz, se vogliamo renderei conto del loro effettivo significato. Esse possono venire distinte in due gruppi complementari: iniziative dirette a stornare dalla Germania la pesante pressione politico-militare francese; e iniziative dirette a ristabilire l 'unità dei tedeschi infranta da circa un secolo di guerre religiose. Tra quelle del primo gruppo merita particolare rilievo l 'iniziativa, singolarmente utopistica malgrado la sua apparente concretezza, conclusasi con la consegna a Luigi xrv del famoso progetto del I 67o. In questo progetto Leibniz suggeriva al re di Francia di muovere alla conquista dell'Egitto, passando poi in Turchia, per giungere alle Indie e sferrare un colpo mortale all'Olanda (la tenace avversaria dei francesi) proprio nel cuore della sua potenza coloniale. Il progetto non venne preso in alcuna seria considerazione, e la politica della Francia rimase immutata, sia in Europa ove continuò a seminare guerre tra i cristiani, sia in Asia ove continuò a basarsi sull'alleanza con l'anticristiana Turchia. Tra le iniziative del secondo gruppo, la più importante fu quella rivolta alla riunificazione delle varie confessioni cristiane, in cui Leibniz vedeva l'indispensabile presupposto della pacificazione interna dei tedeschi. Fin dal I 670 egli si appassionò al delicato problema, e per tutta la vita continuò a dedicarvi gran parte delle proprie energie, vuoi come filosofo-teologo, per trovare una concezione del mondo che potesse costituire la solida base del cristianesimo universale, vuoi come diplomatico, per appoggiare tutte le iniziative rivolte all'anzidetta unificazione (provenissero esse dal papa o dai principi protestanti). È significativo che, anche su questo punto, l'iniziativa di Leibniz si scontrò contro la tenace resistenza della Francia; e non solo dei politici francesi - il che era abbastanza comprensibile, dato il loro evidente interesse a mantenere disunita la Germania - ma pure dei teologi cattolicissimi come Bossuet. Questi ammantarono il proprio atteggiamento con un 'intransigenza fanatica che non poteva non offendere la religiosità filosofica di Leibniz: sostennero, infatti, che l 'unica via per unificare i cristiani avrebbe potuto consistere nella completa e totale sottomissione dei protestanti. L'opposizione del «re cristianissimo» alle due iniziative ora riferite suscitò in Leibniz un aspro risentimento che lo accompagnò fino alla morte. Fu proprio questo risentimento - di cristiano, ma ancor più di tedesco - che lo indusse a scrivere una lunga serie di pamphlets contro Luigi xrv, a cominciare dal I684, fino agli ultimi anni della sua vita. Il primo di essi portava il titolo, molto significativo, di Mars christianissimus ed era un'aperta denuncia della condotta anticristiana del re di Francia. primo - jus proprietatis - comprende il diritto di proprietà su se stessi (o libertà), sulle cose e sugli altri; il secondo - detto anche jus societatisregola i rapporti dell'individuo con la società; il
terzo - o pietas - è l'obbedienza alla giustizia divina, e la sottomissione dei fini individuali a quelli universali.
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Malgrado il loro carattere polemico, questi scritti hanno una certa importanza anche filosofica, perché pongono in luce l'elevata concezione morale-giuridica di Leibniz, che si sforza di ridurre la politica al diritto (da lui inteso come sintesi di diritto naturale e divino); essi sottolineano pure il rapporto di continuità che lega - in politica come in logica e in metafisica - il suo pensiero alla tradizione medievale. Di palese ispirazione medievale è, infatti, l'ideale difeso da Leibniz, di una repubblica cristiana universale, retta dai due poteri del papa e dell'imperatore (tedesco). Al programma antifrancese- che guidò costantemente tutta l'opera del nostro autore - si ricollega infine la sua complessa azione, rivolta a portare la casa di Hannover sul trono d'Inghilterra. Come è noto, questo fu l'unico progetto di Leibniz che giunse effettivamente a esecuzione, nel 1714. E, senza dubbio, fu un evento della massima importanza, perché ruppe per secoli il fronte anglofrancese, tanto pericoloso per la Germania. Accadde, però, che proprio questa felice conclusione si trasformò in un danno irreparabile per la sorte personale di Leibniz. Erano gli anni in cui la polemica tra lui e Newton si era fatta più aspra; e Leibniz sperava che il duca di Hannover, divenuto re d'Inghilterra, avrebbe potuto interporre i suoi buoni uffici per salvare l'onore - duramente offeso del suo antico e fedelissimo uomo di corte. Accadde invece tutto il contrario. Il nuovo re, infatti, nel delicato momento della sua ascesa al trono sentì la necessità di placare gli oppositori alla propria dinastia, dimostrando loro che egli sapeva essere interamente inglese e dimenticare l'antica nazionalità tedesca. Rinunciò pertanto ad appoggiare Leibniz nella clamorosa polemica, che aveva ormai assunto un significato pressoché nazionale. Così Leibniz cadde in disgrazia, rimase totalmente isolato, e non riuscì più a difendersi dall'accusa generale di avere commesso un gravissimo plagio proprio nella più importante delle sue invenzioni scientifiche. Come scrive molto bene Giulio Preti, « Leibniz pagava di persona per la riuscita di una vasta manovra politica a cui aveva dedicato tante energie. Ma proprio questo era il suo destino. » Morì in amara solitudine il 14 novembre 1716. Ai suoi funerali non venne inviata una rappresentanza della casa di Hannover. Non fu commemorato né alla Royal Society di Londra, né all'accademia delle scienze di Berlino, ma unicamente all'accademia delle scienze di Parigi (ad opera del cartesiano Fontenelle). Anche il suo progetto per l'unificazione delle chiese cristiane era ormai definitivamente tramontato, e da molte parti si cominciava anzi a mormorare contro il suo cristianesimo, troppo filosofico e troppo poco religioso.
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II · PROBLEMI
GENERALI
CIRCA L 'INTERPRETAZIONE DEL PENSIERO DI LEIBNIZ
Si è fatto cenno nel capitolo IX al difficile problema, largamente discusso dalla moderna storiografia filosofica, circa l'opportunità di assegnare alla logica o alla metafisica un'autentica priorità nel pensiero leibniziano. È stato soprattutto merito del francese Louis Couturat aver provato all'inizio del nostro secolo, con una ineccepibile documentazione, la centralità che ebbero lungo tutta la vita del nostro autore gli interessi per la logica, anche se egli lasciò allo stato di appunti inediti gran parte dei propri scritti sull'argomento; non sarebbe quindi più lecito, oggi, relegare in secondo piano tali interessi, quasi che essi avessero rappresentato soltanto qualcosa di marginale - una mera curiosità - nella sua vastissima e complessa produzione (così avevano preteso fare parecchi interpreti di tendenza romantico-idealistica, che, isolando la metafisica dal resto della produzione di Leibniz, si erano ritenuti in diritto di vedere in lui null'altro che l'assertore di un'ardita concezione spiritualistico-individualistica dell'universo). Ma Couturat fece anche qualcosa di più, avanzando insieme con Bertrand Russelll'ipotesi che le idee di Leibniz sulla logica, per un lato, costituiscano la lontana premessa storica da cui si svilupparono con ideale continuità le importantissime ricerche tecniche dei logici dell'Ottocento, per l'altro lato, forniscano l'unica valida guida onde riuscire a penetrare il significato più profondo del sistema leibniziano. L'importanza della prima ipotesi, ormai accolta - per lo meno nelle sue linee generali- da parecchi storici della logica, già venne illustrata nel capitolo rx; essa verrà ripresa in esame, per farne una più esatta valutazione, nei prossimi volumi, allorché si tratterà appunto della rinascita degli studi logici nell'Ottocento. Qui occorre invece soffermarci, sia pure molto brevemente, sulla seconda, che ha segnato una vera svolta negli studi sulla filosofia di Leibniz. Una sommaria indicazione dei suoi indiscutibili meriti, e nel contempo dei suoi limiti, può costituire un utile avvio alla esposizione generale del pensiero scientifico-filosofico del nostro autore. Il punto centrale dell'interpretazione di Couturat e di Russell è che la metafisica sia, in ultima istanza, una vera e propria forma di panlogismo, a lui suggerita dall'esigenza di ideare una concezione della realtà in profondo accordo con i principi e con l'impostazione stessa delle sue ricerche logiche. E poiché queste ricerche - secondo i due autori predetti - si sarebbero sviluppate in Leibniz con una effettiva continuità (come graduali approfondimenti e ampliamenti delle idee già abbozzate nella giovanile Dissertatio de arte combinatoria), ne deriverebbe che anche la metafisica leibniziana, pur nelle sue varie presentazioni, assumerebbe una struttura unitaria, difficile a cogliersi da chi voglia studiarla senza tener conto della sua derivazione dalla logica. « La metafisica di Leibniz, » scrive Cou-
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turat, « riposa unicamente sui principi della sua logica, e ne procede tutta intera.>> Pur riconoscendo appieno l'interesse di questa interpretazione, parecchi studiosi più recenti del pensiero di Leibniz (ad esempio Francesco Barone, Giulio Preti, Paolo Rossi Monti, per non citare che alcuni italiani) ne hanno posto in rilievo l'unilateralità, sia sottolineando la presenza, nella stessa concezione leibniziana del sapere, di influenze trascurate da Couturat (influenze che provenivano dalla tradizione degli studi cabalistici, mnemotecnici, di magia naturale, ecc.), sia cercando di provare che gli schemi logici di Leibniz, anziché sorreggere la sua metafisica, rinviano essi stessi ad una antologia platonico-pitagorica, in cui trovano il proprio fondamento. Non è questa, ovviamente, la sede per addentrarci in una discussione di carattere specialistico, che fuoriesce dai compiti della presente opera; tanto più che, in una visione storica generale come la nostra occorre fornire un quadro quanto più possibile completo del pensiero di Leibniz, includendovi anche gli aspetti di esso che la critica moderna ritiene forse meno essenziali ma che, in epoche diverse dalla nostra, apparvero invece più fecondi di sollecitazioni sia filosofiche che scientifiche. 1 È doveroso comunque riconoscere che l'interpretazione della filosofia di Leibniz come panlogismo ha rinnovato profondamente, nel nostro secolo, gli studi leibniziani; se essa non può venire condivisa in foto è perché il pensiero di Leibniz presenta effettivamente due aspetti, uno imperniantesi - come vedremo - sulle verità di ragione, l'altro sulle verità di fatto. Neanche un'esposizione generale come la nostra può limitarsi a uno solo dei due, se non vuole correre il rischio di pericolosi travisamenti. Sarà pertanto nostra precisa cura, nei prossimi paragrafi, quella di sottolineare al massimo i molteplici legami che connettono le varie dottrine del nostro autore sia scientifiche sia filosofiche. Riteniamo infatti che proprio questo aspetto unitario del suo pensiero possa fornirci ancora oggi un prezioso insegnamento: possa cioè offrirei un oggetto di attenta e seria meditazione, tanto più interessante in un momento come l'attuale in cui sembra da molte parti risorgere l'esigenza di una cultura unitaria. È certo particolarmente istruttivo il fatto che Leibniz cercò la radice dell'unità del sapere nella struttura logica che sta alla base di ogni discorso conoscitivo: struttura che egli si sforzò di enucleare, di precisare, di tradurre in adeguati simbolismi. Ma non va dimenticato che, se anche egli pensò di sorreggere la propria concezione unitaria del sapere sopra una ben determinata metafisica, ciò non gli impedì - come accennammo nel paragrafo precedente - di I La fortuna di Leibniz è veramente singolare nella storia del pensiero filosofico-scientifico. A lui infatti si richiamarono gli indirizzi più diversi e contrastanti: dai più rigidi rappresentanti del razionalismo illumini~tico tedesco agli scien-
zia ti e ai filosofi dell'era romantica; daglj innovatori della logica nella seconda metà dell'Ottocento ai filosofi spiritualisti che, ali 'incirca nella medesima epoca, si batterono per una vera e propria rinascita della metafisica.
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perseguire nel contempo varie indagini assai concrete sui linguaggi effettivi dell'umanità, cercando di impostarle nel modo più rigoroso possibile con metodo comparativo e storico. Il non avere interpretato gli studi di logica simbolica e la ricerca di una lingua universale artificiale come argomento di chiusura verso gli studi di linguistica (nel vero e proprio senso di questo termine), ma l'avere anzi scorto l'esistenza di nessi assai importanti fra un tipo e l'altro di indagini, è ciò che fornisce una particolare modernità al suo pensiero; è ciò che imprime un'indiscutibile concretezza e vivacità al suo razionalismo, indipendentemente dal carattere antiquato e dogmatico di gran parte della metafisica cui esso rinvia. III ·CRITICA DELL'INTUIZIONISMO CARTESIANO. VERITÀ DI RAGIONE E VERITÀ DI FATTO
È già stata ampiamente sottolineata, nei riguardi della logica, la diversità
di prospettiva che separa Leibniz da Cartesio e dai cartesiani. Occorre a questo punto aggiungere qualche parola su di un problema strettamente connesso a quello testé accennato: il problema della conoscenza e della natura della verità. Sappiamo che per Cartesio la verità di un asserto è garantita dalla sua evidenza, e conosciamo anche le critiche sollevate contro questo criterio da Gassendi e da Hobbes. Nemmeno Leibniz lo accetta, ritenendolo per così dire infidato di psicologismo, cioè incapace di cogliere la verità in se stessa, in quanto !imitantesi a considerare il modo con cui il soggetto la percepisce. Con questa critica egli respinge sia l'intuizionismo cartesiano sia la stessa concezione cartesiana del metodo, inteso come un complesso di canoni cui il soggetto deve attenersi per non accogliere idee o principi che non siano effettivamente chiari e distinti. Secondo Leibniz, la verità di un giudizio o di un ragionamento non può dipendere da un'intuizione soggettiva, ma solo dalla struttura stessa di tale giudizio o ragionamento, ossia da qualcosa che non ha nulla a che fare con il soggetto che coglie tale verità. In altri termini: ciò che egli oppone all'intuizionismo è il più rigoroso formalismo. La tesi essenziale del formalismo leibniziano consiste nell'affermazione che in ogni enunciato vero il predicato deve inerire al soggetto: « Infatti il predicato o conseguente inerisce sempre al soggetto e in ciò consiste la natura della verità.» L'importanza della logica risiede proprio nel fatto che essa conduce a scoprire in maniera infallibile se questa inerenza sussista oggettivamente o no. A tal fine si richiederà soltanto che essa riesca a determinare con esattezza il significato dei vocaboli che intervengono nelle proposizioni, e con ciò ogni proposizione, se vera, risulterà automaticamente dimostrabile: «Ogni proposizione vera può venire provata; quando infatti il predicato inerisce al soggetto o la nozione del predicato è implicata nella nozione soggetta, se compiutamente intesa, come avviene con la risoluzione dei termini nei loro valori o nei termini
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che essa contiene, la verità deve potersi manifestare. » Secondo Leibniz questo risultato potrà, poi, venire ottenuto nel modo più sicuro facendo corrispondere ad ogni « cosa » semplice un ben determinato simbolo e alle « cose » composte l'aggregato dei simboli corrispondenti agli elementi dei quali essa risulta composta; se infatti la composizione di questi simboli verrà stabilita in base a precise regole calcolistiche, ogni decisione circa la verità di un ragionamento - comunque complicato - si ridurrà a un mero computo. Sulla diretta connessione fra questo modo formalistico di intendere la verità e l'attribuzione alla logica di una funzione inventiva oltreché dimostrativa, ci si è già soffermati a lungo nel capitolo Ix, come pure ci si è soffermati sull'ulteriore passo compiuto in questa direzione da Leibniz, col delineare il suo ambizioso programma di una characteristica universalis capace di farci ricavare il sistema di tutte le verità. Aprendosi ora innanzi a noi il compito di passare ad altre prospettive del pensiero leibniziano, occorre semplicemente ribadire, a proposito dell'anzidetto modo di intendere la verità, che esso si limita a definirla in quanto pura verità logica, cioè analitica, o « di ragione ». Leibniz non può tuttavia nascondersi che questo tipo di verità nonesaurisce tutte le verità di cui possiamo parlare. Accanto alle verità di ragione ne troviamo infatti altre, di non minore importanza: le verità storiche o « di fatto ». Per esempio: questo tavolo è quadrato; Tizio morì il giorno tale dell'anno tal altro. Abbiamo diritto di affermare che in esse il predicato inerisce o non inerisce al soggetto? Leibniz non fornisce in merito una risposta univoca e categorica: da un lato, infatti, riconosce che « per noi » queste verità sono completamente diverse dalle verità di ragione, dall'altro sostiene, tuttavia, che, «con un procedimento infinito», sarebbe possibile dimostrare, anche per esse, l'inerenza del predicato al soggetto. Forse è stata l'esperienza compiuta nei suoi studi matematici delle pericolose antinomie cui talvolta si va incontro negli algoritmi infiniti (come le somme di infiniti addendi e i prodotti di infiniti fattori) a trattenerlo dall'indagare modo specifico le serie di infinite implicazioni. L'affermazione che un intelletto infinito sarebbe in grado di compierle, non esce dal campo delle affermazioni teoriche. Per noi, intelletti finiti, le verità di fatto restano - secondo Leibniz puramente e semplicemente a posteriori. La distinzione tra verità di ragione e verità di fatto può, secondo il nostro autore, venire anche esaminata sotto un altro aspetto. Le verità di ragione sono, sì, assolute, ma riguardano soltanto le essenze possibili, non le esistenze. La loro assolutezza dipende dunque dal loro carattere formale, dal riferirsi cioè a pure possibilità, non a realtà. La realtà implica qualcosa di completamente diverso, che si aggiunge alla pura logicità e fuoriesce quindi dal campo raggiungibile per via logica dagli intelletti finiti. L'opposizione tra Leibniz e Spinoza è, su questo punto, nettissima: i due
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ordini, della coerenza logica o possibilità e della esistenza attuale, sono - per il pensatore di Lipsia - distinti e inconfondibili. La realtà contiene in sé un fattore di contingenza, che non può venire eliminato. La tesi spinoziana dell'identità fra ordo rerum e ordo idearum è inequivocabilmente respinta. Visto che le verità di fatto sfuggono, per la loro contingenza, ai due principi di identità e di non-contraddizione che stanno alla base delle verità di ragione, Leibniz introduce, con particolare riferimento ad esse, un nuovo importantissimo principio, il cosiddetto principio di « ragion sufficiente »: nulla accade senza che vi sia una ragione perché accada proprio così invece che altrimenti. Vedremo nei prossimi paragrafi le implicazioni fisiche e metafisiche contenute in questo principio; per ora basti notare che Leibniz afferma di non averlo inventato ex novo, ma di averlo trovato - sia pure in forma implicita - già in alcune dimostrazioni di Archimede: precisamente là dove il siracusano sostiene che se si pongono pesi eguali sui due piatti di una bilancia, questa deve rimanere in equilibrio, non essendovi ragione perché trabocchi piuttosto da una parte che dall 'altra. Tale rinvio ad Archimede è di estremo interesse, perché è il rinvio al primo pensatore dell'antichità che non limitò la scienza al campo delle idee pure, ma ritenne di poter trattare con metodo scientifico anche talune zone dell'operare empirico. Questo riferimento a metodi particolari della scienza fisica non trova però, in Leibniz, gli sviluppi che meriterebbe; tutta la sua cultura e la sua forma mentis lo spingevano irrevocabilmente verso considerazioni generali di ordine metafisica. IV · LA
MONADE
Non sarebbe possibile comprendere la concezione filosofico-scientifica di Leibniz, senza tener ben presente l'enorme rilievo che egli attribuisce alle differenze - sia pure piccolissime - che sempre esistono fra un essere e l'altro. Leibniz giunge a vedere in tali differenze l'autentico motivo per cui ci è lecito affermare che due esseri non sono un essere solo. In altri termini: se due esseri sono effettivamente « d~e », deve esistere qualche proprietà capace di differenziarli uno dall'a,ltro. È questo il famoso principio degli indiscernibili, oggi considerato come una delle leggi fondamentali di quel capitolo della logica moderna solitamente noto come « logica dei predicati con identità ». Esso afferma che x risulta identico a y se e solo se ogni predicato che vale per x vale anche per y e viceversa. Secondo Leibniz trattasi di una verità che può .anche venire ricavata dal principio di ragion sufficiente: ed infatti, se tra due enti non esistesse la benché minima differenza, non vi sarebbe motivo per essi di essere effettivamente due. Dall'identità degli indiscernibili il nostro autore trae la fondamentale conclusione che l'essere è intrinsecamente« singolo» (individuale); un essere non individuale è qualcosa di inconcepibile. Con riferimento alla distinzione cartesiana tra 491
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sostanza e attributi, egli potrà inoltre affermare che ogni essere singolo è sostanza e ogni sostanza è assolutamente individuale. Questa singolarità implica, da un lato, che gli esseri composti non sono sostanze; dall'altro, che le sostanze, non potendo risultare scomponibili, debbono essere inestese (estensione infatti significa divisibilità). Alle sostanze indivisibili Leibniz attribuì, dal 1697 in poi, il nome di « monadi ». Questo termine vuol sottolineare l'inconfondibilità delle sostanze singole con gli atomi materiali. «Gli atomi non sono che l'effetto della debolezza della nostra immaginazione, la quale, per trovare riposo, volentieri arresta a un dato punto le sue divisioni e le sue analisi »; le monadi invece sono indivisibili in se stesse e non per la pigrizia del soggetto nel proseguire la propria analisi (per l'antiatomismo di Leibniz rinviamo al paragrafo vm). Esclusa la divisibilità delle singole monadi, ed esclusa la possibilità di riunire più monadi in una sostanza composta, ne segue che le monadi non possono avere inizio se non per creazione istantanea e non possono finire se non per annichilimento, l'una e l'altro esigendo l'intervento di un essere onnipotente, dio (sulla cui natura ritorneremo nel paragrafo VI). A parte l'azione divina, esse devono, di necessità, venire considerate come indistruttibili e perciò stesso immortali. Avendo scartato ogni analogia delle monadi con gli atomi, potremo, se mai, assimilarle ai punti matematici, con la differenza però che questi ultimi posseggono unlt natura puramente astratta (sono enti di ragione), mentre le monadi sono effettive sostanze, e perciò posseggono un'autentica realtà. Per caratterizzare la loro realtà Leibniz concepisce le monadi come centri di attività, guidato in ciò dalla fisica che, secondo lui, non può scindere la nozione di oggetto effettivamente esistente da quella di forza (o energia). È questo uno dei punti in cui il pensiero del nostro autore presenta maggiori oscurità, sembrando incontestabile che egli scivola spesso verso una pericolosa confusione tra la forza di cui parla la fisica e la forza come spiritualità. È vero che egli afferma ben chiaramente che « spirito » non equivale a pensiero autocosciente nel senso cartesiano; è indubbio però che questo termine indica un'entità metafisica non priva di profonde risonanze religiose. Se ogni monade è un centro di attività, quali rapporti potrà essa avere con la serie dei vari predicati attraverso cui realizza la dinamica del proprio essere? La risposta di Leibniz a questa domanda (risposta nella quale risulta ben evidente l'influenza della definizione cartesiana di sostanza) è senza dubbio del massimo interesse, e ci porta ad uno dei problemi più delicati di tutta la sua filosofia: il problema di stabilire l'intrinseca diversità tra sostanza e accidente. « La natura di una sostanza individuale, ossia di un essere completo, è di avere una nozione così completa da essere sufficiente a comprendere e a farne dedurre tutti i predicati del soggetto cui questa nozione è attribuita. Invece, l'accidente è qualcosa
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la cui nozione non comprende affatto tutto ciò che si può attribuire al soggetto a cui questa nozione si attribuisce. Così, la qualità di re che appartiene ad Alessandro Magno non è abbastanza caratteristica di un individuo, se facciamo astrazione dal soggetto, e non include punto le qualità del medesimo soggetto né tutto ciò che la nozione di esso comprende; dio, invece, vedendo la nozione individuale di Alessandro, vi scorge nel medesimo istante il fondamento e la ragione di tutti i predicati che si possono veramente dire di lui, come per esempio che egli vincerebbe Dario e Poro, ... ciò che noi non possiamo sapere fuorché dalla storia. » Le parole ora riferite, nello sforzo di caratterizzare il concetto di sostanza individuale rispetto a quello di accidente, ci rinviano ancora una volta al problema, trattato nel paragrafo precedente, dell'autentico rapporto esistente fra verità di fatto e verità di ragione (il che costituisce un'ulteriore conferma degli stretti nessi che intercorrono, nella concezione leibniziana, fra logica e metafisica). Quando invero affermiamo che la nozione completa e perfetta di una data sostanza individuale implica tutti i suoi predicati passati, presenti e futuri, dobbiamo subito chiederci: ci riferiremo con ciò ai soli predicati logici o anche a quelli che esprimono proprietà di fatto della sostanza stessa? Leibniz afferma di riferirsi ad entrambi, ma, per giustificare il proprio asserto, deve ricorrere alla nota distinzione tra finito e infinito: solo un intelletto infinito può possedere una conoscenza così perfetta e completa della sostanza singola, da essere in grado di dedurne tutte le proprietà logiche e di fatto; gli intelletti finiti dovranno invece limitarsi a conoscere le proprietà di fatto desumendole dall'esperienza. Poiché la finitezza o infinitezza dell'intelletto conoscente è irrilevante per la sostanza conosciuta, si deve concludere che, nella realtà delle cose, ciascuna monade possiede in sé la ragione profonda del susseguirsi di tutti i suoi attributi. Essa è, sì, una sostanza in continuo movimento, ma questo movimento scaturisce dall'interno della monade stessa, non dall'esterno. Quali potranno dunque essere i rapporti delle monadi le une con le altre? Riservandoci di dedicare al difficile problema i prossimi paragrafi, aggiungiamo qui alcune brevi considerazioni per illustrare i risultati che Leibniz si ripromette di derivare dalla concezione monadologica dell'universo. Essi sono fondamentalmente tre. Il primo consiste nella spiritualità generale dell'essere, che Leibniz deduce dal fatto che le monadi sono punti inestesi provvisti di forza; questo risultato annulla la dualità di pensiero e materia che costituiva - come sappiamo - una delle più gravi difficoltà di tutto il cartesianesimo. Il secondo consiste nella possibilità di stabilire, mediante il concetto di forza, un rapporto di continuità tra la fisica e la metafisica. A noi oggi questa possibilità può apparire unicamente una fonte di equivoci; per Leibniz invece essa era della massima importanza permettendogli di consolidare la fisica appoggiandola alla conoscenza della realtà assoluta. In terzo luogo, l'esistenza di 493
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una molteplicità di monadi indistruttibili forniva alla filosofia di Leibniz una perfetta corrispondenza con i principi personalistici della fede cristiana e in particolare luterana. Egli si preoccupò sempre molto di questo accordo, scorgendo in esso una sicura conferma della verità della propria filosofia. (Si noti che un analogo accordo con la dottrina religiosa luterana è pure riscontrabile nella concezione leibniziana, di cui parlammo nel paragrafo precedente, della radicale contingenza propria del mondo reale). V· LA VITA INTERNA DELLA MONADE. INNATISMO
Spingendo il concetto di sostanza singola, individuale, alle sue estreme conseguenze, Leibniz afferma che ogni monade è come una casa priva di porte e di finestre. Essa possiede, sì, una propria vita interna, cioè la capacità di evolversi da uno stato all'altro, ma non di uscire fuori di sé. Può, in particolare, rappresentarsi le altre monadi, ma questa rappresentazione non costituisce un penetrare entro di esse, bensì un esprimerle, un rispecchiarle (onde Leibniz afferma che ogni monade è uno specchio del mondo). Neanche i sensi, dunque, ci forniscono qualcosa di realmente esterno a noi. Non già che essi ci ingannino; i fenomeni sensibili sono infatti legati tra loro da una connessione regolare, scoperta dalle indagini scientifiche, e perciò contengono una propria verità. Al mondo fisico, rappresentato dai sensi, non corrisponde però una reale sostanza corporea: il mondo fisico è puramente e semplicemente un mondo della sensibilità, effetto della interiore capacità rappresentatrice della monade. È, come ognun vede, una teoria della conoscenza che conclude con il più integrale innatismo; in totale antitesi, dunque, con quella di Locke. Il primo passo, per renderla accettabile, dovrà pertanto consistere in un'analisi del Sa
nione di Leibniz sull'argomento è che le lingu~:; effettive debbano venire studiate con metodo prevalentemente induttivo mentre la logica, come scienza formale, richiede l'uso del metodo deduttivo. Egli giunge così a riconoscere che entrambi i metodi risultano validi purché tenuti a livelli scientifici diversi.
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Leibniz
sono il frutto dell'attenzione. Affermare c~e un'idea è innata negli uomini, non significa, pertanto, sostenere che essa è presente in tutti con eguale chiarezza, nei vecchi come nei bambini, nei sapienti come negli idioti. Se questo fosse effettivamente il suo significato, le argomentazioni di Locke sarebbero ineccepibili; esse non reggono, però, appena si tenga conto che un'idea può trovarsi nella nostra coscienza, senza che ne abbiamo perfetta consapevolezza. Negare che la coscienza sia, come pretendeva Locke, una fabula rasa equivale ad affermare che essa è come un blocco di marmo in cui sono presenti molte venature (venature che rappresentano, per esempio, la figura di un eroe); riconoscere la presenza di queste venature, non significa tuttavia dimenticare l'opera dello scalpellino, indispensabile per tirar fuori da quelle venature una statua perfetta e completa. È chiaro ormai, che, malgrado la posizione antitetica, i due avversari hanno qualcosa in comune; e precisamente qualcosa di molto importante. L'uno e l'altro, infatti, cercano nell'attività l'origine ultima delle idee. Se Locke combatte l'esistenza di idee innate, è perché vede nell'innatismo una pura passività; se Leibniz la difende, è perché vi scorge, invece, la massima attività, interpretando innatismo come spontaneità. Accanto alle percezioni sono presenti, nell'anima, impulsi e tendenze, suddivisi essi pure in innumerevoli gradazioni. Anche quando non siamo consapevoli di essi, e il nostro animo ci sembra indifferente, in realtà non lo è: una inquietudine sta sempre in noi, un'insoddisfazione, un vasto complesso di piccoli desideri. La nostra volontà è costantemente attiva. Ogni monade ha dunque una propria vita interiore, estremamente complessa che raggiunge gradi differenti da individuo a individuo; in particolare, la monade costituente l'anima umana possiede, accanto a zone confuse ed oscure, una zona di piena consapevolezza; quelle invece che costituiscono i corpi posseggono soltanto una psichicità incosciente. Il dinamismo della vita interiore della singola monade è dominato, secondo Leibniz, da una legge causale e finale insieme, per cui ogni stato ne origina altri, non solo nuovi, ma via via più perfetti. Solo nei gradi più elevati degli organi viventi la monade potrà diventare consapevole della propria finalità interna: questa finalità tuttavia sarà sempre presente in ogni essere (trattasi di una concezione cui faranno spesso riferimento i biologi vitalisti dell'epoca romantica nelle loro polemiche contro il meccanicismo). È una finalità che non porta la monade fuori di sé, non mira a trasformarla in qualcosa di assolutamente diverso da ciò che era, ma si limita a chiarire ciò che fin dal principio era contenuto nella monade stessa, sia pure in forma più caotica e oscura. In conclusione: la vita interna di ogni monade è un continuo tendere verso lo spiegamento della propria essenza.
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VI · DIO
Come spiegare la concordanza tra gli stati delle varie monadi, se ciascuna di esse è chiusa nella propria vita interiore? Per rispondere a- questa domanda Leibniz fa appello a dio, concepito come monade suprema o monade delle monadi. Tale appello non può stupirei, avendo già constatato più volte che egli fa riferimento all'essere divino anche in questioni prettamente teoretiche, come ad esempio quando afferma che dalla nozione di una sostanza sono a rigore deducibili tutte le proprietà di essa, sebbene tale deduzione possa venire compiuta solo da un intelletto infinito e non da uno finito come il nostro. Il fatto è che dio costituisce il punto centrale di tutto il sistema leibniziano, sia che noi lo interpretiamo come sistema costruito dal nostro autore per dare un complemento antologico alla logica, sia che lo interpretiamo invece come un primum da cui Leibniz avrebbe poi derivato le proprie concezioni logiche. In dio infatti sono ab aeterno presenti, secondo Leibniz, i principi della logica come pure le nozioni esatte di ogni sostanza; in lui trovano fondamento le realtà esistenti e l'ordine di queste realtà; in lui va cercata la stessa giustificazione della validità obiettiva delle nostre conoscenze. La dimostrazione dell'esistenza di dio non costituisce per il nostro autore un vero problema. Tutti gli esseri da noi conosciuti ci conducono a dio, come « essere necessario, nel quale l'essenza racchiude l'esistenza; al quale, in altri termini, basta essere possibile per essere attuale ». Ci conducono cioè a un essere « che ha in se stesso la ragione della sua esistenza ». Il problema importante è, per Leibniz, un altro: spiegare come il riferimento a dio riesca a risolvere le difficoltà più profonde della teoria delle monadi. Cominciamo a notare che il dio di Leibniz, monade suprema, non può essere che un dio personale: individualità perfetta, di cui tutte le percezioni sono chiare e distinte. Leibniz lo identifica senz'altro con il dio cristiano, creatore del mondo, e cerca proprio nell'atto creativo la risposta alla domanda, poco sopra formulata, circa la concordanza fra gli stati delle varie monadi. Nel creare ogni singola monade, con una specie di folgorazione o irradiazione, dio ha tenuto conto di tutte le altre monadi e ha prestabilito - nel senso che ora vedremo - la loro perfetta ~rmonia. « Dio solo opera la coordinazione e la connessione delle sostanze, e per mezzo di lui solo i fenomeni di un uomo coincidono e concordano con quelli degli altri uomini onde ha origine la realtà delle nostre rappresentazioni. » Questa armonia prestabilita è un fattore essenziale della teoria delle monadi; non è possibile accettare l 'una senza accettare l'altra, e cioè senza riferire il funzionamento delle monadi alla loro origine costituita dalla creazione ad opera di dio. Se dio ha potuto tenere conto delle varie monadi prima di crearle, ciò significa che a rigore esse possedevano una forma di essere già prima di venire
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Leibniz
create. Questo apparente paradosso trova, secondo Leibniz, una facile spiegazione nella famosa distinzione fra verità di ragione e verità di fatto. In altre parole: anche prima di venire create, le monadi esistevano come puri enti logici, soggetti di attributi possibili. Ma non tutte le mere possibilità sono diventate esistenze effettive. Il trapasso dalla possibilità all'esistenza è dovuto a dio che, nell'atto della creazione, ha scelto- tra i vari mondi possibili, o più esattamente compossibili - proprio quello che ha poi reso attuale. Secondo Leibniz questa scelta è libera, poiché il trapasso testé accennato (dal possibile al reale) implica uno scarto che solo dio può superare. Tale libertà non esclude tuttavia l'esistenza di una ragione alla base della scelta divina: si tratterà di una ragione sufficiente, non necessitante. Una prima ragione della scelta divina è la non contraddizione reciproca, esistente fra le monadi del mondo effettivo (non contraddizione che manca, invece, tra le monadi di altri mondi puramente possibili). Questo accordo logico delle monadi effettivamente create coincide con la previsione dell'armonia che regolerà il loro sviluppo. Tale armonia costituisce pertanto qualcosa di inscindibile dalla creazione stessa. Le varie monadi sono i risultati di una serie di atti creativi contemporanei ma particolari, legati tra loro da una corrispondenza reciproca ideale. Secondo Leibniz, possiamo affermare che ogni monade accentra in sé l 'intero universo come venne scorto da dio nell'istante in cui lo creò; la diversità fra una monade e l'altra è la diversità dei punti di vista da cui dio ha scorto l'universo nel complesso atto della creazione. « Ogni sostanza è come un mondo intero e come uno specchio di Dio ovvero di tutto l 'universo che ciascuna esprime alla sua maniera, presso a poco come una stessa città è diversamente rappresentata secondo i diversi punti in cui si pone colui che la guardi. Così l'universo è in certo modo moltiplicato tante volte quante sono tali rappresentazioni tutte diverse della sua opera. Si può anche dire che ogni sostanza porta in qualche modo il carattere della sapienza infinita e della onnipotenza di Dio, e l'imita per quanto essa ne è capace. Poiché essa esprime, sebbene confusamente, tutto ciò che accade nell'universo passato, presente o futuro, il che ha qualche rassomiglianza con una percezione o conoscenza infinita; e poiché tutte le altre sostanze esprimono questa alla loro volta e con essa si armonizzano, si può dire ch'essa estende il suo potere su tutte le altre a imitazione dell'onnipotenza del Creatore.» Secondo Leibniz, i risultati della scienza moderna dimostrerebbero che dio, nel creare la natura, ha scelto un ordine rigorosamente meccanico. Ma la sua scelta non poteva non essere mossa da un fine (nemmeno l'atto della creazione sfugge al principio di ragion sufficiente): dunque anche l'ordine meccanico del mondo deve possedere un fine. Con questa argomentazione, Leibniz è convinto di avere giustificato una concezione teleologica del mondo perfettamente compatibile con il carattere meccanico della scienza moderna. Il fine dell'universo non
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Leibniz
modificherà il rapporto causale tra fenomeno e fenomeno ma interverrà soltanto a spiegare l'ordine dei fenomeni nella loro totalità. Un caso particolarmente complicato di armonia è quello esistente tra le monadi che costituiscono il corpo umano e la monade-anima dell'uomo stesso. Per spiegarlo, Leibniz ammette un legame speciale tra tali monadi che durerebbe per un certo tempo della loro esistenza: cioè per il tempo della vita di quel determinato individuo corporeo. È uno dei punti meno precisi della sua teoria, ove l'incertezza di Leibniz traspare dalla varietà stessa della terminologia usata: ora infatti egli afferma che l'anima «esprime» tutte le altre monadi, ora invece che « esprime » distintamente soltanto le monadi del proprio corpo e attraverso ad esse riesce a « rappresentarsi » il resto dell'universo; ora infine che l'anima non esprime con chiarezza né il proprio corpo né la natura ma « si rappresenta » distintamente il primo e attraverso ad esso « si rappresenta », meno distintamente però, anche gli altri corpi. Senza discutere in dettaglio queste soluzioni, preferiamo chiederci se per Leibniz l'unico fine che guidò la scelta divina nell'atto della creazione sia veramente stato la previsione dell'accordo logico tra le varie monadi del mondo creato. La risposta deve essere chiaramente negativa: l'atto della scelta divina fu anche guidato da un altro fine, cioè dal bene che sarebbe derivato dalla creazione del mondo. In altri termini, Leibniz attribuisce a dio nell'atto della creazione non solo un intento logico, ma anche, e innanzi tutto, un intento morale. Sennonché: come possiamo spiegare la presenza del male nel mondo, se il fine di dio nel crearlo fu l'attuazione del bene supremo? E qui non intendiamo solo riferirei alla presenza del male fisico, ma anche a quella del male morale: come risulta essa giustificabile data l'onnipotenza e la bontà divina? Il problema era, agli inizi del Settecento, di particolare attualità in Europa, perché proprio in quegli anni Pierre Bayle 1 (1647-1706) aveva cercato di dimostrare, appoggiandosi soprattutto all'esistenza del male nel mondo, l'assoluta inconciliabilità tra ragione e religione. Egli sosteneva che la dottrina manichea dei due principi (uno del bene e uno del male) concordava, assai più di quella cristiana, con i puri dati della nostra esperienza. Sebbene egli finisse per concludere con l'accettazione della fede anziché della ragione, le sue opere avevano scosso molte coscienze di seri studiosi. Leibniz non si nasconde la gravità del problema e lo pone, con tutta franchezza, al centro della propria indagine metafisica. Ritiene però che per l'appunto la propria filosofia riesca a indicarci una sicura via per risolverlo. È una via tanto semplice, quanto, secondo lui, convincente. Essa ci porta alla seguente conclusione: nel trapasso dall'ordine delle possibilità a quello delle esistenze, cioè nell'atto della creazione, dio ha scelto proprio questo mondo e non un altro perché questo era il migliore dei mondi possibili. Anche se esso non è l'atI
Su Bayle ritorneremo, più ampiamente, nella sezione v.
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Leibniz
timo in senso assoluto (come ci vien provato dalla presenza del male), è però il più perfetto che potesse venire creato. Solo per la propria finitezza, il nostro intelletto non riesce a comprendere questa intrinseca bontà, ma la nostra incomprensione non toglie nulla alla fondatezza del giudizio divino nell'atto della sua scelta. Questa visione ottimistica - mirante, da un lato, a fornire un preciso fine dell'universo, dall'altro, a garantire la religione contro gli attacchi degli scettici - costituisce la conclusione finale della laboriosa filosofia di Leibniz. Con essa egli ritiene di aver dimostrato agli uomini la perfetta razionalità del proprio sistema e la totale conciliabilità - entro questo sistema - tra la nuova scienza e la tradizione cristiana. Non trascorreranno molti decenni, che l'ottimismo leibniziano diverrà oggetto di amare ironie da parte degli illuministi francesi. È un fatto, però, che esso fornì a vaste schiere di studiosi (in particolare agli illuministi tedeschi) un motivo molto serio per nutrire fiducia nella ragione umana e nei destini del mondo. VII
· RICERCHE
MATEMATICHE
La Dissertatio de arte combinatoria (I 666) ci testimonia che fin da giovane Leibniz provò un vivo interesse per il calcolo combinatorio e giunse a impadronirsi piuttosto bene dei suoi principi; nel I 676 otterrà la formula generale dei « coefficienti polinomiali » senza tuttavia pubblicarla (essa verrà riscoperta vent'anni più tardi da Abraham de Moivre, cosicché suole oggi venire associata al suo nome). Questi studi giovanili costituiranno un'ottima base di partenza, allorché nel I672. il nostro autore affronterà i più delicati argomenti di analisi infinitesimale, e - su suggerimento di Huygens - leggerà con passione gli scritti di Pascal. Nel contempo si occupava anche di algebra, ove otterrà (nel 1693) alcuni interessanti risultati circa il problema della eliminazione di due incognite entro un sistema di tre equazioni di primo grado, facendo uso di simboli che precorrono i determinanti. A questo medesimo ambito di ricerche si collegano pure alcuni studi di Leibniz sul calcolo delle probabilità e il suo interesse per l'aritmetica (in particolare per la serie dei numeri primi). Nel I673, come sappiamo dal paragrafo 1, i contatti avuti con l'ambiente scientifico inglese che gravitava intorno alla Royal Society lo sollecitarono ad approfondire le indagini poco prima iniziate di analisi infinitesimale, affrontando in forma sistematica i due fondamentali problemi dell'epoca: quello delle tangenti e quello delle aree (la cui importanza e le cui caratteristiche vennero delineate nel capitolo x). Ne ricavò due tipi di calcolo, che verranno indicati col nome, diventato classico, di « calcolo differenziale » e « calcolo integrale ». Il teorema di inversione, provando che essi sono l'inverso uno dell'altro, riuscirà a 499
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Leibniz
dare un carattere unitario alla complessa materia, che verrà così a profilarsi come un unico grande ramo della matematica moderna. Come cercammo di spiegare nel capitolo testé citato, la svolta decisiva, che Leibniz (e qualche anno prima di lui Newton) riuscì a imprimere alla disciplina in esame, consistette soprattutto nella precisazione e uniformazione delle sue regole, resa possibile fra l'altro dall'uso di simboli adeguati. Alla ricerca di questi simboli il nostro autore fu senza dubbio sollecitato dalle idee che veniva elaborando, in sede di logica, sulla characteristica universalis; sappiamo comunque che Leibniz non li ideò tutto d'un tratto, ma solo attraverso vari tentativi (in ispecie per ciò che riguarda il simbolo di integrale). Che i simboli leibniziani si siano rivelati molto più idonei alla nuova disciplina che non quelli newtoniani, è cosa notissima, confermata da tutto il successivo sviluppo dell'analisi; ciò che merita invece di venire sottolineato, è che Leibniz fu subito ben consapevole dei grandi vantaggi di una notazione sistematica, mentre Newton sembra averle attribuito poca importanza (quasi che avesse introdotto le proprie notazioni solo per comodità personale). Abbiamo poco fa ricordato che la prima fondamentale lettura di Leibniz su argomenti infinitesimali fu costituita dagli scritti di Pascal; ebbene fu proprio questa lettura a suggerirgli i simboli poi precisati e perfezionati. Una volta avuta l'idea di essi, egli cercò subito di tradurre nella nuova notazione i risultati raggiunti dal matematico francese: le semplificazioni così ottenute lo persuasero che la via intrapresa era giusta e che valeva la pena insistervi. In seguito ripeté il medesimo lavoro per altre opere, delle quali veniva via via a conoscenza; i sempre nuovi successi lo rassicurarono nella propria convinzione e fecero sorgere nel suo animo la piena consapevolezza della quale abbiamo or ora parlato. Il simbolo di differenziale dx (oppure dy, dz ... secondo il nome della variabile) si presentò a Leibniz come estensione naturale dei simboli usati per le differenze finite; il calcolo di queste differenze era allora assai studiato dai matematici per la determinazione del decorso delle funzioni. Quella di Leibniz è un'estensione dalle grandezze finite alle infinitesime, e rientra perfettamente nel quadro degli interessi del nostro autore di cui abbiamo parlato nel paragrafo rv (cioè del suo interesse per le differenze, sia pur piccolissime, che debbono sussistere fra due enti allorché questi sono veramente due). Sappiamo dal capitolo x che Pascal aveva attribuito molta importanza al «triangolo caratteristico» di una funzione; ebbene, immaginiamo che il punto Q si avvicini infinitamente a P: finché essi non vengono a costituire un unico punto, le loro ascisse e le loro ordinate dovranno risultare distinte l 'una dall'altra, e la differenza fra le loro ascisse (o rispettivamente fra le ordinate) non sarà nulla. È precisamente a tali differenze, quando i punti tendono a coincidere, che il nostro autore dà il nome di « differenziali »; ed è operando in modo opportuno su di esse, che egli si propone di giungere alla risoluzione dei problemi 500
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concernenti le tangentl, 1 mass1m1 e minimi, ecc. La condizione essenziale da lui imposta a tali operazioni è che i differenziali vengano confrontati fra loro, non con le grandezze finite; il « triangolo caratteristico » gli suggerisce la principale operazione del nuovo calcolo, cioè lo studio del rapporto fra i due differenziali corrispondenti ai due cateti del triangolo in questione. Così giunge al famoso ~, che indica - come oggi ben sappiamo - la derivata della y rispetto alla x. Per giungere poi alle operazioni fondamentali della differenziazione della somma, del prodotto, del quoziente di due o più variabili, il passo non era molto difficile, tenendo conto delle cognizioni già raggiunte dai matematici della generazione precedente; Leibniz seppe compierlo esattamente e tradurlo con perfetta maestria nel proprio simbolismo. Ne emerse - sia pur con le debite differenze - una sorprendente analogia con l'ordinario calcolo algebrico delle grandezze finite, e risultarono subito evidenti le notevolissime semplificazioni che la nuova « algebra » era in grado di arrecare a tutti i problemi affrontati. Il simbolismo leibniziano si rivelò anche adattissimo a esprimere i differenziali di ordine superiore, malgrado l'oscurità di questo concetto: celebre è la formula (scoperta nel 169 5) che serve a calcolare il differenziale di n-esimo ordine del prodotto di due fattori. Il simbolo di integrale fu ideato da Leibniz per indicare la somma di tutti gli indivisibili che riempiono un'area (esso ricorda appunto l'iniziale della parola « Somma»); in un primo tempo aveva provato ad usare la notazione che poi abbandonò omn (abbreviazione del termine omnes, cioè « tutti » gli indivisibili). La scoperta delle proprietà dell'integrale fu abbastanza semplice. Più difficile fu comprendere che, per indicare convenientemente l'integrale di una variabile y (la quale sia funzione della variabile indipendente x), è opportuno scrivere Jydx anziché Jy. Una volta accortosi dei vantaggi che presenta l'introduzione del dx sotto il simbolo di integrale, Leibniz ne raccomanda l'uso e lo pratica egli stesso sistematicamente: « Raccomando di non omettere dx ... errore frequentemente commesso e che impedisce di andare più oltre. » Era qui in atto, come scrive molto bene Nicolas Bourbaki, « l' " algebrizzazione " progressiva dell'analisi infinitesimale, cioè la sua riduzione ad un " calcolo operazionale " munito d'un sistema di notazione uniforme di carattere algebrico. Come Leibniz aveva indicato molte volte e con perfetta chiarezza, si trattava di fare per la nuova analisi quanto Viète aveva già fatto per la teoria delle equazioni, e Cartesio per la geometria ». Il nuovo algoritmo non tardò a imporsi fra i contemporanei di Leibniz; vanno in particolare ricordati i due matematici svizzeri Giacomo e Giovanni Bernoulli, 1 i quali non solo ne compresero immediatamente il valore, ma seppero farne ben presto parecchie brillanti applicazioni che contribuirono in mi-
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1 Sulla loro opera, e quella dei loro discendenti (per circa un secolo la famiglia Bernoulli
diede i natali a valenti matematici), si ritornerà nella sezione v.
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Leibniz
sura notevolissima' a diffonderlo e consolidarlo. Anche Huygens, che in un primo tempo aveva mostrato una certa perplessità, non tardò a correggersi e nel 1693 si dichiarò convinto della sua eccellenza. Nel 1696 usciva, anonima, un'esposizione metodica del calcolo differenziale, con il titolo Ana!Jse des inftniment petits; era stata scritta da un discepolo di Giovanni Bernoulli, il marchese Guillaume François de l'Hòpital, già ricordato nel capitolo x. Essa segnò il definitivo successo dell'algoritmo leibniziano. Solo i matematici inglesi si rifiutarono di accoglierlo, e il loro rifiuto divenne ancora più caparbio in seguito alla polemica fra Newton e Leibniz; finirono così per porsi in una condizione di inferiorità, che li danneggiò gravemente per tutto il xviii secolo. Non è il caso di soffermarci sui numerosi lavori particolari (quasi tutti pubblicati negli« Acta eruditorum »),con i quali lo stesso Leibniz sviluppò la propria invenzione, dimostrandone la grande fecondità. Ciò che invece occorre sottolineare, è che i successi ottenuti valsero a vieppiù confermarlo nella sua convinzione originaria circa l 'importanza essenziale di una buona notazione per la scienza deduttiva. Il nesso fra le ricerche leibniziane di analisi infinitesimale e quelle di logica va cercato proprio qui e solo qui, onde non deve stupirei che il nostro autore abbia invece trascurato di fornirci una definizione rigorosa delle nozioni-base della nuova disciplina (ad esempio della nozione di differenziale). Ciò che lo interessava era soprattutto la struttura formale delle teorie, come risulta anche dal suo abbozzo di Ca/cui géométrique; era il loro inserimento nel grande quadro di quella mathesis universalis, che egli concepiva come scienza generale di tutte le forme (di quelle algebriche, ma non solo di esse). Quanto ora detto non significa, ben inteso, che Leibniz ritenesse le scienze formali prive di valore effettivamente conoscitivo. Al contrario, esse ne hanno per lui uno molto grande, proprio in quanto riflettono nelle loro forme le strutture stesse del mondo del possibile; e che siano davvero in grado di rifletterle, ci è per l'appunto garantito dalla loro purezza formale e dalla loro efficienza operativa. Una delle strutture più complesse era notoriamente costituita dal « labirinto del continuo», ove entrano fra loro in connessione l'esteso e l'inesteso. Poco importa che queste nozioni risultino o no, in sé medesime, chiare e distinte; l'importante è che si riesca a cogliere la forma della loro connessione. Ma proprio questo è il compito che la geometria e l'algebra di Cartesio non potevano compiere perché non andavano al di là delle grandezze finite. Ebbene, secondo il nostro autore, esso risulta invece egregiamente assolto dall'analisi infinitesimale: di qui la superiorità del nuovo calcolo, di qui l'altissimo posto che esso viene a occupare nel quadro generale del sapere. È con piena consapevolezza di tale superiorità che Leibniz scrive: « Questi sono soltanto gli inizi di una nuova geometria molto più sublime, che si estende a qualunque dei problemi più difficili e più belli anche della matematica mista. » 502
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VIII · FISICA
E
BIOLOGIA
L'argomento che ci proponiamo di trattare nel presente paragrafo ci fa scendere dal mondo delle essenze pure a quello delle realtà contingenti, cioè dall'ambito delle verità di ragione a quello delle verità di fatto. Come sappiamo dal paragrafo m, tale ambito non risulta più determinato dai soli principi di identità e di non-contraddizione, dovendosi ad essi aggiungere il principio di ragion sufficiente. L'aver collocato in primo piano la funzione spettante a quest'ultimo principio, è forse il contributo più profondo recato da Leibniz nel campo delle scienze della natura. Il principio di ragion sufficiente fornisce infatti un'efficace mediazione fra due esigenze - a prima vista antitetiche - parimenti presenti in tale tipo di scienze: l'esigenza che esse forniscano spiegazioni razionali, e l'esigenza che rispettino con scrupolo la realtà fenomenica. Rimettendo all'intelletto divino la conoscenza esaustiva degli eventi empirici (cioè la loro spiegazione puramente logica), Leibniz riserva all'intelletto umano un campo ancora assai vasto di spiegazioni, che secondo lui meritano appieno il titolo di razionali, sia pure in un senso diverso da quello della razionalità logico-matematica. Esse non pretendono di dedurre il decorso dei fenomeni da meri principi logici, ma di trovare, nell'incalcolabile numero di relazioni e correlazioni fra le varie sostanze, il motivo che spiega perché il singolo fenomeno studiato si sia svolto in un certo modo piuttosto che in un certo altro (potendo a priori svolgersi, indifferentemente, tanto nel primo quanto nel secondo). Senza dubbio il quadro generale, in cui Leibniz inserisce questa concezione, è un quadro metafisica, ovviamente inaccettabile per le sue molte postulazioni dogmatiche (in primo luogo per la postulazione di un intelletto infinito che sarebbe in grado di dedurre a priori tutto il mondo dei fatti). È però incontestabile che la distinzione leibniziana di due livelli di razionalità - uno per le scienze formali, l'altro per quelle reali - fra loro irriducibili ma entrambi forniti di un'autentica validità, si è rivelata molto preziosa sul piano metodologico; ha potuto infatti dare un senso, e una giustificazione, alle ricerche svolte dalle ricerche fisiche, senza espungerle dal campo della razionalità perché inidonee a raggiungere la medesima struttura delle scienze puramente formali. Passando ora dalle considerazioni di carattere generale a quelle concernenti più propriamente la fisica, va anzitutto osservato che negli scritti giovanili anche Leibniz aveva aderito - come gran parte degli scienziati più progressisti dell'epoca- al meccanicismo cartesiano integrato con l'atomismo di Gassendi. Ciò comportava l'accettazione di due tesi fondamentali: 1) riduzione della materia ad estens~one; 2) costituzione corpuscolare della materia, cioè sua scomponibilità in particelle non ulteriormente divisibili (atomi) aventi un'estensione piccolissima ma non nulla.
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Leibniz
Col maturarsi del suo pensiero, egli non tardò tuttavia a respingere entrambe queste tesi. A Cartesio obietta che la materia non è mera estensione ma estensione più energia (o forza); per Leibniz sarebbe proprio questo secondo fattore ed esso solo ciò che risulta in grado di caratterizzare la realtà fisica nei confronti delle nozioni puramente matematiche. Per averlo trascurato, Cartesio avrebbe finito di geometrizzare per intero la dinamica, e perciò di « pervertirla ». Il punto ove più si rende palese questa perversione sarebbe la presunta legge di conservazione della quantità di moto. Ad essa egli oppose il principio di conservazione dell'energia, cioè di quella forza (vis viva) che produce il moto senza identificarsi con il moto stesso. 1 Leibniz non chiarì mai, con una esatta definizione, ciò. che egli intendesse per energia o forza o conatus. Il fatto è, come già osservammo nel paragrafo rv, che tendeva a confonderla con l 'attività postulata - in sede metafisica - per rendere conto della natura intima della monade. Sostenne invece (idea che gli era stata suggerita da Huygens) che essa può venire misurata, in un corpo in movimento, dal prodotto della sua massa per il quadrato della velocità, differenziandosi quindi in modo netto dalla quantità di moto (prodotto della massa per la semplice velocità). Non è il caso di ricordare che, dal punto di vista moderno, la vivace polemica sorta in proposito fra cartesiani e leibniziani appare esclusivamente fondata su di un equivoco. Oggi è infatti ben noto che né la quantità di moto né la vis viva (o meglio, secondo la denominazione attuale, l'« energia cinetica ») sono a rigore autentiche forze; è pure noto però che entrambe possono, a pari diritto, venire usate per misurare le forze (nell'ipotesi che queste siano costanti) purché: se si vuol giungere a misurarle mediante la quantità di moto come esigevano i cartesiani, si facciano agire le forze - da porre in confronto una con l'altra- per un medesimo intervallo di tempo, e se invece si vuol giungere a misurarle mediante la forza viva come esigevano i leibniziani, le si faccia agire per un medesimo tratto di spazio. Ma la consapevolezza scientifica odierna è proprio il frutto dei grandi dibattiti del passato, anche di quelli mal posti (perché le difficoltà di fondo, emerse attraverso di essi, servirono a preparare l'impostazione esatta dei problemi). Abbiamo ricordato nel capitolo n, parlando della fisica di Cartesio, che secondo il punto di vista odierno la legge della costanza della quantità di moto possiede una validità assai limitata, onde sarebbe erroneo estenderla - come appunto voleva il pensatore francese - a tutto l 'universo. Altrettanto potremmo ora ripetere per il principio leibniziano di conservazione dell'energia meccanica, 1 Va notato che Leibniz parla pure di una forza passiva (da tenersi ben distinta dalla forza attiva) che costituirebbe la resistenza del corpo a lasciarsi penetrare o mettere in movimento, e si
identificherebbe con la sua massa. Questa identificazione di massa e forza si presentava, nel Seicento, come un duro colpo inferto alla base stessa del materialismo.
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dato che questa si conserva effettivamente costante (intesa però come somma di energia cinetica ed energia potenziale) in un ambito circoscritto di fenomeni, ma non permane più tale quando si verifichino ad esempio fenomeni di attrito. Va tuttavia osservato che, da un punto di vista storico, il principio leibniziano - malgrado i suoi limiti - si rivelò assai più fecondo di quello cartesiano: esso diede infatti il primo avvio all'elaborazione del concetto generale di energia (non più soltanto meccanica), che la fisica dell'Ottocento porrà a base della termodinamica e conseguentemente di tutta la conoscenza scientifica della natura. Alla concezione poco sopra delineata della materia si collega anche il rifiuto - opposto da Leibniz - ad accogliere le nozioni di spazio assoluto e di tempo assoluto, che Newton aveva collocato a fondamento dei suoi Principia (come spiegheremo nel prossimo capitolo). Ciò che Leibniz respinge in tali nozioni è la presunzione che lo spazio e il tempo costituiscano delle autentiche realtà fisiche; secondo il nostro autore, invece, essi sono puri insiemi di relazioni matematiche, prive di consistenza oggettiva (questa potendo venire cercata soltanto nella nozione di forza). Alcuni critici moderni hanno creduto di poter cogliere, nelle obiezioni in questione, alcuni spunti di grande interesse che verranno poi sviluppati - con ben altra portata, però - dalla teoria einsteiniana della relatività. Possiamo ora prendere in esame la seconda delle due tesi poco fa ricordate (quella della costituzione corpuscolare della materia), ed esporre brevemente le argomentazioni che condussero Leibniz ad abbandonarla. Anch'esse sono di natura essenzialmente metafisica, collegandosi alla teoria leibniziana dell'armonia che dio nell'atto della creazione avrebbe impresso al mondo. Secondo il nostro autore è proprio questa armonia ad escludere i salti, i contrasti bruschi, le contrapposizioni. È vero che, a uno sguardo superficiale, possiamo avere l'impressione che ve ne siano parecchi in natura; ma un esame più approfondito ci fa comprendere che essi sono illusori: in realtà l'universo presenta infinite « piccole sfumature » che si estendono ininterrottamente anche fra gli stati apparentemente contrari (come, per esempio, il moto e la quiete). Già sottolineammo più volte l'attenzione di Leibniz per le piccole differenze: ora possiamo aggiungere che sono proprio esse a fargli abbandonare l'ipotesi del discontinuo. Il nostro autore ne conclude che la natura obbedisce alla legge generalissima della continuità («Natura non facit saltus »). Vedremo nelle sezioni successive che, malgrado la sua genericità, il principio ora citato esercitò a lungo una profonda influenza sullo sviluppo delle ricerche scientifiche, e in particolare biologiche. Quest'ultimo fatto non può stupirei, dato che lo stesso Leibniz nei Nuovi saggi cerca proprio di illustrarlo con riferimento a questioni di biologia (la scala delle specie), e anzi ne prende lo spunto per sollecitare studi sempre più approfonditi sull'an~logia fra i vari esseri viventi: « Io approvo la ricerca delle analogie: le piante, gli insetti, l' ana-
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Leibniz
tomia comparata degli animali ne forniranno continuamente, soprattutto se ci si continuerà a servire del microscopio più di quello che si faccia ora. » Questo accenno al microscopio vale a ricordarci che Leibniz si interessò vivamente ai progressi compiuti nella sua epoca dalla microscopia, non meno che a quelli realizzati da qualunque altra scienza. Era un interesse dettato, sia dalla sua profonda curiosità per ogni forma di sapere, sia dal desiderio di trovare nei più significativi risultati della ricerca scientifica sempre nuove conferme alla propria concezione generale della natura. Le conferme che egli ritenne di poter ricavare dalla più avanzata microscopia erano principalmente di due ordini: 1) facendoci scoprire un enorme numero di animaletti in una semplice goccia d'acqua, ciascuno dei quali « è quasi altrettanto lontano dai primi elementi quanto lo siamo noi, perché è ancora un corpo che ha molte somiglianze con gli animali ordinari », la microscopia ci rafforza nella convinzione che non esistono elementi primi (atomi), «infatti, se questi animali microscopici fossero a loro volta composti di animali o piante o corpi eterogenei ali 'infinito, è chiaro che non ci sarebbero elementi »; z) fornendoci valide prove a favore del preformismo (Leibniz aderì in via generale a questa teoria, i cui principi sono stati brevemente esposti nel capitolo x1), la microscopia ci fa «ammettere più agevolmente che l'anima o qualunque altra sostanza organizzata non ha affatto origine nel momento in cui noi crediamo, e che la sua generazione apparente non è che uno sviluppo, una specie di accrescimento », tesi che si accorda in modo manifesto - secondo Leibniz- con la sua concezione filosofica circa l'indistruttibilità delle autentiche sostanze di cui è composto l'universo (le monadi). Il preformismo venne inoltre utilizzato dal nostro autore come solido argomento per respingere, o meglio correggere, la concezione meccanicistica di origine cartesiana. Esso dimostrerebbe infatti « che le leggi del meccanicismo, da sole, non potrebbero formare un animale là dove non v'è ancor nulla d'organizzato ». In altre parole: dimostrerebbe che quelle particolarissime macchine, che sono gli esseri viventi, non possono venire formate, come le macchine costruite dall'uomo, a partire dalla natura inorganica; esse richiedono l'azione provvidenziale di dio espletatasi per intero nell'istante in cui egli creò il mondo. È esattamente in quell'attimo, e solo in esso, che si è compiuto qualcosa di sovrannaturale, con la creazione (simultanea) di tutti i viventi, che al nostro occhio superficiale sembrano nascere e morire lungo il decorrere del tempo: «Io non ammetto qui il soprannaturale che all'inizio delle cose, riguardo alla prima formazione degli animali ... dopo di che ritengo che la formazione degli animali ed il rapporto fra l'anima e il corpo siano qualcosa di così naturale quanto le operazioni più ordinarie della natura. » È una concezione che rientra, come caso particolare, in quella delineata nel paragrafo VI allorché parlammo della creazione del mondo. Secondo Leibniz, questa ebbe luogo in un solo istante in cui dio creò tutt'intero l'universo con il
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Leibniz
suo ordine generale e le sue leggi subalterne (le quali possono però venire da lui sospese in casi eccezionali, come accade nei miracoli), e creò pure le differenze fra un essere e l'altro, in particolare quelle fra gli esseri viventi e la materia inorganica. Da quell'istante iniziale in poi la natura non ha bisogno di alcun intervento divino, onde noi possiamo conoscerla e operare su di essa, facendo esclusivo riferimento ai principi da cui è regolata (per volere del creatore). Come già accennammo nel paragrafo testé citato, Leibniz era convinto di avere in questo modo dimostrato il definitivo accordo fra la scienza moderna (a carattere sostanzialmente meccanicistico) e la concezione creazionistica cristiana, salvando nel contempo l'autonomia della ricerca scientifica nei confronti della religione. In realtà egli aveva per un lato inferto un duro colpo al meccanicismo, per l'altro delineato una concezione di dio che i teologi non avrebbero tardato a sconfessare. Ma pur attraverso queste molteplici e gravi incertezze, aveva dato un notevolissimo contributo al progresso del pensiero filosofico-scientifico, non solo raggiungendo importanti risultati su argomenti particolari, ma soprattutto accrescendo la fiducia dell'uomo nella ragione, senza però confondere i diversi livelli entro i quali essa opera.
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CAPITOLO
QUINDICESIMO
Ne wton
I
· VITA
E
OPERE
Isaac Newton nacque nel villaggio di Wollsthorpe della contea di Lincoln il giorno di Natale del 1642. Nel gennaio 1661 fece il suo ingresso nel Trinity College di Cambridge, ove iniziò gli studi matematici sotto la direzione di Barrow. Avendogli questi consigliato di leggere l'Ottica di Keplero, Newton si accorse di non poterlo fare, poiché tale opera conteneva sviluppi analitici superiori alle proprie conoscenze. Allora si rivolse dapprima allo studio di Euclide, poi a quello di Cartesio e degli altri matematici della prima metà del Seicento; fu soprattutto l' Arithmetica inftnitorum di Wallis ad esercitare su di lui un'indelebile influenza. Parallelamente agli studi matematici, si dedicò pure ad osservazioni astronomiche e ad esperienze di fisica e di chimica, mostrando fin da allora le sue capacità di sperimentatore, la sua abilità nella costruzione di apparecchi e il suo amore per il lavoro manuale. Nel 1665 conseguì il titolo accademico di baccelliere. A tale anno risale anche il suo primo studio sulle flussioni. Poco dopo però dovette abbandonare Cambridge per sfuggire ad una terribile pestilenza che infieriva in tutta l 'Inghilterra; si pensi che nell'estate 1665 morirono, nella sola Londra, più di trentamila persone. Ritira tosi nel suo piccolo possedimento di W ollsthorpe, vi rimase circa due anni, e questo periodo di involontario isolamento si ripercosse assai favorevolmente sui suoi studi. Concentratosi interamente nelle proprie ricerche, il giovane Newton elaborò nel 1665-67 il nucleo principale di tutte le sue più importanti scoperte, matematiche e fisiche. Fu qui che, secondo la leggenda, la famosa mela cadutagli in testa avrebbe fatto sorgere in lui l'idea della gravitazione universale. Fu ancora qui che Newton scoperse l'ineguale rifrangibilità dei raggi luminosi, preparò la costruzione del primo telescopio a riflessione, riuscì a perfezionare il calcolo delle flussioni, giunse al famoso teorema del binomio, ecc. Tornato a Cambridge dopo la cessazione della peste, vi conseguì fra il 1667 e il 1668 altri tre gradi accademici. Sottoponeva intanto i suoi manoscritti di argomento matematico all'esame di Barrow, e questi, sia per aver compreso l'eccezionale valore del discepolo, sia perché ormai personalmente interessato
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Newton
più alla teologia che alla matematica, decise di rinunciare alla cattedra in favore del giovane Newton. In questi anni egli si occupa soprattutto di ottica e nel febbraio del I672 comunica alla Royal Society (di cui era stato eletto membro un mese prima) una celebre memoria sulla luce e i colori.l La grande importanza di tale scritto viene sottolineata da uno studioso moderno di Newton, il russo Sergej Ivanovic Vavilov, con queste parole: in esso «si mostrò per la prima volta al mondo ciò che la fisica sperimentale poteva compiere, e come essa doveva essere. Newton costringe l'esperimento a parlare, a rispondere ai quesiti e a dare risposte tali da farne risultare una teoria ». Anche se, a rigore, Newton non fu effettivamente il primo a interrogare la natura con precisi esperimenti (basti menzionare la tradizione sperimentalistica che va da Galileo a Pascal, agli accademici del Cimento, ecc.), è certo che seppe farlo con sistematicità e penetrazione davvero esemplari, sforzandosi di elaborare la teoria fisica dei fenomeni studiati in stretto rapporto ai risultati sperimentali raggiunti. La matematica assumerà di nuovo qualche anno più tardi un posto predominante nell'animo di Newton, in quanto egli vi scorgerà lo strumento indispensabile per la trattazione scientifica rigorosa dei fenomeni astronomici e in particolare per la confutazione delle concezioni cartesiane di essi (concezioni che avevano un carattere qualitativo assai più che non autenticamente quantitativo). I risultati delle indagini meccanico-astronomiche di Newton verranno da lui per la prima volta esposti, in forma ancora incompleta, in una memoria originariamente intitolata De motu corporum e in seguito Philosophiae naturalis principia mathematica. Questa venne presentata nell'aprile I686 alla Royal Society che subito ne propose la stampa. Dopo un'ampia rielaborazione compiuta da Newton stesso, essa verrà pubblicata in tre libri nel I687, per merito soprattutto dell'astronomo Edmund Halley che pagò personalmente le spese della stampa e ne corresse le bozze. Dieci anni prima Newton aveva inviato a Leibniz due lettere sulle flussioni, delle quali abbiamo fatto cenno nel capitolo xrv. Merita di venire ricordato che nell'edizione del I687 dei Principia, come pure nella successiva, Newton riconosceva esplicitamente i contributi di Leibniz alla creazione del nuovo calcolo (in uno scolio alla proposizione vn del secondo libro). La seconda edizione dei Principia uscì nel I 7I 3; essa era stata accuratamente rivista da Roger Cotes, che ne scrisse pure una lunga e significativa introduzione, soprattutto diretta a due fini: I) a porre in luce i caratteri specifici della « filosofia sperimentale », che la distinguono sia dalla vecchia scienza aristotelica sia dalla fisica puramente ipotetico-matematica; 2) a confutare l'accusa, mossa da più parti a Newton, che la gravità sarebbe una «proprietà occulta» dei corpi, o I È la famosa memoria dal titolo A new theory about light and colours (Una nuova teoria sulla
luce e i colori); ad essa si è già fatto cenno nel capitolo XI.
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Newton
comunque qualcosa di « preternaturale » e quasi «un miracolo continuo». L'autore invece vi aggiunse il famoso Sco/io generale, sul contenuto del quale discuteremo a lungo nel seguito del capitolo. Nel qz6 uscirà una terza edizione curata da Henry Pemberton. Essa è pressoché identica alla seconda, salvo che vi risulta soppresso l'anzidetto riconoscimento dei meriti di Leibniz alla creazione del calcolo infinitesimale. Tre anni più tardi ne uscirà una traduzione inglese ad opera di Andrew Motte. Negli anni immediatamente successivi alla prima pubblicazione dei Principia si inserisce, nella vita di Newton, un'importante e significativa fase di attività politica che pone in luce i legami del nostro autore con la parte più progressista del popolo inglese. Essa ha inizio con la partecipazione di Newton ad una grave controversia tra l'università di Cambridge e il re Giacomo n Stuart che voleva imporre il conferimento di un titolo accademico non meritato a un proprio protetto, il frate benedettino Francis. L'università inviò a Londra una delegazione, con l'incarico di far recedere il re dalla sua richiesta; Newton, che ne faceva parte, fu uno dei più intransigenti difensori dell'autonomia dell'università e si ribellò ad ogni tentativo di compromesso. Il felice esito della missione accrebbe notevolmente tra i colleghi il prestigio del grande fisico. La posizione politica, contemporaneamente progressista e !egalitaria, di Newton può anche venire illustrata dalla seguente dichiarazione che egli scrisse ad un amico: « Ogni uomo dabbene è impegnato, secondo le leggi umane e divine, a seguire le disposizioni legali del re, ma se a Sua Maestà si consiglia di esigere qualcosa che secondo le leggi non può essere perseguito, nessuno deve essere punito se non vi ottempera. » Caduti gli Stuart e salito al trono Guglielmo d'Orange, Newton fu eletto dall'università di Cambridge deputato al parlamento di Londra. In tale funzione fu assai utile all'università come mediatore fra essa e il nuovo governo. La sua posizione di difensore dei whigs e di sostenitore del nuovo re rimase netta, malgrado le complicate oscillazioni dell'ambiente politico. Fu in questo periodo che Newton conobbe Locke diventandone stretto amico. I due pensatori esercitarono una notevole influenza uno sull'altro. Terminato il mandato parlamentare, Newton ritornò a Cambridge e attraversò uno dei periodi più tristi della sua vita, per effetto di un esaurimento nervoso che lo portò alle soglie della pazzia. La voce popolare attribuì la causa del collasso a un incendio scoppiato nel suo laboratorio, nel quale sarebbero andati perduti molti preziosi manoscritti di lavori incompiuti, soprattutto note di carattere sperimentale riguardanti le sue ricerche di chimica. La malattia lasciò in Newton gravi conseguenze; sicché, nemmeno dopo che si fu rimesso, poté riprendere i lavori scientifici con l'antica energia. Si può anzi dire che la sua produzione originale cessò interamente nel I 69o, anche se molte sue opere vennero pubblicate dopo questa data. p o
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Newton
Fra esse ricordiamo: le due lettere di Newton a John Wallis, di argomento matematico, cui abbiamo già fatto cenno nel capitolo x; la celebre Opticks(Ottica) pubblicata in inglese nel I 704 e in latino nel I 706, con due appendici, una sulle curve algebriche e l'altra sul calcolo integrale (quest'ultima portava il titolo di Tractatus de quadratttra curvarttm ed era stata composta nel I665-66); l' Ana!Jsis per aequationes nttmero terminorttm inftnitas (Analisi mediante equazioni infinite nel nttmero dei termini) scritta nel I 669 ma pubblicata solo nel I 7 I 1. Dell' Opticks si avranno, vivente Newton, altre due edizioni: nel I7I 8 e nel I 721. Uno dei più notevoli scritti di Newton su argomenti di analisi infinitesimale, Methodtts fluxionum et serierttm inftnitarum, da lui composto nel I67I, venne pubblicato postumo solo nel I736. Nel I695 Newton ebbe la carica di ispettore della zecca di Londra; qualche anno più tardi ne divenne direttore generale, rinunciando alla cattedra universitaria. L'Inghilterra attraversava in quegli anni un periodo di vero caos monetario, che minacciava la stabilità del nuovo regime instaurato con la seconda rivoluzione (del I688). Newton, con la sua competenza tecnica e la sua rigida onestà, diede un prezioso contributo all'attuazione· di una radicale riforma monetaria, e la crisi politico-finanziaria poté essere evitata. Nominato membro delle maggiori accademie scientifiche europee, presidente della Royal Society di Londra (I703), e infine baronetto (nel I7o5), Newton divenne senz'altro la più potente personalità scientifica dell'Inghilterra. Verso il I704-05 sorse però tra lui e Leibniz la grave e assai spiacevole controversia di cui parlammo nel capitolo xrv, circa la priorità dell'uno o dell'altro nell'invenzione del calcolo infinitesimale. Per completare il quadro qui abbozzato della complessa figura di Newton, occorre infine aggiungere che egli fu uomo profondamente religioso e dotto teologo. Locke poteva scrivere di lui, nel 1703, queste parole: « Newton è uno scienziato veramente eccezionale, e per i sorprendenti successi conseguiti non solo nel campo della matematica ma anche in quello della teologia, e per la sua profonda conoscenza della sacra scrittura, nella quale materia pochi possono competere con lui. » Tale religiosità costituisce un tratto molto caratteristico, non solo della personalità di Newton, ma -- come abbiamo già detto più volte di tutta la cultura della società inglese del suo tempo. Tra le opere di argomento religioso scritte dal nostro autore ci limiteremo a ricordare la Chronology (Cronologia), che gli costò vari anni di lavoro e venne pubblicata solo dopo la sua morte; in essa egli si proponeva di coordinare la cronologia della Bibbia con quella degli antichi egizi, greci, ecc. interpretando in modo nuovo i diversi testi e miti, al fine di eliminare le contraddizioni che, emergendo sempre più numerose dagli studi filologici, sembravano porre in seria crisi l'autorità della sacra scrittura. Morì nel I727 e fu sepolto nell'abbazia di Westminster. Sulla sua tomba ven-
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Newton
nero incise le celebri parole: « Si bi gratulentur mortales tale tantumque exstitisse h umani generis decus » ( « Si rallegrino i mortali perché è esistito un tale e così grande onore del genere umano»). II · SVILUPPO DELLE
E
RICERCHE
SIGNIFICATO MATEMATICHE
Il pensiero di Newton rappresenta senza dubbio una delle tappe fondamentali nella storia delle scienze e della filosofia moderne. L'influenza che egli esercitò sui matematici, sui fisici, sui filosofi e sugli stessi letterati del Settecento fu enorme, come vedremo nella sezione v; anche chi ne poneva in dubbio questa o quella teoria particolare, non poteva non riconoscere l'autentica svolta da lui impressa al corso delle indagini sull'universo. Lo stesso accanimento con cui i romantici lo combatteranno è una riprova della posizione assolutamente centrale che egli occupava quale tipico esponente della cultura settecentesca. Stando così le cose, potrebbe forse apparire utile fermarci anzitutto ad esporre le più significative concezioni generali di Newton intorno alla natura e ai nostri metodi per studiarla, onde passare, in un secondo tempo, alla rapida illustrazione delle sue scoperte scientifiche particolari. Ciò costituirebbe tuttavia, a nostro avviso, una sorta di tradimento del nostro autore, che affronta sì con piena consapevolezza i massimi problemi filosofici, ma solo pervenendo ad essi attraverso una meditata e orientatrice indagine di settori ben delimitati del sapere. Prenderemo dunque le mosse da questi ultimi, senza tuttavia dimenticare che potremo comprenderne appieno il significato e il valore solo quando saremo poi riusciti a inquadrarli esattamente nel complesso del pensiero newtoniano. Nel settore della matematica la fama di Newton è soprattutto legata all'invenzione del calcolo infinitesimale, e già sappiamo quale grande valore egli e i suoi contemporanei vi attribuissero, come dimostra la lunga polemica sorta fra il nostro autore e Leibniz circa la priorità della scoperta. A giudizio degli studiosi odierni la questione ha invece perso gran parte del suo interesse, essendo ormai incontestabilmente dimostrato che né Leibniz né Newton furono, a rigor di termini, i veri e propri « inventori » del nuovo calcolo, ma soltanto i sistematori delle sue regole e dei suoi simboli; le idee infatti che stavano alla base di esso erano già state gradualmente elaborate da intere generazioni di matematici della prima metà del secolo (come si è spiegato nel capitolo x). Comunque Newton diede un contributo fondamentale allo sviluppo di questa branca importantissima della matematica moderna, non solo sistemandone le regole e i simboli (quelli newtoniani si rivelarono assai meno adeguati dei simboli introdotti da Leibniz), ma anche provando la funzione indispensabile che essi adempiono nella meccanica, e quindi nell'intera scienza dell:J natura. Le sistemazioni che Newton ideò per il calcolo infinitesimale furono due:
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Newton
il cosiddetto calcolo delle flussioni e quello delle prime e ultime ragioni. Malgrado la maggior speditezza di quello rispetto a questo, e sebbene proprio il calcolo delle flussioni abbia costituito il primo risultato delle ricerche matematiche giovanili di Newton, è degno di nota che nei Principia egli abbia posto a fondamento della sua trattazione della meccanica il metodo delle prime e ultime ragioni (ad esso è infatti dedicata la prima sezione del primo libro, mentre solo nella seconda sezione del secondo libro vengono enunciate alcune importanti regole dell'altro tipo di calcolo, senza che vengano menzionati, però, i due termini «fluenti» e «flussioni»). Il fatto è che il metodo delle prime e ultime ragioni sembra a Newton più accettabile anche dai matematici ligi alla tradizione classica (in quanto situato, per così dire, a mezza strada fra la via moderna e quella archimedea), e il nostro autore non vorrebbe compromettere il successo delle proprie concezioni meccanico-astronomiche legandole a un tipo di trattazione matematica troppo innovatrice. Da un punto di vista storico va comunque riconosciuto che anche il metodo delle prime e ultime ragioni conteneva non poche novità; se sotto l'aspetto meramente calcolistico esso non reggeva il confronto con l'agile metodo delle flussioni, sotto l'aspetto concettuale era ricco di idee altrettanto profonde. Va in particolare rilevata la consapevolezza critica dimostrata da Newton nel definire i concetti stessi di « prima » o di « ultima » ragione. Vale la pena, dato il loro enorme interesse, riportare quasi per intero le due pagine dedicate all'argomento nella sezione prima del primo libro dei Principia: «Si obietta che non esiste l'ultimo rapporto di quantità evanescenti, in quanto esso, prima che le quantità siano svanite, non è l'ultimo, e allorché sono svanite non c'è affatto. Ma con lo stesso ragionamento si può giustamente sostenere che non esiste la velocità ultima di un corpo che giunga in un certo luogo, dove il moto finisce. La velocità, infatti, prima che il corpo giunga nel luogo non è l'ultima, e quando vi giunge non c'è. La risposta è facile: per velocità ultima si intende quella con la quale il corpo si muove, non prima di giungere al luogo ultimo nel quale il moto cessa, né dopo, ma proprio nel momento in cui vi giunge: ossia quella stessa velocità con la quale il corpo giunge al luogo ultimo e con la quale il moto cessa. Similmente, per ultime ragioni delle quantità evanescenti si deve intendere il rapporto delle quantità non prima di diventare nulle e non dopo, ma quello col quale si annullano. Del pari, anche la prima ragione delle quantità nascenti è il rapporto col quale nascono ... Si può anche obiettare che se vengono date le ultime ragioni delle quantità evanescenti, saranno date anche le ultime grandezze, e in tal modo ogni quantità sarà costituita da indivisibili, contro quanto Euclide dimostrò circa gli incommensurabili nel decimo libro degli Elementi. Questa obiezione, però, si basa su una falsa ipotesi. Le ultime ragioni con cui quelle quantità si annullano non sono in realtà le ragioni delle ultime quantità, ma i limiti ai quali le ragioni delle quantità decrescenti si avvicinano sempre, illimita-
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tamente, e ai quali si possono avvicinare per più di qualunque differenza data, e che però non possono mai superare, né toccare prima che le quantità siano diminuite all'infinito.» Quanto al calcolo delle flussioni, occorre anzitutto ricordare che esso prende le mosse dalla seguente constatazione: che « le linee vengono descritte, non mediante addizioni di parti, ma per moto continuo di punti; le superfici per moto di linee; i solidi per moto di superfici, ecc. ». Partendo da questa constatazione, Newton osserva che le quantità così generate variano, in tempi uguali, di più o di meno a seconda della maggiore o minore « velocità di accrescimento »: per l'appunto a queste velocità egli attribuisce il nome di flussioni, mentre chiama fluenti le anzidette quantità descritte per moto continuo. Se indichiamo con x, y, z ... diverse fluenti, tutte funzioni del medesimo parametro t (tempo convenzionale), ad ogni valore di questo t corrisponderà un valore per ciascuna fluente e corrisponderà pure un valore per la sua rispettiva flussione, che Newton denota con i simboli x,y, Ne sorgeranno subito due problemi fondamentali: calcolare il valore delle flussioni, o più esattamente il loro reciproco rapporto, quando si sappia che le fluenti sono legate una all'altra da certe equazioni algebriche; e viceversa calcolare il valore delle fluenti quando siano note le relazioni esistenti fra le loro flussioni. Si tratta, come ognun vede, dei due ben noti problemi che oggi indichiamo come calcolo delle derivate e calcolo degli integrali. Senza diffonderci ad elencare tutti i risultati particolari che il nostro autore raggiunse in questa trattazione, basti menzionarne alcuni fra i più interessanti: egli riuscì a enunciare con molta chiarezza le principali regole di derivazione e di integrazione; scoprì i concetti di derivata seconda, terza, ecc.; vide esattamente il legame che intercede fra derivazione e integrazione (teorema di inversione); comprese che, mentre la flussione è perfettamente determinata allorché è data la fluente, la fluente ricavata da una flussione è invece determinata soltanto a meno di una costante arbitraria; si rese conto dell'importanza delle equazioni differenziali, indicando il modo di risolverne alcuni tipi, sia pure particolarmente semplici; ne fece numerose applicazioni alla geometria e alla meccanica. Oltreché di analisi infinitesimale, Newton si occupò con notevolissimo successo anche di altri fondamentali campi della matematica: di algebra, di sviluppi in serie, di metodi di interpolazione, di geometria algebrica (in particolare dei problemi concernenti la generazione e la classificazione delle cubiche), ecc. Ma ciò che qui più ci interessa, è aggiungere qualche parola sulla concezione che egli ebbe delle ricerche matematiche in generale. Di essa si sono date, infatti, parecchie interpretazioni fra loro assai diverse. Nessuno ovviamente può porre in dubbio che Newton padroneggiasse in modo pressoché perfetto la matematica della propria epoca; ma il problema in discussione riguarda il valore che egli attribuiva a questa scienza.
z. ..
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Ci limiteremo, per brevità, a riferire due fra i più significativi modi di rispondere a questo quesito. Secondo alcuni interpreti (per esempio Léon Bloch e, con poche sfumature di differenza, Sergej Ivanovic Vavilov) Newton non avrebbe scorto nella matematica null'altro fuorché uno strumento (sia pure elevatissimo) per lo sviluppo dell'indagine dei fenomeni fisici, in particolare meccanici. Ciò spiegherebbe perché non si preoccupò della convergenza delle serie, sembrandogli ovvio che, se una serie viene suggerita dallo studio di un problema fisico, essa dovrà necessariamente convergere: soltanto i problemi fittizi potrebbero dar luogo a serie divergenti. Contro questa interpretazione, a prima vista convincente, si è obiettato che essa sarebbe viziata da un'evidente parzialità e da un eccessivo semplicismo. In aperta antitesi con gli autori predetti, Alberto Pala ha sostenuto, in tempi recentissimi, che « Newton sarebbe stato ben consapevole del valore relativamente autonomo della matematica rispetto alla fisica », valore comprovato fra l'altro dalla stessa capacità della matematica di generalizzare i dati d'osservazione. A conferma di questa tesi possono venire citati due fatti: r) che Newton, pur essendosi interessato ampiamente di matematica applicata, fu ben lungi dal trascurare la matematica pura, come dimostrano ad esempio le sue ricerche di geometria algebrica; z) che egli attribuì alla stessa matematica applicata una funzione di primo piano dal punto di vista teoretico, in quanto vi scorse il più solido punto di partenza per confutare la « fisica filosofica » di Cartesio (ed è nota l'importanza essenziale che egli annetteva a tale confutazione). III
· MECCANICA
E
ASTRONOMIA
Meccanica e astronomia costituiscono i due argomenti fondamentali dei Principia. La trattazione della meccanica vi viene svolta con metodo deduttivo, particolarmente nel primo libro, dedicato allo studio dei moti determinati da forze centrali. Mentre il secondo libro costituisce una sorta di intermezzo, avente per oggetto la meccanica dei fluidi, il terzo è prevalentemente di argomento astronomico, e si presenta come l'applicazione dei risultati generali - raggiunti nel primo libro - allo studio dei moti celesti. Qualche epistemologo moderno, come Braithwaite, ha rimproverato Newton per avere esposto i Principia in forma volutamente deduttiva, quasi sforzandosi di porre in luce un'analogia formale fra la propria opera e gli Elementi di Euclide. Non negheremo che il nostro autore sia stato mosso, fra l'altro, anche da questa preoccupazione: è chiaro infatti che l 'anzidetta analogia avrebbe fornito alla trattazione dell'argomento un grande prestigio, data la convinzione generale - fra gli studiosi dell'epoca - che gli Elementi euclidei costituissero un modello insuperabile di edificio razionale. Bisogna tuttavia precisare che Newton espose in forma deduttiva solo la propria trattazione della meccanica, non già lo studio dei moti celesti, che forma l'oggetto del terzo libro. Al contrario, questo inizia proprio con l'enunciazione di quattro regulae philosophandi,
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cioè di quattro regole da applicare nella ricerca fisica: esse intendono costituire la base di ogni sapere consapevolmente induttivo, e non già della scienza deduttiva. Se è vero che Newton attribuisce il nome di « teoremi » anche alle proposizioni del terzo libro, come a quelle dei due precedenti, vero è però che la loro dimostrazione consiste essenzialmente nel provare che le tesi ivi enunciate risultano in stretto accordo con i sei «fenomeni» (o risultati dell'osservazione astronomica) elencati con molto scrupolo subito dopo le anzidette «regole del filosofare ». Riservandoci di tornare, nel paragrafo v, sulla metodologia generale di Newton, sarà ora opportuno dare un'idea del modo in cui si articola la sua trattazione sistematica della meccanica. È un'impostazione che ha fatto indubbiamente epoca nella storia del pensiero scientifico e filosofico; e dovremo fare varie volte riferimento ad essa, allorché parleremo dello sviluppo della scienza e della critica epistemologica dal Settecento a oggi. Newton antepone alla propria trattazione una lunga premessa, in cui definisce i concetti base della meccanica (quantità di materia, quantità di moto, forza insita nella materia, forza impressa a un corpo, ecc.), ed enuncia gli assiomi o leggi generali del moto (sono gli assiomi oggi noti come i «tre principi della dinamica»). Uno scolio alle definizioni illustra la famosa distinzione newtoniana tra tempo assoluto e tempo relativo, tra spazio assoluto e spazio relativo, e infine tra moto assoluto e moto relativo. Per dare un'idea, sia pur molto sommaria, di tale distinzione - su cui si accenderanno nel corso degli anni i più accesi dibattiti - vale la pena riportare le stesse parole dell'autore: «Il tempo assoluto, vero, matematico, in sé e per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, scorre uniformemente, e con altro nome è chiamato durata; quello relativo, apparente e volgare, è una misura (esatta o inesatta) sensibile ed esterna della durata per mezzo del moto, che comunemente viene impiegata al posto del vero tempo: tali sono l'ora, il giorno, il mese, l'anno. Lo spazio assoluto, per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, rimane sempre uguale e immobile; lo spazio relativo è una dimensione mobile o misura dello spazio assoluto, che i nostri sensi definiscono in relazione alla sua posizione rispetto ai corpi, ed è comunemente preso al posto dello spazio immobile; così la dimensione di uno spazio sotterraneo o aereo o celeste viene determinata dalla sua posizione rispetto alla Terra. Lo spazio assoluto e lo spazio relativo sono identici per grandezza e specie, ma non sempre permangono identici quanto al numero. Infatti se la Terra, per esempio, si muove, lo spazio che contiene la nostra aria, e che, relativamente alla Terra, rimane sempre identico, ora sarà una data parte dello spazio assoluto attraverso cui l'aria passa, ora un'altra parte di esso, e così, senza dubbio, muterà incessantemente. Il luogo è la parte dello spazio occupata dal corpo e, a seconda dello spazio, può essere assoluto o relativo... Il moto
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assoluto è la traslazione di un corpo da un luogo assoluto in un luogo assoluto, il relativo da un luogo relativo in un luogo relativo. » Non occorre aggiungere molte parole per porre in chiaro che i concetti di tempo assoluto, di spazio assoluto e di moto assoluto sono nozioni essenzialmente astratte, prive di un corrispettivo diretto nell'esperienza. Autorevoli studiosi moderni vi scorgono l 'impronta, secondo essi incontestabile, della profonda influenza che Newton avrebbe subito da parte del cosiddetto platonismo di Cambridge (del quale si è parlato nel paragrafo m del capitolo xrr). 1 Dal nostro punto di vista ci preme però sottolineare che esse rappresentavano comunque una necessità ineliminabile per la struttura stessa della meccanica newtoniana; è chiaro infatti che i tre famosi «principi della dinamica» su cui si regge l'intera costruzione risulterebbero privi di significato senza un riferimento a tali nozioni. Che senso avrebbe, ad esempio, asserire che un corpo su cui non agisce alcuna forza persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, se non si sottintendesse « rispetto allo spazio e al tempo assoluti »? (senza un tale riferimento, le due espressioni «quiete» e «moto rettilineo uniforme» risulterebbero manifestamente prive di significato univoco). Così pure risulterebbe incomprensibile, senza la specificazione anzidetta, la tesi asserita dal secondo principio, e cioè che una forza applicata a un corpo gli imprime una accelerazione (risultando ovvio che un moto accelerato rispetto a un sistema di riferimento può apparire uniforme rispetto a un altro). Va pure notato che la presenza, empiricamente verificabile, degli effetti dell'accelerazione centrifuga nei corpi in moto rotatorio convinse Newton che tale accelerazione costituiva qualcosa di effettivo, ond'egli pensò di paterne dedurre che il tempo e lo spazio assoluti, per quanto definiti in forma puramente astratta, denotassero la struttura reale dell 'universo. 2 r Ecco per esempio ciò che scrive in proposito Max Jammer: «Contemporaneo di Henry More, che conobbe personalmente durante la sua giovinezza, e i cui insegnamenti attraverso Isaac Barrow esercitarono su di lui una profonda influenza, non sorprende che Newton trovasse un fondamento alla sua teoria dello spazio nella dottrina di questo pensatore. » 2 Celebre è a questo proposito l'esperienza del secchio ideata dal nostro autore, e fatta poi bersaglio (nell'Ottocento) di molte critiche. Vale la pena spiegarla con le lucide parole di un illustre epistemologo dei nostri tempi (Ernst N age!): «Un secchio pieno di acqua è sospeso ad una fune, così che la fune, quando si torce, diventa l'asse di rotazione del secchio. All'inizio, l'acqua e le pareti del secchio sono in quiete l 'una rispetto alle altre, e la superficie dell'acqua è (approssimativamente) piana. Indi il secchio ruota. L'acqua non comincia a ruotare immediatamente, così che per un certo tempo il secchio ha un moto
accelerato rispetto all'acqua; la superficie dell 'acqua, durante tale intervallo di tempo, resta tuttavia piana. Alla fine, però, anche l'acqua acquista un moto rotatorio, così che finisce per essere in quiete rispetto alle pareti del secchio. Ora però la superficie dell'acqua non è più piana, ma concava. Si arresta poi la rotazione del secchio bruscamente. Ma l'acqua non cessa immediatamente la sua rotazione, e per un certo tempo ha un moto accelerato relativo rispetto alle pareti del secchio. Tuttavia, durante tale periodo la superficie dell'acqua continua a rimanere di forma concava. Finalmente, quando anche l'acqua smette di ruotare e diventa in quiete rispetto alle pareti del secchio, la sua superficie ridiventa piana ... « ... Newton ne concluse che la forma della superficie è indipendente dal suo stato di moto rispetto al secchio ... (e perciò) .. .il manifestarsi di forze deformanti agenti sull'acqua deve venir considerato come un'accelerazione rispetto allo spazio assoluto.»
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Partendo dalle nozioni e dai principi testé accennati, Newton passa ad analizzare, con mirabile rigore matematico, le traiettorie descritte dai punti materiali, allorché essi siano sottoposti a forze centrali variamente determinate. Il caso più importante - che però nel primo libro viene esaminato in via meramente ipotetica - è quello della cosiddetta « gravitazione newtoniana »: questa ha luogo, com'è ben noto, quando due punti materiali sono attratti l'uno verso l'altro da una forza direttamente proporzionale alle loro masse e inversamente al quadrato delle distanze. Newton dimostra che in questo caso l'orbita descritta dal punto di massa minore attratto verso quello di massa maggiore dovrà essere una curva algebrica di secondo ordine (determinando in particolare le condizioni che debbono essere soddisfatte affinché sia un'ellisse). Fra le molte proposizioni dimostrate dal nostro autore merita una particolare menzione il seguente risultato: una sfera di materia gravitazionale attrae i corpi, che si trovano fuori di essa, come se tutta la massa della sfera fosse condensata nel suo centro. Già accennammo che il secondo libro dei Principia ha per oggetto la meccanica dei fluidi. Qui ci limiteremo a precisare che esso studia il moto dei corpi cui viene opposta resistenza dal mezzo entro il quale si muovono. Anche rispetto ad essi Newton contempla vari casi, secondo le ipotesi avanzate per la legge che regola tale resistenza. Dopo lunghe argomentazioni di carattere prevalentemente analitico, il libro conclude con la dimostrazione (importantissima sia dal punto di vista scientifico sia da quello filosofico) che l'ipotesi cartesiana dei vortici non può spiegare il moto dei pianeti. Come già sappiamo, il terzo libro ha un carattere prevalentemente astronomico: vi si dimostra che i fenomeni celesti concernenti il Sole e i pianeti si inquadrano in modo perfetto entro il tipo di movimenti, esaminati nel primo libro, relativi al caso che i corpi si attraggano l'un l'altro con una forza direttamente proporzionale alle loro masse e inversamente al quadrato delle distanze. Questo accordo costituisce, secondo Newton, una prova sicura che la forza interagente fra i corpi obbedisce effettivamente alla legge testé accennata. L'opera si conclude con uno Sco/io generale di grande significato metodologico e filosofico, sul quale ritorneremo ampiamente negli ultimi paragrafi del capitolo. Qui basti aggiungere poche parole sull'importanza scientifica dei risultati raggiunti da Newton: essi dimostravano che i moti dei corpi celesti e quelli dei corpi che cadono «naturalmente» sulla Terra sono regolati da un'unica legge (la legge della gravitazione universale), onde tutto l'universo viene a costituire un solo e medesimo « ordine architettonico », maestoso' nella sua bellezza e semplicità. La scoperta di tale ordine non poteva non apparire una mirabile vittoria per la ragione umana, nonché una prova della razionalità della natura. Essa riusciva, fra l'altro, a spiegare il complicato fenomeno delle maree, già tanto studiato (ma con poco successo) da Keplero e da Galileo. La scienza appariva ormai avviata per un cammino sicuro; essa era infine riuscita a unifip8
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care il mondo celeste con quello terrestre: dai suoi risultati avrebbe dovuto prendere le mosse anche la filosofia, per giungere a una concezione sicura e razionale di dio, quale architetto supremo dell'universo. IV · OTTICA
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CHIMICA
Come accennammo nel paragrafo I, le ricerche ottiche di Newton risalgono al biennio 1665-67; l'importanza notevolissima loro attribuita dal nostro autore è confermata dal fatto che, appena ottenuta la cattedra di Barrow, proprio all'ottica egli dedicò i primi corsi di lezioni e che, appena nominato membro della Royal Society, la sua prima cura fu di comunicare i risultati ottenuti nelle ricerche anzidette (mediante la famosa memoria del I672.). Il contenuto di tali lezioni, della memoria ora ricordata e di altre elaborate qualche anno più tardi, venne raccolto e rielaborato - come già sappiamo - nell'Opticks del I704. Orbene il grande successo immediatamente ottenuto da quest'opera dimostra che non solo Newton, ma tutto l'ambiente colto dell'epoca era disposto a riconoscere un altissimo valore scientifico a questo genere di ricerche: il volume incontrò un favore di pubblico perfino maggiore di quello incontrato dai Principia, forse perché scritto in uno stile più piano, non appesantito da tanti calcoli matematici. L'opera è suddivisa in tre libri; l'ultimo di essi contiene l'esposizione di una lunga serie di Queries (Questioni), accresciute di numero e di ampiezza dalla prima alle edizioni successive (del J7I8, del 172.1 e del I73o; ove occorre notare che anche quest'ultima, pur essendo uscita dopo la morte dell'autore, era stata da lui personalmente rivista). In tali questioni, che sono forse per lo studioso di oggi la parte più interessante dell'intero volume, Newton introduce, in forma talvolta disorganica, acutissime osservazioni e meditati tentativi di spiegazione dei quali confessa egli stesso - con molto spirito critico - il carattere di mere ipotesi provvisorie. La base delle ricerche newtoniane di ottica è essenzialmente sperimentale, anche se la sperimentazione viene poi inquadrata in un'ampia elaborazione teorica. Il centro degli esperimenti compiuti dal nostro autore riguarda l'ineguale rifrangibilità dei raggi luminosi: dapprima egli scoperse che un raggio di luce bianca si decompone allorché attraversa un prisma triangolare di vetro; poi riuscì a ottenere nuovamente luce bianca,. ricomponendo i vari raggi luminosi ricavati dalla precedente decomposizione. In seguito esaminò i colori delle lamine sottili e, premendo un prisma di vetro sopra una lente di curvatura conosciuta, riuscì a produrre quegli anelli colorati che ancora oggi portano il nome di «anelli di Newton ». Per spiegare i fenomeni testé accennati, e vari altri che per limiti di spazio ci è qui impossibile elencare, il nostro autore avanzò - come già venne ricordato
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nel capitolo XI - l'ipotesi che la luce fosse costituita di corpuscoli emessi dalle sostanze luminose: corpuscoli di dimensioni diverse a seconda del vario colore (di dimensione massima quelli costituenti la luce rossa, minima quelli costituenti la luce violetta). Va subito sottolineato che, secondo questa concezione, le qualità originarie e immutabili dei raggi luminosi sarebbero proprio i colori, cui corrisponderebbe qualcosa di obiettivo e di reale, mentre il bianco sarebbe soltanto qualcosa di derivato, e in certo senso di puramente soggettivo. Contro tale tesi insorgerà con la massima energia, all'incirca un secolo più tardi, Goethe, il quale l'accuserà di intollerabile astrattezza, sostenendo che non è lecito attribuire maggiore fiducia ai risultati di artificiosi esperimenti anziché all'esperienza immediata (esperienza che ci mostra proprio il carattere originario della luce bianca). L'idea che la luce sia costituita di particelle proiettate dal corpo luminoso era, per verità, molto antica. In passato però essa non era stata sviluppata in forma rigorosa e, poco tempo prima di Newton, Huygens l'aveva sottoposta a serie critiche cercando di sostituirla con una teoria ondulatoria. Newton riprende invece la vecchia ipotesi, le dà una formulazione precisa e ne esamina le varie conseguenze con esattezza matematica, riuscendo a dimostrare che essa spiegherebbe assai bene tutti i risultati sperimentali antecedentemente ottenuti. Anche se talvolta queste dimostrazioni possono !asciarci dubbiosi, e se di fatto non persuasero tutti i contemporanei del grande scienziato, va comunque riconosciuta la loro perfetta impostazione metodologica ipotetico-sperimentale. Dobbiamo inoltre sottolineare che dallo stesso Newton la teoria corpuscolare testé delineata venne presentata più sotto forma di semplice suggerimento che non di verità assoluta; troviamo infatti, soprattutto nelle anzidette Questioni, che egli prende in seria considerazione anche l'ipotesi ondulatoria e che si guarda bene dall'escluderla con sicurezza aprioristica. Non di rado egli afferma la necessità di eseguire nuovi esperimenti e giunge a sostenere che questi soli, non le ipotesi teoriche, costituiscono l'autentica verità scientifica. La teoria corpuscolare induce poi Newton a postulare l'esistenza di una sostanza specifica - l'etere - attraverso cui avrebbe luogo la trasmissione dei corpuscoli luminosi secondo una ben determinata velocità. Essa riempirebbe tutto lo spazio, e quindi anche i mezzi trasparenti: in questi ultimi però la velocità dei corpuscoli luminosi risulterebbe maggiore che non nello spazio cosiddetto vuoto perché alla loro velocità normale (cioè a quella da essi posseduta nel vuoto) se ne aggiungerebbe un'altra, dovuta all'azione attrattiva (gravitazionale) della materia da cui sono costituiti gli anzidetti mezzi trasparenti (per esempio il vetro). 1 Il rapporto tra la velocità dei raggi luminosi entro un tipo di vetro e la 1 Come vedremo nella sezione vr, questa tesi verrà dimostrata falsa verso la metà dell'Ottocento, allorché saranno costruiti precisi dispo-
sitivi tecnici per la misurazione della velocità della luce nei vari mezzi trasparenti. Il risultato così ottenuto segnerà la vittoria della teoria ondulatoria.
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loro velocità nel vuoto ci darebbe il coefficiente di rifrazione del vetro considerato. Nel XVIII secolo la teoria newtoniana trovò larghi e autorevoli consensi, pur senza essere mai condivisa (come già abbiamo ricordato) da tutti i fisici; ma le critiche sollevate contro di essa dai sostenitori dell'ipotesi ondulatoria si fecero via via più serie finché, fra il I 8zo e il I 8 50, quest'ultima finì con l'ottenere vittoria pressoché completa. Nel nostro secolo però si scopriranno altri fenomeni, che faranno riproporre, in termini moderni, la concezione corpuscolare apparentemente sconfitta cent'anni prima. L'aspetto «più sorprendente» della teoria newtoniana - come scrive molto bene il Dampier - è la sua straordinaria « rassomiglianza » proprio con queste teorie più moderne. Pur volendo tacere di altre ricerche minori compiute da Newton, per esempio di quelle di acustica, non possiamo tuttavia esimerci dall'aggiungere qualche parola su quelle di chimica che - come già ricordammo nel paragrafo I - lo appassionarono vivamente fin dagli anni della giovinezza. Se è vero che egli vi dedicò un tempo forse maggiore di quello speso nelle discipline da cui trasse maggiore gloria, ciò dimostra che tali studi contenevano qualcosa di perfettamente consono al suo temperamento di scienziato rivolto alla. sperimentazione. Purtroppo Newton non scrisse sull'argomento alcuna opera sistematica; probabilmente ciò dipese dal fatto che molti risultati da lui conseguiti in accuratissime ricerche andarono perduti nell'incendio cui si è fatto cenno nell'anzidetto paragrafo. Tuttavia i moderni studiosi di storia della scienza, esaminando minutamente gli sparsi appunti di argomento chimico che il grande scienziato lasciò inediti, hanno concluso che anche in essi si possono trovare molte idee di notevole interesse, idee che precorrono i successivi sviluppi di tale scienza. « È chiaro, » scrive per esempio su questo tema il già citato Dampier, « che, se pure Newton non fece nella chimica alcuna scoperta sensazionale come quelle compiute nella fisica, tuttavia egli dimostrò un intuito che va ben al di là di quello degli altri chimici del suo tempo. » Questo intuito si rivela, in particolare, nel suo modo di interpretare la fiamma « che egli concluse differire dai vapori soltanto come i corpi scaldati a rosso differiscono da quelli non scaldati a rosso ». Ma non sono i risultati particolari che qui ci interessano: ciò che ci interessa è la nuova luce che essi gettano sulla figura di Newton. Se è vero, come oggi appare indubitabile, che egli coltivò con tanta passione e costanza le ricerche di chimica, bisogna concluderne che non fu soltanto (o non prevalentemente) uno scienziato teorico, soprattutto rivolto a sistemare le grandi leggi della meccanica, ma fu nel contempo uno scrupoloso osservatore, attentissimo a tutti i dati che l'esperienza è in grado di fornirci, anche a quelli di cui non possiamo ancora avanzare una soddisfacente spiegazione scientifica.
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V · IL RIFIUTO DELLE IPOTESI
Quanto è stato brevemente esposto negli ultimi tre paragrafi illustra sotto molti aspetti la complessa metodologia scientifica di Newton, ponendone in luce l'incontestabile modernità. Non è possibile, tuttavia, comprenderne i presupposti espliciti ed impliciti senza dedicare un esame alquanto più particolareggiato al rifiuto categorico delle ipotesi, espresso dalla famosa affermazione (contenuta nello S eolio generale ai Principia): «H ypotheses non fingo. » Essa è una delle tesi sottoposte a più accurata analisi dagli interpreti del pensiero newtoniano, e costituisce anche oggi uno dei punti più controversi. In primo luogo va precisato che il termine « ipotesi » veniva perlopiù usato, ai tempi di Newton, come sinonimo di spiegazione di un fenomeno alla luce di una visione globale della realtà. Orbene era proprio questo tipo di spiegazione - che noi chiameremmo « metafisica » - ciò che il grande scienziato voleva anzitutto respingere nel modo più deciso con l'affermazione testé riferita. L'esempio più noto di tal genere di ipotesi era stato, in tempi passati, la concezione aristotelica del mondo, e già sappiamo quante critiche si elevarono contro di essa nel rinascimento e in tutto il Seicento. Altro esempio, forse ancora più pericoloso perché formulato in termini più moderni, è offerto - secondo il nostro autore - dal cartesianesimo, che pretenderebbe ricavare una concezione meccanicistica del mondo dalle speculazioni filosofiche sul concetto di sostanza estesa; la polemica di Newton contro questo modo di pensare è altrettanto energica quanto quella contro l'aristotelismo. Tale polemica verrà proseguita con tenace asprezza da tutti i newtoniani del Settecento. La stessa prudenza rivelata da Newton nei riguardi della concezione atomistica della materia non può venire compresa se non nel quadro ora delineato. È infatti indubitabile che egli propendeva apertamente (almeno in sede filosofica) verso l'atomismo, ma ciò che lo trattenne dall'aderirvi fu il timore che tale adesione dovesse costituire un impedimento aprioristico ad accogliere le indicazioni dell'esperienza qualora questa dovesse mostrarci l'inesistenza di particelle effettivamente indivisibili. «L'estensione, la durezza, l'impenetrabilità, la mobilità e la forza d'inerzia del tutto nasce dall'estensione, dalla durezza, dall'impenetrabilità, dalla mobilità e dalla forza d'inerzia delle parti: di qui concludiamo che tutte le minime parti di tutti i corpi sono estese e dure, impenetrabili, mobili e dotate di forza d'inerzia. E questo è il fondamento dell'intera filosofia ... Ma se anche da un solo esperimento risultasse che, rompendo un corpo duro e solido, una qualunque particella non divisa subisce una divisione, concluderemmo ... che non soltanto sono separabili le parti divise, ma che anche quelle non divise possono essere divise all'infinito. » Sarebbe inesatto però ritenere che con l'« hypotheses non fingo» Newton si limitasse a respingere le ipotesi nel senso generalissimo testé accennato. In realtà
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egli sembra talvolta mirare anche a qualcos 'altro: a respingere, in sede scientifica, il ricorso a ipotesi di più limitata generalità, ideate per spiegare questa o quella legge, questo o quel gruppo di fenomeni. È questo il motivo per cui Newton si rifiutò costantemente di cercare una causa alla più importante legge scientifica da lui scoperta, quella della gravitazione universale. La cosa indispensabile è, secondo lui, riuscire a determinare la formula esatta che regola la forza di gravitazione e saper ricavare matematicamente tutte le conseguenze che ne derivano; quella formula e queste conseguenze esprimono rapporti che possono venire rigorosamente controllati sui fenomeni, e perciò ha senso affermare che esse sono vere o false. L'ipotetica causa da cui la legge dovrebbe dipendere esprime invece qualcosa di puramente teorico, privo di ogni possibile verificazione; qualunque discussione sulla sua verità o falsità è pertanto priva di senso. Questo costante rifiuto di cercare una spiegazione dell'attrazione gravitazionale è ciò che indusse Huygens e Leibniz a tacciare l'opera di Newton di profonda insufficienza filosofica. 1 Proprio in base a quest'ultimo senso del canone newtoniano, l'« hypotheses non fingo» venne interpretato nell'Ottocento come la più tipica espressione della metodologia positivistica, e cioè come il severo richiamo a non confondere l'autentica scienza con la creazione di spiegazioni - tanto belle quanto gratuite dei fenomeni, ossia l 'invito ad accogliere nel patrimonio delle conoscenze scientifiche soltanto ciò che la natura stessa, opportunamente interrogata, è in grado di suggerirei. Ispirandosi più o meno apertamente a questa interpretazione, il sovietico Vavilov ha di recente sostenuto che persino nei suoi studi di meccanica celeste Newton avrebbe cercato di attenersi al canone metodologico testé delineato: «Gli spazi astronomici,» egli scrive, «furono il gigantesco laboratorio di Newton, i metodi matematici il suo strumento geniale. Egli non si lasciò fuorviare né dal lato puramente astronomico né da quello puramente matematico, ma rimase in primo luogo un fisico. » Un più attento e realistico esame degli scritti di Newton ci conduce tuttavia a conclusioni alquanto più caute. Non vogliamo certo negare che il senso profondo del canone newtoniano vada proprio cercato nel richiamo all'esperienza, intesa come controllo indispensabile di ogni affermazione che intenda venire accolta nella scienza fisica (un richiamo analogo si trovava già, del resto, in Galileo e in molti altri scienziati dell'epoca); vogliamo però sottolineare che la I Per l'appunto a questo sistematico rifiuto, da parte di Newton, di discutere l'essenza della forza di gravità faranno in seguito appello, per quanto la cosa possa apparire molto singolare, alcuni biologi vitalisti onde giustificare la propria incapacità di spiegare in che cosa consista la « forza vitale » da essi postulata. Con la differenza però - a nostro parere - che Newton si riteneva
in diritto di introdurre nella scienza la forza di gravità in quanto determinata da una ben precisa legge di proporzionalità con grandezze fisiche note (le masse dei corpi e la loro reciproca distanza), mentre i vitalisti né riuscivano a spiegare l'essenza della presunta «forza vitale» né sapevano formulare per essa alcuna legge esattamente controllabile.
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tecnica di questo controllo non risulta affatto precisata dall'anzidetto richiamo. È del resto ben noto, a chiunque si occupi delle più moderne ricerche epistemo-
logiche, che tale precisazione costituisce ancor oggi un problema tutt'altro che risolto. Orbene ciò che si nega è solo che il canone newtoniano abbia risolto questo problema, determinando definitivamente la via per ogni autentica ricerca fisica. Bisogna d 'altro canto aggiungere che lo stesso Newton lo interpretò, quando ciò gli tornava utile, con la massima libertà: vero segno questo, che vi scorgeva soltanto un'indicazione molto generica, e non una prescrizione da intendersi alla lettera (non certo una condanna di ogni uso delle ipotesi in fisica e tanto meno una condanna di ogni idealizzazione dei fenomeni operata dalla matematica). A conferma di ciò basti ricordare che egli stesso introdusse nella meccanica alcune nozioni - come quelle di spazio e di tempo assoluto - tutt'altro che riducibili ai semplici dati dell'esperienza, e che non ebbe affatto timore di fare ricorso all'ipotesi corpuscolare per fornire una spiegazione scientifica dei fenomeni luminosi. Possiamo dunque concludere che il rifiuto newtoniano delle ipotesi non può venire inteso - come pretendevano i positivisti dell'Ottocento - quale affermazione che tutto il lavoro dello scienziato debba esaurirsi nella pura e semplice sperimentazione. Al contrario, Newton comprese molto bene che l 'idealizzazione matematica dei fenomeni (la quale comporta sempre in sé qualcosa di ipotetico) è altrettanto importante, per lo scienziato, quanto l 'interrogazione della natura. L'essenziale è, secondo lui, che tale idealizzazione non resti uno schema puramente teorico, ma dia luogo a conseguenze verificabili nell'esperienza e quindi possa fungere come guida per l'impostazione delle nostre ricerche. Da questo punto di vista il rifiuto delle ipotesi esprime soltanto la giusta preoccupazione che il risultato ottenuto in sede ipotetico-matematica non venga accolto come automaticamente vero anche in sede fisica; interpretarlo, invece, come una mitizzazione del puro sperimentalismo significherebbe travisare la metodologia newtoniana, significherebbe perdere di vista la sua intrinseca apertura sia verso l'esperienza sia verso l'elaborazione teorica, da attuarsi con precisi strumenti matematici. VI· LA FILOSOFIA DELLA NATURA
Un'interpretazione letterale del canone metodologico testé esaminato potrebbe indurci a ritenere che Newton intendesse respingere per principio qualunque concezione filosofica dell'universo. Nulla di più falso, però; una conclusione siffatta risulta assolutamente insostenibile, come è facile provare con una semplice lettura di alcuni suoi scritti, in particolare dello Sco/io generale che conclude i Principia. 524
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Ciò che Newton combatte non è la filosofia in generale ma quei tipi di filosofia che pretenderebbero delineare una concezione del mondo da anteporre alla ricerca scientifica (forse pure con l'intento di fornire alla scienza un fondamento assoluto). Contro di essi, che elevano un impedimento aprioristico al libero sviluppo della ricerca scientifica, la polemica di Newton è tenace, accanita, senza compromessi. L'energia rivelata in questa lotta da Newton è analoga a quella mostrata da Locke nel combattere ogni pretesa di innatismo. L'una e l'altra polemica sono guidate dal medesimo intento: abbattere qualsiasi barriera che intenda fermare l'indagine razionale; garantire la più completa libertà di movimento ad uno studio criticamente impostato, vuoi se diretto ai fenomeni fisici, vuoi se diretto alle esperienze in largo senso umane. Non solo Newton non intende respingere per principio le costruzioni filosofiche che accettano di sorgere dopo la scienza, ma ce ne offre egli stesso un interessante abbozzo. Trattasi di una costruzione filosofica che egli crede di poter ricavare razionalmente dai più sicuri risultati della sua fisica. Questa scienza ci ha fatto scoprire, in modo certissimo, l'ordine che regna nell'universo; una riflessione razionale su quest'ordine non può non spingerei a cercarne il fondamento in un essere supremo, che trascende la natura stessa e ne regola il funzionamento come l'orologiaio regola quello dell'orologio da lui costruito. « Questa elegantissima compagine del Sole, dei pianeti e delle comete non poté nascere,» scrive Newton nello Sco/io generale, «senza il disegno e la potenza di un ente intelligente e potente. » Ente che non può venire concepito come immanente alla natura, ma solo come ordinatore di essa: « Egli regge tutte le cose non come anima del mondo, ma come signore dell'universo.» Trattasi senza alcun dubbio di un dio non direttamente intuibile in quanto non abbiamo alcuna idea della sua sostanza, ma cionondimeno conoscibile attraverso le sue opere, che ce ne rivelano la sapienza e la perfezione: « Lo conosciamo solo attraverso le sue proprietà ed i suoi attributi, per la sapientissima e ottima struttura delle cose e per le cause finali, e l'ammiriamo a causa della perfezione; ma lo veneriamo, invero, e lo adoriamo a causa del dominio. Adoriamo infatti come servi, e Dio senza dominio, senza provvidenza e cause finali non è altro che fato e natura. Da una cieca necessità metafisica, che sia assolutamente identica sempre e ovunque, non nasce alcuna varietà di cose. L'intera varietà delle cose create, per luoghi e per tempi, poté essere fatta nascere soltanto dalle idee e dalla volontà di un ente necessariamente esistente.» l In altri termini, la scienza fisica, essendosi rivelata capace di risalire dai fenomeni alle loro leggi, intende ormai far valere i propri diritti anche come via I Contro la concezione newtoniana di dio quale «architetto dell'universo», e quindi quale essere che trascende la natura, verranno sollevate
aspre critiche da parte dei romantici, sostenitori di una concezione immanentistico-spinoziana del principio divino.
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maestra per giungere a dio: « Intorno a Dio spetta alla filosofia naturale di parlare muovendo dai fenomeni. » È la fine della vecchia filosofia e della vecchia teologia razionale, di cui la fisica si autoproclama unica legittima erede. « La questione fondamentale per la filosofia naturale,» scrive il nostro autore nell'Ottica, «è di procedere dai fenomeni senza false ipotesi, e di dedurre le cause dagli effetti, fino a che si arriva alla Causa Prima che certamente non è meccanica ... Non appare forse dai fenomeni, che esiste un Essere incorporeo, vivente, intelligente, onnipresente che nello spazio infinito come nel suo sensorio, vede le cose stesse intimamente, le percepisce profondamente, le comprende totalmente attraverso la loro presenza immediata in Lui stesso? » Newton fa anzi qualcosa di più: non si limita ad affermare la necessità di questa causa prima del grande meccanismo del mondo, ma ritiene di poter dimostrare, sulla base di alcune irregolarità di questo meccanismo (derivanti dalla reciproca influenza delle comete e dei pianeti), la necessità che il suo autore intervenga di tanto in tanto a ristabilirne l'ordine. Sarà questo uno dei punti più criticati da Leibniz che giungerà a paragonare il mondo di Newton a un orologio che abbia bisogno, a intervalli più o meno lunghi, dell'opera di carica e revisione dell'orologiaio. Malgrado queste critiche, l'importanza storica della filosofia della natura di Newton fu enorme: essa venne infatti interpretata come la prova più sicura del valore scientifico della fisica, elevata a base razionale non solo di tutta la conoscenza della natura ma della conoscenza dello stesso creatore. La ragione ne usciva esaltata, rivelandosi capace di percorrere l 'intero cammino dell'universo: dai fenomeni meccanici terrestri e celesti alla loro causa prima non più meccanica. I risultati che Newton si riprometteva da questa costruzione filosofica erano fondamentalmente due: da un lato, quello di fornire una nuova prova della validità della religione, appoggiandola ai risultati stessi della scienza; dall'altro, di offrire alla scienza una specie di conferma indiretta, dimostrando che essa si accorda in ultima istanza con il nucleo centrale della fede. Questo accordo della religione con la scienza e con la filosofia stava all'apice delle preoccupazioni di Newton. Ed infatti, solo sulla base di esso la ragione avrebbe potuto continuare libera e sicura per la propria via: libera da qualunque barriera metafisica precostituita, sicura che la via intrapresa non avrebbe mai condotto l'uomo moderno ad abbandonare il più sacro patrimonio trasmessogli dalla tradizione. La realtà non tardò tuttavia a rivelarsi assai diversa da quella che Newton si era ripromessa. Malgrado i ripetuti sforzi del nostro autore di riconoscere all'architetto dell'universo i medesimi attributi che l'Antico testamento riconosceva al dio degli ebrei, tuttavia la religione fondata sull'esistenza di tale essere supremo si rivelò ben presto assai più simile a quella vaga e generica dei deisti che non a quella precisa e ben determinata dei credenti cristiani. Questi furono pertanto costretti a respingerla come un equivoco e l'eredità filosofica
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Newton
di Newton finì a poco a poco per diventare patrimonio esclusivo degli illuministi e dei massoni.l Invece di costituire, come sperava il suo autore, la garanzia incrollabile dell'accordo tra scienza moderna e cristianesimo, essa divenne, attraverso l'opera dei suoi continuatori, il punto di maggior frizione tra la religione « a base razionale » e la religione basata sul Vangelo.
1 AI movimento illuministico e ai suoi complessi sviluppi nei vari paesi europei sarà dedicata la sezione v. Quanto alla massoneria, ci limitiamo ai seguenti cenni: nel 1717 le varie logge inglesi si riunirono in una unica «Grande Loggia d'Inghilterra » rompendo i legami con la vecchia massoneria professionale a carattere corporativo (derivata dalle corporazioni medievali dei mura-
tori) e fondandone invece una a carattere « speculativo » o filosofico, che si affiancherà alle correnti deistiche per sostenere la necessità di una religione naturale e universale a base scientifica. Le concezioni di dio e del mondo accettate dai massoni inglesi, saranno per l'appunto, nelle loro linee fondamentali, quelle del « cristianesimo » newtoniano.
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B ibliografta
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SEZIONE TERZA
Il rinascimento e la rivoluzione scientifica
BIBLIOGRAFIE, STORIE GENERALI DELLA FILOSOFIA E DELLA SCIENZA RINASCIMENTALE ED OPERE SU ASPETTI GENERALI DEL PENSIERO RINASCIMENTALE Oltre che alle opere citate nella bibliografia generale (ed in particolare alla Bibliografia critica generale sull 'umanesimo ed il rinascimento premessa da M. ScHIAVONE al VI volume della Grande antologia filosofica, Milano 1964) ed a bibliografie dedicate alla cultura antica (come « L'année philologique » che dedica annualmente diverse pagine agli studi sugli umanisti e la cultura classica nel xv e xvi secolo), possiamo ricorrere per il periodo rinascimentale alla bibliografia sistematica pubblicata annualmente dal 1939 dalla rivista « Studies in philology » e, in genere, alle rassegne di studi delle riviste specializzate « Renaissance news », « Studies in renaissance », « Rinascimento », « Italia medievale e umanistica », ecc. Si vedano inoltre le bibliografie delle opere generali che andremo citando e gli articoli di E. GARIN, Il rinascimento, rassegna bibliografica, in «Giornale critico della filosofia italiana», 195o; e di T. GREGORY, Gli studi italiani sul pensiero del rinascimento, in « Rassegna di filosofia», 195 z.. Un approfondito esame del significato del rinascimento e delle interpretazioni che se ne sono date si può trovare nel volume di W.K. FERGUSON, The renaissance in historical thought, five centuries of interpretation, Boston 1948; nel saggio di C. VASOLI, La civiltà dell'umanesimo e il problema del rinascimento, stampato nel volume Prospettive storiografiche in Italia; in « Itinerari », 1956; nel volume di D. CANTIMOR1, Studi di storia, Torino 1959 (pp. 2.79-5 53); e nel volume miscellaneo The renaissance: a reconsideration of the theories and interpretations of the age, Madison (Wisc.) 1961. Come abbiamo ricordato nel capitolo I di questa sezione, la storiografia che esalta nel rinascimento il rinnovamento della cultura in opposizione alla barbarie medievale ha avuto una geniale interpretazione alla metà del secolo scorso nell'opera di J. BuRCKHARDT, Die Kultur der Renaissance in Italien, Basilea 186o; trad. i t. con prefazione di E. GARIN, Firenze 19 5z.. Fra le altre importanti opere sul rinascimento della storiagrafia ottocentesca ricordiamo almeno quella di G. VoiGT, Die Wiederbelebung des klassischen Altertums oder das erste Jahrhundert des Humanismus, Berlino 18 59; trad. i t. Firenze 1897; e la monumentale Geschichte der Papste seit de m Ausgang des Mittelalters di L. PASTOR, z.z. voli., Friburgo 1886-1933; trad. it., Roma 1908-1934, preziosissima anche per le notizie sulla storia della cultura. Fra gli studi generali sulla cultura rinascimentale pubblicati nei primi decenni del
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Bibliografia nostro secolo ricordiamo quelli di K. BuROACH, Reformation, Renaissance, Humanismus, Berlino I 9 I 8; trad. i t. a cura di D. CANTIMORI, Firenze I 9 3 5 ; J. HurZINGA, Herfsttij des Middeleuwen, Leida I9I9; trad. it.: Autunno del medioevo, con prefazione di E. GARIN, Firenze I95 3; E. CASSIRER, Individuum und Kosmos in der Philosophie der Renaissance, Lipsia 1927; trad. it. Firenze 1935; Io., Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, Berlino I 906; trad. i t., Torino I 9 5z; E. W ALSER, Gesammelte s tudien zur Geistesgeschichte der Renaissance, Basilea I 9 3Z; G. GENTILE, studi sul rinascimento, III ed., Firenze I968 (su cui cfr. l'articolo di E. GARIN, Giovanni Gentile interprete del rinascimento, in «Giornale critico della filosofia italiana», I947)· Fra gli studi più recenti sul rinascimento italiano una particolare importanza hanno le numerose opere, articoli e ricerche particolari di E. GARIN. Limitandoci alle sole opere di carattere generale ricordiamo qui Il rinascimento italiano, Milano I94I; L'umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel rinascimento, Bari r 9 5z; Medioevo e rinascimento, Bari I954; La cultura filosofica del rinascimento italiano, Firenze 196I; Scienza e vita civile nel rinascimento italiano, Bari I965; ed i primi due volumi della Storia della filosofia italiana, Torino I966. Si vedano inoltre le opere di F. CHABOO, Il rinascimento, in Questioni di storia moderna, Milano I948 (con buona bibliografia); E. CASSIRER, P.O. KRISTELLER, J.M. RANOALL, The renaissance philosophy of man, Chicago 1948; A. CoRSANO, Studi sul rinascimento, Bari I949; G. SAITTA, Il pensiero italiano dell'umanesimo e del rinascimento, 3 voli., Bologna 1949-195 I; H.C. HAYON, Thecounterrenaissance, New York I95o; trad. it., Bologna 1967; P.O. KRISTELLER, The classics and renaissance thought, Cambridge (Mass.) 195 5; trad. it., Firenze 1965; Io., Studies in renaissance thought and letters, Roma 1956; B.L. ULLMAN, Studies in the Italian renaissance, Roma 195 5; H. BARON, The crisis oJ the early Italian renaissance, z voli., Princeton 195 5; A. TENENTI, Il senso della morte e l'amore della vita nel rinascimento, Torino 1957; D. HAY, The Italian renaissance in its historical background, Cambridge 196I; trad. it., Firenze 1966; ed i volumi miscellanei The renaissance: six eSStrys, ristampa New York I96z e Facets '?f renaissance, New York-Londra I963; L. MALAGOLI, Le contraddizioni del rinascimento, Firenze I968; C. CARBONARA, Il secolo xv e altri saggi, II ed., Napoli 1969. Numerose opere sono espressamente dedicate alla storia della scienza in questo periodo. Fra queste ricordiamo le più importanti: L. THORNDIKE, Science and thought in the ftfteenth century, New York 1929; J.H. RANOALL, The making of modern mind, Boston 1940; H. BuTTERFIELO, The origins of modern science, r;oo-r8oo, Londra 1949; trad. it., Bologna I96z; A. WOLF, A history oJ science, technology and philosophy in the r6th and 17th centuries, II ed., Londra 195 I; A.C. CROMBIE, From Augustine to Galileo: the history of science a.D. 400-16JO (già citata per la scienza medievale, di cui egli vede come una continuazione la rivoluzione scientifica rinascimentale); A.D. HALL, The scientifìc revolution IJOo-r8oo, the formation of modern scientifìc attitude, New York 1954; R. LENOBLE, Origines de la pensée scientifìque moderne, in Histoire de la science, Parigi I957; G. SARTON, Six wings: men of science in the renaissance, Londra 1958; Io., Appreciation of ancient and medieval science during the renaissance (I4JO-r6oo), New York r96I; il volume miscellaneo La science au xv1~me siècle, Parigi I96o; M. BoAs, The scientifìc renaissance: I4JO-I6jO, Londra I96z; W.P.D. WrGHTMAN, Science in the renaissance, z voli., Londra 1963; A. CARUGO, La nuova scienza, le or(!!,ini della rivoluzione scientifica e dell'età moderna, in Nuove questioni di storia moderna, Milano 1964 (con ampia bibliografia); gli« Atti del convegno
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Bibiiografia
sui problemi metodologici di storia della scienza», Firenze 1967 e gli «Atti del I convegno internazionale di ricostruzione delle fonti per la storia della scienza: secoli XIVXVI», Firenze I967. Altre importanti opere sono dedicate a scienze particolari: H. G. ZEUTHEN, Geschichte der Mathematik im XVI. und XVII. Jahrhundert, Lipsia I9o3; E. W. STRONG, Procedures and metapf?ysics, a stut!J in the philosopf?y of mathematical-pf?ysical science in the r6th and I?th centuries, Berkeley I937; E. BORTOLOTTI, Studi e ricerche sulla storia della matematica in Italia nel secolo XVI e XVII, Bologna I9z8; E. BuRTT, The metapf?ysicalfoundations of modern pf?ysical science, n ed., Londra I 9 p; R. DuGAS, La mécanique au xvirtme siècle, Neuchatel I954; I.M. STILLMAN, The story of the ear(y chemistry, New York I9z4; W.B. PARSONS, Engineers and engineering in the renaissance, Baltimora I936; U. FoRTI, Storia della tecnica, dal medioevo al rinascimento, Firenze 1957; B. GxLLE, Les ingénieurs de la renaissance, Parigi I964; C. SINGER, A stut!J in ear(y renaissance anatomy, in Studies in the history of science, I vol., Londra I9I7; G. BARRAUD, L'humanisme et la médecine au xvrtm• siècle, Parigi I 942; E. CALLOT, !...A renaissance des sciences de la vie au xvrtme siècle, Parigi 1950; B.L. GoRDON, Medieval and renaissance medicine, New York 196o; P. DELAUNAY, La zoologie au seizième siècle, Parigi I96z.
Per le biografie degli scienziati del Cinquecento e del Seicento sono ricche di preziose notizie le opere di T.A. RIXNER, Leben und Lehrmeinungen beriihmter Pf?ysiker am Ende des XVI. und zu Anfang des XVII. Jahrhunderts, 7 voll., Sulzbach I819-18z6 (di influenza schellinghiana), e di G. LIBRI, Histoire des sciences mathématiques en Italie depuis la renaissance des lettres jusqu'à la ftn du xvirtme siècle, 4 voll., Parigi I 8 38-I 84I. Sul contributo dato dai tecnici e dagli artisti al sorgere della scienza moderna è fondamentale l'opera di L. 0LSCHKI, Geschichte der neusprachlichen wissenschajtlichen Literatur, 3 voll., Lipsia I9I9I9Z7. Si vedano pure il saggio di P. Rossi, I ftlosoft e le macchine (I400-IJOo), Milano I96z; e l'articolo di E. GARIN, Gli umanisti e la scienza, in «Rivista di filosofia», I961. Altre opere sulla storia delle scienze nel Cinquecento indico più avanti nella bibliografia dei singoli scienziati di questo periodo. Fra gli studi di storia della logica e della gnoseologia espressamente dedicati al periodo rinascimentale ricordo qui solo: W.S. HowELL, Logic and rhetoric in England, IJOO-IJOO, Princeton 1956; P. Rossi, Clavis universalis. Arti mnemoniche e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Milano-Napoli 196o; N.W. GILBERT, Renaissance concept of method, New York I96o; le raccolte Umanesimo e simbolismo ed Umanesimo ed esoterismo, rispettivamente in « Atti del IV » e « Atti del v congresso internazionale di studi umanistici »,a cura di B. CASTELLI, Padova I958-196o; il volume di A. CRESCINI, Le origini del metodo analitico. Il Cinquecento, Udine 1965; e quello di C. VASOLI, La dialettica e la retorica dell'umanesimo, invenzione e metodo nella cultura del xv e XVI secolo, Milano 1968. Numerose importanti opere si occupano della storia e del pensiero politico rinascimentale. Fra le prime ricordiamo qui solo quella classica di E. FuETER, Geschichte des europaischen Staaten.[_ystem von I492-IJJ9, Monaco 19I9; trad. it., Firenze 193z; e quella di H. G. KoENIGSBERGER e G.L. MossE, L'Europa del Cinquecento, trad. it., Bari I969. Fra le seconde: Umanesimo e scienza politica in «Atti del congresso internazionale di studi umanistici », a cura di B. CASTELLI, Milano 1951; L. FIRPO, Il pensiero politico del rinascimento e della controriforma, in Questioni di storia moderna, Milano I 948 ; R. W. ed A. J. CARLYLE, A history of medieval politica! theor:y in the West, VI sez., Politica! theoryfrom r;oo
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Bibliografia
to 16oo, Edimburgo 1936; trad. it., Bari 1956; P. MESNARD, Il pensiero politico rinascimentale, trad. it. a cura di L. FIRPO, 2 voli., Bari 1963-1964. Va infine menzionato e raccomandato il volume Scrittori politici del ';oo e '6oo a cura di B. WmMAR, Milano 1964. Sull'educazione e la cultura del rinascimento si vedano le opere di carattere generale di W.H. WoonwARD, Studies in education during the age oj the renaissance, Cambridge 1906; trad. it., Firenze 1923; G. SAITTA, L'educazione dell'umanesimo in Italia, Venezia 1928; The civilization of the renaissance, edito da J.W. THOMSON, Chicago 1929; G. VIDARI, L'educazione in Italia dall'umanesimo al risorgimento, Roma 193o; E. GILSON, Humanisme médiéval et renaissance, Parigi 1932; V. BENETTI-BRUNELLI, Il rinnovamento umanistico della pedagogia, Roma 19 32; O. VoGELHUBER, Geschichte der neueren Padagogik, Monaco 1949; N. SAMMARTANO, l pedagogisti dell'età umanistica, Mazara I949; E. GARIN, Gli «studia humanitatis » e la pedagogia italiana del rinascimento, in Studi di filologia e filosofia, Bucarest 1946; In., L'educazione in Europa {I400-I6oo), Bari 1957; Il pensiero pedagogico dell'umanesimo, a cura di E. GARIN, Firenze 195 8; Il pensiero pedagogico del rinascimento, a cura di F. BATTAGLIA, Firenze 1960; Il pensiero pedagogico della controriforma, a cura di L. VoLPICELLI, Firenze 196o. Oltre alle due antologie testé citate sul pensiero pedagogico dell'umanesimo e del rinascimento, ed ai volumi (vi-xi) dedicati al rinascimento della Grande antologia filosofica citata nella bibliografia generale, si vedano quelle di E. GAR1N, Il rinascimento italiano, Milano 1941; In., Filosofi italiani del Quattrocento, Firenze 1942; In., Prosatori latini del Quattrocento, Milano-Napoli 1952; In., La disputa delle arti ne/Quattrocento, Firenze 1947.
OPERE SU ASPETTI PARTICOLARI DELLA STORIA DELLA FILOSOFIA E DELLE SCIENZE NEL RINASCIMENTO, EDIZIONI DELLE OPERE DEI SINGOLI FILOSOFI E SCIENZIATI ED OPERE SUL LORO PENSIERO, SECONDO LO SVILUPPO DELLA NOSTRA TRATTAZIONE Abbiamo dato nella parte generale della bibliografia di questa sezione alcune sommarie indicazioni di volumi di interpretazione generale del rinascimento. Qualche cenno va dato qui ali 'ampia letteratura sui rapporti fra rinascimento e cristianesimo. Su di essa si veda il volume Il problema religioso del rinascimento, storia della critica e bibliografia, Firenze I95 2, e le opere di F. 0LGIATI, L'anima del!'umanesimo e del rinascimento, Milano I925; F. HERMANS, Histoire doctrinale de l'humanisme chrétien, 4 voli., Tournai 1948; J. SELLMAIR, Humanitas christiana. Geschichte des christlichen Humanismus, Monaco I 9 5o; G. ToFFANIN, La religione degli umanisti, Bologna I95o; il volume miscellaneo Pensée humaniste et tradition chrétienne au xvème et xv1ème sièc!e, Parigi I95o; e la bibliografia che daremo al capitolo su riforma e controriforma. Sulla rinnovata conoscenza dei classici nell'umanesimo e l'influenza dei dotti bizantini si vedano i primi due volumi della History oj classica/ scholarship di J.E. SANDYS, Cambridge I903-I9o8; e la classica opera di R. SABBADINI, Le scoperte dei codici latini e greci ne' secoli XIV e xv, 2 voli., Firenze 1905-1914. Strenuo negatore di un apporto determinante della cultura bizantina al rinascimento è G. PASQUALI n eli 'articolo Medioevo bizantino, in «Cultura moderna», 1941. Sui dotti bizantini in Italia si vedano: G. CAMMELLI, l dotti bizantini e le origini de!l'umanesimo, 2 voli., Firenze 1941; F. MASA1,
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Bibliografia
Pléthon et le platonisme de Mistra, Parigi I956; L. MoHLER, Kardinal Bessarion als Theologe, Humanist und Staatsmann, 3 voll., Paderborn I923-I942. Su Guarino da Verona e Vittorino da Feltre ricordiamo gli studi di C. DE RosMINI, Vita e disciplina di Guarino e de' suoi discepoli, 3 voli., Brescia I8o5-I8o6; R. SABBADINI, La scuola e gli studi di Guarino, Catania I896; W.H. WooowARD, Vittorino da Feltre and the other humanist educators, Cambridge I 897; R. KosTER, Erziehung und Bildung der vornehmen Florentiner im xv. Jahrhundert, in « Zeitschrift fur Geschichte der Erziehung », I936. Su Lorenzo V alla si vedano l'edizione dei suoi Scritti filosofici e religiosi, a cura di G. RADETTI, Firenze I95 3; le opere di G. MANCINI, Vita di Lorenzo Val/a, Firenze I 89I; e di F. GAETA, Lorenzo V alla, filologia e storia nell'umanesimo italiano, Napoli I95 5. Delle opere di Leon Battista Alberti sono usciti in edizione critica due volumi a cura di C. GRAYSON, Bari I96o sgg.; per il De re aediftcatoria è assai buona l'edizione con traduzione italiana e note a cura di G. 0RLANDI e P. PoRTOGHESI, Milano I966. Fra le opere d'assieme sull'Alberti si vedano P.H. MICHEL, La pensée de L.B. A/berti, Parigi I93o; ed E. SANTINELLO, Leon Battista A/berti, Firenze I962. Le opere del Cusano sono edite da E. HoFFANN ed R. KuBANSKY, Kusanus Texte, Heidelberg I93Z sgg.; il trattato De docta ignorantia è stato pubblicato (Bari I913) e tradotto (Milano I929) da P. RoTTA. Dell'ampia letteratura su Cusano si vedano in particolare: M. DE GANDILLAC. La philosophie de Nicolas de Cues, Parigi I94I; P. RoTTA, Nicolò Cusano, Milano I942; G. SAITTA, Niccolò Cusano e l'umanesimo italiano, Bologna I957; K.H. VOLKONANN-SCHLUCK, Nikolaus Cusan. Die Philosophie im Ubergang vom Mittelalter zur Neuzeit, Francoforte I 9 57; E. CoLOMER Pous, Nikolaus von Kues und Raimond Lull, Berlino I96o; E. GARIN, Cusano e i platonici italiani del Quattrocento, nel volume miscellaneo su Nicolò da Cusa, Firenze I962; K. JASPERS, Nikolaus Cusanus, Monaco I964. Si veda pure l'antologia di scritti cusaniani, con ampia introduzione, curata da A. V ASA per la Grande antologia filosofica, VI vol., Milano I 964. Sull'accademia platonica di Firenze, il platonismo rinascimentale e Marsilio Ficino si vedano R. KLIBANSKY, The continuity of the p/atonie tradition during the middle ages, II ed., Londra I95o; A. DELLA ToRRE, Storia dell'accademia platonica di Firenze, Firenze I902; A.N. ROBB, Neoplatonism of the ltalian renaissance, Londra I93 5; B. KmsZKOWSKI, Studi sul platonismo del rinascimento in Italia, Firenze I936; P.O. KRISTELLER, The philosophy of Marsilius Ficinus, New York I943; trad. i t., Firenze I95 3; G. SAITTA, Marsi/io Ficino e la filosofia dell'umanesimo, m ed., Bologna I954; R. MARCEL, Marsi/ Ficin, Parigi I 9 58. Su Giovanni Pico della Mirandola: G. BARONE, L'umanesimo filosofico di Giovanni Pico della Mirandola, Milano I949; E. MoNNERJAHN, Giovanni Pico della Mirandola, Wiesbaden I96o; E. GARIN, Pico della Mirandola, II ed., Firenze I963, e i due volumi miscellanei L'opera ed il pensiero di Giovanni Pico della Mirandola nella storia dell'umanesimo, Firenze I965. Su Luca Pacioli si veda L RICCI, Fra Luca Pacioli, l'uomo e lo scienziato, Sansepolcro I94o, e B. NARDI, La scuola di Rialto e l'umanesimo veneziano, in Umanesimo europeo e umanesimo veneziano, Firenze I963. Su Gutenberg e la diffusione della stampa si vedano: A. RuPPEL, ]ohannes Gutenberg, II ed., Berlino I947; D. McMuTRIE, The story of printing and bookmaking, m ed., Oxford I943; S.H. STEINBERG, Cinque secoli di stampa, trad. it., Torino 1962. Sul rinascimento nel campo artistico si veda il volume di A. CHASTEL, Arte e umanesimo a Fi-
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Bibliografia renze al tempo di Lorenzo il Magnifico, trad. it., Torino 1964, e, della immensa bibliografia sul rinascimento nelle arti, almeno le opere di B. BERENSON, The italian painters of the renaissance; I ed. it., Milano 1936; L. VENTURI, R. SKIRA-VENTURI, La peinture italienne, /es créateurs de la renaissance, Ginevra 1950; P. D'ANCONA, Umanesimo e rinascimento, m ed., Torino 195 3· Su Leonardo da Vinci oltre alla Bibliografia vinciana di E. VERGA, 2 voli., Bologna 193 I, ed alla classica raccolta di J.P. RICHTER, The litterary works of Leonardo da Vinci, II ed., Oxford I929, si veda l'antologia curata da A.M. BRIZIO pubblicata a Torino nel 1952. Fra le opere sulla figura di Leonardo come filosofo e scienziato si vedano i classici Etudes sur Leonardo da Vinci di P. DuHEM, 3 voli., Parigi 19o6-r913 (ristampati a Parigi nel 1955); le opere di G. GENTILE, Il pensiero di Leonardo, Firenze 1941; C. LuPORINI, La mente di Leonardo, Firenze I952; K. ]ASPERS, Leonardo als Philosoph, Berna 195 3; trad. it., Firenze r96o; i volumi miscellanei sugli «Atti del convegno di studi vinciani »,Firenze 1954, Leonardo, saggi e ricerche, Roma 1954, Léonard de Vinci et l'expérience scientifique au xrvtme siècle, Parigi 19 53; e L. HEYOENREICH, Leonardo da Vinci, Londra-Basilea 1954. Fra gli studi particolari segnalo quelli di J.B. HART, The mechanical investigations of Leonardo da Vinci, Londra 1925; di J.H. RANOALL, The piace of Leonardo da Vinci in the emergence of modern science, in « Journal of the history of ideas », 19 53, e di C.D. O'MALLEY e J.B. DE C.M. SAUNOERS, Leonardo da Vinci and the movement of the hearth and blood, Filadelfia 1952· Sull'aristotelismo del xv secolo si vedano i lavori di E. GARIN, Le traduzioni umanistiche di Aristotele nel secolo xv, in « Atti e memorie dell'accademia fiorentina di scienze morali "La colombaria "», 1951; Io., Aristotelismo e platonismo del rinascimento, in «La rinascita», 1939; B. NARDI, Sigieri di Brabante nel pensiero del rinascimento, Roma 1945; Io., Saggi sull'aristotelismo padovano dal secolo XIV al XVI, Firenze 1958; E. TROILO, Averroismo e aristotelismo padovano, Padova 1939; C. CALCATERRA, Alma mater studiorum, l'università di Bologna nella storia della cultura e della civiltà, Bologna 1948; M. CLAGETT, Aristotelismo padovano e filosofia aristotelica, in « Atti del xii congresso internazionale di filosofia», Firenze r96o; J. RANOALL, The school of Padua and the emergence of modern science, Padova 1961. Sul Pomponazzi in particolare, oltre all'opera ancora fondamentale di F. FIORENTINO, Piero Pomponazzi, studi storici su la scuola bolognese e padovana del secolo XVI con molti documenti inediti, Firenze r868, si vedano gli studi di A.H. DouGLAS, The philosophy and psychology of Piero Pomponazzi, Cambridge 19ro; e di B. NARDI, Studi su Piero Pomponazzi, Firenze 1965. Sullo Zabarella, oltre al vecchio saggio di B. LABLANCA, Sopra Giacomo Zabarella, studio storico, Napoli 1878, segnaliamo gli studi sulla logica di F. FRANCESCHINI, Osservazioni sulla logica di Giacomo Zabarella, Padova 1937; e di J.H. RANOALL, The development of scientific method in the school of Padua, in « Journal of the history of ideas >>, 1940. Sul Cremonini: E. RENAN, Averroès et l'averroisme, essai historique, II ed., Parigi r86r; D. BERTI, Di Cesare Cremonini e della sua controversia con l'inquisizione di Padova e di Roma, Roma 1878; L. MABILLEAU, Etude historique sur la philosophie de la renaissance en ltalie (Cesare Cremonini), Parigi r88r; MARIA AssuNTA DEL ToRRE, Studi su Cesare Cremonini, Padova 1968. Sul Cesalpino: F. FIORENTINO, A. Cesa/pino, in Studi e ritratti della rinascenza, Bari 1911; u. VrvrANI, Vita ed opere di A. Cesa/pino, Arezzo 1922·
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Bibliografia Sulla riforma e la controriforma, la bibliografia storica e teologica, oltre che di storia della cultura, è assai vasta. Fra le bibliografie generali sono particolarmente ampie quelle di G. WoLF, Quellenkunde der deutschen Reformationsgeschichte, 4 voll., Gotha I9I 5I923; e di K. ScHOTTENLOHER, Bibliographie zur deutschen Geschichte im Zeitalter der Glaubenspaltung, IJ17-IJ8J, 6 voll., II ed., Stoccarda I96o. Si vedano inoltre gli aggiornamenti nelle riviste specializzate: « Internationale Zeitschrift fiir Erforschung der Reformation und ihre Weltwirkung », edita dal I951; l'« Archiv fiir Reformationsgeschichte »,pubblicato dal I949; «Il protestantesimo», pubblicato a Roma dal I945; e la cattolica « Revue d'histoire ecclésiastique », edita a Lovanio dal I9oo. Delle numerosissime ed importanti opere storiche sulla riforma in generale ci limitiamo a poche indicazioni moderne, o facilmente accessibili o in lingua italiana, a cui pure rimandiamo per una più ampia letteratura sull'argomento: M. BENDISCIOLI, La riforma protestante, Roma I95 z. (un saggio del medesimo autore sul medesimo argomento travasi incluso nel I volume delle Nuove questioni di storia moderna, Milano I964); Io., La riforma cattolica, Roma I 9 58 ; P. PRO DI, Riforma cattolica e controriforma, nel volume testé citato delle Nuove questioni di storia moderna; R. BAINTON, La riforma protestante, trad. i t., con prefazione, di D. CANTIMORI, Torino I 9 58; K. KASER, Riforma e controriforma, trad. it., Firenze I92.9; E. BuoNAIUTI, Lutero e la riforma in Germania, u ed., Roma I945; J. LORTZ, Die Reformation in Deutschland, z. voli., Friburgo I94I; E.G. LEONARO, Histoire du protestantisme, II ed., Parigi I 9 56; H. ]EDIN, RifornJa cattolica o controriforma?, trad. it., Brescia I957; Io., Storia del concilio di Trento, trad. it., Brescia I949 sgg. Sul rapporto fra rinascimento e riforma si vedano: P. WERNLE, Renaissance und Reformation, Tubinga I9Iz.; F. MouRRET, La renaissance et la riforme, Parigi I92.I; L. LucAs, The renaissance and the reform, New York I934; H. STROHL, La pénsée de la riforme, Neuchatel-Parigi I95I; C. ANGELERI, Il problema religioso del rinascimento, Firenze I952.; S.F. MASON, The scientiftc revolution and the protestant reformation, in « Annals of science », I 9 53; F. Russo, Rdle respectif du catholicisme et du protestantisme dans le développement des sciences au xv~me et XVI~me siècle, in « Cahiers d'histoire mondiale», I956-I957; R. HooYKAS, Humanisme, science et riforme, Leida I958. Una buona antologia de,gli Scritti religiosi di Lutero è stata curata da V. VINAY e G. MIEGGE, Bari I958. Sulle conseguenze politico-sociali della riforma si vedano le opere di M. WEBER, Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, Tubinga I934; A. FANFANI, ' Cattolicesimo e protestantismo nella formazione storica del capitalismo, II ed., Milano I 944; J.U. NEF, La riforma protestante e l'origine della civiltà industriale, in« Economia e storia», I95 5; R.H. TAWNEY, Religion and the rise of capitalism, II ed., Londra I948; trad. it., Milano I967; G. FRANZ, Der deutsche Bauernkrieg, z. voli., Monaco-Berlino I935-I936. Sull'influenza della riforma nel campo dell'educazione si vedano l'antologia curata da H. KEFERSTEIN, Dr. Martin Luthers piidagogische Schriften und Ausserungen, Langensalza I 888; gli studi di P. MEYHOFFER, Les idées pédagogiques de Luther, Nessonvaux-Losanna I909; K. HARTFELOER, Melanchton als praeceptor Germaniae, Berlino I 899; L. STEN, M. Luther und P. Melanchton. Ihre ideologische Herkunft und geschichtliche Leistung, Berlino I95 3; N. CASERTA, F. Me/anione, dall'umanesimo alla riforma, Roma I96o. Sulle conseguenze della controriforma nel campo dell'educazione e l'ordine dei gesuiti si vedano gli studi di E. RosA, I gesuiti dalle origini ai nostri giorni, II ed., Roma I92.9; G. SAITTA, La scolastica nel secolo XVI e la politica dei gesuiti, Torino I9Io; R. FtiLOP-MILLER, Les
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Bibliografia
jésuites et le secret de leur puissance, histoire de la compagnie de Jésus, 2 voll., Parigi I933 (con ampia bibliografia); J. BROnRICK, The origin of the jesuits, II ed., Londra I 949; In., The progress of thejesuits, Londra 1947; A. HuoNnER, Ignazio di Loyola, trad. it., II ed., Roma 195 3; J. DE GurBERT, La spiritualité de la compagnie de Jésus, Roma 1961. Sulla rigogliosa fioritura rinascimentale della magia e dell'alchimia si vedano i voli. IV, v e VI dell'opera, già citata nella bibliografia generale, di L. THORNDIKE, A histor:y of magie and experimental science, New York 1934-I941; e gli studi di D.C. ALLEN, The star-crossed renaissance, Durham 1941 (sull'astrologia); A. KoYRÉ, Mystiques, spiritue/s, alchimistes du xvtme siècle allemand, Parigi 195 5; D.P. WALKER, Spiritual and demonic magie from Ficino to Campanella, Londra 195 8; E.J. HoLMYARn, Storia dell'alchimia, trad. i t., Firenze 1959. Sulla matematica, oltre agli studi che abbiamo già ricordato nella parte generale della bibliografia di questa sezione, si vedano la classica opera di P. CasSALI, Origine, trasporto in Italia e primi progressi in essa dell'algebra, 2. voll., Parma 1797-1799; e quelle di E. BoRTOLOTTI, I contributi del Tartaglia, del Cardano, del Ferrari e della scuola matematica bolognese alla teoria algebrica delle equazioni cubiche, Imola 1926; In., Storia delle matematiche nell'università di Bologna, Bologna I947· Bortolotti ha pure curato un'edizione integrale dell'Algebra di Bombelli, pubblicata solo nel 1966 a Milano, vari anni dopo la morte del curatore (con prefazione di U. FORTI). Sulla complessa figura del Cardano si vedano: A. BELLINI, Gerolamo Cardano e il suo tempo, Milano I 94 7; 0YSTEIN ORE, Cardano: the gambling scholar, Londra I95 3; ed il recente volume di A. MoNDINI, Gerolamo Cardano, matematico, medico e filosofo naturale, Roma 1962. L'importanza ed il carattere della rivoluzione astronomica del XVI e xvii secolo sono oggetto di una letteratura molto ampia. Fra le più recenti opere generali ricordiamo, oltre al sempre importantissimo Système du monde di P. DuHEM, ro voli., Parigi I9I4I95 8, già citato nella bibliografia generale, quelle di A. ARMITAGE, Nicolò Copernico e l'astronomia moderna, trad. it., Torino 1956; T.S. KuHN, The copernican revolution, Cambridge (Mass.) I957; e di A. KOYRÉ, La révolution astronomique, Parigi 1961; trad. i t., Milano 1966. Su Tycho Brahe è ancora importante l'opera di I.L. DREYER, Tycho Brahe, a picture of a scientific /ife in the sixteenth century, Londra 189o; una moderna monografia è dovuta a J.A. GAD, The /ife and times of Tycho Brahe, New York 1947. Sui contributi allo sviluppo della meccanica di Tartaglia, Benedetti e Stevin si vedano, oltre alla già citata La méchanique au xviJème siècle, di R. DuGAS, Neuchatel 1954, gli studi di A. KoYRÉ, La t!Jnamique de N. Tartaglia, nel volume miscellaneo La science au xv1tme siècle, Parigi 196o; Io.,j.B. Benedetti critique d'Arioste, in Mélanges offerts à E. Gilson, Parigi 1958; V. CAPPELLETTI, G.B. Benedetti, in Dizionario biografico degli italiani, Roma 1966; Le speculazioni giovanili «de motu », di G.B. Benedetti, a cura di C. MACCAGNI, Pisa 1967; G. SARTON, Simon Stevin of Bruges, in « Isis », I934; E.J. Dr J KSTERHUIS, Generai introduction to the principal works of S imon S tevin, Amsterdam 19 55. Sul Fracastoro si veda la ristampa con traduzione della Syphilis, a cura di F. WrNSPEARE, Firenze I95 5; e l'articolo di P. Rossr, Il metodo induttivo e la polemica antioccultista in G. Fracastoro, in «Rivista critica di storia della filosofia», 1954. Su Paracelso in particolare: K. SunHOFF, Paracelsus, Lipsia 1936; H.E. SIGERIST, Paracelsus in the light of four hundred years, New York I94I; H.M. PACHTER, Paracelsus, magie into science, New York 1951; J. HARGRAVE, The /ife and soul of Paracelse, Londra 195I; W. PAGEL, Pa-
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Bibliografia
racelsus, an introduction to philosophical medicine in the era of renaissance, Ne w Y or k I 9 58. Su Fernel: C. SHERRINGTON, The endeavour of ]. Fernel, New York I946. Su Vesalio, oltre al classico Andreas Vesalius di M. RoTH, Bruxelles I892: P. CATOIR, André Vésale, mystique et expérience, Bruxelles I947; J.B. DE C.M. SAUNDERS, C.D. O'MALLEY, The illustrations of Andreas Vesalius of Brussels, Cleveland I95o; C. SINGER, Vesalius on the human brain, Londra I952; C.D. O'MALLEY, Andreas Vesalius of Brussels, Berkeley (Calif.) I964. Sui progressi di altre discipline si vedano, oltre alle opere indicate nella bibliografia generale di questa sezione: A. KoYRÉ, Dal mondo del pressappoco all'universo della precisione, trad. i t., Torino I 967; la ristampa degli Automati, o vero machine semoventi di Erone, tradotti da Bernardino Baldi, a cura di R. TEANI, Milano I962; il vomue miscellaneo Georgius Agricola r 494-IJJJ, zu seinem 400. Todestag, Berlino I95 5. Sul Della Porta infine si veda l'articolo N. BADALONI, I fratelli Della Porta e la cultura magica e astrologica a Napoli nel ';oo, in «Studi storici», I959-I96o, e l'edizione del De telescopio, con introduzione di V. RoNCHI e M.A. NALDONI, Firenze I962. In generale sulla filosofia politica del XVI secolo un'ampia bibliografia si ritrova nella importante opera di P. MESNARD, L'essor de la philosophie politique au xvrtm• siècle, n ed., Parigi I95 I; trad. it., 2 voli., Bari I963. Dell'amplissima letteratura sul Machiavelli ci limitiamo qui a dare poche indicazioni: una comoda edizione delle Opere, in 8 volumi, è uscita a Milano, I96o-I966, con una introduzione generale di G. PROCACCI. Sulla vita del Machiavelli è fondamentale la Vita di Niccolò Machiavelli di R. RmOLFI, III ed., Firenze I969. Sull'opera si vedano, oltre ai classici studi di P. VILLARI, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, 3 voli., Firenze I877-I882; IV ed., Milano I927; e di O. ToMMASINI, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli nella loro relazione col machiavellisn10, 2 voli., Torino I883-I9II, i seguenti lavori: U. SPIRITO, Machiavelli e Guicciardini, Firenze I945; L. Russo, Machiavelli (raccolta di vari studi, Roma I954; ultima edizione, Bari I966); F. GILBERT, Machiavelli e la vita culturale del suo tempo, Bologna I964; F. CHABOD, Scritti su Mat"hiavelli (raccolta di vari studi scritti in epoche diverse), Torino I964. Per l'influenza di Machiavelli sulla rinnovata storiografia e scienza politica si vedano in particolare: A. GRAMSCI, Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno, Torino I949; F. MEINECKE, L'idea di ragion di stato nella storia moderna, trad. i t., 2 voli., Firenze I942-1944; H. BuTTERFIELD, The Statecraft of Machiavelli, Londra I95 5; G. SAsso, Niccolò Machiavelli, Storia del suo pensiero politico, Napoli I95 8; G. PROCACCI, Studi sulla fortuna del Machiavelli, Roma I965 (con ampia bibliografia). Sul Guicciardini in particolare si vedano le opere di R. RmoLFI, Vita di Francesco Guicciardini, Roma I959; A. 0TETEA, François Guichardin, sa vie politique et sa pensée politique, Parigi 1926; V. DE CAPRARIIS, Francesco Guicciardini dalla politica alla storia, Bari I95o. La migliore edizione della Storia d'Italia è quella curata da C. PANIGADA (5 voli., Bari I929); buona è l'edizione dei Ricordi a cura di R. SPONGANO, Firenze I969. Utile è inoltre l'antologia curata da V. DE CAPRARIIS (Opere, Milano-Napoli I953); del Guicciardini è in corso di stampa l'epistolario nella raccolta Fonti per la storia d'Italia (Bologna I938 sgg). Sul Bodin si vedano gli studi di J. MoREAU-REIBEL, Jean Bodin et le droit public comparé dans ses rapports avec la philosophie de l'histoire, Parigi I933; P. NANCEY, jean Bodin économiste, Bordeaux I942. Sul pensiero politico di questo periodo si veda infine il volume di L. FIRPO, Lo stato ideale della controriforma. Ludovico Agostini, Bari I957·
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Bibliografia
La figura di Pietro Ramo è esaminata in particolare dalle opere di storia della logica che abbiamo indicato nella parte generale della bibliografia di questa sezione. Si veda inoltre il classico Pierre de la Ramée, sa vie, ses écrits, ses opinions, di C. WADDINGTON, Parigi I85 5; e gli studi di K. PRANTL, Ober Petrus Ramus, in « Sitzungsberichten der baierischen Akademie der Wissenschaften »,Monaco I878; F.P. GRAVES, Petrus Ramus and the educational reformation of the r6th century, New York I912; P.A. DuHAMEL, The logic and rhetoric of Peter Ramus, in « Modern philology », I949; W. J. ONG, Ramus, method and the decqy of dialogue, Cambridge (Mass.) I958; R. HooYKAS, Romanisme, sciences et riforme. Pierre de la Ramée, Leida I958. Su Vivés si vedano: J. EsTELRICH, Vivés {I492-IJ40), Parigi I942; J. GÉRARD, Vivés et l'organisation de l'enseignement, in « Revue de l'université de Bruxelles», I939; E. D'ORs, G. MARANON ed altri, Vivés humaniste espagnol, Parigi I94I; F. SIMONE, La coscienza della rinascita negli umanisti francesi, Roma I942. Su Tommaso Moro: H. BROCKHAus, Die Utopia-Schrift des Thomas Morus, Lipsia I929; R. AMES, Citizen Thomas More and his Utopia, Princeton I949; F. BATTAGLIA, Saggi sull'Utopia di Tommaso Moro, Bologna I949; G. NEGLEY-J.M. PATRICK, The quest for Utopia, New York I952. Sul Nizolio si veda l'articolo di P. Ross1, La celebrazione della retorica e la polemica antimetafisica nel De principiis di M. Nizolio, nel volume La crisi dell'uso dogmatico della ragione, a cura di A. BANFI, Milano I953· Su Gian Francesco Pico della Mirandola si vedano in particolare gli articoli di C.B. ScHMITT, Henry Ghent, Duns Scotus and Gianfrancesco Pico on illumination, in « Medieval studies », I963; Io., Who read Gian Francesco Pico della Mirandola?, in « Studies in the renaissance », I 964; Gian Francesco Pico' s attitude towards his une/e, nel volume L'opera e il pensiero di Giovanni Pico della Mirandola, Firenze I965. Su Francesco Patrizi si vedano le pagine di P.O. KRISTELLER, Eight philosophers of the italian renaissance, Standford I964; ed il volume di P.M. ARCARI, Il pensiero politico di Francesco Patrizi da Cherso, Roma I905. La figura di Erasmo è così importante nella cultura del rinascimento che alla sua interpretazione si dedicano molte delle opere generali sulla cultura di questo periodo che abbiamo precedentemente indicato. Fra i numerosi studi dedicati espressamente ad Erasmo ricordiamo qui solo quelli di P.S. ALLEN, The age of Erasmus, Oxford I9I4; A. RENAUDET, Erasme, sa pensée religieuse et son ac"tion d'après sa correspondance {IJI8-2I), Parigi I926; J. HurZINGA, Erasmus, n ed., Haarlem I948; ].]. MANGAN, Erasmus, 2 voli., New York I927; R. PFEIFFER, Humanitas erasmiana, Lipsia 193 I; G. ScHNUERER, Warum wurde Erasmus nicht ein Fiihrer der katholischen Erneuerung, in « Historisches Jahrbuch », 1931; M.M. PHILLIPS, Erasmus and the northern renaissance, Londra I949; A. FLITNER, Erasmus im Urteil seiner Nachwelt. Das literarische Erasmus-Bild von Beatus Rhenanus bis zu Jean Le Clerc, Tubinga I95 2; A. ,RENAUDET, Erasme et l' Italie, Ginevra I954; S.A. NuLLI, Erasmo e il rinascimento, Torino I955· Su tutto il rinascimento francese è importante l'opera di F. SIMONE, Il rinascimento francese: studi e ricerche, Torino I96r. Sulla figura di Rabelais ed il significato della sua opera rimandiamo in particolare ai volumi di J. PLATTARD, Vie de François Rabelais, Parigi-Bruxelles I928; L. FEBVRE, Le problème de l'incroyance au xv1~me siècle, la religion de Rabelais, Parigi I 942; ed ai lavori apparsi sulla « Revue des études rabelaisiennes », fondata nel I 90 3 e trasformata nel I 9 I 3 in « Revue du xv1ème siècle ». Fra i molti studi generali su Montaigne rimandiamo in particolare a quelli di 540
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Bibliografia
F. StrOWSKI, Montaigne, II ed., Parigi I938; P. VILLEY, Montaigne, Parigi I933; H. FRIEDRICH, Montaigne, Berna I949; D.M. FRAME, Montaigne's discovery of man. T.he humanisation of a humanist, New York I955; A. THIBAUDET, Montaigne, Parigi I963. Sulla pedagogia di Montaigne si veda anche l'opera di P. PoRTEAu, Montaigne et la vie pédagogique de son temps, Parigi I 9 3 5 ; e l'Antologia del pensiero pedagogico di Montaigne, a cura di P. BERTOLINI, Bologna I96o. Assai importanti sono pure i fascicoli del « Bulletin de la societé cles amis de Montaigne »,pubblicati a Parigi dal I9I2., dove sono apparsi fra l'altro alcuni importanti capitoli dell'opera di A. NrcoLAI, Le machiavélisme de Montaigne. Su Pierre Charron si vedano le opere di J.B. SABRIÉ, De l'humanisme au rationalisme. Pierre Charron {IJ4I-I6o;), l'homme, l'tEuvre, l'influence, Parigi I9I3; H. BusSEU, La pensée religieuse française de Charron à Pasca/, Parigi I933; E.F. RICE, The renaissance idea of wisdom, Cambridge (Mass.) I958. Sul movimento libertino e la figura del Vanini si vedano: J.R. CHARBONNEL, La pensée italienne au xvJème siècle et le courant libertin, Parigi I 9 I 9; R. PrNTARD, Le libertinage érudit dans la première moitié du XVIJème siècle, 2. voll., Parigi I943 (con bibliografia); L. CoRVAGLIA, Le opere di G.C. Vanini e le loro fonti, 2. voli., Milano-Roma I933-I934; G. SPINI, Ricerca dei libertini, Roma I95o; E. NAMER, Documents sur la vie de]. C. Vanini de Taurisano, Bar~ I965. Una nuova importante edizione degli scritti di Telesio, con traduzione italiana, è stata iniziata da L. DE FRANCO, Cosenza I965 sgg. Sulla figura di Telesio sono sempre assai importanti i 2. volumi dell'opera di F. FIORENTINO, Bernardino Telesio, ossia studi storici su l'idea della natura nel rinascimento italiano, Firenze I 872.-I 874. Si vedano pure le opere di N. ABBAGNANO, Telesio e la filosofia del rinascimento, Milano I94I; G. SoLERI, Telesio, Brescia I945; N.C. VAN DENSEN, Telesio: the first of the moderns, New York I932.· Per l'amplissima letteratura sulla figura e l'opera di Giordano Bruno rimandiamo alla Bibliografia di Girolamo Bruno (IJ82-I9JO}, di V. SILVESTRINI, II ed., a cura di L. FIRPO, Firenze I958. Per le opere segnaliamo l'edizione dei Dialoghi italiani, a cura di G. GENTILE, nuova ed., a cura di G. AQUILECCHIA, Firenze I95 8; e quella de La cena delle ceneri, a cura di G. AQUILECCHIA, Torino I95 5; assai buone sono pure le antologie Scritti scelti di G. Bruno e T. Campanella, a cura di L. FIRPO, Torino I949; e Opere di G. Bruno e T. Campanella, a cura di A. Guzzo e R. AMERIO, Milano-Napoli I956. Fra gli studi su Giordano Bruno si vedano in particolare: V. SPAMPANATO, Vita di Giordano Bruno, 2. voll., Messina I92.I; L. FrRPO, Il processo di Giordano Bruno, Napoli I 949; G. GENTILE, Giordano Bruno nella storia della cultura, Palermo I 907; L. 0LSCHKI, Giordano Bruno, Bari I92.7; A. CoRSANO, Il pensiero di Giordano Bruno nel suo sviluppo storico, Firenze I94o; N. BADALONI, La filosofia di Giordano Bruno, Firenze I95 5; S. GREENBERGER, The infinite in Giordano Bruno, Londra-New York I95o; A. Guzzo, Giordano Bruno, Torino I96o; P.H. MICHEL, La cosmologie de Giordano Bruno, Parigi I962.; F.A. YATES, Giordano Bruno and the hermetic tradition, Londra I964; trad. it., Bari I969; A.C. GoRFUNKEL, Bruno, Mosca I965; F. PAPI, Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno, Milano I968. Ampie bibliografie degli studi sul Campanella sono dovute a L. FIRPO, Bibliografia degli scritti d~ Tommaso Campanella, Torino I94o; In., Cinquant'anni di studi sul Campanella (I90I-I9JI}, in «Rinascimento», I955; In., Un decennio di studi sul Campanella (I9JII96o), in « Studi secenteschi », I96o. Per le edizioni delle opere del Campanella rinviamo 54 I
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Bibliografia alle antologie testé citate per Bruno: Scritti scelti di G. Bruno e T. Campanella, a cura di L. FIRPO, Torino I949; Opere di G. Bruno e T. Campanella, a cura di A. Guzzo e R. AMERIO, Milano-Napoli 1956; una buona edizione della Città del Sole è stata curata da N. BoBBIO, Torino I94I; un'edizione delle opere complete è stata iniziata da L. FIRPo, Milano I95 5 sgg. Fra le opere generali sul Campanella si vedano in particolare: P. TREVES, La filosofia politica di Campanella, Bari I93o; N. VALERI, Campanella, Roma I93 I; L. FIRPO, Ricerche campanelliane, Firenze I947; A. CoRSANO, Tommaso Campanella, II ed., Bari I96I; N. BADALONI, Tommaso Campanella, Milano I965; e gli «Atti del convegno su Campanella e Vico dell'accademia dei Lincei », Roma I968. Le opere di Francesco Bacone (The works of Francis Bacon) sono state edite da J. SPEDDING, R.L. ELLIS, D.D. HEATH, 7 voli., II ed., Londra I 887-I 892, ristampate a New York nel I96o. Fra le traduzioni italiane si segnalano: La Nuova Atlantide e altri scritti, a cura di P. Rossi, Milano I954; e Opere filosofiche di Francesco Bacone, a cura di E. DE MAs, 2 voli., Bari I965. Un'ampia bibliografia baconiana è stata curata da R.W. GILSON, Francis Bacon, a bibliograpf!y of his works and of Baconiana, Oxford I 9 5o. Fra le molte opere generali sul filosofo inglese si vedano in particolare: A. LEVI, Il pensiero di Francesco Bacone considerato in relazione con le filosofie della natura del rinascimento e col razionalismo cartesiano, Torino I925; M.M. Rossi, Saggio su Francesco Bacone, Napoli I93 5; F.H. ANDERSON, The philosopf!y of Francis Bacon, Chicago 1948; B. FARRINGTON, Francis Bacon, philosopher of industria/ science, n ed., Londra I95 I; trad. it., Torino I95 2 (nuova ed. I967); P. Rossi, Francesco Bacone, dalla magia alla scienza, Bari I957· L'edizione nazionale delle Opere di Galileo Galilei, a cura di A. FAVARO, fu pubblicata in 20 volumi a Firenze dal I 89o al I9o9. Nel I929-39 questa monumentale edizione è stata ripubblicata con alcuni supplementi, sempre a Firenze, a cura di A. GARBASSO e G. ABETTI; ne è uscita una ristampa nel I966, distrutta dall'alluvione e subito dopo ricomposta. Fra le edizioni posteriori a quella del Favara ricordiamo quella del Sidereus nuncius, a cura di M. TIMPANARO CARDINI, Firenze I948; quella dei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, a cura di L. GEYMONAT ed A. CARUGO, Torino I958, con amplissime annotazioni; quella del Dialogo sui massimi sistemi, a cura di F. BRUNETTI, Bari I963. Fra le raccolte antologiche si vedano in particolare quelle a cura di S. TIMPANARO, 2 voli., Milano I936-I938; a cura di C. MACCAGN1, Firenze I964; a cura di F. BRUNETTI, 2 voli., Torino I964 (quest'ultima con buona bibliografia e ampie note). Rinviando per una più ampia bibliografia galileiana alla Bibliografia galileiana di A. CARLI ed A. FAVARO, Roma I896, ed all'aggiornamento dal I896 al I94o di G. BOFF1TTO, Roma 1943, ci limitiamo a segnalare qui alcune delle opere più importanti e più interessanti per l'interpretazione della figura e dell'opera del pisano: A. FAVARO, Galileo Galilei e lo studio di Padova, 2 voli., Firenze I883; In., Galileo Galilei, Modena I9Io; P. DtiHEM, Essai sur la notion de théorie physique de Platon à Galilée, Parigi I9o8; E. WoHLWILL, Galilei und sein Kampf fiir die kopernikanische Lehre, 2 voli., Lipsia I9o9I926; A. MuELLER, Galileo Galilei, studio storico-scientifico, Roma I9I I; L. 0LSCHKI, Galilei und seine Zeit, Halle 1927; U. FoRTI, Introduzione storica alla lettura del Dialogo sui massimi sistemi di Galileo Galilei, Bologna I93 I; A. KoYRÉ, Études galiléennes, 3 voli., Parigi I939; G. ABETTI, Amici e nemici di Galileo, Milano 1944; V. RoNCHI, 542
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Bibliografia
Il cannocchiale di Galileo e la scienza del Seicento, Torino 1959; A. BANF1, Galileo Galilei, ed., Milano I96I; G. DE SANTILLANA, Il processo a Galileo, trad. it., Milano I96o; L. GEYMONAT, Galileo Galilei, II ed., Torino I96z; G. MoRPURGO TAGLIABUE, I processi di Galileo e l'epistemologia, Milano I963; G. DE SANTILLANA, F. ZAGARI, L. GEYMONAT, R. TEANI, L. BuLFERETTI, L. MoRANDI, Fortuna di Galileo, Bari I964; P. PASCHINI, Vita e opere di Galileo Galilei, z voli., Città del Vaticano 1964; i numerosi articoli stampati negli « Atti del symposium internazionale di storia, metodologia, logica e filosofia della scienza, Galileo nella storia e nella filosofia della scienza», Firenze 1967; Galileo, man oJ science, a cura di E. Mc MuLLIN, New York I967; A. PASQUINELLI, Letture galileiane, Bologna I968; M. CLAVELIN, La philosophie nature/le de Galilée, Parigi I968. Nella parte generale della bibliografia di questa sezione, e via via parlando dei vari filosofi, abbiamo già dato qualche indicazione bibliografica essenziale sulla pedagogia rinascimentale. Mi limiterò qui a segnalare solo qualche studio sul Cortegiano di Baldassar Castiglione e su Comenio, di cui non abbiamo ancora accennato. Fra le edizioni del Cortegiano si vedano in particolare quella di V. CIAN, IV ed., Firenze I947; quella a cura di G. PRETI, Torino I96o, con una importante introduzione; ed il volume Il Cortegiano con una scelta delle opere minori, a cura di B. MAIER, Torino I95 5. Tra gli studi sul Castiglione segnalerò soltanto: G. SALVADORI, Il Cortegiano di Baldassar Castiglione specchio della civiltà del rinascimento, in Liriche e saggi, III vol., Milano 1933; M. Rossi, Baldassar Castiglione, la sua personalità, la sua prosa, Bari I 946; A. CoRSANO, Studi sul rinascimento, Bari I949· Gli scritti pedagogici (Piidagogische Schriften) di Comenio sono stati pubblicati in 3 volumi a Langensalza nel I904-I907. Fra le traduzioni italiane ricordiamo: Passi scelti della Didattica magna, a cura di G. CALÒ, Padova I95 I; Didattica magna e Pansophia, a cura di A. CoRSANO e A. CAPODACQUA, Firenze 1952; Didattica magna, a cura di C. BARONE, Milano I95 3; Pagine scelte, con introduzione di J. PrAGET e prefazione di G. CALÒ, Firenze 196o (con bibliografia). Fra le opere generali su Comenio si vedano: W.S. MoNROE, Comenius and the beginning of educational reform, m ed., New York I9o7; J. KvACALA, ].A. Comenius, III ed., Berlino I94i.; J.V. NovAK, ].A. Comenius, Praga 19zo; A. HEYBERGER, ].A. Comenius, sa vie et son oeuvre d'éducateur, Parigi I9z8; A. PoGGI, Comenio, Roma I93o; G. RESTA, Comenio e la scuola della democrazia, Bari 1946. II
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SEZIONE QUARTA
Il pensiero ftlosoftco da Cartesio a Newton A CURA DI GIANNI MICHELI
Alcuni degli studi generali sul XVII secolo e sull'evoluzione del pensiero filosofico e scientifico in tale periodo sono già stati citati nella bibliografia della sezione m relativa al xvi secolo, in quanto si tratta di due periodi spesso considerati insieme per ovvi motivi di compenetrazione e di connessione: si ricordano in particolare i lavori di Randall, Butterfield, Wolf, Lenoble, Zeuthen, Dugas, Howell, P. Rossi. Tra le varie opere generali di sintesi sul Seicento, vanno particolarmente citate quella di G. SPINI, Storia dell'età moderna (Dall'impero di Carlo v all'illuminismo), Roma 196o, accentrata attorno alla storia politica; e quelle di R. MousNIER, Les xvpme et XVIPm• siècles, Parigi 1954, t. rv della Histoire générale des civilisations; di H. HAUSER, La prépondérance espagnole, IJJ!)-I66o, Parigi 1934; III ed., Parigi 1948; e di P. SAGNAC e A. DE SA1NT-LÉGER, Louis XIV, Parigi 193 5; III ed., Parigi 1940, in cui si ha un quadro articolato dei vari aspetti della vita politica, sociale e culturale nei vari paesi europei. Una trattazione monografica globale dello sviluppo della cultura europea nel xvii secolo si può trovare nei volumi di P. SM1TH, A history of modern culture, I. The great reneval IJ4J-z6SJ, Londra 1930; ristampa con il titolo Origins of modern culture, New York 1962.; e C.J. FRIEDRICH, The age of the baroque, z6zo-I66o, New York 1952.; e di F. NusSBAUM, The triumph of science and reason, z66o-z6S;, New York 1953, entrambi parte dell'opera The rise of modern Europe, edita da L. Langer. Per quanto riguarda la vita economica europea in questo periodo, che vede il sorgere del moderno capitalismo e il rapido sviluppo della classe borghese, si rinvia alle varie storie economiche dell'Europa e dei singoli stati europei: si ricordano qui solo le classiche opere di M. KovALEVSKII, Die oekonomische Entwicklung Europas bis zum Beginn der kapitalistischen Wirtschaftsform, trad. ted. dal russo, Berlino 1901-1914; e di W. SoMBART, Der moderne Kapitalismus, 3 voli., II ed., Monaco 1916-192.7; e sul mercantilismo l'opera fondamentale di E.F. HECKSCHER, Der Merkantilismus, trad. ted. dallo svedese, Jena 1932.; trad. ingl., Londra 1935; ristampa New York 1956; trad. it., Torino 1936. Il problema dello sviluppo della società secentesca e particolarmente quello del rapporto tra la scienza e la tecnica e la vita sociale è stato studiato particolarmente per quanto riguarda l'Inghilterra: si vedano, oltre al discusso articolo di R.K. MERTON, Science, technology and society in seventeenth century England, in « Osiris », 1938, i lavori di B. WrLLEY, The seventeenth century background, Cambridge 1934; R. FosTER JoNES, Ancients and moderns, Saint Louis 1936; G.N. CLARK, Science and social welfare in the age of Newton, Oxford 1937; 11 ed. Oxford 1949. La funzione che svolsero le accademie scien-
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Bibliografia tifiche è stata studiata particolarmente da M. 0RNSTEIN nel volume The role of scientific societies in the seventeenth century, II ed., Chicago I928. Esistono inoltre numerosi studi sulle singole accademie, e specialmente sull'accademia più importante, la Royal Society. Per l'accademia dei Lincei: D. CARUTTI, Breve storia dell'accademia dei Lincei, Roma I883; A. FAVARO, Documenti per la storia dell'accademia dei Lincei, in« Bollettino di bibliografia e di storia delle scienze», I887; i molti studi di G. Gabrieli su molti lincei e su aspetti particolari della vita dell'accademia; R. MoRGHEN, The academy of the Lincei and Galileo Galilei, in « Cahiers d'histoire mondiale», I963. Per l'accademia del Cimento: le classiche opere di L. MAGALOTTI, Saggi di naturali esperienze fatte nell'accademia del serenissimo principe Leopoldo di Toscana e descritte dal segretario di essa accademia, Firenze I667; e di G. TARGIONI-TOZZETTI, Notizie degli aggrandimenti delle scienze fisiche accaduti in Toscana nel corso di anni LX del secolo xvu, Firenze I78o; Io., Atti e memorie inedite dell'accademia del Cimento, Firenze I78o; L'accademia del Cimento, parte I, Firenze I942 (con testi e documenti inediti); Celebrazione dell'accademia del Cimento nel tricentenario della fondazione, Pisa I958. Per l'Académie des sciences: A. MAURY, L'ancienne Académie des sciences, Parigi I864; E. MAINDRON, L'Académie des sciences, Parigi I888; G. BIGOURDAN, Les premières sociétés savantes de Paris au xvuème siècle et /es origines de l' Académie des sciences, Parigi I 9 I 9; Les membres et /es correspondantes de l' Académie rqyale des sciences (r666-q!JJ), a cura di P. Dorveaux, Parigi I931; H. BROWN, Scientijic organizations in seventeenth century France, r62o-r68o, Baltimora I934; A.J. GEORGE, The genesis of the Académie des sciences, in « Annals of science », I 9 38; R. T ATON, Les origines de l' Académie royale des sciences, conférence au Palais de la découverte, Parigi I965. Per la Royal Society, oltre alle classiche opere di T. SPRAT, History ofthe Royal Society, Londra I667; ristampa a cura di J.I. CaPE e H. W. JoNES, St. Louis I95 8; e di T. BIRCH, History of the Royal Society, Londra I756-I757; si veda C.R. WELD, A history of the Royal Society, 2 voli., Londra I 848; F.R. JoHNSON, Gresham College: precursor of the Royal Society, in « Journal of the history of ideas », I940 (ristampato in Roots of scientijic thougth, New York 1957); H. LYONS, The Royal Society, r660-Ifì40, Cambridge I944; D. STIMSON, Scientists and amateurs. A history of Royal Society, New York I948; R. H. SYFRETT, The origins of the Royal Society, in «Notes and records of the Royal Society », I948; P.R. BARNETT, Theodore Haak and the ear(y years of the Royal Society, in « Annals of science », I957; E.N. da C. ANDRADE, A brief history of the Royal Society, Londra 196o; Harold Hartley (ed.), The Royal Society: its origins andfounders, Londra I96o; M. PuRVER, The Royal S ociety: concep t and creation, Cambridge I 967. Su Mersenne e la sua funzione di « mediazione » culturale, si veda, oltre al grosso volume citato di R. LENOBLE: L. AuGER, Le R. P. Mersenne et la physique, in « Revue d'histoire des sciences », I948; B. RocHoT, Le P. Mersenne et /es relations intellectuelles dans l' Europe du xvuème siècle, in « Cahiers d'histoire mondiale», I966. L'edizione fondamentale delle opere di Cartesio è quella curata da C. ADAM e P. TANNERY, Oeuvres de Descartes, I3 voli., Parigi I897-I9I3, di cui è in corso di stampa una nuova edizione a cura di B. RocHOT; la corrispondenza, comprendente anche le lettere non contenute nella edizione ADAM-TANNERY, è stata pubblicata da C. AoAM e G. MILHAUD (8 voli., Parigi I936-I963). Tra le edizioni non complete delle opere di Cartesio si ricordano quella curata da A. BRmoux, Oeuvres et lettres, II ed., Parigi I95 2; e quella curata da F. ALQUIÉ, Oeuvres philosophiques, z voli., Parigi I963-1967. In italiano, le edizioni mag545
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Bibliografia
giori sono quella che raccoglie le opere filosofiche, pubblicata a Bari in 2 volumi nel I967, con introduzione di E. GARIN e quella commentata, che riunisce le opere scientifiche (è ancora in corso di stampa: finora è stato pubblicato il 1 volume comprendente gli scritti di biologia, a cura di G. MICHELI, Torino I966). Tra le numerose edizioni delle singole opere di Cartesio: Discours de la méthode, a cura di E. GILSON, Parigi 1925; The geometry of René Descartes, trad. ingl. con note di D.E. SMITH e M.L. LATHAM, Chicago 1925; ristampa, New York I954· La più completa bibliografia degli scritti su Descartes è quella di G. SEBBA, Bibliographia cartesiana, A criticai guide to the Descartes literature 18oo-1!}6o, L'Aia I964. Le moderne biografie di Descartes (la più autorevole è sempre quella di C. AnAM, Vie et oeuvres de Descartes, Parigi I9Io, vol. XII delle Opere) si basano tutte sull'opera classica di A. BAILLET, La vie de Monsieur Descartes, 2 voli., Parigi I69I; fondamentale per il periodo olandese è l'opera di G. CoHEN, Écrivains français en Ho/lande dans la première moitié du xvutme siècle; una biografia volutamente tendenziosa è quella di M. LEROY, Descartes, le philosophe au masque, 2 voli., Parigi I929. Per il periodo giovanile sono importanti soprattutto i seguenti studi: J. MILLET, Descartes, sa vie, ses travaux, ses découvertes avant 16)7, Parigi I867; J. SIRVEN, Les années d'apprentissage de Descartes, 1;g61628, Parigi I928; H. GouHIER, Les premières pensées de Descartes, Parigi I95 8. Numerosissimi sono gli studi, generali e specifici sull'opera filosofica di Descartes. Sono particolarmente notevoli i seguenti: V. CousiN, Fragments de philosophie cartésienne, Parigi I845; L. LIARD, Descartes, Parigi I88z; P. NATORP, Descartes' Erkenntnisstheorie. Bine Studie zur Vorgeschichte des Kriticismus, Marburgo I 882; « Revue de métaphysique et de morale », I 896, numero speciale dedicato a Descartes nel terzo centenario della nascita; N .K. SMITH, Studies in the cartesian philosopry, Londra I9o2; ristampa, New York I 962; O. HAMELIN, Le .rystème de Descartes, Parigi I 9 I I ; II ed. riveduta, Parigi I 921; E. GILSON, La liberté chez Descartes et la théologie, Parigi I9I3; H. GouHIER, La pensée religieuse de Descartes, Parigi I924; A. EsPINAS, Descartes et la morale, 2 voli., Parigi I925; E. GILSON, Études sur le r&le de la pensée médiévale dans la formation du .rystème cartésien, Parigi I93o; ristampa, Parigi I95 I; P. MESNARD, Essai sur la morale de Descartes, Parigi I936; F. 0LGIATI, La filosofia di Descartes, Milano I937; H. GouHIER, Essais sur Descartes, Parigi I937; ristampa, Parigi I949; « Revue de métaphysique et de morale», I937; « Revue de synthèse », I937; « Revue philosophique », I937; « Archives de philosophie », I937, numeri speciali dedicati a Descartes in occasione del terzo centenario della pubblicazione del Discours de la méthode; E. CASSIRER, Descartes: Lehre, Personlichkeit, Wirkung, Stoccolma I939; trad. fr. parziale, Descartes, Cornei/le, Christine de Suède, Parigi I942; J. LAPORTE, Le rationalisme de Descartes, Parigi I945; II ed., Parigi I95o; P. CARABELLESE, Le obbiezioni al cartesianesimo, 3 voli., Messina I946; F. ALQUIÉ, La découverte métaprysique de l'homme chez Descartes, Parigi I95o; G. LEWIS, L'individualité selon Descartes, Parigi I95o; In., Le problème de l'incoscient et le cartésianisme, Parigi I95o; N.K. SMITH, New studies in the philosopry of Descartes: Descartes as pioneer, Londra I952; L. J. BECK, The method of Descartes. A stut!J of the « Re?,ulae », Oxford I 9 52; M. GuEROULT, Descartes selon l'ordre des raisons, z voli., Parigi I95 3; AA. Vv., Descartes, Cahiers de Royaumont, Parigi I957; H. GouHIER, La pensée métaprysique de Descartes, Parigi I96z; A. DEL NocE, Riforma cattolica e filosofia moderna, vol. I: Cartesio, Bologna I 96 5 ; L. J. BECK, The metap~ysics of Descartes. A stut!_}' of the Meditations, Oxford I965; AA. Vv.,
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Bibliografia
Descartes, A collection of criticai esstrys, Londra I968; A. NEGRI, Descartes politico, o della ragionevole ideologia, Milano I 970. Abbastanza numerosi sono anche gli studi sull'attività scientifica di Descartes; manca però un lavoro complessivo sulla scienza cartesiana. Si vedano i seguenti studi: K. LASSWITZ, Geschichte der Atomistik vom Mittelalter bis Newton, 2 voli., Amburgo e Lipsia I89o; ristampa I962, parte relativa; P. TANNERY, Descartes p~sicien, in « Revue de métaphysique et de morale », I 896; ristampato in Mémoires scientiftques, vol. VI, Parigi I926; P. DuHEltl:, La théorie p~sique, son objet, sa structure, Parigi I9o6 passim; E. BLOCH, Die chemischen Theorien bei Descartes und den Cartesianern, in« Isis », I9I3-I9I4; A. GEORGES-BERTHIER, Le mécanisme cartésien et la p~siologie au xvuème siècle, in« Isis », I9I4-I920; G. MILHAUD, Descartes savant, Parigi I92 I; H. CARTERON, L'idée de la force mécanique dans le système de Descartes, in « Revue philosophique », I 922; H. STOCK, The method of Descartes in the natura/ sciences, New York I 9 3 I; H. DREYFUS-LE FoYER, Les conceptions médicales de Descartes, in « Revue de métaphysique et de morale», I937; G. LoRIA, Descartes géomètre, in « Revue de métaphysique et de morale», I937; A. KoYRÉ, Études galiléennes, 3 voli., Parigi I939; ristampa in un volume unico, Parigi I966; J.O. FLECKENSTEIN, cartesische Erkenntnistheorie und mathematische P~sik des xvu. Jahrhunderts, in « Gesnerus », I95o; J.F. ScoTT, The scientiftc work of René Descartes, Londra I952; E.J. AITON, Descartes' theor_y ~f the tides; The vortex theor_y of the planetary motions; The cartesian theory of gravity, in « Annals of science », I95 5, I957, I959; J. VurLLEMIN, Mathématiques et métap~siques chez Descartes, Parigi I96o; A. R. HALL, Cartesian dynamics, in« Archive for history of exact science », I96I; J.L. ALLARD, Le mathématisme de Descartes, Ottawa I963; R.J. BLACKWELL, Descartes' laws of motion, in « Isis », I966; P. CoSTABEL, Essai critique sur quelques concepts de la mécanique cartésienne, in « Archives internationales d'histoire cles sciences », I967. Sugli sviluppi del cartesianesimo, si veda: J.B. BORDAS-DEMOULIN, Le cartésianisme' ou la véritable rénovation des sciences, Parigi I843; II ed., 2 voli., Parigi I 874; F. BourLLIER, Histoire de la philosophie cartésienne, 2 voli., m ed., Parigi I868; G. MoNCHAMP, Histoire du cartésianisme en Belgique, Bruxelles I886; L. BERTHÉ DE BESAUCELE, Les cartésiens d' ltalie, Parigi I92o; C. VON BROCKFORD, Descartes und die Fortbildung der kartesianischen Lehre, Monaco I923; P. MouY, Le développement de la p~sique cartésienne, 1646-1712, Parigi I934; AA. Vv., Descartes et le cartésianisme hollandais, Parigi I95o; A.G.A. BALZ, Cartesian studies, New York I95 I; A. VARTANIAN, Didero/ and Descartes. A study of scientiftc naturalism in enlightenment, Princeton I953; trad. it., Milano I956; C.L. THIJSSEN-SCHOUTE, Nederlands cartesianisme, Amsterdam I954; E. CALLOT, Problèmes du cartésianisme, Annecy I956. Non esiste una edizione moderna delle opere complete di Gassendi. Si utilizza l'ottima edizione secentesca (Opera omnia, 6 voli., Lione I658; ristampa, Stoccarda I964); le Exercitationes paradoxicae adversus aristoteleos, libri 1 e II, e la Disquisitio metap~sica sono state di recente tradotte in francese (Dissertations en forme de paradoxes contre /es aristotéliciens, Parigi I959; Recherches métap~siques, Parigi I962) da B. RocHOT. La biografia essenziale su Gassendi rimane quella di J. BouGERJ;:L, Vie de Gassendi, Parigi I 7 37; essenziale è anche l'esposizione della filosofia gassendista fatta da F. BERNIER, Abrégé de la philosophie de Gassendi, Parigi I674· Gli studi moderni più importanti sull'opera di Gassendi sono i seguenti: P.F. THOMAS, La philosophie de Gassendi, Parigi I889; 547
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Bibliografia H. BERR, An iure inter scepticos Gassendus numeratus fuerit, Parigi I 898; trad. fr., Du scepticisme de Gassendi, Parigi I96o; G.S. BRETT, The philosophy of Gassendi, Londra I908; P. PENDZIG, Pierre Gassendis Metaphysik und ihr Verhiiltnis zur scholastischen Philosophie, Bonn I9o8; Io., Die Ethik Gassendis und ihre Quellen, Bonn I910; G. SoRTAIS, La philosophie moderne depuis Bacon jusqu'à Leibniz, vol. II, Parigi 19zz; G. HEss, Pierre Gassend. Der franzosische Spiithumanismus und das Problem von Wissen und Glauben, JenaLipsia 1939; R. PINTARD, Le libertinage érudit dans la première moitié du xvnème siècle, z voll., Parigi 1943; B. RocHOT, Les travaux de Gassendi sur Epicure et sur l'atomisme, Parigi I944; Io., Gassendi et le S]ntagma philosophicum, in « Revue de synthèse », 1950; AA. Vv., Pierre Gassendi. Sa vie et son oeuvre: IJ92-I6JJ, Parigi 195 5; AA. Vv., Actes du congrès du tricentenaire de Pierre Gassendi, Digne 1957; M.H. CARRÉ, Pierre Gassendi and the new philosophy, in « Philosophy », 195 8; T. GREGORY, Scetticismo ed empirismo. Studio su Gassendi, Bari 1961; J.T. CLARCK, Pierre Gassendi and the physics of Galileo, in « Isis », 1963; L. CAFIERO, Robert Fludd e la polemica con Gassendi, in « Rivista critica di storia della filosofia», 1964-1965; O.R. BLOCH, Gassendi critique de Descartes, in « Revue philosophique », 1966; P.A. PAv, Gassendi's statement of the principle of inertia, in « Isis », 1966; P. HoFFMANN, Atomisme et génétique: étude de la pensée philosophique et physiologique de Gassendi appliquée à la déftnition de la notion de feminité, in « Revue de synthèse », 1966. L'edizione completa delle opere di Hobbes è la seguente: The english works, a cura di W. MoLESWORTH, II voli., Londra 1839-I845; ristampa I96z; Operaphilosophica quae latine scripsit, a cura di W. MoLESWORTH, 5 voll., Londra 1839-1845; ristampa 1961. Tra le edizioni di singole opere è importante quella del Leviathan, Oxford 1946, a cura di M. 0AKESHOTT. Delle opere di Hobbes sono tradotte in italiano il Leviatano, a cura di M. VINCIGUERRA, Bari 19II-I9Iz; a cura di R. GIANMANCO, Torino 1955; gli Elementi filosofici del cittadino e il dialogo fra un filosofo e uno studioso di diritto comune in Inghilterra, Torino 1959, a cura di N. BoBBIO; e gli Elementi di legge naturale e politica, a cura di A. PACCHI, Firenze 1968. Per quanto concerne la bibliografia, si veda: H. MACDONALD, J.M.H. HARGREAVES, Thomas Hobbes. A bibliography, Londra 195z; A. PACCHI, Bibliografia hobbesiana dal r84o ad oggi, in «Rivista critica di storia della filosofia», 196z. Sull'opera di Hobbes: G. CROOM RoBERTSON, Hobbes, Londra I886; G. LYON, La philosophie de Hobbes, Parigi I893; F. ToNNIES, Hobbes, Leben und Lehre, Stoccarda 1896; II ed., Hobbes, der Mann und der Denker, Stoccarda I9Iz; m ed., Stoccarda I9Z5; R. MoNDOLFO, Saggi per la storia della morale utilitaria. I: La morale di Hobbes, Verona I903; L. STEPHEN, Hobbes, Londra I9o4; A.E. TAYLOR, Thomas Hobbes, Londra I9o8; F. BRANDT, Den mekaniske Naturopfattelse hos Thomas Hobbes, Copenaghen I9ZI; trad. ingl., Thomas Hobbes' mechanical conception of nature, Londra I9z8; R. HoNIGSWALD, Hobbes und die Staatsphilosophie, Monaco I9z4; A. LEVI, La filosofia di Tommaso Hobbes, Milano I 9z9; Z. LuBIENSKI, Die Grundlagen des ethisch-politischen Systems von Hobbes, Monaco I93Z; J. LAIRD, Hobbes, Londra-New York I934; L. STRAUSS, The politica/ philosophy of Hobbes; its basis and its genesis, Oxford I936; ristampa, Chicago I95Z, I963; J. VIALAToux, La cité de Hobbes. Théorie de l'état totalitaire. Essai sur la théorie naturaliste de la civilisation, Parigi I 9 36; R. PouN, Politique et philosophie chez Thomas Hobbes, Parigi I95 z; H. W ARRENDER, The politica! philosophy of Hobbes. His theory of obligation, Oxford I 9 57; T.E. JESSOP, Thomas Hobbes, Londra I 96o; S.I. MINTZ,
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Bibliografia
The hunting of Leviathan, Cambridge I 962.; « Rivista cr1t1ca di storia della filosofia », I962., numero speciale dedicato a Hobbes; C.B. MACPHERSON, The politica! theory of possessive individualism, Oxford I962.; F.C. Hoon, The divine politics of Thomas Hobbes. An interpretation of Leviathan, Oxford I964; N. BoBBIO, Da Hobbes a Marx, Napoli I965; AA. Vv., Hobbes studies, a cura di K.C. BROWN, Oxford I965; A. PACCHI, Convenzione e ipotesi nella formazione della filosofia naturale di Thomas Hobbes, Firenze I965; J.W.N. WATKINS, Hobbes's system of ideas. A sturfy in the politica! significance of philosophical theories, Londra I965; M.M. GoLDSMITH, Hobbes's science of politics, New York I966; M. CoRSI, Introduzione al Leviatano, Napoli I967; D.P. GAUTHIER, The logic of Leviathan, Oxford I 969. L'edizione complessiva delle opere di A. Geulincx è la seguente: Opera philosophica, 3 voli., a cura di J.P.N. LAND, L'Aia I89I-I893; una parte dell'Ethica e l'intera Metaphysica sono state tradotte di recente in italiano: Etica e Metafisica, a cura di I. MANCINI, Bologna I965. Per la bibliografia: H.J. DE VLEESCHAUWER, L'opera di Arnoldo Geulincx, Torino I95 8; e inoltre, dello stesso VLEESCHAUWER, Three centuries of Geulincx research, in « Mededelings van die Universiteit van Suid-Afrika », I957· Sull'opera di Geulincx: V. VAN DER HAGEN, Geulincx: Étude sur sa vie, sa philosophie et ses ouvrages, Gand I886; E. GRIMM, Arno/d Geulincx' Erkenntnistheorie und Occasionalismus, Jena I875; E. PFLEIDERER, Arno/d Geulincx als Hauptvertreter der okkasionalistichen Metaphysik und Ethik, Tubinga I 882.; In., Leibniz und Geulincx mit besonderer Beziehung auf ihr beiderseitiges Uhrengleichniss, Tubinga I 884; E. ZELLER, Vber di e erste Ausgabe von Geulincx' Ethik und Leibniz' Verhaltnis zur Geulincx' Occasionalismus, in « Sitzungsberichte der koniglichen preussischen Akademie der Wissenschaften », I884; J.P.N. LAND, A. Geulincxund seine Philosophie, L'Aia I 895; C. TERRAILLON, La morale de Geulincx dans ses rapports avecla philosophie de Descartes, Parigi I9I2.; A. CAPONE BRAGA, La logica di A. Geulincx, in « Cultura filosofica», I9I 5; A. LEVI, Saggio sulla metafisica del Geulincx, in «Rivista trimestrale di studi filosofici e religiosi», I92.I; K. NAGEL, Das Substanzproblem bei Arno/d Geulincx, Colonia I93o; A. OTTAVIANO, Arno/d Geulincx, Napoli I933; K. DilRR, Die mathematische Logik des A. Geulincx, in « Journal of unified science », I94o; i numerosi studi di H.J. DE VLEESCHAUWER sui vari aspetti del pensiero di Geulincx. L'edizione critica delle opere complete di Malebranche è stata iniziata di recente (Oeuvres, a cura di A. RoBINET, 2.0 tomi, Parigi I95 8 sgg.; il t. xx, Malebranche vivant, contiene documenti biografici e bibliografici). Per quanto concerne la biografia si veda la classica opera di Y.M. ANDRÉ, La vie du R.P. Malebranche, prétre de l'oratoire avec l'histoire de ses ouvrages, edita a cura di A.M. Ingold, I886. In italiano sono tradotti i Colloqui sulla metafisica, a cura di R. CRIPPA, Bologna I963. Sull'opera di Malebranche si vedano i seguenti studi: L. 0LLÉ-LAPRUNE, La philosophie de Malebranche, 2. voll., Parigi I87o; H. JoLY, Malebranche, Parigi I9oo; J.M. GAONACH, La théorie des idées dans la philosophie de Malebranche, Brest I 908; « Revue de métaphysique et de morale », I9I6, numero speciale dedicato a Malebranche nel secondo centenario della morte; J. VmGRAIN, Le christianisme dans la philosophie de Malebranche, Parigi I92.3; V. DELBOS, Etude de la philosophie de Malebranche, Parigi I92.4; H. GouHIER, La vocation de Malebranche, Parigi I92.4; Io., La philosophie de Malebranche et son expérience religieuse, Parigi I92.6; P. MouY, Les lois du choc des corps selon Malebranche, Parigi I92.7; L. BRIDET, La théorie de la connaissance dans la philosophie de Malebranche, Parigi I92.9; R. W. CHURCH, 549
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Bibliografia
A study in the philosopf?y of Malebranche, Londra I93 I; L. LABBAS, La grace et la liberté dans Malebranche, Parigi I93 I; Io., L'idée de science dans Malebranche et son originalité, Parigi I931; A. DEL NocE, Nota sull'anticartesianismo di Malebranche, in «Rivista di filosofia neoscolastica », I934; A. LE MOINE, Des vérités éternelles selon Malebranche, Parigi I936; « Revue internationale de philosophie », I938; « Revue philosophique », I 9 38 ; « Bulletin de la société française de philosophie », I 9 38 ; « Rivista di filosofia neoscolastica », I938; « Archives de philosophie », I938, numeri speciali in occasione del terzo centenario della nascita di Malebranche; M. DAL PRA, Malebranche nell'opera di Hume, in «Rivista di storia della filosofia», I949; J. LAPORTE, Études d'histoire de la philosophie française au xvuème siècle, Parigi I95 I; M. GuEROULT, Malebranche, 3 voli., Parigi I955-I959; A. RoBINET, Malebranche et Leibniz, Parigi I955; G. DREYFUS, La volonté selon Malebranche, Parigi I95 8; G. Roms-LEWIS, Nicolas Malebranche, Parigi I963; L. VERGA, La ftlosofta morale di Malebranche, Milano I964; A. RoBINET, Système et existence dans l'oeuvre de Melabranche, Parigi I965; AA.Vv., Malebranche, l'homme et l'oeuvre, r6;8-qr;, Parigi I967; D. CONNEL, The vision in Cod. Malebranche's scolastic sources, Lovanio I967; T.L. HANKINS, The influence of Malebranche on the science of mechanics during the eighteenth century, in « Journal of the history of ideas », I967. Le edizioni delle opere di Spinoza sono le seguenti: Opera quotquot reperta suni, a cura di J. VAN VLOTEN e J.P.N. LAND, 2 voli., L'Aia I882-I883; n ed., 3 voli., I895; Opera, a cura di C. GEBHARDT, 4 voli., Heidelberg I924. Numerose le traduzioni italiane delle singole opere di Spinoza; citiamo le più recenti: Etica, trad. di G. DuRANTE con le note di G. GENTILE (curatore di una edizione latina dell'opera, Bari I9I 5) rivedute e ampliate da G. RADETTI, Firenze I963; Breve trattato, a cura di G. SEMERARI, Firenze I95 3; Emendazione dell'intelletto, Principi della ftlosofta cartesiana, Pensieri metaftsici, a cura di E. DE ANGELIS, Torino I962; Trattato teologico-politico, a cura di S. CASELLATO, Venezia I945; Trattato politico, Torino I95 8; Epistolario, Torino I95 r. Si hanno diverse bibliografie delle opere su Spinoza: Spinoziana, I897-I922, a cura di W. MEIJER, Heidelberg-Amsterdam I922; Spinoza-Literatur, Vienna I927; The Spinoza's bibliography, a cura di A. S. 0Ko, Boston I964. Nel I92.o venne fondata all'Aia la Societas spinozana, che pubblicò tra il I92I e il I927 il Chronicon spinozanum. Importanti sono le biografie di Spinoza scritte da contemporanei: quella di J. CoLERUS, Vie de B. de Spinoza, L'Aia I 706; e quella di J .M. LucAs, La vie de Spinoza par un de ses disciples, nuova ed., Amburgo I73 5; tra le biografie moderne, notevole quella di J. FREUDENTHAL, Spinoza. Sein Leben und seine Lehre. I. Das Leben, Stoccarda I9o4; II ed., Heidelberg I927. Studi sull'opera di Spinoza: F. CAMERER, Die Lehre Spinozas, Stoccarda I877; J. FREUDENTHAL, Spinoza und die Scholastik, Breslavia I887; F. PoLLOCK, Spinoza: his /ife and philosopf?y, Londra I88o; II ed., Londra I899; L. BRUNSCHVICG, Spinoza et ses contemporains, Parigi I896; IV ed., Parigi I951; K.O. MEINSMA, Spinoza en zijn Kring, L'Aia I896; trad. ted., Spinoza und seine Kreis, Berlino 1909; H.H. JoACHIM, A stutfy of Spinoza's ethik, Oxford 1901; A.R. DuFF, Spinoza's politica/ and ethical philosophy, Glasgow 1903; G.T. RrcHTER, Spinozas philosophische Terminologie, Lipsia I9I 3; E. CArRo, Spinoza, Edimburgo-Londra 1902; V. DELBOS, Le spinozisme, Parigi I9I6; A. BALZ, Idea and essence in the philosophies of Hobbes and Spinoza, New York 19I8; L. RoTH, Spinoza, Descartes and Maimonides, Oxford I924; A. Guzzo, Il pensiero di Spinoza, Firenze I924; n ed., Torino I964; C. APPUHN, Spinoza, Parigi I927; «Rivista di filosofia», I927, numero unico dedicato 5 50
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Bibliografia
a Spinoza nel duecentocinquantesimo anniversario della morte; R. Mc KEoN, The philosophy of Spinoza, New York I928; E. JuvALTA, Osservazioni sulle dottrine morali di Spinoza, in «Rivista di filosofia», I929; L. STRAuss, Die Religionskritik Spinoza als Grundlage seiner Bibelwissenschaft, Berlino I93o; C. GEBHARDT, Spinoza, Lipsia I932; P. LACHIÈZE-REY, Les origines cartésiennes du Dieu de Spinoza, Parigi I932; «Rivista di filosofia neoscolastica », I 9 3 3, numero speciale dedicato a Spinoza nel terzo centenario della nascita; S. DuNIN-BORKOWSKI, Spinoza, 4 voli., Munster I933-I936; J.R. CARRÉ, Spinoza, Parigi I936; W. EcKSTEIN, Rousseau and Spinoza: their politica/ theories and their conception of ethical freedom, in « Journal of the history of ideas », I944; A. DARBON, Études spinozistes, Parigi I946; R.L. SAw, The vindication of metaphysics: A stut!J in the philosophy of Spinoza, New York 1951; G. SEMERARI, I problemi dello spinozismo, Trani I952; G.R. PARKINSON, Spinoza's theory of knowledge, Oxford I954; L. RoTH, Spinoza, Londra I954; H.A. WoLFSON, The philosophy of Spinoza, 2 voli., Cambridge (Mass.) I954; ristampa, New York I958; H.F. HALLET, Benedici de Spinoza. The elements of his philosophy, Londra I957; A. RAvÀ, Studi su Spinoza e Fichte, Milano I958; P. D1 VoNA, Studi sull'ontologia di Spinoza. Parte I: L'ordinamento delle scienze filosofiche. La ratio, il concetto di ente, Firenze I 96o; Parte II: Res ed E ns. La necessità. Le divisioni dell'essere, i vi 1969; D. BIDNEY, Psychology and ethics of Spinoza, New York I962; S. ZAc, L'idée de vie dans la philosophie de Spinoza, Parigi I963; H.G. HuBBELING, Spinoza's methodology, Assen I964; S. ZAc, Signijication et valeur de l'interprétation de l'écriture chez Spinoza, Parigi I965; L. STRAUSS, Spinoza's critique of religion, New York I965; C. DE DEUGD, The significance of Spinoza's first kind of knowledge, Assen I966; A. MALET, Le traité théologique-politique de Spinoza et la pensée biblique, Parigi I966; R.J. Mc SHEA, The politica/ philosophy of Spinoza, New York-Londra I968; A. MATHERON, individu et communauté chez Spinoza, Parigi I969. Sugli sviluppi del pensiero di Spinoza si vedano i seguenti lavori: M. KRAKAUER, Zur Geschichte des Spinozismus in Deutschland, Breslavia I88I; L. BA.cK, Spinozas erste Einwirkungen auf Deutschland, Berlino I895; M. GRUNWALD, Spinoza in Deutschland, Berlino I897; G. BOHRMANN, Spinozas Stellung zur Religion. Nebst einem Anhang: Spinoza in England (r6JO-IJJO}, Giessen I9I4; P. VERNIÈRE, Spinoza et la pensée française avant la révolution, 2 voli., Parigi I954; R. CouE, Spinoza and the ear(y english deists, in « Journal of the history of ideas », I959· Sul giusnaturalismo in generale si vedano i seguenti lavori (per il pensiero politico di Hobbes e di Spinoza si rimanda agli studi citati prima): O. VoN GIERKE, Das deutsche Genossenschaftsrecht, 4 voli., Berlino I868-I9I3; trad. ingl. del volume IV, Natura/ law and the theory of society, Cambridge I934; G. SoLARI, La scuola del diritto naturale nelle dottrine etico-giuridiche dei secoli XVII e XVIII, Torino I9o4; G. DE MoNTEMAYOR, Storia del diritto naturale, Palermo I9I I; C.E. VAUGHAM, Studies in the history of politica/ philosophy bifore and after Rousseau, 2 voli., I925; E. WOLF, Grosse Rechtsdenker der deutschen Geistesgeschichte, Tubinga I939; IV ed., Tubinga I963; G. PASSERIN n'ENTRÈVES, Natura/ law. An introduction to legai philosophy, Londra I95 I; trad. it., La dottrina del diritto naturale, Milano I954; 11 ed., Milano I962; F. FLiicKIGER, Geschichte des Naturrechts, 2 voli., Zollikon I954; P. PIOVANI, Giusnaturalismo ed etica moderna, Bari I961. Su Altusio, della cui opera maggiore è disponibile una edizione moderna (Politica methodice digesta, a cura di C.J. FRIEDRICH, Cambridge I932) si veda: Johannes Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien, Breslavia I 88o; trad. i t., Giovanni
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Bibliografia
Althusius e lo sviluppo storico delle teorie politiche giusnaturalistiche, Torino I943; A. PAsSERIN n'ENTRÈVES, Giovanni Althusius e il problema metodologico della filosofia politica e giuridica, in « Rivista internazionale di filosofia del diritto », I 9 34· Non esiste una edizione delle opere complete di Grazio; delle singole opere si hanno diverse edizioni, anche moderne. Le lettere sono state pubblicate da P.C. MoLHUYSEN, Briefwisseling, vol. r, L'Aia I928; e da B.L. MEULENBROEK che continua ora l'opera iniziata dal primo studioso. Di Gr ozio sono tradotti in italiano solo i Prolego meni al diritto della guerra e della pace, a cura di G. FAssò, Bologna I949; II ed. I961. Importanti sono le bibliografie curate da J. TER MEULEN e da P.J.J. DIERMANSE: Bibliographie des écrits imprimés de Hugo Grotius, L'Aia I 9 5o; Bibliographie des écrits sur Hugo Grotius, L'Aia I961. La biografia moderna più completa di Grazio è quella di W.S.M. KNIGHT, The /ife {znd works of Hugo Grotius, Londra I925. Gli studi più importanti su Grozio sono i seguenti: K. VON KALTENBORN, Die Vorliiufer des Hugo Grotius auf dem Gebiete des Jus naturae et gentium sowie der Politik im Reformationszeitalter, Lipsia I 848; G. HARTENSTEIN, Darstellung der Rechtsphilosophie des Hugo Grotius, Lipsia I 8 5o; R. FRUIN, An unpublished work of Hugo Grotius, in « Bibliotheca Visseriana », vol. v, I925, trad. ingl. dell'originale olandese pubblicato nel I868; J.N. FIGGIS, Politica/ thought from Gerson to Grotius, Cambridge I907; II ed., I9I6; ristampa, New York I96o; J. SCHLUTER, Die Theologie des Hugo Grotius, Gottinga I9I9; R. PouND, Philosophical theor_y and internationallaw, in« Bibliotheca Visseriana »,vol. r, I923; A. FALCHI, Carattere ed intento del Del jure belli ac pacis di Grozio, in « Rivista internazionale di filosofia del diritto», I925; W.J.M. VAN EYSINGA, Grotius (I62J-I92J), in « Revue de droit international et de législation comparée », I925; W. VAN DER VLUGT, L'oeuvre de Grotius et son injluence sur le développement du droit international, in « Académie de droit international, Recueil cles cours », I925; II, Parigi I926; J. HmzrNGA, Il posto del Grozio nella storia dello spirito umano e Ugo Grozio e il suo secolo, in La mia via alla storia e altri saggi, a cura di P. BERNARDINI MARZOLLA, Bari I967 (trad. it. di due commemorazioni tenute da Huizinga in occasione del terzo centenario della pubblicazione del De jure belli ac pacis); G. GuRVITCH, La philosophie du droit de Hugo Grotius et la théorie moderne du dro i t international, in « Revue de métaphysique et de morale», 1927; E. LEWALTER, Die geistesgeschichtliche Stellung des Hugo Grotius, in « Deutsche Vierteljahrsschrift flir Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte », I933; J. JouBERT, Étude sur Grotius, Parigi I935; AA.Vv., Hommage à Grotius, Losanna I946; A. CoRSANO, U. Grozio, l'umanista, il teologo, il giurista, Bari I948; A. DROETTO, Grozio e il concetto di natura come principio del diritto, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», I948; P. OrTENWALDER, Zur Naturrechtslehre des Hugo Grotius, Tubinga I95o; G. FAssò, Ugo Grozio tra medioevo e età moderna, in «Rivista di filosofia», I95o; G. AMBROSETTI, I presupposti teologici e speculativi delle concezioni giuridiche di Grozio, Bologna I95 5; P.P. REMEC, The position of the individuai in internationallaw according to Grotius and Vattel, L'Aia I96o; F. DE MrcHELIS, Le origini storiche e culturali del pensiero di Ugo Grozio, Firenze I967. Su Pufendorf, di cui si hanno in italiano, i Principi di diritto naturale, con prefazione di N. BoBBIO, Torino I943, si vedano i seguenti lavori: P. MEYER, Samuel Pufendorj, Grimma I894; E. WoLF, Grotius, Pufendorj, Thomasius, Tubinga I927; H. WELZEL, Die Naturrechtslehre Samuel Pufendorfs, Berlino I95 8; N. BoBBIO, Leibniz e Pufendorj, 552.
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Bibliografia
in « Rivista di filosofia », 1947; L. KRIEGER, The politic.r oJ discretion: Pufendorf and the acceptance of naturallaw, Chicago 196 5. Sul clima religioso da cui è scaturita l'esperienza dell'Oratorio e del giansenismo si veda: H. BRÉMOND, Hi.rtoire littéraire du .rentiment religieux en France depui.r la fin de.r guerre.r de religionjusqu'à no.rjours, rz voli., Parigi 1916-r936 (in particolare il vol. m e il vol. IV pubblicati nel 1919 e nel 19zo); H. BussoN, La pensée religieu.re fran(aise de Charron à Pasca/, Parigi 1933; In., La religion des classiques, Parigi 1948. Sugli oratoriani e sul cardinale de Berulle di cui è stata ristampata l'edizione delle opere del 1644 (Oeuvres complètes, z voli., Montsoult 196o) si veda: A. TARABAUD, Histoire de Pierre de Berulle, z voli., Parigi 1817; A. PERRAUD, L'Oratoire de France au xvu~me et au x1xtm• siècle, Parigi r866; M. HoussAYE, M. de Berulle et /es carmelites de France, IJ7J-I6II, Parigi r87z; In., Le P. de Berulle et I'Oratoire de jésus, I6II-I62J, Parigi 1874; In., Le cardinal de Berulle et le cardinal de Richelieu, 162J-1629, Parigi 1875; P. LALLEMAND, Histoire de l'éducation dans /'ancien Oratoire de France, Parigi r888; L. BATTEREL, Mémoires dome.rtiques pour servir à l'histoire de I'Oratoire, 5 voli., Parigi I90Z-I9I r; J. LEHERPEUR, L'Oratoire de France, Parigi 19z6; A. GEORGE, L'Oratoire, Parigi 19z8; C. TAVEAU, Le cardinal de Berulle, maftre de vie spirituelle, Parigi 1933; A. MOLIEN, Le cardinal de Berulle. Hi.rtoire, doctrine, /es meilleurs textes, Parigi 1947; J. DAGENS, Berulle et /es origines de la restauration catholique ( IJJJ-I6II ), vol. I, Parigi-Bruges 195 z; P. CocHors, Berulle et l'école franfaise, Parigi 1963. Sul giansenismo in generale si vedano le due classiche e monumentali opere di C. CLEMENCET, Histoire générale de Port-Royal, ro voli., Amsterdam 175 5-1757; e di C.A. DE SAINTE-BEuvE, Port-Rqyal, 3 voli., Parigi r 840-1848; 3 voli., a cura di M. LEROY, Parigi 195 3-195 5; trad. it. con introd. di A. AnAM, z voli., Firenze 1964. Gli studi moderni fondamentali sono i seguenti: A. GAZIER, Histoire générale du mouvement janséniste depuis ses origines jusqu' à nos jours, z voli., m ed., Parigi r 9zz-z4; A. DE MEYER, Les premières controversesjansénistes en France, Lo vani o 1917; J. LAPORTE, La doctrine de Port-Royal, 4 voli., Parigi 19Z3-195z; F.X. JANSEN, Baiu.r et le baianisme, Lovanio 19z7; J. 0RCIBAL, Les origines du jansénisme, voli. I, n, m, Parigi r 947-r 948; Jansénisme et politique, testi scelti e presentati da R. TAVENEAux, Parigi 1965. Sulla pedagogia giansenistica si veda: F. CADET, L'éducation à Port-Royal, Parigi r887; I. CARRÉ, Les pedagogues de Port-Royal, Parigi r887; H.C. BARNARD, The little schools of Port-Royal, Cambridge 1913; In., The Port-Royalists on education, Cambridge 1918; J. SELLMAIR, Die Padagogik des Jansenismus, Monaco 1932· È stata di recente pubblicata l'edizione critica della Logica di A. Arnauld e P. Nicole, La logique ou l'art de penser, a cura di P. CLAIRe F. GrRBAL, Parigi 1965; si veda anche T. FuNCK-BRENTANO, La logique de Port-Royal et la science moderne, in « Compte rendu de l' Académie des sciences morales et politiques », 1890. Su Arnauld, di cui si ha un'edizione settecentesca delle opere complete (43 voli., Parigi-Losanna 1775-1783), lo studio più importante è quello citato prima di J. Laporte; si veda inoltre: K. BoPP, Arnauld der Grosse als Mathematiker, Lipsia 19oz; A. DEL NocE, La gnoseologia cartesiana nell'interpretazione di Arnauld, in Cartesio nel terzo centenario del Discorso sul metodo, Milano 1937· Su Nicole: E. THOUVENEZ, Pierre Nicole, Parigi 19z6. Sul pietismo e A.H. Francke: K. HEGER, A.H. Francke, Halie 1927; F. SAMMER, A.H. Francke und seine Stiftungen, Halle 19z7; K. WrESKE, A.H. Franckes Padagogik, Halle 19z7; G. NEcco, Lo spirito filisteo. Storia del pieti.rmo germanico fino al romanticismo, Roma 1929; F. WESSELY, Die Bedeutung des Pietismus fiir die Romantik und im besondern fiir S chelling, Vi enna r 9 3r ;
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Bibliografia H. STAHL, August Hermann Francke: der Einjluss Luthers und Molinos auf ihn, Stoccarda I939; AA.Vv., Festreden und Kolloquium iiber den Bildungs- und Erziehungsgedanken bei A.H. Francke aus Anlass der ;o o Wiederkehr seines Ceburstages, am 22. Miirz 1g6;, Balle I964; H. APPEL, Philipp Jacob Spener, Valer des Pietismus, Berlino I964. Sulla scuola in Francia in questo periodo: H. LANTOINE, Histoire de l'enseignement secondaire en France au xvuème siècle, Parigi I874. Su Fénelon e sul problema dell'educazione della donna: G. Brzos, Fénelon éducateur, Parigi I886; G. CoMPAYRÉ, Fénelon et l'éducation attrtryante, Parigi I9Io; A. DELPLANQUE, La pensée de Fénelon, Parigi I93o; E. CARCASSONNE, Fénelon, l'homme et l'oeuvre, Parigi I946; R. SPAEMANN, Rejlexion und Spontaneitiit. Studien iiber Fénelon, Stoccarda I963; V. CousrN, Jacqueline Pasca/, Parigi I844; T. LAVALLIÉ, Histoire de la maison rqyale de Saint-Cyr (1686-IJgj), Parigi I85 3; A. STOPPOLONI, La marchesa di Maintenon e l'istituto di Saint-Cyr, Napoli I 898; J. RENNES, Vie de Jacqueline Pasca/, Parigi I948; M. PERROY, Un trio fraterne/, /es Pasca/ ( Blaise et ses soeurs Ci/berte et Jacqueline), Parigi I962. Le edizioni delle opere complete di Pascal sono numerose: tra di esse, segnaliamo quelle curate da C. BossuT, 5 voli., L'Aia I 779; da P. BouTRoux, L. BRUNSCHVICG, F. GAZIER, I4 voll., Parigi I9o8-I925 (la più comunemente citata); da F. STROWSKI, 3 voli., Parigi I923-I931; da J. CHEVALIER, Parigi I954; da L. LAFUMA, Parigi I963; da J. MESNARD, Parigi I964. Sul controverso problema della edizione dei Pensieri, si veda: L. LAFUMA, Histoire des Pensées de Pasca/ (I6J6-IgJ2), Parigi I954· Tra le molte traduzioni italiane delle Provinciali e dei Pensieri, si citano delle Provinciali le edizioni curate da G. PRETI, Milano I945; e da P. SERINI, Bari I963; e dei Pensieri le edizioni curate da A. CANTONI CAMILLI, Bari I94I; da A. DEVIZZI, Milano I949; e da V.E. ALFIERI, Milano I952· Delle altre opere di Pascal sono tradotte in italiano gli Opuscoli insieme con alcuni altri brevi scritti, a cura di G. PRETI, Bari I 9 59; e i Trattati sull'equilibrio dei liquidi e sulpeso della massa dell'aria, a cura di F. NrcoLODI CASELLA, Torino 1958. Il repertorio bibliografico essenziale per lo studio di Pascal è quello di A. MArRE, Bibliographie générale des oeuvres de Blaise Pasca/, 5 voli., Parigi I925-I927. Sul documento biografico fondamentale per lo studio della vita di Pascal si veda: P. PoLMAN, La biographie de Blaise Pasca/ par Ci/berte Périer: ses fondements idéologiques, sa véracité, son accueil à Port-Rqyal, in « Revue d'histoire ecclésiastique », I95o. Le biografie migliori sono quelle di J. CHEVALIER, Pasca/, Parigi I922; e di V. GrRAUD, La vie heroi"que de Pasca/, Parigi I923. Gli studi più importanti sono i seguenti: A. VrNET, Études sur Blaise Pasca/, Parigi I848; nuova edizione con aggiunte di frammenti inediti, Losanna I936; G. MrcHAUT, Lesépoques de la pensée de Pasca/, Parigi I898; II ed., Parigi I9o2; V. GrRAUD, Pasca/, l'homme, l'oeuvre, l'injluence, Parigi I898; II ed., Parigi I9oo; E. BouTRoux, Pasca/, Parigi I9oo; F. STROWSKI, Pasca/ et son temps, 3 voli., Parigi I907-I9o8; numero unico della rivista « Revue de métaphysique et de morale », in occasione del terzo centenario della nascita, I923; L. BRUNSCHVICG, Le génie de Pasca/, Parigi I924; E. JovY, Études pascaliennes, 9 voli., Parigi I927-I936; L. BRUNSCHVICG, Descartes et Pascallecteurs de Montaigne, Parigi I942; P. SERINI, Pasca/, Torino I942; E. BAuDIN, La philosophie de Pasca/, 4 voli., Neuchatel I946-I947; L. LAFUMA, Recherches pascaliennes, Parigi I949; H. LEFEBVRE, Pasca/, 2 voli., Parigi I949-I954; J. LAPORTE, Le coeur et la raison selon Pasca/, Parigi I95o; A. AoAM, L'époque de Pasca/, Parigi I95 I; ]. MESNARD, Pasca/, l'homme et l'oeuvre, Parigi I95 I; L. LAFUMA, Controverses pascaliennes, Parigi I95 2; L. 5 54
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Bibliografia GoLDMANN, Le Dieu caché, Parigi I95 5; trad. it., Pasca/ e Racine, Milano I96I; AA. Vv., Pasca/, l'homme et l' oeuvre, Cahiers de Royaumont, Parigi I 95 6; R. LACOMBE, L'apologétique de Pasca/, Parigi I95 8; E. MoRTIMER, Blaise Pasca/: the /ife and work of a realist, Londra-New York I959; V.E. ALFIERI, Il problema Pasca/, Milano I959; AA. Vv., Pasca/ et Port-Royal, Parigi I962; Io., Pasca/ présent, Parigi I962; J. STEINMANN, Pasca/, nuova ed., Parigi I962; J.H. BROONE, Pasca/, New York I966; H. GouHIER, Blaise Pasca/: commentaires, Parigi I966; R. Aux, Pasca/ vivant, Clermont Ferrand I967; L. LAFUMA, Sous /es pas de Blaise Pasca/, le chateau de Bienassi retrouvé, Clermont Ferrand I967. Sull'opera scientifica di Pascal: A. MAIRE, L'oeuvre scientiftque de Blaise Pasca/, Parigi I912; P. HuMBERT, L'oeuvre scientiftque de Pasca/, Parigi I947; J. GmTTON, Pasca/ et Leibniz, Parigi I95 I; R. T ATON, L'essai pour /es coniques de Pasca/, in « Revue d'histoire des sciences », I954-I95 5; AA. Vv., L'oeuvre scientiftque de Pasca!, Parigi 1964. Sulla fortuna di Pascal: B. AMOUDRU, La vie posthume des Pensées, Parigi 1936. Non esiste una trattazione specifica sufficientemente analitica del meccanicismo secentesco; si rimanda pertanto ai capitoli relativi di opere generali. Particolarmente pregevoli sono quelli scritti da R. LENOBLE per l' Histoire de la science edita da M. DAUMAS (Les origines de la pensée scientiftque moderne), ci t.; e per l' Histoire de la science, edita da R. TATON (La révolution scientiftque du xv~me siècle, t. n, seconda parte), cit. Si indicano qui gli scritti cui si fa diretto riferimento nel capitolo: E. KoYRÉ, L'apport scientiftque de la renaissance, comunicazione fatta alla Quinzième semaine de synthèse (I giugno I949) e pubblicata nel volume della Quinzième semaine de synthèse: La !Jnthèse, idée force dans l'évolution de la pensée, Parigi I95 I, pp. 30-40; ristampata nel vol. A. KoYRÉ, Etudes d' histoire de la pensée scientiftque, Parigi I 966; F. REULEAUX, Cinematica teorica: Principii fondamentali di una teoria generale delle macchine, trad. it. dal ted., Milano I874; trad. ingl., Londra I876; ristampa, New York I963; E. GARIN, Magia ed astrologia nella cultura del rinascimento, in « Belfagor », I95o, e Considerazioni sulla magia, in « Rivista critica di storia della filosofia», I95 I (ristampati in Medioevo e rinascimento, Bari I954; m ed., I961). Non esiste un'opera espressamente dedicata all'analisi della logica secentesca; indicazioni di studi relativi alla parte logica del pensiero degli autori esposti nel capitolo IX si possono trovare nelle bibliografie riguardanti gli autori trattati. Si citano qui due studi generali in cui si dà grande rilievo alla logica del Seicento: F. BARONE, Logica formale e logica trascendentale: I. Da Leibniz a Kant, Torino 1957; n ed., I964; T. KoTARBINSKI, Leçons sur l'histoire de la logique, trad. fr. dell'originale polacco, VarsaviaParigi I964. I lavori generali di particolare rilievo sullo sviluppo della matematica secentesca e sull'origine del calcolo infinitesimale, oltre allo studio di Zeuthen già citato, sono i seguenti: G. CASTELNuovo, Le origini del calcolo inftnitesimale nell'era moderna, Bologna I 9 38 ; II ed., Milano I 962; C. B. BoYER, The concepts of the calculus; A criticai and historical discussion of the derivative and the integrai; II ed., The history of the calculus and its conceptual development, New York I949; ristampa, Dover 1959; L. GEYMONAT, Storia e filosofia dell'analisi inftnitesimale, Torino 1947; P. SERGESCU, Recherches sur l'inftni mathématique, Parigi I949; J.E. HoFMANN, Geschichte der Mathematik, 3 voli., Berlino 1953-I957; C. B. BoYER, The histor:_y of analitica/ geometry, New York 1957; D.T. WHITESIDE, Patterns of mathematical thought in the later seventeenth centur)', in « Archive for history of exact scien-
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Bibliografia
ces », I96I; U. CASSINA, Dalla geometria egiziana alla matematica moderna, Roma I96I; J.E. HoFMANN, Aus der Friihzeit der Infinitesimalmethoden: Auseinandersetzung um die algebraische Quadratur algebraischer Kurven in der zweiten Hiilfte des XVII. jahrhunderts, in « Archive for history of exact science », I965. Non molto numerosi e sopractutto molto dispersi sono gli studi su p~oblemi specifici o su singoli autori. Le opere complete di Torricelli sono state edite a Faenza in 3 volumi (4 tomi) nel I9I9 a cura di G. LoRIA e G. VAsSURA; un quarto volume è stato pubblicato nel I944· Il De infinitis spiralibus è stato tradotto in italiano, a cura di E. CARRUCCIO, Pisa I 9 55. Nel I 948 è stata fondata a Faenza la Società torricelliana di scienze e lettere che pubblica saltuariamente un bollettino. Fra gli studi su Torricelli, oltre a quelli di E. BoRTOLOTTI, raccolti nel vol. Studi e ricerche sulla storia della matematica in Italia nei secoli XVI e xvii, cit.: G. LORIA, Evangelista Torrice/li e la prima rettificazione di una curva, in « Rendiconti della Regia accademia dei Lincei », I 897; E. CANESTRINI, Horror vacui: E. Torrice/li e B. Pasca/, in «Atti dell'Accademia scientifica veneto-trentino-istriana », I9o6; M. FILIP, Sur le point de Torrice/li, in « Gazeta mathematica », I907; G. LORIA, Evangelista Torrice/li nella storia della geometria, in « Rendiconti della Regia accademia dei Lincei », I 9 I 9; Io., L'opera geometrica di Evangelista Torrice/li, in «Bollettino di matematica», I922; Io., Evangelista Torrice/li, in Gli scienziati italiani, vol. I, parte rr, Roma I923, pp. 299-3 I I; A. AGOSTINI, Il problema inverso delle tangenti nelle opere di Torrice/li, in « Archeion », I93o-I93 I; E. BoRTOLOTTI, Le Coniche di Apollonia e il problema inverso delle tangenti di Torrice/li, ivi, I93o; Io., L'integrazione indefinita e il teorema di inversione nell'opera di Torrice/li, ivi, I931; Io., Il metodo infinitesimale nell'opera geometrica di Evangelista Torrice/li, in «Atti del I congresso dell'Unione matematica italiana», I937; AA. Vv., Evangelista Torrice/li nel terzo centenario della morte, Firenze I95 I; L. TENCA, Evangelista Torrice/li e Vincenzo Viviani, in « Torricelliana », I 9 53; B. SEGRE, La vita e l'opera di Evangelista Torrice/li, in «Archimede», I95 8; AA. V v., Atti del convegno di studi torricelliani, Faenza I958; S. MoscoviCI, A propos d'une controverse entre Torrice/li et Baliani, in L'aventure de la science, Mélanges Alexandre Koyré, I, Parigi I964. La Geometria indivisibilibus continuorum di B. CAvALIERI è stata di recente tradotta integralmente in italiano a cura di L. LoMBARDO RADICE, Torino I966 (il volume contiene anche una antologia di lettere di Cavalieri a Galilei e la polemica con Guidino). Su Cavalieri: G. ProLA, Elogio di Bonaventura Cavalieri, Milano I 844; A. FAv ARO, Bonaventura Cavalieri nello studio di Bologna, Bologna I885; Io., Amici e corrispondenti di Galileo. xxxi. Bonaventura Cavalieri, in «Atti del Regio istituto veneto di scienze lettere ed arti», I9I 5; H. BosMAS, Un chapitre de l'oeuvre de Cavalieri (/es propositions XVI-XXVII dell'exercitatio IV}, in «Mathesis », I922; Io., Sur une contradiction reprochée à la théorie des indivisibles de Cavalieri, in « Annales de la société scientifique de Bruxelles», I922; F. CoNFORTO, L'opera scientifica di Bonaventura Cavalieri e di Evangelista Torrice/li, in « Atti del Convegno di Pisa », I948; A. KoYRÉ, Bonaventura Cavalieri et la géométrie des continus, in Éventail de l'histoire vivante, hommage a Lucien Febvre, Parigi I95 3; ristampato in A. KoYRÉ, Études d'histoire de la pensée scientifique, Parigi I966. Su Viviani: A. FAVARO, Amici e corrispondenti di Galileo. XXIX. Vincenzo Viviani, in« Atti del Regio istituto veneto di scienze lettere ed arti», I912; G. LORIA, Una curva speciale ideata da Vincenzo Viviani, in «Bollettino di matematica», I929; L. TENCA, Relazioni fra Stefano Angeli e Vincenzo Viviani, in «Atti dell'istituto veneto di lettere, scienze e arti», I954; Io., Relazioni fra Vincenzo Viviani
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Bibliografia
e Miche! Angiolo Ricci, in« Rendiconti dell'Istituto lombardo di scienze e lettere», I954; Io., Le relazioni fra Giovanni Alfonso Borelli e Vincenzo Viviani, in« Rendiconti dell'Istituto lombardo di scienze e lettere», I956. Su Castelli: T. BAZZA, Benedetto Castelli e la scuola di Galileo, Brescia I9o2; A. FA VARO, Amici e corrispondenti di Galileo. xxi. Benedetto Castelli, in« Atti del Regio istituto veneto di scienze lettere ed arti», I9o8; Io., Benedetto Castelli e la scoperta delle fasi di Venere, in « Archeion », I92o; F. ARREDI, Intorno al trattato della misura delle acque correnti di Benedetto Castelli, in « Annali dei lavori pubblici», I933· Delle opere di Fermat si ha una classica edizione: Oeuvres, a cura di P. TANNERY e C. HENRY, 4 voli. e I vol. di supplemento a cura di C. DE WAARD, Parigi I89I-I923. Su Fermat: E. BRASSINNE, Précis des oeuvres mathématiques de Pierre Fermat, Parigi I85 3; G. LIBRI, Fermat, in « Revue des deux mondes », I845; L. TAUPIAC, Pierre Fermat, Montauban I86o; J.M.C. DuHAMEL, Mémoire sur la méthode des maxima et minima de Fermat et sur la méthode des tangentes de Fermat et de Descartes, in « Mémoires de l' Académie des sciences », I864; C. HENRY, Pierre de Carcavy, intermédiaire de Fermat, de Pasca/ et de HI!Jgens, in « Bollettino di bibliografia e di storia delle scienze matematiche e fisiche», I884; G. WERTHEIM, Pierre Fermats Streit mit fohn Wa/lis, ein Beitrag zur Geschichte der Zahlentheorie, in « Abhandlungen zur Geschichte der Mathematik », vol. IX, I 899; G. LoRIA, Sopra una trasformazione ideata da Fermat, in « Bibliotheca mathematica », I905; H. L. DE VRIES, De Geometrie van Descartes en de Isagogé van Fermat, in « Nieuw Tijdschrift voor Wiskunde », I9I6-I9I7; J. H. CHILO, Did Fermat have a solution of the so-ca/led Pellian equation, in « Isis », I92o; J.lTARD, Fermat, précurseur du ca/cui differentiel, in« Archives internationales d'histoire des sciences », I948; A. MACHABEY, La philosophie de Pierre de Fermat, Liegi I949; Io., Pierre Fermat, Basilea I95o; J.E. HOFMANN, (( Vber zahlentheoretische Methoden Fermats und Eulers, ihre Zusammenhiinge und ihre Bedeutung, in « Archive for history of exact sciences », I96I; P. WALDAL, Die Symetrie am Fermat-Satz, Dielsdorf I963; I. BACHMALOVA, Diophante et Fermat, in « Revue d'histoire des sciences », I966; P. STR0MHOLM, Fermat's methods of maxima and minima and of tangents. A reconstruction, in « Archive for history of exact sciences », I968. Numerosissime le memorie sul cosiddetto ultimo teorema di Fermat, quello ricordato nel testo e ancora irrisolto. Su questo argomento si veda: R. NoGuÈs, Le théorème de Fermat; son histoire, Parigi I932; L.E. DICKSON, Fermat's fast theorem and the origin of the theory of a/gebraic numbers, New York I938; H.S. VANDIVER, Fermat's fast theorem: its history and the nature of the known results concerning i t, in « American mathematical monthly », I946. Le opere di Desargues sono state edite da N.G. PouoRA nel r864 a Parigi in due volumi. Gli scritti puramente matematici, e segnatamente il Brouillon project sur /es coniques, sono stati ripubblicati da R. T ATON nel suo studio sull'autore (L'oeuvre mathématique de G. Desargues, Parigi I95 I). Su Desargues, oltre al lavoro di Taton, si veda: G. ProBERT, Appréciation des travaux des savants antérieurs à la création de l'Académie des sciences: Desargues et La Hire, in « Compte rendu de l' Académie des sciences », I 863; G. LORIA, Desargues e la geometria numerativa, in « Bibliotheca mathematica », I 89 5 ; G. HESSENBERG, Beweis des Desarguesschen Satzes aus dem Pascalschen. Begriindung der elliptischen Geometrie, in « Mathematische Annalen », I905; F. AMODEO, Nuova analisi del trattato delle coniche di Gerard Desargues e cenni su ].B. Chauveau, in ~< Rendiconti dell'accademia delle scienze fisiche e matematiche di Napoli», I9o6; W.M. IviNS, A note on Gerard Desargues, in « Scripta mathematica », I943; Io., A note on Desargue's theorem, 557
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Bibliografia
in « Scripta mathematica », 1947. Su Roberval si veda: E. W ALKER, A stuqy oj the Traité des indivisibles of Roberval, New York 19 32; L. AuGER, Gilles Personne de Roberval, Parigi 1962.; K. M0LLER PEOERSEN, Roberval's method of tangents, in « Centaurus », I968. Su La Hire: R. TATON, La première {EUVre géométrique de Philippe de La Hire, in « Revue d'histoire cles sciences », 195 3· Su Varignon: J. O. FLECKENSTEIN, Pierre Varignon und die mathematischen Wissenschaften im Zeitalter des Cartesianismus, in « Archives internationales d'histoire cles sciences », 1948; P. CosTABEL, Varignon, Lamy et le parallélogramme des jorces, in « Archi ves internationales d 'histoire d es sciences », 1966. Su N apier e l'invenzione dei logaritmi si veda: F. CAlORI, Notes on the history oj logarithms, in « Abhandlungen zur Geschichte der Mathematik », I899; E. W. HoBSON, fohn Napier and the invention of logarithms, Londra I9I4; Napier tercentenary volume, a cura di C.G. KNOTT, Londra I9I 5; G.A. GIBSON, Napier and the invention of logarithms, in« Proceedings of the Royal philosophical society of Glasgow», 1914; A. AGOSTINI, L'invenzione dei logaritmi, in «Periodico di matematiche», I92.2.; E. VoELLMY, fost Burgi und die Logarithmen, Basilea I948; C. NAux, Histoire des logarithmes de Naper à Euler. Tomo I: La découverte d~s logarithmes et le ca/cui des premières tables, Parigi I966. Su Wallis e gli altri matematiciinglesi si veda: H. STEVENS, Thomas Harriot: The mathematician, the philosopher and the scholar, developed chiejly from dormant materials, Londra I9oo; G.A. GIBSON, fames Gregory's mathematical work: a siut!J based chief{y on his letters, in « Proceedings of the Edinburgh mathematical society », 192.3; J. BARROW, The geometricallectures, trad. e note di J.M. Child, Chicago-Londra I946; H.W. TuRNBULL, fames Gregory: a stut!J in the early history oj interpolation, in « Proceedings Edinburgh mathematical society », I93ZI933; J.F. ScoTT, The mathematical work oj fohn Wallis, Londra I938; fames Gregor_y. Tercentenary memoria/ volume, containing his correspondence with fohn Collins and his hitherto unpublished mathematical manuscripts, a cura di H. W. TuRNBULL, Londra I939; P.H. OsMONO, lsaac Barrow, Londra 1944; J.E. HoFMANN, Ober Gregorys .rystematische Naherungen fiir den Sektor eines Mittelpunktkegelschnittes, in « Centaurus », I950-195 I; Io., Nikolaus Mercator Kauffmann. Sein Leben und Wirken, vorzugsweise als Mathematiker, Wiesbaden I95o; J.A. LOHNE, Thomas Harriot als Mathematiker, in « Centaurus >>, I965; C.J. SCRIBA, Wallis und Harriot, ivi I965; Io., Studien zur Mathematik des fohn Wallis {I6I6-IJOJ): Winkelteilungen, Kombinationslehre und Zahlentheoretische Probleme ,Wiesbaden 1966; R. KARGON, Thomas Harriot, the Northumberland eire/e and early atomism in England, in (( J ournal of the history od ideas », I 966; J .A. LOHNE, Dokumente zur Revalidierung von Thomas Harriot als Algebraiker, in « Archive for history of exact sciences », I966; C.J. SCRIBA, Studien zur Mathematik des fohn Wallis, in (( Centaurus », I967; Io., A tentative index of the correspondence oj fohn Wallis F.R.S., in « Notes and records of the Royal Society », I 967; R.C.H. T ANNER, Thomas Harriot as mathematician, in « Physis », I 967; J.V. PEPPER, Harriot calculation of the meridional parts as logarithmic tangents, in « Archive for history of exact sciences », I967. Sull'importanza della scoperta dello strumento scientifico e sugli strumenti scientifici in generale si veda: A. RoHoE, Die Geschichte der wissenschaftlichen Instrumente vom Beginn der Renaissance bis zum Ausgang des XVIII. fahrhunderts, Lipsia I 92.3; G. BOFFITO, Gli strumenti della scienza e la scienza degli strumenti, Firenze 192.9; A. KOYRÉ, Du monde de l'à-peu-près à l'univers de la précision, in « Critique », 1948; ristampato in Études d'histoire de la pensée philosophique, Parigi 1961; trad. i t. a cura di P. ZAMBELLI, Torino 1967;
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Bibliografia
M. DAUMAS, Les instruments scientiftques aux xvutme et xvuJème siècles, Parigi I95 3· Sui singoli strumenti: H. SERVUS, Die Geschichte des Fernrohrs bis auf die neueste Zeit, Berlino I886; F.J. BRITTEN, 0/d clocks and o/d watches and their makers, Londra I899; VII ed., I956; P. PANSIER, Histoire des lunettes, Parigi I90I; C. DEL LuNGO, Del pendolo e della sua applicazione, in «Archivio di storia della scienza», I92I; R. T. GouLD, The marine chronometer: its history and development, Londra I 92 3; A. WINS, L' horlogerie à travers /es ages, Parigi I924; A.N. DISNEY, C.F. HILL-W.E. WATSON BAKER, Origin and development oJ the microscope, Londra I928; G.H. BAILLIE, Watches, their history, decoration and mechanism, Londra I929; J.D. ROBERTSON, The evolution oJ clockwork, Londra I93 I; R.S. CLAY-T.H. CouRT, The history ofthe microscope, Londra I932; A. DANJON-A. CouDER, Lunet t es et telescopes, Parigi I 9 3 5 ; F. S. T AYLOR, The origin of the thermometer, in « Annals of science », I942; V. RoNCHI, Galileo e il cannocchiale, Udine I942; ristampa, Il cannocchiale di Galileo e la scienza del Seicento, Torino I95 8; L. DEFOSSEZ, Les savants du xvuème siècle et la mesure du temps, Losanna I946; E. RosEN, The naming of the telescope, New York I947; F.S. TAYLOR, The invention of hygroscope, in « Annals of science », I949· T.P. Cuss CAMERER, The story of watches, Londra-New York I952; E. FRrsoN, L'évolution de la partie optique du microscope, Leida I954; H.C. KING, The history of the telescope, Londra I95 5; M. RooSEBOOM, Microscopium, Leida I 9 56; E. ZINNER, Deutsche und niederliindische astronomische Instrumente des II. bis xvur. Jahrhunderts, Monaco I 9 56; H. ALAN LLOYD, Some outstanding clocks over 700 years: 1 2JO-I9JO, Londra I957; W.E. KNOWLES MIDDLETON, The history of the barometer, Londra I964; V. RoNCHI, Storia del cannocchiale, Città del Vaticano I964; A. C. CROMBIE, The mechanistic hypothesis and the scientific stuqy of vision: some optical ideas as a background to the invention of the microscope, in « Proceedings of the Royal microscopica! Society », I967. Sull'esperienza barometrica si veda: M. GLiozzr, Origini e sviluppi dell'esperienza torricelliana, Torino I93 I; C. DE WAARD, L'expérience barométrique, ses antécédents et ses explications, Thouars I 9 36; W.E. KNOWLES MmoLETON, The piace of Torrice/li in the history of the barometer, in « Isis », I963. Per quanto riguarda la discussione sui fenomeni magnetici e la scoperta dei primi fenomeni elettrici si vedano i seguenti lavori generali: E. HOPPE, Geschichte der Elektrizitat, Lipsia I884; E. SARTIAUX-M. ALIAMET, Principales découvertes et pubblications concernant l'électricité, Parigi I903; P.F. MoTTELEY, Bibliographical history of electricity and magnetism, Londra I92.2; D.M. TuRNER, Makers of science: electricity and magnetism, Oxford I927; J. DAUJAT, Origine et formation des théories de l'électricité et du magnétisme, Parigi 1947; M. GLiozzr, L'elettroloJ!.iaftno al Volta, 2. voli., Napoli I947; E. WHITTAKER, A history of the theories of aether and electricity, 2 voli., Londra I9Io; II ed., Londra I95 I-I953; ristampa, New York I96o. L'opera di von Guericke è stata edita nel I962 a Aalen da H. RosENFELD e O. ZELLER. Su Guericke: F. W. HoFFMANN, Otto von Guericke, Magdeburgo r874; E. HoPPE, Otto von Guericke, Berlino I927; H. ScHIMANK, Otto von Guericke, Magdeburgo I936; N.H. DE V. HEATHCOTE, Guericke's sulphur globe, in « Annals of science », I95o; I.B. CoHEN, Guericke and Duft!J, in « Annals of science », I95 I; J. SMALTA, Otto Guericke et son role dans l'histoire de l'électricité, in (( Sbornik pro Dejiny prirodnich V ed a Techniky », I966. Sullo sviluppo della meccanica nel xvn secolo, si vedano, oltre agli studi già citati, i lavori seguenti: J.O. FLECKENSTEIN, Cartesische Erkenntnistheorie und mathematische Physik des XVII.jahrhunderts, in« Gesncrus », I95o; E.J. DIJKSTERHVIS, De Mechanisering
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Bibliografia der Optik, Lipsia I926; C.E. PAPANASTASSIOU, Les théories sur la nature de la lumière de Descartes à nos jours, Parigi I 9 3 5 ; I. B. CoHEN, Roemer and the ftrst determination of the velocity of light, in « Isis », I943; K.J. HALBERTSMA, A history of the theory of colours, Amsterdam I949; V. RoNCHI, P. Francesco Maria Grimaldi nel terzo centenario della morte, in «Luce e immagini», I963; J. MAREK, Les notions de la théorie ondulatoire de la lumière chez Grimaldi et H"!))gens, in « Acta historiae rerum naturalium nec non technicarum », Praga I965; A.I. SABRA, Theories oJ light from Descartes to Newton, Londra I967. Per quanto riguarda la chimica, oltre alle opere già citate, si veda: H. METZGER, Les doctrines chimiques en France du début du XVIJème siècle à la fin du xviuème siècle, Parigi I923; M. BoAs, Acid and Alkali in seventeenth century chemistry, in « Archives internationales d 'histoire des sciences », I 9 56; J. READ, Through alchemy to chemistry, Londra I 9 57; ristampa, New York I 96 3; M. P. CROSLAND, Historical studies in the language of chemistry, Londra I962; A.G. DEBUS, Fire analysis and the elements in the sixteenth and the seventeenth century, in « Annals of science », I967. L'edizione dell' Alchemia di Libavio è stata riprodotta di recente con traduzione tedesca e commento (Weinheim I964). Su van Helmont si veda: H. MASON, Essai sur la vie et !es ouvrages de van Helmont, Bruxelles I857; J.A. MANDON, ]. B. van Helmont, sa biographie, histoire critique de ses rEuvres, Bruxelles I966; F. STRUNZ,j. B. van Helmont, Lipsia-Vienna I9o7; W. PAGEL,jo. Bapt. van Helmont, Einfiihurbg indie philosophische Medizin des Barock, Berlino I93o; P. NÈvE DE MÉVERGNIEs,Jean Baptiste van Helmont, philosophe par le feu, Liegi I 93 5 ; J .R. P ARTINGTON, Joan Baptista van Helmont, in« Annals of science », I936; T.S. PATTERSON, V an Helmont's ice and water experiments, ivi I936; H. DE WAELE, ]. B. van Helmont, Bruxelles s. d.; W. PAGEL, ]. B. van Helmont, De tempore, and biologica/ time, in « Osiris », I948; H. WEiss,Notes on thegreek ideas referred to in vanHelmont's De tempore,ivi I948; R. MuLTHAUF, ]. B. van Helmont's reformation oJ the galenic doctrine oJ digestion, in « Bulletin of the history of medicine», I95 5; W. PAGEL, ]. B. van Helmont's reformation of the galenic doctrine oJ digestion and Paracelsus, e Van Helmont's ideas on gastric digestion and the gastric acid, ivi I955-I956. L'edizione delle opere di Boyle cui solitamente si fa riferimento è la seguente: Works, 5 voli., Londra I744, a cura di T. BIRCH, autore anche di una biografia dell'autore premessa all'edizione delle opere. Importante è la bibliografia di J.F. FuLTON, A bibliography of the honourable Robert Boy/e, Oxford I932; II ed., I961. Della più importante opera di Boyle, Il chimico scettico, si ha una traduzione italiana (Torino I962). Su Boyle si veda: F. MAssoN, Robert Boy/e. A biograp}ry, Londra 19I4; L.T. MORE, The !ife and works of the honourable Robert Bf!J•Ie, New York I944; R.E.W. MADDISON, Studies in the /ife of Robert Boy/e, F. R. S., in «Notes and records of the Royal Society of London », I95 I; T. S. KuHN, Robert Boy/e and structural chemistry in the seventeenth century, in « Isis », I 9 52; M. BoAs, Robert Boy/e and seventeenth century chemistry, Cambridge I958; G.A.J. RoGERS, Boy/e, Locke and reason, in « Journal of the history of ideas », 196I; R.A. GREENE, Henry More and Robert Boy/e on the spiri! of nature, ivi 1962; R. KARGON, W alter Charleton, Robert Boy/e and the acceptance oj epicurean atomism in England, in « Isis », 1964; C. WEBSTER, The discovery of Boyle's law and the concept of the e/asticity of air in the seventeenth century, in « Archive for history of exact science », 1965; M. BoAs HALL, Robert Boy/e on natura/ philosophy. An essqy with selections jrom his writings, Bloomington I965; J.J. O'BRIEN, Samuel Hartlib's injluence on Robert
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Bibliografia Bf!Yie's scientific development: partI, The Stalbrù(ge period; part II, Bf!Yie in Oxford, in «Annals of science », I965; C. WEBSTER, Water as the ultimate principle of nature: the background to Bf!Yie's sceptical chymist, in « Ambix », I 96 5. Di Hooke è stata di recente ristampata in edizione economica la Micrographia (New York I 96 I); si veda anche: H. W. ROBINSON-W. AoAMS, The diary of Robert Hooke, I672-168o, Londra I935; e inoltre la bibliografia di G. KEYNES, A bibliography of dr. Robert Hooke, Oxford I96o. Tra gli studi, oltre a quelli già citati, si vedano i seguenti: R. T. GuNTHER, Early science in Oxford, t. VI e t. VII, The /ife and work of Robert Hooke, Londra I93o; LYSAGHT L. DIEHL PATTERSON, R. Hooke and the conservation of energy, in« Isis », I948; Io., Hooke's gravitation theory and its injluence on Newton, ivi I949-I950 (cfr. la discussione con A. KoYRÉ nella stessa annata di « Isis »); E. N. DA C. ANORAOE, Robert Hooke, in « Proceedings of the Royal Society », I95o; M. EsPINASSE, Robert Hooke, Londra I956; J. LOHNE, Hooke versus Newton, in « Centaurus », I96o; R.S. WESTFALL, Hooke and the law of universal gravitation, in« The british journal for the history of science », I967. Su Mayow si veda: T.S. PATTERSON, f. Mt!Jow' s contribution to the history of respiration and combustion; e fohn Mt!JOW in contemporary setting, in « Isis >>, I93 I; J.F. FuLTON, A bibliography of two Oxford physiologists: Richard Lower and fohn Mt!JoW, Oxford I93 5; J.R. PARTINGTON, Life and works of fohn Mt!JOW, in « Isis », I956; Io., Some early appraisal of the work of fohn Mt!Jow, in« Isis », I959; W. BoHM,fohn Mayow and his contemporaries, in« Ambix », I963; Io., fohn Mt!JOW und die Geschichte des Verbrennungsexperimente, in « Centaurus », I967. Dei saggi di J. Rey si hanno varie edizioni moderne: la più recente è quella edita da D. McKie a Londra nel I95 I. Su Sylvius si veda: E.D. BAUMANN, François de la Boe Sylvius, Leida I949· Su Lower: K.D. FRANKLIN, The work of Richard Lower, in« Proceedings of the Royal Society of medicine», I93 I. Su Willis si veda: H. IsLER, Thomas Willis, Stoccarda I 96 5. In generale sulle ricerche di biologia del periodo si veda: F.W. OLIVIER, Makers of british botatry, Cambridge I9I3; F.F. CoLE, Early theories of sexual generation, Oxford I93o; E. GuYÉNOT, Les sciences de la vieaux xvutme et XVIIIème siècles, Parigi I94I; II ed., I956; C.E. RAVEN, English naturalists from Neckam to Rt!J, Cambridge I947; G. CANGUILHEM, La Jormation du concept de réjlexe aux xvutme et XVIIItme siècles, Parigi I 9 55. Il Prodromus di Stenone è stato tradotto in inglese da J.G. GARRET (New York I9I6); su Stenone: J. METZLER, Niels Stensen, Copenaghen I928; E. BuKMANN, Nikolaus Steno und seine Stellung in der Geschichte der Geologie, in « Zeitschrift der deutschen geologischen Gesellschaft », I939; G. ScHERZ, Niels Stensen. Forscher und Denker im Barok, Stoccarda I964. Su Ray: C.E. RAVEN, fohn Rt!J, naturalist: his /ife and works, Cambridge I942. Su Boèce de Boodt: J.E. HILLER, Boèce de Boodt, précurseur de la minéralogie moderne, in « Annales Guétard-Séverine », I 9 3 5. Sulla lunga e controversa questione della scoperta della circolazione del sangue si veda: P. FLOURENS, Histoire de la découverte de la circulation du sang, Parigi I 8 54; II ed. I 8 57; J.C. DALTON, Doctrines of the circulation. A history of physiological opinion and discovery, in regard to the circulation of the blood, Filadelfia I884; P. CAPPARONI, La storia della scoperta della circolazione del sangue, Siena I932; si veda inoltre il volume edito da A.P. FISHMAN e DICKINSON W. RICHAROS, Circulation of the blood, men and ideas, Oxford I964. Dell'opera principale di Harvey, il De motu cordis, si hanno diverse traduzioni in inglese e nelle principali lingue; in italiano è stata tradotta da F. ALESSIO insieme con il De
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Bibliografia
getJeratione animalium e con le due exercitationes (W. HARVEY, Opere, Torino 1963). L'edizione delle opere di Harvey, cui solitamente si fa riferimento è quella edita a Londra nel 1766 (Opera omnia); classica è inoltre l'edizione inglese di R. WrLLIS (W. HARVEY, Works, Londra 1 84 7). Sono state pubblicate poi le Praelectiones anatomiae universalis, a cura del Royal College of physicians, Londra 1886, e il De motu locali animalium, a cura di G. WHITTERIDGE, Cambridge 1959. Per quanto concerne la bibliografia si veda: G. KEYNES, A bibliography of the writings of William Harvey, Cambridge 1928; n ed., 195 3· La più importante biografia di Harvey è ancora quella di R. WrLLIS, premessa all'edizione delle opere. Presso il Royal College of physicians di Londra viene tenuta ogni anno una relazione (Harveian oration) in cui si hanno spesso contributi originali alla conoscenza dell'opera del medico inglese. Tra gli studi, oltre alle citate orations, si veda: J .F. PAYNE, Harvey and Galen, Oxford 1896; PowER n'ARCY, William Harvey, Londra 1897; J.G. CuRTIS, Harvey's views on the use of the circulation of the blood, New York 1915; H. RoLLESTON, Harvey's predecessors and contemporaries, in « Annales of medicai history », 1928; W. HERRINGHAM, Circumstances in the /ife and times of William Harvey, Oxford 1929; A. MALLOCH, William Harv~y, New York 1929; W. HERRINGHAM, The /ife and times of Dr. Witliam Harvey, in « Annals of medicai history », 1932; A. W. MEYER, An ana!Jsis of the De generatione animalium of William Harvey, Stanford-Londra 1936; H.P. BAYON, William Harvey, physician and biologist: his precursors, opponents and successors, in « Annals of science », 1938-1939; G. KEYNES, The personality of William Harvey, Londra 1949; W. PAGEL, Harvey's role in the history of medicine, in« Bulletin of the history of medicine», 195o; In., William Harvey and the purpose of circulation, in« Isis », 195 r; F.G. KrLGOUR, William Harv~y' s use of the quantitative method, in « Yale journal of biology and medicine », 1954; In., Harvey's use of Galen's jindings in his discovery of the circulation of the blood, in « Journal of the history of medicine», 1957; L. CHAuvors, William Harvey, Parigi 1957; R.A. HuNTER- I. MACALPINE, William Harvey and Robert Boy/e, in« Notes and records of Royal Society of London », 1958; K.J. FRANKLIN, William Harvey, englishman, IJJ8I6JJ, Londra 1961; F.R. }EVONS, Harvey's quantitative method, in « Bulletin of the history of medicine», 1962; KENNETH D. KEELE, William Harvey: the man, the physician and the scientist, Londra-Edimburgo 1965; C. WEBSTER, William Harv~y's conception of the heart as a pump, in« Bulletin of the history of medicine», 1965; W. PAGEL, William Harvey's biologica/ ideas, Basilea-New York 1967. Su Borelli si veda: M. DEL GArzo, Studi di G.A. Bore/li sulla pressione atmosferica, con note illustrative intorno alla vita e alle opere di lui, Napoli r886; In., Contributo allo studio della vita e delle opere di G.A. Bore/li, in« Atti dell'accademia pontaniana », r89o; In., L'opera scientifica di G.A. Bore/li e la scuola di Roma nel secolo XVII, in «Memorie dell'accademia dei nuovi lincei », 1909; In., Il De motu animalium di G. A. Bore/li studiato in rapporto al De motu cordis et sanguinis di G. Harvey, in «Atti dell'accademia medico-chirurgica di Napoli», 1914; G. GrovANNOZZI, La versione borelliana dei conici di Apollonia, Firenze 1916; G. BARBENSI, Bore/li, Trieste 1947; A. KOYRÉ, La mécanique céleste de Bore/li, in « Revue d'histoire des sciences », 195 2; T. DERENZINI, G. A. Bore/li fisico, nel citato volume commemorativo dell'accademia del Cimento. Le opere di Malpighi si possono consultare nelle seguenti edizioni: Opera omnia, Londra r686-r687, Leida r687; Opera posthuma, Londra r697, Amsterdam r698 e 1700. Degli scritti di Malpighi si hanno diverse traduzioni in varie lingue; le opere più importanti sono state edite in italiano a cura di L. BELLONI (MARCELLO MALPIGHI, Opere
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Bibliografia
scelte, Torino I967). Su Malpighi: G. ATTI, Notizie edite ed inedite della vita e delle opere di Marcello Malpighi e di Lorenzo Bellini, Bologna I847; AA.Vv., Marcello Malpighi e l'opera sua, Milano s.d., ma I897 (contiene anche la Bibliografia delle opere a stampa di Marcello Malpighi e degli scritti che lo riguardano di C. FRATI); M. CARDINI, La vita e l'opera di Marcello Malpighi, Roma I927; AA. Vv., Celebrazioni malpighiane. Discorsi e scritti, Bologna I 966; M. ANZALONE, Marcello Malpighi e i suoi scritti sugli organi del respiro, Bologna I966; H.B. AnELMANN, Marcello Malpighi and the evolution of embriology, 5 voli., lthaca I966. Le opere di Francesco Redi sono state pubblicate a Milano (9 voli., I8o9-I8II); i Consulti medici sono stati editi a Torino nel I958. Su Redi: M. CARDINI, Francesco Redi, Firenze I914; V. VrviANI, Vita e opere di F. Redi, Arezzo I924; L. BELLONr, Francesco Redi biologo, nel citato volume commemorativo dell'accademia del Cimento. Le lettere di Leeuwenhoek sono in corso di stampa (The collected letters of A. van Leeuwenhoek, Amsterdam I939 sgg.). Su Leeuwenhoek: H. HALBERTSMA, Disserta/io historicomedica inauguralis de Antonii Leeuwenhoekii meritis in quasdam partes anatomiae microscopicae, Daventer I 872; E. BLANCHARD, Les premiers observateurs au microscope. Les travaux de Leeuwenhoek, in « Revue d es deux mondes », I 868 ; P. J. HAAXMAN, Antony van Leeuwenhoek. De Ontdekker der l~fusorien, Leida I875; L.G.N. BouRrcrus, Antotry van Leeuwenhoek de Delftsche natuuronderzoeker, in« De Fabrieksbode », I925; C. DoBELL, Anto~ry van Leeuwenhoek and his little animals, Londra I932; ristampa, New York I96o (molto importante). Sulle trasformazioni che si ebbero nella società inglese nel xvn secolo e sulla questionei dei rapporti tra il protestantesimo e la nuova scienza si veda: M. J AMES, S ocial problems and poliry during the puritan revolution, 164o-I66o, Londra I93o; oltre agli scritti già citati, J.B. CoNANT, The advancement of learning during the puritan Commonwealth, in «Proceedings of the Massachusetts historical society », I936-I94I; R. P. STEARNS, The scientiftc spirit in England in ear!J modern times, in « lsis », I943; G. RosEN, Left-wing puritanism and science, in « Bulletin of the history of medicine», I944; W. HuosoN, Puritanism and the spirit oJ capitalism, in « Church History », I949; P.H. KocHER, Science and religion in Elizabethan England, San Marino I95 3; R. S. WESTFALL, Science and religion in seventeenth century England, New Haven I958; C. HrLL, Saggi sulla rivoluzione inglese delr640, trad. it., I957; H. CuRTIS, Oxford and Cambridge in transition, IJJB-1642, Oxford I959; T.K. RAAB, Puritanism and the rise of experimental science in England, in « Cahiers d 'histoire mondiale», I962; A. R. HALL, Merton revisited or science and society in the seventeenth century, in « History of science », I963 (discussione del citato articolo di Merton); C. HrLL, Intellectual origins of the english revolution, Londra I965; H.F. KEARNY, Puritanism capitalism, and the scientiftc revolution, in « Past and Present », I964; In., Puritanism and science: problems of deftnition, in « Past and Present », I965; T.K. RAAB, Religion and the rise of modern science, ivi I965. Sulla scuola platonica di Cambridge si veda: The Cambridge Platonists, antologia di scritti di vari autori editi a cura di C.A. PATRIDES, Londra I969; J. TuLLOCH, Rational theology and christian philosophy in England in the 18th century, vol. n, The Cambridge Platonists, Edimburgo-Londra I874; F.J. PowrcKE, The Cambridge Platonists, Londra 1926; G.P.H. PAwsoN, The Cambridge Platonists and their piace in religious thought, Londra 1930; J.H. MurRHEAD, The p/atonie tradition in Anglo-Saxon philosop~y, Londra 193 r; E. CASSIRER, Die platonische Renaissance in England und die Schule von Cambridge, Lipsia 1932; trad. i t., Firenze 1947; P.R. ANDERSON, Science in defense of liberai re/i-
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Bibliografia gion. A study of Henry More' s attempt to link seventeenth century religion with science, New York 1933; J. LAIRD, L'influence de Descartes sur la philosophie anglaise du xvutme sièc/e, iQ « Revue philosophique », 1937; J.E. SAVESON, Descartes' influence on fohn Smith, Cambridge Platonist, in « Journal of the history of ideas », 195 9; In., Differing reactions to Descartes among the Cambridf!,e Platonists, ivi 196o; D.B. SAILOR, Cudworth and Descartes, ivi I962; R.L. CouE, Light and enlightenment, a study of the Cambridge Platonists and the dutch Arminians, Cambridge I957; A. LICHTENSTEIN, Henry More. The rational theology of a Cambridge Platonist, Cambridge (Mass.) I962; S. HuTIN, Henry More, Hildesheim 1966. Su Herbert di Cherbury si veda: M.M. Rossi, La vita, le opere, i tempi di Edoardo Herbert di Cherbury, 3 voli., Firenze 1947. Su Glanvil: F. GREENSLET, foseph G/anvi/: A study in english thought and letters in the seventeenth century, New York 19oo; R.H. PoPKIN, foseph G/anvil: precursor of Hume, in « J ournal of the history of ideas », 19 53; J .I. COPE,foseph Glanvil: Anglican apologist, St Louis 1956. Sugli sviluppi dell'atomismo in Inghilterra, si veda: R.H. KARGON, Atomism in England from Harriot lo Newton, Oxford 1966. Non esiste un'edizione moderna delle opere complete di Locke. Si hanno diverse edizioni settecentesche: JoHN LOCKE, Works, 3 voli., Londra I714; VIII ed. in 4 voli., 1777; x ed. in Io voli., I8o1. Per quanto riguarda la corrispondenza, si veda: H. 0LLION, Notes sur la correspondance de fohn Locke, Parigi 1908; B. RAND, The correspondence of fohn Locke and Edward Clarke, Oxford 1927. In italiano è tradotto: il Saggio sull'intelletto umano, a cura di C. PELIZZI, 2 voli., Bari 19 5I (in appendice, il primo abbozzo del Saggio; il secondo abbozzo è stato tradotto da A. CARLINI, Bari 1948); i due Trattati sul governo, a cura di L. PAREYSON, Torino 1948; la Lettera sulla tolleranza, Firenze 1963 (con interessante introduzione di A. Sabetti); il Saggio per l'intendimento delle Epistole di S. Paolo, a cura di F.A. FERRARI, Lanciano 1919; Della guida dell'intelligenza nella ricerca della verità, a cura di E. CIPRIANI, Lanciano 1926; diverse edizioni, inoltre, dei Pensieri sull'educazione; si vedano anche gli Scritti editi e inediti sulla tolleranza, editi a cura di C.A. VIANO, Torino 1961. Un'ampia bibliografia è stata curata da H.O. CHRISTOPHERSEN, A bibliographical introduction lo the stut{y offohn Locke, « Skrifter utgitt av det Norske Videnskaps-Akademi », Osio 1930. Le più importanti biografie di Locke sono le seguenti: P. KING, The /ife of fohn Locke, 2 voli., n ed., Londra 183o; nuova ed., 1858; H.R.F. BouRNE, The /ife of fohn Locke, 2 voli., Londra 1876; H. O. CHRISTOPHERSEN, fohn Locke. En filosofis forberedelse oggrunnleggelse (I6)2-I689), Osio 1931; M. CRANSTON,fohn Locke. A biograp~, Londra 1957. I più importanti studi generali sull'opera di Locke sono i seguenti: V. CousiN, Laphi/osophie de Locke, Parigi 1819; VI ed., 1873; T. FowLER, Locke, Londra 188o; A.C. FRASER, Locke, Edimburgo 189o; H. 0LLION, La philosophie générale de fohn Locke, Parigi 1908; A. CARLINI, La filosofia di G. Locke, n ed., Firenze 1928; N.K. SMITH, fohn Locke, I6J2-I704, Manchester 1933; R.I. AARON, fohn Locke, Oxford 1937; n ed., 195 5; ristampa, 1965; D.J. O'CoNNOR,john Locke, Londra 195 2; C.A. VIANo,john Locke: dal razionalismo all'illuminismo, Torino 196o; A. LEROY, Locke, sa vie, son rzuvre avec un exposé de sa philosophie, Parigi 1964. Su aspetti particolari del pensiero del filosofo inglese si veda: G. GEIL, Ober die Abhangigkeit Lockes von Descartes. Bine philosophiegeschichtliche Studie, Strasburgo 1887; E. MARTINAK, Zur Logik Lockes. fohn Lockes Lehre von den Vorstellungen, aus dem Essqy concerning human understanding zusammengestellt und untersucht, Graz 1887; M.M. CuRTIS, An outline of Locke's ethical philosop~, Lipsia
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Bibliografia
1890; C. BAEUMKER, Lockes primare und secundiire Qualitaten, in « Philosophisches Jahrbuch », 1898; W. FREYTAG, Die Substanzen-Lehre Lockes, Bonn 1898; F. PoLLOCK, Locke's theory of the state, in « Proceedings of the british Academy », 1903-1904 (ristampato in Essqys on law, Londra 1922); C. BASTIDE, fohn Locke, ses théories politiques et leur influence en Angleterre. Les libertés politiques. L'église et l'état. La tolérance, Parigi 19o6; W. ScHRODER, fohn Locke und die. mechanische Naturauffassung. Bine kritisch-philosophische Untersuchung, Erlangen 19I 5; E. KRAKOWSKI, Les sources médiévales de la philosophie de Locke, Parigi I915; F. GIBSON, Locke's theor_y of knowledge and his historical relations, Cambridge I9I7; n ed. 193I; S.G. HEFELBOWER, The relation of fohn Locke to english deism, Chicago 1918; S.P. LAMPRECHT, The mora/ and politica/ philosophy of fohn Locke, New York I9I8; J.W. AnAMSON, The educational writings of fohn Locke, Cambridge I922; R. REININGER, Locke, Berkeley, Hume, Monaco I922; R. JACKSON, Locke's distinction between primar_y and secondary qualities, in « Mind », I929; C.R. MoRRIS, Locke, Berkeley, Hume, Oxford I93 I; R.I. AARON, Locke's theory of universals, in « Proceedings of the aristotelian society », 1932-1933; J.L. STOCKS, Locke's contribution to politica/ theory, Oxford 1933; A. HoFSTADTER, Lockeandscepticism, New York I935; K. MAc LEAN,fohn Locke and english literature of the r8th century, New Haven 1936; J.G. CLAPP, Locke's conception of the mind, New York 1937; D.G. }AMES, The l~fe of reason. Hobbes, Locke, Bolingbrooke, Londra I949; C. S. WARE, The influence of Descartes on fohn Locke, in« Revue international de philosophie », 1950; J.W. GouGH, fohn Locke politica/ philosophy. Eight studies, Oxford I95o; J.W. YoLTON, Locke's unpublished margina/ replies to fohn Sergeant, in « Journal of the history of ideas », 1951; R.M. YosT jr., Locke's rejection of hypotheses about sub-microscopic events, in « J ournal of the history of ideas », I 9 5I ; C.B. MACPHERSON, Locke on capitalistic appropriation, in «Western political Quarterly », I951; A. KLEMMT, fohn Locke: theoretische Philosophie, Vienna I952; N. ABBAGNANO, G. Locke e l'empirismo, Torino I952; F.A. BROWN, On education: fohn Locke, Christian Wolff and « the mora!» weeklies, Berkeley-Los Angeles 195 2 ;G. BoNNO, Lesrelations intellectuelles de Locke avec la France, Berkeley 195 5; J.W. YoLTON, Locke and the seventeenth century logic of ideas, 195 5; P. LASLETT, The english revolution and Locke's two treatises of government, in «Cambridge historical journal », I956; J.W. YOLTON, Locke and the wqy of ideas, Oxford 1956; In., Locke on the law of nature, in « Philosophical Review », 1958; W. VON LEYDEN, fohn Locke and naturallaw, in « Philosophy », I956; R.H. Cox, Locke on war and peace, Oxford I96o; R. PoLIN, La politique de f. Locke, Parigi 196o; D.A. GrvNER, Scientiftc preconceptions in Locke's philosophy of language, in « Journal of the history of ideas », 1962; M. SELIGER, Locke's naturallaw and the foundations of politics, ivi I963; K. DEWHURST, fohn Locke ( r6p-qo4): physician and philosopher, Londra I963; L. LAUDAN, The nature and sources of Locke's views on hypotheses, in« Journal of the history of ideas », I967; M.D. WILSON, Leibniz and Locke on ftrst truths, ivi I967; J. DuNN, The politica/ thought oJ fohn Locke, Cambridge I969; AA. Vv.,fohn Locke: problems and perspective, a cura di J.W. YoLTON, Cambridge 1969. L'edizione complessiva delle opere di Leibniz cui solitamente si fa riferimento è quella curata da c.r. GERHARDT, in due serie distinte: Mathematische Schriften, 7 voll., Londra-Berlino-Halle 18 5o-I 86 3 ; Philosophischen S chriften, 7 voll., Berlino I 875-1890; ristampa, 1965. Cfr. inoltre: A. FoucHER DE CAREIL, Nouvelles lettres et opuscules inédits de Leibniz, Parigi I857; L. CouTURAT, Opuscules et fragments inédits de Leibniz, Parigi I903;
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Bibliografia
ristampa, I96I; I. ]AGODINSKY, Leibnitiana Blen~enta philosophiae arcanae de summa rerum, Kazan I9I3; Sammtliche Schriften und Briefe, herausgegeben von der preussichen Akademie der Wissenschaften, 6 serie, 5 voli. pubblicati, Darmstadt I923-I93 I; E. BoDEMANN, Die Hanschriften der koniglichen offentlichen Bibliothek zu Hannover, Hannover I 89 5 ; ristampa, I 96 5 (catalogo dei manoscritti leibniziani di Hannover). Sono tradotti in italiano i Nuovi saggi sull'intelletto umano, a cura di E. CECCHI, Bari I925-I926, e diverse antologie (Opere varie, a cura di G. DE RuGGIERO, Bari I9I2; Scritti politici e di diritto naturale, a cura di V. MATHIEU, Torino I95 I; Saggi filosofici e lettere, a cura di V. MATHIEU, Bari I963; Opere filosofiche, 2 voli., a cura di D.O. BIANCA, Torino I967); e inoltre La disputa Leibniz-Newton sull'analisi, Torino I95 8. Per quanto concerne la bibliografia di Leibniz e su Leibniz si veda: E. RAVIER, Bibliographie des a:uvres de Leibniz, Parigi I937; K. MOLLER, Leibniz-Bibliographie, Verzeichnis der Literatur iiber Leibniz, Francoforte sul Meno I967. Tra le biografie di Leibniz, si veda: J.F. LAMPRECHT, Leben des Freyhern Gottfried Wilhelm von Leibnitz, Berlino I74o; trad. it., Roma I 787; G.E. GuHRAUER, Gottfried Wilhelm Freiherr von Leibnitz. Bine Biographie, 2 voli., Breslavia I842; II ed., I846; ristampa, I865; J.T. MERZ, Leibniz, Edimburgo-Londra I 884, ristampa, I 948; E. HocHSTETTER, Zu Leibniz' Gediichtnis. Bine Binleitung, Berlino I948; K. HuBER, Leibniz, Monaco I95 I; K. MOLLER e G. KRONERT, Leben und Werk von G. F. Leibniz. Bine Chronik, Francoforte sul Meno I969. I più importanti studi generali sul pensiero di Leibniz sono i seguenti: K. FISCHER, G. W. Leibniz und seine Schule, Mannheim I85 5; J.F. NouRISSON, La philosophie de Leibniz, Parigi I86o; B. RussEL, A critica/ exposition ofthe philosophy of Leibniz, Cambridge' I9oo; II ed., I937; ristampa, I964; E. CASSIRER, Leibniz' System in seinen wissenschaftlichen Grundlagen, Marburgo I 902; W. WuNDT, Leibniz, Lipsia I9I7; H. PICHLER, Leibniz, Graz I9I9; H. ScHMALENBACH, Leibniz, Monaco I 92 I; R. HONIGSWALD, G. w. Leibniz. Bin Beitrag zur Frage seiner problemgeschichtlichen Stellung, Tubinga I92.8; H.W. CARR, Leibniz, Londra I92.9; F. 0LGIATI, Il significato storico di Leibniz, Milano I929; G. GALLI, La filosofia di Leibniz, Torino I942; F. BRUNNER, Études sur la signification historique de la philosophie de Leibniz, Parigi I95o; H.W.B. JosEPH, Lectures on the philosop4J of Leibniz, Oxford I949; A. CoRSANO, G.W. Leibniz, Napoli I952.; Y. BELAVAL, Leibniz. Initiationàsaphilosophie, Parigi I 962; A. ROBINET, Leibniz et la racine de l' existence, Parigi I 962. Sulla logica e sulla teoria della conoscenza si veda: F. Kv:ET, Leibnizische Logik. Nach den Quellen dargestellt, Praga I857; L. CouTURAT, La logique de Leibniz d'après des documents inédits, Parigi I90I (fondamentale); G. VAILATI, Sul carattere del contributo apportato dal Leibniz allo sviluppo della logica formale, in «Rivista di filosofia» I9o5, (ristampato negli Scritti, Firenze-Lipsia I9I I); P .E. B. J OURDAIN, The development of theories of mathematicallogic and the principles of mathematics, in « The quarterly journal of pure and applied mathematics », I9IO; Io., The logica/ work of Leibniz, in« The Monist », I9I6; B. JANSEN, Leibniz erkenntnistheoretischer Realist. Grundlinien seiner Brkenntnislehre, Berlino I92o; A. HANNEQUIN, La théorie de la connaissance chez Leibniz, in « Revue philosophique », I92.5; K. DORR, Neue Beleuchtung einer Theorie von Leibniz. Grundziige des Logikkalkiils, Darmstadt I93o; G. GALLI, La logica di Leibniz, in «Archivio di filosofia», I942.; C. HARTSHORNE, Leibniz's greatest discovery, in « Journal ofthe history ofideas », I946; F.S.C. NoRTHROP, Leibniz's theory of space, ivi I946; K. DORR,, Die mathematische Logik von Leibniz, in «Studia philosophica », I947; R. ZocHER, Leibniz' Brkenntnislehre, Berlino I 9 52.; N. RESCHER, Leibniz's interpretation
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Bibliografia
l'identité des méthodes de la métaphysique et des mathématiques chez Descartes et Leibniz et sur la conception classique des principes de causalité et de correspondance, in « Archiv fiir Geschichte der Philosophie », I96I; P. CosTABEL, Leibniz et la t!Jnamique. Les textes de 1692, Parigi I96o; P. WIEDEBURG, Der }unge Leibniz. Das Reich und Europa, parte I: Mainz, 2 voll., Wiesbaden I962; W. }ANKE, Leibniz. Die Emendation der Metaphysik, Francoforte sul Meno I963; A. T. TYMIENIECKA, Leibniz's cosmologica/ ~nthesis, Assen I964; G.H.R. PARKINSON, Logic and reality in Leibniz's metap~ysics, Oxford I965; R.J. MULVANEY, The ear(y development of Leibniz's concept ofjustice, in« Journal of the history of ideas », I968. Sulla matematica di Leibniz si veda: H. SLOMAN, Leibnitzens Anspruch auf die Erftndung der Differentialrechnung, Lipsia I 8 57; trad. ingl., Cambridge I 86o; F. CAJORI, Leibniz, the master-builder of mathematical notations, in « Isis », I 92 5 ; D. MAHNKE, Leibniz als Begriinder der .rymbolischen Mathematik, i vi I 92 7; J .E. HoFMANN, H. WIELEITNER, Erste Versuche Leibnizens und Tschirnhausens, eine algebraische Funktion zu integrieren, in « Archiv fiir Geschichte der Mathematik, der Naturwissenschaften und der Technik », I93 I; J.E. HoFMANN, Das Opus Geometricum des Gregorius a S. Vincentio und seine Einwirkung auf Leibniz, Berlino I94I; E. CASSIRER, Newton and Leibniz, in« The philosophical review », I943; J.E. HoFMANN, Vom Werden der Leibnizischen Mathematik. Zum Gediichtnis an Gottfried Wilhelm Leibniz, in « Bericht iiber die Mathematiker-Tagung »in Tiibingen vom 23 bis 27 September I946; P. ScHRECKER, Leibniz and the art of inventing algorisms, in « Journal of the history of ideas », I947; J.E. HoFMANN, Leibniz' mathematische Studien in Paris. Dargestellt auf Grund des Briefwechsels der Jahre r6J2-r6J6, Berlino I948; In., Die Entwicklungsgeschichte der Leibnizischen Mathematik wiihrend des Aufenthaltes in Paris (r6J2-I6J6), Monaco I949; A. Guzzo, Newton, Leibniz e l'analisi inftnitesimale, in« Filosofia», I954; J .C. ScRIBA, The inverse method of tangents: a dialogue between Leibniz and Newton ( 167Jr6JJ), in « Archive for history of exact science », I964; J. VOISIN, Leibniz et le calcul intégral, in « Revue cles questions scientifiques », I967. Non esiste un'edizione moderna delle opere complete di Newton; non completa è l'edizione settecentesca curata da S. HoRSLEY (Opera, 5 voll., Londra 1779-I785); l'Opticks è stata pubblicata a New York nel I952 in edizione economica. Un'antologia di scritti inediti è stata curata da A.R. HALL e M. BoAs HALL (Unpublished scientiftc papers of Isaac Newton, Cambridge I962). La corrispondenza è in corso di pubblicazione (Correspondence of Isaac Newton, volumi I, II, III, a cura di H.W. TURNBULL, Cambridge I959, I96o, I96I). Di recente è iniziata la pubblicazione degli scritti matematici di Newton, a cura di D.T. WHITESIDE e M.A. HosKIN, Cambridge I967. Una traduzione italiana completa dei Principia è stata edita da A. PALA, Torino I965; in italiano è tradotto anche il Sistema del mondo, Torino I959· Tra gli studi bibliografici, si veda: G.J. GRAY, A bibliography of the works of Sir Isaac Newton, together with a list of books illustrating his works, Cambridge I888; n ed., I9o7; si veda anche: I.B. CoHEN, Newton in the light of recent scholarship, in « Isis », I96o. Per quanto concerne la biografia, si veda, oltre alla classica opera di W. STUKELEY, Memoirs of Sir Isaac Newton's !ife, IJJ2: being some account of his fami(y and chiejly of thejunior part of his !ife, a cura di A.H. WHITE, Londra I936: D. BREWSTER, Life of sir Isaac Newton, Londra I 8 3I; L. T. MoRE, Isaac Newton. A biography, Londra-New York I934; ristampa, New York, I962; E.N. DA C. ANDRADE, Sir Isaac Newton, Londra I954; trad. it., Bologna I965; H.D. ANTHONY, Sir Isaac Newton, Londra I96o; ristampa, New York I961. Gli studi sull'opera
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Bibliografia
di Newton si sono enormemente sviluppati in questi ultimi anni. Tra di essi si veda: D. BREWSTER, Memoirs of the /ife, writings, and discoveries of Sir Isaac Newton, Edimburgo 18 55 ; W.W.R. BALL, An esstg on Newton' s Principia, Londra 189;; L. BLOCH, La philosophie de Newton, Parigi 1908; A.J. SNow, Matter and gravity in Newton' s pf?ysical philosopf?y, Londra 192.6; S. BRODETSKY, Sir Isaac Newton,Londra 192.7; AA. Vv.,Isaac Newton, I6p-IJ2J, a cura di W.J. GREENSTREET, Londra 192.7; R. DE VILLAMIL, Newton: the man, Londra 1931; T.A. CHERRY, Newton's Principia in 1687 and I!ì.JJ, Melbourne 1937; J.W.N. SAULLIVAN, Isaac Newton, I642-1J27, Londra 19;8; H.W. TuRNBULL, The mathematical discoveries of Newton, Londra-Glasgow 1945; J. CRAIG, Newton at the Mint, Cambridge 1946; The Royal Society, Newton Tercentenary celebrations, Cambridge 1947; A.R. HALL, Sir Isaac Newton's Notebook, I66I-I66J, in «Cambridge historical Journal », 1948; L.D. PATTERSON, Hooke's gravitation theory and its injluence onNewton, in« Isis », 1949-1950; R.J. FORBES, Was Newtonan Alchemist, in «Chymia », 1949; E. W. STRONG, Newton's mathematical wtg, in «Journal of the history of ideas», 1951; G. BucHDAL, Science and logic: some thoughts on Newton's second law of motion in classica/ mechanics, in « British journal of the philosophy of science », 1951; G.F. SH1RRAS, Nel}'ton, a stu4J of a master mind, in « Archives internationales d'histoire cles sciences », 1951; E.W. STRONG, Newton and God, in « Journal of the history of ideas », 1952; E.N. DA C. ANDRADE, Newton, considérations sur l'homme et son r:zuvre, in « Revue d'histoire cles sciences », 195 3; S.J. VAVILOV, Isaac Newton, trad. it. dal russo, Torino 1954; M. FIERSZ, Ober den Ursprung und Bedeutung der Lehre Isaac Newtons vom Absoluten Raum, in « Gesnerus », 1954; J.C. GREGORY, The newtonian hierarchic D'Stem of particles, in « Archives internationales d'histoire cles sciences », 1954; J.O. FLECKENSTEIN, Die Prioritiitsstreit zwischen Leibniz und Newton: Isaac Newton, Basilea-Stoccarda 1956; E.J. AITON, The contributions of Newton, Bernouilli and Euler to the theory of the tides, in « Annals of science », 1956; A.R. HALL, Newton on the calculation of centrai forces, in « Annals of science », 1957; A.C. CROMBIE, Newton's conception of scientific method, in« Bulletin of the Institute of physics », 1957; E. W. STRONG, Newtonian explications of natura/ philosopf?y, in « Journal of the history of ideas », 1957; P. MooRE0 Isaac Newton, Londra 1957; A.R.HALLM. BoAs HALL, Newton's mechanical principles, in« Journal of the history ofideas », 1959; S. TouLMIN, Criticism in the history of science: Newton on absolute space, time, and motion, in « The philosophical review », 1959; J. LOHNE, Hooke versus Newton, in « Centaurus », 196o; M. BoAs HALL-A.R. HALL, Newton's theory of matter, in « Isis », 196o; N.R. HANSON, Waves, particles and Newton's «jit », in « Journal of the history of ideas », 1960; R. S. WESTFALL, The Joundations of Newton' s philosopf?y of nature, in « British journal for the history of science », 1962.; F.E. MANUEL, Newton historian, Cambridge (Mass.) 1963; A.E. BELL, Newtonian science, Londra 196o; I.B. CoHEN, Quantum in se est. Newton's concepts of inertia in relation to Descartes and Lucretius, in «Notes and records of the Royal Society », 1964; R.S. WESTFALL, Newton and absolute space, in « Archives internationales d'histoire cles sciences », 1964; D. T. WHITESIDE, Newton's ear!J thoughts on planetary motion: a fresh look, in « British journal for the history of science », 1964; A. KOYRÉ, Newtonian studies, Londra 1965; J. HERIVEL, The Background to Newton's Principia, Londra 1965; R.H. HuRLBUTT, Hume, Newton and the design argument, Lincoln 1965; R. KARGON, Newton, Barrow and the f?ypothetical pf?ysics, in « Centaurus », 1965; L. RosENFELD, Newton and the law ofgravitation, in « Archive for history of exact science»,
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Indici
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INDICE DEI NOMI I numeri in &orsiiiO rimandano alla bibliografia
Botero, Giovanni, Io3 Achillini, Alessandro, 52 Acquapendente, Girolamo Fa- Bouillé, Charles -+ Bovillo Boulliau, Jsmael, 4I6 brici di, 93, 434 Agricola (Georg Bauer), 95 Bovillo (Charles Bouillé), I04 Agricola (Rudolf Huisman), 33- Boyle, Robert, 424, 425-426, Joi Bracciolini, Poggio, I6, 29 34 Alberti, Leon Battista, 34, 46, Brahe, Tycho, 87, 88, !J8 Briggs, Henry, 372, 44I !JJ Aldrovandi, Ulisse, 96 Brouncker, William, 372 Aleotti, Giovan Battista, 78 Brunelleschi, Filippo, 46 Alessandro di Afrodisia, 5z Bruni, Leonardo, I6, 29 Althusius, Johannes, 277-278, Bruno, Giordano, II9-125, J4I Bugenhagen, Johann, I9o JJI Amontons, Guillaume, 396 Antoniano, Silvio, I9I Cabeo, Nicolò, 398 Apollonio di Perga, 78 Calasanzio, Giuseppe, I92 Aranzi, Giulio Cesare, 93 Calvi, Fabio, 78 Archimede, 78 Calvino, Giovanni, 66-67 Argiropulo, Giovanni, 32 Campanella, Tommaso, I25-I3I, Aristotele, I43-I45 J4I-J42 Arminius, Jakobus, 279 Campano, Giovanni, 77 Arnauld, Antoine, 292, 294, 346, Cardano, Girolamo, 83-84, JJ8 Cartesio (René Descartes), ZIS352-354· JJJ Auzout, Adrien, 4I5 238, 244. 253-25 5. 346-349. 400-40I, 4I7-4I8, 432. !4!-!41 Bacone, Francesco (Francis Ba- Cassini, Gian Domenico, 4I5 Castelli, Benedetto, 393, !!l con), I40-I5 I, J4I Baldi~ Bernardino, 78 Castiglione, Baldassarre, I 83-I 84, Barbaro, Ermolao, 5z !4J Barrow, Isaac, 372, JJ8 Cavalieri, Bonaventura, 369, JJo Bartolino, Erasmo, 4I6 Celso, Aulo Cornelio, 78 Bayle, Pierre, 498 Cesalpino, Andrea, 58, 9I, 96, JJo Belon, Pierre, 96 Cesi, Federico, 392 Benedetti, Giambattista, 89, 90, Charron, Pierre, IIZ, J4I Clauberg, Johannes, 354 ns Bérulle, Pierre de, 290, Z9I Clavio (Christoph Clau), 78, 85 Bessarione, Basilio, 3z Clement, William, 397 Besson Jacques, 96 Colet, John, 39, 444 Biringuccio, Vannoccio, 95 Colombo, Realdo, 93 Comenio (]an Amos Komensky), Bodin, Jean, I03, !J9 Boe, Franciscus de le-+ Sylvius I96-zo3, J4J Commandino, Federico, 78 Bocce da Boodt, A., 427, Jo2 Copernico (Nikolaus KoperniBombelli, Raffaele, 84, !J8 Borelli, Giovanni Alfonso, 40I, cki), 86-87, !J8 Cremonini, Cesare, 57, JJo 432, 433, JoJ Borromeo, Carlo, I9z Cudworth, Ralph, 445, 448
575
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Culverwel, Nathaniel, 445, 446 Cusano (Nicola Krebs}, 34-37, JJJ
Daleschamps, Jacques, 96 Dal Ferro, Scipione, 83 Dee, J ohn, 44 I Della Porta, Giambattista, 94 Desargues, Gérard, 37I, J!l Descartes, René -+ Cartesio Digges, Leonard, 87 n. Diofanto, 78 Duhamel, Pasquier, 78 Diirer, Albrecht, 46 Erasmo da Rotterdam, Io7-I09, I 8z-I83, 444, J40
Erone, 78 Euclide, 77 Eustachi, Bartolomeo, 93 Falloppio, Gabriele, 93 Fénelon, François de Salignac de La Mothe, 305-308, !!4 Fermat, Pierre de, 370-37I, 38I. !!l
Fernel, Jean, 92, JJ9 Ferrari, Ludovico, 84 Ficino, Marsilio, 37-38, !JJ Filmer, Robert, 466 Flamsteed, John, 4I 5 Fludd, Robert, 242 Foster, Samuel, 44I Fracastoro, Gerolamo, 9r, JJ8 Francke, August Hermann, 30I302, JJJ-!!4 Fuchs, Leonhart, 96 Fust, Johannes, 43 Galeno, 78, 9I, 92 Galilei, Galileo, I52-I75, 374376, 390, 400, 40I, J42-J4J
Galviani, Ippolito, 96 Gascoyne, G., 392 Gassendi, Pierre, 239-240, 242247. !41-J48
Indice .dei nomi Patrizi, Francesco, Io6-1o7, 140 La Salle, Jean-Baptiste de, 192. Gellibrand, Henry, 441 Gesuiti, ordine dei, 73-75, 192.- Leeuwenhoek, Antony van, 392., Peiresc, Nicolas-Claude Fabri de, 196, JJ7-JJ8
434. J64
Geulincx, Arnold, 2.57-2.58, 354, Lefèvre d'Étaples, Jacques, 39 Leibniz, Gottfried Wilhelm, 360!49 Giansenio (Corneille Jansen), e i 365, 480-507, J66-J69 Leonardo da Vinci, 47-50, JJ6 giansenisti, 2.92.-3oo, JJJ Gilbert, William, 94-95, 398, 441 L'Hòpital, Guillaume-François Giorgio di Trebisonda, 32. de, 371 Libavio, Andreas, 42.1, J6r Glanvill, Joseph, 448, J6J Glauber, Johann Rudolph, 42.2. Locke, John, 453-479, J6J-J66 Gomarus, François, 2.79 Lower, Richard, 42.5 Graaf, Reinier de, 43 5 Lutero, Martin, 64-65, 66, 69, Gregory, James, 372., JJ8 188-189 Gresham, Thomas, 441 Grew, Nehemiah, 434 Machiavelli, Nicolò, Ioo-IOz, JJ9 Grimaldi, Francesco Maria, 416 Magalotti, Lorenzo, 393-394 Groot, Huig van---+ Grozio Maintenon, Françoise d'Aubigné, Grozio (Huig van Groot), z78marchesa di, 308-309, JJ4 z81, JJZ Malebranche, Nicolas, 2.58-2.64, Guarino Veronese, 2.9, 30, 31, JJJ f49-JJO Guastalla, Luigia Torelli di, 305 Malpighi, Marcello, 433, J6J-J64 Guericke, Otto von, 396, 399, JJ9 Mariotte, Edme, 354 Guicciardini, Francesco, I02.-I03, Marshall, John, 392. Mayow, John, 42.3, 42.4, 42.5, 162 JJ9 Guidobaldo del Monte, 78, 84 Melantone(Philipp Schwarzerde), Guidino (Pau! Guldin), 369, 380 69, 189, 190 Memo, Giambattista, 78 Giinther, Johannes, 79 Gutenberg (Hans Gensfleisch), Merici, Angela, 305 Mersenne, Marin, 2.12., 503-504, 43· JJJ J4J
415, J60
Personnes, Gilles---+ Roberval Piancelli, Agostino, 96 Picard, Jean, 391, 415 Pico della Mirandola, Gian Francesco, 106, J40 Pico della Mirandola, Giovanni, 16, 38-39, JJJ
Pier della Francesca, 46 Pletone, Gemisto, 31-32. Plinio il Vecchio, 79 Pomponazzi, Piero, 55-56, JJ6 Preston, John, 442. Pufendorf, Samuel von, 2.81, JJZ Purbach, Georg, 40 Rabelais, François, 109-IIO, 184185, J40
Ramo (Pierre de la Ramée), I04I05, J40
Ray, John, 42.6, J6z Recorde, Robert, 87 n., 441 Redi, Francesco, 434, J64 Regiomontano (Johannes Miiller), 40 Reuchlin, Johannes, 39 Rey, Jean, 393, 42.4, J6z Ricci, Michelangelo, no Roberval (Gilles Personnes), 371,
Halley, Edmund, 415 Molina, Luis, 74 JJ8 Harvey, William, 42.8-432., 434, Montaigne, Miche! de, III-IIz, Rolle, Miche!, 371 R0mer, Ole, 416 J62-J6J 185-187, J40-J4I Helmont, Joan Baptista van, 42.2., More, Henry, 446, 449, J6J Rondelet, Guillaume, 96 Moro, Tommaso (Thomas More), J6I Herbert di Cherbury, Edward, Saint-Cyran, Jean du Vergier de 105, 444. J40 Hauranne, abate di, 2.92. Miiller, Johannes---+ Regiomon444-445. J6J Salutati, Coluccio, 2.7-2.8 Hobbes, Thomas, 2.39-2.40, 2.47tano Scheibler, Christian, 354 2.55, 2.82.-2.85, 355-360, J48-J49 Holzmann, Wilhelm, 78 Napier, John (Nepero), 372., JJ8 Scheiner, Cristoph, 391 Schwarzerde, Philipp ---+ MelanHooke, Robert, 392., 396, 42.0, Neri, Filippo, 192. tone 42.4, J60, J62 Newton, Isaac, 391,419-42.1,483Hosemann, Andreas---+ Osi an der Serveto, Michele, 93 n. 484, 508-52.7, J69-JJI Huygens, Christiaan, 397, 402.- Nicole, Pierre, 2.95, 346, 352.-354, Severino, Marco Aurelio, 432. Smith, John, 445, 446 407, 415, 418-419, J60 JJJ Nicoletti, Paolo---+ Paolo Veneto Snell, Willebrood, 416 Ippocrate di Cos, 78 Spener, Philipp Jakob, 301 Nifo, Agostino, 51 Spinoza, Benedetto (Baruch), 2.64Nizolio, Mario, 1o6, J40 Jacopo da Cremona, 78 2.75, 2.85-2.87, JJO-JJI Jansen, Corneille ---+ Giansenio Osiander (Andreas Hosemann), Stenone, Nicolò (Nils Steensen), Jungius, Joachim, 354 86 42.7, J62 Stevin, Simon, 85, 89, 90, JJ8 Sturm, Johannes, 190 Kaufmann, Nicolaus (detto Mer- Pacioli, Luca, 40-41, JJJ Paolo Veneto (Paolo Nicoletti), Suarez, Francisco, 74 cator), 372. Swammerdam, Jan, 434 Keplero (Johann Kepler), 88-89, 51 Paracelso (Philipp Theofrast von Sylvius (Franciscus de le Boe), 409-415, 416, J60 Kircher, Atanasius, 398 42.3, J62 Hohenheim), 91, 95, JJ8 Komensky, Jan Amos ---+ Co- Pasca!, Blaise, 2.96, 310-32.3, 349menio Tartaglia, Nicolò, 77, 78, 83, 84, 352., 383, 395. JJ4-JJJ Kunckel, Johann, 42.2. Pasca!, Jacqueline, 308, JJ4 89, 90, JJ8
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Indice dei nomi Telesio, Bernardino, 116-119, J41 Thomasius, Jakob, 354 Torricelli, Evangelista, 369, 382, 394-395, JJ6 Tournefort, J. Pitton de, 426 Trotzendorf, Valentin, 190 Valerio, Luca, 84 Valla, Giorgio, 40 Valla, Lorenzo, 32-33, JJJ
Vanini, Giulio Cesare, II3-II4, J41 Varignon, Pierre, 371, JJ8 Vegio, Maffeo, 31 Vergerio, Pier Paolo, 29-30 Vernia, Nicoletto, 51 Verolio, Costanzo, 93 Vesalio(André-Vésale), 92-93, JJ9 Viète, François, 84 Vittorino da Feltre, 31, JJJ Vives, Luls, 105, 140
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Viviani, Vincenzo, 370, JJ6 Wallis, John, 354, 372, JJ8 Whichcote, Benjamin, 445 Wilkins, John, 441, 442 Willis, Thomas, 423, 162 Wren, Christopher, 402, 160 Zabarella, Giacomo, 56-58, JJ6 Zamberto, Bartolomeo, 77 Zonca, Vittorio, 96
INDICE DELLE CITAZIONI CRITICHE
Alfieri, Vittorio Enzo - su G. W. Leibniz 487, 488 - sulla dimostrazione dell'esistenza di dio in Pasca! 320 Dampier, William Ceci! - su I. Newton 52I Barone, Francesco Daujat, Jean - su G. W. Leibniz 36I, 365,488 - sull'elettrizzazione 399 Belloni, Luigi Del Noce, Augusto - sulla biologia nel XVII sec. 434 -su Cartesio 257 Boas, Marie Di Vana, Piero - su R. Boyle 426 - su B. Spinoza 272 Bobbio, Norberto Durkheim, Émile - sulla società nel periodo uma- su T. Hobbes 284 Bourbaki, Nicolas nistico I82, I83 - sull'algebrizzazione dell'analisi infinitesimale 50I Farrington, Benjamin Braithwaite, Richard Bevan -su Bacone I42, 44I Ferguson, Wallace K. - su I. Newton 5I5 Brandt, Frithiof - sul Rinascimento 8 - sulla soggettività delle qua- Forti, Umberto - sulla tecnica nel Rinascimento lità sensibili 339 Buisson, Ferdinand 97 - sulle « piccole scuole » gianGarin, Eugenio seniste 297 n., 300 Burckhardt, Jacob - sulla magia 329, 330 - sul Rinascimento 8 von Gierke, O. Butterfield, Herbert - sul giusnaturalismo 276, 277, - sulla rivoluzione scientifica 284 rinascimentale IO Gregory, Tullio - su P. Gassendi 243, 245 Carugo, Adriano - sull'invenzione della stampa Haydn, Hiram 43 - sul Rinascimento 9 - sulla posizione dello scienziato Jammer, Max nell'epoca umanistica 45 - su N. Tartaglia 90 - su I. Newton 517 n. Cassirer, Ernst - sulla cultura inglese del xvu Kotarbinski, T. sec. 447 - sulla logica portorealista 3 53 Chabod, Federico Koyré, Alexandre - sul Rinascimento 19, 2 5 - sul progredire delle conoscenCouturat, Louis ze nel xvi sec. p8, 329
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Mach, Ernst - sul meccanicismo 233 Marrou, Henri-Frénée - sull'educazione umanistica 177 Metzger, H. - sulla chimica nel XVII sec. 423 Moody, Ernest A. - sulla logica 344 Nagel, Ernst - su I. Newton 5I7 n. Pala, Alberto - su I. Newton 515 Preti, Giulio - su G. W. Leibniz 486, 488 Rossi Monti, Paolo - su G. W. Leibniz 488 Russell, Bertrand - su G. W. Leibniz 487 Sabetti, Alfredo - su J. Locke 468 Sarton, George - sull'importanza degli antichi testi scientifici 44 Scholz, Heinrich - su G. W. Leibniz 360 Tannery, Pau! - sul calcolo infinitesimale 383 - sul sistema copernicano 408409 Vasoli, Cesare - su G. Valla 40 - sul concetto di logica 57 Viano, Carlo Augusto - su J. Locke 458, 466
INDICE GENERALE
SEZIONE TERZA
Il rinascimento e la rivoluzione scientifica ~
CAPITOLO PRIMO
Fattori e caratteri della rivoluzione rinascimentale DI LUDOVICO GEYMONAT E RENATO TISATO
7
I Varie interpretazioni della rivoluzione rinascimentale. I I n Cenni di storia economico-politica. 14 III Discriminazione fra la nuova cultura e quella medievale-comunale. I 7 xv Due temi fondamentali caratteristici della nuova cultura.
2I
23
25
v Altri temi fondamentali caratteristici della nuova cultura. vx Rinascimento e cristianesimo. vn Tendenza della cultura a frantumarsi in discipline autonome.
CAPITOLO SECONDO
Il pensiero filosofico nel Quattrocento
34 v Il neoplatonismo di Cusano. 37 VI L'accademia platonica di Firenze. 39 vn Lento risveglio dell'interesse per le scienze.
I Dal Trecento al Quattrocento. n Il primo umanesimo. 3 I III I dotti bizantini in Italia. 32 xv Lorenzo Valla e Leon Battista Alberti. 27
29
CAPITOLO TERZO
La tecnica nel Quattrocento. Leonardo da Vinci I Sguardo panoramico ai vari progressi della tecnica. 44 n Nuove istanze culturali provenienti dallo sviluppo della tecnica.
45 47
42
III
IV
Pittura, architettura e geometria. Leonardo da Vinci.
CAPITOLO QUARTO
L'aristotelismo rinascimentale. Piero Pomponazzi
5I 53 55
Sviluppi dell'aristotelismo. n Alessandristi e averroisti. III Piero Pomponazzi.
56 IV Altri aristotelici del Cinquecento. 58 v L'influenza dell'arietotelismo naturalistico. Suo valore e suoi limiti.
I
CAPITOLO QUINTO
Riforma e controriforma
6x
x Rapporti tra rinascimento, riforma e controriforma. 63 n Natura e cause della riforma. 65 III Conseguenze politico-sociali della riforma.
68
IV Conseguenze della riforma nel campo dell' educazione. 70 v La controriforma. 72 VI Conseguenze della controriforma nel campo dell'educazione. I gesuiti.
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Indice generale CAPITOLO SESTO
Progreui delle scienze e delle tecniche nel Cinquecento 76 79 83
I Considerazioni preliminari sul moltiplicarsi delle ricerche scientifiche. II Aspetti non scientifici delle indagini scientifico-tecniche rinascimentali. III Matematica.
85
IV
89
v Meccanica.
9I
VI
93
VII
Astronomia.
Medicina. Anatomia. Fisica e altre scienze. VIII La tecnica.
96
CAPITOLO SETTIMO
L'arricchimento della !ematica filosofica 99 I03 I07
I La nuova storiografia e la scienza della politica. II Sviluppi dell'umanesimo. III Erasmo da Rotterdam.
I09 II I I u
IV Rabelais. v Montaigne. VI Il movimento libertino: Vanini.
CAPITOLO OTTAVO
La filosofia della natura I Rapporti dei filosofi della natura con altri indirizzi del pensiero rinascimentale. II 6 II Telesio.
II5
II9 I 25
III IV
Bruno. Campanella.
CAPITOLO NONO
Confluenza di fattori diversi nella nascita della scienza moderna I Fattori economico-sociali. Tecnica e scienza. I 34 II Contributi delle scuole filosofiche rinascimentali alla nascita della scienza moderna. I32
I 36
I 38
III Il contributo delle singole scienze alla riforma del metodo scientifico. IV La scienza come nuovo modo di studiare la natura.
CAPITOLO DECIMO
Francesco Bacone I40 I42 I43
Vita e opere. La scienza quale fulcro del rinnovamento della società. III La polemica contro Aristotele. I
I45
II
I 46
I48 I50
IV La riforma del sapere in senso praticooperativo. v La logica di Bacone. VI Le forme dei fenomeni. VII Valore e limiti dell'opera di Bacone.
CAPITOLO UNDICESIMO
Galileo Galilei
Vita, opere e personalità di Galileo. Compiti e caratteri della scienza fisica. III Critica del principio d'autorità.
I 52
I
I 67
I 59
II
I7o
I64
I73
IV Contributi scientifici. v Il metodo sperimentale. VI Scienza e filosofia.
CAPITOLO DODICESIMO
Umanesimo, rinascimento, riforma, controriforma nei loro riflessi di ordine pedagogico. Comenio DI RENATO TISATO I76 I
77
I
8I
Chiarimenti preliminari. Caratteri generali della pedagogia urnanistica. III La pedagogia del tardo rinascimento. I
I87
II
I90 196
IV Riforma e educazione. v Controriforma e educazione. VI Comenio.
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Indice generale SEZIONE QUARTA
Il pensiero ftlosoftço da Cartesio a Newton CAPITOLO PRIMO
L'inizio dell'era moderna 207 209
I L'avanzata della borghesia e l'affermarsi dello stato assoluto. II Riflessi generali sulla cultura filosoficoscientifica.
2Io
2I2 214
m Il progresso della tecnica. Nuova organizzazione della vita scientifica: le accademie. v Unità di fondo tra scienza e filosofia. IV
CAPITOLO SECONDO
Cartesio 2I 8 219 221 223 225
228 230
Necessità di una nuova filosofia. Vita e opere di Cartesio. m Il metodo di Cartesio e le sue regole. IV Dal dubbio alla prima certezza. v Dall'essere del soggetto all'essere divino. VI Dall'essere di dio all'essere del mondo. VII Conseguenze del dualismo cartesiano. I
231
II
232
235 236
vm Geometria. IX Fisica e biologia: il meccanicismo cartesiano. x La morale di Cartesio. XI Significato e limiti del razionalismo cartesiano.
CAPITOLO TERZO
Gassendi e Hobbes 239 242 243
I Considerazioni preliminari. II Vita e opere di Gassendi. III La polemica di Gassendi contro
245
tismo. IV L'atomismo di Gassendi.
il dogma-
v Vita e opere di Hobbes. VI La gnoseologia hobbesiana. VII La «filosofia prima». vm Le divergenze tra Hobbes e Cartesio.
247 249 250 252
CAPITOLO QUARTO
Malebrançhe e Spinoza 256 2
57
258 261
I Considerazioni II Geulincx.
preliminari.
264
m Vita e personalità di Malebranche. Il pensiero filosofico di Malebranche.
IV
267 272
v Personalità di Spinoza e significato della sua opera. VI Il panteismo. VII L'uomo e il problema etico.
CAPITOLO QUINTO
Il giumaturalismo 276 277
I Caratteri generali. II Althusius, Grozio
282 285
e Pufendorf.
m Il pensiero politico di Hobbes. Il razionalismo politico di Spinoza.
IV
CAPITOLO SESTO
Il problema dell'etfuçazione nel xvu seçolo. I l giansenismo DI RENATO TISATO
288 290 292 296
I Considerazioni generali. II Gli oratoriani e l'educazione scientifica. III L'indirizzo religioso giansenista. IV Luci ed ombre dell'educazione gianseni-
stica.
300 303 304 305
v Il pietismo. August Hermann Francke. Tentativi di riforma nell'università francese. vn La scuola elementare-popolare. vm Il problema dell'educazione della donna.
VI
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Indice generale CAPITOLO SETTIMO
Pasca/
3 10 1 Vita e opere. 3I 3 n Matematica e fisica. 3I 5 III Valore e limiti della conoscenza scientifica.
3I 8 IV La conoscenza dell'uomo. po v L'apologetica pascaliana.
CAPITOLO OTTAVO
Caratteri e prospettive del meccanicismo nel Seicento DI GIANNI MICHELI 324
p 5
33 I
1 Considerazioni preliminari. n Il significato delle nuove prospettive rinascimentali. III La ricerca dell'elemento essenziale nella costituzione della scienza moderna come l?rospettiva storiografica di fondo.
Il metodo del meccanicismo: il modello meccanico. 338 v La concezione della materia e della natura. 34I VI Il nuovo sistema delle scienze e gli sviluppi del meccanicismo.
333
IV
CAPITOLO NONO
La logica nel Seicento DI CORRADO MANGIONE
344 346
Considerazioni preliminari. n La «Logica di Port-Royal. »
I
355
III
360
IV
La logica di Hobbes. La logica di Leibniz.
CAPITOLO DECIMO
I l pensiero matematico 366 368
372
1 Considerazioni generali. n I principali protagonisti della ricerca matematica nel Seicento. III Il significato innovatore della geometria analitica.
374
379 38z 385
IV Il graduale accostarsi della matematica ai problemi infinitesimali. v Obiezioni all'ampliamento della matematica verso l'infinito e l'infinitesimo. VI Il costituirsi del calcolo infinitesimale. vn Riflessioni metodologiche.
CAPITOLO UNDICESIMO
Sviluppo delle scienze reali nel xvu secolo: fisica, chimica, biologia DI GIANNI MICHELI
387
I Considerazioni II Gli strumenti
38 8
generali. scientifici.
398 426
Lo studio del mondo inanimato. Lo studio del mondo animato.
III
IV
CAPITOLO DODICESIMO
Trasformazioni nella società e nel pensiero inglese DI RENATO TISATO 436 440
I Le due rivoluzioni inglesi del xvn secolo. II Rinnovamento sociale e culturale.
444
III
450
IV
La scuola platonica di Cambridge. L'organizzazione pedagogica.
CAPITOLO TREDICESIMO
Locke DI LUDOVICO GEYMONAT E RENATO TISATO
453 457
Vita e opere. La coscienza delle idee, punto di partenza per l'analisi dell'intelletto umano. I
II
459 46I
Classificazione delle idee e loro origine. La critica dell'idea di sostanza. Idee generali e linguaggio.
III
IV
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Indice generale 464 v Le diverse vie della conoscenza. 466 VI La fondazione del liberalismo politico.
470 473
Aconfessionalità dello stato e tolleranza religiosa. VIII Il pensiero pedagogico. VII
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
Leibniz 1 Vita e opere. n Problemi generali circa l'interpretazione del pensiero di Leibniz. III Critica dell'intuizionismo cartesiano. Verità di ragione e verità di fatto.
491 IV La monade. 494 v La vita interna della monade. Innatismo. 496 VI Dio. 499 vn Ricerche matematiche. 503 VIII Fisica e biologia.
CAPITOLO QUINDICESIMO
Newton
508 51 z
1 Vita e opere. n Sviluppo e significato delle ricerche matematiche. 51 5 III Meccanica e astronomia;
51 9 IV Ottica e chimica. 5zz v Il rifiuto delle ipotesi. 524 VI La filosofia della natura.
Bibliografia SEZIONE TERZA
Il rinascimento e la rivoluzione scientifiça
53 1
Bibliografie, storie generali della filosofia e della scienza rinascimentale ed opere su aspetti generali del pensiero rinascimentale. 534 Opere su aspetti particolari della storia della
filosofia e delle scienze nel rinascimento, edizioni delle opere dei singoli filosofi e scienziati ed opere sul loro pensiero, secondo lo sviluppo della nostra trattazione.
SEZIONE QUARTA
544
Il pensiero filosofiço da Cartesio a Newton A CURA DI GIANNI MICHELI
INDICE DEI NOMI INDICE DELLE CITAZIONI CRITICHE
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