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si distingue da
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Fig. 9. Legature: sul Sasso Rosso (a) e su ossi ciaslir di Monte Ozol (b, c, d, e)
come altare.27 Alcuni gruppi sono simili alle legature viste sopra per u e i; altri sono complessi ed il loro scioglimento è incerto. I due gruppi più chiari sono riprodotti in Fig. 9.a. In senso sinistrorso essi sono leggibili come uu ‘faustus, fautor’ e aa ‘pater’ (gli a sono capovolti). Data la loro prossimità, uu potrebbe essere un attributo di aa, qui riferito ad un dio: cfr. gli epiteti divini camuni selp-appa ‘Buon-padre’e selpa alaiala ‘Buon nutritore’, dove *seld- è riconducibile (Zavaroni 2006: 127–128) ad ie. *sel- ‘buono, benevolo’ (IEW 900) di got. sels ‘gütig’, aisl. sœll ‘glücklich’, aing. sel, selra < *soliza ‘besser’, aing. sœld, as. salda, ags. ‘Glück’, aat. salida ‘Güte, Heil, Glück’. In Fig. 9.b,c,d,e sono riprodotti i gruppi di segni incisi su alcuni astragali od ossi provenienti dal Monte Ozol.28 In b) si legge ih, verticalmente sul lato sinistro e si può leggere pi con il segno F = p asimmetrico, seguito da i e da 4 = . Su quest’ultimo segno sono incise tre piccole aste che forse alludono all’equivalenza = h. La parola iu è leggibile da sinistra a destra in c) sopra due segni che possono denotare idi = ii, mentre in d) dopo iu potrebbe essere scritto uli con i sul prolungamento di un’asta di X = . 6. I nomi divini Ido, Ida ed il mutamento > d > d Durante il Campo Archeologico 2004 fu scoperta anche l’iscrizione Ido > OM su una piccola roccia situata a circa 70 metri da quella su cui si legge iu ii. L’iscrizione, in caratteri latini con un tratto incerto, mostra la scarsa familiarità con la grafica latina. Inoltre, il grafo D ( ) sembra la legatura di un D orizzontale con la croce di Sant’Andrea X, 27 28
Ho usufruito delle fotografie mostratemi dall’amico Daniele Petito. Per i segni di Fig. 9.b,c,d,e vedi Perini 1999, figg. 23, 24 e Sebesta 2002: 153, fig. 8b.
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come se lo scriba avesse voluto adattare la nuova lettera alla vecchia equivalente.29 Attribuendogli la radice di ret. ii, possiamo supporre che Ido indichi un dio del calore, del fuoco, dello splendore. Il dio Colpitore, che era certamente uno dei puù venerati in Valcamonica con il nome S´upeu, Zupu, Zupeu, Zaupau (da *steu-b- o *steu-p- ‘stoßen, schlagen’30), è assimilabile al Vulcano romano, poiché a volte è rappresentato con una fiamma in mano e anche come un fuoco dotato di armi (Zavaroni 2004b: 248-256). È probabile che il nome latinizzato Ido seguito da OM = Optimus Maximus si riferisca al dio del fuoco. Com’è noto, secondo Giulio Cesare i Germani adoravano soltanto Vulcano, Sole e Luna. Ciò sembra sorprendente, perché nell’Edda di Snorri e nell’Edda poetica una divinità del fuoco sembra a prima vista assente.31 Tuttavia, in alcune zone della Germania romana e anche della Gallia ci sono indizi che attestano l’importanza del dio del fuoco. Per esempio, alcuni monumenti (cfr. CIL XIII 6098, 6331, 6395) sono dedicati a I.O.M, ma si vede Vulcano invece di Giove fra le divinità rappresentate. Come il gallico Sucellos ‘Buon Colpitore’, anche il dio Colpitore camuno poteva essere identificato con il Giove romano per certe funzioni ed inoltre, essendo anche un Creatore, era il riproduttore della vita. Infatti la scritta Ido OM è associata a delle coppelle che simbolizzano il potere di fecondazione universale. Il nome IDA, scritto in caratteri latini alti circa 13 centimetri con una picchiettatura accurata, si legge sulla Roccia N. 6 di Luine (Valcamonica). Le altre quattordici iscrizioni della roccia sono in caratteri camuni. Anche la scritta IDA è associata a delle coppelle simbolizzanti il potere di fecondazione: due di esse coincidono con le estremità della lettera I. Inoltre, la figura più vicina, a sinistra, è un grande “phallos con le gambe”, figura disegnata non solo su alcune rocce della Valcamonica, ma anche nelle più antiche incisioni rupestri scandinave. Sulla sinistra, una linea congiunge il phallos con la parola kinpe che fa parte dell’iscrizione bustrofedica hohlu2 / kinpe incisa in parte dentro ed in parte fuori un grande cerchio. Applicando le regole
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Il D orizzontale è raro, ma esiste anche in altre iscrizioni dell’Italia settentrionale. Per il passaggio ie. [st] > etr. cam. ret. [ts] e [s’s] in età arcaica vedi Zavaroni 2001 e successivi. In verità una delle ipostasi del Vulcano germanico è il fabbro (anord. smidr) che costruisce la residenza degli Asir (Zavaroni 2003c: 87).
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della Lautverschiebung reto-camuna, si può supporre che: 1) il termine hohlu 2 derivi dall’ie. *kwokwlo-, germ. *hwehwla ‘ruota, cerchio’ e si riferisca al grande cerchio entro cui è scritto; 2) kinpe rifletta *gentos, *genwtos ‘nato, figlio’ o piuttosto ‘nascita, genesi’ (cfr. germ. *kind- ‘Kind, Geschlecht’), dato che il nome è collegato al phallos con una riga. Il grande cerchio allude al dio Ruota, dio dei cicli universali – compreso il ciclo della rigenerazione delle anime – adorato in Europa almeno fin dall’Età del bronzo ed assimilabile anche a Vulcano. È presumibile che il nome IDA (femminile?) abbia una connessione con questo dio. La scritta IDA è incisa pochissimi centimetri sopra la scritta camuna epu che richiama – come vari termini etruschi aventi la base *ep- – la radice ie. *h3 ep- ‘herstellen, arbeiten, Ertrag der Arbeit, Reichtum’ (LIV 298–299; IEW 780) di aisl. efna ‘operare’, aing. efnan, aat. ebanon ‘ausführen, leisten, helfen’, anord. efni ‘Stoff, Material; Grund; Ursache’, lat. opus, operor etc. È quindi possibile che IDA fosse uno degli epiteti di una divinità chiamata Epu che poteva anche essere assimilata a lat. Ops o Copia.32 Nell’incisione su uno specchio etrusco del IV secolo a.C. da Palestrina (ES V, 6) è rappresentata la nascita di Minerva dalla testa di Giove. La dea che funge da levatrice si chiama Eaus´va. Questo nome è unanimemente considerato equivalente ad Iavus¸va,33 che si legge in una iscrizione etrusca del VII secolo a.C. insieme ad altri teonimi. In un’altra rappresentazione della nascita di Minerva dalla testa di Giove la dea levatrice è anr ed alle sue spalle c’è Selans, notoriamente corrispondente a Hephaistos ed a Vulcano. Il nome iavus¸va sembra composto da *ia- + avus- + il suffisso -va, nel qual caso il senso potrebbe essere ‘colei che favorisce il calore (> il fervore, l’opera)’, essendo *avus- riconducibile a *h2 ewh1 - ‘desiderare, favorire’, come il prenome etr. Avule = Avile > lat. Aulus, gallico Avitus, Avi-cantus ecc. Anche il nome Idunn della dea germanica che possiede le mele dell’eterna giovinezza potrebbe indicare ‘colei che favorisce il calore’ (ovviamente si tratterebbe del calore vitale). Com’è noto, l’etimologia di Idunn è dubbia (de Vries 1962: 283): non è 32
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Questa tesi è confortata dall’esame di alcuni nomi divini etruschi (anr, Epiur, Epule, Ana) che qui non è opportuno discutere. Cfr. anche la variazione etan-al (genitivo) / itan-im (con morfema -m di fine, vantaggio) nelle Lamine d’oro di Pyrgi, da *eid- ‘gonfiare, accrescere’.
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chiaro se *id- è connesso con il prefisso aisl. id- = lat. re-, gall. ate- etc. o con aisl. id ‘Arbeit, Verrichtung’. A mio avviso, poiché gli Asir abitano nell’Idavöllr e poiché dubito che un prefisso possa essere usato come un sostantivo, ritengo che nel nome Idunn il membro id- sia connesso con *id- ‘attività’ < ‘calore (vitale), ardore’. Nei nomi personali femminili (cfr. Jórunn, Pórunn etc.) il secondo membro -unn è notoriamente ricondotto ad unna ‘lieben, gönnen’ (de Vries 1962: 635). Quindi, se Idunn contenesse il prefisso id-, dovremmo interpretarlo come ‘colei che concede, ama di nuovo’. Un tale senso non mi sembra più plausibile di ‘colei che concede calore (vitale) ’. La dedica Deae / Idba/ns Gabiae / sacru[m] … di Pier (Nordrhein, CIL XIII 7867) potrebbe riguardare una dea che concede calorefuoco (id) luminoso-puro (per *ban- cfr. air. bán ‘bianco, brillante, puro’, aing. bónian ‘fare brillante’, mbt. bonen ‘blanc reiben’): D’altronde anche il nome Idbert pare significare ‘Fuoco luminoso’ (*bert < *berht-: vedi de Vries 1962: 39). Probabilmente il nome femm. germ. Ida, dat. Idun (Weimar, VI secolo d. C.) ed il masc. Idorih etc. hanno la stessa base *h2 eidh- ‘ardere, infiammare’. Se si accetta la tesi qui proposta di una stessa radice per ret. cam. ii (etr. *i-) ed i più tardi nomi IDA ed IDO incisi su due rocce della Valcamonica, la corrispondenza fra e D pone alcune questioni fonologiche: la sonorizzazione delle occlusive avvenne in un periodo abbastanza breve all’inizio della romanizzazione? Oppure il denotava sia [th] sia [dh] e la lettera latina D fu poi usata per [d] e [dh]? A questa seconda domanda sembra dare una risposta positiva la bilingue di Voltino contenente nomi camuni scritti in camuno ed i corrispondenti nomi gallici latinizzati: cam. Sanaina (patronimico) corrisponde a Sanadis (genitivo patronimico) e ome al reduplicato Tetumus (da *twem- di lat. tumeo). Quindi la lettera camuna corrisponde sia a D sia a T. Negli alfabetari camuni, redatti probabilmente pochi decenni prima della definitiva conquista romana, sono anche segnati dei grafi nei posti di -B, d-D, -G; ma soltanto il grafo per -B è usato in iscrizioni in tardo camuno: è notevole che esso sia formato dalla sovrapposizione di p e h. Quindi è da supporre che le occlusive sonore non aspirate non fossero ancora generalizzate e che fu proprio la romanizzazione a introdurre fonemi che il contatto con popolazioni celtiche nei due o tre secoli precedenti non aveva indotto ad accogliere regolarmente. I segni per le dentali con modo di articolazione diverso da [t] sono numerosi, ma non è chiara la distinzione fra spiranti ed aspirate. Negli
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alfabetari, dopo il segno per [t], è generalmente segnato il grafo X che teoricamente dovrebbe denotare un suono che non è [t] e nemmeno [] (denotato certamente da :α:); e poiché per [p] ci sono due grafi specifici, è possibile che il valore teorico di X sia [d], sebbene in qualche caso X sia intercambiabile con :α: []. Sfortunatamente una datazione precisa delle iscrizioni incise su roccia è impossibile, ma mi sembra che sia ragionevole datare la scritta Ido OM nel periodo tra il primo secolo a.C. ed il primo secolo d. C. Elementi che permettono una migliore puntualizzazione del fenomeno e che confermano le ipotesi presentate nei precedenti paragrafi si trovano nelle iscrizioni di Làgole (§ 7).
7. Formule votive retiche associate ad iscrizioni venetiche Su alcuni oggetti della stipe votiva di Làgole di Calalzo (Cadore) sono incise, insieme alle iscrizioni venetiche, formule votive retiche qualche volta identiche ed altre volte simili a quelle viste sopra. Probabilmente il santuario era stato istituito quando la popolazione era in maggioranza retica. Poi, con la spinta verso nord di genti venetiche, l’area divenne bilingue: Reti e Veneti dovettero coesistere insieme per vari secoli. Un altro territorio con parlanti retici e venetici fu probabilmente quello dell’attuale confine italo-sloveno. Infatti, sulla ciotola di bronzo proveniente da una tomba di Idrija (Slovenia) e datata al I secolo a. C., sotto l’iscrizione venetica traslitterabile come Laivnai Vrotai (probabile nome divino in dativo: vedi Prosdocimi 1988: 322) è inciso il gruppo IXIXI. D’altronde Laivnai è un evidente derivato di etr. (e dunque anche retico) laive = lat. laevus. È da notare che la t dell’ iscrizione venetica è del tipo T e non X. Certamente, IXIXI è una formula retica identica a quella scritta sul peso da telaio trovato presso St. Lorenzen (Pustertal). Forse, essa fu scritta prima della dedica. Come si è visto, la scansione i ii “fervet fervor” sembra più sensata che ii i (“fervor; acceptio”), sempre che i non funga da verbo (< ih). Sulle due facce A e B di un manico di simpulum datato al 420–300 a. C. (ma la scritte potrebbero essere posteriori) e trovato nella stipe votiva di Làgole di Cadore sono state incise le seguenti parole: A) B)
Turijonei Okijaijoi Ebos ke Alero u teuta[m ans´ores kvi ssiis >VXV<XI (Fig. 10)
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Fig. 10. La formula retica uu i su un simpulum di Làgole
Le parole di A e probabilmente ans´ores di B costituiscono una proposizione venetica. Si è sempre supposto che Turijonei Okijaijoi (dativo) indichi l’uomo in beneficio del quale la dedica è stata fatta da Ebos ed Alero e nello stesso tempo si è interpretato u teuta come ‘a nome della comunità, ob civitatem’.34 A mio avviso, però, Turijonei Okijaijoi sono probabilmente il nome e l’epiteto funzionale di origine retica di un dio dell’amore e dell’unione coniugale (per Turion- cfr. etr. Turan ‘Venere’ e Turnu ‘Amor’,35 da *deu-r- ‘venerare’; per Okiaios cfr. cam. U2ko, Uko, Ukiliau ‘Coniugalis’, da *yug- ‘unire, coniugare’ con normale perdita di y- iniziale come in antico nordico: Zavaroni 2006: 138–139). Infine si è supposto che kvi sia un’abbreviazione di kvidor, un verbo individuato nell’iscrizione Ca 64 (Prosdocimi 1988: 310–312); ma l’ampio spazio a disposizione (Fig. 10) mi induce a ritenere kvi una parola intera. La formula >VXV< XI (i segni > e < indicano l’inizio e la fine della parola come in altre iscrizioni) è certamente retica ed è traslitterabile come uu i ‘benevolens acceptio’. Interpreto ssiis come ‘suis’ (la doppia s è presente anche in ven. SSELBOISSELBOI ‘a se stessi’: forse ss- < *sw-). Il termine sis di due iscrizioni retiche potrebbe essere una forma contratta da ssiis: esso è comparabile con il pronome riflessivo got. sis (dat.), sik (acc.). Dunque, ssis ‘per i suoi, per la loro gente’ potrebbe corrispondere ad u teuta ‘ob civitatem’ della scritta venetica e kvi potrebbe essere il verbo di una scritta retica kvi ssiis ans´ores il cui soggetto sarebbe ans´ores, un termine il cui significato era certamente noto anche a chi parlava il retico. Prosdocimi (1988: 311), ipotizza che ans´ores “probabilmente design[i] funzionari o magistrati” e che sia un termine composto da una preposizione e dalla radice *ser-, come umbro anseriatu : seritu”. Tale etimologia è a mio avviso inaccettabile, 34
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Vedi da ultimo la scheda di Marinetti Anna in AKEO 227 N. 52.1. L’Autrice scrive che “in B, tranne l’iniziale an.s´ores., i gruppi di lettere presenti non sembrano trascrivere forme di lingua, ma piuttosto numerali, sigle, simboli o simili”. Disegno su uno specchio da Castel Viscardo in cui turnu è un puer alato con l’arco.
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perché anche in venetico s´ denota /ts/ o /s’s/ da /st/. Quindi aderisco all’ipotesi di Lejeune (1974: 275), secondo cui ans´ores è un nome d’agente in -tor “répondant au nom d’action en -ti- *ansti- conservé par le germanique (got. ansts ‘ «’)”: avremmo lo sviluppo *anstor> *ans´or-. Se si accetta la tesi prevalente (Lehmann 1986: A184; LIV 302; EWAhd I: 265–267), secondo cui la base *anst(i)- deriva da *h3 neh2 ‘genießen, nutzen, lieben, frui’, gli ans´ores sarebbero coloro che fanno una cosa gradita al dio con l’offerta. Infine kvi è riconducibile a *gwei‘jammern, (weh)klagen’ (IEW 467) di got. qainon ‘weinen, trauern’, aisl. kveina ‘jammern’, kvida ‘sich ängstigen’, asx. quid¯ian ‘wehklagen’ etc. Se supponiamo che anche il verbo kvidor di un’altra iscrizione di Làgole sia di origine retica, possiamo attribuirgli la radice *gwet- di aisl. kvedja ‘begrüßen, anreden, fordern, aufbieten’, as. queddian, aat. chetten ‘begrüßen’ etc. (IEW 480–481). È da notare che in molte iscrizioni votive retiche il nome degli offerenti è omesso. Su una statuetta bronzea raffigurante un guerriero, trovata nella stipe votiva di Làgole e datata al IV secolo a.C., è scritta, lungo un fianco, una dedica alla divinità S´ainate Trumusiate. Sulla spalla sinistra c’è una breve iscrizione che finora era stata letta tir come se fosse venetica. Secondo la tesi comune, queste tre lettere sarebbero un errore di scrittura: l’incisore avrebbe scritto tir invece di tru (inizio di Trumusijatei) e quindi avrebbe interrotto l’iscrizione, per riprenderla nella parte posteriore della gamba destra. A mio avviso, invece, i segni sulla spalla sinistra sono una formula retica preesistente alla iscrizione venetica e devono essere letti come XII > = ii· (il segno > denota la fine della parola). ii potrebbe essere una forma non contratta di i < ii < *ihi ‘acceptum, acceptio’. La sequenza IXII (cioè IXII = ii· o forse IXII = ·i·) è incisa sul manico di simpulum da Làgole dell’iscrizione Ca 67.36 In Ca 31 la formula retica è I I X I I = · ii · “fervor”. Per le questioni fonetiche poste nel § 6 sono interessanti gli sviluppi delle formule prima citate. Sul manico del simpulum di Ca 68 la formula finale retica è I 5, da leggere in senso sinistrorso. Poiché nelle is36
Qui ed in seguito l’abbreviazione Ca seguita da un numero si riferisce alla catalogazione delle iscrizioni venetiche del Cadore adottata da Pellegrini – Prosdocimi 1967 (con foto ed apografi) e da Prosdocimi 1988.
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crizioni venetiche di Làgole il segno usuale per [d] è proprio 6, la scritta 6I = è una versione recente di XI ‘acceptum, acceptio’ e denota l’esistenza di un fonema dentale sonoro [dh] o [d] che prima era assente o non era denotato come tale. Alla fine dell’iscrizione venetica Ca 64 la sequenza sinistrorsa di segni è XIX III6I = i hdi. Nel camuno recente il digrafo hp denota probabilmente [ph] o/e [bh], mentre th denota [th]. Quindi hd sarebbe un digrafo con cui si tenta di denotare in modo più preciso il suono che nel retico recente è espresso in modo approssimativo con 6= d e con X = th. Si tratta, però, di una grafia non codificata, visto che in precedenza è stato usato X per lo stesso suono. Ponendo i (con i) < *ihi = ii < *teki-t-e) e hdi = i, la formula retica è traducibile come “sia accettata la cosa gradita”. Il manico di simpulum di questa iscrizione è datato al IV secolo a.C., ma la presenza del digrafo hd mi induce a ritenere che l’iscrizione sia più recente (II–I secolo a.C.). Anche due dei tre gruppi di segni incisi su uno dei lati del simpulum con l’iscrizione venetica Ca 49 mets´o (Pellegrini – Prosdocimi 1967: II, 532) si possono coi trascrivere: IIXII (= IIXII = · ii·) e IIII 6I = ihdi [idi] o [idhi] I loro significati sono equivalenti: il secondo contiene il digrafo hd, mentre nel primo i segni di delimitazione sono uguali alla lettera i. La scritta I 6I su un’ascia di ferro da Sanzeno (IR 65) e su un’ansa di vaso di ceramica da Wattens (IR 104) deve essere letta idi : il segno 6non è una n di tipo latino come suppongono Mancini e Schumacher (2004: 190), ma è un d dell’alfabeto di Làgole. È probabile che anche il gruppo 8 si debba leggere idi. Se 1 sembra essere la sovrapposizione di due i (una sopra e una sotto il centro della figura) su X = th, la stessa sovrapposizione può essere vista in 8 su 2. Il segno 2 si trova in alcuni alfabetari camuni, ma appare soltanto una volta in una parola, dove denota il doppio pp : si tratta del teonimo Selpappa ‘Buon-Padre’ (Zavaroni 2006: 128). Ma qualche scriba retico potrebbe avere adottato il segno 2 per denotare [d] o [dh]. Com’è noto, la runa germanica 2 vale d : presumibilmente tale valore fu influenzato da qualche alfabeto alpino piuttosto che dal leponzio, dove 2 denota [ts]. In Fig. 9c possiamo leggere, allora, iu idi (d indica una qualsiasi dentale sonora) che ovviamente equivale a iu ii “acceptus fervor (sit)”.
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8. Conclusione Senza pretendere che le interpretazioni qui proposte siano considerate esatte o valide, spero di avere sufficientemente dimostrato che le iscrizioni retiche e camune del tipo XIVIXI non sono numeriche né marchi o sigle di proprietà, ma formule votive constituite da brevi parole. Le parole ed i loro grafi sono spesso disposti o legati in modo da creare una certa simmetria ed allitterazioni che dovrebbero accrescere il sentimento di potenza magica che certamente era attribuito alle rune retiche. L’Edda poetica contiene varie allusioni a tale potenza magica. D’altronde è proprio la comparazione con il germanico che dà la possibilità di interpretare la maggior parte del lessico retico, camuno ed etrusco (Zavaroni 2006b). Secondo le interpretazioni qui adottate, i termini retici i, i, ii, ii, iiu, u, ui, uiu, uu, i = ih, aa, aile ed i nomi e termini camuni Hohlu2, Kinpe, Selappa, nuu, Epu, Tiu, Ido avrebbero le stesse radici di termini germanici noti e presenterebbero anche un mutamento delle consonanti dentali affine a quello germanico. Nella sottostante tabella sono riportati gli elementi di comparazione più significativi proposti in questo contributo. etrusco, retico, camuno ret. ih ‘accipe’, ii ‘accipito’ etr. ret. cam. i < *ihi ‘acceptio’ ret. cam. iu < *ihu ‘acceptus’ ret. u ‘fave’, cam. ret. ui ‘fave(a)t’ ret. auile, uu ‘faustus’ ret. uiu ‘favens’, ave ‘fave’ cam. ret. ii > idi > idi ‘fervor’ ret. iiu ‘fervidus’, cam. eaio etr. lavus¸va, Eausva < *eidh-h2 ewuret. ih = i ‘tene, appropriati’ ret. nuiu, cam. nuu ‘votum’ cam. epu ‘Ops’ etr. epl ‘opus’, Epiur cam. hohlu2 ‘circulus, orbis’ cam. kinpe ‘genus’ cam. *seld- ‘bonus’
germanico
indoeuropeo
*pig-
*tek-
*au-dh-
*h2 ewh1 -
*id-
*h2 eidh-
*eig*neud*ab*hwehwla*kin-p*sel-(dh)-
*Heyk’*neudh*h3 ep*kwokwlo*gen(w)t*sel-
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Via Porta Brennone, 11 I-42100 R e g g i o E m i l i a e-mail: [email protected]
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Adrian Pârvulescu
Lat. volgus The image of a disorderly mass of people pressing closely against one another, trampling upon one another, or heavily treading the ground is at the origin of several words for “crowd”, “mob”, or “rabble”. Most of these terms are back-formations from verbs meaning “to press, trample, tread, or crowd”: 1. NE. crowd < OE. croda m. “crowd, throng” < croden pp. of creodan, crudan “to crowd, press, drive, push” (ca. 1000); cf. NE. crowd vb. intr. “to gather or congregate closely so as to press upon one another” (ca. 1400).1 2. MLat. pressura “crowd” < pressare “to press”.2 3. OFr. presse f. (ca. 1040) “crowd, multitude of people pressing one another” < OFr. presser “to press” < Lat. pressare “to press”.3 4. It. pressa f. (XIII c.) “press, pressure, crowd, crowding, throng, crash” < pressare (ca. 1410) “to press”.4 5. SCr. tisˇma, tiska “crowd, throng” < tiskati “to press”.5 6. Czech. dav “crowd, throng, mob” < dáviti “to press”.6 7. Alb. truç m. “crowd” < truc (trus, trys) “to press, compress, squeeze”.7 8. OE. pring “press, crowd”, ME. throng “throng, crowd, mass”, ON. prong f., OE. ge-prang “throng, crowd, tumult”, OHG. ge-threngi, NHG. Ge-dränge “crowd, throng, crash”: all derivatives of Goth. preihan “to squeeze, press, oppress”, OHG. dringan “to force, press, push”, OE. pringan “to press (round, upon), crowd (together), throng”, ON. pryngva, pryngja, Ice. pröngva, OHG. thringan, MHG. 1 2
3
4 5
6 7
Bosworth/Toller, p. 170; OED., vol. 4, p. 67–68. Blaise, Dictionnaire latin-français des auteurs du moyen-age. Turnhout 1975, p. 730 s. v. See also Godefroy, vol. 6, p. 392 s. v. presseure. Godefroy, vol. 10, p. 412; Tobler/Lommatzsch, vol. 7, p. 1808–1812; Trésor, vol. 13, p. 1137 (the examples given are not convincing). Battisti/Alessio, vol. 4, p. 3070; Cortelazzo/Zolli, p. 1254. P. Skok, Etimologijski rjecˇnik hravatskoga ili srpskogo jezika. Zagreb 1973, vol. 3, p. 473–4. V. Machek, Etymologicky´ slovnik jazyka cˇeského. Prague 1968, p. 112. V. Orel, Albanian Etymological Dictionary. Leiden/Boston/Köln 1998, p. 467–8.
Indogermanische Forschungen, 112. Band 2007
DOI 10.1515/IDGF.2007.010
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drengan, NHG. drängen “to press, squeeze, throng, thrust, push”, OE. ge-pringen (pret. ge-prang) “to press, oppress”, etc.8 9. Gk. « n., pl. “masses, groups” <.IE. *steib(h)- “to crowd together”.9 10. NE. crush “a great crowd” < crush vb.10 11. Lith. minià “crowd, throng” < mìnti “to tread, trample down”.11 12. It. calca f. (before 1292) “crowd, throng, press, crush” < calcare (before 1306) “to trample, tread”.12 13. It. folla (ca. 1673) “crowd, throng, multitude, mob” < follare (ca. 1420) “to press, full, mill, trample”.13 14. OFr. fole (ca. 1172), Fr. foule “crowd, throng” < OFr. foler (ca. 1160), Fr. fouler “to full, stamp, tread, cast down, ill-treat, subdue”, etc.14 The last two examples have a common origin: MLat. fullare “to full cloth”15
9 10 11
12 13
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15
Bosworth/Toller, p. 456–7, 1065; OED., vol. 17, p. 1013 s. v. thring, vol. 18, p. 7 s. v. throng; Pokorny, p. 1093; Seebold, p. 520–1; A. L. Lloyd/O. Springer, Etymologisches Wörterbuch des Althochdeutschen. Göttingen/Zürich 1998, vol. 2, col. 754 s. v. drangon, col. 780–2 s. v. dringan. Pokorny, p. 1015. OED., vol. 4, p. 87. E. Fraenkel, Litauisches etymologisches Wörterbuch. Heidelberg/Göttingen 1962, vol. 1, p. 453. Battisti/Alessio, vol. 1, p. 671; Cortelazzo/Zolli, p. 272. Battisti/Alessio, vol. 3, p. 1678; Cortelazzo/Zolli, p. 597 (with an unconvincing semantic explanation). Godefroy, vol. 4, p. 112, vol. 9, p. 649; Tobler/Lommatzsch, vol. 3, p. 2005 s.v. fole, p. 2006–9 s.v. foler; Trésor, vol. 8, p. 1150 and 1153; Wartburg, FEW., vol. 3, p. 846. J. F. Niermeyer, C. van der Kieft, and J. W. J. Burgers, Mediae latinitatis lexicon minus. Leiden/Boston 2002, vol. 1, p. 597: XIII c.; Wartburg, FEW., vol. 3, p. 848.
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also trodden underfoot when the intention was to felt it, make it shrink or make it stronger. The fuller’s trampling movement was a characteristic “show” in Rome, and Seneca speaks of the saltus fullonicus “the fuller’s jump” (Epist. 15) among other “signature” body movements that could be seen in his time.16 These specific aspects of the fulling process explain why verbs for “full” developed semantically to “trample, press underfoot”. They also enable us to similarly derive Lat. volgus (vulgus) n. and m. “crowd, mob, mass, rabble, common people” from IE *Üolg- “to full, press, roll”, etc.17 This root includes a number of term for „full” and “felt” in the Germanic languages: OHG. walkan, MHG. walkan (past tense wielc), MDu., NHG. walken “to full, felt, kneed, pummel, codgel, mat, clog up, beat, thrash, cane”, Sw. valka, Dan. valke, Norw. valka “to full”, OE. wealcere “fuller” and ME./NE. walk “to full” (not attested before 1400, the latest occurrence in the OED. is 1814, cf. also 16
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On prehistoric fulling, finishing, and felting of wool cloth, see E. J. Barber, Prehistoric Textiles. Princeton 1991, p. 216–8, 283–5. On the history of fulling, see R. J. Forbes, Studies in Ancient Technology. Leiden 1958, vol. 4, p. 81–97. On Roman fullers, see W. Smith et al., Dictionary of Greek and Roman Antiquities. London 1890, vol. 1, p. 881–2 s.v. fullo; Ch. Daremberg/E. Saglio, Dictionnaire des antiquites grecques et romaines, vol. 2, part 2, p. 1349–52 s.v. fullonica (Jacob); J. P. Wild, Textile Manufacture in the Northern Roman Provinces. Cambridge 1970, p. 82–6. On relics of the ancient craft of fulling still performed in the twentieth century Austria, see V. Geramb, Wörter und Sachen 12 (1929), p. 37–46. Cf. Walde/Pokorny, vol. 1, p. 304 (*Üalg-); Pokorny, p. 1144; Seebold, p. 537–8 s. v. WALK-A-. The translation of volgus by “people”, NHG. Volk, or Fr. peuple used in some dictionaries (Leverett, Lewis/Short, Klotz, Quicherat, Benoist/ Goelzer) is at least misleading and should be avoided. From its first occurrences this term referred to a very low category of people. Thus, for Plautus volgare means “to prostitute” (Amph fr. 16 at Nonius Marcellus, De compendiosa doctrina. Ed. W. M. Lindsay. Leipzig [Teubner] 1903, vol. 1, p. 268 quae me absente corpus volgavit suum), also “to spread among the crowd”, and volgus denotes “rabble”: Mil. 1035 me inclamato, quia sic te volgo volgem “scold me, because I divulge you to the rabble this way”, if volgo ist not an adverb in this case. For Terence, volgus is the rabble shunned by young girls of mature attitude and seeking a relationship for life with men (Heaut. 386 quom … vitam tuam considero omniumque adeo vostrarum vulgus quae ab se segregant) and thus, by implication, volgus designates the clientele of the courtesans. For the same author, volgus mulierum quod male audit (Hec. 600) indicates “the mass of women of bad reputation” and volgus servorum (Andr. 583) “the common run of slaves” (trans. J. Barsby). Later on, volgus came to denote “common people, crowd, populace, mob”, etc.
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walk pin (for felting) recorded in 1831).18 Almost every aspect of the fulling operation may find its linguistic expression in this root. That trampling or stamping or treading with the feet was also the mark of the fuller’s profession in the Anglo-Saxon area is proven by the meaning “to pass over” (ca. 1000) wealcan showed in Old English19 and the connotation “to go from place to place, wander, journey, travel” walk had in Middle and Modern English.20 The jumping movement (cf. saltus fullonicus above) is reflected by Skt. valgati “to spring, bound, leap, dance”, valgita adj. “leaped, jumped, gone by leaps, moving to and fro”, valgita n. “bound, jump, spring”.21 The felting process involved not only beating and pressing of the wool into a compact mass evenly distributed, whence Dial.Norw. walken “to press, squeeze, push”, MDu. walken “to press, squeeze”, Dial.NHG. walken “to beat and hit”, but also the repeated rolling and pressing of this mass in order to make the fibers mat closely together, whence ON. valka “to form rolls of fat”, Sw. valka “to tuck up, turn up”, OE. wealcan “to roll, toss” and wealca m. “roller, wave, billow; garment that may be rolled round a person, muffler, wrap, veil”.22 18
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Bosworth/Toller, p. 1171; OED., vol. 19, p. 842; Kluge/Seebold, Etymologisches Wörterbuch der deutschen Sprache. 23. Auflage. Berlin/New York 1999, p. 872–3 ref. Prudentius Glosses in Germania XI. 400 emensus gewealcon apud OED., vol. 19, p. 838. See also Seebold, p. 537–8, and LIV., p. 676. See OED., vol. 19, p. 842, and Middle English Dictionary. University of Michigan Press 1999, vol. 13, p. 44–5. See Monier-Williams, Sanskrit Dictionary s. v.; Mayrhofer, KEWA., vol. 3, p. 164. To this series has also been added the desperate case of Hitt. walk-, walkiya“damage (?), mistreat (?)” (S. Kimball, MSS 53 (1992 [1994]), p. 81), a verb of “non entirely clear” meaning, “since it is preserved mostly in damaged or obscured contexts, but it seems to indicate an action with destructive, or at least unpleasant, consequences” (Kimball, op. cit., p. 82, see also J. Tischler, Hethitisches Handwörterbuch. Innsbruck 2001, p. 193 “Verbum: Bedeutung unbekannt, in bestimmter Weise schlagen oder misshandeln?”). At any rate, if the connotation “damage” is real, Hitt. walk- can be related to IE. *Üolg- “to full”, a parallel being seen in MLat. fullare “to full” > OFr. foler “to damage” (Wartburg, FEW., vol. 3, p. 848). Kimball reconstructs the IE. root as *welg-: *wolg- or *walg- “with a basic meaning “move with a rolling gait, move violently (?)”, trans. “perform a violent action or something” (ibid.). Unfit semantically is Toch.B walak- “to stay, tarry, abide, dwell”, which D. Q. Adams (A Dictionary of Tocharian B. Amsterdam/Atlanta 1999, p. 581) connects with PIE. *wel- “to turn, roll”, and J. Jasanoff with OE. wealcan and the IE. root *Üelhxg- (Hethitisch und Indogermanisch. Hrsg.
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Lat. volgus does not directly derive from the idea of “fulling”. The IE. root *Üolg- must have developed in Proto-Latin the connotation “to tread, trample”, similar to MLat. fullare “to full” > OFr. foler “to tread, trample, stamp (one’s foot)”, Sp. hollar “to tread”, It. follare “to press, trample”, and OE. wealcan *“to full” (cf. OE. wealcere “fuller”) > “to roll, toss”, intr. “to journey, wander, walk on foot”. Lat. volgus has been traditionally linked to Skt. varga,23 but this connection appears to be questionable. It must be pointed out from the outset that varga is recorded in dictionaries with two widely divergent meanings: 1. 2.
“one who averts, averter, remover”24 (mostly as the second part of a compound) “division, class, category, set, group, party”, etc.25
The first meaning, “averter”, etc., makes varga a cognate of varjati “to avert, remove” (Rig Veda), causative varjayati “to remove, avoid” (Mahabharata, Chandogya Up., etc.) and this sense is also confirmed by compounds and Avestan: pari-varga m. “avoiding, removing” vs. pari-varjati “to avoid” = Av. pairi-varwz “to avoid”.26 Since varjati is a
23
24
25 26
E. Neu/W. Meid. Innsbruck 1979, p. 85) or *ÜolHg- (Hittite and the Indo-European Verb. Oxford 2003, p. 76, where he adds Toch. B woloktär “rests” (= “turns in”) and Ved. valgáti “jumps”). He explains the absence of a laryngeal reflex in valgáti as due to Saussure’s law of laryngeal loss in the vicinity of *-o-. He also compares Toch. B woloktär < walak- to koloktär < kalak). Walde, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, Heidelberg 19102, p. 854; F. Muller, Altitalisches Wörterbuch. Göttingen 1926, p. 560–1; Walde/Pokorny, vol. 1, p. 296; Walde/Hofmann, vol. 2, p. 826–7; Pokorny, p. 1138. PW., vol. 6, col. 729 “Abwender, Beseitiger”; pw., vol. 6, p. 26 “Abwehrer, Beseitiger”; Monier-Williams, A Sanskrit-English Dictionary, Oxford 1979 (= 1899) p. 923–4 “one who excludes or removes or averts”. This meaning is not recorded in V. S. Apte, A Practical Sanscrit–English Dictionary. Lucknow 2002 (= 1890), vol. 2, p. 1393, and A. A. Macdonell, A Practical Sanscrit Dictionary. Oxford 1969 (= 1929), p. 270. Same references as at n.24. See L. Bloomfield, JAOS 35 (1915), p. 280. On the presence of -g- (varga) instead of the expected -j- (varjati), which is due to the action of analogy, see K. Brugmann, Kurze vergleichende Grammatik der indogermanischen Sprachen. Strassburg 1904, p. 158; J. Wackernagel, Altindische Grammatik. Göttingen 1896, vol. 1, p. 138–162, esp. 158–162; (J. Wackernagel)/ A. Debrunner, Altindische Grammatik. Bd. II, 2. Die Nominalsuffixe. Göttingen 1954, p. 92; T. Burrow, Sanskrit Language. London 1965, p. 78–9.
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reflex of IE *Üerg- “to turn, rotate, twist”27, it is obvious that between varga “averter, remover” and varjati “to avert, remove” on the one hand, and Lat. volgus “crowd, mob, rabble” on the other hand, there is no relationship whatsoever. The second set of connotations is the one suggesting the connection with Lat. volgus. We deal with a series of compounds, such as dasavarga “slaves, servants”,28 bandhu-varga „(the class of) relatives”, mitra-varga “(the class of) friends”, etc., where -varga denotes “the class” of similar things or is simply the mark of the plural. In another series, -varga designates phonetical categories: ka-varga “the class of the velar consonants, lit. “the ka-class”, ca-kara-varga “the class of the palatal consonants”, lit. “the ca-class”, ta-varga “the class of the dental consonants”, lit. “the ta-class”, etc. In other formations such as catur-varga “a group of 4 things”, lit. “the 4-group” or “the tetrad”, tri-varga “a group of 3 things”, lit. “the 3-group” or “the triad”, -varga plays the role of a suffix similar to NHG. -schaft29 or NE. -ship. Is there anything in these or in the previous examples that shows some similarity with Lat. volgus “mob, rabble, common people”? Can the notion of “category” or “class” or “group” be linked to that of “mob” or “crowd”? The obvious answer is no, “class” and “crowd” being in fact opposites. Whereas “class” can be defined as “a group of people or things having some attribute in common” (Oxford English Dictionary), “crowd”, “mob”, or “rabble” usually refer to a disorderly mass of people of indistinct components. One can compare Gk. «, a -mo- derivative of the IE. root *da-(dw-)l*dai-(dw i-) “to divide, cut to pieces” (Gk. , Skt. dayate “to divide”),30 which in Homer and Classical Greek denotes “district, land”, also “the citizenry exclusive of its rulers”,31 with Gk. « “throng, crowd, multitude”, a -- extension of IE. *pel-/ple- “to fill” (Gk. “to fill”), the basic 27
28 29 30 31
Walde/Pokorny, vol. 1, p. 271, cf. 281; Pokorny, p. 1154; Mayrhofer, KEWA., vol. 3, p. 243–4; id., EWAIA., vol. 2, p. 517–8 (*h2Üerg-). PW., ibid. Fact already noted by O. Böhtlingk, pw., vol. 6, p. 26. Pokorny, p. 1154. See W. Donlon, Parola del Passato 134 (1970), p. 384–5 and 391. In Mycenaean the same term designates an administrative division of land, see M. Lejeune, Revue des études grecques 78 (1965), p. 6–13. See similarly Lat. populus “the totality of the Roman citizens” in the official formula Senatus populusque Romanus.
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idea being that of a “filling” composed of indistinct material (cf. “landfill”). Therefore, Ernout/Meillet seem right when stating that Skt. varga “est loin pour le sens”.32 And if we are to consider particular connotations of varga such as “section, chapter, or division of a book” or “the square of a number” (pañca-varga “the square of five”, etc.), it will become again evident that it is quite difficult to argue for its relationship with Lat. volgus. In conclusion, the above interpretation of the terms related to the IE. root *Üolg- “to full” would require a rearrangement of the IE. roots involved. Thus, IE. *Üolg- “to full”, instead of being listed as a -g- extension of IE. *Üel- “to turn, wind, roll”,33 it should rather be attached to IE. *Üel- “to press”,34 where Lat. volgus is actually included, but together with the unfit Skt. varga.35 At the same time, it must be said that the two verbal roots, *Üel- “to press” and *Üel- “to roll”, were most likely identical at origin.36
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35 36
P. 749. On the other hand, the etymology of varga raises many questions. varga “averter, remover” has been traditionally linked to varjati (vflrnakti) fl “to turn, twist off, avert, remove”, etc. (see C. Uhlenbeck, Kurzgefasstes etymologisches Wörterbuch der Altindischen Sprache. Amsterdam 1899, p. 274; Walde/Pokorny, vol. 1, p. 271 ref.; Mayrhofer, KEWA, vol. 3, p. 244 [vrj*“wegdrehen, absondern”], cf. Walde/Hofmann, vol. 2, p. 287) and vflrnoti fl “to choose, select, prefer” (Walde/Pokorny, vol. 1, p. 281). varga “division, class, group”, etc. has been derived from IE. *Üer- “Schnur, Strick, damit binden oder ausspannen oder anreihen”, etc. (Walde/Pokorny, vol. 1, p. 263 and 266 n. 2) and IE. *Üel- “drangen, pressen” (Walde/Pokorny, vol. 1, p. 295–6; Pokorny, p. 1138; Mayrhofer, EWAIA, vol. 2, p. 517 ref. Mayrhofer’s remark (ibid.) that the stem varj- shows forms which actually belong to varh- (barh-) “to tear, pluck” and vras´c- “to cut down, cleave, hew” could be an excellent lead toward solving the etymology of varga, because words for “division, group, class, category” can derive from verbs meaning “to cut, divide, split” like NHG. Abteilung “division, group, side, section” from abteilen “to divide, separate, split up”. Walde/Pokorny, vol. 1, p. 298–304; Pokorny, p. 1140–4 (“drehen, winden, walzen”). LIV 675–6 does not connect the two. Walde/Pokorny, vol. 1, p. 295–6, Porkorny, p. 1138: 3. Üel- “drängen, pressen, zusammendrängen, einschliessen”. LIV., p. 674 considers only a root 1. Üel“einschliessen, verhüllen”. Pokorny, p. 1138. Pokorny, p. 1138 “ursprüngliche Gleichheit mit 7. *Üel- ‘drehen’ ist denkbar, da ‘pressen, zusammendrücken’ ursprüngl. ‘zusammenwinden’ sein kann.”
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A more difficult problem is the relationship, if any, between IE. *Üolg- “to full” and Lat. valgus adj. “having calves of the legs bent outwards, bow-legged, knock-kneed”. Latin philologists explained this term as qui diversas suras habent “with widely separated calves of the legs” (Paul. Fest.37.5 Lindsay) and glossed intortum “twisted” (ibid.). Modern linguists have linked Lat. valgus with Skt. válgati “to spring, bound, leap, dance”.37 Indeed, the “dance” or “jump” of the fuller might find here a perfect correspondence. But, as it will be seen from the following examples, in many languages this particular physical movement has been expressed with linguistic metaphors that are not even close to the idea of “jumping” or “dancing”: “bow”: NE. bow-legged; It. gambi arcuati (gamba “leg”, arcuato “curved like a bow”); Pol. pała˛kowatych nogach (noga “leg”, pała˛kowaty “bowlike”). “saber”: NHG. Säbel-beinig (Säbel “saber”, Bein “leg”); Turk. kiliçbacakli (kiliç „sword”, bacak “leg”). “plow-handle”: Sp. estevado (esteva “plow-handle”). “bench (with crooked legs)”: Fr. bancal (banc “bench”), bancroche (banc, crochu “crooked”). “curved stick”: NE. bandy-legged (bandy “curved club”); NE clubfooted; Hung. löcslábú (löcs “stake brace, prong, pole”, lab “leg”); Hung. dongalábú (donga “stave”). “wheel, circle”: Dan. hjulbenet (hjul “wheel”, ben “bone”); Hung. karikalábú (karika “circle”); Ice. hjólfœttur (hjol “wheel”, fœttur “feet”). “crooked leg”: Bulg. krivokrak (kriv “crooked, twisted”, krak “leg”); Czech. krˇivonohy´ (noha “leg”) = Russ. krivonogij = Pol. krzywonogi; Lith. kreiva kojis (kreivas “crooked”, koja “leg”); MGk.
« ( « “crooked”, “leg”); Turk. e˘gri bacakli (e˘gri “crooked”, bacak “leg”); Alb. këmbështrembër (këmbë “leg”, shtrembër “crooked”); Lat. vatax, vatius “with legs bent outwards, bow legged” (IE. *Üat- “to bend, twist”).
37
valgus: see F. Muller, Altitalisches Wörterbuch. Göttingen 1926, p. 519 ref.; Walde/Pokorny, vol. 1, p. 304; Pokorny, p. 1144; Walde/Hofmann, vol. 1, p. 728–9 ref.; Ernout/Meillet, p. 712; P. Schrijver, The Reflexes of the Proto-Indo-European Laryngeals in Latin. Amsterdam/Atlanta 1991, p. 464.
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“(wide) open”: Sp. patiabierto (pata “leg”, abierto “opened”); Skt. viralajanu (virala “having interstices, separate by intervals”, janu “knee”). “legs going forward”: Skt. pragatajanu (pragata “gone forward”). “feet all round”: Ice. kringilafœttur (kring “all round”, fœttur “feet”). It is obvious that the above survey does not offer any suggestion to a possible semantic link of Lat. valgus with the IE. root *Üolg-. A certain relationship between the two seems very likely, but at this point the semantic evidence is still wanting. Abbreviations Battisti/Alessio = C. Battisti, G. Alessio, Dizionario etimologico italiano. Firenze 1950–1957, vols. 1–5. Bosworth/Toller = J. Bosworth, T. N. Toller, An Anglo-Saxon Dictionary. Oxford 1973 (= 1898). Cortelazzo/Zolli = M. Cortelazzo, P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana. Seconda edizione. Bologna 1999. Ernout/Meillet = A. Ernout, A. Meillet, Dictionaire étymologique de la langue latine. Paris 19854. Godefroy = F. Godefroy, Dictionnaire de l’ancienne langue française. Paris 1880–1902, vols. 1–10. LIV. = H. Rix et al., Lexikon der indogermanischen Verben. Wiesbaden 20012 Mayrhofer, KEWA. = M. Mayrhofer, Kurzgefasstes etymologisches Wörterbuch des Altindischen. Heidelberg 1956–1980, vols. 1–4. Mayhofer, EWAIA. = M. Mayrhofer, Etymologisches Wörterbuch des Altindoarischen. Heidelberg 1986–2002, vols. 1–3. OED. = Oxford English Dictionary. Second edition. Oxford 1989, vols. 1–20. Pokorny = J. Pokorny, Indogermanisches etymologisches Wörterbuch. Tübingen/ Basel 1994 (= 1959), vol. 1. PW. = O. Böhtlingk/R. Roth, Sanskrit Wörterbuch. St. Petersburg 1868–1871, vol. 6. pw. = O. Böhtlingk, Sanskrit Wörterbuch in kürzerer Fassung. Graz 1959 (= Petersburg 1886). Seebold = E. Seebold, Vergleichendes und etymologisches Wörterbuch der germanischen starken Verben. Den Haag 1970. Tobler/Lommatzsch = A. Tobler, E. Lommatzsch, Altfranzösisches Wörterbuch. Wiesbaden 1915–. Trésor = Trésor de la langue francaise; dictionnaire de la langue du XIXe et du XXe siecle )1789–1960). Ed. P. Imbes. Paris 1971–1994, vols. 1–16. Walde/Hofmann = A. Walde, J. B. Hofmann, Lateinisches etymologisches Wörterbuch. Heidelberg 1938–1956, vols. 1–2.
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Walde/Pokorny = A. Walde, Vergleichendes Wörterbuch der indogermanischen Sprachen. Hrsg. J. Pokorny. Berlin/Leipzig 1927–1932, vols. 1–3. Wartburg, FEW. = Walter von Wartburg, Französisches etymologisches Wörterbuch. Leipzig/Berlin 1934–.
101 Washington Avenue S u f f e r n , N e w Yo r k 10901 U.S.A. [email protected]
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Daniel P. Quinlin
Wulfila’s (mis)translation of Philippians 2:6 The fourth century was a crucial period in the development of the early Christian Church, because an important theological controversy was coming to a crux over the nature and divinity of Jesus Christ. One theological camp held to the position that Jesus was of the same essence as, or consubstantial with, God the Father – a theological position whose victory at the Council of Nicæa in 325 was evidenced in the formally recorded and hence oft-repeated statement in regard to Jesus’ deity in the Nicene Creed: Greek: “ ,
, ²
) II ” Latin: “genitum, non factum, consubstantialem Patri” English: “begotten, not made, of one being with the Father” The other theological camp, championed by a presbyter by the name of Arius (ca. 256–336) challenged this doctrine of “homoousia.” Arius argued that Jesus was neither co-eternal, nor one with God the Father, although the theological umbrella of Arianism covers a variety of positions that allow for Jesus’ acquisition of divinity at some point in his life (e.g., at his baptism). One of the adherents of Arianism was a young man by the name of Wulfila (ca. 310–382), the eventual translator of the Bible into the Gothic language, who was educated in Constantinople, the home of Arius and the battleground of the Arian controversy. While relatively little is known about the person of Wulfila, his siding with Arian theology is clearly revealed through historical evidence, as, for example, James Marchand1 points out in his translation of a letter from the margins of a manuscript of Ambrose’s “De Fide” by Auxentius of Durostorum, the foster-son of Wulfila, in which he denies that Wulfila was a heretic: “The Homoiousians, however, he [Wulfila] put to flight, since they defended the assumption that they [God and Jesus] were not of com1
Marchand, James, Auxentius on Wulfila: Translation by Jim Marchand.
Indogermanische Forschungen, 112. Band 2007
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parable but different substance. And he [Wulfila] did not preach the Son to be similar to his Father according to the fraudulent Macedonian depravities and perversities against the Scriptures, but according to the Divine Scriptures and Traditions.” Auxentius went on to write that on his death bed Wulfila uttered the following credo: “I, Wulfila, Bishop and Confessor, have always believed thus and in this sole and true faith I make my journey to my Lord, I believe that there is only one God the Father, alone unbegotten and invisible, and in His only-begotten Son, our Lord and God, creator and maker of all things, not having any like unto Him. Therefore there is one God of all, who is also God of our God, and I believe in one Holy Spirit, an enlightening and sanctifying power.” Then, Wulfila purportedly ended with this statement in which he compared his relationship to Christ with Christ’s relationship to God the Father: “[I am] Neither God nor Lord, but the faithful minister of Christ; not equal, but subject and obedient in all things to the Son. And I believe the Son to be subject and obedient in all things to God the Father.” Wulfila’s adherence to the Arian “heresy”, as deemed by his opponents whose homoousian theology eventually prevailed as doctrine in the Roman Catholic Church (and later in most protestant denominations), may well be one reason why Wulfila and his remarkable achievements are relatively unknown in theological circles today. Nevertheless, Wulfila’s work remains a linguistic icon in Germanic studies, and its importance as a reflection of its cultural and historical setting is often underestimated. While the modern scholar tends to view Wulfila’s translation as a linguistic document, Wulfila’s intent was to produce a theological document, and as such, it could potentially bear witness to his Arian interpretations of the original text. As part of his theological education in Constantinople, Wulfila was undoubtedly trained in both Greek and Latin – tools that proved essential to his translation of the Scriptures. He apparently worked from several Greek manuscripts, and presumably had Old Latin manuscripts with which to compare. And as was typical for translators of the day, he was dogmatically literal in his translation from the Greek,
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generous in transliterations (as was Jerome, whose Vulgate translation is basically contemporary with the Gothic translation), and clearly attempted to follow Greek word order and even syntax to an extent that one must wonder at times how “Gothic” Wulfila’s translation really was. Yet for a linguistic-theological study, Wulfila’s literal consistency is an asset in determining if any traces of Wulfila’s Arian beliefs are evident in his Gothic translation. Such a study must begin, of course, with biblical passages that would arguably address the divinity of Christ. Such a study is also dependent on the passages that are still extant, and unfortunately, many passages that would be of interest (e.g., John 1, Hebrews 1, and 2 Peter 1) are not found in the existing manuscripts. But in the second chapter of Philippians, one finds a curious and inaccurate word choice – a choice that also agrees with Wulfila’s theology. Table #1 Philippians 2:6 Greek (Aland):
“χ« φ9 4 μ π μ ρ ) !” Gothic (Wulfila): “saei in gudaskaunein wisands ni wulwa rahnida wisan sik galeiko guda” Latin (Vulgate): “qui cum in forma Dei esset non rapinam arbitratus est esse se aequalem Deo” English (KJV): “Who, being in the form of God, thought it not robbery to be equal with God” While Gothic gudaskaunein ‘form of God’ is potentially of interest in this semantic-theological study, it is a hapax legomenon, and as such it is difficult to draw firm conclusions about its usage (although the meaning and etymology of the related Gothic root skauns ‘beautiful’ makes its appearance as a translation of Greek 9 rather suspicious). Of even greater interest here, however, is appearance of the Gothic adverb galeiko, Wulfila’s choice for the translation of Greek " . As seen in the Table #2, galeiko is used four times in Wulfila’s translation in addition to the occurrence in Philippians 2:6 (although related verbal and adjectival forms are common2), and in these pas-
2
Wulfila used the related verbal and adjectival forms galeiko¯n and galeiks fourteen times (often in Gospel parables) to translate Greek the Greek root ²
-
Wulfila’s (mis)translation of Philippians 2:6
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sages (Matthew 7:24, Matthew 11:16, Luke 7:31, and Galatians 5:21) one observes important parallels: Table #2 Matthew 7:24 Matthew 11:16 Luke 7:31 Galatians 5:21
Greek ²
²
$ ²
$ ²
Gothic galeiko galeiko galeiko galeiko
Latin (Vulgate) adsimilabitur similem similes similia
English (KJV) liken liken liken such things
From these contexts, Gothic galeiko clearly exhibits a meaning equivalent to ‘like’ or ‘similar’. Of particular interest, however, is that galeiko corresponds consistently to Greek forms with the root ²
-. (The forms in Matthew 7:24, Matthew 11:16, and Luke 7:31 are from the verb ² ‘to make like’, ‘liken’, whereas the form in Galatians 5:21 is from the related adjective ² « ‘like, resembling’.) Likewise, it is noteworthy that in these same four passages the Vulgate shows a consistent use of forms with the root simil-; clearly, the Greek, Latin and Gothic words have similar connotations! The fifth and final attestation of galeiko in Gothic occurs in Philippians 2:6, a passage that speaks to Jesus’ equality with God, and the parallels noted in Table #2 are curiously missing: Table #3 Philippians 2:6
Greek Gothic " galeiko
Latin (Vulgate) aequalem
English (KJV) equal
One possible explanation of this deviation from the expected translation could be that Wulfila used a different Greek manuscript from the other translators – a manuscript that exhibited a word other than " . This, however, is highly unlikely, since all known Greek manuscripts of Philippians 2:6 exhibit " , and it is doubtful that Wulfila would have had access to different (and now unknown) ‘like/similar’ (Matthew 6:8, Mark 4:30, Mark 7: 8, 13, Mark 12: 31, Mark 14:70, Luke 6:47, 48, 49, Luke 13:21, John 8:55, Romans 8:3, Romans 9:29, Philippians; 2:7), five times in the Epistles to translate Greek # ‘form/shape’ (Romans 12:2, 1 Corinthians 4:6, 2 Corinthians 11: 13, 14, 15), and six times in the Epistles to translate Greek ‘imitate’ (1 Corinthians 11:1, Ephesians 5:1, Philippians 3:17, 1 Thessalonians 2:14, 2 Thessalonians 3:7, 9).
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manuscripts from that which Jerome had at his disposal for his Vulgate translation. If, then, one can assume that Wulfila was attempting to translate the word " , one must then determine its meaning in Greek, which is easily done, as it is clearly attested in Attic and koine literature as well as in modern Greek, and it is accurately translated aequalem ‘equal’ in the Vulgate. So, one must ask, is it possible that the meaning of ‘equality’ was within the scope of galeiko, or did Wulfila just miss the mark on this one? In fact, it would appear that Wulfila’s translation of " in Philippians 2:6 is inconsistent with his translations found in three other verses where, in Greek, an adjectival form of " « is found: Table #4 Greek Mark 14:56 Mark 14:59 Luke 6:34
Gothic " " "
Latin (Vulgate) samaleikos samaleika samalaud
English (KJV) convenientia conveniens aequalia
agreed agree as much
While it is noteworthy that in Mark 14 Wulfila used a compound with the same root (-leik-) as in galeiko, his consistency in these three passages in using a compound with sama- ‘same’ is of particular interest. One wonders, then, why Wulfila would not have chosen a similar construction in Philippians 2:6. In other words, in this context the prolific adverb samaleiko ‘likewise, in the same way’ would seem to have been at least a closer translation than galeiko. To be sure, this is a point of interest, yet in light of the license taken in the Latin and English translations, one can still give Wulfila some benefit of the doubt. That is, until one considers one final point. Is it possible that galeiko had enough of a connotation of equality in Gothic, as in modern German gleich, to render it as equivalent to Greek " ? While the compounds with sama- mentioned above cast some doubt on this, the clearest refutation of this idea comes from two passages in the Skeireins, a Gothic commentary on the Gospel of John. And even though the authorship of the Skeireins is disputed, the following passages shed great insight into the current discussion. Skeireins 1:2 exhibits the following phrase: “ni ibna nih galeiks unsarai garaihtein,” ‘neither equal nor like our righteousness’. And in Skeireins 5:9 one finds the phrase: “ni ibnaleika frijapwa ak galeika,” ‘not equal love, but like’. These passages clearly show that there was a
Wulfila’s (mis)translation of Philippians 2:6
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contrastive difference between ibna, meaning ‘equal’ and galeik, meaning ‘like’, and thus, Wulfila had the option of connoting equality through some form of the word ibna. But since these passages are not translations from Greek, what evidence exists that some word containing the root ibna was a viable option for translating the concept of Greek " ? Four passages are particularly pertinent: Table #5 Greek
Gothic
Latin (Vulgate) Luke 20:36 %&
ibnans aequales aggilum enim angelis 2 Corinthians 8:13 %' « ibnassau aequalitate 2 Corinthians 8:14 %'« ibnassus aequalitas Colossians 4:1 %' ibnassu aequum
English (KJV) equal unto the angels equality equality equal
These examples indicate a direct correlation between the Greek root %- (denoting equality) and the Gothic root ibna, and in these translations Wulfila clearly identified Gothic ibna as an appropriate translation for this concept; furthermore, he did so for every occurrence of Greek %-, except in Philippians 2:6. Thus, in his translation of Greek " in Philippians 2:6, Wulfila had the choice to use a more accurate term, i.e., some form of ibna (perhaps unattested *ibnaleiko?); yet he chose a different, almost generic word. So what conclusions can be drawn from this evidence? It is clear that Wulfila was predictably consistent in his translation of the Greek roots ²
- (with galeiko, meaning ‘like’) and %- (with compounds such as sama-leik- or sama-laud-, or even better, ibna- meaning ‘equal’). The one exception to this pattern, however, is found in his choice to translate Greek " as galeiko in Philippians 2:6, and there is no linguistic reason for this striking deviation from Wulfila’s predictable pattern of translation. There is, however, a theological reason. Clearly, this passage speaks directly to the issue of equality or “homoousia” of Jesus Christ, a theological concept, with which Wulfila was at odds. How tempting must it have been for Wulfila as a translation committee of one, and with few contemporaries multi-lingual enough to challenge his word choices, to consider just a small bite from his tree of knowledge, and enjoy the fruit of bringing a troublesome phrase more in line with his personal beliefs! The evidence suggests that in Philippians 2:6, Wulfila yielded to that temptation and
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made a deliberate mistranslation of a word that his Arian theology could not reconcile, that Jesus Christ was equal to God. Bethel College 300 E. 27th Street N o r t h N e w t o n , KS 67117 U.S.A. [email protected]
D a n i e l P. Q u i n l i n
The cognates of the Gothic masculine i-stems
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The cognates of the Gothic masculine i-stems A few years ago I examined the Gothic ti-abstracts and their cognates throughout Indo-European (Brosman 1994a). The study served as part of a larger process of verification of the proposal that inheritance of the cognates of the Hittite ai- and au-stems provides the means of explaining the first arbitrary athematic feminines as well as the Latin i-stems with nom. sg. -e¯s, the derived nouns of the Latin fifth declension, the Baltic e¯-stems and the Greek nouns in -«, -« and - (Brosman 1984). Subsequently it has been proposed that the i/ya¯-, iand u¯-stems were of the same origin (Brosman 1994b). According to these views Anatolian and Indo-European inherited eight types of diphthongal noun consisting of e¯i-, o¯i-, e¯u- and o¯u-stems of each original gender. In Hittite phonological mergers within the long diphthongs reduced this number to four, the common and neuter ai- and au-stems. In Indo-European identical forms of the nominative singular produced by the loss of the second element of long diphthongs caused confusion between the i- and u-stems, while identical forms among the oblique cases led to confusion between the e¯- and o¯-types and between the diphthongal nouns and the zero-grade i- and u-stems. Presumably because of the long vowel of the nominative singular, the diphthongal nouns were transferred to the newly arisen pre-feminine gender, with the result that the original neuters adopted animate forms of the accusative singular and the nominative and accusative plural, thereby causing confusion between the inherited animate and neuter forms. Subsequently the diphthongal forms were lost throughout most of Indo-European. Four principal methods of elimination were originally proposed, one of which, thematicization, has since been found to have been erroneous. The three still held to have been employed were conversion to zero-grade i- and u-stems, transfer to the distinctively feminine a¯-stems and the spread of the long vowel of the nominative within the paradigm. A later proposal, which was considered the first step in the development of the i-, u¯- and i/ya¯-stems, was the replacement of the nominatives in -e¯(s) and -o¯(s), each of which occurred among both the i- and u-stems, by distinctive forms in -i(s) among the Indogermanische Forschungen, 112. Band 2007
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i-stems and -u¯(s) among the u-stems. In addition to extending the confusion between the diphthongal i- and u-stems to the zero-grade forms, the conversions to zero-grade i- and u-stems were held to have produced the first arbitrary athematic feminines. It was recognized that prior to the existence of athematic feminines referring to females the conversion of pre-feminine or feminine diphthongal nouns would have resulted in animate (pre-masculine) or masculine zero-grade forms, since at that stage gender remained linked to form as it was in Hittite and the i- and u-stem nouns of animate form belonged to the pre-masculine or masculine gender. However, after the origin of athematic feminines with female referents had severed the link with form, the converted diphthongal nouns presumably would have remained feminine and thus would have included the first feminines which were formally indistinguishable from masculines but did not refer to females. When the original proposals summarized above were made, two procedures were suggested for their verification. One was taking each of the nominal classes proposed to have preserved traces of an inherited diphthongal type and examining the cognates of every member throughout Indo-European. The other was similar studies of the i- and u-stems in the older Indo-European dialects. In the cases of the Greek and Latin types of proposed diphthongal origin, the former has been completed (Brosman 2004 and references). The results indicated that each of the types examined was diphthongal in origin or that Indo-European had indeed inherited e¯i-, o¯i-, e¯u- and o¯u-stems. Since the Hittite forms show that the diphthongal i- and u-stems each included both animate and neuter nouns, it appears probable that the full proposed complement of eight diphthongal types was realized. The evidence of the cognates also supported occurrence of the change of gender and of confusion of every possible sort among the original diphthongal forms. That four of twelve Baltic cognates were e¯-stems was consistent with the diphthongal origin of that type. Although support was also found for transfer to the a¯-stems, conversion to zero-grade i- and u-stems seemed clearly the most important of the methods employed in the elimination of the diphthongal forms. Concerning thematicization, however, the evidence appeared inconclusive at best. More recently a closer examination of it has indicated that thematicization should no longer be proposed to have been among the principal means used to eliminate the diphthongal nouns (Bros-
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man 2006). Otherwise the evidence of the Greek and Latin forms apparently confirmed all of the original proposals except that concerning the origin of the arbitrary athematic feminines. Although it appeared that the circumstances under which they were held to have originated indeed existed, little bearing more directly on this question was revealed. The examination of the Gothic ti-abstracts was undertaken as the first step in use of the second suggested method of verification. Although it had originally been intended to treat all of the Gothic i-stems, it was found that they were too numerous to be considered in their entirety in a single article or, for that matter, in a pair of them. The evidence based upon Gothic indicated that the first PIE ti-abstracts resulted from the conversion to zero grade of diphthongal abstracts in *-te¯(i)- and *-to¯(i)-. In this connection it was noted that the existence of diphthongal ti-abstracts is apparently established by Gk. ‘substance’, a derivative in *-to¯(i)- of es- ‘be’, which occurred also in four compounds (Schwyzer 1939: 478). Since one of the compounds, ‘well-being, prosperity’, corresponded precisely (apart from inflection) to Skt. svastí- ‘health’ (Pokorny 1959: 342), it also appears that in at least one specific instance a typical ti-abstract can be identified as having stemmed from an earlier diphthongal form. The Gothic material also provided the first substantial support for the proposed origin of the arbitrary athematic feminines by indicating that the diphthongal ti-forms were converted first to masculine zero-grade forms but later to feminines. It thus appeared likely that the change in the gender of the converted forms coincided with the origin of athematic feminines. Of sixteen Gothic ti-forms with extra-Germanic cognates, eleven stemmed from etyma with variants containing full and/or unaccented zero grade of the root, while the other five were ambiguous from this point of view. It thus seemed clear that, despite the familiar observation that the ti-abstracts typically contained accented zero grade of the root, there had originally been a great deal of variety among them with respect to gradation and accent. Seventeen forms with cognates confined to Germanic provided only two additional examples of this variety. From the near coincidence of the forms involved in the variation and those with attested extra-Germanic cognates, it appeared that accented zero grade did not begin to become usual until shortly before the end of the period of unity or that full or unaccented zero
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grade of the root, like possession of an extra-Germanic cognate, could be considered evidence of early origin. As was to be expected, the Gothic ti-forms were almost entirely feminine. However, six of them, including one which was itself masculine in Gothic, possessed cognates which occurred as masculine, though in no case exclusively, elsewhere in Germanic. Since it is quite improbable that ti-abstracts feminine in Proto-Germanic would have been transferred to the masculine in one or more separate Germanic dialects without special motivation, it was concluded that these forms were original masculines which had retained their gender in ProtoIndo-European and Proto-Germanic but finally succumbed in part to the analogical influence of what had become an overwhelming majority of feminines. That five of the six apparent original masculines possessed extra-Germanic cognates was consistent with this view. Moreover, the only such form without an extra-Germanic cognate displayed a variation in gradation within Germanic that indicated that it too was early. From this point of view, four of the six presumed masculines were involved in variation as to gradation and/ or accent, while two were ambiguous. From these figures it appeared that, collectively at least, the masculine ti-forms were considerably earlier than the feminines, since most of the apparent feminines neither possessed extra-Germanic cognates nor were identifiable as involved in the formal variation (Brosman 1994a: 355–8). If the ti-forms were of diphthongal origin, several should have possessed variants in *-tu- because of the confusion between the diphthongal i- and u-stems. For example, among the cognates of the Latin forms of apparent diphthongal origin and the Greek nouns in -, all of which presumably stemmed immediately from diphthongal i-stems, i-stems outnumbered u-stems by only ten or eleven to eight (Brosman 1992: 335). That the diphthongal ti-abstracts participated in the confusion and acquired tu-variants as a result is indicated by Gk. ‘absence’, another of the compounds of , and its variant « (Brosman 1992: 325). Indeed the sixteen Gothic ti-forms with extraGermanic cognates included ten with apparent variants in *-tu-. Among the remaining Gothic forms only two with variants occurred, one of which was a presumed original masculine with full-grade cognates in Germanic. From these points of view the twelve forms with variants included eight of the thirteen certainly involved in variation as to gradation and/or accent and five of six with masculine cognates.
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The early origin of the tu-variants indicated by these figures supported the conclusion that they were produced by the confusion between the diphthongal i- and u-stems. If, conversely, the proportion of forms with variants is taken as a measure of the age of the three other groups, one finds again that one can hardly distinguish between the forms containing full or unaccented zero grade and those with extra-Germanic cognates, while the presumed original masculines, also as before, appear distinctly the earliest. Since the evidence of the tu-forms indicated that the ti-abstracts had originally been diphthongal, it appeared that the most likely explanation for the occurrence of a handful of early masculines alongside a large majority of feminine ti-forms was that the diphthongal ti-abstracts had been converted originally to masculine zero-grade forms but later to feminines (Brosman 1994a: 358–60). The purpose of the present article is to continue, but not complete, examination of the Gothic i-stems by beginning consideration of the nouns not containing a recurring suffix such as *-ti-. As indicated earlier, at least three articles will be required to deal with the i-stems in their entirety. Indeed it now appears that a single article will not suffice to treat all of the forms without a derivational suffix. Fifty-two Gothic nouns held to have been of that sort1 occurred as i-stems at least on occasion. Twenty-three were feminine, twenty-six masculine and three of variable or unknown gender. If the proposal concerning the arbitrary athematic feminines is correct, all inherited feminine i-stems should have been original diphthongal nouns. The inherited masculines should include all of the original animate zero-grade i-stems but should not be confined to such forms. As has been noted, original diphthongal nouns could have produced masculines through the conversion of feminine diphthongal forms to zero grade prior to the origin of athematic feminines referring to females. That such a development appears actually to have occurred was seen here earlier in connection with the ti-abstracts. Indeed it appears that the proportion of masculines among the forms of apparent diphthongal origin should be expected to be sub1
Except where specified otherwise, the identification here of forms with and without suffixes has been based as before on the views expressed by the dictionaries of Feist (1939) and Lehmann (1986).
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stantial. In addition to the proposals summarized here at the outset, which concerned developments among the diphthongal nouns as a whole following the loss of the second element of long diphthongs, others were more recently made concerning the history of the diphthongal i-stems prior to the phonological change (Brosman 2005), most of which should also be verifiable by studies of the present sort. It was noted that since the Hittite common ai-stems, the Latin i-stems with nom. sg. -e¯s and the Greek nouns in - were all closely associated with verbal abstracts (Sturtevant 1937: 61–2; 1951: 69; Friedrich 1960: 39; Kronasser 1966: 204–5; Ernout 1965: 23–4; Kuryłowicz 1966: 19–20; Schwyzer 1939: 478; Brosman 2005: 191–4), it seems clear that the animate e¯i- and o¯i-stems were productive in the derivation of such forms prior to the separation of Anatolian. Evidence that the productivity continued beyond the separation was found in Hittite, where the occurrence beside the secondary verbs maniyahh- ‘govern’ and istarnink- ‘sicken’ of the further derivatives maniyahhai- ‘government’ and istarningai- ‘sickness’ indicated that the ai-stems were still productive in the derivation of action nouns in pre-Hittite (Friedrich 1952: 135, 92; Puhvel 1984-: 6.49–51; 2.476). It thus is possible that in Proto-Indo-European the animate diphthongal i-stem abstracts remained productive until their paradigms were disrupted by the loss of the second element of long diphthongs. That such was in fact the case was suggested by a comparison of the semantic characteristics of the Hittite common ai-stems and the Greek and Latin types presumably of diphthongal i-stem origin, which found that the association with verbal abstracts was closer among the Indo-European forms than it was among those of Hittite (Brosman 2005: 197–9). Confirmation that this is what occurred is apparently provided by the semantics of the zero-grade i-stems. In Hittite the ai-stems were associated with action nouns but the i-stems were not. However, in Indo-European i-stem forms of both types displayed a close connection with verbal abstracts. As has been noted previously (Brosman 1994a: 351), since conversion to zero grade was the most important means employed in the virtual elimination of the diphthongal nouns as a whole, an obvious explanation for the zero-grade abstracts of Indo-European is the conversion of diphthongal abstracts to zero-grade forms. Since a large majority of the Indo-European i-stems consisted of action nouns (Brugmann 1906: 167–70), it thus appeared that at the time of the loss of the second element of long diphthongs the animate diphthongal
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i-stems were perhaps more numerous than the corresponding zerograde forms or that the diphthongal abstracts had indeed remained productive until the occurrence of the phonological change. The same evidence also implied that the animate diphthongal i-stems of other meanings were not appreciably productive in Proto-Indo-European, though those that had been inherited presumably were preserved for the most part. In his discussion of the i-stems Brugmann (1906: 167–9) provides a lengthy list of examples illustrative of the fact that most of the i-stem substantives were original abstracts. That approximately a third of the action nouns listed were masculine indicated that the proportion of masculines among the i-stems of diphthongal origin must have been appreciable. However, since Brugmann’s list was not intended to be complete, nothing more specific could be determined concerning the relative frequency of the genders. Under these circumstances it was proposed that the former diphthongal nouns contained a feminine majority but also included a masculine minority of substantial but otherwise uncertain size. It was also noted that the evidence concerning the zero-grade forms not only indicates that the number of masculine i-stems of diphthongal origin was substantial but apparently provides a means of identifying such forms in addition to that of their cognates. Since zero-grade i-stem abstracts were not inherited, it appears that i-stem abstracts, masculine as well as feminine, should have been original diphthongal nouns. Although it must be considered conceivable that the zero-grade abstracts themselves became productive after the association between the zero-grade forms and action nouns had been established in Proto-Indo-European, it will be seen here later that such appears not to have been the case. Although the evidence of the Gothic masculine i-stems for the most part supported the latest set of proposals, concerning one point it appeared to require their revision. It was primarily for this reason that it was decided to begin consideration of the i-stems without suffixes by discussing the masculines. Although it had originally been intended to continue verification of the proposed origin of the arbitrary athematic feminines by examining the feminine forms first, it was felt that the evidence concerning the masculines was of greater immediate interest, since it suggested an unexpected conclusion in addition to supplying the initial apparent confirmation of most aspects of the proposed productivity of the diphthongal i-stem abstracts, as opposed to fur-
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nishing further verification of a proposal for which support had already been found. Of the twenty-six masculines occurring at least in part as i-stems, two were set aside because their i-stem forms were apparently not inherited. The a-stem wêgs ‘wave’ and ja-stem andeis ‘end’ each occurred once as an i-stem. The evidence elsewhere in Germanic indicates that they were inherited a- and ja-stems which in both cases had acquired an analogical i-stem form in Gothic (Feist 1939: 556, 49; Lehmann 1986: 397, 36; Kluge-Seebold 2002: 995, 244). Three masculines referring to males, -faps in brup -faps ‘bridegroom’, hunda-faps ‘centurion’ and similar compounds, gasts ‘stranger’ and jugga-laups ‘youth’, were also eliminated, since semantics was capable of accounting for their gender (Feist 1939: 386, 110, 109, 276, 469, 506, 202, 303; Lehmann 1986: 275, 83, 82, 194, 337, 367, 149, 212). Although a fourth masculine, baúr ‘one born, son’ (Feist 1939: 84; Lehmann 1986: 64), also possessed a male referent, it will be seen here later that it was nevertheless of potential significance and probably had become masculine before semantics acquired a role in the determination of gender. Including it, twenty-one forms remain to be considered. In one way or another the Gothic evidence indicates that the number of masculine i-stems of diphthongal origin was more than merely substantial, for it appears that more than half of the masculines were former diphthongal nouns. It may first be noted that eleven of the twenty-one remaining masculines, each of which will be identified in the course of what follows, may confidently be identified as verbal abstracts. Six of the masculine abstracts were mentioned in the earlier article on the ti-forms. It was noted there that six of the Gothic ti-abstracts had beside them in Gothic originally abstract i-stems which differed from the ti-forms only in the absence of -t-. It appeared that one occurrence of such pairs of i-stem abstracts with and without -t- was probably due to coincidence. The two forms were us-drusts ‘rough road’ and drus ‘fall’ = OE dryre (m.). Since -drusts was without a cognate anywhere and the verb us-driusan ‘fall out’ occurred in Gothic, it seemed likely that us-drusts had been derived from us-driusan in pre-Gothic and that drus was a relic of an earlier means of deriving abstracts which by chance contained the same root. However, the five other pairs all included ti-forms identifiable on multiple bases as early. It was found that the number of apparently inherited pairs was increased to twelve by the inclusion of Germanic abstracts with-
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out -t- which did not occur in Gothic but only to thirteen when i-stems attested elsewhere in Indo-European were also included. That only one pair was added by the inclusion of those containing i-stems without -t- occurring outside Germanic is consistent with the fact that only three of the twelve such Germanic forms possessed precise extra-Germanic cognates. Apparently the i-stems without -t- were largely eliminated elsewhere by the existence of synonymous ti-forms beside them (Brosman 1994a: 362–3). Of the eight Gothic ti-abstracts added by the inclusion of those paired with i-stems without -t- which did not occur in Gothic, three had Germanic cognates but were otherwise ambiguous as to age. However, each of the other five was certainly early. When the latter were combined with the five inherited ti-forms with Gothic i-stems beside them, the ten forms included nine of the sixteen with extra-Germanic cognates, seven of thirteen involved in variation as to gradation and/or accent, eight of twelve with tu- variants and all six presumed original masculines. The obvious correlation between the age of the tiforms and the occurrence beside them of similar i-stem abstracts without -t- suggested that the latter stemmed from inherited diphthongal forms somehow involved in the origin of the corresponding abstracts in *-ti-. A further finding was that three of the ten ti-forms, -baúrps ‘birth’, staps ‘place’ and -qumps ‘assembly’, also had beside them in Indo-European abstracts containing -t- not followed by -i- (Brosman 1994a: 363–4). On the basis of this evidence an explanation was proposed for the origin of the diphthongal ti-abstracts. It was that the first such forms were quite few, perhaps hardly more numerous than the sources of -baúrps, staps and -qumps, and that they had arisen as blends of t-abstracts and synonymous diphthongal i-stems which stood alongside them through the occasional realization of both of two possible methods available for the derivation of verbal abstracts. Subsequently, during the confusion produced by the loss of the second element of long diphthongs, the number of diphthongal ti-forms was increased appreciably through the analogical alteration of abstracts in *-e¯(i)- and *-o¯(i)- to forms in *-te¯(i)- and *-to¯(i)- on the model of the blends in order to preserve their identity as abstracts. Ultimately almost all of the diphthongal ti-forms were converted to zero grade. Presumably the first such conversions occurred before the origin of athematic feminines and thus produced masculine zero-grade ti-
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forms. However, most of them must have taken place later, with the result that the zero-grade ti-forms acquired a feminine majority, which was subsequently augmented greatly, first by i-stem extensions to the t-abstracts, as proposed by Brugmann (1906: 422, 428) as the sole explanation for the origin of the ti-abstracts, and eventually by the independent productivity of the suffix *-ti- obtained through resegmentation. As has been indicated, all five of the Gothic i-stems with inherited ti-forms beside them were masculine. Since each of them possessed Germanic cognates, all of which were exclusively masculine also, they were presumably inherited masculines. The forms involved were: muns ‘thought’ = ON munr, OE myne (and Skt. múni- ‘sage’) beside -munds, -minds, qums ‘arrival, advent’ = OE cyme, OS cumi, OHG -cumi beside -qumps, slahs ‘blow’ = ON slegr, OE slege, OS slegi, OHG slag beside slaúhts (cf. OHG slaht), baúr ‘son’ (< ‘birth’) = ON baur, OE byre beside baúrps and naus ‘corpse’ (< ‘death, need’) = ON nár, OE -né (and OCS navц ‘corpse’) beside naups (Feist 1939: 368, 391, 436, 84, 372; Lehmann 1986: 260–1, 279, 314, 64, 264; Pokorny 1959: 728, 464, 131, 756; Brugmann 1906: 168). That the i-stems without -t- were masculine is not surprising, for three of the ti-forms beside them, -baúrps, naups and slaúhts, were themselves apparently original masculines (Brosman 1994a: 358) and thus had presumably also been converted to zero grade prior to the origin of athematic feminines referring to females. It is because -baúrps was one of the presumed masculine ti-forms that it appears probable that baúr was converted early enough to have become masculine before it acquired a male referent. Although -qumps and -munds, -minds were apparently feminine, each qualified as early by all three of the other usual criteria, extra-Germanic cognates, variation as to gradation and/or accent and tu-variants. Moreover, in the case of muns the original diphthongal nature of the i-stem may be substantiated, for in addition to the precise correspondences given above the forms related to it included an o¯(i)-stem, the Greek woman’s name M , M (Pokorny 1959: 727). There is evidence as well to support the diphthongal origin of naus in the Baltic e¯-stems Lith. nove˙ ‘oppression, death’ and Latv. nawe ‘death’ (Feist 1939: 372; Lehmann 1986: 264). Although the six remaining masculine abstracts did not have inherited Gothic ti-forms beside them, in the case of one, plaúhs ‘flight’, such a form occurred elsewhere in Germanic in OE flyht and OHG,
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OS fluht. Since flyht was masculine and the two others were feminine, the ti-abstract was presumably an original masculine as were six of those found in Gothic. Germanic cognates of plaúhs also occurred in OHG flug, OE flyge and ON flugr, all of which were masculine (Feist 1939: 499; Lehmann 1986: 363). The five other forms included four which like plaúhs had retained their original abstract meanings essentially unchanged. They were wlits ‘appearance’, saggws ‘song, recitation’, laiks ‘dance’ and the previously mentioned drus ‘fall’, which occurred beside the verbs seen in strong OE wlítan ‘see’, Got. siggwan ‘sing, shout’, Got. laikan ‘jump’ and Got. driusan ‘fall’. The only correspondence of drus was the masculine i-stem OE dryre cited earlier. Besides precise cognates in the masculines OS wliti and OE wlite, wlits possessed a u-stem variant in ON litr, while saggws, the only one of the forms with an extra-Germanic cognate, corresponded to the a¯-stem Gk. φ ‘divine voice, oracle’, which was also consistent with diphthongal origin. Although the Germanic forms beside saggws and laiks were strong masculines, they included a-stems in ON songr, ˛ OE sang and ON leikr, OE lác. It will be seen later that such forms seem more likely to have resulted from independent derivation than from confusion between the masculine i- and a-stems in Germanic (Feist 1939: 127, 571–2, 403, 319; Lehmann 1986: 95, 408, 302, 225; Pokorny 1959: 907). The source of the final form, saups ‘sacrifice’, evolved in different ways semantically within Germanic. Held to have stemmed from the verb attested in ON sjBa, OE séopan, OHG siodan ‘seethe, boil’, it became associated with sacrificial ceremony in North and East Germanic and with the turbulent water of springs elsewhere. Saups possessed a precise cognate in the masculine i-stem ON sauBr ‘sheep’ (presumably < ‘sacrificial animal’) and supplied another example of a Germanic u-stem variant in OE séap ‘spring, cave’. That the synonymous a-stem MHG sôt ‘seething, spring’ resulted from separate derivation seems clearer in this case since it occurred as both neuter and masculine (Feist 1939: 413; Lehmann 1986: 297–8; Kluge-Seebold 2002: 854). In addition to the eleven verbal abstracts, five of which had cognates indicative of diphthongal origin as well, two other masculines appear to have been former diphthongal nouns. Although both may also have been original abstracts, they could not be identified as such with the same certitude as the others. One is stiks = OHG stih, OS stiki, OE stice ‘point, prick’, which may be compared to Gk. «
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‘sticker, tattooer, branding iron’ regarded as a probable derivative of ‘pierce, puncture, tattoo, brand’ (Feist 1939: 453; Lehmann 1986: 325; Pokorny 1959: 1016; Frisk 1960–70: 2.798; Chantraine 1968–80: 1056; Brosman 2004: 14). That the Greek nouns in -« were diphthongal u-stems is no obstacle to a connection with the Germanic form in view of the confusion between the i- and u-stems established as having taken place among the diphthongal nouns. The second form is aiws ‘time, eternity’, which occurred in Gothic as both an a- and an i-stem. Since i-stems are also found elsewhere Germanic in ON aevi ‘life, age’ and OE ae(w) ‘law, marriage’, and as an a-stem aiws would have a precise cognate in Lat. aevus, aevum ‘age, eternity’, it appears that both forms should be considered to have been inherited. Because the Germanic evidence also includes an ô-stem and a form in -î(n) in OHG ewa ‘eternity’ and OHG ewî ‘law, marriage’, the i-stem appears to have originally been diphthongal. However, it differed in one respect from the other masculine i-stems which have been so identified here. Whereas the Germanic i-stem cognates of the other forms were exclusively masculine also, in the present case aevi and ae(w) were both feminine. It thus is not clear at this point whether its Proto-Germanic etymon should be considered to have been masculine or feminine (Feist 1939: 30; Lehmann 1986: 22). Of the twenty-one masculine i-stems to be considered here, there remain only eight which could apparently have been original zerograde forms: arms ‘arm’, balgs ‘bag, sack’, barms ‘bosom, lap’, gards ‘house, court’, hups ‘hip’, mets ‘food’, stafs ‘stave’ and staks ‘mark’ (Feist 1939: 58, 78, 81, 147–8, 277–8, 348, 446, 448–9; Lehmann 1986: 43, 59, 62, 147, 196, 247, 321, 322). Since Indo-European connections which are at least possible have been proposed for all of them, that is probably what most of them were. However, at least one, balgs, may provide an additional example of an original verbal abstract, for Feist (1938: 78), Lehmann (1986: 59) and Pokorny (1959: 126) consider it to be related to the strong verb OHG, OS, OE belgan ‘swell, be angry’. The noun corresponds to the masculine i-stems ON belgr ‘bag, belly’, OE belg and OS, OHG balg ‘bag’ in Germanic and elsewhere to MIr. bolg ‘sack’, which could be either an o- or an i-stem. However, even if all eight forms had been original zero-grade i-stems, they would be clearly outnumbered by the thirteen apparent former diphthongal nouns. It should be noted that there also occurred eight strong masculines which have not been included here, since they could not be identi-
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fied as a- or i-stems: hrôps ‘clamor’, grêts ‘weeping’, krusts ‘gnashing’, striks ‘hook’, waips ‘crown’, writs ‘stroke, line’, waúrms ‘snake’ and saiws ‘sea’ (Feist 1939: 470, 221, 315, 457, 544, 574, 555, 406; Lehmann 1986: 191, 160, 221, 328, 400, 410, 397, 292). However, since hrôps, grêts and krusts were obviously verbal abstracts (cf. OE, OS hrôpan, OHG hruofan ‘shout, call’, Got. grêtan ‘weep’ and Got. kriustan ‘gnash’), their inclusion among the i-stems presumably would merely increase the number of original diphthongal nouns among them. It may be added that, as held by Feist and Lehmann, the Proto-Germanic source of saiws was likely to have been a loanword. Although some of the four other forms may have belonged to the original zerograde i-stems, it appears that among the inherited masculine i-stems with inanimate referents, those of diphthongal origin were at least slightly more numerous than original zero-grade forms. Since the evidence of the ti-forms supported the view that all of the inherited feminine i-stems were diphthongal in origin, the Gothic evidence examined thus far therefore indicates that at the time of the loss of the second element of long diphthongs the diphthongal i-stems were considerably more numerous than those of zero grade or that the diphthongal i-stem abstracts had indeed been productive on an appreciable scale in Proto-Indo-European. The latest indications concerning the productivity of the diphthongal abstracts are consistent with the evidence seen when the question was discussed originally, for it was noted then that a large majority of the i-stem nouns consisted of verbal abstracts. The tentative conclusion proposed on that occasion was merely that the diphthongal i-stems had become perhaps more numerous than the zero-grade forms. However, it was stated at the same time that the only reason for describing the relative frequency of the two types in such vague terms was the possibility that the zero-grade abstracts themselves had become productive after they had originated and that otherwise the diphthongal forms would have been held to have been considerably more numerous (Brosman 2005: 201). The original contribution of the more recent evidence will thus be limited to an indication that, as will be seen below, the zero-grade abstracts did not become productive to a significant degree. Their failure to have done so should not be surprising, for although in an abundance of caution allowance was made for the possibility of such a development, there was little reason to expect it to have occurred. Although the zero-grade i-stems clearly
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acquired a close association with verbal abstracts, the ti-forms, which arose at approximately the same time, possessed a similar association which, since it was exclusive, was significantly closer. Since the tiforms are known to have become extremely productive in the derivation of abstracts, it is unlikely that the i-stem abstracts without -twould have concurrently been undergoing appreciable expansion. In this connection it may be noted that the evidence seen here earlier that the i-stems without -t- were largely eliminated outside Germanic by the existence of synonymous ti-forms beside them shows the outcome to be expected in the case of competition between i-stem abstracts with and without -t-. Although that evidence applied only to developments within the separate dialects, those during the period of unity would presumably have been similar. At any rate, productivity on the part of the zero-grade abstracts apparently played no role in producing the results seen here. The only Gothic masculines identified as abstracts which had extra-Germanic i-stem cognates were muns and naus. Since both of these forms appeared on the basis of their other correspondences to have been diphthongal in origin, there was no evidence of a PIE i-stem abstract which could have resulted from such productivity. Aside from the question of its relevance concerning the other conclusions reached here, the view that the zero-grade i-stem abstracts had originally been diphthongal now appears justified. Since i-stem abstracts were not inherited, the only alternative to the diphthongal origin of such forms is later productivity after they had arisen, which has been seen apparently not to have occurred, at least in the case of the masculine forms.2 Concerning this question support of a different sort was also found, for of the eleven masculine i-stems identified as abstracts, five possessed apparent cognates indicative of diphthongal origin, one of which was itself a diphthongal noun. The only possible cognates of a type not appropriate for a former diphthongal noun were the otherwise identical Germanic a-stems which occurred beside three of the Gothic abstracts. By indicating that the diphthongal i-stem abstracts remained productive in Indo-European, the evidence 2
As I hope to demonstrate before long, the evidence concerning the feminines is identical in that it includes no Gothic form with an extra-Germanic i-stem cognate which did not also possess other correspondences indicative of diphthongal origin.
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that the diphthongal i-stems were once considerably more numerous than the corresponding zero-grade forms supports the view that the a-stems were the results of independent derivation rather than cognates of an unexpected form. It now appears that the diphthongal abstracts were not entirely relics inherited from a period prior to the separation of Anatolian but that a considerable number of them had been derived later during the separate history of Proto-Indo-European. Since the o-stems were also associated with verbal abstracts (Brugmann 1906: 631) and newly derived o-stems of that and every other sort were being produced in large numbers at that time as part of the expansion which made them the most important Indo-European nominal type, it is plausible that the use of both of the two alternative methods available for the derivation of action nouns would sometimes have resulted in pairs of abstracts derived from the same verb. In addition to the three a-stems occurring beside certain verbal abstracts, one of the i-stems held to have been of diphthongal origin on the basis of cognates alone, aiws, had an a-stem variant in Gothic which apparently corresponded to Lat. aevus. That the same explanation applies to the o-stem in its case appears possible but is uncertain. As noted earlier, that aiws was an original abstract cannot be ruled out but is by no means clear. Although the Gothic evidence otherwise appeared consistent with the original proposals concerning the productivity of the diphthongal i-stem abstracts and its consequences, it conflicted with one, that concerning the relative frequency of the genders among the forms of diphthongal (or abstract) origin. It was proposed previously that the original diphthongal nouns contained a feminine majority but included a substantial masculine minority. However, the number of Gothic feminine i-stems which were apparently inherited was thirteen, the same as that of masculines identified as former diphthongal nouns. Therefore, even if all of the inherited feminines were of diphthongal origin as predicted, the Gothic material indicates that masculines were as numerous as feminines among the original diphthongal forms. Although a lack of space prevents the examination here of the cognates and other relevant related forms of each of the inherited feminines, the significance of their total number requires that the basis for its determination be given. Of the twenty-three Gothic feminines reported earlier to have occurred as i-stems, three were apparently orig-
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inal consonant stems. Though usually attested as i-stems dulps ‘festival’ and waíhts ‘thing’, both of which had Germanic cognates but were of uncertain origin otherwise, each occurred once as a consonant stem. Gaits ‘goat’ was an i-stem in Gothic but had consonant-stem cognates in Old Norse, Old English and Old Saxon, as well as an extra-Germanic correspondence in Lat. haedus ‘buck’ (Feist 1939: 129, 543, 186; Lehmann 1986: 97, 388, 140; Walde-Hofmann 1938–54: 1.632). It thus appears that all three were inherited as consonant stems by Germanic, where they became subject to the tendency there to convert feminine consonant stems to i-stems, in which case haedus may be explained through thematicization of the original consonant stem as a masculine o-stem for semantic reasons. Two other forms, qêns ‘wife’ and brûps ‘bride’, were set aside because of their female referents (Feist 1939: 386, 110; Lehmann 1986: 275, 83). Of the eighteen which remain, it is probable in one case and possible in four others that the i-stem was an original abstract derivative in *-ti-, *-sti- or *-sni-. The case considered probable is that of haifsts ‘strife’, which had Germanic cognates in the feminines ON heifst ‘enmity’, OE háest ‘enmity, vehemence’ and MLG heist ‘vehemence’ but is otherwise of uncertain etymology. Although neither Feist (1939: 231) nor Lehmann (1986: 169) identifies it as such, it is suitable in both form and meaning to have been a sti-abstract. The view here is that the Old Norse ti-variant heipt indicates that it was. The four other forms are dauhts ‘feast’, ga-grêfts ‘decree’, grips ‘standing’ and rôhsns ‘courtyard’ (Feist 1939: 116, 182, 222, 400; Lehmann 1986: 88, 138, 161, 287). Concerning them there is little that can be said, for each is without a certain connection anywhere. It thus appears that the inherited feminines with inanimate referents included a minimum of thirteen plus possibly four additions which may have contained *-ti- or *-sni-, while the masculines of apparent diphthongal origin included a minimum of thirteen plus possibly three or four additions, three verbal abstracts which may have been a-stems and the uncertain balgs. In view of the other uncertainties the question of whether aiws was an inherited masculine or feminine seems to be of little additional consequence. Under these circumstances all that can be said is that masculines of diphthongal origin apparently were approximately as numerous as feminines. As was seen earlier, the basis for the view that feminines were in the majority among the originally diphthongal i-stems was the list of zero-
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grade i-stem abstracts published by Brugmann, where feminines were roughly twice as numerous as masculines. Since the list was not intended to be complete, it might be considered inadequate to permit conclusions concerning the relative frequency of the genders. That it is inadequate to permit precise conclusions of that sort is indeed obvious and was recognized when it was first discussed. However, it was felt that as a large random sample of i-stem abstracts it would not have distorted the picture concerning the genders so greatly that one could not determine which was more numerous. This attitude appears to be justified by Brugmann’s presumable concurrence with the conclusions based on his list, for when he later discusses verbal abstracts in general (Brugmann 1906: 630–3), he identifies the feminine i-stems as one of the principal types employed in this manner but does not mention the masculines. An explanation thus seems to be required for the apparent conflict between the evidence seen here, which indicates that in Gothic masculine i-stems of diphthongal origin were approximately as numerous as feminines, and the statement of Brugmann implying that i-stem abstracts were chiefly feminine. A plausible basis for such an explanation may be found in what was reported here earlier in connection with the abstracts in *-ti-, where it was noted that in the separate dialects i-stem abstracts without -t- apparently were largely eliminated everywhere outside Germanic if they occurred beside synonymous ti-forms. It was also seen that five of the eleven Gothic masculine i-stems identified as verbal abstracts had beside them in Gothic otherwise identical ti-abstracts which could be established as inherited on multiple bases but that no feminine i-stem did. As was to be expected from what was said concerning the elimination of such forms elsewhere, only two of the abstracts without -t- possessed precise extraGermanic cognates, a single one in each case. Moreover, the cognates, Skt. múni- ‘sage’ and OCS navц ‘corpse’, had both acquired concrete meanings capable of accounting for their preservation outside Germanic. If the masculine abstracts with Gothic ti-forms beside them were removed from the evidence seen here, the minimum of thirteen inherited feminines would be distinctly more numerous than the eight remaining masculines identified as diphthongal in origin. It thus seems likely that the Gothic evidence would not have appeared to conflict with what was found by Brugmann had it not been for the extreme relative conservatism of Germanic with respect to the retention
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of pairs of abstracts with and without -t-. There thus seems to be no reason not to accept the facts reported by Brugmann. Presumably his view that the i-stem abstracts contained a distinct feminine majority is correct as far as the forms attested in the older Indo-European dialects are concerned. However, the inference that the same was true at the end of the period of unity does not necessarily follow. It appears instead that in this case it is the Gothic evidence which is more likely to be accurate. It thus appears possible to reconcile the statement of Brugmann and the evidence seen here by holding that among inherited i-stem abstracts, and thus presumably among i-stems of diphthongal origin in general, masculines and feminines were roughly equal in number. Thereafter, in the separate dialects other than Germanic the elimination of most of the abstracts which occurred beside otherwise identical ti-forms reduced the proportion of masculines in those dialects, producing discernible feminine majorities, which in some cases may have remained largely unchanged but in others could have been expanded analogically to varying degrees. Despite the lack of involvement by Germanic, the result was that in the attested dialects as a whole, feminines came to be clearly in the majority among i-stem abstracts. The same was true of the former diphthongal i-stems in general, though among them the feminine majority presumably was slightly smaller because of the failure of the relatively small minority of former diphthongal nouns which were not original abstracts to have participated in the developments described above. The tentative explanation proposed here depends upon the assumption that masculines predominated by a wide margin among the abstracts with synonymous ti-forms beside them. It has been seen that this is what is indicated by the evidence of Gothic, where, unlike in the dialects outside Germanic, such forms were preserved for the most part and where they were exclusively masculine. That such should be the case appears plausible in view of the previous proposal concerning the production of diphthongal ti-abstracts during the confusion following the loss of the second element of long diphthongs and the evidence that the first conversions of diphthongal nouns to zero grade resulted in masculine forms. Apparently most of the abstracts in *-e¯(i)and *-o¯(i)- held to have been altered in part to forms in *-te¯(i)- and *-to¯(i)- were eliminated shortly thereafter by being converted to masculine zero-grade forms when not dropped from the language, though
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a majority of the diphthongal ti-abstracts stemming from them, having been rendered more stable by the -t- which they had acquired, were not converted to zero grade until after the origin of athematic feminines referring to females. According to the original proposals concerning the history of the diphthongal i-stems prior to the loss of the second element of long diphthongs, the animate e¯(i)- and o¯(i)-stems were productive in the derivation of verbal abstracts on an appreciable scale in Proto-IndoEuropean until their expansion was halted by the phonological change. The animate diphthongal i-stems of other meanings were at best no more than slightly productive during that time, though they presumably were not yet subject to elimination to a significant degree. As a result of the productivity of the verbal abstracts the diphthongal i-stems became at least as numerous as those of zero grade and may well have been considerably more numerous, the uncertainty concerning this point being due to the possibility that the zero-grade i-stem abstracts stemming from the diphthongal forms later became productive to some extent in their own right. It was also proposed at the same time that the i-stems of diphthongal origin, or the zerograde i-stem abstracts which largely coincided with them, included a feminine majority but a masculine minority of substantial but otherwise unknown size. The evidence seen here appeared to confirm the previous conclusions concerning developments prior to the loss of the second element of long diphthongs and to render more precise the vaguely worded proposal regarding the relative frequency of the diphthongal and zero-grade i-stems by indicating that the zerograde i-stem abstracts did not become significantly productive and that the diphthongal i-stems were thus considerably more numerous than their zero-grade counterparts at the time of the phonological change. In the case of the proposed feminine majority among the i-stems of diphthongal origin, it conflicted with the previous conclusion, indicating instead that masculines and feminines were approximately equal in number among such forms, but offered a possible means of resolving the conflict. Since the Gothic evidence also indicated that i-stem abstracts with synonymous ti-forms beside them, most of which were apparently masculine, were largely eliminated in the separate dialects other than Germanic, it seemed likely that in accord with the evidence seen here masculines of diphthongal origin were indeed roughly as numerous as feminines in late Proto-Indo-
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European, but that among the forms attested in the older separate dialects feminines had come to be in the majority. It should be added that the proposal that masculine i-stems of diphthongal origin were approximately as numerous as feminines in the parent speech implies that a period of appreciable duration intervened between the loss of the second element of long diphthongs and the origin of athematic feminines referring to females.
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1550 2nd St. N e w O r l e a n s, Louisiana 70130 USA
P a u l W. B r o s m a n , J r .
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Die Rolle linguistischer Theorien in der historischen Sprachwissenschaft: Eine Fallstudie aus dem Gotischen* 0
Im Idealfall ziehen Arbeiten zur historischen Linguistik Forschungsergebnisse aus modernen linguistischen Theorien sowie der traditionellen historischen Sprachwissenschaft in Betracht. Leider sind diese oftmals widersprüchlich, was die folgende Frage aufwirft: welchem Fachgebiet sollte der Vorzug gegeben werden? Sollten etablierte historische Ansichten geändert werden, um Rücksicht auf neuere linguistische Theorien nehmen zu können, oder sollte sich die Theorie an den Daten und Ansichten der traditionellen historischen Sprachwissenschaft orientieren? Der vorliegende Beitrag widmet sich diesem Sachverhalt anhand einer Fallstudie aus dem Gotischen, die die Interpretation der Lautwerte der mit <j> und <w> transliterierten Buchstaben des gotischen Alphabets untersucht. In den meisten Handbüchern des Gotischen sowie den Studien zur gotischen Phonologie werden diese Buchstaben als Halbvokale interpretiert. Braune/Ebbinghaus (1981: 42) argumentieren mit Bezug auf <w>, dass „[d]as Zeichen des gotischen Alphabets, welches wir durch w wiedergeben, …. ursprünglich die lautliche Geltung des konsonantischen u (= engl. w) gehabt [hat]. Ob zur Zeit des Wulfila ein spirantisches Element mit dem u-Laute verbunden gewesen ist, wie von manchen angenommen wird, ist zweifelhaft.“ In Bezug auf gotisch <j> sagen Braune/Ebbinghaus (1981: 44), dass „[d]as Zeichen j … in der Aussprache des Got. wahrscheinlich die Geltung des konsonantischen i, nicht den Lautwert unseres spirantischen j gehabt [hat].“ Ähnliche Bemerkungen sind in anderen Werken zu finden. Andere Handbücher gehen auf diese Frage nicht ein, wie z.B. Binning (1999), in dem die zwei Laute schlichtweg als „Halbvokale“ klassifiziert und nicht weiter analysiert werden. Die wohletablierte Interpretation dieser Buchstaben wurde bereits in Bezug auf den Lautwert von <j> in den siebziger Jahren in Frage gestellt. Laut Vennemann (1971: 108–109), der sein Argument auf den *0 Ich danke Hans Boas, Robert Kyes und Ilka Rasch für ihre Hilfe in der Vorbereitung dieser Arbeit. Indogermanische Forschungen, 112. Band 2007
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Regeln der Worttrennung in den gotischen Handschriften basiert, gebe es „some likelihood that Gothic had a low-level rule changing high glides into obstruents.“ In einem späteren Aufsatz wurde diese Behauptung von Murray und Vennemann (1983) durch den Zusatz erweitert, dass <j> einschliessende Lautgruppen normalerweise vor dem <j> getrennt werden, und, dass dieses Muster der Silbenbildung nicht aus dem Urgermanischen stamme. Stattdessen stelle es einen „strengthening process of glides into fricatives in Gothic“ dar (Murray und Vennemann 1983: 517). Um diese These zu unterstützen, fügten sie hinzu, dass der palatale Halbvokal in den altwestgermanischen Sprachen nach der Westgermanischen Konsonantendehnung wegfällt, wenn er wort-intern und der letzte Konsonant einer Lautgruppe ist, wie z. B. in Formen wie as. bitten, ae. biddan ,bitten‘. Im Gotischen ist der Laut nicht verlorengegangen, z.B. got. bidjan ,bitten‘. Gemäss Murray und Vennemann (1983: 526) wäre <j> auch im Gotischen verloren gegangen, wenn der Buchstabe einen palatalen Halbvokal repräsentiert hätte, wie in den Handbüchern behauptet wird. Diese Behauptung wird am ausführlichsten von Vennemann (1985: 210–216) besprochen, der die folgenden Argumente dafür vorlegt.1 Zuerst werden Lautgruppen, die in <j> oder <w> enden, fast ausschließlich vor dem <j> oder <w> am Zeilenende in den gotischen Handschriften getrennt. Wenn die gotischen Schreiber am Ende einer Zeile angelangt waren und nicht genügend Platz hatten, das ganze Wort auf eine Zeile zu schreiben, trennten sie es, wie die folgenden Formen belegen (ein Bindestrich repräsentiert eine Wortbrechung): stai-nam ,Stein‘, sun-jus ,Sohn‘, piudangard-jos ,Königreich‘, fuhlsn-ja ,Geheimnis‘ und weina-gardis ,Weingarten‘. Traditionell wird behauptet, in solchen Fällen hätten die gotischen Schreiber das Wort an einer Silbengrenze getrennt. Schulze (1908: 484) behauptet z.B., dass „[i]n allen gotischen Handschriften … die Praxis der Zeilenbrechung durch feste Regeln beherrscht [wird], die … auf dem Prinzipe rationeller und konsequenter Silbenbildung beruhen.“2 Laut Hermann (1923: 288) gibt es in den gotischen Handschriften circa 340 Fälle sol1
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„Vennemanns Argumentation betreffend die Alternation zwischen und
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cher Lautgruppen am Zeilenende, von denen nur ein Beispiel nicht getrennt wird.3 Sollten <j> und <w> wirklich Halbvokale repräsentieren, werden Silbenkontakte geschaffen, die gegen das Silbenkontaktgesetz verstossen. Dieses Präferenzgesetz für die Silbenbildung besagt: „ein Silbenkontakt … ist umso besser, je größer die Differenz aus der Konsonantischen Stärke … des zweiten Sprachlauts und derjenigen des ersten Sprachlauts … ist“ (Vennemann 1987: 167). Diesem Präferenzgesetz zufolge gäbe es in Formen wie bidjan ,bitten‘, welches als bidjan syllabifiziert wird, einen schlechten Kontakt, weil Halbvokale die schwächsten und Verschlusslaute die stärksten Konsonanten sind. Wenn <j> und <w> jedoch Reibelaute wären, existiert dieses Problem nicht, weil Reibelaute stärker als Halbvokale sind. Desweiteren fällt es Vennemann (1985: 214) schwer zu glauben, dass „a vowel should be able to maintain a syllable margin position under the same conditions as the speech sound spelled w does in Biblical Gothic.“ Seiner Meinung nach ist „[a] fricative … more likely to appear in this position, because … a pair of speech sounds in a syllable-final margin is the more preferred, the greater the difference in consonantal strength is between the second and the first speech sound.“ Außerdem kann vom Buchstabieren von Lehnwörtern im Gotischen geschlossen werden, dass <j> und verschiedene Laute repräsentieren. Vennemann zufolge wird <j> in gebräuchlicheren Lehnwörtern, wie z. B. aikklêsjo ,Kirche‘ und Makidônja ,Mazedonien‘, und in selteneren gebrauchten Lehnwörtern sowie in persönlichen Namen wie Gabriel und Maria benutzt. Daraus schließt Vennemann (1985: 215), dass <j> und „represented appreciably different sounds to those writing Gothic.“ Seine Erklärung für diesen Sachverhalt ist, dass „they represented a palatal fricative and palatal vowel.“4 Als letztes Argument führt Vennemann an, dass die Verwendung verschiedener Buchstaben im gotischen Alphabet bedeutet, dass die verschiedenen Laute anders ausgesprochen wur-
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Die von Vennemann genannten Zahlen schliessen seine Auswertung von einigen anderen Studien zur Wortbrechung im Gotischen ein und sind deshalb etwas anders als die von Hermann. Der Gebrauch der zwei Buchstaben könnte auch auf eine unvollkommene Eingliederung in das gotische Schreibsystem verweisen, aber auf diese Hypothese geht Vennemann nicht ein.
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den, da ein orthographischer Kontrast auf einen phonemischen Kontrast verweist (vgl. Kyes 1967 zu diesem Punkt). Vennemann (1985: 215) führt ausserdem an, dass „Greek, the primary model for Wulfila’s alphabet, had no separate letters for marginal vowels; why should Wulfila introduce them?“ Aufgrund dieser Belege kommt Vennemann zu dem Schluss, dass die Buchstaben <j> und <w> Reibelaute und keine Halbvokale repräsentieren, wie traditionell angenommen worden ist. Obwohl zugegeben werden muss, dass Vennemann die traditionelle gotische Philologie nicht geschlossen zurückweist, sind die meisten seiner Argumente dazu angebracht, die gotischen Daten an seine (linguistische) Theorie der Silbenpräferenzgesetze anzupassen. In einer späteren Behandlung der Daten aus der gotischen Skeireins bringt Frey (1989), eine ehemalige Studentin Vennemanns, die Verbindung zwischen Theorie und Interpretation am deutlichsten zum Ausdruck: „Akzeptiert man die Auffassung, daß die Wortbrechung auf der Syllabierung beruhe und daß diese wiederum allgemeinen Silbenpräferenzgesetzen entspreche, so muß auch der Lautwert der Grapheme j und w neu festgelegt werden, da ihre Bestimmung als reine Halbvokale nicht mehr aufrechterhalten werden kann, wenn Trennungen wie bruk-jands etc. mit dem Silbenkontaktgesetz übereinstimmen sollen.“ (Frey 1989: 291; um eine Fußnote gekürzt). Dieses Zitat sowie die oben besprochenen Artikel von Vennemann vertreten die folgende Meinung: die traditionelle auf der Philologie basierende Interpretation dieser Buchstaben sollte zugunsten einer neuen linguistischen Theorie (die Theorie der Präferenzgesetze für die Silbenbildung) abgelehnt werden. Diese Entscheidung wurde von Barrack (1997) in einem Aufsatz angefochten, in dem der größte Teil seiner Argumentation auf traditionellen Ansichten beruht.5 Barrack zufolge werde die von Vennemann vorgeschlagene Syllabierung des Gotischen schnell problematisch, wenn das Silbengewicht in Betracht gezogen würde. In Fällen wie fulhsnja ,Geheimnis‘ (das fulhsn-ja getrennt wird) gibt es mehr als zwei Moren in der betonten Silbe, obwohl das präferierte Silbenge5
In diesem Zusammenhang ist es interessant zu bemerken, dass Barrack selbst in anderen Arbeiten zur gotischen Phonologie der Linguistik den Vorzug über die Philologie gibt (vgl. Barrack 1998).
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wicht in betonten Silben nicht mehr als zwei Moren zulässt. Auch sei die diachrone Entwicklung dieser Lauten wegen der germanischen Verschärfung problematisch, weil in Formen wie twaddjê ,zwei (gen.)‘, von einem Prä-Gotisch *twaijê, der Halbvokal ein Verschlußlaut werden müßte, aber die Entwicklung „presupposes that the palatal glide either strengthened inexplicably to the stop … in the coda, … or moved there inexplicably from the following onset position“ (Barrack 1997: 3). Deshalb schlägt Barrack vor, dass die Worttrennung von Lautgruppen mit Halbvokalen in den gotischen Handschriften auf morphologischen, nicht phonologischen, Bedingungen basiere. Eine Morphemgrenze befindet sich vor fast jedem inlautenden Halbvokal im Gotischen. Laut Barrack (1997: 3) wäre es möglich, dass die Trennung von Lautgruppen vor dem Halbvokal „these ubiquitous morphological boundaries“ widerspiegele.6 In Bezug auf den Verlust des Halbvokals im Westgermanischen im Gegensatz zu seiner Beibehaltung im Gotischen vertritt Barrack (1997: 3–4) die Ansicht, man dürfe „archaic fourth-century Gothic“ mit „the relatively innovative West Germanic of a period several centuries later“ nicht vergleichen. Barrack zufolge könne man Bibelgotisch nur mit dem Krimgotischen vergleichen,7 und im Krimgotischen geht der Halbvokal verloren, vgl. Bibelgotisch hlahjan mit Krimgotisch lachen ,lachen‘ oder Bibelgotisch siggwan mit Krimgotisch singhen ,singen‘. Desweiteren bespricht Barrack die Entwicklung von <j> und <w> am Ende eines Wortes oder einer Lautgruppe. Hierzu behauptet Barrack, diese Entwicklungen lassen sich anders erklären als Vennemann behauptet, z.B. könne das Graphem <w> in diesem Zusammenhang weder einen Halbvokal noch Reibelaut repräsentieren. Stattdessen liege eine Labialisierung des vorhergehenden Konsonanten vor. Andere Evidenzen der Behaltung der Halbvokale werden ebenfalls von Barrack hervorgehoben. Er bemerkt, dass <j> manchmal als epenthetischer Konsonant vorkommt, z.B. in dem gotischen Wort für
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Es gibt einige Ausnahmen zu dieser Generalisierung, nämlich einige von der Verschärfung betroffene Formen sowie einige Wurzeln, die in
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,Feind‘, das sowohl fiands als auch fijands buchstabiert wird. Auch alternieren <j> und manchmal miteinander in der Transkription griechischer Namen, z.B. sind sowohl Judas als auch Iudas in dem gotischen Beweismaterial zu finden. Als letzten Beleg bespricht Barrack ein Lehnwort aus dem Lateinischen, cautio ,Sicherheit, Vorsicht‘. Dieses Lehnwort wurde als kawtsjo- ins Gotische assimiliert. Wie Barrack (1997: 6) zu Recht bemerkt, ist es „surprising that scribes should have resorted to employing a sequence of two obstruents … to capture the Latin obstruent + glide sequence,“ wenn <j> wirklich ein Reibelaut wäre. Alle drei angeführten Belege lassen sich jedoch erklären, wenn <j> wirklich ein Halbvokal wäre, wie traditionell angenommen worden ist.8 Die zwei kontroversen Aufsätze können wie folgt zusammengefasst werden. Einerseits dürfen traditionelle philologische Ansichten geändert werden, falls eine neue linguistische Theorie dieses erfordert. Andererseits müssen sich neuere Theorien der traditionellen Philologie unterordnen. Welcher Ansatz ist nun der richtige? Mit andern Worten, wenn Ergebnisse der Philologie und theoretischer Linguistik in Konflikt miteinander geraten, welchem Fach ist Vorzug zu geben? In diesem Fall ist es angebracht, der Philologie den Vorzug zu geben, d. h. die traditionelle Interpretation dieser Buchstaben zu akzeptieren und den Vorschlag von Vennemann und seinen Anhängern abzulehnen, da ihre Argumente sich auf das obengegebene Zitat von Frey (1989: 291) reduzieren lassen: wenn die Lautwerte der betroffenen Buchstaben nicht neu interpretiert werden, dann kann die gotische Silbenbildung nicht in Rahmen des Silbenkontaktgesetzes korrekt analysiert werden, was kein zwingender Grund ist, traditionelle Ansichten aufzugeben.9
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Zuletzt argumentiert Barrack, seine Hypothese, dass <w> manchmal eine Labialisierung des vorhergehenden Konsonanten repräsentiert, gebe eine bessere Lösung zu einem alten Problem, die Interpretation von sihw, eine Randnotiz zu 1 Korinther 15:37 im Codex Ambrosianus. Auf diesen Vorschlag wird hier nicht eingegangen. Interessanterweise wird die m.E. stärkste Evidenz für die vennemannsche Hypothese beiseite gelassen, nämlich die historisch-vergleichende Evidenz aus den anderen altgermanischen Sprachen, da Halbvokale bestimmt im Gotischen und im Altnordischen (die wohlbekannte Verschärfung) und vielleicht auch in den altwestgermanischen Sprachen Reibelaute geworden sind. Vgl. Smith (1998) zu diesem Punkt.
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Es ist offensichtlich, dass „an unprincipled invocation of known typologies from the present to discredit deductively presumed reconstructions“ (Markey 1986: 678 fn 5) zu vermeiden ist. Diese Bemerkung Markeys lässt sich ebenfalls auf die Beziehung zwischen linguistischen Theorien und der historischen Sprachwissenschaft anwenden. Lang erprobte traditionelle Ansichten sollen nicht zugunsten modischer linguistischer Theorien aufgegeben werden, stattdessen sollten sich neuere linguistische Theorien den Daten anpassen. Man denke z. B. an die Entwicklung der Laryngaltheorie, die zuerst von Ferdinand de Saussure vorgeschlagen wurde und als interessanter Vorschlag galt, bis die Entzifferung des Hethitischen neue Evidenz für die Theorie ergab, und jetzt weithin (aber nicht universell) akzeptiert wird (vgl. dazu Meier-Brügger 2000: 98–115). Allerdings basierte die Akzeptanz dieser Theorie auf der Entdeckung neuer Daten, nicht auf deren Neuinterpretierung, wie in der hier besprochenen Fallstudie. Das bedeutet längst nicht, traditionelle Ansichten dürften nicht verändert werden, nur dass ein zwingender Grund vorliegen muss. Die Entscheidung, welche Gründe wirklich zwingend sind, gehört zu den wichtigsten Herausforderungen der historischen Sprachwissenschaft.
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Department of Germanic Studies University of Texas at Austin EPS 3.102 1 University Station C3300 Au s t i n , TX 78712 USA [email protected]
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General distinguishing features of various lndo-European languages and their relationship to Lithuanian Wilhelm von Humbolt (1769–1835) viewed language as the characteristic expression of the cultural experience of mankind and its creative activity. He studied American Indian languages, Greek, Latin, Basque, Sanskrit, Chinese, Polynesian and Malayan languages. Humboldt believed that the differences between languages were primarily reflected in their grammatical structure, the soul of a people, which reflects their intellectual and spiritual development. The study of linguistics provided Humboldt with a unique means of accessing the similarities and differences between languages. Greek and Sanskrit were for him the most perfect inflecting languages. At the other extreme was Chinese, an isolating language, lacking inflections or affixes. Between these languages came the agglutinative languages, which to Humboldt had inferior inflections. Thus, on the language scale, Humboldt ranks Indo-European languages at the top.1 The following large groups or types of languages distinguish themselves by their grammatical structure and modes of grammatical change based on Humboldt’s division of languages. They should not, however, be interpreted as being a line of linguistic evolution: Isolating, analytic or root languages, in which a sound change takes place without reference to neighboring sounds in the word or sentence. All words are invariable – there are no endings. These lan1
For a brief overview of Humboldt see Bright, William, ed.: International Encyclopedia of Linguistics, Vol. 2, Oxford University Press, New York/Oxford, 1992, pp. 179–180; Asher, R. E., ed.: The Encyclopedia of Language and Linguistics, Volume 3, Pergamon Press, Oxford/New York/Seoul/Tokyo, 1994, pp. 1614–1615. For a detailed study of Humboldt’s philosophy of language, see his work, especially the introduction to Über die Kawi Sprache auf der Insel Java nebst einer Einleitung über die Verschiedenheit des menschlichen Sprachbaues und ihren Einfluß auf die geistige Entwicklung des Menschengeschlechts, Königliche Akademie der Wissenschaft, Berlin, 1836–39. The introduction deals with the divinity of human language structure and the influence it has on the development of mankind.
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General distinguishing features of various lE languages
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guages consist of one-syllable and unchangeable roots, which carry the meaning. They have no parts of speech and the grammatical relationships are expressed through word order. In these languages for the most part words do not vary in form according to their grammatical functions in sentences, as contrasted with agglutinating and inflecting languages. Belonging to this group are, for example, Polynesian languages, especially the East Polynesian subgroup; all Chinese dialects, in which grammatical functions are expressed through word order, particles, prepositions and discourse, rather than by suffixes attached to nouns or verbs such as in Indo-European languages; Vietnamese; Samoan, and several African languages as for example the Igbo language of southern Nigeria and the Bantu languages. In incorporating or polysynthetic languages two or more parts of speech are combined – verbs and objects – in one word as when the object or complement of a verb is inserted between its stem and termination so that the whole forms one word. The main elements in the structure of the sentence are incorporated into a single word. Words are often very long and complex. Belonging to this language group are Nahuatl, an Uto-Aztecan polysynthetic language, also known as Aztec and Mexicano (Nahuatl creates long words by means of multiple derivational affixes and extensive compounding as well as reduplication); the North American Indian Siouan languages, including the Lakota/Dakota language, which is also a polysynthetic language where words are formed by adding affixes to stems to signal grammatical relationships, the Hopi, Shoshoni, Paiute, Comanche and Ute languages; Greenlandic, an Eskimo-Aleut language and a close relative to Inuktitut. There are three main Greenlandic dialects: North [Inuktun], West [Kalaallisut] and East Greenlandic; American Indian Mohawk language; and Australian languages. Agglutinative languages form their words primarily by means of agglutination, i.e., the combination of simple root words into compound terms without change of form or loss of meaning. Suffixes are added to unchangeable stems for derivation and for expressing various grammatical relations. Turkish, Mongolian, Tartar, Finnish, Japanese, Tibetan, Uzbek, Balinese, Ilocano, Maleyan, a number of Polynesian dialects, Sumarian and Swahili are good examples of languages with suffixing or agglutinative morphology; also Tamil of southern India, in which affixes are attached to lexical roots or stems. Inflected suffixes
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mark certain categories, such as person, number, mood, tense; in Quechua, the South American Indian language, a large number of suffixes and infixes can be added to words to change their meaning. This language group can often yield lengthy forms through widespread compound formations. Inflected, synthetic or fusional and/or highly inflected languages express their grammatical relationships through changes in the form within word stems, by changing the internal structure of the words, typically by the use of inflectional endings, for example umlaut and ablaut. Here we see modification of the form of a word to express the different grammatical relations into which it may enter, including the declension of substantives, adjectives and pronouns, the conjugation of verbs, the comparison of adjectives and adverbs. Inflection or alteration of the form of a word indicates grammatical features, such as number, person and tense. In these languages words and grammatical forms are constructed within the root of the word. To these (highly) inflected languages belongs the Indo-European (IE) language family.2 The various subgroups of the IE family of languages include: IndoIranian with Sanskrit, Prakrit, Avestan, Kurdish, Persian, Dardic, Nuristani, Assamese, Zazaki and Pashto (Eastern Iranian branch); Greek; Italic, including Latin and the extinct Umbrian-Sabellian language; Celtic; Germanic – English, German, Scots; Armenian; Albanian; Slavic3; Baltic (West Baltic – Galinden, Sudovian, Old Prussian, and East Baltic – Curonian, Selonian, Semigallian, Latvian and Lithuanian);4 and the recently discovered extinct languages Hittite 2
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See Moser, Hugo, Deutsche Sprachgeschichte, 6th edition, Max Niemeyer Verlag, Tübingen, 1969, p. 69f; Wolff, Gerhart, Deutsche Sprachgeschichte, 3rd edition, Francke Verlag, Tübingen und Basel, 1994, pp. 37–42; also, Crystal, David, ed., The Cambridge Encyclopedia of Language, 2nd edition, Cambridge University Press, 1997, p. 295 and on the various IE branches pp. 300–303. For a detailed study of Slavic peoples and languages, see Trautmann, Reinhold, Die slavischen Völker und Sprachen – Eine Einführung in die Slavistik, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1947, pp. 5–173; Bulygina, T.V., analyzes the morphological word structure in contemporary Lithuanian literary language in the written form with grammatical comparisons of Lithuanian and Russian, pp. 7–25, in Zirmunskij, V.M., ed. Morfologicˇeskaja struktura slova v indoevropejskich jazykach, “Nauka”, Moskva, 1970. In his work Die Sprache der alten Preußen, Berlin, 1845, p. 28, Nesselmann, George H.F., introduced the term Baltic languages for the first time. He suggested using the name Balts for Lithuanians, Latvians, and Old Prussians; for a
General distinguishing features of various lE languages
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(Anatolian branch) and Tocharian.5 Other perhaps less-known IE languages include Illyrian, Venetic, Liburnian, Messapian, Thracian and Ancient Macedonian. In this paper, we will focus our attention on the Indo-European languages: Proto-Indo-European (PIE), Latvian, Old Prussian, Sanskrit, Hittite and Tocharian, briefly discuss their distinguishing linguistic features, and look at their lexical, phonetic, and morphological relationship (similarities and differences) to Lithuanian, the oldest living IE language, as well as to several other languages of the IE language family.6 Common features of these languages will be quite apparent, even striking, as numerous examples will illustrate, and thus establish the importance of the archaic Lithuanian language to the study of historical-comparative linguistics. The notion of the reconstructed Indo-European parent language or Proto-Indo-European as being one common language, from which the numerous IE branches and languages developed, should perhaps include the consideration that there existed various dialects which either formed the IE parent language or to which all IE languages can be traced. Julius Pokorny in his study on Indogermanistik, points out
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discussion of the name Balts, see also Frenkelis, Ernstas, Baltu˛ Kalbos, Leidykla “Mintis”, Vilnius, 1969, pp. 23–25. An excellent study on Baltic languages and peoples is found in Salys, Antanas, Baltu˛ Kalbos, Tautos bei Kiltys, Lietuviu˛ Kataliku˛ Mokslo Akademija, 1985, pp. 3–41, 135–164, 231–242. Salys analyzes the Baltic-Slavic, Proto-Baltic, West and East Baltic, Galindian languages as well as Baltic monuments. Besides Lithuanians, Latvians, and Old Prussians, other Baltic peoples included the Galindians, Sudovians, Semigallians, Curonians, Yatvingians, Sambians, Selians, and Skalvians. See Gerutis, Albertas, ed., 2nd revised edition, Lithuania 700 Years, Manyland Books, New York, 1969, p. 36. Gerutis says, “They [the Balts] can be … divided into three large groups: the Prussians, who lived in the western sector up to the Vistula; the Latvians, who stayed around the Daugava, and the Lithuanians, who settled around the Nemunas and Neris rivers,” p. 43. Frenkelis, Baltu˛ Kalbos, pp. 16–17. A good overview of the IE branches from Indo-Iranian to numerous extinct languages with many examples of reconstructed Proto-Indo-European (PIE) words, which the author compares to various IE languages, can be found in Kieckers, Ernst, Die Sprachstämme der Erde, Carl Winter, Heidelberg, 1931, pp. 4–25; see also Eggers, Hans, Deutsche Sprachgeschichte, Volume I, Rowohlt Taschenbuch Verlag GmbH, Reinbeck bei Hamburg, 1991, pp. 23–25. For further discussion on IE subgroups, see Asher, R.E., pp. 1661–1666. Also, Crystal, David, p. 298.
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that at the time of the first migration, Indo-European was only an existing phase in a development which lasted for thousands of years and which was eventually formed from the merging of several languages. The linguistic term IE parent language is an abstraction that does not exist in reality. It perhaps should be understood as consisting of dialects which possibly date back to the palaeolithic period during which time these dialects formed the linguistic structure of the IE language group. Indo-European is solely an isogloss system which held together the various dialects spoken by a large number of tribes (“Indo-Europeans”) from which the historical IE languages emerged.7 Based on the designation for the numeral hundred, the IE languages can be separated into so-called centum and satem languages. This group classification is based on the loss of the distinction between palatal velars and pure velars in the centum languages and the loss of the distinction between labiovelar and pure velar sounds as well as the assibilation of the palatal velars in the satem language group. The centum group retained the velar k and the labiovelar kw, while in satem languages the original velar stops became fricatives (as k > s or sˇ) and labiovelar stops became velars (kw > k). Hundred is in Latin centum, Greek hekaton, Old Irish cet, Welsh cant, Tocharian A känt, Tocharian B kante, Gothic hund, Old High German hunt, German hundert, Afrikaans honderd, Dutch hondert, Norwegian hundrruh compared with Old Iranian satem, Sanskrit satam, Avestan satem, Old Bulgarien suto, Russian sto, Macedonian sto, Czech sto, Serbo-Croatian sto, stotina, Latvian simts, and Lithuanian sˇimtas. The centum languages comprise primarily the western IE languages while the satem languages belong to the eastern IE language group. The centum-satem isogloss runs between the Greek (centum) and Armenian (satem) languages. Examples of centum languages are Latin, Greek, Italic, Illyrian, Celtic, and Germanic. To the satem language group belong the Slavic languages, Baltic (Lithuanian, Latvian and the extinct Old Prussian), Albanian, Thracian, Sanskrit, Iranian, Armenian, and Phrygian. This differentiation of centum and satem languages became, however, questionable through the discovery of Hit7
Pokorny, Julius, Allgemeine und Vergleichende Sprachwissenschaft – Indogermanistik, Vol. 2, A. Francke AG Verlag, Bern, 1953, p. 70, 78, pp. 79–80.
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tite and Tocharian, two Asiatic centum languages, which geographically should belong to the satem group.8 There are a number of reasons or causes for the emergence of the various IE languages. The variety of these languages has its origins in the population shifts (migration of peoples), physical separation, and intermixing with other peoples. The similarities and common features of languages related to IE can be seen in cognates derived from the same roots, physical contact and in part also in the further development of the same linguistic structures.9 Through historical and comparative research on IE languages, linguistic relationships emerged based on similarities and systematic divergences of these languages.10 The introduction of Sanskrit to European scholarship revolutionized the perception of linguistic relationships. The new science of comparative grammar correctly saw these relationships and evaluated the similarities of the IE family. Similarities among languages such as Greek, Latin, Sanskrit, and Gothic suggested that they came from a common source, which no longer excisted. Different IE languages are the continuation of a single protolanguage. Historical-comparative linguistics, especially of the 19th century, through systematic comparisons, established phonetic, lexical and grammatical agreements among IE languages, which had to originate 8
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Sperber, H. & Polenz, P.v., Geschichte der deutschen Sprache, Sammlung Göschen, Band 915, Walter de Gruyter & Co., Berlin, 1968, pp. 11–15. Schmidt, Wilhelm, Geschichte der deutschen Sprache, 6th edition, S. Hirzel Wissenschaftliche Verlagsgesellschaft, Stuttgart/ Leipzig, 1993, p. 36. See also Anderson, James M., Structual Aspects of Language Change, Longman Group Limited, London, 1973, pp. 23–24; for additional centum / satem analysis, see Beekes, Robert S.P, Comparative Indo-European Linguistics, Amsterdam/Philadelphia, John Benjamin, 1955, pp. 109–113, 129. Also Kieckers, Die Sprachstämme der Erde, p. 18. Moser, Deutsche Sprachgeschichte, pp. 70–74; Porzig, Walter, in Die Gliederung des indogermanischen Sprachgebiets, Carl Winter, Universitätsverlag, Heidelberg, 1954, provides a detailed examination of the connection between the individual related IE languages and their prehistoric distribution. See especially pp. 93–181 about the relationship of the western and eastern IE languages. Anderson, Structual Aspects of Language Change, states on page 26, “A comparison of IE languages with a view to reconstructing the parent form brings us closer to the structure of the prototype in that the phonological and grammatical systems reached by such comparisons represent closely related dialects and not diverse languages.” The reconstructed Proto-Indo-European is the parent language of all ancient and modern IE languages.
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in a common early stage of development.11 An excellent study of the Indo-European grammar is the work by Hermann Hirt which discusses the individual IE branches, the Lithuanian language and centum and satem langauges. He then gives a detailed analysis in seven volumes of IE etymology and consonantism, vocalism, nouns, compounds and verbs, accentuation, and syntax.12 In his book, A Comparative Grammar of the Indo-Germanic Languages, Karl Brugmann presents a concise exposition of the history of Sanskrit, Old Iranian, Greek, Latin, and other languages, including Lithuanian. He also analyses IE phonology, morphology, numerals, cases, pronouns, verbs, mood stem, and verbal nouns.13 In an earlier work, Brugmann analyzed the grammar of Indo-European languages. In the beginning of the book, the author provides us with a good overview of the PIE and its branches and a brief discussion of the Baltic branch.14 If we compare words based on common lexical features with equivalent words in several IE languages, we notice similarities in their vocabulary structure. A few examples, mother: lat. mater, russ. materi (gen.), lith. mote˙, Old Indic matar; three: lat. tres, russ. tri, lith. trys, Old Indic trayas; new: lat. novus, goth. nuijis, russ. novyj, lith. naujas; is: lat. est, goth. ist, russ. jest, lith. est(i), Old Indic asti; eat: lat. edere, goth. itam, russ. est, lith. esti; car: Celtic carrus, Spanish carro, French carriole, Czech kara, German Karren; lance: Celtic lencia, Latin lancea, Czech lance, Spanish lanza, German Lanze; Spanish trepar (climb), Irish dreap, Scottish spreap, German Treppe (stairs).
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Stedje, Astril, Deutsche Sprache gestern und heute – Einführung in Sprachgeschichte und Sprachkunde, 3rd edition, Uni-Taschenbücher, 1499, Wilhelm Fink Verlag, München, 1996, pp. 37–40. Hirt, Hermann, Indogermanische Grammatik, Vol.1–7, Carl Winter Universitätsverlag, Heidelberg, 1927 – 1937, pp. 16–45; 32–34; 54–61, Vol. 1. Brugmann, Karl, A Comparative Grammar of the Indo-Germanic Languages, Vol. 1–5, Chowkhamba Sanskrit Series Office, Varanasi, 1972 edition. Brugmann, Karl, Kurze Vergleichende Grammatik der indogermanischen Sprachen, Verlag von Karl J. Trüber, Strassburg, 1904. A fotomechanical reprint was published in 1970 by Walter de Gruyter & Co., Berlin, pp. 16–18. For an excellent study of comparative phonetics, word stem formation and accidence of the IE languages, see Brugmann, Vergleichende Laut-, Stammbildungs- und Flexionslehre der indogermanischen Sprachen, Vol. 1 (introduction and phonetics), Vol. 2 (word formations and their usage), Karl Trübner, Strassburg, 1897, 1906, 1911, 1913.
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Such words are related to each other, going back to a common root. By looking at common IE morphological characteristics, we can also show the grammatical identity or unity of the IE languages. For example in the verbal form: I am – goth. im, Old High German b-im, Armenian je-m, Old Lith. es-mi, Hittite es-mi, IE *es-mi;15 or the word five: Hindi panc, Greek pente, Hittite panta, Tocharian pen-, Sanskrit panca, lith. penki. The parts of the body, for example, belong to the basic layer of vocabularies and are for the most part preserved in IE languages: IE *dent – lith. dantis (tooth), *ous – lith. ausis (ear). In many instances Lithuanian presents forms that are much closer to PIE than those of other languages: IE *su¯nus (son) – lith. su¯nus, IE *gwiwos (alive) – lith. gyvas.16 Similarities between Proto-Indo-European and Lithuanian are quite striking as the following words illustrate: *tenko – tenku (I have enough); *ped/pod – pe˙da (foot/foot print); *tu¯ – tu (you); *kakha – sˇaka (branch); *seq’, sequ – seku (I follow); *nokt – naktis (night); *bhu¯- – bu¯ti (to be); *dhur-, dhura – duris (door); *esmi – esmi (I am); *is – jis (he); *-ois ending > vilkais (with the wolves – instrumental plural); *agros – akras (acre); *saldo – saldus (sweet); *dhe – de˙ti (put); * teuta – tauta (peoples, nation); *roudhos – raudas (red); *mrtrom – mirtis (death); *bhendh – bendras (common); *leip – lipti (climb); *metti – mesti (throw); *sreu – srave˙ti (flow); *dhukter – dukte˙ (daughter); *pelnom – pilnas (full); *dhves – dvase (spirit);17 *perkwsnos – perku¯nas (thunder); *dhuxmos – du¯mas (smoke); *tekw – teke˙ti (flow, run); *nogws – nuogas (naked); *senos – senas (old); *semen – sˇeima (family).
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See Schmidt, Geschichte der deutschen Sprache, pp. 32–43. Sperber & Polenz, Geschichte der deutschen Sprache, p. 12; for an etymological and morphological analysis of Germanic and IE languages, providing a comparison of the structure of Germanic words with other IE languages, see ˙ . A., Struktura slova v indoevropejskich i germanskich jazykach, Makaev, E “Nauka”, Moskva, 1970, pp. 5–14. Examples of the reconstructed PIE words are selected from Krahe, Hans, Germanische Sprachwissenschaft, I, Einleitung und Lautlehre, Sammlung Göschen, Walter de Gruyter / Co., Berlin, 1966, pp. 10–134; and Krahe, Germanische Sprachwissenschaft, II, Formenlehre, 6th edition, Berlin, 1967, pp. 6–141. Krahe gives a detailed comparative analysis of the lexical, phonetic, and morphological relationship between PIE and many IE languages, including Lithuanian.
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Proto-Indo-European was a highly inflected language. Grammatical relationships and syntactical function of words were indicated by variations in word endings or prefixes.18 The structure of inflected words was root, suffix and ending. The root plus suffix/suffixes constituted the word stem.19 Nouns had different endings for the eight cases and numbers (singular, plural, and dual); verbs had different endings for persons and numbers, for the voices – active, passive and middle. PIE also had special affixes for tenses, moods, and transitive and intransitive verbs. Nouns had three genders – masculine, feminine, and neuter. Adjectives agreed in gender, case, and number – singular, plural, and dual forms – with the nouns. They were classified by their stem endings -o -i -u -s -m/n as were types of nouns classified by their endings, of which the most important are -a -o -i -u -s -m/n -l/r. The dual form has been lost in most IE languages. Proto-Indo-European had 10 vowels a, e, i, o, u (short and long); six diphthongs ei, eu, oi, ai, au, ou; many consonants and velars. PIE was rich in stop consonants: voiceless p, t, k, kw and voiced b, d, g, gw and voiced aspirates bh, dh, gh, gwh. It also had the dental fricative s, which was voiced to z before voiced stop consonants. PIE had two nasals m and n, two liquids r and l and semivowels w, j. The verbs in PIE had two conjugations, three voices, four moods, but no infinitives. A prominent feature of PIE was the ablaut, a system of vocalic alternations, expressing different morphological functions. Through vowel gradation, the root vowel would change to express, for example, singular and plural, present and past tense, etc. The ablaut affected e and o. The e form could appear as o or both e and o or disappear entirely (zero grade), IE *ped- (foot), lat. ped, Greek pod, Germanic fotuz, Sanskrit pd, lith. pe˙da.20 IE had eight cases – nominative, accusative, dative, genitive, ablative, locative, instrumental, and vocative. These case notations were retained in Old Indian and the Baltic languages, but were simplified in the Germanic languages as in most other IE languages. IE also had
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Bright, William, International Encyclopedia of Linguistics, Volume 2, pp. 206–212. Watkins, Calvert, ed., The American Heritage Dictionary of Indo-European Roots, Houghton Miffin Company, Boston, 1986, pp. XIV–XVII. See Frenkelis, Baltu˛ Kalbos, pp. 17–22 for further discussion of IE characteristics. Brief mention is also made of the centum and satem language groups; also Watkins, pp. XIV–XV.
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personal pronouns, demonstrative and interrogative pronouns.21 Lith. vilkui goes back to the IE dative case ending -oi. The instrumental IE ending -o is retained in lith. vilku (with the wolf). The dative case in IE is based on an IE instrumental ending -omis – lith. rankomis (with the hands). The IE dative form -i-mis, an old instrumental case, is retained in lith. naktimis. The IE genitive ending -ois is closely related to lith. nakties. The genitive case masculine ending -eus or -ous is lith. su¯naus. The IE genitive ending -en and -es/-os is reflected in lith. akmens < IE *akmen-os. IE dative ending -u-mis (instrimental) is in lith. su¯numis. The vocative IE case ending -u as well as IE -ou can be seen in lith. su¯nau. The vocative case belonged to the IE case system and existed in Latin, Greek, Sanskrit, Old Prussian, Hittite, and Tocharian. Some languages have retained the vocative case, including Celtic, Romanian, Slavic, Latvian and Lithuanian. It also occurs in some non-IndoEuropean languages such as Georgian, Arabic, Chinese and Korean. In PIE the ending was -e, in Sanskrit it is -a, in Latin the ending is -e for nouns ending in -us or -iusin, in Georgian the ending is -o, in Romanian -e (masculin/neuter), -o (feminine) and -lor (plural), in Bulgarian -e or -ju (masculine), in Macedonian the vocative is optional – Ivan -e, zˇeno (wife), in Hindi vocative forms also have the -e and -o endings, Armenian also preserved the vocative, but it has no special endings or markings, in Russian the ending can be -e or -i (Gospodi) or -o in Church Slavonic. The vocative in Russian is based on the first palatalization of velars, in which k became cˇ, g became zˇ, and ch became sˇ: Bog > voc. Bozˇe (O God), lat. Dominus > voc. Domine, lith. dievas > voc. dieve. Some other examples of the vocative in Lithuanian are: Jonas – voc. Jonai (John), profesorius – voc. profesoriau (professor), ju¯ra – voc. ju¯ra (sea), zˇmona – voc. zˇmona (wife), zˇmogus – voc. zˇmogau (man), su¯nus – voc. su¯nau (son), dukte˙ – voc. dukterie (daughter), seserys – voc. seserys (sisters), brolis – voc. brolau (brother), marcˇia – voc. marcˇios (daughters-in-law). Lithuanian also uses the so-called illative case. This case, denoting direction of movement, is, however, used 21
Krahe, Hans, Germanische Sprachwissenschaft, II, Formenlehre, pp. 6–10. Regarding the cases in Indo-European, Krahe says that IE had seven cases. “If we include the vocative (which is strictly speaking an independent sentence), then IE had eight cases.”
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rarely in modern standard Lithuanian, mostly in the spoken language. It is no longer included in the case system. The prepositional construction + the accusative case is much more frequently used to indicate direction. The ending of the illative form always ends with -n in the singular, and -sna in the plural: oras (air) – ˛i ora˛ – oran, laukas (outside) – ˛i lauka˛ -laukan, misˇkas (forest) – ˛i msˇka˛ – misˇkan, pietu¯s (south) – ˛i pietus – pietuosna, Lietuva (Lithuania) – ˛i Lietuva˛ – Lietuvon, misˇkai (forests) – ˛i misˇkus – misˇkuosna, karas (war) – ˛i kara˛ – karan, karuosna, akmuo (rock, stone) – ˛i akmnen˛i – akmenin – akmenysna, ju¯ra (sea) – ˛i ju¯ra˛ – ju¯ron – ju¯rosna, upe˙ (stream, river) – ˛i upe˛ – upe˙n – upe˙sna.22 The pronouns for the 1st and 2nd person and the reflexive pronouns have no gender in Indo-European, there is only one form – IE *tu¯ – lith. tu; dual – IE *iu-d – lith. ju-du; plural – IE *iu¯- – lith. ju¯s; IE *tas – lith. tos (feminine plural); the IE interogitive pronoun *q os is lith. kas; IE *on-tero-s (other) – lith. antras; the cardinal numbers *penq, *septm – lith. penki, septyni; IE *liq – lith. vienuo-lika and dvy-lika; IE ordinal number *pr- – lith. pir-ma-s, *tri-tio – lith. trecˇas. Indo-European had five verb moods: indicative, subjunctive, optative, imperative, and injunktive – close to the subjunctive. There were also active, medium, and possibly passive verb forms. Verb tenses also existed – present tense, past tense, aorist tense, present perfect and past perfect tenses. It’s possible that IE used the future tense. Plural IE ending -oi-me corresponds to lith. suk-o-me-s (we turned).23 The complex issue of the development of the Indo-European languages does not concern us here per se. This would go considerably beyond the scope of this study. Suffice it to mention that there are several theories which attempt to describe the development of IE languages or language relationships as well as language change from an older integrated or unified Indo-European protolanguage (PIE).
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Most of the vocative and illative examples were taken from Remys, Edmund, Review of Modern Lithuanian Grammar, second edition, Lithuanian Research and Studies Center, Chicago, 2003, p. 29, pp. 40–48. Krahe, Hans, Germanische Sprachwissenschaft, II, p. 11, 28, 30, 33, 44, 49, 52, 53, 64, 70, 71, 87, 88, 91, 93. The reference in the text is to Lithuanian.
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The family tree of languages (Stammbaumtheorie), developed by August Schleicher to represent the IE group of languages, was motivated by views on evolution. The Proto-Indo-European language was conceived as the trunk (a single source) from which split two branches, each of which again split into smaller and smaller branches, etc. This IE family tree notion has shortcomings. The theory does not account for influences languages have on others in the form of substratum and abstratum. Relationships and divergences between languages can be partially based on non-systemic criteria. Commenting on the Stammbaumtheorie, Albert Drexel states: “The trouble with this theory is that common features of separated members (IE branches), for example, the Indo-Iranian, Baltic and Slavic branches cannot be explained. On the other hand, we find curious differences, which are inexplicable according to the Stammbaumtheorie, within the same branch, as for example between Greek and Albanian.”24 The wave-theory (Wellentheorie) proposed by Johannes Schmidt in 1872, says that linguistic changes spread like waves over a speech area and the dialects of adjacent districts resemble each other the most. Common language characteristics are the result of the spreading of linguistic features in waves over adjacent dialects within a family. This theory infers that the relationship among IE languages was the result of wave-like dissemination of PIE features. Dialect waves spread out from different centers and spread in all directions, crossing each other as they went. Thus, common features shared by various branches could be explained in this manner. The wave theory interprets language relationship based on the spread and extent of dialectical isoglosses, but does not account for the origin of change.25 The substratum theory of language development says that the substratum influence is due to prior language shift from a less prestigious substratum language to a new target language. That is to say, through contact a substratum language is superseded by another language which speakers adopt. In extreme cases, the new target language can replace the substratum language entirely. This process of substituting 24
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Drexel, Albert, Die indogermanischen Sprachen, part two of the complete works, Verlag der Universitätsbuchhandlung, Freiburg in der Schweiz, 1956, p. 8. See Anderson, Structural Aspects of Language Change, pp. 191–194.
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one language for another is known as language shift – a possible explanation for language change.26 Language change under the so-called biological theory suggests an evolution of language as a natural event. It interprets the biological history of natural languages. A rejection of this biological model of language change is based on the reaction against an equation between evolutionary biology and historical linguistics.27 Lithuanian belongs to the Baltic branch of the IE language family together with Latvian and Old Prussian. Lithuanian has the voiceless stops – p, t, k, voiced stops – b, d, g, voiceless fricatives (f), s, sˇ, (x), voiced fricatives – z. zˇ, (h), voiceless affricatives – (c), cˇ, voiced affricatives – (dz), dzˇ, nasals – m, n, liquids – r, l, and glides – v, j. The voiceless fricatives (f) and (x) – pronounced ch – are found in recent borrowings, for example: faksimile˙ (facsimile), familiariai (without ceremony), farmaceutas (pharmacist), feljetonas (feuilleton), chartija (charter), chirurgas (surgeon), choras (chorus), chuliganas (hooligan). A typical noun form consists of a stem + vowel + case ending + number marker, for example, many plural instrumental nouns illustrate this: gatve˙mis, zˇmone˙mis, rankomis, kojomis. A characteristic feature of Lithuanian is the genitive preceding modified nouns (for a brief discussion of the genitive case in Lithuanian, see Remys, Edmund, Review of Modern Lithuanian Grammar, pp. 53–54). The closest relative to Lithuanian is Latvian. Being the oldest living IE language, Lithuanian has retained the PIE pitch accent in which a stressed vowel may have a rising pitch or circumflex, or a falling pitch called acute. In most IE languages the term circumflex refers to a falling tone. Among the Baltic languages, only Lithuanian preserves the reflexes of the IE palatal velars. In Latvian, for example (as well as in Slavic) these have merged with s, z: lith. sˇuo (dog), zˇeme˙ (earth), latv. suns, zeme, slav. sabaka, zemlya.
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Asher, The Encyclopedia of Language and Linguistics, Volume 8, pp. 4396–4398; also Anderson, pp. 89–95. Substratum presence can be seen today as Anderson points out: “The Guarani Indian language of Paraguay has influenced Spanish spoken in the area as a substratum language. In the district of Leon in Brittany, the local French has acquired the Breton rules of stress. In recently anglicized districts in Ireland, the local English dialect has Irish features in grammar and syntax as well as in phonology.” (p. 92) Anderson, pp. 194–203.
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In Latvian the accent or word stress falls on the first syllable. Exceptions are names of Slavic origin. Latvian has three intonations – prolonged (level tone), falling, and broken. The meaning of the word depends on the pitch (tone). Latvian also has six normal cases, the vocative is, however, used for animate objects only; three simple tenses (present, past, future) and three perfect tenses; five moods; three voices; two genders; and two numbers. It has no aspirates and no articles. But as in Lithuanian, Latvian distinguishes between indefinite and definite attributive adjectives, the former corresponds to English a, the latter to the: Latv. balts suns – lith baltas sˇuo (a white dog), latv. baltais suns – lith. baltasis sˇuo (the white dog), lith. geras vyras (a good man) – gerasis vyras (the good man). The definite adjective in Lithuanian is a combination of the indefinite adjective and the pronoun jis which functions like an article: jis, gerasis = geras-jis, both parts are inflected. The j of the pronoun before palatal vowels falls off after consonants: geras > geras-is, not gerasjis.28 Serbo-Croation, for example, also has no articles, adjectives can show an indefinite-definite distinction by certain endings: dobar pas (a good dog), dobri pas (the good dog) – lith. geras sˇuo, gerasis sˇuo. Loanwords in Latvian come from Gothic and Old Norse – alus (beer, ale), gatve (gate), klaips (loaf), kviesis (wheat); others come from Finno-Ugric and Slavic – f-u. laiva (boat), slv. baznica (church), muita (customs); from English – menedzˇeris (manager).29 The lexical similarities between Lithuanian and Latvian are quite apparent as the following examples illustrate. (Most of these are identical, but some are merely similar): Latv. dauzit – lith. dauzˇyti (to beat, knock), latv. berzaine – lith. berzˇynas (birch grove), latv. alzmigt – lith. uzˇmigti (fall asleep), latv. desa – lith. desˇra (sausage), latv. ezers – lith. ezˇeras (lake), latv. izlit – lith. isˇlieti (pour out), latv. jau – lith. jau (already), latv. ju¯su – lith. Ju¯su˛ (your), latv. ju¯ra – lith. ju¯ra (sea), latv. saule – lith. saule˙ (sun), latv. kalvis – lith. kalvis (smith), latv. kas – lith. kas (who), latv. sauja – lith. sauja (handful), latv. lu¯pa – lith. lu¯pa (lip), latv.
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Leskien, August, Litauisches Lesebuch mit Grammatik und Wörterbuch, Carl Winter’s Universitätsbuchhandlung, Heidelberg, 1919, pp. 164–165. For an overview of the definite adjective in Lithuanian, including declensions, see Remys, Edmund, Review of Modern Lithuanian Grammar, pp. 71–77. For a comprehensive discussion of Latvian grammar, see Endzelins, Janis, Latviesˇu valodas gramatika, second edition, Latvijas Valsts Izdevnieciba, Riga, 1951.
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medus – lith. medus (honey), latv. sauss – lith. sausas (dry), latv. sekunde – lith. sekunde˙ (second), latv. alus – lith. alus (beer, ale), latv. siena – lith. siena (wall), latv. sleptuve – lith. sleptuve˙ (shelter, hiding place), latv. snaust – lith. snausti (slumber), latv. snukis – lith. snukis (snout), latv. tautietis – lith. tautietis (compatriot, countryman), latv. upe – lith. upe˙ (river, stream), latv. vasara – lith. vasara (summer), latv. mazgat – lith. mazgoti (wash), latv. nelaime – lith. nelaime˙ (misfortune), latv. nekur – lith. niekur (nowhere), latv. kam – lith. kam (to whom), latv. pardot – lith. parduoti (sell), latv. virtuve – lith. virtuve˙ (kitchen), latv. lietus – lith. lietus (rain), latv. zvirbulis – lith. zˇvirblis (sparrow), latv. pasaka – lith. pasaka (fairy tale), latv. alga – lith. alga (salary), latv. liet – lith. lieti (found, mould), latv. laistit – lith. laistyti (pour, to water), latv. lieku – lith. lieku (I stay or remain), latv. darzs – lith. darzˇas/sodas (garden), latv. bert – lith. berti (pour, strew, sow, break out), latv. darbs – lith. darbas (work), latv. mirt – lith. mirti (die), latv. durt – lith. durti (thrust, prick, stab), latv. laicit – lith. laukyti (hold), latv. sasirgt – lith. susirgti (fall ill), latv. pupa – lith. pupa (bean), latv. ka ju¯su vards? – lith. kaip Ju¯su˛ vardas? (what is your name?). Regardless of the close relationship between Latvian and Lithuanian lexical elements as illustrated above, there are words that are quite different: lith. medis – latv. koks (tree); lith. pauksˇtis – latv. putns (bird); lith. vaikas – latv. berns (child); lith. moteris – latv. sieviete (woman); lith. didis, didelis – latv. liels (big); lith. sesuo – latv. masa (sister); lith. virve˙ – latv. sˇnore (string, line, cord – German Schnur); lith. puodukas – latv. tase (cup – German Tasse); lith. laiptai – latv. trepes (stairs, staircase – German Treppe); lith. kiausˇinis – latv. ola (egg) – ola in Lithuanian means cave or cavern. There are also a number of phonetic differences. For instance: Latvian c, dz = Lithuanian k, g; Latvian s, z = Lithuanian sˇ, zˇ; Latvian uo, ie, i, u = Lithuanian an, en, in, un; Latvian sˇ, zˇ = Lithuanian cˇ, dzˇ. Let’s look at examples of these differences. Latvian c, dz and Lithuanian k, g: cits – kitas (another), celt – kelti (lift), celot – keliauti (travel), cept – kepti (bake), cirvis – kirvis (axe), ciets – kietas (hard), celis – kelis (knee), cepore – kepure˙ (hat, cap), dzenis – genys (woodpecker), dzert – gerti (drink), dzimt – gimti (be born), dzintas – gintaras (amber), dzelt – gelti (sting), dzeltans – geltonas (yellow), dzelzs – gelezˇis (iron) draudzias – draugisˇkas (friendly), daudz – daug (a lot, much), dzeguze – geguzˇe˙ (May).
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Latvian s, z and Lithuanian sˇ, zˇ: siens – sˇienas (hay), ziema – zˇiema (winter), desa – desˇra (sausage), sirds – sˇirdis (heart), salna – sˇalna (frost), salt – sˇalti (freeze), zeme – zˇeme˙ (earth), saukt – sˇaukti (call), sesi – sˇesˇi (six), suns – sˇuo (dog), darzs – darzˇas (garden). Latvian uo, ie, i, u and Lithuanian an, en, in, un: ruoka – ranka (hand), liekt – lenkti (bow, bend), dzit – ginti (defend), ju¯tu – juntu (I feel), dalit – dalinti (divide), jugs > jungas (yoke), milzis > milzˇinas (giant). Latvian sˇ, zˇ and Lithuanian cˇ, dzˇ: vaciesˇa – vokiecˇio (German, genitive.), briezˇa – briedzˇio (elk), sˇe – cˇia (here), sˇepat – cˇia pat (in this place, right here), sˇkaudiens – cˇiaudyti (sneese), zˇaut – dzˇiauti (dry), zˇu¯t – dzˇiuti (to dry).30 Lithuanian is also closely related to Latin, Greek, and Sanskrit, having also retained more ancient grammatical forms of extinct IE languages, including Old Prussian, Hittite, and Tocharian.31 Before we look at Old Prussian and Sanskrit and say a few words about Hittite and Tocharian in relationship to PIE and the Lithuanian language, here are a few examples of similarities between words in Latin and Lithuanian – the similarities are quite obvious: lat. deus (God), lith. dievas; lat. noctis (night), lith. naktis; lat. tu (you), lith. tu; lat. auris (ear), lith. ausis; lat. ignis (fire), lith. ugnis; lat. jungum (yoke), lith. jungas; lat. ovis (sheep), lith. avis; lat. sol (sun), lith. saule˙; lat. axis (axe), lith. asˇis; lat. tres (three), lith. trys; lat. septem (seven) lith. septyni; lat. rota, lith. ratas (wheel); lat. angius (snake), lith. angis (Vipera berus); lat. aro, lith. ariu (I plow); lat. septem, lith. 30
31
Jonikas, Petras, Lietviu˛ Kalba ir Tauta Amzˇiu˛ Bu¯vyje, Lituanistikos Instituto Leidykla, 1987, pp. 25–27. Here Jonikas gives a few examples of phonetic differences between Latvian and Lithuanian; unlike closely related Lithuanian, in which the pitch accent only occurs on stressed syllables, any long syllable has pitch in Latvian. The first syllable in a word is stressed. Some examples were also taken from Endzelins, Janis, Baltu˛ Kalbu˛ Garsai ir Formos, Valstybine˙ Politine˙s ir Moksline˙s Literatu¯ros Leidykla, Vilnius, 1957, p. 28. For a detailed analysis of phonetics, grammatical structure, lexicon, including the vowel system (development of nasal vowels, short and long sounds, etc.), nouns, stress and intonation, etc. of the Lithuanian language, see Zinkevicˇius, Zigmas, The History of the Lithuanian Language, 2nd printing, Mokslo ir enciklopediju˛ leidybos institutas, Vilnius, 1998, translated by Ramute˙ Plioplys, pp. 85–105; see also Jonikas, Lietuviu˛ Kalba ir Tauta Amzˇiu˛ Bu¯vyje, about the Proto-Baltic-Language, the division of the Baltic language group into Lithuanian, Latvian, Old Prussian and other extinct dialects/Old Prussian tribes.
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septyni (seven); lat. gentes, lith. gentys (tribes); lat. mensis, lith. me˙nesis (month).32 In the introduction of his Handbuch der litauischen Sprache, 1856/57, August Schleicher says, “Among all living Indo-European languages, Lithuanian shows by far the greatest archaism in its system of sounds. That is why it is of great importance to linguists.”33 In his analysis of the Lithuanian language, Hermann Hirt in Indogermanische Grammatik asserts that “it is a very ancient IE language which is of utmost importance for Indo-Europeanists especially because of its stress.” Distinguishing characteristics of Lithuanian include an “exceptional simplification and transformation of the verb, excellent preservation of the declension and retention of the IE accentuation.”34 Lithuanian is indeed an exceptional ancient language and occupies a special position among the IE languages. To the ancient elements or features of Lithuanian also belong the diminutive forms, which are found in no other language in such abundence, unlike modern German, for example, which only has two forms > -chen and -lein: der Bub, das Bübchen, der Vater, das Väterchen, der Garten, das Gärtlein, der Ofen, das Öfchen, die Mutter, das Mütterlein or das Mütterchen or Muttchen (no umlaut), die Rose, das Röslein, die Mütze, das Mützchen. The vowels a, o, u normally add an umlaut in the diminutive form. In some Southern German dialects the ending -el is added to nouns or names – Hänsel and Gretel. In Swabian the -el becomes -le – bissle (a little) from bisschen, the diminutive form for der Biss and der Bissen (bite, morsel, snack, mouthful). Lithuanian has a much greater number of diminutive forms for nouns, adjectives, even verbs and adverbs. For instance, let’s take the word mazˇas (small): some variations of the word are – mazˇale˙les, mazˇile˙lis, mazˇele˙lis, mazˇutis, mazˇytis, mazˇiukas, mazˇylis, mazˇuliukas; or the word for mother, just some examples – mama, mamele˙, mamyte˙, mamute˙, mamycˇiute˙, mamulyte˙, mamuzˇe˙, motina, motine˙le˙, mamaite˙, mamuzˇele˙, motule˙, mamule˙; devil – velnias, velniukas, velnyksˇtis, vel-
32
33 34
For most of the indicated lexical Latin-Lithuanian similarities, see Jungfer, Victor, Litauen, Anlitz eines Volkes, Patria-Verlag, Tübingen, 1948, p. 20; Jonikas, Lietuviu˛ Kalba, pp. 50–51. Quoted in Jungfer, p. 13; see also Jungfer, p. 18. Hirt, Hermann, Indogermanische Grammatik, Vol. 1, pp. 32–33.
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niuksˇtis.35 The word bernas (young, unmarried man) also has numerouus diminutive forms. Some examples are bernelis, berniokas, bernytis, berniukas, bernuzˇis. Likewise the word for girl (maid, maiden): merga, mergaite˙, mergele˙, mergina, mergiote˙, mergyte˙, merguzˇe˙, merguzˇe˙le. There are some diminutives in Lithuanian that end in -utis or -ute˙, for instance: katutis or kacˇiutis (kitten), pauksˇtutis (small bird), varliutis or varliute˙ (small frog), vilkutis (small wolf), zˇvirblutis (small bird), peliute˙ (small mouse), upeliute˙ (small stream).36 Even though Lithuanian, Latvian, and Old Prussian are related languages, having many common word stems and grammatical forms, the Old Prussian language differs considerably from Lithuanian and Latvian. For instance, Old Prussian does not have the diphthong ie as does Lithuanian, but has retained the Baltic ei (ai): lith. dievas, dievu, dievaite˙, opr. deiw(a)s, deiwis; lith. vienas, opr. ains; lith diena, opr. deinam. Old Prussian has s and z, while Lithuanian uses sˇ and zˇ: opr. assis, lith. asˇis (axle); opr. zyrne, lith. zˇirnis (pea).While the genitive case singular of o stem nouns in Lithuanian ends in -o, in Old Prussian the ending is -as: lith. dievo, opr. deiwas. The plural dative case in Old Prussian has the ending -mans – su¯numans, akimans, zememans, but in Lithuanian it is -mus/-ms – ms later developed from mus: lith. tiem(u)s (to them), opr. steimans; other lith. examples are vaikams, jiems, studentams, te˙vams. The plural accusative of stem nouns has the -ans ending in Old Prussian, while Lithuanian has -us: opr. deiwans, lith. dievus.37 In Old Prussian the word stress was free; it had a substantive neuter gender, which became masculine in Lithuanian long ago: opr. assaran – lith. ezˇeras (lake), opr. balgnan – lith. balnas (saddle), opr. median – lith. misˇkas (forest). It did not have the dual number as in Lithuanian, and only five cases. Old Prussian also did not have affricates: opr. geide – lith. geidzˇia. The phonetical and morphological differences of Old Prussian in relation to Lithuanian and Latvian are significant. Antanas Salys in Baltu˛ Kalbos, Tautos bei Kiltys, notes that the separate development of Old Prussian began between 500–300 BC, after the Proto-Baltic language split into the western and eastern branches, 35 36 37
Jungfer, pp. 21–22 Endselins, Janis, Baltu˛ Kalbu˛, p. 98. See Frenkelis, Baltu˛ Kalbos, pp. 27–31.
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while Lithuanians and Latvians still spoke the same language until around the 8th century AD.38 Therefore, the relationship of Old Prussian to Lithuanian was not as close as that of Latvian to Lithuanian. Regardless of the differences between these languages, all three do have common lexical features as illustrated by the following words: lith. dievas (God), latv. dievs, opr. deivs; lith. ranka (hand), latv. ruoka, opr. ranko; lith. galva (head), latv. galva, opr. galvo; lith. gel(e)zˇis (iron), latv. dzelezs, opr. gelso; lith. plienas (steel), latv. pliens, opr. plainis; lith. ilgas (long), latv. ilgs, opr. ilgi. Yet, there are also lexical differences: lith. duona (bread), latv. maize, opr. geitis; lith. sviestas (butter), latv. sviests, opr. anktan; lith. pienas (milk), latv. piens, opr. dadan (opr. ructan dadan is lith. ru¯gusis pienas); lith. ugnis (fire), latv. uguns (very similar to lith.), but opr. panno – probably related to German Flamme (flame).39 Endzelins in his Baltu˛ Kalbu˛ Garsai ir Formos provides several other examples of vocabulary, showing common lexical features between Lithuanian, and Old Prussian: opr. kaulins – lith. kaulai (bones); opr. sunis – lith. sˇuns (dog); opr. bu¯ton – lith. bu¯ti (to be); opr. tauto – lith. tauta (peoples, nation); opr. semme – lith. zˇeme˙ (earth); opr. tickray – tikrai (really); opr. turit – lith. ture˙ti (to have); opr. laiku¯t – lith. laikyti (to hold), pp. 12–25. A few additional examples of Old Prussian-Lithuanian lexical similarities are mentioned by Calvert Watkins in Indogermanische Grammatik, Vol. 3, Carl Winter Universitätsverlag, Heidelberg, 1969: opr. giwa (lives) – lith. gyva; opr. immais (take) – lith. imk; opr. past tense postai (got pregnant) – lith. past tense pastojo; opr. polaikt (stay, remain) – lith. likti (p. 215, 223). The oldest known text written in Old Prussian is the so-called Basel Fragment, an epigram that dates from the second half of the 14th century and was discovered as a marginal note in a Latin manuscript in the public library of the University of Basel. In fact, this fragment is presumably the oldest Baltic text.40 Another old and important monument is the Elbing Vocabulary, named after Elbing where it was found in 1825. The vocabulary was copied around 1400 AD, probably from an earlier copy. It was found 38 39 40
Salys, Baltu˛ Kalbos, p. 152. Jungfer, Litauen, Anlitz eines Volkes, p. 12, 37–38. For a discussion of this Old Prussian epigram, see Mazˇiulis, Vytautas, “Seniausias baltu˛ rasˇto paminklas”, Baltistica 11/2, 1975, pp. 125–131.
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by Fredrick Neumann among other manuscripts acquired from the heritage of a merchant by the name of A. Grübnau and is part of the “Codex Neumanniamus.” Frenkelis in his Baltu˛ Kalbos (p. 27) states that this monument is also important for the history of Lower German dialects. The transliterated text of the Elbing Vocabulary was first published by G.H.F. Nesselmann in Altpreußische Monatsschrift, V. 5, Königsberg, 1868. A photocopy of the Vocabulary was published by Adalbert Bezzenberger and W. Simon in 1897: Das Elbinger DeutschPreußische Vokabular.41 The following selected examples of Old Prussian words taken from the Elbing Vocabulary and their modern Lithuanian equivalents atest to the close lexical relationship of these two ancient Baltic languages. The similarities of those words selected are quite apparant. Not included here are the original German words listed in the Vocabulary, but English translations of the modern Lithuanian terms: opr. deywis – lith. dievas (God); opr. dangus – lith. dangus (heaven/sky); opr. saule – lith. saule˙ (sun); opr. agnis/ackis – lith. akis (eye); opr. ape – lith. upe˙ (stream/ river); opr. buttan (house) – lith. butas (apartment); dantis – dantis (tooth); gandarus – gandras (stork); malun – malu¯nas (mill); menso – me˙sa (meat); mergo – merga (girl/maid/maiden); pettis – petys (shoulder); percunis – perku¯nas (thunder); snaygis – sniegas (snow); weware – vovere˙ (squirrel); antis – antis (duck); gulbes – gulbe˙ (swan); sagnis – sˇaknis (branch); plauti – plautis/plaucˇiai (lung, lungs); crauyo – kraujas (blood); sticlo – stiklas (glass); doalgis – dalgis (scythe); sylecke – silke˙ (herring); lape – lape˙ (fox); sawayte – savaite˙ (week); suris – su¯ris (cheese); gelso – gelezˇis (iron); juri – ju¯ra (sea); mettan – metas (year); sunis – sˇuo, sˇunys (dog, dogs); wijrs – vyras (man); tauto – tauta (peoples/ nation); ketwirtire – ketvirtadienis (Thursday); pelanne – pelenai (ash); alkunis – alku¯ne˙ (elbow); pirsten – pirsˇtas (finger); kulnis – kulnis (heel); golis – galas (end/death); stogis – stogas (roof); catels – katilas (kettle); asilas – asilas (ass); balgnam – balnas (saddle); lopto – lopeta (spade); ragis – ragas (horn); pagonbe – pagonybe˙ (paganism); caymis – kaimas (village), crausios – kriausˇe˙ (pear), sari – zˇarija (embers), nozy – nosis (nose), ponasse – panose˙ (place under the nose), anglis – anglis (coal). 41
The complete title is: Das Elbinger Deutsch-Preußische Vokabular, 17 Tafeln in Lichtdruck herausgegeben namens der Altertumgesellschaft Prussia von Dr. A. Bezzenberger und Dr. W. Simon (Photographie von F. Surand in Elbing. Lichtdruck von Meisenbach Riffarth Co., in Berlin). Printed by R. Leupold, Königsberg.
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The following are some examples of Old Prussian words selected from the Elbing Vocabulary that do not correspond to Lithuanian: assanis (autumn) – goth. asans – lith. ruduo – latv. rudens < lith. rudas (brown) and rude˙ti (turn brown), aglo (rain) – lith lietus < lieti (pour), widdewu (widow) – lith. nasˇle˙, sasins (rabbit) – ohg. haso – germ. Hase – lith. kisˇkis/zuikis. The second, shorter vocabulary of Old Prussian words was compiled by Simon Grunau between the years 1510 and 1529. The Grunau Vocabulary contains 100 Old Prussian and German words, which the author included in his “Prussian Chronicle.” Among the list of words are some Polish and a few Lithuanian words. Frenkelis believes that one should use this vocabulary very carefully – with caution (Baltu˛ Kalbos, p. 27). Grunau precedes the vocabulary list with a brief statement entitled Von vnderscheit der sprachen – about the difference between languages, in which he states that in Prussia the German language is mostly used. In some villages only Prussian is spoken, in others only German. So that one could perceive a difference between Prussian and German, the words are listed in both languages. Some selected words from the Grunau Vocabulary are listed below together with their Lithuanian equivalents: angol – angelas (angel); maysta – miestas (city/town); ruggis – rugiai (rye); nalko – malkos (firewood); rancho – ranka (hand); sneko – sniegas (snow); salta – sˇalta (cold); merga – merga (maiden); wolgeit – valgiti (to eat); muti/ muthi – mote˙ (mother); nackt – naktis (night); peile – peilis (knife); pirmas – pirmas (first); ludis – liaudis (people); pastnygo – pasninkauti (to fast); eykete (come here) – eikite (go), ateikite (come here). Perhaps the most important Old Prussian written records are three printed catechisms translated from German and published in Königsberg. The first two catechisms are short and anonymous and dated from 1545. The third one, known as the Enchiridion, dates from 1561 and was translated by a German pastor Abel Will. Compared to the Elbing Vocabulary, the catechisms already indicate a later development of the Old Prussian language. Furthermore, the Elbing Vocabulary was written in a southern Old Prussian dialect, while the catechisms reflect a northern dialect.42
42
Salys, Baltu˛ Kalbos, pp. 165–166.
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The first printed Old Prussian book is the translation of Martin Luther’s Small Catechism, which was published by Hans Weinreich in Königsberg in 1545. In the same year, a corrected version (2nd edition) of the translation was also published in Königsberg, including the German original: Catechismus in preußnischer sprach gecorrigiret vnd dagegen das deüdsche, Königsberg, Hans Weinreich, 1545. The third translation, printed by Johann Daubman, Königsberg, 1561 is excessively literal. Antanas Salys, in Baltu˛ Kalbos, Tautos bei Kiltys, states that this translation is very bad and that Abel Will did not know Prussian very well. He not only translated Luther’s text word for word, but also confused the cases, especially the accusative with the nominative as well as the numbers, and used inaccurate endings. Wolfgang Schmid in his study on the Baltic and IE verb asserts that to a large extent, the translation slavishly clings to the German model or pattern. In Will’s translation, the Old Prussian ending -i equates to Lithuanian -e˙: smu¯ni (person) – lith. zˇmone˙s, duckti (daughter) – lith.dukte˙. The ending of the e-stem nouns in Old Prussian are written as -i by Will instead of -e. However, if the -e ending of Old Prussian substantives is stressed, Will does retain the ending as -e: semme – lith. zˇeme˙ > “tou asse semme” = lith. “tu esi zˇeme˙” (you are the earth). In contrast to Will’s translation, in the Elbing Vocabulary the Old Prussian nouns ending in -e normally correspond to Lithuanian -e˙: lape – lith. lape˙ (fox), bitte – lith. bite˙ (bee).43 Abel Will had translated Martin Luther’s Enchiridion, Der kleine Catechismus Für die gemeine Pfarher und Prediger, Jacobum Berwald, Leipzig, 1549. This small catechism was conceived by Luther as a concise handbook or manual of devotions, which deals with certain themes that Christians should know: The Ten Commandments, the Creed, the Our Father, Baptism, Confession, and Communion. In his study The Language of the Old Prussian Catechisms, Frederik Kortlandt presents a comparative analysis of the three Old Prussian catechisms. He shows that the Enchiridion language is the result of a later development from the first two catechisms. In the third catechism Kortlandt sees a strong German language influence. He states that since the three texts represent three distinct varieties of the Old 43
Ibid., p. 150; see also Schmid, Wolfgang P., Studien zum baltischen und indogermanischen Verbum, Otto Harrassowitz, Wiesbaden, 1963, p. 2, p. 17, p. 20.
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Prussian language, they must be looked at separately in any analysis of the material. The older catechism “gives us a glimpse of what Prussian must have looked like before it succumbed to the pervasive influence of German.”44 Vytautas Mazˇiulis published a facsimile of all Prussian documents in 1966, in which a detailed linguistic analysis of the catechisms is included in the comments section by Letas Palmaitis.45 In 1910, Reinhold Trautmann had already published all of the Old Prussian language monuments in his Die altpreussischen Sprachdenkmäler. Einleitung, Texte, Grammatik, Wörterbuch, including a selection of proper names and place names. Because there are so few Old Prussian texts available, including only a few fragments,46 of great importance are also Prussian proper names. One of the best sources of information about these names, is Reinhold Trautmann’s Die altpreussischen Personennamen. The collection contains traditional Old Prussian names from the 13th to the 15th century.47 An important stimulus for the development of historical-comparative linguistics was the acquantance with Sanskrit, the classical language of India and liturgical language of Hinduism, Buddhism and Jainism. A systematic comparison of similarities between European languages and Sanskrit established the existance of the Indo-European family of languages. The pre-classical form of Sanskrit, or Vedic Sanskrit, is one of the earliest attested members of the IE language family. Its most ancient text is the Rigveda which dates back to the middle of the second millenium B.C. The Vedas are collections of hymns, incantations and philosophical discussiona, forming the earliest religious texts in India. M.B. Emeneau in his article on the dialects of Old Indo-Aryan, asserts that classical Sanskrit is a written literary language, in which no dialects, no chronological development and no geographical divergencies are 44
45 46
47
See Kortlandt, Frederik, The Language of the Old Prussian Catechisms, Res Balticae, Leiden, 1998, pp. 117–129. Mazˇiulis, Vytautas, Pru¯su˛ kalbos paminklai, Mintis, Vilnius, 1966, see pp. 59–75. The first few words of the prayer “Our Father”discussed by Mikalauskaite˙, E. in “Priesˇreformaciniu˛ laiku˛ pru¯sisˇko Te˙ve Mu¯su˛ nuotrupa”, Archivum Philologicum 7, Kaunas, 1938, pp. 102–106. Trautmann, Reinhold, Die altpreussischen Personennamen, 2nd edition, Vandenhoeck and Ruprecht, Göttingen, 1974.
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found. He points out that Vedic Sanskrit is not a unified language or a language of one dialect and that the Rigveda shows linguistic features whose origin is based on slightly different dialects.48 Early pioneers of European scholarship in Sanskrit were Heinrich Roth (1620–1668) – a German missionary in India and the first Sanskrit scholar – and Johann Ernst Hanxleden (1681–1732) who wrote a Malayalam (spoken in southwestern India)-Sanskrit-Portuguese lexicon. In 1767, a Jesuit by the name of Gaston-Laurent Coeurdoux presented a memorandum to the French Academy, in which he demonstrated remarkable similarities between Sanskrit, Greek and Latin. Coeurdoux had spent much of his time in Southern India from 1734 until 1779. The English philologist William Jones demonstrated the links between Sanskrit and the classical languages of Europe. He made the observation that Sanskrit bore a close linguistic recemblance to the four oldest languages known at that time, Latin, Greek, Sanskrit and Persian and suggested that these languages had a common root. Jones had come to India as a judge of the Supreme Court of Calcutta. There he presented his findings to the Asiatic Society of Calcutta in 1786. He laid the foundation for the science of linguistics.49 Friedrich v. Schlegel also recognized the overall extent of the relationship of these languages in his work: Über die Sprache und Weisheit der Inder, which was published in Heidelberg in 1808. With a systematic and meticulous thoroughness, Franz Bopp, the founder of comparative linguistics, likewise recognized the common 48
49
Emeneau, M.B., “The Dialects of Old Indo-Aryan”, Ancient Indo-European Dialects, ed. Henrik Birnbaum and Joan Puhvel, University of California Press, Berkeley and Los Angeles, 1966, p. 123; according to Shukla, Shaligram in his article on “Bhojpuri” – an Indo-Aryan language – “the Indo-Europeans came to India from the northwest about four thousand years ago. In India they called themselves arya – ‘noble, honorable’ … The historical period of Indo-Aryan begins with the composition and compilation of the Rigveda. … Old Indo-Aryan is represented by Vedic and Classical Sanskrit.” In Garry, Jane and Rubino, Carl, ed, Facts about the World’s Languages, New York/Bublin, H.W. Wilson Press, 2001, p. 86. See Crystal, David, The Cambridge Encyclopedia of Language, 2nd edition, Cambridge University Press, 1997, p. 298; see also Bright, William, ed., International Encyclopedia of Linguistics, Vol. 2, pp. 260–261; and Asher, R.E., ed., The Encyclopedia of Languages and Linguistics, V. 4, pp. 1820–1821. Compare with Anon, Indian, European and American orientalists from William Jones to Sylvain Levy, Asian Educational Services, reprint edition, 1991, p. 21.
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features in the grammar of Sanskrit and the older European languages, but was, however, the first who produced evidence of the unity of what would become the Indo-European languages, in two major studies: Über das Konjugationssystem der Sanskritsprache in Vergleichung mit jenen der griechischen, lateinischen, persischen und germanischen Sprachen (On the conjugational system of Sanskrit in comparison with that of Greek, Latin, Persian and Germanic languages), Frankfurt a.M., 1816, which also contained translations from Sanskrit literature; and his comparative grammar: Vergleichende Grammatik des Sanskrit, Zend, Griechischen, Lateinischen, Litauischen, Altslavischen, Gothischen und Deutschen, Ferdinand Dümmler, Berlin, 1833–1852. The second edition (1856–1861) also comprised Old Armenian. The third edition of his Grammatik in three volumes was published by Ferdinand Dümmler’s Verlagsbuchhandlung (Harrwitz & Gossmann), Berlin, 1868, 1870, 1871. Bopp also wrote on Celtic, Albanian (he proved that Albanian was an IE language in 1854) and Old Prussian.50 Sanskrit is a highly inflected language with three grammatical genders, masculine, feminine, and neuter and three numbers – singular, plural, and dual; it has eight cases and over 10 noun declensions; it has personal, reflexive, and interrogative pronouns, but no articles; verbs have four tenses – present, perfect, aorist and future; two aspects – imperfective and perfective; three voices – active, passive, and middle; and three moods – imperative, conditional, and indicative. Aorist is a narrative verb tense that usually denotes past action without indicating completion, continuation or repetition – Late Latin aoristos < Greek aoristos (indefinite).51 Michael Witzel in his study on the Sanskrit language points out that “most of the nouns and verbs of Sanskrit are, as in all older IE languages, composed of three elements, the monosyllabic root (carrying the lexical meaning), one or two stem suffixes (specifying some grammatical or semantic relationship with or derivation from, the root), and the endings that indicate certain grammatical catagories such as case, number, gender (in nouns), and person, number and voice (in verbs).”52 50 51
52
Bright, V. 1, pp. 195–196. For an analysis of the Sanskrit language, see Michael Witzel’s article “Sanskrit” in Facts about the World’s Languages, pp. 611–622. Ibid., p. 615.
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Sanskrit shows stark similarities with Latin, Ancient Greek, Avestan and even Persian. Vedic Sanskrit ia a pitch accent language having three tones – raised, not raised and sounded. The raised tone corresponds to the original PIE stress. Classical Sanskrit is usually pronounced with a stress accent decided by the syllable length pattern of each word. Sanskrit also shows striking similarities – to varying degrees – with Baltic. The lexical similarities between Sanskrit and Lithuanian, the oldest living IE language, are illustrated by the following examples: skr. sunus (son), lith. su¯nus; skr. viras (man), lith. vyras; skr. avis (sheep), lith. avis; skr. dhumas (smoke), lith. du¯mas; skr. padas (sole), lith. padas; skr. dvau (two), lith. du (dvi); skr. panca (five), lith. penki; skr. kataras (which), lith. katras; skr. asmi (I am), lith. esu; skr. asi (you are), lith. esi; skr. asti (he is), lith. yra/esti; skr. agni (fire), lith. ugnis; skr. tava (yours), lith. tavo; skr. dina (day), lith. diena; skr. deva (God), lith. dievas; skr. devataa (goddess), lith. dievaite˙; skr. bhuvana (home), related to lith. buveine˙ (residence, abode); skr. antaras (second), lith. antras; skr. ka, lith. kas (who); skr. kravis (raw flesh), lith. kraujas (blood); skr. eti (he goes) – lith. eiti (to go); skr. loka (space, room, world) – lith. laukas (outside, out of doors); skr. rasa (moisture) – lith. rasa (dew). The ending -yate in Sanskrit/Old Indic corresponds to Lithuanian -i / -e˙ti: skr. yudhyate (move), lith. jude˙ti; skr. rupyati (worry), lith. rupe˙ti.53 The following is a sample of other words that exemplify the close linguistic relationship of Old Prussian, Latvian, and Sanskrit to Lithuanian: opr. nozy, latv. nass, skr. nasa, lith. nosis (nose); opr. deinam, latv. diena, skr. dina-m, lith. diena (day); opr. lauxnos (stars), latv. lauks, skr. locana-h, lith. laukas (out of doors, outside); opr. ensadints, latv. sedet, skr. sadah, lith. se˙de˙ti (sit); opr. sinnat, latv. zinat, skr. janati, lith. zˇinoti (know); opr. gorme (heat), latv. gars, skr. gharma-h (heat), lith. garas (steam, vapor); opr. iau, latv. jau, lith. jau (already); opr. rugis, latv. rudzi, lith. rugiai (rye); opr. karyago, latv. karsˇ, lith. karas
53
Jungfer, Victor, Litauen, Anlitz eines Volkes, p. 20; for a comprehensive list of correspondences between Sanskrit and those of other IE languages, see Burrow, Thomas, The Sanskrit Language, Faber and Faber, London, 1955. The corresponding words in Sanskrit and Lithuanian were taken from Burrow, p. 74, 75, 79, 102, 190; see also Schmid, Wolfgang P., Studien zum baltischen und indogermanischen Verbum, p. 62, p. 64.
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(war); latv. sakas, skr. sakha, lith. sˇaka (branch); opr. wedais (lead!), latv. vedu, lith. vedu (I lead); opr. nikai, lith. niekur (nowhere); opr. piuclan, lith. piu¯klas (saw); opr. kadegis, latv. kadegs, lith. kadagys (juniper).54 The ancient, extinct IE language Hittite is the language in which the kings of the Hatti empire in Eastern Asia Minor recorded their historical and legal documents as well as of numerous religious texts during the 2nd millenium BC. Thousands of documents written in Hittite were found on clay tablets in the ancient Hittite capital Oattußa, located near the modern town of Boaazkale, Turkey. The language was written in the Babylonian cuneiform script. Until its recent discovery, Hittite was an unknown language. The famous Czech Hittitologist and archaeologist Bedrich Hrozny showed that the tablets were an ancient record of a hitherto unknown IE language. He discovered that Hittite grammatical forms were typical of the IE language family. However, Hittite does not have the dual number or the masculine/feminine gender distinction, typical of older IE languages, including Lithuanian.55 Hittite belongs to the extinct Anatolian branch of the IE language family. It is IE on the basis of core vocabulary and inflectional similarities with other early IE languages. One example: Hittite lis- [les] (select, pick out), lith. lesti (peck up seeds or grain).56 It has seven cases, adjectives are inflected like nouns, two genders (animate and neuter), two numbers, two moods, indicative and imperative and two inflected tenses, present-future and past. Albert Drexel asserts that Hittite has numerous grammatical features of Indo-European, but also clearly extensive non-Indo-European lexical components. As to the IE character of Hittite, Drexel points out that “the first inhabitants of the Chatti empire spoke a non-Indo-European language, which in time had to give way to the language of the IE conquerors and rulers.”57
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See Endzelins, Janis, Baltu˛ Kalbu˛ Garsai ir Formos, pp. 25–35, p. 40, 48, 53, 56, 66, 81, 86, 92. Dalby, Andrew, Dictionary of Languages, Columbia University Press, New York, 1998, p. 252. Porzig, Walter, Die Gliederung des indogermanischen Sprachgebiets, Carl Winter, Universitätsverlag, Heidelberg, 1954, p. 191. Drexel, Albert, Die indogermanischen Sprachen, p. 47.
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Hittite is important in helping to formulate the reconstruction of Proto-Indo-European.58 In his article on the Hittite language, Kenneth Shield, Jr. states: “Because the oldest Hittite records constitute the earliest attested forms of any Indo-Europeans language, Hittite data today play a central role in any attempts to reconstruct ProtoIndo-European.”59 Another extinct ancient IE language is Tocharian with features closely related to Western IE languages. Excavations in Central Asia, East Turkestan (present Xinijiang in China), yielded manuscripts in various languages, among which was a previously unknown IE language with two distinct dialects, A and B, which established a connection to the ancient peoples of the Tocharians. The language is interspersed with Buddhist-Indian influences.60 Referring to the similarities between Tocharian and other IE languages, Andrew Dalby states: “Although the Tocharian A and B manuscripts were found side by side, the two languages had actually been growing apart linguistically for hundreds of years. And it was soon found that Tocharian had quite astonishing relationships with the other Indo-European languages. Its strongest similarities were not with Indo-Aryan or Iranian languages, … but with Celtic, Italic and Hittite. … Like these, Tocharian belonged to the centum group.”61 Douglas Adams in an article on Tocharian suggests, however, that “what special linguistic ties Tocharian may have with other IndoEuropean groups appears to be, disconcertingly, with Western groups such as Germanic or Greek. However, the number of similarities is 58
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60 61
Friedrich, Johannes, Hethitisches Elementarbuch – Kurzgefasste Grammatik, Carl Winter Universitätsverlag, Heidelberg, 1940, 108 pages. See the Foreword pp. V–VI and the Introduction p.1. The work contains an analysis of the Hittite writing system, phonetics, morphology – nouns, numbers, verbs, syntax, cases, adjectives, particles, and clauses. For a good Hittite – German lexical tool, consult Friedrich, Johannes, Hethitisches Wörterbuch – Kurzgefasste kritische Sammlung der Deutungen hethitischer Wörter, Carl Winter Universitätsverlag, Heidelberg, 1952, pp. 7–344. See the Foreword, pp. 15–16; see also Sturtevant, E.H., Comparative Grammar of the Hittite Language, William Dwight Whitney Linguistic Series, Vol. 1 (phonetics and morphology), Philadelphia, 1933. Shields, Kenneth Jr., “Hittite,” in Garry, Jane and Carl Rubino, ed., Facts about the World’s Languages, H.W. Wilson Press, New York/Dublin, 2001, p. 311. See pp. 310–313 for further discussion on Hittite. Drexel, Albert, Die indogermanischen Sprachen, p. 50. Dalby, Andrew, Dictionary of Languages, p. 632.
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small, and it is possible that they reflect shared retensions or independent creations rather than shared innovations.”62 With regard to the linguistic ties Tocharian might have to Eastern IE languages, Georges-Jean Pinault asserts that the idea of Tocharian being an Eastern IE language, corresponding to its geographical situation, “is simplistic and based on insufficient evidence.” The supposed proof for this Eastern location was the absence of the initial occlusive in the word for “tear”, for example, toch. A akar, pl. akrunt, IndoIranian (Ved) asˇru-, av. asru, lith. asˇaros, in contrast with the Western languages: Old Irish der, Gothic tagr. Pinault maintains that “tear” has no significance for the relationship between the mentioned languages. The forms with initial dr- or d- “display no unity,” pointing out that “at a period subsequent to the formation of proto-Tocharian as a distinct dialectical branch of IndoEuropean, the ‘Tocharians’ came into contact with speakers of the Indo-Aryan and Iranian languages. … As a result of this contact, … the Tocharian vocabulary was penetrated by words of foreign origin.” As mentioned, the two attested Tocharian languages (A and B) differ significantly. As Pinault points out, there was no mutual comprehension and the differences between A and B presupposes separate development during at least five centuries. He asserts that the Buddhist vocabulary in Tocharian shows crucial differences between A and B, “this proves that the peoples speaking Toch. A and Toch. B were wholly separate at the time when the first Buddhist missionaries reached them.”63 Likewise, George S. Lane in his article on Tocharian states that the divergence of A and B is quite significant, “especially with regard to morphology, to a lesser extend perhaps in their phonology and vocabulary.” Lane further points out that many words common to Tocharian A and Tocharian B are not cognates, but a result of extensive borrowings from B into A.64 62
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Adams, Douglas, “Tocharian,” in Facts about the World’s Languages, p. 749. For further analysis of Tocharian, see pp. 748–751. Pinault, Georges-Jean, “Tocharian and Indo-Iranian relations between two linguistic areas”, in Indo-Iranian Languages and Peoples, ed. Nicholas, Sims-Williams, for The British Academy by Oxford University Press, 2002, p. 245. Lane, George S., “On the Interrelationship of the Tocharian Dialects,” Ancient Indo-European Dialects, ed. Henrik Birnbaum and Jaan Puhvel, University of California Press, Berkeley and Los Angeles, 1966, p. 213.
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Tocharian is a highly inflected language, both nominal and verbal and its basic morphology is similar to most older IE languages. It has four cases (nominative, accusative/oblique, genitive, and vocative), three numbers (singular, plural, and dual – as does Lithuanian), typical IE gender system, present, past, imperfective, and perfective aspects, and indicative and subjunctive moods. Tocharian alphabet is syllabic in which each consonant has an inherent a vowel, for example, ga, ja, ta, na, pa, ma, va, sa. Other vowels are indicated with a variety of diacritics. Calvert Watkins points out that Tocharian is the only language of all older IE languages that shows no trace of the old athematic primary verbal ending -ti, not even in the verb to be. Compare, for example, lith. bu¯-ti (to be), galvo-ti (to think), saky-ti (to say). He further states that Tocharian, which was apparently isolated from other IE dialects for a long time during its early history, has retained the original form of the IE thematic inflection the longest.65 There is a significant, special linguistic agreement between Tocharian, Slavic, and Baltic. All three languages have a unique suffix for the formation of adjective abstracts: Toch. -une, slav. -ynja, lith. -une˙.66 The word salmon, for example, has its cognates in the following languages: OHG. lahs, lith. lasˇisˇ/lasˇisˇa, russ. lososц, toch. B laks (fish) < IE* lakso. The word tear is toch. A akär (as we have seen), latv. asara, lith. asˇara. Another similarity between Tocharian and other IE languages is a common expression for grain/seed. For instance: Old Indic dhanas (plural), Persian dana, toch. B tano, latv. duona (bread), lith. duona. The word for monk in Tocharian B is samane, borrowed from Sanskrit sramana, which became English shaman via Russian Пaman, German Schamane; lith. sˇamanas. Tocharian also shares the name for gold with Latin, Old Prussian and Lithuanian: Toch. A was, B yasa/yas, lat. aurum, opr. ausis, old lith. ausas, lith. auksas.67 Holger Pedersen in his comparative study of the Tocharian language, asserts that the IE character of Tocharian is reflected by common features in the core vocabulary (numerals, many related words, etc.), which is quite striking. He has attempted to compare Tocharian 65
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Watkins, Calvert, Indogermanische Grammatik, Vol. 3, Carl Winter Universitätsverlag, Heidelberg, 1969, p. 199, p. 205. Porzig, Walter, Die Gliederung des indogermanischen Sprachgebiets, p. 183. Ibid., p. 185.
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with other IE languages and he raises the question whether or not there exists an especially close relationship between Tocharian and Hittite.68
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1614 Ebbotts Place Crofton, MD 21114 U.S.A. [email protected]
Edmund Remys
Zur baltischen Bezeichnung des Feuersteins
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Zur baltischen Bezeichnung des Feuersteins1 1. Einleitung In seiner Wortbildung der litauischen Sprache (1943: 393–456) hat P. Skardzˇius der Nominalkomposition einen wichtigen Abschnitt gewidmet, der auch heute seinen Wert noch nicht verloren hat. In diesem Abschnitt macht er beiläufig (S. 404–405) auf eine Reihe von Wörtern aufmerksam, die im Litauischen offensichtlich alte Komposita sind, deren Bestandteile aber synchron unmotiviert bleiben. Für die Rekonstruktion früherer Phasen der litauischen Sprache sind derartige verdunkelte Zusammensetzungen von großem Wert, denn es ist ja zu erwarten, daß sie Wörter fortsetzen, die einst eine selbständige Existenz hatten, jetzt aber außer Gebrauch gekommen sind. Als Beispiele führt Skardzˇius folgende Formen an: lit. áitvaras „Schutzgeist des Hauses“ (*ait-varas), óvaidas „Schelm, Lausebengel“ (*o-vaidas), posnagà „Huf“ (*pos-naga), pùtnagas „Quarz“ (*put-nagas), ska˜rmalas „Lumpen, Fetzen“ (*skar-malas), ty´tveikas „Menschen-, Viehoder Vögelhaufen“ (*tyt-veikas), tìtnagas „Feuerstein“ (*tit-nagas). All diese Wörter sind offensichtlich zusammengesetzte Bildungen. Sie entziehen sich aber jeder synchronen Analyse; oft bleiben sie auch diachron dunkel. Sie sind deshalb in der etymologischen Forschung vielfach diskutiert worden. Im folgenden Aufsatz möchte ich auf das letztgenannte Wort – lit. tìtnagas „Feuerstein“ – zurückkommen und die Frage seiner Herkunft aufs neue zu klären versuchen.
2. Litauisch tìtnagas Das litauische Substantiv tìtnagas „Feuerstein“ (LKZ XVI, 447–448) ist ein relativ altes Wort. Seine ersten Belege gehen auf das 16. Jahrhundert zurück. In der Bibelübersetzung von Jonas Bretku¯nas, die 1
Für die Korrektur der deutschen Sprache danke ich herzlich Prof. Dr. RalfPeter Ritter (Krakw).
Indogermanische Forschungen, 112. Band 2007
DOI 10.1515/IDGF.2007.015
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von dem Jahr 1590 datiert und auf dem deutschen Text von Martin Luther beruht, liest man folgenden Satz (Pr 20, 17):2 dt. Das gestolen Brot schmeckt jederman wol / Aber hernach wird jm der mund vol kiseling werden lit. Du˚na pawogta kosznam skani ira, Bet paskui burna io bus pilna titnago Spätere Bibelversionen verwenden in derselben Stelle ein anderes Wort, lit. zˇv˜yras, das gemeinhin als Lehnwort aus dem pol. z˙wir „Kieselstein“ gilt.3 In allen späteren lexikographischen Quellen, seit dem 17. Jahrhundert, weist tìtnagas meist die engere Bedeutung „Feuerstein“ auf und übersetzt regelmäßig dt. Feuerstein, pol. krzemien´, lat. silex „Feuerstein“. Ich führe hier nur die wichtigsten Belege an: Krzemien´ / Silex, Titnagas „Feuerstein“ (Sirvydas DTL3 1642: 135); Feuerstein titnagas (Lexicon Lithuanicum, 17. Jahrhundert, 35a); Feuerstein, Titnakas (Clavis Germanico-Lithvana, 17. Jahrhundert, 656); titnakas / Feuerstein (Ruhig 1747: 139 und 222); titnakas / Feuerstein (Mielcke 1800: 115 und 183); Krzemien, titnagas (Daukantas DLL 1850–1856: 314); titnagas und titnaginis (Nesselmann 1851: 107); titnagas, krams, krzemien´, skałka, kremenц (Miezˇinis 1894: 257); tìtnagas „Feuerstein, Flint, Kiesel(stein)“; titnagìngas „feuerstein-, kieselreich, -haltig“ und titnagìnis „Feuerstein-, aus Feuerstein angefertigt“(NdZ 1932–1963: IV, 679); tìtnagas „Feuerstein, Kiesel“; titnagìngas „reich an Kieseln“ und titnagìnis „Kiesel-, Feuerstein-“ (A. Kurschat TLL 1968–1972: IV, 2506); titnangas im Wörterbuch von Antanas Jusˇka (1897–1922: I, 551). In neuerer Zeit sind verschiedene mundartliche Formen dokumentiert, stets mit der Bedeutung „Feuerstein“:4 tìtnagas in Dusetos, Vepriai, Vilkavisˇkis, Ariogala, Kve˙darna, Kuliai, Plunge˙, tìtnegas in Rietavas, tìtnagis in Deltuva, cìcnagas in Druskininkai5, tìsnagas in Kabeliai, Leipalingis, Marcinko2 3
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Vgl. Bretku¯nas (Rinktiniai rasˇtai, 1983: 260). Anders Urbutis (1983: 150–168), der lit. zˇv˜yras als echt baltisch und pol. z˙wir als Lehnwort aus dem Litauischen betrachtet. Vgl. Bu¯ga (RR(B) I, 219); LKZ (XVI, 446, 447–448). Naktiniene˙, Paulauskiene˙, Vitkauskas (1988: 409).
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nys, Kapcˇiamiestis, c´ìsnagas in Merkine˙, tìknagas in Kruopiai6, tìtinagas in Armonisˇke˙s, Gerve˙cˇiai, tìtilingas in Dysna und Linkmenys, cicil’ingas in Tverecˇius7. Das Substantiv tìtnagas ist wahrscheinlich ein altes Kompositum. Dafür spricht vor allem die mundartliche Variante tìtinagas, die altertümlicher als die anderen Formen zu sein scheint und den im Litauischen geläufigen Kompositionsvokal -i- (tìt-i-nagas) noch bewahrt. Aus tìtinagas entstanden durch Synkope die am weitesten verbreitete Form tìtnagas8 sowie andere Nebenformen wie cìcnagas (in den sogenannten „dzu¯kischen“ Dialekten *t’it’i- > *cici-), tìsnagas, c´ìsnagas (mit Dissimilation von *t’it’i- zu *t’is’i-) oder tìknagas (mit der vereinzelt bezeugten Entwicklung *-tn- > *-kn-).9 Wahrscheinlich stellt die Variante titnangas, die nur in dem Wörterbuch von Antanas Jusˇka bezeugt ist, nichts anderes als eine Reduplikation des vorangehenden Nasals durch Fernassimilation (*-nagas > *-nangas) dar.10 Die Variante tìtilingas, die in der Mundart von Linkmenys belegt ist, bleibt für mich zugegebenermaßen schwer zu erklären. Es könnte sich bloß um eine zufällige Entstellung von tìtinagas handeln, obwohl sich die phonetischen Bedingungen dieser Veränderung nicht bestimmen lassen: Eine Entwicklung *titinagas > *titinangas > *titiningas (mit Assimilation) > *titilingas (mit Dissimilation) wäre nicht unbedenklich.11
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Otre˛bski (GJL I, 359); Zinkevicˇius (1966: 174); LKZ (XVI, 253). Otre˛bski (1934: 93). Larsson (2002: 105–122) hat gezeigt, daß die Synkope des Kompositionsvokals zuerst in nachtoniger Position stattfand, d.h. in den nach dem ersten Betonungsparadigma akzentuierten Komposita, was bei *tìti-nagas > tìt-nagas (1) der Fall ist. Zu dieser Entwicklung vgl. Otre˛bski (GJL I, 359). Die Vermutung von Bu¯ga (RR(B) I, 219), sie könne etwas Altertümliches fortsetzen und mit einer angeblichen altisländischen Entsprechung naggr „kleine scharfe Stein- oder Klippenspitze“ verglichen werden, ist verfehlt. Erstens ist ein Substantiv naggr in der ganzen altisländischen Literatur, soweit ich weiß, unbelegt (vgl. Holthausen 1948: 206, oder de Vries 1962: 404); zweitens, auch wenn das Wort existiert hat, ist die geminierte Schreibung in naggr keineswegs als Beweis von der Existenz einer Konsonantengruppe [-ng-] zu interpretieren. Auf jeden Fall scheint es mir unmöglich, der Meinung Bu¯gas (RR(B) I, 219) zuzustimmen, der ein anderes Lexem *lingas oder *lengas „Stein“ rekonstruiert (vgl. ebenfalls Fraenkel LEW II, 1103), obwohl er selbst zugeben muß, daß eine solche Form völlig isoliert wäre (kurio giminaicˇiai nezˇinomi).
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Man muß also aller Wahrscheinlichkeit nach ursprünglich von einem Kompositum *titi-nagas ausgehen. Die Frage stellt sich nun, wie dieses Kompositum, dessen Einzelglieder nicht selbständig vorkommen, etymologisch zu erklären ist.
3. Litauisch *-nagas Ein Hinterglied -nagas ist im Litauischen nicht völlig isoliert. Zwei andere zusammengesetzte Bildungen weisen noch als Hinterglied eine Form -nagas oder -nagis auf, für die eine Grundbedeutung „Stein“ nicht ausgeschlossen zu sein scheint. Zuerst ist auf das Kompositum pùtnagas „Quarz“ hinzuweisen, das seit dem 19. Jahrhundert bezeugt ist. Es tritt zum ersten Mal in einer Dialektsammlung auf, die von dem polnisch-litauischen Pfarrer Ambroz˙y Kossarzewski (1821–1880) im sibirischen Exil verfaßt wurde (Lituanica, 86). Einige Jahrzehnte später wird es in den Wörterbüchern von Antanas Lalis (1915: 75) und Jonas Baronas (1933: 199) wiederholt, wovon es in die meisten Wörterbücher der modernen Sprache (z.B. pùtnagas in NdZ III, 481, und DZ 4, 2000: 637) neben dem weit verbreiteten Lehnwort kvárcas (< dt. Quarz oder pol. kwarc) geriet.12 Auch wenn die Deutung des Vorderglieds put- schwierig ist (man denkt an lit. putà „Schaum“), läßt sich das Hinterglied -nagas problemlos mit unserem tìt-nagas vergleichen. Weiter ist noch auf lit. pãlianagis „ein weißes Gestein vom Typ des Feuersteins“13 hinzuweisen. Dieses Kompositum, das vor allem in dem Dialekt von Dusetos belegt ist, ist offensichtlich aus pãliai „Eiter“ und *-nagis, *-nagas „Stein“ zusammengesetzt: Seine Grundbedeutung kann als *„eiterfarbiges Gestein“ rekonstruiert werden.14 All diesen Formen gemein ist also ein Hinterglied *-nagas oder *-nagis, dem eine Bedeutung „Stein“ mit einer gewissen Sicherheit zugeschrieben werden kann.
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Vgl. auch LKZ (X, 1133). Bu¯ga (RR(B) I, 217): baltas, titnagu˛ veisle˙s, akmene˙lis. Das Wort wird aus den Dialekten von Dusetos und Sudeikiai dokumentiert; s. LKZ (X, 878), wo dem Kompositum pãlianagis eine Grundbedeutung „Quarz“ (=pùtnagas) zugeschrieben wird. Bu¯ga (RR(B) II, 218).
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Es gibt aber andere Formen, in denen diese Deutungsmöglichkeit nicht wahrscheinlich ist. Litauisch posnagà „Huf“ (*pos-naga) ist semantisch kaum mit einem Stamm *nagas „Stein“, sondern vielmehr mit lit. nagà „Huf“, bzw. nãgas „Nagel“ in Verbindung zu stellen. Dasselbe gilt für andere Komposita wie lit. skarnãgai „die beiden Hinterfußkrallen eines Rehes oder einer Ziege“.15 Man muß also mit einer gewissen Zweideutigkeit der Komposita auf *-nagas / *-nagis rechnen, denen im Prinzip sowohl *nagas „Stein“ als auch nagà „Huf“, bzw. nãgas „Nagel“ zugrunde liegen kann. Das Substantiv *nagas „Stein“ blieb weder im Litauischen noch im Lettischen selbständig erhalten. Hingegen bezeugt das Altpreussische eine Form nagis / fuersteyn „Feuerstein“, die einmal im Elbinger Vokabular (E 371) auftritt und wahrscheinlich als *nagws (< *nagas) zu interpretieren ist. Beachtenswert ist, daß das Altpreussische die Homonymie von *nagas „Stein“ und *nagas „Nagel“ durch den Ersatz vom letzteren durch eine Deminutivform nagutis „Nagel“ (E 117, vgl. aksl. nogчtц „Nagel“) beseitigte und dadurch das Wort *nagas „Stein“ bewahren konnte, während sich im Litauischen gerade wegen der gleichen Homonymie das Wort nãgas „Nagel“ durchsetzte und *nagas „Stein“ nur noch in einigen verdunkelten Komposita (tìtnagas, pùtnagas, pãlianagis) erhalten blieb. Das Lettische ist einen Schritt weiter gegangen, indem es die alte Form *nagas „(Feuer)stein“ völlig beseitigte. An ihrer Stelle tritt ein Substantiv kràms „Feuerstein“ (ME II, 258) auf,16 das an die entsprechende slavische Bezeichnung erinnert (aksl. kremy „Feuerstein“, russ. kremenц, pol. krzemien´17 und nach Endzelin (ME II, 258) und Karulis (1992: I, 417) etymologisch zur Sippe des Substantivs krama „Grind“ und des Verbs krìmst „nagen, klauben“ gehören könnte. Alles spricht also dafür, daß die baltischen Sprachen einst eine Form *nagas in der Bedeutung „Stein“ (oder vielleicht genauer 15 16
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Fraenkel (LEW I, 478–479, auch 640–641 zu lit. posnagà). Nur die latgalischen Dialekte bezeugen zuweilen eine Form tytnags „Feuerstein“ neben kroms (vgl. Kurmin 1858: 60: Krzemien´ / Silex. Tytnags, kroms), wahrscheinlich unter dem Einfluß des benachbarten Litauischen. Wahrscheinlich ist von einer balto-slavischen Grundform *krem-as auszugehen, die im lettischen kràms fast unverändert fortgesetzt wird, während die Endung der slavischen Formen durch das Hyperonym *kamy, -en- „Stein“ beeinflußt wurde (*kremas >*kremч f aksl. kremy nach kamy, russ. kremenц nach kamenц, pol. krzemien´ nach kamien´, usw.).
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„Feuerstein“) besessen haben. Wie sich dieses *nagas von der Hauptbezeichnung des Steins *akmo¯n (lit. akmuõ, lett. akmens) unterschied, ist nicht schwer zu bestimmen: Es ist wahrscheinlich, daß *nagas genau ein scharfes Gestein vom Typ des Feuersteins oder vielleicht schon den Feuerstein selbst bezeichnete, während *akmo¯n als Oberbegriff verwendet wurde. Es ist m. E. signifikant, daß das selbständige Wort nagis im Altpreussischen nur die enge Bedeutung „Feuerstein“ aufweist und sich also keineswegs mit der geläufigen Hauptbezeichnung stabis „Stein“ (E 32) überlappt. Auf dieser Basis sind zwei etymologische Deutungen möglich, die beide – wie wir gleich sehen werden – Schwierigkeiten bereiten. (1) Einige Wissenschaftler, unter denen besonders der Name von Vytautas Mazˇiulis (PKEZ III, 167) hervorzuheben ist,18 haben die Meinung geäußert, das Wort *nagas „Stein“ sei mit *nagas „Nagel“ identisch, wobei man mit einer metaphorischen Bedeutungsverschiebung rechnen müßte. Aus dieser Perspektive wäre von einer Wurzel *h3 engu3 h-, bzw. *h3 negu3 h- auszugehen, die noch in anderen indogermanischen Sprachen die Bezeichnung des „Nagels“ liefert:19 lat. unguis „Nagel“, gr. , -« „Nagel“, ahd. nagal „Nagel“, aksl. noga „Fuß“, nogцtц „Nagel, Kralle“, ai. nakhám „Nagel“ (mit ungeklärtem stimmlosen Konsonant), usw. Nach Mazˇiulis handelt es sich prinzipiell um ein und dasselbe Wort. Er nimmt an, das Wort „Nagel“ habe sekundär die Bedeutung „Stein“ bekommen, weil der Feuerstein wegen seiner Farbe einem Nagel, insbesondere einem Pferdenagel, ähnlich ausgesehen habe (titnagas isˇ spalvos labai panasˇus ˛i arklio ir pan. naga˛, kanopa˛). Als Parallele könnte man eventuell an gr. „Nagel“ denken, das in nachklassischem Griechisch zuweilen einen Edelstein, den „Onyx“, bezeichnen kann.20 Diese Deutung ist theoretisch möglich, doch kann sie nicht ohne Bedenken angenommen werden. Der Vergleich von gr. zeigt nur, daß die postulierte metaphorische Bedeutungsverschiebung „Nagel“ f „nagelfarbiger Stein“ unter bestimmten Bedingungen in Betracht kommen darf,
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Vgl. auch Sabaliauskas (1990: 204). Vgl. Trautmann (BSW 192); Ernout-Meillet (DELL 747); Chantraine (DELG 805); Mayrhofer (EWA II, 4). Zum Baltischen s. auch Steinbergs (1996–1997: 26). Nach Chantraine (DELG 805) könnte diese Entwicklung durch die Ähnlichkeit der Farbe des Nagels und des Onyx erklärt werden.
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nicht daß sie im Falle von lit. *nagas tatsächlich zu postulieren ist, zumal sich die griechische Parallele von sowohl historisch als auch semantisch von der baltischen Sachlage unterscheidet.21 Die Frage bleibt offen, ob das Farbmotiv ausreicht, um der Bezeichnung des „Nagels“ die spezielle Bedeutung „Feuerstein“ zuzuschreiben. Hinzu kommt, daß man sich schwer vorstellen könnte, wie diese innovative Bedeutung „Feuerstein“ und die ererbte Bedeutung „Nagel“ miteinander koexistieren und getrennte Derivate und Zusammensetzungen bilden konnten. Ausgehend von der Annahme, daß *nagas „Stein“ und *nagas „Nagel“ zwei abweichende Bedeutungen desselben Wortes darstellen, hat O. N. Trubacˇëv (1957: 33) die entgegengesetzte Vermutung geäußert, die Bedeutung „Stein“ sei die ursprüngliche, während die andere Bedeutung „Nagel“ als Neuerung zu deuten sei. Diese Hypothese ist aber, wie K. Karulis (1992: I, 614) darlegte, wenig überzeugend, denn das Zeugnis der anderen idg. Sprachen zeigt, daß die Bedeutung „Nagel“ überall alt ist, während die Bedeutung „Stein“ auf eine kleine Gruppe von Sprachen beschränkt ist und in diesen Sprachen als sekundär interpretiert werden kann. (2) Eine andere Möglichkeit würde von der Annahme ausgehen, daß *nagas „Nagel“ und *nagas „Stein“ seit jeher homonymische, von einander unabhängige Bildungen waren. In diesem Fall wäre die Etymologie von *nagas „Stein“ in eine andere Richtung zu suchen. Seit Bu¯ga (RR(B) III, 587) wurde das baltische Wort mit der slavischen Bezeichnung des „Messers“ *nozˇц verglichen (vgl. aksl. nozˇц „Messer“, bulg. nozˇ, skr. noz ¤ ˇ , slov. nòzˇ, russ. nozˇ, tsch. nu˚zˇ, pol. nózˇ, slav. Lehnwort im Lettischen nazis). Von der semantischen Seite her gesehen wäre dieser Vergleich unproblematisch: Man könnte mit Bu¯ga auf Parallelfälle wie ahd. mezzi-sahs „Messer“, das mit lat. saxum „Stein, Fels“ verwandt ist, und ferner aisl. hamarr, das sowohl „Stein“ als auch „Hammer“ bedeutet, hinweisen. Formal wäre im Slavischen
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Beiläufig sei bemerkt, daß der Feuerstein in den baltischen Ländern normalerweise weiß ist, aber gemischt mit anderen Elementen eine graue oder gar schwarze Farbe bekommen kann, worauf schon z.B. in einer Stelle der berühmten Zeitschrift des 19. Jahrhunderts, Ausˇra (1883: 74), hingewiesen wurde: Titnagas tikrasis yra baltas, bet pas mumis ans pilkas ar juodas nuo priemaisˇcˇiu˛ gelzˇaicˇiu˛ ir kitu˛ dalyku˛ „Der wahre Feuerstein ist weiß, aber bei uns ist er grau oder schwarz einer Vermengung mit Eisen und noch weiteren Dingen“.
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wahrscheinlich von einer ursprünglich adjektivischen Possessivbildung auf *-i3 os „feuersteinspitz oder -scharf, spitz oder scharf wie Feuerstein“ > slav. *nozˇц „Messer“ auszugehen. Bemerkenswert ist, daß *nozˇц „Messer“ im Slavischen über eine verbale Basis verfügt. Seit Miklosich (1886: 214 und 217) wird es zur Sippe von aksl. -nisti „hineinstecken, hineinbohren“ (Ind. Präs. -nцzo) ˛ 22, -nцznoti ˛ „hineinbohren“ (Ind. Präs. -nцzno) ˛ 23 und -noziti „hineinstechen“ (Ind. Präs. -nozˇo) ˛ 24 zusammengestellt. In den anderen slavischen Sprachen ist diese Sippe durch verschiedene Formen heute noch bezeugt.25 Die semantische Beziehung liegt auf der Hand („Messer“, vs. „hineinbohren“). Phraseologische Verknüpfungen legen sogar die Möglichkeit nahe, daß sie gewissermaßen noch synchron empfunden wurde, vgl. z. B. чnцzi nozˇц ч nozˇцnico˛ „steck dein Schwert zurück in deine Scheide“ (Jn 18, 11 = gr. κ « κ ). Formal hätte man mit komplexen Ablautverhältnissen zu rechnen. Neben o-stufigen Bildungen in der Nominalableitung *nozˇц „Messer“ und im Kausativum-Iterativum *noziti „hineinstechen“ liegt eine unregelmäßige Schwundstufe in *nцz- (vgl. *nцzo˛ und *nцznoti) ˛ anstatt *nz- > *je˛z- vor. Diese neue Schwundstufe läßt sich wahrscheinlich aus dem Muster von *bor- (< *bhor-), vs. *bцr(< *bhr-) „nehmen“ herleiten; daraus *noz- : x (mit x = *nцz-). Schließlich wurde zu *nцz- eine neue Dehnstufe *niz- (vgl. *nisti) gebildet, etwa nach dem Muster von *pцs- (< *pik-), vs. *pis- (< *peÁk-) „schreiben“. Trautmann (BSW 200) schreibt dazu: „Der eigentümliche Ablaut erweist die Sippe als uralt“. Weitere etymologische Verknüpfungen, etwa mit gr. « „Lanze“ (unter Annahme eines Schwebeablauts *h1engˆh-, vs. *h1negˆh-?) oder mit air. ness „Wunde“ (falls
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Meist mit Präverbien: aksl. чnisti „hineinstecken“ (Ind. Präs. чnцzo); ˛ unisti „hineinstecken“ (Ind. Präs. unцzo); ˛ pronisti „hineinbohren“ (Ind. Präs. pronцzo). ˛ Mit Präverbien: aksl. чnцznoti ˛ „hineinbohren“ (Ind. Präs. чnцzno); ˛ unцznoti ˛ „dss.“ (Ind. Präs. unцzno); ˛ pronцznoti ˛ „dss.“ (Ind. Präs. pronцzno). ˛ Nur aksl. цnoziti „hineinstechen“ (Ind. Präs. чnozˇ) ). Z.B. russ. onzitц „durchbohren“ (Ind. Präs. vonzˇu); atsch. venznúti „hineinbohren“ (heute venznouti = aksl. цnцznoti); ˛ pol. nizac´„hineinstecken, Perlen aufreihen“. Postverbale Ableitungen liegen in russ. zanoza „Splitter“, pol. snoza „hölzerne Klammer“ (klamra drewniana nach Brückner 1927: 505) und s.-kr. niz, naniz „Schnur“ vor.
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< *negh-s-o-?), bleiben jedoch sehr fraglich,26 so daß die Rekonstruktion der zugrunde liegenden idg. Wurzel problematisch ist. Diese zweite Deutungsmöglichkeit weist aber eine entscheidende Schwäche auf. Die slavischen Formen setzen unbedingt eine Wurzel *negˆh- „stechen, bohren“ mit palataler Media aspirata voraus: Ein einfacher stimmhafter Verschlußlaut (*negˆ-, *neg- oder *negu3 -) hätte die sogenannte „Wintersche Dehnung“ (Winter 1978) bewirken müssen. Reine Velare oder Labiovelare (*neg-, *negh-, *negu3 -, *negu3 h-) sind ebenfalls ausgeschlossen, da sie keinen Zischlaut (wie z.B. in *noziti „hineinstechen“) ergeben hätten – abgesehen in dem Kontext der zweiten Palatalisierung, bei der slav. *g in der Stellung vor *eˇ2 (< idg. *oi, *ai) zu *z werden kann, die aber kontextbedingt ist, was bei der Sippe von slav. *-nisti, *-noziti nicht der Fall ist. Bei slav. *nozˇц „Messer“ ist der zugrunde liegende Konsonant unmöglich zu bestimmen, da sowohl slav. *nogjos als auch *nozjos zu dem selben Ergebnis geführt hätten (vgl. aksl. lozˇe „Lager, Bett“ < *logjo- < *logh-Áo- und vozˇo˛ „ich fahre“ < *vozjo˛ < *Üogˆh-Áo-). Im Slavischen muß die Wurzel also unbedingt als *negˆh- „stechen, bohren“ rekonstruiert werden. Dagegen setzen die baltischen Formen aus ähnlichen Gründen eine zugrunde liegende idg. Wurzel *negh- oder *negu3 h- voraus, die allein den velaren Verschlußlaut von apr. nagis, lit. -nagas erklärt. Die slavischen und die baltischen Formen sind also miteinander inkompatibel. Es bestünde dann nur die Möglichkeit, einen „Gutturalwechsel“ zwischen dem Baltischen (*negh-) und dem Slavischen (*negˆ h-) anzunehmen, wie z. B. zwischen lit. klausy´ti und aksl. slusˇati „hören“ (*kleÜs-, vs. *kˆleÜs-) oder umgekehrt zwischen aksl. goyц ˛ und lit. zˇa˛sìs „Gans“ (*ghans-, vs. *gˆhans-).27 Diese Notlösung ist denkbar, doch käme sie mir recht unbefriedigend vor. Beide Deutungen von *nagas „Stein“ bereiten also Schwierigkeiten. Ob es sich um eine semantische Entwicklung der indogermanischen Bezeichnung des „Nagels“ oder um die Vertretung einer unab26
27
Vgl. Johansson (1893: 51–52), der noch weitere phantasievolle Vergleichungen hinzufügt, z.B. mit aind. áks5 u- „Stange“, gr. „stechen“, „Birnbaum“, $ « „Weißpappel“, schließlich sogar mit gr. #A „Achäer“, usw. Zu gr. « erwähnt Chantraine (DELG 311) – wohl mit Recht – die Möglichkeit einer Entlehnung. Zu air. nes vgl. Vendryes (LEIA N-11), der eher an die idg. Wurzel *nekˆ - „verschwinden, verloren gehen“ denkt (IEW 762, LIV1 407, LIV2 451–452, vgl. lat. neca¯re „töten“, gr. « „Leichnam“, « „tot“). Vgl. Bräuer (1961: 169–172); Stang (1966: 91–92).
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hängigen Wurzel „hineinstechen, -bohren“ handelt, ist letztlich kaum zu entscheiden. Fest steht nur, daß es eine Neuerung des Baltischen, eventuell des Balto-Slavischen ist, die einzelsprachlich entstanden ist, aber später wieder verschwunden ist.
4. Litauisch *titiIch gehe nun zum Vorderglied *titi- von tìtnagas über. Die Hauptschwierigkeit dabei ist, daß die Form *titi- im Baltischen völlig isoliert ist. Wir sind deshalb gezwungen, uns gleich an den indogermanischen Vergleich zu halten – eine recht unbequeme Situation, die die Tür für allerlei Spekulationen offen läßt. Das Vorderglied *titi- von tìtnagas wird gemeinhin mit einer Reihe von Formen verglichen, die in anderen indogermanischen Sprachen scheinbar eine ähnliche phonetische Gestalt haben und für die eine Grundbedeutung „Feuer“ vorausgesetzt werden könnte. Die Forschung hat sich mindestens seit Bu¯ga (RR(B) I, 219) in drei Richtungen orientiert:28 *titi- wurde zu gr. Ti „Tagesgöttin“ sowie Ti » « „Titanen, riesenhafte Götter der griechischen Mythologie“, zu aind. títhi-, tithá- „lunarer Tag, Feuer“, letztlich zu lat. titio¯ „Feuerbrand, Feuerscheit“ zusammengestellt. Die Gleichung von gr. Ti und Ti » « mit lit. tìtnagas „Feuerstein“ ist sowohl morphologisch als auch semantisch unbegründet. Allen Formen gemein ist nur eine Silbe *tit- oder *tit-, die Vokallänge ist verschieden, und vor allem ist keine morphologische Segmentierung ins Auge zu fassen. Von der semantischen Seite her ist diese Gleichung auch sehr schwach. Sie könnte nur durch eine kleine Bemerkung von Isidorus von Sevilla unterstützt werden, derzufolge die Griechen die Sonne T nennen (17. 9. 77: nam Graeci T » Solem uocant). Aber, auch wenn die Titanen ursprünglich Sonnengottheiten waren, ist dies noch kein Beweis dafür, daß ihre Bezeichnung etwas mit dem litauischen Kompositum tìtnagas „Feuerstein“ zu tun hat. Dasselbe gilt für gr. Ti , das bei Kallimachos (Frg. 21,1) und Lykurgos (Alexandra 541) die „Morgendämmerung“ bezeichnet. An eine Verbindung mit lit. *titi- „Feuer“ (*titi-nagas „Feuerstein“) ist
28
Vgl. Fraenkel (LEW II, 1104); Sabaliauskas (1990: 204). S. auch Cˇop (1956: 41).
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kaum zu denken. Soweit ich es beurteilen kann, sind die griechischen Theonyme eher als Substratwörter oder Lehnwörter ungeklärter Herkunft zu betrachten.29 Bu¯ga (RR(B) I, 219) stellt auch zwei altindische Formen títhihfl „lunarer Tag“ und titháhfl „Feuer“ in Verbindung mit dem Vorderglied von lit. tìtnagas. Diese Formen können aber eine andere Erklärung finden und müssen als einzelsprachliche Neuerungen gelten. Das Substantiv títhihfl (M.) oder tithi (F.) ist erst nachrigvedisch bezeugt. Es tritt zum ersten Mal in den Grhyasu¯tras auf, dann taucht es wieder in Pa¯li (tithi „a lunar day“ nach Rhys Davids und Stede 1921: 302) und in Pra¯krit (tihi-) auf,30 schließlich scheint es noch in Hindi durch das Kompositum tewha¯r „Festival“,31 das wohl aus *tithi-va¯rastammt, fortgesetzt zu sein. Gemeinhin wird diesen Formen títhihfl (M.) und tith¯ı (F.) eine Bedeutung „lunarer Tag“ zugeschrieben.32 Eine kurze Notiz von Kielhorn (1907) hat aber deutlich gezeigt, daß diese Übersetzung „lunarer Tag“ ungenau ist.33 Nach Kielhorn bedeutet títhihfl genau „der […] Zeitraum, den der Mond braucht, um sich 12° von der Sonne zu entfernen“.34 Auf dieser Basis schlug Zubaty´ (1906) eine innerindische Erklärung des Wortes vor: Das Substantiv títhi- sei eine künstliche Bildung, die aus Zusammensetzungen wie ved. kati-thá- „der wievielte“ (sekundär als *ka-tithá- interpretiert, daraus z. B. episch bahu-tithá- „viele Tithis enthaltend“) abstrahiert worden sei. Die Möglichkeit einer Verwandtschaft mit lit. tìtnagas ist also zu verwerfen. Bu¯ga (RR(B) I, 219) erwähnt noch ein altindisches Substantiv tithá- „Feuer“: Eine solche Form ist aber in der ganzen 29
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34
Ähnliche Auffassung bei Nehring (1925: 168); Frisk (GEW II, 904); und Chantraine (DELG 1122). Vgl. Turner (1966: 331). Turner (1966: 331). Vgl. auch Sindhi tiha¯5ro, Pañja¯bi tiha¯r, Kumauni tiwa¯r, tiha¯r, ¯ rmur5 i´ tiha¯r, Awadhi tevaha¯ra, Lakhimpuri teuha¯r, Gujara¯ti thwa¯r tya¯r, O („festival“), Nepa¯li tiwa¯r, ti(h)a¯r, tewa¯r („the first three days of the festival of Diwali“). Platts (1884: 353) übersetzt das hindische Wort als „a holiday, a festival“. Vgl. auch Mara¯t5 hi divai „festival of lamps on the full-moon day od ¯ sfl a¯dha“ (< *dipatithi-), cf. Turner (1966: 364). A Für das klassische Hindi gibt das Wörterbuch von Platts (1884: 310) folgende Bedeutungen an: „tithi, tith (F) a lunar day, the thirtieth part of a whole lunation; day (of the month)“. Vgl. Mayrhofer (KEWA I, 501): „die übliche Übersetzung ‚lunarer Tag‘ ist nicht ganz zutreffend“. S. auch Mayrhofer (KEWA I, 500; EWA I, 646).
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altindischen Literatur völlig unbelegt.35 Man kann sich also letzten Endes der Meinung von Mayrhofer (EWA I, 646) anschliessen: „An ein idg. Erbwort, cf. lit. tìtnagas, ist kaum zu denken“. Es bleibt nur die Zusammenstellung von lit. tìtnagas zu lat. titio¯ „Feuerbrand, Feuerscheit“. Diese Gleichung, die zuerst von August Fick formuliert wurde und in den meisten Nachschlagewerken wiederholt wird,36 ist semantisch besser als die anderen. Lat. titio¯ tritt nach dem Zeugnis des Grammatikers Nonius Marcellus (182, 21 und 302, 7) seit Varro auf.37 Es wird von eben dem Nonius (268L) als fustem ardentem „brennendes Scheit“ glossiert. Laktanz schreibt dazu (4, 14): titionem uolgus appellat extractum foco torrem semiustum et extinctum „das Volk nennt titio einen aus dem Feuer gezogenen, halb verkohlten, erloschenen Brand“. Neben der üblichen Bezeichnung des „Feuerbrands“ torris (Verg. Aen. 12, 298; Ovid. Metam. 8, 457; 8, 152; 12, 272) war titio¯ wahrscheinlich ein „populäres“ Wort, was z. B. schon durch die Formulierung von Laktanz (4, 14: titionem uolgus appellat …) suggeriert wird. Es ist deshalb nicht überraschend, daß das Wort in allen romanischen Sprachen erhalten blieb: rum. tócôune, ital. tizzone, span. tizón, port. tição, fr. tison „Löschbrand“.38 Im Vulgärlatein wurde davon ein Verb abgeleitet, und auch dieses haben die romanischen Sprachen bewahrt: vulgärlat. *attitia¯re > rum. atît¸a, ital. attizzare, span. atizar, port. atisar, afr. aticier, fr. attiser „ein Feuer schüren“.39 Im Lateinischen ist titio¯ „Feuerbrand“ synchron isoliert. Eine Verbindung mit ähnlich klingenden Formen wie tôtio¯, -a¯re „zwitschern“, tôtus „Ringeltaube“ oder tôtinnio¯, -ire „klingeln“ ist trotz Zimmermann (1915: 270) aus semantischen Gründen nicht wahrscheinlich. Das Wort wird gemeinhin als ein indogermanisches Erbwort betrachtet und mit lit. tìtnagas verglichen. Von der semantischen Seite her ist diese Gleichung durchaus plausibel, denn titio¯ bezeichnet nicht irgendein Feuer, sondern genau den Feuerbrand, der durch die
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Vgl. Mayrhofer (KEWA I, 501). Walde-Hoffmann (1910: 781; 1938: 685–686); Fraenkel (LEW II, 1104). Außerhalb Varro tritt das Wort noch bei dem Arzt Celsius (De Medicina, 3, 12, 4), bei Hyginus (Fabulae, 171, 2), bei Apuleius (Metamorphoseis, 7, 28 und 10, 24) und bei Ulpianus (Dig., 32, 55, 7) auf. Meyer-Lübke (REW 726). Meyer-Lübke (REW 769).
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im verlöschenden Feuer noch glühenden Funken entzündet wird, was eine sehr gut passende Entsprechung zu dem litauischen Kompositum tìtnagas bildet, insofern der Hauptgebrauch des Feuersteins gerade durch Sprühen von Funken gekennzeichnet ist. Dieser Vergleich wirft jedoch zwei Fragen auf, die noch der Erklärung bedürfen. Zunächst bleibt der Unterschied zwischen dem Kurzvokalismus der litauischen Form (tôt- in lit. tìtnagas) und dem Langvokalismus der lateinischen Form (tit- in lat. titio¯) zu klären. Zweitens muß eine morphologische Segmentierung der Formen versucht werden, die es ermöglichen würde, auf der Basis dieser isolierten Substantive eine Verbalwurzel zu finden. Ich glaube, daß beide Probleme miteinander verknüpft sind. Im Lateinischen weist das Wort titio¯, -o¯nis „Feuerbrand“ eine Endung -tio¯, -o¯nis auf, die an die produktive Bildung der femininen Abstrakta auf -tio¯ erinnert, wie rótôo¯ „Rechnung, Verstand, Vernunft“, na¯tôo¯ „Geburt, Geschlecht, Volk“, mentôo¯ „Hinweis, Erwähnung, Gesetzvorlage“, captôo¯ „Haft, Betrug, Falle“, usw.40 Mit diesem Suffix werden fast nur Abstrakta gebildet, doch sind einige Konkreta (meist mit passiver Bedeutung) bezeugt, wie z.B. po¯tôo¯ „Getränk“ (< „was getrunken wird“) oder contôo¯ „Versammlung“ (< „was sich versammelt“). Es ist längst bekannt, daß diese Bildung, die außerhalb des Lateinischen fast keine Entsprechung hat (vgl. jedoch air. (air)-mitiu „Ehre“ = lat. mentôo¯, got. raPjo „Abrechnung“ = lat. rótôo¯ ?), einen Ersatz für die alten Verbalabstrakta auf *-ti- darstellt,was z.B. durch den Vergleich von lat. na¯tôo¯ und aind. ja¯tíh5 oder von lat. stótôo¯ und gr. « „das Stehen“ suggeriert wird. Nimmt man an, daß titio¯, -o¯nis „Feuerbrand“ ursprünglich zu dieser Bildung gehörte, so ergibt sich ein Stamm *ti-, dem ein Suffix *-tôo¯n (Ersatz für *-ti-) hinzugefügt wurde, also *ti-tôo¯, -o¯nis (Ersatz für *ti-ti-). Im Lateinischen werden die Substantive auf *-tôo¯n meist von Verben abgeleitet. Ihre Bildung verläuft im Prinzip parallel zu den Verbaladjektiven auf *-to-. Sie haben normalerweise dieselbe Ablautstufe, meist die Schwundstufe, vgl. z. B. ratio¯ / ratus (: reor „rechnen“), na¯tio¯ / na¯tus (: nascor „geboren werden“), captio¯ / captus (: capio¯ „nehmen“), statio¯ / status (: sto¯ „stehen“), usw. Versucht man, dieses Modell auf lat. titio¯, -o¯nis „Feuerbrand“ anzuwenden, so ergibt sich,
40
Andere Beispiele bei Leumann (1963: 240).
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daß der Stamm *ti- als Schwundstufe einer Verbalwurzel angesehen werden muß (*ti-tio¯n- < *tiH-tio¯n-, Ersatz von *ti-ti- < *tiH-tí-). Diese Wurzel kann demnach als *teÁH- (mit Schwundstufe *tiH- > *ti-) rekonstruiert werden. Eine solche Wurzel wird tatsächlich von verschiedenen Autoren postuliert. Sie hat sogar einen Platz im Lexikon der indogermanischen Verben (LIV1 561, LIV2 617–618, vgl. schon IEW 1053–1054) gefunden, wo sie als *teÁh1- „heiß werden“ (mit Hinweis auf lat. titio¯) gebucht wird.41 Verbale Bildungen sind vielleicht in anderen Sprachen bezeugt: z.B. heth. ze¯ari „ist gar, kocht“ (< *teÁH-). Unter Annahme einer Bedeutungsverschiebung von „warm werden“ zu „schmelzen, feucht werden“ werden auch air. tinaid „schmilzt, verschwindet“, ae. dinan „befeuchten, feucht werden“, aksl. tina „Kot“, timeˇno „Sumpf, Morast“, gr. !« „flüssiger Stuhlgang“, !φ« „sumpfige Stelle“, letzlich auch lit. ty´ras, lett. trs „rein“ (vgl. die ursprüngliche Bedeutung „feucht“ noch in lett. trelis „Morast“) zu dieser Sippe gestellt,42 was jedoch m.E. unsicher bleibt. Man kann sich schwer vorstellen, wie das Litauische gleichzeitig die ursprüngliche und die sekundäre Bedeutungen („heiß werden“ in tìtnagas, vs. „feucht werden“ in ty´ras) hätte erhalten können. Es ist immerhin zu bemerken, daß das aisl. Verbaladjektiv Pdr „geschmolzen, getaut“ (< *tiH-tó-),43 falls es sich wirklich um eine und dieselbe Sippe handelt, dasselbe Verhältnis zu lat. titio¯ (h *tiH-tí-) hätte wie z.B. im Lateinischen selbst status zu statio¯ (*sth2-tó-, vs. *sth2-tí-). Wie läßt sich nun das litauische Kompositum tìtnagas in diese Sippe einfügen? Nimmt man an, daß das Vorderglied *titi- etymologisch mit lat. titio¯ zusammenhängt, so kommt man nicht um die Frage herum, weshalb es einen Kurzvokal aufweist. Man würde eine Entwicklung *tiH-ti- > lit. **tyti- erwarten, wie z. B. in lit. ly´ti „regnen“ (< *liH-ti-), gy´ti „genesen“ (< *gu3 ih3-ti-). Offensichtlich ist der Stammvokal in lit. tìt-nagas sekundär verkürzt worden. Das Problem ist, daß eine solche Kürzung völlig unregelmäßig ist. Man kann m.E. dieses Problem erst
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Die Rekonstruktion von *-h1- beruht auf der thematischen Flexion des hethitischen Nasalpräsens zinnizzi „beendet, macht fertig“ (wenn aus *ti-Ne/N-h1„macht gar, kocht“?), vgl. LIV1 561; Barton (1993: 551–561). Dies bleibt aber unsicher, vgl. Melchert (1994: 119), der zinnizzi als *si-nh1- deutet. Zu den lettischen Formen vgl. Mülenbachs und Endzelins (ME IV, 203). Eine andere Auffassung bei Karulis (1992: II, 413). Vgl. de Vries (1962: 610).
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dann lösen, nachdem man die Bildung des litauischen Wortes genau bestimmt hat. Es gibt im Litauischen zumindest noch ein Wort, bei dem man eine ähnliche Kürzung beobachten kann: lit. bùtas „Wohnung“ (dial. „Haus“). Eine Entsprechung liegt im Altpreussischen vor, auch mit einem Kurzvokal:44 apr. buttan / hues „Haus“ (E 193, III 5313, usw.). Lit. bùtas und apr. buttan setzen ein baltisches Neutrum *bu˘tan fort, das im Altpreussischen (z.T. unter dem Einfluß der deutschen Entsprechung das Haus) als Neutrum aufbewahrt wurde, im Litauischen regelmäßig in die Maskulina integriert wurde. Daß dieses Neutrum mit der Sippe von lit. bãti, apr. bu¯ton „sein“ etymologisch zu verknüpfen ist, liegt auf der Hand. Wie immer der Kurzvokal zu erklären sein mag, es besteht zwischen diesem Neutrum und der femininen *-ti-Bildung, die in dem litauischen Infinitiv bãti überlebt hat, dasselbe Verhältnis wie zwischen lat. titio¯ und lit. (tìt)-nagas. Formal könnte man dieses Verhältnis so schematisieren: x
x
Langvokal in der *-ti-Bildung, vs. Kurzvokal in der *-to-Bildung: {bu¯ / bõ-} lit. bãti (< *bhuH-), vs. apr. buttan, lit. bùtas Langvokal in der *-ti-Bildung, vs. Kurzvokal in der *-to-Bildung: {ti- / tô-} lat. titio¯ (< *tiH-), vs. *tôtan (> lit. *tìtas in tìtnagas)
Diese Rekonstruktion setzt voraus, daß in dem Kompositum tìtinagas nicht eine *-ti-Bildung, sondern eine ursprünglich neutrale *-to-Bildung (*tôtan) steckt. Diese Annahme ist sehr gut möglich, wenn man sich daran erinnert, daß *-i- als Kompositionsvokal im Litauischen produktiv ist45 und *titi-nagas mithin nicht unbedingt eine *-ti-Ableitung (*titis) voraussetzt, sondern problemlos als auf einer thematischen Bildung *titan beruhend erklärt werden kann (*titan f *tit-i-nagas). Nun bleibt zu klären, warum diese neutrale *-to-Bildung in diesen zwei isolierten Fällen eine Kürzung des Stammvokals aufweist. Im Altpreussischen sind die Ableitungen auf -tan reichlich belegt. Das Material ist jedoch nicht einheitlich, so daß man nicht sicher sein kann, daß es sich um eine und dieselbe Bildung handelt.46 Mit diesem Suffix werden meist Nomina instrumenti gebildet: so z.B. baytan „Sieb“ (E 346, als *saytan zu lesen), dalptan „Meißel“ (E 536), staytan 44 45 46
Vgl. Toporov (PrJ I, 274–276). Vgl. Skardzˇius (1956: 502–509). S. Petit (2000: 35–36).
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„Schild“ (E 421, als *scaytan zu lesen). Manchmal begegnet man in derselben Funktion einer Variante -stan, wie z.B. in perstlanstan „Fensterladen“ (E 215), spanstan „Mühlenspindel“ (E 322) oder twaxtan „Badequast“ (E 553). Andere semantische Klassen sind jedoch ebenfalls bezeugt, insbesondere Konkreta ohne mediative Bedeutung wie z.B. anctan „Butter“ (E 689), meltan „Mehl“ (E 335), saltan „Speck“ (E 376), pirsten „Finger“ (E 115) oder schließlich gerade buttan „Haus“ (E 193). Im Ostbaltischen ist eine Bildung auf -tas, die z.T. die alten Neutra auf *-tan fortsetzen kann, verhältnismäßig selten, doch nicht unbelegt:47 Beispiele sind etwa lit. káltas „Meißel“ (: kálti „schmieden“), kéltas „Fähre“ (: kélti „heben“), lit. dial. plãktas „Hammer“ (: plàkti „schlagen“), usw. Das Slavische besitzt zuweilen genaue Entsprechungen, was auf das hohe Alter dieser Bildung hinweist: vgl. z.B. lit. síetas, apr. baytan (*saytan) und aksl. sito, russ. sito, pol. sito „Sieb“; apr. dalptan und aksl. dlato, russ. doloto, pol. dłuto „Meißel“.48 Ursprünglich handelt es sich wohl um substantivierte Formen von neutralen Verbaladjektiven auf *-to-.49 Solche Formen treten gelegentlich auch in anderen indogermanischen Sprachen als Abstrakta (vgl. avest. sraota-, N. „das Hören“ = aisl. hljód, N. „Zuhören, Stille“ < idg. *kleu3 -tom), Nomina instrumenti (vgl. gr. % „Rhyton, Vase“ h « % < idg. *sru-to-) oder Konkretbezeichnungen mit passiver Bedeutung (vgl. gr. & „Getränk“ h & « < idg. *ph3-to-) auf.50 Gr. φ „Gewächs, Pflanze“ bildet insbesondere eine genaue Entsprechung zu balt. *bõtan;51 es ist zu bemerken, daß das griechische Wort – wie das baltische – einen unregelmäßigen Kurzvokal aufweist. Doch suggeriert die Semantik eher unabhängige Bildungen (z.B. gr. φ „Gewächs“ h φ «, Verbaladjektiv von φ „wachsen“).
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Vgl. Skardzˇius (1943: 320–322); Otre˛bski (GJL II, 1965: 235–236, zu lit. bùtas S. 237). Vgl. Meillet (1905: 296–298). Vgl. Je¯gers (1970: 81–86); Bammesberger (1973: 80). Anders Seldeslachts und Swiggers (1995: 23–33), die *-tan dissimilatorisch aus *-tlan (< idg. *-tlom) herleiten. Vgl. Meid (1967: 143); Chantraine (1933: 300–301). Trautmann (BSW 41–42.) Vgl. auch apol. byto „Nahrung“, aind. bhu¯tám 5 „Wesen“ (mit Langvokal). Es ist zu bemerken, daß das Altirische ein Substantiv both „Hütte“ (vgl. kymr. bod, bret. bout) aufweist, das auf *bhõ-ta¯ zurückgeht. Der Kurzvokal scheint auch hier sekundär zu sein.
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Abgesehen von diesen Formen setzt die neutrale *-to-Bildung nirgends eine Kürzung des Stammvokals voraus. Eine phonetische Erklärung kommt für das Baltische nicht in Betracht. Es muß sich also um eine sekundäre Entwicklung handeln, die wohl morphologischer Natur ist. Gewöhnlich wird der Kurzvokal von lit. bùtas für analogisch zur Präteritalform bùvo „er war“ gehalten,52 wo der Kurzvokal auf einem „Laryngalhiat“ beruht (*bhuH- + Vokal > bõv-).53 Eine ähnliche Vermutung wird auch oft für das gr. φ˘ formuliert, das dem Verb φ (φ˘ 'ζ)- < *bhuH- + Vokal) seinen Kurzvokal verdanken soll; dasselbe könnte auch letztlich für den Kurzvokal von gr. φ« „Natur“ gelten.54 Diese Erklärung läßt sich aber auf das Baltische schwer anwenden. Denn die Präteritalform bùvo ist bekanntlich eine Neuerung des Litauischen, die nach dem Infinitiv bãti analogisch zu Formen wie z. B. zˇãti „zugrundegehen“ (Präteritum zˇùvo) entstanden ist.55 Das Altlitauische besaß eine ältere Form bìti (z. B. Bretku¯nas, 1590: 2 Kön 24, 16), die heute nur noch in dem litauischen Dialekt von Zietela (Weißrußland) als bìt fortgesetzt wird; diese Form hat Entsprechungen in den anderen baltischen Sprachen, vgl. apr. be¯i „er war“ (z. B. III, 6714),56 lett. bija „er war“ (mit sekundärem Übergang zum *-a¯- Präteritum). Alles spricht also dafür, daß bùvo eine Neuerung des Litauischen ist und mithin als Ausgangspunkt für die analogische Verbreitung eines Kurzvokals auf das alte Substantiv *bõtan kaum in Betracht kommt. Das Altpreussische hat buttan (mit Kurzvokal), obwohl es keine Spur einer Präteritalform *bõv-a¯- aufweist. Es ist dem-
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Eine andere Auffassung bei Smoczyn´ski (2000a: 186–187), der apr. buttan als [bu:tan] mit Langvokal interpretiert und als eine Übernahme des niederdeutschen bu¯te (< mnd. buwete „Gebäude, das Bauen, Bebauen (des Ackers)“) betrachtet; lit. bùtas sei eine Entlehnung aus dem Altpreussischen. Aus philologischen und linguistischen Gründen halte ich diese Deutung für wenig wahrscheinlich. Zum Laryngalhiat im Baltischen vgl. allgemein Smoczyn´ski (2003: zu lit. bùvo S. 55). Vgl. auch lat. fu˘tu¯rus mit Kurzvokal (wohl nach fu˘i „ich war“). So ausdrücklich Stang (1966: 380–381), vgl. S. 380: „Lit. bùvo ist eine Neubildung“. Vgl. auch Stang (1942: 197–198). Vgl. Toporov (PrJ I, 208–210); Breidaks (1998: 39–43); Smoczyn´ski (2000b: 169, Anm. 17).
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nach wahrscheinlich, daß der Kurzvokal von lit. bùtas unabhängig von der Präteritalform bùvo entstanden ist. Dasselbe gilt natürlich auch für balt. *tôtan, das ich als Grundlage von tìtnagas rekonstruiert habe: In diesem Fall wird nicht einmal eine Verbalform bezeugt, so daß ein analogisches Muster fehlt. Wie ist nun dieser Kurzvokal zu erklären? Die Lösung könnte in einer anderen Bildung verborgen sein. Im Litauischen und im Lettischen gibt es noch ein Substantiv auf -tas, das im Gegensatz zu den anderen zugehörigen Formen einen Kurzvokal aufweist: lit. dial. stãtas (M.) oder statà (F.) „Mühlstein“, lett. stats „Pfahl“.57 Die Schwankungen zwischen dem maskulinen und femininen Genus deuten auf ein altes Neutrum; man kann eine ähnliche Schwankung in den litauischen Dialekten zwischen bùtas und butà „Wohnung, Haus“ beobachten. Man darf also mit einer gewissen Sicherheit von einem Neutrum *statan ausgehen. Daß dieses Substantiv zur Sippe von lit. stóti, lett. stât „aufstehen“ gehört, wird durch die lettische Form (stats „Pfahl“ < „aufrecht stehendes Holzstück“) suggeriert und ist auch für die litauische (stãtas „Mühlstein“) denkbar. Baltisch *statan „aufrecht stehender Gegenstand“58 ist aller Wahrscheinlichkeit nach eine substantivierte Form des alten Verbaladjektivs auf *-to-, idg. *sth2-to-, das in anderen Sprachen als solches bewahrt wurde (gr. «, lat. stótus, aind. sthitá-).59 Es ist bemerkenswert, daß das Baltische, wie in geringerem Maße auch das Slavische, generell die Tendenz aufweist, die Schwundstufe von laryngalhaltigen Wurzeln der Struktur *KeH- zu beseitigen. An der Stelle der ererbten Schwundstufe in *dh3-tí- „das Geben“ (gr. *«, lat. dótio¯) tritt im Baltischen eine sekundäre Vollstufe in *do¯ti (> lit. dúoti, lett. duôt „geben“) ein; dasselbe gilt auch für das Slavische (aksl. dati). Die alten Verbaladjektive auf *-to- haben an dieser Innovation teilgenommen, so daß man im Litauischen z.B. dúotas „gegeben“ nach dúoti „geben“ anstatt **dótas (< *dh3-tó-, vgl. gr. * «, lat. 57 58 59
Vgl. LKZ (XIII, 672 = lit. gubà), Mülenbachs und Endzelins (ME III, 1048). Mazˇiulis (PKEZ III 352–353): „tai, kas stovintis“. Smoczyn´ski (2001: 102, Anm. 23, und S. 252) setzt m.E. unnötigerweise eine Form *sth2-etó- an. Eine Bildung auf *-eto- ist aber im Baltischen völlig unbelegt. Außerdem ist der Ansatz einer Laryngalvokalisierung in idg. *sth2-tó- > balt. *stóta- unproblematisch (vgl. u.a. die Vokativendung der a¯-Stämme lit. rañka < *-ó < *-h2); es ist anzunehmen, daß die Laryngaltilgung in dem Kontext *KHK > *KK nur im Inlaut auftritt (Paradebeispiel: lit. dukte˜˙ „Tochter“ < *dhugˆh2te¯r).
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dótus) findet. Aus der Wurzel *steh2- „stehen“ wurden ursprünglich ein Substantiv *sth2-tí- (vgl. gr. «, lat. stótio¯ „das Stehen“) und ein Verbaladjektiv *sth2-tó- (vgl. gr. «, lat. stótus) mit Schwundstufe gebildet.60 Das Baltische hat auch hier eine Vollstufe etabliert: lit. stóti „stehen“ (< *sta¯-ti-, vgl. auch lett. stât, aksl. stati) und stótas „gestanden“ (< *sta¯-to-). Daraus ergibt sich, daß das substantivierte Verbaladjektiv *statan mit Schwundstufe im Baltischen nur als Reliktform gedeutet werden kann, es muß unbedingt auf die Zeit zurückgehen, da das Verbaladjektiv noch *stótas mit ererbter Schwundstufe lautete und noch nicht zu *sta¯tas (> lit. stótas) mit sekundärer Vollstufe geworden war. Das Baltische hat vielleicht noch andere Spuren der ursprünglichen schwundstufigen Form in zwei isolierten Adjektivbildungen (lit. statùs „steil“ < „senkrecht“, stãcˇias „aufrecht stehend“) und in einem abgeleiteten Verb (lit. staty´ti, lett. statît „bauen“, vgl. apr. preistattinnimai / fuerstellen „wir stellen dar“, III 11115)61 erhalten. Es ist bemerkenswert, daß die alten Formen (mit Schwundstufe *stó-t-) nur noch in sekundären (lexikalischen) Funktionen überlebt haben, während die alte Funktion (Verbaladjektiv) durch eine neue Form (mit Vollstufe *sta¯-t-) ausgedrückt wird; dies ist ein schönes Beispiel des berühmten „vierten Gesetzes der Analogie“ von Jerzy Kuryłowicz. Daraus entstand also diese eigentümliche Konstellation, daß das Baltische gleichzeitig ein altes Verbaladjektiv in einer substantivierten Form *stó-tan (mit Schwundstufe) und ein neues Verbaladjektiv *sta¯-tas (mit Vollstufe) neben einer ebenfalls sekundären vollstufigen Infinitivform *sta¯-ti- aufweist. Das Verhältnis dieser Formen läßt sich so formulieren: Verbaladjektiv und Infinitiv mit Vollstufe (*sta¯-tas > lit. stótas „gestanden“, *sta¯-ti- > lit. stóti „aufstehen“), vs. neutrale Substantivierung mit Schwundstufe (*stó-tan > lit. stãtas < „stehender Gegenstand“). x
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Daß die *-ti-Ableitungen im Indogermanischen durch interne Flexion eine Vollstufe enthalten konnten (etwa *KéK-ti-, vs. *KK-téÁ-), spielt dabei keine Rolle. Das Balto-Slavische gehört zu den Sprachen, die wahrscheinlich schon vorgeschichtlich die Schwundstufe verallgemeinert hatten. Die Vollstufe von balt. *do¯ti und slav. *da¯ti ist nicht ererbt, sondern innovativ. Vgl. Petit (2004: 248–249 und 274–278). Vgl. Karulis (1992: II, 289). Zur Bildung von lit. staty´ti vgl. auch Kortlandt (1989: 104–112).
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Indogermanistisch gesehen war dieses Ablautverhältnis rein qualitativ: Der Kontrast lag regelmäßig zwischen einer Vollstufe (*steh2> balt. sta ¯ -) und einer Schwundstufe (*sth2- > balt. stó-). Im Baltischen, wie auch anderswo, sind aber laryngalhaltige Ablautverhältnisse sekundär als Unterschiede quantitativer Natur umgedeutet worden: Der Gegensatz lag nun zwischen einer Langstufe (*sta¯-) und einer Kurzstufe (*stó-). Ich schlage nun vor, daß sich dieses Modell, das in *sta¯-tas (Verbaladjektiv), *sta¯-ti- (Infinitiv), vs. *stó-tan (Substantiv) phonetisch begründet war, analogisch in andere Wurzeln verbreitete, in denen es ursprünglich fehl am Platze war. Nach dem Muster von *sta¯- (im Verbaladjektiv *sta¯-tas und im Infinitiv *sta¯-ti-), vs. *stó- (im Substantiv *stó-tan) wurde ein ähnliches quantitatives Verhältnis zwischen *bu¯- (im Verbaladjektiv *bu¯-tas > lit. bãtas und im Infinitiv *bu¯-ti- > lit. bãti) und *bõ- (im Substantiv *bõ-tan > apr. buttan, lit. bùtas), sowie zwischen *ti- (z. B. in einem Infinitiv *ti-ti- > lit. *ty´ti = lat. titio¯) und *tô- (im Substantiv *tô-tan > lit. tìt-nagas) geschaffen. Also formal: Verbaladjektiv = Langstufe
Infinitiv = Langstufe
Substantiv = Kurzstufe
idg. *steh2„stehen“
*sta¯-ti-[> lit. stóti] *sta¯-tas [> lit. stó(Vollstufe sekuntas] (Vollstufe sekundär anstatt *stó- där anstatt *stó-ti-) tas)
*stó-tan [> lit. stãtas] (Schwundstufe ererbt)
idg. *bhuH„sein“
*bu¯-tas [> lit. bãtas] (Schwundstufe ererbt, sekundär als Langstufe interpretiert)
*bu¯-ti-[> lit. bãti] (Schwundstufe ererbt, sekundär als Langstufe interpretiert)
f *bõ-tan [> lit. bùtas] (Kurzstufe sekundär)
idg. *teÁH„heiß werden“
*ti-tas [> lit. *ty´tas] (Schwundstufe ererbt, sekundär als Langstufe interpretiert)
*ti-ti- [> lit. *ty´ti = lat. titio¯] (Schwundstufe ererbt, sekundär als Langstufe interpretiert)
f *tô-tan [> lit. *tìtas in tìtnagas] (Kurzstufe sekundär)
Eine Parallele könnte im Griechischen vorliegen. Der Kurzvokal von gr. φ« „Natur“ und φ « kann neben dem Langvokal von
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dem Aorist φ¯ analogisch zu dem Muster von «, « neben ( ¯ ) enstanden sein, das seinerseits ein ererbtes Ablautverhältnis aufweist (idg. *sth2- / *steh2-). Vielleicht ist auch der Kurzvokal von gr. φ „Gewächs“ auf diese Weise zu erklären. Für das Baltische hat diese Lösung eine weitere Folge. Es ist bekannt, daß einige Ableitungen auf -tas im Litauischen eine Metatonie aufweisen, vgl. klõtas „Decke“ (: klóti „decken“), kliu¯˜tas „Hindernis“ (: kliãti „anhaken“), ski˜rtas „Unterschied“ (: skìrti „unterscheiden“).62 In einigen Fällen ist auch mit einer Ablautsentgleisung zu rechnen, wie z.B. in lit. dial. dõtas „Gabe“ (< *da¯-, vgl. dúoti „geben“ < *do¯- < *deh3-).63 Rick Derksen (1996: 119–121) setzt diese Metatonie überzeugend mit den alten Neutra in Verbindung und erklärt sie durch eine Zurückziehung des Akzents64. Ich möchte hier auf eine andere Möglichkeit hinweisen, die in diesem Prozess vielleicht ein Rolle gespielt haben kann. Ich glaube, daß es prinzipiell eine der Hauptfunktionen der Metatonie im Baltischen war, unbequeme, bzw. systemwidrig gewordene Ablautverhältnisse zu beseitigen. Es ist m.E. generell im Baltischen eine Tendenz zu beobachten, Ablautsunterschiede durch Intonationsunterschiede zu ersetzen. Aus dieser Perspektive wäre das metatonische Verhältnis in der betreffenden Bildung auf -tas so zu verstehen: Ursprünglich war diese Bildung durch die Kürzung, die ich oben rekonstruiert habe, in der Weise charakterisiert, daß z. B. vom Verb klóti „decken“ (*kla¯-ti-) ein Substantiv *kló-tan abgeleitet wurde, parallel zu dem oben erwähnten Ablautverhältnis *sta¯-ti- / *stó-tan. In einer späteren Phase wurde der Vokalwechsel *kla¯- / *kló- beseitigt und durch eine sekundäre Dehnung ersetzt, die, insofern sie sekundärer Natur war, nur einen Schleifton entstehen lassen konnte: Demnach wurde *kló-tan durch *kla¯˜-tan (lit. *kla¯˜-tas > klõtas) ersetzt. Daß es sich um eine sekundäre Dehnung handelt, wird durch lit. dõtas suggeriert, in dem bei der Entstehung 62
63 64
Weitere Beispiele bei Derksen (1996: 80–81 und 119–121). S. auch Bu¯ga (RR(B) II, 387). Vgl. Derksen (1996: 80): „secondary ablaut“. Vgl. auch Stang (1966: 152–153; 1970: 220–221); Rasmussen (1992: 81). Es ist zu bemerken, daß die Zurückziehung des Akzents (*kla¯t'as f *kl'a¯˜tas) in diesem Fall ausdrücklich durch das Beispiel von lit. zˇibiñtas „Laterne“ (: zˇìbinti „anzünden“), bei dem eine „Projektion“ (oder „Hervorschiebung des Iktus“) zu beobachten ist, unterstützt wird. Die Projektion stellt bekanntlich eine Variante der Zurückziehung des Akzents in mehrsilbigen Stämmen dar.
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der sekundär gedehnten Form noch dazu eine Ablautsentgleisung eintrat: Die ererbte Schwundstufe *dótan (< *dh3-tó-) wurde im Litauischen zu einer neuen Vollstufe dõtas nach einem Muster {ó/a¯} umgebildet, das geläufiger war als das synchron unverständlich gewordene Muster {ó/o¯} (< idg. {h3 / eh3}).65 Später wurde diese Metatonie gewissermaßen als Kennzeichen der betreffenden Bildung auf -tas empfunden, so daß sekundär vom Verb stóti wieder ein metatonisches Substantiv stõtas „Wuchs“ abgeleitet wurde. Die Kürzung, die eine ältere Phase darstellt, wurde nur in drei semantisch isolierten Formen stãtas, bùtas und *tìtas (in tìtnagas) bewahrt.
Abkürzungen BSW = Trautmann, R., 1923. DELG = Chantraine, P., 1968–1980. DELL = Ernout, A. und Meillet, A., 1932. DLL = Daukantas, S., um 1850–1856. DTL3 = Sirvydas, K., 1642. DZ = Dabartine˙s lietuviu˛ kalbos zˇodynas. E = Elbinger Wortschatz, nach PKP, II, 14–46. EWA = Mayrhofer, M., 1986–1996. GEW = Frisk, H., 1960–1972. GJL = Otre˛bski, 1956–1965. IEW = Pokorny, J., 1959. KEWA = Mayrhofer, M., 1956–1980. LEIA = Vendryes, J., 1959-.
LEW = Fraenkel, E., 1962–1965. LIV = Rix, H. (hrsg.), 11998, 22001. LKZ = Lietuviu˛ kalbos zˇodynas. ME = Mülenbachs, K., Endzel¯ıns, J., 1923–1935. NdZ = Niedermann, M., Senn, A., Brender, F., Salys, A., 1932–1968. PKEZ = Mazˇiulis, V., 1988–1997. PKP = Mazˇiulis, V., 1966–1981. PrJ = Toporov, V., 1975–1990. REW = Meyer-Lübke, W., 1935. RR(B) = Bu¯ga, K., 1958–1961. RR(S) = Skardzˇius, P., 1996–1999. TLL = Kurschat, A., 1968–1973.
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Zu dieser Ablautsentgleisung vgl. Bammesberger (1992: 51).
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Zur Spiegelung der volkstümlichen Betrachtungsweise im Wortschatz einiger ungarischer Mundarten* 1. Einleitende Bemerkungen 0
Seit Anfang der Geschichte der Menschheit und über viele Jahrtausende hinweg war man der Auffassung, dass die Sachbenennungen konkrete Abbildungen der bezeichneten Dinge sind. Erst mit der Abstrahierung der Bedeutungen entstünden die allgemeinen Begriffe. Unter „volkstümlicher Betrachtungsweise“ verstehe ich eine Anschauung, wie in der Naturumgebung lebende größere oder kleinere Gemeinschaften über die Dinge der materiellen Welt denken. Diese Anschauungsweise konnte sich – ungeachtet der in der Gesellschaft und der Denkungsart stattgefundenen Veränderungen – bis heute erhalten. Besonders solche Gemeinschaften haben sie bewahrt, die mit der Natur in einer engen Beziehung lebten. Das war seit langer Zeit im Allgemeinen überall die Bauernbevölkerung. Das erste Glied der Wortfügung „volkstümliche Betrachtungsweise“ im Titel meines Vortrages bezieht sich hauptsächlich auf diese gesellschaftliche Gruppe, und ich benutze es im Weiteren in dieser Bedeutung.
2. Zur Forschungsgeschichte Die Rolle und die Art der Betrachtungsweise in der Wortschöpfung bezüglich des engen Zusammenhangs von Sprache und Denken untersucht die allgemeine Sprachwissenschaft, wogegen sich die sprachgeschichtliche Forschung auf eine engere, aber noch hinreichend allgemeine Ebene bezieht. Als dritter Wissenszweig tritt die Dialektologie hinzu.
*0 Dieser Aufsatz ist eine Fassung meines Vortrages, den ich auf dem 2. Internationalen Kongress der Internationalen Gesellschaft für Dialektologie des Deutschen (IGDD) vom 20.–23. September 2006 in Wien gehalten habe. Indogermanische Forschungen, 112. Band 2007
DOI 10.1515/IDGF.2007.016
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Gewisse Übereinstimmungen und Ähnlichkeiten der verschiedenen Sprachen in der Wortschöpfung sind nicht nur mit allgemeinen Besonderheiten des menschlichen Denkens erklärbar, sondern sie hängen – z. B. im Falle von Lehnwörtern, Lehnübersetzungen – auch mit den Kontakten der Völker und der Sprachen zusammen. In seinen semantischen Forschungen hat Károly (1970) überzeugend darauf hingewiesen. Außerdem hat er darauf aufmerksam gemacht, dass auch Eigenarten in einer Sprache (z.B. im Ungarischen) auftreten können, die nicht universell sind, sondern nur mit dem Sprachgebrauch der einzelnen gesellschaftlichen Schichten verknüpft sind. Die Frage der Entstehung und des Ursprungs der Wörter, der Komposita, der Wortfügungen und der Redewendungen hat man – neben der Untersuchung sonstiger Teilgebiete der Sprache vom geschichtlichen Standpunkt – immer zu den interessantesten Themen in den sprachgeschichtlichen Forschungen gezählt. Deshalb ist es verständlich, dass sich die Sprachgeschichtsforscher für die Problematik der Wortschöpfung seit langem interessieren. Offensichtlich hängt das auch damit zusammen, dass sie auch die Rolle und die Bedeutung der volkstümlichen Betrachtungsweise teilweise berührt haben. Es ist offenbar, dass auch die Dialektforscher bemerkt haben, dass die volkstümliche Betrachtungsweise bei der Entstehung gewisser Dialektwörter eine wichtige Rolle spielen kann. In der Fachliteratur kann man mehrere beachtenswerte Hinweise darauf finden, dass der Wortschatz der Mundarten im Vergleich mit der Standardsprache viel konkreter und anschaulicher ist (vgl. z.B. Csu˝ry 1933: 66; Ruoff 1989: 133–4; Hartmann 2005: 155). Die Rolle der volkstümlichen Betrachtungsweise wurde nicht nur von der Sprachwissenschaft, sondern auch von anderen Wissenschaften – vor allem von der Ethnographie – beachtet. Indem die Ethnographen bäuerliche Lebensgeschichten, verschiedene Lebenserinnerungen und Selbstbiographien studierten, wurden sie auch darauf aufmerksam, dass die Sprache der volkstümlichen Erzählungen – auch noch in schriftlicher Form – die Eigentümlichkeiten der gesprochenen Sprache wiedergibt.
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3. Theoretisch-methodologische Fragen und Quellen der Untersuchung Nach dem bisher Ausgeführten ist es offensichtlich, dass eine Untersuchung der volkstümlichen Betrachtungsweise in mehrerer Hinsicht möglich ist. Ihre Rolle kann sich in der Entstehung der Wörter und bei der Herausbildung neuerer Bedeutungen zeitlich und regional unterscheiden. Die psychologischen und linguistischen Forschungen haben schon lange herausgefunden, dass das menschliche Denken – unabhängig von den einzelnen Sprachen – Gleichheiten und einander sehr ähnliche Eigenheiten aufweist, außerdem können voneinander abweichende Besonderheiten die Denkweise und die Anschauung der einzelnen Völker charakterisieren. Das Individuum – wie bereits Deme es erklärt hat (1978: 34) – „erhält von der Gesellschaft nicht nur seine Sprache, sondern auch seine Denkweise: seine Begriffe und auch seine Begriffsverbindungsformen. Also ist nicht nur das Wort ein gesellschaftliches Gebilde, sondern auch der dadurch bezeichnete Begriff.“ In seiner die sinnverwandten Wörter behandelnden Arbeit hat Végh solche Beispiele genannt, die mit der verschiedenen Betrachtungsweise der Völker und ihrer Sprachen zu erklären sind. So benennen z. B. wir Ungarn die ältere und jüngere Schwester bzw. den älteren und jüngeren Bruder besonders (húgom ‚meine jüngere Schwester‘, néném ‚meine ältere Schwester‘, öcsém ‚mein jüngerer Bruder‘ bzw. bátyám ‚mein älterer Bruder‘), dagegen halten es das Deutsche und das Französische nicht für wichtig, eine genauere diesbezügliche Bezeichnung vorzunehmen: im Deutschen ist Bruder ‚der männliche Teil von Geschwistern; ein männlicher Verwandter, der dieselben Eltern hat‘ bzw. Schwester ‚der weibliche Teil von Geschwistern; eine weibliche Verwandte, die dieselben Eltern hat‘, im Französischen ebenso: frère ‚allgemein ein männlicher Teil von Geschwistern‘ bzw. soeur ‚allgemein ein weiblicher Teil von Geschwistern‘. Wiederum hat „das Deutsche zwei Wörter für die Bezeichung fa: Baum ‚als eine Pflanze‘ bzw. Holz ‚als ein Stoff, eine Materie‘. Das Ungarische besitzt nur ein Wort dafür“ (Végh 1935: 12). Es wäre aufschlussreich und interessant, zugleich aber sehr schwierig zu untersuchen, welche Abweichungen und Übereinstimmungen die Denk- und Betrachtungsweisen der unterschiedlichen Völker
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zeigen. Das habe ich jedoch nicht als meine Aufgabe angesehen, weiterhin auch nicht, wie sich die Bedeutung gewisser Wörter und Ausdrücke – vom Konkreten der auf dem Sinnlichen beruhenden Betrachtung bis hin zur abstrakten und allgemeinen Bedeutung – mehrere Jahrhunderte hindurch im Ungarischen verändert hat. Dafür gibt es recht viele Beispiele in verschiedenen sprachgeschichtlichen Arbeiten. Meine Untersuchungen zielen auf die Analyse der in ungarischen Mundarten befindlichen anschaulichen Wörter und Ausdrücke, da die bisherige Forschung diesen sehr wenig Aufmerksamkeit geschenkt hat. Die Grundlage meiner Untersuchungen bilden aus Dialektwörterbüchern gesammelte Dialektwörter, die die volkstümliche Betrachtungsweise illustrieren. Die einzelnen Dialektwörterbücher habe ich so ausgewählt, dass sie voneinander fernliegende Landschaften des ungarischen Sprachgebiets repräsentieren.
4. Typen der aufgrund der volkstümlichen Betrachtungsweise entstandenen Wörter 4.1. Die bäuerliche Zeitrechnung Eine eigentümliche Anschauung, also eine speziell bäuerliche Denkweise, äußert sich darin, dass fast überall auf ungarischem Sprachgebiet – in den Mundarten – für die Bezeichnung der Zeit statt des genauen Zeitpunktes die Nennungen solcher Ereignisse, Prozesse gebräuchlich sind, die die örtliche Einwohnerschaft aus verschiedenen Gründen für sehr wichtig hält. So sind z.B. solche Wörter und Ausdrücke besonders häufig, die sich auf die verschiedenen landwirtschaftlichen Arbeitsprozesse beziehen bzw. mit den Hausarbeiten verknüpft sind (z. B. aratás ‚Ernte‘, disznóölés ‚Schweineschlachten‘, szüret ‚Weinlese‘). Relativ viele sind mit den Feiertagen, den verschiedenen Gedenktagen (z.B. búcsú ‚Kirmes‘, farsang ‚Fasching‘, gyertyaszentelo˝ ‚Kerzenweihe‘, húsvét ‚Ostern‘, karácsony ‚Weihnachten‘, keresztelo˝ 1. ‚Taufe‘ 2. ‚Taufschmaus, Kindelbier‘, Luca-nap ‚Luzientag‘) verbunden. In der bäuerlichen Zeitrechnung können auch die Geschichts- und Wirtschaftsperioden Spuren hinterlassen, die einst im Leben gewisser (größerer und kleinerer) Gemeinschaften eine bedeutende Rolle spielten. So z.B. weist das Kompositum cserevilág ‚Tauschwelt‘ auf die Inflationszeiten nach dem Zweiten Weltkrieg
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hin, als man gewisse Waren nicht für Geld kaufen konnte, sondern über einen Tauschhandel erhielt. Noch ein anderes Beispiel: Die Wortfügung beadási rendszer ‚Einlieferungssystem‘ lässt die älteren Generationen in Ungarn an den Anfang der 1950-er Jahre denken, an die so genannte Rákosi-Zeit, als man nicht nur Steuern zu zahlen hatte, sondern dem Staat auch einen gewissen Teil an Naturalien abliefern musste. Die jetzt erwähnten Ausdrücke sind im Ungarischen sehr bekannt. Man kann auch verhältnismäßig viele Beispiele dafür finden, dass sich die Erinnerungen gewisser Ereignisse nur in einem kleineren Gebiet (z.B. in den einzelnen Siedlungen) erhalten haben. Ein solches Ereignis war in der Geschichte von Szeged das Hochwasser im Jahre 1879, als die Einwohner der Stadt große Verluste an Menschen und an materiellen Gütern erlitten hatte. Die Wörter víz ‚Wasser‘ und nagyvíz ‚großes Wasser‘ sind bis heute gebräuchlich im Kreise der älteren Generation; es ist ein Markstein im Leben von Szeged (z. B. spricht man oft víz elo˝tt ‚vor dem Hochwasser‘, víz után ‚nach dem Hochwasser‘, vízkó ‚bei Hochwasser, während des Hochwassers‘).
4.2. Die Bezeichnungsübertragung Es ist bekannt, dass sich nicht nur die Lautform der Wörter von Zeit zu Zeit verändert, sondern auch ihre Bedeutung. Weil die volkstümliche Betrachtungsweise in der Veränderung der Bedeutung verschiedener Lexeme eine Rolle spielen kann, deshalb habe ich mich bemüht, die damit zusammenhängenden Dialektwörter zu betrachten. Man pflegt – aufgrund der verschiedenen Gesichtspunkte – mehrere Gruppen von Bedeutungswandel zu unterscheiden. Eine ihrer häufigsten und wichtigsten Kategorien ist die Bezeichnungsübertragung. Nach Aussage der für die Untersuchung ausgewählten Dialektwörterbücher ist in den ungarischen Mundarten die auf der Ähnlichkeit der Begriffe beruhende Bezeichnungsübertragung besonders häufig, die „auf zweifache Weise stattfinden kann: Eine basiert auf ihrer inhaltlichen Ähnlichkeit, die andere beruht auf ihrer Stimmungsverwandschaft“ (Temesi 1961: 182).
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4.2.1. Bezeichnungsübertragungen aufgrund der inhaltlichen Ähnlichkeit der Begriffe Die mit der inhaltlichen Ähnlichkeit zusammenhängende Bezeichnungsübertragung entsteht im Allgemeinen durch Gleichsetzung. Im Falle einer ihrer sehr häufigen Untergruppen geht die Bezeichnung der menschlichen und tierischen Körperteile auf die Nennung irgendeines Teils (z. B. der verschiedenen Sachen, Formen) der umliegenden materiellen Welt zurück (z. B. hegygerinc ‚Berggrat, Gebirgsgrat‘, hegyláb ‚Bergfuß‘, káposztafej ‚Krautkopf‘). Es ist auch nicht selten, dass man die Bezeichnung von Tieren auf den Menschen überträgt, und zwar gewöhnlich in ziemlich beleidigender, verletzender Weise und immer mit sehr stark pejorativem Beigeschmack (z. B. disznó ‚Schwein, Schweinkerl‘, ökör ‚Ochs, Heuochse‘, szamár ‚Esel, Eselkopf‘). In der Volkssprache ist dieser Bezeichnungsübertragungstyp im Allgemeinen häufiger als in der Standardsprache. Die auf der inhaltlichen Ähnlichkeit beruhende Bezeichnungsübertragung ist deshalb möglich, weil man eine wirklich vorhandene Ähnlichkeit in der materiellen Welt zwischen dem Vergleichenden und dem Verglichenen erkennt. Dies beweisen z.B. die nächsten Beispiele aus einigen ungarischen Dialektwörterbüchern: cingelli 1. ‚die lange, dünne Wurzel der Stoppelrübe, der Wasserrübe‘ 2. ‚Geschlechtsglied des Knaben, des Kleinen‘, cinöge 1. ‚Meise‘ 2. ‚schmächtig, spindeldünn‘, furulya 1. ‚Hirtenpfeife‘ 2. ‚männliche Scham‘ (spaßig, witzig). Hier erwähne ich, dass sich diese und die weiteren ähnlichen Beispiele mit dem Humor und mit der scherzhaften Lust der Dialektsprecher zusammenhängen.
4.2.2. Bezeichnungsübertragungen aufgrund der Stimmungsverwandschaft der Begriffe Die Anzahl der hierher gehörenden Beispiele ist geringer als die der auf inhaltlicher Ähnlichkeit beruhenden Bezeichnungsübertragungen. Die Aufstellung bestimmter Kategorien und die Einreihung der Einzeldaten in Gruppen ist nicht einfach: Im Falle der auf Metonymie beruhenden Bezeichnungsübertragungen sind nämlich die unter ihnen vorhandenen psychologischen Zusammenhänge latenter, weni-
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ger greifbar. Solche Belege sind z.B. die Folgenden: fattyú 1. ‚Nachtrieb
4.3. Die bedeutungsverdichtenden Komposita Die bedeutungsverdichtenden substantivischen und adjektivischen Komposita spielen – besonders in letzter Zeit – eine immer wichtigere Rolle in der gemeinsprachlichen Wortschöpfung. Von ihnen bilden die vergleichsbedeutenden Zusammensetzungen eine spezifische Gruppe, in denen sich ein Vergleich zwischen dem Erst- und Zweitglied ausprägt. In einer ihrer Untergruppen sind beide Glieder der Komposita Substantive und das Erstglied ist das verglichene Element (z. B. dongaláb ‚Klumpfuß‘ [< donga ‚Daube, Fassdaube‘ + láb ‚Bein‘], gyöngyfog ‚Perlenzahn‘, lapátfül ‚Schaufelohr‘, szivárványhártya ‚Regenbogenhaut‘). In der anderen Gruppe ist das Erstglied auch ein Substantiv, das Zweitglied aber ein Adjektiv, dessen Bedeutung man zu dem Erstglied in Vergleich setzt (z. B. csontszáraz ‚knochentrocken‘, dióbarna ‚nussbraun‘, jéghideg ‚eiskalt‘, koromfekete ‚rauchschwarz‘). Die substantivischen und adjektivischen Komposita mit vergleichender bzw. verglichener Bedeutung kommen in ungarischen Mundarten im Allgemeinen viel häufiger vor als in der Standardsprache. Im Weiteren werde ich diese erörtern und zwar in natürlich voneinander abgesonderten Gruppen.
4.3.1. Substantivkomposita mit vergleichender Bedeutungsstruktur Das Verhältnis zwischen dem Vorder- und Hinterglied der bedeutungsverdichtenden Komposita kann zweierlei bedeuten: In ihrer ersten Untergruppe drückt sich nur ein reiner Vergleich aus, so sind z. B. in: kapafog ‚ein Zahn, der der Hacke ähnlich ist‘; Hackezahn’ (< kapa ‚Hacke‘ + fog ‚Zahn‘), könyékkürt ‚Knieröhre‘ (< könyék ~ könyök ‚Knie‘ + kürt ‚Röhre‘), tokmányorr ‚eine sehr große Nase; Futternase‘ (< tokmány ‚Futter, Sensensteinhalter‘ + orr ‚Nase‘). In dem anderen Typ gibt es – neben der Ähnlichkeit – auch ein possessives Verhältnis
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zwischen dem Erst- und dem Zweitglied, so z.B. kecskeszakáll ‚ein Bart, der aussieht, wie der einer Ziege; Ziegenbart‘, papagájtulipánt ‚eine buntfarbige Tulpensorte, die eine ähnliche Farbe hat, wie ein Papagei; Papageitulpe‘.
4.3.1.1. Komposita mit Vergleich In diese Untergruppe werden solche Zusammensetzungen eingereiht, in denen eine Ähnlichkeit zwischen dem Erst- bzw. Zweitglied des Kompositums vorliegt. Das sind z.B.: cilindërkémény ‚Zylinderkamin‘, csepërkekalap ‚ein Hut, der dem Waldchampignon, dem Waldegerling ähnlich ist; der Waldegerlingshut‘ (< csepërke ‚eine Pilzart‘ + kalap ‚Hut‘), csikósparhelt ‚auf vier Füßen stehender, beweglicher, verrückbarer Sparherd‘ und egéruborka ‚eine winzige, in ihrem einen Teil sich verdünnende Gurkensorte‘.
4.3.1.2. Vergleichende Komposita in einem possessiven Verhältnis Die hierher gehörenden Angaben sind die Folgenden: búzavirágszín ‚Kornblumenfarbe‘ (< búzavirág ‚Kornblume‘ + szín ‚Farbe‘), büdösku˝szín ‚schwefelgelb‘ (< büdösku˝ ‚Schwefel‘ + szín ‚Farbe‘), gesztenyeszin ‚kastanienbraun‘ (< gesztenye ‚Kastanie‘ + szín ‚Farbe‘), gólyaláb ‚Stelzbein‘ (< gólya ‚Storch‘ + láb ‚Bein‘) und o˝zlábgomba ‚Schirmblätterpilz, Schirmpilz‘ (< o˝zláb ‚Rehbein‘ + gomba ‚Pilz‘).
4.3.2. Die mit dem Suffix -ú/-u˝ aus den Substantivkomposita gebildeten Adjektive mit vergleichender Bedeutungsstuktur In den einschlägigen Fällen fügt sich das Suffix -ú/-u˝ nicht an einfache Grundwörter an, sondern immer an substantivische Komposita. Diese bilden ebenfalls zwei Untergruppen: Zwischen dem Erst- und dem Zweitglied der Zusammensetzungen besteht eine Ähnlichkeit, so z.B. kapafogú ‚ein Mann mit großen, hervorstehenden, der Hacke ähnlichen Zähnen‘ (< kapa ‚Hacke‘ + fog ‚Zahn‘ + -ú/-u˝ Adjektivsuffix) bzw. prägt sich zwischen den Gliedern der Komposita neben der Ähn-
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lichkeit ein possessiver Vergleich aus, so z.B. lófogú < kukorica > ‚eine Maissorte mit großen länglichen Körnern, die dem Pferdezahn ähnlich sind‘ (< lófog ‚Pferdezahn‘ + -ú Adjektivsuffix). In beiden Typen liegt eine Ähnlichkeit vor, aber auf eine andere Art, z.B. die Bedeutung des Adjektivs kapafogú ‚jm. hat Zähne, die der Hacke ähnlich sind‘ bzw. z.B. ‚etw. [Mais] hat Körner, die den Zähnen des Pferdes ähnlich sind‘. Ein relativ kleiner Teil der Beispiele nicht leicht in irgendeine Gruppe der zwei Kategorien einreihen, so ließ sich z.B. das Ableitungswort pókhasú ‚dickwanstig, dickbäuchig; jm. hat ein Bauch, der dem Bauch der Spinne ähnlich ist‘ (< pók ‚Spinne‘ + has ‚Bauch‘ + -ú Suffix). 4.3.2.1. Komposita – Ableitungen mit Vergleich An den nächsten Komposita kann man das Adjektivsuffix -ú /-u˝ anhängen und eine Ableitung bilden: kalácsképu˝ ‚ein Mann mit rundem Gesicht‘ (< kalács ‚Kuchen‘ + kép ‚Gesicht‘ + -u˝ Suffix), kalánfülu˝ ~ kanálfülu˝ ‚ein Mann mit großen, abstehenden Ohren‘ (< kalán ~ kanál ‚Löffel‘ + fül ‚Ohr‘ + -u˝ Suffix), karónyakú ‚ein Mann mit langem Hals‘ (< karó ‚Pfahl, Rebenstecken‘ + nyak ‚Hals‘ + -ú Suffix), lo˝cslábú ‚dachsbeinig, krummbeinig‘(< lo˝cs ‚Wagenleiste‘ + láb ‚Bein‘ + -ú Suffix), ludájfeju˝ ‚ein Mann mit formlos länglichem Kopf‘ (< ludáj ‚gemeiner Kürbis‘ + fej ‚Kopf‘ + -u˝ Suffix), pomposszájú ‚ein Mann mit dicken, wulstigen Lippen‘ (< pompos ‚Brotlaib, Weck‘ + száj ‚Lippe‘ + -ú Suffix) und tülökorrú ‚stumpfnäsig, plattnäsig‘ (< tülök ‚Horn, Stange‘ + orr ‚Nase‘ + -ú Suffix). Ich möchte noch ein anderes interessantes Beispiel erwähnen: die Ableitung lébërszájú, die ein Synonym des Adjektivs pomposszájú ist und die Bedeutung hat: ‚ein Mann mit wulstigen Lippen‘ (< lébër ‚Leber‘ + száj ‚Lippe‘ + -ú Suffix). Dieses Wort kann man im Dialektwörterbuch der Koppány-Gegend finden (Szabó 2000: 138). Ich kenne es seit meiner Kindheit, denn es ist in meiner Muttermundart Nagykónyi im Kreise der älteren Generation noch heute bekannt und gebräuchlich. Aber woher und wann kam das Erstglied lébër der Ableitung lébërszájú in diese Mundart? Im Zusammenhang mit dem Adjektiv lébërszájú möchte ich bemerken, dass das Erstglied vermutlich das deutsche Substantiv Leber ist, das als ein selbständiges Wort im vorliegenden Dialekt nicht existiert, sondern nur als ein Erstglied des Adjektivs lébërszájú. In die Mundart
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von Nagykónyi ist das Substantiv lébër wahrscheinlich in der zweiten Hälfte des 19. Jahrhunderts gelangt, als sich eine deutschsprachige Einwohnerschaft in erster Linie aus den Nachbardörfern Kocsola und Pári angesiedelt hatte. Die Bevölkerung dieser Dörfer kam im 18. Jahrhundert aus Nordbaden, wie Wiesinger festgestellt hat (1983: 918). Die Zahl der deutschsprachigen Schicht der Gemeinde Nagykónyi betrug damals ungefähr 200 bis 250 Personen. Nach zwei, drei Generationen haben sich die deutschen Siedler im 20. Jahrhundert assimiliert, doch haben sie eine relativ bedeutende Wirkung auf den Wortschatz der Nagykónyer Mundart ausgeübt (siehe ausführlicher Szabó 1986: 237–239).
4.3.2.2. Komposita – Ableitungen mit Vergleich und auch mit possessivem Verhältnis Die hierher gehörenden Angaben sind: gólyalábú ‚langbeinig, storchbeinig; jm. hat Beine, wie ein Storch‘, gúnárnyakú ‚ein Mann mit langem Hals; jm. hat ein Hals, der aussieht, wie der eines Ganters‘ (< gúnár ‚Ganter‘ + nyak ‚Hals‘ + -ú Suffix), nyúlhasú ‚hager, sehr mager, klapperdürr; jm. hat einen Bauch, der dem des Hasen ähnlich ist‘ (< nyúl ‚Hase‘ + has ‚Bauch‘ + -ú Suffix). 5. Fazit Vor allem scheint es aufschlussreich zu sein, eine Analyse vorzunehmen, denn die Untersuchung der Widerspiegelung der volkstümlichen Betrachtungsweise im Wortschatz der ungarischen Mundarten bietet etliche Erkenntnisse. Die Anzahl der Wörter und Ausdrücke, die zur bäuerlichen Zeitrechnung und Bezeichnungsübertragungen gehören, ist relativ gering, ihre Mehrheit ist mit den bedeutungsverdichtenden Komposita verknüpft. Die zur bäuerlichen Zeitrechnung gehörenden Wörter und Ausdrücke sind in erster Linie mit den landwirtschaftlichen Arbeitsprozessen und Feiertagen verbunden, seltener mit solchen Ereignissen, die im Leben der Einwohnerschaft eine bedeutende Rolle spielten. Für die Bezeichnungsübertragungen ist es charakteristisch, dass mehrere Beispiele aus den ungarischen Mundarten eher der metaphorischen Untergruppe angehören als der metonymischen.
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Wegen ihrer größen Anzahl scheint es noch nützlicher zu sein, einige Schlüsse aus der Untersuchung der bedeutungsverdichtenden Komposita zuziehen. So erkennt man, was die Bevölkerung der einzelnen Landschaften oder Siedlungen in den bedeutungsverdichtenden Komposita womit verglichen hat, d.h. mit welcher – in dem Erstglied genannten – Sache sie den Bedeutungsgehalt des Hinterglieds kontrastiert. Dass der mit der Natur in alltäglicher Beziehung lebende Mensch aus einer bestimmten Begriffklasse das Vergleichende auswählt, hängt natürlich mit seiner Tätigkeit zusammen. So spielten z. B. in Szeged und in einigen Nachbardörfern die Fischerei und die Wasserwirtschaft immer eine wichtige Rolle, verursacht durch die Nähe des Flusses Theiß. So ist es verständlich, dass die Einwohnerschaft dieser Siedlungen den Gegenstand des Vergleichs für die Bezeichnung irgendeines Eigenschaftsbegriffs aus gerade diesem Gebiet des Volkslebens gewählt hat, vgl. z.B.: gólyalábú ‚langbeinig, storchbeinig‘, go˝dénybélu˝ ‚Fressling, Vielesser‘ (< gödény ‚Pelikan, Kropfgans‘ + bél ‚Darm‘ + -u˝ Suffix), harcsabajusz ‚Schnauzbart‘ (< harcsa ‚Wels‘ + bajusz ‚Schnurrbart‘), keszegseggu˝ ‚spindeldürr, rappeldürr‘ (< keszeg ‚Weißfisch‘ + segg ‚Hinterteil‘ + -u˝ Adjektivsuffix). Außerdem hängt das offensichtlich mit der alten Tradition der Viehhaltung und des Obstbaus zusammen, sodass entsprechende Komposita auch in Verbindung mit diesen viel häufiger in der Umgebung von Szeged vorkommen als in anderen Landschaften des ungarischen Sprachgebiets, siehe dazu z. B. diese: juhfarkalma ‚Schafschwanzapfel‘, kecskecsöcsu˝ <szo˝lo˝> ‚Griechische Trauben; Geißtutteln‘ (< kecskecsöcs ‚Ziegeneuter‘ + -u˝ Adjektivsuffix), lánycsöcsu˝
6. Schlussbemerkungen Aufgrund einer Analyse des Materials der berücksichtigten vierzehn Dialektwörterbücher lässt sich feststellen, dass relativ bedeutende Unterschiede in der Anzahl der anschaulichen, bildhaften Dialektwörter zwischen bestimmten Gegenden und Siedlungen auftreten. Das erscheint noch eindeutiger, wenn man in den Mundarten mehr solcher Elemente entdeckt als in der Standardsprache. Was die in der ungarischen Standardsprache vorliegenden anschaulichen Wörter be-
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trifft, so ist ein großer Teil davon mundartlicher Herkunft. Es wäre gewiss sehr lehrreich und auch nützlich zu analysieren, wie oft diese bildhaften Lexeme in den verschiedenen Sprachen und in ihren Dialekten vorkommen. In einer Studie hat Ruoff die Wechselbeziehungen zwischen der Dialektologie und dem Schulunterricht untersucht und er hat z. B. auch auf die Anschaulichkeit, Bildlichkeit, Konkretheit der Mundarten hingewiesen: „Die zuletzt genannten Texte von Mundartaufnahmen scheinen mir die günstigsten Hilfen im Oberstufenunterricht zu geben, weil der Lehrer authentische Mundartbelege als Handhaben hat, um den Ausdrucksreichtum der Mundart darzutun, um deren grammatische Formen zu erklären, um die Schüler zu sensibilisieren für den Unterschied der Gattungen, um ihnen zu zeigen, wie anschaulich, bildhaft, konkret, drastisch Mundart sein kann, und das mit welch knappen Mitteln aus welcher Fülle von Wörtern, Wendungen, Formeln!“(1989: 133–4). Mir kommt es vor, dass die anschauliche Wörter und Ausdrücke in ungarischen Mundarten und in der ungarischen Standardsprache vielleicht in größerer Anzahl auftreten als z. B. im Deutschen. Es wäre nützlich und wissenswert, wenn jemand (z. B. ein ungarischer Germanist) auch diese Problematik untersuchen würde. All das könnte freilich im Zusammenhang auch mit anderen Sprachen lohnenswert sein, denn im Wortschatz widerspiegeln sich nicht nur die alten Zeiten und die geschichtliche Vergangenheit, sondern auch die Betrachtungsweisen aller Völker.
Literatur Csu˝ry, Bálint 1933: A szamosháti szótár [Das Wörterbuch der Szamoshát-Gegend]. Magyar Nyelv, 29: 65–82. Deme, László 1978: A beszéd és a nyelv [Das Sprechen und die Sprache]. Tankönyvkiadó, Budapest. Forgács, Tamás 2001: Ungarische Grammatik. Edition Praesens, Wien. Hartmann, Dietrich 2005: Bildhafte Strukturen im umgangsprachlichen und standardsprachlichen Wortschatz des Deutschen. In: Bayerische Dialektologie. Akten der Internationalen Dialektologischen Konferenz 26.–28. Februar 2002. Herausgegeben von Sabine Krämer-Neubert und Norbert Richard Wolf. Universitätsverlag Winter. Heidelberg, S. 155–170. Károly, Sándor 1970: Általános és magyar jelentéstan [Allgemeine und ungarische Bedeutungslehre]. Akadémiai Kiadó, Budapest. Ruoff, Arno 1989: Dialekt als Gegenstand des Schulunterrichts. Praktische Beispiele aus Baden-Württenberg. In: Sprache und Dialekt in Oberösterreich.Vor-
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träge der 1. Arbeitstagung am 13. und 14. Mai 1988 in Schloß Zell a. d. Pram. Herausgeber: Johann Lachinger, Hermann Scheuringer, Herbert Tatzreiter. Linz, S. 125–139. Szabó, József 1986: A nagykónyi nyelvjárás [Die Mundart von Nagykónyi]. Szekszárd. Szabó, József 2000: Koppány menti tájszótár [Das Wörterbuch der Koppány-Gegend]. Wosinsky Mór Megyei Múzeum, Szekszárd. Szabó, József 2005: Dialektwörter deutscher Herkunft in der Mundart von Nagykónyi und ihr geschichtlicher Hintergrund. In: Bayerische Dialektologie. Akten der Internationalen Dialektologischen Konferenz 26.–28. Februar 2002. Herausgegeben von Sabine Krämer-Neubert und Norbert Richard Wolf. Heidelberg, S. 313–325. Temesi, Mihály 1961: A szójelentés. [Die Wortbedeutung]. In: A mai magyar nyelv rendszere. [Das System der heutigen ungarischen Sprache.] I. Hrsg.: Tompa József. Akadémiai Kiadó, Budapest, S. 143–192. Végh, József 1935: Adalékok a rokon értelmu˝ szavak keletkezéséhez. [Angaben zur Entstehung der sinnverwandschaftlichen Wörter]. Debrecen. Wiesinger, Peter 1983: Deutsche Dialekgebiete außerhalb des deutschen Sprachgebiets: Mittel-, Südost- und Osteuropa. In: Dialektologie. Ein Handbuch zur deutschen und allgemeinen Dialektforschung. Herausgegeben von Werner Besch, Ulrich Knoop, Wolfgang Putschke, Herbert Ernst Wiegand. Zweiter Halbband. Walter de Gruyter, Berlin-New York, S. 900–930.
Debreceni utca 22 H-6723 S z e g e d Ungarn
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II. BESPRECHUNGEN
Celtica, Vol. XXIV. In memory of Brian Ó Cuív. Ed. by Malachy McKenna and Fergus Kelly. Dublin: School of Celtic Studies. Dublin Institute for Advanced Studies 2003. (VI +) 369 S. gr. 8°. ISBN 1-85500-186-1, ISSN 0069-1399. Der Tradition dieser 1946 gegründeten keltologischen Zeitschrift des Dublin Institute for Advanced Studies (DIAS) folgend, dient der vorliegende Band gleichzeitig als Gedächtnisschrift (GS) für einen prominenten Keltologen; es handelt sich hier um Brian Ó Cuív (1916–2000), der bereits durch die Festschrift Celtica XXI (1990) zu seinen Lebzeiten geehrt worden war.1 Der durch zwei Review Articles (285–330) und 12 Reviews (331–369) abgeschlossene band enthält 23 Artikel, darunter einen, der sich auf den Keltologen bezieht, dessen Andenken durch die GS geehrt wird: R. Ó Maolalaigh. A title index of Brian Ó Cuív’s publications 1942–71 (270–279). Dem Charakter der vorliegenden Zeitschrift entsprechend, überwiegt auch bei den übrigen Beiträgen das Irische (15), gefolgt von Gallisch (2), Kymrisch (2), Hiberno-Lat. (2), Protokelt. (1). Zu den auf das Irische bezogenen Studien gehören Jacqueline Borsje and Fergus Kelly: ,The Evil Eye‘ in early Irish literature and law (1–39). Der Aufsatz ist in zwei Abschnitte unterteilt: J. Borsje: Part I: Early Irish examples of the evil eye (1–33). F. Kelly: Part II: The Evil Eye in early Irish law (34–39). Daß der „böse Blick“ weit über das Irische hinausgeht, wird von der Vf. S. 2 ff. durch eine Reihe von Belegen gezeigt2, ehe sie auf irisch (ir.) súil milledach „a destructive eye“ zu sprechen kommt: „The most famous person with such an eye in early Irish literature is Balor King of the Fomoire, described in Cath Maige Tuired (4). Eine Reihe der Beiträge behandelt philologische Probleme des älteren Irischen, darunter C. Breatnach: Manuscript sources and methodology: Rawlinson B 502 and Lebar Glinne Da Loche (40–54); Johan Corthals: The rhymeless Leinster Poems: diplomatic texts (79–100): Die Studie impliziert einen kritischen Bericht über die Diskussion dieser archaischen „non-syllabic rhyming, and rhymeless, poetry from the genealogical tract on the ruling families of Leinster, which was first edited by Kuno Meyer“ (79); Gerald Maning: The later marginalia in the Book of Leinster (213–222).
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Zu den als GS dienenden Bänden von Celtica gehören außerdem: III (1956): Johann Caspar Zeuss (1806–1856), V (1960): Richard Irvine Best (1872–1959), VI (1963): Michael A. O’Brien (1896–1962), XI (1976): Myles Dillon (1900–1972), XIII (1980) und XV (1983): Cecile O’Rahilly (1894–1980), XXIII (1999): James Patrick Carney (1914–1989). In dem S. 2 lediglich in englischer Übersetzung gegebenen Plinius-Zitat wird verwiesen auf „Nemesis as a protecting deity against the evil eye“ (S. 2 Fußnote 6).
Indogermanische Forschungen, 112. Band 2007
DOI 10.1515/IDGF.2007.017
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Sprachwissenschaftliche Fragen des Irischen sind Gegenstand der Studien von T. M. Charles-Edwards: Dliged: its native and latinate usages (65–78), Kevin Murray: Lulgach ,a milch cow‘ (223–224), Malachy McKenna: Grammatical gender in a nineteenth-century Ulster text (182–204). Der erstgenannte Aufsatz behandelt ein Problem, dessen grundsätzliche Bedeutung weit über das Irische hinausgeht: „Some old Irish words have two distinct semantic ranges. On the one hand they have a range of meanings not determined by Latin; on the other, when Latin influence is clearly present, typically in a learned register, they can be used in quite different senses“ (65).3 Andererseits hätte bei air. dliged ,loi, principe, norme, règle, raison‘; loi ,droit, devoir‘4 „the standard Irish term for Latin ratio and dictum (sententia)“ (65), die keltische und idg. Etymologie in die Diskussion einbezogen werden sollen.5 Eine Basis für die Diskussion protokelt. Probleme bietet die Studie von K. McCone, Old Irish na nni: a case of quid pro quo? (168–181). Im Prinzip berechtigt ist die Zurückweisung von P. Schrijvers Interpretation von kelt. *sin < *sim „as the neuter of *so“ (169).6 Weitere Bemerkungen im Anschluß an McCones Studie: a) Keltiberisch (Kib.) soz < *sod (172). Das bereits von Rez., BBCS 26 (1976) 389 als Pronomen diskutierte Wort wird häufig auf *sod < *tod zurückgeführt7. Andererseits wird der Lautwandel von *sod > soz im Auslaut nicht allgemein anerkannt.8 Während demnach die Lenierung von -d > -z im Auslaut eher abzulehnen ist, könnte das -d im vorliegenden Falle eine intervokalische Position einnehmen, wenn sich das nachfolgende auku(e) als enklit. Partikel erklären läßt9; soz
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Typische Belege für lat. beeinflußte Lehnübersetzungen finden sich in der grammat. Terminologie; vgl. z.B. áinsid accusative case als Ableitung von ad.nessa, áinsid lampoons, censures, reproaches; die griech. κ « als Ableitung von das Bewirkte beweist, daß air. áinsid die verfehlte Lehnübersetzung des Lat. (accusativus nach accusare) nachvollzieht; zu lat. accusativus vgl. F. A. Trendelenburg, in: J. Wackernagel, Vorlesungen über Syntax I (Basel 21926) 19; zur air. Lehnübersetzung nach dem Lat. vgl. Rez., in: Recht – Wirtschaft – Kultur. FS Hans Hablitzel (Berlin 2005) 284. J. Vendryes, LÉIA-D (1996) 107. Vgl. Vendryes, LÉIA-D 107 f.: ky. dylu il doit, il a droít à, got. dulgs Schuld, abg. dlчgч «. Die bei Vendryes angesetzte Theorie einer Entlehnung der slav. Belege aus dem German. bedarf der Überprüfung. Vgl. P. Schrijver, Studies in the History of Celtic Pronouns and Particles (Maynooth 1997) 43. Vgl. die Literatur bei Wodtko, MLH V.1 (Wiesbaden 2000) 339–341. Zur analogischen Übernahme des *s von *so statt *tod vgl. Rez., IF 100 (1993) 283. Vgl. Rez., Studia Celtica et Indogermanica. FS W. Meid (Budapest 1999) 438; De Bernardo Stempel, Actas del VIII Coloquio Internacional sobre Lenguas y Culturas Prerromanas de la Península Ibérica (Salamanca 2001) 329f. Nach Wodtko [Fußnote 7] 339 ist soz zweimal belegt: 1) letontu auz soz; 2) soz auku(e). Von den bei Wodtko 1.c. 53 f. diskutierten Etymologievorschlägen für auku(e) ziehe ich den von Hamp als *au-ku(e) = griech. σ vor.
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auku(e) genügt dann der Definition der Kategorie Wort (parola), wie sie letztlich wieder von P. Ramat, Pagine linguistiche (Roma – Bari 2005) 23 gegeben worden ist10. b) soz < *tod begegnet in dem kib. Passus soz auku(e) arestalo tamai. Trotz Untermann, MLH IV (1997) 565 und wodtko 2000 [Fußnote 7] 38 scheint mir wegen der sich dadurch ergebenden Interpretationsmöglichkeit die Lesung arestalo (statt arestaso) vorzuziehen zu sein11. Das von W. Meid12 mit Vorsteher übersetzte Kompositum are-stalo enthält im Vorderglied das Äquivalent von gall. are-, air. air usw.; als Hinterglied ist idg. *steh2-lo- oder *sth2-lo- anzusetzen. Wenn Klingenschmitts – von Rix et al., LIV (22001) 590 f. akzeptierte – Etymologie von armenisch ert’am ich gehe < *per-stisth2- (mit Reduplikationsverlust) richtig ist, läge im Armen. ebenfalls eine Komposition vor. c) tamai = damai gehört zur Wurzel *dheh2- (LIV2, 136 f.), wobei sich aus semantischen Gründen die Rückführung auf *dhomai (Dat. Sg. oder Lok. Sg. des a-Stammes *dho-ma) anbietet13: vgl. got. doms m. Urteil, Ruhm, ags. dom Meinung, Sinn, Urteil, Gericht, ahd. tuom Urteil, Tat, Sitte, Zustand (Pokorny, IEW 238)14. d) Als Übersetzung für den ganzen Passus soz auku(e) arestalo tamai ergibt sich: „Dies (soz) aber (auku[e]) ist gemäß der Anordnung (tamai) des Vorstehers“15, wobei diese Analyse durch zwei syntaktische Regeln bestätigt wird: 1. Wackernagels Gesetz mit der Partikel auku(e) an zweiter Position; 2. Gen. Attribut arestelo steht vor dem dazugehörigen Determinatum tamai. e) Abzulehnen ist die von Vf. vorgenommene rückführung von kib. gabizeti (Bot. I A 3) auf *gabiyeti: Die Hypothese dient dem Zweck, zu beseitigen „the strongest evidence currently available for Celtiberian z < |s|“ (171). Die Theorie ist durch eine Reihe von Hypothesen belastet: ) „that Celtiberian underwent a typologically unsurprising strengthening *-iyV(-) > *-iBV(-) (> *-izV(-)?) also seen independently in British Celtic“ (171). ) Das von Vf. als Parallele für die Lautentwicklung herangezogene noviza (Bot. III 01) ist unsicher und selbst erklärungsbedürftig16.
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„The prototypical word has the following characters: cohesion (it cannot be interrupted …); autonomy (clitics or endings are not words since they cannot appear in isolation); mobility (a word can take different positions in the sentence; clitics or endings cannot).“ Zu den idg. Nomina agentis auf *lo- vgl. letztlich R. Stempel, Die infiniten Verbalformen des Armenischen (Frankfurt a. M./Bern/New York 1983) 40–48. Meid, Die Erste Botorrita-Inschrift. Interpretation eines keltiberischen Sprachdenkmals (Innsbruck 1993) 86. Zum Übergang von *o > *a im Kelt. vgl. Thurneysen, GOI 35f. Der Wurzelansatz in tamai = damai könnte aber auch *dhh2- sein. Anders Meid 1993 [Fußnote 12] 117, der ausgeht von dëma Erlaubnis zu air. daimid gestattet, gewährt, läßt zu, Prät. dámair (langvokalisch) und Imperativ 2. Sg. gall. dama (Lezoux) und auch andere Lösungsvorschläge diskutiert. Vgl. auch Rez., IF 100 (1995) 283. Vgl. die Diskussion bei Wodtko 2000 [Fußnote 7] 283f. und s. Rez., ZCP 52 (2001) 261f.
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) Zu gabizeti < *ghabh-i-s-e-ti liegen in Bot. I eine Reihe von Parallelbildungen für den themat. s-Konjunktiv 3. Sg. vor: robizeti < *pro-bhih2-s-e-ti : Wurzel *bheih2-, *bhih2- schlagen, auzeti: vgl. Wodtko 2000 [Fußnote 7] 51f.; bei ambitiseti < *mbhi-dhig-s-e-ti und robiseti < *pro-bhid-s-e-ti erklärt sich die fehlende Lenierung des -s- durch die auf intervokalische Konsonantengruppen aus Verschlußlaut + s zurückgehende Position des Sibilanten17. ) Die Schwundstufe der Wurzel beim themat. s-Konjunktiv war von Rez. bereits BBCS 26 (1976) 387 als kib. Innovation festgestellt und später wiederholt durch den Einfluß der Nasalpräsentien erklärt worden (vgl. z.B. Rez. 1999 [Fußnote 8] 436; idem 2001 [Fußnote 17] 60618. ) Die Morphologie von gabizeti bestätigt demnach den Übergang von kib. s > z in intervokalischer Position und falsifiziert Untermann, MLH IV (1997) 382; 394 ff., nach dem das von Untermann als -B- angesetzte intervokalische und auslautende -z- stets auf -d- zurückzuführen ist19. ) Es sei hinzugefügt, daß die Lenierung von intervokalisch s zu z ein phonetisch naheliegender Prozeß ist, für den Parallelen aus anderen idg. und kelt. Sprachen vorliegen20. ) Da die Lenierung von auslautendem -d > -z nicht gesichert ist, muß die von Meid 1993 [Fußnote 12] 117 vorgeschlagene Rückführung der Endung -tuz (3. Sg. Imper. Fut.) auf *-tod durch eine andere Interpretation ersetzt werden, d.h. durch den Ansatz eines Morphemagglutinates -tu + enklitisches Pronomen -z, das nach der Theorie von De Hoz 1981 „recoge al objeto directo expressado anteriormente“21.
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Zur Morphologie von -s-e- vgl. Rez. in: F. Villar und M.a Pilar Fernández Álvarez (Eds.), Actas del VIII Coloquio Internacional sobre Lenguas y Culturas Prerromanas de la Península Ibérica (Salamanca 2001) 606f. Es gehört zu den Oberflächlichkeiten von St. Schumacher, Die keltischen Primärverben (Innsbruck 2004) 224, daß er diese Erklärung der Einfachheit halber ignoriert, wenn er feststellt: „Wie in Einleitung § 5.2.2.4 ausgeführt, nehme ich an, daß die Wurzelsilbe beim se/o-Konjunktiv ursprünglich vollstufig war und daß das Keltiberische einzelsprachlich die Ablautstufe des Präsens eingeführt hat.“ Villar, der die Differenzierung zwischen s´ = [s] und s = [z] im iberischen Alphabet als erster gesehen hat (vgl. Actas del V Coloquio Internacional sobre Lenguas y Culturas Prerromanas de la Península Ibérica, Salamanca 1989, 773ff.), setzt als Lenierungsprodukt *d > z an (nicht: *d > B). Abwegig ist die Analyse von kabizeti als Verbalkompositum *ka(m) + biBeti durch Untermann, MLH IV (1997) 414 und Schumacher 2004 [Fußnote 18] 225. Vgl. westgerm. (ags. as. ahd.) lesan [d. h. lezan] vs. got. lisan sammeln, arm. (mit Schwund des s) nu Schwiegertochter < *snusós, griech. (mit Übergang über h zu Null): hom. , ich war : ai. asam, kehre heim : -« Heimkehr, air. (mit Übergang über z zu Null): iarn iron : got. eisarn (Thurneysen, GOI 132). Vgl. J. Gorrochategui, in: Memoriae L. Mitxelena. Magistri Sacrum (San Sebastián 1991) 29; vgl. auch Rez. 1999 [Fußnote 8] 438f. Zur analogischen Verallgemeinerung von *-tus > -tuz im Auslaut vgl. De Bernardo Stempel 2001 [Fußnote 8] 329.
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) Wenn man für -tuz den Imperativ auf -tu + enklit. Pronomen *-so ansetzt, würde sich die Lenierung des intervokalischen -s- (in: *-tu-so) lautgesetzlich erklären. Eine typologische Parallele für den Schwund des auslautenden Vokals wäre air. ed „es“22. Heerstr. 74 53340 Meckenheim
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Karl Horst Schmidt
Vgl. Thurneysen, GOI 283, der zu ed bemerkt: „This, together with the retention of -d, suggests that at one time a neutral vowel (-a?) was appended; cp. Goth. it-a; vgl. auch Schrijver 1997 [Fußnote 6] 177ff., der jedoch Thurneysen ignoriert. Zur Suffigierung des -z im Kib. – auch bei Verbalkomposita – vgl. Rez., ZCP 54 (2004) 204.
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