Premessa
La pubblicazione della tesi di Pierre Toubert ha suscitato, nell'ultimo ventennio, Un notevole incremento di indagini, sia sulle fonti scritte che sul terreno della ricerca archeologica, volte a precisare il processo dell’incastellamento. I risultati di tali indagini hanno inoltre dato luogo a colloqui che si sono svolti a intervalli regolari (Castelli:storia e archeologia, Cuneo, 1981; Structures de l'habitat et occupation da sol dans les pays méditerranérs: les méthodes et l'apport de l'archéologie extensive, Parigi, 1984; Lo scavo archeologico di Mortarrerti e i problemi dell'incastellamento medievale. Esperierze a confronto, Siena, 1988; L'incastellamento virtarysdeprés, Girona 1992). Le domande poste dall'incremento delle problematiche, messe in campo attraverso relazioni e discussioni, hanno rapidamente suscitato, presso un certo numero di ricercatori che lavorano nell'ambito della storia socio-economica e delle dinamiche insediative in Italia, un crescente interesse per il periodo immediatamente anteriore all’incastellamento" e per la stessa fase di transizione fra tarda antichità e l'alto medioevo. Nel corso degli ultimi anni si è contestualmente sviluppato un ampio dibattito storiografico sull'alto medioevo in generale, grazie soprattutto ai primi risultati qualitativamente e quantitativamente significativi della ricerca archeologica sia nell'ambito rurale che urbano: rimangono comunque aperti vasti problemi la cui interpretazione suscita talvolta un vivace confronto. La costruzione dei nuovi documenti e la loro interpretazione sono frequentemente oggetto di riflessione nel corso di seminari o di incontri settoriali o di pubblicazioni con carattere specialistico, e recentemente sono stati alla base di approfondimenti in ambito regionale o di elaborazioni di aspetti materiali ben definiti, ma non hanno ancora raggiunto un grado di elaborazione suscettibile di giungere a tentativi di sintesi. Per questo motivo il Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell'Università di Siena e l'École francaise de Rome hanno giudicato che fosse il momento opportuno per organizzare, un collaborazione con la rivista Archeologia Medievale, in convegno internazionale dal titolo “La Storia dell'Alto Medievo italiano (secoli VI-X) alla luce dell'archeologia'' che si è tenuto a Siena da mercoledì 2 a domenica 6 dicembre 1992. Negli intenti degli organizzatori del convegno e dei curatori del volume vi è stato quello di dar luogo ad una pubblicazione che offrisse non tanto un quadro sintetico ed esaustivo, quanto piuttosto lo stato dell'arte sul problema. Gli atti raccolgono infatti le relazioni e gli interventi svolti nelle sei intense mezze giornate di convegno. L'incontro si è incentrato, come già sottolineato, sull'Italia e sulle sue diverse componenti etniche e/o politiche (gote, bizantine, longobarde, carolingie, ottoniane, arabe), senza escludere tuttavia l'introduzione puntuale di elementi comparativi riguardanti le stesse sfere culturali, del bacino orientale del Mediterraneo. Quanto ai limiti cronologici, sono stati fissati in modo da coprire nella maniera più completa possibile il passaggio dall'assetto tardo-antico al sistema medievale, fino all'incastellamento", senza per altro affrontare organicamente quest'ultimo problema. L'occasione è stata offerta da una collaborazione tra specialisti della tarda antichità e dell'alto medioevo, che, lavorando in campi tradizionalmente separati, non si incontrano sistematicamente ed in questo caso invece sono stati invitati a confrontare le loro problematiche e i loro metodi. L'incontro aveva l'obiettivo di costruire un quadro di riferimento utile per una storia socio-economica globale del periodo, associando i dati documentari con quelli della ricerca sul campo. Si è tentato inoltre di dare un largo spazio alle ricerche testuali, ma aperte all'archeologia, e assemblare la considerevole informazione che è stata fornita in questi ultimi anni dalla ricerca estensiva e da quella intensiva, evitando, quanto più possibile, i contributi che si limitassero a fornire informazioni su singoli casi.
L'aspetto interdisciplinare è stato posto in primo piano, facendo appello ai più recenti sviluppi delle diverse tecniche in questi campi, per un confronto di obiettivi, metodi e risultati. Con queste premesse le comunicazioni, che sono state intenzionalmente ridotte nel numero, dovevano essere finalizzate a presentare quadri generali e problematici e stimolare quindi una discussione collettiva, alla quale sono stati invitati a partecipare un notevole numero di studiosi. I temi, individuati come particolarmente significativi riguardo alle ricerche e all'attuale dibattito, sono stati: le nuove etnie, lo stato e le strutture "macro-economiche"; la produzione e gli scambi; la città e gli assetti rurali, cercando di tenere sempre ben presente come gli elementi di trasformazione dell'alto medioevo sono segnati dalla dinamica dei rapporti tra i centri di potere politico, amministrativo, religioso, e lo spazio dominato, e dalla dialettica dei movimenti di concentrazione e dispersione degli insediamenti, con l'obiettivo di mettere a fuoco anche il terreno su cui si innestò il processo di "incastellamento". Si è ritenuto inoltre opportuno stimolare la presentazione di alcuni quadri regionali, allo scopo di valorizzare e poter valutare più compiutamente in una scala accettabile una grande quantità di ritrovamenti locali e di studi particolari ancora inediti o pubblicati in maniera dispersa e poco accessibile. Quando è stato possibile questi quadri regionali sono stati presentati da più ricercatori, invitati ad operare in forma di gruppo: I'Italia è stata così divisa in aree geografiche e gli interventi relativi a queste sono stati simmetrici al grado di avanzamento della ricerca e alle prospettive inizialmente impresse all'indagine sul campo. È per questi motivi che gli interventi, durante il convegno, sono stati articolati in giornate a carattere tematico e a carattere geografico. Va da sé che gli altri problemi fondamentali, quali quelli relativi ai luoghi di culto e alle inumazioni, come alle singole situazioni e strutture materiali, sono stati affrontati nei diversi settori prestabiliti. In sostanza i risultati acquisiti nel corso del convegno ci pare che abbiano contribuito a rinsaldare quel dialogo essenziale che deve caratterizzare l'operare degli storici che abitualmente si confrontano sulle fonti scritte e quelli che lavorano prevalentemente sulle fonti materiali. Hanno fatto parte del comitato scientifico dell'incontro G.P. Brogiolo, R. Francovich e D. Manacorda, docenti dell'Università di Siena e L. Pani Ermini, dell'Università di Roma "La Sapienza" per la parte italiana e J. Dalarun, direttore degli studi medievale all'École francaise de Rome, con G. Noyé e P. Pergola, ricercatori del C.N.R.S. e collaboratori dell'École, con il concorso di C. Wickham, dell'Università di Birmingham. RICCARDO FRANCOVICH GHISLAINE NOYÉ
La fine del mondo antico e l'inizio del medioevo: nuovi dati per un vecchio problema
Se dovessi definire sinteticamente il contributo della recente ricerca archeologica alla conoscenza dell'alto medioevo italiano, direi che consiste nell'aver riproposto con nuovi argomenti un problema che già aveva impegnato la storiografia italiana a partire dall'Ottocento: quello della rilevanza conservata da aspetti essenziali del mondo antico nelle origini del medioevo; il problema, cioè, della continuità. Nel secondo dopoguerra, la storiografia italiana sembrava aver sostanzialmente chiuso la questione, pronunziandosi per una cesura fra l'età antica e quella medievale, determinata dall'invasione longobarda, cui essa addebitava non solo il sovvertimento dell'organizzazione politica della penisola, ma anche profonde trasformazioni della società, dell'economia, dell'insediamento. All'origine di questa lettura è la riflessione di Giampiero Bognetti, il che vale quanto dire che essa coinvolge direttamente anche la ricerca archeologica. Bognetti, nel quale credo che si debba riconoscere ancor oggi il capostipite di quanti si sforzano di coniugare storia e archeologia medievale in Italia, giunse infatti a formulare la sua interpretazione non solo attraverso le testimonianze relative al diritto ed alla politica, ma anche, e in egual misura, attraverso la documentazione materiale ed artistica, che al suo tempo si veniva identificando e sistemando sulla base del metodo archeologico 1. Tuttavia il giudizio di cesura da lui formulato era frutto di una concezione che riteneva oggetto proprio della storia la civiltà, intesa come realtà etica. Il significato storico dell'alto medioevo italiano era da lui posto nel drammatico e fecondo scontro tra due mondi culturali e morali antagonisti: quello dei germani invasori e quello ellenistico-mediterraneo variamente rappresentato sul suolo italiano: I'esito dello scontro sarebbe stato l'Italia dei comuni, tutt'altra cosa rispetto all'Italia dei municipi romani, proprio per il principio germanico che le si era incorporato e la rendeva europea. Durante e dopo la seconda guerra mondiale, Bognetti si era infatti dovuto cimentare col problema di definire l'unità della civiltà europea, così gravemente lacerata dalla guerra, e in particolare il ruolo che in essa andava riconosciuto alla componente germanica. Nonostante le circostanze rendessero assai problematico tale riconoscimento, Bognetti nobilmente trasferì nella valutazione di un'altra, più remota epoca barbarica, la reverenza per la grande cultura tedesca dell'Ottocento e del Novecento, e sostenne che il principio germanico ebbe un ruolo creativo, accanto ai principi trasmessi dall'eredità classica, fin dal momento in cui si presentò con le invasioni. Per questo l'innesto dei germani nella storia d'Italia non poteva che segnare l'inizio di una nuova era. L'impostazione odierna degli studi pone in primo piano i mutamenti di struttura, anziché quelli di civiltà. Mi sembra che questo possa essere un riflesso, nell'indagine sul passato, dell'interesse per i macrosistemi politico economici che nel mondo attuale sovrastano ed inglobano le collettività e condizionano l'esistenza delle economie regionali. Il mondo tardoantico si presenta come un esempio evoluto e complesso di tali macrosistemi e sembra possibile incorporare tra le sue componenti anche i conflitti di sottosistemi culturali quali diventano, in questa prospettiva, le società di tradizione romana e quelle di tradizione barbarica 2. I termini della periodizzazione mutano: il mondo antico sembra prolungare la sua esistenza oltre le scansioni suggerite dai fenomeni etico-politici, mentre l'alto medioevo come periodo storico identificato da strutture nuove, ritarda sempre più il proprio inizio. Una prospettiva che ha trovato recentemente espressione perfino provocatoria in saggi storici che hanno sostenuto la durata di essenziali aspetti dell'organizzazione tardo antica nel campo sociale, produttivo, fiscale e finanziario, fino all'età carolingia e anche oltre; fin quando cioè non sia sembrato agli storici sufficientemente maturo un sistema di relazioni sociali ed istituzionali, che per la sua novità può essere finalmente considerato medievale. Un tempo che per l'Italia potrebbe corrispondere addirittura a quello dell'incastellamento e della signoria locale 3. La ricerca archeologica non ha prodotto ricostruzioni tanto radicali; tuttavia sia per la natura dei fenomeni con cui ha attinenza la sua documentazione specifica, sia per il ruolo di primo piano che
hanno avuto in essa studiosi di formazione antichistica, ha spesso letto la sequenza dei fenomeni in chiave di trasformazione del mondo antico, piuttosto che di genesi di quello medievale. L'Italia poi, dove l'impronta della civiltà antica ha avuto rilevanza e tenuta particolari, costituisce un campo propizio per osservazioni di tale genere, sicché nei numerosi studi ad essa recentemente dedicati, il rapporto tra antichità e medioevo perde il carattere di drammatica contrapposizione e l'alto medioevo si configura piuttosto come un lungo processo di trasformazione dei rapporti tra le componenti della struttura antica che non come catastrofica sostituzione di un sistema con un altro 4. In questa introduzione prenderò dunque in esame alcune linee rilevanti seguite dalla ricerca archeologica negli ultimi vent'anni, per vedere come attraverso di esse si congiurino i grandi processi di trasformazione e fino a che punto sia ancora possibile individuare una periodizzazione in cui i primi secoli del medioevo possano essere considerati un'epoca di esordi, anziché di sopravvivenze 5. Uno degli aspetti archeologici più minuziosamente indagati relativamente alle trasformazioni del sistema tardo antico in Italia, è costituito dalla progressiva riduzione, fino alla cessazione completa, dell'importazione di merci provenienti da vari paesi del bacino del Mediterraneo. Il processo, ricostruito sulla base della quantità e della distribuzione dei resti di ceramica da mensa africana e di anfore da trasporto africane e orientali, presenta un andamento ormai ben conosciuto grazie a numerose e convergenti indagini regionali; fra il III e la metà circa del V secolo, le importazioni appaiono consistenti e distribuite in tutta la penisola, anche se con prevalenza delle regioni centro-meridionali; dalla seconda metà del V e sempre più marcatamente nel corso del VI secolo, la diffusione delle merci importate si riduce e la loro quantità diminuisce anche nei centri in cui continuano ad esser presenti; nel VII secolo quantità e diffusione si contraggono ulteriormente fino a cessare completamente nella seconda metà del secolo 6. Il processo ha dato luogo ad interpretazioni diverse ed in parte contrastanti. Sulle prime, quando il fenomeno venne percepito nella sua consistenza e coerenza, fu messo in relazione con una crisi della società italiana delineatasi già a partire dal IV secolo, e caratterizzata dal progressivo spopolamento delle campagne e dal probabile impoverimento dei consumatori, riflesso nella curva discendente della ceramica importata, soprattutto del vasellame da mensa 7. Questa interpretazione, pur largamente accolta, ha suscitato in seguito riserve basate su due ordini di considerazioni. Relativamente al rapporto tra scomparsa della ceramica da mensa africana nel territorio rurale e ipotesi dello spopolamento, si è osservato che esso non è affatto scontato, perché la popolazione rurale potè disporsi sul territorio in maniera diversa senza per questo diminuire; inoltre il semplice venir meno della ceramica importata non rimanderebbe necessariamente alla scomparsa dell'insediamento, dato che essa potè venir sostituita da produzioni locali ancora poco o niente conosciute per il VI e VII secolo 8. Relativamente poi al significato economico generale del declino delle importazioni di ceramica da mensa e derrate trasportate in anfore, si è osservato che esso non può essere interpretato facendone esclusivamente la conseguenza della caduta della domanda in Italia, perché le importazioni, nel tempo della loro massima espansione, non dipendevano dall'iniziativa di imprenditori commerciali operanti su un libero mercato, ma erano sostenute in misura essenziale dal traffico navale organizzato dallo stato romano per rifornire l'Italia e Roma del grano africano. Quel traffico consentiva il trasporto di merci aggiuntive abbattendone i costi, con vantaggio anche dei mercanti privati. La conquista vandalica dell'Africa avrebbe messo fine al sistema dei trasporti statali, con ciò eliminando anche i vantaggi sul prezzo e sulla disponibilità delle merci, che divennero più costose. La caduta delle importazioni africane dopo la metà del V secolo, dipenderebbe dunque prevalentemente da un'alterazione esterna, anziché da trasformazioni interne della società italiana 8. Le due argomentazioni convergono nel sostenere che dalle variazioni di quantità e distribuzione della ceramica africana recuperata sul territorio italiano non è possibile dedurre linearmente trasformazioni dell'insediamento, della consistenza demografica o del funzionamento economico della società italiana fra IV e VII secolo. L'ipotesi della continuità non verrebbe dunque pregiudicata da questa documentazione archeologica.
E tuttavia ci si può ancora chiedere se la riduzione delle importazioni in Italia sia davvero priva di ogni relazione con trasformazioni strutturali della società italiana. Per quanto riguarda la tenuta dell'insediamento rurale, si può osservare che l'ipotizzata sostituzione del vasellame importato con altro di fabbricazione locale potrebbe esser priva di implicazioni solo se fosse avvenuta simultaneamente dappertutto; ma poiché al contrario sembra che la ceramica africana venga meno in modo progressivo ed irregolare a partire dal IV secolo, una spiegazione consequenziale deve comunque ammettere che il vasellame importato cessò di arrivare e venne sostituito in alcuni siti, mentre continuava a raggiungerne altri, e perciò deve considerare che tra il IV ed il VII secolo si siano determinate differenze di importanza e ricchezza tra gli insediamenti rurali, le quali rimandano comunque a trasformazioni nell'organizzazione economica e sociale delle campagne, se non alla scomparsa degli abitati. Questo dando provvisoriamente per buono l'assunto principale, che cioè l'insediamento rurale non conoscesse sostanziali contrazioni in quei secoli, il che resta peraltro da dimostrare 10. Lo spostamento verso il consumo di manufatti prodotti localmente è esso stesso circostanza rilevante sotto il profilo dell'attività economica, in quanto se da un lato può significare potenziamento della produzione locale, dall'altro può però anche manifestare limitata circolazione dei prodotti, e non solo di quelli ceramici: cioè orientamento verso l'autosufficienza. Una circostanza che rimanda anch'essa a trasformazioni di larga portata. Essenziale per precisare queste implicazioni potrebbe essere l'analisi dei resti di contenitori da trasporto nel territorio, tenuta in secondo piano dalla maggiore evidenza della ceramica da mensa. Queste osservazioni si collegano alle altre che è possibile fare circa il valore da attribuire, nella ricostruzione dei fenomeni d'insieme, all'organizzazione del trasporto e della distribuzione che convogliava in Italia i prodotti di altre terre mediterranee. L'afflusso di merci africane continuò in realtà anche dopo la cessazione dei collegamenti sostenuti dallo stato romano, sebbene i rifornimenti di grano per l'Italia cambiassero provenienza; sembra assai probabile che prendesse allora maggior rilievo l'iniziativa di imprenditori privati, più sensibili alle richieste del mercato. Con queste si può spiegare l'irregolare distribuzione dei resti archeologici nel VI e VII secolo, che non sono diffusi in modo omogeneo sul territorio, ma limitati in misura sempre maggiore alle città e, in progresso di tempo, alle sole città costiere. Inoltre è divenuto più evidente, col precisarsi delle osservazioni, il rilievo percentuale che assumono nel VI e VII secolo le importazioni dall'Egeo e dall'Asia Minore, che sembrano consistere soprattutto in vini ed in altri prodotti non primari 11. Poiché non si ha motivo di credere ad una rinata annona imperiale per l'Italia con provenienza mediorientale, queste importazioni vanno probabil-mente attribuite anch'esse ad imprenditori privati che in parte almeno provenivano dalle stesse regioni da cui giungevano le merci, ed operavano all'interno dei rinnovati rapporti politico-istituzionali fra l'Italia e l'Oriente, ma in relazione al mercato 12. Anche sotto questo punto di vista, la concentrazione delle importazioni nelle città, il carattere suntuario dei consumi, e contemporaneamente la riduzione quantitativa e la successiva cessazione delle importazioni nella seconda metà del VII secolo, debbono essere in rapporto con trasformazioni in corso nella distribuzione, consistenza e ricchezza della società italiana, nonché con la trasformazione dell'organizzazione produttiva interna, costretta a far fronte da sola ai bisogni essenziali e dipendente dall'esterno solo per prodotti sussidiari. Sembra dunque che pur senza discutere gli assunti di base delle tesi ricordate, sia possibile concludere che la curva disegnata dalla quantità e dalla distribuzione della ceramica importata in Italia, abbia comunque rapporto con l'evoluzione delle situazioni interne. La prosecuzione delle importazioni dopo la fine dei trasporti statali fra l'Africa e l'Italia consente di collegare sintomi quali l'esclusione di una parte crescente del territorio dalla circolazione delle merci importate; la mutata natura delle merci stesse e la loro costante diminuzione anche nei centri cittadini; la successiva, pressoché completa cessazione delle importazioni durante la seconda metà del VII secolo, a concomitanti trasformazioni della società italiana, quali la diminuzione dei consumi o dei consumatori; il crescente peso dell'autosufficienza produttiva e, nell'ultima fase del processo, turbamenti del mercato o delle condizioni dei trasporti 13. Se ciò è corretto, se ne trae l'impressione che l'asserita continuità si configuri in realtà come un processo secolare di semplificazione ed impoverimento della fisionomia
culturale ed economica della società italiana, nonché di crescente isolamento all'interno del mondo mediterraneo, almeno sotto il profilo della circolazione dei beni; processo giunto a termine nella seconda metà del VII secolo. Resta sospesa, ma non esclusa, l'ipotesi di un rilevante calo demografico. Assai più ricco di informazioni dirette sulle condizioni interne dell'Italia può essere un altro fenomeno messo in luce dalla ricerca archeologica recente, consistente nelle trasformazioni delle città in un periodo di tempo press'a poco corrispondente a quello definito dalla contrazione delle importazioni di merci, cioè tra il V ed il VII secolo, sebbene anche su esso non solo le interpretazioni, ma la stessa ricostruzione dei fatti siano fortemente divergenti. Gli scavi compiuti in alcune città dell'Italia settentrionale hanno suscitato due diverse proposte di spiegazione globale delle situazioni riscontrate, e nonostante i successivi approfondimenti del dibattito, tali spiegazioni sono rimaste in gran parte contrapposte. Quel che è singolare è che le situazioni di cui si discute sono in larga parte le stesse: trasformazione delle abitazioni cittadine, con diminuzione del decoro e dell'articolazione interni; contrazione della superficie urbana edificata e creazione di spazi aperti, probabilmente destinati a colture agricole, all'interno delle insulae; sepoltura dei morti dentro la città, in aree già destinate ad uso pubblico o anche negli spazi aperti fra le abitazioni 14. Le differenze tra le osservazioni fatte nelle due città che hanno suscitato la discussione, cioè Verona e Brescia, sembrano piuttosto di grado che di natura, in quanto a Verona non si sono riscontrati ulteriori aspetti della trasformazione urbana, quali l'abbandono di quartieri degradati con gli edifici in rovina, o l'obliterazione di percorsi stradali, che concorrono invece a caratterizzare il panorama di Brescia. Le interpretazioni sono peraltro fortemente divergenti proprio nel giudizio sul significato dei fatti. Com'è noto, si è proposto da un lato di intenderli come segno di un processo intenzionale e controllato di trasformazione della città antica operato da una società urbana che conservava autocoscienza, risorse e capacità decisionale; dall'altro come testimonianza di un crescente dissesto determinato da fattori esterni, subito dalla società cittadina, che venne in gran parte dissolta, tanto che ai primi del VII secolo l'abitato in città era ormai rarefatto e caratterizzato da forme di vita rurale, come l'abitazione in capanne e le colture agricole. In questa seconda interpretazione solo verso la fine del VII secolo si possono riscontrare sintomi di ripresa del controllo e dell'organizzazione del territorio urbano che vanno poi rafforzandosi nell'VIII. La discussione sulla bontà dei modelli è stata complicata dal richiamo che entrambi hanno fatto al ruolo dei longobardi nelle trasformazioni ricordate, valutato attraverso la discussione della loro maggiore o minore attitudine ad utilizzare e salvaguardare l'abitato urbano e lo stile di vita cittadino. Indagini archeologiche più recenti, compiute in città dove i longobardi non arrivarono mai o ebbero una presenza poco significativa, consentono di liberare la discussione almeno da questa complicazione, nonchè di definire su una campionatura più consistente i processi di trasformazione delle città italiane. A Roma, che tra l'antichità ed il medioevo rimase certamente la città più popolata d'Italia ed una tra le più assistite e controllate dai poteri statali, un complesso di ricerche svolte recentemente in più settori del territorio urbano ha consentito di riconoscere la presenza di fenomeni analoghi, nella sostanza, a quelli rilevati nelle città dell'Italia settentrionale. Vi si sono constatati infatti l'abbandono delle grandi istallazioni pubbliche come le terme, e la perdita delle funzioni di altre strutture di servizio municipali; lo spopolamento e il degrado, fino al crollo degli edifici, di quartieri residenziali periferici; I'apertura di nuovi tracciati viari attraverso aree monumentali che avevano perso le funzioni originarie; la diffusione dell'uso di seppellire i morti all'interno delle mura, spesso nel perimetro dei monumenti pubblici abbandonati. Tutto ciò nella già identificata cronologia che va dal V al VII secolo e nonostante episodiche iniziative di restauro e ricostruzione 15. Anche a Roma si è constatata la riduzione della superficie abitata complessiva e la concentrazione degli abitanti in quartieri separati da aree in abbandono. D'altra parte il reticolo stradale antico venne almeno parzialmente conservato anche nelle aree abbandonate e degradate, sebbene il livello d'uso delle strade si innalzasse progressivamente e il rivestimento non fosse più in basoli, ma in terra battuta 16.
Una situazione diversa, una piccola città di provincia come Pescara, dov'è stata condotta un'indagine articolata che ha investito larga parte del territorio urbano, ha messo in luce un processo analogo: contrazione dell'abitato con abbandono dei quartieri periferici lasciati rovinare, impoverimento delle tecniche di manutenzione delle strutture restate in uso, tra cui le strade, degenerazione dell'abitazione privata fino alla costruzione, agli inizi del VII secolo, di capanne in legno, anche nell'area centrale e ancora abitata della città. Sintomi che anche in questo caso si associano alla conservazione dei tracciati stradali principali nelle aree abbandonate, la quale dunque perde molto di quel carattere di prova della continuità degli impianti urbani, che le si è spesso attribuito 17. L'esempio di queste due città, cui si potrebbero aggiungere altri dati meno sistematici, ma affini, provenienti da centri dell'Italia meridionale come Napoli e Salerno o da Cagliari 18, mostra che il processo di trasformazione delle città non ha connessioni causali con l'invasione e l'insediamento longobardi, giacché anch'esso si avvia in tutta l'Italia molto prima dell'invasione stessa, e si sviluppa poi tanto nelle regioni longobarde che in quelle romano-bizantine con una cronologia sostanzialmente eguale. Le modalità e i caratteri con cui tale processo si manifesta invitano a chiamare le cose col loro nome, cioè a riconoscere che si trattò di un processo di degrado dell'ambiente urbano, accompagnato da una diminuzione della popolazione. Più ancora della pratica delle colture ortive nel territorio intramurano, mi sembra che autorizzino il termine "degrado", sintomi quali la contiguità di quartieri abitati e quartieri diroccati, il rimpicciolimento e l'impoverimento dell'abitazione privata, l'abbandono dei complessi monumentali già destinati a funzioni pubbliche e servizi collettivi. D'altra parte le nuove osservazioni danno forza all'ipotesi che il processo dovette avere evoluzione diversa nelle varie città, ed essere in alcune più controllato, in altre più devastante, tanto da giungere, in casi estremi, alla cancellazione quasi totale delle strutture urbane. Ciò si accorda bene del resto con la constatazione che circa un terzo delle città romane attestate in età imperiale non esiste più nel medioevo 19; se il rapporto è a favore delle città sopravvissute, va comunque rilevato che una città estinta su due sopravvissute costituisce un fenomeno consistente e che dagli scavi recenti si deve dedurre che anche le città sopravvissute poterono conoscere, nel periodo in questione, e cioè fra il V ed il VII secolo, momenti di accentuato degrado, da cui si ripresero successivamente; come sembra essere stato il caso, oltre che di Brescia, anche di Milano 20. L'andamento che il generale processo di indebolimento urbano assunse in ciascuna città andrà spiegato con la situazione locale. In questa prospettiva si può riconoscere un ruolo anche ai longobardi, soprattutto per gli atteggiamenti che i gruppi ed i potenti locali presero nei confronti della città presso cui si stanziarono, più che per un orientamento culturale proprio di tutto il popolo. Anche nell'area romano-bizantina le città ebbero fortune diverse: quelle che furono sede di poteri politici e amministrativi si mantennero meglio degli insediamenti minori e provinciali: i casi estremi di disgregazione sono probabilmente individuati dalle cattedrali rurali istituite nei territori già facenti capo ad un municipio romano 21. Dunque non tanto l'autocoscienza o la preminenza delle società urbane in quanto dato strutturale immutabile dell'organizzazione territoriale italiana, quanto un complesso di mutevoli circostanze tra cui il rilievo istituzionale e strategico dei singoli centri spiegano il complessivo andamento della trasformazione. Restano, certamente, da individuare le cause generali che avviarono e sostennero questa tendenza all'indebolimento dell'abitato urbano. Ma una tale indagine, che non può valersi di testimonianze dirette, dà luogo a troppe ipotesi, tutte di natura teorica, perché sia il caso di soffermarcisi in questa sede, e d'altra parte non influenza la descrizione dei fenomeni. Su questo più modesto livello si può ritenere che nel momento in cui il degrado fu più accentuato, probabilmente agli inizi del VII secolo, la fisionomia culturale dell'insediamento urbano in Italia fosse, oltre che variegata, sostanzialmente mutata, non solo in quei centri in cui una popolazione rarefatta viveva in un e in rovina ed in condizioni di ridottissimo scambio di beni e servi-zi, ma anche in quelli che conservavano una significativa concentrazione di popolazione, un'attività produttiva
specializzata ed una certa manutenzione dell'ambiente urbano. Anche in essi infatti decadeva l'organizzazione municipale, si era deteriorato l'arredo urbano, si contraeva la disponibilità dei beni c la stessa manutenzione consisteva piuttosto nella conservazione che nella costruzione del nuovo 22. Due distinte serie di osservazioni - quelle sulle importazioni di merci mediterranee e quelle sulle strutture urbane - si sommano dunque nel suggerire che dal V secolo in poi l'Italia fosse investita da un processo che combinando probabilmente cause esterne e cause interne, logorava progressivamente le situazioni strutturali antiche relative all'acquisizione delle risorse, alla consistenza dell'insediamento, alla fisionomia culturale della società. In questo processo il ruolo che sembra di dovere attribuire ai longobardi è quello di essersi inseriti nelle trasformazioni in atto, influenzandole, piuttosto che di averle provocate. Il postulato fondamentale che Bognetti derivò dalla ricerca archeologica tedesca, quello cioè della separazione consapevole e rigida degli invasori germanici dai vinti romani, fondato essenzialmente sull'isolamento dei loro cimiteri e sull'originalità degli usi funerari e della cultura materiale, è messo in discussione oggi dall'identificazione di alcuni cimiteri in cui sembrano seppelliti insieme longobardi e romani, ancora con contrassegni culturali diversi; l'interpretazione corrente che vuole frutto dell'acculturazione dei germani in territorio italiano le trasformazioni dei loro corredi funebri, potrebbe rivelarsi inadeguata alla complessità delle situazioni reali, di fronte agli indizi che fanno ritenere che gli stessi romani accogliessero tratti culturali dei conquistatori, sicché i materiali di corredo non sembrano più costituire un criterio assoluto di identificazione etnica degli inumati 21. Anche un cimitero noto da tempo, come quello di Castel Trosino, promette originali indicazioni in questo senso, se analizzato rinunciando all'ipotesi che contenga solo defunti di stirpe longobarda 24. Anche le trasformazioni indotte dalla conquista longobarda nell'organizzazione sociale ed economica delle regioni conquistate sono state interpretate recentemente come effetto piuttosto di un comportamento politico che di un atteggiamento culturale germanico: lo stato longobardo avrebbe rinunziato ad imporre le tasse sulla proprietà e la produzione della terra, che erano state fondamento della finanza pubblica nell'impero tardoantico, determinando con questo una sostanziale redistribuzione delle risorse economiche interne, da cui vennero modificate sia le attività statali in tutto quel che comportava spesa, sia il tenore di vita delle popolazioni rurali, che migliorò sostanzialmente. Le forme strutturali dell'insediamento e della produzione non si sarebbero perciò modificate per l'innesto delle tradizioni degli occupanti, ma piuttosto, liberate dal peso dei prelievi fiscali, avrebbero più liberamente esplicato le loro tradizionali funzioni 25. In realtà, quest'interpretazione va ancora discussa, dato che, qualunque cosa si debba concludere circa il rilascio di ricchezza in favore dei produttori agricoli - forme di tassazione pubblica e prelievo di rendite signorili poterono continuare ad esistere dopo l'occupazione longobarda - sembra che il passaggio della proprietà fondiaria nelle mani dei conquistatori si accompagnasse a mutamenti nella distribuzione dell'insediamento e nelle tecniche di gestione, se non proprio nel sistema agrario, che poterono risentire delle concezioni sociali tipiche dei longobardi anche se presentano analogie con evoluzioni attestate nei territori bizantini, sicché non si può nemmeno escludere che si collegassero alle trasformazioni già in corso prima dell'invasione 26. I longobardi comunque dovettero influenzare l'organizzazione economica della penisola, intesa come spazio organico, attraverso i limiti imposti alla circolazione dei beni dalla loro attività militare e politica. In questo senso l'occupazione dovette influenzare l'evoluzione non solo nei territori occupati, ma anche in quelli restati romani. Lo stanziamento fu seguito da uno stato di guerra tra l'area longobarda e quella imperiale bizantina, che durò, sia pure con intermittenza, per circa cent'anni. Ho cercato di dimostrare altrove che esso influenzò in modo consistente l'insediamento delle regioni in cui venne a cadere la frontiera, provocandovi la scomparsa di molti centri abitati 27. Ci si può dunque domandare quanto una frontiera gestita con criteri militari abbia condizionato anche la circolazione degli uomini e dei beni, ostacolandola e di conseguenza accentuando quelle diversificazioni regionali che già si manifestavano negli ultimi secoli del governo imperiale. Dopo la conquista longobarda, sembra ad esempio accentuarsi l'isolamento della regione padana rispetto alla circolazione delle merci
mediterranee, che cessano di affluirvi mentre ancora arrivavano nella Liguria e probabilmente anche nella Romagna, restate nell'area bizantina 28; all'inverso, le produzioni originali della Padania longobarda, come la ceramica invetriata di tradizione romana, se continuò ad essere prodotta dopo il VI secolo, e soprattutto la caratteristica ceramica longobarda a stampigliature, o le crocette d'oro con decorazione a volute e ad animali, non hanno diffusione fuori di essa 29. In questo caso la dominazione longobarda sembra avere accentuato ed irrigidito quegli aspetti di autosufficienza che la regione già maturava nella tarda età imperiale 30. Anche nell'area centro-meridionale la configurazione politica e militare determinata dai longobardi sembra avere riflesso nella produzione e circolazione dei beni: reperti ceramici delle regioni longobarde, pur testimoniando la sopravvivenza locale di officine di tradizione romana, mostrano differenze tecnologiche e tipologiche rispetto alle produzioni delle regioni costiere 31. Per quanto riguarda la stessa società longobarda, i pochi cimiteri scavati nel territorio dell'antico ducato di Benevento, Boiano in provincia di Campobasso e Pratola Serra in provincia di Salerno, hanno restituito, accanto a caratteristici materiali longobardi, altri, riconducibili all'orizzonte bizantino mediterraneo, che non hanno riscontro nelle sepolture longobarde dell'Italia del nord 32. Sembra dunque di poter dedurre, per il VI e VII secolo, la regionalizzazione dell'evoluzione culturale ed economica, con elaborazione di forme, sistemi produttivi e distributivi sostanzialmente autonomi nelle diverse regioni, e scarsi contatti tra l'area longobarda e quella romano-bizantina, ma anche all'interno delle stesse terre occupate dai longobardi. Il rilievo delle frontiere interne non dovette significare necessariamente penuria di risorse nelle regioni longobarde. Tuttavia l'isolamento accentuò il peso delle situazioni locali anche congiunturali; sottrasse alternative e sbocchi alla produzione agricola e potè concorrere a quella accentuata ruralizzazione dell'attività economica che caratterizza l'orizzonte dell'editto di Rotari ed all'impoverimento della cultura materiale più volte riscontrato negli scavi. Ancora, l'isolamento potrebbe, in certa misura, concorrere a spiegare i cambiamenti di fisionomia e funzione delle città nell'area longobarda cui si è già fatto riferimento. Anche nelle regioni romano-bizantine, la divisione interna della penisola dovette condizionare l'attività economica. Il dominio imperiale, ridotto ad una serie di territori discontinui lungo le coste, si organizzò come una catena di regioni di varia estensione, gravitanti ciascuna sulle città sede delle autorità istituzionali, Roma e Ravenna innanzi tutto, che erano tutte collegate a scali marittimi. Questo rende ragione di molti fenomeni già ricordati, che si riferiscono principalmente ai territori bizantini: la tenuta complessivamente migliore delle città, la maggior consistenza della loro popolazione, la prosecuzione delle importazioni via mare. Ma altri aspetti concomitanti dimostrano che anche nell'area romanica le economie regionali avevano possibilità limitate. L'attività artigianale a Roma, dov'è stata meglio osservata, riduce e semplifica la produzione, tanto nella ceramica che nella vetreria, abbandonando tipi pregiati e limitando la varietà delle forme 33; diversi indizi fanno pensare che i bisogni primari venissero soddisfatti in misura crescente dalle risorse agrarie regionali 34; le importazioni di merci orientali, probabilmente già destinate a consUmatori privilegiati, diminuirono, come si è visto, fino a cessare. I collegamenti marittimi non vennero per questo del tutto meno, ma sembrano ridurre portata ed ampiezza, per limitarsi alla scala interregionale, come lasciano pensare i nuovi contenitori per derrate alimentari che dal tardo VII secolo, e soprattutto nell'VIII si trovano con caratteristiche simili tanto nel territorio romano che in Campania, Calabria e Sicilia, possibile indice di traffici fra quelle regioni 35. La produzione di anfore a Miseno, presso Napoli, e ad Otranto nel VII secolo è un altro indizio dello stesso fenomeno 36. In sostanza, l'occupazione longobarda dovette agire sulla struttura economica dell'Italia, più ancora che con l'innesto di tradizioni e mentalità antagoniste a quelle romane, con l'ostacolare le comunicazioni tra le diverse regioni, accentUando e irrigidendo tramite la frontiera politica, tendenze alla ridUzione ed alla localizzazione della produzione e circolazione dei beni economici che già si andavano profilando prima dell'invasione. Un processo che sembra avanzato nella prima metà del VII secolo, quando lo stato di guerra tra longobardi e bizantini e il frazionamento interno del regno longobardo furono particolarmente acuti.
Questo complesso di osservazioni induce a concludere che, sotto il profilo dell'evoluzione delle strutture, non è necessario attribuire ai longobardi una rottura qualitativa ed una ricostituzione dell'organizzazione economica e culturale su basi diverse: come già si è detto, il loro ruolo potè consistere nell'accentuazione data ai processi in corso, già volti alla decomposizione dell'organizzazione tardo imperiale. Pertanto anche sotto questo profilo, la valutazione del rapporto dell'antichità con il medioevo in chiave di continuità si presenterebbe come appropriata descrizione delle trasformazioni che si sono fin qui evocate, quando si precisi che si trattava di continuità nel senso della decomposizione e dello snaturamento. Tuttavia, riconosciuto questo, nasce il problema di valUtare fino a quando il processo conservi questa tendenza; se e quando sia possibile individuare un cambiamento della sUa direzione. Problema che assume rilievo quando si passa ad esaminare il rapporto tra il VII e l'VIII secolo. In questa ulteriore fase si deve peraltro tener conto di una nuova circostanza, cioè del fatto che nell'VIII secolo ricompare la documentazione scritta, che nel VII è pressoché assente. Quello che potrebbe sembrare un vantaggio, in quanto viene arricchita e consolidata la base documentaria della ricostruzione storica, in realtà complica la percezione degli svolgimenti in corso. Nella documentazione scritta dell'VIII secolo figurano infatti molti termini tecnici relativi a istituzioni giuridiche ed a situazioni sociali ed economiche, identici a quelli usati nella tarda antichità fino al VI secolo, suggerendo una sopravvivenza che oltre ai termini potrebbe riguardare le cose. Un esempio di queste circostanze, assai rilevante per la vicenda dell'economia e dell'insediamento, è la menzione, nelle carte longobarde, dei fundi come articolazioni normali del territorio rurale, e dei vici come centri insediativi, che sembra documentare la sopravvivenza, fino al IX secolo avanzato, della parcellizzazione catastale e dell'organizzazione delle campagne definite in età imperiale 37. Dunque non solo la continuità potrebbe prolungarsi fino all'VIII secolo, ma si creerebbe anche un contrasto tra l'interpretazione che si è data dei fenomeni risultanti dalla documentazione archeologica e quella suggerita dalle fonti scritte, che metterebbero in rilievo l'invariata persistenza di aspetti essenziali dell'organizzazione tardo antica. Per cercare di appianare queste difficoltà, si deve verificare se i termini tecnici utilizzati nelle carte dell'VIII e IX secolo rimandino davvero alla continuità delle strutture romane o se la terminologia istituzionale di origine antica non venisse allora applicata ad una realtà trasformata e sostanzialmente diversa. Per quanto riguarda l'esempio richiamato, indagini relative ad alcune aree lombarde ben documentate hanno accreditato questa seconda soluzione. Almeno una parte dei vici attestati nel IX secolo ebbe origine dopo l'invasione longobarda, attraverso la creazione di nuovi insediamenti rurali, che organizzarono un proprio territorio, anch'esso indicato come fundus, ma privo di relazioni con la parcellizzazione catastale romana. Lo stesso termine fundus non doveva più far riferimento all'organizzazione romana del territorio, ma alla nuova rete dei territori vicanici 38. Non sembra riconducibile a questa stessa spiegazione la situazione della Sabina, dominio longobardo in territorio intensamente romanizzato, che nella documentazione scritta risulta pure articolato in fundi. Sono meno presenti in questo caso i vici, che in Lombardia sembrano essere stati i poli della trasformazione dell'insediamento, e la toponomastica dei fondi, di evidente impronta romana, non offre spunti per ritenere che l'occupazione longobarda abbia influenzato l'organizzazione del territorio 39 . Tuttavia si nota che il territorio agrario appare diviso sistematicamente in fundi solo nelle solenni conferme del patrimonio fondiario rilasciate dai papi e dagli imperatori del IX secolo all'abbazia di Farfa. Tutte le altre carte relative alla gestione della proprietà fondiaria, fin dagli inizi dell'VIII secolo, mostrano territorio, insediamento e proprietà organizzati prevalentemente per "casali". Il rapporto di questi con i fundi, nei casi in cui è percepibile, si configura in vario modo: talvolta sembra che i casali coincidano con i fundi; ma la loro sostanziale diversità risulta dagli stessi diplomi di conferma delle proprietà del monastero, che distinguono le due entità fondiarie elencandole separatamente. In alcune occasioni risulta che i casali potevano essere insediamenti rurali nuovi, nati dalla colonizzazione dei gualdi pubblici 10. Inoltre si nota che i casali normalmente non vengono localizzati in rapporto ai fundi, e perciò non figurano come articolazioni di essi. In
sostanza il casale si presenta come l'organizzazione fondamentale dell'insediamento rurale nella Sabina dell'VIII e IX secolo, e infatti ad esso, non al fundus, fanno capo i coltivatori dipendenti e in esso sono localizzate le dimore rurali. Il fundus invece sembra non unità di gestione, ma quadro formale della proprietà. La documentazione della pratica nell'VIII e IX secolo prestò attenzione esclusivamente all'organizzazione insediativa e gestionale del territorio, ricordando oltre ai casali le curtes e le casae massariciae; anche se è probabile che parte dei casali coincidesse di fatto con un fundus, resta significativo che nelle registrazioni legali venisse messa in evidenza la forma nuova e concreta dell'organizzazione rurale, trascurando il riferimento catastale di antica origine. È dunque necessario approfondire ulteriormente il valore che ha quest'ultimo quando compare, non potendosi nemmeno escludere che esso fosse un recupero intenzionale suggerito dalle tendenze classicheggianti della cultura romana del IX secolo. In ogni caso, mi pare ancora possibile ritenere che l'organizzazione dell'insediamento rurale e dell'attività produttiva in Sabina, nell'VIII e IX secolo, presentasse differenze significative rispetto all'ordinamento catastale romano 41. Per quanto riguarda la ricomparsa dei termini tecnici antichi nella documentazione dell'VIII secolo, si deve in generale osservare che le fonti scritte altomedievali forniscono la definizione istituzionale, cioè convenzionale, delle situazioni cui si riferiscono, le quali possono essere conosciute nella loro concreta realtà solo attraverso il ricorso ad altri tipi di documentazione. Per questo ritengo opportuno proseguire l'indagine sull'evoluzione strutturale in Italia fra VII ed VIII secolo ricorrendo preferenzialmente ad una documentazione omogenea a quella di natura archeologica già utilizzata. Un'evidenza che può offrire una guida è data dalla numismatica e consiste nella comparsa simultanea, nelle varie regioni politico-economiche in cui si era frazionata l'Italia dopo la conquista longobarda, di monete nuove, diverse dalla moneta imperiale bizantina che fino a quel momento domina direttamente o indirettamente, in quanto modello della moneta longobarda, il panorama monetario italiano. Attraverso di essa è possibile individuare, verso la fine del VII secolo, una situazione che non sembra possibile inserire nella stessa linea dei processi di dislocazione strutturale e culturale dell'Italia fin qui osservati. Con singolare contemporaneità, nell'ultimo decennio del secolo vennero creati e messi in circolazione: i nuovi tremissi aurei del re Cuniperto nell'area longobarda padana; la monetazione anonima da 30 nummi in bronzo e le frazioni di silique d'argento col monogramma dei papi a Roma, i tremissi ed i solidi aurei di Gisulfo I a Benevento, di tipo bizantino, ma recanti l'iniziale del nome del duca; probabilmente anche i tremissi aurei toscani contraddistinti da un monogramma 42. La sostanziale contemporaneità di queste emissioni nuove, dopo brevi periodi di sperimentazione anch'essi sincroni, sollecita una spiegazione unica di un fenomeno in cui affermazioni di autonomia politica delle diverse autorità, si uniscono alla previsione di un impiego economico della moneta. Questo secondo aspetto sembra discendere dalla varietà di natura e valore delle monete stesse. A Roma si trattò di coniazioni forse d'urgenza, con nominali di valore contenuto, adatte ad una circolazione quotidiana, che si affiancavano alla moneta d'oro imperiale ancora battuta dalla zecca cittadina. Nel regno longobardo fu un tremisse portato, con successivi aggiustamenti, all'equivalenza con la corrispondente moneta bizantina; e invece a Benevento due tipi, uno sottomultiplo dell'altro, di moneta aurea, anch'essa bene agganciata a quella bizantina. Sembra insomma che le nuove monete fossero predisposte in relazione ad esigenze differenti, proprie delle aree per cui erano emesse. Queste iniziative di diverse autorità indipendenti si inquadrano in un periodo che fu ricco di cambiamenti politici ed istituzionali in Italia. Nel 6801'imperatore Costantino IV vi aveva concluso due paci di grande rilevanza: una con il regno longobardo, la prima pace formale dopo l'invasione, che mise fine allo stato di guerra; l'altra, in materia religiosa, col papato, mediante la rinunzia alla dottrina monotelitica. I1, cronista bizantino Teofane scrisse che allora una gran pace si era stabilita in Oriente e in Occidente. L'impero ne aveva bisogno per riorganizzarsi dopo i disastri dell'espansione araba, culminata in un assedio di Costantinopoli durato cinque anni e dopo l'altrettanto devastante invasione dei Bulgari nel territorio dell'antica Mesia 43.
La conclusione della pace col regno longobardo consentì di allentare la difesa militare e decentrare l'organizzazione del dominio imperiale in Italia, attribuendo autonomia di governo alle provincie sotto i ceti; egemoni locali, saldamente radicati nei territori e nelle società provinciali. Sembra infatti da riferire a questo periodo l'istituzione dei ducati di Roma, di Calabria e delle Venezie; la organizzazione della Sicilia in tema, retto da uno stratego, e la sostanziale riduzione dell'autorità centrale dell'esarca di Ravenna 44. Nelle stesse circostanze sembra che al papa venissero conferiti poteri ufficiali nell'amministrazione pubblica di Roma 45. Per quanto riguarda i territori longobardi, la conclusione della pace con l'impero costituiva un riconoscimento della fısionornia sovrana del loro re, legittimando anche sue iniziative in materia monetaria. La pace del 680 con la riorganizzazione dei rapporti tra terre romane e terre longobarde in Italia può spiegare dunque il fondamento istituzionale delle iniziative monetarie prese dalle autorità provinciali negli anni seguenti; non ne spiega, evidentemente, la necessità. Se non che, negli ultimi due decenni del VII secolo si riscontrano numerosi altri sintomi di rinnovamento e riorganizzazione interni, sia nelle regioni romano-bizantine, che in quelle longobarde. Essi sono particolarmente evidenti nell'ambito delle attività politico-istituzionali, in cui si coglie una nuova intraprendenza dei ceti e delle autorità regionali. A Roma dalla seconda metà del VII secolo, l'exercitus si presenta come un corpo cittadino, che partecipa con propri orientamenti di fazione alla scelta della persona dei papi; trasformazioni analoghe avvengono, anche se con evidenza minore, a Ravenna 46. Egualmente nei corso degli anni Ottanta nell’attività dei papi prendono rilievo funzioni civiche con implicazioni economiche: un forte intervento nella manutenzione della città, soprattutto delle grandi basiliche, e il servizio di assistenza pubblica per l'innanzi completamente taciuto nel Liber Pontificalis 47. Nel regno longobardo dell'Italia settentrionale un progressivo rafforzamento dell'autorità regia ed una riorganizzazione degli strumenti attraverso i quali veniva esercitata si coglie in vari episodi della vita di Cuniperto e può essere simbolicamente riassunto dalla conclusione dello scisma dei Tre Capitoli che ricostituì l'unità ecclesiastica nel regno e rinnovò le relazioni canoniche col papato 48. Contemporaneamente il ducato di Benevento realizzò l'ultima significativa espansione del dominio longobardo in Italia, annettendosi importanti territori bizantini nella Puglia meridionale con i porti di Taranto e Brindisi 49. Anche su altri piani si colgono indizi di un'attività nuova: una riorganizzazione del territorio rurale sotto il profilo ecclesiastico è in corso tanto in Toscana che nel ducato beneventano 50; gli scavi di Brescia hanno datato allo stesso momento una ripresa dell'organizzazione urbana, che è attestata in forme più indirette anche a Roma 51; tra la fine del VII ed i primi anni dell'VIII secolo vennero fondati o rifondati i monasteri di Farfa, San Vincenzo al Volturno e Montecassino, in posizioni confinarie tra le regioni longobarde e quelle romane, probabilmente a seguito di nuovi criteri nella gestione dei confini. La stessa ricomparsa della documentazione scritta si inquadra in quest'insieme coerente di indizi di riorganizzazione e ripresa di attività. Probabilmente nello stesso lasso di tempo si istituirono anche contatti economici fra regioni appartenenti a domini politici diversi, come quei rapporti commerciali fra la pianura padana longobarda e le terre bizantine del delta del Po, che vennero rinnovati e regolati dal re longobardo Liutprando nel 715; il consolidamento dei legami di Roma con i centri costieri della Campania e la Sicilia, e il probabile collegamento delle regioni interne del principato beneventano con le linee di navigazione adriatica implicito nella conquista dei porti pugliesi 52. È in relazione a questi fatti che la monetazione nuova dell'ultimo decennio del VII secolo assume più pieno significato di iniziativa non soltanto politica, ma economica e la data del 680, che ne è la premessa e che individua il momento da cui i nuovi fenomeni si infittiscono, guadagna il valore simbolico di riferimento epocale. Certo non è nella pace tra longobardi e bizantini che si può vedere la causa ultima del mutato tono delle attività risultanti dalla documentazione. Essa potè al massimo sopprimere vincoli e condizionamenti all'iniziativa di una società che in modo autonomo e per evoluzione interna andava ricostruendo i propri assetti e cominciava a raggiungere una nuova capacità di iniziativa economica.
Quali siano state queste ragioni è - come per quelle del precedente declino - materia di argomentazioni ipotetiche. Piuttosto che addentrarvisi, si può cercar di definire quanto più correttamente e compiutamente possibile, gli aspetti della riorganizzazione. Inizialmente più che l'avvio di una situazione strutturale nuova, essa sembra consistere nel raggiungimento di un equilibrio interno delle diverse regioni, in rapporto ai quadri territoriali ed alle condizioni economiche concretatesi nel corso del VII secolo. Soltanto lentamente si poterono acquisire novità culturali e occasioni economiche nuove, all'interno di una crescente capacità di iniziativa manifestata in modo più evidente dai poteri politici, ma probabilmente diffusa in tutta la società. L'archeologia non fornisce ancora, a mia conoscenza, serie documentarie continue e coerenti sui processi in corso tra la fine del VII e la metà dell'VIII secolo, ma è da essa che si ricava almeno una prima testimonianza di innovazione dell'organizzazione produttiva, con la comparsa, dopo la metà dell'VIII secolo, della ceramica a vetrina pesante, attestata a Roma e probabilmente anche a Ravenna e a Napoli: ritorno di una produzione di qualità che non si pone come continuità delle attività tardoantiche 53. Inoltre lavori recentissimi cominciano a delineare le prospettive archeologiche proprie del IX secolo in Italia. Il fenomeno più significativo sembra essere ancora l'incremento delle produzioni artigianali di vario tipo, utilitarie e suntuarie, risultante tanto dalle ricerche compiute a Roma e nel territorio romano, quanto dal monumentale scavo dell'abbazia di San Vincenzo al Volturno 54. A questa crescita sembra collegarsi una aumentata vitalità delle reti di distribuzione regionali. Peraltro le nuove osservazioni si riferiscono a siti privilegiati, quali sono la città sede del papato e un monastero protetto dall'impero carolingio al confine della sua area di influenza in Italia. Esiste dunque il problema della rappresentatività dei fenomeni constatati, che potrebbero almeno in parte dipendere dal sistema imperiale carolingio, piuttosto che essere l'esito di uno sviluppo locale fondato su risorse proprie. Ricerche anch'esse recenti sull'uso della moneta nelle diverse regioni italiane hanno messo in evidenza che l'eventuale espansione produttiva nel IX secolo sembra accompagnarsi alla contrazione della massa monetaria ed alla riduzione dell'uso della moneta nelle transazioni correnti, ponendo il problema di definire adeguatamente le modalità dello scambio economico, tra l'altro in relazione a probabili varietà e specializzazioni regionali 55. Diventa inoltre necessario identificare l'estensione e l'integrazione delle diverse reti territoriali di distribuzione dei beni. La ricerca storica ha affrontato da tempo questi difficili aspetti dell'età carolingia, sortendo però risultati talvolta contraddittori, per la difficoltà di misurare i fenomeni economici sulla sola base delle fonti scritte. Al momento neanche l'archeologia sembra disporre per il IX secolo di un indicatore ben identificabile e largamente diffuso, com'è la ceramica per l'età tardoantica, in base al quale formulare valutazioni dei grandi movimenti economici e culturali. Una constatazione che deve valere da stimolo per l'orientamento e il progresso della ricerca. Avendo esordito con un nome illustre della medievistica italiana, vorrei concludere col nome di un maestro della medievistica europea: quello, cioè, di Henri Pirenne. Viene spontaneo osservare che la scansione periodizzante che sembra di poter desumere dallo svolgimento dei fenomeni esaminati, coincide con quella formulata da Pirenne nella sua interpretazione del passaggio dal mondo antico all'Europa medievale 56. Ciò dipende in parte dal fatto che l'indicatore più evidente in entrambe le prospettive è lo stesso, e consiste nelle testimonianze dei traffici internazionali, rintracciate da Pirenne nella documentazione scritta e dalla recente archeologia in quella materiale. Si può a questo proposito commentare solo che il ritmo di sviluppo accertato da Pirenne essenzialmente in relazione alla Gallia, mostra di essere valido anche per l'Italia. Peraltro accanto alle vicende del commercio internazionale ha avuto essenziale rilevanza, nel delineare il processo che si è presentato, un complesso di altri fenomeni che depongono per la progressiva trasformazione strutturale della società tardoantica e romano-barbarica. Ma a questo proposito va sottolineato che anche Pirenne, spesso sommariamente riassunto da esegeti e critici, ebbe chiara coscienza che un processo degenerativo era in corso nelle antiche provincie dell'impero d'occidente già durante i secoli precedenti l'invasione araba, ed egli lo qualificò mediante il concetto di "barbarizzazione" che riguardava tutti gli aspetti
della vita sociale. Pirenne mise in rilievo tra l'altro il progressivo indebolimento e isolamento delle città nell'epoca merovingia e la crescente importanza delle relazioni socio-economiche fondate sul possesso della terra e sulla produzione agraria locale. Diverso è il modo in cui si possono descrivere oggi le caratteristiche dei due sistemi strutturali dominanti rispettivamente prima e dopo il VII secolo; il modo in cui se ne prospetta il rapporto; anche se bisogna osservare che proprio il fatto che di due sistemi diversi si tratta, venne nitidamente affermato da Pirenne. Ma mentre egli li concepì come antitetici, obbligandosi così a spiegare il passaggio dall'uno all'altro con un evento capace di alterare in modo radicale una componente fondamentale della struttura, da lui individuata nel mercato, e cioè con l'espansione araba, sembra oggi di dover ritenere che la degenerazione del sistema antico si sia fermata quando venne raggiunto un equilibrio delle situazioni su basi nuove a livello locale e regionale, e che successivamente si innestasse in quest'equilibrio un fattore propulsivo, ancora da definire, che provocò un'espansione inizialmente modesta, ma continua, sulla quale si costruì il sistema economico che per comodità si può chiamare carolingio. Nella nuova prospettiva anche la conquista dell'Africa da parte dei musulmani torna ad avere un ruolo credibile, come alterazione esterna della praticabilità di alcune linee di traffico. Il nuovo sistema che si delinea a partire dall'VIII secolo dovette risentire in Italia di due peculiarità ambientali: il ruolo delle città come centri di organizzazione del territorio, ristabilito dopo la grande crisi del VI e VII secolo, e la posizione della penisola come area di contatto tra il continente europeo organizzato dai franchi ed il bacino mediterraneo rinnovato nei suoi assetti e nelle sue relazioni, da cui nel corso del IX secolo provennero sollecitazioni e influenze di nuovo segno e sempre più consistenti. Questo è il quadro che ritengo di poter proporre in apertura del Congresso. Un quadro probabilmente già invecchiato nel momento in cui lo delineo. Le ricerche in corso sono molte e i problemi debbono essere continuamente ridefiniti man mano che si identificano nuovi materiali e nuove situazioni. È probabile dunque che le prospettive che ho presentato vengano in parte o in tutto corrette e aggiornate dalle successive relazioni; ma questo sarà una testimonianza in più della vitalità di questo filone di ricerche sull'alto medioevo in Italia. PAOLO DELOGU
1 Fondamentale BOGNETTI 1968. Per più recenti formulazioni del giudizio di cesura: TABACCO 1979, pp.93 ss.; WICKHAM 1981, p.28; GASPARRI 1988. Sul pensiero storico di Bognetti, oitre ai testo autocritico già Citato, cfr. TABACCO 1966; TABACCO 1970; SINATTI VIOLANTE 1978 DEEOGU 1981. 2 Suggestioni sulla tarda antichità come "economia-mondo": CARANDINI 1 986; CARANDINI 1989. Problematica generale del rapporto tra le strutture tardoimperiali romane e la genesi del medioevo sotto il profilo archeologico: HODGES-WHITEHOUSE 1983, WICKHAM 1984, W[CKHAM 1988; RANDSBORG 1989; First Millennium 1989. 3 Cfr. ad esempio gli esperimenti di Bois 1989; DURLIAT 1990a. 4 Ad esempio WARD PERKINS 1984; individuazione del problema in MARAZZI 1993. 5 Sull aproblematica della periodizzazione dell'altomedioevo Cfr.Periodi e contenuti l988. 6 Prime sistemazioni complessive: POTTER 1985 (ma 1979 nell'edizione inglese); ARTHUR 1984; WHTTEHOUSE 1985; PANELLA 1986a; PANELLA 1986b; TORTORELLA 1986. Successivi arricchimenti e precisazioni: FENTRESS-PERKINS 1988; ARTHUR l989; PANELLA 1989 MILELLA LO VECCHIO 1989 a,b. Quadri d insieme aggiornati: PACETTI-SFRECOLA 1989, CIPRIANO et al. 1991; PANELLA 1993. 7 POTTER 1985, pp. 155 ss.; HODGES-WHITEHOUSE 1983, pp. 36 ss.
8 Ad esempio MORELAND 1986, p. 338; MORELAND et al. 1993, pp. 212 ss. 9 WICKHAM 1988 a, b. 10 Il caso del sito rurale di San Donato che in MORELAND et al. 1993 sembra interpretato come un esempio di insediamento permanente caratterizzato da ceramica locale diversa dalla ceramica africana, può in realtà appartenere al tipo degli insediamenti nuovi sorti tra VII e VIII secolo alterando le maglie dell'antica struttura fondiaria romana, di cui si dirà più avanti. Ciò almeno fin quando non sia meglio precisata la cronologia della ceramica. 11 Cfr. WHITEHOUSE 1985; ARTHUR 1989; ARTHUR 1991, PATTERSON 1993 PANELLA 1993; inoltre i recenti rinvenimenti nell'esedra della Cripta di Balbo per cui SAGUI’ i993b. 12 Testimonianze di mercanti siriani ed ebrei in Italia nel Vl secolo: RUGGINI 1959; GALASSO 1965, p. 66; ARTHUR 1991, p. 774; qualche dato anche in PIRENNE 1937, pp. 66 ss. Gregorio Magno chiede al vescovo di Alessandria di inviargli una qualità di vino orientale che i mercanti non importano a Roma: Gregorii Magni Epistolae, VII,37 (Ediz. Hartmann, M.G.H., Epistolae I, p.486). 13 Può essere significativo rilevare che ad Otranto la presenza di anfore da trasporto orientali, documentata fino al secolo VII, successivamente cessa, sebbene la Città restasse probabilmente in mano bizantina; cfr. ARTHUR 1992, p.216, e per la storia istituzionale, BROWN 992, pp. 28 S. 14 Dati di scavo e interpretazioni in BROGIOLO 1984, BROGIOLO 1987 a, b, BROGIOLO 1989 BROGIOLO 1992a, LA ROCCA 1986 a, b, LA ROCCA 1989, LA ROCCA 1992. Interventi nel dibattito WICKHAM 1988c, GASPARRI 1989; DELOGU 1990; BIERBRAUER 1991. 15 MANACORDA ZANINI 1989, MANACORDA 1993; MENEGHINI SANT’ANGELI 1993, REA 1993 PAVOLINI 1993. Cfr. anche WHITEHOUSE 1988. 16 PAVOLINI 1993, pp.63 s. 17 STAFFA 199l. Sulla continuità dei tracciati v. WARD PERKINS 1988. 18 Cfr. rispettivamente ARTHUR 1985, ARTHUR 199l, PEDUTO 1989, MONGIU 1986 MONGIU 1989. A Ravenna si è riscontrato un deterioramento della città nel V-VI secolo e la cessazione delle grandi costruzioni urbane dopo la metà del Vl secolo: cfr. MAIOLI 1991, P. 223; GELICHI 1991, p. 160. 19 WARD PERKINS 1988, P. 16; SCHMIEDT 1974, P. 505. 20 Forte degenerazione del territorio milanese è risultata dalle osservazioni archeologiche per gli scavi della metropolitana milanese, per cui v. ScaviMM3 1991. Per quanto detto nel testo, mi sembra che non colgano nel segno affermazioni della continua vitalità della città in Italia tra il VI e l'VIII secolo come quelle, ad esempio di LA ROCCA 1992, ma anche di WICKHAM 1988, basate sull'accostamento di testimonianze scritte che si collocano ai due estremi del periodo cronologico predetto. Il problema non è dimostrare che le città sono in genere sopravvissute mutando fisionomia, cosa della quale nessuno dubita, ma ricostruire con sufficiente dettaglio l'andamento della loro evoluzione tra VI e VII secolo in circostanze politiche, economiche e culturali particolari; su questo non ci sono però testimonianze scritte coeve, né sembra corretto utilizzare le testimonianze posteriori, perché si deve lasciare aperta la possibilità di trasformazioni nella seconda metà del VII secolo, su cui si tornerà più oltre nei testo. 21 Questa sembra una possibile interpretazione di casi come la cattedrale di Sabiri, distante dall'abitato, per cui LEGGIO 1989, P. 171, ed il complesso episcopale di Pratola Serra, per cui PEDUTO 1992. 22 In questo senso le osservazioni in DELOGU 1990 e, relativamente al caso di Roma, DELOGU 1988. 23 I termini della questione proposti in VON HESSEN 1978 a; cimiteri con sepolture contigue riferibili a romani e longobardi di recente identificazione: Sovizzo (per cui R1GONI et al. 1988); Romans d'Isonzo (per cui Ro~.2a'.2s d'lsoi.2220 1989). In questo contesto recuperano interesse i cimiteri misti di Cividale, per cui BROZZI 1974; BIERBRAUER 1991, p. 19, e il fondamentale caso di Grancia, per cui VON HESSEN 1971, pp. 53 ss. Sul rapporto tra corredo funebre e identificazione etnica v. anche LA ROCCA-HUDSON 1987 e LA ROCCA 1989.
24 L'interpretazione della varietà culturale dei corredi funerari in chiave di acculturazione dei longobardi formulata da BIERBRAUER 1978, BIERBRAUER 1984, soprattutto in relazione al cimitero di Castel Trosino, è discussa da MARTIN 1988, che ipotizza la presenza di sepolture con corredo romane fra quelle longobarde. Cfr. le osservazioni di BIERBRAUER 1991, p.52, nota 233, che peraltro non chiude il problema. La recente originale lettura dei cimiteri di Nocera Umbra e Castel Trosino fatta da JOERGENSEN 1992 non affronta il problema delle relazioni etniche nelle popolazioni di inumati; invece indicazioni per una nuova interpretazione di Castel Trosino sotto questo aspetto si trovano in L.PAROLI c.s.. 25 WICKHAM 1984; 1988b. 26 Trasformazioni della gestione agraria dopo l'insediamento longobardo: MODZELEWSKI 1978; prelievi longobardi sulla produzione agraria dei romani: GOFFART 1980, pp. 176 ss.; DELOGU 1990, pp.116 ss.; tributi pubblici net regno longobardo dell'VIII secolo: GASPARRI 1990, pp. 262 ss.; semplificazione dell'organizzazione rurale in area bizantina nel corso del VI secolo: RUGGINI 1961, pp.406 ss.; RUGGINI I 964 pp.283 ss.; trasformazioni dell'organizzazione fondiaria tardoantica nel ravennate: CASTAGNETTI 1991. Un'interpretazione del sistema economico dell'età longobarda in chiave di regressione, discordante da quella di Wickham, in FUMAGALLI 1985; FUMAGALLI 1989, pp. 70 ss. 27 DELOGU 1990, pp. 158 ss. 28 Rarefazione e scomparsa del vasellame africano a Brescia e Milano dopo il VI secolo: MASSA 1990, p. 159; ScaviMM3, I, pp. 357 s. Rarità a Castelseprio: BROGIOLO-LUSUARDl 1980, p 486 ss.; a Invillino: MACKENSEN 1987, p. 236. In generale sulla rarità della terra sigillata africana in Lombardia BROGIOLO-GELICHI 1992, p. 28. Prosecuzione di importazioni africane fino alla metà del VII secolo in Liguria: Murialdo in BONORA et al.1988, p.346; MURIALDO 1992, pp.765.;LUSUARDISIENA-MURIALDO-SFRECOLA 199I;CHRISTIE 1990 PP-236 ss. Per la Romagna indicazioni in MAIOLI 1983; MAIOLI 1991. 29 Ceramica invetriata di tradizione romana: BROGIOLO-GELICHI 1992, pp. 27 ss.; distribuzione della ceramica longobarda: VON HESSEN 1978b, p. 263: distribuzione della decorazione ad animali e volute: ROTH 1973, pp. 287 ss. Sembrerebbe fare eccezione a quest'isolamento l'esportazione di pietra ollare verso l'Italia centro meridionale, che però sembra datare tra la fine del VII e l'VIII secolo, in un contesto di relazioni interitaliane mutato, di cui si parlerà più avanti: cfr. ad esempio STAFFA 1991, p. 354 (Abruzzo); ARTHUR 1991, p. 776 (Napoli); ma anche GELICHI 1987, p.205. Sulla pietra ollare in generale cfr. MANNONI-MESSIGA 1980 e La pietra ollare 1987. 30 Sull’organizzazione dell’Italia annonaria v. RUGGINI 1961, pp. 1 ss.; CLEMENTE 1984; RUGGINI 1984; GIARDINA 1986. 31 PEDUTO 1986, p. 568; STAFFA 1992, pp. 825 s. 32 Cfr. rispettivamente GENITO 1988; PEDUTO 1992. 33 Fine della produzione di ceramica invetriata a Roma nel VII secolo: PAROLI 1992, p, 35; semplificazione della produzione vetraria: SAGUI’ 1993a. 34 DELOGU 1993, 35 PAROLI 1992, pp. 360 ss.; PAROLI 1993, pp. 235 ss.; PATTERSON 1993, pp. 313. 36 Miseno: ARTHUR 1989, pp. 85,88; 1991 a, p. 774. Otranto: ARTHUR et al. 1992, pp. 103 SS.; PAROLI 1993, p. 237. 37 Il fenomeno, già rilevato da BOGNETTI 1954, PP. 751 S. relativamente al territorio milanese, è stato approfondito da ROSSETT} 1968. Più recentemente è stato riproposto per la Sabina da MIGLIARIO 1988. 38 ROSSETTI 1968, PP. 36 SS. 39 MIGLIARIO 1988, PP. 60. 40 G.D.L., V, nr. 88, possibile identificazione di casale e fundus; R.F. Il, nr. 224, P. 185, elenchi separati di fundi e casali; C.D.L., V, 6 e 8, casali ricavati nel gualdo pubblico. Il caso archeologico di San Donato ricordato sopra alla nota 10 potrebbe rappresentare proprio un esempio di nuovo insediamento destinato a diventare casale.
41 La soluzione della Migliario, che propende per la conservazione delle strutture catastali imperiali sia nel territorio che nella memoria istituzionale, può dunque essere sfumata nel senso esposto nel testo. Un interessante caso di comparazione è offerto dalla organizzazione fondiaria del Ravennate per cui v. CASTAGNETTI 1991. Recentemente DURL[AT 1993 ha sostenuto che il fundus in Italia sia stato tanto in età imperiale che bizantina, un'unità impositiva fiscale tenuta in proprietà eminente da un possessor e articolata sotto il profilo della gestione in minori proprietà agrarie. Quest'interpretazione presenta analogie con quanto esposto sopra nel testo, e farebbe risalire indietro nel tempo la coesistenza di strutture della proprietà eminente e di più piccole e mutevoli forme della proprietà utile. Poiché peraltro suscita sostanziali riserve l'ipotesi della continuità dell'organizzazione impositiva romana fino al IX secolo, andrebbe comunque spiegata la funzione del fundus come entità di riferimento della proprietà nei diplomi papali e imperiali di quell'epoca. 42 Per la moneta Longobarda cfr. BERNAREGGI 1983; inoltre, per le situazioni dell’Italia settentrionale, ARSLAN 1984; ARSLAN 1986; per quelle del Mezzogiorno ODDY 1974; BERTOLINI 1978. Per Roma ROVELLI 1989. 43 Sulla pace tra longobardi e impero DELOGU 1980, pp.99 s.; sul concilio e i rapporti con Roma ARNALDI 1987, pp. 67 ss. Il passo di Teofane è 356, 2. 44 CARILE 1986, p. :390, ARNALDI 1992, pp. 4278 s. L ipotesi che I istituzione dei ducati nell'organizzazione dell'Italia bizantina risalga alla fine del VI secolo, sostenuta da BAVANT 1979, è discussa in DELOGU 1989, P. 104 nota 17 e DELOGU 1993, p. 22 nota 33. 45 LLEWELLYN 1986, pp. 45 ss. 46 Cfr. BERTOL1NI 194i, pp. 298 s.; PATLAGEAN 1974. In generale BROWN 1 984, pp. 101108. Per Ravenna anche CARILE 1986, p. 380. 47 Manutenzione DELOGU 1988, P. 34, assistenza pubblica: BERTOLINI 1947, ancora fondamentale nonostante le divergenti posizioni di DURLIAT 1990 b, pp. 164 ss. 48 DELOGU 1980, PP. 113 55. 49 GASPARRI 1988 a, p. 102; Paolo diacono, Historia Langobardorum, Vl,l. 50 Per la Toscana: 1982, PP.38, 53; VIOLANTE 1982; per Benevento: GASPARRI I988 a, p. 102; VITOLO 1990, PP. 92 55. 51 BROGIOLO 1992, PP. 202 SS.; per Roma DELOGU 1988, PP. 32 SS. 52 Sul patto di Liutprando v. da ultimo MONTANARI 1986. La datazione dei primi accordi alla prima metà del VII secolo proposta da MOR 1977, S; fonda su argomentazioni che non sembrano risolutive. E’ probabile che la prima stipulazione del patto rinnovato nel 715 fosse più recente. Per i rapporti tra Roma e Napoli cfr. ARTHUR 1991, P.776. Immigrazioni consistenti di siciliani a Roma tra fine VII ed i primi decenni dell'VIII secolo, DELOGU 1993, PP.21. In questo quadro di ripresa delle relazioni e dei traffici si possono spiegare anche le esportazioni di pietra ollare ricordate più sopra. 53 PAROLI 19921 PP.43 ss. 54 Cfr. rispettivamente PAROLI 1990; PATTERSON 1993; San Vincenzo al Volturno 1993. 55 ROVELLI 1992. 56 Per la ricostruzione del pensiero di Pirenne è opportuno tener conto, oltre che del celebre Maometto e Carlomagno (1937), anche della Storia d'Europa dalle invasioni al XVI secolo (1915-18) e delle Città del medioevo (1925) che ne costituiscono le premesse.
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Germnen des 5. und 6. Jahrhunders in Italien Uber dieses hema, insbesondere uber die Ostgoten und Langobarden in Italien, ist schon oft und viel geschrieben worden; Nenes zu erarbeiten, fallt daher schwer. Nicht behandelt werden hier wegen des begrenzten Umfanges dieses Beitrages die Langobardent. Da anch einige wenige Nenfunde nichts Grundsatzliches an dem 1975 publizierten Bild zur Atchaologie der Ostgoten andern2 (s.u.) und inzwischen auch die damals von mir nicht ausreichend behandelte Frage der Trennung jenes Fundstoffes nachgeholt wurde, der mit den germanischen Einwanderern unter Odoaker 469/70 und/oder mit den ostgotischen Einwanderern unter Theoderich (488) verbunden werden kann3, sollen diese Ausfuhrungen starker anf andere Aspekte ausgerichtet sein: anf germanischen Fundstoff, der gesichert oder wahrscheiulich noch in die Zeitvordie germanischen Landnahmen unterOdoaker(469/79) und Theoderich (488) gehort und anf germanische Fremdgruppen im italischen Ostgoteureich: Alamannen und Gepiden, zumal hierzu auch einige wichtige Nenfunde in den letzten Jahren bekanut wurden. AbschlieBend werden nochmals karz und zusammenfassend die nach 1975 bekannt gewordenen ostgotischen Neufunde zusammengestellt. Nach wie vor grundet die Archaologie zu den Germanen des 5. und 6. Jahrhunderts anf Grabfunden, da entsprechende Siedlungen bzw. Siedlungsbefundc - mit Ausuahme des ostgotischen Castrum auf den Monte Barro am Sudostende des Comer Sees (s.u.) - niche bekanut sind. Germanischer Far~dstoff; dergesichrt oder rfradrsche~nlich vor die ()doakerar~d Ostgotenzeitgedort Der nach wie vor zoitlich alteste und ethnisch gesicherte germanische Grabfund ist das Franengrab von Villafontar~a bei Verona, das bereits 1888 und leider ohne Kenutuis der Fundumstande ins Museum gelangte, moglicherweise nicht vollstandig ist und vielleicht aus einem Graberfeld des S. 7. JahrhUnderts stammt 4. Die nur 9 cm langen Fibeln aus Silberblech (Fig.1,1 - 2) gehoren zur Gruppe von ostgermanischen Silberblochf~beln, die als Typ - jedoch noch wesentlich kleiner wahrend der Zeitstufe C3 in der im Kern gotischen Cerniachow- bzw. Sintana de Mures,-Kultur in der Ukraine und in bestimmten Teilen Rumaniens schon vor der Mitte des 4. Jahrhunderts ausgebildetworden; innerhalb derChronologie des ostgermanischen Fundstoffs der Zeitstufen C3-D3 (4. Jahrhandert - 470/80) dieser beiden Kulturen und des ostgermanischen Fundstoffs in Sudostouropa sind sie kenuzoichnende Vertreter der Stufe D1 (= Phase Villafontana; ca.370/80-400/410)S. Das Herkonftsgebiet der Dame von Villafontana mit ihrer (ost-)germanischen Zweif~beltracht (zum Heften eines mantelartigen Umhanges auf ihrem Kleid?)6 umfal3te wegen der Verbreitung der Graber mit diesem Blochfibeltyp in D1 die sudliche und sudostliche Peripherie der 376 wegen der reiternomadisch-hunnischen Westexpansion untergegangenen (ostgotischen) Cerniachow-Kultur (Schwarzmoerkuste, Krim, Nordkaukasus = versprengte Ostgoten) sowie dann anch den weiteren Migrationsraum der Populationen dieser Kultur und der (westgotischen) S~ntana de Mures,-Kultur nach 375 weiter westlich in Sudostouropa7. Wegen dieser kulturgeschichtlich-ethnischen Zusammenhange, der Datierung des Grabes von Villafontana und besonders der schriftlichen Uberlieferung ist es moglich, die in Oberitalien wegen ihrer Tracht fremde Dame mit den Migrationen der Westgoten unter Alarich zwischen 401 und 402 und 408-410/12 in Italien inVerbindung zu bringen8. Trifft dies zu, so ware das Franengrab von Villafontana nicht nur die einzige gesicherte positive archaologische Evidenz fur die 40jahrige Migrationszoit derWestgoten zwischen 376-418, sondern anch bis zu ihrer Landuahme in Spanien ab dem Ende des 5. Jahrhunderts (spatestens 507); ist fehlende positive achaologische Evidenz fur die Wanderzoit bzw. wegen der Kurzlebigkeit der westgotischen Fooderateureiche bis 418 keineswegs sonderlich verwunderlich, so bleibt das weitere Fehlen westgotischer Bestattungsplatze auch wahrend des knapp 90jahrigen tolosanischen Reiches ohne Beispiel in der fruhgeschichtlichen Archaologies. Aus einem (zerstorten?) Mannergrab stammt die kostbare goldene kloisonnierte Gurtelschnalle mit rundem almandinverziertem Beschlag mit zwei strahlen bzw. winkelformig angeordueten Stegen und drei seitlich des Zellwerks in Osen sitzenden Nieten (Fig.1,3-3a); sie wird im Musco Civico in Bologna aufbewahrt. Ihr Fundort und ihre Fundumstande sind unbekanutió; da das Muscum - etwa
im Gegensatz zu anderen Sammlungen, z. B. dem Musco Nazionale di Bargello in Florenz- keine uberregionalen Ankaufe (aus dem Kunsthandel) vorgenommen zu haben scheint, durfte die Goldschnalle vermutlich aus der Emilia-Romagna stammen. Funktional gehorten diese Schnallen mit rundem Beschlag je nach GroBe (Lange zwischen 3,1 und 5,5 cm) entweder zum Gurtel oder zu Schuhschnallen- bzw. Stiefelgarnituren (nicht selten rnit dazogehorigen Riemenzongen); eine funktionale Entscheidung ist gesiGhert nur moglich durch Lagebefunde im Grab oder durch ihr paarweises Vorkorumen (ScLuhschnallen). Kennzoichnend ist anch die Befestigungsart am Lederriemen, da tlas Leder zwischen Zellkasten und Ruckseitenblech geschoben worde. Sind eiurnal Angaben vorhanden, so liegt das reine Goldgewicht dieser Schnallen etwa zwischen 7 und knapp 40 g, von Ausuahmen wie die besonders schwere Gurtelschnalle von F`urst in Bayern mit 52,8 g einmal abgescheni2. Vergleichbare Langen von gesicherten Gurtelschnallen lassen auch fur das Exemplar aUs dem Museom Bologna (Lange 4,5 crn) anf eine gleichartigè Verwendung arn Eeibriemen schlieBen. Die Datierung dieser Goldschnallen in die l. Halfte des 5. Jahrhunderts ist schon seit langem gesichert, anf die dann nach der Mitte des 5. Jahrhunderts andere Goldschnallen mit ovalem bzw. nierenforrnigem Beschlag und weiteren anderen Merkmalen folgen (z.B. im frankischen Childerich-Grab von Tournai oder im gepidischen Ornhatus-Grab von Apahida). Eine feinere Chronologie fur diese Goldschnallen des besprochenen Typs ist - trotz Neufunden nach wie vor schwierig: Gleichwohl plidieren die ungarische Forschung, aber auch andere Autorèn heute zunchmend mehr oder weniger entschieden dafur, Fundkomplese rnit diesen Gurtel- und Schuh- bzw. 9tiefelschnallen im Karpatenbocken rnit ihrer anffallenden Konzontration in den pannonischen Provinzon Valeria und Pannonia I erst in die Zeit nach der vermuteten ~bergabe von (grol3en?l Teilen der pannonischen Provinzon an die Hunnen 433 bzw. in die drei Jahrzehnte zwischen 425 und 455 zu datieren'3. Ein Rekurrieren auf diese und ahnliche Schriftquellen zur Stutzung archaologischer Datierungen kann und sollte in diesem Zusammenhang áber besser unterbleiben, da bis heute in der historischen Forschung kein befriedigender Konsens zu diesern seit alters her umstrittenen Problem der it~bergabe von Pannonien oder Teile von Pannonien' an die Hunnen (433) erzielt werden konutet4. Der archaologische Befund ist heute ohnchin eindeutig genug, da rciternomadische Fundkomplexe (Totenopfer) und reiternornadisch gepragte gerrnanische Bestattùngen prinzipiell in den Ptovinzen Pannonia I und Valeria gesichert sind Und dies mehrheitlich rnit archaologischen Beweisfuhrungen fur das 2. Viertel des 5. Jahrhunderts; zu diesen Fundkomplexen und Grabern gehoren anch die Goldschnallen mit runder Beschlagplatte. Dies schlieBt aber nicht aus, daB einzelue Graber mit diesen SGhnallen - wie z.B. Lébény in Nordwestungarn (Pannonia I) und vielleicht auch Untersiebenbrunn (Familiengrablege] im Marchfeld (Niederosterreich) auch etwas alter sein konnen (1. Viertel des 5. Jàhrhunderts)~S. Die Sitte, ScLuh- bzw. Stiefelschnallen (mit Riemenzungen) aus Cold mit und ohne Almandinverzierung zu tragen (und deren Typen, anch als Gurtelschnalle) geht im Karpatenbeeken anf Reiternomaden zuruck (Hunnen/ Alanen)~ó; entgegen I. Bóna, der diese Tracht `
Ostrom regelfecht erpreBten und an dem anch die zwar ahhangigen, aber in die hannische Grogrnachtpolitik integrierten germanischen Stammesspitzon partizipiertenzo. Als Einzelstucke ~ wie unsere Goldschnalle aus 'Bologna, sind diese GUrtel- und Stiefelschnallen ethnisch naturlich nicht bewertbar; eine Entscheidung3 ob ihr Trage~ also ein Reiteruomade oder ein Cermane war, ist nur im Cesamtkontext eines geschlQssenen und moglichst auch gut dokumentierten Fundensernbles moglich und auch dies gelingt wegen der so stark international gepragten reiternomadischen Komponente zu dieser Zeit nicht im~ner. Dennoch ist fur die Goldschnalle aus dem Muscum von Bologna folgendes unstrittig: 1. ihr Trager war eín Reiternornade oder ein Gerrnane und ist der jeweiligen Stamrnesspitze zuzurechnen, 2. er staromt aus dern Karpatenbocken2i und 3 - sollte die Schnalle tarsachlich aus der E:miliaRomagna stamrnen, was anzuneLmen ist (660!) - dann gelangre ihr Trager hochstwahrscheiulich etwa zwischen 420~450 nacb C)beritalien. Sind diese Bezuge fUr die $chnalle aus ~Bologna' deutlich, so ist bei der Diskussion um diese Schnallen mit aul3erbalb des Zellwerks sitzonden Nieten der zutreffende Hinweis J. Werners in der Eorschung offenbar in Vergessenheit geraten, daB dieser Schnallenlyp aber <`ebensQ eine lSigentiimlichkeit rnediterraner, mit bunten Glaseiolagen verzierter bronzeschnallen,, ist, die “als ImitatiQnen entsprechender Schnallen aus F:delrnetall zweifellos Produkte spatantiken Kunstgewerbes des 5. Jahrhunderts sind; wegen der uberwiegenden Beigabenlosigkeit der nichtgermanischen autochthonen7 circummediterranen Graber (einschlie~lich Syriens und des Libanon etc.) im 5./ó. Jahrhundert ist dieses Trachtzubehor jedoch nur selten uberliefert oder gelangte (aus geplunderten Grabern) in den Kunsthandel. Eine dieser Ausnahmen ist anch eine solche [roH~eHe vergoldete Schnalle mit rundem Beschlag und roter Glaseiulage aus Aquileia (Fig. 1,4), auf die schon J. Werner hinwies23; der genaue Fundort in Aquileia ist leider ebensowenig bekannt wie die Fundumstande. Der Trager dieser nur 3,85 cm langen Schnalle braucht daher kein Germane gewesen zu sein, zumal auch dirckte Gegenstucke zu diesem Exemplar mit ebenfalls seitlich sitzonden Nieten und nicht unterteilter Eiulage im barbarischen reiternomadisch-germanischen Milieu bislang fehlen24. Auch lal3t sich die Datierung dieser mediterranen und ebenso in die fruhmerowingischen Gebiete nordlich der Alpen gelangten Schnallen - anch kleine Paare als Schuhschnallen - wahrend des 5. Jahrhunderts nicht gesichert emgrenzon2S. In gesichert germanische Zusammenhange fuhrt wiederum der Schatzfund von Carpignano nordlich von Pavia; das leider verschollene Fundensemble bestand aus einem massiven rundstabigen Goldhalsreif mit einfachem Hakenverschlu~ sowie aus drei unterschiedlich groíien Goldfingerringen mit rechteckiger Zierflache, der eine mit Monogramm (Fig. 2,1-4)26; der Durchmesser des Halsreifes betragt etwa 16 cm, sein Gewicht ist unbekanut. Zum Schatzfund gehorten ferner 17 Goldmunzon des Honorius (395-423): 10 Solidi (Mediolanum 394/95), 3 Solidi (Ravenna 404/08?) und 4 Tremissi (Mediolanum 394/95)27. Der terminus ad bzw. post quem fur seine Deponierung liegt fruhestens im Jahre 404, die somit schon in der Zeit der Italieneinfalle unter Alarich 408-412 und auch unter Radagais 405/06 erfolgt sein kann2s. Dem worden auch die Fingerringe mit rechteckiger Zierflache (Fig. 2,2-4) nichtwidersprechen, imwesentlichen Formen dererstenJahrzehnte des 5. Jahrhunderts29. Wie die oben behandelten goldenen Schnallen ist anch der massivgoldene Halsreif- ob rundstabig, geflochten oder tordiert - ein Kennzoichen gehobenen sozialen Ranges bei reiternomadischen und germanischen Mannern, vornehmlich in der 1. Halfte des 5. Jahrhunderts, gleichsam ein Rang- und Wurdeabzoichen; ebenso erscheint der 'Torquestrager' wahrend des 4.-ó. Jahrhunderts anf bildlichen Darstellungen in der germanischen Leibwache romischer Kaiser30. Der Trager des Halsreifes von Carpignago durfte als Off~zier in reichsromischen Diensten eher ein Germane als ein Reiternomade gewesen sein (s.u.) und hochstwahrscheinlich aus dem (mittleren?) Donauraum stammen. Fremd in Italien und nur mit Germanen in Verbindung zu bringen sind in der 1. Halfte des 5. Jahrhunderts anch das Silberblochf~belpaar und die silberne Gurtelschnalle mit der allerdings apokryphen Fundortangabe 'Brescia' (Fig. 2,5-ó) und die silberne Gurtelschnalle aus dem Fundkomplex von 'Desana', Prov. Vercelli (Fig. 3,1).
Sollten die genanuten Stucke wirklich aus Brescia (Fig. 2,5-ó) oder Umgebung stammen3~, was jedoch zweifelhaft ist, so ware(n) anch ihreTragerin(nen) ebenfalls dorthin aus de~n Karpatenbeeken gelangt, wo diese Tracht - entsprechend dem Fibelpaar von Villafontana (s.o.) - mit palmettenverzierten SilberbleeFf~beln auch in der Zeitstufe D2a (= Phase Untersiebenbrunn/Hochfelden; etwa 400/410-420/430) ublich war; entsprechende (lurtelschnallen mit grober unverzierter Bechlagplatte konnen aber anch noch der folgenden Stufe D2b (= Phase Laa/Bakodpusta; bis etwa Mitte des 5. Jahrhunderts) angehoren~e Ethnisch sind diese ostgermanischen Erauengraber des 5. Jahrhunderts in Sudostouropa mit archaologischen Mitteln jedoch r~icht einzeluen Stammen ~~vie Ostgoten, Herulen, Skiren und Gepiden zuweisbar33. Nicht gesichert sind anch der Fundort und die Zusammengehurigkeit des Fundensembles von 'Desana', aus dem die groBe Gurtelschnalle (Fig.3,1) stan~mt; ob alle Objekte dieses Ensembles einem Schatzfund entstammen oder auch Teile aus zerstorten Grabern (Trachtzubehor?) sind, die diesem beigemischt wurden? ist unklar, oberitalienische Provenienz ist aber schr wahrscheiulich34. Zu den nichtromischen 0bjekten, die in diesem Fundensemble gesichert vor die Ostgotenzoit gehoren, zahlt diese grolie vergoldete Silberschnalle aus Silberbloch. Vor allem wegen ihres floralen gepunzten Dekors ist sie in die Zeirstufe D2b (etwa 420/30-440/50) einzuorduen mit guten Analogien im Donauraum, in dem die ostgermanische Tragerin dieser Gurtelschnalle beheimatetwar3S; ethnisch giltdasselbewie furdasTrachtzubehor aus CBrescia'. Die Interpretation dieses zuvor behandelten 'Alt'-Bestandes an vorostgotenzeitlichen germanischen Denkmalern ist erheblich eingeschtankt dufch ungesicherte Provenienzangaben sowie durch fchlende Geschlossenheit und Dokumentation der Befunde; um so wichtiger ist, dal3 nach langer Zeit erstmals zwei gut dokumentierte Neufunde in Italien bekanut wurden: die beiden Frauengraber von Castelbolognese in der Romagna (1980) und das FraUengrab von L+adispoli bei Rom (lg83); beide durften - wie zu zoigen sein wird - eher vor die Zeit der Landuahme der Odoaker-Germanen (469/70) gehoren als mit dieser selbst zu verbinden sein. GastelhQlognese: In September 1980 wurden von der Soprintendenza Areheologica per Em~lia-Romagna seehs Graber freigelegt; sie sind Teil einer offensichtlich groberen Nekropole, die leider bei llauarbeiten zerstort wurde. In~ ()rab 1, einem ungestorten Ziegelgrab aus wiederverwendeten romischen Ziegeln, war eine adulte Frau beigeserzt; an beiden Schultern befand sich je eine vergoldete Silberblochf~bel (Fig. 3,2-3a)~ó: Die 13,8 bzw. 14 cm langen t`ibcin sind gekcont,cichnct durch l~almettcnFlcchc um die 13iigelenden attf Kopf- Und l:platte, fcrucr auf der Kopfplatte durcTh scitlich aufgeschotTene. also nicht vernietete Seitculcisten mit jeweils einem h tibplastisciten~ knoslTenartigen .MittaiknoT~Tf; diese Seitculcistert sind gekerht und nacht hirttcn ,ur Kopfplattennickseite umgebogcn, wo sic ihrc I ialtcrung findcn in /,wci zusammengebogenen Silberblechhulsen, die jeweils durch eine anfgelotete Ose gefuhrt sind; in diesen Hulsen befand sich jeweils ein Stift, an dessen vier Enden jeweils ein Knopf anfgescEoben war, der abgebrochen ist und heute fehlt. Auf der Kopfplatte ist noch eine gerippte Mittelleiste mit einer geschwungenen vogelkopfartigen Applike und einem knospenartigen Endknopf apphert. Die formenkondlich-antiquarische und chronologische Analyse dieser Fibeln wurde von mir mit ausfuhrlicher Beweisfuhrung an anderer Stelle vorgenommen37; sie ergab wegen der sehr spezifischen Merkmale eine zoitliche Einordnung in die sudosteuropaische Zeitstufe D2b (= Phase Laa/Bakodpuszta; etwa 420/30-440/50) mit guten Entsprechungen im Karpateuraum. Von dort also gelangte die Dame von Castelbolognese in die Romagna, wo sie wegen ihrer Tracht (Fibelpaar an den Schultern und Fibeltyp) leicht als Fremde, eben als (Ost-)Germanin zu erkennen war. Eine nuhere ethnische Kenuzoichnung dieser Ostgermanin istwiederum nicht moglich (s.o.), wegen der Internationalitat bzw. Uniformitat ostgermanischer Frauengraber des 5. Jahrhunderts in weiten Teilen Sudostouropas, die sich besonders beim Trachtzubehor auswirkt; soziologisch sind die in Einzelgrabern und kleinen Grabgruppen (Familiensepulturen) bestatteten Ostgermaninnen einer Oberschicht zuzuweisen. Wann die Dame aus Castelbolognese nach Italien gelangte, ob erst mit den Odoaker-Germanen (469/70) oder schon zuvor, ist nicht gesichert zu entscheiden. Eine
Einwanderung unter Ooaker ist gerade noch moglich, wenn man so rechnet: Geboren um 430, Erwerb des Trachtzubehores mit 15 Jahren um 445 und bald nach 470 mit 40 Jahren in Italien verstorben; da aber der zeitliche Schwerpunkt der Herstellungszoit dieses Trachtzubehores noch (deutlich?) vor der Mitte des 5. Jahrhunderts liegt, durfte die Ostgermanin von Castelbolognese schr wahrscheiulich vor 469/70 nach Italien gelangt sein33. Ladispoli bei Rom: Das Ziegelgrab (romische wiederbenutzte Ziegel) einer etwa 40-jahrigen Frau wurde 1983 bei Grabungen der Soprintendenza per l'Etruria Meridionale zusammen mitweiteren vier Ziegelgrabern aufgedeckt3s; durch Ackerbau leider gestort, sind die Lage des silbervergoldeten Zikadenf~belpaares und des Goldfingerringes mit hoher Kastenfassung mit gelbgrunerGlaspaste nichtbekannt(Fig. 4,1-3). Drei Graberwaren beigabenlos, das vierte enthielt eine Krugbeigabe. Uber die ursprungliche Grobe des Bestattungsplatzes, der uber einem im 2./3. Jahrhandert wohl landwirtschaftlich genutzten Gelande angelegt wurde, ist somit nichts bekannt, auch nichts uber die Zeitspanne seiner Benutzung, da weitere (gut) datierbare Graber fehlen und auch der Krug zwischen der 2. Halfre des 4. und dem 6./7. Jahrhundert zoitlich nicht naher eingeorduet werden kann40. Am germanischen Ethnikum der Dame von Ladispoli ist wegen der paarweisen Fibeltracht nicht zu zweifeln, auch nicht an ihrer Zugehorigkeit zur Oberschicht. Da einerseits zum Fibelpaar exakte Gegenstucke bislang fehlen und andererseits die Mehrzahl der uber handert bekanuten Zikadenf~beln als Einzelstucke uberliefert sind, fallt eine prazise Datierung des Fibelpaares von Ladispoli schwer. Formenkundlich (Typen) ist eine Datierung nicht moglich; sie gelingtnorim Einzelflal im Kontextdatierbarer Beigaben eines geschlossenen Fundes. In romischer Zeit als meist sehr grolSe bronzone Exemplare bereits bekannt und getragen4~, gehoren die moisten Zikadenf~beln generell aber dem 5. Jahrhundert an und nur noch schr vereinzelt der Zeit um 500 und der 1. Halfte des 6. Jahrhunderts (z.B. Domagnano)4z; in gut datierbaren Grabern Sudostouropas sind Zikadenfibeln (hanfig als Paure an den Schultern, gelegentlich anch als Einzelfibel oder als Drittfibel zu einem Fibelpaur) mehrheitlich in der Franentracht der 1. Halfte bis um die Mitte des 5. Jahrhunderts getragen worden43. Ohne aUf die Diskussion eingehen zu konnen, inwieweit diese Fibeln auch und besonders zur Tracht reiternomadischer Franen und Madchen (Hunnen, Alanen) gehorten und die Zikaden vorn sog. "KauRasus-Krim-Typ" - trorz ibrer als Motiv “von Ostasien unabhangigen ostmediterranen-antiken HerLunft>, ~ als zunachst “nicht-germanische Mode,> dann auch im Karpateoraurn von Germaninnen ubernommen wurden44, sind nach moiner Auffassung in betrachtlicher Zahl anch germanische Tragerinnen gesichert, vor allem dann, wenn sie paarweise funktional in der Franentracht (Schulterlage im Grab) verwendet wurden, so z.B. beim Madchen in der ostgermanischen Familiengrablege von Untersiebenbrunn im niederosterreichischen Marchfeld (Fig. 4,5-ó)4s oder im Kindergrab von Intercisa (Dúnaujváros)4~; die ZiRadenf~beln in Untersiebenbrunn wie z.B. auch die ornamentgeschichtlich eng mit dem Pferdegeschirr aus dieser Familiengrablege verbundene ZiRadenf~bel von Dúmbravioara (Sáromberke, Rumanien; fig. 4,4)47 sind gute Belege bereits fur die Zeitstufe D2a (= Phase Untersiebenbrunn/ Hochfelden; ca, 400/410-420/430). Da - wie erwahnt - aber die moisten gut datierbaren Graber mit Zikadenfibeln ohne Zweifel der 1. Halfte und der Mitte des 5. Jahrhunderts angehoren, durfte dies auch anf das Orab von Ladispoli zutreffen; gesichert ist dies naturlich nicht, da ja in Einzelfallen auch noch eine spatere Datierung (2. Halfte des 5. Jahrhunderts) moglich ist. Ostgotisehe Stammeszugehorigkeit e wie von Frau Cosentino angenommen4a - ist wegen der oben schon mehrfach angesprochenen Schwierigkeiten der ethnischen Auswertbarkeit ostgermanischer Graber des 5. Jahrhunderts in weiten Teilen Sudostouropas nicht zu erweisen, schon gar nicht um die Mitte des 5. Jahrhunderts in Russia Meridionale 5 da dort zu dieser Zeit keine Ostgoten mehr siedelten4s. Zammenfassarg za Jem germaischen Far~dstoff; derges ahert oder drsheiich iz die Zeit vor die germanischer Landrahmer anter adoaker ard Theaderch gehart Mit Ausnahme von LadispQIi und vielleicht noch von Castelbolognese sind alle anderen (Grab-)Funde gesichert in die erste Halfte bis maximal um die Mitte des 5. Jahrhunderts datierbar; anch fur Castelbolognese ist dies ebenfalls hochst wahrscheiulich56 und fur Ladispoli immerbin moglich. Peutlich wurde anch, daB kein zoitlich einheirlicher germanischer Fundhorizont vorliegt:
der Fundstoff gehort sowohl in das erste Viertel (Villafontana und Carpignago) als anch in das zweite Viertel des 5. Jahrhunderts (Schnalle aus 'Bologna', 'Brescia', 'Desana' und hochstwahrscheinlich anch Castelbolognese, dazu vielleicht noch Ladispoli). Wahrend die Dame aus Villafontana vielleicht den Westgoten Alarichs zugeorduet werden kann (401/402 und 408/410-412), sind ethnische ZuweisUngen fur das ubrige Trachtzubehor nicht mehr moglich; Germanen bzw. Germaninnnen aUs dem sudosteUropaischen Raum waren sie aber allemal, Stammeszugehorigkeiten sind jedoch nicht zu ermitteln. Dies erschwert somit zusatzlich natUrlich jeden Versuch, diese Germanen in einen historischen Kontext in Italien einorduen zu wollen. Lal3t man sich auf dieses riskante Unterfangen dennoch ein, so ergeben sich zwei prinzipielle Moglichkeiten: 1. eine mogliche Verbindung mit Germanen-Einfallen, eher unwahrscheinlich wegen der zoitlichen Befristung dieser UnternchmUngen Und 2. eine VerbindUng mit in Italien garnisonierenden germanischen Solduertruppen mit langerer Verweildauer, wofur auch archaologische Kriterien sprechen; eine gesicherte Entscheidung zwischen beiden Moglichkeiten Uberfordert jedoch die geschilderte Befundlage. Germanische Einfalle sind fur den in Betracht kommenden Zeitraum mehrere bekannt: die Westgoten wie ervvahnt unter Alarich zwischen 401 und402undindenJahren408-410/412,derebensovehecrendeGoten-Einfall unter Radagais 405/406 sowie dann Attilas HUnnen (mit fooderierten Germanen)451/452s~. Liel3e sich die Verbergung des Schatzfundes von Carpignago (t.p. 404), dessen Besitzer ein germanischer Torques-Trager war, noch am ehesten mit den Invasionen in den beiden ersten Jahrzehnten des 5. Jahrhunderts verbinden, so fehlen solche Bezugspunkte fur die Zeit danach bis 451/452. Will man also uberhaUpt nach historischen Erklarungsmoglichkeiten suchen, so lage die VerbindUng dieses germanischen FUndstoffes mit in Italien iiber langere Zeit garnisonierenden germanischen Soldaten bzw. Off~zieren und ihren Familien naher, wie sie besonders deutlich dann fur die Zeit des suebischen Comes (456-459) bzw. magister militUm (459-472) Ricimer uberliefert sind (Skiren, Alanen Und Goten)s2; gleiches gilt sicher auch fur die Zeit des comes Und magister militUm Aetius ab 425s3 und fur die Zeit Stilichoss4. Diese “inneren foederati>~, wie L. Várady sie nannteSs, sind es wohl, die den germanischen Fundstoff der 1. Halfte des 5. Jahrhunderts am besten erklaren konnten. Die Graber von Castelbolognese und Ladispoli, die einzigen, zu denen Befund Und Kontext bekannt sind, verdeUtlichen, dah die hier beigesetzten (Ost-)Germaninnen bereits langere Zeit hier gelebt haben durften, da sie nach romischer Sitte in Ziegelgrabern Und wohl anch in Graberfeldern der einheimisch-rornanischen BevolkerUng beigeserzt wUrden. Germanische Fremdgrappen, im italischea Ostgotereich AlamaHHeH im UStgotisC/8H /tali§H 1974 veroffentlichte ich Material aUs gestorten Manner- und Frauengrabern von vier FUndorten, deren trachtgeschichtliche Und formenkUndliche Analyse klare Bezuge zum sudwestdeUtschen alamannischen Stammesgebiet ergab; dies Und seine Datierung “in das lerzte Drittel des 5. und in das 1. Drittel des 6. Jahrhunderts” fuhrten ZU dem Ergebuis, die in den Grabern von Alcagnano, Fornovo di San Giovanni, Villa Cogozzo und 'Verona' (Fig. 10,1, nn. 1-4) Bestatteten mit jenen Alamannen ZU verbinden, die sich schon 496 nach der EinverleibUng derpatr~a Alaman,nor~m durch die Franken unter Chlodwig oder 505/06 nach einem mil3glUckten Aufstand gegen die Frankenherrschaft aulSer Landes begaben; als Fluchtgebiet dieser Alamannen - in den Schriftquellen nicht klar ZU ermitteln, aber Unter ostgotischer Schutzherrschaft (S.U. ) - kam dUrch diesen gesicherten archaologischen BefUnd auch das ostgotische Oberitalien selbst in Betrachtsó. Drei weitere Fundorte konnen nun hinzugefUgt werden: Ficarolo bei Gaiba am Po, also in unmittelbarer Nahe ZU Alcagnano, Und ein Grabfund “aus der Gegend von Florenz”, beides Franengraber sowie ein Mannergrab von Testona im Piemont (Fig. 10,1, nn. 5-7). In der Gemarkung Chiunsana von Ficarolo wurde 1992 im Rahmen planmaBiger Grabungen des Instituts fur Archaologie der Ruhr-Universitat Bochum unter der Leitung von Prof Dr. Hermann BUsing das Grab einer adult verstorbenen Dame ausgegraben, die aus dem sUdwestdeutsch-alamannischen Stammesgebiet nach Oberitalien gelangte; bestattet wurde sie anf dem Gelande einer im 1.-2. Jahrhundert als Werkplatz und Siedlung genutzten Flaches7. Gemoinsam
mit H. Busing und Andrea Busing-Kolbe wird demnachst ein nur diesem Franengrab gewidmeter und starker begrundend auswertender Beitrag erscheinenS9; die Ausfuhrungen an dieser Stelle zu den noch nicht konservierten Objekten konnen daher auf die nur unbedingt notwendigen Grundaussagen in der Bewertung dieses auch kulturgeschichtlich hochst interessanten Grabfundes beschrankt werden. Das Frauengrab (Grab l)s~ enthielt: 1. eine silberne Haarnadel mit vergoldetem massiven EndstUck von quadratischem Querschnitt mit Rillendekor an beiden Enden, Lage hinter der rechten Kopfpartie, Lange 14,1 cm (Fig. 5,5; die Spitze ist abgebrochen); 2. am linken Unterarm ein massiver silberner Arrnreif mit verdickten unverzierten Enden (gro~te lichte Weite 6,8 cm) (Fig. 5,1); 3. an der linken Hand ein silberner (?) Fingerring mit quadratischer Kastenfassung und vier Eckrundeln, offensichtlich mit Almandinen (lichte Weite 1,7 cm) (Fig. 5,2). Nicht in Funktions- bzw. Trachtlage fanden sich: 4. eine silbervergoldete Gurtelschnalle mit ovalem BUgel mit einem Dorn von dachformigem Querschnitt mit plastischem 'Augendekor' an der Doruspitze und verdicktem, gerilltem Dornende sowie mit quadratischer Beschlagplatte mit rankenartigem DeLor mit vier Eckrundeln mit Almandinen und mit einem vertieften Mittelfeld (mit hinterlegtem Bloch mit vier zellgefal3ten Almandinen, Lange 7 cm) (Fig. 5,4); 5. eine gegossene kerbschnittverzierte Bugelfibel mit halbrunder Kopfplatte und drei Knopfen und einer rhombischen Fui3platte, jeweils mit spiralrankenartigem Volutendekor, Lage zwichen den Ful3en, Lange 7,1 cm (Fig. 5,3); ferner: neben dem rechten Oberarm zwei Bronzeringe und eine groBe blane Glaspastenperle mit roten und weien millefioriartig eingearbeiteten Punkten. Nadel und Armreif weisen klare Bezuge zum alamannischen Stammesgebiet auf: Fur die Nadel (Fig. 5,5) - mit exakten Gegenstucken anch in Alcagnano - hatte ich dies 1974 bereits nachgewiesen6u; ahnliches gilt fur den silbernen Armreif (Fig. 5,1) in der fur das alamannisch-frankische Gebiet kennzoichnenden Trageweise eines eilz~elr~en Armreifes am linken Handgelenk, wahrend im ostgermanischen Stammesgebiet - so auch bei den Ostgoten - Kolbenarmreife paarweise getragen wurdenóó. Hier im alamannischen Stammesgebiet hatte am Ende des 5. Jahrhunderts die in Ficarolo bestattete Dame ganz ohne Zweifel wegen dieser trachtgeschichtlich hochrangigen SpezifiRa eine Zeit lang gelebt, aber sie mu6, ja durfte keine Alamannin gewesen sem. Dies ergibt die Bewertung ihrer Fibel (Fig. 5,3), die enge, ja mustergleiche Parallelen sowohl im Karpatenbocken, besonders im gepidischen TheilOgebiet, als anch im alamannischen Stammesgebiet in Grabern von Basel-Kleinhuningen und Basel-Gotterbarmweg besitzt; als Beispiele sei auf die werkstatt-, ja vermutlich gul3gleichen Fibeln von Csongrád-Kettoshalom an der mittleren Theil3 (Ungarn) (Fig. 7, 5-ó)62 Und Basel-Kleinhuningen, Grab 75 (Fig. 7,1-2)63 verwiesen, einziger Unterschied zur Fibel von Ficarolo ist nur die Anzahl der Knopfe. Diese Fibeln gehoren innerhalb der Fibelentwicklung Sudostourops in die 2. Halfte des 5. Jahrhunderts und in die Zeit um 500, dies auch mit Blick anf verwandte Dreiknopffbelnóó. In die gleichen ostgermanisch-sudostouropaischen Zusammenhange etwa derselben Zeit fuhrt der silberne almandinverzierte Fingerring (Fig. 5,2) mit Parallelen im ostgermanischen Frauengrab von Bakodpuszta (Ungarn)ós, im ostgermanischen (gepidischen?) Schatzfund von Cluj-Someseni (Rumanien)66 von Lorrach in Sudbaden (mit einem ostgotisch-italischen Fibelpaar) andererseits6s. Diese Gemoinsamkeiten zwischen dem ostgermanischen mittleren Donauraum und den Alamannen vor allem am Basler Rheinknie sind schon lange'bekanut, dank einer umEanglichen Studie von J. Werner, der anch schon auf die genannten Ubereinstimmungen bei den Fibeln hinwiesóóó: “Diese Bezichungen spiegeln Verbindungen der donaulandischen Germanen zum frankisch-alamannischen Gebiet in der Zeit nach dem Zusammenbruch des Attila-Reiches (453) und vor der Abwanderung der Ostgoten nach Italien (488) wider ” , die noch “ aUf der Linie gepidisch-alamannischer Gemoinsamkeiten~~ bis in das fruhe 6. Jahrhundert fortwirken70. Da Trachtzubehor regelhaft nicht als'Import' interpretierbar ist, sind die genanuten so spezifischen Verbindungen zwischen den Alamannen am Basler Rheinknie und dem Donauraum nur durch unmittelbare personenbezogene Kontakte, also durch Mobilitat von Personengruppen sinnvoll erklarbar. Von dort also, aus dem
(gepidischen?) Mitteldonauraum, durfte die Dame von Ficarolo in der 2. Halfte des 5. JahrhUnderts an das Basler Rheinknie bzw. in das alamannische Sudwestdeutschland gekommen sein, wo sie einige Zeit lebte und alamannisiert wurde (Haarnadel, einzeln getragener Armreif). Aber anch dies war nicht ihre letzte Station: Zusammen mit anderen Alamannen gelangte sie als alamannischer Fluchtlingvorden Franken Chlodwigs 496 oder 505/06 nach Oberitalien (s.o.), ein bewegtes Schicksal also, das sich anf archaologischem Wege einmal gut rckonstruieren und anch interessante akkulturationsgschichtliche Verhaltensweisen erkennen la[3t; in ihrer nenen Heimat in Oberitalien behielt sie zwar ihre alamannischen Spezif~ka bei, trug aber - der alamannischen f ranentracht vollig fremd - das kenuzoichnend grolle Gurtelschlob der ostgotischen Frauentracht (Fig. 5,4). Aber auch dieses GurtelschloB eroffnet Probleme, sowohl in seiner Datierung als auch in der ethnischen Interpretation; die Gurtelschnalle findet ihre nachsten mustergleichen(!) Parallelen namlich in drei Gurtelschnallen sowohl im Donauraum als auch in Italien: von unbekanntem italischen Fundort (Fig. 10,4), aus Oradea (Nagyvárad) am KorBs in Nordwestrumanien (Fig.10,3) und aus Kapolcs an der Nordwestecke des Plattensees in Westungarn (Fig.10,2)7~; nur die Schnalle aus dem Grab einer jungen erst 15-18jahrigen(!) Frau in Kapolcs ist durch Beifunde gut datierbar und zwar in die Zeitstufe D2/D3 und/ oder fruh in Zeitstufe D3 (etwa um die Mitte oder in das 2. Viertel des 5. Jahrhunderts), weswegen anch die Tragerin der Schnalle aus 'Italien' unter Odoaker (469/70) oder Theoderich (488) nach Italien eingewandert sein kanni2. Wegen ihres Fundortes kann die junge Frau aus Kapolcs also eine Ostgotin wahrend der Zeit des pannonischen Ostgoteureiches (456-473) gewesen sein, wahrend der Fundort Oradea im fruhgepidischen Siedelgebiet ~u liegen scheint73. Es ist also gut moglich, dal3 die adult verstorbene Dame von Ficarolo ihr Gurtelschlol3 nicht erst in Italien erworben hat, sondern - als Ostgotin oder Gepidin(?) - bereits im Donaugebiet. Merkwurdig ist jedoch die nicht funktionale Grablage der Fibel (zwischen den FuBen) und der Schnalle (neben dem linken Knie) sowie das Vorhandensein nur einer Fibel. Das zweite, in diesem Zusammenhang nachzutragende Grabensemble ist das <`aus der Gegend von Florenz” (Fig. 6); dieses ist zwar schon altbekanut74, wurde von mir 1974 aber nicht berucksichtigt, da ich die Zusammengehorigkeit der aus dem Kunsthandel angekauften Objekte bezweifelte7S, namlich aus westlich-merowingischen (alamannischen?) Fibelpaar und gotischer Gurtelschnalle. In Kenutnis des Grabfundes von Ficarolo ist eine solche Zusammensetzung aber nun gut moglich. Wahrend die Gurtelschnalle (Fig. 6,3) offenbar ostgotisch-italisch ist7~ - uberraschende Neufunde wie zur Schnalle aus Ficarolo bereits der 2. Halfte des 5. Jahrhunderts aus dem Donauraum gibt es (noch) nicht (s.o.) -, gehort das Fibelpaar aus diesem Ensemble mit gleichbreitem Bugel und Fu13 ganz allgemoin zu den Typen aus dem westlich-merowingischen Stammesgebiet. Exakte Gegenstucke sind mir nicht bekanut, gleichwohl aber eine Vielzahl von Parallelen zu dem rankenartigen Dekor anf Kopfplatte und Bugel, der in aufgeloster Form dann als Kreisdekor, auch tangential verbunden, erscheint77, so z. B. anch in Fornovo di San Giovanni7a; ahnliches gilt fur den perlschnorartigen bzw. fein quergerippten Dekor der Fu~platte7s. In der Verbreitung solcher Fibeln sind - ohne Spezialuntersuchungen - zwischen frankischem und alamannischem Siedelgebiet noch keine regionalen Schwerpunkte erkennbar; zoitlich gehoren diese und ahnliche Fibeln in das ausgehende 5. und in das 1. Viertel des 6. Jahrhunderts. Wie im Falle von Ficarolo kann es sich bei dem fur die Sammlung J. Evans 1887 im Kunsthandel in Rom angekanften Ensemble also schr wohl um das Grab einer gotisierten Alamannin handeln; ob die Fundortangabe “Nahe von Florenz” glaubhaft ist, bleibt jedoch offen8~. Aul3er der ostgotischen kloisonnierten Bugelfibel konnte durch U. Koch nun ein zweites vorlangobardisches Objekt aus dem groJ5en langobardischen Graberfeld von Testona im Piemont ausgesondert werden: eine Schildfessel (Fig. 8,1) aus einem Mannergraba~, dem - wie auch sonst in Testona - keine Beifunde mehr zugorduet werden konnena2; die so spezifischen Schildfesseln mit Haken beiderseits der Handhabe sind kennzoichnend fur alarnannische Schilde des spaten 5. und fruhen 6. Jahrhunderts (Pig. 8,2), und so kann kein Zweifel sein, dal3 auch ihr Besitzer zu jenen Alamannen gehorte, die sich nach Chlodwigs Sieg uber die Alamannen ins ostgotische Italien gefluchtet hattena3. Fur Testona verstarkt sich also die schon von O. v. Hessen geaulberte
Verrnutunga4, dal3 wahrend der frahen Phase der Belegung dieses Graberfeldes durch Langobarden der Einwanderergeneration nach 5688S oder auch schon zuvor Ostgoten bzw~ ostgotenzoitliche Cermanen bestattet wurden. Fremd im ostgotenzoitlichen Italien ist auGh eine weitere Bugelf~bel westlich-merowingischen Typs von Avigliana bei Turin im Piemont (Fig. 9,1 )aó. Das Exemplar gehort zu dem in Form und Ornament (dazu sieben Knopfe) vergleichsweise gut definierbaren Fibeltyp von Nikitsch, fur den J. Werner trotz der Vorkommen an diesem voritalischen langobardischen Fundort im Burgeoland und in Kranj-Krainburg (Slowenien) langobardische Herkunft aber doch und zurecht ausschloB8~. Immerhin sind nun vier Fundorte von insgesamt sieben im alamannischen Stammesgebiet gesichert, darunter das Fibelpaarvon Stein am Rhein (Fig. 9,2)aa. Bislangwegen fehlendergut datierbarer Beifunde nur stilistisch beurteilbar, hat sich inzwischen die vermutete Datierung in das 2. Viertel des 6. Jahrhunderts durch den Nenfund aus Fridingen bestatigt89; dies schlieBt einen archaologisch-historischen Zusammenhang mit dern bisher behandelten alamannischen Fundstoff jedenfalls aus. Wie die in Avigliana bestattete Dame nach Oberitalien gelangte, ist unklar; drei Moglichkeiten bieten sich an: 1. 568 mit den Langobarden (vgl. Nikitsch) aus ihrem voritalischen Siedelgebiet, 2. im Zusammenhang mit der frankischen Italienpolitik unter Thendebert zwischen 539 und 562, die sich zoletzt jedoch nur noch in Venetien auswirkte unc~ an der auch alamannische Kontingente beteiligt waren, besonders anf eigene Rechnung unter den Alamannen-Herzogen Butilin und Leuthari 553 5559c oder ganz allgemein 3. Mobilitat der Person aus dem sudwestdeutsch-alamannischen Raum, vielleicht aufgrund noch bestohender Ruckverbindungen der vor Chlodwig gefluchteten 'italischen' Alamannen zu ihrer alten Heimat. Gepide ostgotis he Italien Auf archaologische Belege fur Gepiden aus der Zeit des Ostgoteureiches in Italien hatte ich schon 1975 hingewiesen: auf die gul3gleichen Fibeln von San Andrea di Grottamare in Picenum (Fig. 9,3), wahrscheiulich aus einer ostgotischen Grabgruppe, und aus der Gegend von Pavia (Fig. 9,4). Ihre Zierweise auf Kopf- und FuBplatte mit kleinen tangential verbundenen Kreisen und das unverzierte rhombische Mittelfeld anf der FuBplatte sind kenuzeichnend fur eine Gruppe gepidischer Fibeln des TheiBgebietes~z, darunterdas Fibelpaaraus Szontes-Kokényzug, Grab81 (Fig. 9,5)93; sie datieren in die 1. Halfte des 6. Jahrhunderts. An gepidischen Nenfunden in Italien ist nur ein Ensemble dazu gekommen, das ich bereits 1975 unter unbekanntem italischen Fundort publiziert hatte, das aber dank der Nachforschungen von S. Gelichi (Bologna) aus San Giovanni in Persiceto bei Bologna stammt: ein gepidisches Fibelpaar und eine grolSe ostgQtische Gurtelschnalles4; da die Objekte im Kunsthandel in Rom 1971 angekauft, aber schonvordem 2. Weltkrieg gefundenwurden, ist die Zusammengehorigkeit dieses Ensembles zu einem Frauengrab nicht verburgt und weitere Schlul3folgerungen sind entbehrlich. Gepidischer Herkunft war vielleicht auch die Dame aus Imola-Villa Clelia, Grab 195 aus der Zeit um 500 oder der 1. Halfte des 6. Jahrhunderts9;. Historisch sind Gepiden im Ostgoteureich bezeugt96. In diesen archaologisch-historischen EContext sind sicherlich anch die beiden gepidischen BugelEibeln im Graberfeld von Kranj-Krainburg (Slowenien) einzuorduen, in dem auBer Romanen, Alamannen (anch der Zeit um 500!) und Langobarden anch Ostgoten zoitgleich mit den Gepidinnen im ersten Drittel des 6. Jahrhunderts beigesetzt wurdens:. 3. Ostgotishe Nefunde nach 1975 Drei osigotische Fibeln (Ravenna, Calvatone und Imola-Villa Clelia) und eine Gurtelschnalle (Argenta, Pieve San Giorgio) sind inzwischen bekanut geworden, nur Calvatone vermutlich aus einem Grab, alles andere sind Siedlungsfunde (Argenta aus einer mittelalterlichen Schicht)sN. Das bisher gezeichnete Bild zu den Ostgoten in Italien wird von diesen Nenfunden nicht verandertss.
Auf nachhaltige Weise erweitert wird dieses jedoch durch die systematischen Grabungen von G.P. Brogiolio auf dem Monte Barro am Sudwestende des Comer Sees seit 1986, durch die erstmals eine ostgotische Militaranlage am Sudrand der Alpen (Castrum) gesichert ist~oo. VOLKER BIERBRAUER
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Longobardi in Italia: necropoli altomedievali e ricerca storica “Mal s'avvisa Chi va de' brandi longobardi in cerca” A. MANZONI, Adelchi, atto I, scena V
Nelle alterne vicende di un conflitto che si svolgeva fra uccelli e topi, i pipistrelli - si racconta riuscirono sempre a condividere i vantaggi della vittoria semplicemente chiudendo le ali se i topi vincevano, aprendole se a prevalere erano gli uccelli. L'apologo serve qui a definire, per contrapposizione chi - per sua natura o per una certa vocazione alle posizioni scomode - si trovi invece a fare il topo con gli uccelli e viceversa. Nel caso concreto, chi pretenda di ricordare agli storici l'utilità di non trascurare i reperti archeologici e agli archeologi di non perdere di vista le ricostruzioni storiche, nel migliore dei casi correrà il rischio di riuscire importuno agli uni e di provocare il risentimento degli altri. Parlare di "storici" e di "archeologi" come se si trattasse di studiosi accampati su posizioni antitetiche è naturalmente un semplice artificio poiché ciascuno procede con propri mezzi e metodi verso un medesimo obiettivo, senza soggezioni né opposizioni di sorta. Entrambe le categorie, inoltre, sono complesse; non conta tanto una collocazione accademica quanto la formazione, gli interessi personali e l'attività da ciascuno realmente svolta. Gli "archeologi" possono avere scavato, oltre che nella terra, nei musei, provvedendo allo studio e alla valorizzazione di oggetti scoperti anche molto tempo prima; le loro competenze, talora, potrebbero pertanto essere di carattere più storico artistico che archeologico. Fra essi vi sono ora molti italiani, ma sempre considerevole rimane l'apporto di studiosi tedeschi e di metodi ispirati alla loro scuola che, in questo campo di studi, continua ad avere in Italia il monopolio: al contrario di quanto avviene in settori diversi della ricerca archeologica, non vi si trova infatti coinvolto nessun altro straniero operante nel nostro paese. Il gruppo degli storici va a sua volta inteso in modo del tutto speciale: pur senza essere "longobardisti" in modo esclusivo, essi devono necessariamente essersi occupati di quei due secoli di storia italiana corrispondenti all'età longobarda, cioè, in definitiva, di un breve per quanto importante periodo dell'alto medioevo; si tratta perciò di un numero di specialisti alquanto ridotto. Va detto infine che, pur con caratteristiche sue proprie, collegate alla precisa area cronologica e ad una particolare classe di oggetti, il nostro argomento rientra in pieno nel più vasto quadro dei rapporti intercorrenti fra archeologia e storia e ne condivide molti problemi. 1. Storici e archeologi: un rapporto difficile L'interesse per le "anticaglie barbariche", com'è noto, sorse in Italia soltanto sul finire dell'Ottocento e quindi non se ne poterono giovare coloro che, nei decenni centrali di quel secolo, discussero a lungo sulla cosiddetta "questione longobarda"; del resto antichità "barbariche" si dissero proprio perché si trattava di oggetti non ancora assegnabili con sicurezza ad una precisa popolazione, che poteva anche non essere longobarda; esse, inoltre, furono a lungo giudicate di pertinenza della storia dell'arte e quindi fuori della competenza diretta di chi si occupava di storia, ciò che allora signicava ricostruire i fatti approfondendone tutt'al più taluni aspetti giuridici e istituzionali. Fu Carlo Cipolla, a cavallo fra lo scorso secolo e il nostro, a farsi anche attento illustratore delle antichità germaniche scoperte nel Veronese e a valorizzarne l'importanza in alcuni suoi lavori (1); anch'egli le considera però propriamente pertinenti al campo artistico (2), e forse per questo non ritenne di servirsene nei suoi studi sulla “storia d'Italia e de' suoi conquistatori” (3). Si comprende quindi che, a maggior ragione, i reperti archeologici vengano ignorati da coloro che non avevano mai avuto occasione di occuparsene direttamente, si tratti di storici "puri" o di storici del diritto, ai quali ultimi, in specie, era lasciato lo studio dell'alto medioevo. Va nondimeno notato che Gioacchino Volpe, nelle sue finissime pagine di sintesi dedicate a “latinità e germanesimo”, non manca di precisare che “gli antichi nemici” ebbero dapprima “nello stesso villaggio distinti sepolcri” e solo in seguito “sentirono attenuarsi quella reciproca ripugnanza e
riposarono dopo morti nello stesso cimitero” (4). Le sue parole certamente sottintendono conoscenza e interesse per i ritrovamenti di quell'età, ma si tratta di un caso del tutto sporadico se ancora nel 1940 1'1talia medioevale di Luigi Salvatorelli, benché doviziosamente illustrata con fotografie di materiali “barbarici”, non dedica ad essi nemmeno un cenno (5). Il silenzio viene rotto poco dopo da Guglielmo Pepe il quale, tracciando un quadro complessivo del “medioevo barbarico d'Italia”, si domanda se sia veramente esistita un'arte longobarda. Egli conosce certe ingegnose ricostruzioni di “protostoria dei Longobardi” fatte da “competenti„ sulla base di “etimologie, toponomastica e scavi di necropoli”, che considera “più lavoro di fantasia che di pensiero storico„. Nelle sedi pannoniche, a suo giudizio, non si trova traccia di arte, ma tutt'al più di prodotti industriali: “Pentole e fibule”! E poco di meglio affiora nelle “necropoli longobardiche d'Italia” che non sia stato semplicemente “rubato dai barbari nelle loro peregrinazioni” (ó). Gli sbrigativi giudizi espressi nel libro del Pepe ebbero il merito di provocare l'interesse di Giampiero Bagnetti (7), il quale, quasi per reazione, venne spinto a valorizzare l'importanza dei ritrovamenti funerari nella ricostruzione storica dell'età longobarda. Al suo entusiasmo trascinatore si dovette anzi se, negli anni '60 del nostro secolo, occuparsi di archeologia "medievale" in Italia significò, di fatto, esaminare reperti di età longobarda (8). Né la figura del Bognetti, eccezionale e fortemente innovativa, rimase del tutto isolata poiché accanto a lui altri studiosi sollecitarono e promossero, sia pure in modo meno incisivo e partecipe, l'affermazione dell'archeologia medievale come disciplina destinata ad occuparsi innanzitutto dei Longobardi in Italia. Fra essi va ricordato Carlo Guido Mor, occasionalmente relatore egli stesso di “ritrovamenti barbarici” in Friuli (9), ma soprattutto, in diversi modi e occasioni, zelatore di ricerche di tipo “bognettiano”. Trovandosi nondimeno a trattare dei Longobardi a Verona anche il Mor rimise i dati archeologici alla competenza degli storici dell'arte (10), segno evidente che l'indirizzo storiografco stabilitosi in Italia dal Cipolla in poi continuava ad essere predominante rispetto alle recenti aperture del Bognetti. In parte analoga fu la posizione assunta, negli stessi anni, da Gina Fasoli, anch'ella vivamente interessata allo sviluppo di un'archeologia medievale che si augurava in grado di “trovare una risposta agli interrogativi posti dagli storici” tenendo in dovuto conto anche le “tombe barbariche” (11). Poco più tardi però, nell'occuparsi degli stanziamenti longobardi in Italia, le sue aspettative appaiono già fortemente ridimensionate. “Le prove più sicure di uno stanziamento longobardo - scrive infatti nel 1969 - dovrebbero essere - a rigor di logica - fornite dai ritrovamenti archeologici: in realtà i rinvenimenti archeologici provano che, in quel determinato luogo, in un certo momento, sono stati sepolti dei Longobardi, ma a parte la difficoltà di datare con precisione quel momento, i rinvenimenti archeologici non ci dicono se e quanto quei defunti avevano vissuto sul posto, se e quanto continuarono a viverci i loro discendenti. Inoltre i ritrovamenti archeologici - quando non si tratti di complessi monumentali o di rinvenimenti nell'ambito di tali complessi - sono assai spesso casuali e conservano sempre qualcosa di ambiguo e di indecifrabile”.Finivano così per apparirle “più eloquenti” le dedicazioni santoriali tipiche e i dati toponimici, “convalidati magari da testimonianze archeologiche” (12). Qualcosa forse aveva deluso le sue aspettative e aveva contribuito ad attenuare i precedenti interessi. Fra gli storici che hanno dato importanti contributi alla storia dei Longobardi in Italia, riprendendo e discutendo le tesi proposte dal Bognetti, un posto di primo piano va dato a Ernesto Sestan, il quale non mancò di esprimere ammirazione per la capacità dello studioso milanese nel mettere a profitto “i reperti archeologici, la toponomastica, I'onomastica, in un quadro globale di grande interesse con una foga anche arditamente congetturale, che affascina” (13). Nel considerare, a sua volta, la “composizione etuica della società in rapporto allo svolgimento della civiltà in Italia nel secolo VII” (14), egli evitò però accuratamente di servirsi degli stessi strumenti e di prendere posizione al riguardo, in un'occasione che, più di ogni altra, gliene avrebbe offerto la possibilità. La scelta trova forse spiegazione nel cenno di qualche anno prima alla “foga anche arditamente congetturale”, affascinante è vero, ma che - si deve intendere - non era opportuno imitare.
In tale quadro si inserisce anche l'atteggiamento di Giovanni Tabacco, molto attento all'opera del Bognetti e alle sue ricostruzioni storiografiche: pur vivamente interessato ad una collaborazione multidisciplinare che, nel risolvere i problemi del popolamento, si serva in modo convergente dall'apporto di archeologia e di toponomastica (15), egli personalmente si astiene sempre dal ricorrervi, secondo una posizione che, d'altronde, continua ad essere seguita dalla maggioranza degli storici interessati alle vicende dell'Italia longobarda (16). Almeno in buona parte diverso appare l'atteggiamento assunto dagli studiosi di altri paesi. In Francia Lucien Musset riconosce senz'altro che la ricerca archeologica sulle necropoli offre “la più valida e sicura documentazione sul livello di civiltà”, di un popolo e, “con il perfezionamento delle tecniche di scavo e delle analisi di laboratorio”, fornirà in futuro i materiali più importanti per rinnovare le nostre conoscenze sulla così detta “età delle invasioni”(17). Gli autori più recenti nel ricostruire, almeno in rapida sintesi, la storia della Francia merovingia, non mancano infatti di considerare, insieme con le fonti scritte tradizionali, anche i ritrovamenti funerari: proprio attraverso di essi risulta possibile verificare quella “lenta fusione di popoli” che è alla base della civiltà francese (18), e le tombe dotate di corredo, allineate nei “cimiteri a righe„, concorrono abbondantemente a stabilire l'apporto ad essa data dai Franchi (19). Si tratta, in sostanza, della linea sulla quale già molti decenni or sono si era messo Giampiero Bognetti, che viene seguita ora in Italia da Paolo Delogu. Egli, dopo essersi personalmente cimentato con l'insidiosa datazione di oggetti preziosi ritrovati nei sepolcreti (20), è oggi di fatto 1'unico storico di professione che tenga conto di quei materiali sia in sintesi complessive sul regno longobardo (21), sia in studi particolari, esprimendo francamente la convinzione che, senza l'apporto archeologico, la storia del periodo sarebbe costretta “a rimestare di continuo le poche notizie acquisite, in un gioco, ormai sterile, di combinazioni e di ipotesi” (22). Rimane però il fatto che, nella maggioranza dei casi, gli storici italiani preferiscono ignorare l'esistenza dei reperti archeologici dando l'impressione di considerarli, se non irrilevanti per una ricostruzione complessiva, almeno non pertinenti: essi sono probabilmente riguardati come appartenenti alla storia delle arti minori, come trascurabili fatti di cultura materiale o semplici curiosità etnografiche, ma non come fonti storiche a pieno titolo. Per alcuni, anzi, l'iniziale interesse per le antichità "barbariche" ha finito poi per cedere alla diffidenza. A che cosa attribuire una tale posizione? Una spiegazione è stata data dagli stessi archeologi. Il “recupero delle testimonianze materiali” sarebbe stato impedito “dalla propensione per una storia intesa essenzialmente come ricostruzione di avvenimenti e di strutture giuridiche” dalla quale consegue “una ben ridotta consapevolezza del ruolo che l'archeologia avrebbe potuto svolgere nel lavoro storiografico relativo ad una popolazione barbarica” (23). D'altra parte anche le aperture del Bognetti vengono oggi giudicate del tutto insufficienti: egli appare infatti “quanto mai lontano da una concezione moderna dell'archeologia” per aver conservato “una visione di essa come tecnica sussidiaria e subalterna (...) venata dalla superiorità dello storico che guarda all'archeologia come a ingegnosi giochi di ragazzi, o al settecentesco gabinetto di curiosa” (24). Ciascuna delle due parti dovrà però assumersi almeno una parte di colpa: è innegabile che le ricerche archeologiche, sino a tempi recenti, sono state guidate da prevalenti interessi storico artistici e antiquari; ci si è limitati a catalogare e a datare i reperti senza badare al coordinamento con la parallela ricerca condotta sulle fonti tradizionali, né si è avuta presente la prospettiva di una ricostruzione complessiva (25), e infine, nonostante l'affinamento metodologico intervenuto, non c'è dubbio che in taluni casi l'archeologia rimane esposta al pericolo, già denunciato dagli storici, di “tenere per acquisito proprio ciò che dovrebbe invece essere provato” (26). 2. La necropoli "specchio " delle società? È facile in verità per chiunque soggiacere al fascino che emana dai corredi funerari: essi hanno il potere di metterci in contatto - in apparenza senza intermediari - con un popolo scomparso da secoli attraverso l'oscuro (e un poco morboso) richiamo degli oggetti sepolcrali e il luccichio di metalli
preziosi, ma è evidente che il gusto antiquario, le suggestioni romantiche e gli estetismi decadenti in realtà hanno poco a che fare con la storia. Non mancano poi altre obiezioni, scontate a quasi rituali (27), è vero, ma non per questo meno serie: troppo spesso i reperti sono giunti a noi in maniera avventurosa e priva di ogni base scientifica, tanto per l'occasionalità del ritrovamento quanto per l'accidentalità della loro scelta e conservazione, avvenute in passato senza alcuna sistematicità e con totale disinteresse per la composizione dei corredi e dei contesti in cui ciascuno di essi era in origine collocato; è frequente, anzi, che non si conosca nemmeno il luogo di rinvenimento. Sulle incertezze di partenza si accumulano inoltre le difficoltà interpretative. Lo storico, pur ben intenzionato a rimettersi al giudizio dei “competenti” (come li chiamava Guglielmo Pepe), si accorge con preoccupazione che anch'essi procedono talvolta a tentoni. Progressi certo sono stati compiuti e si vanno di continuo compiendo, ma con il progredire degli studi si direbbe che le incertezze, invece di diminuire, aumentino giungendo ad investire aspetti fondamentali: sino a che punto, innanzitutto, gli oggetti dei morti rispecchiano la società dei vivi? Un tempo si tendeva a considerare senz'altro la necropoli specchio fedele della società contemporanea, ma tale convinzione ha trovato in seguito radicali negatori i quali ritennero invece che la realtà venisse irreparabilmente deformata dalla ritualizzazione dei seppelliment (28). È peraltro certo che gli oggetti ritrovati nelle tombe - al contrario di ciò che in genere avviene per gli insediamenti - “non rappresentano un profilo obiettivo degli oggetti in uso, ma una scelta soggettiva, realizzata coscientemente, determinata dalle usanze religiose dell'epoca” (29); talora si può anzi avere la prova che essi sono stati allestiti per esclusivo uso funerario (30). Anche per tali ragioni risulta “quanto mai delicato e impervio” spiegare attraverso una presumibile gerarchia la diversa ricchezza di certi corredi, per quanto a prima vista appaia ovvio pensare ad una stratificazione sociale con eventuali gradi di subordinazione (31). Successivi studi, approfondendo aspetti sociologici e antropologico culturali, hanno messo in evidenza che la correlazione tra il livello sociale e la ricchezza del corredo, lungi dall'essere determinata da fatti meramente economici, è soggetta ad influenze che coinvolgono “il sesso, l'età di morte, le condizioni e il luogo in cui la morte è avvenuta” in modo tale che “soltanto attraverso l'analisi comparata delle altre manifestazioni culturali e materiali della stessa società, si può verificare il grado in cui i dati funerari riflettono la struttura sociale”. A sua volta la maggiore o minore presenza di oggetti di valore sarebbe espressione sia della variabilità della ricchezza, sia “della relativa disponibilità di materiale prezioso in una data epoca”, nonché della tendenza ad imitare i caratteri delle sepolture privilegiate appartenenti ai “fondatori” di ciascuna necropoli (32). Si tratta di osservazioni e di proposte di indubbio interesse, ma andrà osservato, innanzitutto, che per giungere a tali risultati occorrono analisi molto sofisticate, possibili soltanto qualora gli oggetti di una necropoli siano stati recuperati con procedimenti impeccabili e in modo integrale; rimane perciò senz'altro esclusa la maggior parte dei reperti oggi disponibili. Il gioco delle influenze culturali e psicologiche apparirebbe inoltre così complesso e mutevole da rendere di fatto illusoria ogni possibilità di ricostruire la società dei vivi attraverso lo studio delle sepolture. Di fronte al paradosso di un progresso degli studi che rischia di rendere inutilizzabili i dati, al non specialista sembrerebbe dopotutto più ragionevole pensare che l'immagine della società fornita dalle necropoli con corredo - nonostante sia resa stereotipa e cronologicamente sfasata dalla ritualità degli usi funerari - rifletta in modo approssimativo, ma pur sempre credibile, la condizione degli individui che vi sono inumati e le differenze che fra loro esistevano in vita (33). Schermi inattesi impediscono talora di risalire dai reperti alla società che li ha espressi, come dimostra, ad esempio, il tentativo di paragonare fra loro i corredi di Nocera e di Castel Trosino, i due soli sepolcreti italiani che dispongano di una documentazione rilevata in modo sistematico al momento dello scavo. Entrambi- contengono tombe che vanno dall'invasione alla metà del secolo VII, ciò nonostante ciascuno di essi sembra riflettere un'organizzazione sociale diversa e un differente grado di accoglimento delle tradizioni romaniche; la situazione viene giustificata attraverso “una
complessiva seriorità di Castel Trosino rispetto a Nocera Umbra” (34), ma ogni giudizio viene reso più difficile dal fatto che i reperti non sono mai stati riesaminati a fondo con criteri moderni. Nel quadro di una realtà necessariamente sfumata ed elusiva andrà collocato anche il significato sociale da attribuire, in generale, alle armi presenti nelle tombe. In casi ben documentati, mediante opportuni confronti e accurate analisi, si è potuto dimostrare che le armi sono “l'espressione rituale di una condizione etuica, sociale e forse ideologica basata sullo status di guerriero” (35), non quindi di una funzione diretta e reale. Del resto spada, lancia e scodo trovati nella tomba dell'orefice di Grupignano, presso Cividale, insieme con gli attrezzi della sua arte (36), indicano semmai una condizione di uomo libero e non 1'effettivo esercizio di un'attività militare. Ogni problema ricco di implicazioni storiche, che prenda avvio dall'esame dei corredi funerari, rimane spesso senza possibilità di soluzioni soddisfacenti. Le scritte su cinture, selle e scudi, ad esempio, saranno state recepite dagli utenti di quegli oggetti con un valore puramente magico simbolico, oppure si trattava di persone in grado di apprezzare il loro reale significato? (37). I detentori degli anelli sigillari con inciso un nome di persona, scoperti in un certo numero di tombe, erano alti funzionari del regno in grado di leggere e di scrivere, oppure saranno anch'essi da considerare analfabeti? (38). E sono soltanto due delle questioni destinate a rimanere senza risposta, a meno che non si voglia accettare un modo di approccio che consenta di andare oltre l'attribuzione etnica di quegli oggetti. 3. Il superamento del significato etnico Fuori d'Italia si è da tempo giunti alla conclusione che “occorre rinunciare a utilizzare i Reihengraber come indice di popolamento germanico”; anche “il portare armi”, pur rimanendo manifestazione di ricchezza, parrebbe più “un indice di mancanza di sicurezza che di germanesim” ed è da considerare in gran parte “una moda”: molti dei “guerrieri barbarici” di cui si sono trovate le tombe sarebbero pertanto, in realtà, “contadini del luogo che hanno assimilato dai Franchi qualche costumanza”. Appare prudente, in definitiva, evitare di porre “in termini di conquista e di popolamento un problema che dovrebbe risolversi in termini di assimilazione e di incivilimento per non dire di costume” (39). Tali conclusioni sono oggi ampiamente condivise: le inumazioni con corredo vengono giudicate “un fenomeno di moda e non di popolamento, senza carattere etnico”, pur essendo legato alla diaspora delle famiglie aristocratiche franche nel bacino parigino (40). L'impossibilità di una discriminazione etnica su base archeologica, riconosciuta anche dagli archeologi tedeschi (41), non supera però facilmente la barriera di certe tenaci convinzioni, che continuano a nutrirsi “anche di slogan scientifici” (42), e insistono nell'attribuire un'importanza fondamentale all'accertamento delle origini etniche. Occorrono voci di oltre Oceano - e per ciò stesso più facilmente “super partes” - a raccomandare agli “archeologi prudenti” di non “dare nomi etnici ai resti che essi scoprono” dal momento che “gli ossami non hanno passaporto” (43). Il problema viene complicato dai contributi degli antropologi che, a loro volta, pretendono di attribuire con certezza a ciascuno scheletro un “passaporto” senza tenere conto dei corredi tombali e degli oggetti che li compongono (44): “Durante l'età longobarda - si è anzi osservato - i sepolti possono avere un corredo con oggetti di tipo longobardo senza appartenere a tale gruppo etnico” mentre, viceversa, “si trovano sepolture sprovviste di corredo certamente riferibili a Longobardi” (45). Lo studioso che non sia né uno specialista nel classificare fibule e placche né un meticoloso misuratore di femori e di capacità craniche, ha ragioni sufficienti per dirsi disorientato e per negare credibilità agli uni e agli altri. Si potrà infatti davvero pensare ai Longobardi (o a qualunque altra popolazione antica) come ad un gruppo antropologicamente omogeneo tale da essere senz'altro riconoscibile, a colpo sicuro, dalla sola struttura ossea? Quanto agli oggetti di corredo sarà utile ribadire che uomini e donne con indosso “una fibula di stile longobardo non sono necessariamente longobardi” (46), innanzitutto perché a reperti mobili che passano facilmente di mano in mano per acquisto, dono o razzia, non sarà mai possibile attribuire un
significato etnico assoluto, e, in secondo luogo, come si è già notato, la presenza nella tomba proprio di quegli oggetti e non di altri, è frutto di una semplice “moda” funeraria. Ciò nonostante gli archeologi oggi operanti in Italia continuano a considerare almeno i corredi con armi come indice etnico sicuro per riconoscere le sepolture dei Longobardi (47). Un noto detto attribuito a Teodorico il Grande rivela che durante il suo regno vi erano in Italia Romani desiderosi di imitare i Goti (48): a maggior ragione sotto i Longobardi vi saranno stati Romani, ricchi o arricchiti, che aspirarono a mimetizzarsi con i dominatori uniformandosi ai loro costumi sino ad adottarne il corredo funebre, in stretta relazione, del resto, con la mutuazione di antroponimi di stampo germanico e della ceramica di tipo pannonico (49). La revisione, oggi in atto, di certi cliché proposti dalla storiografia ottocentesca porta necessariamente a riconoscere che “i romani dovettero avere ogni ragione per cercare di assimilarsi ai longobardi e divenire liberi del regno”, ipotesi che può validamente sostituire quella di “una rigida contrapposizione dei due gruppi” (50). Un personaggio come il pavese Senatore, ad esempio, di nome romano ma “dominus di gasindi e amico del re, è longobardo se non altro come modo di vita”, ma già coloro che compaiono nel 674 in un giudicato di Pertarito fanno pensare a “una società integrata accanto al re almeno nei suoi ceti superiori”, secondo il modello di vita germanico, ivi compreso “l'uso di portare le armi e di partecipare con ciò a pieno titolo all'assemblea degli armati” (51). Se, com'è probabile, tale situazione andrà anticipata almeno ai tempi di Agilulfo (590-616) (52), ne consegue che le sepolture con armi databili al secolo VII (la gran maggioranza, cioè, di quante sono oggi note).possono racchiudere tanto Longobardi romanizzati quanto Romani longobardizzati, senza che vi sia né la possibilità, né la necessità, di attribuire loro un'appartenenza ernica precisa. L'intenzione di isolare la “germanicità” - rimasta sinora senza risultati - negli insediamenti di superficie (53), dovrà quindi prima o poi rassegnarsi a limitare le proprie pretese anche nell'analisi dei materiali provenienti dalle necropoli. In breve, come “il successo politico e militare portò le altre popolazioni della Gallia ad imitare il modello proposto dal guerriero franco” (54), così può essere accaduto anche in Italia per i Longobardi. Quanto alla dosatura del sangue, essa “avrà la sua importanza nella discendenza biologica degli equini e di altri animali; per l'homo sapiens si potrà rivendicare la "primauté du spirituel" e augurarsi che essa prevalga nei tempi nostri” (55). 4. Problemi e proposte di rilettura La posizione "manzoniana" di una rigida e durevole contrapposizione fra Longobardi e Romani (56) - sia pure attraverso revisioni e aggiornamenti - è rimasta di fatto sempre implicita e operante nelle convinzioni storiografiche italiane, e su di essa ha avuto buon gioco il prosperare della ricerca archeologica che mette l'accento sull'importanza della discriminazione etnica, tuttora propugnata. Una volta accettata la possibilità che una certa mescolanza fra i due popoli sia stata, al contrario, alquanto precoce, occorrerà avere il coraggio di rivedere una serie di radicate convinzioni e di assodati punti di vista. Non si tratta però di un puro e semplice ritorno alle posizioni che postulavano una rapida assimilazione dei vincitori da parte dei vinti, e quindi una sostanziale irrilevanza della presenza longobarda nella storia d'Italia. Ammettere che gruppi di Romani (siano vecchie élite senatorie sopravvissute all'ipotetico massacro o uomini "nuovi" ) abbiano imitato i dominatori adeguandosi alla loro cultura, comporta un duplice ordine di conseguenze: da un lato una decisa valorizzazione dell'influenza avuta dai Longobardi nel quadro complessivo della civiltà italiana; d'altro canto si pone la necessità di sfumare in modo sensibile l'importanza degli invasori come gruppo etnico nettamente isolabile. Occorrerà quindi parlare meno di "Longobardi" e più spesso di "età longobarda" dando a tale espressione una caratterizzazione di ordine prevalentemente politico. Si eviterà così di ricadere in certo "panlongobardismo" di altri tempi secondo il quale la trasfusione di sangue germanico operata
dal popolo di Alboino sarebbe stata sufficiente per produrre “tutto il buono, il bello, il nobile” maturato in Italia nei secoli seguenti (57). Pensando ad un quadro precocemente "misto" dovranno essere necessariamente visti in diversa luce gli apporti recati dai Longobardi nei diversi campi; qui ci limiteremo alle conseguenze che tale "rilettura" provoca nei rapporti fra ricerca archeologica e ricostruzione storica complessiva. Se si ammette che le tombe contenenti oggetti inscritti e anelli sigillari possono essere di Romani longobardizzati, viene data almeno parzialmente soluzione ai problemi dell'alfabetizzazione dei loro portatori (58) mentre, analogamente, trova una risposta logica e convincente il “non facile interrogativo” posto all'archeologo avveduto dalla ricorrente presenza di armi in tombe con caratteristiche romanze; armi che, secondo i dettami imposti dalle metodiche correnti, sarebbero senz'altro da ritenere “estranee al costume e alla formazione degli autoctoni” (59). Risulta, al contrario, inficiata la possibilità di servirsi delle necropoli per ricostruire sistematicamente, come si vorrebbe, L'insediamento dei Longobardi in Italia basandosi sulla presenza e sull'assenza di certi elementi del corredo ai quali non può essere riconosciuto alcun valore di discriminazione etnica. Fanno eccezione solo gli oggetti riconoscibili come di provenienza pannonica e perciò da riferire, con una certa probabilità, alla prima generazione degli immigrati (60). Per i tempi successivi viene meno ogni motivo per stabilire comparazioni utili fra necropoli "longobarde" e "romaniche", ma anche se una tale distinzione fosse possibile, ai fini di una ricerca che si vuole sistematica, sarebbe necessario tener conto della disparità di documentazione; di solito, infatti, si è conservata memoria solo dei cimiteri contenenti oggetti vistosi ., e non sarà mai possibile sapere quante sepolture altomedievali, del tutto sprovviste di corredo o dotate solo di reperti ritenuti insignificanti, siano state semplicemente distrutte senza lasciare alcuna traccia. Poco ci sarà da aspettarsi, inoltre, dalla “collaborazione della toponomastica romana e germanica” e dalla “storia della Chiesa e dei santi patroni” (62). Sono innanzitutto da escludere i toponimi, dell'una e dell'altra origine, attestati solo in tempi troppo recenti oppure originati da appellativi molto diffusi e perciò, in ogni caso, non significativi. I nomi di luogo derivati da personali germanici, del resto, hanno di per sé scarso valore poiché essi, almeno dall'inizio del secolo VIII, appaiono indifferentemente utilizzati senza alcuna discriminazione etnica. Nell'Italia settentrionale esistono poi certe zone caratterizzate da una toponomastica di forte impronta germanica pur mancando di necropoli attribuite a tale popolamento; queste, per contro, possono trovarsi in località dove sono rimasti del tutto prevalenti i nomi di luogo di origine latina. In breve: un rapporto logico fra topomini e necropoli risulta praticamente impossibile. Inutile diffondersi, poi, sul discutibilissimo valore delle dedicazioni santoriali per la storia dell'insediamento (63). Anche la ceramica stampigliata che i Longobardi portarono con sé dalla Pannonia, già ritenuta di loro uso esclusivo, è stata sempre più frequentemente trovata anche in contesti insediativi, segno che essa - al pari di altri oggetti e di certi vocaboli - si diffuse presto anche presso i Romani venendo così a perdere ogni iniziale connotazione etnica (64). Le informazioni di ordine demografico, sociale e culturale tratte dal confronto con quanto è documentato dalle necropoli pannoniche e dalle fonti scritte, risulterebbero anch'esse in parte compromesse. Rimane fuori dubbio, certo, il carattere militare di una società dominata da una classe aristocratica di cavalieri (65), ma non è più possibile pensare - là dove manchi la presenza certa di reperti di origine pannonica - che i cimiteri di Romani e Longobardi siano rimasti a lungo topograficamente distinti. Vi è anzi prova precisa del contrario: proprio in Friuli, la regione toccata per prima dagli invasori, sin dall'inizio appaiono attestate sepolture promiscue (66). Tutti concordano, d'altronde, nel riconoscere che gli immigrati adottarono subito l'uso delle crocette auree (segno di cristianizzazione seppure ancora sentito come amuleto magico) e probabilmente anche delle cinture multiple di imitazione bizantina, presto commissionate alle officine artigiane produttrici (67); non sarà tuttavia più necessario supporre che le prime cinture fossero frutto di semplice e occasionale razzia a danno dei Romani ricchi poiché le tombe in cui si trovano potrebbero appunto appartenere a questi ultimi. Verrebbe meno, invece, la possibilità di trovare conferma della scarsità numerica dei Longobardi attraverso il limitato numero di deposizioni riscontrabile nelle
necropoli - utilizzate in genere per non più di due o tre generazioni (68) - poiché i gruppi di persone ivi sepolte potevano anche essere costituiti da Romani; si potrà dedurre, semmai, una ridotta dimensione degli insediamenti, qualunque fosse l'origine di coloro che li abitavano. La metà del secolo VII costituisce, in generale, un momento discriminante nella storia del costume funerario: i cimiteri a righe vengono interrotti dalla costruzione di chiese, e da allora in poi esse cominciano ad ospitare, anche in città, tombe di ecclesiastici e di grandi laici corredate da epigrafi (69). Nel frattempo l'usanza di guarnire i sepolcri con corredi completi e preziosi, che aveva toccato il suo culmine nella prima metà del secolo, subisce un'inversione di tendenza: scompare prima l'oro e poi diminuiscono via via gli oggetti più poveri sino alla loro totale esclusione (70). Il fenomeno non è però connesso in modo diretto con il nuovo modo di seppellire poiché riccamente ornata doveva certo essere la tomba di Rotari in S. Giovanni di Pavia, ed è tutt'altro che raro il ritrovamento di suppellettili preziose in deposizioni dentro e attorno a chiese (71). Rimane perciò impossibile stabilire l'esatta cronologia dell'importante mutamento di mentalità e sfugge il suo stesso significato: la scomparsa del corredo dalle tombe non fu determinata dalla rinuncia dei Longobardi più tradizionalisti (72) a distinguersi dai Romani, né fu imposta in modo esplicito da una precisa norma ecclesiastica (73), ma semplicemente, con l'adozione del testamento scritto, gli oggetti preziosi vennero lasciati in eredità ai familiari o destinati alla beneficenza (74). Attraverso tale nuova usanza la tesaurizzazione, prima concentrata nei cimiteri, si trasferisce agli enti ecclesiastici: la Chiesa stessa - come icasticamente si è detto - rivendicò da allora “la parte del morto” (75). ALDO A. SETTIA
1. Su questo aspetto dell'attività del Cipolla vedi, in generale, C. LA ROCCA, UHO specialismo marcato. Esordi e fallimento dell'archeologia medievale italiana alla fine dell'Ottocento “Archeologia Medievale”, XX (1993), pp.13-43. 2. Vedi, ad esempio, C. CIPOLLA, Della supposta fusione degli Italiani coi Germani nei primi secoli del medioevo, “Rendiconti della reale Accademia nazionale dei Lincei, classe di scienze morali, storiche e filologiche”, s. 5a, IX (1990), pp.579-585. 3. Raccolti nel volume C. CIPOLLA, Per la storia d'Italia e de' suoi conquistatori, Bologna 1895. Sull'opera storiografica del Cipolla vedi in generale R. MANSELLI, Cipolla Carlo, in Dizionario biografico degli Italiani, 25, Roma 1981, pp. 713-716. Cfr. anche A.A. SETTIA, Longobardi a Verona (e altrove), in Materiali di età longobarda nel Verorese, a cura di D. Modenesi e C. La Rocca, Verona 1989, pp.11-14. 4. G. VOLPE, Il medioevo, Firenze 1965, p.51 (la edizione 1926). Egli poté conoscere il problema attraverso il lavoro del Cipolla citato sopra alla nota 2, che viene infatti più volte richiamato nel suo studio del 1904 su Lombardi e Romani: cfr. G. VOLPE, Origine e primo svolgimento dei Comuni nell'Italia longobarda, a cura di G.Rossetti, Roma1976, pp 15,17,125, 148. 5. L. SALVATORELLI, L'Italia medioevale. Dalle invasioni barbariche agli inizi del secolo XI, Milano s.d. (ma 1940). 6. G. PEPE, Il medioevo barbarico d'Italia, Torino 1945, pp.319-321 (la edizione 1941). 7. Cfr. G. BOGNETTI, L’”exceptor civitatis” e il problema della continuità, in ID., L'età longobarda, IV, Milano 1968 (già in “Studi medievali„, 3a s., VII 1966), pp.700-704. 8. P. DELOGU, Archeologia medievale, in Convegno dell'Associazione dei medioevalisti italiani (Roma, 31 maggio-2 giugno 1975), Bologna 1976, pp. 2-3. 9. Vedi, ad esempio, C.G. MOR, Ritrovamenti barbarici a Mereto di Tomba, Codroipo e Rivignano, “Memorie storiche forogiuliesi”, XLII (1956-57), pp. 269-270. 10.cfr. C. G. MOR, Dalla caduta dell'impero al comune, in Verona e il suo territorio, II, Verona 1964, pp. 46-66, e P.L. ZOVATTO, L'arte altomedievale, ibidem, pp. 541 -552.
11. G. FASOLI, Archeologia medievale, in La storiografia italiana negli ultimi vent'anni, Atti del I convegno nazionale di scienze storiche (Perugia,9-13 ottobre 1967), Milano 1970, pp.799-800, 12. G. FASOLI, Considerazioni sul problema degli stanziamenti longobardi in Italia, in Atti del convegno di studi longobardi ( Udine-Cividale, 15 - 16 maggio 1969), Udine 1970, pp. 50 e 55. 13. E. SESTAN, Alto medioevo, in La storiografia italiana, cit., p. 68. 14. E. SESTAN, La composizione etnica della società in rapporto collo svolgimento della civiltà in Italia nel secolo VII, in Caratteri del secolo VII in Occidente, Spoleto 1958, pp. 649-677. 15. G. TABACCO, Problemi di insediamento e di popolamento nell'alto medioevo, “Rivista storica italiana”, LXXIX (1967), specialmente pp. 72-74. 16. Basterà ricordare, ad esempio, i nomi di Andrea Castagnetti, Pier Maria Conti, Stefano Gasparri e Karol Modzelewski. Vedi anche la rassegna di L. DE COURTEN, La civiltà longobarda in Italia nei più recenti studi, “Annali della Scuola speciale per archivisti e bibliotecari dell'Università di Roma”, XIV (1974), pp. 42-59. 17. MUSSET, Le invasioni barbariche.Le ondate germaniche, Milano 1989, p.250(edizione originale 1965). L'opera intende fare un bilancio degli studi sull'argomento ed è perciò particolarmente significativa delle tendenze e degli indirizzi generali. 18. Così, ad esempio, M. ROUCHE, Deflagrazione e mutazione dell'Occidente (secoli V-VII), in R. FOSSIER, Storia del medioevo, I, I nuovi mondi, 350-950, Torino 1984, pp. 77-78 (edizione originale 1982), ID., I regni latino-germanici (secoli V- VIII), in La storia. I grandi problemi dal medioevo all'età contemporanea, IIl2, Il medioevo. Popoli e strutture politiche, Torino 1986, p. 98. 19.G. FOURNIER, Il regno franco, in La storia, cit., pp. 129, 141 - 142; ID., Les Mérovinsgiens, Paris 1991, pp.75 -76; 121 - 122 (19 edizione 1966); vedi inoltre, in generale, P.J. GEARY, Le monde mérovingien. Naissance de la France, Paris 1989 (edizione originale 1988); S. LEBECQ, Les origines franques. V,-IX siècle, Paris 1990. 20. Cfr. P. DELOGU, Sulla datazione di altri oggetti in metallo prezioso dei sepolcreti longobardi in Italia, in La civiltà dei Longobardi in Europa, Roma 1974, pp. 157- 184. 21. P. DELOGU, Il regno longobardo, in P. DELOGU, A. GUILLOU, G. ORTALLI, Longobardi e Bizantini, Torino 1980. Un cenno ai ritrovamenti archeologici longobardi si trova anche nella sintesi di C. WICKHAM, L'Italia nel primo medioevo. Potere centrale e società locale, Milano 1983, pp. 93-94 (edizione originale 1981). 22. P. DELOGU, I Longobardi nelle Venezie, in La "Venetia" dall'antichità all'alto medioevo, Roma 1988, p. 139. Contemporaneamente usciva A.A. SETTIA, Vicenza di fronte ai Longobardi e ai Franchi, in Storia di Vicenza, II,L'età medievale, a cura di G. Cracco e G. Arnaldi, Vicenza 1988, pp. 8-20, dove ci si sforza di considerare i reperti archeologici vicentini. 23. M. ROTILI, La civiltà dei Longobardi negli insediamenti protoitaliani, in La cultura in Italia fra tardo antico e alto medioevo, Roma 1981, p.933; cfr. anche I D., Necropoli di tradizione germanica, “Archeologia Medievale”, X (1983), pp. 143-174. 24. Così A. MELUCCO VACCARO, I Longobardi in Italia. Materiali e problemi, Milano 19862, pp. 21-22. 25. Cfr. ancora ROTILI, La civiltà dei Longobardi, cit., pp. 933 e 935. 26. Come, ad esempio, la "germanicità" dei corredi tombali in quanto tali. L'osservazione è di S.J. DE LAET, J. DHONDT, J. NENQUIN, Les “laeti” du Namurois et l’origine de la civilisation mérovingienne, in Etudes d'histoire et d'archéologie dédiés à Ferdinand Courtoy, Namur 1952, p.170 (riportato in TABACCO, problemi di insediamento, cit. sopra, nota 15 -, p. 103). 27. Il rilievo è di C. LA ROCCA, Le sepolture alto medievali del territorio di Verona, in Materiali di età longobarda, cit., p. 149; ID., Uno specialismo mancato, cit. (sopra, nota 1), p. 13. 28.I termini della questione sono riassunti, per esempio, da L. BUCHET, C. LORREN, Dans quelle mesure la nécropole du haut moyen age offre-t-elle une anage figedèle de la société des vivant ?, in La mort au moyen age, Colloque de la Société des historiens médiévistes de l'inseignement supérieur public, Strasbourg 1927, pp. 27-29. 29. Come osserva S. TABACZYNSKI, Cu1tara e cu1ture nella prob1ematica della ricerca archeologica, “Archeologia Medievale”, III, (1976), p. 50; cfr. anche MELUCCO VACCARO, I Longobardi, cit., p. 133; LA ROCCA, Le sepolture, cit., p. 149. 30. MELUCCO VACCARO, I Longobardi, cit., pp. 153-154. 31. MELUCCO VACCARO, I Longobardi, cit., pp. 138-139. 32. LA ROCCA, Le sepolture, cit., pp.151-153, con i riferimenti bibliografci ivi riportati; ID. Morte e società. Studi recenti sulle necropoli altomedievali, “Quaderni Medievali”, 26 (1988), pp. 236-245. Vedi anche l'importante rassegna di H. BLAKE, Sepolture, “Archeologia Medievale”, X (1983), pp. 178-180. 33. È ciò che, in definitiva, suggeriscono BUCHET, LORREN, Dans quelle mesure, cit. specialmente, p. 47. 34. Cfr. DELOGU, Il regno longobardo, cit., pp. 49-51. 35. Tali le conclusioni cui giunge H. HARKE, "Warrior graves"? The background of the anglosaxon weapon burial site, “Past and present”, 126 (1990), pp. 22-43. 36. Il ritrovamento è ricordato da M. BROZZI, Il ducato longobardo del Friuli, Udine 1981(2), pp. 101-102, con la bibliografia citata ivi alla nota 328; cfr. anche MELUCCO VACCARO, I Longobardi, cit., p. 146. 37. Propenso alla prima ipotesi si mostra DELOGU, Il regno longobardo, cit., p. 46; inclina a credere alla seconda MELUCCO VACCARO, I Longobardi, cit., pp. 153-154.
38. Cfr. i dati esposti in MELUCCO VACCARO, I Longobardi, cit., pp. 105 e 153-154. Sui problemi posti dal ritrovamento dei sigilli vedi da ultimo S. LUSUARDI S[ENA, La necropoli longobarda in località Cascina S. Martino nel quadro dell'insediamento altomedievale a Trezzo sull'Adda (Milano), in Il territorio tra tardo antico e altomedioevo. Metodi di indagine e risultati, Firenze 1992, pp. 145-146. 39. MUSSET, Le invasioni, cit. (sopra, nota 17), pp. 189 e 287. 40. FOURNIER, Il regno franco, cit., p. 129; ID., Les Mérovingiens, pp. 75-76, 121-122. 41. Cfr. G.P. FEHRING, Einfuhrung in die archaologie des Mittelalters, Darmstadt 1987, pp.64-65. 42. L'espressione è di D. D'ELIA, Problemi di periodizzazione fra tardo antico e alto medioevo, in La cultura in Italia, Cit. (sopra, nota 23), p. 91, nota 71, che vede un riflesso di posizioni nazionalistiche nell'uso delle locuzioni "migrazione dei popoli" e "invasioni" rispettivamente preferite da Tedeschi e Francesi. Sulle premesse razziste della Siedlungsarchaologie tedesca si diffonde MELUCCO VACCARO, I Longobardi, cit., pp. 16-21. 43. Così GEARY, Le monde mérovingien, cit. (sopra, nota 19), p. 79, dello stesso a. vedi anche Ethnic identity as a situzational constract in the early middle age, “ M itteilungen der antropologischen Gesellschaft in Wien”, 113 (1983), pp. 15-26. 44. L'alta statura di alcuni individui inumati a Sovizzao (Vicenza) è stata, per esempio, spiegata dagli antropologi come “ereditarietà di grUppo famigliare” prescindendo del tUttO dagli oggetti contenuti nelle loro tombe (C. CORRAIN, M. PICCININO, Resti scheletrici umani di epoca medievale nelle provincie di Vicenza e di Verona, “Atti e memorie dell'Accademia di agricoltUra, scienze e lettere di Verona”, s. 6a, XVI, 1964-65, p. 23. Clamorosamente opposto si presenta invece il caso di Pettinara Casale Lozzi (Ascoli Piceno), dove “archeologicamente i morti sono indigeni” e “antropologicamente sono Germani” (BLAKE, Sepolclare, cit., p. 176, con riferimento a O. VON HESSEN, 11 cimitero altomedievale di Pettinara-Casale Lozi (Nocera Umbra), Firenze 1978, p.39). Sul problema vedi anche MELUCCO VACCARO, Longobardi, cit., p.123; LA ROCCA, Le sepolture, p. 151. 45 1. KISZELY, The antropology of the Lombards, Oxford 1979, p.196; SUIIa “metOdOIOgia sorpassata” dello studioso ungherese vedi BLAKE, Sepolture, cit., p. 181; cfr. anche LA ROCCA, Le sepolture, cit., p. 151. 46 Come ha osservato W[CKHAM, L'Italia nel primo medioevo, cit., (sopra, nota 21), p.94. 47 11 principio viene naturalmente considerato assiomatico, senza alcUn bisogno di dimostrazione, vedilo nondimeno espressamente riaffermato, per esempio, in V. B[ERBRAUER L'occaparSione dell'Italia da parte dei Longobardi vista dall'archeologo, in Italia longobarda, a cura di G.C. Menis, Venezia 1991' p.44; ID., L'insediamento del periodo tardoantico e altomedievale in Trentino-Alto Adige (V-VII secolo), ibidem, p. 123; cfr. inoltre ID., Aspetti archeologici di Goti, Alamanni e Longobardi, in "Magistra barbaritas ". I barbari in Italia, M i l ano 1984, pp.485-489; ID., Situazione della ricerca s~gli insediamenti nell'Italia settentrionale in epoca tardo-antica e nell'alto medioevo (V-VIIsecolo). Fonti, metodo, prospettive, Archeologia Medievale, XVI (1988), p.504. 48 Fragmenta historica ab Henrico et Hadriano Valesio prim,~n edita (Anonymas Valesianas) a cUra di R. Cessi, Città di Castello 1913 (KerUm ltalicarUm Scriptores 2a ed., XXIV, parte 4a)7 p 16: “Dixit (...) Romanus miser imitatUr Gothum et Utilis Gothus imitatur Romanum”. Vedi inoltre H. WOLFRAM, Storia dei Goti, Roma 1985, pp.518-523. 49 Cfr. rispettivamente, per l'adozione degli antroponimi germanici, l'ampia ricerca di J. JARNUT, Prosopographische und sozialgeschichtliche Stadien rum Langobardenreich in Italien (568774), Bonn 1972, con le osservazioni di Giovanni Tabacco in “Studi medievali”, 3a s, XVI (1975), pp.219-221' e, per la diffUsione della ceramica stampigliata: C. LA ROCCA, P. HUDSON, Riflessi della migrazione longobarda sull'insediamento rurale e urbano in Italia settentrionale, in Archeologia e storia del medioevo italiano, a cura di R. Francovich, Roma 1987, pp. 43-44; vedi anche LA ROCCA, Le sepolture, cit., p. 152. 50 Così P. DELOGU, Longobardie bizantini in Italia, in La storia, cit., (sopra, nota 1 8), p. 1 53; vedi inoltre ID., Longobardi e romani: altre congetture, in Langobardia, a cura di S. Gasparri e P. Cammarosano, Udine 1990, specialmente pp. 124 e 131-132. 51 S. GASPARRI, Pavia longobarda, in Storia di Pavia, l I, L'alto medioevo, Pavia 1987, pp.49-50. 52 Da quando, cioè, i Romani costitUirono “una componente sociale in grado di influenzare i rapporti politici fra gli stessi longobardi” (DELOGU, Longobardi e romani, cit., pp. 120-123). 53 Come ammette BIE RBRAUE R, Situazione della ricerca, cit., (sopra, nota 47), pp.508-515; cfr. inoltre ID., Relazione conclusiva al seminario "Insediamenti fortificati tardoromani e altomedievali nell'arco alpino ", “Archeologia Medievale”, XVII (1990), pp. 43-56. 54 MUSSET, Le invasioni, cit., p. 286. Del resto la distinzione tra Longobardi romanizzati e Romani longobardizzati ha già dato luogo a valutazioni diverse: cfr. BLAKE, Sepolt2are, cit., p. 183, con gli autori ivi citati. 55 Così SESTAN, La composizione etnica, cit., (sopra, nota 14), p. 677. 56 Sul mutare delle posizioni storiografiche attraverso il tempo: G. FALCO, La questione longobarda e la moderna storiografia italiana, in Atti del 1° congresso internazionale di studi longobardi, Spoleto 1952, pp.153 - 166; G. TABACCO, La città italiana fra germanesimo e latinità nella medievistica ottocentesca, in Italia e Germania. Immagini, modelli, miti fra due popoli nell'Ottocento: il medioevo, Bologna 1988, pp. 23-42; ID., Latinità e germanesimo nella tradizione medievistica italiana, “Rivista storica italiana”, Cll (1990), pp. 691-716. 57 Cfr. rispettivamente: F,. ARSLAN, a F. ScH~EIr~L.R, 58 Cfr lemeti romani e germanie,nel territorio alpino tra Adige e Farfa: aspetti e continuità dell'insediamento, in Il territorio tra tardo antico e altomedioevo, cit
59 Una recente analisi (BIERBRAUER, L'occupazione, cit., pp. 14-41) ha individuato tale genere di reperti in 14 località italiane ben 11 di esse sono però contraddistinte solo da fibule del costume femminile e hanno quindi Un valore probante del tutto trascurabile in particolarmente difficile, in specie che esse possano attestare la presenza dei longobardi a Luni, sulla costa toscana dove, a quanto si sa, essi giunsero alquanto dopo la prima fase della conquiste Va inoltre considerata la possibilità che tali oggetti siano stati tramandati ereditariamente anche a lungo e siano finiti in un corredo funerario solo molto tempo dopo la prima immigrazione (cfr NIEII L1CC.O VACCARO, I longobardi, cit., p. 106). 61 C`fr. BL,.`Kbg ~Sepola,,7re, eit., pp. 175-176::Bvezzi, ad esempio, sul finire del '400 registrò il rinvenimento alla periferia di Brescia di numerosi (.. ) ornamentis militaribus redimita”, che egli credette pagarni, cioè romani antichi. 62 BIERBRAUER occupazione, cit., p. 45. 63 Ci limitiamo qui a rimandare a quanto abbiamo esposto, su tali specifici argomenti, in SETTIA, Vicenza di fronte ai Longobardi, cit. (sopra,nota22),pp. 8-15, ID.,L'età delle invasioni, in appendice a MUSSET, Le invasio77i, cit., pp. 314-319, con la bibliografia segnalata, ivi a p. 324. Vedi anche GASPARRI, Pavia longobarda, cit., pp. 28-33. 64 Vedi sopra la seconda parte della nota 49. 65 Cfr. DELOGU, Il regno longobardo, cit., FP. 22-23. 66 Cfr. BIERBRAUER, L 'occupazione, cit., p. 19 (Cividale, S. Ciovanni-Cella) e 46 (Romans d'lsonzo) con le fonti ivi citate; cfr. anche DELOGU, 11regro longobardo, cit., FP. 21-22, 44-45; MELUCCO VACCARO, I Longobardi, cit., pp. 97-101. 67 B1ERSRAUER, L'occupazione, cit., p. 41 (ma con riserva a p. 34) DELOGU, 11 regno longobardo, cit., PF. 45-46; MELUCCO VACCARO, I Longobardi, cit., pp. 139-lil. 68 DELOGU, Il regno longobardo, cit., p. 21. 69 DELOGU, Il regno longobardo,cit.,pp. lè9-llo;vedi anche BLAKE, pp. 190191; per la costruzione di chiese nelle necropoli vedi da ultimo LUSUARDI SIENA, La necropoli longobarda, Cit., (sopra, nota 59), pp. 146-í47. 70 MELUCCO VACCARO, I Longobardi, cit., p. 127; LA ROCCA, Le sepolture, cit., p. 153. 71 Viene ricordato infatti il tentativo di depredare la tomba di Rotari (Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, a cura di L. Capo, Milano 1992, p.230, IV, 47); per ritrovamenti di tombe con corredo entro e intorno a chiese cfr. ad esempio Schede di archeologia longobarda in Italia, I11 Lo7nhardia, a cura di C. Calderini, “Studi medievali„, 3as., XV(1974), p. 1112, n. 18 (Monza) p. 1114, n. 29(Pavia), p. 1118, n. 56(Brescia), p. 1124, n. 11 Ch(Stabio), IV, Toscana, a cura di O. von Hessen, ibidem, p. 1126, nn. 6-7 (Lucca), 8 (Pisa), 9 (Arezzo), ma molti altri esempi sarebbe possibile citare. 72 Espressione di quei “gruppi sociali o locali, connotati da una pura discendenza longobarda”, che furono sino alla fine del regno e oltre, speciali portatori di una ideologia longobarda„ (DELOGU, Longobardi e ronnani, cit, pp. 143-145); essa continuò ad esprimersi, ad esempio, attraverso le professioni di legge. 7' Cfr. BLAKE, Sepolt7Jre, cit., pp. 183-184. 74 Cfr. A.M. AMBROSIONI, S. LUSUARDI SIENA, Trezzo e le terre dell’Adda nell’alto medioevo in La necropoli longobarda di Trezzo sull'Adda, a cura di E. Roffia, Firenze 1986, pp. 178-179 MELUCCO VACCARO, I Longobardi, cit., p. 106; LA 1RoccA, Le sepolture, cit., pp. 153-154. 75 Così G. DUBY, Le origini dell'ewno7-tria e7aropea. Guerrieri e contadini nel medioevo, Roma Bari 1975, p. 69 (edizione originale 1973).
Quelques remarques sur l'économie byzantine de 600 à 1100. Esquisse comparative
Donner un résumé, meme très sommaire, de la nature et de la structure de l'économie byzantine médiévale exigerait beaucoup plus de temps qu'il ne m'est imparti pour cet exposé. Par conséquent, j'essaierai de décrire les éléments qui me paraissent les plus importants à garder en mémoire dans une perspecrive comparative, c'est à dire les caractéristiques les plus révélatrices de l'économie byzantine prise comme un ensemble et la manière dont elles sont lices les unes aux autres. Bien sur une "économie" ne peut etre vraiment comprise isolée de la société à laquelle elle correspond: d'une certaine manière une économie est par définition également une société. Aussi me concentreraije surce quej'appelle les élémentsclés: les villes dans lcurs relations avecl'Etat et lcurs arrières-pays ruraux; la nature meme des rapports de production agricole; I'action de l'Etat et de ses ronages sur l'économie et le r81e des élites ou des catégories sociales dominantes. Jones décrit l'empire romain comme une “agglomération de cités”. Mais à la fin du VIe siècle, on admet de facon générale que les cités du Bas-Empire étaient déjà très différentes de celles que les sources et le dossier archéologique des IVe et Ve siècles nous font connaitre. Et puisque la question du r61e des cités dans le monde de Byzance pose, à mon avis, toute une série de questions sur la nature de l'économie, je commencerai par traiter ce problème. Sans entrer dans une discussion sociologique trop détaillée, on peut définir les cités de trois manières élémentaires. Tout d'abord, dans le sens de centre urbain ou "ville", comme un lieu où les productours venant des différentes localités alentours peuvent se rencontrer sur une base d'échange de biens et de services; où les pouvoirs politiques locaux peuvent etre rassemblés; où se trouvent des centres religieux. Deuxièmement les cités peuvent s'étendre au-delà de lcurs limites proprement urbaines, reflétant une concentration originelle de tribus ou de groupes de personnes d'une meme lignée, rcunis pour se défendre; elles servent alors de centre d'activité sociale et économique, et dans ce cas, en développant des institutions politiques et sociales, acquièrent de ce fait un statut particulier qui les distingue alors des autres établissements ruraux. Beancoop de poleis ou civitates méditerranécunes tronvent lcurs origines dans ce processus. Troisièmement, les cités situces dans des lieux stratégi ques génèrent des fonctions administratives et attirent des institutions en tant que centres d'activités militaires et fiscales. Ces trois modes de perception sont peut-etre sommaires, mai ils servent d'ébanche à une typologie des centres urbains dans le monde romain et hellénique. Bien sur ces catégories ne sont pas esclusives les unes des autres - la plupart des villes représentent un mélange de ces trois éléments, si l'on exclut quelques fondations secondaires établies par des souverains particuliers et qui riches de lcur région. Les résultats des fonilles dans les Balkans, I'Asie mineure et la Syrie le saggèrent aussi. Il est possible qu'aient circulé dans les milieux urbains autant de richesses qu'auparavant, à la différence près que la ville, comme institution, n'y ait plus eu qu'un accès très limité. Les villes avaient vu lcurs terres et le revenu de ces terres lcur etre pris. De plus l'église à partir du IVe siècle était devenne un concurrent en matière de consommation des ressources. Et quelle que soit la quantité d'argent que les habitants pouvaient donnerauxvilles, individuellement ou colloctivement, elle ponvait difficilement compenser cette perte 4. De telles contributions constituaient effectivement désormais lcur principale source de revenu autonome. Les informations archéologiques suggèrent un rétrécissement de l'aire occupoe dans beaucoup de cités et meme une rétraction croissante de l'activité d'échange au niveau local. Mais, encore une fois, coci ne signifie pas un changement de lcur role en tant que centres d'échange locaux. Mais revenons au rue de 1'Etat. Le premier point à souligner est que l'Etat romain, au cours des IIIe, IVe et Ve siècles, avait assez délibérément suivi une politique de "rationalisation" du réseau des villes. Beaucoup de centres urbains furent privés du statut et des privilèges de la cité, d'autres qui
étaient importantes pour lui comme structures administratives et fiscales recurent le statut de cités pour la première fois. Cela n'avait rien à voir avec les intérers économiques, et refléte plutot le désir des empercurs d'établir un réseau de centres adaptés aux exigences du système fiscal. Un nombre considérable de cités éliminées de ce processus n'étaient guère plus que des villages représentant les communautés autonomes ou semi-autonomes des états pré-romains rattachés à l'empire. En dotant certaines communautés du statut de cité, et plus précisément en lcur attribuant des fonctions administratives et fiscales, assorties de la responsabilité en ce domaine, I'Etat lcur assuré une continuité de vie tout en accroissant localement lcur importance, quelle qu'ait pu etre au depart lcur situation économique. Des lors que les élites de telles communautés s'avéraient désormais incapables, pour les raisons déjà évoquces, de remplir convenablement ce rue pour 1'Etat et que celui-ci commencait à superviser directement les affaires fiscales des cités, en employant plus souvent les cariales comme assesseurs et collectours que comme garants, il était logique que le maintien de ces cités devint un sujet d'indifférence pour le gouvernement central, au moins en termes fonctionnels. Bien sur le processus était sonvent tempéré par l'importance idéologique des cités et de la culture citadine dans le monde romain, qui se traduisait par une participation impériale à l'entretien et à la reconstruction des batiments urbains. De plus des cités plUs particulièrement associces au christianisme - par le biais du culte d'un saint local par exemple - augmentaient lcurs chances de prospérer sans avoir encore de caractère économique majeur. Un second point concerne le role de Constantinople. L'établissement d'une nouvelle capitale impériale sur le site de l'ancienne ville de Byzantion a eu des conséquences considérables sur les modes d'échange et de redistribution des biens dans la méditerranée orientale et dans le bassin égécn, phénomène largement confirmé par la répartition des céramiques. Le développoment des sigillées phoccennes, au détriment de marchandises reconnnes mais extremement localisées, est directement lié au grand marché de Constantinople dans la seconde moitié du IVe siècle et les marchés de la capitale ont continué à déterminer la production de céramique en Egée pendant toute la période médiévale. De plus l'institution d'une cour et d'un sénat, avec toutes ses implications sociales, économiques et administratives a eu, dans la meme région, un effet comparable sur ce que j'appellerai le modèle d'investissement socio-culturel. Ce qui signifle qu'au début du VIIe siècle, à quelques exceptions près, I'accroissements de prestige et de statut social lié à l'investissement de richesses personnelles s'est concentré de plus en plus à Constantinople car l'opération constituait le moillcur moyen de s'assurer une place privilégice dans le système impérial. Bien sur, il y a des exceptions, celle d'Alexandrie par esemple. Néanmoins les diverses modalités d'administration et d'appni impérial doivent etre considérées comme un autre élément ayant un impact sur la manière dont les élites investissaient lcurs richesses et, partant, sur le volume de l'investissement social dan les villes de provinces. Les céramiques en particulier revetent de ce point de vue une grande importance car elles montrent très clairement la position exceptionnelle occupée par Constantinople et sa préominence comme centre clé de consommation et de redistribution des biens de toutes sortes. Mais le témoignage de l'archéologie urbaine dans les provinces reflète également ces processus - un échec quasi universel dans le maintien des batiments publics et du système de distribution des eaux et, malgré le nombre considérable d'églises qui sont construites pendant le VIIe siècle, un appauvrissement général de la vie publique des cités. On a récemment démontré que, alors que les formes de la vie publique avaient changé, les cités ont continué à prospérer jusqu'au début du VIIe siècle en tant que centres des sociétés provinciales locales. Ce sont les formes d'investissement socio-culturel qui ont changé. Ainsi les églises plut6t que les batiments publics lafcs semblent avoir attiré les investissements. Alors que certaines grandes cités déclinaient, on possède de nombrcuses prcuves de la continuité d'une vie urbaine en provincet~. Le fait est sans doute vrai pour beancoup de centres urbains. Mais il importe d'insister sur les résultats qHalitatifs de tels changements. Les témoignages archéologiques, bien qu'imparfaits, suggèrent clairement de profonds changements dans l'organisation interne et les priorités sociales des communautés urbaines pendant la période considérée. La ville provinciale à la fin du VIe siècle ne
possède plus un nombre impressionant d'établissements publics en bon état. Les rues sont plus étroites et lcur implantation laisse supposer une complète absence de planification générale de la cité. Ies murs, églises et autres batiments sont réparés ou construits, au moins en partie, qu'avec des matériaux de remploi. Les quartiers habités sont considérablement réduits par rapport au passé. Bien sur il y a des exceprions, mais scule la tendance générale nous intéresse ici. Et bien que quelques textes des VIe et VIIe siècles donnent une description animoe de la vie urbuine, il ne faut pas oublier qu'il est impossible de comparer d'une facon objective un texte, aussi enthousiaste et détaillé que soit contenu, aux descriptions semblables d'autres textes. La description de la vie urbaine à Antioche au IVe siècle par Libanius et le tableau de la vie à Anastasioupolis en Galatie au VIIe siècle, dans la vie de Théodore de Sykéon font tous deux le portrait de communautés urbaines florissantes. Mais il ne faut pas pour autant supposer que les cités de la fin du VIe siècle étaient aussi florissantes qu'Antioche deux cents ans plus tut. Il faut prendre en compte le type de source et surtout l'idée que se font les autours de ce qu'est une société urbuine florissante. De plus la relation fiscale qui existe entre la cité et l'état est fondamentale; elle est signif~cative de l'évolution des cités au cours de la pérode. Alors que l'Etat adopte une position de plus en plus interventionniste à propos de l'estimation et de la perception des recettes, les villes voient leurs fonctions diminner en tant que centres de vie politique et sociale. Bien sur l'idéologie de la culture urbaine s'exprime différemment, mais la reprise d'activités urbaines renonvelées sous l'empercur Justinien me semble, pour ma part, une tentative idéologique désespérée pour consolider la culture urbaine traditionnelle. Et les effets de l'interventionnisme fiscal de l'Etat, associé à l'existence d'une bureaucratie impériale et palatine centralisée dans laquelle la société s'investit de plus en plus, semble avoir eu un effet réel sur l'attitude des élites envers lcur propre cité et envers Constantinople. Je crois qu'il existe un parallélélisme entre le déclin du ponvoir des villes - ce qui signifie des cariales - dans le domaine de la flscalité d'Etat et la diminution de l'importance économique et socio-culturelle des cités au prof~t des élites sociales et politiques dominantes de l'Etat. Ceci n'implique pas nécessairement que les élites des cités ne s'y soient pas quelque peu investies, mais signifie que la position structurelle des cités vis à vis de l'Etat est engagée dans un processus de transformation radicale. Il faut ajouter encore un point très important en ce qui concerne la forme et la fonction des centres urbains (ou plut6t urbanisés), en tant que noyaux d'administration impériale et militaire dans les provinces pendant la période du cinquième au septième siècles. Car on peut remarquer - comme j'ai déjà fait mention - dans les Balkans du troisième au cinquième siècles un long processus de fortif~cation et d'incastellation des cités, dans un contexte d'insécurité (menace constante des attaques barbares etc.), un processus qui s'est évolué avec la collaboration et l'assistance de l'état romain, et qui réflète les besoins de l'état du point de vue de son administration flscale et le système de défense. La possibilté existe, à mon avis, que la transformation de beaucoup de villes anatoliennes en kastra pendant la septième siècle, qu'on a dejà remarqué - particulièrement avec le commencement des attaques arabes des années 640 et apres - reflète aussi une intervetion de la part de l'état, une réorganisation délibérée et consciente (mais probablement aussi graduelle et différencice par région) des centres de défence et des refuges pour la population des provinces. Pour résumer brièvement ces différents points, on assiste, à la fm du VIe siècle, aux effets combinés d'un manque d'autosuffisance de la part des villes -due à lcur relative pauvreté par rapport à la période précédant la conf~scation de lcurs biens; de l'attraction très forte de Constantinople sur l'élite sociale du bassin oriental de la Méditerranée et, du point de vue institutionnel, de l'intervention croissante de l'Etat dans l'administration fiscale de la cité, des effets en somme de l'esistence d'un pouvoir centralisé relativement fort. Une série de factaurs qui demeurent très controversés, mais doivent avoir eu quelques conséquences meme s'ils n'étaient pas essentiels, ont aussi joué tour à tour: en particulierune baisse démographique générale, exarcébée parunepeste endémiquett. Les effets de la guerre doivent etre ensuite pris en considération, ccux de la guerre du VIIe siècle - les invasions persanes tout d'abord, pnis le dévastations des raids et des invasions arabes - qui se sont avérés trop lourds pour de nombrcuses villes fragiles de province, d'économie extremement locale.
Parasites par défmition de lcurs arrières-pays, la grande majorité des cités se sont resserrées autour d'un cocur fortifé défendable, qui ne ponvait subvenir qu'aux besoins d'une population très réduite; il faut tenir compte des effets perturbatours des guerres qui ont rendu l'acheminement des deurees alimentaires et autres biens vers les cités à la fois dangercux et improductif et réduit par conséquent drastiquement le nombre de lieux où pouavient exister cités et centres urbuins. A cet égard, il est utile d'examiner le cas d'une zone qui, bien qu'appartenant à l'Empire dans l'Antiquité tardive, n'a pas sonffert, comme beancoop d'autres régions d'Asie, de la crise économique et des conséquences d'une guerre continne. Je veux parler de la Syrie dont les villes ont connu une évolution semblable à celle qui vient d'etre décrite (et d'où proviennent en effet de nombrcux témoigneges sur le VIe siècle). Dans les années 630, la plupart des centres urbains se sont rendus sans grande résistance aux Arabes, ce qui lcur a épargné le destin des cités anatoliennes. Mais bien qu'il soit clair que beancoup de cités aient continué à y prospérer, on observe tout de meme dans lcur r61e un changement fondamental. Elles deviennent souvent, il est vrai, des centres de l'administration musulmane; et les fonctionnaires de jUstice, de meme que les perceptours d'imp6t ont également tendance à y résider. Mais elles ne retronvent jamais lcur identité colloctive. Tout comme celles qui demourent dans la partie orientale de l'empire, les cités de Syrie ont perdu lcur indépendance f~scale et lcur personnalité juridique. On peut donc conclure que la différence entre les centres urbains de l'état byzantin et ccux du Califat est en grande partie une question de degré. Elles ont perdu ce qui faisaient lcur identité commune, mais continnent, dans toutes ces régions, à retenir lcur population et attirer nombre de nouveaux habitants. Par conséquent le sort connu par les villes du bas empire, subissant un processus de transformation de lcurs fonctions, est confirmé par l'évolution des villes situces hors de l'empire après la deuxième moitié du VIIe siècle. J'insiste volontairement sur l'emploi du terme "transformation" plut6t que celui de déclin qui, possédant plusieurs sens, peut induire en errcur. Il existe aussi par conséquent un débat sur la "ruralisation" croissante de la société byzantine. Il en existe peu de prcoves, mais pendant quelques temps dans la seconde moitié du VIIe siècle l'Etat semble avoir transféré sa vigilance en matière fiscale sur les communautés villageoises qui deviennent finalement le principal critère d'estimation. Une telle observation semble traduire en partie la dévastation, I'abandon, la diminution ou le déplacement de beaucoup de cités d'Asie mineure et résulter des invasions et des incursions, surtout à partir des années 640, mais aussi durant les guerres persanes. Là où il y a permanence de l'occupation, le phénomène répond à des nécessités telles que la défense des biens, en rapport ou aux besoins militaires, administratifs, ecclésiastiques, etc.~~. Mais ce transfert d'attention, des cités aux villages, reflète en partie la dynamique interne des rapports de l'Etat et des villes, la diminution de l'importance sociale et économique que revetent les secondes aux yeux du premier qui ne serait pas une conséquence des invasions arabes, mais aurait été seulement exarcerbée par celles-ci. Quelle que soit la manière d'interpréter l'histoire de la cité, I'importance majeure du village dans les considérations fiscales à partir de la fin du VIIe siècle est claire. Leur désignation d'origine traduit cette importance, le mot "village" en grec ancien ou moderne significant jusque vers le milieu du VIe siècle "unité f~scale", bien d'un propriétaire occupé par des locataires par opposition au mot courant hellénique et romain pour "village" - kowè. A partir de la fin du VIò siècle et de plus en plus au VIIe siècle et au-delà, cho^rzon est le mot usuel pour le village - désignant le village en lui-meme, mais aussi les terres qui lui appartiennent - qui est aussi une unité fiscalete Les biens de chaque région f~scale - tour à tour centrés sur le village et les terres appartenant aux habitants - étaient estimés par des fonctionnaires désignés par l'autorité centrale, agissant à partir d'une base administrative locale (une forteresse par esemple ou des bureaux militaires de province). La communauté fiscale était représentue par ses propres chefs - normalement les villageois les plus riches, qui ponvaient etre aussi les propriétaires de plein droit - qui devaient collocter l'imput et l'apporter aux fonctionnaires de 1'Etat. Les modalités pratiques ont varié avec le tempstó. Mais il est de fait que la ville dispara~t complètement comme intermédiaire entre la province et la capitale, et on peut raisonnablement parler d'un remplacement de "I'agglomération des villes" par une "mosafque d'économies de villages".
Tous les éléments de la législation impériale du début du VIIIe au XIe siècle, connus par des références fortuites fournies par les hagiographies puis, après le Xè siècle, par les chartes monastiques et les actes d'exemption prouvent l'importance fondamentale du village comme centre d'intéret fiscal,7. Au meme moment des éléments littéraires et archéologiques montrent la position préominente prise par Constantinople, une position qui, comme on l'a vu, était déjà marquce à la fm du VIò siècle, mais qui devient beaucoup plus nette avec la perte des provinces de l'Est. Aucune des cités ou centres urbains d'Anatolie ou des Balkans ne ponvait rivaliser avec la capitale impériale qui était désormais, jusqu'aux Xe-XIe siècles, le scul centre important de l'administration et d'une activité de production et d'échanges en plein essor. Au VIIe siècle, meme les céramiques de cuisine ordinaires de Constantinople sont exportoes, bien qu'en quantités réduites, aussi loin qu'à Rome ou Carthage. Une esception est constituce par l'afflux de marchandises délicates en provenance de Carthage et de son arrière-pays, au milieu et à la fin du VIIe siècle, phénomène qui n'a pas encore fait l'objet d'une étude scientifique, mais qui reflète probablement les liens aussi bien politiques et culturels que militaires qui unissent alors Constantinople à l'exarcat de Carthage, pendant et après la controverse monothélite. Un autre élément peut expliquer l'aspect de plus en plus rural pris par la société byzantine et l'Etat pendant cette période: il s'agit de l'armoe. Il ne faut pas oublier que l'état byzantin a maintenu une armoe considérable et utilisé dans ce but, d'une manière ou d'une autre, une grande partie de ses revenus. De 640 à 660, les informations dont on dipose suggèrent fortement que 1'Etat a beancoup manqué d'argent. Mais il conserve son armoe. La solution était de disperser les soldats dans les provinces où ils pouvaient etre directement entretenus, au lieu de lcur verser des soldes qu'ils ponvaient alors échanger sur le marché ou de les affecter en garnison dans les cités en en lcur procurant des fournitures (un système onéreux qui impliquait un investissement organisationnel considérable). Bien sur quelques cités ont été pourvues d'une garnison et de petites soldes ont continué à etre versées. Mais dans les faits l'Etat est revenu à un système d'entretien de ses armoes comparable, bien qu'à une échelle réduite, à celui du IVe et du début du Ve siècles. Celui-ci constituait une réponse efficace à la situation de guerres et de difficultés fiscales que devait affronter l'Etat. Cela revenait, une fois encore, à rehausser l'importance fscale et économique du village ou de la régon rurale au détriment de la ville. Les centres urbains locaux ne sont guère cités que comme lieux où l'armoe ou l'église peuvent trouver un abri et une protection. L'archéologie, les céramiques surtout, montrent que les échanges demourent strictement locaux de la seconde moitié du VIIe aux Xe-XIe siècles. Des échanges interrégionaux sporadiques ont subsisté et le commerce des biens de luse s'est maintenu au gré des circonstances; mais tous se sont vus réduits du fait des circonstances à partir du milieu du VIIC siècle. La disparition définitive de l'annone constantinopolitaine fournie par l'Egypte doit avoir produit le meme effet sur les régions cetières de la mer Egée. Les cités au sens traditionnel du bas empire ne jonent qu'un très petit de dans la vie politique, économique et sociale de Byzance de la seconde moitié du VIIe au IXe siècle. A la différence des cités romaines du VIe siècle et avant, les villes byzantines étaient de simples villages fortifiés. Au cours du VIIe siècle, les événements dont on a parlé contribuent à supprimer tous les rapports qu'elles ponvaient entretenir avec l'Etat autrement que comme bases militaires ou administratives. Les batiments municipaux n'existaient pas dans la plupart des cas. L'Etat et l'église construisent, pour lcur usage, greniers, murs et dép6ts d'armes, mais les cités sont privées de ressources propres, de terres, de revenus, de personnalité joridique et civique. Les riches propriétaires locaux pouvaient investir dans des batiments, et l'ont probablement fait, bien qu'il n'en existe ancune prcuve avant le XIe siècle. Mais la plupart l'ont fait - quel qu'ait été lcur capital culturel et social - à Constantinople et dans le système impérial qui se concentra on l'a vu, après la perte des provines orientales, presqu'exclusivement dans la capitale. Mais lorsque, comme résultat de la stabilisation militaire et politique en Asie mineure au début du IXe siècle, quelques cités récupérèrent lcur fortune, elles se développèrent surtout si elle jouait un r61e évident de marché pour lcur région. Cette observation illustre très bien le fait que la crise
économique et sociale et la période d'instabilité dues aux guerres contre les Arabes pendant les VIIe et VIIIe siècles ont détruit justement les centres urbains dont la fonction dominante était politique et fiscale, et non celles qui possédaient en plu un r61e économique réelzo. Ceci ressort du fait qu'au moins quinze centres urbains de Cappadoce et beaucoup plus de quarante-cinq en Galatie et Lycaonia (y compris Sykéon, demoure de saint Théodore au début du VIIC siècle) sont abandonnés au cours des VIIe-VIIIò siècles;~. Thèbes, en Grèce, est un bon esemple de centre urbuin à avoir connu un net redressement pendant la dernière période, c'est à dire à partir du milieu du XIe siècle, devenant le centre d'une florissante production de la soie: les marchands locaux et les propriétaires y ont lcurs maisons et y attirent les artisans, les petits propriétaires paysans ayant des biens à vendre et les personnes dépourvues de terre à la recherche d'un emploi. La plus grande partie des villes n'ont pas joui de telles conditions avant le milieu du IXe siècle. Et on devrait également dire que la renaissance urbaine, si on peut l'appeler ainsi, est également en relation avec l'évolution de l'aristocratie byzantine, en mesure d'investir ses ressources dans l'agriculture et l'industrie, dans un contexte de concurrence pour l'obtention de la faveur impériale et la préominence économique. Ainsi à la fm du Xe siècle et surtout aux XIe-XIIe siècles, le rue économique des cités les plus importantes s'accroit. Le fait est partiellement du à l'amélioration des conditions en matière de commerce et d'échanges entre les villes et le pays au sein de l'empire. Il traduit également les demandes en produits alimentaires de Constantinople aux cités et aux villes de l'arrière-pays En meme temps les villes commencent à jouer un r61e central en politique. Alors que, de la f n du VIIe au milieu du XIe siècle, une grande partie des révoltes militaires se déroulent dans les campagnes, autour des généraux de thèmes (provinces militaires), à partir du XIe siècle, I'opposition au gonvernement central nait presque toujours dans les villes, dont la population apparait dans les documents comme un ensemble d'habitants partageant des intérets spécifiques. A la différence de ce qui se passe dans une partie de l'Europe occidentale, I'identité collective ne dépasse pas ce stade car les villes byzantines se tronvent également sous la domination d'importantes familles nobles détentrices à la fois d'une très grande richesse foncière - et coci est très important dans le contexte byzantin - et de fonctions ou de titres impériaux. C'est une conséquence de l'organisation militaire de l'empire à partir du milieu du Xe siècle, lorsque de nombrcuses villes deviennent siège d'officiers locaux et de lcurs soldats, qui traduit à son tour l'aptitude de l'Etat, après les crises des VIIò et VIIIe siècles, à fournir ses soldats uniquement en argent liquide, en se fiant pour le reste aux marchés locaux. Enfin, cela montre la domination grandissante de la campagne par ces magnats qui ont absorbé peu à peu un nombre considérable de propriétés foncières appartenant à de petits paysans qui étaient autrefois libres dans lcurs domaines. Il s'ensuit une "déruralisation" de la vie économique et sociale telle que l'avaient connu les VIIQ et VIIIe siècles. Si l'on s'arrete un instant pour considérer l'évolution du VIe au XIIe siècle dans son ensemble, il me semble clair que les villes ou les cités de cette période n'ont pas de rapport structurel ou institutionnel avec lcurs ancetres. Le scul point commun est constitué par la position géographique. La ville byzantine du Xe siècle et des siècles suivants a développé les conditions des VIIIe-IXe siècles et l'examen de sa forme et de sa fonction dans la structure économique de la société fait apparaitre comme déterminants les factours qui viennent d'etre énumérés. Ils peuvent se résumer comme suit: 1 ) 1'indépendance économique et par conséquent politico-culturelle des cités; 2)1'habileté et/ou le désir de la conche économique dominante de chaque cité de participer au dispositif fiscal de l'Etat; 3) la nature de l'Etat (fort, centralisé ou non) et sa conception de l'utilisation des villes comme centres fiscaux et administratifs; 4) la stabilité economique de chaque région (absence ou non de guerres, etc.) et les rapports entre la demande urbaine en produits et la capacité de la pogulation rurale (ou sa bonne volonté) à les fournir; 5) le comportement des élites sociales locales et régionales (et la mesure dans laquelle elles concentrent lcurs efforts pour conserver ou améliorer lcur situation sociale, économique et politique à Constantinople ou dans lcurs provinces);
6) les rapports entre l'Etat et la classe dominante, notamment en qui concerne le contre des ressources fiscales ainsi que la répartition et 1'utilisation du surplus. Ces six points stappliquent à tout centre urbain médiéval, bien sur, et pas sculement à ccux de la région byzantine. Je pense en particulier que le caractère des élites locales et supra - locales aristocratie de naissance, de fonction ou les deux- et l'existence ou non d'un appareil étatique central sont particulièrement déterminants pour l'évolution urbaine. Il pourrait etre intéressant d'envisager maintenant ce qui différencie l'évolution des Balkans et de l'Anatolie de celle de l'Italie byzantine. Sans entrer trop avant dans les détails, j'évoquerai les similitUdes et les contrastes suivants. En tout premier lieu, le processus de rétrécissement et d'appauvrissement, mis en évidence, par exemple, par la diminution des dimensions des églises et par l'utilisation universelle de matériaux de remploi dans les constructions ne semble pas différer en Italie et dans le reste de l'empire. Deuxièmement, un certain nombre de cités, au sens technique romain du terme, dispara'ft également en Italie du VIIe au IXe siècle; et troisièmement les conditions générales y sont semblables à celles des Balkans ou de l'Anatolie, notamment avec les guerres endémiques, destructrices meme si elles se déroulent sur une échelle géographique réduite, qu'engendre l'établissement des Lombards à partir de 568. Mais l'Italie semble demourer une terre de cités et de villes, meme aux VIIe et VIIIC siècles. Où se situe alors la différence? Trois réponses sont possibles. Tout d'abord, I'Italie est géographiquement plus petite que l'Anatolie, malgré la chame des Appenins qui divise les régions de l'est et celles de l'ouest. Séparées par les montagnes, les plaines et les vallées fertiles forment une mosalque de zones assez densément occupoes, qui se divisent à lcur tour séries de sousunités économiques plus ou moins interdépendantes relativement peu éloignées les unes des autres. L'observaion est importante car elle implique que la moitié de ces centres urbains ont en fait une raison d'etre du point de vue des communications et des échanges locaux. Le fait que les élites préfèrent encore vivre dans les cités locales est significatif à cet égard et il en résulte que les premières villes médiévales italiennes montrent un plus haut degré de continuité dans la culture matérielle qu'aillcurs, et certainement que dans le monde byzantin. La proportion de centres artificiels (quelle que soit l'activité économique que ccux-ci ont pu attirer par moments) était donc probablement plus basse qu'à l'est où beaucoup des cités qui ont dispatu ou ont été réduites à une taille insignifiante étaient des créations purement administratives. Deuxièmement, la forme de la guerre dans le contexte géographique italien et dans son réseau de cités me fait penser que les villes avaient beancoop plus de chances d'y etre défendues et d'y vivre que d'etre abandonnées ou réduites exclusivement à des centres d'accueil de soldats et d'administratours. Troisièmement, malgré la présence de Rome, il n'existait pas de "factour Constantinople", pas degrosse perte des ressources en investissements régoliers des élites dans une cour centrale un établissement bureancratique palatin, au détriment des affaires locales. Il y avait beancoup de petits centres. De plus les administrations lafques et ecclésiastiques ont continné à siéger dans les villes. Mais à la différence de l'Anatolie par exemple où tel était également le cas, les conditions économiques étaient aussi rcunies en Italie, car le manque d'intéret des élites pour s'installer dans les cités signifie que la présence d'un élément administratif avait en lui-meme peu d'effet sur lcur activité économique. Pour s'exprimer en d'autres termes, I'état central et sa hierarchie, qui ont agi de manière si parasitaire dans les terres restées à l'empire byzantin après le milieu du VIIe siècle, n'existaient pas en Italie qui; malgré la survie de l'exarcat de Ravenne jusqu'au milieu du VIIIe siècle et les liens avec le dispositif impérial de Constantinople, semble présenter, à mon avis, des agglomérations beancoup plus fortement régionalisées, avec des unités économiquement, socialement et pilitiquement égales. Je saggère donc que l'ensemble de ces données, échelle géographique, absence de bureaucratie étatique centralisée et de hiérarchie socio-politique expliquent les différences les plus évidentes. Un état fort constituait, dans le monde byzantin, une des causes majeures de l'insignifiance des cités de province. Je n'ai envisagé jusqu'ici qu'un scul des points qui comptent dans l'évolution des structures socio-économiques byzantines. Mais il y en a d'autres tout aussi importants. D'abord le changement
de nature de l'élite sociale de l'empire. La soi-disant "aristocratie sénatoriale" du bas-empire se tronve remplacce au cours du VIIe siècle par une élite différente, composée de "nonveaux hommes" choisis par les emperuers sur une base "méritocratique". Cela s'applique bien sur tout autant à l'Italie byzantine qu'au reste de l'empire. Il y a des raisons de croire qu'au meme moment le mode de possession des terres et les rapports entre propriétaires, locataires et paysans ont également changé à l'avantage de ces derniers. C'est ce qui semble résulter en partie de la guerre endémique affligeant plusieurs régions d'Anatolie et de lcur dislocation économique et sociale, particulièrement pour celles où les grands domaines étaient la norme au bas-empire - les régions du plateau central anatolien par exemple. Une des conséquences de ces changements a été l'écroulement du monopole des postes clé de l'état détenu par l'ancienne élite sociale, une réduction de l'ensemble de sa force économique en tant que groupe social et, en relation directe avec ces phénomènes, un accroissement proportionnel de l'autorité centrale, alors qu'une partie plus importante de la population est directement soumise au fisc. Les ncuveaux venus dans la hiérarchie administrative et militaire étaient au départ très largement dépendants de l'empercur et des emplois créés à son initiative et cela reflète relativement bien le développement des titres classés "impériaux" (impliquant une relation directe et personnelle avec l'empereur) par opposition à ccux classés "sénatoriaux". En bref, une méritocratie a pris naissance dans les titres et les postes d'état, qui a absorbé les membres capubles de l'ancienne élite. Mais une enquete prosopographique dans les noms de famille et les prénoms des VIIe et VIIIe siècles montre l'éviction presque totale de l'ancienne élite du service de l'état. Cette emprise croissante sur le dispositif étatique, le monopole des postes militaires et les terres accumulée grace aux récompenses accordées pour ces services ont fait que la méritocratie s'est transformoe en une aristocratie, encore très dépendante aux VIIIe-IXe siècles de l'état, mais de plus en plus indépendante au Xe et surtout au XIesiècle. L'état se tronvait en rivalité directe avec une conche sociale dont l'énorme richesse foncière et les positions solides dans son mécanisme constituaient une réelle menace poue le contre central des ressources fiscales. La position des paysans a empiré non seulement à la suite d'un accaparement des ressources de la part des magnats, mais aussi à cause d'une série de désastres climatiques dans la première moitié du Xe siècle. Mais cette classe ou ce groupe de magnats n'a jamais été vraiment conscient de ses intérets communs en tant que force socio-politique particulière à cette époque. La guerre civile et la lutte entre les empercurs et des éléments de cette élite à la ftn du Xe et au XIe siècles traduisent des rapports épisodiques et concurrentiels entre des clans et des familles. Comme on l'a aussi vu, cette concurrence s'est également déplacce. Meme si l'histoire idéologique de ces tensions est complexe, les frictions entre les armoes régionales et lcurs chefs locaux d'une part, I'état d'autre part, étaient fondées sur une rivalité pour l'obtention des récompenses et des privilèges accordés par les emperours. Au Xe et plus particulièrement au XIe siècle, les anciens commandants et lcurs soldats sont devenus les nonveaux magnats avec lcur suite; I'augmentation des richesses a fait des villes de province d'importants centres de vie économique, politique et culturelle. L'emprise sur la production urbaine et sur les marchés devient une source signiOcative de richesses; avec comme résultat une certaine réurbanisation de la culture socio-politique, un renversement du modèle qui avait émergé au VIIe siècle. Il est évident, après ce qui vient d'etre dit, que l'état joue un role fondamental dans l'économie byzantine. En effet les événements du VII siècle ont comporté une réassertion du ponvoir de I'état central sur les tendances décentralisatrices du bas empire. L'état est à la fois limité et tour à tour luimeme déf~ni par la nature des rapports économiques clé, en particulier ccux qui régissent les modalités de l'appropriation et de la répartition des surplus. Cela est très clair en ce qui concerne l'émission et la circulation des monnaies qui, meme si on prend en compte les énormes fluctuations à la fois dans la pureté du HOmisma d'or et de ses divisions et dans la répartition et la qualité du système monétaire basé sur le bronze, sont restoes le mécanisme de base grace anquel l'état a converti la richesse sociale en ressou-rces fscales. A partir du règne d'Héraclius dans la première moitié du VIIe siècle, le monnayage est devenu extremement centralisé. La monnaie était principalement émise pour graisser les roues de la machine étatique, dans un système qui peut etre défni comme un
mécanisme fiscal redistributeur. L'Etat fournissait l'or sous forme de salaires et de largesses à sa bureancratie et aux armoes qui en échangeaient une partie substantielle contre des biens et des services pour son propre entretien. L'Etat était ainsi en mesure de récupérer la plupart des pièces qu'il avait mises en circulation par le biais de taxes, surtout depuis que les règlements fiscaux exigeaient en général les impots en or et offraient lur conversion en bronze. Il y a eu des périodes au cours desquelles les ressources monétaires liquides ont été insuffisantes et où l'état a du prendre des dispositions adhoc, pour ravitailler en nature les soldats dans les provinces par exemple, et pour augmenter les taxes sous forme de corvées étatiques ou d'autres impositions. Mais les effets d'ensemble de ce monopole étatique et le poids de l'appareil fiscal sur la population active sont généralement admis; ils bloquaient tout investissement dans les échanges commerciaux qui ne faisaient pas partie du processus fiscal; et, dans une société où toutes les formes de statut social et d'avancement étaient lices à l'état (y compris l'identité propre de l'aristocratie), c'était un énorme oUstacle à l'expansion du sectour économique qui n'était pas directement liéauxactivités de l'état. cette sitUation elle-meme aconnu bien surdes variations.: I'augmentation de la production agricole et de la population, et par conséquent celle de l'imput de base de 1'état aux XIe et XIIe siècles, parait avoir été doublée d'un développement semblable du marché des échanges locaux et la production de deurées à petite échelle. Mais les demandes du système étatique et le fait que l'élite sociale soit restoe étroitement lice à l'état ont empeché le développoment de relations de marché entièrement libérées de l'intervention de l'état. Les effets du maintien d'un état centralisé peuvent etre ici observés avec précision. Et j'ai exclu de cet exposé de plus amples développements sur les problèmes importants et complexes que pose le role de l'idéologie poiltique impériale dans un tel contexte. La position centrale de l'état se lit de la meme facon dans l'histoire de ses efforts pour conserver le contr61e flscal de ses ressources. La tension entre l'aUtorité de l'état central et l'élite des propriétaires fonciers où on voit en action toutes les manières dont l'état peut estimer, augmenter et distribuer les surplus résume cette position. La capacité de l'état à controler pleinement et directement les impots de base a déterminè la manière dont 1'aristocratie byzantine s'est développee. Les guerres civiles et les crises fiscales du gouvernement central à la fin du Xe et au XIe siècle, les changements correspondants aussi bien dans les modes de recrutement et la source des effectifs de l'arm6e, que dans l'administration civile et flscale peuvent tous etre mis en relation avec la nature des rapports entre 1'ótat et sa base flscale. Je ne sous-entend ancunement que l'ótat est dune facon ou d'une autre la "cause" des rapports économiques. Mais si on le dóflnit au sens large du terme, plutot qu'au sens étroit d'ensemble d'institutions administratives, on peut dire qu'il est en lui-meme un rdseau de relations 6conomiques, du fait qu'il est une structure et donne à la fois une ossature aux rapports sociaux de production dans lesquels il est eoraciné. Sans aucun doute, les demandes de l'état et ses rapports avec la population active et les élites determinent les caractères du fonctionnement de l'economie. Le système fiscal 6tait extremement complexe; I'idéologie politique imperiale a domine 1'univers symbolique ou Weltanschanung de toutes les structures byzantines, les représentants des appareils civils et militaires étant omniprésents. Les transformations sociales et les conflits qui ont surgi dans l'état ne ponvaient par conséquent exister que grace à 1'ótat meme' d'une manière qui n'est pas suffisament prise en considération. Byzance reprdsente, de plusieurs facons, I'opposé exact des développoments socio-politiques qui caract6risent, par esemple, le royaume mbrovingien. Il ne faut certes pas exagErer ces relations, mais rappeler que, dans une sociét6 pró-industrielle, il y a mille cas où le controle 6tatique à un niveau "micro-structurel" de 1'existence sociale, avait peu d'influence. Mais le point que je veux souligner ici est le suivant: l'économie était à la fois fondement et résultat de l'existence de 1'ótat romain d'Orient. L'un ne peut etre bien compris sans l'autre. Et alors que cela est vrai, dans un sens, pour n'importe quel système social complexe, c'est un point qu'il faut avoir prdsent à 1'esprit lorsqu'on tente de mettre en evidence les relations causales qui entrainent un changement 6conomique et social. JOHN HALDON
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Paesaggi tardoantichi: alcuni problemi
1. Per chi studia il paesaggio antico, il confronto con il medioevo è d'obbligo, e viceversa. Tuttavia, le discipline antichistiche e quelle medievistiche non riescono sempre a incontrarsi facilmente in una prospettiva di lunga durata storica. Infatti, per varie ragioni, la ricorrenza di equivoci e luoghi comuni in materia di transizione e continuità del paesaggio antico condiziona la valutazione generale di fatti e contesti. Di qui il ruolo chiave dell'archeologia e dell'indagine microstorica, dato che - come è ovvio - le intuizioni di fondo vanno comunque verificate sui singoli casi territoriali. Questo, però, non sminuisce il peso delle fonti scritte, o se vogliamo, come un archeologo medievista si è espresso di recente, la tirannia del documento storico 2. Da parte mia ritengo che questa tirannia sia ben giustificata, ed è quasi superfluo rammentare le posizioni di Fiuley al riguardo; tuttavia, quando si tratta di paesaggio, la lettura delle fonti si presta facilmente a equivoci. Il lavoro dello storico del paesaggio è particolarmente delicato, poiché non sempre è facile considerare gli aspetti materiali e geografici del territorio, gli aspetti storici generali (politici ed economici), e soprattutto i tranelli della terminologia, che nasconde forme di mentalità non del tutto decifrabili alla luce del comune buonsenso. Quindi, per lo studio di questi fenomeni, è fondamentale definiire il rapporto fra immagine e realtà, ovvero fra il polo storiografco archeologico economico e quello ideologico-politico. Questa esigenza non coincide però con le attuali prospettive di ricerca, dove al contrario i settori d'indagine tendono sempre più a separarsi. Per la tarda antichità, il periodo che qui ci interessa, Averil Cameron ha osservato di recente (in un volumetto destinato agli studenti) che gli studiosi della tarda antichità tendono a dividersi secondo due linee principali: gli uni si occuperebbero dell'economia (con i relativi dati archeologici), gli altri della storia sociale e culturale 3. Si tratta di un giudizio drastico, che non rende giustizia a molte scuole storiche, ad esempio italiane; e tuttavia, è vero che molti archeologi tendono a dialogare con gli storici intorno a temi ristretti, solitamente ridotti ai dati economici. Certo, i limiti qualitativi e quantitativi della documentazione scritta sono il grande handicap degli antichisti; ma a maggior ragione non è utile selezionare ulteriormente Papproccio ai testi. In particolare, l'aspetto ideologico dei testi è imprescindibile da un'analisi del paesaggio antico. Troppo spesso ci si è affidati al buonsenso per giustificare determinate situazioni economiche, spesso trasformando enunciati incidentali delle fonti in testi fondamentali e paradigmatici, ormai talmente ricorrenti nella letteratura recente da risultare dei veri e propri luoghi comuni. Ma non possiamo certo seguitare a proporre sintesi senza disporre di validi presupposti analitici, affidandoci a un quadro generale fondato su luoghi comuni e schematismi geografici storicamente insufficienti. In primo luogo va ridimensionato il mito diffuso di una campagna romana perfetta nella sua efficienza, dove le griglie centuriate simboleggiavano l'affrancamento dai “luoghi orridi” silvestri e palustri, considerati come paesaggi negativi, sterili e malsani. Non è questa la sede per ripetere discorsi già detti: ma è bene ricordare che la questione è basilare anche per l'interpretazione del paesaggio medievale, dato che il modello della centuriazione romana, con il suo forte messaggio di razionalità, costituisce uno dei riferimenti più familiari dell'immagine dell'antico coltivata, a torto o a ragione, da molti medievisti, con i conseguenti equivoci a essa connessi. Il contrasto fra una campagna romana 'civilizzata' dalla groma, e un alto medioevo 'barbarico' dai paesaggi aspri e difficili, ha fornito una giustificazione ideologica all'intuizione di una discontinuità fra campagne romane e campagne medievali. Certo, in generale, non possiamo negare un'oggettiva discontinuità delle strutture agrarie, perlomeno in Occidente; tuttavia, al tempo stesso, non si possono accettare come universali certe formule schematiche, se non rozze, come la fortunata equazione “villa: centuriazione= palude: incolto”, legata più agli sviluppi della moderna politica agraria che alla riflessione storica sulle campagne antiche. Di questa suggestiva immagine, nata dal dibattito illuministico, sarebbe utile studiare la storia, da Muratori alla letteratura sulle bonifiche, fino alle sue attuali propaggini in campo archeologico e
topografico. In ogni caso, allo stato attuale si tratta di un'immagine superata, e uno dei suoi vizi maggiori è quello di separare ulteriormente il campo epistemologico antichistico da quello medievistico. Ora, anche alla luce della forte ripresa degli studi sul tardo antico, sembra che proprio per il paesaggio non si possa parlare di taglio netto fra antichità e medioevo, dato che le sopravvivenze non sono poche, e spaziano dai resti materiali alla toponomastica alla stessa mentalità; e tuttavia non si tratta di una continuità evidente dell'antico, bensì di una continuità 'sotterranea', o se si preferisce, rifacendosi al solito Spengler, 'pseudomorfica'. Del resto, come ha scritto Andrea Giardina, “la permanenza di singoli elementi continui può determinare una storia complessivamente discontinua” 4. Mai come in questo caso va ammessa la compresenza di più “percezioni” differenziate S. Vale quindi la pena di insistere sulle categorie del paesaggio, puntualizzando ulteriormente la questione delle fonti scritte e della loro selezione o, se vogliamo, della loro 'visibilità'. 2. Come primo esempio propongo un caso di apparente incongruenza delle fonti sull'estensione dei boschi a cavallo fra III e IV secolo. Si tratta di due accenni, rispettivamente di Mamertino e di Lattanzio, al problema delle foreste e degli agri deserti. L'epoca e il contesto sono analoghi, ma i pareri sono radicalmente contrapposti. Infatti, il panegirista Mamertino esaltava la ripresa delle colture agrarie sulla selva, indicando ubi silvae fuere, iam segesest (Par.Lat. 11 [III], 15.4); per seges si intendono qui sia i cereali che la vite, come indica la chiusa del paragrafo: metendo et vindemiando deficimus. Questa sorta di metonimia era già giustificata da SERV. ir Verg. Georg. 1.1, per cui segetes non sono più solo le messi, ma in genere i campi coltivati: tentativo evidente di ovviare a una terminologia classica obsoleta con uno di quei mutamenti semantici tutt'altro che infrequenti nella tarda antichità 6. Da parte sua, Lattanzio accennava invece all'abbandono dei campi da parte dei coloni 7. Giardina ha giustamente osservato che “le due valutazioni si neutralizzano”, a riprova della difficoltà di giungere a conclusioni soddisfacenti sulla base di una documentazione incompleta e marcata da caratteristici tratti ideologica. In effetti, la sola indicazione che può dedursi da questi due passi, esprimenti due visioni politiche opposte, è che sia Mamertino che Lattanzio sposavano il punto di vista dei coltivatori (probabilmente, in questo caso, non dissimile da quello dei possessores) nel considerare l'avanzata della selva come un male, il disboscamento come un segno di benessere9. Non vi è però nulla di nuovo in questa tarda manifestazione della mentalità classica; infatti, I'identificazione tra selva e barbarie faceva parte del tradizionale bagaglio dei retori. Il topos, ben noto ai lettori di Strabone o di Tacito, aveva oltretutto acquistato nuova forza a causa della gravità dei tempi. I barbari erano una realtà sempre più vicina, e ciò caricava di angoscia l'immagine delle selve o delle paludi in cui per tradizione si annidavano: si pensi all'Anonimo de rebus bellicis 10 o anche ai iara silvestria gallici (o germanici?) cui allude il Querolus 17.21 Randstrand 11. Questi erano anche gli ambienti tipici del brigantaggio, un fenomeno ugualmente preoccupante: la mentalità tardoantica appare particolarmente sensibile all'esigenza ideologica del mondo classico di separare il mondo disciplinato dei coloni attaccati alla terra da quello dei briganti, ma anche dei pastori 12. Ancora una volta, la silva veniva prospettata come lo spazio della trasgressione, della disarmonia, della mancanza di civiltà. Non a caso, le esperienze monastiche più radicali dell'Oriente cristiano si diffusero in Occidente assumendo il più delle volte la foresta come solitado 13. Torniamo ora ai nostri due testi contrapposti. Lattanzio, che giudicava negativamente il fiscalismo imperiale, aveva interesse a evidenziare l'abbandono dei campi; Mamertino, al contrario, osservava il rilancio dell'economia, la fine delle carestie, il ritorno alla terra 14. In definitiva, il vocabolario retorico di entrambi i testi ci offre un quadro distorto della situazione, e soprattutto non offre appigli a generalizzazioni di alcun tipo. Alla luce di ciò, possiamo rileggere le conclusioni di Whittaker nel suo contributo sugli agri deserti: “...mentre qualche terra veniva indubbiamente messa per sempre fuori uso, esisteva una quantità di terre marginali che oscillavano tra annate buone e annate cattive~~'s. Questo è senz'altro un punto importante. Gli agrideserti non nacquero nel III secolo, e la loro persistenza fu legata alle alterne vicende dell'agricoltura. Al tempo stesso, però, dobbiamo resistere alla tentazione di sminuire il valore documentario delle fonti, negando a priori che simili testi possano
realmente documentare la decadenza economica di un territorio o di un'epoca 16 Certo, dietro la menzione delle silvae si scorge un marcato fondo ideologico; ciò, tuttavia, non annulla il valore delle fonti. Infatti, al di là della convenienza di ricorrere al topos della foresta, sia Mamertino che Lattanzio si saranno riferiti a sitUazioni singole, o anche a tendenze più o meno diffuse favorevoli o contrarie alla tetrarchia. Whittaker obietta l'impossibilità di trarne dati positivi per un discorso economico: ma questo non è un buon motivo per metterle da parte. I topoi letterari tardoantichi non erano solo una stanca ripetizione del discorso classico; essi non venivano riproposti a caso e, comunque, I'analisi testuale non può essere sostituita del tutto dalle testimonianze della cultura materiale, senza il rischio di creare una visione stereotipata di realtà sfuggenti e già marginalizzate dagli antichi, rendendole ancor più marginali. Il caso delle foreste sotto Diocleziano è emblematico; infatti, proprio la letteratura panegiristica sembra insistere su questo rapporto tra selva, abbandono e incolto. Uno sgravio fiscale di Costantino a favore della gallica Flavia Aeduorum, l'odierna Autun, dava a un anonimo retore l'occasione di ritornare sulla questione degli agri deserti. Qui la pressione fiscale avrebbe costretto alla fuga i coloni, e i campi, sarebbero stati impaludati o invasi dalle sertes: vari casi, descritti con cura, illustravano la situazione 17. D'altronde si trattava di un territorio palustre, ricco di boschi e saltas dove i coloni morosi si nascondevano (ibid. 14.3) 18. È ovvio che vi si avvertissero immediatamente i sintomi dell'abbandono, fosse questo dovuto alla guerra, a una carestia o a una qualunque calamità naturale o umana che mettesse in fuga la manodopera 19. Si trattava di calamità ricorrenti, parte integrante della vita quotidiana sia antica che medievale. Ad ogni modo, non dobbiamo confondere la boscaglia sorta dall'abbandono con le foreste secolari, nonostante la suggestione delle immagini letterarie: lo stesso Par. Lat. 5 distingue i due tipi di paesaggio. Inoltre non bisogna dimenticare le misure legislative sugli agri deserti, un problema trascurato da Whittaker e ripreso in un articolo introduttivo da Gonzalo Bravo 20. Secondo quest'ultimo, gli agri deserti ebbero in realtà una “funzione”, quella cioè di intensificare la produzione dei terreni più fertili, trascurando i terreni meno produttivi o, comunqUe, bisognosi di maggiori cure. Ciò è senz'altro vero in parte: in ogni caso, anche se non sempre i dati delle fonti giuridiche possono essere generalizzati a tutto l'impero, è evidente la mutata considerazione dei terreni marginali, un cambiamento già intuito sotto il principato e definitivamente sanzionato dalle riforme di Diocleziano. Ha ragione Whittaker nel ricordare che gli agri deserti non furono solo tardoantichi; tuttavia, la sua interpretazione delle fonti lo porta a trascurare il fatto che il problema (già evidente verso la fine del II d.C.) fu affrontato seriamente solo nella tarda antichità. Comunque, per affrontare una documentazione così sfuggente, occorre anzitutto superare la contrapposizione, troppo netta e senz'altro modernizzante, dell'“incolto” con la 'razionale' disciplina agraria dei romani 21. L'economia agraria dei romani fu un'economia mista, e sia i piccoli proprietari che i latifondisti cercarono di intensificare determinate colture per bilanciare le esigenze economiche generali con la sussistenza interna delle tenute. Ma la crisi economica colpì l'equilibrio di ciò che chiamiamo il sistema della villa, accelerandone l'evoluzione verso nuove soluzioni 22: 1'eccessiva tassazione, nei momenti di crisi, portava all'abbandono dei campi; al tempo stesso, le misure a favore dei contribuenti dovevano essere ammortizzate in altra maniera, ad esempio intensificando le opere pubbliche militari. Il problema non poteva essere risolto con periodiche misure ad hoc; ciò può contribuire a spiegare le ragioni del rinnovato interesse per gli agri deserti. Del resto il mondo della tarda antichità, più vicino alla realtà naturale del paesaggio ma anche al mondo dei barbari, dava più spazio ai luoghi della “barbarie interna”, al mondo delle selve e delle paludi 23. Si tratta quindi di un processo di avvicinamento alla natura che ritroveremo nel medioevo in forma compiuta, ma che si era avviato già in età romana. 3. Un tema legato a quello degli agri deserti è quello della presunta 'barbarizzazione' del paesaggio, prospettata da una parte della moderna tradizione storica. Nondimeno la suggestiva e fortunata immagine del Muratori, con l'infelix flactas dei barbari che davano vita a un paesaggio di secoli bui, tutto foreste e acquitrini, è senz'altro da ridimensionare 24. D'altronde i barbari furono anche coltivatori, “uomini senza terra” che talvolta riscattavano una “terra senza uomini”, e che, come
ricordava l'autore del panegirico a Costanzo Cloro (Par. Lat. 8 [v], 9.1) facevano a gara per insediarsi in zone considerate, secondo i tradizionali modelli ideologici, come solitudines. L'insediamento di coloni barbari o dediticii in terra romana è variamente menzionato: cfr., ad esempio, AMM. 25.1 25; tuttavia, nonostante queste testimonianze, si è preferito considerare questi episodi come sporadici, attribuendo implicitamente il momento della 'barbarizzazione' al periodo delle grandi invasioni 26; significativo è il tentativo, da parte di Goffart, di ridimensionare il rapporto fra barbari e agricoltura anche per i secoli V e VI 27. Senza entrare nel merito di una questione già ampiamente dibattuta, vorrei però apportarvi il punto di vista dello storico del paesaggio, non tanto con nuove argomentazioni quanto con un'obiezione metodologica di base. A mio parere, tesi come quelle di Goffart sono condizionate da una lettUra tradizionale dell'immaginario tardoantico sul rapporto tra barbari, città e campagne. Restringere a priori l'entità degli insediamenti rurali barbarici (ossia escludendo che i barbari tendessero a espropriare le proprietà romane), equivale a identificare il paesaggio barbarico 'reale' con le figure stereotipate e deformanti dell'ideologia romana, e confondere così immagine e realtà 28. Così, la forza spirituale di topoi e simboli viene romanticamente anteposta all'evidenza materiale delle fonti. Nondimeno, è legittimo chiedersi se si possa concepire in altro modo il rapporto fra barbari e agrideserti. Guardiamo agli eventi precedenti, in particolare al cruciale III secolo. Allora, in molti territori, si era posto certamente il problema di incentivare le tradizionali pratiche di controllo idraulico, che mantenevano produttivi i fondi palustri, e che la crisi economica e le guerre dovevano aver ostacolato. La politica di Probo, l'imperatore ucciso dai soldati che non volevano prosciugare una palude, mi sembra indicativa di queste tensioni, come del resto aveva già intuito Mazzarino 29. I predecessori di Probo avevano insistito sulla cosiddetta politica dell'--- una misura fiscale di origine orientale-ellenistica, in principio applicata in Egitto, generalizzata da Aureliano nella costituzione C.I. 10.59.1 e successivamente proseguita nella Pars Oriertis 30. Ma l'--- danneggiava i proprietari, che erano costretti a pagare anche per i terreni incolti e abbandonati. Il conflitto tra impero e proprietari doveva quindi proseguire, con alterne vicende, senza conoscere una reale soluzione soddisfacente. Conosciamo bene gli sviluppi della situazione nel corso del IV secolo: la legislazione imperiale prese misure sempre più radicali, flno a emettere nel 386 la costituzione C.Th. 5.11.12, che permetteva di fatto 1'esproprio delle terre abbandonate senza attendere il consueto lungo periodo di prescrizione. La legge, considerata dai giuristi moderni come “scandalosa 31, in realtà non doveva essere dissimile dalle proposte di Pertinace in HDN. 2.4.631, e in ogni caso appare come una riconferma del tentativo imperiale di controllare la sfuggente situazione delle campagne 32. Del resto, quando gli agri deserti venivano effettivamente abbandonati in favore di terre più fertili, I'impero tardoantico non esitò a prendere misure drastiche nei confronti dei possessores: la disposizione del 399 di (Th. 13.11.9, analizzata da Mazzarino, prevedeva la tassazione degli agri deserti in una città orientale, Hierapolis, dove i potertiores avevano occupato le terre migliori ai danni dei cariales33. Tuttavia, pur se è innegabile una tendenza imperiale generalizzata in tal senso, le distinzioni geografiche si rivelano qui fondamentali per analizzare le risposte locali alla politica agraria imperiale: infatti, come aveva già intuito il grande Rostovcev, nonostante lo sforzo unificatore da parte dell'impero tardoantico, le consuetudini locali erano rimaste ben radicate nella pratica di sfruttamento del territorio 34. L'unificazione non era ostacolata solo dalle tradizioni amministrative: anche le condizioni ambientali ebbero la loro parte. Una cosa, infatti, era il territorio di Hierapolis (Hieropolis) nell'Euphratensis, dove i deserti o le paludi potevano considerarsi come terre marginali a tutti gli effetti, un'altra era la situazione italiana, che oltretutto era più critica rispetto all'Oriente, e quindi richiedeva strategie economiche più raffinate 35. La questione dei terreni marginali e degli agri deserti fu certamente un problema sostanziale soprattutto per l'Occidente, meno popolato dell'Oriente, più condizionato dai modelli tradizionali della colonizzazione romana. Non è escluso che, nei territori tradizionalmente aperti a esperienze economiche alternative, le misure imperiali abbiano riportato in effetti qualche successo.
Un esempio interessante è quello della Padania, tradizionalmente legata a una peculiare economia lagunare, dove ad esempio già Plinio ricordava la presenza di vitigni palustri (rat. 14.110, a Patavium)36. Nella Padania, i ben noti problemi politici e militari sembrano aver ritardato il processo auspicato da Diocleziano; ma non è casuale che, sotto Valentiniano I, if ertiles pagi padani fossero stati colonizzati daalamanni (AMM. 28.5.15), nécnecessario ritenere che una simile politica fosse terminata in un completo fallimento. Ad esempio, alla luce dei recenti dati di scavo di Val Nova, nelle Valli Grandi Veronesi, sembrerebbe che queste zone da sempre paludose, abbandonate intorno al II d.C., fossero state ricolonizzate 37. Ciò non può essere avvenuto con facilità: anche se la legge non prevedeva distinzioni, non tutti gli agrideserti erano uguali. Vi era una differenza sostanziale fra un terreno asciutto abbandonato per la guerra o la penuria di manodopera e un terreno umido abbandonato in quanto semipalustre. Una rimessa in funzione di quest'ultimo prevedeva decisamente una quantità di lavoro eccessiva, che solo un esercito ben organizzato avrebbe potuto portare a termine con successo; un esercito (ormai in gran parte barbarizzato), oppure dei coloni barbari, che almeno nell'immaginario romano erano considerati avvezzi a selve e paludi. Questa fu una delle soluzioni del IV secolo: le terre marginali, che sotto il principato venivano in genere assegnate ai veterani, erano ora disponibili anche alle gentes, come si desume da C.Th. 5.11.7. Una simile politica, che consentiva lo sfruttamento di tutte le risorse del territorio, comprese quelle provenienti dai terreni marginali, avvantaggiò senz'altro i grandi proprietari di latifondi autosufficienti, che grazie alla presenza di un paesaggio differenziato potevano fornire la varietà dei propri prodotti a militaris: ciò doveva costituire spesso un problema, in quanto i prodotti mancanti dovevano essere aderati o acquistati altrove 38. La prospettiva di questi paesaggi marginali ricolonizzati restava, comunque, romana. I nuovi coloni avranno portato nuove abitudini e consuetudini rurali, ma certamente non barbarizzarono il paesaggio; al contrario, gli si chiedeva di rimettere in opera le strutture precedenti. Certo, sarebbe necessario confrontare la situazione del IV secolo con l'evoluzione delle strutture agrarie dopo la lunga guerra gotica, che segnò senz'altro un momento di distacco, se non altro per il sopraggiunto calo demografico dovuto alla guerra e alla peste; ma mi sembra che anche per i secoli successivi la 'barbarizzazione' del paesaggio sia da ridimensionare. In ogni caso, questa presunta 'barbarizzazione' del paesaggio è un fenomeno da separare dallo studio dell'insediamento di barbari nei territori dell'impero. Sull'ultima questione occorrerà continuare a far luce; del resto, proprio l'archeologia ha dimostrato come il limes fosse tutt'altro che una linea di sbarramento, la “porta di ferro” della civiltà mediterranea come i suoi rapresentanti amavano immaginare. L'evoluzione delle strutture agrarie seguì la traccia della tradizione romana, almeno in quei territori dove quest'ultima era forte: notevole il caso sabino studiato da Elvira Migliarino 39. A questo proposito mi sembra indicativo un passaggio di Merobaude, in cui viene lodato il ritorno alla terra in Aremorica secondo i pacifici costumi di un tempo: così ora, nonostante le arature siano compiute con aratri getici„ al tempo stesso si rifuggono i “coHsortia barbarici dellavicina gente” (MEROB. iulil COHS. Aet. 1 0 ss. Vollmer). Gli interpreti di questo passo hanno pensato generalmente che Merobaude volesse qui solo alludere alla vicinanza tra l'Aremorica e il regno visigotico 40. Ma non è esclusa un'altra interpretazione: che la zona dell'incola gallico, che accettava nuovamente l'autorità della legge romana e riprendeva a lavorare la terra, sia pure con aratri gotici, si riferisse in realtà ai possessores locali che riprendevano la conduzione delle terre dopo le rivolte bacaude, e che per riorganizzare l'agricoltura si servivano di manufatti agricoli, e forse anche di coloni, di origine barbarica. Ciò non è affatto strano, se si pensa che nella Gallia del V secolo circolavano carpentieri burgundi 41. In questo caso potrebbe trattarsi degli alani, introdotti da Ezio nel tractas Aremoricas 42. D'altronde questa era stata la politica di Ezio; tre anni prima del 446, data del II panegirico di Merobaude, egli aveva fatto stanziare dei coloni burgundi in Savoia, operando con il consenso dei grandi possessores, che consideravano lo stanziamento di barbari come un male minore rispetto alla minaccia delle rivolte bacaude. Questa è, almeno, l'interpretazione sviluppata da Thompson 43.
Difficile definire se lo stanziamento dei burgundi in Savoia fosse stato realmente accettato dai possessores locali, di cui, come ha messo in luce Mario Mazza, Merobaude era un tipico rappresentante 44: in ogni caso non si trattò di un atto di conquista. Come è noto, le fonti non rivelano reazioni negative dei grandi proprietari all'insediamento dei nuovi coloni, ed è certo che queste operazioni, quale che fosse il loro fine strategico, non dovettero avere un peso eccessivo sulle strutture territoriali preesistenti. La tendenza a sfruttare i barbari, impiegandoli nel riscatto degli agrideserte può essere convenuta sia ai proprietari che all'impero, a prescindere dalle strategie di alleanza che miravano a controllare i disordini sociali+S. Un'eco di questa politica si avverte nel discorso in favore di Erodiano pronunciato da Totila ai senatori romani in PROCOP., Bell. 7.21.15: “Voi che pur siete cresciuti insieme coi goti non avete voluto dare a noi, sino ad oggi, neppure un qualunque luogo deserto”46, dove invece Erodiano aveva consegnato ai goti Roma e Spoleto. Il Totila di Procopio, visto come l'autore di un tentativo rivoluzionario fallito, voleva un mondo alla rovescia, con i senatori romani ridotti in schiavitù e i barbari nelle città, anziché negli agri deserti. Dietro questa visione, però, si nascondeva una realtà più complessa: nell'Italia romano-gotica, la sede naturale dell'aristocrazia latifondista era considerata quella urbana, come teorizzava Cassiodoro anche in reazione all'esodo di molti latifondisti nelle campagne (cfr. CASSIOD. Var. 8.31) 47. 4. Date queste premesse, esaminerò un famoso papiro ravennate che ricorda due appezzamenti nel territorio di Padova chiamati palas Micari e palas Pampilia (P. Ital. 3.2.1.9 s.). L'insieme di terreni ricordato dal papiro, oltre alle due palades, comprendeva un saltas e otto coloniae. La situazione qui rappresentata sembrerebbe prefigurare un sistema differente da quello tradizionale romano, analogo per certi versi a quello medievale. Tuttavia Domenico Vera, che si è occupato di questo documento, ha osservato che la mancanza di operae in questi appezzamenti sconsiglia “accostamenti con il mondo curtense nel quale lo scopo del lavoro gratuito dei fittavoli è proprio quello di bonificare le terre indominicate per renderle produttive 48. Aggiungerei un punto a favore di questa interpretazione: le paludes in questione non avevano alcun bisogno di essere bonificate, in quanto costitUivano anch'esse degli elementi del paesaggio agrario. Certo, il documento parla anche di desolazione: delle otto coloniae, tre giacevano in stato di abbandono. Ma non per questo è necessario porre sullo stesso piano le caloniae abbandonate con le palades. Con la guerra gotica, I'abbandono dei campi doveva aver favorito l'estendersi degli acquitrini, che oltretutto si rivelavano utili per alcune tattiche di combattimento4s. Tuttavia non è certo che la P. Ital. 3 sia effettivamente databile all'epoca della guerra; d'altra parte, la P. Ital. 34, documento datato al 551, è proprio il contratto per la vendita di una palus insieme con omHia sibi adiaceHtia per 180 solidi. Pensiamo a quanto ha osservato di recente Chris Wickham per le silvae, riscontrandovi insospettate forme di sfruttamento, a volte con scarsa presenza di aree realmente boschive So; analogamente, non dobbiamo vedere nelle paludes patavine degli acquitrini senza speranza, ma semmai, grosso modo, deifandi caratterizzati da un'economia palustre. Troppo spesso si dimenticano le risorse delle paludi, soprattutto di quelle della Padania ricordate dalle fonti come meno flagellate dalla malaria: pesci, sale, canne, cacciagione, anche vino (forse lo scadente villam rusticum). Del resto, si deve proprio a questa miopia se, ancora di recente, è apparsa la singolare ipotesi di una centuriazione lagunare di Venezia proposta da W. Dorigo (che peraltro ha trovato solo sporadici sostegni)st. In definitiva, mi sembra che la menzione di terreni chiamati palas in P. Ital. 3 e in P. Ital. 34, sia indicativa di un processo di valorizzazione dei terreni 'marginali' avviato durante la tarda antichità, che andava di pari passo con la maggior considerazione del paesaggio e della natura in genere: una sorta, quindi, di “democratizzazione del paesaggio„. Palas, quindi, non si riferisce tanto agli aspetti geografici del sito, quanto a quelli produttivi. L'approfondimento in questa chiave dei sistemi agricoli 'marginali', come quello che sembra desumersi da P. ITAL. 3, e il confronto con il resto della documentazione, consentirà senz'altro di sfumare in futuro molti pregiudizi basati sulla semplice analisi storico-giuridica. Già allo stato attuale, per il paesaggio tardoantico sembrerebbe potersi
confermare una tendenza che la Cracco Ruggini ha opportunamente definito come il passaggio degli ambienti lagunari “da periferia del mondo a fulcro di una nuova civilitas”52. Così, uno studio dei paesaggi 'marginali' che tenga conto delle “vocazioni ambientali,> dei singoli territori potrà aiutare a chiarire meglio gli aspetti, non sempre ben deEniti, del sistema della iHgatio-capitatio. La trasformazione della terminologia geografica è indizio di una nuova mentalità agrimensoria che introduceva nei documenti e, più generalmente, nella lingua l'esistenza accreditata di aree coltivabili pur se non esattamente bonificate o bonificabili. La descrizione di queste realtà multiple si sviluppò poi con ancor maggiore ricchezza di particolari nei documenti privati altomedievali, mentre, come ha osservato Fumagalli, le fonti narrative non presentano descrizioni realistiche di paesaggi, simili a quelle di qualche secoloposteriori 53. 5. Le ragioni di questo maggior interesse per l'ambiente naturale, in special modo per i terreni marginali, vanno ricercate anche nelle vicissitudini della realtà fondiaria. Questo modo di definire la forma agrorum estendendo l'interesse alle aree marginali segno senz'altro un progresso rispetto all'agrimensura tradizionale. Non a caso, proprio a Ravenna, si era preservata la tradizione manoscritta gromatica, e non a caso il corpus dei gromatici aveva preservato non solo opere degli agrimensori del principato, ma anche frammenti più tardi, come la Ratio limitum regHHdarHm (GROM. 365.22-30 Lachmann), in cui si riportavano alcune misure pratiche attinenti all'applicazione delle norme teodosiane sulla limitatio, fra cui proprio la catastazione di una palus 54. Certo, vari testi mostrano come, al di là della propaganda ideologica, già in antico la conduzione agraria prevedesse in certa misura lo sfruttamento dei terreni 'marginali', le cui risorse non erano ignorate; d'altra parte, l'ideologia urbana era troppo compenetrata nella mentalità degli antichi per determinare una ricerca 'naturalistica' della varietà dei terreni. Le carte dei gromatici parlano chiaro: I'ager ideale vi è raffigurato come la diretta emanazione della città, mentre i terreni non appetiti dai coloni, in quanto boscosi, palustri o più semplicemente sterili, erano più o meno assimilabili alla categoria dei subsecica. La questione degli agri deserti dovette incentivare le pratiche degli agrimensori; oltretutto questi ultimi, appartenendo al ceto dei tecnici, godevano di una maggior considerazione sociale che non in passato. Certo, in mancanza di documenti analoghi per la repubblica e il principato, è difficile stabilire se anche nella forma cagroram più antiche vi fosse stato lo spazio per una menzione più approfondita dei terreni marginali; la mia impressione è, però, che l'agrimensura classica si limitasse a una parcellizzazione delle terre coltivabili, lasciando da parte i subsecica. Del resto, prima di Diocleziano non avrebbe avuto senso fare ricerche approfondite sulla qualità dei campi. Occorre quindi distinguere fra la tradizione agrimensoria di repubblica e principato, e quella tardoantica; questa distinzione va ribadita, poiché mi sembra che nella medievistica si tenda a considerare l'agrimensura romana come un blocco statico. Un caso recente si ha nel libro di L. Lagazzi, peraltro ricco di spunti interessanti 55. L'autore sembra infatti aver trascurato il fatto che, nell'Italia tardoantica, i reticoli ortogonali furono eseguiti in età repubblicana; peraltro non vi è riscontro di una continuità di questa pratica su larga scala, f no alla tarda antichità. Di fatto, la realtà che affiora dal corpus dei gromatici risale al più tardi al II secolo, e i riferimenti culturali richiamano, come ha messo in evidenza Nicolet, I'età augustea 5ó. Certo, questi testi ebbero una notevole fortuna, come dimostra la diffusione dei manoscritti. Tuttavia, come è noto, la fortuna della manualistica ha radici ideologiche; un testo classico veniva riutilizzato tenendo conto delle differenze semantiche sopraggiunte nei secoli. La funzione scolastica di questi scritti era indubbia, ma i manuali non servivano solo a soddisfare il bisogno di sapere 'normativo' di un determinato pubblico, ma anche a dare alle tecniche una dignità letteraria. Questo aspetto non va trascurato; infatti tali opere, rivendicando in un contesto letterario i pregi di un sapere 'misto' come quello dell'artefice, lanciavano Un ponte tra sapere orale e sapere scritto. A Roma questi studi furono via via organizzati in modo più sistematico: la trattatistica finì per isolarsi volontariamente sia dalle discipline liberali, sia dalla scienza 'pura'. La specializzazione nelle singole discipline passava attraverso una preparazione specifica enciclopedica, anche se mirata al conseguimento dell'eccellenza nel proprio campo.
Un'iscrizione del 230 d.C. menziona un discens libratoriam (AE 1942-3, 93), ossia un ~~apprendista ingegnere„: forse si trattava di un vero e proprio titolo nella gerarchia dei funzionari. Un personaggio del genere, oltre a un adeguato addestramento in matematica e geometria, doveva apprendere quanto era avvenuto prima di lui in campo amministrativo in modo da tradurre' nei termini del proprio tempo le norme e le divisioni preesistenti, che spesso mantenevano ancora l'antica validità. Nondimeno un mutamento a livello semantico (pur sc 'pseudomorfico') tra agrimensura antica e tardoantica dovette esistere: lo dimostra il caso prima citato delle segetes virgiliane riviste da Servio. Allo stesso modo non avrebbe senso ritenere che gli scritti dei gromatici veteres, ancorché utilizzati con profitto dai loro omologhi tardoantichi, rispecchiassero una situazione valida per tutta la durata dell'impero romano d'Occidente. I gromatici tardoantichi avevano l'obbligo di conoscere Ic divisioni del passato, i territori delle colonie e le distinzioni regionali; ma ciò non implica che la loro tecnica non si fosse evoluta nel tempo, soprattutto dopo Diocleziano. F, comunque, le maglie della centuriazione non erano che uno dei tanti aspetti della pratica romanica; trattandosi di una tecnica legata alla funzione catastale. In ogni caso, alcuni ben noti esempi tardoantichi mostrano la necessità di sfumare ogni presa di posizione perentoria. Per fare un esempio, secondo Lagazzi le divisioni con siepi e alberi sarebbero tipiche del medioevo, in quanto ~`sembra probabile [...] che l'aspetto dei segni terminali fosse mutato rispetto all'epoca romana nel senso di una maggior omogeneità con l'ambiente~~;~. Anzitutto ciò non è esatto: il corpus dei gromatici mostra l'esistenza di are.vermirales già in età imperiale (GRC)~~. 270.4 ss. achmann), e la documentazione è certamente più ricca di quanto non appaia da una simile schematizzazione . In questo caso, comunque, la questione più delicata non risiede nella documentazione quanto nella periodizzazione. Separare il paesaggio “antico”, ossia greco-romano, da quello medievale (almeno per l'Occidente) significa ignorare il processo evolutivo nella mentalità tardoantica, che ha determinato nuove percezioni del paesaggio. Basta leggere Cassiodoro per rendersi conto che la nuova visione del paesaggio non fu dovuta solo alla sua 'barbarizzazione', ma anche allo sviluppo interno di tensioni che si erano create nell'ambiente dei ceti tecnici romani: e comunque, non è pensabile risolvere un tema così complesso, quale il passaggio tra antichità e medioevo, nei termini di un"umanizzazione” delle strutture ambientali dovute all'impatto con le diverse abitudini e consuetudini dei popoli invasoris. Una simile prospettiva, che fu quella di un Altheim, e, in senso negativo, di un Piganiol, non può giustificare la figura, ben più realistica, dell'agrimensore vivacemente dipinto da Cassiodoro come un fanaticus che non ambulat iure communi, che fa degli agri deserti il tribunale , della sua scienza giuridica empirica (CASSIOD. Var. 3.52.8). L'elogio di Cassiodoro è senz'altro organico alla propaganda teodericiana, come mostrano le sue lettere sugli interventi di bonifica a Terracina e in Umbria; ma la considerazione dei gromatici si riferisce a un discorso decisamente romano. L'agrimensura viene qui considerata come un'arte 'stocastica', contrapposta alla ---, secondo uno schema filosofico già presente in Galeno 60. L'evidenza prodotta dalle ricognizioni dei gromatici si avvicinava molto al concetto del ias sire scripto introdotto già nel III d.C. (ma ispirato a fonti filosofiche greche) da Ulpiano. La trasformazione non fu solo ideologica: a partire dal IV d.C. è attestata l'esistenza di funzionari imperiali con mansioni di mersores, esperti di geografia matematica e cosmografia, mentre in precedenza gli agrimensori erano stati privati cittadini o funzionari militari. Ciò ridimensiona senz'altro il discorso di Lagazzi, per cui Isidoro è la sola autorità medievale a ricordare in qualche modo l'importanza dei gromatici 61. Certo, Cassiodoro viveva ancora, a cavallo tra antico e medioevo, nel VI secolo 'gromatico' ravennate; ma la sua testimonianza - osservata sin da Godefroy non può essere ignorata a cuor leggero, se non altro perché rappresenta un'ulteriore riprova di come la continuità fra antico e medioevo non fosse lineare e statica, bensì contraddittoria e, se mi permettete il paradosso, discontinua. GIUSTO TRAINA
1 Il testo qui pubblicato è essenzialmente quello letto al convegno; alcune modifiche e sfumature si devono alle osservazioni di Domenico Vera, che ringrazio caldamente. Data l'ampiezza del tema, mi è stato impossibile rielaborare il testo in una forma in qualche modo definitiva e aggiornata, che oltretutto tenesse conto anche del dibattito di Pontignano (anch'esso necessariamente limitato, per ragioni di tempo: sarebbe auspicabile una ripresa di tutta la questione). Mi riservo un'elaborazione più compiuta delle mie tesi per un lavoro monografico in corso di stesura. 2 CHAMPION 1990. 3 CAMERON 1992, P. 45. 4 Cfr. GIARDINA 1981, P. 112. 5 Per le fonti sull'economia cfr. GIARDINA 1989C, P. 401. 6 cfr TRAINA 1990, p. 94 s. 7 Sul passo, e soprattutto sull'accezione da dare a colori, cfr. VERA 1986a, p. 414 s. 8 GIARDINA 1986, p. 23. 9 Anche i moderni hanno valutato positivamente le argomentazioni dei panegiristi considerando talvolta le misure diocleziane e ancora utili: cfr. FAURE 1961. 10 Cfr. GIARDINA 1989a, p.73; sulla frequenza del topos nei Panegirici cfr. GIARDINA 1989b, 73 s., dove il confronto tra De reb. Bell. 6.4-7 e Par.Lat. 2.22.2 rivela, se non altro, un fondo ideologico comune. 11 Cfr. TRAINA 1986, p. 727, con bibl.; TRAINA 1988, p. 46. 12 Cfr. GIARDINA 1989a, p. 80 ss. 13 Sul rifiuto della civilitas urbana da parte degli asceti tardoantichi cfr. CRACCO RUGGINI 982, p. 69 ss. 14 Sono le stesse conclusioni di WHITTAKER 1976,183 s. per l’analisi del passo di Lattanzio (con le posizioni di Jones e Frend). Contro le generalizzazioni nella valutazione del tessuto sociale tardoantico cf ora KOTUEA 1991. 15 WHI r I AKER 1976, p. 203 s. 16 Cfr. Ie osservazioni di VERA 1986b, p. 261 s. 17 Cfr. BAGEIVI 1985. 18 Cfr. WHITTAKER 1976, p. 179 s.; TRAENA, 1986 p. 726 s. 19 BAGLIVI 1985 20 Cfr. BRAVO 1979. 21 Cfr., ad esempio, CALZOLARI 1986. 22 SU; presupposti della crisi del sistema della villa cfr. GIARDINA 1986, p. I ss. 23 GIARDINA 1989a, p. 73. 24 Bibl. in TRAINA 1987. 25 Più problematici sono alcuni passi dell'Historia Augusta, che qui non verranno presi in esame. 26 Cfr. RUGGINI 1963; DE DOMINICIS 1964. 27 GOFFART 1980 (cfr. però MARCONE 1983). 28Sulle posizioni di Goffart cfr. ora VERA 1993, p. 140 ss. con bibl. 29 MAZZARINO 1973, p. 581 ss. 30 Cfr. MAZZA 1973, p. 204 s. 31 DE DOMINICIS, cit., p. 77 ss. 32 Cfr. Ia situazione emergente dalla Tavola di Trinitapoli: testo e commento in OIARDINA-GRELLE 1983. 33 MAZZARINO 1990, p. 138 ss. 34 Cfr. MARCONE 1988, p. 64 ss. 35 Sulle differenze tra 0riente e Occidente cf VERA 1986a, p. 373 ss. 36 Per i vitigni palustri nell'antichità, cfr.inoltre PLIN. 72at. 14.8, MART. 13. 115- COLUM. 3.13.8 e GEOPON. 2.47.9. Quanto segue è ripreso e approfondito da TRAINA 1990-91. 37 Informazioni preliminari. Cfr. DE GUIO et al. 1990. 38 Cfr., naturalmente, MAZZARINO 1951, P. 47 SS. 39 Cfr. MIGLIARIO 1988. 40 CLOVER 1971, p. 47 s., con bibl. 41 SOCR. HE 7.30, su cui MAZZARINO 1980, p. 141. 42 Bibl. in MAZZA 1986, p. 206. 43 THOMPSON 1956; CLOVER 1971; MARCONE 1983.
44 Cfr. MAZZARINO 1980, p. 137 ss.; ZECCHINI 1983, p. 224 ss. 45 Ingegnosa l'ipotesi di BURNS 1992, per cui la vera ragione dell'insediamento visigotico in Aquitania sarebbe stato il tentativo imperiale di tagliar fuori questi competitivi 'barbari' dai mercati mediterranei 46 Traduzione in MAZZARINO 1980, 436 47Cfr. LUISELLI 1982,p.51 ss.; LEPELEY 1990e 1992; VERA 1993. In gen. cfr.VERA 1986b, p. 238. 48 VERA 1986a, p. 427. 49 Cfr. RUGGINI, 1961, p. 42s n. ss7. 50 WICKHAM 1990. 51 Cfr. DORIGO 1983, p. 1; sulla questione cfr. ora CRACCO RUGGINI, 1992, pp. 21 e 38; ROSADA 1992. 52 CRACCO RUGC,INI 1992. 53 Cfr. FUMAGALLI 1992, P. 24. 54 Cfr. TRAINA 1986, PP. 719 e 911 n. 32. 55 LAGAZZI 1991. 56 NICOLET 1989,pp 151-99. 57 LAGAZZI 1991, p 29. 58 Per altri esempi cfr. DILKE 1971, pp. 98 e 103, con bibl. 59 LAGAZZI 1991, p.88. 60 Cfr. TRAINA 1994, p.111. 61 Ibid., p. 18; 53 ss.
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La Storia dell'Alto Medioevo italiaro (VI-X) alla luce dell'archeologia as a conference theme reflects the interest and excitement which the study of the Italian early Middle Ages can now command. The purpose of the meoting was to use, conjointement les sources textuelles et archéologiques pour une reconstruction historique globale du haut moyen age... In this paper it will be suggested that such a “ global reconstruction, is, however stimulating in general terms, ill-advised in the particular case of the cartis,. It will be suggested instead that early medieval history is more effectively approached from a viewpoint of the sort proposed by Caroline Walker Bynum: that history consists of fragments which should not be forced into a misleading wholee Such a view is well-suited to the theme of the curtis as a focus for power relations in the early medieval societies of Italy north of Rome, bocause global pictures of early medieval estate structures tend to obscure the very significant local facts which determined who was and who was not powerful in the early medieval countryside. Many different forms of estate organization may have existed within the same basic (global?) networks of power. The evolution of estate structures in northern/central Italy betwecn Late Antiquity and the early Middle ages has been the object of much historical research in the past 3. Italian writers outlined the classic forms of the sistema carterse many decades ago 4. In this vision 'classic' estate forms (those divided neatly into demesue and non-demesue) appeared in Italy from the late Lombard period on. With the arrival ofthe Carolingians small'independent'farmerswere absorbed into such structures by means of labour-service demands instituted above all by large monastic housess.The work of classical French historiography, particularly that of Pirenne and Duby, was (and has remained) influential in the elaboration of these notions 5. The result was a well-ordered, rather static landscape of standardised estate forms. In their readiness to classify forms of estate structure many scholars neglocted to think about the basic power relationships which arguably caused these structures to come into being and maintained them afterwards. More recently scholars such as Toubert and Devroey have argued that the sistema curtense was much more flexible and fluid than this. Toubert in his deliberately schematic classification of estate forms points out that the most important characteristic of the early medieval economy was that it was an “economy of relationships” betwecn people3. Devroey has referred to the countryside as “un terrain mouvant de contradictions ”, where monasteries were - at least in the ninth century - highly integrated into rural exchange networks 6. Independent peasant farmers have becn rehabilitated as active agents 10. Taken together this work has brought about the breakup of the old sistema carterse and its replacement with diverse estate forms, with peasants dealing directly with monasteries, with money rents. A sophisticated understanding of the emergence of so-called classic estates after AD 700 has becn one of its results 11. Another has becn a refned appreciation of the changing character of relations betwecn lords and peasants in the wake of late Roman collapse 12. However, knowledge of the regional and local exchange networks within which estates existed is still very poor, particularly for the sixth and seventh centuries 13. This gap is especially problematic, for without knowing how products were moved around, it is not clear whether involvement in estate-management was perceived as an important aspect of political authority at all. It may be, as Chris Wickham has argued, that peasants profited as a result of the disorders of the sixth and seventh centuries at the expense of landlords and that the powerful were too busy fighring each other to bother about the careful organization of the landscape or about the taxation of peasants 14. Exactly how the powerful exploited the unpowerful in the Italian countryside at this time remains elusive and it may be the case that it really was only after 700 that lords, especially ecclesiastical ones, bocame interested again in the organization of the countryside 15. Historians, stristo sersa, can never escape the limits of their texts. We know little about the period before the eighth century bocause so little remains of it in writing and what there is so often relates to
the churcht~. In particular we know very little about the organization of lay properties, which may have dominated the landscape before the establishment of the great monastic houses in the succceding period. Historians fmd it very hard to research the Italian countryside in the fifth, sixth and seventh centuries bocause of the nearabsence of charters. Whilst Cassidorus' Variae, Gregory the Great's Register, Paul the Deacon's Historia Largobardorum and the Lombard laws are useful and have often becn used to tell the econornic history of these centuries, the neartotal, near-global, absence of charters and the like dees make the detailed consideration of estate management hard for any period before AD 700. This point can be demonstrated if we examine in some detail how such charters are indeed crucial for an understanding of power relations at the site of the estate in the ninth century. I have chosen a charter from the collection of Sant'Ambrogio, Milan, some of whose documents were used by Gabriella Rossetti in her study of Cologno Monzese and which formed the basis of my doctoral research on the monastery 17. A testamertam of July 850 made on behalf of Scaptoald (who lived in Sumirago in the Varesotto) illustrates this point effectively 18. The document can be translated as follows: “In the name of Christ. Lothar emperor by divine providence and his son Louis, in the thirty first of his reign and the first year of Lonis', in the month of July, in the thirtoenth indiction. For my always beloved sister Gisalberga. I in the name of God Scaptoald son of Warnefrit of the vicus Sumirago your brother and donor say to those who are present: The all powerful God who made my soul induces in me zeal for everlasting salvation. Therefore I Scaptoald your brother and corf rmatorwish, institute and confrm by my present charter of ordination that on this very day you Gisalberga my sister shonld feceive into your power those houses and other properties within my territory which I am secn to have and to possess in Sumirago and three other villages] which is to say those houses, buildings, land plots, gardens, watercourses, enclosures, felds, pastures, meadows, vines and woods with their bounds and entrances in their entirety, in which manner I specify below, excepting thefamilia and movables there which pertain especially to my family, those things which I have conceded and will concede to my freedmen and that piece of my land which is an orchard í 5 tab~lae in extent at the periphery of the hall in Sumirago which I give to the priest Erminald my uncle as his property to do with as he wishes. All this for my sonl. Also the chestout wood in Sumirago known as 'Viniola'which I give on this very day to the basilica of Saint Mary and Saint Lawrence in Sumirago, for my soul. Otherwise everything above should be on this very day within the power of my sister, in the manner set out below. Therefore of the aforementioned things I wish that my freedmen should have in usufruct these things: Albinianus should have two huts, those in which he currently lives, with the vines across the stream; Aribert shonld have those huts in which he lives, with vine in Mantarade; Liuspert should have the huts in which he lives with vines in Grarusio; Giselbertus, and his son Domnebert, shonld have the huts in Sumirago where he lives, so that he may continne to live and work there, and have the field in Casteriolo and the wood in Meriaco in usufruct for his lifetime. So they shonld be able to work the above estate, the demesue and the tenant houses should they wish to but if my sister from her part of the estate shonld give them reasonable sustenance and if she gives to them those properties which I have conceded above they may reinvest the land to her; but if she refuses to give them adequate sustenance they shonld have the property as set out above and after their deaths it should revert to my sister or her heirs. More over I decree on this very day that all those things set out above for my sister should remain in her power for her lifetime in usufruct; after her death they should pass to her son if she has one as his property to do with as he wishes; but if althongh I do not think this likely - my sister should die without son or daughter, or if her son or daughter should die as minors or intestate then all these things should pass to the monastery of San Vincenzo near Milan for the sake of my sonl and those of my sister and our parents. In the same way I concede to my sister my familia seven names listed so that they shonld be in her or her children's power to do with as they wish for my soul, or should my sister and her children die early or intestate then from that day they should remain absolutely free without the need for mard, able to walk where they will for our souls and those of our parents; likowise I concede to my sister Liviperga, Gaudentia
and Teusperga to serve her in her lifetime; afrer her death they shonld remain free to go where they wish...; and I have asked that two documents be made; one for my sister and one for the monastery. Done in Milan. I Scaptoald sign this charter made by me. The cross of the hand of Romanonus merchant of Milan, wituess. The cross of the hand of Teodoald merchant of Milan, wituess. The cross of the hand of Rachfrit called 'Fredolo' merchant of Milan. I Angelpald asked to wituess by Scatoald, sign. I Thomas of Concorezzo asked to witness by Scatoald, sign. I Widelbert of Bregnano asked to wituess by Scatoald, sign. I Ambrosius writer have written and handed over this charter after the event”. Scaptoald was a layman and, in this document, he made provision for his sister's well-being after his death 19. He bequcathed her a cartis victalia which was classically organised with demesne (domo coltile) worked by resident servi, arcillae, and aldii and non-demesue where free massarii lived in small huts (aplertorae). It was not especially compact territorially and was a mixture of pastoral and arable. Scaptoald had links (we may conjecture) to the monastery of San Vincenzo in Milan for he provided for this community to reccive the estate if his sister died childless. The charter, written in Milan, was wituessed by several Milanese regotiatores as well as local men, a fact which may indicate that Scaptoald had some links with city society. We know nothing else about Scaptoald and his family which makes his social status any clearer to us: apparently he was a reasonably well off man with powers over his workforce as a result of his being their master. It is of course common that the workforce was put into numerous different categories in the document and we should not forget that social divisions amongst the rural workforce may have increased Scaptoald's power, fortherewas always the chance forthe servile to be freed and vice versa. We have here a practical illustration of Toubert's “economy of relationships„. The charter reveals a whole network of power relations which coalesced at the site of the cartis. The document does not of course exist in a vacuum for, whilst we may not know anything further of Scaptoald, other charters do refer to Sumirago. The earliest of these (807) records that the settlement was in the territory of Seprio and that an Alemannic count (haiolas of Adelaide, daughter of King Pippin) owned property there. This count was the possessor of many estates in Lombardy and beyond and so Sumirago was at this point part of a network focused on his person 20. Later, in 956, the monastery of San Vincenzo is recorded with property rights in Sumirago, probably gained as a result of Scaptoald's charter 21. The information which these charters reveal about the cartis, althongh it is in no sense new, allows us to posit a whole network of power relations emanating from this one estate, even thongh such charters have not normally becn secn explicitly in terms of power relations. The Sant'Ambrogio charters (and others like them) enable us to see society in action, the operation of ordinary life, the changes in the relations betwecn the powerful and betwecn the powerful and their dependents. Such charters show how a large monastery attempted to organize property in its vicinity by means of the written word; to see how the monks used charters as material objects and not simply as artifacts open only to the lettered; how servi used written documents to resist the power of the monks 22; and how families of middling social status also used charters to keep a check on incipient monastic power 23. This last point is especially important as many charters provide information concerning laymen and in spite of the obvious fact that such information is late in date it does raise the issue of whether such situations existed before such things were routinely documented. This brings us to archacology and the question of whether archacological work conld detect such relationships in the period before the eighth century. Having argued that charters, when they exist, raise important questions for any analysis of the curtis and power relations I want now to suggest that it is bocoming ever-clearer that landscape archacology too is crucial in this context. This fact highlights the diff~culties which many of us face in trying to work out the relationships betwecn material culture and the written sources 24. The best way of explaining how charter material aids archacological thinking about estates would be to discuss a specif~c example. But here we encounter problems. We cannot answer this question by continuing with the particular case of Sumirago bocause it has not becn investigated archacologically in recent times. Landscape archacology (of the
type done in South Etruria and the Biferno valley by the British School) is also lacking futher north, which makes it very hard to say anything about long-term changes in settlement patterus and land use. Whilst North Italian rural archacology has investigated some sites of the first importance (notably Castelseprio, Monte Barro, Sirmione, La Torre) which have begun to alter our understanding of what disruption in the Dark Ages meant in this region, nevertheless how or indeed if these sites were connected to agricultural production and the local population is very unclear 25. For the north discussion has, at present, to continue at a very hypothetical level. Further south conditions are better for this type of work and much of it has becn done at the British School at Rome. It is not possible here to discuss in much detail such large and long-running projects but it is worth following work in South Etruria, at San Vincenzo al Volturno and at Farfa to see how the question of the nature of power relations visible in archacological contexts has been explained and to see that important information has in fact becn discovered concerning the changes in the material structures of estate centres in the period of the transition from Late Antiquity to the early Middle Ages. Kevin Grecne (in his book The Archasology of the Roman Ecoromy, published in 1986) attempted a general interpretation of excavations in South Etruria, the Biferno valley and the Ager Cosanus. In the course of this lucid discussion he noted that, “ Broader issues of landholding such as the importance of latifundia run with slave labour or estates occupied by free tenant farmers are more difficult to approach through archaeology, but there is no other source which can provide such a large amount of new material” 26. In saying this he admits the great difficulty in investigating archacologically the critical question in the studyofthe earlyc~rtis: how lords maintained the thingwe call powerover their dependents at the site of the estate itself Before bocoming involved in the continuity or discontinuity of power structures in the agrarian context betwecn Late Antiquity and the early Middle Ages it wonld seom more pressing to evolve an archacological method which can recognise this sort of power. Grecne, having noted the diffculty, leaves the question open, understandable in a textbook. Richard Hodges, in a recently published paper “ Emporia, monasteries and the economic foundations of medieval Europe”, has developed his view of the relationship betwecn economic activities and political power at the site of San Vincenzo al Volturno 27. San Vincenzo is one of the few sites where a systematic, multi-period feld survey has becn done 28. He has claimed that, 29 It is clear from the contemporary documentation that royal estates and monasteries acted as quasi-central places at the apex of the settlement hierarchy. The precise role fo these elite centres, though, appears to be rather contentious 30. He argued too, in the case of San Vincenzo, that at the point of the greatest monastic expansion in the ninth century archacological evidence shows that the products derived by the monastery from its estates were not very important to that expansion. He suggested that, “Late in the tenth century, not before, the monastery began to administer its lands effectively...(The community) supported itself by cultivating the plateau on which the monastery is located....Obviously, the monastery collocted some sort of rents and services from its villagers, but to judge from our initial investigations of these sites, their management was hardly signifcant to San Vincenzo's well being until late in the tenth century, 31. These ideas are important bocause, if they are proved correct, they may indicate that there is no necessary connection betwecn the material culture of this monastery and the power relations which one can imagine on its estates and the organisation of agricultural work there. Such results are in conflict with those of many historians, such as myself, who have studied monasteries via written sources in this period3~. Hodges, in this paper at least, has not made all his assumptions about power explicit for he, like many others, assumes that material wealth was necessarily equivalent to political power in the early Middle Ages 32. Both Greene and Hodges, in my view, assume that power relations are intrinsic in material culture. Nevertheless, they have recognised that the archacological study of power is diff cult and tended, perhaps as a result, to have relied on the written documents to supply this sort of information, using material from these sources to provide them with their concepts of the relationships possible betwecn lords and their dependents. This is all very well when charters and other texts exist (as they do from c 700 on in these cases) but it does not solve the problem of what to do when there are sites with no or
few charters (for example Castelseprio, Monte Barro, Sirmione) or periods when charters were not (apparently) in use. John Moreland's work on archacological theory and method is riskier. Its importance is that it is not exclusively theoretical: the Farfa excavations enable it to be put into practice 33. He has written explicitly of power in archacological contexts and tried to refme concepts of its nature. He (and others) have developed post-processual archacology, using theories as diverse as those of Marx, Bourdieu and Ricocur 34. In arguing that material culture is not a natural thing but rather is created by humans Moreland wishes to restore human agency to the archacological past. “Material culture cannot be secn as a simple reflection of past social systems. Nor is it a passive record which methodological advances will allow us to interpret in order to reaeh the past "as it really was". Rather, it is and was acrivated in the creation and protection of social relationshiy 35. Perhaps this view allows us to find power in archacological material. For example the excavations at Farfa directed by Moreland and Helen Patterson are, in the opinion of Moreland, important for the discussion of the characrer of power in the agrarian context. In his recently published artiele on the Annales sehool and archacology he has returned to Farfa 36. He has explained that the sites where African Red Slip is found were, “...the foei atwhich'powerover'was concentrated 37; that the cHrtes' with their villae, remained occupied in the sisth and seventh centuries bocause there was, '...a desire on the part of the elite to legitimate their local power through ties with an age-old system” 38; that hilltop settlement (in effect the process of incastellamento in the ninth century) was an extension of these trends bocause these were the sites with the richest material culture, which Moreland eonnects with power and the powerful. Moreland includes in this pieture written documents as instruments of monastic control. Therefore whilst concluding that we must use archacological information and written documents together if we are to understand what power was in the early medieval context he has at the same time provided archacology with the theoretieal apparatus with whieh to speak of power in a way which differs from that commonly used by historians. It would be unwise to ignore his arguments simply bocause they are complex and diffcult to prove by standard methods. Like Moreland I do not want to encourage too blatant or too simple a distinction betwecn archaeological and historical study: we are all interested in the past and written sources are just as much material culture as archacology is a text 39. Similarly I accept that there are diffculties with interdisciplinarity and with concepts of power in the present context. Is it possible to transfer concepts derived from charters to material culture? The flourishing debate about the nature of north Italian town life in the Dark Ages has shown that an apparent clash of methods ean be vety produerive of new ideas 40. If debates about the countryside in the north have becn less lively this is simply bocause archacological investigations of the north Italian landscape (and especially the Po Valley) have so far proved diff cult to undertake bocause of its peculiar geology and hydrology and bocause of modern development 41. Here the old problem faced by historians of continuity/discontinuity is very much apparent and archacologists cannot yet escape it bocause there are still so few sites identif ed as estate centres forwhich chronological sequences, uninterupted betwecn the fourth and the eighth centuries, exist 42. This paper has focused on questions at the expense of answers, awkward questions perhaps but necessaTy ones if we are to comprehend fully the Dark Age evidence which is now pouri'~g out of archacological sites all over Italy. In their attention to archacological methodology many archacologists put historians to shame and some are even tackling the thorny issue of power head on;3. What I have tried to soggest here is that archacologists can use historians' ideas about power in the countryside, especially ideas which are derived from charter texts, as a springboard for futher methodological investigation. ROSS BALZARETTI
1 BALZARETTI 1992a, p. 193 argues against global approaches to the early medieval European past. 2 WALKER BYNUM 1991, pp. 11-26. 3 ANDREOLLI-MONTANARI 1983; CRACCO RUGGINI 1961; GIARDINA 1986; JONES 1974. 4 Summarised in LUZZATTO 1961, pp.14-46. 5 VIOLANTE 1953, pp. 3-50. 6 PIRENNE 1936, pp. 1-15; DUBY 1974, pp. 31-47. 7 For a pertinent south-east Welsh comparison see DAVIES 1978 and DAVIES 1990. 8 TOUBERT 1985, p. 63. The extent to which early medieval kings knowingly exploited 'the economy' has becn the subject of a recent debate in Past and Present, (BALZARETTI 1992b). 9 DEVROEY 1979 and 1984. NELSON 1992, pp. 19-40 is an excellent synthesis of ninthcentury Frankish economic life. 10 HODGES 1989b 11 FUMAGALLI 1980b; TOUBERT 1973; TOUBERT 1985. 12 CAPOGRASSI COLOGNESI 1986; GOFFART 1980; VERA 1986. 13 See the work on ceramics by Helen Patterson in this volume. 14 WICKHAM 1989, pp. 147-49. 15 CASTAGNETTI 1982; FUMAGALLI 1978; MONTANARI 1979; WICKHAM 1988. 16 The fascinating Ravenna papyrus fragments (ANDREOLLI 1 987; PERCIVAL 1969) hardly allow for general conclusions to be made about the rest of Italy. 17 ROSSETTI 1968; BALZARETTI 1989. 18 ODL 169, July 850, an original. 19 ...per presente cartula hordinationis meae corfirmo, ut a presenti diae deveniat ir jura at potestater at potestatem tua qui sopra Giselberga germana mea... 20 CDL, 84, September 807, an original. 21 CDL, 614, May 956, an original. 22 I have examined this further in BALZARETTI 1994. 23 BALZARETTI 1989, pp.163-203 examines the activities of such families in the villages of Cologno Monzese, Gnignano and Inzago, east of Milan. 24 Examined more fUlly in BALZARETTI 1991. 25 Castelseprio (BROGIOLO-LUSUARDI SIENA l980; CARVER l987);MonteBarro (BROGlOLO CASTELLETTI 1991); Sirmione (BROGIOLO-LUSUARDI SIENA SESINO 1989) La Torre (BOUGARD 1991). The British School's investigation of Santa Cornelia (probably one of the papat domus cultae) is perhaps the best example of an excavated early medieval estate centre (CHRISTIE 1991, pp. 3-209; CHRISTIE 1992). 26 GREENE 1986, p. 109. BARKER 1989. 27 HODGES 1989a. 28HoDGEs-MlTcHELL 1985. The British School is out to publish the first major reports on the excavations up to the late 1980's. 29 HODGES 1989a, p. 61. 30 HODGES 1989a, p. 69. 31 BALZARETTI 1989. 32 HODGES 1989b. 33 MORELAND-PLUCIENNIK 1992. 34 MORELAND 1991; MOORE 1990. 35 MORELAND 1991. 36 MORELAND 1992. 37 MORELAND 1992, p. 120. 38 MORELAND 1992, p. 121. 39 BALZARELLI 1992a; MORELAND 1991 and 1992. 40 LA ROCCA 1986; LA ROCCA 1989a and 1989b; BROGIOLO 1987; WICKHAM 1988a; BALZARETTI 1991. 41 PEARCE-CALANDRA-LIANI 1992 discuss the issues with regard to Lomello (PV); HUDSON-LA ROCCA 1985, pp. 225-232. 42 The Farfa survey by turn up such sites (MORELAND PLUCIENNIK 1992). I want to thank Frances Andrews and Valerie Scott, Librarian of the British School at Rome for last minute help with the Italian text which was delivered at the conference, I am grateful to Andrea Augenti, Gian Pietro Brogiolo, Tom Brown, Stefano Coccia, Elizabeth Fentress, John Haldon, Richard Hodges, Cristina La Rocca, Federico Marazzi, Helen Patterson and Chris Wickham for helpful discussion in Pontignano. The final text is my responsibility alone.
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In the Shadow of Pirenne: San Vincenzo al Volturno and the revival of Mediterranean commerce
“All tEose engaged in searching for the truth understand that the glimpses they have of it are necessarily fleoting. They glow for an instant and then make way for new and always more dazzling brightness. Quite different from tEat of the artist, the work of the schoiar is inevitably provisional. He knows this and rejoices in it bocause the rapid obsoleteness of his books is the very proof of the progress of his feld of knowledge” (PIRENNE 1912 PP. 57-8). In 792 Canton was opened to Abbasid traders. At that time T'ang dynasty sources record that Charlemagne was regarded as a wise and learned man, gifted in civil and military matters (SAHLINS 1988 p. 15, citing SCHURMANN_ SCHELL 1967). From this unexpected quarter we gain further evidence that in his own lifetime Charlemagne was regarded as an exceptional fgure. Western sources, of ccurse, leave us in no doubt of his authority and vision. But these often take a hagiographic form and plant a seed of suspicion about Charlemagne's achievement. Later sources, drawing upon a colloctive memory, fashioned him into a heroic figure. This interpretation, according to Richard E. Sullivan (1989), has dominated Carolingian historiography in modern times: “Most Carolingianists [writes Sullivanl were members of an intelligentsia desperately seeking common denominators in European experience that wonld provide a rallying point aguinst forces of natural and ethnic hatred, global warfare, totalitarianism, and class conflict that seomed to punish Western civilization toward the fate predicted in the Spenglerian prophecy. Where better to f~nd Europe's most precious commonalities than at the fountainhead of the European experience where presided one of Europe's few shared heroes - Karl der Grosse, Charlemagne, Carlo Magno, Charles the Great” (SULLIVAN 1989 pp. 272)? Was the Carolingian age really a discrete period, asks Sullivan? He argues that it is not. Sullivan opines that “pre-Carolingian and Carolingian history forces one to the conclusion that continuity rather than discontinuity was the essential characteristic of a long historical continuum reaching forward from late antiquity, a continuom in which the Carolingian age constituted a not so distinctivesegment ” (SuLLIvAN1989pp.281).Charlemagnewas “ unsonverain antique ” rather than “Europae pater” (SULLIVAN 1989 pp. 270). The powerful influence of Henri Pirenne, so Sullivan believes, is largely responsible for this misinterpretation of the Carolingian age. Paradoxically, as is commonly accepted, Pirenne's famous thesis synthesized in his posthumous book Mohammed and Charlemagne (1939) no longer stands the test of time on many counts. The role of Mohammed, as he put it, in the making of Charlemagne cannot be sustained. Commerce in the Mediterranean basin in later Roman times was in sharp recession before the Arabs invaded North Africa and Spain. As to the rise of the Franks as a “purely inland power” (PJRENNE 1939 pp.184), Pirenne had only the faintest impression of the role played by the large North Sea trading towns. Archacological excavations in the half-century or so since his death show that these places, while ignored by the contemporary monastic sources, must have becn axiomatic in the rise of the Carolingians. Turning to the Mediterra nean, Pirenne presumed that it ceased to function as a commercial highway after the Arab invasions. Archacology has shed no light on this in marked contrast to the rise of Dark Age towns around the North Sea. Not unnaturally, given these circumstances, Pirenne looked for the roots of fendal Christendom in its great estates. In his shadow historians and archacologists have followed. Many monastic estates are more than adequately described in the 9 century sources. Nevertheless, it remains diff cult to assess their economic role, let alone provide 'Beveridge-style' statistics about these places. In effect, a sketchy, theoretical view of these estates exists, contingent upon our interpretation of Carolingian society. This explains why Georges Duby, following Marc Bloch, has described these places as highly underdeveloped (1968; 1974), while Jean Durliat has gone to the other extreme, conjuring up the continuity of Roman imperial estate management to explain the basis
of Charlemagne's power (1990). The estates are a central issue in Pirenne's model of an iuland power. To what extent were they the motor of medieval development, and to what extent was their prosperity contingent upon the productivity of the administered commerce managed at the emporia? Lebocq has convincingly shown that estates and emporia were closely connected in northern France (1989). But his sources, while detailed, scarcely dispel a suspicion that we are in receipt of only a fragmentary impression of a critical phase in the evolution of the early medieval economy. We need to be able to measure sample estate histories rather as we have used archacology to measure the activities of the North Sea emporia (HODGES forthcoming). The archacology of early medieval estates is in its infancy. We are working with hypotheses based upon impressions of churches, and occasional landscape surveys of settlement patterus (cfr. HEIDINGA 1987; HODGES 1990; THEUWS 1991). Indeed, until recently, with one exception, we have lacked any precise measure of an estate-centre. The exception, of course, is St. Gall, known from the celebrated plan of the monastery dating to c.820. The plan allows us some comprehension of how this major monastery managed its farflung estates (cfr. HERLIHY 1961). Unfortunately, the plan suffers from what might be called the Pompcii syndrome. It is false - a snapshot with little historical context, projected rather as if the monastery was a Roman legionary fortress. Furthermore, it must be asked, is the plan representative of monasteries as estate centres at this time? Walter Horn and Ernest Born in their sumptuous publication of the plan of St. Gall in 1979 believed it to be a paradigmatic instrument, a blueprint for a Carolingian renaissance monastery (HoRN-BoRN 1979). Horn writes: “the drive for uniformity was programmatic and universal,> (HoRN-BoRN 1979, vol. i, p. 22). Hardly surprisingly, this paradigmatic model has becn challenged. Substantive criticisms have becn presented by Paul Meyvaert (1980), Dom Adalbert de Voguè (1984; 1987) and Warren Sanderson (1985) (see also JACOBSEN 1992; NEES 1986 and ZETTLER 1990). They contend that the dedicatory inscription on the plan, which Horn and Born took to be axiomatic evidence that the plan is (i) a copy, and (ii) off~cially prescribed, indicates quite the contrary. The critics have shown convincingly that the plan concerned a specific building project at St. Gall, and therefore cannot be interpreted as paradigmatic. Lawrence Nees (1986) in his review of Horn and Born goes a step further. The central tenet of Horn and Born's study, he writes, is “severely antiquated” (1986 p. 5); there is no overarching Carolingian model giving rise to this so-called renaissance concept, only a colloction of loosely connected regional traditions (cfr. SULLIVAN 1989 pp.306). Like Sullivan, Nees questions the ability of Charlemagne and his court to devise a programme for western Europe. In this essay I propose to examine the Carolingian debate lanuched by Sullivan, using the archacological evidence from three estate centres, the monasteries of Farfa, Monte Cassino and San Vincenzo al Volturno, to develop the argument beyond the transalpine monastery of St. Gall. The issues, I shall contend, are wider than Sullivan recognized, and bring us back to Pirenne's thesis. Karl Schmid has identifed a monastic conquest of Italy by the Franks before their military takeover (SCHMID 1972; NOBLE 1984 pp. 159). This conquest, to quote Panofsky (1960 p. 40), involved reforming “political and ecclesiastical administration, communications and the calendar, art and literature, and - as a basis for all this - script and language”; the guiding idea was to bocome crystallized in the renovatio imperii romani. A generation later this conquest was reinforced by the monastic reforms of 816-17. The driving force behind these reforms was Benedict of Aniane, sometimes described as the viceregent of Louis the Pious (cfr. NOBLE 1976 p. 249). Benedict, according to his biographer, Ardo, set out to establish a rule shared commonly by all monasteries. According to Ardo, his intention was to create “such a state of unity that it seemed as thongh they had becn instructed by one master and in one place” (NOBLE 1976 pp.249). Ardo makes it sound like the Treaty of Rome. Did the monastic conquest change Italy, or were places like San Vincenzo al Volturno too remote, as Nees has argued, from the Carolingian court to be affected? Schmid's motif of monastic conquest was based upon the written sources. In each monastery there were debates betwecn the Frankish and Lombard factions as Charlemagne entered Italy. San Vincenzo al Volturno, for example, had a Frankish abbot, the philosopher, Ambrosius Autpert. Each of the three monasteries under scrutiny here was granted immunities and privileges by Charlemagne
as he swept down through Italy in the 780s. Each then appointed Frankish abbots, who for f fty years or so, stoered the political directions of their institutions. Finally, during this age, each monastery built up huge blocks of territory. As Del Treppo showed for San Vincenzo (1954-55), and PierreToubert for Farfa and Montecassino (1973; 1976), the monasteries enlarged their economic operations significantly at this time. Convincing though these details are, it is still difOcult to imagine these monastic legionaries bringing Carolingian order to the upper Volturno or the Sabina. We need a model that can be measured; an estate centre which can be compared with the results from the huge excavations at places like Dorestad, Hedeby, Ispwich, Ribe and Southampton. The model necessarily depends upon San Vincenzo al Volturno bocause in that remote, unlikely place we have had the opportunity to excavate over half a hectare of the early medieval monastery. At Farfa David Whitohouse and Charles McClendon have made limited excavations (MCCLENDON 1986; WHITEHOUSE 1985), and at Monte Cassino Don Angelo Pantoni carried out rescue excavations in the 1950s before the new monastery was built (PANTONI 1973; 1981). the abbey's apse, was situated the lay cemetery. On a mighty terrace crowning the hill lies another complex with its own church. The colloctive workshops ran in a line for perhaps 200m along the south side of the abbey, terminating at a church situated by the river. On the eastern side of the river are remains of another part of the monastery, possibly its vicas where seasonal exchange took place. This monastery is staggering for its use of material culture. In the construcrion yard under the east end of the complex, brick and tile kilus were found, furnishing the thousands of tiles needed to roof and pave this and many of the other building. A glassmaker's workshop was also discovered here. Glass was manufactured on a vast scale. Most of the buildings were glazed; glassware was in common use in the monastery. Pottery from many different sources (PATTERSON 1990), including two Abbasid dishes, occurs in prodigious quantities. Every part of the monastery was richly painted, even dark corridors. The prevailing idiom of these paintings betrays the marked influence of Beneventan painters who shared a common idiom with artists working in north Italy and the transalpine region (BELTING 1968; MITCHELL 1985). Spolia was also used at every conspicuous point. Finally, the literacy of the monastery was promoted in an extraordinary way: 38% of the tile pavements bear one of 70 or so initials; painted inscriptions occur in many rooms; and an elegant script was developed for terracotta and stone tombstones (MITCHELL 1990). By any 9th-century standards San Vincenzo al Volturno was a town. Its greatest feature, however, was an abbey-church that ranked in size with the great churches built by members of Charlemagne's own court. 3. A generation later the monastery was remodelled for a third time in the span of the high Carolingian age. Abbot Epyphanius was responsible for these works. To judge from the ~lraHicoH, it is most likely that the rebuilding occured in c.833, judging from the intense level of benefactions to the monastery at that time. A massive new atrium with, a kind of westwerk, was added to the front of San Vincenzo Maggiore. The new atrium is distinguished by its vaulted rooms, and the elegance of its painting. In the cloisters, the monks' refectory, which had had a seating capacity for 300 persons, was enlarged. The distinguished guests' hall was completely transformed. Its western end was rebuilt and a new apse was created. These changes provided the opportunity to alter the buildings either side of it. The church to its north was furnished with a decorated cryptand a small atrium: it became a public place of worship. Immediately south of the guests' hall lay the vestibule leading to the cloisters. This was covered, remodelled and painted. On the other side of the monastery in the workshops there were still more changes. One of the workshops was made into a richly furnished apartment. The new apartment had a passage, leading off of which was a living room with painted walls and a kitchen containing a toilet. The south-facing facade of the apartment was decorated with decorated terracotta corbels (cfr. HODGES 1991). Abbot Epyphanius' monastery adhered to the lay-out made by abbot Joshua. Nevertheless, the alterations were ambitious. Almost every building was substantially remodelled. In many vaulting was introduced for the flrst time. A distinctive new style of painting, closer to the idiom known in Rome, superceded the earlier phase 4 paintings (MITCHELL 1985).
About 5% of San Vincenzo al Volturno has becn excavated. The archaeology indicates that abbot Paul's monastery in the 780s and 790s covered about half a hectare. Paul the Deacon described it as a great community of monks (FOULKE 1974 pp. 283). Yet it was essentially made around a single ritual monument, the abbey-church of San Vincenzo Minore with its pronounced ring crypt. AbbotJoshua's monastery was altogether on another scale. It was as much as ten times larger and laid out like a new town. Unlike the 8th-century monastery, it was a centre of production. It was designed on terraces, linked by corridors, with two majorfocal points: SanVincenzoMaggiore and the palace for distinguished guests. In other words, this plan was not like the plan of St. Gall with its single focal point. The 1 2th-century chronicler of San Vincenzo lamented the eclipse of the monastery. In the 9th century it had becn a place of European status. After the 9th-century sack by the Saracens, San Vincenzo was a ruinous place. When rebuilt in the 11 th century, however, it continued to possess a huge abbey, but the great guest-house was demolished. The 12th-century chronicler's reflections need also to be considered. In his mind, the precursor of the 12th-century Romanesque abbey was abbot Joshua's San Vincenzo Maggiore, not San Vincenzo Minore, the flrst abbey church made by the founders within the ruins of the Late Roman villa. His reasoning was simple. Excavations of the 12thcentury abbey, occupying a fortifled site 400m from the old monastery, show that it was made of spoils taken from San Vincenzo Maggiore (cfr. PANTONI 1980). This memory existed amongst the contadini of the area until modern times. Monte Cassino The archacology of Monte Cassino is very limited. Angelo Pantoni's invaluable excavations made betwecn 1947-53 provide some basis for drawing comparisons with San Vincenzo al Volturno (PANTONI 1973; 1981). Like San Vincenzo's Late Roman estate centre, St. Benedict's 5thcentury oratory was made within the remains of an earlier settlement. The entire hilltop at Monte Cassino was enclosed by a Samnite fortiflcation. Within it are remains of several Samnite buildings (PANTONI 1973). The Later Roman community occupied the upper knoll on the hilltop. The oratory, dedicated to St. John the Baptist, discovered by Pantoni, measured 15.25m. Iong x 7.60m. wide. When the Benedictine community was refounded in the 8th century the settlement appears to have spread out across the west-facing flank of the knoll. The massive Samnite temple situated on this flank was used as the base on which the church of San Martino was built. For much of the 8th century this was the principal church at Monte Cassino. As at San Vincenzo, however, the impact of the Carolingians was considerable. The Frankish abbot Gisulf (797-812) rebuilt St. John as a much larger aisled basilica (PANTONI 1981 pp. 126). The exterior of the new church was decorated with pilasters, reminiscent of the facade of the eastwork at San Vincenzo Maggiore (PANTONI 1973 pp. 21). This now superceded San Martino as the principal church. Pantoni's excavations show that the 9th-century church had some kind of narthex or ~estYoerk. Was this added in the 830s, as at San Vincenzo? Abbot Gisulf also established a new community - possibly a vicus of some kind - on the Via Casalina immediately east of the ruined Roman town of ~asiHam' at the foot of the hill on which the monastery is situated. This roadside settlement was gathered around the large basilican church of Santa Maria delle Cinque Torre built by Abbot Teodemar (778-97) (cfr. CARBONARA 1979), and included a splendidly decorated basilica dedicated to the Saviour. Was this the sum of Monte Cassino's expansion as a monastic settlement in the Carolingian age? Inevitably, we are bound to ask whether Monte Cassino was eclipsed by Abbot Joshua's extraordinary works at San Vincenzo? The answer must be speculative. The only clue is the massive later 8th-Gentury terracing built out from the Samoite temple on the west flank of the knoll (PANTONI 1973). The terracing is as substantial as any found at San Vincenzo. Was this terracing designed to support the enlarged cloisters of the monastery? Did the building works extend beyond the knoll occupied in the 8th century, and later the hub of the fortifled monastery from the 11th century until
the present day? From an early date the entrance of Monte Cassino lay beside the church of S. Agata (cfr. PANTONI 1981). S. Agata occupies a pivotal position on the hilltop. Betwecn S. Agata and the knoll lies more than a hectare of ground in which secular parts of the monastery might have been located. West of S. Agata, lies the Piano di S. Agata, an area large enough to accommodate, for esample, the monastery's lay cemetery. In other words, did Monte Cassino resemble San Vincenzo by spreading out to fll the area once occupied in preRoman times? Further, was it distinguished by terracing and corridors which separated the modolar form of the monastery? Finally, was the vicus of San Germano on the Via Casalina the equivalent of the proposed vicus at San Vincenzo on the east bank of the river Volturno? Two points need to be borne in mind. First, St. John was a modest church by comparison with San Vincenzo Maggiore. In size it resembles San Vincenzo Minore, and the abbey-churches of Farfa (see below) and Novalesa (WATAGHIN 1988). One reason for this was the restriction of space. On the other hand, Abbot Gisulfs new church, unlike either the oratory or San Martino, wonld have dominated the skyline, attracting the attention of pilgrims and princes taking the road from Rome to the towns of the Principate of Benevento. By contrast, San Vincenzo Maggiore was, despite its size, a much less prominent building because of its situation (see below). Second, Pantoni kept virtually no flnds from his excavations. Those that do survive, however, strike a chord following the San Vincenzo excavations. There are several hundred tombstones, illustrating not surprisingly, a high level of literacy. Then there are a few tiles with inscribed initials like those from San Vincenzo (MITCHELL 1990 pp.201). Monte Cassino and San Vincenzo clearly shared a common tile-making tradition. Did they share other crafts? Farfa The abbey of Farfa has becn the subject of antiquarian study for nearly a century. Since Ildefonso Schuster published a mounmental history of the abbey in 1921 it has becn one of the best-known abbeys in Western Europe (SCHUSTER 1921). New light was thrown on the archacological record of the monastery by David Whitohouse's excavations made betwecn 1978-85. These were located between the western apse of the early medieval church and the late medieval tower associated with the residence of the commendatory abbots (WHITEHOUSE 1985). Whitohouse and his collaborator, Charles McClendon, have proposed a radical reassessment of the 9th-century phase of the principal abbey church. They contend that the monastery was refounded, like San Vincenzo and Monte Cassino, within a Late Roman settlement. No trace survives of the early 8th-century monastery. They argue, however, that during the later 8th century, when the monastery had a succession of at least three Frankish abbots - Ragambaldus (781-86), Albertus (786-90) and Mauroaldus (790-802), it took a distinctive Carolingian form (MCCLENDON 1986 pp. 7). McClendon and Whitohouse believe that the monastery at this time was entered from the west, the tower forming part of an imperial guest-house. The abbey-church, had an atrium in front of a west facade which has long since becn removed. The eastern apse, so their argument goes, has becn removed by a later 1 lth-century rectangular sanctuary flanked by two towers. A section of pavement made of opassertile survives in the nave, and part of the decorated east nave wall also survives. The cloisters, in their view, lay on the terraced eastern side of the narrow church. The mid-9th-century Constructio Farfensis, however, is clear that the major changes to the abbey were made by Abbot Sichardus (83042). McClendon and Whitobouse ascribe to him the western end of the church, the apse, trancept and ring-crypt, and the creation of a classic Carolingian basilica with an apse at either end. As the excavations are unpublished, this radical interpretation remains to be demonstrated. This has left scope for other interpretations of the excavated results. Tersilio Leggio, for example, contends that the early Carolingianperiod church was approached from the east not the west (1992). The abbeychurch was certainly approached from this direction in the 11 th- 15th centuries. Leggio proposes that the earliest apse was none other than the outer wall of Sichardus' later crypt. Beyond it, Leggio proposes, the area excavated contains a garden bounded by a portico and two other buildings
including possibly the small chapel of St. Peter's (1992). Leggio contends that abbot Sichardus radically transformed the church with a substantial eastwork that contained a hall crypt (Leggio proposes that the rectangolar sanctuary belongs to the 9th not the 11 th century) as well as the painted ring-crypt within the pre-existing apse. This interesting line of argument lays emphasis upon the Lombard origins of the abbey (in the Duchy of Spoleto) rather than its 9th-century, Carolingian, refurbishment. Further excavations and analysis by a team from the British School at Rome in 1993 have confrmed some aspects of Leggio's thesis. To judge from its painted decoration, the western apse, trancept and ring-crypt are the earliest preserved part of the early medieval church and date to the 8th century, arguably to the abbacy of Probatus (770-81). The area to the west was a cemetery, Iying behind the apse of the church. There is no convincing evidence that it served as an atrium and that the abbey-church was entered from this end. The nave of the church may have becn rebuilt and was certainly painted in the years around 800. Abbot Sichardus (830-42) is recorded as having built onto the abbey-church an oratory dedicated to the Saviour with a crypt for relics beneath. It is likely that this formed an eastwork at the entrance end of the building. Archacological evidence and pavement levels indicate that this was probably located in the position of the existing late 1 lth-century towered eastwork, and that it formed an important architectural and devotional focus at the entrance end of the church. The architectural articulation and the programme of painted imagery of the late 11 th-century eastern structure show that it cannot have becn designed as a presbytety as McClendon proposed (1986). This remarkable ediflce is best explained as an early Romanesque elaboration of an already existing devotional and liturgical focus within the church, a magnificent replacement of Sichardus' oratory and crypt. Conversely, the western apse, trancept and ring-crypt at the other end of the building, have nothing to do with Sichardus, as McClendon and Whitohouse believed. They are the sanctuary end of the early medieval church, constructed, not in the 830s, but in all likelihood in the second half of the 8th century, evidently in imitation of Old St. Peter's, and must be explained in the context of Farfa's pivotal, liminal, position in relations betwecn the Lombard Duchy of Spoleto and the Papal Duchy of Rome during this period (NOBLE 1984 pp. 156-59). Farfa lay on the border betwecn these two polities, which during these years were disputing lordship over the surrounding Sabina. Certain important conclusions can be drawn from the investigations of the last twenty years into the physical remains of the early medieval monastery at Farfa. First, the 8th- and 9th-century church itself was surprisingly modest, measuring about 37m long x 95m. wide. Like San Vincenzo, it was lavishly painted in most parts. Second, like San Vincenzo the abbey-church was aggrandized in the 830s. Third, unlike San Vincenzo it appears to have had a restricted material culture. Fourth, terracing, as at Monte Cassino and San Vincenzo al Volturno, is a major feature at Farfa. The monastery, rather like Monte Cassino, overlies classical remains which have becn buried beneath deep terraces. Fifth, the disputed walls within the large excavated area immediately north west of the abbey-church suggest the careful modularisation of space, as at San Vincenzo. The monastic precinct was evidently packed with buildings by the early 9th century. Lastly, like San Vincenzo, too, there are signs of an earlier 9th-century phase when the abbey-church enjoyed a certain splendour. It paintings from this era (MCCLENDON 1983); and the Frankish abbot Ingoaldus was commemorated with a inscription made of gilded bronze letters. But the scale of Farfa is hard to judge. Did it cover only 1-2 hectares in area, covering the present terrace, or did it possess outlying chapels and facilities as well? Only further excavations will resolve these intriguing questions. One point, however, is clear. The Lombard abbey-church resembled San Salvatore at Brescia, San Salvatore at Spoleto, St. John the Baptist at Monte Cassino and Novolesa in size, and was only a little grander than the original abbey-church at San Vincenzo al Volturno. All of these churches were dwarfed by Abbot Joshua's San Vincenzo Maggiore. The monastic territories
It has long been assumed that the Carolingian 'monastic conquest'led to increased development of the monastic estates. Did these bocome the overpopulated islands within occans of under-developed landscape, as Duby (1968) believed? Del Treppo's study of the terra of San Vincenzo al Volturno leaves scope fordoubt(1955-56; see alsoW~cKHAM 1985). The monastery's hinterland was neither densely populated nor highly productive in the 9th century. On the other hand San Vincenzo possessed numerous estates in the heartlands of the principate of Benevento. One of these, Del Treppo shows, provisioned San Vincenzo with metals (1968 pp. 35 ff.; cfr. ALsARELLA-ARTHuR-WAYMAN 1989).This appears to have becn acHrtis-a demense farm in the north European form (cfr. TOUBERT 1983). Wickham has also shown that San Vincenzo obtained cHrtis settlements in the Valva valley in the Abruzzo, to the north. These provisioned the monastery with pastoral foodstuffs (1982). San Vincenzo in this respect is, of course, not unique. Toubert, in his classic study of the Sabina, identifes a massive growth in the size of Farfa's population during the Carolingian age (1973). But he lays limited emphasis upon the significance of cHrtis-type settlements in the changing fortunes of the monastery (cfr. TOUBERT 1983). The territory of Monte Cassino, he believes, shares the same agrarian history as that of Farfa and San Vincenzo (TOUBERT 1976). Again, these estate histories need to be measured by archaeological means. The archacology of San Vincenzo's terra provides the model. In a survey, followed by escavations, of the upperVolturno valley, two types of Carolingianperiod settlements have becn found (cfr. HODGES 1992): i small farms built on terraces on the middle slopes of hills, practising a domestic mode of production. There is limited evidence of access to certain pottery and glass types made at San Vincenzo; tiles were scavenged from derelict local classical sites. ii tiny chapels, probably founded in the late 8th century. These were wellmade, decorated with frescoes, and in the case of Colle San Angelo, lit with glass lamps. They were not furnished with window panes, despite the abundance of glass at San Vincenzo. These places appear to be the coHdmae and pleb,. Their material poverty is striking in contrast to the monastery's affluence. A contrast must be made, too, with the relative material affluence of the 9th-century cartis-like settlement excavated in Molise near the Adriatic sea, Santa Maria in Civita (D85) - a frontier site just inside Beneventan territory (HoDGEs-BARKER-WADE 1980; HODGES-WICKHAM forthcoming). This hilltop site was enclosed by a lengthy defensive circuit; it possessed a church of substantial proportions; and, its material archacology indicates that it was in reccipt of goods, foodstuffs and cereals from regional and inter-regional sources. In other words, unlike the Upper Volturno settlements, it participated in a regional marketing system as opposed to practising a domestic mode of production. Is Santa Maria in Civita rather than the settlements of the Upper Volturno an image of the 'monastic conquest' introduced to the heartlands of Beneventum? Was San Vincenzo al Volturno being supplied with labour and metals, for example, from sites of this kind occupying the richer lands of the coastal littorals of the Principate of Benevento? If so, the territory of Monte Cassino, encompassing the coastal plain of Lazio and Campania, might have becn richly endowed with settlements of this type. By contrast, the f~rst archacological investigations of the Sabina show that its settlement system, despite its proximity to Rome, resembled the Upper Volturno at this date (DE MIN[CISHUMBERT 1991; MORELAND 1987; MORELAND-PLUCIENNIK 1991). In both cases great change occured during the later 10th century, when the settlement form and material characteristics of Santa Maria in Civita were adopted by villages everywhere (cfr. HODGES 1990; HODGES-WICKHAM forthcoming). At that time, after a break of half a millennium mountainous and hill regions such as the iuland territories of the Upper Volturno and the Sabina were once more integrated into the economy of the Mediterranean basin. II
Betwecn 768 and 855, according to Carol Heitz, the following were built in the Carolingian Empire: 27 new cathedrals, 417 monasteries and 100 royal palaces (HEITZ 1983 pp. 5). Such statistics illustrate why historians have becn attracred to the Carolingian age. All the evidence from across Latin Christendom reinforces the long-held belief that the renaissance was a discrete period of development rather than a continnum (pace Sullivan) encompassing all types of settlement including emporia (cfr. HODGES 1982; 1988; 1989; forthcoming) and estate centres (see above; see also HEIDINGA 1987; HODGES 1990; THEUWS 1991). The monasteries of San Vincenzo al Volturno, Monte Cassino and Farfa, as we have noted, were not exceptions so far as this familiar pattern is concerned (see JACOBSEN 1988; 1992 for a recent overview of Carolingian Renaissance churches). The archacology, however, reveals that this pattern is more complex than has becn often appreciated. Two types of abbey-churches have becn identified. The first type includes San Vincenzo Minore, abbot Gisulf's St. John at Monte Cassino and Farfa. We might speculate that abbey-churches like San Salvatore at Brescia (BROGIOLO 1992), San Salvatore at Spoleto, and the recently-excavated abbey-church of Novolesa (WATAGHIN 1988) also belong to this groop of major cult-centres. Each is a typical basilican building belonging to the age of Charlemagne, fundamentally made possible by the signiOcant empire-wide re-discovery of lime mortar (GUTSCHER 1979). Churches of similar dimensions were being restored in Milan (BERTELLI 1987) and Rome (DELOGU 1988; KRAUTHEIMER 1980) at this time. The second type might be described as court abbey-churches: gigantic expressions of a renaissance ideal, more roma~zo (HEITZ 1980; 1983; PARSONS 1983). San Vincenzo Maggiore unlike San Vincenzo Minore it would appear, belongs to this type. Lawrence Nees' belief that places like San Vincenzo al Volturno lay outside the mainstream tradition of Carolingian architecture cannot be sustained. The model for this church, so it would appear to be a mixture of either Lombard or trans-alpine and the notion of St. Peters. In other words, this complex comprised a large version of the basilican form, and an atrium with a great facade. Abbot Gisulf built a similar complex at San Salvatore at Monte Cassino (CARBONARA 1979), The emphasis in this type of church was upon an imperial liturgy. Long before the 830s at San Vincenzo, we may now surmise, as Kelly has shown, 'the eminent Carolus ordered all the holy churches everywhere to sing the Roman song; whercupon throughout Italy there arose much contention, and the status of the holy church was everywhere in mourning' (KELLY 1989 pp. 24). It is unlikely that Beneventan chant was ever heard in these buildings. The Gregorian chant was one of a number of instruments deployed in this monastic conquest. Literacy was another (MITCHELL 1990; NOBLE 1990). Another, as Deshman has shown, was the notion of service as defined in the iconography of painted murals (1989). Deshman uses the paintings in the crypt at San Vincenzo to illustrate how service, a common feature of high medieval painted cycles, was first illustrated. It occurs in other forms at San Vincenzo. The new Benedictine rule specif ed that craftsmen "be instructed to perform their work henceforth not outside but inside the monastic enclosure". Artisans were now recognized as servants of the monastery. It marks what Le Goff terms the Carolingian renaissance of labour; the beginnings of three orders (LE GOFF 1980). The plan of St. Gall indicates that a chamberlain was charged to supervise the work within the Colloctive Workshop. Shortly afterwards at San Vincenzo a fine apartment was inserted into the workshop complex (cfr. HODGES 1991). As Del Treppo observed, San Vincenzo's new settlements were marshalled to provide raw materials for these craftsmen. Professor Sullivan might have his doubts, given the Italian idiom of the paintings or the Italian shapes of the pottery (1968). Undeniable provincial elements temper this model of Carolingian imperialism. Besides, why were the Carolingians using monasteries to conquer parts of Italy that had tenaciously defed Charlemagne's armies? So how are we to explain the Carolingian status of San Vincenzo and Monte Cassino, and the surprisingly limited status of Farfa? Who wonld have believed that San Vincenzo, by the standards familiar at Farfa, was so staggering a place? Like Farfa, San Vincenzo was not on a major route. Like Farfa, San Vincenzo did not have a cult for a major saint (cfr. GEARY 1978 pp. 166-67). In common with Monte Cassino, however, it occupied the northern frontier of the Principate of Beneventum, bordering Carolingian territory. In the 9th century these were Carolingian
centres inside Beneventan territory. Joshua's great skill was to obtain huge tracts of land in the heartlands of Beneventum (WICKHAM 1994). These provided resources for the abbey: the labour, foodstuffs and materials for the workshops. The palace for distinguished guests was used to entertain the Beneventan donors. Later, in abbot Epyphanius' period, these donors were buried within the complex. At San Vincenzo and Monte Cassino it appears that Frankish abbots diffused a Carolingian ideology with which they patently controlled the Beneventans. Clearly, the archacology of the terra of San Vincenzo shows that the monastery's objective was not to stimulate regional development as, for example, St. Gall was doing at this time. Abbots Joshua and Epyphanius, so it wonld seem, had limited interest in reviving the connections betwecn the mountains and the littoral. Instead, the building of San Vincenzo Maggiore illustrates a more ambitious objective lay behind the 'monastic conquest'. Charlemagne needed vast resources for his renaissance. The refurbishing of churches, as theLiberPortifralisindicates, was a hugelyexpensive operation (DELOGU 1988). Yet this was overshadowed by the enlarged production of a silver-rich Carolingian currency to serve a European-wide community (cfr. GRIERSON-BLACKSURN 1986 pp. 262-63). Some historians believe these resources existed in the treasuries of Christendom; some believe that the Carolingian coins bearing the EX NOVO METALLO signature indicate the discovery of great new silver mines. In Italy this is the Black Economy model. It may work now; but did it work then? Such models do not explain the extraordinary revival in Rome's fortunes, for esample, with the coming of the Carolingian age (cfr. DELOGU 1988) let alone the Carolingian-period transformation of San Vincenzo with its Fulda-sized abbey. It is necessary to return to the discussion lanuched earlier where the motor of regional development in northern Europe appears to have becn commerce around the North Sea. As we noted above, Carolingian ventures in the Mediterranean, due to an absence of archacological research, leave us as mystifed as Pirenne was in the 1920s about North Sea economics. At the moment we possess only clues. On the one hand, for esample, excavations in Constantinople show that despite a reduction of its commercial activities, it remained a major Mediterranean centre producing commodities (cfr. the excavations at Sarachane, Istanbul: HARRISON 1986). The Arab communities, by contrast, were engaged in a phase of expansion, which certaiuly led to increased commerce betwecn the Abbasids of Bagdad and the Aghlabids of the Maghreb (cfr. NOONAN 1984). On the other hand, the Frankish sources provide a clear picture of Charlemagne's persistent concern to conquer Italy (WICKHAM 1981; NICOL 1988). Early in his reign he invaded Lombardy and advanced upon Beneventum. His armies conquered Istria, and on several occasions confronted the Venetians. The reccived interpretation of these wars is that Charlemagne was a great imperialist, seeking to re-establish the Roman Empire. This necessiated some control of Rome, and therefore Italy. We need not question the signifcance of Rome to Charlemagne's imperial vision. Antique motifs sustained the renaissance across the length and breadth of the Empire not only in great architectural and cultural works, but also in the revival of everyday commodities like pottery (cfr. COUTTS_ HODGES 1992). But were there other motives for the determined Carolingian ventures in Italy, and, more signiOcantly, for the negotiated treaties with the Beneventans and Venetians? The archacology of early medieval Italy is perplexing. Urban archacology is in its infancy. Excavations in ports like Naples, Otranto and Portus (the port of Rome) show a level of minimal activity similar to the discoveries made in iuland centres such as Brescia and Verona. Rome itself is perplexing for different reasons: it appears to have enjoyed a staggering revival in the Carolingian age, and there are indications that Milan was also transformed at this time (BERTELLI 1987). In sum, the archacological evidence is too fragmentary bocause we possess no evidence of a commercial centre. The picture resembles the largely deserted classical ports of Anatolia (cfr. Foss 1977). There is a temptation to believe that the Mediterranean lay dormant at this time, as Pirenne believed, and the new-found wealth of Benevento (PEDUTO 1990), Milan (cfr. BERTELLI 1987), Rome (KRAUTHEIMER 1980) and Salerno (PEDUTO 1990), for example, was either derived from resources wealth stored within the peninsula or introduced by the Carolingians (cfr. DELOGU 1988).
The discovery of San Vincenzo Maggiore confounds this hypothesis. It tempts us to advance beyond the shadow of Pirenne. The written sources offer some indication of intense commercial activity concentrated in two places: the lagoon of Venice and the ports of the principate of Benevento. The excavations on theVenetian island of San Lorenzo illustrate beyond doubt that during the 8th and 9th centuries there were farflung connections to the Arabic and Byzantine worlds (FERSOUCH CANAL-SPECTOR ZAMBON 1989; cfr. DORIGO 1983). The excavations have revealed a sequence of Late Roman graves, covered by a timber buildings, covered in turn by a 9thcentury church. It is a tiny sample, possibly a microcosm of a huge emporium that had sustained a certain independence since the 7th century. These discoveries are hardly surprising. The history of Venice, including the theft of the body of St. Mark from Egypt, revolves around its commercial activities. The lagoon communities, it would appear, maintained an independence so that they might participate in the global trading networks ranging as far east as China, created by the Abbasid caliphs (cfr. HODGES and WHITEHOUSE 1983). Charlemagne's prolonged and unsuccessful bid to conquer the lagoon, followed by the treaty of 810 with the Venetians (NICOL 1988) may be paralleled with his treaty of the same year with the Danes. In both cases, we might surmise, he was pragmatically seeking commercial advantages: from Venetian trade with the East, and from Danish access to the Baltic Sea. Venice, in other words, might be envisaged as a much larger (though more diffuse) version of Hedeby, the planned Danish emporium on the northern Carolingian frontier. But the Beneventans lay too far to the south to respect treaties of this kind, as Charlemagne appreciated during the later 8th century (WICKHAM 1981). Other methods were needed if the commercial wealth of the principate was to be siphoned off to support the rebuilding of Rome, and indeed, Charlemagne's own treasury. San Vincenzo Maggiore possesses the hallmark of being the Fulda of the South. Was it built for a political purpose, as Fulda had becn in the newly conquered eastern Frankish lands? In essence, it was a gigantic exhibition of Carolingian ideology. Beneventans were woven into this great enterprise from its inception. Beneventan lands produced the materials (the Chror~icon V~lterne~se describes how the columus used in the church were plundered from a Roman temple at Capua); Beneventan labour was responsible for the work (cfr. WICKHAM 1994); and Beneventan painters carefully made the pictures that conveyed the Carolingian messages (BELTING 1968; DESHMAN 1989; MITCHELL 1985; 1990). Like Fulda, it was designed to use the Church in place of legions in order to enlarge the resource base of the Empire. Monte Cassino, we may speculate, was no less a centre. Like San Vincenzo, it owed its wealth in the early 9th century to a political strategy that had an European scale to it. Certaiuly, the description of its treasury leaves us in no doubt of the monastery's reccipt of Arabic and Byzantine exotica and luxuries, gifts from the Beneventan aristocracy (CITARELLA-WILLARD 1982). The evidence is insufficient to reconstruct the means by which the gold and silver as well as other luxuries traded in Beneventan ports found their way northwards. We can only offer hypotheses at present that monasteries like Monte Cassino and San Vincenzo reccived gifts that flled their treasuries and churches; that the Carolingian court intermittently received tributary puyments; and that the effect of this interaction lead indirectly to the investment in monasteries like Farfa and Novalesa which formed the ancillary routoway fortresses of this age. Is this farfetched? The Beneventan investment in Monte Cassino and San Vincenzo is indisputable (cfr. WICKHAM 1994). It is more diffcult to demonstrate the flow of tributes to the Carolingian court, though intermittently, the sources inform us, this occurred. Perhaps the Reno river hoard (Bologna) containing 23 Byzantine solidi, 5 Beneventan solidi, and 11 Abbasid dinars provides a small glimpse of the passage of wealth from Beneventum northwards (GORINI 1989, pp.187-188). As for the 'trickle effect' as the wealth generated in Beneventum or Venice reached smaller, established monasteries such as Farfa, San Salvatore at Brescia or Novolesa, we can only point to the results of Stephane Lebocq's study of Neustrian monasteries that participated and benefited from commerce at Quentovic and Ronen (1989). Theuws has illustrated the same interaction betwecn Flemish monasteries and emporia such as Dorestad (THEUWS 1991). In this way, throngh the medium of a
controlled coinage minted from the silver procured from these connections reaching back to the great silver mines of the Abbasid caliphate, an underdeveloped economy, hitherto dependent to a greater degree upon ranked spheres of gift-giving and of plunder (cfr. REUTER 1985), was enlarged and transformed. This model is now reinforced by a new study of the coinage of Louis the Pious (COUPLAND 1990). Let us recall that up until the 790s Italy used a poor quality special-purpose money. With Charlemagne's reforms this changed. A generation later, Italian coins played a major part in Carolingian monetary circulation. To quote Marx, money was <`the radical leveller, that...does away with all distinctions” - not even the bones of the saints being able <`to withstand this alchemy” (MARX 1961 pp. 132; BLOCH-PARRY 1989 pp. 6). In the 820s, as recession overtook the North Sea commercial network (cfr. HODGES- WHITEHOUSE 1983; HODGES 1988), Italian coins bocame more frequent north of the Alps. According to Coupland, in the Apremont hoard of c.822 25% of coins - some 195 deniers - were from Venice, and another 11 % were from Milan and Pavia; in the Belvezet hourd of the same period, 28% of the coins were from north Italian mints. A generation later, in 849, Abbot Lupus of Ferrières reported that the impoverished West Frankish currency was not acceptable in Italy, only Italica moneta ar~erto (COUPLAND 1990 pp. 48). In this fascinating study, Coupland shows that the age of Louis the Pious was the apogee of unif~cation, centralisation and imperial control. His conclusion leads back to Pirenne and periodisation. Pirenne had the vision to identify the Carolingian age without the advantage of good archacological sources. He sketched a global system inextricably (if imaginatively) connecting Charlemagne and the descendants of Mohammed. The archacology of the Carolingian age north of the Alps shows that the famous 'take-off', dismissed by Sullivan, took place. It was an age of economic transformation from a gift-giving culture to one founded upon market principles, articulated by a common currency. The transformation was underpinned by a programmatic revival of ancient ideas ranging across the arts and sciences. These were the foundations of the Middle Ages, not the end of antiquity. South of the Alps archaeology is a young discipline. Until recently, it has becn impossible and, often as not, inconccivable, to measure such a break with antiquity. Now the picture is coming into focus: much of Italy was reduced to aboriginal circumstances in the 7th and 8th centuries. This provided an extraordinary vacuum which the Church was well-equipped to exploit, just as it did in the lands around Fulda to the east of the Rhine. In conclusion, it is transparent that we are missing a vital clue for any interpretation of Charlemagne: Italian emporia. The archacology of Naples (cfr. ARTHUR 1991), Salerno (PEDUTO 1990) and Venice is in its infancy. Amalf~ and Gaeta remain an enigma. But these places hold the key to the Pirenne thesis. If there were indeed Mediterranean emporia providing a mirror-image of the North Sea emporia, it is hard to sustain the argument that the Carolingians were an inland power. Moreover, the histoTy of Carolingian intervention in Italy and Istria, if these commercial centres did exist, wonld demonstrate a rational economic expansion that more than sustained the medieval and modern reputation of Charlemagne. Meanwhile, we are left to speculate. The archaeology of the Carolingian age in Italy charts the first, faltering moment when the Roman pond turned medieval; when the modern European community began to take shape. RICHARD HODGES Acknowledgements My thanks to Riccardo Francovich for the invitation to participate in the conference. I am grateful to Gian-Pietro Brogiolo, Paolo Delogu, Federico Marazzi and Chris Wickham for discussing with me the ideas presented here. The excavations at San Vincenzo al Volturno have been made in collaboration with the Soprintendenza Archeologica del Molise and are sponsored by the British Academy, the British School at Rome, the Provincia di Isernia and the Universities of East Anglia and
Sheff~eld. The researeh at Monte Cassino was made possible by the kindness of Don Faustino Avagliano and was funded by the Society of Antiquaries. The 1993 excavations at Farfa were undertaken by the British School at Rome, and directed by Oliver Gilkes. I owe a special debt to the staff of the camerone at the British School at Rome for their enthusiasm, support and endeavour: Sally Cann, Cathy Coutts, Karen Francis, Oliver Gdkes, Andrew Hanasz, Sally Martin, and Helen Patterson. My greatest debt is to John Mitchell, my collaborator at San Vincenzo al Volturno, who, in commenting upon my drafts, has contributed many of the ideas presented in this essay. Bibliography ALBARELLA-ARTHUR-WAYMAN 1989—U. ALBARELLA-P. ARTHUR-M. WAYMAN, M 179: An Early Medieval to land site at Loc. Arivito, near Mondragone (Caserta), “Archeologia Medievale ”, XVI, pp. 583-612. ARTHUR 1,991 - P. ARTHUR, Naples: a case of urban surviual in theearly Middle Ages “ Mélanges de l'Ecole Francaise de Rome”, 103, pp. 759-84. BELTING 1968 - H. BELTTNG, Stadien ar Beneventanischer Malerei, Wiesbaden. BERTELLI 1987—C. BERTELLI (ed.), Milano, una capitale da Ambrogio ai Carolingi, Milan. BLOCH-PARRY 1989 - M. BLOCH-J. PARRY, Introdaction: nnoney and the Jnorality of exchange, in J. PARRY-M. BLOCH (eds), Money and the Morality of Exchange, Cambridge, pp. 1-32. BROGIOLO 1992 - G-P. BROGIOLO, Trasformazioni urbanistiche rella Brescia longobarda: dalle capanne in legro al monastero regio di San Salvatore, in C. STELLA-G. BRENTEGANI (eds), S. Giulia diBrescia. Archeologia, arte, storia di un monastero regio dai Longobardi al Barbarossa, pp. 179-210. CARBONARA 1979 — G. CARBONARA, lussa Desiderii. Monte Cassino e l architettara a Campano Abruzzsese nell'undicesimo secolo, Rome. CTTARELLA-WTLLARD 1982 — O. CITARELLA-H.M. WTLLARD, The Ninth-Century Treasure of Montecassino, Montecassino. COUPLAND 1990 - S. COUPLAND, Money and coinage under Lois the Pios, “Francia”, 17, pp. 23-48. COUTTS HODGES 1992 — C. COUTTS R. HODGES, Tatirg-type Ware: a review sDith particular refeference to the Wharram sherd, in G. MTLNE-J.D. RTCHARDS (eds.), To Anglo-Saxon buildings and associatedfinds, York, pp. 38-39. DELOGU 1988 - P. DELOGU, The 'Rebirth'of Rome izj the 8th and 9th centuries, in R. HoDGEs-B. HOBLEY (eds.), The Rebirth of ToeDns in the West, 700-1050, London, p p. 32-42. DE MINICIS -HuMsERT 1991 — E. DE MINICIS- E. HUMBERT, Indagini archeologica in Sabira: Montaglio da casale a "castrum " (secc. IX-XV), “Archeologia Medievale” XVI11, p p. 491 -546. DEL TREPPO 1954-55 - M. DEL TREPPO, Longobardi, Franchi e Papato in d~e secoli di storia valturnese, “Archivio Storico per le Provincie Napoletane”, XXXIV, pp. 37-66. DEL TREPPO 1955-56 - M. DEL TREPPO, La vita econoinica e sociale in ana grande abba~ia del Mezzogiorno:San Vincenzoal Volt~rno nell'AltoMedioevo, “ Arehivio Storieo perle Provincie Napoletane”, XXXV, pp. 31-100. DEL TREPPO 1968 - M. DEL TREPPO, “ Terra Sancti Vincenii”. L'Abbazia di S. Vincenzo al Volturno nell'Alto Medioevo, Naples. DORIGO 1983 - W. DORIGO, Verezia Origini. Fondamenti, ipotesi, metodi, Milan. DESHMAN 1989 - R. DESHMAN, Servants of the Mother of God in By antineand Medieval Art, “ Word and Image” 5, pp. 33-70. DUBY 1968 - O. DUBY, Rural Economy and Country Life in the Medieual West, London. DUBY 1974 - G. DUBY, The Early Grouth of the European Economy, London. DURLIAT 1990-J. DURLTAT, LesfnancespbliquesdeDiocletiena Carolingiens(288-889), Sigmaringen.
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Discussione
L'uso incrociato di fonti scritte e fonti archeologiche è sempre raccomandabile, soprattutto per quanto riguarda le fasi di transizione, quando la documentazione scritta tende a rarefarsi e quindi necessita di riscontri offerti da altri ambiti disciplinari. Ma non si tratta solo di integrazione, perché l'archeologia offre non di rado alla ricerca storica spunti nuovi, suggerisce problematiche o diverse angolazioni nell'affrontare un problema già posto. I dati della cosiddetta cultura materiale ad esempio appartengono spesso al dominio della media e lunga durata piuttosto che a quella delle cesure politico istituzionali, come illustra il caso delle tombe e degli arredi funebri, che rappresentano per statuto il luogo della tradizione, della conservazione della memoria. Ne deriva che i due tipi di fonte si aiutano reciprocamente, coprendo i rispettivi vuoti, ma forniscono anche considerazioni tipologicamente e cronologicamente diverse. Per quanto concerne la transizione dall'età tardo antica all'alto Medioevo, io posso solo affermare che quando, nel corso del secolo VIII, si assiste ad un ritorno considerevole della documentazione scritta, in particolare di quella privata, il linguaggio che ora essa parla fortemente diverso da quello dei secoli precedenti. Vorrei esemplificare questa diversità di atteggiamento e di cultura analizzando tre tipi di rapporto: quello tra paesaggio e risorse; quello tra pubblico e privato; quello tra proprietà e lavoro. In ordine al primo aspetto, si è parlato, anche in questa sede, di babbarizzazione del paesaggio, affermazione che mi sembra semplicistica e legata a schemi ottocenteschi della dialettica mondo romano e mondo barbarico. In realtà si è avuta una trasformazione del paesaggio legata certo a motivi politici ed in parte anche climatici, ma legata soprattutto a scelte di civiltà. il grande interesse che si ha ora per la selva viene illustrato dall'amplificarsi della terminologia ad essa, che è testimonianza di un grande uso: le selve, presenti in percentuali massicce perfino sui singoli poderi contadini, vengono misurate in base ai maiali che possono nutrire, il agisterporcaris e i suoi collaboratori sono i servi più quotati nella gerarchia del guidrigildo adottata dall'Editto di Rotari. L'agricoltura, che pure resiste, sembra reggersi su criteri estensivi piuttosto che intensivi, basandosi su quadri poderali più ampi di quelli costruiti dalla centuriazione ed imponendo perEmo nuovi criteri di misurazione dei terreni. Per quanto riguarda il rapporto pubblico-privato si può osservare che si ha uno scivolamento molto accentuato dal primo al secondo: I'angaria, originariamente prestazione reale di natura pubblica, si trasforma in servizio da svolgersi all'interno dei patrimoni privati; scompare il sistema della igatio capitatio in favore dei servizi e delle contribuzioni signorili; la bassa giustizia tende ad essere esercitata dai grandi proprietari terrieri, laici ed ecclesiastici; perfino un servizio importante e delicato come quello postale viene gestito dalle grandi aziende agrarie, come è documentato per S. Zeno di Verona, S. Giulia di Brescia, I'episcopio di Lucca, S. Maria di Farfa e altrove. Anche nel rapporto proprietà e lavoro si hanno radicali trasformazioni: si rompe lo schema tradizionale della locatio-cordactio in favore dei diritti reali di godimento che si esprimono nel largo favore accordato ora a contratti vecchi e nuovi (ma prevalentemente nuovi), che rappresentano la spina dorsale delle gestioni patrimoniali: si diffonde l'enfiteusi, la precaria sostitUisce l'anticoprecariam, prendono piede il livello, il pastinato, la parzionaria; stipule tutte in cui il favor proprietatis cede in qualche misura il passo. Ciò si nota in particolare nella parzionaria, che alla fine del periodo di colonizzazione vede l'affittUario divenire proprietario in senso pieno di Una parte delle terre bonificate. Forza trainante di qUesto passaggio, illustrato molto sommariamente, è la cartis (altrove detta villa), che in Italia comincia ad imporsi nella tarda età longobarda, ma si esprime come modello di gestione della proprietà soprattutto in età carolingia. Si può anzi precisare che alla testa di questo progressivo imporsi del sistema cUrtense nell'Italia longobardo-franca vi furono soprattutto i monasteri, che non solo ci hanno lasciato le testimonianze più circostanziate su questo tipo di gestione, ma perfino dei programmi di pianificazione delle risorse, come quello dell'abate di Bobbio Wala, che risale
all'883-835. In questo senso mi sentirei di seguire l'ottimismo di R. Hodges piuttosto che il pessimismo di T.S. Brown circa il ruolo svolto dai monasteri nell'Italia carolingia e postcarolingia. E proprio attraverso la vasta documentazione di enti come S. Silvestro di Nonantola, S. Colombano di Bobbio, S. Giulia di Brescia, S. Maria di Farfa, S. Vincenzo al Volturno, San Salvatore di Sesto, San Salvatore di Montamiata e molti altri che noi abbiamo le notizie più interessanti sul funzionamento e le caratteristiche del sistema curtense italiano. Il quadro generale che si ricava da questi dati sparsi rimanda ad un rapporto molto stretto fra grande azienda e podere contadino quale non si era mai avuto in epoche precedenti. A questo punto credo si possa condividere la considerazione di Pierre Toubert, quando, insistendo sugli elementi di novità che caratterizzano la curtis altomedievale, parla di “modello economico originale, che ha garantito l'integrazione organica della piccola proprietà contadina in una struttura latifondiaria, mentre l'antichità aveva potuto unicamente offrire modelli di giustapposizione tra latifHrdiam schiavistico e piccola azienda colonica”. BRUNO ANDREOLLI Appunti sai monasteri dell'Italia meridionale: piazzeforti carolingi, emporia, centri culturali ovvero foci di identità etrica.: Fra tutti i contributi impressionanti e utilissimi della nostra seduta vorrei in particolare fare qualche commento sulla conferenza affascinante dell'amico Hodges. Dopo i suoi bellissimi scavi con l'Accademia Britannica di Roma è senz'altro chiaro che S. Vincenzo al Volturno è uno dei monasteri più grandi e ricchi di Europa nell'epoca altomedievale. Ma a mio parere ci sono tre osservazioni essenziali da fare sulla tesi di "una conquista monastica". Primo, mi sembra che S. Vincenzo sia eccezionale - cioè non tipico. Non c'è dubbio che ha una straordinaria grandezza, ma per ciò possono essere molte spiegazioni - la mancanza di altri centri vicini, la disponibilità di spoglie dalle ville romane rovinate, il desiderio dei committenti di fare un lavoro di grande prestigio ovvero per dominare l'altopiano circostante, quasi "big is beautiful", al modo del Texas. Ma anche S. Vincenzo è eccezionale dal punto di vista globale d'Italia. Perché, se si considera tutta la penisola, i monasteri non sono così importanti, nonostante il fatto che l'Italia è, grazie a S. Benedetto, la patria del monachesimo occidentale. La situazione è molto diversa da quella in Europa del Nord, dove i monaci formavano quasi l'unico ceto di missionari, insegnanti e spesso vescovi, in effetti la forza dominante della Chiesa. Ma anche in Italia settentrionale il ruolo dei monasteri era per la maggior parte marginale. Nelle zone urbane, certo, c'è qualche monastero, come S. Ambrogio di Milano, studiato dal nostro collega Balzaretti, ma la maggior parte è meno importante, ovvero controllata dal clero vescovile o secolare, infatti a Ravenna e altrove il termine "monasterium" vuol dire soltanto una chiesetta, un'oratorio o una piccola cappella privata. Nel nord di solito i monasteri più grandi si trovano sia nelle zone montagnose, come Bobbio, sia nelle zone di frontiera, come Farfa o Nonantola. In ambedue casi il loro ruolo (per esempio come centri di controllo politico o di disseminazione culturale) vale la pena di studi più intensivi. Invece nelle città dell'Italia settentrionale il ruolo predominante nei campi sociali e culturali è giocato dal clero di cattedrale - il risuItato della continuità relativa della vita cittadina. La posizione è diversa nel Mezzogiorno, dove almeno all'interno, le città erano deboli o scomparvero, e qUindi, come ha detto Mumford nel Suo libro “The City in History”, forse a proposito dell' Irlanda e delle zone celtiche, il monastero fu l'insediamento che più rassomiglia a Una città. Secondo punto. Quali erano le radici dell'importanza dei monasteri dell'Italia del Sud? Hodges ha accennato alla crescita commerciale dell'Italia commerciale, con emporia come Dorestad, Venezia e forse S. Vincenzo stesso. Non vorrei respingere questa tesi, ma si puÒ anche spiegare le ricchezze e gli articoli trovati in altro modo - come doni, tributo, per scambi non commerciali etc. A mio parere l'economia del Sud non era molto diversa da quella bizantina dipinta da Haldon. Questi monasteri avevano senz'altro un importante ruolo economico, ma forse nel senso che erano più adatti all'economia prevalente della zona, cioè la pastorizia e la coltivazione dispersa. Ma si puÒ spiegare la loro importanza guardando anche il loro rUolo nell'esercizio del potere nei principati longobardi del
Sud. Qui, per ottenere un quadro chiaro, bisogna utilizzare le fonti storiche insieme alle fonti archeologiche. Oltre al ruolo economico, c'era Un rUolo sociale: i monasteri ottenevano il sostegno e la committenza delle famiglie locali, e in contraccambio hanno promosso il potere e la solidarietà di qUeSte famiglie, i cui i membri erano i monaci più importanti delle comUnità. Anche qui l'analogia più stretta è forse con i monasteri irlandesi o quelli quasi irlandesi del regno franco. I monasteri del Meridione italiano avevano Un rUolo essenziale nella vita cUltUrale, come scriptoria e luoghi di insegnamento, quasi una specie di università degli stUdi locale. E anche va da sé che il loro rUolo nella sfera religiosa era preponderante, perché le sedi vescovili erano poche e deboli, e qUindi i conventi erano centri pastorali e di cUIto per tUtta la popolazione. In tUtti questi campi il ceto dirigente locale si inseriva nella vita monastica, e esercitava il potere attraverso le strUtture monastiche. Il mio terzo e ultimo punto deriva da questa osservazione. A mio parere S. Vincenzo non apparteneva proprio al mondo carolingio. Certo si trovava in una zona di frontiera, ma sul lato longobardo, e i longobardi meridionali avevano Uno spirito di indipendenza ferocissima. È vero che fu franco Un abate dell'inizio del secolo nono, e che gli abati posteriori ottennero privilegi dai re franchi. Senz'altro c'era Un grande programma edilizio, ma mi sembra che i collegamenti artistici erano con Roma, che si deve considerare Una parte mezzo-autonomasemidetached come dicono gli inglesi - del mondo carolingio. Ma i docUmenti e testi provenienti da S. Vincenzo mostrano che il SUO personale, le sue tradizioni e la sUa attitudine politica erano chiaramente longobardi. La sua proprietà originale fu donata dai duchi Gisulfo I e Arechi II, attraverso tutto il secolo nono e poi il secolo decimo S. Vincenzo ottenne fondi, diritti immunità e protezione dai principi, prima di Benevento e più tardi di Capua. È vero che in un modo abbastanza opportunista gli abati chiesero privilegi ovvero interventi politici del re dei Franchi, quando c'era bisogno o qUando il potere franco fU crescente. Ma nello stesso modo Un monastero così ricco e così politicamente abile ottenne confermazioni dai papi, dai Bizantini (per esempio dello stratego Simbatico alla fine del secolo nono) e più tardi dagli imperatori ottoniani. Ma i legami più stretti furono sempre con i principi locali. Un esempio: una carta dell'anno 878 vietava 1'alienazione dei beni di S. Vincenzo senza il consenso del principc di Capua. Monaci e anche abati assistevano alla corte come notai e anche consiglieri. Ma a mio parere il fatto più interessante è che i monasteri come S. Vincenzo erano centri e simboli di identità etuica longobarda. Qui occorre ricordare il punto fondamentale che nel principato di Benevento il senso di essere longobardo trionfò. TUtti, sia dì origine romana sia di origine germanica, si consideravano come Longobardi. Così la maggioranza della popolazione, benché non di origine longobarda biologica, professava il diritto longobardo. È impressionante il confronto con il Nord, dove molti ecclesiastici, cittadini, contadini e piccoli proprietari continuavano a servirsi del diritto roTnano. In questo processo di assimilazione etnica, è probabile che i monasteri giocassero Un ruolo fondamentale: diventavano i punti fissi di una religiosità comune; e qui bisogna ricordare che S. Vincenzo fu fondato e Montecassino ristabilito solo Una generazione dopo la conversione dei Longobardi dall'arianesimo alla fede eattolica. Inoltre erano sorgenti di vita intellettUale, centri di composizione e di transizione di tanti testi storici straordinari, che, dall'epoca di Paolo Diacono in poi, servivavo a creare un mito di un'unica geirs, la gens longobardica, nel mezzogiorno. Quindi non vorrei polemizzare troppo contro il grande modello di Hodges, ma bisogna anche offrire Un quadro più integrativo, più bilanciato insomma, dell'importanza indubbia di S. Vincenzo. THOMAS S. BROWN Alto medio evo italiano: riflessioni sul problema della transiziore: Dal punto di vista di uno storico delle fonti scritte, il problema della transizione tra tardo-antico e alto medioevo in Italia si imposta in modo abbastanza semplice. Cronologicamente, è lo stesso clamoroso "buco" nella documentazione scritta ad indicarci, con sufficiente drammaticità, il momento cruciale della svolta: tra i papiri
ravennati e i primi documenti raccolti nel Codice Diplomatico Longobardo (o, se si vuole, I'editto di Rotari) in pratica c'è un vuoto assoluto di cento anni (circa 550-650), segnato dall'impatto durissimo dell'invasione longobarda, che si va per di più a sommare alle distruzioni della ventennale guerra greco-gotica. Si tratta, quindi, di un vuoto carico di signif cati. Al suo interno si colloca una transizione che, seguita nei tempi brevi d ell'histaire évéremertielle, consiste innanzitutto nella scomparsa progressiva della vecchia classe dirigente romana, che nell'età di Odoacre e dei Goti si era invece conservata intatta nelle sue posizioni di potere. Termina cioè, con i Longobardi, il condominio tradizionale tra Romani e barbari che aveva segnato tanta parte dell'esperienza sociale ed istituzionale tardo-antica. Già prima, per la verità, con l'avventuroso regno di Totila, si erano avute avvisaglie di questa rottura: la "rivoluzione sociale" di Totila non era stata infatti altro che il tentativo di sostituire una stirpe barbarica ai possessori romani. Questo tentativo, con molta maggiore forza, è ripreso e attuato dai Longobardi tra il 569 e il 584/600, periodo nel quale si assiste ad un ricambio pressoché completo (dopo la breve parentesi dell"'estate dei morti" durante il regno romanizzante di Agilulfo e Teodolinda) della classe dirigente della penisola. Fonte nei particolari enigmatica, nel complesso però chiara di quest'evoluzione sono essenzialmente i tre celebri, tormentatissimi passi di Paolo Diacono (HistoriaLargobardorum, II, 31-32 e III, 16); da mettere accanto, pero, alle testimonianze più tarde (dello stesso Paolo e della documentazione archivistica dell'VIII secolo), che ci mostrano gli esiti finali di questo processo. Insieme alla classe senatoria tramonta l'antica civilitas, della quale essa era stata la rappresentante e l'interprete esclusiva. Di conseguenza, tra Longobardi e Romani, come ha mostrato Paolo Delogu, I'incontro-fusione avvenne verso il basso. L'insediamento stabile nella penisola di una stirpe barbarica, insieme con la fusione tra invasori e indigeni, è in effetti il secondo fenomeno di importanza decisiva nella transizione italiana: dopo una fase iniziale di stanziamenti separati da parte dei Longobardi, in campagna ma anche in città, esso si completò alla f ne del VII secolo. Gli invasori esprimono dal loro seno la nuova classe dirigente (un'aristocrazia guerriera che occupa tutti i posti di comando); inizia lentamente a formarsi una società ben diversa da quella antica, nella quale i rapporti padronicontadini, i modi stessi dello sfruttamento agrario e l'assetto della proprietà fondiaria sono destinati a mutare. Con l'aiuto scivoloso dei soliti passi, già citatij di Paolo, si possono ipotizzare i modi con i quali avvenne lo stanziamento dei Longobardi, tramite distribuzione di terre o (forse meglio, dopo gli studi di Walter Goffart) mediante assegnazione di redditi f~scali: ma, al contrario di quello che sostiene Goffart, risulta impossibile pensare ad un'ordinata prosecuzione dell'imposta fondiaria romana nei tempi successivi all'invasione. Si sarà piuttosto trattato di una riscossione irregolare e violenta di tributi: e questi ultimi prelievi, divenuti con il tempo regolari, avranno flnito per identiflcare un diritto di proprietà da parte di determinati nuclei parentali (lefarae) su certe terre e certi gruppi familiari romani, in sintonia con il venir meno della classe dirigente romana di grandi proprietari. Ma, è doveroso ammetterlo, tutto il processo di stanziamento e di creazione di una proprietà fondiaria longobarda è avvolto nella nebbia (i tertiatores della Liburia ne sono, forse, un residuo tardo?). Chiaro è solo l'esito finale: i Longobardi diventano proprietari fondiari, accanto certo ad antichi (medi e piccoli) proprietari romani; oltre a loro, lo stesso re, con il fisco regio, possiede terre ai quattro angoli del regno. La dissoluzione delle fare, aprendo la strada ad una proprietà privata individuale, segnerà poi, nel corso dell'VIII secolo, I'affermazione di una società caratterizzata da una forte disparità delle ricchezze personali, che spacca la società arcaica dei liberi armati, la cui foto (già invecchiata) traspare ancora dall'epilogo dell'editto di Rotari del 643. Terzo grande fenomeno, la costruzione di uno stato di tipo nuovo, il regno longobardo. A partire dalla struttura tribale iniziale, quella del popolo-esercito che presidia i punti forti e sfrutta in modo parassitario la forza-lavoro indigena, si sviluppa un potere territoriale, che assorbe l'eredità romano-ecclesiastica del primato politico e civile cittadino, facendo delle città il fulcro del potere, anche se si tratta, in parte almeno, di altre città rispetto a quelle importanti in età precedente: i motivi per cui si privilegiano Pavia, Verona, Lucca, Spoleto o Benevento sono militari, pure se nel regno
l'elemento mercantile, nel tessuto cittadino, rimane vivo e determina il rilievo di alcuni centri (un solo esempio: Piacenza). Il controllo delle città si somma ad un'articolata presenza sul territorio che sfrutta, oltre che le fortezze confinarie, le ampie proprietà fiscali di origine romana (aumentate con conquista): la gerarchia della curtis pubblica costituisce la gerarchia politico-amministrativa del territorio, alla quale vanno aggiunte la gerarchia militare e l'apparato, sia pure rudimentale, delpalatiam. La curtis pubblica, oltre che lo scheletro organizzativo del distretto territoriale longobardo, è pure l'elemento principale di sostegno della struttura del regno dal punto di vista economico. I tributi, sebbene esistenti e di varia natura, sono infatti secondari dal punto di vista economico-quantitativo. La prosecuzione di un'imposta fondiaria regolare, come si è detto, è da escludere. In Italia, la discontinuità con l'età antica dunque è nel VI secolo; la fine della fase di transizione invece la si può collocare tra la fine del VII e gli inizi dell'VIII secolo, quando ormai è sorta una società di tipo nuovo: nuova per la sua struttura economica e politica, per la sùa classe dirigente, per la sua stessa concezione del potere (guerriero e cattolico). Non è esatto, quindi, affermare che le fonti scritte ci illuminano solo sugli aspetti puramente congiunturali dei grandi fenomeni storici, in questo caso della transizione tra antichità e medio evo. Partendo, evidentemente, dal tempo breve dell'avvenimento (ma anche da quello medio delle trasformazioni dei rapporti di proprietà nel campo della vita economica), la storia "scritta" rivela mutamenti anche di tipo strutturale, che coinvolgono un'intera società dalle sue fondamenta. Mutamenti non meno decisivi di quelli che possiedono invece un'evidenza solo archeologica, come l'abbandono 0 il ridimensionamento dei grandi centri urbani dell'antichità, 0 gli stessi flussi commerciali illustrati dai ritrovamenti ceramici. Nell'analisi delle trasformazioni che abbiamo descritto, I'incontro con l'archeologia non sempre è facile, né si può semplicemente risolvere in un puro sfruttamento di dati in più, che si vadano a sommare a quelli esistenti, per confermare o invalidare tesi tutte costruite, in partenza, sulle fonti scritte. Non che ciò non possa avvenire: I'evidenza archeologica, dovuta soprattutto ai piuttosto trattato di una riscossione irregolare e violenta di tributi: e questi ultimi prelievi, divenuti con il tempo regolari, avranno finito per identificare un diritto di proprietà da parte di determinati nuclei parentali (le farae) su certe terre e certi gruppi familiari romani, in sintonia con il venir meno della classe dirigente romana di grandi proprietari. Ma, è doveroso ammetterlo, tutto il processo di stanziamento e di creazione di una proprietà fondiaria longobarda è avvolto nella nebbia (i tertiatores della Liburia ne sono, forse, un residuo tardo?). Chiaro è solo l'esito finale: i Longobardi diventano proprietari fondiari, accanto certo ad antichi (medi e piccoli) proprietari romani; oltre a loro, lo stesso re, con il fisco regio, possiede terre ai quattro angoli del regno. La dissoluzione delle fare, aprendo la strada ad una proprietà privata individuale, segnerà poi, nel corso dell'VIII secolo, I'affermazione di una società caratterizzata da una forte disparità delle ricchezze personali, che spacca la società arcaica dei liberi armati, la cui foto (già invecchiata) traspare ancora dall'epilogo dell'editto di Rotari del 643. Terzo grande fenomeno, la costruzione di uno stato di tipo nuovo, il regno longobardo. A partire dalla struttura tribale iniziale, quella del popolo-esercito che presidia i punti forti e sfrutta in modo parassitario la forza-lavoro indigena, si sviluppa un potere territoriale, che assorbe l'eredità romano-ecclesiastica del primato politico e civile cittadino, facendo delle città il fulcro del potere, anche se si tratta, in parte almeno, di altre città rispetto a quelle importanti in età precedente: i motivi per cui si privilegiano Pavia, Verona, Lucca, Spoleto o Benevento sono militari, pure se nel regno l'elemento mercantile, nel tessuto cittadino, rimane vivo e determina il rilievo di alcuni centri (un solo esempio: Piacenza). Il controllo delle città si somma ad un'articolata presenza sul territorio che sfrutta, oltre che le fortezze confinarie, le ampie proprietà fiscali di origine romana (aumentate con conquista): la gerarchia della curtis pubblica costituisce la gerarchia politico-amministrativa del territorio, alla quale vanno aggiunte la gerarchia militare e l'apparato, sia pure rudimentale, del palatiam. La curtis pubblica, oltre che lo scheletro organizzativo del distretto territoriale longobardo, è pure l'elemento principale di sostegno della struttura del regno dal punto di vista economico. I tributi, sebbene esistenti e di varia natura, sono infatti secondari dal punto di vista
economico-quantitativo. La prosecuzione di un'imposta fondiaria regolare, come si è detto, è da escludere. In Italia, la discontinuità con l'età antica dunque è nel VI secolo; la fine della fase di transizione invece la si può collocare tra la fine del VII e gli inizi dell'VIII secolo, quando ormai è sorta una società di tipo nuovo: nuova per la sua struttura economica e politica, per la sùa classe dirigente, per la sua stessa concezione del potere (guerriero e cattolico). Non è esatto, quindi, affermare che le fonti scritte ci illuminano solo sugli aspetti puramente congiunturali dei grandi fenomeni storici, in questo caso della transizione tra antichità e medio evo. Partendo, evidentemente, dal tempo breve dell'avvenimento (ma anche da quello medio delle trasformazioni dei rapporti di proprietà nel campo della vita economica), la storia "scritta" rivela mutamenti anche di tipo strutturale, che coinvolgono un'intera società dalle sue fondamenta. Mutamenti non meno decisivi di quelli che possiedono invece un'evidenza solo archeologica, come l'abbandono 0 il ridimensionamento dei grandi centri urbani dell'antichità, o gli stessi flussi commerciali illustrati dai ritrovamenti ceramici. Nell'analisi delle trasformazioni che abbiamo descritto, I'incontro con l'archeologia non sempre è facile, né si può semplicemente risolvere in un puro sfruttamento di dati in più, che si vadano a sommare a quelli esistenti, per confermare o invalidare tesi tutte costruite, in partenza, sulle fonti scritte. Non che ciò non possa avvenire: I'evidenza archeologica, dovuta soprattutto ai sepolcreti ed ai relativi corredi funerari, della presenza dei Longobardi in determinati siti e in una certa fase cronologica, ci può dire molto sullo stanziamento del popolo invasore. In modo inverso, e spingendosi più avanti nel tempo, riuscire a datare la stessa "scomparsa" archeologica dei Longobardi - in quanto elemento separato (o separabile) dalla popolazione indigena - è un fatto comunque signifıcativo, perché tradisce senza dubbio una piena acculturazione nei confronti dei Romani: acculturazione, in parte almeno, reciproca (che le fonti scritte, per parte loro, ci rivelano con l'identità dell'onomastica, della lingua, della religione). Per la verità, anche in questi, che sono poi i compiti tradizionalmente assegnati all'archeologia longobarda, si nascondono delle insidie. Si sa, ad esempio, che vi è una scarsità estrema di ritrovamenti archeologici relativi ai Longobardi del sud, eppure conosciamo l'importanza che essi ebbero nella storia del regno ed anche dopo; a questo proposito, viene da chiedersi se la spiegazione avanzata da Cristina La Rocca per Pavia, dove pure mancano tracce signifıcative dei Longobardi, valga anche per il sud: se cioè la debolezza della facies archeologica tipicamente longobarda nel Mezzogiorno italiano corrisponda ad una regione di controllo politico-sociale longobardo così saldo, da rendere superfluo il mantenimento di distinzioni rispetto alla popolazione locale (ma, d'altro canto, dal punto di vista della loro "cultura tradizionale" i Longobardi del sud continuarono invece a distinguersi, come prova la testimonianza a prima vista sconcertante della vita Barbati). Su un piano più ampio, poi, si mette ormai in dubbio la sicurezza con la quale un tempo si attribuiva il valore di "indicatore etnico" assoluto a determinati corredi funerari (siamo in presenza di un indicatore etnico o di un indicatore sociale?). Anche scontando tutti questi dubbi, interpretativi e di metodo, è evidente comunque che il contributo dell'archeologia alla risoluzione di alcuni problemi classici della storia dell'età longobarda rimane rilevante, sia per i risultati già acquisiti sia, in potenza, per quelli futuri. È possibile però, forse, spingersi un po' più avanti. La convergenza alla pari di dati provenienti dalle fonti scritte e da quelle archeologiche può saggerire infatti anche una riscrittura delle stesse tesi di partenza, portando ad una radicale riconsiderazione di alcuni fenomeni. Facciamo un unico esempio, in riferimento ad un dato emerso in alcune relazioni di questo convegno: la distruttività dei Longobardi, testimoniata in modo inequivocabile dalle fonti scritte, non sembra trovare un evidente riscontro archeologico. E allora, piuttosto che fermarsi ad una sterile querelle fra gli storici, che sostengono l'importanza delle distruzioni provocate dall'invasione, e gli archeologi, che invece non ne trovano traccia sul campo, può essere al contrario utile lavorare proprio su questo vuoto archeologico - significativo al pari del vuoto documentario - e riflettere sul concetto stesso di "distruttività". Al di là dell'enfasi delle fonti scritte, quest'ultima può forse essere più correttamente intesa come un'accelerazione di quel degrado - esso sì ben visibile negli scavi - delle strutture antiche, che è un riflesso materiale del fenomeno, archeologicamente inattingibile, rappresentato dalla
distruzione, fisica e culturale, di un'intera classe dirigente. È un occasione, questa, per riflettere sul senso stesso da dare alla parola "transizione", in quanto processo che segna il mutamento completo di un modello di società, che scompare per lasciare il posto ad un altro modello: nel nostro caso, quello dell'Italia dell'alto medioevo. STEFANO GASPARRI Il sistema agrario tardoantico: un modello: Per la natura stessa del periodo scelto da questo Convegno si pone in primo piano la problematica della transizione, in questo caso da un sistema agrario antico o, meglio, tardoantico a un sistema medievale. R. Hodges ci ha proposto un modello proprio per imprigionare le varianti infinite emergenti dalla ricerca empirica in alcune costanti. Io vorrei muovermi nella medesima direzione affiancando al suo modello altomedievale un mio modello tardoantico. Il confronto fra i due scheletri potrebbe essere utile per abbozzare le fgure della transizione. Si pone preliminarmente un problema. Per la fase tarda, grosso modo fra il IV e il VII secolo, si può parlare di un "sistema" agrario per l'Italia, vale a dire di un complesso organico di strutture materiali, di forme sociali e di funzionamenti economici? Sostanzialmente, direi di s~, se appuntiamo l'attenzione ad alcuni fattori che risultano strutturalmente dominanti e che caratterizzano il basso impero rispetto al sistema della tarda repubblica e del primo Principato. Innanzitutto le forme del lavoro. Nel tardo impero si ha una netta dominanza del lavoro libero nella produzione agricola, congiunta con la dominanza del colonato. La manodopera schiavile rimane numericamente molto rilevante (e questo dato continua a distinguere l'Italia dalle province) ma è assimilata nei funzionamenti del colonato: il grosso degli schiavi ha famiglia, opera in autonomia, ha un rapporto con la proprietà riconducibile alla condizione del libero fittavolo. Schiavi e coloni sono, dunque, essenzialmente erogatori di canoni, sia in denaro che in natura (con prevalenza di questi ultimi). Non risultano dalle fonti coeve erogatori di lavoro sotto forma di corvée; e questo silenzio, insieme ad altra documentazione, pare escludere la rilevanza di proprietà bipartite. Due aspetti caratterizzano l'organizzazione fondiaria. Il primo concerne la produzione, che appare concentrata sulla parcellizzazione delle unità di produzione e sulla policoltura. Il secondo riguarda i meccanismi della rendita, il settore ove l'intervento della proprietà appare massimamente concentrato, anche in relazione alla necessaria accumulazione di minime quote parcellari di canoni in natura che costituiscono gli ammassi ingenti di derrate commerciali destinate al mercato. Ne consegue, per quanto riguarda i modi di amministrazione dei patrimoni fondiari, che sia la proprietà privata come la proprietà imperiale (e poi anche quella ecclesiastica) sono in prevalenza fondate su varie forme di gestione indiretta (grande e piccola affittanza, enfltensi, donazioni perpetue soggette a canone) in cui la sfera della produzione è scarsamente toccata dalla proprietà mentre massimo è l'impegno di quest'ultima nella sfera della rendita. La media e la grande proprietà presentano, dunque, in prevalenza, un ordinamento paratattico, nel quale alla concentrazione del possesso terriero fanno riscontro da un lato la distribuzione estremamente frazionata e dall'altro il decentramento produttivo e l'autonomia delle unità di produzione. Esempio tipico è la massa fardorHm, che si potrebbe deflnire un latifondo frazionato, contenente fondi e appezzamenti d'ogni tipo e misura ad esso afferenti (villae, fattorie, poderi, vici), la cui unità non deriva da una qualche unione organica delle parti di tipo economico e funzionale (tant'è che le parti possono essere scorporate o aggiunte al corp?~s della massa senza conseguenze di tipo produttivo), bensì dalla dipendenza amministrativa da un centro che governa la percezione della rendita della massa. Un grosso problema, che comunque va defınito in rapporto alla tematiche della transizione, riguarda il sistema curtense e la proprietà bipartita. Di nessuna di queste due entità, fatte salve sporadiche e insigniflcanti attestazioni, si hanno tracce fino a Gregorio Magno. E quindi, anche quando, in senso molto lato, si può parlare per la medesima proprietà di un indomi~zicatam (che appare nelle fonti
fondato su schiavi residenti) e di un massariciHm (fondato su fıttavoli autonomi), si tratta di due realtà agrarie distinte e non coordinate. In questo senso, il modello che P. Toubert ha individuato per la Sabina altomedievale pare, in quanto alle sue origini, tardoantico, soprattutto nella notevole prevalenza economica e quantitativa del massaricio. Si constata la permanenza fino a epoche molto tarde degli ordinamenti catastali stabiliti con la romanizzazione, la deduzione di colonie, la municipalizzazione, I'ordinamento augusteo. È chiaro, tuttavia, che queste coordinate includono un quadro ambientale che fra Principato e Dominato, nel corso della seconda parte del II e nel III secolo, era andato soggetto a trasformazioni notevoli. Ferma restando la necessità di collocare regionalmente e localmente questi sviluppi, sono rilevabili con notevole frequenza alcune costanti: abbandono delle aree agricole periferiche e marginali, crescita dei territori a vocazione pascolativa, prevalenza della cerealicoltura, riutilizzo della selva e della palude. Tralascio il problema, tutt’altro che irrilevante, se la facies tardountica dell'Italia agraria sia da interpretare come il risultato della decadenza economica della Penisola nel Principato, o non, piuttosto, come il risultato, positivo, di una trasformazione generale del sistema agrario che portò a nuove razionalità nell'uso di risorse naturali e demografıche. Personalmente ritengo che quest'ultima chiave di lettura sia quella giusta, ma lascio la questione aperta. Avviso solo che all'interno della fase tarda vanno individuati periodi più ristretti della periodizzazione economica, anche se raramente si può individuare una serie di cicli. Sintetizzando al massimo le risultanze di studi recentissimi, dell'ultimo decennio, su alcuni territori e regioni, si può dire, in via generale, che si constata nel tardoantico una selezione negli usi del territorio, con il frequente recupero delle vocazioni più naturali e delle forme paganico-vicane di insediamento "arcaico" che erano state spesso cancellate dal modello urbano e agricolo voluto da Roma. La città rimane il punto di riferimento della organizzazione degli spazi rurali sotto ogni punto di vista, ma anche qui con un intervenuto processo di selezione, che in alcuni casi comporta la fne dei centri cittadini minori, in altri la loro trasformazione in oppidam e la riduzione dell'abitato. Il paesaggio risulta ancora caratterizzato dalla presenza della villa, ma con alcune specifıcità. In genere, la densità delle villae è minore rispetto ai secoli anteriori, compensata però dalla maggiore dimensione degli edifici, sia quelli sopravvissuti fino al tardoantico, sia quelli costruiti ex novo. Il mutamento più radicale si ha nell'organizzazione della villa che non è più sede della manodopera (un tempo schiavile), né dirige la produzione del fondo. Nata come "schiavile", la villa tarda potrebbe definirsi "colonica". Ora, questo organismo (a prescindere dal ruolo di residenza rurale temporanea del dominus molto attenuato e spesso assente o disgiunto dallapars rustica) pare concentrato su tre funzioni: a) accumulo delle derrate percepite in forma di canone dai coloni; b) avvio di queste partite di derrate ai mercati locali e regionali; c) coordinamento della gestione fondiaria, non tanto di un fondo organicamente connesso alla villa, quanto di un complesso di proprietà situate nel medesimo territorio. La variazione più sensibile del paesaggio è la comparsa - talora sarebbe meglio parlare di ricomparsa - del vicus e degli ordinamenti paganico-vicani. Nella documentazione il Vicus è scarsamente attestato; ma questo non è uno squilibrio oggettivo, dal momento, che le indagini archeologiche e topografiche non fanno che confermare l'importanza di questo tipo di insediamento, la cui conoscenza va evidentemente approfondita, collateralmente con quella dei cimiteri e delle chiese rurali. All'interno di una più approfondita ricostruzione delle strutture paganico-vicane è presumibile che trovi chiarimento il problema della incidenza, nel quadro agrario e sociale tardo, della piccola proprietà contadina, che probabilmente era molto più diffusa e vitale di quanto risulta dalla documentazione; piccola proprietà contadina che trovava la sua cornice più naturale nel ViCHS e nel latifondo frazionato - meno nel fHHdHS tradizionale romano - e che dal punto di vista sociale conviveva col colonato dipendente e con la servitù agraria, mentre dalla prospettiva economica operava in simbiosi con la piccola affittanza e con il bracciantato stagionale. In termini di una transizione, già durante l'impero, da un sistema agrario antico a uno tardoantico, va visto il rapporto fra produzione agricola e mercato il Italia. Non pare esatto dire che nella fase tarda
tale rapporto diminuisce in termini assoluti. Questa affermazione vale solo per particolari tipi di derrate, come il vino pregiato, la cui esportazione nel Mediterraneo appare ora minore, ma non del tutto assente. I dati più rilevanti sono la regionalizzazione della circolazione delle derrate e l'assunzione diretta delle funzioni commerciali da parte della proprietà (la grande proprietà beninteso), la quale dialoga direttamente con il mercato e appare dotata di strutture apposite. È di conseguenza fluttuante, come appare particolarmente evidente in età gotica e protobizantina, il confine fra imprenditori agrari e imprenditori commerciali; mentre appare chiara la diminuzione dei ceti propriamente mercantili; e si spiega con l'assunzione diretta della magna mercatara da parte dei grandi possessores la decadenza delle attività bancarie e di prestito. La forma della rendita fondiaria al suo stadio primario, prevalentemente naturale, va dunque interpretata non come segno di una "tendenza" regressiva dell'economia di mercato e della moneta, bensì appare funzionale alla trasformazione della rendita in merce e, in ultima istanza, alla possibilità di incrementarne il valore. Se tutto ciò è possibile dire, in una prospettiva di modelli, I'apporto delle tradizionali fonti testuali per la ricostruzione delle strutture produttive è sicuramente fondamentale, ma non è sufficiente. Modelli e ipotesi non inquadrano, com'è noto, i funzionamenti reali, le varianti tipologiche (ci sono evidentemente molti tipi di villa e la "villa tardoantica" è un'astrazione teorica idealtipica). Gli avanzamenti concreti delle conoscenza si potranno avere solo coniugando l'evidenza della documentazione scritta, per sua natura sporadica, incompleta e imprecisa, con la concretezza delle risultanze di scavo, con l'indagine sistematica dei territori, soprattutto con la sistemazione all'interno di cornici regionali omogenee di tutto il complesso della documentazione disponibile. La ricerca archeologica e topografıca va dunque "mirata", deve perdere i consueti aspetti di casualità e sporadicità, deve inserirsi in un discorso storico sulla transizione, ove il concetto tradizionale di Italia va scomposto nella pluralità delle molte Italie che, già nel tardoantico, connotavano la situazione agraria ed economica della Penisola. DOMENICO VERA
Il territorio
Negli anni recenti scavi più o meno sistematici, ma metodologicamente rigorosi, hanno interessato le strutture insediative di alcuni vici; inizia così a delinearsi la realtà degli agglomerati minori, che in età romana fungono da elementi mediatori fra centri urbani veri e propri e aree rurali, appena intravista in passato per la occasionalità e genericità della documentazione disponibile (RUGGINI 1961, p. 527 ss). Per quanto parziali - per la portata limitata di interventi di salvataggio (Muralto: Milano capita/e, 1990, p.243 - P.A. DONATI); la pubblicazione non ultimata dei risultati (Angera: SENA CHIESA 1985; GRASSI 1988; Milano capitale 1990, p. 243 s. - M.T. GRASSI); lo stadio preliminare delle indagini (Calvatone: Milano capitale l990—L. PASSI PITHCHER, G. SENA CHIESA); FACCHINI 1991) - i dati concordano nel suggerire un quadro di non trascurabile prosperità nel IV sec., cui fanno seguito nel V chiari fenomeni di degrado o di abbandono. Il primo momento è segnato dallo sviluppo di impianti artigianali (Angera) e/o commerciali (Muralto), dall'incremento dell'abitato (Angera), dall'abbondanza dei materiali, specie ceramici (Calvatone); esso di confgura come una fase di ripresa e di espansione anche là dove - come a Calvatone - il ristagno se non la crisi del III sec. non hanno lasciato segni percepibili. Il numero dei siti esplorati e la loro concentrazione in un'area fortemente segnata dalla presenza di Milano non possono che indurre a molte riserve in ordine al loro valore di campione. La relazione con il ruolo di capitale assunto dalla città, con tutte le sue implicazioni di ordine economico, appare evidente; in questa prospettiva si colloca anche l'impianto termale tardoantico di St. Vincent (MOLLO MEZZENA,1992), legato anch'esso ad un vicas o forse ad una marsio e comunque testimonianza eloquente dell'intensità dei traffici sulla via delle Gallie. Si deve tuttavia osservare che nel IV sec. segni di notevole dinamismo sono generalmente percepibili anche nei centri urbani maggiori, compresi quelli per i quali si innesta in età tardoantica il processo di involuzione che con i secoli porta alla loro scomparsa (CANTINO WATAGHIN 1992a e 1993); basti ricordare a titolo di esempio i centri piemontesi di Industria (ZANDA 1986 e 1991; MERCANDO 1992, p. 245: signifıcativi in particolare gli elementi di corazza ageminata in un contesto di IV sec.) e di Germa (dedica a Costantino: CAMILLA 1974; interventi in prossimità delle terme: MOLLI BOFFA 1980 e 1989; PELLEGRINO 1990; per I identificazione del sito NEGRO PONZI MANCINI 1989). Occasionalmente si registra la promozione di un vicas a civitas, fatto non raro negli equilibri amministrativi e politici dell'impero tardoantico (RUPPRECHT 1975; CRACCO RUGGINI 1989): è quanto la presenza vescovile, attestata intorno al 430 (LANZONI 1927, p. 750) suggerisce sia avvenuto a Vicoba/§ertia, il cui nuovo ruolo ben si inquadra nel potenziamento dell'area del delta padano indotto tanto dal trasferimento della capitale a Ravenna, quanto dal più intenso sfruttamento delle vie d'acqua (UGGERI 1987 e 1990). Purtroppo non disponiamo al momento di elementi per valutare quanto e come questa vicenda abbia inciso sulle strutture materiali dell'insediamento; la vitalità di questo peraltro sembra declinare rapidamente tra V e VI sec. quando si rarefanno le tracce stesse di frequentazione del sito (ALFIERI, UGGERI, MANSUELLI 1975; Voghera 1984), che appare dunque coinvolto in pieno nel processo di trasformazione che nei siti indagati appare chiaramente avviato con il V sec. e che si è qualificato di "degrado", con una defnizione in qualche modo semplicistica. Si tratta di una serie di fenomeni che sono meglio inquadrabili come indici di mutamenti essenziali nelle forme e nei modi della vita delle comunità e che trovano il loro denominatore comune nella variazione della destinazione funzionale degli spazi. A Calvatone piccole attività produttive vengono ad occupare strutture ad originario carattere residenziale; ad Angera e a Muralto nell'area abitata si inseriscono sepolture, apparentemente isolate nel primo caso, organizzate nel secondo in un'area cimiteriale legata ad una chiesa che si sostituisce alle strutture di una villa, parte della quale peraltro sembra conservata ancora nel VI sec. per uso non cultuale. In linea generale anche questi sviluppi hanno un riscontro con quelli che interessano i contesti urbani maggiori (CANTINO WATAGHIN
1992a e 1993), rispetto ai quali si manifestano forse più precocemente: a Muralto infatti il cimitero tardountico sembra formarsi già nella seconda metà del IV sec. Come per le città, così per i centri minori questi mutamenti di struttura non implicano necessariamente la perdita della loro identità; non si può peraltro escludere che essi si inseriscano invece in una trasformazione sostanziale dei modi di aggregazione sul territorio, nel senso di una disgregazione degli agglomerati minori, intesi quali nuclei di tipo urbano. Sarebbe imprudente costruire un modello univoco, per una realtà verosimilmente articolata e differenziata, da verificare dunque su una base di osservazione molto più ampia dell'attuale. Il prevalere di un habitat disperso è tuttavia suggerito in più circostanze della posizione delle chiese battesimali, la cui individuazione rappresenta una delle acquisizioni più signifcative della ricerca archeologica recente, evidenziandone al tempo stesso i limiti: i siti indagati in maniera adeguata sono infatti concentrati in un'area relativamente ristretta (Piemonte-Valle d'Aosta), dove questo tipo di emergenze è stato oggetto di particolare attenzione. Anche su questo problema l'analisi non può essere sviluppata: gli scavi infatti hanno spesso interessato solo l'edificio di culto, senza approfondirne il contesto; ma le chiese battesimali di Villeneuve (PERINETTI 1986), Mergozzo (PEJRANT BARICCO 1984 e in Milano capitale 1990, p. 295 ss.), Centallo (MOLLI BOFFA 1982-1988; MERCANDO 1992) sembrano chiaramente collocarsi al di fuori di uno stretto rapporto con uno specifico centro abitato, e servire piuttosto una comunità frammentata sul territorio circostante. La chiesa di S. Maria di Padovetere (ALFIER} 1966) pare invece associata ad un abitato, anche se ne rimane topograficamente distinta. Fra IV e V sec. gli insediamenti sul territorio si configurano per lo più come ville rustiche, a carattere dunque produttivo, di livello non molto elevato, con una densità che possiamo supporre variabile, senza peraltro poter dare un valore assoluto al rapporto tra zone di notevole addensamento ed altre in cui le presenze appaiono invece più rarefatte: su queste differenze può infatti avere un peso determinante lo stato della ricerca. Alla densità che presentano l'area modenese (GELICHI, MALNATI, ORTALLI 1986; GELICHI 1989) o lombarda (Milaro capitale 1990, p. 233 ss.), oggetto entrambe di indagini sistematiche, si contrappongono le segnalazioni più sporadiche del Piemonte, maggiormente legate alla casualità della scoperta (NEGRO PONZJ MANCINI 1980 e 1982; SPAGNOLO GARZOLI 1984; SARDO 1988; PANTÒ 1988 e 1992). E tuttavia non si può non rilevare che la regione piemontese mostra, specie nel suo settore meridionale, molti segni di crisi precoce, evidente soprattutto nei contesti di Alba (FILIPPI 1991) e Acqui (CROSETTO 1988a e 1988b; ZANDA 1991; FILIPPI 1992), che può aver investito le campagne non meno dei contesti urbani (su questi LA ROCCA 1992b, che meriterebbe peraltro una approfondita discussione). Su questo tessuto connettivo spiccano come episodi finora eccezionali le grandi ville di lusso, che iri altre regioni dell'impero sono un connotato distintivo della tarda antichità, che in Italia settentrionale sono invece rappresentate solo dai complessi di Desenzano (Milaro capitale 1990, p. 260 ss. - D. SCAGLIARINI CORLAITA) e Palazzo Pignano (Milano capitale, p. 266 ss.—E. ROFFIA, L. PASSI PITCHER). Rimane per ora ipotetica l'identifcazione con grandi ville residenziali di insediamenti noti solo in modo frammentario (SCAGLIARINI CORLAITA 1990; cfr. per contro SENA CHIESA 1990). Sia questi che le ville meglio note si collocano comunque in quella che tra IV e V sec. è l'area di maggiore vitalità dell'Italia padana. Il fatto è difficilmente casuale; appare piuttosto come un indice significativo del rapporto complementare e non alternativo che vale fra ville e città per tutto il IV sec. e forse ancora nel V. Nessuna segnalazione di ville importanti viene dal settore occidentale della regione, dove, come si è già avuto occasione di ricordare, è palese la crisi dei centri urbani, né da altre aree in cui la loro consistenza è per molti aspetti problematica, come quella veneta o quella emiliano-romagnola (per le quali rimandiamo ai contributi specifici in questo stesso volume), dove le grandi ville sono invece presenti in un momento successivo, in evidente connessione con l'affermarsi del ruolo egemone di Ravenna (ORTALLI 1991, p. 175 ss.). Al di là di queste poche emergenze, il panorama del territorio dopo il V sec. si fa del tutto indistinto. Ancora in questa sede è stato ribadito come non siano finora state individuate chiavi di lettura soddisfacenti per risalire dalla distribuzione delle necropoli - I'unica emergenza archeologica
significativa degli insediamenti sul territorio - ad un modello organico delle forme assunte dalla presenza umana, che pure esse attestano diffusa capillarmente. Nonostan te alcuni apprezzabili sforzi in questa direzione (HUDSON, LA ROCCA 1985; LA ROCCA 1989a e 1989b) rimane aperto il problema del signif~cato, in ordine all'insediamento, della presenza di necropoli di consistenza rilevante in un contesto punteggiato da piccoli nuclei funerari: in che termini cioè si possa porre il nesso fra dimensioni delle necropoli e densità, entità, stabilità dell'insediamento che esse presuppongono, se e sotto che forma le grandi necropoli siano organizzate, che parte abbiano nelle soluzioni di volta in volta adottate speciNci usi funerari (orientative in questa direzione le analisi condotte su casi specifci in RIGONI, HUDSON, LA ROCCA 1988 e LUSUARDI SIENA 1992). Il quadro offerto dalle necropoli è problematico anche per quanto riguarda il rapporto fra gli insediamenti tardoromani e quelli legati alle nuove presenze barbariche, e questo per due ordini di ragioni. Su un piano generale, è da chiarire fuo a che punto sia corretto generalizzare la valenza etuica dei corredi fUnerari, e proiettarla sull'intero contesto in cui essi si collocano; (GEARY 1983; Yo~Nc 1991; LA ROCCA 1992); d'altro canto non c'è dubbio che la mappa delle necropoli fra tarda antichità e altomedioevo sia falsata dall'attenzione pressocché esclusiva prestata fuo ad anni recenti agli oggetti di corredo, che ha condizionato in misura rilevante - e in modo evidentemente negativo - la documentazione dei contesti che ne fossero privi. Appare indiscutibile che molti insediamenti rurali attestati nel IV sec. siano abbandonati, in tempi anche relativamente precoci; cos~ nel modenese l'abbandono delle ville rustiche risulta generalizzato già all'inizio del V sec. (GELICHI, MALNATI, ORTALLI I986), quando cessa anche I occupazione di siti di area lombarda (SENA CHIESA 1990) e piemontese (CARERI CANJATI 1986; SARDO 1988); nello stesso orizzonte cronologico si deve collocare anche 1'abbandono della villa di Desenzano (Milano capirale 1990, p. 264 - F. RossI). In altri siti - peraltro non numerosi l'occupazione, forse non anteriore all'età tardoantica, si protrae anche f no al VI sec.; variazioni anche sensibili si colgono talvolta negli esiti di insediamenti finitimi, senza che ne siano evidenti le motivazioni: così a Brignano Frascata, nel Piemonte sud-orientale, l'occupazione in fraz. Frascata sembra cessare intorno alla metà del V sec.7 mentre in fraz. S. Giorgio prosegue fino ai primi decenni del VI (PANTÒ 1988 e 1992). All'abbandono del sito può far seguito una sua rioccupazione da parte di un ediEcio di culto; a Lenta uno strato di deposito allUvionale separa la fondazione della chiesa battesimale del V-VI sec. dall'insediamento di III-IV sec. (GARERI CANIATI 1986; SARDO 1988); altrove, come a Centallo, i tempi di abbandono effettivo sono meno evidenti (MOLLI BOFFA 1982-1988). La funzione di cura d'anime di queste fondazioni cristiane esclude comunque che esso abbia interessato il territorio nella sua totalità. Molto più spesso nelle struttUre tardoromane si inseriscono nuclei di sepolture; a questo proposito la documentazione si fa sempre più consistente, tanto che si è potuto parlare di ruolo polarizzante degli insediamenti tardoromani. Il fenomeno non interessa solo l'Italia settentrionale, ed è verosirnile che a determinarlo abbiano concorso ragioni diverse, fra cui la protezione che i resti murari potevano garantire alle sepolture e i limiti che la loro presenza poneva allo sfruttamento agricolo sono quelle di più immediata suggestione: non esauriscono però il problema (YOUNG 1991). Mancano in genere i dati stratigrafci per precisare se la destinazione funeraria faccia seguito ad un effettivo abbandono del sito e se al caso ne costituisca l'unica forma di rioccupazione; non si può infatti escludere che parte delle strUtture preesistenti sia stata sfruttata ad uso abitativo, eventualmente con rifacimenti in materiali deperibili, in quanto tali difficilmente individuabili in terreni i cui livelli superfciali sono per lo più sconvolti dai lavori agricoli, quando non da successive rioccupazioni. La contiguita di strutturé abitative e spazi funerari non potrebbe evidentemente stupire, in un momento in cui inizia a connotare anche i contesti urbani (CANTINO WATAGHIN 1992b). Che il riuso possa comportare un'integrazione di funzioni diverse è indicato dal caso di Muralto, dove parte delle strutture della villa cui si sostituiscono la chiesa e la connessa area cimiteriale sono in uso, ancorché imprecisato, ancora nel IV sec. (Milano capita/e 1990, p. 243 - P.A. DONATI). Anche a Ticineto la presenza non trascurabile di manufatti d'uso attribuibili al VI-VII sec.
(GARERI 1980) suggerisce una continuità d'uso abitativo della villa, contestualmente alla trasformazione di alcuni suoi vani in chiesa cimiteriale (per questa NEGRO PONZI MANC]N 1980, 1982 e 1983). Entro questa problematica si configura come caso del tutto particolare quello di Palazzo Pignano; in luogo di sostituirsi, come in genere avviene, I'edificio di culto sembra inserirsi nell'impianto della villa, il cui sito d'altro canto appare frequentato in età longobarda, in termini che sono peraltro ancora interamente da chiarire. Contrariamente alle ipotesi che sono state formulate (MASSARI, ROFFIA 1985; Milano capitale 1990, p.266 s.—ROFFIA, L. PASSI PITCHER; SANNAZARO 1990 e 1992) è diff~cile ammettere che la continuità sia legata ad una originaria funzione di cura d'anime della chiesa, in relazione ad una sede vescovile, per la quale manca ogni presupposto, o ad una precoce sede plebana; l'edificio infatti si differenzia dalle chiese battesimali fmora note per lo schema a pianta centrale, il modesto sviluppo dell'abside, le dimensioni ridotte e la posizione marginale del vano in cui si è ritenuto di identificare la vasca battesimale - ma anche questo punto sarebbe da approfondire. Questi elementi suggeriscono invece di interpretare l'edificio come una chiesa privata, che le caratteristiche architettoniche indurrebbero a collocare non prima del V sec. inoltrato e forse anche oltre; I'associazione del battistero a questo tipo di fondazioni è ben nota dalle fonti del VI sec., che ne condannano l'abuso (VIOLANTE 1982). È chiaro che in questa prospettiva assume un'evidenza particolare l'ipotesi, già avanzata da tempo, che Palazzo Pignano sia stata il centro dell'amministrazione di un territorio fiscale e sede del funzionario regio ad essa preposto (da ultimo Milano Capitale 1990, p.266 - E. ROFFIA), con tutte le implicazioni che essa comporta in ordine alle valenze della continuità di occupazione del sito. È verosimilmente un oratorio privato anche la piccola cappella individuata nel contesto, peraltro molto più modesto, della villa di Manerba (BROGIOLO 1982; MASSA, BROGIOLO 1982): segno signifcativo della presenza cristiana in aree extraurbane, che a livello privato si manifesta occasionalmente già nel IV sec. (cfr. Ia documentazione raccolta per la Lombardia in SANNAZARO 1990), ma che soltanto con il V-VI sec. assume un carattere di sistematicità e di incidenza sull'assetto del territorio. È in questo orizzonte cronologico che si collocano infatti le chiese battesimali note da tempo o messe in luce dalle ricerche archeologiche più recenti; a quelle già menzionate merita aggiungere per il Piemonte S. Ponso Canavese e Cureggio (PEJRANI BARICCO 1989), rimandando per la Lombardia alle schede contenute in SANNAZARO 1990. Esse indicano che solo in questo momento le aree rurali sono interessate da un processo capillare di cristianizzazione e da un reale programma di occupazione ed organizzazione cristiana dello spazio. Si è già rilevato in precedenza il frequente recupero di siti occupati in età tardoromana; questi vengono ora ad assumere il ruolo di centri di aggregazione di una comunità che è comunque più vasta di quella dell'agglomerato cui eventualmente la chiesa si collega - e come si è visto non è sempre questo il caso. La chiesa battesimale dunque si propone come elemento di stabilità nel momento di più marcata trasformazione degli assetti territoriali. Ancora una volta è da lamentare che i dati disponibili siano del tutto inadeguati ad approfondire la dinamica del suo rapporto con gli insediamenti. Merita comunque rilevare che non sempre alle chiese battesimali più antiche sono associate sepolture: così ad esempio a Mergozzo (PEJRANI BARICCO 1984 e 1989); nonostante non tutta l'area esterna alla chiesa sia stata oggetto di indagine, non sembra casuale che non siano state messe in luce sepolture anteriori all'alto medioevo. Il dato può essere significativo, alla luce della presenza, nello stesso arco di tempo che vede la fondazione delle chiese battesimali, di chiese ad esclusiva destinazione funeraria (in Piemonte Ticineto: NEGRO PONZI 1980, 1982 e 1983; in Lombardia Galliano: BROGIOLO 1991; in Emilia-Romagna Argenta: GELICHI 1992), spesso private, ma talvolta verosimilmente al servizio di una comunità. Queste delineano un ulteriore polo di aggregazione, complementare più che alternativo rispetto alla chiesa battesimale, in termini che, nonostante le diverse premesse di ordine giuridico, sembrano proiettare sulle aree rurali un riflesso del modello di topografia cristiana dei centri urbani (CANTINO WATAGHIN 1992c). I confini fra i due tipi di fondazioni non sono sempre percepibili con chiarezza: la frequente assenza di scavi sistematici ed estesi non permette di escludere la presenza di un battistero in complessi di cui sia nota - e non sempre nella sua interezza - la sola aula
di culto; possono d'altro canto essere superati nelle vicende altomedievali, quando chiese che in origine sembrano essere funerarie sono attestate come pievi (così Galliano e Argenta), come avviene del resto per oratori privati (Manerba, Palazzo Pignano); chiese battesimali per contro possono scomparire (Centallo). Questi esiti diversi sono certo legati agli sviluppi dell'organizzazione ecclesiastica: ma non sono meno significativi della mobilità del quadro degli insediamenti e della loro struttura fra tarda antichità e alto medioevo. In questo contesto i monasteri non sembrano avere una parte consistente prima del VII sec. (CANTINO WATAGHIN 1989), mentre si inseriscono già in epoca precedente, sia pure con una frequenza modesta rispetto alle tradizioni agiografiche, fondazioni legate all'esagurazione di santuari pagani o a memorie martiriali: si possono ricordare per la loro evidenza fra le prime la basilica di S. Giovanni al Timavo (MIRABELLA ROBERTI 1976; MASELLI SCOTTI 1978 e 1979; MARCHIORI 1982); fra le seconde il santuario in onore dei martiri Canziani nei pressi di Aquileia (CUSCITO 1987), che dà il nome al ViCHS ~aHtiarorHm ricordato in età carolingia - sia questo l'esito di un ViCHS romano o piuttosto un agglomerato formatosi intorno alla memoria martiriale in ragione della sua stessa esistenza (per ritrovamenti importanti ai fini della ricostruzione dell'occupazione tardoromana della zona cfr. BERTACCHI 1988). S. Giulio d'Orta (Milano capitale 1990, p. 297 s. - L. PEJRANI BARICCO) propone una situazione più complessa, in cui le istanze devozionali e pastorali si intrecciano a quelle politiche, in un nesso che rimane ancora da precisare (CANTINO WATAGHIN 1991 e L. PEJRANI BARICCO ivi); il culto dei santi che la tradizione agiografica vuole evangelizzatori del territorio del Verbano, con le sue componenti bizantine, finora forse non adeguatamente valutate, si inserisce infatti nel problema del sistema dei castra tardoantichi e altomedievali, per il quale rimandiamo alle pagine che seguono. Concludiamo richiamando un dato, che emerge dagli scavi più recenti in questi contesti cultuali e che meriterà un'attenta considerazione: in nessun caso sono evidenti tracce di rottura riferibili all'occupazione longobarda; gli edifci dove sono state individuate sequenze stratigrafiche affidabili non hanno restituito livelli di distruzione collocabili in quell'orizzonte cronologico: I'eventuale abbandono - come a Ticineto o a Centallo - interviene in un momento nettamente più tardo. G1SELLA CANTINO WATAGHIN
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Castra tardo antichi (IV-metà VI)
A differenza degli insediamenti (sia urbani che rurali) e delle necropoli, oggetto quasi esclusivamente di interventi di salvataggio, i castra sono stati privilegiati da numerosi scavi di ricerca, anche se pochi sono stati quelli sistematici. Ed inoltre, salvo che per la Liguria bizantina (CHRISTIE 1990), per l'arco alpino orientale (CIGLENECKI 1987) e ancora per il Trentino Alto Adige ed il Friuli in età longobarda (rispettivamente BIERBRAUER 1991 e l987), mancano sintesi aggiornate per le restanti regioni dell'Italia settentrionale. In questo contributo, discuterò, senza alcuna pretesa di avviarlo a soluzione, il problema della loro origine e della loro funzione, tra il IV e la metà del VI secolo, avvalendomi soprattutto dei dati forniti da recenti ricerche in Lombardia e Veneto. In altra sede (BROGIOLO in stampa) ne delineò l'evoluzione in età longobarda. Va da sé che l'argomento investe questioni assai più generali: sullo sviluppo dell'insediamento (in rapporto al territorio dipendente), sulla cultura materiale (strutture difensive, edifici abitativi), sulla struttura economica (nel bipolarismo tra centro di consumo di risorse prodotte altrove e centro con proprie attività autonome) e su quella sociale (nella possibile coesistenza antagonismo tra popolazione civile ed eventuale presidio militare). Temi che non possono certo essere affrontati nei limiti di spazio offerti da questi atti e sui quali sarà indispensabile tornare. Per quanto riguarda l'origine (ad opera di un'autorità pubblica centrale o locale, o per iniziativa privata) e la funzione (prevalentemente militare o di rifugio per le popolazioni locali, con ogni possibile sfumatura, variante ed interazione), il problema, da un punto di vista archeologico, è quello di stabilire delle tipologie, sulla base dei dati di cultura materiale. Slavo Ciglenecki (CIGLENECKI 1987) ha proposto una prima classificazione funzionale dei 127 castra censiti, distinguendoli in tre gruppi principali (stazioni militari, fortezze rifugio insediamenti fortificati prevalentemente civili, un paio dei quali, Kucar e Vranje, anche importanti sedi religiose), a loro volta articolati in 11 varianti. Tale proposta, soprattutto in riferimento ai castra di V-VI secolo, è stata criticata da Volker Bierbraner (BIERBRAUER 1990): dal momento che le fortificazioni di tale periodo sarebbero state create dalle popolazioni autoctone e solo occasionalmente avrebbero ospitato presidi militari, non sarebbe possibile, sulla base archeologica, “distinguere le cosiddette stazioni militari dagli insediamenti fortificati stabili. distinguere le cosiddette stazioni militari dagli insediamenti fortificati stabili'. Pur con queste cautele, ritengo tuttavia che sia opportuno proporre una prima provvisoria classificazione, non fosse altro perché i modelli stimolano alla discussione ed al confronto. Oltre alle dimensioni, all'ubicazione, alle caratteristiche delle difese, su cui si è basato prevalentemente Ciglenecki, anche altri elementi possono essere considerati propriamente distintivi. Anzitutto i tipi edilizi: si confrontino, ad esempio, le piccole case di Invillino con i grandi edifici tripartiti di Monte Barro. Tra i reperti è significativo il rinvenimento di oggetti simbolo di potere, come la corona di Monte Barro, o di sepolture di guerrieri. Anche la consistenza di beni fiscali, testimoniata dall'età longobarda, può essere talora considerata il sintomo di un'origine, pubblica. Sulla base dell'evidenza archeologica e delle fonti scritte, mi pare si possano proporre cinque tipi principali. a-Modello Ibligo-Invillina. I risultati degli scavi sui colli Santina e di Zucca, ad Invillino in Friuli (insediamento che dall'età romana persiste fino al VII secolo con variazioni strutturali ed economiche, ma senza l'inserimento di un presidio militare) sono stati generalizzatti (BIERBRAUER 1987) per tutti i castra menzionati da Paolo Diacono in occasione dell'incursione avara del 610, sulla base dell'identificazione, peraltro problematica, di questo sito con uno di quelli citati dallo storico longobardo: Ibligo, cuius positio omoino inexpugnabilis existit (P.D., H.L., IV, 37)”. Questo modello di evoluzione nell'ambito di un popolamento autoctono, che si vuole proteggere da occasionali pericoli, è stato riproposto per il Trentino, sulla base delle informazioni ottenute con lo
scavo del sito di altura di Sabiona (BIERBRAUER-NOTHDURFTER 1988), sede vescovile, ma privo di difese che non siano quelle naturali (BIERBRAUER 1991). Occorre precisare che, pur se la prevalente preoccupazione di Bierbraner è di negare una militarizzazione del territorio ad opera dei Longobardi, in realtà vi è il rischio di generalizzare l'evoluzione di un sistema fortificato in uno stretto ambito civile, conclusione che va mitigata, dal momento che, salvo in momenti di eccezionale pericolo, per erigere una fortificazione era indispensabile il consenso dell'autorità pubblica. Manca inoltre, nella maggior parte dei castra finora indagati archeologicamente, una continuità con l'epica romana come qUella del colle Santina. Anche quanto è stata accertata una preesistenza in età primo-imperiale, questa potrebbe talora rivelarsi fortuita, non la causa del successivo sviluppo. Come, ad esempio, nel caso di Sirmione sul lago di Garda (BROGIOLO 1989), dove il complesso sistema fortificato, costituito da tre cinte e da una darsena, non aveva la precipua funzione di difendere il modesto abitato, peraltro incluso nelle difese. Si trattava in realtà di un castello che, analogamente a quello dell'Isola Comacina, aveva lo scopo di sbarrare il passaggio lungo il lago. Con una strategia che ritroveremo applicata, nel basso medioevo, dagli Scaligeri e dai Veneziani. ` b - Madello Castelseprio. Giampiero Bognetti (BOGNETTI 1948), cui si deve la riscoperta e la valorizzazione storiografica di questo sito, lo ritenne, unitamente a Piomba, Castelnovate, Stazzona, Isola Comacina, S. Giulio d'Orta ecc., uno dei castelli pertinenti al sistema di fortificazioni delle Prealpi centro-occidentali, noto come il Tractas Italiae circa Alpes sab dispositiore viri spectabilis co, Hitis Italiae e ricordato, all'inizio del V secolo, dalla Notitia DigritatHm (CLEMENTE 1968, 1980). Come i Glastra Alpium laliaram, realizzati probabilmente nel IV secolo per bloccare, tra Fiume e l'Isonzo, le strade che dal Norico, dalla Pannonia e dalla Dalmazia conducevano in Italia. questo sistema difensivo era costituito, come in modo suggestivo indica un disegno allegato alla Notitia, e come è stato documentato da ricerche sistematiche nella Slovenia (SASELPETRU 1971; ULPERT 1979; CICLENE~KI 1987), da castra e città fortificate, posti all'imbocco delle vallate alpine, e, a sbarramento delle strettoie, da muri continui. Nelle Alpi centro-occidentali, difettano indagini sui muri di sbarramento e non è perciò possibile alcuna argomentazione su questo struttura di difesa, ancora attiva nell'VIII secolo (SETTIA 1989) e di cui restano testimonianze indagate, come a Castelmuro in Valchiavenna. È perciò difficile chiarire, come è stato possibile per le Alpi Giulie, se si tratti di un vero e proprio limes o semplicemente di un corollario di castra che avevano lo scopo di proteggere Milano. La maggior parte è infatti localizzata attorno a questa città, soprattutto a nord della stessa. A sud, in area di pianura, era il castrum di Lomello che recenti ricerche suggeriscono di datare all'inizio del V sec. (MACCABRUNI 1991 con bibliografia precedente). Si tratta di massicce fortificazioni, ubicate su dossi generalmente poco rilevati, difesi da cinte costruite con dovizia di materiali di spoglio o reperiti ex novo. Inglobano superfici di tre-quattro ettari ed hanno all'interno grandi chiese, come a Castelseprio, sull'Isola Comacina, a S' Giulio d'Orta, e costruzioni massicce, come la casa torre di Castelseprio (BRocIoLo-LusuARDl SIENA 1980). Per quanto riguarda l'origine, occorre precisare che, oltre che per Lomello abbiamo qualche dato solo per Castelseprio (secondo secolo - V: BROGIOLO LUSUARDI STENA 1980). Quantunque l'ipotesi del Bognetti di fondazioni nell'ambito di un progetto di difesa, realizzato o coordinato da un'autorità pubblica, mi pare sia ancora la più plausibile, ne manca ancora una conferma. c - Modello MoHte Barro. È riferibile, in base ai dati sinora acquisiti in sette campagne di scavo (BROGIOLO 1991b), alla generazione di castelli edifcati tra la metà del V secolo, periodo in cui si verificano due pericolose incursioni di barbari attraverso il Canton Ticino, e l'età gota, quando Teodorico presta attenzione alla difesa delle Alpi centro-occidentali, attraverso le quali temeva incursioni contro il suo regno. Cassiodoro, in una celebre lettera del 507/11 (Var. III, 48), relativa ad uno di questi castra, quello di Verruca, ci informa sulla responsabilità per questa impresa affdata a eodefrido saioni, sui destinatari •.universis gothis et romanis circa Verrucas castellum consistentibus”, sull'ubicazione del sito naturalmente difeso • tumulus sascus in rotunditate consurgens, qui proceris lateribus, silvis erasus
”, sulle opere da realizzarsi, domicilia, sugli scopi: tenens clastra provinciae (...) quia feris gentibus constat obiectum”. Si tratta cioè di un'iniziativa avviata dal re, in tempo di pace e secondo un progetto di difesa di più ampia portata ( quamquam deo iuvante temporibus nostris provinciam securam credamus, tamen prudentiae nibilominus est cavere etiam quae non putantur emergere”; cfr. anche Cass., Var., I, 40; Ennodio., Paregyric?~s, 210,19), affdata per la realizzazione ad un funzionario pubblico e pagata dalle popolazioni locali. Analoga iniziativa di costruire case (domus) nel castello, sito presso la città (ixta vobis positam), sempre negli stessi anni, venne ordinata agli abitanti di Tortona (Cass., Var., I, 17). Questo coordinamento dell'autorità pubblica, per un'impresa portata a termine dalle comunità locali, con la guida di un funzionario o di altra autorità (può esser anche un vescovo, come ricorda Ennodio, Carm., 2, 110, per un castello del Novarese), costituisce la garanzia che si costruirà una fortezza utilizzabile anche per fini militari. La posizione strategicamente rilevante su montagne o rilievi accentuati che di per sé costituiscono un baluardo, le grandi superfici protette, laddove non vi sono strapiombi naturali, da mura, ancorché di spessore più limitato e senza spoglio nei casi documentati (Monte Barro, Garda, Castelfeder), l'impianto programmato, la buona qualità delle costruzioni, le piccole chiese all'interno, ne costituiscono gli aspetti che l'archeologia può rilevare in prima battuta. L'esempio più rilevante è quello di Monte Barro, un castello utilizzato, in base ai dati sinora emersi dagli scavi, dalla metà del V alla metà circa del secolo successivo; sorge su una montagna isolata, di ca. 900 m di quota, posta a sud di Lecco, tra il lago di Como, Valmadrera ed il lago di Olginate. I resti archeologici si distribuiscono in tre zone del versante meridionale e comprendono una cinta, un ridotto ulteriormente fortificato e un abitato. La cinta, costituita da un muro dello spessore di circa un metro realizzato con le pietre locali, si sviluppa, per almeno 1200 metri, a mezzacosta del versante sud est della montagna, lungo l'isoipsa dei 700 m s.l.m.; era rinforzata da almeno tre torri, due delle quali sono state scavate. Al centro, si raccordava con un saliente ad un ridotto difensivo posto alla quota di m 750 ca. Non vi è invece traccia di muratura continua sui crinali e a protezione dell'abitato, peraltro naturalmente difesi. L'abitato era localizzato su quattro ampie terrazze pianeggianti comprese tra i 600 ed i 650 metri s.l.m. Doveva comprendere non meno di 15 edifici, distribuiti in modo pianificato su una superficie di 8 ettari. Una delle terrazze era occupata da un solo grande edificio di circa 1700 metri quadrati, in origine formato da tre ali distribuite attorno ad un cortile, chiuso sul rimanente lato da un muro. Durante l'uso, vennero aggiunti alcuni ambienti all'ala nord e un portico all'ala ovest. L'edificio, a due piani, aveva una stringente simmetria e una chiara distinzione funzionale. Nelle ali laterali risiedevano persone di rango subalterno, mentre l'ala nord era destinata ad una autorità, forse il capo dell'intero insediamento: al piano superiore, al centro, vi era infatti un'aola di rappresentanza, come attesta una corona pensile, simbolo di potere, trovata nel crollo dell'edificio. Nelle altre terrazze trovavano posto più edifici, la maggior parte dei quali aveva, in origine, una pianta articolata in tre vani distribuiti paratatticamente ed una superficie oscillante tra 100 e 200 mq. Sebbene più piccoli, erano anch'essi a due piani e costruiti con buona tecnica, senza materiale di reimpiego. La posizione, la difesa integrata tra cinta e strapiombi naturali, I'impianto pianificato, la dimensione ragguardevole dell'insediamento, la qualità delle architetture sono tutti elementi che rispondono alle esigenze elencate nelle lettere di Cassiodoro. È pertanto possibile che anche questo castello sia stato costruito a fini militari e di rifugio, grazie ad un rapporto di collaborazione, tra il potere centrale e le comunità locali. Analoghe origini potrebbero avere altri insediamenti fortificati, oggetto di recenti indagini archeologiche. Garda, sul lago omonimo, è probabilmente di origine gota: oltre al nome germanico, vi è forse il terminas arte quem dato dall'identificazione recentemente proposta (LA REGINA 1988) con il
Gàrada ricordato da Giorgio Ciprio tra le fortezze bizantine della seconda metà del VI. Il castello sorge su una montagna (q. 291) con la sommità piatta, difesa naturalmente da strapiombi di 200 m ca. su tre lati, mentre un muro in grosse pietre sbozzate chiudeva il lato est. Al suo interno, è venuto in luce un edificio con vani distribuiti paratatticamente che ricorda quelli di Monte Barro. Nel Trentino-Alto Adige, a (Castelfeder=Gastelvecchio (BAGGIO-DAL RI 1989), su un ampio dosso rilevato ca. 200 m sull'Adige (q. 405) sorge un castello identificabile con l'Ennemase di Paolo Diacono. Presenta un'interessante cortina con lesene interne che sorreggono arcature cieche ed ha come termine arte quem il corredo di tipo longobardo di alcune sepolture addossate alla cinta. Al suo interno vi è anche una piccola chiesa. Forse bizantino (termine arte quem la menzione in Paolo Diacono della sua conquista da parte dei Longobardi nel 602, confermata pienamente dai m risultati delle indagini archeologiche) è Monselice: il castram ingloba la parte sommitale, corrispondente a circa tre ettari, di una cima isolata dei colli Euganei, sita presso l'antico corso del fiume Adige ed un importante nodo stradale; è difeso da mura con un paramento in grossi blocchi sbozzati di trachite, rinforzate da torri (BROGIOLO 1987). d - Modello Laino. Una famosa testimonianza epigrafica (f:IL V 2, n. 5418), databile, secondo il Bognetti (1954, p. 21, nota 3), al 538-40, vale a dire al periodo più cruento, per il territorio milanese, della guerra greco-gotica, ricorda l'iniziativa di Marcelliano, suddiacono della chiesa milanese, fece costruire un castello sulle montagne a nord di Como. Il rilievo (q. s.l.m.555) sul quale il suddiacono edificò con tanto sforzo la fortificazione è identificabile dalla chiesa di S. Vittore, presso la quale era conservata l'iscrizione e dal riscontro archeologico di sepolture di fine VI-VII secolo, rinvenute ai piedi dello stesso. Nonostante le risorse impiegate, si tratta della modestissima opera di difesa di un piccolo dosso naturale, dalle dimensioni, pur considerando l'intero cocuzzolo, di poche migliaia di mq, di gran lunga inferiori rispetto a quella dei grandi castra che abbiamo visto in precedenza. Origine simile potrebbe aver avuto un altro castello del territorio lariano: quello di S. Stefano a Lecco, difeso da una cortina di 65O m, da cui proviene un epigrafe, datata al 535 (MOMMERET DE VILLARD 1912, n.146), di un presbiter. L'impressione è che ci si trovi di fronte a fortificazioni sorte nell'urgenza di difendersi, anche senza apprestamenti di grande efficacia, in periodi di grande insicurezza, come quelli della guerra greco-gotica. e - Modello Gaino. Un ultimo tipo di fortificazione sul quale, come per il precedente, mancano indagini archeologiche, è costituito da difese collocate su cime di difficile accesso, tra gli 800 ed i 1000 metri di quota, segnalate dal toponimo castello e da rinvenimenti di materiali genericamente riferibili ad età tardoromana-altomedievale. I confronti più immediati sono con la Liguria, dove troviamo una simile distribuzione di castelli, per almeno uno dei quali, quello del monte Castellaro di Zignago (m 965 s.l.m.), formato da una torre quadrangolare inclusa in una cinta poligonale, è stata accertata una cronologia di VI-VII secolo (CABONA etal. 1978; CHRISTIE 1990). Nella Padania, l'esempio meglio documentato, anche se solo da ricognizioni di superficie e da un rilievo delle strutture emergenti, è attualmente quello del monte Castello di Gaino, una montagna scoscesa, che sorge a nord dell'abitato di Toscolano-Maderno, sul lago di Garda. La fortificazione è posta alla quota di m 800 ca. s.l.m., al di sotto della cirna (q. 865), raggiungibile con un sentiero soltanto da nordest. Consiste in un muro legato da buona malta, rinforzato da contrafforti e da speroni di roccia grossolamente squadrati; dipartendosi dal crinale, naturalmente difeso, scende diagonalmente a valle per una decina di metri, per poi piegare, parallelo alla linea di cresta, fino ad una parete verticale, incisa da un sentiero che sale alla cima. La funzione di questa cinta è da un lato di proteggere una superficie di mq 500 ca., all'interno della quale potevano trovare spazio due o tre abitazioni; dall'altro di intercettare il sentiero che portava alla cima, sulla quale si vede il crollo di un edificio, probabilmente una torre, ulteriore elemento di difesa e di avvistamento. Prammenti di vetro, ceramica grezza e invetriata, un frammento di sigillata africana (Forma Hayes 87, n. 4), raccolti in superficie, danno un primo orientamento cronologico nella prima metà del VI secolo .
Quanto alla funzione, le caratteristiche di isolamento su uno sperone roccioso, le dimensioni tanto modeste da poter ospitare e altresì essere difeso da poche persone e, per contrasto, la buona qualità delle murature suggeriscono, pur con la cautela dettata dall'assenza di scavi, di interpretarlo, analogamente a quelli liguri, come postazione difensiva di tipo militare, presumibilmente collegata ai grandi castra, ubicati in posizioni meno impervie. GIAN PIETRO BROGIOLO
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La Liguria
1. Introduzione Le indagini e le ricerche archeologiche in Liguria, relative al periodo altomedievale, si sono particolarmente svilUppate durante l'ultimo trentennio quando ha inizio a prendere campo il concetto d'archeologia globale del territorio. Ricerche promosse e condotte dall'Istituto per la Storia della Cultura Materiale per quanto riguarda la Liguria di Levante; mentre l'Istituto di Studi Liguri ha sviluppato la sua attività nel Ponente ligure. Invece lo studio e la ricerca impostati su di una archeologia globale del territorio (MANNONI etal. 1988) ha interessato solo alcuni specifici comprensori territoriali come la Lunigiana, l'altaVal di Vara, il Genovesato ed il Finalese. Ad esempio nell'area montana collocata alle spalle di Genova è stato possibile puntualizzare ed evidenziare il problema degli insediamenti poveri di età romana e bizantina (MANNONI 1983). Gli studi sull'Altomedioevo, prima delle ricerche archeologiche sistematiche, erano di tipo prevalentemente storiografico. In quest'ambito va ricordata l'opera del Formentini per i ponderosi e validi studi relativi a Genova (FORMENTINI 1941), alla Riviera di Levante e alla Lunigiana. Poche sono state finora le indagini specificatamente programmate per risolvere alcuni aspetti insediativi inerenti il periodo altomedievale. Citiamo come esempi emblematici il caso di Sant'Antonino di Perti e del territorio di Filattiera in Lunigiana. Ulteriori progressi si sono registrati, in questi ultimi anni, per quanto riguarda lo studio delle città, grazie ad alcuni scavi globali in siti urbani pluristratifcati che hanno interessato in maniera particolare le città di Albenga, Savona, Genova e Luni. Parallelamente alle ricerche archeologiche si è sviluppato lo studio dei materiali ceramici da scavo. Un particolare riguardo è stato rivolto allo studio dei contenitori provenienti dall'Africa Nord-Occidentale e dal Mediterraneo Orientale (LUSUARDI SIENA-MURIALDO 1991) e delle ceramiche invetriate tardoantiche ed altomedievali (AA.VV. 1990, pp. 75-116). Gli studi e le ricerche relative alla distribuzione e diffusione della pietra ollare hanno permesso di stabilire i contatti commerciali avvenuti fra la Liguria e le regioni interne (Alpi centrali e centro-orientali). I risultati di queste ricerche sono stati illustrati nel Convegno del 1985 svoltosi a Finale Ligure (AA.VV.1986). Nell'intervento proposto nel corso del Convegno di Siena e nel presente testo abbiamo ritenuto opportuno di suddividere la Liguria, oggetto di questa sintesi, in due aree distinte: una orientale, da Genova alla Lunigiana compresa, l'altra occidentale che si estende dal Genovesato fino a Ventimiglia. La scelta è stata dettata da una serie di differenze che distinguono le due aree. Ad esempio per quanto riguarda la produzione della ceramica, la Liguria di levante è caratterizzata dalle ceramiche ad impasto vacuolare, che sono assai diverse da quanto prodotto a Vado Ligure e a Ventimiglia. Un'altra differenza da notare è quella dovuta al fatto che l'area di Levante è da considerarsi come zona di transito. Gli insediamenti fortificati erano in funzione del controllo delle vie e dei passi stradali che dalla pianura padana portavano all'Italia centrale. Nella zona di ponente, che ha maggiori riscontri con la situazione della Provenza, gli insediamenti fortificati del periodo tardoantico ed altomedievale sono collocati in posizione di mezza costa 0 con carattere prevalentemente costiero. Hanno, comunque, come nel caso del castello di S. Antonino di Perti, una funzione di epicentro di controllo del comprensorio territoriale a cui fanno capo. Gli studi sul problema dell'incastellamento in Liguria hanno avuto, in quest'ultimo periodo, un particolare sviluppo (MANNONI 1984, 1986; MANNONI-MURIALDO 1990).
Un particolare fenomeno insediativo che interessa essenzialmente il Ponente ligure, in special modo il Finalese, è quello dell'occupazione delle grotte e dei ripari sottoroccia durante il periodo tardoantico ed altomedievale. Le ricerche su questo particolare fenomeno insediativo sono ancora in una fase iniziale di studio. 2. La Liguria di Levante Con le ricerche condotte negli ultimi vent'anni, nell'area appenninica di levante e nella vicina Lunigiana, si è avuta l'opportunità di scavare una serie di siti fortificati databili fra il periodo tardoantico e quello altomedievale. Il sito fortificato del Monte Castellaro, a 945 m. di quota, nel comune di Zignago (Prov. di La Spezia), era costituito da una torre quadrangolare protetta sul versante più accessibile da una doppia cortina muraria. Nonostante la scarsità dei reperti mobiliari è possibile una datazione fra la fine del VI ed il VII secolo. La fortificazione era in grado di controllare una delle principale vie di crinale che dalla Val di laro attraverso il territorio dello Zignago Genova nella Riviera di Levante (FERRANDO et al. 1978). Allo stesso apparato difensivo appartengono i resti murari individuati nel vicino Monte Castellaro di Vezzola. A Filattiera in Lunigiana sulla collina di Castelvecchio, soprastante la pieve di Sorano e l'antico tracciato stradale Luni-Parma, è stato scavato un probabile campo trincerato, con strutture lignee, di circa 800 mg., a doppio vallo, posto a protezione del sottostante abitato datato fra il IV e il VI secolo (CABONA et al. 1984)~. Attualmente le ricerche condotte dall'ISCUM si stanno concentrando sul Monte Castello (m.875 d'altitudine, sempre in comune di Filattiera - Massa Carrara), che pare proprio configurarsi come un importante sito fortificato d'altura. Le fasi più antiche sono riferibili all'età tardoantica e altomedievale. A quest'ultimo periodo è assegnabile una cinta in grossi conci, la cui lunghezza individuata è di m. 100, mentre la larghezza è di m. 50. L'insediamento doveva avere funzioni strategiche di più ampio raggio e va collegato con il campo trincerato di Castelvecchio. Lo scavo, pur svolgendosi fra le difficoltà imposte dal luogo impervio e la scarsità di elementi utili per la datazione, ha permesso il riconoscimento di importanti elementi strutturali, sia per quanto concerne la cinta, che per le sistemazioni interne2. Per il tipo di posizione e per lo sviluppo e l'articolazione dei suoi elementi strutturali, nell'insediamento di Monte Castello si riscontrano strette analogie con quello di Monte Barro nei pressi di Lecco (AA.VV. 1991). Gli insediamenti fortificati scavati finora in Lunigiana rientrano nelle ampie problematiche della difesa e del controllo del territorio, che si evidenziano particolarmente durante il periodo della dominazione bizantina (CHRISTIE 1989, pp. 31-37). Sempre in Lunigiana sono da ricordare gli insediamenti a carattere rurale di Gronda e di Codiponte, anche se quest'ultimo caso è da collegarsi al tracciato viario che da Luni portava fino a Reggio. Si tratta di un abitato di fondovalle, posto vicino alla Pieve dei SS. Cornelio e Cipriano, dove è stato possibile individuare quattro fasi insediative che dall'Età del Ferro vanno fino al Medioevo (GARDINI 1983). Il villaggio di Gronda con resti di capanne a forma quadrangolare, costituite da muretti a secco e pavimento in terra battuta, è databile fra il IV-VI secolo (DAVITE 1988). Il villaggio è da inserire nella categoria dei siti rurali minori e trova confronti con gli abitanti tardoantichi posti alle spalle di Genova, come il villaggio di case in legno di Savignone (FOSSATI et al. 1976). È da osservare che negli ultimi anni le ricerche indirizzate allo studio degli abitanti rurali dell'area appenninica hanno subito un notevole rallentamento. La fascia di territorio compresa fra Genova e la Lunigiana ha finora restituito, soprattutto a causa della carenza di ricerche programmate, scarsi elementi per lo studio del popolamento e degli insediamenti fra il periodo tardoantico e quello medievale. Nell'ultimo decennio la Soprintendenza Archeologica ha orientato la ricerca su una serie di siti per verificare l'origine di alcuni particolari impianti monastici. Le indagini hanno interessato: le isole del Tino e del Tinetto all'imboccatura del golfo di La Spezia; I'abbazia di S. Fruttuoso di Capodimonte
situata sul promontorio di Portofino. Gli insediamenti in questione erano sede d'importanti complessi monastici benedettini che hanno avuto una grande importanza ed espansione a partire fra la f~ne del X- inizi dell'XI secolo. Le ricerche sulle isole del Tino e del Tinetto, precedute da una rilettura dei vecchi scavi compiuti negli anni cinquanta e sessanta, hanno evidenziato la presenza di edifici religiosi fra i più antichi di tutta la Liguria e in probabile connessione con il fenomeno del primo monachesimo insulare (FRONDONJ 1990). Gli scavi compiuti nella metà degli anni '80, durante i restauri dell'abbazia di S. Fruttuoso di Capodimonte posta al centro del promontorio di Portofino, hanno permesso di stabilire una prima frequentazione del sito nel corso del VI secolo per la presenza di anforacci e di ceramiche fini d'importazione africana (GARDINl 1990a). All'interno della chiesa è stato possibile mettere in luce alcuni resti murari appartenenti ad un edificio anteriore al primitivo impianto che risale alla fine del X - inizi XI secolo. Non vi sono, allo stato attuale delle ricerche, elementi che permettono di assegnare tali resti ad una precedente chiesa altomedievale. Di notevole interesse sono, invece, un fregio e due transenne in stucco di tradizione ancora altomedievale, ma appartenenti alla fase preromanica della chiesa (GARDINI 1991b). Resti di una chiesa assegnabile al periodo altomedievale sono emersi dagli scavi della chiesa di S. Maria di Vezzano (La Spezia) (FRONDONI 1990b). Le indagini archeologiche nelle città di Luni e di Genova hanno consentito di acquisire importanti e notevoli informazioni per lo studio dell'evoluzione della loro struttura urbana, durante l'epoca romana e medievale. I dati relativi alla fase altomedievale delle città di Luni sono in gran parte già noti e pubblicati e più riprese da Bryan Ward-Perkins. Mentre a Silvia Lusuardi Siena si deve lo studio approfondito concernente il problematico scavo della cattedrale di S. Maria che ne ha permesso di comprenderne l'origine e lo sviluppo attraverso i vari periodi della storia della città. Gli scavi svolti negli ultimi anni, ma tuttora inediti, pare non abbiamo apportato sostanziali novità rispetto a quanto già si conosce delle città altomedievale (AA.VV.1973; AA.VV. 1977). E attualmente in corso una revisione critica degli scavi degli anni passati riguardanti le fasi della città altomedievale. I dati più interessanti emersi dalle passate campagne di scavo sono quelli relativi alla presenza di case lignee, nell'area del Foro, piuttosto povere, costruite fra la fine del VI e la metà del VII secolo, da mettere in relazione al periodo della dominazione bizantina della Liguria (WARD PERKINS 1981). Per il periodo compreso fra il VI e X secolo gli scavi hanno restituito: resti d'abitazioni, buche per i rif~uti, pozzi e sepolture che offrono ulteriori indizi sulla struttura e le condizioni di vita della città. Per quanto concerne il problema dei sepolcreti, oltre a quelli presenti intorno alle chiese, altri se ne trovano all'interno dell'abitato: tombe sparse o piccoli gruppi da tre a quindici sepolture. Importanti e notevoli risultati hanno restituito gli scavi sistematici della cattedrale di Luni. Le ricerche hanno permesso d'individuare le varie fasi costruttive dell'edificio religioso la cui prima costruzione fu eretta, probabilmente agli inizi del V secolo, sui resti di un edifcio romano. La chiesa fu costruita in età bizantina (metà VI secolo) e radicalmente ristrutturata in età carolingia (fine VII inizo IX secolo), periodo a cui viene fatta risalire la torre campanaria. Sono archeologicamente documentate la fase preromanica e romanica dell’edificio (LUSUARDI SJENA 1985, 1989). Fino a non molti anni fa, nonostante il notevole sviluppo avuto dall'archeologia urbana (GARDINl-MILANESE 1979), i dati relativi alla storia della città di Genova, per il periodo tardoantico ed altomedievale, erano scarsi e frammentari. L'intensa attività edilizia ed in conseguenza le relative operazioni di scavo, che hanno caratterizzato la città negli ultimi sette-otto anni, concentrate in alcune determinate aree del Centro Storico, hanno reso possibile reperire una nuova serie di dati ed importanti informazioni per lo studio della città altomedievale (Fig.2). Le ricerche archeologiche in zone come quelle delle Scuole Pie, del Chiostro dei Canonici di S. Lorenzo, dei Mattoni Rossi, di Piazza Cavour, di Piazza Banchi e dell'antico Porto si sono rilevate di notevole importanza per la comprensione dello sviluppo della città in età romana e medievale4. Bisogna tenere anche in considerazione il fatto che molti di questi scavi sono da poco tempo terminati
o in corso di studio e di scavo, per cui risulta difficile, al momento, delineare una precisa fisionomia della città in epoca altomedievale. Resti relativi a edifici d'abitazione con strutture in muri a secco, con probabile alzato in legno e suoli d'uso in terra battuta, sono stati individuati in vari punti della città: a Piazza Matteotti (MELLI 1 990a); nel chiostro del Canonici 4 Le indagini archeologiche condotte dalla Soprintendenza Archeologica della Liguria sotto la direzione della Dott.ssa Piera Melli, sono attualmente in corso di studio o ancora in corso di scavo come nel caso dell'area di S. Donato-Piazza delle Erbe. Ringrazio Piera Melli per avermi fornito i dati relativi agli scavi det chiostro di S. Lorenzo e dell'area dei Mattoni Rossi. di S. Lorenzo (MELLI 1990b); alle Scuole Pie (MELLI 1990c) e ai Mattoni Rossi (MELLI 1992). Per quanto concerne il problema inerente le necropoli fra il periodo tardoantico e altomedievale una prima puntuale sintesi è stata presentata di recente (GARDINI-MELLI 1988). Nuovi dati sono forniti dalla presenza di piccoli nuclei di sepolture poste in aree interne all'abitato come quelle scavate nell'isolato dei Mattoni Rossi posto in prossimità del porto antico, e quelle trovate nel chiostro dei canonici di S. Lorenzo in prossimità dell'antica cattedrale (GAMBARo-LAMBERT 1987; MELLI 1990b) (Fig. 3). L'altura di S. Lorenzo con l'antica cattedrale e il vicino colle di S. Andrea con l'attestazione della chiesa di S. Ambrogio, nella cui area detta del "Brolio" si rifugiarono i profughi milanesi sfuggiti ai Longobardi, risultano i centri del potere religioso durante l'altomedioevo. È in queste aree che si ha la maggiore concentrazione di testimonianze archeologiche relative alla fase altomedioevale della città, come i resti d'abitazione, le rilevanti stratigraf~e e i sepolcreti. Sull'antico colle di Castello recenti scavi, svolti in concomitanza con i lavori di edificazione della nuova Facoltà di Architettura, hanno permesso di meglio definire l'estensione del sepolcreto altomedievale (GARDINI-MELLI 1988, pp.173-177) e della sua relazione con la cinta difensiva (IX - prima metà X secolo) legata all'insediamento del Castello vescovile che si sviluppa con mastio, chiesa e torri successivamente alla prima cinta sunnominata (FOSSATI GARDINI 1976). Per quanto riguarda lo studio dei materiali di scavo è interessante osservare che l'importazione delle anfore a Genova, fino alla metà del VII secolo, presenta lo stesso tipo di situazione attestata a Luni con prevalenza dei materiali provenienti dalle regioni del Nord Africa. ALEXANDRE GARDINI 3. Liuria di Ponente La concezione stratigrafica dell'archeologia trovò in Italia una prima sistematica applicazione negli scavi condotti da Nino Lamboglia a Ventimiglia nel 1938-1940 e, nei decenni successivi, in altri siti urbani ed extraurbani del Ponente Ligure. Questo innovativo sistema di scavo mise pienamente in evidenza le potenzialità del nuovo approccio metodologico nell'interpretazione diacronica di siti multi stratificati, attraverso una indagine comprensiva, su un piano paritetico, dei livelli successivi alle fasi classiche, che si spingeva fino alle sovrapposizioni più recenti e si integrava con l"'archeologia del sopravvissuto" (LAMBOGLIA 1955)S. Dall'intensa attività di scavo del Lamboglia scaturirono basilari e precoci apporti sull'evoluzione di alcuni insediamenti romani nel periodo tardo-antico e altomedievale in Liguria e furono poste le premesse per lo sviluppo dell'archeologia medievale italiana. I risultati allora ottenuti non furono peraltro seguiti, negli anni successivi, da una puntuale opera di revisione e di integrazione sulla base delle più recenti acquisizioni, per cui attualmente in ambito locale è particolarmente avvertita la necessità di un aggiornamento delle sequenze cronologiche allora definite, attraverso moderne edizioni dei dati di scavo.
Questo processo di revisione dovrebbe essere particolarmente indirizzato alla ridefinizione delle fasi tardo-antiche ed altomedievali dei tre principali centri urbani municipali della Liguria di Ponente: Albintimiliam (Ventimiglia), Albingaunam (Albenga) e Vada Sabatia (Vado Ligure) (Fig. 1). Per Ventimiglia, soprattutto per quanto riguarda le fasi repubblicane e di età imperiale, rimangono basilari i contributi del Lamboglia (1956), recentemente oggetto di una messa a punto topografica (PALLARÉS 1985-87) (Fig. 4). Negli ultimi anni, in funzione dello studio di classi di materiali specifiche come la Terra Sigillata Africana (TSA) di tipo D (GANDOLFI 1981), la pietra ollare (GANDOLFI 1986) e la ceramica comune (OLCESE 1989), è stata rielaborata una datazione aggiornata per lo strato I, a sua volta suddiviso in distinti livelli con l'individuazione degli strati IA-C, nell'area del teatro, ed IA, nelle altre zone, datati al VI-VII secolo. Al VI secolo sono stati attribuiti i livelli ID del pulpitum del teatro e quelli IB-D nelle altre aree. Le stratiflcazioni formatesi tra la metà del V e gli inizi del VI secolo si sovrappongono allo strato II di seconda metà del IV-V secolo (GANDOLFI 1981, 1986). Se per Ventimiglia la sequenza cronologica tardo-antica della città appare sufficientemente definita, ancora notevoli incertezze, legate in certa misura alla mancanza di pubblicazioni sistematiche dei dati di scavo, non consentono di comprendere in modo dettagliato i fenomeni che portarono all'abbandono della città romana ed al suo spostamento in altura nella sede della città medievale, avvenuto tra il periodo bizantino e l'età longobardo-franca. La stratigrafla dell'area occupata dalle ir~s~lae VI e VII, a sud del decumano massimo, è particolarmente significativa per queste fasi e conferma il mantenimento in funzione ed il riuso delle case private, dopo la formazione di uno strato datato alla metà del V secolo caratterizzato da elementi di crollo (strato IIA), sul quale si sovrappose un livello di V - inizi VI secolo con ceneri e carboni (strato IC) (PALLARÉS 1984). Le murature delle abitazioni tardo-imperiali furono integrate nel periodo bizantino da paratie costruite con ciottoli fluviali legati da argilla, in una sorta di imitazione dell'opas spicatam, mentre, sulla base dell'apparente involuzione della tecnica edilizia, al VII ed VIII secolo sono stati attribuiti semplici murature in grossi ciottoli legati da terra, talora rifınite superiormente con argilla pressata ed intonacata (PALLARÉS 1986). Sui livelli di deposito formatisi sul decumano si sovrapposero nuove demarcazioni delle proprietà private e sepolture con delimitazione in pietre o entro laterizi datate al VI-VII secolo, espressione di variazioni della viabilità interna della città e del dissesto nel mantenimento degli spazi pubblici (PALLARÉS 1988). L'area a sud del decumano massimo fu infıne interessata da attività agricole corrispondenti ad un livello di humus medievale, con tracce di aratura sulla superfıcie dello strato I e la rasatura delle emergenze murarie (PALLARÉS 1984). Anche il teatro, costruito tra la fıne del II e gli inizi del III secolo d.C. nell'angolo nord-occidentale della cinta muraria, fu oggetto di una spogliazione delle decorazioni e di un intenso riuso a verosimile scopo abitativo. La parodos di levante fu tramezzata con muretti a secco impostati su diversi livelli, costituitisi tra gli inizi del V ed il VII secolo. Sui gradini del teatro già il Barocelli nel 1917-18 aveva scoperto alcune sepolture a varie altezze, datate all'età bizantina ed altomedievale, parzialmente ricavate in una grande duna di sabbia eolica di formazione naturale. L'area del teatro sembra comunque costituire uno dei poli, se non il principale polo della città altomedievale. L'analisi della provenienza di reperti in pietra ollare, che a Ventimiglia compare a partire dal IV secolo con una incidenza superiore al 90% nello strato I, ha infatti dimostrato come quasi il 50% dei frammenti provenga dall'area del teatro, mentre le presenze sono nettamente inferiori nelle altre zone scavate (GANDOLFI 1986). Una sequenza per molti versi analoga a quella di All~ir~imiliam presenta Vada Sabatia. Questa città, fınora oggetto di un singolo scavo sistematico in una parteprobabilmente marginale dell'areaurbana, sorse danniniziale insediamento di età repubblicana, tra il II ed il I secolo a.C., ma si sviluppò soprattutto a partire dall'età augustea, quando si venne a trovare nel punto di sbocco sulla costa della via Aemilia Scauri, successivamente divenuta la via Jalia Augusta, che collegava Piacenza e Tortona alla Narbonense (LAMBOGLIA 1955a). Le vicende degli edifici privati della prima età imperiale scavati dal Lamboglia dopo il 1953 nelle vicinanze della chiesa di S.Giovanni Battista presentano molti punti di contatto con quanto registrato in altri centri urbani liguri. Anche in questo caso si
osserva una improvvisa distruzione avvenuta tra IV e V secolo, con un soprallivellamento dei suoli all'interno dei vani abitativi, un successivo e definitivo abbandono degli edifıci in uso in età imperiale ed infıne la sovrapposizione di uno strato di deposito naturale, nel cui contesto vennero ricavate sepolture, alcune entro sarcofagi in pietra del Finale, di età altomedievale, La presenza di questo sepolcreto impiantato sul sito precedentemente occupato da domus private è probabilmente da mettere in relazione con la costituzione di un polo ecclesiastico, sorto in posizione marginale rispetto al verosimile epicentro della città romana. Il ridimensionamento della viabilità romana ad ampio raggio, in favore di collegamenti viari della costa con le regioni padane frazionati lungo le principali valli di comunicazione attraverso l'entroterra ligure e quello piemontese, costituì un pesante contraccolpo sull'economia di Vado e sulla sua stessa ragione d'essere. Peraltro, I'elevata incidenza negli strati tardo-antichi di ceramica narbonese decorata a stampigliature e di TSA induce ad ipotizzare il mantenimento di intensi rapporti commerciali con la Provenza ed il Nordafrica ancora nel V-VI secolo. Inoltre, anche a Vado, così come documentato a Ventimiglia per la produzione di ceramica comune locale (OLCESE 1989; 1993), è stata individuata una manifattura di ceramica invetriata, che rimase attiva per lo meno fino al VII secolo (LAVAGNA-VARALDO 1992). Vado divenne tardivamente sede episcopale, forse in età longobarda, con una sicura attestazione solo per l'età franca, quando è menzionato il vescovo Stadelberto nell' 864 (FERRETTI 1985)~. Dopo una incerta fase di transizione, sulla base della documentazione pervenutaci, tra la fine del X e gli inizi dell'XI secolo la sede vescovile venne defınitivamente trasferita a Savona (VARALDO 1992). Le vicende di Vado altomedievale, con la presenza episcopale nel IX e X secolo e l'esistenza di un comitato vadense ancora nel 1004, si presentano comunque sicuramente più complesse rispetto al semplice bipolarismo con la vicina Savona fınora prospettato dalla storiografıa locale, che vedrebbe l'abbandono dell'emporio romano in favore dello sviluppo del castrum sull'altura del Priamàr. Diversamente da quanto avvenne per Ventimiglia e Vado, Albenga mantenne inalterati fino al medioevo ed all'età moderna i propri connotati urbani entro il perimetro delle mura repubblicane, ricostruite intorno al 415 dal generale Costanzo (LAMBOGLIA 1933, 1970; SPADEA NOVIERO 1987)~. Oltre che sulla conservazione di resti monumentali appartenenti a questo periodo, ed in primo luogo del battistero accanto alla cattedrale di S. Michele al centro della città romana (MARCENARO 1993) e dei complessi ecclesiastici suburbani, dati sulla trasformazione del tessuto urbano derivano dagli scavi condotti nel 195556 in due aree periferiche, contigue alle mura, lo scavo dell'Ospedale e lo scavo Vaccari (LAMBOGLIA 1970). Ad essi si è aggiunto un più recente intervento nel cortile del palazzo del Vescovo, ad opera della Soprintendenza Archeologica della Liguria (BRUNO 1987) (Fig. 4). Anche ad Albenga è stata documentata una distruzione degli edifıci di età imperiale tra la fıne del IV e gli inizi del V secolo, per la quale può essere prospettata una connessione con eventi naturali sismici in considerazione della sistematicità del dato su scala regionale. Seguì una ricostruzione in rapporto con gli interventi pubblici sulla città nel secondo decennio del V secolo ed una successiva fase involutiva del tessuto urbano, caratterizzata dalla sovrapposizione di livelli alluvionali con probabili case di legno su zoccolo in pietra e la formazione di dark layers altomedievali, incontrati sia nelle aree periferiche che nell'area centrale del palazzo vescovile. Le motivazioni che hanno condotto alla sopravvivenza di Albenga attraverso l'età tardo-antica ed altomedievale, contrariamente a quanto avvenne per altre città romane del Ponente Ligure, devono essere ancora defınite e sviluppate. Sicuramente su questo processo incisero fattori di ordine generale con il conseguente ridimensionamento degli insediamenti urbani dopo le invasioni germaniche degli inizi del V secolo, mantenutosi nel successivo riassetto politico e strategico goto-bizantino. Non si può peraltro escludere che la scelta di Albenga quale polo amministrativo civile e militare nel Ponente Ligure da parte di Costanzo possa essere l'espressione di una scelta politica preordinata avvenuta a discapito delle altre sedi municipali, con un accentramento nella città delle gerarchie superiori ed il mantenimento di una classe sociale di rango elevato in età bizantina, documentata dalla presenza in loco del comes ettruaras Tsittarus nel 568. La costruzione nel suburbio di grandi complessi
ecclesiastici con funzioni cimiteriali, quali quello di S. Calocero (PERGOLA 1987, 1990) ed in minor misura quello di S.Vittore, può essere considerata come la tangibile espressione delle diverse esigenze sepolcrali, e quindi dell'esistenza stessa di una stratifıcazione sociale complessa, con la presenza di un ceto direzionale privilegiato. Un altro aspetto che deve essere considerato per Albenga è la precoce attestazione vescovile, a partire almeno dal V secolo, con il vescovo Quinto documentato nel 451. La fıgura del vescovo può quindi venire a costituire, accanto alla pianifıcazione preordinata da parte dell'autorità centrale, la seconda fondamentale determinante della continuazione della città nella sua primitiva sede d'impianto. I termini del rapporto tra sopravvivenza urbana ed organizzazione ecclesiastica potrebbero quindi essere intesi non solo nel senso di una città che mantenne i suoi connotati e quindi divenne sede episcopale, ma piuttosto nel senso di una città che trovò un elemento di riorganizzazione, anche urbanistica, e di sopravvivenza proprio nella presenza vescovile, accanto all'ordinamento amministrativo e militare centralizzato. All'interpretazione del quadro generale e ad una rilettura dell'evoluzione dei centri urbani possono portare ulteriori elementi i più recenti dati ottenuti sul processo di incastellamento della Liguria di Ponente in età tardo-antica. All'argomento sono state dedicate alcune revisioni su base regionale (MANNONIMURIALDO 1990) o comprensoriale (MURIALDO 1992; S. Antor~ir~o 1992). La problematica ha trovato inoltre ampio spazio in importanti contributi sulla Liguria bizantina da parte di Neil Christie (1989, 1990). La concezione strategica che portò alla costruzione di un sistema fortifıcato nel Ponente Ligure in età tardo-antica può essere ridefınita sulla base dei dati desunti da più o meno sistematiche ricerche in castra tardo-antichi, ed in particolare in quelli per i quali sono state effettUate indagini archeologiche come Campomarzio, in Valle Argentina (LAMBOGLIA 1950,1951), S. Donato, presso Varazze e soprattutto S. Antonino, nell'entroterra finalese (S. Artonino 1983,1984,1988,199?). Questi castra furono infatti costruiti in posizioni intermedie tra lo spartiacque e la costa, nei casi di Campomarzio e di S. Donato su rilievi naturali di fondovalle in corrispondenza di un'ansa fluviale, su una ripida altura calcarea posta tra due importanti accessi vallivi al litorale nel caso di S. Antonino. La loro collocazione evidenzia quindi una funzione di controllo e sbarramento di potenziali direttive di passaggio verso i centri litoranei dal retroterra alpino appenninico, lungo sistemi vallivi aperti sul versante litoraneo. Sulla base degli esempi attualmente disponibili, questo sistema difensivo non appare peraltro interpretabile nel senso di un limes, posto a protezione di una linea di frontiera, quanto piuttosto quale espressione di una concezione strategica basata sulla difesa lungo possibili vie di penetrazione, in posizione arretrata rispetto al confine naturale. Piuttosto ehe coincidenti con un fronte esterno, questi castra sono collocati in immediato rapporto con gli abitati litoranei o con centri rurali di mezzacosta, quali epicentri fortificati nell'ambito stesso del comprensorio territoriale. La mancata evidenziazione di un sistema di difesa continuo lungo una ipotetica frontiera tra le regioni padane e la Liguria litoranea impone quindi anche il problema dell'esistenza nell'ultimo trentennio del VI secolo e fino al 643 di una demarcazione precisa tra 1'area litoranea mantenutasi sotto 1'influenza romano-bizantina e l'insediamento longobardo nell'oltregiogo. La defınizione di un confıne tra le due aree geografıche appare costituire un falso problema storico, in quanto una vera "frontiera" probabilmente non si realizzò mai. L'elevata incidenza e la capillare distribuzione tra VI e VII sec. nei siti urbani, fortificati o rurali della Liguria di Ponente di prodotti di attività su base semiindustriale sviluppatesi nell'area alpina nord-occidentale e centrale, quali la pietra ollare- soprattutto valdostana-ed in minore misura la ceramica invetriata, con il recente rinvenimento di ceramica tipicamente longobarda nel castram romano di S. Antonino, inducono a ritenere come ci si trovi di fronte ad una demarcazione estremamente permeabile a transiti commerciali, anche su relativamente grande scala (MURIALDO et al. 1986; S. 4Ht6HiHo 1992)9. Queste considerazioni non devono peraltro essere intese in senso diminutivo verso l'effıcacia strategica dell'apparato militare di difesa della Liguria bizantina, che nella realtà seppe fronteggiare validamente la pressione germanica, fino all'occupazione di Rotari nel 643.
Il permanere della Liguria nell'area d'influenza bizantina non può peraltro essere spiegato solo sulla base del suo assetto fortifıcato e sulla presumibile presenza di guarnigioni militari (CHRISTIE 1990). La politica di Costantinopoli fu molto attenta al mantenimento del dominio sull'area tirrenica, imperniato sul controllo della Corsica e della Sardegna, che accanto alla Sicilia ed all'Italia Meridionale costituirono il trait-d’union con il Mediterraneo centrale ed orientale. Elemento di non secondaria importanza è quindi costituito dall'intenso interscambio economico con altre aree dell'Impero, in particolare con quelle africane. I dati archeologici, quali quelli desunti da centri urbani e soprattutto dall'omogeneo contesto di VI e VII secolo del castrum di S. Antonino, accanto al consistente arrivo nel VII secolo di sigillate e ceramiche comuni tunisine, dimostrano l'elevata incidenza di anfore africane, che raggiunge circa il 75% degli apporti fıno agli inizi del VII secolo, con sporadiche attestazioni dal Mediterraneo orientale, secondo proporzioni che presentano strette analogie con siti coevi della Francia meridionale (S. AHtoHiHo 1988,1992; LUSUARDIMURIALDO-SFRECOLA 1991; BONIFAY 1986; BONIFAY-VILLEDIEU 1989). A S. Antonino, il mantenimento di rapporti commerciali ancora nel VII secolo con altre regioni dell'Impero è testimoniato dalla comparsa di nuovi tipi di contenitori da trasporto, come le anfore a fondo umbonato, prodotte nel Nordafrica e probabilmente anche in altri centri mediorientali, e le anfore globulari provenienti dall'area Egea e del Mar Nero (S. AHt6HiHo' 1992) (Fig. 5). Queste ultime trovano stretti confronti con tipi attestati nello scavo di Sarachane ed in altri siti orientali (HAYES 1992), recentemente individuati anche a Roma (PAROLI 1992) ed Otranto (ARTHUR et al. 1992) in contesti di VII e soprattutto di VIII secolo. Per i castra del sistema difensivo bizantino mancano evidenze di distruzione violenta, pur registrandosi nelle fasi altomedievali una apparente contrazione della loro funzione insediativa, sulla quale probabilmente incise la cessazione degli apporti commerciali esterni e le diffıcoltà di una precisa individuazione per la rarefazione di "indicatori" archeologici utilizzabili per il precedente periodo. Dopo una fase altomedievale e proto-fendale caratterizzate da una sostanziale continuità d'uso, essi andarono incontro ad un rapido fenomeno di decastellamento tra il X ed il XIII secolo. Campomarzio è ancora citato in una fonte scritta nel 979, mentre il ruolo di S. Antonino nel Finale conobbe un drastico ridimensionamento con il riassetto marchionale del territorio, tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo (MURIALDO in S. Antonino 1992; MURIALDO 1992). La carta distributiva dei siti di questo periodo scavati in Liguria dimostra una netta concentrazione nell'area fınalese (Fig. 6), nella quale, dopo i fondamentali contributi del Lamboglia, in anni recenti si sono concentrate numerose indagini da parte della locale sezione dell'Istituto di Studi Liguri e della Soprintendenza Archeologica della Liguria. Queste ricerche hanno consentito di defınire un modello insediativo basato sulla presenza sincronica di insediamenti di diversa natura, in differente rapporto con la costa, disposti a vari livelli altimetrici. Si tratta di un modello che si ritiene possa costituire un esempio di riferimento per altre aree in situazioni geomorfologiche analoghe. Esso comprende un epicentro fortifıcato in altura, sottostanti centri rurali sulle pendici collinari ed aggregati abitativi nelle piane alluvionali litoranee, sedi delle iniziali chiese battesimali. Il sistema è integrato da rilievi o promontori costieri fortifıcati, in genere in rapporto con approdi naturali. Nel Finale, sulle alture che si interpongono tra l'epicentro fortificato di S. Antonino e la costa, presentano evidenze archeologiche per l'età tardo-antica ed altomedievale almeno due centri rurali, Perti e Calvisio, con una continuità insediativa ininterrotta almeno dall'età romana. Perti, su una posizione di crinale in diretto rapporto con il castellaro del Villaggio delle Anime dell'età del ferro e con il castrHm di S.Antonino, è posta lungo una direttiva di transito che collegava la costa con le Valli del Bormida e le Langhe (LAMBOGLIA 1952,1957; MURIALDO SCARRONE 1983). La sua funzione commerciale è già attestata da monete puniche del IV-III sec. a.C. e da monete in argento e bronzo di età repubblicana. Sul substrato ligure autoctono si innestò la fase romana, con un particolare sviluppo nella prima età imperiale. La necropoli rinvenuta nel 1956 è costituita sia da tombe ad incenerizione del I sec. d.C. che da sepolture ad inumazione entro anfore tipo "africano grande" e Dressel 23 della fine del IV sec., e da tombe a tegoloni e terragne, databili tra il V e VII sec., alcune con corredo costituito da un unico oggetto in ceramica comune o grezza, espressione del non
elevato livello socio-economico della comunità locale (LAMBOGLIA 1957; MURTALDO 1988). Il frammento di tegolo ad alette con l'epigrafe sepolcrale di Lucus, datato al 362 sulla base dell'indicazione consolare, venuto alla luce nelle immediate vicinanze della chiesa di S. Eusebio, testimonia la precoce penetrazione cristiana nella zona e l'ipotetica esistenza di un polo cimiteriale contiguo all'area della necropoli, riferibile ad un iniziale luogo di culto o ad una memoria sulla quale si insediò la chiesa di S. Eusebio, con cripta, datata al secondo o terzo decennio dell XI sec. (MURIALDO-SCARRONE 1983). Dalla cripta romanica provengono alcuni coperchi di sarcofagi a doppio spiovente con acroteri angolari, di cui uno decorato da una croce a bracci equilateri e da una astile (MURIALDO-SCARRONE 1983), esempi di una lavorazione della pietra calcarea locale, che in un momento di contrazione della disponibilità di materiali litici pregiati surrogò la funzione del marmo imitando modelli "mediterranei" e fornendo un prodotto destinato ad una committenza locale, in un'area compresa tra Vado Ligure ed Albenga tra il V ed il VII secolo. Una sequenza cronologica analoga a partire dall'età imperiale è stata ottenuta dagli scavi di Alessandra Frondoni nella chiesa di S. Cipriano a (alvisio, toponimo di chiara origine prchiale romana. E.ssa c posta su una pendice collinare nella contigua valle dello Sciusa. Per guesta chiesa sono state individuatc sei fasi costruttive comprese tra il VI cd il XVIII secolo (F[tON-DON 1987,1992).11 primo edificio si sovrappose ad un insediamento abitativo tardoantico, databile sulla basc dei reperti al Vl secolo, con alcuni muretti collegati a livelli d'uso con focolai, rinvenuti in una piccola area tra l'abside semicircolare della chiesa primitiva ed il corrispondente muro perimetrale. All'edificio ecclesiastico iniziale si sostituì una chiesa biabsidata, che nella zona presenta strette analogie con quella monastica dell'isola di Bergeggi, databile al X-XI secolo (FRONDONI 1985), durante la fase 3 allungata in facciata. Nel XIV secolo venne costruita una chiesa ripartita su tre navate, ampiamente modificata nel Seicento. Indipendentemente dalle complesse vicende architcttoniche, sono sicuramente significativi il continuo rinnovarsi dell'edificio religioso sulla stessa sede e l'attestazione di un tit~lH.s, quale quello a S. Cipriano, vescovo cartaginese martirizzato nel 111 sec., che può trovare origine nello stretto legame, anche connesso al culto di santi, tra l'ambiente africano ed il Poncute ligure nel periodo bizantino. 1,'occupazione territoriale nel periodo bizantino ed altomedievale nella zona, anche, o forse soprattutto per quanto riguarda l'organi-zzazione ecclesiastica, rimase incentrata sull'insediamento litoraneo, dove persistette una continuità abitativa allo sbocco costiero della stretta valle del Pora. Durante la fase di romanizzazione della regione le piane alluvionali furono sistematicamente occupate da insediamenti urbani o da insediamenti produttivi basati sul sistema economico della villa o da aggregati abitativi ancora di incerta definizione, come nel caso finalese. Essi conobbero un più radicato sviluppo in età augustea e nei primi decenni dell'Impero, momento nel quale l'apertura della Via Jalia Augusta (14-12 a.C.) pose le condizioni di un definitivo assorbimento della regione nella sfera economica romana. In analogia con quanto rilevato per i più sviluppati e meglio noti contesti urbani, anche per l'edificio della prima età imperiale nell'area contigua alla Pieve di Finalmarina si registra un improvviso ridimensionamento edilizio durante il tardo impero, con la sovrapposizione di livelli alluvionali sulle pavimentazioni all'interno dei vani abitativi. Su di essi si impiantarono in età tardo-antica case di legno con zoccolo in pietre, da porsi in rclazione con la chiesa battesimale, databile alla fine del V o agli inizi del VI secolo sulla base della epigrafe sepolcrale di Paula, datata al 517, e di una sepoltura entro anfora KeayVIIIA, rinvenuta all'interno (CESCH} 1957; LAMBOG j,jA 1956a,1965). La chiesa, in origine monoabsidata, con schala cantoram anteposta all'altare e fonte battesimale a probabile impianto ottagonale addossato alla facciata, sorse in corrispondenza di una necropoli della quale si conoscono solo poche sepolture ad incenerizione o ad inumazione databili tra il II ed il IV-inizi V secolo d.C., poste lungo la strada di fondovalle (PALLARÉS 1965) (Fig. 7). La chiesa venne ricostruita in epoca carolingia e successivamente in età romanica, su impianto triabsidato. Il polo religioso costituisce quindi un elemento aggregatore dell'insediamento abitativo, caratterizzato durante l'altomedioevo da una ulteriore fase con case con perimetrali in pietre a secco,
databili tra VIII e XI secolo, distrutte da un incendio. Lo strato è caratterizzato da residui di Terra Sigillata Italica e di TSA e da una elevata incidenza di ceramica grezza, dal cui studio potranno essere ricavate migliori precisazioni cronologiche. Interessanti analogie con la sequenza stratigrafica della Pieve del Finale sono emerse dai recenti scavi di Alessandra Frondoni presso la chiesa di S. Paragorio a Noli (FRONDONI 1985, 1987a, 1988, 1988a, 1994), dove precedenti indagini dell'Istituto di Studi Liguri avevano messo in luce una chiesa battesimale ad aula unica, datata al VI secolo, in parte sottostante alla chiesa protoromanica, con una contigua area cimiteriale rimasta in uso fino al basso medioevo, comprensiva di tombe ad arcosolio addossate al muro perimetrale (VAVASSORI 1972,1973). I più recenti interventi hanno consentito di precisare la cronologia e diverse fasi d'uso della tomba dalla quale proviene la nota iscrizione della domira Lidoria, sulla base dei caratteri epigrafici attribuibile al VII-VIII secolo, probabilmente di prima metà del VII. Infatti, è stato possibile evidenziare il riuso in questa seconda fase di una sepoltura privilégiata violata in antico, preesistente rispettò alla chiesa battesimale tardo-antica, con una prima fase datata ad un periodo non posteriore alla metà del IV secolo per la presenza di una fiasca vitrea (FRONDONI 1988a), la cui cronologia potrebbe peraltro essere estesa al V secolo. Anche nel caso nolese l'edificio paleocristiano si impiantò su ancora non esattamente definiti livelli di età imperiale. Nell'area prospiciente alla facciata della chiesa battesimale sono inoltre comparse strutture abitative con perimetrali in pietre legate da argilla e suoli in terra battuta, su parte dei quali insiste il fronte della chiesa romanica. I vari ambienti, posti su un lieve pendio naturale più elevato rispetto all'impianto della chiesa primitiva, dimostrano un uso prolungato a partire dalla fine del VIinizi del VII secolo, con evidenti segni di ristrutturazione, rifacimenti e sovrapposizioni dei livelli di calpestio, caratterizzati da numerosi focolai. Uno strato di crollo con travi combusti ha fornito una datazione al C14 alla metà dell'VIII secolo (+l- 120 anni) (FRONDONI 1994). L'area risulta successivamente rioccupata fino al X-inizi dell'XI secolo, periodo dopo il quale l'epicentro abitativo si spostò alle falde del monte Orsino, dove si costituì il borgo murato feudale e, dalla fine del XII secolo, comunale. Anche in questo caso emerge una stretta analogia con quanto riscontrato per la Pieve del Finale, dove all'insediamento altomedievale non succedette una fase abitativa medievale per lo spostamento del polo demografico sulla Ripa Maris. Come già osservato per il castrum di S. Antonino, anche per gli abitati gravitanti intorno alle chiese battesimali la fase altomedievale costituì quindi un momento di transizione caratterizzato da una sostanziale continuità insediativa. Una drastica cesura si registrò solamente in un momento successivo all'XI secolo, nell'ambito di mutati assetti territoriali connessi al radicamento fendale nel territorio o all'evoluzione comunale, con la costituzione di nuovi aggregati abitativi. Nel quadro dell'architettura ecclesiastica tardo-antica in Liguria le Pievi del Finale e di Noli forniscono quindi due esempi di semplici edifici religiosi di fine V- VI secolo, la cui struttura ad aula unica contrasta con i più articolati impianti basilicali coevi, individuati sia in ambiti rurali con funzioni primariamente battesimali e cimiteriali, come nel caso di Capo Don, presso Riva Ligure (PERGOLA et al.1988), che in contesti suburbani, con evidenti funzioni sepolcrali in relazione con ceti privilegiati, come nel caso del complesso di S. Calocero presso Albenga (PERGOLA 1987, 1990). Un punto saliente della strutturazione territoriale nella Liguria bizantina è costituito dalla fortificazione di siti costieri su promontori o alture litoranee. Si tratta di un fenomeno che trova riscontri anche in altre aree dell'Impero bizantino soggette a pressioni militari esterne, come nel caso dell'area microasiatica e di Cipro (BROWN 1978; MEGAW 1988). Per molti casi liguri, le successive sovrapposizioni medievali e la densità degli agglomerati urbani attuali non hanno consentito una evidenziazione delle originarie fasi romane e tardo-antiche, rendendo al momento difficile un riesame sistematico della problematica. Fanno eccezione in questo senso il promontorio di Varigotti, nel Finale, e l'altura del Priamàr a Savona, dove scavi condotti dal Lamboglia negli anni Sessanta sono stati ripresi in estensione in anni recenti da Carlo Varaldo e Rita Lavagna.
Sul capo di Varigotti si conservano i resti di una cinta muraria, della quale sono individuabili alcuni tratti possibilmente riferibili al castrum tardoantico, integrati dalle murature della fortificazione medievale, distrutta nel 1341, quando venne interrato il sottostante porto. Reperti di superficie, inclusivi di due aurei giustinianei, di anfore africane di V-VII secolo, TSA - forme Hayes 91D e 105, Atlante tav. LI.8, pietra ollare valdostana, vasi a catino con cordolo ad impronte ed uno spillone crinale in bronzo, hanno confermato il ruolo nella tarda antichità di questo sito portuale, per il quale era già nota l'esistenza di una necropoli con tombe entro anfore cilindriche africane tarde (MURIALDO 1988; S. Anto?~i7,o 1992). All'insediamento altomedievale è da ricondurre anche la chiesa di S. Lorenzo, che presenta una prima fase con abside rettangolare, dalla quale proviene un sarcofago strigilato in marmo bianco egeo, reimpiegato nell'ultimo quarto del sec. VIII, con un rifacimento della decorazione a croci gigliate entro cerchi viminei intrecciati, attribuita ai cosiddetti lupicidi delle Alpi Marittime (LAMBOGLIA-UGO 1952; FRONDONI 1987b; MURIALDO 1988). A Savona, le recenti ricerche sistematiche sull'altura litoranea di gneiss scistoso circondata da marne alluvionali del Priamàr e nella sottostante contrada di S. Domenico, nell'ambito degli interventi di recupero della fortezza genovese iniziata nel 1542, hanno fornito fondamentali evidenze sulla formazione della città medievale e sulle iniziali fasi di occupazione in età tardo-antica (LAVAGNAVARALDO 1987, VARALDO 1992). . Tra la metà del IV e la metà del VII secolo sulla parte orientale dell'altura del Priamàr, già sede d el l'oppidum ligure, si impiantò una necropoli, che al momento attuale consta di 87 tombe di vario tipo (scavate direttamente nella roccia, con delimitazione in pietra con o senza copertura a lastre, a cappuccina, a cassa in laterizi, entro anfore), allineate in file con orientamento ovest-est e concentrate nell'area della Loggia del Castello Nuovo (LAVAGNA-VARALDO 1988) (Fig. 8). Tra i reperti tombali è attestata una fibula 'legionaria" del tipo III secondo Bohme, databile alla prima metà del V secolo e che finora costituisce un aJzi~~m per la Liguria, oltre a semplici boccali in ceramica comune. Sull'area della necropoli si formarono alcuni livelli stratigraf ci, che denunciano un prolungato abbandono successivo alla probabile distruzione ad opera di Rotari nel 643, riportata dallo Pseudo-Fredegario. Una rioccupazione dell'altura si registrò tra la fine dell'VIII e la prima metà del IX secolo, caratterizzata da semplici strutture in pietre a secco, buche da palo, focolai in livelli con pietra ollare e ceramica grezza, iniziali substrati abitativi del castrum savonese citato nel 887. Ad esso è stato ricondotto un tratto di muratura difensiva nell'ala occidentale della Loggia del Castello Nuovo (LAVAGNAVARALDO 1987). Alla necropoli tardo-antica non corrispondono peraltro, al momento attuale delle ricerche, consistenti strutture edilizie civili o religiose coeve. Esse devono quindi essere ricercate in altre aree, quali quella della cattedrale di S. Maria, dalla quale proviene un frammento di pluteo marmoreo datato alla metà del IX secolo, o sulla contigua dorsale di S. Giorgio, probabile antico nucleo fortificato a protezione della rada portuale, o nella piana alluvionale sottostante. In quest'ultima zona, occupata nel basso medioevo dal complesso conventuale di S. Domenico e da un quartiere produttivo connesso alla concia delle pelli, a oltre 3 metri di profondità dal suolo attuale, è venuta alla luce una muratura in pietrame e calce dello spessore di 160 cm, con un ampio uso della tecnica a spina-pesce nell'ordito, scavata per una lunghezza di circa 17 metri, in connessione con livelli stratigrafici contenenti frammenti di anfore africane. Essa venne rasa ed in parte ricoperta da livelli altomedievali, sui quali si sovrappose un muro di contenimento basso-medievale, al quale corrisponde una fitta stratificazione sul versante rivolto verso la città attuale, con undici livelli datati tra il tardo XII e il XV secolo. Sul versante opposto, verso l'altura del Priamàr, era presente un unico potente strato a lenta crescita, formatosi tra l'età tardoantica e l'altomedioevo, con intromissioni superficiali di reperti di XI-XII secolo. Il rinvenimento di tale struttura muraria anteriore alla fase altomedievale ha indotto ad ipotizzare l'esistenza in età tardo-antica di un nucleo fortificato sul piano sottostante all'altura del Priamàr. Solo la prosecuzione dello scavo potrà fornire ulteriori elementi topografici ed interpretativi sulla consistenza di un probabile abitato difeso da mura in questo periodo. Le anomalie riscontrate nel tessuto urbanistico medievale di questa parte della città potrebbero costituire un ulteriore elemento indicativo dell'esistenza di un iniziale nucleo urbano nella piana alluvionale in età bizantina, in verosimile rapporto con lo scalo portuale (VARALDO 1992).
Un ultimo aspetto saliente dell'archeologia tardo-antica ed altomedievale in Liguria è costituito dalla rioccupazione di caverne, già note per le loro fasi preistoriche. Gli esempi si concentrano nel Finale, con sporadiche attestazioni in Val Maremola, nella Grotta Nera (GARDINI 1987) e, per la Liguria di Levante, in Val Frascarese. Consistenti livelli con materiale tardo-antico ed altomedievale, soprattutto anfore africane del tipo Keay LVA e LXII, pietra ollare, olle foggiate al tornio lento, sono stati rinvenuti nel Finale nella Caverna delle Arene Candide, dove si associano a TSA di VI-VII secolo, dell'Aquila, della Matta, della Pollera, dei Pipistrelli, dei Tre Solai, dell'Aurera, da dove proviene un frammento di forma Hayes 61A(325 ca.-400l420) ed una ciotola stampigliata datata con termoluminescenza al 625 d.C. (+l-130) (MURIALDO et al. 1986; S. Antonino 1992). Si tratta di un fenomeno attestato anche in altre aree dell'arco alpino nordoccidentale italo-francese, nella regione del Giura meridionale (BUISSON 1991) ed in Provenza (GAGNIÉRE 1963; DÉMIANS D ARCHIMBAUD 1972; CONGES et al. 1983). Per esso solo parzialmente possono essere addotte motivazioni di ordine difensivo e di riparo occasionale, anche in considerazione della consistenza dei depositi archeologici. Piuttosto, la rioccupazione di caverne deve essere inquadrata in un processo di riespansione economica in siti di pendice o di altura, che si ricollega alla ripresa su larga scala dello sfruttamento del manto boschivo, anche in relazione con l'economia alimentare, che vede la riaffermazione del ruolo dei suini semiselvatici e dell'allevamento di capro-ovini (Cfr. Giovinazzo, in S. Artonino 1992). In conclusione, le recenti ricerche archeologiche nel Ponente ligure, innestandosi sulle precedenti acquisizioni derivate dall'intensa attività del Lamboglia, consentono attualmente di comprendere nelle sue linee essenziali l'assetto territoriale di questa regione in età tardo-antica, per lo meno fino alla metà del VII secolo. Ne scaturisce un quadro complesso, nel quale si integrano dati ottenuti in contesti urbani e suburbani, religiosi, fortificati e rurali, che richiedono ancora una intensa opera di integrazione per una migliore definizione di aspetti fondamentali quali l'evoluzione insediativa, le tipologie abitative, e soprattutto il substrato socio-economico e culturale. Maggiori incertezze permangono tuttora per quanto riguarda il periodo propriamente altomedievale, anche in considerazione della marcata contrazione degli "indicatori" archeologici utilizzabili e della scarsità delle fonti scritte. La ripresa dello studio di materiali provenienti da siti urbani caratterizzati da una continuità insediativa nell'altomedioevo e dalle aree abitative adiacenti ad edifici religiosi potranno comunque fornire i presupposti conoscitivi per una migliore definizione anche di questo periodo. GIOVANNI MURIALDO
I1 problema della pietra ollare in Liguria è stato sviluppato in una giornata di studio svoltasi a Finale Ligure nel 1985, i cui atti sono stati pubblicati sulla “Rivista di Studi Liguri” Lll, 1986. L'ipotesi, recentemente avanzata, di una via commerciale verso la Liguria per la pietra ollare prodotta nell'area alpina nord-occidentale attraverso la Valle del Rodano, non appare suffragata da una rilevante incidenza di questi manufatti nella Francia Meridionale.11 mantenimento di contatti commerciali diretti tra 1'arco alpino e la Liguria litoranea dopo l'invasione longobarda del 568-570 appare più verosimile per 1'interpretazione delle elevate incidenze e della capillare distribuzione della pietra ollare nella Liguria attuale, dove è stata rinvenuta in quantità signifcative anche in siti "minori" tardo-antichi ed altomedievali. Perti presenta una importante serie di monete bizantine con coniazioni in bronzo di Giustiniano I (527-565), Tiberio II Costantino (578-582), Foca (602-óío), Costante II (64í668). La serie riprende con Romano I (920-944) e con due follis anonimi attribuiti agli ultimi anni di regno di Basilio II (+ 1025) ed a Costantino VIII (1025-1028), rinvenuti nella cripta romanica di S. Eusebio. La monetazione bizantina del castrum di S. Antonino è costituita unicamente da sottonominali in argento (quarti ed ottavi di siliqua), di coniazione ravennate, riferibili a Costantino I o a Giustino II (565-578), a Tiberio II Costantino, a Maurizio Tiberio (582-602), a Foca ed a Eraclio (610-641). La monetazione in bronzo risulta invece basata
sul persistere in circolazione di monete di IV secolo. Interessante la presenza di una lita siracusana in argento, coniata tra il 475 ed il 450 a.C., reintrodotta in circolazione per le sue similitudini con le monete bizantine attestate nello scavo. Antonitto 1988, tav. XVI.1-ó, pp.379-80; 1992, tav. VI.3-7, pp. 319-21). Si ringrazia Alessandra Frondoni per la cortesia e disponibilità con la quale mi ha comunicato i dati riguardanti le più recenti campagne di scavo a Calvisio ed a 5. Paragorio di Noli, i CUi risultati solo attualmente in corso di stampa. '71 risultati ottenuti nelle recenti campagne di scavo nella fortezza del Priamàr e nella sottostante area di S. Domenico sono stati recentemente pubblicati in forma preliminare da C. Varaldo (1992). Nella stesura del testo ci si è avvalsi di questa esaustiva relazione di scavo e della collaborazione diretta dall'A., che si ringrazia. La bibliografia, principalmente incentrata sui contributi più recenti, comprende solo alcuni riferimenti alla vasta produzione del Lamboglia, trascurando le numerose pubblicazioni dedicate alle singole campagne di scavo o ad argomenti metodologici non strettamente attinenti al tema del contributo. involuzione della tecnica edilizia, al VII ed VIII secolo sono stati attribuiti semplici murature in grossi ciottoli legati da terra, talora rifınite superiormente con argilla pressata ed intonacata (PALLARÉS 1986). Sui livelli di deposito formatisi sul decumano si sovrapposero nuove demarcazioni delle proprietà private e sepolture con delimitazione in pietre o entro laterizi datate al VI-VII secolo, espressione di variazioni della viabilità interna della città e del dissesto nel mantenimento degli spazi pubblici (PALLARÉS 1988). L'area a sud del decumano massimo fu infıne interessata da attività agricole corrispondenti ad un livello di humus medievale, con tracce di aratura sulla superfıcie dello strato I e la rasatura delle emergenze murarie (PALLARÉS 1984). 6 Gli scavi condotti dalla Soprintendenza Archeologica della Liguria a S. Pietro di Carpignana, nel suburbio rurale di Vada Sabat~a, hanno dimostrato il graduale interramento di una vasca per il rifornimento idrico di una supposta villa rustica di età imperiale dal IV secolo in un momento coevo con il decadimento della domus urbana. A partire dal IV-V secolo nell'area si sovrappose un sepolcreto, con il riuso di un coperchio in marmo di urna cineraria e di una epigrafe di età imperiale in tombe tardive. La funzione cimiteriale si mantenne fino alla metà del XVII secolo intorno alla chiesa protoromanica costruita nell'XI-XII secolo (MARTINO 1984). 'Per l'incertezza della lettura del testo originario, l'attribuzione alla diocesi di Vado del vescovo Benedetto nel 680 rimane dubbia. Nel capitolare Olonnense del 825, l'ordinamento scolastico imponeva la dipendenza della diocesi vadense da Torino (FERRETTI 1985). Per le problematiche connesse ad Albenga e per i complessi ecclesiastici di S. Calocero e di Capo Don presso Riva Ligure, cfr. il contributo di Philippe Pergola in questi stessi atti e I introduzione dello stesso A. in MARCENARO (1993).
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Etruria, Tuscia, Toscana: la formazione dei paesaggi altomedievali
Premessa Questo contributo, nato dal confronto fra esperienze condotte nella Toscana meridionale nel corso degli ultimi quindici anni, presenta analisi ed elaborazioni di informazioni raccolte in larga misura grazie alla ricognizione di superficie,. Data per scontata la attendibilità del documento di superficie, già dimostrata in altri ambiti di ricerca ed in altre occasioni di incontro, va sottolineata l'importanza della comparazione di contesti regionali, subregionali e territoriali diversi in cui siano stati applicati criteri di indagine analoghi. Sulla base della indispensabile impostazione diacronica, necessaria per fare una corretta archeo-logia dei paesaggi, si è scelto di mettere a frutto competenze specifiche diverse che andavano dallo studio della cultura materiale all'analisi dei documenti, dalla archeologia degli insediamenti romani alla archeologia dei castelli e delle miniere. Coerentemente con questa scelta diacronica, la ricostruzione della formazione del paesaggio altomedievale toscano parte dalle strutture agrarie della tarda antichità e dalla loro dissoluzione, dal loro progressivo assottigliarsi e frantumarsi in pochi e quasi impalpabili segmenti per un tempo di difficile definizione, che potrebbe essere durato fino alla fine del VII come alla metà dell'VIII secolo. È a quel punto, e per diverse tappe f no al IX secolo, che le aree rurali tornarono ad essere bene o male organizzate e sottratte all'incolto con l'emergere delle curtes, vere e proprie emanazioni dei nuovi poteri che andavano costituendosi. L'esito finale del processo (in questa sede appena accennato) è rappresentato dall'assorbimento di queste maglie insediative nei territori dei castelli attestati dalla seconda metà del X secolo, fase che, tanto da un punto di vista documentario, quanto da un punto di vista archeologico, segna la fine dell'altomedioevo. Questo è, in breve, I'assunto principale del contributo. La ricchezza dei documenti archeologici, così come di quelli scritti, è accresciuta dalla stessa intensificazione degli studi. Ripercorrendo le tappe che hanno portato alla redazione di questo scritto, ci si accorge che l'acquisizione delle fasi di VII secolo, a parità e identità di metodo, è tanto più documentata e dettagliata quanto più intensivi sono stati gli studi in merito. Questo può parere ovvio e scontato. In realtà non lo è. La adozione di una critica delle fonti archeologiche particolarmente intensiva è stata infatti resa qui possibile tanto dal confronto di esperienze diverse quanto dal fatto di operare in uno schema di partenza diacronico. Dunque il vedere che i pochi documenti altomedievali si trovavano stretti fra due "moltitudini", una tardoantica ed una tardomedievale, ha in certo senso costretto ad osservare questi "pochi" con particolare attenzione, facendo ricorso ad inquadrature ora più ampie ora più particolari, quasi che si usasse una sorta di zoom concettuale, il più utile degli strumenti metodologici dello storico e dell'archeologo dei paesaggi. A partire dal momento di quella applicazione, dalle scarne fonti archeologiche è cominciata a zampillare la storia altomedievale. Si è tuttavia perfettamente consapevoli del fatto che le conclusioni preliminari esposte in questo lavoro potranno essere confermate soltanto da una serie di approfondimenti consistenti in ricerche particolari e aggiuntive. Per questo motivo si conclude questa premessa con un elenco di ciò che, a nostro parere, resta ancora da fare. Nell'agro rosellano è necessario intensificare la ricerca attorno al lago Prile e a Grosseto, integrando le ricognizioni con ricerche paleoecologiche, e impiantando saggi di ricognizione di raccordo fra Roselle, il lago e Roccastrada. A Siena si sente il bisogno di alcuni saggi di raccordo fra l'area periurbana ed il Chianti. A Populonia va intensificata la ricerca fra le pianure ed il sito della città. Sul monte Amiata va estesa la ricerca. Vi è poi la necessità di valorizzare il conosciuto. A questo punto l'archeologo dei paesaggi, se vuol conoscere veramente i suoi paesaggi, deve mettersi a scavare. Non si è scavata una sola villa o un villaggio tardoantichi “fra la valle dell'Albegna e il Fiora”9. Si dovrebbero inoltre proseguire le indagini nei dintorni di Roccastrada, ove lo scavo della discarica di una fornace ha offerto risultati assai promettenti, e in quelle ville e villaggi tardoantichi dell'agro
populoniese caratterizzati dal rinvenimento di scorie di ferro in superficie. L'area del monte Amiata necessita di molti supplementi di indagine stratigrafca. Nel territorio di Siena, dopo lo scavo del piccolo sito di S. Quirico, altre ricerche, mirate alla conoscenza dei secoli VIIIIX, sono in fase di progettazione. In tutti questi comprensori vanno inoltre avviati specif~ci programmi di ricerca paleoecologica. Il contributo è chiuso da uno schema delle tendenze insediative riscontrate nella comparazione dei dati, che vuole essere soprattutto una proposta per una eventuale e preliminare discussione. 1. Il paesaggio tardoantico della Tuscia I fatti La ristrutturazione dioclezianea e la provincializzazione dell'Italia ebbero, fra i loro molti effetti, la trasformazione della regio Vll Etruria in Tascia st Umbria e la divisione della provincia in due parti coincidenti approssimativamente con il settentrione, compreso nell'Italia annonaria, e il meridione, compreso nell'Italia suburbicaria~. Gli studi archeologici, pur non essendo ancora tanto progrediti da potere dare conto della nuova situazione politica ed istituzionale, consentono di ricostruire per grandi linee i paesaggi agrari di alcuni comprensori:. Nei territori delle città situate fra la valle dell'Albegna e il fume Fiora furono proprio le aree centrali, più ricche in passato e caratterizzate dal sistema della villa schiavistica classica, ad essere colpite in maniera più grave dagli abbandoni della tarda età antonina. Le ville superstiti nei dintorni di Cosa sembrano per lo più legate ai destini della città e del suo porto. In alcuni settori della valle dell'Albegna gli abbandoni furono più contenuti e il declino più lento, anche se costante. Nelle aree più "periferiche", anche se discretamente fertili, le ville sopravvissero in percentuale più alta. In queste zone si manteneva un modello insediativo misto, caratterizzato dalla compresenza di ville e villaggi, nell'armonico rapporto di uno a uno. Nell'agro rosellano la sopravvivenza delle ville e dei villaggi della pianura esistenti già nel IV secolo e almeno fuo al V, forse fino alla metà del VI, fa pensare che il lago Prile fosse ancora sfruttato per le sue risorse ittiche dalle ville situate sulle sue rive. Nelle colline dell'interno, presso Roccastrada, alcuni piccoli insediamenti sorti fra II e III secolo d.C., talvolta minimali, sembrano riflettere non tanto un ritorno della piccola proprietà, in questi paraggi peraltro sempre piuttosto limitata nello sviluppo, ma piuttosto l'estendersi alla fascia collinare di grandi proprietà latifondistiche incentrate nelle ville sottostanti. Poiché la sempre più ridotta popolazione della pianura andava allora concentrandosi attorno ai siti delle ville, non pare possibile che vi fosse, nella tarda antichità, uno spostamento verso aree marginalia. Piuttosto è da ritenere che i piccoli siti isolati nelle colline facessero parte di una realtà sempre più accentrata, quella del latifondo, e fossero controllati d ai praetoria della pianura. Non sempre è facile individuare i centri dei latifondi, a causa dei grandi spazi vuoti fra una presenza archeologica tardoantica e l'altra. La nascita dal nulla, nel V secolo, di un sito nell'area presso Roccastrada in cui si svilupperanno insediamenti di età altomedievale, pare il chiaro indizio di una struttura latifondistica ancora attiva nello sfruttamento dei pascoli di collina. Questo comprensorio pare dunque ideale ai fini dello studio della formazione di un latifondo forse più pastorale che cerealicolo. L'atto finale del paesaggio tardoantico in questa zona coincide con la fine del V-inizi VI secolo, quando scomparvero i siti della pianura, ad eccezione di una villa, e quelli delle colline, fra i quali il paganus di Pagiano. Nell'agerPopuloriersis, dopo il crollo radicale dei siti minori alla fine del II secolo, si impose la consueta struttura mista basata su ville e villaggi superstiti. Rutilio Namaziano descrive Populonia quasi del tutto in rovina all'epoca del suo viaggio, mentre il villaggio di Falesia era vivace e popoloso 9. Una ripresa delle attività siderurgiche, forenti in età ellenistica ed abbandonate nella prima età imperiale, può per il momento essere semplice oggetto di congettura sulla base delle scorie di lavorazione del ferro trovate dalla ricognizione in ville e villaggi occupati nella tarda antichità. Va tuttavia considerato un fatto importante: nei manuali degli scriptores de re rustica non vi è cenno a manifatture che richiedessero l'uso del fuoco all'interno degli edifici delle ville, ad eccezione dei forni
necessari per riscaldare i bagni e dei focolari delle cucine. La comparsa delle scorie di metallo va dunque considerata come il segno di una pesante ristrutturazione delle stesse ville, forse trasformate sempre più in villaggi. Questo dato sembra confortato dal poco che si conosce delle ville romane dell'isola d'Elba. I reperti provenienti dalle ville di Le Grotte e di Cavo non vanno infatti oltre la media età imperiale e consentono quindi di escludere qualsiasi rapporto fra ville e ripresa tardoantica dello sfruttamento dei minerali ferrosi dell'isola. Al contrario, in epoca tardoantica furono i numerosi scali mercantili dell'isola ad attivare scambi assai vivaci con le aree più diverse del Mediterraneo. Le anfore di IV-V secolo più rappresentate nella discarica portuale di Porto Azzurro sono, come di consueto, di provenienza africana ma non mancano esemplari di provenienza medio-orientale. I minerali di ferro potevano ben essere la materia prima che attirava tante merci da luoghi tanto lontani in età tardoantica, quando le ville erano ormai abbandonate o trasformate in insediamenti di genere diverso. Nell'interno il comprensorio senese sembra riassumere, con alcune varianti, gli assetti sin qui descritti. Nelle aree di bassa collina prossime a Siena si concentrano le ville, mentre nelle zone più elevate e meno attraenti si trovano case di diverse dimensioni. La sopravvivenza delle ville e delle loro attività agricole si spiega con la vicinanza del mercato cittadino e di un centro di consumo ancora vivace. L'assenza di villaggi fa del comprensorio senese una variante rispetto al modello generale, in parte analoga alla variante cosana (poche ville superstiti attorno alla città), in parte analoga alla variante rosellana (case sparse nell'interno). Sembrerebbe, a conclusione di questa rassegna, che non siano molte le somiglianze fra un contesto e l'altro. Questo è senz'altro vero dal punto di vista delle caratteristiche fisiologiche dei contesti: cerealicola la valle dell'Albegna, pastorale l'agro rosellano, riconvertito alla metallurgia quello populoniese, basata sulle colture miste l'area senese. Una simile distinzione è utile per capire le differenze di struttura fra una zona e l'altra, per definire le personalità dei singoli areali, ma non è soddisfacente dal punto di vista della storia regionale ed ai fini di un confronto fra regioni diverse. Occorre allora ampliare tanto la prospettiva geografica quanto la profondità cronologica (infatti è uno di quei casi in cui l'ampiezza dello spettro diacronico aiuta nella definizione di particolari che nessuna analisi troppo di dettaglio consente di cogliere). Si deve dunque risalire indietro nel tempo, ai paesaggi delle ville tardo repubblicane e imperiali ed al loro manifestarsi in Etruria. I paesaggi della Tuscia nascono infatti dal disfacimento di questi paesaggi, concomitante ad una crisi generalizzata delle città te In generale, quanto più strutturati e floridi furono i paesaggi delle ville, tanto più drammatica fu la crisi economica e demografica della tarda età antonina e tanto più stentata e incompleta fu la ristrutturazione dioclezianea. Il ruolo delle ville a conduzione prevalentemente o esclusivamente schiavistica era infatti andato progressivamente esaurendosi nel corso del II secolo d.C. Alla fme di quel secolo molte delle ville che traevano dalla manodopera servile la forza lavoro, particolarmente quelle delle valli più vicine a Cosa, erano scomparse. La congiuntura ebbe, forse non casualmente, effetti meno drammatici nelle aree più decentrate, quelle in cui le ville avevano nei dintorni case o villaggi, ovvero tipi di insediamenti in cui solitamente, anche se non esclusivamente, risiedevano persone di condizione libera. Il modello combinato della villa "periferica", capace di governare un fandus grande o grandissimo grazie all'integrazione schiavilcoloni si rifà, nella sua teorizzazione generale, a Plinio il Giovane ed alle sue proprietà sparse per l'Italia 13. Questo modello parte da lontano, probabilmente tanto dalla struttura delle grandilgrandissime proprietà della Cisalpina quanto dal modello tardorepubblicano d i fundas, anch'esso molto grande, che sta emergendo da ricerche condotte nell'agro Brindisino e nelle province 14. Esso si affianca nel corso della prima età imperiale alla tipologia classica della proprietà medio-grande dell'Italia centrale tirrenica (la villa "varroniana")'Se gradualmente la soppianta. Fra i casi più noti va inserita l'azienda di Plinio a Tiferno Tiberino, che integrava la manodopera servile residente nella villa con quella dei coloni liberi residenti nelle piccole case dei dintorni. Tuttavia il processo di pervasione da parte dei modi di gestione agricola provenienti dall'Italia del nord doveva essere cominciato molto prima, forse già in età augustea. Non va dimenticato che fra i cittadini illustri di Veio dovevano trovarsi anche personaggi di origine adriatica, come M. Herennius Picens, console
del 1 d.C. A questi va aggiunto Verginio Rufo, tutore dello stesso Plinio il Giovane e proprietario di una grande villa nell'agro Alsiense 17 ed altri personaggi ancora. Di questa trasformazione è forse una traccia anche nella villa di Settof nestre: in età giulio-claudia la produzione di vino dovette infatti aumentare, forse in virtù del passaggio da pregiati vitigni italici di scarso reddito a vitigni più fecondi di origine ispanica o gallicata. È questo un segno in più dell'inizio di una trasformazione di lungo periodo, allora agli esordi, che avrebbe dato una impronta sempre più estensiva ai paesaggi dell'Italia centrale. Il modello della villa con coloni, che si accetta di chiamare "villa periferica"18, necessita di ulteriori chiarimenti, almeno per quanto riguarda il suo manifestarsi in Etruria. La diffusione delle ville in questa regione aveva risposto a forti fattori di gerarchizzazione. Nei settori centrali dei territori prossimi a Roma si trovavano ifatti e le ville grandissime del for fore della classe senatoria; nelle zone privilegiate del comprensorio tarquiniese erano alcune fra le più grandi famiglie etrusche ascese al rango senatorio; nel comprensorio vulcente si trovavano le proprietà di personaggi di rango senatorio medio (fra i quali i Sestii, proprietari di Settefinestre). Nel nord dell'Etruria, ove molte delle aree che contavano erano ancora in mano all'antica aristocrazia etrusca integrata nell'establishment romano, le ville erano di gran lunga meno diffuse rispetto all'Etruria meridionale 20. A questa distribuzione per fasce radiali, individuata ad un livello macroregionale (la distanza da Roma), si intrecciavano ulteriori gerarchizzazioni a livello infraterritoriale. Ogni territorio aveva naturalmente un centro ed una periferia. Gli stessi territori di Cosa, di Caere e di Veii non sfuggivano a questa legge: nelle zone periferiche di questi territori si trovano infatti meno ville e più case e villaggi 21, secondo una ripartizione che prelude già per certi versi all'assetto tardoantico, in cui si consolida progressivamente l'equilibrio fra ville e villaggi. La conclusione emergente da questi sintetici riferimenti è dunque che la villa schiavistica, anche nelle regioni in cui dispiega il suo modello più classico, sa adattarsi alla situazione locale e poi riplasmarla a suo piacimento. Questa costruzione, così ordinata nelle sue diverse gerarchizzazioni, crolla del tutto nel corso del II secolo d.C. Dal grande travaglio dell'età antonina le ville "classiche", eredi del modello varroniano, uscirono distrutte, mentre le ville "periferiche", eredi naturali di un modello pliniano molto riveduto e corretto, ebbero la possibilità di ristrutturarsi. Sono dunque queste le ville che continuano a vivere e sulla ristrutturazione delle quali si innesta il paesaggio della tarda antichità in Etruria. Va ora posto un problema fondamentale, ovvero quello delle residenze dei coloni. Il colono, nel modello illustrato da Plinio, così come nel generico modello latifondistico, abita in piccole case sparse con la famiglia ed amministra un piccolo lotto di terreno. Ebbene, in Etruria le piccole case ancora occupate dopo l'età augustea sono sempre meno, decisamente poche dopo il 100 d.C. Nella tarda antichità le case dei coloni, indizio primario nella identificazione della villa "periferica", sono tutte o quasi scomparse. Si deve allora concludere che i coloni non vi fossero più oppure che risiedessero nei villaggi. Dalla rassegna dei contesti esaminati è emerso come il villaggio sia la chiave di volta per l'interpretazione del paesaggio tardoantico della Tuscia. La villa periferica originaria aveva funzionato per lungo tempo, fino alla fne del II secolo d.C., soprattutto grazie al sistema delle affittanze, prospettato da Columella e da Plinio il Vecchio2e Essa, pur essendo relativamente meno colpita dalla grande crisi di età antonina, dovette comunque riorganizzarsi nei decenni successivi e fu in questo frangente che scomparvero le case dei coloni e sopravvissero tanto le ville (soprattutto quelle periferiche) quanto i villaggi. Quando il paesaggio classico delle ville si spense, nel II secolo d.C., lasciò dietro di sé un nuovo paesaggio, prodotto al tempo stesso della polverizzazione delle vecchie gerarchie regionali e locali e di un accentramento degli abitati sempre più radicale. Le comunità rurali, considerate alla stregua di depositi di forzallavoro, si concentravano ora nei villaggi. Forse alcune ville erano con il tempo talmente decadute e degradate da essere esse stesse trasformate in villaggi. Le campagne perdevano così l'immagine urbana che il paesaggio con ville aveva un tempo dato loro. Nella tarda antichità riemersero, fra l'altro, in alcuni territori più decentrati, forme di aggregazione sociale paganico-vicane, tipiche dell'Italia preromana 23. È il caso questo degli antichissimipagi
dell'agro Capenate 24 e del comprensorio viterbese, tanto popolosi, benestanti ed estesi, a differenza di quelli della valle dell'Albegna, da contenere dimore private, edifici pubblici, impianti termali e da avere nuove costruzioni fra IV e V secolo2S. In alcuni casi questi agglomerati andranno a costituire l'esile popolamento altomedievale. Nelle aree come la valle dell'Albegna, in cui la rete dei villaggi era stata più debole, il sistema della villa più forte e la crisi conseguente più acuta, la nascita dei paesaggi medievali fu più incerta, più contrastata e difficile. Nella tarda antichità in Etruria non pare quindi esservi spazio per la dispersione dei coloni su vaste superfici, come avveniva per molte zone dell'Africa. Il latifondo in questa regione si strutturò soprattutto accentrando, tanto le persone, quanto le funzioni, in pochi, grandi edifici. L’ambiente La tarda antichità conobbe tuttavia anche trasformazioni ambientali di ampia portata, forse talvolta ipervalutate, forse talvolta sottovalutate 2~. Nel III secolo vi fu indubitabilmente un aumento dei fenomeni alluvionali, dovuti tanto all'aumento contingente della piovosità quanto agli impressionanti disboscamenti susseguitisi senza sosta dal II secolo a.C. al II d.C7. L'aumento delle piogge su comprensori tanto degradati ebbe effetti devastanti in alcuni territori, fra i quali Falerii e Blera. Le piene dei torrenti finirono per isolare i pianori tufacci ed il precipitare della situazione portò allo spopolamento durato per tutta la tarda antichità. Le popolazioni si rifugiarono infatti verso la pianura, che a quel punto era divenuta il polo stabile dell'agro Falisco2a. La ricerca paleoccologica non è altrettanto avanzata nei comprensori situati più a nord. È possibile che il degrado ambientale sia stato meno drammatico ma sempre nel quadro di un progressivo abbandono delle superfici coltivate. È comunque un fatto la convergenza fra fattori diversi, ognuno a suo modo grave. L'abbandono dei coltivi, lo spostamento delle popolazioni, il progressivo accentramento degli abitati rurali favorirono la crescita degli agrideserti. Ciò non condusse all'aggravarsi dell'impaludamento e all'insorgere della malaria, almeno in tempi brevi. Tanto l'uno quanto l'altra, c'erano sempre stati ed avevano fatto parte integrante dei diversi paesaggi antichi. Ampi settori costieri erano composti dall'alternanza di boschi, paludi e lagune in cui si faceva legna, si allevava bestiame in inverno, si pescava. L'assetto fisico di quei paesaggi non mutò per molto tempo ancora, fino al medioevo, quando il crollo definitivo delle infrastrutture idrauliche finì per paralizzare del tutto la vita dei pochi abitati superstiti. La destrutturazione Il paesaggio della Tuscia si interrompe, o quantomeno subisce una forte battuta di arresto, con la conquista vandala del Mediterraneo occidentale. I latifondi costieri, sopravvissuti in qualche modo al passaggio dei Visigoti di Alarico, assunsero un aspetto ancor più accentrato. Crebbe allora l'importanza delle infrastrutture viarie, che sole potevano garantire il legame con Roma. Al contrario, nell'interno, fra Roselle e Siena, ebbe inizio un processo di disgregazione inarrestabile: a fronte dell'arresto della circolazione delle merci, si impose l'autoconsumo, si diffusero in maniera crescente i vasi locali che imitavano le sigillate africane. Dal punto di vista delle fonti archeologiche la f ne dell'impero romano si colloca alla metà del V secolo. Solo in quel momento comincia la frammentazione degli abitati e la nascita di forme di vita minori. Le grandi proprietà erano ormai in rovina, le popolazioni abbandonate al loro destino. Fra la fine del V e gli inizi del VI secolo d.C., alcune comunità barbariche impiantarono i loro villaggi ed i loro sepolcreti alle porte di Roma 29. Restavano occupati, territorio per territorio, soltanto poche ville e villaggi. Questi elementi superstiti del paesaggio vennero in qualche modo, parzialmente, rivitalizzati, ma solo per scopi strategici, che nulla più avevano ormai a che fare con la struttura socioeconomica dei comprensori, in occasione della guerra gotica, come risulta nella valle dell'Albegna e nell'agro rosellano. La disgregazione del paesaggio tardoantico era ormai avanzata. I praetoria ed i villaggi sui quali si era fondato l'accentramento demografico del latifondo cominciarono a sgretolarsi e dalla progressiva
frammentazione della struttura nacque il primo, poverissimo, paesaggio altomedievale delle case sparse. F. C 2. Il Vl secolo d.C. Dopo la sensibile cesura databile alla metà del V secolo non si registrano ulteriori fenomeni di repentino abbandono: i siti superstiti saranno abbandonati fra la fine del VI e il VII secolo. Gran parte della costa di Populonia risulta così priva di insediamenti: alcuni erano sopravvissuti nell'area attorno a Casalappi, mentre a nord della città solo due grandi ville restituiscono materiali di VI secolo e non si può escludere che fosse riattivato in qualche misura lo sfruttamento dei giacimenti di ferro locali o addirittura dell'ematite elbana. In questo senso potrebbero essere interpretate scorie di lavorazione siderurgica sui siti delle ville, anche se è difficile ascriverli con precisione all'ultimo periodo di vita. A sud della città l'abitato sorto presso Vignale restituisce materiali anche per il VI secolo confermando la centralità di questo sito sulla via Aurelia. Anche nell'agro rosellano continuano a vivere alcune grandi ville, il cui abbandono poco dopo la guerra gotica o al massimo dopo i primi decenni dell'occupazione longobarda non sembra al momento essere causato da fattori esterni, ma piuttosto dal lento processo di trasformazione e declino del sistema economico. La militarizzazione della costa e lo stato di guerra continuo durante il corso del secolo contribuirono certamente al processo di disgregazione di ciò che era rimasto dell'organizzazione dei latifondi. Rimangono in vita le due ville presso il centro urbano, I'abitato all'imboccatura del porto sul Prile, ed un'altra villa presso Scarlino. Possiamo comunque constatare che le rive del Prile non vengono completamente abbandonate e, quindi, che il fenomeno dell'impaludamento non ha assunto ancora connotati di particolare gravità e un'ulteriore prova ci viene fornita dall'uso della via Aurelia durante il breve periodo bizantino. Nell'area interna del Rosellano una nuova crisi alla fine del V secolo determina l'abbandono di tutti i siti di pianora ad eccezione di una villa. Forse da mettere in relazione con un tipo di economia agro-pastorale gestita da questa villa sono alcuni siti minori situati sulle prime pendici collinari. Su queste aree inoltre sono alcuni abitati sorti nel corso del II secolo e non ancora abbandonati 30. Intorno alla fine del secolo pertanto tutta l'area pianeggiante interna è priva di insediamenti, che invece si dispongono sui rilievi collinari. Proseguendo verso sud, nella valle dell'Albegna, agli inizi del VI secolo il 40% degli insediamenti attestati nel V risulta ancora occupato. I siti più piccoli, come nel Poguloniese e nel Rosellano, sono quasi del tutto scomparsi mentre sopravvive la metà delle ville e dei villaggi. Le pianure costiere conservano ancora il carattere di forte integrazione fra questi due tipi di insediamenti che le aveva sempre distinte, mentre l'entroterra di Cosa e Orbetello, area un tempo trainante dell'intero comprensorio, è quasi completamente deserta. Fa eccezione l'abitato relativo al porto di Feniglia, verso cui si potrebbe essere spostata la popolazione di Cosa. Le ville scompaiono in questa zona durante il primo quarto del VI secolo cioè prima della guerra gotica, mentre la pianura dell'Albegna e la valle dell'Elsa non furono completamente abbandonate. Proseguendo verso l'interno appare invece deserta la media valle dell'Albegna ed una certa forma di occupazione del territorio è visibile solo nei pressi di Saturnia. Fra V e inizi VI secolo mancano attestazioni sull'antico abitato di Orbetello ed analoga incerta sorte ebbe Vulci: in questo quadro si può leggere la scelta di Sovana come sede di vescovado. Nell'area interna senese per tutto questo periodo non si registrano mutamenti apprezzabili nella disposizione e nella quantità dei siti rispetto al secolo precedente. Le incursioni barbariche del V secolo sul territorio italiano resero certo necessari provvedimenti immediati al fine di creare una rete di punti di approvvigionamento lungo le principali direttrici, fra
cui l'Aurelia, per l'esercito imperiale. Questa scelta era in un certo senso resa obbligata anche dall'urgenza: dove era possibile venivano usati città o villaggi abbandonati, mentre venivano fondati nuovi siti solo dove era necessario. In entrambi i casi venivano spesso costruiti i muri di cinta a secco. E probabile un uso di alcune di queste fortificazioni durante la guerra greco-gotica, mentre durante i primi decenni di occupazione longobarda della penisola esse potrebbero essere state inquadrate in un tratto di limes tirrenico a difesa del ducato di Roma. La Toscana, fra VI e VII secolo, diventa un territorio di cerniera e di confine. Questo aspetto "militare" dell' insediamento è stato recentemente rivalutato dalla storiografia più accorta 31. Un altro Castrum, certamente più importante, perché citato nella lista di Giorgio Ciprio (circa 580) 32, va localizzato all'isola d'Elba, forse presso Portoferraio: da qui i Bizantini controllavano la costa e le isole, mantenendo sempre stretti contatti con le importanti basi di Civitavecchia, Pisa e Luni. Dei tre castra tardoantichi individuati nell'area costiera, Cosa, Talamonaccio e Poggio Cavolo, solo il primo è stato sottoposto ad indagini di scavo sistematico e condotto con rigore scientifico, mentre Talamonaccio ha subito numerosi interventi, anche nel secolo scorso, che hanno compromesso la lettura complessiva della sedimentazione archeologica; su Poggio Cavolo infine non è stato ancora effettuato alcun intervento. In particolare i recenti scavi sull'arce di Cosa hanno individuato strutture tardoantiche fra cui un primo ambiente, vicino al tempio D, databile alla fine del V-inizi VI secolo, che è stato interpretato come granaio; un secondo edificio, consistente in due lunghe stanze, è stato invece interpretato come stalla33. Non vi sono prove che i restauri del Capitolium siano relativi all'impianto di una chiesa nella cella centrale, ma è probabile, dal momento che è assai frequente la presenza di una chiesa nei castra tardoantichi. La fortificazione dell'arce è posteriore all'impianto di queste strutture che possono essere interpretate come marsio collegata alle esigenze dell'annona militare. L'impianto in un'area pubblica che aveva perso i suoi connotati religiosi è altamente significativo e dimostra anche l'importanza dell'Aurelia fino al VI secolo. Dopo l'incendio del granaio, mentre le stalle erano ancora in uso, fu costruito il muro di cinta con conci sommariamente squadrati e posti in opera a secco in filari regolari. La fortificazione di Cosa aveva anche una torre presso il tempio D. L'incendio non dimostra da solo una battaglia, mentre la fortificazione e le numerose palline di argilla (proiettili da fionda) attestano quantomeno un attacco. Questi proiettili erano d'uso comune nella fanteria bizantina, e si è suggerito che siano riferibili, assieme ai muri, a fortificazioni bizantine in funzione antilongobarda 33. Tuttavia sia il muro che l'incendio sono datati dai materiali alla fine del V-primi 30 anni del VI secolo, quindi è più verosimile che la marsio di rifornimento imperiale sia stata usata dai Goti contro i Bizantini, i quali poi l'hanno presa ed inserita nel sistema di fortificazioni tirrenico. Sul sito di Talamonaccio la cortina difensiva, già presente, potrebbe essere stata riutilizzata; il muro del tipo cosiddetto a telaio o opas afriGaram, rinvenuto sul colle durante scavi ottocenteschi e databile al VI secolo, è del tutto insufficiente alla difesa e ben più adatto a fiancheggiare una via importante, come sembra anche suggerire il caso di Roselle. Parte delle opere difensive tardoantiche potrebbe invece essere una struttura circolare (andata distrutta) sotto al pianoro sommitale, forse interpretabile come torre, in corrispondenza di una delle necropoli coeve 35. I materiali rinvenuti sul colle, di cui abbiamo notizia, unitamente alle attestazioni di un'area sepolcrale sul vicino colle di Bengodi, nel pianoro verso il mare ( 10l12 tombe a fossa con copertura in lastre di calcare, orientate est-ovest in associazione ad alcuni frammenti di ceramica dipinta in rosso e ad un bracciale di età gota che da questo luogo ha preso il nome)36, presi nel loro insieme, suggeriscono di individuare sul poggio di Talamonaccio un abitato databile fra V e VI secolo. Poiché esso si trova in condizioni simili al poggio su cui sorge Cosa, pur in assenza di elementi certi sulla presenza di una cortina difensiva costruita in quel periodo, che potrebbe essere anche stata distrutta durante i numerosi scavi ottocenteschi, si ritiene di poter individuare in questo abitato un Gastr~m utilizzato anche durante il periodo bizantino. Sulla sommità di Poggio Cavolo, nella zona di Grancia, prospiciente il corso del fiume Ombrone, ad est del tracciato della via Aurelia, è un sito fortificato costituito da due circuiti murari: uno inferiore,
esterno, ha una forma vagamente trapezoidale e cinge una superficie di circa 10000 mq., quello interno, superiore, si sovrappone al primo sul versante ovest e cinge un'area di circa 5000 mq. Dei muri di cinta sono visibili sul terreno alcuni tratti. In particolare di quello sommitale segnaliamo un tratto di oltre 20 m. Iungo il versante ovest, realizzato a secco, con uno spessore medio di 2 m., e il paramento su entrambi i lati fatto di conci di calcare (e raramente arenaria) talora sbozzati, ma mai rifiniti, di medie dimensioni (circa 30 x 15 cm.). Del pianoro inferiore segnaliamo un tratto di muro lungo il versante est, ma la foto aerea rivela la continuità di queste strutture sotto il manto erboso. Presso l'angolo sud-est del pianoro sommitale si possono notare alcuni tagli del suolo roccioso secondo allineamenti paralleli, forse per la messa in opera di assi di legno. In quest'area è ben visibile anche una buca di palo, circolare, del diametro di circa 15 cm. Verso nord-ovest, in prossimità del muro di cinta interno, sono i resti di un corpo di fabbrica forse identificabile con una torre. Lungo il versante nord la foto aerea ha evidenziato che l'andamento del muro di cinta sommitale non va a chiudere il circuito in linea retta, ma presenta un semiellisse proteso verso Grosseto: potrebbe trattarsi anche in questo caso di una torre. Numerose buche e cave di pietra recenti, come testimoniano i carotaggi per l'uso di esplosivo, compromettono una completa lettura delle emergenze sul pianoro inferiore. I reperti raccolti, fra cui ceramica comune con colature di ingobbio, confermerebbero una datazione fra VI e VII secolo. Recenti ricerche in Liguria ed in Lunigiana forniscono dati più precisi sull'aspetto fsico e sulla cultura materiale dei Gastra bizantini e presentano numerose analogie con quelli di Cosa, Talamonaccio e Poggio Cavolo 37. I Bizantini trovarono pertanto lungo l'Aurelia un sistema di fortificazioni fino almeno all'Ombrone (ma un altro presidio importante potrebbe essere stata proprio Roselle: cfr. Celuzza ed altri in questo stesso volume) già pronto per essere usato a difesa del ducato di Roma: del resto la velocità della penetrazione longobarda in Tuscia non avrebbe consentito lunghe e dispendiose opere difensive. Questi siti fortificati, che adottano la strategia di difesa elastica`H, almeno per 20l30 anni dovettero assolvere alla loro funzione: la penetrazione longobarda sia chiusina sia lucchese, infatti, si arresta sulle sponde settentrionali del lago Prile lasciando intatta Roselle e la costa a sud, mentre nell'interno Sovana si arrende spontaneamente al duca di Spoleto e non a quello di Chiusi. Possiamo ragionevolmente supporre che questo sistema difensivo abbia resistito fino alla fine del secolo. In questo quadro vanno inquadrati anche i personaggi citati nell'epigrafe bizantina di Orbetello, che potrebbero essere stati inviati a Cosa (e non Orbetello) come amministratori speciali di un castram importante, per far fronte alla situazione di pericolo venutasi a creare fra il 570 e la fine del secolo3s. Alle dipendenze di Cosa potrebbe essere stato il sastram di Talamonaccio mentre quello di Poggio Cavolo potrebbe più logicamente dipendere da Roselle. Non sappiamo se anche altre sommità strategiche, come ad esempio il poggio di Castiglione della Pescaia, possano aver ospitato per alcuni decenni un presidio bizantino, ma è probabile che l'intera costa fino almeno a Pisa (conquistata dopo il 603), fosse stata costellata di piccole fortificazioni, visto il pericolo immediato rappresentato dall'incursione lucchese verso Populonia. La circolazione, per lo più nelle aree costiere, di ceramiche sigillate africane e narbonesi, unitamente ad anfore di produzione sia africana sia orientale, indica il persistere di un modesto legame con le correnti commerciali mediterranee, soprattutto nelle aree meglio collegate con la rete portuale bizantina. C. C. 3. Metà VI-VII secolo d.C. Il prablema Tentare di ricostruire le vicende insediative della Toscana centro-meridionale tra la fine dell'età tardoantica e l'alto medioevo, significa innanzitutto isolare e comprendere quali siano i fossili guida che ne testimoniano le tracce.
In aree nelle quali non si rinvengono elementi di datazione certi, come le ultime sigillate africane o le anfore, sia per una effettiva assenza di circolazione sia per una scarsa presenza e quindi con poche possibilità di rinvenimento in superficie, si rischia di proporre un futo vuoto di frequentazione. In genere vengono addotte una serie di motivazioni ripetitive e monotone: spopolamento totale come conseguenza sia della crisi tardoantica sia delle invasioni barbariche, oppure assenza di rinvenimenti imputabile alla difficoltà di riconoscere indizi pertinenti a strutture realizzate in materiale deperibile e numericamente esigue. Le fasi iniziali dell'alto medioevo vengono distorte alla stregua di un vero e proprio day after, mentre la chiave di volta per tentare di schiudere la porta su uno scenario buio e farraginoso, ovvero lo studio della ceramica d'uso comune, raramente viene tentata. Nel corso delle indagini territoriali svolte sulle aree qui trattate, di fronte ad un quadro diacronico del popolamento che in gran parte mostrava una apparente e quasi generalizzata desertazione intorno al V secolo (zone interne) e poco oltre la metà del V secolo (zone costiere), abbiamo deciso di percorrere questa via. Ipotizzando che la mancanza totale o quasi delle ultime importazioni ceramiche non significasse la fine della frequentazione, bensì il sintomo e la spia di una circolazione asfittica o del tutto assente di merci, si è scelto di analizzare in maniera approfondita tutte quelle restituzioni in superficie composte da forme apparentemente di tradizione tardoromana ma di difficile collocazione cronologica. I fossili guida Nel nord dei comprensori senese, rosellano e nella valle dell'Albegna, sono così state riconosciute ceramiche fabbricate in officine operanti su scala subregionale o microregionale almeno dal V secolo sino alla fine del VI-VII secolo e forse, come nel caso specifico della zona di Roccastrada, sino all'VIII secolo. I prodotti diffusi sono parzialmente orientati verso i repertori stilistici toscani~o. Si elaborano varianti proprie soprattutto per la ceramica da fuoco e per contenitori di liquidi, ma si ricorre alla ripetizione di forme standardizzate nell'imitazione di modelli noti per la ceramica da mensa. Questa classe è rappresentata da esemplari acromi ad impasto depurato per le zone costiere e limitrofe, da forme anch'esse depurate ma caratterizzate da una ingobbiatura di colore rosso nelle zone interne. Nella valle dell'Albegna si osserva come agli ultimi arrivi di africana D+. si affianchino contenitori per liquidi di foggia inedita (brocche con ansa a nastro) la cui diffusione aumenta macroscopicamente dopo la cessazione delle importazioni; tutto ci lascia presuppone che la circolazione delle brocche sia iniziata negli ultimi cinquanta anni della circolazione delle merci africane e proseguita per qualche tempo dopo il discrimine 620l6504Z. Nel Senese invece, oltre ad alcuni esemplari di brocche simili a quelle sopra descritte 43, la grande quantità rinvenuta di ceramiche da mensa con ingobbiatura rossa mostra la ripetizione dei tipi in sigillata africana. Si tratta di una produzione, probabilmente comparsa nel corso del I secolo d.C., che a partire dal IV-V secolo ha iniziato a proporsi quasi esclusivamente come imitazione di manufatti d'importazione. La sua peculiarità risiede nella continua riproposizione, per almeno i due secoli successivi, dei medesimi tipi affiancandoli alle nuove forme imitate e rielaborate; in altre parole siamo di fronte ad un Gampiorario stabilizzato che viene incrementato continuamente da nuove componenti. Esemplari ad impasto depurato, ma privi di coperta, con caratteri in comune a quelli ora descritti, si riconoscono anche nella zona di Roccastrada. Le strutture materiali dell'abitazione Le indagini di superficie hanno mostrato una casistica delle strutture abitative limitata soprattutto a due varianti: il riuso di spazi all'interno di alcune delle ville tardoantiche e la casa sparsa.
Nel primo caso, non è possibile comprendere la reale portata delle trasformazioni apportate ai complessi sfruttati; negli esempi di migliore lettura (Fontalpino, a Castelnuovo Berardenga; S. Marcellino a Monti, a Gaiole in Chianti; forse La Pieve e Vignale, a Scarlino~s), pare evidente un restringimento degli ambienti di vita. Non sembra comunque trattarsi di piccole comunità che trasformano o vanno ad occupare i resti più o meno diruti di una grande struttura come avviene per determinate località della valle dell'Albegna e probabilmente del Populoniese. In queste aree, I'esplorazione di alcuni complessi (Torre Tagliata, a Orbetello, in particolare~~; S. Vincenzino, a Cecina 47) hanno infatti mostrato un cambiamento d'uso in tal senso già dal pieno IV secolo: la villa marittima diviene sede di maestranze specializzatesi in servizi di appoggio alla navigazione. Il trend generale si profila invece nella presenza di un numero ridotto di individui (singoli nuclei familiari) che si insediano su uno degli ambienti della pars arbara: le ceramiche ascrivibili tra VI-VII secolo sono limitate ad una piccola superficie posta all'interno della residenza padronale propriamente detta 48. Il fenomeno è rintracciabile anche nel sud dell'attuale territorio provinciale senese; disponiamo di indicazioni circa frequentazioni ascrivibili al VII secolo in area chiusina (Le Camerelle, a Chiusi 49); inoltre, le trasformazioni edilizie di ultima fase riscontrate sul sito della villa tardoantica scavata in località la Befa (Asciano 50) sono, a nostro giudizio, erroneamente interpretate: tanto i materiali rinvenuti quanto le modificazioni drastiche del complesso sembrano piuttosto da rileggere in tale chiave. Il villaggio aperto risulta completamente assente; anche di fronte alle necropoli conosciute per la zona del lago Prile (cronologie di metà VI-VII secolo 51) non possediamo riscontri oggettivi sul campo che ne indichino la presenza; così come l'insediamento fortificato (fatta forse eccezione per Poggio Cavolo, a Roselle) non pare affatto diffuso nella Toscana centromeridionale del VII secolo. La casa sparsa si presenta in superficie come una concentrazione di materiale edilizio da copertura (coppi, tegole), poche pietre, materiali ceramici, reperti osteologici e, spesso, scorie di fusione pertinenti a minerali ferrosi. Si tratta di emergenze riconducibili ad ambienti con pianta rettangolare realizzati in materiale deperibile (70%) o in pietra (30%) per gli elevati, tetto in laterizio, piano pavimentale probabilmente sotto forma di battuto e dimensioni medie comprese tra i 6 x 4 m Nell'area senese (località S. Quirico e Pace, a Castelnuovo Berardenga) è stata sottoposta ad indagine stratigrafica una delle emergenze rintracciate nel corso delle indagini estensive ed interpretate come probabili abitazioni da ascrivere in un arco cronologico compreso tra il maturo VI secolo e gli inizi del VII secolo. Sono stati così osservati i resti di una casa dotata di un unico vano a pianta rettangolare, orientata sud-nord, estesa 4,80 x 3,40 m.; i muri, in terra pressata, avevano uno spessore di 70-80 cm. mentre la copertura, realizzata in laterizio, si presentava come tetto ad un solo spiovente fermato da ventose in pietra; alcuni livelli, quasi impercettibili nella loro consistenza ma composti da granuli di colore bianco molto fitti, così come piccoli grumi di malta impastata con frammenti f~ttili fanno pensare ad un'intonacatura degli elevati. La porta, in legno, era aperta sul lato meridionale mentre all'esterno, in corrispondenza del lato est, si appoggiava una tettoia mischiata ad alcuni laterizi e sorretta da pali in legno; altre buche di palo riconosciute sul limite sud dello scavo, lasciano ipotizzare la presenza di un recinto per animali (si veda Fig. 3 per la ricostruzione della struttura abitativa). Lo spazio interno della casa era esteso circa 4 x 2,70 m.: presentava un focolare circoscritto da pietre di piccola pezzatura ed appoggiato al muro ovest, grandi contenitori per derrate (due dolia) posti sul lato nord, mensole applicate ai muri ed un tavolo dei quali sono probabilmente indizio gli strati carboniosi individuati sul battuto di vita. Quest'ultimo, oltre a numerosi reperti ceramici, ha restituito frammenti di vetro pertinenti a una piccola coppa e molti resti di ossa combuste riconducibili a bovini e pennuti da cortile (si veda Fig. 4 per la ricostruzione dell'ambiente interno). I rifiuti, per lo meno nella fase precedente all'innalzamento della tettoia in paglia, venivano smaltiti in una fossa terragna scavata nel vergine ed a contatto con il muro est; sul suo fondo, il riconoscimento di un livello composto da carboni, terra arrossata e concotta, e numerose scorie di fusione da ferro, ha mostrato la presenza di attività metallurgiche di tipo mzzo da interpretare come destinate al
sopperimento di fabbisogni personali. Non ci è possibile effettuare confronti con abitazioni rurali simili, in quanto non sono state scavate prima di ora; I'unico parallelo che siamo in grado di attuare è riferibile ad una capanna di pieno \7 secolo (quindi antecedente di oltre centocinquanta anni) indagata in ambito pisano (Colle Carletti a Orentano, a Castelfranco di Sotto ). Nonostante le debite distanze tanto cronologiche quanto geograf~che, si osservacomunque un significativo parallelismo nelle dimensioni, nella fossa per rifiuti adiacente all'abitazionc, nella vasta presenza di ossa animali e nella composizione dei corredi ceramici. Anche strutture abitative esplorate in corrispondenza di villaggi fortificati di origine medievale, (Rocca di Scarlino;; Montarrenti, a Sovicillc .) mostrano strutture abitative distribuite a maglie larghe e frequentate da nuclei monofamiliari, sia che si rintraccino costruzioni ex ~ovo sia che si riconosca il riuso di ambienti interni a ville. Le case si dispongono essenzialmente in aree d'altura, andando ad occupare le sommità di rilievi collinari od i tratti iniziali di pendii posti a quote medie intorno ai 200 m. slm. per le zone meridionali (valle dell'Albegna, Roccastrada) ed intorno ai 350-400 m. per quelle settentrionali (Chianti senese); vengono prediletti terreni non acidi, scarsamente pietrosi e facilmente coltivabili, mai distanti da una piccola fonte di approvvigionamento idrico, mentre le altre superfici, soprattutto pianure e rilievi montuosi, sono desertate in toto. Le attività produttive sono imperniate sulla agricoltura e sull'allevamento come attestano gli attrezzi in ferro e 1' estesa presenza di ceramica da conserva rinvenuti in località Poggio al Tesoro (Castelnuovo Berardenga), la grande quantità di ossa combuste e le tracce interpretate come ricovero per animali nello scavo di S. Quirico e Pace; la constatazione di numerose scorie di fusione pertinenti a minerali ferrosi nella maggior parte dei siti rinvenuti nel Chianti senese, il conforto della struttura riconosciuta nello scavo, prospettano inoltre la ricerca di una dipendenza dall'esterno marcatamente ridotta. Si ha l'impressione di una sorta di autarchia vigente che non è comunque totalizzante, rigida, sintomo di un sistema di vita imperniato esclusivamente sull'individuo e chiuso verso l'esterno. Trovano ancora spazio lo scambio, una forma di circolazione monetaria, la diffusione di minerali ferrosi da trattare;;, prodotti artigianali e corredi ceramici orientati verso il gusto di una committenza locale: sono elementi chiaramente riconoscibili nella composizione dei contesti individuati. All'interno di tale scenario sono riconducibili le monete, di pessima lega ed in pessimo stato di conservazione, quasi sempre individuate in corrispondenza delle emergenze;~, gli orecchini a poliedro provenienti dalle alte colline del Chianti;7 o la fibbia zoomorfa restituita da un'abitazione in località S. Marcellino a Monti (Gaiole in Chianti); le fornaci riconosciute nella zona di Roccastrada e le ceramiche rinvenute sia nel Senese sia nella valle dell'Albegna. La cessazione di un mercato a raggio mediterraneo che investe la campagna della Toscana centro-meridionale, non significa pertanto una drastica cesura ad ogni tipo di attività commerciale e l'approdo a rapporti di scambio in natura, limitati localmente. Un'economia di mercato, pur con caratteristiche subregionali (se non microregionali per le aree più periferiche;ó) continua a sussistere. Le ceramiche con ingobbiatura di colore rosso, hanno infatti un grande raggio di distribuzione nell'intera regione per tutta l'età tardoantica sino alle soglie dell'alto medioevo;s. In quelle zone dove tali prodotti proseguono nella loro diffusione ancora durante il VII secolo, chiaramente operano officine specializzate che mantengono uno standard produttivo qualitativamente di buon livello e che trovano domanda in una popolazione in grado di acquistare. Non siamo ancora a livello di produzioni a carattere familiare nel reperimento di suppellettili; anche le ceramiche da fuoco mostrano la presenza massiccia di forme monotone nelle loro caratteristiche morfologiche ma fabbricate in serie, con impasti selezionati, ed un ottimo livello di elaborazione. Un modello insediativo di passaggio In altre parole, possiamo parlare di una trasformazione traumatica della rete insediativa e di una caduta verso il basso della qualità della vita. Ma non è la fine di tutto.
Si osserva una rottura con i secoli precedenti ed il verificarsi di nuove realtà territoriali nelle quali la campagna continua bene o male ad essere occupata con la stessa tendenza distributiva del periodo precedente: zone di popolamento alternate a zone di vuoto e sfruttamento delle medesime aree già occupate nella fase tardoantica. L'elemento di differenziazione si profila nello spostamento delle case di poche centinaia di metri, raggiungendo sempre posizioni sommitali. Ed è questa la novità in relazione alle scelte insediative ovvero la riconquista dei terreni più innalzati (si veda Fig. 2 per la rete insediativa tardo antica e la rete insediativa di VI-VII secolo sul Chianti senese) 60. Da un punto di vista strettamente socio-economico, si verif~ca invece il passaggio ad un periodo di breve durata (poco più di un cinquantennio), immediatamente successivo alla guerra greco-gotica, connotato da una popolazione di umile condizione sociale e tenore di vita uniformato: le indicazioni materiali non mostrano infatti la presenza di una gerarchia insediativa con centri dominanti e centri dipendenti, bensì una serie di piccole abitazioni strutturalmente omogenee. Si ossenano indici demografici bassi ed è la conseguenza del venire meno di forme insediative legate ai diversi modelli di sfruttamento del suolo in essere nei secoli precedenti: scompaiono ville, villaggi ad esse collegati e case medio-grandi. Il decadimento di organismi produttivi egemoni ed una mutata organizzazione statale nella quale non si amministrano più le campagne, lascia posto ad una popolazione rurale che da semplice strumento di produzione soggetto a rapporti personali di vario titolo (seni, seni quasi coloni, coloni ecc.) e ad obblighi fiscali, si trasforma probabilmente in una massa slegata da qualsiasi tipo di vincol 61,. Ci troviamo di fronte ad una fase di interfaccia tra la fine di un sistema gestionale delle aree rurali derivato dal mondo tardo romano ed una riorganizzazione della campagna che avrà pienamente inizio solo un secolo più tardi. Esiste rottura con il passato e recessione ma non scompaiono popolamento rurale e attività di tipo commerciale; si ossenano invece realtà locali molto simili, con caratteristiche di subregionalità, al cui interno si muovono individui dotati di un'autonomia decisionale forse senza precedenti. Non sembra che il vuoto creato dalla scomparsa della classe padronale tardoantica venga riempito, in questo periodo, da un nuovo ceto rurale egemone; non si ha l'impressione che i longobardi si insedino immediatamente nelle campagne e diano inizio ad un riassetto dettato da proprie forme di sfruttamento. Il modello insediativo in atto può quindi essere definito caotico, intendendo con questo termine il verificarsi di un'occupazione della terra non pianificata ed organizzata come avveniva tra III e V secolo, piuttosto uno sfruttamento disordinato e dettato dalle necessità degli individui (si veda Fig. 8 per l'esemplificazione del modello). Questo genere di vita, come affermato poco sopra, relazionabile ad una situazione di passaggio, inizierà a trasformarsi nuovamente a partire dagli anni intorno alla metà del VII secolo. In tale scorcio si può infatti ossenare la presenza di una nuova struttura materiale che va ad inserirsi tra le componenti della maglia insediativa sinora illustrata: I'edificio di carattere religioso. Chiese sorgono infatti nelle immediate vicinanze (anche in questo caso poche centinaia di metri) delle case contadine rintracciate nel corso delle indagini estensive. È un fenomeno particolarmente chiaro nel Chianti senese: in località S. Marcellino, in posizione centrale rispetto alle abitazioni rurali, esiste una chiesa, eretta facendo uso di materiale di recupero proveniente dalla villa tardountica almeno sin dal 654t:; in località Sestano viene consacrata la chiesa di S. Simpliciano nell'anno 679 ad opera di Vitaliano vescovo di Siena 63. Dobbiamo leggere in tali eventi il verificarsi di una fase embrionale della riorganizzazione delle campagne e la conclusione della fase d'interfaccia individuata. È il passaggio ad un modello insediativo e socio-economico al cui interno gli edifici religiosi costituiscono uno dei poli di aggregazione della popolazione rurale (forse i primi)~; ed ai quali, con ogni probabilità, si affiancheranno iniziative di carattere prettamente laico-signorile da lì a poco, intorno alla fine del VII secolo 65 (si veda nuovamente Fig. 8 per 1'evoluzione del modello caotico). M. V. 4. La riorganizzazione delle campagne fra VIII e IX secolo
Non si sa quanto poté durare questa fase di pressoché totale indefinitezza insediativa. Forse per tutto il VII, forse f no alla metà dell'VIII secolo. Complessivamente il dato archeologico emerge ancora con difficoltà su tutta l'area indagata; se i fossili guida di VI e VII secolo sono di difficile defmizione, quelli di VIII e IX secolo sono qui ancora in gran parte da individuare 66. La campionatura di territori che si presenta in questa sede permette comunque, grazie all'ampiezza del quadro complessivo ed alla varietà dei casi presentati, di integrare documentazione scritta e dato archeologico e di proporre alcune ipotesi circa i modelli del popolamento nel periodo che può definirsi della "riorganizzazione". Appare con chiarezza, fra VIII e IX secolo, una radicale trasformazione del paesaggio, che, accanto ad una complessiva riorganizzazione territoriale, vede la nascita di modelli insediativi completamente nuovi. In questo periodo si afferma infatti e si diffonde in Italia il sistema curtense. Fino a non molto tempo fa solo la documentazione scritta consentiva di fare un po' di chiarezza su questo nuovo tipo di organizzazione del territorio ed è ancora controverso il dibattito sulla originalità o non originalità di tale sistema rispetto a modelli precedenti di organizzazione della proprietàóó. Quello che tuttavia, ancora oggi, ci impedisce di cogliere con chiarezza il rapporto fra il sistema curtense ed i fenomeni di risalita e di accentramento dell'insediamento, attestati dalle ricognizioni di superficie, è il fatto che si conosce la curtis quasi esclusivamente come sistema giuridico ed economico, dunque le fonti sono in gran parte documentarie, mentre al contrario, per quanto riguarda le fasi iniziali dell'incastellamento, spesso si dispone dei soli dati archeologici. Nella valle dell'Albegna i documenti archeologici relativi ai secoli VIII e IX sono molto scarsi e talora confusi con quelli dei periodi precedente e successivo. E comunque possibile osservare che, fra la fine del VII ed il IX secolo, I'insediamento spars? va rarefacendosi senza che altre forme sicure di abitato ne prendano il posto. E probabile che, come in altri casi più noti (Scarlino etc. v. infra), gli insediamenti si presentino già sotto forma di nuclei accentrati e che si trovino quindi al di sotto delle più evidenti fasi fortificate dei castelli medievali; va ricordato a questo proposito che l'assenza di indagini stratigrafiche lascia necessariamente aperta la questione. In sostanza è difficile stabilire, basandosi solo sul dato archeologico di superficie, se questo periodo costituisca una fase di ulteriore degenerazione del paesaggio già degradato di VII secolo (fase caotica) oppure se, come sembrano dimostrare altri territori (Roccastrada), in esso siano già in azione i fattori che plasmeranno la fase successiva. L'interpretazione di queste tenui tracce archeologiche deve quindi inevitabilmente essere mediata dalla analisi dei documenti scritti 68. Questi, almeno per il periodo VIII-IX, secolo sono per lo più circoscritti alla alta valle dell'Albegna 69 ed attestano 1'esistenza di casalia (Tr;aa e Faclano, presso Roccalbegna) e di villaggi (Semproniano). Altri documenti della seconda metà dell'VIII secolo, relativi alla bassa valle dell'Ombrone, citano le cartes di Tocciaro e Lasciano ir loco Maritima, nella diocesi di Sovana70. Molti di questi siti, dei quali non sempre è stato possibile rintracciare l'esatta ubicazione (vedi Figg. 5-6), vengono successivamente occupati da castelli. Accanto a cartes e villaggi la documentazione scritta registra tuttavia anche l'esistenza di un insediamento sparso che, nella zona compresa fra il Monte Labbro ed il Monte Amiata, appare relativamente denso, come si ricava da un documento dell'anno 807 relativo alla proprietà di Litiniano. Questo potrebbe essere interpretato come il riflesso di un fenomeno di riaggregazione, presumibilmente indotto dalle grandi istituzioni ecclesiastiche e guidato localmente dalle chiese. Tale processo troverà compiutezza nel IX secolo inoltrato, con la vera e propria "colonizzazione" benedettina del comprensorio, attuata dal monastero romano delle Tre Fontane. Alla luce dei documenti, sembra quindi già avviato, in questi secoli, quel processo di riassestamento e di riequilibrio del paesaggio della valle che dovrà concludersi con l'incastellamento. Il territorio del monte Amiata presenta, in questo particolare momento storico, delle caratteristiche particolari. Qui, infatti, la fondazione regia del monastero di San Salvatore, già attestato nell'anno 762~z, rappresentò un momento di grande rottura con il passato e diede origine ad un paesaggio completamente diverso ed incentrato sul nuovo polo dell'abbazia.
Questa sorse alla quota di 830 metri in una zona montagnosa e relativamente marginale da un punto di vista politico ed economico; la fondazione diede un immediato impulso al dissodamento di ampie superfici. Al paesaggio altomedievale dell'abbazia vanno con ogni probabilità ascritte le trenta vasche scavate in blocchi erratici di pietra vulcanica (trachite), rinvenute fra i 600 ed i 1000 metri di quota 73. La presenza delle vasche, utilizzate probabilmente come bacini per la pigiatura dell'uva, induce a pensare che le colture di pregio dovessero essere uno dei tratti dominanti lo spazio circostante l'abbazia. Queste stesse strutture, tuttavia, possono anche essere messe in relazione con una attività metallurgica a piccola scala74, facilmente spiegabile in un'area ove sono presenti tracce di mineralizzazione cuprifera 75. Sulla montagna si era inoltre radicato lo sfruttamento delle risorse boschive mentre nel fondovalle prevalevano le attività legate alla ospitalità ed al commercio con i pellegrini in transito verso Roma lungo la via Francigena. I monaci dunque non si limitarono a "colonizzare" la montagna, ma riorganizzarono radicalmente anche il fondovalle del torrente Paglia dove, a partire dalla tarda antichità, si era registrato un progressivo abbandono degli insediamenti disposti lungo il diverticolo della via Cassia. Lungo questa strada, poi divenuta la Via Francisca o Francigena 76 si sviluppò, sul sito di una piccola mansio romana, I'abitato di Callevala. Tale insediamento (vedi Fig. 5), noto dai documenti a partire dall'876 (ODA 157), divenne, grazie alla sua posizione strategica, un importante luogo di incontro e costituì anche un polo demografico di rilievo nel paesaggio abbaziale. Verso sud un ruolo analogo a quello di Callemala era svolto da B?~rgo Rico o Richol~?~rgo (attualmente podere Burburigo, vedi Fig. 5). L'abbazia costituì dunque, quasi dal niente, un paesaggio ad essa funzionale, con stazioni di posta sulla Francigena, villaggi in cui risiedeva la popolazione del fondovalle, piccole strutture nelle campagne ad essa prossime in cui si producevano le derrate agricole 77. La documentazione scritta ci conferma questo quadro individuando nella fine dell'VIII secolo un periodo florido per l'abbazia ed un grande sviluppo nella prima metà del IX secolo 78. Nel territorio rosellano una prima forma di riorganizzazione dell'insediamento, sia per iniziativa delle popolazioni locali, sia per iniziativa dei ceti egemoni (autorità ecclesiastica e laica), è attestata dalle fonti già a partire dall'VIII secolo7~. I documenti attestano l'esistenza di aziende curtensi (almeno 7 nell'VIII secolo), e di altri nuclei di popolamento tipo casalelvicas (6 nell'VIII) e villa (2 nell'VIII). Molti di questi insediamenti (almeno 9) daranno vita a dei castelli. Va notato che le fonti attestano per il comprensorio rosellano molte più aziende curtensi rispetto ai vicini territori di Populonia e Sovana. Pur non potendo localizzare con certezza i centri di queste c~rtes, si può ragionevolmente supporre che si trovassero nell'area poi occupata dai castelli che mantengono lo stesso nome (Buriano, Castiglion della Pescaia, Campagnatico, etc., si veda Fig. 6). La disposizione di queste aziende e degli altri abitati mostra che la sola curtis di Flaciaram (ad ovest di Roselle, vedi Fig. 6 ) si trovava in pianura, mentre le altre erano tutte disposte su rilievi compresi fra 50 e 200 metri di altitudine. La risalita pare dunque fatto compiuto già nell'VIII secolo. Parallelamente alla risalita, la presenza di aziende curtensi attesta anche un riassetto della proprietà fondiaria e dello sfruttamento del territorio che, con l'età carolingia e fra alterne vicende, vede la famiglia lucchese degli Aldobrandeschi come protagonisti. Alcuni elementi forniti dalle ricerche di superficie, paiono confermare le ipotesi basate sull'interpretazione delle fonti scritteau. Si sono infatti rinvenuti, in tre dei castelli medievali (Fornoli, S. DisdagiolS. Anastasio e Litiano), frammenti ceramici probabilmente altomedievali (associabili con quelli delle vicine fornaci3~). Presso uno di questi castelli (Fornoli) inoltre, a circa 300 metri di quota, si trova un insediamento sorto in età romana e vissuto fino al VI-VII secolo, la cui popolazione con ogni probabiltà confluisce, già nell'VIII secolo, nel poggio soprastante. Un processo del tutto analogo sembra verificarsi anche per altri castelli dell'entroterra rosellano (abitato tardoantico-altomedievalel castello di Torri, vedi Fig. 6) e del territorio scarlinese 82 (villa romana “ La Pievelcastello di Scarlino, fattoria Casa Val dilcastello d'Alma, v. Fig. 6). Questi siti costituiscono una prima forma di accentramento della popolazione, per lo più in sommità. L'approdo alla forma insediativa del castrumè dunque la sanzione di una realtà in parte già esistente 83.
E molto verosimile supporre dunque che molti degli insediamenti fortificati del territorio esistessero già come villaggi: di ciò soltanto l'indagine stratigrafica sistematica potrà dare conferma. Nel caso di Scarlino tale conferma c'è stata. Lo scavo ha infatti individuato un abitato di capanne anteriore alla chiesa tardo-carolingia ed alla prima cinta muraria e quindi un fenomeno di risalita e di accentramento distinto dal successivo intervento di fortificazione 84. A differenza di altri contesti, come il monte Amiata e l'area populoniese, nell'antico agro rosellano i documenti non attestano una forte e totalizzante iniziativa di riorganizzazione del paesaggio ad opera del vescovado di Lucca. È interessante ricordare, a questo proposito, che ancora nell'VIII secolo, una parte del territorio rosellano rientrava sotto la giurisdizione civile della città di Chiusis3. Se anche è certa la presenza di singoli medi proprietari lucchesi, il quadro che emerge, come per l'area del Chianti, è piuttosto una pelle di leopardo dove potrebbero aver avuto un ruolo anche forze diverse, sfuggite al controllo dei proprietari. I dati di cui si dispone per il territorio di Populonia in questi due secoli sono pressoché esclusivamente documentari. Anche in questo caso, la documentazione scritta di VIII e IX secolo attesta una riorganizzazione del territorio per curtes (s. Vito in Cornino, Monte Iuneo, Casalappi etc.), vici (Paterno Maiure, Paterno Minore) (vedi Fig. 6) e casalia 86. Sono attestate case sparse, case con fondazioni in pietra e villaggi, che sembrano aver lasciato tracce solo toponomastiche sul territorio. Scarse sono anche le notizie relative all'abitato altomedievale di Populonia, che, dopo un'incursione avvenuta nell'anno 809, sembra aver trasferito la sua sede vescovile in (;or~ino, cioè nella bassa Val di Cornia37, in un luogo di cui non conosciamo ancora 1'esatta ubicazione8~. Quest'area appare inoltre caratterizzata dalle presenza di due grossi enti ecclesiastici, entrambi situati nel Waldus Kegis 89 l'episcopato lucchese a cui apparteneva, nell'VIII secolo, la chiesa di San Regolo in Gualdo (forse attuale fattoria S. Regolo, Frassine, vedi Fig. 6) 91, ed il monastero di San Pietro in Palazzuolo di Monteverdi (Fig. 6). Quest'ultimo fu fondato nel 754 sotto la regola di S. Benedetto, e, al momento della fondazione, comprendeva parte di un casale, e due c?~rtes con le relative pertinenze 92. I documenti relativi al periodo successivo attestano una decisa opera di colonizzazione del territorio da parte dei monaci, opera tesa al dissodamento di terre incolte e ad un più organico sfruttamento dei terreni già coltivati 93. E evidente quindi la forte impronta ecclesiatica nella riorganizzazione dell'insediamento e nella colonizzazione di questo territorio che, dall'economia prevalentemente silvo-pastorale dei secoli VII e VIII, passa ad un'economia mista (leggibile nei documenti di X secolo), dove, seppure in percentuale minore, sono presenti anche colture arboree, vigneti ed oliveti 94, secondo un modello molto simile a quello già analizzato per il territorio dell'Abbazia di S. Salvatore al Monte Amiata. L'area del Chianti senese, pur mancando per questo periodo di dati archeologici, dispone di una eccezionale raccolta di documentazione scritta, il “Cartalario” della Berardenga, che consente di ricostruire, almeno in parte, le vicende storico-economiche di questo territorio per i secoli IX-XIIIse Ben poco si sa dell'VIII secolo, momento nel quale, secondo una tendenza già avviata nel secolo precedente, I'insediamento sembra tornare a coagularsi. Il popolamento comincia infatti a ruotare attorno ad alcune chiese, dall'VIII secolo sedi plebane, ma esistenti probabilmente già da prima (è il caso della chiesa di San Simpliciano a Sestano, consacrata nel 6799b). In fenomeni di questo tipo si possono intravedere le origini della ripresa della campagne, attestata dalle fonti documentarie nel corso del IX secolo. Il più antico documento inserito nel Cartulario, relativo alla fondazione di un cenobio femminile nel territorio della Berardenga (a. 867, C.B. LIII)97, offre il quadro di un territorio densamente popolato, dove coesistevano diverse forme di insediamento ed interagivano diversi organismi economici. Nel documento si parla di villae, di casalia, di cartes, con diverse articolazioni interne ed, in alcuni casi, con specializzazioni economico-produttive. Schematizzando, è possibile individuare tre tipi di abitati:
- abitato 1: azienda agricola strutturata su due piccoli abitati vicini 1'uno all'altro, circondati di aree agricole ed aree boschive. In uno degli abitati risiedono i servi adibiti all'allevamento ed alla pastorizia, nel secondo sia servi sia liberi che coltivano. È il caso di Ganpi-Septiminula. - abitato 2: destinato solo alla pastorizia, abitato da soli servi (3 nuclei familiari) (Caspreno). - abitato 3: sviluppato intorno ad un ediflcio religioso (Sestano). La curtis appare meno diffusa ma si possono ugualmente individuare due modelli, il primo, quello "classico", con parte dominica e parte massaricia, (il caso di Clatina), il secondo generalmente organizzato intorno ad una chiesa, con centro dominicale assai ridotto o quasi inesistente (S. Paolo, S. Fabiano, Gamunsa). Emerge quindi un quadro estremamente variegato, ma già ben organizzato del territorio, nel quale, accanto alle curtes che possiamo definire tradizionali, troviamo altre forme intermedie di organizzazione dell'insediamento, come le villae o i casalia. Tale diversiflcazione, parte legata alla varieti del paesaggio, parte dovuta alla preesistenza di altre strutture economiche, e caratteristica di molta parte del territorio toscano e testimonia, anche in questo caso, il carattere del tutto peculiare che il sistema curtense assunse rispetto al modello economico iniziale. Le fonti scritte e i dati archeologici consentono quindi di individuare, dopo una fase intermedia caratterizzata dall'assenza di "sistemi" chiaramente identificabili, la nascita di un nuovo paesaggio nel quale è possibile riconoscere l'iniziativa dei ceti egemoni (autorità ecclesiastica e laica) nella riorganizzazione dell'insediamento e delle campagne. Questa nuova gestione del territorio si riflette da un lato nella generalizzata affermazione del sistema curtense 99, dall'altro nella spinta colonizzatrice degli enti monastici e sembra coinvolgere, pur con modi e tempi diversiflcati, tutta l'area esaminata. Se per quanto riguarda l'insediamento, sono ormai generalizzati la risalita e l'accentramento fra fne VII ed VIII secolo e la rinascita di un insediamento sparso (casaelcasalia) fra la fine dell'VIII ed il IX secolo, da un punto di vista della gestione economica del territorio, appare evidente una differenziazione fra le aree di immediata pertinenza regia e vescovile (Amiata e territorio populoniese), dove più forte si è rivelata l'iniziativa delle nuove fondazioni monastiche e le aree più periferiche (Roselle e Chianti senese) dove i nuovi modelli coesistono, almeno inizialmente, con forme di gestione più arcaiche e talvolta spontanee. S. G. Conclusioni Il modello riassuntivo dell'insediamento nella Tuscia tardoantica e nella Toscana altomedievale fu il prodotto di molteplici modelli o, meglio, il risultato di una serie di linee di tendenza diversificate. Emergono così composizioni di varia struttura e natura che si tenterà qui di elencare e di commentare, partendo dalle tipologie più accentrate per arrivare a quelle più sparse. IV-Vsecolo D.C. (Fig. 7) Modello A1 - Le ville si dispongono intorno alla città, formando un cerchio. Produzione estensiva diretta verso il mercato cittadino ancora in grado di rappresentare una domanda adeguata. Diffusione: ager asas, Chianti senese. Habitat: pianure. Modello A2 - Simile al modello A1 ma distribuito in aree più decentrate anche se non periferiche. Diffusione: age-asas e ager popaloiesis. Habitat: fondovalle ed aree ben servite dalla viabilità. Modello B 1 - Case di mediograndi dimensioni, disposte al centro di un "territorio" occupato da case contadine, distribuiti per sistemi flniti e relativamente chiusi. La produzione è in parte diretta all'autoconsumo, in parte mediata dalle case più grandi verso il mercato cittadino. Rapporto di
produzione simile al modello mezzadrile. Diffusione: agerRasellan~s settentrionale, Chianti senese. Habitat: media collina e fondovalle. Modello B2 - Case mediolpiccole sparse prevalentemente nelle aree più marginali e meno fertili. Produzione per l'autoconsumo. Diffusione: agerr:osanas, agerRasellanas. Habitat: zone collinari elevate. Modello C - Ville alternate a villaggi da esse dipendenti nelle zone talvolta assai periferiche ma dotate di buone potenzialità agronomiche. Produzione per il mercato urbano. Diffusione: ager~osaH~s. Habitat: pianure costiere. Vl secolo Modello D - Tendono a scomparire i villaggi aperti, le case medio-grandi ed un'alta percentuale delle ville. Disarticolazione dei modelli insediativi tardountichi e sopravvivenza degli insediamenti sparsi collegati e dipendenti Metà VI-VlI secolo (Fig. 8) Modello E1 o caotico - Case monofamiliari piccole e talvolta piccolissime, riuso di ambienti interni delle ville. Maglia insediativa a compartimenti stagni, diffusa sui medesimi terreni occupati nella tarda antichità. Produzione agricola per l'autosussistenza, esistenza di mercati subregionali e microregionali. Fase di interfaccia tra mondo romano e mondo medievale. Diffusione: ager (?osanas, ager Rasellan~s settentrionale, Chianti senese. Habitat: medio-alta collina. Modello E2 - Rappresenta una evoluzione di E1. All'interno dei "territori": chiese al centro della maglia insediativa formata da case contadine. L'edificio religioso sembra funzionare da polo di aggregazione per la popolazione: si tratta di una fase embrionale di riassetto delle campagne. Diffusione: ager Rusellas settentrionale, Chianti senese. Habitat: medio-alta collina. Vlll-lXsecolo (Fig. 9) Modello F1 - I monasteri dell'VIII secolo, di fondazione regia o più raramente signorile, sono i centri propulsori di un nuovo sistema insediativo a pelle di leopardo in cui i nuclei accentrati (intendendo per essi le realtà individuate dai termini di curtis e di villa) danno inizio ad un processo di ricolonizzazione. Diffusione: ager Popaloziensis e area amiatina. Habitat: fondovalle e alta collina. Modello F2 - Curtes alternate a nuclei accentrati composti da tre-otto case abitate da una popolazione eminentemente servile. Legati al potere signorile locale, rappresentano vere e proprie aziende agricole dedite ad uno sfruttamento spazio-temporale coerente della terra; una variante mostra villaggi frequentati da manodopera servile specializzata nell'allevamento. Diffusione: Chianti senese. Habitat: alta collina. Modello F3 - Villaggi di medio-grande entità, discretamente popolosi' con case piccole sparse nei dintorni. Talvolta i villaggi sono anche stazioni di posta nei fondovalle e lungo la viabilità principale, assai di frequente dipendenti dai grandi enti religiosi della zona, spesso abbazie. Diffusione: area amiatina. Habitat: fondovalle. FRANCO CAMBI, CARLO CITTER SILVIA GUIDERI, MARCO VALENTI
1 Sono stati presi in considerazione i seguenti contesti: Fra la valle dell'Albegna e il Fiora (F. Cambi, A. Carandini, MG. Celuzza, E. Fentress, E. Regoli); Grosseto (C. Citter); Roccastrada (S. Guideri), Scarlino (C. Cucini); Vetulonia (C. Curri); Territorio populoniese (A. Casini); Chianti senese (M. Valenti), Abbadia San Salvatore (F. Cambi). I progetti sono stati diretti da A Carandini e R. Francovich nell'ambito delle attività del Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti (Università di Siena) e del Dipartimento di Scienze Archeologiche (Università di Pisa). 2 Cfr. NOYE 1988; RANDSBORG 1989; FRANCOVICH-MILANEsE 1990; BARKER-LLoYD 1991. 3 Sono in corso alcune ricerche della Soprintendenza Archeologica della Toscana: C[AMPoLTRINl-RENDlNl 1988, 1989 e 1990. 4 Secondo la ricostruzione di L. Cracco Ruggini (1964) il confine fra le due Italie passava per queste linee: fiume Magra-ramo sud del Po (inizi IV secolo), Volterra-fiume Rubicone (395 d.C.); Volterra-fiume Esino (398 d.C.); dopo il 402 ancora più a sud. Cfr. anche GIARDINA 1993. 5 Bibliografia essenziale: CAMBI 1991 e 1993; CARANDINI 1985; POTTER 1979. Con bibtiograLa precedente. 6 CITTER_GUIDERI C.S. 7 È il caso della villa di Selvello e di due villaggi. Cfr. CITTER_GUIDERI C.S. e, per altri versi, CURRI, 1978, P. 40; CUCINI, 1985, P. 300. 8 CUCINI 1985. 9 Rut. Nam., de rediu, 1, pp. 371-380. 10 Cfr. CARANDINI 1988, PP. 56ss.; cfr. anche G. Pucci in CARANDINI 1985, P. I5ss. 12 Fra il Tevere e Populonia forse soltanto CentumCellBe e Nepet furono nella tarda antichità, se non fiorenti, almeno benestanti. Le altre città, dopo alcuni tentativi di recupero effettuati dal potere imperiale, particolarmente fra i Flavi e Traiano, in età severiana e in età dioclezianea, non si risollevarono mai più: cfr. PAPI 1990. 13 DE NEEVE 1990. 14 KUZISCIN 1984, p.216 ss.; FORABOSCHI 1992, p.114 ss.; MANACORDA c.s.; MANACORDA 15 CAMBI c.s. 16 CARAND[NI 1989. 16 LIVERAN[ 1987. 17 KUZISCIN 1984, p.216 ss.; CAMBI 1991. 18 CARANDIN! 1985, pp.170~171 19 CARANDINI C.S. 20 Comunicazione personale di E. Regoli. 21 CAMBI 1991; WARD PERKINS-KAHANE-MURRAY THREIPEAND 1968. 22 CORBIER 1981; DE NEEVE 1990. 23Questa tendenza è assai più diffusamente documentata in Apulia: cfr. VOLPE 1992. 24 CAMBI I99I e 1993; CARANDINI I989. 25 FIOCCHI NICOLAI I988, P.306; CAMBI I99I. 26 Cfr. VITA FINZ[ I969 e POTTER 1979. 27 HEMPHILL 1988. 28 CAMBI I99I; POTTER C.S. 29 È il caso degli Ostrogoti di ad Turres (COSENTINO 1986) e di Monte Canino (FIOCCHI NICOLAI 1988). 30 CITTER_GUIDERI, C.S. 31 Per gli aspetti archeologici cfr. CITTER 1993; per un qUadro storico cfr. GASPARRI 1 990. 32 GELZER 1890. 33 FENTRESS etal. 1992. Per una diversa interpretazione: C[AMPOLTRINI_NOTINI 1993. 34 FENTRESS el al. 1992 35VON VACANO 1985 el988; CrAMPoLTRINl-NoTlN2 1993, ove è suggerita una datazione diversa.
36 CIAMPOLTRINI 1987. 37 CHRISTIE 1989, MANNONI-MURIALDO 1990. 38 LUTTWAL 1986. 39 CITTER 1993. 40 Si veda VALENTI 1991. 41 Tipi Hayes 91C, 99, 104. 42 CAMBI_FENTRESS 1989. 43 Due esemplari di brocche ad impasto depurato con superfici esterne lisciate a stecca provengono dallo scavo effettuato nella zona di Castelnuovo Berardenga cui accenneremo nelle pagine segUenti. I materiali sono ancora inediti. 44 Bacini emisferici con labbro rientrante tipo Hayes SO, 61, 61A, 84, 99, 99A; ciotole coperchi con orlo introflesso tipo Hayes 61B, Lamboglia 55A; con orlo estroflesso tipo Hayes 192, Lamboglia 22; piatti con tesa tipo Hayes 73, Lamboglia 51, 51A, grandi ciotole listellate tipo Hayes 99C, 99D. 45 CUCINI 1985, pp. 214-217, n. 118; pp. 262-265, n. 235. 46 CIAMPOLTRIN.-RENDINI 1 988. 47 S. Vincenzo al Volturnoo 1989 e bibliografia ivi contenuta. 48 Nel caso di Fontealpino, oltre all'abbandono dell'edificio termale, si verifica il taglio del mosaico effettuato in occasione del riuso dell'ambiente. 49 PAOLUCCI 1988, PP. 43-45, n. 10. 50 DOBBINS 1983. 51 VON HESSEN 1983 e bibliografia ivi contenuta; CURRI 1978. 52 ANDREOLI CIAMPOLTRINI 1989. 53 FRANCOVICH-CUCINI-PARENTI 1990, P 61-63 54 FRANCOVICH-CUCINI-PARENTI 1990, p. 64; FRANCOVICH-HODGES 1990, pp. 29-30. 55 Riguardo alle attività lavorative del ferro, si osserva che la zona del Chianti senese non presenta alcun tipo di giacimento metallifero, le aree di approvvigionamento più vicine si trovano nel sud dell'attuale comprensorio provinciale tra val di Merse e Colline Metallifere. 56 Si tratta di esemplari coniari in età tardoantica che continuano a circolare ed essere accettati. 57 VALENTI 1992 e bibliografia ivi contenuta. 58 Sembra questo il caso di Roccastrada, zona nella quale le fornaci individuate si dislocano tra le maglie della rete insediativa costituita dalle abitazioni sparse. Al riguardo si veda CITTER-GUIDERI C.S. 59 Per la distribuzione di tale classe in ambito toscano e neN'Italia centrosettentrionale si vedano Fiesole 1990; VALENTI 1991 e bibliografiche ivi contenute. 60 Per la zona di Roccastrada e per il Chianti senese si può facilmente pensare, vista la vicinanza dei corsi d'acqua alle strutture rinvenute, a fenomeni di impaludamento delle superfici pianeggianti. Su queste ultime, tra l'altro, sorgevano molte delle strutture di età tardoantica. 61 Si veda WICKHAM 1983 e 1988 per considerazioni analoghe. 62 MARON[ 1973 p. 87 63 MARON[ 1973, p. 173. 64 Non casualmente data all'anno 650 la celebre controversia tra i vescovi di Arezzo e Siena per la potestà su alcune chiese e pievi del territorio senese: si veda il Codice Diplomatico Longobardo (CDL: SCHIAPPARELEI 1929-1933), p. 10. 65 Allo stesso modo, i primi interventi sulle campagne senesi da parte di esponenti della nobiltà di origine longobarda dei quali si ha notizia, datano all'anno 678 (restauro dell'oracolo di S. Ansano a Dofana da parte dei gastaldi senesi Willerat e Zotto suo figlio) ed all'anno 700 (Willerat costruisce all'interno della stessa chiesa duo altaria fatti poi consacrare da Magno vescovo di Siena): siveda CDL, p.62; MARON[ I973, pp.92-93 perconsiderazioni suldocumento. 66 Solo sporadici sono stati, fmo a questo momento i rinvenimenti di ceramica a vetrina pesante, cfr. PAROL[ 1992, pp. 279-318; CUC[N[ 1989, p. 502. 67 Si veda, a questo proposito la sintesi di ANDREOLLI-MONTANAR1 1985, pp.25-43. 68 Per un più approfondito esame di questi temi si veda FENTRESS WICKHAM C.s. e CAMBI FENTRESS 1989. 69 Archivio del monastero di San Salvatore al Monte Amiata: CDA (KURZE 1974-1982). 70 CDL 105,108,167,238 71 CDA 149. 72 KURZE 1989, p.39. 73 Cfr. CAMBI_DE TOMMASO 1988. Strutture analoghe, ma realizzate in materiale diverso sono state rinvenute nell'area dei tuft: a Vitozza (Tesi di laurea di Entica Boldrini, anno accademico 1986-1987), a Castel Porciano, cfr. MALLET-WHITEHOUSE, 1967, PP. 113-146 e nel territorio di Roccastrada. 74 Nei pressi di una di queste sono state rinvenute scrie di lavorazione metallurgica. 75 Cfr. BENVENUTI-GUIDERI-MASCARO 1991, P. 188. 76 SZABÒ 1989; STOPANI_MAMBRINI 1989. 77 CAMBI_DE TOMMASO 1988. 78 WICKHAM 1 989. 79 CDL, CDA, WOLF VON GLANVELL 1905. Si veda inoltre CITTER-GUIDERI C.S.
311 Cfr. CITTER GUIDERI C.S. 81 V. paragrafo precedente. 82 CUC[NI 1985, P. 301. 83 FRANCOVICH-CUCINI-PARENTI 1990, P. 14. 84 FRANCOVICH 1985 e 1989, p. 169. 85 CARDARELLI 1932, p. 219; CECCARELLI LEMUT 1985, p. 24; TABACCO 1973, pp. 163-189; TABACCO 1 989. 86 CDL 1929-1933; ROSSETTI 1973. 87 CECCARELLI LEMUT 1985, p. 21. 88 GELICHI 1984. 89 Il Wald~2s Regis def nito da Schneider come “un'immensa foresta demaniale [..] nella quale si fermò uno stanziamento intorno alla chiesa sepoltura del vescovo africano Regulus, morto nel 542, S. Regolo in Galdo ”; SCHNEIDER 1975, p. 120. 90 “ECCI. Sancti Regoli in Waldo Lucinsem” (a. 782), cfr. BARSOCCHINI-BERT[N[ 1836, IVl 1,n.90,p. 144. 91Vita S. Walf7-idi abbatis i7Y Et7~27-ia, in Acta Sactom, Feb7~a7-ii XV, pp. 843-846, par 4 (ADORN[ 1983, p. 20). 92 CDL, I, n. 116, p. 351. red. C, r. 615 (ADORNI 1983, p. 22, n. 60). 93'Tale operazione appare ben evidente dai documenti presentati nella sintesi di P. Adorni, che tuttavia tende a ridimensionare in maniera eccessiva il ruolo dei monaci neNa riorganizzazione dell'insediamento (ADORN[ 1983, p. 20). 94 CECCARELL~ LEMUT 1985, PP. 28-29; ADORNI 1983, PP. 23-24, n. 64, n. 67. 95 Su questQ territorio si veda VALENTI 1988. 96 v. par. precedente. 97 CASANOVA 1927. 98 ANDREOLLI-MONTANAR~ 1985, PP. 147-158 99 ANDREOLLI-MONTANARI 1985, PP. 61-62.
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Paysages et cadres de vie dans les Abruzzes durant le haut moyen-age Les Abruzzes couvrent toute la partie sud-orientale du duché de Spolète. Elles sont divisées, au IXe siècle, en cinq comtés: Marsica, Valva, Chieti, Penne et Teramo, auxquels il convient d'adjoindre deux autres territoires, limitrophes de la Sabine, et au statut plus incertain, Amiterno et Forcona. Aucun des comtés étudiés ne correspond à un territoire municipal antique: ce sont des créations du haut moyen age. La question essentielle qui se pose à lcur propos est moins celle de lcur origine que de celle de lcur hiérarchisation, de l'articulation entre les différents cadres du peuplement, cité, diocèse et comtés d'une part, plebes, vici et casalia d'autre part, et celle de la fonctionnalité de ces différentes structures à l'intérieur du territoire abruzzais. I. Comtés, diocèses et villes Deux zones s'opposent avec clarté: la zone intra-apennine et le versant adriatique de la région. Les cités n'y ont pas eu le meme destin et les cadres du peuplement y sont, au IXe siècle, sensiblement différents. a. La zone intra-montagneuse L'armature urbaine antique a toujours été faible dans cette partie des Abruzzes. L'existence de quelques grands centres ne doit pas masquer la fragilité d'un réseau urbuin surimposé tardivement à l'organisation territoriale italique. Il est superflu de dresser ici la liste des cités disparues, d'établir le nécrologe des città del silerjzio. Il suff~t de rappeler que cette organisation cohérente de l'espace disparait entre le VIème et le IXème siècle. Si des cités survivent, on ne peut en aucune manière parler de réseau, et cela d'autant moins que les établissements intermédiaires qui servaient de relais entre cité et territoire ont également disparu. Dans la Marsica, la scule agglomération à caractère urbuin à etre documentoe au IXe siècle est la CivitasMarsicana, I'antique Marrviaw, municipe puis lieu de résidence de l'éveque, dont l'Eglise, construite au cocur de la ville antique à l'emplacement de ce qui était peut-etre une citadelle, est consacrée à sainte Sabine,. La perte du nom ancien est l'indice négatif, mais symptomatique, de la césure intervenue dans la vie urbaine. Les quelques documents la concernant qui nous sont parvenus décrivent la propriété d'un scaldafis, Garibaldo de LaHgobardia qui possède, à l'intérieur des murs, une maison avec son jardin et une curtis s'étendant sur 20 moids (environ 6 hectares) 2. Les limites de sa propriété sont constituces par la via pablica, les murs de la cité, et les propriétés de deux voisins. L'appareil militaire de défense de la cité est encore debout dans le dernier tiers du IXe siècle, meme s'il est évidemment impossible de se prononcer sur son caractère fonctionnel et sur son eff~cacité. La viabilité, dont rien n'exclut que ce soit encore la viabilité antique, existe. Le tissu urbain, cependant, a disparu, ou se limite, désormais, à des noyaux d'habitation isolés, organisés autour de demoures seigneuriales, formant une juxtaposition d'éléments non cohérents entre eux et non un ensemble organique, c'est-à-dire une ville. Il importe de relever, et de souligner, que la petite aristocratie de fonction réside encore à l'intérieur des murs. La cession par Garibaldo de sa maison au monastère de Casauria est peut-etre l'indice d'un début de désertion. Toutofois, La ~ivitasMarsicana conserve, comme Penne et Chieti, une fonction politique. Au Xe siècle les plaids sont rcunis non loin d'elle, et, dans un cas, à l'intérieur de ses murs3. La réunion des assemblées de justice près, ou, dans certains cas, à l'intérieur de la ville est un marqueur de l'activité urbuine, ob du caractère juridiquement urbain de l'agglomération. Toutes les villes abruzzaises attirent les plaids. Dans le cas de Sulmona, de surcroit, la tenne de plaids près d'elle, ir plano de Valva, est le premier signe tangible de son émergence en tant que ville. Les fonctions, ici, I'emportent sur la morghologie. Si la possession par une agglomération de fonctions politique, militaire et religiense suffit, durant le haut Moyen Age, à la déf~nir comme civitas, en dehors de tout, aspect démographique et économique, il ne faut pas
s'étonner de voir que des agglomérations à fonctions urbaines n'aient pas nécessairement cru par la suite. Dans la Givitas Marsicana, le centre antique n'a pas survécu derrière la vieille enccinte, et le tissu urbain s'est distendu à l'extreme. L'Eglise dédice à sainte Sabine occupe le centre géographique de la cité antique, mais demoure en dehors de l'habitat médiéval, et n'attire pas le peuplement. L'absence de développoment d'un centre fait qu'il n'est pas nécessaire de déplacer la cathédrale. De toutes fa,cons, Marrovio sera toujours de dimensions très restreintes: à partir du XIème siècle, I'essentiel des fonctions urbaines de la Marsica s'est déplacé vers Celano, Avezzano, et Pescina4. Marrovio a été incapable de récupérer le centre historique, et de redevenir une véritable ville. Il y a mieux: la cathédrale, pourtant situce au cocur de la cité antique, apparait comme un pole répulsif, la petite agglomération médiévale s'étant constituce le plus loin possible d'elle 5. Valva présente un cas analogue. On sait que la uoHca peligHa abritait, à l'époque classique, au moins trois municipes, Saperasquam, CorEmio et Sulmona. Plus au nord, dans la zone des hauts-plateaux de l'actuel aqb~ilano, d'autres agglomérations ont indéniablement eu un caractère et un statut urbuin: pelt~iHam, Ofena, Forcona et Amiterno. Seuls les territoires de Forcona et d'Amiterno, mais pas les villes, survivent au IXe siècle. Il a donc existé un réseau urbain, hiérarchisé et dense. En dehors de la datation des abandons, ou de lcur caractère effectif (des parties de ces anciens centres sont-elles encore occupoes au IXe siècle?), le problème vient de la disparition définitive du réseau, qui n'est reconstitué qu'au XIIIe siècle, lorsque la croissance de Sulmona est bien assise, et que L'Aquila est fondé 6. Cet écronlement urbain est sonligné par la réduction drastique du nombre des évechés. Au VIe siècle, on en compte six: Marsica, Sulmona, Valva (=Corfinio), Of ena, Forcona. Il ne subsiste, au IXe siècle, que ccux de laMarsica, de Valva et de Furcona. Ces déclassements religieux ont accompagné la déchéance économique de ces centres et lcur dépeuplement. Le fait le plus étonnant, surtout en Italie, réside dans la séparation de la géographie urbaine de la géographie ecclésiastique, les évechés de Valva, de Furcona et de la Marsica ne correspondant à aucun centre urbain actif Il est, en effet, impossible de tronver, avant le XIIe siècle, une agglomération détenant l'ensemble des fonctions urbaines, possédant un pouvoir de commandement sur Un territoire de quelque ampleur et ayant quelque poids démographique. La concurrence que se sont livrées Corfinio et Sulmona pour la possession du siège épiscopal illustre ce fait. Il semble que Sulmona ait, en effet, perdu sa fonction épiscopale durant tout le haut moyen age. Or, tandis que Corfunio stagnait, Sulmona se développait à partir du XIe siècle. Sa première mention dans un texte médiéval date de 1022, et se tronve dans un plaide Alors que la ville n'a peut-etre pas encore de fonction religieuse spécifique, elle est considérée comme suffisamment importante pour que l'assemblée de justice s'y rassemble. Auparavant, elle est convoquée dans l'une des villae du territoire. Le cumul, continu durant la seconde moitié du XIe siècle, des fonctions d'abbé de Casauria et d'éveque de Valva, me semble lié à la croissance de la cité qui, acquérant une importance qu'elle n'avait jamais eu jusque là, devenait un enjeu pour le clergé réformateur. La situation quelque peu inédite créce par le développoment d'un centre urbain anquel ne correspondait plus aucun siège épiscopal, tandis qu'un autre qui en détenait un stagnait, obligea à trouver une solution originale. L'église cathédrale de S. Panfilo, fut remise en activité, et, passant du statut de plebs à celui d'église épiscopale, devint la seconde cathédrale du diocèse, à égalité de droits avec celle de San Pelino 8. Toutofois, les sources concernant Sulmona continnent de considérer San Panfilo comme étant d'abord la pleus de cette ville au moins jusqu'au XIIe siècle. L'ensemble des villes de la zone intra-apennine des Abruzzes connait donc un destin analogue à celui de Marruvio. Elles conservent des fonctions urbaines, mais ne deviennent pas des centres de peuplement. Ce sont des villes incomplètes, qui n'ont ni poids démographique ni ponvoir de commandement sur le territoire. La fonction religiense, meme, ne s'exerce pas nécessairement intra maros. Les églises cathédrales ont été fondées soit à la périphérie des noyaux urbains antiques, c'est-à-dire en dehors des murailles, comme à Sulmona ou à CorEmo, soit, comme à Marruvio, au centre dépeuplé et déclassé de la ville antique. -Aucun noyau urbain médiéval ne s'est développé
autour d'elles, pas plus à Forcona qu'à Corfinio ou à Sulmona. Bien que pourvue d'une cathédrale, Forcona ne devient jamais une cité. A Corfinio, le castrum médiéval n'occupe qu'une petite partie de la ville antique, la plus éloignée de la cathédrale. La cathédrale de Sulmona est, quant à elle, excentrée, placce comme elle l'est en dehors des limites de la cité antique, et ne favorise pas le regroupement des hommes autour d'elle. Le point commun de toutes ces églises cathédrales est de constituer un p61e répulsif au peuplement. Par aillcurs, I'utilisation de la cité comme lieu de rassemblement du plaid n'a pas induit l'acquisition d'une fonction politique permanente. EnEm, ancune de ces villes ne semble détenir de fonction économique importante. Mais, de ce point de vue, scules des enquetes archéologiques, qui manquent encore aujourd'hui, pourraient nous fournir des éléments d'appréciation satisfaisants. La situation comporte toutofois au moins un paradoxe. Alors que le réseau urbain s'est effondré, que les centres urbains sont à l'abandon, et que la fonctioureligieuse s'avère incapable de les mainteniren activité, c'estcependant la géographie ecclésiastique, celle des diocèses, qui donne à la région son ossature administrative, à l'intérieur de laquelle l'organisation civile se conle. Le diocèse, ici, a précédé le comté, contribuantà l'instauration d'une organisation générale du territoire qui n'est pas sans rappeler, à certains égards, celle de la période pré-romaines. La fonction politique de la cité, n'existe que parce que l'éveque est présent dans les murs, ccux-ci n'étant plus guère qu'une coquille vide. Les cités sont, à l'évidence, dépourvue d'attraits, incapables d'attirer et de fixer les hommes. Elles sont sans dynamisme économique. La remarque serait banale, étant donné la précocité de la période considérée, si les Abruzzes adriatiques n'offraient pas un contrepoint, et si, d'autre part, cette stagnation de l'histoire urbaine n'avait pas perduré au moins jusqu'au XIIe siècle. b. Les Abruzzes adriatiques La région la plus voisine de la mer a, au contraire, rcussi à maintenir un certain niveau d'activité urbaine. Il est certain que quelques cités perdent lcurs caractéristiques et lcurs fonctions urbaines, comme Ortona et Vasto, mais les trois villes épiscopales, Chieti, Teramo, et Penne sour actives, et peut-etre meme prospères au IXe siècle. Chieti est la moins mal connne de ces villes, et nous offre un cas de f~gure intéressant. Le centre de la cité s'est déplacé au IXème siècle, et les foncrions urbaines se sont regroupoes autour de l'église cathédrale. Le noyau urbain antique semble avoir été abandonné et, dans les années 870, la documentation distingue une “cité vieille” d'une “cité neuve”. Les murs sont liés à cette dernière, et non plus à la cité antique. Ce déplacement est peut-etre une conséquence du sac de la cité en 801 par les troupes de Pépin, au moment du rattachement du Chiétin a~ RegHam: la cité aurait donc été reconstruite et adaptoe à ses fonctions, dorénavant essentiellement, mais non exclusivement, religieusest': à la fin du IXè siècle, des plaids se rcunissent iHtra civitatem theatinam 12. Comme à Marruvio, la fonction politique continne d'exister, mals ici elle s'accompagne du renforcement du caractère urbain de l'agglomération, dont on sait, par aillcurs, qu'elle est active. Le peuplement s'est pourtant déplacé, se transférant vers la cathédrale. Il semble que Teramo soit dans le meme cas. Pour Penne, I'absolu silence des sources, et le manque de renseignements archéologiques ou textuels disponibles empeche de se prononcer, mais il très vraisemblable qu'elle se rattache au type de Chieti, exer,cant aussi une fonction politique. Son éveque, au Xe siècle, sera le scul, dans toutes les Abruzzes, à détenir des ponvoirs comtaux sur la ville. Il faut considérer que ce sont là, au IXe siècle, des cités neuves, qui ne remploient pas le cadre antique, sanctionnant ainsi topographiquement une solution de continuité dans lcur existence. La fonction religiense est primordiale dans le développoment urbain, certes lent, encore mal connu, mais effectif Au IXe siècle, enfin, ces villes ont un réel ponvoir de commandement sur le plat pays, grace à la poissance de lcurs éveques, et, peut-etre aussi, du moins pour l'Apr~tiam, grace à celle des comtes. Ce sont également des centres de consommation et de redistribution des surplus agricoles dont les territoires sont reliés à la mer. On sait, par exemple, que Aterno, sur l'embouchure du Pescara, est, à la fm du siècle, un port, et qu'elle est dotoe d'un territoire particulier à l'intérieur du comté de Chieti. Les
fouilles actuelles devraient permettre de connaitre mieux l'importance effective de cette agglomération et l'amplcur de ses activités~3. Il ne peut s'agir, en tout état de cause, que d'une bourgade subordonnée, à l'intérieur d'un territoire structuré et hiérarchisé. Cela dit, les événements de la fin du IXè siècle ont brisé net cet essor, et il n'a jamais repris par la suite. II. Les unites territoriales mineuares: plebes, vici et casalia La documentation écrite ne permet pas de reconstituer les circonscriptions administratives inférieures au comté, si tant est, d'aillcurs, qu'il en ait existé, ce qui est doutoux avant le Xe siècle. Il esiste au IXe siècle, des gastalds et des scaldaf is, mais le ressort de leur action ne nous est pas connu. Les gastaldats, lorsqu'ils sont mentionnés, se confondent alors avec les territoires commandés par des vici, dont la consistance n'est pas autrement connne. Les textes n'en mentionnent que deux, celui de Moscufo et celui de Collemaggiore. Seul le premier a donné naissance à un établissement, le second n'apparaissant plus actuellement que comme lieu-dit. Les quelques mentions que nous avons d e plebes nous autorisent à penser qU'il y a un lien entre l'aire de rayonnement du vicus et la paroisse publique. Notre documentation est insuff~sante, bien sur, pour nous permettre de dresser une liste des églises dotoes de fonts baptismaux. Nous savons toutofois qu'au IXe siècle les éveques n'ont pas encore terminé de diviser lcur paroisse originelle en fonction des progrès du peuplement. Ainsi une plel~s est elle instituce dans le Chiétin, à Villa San Giovanni en 840, d'aillcurs peut-etre autant pour faciliter la gestion des domaines épiscopaux que pour contribuer à l'encadrement religieux de la zone. Du point de vue de la géographie ecclésiastique, le territoire est en cours de construction au IXe siècle. Près de Teramo, I'église de San Flaviano de Castro est une église rurale jouissant d'une personnalité juridique distincte de l'éveché, suffsamment importante pour attirer des donations. Aux IXe et Xè siècles, d'autre part, le plaid se rcunit, comme il est usuel dans, ou auprès de, I'atriam de certaines églises, qui, servant de point de focalisation à l'activité judiciaire, peuvent etre considérées comme publiques. Il est toutofois exclu que toutes aient correspondu à un habitat, au contraire, pnisque le plaid tend à se rcunir hors des agglomérations. La liste à laquelle on arrive est, de toutes facons, très limitoe: aux IXè et Xe siècles scules S. Stofano in Patuniano (non localisée), S. Maria di Moscufo, S. Giovanni di Colle Maggiore, S. Leopardo de Pecanie (non localisée) attirent les plaids dans la zone adriatique. Cela étant, la fréquence des mentions de Moscufo, au moins, autorise à penser que c'est, dès le Xe siècle, une agglomération d'une certaine importance. Le plaid se rcunit suff~samment souvent près de l'établissement, pour que l'on puisse lui attribuer une fonction politique, analogue à celle d'une ville, mais sans ancun doute moins importante. Dans le comté de Penne, en tous cas, la ville attire moins souvent les plaids que ce qui est sans doute un vic?~s. Le caractère complet des fonctions de Moscufo, centre religieux et point de fixation de l'activité publique, est, toutofois, unique. Il témoigne d'un début de hiérachisation des habitats au Xe siècle, dans un cadre pré-castral. Ce ne sont pas ces circonscriptions qui, de toutes fa,cons, sont immédiatement percues par les hommes du temps. Le territoire est, en effet, d'abord décrit comme étant divisé en unités topographiques de petites dimensions, détachées de la structure adminstrative, mais aussi des structures foncières. Ces unités topograghiques sont appelées casalia ou villae par les notaires de la partie adriatique, et tronvent des homologues dans les actas de la région de Peltuinum, dans Valva. L'actas, cependant, est né de la dissolution du territoire urbain, et de l'appropriation des terres dépendant d'anciens municipes par les allcutiers, tandis que le casale semble lié aux progrès de la colonisation agraire, et à la croissance démograghique du IXe siècle,~. C'est une forme topographique qui rompt avec toutes les organisations territoriales antérieures, auxquelles il est impossible de le rattacher. Le casale est d'abord l'espace à l'intérieur duguel tous se placent, meme si ses limites semblent floues. Les notaires localisent toutes les terres dans des casalia, meme les c~rtes: celles-ci, au demourant ne recouvrent jamais le territoire entier du casale et ne se confondent jamais avec lui. Les éléments essentiels de ces unités territoriales sont les églises privées et les terres que les textes appellent terrae
ir cHrte: le public marque l'espace de facon trop légère pour que l'on prenne ses repères par rapport à lui. L'église privée est, d'habitude, approprice par les habitants du casale. Elle est divisée en parts, et une vente de terre de quelque importance s'accompagne fréquemment de la cession de la part d'église correspondante. Les grands propriétaires conquérants, ceuxqui sont assez riches pourpromouvoir une politique d'acquisition cohérente, cherchent toujours à acheter ces églises. Elles constituent, en effet, I'élément le plus évidentde l'unité de la communauté paysanne, ou, tout au moins de la cohésion de son élite. S'en emparer, cela signifie contribuer à la dissolution d'une communauté autonome, en faisant disparaitre le signe de son existence et son cimenrS. C'est aussi une étape vers la constitution des domaines, dans la mesure où celle-ci, qui est poursuivie obstinément par les élites durant tout le IXe siècle, passe par l'atomisation des communautés paysannes. Le second élément du casale est la terra ir carte. Les documents désignent ainsi des parcelles de terre, habituellement de petite dimension, et sur lesqueiles sont construites les maisons. Il est impossible de savoir s'il s'agit ou non de terres encloses, mais cela semble probable: tous les textes distinguent, en effet, un intérieur d'un extérieur. Les terres qui ne sont pas in curte sont dites foris ir casale. Les casalia comptent toujours, d'autre part, plus d'une terra ir carte. Ces dernières apparaissent, en effet, lices à l'exploitation agricole, qu'il s'agisse d'un exploitation familiale, ou du centre d'un domaine. La dimension de la c?~rtis est naturellement fonction de la nature de l'exploitation à laquelle elle appartient. Une propriété familiale comportera une curtis restreinte à une maison et à son jardin. Un domaine comprendra plusieurs cartes (la documentation en mentionne parfois trois), et chacune d'elles lcur portera également plusieurs maisons, le maximum que nous tronvions étant de cinq. Les différentes cartes sont donc dispersées cà et là sur le territoire, en fonction de la localisation des exploitations. Mais coci entraine également comme conséquence l'absence de lieux autour desquels l'habitat pourrait se regrouper. L'unique point central pourrait etre l'église privée paysanne, mais elle n'entretient ancun rapport fonctionnel avec les différentes parcelles habitoes. Bref, on ne note rien qui pnisse etre assimilé à une première phase de regroupoment des hommes. Ici, I'habitat, tel que la documentation écrite nous permet de le percevoir est pulvérisé. L'absence de centres, perceptible surtout dans la région du piedmont oriental du Gran Sasso, rendra d'autant plus nécessaire, au Xe siècle, l~iHcastellameHto. En revanche, d'un point de vue fonctionnel, il sera moins intéressant dans les parties des Abruzzes où des centres intermédiaires avaient pu se développer. L'absence de regroupement n'empeche cependant pas de voir dans le casale un territoire organisé. La conscience de I'existence d'un espace spécif~que, bien individualisé, et la présence des églises privées, suff~sent à donner à ces circonscriptions une identité particulière, bien différente, évidemment de celle du domaine. III. Paysages: structures fondières et organisation da peuplement Trois facreurs déterminent la construction des paysages: la distribution de la propriété foncière, c'est-à-dire la répartition entre petit et grand domaine, entre allcux et curtes, la densité du peuplement et les politiques foncières mises en ocuvre par les différents agents économiques. Les éveques, comme les comtes, n'interviennent sur le territoire que par la gestion de lcurs domaines. De ce point de vue, on le sait, il n'y a pas de différence de comportement entre l'aristocratie laique et le groupe des éveques ou celui des gestionnaires de temporel monastiques. Leurs domaines ont la meme structure; les éveques se servent desplebes comme les lafcs, ou lesmoines, d'ailleurs, des églises privéestó. Un groupe social, sur lequel nous sommes exceprionnellement bien informés, jone ici un r61e considérable, celui des allcutiers, à la fois propriétaires et exploitants. 1. Les domaines pioniers Les domaines possédés par les éveques dans le Pennais, le Chiétin et le Teramano, ainsi que les possessions monastiques du Mont-Cassin dans le Chiétin, celles de Farfa à Forcona, et celles de
Casauria dans la zone intraapennine, concentrées autour du site de l'actuelle ville de L'Aquila se rattachent au premier des types déf~nis par Pierre Toubert en 1973 17. Nous tronvons, par exemple, à Paganica, en 874, une c~rtis de 120 muids, exploitoe par cinq colons et comportant trois forers dont l'extension n'est pas connne: les 120 muids ne concernent que la terre arable. L'importance du prix payé par Casauria, 501ivres d'argent, fait ressortir, ici, la valcur économique du sectour sylvo-pastoral 18. Ce sont des domaines pionniers, où l'iHdoMiHiCat~s n'a que peu de consistance. Le sectour de prof~t le plus consistant y est déterminé par l'exploitation des ressources forestières et par l'élevage. Ils sont apparemment peu peuplés et peuvent constituer des zones d'attraction pour les paysans libres qui peuvent y crécr de nonvelles exploitations, sous le contr61e étroit des seigneurs, toutofois. L'une des caractéristiques majeures de ces terres est qu'elles sont bien tenues en main par lcurs propriétaires, qui ne laissent pas se développer d'entreprises de colonisation autonomes. Les terres f~scales, dont nous devinons l'impoftance au IXe, mais surtout au Xe siècle, appartiennent à ce type structural. Le pouvoir de la famille comtale repose sur la jouissance de ces très vastes espaces, transformés en alleux au Xe siècle, et régresse au XIème lorsque les empercurs saliens parviennent à détruire lcur assise foncière 19. Au IXe siècle, les gestionnaires de ces terres fiscales sont encore en mesure de faire valoir les droits du roi, meme après la disparition de Lonis II 20. Le développement, au Xe siècle, de vici sur le versant adriatique de la région pourrait etre relié à la croissance de la production de ces domaines. Nous pouvons proposer un zonage des domaines pionniers. Ceux-ci se trouvent 1) dans la partie septentrionale des hauts-plateaux de Valva, dans Forcona et Amiterno et, 2) à 1'est d'une ligne imaginaire qui joindrait Teramo à Penne et Chieti, dans la région des basses collines et des plateaux lacérés par l'érosion. Le paysage anquel ils donnent naissance laisse une place importante à un convert forestier lentement entamé par des entreprises sporadiques de colonisation. Le second groupe est relié à la mer. Il est assez vraisemblable que les surplus en sont exportés par les fleuves c6tiers et les ports d'embouchure. Le développement de bourgs comme Moscufo ou le maintien de l'activité du port d'Aterno est à relier à cela. On ne s'expliquerait pas, autrement, I'intéret des Vénitiens pour Penne, mentionnée dans le pactam Lotarii de 842, ni la présence d'une communauté juive à Aterno, florissante, vers le milieu du XIò siècle. D'autre part, les trouvailles de matériel sur les sites pré-castraux les mieux reliés à la mer montrent une abondance de matériel telle que l'insertion des Abruzzes adriatiques dans un réseau d'échanges semble plus que problable 21. Il faudrait toutofois que les céramologues posent la question de l'origine géographique des fragments de céramique a vetr~na pesante retrouvés jusqu'à présent sur les sites fouillés, et se prononcent clairement sur la production locale 22. Pour le premier groupe de domaines, on sait qu'il produit pour des centres de consommation qui sont extérieurs à la région. Ainsi, les domaines de S. Vincenzo dans Valva pourvoient-ils le monastère en produits alimentaires comme en matières premières, tandis que ccux de Penne sont en mesure, à la fin du Xe siècle, de payer annnellement des sommes non négligeables, ce qui implique une vente sur place 23. Là encore, seule l'analyse attentive des céramiques recueillies lors de fouilles ou de reconnaissances, d'un point de vue qui ne soit pas simplement chronologique ou typologique, mais prenne en considération la problématique de la culture matérielle pourra en rendre compre 24. La politique foncière pratiquce par les comtes et par les éveques vise, dès le IXe siècle, au renforcement de ces vastes ensembles territoriaux, rendus encore plus compacts et homogènes par des échanges systématiques 25. L'éveque de Teramo, Jean, et le comte de l'Apritiam, Adalbert, sont l'exemple meme de cette pratique délibérée et réfléchie. Par deux fois, en 891 et en 894, ils procèdent à des échanges dont le but est la consolidation de lcur fonds. L'éveque pourrait d'aillcurs avoir tiré moillcur prof~t de la situation que le comte: ainsi, en 894, il obtient d'Adalbert deux pièces de terre, l'une de 1930 muids, l'autre de 170, contre 1730 muids de terre répartis en 17 lots et divisés en 49 parcelles 26. Cet acte n'est rationnel que si le comte parvient, à son terme, à reconstituer des ensembles aussi cohérents que ccux qu'il délaisse. L'existence de ces fonds compacts explique en grande part le choix délibéré opéré par les agents économiques que sont les comtes, les éveques et
certains monastères, dont le Mont-Cassin et Saint-Vincent au Volturne, de ne pas édifier de castra sur leurs terres des Abruzzes adriatiques au moment de la reconstruction du Xe siècle 27. Controlant fermement de vastes espaces fonciers à l'intérieur desquels la croissance peut s'opérer par la conquete des espaces encore incultes, et non parla recherche de l'intensification, aucun deces trois actours n'avéritablement intéret à promouvoir des opérations d'incastellamento, inutiles parce que, comme l'a déjà relevé C. Wickham, les seigneurs, dans ces cas, prélèvent déjà le maximum de ce qui peut l'etre 28. La bonne tenue des structures publiques face aux tentatives de privatisation du pouvoir retarde, d'autre part, la reconstruction du paysage agraire, dans la mesure où celle-ci est étroitement lice à à l'apparition et à l'essor de la seigneurie. 2. Le domaine éclaté et l'alleu La dispersion et le manque de cohérence caractérisent le second des types mis en évidence par P. Toubert. L'alleu apparait alors comme le complément logique et nécessaire du domaine. Il n'y a pas de zones exclusivement dominées par l'une ou l'autre forme là où le domaine n'est pas pionnier, et là où il ne parvient pas à se constituer en grand domaine classique, bi-parti et partiellement esclavagiste. Toute la région du piedmont oriental du Gran Sasso, et la majeure partie du comté de Valva de laoHca eligHa aux altipiaHi de Barisciano et de Navelli sont marquces par cette fragmentation caractéristique de la propriété foncière 29. Les curtes, considérées ici comme unités d'exploitations, et non plus Redevances en grain, orge, légumes, minium (siriaLm) et fromage. Ibid., n. 161, t. II, pp. 292294, cens de trois sous annnels pour une église et 80 muids de terre. céramiques recueillies lors de fouilles ou de reconnaissances, d'un point de vue qui ne soit pas simplement chronologique ou typologique, mais prenne en considération la problématique de la culture matérielle pourra en rendre compre24. La politique foncière pratiquce par les comtes et par les éveques vise, dès le IXe siècle, au renforcement de ces vastes ensembles territoriaux, rendus encore plus compacts et homogènes par des échanges systématiques 25. L'éveque de Teramo, Jean, et le comte de l'Apr~tiam, Adalbert, sont l'exemple meme de cette pratique délibérée et réfléchie. Par deux fois, en 891 et en 894, ils procèdent à des échanges dont le but est la consolidation de lcur fonds. L'éveque pourrait d'aillcurs avoir tiré moillcur prof~t de la situation que le comte: ainsi, en 894, il obtient d'Adalbert deux pièces de terre, l'une de 1930 muids, l'autre de 170, contre 1730 muids de terre répartis en 17 lots et divisés en 49 parcellesz~. Cet acte n'est rationnel que si le comte parvient, à son terme, à reconstituer des ensembles aussi cohérents que ccux qu'il délaisse. L'existence de ces fonds compacts explique en grande part le choix délibéré opéré par les agents économiques que sont les comtes, les éveques et certains monastères, dont le Mont-Cassin et Saint-Vincent au Volturne, de ne pas édifier de castra sur leurs terres des Abruzzes adriatiques au moment de la reconstruction du Xe siècle 26. Controlant fermement de vastes espaces fonciers à l'intérieur desquels la croissance peut s'opérer par la conquete des espaces encore incultes, et non parla recherche de l'intensification, aucun deces trois actours n'avéritablement intéret à promouvoir des opérations d'incastellamento, inutiles parce que, comme l'a déjà relevé C. Wickham, les seigneurs, dans ces cas, prélèvent déjà le maximum de ce qui peut l'etre 28. La bonne tenue des structures publiques face aux tentatives de privatisation du pouvoir retarde, d'autre part, la reconstruction du paysage agraire, dans la mesure où celle-ci est étroitement lice à à l'apparition et à l'essor de la seigneurie. Les curtes, considérées ici comme unités d'exploitations, et non plus comme enclos destinés à recevoir des maisons, ont une extension variable. Elles ont toutes en commun la dispersion des divers éléments qui les composent, la faiblesse de lcur centre, et, de ce fait, celle du lien entre exploitation paysanne et indominicatt 29. On trouve fréquemment, par exemple, des propriétés d'une quarantaine d'hecrares divisées en une vingtaine de parcelles non jointives. Naturellement, les patrimoines lafcs sont composés de plusieurs ensembles de cette nature. Les monastères sont les principaux
propriétaires à l'intérieur de cette zone, mais ils sont loin d'etre les sculs détentours de sol. Ils cherchent, au IXe siècle à rendre lcurs patrimoines plus compacts en s'efforcant de réduire la marge de manocuvre des puysans libres. S. Vincenzo al Volturno puis Casauria s'efforcent, par divers biais, de faire régresser la propriété allcutière, au moins autour de lcurs centres économiques principaux. Les deux monastères tentent, par aillcurs, d'assujettir les paysans voisins à un strict statut de dépendance. Les deux politiques, foncière et sociale, ne sont pas distinctes et visent à accroitre la capacité d'initiative économique et le leadership des deux établissements. Cette politique, quoique menée avec de grands moyens, fut un échec, et, si l'indépendance paysanne semble avoir régressé dans le dernier tiers du IXe siècle, elle ne disparut pas. L'incastellamento serait incompréhensible, dans les Abruzzes, sans l'existence d'une élite paysanne riche, disposée, par intéret, à entrer dans le jeu de la seigneurie castrale 30. A coté de ces domaines dispersés et souvent incohérents, I'allcu paysan tronve tout naturellement sa place. Il prend deux formes. La première est la moins connne, parce que la documentation est, pour l'essentiel, constituce de ventes faites à Casauria. Il s'agit des exploitations qui atteignent ou dépassent une superficie de 20 muids (environ six hectares). Ces petits domaines sont assez étendus pour garantir l'indépendance économique d'une famille nucléaire: ils ne font que rarement l'objet de transactions. Ils constituent la base économique de l'élite de la société paysanne, et son armature. L'existence de cette société allcutière, dont la capacité de résistance aux initiatives seigneuriales est évidente, fige la situation foncière dans la Val Trita et autour de Casauria. Il n'est pas possible dans ces conditions de constituer de grands domaines tout simplement parce qu'une bonne partie des terres est déjà approprice, et qu'il est impossible d'exproprier cette conche de paysans. S. Vincenzo, qui s'y est constamment efforcé aentre 779 et 873, n'y est, en tous cas, jamais tout à fait parvenu. La seconde forme que prend l'allcu est celle de pièces de terres de dimensions trop restreintes pour garantir l'auto-suffisance d'une famille. Leurs propriétaires, qui sont nombrcux, doivent accepter de prendre à bail les terres de plus grands propriétaires, d'abord des lafcs fortunés, pnis le monastère de Casauria. Ils peuvent également etre amenés à vendre lcurs terres, pour se placer sous la protection de l'acquércur, ou pour pouvoir renonveler lcur capital d'exploitation. Cela devrait entrainer, en toute logique, une dégradation rapide de lcur condition sociale et juridique. La documentation montre que ce n'est pas toujours le cas. L'exploitation paysanne peut, en effet, dès le IXe siècle, comporter deux parties, la première en allcu, la seconde en tenure. Les microallcutiers qui sont en meme temps tenanciers ne sont pas nécessairement totalement dans un statut de dépendance. Cartis et allcu sont complémentaires, mais cette organisation foncière et sociale bloque l'évolution du paysage agraire, ralentissant également les remembrements opérés au profit des sculs seigneurs, et empechant, pour fmir, la prise en main et le contrale de la croissance par l'aristocratie ou par les monastères. Ce sont les allcutiers, et non les seigneurs, qui détiennent alors les clefs de la croissance économique, dans la mesure où ils sont capables de ralentir les processus de rationalisation, auxquels sculs les monastères ont, finalement, intéret. L'homogénéité de lasociétéqu'ils formentempechentles seigneurs du IXe siècle d'imposer parfaitement, dans ces zones, la forme économique qu'ils estiment sans doute la plus rationnelle, celle de la curtis bi-parti. 3. Le grand domaine classique Dans des zones très peuplées, qui, déjà, à la fm du IXe siècle, ne sont plus à coloniser, la compacité des domaines détenus par l'abbaye de S. Vincenzo al Volturno aurait pu, ou du, déboncher sur l'apparition de cATrtes bi-parti. Cela a failli se produire dans le comté de Valva, dans la Val Tritana, étudice, voici quelques années, par C. Wickham 31, et tout 1'effort des premiers abbés de Casauria a tendu vers l'établissement d'une semblable structure dans la vallée du Pescara 32. Ces efforts, on l'a dit, ne connurent de succès que partiel. Dans la Val Tritana, où la densité de la population atteint, au IXe siècle, des niveaux comparables à ccux de l'époque moderne, les moines de S. Vincenzo al Volturno avaient recu du roi Didier, au siècle précédent, une cATrtis royale. Leur politique dans cette vallée n'avait eu, depnis, qu'un scul but: le
controle de la force de travail des paysans qui la peuplaient. Pour ce faire, ils dénièrent, dès la fm du VIIIe siècle, tout droit de propriété aux exercitales installés sur un gualdo périphérique de lcur cATrtis, ahm de ponvoir les insérer dans le système domanial, au moyen de cens et de prestations de travail. Ils refusèrent ensuite de reconnaitre la liberté personnelle des puysans installés sur les terres dépendant de la c~Trtis, afin de ponvoir exiger d'eux une quantité accrue de travail. Il ne s'agissait bien évidemment pas de constituer alors un troupeau d'esclaves prébendiers. Les gestionnaires de l'abbaye désiraient simplement disposer d'une quantité, connne ou prévisible, et, en tous cas, f~xe, de main d'ocovre, le prélèvement opéré sur la force de travail de la tenure paysanne tendant à la fm du IXe siècle, à I'emporter, au moins quantitativement, sur le travail servile proprement dit 33. Le contexte général indique que les moines avaient affaire à des puysans qui étaient par aillcurs des allcutiers, et qu'ils cherchaient à transformer en serfs 34. L'abbaye ne parvint pas à liquider totalement les résistances paysannes, et fut amenée à évoquer la question du statut de ses dépendants par cinq fois devant des plaids. De ce fait, le système domanial ne put pas fonctionner. Ni les monastères ni l'aristocratie locale, sans doute insuffisamment militarisée et trop pauvre, ne disposaient au IXe siècle, d'une force de coercition suffisante pour cela. Les résistanGes paysannes purent durer et s'amplif er quasi jusqu'à la révolte. La rationalisation de l'exploitation agraire n'eut pas lieu et le statut servile des paysans du Val Trita demoura davantage une aff~rmation théorique, le signe d'une volonté d'optimisation de la gestion domaniale, qu'une réalité sociale. Du point de vue de l'organisation territoriale, cette situation de faiblesse des seigneurs fonciers n'était pas sans conséquences. Elle empechait la constitution de centres signif~catifs, qui soient à la fois des chefs-lieux d'exploitation et des concentrations humaines fussent d'importance. Par exemple, au Xe siècle, il n'existe pas de cATrtis cam castello: I'ancienne topographie est réellement et effectivement bonleversée par l'incastellamento lorsqu'il se produit. Quant aux villae de S. Vincenzo dans le Val Trita, elles marquent un effort de regroupoment par les moines de la population dépendante. Cet effort est demouré inachevé, les moines n'ayant qu'une maitrise partielle de la situation. Cette absence de centre est partioculièrement visible à Casauria. Dès la fondation de lcur monastère en 873, les moines de Casauria s'efforcèrent de construire dans le voisinage un ensemble territorial compact. Ils n'y parvinrent pas, se heurtant ici à la structure foncière que nous venons de décrire, et que les moines du Volturne échonaient à réformer durant le IXè siècle. Les allcutiers étaient trop nombrcux pour que l'abbaye put envisager de les faire disparaitre. Malgré l'importance des sommes dont il put disposer au début de son histoire, Casauria ne parvint pas à acheter toutes les terres, parce que toutes n'étaient pas à vendre. L'emplacement choisi pour y fonder le monastère ne correspondait, de surcroit, pas à un f~sc, ce qui rendait inévitable les acquisitions à prix d'argent. Cependant, Casauria, meme sans etre maitre de tout le territoire, entreprit de le remodeler. L'abbé transforma d'anciens allcux paysans en tenures, grevées de très lourdes charges, dont les principales étaient les prestations en travail. S'il avait pu accompagner cette politique d~un véritable remembrement, ce qui ne fut pas le cas faute de temps, il serait parvenu à créor un ensemble territorial analogue à celui détenu par S. Vincenzo dans le Val Trita. La question de la dépendance et de la servitude se serait alors inévitablement posée. On peut d'aillcurs penser que l'effort fait par Lonis II en faveur de S. Vincenzo en 873 l'était aussi en prévision des problèmes que Casauria était appelé à rencontrer s'il parvenait à affermir son emprise territoriale. La mort de Louis II en 875 ne permit pas l'achèvement de ce projet: l'éparpillement de l'habitat demeura maximal autour de Casauria. La politique foncière des monastères tend naturellement à détruire l'équilibre existant entre propriété allcutière de petite dimension et grande propriété monastique. La volonté manifestoe clairement tout au long du IXe siècle par S. Vincenzo de monopoliser la force de travail des paysans de la région, et qui existe aussi à Casauria, le montre: les monastères doivent s'efforcer d'absorber les allcux et de pousser les paysans vers des formes de dépendance de plus en plus étroites. Leur échec détermine la stabilité des paysages et le maintien de formes dispersées du peuplement. Les centres d'exploitation ne sont, en effet, pas assez importants pour attirer et f~xer une population nombrcuse, parce que les domaines ne sont pas suffisamment compacts. Il faut attendre le lancement du processus
d'incastellamento pour que la rationalisation de l'exploitation, accompagnée d'un remembrement destiné à faciliter l'intensification de la production et la valorisation du travail humain, se produise. Les Abruzzes offrent, dans le dernier tiers du IXe siècle, et au début du Xe siècle, un aspect contrasté. L'absence de poles à l'activité économique et sociale s'y fait nettement sentir. Les villes, quoiqu'actives, et capables, grace aux domaines des éveques, d'esercer un certain rayonnement sur le pays, ne sont pas en mesure d'exercer un role central. L'absence d'un très grand monastère prive la région d'un point de polarisation analogue à ce que peut etre plus au sud, jusqu'en 881, un monastère de 1'importance de S. Vincenzo. L'emprise des moines sur les territoires qu'ils détiennent dans les Abruzzes est, enm, incomplète malgré l'aide massive que les Carolingiens lcur apportent. Les régions pionnières de l'Abruzze adriatique semblent avoir été très actives, et etre en pleine expansion au IXe siècle. De cette activité que les textes laissent supposer, mais que nous ne ponvons qu'entr'apercevoir, on attend avec impatience que l'archéologie vienne nous donner davantage de prcuves matérielles. Le mode d'exploitation des grands domaines monastiques du Xe siècle suppose lcur insertion dans un réseau d'échanges, ce que les trouvailles archéologiques devraient, de lcur c6té, confirmer ou informer. Les zones les plus peuplées sont les zones de piedmont. La présence monastique s'y fait sentir, mais ses effets sur le territoire sont limités, tant la société paysanne y manifeste de capacité de résistance et d'obstruction aux politiques foncières. Ces zones ne sont pas dans l'aire de commandement de villes, singulièrement faibles ou absentes dans le comté de Valva, et de peu d'influence dans la haute vallée du Pescara où la structure foncière et le paysage agraire sont modelés par l'allcu, ou le petit domaine. Quant au grand domaine, il ne parvient pas à s'imposer, que ce soit pour les formes d'exploitation du travail paysan ou pour l'édification des paysages agraires. Les curtes que nous connaissons sont des constructions par définition inachevées, puisque se rattachant au type pionnier. Dans les Abruzzes adriatiques, c'est sur les zones où cette forme d'appropriation du sol est dominante que les villes exercent un certain contr81e, cause vraisemblable de la stabilité de lcur organisation. Après 950, en effet, la géographie de 1'incastellamento reprend le zonage domanial, les zones pionnières au IXe siècle étant affectées en dernier par le phénomène. Elles ne sont remembrées et pourvues d'habitats groupés que fort tard dans le XIe siècle. Ce sont les zones où le petit domaine puysan et la grande propriété monastique coexistaient depuis le IXe siècle qui montrent alors le plus grand dynamisme et donnent une impulsion décisive au remodelage du territoire. LAURENT FELLER
1 F. COARELI,I, A. LA REGINA, Abruzzo-Molise, GUide archeologiche Laterza, 9, Roma Bari, 1984, pp. 99-103. 2 Cartulaire de CasaUria (=C.C.), fol. 112-112, juin 873. Nous retenons comme estimation du muid 0,3ha. 3 C. MANARESI, I Placiti del Regno Italiae, t. 23 Rome 1958, n.165, 166, 167 p. 161-170. Le dernier de ces plaids, tous tenus en 970, est runi infra ipsos unturos de ipsa civitateMarsicana. La maison de Garibaldi n'existe plus en 970. 4 P.F. KEHR, Italia Pontif cia, IV: uJn~ria, Picenóónn, Marsia, Berolini, 1909, p. 240. 5 Sur les questions de topographie, et de localisation des sanctuaires ainsi que églises cathédrales au très haut moyen-age, cfr. J.-C. PICARD, Le Souvenir des éve^qt~es. Sépt~lt?vres, listes épiscopalesetraltedeséve^qt~esenltaliedt~Nord des origines at lXe siècle, (BEFAR n.268), Rome,1988.
6 Voir à ce propos, A. CLEMENTI, Ipotesi sulla fondazione di una città sugli insediamenti medioevali nella zona del Gran Sasso, dans Momenti del medioevo abruzzese, Roma, 1976, pp.21-77. 7 Archivio Arcivescovile di Chieti, n. 4. I Placiti del “Regnum Italiae” (sec. IX-XI). Primi Contatti per un nuovo censimento, dans Contritttti dell'Istituto di storia medioevale, P. Zerbi éd., Milano, 1975, n. 25: il s'agit d'un plaid rénni in ipsa cibes de Solomona. 8 Italia Pontificia, IV, p. 253. N. FARAGLIA, éd. Codice diplomatico s6tlmonese, Lanciano, 1888, n. 37. Les conflits entre les deux sièges ne sont apaisés qu'au milieu du Xll~ siècle. 9 A. LA REGINA, Ricerche sugli insediamenti vestini, “Atti della Accademia nazionale dei Lincci, Classe di Scienze morale, storiche e filologiche”, 8e série, 13l5, 1968, pp. 363-444. 10 Cfr. E. CARUSI, 1l “memoratorium„ dell'abate Bertario sai possessi cassinesi nell'Abr~zzo teatino e uno sconosciuto vescovo di Chieti del 938, “Casinensia”, I, 1929, pp. 97-114 et Chronica Monasterii Casinensis, éd. H. Hoffmann, MGH, Scrittores, XXXI V, pp. 116- 117: Ecclesia Sancti Petri in civitate teatina vetere (...), ecclesia sancti Thame intra eamdem civitatem novam, cum ipsa porta ~e~e (...) actenas porta moracisca valgo appellatar. Commentaire dans H. BLOCH, Monte Cassino in the Middle Ages, Rome, 1986, t. lI, pp. 787-940. 11Cfr. L. PELLEGRINI, La città e il territorio nell'alto medioevo, dans Chietie la sua provincia: storia, arte, cultura, Chieti, 1990,1, pp. 227-288. 12 C MANARES1, I placiti del “Regnum Italiae”, n. 79. 13 A. STAFFA, Scavi nel centro storico di Pescara, 1: primi elementi per una ricostruzione dell'assetto antico e altomedioevale dell'abitato di Ostia Aterni-Aternum, “Archeologia Medievale”, XV111, 1991, pp. 201-367. 14 Sur tes actus de Peltuinum, G WICKHAM, Stadi sulla società degli Appennini nell'alto medioevo. Contadini,signorie insediamento nel territorio di Valva(Sulmona), Bologna, 1982, pp. 2844. 15 Cfr. P. BONNASSIE P. GUICHARD, Les comm~na~tés rurales en Catalogne et dans le pays valencien, dans Les communatés villageoises en Europe occidentale (Flaran 4 ), 1984, pp. 79- l I S. 16 P. TOUBERT, Il sistema curtense: la produzione e lo scambio interno in Italia nei secoli VIII IX, e X, dans Storia d'Italia Einaudi, Annali 6, pp. 5-63, spécialement pp. 9-17. Sur l'instrumentalisation des plebes parles éveques: J.-M. MARTIN, Cattedrale, città scontado in Italia meridionale nel medioevo, dans Atti del Seminario di studi a Gattedralg, città grontado tra medioevo ed età moderna”, (Modena, 15-16 novembre 1985), Modena, 1990, pp. 29-39. 17 P. TOUBERT, L'ltalie rarale aa~c VIII'-IX' siècles. Essai de typologie domaniale, dans I problemi dell'Occidente nel secolo Vlll, Settimane del centro di studi sull'alto medioevo, XX Spoleto, 1973, t. I, pp. 95-132. Etat de la question avec une abondante bibliographie dans P. TOUBERT, La partd~ grand domaine dans le décollage économique de l'Occident (Vl117-X'siècles), dans La croissance ag7-icole da Haut Moyen Age, (Flaran 10), 1988, pp. 53-86. 18 C C. fol. 93v°. 19 L. FELLER, Pouvoir et société dans les Abruzzes autourde l'an Mil: aristocratie, “incastellamento”,appropriation des justices(960-1035), Bulletino dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano”, 94, 1988, pp. 1-72. 20C MANARESI, I Placiti, 1, 103, pp. 373-976. 21 A. STAFFA, Interventi della Soprintendenza archeologica dell'Abruzzo in contesti altomedioevali della valle diPgscara, “Archeologia Medievale”, XVI, 1989, pp.561-581.11 s'agit des notes sur le site de Cepagatti. 22 J.-M. PESEZ, Culture materiel et archeologig ms'diéuale, dans Mensch and Ohjett im MitteglaltgrundindgrFrihgn negit Lebgn-Alltag-Kaltar(Iternazionaler Kongress Krems an der Donau, 27. bis 30. September 1988), Wien 1990, pp. 37-51. 23 Chronicon Valturnenss del monaco Giovanni, éd. V. Federici, 157, t. Il, p. 286-289. 24 A. STAFFA, Progetto valle delPescara, secondo rapporto preliminare d'attività, “Archeologia Medievale”, XVIII, 1991, pp. 643-666. J.-M. PESEZ, Culture matérielle, op. et loc. cit. 25 p. TOUBERT, L'assetto territoriale, loc. cit sopra n. 2 26 Il Cartulario della Chiesa Teramana, éd. F. Savini, Roma, 1902, n. 15, pp. 33-36. 27 L. FELLER, L'incastellamento” achevé des Abruzzes, dans Lo scavo archeologico di Montarrenti e i problemi dell'incastellamento medievale (Atti del colloquio internazionale di Siena, 8-9 dicembre 1988), Archeologia Medievale, XVI, 1989, pp. 121-136 28 C. WICKHAM, Il problema dell'incastellamento nell'Italia centrale, Firenze, 1985, pp. 7994. L. FELEER, Castelli dell'Italia centrale, “Studi Storici”, 1986l 3, pp. 719-723. 29 Du point de vue archéologique, ces zones sont encore mal connnes. L'École francaise de Rome yaorganisé une enquete de 1989 à 1992 dontles résultats sonten cours d'étaboration. 30 L. FELLER, L 'incastellamento, Cit. n. 25. ID., Pot2voir etsociété, cit. n. 19. 31 c. WICKHAM, Studi sulla società, p p. 18-28. 32 L. FELLER, Autor de la fondation de San Clemente a Casaria: la corstitution d'ar patrimoine forcierà la fin du IX siècle, dans Mortecassiro. Dalla prima alla seconda distruzione,Op. ci t. s2~pra n. 2, pp. 51 3-S 26. ID., Les patrimoines forciers morastiq~2es dars les Abruzzeses, dans Actes d ~ 2~m, corgrès,d'Archéologie médiévale, sous presse. 33 P. TOUBERT, Il sistema curterse: la produzione e lo scambio interno in Italia nei secoli Vlll, IX e X, dans Storia d'Italia Einaudi, Arrali 6, p. 21.
34 Voir désormais, à propos des questions se rapportant à la dépendance et au servage, D. BARTHELEMY, Qa'est-ce que le servage en France au XI siècle, “ Revue Historique”, 287l2,1992, pp. 233-284.
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Le "città nuove" pontificie e l'insediamento laziale nel IX secolo Breve premessa L'archeologia dell'età medievale, stimolata dal grande progresso degli studi sul mondo tardoantico e da una assimilazione ormai piena delle problematiche sollevate dagli studiosi delle fonti scritte riguardo l'evoluzione dell'insediamento nell'alto medioevo, ha preso a risalire la corrente dei secoli che precedono la fine del primo millennio. Molte questioni vanno chiarendosi, rispetto ai modi in cui si organizzò, nella nostra penisola, la sopravvivenza umana dopo il crollo del mondo antico; e questo stesso "crollo" si rappresenta in maniere e con tempi assai diversi nei vari scenari regionali. In questa stessa sede quasi tutti i contributi offrono aggiornamenti di prima scelta in tal senso. Ma forse ancora troppo poco ci si è spinti a cercar di saldare la ricerca sui resti materiali degli insediamenti altomedievali con quella sulle idee che i contemporanei avevano riguardo al "dove" abitare e al "come" abitare; riguardo all'organizzazione interna delle entità politiche che si succedettero nella dominazione (sempre parziale) della Penisola; riguardo insieme agli stati d'animo sollecitati dalla convivenza con i resti onnipresenti e irresuscitabili, a causa della loro stessa grandezza, di un mondo perduto e idealizzato, quale quello dell'antichità romana e del suo epilogo cristiano e imperiale, in primo luogo. Ma che pur tuttavia fornivano l'unico esempio possibile per un vivere organizzato, e quindi obbligavano in maniera imprescindibile all'imitazione, che si palesa soprattutto nei casi in cui ci si doveva misurare con problemi di edilizia monumentale, legata alla celebrazione del potere, laico o ecclesiastico. Quest'ultimo elemento, che, presentato in modo così "assoluto", può forse apparire sopravvalutato, va ovviamente, più di altri, verificato all'interno dei singoli contesti regionali. A Roma, esso ebbe senza meno un peso determinante!. Questo mio contributo vuole perciò essere un tentativo per un esame dell'idea di città nel Lazio agli albori della signoria papale, ma anche al tempo dell'apogeo del sogno carolingio di rinascita dell'Impero cristiano. 1 n tentativo che spera di porsi in stretta e fruttuosa relazionc con le ricerche archeologiche in corso e in programma nella regione in questo stesso ambito. La storia delle fondazioni urbane pontificie nel corso del IX secolo I1 25 agosto dell'846 i Saraceni, sbarcati due giorni prima alle foci del Tevere, dopo brevi combattimenti nei pressi di Ostia e Porto, risalirono il fiume e saccheggiarono la basilica di S. Pietro, oltraggiando anche l'altare principale al di sopra della tomba dell'apostolo. L'eco di questo evento riverberò per tutta l'Europa cristiana, richiamando alla memoria l'angoscioso ricordo del sacco compiuto dai Visigoti di Alarico nel 410~. Anche in questa circostanza, a giustificare una simile sciagura, furono invocate le colpe dei cristiani - e dei Romani in primo luogo - che, per i loro peccati, avevano meritato di ricevere da Dio il castigo di veder inflitta una tale violenza al simbolo stesso della loro unione. Per lo storico, questo evento assume molte valenze. Dal punto di vista dello svolgersi della tempestosa vicenda delle scorrerie saracene nel Tirreno, esso fu un episodio- particolarmente fortunato dal punto di vista degli assalitori - della lunga guerriglia che essi condussero in questo mare fra VIII e X secolo, all'interno di una difficilmente definibile strategia di espansione sul suolo italiano 6. Nella storia dei rapporti fra il papato e la città di Roma e fra questi e l'Impero rinnovato la notte di Natale dell'800 con 1'incoronazione di Carlo Magno da parte di papa Leone III, il sacco arabo di S. Pietro dell'agosto 846 rappresenta invece un momento "focale". Comportamenti, reazioni, idee manifestate in quel frangente aiutano a puntualizzare meglio correnti di pensiero che furono alla base delle grandi iniziative politiche del tempo 7. Il fatto che un assalto alla basilica di S. Pietro fosse potuto avvenire in maniera così rapida e inarrestabile dipese sì dallo scarso coordinamento delle contromisure militari messe in atto dai
Romani nella circostanza, ma soprattutto dalla posizione esterna ed indifesa del Vaticano rispetto alla cinta muraria di Aureliano. Nei secoli successivi al 111, quando Roma, dopo essere divenuta con Costantino il centro principale dell'lmpero Romano cristianizzato, si trovò a subire gli attacchi di varie popolazioni germaniche, il Vaticano - come gli altri santuari suburbani dedicati ai martiri del Cristianesimo primitivo - non venne mai munito di opere difensive 8. Evidentemente i Germani, gíà convertiti, non lo considerarono mai come un eventuale obbiettivo militare. La drammatica evidenza della possibilità di essere attaccati da un nemico non cristiano, e perciò stesso non sensibile alla sacralità delle memorie degli apostoli e dei martiri, rese indispensabile la creazione di una muraglia di protezione anche per l'area del Vaticano. Questo compito toccò al successore di Sergio 11(844-847), il papa che subì l'affronto del sacco di S. Pietro, vale a dire Leone IV (847-855). La costruzione di un muro a recinzione di uno spazio abitato non è mai stata, tuttavia, un'impresa "neutrale". Essa rappresenta un atto politico di una certa rilevanza, ed è necessariamente espressione di un potere che, attraverso un'operazione di questo genere, si manifesta come quello in grado di provvedere oltre che alla sicurezza di se stesso, anche a quella dei propri sottoposti. In epoca tardoantica, con il crescere delle minacce militari anche nel cuore dell'Impero, Italia compresa, a partire dal Ill secolo, tornano a moltiplicarsi i casi di nuove cinte murarie costruite a difendere le città in pericolo 9. Ed in assoluto, la cerchia delle mura, come molte testimonianze di carattere iconografico chiarissimamente mostrano, inizia a presentarsi come il simbolo che divide lo spazio all'interno del quale è possibile continuare ad organizzare una vita civile da uno spazio "al di fuori", nel quale queste condizioni non sono sempre garantite. La presenza delle mura diviene, forse più che ogni altro elemento, il simbolo stesso per cui un centro abitato può essere riconosciuto come città 10. Quando Costantino fondò Costantinopoli, nel 324, disegnando un'area più che quadrupla rispetto alla vecchia Bisanzio di Settimio Severo, si limitò essenzialmente alla delimitazione di uno spazio vuoto tracciando il perimetro delle mura 11. Altrettanto emblematica è la IUnga serie di esempi che ci fornisce Procopio di Cesarea, nel suo De Edifriis. Quando egli registra le numerose fondazioni o rifondazioni di città compiute da Giustiniano (principalmente nell'Illirico - sua terra natale -, nell'Anatolia orientale e nell'Esarcato d'Africa), pone in prima istanza la deliberazione della costruzione o ricostruzione delle mura. Sarebbe ancora più giusto dire che le Tocts giustinianee, che prendono nome da quello dell'imperatore della sua consorte (almeno 15, èstatocalcolato dal Jones) "nascono" nel momento in cui il giro delle mura che le difende è stato completato12. Da un punto di vista giUridico, nel mondo tardoromano il bas della costruzione di un circuito di mura era competenza generalmente statale, o al massimo delegata dallo Stato, sotto stretto controllo, alle comunità locali 13. Il punto di arrivo della legislazione in materia si ha con I I, 4, 26 del 529, ove si stabilisce che la sovrintendenza alle grandi opere pubbliche urbane, mura in primo luogo, viene affidata a tre principales tra gli abitanti e al vescovo, ma l'approvazione dell'impresa passa sempre al vaglio finale dell'Imperatore, per il tramite della prefettura del pretorio. E noto che, nel corso del VI secolo, la figura del vescovo acquisì anche in questo, come in altri settori della vita urbana, un ruolo decisivo e istituzionalmente sempre più complesso. Così ci risulta attraverso una serie di testimonianze provenienti dall'Illiriat4e dall'Africa Settentrionale 15, ma, soprattutto, conservateci dall'epistolario di Gregorio Magno, in cui si vede il pontofice impegnato nella organizzazione della sorveglianza alle mura di Roma (II, 45 e IX, 240) e nell'esortare i vescovi di Cagliari (IX, I 1) e Terracina (VIII, 19) a fare altrettantotó. Ancora, agli inizi dell'VIII secolo, i papi Sisinnio, nel 708, e Gregorio II (appena elevato al soglio, nel 715), sono ricordati come autori di tentativi di restauro delle mura aureliane. Come è stato opportunamente posto in evidenza di recente da John Haldon, la "consegna" ai vescovi delle città stesse non deve essere vista in sé come il punto di arrivo di Un lungo processo di disgregazione dell'articolazione locale del potere imperiale basata sulle stesse; bensì come l'estrema soluzione - rivelatasi poi di fatto vincente - al fine di conservare ad esse il ruolo da sempre avuto, in questo senso, nel mondo romano 18. Come è ben noto, il papato, soprattutto nel corso dell'VIII secolo, dopo la fine del controllo bizantino su Ravenna (751), si avviò a giocare, principalmente in Roma e nel suo territorio, Un rUolo politico di primo piano, presentandosi come l'unica autorità già in qualche modo strutturata. E tale realtà - e la
concezione del potere che ne derivava-si era enormementeconsolidataproprio grazie alla forte connessione del vescovo con la città, perragioni amministrative, oltre che spirituali 19. Lo scenario politico entro cui si mosse il papato dalla metà dell'VIII secolo in poi, fu "complicato" dalla entrata di un altro protagonista: i Franchi, CUi i pontOfici Si rivolsero a partire dai tempi di papa Gregorio III (731-741), per ottenere quella protezione contro i Longobardi che l'Impero d'Oriente non era più in grado di offrire. La conquista del regno longobardo da parte di Carlo Magno nel 774 e la sua incoronazione ad imperatore nell'800 compirono il progetto papale di poter contare SU Una reale tUtela di Roma, come città santa di tutto l'Occidente, in Un qUadro locale che consentisse però ai pontofici di esercitare Una effettiva signoria politica sulla città stessa e SU altri territori italiani, secondo gli accordi che Carlo stesso e, prima di IUi, SUO padre Pipino, avevano stipUIato con la Santa Sede 20. Ed è all'interno di questo quadro ormai definito che i papi, a partire da Adriano I (772-795), ma ancor di piU da Leone III (795-816) iniziarono consapevolmente a disegnare Una politica che mirasse a "tramUtare in pietre", in opere visibili a tutti, ed eloquenti, il concetto astratto della loro signoria politica SU Roma e dello svilUppo di qUella nel qUadro europeo di una cristianità rinnovata e sostenuta con la forza della monarchia franca dei Carolingi. Molto è stato detto e scritto su questo, e, forte di ciò, mi limito qUi a dire solo che, nei decenni a cavallo fra VIII e IX secolo, e per buona parte di questo secolo, i papi cessano in Roma di essere "semplicemente" custodi di chiese e soccorritori di indigenti e pellegrini. Si avverte che la loro attività assume un respiro ed una valenza simbolica assai più ampia. Essi lavorano ormai per plasmare l'immagine della città su CUi vogliono signoreggiare2~. È solo in questo contesto che si può ben comprendere il valore della costruzione del recinto murario intorno al Vaticano compiuta da Leone IV. Il Lil57erPu7'ttif~alis dà un lungo resoconto di questa impresa. E ne definisce, con grande accortezza, protagonisti e modalità. Nell'849, tre anni dopo circa l'assalto a S. Pietro, i figli di Satana”, ovvero i` Saraceni (le parole fra virgolette sono tradotte letteralmente dal testo del l~il~gr Pontificalis), si ripresentarono in forze sul litorale romano per ripetere le loro “imprese calamitose„. La risposta del pontefice fu stavolta assai più rapida e si avvalse della determinante collaborazione di Napoletani, Gaetani ed Amalfitani. I Saraceni furono sanguinosamente sconfitti e, dei prigionieri, quelli che non furono impiccati, vennero tradotti a Roma e impiegati proprio per la costruzione delle mura di difesa del Vaticano. Questa impresa era stata avviata poco prima del ritorno dei Saraceni. Il biografo di Leone IV narra che la ragione per CUi essa venne iniziata fu un'esplicita richiesta in questo senso da parte della “nobiltà romana tutta”, timorosa di veder ripetuto l'affronto di tre anni prima. Richiesta alla quale il papa ben difficilmente avrebbe potuto dar corso se non si fosse rivolto al “piissimo e serenissimo Cesare,~ Lotario il quale fornì i denari necessari perché “un'opera così utile non restasse allo stato di semplice auspicio”. Ottenuto questo necessario sostegno, Leone - “insieme a tutti i fedeli della Santa Chiesa di Dio” - deliberò che tutte le città, le masse pubbliche [vale a dire della chiesa, come preciseremo più oltre] e i monasteri, contribuissero con i1 loro lavoro al compimento di essa. Lo svolgimento del lavoro fu seguito attentamente da Leone e l'inaugurazione dell'opera finita, nell'853, è dettagliatamente descritta. Ne ricorderemo alcuni tratti salienti. Si trattò di una processione di tutti gli ecclesiastici romani, con alla testa il papa benedicente; non c'e traccia, nel racconto, della presenza di quella “nobiltà romana„, che pure era stata inizialmente presentata come il motore dell'impresa. Tale processione ebbe le sue stazioni principali alle tre porte aperte lungo la nuova cinta: qui ogni volta il papa rivolge una preghiera a Dio, che viene ringraziato per aver consentito la nascita di “ questa nuova città che [parla il papa in prima persona] dal mio nome viene d'ora in poi chiamata Leoniana” 22. Noteremo due concetti di fondo espressi con chiarezza: la città diviene tale in seguito alla costruzione delle mura; già da lungo tempo il Vaticano era affollato di edifici che si assembravano intorno a S. Pietro, ma era al massimo apparso, pochi decenni prima 23. Questo agglomerato dopo aver ricevuto forma riceve anche un'identità - il nome - per un atto sovrano del papa, che ne rende conto direttamente a Dio. Solo a qUesto punto, a cose fatte, il papa torna a rivolgersi a tutti gli abitanti di Roma, nativi e stranieri, compiendo il significativo gesto di una
largizione di denaro celebrativa dell'evento. Altrettanto significativamente, per i nobili avviene una do7natio a parte, che, corrispondendo allo status dei riceventi, non consiste in denaro, ma in pallei sgti, quindi in una particolare categoria di beni di prestigio. Ho ricordato precedentemente e assai brevemente i racconti di Procopio in merito alle fondazioni e rifondazioni di città da parte di Giustiniano (527565), soffermandomi sul fatto che la più emblematica manifestazione di questi atti consistesse nella costruzione ovvero nella ricostruzione delle mura cittadine. A questo si collegava in genere la denominazione - o la ridenominazione - dei centri su cui si era intervenuti, con il nome dell'imperatore. Era, come è ben noto, un'abitudine vecchia di secoli, assai forte nell'Oriente mediterraneo, strettamente legata all'idea di un potere assoluto e quasi demiurgico del sovrano sul territorio nel quale si esercitava la sua autorità; e gli interventi di Giustiniano stesso si sovrapponevano su un palinsesto di memorie di suoi predecessori: due Jastiniano polis nacquero sulle ceneri rispettivamente di una Adriano polis nell'Epiro Vecchio e di una Diocletiano polis in Tessaglia; Jastinia Secanda fu il nuovo nome di una precedente Ulpiana24. L'abitudine non si disperse in seguito, coinvolgendo anche l'Esarcato d'Italia, visto che conosciamo una Jastino polis corrispondente all'attuale Capodistria, voluta da Giustino II (565578) nonché 1'episodio della fondazione di Heraclea, da parte di Eraclio (610641), dopo la caduta di Oderzo in mano longobarda. Ancora nel 784 si ribattezza, in Macedonia, una città col nome dell'imperatrice Irene e Giovanni I Zimisce, nel 917 impone il proprio alla ex-capitale dei Bulgari appena conquistata 25. Tornando all'altro celebre esempio che abbiamo ricordato in precedenza non va infine dimenticato che anche la dedicatio di Costantinopoli ebbe luogo, secondo quanto concluso da Santo Mazzarino e da Lellia Ruggini, nel momento in cui era stata ultimata la costruzione delle mura; la dedicatio, della città, come per la Città Leonina, fu insomma sostanzialmente la dedicatio di un circuito murario che racchiudeva - se ci si consente l'espressione - il sentimento dell'esistenza di una nuova città 26. Tuttavia è importante ribadire il fatto che resta ben distinta l'idea, nonostante la analoga apparenza "turrita", della differenza fra un mero ridotto fortificato (nelle sue varie denominazioni di kastro, phro~rion o kataphygio) legato alle contingenze della difesa, e la civitas o polis, che vuole invece essere presentata come uno stabile elemento di ordinamento e governo di un territorio da parte di un potere costituito, sia pure ridotto alle dimensioni minime che John Haldon ben descrive in questa stessa sede E tale differenza si manifesta proprio nei particolari rituali che si rendono necessari al momento della sua fondazione, attraverso cui questo potere pone in risalto la struttura dei rapporti gerarchici fra sé e la società che lo circonda. Si è detto della procedura di "battesimo" della città nella "persona" delle loro mura, e del colloquio diretto fra Leone e Dio. Ma non ci si potrà soffermare, d'altro lato, sulla composizione della processione salmodiante degli episcopi, sacerdotes, immo levite et ~~ziversi ordinesclericoramsanat~ecathaliccretapostolic~eRomaN6etcclesi~e, che segue il papa, senza ricordare il corteo composto dal senato, dall'eparca, dagli spatari e dai silenziari, nonché degli ecclesiastici, che segue Costantino, intonando il Kyrie eYeison durante le cerimonie di fondazione della N£aPoS~~. Una processione per invocare da Dio sulla città, per tramite di S. Pietro, che ne diviene il protettore, una duratura prosperità23. Al termine di essa il papa concede, come ancora aveva fatto Costantino, la gioia di una prosperità più immediata, distribuendo denaro agli astanti29. La chiamata dei soggetti alla condivisione dell'apoteosi del proprio potere sembra essere compiuta dal pontof~ce con consapevolezza delle antiche consuetudini. Al momento dell'assunzione del consolato, nel 565, Giustino II, seguendo una secolare tradizione, operò distribuzioni di denaro alla popolazione e di doni preziosi agli ottimati di Costantinopoli 30. E queste consuetudini erano entrate da tempo a regolare i rapporti dei pontefici con la società romana; sicuramente da quando essi avevano iniziato a rivestirvi un ruolo preminente, quantunque ben diverso, sotto il profilo istituzionale, da quello di Leone IV. Sappiamo infatti che Gregorio Magno era uso gratificare periodicamente con preziosi omaggi tanto il clero, quanto laici eminenti della città. Ed è peraltro una fonte di IXsecolo-lavitaGregor~idi Giovanni Immonide-ad averci tramandato questa notizia. Il che fa, secondo me, giustizia di ogni dubbio sulla nozione del valore dei simboli che vennero rievocati quel giorno dell'853 al Vaticano3b Tornando alla "realtà" propria della nuova città vaticana, va detto
che sono state compiute molte indagini sulle fonti relative alla topografia dell'area vaticana nel medioevo, ma non ci sembra che sia stato sufficientemente apprezzato il valore "strategico" di una delle principali di esse, vale a dire la carta di locazione perpetua emessa proprio da Leone IV in favore del monastero di S. Martino; al~sidam ir~ introit?~ ecclesie beati Apos~oloram prz?~cipis, il 10 agosto dell'854. Non si trattava di un monastero qualsiasi: era infatti quello in cui il papa era stato allevato e con il quale, quindi, egli doveva mantenere legami assai forti 32. Orbene, oltre a concedere a questo monastero grandissime estensioni fondiarie site in massima parte nel suburbio a ridosso del Vaticano, lungo le vie Clodia e Cornelia, Leone ne fa in pratica il "centro di controllo" cui afferiscono alcune fra le principali istituzioni operanti nei dintorni di S. Pietro; in quell'area che, come recita il testo del documento, viene ufficialmente chiamata civitas Leoniana (ecco una prova della volontà di dare "attualità" e non solo valore letterario alla fondazione) 33. Infatti, vediamo subordinate al monastero di S. Martino le schalae dei Sassoni, dei Frisoni e dei Longobardi - cioè i centri di ospitalità per le comunità di quei popoli a Roma -, con le rispettive chiese, la chiesa di S. Salvatore, con lo specif~co ruolo di cimitero per i pellegrini, due hospitales, la chiesa di S. Zenone con i suoi possessi entro la nuova civitas, in un settore di non secondaria importanza, se è vero che lo si può identificare con quello che si affacciava sul Tevere, a ridosso, quindi, del ponte S. Angelo; ed un oratorio anonimo, che saldava la basilica di S. Pietro ad una serie di altre costruzioni vicine. È un argomento sul quale andrebbe condotta una dettagliata verifica di carattere topografico, ma forse non si esagera, se, attraverso questo atto, si vuole leggere un tentativo di coordinamento unitario della gestione di alcuni dei più importanti servizi che si concentravano intorno a S. Pietro. Del resto è stato messo in luce come già papa Adriano I si fosse preoccupato di condurre sotto controllo papale le diacoriae - ovvero quelle istituzioni che si occupavano dell'immagazzinamento e delle distribuzioni alimentari cittadine nonché, in vari modi, di assistenza sanitaria - che si trovavano nell'area vaticana34. Ad esclusione della schala dei Franchi, sembrerebbe quindi che, con Leone IV, il controllo papale diretto si fosse esteso alle principali istituzioni operanti nell'area vaticana. Il biografo del Liber Portificalis, come si è detto, descrive il dispiegarsi delle forze in campo che contribuirono al compimento dell'opera, con molta accortezza. Il papa, che esce dalla narrazione come l'indiscusso protagonista della vicenda, media in qualche modo I'intervento di altre due forze che ad essa parteciparono: I'imperatore e la nobiltà romana. Il primo, che appare quasi tirato per un braccio dentro l'impresa, ebbe in essa in realtà un ruolo molto più attivo e, forse, ingombrante. Lotario, nipote di Carlo Magno, due mesi dopo l'assalto saraceno a S. Pietro, quando era ancora papa Sergio II, aveva già emanato un Capitulare de expeditione contra Sarraceros facierda 35. In esso, al capo VIII, si disponeva l'organizzazione di una raccolta di fondi presso tutte le chiese dell'Impero che, `
Leone III3h Se un complesso palaziale di qualche sorta fu portato a termine, la realizzazione del recinto fortificato conobbe un esito drammatico: poco dopo la morte di Carlo, a Roma scoppiò, per la seconda volta, una violenta rivolta contro il papa autocrate Leone III, che ebbe come obbiettivi materiali proprio le costruende mura vaticane e le domascalta della Chiesa. Queste ultime, aziende agrarie a diretta conduzione signorile, cioè pontificia, fondate dai papi Zaccaria, Adriano I e, forse, dallo stesso Leone III, erano entità di grande importanza strategica, vere e proprie teste di ponte della signoria pontificia dislocate in punti chiave del territorio di Roma, serbatoi di manodopera, all'occorrenza armata, e di rifornimenti alimentari. Esse si definiscono come tipiche creazioni di un potere ancora in itinere verso l'acquisizione di prerogative pienamente "pubbliche", in quanto funzionarono di fatto come strumenti per l'espressione di una signoria politica, pur essendo giuridicamente niente altro, se non proprietà che la Chiesa aveva acquisito e deteneva a titolo privato 38. L'aristocrazia romana, nella sua componente che non voleva Un consolidamento politico del papato svincolato dal controllo delle famiglie locali, si accanì non a caso contro quelle isole di potere, prossime ma esterne a Roma, con cui i pontefici tentavano di gettare basi solide di dominio territoriale, gestite del tutto in proprio o in consociazione con il potere imperiale39. La rivolta dell'815 contro Leone III fu soffocata nel sangue dal papa, e questo esito diede probabilmente il via ad una stagione di primato pontificio più stabile, sebbene non del tutto incontestato 40. Queste premesse spiegano pienamente il perché da un lato il biografo del Liber Pontificalis, nel racconto della deliberazione di costruire la avitas Lean;iana presa da Leone IV tenda, con astuta diplomazia, a far apparire il papa quasi richiamato dalla ~obilitas romana a reintraprendere, per la causa di forza maggiore rappresentata dalla minaccia saracena, quel progetto che "alcuni" avevano a suo tempo obbligato Leone III ad abbandonare. E dall'altro, però, perché sia stato possibile in realtà che il pontefice gestisse la realizzazione materiale dell'opera in prima persona, senza - come sembrerebbe - apporti significativi di forze esterne al suo entourage. Come si è già detto in precedenza, l'attività dei pontefTci al fine di evidenziare il loro primato, con grandi opere in Roma e nei dintorni, si era avviata ben prima del pontificato di Leone IV, segnata dal costante uso di un linguaggio ricco di riferimenti ai rapporti fra potere imperiale e autorità papale maturato nell'Impero Romano cristianizzato della tarda antichità. Rapporti rielaborati dal in modo tale che al papa spettasse, oltre che il primato spirituale su tutta la cristianità, anche un primato ben più terreno e concreto su varie zone dell'Italia centrale, in realtà ambiguamente gemmato dalla dissoluzione, intorno al 750, del controllo dell'Impero Romano d'Oriente su Ravenna e Roma stessa. Un primato che rivestiva il papato implicitamente quindi anche della possibilità di comportarsi come vero e proprio dAH7i}ZHS sulle sue terre4h Alla frenetica attività costrUttiva di edif~ci religiosi entro Roma, che fu propria del pontificato di Pasquale 1(817-824~43, successe la prima impresa di fondazione di una ~città nr£ova papale”, co3npium dal suo successore Gregorio IV (827-844~~3~ Similmente a come avverrà per Leone IV' anche Gregorio, intorno all,842, inte£~eur~e nell~imminenza di u~~ grave pericolo esterno che, tacitando le divisioni interne~ autorizza un evento cosi "forte" nei suoi significati. Il luogo prescelto fu Ostia. Le modalità di insediarnento sono impressionar~ti per la loro simiglianza eon quanto avverrà sette-otto anni dopo al \7aticano: il colloquio di Gregorio IV con gli Ostiensi che espongono al papa le loro preoccupazior£i (sonfronta con la i~richiesta~' dei nobili di Rom£a a I,eone IV per proteggere S. Pietro); la deliberazione di creare un’altra città intraed?~~a c~vita~. Host,=si, in realtà ai limiti della città antica5 presso il venera~~o santuario della nni compiuti nell'846 dai Saraceni. Quello che qui importa sottolineare è che è essa, in quanto insediamento dotato della cinta muraria, dovuta all'opera di Gregorio IV, a venire identificata con la Ostiensis IJrAs laddove totale assenza di capacità di "impressione" sembrano esercitare i resti del centro antico di Ostia che giacevano, senz'altro ancora ben visibili, a un passo da Gregoriopoli 44. La fondazione della civitas compiuta fra 848l9 e 852 non fu l'unico atto di questo genere compiuto da Leone IV45. Il raid saraceno dell'813 contro ceHtHmcellae, l'odierna Civitavecchia46, aveva avuto
l'effetto, oltre che di infliggere danni alla città, di terrorizzarne la popolazione sopravvissuta la quale, dopo quel fatto, more bestiarium, “si sparse a dimorare nel fitto delle selve e per monti inesplorati ”. Bisognava dunque dare una sede nuova a quei derelitti. In questo caso il contesto era assai diverso dai precedenti: infatti si trattava di cambiare radicalmente il sito della città, scegliendo una collocazione che fosse al riparo dalla minaccia saracena. Non si poteva perciò né essere guidati da una presenza "catalizzante" come quella del santuario di S. Aurea nel caso di Ostia, né si aveva a disposizione un "obbiettivo fisso", come nel caso del Borgo vaticano. La ricerca del nuovo sito era particolarmente difficoltosa, racconta il biografo di Leone IV, poiché era arduo trovare un luogo che fosse contemporaneamente difendibile e provvisto di acqua. La soluzione apparve al papa in sogno, anche qui con un suggestivo parallelo con quanto accadde a Costantino, che, allo stesso modo, ricevette l'indicazione di fondare la nuova capitale a Bisanzio e non a Calcedonia: Leone ebbe la visione di se stesso che, in un certo luogo a 12 miglia dall'antica CeHtamcell~z, indicava ad un tal Pietro, magister militam, la dislocazione delle porte e delle chiese della nuova città. Il mattino dopo, convocato il suddetto Pietro, lo inviò a ceHtHmcellce con molto denaro, affinché, adunati gli abitanti della città vecchia, li dirigesse al nuovo sito mettendoli immediatamente al lavoro. Lì trovarono sicurezza, acqua, pietre e sabbia 47. Il compimento dell'opera vide la presenza del papa che, secondo il rito gia visto per Gregoriopoli e la Città Leonina, compì un giro processionale delle mura, aspergendole di acqua benedetta, probabilmente imponendo in quel momento al nuovo insediamento, il nome di Leopolis. Anche in questo caso fa parte del cerimoniale un elemento già visto nella fondazione della città Leonina al Vaticano,vale a dire l'effettuazione di una vera e propria largitio di denaro - per amor di munificenza - da parte del papa al popolo riUnito della nuova città. Non puo sfuggire la carica simbolica di due fatti, in una situazione di totale assenza di condizionamenti dovUti alla preesistenza di santuari o precedenti formazioni urbane, in cui in questo caso ci si viene a trovare. Essi emergono prepotentemente, evidenziando ancor di più l'originarsi di tutta l'operazione dal volere del pontefice ed il particolare cerimoniale del quale egli intendeva circondarsi in una circostanza del genere; 1) 1'ordine al magister militium (un laico, quindi, ed un militare, molto probabilmente esponente della aristocrazia romana) di radunare i Centocellesi e di portarli sul sito di Leopoli, avendo preventivamente dotato il personaggio in questione dei fondi necessari quanto meno all'avvio dei lavori; si legge chiaramente, in questa circostanza, la volontà di disegnare il manifestarsi del rapporto fra un sovrano ed un suo funzionario; 2) la distribuzione i roge, cioè di denaro, alla popolazione della nuova Leopoli: un atto di generosità che si esplicita nel particolare momento in cui quella stessa popolazione, per mezzo della consecratio delle mura complete, viene di fatto autorizzata ad iniziare la sua vita nella nuova sede. L'assenza, peraltro, di riferimenti sacrali preesistenti nell'area della nuova città viene colmata dal papa, che fa ricostruire, nel nuovo recinto, un tempio dedicato a S. Pietro, quale già esisteva a ceHtHmcell~' recuperando, quindi, un'importante memoria per la comunità, aggiungendovi significativa mente un'altra chiesa dedicata a San Leone4s. A perpetua memoria e suggello di tutta l'operazione viene fatta apporre sulle mura dal pontofice un'epigrafe, che doveva essere sormontata da una croce nella quale si leggeva il monogramma di Leone. Testo che, d'altra parte, richiama la sostanza della commendatio della città a Dio, compiuta dallo stesso pontefice, quale cioè tramandata dal testo. Leone IV, oltre a queste due fondazioni, provvide anche alla ricolonizzazione della città di Portus, intorno all'850, insediandovi un gruppo di Corsi. Questo caso presenta connotati diversi rispetto a quelli sin qui esaminati, ma non meno interessanti. Lo spazio urbano nel quale i Corsi sarebbero andati ad insediarsi doveva evidentemente già configurarsi con sufficiente chiarezza, visto che di esso non viene fatta menzione. La corcessio del papa in questo caso riguarda i terreni ed il bestiame con i cui frutti la nuova comunità sarebbe potuta soprawivere. Nulla vi sarebbe di differente, in essa, dai numerosi atti privati del genere noti per l'alto medioevo, se non venisse promulgata ob mercedem tanto del pontofice quanto degli imperatori Lotario e Ludovico II e se i Corsi, nell'accettare le condizioni di insediamento non prestassero
giuramento, oltre che al papa, anche al popolo romano. Si tratta di nuovo di un atto che il papa compie esercitando dei poteri in qualche modo "pubblici" di governo del territorio, sebbene confusamente condivisi con altre entità: I'imperatore ed il popolo di Roma. Si diceva della già esistente "configurazione urbana" di Porto al momento dell'insediamento dei Corsi: Porto era già stata fornita di un giro di mura in epoca tardoantica, la cui esistenza il LP registra in questa occasione, ma ciò non può essere disgiunto, nella prospettiva altomedievale, dal fatto che Costantino aveva elevato questo centro al rango municipale con il nome di Civitas Flavia Corstartiriara. La memoria di questa prestigiosa e significativa reintitolazione imperiale di Porto dovette rimanere viva per tutto l'alto medioevo - quindi anche al tempo di Leone IV - se due bolle pontif~cie dirette al vescovo della città nella prima metà dell'XI secolo la chiamano ancora civitas Corstartiria~a. È possibile collegare la cautela con cui Leone IV interviene su Porto e l'associazione di Lotario e Ludovico II nella grazia della concessione della città al ricordo dell'imprimatar costantiniano su di essa? È un'ipotesi da non scartare a priori. La storia delle fondazioni di "città nuove" da parte dei pontefici svolge il suo ultimo capitolo al tempo di papa Giovanni VIII (872-882). Come è stato recentemente puntualizzato da Arnaldi, alla vigilia della crisi della fme del secolo IX - che vide, con la definitiva dissoluzione della dinastia carolingia, I'aprirsi di una fase di profonda frammentazione e rimodellazione dei centri di potere a livello europeo - il pontificato di Giovanni VIII è forse l'ultimo momento in cui il papato riesce ancora a vivere la sua dimensione di signoria temporale conservando lucidità, carica ideale e ampiezza di orizzonti per non ripiegarsi su di essa 52. A questo papa si deve la fortificazione della basilica di S. Paolo e del piccolo borgo che la circondava. Arrestandosi la serie delle biografie del Liber Pontificalis al predecessore di Giovanni VIII, Adriano II (867-872), non abbiamo qui la possibilità di istituire un confronto diretto con gli altri casi. Restano tuttavia alcune lapidiS3, due in S. Paolo stesso e una presso la porta Castello delle mura leonine, che ci permettono qualche riflessione. Le due conservate in S. Paolo, originariamente sulle due porte del fortilizio, presentano uno stile ed un contenuto assai simile a quelle che Leone IV aveva apposto sulle porte del recinto vaticano. Tuttavia ci sembra interessante sottolineare un elemento nuovo, che appare nel testo di quella originariamente affissa sulla porta Est, che presenta riferimenti di forte carica simbolica: in esso, infatti, il redattore si rivolge ai proceres togati di ogni età ed alla plebs sacrata Dei, invitandoli ad oltrepassare la porta, per mirare quella che viene battezzata come la nuova Urbis Iodannipolis. Le due categorie di persone evocate non sono assolutamente casuali, bensì, sono quelle che, insieme al clero, secondo Arnaldi, “formavano la triade in cui, dalla metà dell'VIII secolo [da quando cioè si avvia il processo di costruzione giuridica della signoria temporale del papato] si rispecchiava, a livello di autorappresentazione uffciale, la società romana ” . Usando quasi esattamente gli stessi termini (è significativo il coincidere della non comune e antichizzante dizione di gens togata per designare l'aristocrazia cittadina) Giovanni VIII al concilio di Ravenna dell'agosto 877, relazionò sul processo decisionale avvenuto a Roma negli ultimi mesi dell'875 di elezione, consacrazione e acclamazione di Carlo [II il Calvo] ad imperatore augusto”. È evidente che l'utilizzo di questa terminologia nella epigrafe d'ingresso alla Giovannipoli di S. Paolo presenta Giovanni VIII sotto le spoglie del dominas munifico e premuroso - oltre che del pontefice misericordioso - che abbiamo visto operante ad esempio nella fondazione di Leopoli-nuova Gertamcelle da parte di Leone IV. Non va infine dimenticato che, nello stesso concilio ravennate dell'877, Giovanni VIII fece approvare due stata molto importanti, il XV ed il XVI, che sancivano lo status di inalienabilità dei patrimoria della Chiesa di Roma. Prendendo posizione al fne di risolvere una situazione di ambiguità giuridica che si trascinava da più di 120 anni, i patrimoni fondiari privatamente posseduti dal papato nel Lazio - ormai divenuti le basi di una vera e propria signoria territoriale e quasi circoscrizioni amministrative al suo interno -, vengono associati ad una serie di prerogative "pubbliche" essenziali detenute dal papa, come l'emissione monetaria, il diritto ad imporre e riscuotere le imposte ed il controllo delle rive del Tevere, che torneranno ad essere evocate in seguito in altri momenti cruciali del confronto politico nella Roma medievale. Questo elenco si completa con la menzione dei luoghi dei quali abbiamo discusso fin qui e che hanno visto il loro status giuridico definito (Ostia e la Città Leonina) o ridefinito (Porto) come parte del pablicas. L'assenza di Leopoli è giustificabile con la sua
inserzione all'interno della circoscrizione del Patrimonium Tuscie, come si può desumere da documenti risalenti al VII secolo, che in esso facevano ricadere i beni della Chiesa romana in territorio di Gertmcelle Civitavecchia. Per la Giovannipoli il problema non dovrebbe porsi, se, come è stato verosimilmente ipotizzato, la sua fondazione risale agli ultimi tre anni di Giovanni VIII. Come osservò il Gregorovius, il papa si sforzava di conservare e ribadire l'eminenza del proprio controllo su tutto questo, cercando di non cedere all'irruzione del principio feudale germanico, che a poco a poco avrebbe condotto all'alienazione completa dei possessi. Giovanni VIII comprendeva lucidamente la consequenzialità dell'azione condotta dai suoi predecessori da 150 anni a quella parte e culminata con le significative "fondazioni" di Gregorio IV e Leone IV, compiute secondo un rituale ricco di richiami ad analoghe imprese degli imperatori della tarda antichità, della cui potestà il papato, con il Corstititum Corstartiri, si dichiarava erede in Roma e nell'Italia centrale. La lupide che egli fece porre presso porta Castello voleva suggellare questo cammino: Pietro, custode, tracciò davanti alle porte i sacri recinti: [nel testo latino sacraria; chi può negare che queste fortezze nel testo latino è usato, non a caso, crediamo, il termine arces siano specchio della volta celeste? dall'altra parte altre mura circondano la dimora di Paolo. In mezzo è Roma. Qui, dunque, siede Iddio”. Ed era proprio quello spazio "in mezzo", la città entro le mura di Aureliano, il problema alla fine irrisolto: popolato da consorterie aristocratiche sempre più forti, da monasteri che, moregermarico, gestivano i loro patrimoni fondiari con sempre maggiore indipendenza. Non nominato direttamente neppure negli statuti del concilio di Ravenna, appariva forse agli occhi del papa l'enclave di resistenza più preoccupante ad un'azione di governo unitaria. Il tedesco Gerhoch di Reichersberg che, nel suo Commentarius in psalmum LXIV„, scritto intorno al 1150, lamentava l'esecrabile disordine di baluardi ed altri apparecchi militari che si ergono sulla cima del santuario sorto sopra le spoglie del beato Pietro”, non riusciva evidentemente a valUtare tutti insieme ideali, speranze e preoccupazioni dei pontefici di tre secoli prima. Conclusioni Vorrei proporre brevemente qualche considerazione di sintesi sul senso di queste imprese pontificie del IX secolo, cercando anche di vedere quali siano i possibili punti di contatto con analoghe iniziative che avvengono, più o meno allo stesso tempo, nel meridione longobardo-bizantino. Sono consapevole del fatto che più organico collegamento avrebbe necessitato il problema qui trattato con quello dell'evoluzione del controllo politico pontificio sul Lazio nel periodo compreso fra i pontificati di Leone III (795) e di Giovanni VIII (882). Ma va anche tenuto presente che, al di là delle grandi sintesi condotte sulla delicata fase compresa fra il distacco di Roma da Bisanzio e l'incoronazione di Carlo Magno, manchiamo ancora, in sostanza, di una storia della società romana del IX secolo, che ci aiuti a capire con quali mezzi, con quali uomini e con quale effettivo consenso i pontefici abbiano cercato di stabilizzare quella preminenza politica acquisita su di essa società nel corso del duro confronto con l'Impero d'Oriente. Le fondazioni "urbane" papali del quarantennio centrale del IX secolo rappresentano, all'interno di questo terreno di ricerca, un importante indizio per la comprensione di un clima politico prevalente all'interno dell'educato romano, che dove essere, per qualche decennio, se non del tutto partecipe, quanto meno sostanzialmente consenziente rispetto all'ideà di un papato come istituzione dominante e ordinatrice, investita degli attributi di un potere autocratico. Ciò non vuol dire, beninteso, né che il potere dei singoli pontefici sia in questo periodo sempre rimasto incontestato, né che si possano sotto tutti gli aspetti ricondurre ad un unico comune denominatore le condizioni entro cui operarono, successivamente, Gregorio IV, Leone IV e Giovanni VIII. Tutti problemi, questi, che restano aperti, ma che in questa sede non è possibile addentrarsi ad esaminare nel dettaglio. Però non possiamo dimenticare che furono tali condizioni politiche di fondo a rendere impossibile il proliferare del diritto (o dell'arbitrio) alla creazione di insediamenti fortificati, quale conosciamo per decenni di poco successivi a quelli di cui ci si è qui interessati
Le cinte fortificate, di cui abbiamo qui discusso, nascondono, in realtà, una natura tutt'altro che bellicosa. La guerra che esse sono chiamate a combattere è, innanzitutto, una guerra di simboli. Il fatto che questi insediamenti siano esplicitamente definiti città non è, a mio avviso, assolutamente casuale. La fortificazione è la loro "uniforme" che protegge, sotto gli auspici della potenza di Dio e dei suoi santi, la residenza dell'autorità civile o religiosa, ovvero, in mancanza di tale effettiva residenza, ne rappresenta l'intento ordinatore del territorio. Come le poleis del tardo impero, esse aspirano, sia pure con risultati assai più effimeri ed in un contesto istituzionale assai più rozzo di quello romano-bizantino, ad essere le unità amministrative di uno stato centralizzato. L'arbitrio della decisione di fondare queste città, l'imposizione su di esse del nome del sovrano, la pompa di cui vengono circondate al momento della fondazione, spesso eternata da iscrizioni, contengono il senso dell'unicità di un'operazione del genere, riservata solo ad un potere concepito, e sostanzialmente rispettato, come l'effettivo vertice della società. Nel mondo bizantino, al di là dei non molti casi "tardi", citati in precedenza, di città "battezzate" con il nome dell'imperatore, resta comunque a lungo operante la tradizione di asserire il dominio di una regione di recente condotta sotto controllo imperiale mediante una politica, anche economicamente impegnativa, di fondazione di nuovi centri urbani. La riconquista bizantina dell'Italia meridionale, avviatasi a partire dalla seconda metà del secolo IX, ebbe il suo segno più concreto nella creazione (all'interno di Un piano in qualche modo preordinato da Costantinopoli) di un grande numero di nuovi insediamenti che, sebbene forse esigui nella loro consistenza materiale, vengono rivestiti di dignità cittadina in quanto centri di nuove diocesi e dell'articolazione interna, amministrativa e militare, del Tema. Per quanto riguarda le rifondazioni delle due città capitali di Salerno da parte di Arechi, principe di Beneventoóó, e di Capua, da parte di Landone e Landolfo, rispettivamente conte e vescovo di Capua stessa, tra la fne dell'VIII secolo e la metà del IX 62, secondo gli studi con diverse angolature di Cilento, Delogu, Peduto e della Taviani-Carozzi 63, si propongono alcuni possibili confronti. Si tenga presente innanzitutto la sostanziale autocefalia dei poteri signorili della Longobardia meridionale rispetto al contesto del nuovo impero di Carlo Magno. Questo aspetto costituisce indubbiamente una parte fondamentale del programma politico di Arechi di Benevento successivamente alla caduta di Pavia in mani franche, e sollocita numerose iniziative volte alla celebrazione delle prerogative sovrane del nuovo pr~aceps dei Longobardi, fra le quali spiccano quelle destinate, per dirla con Delogu, “ad una sorta di promozione urbana”. Oltre al già ricordato caso di Salerno, non si può tralasciare l'estensione dell'impianto urbano della stessa Benevento, e la costruzione, ivi, della chiesa palatina di S. Soba, operazione quest'ultima, ricca di richiami al modello della sovranità bizantina Se la sovranità del conte di Capua è, da un punto di vista giuridico, assai meno solida di quella del principe di Benevento, uno degli atti di maggiore rilievo volti al consolidamento della signoria è proprio la creazione di una nuova città-capitale, che viene presentata innanzitutto come un recinto di mura a protezione e beneficio della popolazione di cui il omes capuano ha la responsabilitàóS. Specularmente, i Capuani che minacciano la potestà di Sicone di Benevento sulla nuova città fortif~cata, Sicopoli, costruita presso Capua, sono rebelles, e la città stessa apparirebbe come una grottesca Rehellopofis se venisse sottratta al controllo del principe. Resta ovviamente ancora tutto da risolvere - e non potrà che esserlo in sede esclusivamente archeologica - il problema del "cosa" fosse stato effettivamente posto a riempire questi recinti. L'immagine prevalente, come mostrano i componimenti in prosa e in versi in onore di città italiane fra VIII e IX secolo, nonché le stesse iscrizioni a memoria delle fondazioni papali e della Capua longobarda, celebrano essenzialmente una sorta di città-monumento, specchio della provvida munificenza di un principe. Tuttavia, in alcuni casi, come quello di Gregoriopoli e di Leopoli-Nova Centam~ellar, qUesti due elementi mancano 0 sono molto attenuati, mentre è assai più avvertibile la presenza degli "abitanti" degli insediamenti. Ma nulla riusciamo a intravvedere, sin adesso, all'interno delle mura, al di là della chiesa di S. Leone fondata a Leopoli, né dell'esistenza di un qualsiasi luogo fisico, che manifesti il patronato sul luogo del potere centrale o che sia dimora di un suo rappresentante; né di come la popolazione si fosse distribuita - sia topograficamente, che in
conseguenza di una sua presumibile gerarchizzazione sociale - all'interno dell'area recintata. Va detto, per quanto riguarda Leopoli in particolare, che il manifestarsi, nel sogno di Leone IV, della posizione delle chiese principali e delle porte (nonché la reiterazione di questi due elementi al momento di avviare la costruzione) potrebbe far pensare ad un intervento direttamente ispirato dal pontefice nella deCnizione degli assi viari della nuova città. Tuttavia, come mostrano, con successive scansioni cronologiche, i già citati casi delle città dell'Italia meridionale bizantina dal IX secolo in poi, di quelle anatoliche a partire dalle guerre persiane del VI-VII secolo, di quelle africane interessate dal programma ricostruttivo giustinianeo e di quelle danubiane già con la fine del IV e gli inizi del V secolo, queste caratteristiche sembrano ancora essere quelle di un modello di città che nasce nel contesto del mondo tardoromano, all'ombra di un potere che tende a ridurre al massimo gli spazi di autonomia delle comunità locali. L'urbanistica della stragrande maggioranza di quei centri che le fonti tardoantiche si ostinano e definire come civitates, per le quali si dispongano anche di sufficienti dati archeologici (escludendo le maggiori metropoli e i pochi centri che riescono a mantenere una certa vitalità commerciale), sembra disarticolarsi in uno spazio indistinto ove, al riparo delle mura, restano leggibili - e non sempre - solo le presenze dei principali edifici di culto cristiano ed eventualmente la residenza del potere sovrano, eventualmente nella persona del funzionario - civile elo militare - delegato a rappresentare loco il potere centrale. I pontefici romani avevano ereditato dai Bizantini, intorno al 75O, la rete di castra costruiti lungo il limes longobardo. Le fonti ci dicono che non avrebbero realizzato altri insediamenti definiti in questo modo, nei successivi 150 anni; e non sembra che alcuno abbia osato operazioni di questo genere nel territorio da essi dominato, che, nelle sue caratteristiche fondamentali, doveva serbare ancora un'intelaiatura essenzialmente tardoromana, "aggiornata" solo dalle poche modifiche strategiche apportatevi dai Bizantini alla fine del VI secolo. Le popolazioni soggette ai pontefici avrebbero potuto vivere in città, presentate come solidi scrigni di civiltà, o in campagna, nella libertà dei loro predi rustici: un paesaggio che, come ricordava Toubert, i monaci-cronisti del XII secolo, avrebbero rimpianto come immagine idealizzata di un'epoca di pace e di stabilità politica. FEDERICO MARAZZI
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La Campania
Tra VI e VII secolo, abbandonate le città, gli uomini sciamano nelle campagne 1. La lotta per la sopravvivenza, la malaria, la peste rendono insufficienti i municipia. Le terre dell'alto Sele, svaniti i municipia di Eborum e di Volcri, subiscono l'influenza di Compsa, fortezza che, sopravvissuta alla guerra greco-gotica, diverrà Conza, centro del gastaldato longobardo 2. Così Lucania nella pianura, cioè Paestum, ridotta ad un villaggio come tanti, assumerà mediante il gastaldo il controllo delle terre litorali fino ad Elea-Velia e a Pixous-Policastro. Quest'ultimo, municipium dall'89 a. C., era vitale nel secolo VI, quando vi sono ricordati vescovi nel 501 e nel 592. La stessa cattedrale di Policastro, dalla forma di trincea, inglobata dall'ampliamento del secolo XI, fu eretta forse subito dopo la conquista bizantina, al tempo dei maggiori triconchi cristiani costruiti in Italia 3. Ma dal VII fino al X secolo Policastro sembra svanire. I recenti scavi della Soprintendenza, mentre hanno fornito novità sulla città antica e sul suo porto tacciono sull'alto Medioevo della città 4. Tra il VI ed il VII secolo Policastro veniva assorbita dalla diocesi di Pestum-Capaccios. Nello stesso periodo e nella stessa diocesi confluisce tutto il Vallo di Diano. Qui il centro amministrativo costituito dal municipiam di Consilinum aveva già ceduto al proprio suburbio, Marcellianum, dov'era sorto almeno fTn dalla prima metà del secolo VI il battistero di S. Giovanni in Fonte e dove si teneva la fiera annuale, cui accorrevano mercanti dalla Calabria, dalla Lucania, dalla Puglia e da Napoli. Nel 527, per consentirvi il tranquillo svolgimento del mercato, Atalarico intimò al corrector di mantenere l'ordine in collaborazione con i conductores delle grandi massae private e regie del Vallo di Dianoó. Si evidenzia, dunque nel secolo VI, I'intenso sfruttamento agricolo della valle attraversata dalla via consolare Annia-Popilia, da Capua per Reggio Calabria, strada ancora efficiente. Mentre il municipium di Consilinum andava esaurendosi, si assiste allo sviluppo del suo suburbio e al prosperare dell'agricoltura nella pianora sottostante. Il territorio nel suo complesso sarà regolato, forse già a partire dal secolo VIII, dalla sala longobarda ristabilitasi sull'elevato dove si sviluppa l'odierna Sala Consilina. È il cuore del gastaldato di Latiniano 7. Un gastaldato che agli inizi non poteva avere una struttura urbana ben definita - una capitale per così dire - ma che sistemava secondo nuove regole amministrative il territorio, utilizzando al meglio l'esistente. Questo si manifestava attraverso forme e schemi della cultura romano-bizantina. La verifica di quanto dico potrebbe venire dagli scavi del triconco della chiesa di S. Nicola de DAHHis a Padula - che, a mio avviso, non oltrepassa il secolo VII -, o dalle analisi del sacello altomedievale da poco individuato in contrada S. Biagio, a sud di Padulas. Percorrendo l'Annia-Popilia verso nord si rimane a distanza dal mare. Il Tirreno s'intravede solo giunti al bivio che, a sinistra, immette a Salerno, mentre a destra, lungo la valli interne dell'Irno e della Solofrana, conduce al gastaldato di Rota, oggi Mercato S. Severino. Rota costituiva lungo la strada consolare romana una stazione dove il corrector provinciale esigeva il tributo (rotaticum) per il transito. Un luogo di controllo viario ed amministrativo. La radicale distruzione di Rota sarebbe avvenuta intorno all'anno 633, quando i Longobardi di Arechi I da Benevento dilagarono verso la pianura pestana e Salerno 9. La rovina, se mai ci fu, fu provvisoria. Ben presto Rota assunse la funzione di centro amministrativo del gastaldato disteso nella pianura che da Fratte di Salerno raggiunge Montoro. La valle era cosparsa di ville rustiche, qualcuna fu trasformata in oratorio, altre in massae. L'archeologia non vi rintraccia centri di una qualche forza, almeno fino al secolo IX, quando i Longobardi, ricusato l'oppidum di pianura, posero nel castello sulla collina del Palco le reliquie di S. Severino trasferitevi dal Norico. La riorganizzazione di un territorio agrario sembra non necessitare a tutti costi, almeno nel secolo VII, di strutture centrali consistenti: il paesaggio si configura per case sparse, per loca. Tali rimangono nelle carte, anche se tarde: nell'837 locam Felline, presso Salerno, nel 959 locam Rota, poi ancora locum Beteri. Se ne contano a decine 10.
I primi saggi di scavo a S. Maria a Rota - attualmente la chiesa è detta S. Marco - di cui rimangono i muri perimetrali a formare recinto di porcile, hanno mostrato che l'aula monoabsidata, con anteposto atrio, oggi inglobato in una casa colonica, fu eretta sul finire del secolo VI impiegando ancora la tecnica tradizionale dell'opas quadratam. Attraverso il sondaggio effettuato all'esterno e a ridosso dell'abside s'è individuata sia la fase di costruzione, che quella di frequentazione. Il sistema di fondazione nella parte absidale conserva le tracce della tecnica impiegata nell'elevato murario in blocchi di tufo grigio. Il fatto che i primi cinque filari dell'opera quadrata poggianti sulla risega di fondazione conservino i giunti di malta non lisciati, ma grezzi, indica che la sistemazione della fabbrica prevedeva fin dall'inizio un piano di frequentazione più elevato di circa un metro rispetto alla quota della risega di fondazione. Su quest'ultima sono state rilevate le tracce residue dell'attività del cantiere consistenti nella primitiva sbozzatura dei conci effettuata con l'ascia. I tagli furono eseguiti dopo la posa in opera dei blocchi squadrati e l'indurimento delle malte, per rendere continua la curvatura dell'estradosso absidale. I resti delle scaglie di tufo furono lasciati in situ, alla stessa quota utilizzata per la collocazione delle prime sepolture a cassa. Sul livello di frequentazione altomedievale, a circa ottanta centimetri s'è localizzato il piano della frequentazione di età romanica, sottostante di circa mt. 1,70 la quota attuale. La traccia più evidente della nuova fase è data dai solchi profondi causati dalla consunzione eolica rilevati sui blocchi tufacci all'altezza del piano della successiva frequentazione, coincidente con un secondo ciclo cimiteriale 11. Soltanto al 798 risale la prima notizia dell'actas rotense 12, cioè del circondario amministrativo del gastaldato; ma la chiesa di S. Maria, stando ai risultati degli scavi, vi era già ben attiva. Bisogna raggiungere 1'803 per trovare la prima documentazione paleografca della chiesa, nel cui atrio venivano ufficialmente rogati atti privati 13. L'attività notarile che si svolgeva nell'atrio della chiesa evidenzia l'uso e la funzione amministrativa del luogo. Anche se in Italia meridionale il termine plebs non è frequente nelle carte anteriori al secolo XI, se ne deve riconoscere il dato formale nell'organizzazione del mondo rurale fin da alcuni secoli precedenti 14. Come plebs S. Maria a Rota appare nel 1021: sancta maria plebem de ipso locum Rota 15. Ad ulteriore conferma dell'istituzione plebana il documento del 1042 mediante cui due abitanti di Rota ricevono una terra confinante cum castanietum pertinentem de ecclesia Sanate Marie plebiis Rotense 16. Il luogo dove sopravvivono i ruderi oggi Curteri, frazione di Mercato S. Severino. Bruno Ruggiero aveva intuito, ed in parte dimostrato, che l'amministrazione ecclesiastica dei territori rurali della Campania longobarda, ed anche degli stessi antichi municipia ruralizzati, si era concretizzata attraverso lo sviluppo delle plebes cui erano preposti gli abbas. Ciò accadeva nei territori longobardi dell'Italia meridionale secondo lo stesso schema già noto per l'Italia settentrionale 18. Abbas e plebes, dunque, possono costituire tracce per l'individuazione del sistema di organizzazione e sviluppo del territorio agricolo fin dall'alto Medioevo. Ma tenderei a cercare l'origine dello sviluppo dell'organizzazione plebana fin dalla seconda metà del secolo VI, - cioè a dire in età goto-bizantina - se i successivi esempi hanno significato: si tratta dei casi di Naceria Alfaterna e di S. Cesareo, ambedue a nord-ovest di Salerno. Per Naceria, centro della Lega Nocerina, sorta nel IV sec. a. C., gli scavi della Soprintendenza ripresi nel 1978 hanno per lo più trascurato le fasi medievali 19; tuttavia in una delle torri del II sec. a.C. è stato evidenziato un livello di frequentazione altomedievale. La torre era stata trasformata in abitazione rurale e gli abitanti dall'interno, sbrecciata ed allargata una saettiera, I'avevano usata come bocca di un forno per il pane. All'esterno della torre la vera e propria camera di combustione poggiava direttamente sul terreno che si era sollevato fino a quel punto principalmente a causa delle alluvioni. Sugli stessi livelli e sempre all'esterno delle mura, in connessione con la fase di V secolo erano una serie di cisterne contigue ed una fornace per la calce. I frammenti di ceramica raccolti dagli scavatori lasciano supporre una frequentazione almeno fino al secolo V 20. A questo periodo, probabilmente, deve farsi risalire il piccolo impianto industriale delle fornaci e delle vasche. Ma il dato che qui più interessa è costituito dal fatto che l'uso agricolo della torre testimonia bene la contrazione della città romana. Eppure le mura, almeno in quel tratto sarebbero state efficienti, se liberate ogni volta dai detriti alluvionali stratificatisi sul banco di lapillo dell'eruzione vesuviana del '79. Stando, dunque, ai
dati archeologici, che mi auguro corretti, la Naceria tardoantica risulterebbe in abbandono ben prima dei disastri provocati dalla guerra greco-gotica: l'abbandono delle mura sembra provarlo. Rimane da chiedersi se la costruzione giustinianea del grandioso complesso ecclesiastico di cui ci è pervenuto il solo battistero costituisca non il tentativo di rivitalizzare una città disastrata per il suo diretto coinvolgimento nella guerra greco-gotica, come anch'io ho fin qui generalmente creduto, ma, al contrario, esso servisse principalmente gli abitati sparsi della pianura del Sarno 21. La nuova organizzazione territoriale investe la stessa amministrazione del municipiam. Nonostante l'apparente resistenza della cultura urbana, dall'accentramento amministrativo proprio dell'istituzione municipale si passa alla dispersione nelle campagne. Se è vero che la crisi del sistema di produzione schiavistico segnò prima queste ultime, poi le città, si deve considerare che tale processo sembrava divenuto irreversibile. La ruralizzazione non fu un fenomeno naturale, ma politico-economico. Grandi edifici ecclesiastici erano sorti nel sabarbiam, ancora più spesso nei pagi, lontano, e se talvolta ci sembra di individuarli sulla stessa area di precedenti città dobbiamo considerare se e quanto queste non fossero state quasi del tutto dimenticate, nonostante la loro estensione ed il loro circuito murario. Ad un certo punto la città venne a confondersi proprio fisicamente con i campi circostanti. Il battistero di Nocera non era isolato. In base ad una stampa del 1840, nella quale si rileva un campanile, forse romanico, ed alcuni ruderi di pilastri e di archi, sembra che una grande chiesa gli fosse accanto, a sud-est 22. Il municipium si era trasformato in un vicus plebano. Se prendiamo forza dagli studi di Bruno Ruggiero, tale interpretazione scaturita da pochi - forse troppo pochi - dati archeologici può, nonostante tutto, reggere. Il più antico attestato della organizzazione plebana che lo studioso rintracciava nelle fonti scritte riguarda proprio Nocera. Nell'841 il principe Siconolfo confermava alla chiesa salernitana la plebem Sanctae Mariaede Naceria, cum omnem substantiam suam, cum servis et ancillis et omnem suam pertinentiam. Il rettore della plebs aveva il titolo di abbas “che - dice Bruno Ruggiero - era ad un tempo, oltre che capo di un collegio chiericale, anche rettore della chiesa e rappresentante del vescovo nel distretto plebano 23. Le conclusioni del Ruggiero, come vedremo, sono essenziali per tentare di definire l'organizzazione rurale nell'alto Medioevo in Campania. Non sorprende, allora, che proprio il recupero di un'epigrafe del 554 ed una brocchetta del VII secolo, provenienti dal sito della villa romana di S. Cesareo, rafforzino le soluzioni proposte. Anche per questo ultimo villaggio, oggi esistente, collocato tra l'odierna Cava dei Tirreni e Vietri sul Mare, la prima menzione scritta è soltanto del 942: de plebe nostra Sancti (Cesarii, recita la carta; all'interno della giurisdizione plebana vengono scambiate delle terre 24. La fonte epigrafca completa quella pergamenacca ed induce a credere che la plebs di S. Cesareo sia già organizzata fin dal secolo VI. Il novantenne Paschasiasabbas dell'epigrafe è, infatti, un amministratore (iustitiae caltor), un uomo saggio e generoso (solator viduae omnis nutritorque papilli) 25. L'archeologo, come lo storico, ha bisogno di molti sostegni. Ricorro un'ultima volta al Ruggiero, al punto in cui egli concludeva che il termine “parrocchia” nell'alto Medioevo altro non signiOcava se nooplebs e che ciò accadde in Italia meridionale almeno fuo alla meta del sec. XII26. Recenti edizioni di documenti dei monasteri di Eboli e di Campagna sembrano confermare appieno l'analisi qui riproposta: dal 1381 al 1551 il termine “plebe”, per individuare la disposizione dei beni immobili compresi nella giurisdizione della cara animar~m di alcune chiese, compare venti volte ed è in un caso intercambiabile con “vico” 27. Sulla base di quanto detto, tento ora di delineare rapidamente la configurazione di un territorio rurale altomedievale che, attraverso gli scavi è risultato meno sfuggente rispetto a Naceria Alfaterra ed il suo Hinterland. Mi riferisco ad un'altra pianura: la pestana, a sud-est di Salerno. Ripropongo, ancora una volta la nota epistola di Gregorio Magno che, negli anni a cavallo fra il VI ed il VII secolo, s'informa da Felice, vescovo di Paestum, sulle condizioni della diocesi. Dalla lettera si evince che in quegli anni esisteva una cattedrale a Paestum, momentaneamente abbandonata dal vescovo andatosene ad Agropoli. Molte ipotesi sono state avanzate: l'ordinario stava lontano dalla sua
sede a causa degli invasori longobardi, oppure a causa della malaria, e così via. Ma se cogliamo dalle stesse epistole le preoccupazioni che il papa, ad esempio. esprimeva al girovago vescovo di Amalfi, ci accorgiamo che per un vescovo forse era normale a quei tempi peregrinare per la sua diocesi, e non soggiornare stabilmente nel palazzo episcopale. Di questo si rammaricava il papa, a causa del pericolo longobardo. Ma in realtà tutto ciò significa che molte sedi vescovili in Italia meridionale non tentavano neppure di arroccarsi ed organizzare una qualche resistenza. Quali sarebbero state le possibilità di difesa? Di fatto - nel caso di Paestum - le infrastrutture urbane erano: la cattedrale, e qualche casa. La città non superava per consistenza insediativa ed estensione le dimensioni di uno qualsiasi dei villaggi della sua diocesi. Paestum nell'alto Medievo si estendeva su un paio di ettari di superficie, rispetto alla città lucana e romana s'era ridotta a meno di un sesto. Alcuni recenti saggi di scavo ed il rilievo del sepolcreto altomedievale, individuato attorno all'Athenaio7, segnano 1'estensione della frequentazione altomedievale. Per le caratteristiche specifiche delle tombe a cassa, per qualche reperto ceramico recuperato, si è in grado di provare che l'insediamento urbano era già molto ridotto nel secolo V-VI, prima dell'occupazione longobarda della regione che avvenne negli anni intorno al 630-40. Le strutture che delineavano la città erano limitate al tempio-cattedrale con annesso palazzo episcopale, la basilica cimiteriale - probabilmente con battistero - e tutt'intorno all'area occupata dai vivi, totalmente sprovvista di mura, le sepolture. Dal numero di queste ultime direi che i villaggi della diocesi erano più frequentati e vitali del centro episcopale. La pianura circostante appare meglio attrezzata. Presso la foce del fiume Testene, in prossimità di Agropoli, gli scavi della Soprintendenza hanno individuato un villaggio, forse di pescatori. Esso, totalmente aperto, stava al limite della spiaggia, risale ai secoli V-VI e sembra frequentato per tutto l'arco del VII. Lungo il Sele ho individuato negli anni scorsi due chiese munite di vasca battesimale per immersione. La prima non lontano dalla confluenza del Sele col Calore lucano, la seconda presso il ponte Barizzo, proprio vicino la confluenza fra i due fiumi. Il ponte costruito in età borbonica obliterò l’antico attraversamento della scaja, dove convergevano diverse strade della pianura pestana. Ambedue gli insediamenti ricadevano nell'area dell'antica cora pestana 28. La prima chiesa era dedicata a S. Lorenzo, il toponimo ne conserva ancora l'attribuzione 29. Per la sua analisi dettagliata rimando ad un mio vecchio lavoro. Qui ribadisco soltanto che il S. Lorenzo di Altavilla Silentina si configura come una struttura sociale e religiosa in grado di aggregare una popolazione di circa duecento anime. La popolazione di un piccolo villaggio rurale. La chiesa era fornita di aula, separata dal battistero, di porticato, di cimitero e di alcuni altri ambienti che probabilmente fungevano da canonica. Il S. Lorenzo sorse ex novo su di un'area non insediata. Questa chiesa, che ho definito centro plebano, rappresenta un esempio di espansione rurale. Siamo nella prima metà del secolo VII. Simile il caso della chiesa, dal titolo sconosciuto, individuata presso la scaja. Per essa non ho ancora preparato la relazione definitiva dello scavo, ma posso anticipare che le strutture erano sovrapposte ad una villa romana. In base al tipo di ceramica a vernice nera, la villa era già istallata a partire dal secolo III a. C. La fattoria si era stabilizzata nei secoli II-I a.C. Anche qui notiamo i resti di un edificio separato per il battesimo e un'aula affiancata da alcuni ambienti non meglio definibili, ma che potrebbero indicare la canonica. Le strutture altomedievali di Ponte Barizzo sono contemporanee al S. Lorenzo. La distanza tra Ponte Barizzo ed il S. Lorenzo è di circa sette chilometri, da Paestum dieci. Nell'alto'Medioevo su questa distanza funzionano in contemporanea tre battisteri. L'infrastruttura urbana, dunque, non prevale sui villaggi sparsi del suo territorio. Nemmeno sul piano della qualificazione architettonica il centro si distingue dall'intorno. La discontinuità del potere ha soffocato la città e l'ha resa in tutto e per tutto simile alla campagna. Tuttavia Paestum sarà Lucania, la sede amministrativa dell'omonimo gastaldato. La pianura si estende a nord-ovest fino a Salerno. Tra questa ed il Sele si formarono sul volgere del secolo XI ed agli inizi del XII due grandi fendi della chiesa salernitana: il feudo di Montecorvino e quello di Olevano. Nel territorio del secondo è stato di recente condotto dalla Soprintendenza ai B.A.A.A.S., uno scavo di cui non si ha ancora alcuna relazione a stampa. I risultati tuttavia, sembrano
essere promettenti, poiché sulla destra, appena. superata l’imboccatura della grotta è stato individuato un nucleo di minuscole abitazioni, mentre sulla sinistra è apparsa un'area cimiteriale. Gli scavi riguardano la grotta santuario di S. Michele: gli unici oggetti a me noti da questi scavi recenti sono due follari bizantini: uno di Costantino VII e Zoe, emesso tra il 913 ed il 919, l'altro di Romano I (913-919) 30. Dalla grotta sono stati in anni successivi recuperati, durante visite superficiali, vari frammenti di ceramica medievale. Si tratta, in prevalenza, di frammenti di anfore a bande rosse, assegnabili ai secoli XI-XII. Sono i secoli in cui l'amministrazione feudale andava consolidandosi col fissare il centro amministrativo nella curtis di S. Maria. Questa, già testimoniata in una prima fonte del'849, si era letteralmente sovrapposta ad una villa romana sorta sul rialzo collinare prospiciente la pianura, nei pressi della via Popilia; strada menzionata nelle earte medievali come via antiqua. Una seconda cartis, ma il termine nel documento è sala, del 980, anch'essa sovrapposta ad una villa romana, si trovava sul mare, quasi sulla spiaggia, alla foce e sulla sinistra del fiume Tusciano. Si tratta di una proprietà di Gisulfo I, principe di Salerno, lasciata in eredità ai nipoti Guaimario e Guaiferio. La sala di Gisulfo sta lungo la via pubblica che l~aditrirca mare. Proseguendo verso sud, lungo questa strada sono state localizzate altre due ville romane 5~. Non è ora il caso di insistere, ma va sottolineato che a quanto sembra non vi erano in questa epoca particolari minacce per gli insediamenti che stavano sul piatto litorale prospiciente il mare. Il tentativo di ricostruzione territoriale del fendo di Olevano sul Tusciano, non ancora completato, sta fornendo utili elementi per la eomprensione dell'insediamento in pianura nei secoli IX-X3. Come si rileva dalla carta topografica, il territorio di Olevano sul Tuseiano, prima di confluire interamente nel patrimonio della chiesa salernitana doveva essere già ben dotato. Vediamo in breve come e perché. Nell'819 Ludovico conferma al monastero di S. Vincenzo al Volturno la cella sarcti Vircencii ir flavio Tusciano. Nell'849 il primo principe di Salerno, Siconolfo, riceve dallo stesso monastero, in cambio di beni che possedeva nel Beneventano, in pratica l'intera valle del Tusciano: ...rem eius monasteri, cum curte et casis, su ecclesia, quas abent in locum qui dicitur Tusciano, finibus Salernitatis... . Le interpretazioni date sono state piuttosto contraddittorie, se non vaghe, per l'assoluta ignoranza dei luoghi. Si è perfıno giunti ad ipotizzare che la corte in questione fosse la cella-grotta del santuario di S. Michele, che sta a circa settecento metri sul livello del mare, in una posizione scomoda, a picco sulla parete rocciosa del Monte d'Oro 33. La currtis citata è senza alcun dubbio quella individuata a quota 193, nei pressi della località Monticelli. In essa vi sono i resti di due chiese, una plebana ed una palaziale. L’edifıcio ecclesiastico più antico è il privato, accessibile solo dall'interno della corte, e dovrebbe risalire nella sua veste attuale al secolo IX-X, mentre la chiesa pubblica, affıancata da un battistero, può essere collocata al secolo XI-XII. I ruderi di queste due ultime architetture rimandano alla matrice culturale bizantina diffusa nell'Italia meridionale, ma specialmente ad esempi calabresi 34. La facies altomedievale del territorio di Olevano, al di là dell'episodio rupestre micaelico, rivela anche altre commistioni culturali, si tratta di un caso piuttosto raro per la Longobardia meridionale. Mi riferisco alla fin qui inedita chiesa di S. Vito, collocata ai confıni del fendo. I recenti pessimi restauri successivi al terremoto del 1980 hanno distrutto i caratteri peculiari dell'architettura della fabbrica; ma, per l'attivismo di un cultore delle vestigia locali, si è venuti a conoscenza di un affresco di tradizione ottoniana che riterrei di poter collocare al secolo X. La chiesa di S. Vito, posta anch'essa su di un poggio appena elevato sulla pianora, nasce come fondazione signorile da Guaimario IV e dai suoi fratelli 35. La scena rappresentata nel catino absidale è l'Ascensione di Cristo seduto sull'arcobaleno in una mandorla sostenuta da quattro angeli. Al di sotto della mandorla stanno la Madonna orante affiancata dai santi Pietro e Paolo. Non sono esperto di storia della pittura medievale, ma l'individuazione nell'affresco della chiesetta di S. Vito di una tradizione ottoniana mi sembra possibile. Nel lasciare volentieri ad altri l'approfondimento della questione, desidero soltanto indicare l'influenza che nel territorio di Olevano mi sembra abbia avuto la mediazione del monastero di S. Vincenzo al Volturno, influenza già da altri intravista attraverso gli affreschi della grotta di S. Michele.
Tra S. Vito ed il mare, cioè tra S. Vito e la sala di Gisulfo I, Guaimario IV fonda la chiesa di S. Mattia, oggi inglobata nell'omonima fattoria, lungo il fiume Tusciano. Da lì a qualche anno agli arcivescovi salernitani non sfuggirà una sola zolla. Devo riconoscere che un archeologo medievista dalle mie parti ha di che scegliere. Ho tentato di delineare nel suo complesso l'origine del feudo di Olevano, mi accontento ora di accennare soltanto ad un episodio ancora isolato, individuato all'interno dell'altro fendo ecclesiastico di Salerno. Si tratta del territorio di Montecorvino collocato a nord rispetto al precedente. Il feudo di Montecorvino, stando ai primi sopralluoghi, presenta diverse analogie con quello appena descritto. Vi sono toponimi interessanti: Curti, Curticelle, Vignedonica=la vigna dominica. Vi si trova ben conservata S. Maria a Vico, una monumentale chiesa a croce greca estradossata del VI secolo, ehe appare oggi isolata nei campi, nel territorio del comune di Giffoni Vallopiana. Pongo per un momento l'attenzione su di un'altra chiesa ed un altro affresco individuati di recente sullo stesso territorio. Si tratta dei ruderi di S. Ambrogio, un'aula monoabsidata che colloco, sulla base del suo sviluppo architettonico, tra i secoli X-XI. La studiosa che ne ha analizzato gli affreschi propende, più decisamente per il secolo X 36. Non entro nei dettagli, mi basta ricordare che sono i secoli in cui in questi territori si ha una cospicua serie di fondazioni signorili, anche se per l'aula in questione non s'è rintracciata nessuna fonte di questo tipo - la prima fonte scritta riguardante la chiesa risale soltanto agli inizi del secolo XIV. Il cielo pittorico rappresenta la Madonna in trono con Bambino fra quattro santi, tra cui S. Ambrogio, non molto richiesto nell'Italia meridionale. Abbandoniamo le pianure per la costa montuosa della penisola amalfıtana. È necessario sopportare la discontinuità dei dati archeologici. Sorvolo Salerno, su cui tornerò, anche se la città costituisce dal punto di vista geomorfologico l'inizio della Costiera Amalfıtana. In questa costa recenti rinvenimenti, specialmente nell'interno montuoso, stanno mutando il quadro che si aveva di una regione considerata inospitale e poco abitata. Non si deve certo esagerare nel contrario, ma l'evoluzione della villa romana di Polvica di Tramonti, con attestazioni materiali di una frequentazione continua che va dal secolo I a. C. fıno al secolo VII3', la ceramica a "vetrina pesante" proveniente dall'area della villa dei Rufolo di Ravello, il sepolcreto tardoantico, forse di V-VI secolo, scoperto a Scala, sono tracce di una probabile diffusa utilizzazione della montagna amalftana nell'alto Medioevo. Le ville di piacere sembra stessero proprio sul mare, come la villa di Minori. Qui comunque potevano svolgersi attività economiche relative alla pesca e ai traffici marittimi. Anche a Minori si conservano prodotti di sigillata chiara - la forma 91 D/Lamboglia 24/25 -, residui di una frequentazione che raggiunge la prima metà del secolo VII d.C.3S Sulla villa romana di Positano sorse e si rinnovò nel tempo l'attuale chiesa di S. Maria Assunta, che avrebbe avuto un abbas nel 994. Ma in questo caso sembra ehe la fonte originale, perduta, volesse indicare l'abate di un monastero" sorto pratieamente sulla spiaggia. I pirati, ripeto, non incutevano poi tanta paura. La chiesa di Positano, rieostruita mediante l'analisi delle strutture murarie superstiti nel suo sviluppo desideriano, sopraggiunge fino a noi nella sua veste barocca 39. Dati scarsi sull'intorno di Napoli e sulla stessa città. Per quest'ultima si attendono i risultati degli scavi di Werner Johannowky e di Paul Arthur. Il primo individuò negli anni '60, da informazioni che mi ha dato, una fase pertinente costruzioni teodosiane allestite contro i Vandali. Mentre dalle notizie preliminari sogli scavi di Santa Patrizia, diretti dal secondo, apprendiamo della possibilità di una buona seriazione stratigrafıea che riguarda in particolare le fasi medievali, sia alte che basse 40. Sembra, inoltre, che ampie parti della città occupate da edifici d'età classica furono trasformate in orti, trasportando appositamente all'interno delle mura la terra da coltivare. Nella vicina Cuma i Goti subirono la defınitiva disfatta, i loro assedianti incuneando il banco di tufo lo precipitarono vanificando ogni difesa. Vittoriosi i Bizantini costruirono sull'acropoli la cattedrale con la schola cantorum ed il battistero. Tentativo inutile, la città non risorse. Nelle isole del golfo di fronte, poche ore a remi, non c'erano mai stati grandi agglomerati. Lì il fatiscente si poteva evitare coll'accontentarsi di riaggiustare una vecchia villa patrizia. Il mare da una parte, gli orti e i boschi dall'altra assicuravano l'immediato. I pirati li potevi avvistare da lontano e fuggire in tempo sulle vette più alte. Così ad Ischia prosperò il villaggio di Lacco Ameno che per
primo accoglierà le reliquie di Santa Restituta. Il villaggio s'andava sovrapponendo all'antico impianto romano, forse di una villa di piacere, ed il sepolcreto a se stesso. Nell'alto Medioevo si menava la vita qui ben meglio che nella terraferma, ce lo lasciano capire gli oggetti abbondanti, fabbricati sul posto. Per le ceramiche v'era proprio nell'isola un'antica tradizione ed anche per il ferro s'era creata una vera e propria industria; il minerale era copioso, per non dire dei commerci che se ne facevano ancora nel secolo VII, stando alle scorie ritrovate. Qualche figulo insisteva nel perpetuare forme antiche e tentava di restituirne le tecniche, ma i tempi erano mutati, tutti erano costretti all'essenziale, la sigillata lucente stava tra il superfluo. Gli scavi decennali intrapresi a Lacco Ameno di Ischia da don Pietro Monti'monsignore della basilica di Santa Restituta, non senza contrasti con la Soprintendenza archeologica di Napoli, e le sue indagini sui villaggi dell'isola consentono di delineare un quadro del livello dell'insediamento post-classico piuttosto sostanzioso. Ai suoi studi, ma ancor più al Museo da lui creato in loco, invito chi è particolarmente interessato a prendere diretta visione della grande varietà dei materiali esposti 41. Le fasi di vita che vanno dal V al VII secolo sono eccezionalmente testimoniate. In particolare, la vasca di un fonte battesimale del VI-VII secolo riconferma il quadro che ho precedentemente delineato sulla diffusione di piccoli nuclei ben organizzati nell'alto Medioevo rurale della Campania. La cosa si ripete nelle isole dove, forse, è più comprensibile. Sulla costa la vita è più agiata che nell'interno. Qui gli scavi sistematici sono rari. A Pietra Durante, un campo distante dieci chilometri da Bisaccia, nella pietraia argillosa che precede il Tavoliere delle Puglie, agli estremi confıni della provincia di Avellino, un nucleo di contadini coltivava granaglie e la vite, forse qualche albero da frutta; lo testimoniano gli utensili raccolti intorno alle loro tombe e nelle fobeas granarie: roncole da pota, coltelli, falci, macine a mano nella pietra del Vulture, vulcano non troppo distante, dove abbondava la trachite adatta allo scopo. Alla comunità apparve invidiabile la parure della signora seppellita con la collana di vetri colorati, il cavallino bronzeo della fibula luccicante, il pettine e la fusaiola d'osso, il modesto sudario fissato da una minuscola fıbbia con catenella e la brocchetta tutta sbilenca di un apprendista vasaio. Agli altri toccava, e non sempre, soltanto un piccolo coltellino. Contadini poveri, anzi poverissimi, che erano costretti a non sprecare nulla. Non buttavano via neanche le olle di creta già rotte: riparate alla meglio, se non per il fuoco potevano contenere il farro. Seppure poveracci questa di Pietra Durante era una comunità fornita del sufficiente: il sepolcreto per tutti, la chiesa non distante, le foheas scavate nel banco roccioso per conservare il grano all'asciutto. Gente che sapeva come sfruttare la terra: il cimitero fu stabilito là dove la roccia affıorava, intorno l'humus più profondo si sarebbe potuto meglio mettere a frutto. Il villaggio stava aperto e vicino sulla collina, sotto scorreva il Calaggio che finiva nell'Ofanto, da una parte s'andava nelle Puglie, dall'altra a Conza e a Benevento. I nostri contadini ad un certo punto si troveranno nel bel mezzo, tra i Bizantini di Bisaccia (il toponimo da Bizacena=territorio di Bisanzio) e i Longobardi di S. Angelo e della Guardia. Non sarà né il primo caso né l'ultimo di spartizione del frudium. Dovunque nelle campagne, nell'entroterra e sulle coste, la brocca, la pentola, l'olla, lo scaldino, la lucerna s'assomigliavano tanto da non poterne distinguere l'origine. Verso il mare i prodotti sembrano più raffinati, ma le esigenze sono simili alla vita dell'interno. L'uniformità del gusto nel corredo femminile forse più di ogni altra cosa accoglie gli echi della moda ereditata dalle città deserte. A Casalbore, in provincia di Avellino, nel sepolcreto della chiesa di S. Maria dei Bossi si sono trovati orecchini a cestello. Gli stessi riappaiono nella pianura pestana, nel citato sepolcreto del villaggio di S. Lorenzo, presso Altavilla Silentina. Le donne con la loro bigiotteria e le monete. Quelle non hanno mai rinunziato ad'essere alla moda e così cercano di perpetuare gli echi delle antenate romane, almeno fino a quando nell’VIII secolo la moda bizantina assumerà in questo settore un ruolo determinante. Per le monete, invece, Bisanzio dettò legge fin dapprincipio. Al punto che il primo Arechi da Benevento, mentre faceva grande il suo ducato con le conquiste dei territori, già diffondeva le silique copiate tali e quali, monogramma compreso, dalle zecche imperiali.
Nel 1978 con gli scavi del S. Lorenzo si è potuto per la prima voltit essere definitivamente certi della cronologia di talune ceramiche impiegate nel corredo funerario. Ho già discusso del loro signifıcato religioso in altri studi e a quelli sono costretto ora a rinviare per mancanza di tempo 4e Mi basta ribadire - cosa di cui non ero prima del tutto convinto - che l'uso della brocchetta come dichiarazione dell'avvenuto battesimo affonda le radici nei dettati del cristianesimo del secolo IV. Un rituale nordafricano e mediorientale che non ha nessuna ragione di attendere la rintroduzione del corredo provocata, secondo alcuni, dai barbari. Con il cristiano le armi, il corno potorio, la sedia plicatilis, non avevano niente da spartire. Mentre la ceramica appare in questo periodo piuttosto rozza - cosa che permane anche nelle tombe più ricche, quasi che i fıguli, senza mercato, si fossero ridotti in prevalenza a coltivare la terra -, le costruzioni in muratura si diversificano talvolta anche di molto. Attraverso le tecniche costruttive di edifıci eretti tra la seconda metà del secolo VI ed il VII si riesce a comprendere meglio eredità culturali ed innovazioni, cioè a dire ricchezza di mezzi e arrangiamenti. Con la prima si persevera nella consuetudine, i secondi sommati ai primi promuoveranno il progresso. Chi poteva, in definitiva, tendeva a conservare la tradizione formale dell'impero anche nell'applicazione della stessa tecnica costruttiva. Con la tradizione sperimentata i risultati sarebbero stati garantiti. Lo si dimostra nel citato battistero di S. Maria Maggiore di Nocera, della metà del secolo VI, via via fino al S. Giovanni di Pratola Serra (AV), della fine del secolo VI-prima metà del VII, individuato lungo la valle del Sabato. Il reimpiego maturo di materiali pregiati ed il raffinato controllo delle tecniche espresse nelle coperture a volta lasciano intuire il percorso della tradizione costruttiva che sarà pienamente riacquisita e innovata a partire dalla metà del secolo VIII. Di questa evoluzione si può da una parte seguire il filo attraverso le costruzioni arechiane della S. Sofia di Benevento e del palazzo longobardo di Salerno, dall'altra, mediante l'analisi degli apparecchi rurali e delle cinte fortificate. In defınitiva voglio soltanto affermare che per le costruzioni monumentali e signorili si impiega una tecnica, se si vuole, conservatrice - come poteva essere un'opera listata o un'opera quadrata, oppure la sottile concatenazione delle coperture a volta - mentre tutto ciò che attiene allo sfruttamento delle risorse agricole o al controllo militare di queste, si sviluppa attraverso tecniche meno attraenti, più essenziali, ma allo stesso tempo efficaci. Devo portare acqua al mio mulino e proporre degli esempi. L' impianto del battistero di Nuceria ricalca in tutto lo schema spaziale di S. Costanza a Roma. I recenti scavi della Soprintendenza archeologica hanno rivelato che l’edifıcio giustinianeo si sovrappose ai mosaici di un precedente edifıcio, forse terme del foro. Ripropongo qui la fabbrica solo perché essa testimonia l'azione di costruttori di estrema capacità tecnica nella Campania a sud del Vesuvio, negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra gotica: il deambulatorio anulare ed il doppio colonnato radiale su cui si scaricano spinte e pesi della cupola centrale stanno appieno nella tradizione 43. Ma anche nella più semplice opera quadrata si perpetua la tradizione, come nell'accennata chiesa pratolana, che mostrerò fra breve, individuata a circa sei chilometri da Atripalda-Abellibam, il municipium romano distrutto e fınito con vaste parti del suo antico territorio nelle mani del longobardo Truppualdo, che aveva sul monte omonimo il suo castello, a sbarrare il fiume ed il percorso per Benevento. Proprio ad Atripalda gli scavi della Soprintendenza archeologica hanno portato alla luce in località Capo La Torre il primo impianto del complesso altomedievale cristiano ricordato dalla tradizione erudita come spertis martyrHm connesso al culto di S. Ippolisto ed all'azione episcopale di S. Sabino. Capo La Torre dupliea Cimitile. I lavori hanno scoperto parte di una enorme basilica di età costantiniana e un cemeterium frequentato senza soluzione di continuità dal III al VI secolo 44. A questo punto Abel/inam svanisce, il suo cimitero è interrotto. Solo qualche contadino potrà essere ancora sepolto attorno alle mura diroccate della Civita, I'area del municipium romano, o dentro le sue case patrizie sventrate 45. A causa del terremoto del 1980 furono intrapresi lavori a Pratola Serra, comune della provincia di Avellino, a circa sette chilometri dalla città capoluogo e a cinque dall'antica Avellinum. Vennero alla
luce murature di tufo in opera quadrata. Werner Johannowsky, allora soprintendente, mi convinse ad organizzare un cantiere e ad effettuare degli scavi di cui di recente ho curato l'edizione 46. La presenza del S. Giovanni di Pratola - le località Pratola e Serra furono accorpate insieme soltanto al tempo dei Normanni - nel territorio rurale dell'Irpinia costituisce di per sé un problema. La chiesa ha uno sviluppo notevole (circa 35 x 12 mt.), è affiancata da ambienti per la canonica e da un battistero. Nell'intorno immediato non vi sono e non si hanno testimonianze, di insediamenti altomedievali. Lo stesso odierno agglomerato di Pratola nasce nel 175047. Le fasi di frequentazione della chiesa sono due. La prima altomedievale, tra fine VI e VII secolo, l'altra bassomedievale del secolo XIV. A quest'ultimo periodo sembra risalire la recentissima scoperta di una fornace per la probabile produzione di tegole 48. Il S. Giovanni di Pratola sorse, dunque, lontano da qualsiasi insediamento, o per meglio dire, indipendentemente da qualsiasi insediamento preesistente. Per la sua confıgurazione spaziale, per la qualità elevata delle tecniche costruttive impiegate, la ricchezza dei materiali recuperati nelle tombe, per la stessa tipologia delle tombe a cassa che ricordano molto da vicino i sarcofagi tardo imperiali, per i frammenti marmorei, le tracce dei tessuti ricamati in oro, risulta evidente che non siamo di fronte ai resti di una comunità rurale. Si tratta certamente di una fondazione di alto livello economico e culturale dovuta alla struttura di un potere interessato alla stabilità di un'area compresa fin dall'inizio nella regione conquistata dai Longobardi beneventani. In base di alcuni indizi, o almeno a quelli che ho ritenuto tali, credo che con l'esempio pratolano ci si possa trovare innanzi alla sede vescovile di Abellinm, che sostituì alla fine del secolo VI, dopo l'abbandono il citato complesso di S. Ippolisto e sopravvissuta per il solo arco del VII secolo. Non posso dilungarmi oltre sul S. Giovanni di Pratola, rimando alla discussione eventuali richieste di delucidazioni. Ancora qualche secchiata d'acqua per il mio mulino. La Valle del Sabato, per tutta la sua estensione, fu immediatamente acquisita dai Longobardi di Benevento, intorno al 571. Il suo controllo era essenziale per la difesa della capitale del ducato da Sud. In breve seguendo il fiume si è a Benevento, si sbuca proprio sotto il pentagono della Torre della Catena, sotto le mura arechiane. Le fortifıcazioni di controllo del percorso sono facilmente rintracciabili. A partire dalle sorgenti, ai piedi del Monte Terminio, v'è il recinto fortifıcato della cosiddetta Civita di Ogliara. Nelle strutture militari altomedievali del ducato longobardo di Benevento si possono individuare alcune novità: l'enorme ispessimento materico, l'uso misto del legno e della muratura. In tal modo, ad esempio si realizzavano torri di avvistamento sulle mura tozze. E poi ancora torri svuotate fin dal primo livello d'imposta sul terreno allo scopo di ricavarvi depositi. Le torri premedievali erano sempre a base piena. Ma forse quello che più conta è l'uso generalizzato della gittata a sacco che permetteva, anche in assenza di tagliatori di pietra e di fabbricanti di mattoni, di realizzare strutture poderose. Le strutture difensive della Civita sono direttamente confrontabili con quelle di Benevento e, per quel poco che ne resta, con le mura di Sicopoli, salvo il fatto che in quest'ultima si fece largo uso di tufo giallo, sistemato in blocchi irregolari, che assumono quasi l'aspetto delle murazioni italiche isodomiche. Pensare che Erchemperto raccontava che Sicopoli era una città di legno, finita col bruciare totalmente solo dopo tre lustri dalla sua fondazione. Il possente recinto della Civita di Ogliara, è disposto lungo una lingua di terreno pianeggiante, affıancata da due burroni che si congiungono sotto un'estremità della murazione. Dalla parte opposta, alla base del cuneo naturale, la difesa artificiale predispone una serie di torri di controllo all'unico ingresso carrabile. Durante gli scavi del 1975 e del 1980 - si trattò solo di due campagne esplorative condotte insieme da un'quipe polacca ed una italiana - furono individuate due fasi abitative in muratura, ambedue altomedievali, concentrate dalla parte opposta all'ingresso principale del recinto il cui perimetro raggiunge i due chilometri. Gli studi del sito, da allora non sono stati più ripresi, ma da una prima analisi dei materiali ceramici e della murazione, direi che è possibile affermare di trovarsi di fronte ad una costruzione dell' VIII-IX secolo, una struttura che non superò il secolo XI.
Un aneddoto mi colpì mentre si scavava in quegli anni. Il luogo, totalmente deserto, è frequentato dai pastori. Uno di essi mi raccontò della tradizione che voleva l'unica porta di accesso alla Civita smontata - perché possente, costruita con spesse lastre di bronzo, non si sa quando ci sarebbe accaduto - e trasferita a Benevento. Il racconto lascia intravedere la verità: il recinto fortifıcato della Civitá di Ogliara costituisce realmente la porta di accesso a Benevento. Una volta superato lo sbarramento difensivo si percorre il fondovalle fıno al secondo blocco di Abellinum. Non a caso sul Monte del longobardo Truppualdo vi si scorgono i ruderi di un castello. Di qui a Pratola il tratto è breve. A Pratola sull'area della villa romana, individuata nei pressi del S. Giovanni, sorse una torre cilindrica, la cui base è nascosta oggi da un'aia settecentesca. Discendendo il fiume, superata la stretta di Barba e la fortezza di Ceppaloni, a 12 chilometri da Pratola, si è di fatto, a Benevento. Dalla Civita di Ogliara a Benevento, per questa via, sono in tutto appena quaranta chilometri. Per un esercito due giorni di marcia. Il tempo concessomi sta per scadere. Dobbiamo entrare in città prima che sia troppo tardi. Ma devo fare una breve sosta nel palazzo fortezza che fu del gastaldo di Suessola, nella pianura a nord del Vesuvio. La planimetria ellittica è ancora rilevabile atttaverso quel che rimane. Una torre mastio troneggia affıancandosi alla cinta. Tutta la costruzione è in grandi blocchi di tufo ben squadrato, dall'interno si notano i resti di grandi volte a crociera di diretta derivazione romano-imperiale. Le giunzioni sono accuratissime. L'assenza di saettiere nella cortina e nel mastio mi induce a collocare il manufatto non oltre la prima metà del IX secolo. Dall'ultimo annuale convegno di Taranto, che riunisce le relazioni dei soprintendenti archeologi d'Italia un'interessante novità è affıorata dagli scavi condotti a Benevento, in prossimità della torre di S. Panaro e lungo le mura in corrispondenza dei giardini del Collegio Vassallo. Secondo gli scavatori queste mura devono essere state fondate tra il XVI ed il XVII secolo. Purtroppo di questa sconvolgente scoperta non si hanno, per il momento, relazioni scientifiche affıdabili. È possibile che si tratti di totali rifacimenti delle cortine medievali, ma non mi sembra, comunque, che queste stesse cortine siano coerenti con le tecniche in vigore nel periodo della fortificazione bastionata. Un paio di anni addietro un altro interessante saggio è stato condotto dalla Soprintendenza archeologica presso le mura beneventane, non lontano dalla Torre della Catena. Sembra, ma non v'è nessuna relazione a stampa che lo confermi, che il quel tratto la murazione prosegua per altri cinque metri rispetto all'attuale piano di campagna prima di raggiungere la fondazione;o. Quella parte della cinta muraria della città è prospiciente il fiume Sabato, ragion per cui appare verosimile un tale profondo interramento. Quando tutti i saggi di scavo condotti dalla Soprintendenza negli ultimi dieci anni saranno pubblicati - se mai lo saranno - si dovrebbero avere molte interessanti novità. Si pensi che Werner Johannowsky ha localizzato l'anfiteatro romano in un'aera prossima al complesso ecclesiastico dei Santi Quaranta. L'esplorazione di alcune tombe altomedievali collocate nell'anfiteatro ha restituito crocette funerarie di ferro del tipo già visto a Pratola Serra. Avrei voluto mostrare qui un'immagine degli stucchi provenienti dalla chiesa di S. Ilario, chiesa longobarda costruita nei pressi dell'arco di Traiano, dove furono condotti alcuni saggi una decina d'anni fa, ma pur avendo fattone richiesta il primo ottobre scorso, non ho finora avuto nessuna risposta dall'ufficio del soprintendente. La burocrazia richiede tempi lunghi essendo priva di intelligenza. Se mai mi fosse consentito prendere ancora una volta visione dei frammenti in questione e scattare una fotografıa la accluderò per la stampa degli atti. Tali stucchi sono interessanti perché confrontabili con alcuni analoghi del tempietto di Cividale e con altri del S. Salvatore di Brescia. In particolare mi sembrò di potervi vedere delle affınità con la plasticità gessosa del frumento di bassorilievo recante la testa di un cavallino ora nei Musei Civici di Pavia, appartenuto alla residenza regia di Corteolonas~. Ma per questa faccenda mi dovete credere sulla parola. Benevento è una città disgraziata: dopo i devastanti bombardamenti dell'ultima guerra mondiale, la cementifıcazione della ricostruzione non ha consentito altri interventi. Le cose sono appena un po'
cambiate durante la ricostruzione successiva al terremoto del 1980, per la intelligente azione di Werner Johannowsky e dell'ispettrice Daniela Giampaola. Tra le città campane che risorsero, o furono fondate ex novo, tra l’VIII ed il IX secolo sono: Salerno, Sicopoli, Capua, Caputaquis=Capaccio Vecchia. Sicopoli e Caputaquis giacciono in ruderi sulle loro rispettive colline. Salerno e Capua si rigenerano di continuo tutt’ora. La riorganizzazione e la rifondazione delle città della Campania è dovuta prevalentemente ai Longobardi, a cominciare dalla seconda metà del secolo VIII. Le spinte che indussero Arechi II, duca di Benevento (758-787) a ricostruire Salerno sono state ampiamente discusse dagli storici: da Michelangelo Schipa 52 a Paolo Delogu 53; nemmeno le ripropongo in sintesi per mancanza di tempo e perché sono ben note agli studiosi. Dedico qualche minuto ai risultati degli scavi nell'area del palazzo longobardo di Salerno, nel centro antico della città, e nei depositi del Museo Provinciale 54. Il palazzo di Arechi II fu impiantato sulle strutture delle terme del I-II secolo d. C. L'eruzione del 79 d.C., aveva parzialmente colpito anche Salerno, depositando in tutta l'area circostante le terme uno strato di lapillo spesso cinquanta centimetri. Mentre in città il lapillo fu rimosso - lo si è, infatti, trovato in posizione secondaria -, nell'intorno alcune ville furono distrutte e abbandonate 55. Una grande alluvione, tra la fíne del IV e gli inizi del V colpisce Salerno. L'alluvione, già nota dalle fonti epigrafıche, è stata individuata. Essa invade il frigidarium delle terme. Quest'ultimo viene trasformato nella parte della vasca in ecclesia e nella zona antistante in cimitero. Le sepolture sono ricavate nel banco alluvionale. L'ecclesia sarà funzionale dal secolo V al VII, come testimoniano alcuni materiali (brocchette dalle sepolture e epigrafı). Molto probabilmente l'ambiente termale rettangolare conservava ancora intatte le due volte susseguentesi: la prima a crociera, la seconda, corrispondente alla vasca del frigidarium, a botte. All'esterno delle terme sono state individuate due strade con grossi basoli. La più antica è successiva al secolo V-VI: sotto i basoli frammenti di lucerne cristiane di tipo africano. Questa prima strada si affiancava ad un grande edifıcio rivestito, almeno in parte, di lastre marmoree di spoglio: i basoli suddetti incastrano il primo filare di tali lastre. Una seconda strada acciottolata, anch'essa con grandi basoli, è pertinente alla fase normanna della costruzione del cosiddetto palazzo Fruscione, i cui stipiti dei portali decorati dalle tipiche tarsie in tufo, formavano in realtà le fnestre del pianoterra. Il livello di frequentazione normanno sta a circa tre metri e mezzo più in basso dell'attuale piano stradale. Il livello della frequentazione della città longobarda si trova a circa cinquanta-settanta centimetri rispetto al precedente normanno. Il livello di frequentazione della città romana del I-II sec. d. C., corrispondente alla frequentazione delle terme, si trova a circa sette metri e mezzo dall'attuale selciato stradale del larghetto Arechi, cioè a due metri e mezzo sul livello del mare, mentre attualmente la quota della città in quel punto è di circa dieci metri sul livello del mare. Rientriamo nell'area delle terme, nel cantiere di Arechi II. Gli ambienti del frigidarium, vengono strutturalmente modifıcati, cosa che non era successo durante l'impianto dell'ecclesia: il rettangolo, già originalmente ripartito soltanto dalla diversa spazialità delle due volte, a crociera e a botte, è diviso in due da un setto centrale, nel mezzo ed in ciascuno dei due nuovi ambienti si innalza un grande pilone a sezione quadrata. Si tagliano le volte romane. Sull'orditura sottostante così creata vengono voltati gli archi che costituiranno l'ossatura degli ambienti superiori, dove è sistemata la cappella palatina ducale. Si restaurano i danni provocati dall'attività del cantiere nell'ecclesia sottostate che, da tempo, era rimasta infossata rispetto al livello esterno di frequentazione della città. Al contrario il piano nobile del palazzo, compresa la cappella si elevava in alto, e appariva tutt'intorno, stando alle arcate superstiti. Non presento le fasi successive, spero di riuscire entro qualche anno a dare alle stampe la completa relazione degli scavi. Sto, infatti, ricevendo un grande aiuto per il restauro dei materiali dalla direzione dei Musei Provinciali. Questa parte del palazzo arechiano fu destinato alla cappella privata dedicata ai Santi Pietro e Paolo. Nel massetto dell'abside quadrata, il cui solaio ricostruito nel secolo XVI era ancora in situ, ho raccolto una notevole quantità di frammenti di una decorazione parietale "a scacchiera", costituita da tasselli quadrati di vetro dorato, alternati a tasselli di porfido rosso. Si tratta del rivestimento dalla
stessa abside, attinente al secolo VIII. Del resto i frammenti del dettato da Paolo diacono furono visti ...vicino all'altare maggiore... ” poiché “...detta chiesa poggi attaccata alle reliquie del detto palazzo ancora in piedi ...le mura...erano coperte con tavole de marmo dove da Paulo Diacono furono fatti scolpire alcuni versi nelle summità di dette tavole...”, e più avanti, descrivendo l'epigrafe: “La lettera è carattere longobardo alta ciascuna circa mezzo palmo”. Il seicentesco cronista Giulio Ruggi, cui si deve la descrizione qui parzialmente riproposta, trascrisse tutto ciò che riuscì a leggere, e fornisce nel suo manoscritto indicazioni utilissime sulle condizioni del palazzo ai suoi tempi, tali indicazioni sono rimaste fin qui totalmente inedite St,. Bisognerà, comunque, essere prudenti nell'utilizzare tali fonti. Per esempio, il cronista attribuisce alle lettere del tital~s, un “carattere longobardo”; invece si tratta di vere e proprie capitali di tradizione romano-imperiale; mentre le misure rilevate dal Ruggi corrispondono perfettamente nei frammenti ritrovati. Lasciata la cappella palatina entriamo per un momento in alcuni locali del palazzo. Se ne è individuato un frammento sottostante la chiesa quattrocentesca del S. Salvatore, addossata alla zona absidale della predetta palatina. Anche qui su di una serie di canalizzazioni connesse con le terme intervenne il cantiere di Arechi II. Si riconoscono alla perfezione in tre grossi muri paralleli gli elementi che sopportavano un sistema di volte a tutto sesto su cui si sviluppavano i primi piani del palazzo. Intorno al secolo X, ma forse già nel IX - tenterò di essere più preciso durante lo studio dei materiali provenienti dagli strati - fra due dei tre muri citati furono costruite due vasche comunicanti su un doppio livello. L'impermeabilizzazione era in cocciopesto e la vasca più bassa era munita di gradini rivestiti con lastre di marmo. Di nuovo il luogo sfruttava l'abbondanza d'acqua per le terme medievali. L'interramento degli ambienti avvenne intorno al secolo XI, quando vi fu una prima occupazione di botteghe artigiane. Nei secoli XIII e XIV l'attività delle botteghe proseguì con la costruzione di un pozzo che raggiungeva la falda non eccessivamente profonda. Fra i materiali erratici della Salerno altomedievale che sto individuando sparsi per la città vorrei segnalarne alcuni, rimandando allo studio che ho in corso per un maggiore approfondimento. Si tratta di una lastra di sarcofago del secolo VI che ho segnalato e provvisoriamente fatto custodire nel lapidario del Museo Diocesano. La lastra decorava lo scalone di un palazzo sei-settecentesco dei Pinto, nobili salernitani. Il marmo potrebbe provenire dall'area della città. Questo, con le epigrafı recuperate dagli scavi di S. Pietro a Corte e le lucerne di V-VI secolo depositate nel Musco Provinciale, raccolte dal sepolcreto ad est della città, fa aumentare di molto le informazioni sulla fase prelongobarda di Salerno. L'unica traccia materiale della presenza longobarda del secolo VII individuata in città, ma potrebbe provenire da uno dei centri dell'area cilentana, è costituita da una fıbbia di cinturone, esatta copia, per forma e dimensione, della più nota fıbbia del Musco di Vicenza. Allo stesso secolo VII risalgono - pur se non si può affermare trattarsi di materiali strettamente longobardi - due fibule raffiguranti l'una croce decorata ad occhi di dado e sormontata da un uccellino, I'altra un uccello a tutto tondo. La prima trova un diretto confronto con l'analogo esemplare scoperto di recente nel sepolcreto bulgaro-longobardo di Vicenne, nel Molise; la seconda si relaziona con un analogo oggetto di Larinose Ma lo studio non è terminato. Devo prima di concludere accennare a Sicopoli. Città scomparsa che sta all'origine della Capua medievale. Gli studi di Nicola Cilento hanno reso famosa fra i medievisti questa città 58. La Capua romana giace sotto l'odierna S. Maria Capua Vetere, di recente è stata individuata una torre relativa alla fase dell'occupazione longobarda e recuperata da alcune tombe tre croci di tipo astile, più o meno simili a quelle di Pratola Serra 59. Da qui i longobardi, stanziatisi nell'ellisse dell'anfıteatro, si trasferirono fondando una città murata sulla collina della Palombara (tra gli anni 817-832), chiamata da Erchemperto Trifılisco, da dove, secondo la cronaca, essi ridiscesero per fondare in pianara, protetta da un'ansa del Volturno, la nuova Capua (a. 856). Spostamenti e fondazioni avvengono
nell'arco della prima metà del secolo IX. Al di là delle esigenze di carattere militare, testimoniate dalle fonti scritte, le nuove strutture nascono con lo scopo di un adeguato controllo economico. Durante sopralluoghi ho individuato Sicopoli, sulla base di precise indicazioni fornitemi da Werner Johannowky, e ne ho rilevato schematicamente estensione, destinazione di alcune aree ed andamento delle mura. Vi si scorge, infatti, un'area cimiteriale con i ruderi affıoranti dell'abside di una chiesa. Nelle strutture murarie sono spesso impiegati materiali di spoglio, come un capitello "a canestro" bizantino, la base di un cippo onorario e tanto d'altro. Due capitelli a stampella databili al secolo IX lascerebbero credere all'esistenza di un notevole edifıcio ecclesiastico, forse una cattedrale, ma la questione è controversabo. Dalla quantità di frammenti marmorei di età premedievale che affıorano sulla Palombara v'è da dubitare che il sito sia stato soltanto occupato e strutturato ex novo dai Longobardi di Landolfo per una quindicina di anni. Sarebbe oltremodo utile scavare l'intera collina 61. Com'è chiaro non vi possono essere conclusioni defınitive ed univoche. Direi che il quadro per la Campania si può riassumere così: una crisi dei centri urbani, specialmente nell'interno, è già fortemente in atto nel secolo V, nel VI secolo essa raggiunge l'apice della congiuntura, nonostante alcune eccezioni. Il secolo VII vede una forte ripresa nell'organizzazione rurale, attraverso la stabilizzazione di minuscoli centri che si andavano organizzando intorno a parrocchie=plebes, nel contempo si consolidano sale e c~~is. Le seconde, in particolare, diventano molto effıcienti nel corso del secolo VIII. L'afflusso dal nord dei profughi longobardi migliora la possibilità di organizzazione delle campagne e favorisce la ripresa dell'organizzazione urbana. Nel secolo IX, in parallelo alla curtis, si diffondono le fondazioni ecclesiastiche signorili, segno che le città hanno il sopravvento sulla campagna. A partire dalla seconda metà del secolo VIII - il caso di Salerno - la funzione urbana ridiventa essenziale per l'organizzazione del potere e dell'economia. Il IX, dal punto di vista dell'incardinamento territoriale, è un secolo di stabilizzazione: nascono Sicopoli, la nuova Capua, Capaccio, la nuova Avellino; si stabilizzano i vecchi centri, in particolare Benevento e Salerno. PAOLO PEDUTO
1 In Campania gli scavi riguardanti il Medioevo scaturiscono raramente da una domanda organica. Per lo più essi nascono dalla casualità della tutela. Casualità che deriva dall'ignoranza dellaconfigurazioneterritorialedell'insediamentonel~iediOvcledaiproblemistoriciconnessi. Tuttavia a partire da 1972, per Pintuizione di Nicola Cilento e Paolo Delogu, docenti nell'Università degli Studi di Salerno, si è andata sviluppando un’attenzione verso l'archeologia medievale che ha coinvolto anche le Soprintendenze.
2 L'elenco definitivo dei gastaldati del ducato longobardo di Benevento è di N. CILENTO, Le origini della signoria capuana nella Longobardia minore' Istit. Stor. It. per il M. E. Studi storici 69-70, Roma 1966, pp. 94-95. 3 P. NATELLA - P. PEDUTO, Pixous - Policastro, L’Universo, (1973), p.508. 4 Risultati degli ultimi saggi di scavo sono di C. BENCINVENGA TRILLMICH, Pyxous - Buxentum, “Mélanges de Ecole Francaise de Rome Anticluité”, n. 2 v.100 (1988), pp. 701-729 e di W. JOHANNOWSKY, Appunti su Pyxous-Buxentum, “Atti e Memorie della società. Magna Grecia”, 111 s., 1(1992), pp.173-183. 5 G. VITOLO, Dalla pieve rurale alla chiesa ricettizia. Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa dall'alto medioevo al Cinquecento pretridentino, in Storia del Vallo di Diano, II, Salerno 1982,p.129. 6 F. BULGARELLA, Tardo Antico e alto Medioevo bizantino e longobardo, in Storia del Vallo di Diano, II, pp 13-15, Salerno 1982. 7 L. GILIBERT`I, L’ubicazione del castaldato di Latiniano, in Miscellanea in onore di Michelangelo Schipa, Napoli 1925, pp.5-10; cfr. anche A. GUILLOU, Aspetti della civiltà bizantina in Italia, Bari 1976, pp. 220-233 e A. AMAROTTA, Ipotesi sul gastaldato Latiniano, Atti dell'Accademia Pontaniana, n.s. XXXII (1983), pp. 201-226. 8 A. TORTORELLA, Padula. Un insediamento medievale nella Lucania bizantina, Salerno 1983, pp. 101-126. 9 A. Dl MEO, Annali critico-diplomaticidel Regno di Napoli e della mezzana età, Napoli 1796, 11, p. 8. 10 Ad esempio si scorra l'indice analitico, alla voce locas in M. GALANTE, La datazione dei documenti del Codex Diplomaticas Cavensis. Appendice: Edizione degli inediti, Salerno 1980, p. 333. 11 Prime notizie degli scavi in P. PEDUTO, Dalla città di Rota al castello di Mercato S. Severino:s~ntrogettodiscavotemtoriale,~(RassegnaStoricaSalernitana„,n.l,V(1988),pp.155 12 G. PORTANOVA (O.S.B.), I Sanseverino e l'Abbazia (;avense (1061-132~f), Analocta Cavensia 4, Badia di Cava 1977, pp. 6-7. 13 G,odex Diplomatic2Js Cavensis (in avanti C.D.C.), Il, Napoli 1983, p. 6, anno 803: “...milianum notarium rogabit acto rota in atrio sancte marie...~~. 14 B. RUGGIERO, Per~nastoriadellapiever~ralenelMezzogior#o medievale, riedito inPotere Istit2~zioni, Chiese locali: Aspetti e motivi del Mezzogiorno medievale dai longobardi agli Angioini, Bologna 1977. 15 Una prima localizzazione della chiesa di S. Maria, oggi S. Marco a Rota, in P. NAT ELLA, P. PEDUTO, Il castello di Mercato S. Severino, Napoli 1965, pp. 5-7, note 6 e 32. 16 p. NAT ELLA, I Sanseverino di Marsico. Una Terra 2~n Regno, Mercato S. Severino 1980, pp. 13-?5. 17 RUGGERO, Pers~nastoria, cit., p. 67, n. 21 e pp. 77-84. 18 IDEM, "Parrocchia" e "Plebs" in alcane fonti del Mezzogiorno longobardo e normanno, in Potere, Istit2~zioni, Chiese locali: Aspetti e motivi del Mezzogiorro medievale dai Longobardi agli Angioini, Spoleto 1977, pp. 179-180. Si veda anche il recente saggio di M. DEMAIO, La pieve di S. Angelo e S. Maria del "locam solofre", Rassegna Storica Irpina, 5-6, 1992, pp. 87-114. 19 W. JOANNOSKY, Nuovi rinvenimenti a Nt~ceriaAlfaterna, in La regione sotterrata dal Vesuvio. Studi e prospettive, Napoli 1982, Atti del Convegno Internazionale, 11-15 novembre 1979, pp. 835-862. 20 Un prima segnalazione dello scavo della torre, effettuato dalla Soprintendenza archeologica, nel mio, Archeologia medievale in Campania, in Ot~ltt~ra Materiale, Arti e Territorio in Campania a c. di F. Bologna et al., fasc. d. “La Voce della Campania”, n. 10, VII (1979), p. 25556. Una più ampia lettura della stratigrafia del sito fu presentata da T. BuDErrA, E. LA FORGIA P. MINIERO, La sequenza stratigrafica ed i materiali dello scavo della torre 111 di Nuceria relazione inedita del I seminario del ciclo sallefortif cazioni in Italia centro-meridionale nel II e nel I sec.. Centro "Jean Bérard", Institut Francais de Naples, Napoli-Pompci-Nocera, 16-18 marzo 1984. 21 A. MAIURI, Vita d’archeologo. Napoli 1959, pp. 138 e sgg. 22 Sulla presenza o meno della chiesa cui era annesso il battistero si confronti la discussione e la riproduzione della stampa in M. e A. FRESA, Nuceria, cit., pp. 214-218, fg. 91. 23 RUGGIERO, Per 2!na storia, cit., p. 80. 24 IDEM, "Parrocchia", cit., p. 180. 25 RUSSO MAILLE R, Il senso medievale della morte nei carmi epitaffici dell'Italia meridionale fra VI e XI secolo, Napoli 1981, PP. 63-64. 26 B. RUGGIERO, Parrocchia, cit., pp. 175-181. 27 C. CARLONE (a cura di), I regesti delle pergamene di S. Francesco di Calli, Salerno 1986, doc. 82, 91, 96, 111, 112, 114, 115, 117, 124, 125, 152, 153, 156, 175, 181, 220, 240, 276, 289. C. CARLONE F. MOTTOLA, I regesti delle pergamene dell'abbadia di S. Maria Nova di Calli (1089-1513) Salerno 1981, P.266, a. 1441. Talvolta "plebe" e "vico" sono la stessa cosa: p. 140, a. 1237, vico o plebe S. Bartolomeo. 28 Il fiume Sele individua il confine nord del territorio pestano dall'antichità fino ai tempi moderni. Cfr. E. GRECO, Ricerche sulla chora poseidoniate: il "paesaggio agrario " dalla fondazione della città alla fine del sec. I Va. C., in Ricerche su Poseidonia, “ Dialoghi di Archeologia”, u.s. I (1979), p. 9. 29 Gli scavi affidatimi dal soprintendente Werner Johannowsky furono eseguiti nel settembre-ottobre 1983. 30 Devo queste informazioni alla gentilezza della dott.ssa Lina Sabino della Soprintendenza ai B. A. A. A. S. Dalla relazione degli scavi consegnata dalla Soprintendenza archeologica alla Soprintendenza non si comprende, perché non specificato, quali dei due follari fu raccolto nel saggio sottostante il pavimento della cappella A della grotta santuario. Si tratta della cappella principale, la prima e la più grande delle due frontali all'ingresso. Ambedue i follari sono comunque, della prima metà del secolo X. Se la formazione dello strato di cui la moneta era entrata a far parte è stata ben rilevata, se
ne dovrebbe ricavare che le strutture soprastanti potrebbero essere contemporanee all'emissione o, comunque, non eccessivamente successive ma certamente non anteriori a detta emissione. Per questa ragione la costruzione dell'aula della cappella A - riconosciuta come la più antica fra le chiesette della grotta - deve essere indicata come possibile nel secolo X e non anteriore. Diverso potrebbe essere il discorso per la zona absidale - il quasi triconco - della stessa cappella. 3l A.GRECO PONTRALDOLFO-E.GRECO,L’agro picentino e la Lucania occidentale. Appendice: Rinvenimenti nel territorio, in L’Italia: insediamenti e forme economiche, a c. di A. Giardina e A. Schiavone, Società romana e produzione schiavistica, 1, Bari 1981, p. 144. 32 Una ricerca specifica è in corso da parte di A. Di Muro, che su questo argomento sta svolgendo la sua tesi di laurea. 33 Per la localizzazione della cella di s. Vincenzo vedi P. NATELLA, Studi olevanesi “Euresis”, AnnUario dei Liceo Classico "M. T. Cicerone" di Sala Consilina, Vl, 1990, PP. 168-188. 34 Si veda il mio Insediamenti altomedievali e ricerca archeologica, in GUida alla storia di Salerno e della sua provincia, a cura di A. Leone e G. Vitolo, v. II, Salerno 1982, PP. 470-72. 35 M. MORCALDI-M. SCHIANI S. DE STEFANO, Codex Diplomaticus Cavensis, (anno 1049), Napoli 1973-1893, VII, PP. 101-102. 36 p. PEDUTO-D. MAURO, 11 S. Ambrogio di Montecorvino Rovella, “Rassegna Storica Salernitana”, n.s., n. 1, Vll (1990), pp. 7, 21. 37 M. ROMITO, Una villa rustica romana a Polvica di Tramonti, “Rassegna del Centro di Cultura e Storia Amalfitana”, n. I l, Vl (1986), pp. 168-178. 38 EADEM, I materiali della villa romana di Minori (parte 12, “Apollo. Bollettino dei Musei provinciali del Salernitano”, n. Vl (1985-1988), pp. 141-142. 39 L. Dl GIACOMO, Positano medioevale, Salerno 1986, in part. pp. 39-40 e fgg. 41-45. 40 P. ARTHUR, Rapporto preliminare sullo scavo a S. Patrizia, Napoli, “Archeologia Medievale”, XI (1984), pp. 315-319. 41 Sul piano della tecnica di scavo gli interventi avrebbero dovuto essere affidati a specialisti, mentre ci si è accontentati di procedere guidati soltanto dalla passione per le continue scoperte che il terreno rimosso rivelava. Ma attraverso lo studio sistematico dei materiali dovrebbe essere possibile, in modo più completo di quanto finora fatto, ricostruire dati e vicende dell'isola nell'alto Medioevo. P. MONTI Ischi, archeologia e storia, Napoli 1980, IDEM Ischia altomedievale. Ricerche storico-archeologiche, Ischia 1991. Primi tentativi di sistemazione, non sempre bene accetti, sono di: M. D'AGOSTINO - F. MARAZZI, Notizia preliminare sullo studio dei material i tardoantichi e altomedievali di Lacco Ameno, Ischia (NA), “Archeologia Medievale”, XII, 1985, pp. 611-625; V. GUARINO, D. MAURO, P. PEDUTO, Untentativadirecuperodianastratigrafa e materiali vari da collezione: il caso del complesso ecclesiastico di S. Restituta a Lacco Ameno di Ischia, “Archeologia Medievale”, XV (1988), pp. 439-469. 42 Villaggi Fluviali nella Pianura Pestana del secolo VII. La chiesa e la necropoli di S. Lorenzo di Altavilla Silentina, a cura di P. Peduto, Salerno 1984 43 A. VENDI, Architettura bizantina nell'Italia meridionale, v. II, Napoli 1967, pp. 550-558. 44 M.R. FARIELLO SARNO, I/complesso paleocristiano dis. Ippolisto—Capo La Torre. Naove scoperte e prospettive di ricerca, Rassegna Storica Irpina, nn. 3-4, 1991, pp. I l- 34. 45 G. COLUCCI PESCATORI, L'alta Valle del Sabato e la colonia romana di Abellinum, in L’Irpinia nella società meridionale, v. II, Avellino 1987, pp. 139-141. 46 S. Giovanni di Pratola Serra. Archeologia estoria nel ducato longobardo di Benevento, a cura di P. Peduto, Salerno 1992. 47 P. NATELLA, Ricostruzione di Pratola. Un centro minore fra Tardo Antico ed Età contemporanea, in S. Giovanni, cit., pp. 88 ss. 48 Gli scavi nell'area del S. Giovanni di Pratola sono stati ripresi di recente da Pierfrancesco Talamo, preistorico, che fu da me coinvolto nello studio degli abbondanti materiali eneolitici recuperati dagli strati sconvolti relativi alle fondazioni della fabbrica altomedievale. Dalla quantità del materiale preistorico si pensa di poter di individuare un'abitato di capanne. Durante gli ultimi lavori è venuta alla luce la fornace in questione. Devo tale informazione alla cortesia di C. Albore Livadie. 49 La relazione è stata tenuta, come di consueto, dalla dottoressa Giuliana Tocco nella sua qualità di soprintendente di Salerno, Benevento ed Avellino nell'ottobre del c. a. 50 Ringrazio per la notizia l'ispettrice Maria Fariello, che ha seguito in quel periodo gli scavi, 51 A. PERONI, Pavia "capitale longobarda". Testimonianze archeologiche e manufatti artistici, in I Longobardi e la Longobardia, Milano 1978, pp. 107-108, tav. XXXII, fig. 7. 52 M, SCHLPA, Storia del principato longobardo di Salerro, in F, HIRSCH-M. SCHIPA La Longobardia meridionale (570-1077). Il ducato di Benevento. Il principato di Salerno, rist, a cura di N, Acocella, Roma 1968, 5' P. DELOGU, Mito di una città meridionale, Napoli 1977. 54 Una prima relazione sogli scavi nell'area del palazzo longobardo di Arechi 11 a Salerno è di P. PEDUTO et al., Un accesso alla storia di Salerno: stratigrafie e materiali dell'area palaziale longobarda, “Rassegna Storica Salernitana”, n. 10, V (1988), pp. 9-63. 55 M. ROMITO, Nota sull’indagine archeologica e F. C;FELL[, I prodotti piroclastici del 79 d.C. negli scavi archeologici di Sa Leonardo (SA), in La villa romana di San Leonardo a Salerno, “Apollo. Bollettino dei Musei Provinciali del Salernitano”, Vll (1991), pp. 23-38.
56 G. RUGGI, Origine del titolo di Duca nella città di Benevento e del titolo di Principe città di Benevento et Salerno, con una breve serie de duchi de Benevento et de Prercepi di Salerno, manoscritto nn. 22, 49, in Biblioteca di Salerno. 57 Una mia scheda analitica su questi materiali è in corso di stampa: Reperti di età longobarda conservati nel Masso archeologico provinciale di Salerno, “Apollo. Bollettino dei Musei Provinciali del Salernitano”, VIII(1992). 58 N. CILENTO, Le origini della Signoria Capuana nella Longobardia Minore, Roma 1966. 59 A. DE FRANCISCIS, La basilica Apostolorum nell'antica Capua “Archivio Storico di Terra di Lavoro”, IX (1984-1985), Caserta 1988, p. 91. 60 D. MAURO, Nuove tracce della decorazione scultorea nella Longobardia minore, “ Rassegna Storica Salernitana„, n.s., n. 2, II (1985), pp. 91-108. 61 Nel 1978, individuate le tracce dell'insediamento, Nicola Cilento ed io avvertimmo la Soprintendenza archeologica di Napoli, cui spettava la tutela. Fornimmo anche la documentazione catastale dettagliata, che affidammo ad un geometra a spese dell'Università di Salerno perché fosse facilmente quantificata la somma necessaria per attuare le varie notifiche ai proprietari dei suoli. Ma non se ne fece nulla.
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Aspetti storici e archeologici dell'Alto Medioevo in Puglia
1. Longobardi e indigeni nella Puglia centro-settentrionale: i dati archeologici La ricerca archeologica e gli studi sulla Puglia altomedievale hanno registrato in questi ultimi anni un certo progresso. Si pensi, per citare i risultati più notevoli, all'edizione di quel vero e proprio corpas di iscrizioni che sono i graffiti lasciati dai pellegrini nel santuario di San Michele a Monte Sant'Angelo, nonché alla pubblicazione dei vecchi scavi ( 1953) nel Piano di Carpino (Gargano). E non sono mancati interessanti ritrovamenti di tombe sicuramente longobarde come quelle scavate nell'area della SS. Trinità di Venosa e 1'altra di Gaidefreda a Troia. La Puglia appare senz'altro un campo privilegiato per l'archeologia postclassica italiana, in quanto qui è possibile cogliere quel crogiolo di culture, dovuto all'avvicendamento di popoli diversi: bizantini, longobardi, slavi. Crogiolo di culture in costante osmosi di idee e di fatti, il cui tramite furono le popolazioni locali con le loro tradizioni, con la loro opera. In questa sede passerò in rapida rassegna i ritrovamenti cimiteriali avvenuti nel territorio in esame, sicuramente databili tra il VI ed il VII secolo (più tarda, come si vedrà, è solo la tomba di Gaidefreda). Il VII secolo è, allo stato attuale degli studi sui materiali di corredo e di abbigliamento personale, un limite cronologico invalicabile, perché con il secolo successivo, ma il fenomeno comincia a delinearsi già nella seconda metà del VII secolo sotto l'influenza di una più rigorosa adesione alle usanze fUnerarie cristiane, scompaiono gli oggetti che, sia in ambito indigeno soprattutto rurale, sia in ambito longobardo, la pratica funeraria faceva deporre all'interno delle tombeS. E valga subito anticipare che la classificazione etnica degli inumati si basa essenzialmente sulla presenza di determinati oggetti all'interno delle tombe. Importante è anche lo studio osteologico dei resti umani, che dovrebbe confermare quanto già si evidenzia dai materiali, del tipo di fossa e della disposizione delle tombe. Nelle tombe longobarde femminili della generazione contemporanea all'invasione (568) è documentato il costume germanico, caratterizzato da più fibule (a staffa e a "S"), tipiche di quell'area, nonché da amuleti; questi oggetti erano giunti in Italia con le proprietarieó. Nelle tombe maschili dello stesso periodo è caratterizzante la presenza di armi (spatha, scudo, lancia e in qualche caso speroni), a seconda del rango dell'inumato. Tale usanza per gli uomini dura flno al tardo VII secolo; per le donne, invece, la romanizzazione è più precoce. Varia cronologicamente da zona a zona, ma nel centro-nord sembra che già all'inizio del VII secolo la donna longobarda avesse assunto l'abito romano, con il quale veniva anche sepolta, e con esso gli oggetti (preziosi e non) di abbigliamento e di ornamento, tipici del mrdas maliebris autoctono. Ne consegue, in mancanza di altri elementi, una certa difficoltà nella classificazione etnica delle tombe femminili di VII secolo7. Nell'esame dei ritrovamenti pugliesi è necessario tener presente quanto su detto e prima di entrarvi in merito mi sembra utile delineare il quadro storico tra la metà del VI e il VII secolo. La guerra greco-gotica aveva colpito le città pugliesi e i relativi territori; a infierire maggiormente fu poi la mancata ripresa economica del dopo-guerra, a svantaggio soprattutto dei centri urbani3. Allorché i Longobardi, conquistata Benevento nel 571-572, si affacciarono nella Puglia settentrionale, trovarono città ormai in abbandono, come Herdoria, o urbanisticamente disgregate, come Canosa, Lucera, Venosas. Senz'altro in condizioni migliori erano i centri costieri. Sfuggono i modi e i tempi dellà conquista longobarda della Puglia. La penetrazione a sud di Benevento seguì una direttrice verso la Lucania (interessò forse il territorio di Venosa), e verso la parte settentrionale dei Brutti con incursioni anche più a sud, comunque i centri costieri rimasero in mano bizantina. Durante l'ultimo quarto del VI secolo i Longobardi si erano limitati nella Puglia settentrionale a fare solo incursioni, come lascia intendere l'epistolario di papa Gregorio Magno. Le operazioni militari di più vasta portata cominciarono nei primi anni del VII secolo con il duca Arichi I (592-641). Entro i primi decenni del VII furono occupate Lucera, Aecae, Canosa; nel 642 anche Siponto cadde in mano
longobarda, forse per breve tempo, ma dopo il 650 I'occupazione fu definitiva. Nella prima metà del VII secolo, quindi, i Longobardi erano giunti poco più a sud dell'Ofanto. L'ulteriore avanzata fno all' "istmo" Taranto-Brindisi si ebbe con Romualdo I (663-687), dopo l'insuccesso militare dell'imperatore Costante II e il suo assassinio a Siracusa (668) Un altro avvenimento di notevole portata fu, in questo periodo, la completa conversione al cristianesimo cattolico dei Longobardi meridionali e dello stesso Romualdo sotto la spinta del vescovo di Benevento Barbato e della duchessa Teoderada, a giusto titolo definita la Teodolinda del sud. Per concludere la trama storica, si può quindi affermare che solo nella seconda metà del VII secolo la Puglia centro-settentrionale, ormai longobarda, presentava un assetto politico amministrativo ben definito, con insediamenti stabili nelle campagne e nelle città. I pochi ritrovamenti archeologici, attualmente noti, che possono essere attribuiti con certezza ai Longobardi, fatta eccezione per una recente scoperta a Canosa, si datano in questo periodo. Siamo ben lontani dalla generazione che si insediò a Benevento e da quella successiva che con Arichi I cominciò le prime incursioni nella Puglia settentrionale. Certamente dopo l'allontanamento del pericolo di riconquista bizantina ebbero inizio i grandiosi lavori di monumentalizzazione dell'accesso alla sacra grotta micaelica di Monte Sant'Angelo, nei quali si dispiegò, a cominciare da Romualdo I, la munifica committenza dei duchi beneventani(Fig. 1). La geografia rurale del territorio si costellò di farae, tipici insediamenti agricoli di questo periodo, spesso nell'area dei pagie delle ville rustiche romane abbandonate, ancora più numerose nel secolo successivo a seguito degli stanziamenti benedettini. Gli insediamenti rurali fino ad oggi scavati non sono molti. Per il Gargano ricordo, in questa sede, le ville romane di Agnuli (Mattinata)~; e di Avicenna (Piano di Carpino)ts: entrambe con una fase di VI-VII secolo, documentata da struttUre povere che furono impostate sugli ambienti più antichi e da tombe. Da una delle poche sepolture ritrovate a Agnuli, ma il nucleo cimiteriale vero e proprio rimane ancora da scoprire, proviene una fibula circolare ad anello aperto e protomi animali affrontate all'estremità. Sulla verga è incisa l'iscrizione acclamatoria .Il reperto è di tradizione tardoromana, abbastanza frequente nei contesti funerari di VI-VII secolo nell'Italia meridionale, soprattutto in Puglia e Basilicata, di conseguenza l'oggetto non è assolutamente indicativo circa la classificazione etnica dell'inumato. Lo stesso dicasi per il nome che è latino; pur trattandosi di uno di quei cogromira di particolare diffusione in ambito germanico, senza ulteriori elementi è poco indicativo. Numerose tombe, invece, sono state scavate nella villa di Avicenna, da cui provengono materiali di un certo interesse, sebbene in seguito smembrati dalla originaria composizione dei corredi. All'interno di alcuni ambienti si distribuivano, senza alcun ordine e a quote diverse secondo i vari livelli di riempimento dovuti all'abbandono e distruzione del complesso, tombe nella noda terra, a fossa ricoperta con tegole e alla cappuccina. Tombe in muratura, ricoperte da lastroni, erano state collocate sul piano di posa delle pilae che sosteneyano i pavimenti a ipocausto, chiaramente sprofondati all'epoca dell'utilizzo a scopo cimiteriale dell'area'7 (Fig. 2). Tra i materiali, numerose sono le brocchette decorate a bande rosse; non mancano vetri, tra cui due bicchieri a calice. Al murdus malisoris appartengono aghi crinali in osso e bronzo, armille, anelli, collane con vaghi di pasta vitrea e ambra, orecchini in oro e in argento, tra cui è documentato il tipo a cestelío 2b, detto di Castel Trosino~ N, È comunque un complesso di materiali in uso presso le popolazioni autoctone che può essere stato utilizzato anche da donne longobarde. La presenza longobarda a Avicenna può essere avanzata sulla scorta del rinvenimento in una tomba in muratura del di sei guarnizioni per cintura in ferro ageminate in argento e ottone con intrecci zoomorfi in avanzato II stile germanico e databili al secondo trentennio del VII secolo (Fig. 3). Tra i materiali in ferro anche delle cannule e una probabile lama, relative a lance. La diversità tra i due gruppi di tombe, a fossa con copertura di tegole e alla cappuccina nel primo caso e a fossa rivestita di lastroni nel secondo caso, può fare ipotizzare la presenza di un cimitero misto, cioè di indigeni e longobardi. Passando in pianura, materiale autoctono proviene da contrada Ciaffa, sul Carapelle, a poca distanza da Herdoria. Le tombe dovevano essere pertinenti ad un modesto agglomerato rurale; da una di queste proviene un fbula circolare, come quella di Agnuli. Sulla verga è inciso, ancora una volta, il cogromer, seguito dal verbo biba22 (Fig. 4).
Analoga considerazione va fatta per il piccolo nucleo cimiteriale di masseria Basso a Canne, sulla sinistra dell'Ofanto, che ha restituito oggetti di abbigliamento e di ornamento femminile di tradizione autoctona: fibule circolari ad anello aperto, con estremità desinenti a volutine e, in un caso, a protome animale. La stessa situazione, cioè assenza di oggetti attribuibili ai Longobardi, più precisamente a Longobardi di sesso maschile, giacché per le donne occorre tener presenti le precisazioni fatte in premessa, si riscontra nel territorio venosino. In agro di Antella nel Melfese, una tomba rinvenuta nella immediate vicinanze di una villa romana di età imperiale ha restituito oggetti di ornamento personale databili alla metà del VII secolo: un orecchino aureo a cestello, una fibula in bronzo a forma di cavallino, un'armilla e una collana con vaghi in pasta vitrea. La villa di contrada Tesoro (MelEi-Leonessa) fu rioccupata tra VI-VII secolo; nel torcalarium si insediò una piccola chiesa rurale e da una tomba scavata all'interno provengono orecchini a cestello in oro databili alla seconda metà del VII secolo o poco e oltre. Nelle città gli insediamenti longobardi, tipicamente militari al momento della conquista (arroccati presso le mura 0 nei teatri e anfiteatri, come consta per diversi centri del nord meglio documentati), nel corso della seconda metà del VII si spostarono, andando ad occupare gli spazi urbani del potere. In Puglia è possibile cogliere questo processo a Trani, dove alcuni documenti bassomedievali, relativi alla chiesa di S. Maria Annunziata, riportano il toponimo campi lorgooardorum, che è da localizzare in un'area esterna alle mura altomedievali, poco fuori la porta antica area. Nella seconda metà del VII secolo i Longobardi di Trani sono all'interno della città e seppelliscono i loro morti nella cattedrale, come attestano le tombe ritrovate nella cripta della cattedrale romanica (alla stessa quota e sullo stesso sito della basilica episcopale paleocristana di S. Maria). Da queste tombe provengono tre crocette in lamina sottile, di cui due in argento e una in oro: in un caso è stato possibile recuperare resti dell'abito broccato infili d'oro, forse prodottoinunateliercostantinopolitano (Fig. 5). È un materiale databile alla fine del VII secolo o poco oltre. Di grande interesse sono risultati i lastroni di copertura di queste tombe, per la presenza sulla faccia interna alla tomba di numerosi motivi e nomi graffiti. Questa disposizione delle lastre fa owiamente pensare che i graffiti siano stati eseguiti quando erano a vista, come coperture di tombe più antiche, e quindi reimpiegate sempre a scopo funerario. Solo una delle lastre fu, all'epoca degli scavi, recuperata ed è stata studiata di recente. L'originario utilizzo funerario è chiaramente esplicitato dalle numerose croci graffite, per lo più equilatere a bracci espansi, e dall'acclamazione, più volte presente, biba ir Deo. Compaiono anche volatili, che sembrano la realizzazione grafica di quelle fibule zoomorfe di tipo bizantino-mediterraneo in uso durante il VI-VII secolo, nonché la rappresentazione del pesce. Accanto a questi oggetti e scritte di tradizione paleocristiana, sono state individuate raffigurazioni da ricondurre al costume militaregermanico,come laspathae l'elmodiformaconica,nonchéantroponimi del sostrato germanico come Radelchisi, Boiando ed altri, accanto a nomi del sostrato latino come Forte, Pietro e Bonesso2s. In definitiva le lastre di Trani, nella commistione tra elementi latini e germanici, rappresentano una preziosa testimonianza storica sull'avvenuta adesione dei Longobardi al cattolicesimo e del loro avvicinarsi all'elemento indigeno, pur conservando sempre piani. Anche per altri centri della Puglia settentrionale, in proposito, è possibile avanzare delle ipotesi, sebbene non altrettanto documentabili come per Trani. A Lucera il primo insediamento dové privilegiare l'anfiteatro e l'area circostante, cioè una zona urbana decisamente decentrata. Su questa città, appunto perché sede di un forte contingente longobardo, in considerazione del suo ruolo strategico sulla via per Siponto e quindi per lo sbocco al mare, si rivolse pesantemente l'azione militare di Costante. Nell'ambito della prima metà del VII secolo sono state datate tre iscrizioni funerarie, i cui dati antroponimici, almeno in due casi, rientrano nella più genuina tradizione onomastica germanica (Arechis e Winnelaupo) (Fig. 6). Sul terzo epitaffio è il cogrom Lupas, su cui si è già discusso. Le lastre furono ritrovate negli scavi eseguiti negli anni '60 nell'area del castello, reimpiegate come lastre di pavimento per una sala, il che purtroppo non ci consente di localizzare la zona funeraria di provenienza. Una quarta iscrizione funeraria, pubblicata in apografo dal Mommsen, ricorda una Timotea, figlia di Sigifrido e si daterebbe per motivi storici nella seconda metà del VII
secolo, quando ormai i Longobardi dall'arianesimo si erano convertiti al cattolicesimo. Precede il nome, infatti, il cristogramma con ai lati le lettere A e Q, che con l'allusione a Apocalisse 1,8 si prestavano a illustrare visivamente il concetto della omo~sia del Figlio con il Padre. Di rilievo è anche l'adozione di un nome non germanico fatto da Sigifrido per la propria figlia, il che è una spia del processo di fusione che stava avvenendo tra Longobardi e indigeniit. Al sostrato indigeno, infine, appartiene la fibula in argento, del solito tipo a anello aperto con protomi animali e iscrizione incisa sulla verghetta. A Venosa tombe longobarde sono state scoperte nell'area della SS. Trinità, già sede del complesso episcopale paleocristiano che urbanisticamente si andava a collocare, nel tessuto della città romana, in una zona intramurana, ma decisamente periferica verso i margini nord-orientali, nelle immediate vicinanze dell'anfiteatro. Il nucleo cimiterale, con tombe anche indigene, scavato a più riprese, insieme agli edifici paleocristiani, dagli anni '60 in poi, attende di essere pubblicato nella sua integrità. Allo stato attuale è noto il ritrovamento di due tombe maschili che hanno restituito elementi di cintura per sospendere armi da taglio, databili alla seconda metà del VII secolo. Dalle tombe indigene proviene il solito materiale di abbigliamento e ornamento, tra cui fibule circolari a volutine e a protomi animali. Per Canosa longobarda è d'obbligo ricordare la nota fibula a disco della ex collezione Castellani e oggi al British Muscum. Purtroppo si ignora il contesto di rinvenimento, ma considerando il tipo di oggetto, è possibile supporre una sua provenienza tombale da una delle tre aree cimiteriali della città (S. Giovanni, S. Sofia e S. Lencio). È in oro con smalti e perle, a tre pendagli attualmente mancanti, prerogativa dell'abbigliamento imperiale. Al centro è campita una figura femminile a mezzo busto, resa con smalti policromi cloisonnés. La fibula, di produzione bizantina, è databile nella seconda metà del VII secolo e certamente appartenne a un personaggio longobardo di alto rango, pervenutagli come dono o come bottino. Ai primi decenni del VII si daterebbe, invece, se è accettabile l'ipotesi da me avanzata in altra sede, una seconda fibula a disco recentemente rinvenuta in una tomba all'interno della basilica in asse con il al battistero di S. Giovani. E costituita da un solido di Zenone (474-491 ) circondato da un filo perlinato e provvista sul retro del dispositivo per l'aggancio dell'ardiglione che ancora si conserva (ma in ferro)36 (Fig. 7). L'uso di monete auree per ornare collane e su anelli "a sigillo" è abbastanza noto, documentato in Italia in tombe longobarde. Meno note sono le fibule con moneta di riutilizzo, di cui si hanno poche attestazioni (Morro d'Alba/Senigallia e Villa Clelia/Imola), attribuite a tombe non autoctone della seconda metà del VI secolo. Per Canosa è da escludere che si tratti di una tomba indigena anche sulla scorta di altri elementi emersi dallo scavo. Un dato importante, in proposito, mi sembra il risultato delle analisi osteologiche eseguite sui resti di una sepoltura contigua, appartenenti a un individuo di sesso maschile di razza mongolica. Per esaurire il quadro canosino dei materiali, occorre ricordare una fibula (oggi in una collezione privata) del tipo a anello aperto con protomi animali e iscrizione incisa sulla verghetta. Sia sul tipo, sia sul nome si è già accennato in precedenza. Infine Aecae sulla via Traiana: la città fu colpita pesantemente nelle operazioni militari di Costante II, chiaramente perché sede, come Lucera, di un forte stanziamento longobardo, in considerazione del suo ruolo strategico. L'assenza di dati, per mancanza di ricerche ovviamente, non consente di avanzare alcuna ipotesi. Merita, tuttavia, di essere citata, sebbene cronologicamente posteriore al VII secolo, una tomba che, per essere decorata all'interno con croci e per la presenza di una iscrizione dipinta, è certamente da considerare appartenente a un personaggio di rango. È stata rinvenuta nel 1978 nella contrada denominata S. Sepolcro o S. Marco, vale a dire in quella “Piana di S. Marco„ che era area suburbana già in età classica, utilizzata a necropoli dove, come ho dimostrato in altra sede, si estenderà anche il cimitero paleocristiano di Aecae, intorno alla chiesa di S. Marco, protovescovo della città. L'epitaffio ricorda Gaidefreda e ne esplicita la sua professione di fede nella resurrezione, accompagnata dall'espressione “et in carne mea videre dominum meum” che dipende da Joh. XIX, 26 (Fig. 8). Le attestazioni del nome Gaidefreda e considerazioni di carattere tecnico, liguistico e paleografico consentono di datare il testo, e quindi la tomba, all'VIII/IX secolo+~. Ma con
questa testimonianza si entra in un'epoca in cui non è più corretto fare distinzioni tra elemento indigeno e elemento longobardo; è ormai avvenuto quel processo di fusione iniziato nel tardo VII secolo, grazie alla spinta della Chiesa. In questo periodo la Puglia settentrionale è il cuore economico della Longobardia meridionale: le sue città (Siponto, Canosa, Lucera) sono satis opalentas, come ricorda Paolo Diacono. Passando a trattare dei ritrovamenti nel Barese, particolare importanza rivestono gli scavi eseguiti a Rutigliano, nell'area di una chiesa rurale dedicata a S. Apollinare {la chiesa attuale si presenta nelle forme architettoniche di X-XI secolo), inserita in un vicas, sorto, a quanto pare nel VI sui resti di un insediamento agricolo romano. I materiali recuperati nelle tombe (ceramiche, vetri e oggetti di abbigliamento e ornamento personale) consentono di datare l'insediamento tra la fine del VI e la prima metà del VII secolo (Fig. 9). Tra gli oggetti di ornamento personale non mancano gioielli, come, ad esempio, due paia di orecchini con corpo a semiluna e ballae saldate sull'arco inferiore. All'abbigliamento appartengono due fibbie di tipo "Siracusa". Di notevole importanza si è rivelata la tomba 5, relativa certamente a un bambino. All'interno nessun oggetto, ma solo un guscio di uovo, ancora integro, fornito di foro pervio. Oltre al significato di offerta alimentare per il defunto, usanza ancora praticata tra VIVII secolo sia in ambito indigeno che longobardo, la presenza dell'uovo potrebbe rappresentare simbolicamente la nascita e il ritorno alla vita;3. Più propriamente legata al rito del pasto funebre è l'olletta con gli ossi di pollo (ma all'interno sono stati riscontrati pure frammenti di guscio di un uovo), rinvenuta all'esterno della tomba 5, infissa nel terreno e trattenuta da pietre. Ovviamente questo piccolo insediamento è da riferire alla popolazione indigena dell'antica Pecetia. Le recenti indagini condotte a Belmonte (Altamura), nell'area dell'ecalesia oaptisimalis rinvenuta dal Prandi nei primi anni '60, hanno confermato, attraverso lo studio dei materiali tombali, il carattere indigeno di quest'altro insediamento rurale del Barese: uno dei più importanti in considerazione della presenza della chiesa con piccolo battistero (Fig. 10). 2. Il Salen bizantino: i dati archeologici Anche per la Puglia meridionale (il Salento) il recupero di vecchi scavi e nuove indagini sul terreno consentono oggi di poter delineare una situazione di un certo interesse nel panorama archeologico altomedievale della regione. A Taranto il riordino dei magazzini della Soprintendenza ha consentito il recupero di materiali altomedievali provenienti da tombe scavate alla fine del secolo scorso nell'area della città greco-romana, precisamente da "Borgo Nuovo", allora attivamente interessata all'espansione edilizia per la costruzione di nuovi quartieri (Fig. 11). Da quest'area, abbandonata in età tardoantica, provengono numerose iscrizioni ebraiche che si collocano tra il IV-V secolo ed il X-XI secolo (Fig. 12). A quest'ultimo periodo si ricollegano anche i piccoli nuclei cimiteriali bizantini con iscrizioni in greco (Fig. 13) e materiali certamente di importazione. Sono per lo più oggetti di ornamento femminile, come orecchini e tra questi ricordo la coppia in oro senz'altro più importante, a corpo tronco-piramidale con decorazione a smalto rosso, blu e bianco (Fig. 14). Motivi decorativi e schema compositivo si ritrovano su un bottone in oro e smalto di provenienza costantinopolitana, attualmente conservato nella collezione del Dumbarton Oaks, e definito dal Ross, che lo data al XII secolo, tra i più bei pezzi conosciuti dall'arte bizantina degli smalti. Per l'estremo Salento sono da segnalare interessanti novità, purtroppo ancora non adeguatamente pubblicate. Gli intensi scavi operati negli ultimi anni dalla Soprintendenza Archeologica e dell'Istituto di Archeologia dell'Università di Lecce hanno consentito l'acquisizione di non pochi dati (Fig. 15). A Otranto sono stati portati alla luce i resti della fortificazione bizantina risalenti alla guerra greco-gotica~s. Gli scavi condotti all'interno della cattedrale medievale hanno evidenziato un impianto basilicale più antico, cioè la basilica paleocristiana con una continuità di frequentazione nell'alto medioevo, come testimoniano le numerose tombe scavate all'interno, obliterando il piano pavimentale. Da queste sepolture provengono oggetti di abbigliamento: fibbie ad "U" corta, del tipo "Balgota" e "Siracusa"so. Sempre da Otranto, zona di S. Giovanni, è I a segnalazione della scoperta di
un ambiente cultuale paleocristiano con funzione funeraria. All'interno, in una fossa quadrata e ricoperta da una lastra lapidea, è stato rinvenuto un piccolo reliquiario a sarcofago con copertura a doppio spiovente e acroteri ai lati (in pietra la cassa, in marmo il coperchio). All'interno si trovava un cassettina in argento finemente decorata, però vuota (Fig. 16). L'area era interessata dalla presenza di tombe a fossa con deposizioni singole e multiple, coperte con lastroni. Su uno di questi era l'iscrizione Talala Pauli. Tra i materiali si segnalano fibbie bizantine del tipo ad "U" corta ed un encolpio cruciforme. Tutti questi materiali indicano il VI secolo come il periodo d'uso dell'area cimiterialeS'. Per l'ambito rurale, di un certo interesse sono i sepolcreti di Gennarano, Merine e Vanze (Fig. 17) in territorio leccese, S. Isidoro, Rosemarine, Micali, Moricino, Fondo Prefetto e S. Maria in territorio di Maglies2. I materiali recuperati appartengono alla solita tipologia su descritta e consentono di datare questi insediamenti al VI-VII secolo. C. D'A. 3. I paesaggi, l'economia 3.1. Nonostante i progressi registrati negli ultimi anni, gli studi archeologici relativi all'organizzazione del paesaggio rurale e all'organizzazione produttiva muovono solo ora i primi passi in particolare per ciò che riguarda l'altomedievo. Le aree sottoposte a ricognizione sistematica sono ancora molto limitate; le forme dell'occupazione e dello sfruttamento del territorio in età altomedievale sono in generale alquanto sfuggenti, anche se ciò sembra dipendere soprattutto dalla particolare attenzione attribuita, negli studi finora condotti, ad altri periodi storici. Per la Puglia non sono quindi ancora disponibili quei dati archeologici che ormai consentono in altre regioni d'Italia analisi più mature: basti pensare agli importanti risultati raggiunti per esempio in alcune aree dell'Italia settentrionale, dell'Etruria meridionale: o, per ciò che concerne l'Italia centro-meridionale, in Abruzzo ed anche in Calabrias. Le considerazioni che seguono intendono pertanto rappresentare solo un primo inquadramento generale di quanto è già noto e, soprattutto, un'indicazione per le ricerche future. Il tema dell'analisi della transizione tra tardoantico e altomedioevo in ambito rurale con particolare riferimento agli aspetti di "continuità-discontinuità" (a torto considerato da molti un "falso problema" ), costituisce infatti uno dei nuclei centrali dell'attuale dibattito storico-archeologico soprattutto (ma non solo) tra gli studiosi della tarda antichità e dell’altomedioevo. 3.2. Le ricerche sul paesaggio pugliese di età altomedievale si sono concentrate finora principalmente nella parte settentrionale della regione, la Capitanata, e sono soprattutto il frutto di un programma di intervento archeologico avviato dall'École Fran,caise de Rome in collaborazione con l'Università di Bari, i cui primi risultati sono stati resi noti in varie sedi da J.-M. Martin e G. Noyé. Questa situazione è particolarmente favorevole perché consente di effettuare in questa porzione di territorio pugliese corrispondente all'antica Daunia un'analisi di lunga durata, compresa tra l'età della romanizzazione (se non addirittura da età preistoricat') e il Medioevo. Numerosi elementi concorrono a definire per l'età tardoantica un quadro estremamente articolato e sostanzialmente positivo dell'organizzazione produttiva dell'Apaliat, molto lontano dalla tradizionale immagine di crisi che a lungo si è tramandata negli studi storici (Fig. 18). In coincidenza con la riorganizzazione amministrativa di età dioclezianea (e sotto il suo influsso), si verificò una ristrutturazione dell'organizzazione territoriale e produttiva. La più accentuata cantonalizzazione della realtà italiana, frutto della provincializzazione della penisola, favorì il riemergere di peculiarità locali che maggiormente differenziarono "a macchia di leopardo" il complesso di entità territoriali fino a quel momento costrette in una forzosa omogeneitàt;. Il territorio apulo tardoantico risultava popolato, specie in alcune aree privilegiate come la valle dell'Ofanto, di ville e di fattorie, poste nella maggior parte dei casi sullo stesso luogo di precedenti impianti produttivi di età repubblicana e primo imperiale, ora sottoposti ad ampie ristrutturazioni e generalmente ingranditi nelle loro dimensioni; il numero complessivo degli impianti rurali si ridusse rispetto ai secoli precedenti ma, in generale, le
dimensioni delle singole strutture abitative e produttive crebbero: in tal senso, in opposizione ad un'erronea e semplicistica tesi (non infrequente in talune analisi archeologiche) secondo la quale alla riduzione degli insediamenti dovrebbe corrispondere la "crisi" di un territorio, la redistribuzione del popolamento rurale mostra di rispondere ad esigenze di "razionalizzazione" all'interno di un processo di concentrazione della proprietà. Ancor più significativo è il riemergere di un tipo di insedimento paganicovicano particolarmente aderente alle caratteristiche geografiche della regione, maggiormente adeguato alla soluzione del problema di un più razionale sfruttamento delle risorse idriche e meglio rispondente al tipo prevalente della produzione agraria consistente nella cerealicoltura. Tra la fine del IV e il V secolo, infatti, ad una progressiva crisi del grande allevamento transumante (crisi che si trasformò nella deflnitiva rottura di una prassi secolare solo nella seconda metà del VI secolo) e delle attività artigianali e manifatturiere imperiali e private ad esso collegate, fece riscontro una straordinaria espansione delle colture cerealicole, anche sotto la spinta delle esigenze annonarie - che fu l'insieme dei fattori (devastazioni della guerra greco-gotica, destrutturazione dell'organizzazione tardoimperiale, invasione ed occupazione longobarda, ecc.) a determinare una forte discontinuità. Numerosi abitati di pianura, elementi di quel sistema paganico-vicano caratteristico dell'organizzazione insediativa tardoantica nella regione, furono quasi defmitivamente abbandonati, come mostrano in maniera particolarmente evidente i casi di Herdoniat e del vicus sviluppatosi in età tardoantica: questi due centri erano stati entrambi sedi vescovili almeno tra la fine del V e gli inizi del VI, ma il primo era già fortemente in crisi almeno a partire dalla seconda metà del IV secolo, mentre il secondo era stato sede amministrativa dei saltasimperiali.. Entrambi si ridussero fortemente in età altomedievale e furono interessati da nuove rioccupazioni solo più tardi, San Lorenzo nell' XI secolo, Herdonia tra XI e XII, per essere successivamente abbandonati entrambi in forma definitiva tra XIV e XV secolo. Una conferma a questa situazione di abbandono dei siti rurali sviluppatisi in età tardoantica viene anche da altri settori della regione: nel territorio di Brindisi lungo la via Appia è stato recentemente individuato un insediamento rurale, probabilmente un vicus che forse assommava alla funzione di centro di raccolta della popolazione rurale anche quella di stazione viaria. Gli scavi si sono concentrati in un'area occupata da una cisterna circondata da alcuni ambienti utilizzati probabilmente per accogliere momentaneamente e ristorare uomini e animali e per effettuare forse anche piccole attività mercantili. La cisterna venne prima trasformata in discarica e poi abbandonata e colmata non più tardi del VI secolo; il villaggio si spopolò: la fine del fabbisogno d'acqua indica in qualche misura la fine di una vita organizzata nella campagna. Anche lo stesso sistema viario dovè subire una crisi. Non molto lontano, nell'area della mtatio taleHtia' stazione del carsas palicas tra Brandisi e Lupiae, scavi recenti hanno indagato un importante impianto termale costruito nel IV e abbandonato nel secolo successivo; anche le campagne circostanti non sembrano presentare tracce insediative databili oltre il VI secolo. Diversa è la situazione dei centri portuali, in particolare nel tratto di costa adriatica della Puglia centrale (Barletta, Trani, Bari) la cui evoluzione urbana, avviata in età tardoantica, proseguì e si sviluppò tra VII e IX secolo, con esiti importanti nella piena età medievale7~. Questa situazione appare in contradizione con quanto ha riscontrato G. Uggeri7; nella parte meridionale della regione, dove tra tardoantico e altomedioevo si riscontrerebbe una crisi della fascia costiera indicata dall'arretramento della viabilità litoranea verso le più sicure zone interne: un esempio evidente di tale fenomeno è rappresentato dal progressivo degrado subito in età altomedievale da Egnazia, centro portuale posto sulla via Traiana ancora florido in età tardoantica;~. In generale la zona costiera e lagunare centro-settentrionale adriatica mostra condizioni insediative migliori (cosa che peraltro sembra contrastare con un presunto degrado della fascia lagunare con conseguente sviluppo della malaria), come dimostra la persistenza di Salpi oltre al sorgere di centri quali Lesina (nel VII) e Varano (castr~m attestato nel IX)7s. I territori pianeggianti del Tavoliere sembrano invece sostanzialmente spopolati, anche se una tale situazione, ricostruibile al momento più sulla base dei documenti scritti che su risultati di indagini archeologiche, potrebbe essere meglio precisata con il progresso delle ricerche sul campo. È certo comunque che nel territorio daunio la rete di vici, villae e
fattorie tardoantiche si disintegrò intorno alla metà del VI secolo: praticamente la totalità degli impianti produttivi rurali (scavati o individuati nel corso delle ricognizioni) mostra chiari segni di abbandono o di rioccupazione impropria. Numerosi, infatti, sono i casi in cui sono note forme di occupazione diversa da quella precedente: si formarono piccoli abitati, di cui restano, oltre alle necropoli, solo labili tracce relative prevalentemente ad edifici realizzati con strutture lignee o con muretti in cui furono riutilizzati materiali recuperati dalle strutture delle ville romane; si tratta, com'è evidente, di forme di rioccupazione '6abusiva'' da parte di piccole comunità, a volte caratterizzate da forme di vita povera o poverissima, che attestano una qualche forma di continuità insediativa con caratteri però ormai molto degradati. Quale prova migliore di come la continuità insediativa non vada confusa con la continuità di una stessa forma di insediamento. Sono numerosi gli esempi di tale tipo di rioccupazione, tra i quali è sufficiente richiamare la villa di Agnuli a Mattinata sul Gargano e quello della villa di Casalene a Bovino sul Subappenino Dannio. In alcuni casi, come ad Avicenna nel Piano di CarpinoaS, a Melfi-Leonessa, a Campi SalentinaSanta Maria dell'Alto, a S. Miserino non lontano da Sandonaciaa, e forse a Rutigliano-Purgatorio, il villaggio si sviluppò, tra VI e VII secolo, intorno ad un piccolo edificio di culto costruito al di sopra o nei pressi della precedente villa romana. Questa situazione di degrado trova conferme, con la sola significativa esclusione di Otranto, in tutti quei territori sottoposti a ricognizione sistematica; segni dell'abbandono delle ville tardoantiche e dello spopolamento delle campagne in età altomedievale sono stati individuati per esempio nel territorio di Oria, dove gli insediamenti rurali tardoantichi, meno numerosi ma generalmente di dimensioni maggiori rispetto al periodo precedente, spariscono del tutto nel VI secolo, e in quelli di Valesio,, Supersanosz e Cutrofiano nel Salento. Un processo di rioccupazione diffusa e di ripopolamento delle campagne del Tavoliere si avverte in maniera sensibile solo nell'XI secolo per iniziativa bizantina, soprattutto ad opera del catapano Boioannes (Fig. 21). 3.3. Un elemento di significativa rottura è ravvisabile in uno dei settori più caratteristici dell'organizzazione produttiva di età romana e tardoantica: I'allevamento transumante. Questa florida attività che prevedeva il periodico spost~mento tra i pascoli appenninici e le pianure pugliesi di numerosissime greggi affidate alle cure di pastori, frequentemente equiparati ai banditi9S, era stata strettamente connessa con la produzione delle manifatture tessili sia imperiali, come il gineceo canosino-venosino o il hafiam tarantino , sia privatesa. Ancora in età gotica l'allevamento transumante risultava attivo, sia pure in forme ridotte. Ad Otranto, agli inizi del VI secolo, era in funzione infatti un'importante fabbrica di porpora, nella quale veniva impiegata una grande quantità di personale, adibita alla produzione di indumenti destinati alla corte di Ravenna. Inoltre la nota costituzione reale di Suca, attesta la persistenza del fenomeno, ancora caratterizzato dalla presenza di greggi di notevoli dimensioni, e, al tempo stesso, dimostra l'acuirsi di alcuni tipici problemi di ordine pubblico provocati dal passaggio delle greggi e l'accentuarsi degli endemici conflitti tra pastori e agricoltori, forse proprio a causa delle maggiori difficoltà nel controllo. Anche l'Editto di Teoderico, che puniva con pene severe l'abigeato praticato sia in stalla sia sui pascoli, conferma la continuità del fenomeno. Circa sei secoli dopo questi documenti, è solo con la orstitutio Cam per partes Apaliae di re Guglielmo II: che si dispone di una nuova chiara prova della ripresa della transumanza su grande distanza, datata al 1172 circa e valida inizialmente per l'Apalia (ma poi estesa a tutto il regno da Federico II) tale costituzione intendeva eliminare gli abusi e le illegalità a cui erano sottoposti i pastori, costretti dai locali proprietari terrieri al pagamento di pedaggi esosi. Lo stesso Guglielmo II (o Guglielmo I) si era occupato di illegalità e di furti che colpivano gli allevatori, in un'altra costituzione ugualmente ripresa da Federico II, che peraltro attenuò la severità delle leggi precedenti, sopprimendo la pena di morte, in due altre costituzioni. E. Gabba ritiene di poter utilizzare la costituzione di Guglielmo II per affermare la sostanziale continuità del fenomeno tra età antica e medioevo: +
poli era rappresentato dall'Apalia) era nel secolo XII in atto, senza ubbidire che alla forza delle condizioni geografico-ambientali, malgrado gli ostacoli e i pesi del frazionamento politico. Non è semplice precisare cosa sia successo nel lungo periodo compreso tra il VI e gli inizi del XII secolo, sia per effetto della nota mancanza di documenti sia per il ritardo delle ricerche archeologiche su questo tema. Mi sembra certo comunque che da un lato la costituzione di Buca getti luce su un fenomeno in via di dissoluzione, sotto la spinta disgregatrice della guerra grecogotica prima e delle invasioni longobarde poi e dell'accentuarsi del fenomeno endemico del brigantaggio, in una situazione sempre più frammentata sotto il profilo politico e caratterizzata anche dalla crisi del commercio della lana (e in misura minore della carne), dall'altro la costituzione di Guglielmo II fotografi invece il riemergere della transumanza su scala più ampia, tentando di ristabilire una volontà di controllo centrale contro il particolarismo e la frammentazione. Una serie articolata di documenti di varia natura dimostra che già a partire dall'XI secolo lo spostamento di greggi su distanze medio-lunghe aveva riguadagnato una certa consistenza. Sono particolarmente interessanti alcuni documenti cassinesi, anche perché attestano l'esistenza di assi est-ovest, che garantivano un collegamento tra il Tavoliere e le zone tirreniche, non coincidenti con le direttrici tradizionali di età romana, che, com'è noto, collegavano la Puglia alle aree sannitiche e sabine. Anche il diploma del 1019 relativo alla definizione dei confini della nuova Troia, che pure documenta l'arrivo di greggi “da terra straniera”, sembra rinviare a forme di transumanza su brevi tratti, probabilmente tra il Subappennino dannio e il Tavolieret. È significativo che un'indagine condotta da J.-M. Martin sui documenti pugliesi del X e XI secolo, nei quali non si ritrova mai un riferimento alla transumanza (il termine "tratturo" sembra esser del tutto assente, abbia dimostrato che le greggi di maggiore consistenza documentate non siano state mai composte da un numero molto elevato di capi. I primi studi sul paesaggio altomedievale pugliese fanno intravvedere un'espansione della foresta e dell'incolto, ma non forniscono spie che possano suggerire una continuità dell'allevamento transumante. Fu solo con il ricrearsi di una situazione di unitarietà politica, in cui riusciva nuovamente ad esprimersi una forte capacità di direzione centrale, che potè riemergere un fenomeno, fortemente condizionato dagli aspetti geografici, climatici e demografici, ma non tale da esprimersi, oltre certi livelli, solo sulla base della forza di questi condizionamenti geografico-ambientali e spetta quindi alle future, auspicabili, ricerche sul paesaggio altomedievale ed in particolare allo sviluppo di una specifica archeologia della transumanza (attività di indagine purtroppo ancora poco sviluppata) il compito di meglio precisare questo importante aspetto dell'organizzazione economica e sociale antica, contribuendo in tal modo a superare le secche nelle quali si è da tempo arenato il dibattito su continuità e discontinuità, che, opportunamente liberato da schematismi e determinismi contrapposti (istituzionalista e climatico), rivela una sostanziale infondatezza e rischia di insterilirsi in analisi ormai solo teoriche, se non addirittura ideologiche. 3.4. Risultano sfuggenti, quindi, al momento le forme della produzione agraria e dell'articolazione del paesaggio altomedievale. Certamente avranno avuto una certa continuità, sia pure a livelli decisamente minori rispetto ai secoli precedenti, le colture cerealicole e, in certa misura, anche quelle arboricole. Solo per il territorio di Otranto, come vedremo tra breve, sussistono chiari indizi di una produzione specializzata, probabilmente vitivinicola. In questo senso potranno avere esiti importanti le indagini paleopedologiche già avviate. Sembra sicura, invece, una considerevole espansione del bosco. Il patrimonio boschivo costituiva, com'è noto, una risorsa straordinaria per l'estrazione della pece e soprattutto del legno necessario per le attività artigianali e manifatturiere, per l'edilizia, per la carpenteria navale, per il riscaldamento. I territori adibiti a bosco erano in antico enormemente più ampi, anche se è difficile definirne precisamente gli ambiti: il bosco dominava sicuramente sul Gargano (i cui boschi erano stati già menzionati da Silio Italico), molto probabilmente in ampi settori delle alture subappenniniche e murgiane e in alcuni tratti delle valli fluviali. L'allevamento transumante e lo sfruttamento agricolo intensivo di età romana e tardoantica avevano favorito il disboscamento (che però non dovè mai raggiungere livelli paragonabili a quelli di questi ultimi secoli). Con la crisi di tali attività è dunque verosimile che l'estensione del manto boschivo si sia considerevolmente ampliata.
Per la ricostruzione della geografia della silva tra età romana ed età altomedievale possono essere interessanti i dati relativi alle foreste medievali e modernet. La più antica testimonianza di legislazione forestale di età normanna è relativa alla Puglia, in particolare al territorio di San Lorenzo in Carminiadove, come si è detto, in età tardoantica si estendeva il saltus carminiaRensis. Una nomina di magistri forestarii del 6 febbraio del 1278 offre un prezioso elenco di foreste dell'Italia meridionale, nel quale compaiono in Capitanata le foreste di Lucera, Salpi, Orta, Ortona, Guardiola, Bovino, in Terra di Bari quelle di Bitonto, Santa Maria del Monte (=Castel del Monte) e in Terra d'Otranto quelle di Gualdo di Taranto, Salvia di Belvedere, Ugento, a cui possono aggiungersi, sulla base di documenti databili tra il 1269 e il 1284, altre foreste rispettivamente in Capitanata (NemusPalm~le, Troia, Ascoli, Spinazzola), in Terra di Bari (Corato, Minervino, Gravina, Cassano, Canosa) e in Terra di Otranto (Oria, Taranto). Padrone pressoché assoluto del Gargano e di ampi tratti del Subappennino, il bosco doveva essere presente anche lungo le valli fluviali e persino nel Tavoliere. Nei pressi di Fiorentino, centro fondato da Boioannes nel primo quarto dell'XI, famoso per la morte qui avvenuta di Federico II il 13 dicembre del 1250, i documenti medievali attestano varie silvae; nel 1273 Carlo D'Angiò, in occasione della costruzione del castello di Lucera, fece di Fiorentino un centro per la produzione di laterizi proprio per l'ampia disponibilità di legname nella zona. Numerosi documenti medievali fanno riferimento alla silva e alla foresta (secondo la nuova denominazione di origine franca che comincia ad apparire nei documenti dell'Italia meridionale in età normanna a partire dall'XI secolo: solo a livello esemplificativo si possono ricordare i boschi indicati nei pressi di Troia, di Biccari, di San Lorenzo in Garmiriaro, di San Matteo di Sculgola, San Maria del Gualdo e Dragonara. Anche uno sguardo alle carte storiche sei-settecentesche (Fig. 22) consente di acquisire elementi sulla grande estensione che doveva avere anticamente la foresta. Durante l'età moderna l'espansione della cerealicoltura e del pascolo, oltre allo sviluppo dell'estrazione della legna, ha progressivamente prodotto, in particolare nella Puglia settentrionale, forti spinte al disboscamento. 3.5. Anche nel campo della circolazione delle merci ceramiche è possibile individuare alcUni importanti elementi di rottura tra antichità e altomedioevo. Tra IV e V secolo il panorama era stato dominato dalle ceramiche, in particolare la sigillata D, e dalle derrate alimentari, trasportate nelle anfore cilindriche e affusolate tarde, di produzione africana, cui si affiancarono a partire dal V e nel corso del VI secolo le ceramiche sigillate, in particolare la Late Roman C~ Ware e, in misura minore, la sigillata cipriota, e le anfore del Mediterraneo orientale (in particolare le LRA 1, 3, 4), che in alcuni siti risultano largamente prevalenti rispetto ai prodotti africani,36: una situazione particolare se messa a confronto con il resto del Mediterraneo occidentale, in generale poco ricettivo nei confronti della sigillata di Focca, sicuramente più vicina a quella del Mediterraneo orientale,38, a ulteriore conferma degli stretti legami tra Puglia e Oriente. In realtà si registrarono in età tardoantica differenze significative nei vari settori della regione: mentre i siti costieri adriatici furono interessati da importazioni consistenti tra V e VI secolo di ceramiche orientali, a volte, come per esempio nel caso della villa romana di Agnuli sul Garganot39, addirittura più numerose rispetto alle ceramiche africane, nei siti dell'interno accanto ai prodotti africani si andò affermando progressivamente un tipo di ceramica comune con ingubbiatura rossa o rosso-bruna di produzione locale. Questi oggetti erano deliberatamente realizzati con l'intento di imitare i più raffinati prodotti importati (la forma più imitata è la scodella Hayes 61), evidentemente difficile da reperire. Questa ceramica prevalse in numerosi siti rurali, come per esempio le ville tardountiche di Posta Crusta vicino Ordona o, nella vicina Lucania, nelle eille di Calle, dove era attiva una fornace, e di Sant'Agata nei pressi di Tricarico o in quella di San Giovanni di Ruoti. Con la fine del VI secolo e nel secolo successivo la circolazione di merci, ormai non più alimentata da importazioni, si limitò quasi esclusivamente a prodotti locali, tra cui emersero le ceramiche a bande rosso-brune, in particolare brocchette, spesso rinvenute in contesti funerari. 3.6. Per ciò che concerne il resto della regione, oltre alla Capitanata, il territorio privilegiato dalle ricerche archeologico-topografiche negli ultimi anni è quello idruntino, dove in particolare è da segnalare l'importante scavo, diretto da F. D'Andria, di una chiesa rurale e della vicina necropoli in
località fondo Giuliano nei pressi di Vaste,~;: la chiesa, che costituisce il fulcro delle campagne circostanti popolate da vari insediamenti produttivi, risulta ampiamente ristrutturata e ampliata nella seconda metà del VI secolo e resta in funzione a lungo. La chiesetta rurale di Vaste va ad aggiungersi ad una serie di analoghe strutture di culto già note nelle campagne pugliesi, in particolare nel Salento. Si tratta di un'utilissima acquisizione che completa il quadro, sempre meglio definito, di Otranto; la città era diventuta a partire dal V-VI secolo il porto principale dell'Adriatico meridionale, superando Brindisi nei collegamenti con il Mediterraneo orientale; Otranto peraltro si caratterizzava, oltre che per le attività mercantili (era aptam mercimoriis secondo la definizione di Paolo Diacono), anche sotto il profilo manifatturiero, avendo ereditato, come sembra probabile, la tradizione purguraria tarantina ormai in crisi. Una recente scoperta archeologica effettuata in città apporta un elemento importante perché consente in qualche modo di legare la produzione artigianale a quella commerciale e a quella agricola: si tratta infatti di un quartiere artigianale, di cui sono state individuate e scavate tre fornaci (con annessi alcuni ambienti di servizio), in cui si effettuava la produzione di anfore commerciali e di ceramiche comuni bizantine. Le anfore prodotte in queste fornaci (Fig. 23), per le quali P. Arthur ha proposto preliminarmente una datazione nella prima metà del VII secolo (ma non escluderei una datazione leggermente più alta, già nella seconda metà del VI secolo), dimostrano, nonostante se ne debba ancora precisare, oltre al contenuto, anche la diffusione, che la produzione agraria doveva sicuramente superare i limiti dell'autoconsumo e doveva alimentare un certo flusso di esportazioni. Questo quadro sostanzialmente vitale dell'economia idruntina, pure in una fase di grandi difficoltà, assegna al principale porto della Puglia meridionale una posizione di rilievo rispetto a molta parte della regione e conferma la funzione mercantile svolta dalla città soprattutto in collegamento con il Mediterraneo orientale. Del resto, ancora alla metà del VI secolo, in una costituzione giustinianea, che fornisce forse l'ultima menzione ufficiale della provincia tardoantica~;, I'imperatore si occupava (ripristinando una norma già in vigore agli inizi del VI secolo del trasferimento del carico della coemptio dai possessores Apaliae vel Calabriae provirciae ai regotiatores, la cui attività, ben documentata in particolare nel porto di Siponto nei decenni precedenti, pare così confermata. G.V. COSIMO D’ANGELA, GIULIANO VOLPE
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La ricerca in Calabria
Suona strano che un archeologo classico apra oggi in questo Convegno lo spazio dedicato alla Calabria, e maggiormente se si considera che, al tempo della mia formazione, per affrontare i livelli cronologici dei quali qui si parla, si doveva far ricorso tutt'al più all'insegnamento di Archeologia Cristiana, ma qui con impostazioni decisamente diverse. Ciò per non dire che, ancora all'inizio degli anni Settanta, in Calabria, il Medioevo era oggetto di feroci selezioni da parte di un'archeologia che, com'era ovvio attendersi in questa regione, privilegiava la ricerche sulle colonie greche. Gli strati, le strutture, genericamente definiti come appartenenti al Medioevo oscuro, se costituivano un ostacolo, venivano distrutti. Al massimo restavano isolati, disiecta membra, al centro di qualche cantiere, in attesa di sgretolarsi da soli. Ma queste sono ormai cose acquisite e, purtroppo, scontate. Il mio compito in questa sede è di avanzare qualche riflessione sul prima delle ricerche nell'alto-medioevo in Calabria, lasciando a Francesco Cuteri, che nel settore è certamente più esperto di me, il tempo di aggiornare e di approfondire alcuni temi specifici. La prima obbligata domanda è se la traccia segnata da Paolo Orsi nel 1927 con la sua monografia sulle Chiese basiliane della Calabria abbia avuto un seguito, che, peraltro, egli auspicava nella sua Introduzione indicando due temi di ricerca: l'indagine sulle fortezze (tre, a dire il vero, Rossano, Croton e Gerace) e la ricerca topografica capillare, dove “le agiografle e le pie leggende - cosl egli scriveva - segnano i più intensi focolai di vita basiliana”1. E trascorso mezzo secolo da quelle parole (55 anni per la precisione) ed io credo di poter rispondere che la Soprintendenza Archeologica della Calabria, in questo ultimo decennio soprattutto, ha tentato e tenta di seguire quelle tracce e di dare uno sviluppo ed uno sbocco a quell'invito. Lo dimostrano se non altro, per Gerace, il primo rapporto pubblicato con sollecitudine da Claudio Sabbione e dai Di Gangi su Archeologia Medievale del 1991 (Nunziatella, S. Maria del Mastro, le grotticelle in località Parrere) e la notizia che nel Castello di Crotone le ricerche sono state avviate all'inizio di questo anno. Questa decisa inversione di tendenza si deve, da un lato, alla maggiore presenza (dal 1981) di funzionari scientifici nella Soprintendenza, dall'altro, - assurdo a dirsi - alla necessità inderogabile di rispondere ai continui accorati appelli di uomini di cultura (Emilia Zinzi qui presente ne sa qualcosa) e di più semplici cittadini, che non tolleravano più di osservare impotenti la distruzione delle loro memorie storiche. Così con molta onestà si deve dire che casualità ed episodicità hanno caratterizzato la prima azione della Soprintendenza nel settore. Iermo dei lavori a Comuni, Province, Regione, Comunità Montane e, talora, perfino alla consorella Soprintendenza di Cosenza, che, con tenacia c costanza, distruggevano (e distruggono) chiese, torri e castelli in Calabria. Mentre si va rasserenando (speriamo!) I'orizzonte tra le Soprintendenze (è solo della scorsa estate la circolare del Ministero nella quale si sancisce l'obbligo dell'indagine archeologica anche su monumenti che superano il limite cronologico del tardo-antico), continua imperterrita l'azione di altri Enti (Comuni, Province, come già detto), come non mai imbottiti di pubblico denaro e forti di progetti che non esistono nella basilare parte grafica, né in quella non meno importante delle relazioni. Facile immaginare allora quale confusione permanga, maggiormente in una Regione che produce sindaci, politici e simili, quali improvvisati progettisti di restauri distruttivi e dove l'assenza dello Stato in questo caso fa comodo. È toccato perciò ad una Soprintendenza, in cui prevalgono (come del resto in tutte le altre parti del Paese) gli archeologi classici, intervenire, nel tentativo se non altro di "frenare" lo scempio. Chi parla è estensore di una circolare con la quale si spiegava ai pubblici amministratori della provincia di Catanzaro che cosa fosse lo scavo all'interno di chiese, torri e castelli, quale fosse l'interesse per le analisi e lo scavo in verticale delle strutture, analisi e scavo, la cui assenza non poco ha nociuto, ad esempio, alle indagini nel Palazzo Vescovile di Tropea. Ma mi accorgo di aver fin troppo allungato il "quaderno delle lamentazioni" che, del resto, io credo siano il pane quotidiano di tutti i colleghi qui presenti, operanti nelle Soprintendenze. Ritorno perciò ancora a Paolo Orsi per sottolineare come e quanto la metodologia della sua ricerca sia stata ancora la
traccia per la Soprintendenza Archeologica della Calabria in questi ultimi anni. Certo diversi sono i tempi e, come ho appena ricordato, suscettibili di ampie e devastanti trasformazioni ambientali, per le quali non poco si fatica oggi a scorgere il rosso della "Cattolica" di Stilo alle pendici di un Monte Consolino punteggiato da involucri di cemento approssimati ed aberranti. Ciò nonostante sono ancora evidenti i fattori che connotano il paesaggio storico calabrese: lo sviluppo della costa, bassa e sabbiosa quella ionica, più articolata quella tirrenica, in cui si aprono ben due delle tre pianure presenti nella regione, quella di S. Eufemia e quella di Gioia Tauro, e all'interno delle quali sono state facili le paludi (ma di queste che avrebbero condizionato l'habitat nell'alto-medioevo occorrerebbe approfondire meglio la dinamica), poi le alture, variamente digradanti tra la costa e l'interno, disposte per quinte, dietro le quali è facile nascondersi, senza perdere di vista l'orizzonte marino, mai veramente conquistato, se si pensa che ancor oggi, fatta eccezione per Crotone, Reggio e Vibo Valentia, non esistono vere e proprie realtà portuali, ed ancora è la dorsale appenninica, con la Sila, le Serre e l'Aspromonte, a condizionare le vie di comunicazione. Tra queste montagne si era mosso Paolo Orsi, scoprendo e riscoprendo le sue Chiese, delle quali, oltre a splendide schede, rare per le puntuali, complete descrizioni, ricche non poco di acume scientifico, è raccolta una preziosa documentazione grafica, dovuta all'eccezionale matita di Rosario Carta, attenta al più piccolo dei particolari, siano questi le decorazioni architettoniche o un frammento di tecnica edilizia. Per molte di queste Chiese oggi nulla si può più fare: abbandono o restauratori improvvisati sono arrivati veloci, prima che una seria ricerca scientifica potesse essere avviata (ad esempio la Cattolica di Stilo o il Duomo di S. Severina); per altre (ad esempio il S. Giovanni Vecchio di Stilo) si sta tentando con non poche difficoltà di procedere ad una rilettura od ad una prima lettura, attraverso scavi e documentazioni che, come è bene immaginare, appaiono oggetti misteriosi ad architetti ed ingegneri non poco affannati a distruggere piccoli e grandi complessi della terra di Calabria. Dal tempo dell'Orsi ad oggi altri fatti, altre vicende hanno interessato la Regione. Quella versatilità, la curiosità, I'interesse, che avevano spinto il Nostro ad avventurarsi fuori dall'orizzonte classico, non si riscontrano in chi, per un verso o per un altro, si occupò della ricerca archeologica calabrese dopo il 1925. Pur nondimeno dall'esterno intervennero nuovi stimoli e nuovi impulsi. Ricordo il promontorio di Copanello, dove, a più riprese, Pierre Courcelle propose di riconoscere viviaria cassiodorei (1938-1954) 3. La sua ricerca appoggia nel rigore della lettura dei testi e dell'analisi topografica dei siti, attraverso ricognizione ed autopsia degli stessi. Nella stessa area geografica, quella dell'antica Scolacium, Giuseppe Isuardi apre, nel primo numero dell'“Archivio Storico della Calabria e della Lucania 4, un dibattito sull'autenticità del bassorilievo marmoreo in cui è ripodotta la Vergine Odighitria, attualmente collocato in un edicola lungo la strada statale “Jonica”, in prossimità della Basilica della Roccelletta. Tra parentesi dirò che quei dubbi possono essere oggi sciolti, dacché, essendo stato rimosso per motivi di conservazione l'originale, ho potuto accertare che quel Michele Barillari di Serra, il cui nome è inciso in basso sulla parte liscia della cornice, non può aver realizzato il bassorilievo: cornici e lunotto sono infatti manufatti recuperati da precedenti altari o da edifici dell'antica Scolacium e poi inseriti nella nuova composizione, questa sì dovuta al Barillari. Ma ancora l'interesse per i "luoghi di Cassiodoro" permane ed è servito ad interrompere il silenzio disceso nel settore del medioevo calabrese. Interviene, infatti, all'inizio degli anni Cinquanta Giulio Jacopi con una nota, pubblicata il 1955 negli Atti del IX Congresso di studi Bizantini e dedicata alla scoperta di un sarcofago litico (forse di Cassiodoro - così egli aggiunge nel titolo). È la notizia di uno scavo nell'area della triora di Copanello, sulla quale sono recentemente ritornati con dovizia di scoperte ed una fine analisi stratigrafica e del terreno e delle strutture Ghislaine Noyé e Francois Bongard (1985) 6. Lo scavo fu determinato dalla costruzione di un "villino", forse il primo fra i tanti che a più riprese fino ad anni recenti hanno completamente cancellato la fisionomia originaria della zona e di cui si è parlato nel catalogo della mostra promossa dalla Soprintendenza Archeologica della Calabria sul
Parco della Roccelletta (è veramente il caso di dire: vivaria addio!) 7. Quell'intervento dava modo allo Jacopi, pertinente estraneo a tematiche bizantine, di intervenire sulle ricerche del Courcelle, fornendo parimenti la prima planimetria dell'impianto sul quale avranno modo di ritornare i più accreditati studiosi dell'età bizantina in Calabria, quali Emilia Zinzi e Raffaella Farioli 8. Ancora nel corso degli anni Cinquanta mi sembra di non piccolo conto un frammento di ricerca, se così può essere definito, che Alfonso de Franciscis, succeduto allo Jacopi nella guida della Soprintendenza calabrese, dedica al periodo tra tardo-antico cd alto medioevo, dimostrazione notevole questa, se si considera la scarsa attenzione che questo periodo aveva allora in Calabria. Attento ad annotare qualsiasi cosa affiorasse nel corso di uno scavo come di qualsiasi recupero, il de Franciscis, presentando un catalogo di materiale, fortuitamente scoperto a Monasterace Marina, elenca quanto restava di un gruppetto di tombe distrutto in prossimità del sito dell'antica Caulonia. Aggiungendo ad esse un catalogo di vasellame recuperato da vari siti della Calabria (brocchette acrome e decorate a larghe bande di vernice rossa), il de Franciscis ha modo di presentare una prima sintetica rassegna del materiale di questo tipo e di questo particolare momento cronologico (V-VI secolo) in Calabria. È un fatto questo di non poco interesse e dà modo a chi parla di ricordare con grande affetto quest'Uomo che tanto ha significato per la ricerca nella nostra Regione. Negli anni Sessanta si può - io credo - intravedere quel mutamento di interesse che tanta importanza avrà per il seguito della ricerca. Merito indubbio di Ermanno Arslan, approdato alla Roccelletta di Borgia per iniziare le indagini sul sito della antica Scolacium~~. Cosi, mentre si scopriva il teatro della colonia, Arslan aveva modo di individuare e scavare in alto, sulla collina in prossimità dell'anfiteatro, alcune tombe a muretto, databili tra il V ed il VI secolo, ed ugualmente di avviare nel territorio all'intorno della colonia e per l'istmo di Catanzaro, ricognizioni cui seguivano con costanza segnalazioni alla Soprintendenza di nuovi siti e di nuovi insediamenti. Tra queste vorrei richiamare la scoperta nel territorio di Roccefietta di una placca bronzea appartenente ad una fibbia ad U, pubblicata dal von Hessen nelle “Notizie del Chiostro Maggiore”11. Per quanto fuori da contesto si tratta di un rinvenimento di estremo interesse per questo periodo (VII secolo) e particolarmente signifcativo per la vita di Scolacium. Il capillare lavoro di ricognizione, allargato, tra la fine degli anni Sessanta ed il 1973, ben si può dire a tutta la regione, ha permesso all'Arslan di puntalizzare, in un'ampia relazione pubblicata negli atti del V Convegno Storico Calabrese (articolo ancor oggi fondamentale) 12, il modo di occupazione del territorio in età romana e nei periodi immediatamente seguenti (questi ultimi aggiornati nel XXXVII Corso di Cultura sull'arte bizantina e ravennate del 1990) 13. È quella di Arslan la prima risposta degli archeologi moderni cui Paolo Orsi aveva affdato l'eredità del suo metodo di ricerca: “ percorrere la Calabria palmo a palmo, colla guida di un ricco schedario nei luoghi più riposti e umili ” aveva scritto una volta in “Bruttium„ a proposito di S. Marco Argentano 14. Ad Arslan ancora si deve la scoperta del piccolo complesso cultuale di Botricello 15 con il suo battistero, lo studio delle terme di Curinga-Acconia 15, in cui egli individua le fasi del passaggio tra tardo-antico ed alto-medioevo e le ricerche su Ipponio (citerò solo lo scavo in contrada S. Aloe). La sua ricerca in Calabria continua. Paralleli a quelli di Arslan fioriscono ora in Calabria altri studi non meno fondamentali per il periodo che stiamo esaminando. Così, mentre Emilia Zinzi fornisce le linee per la lettura della scultura tra tardo-antico ed alto-medioevo in Calabria 17, va a Domenico Minuto ed ai suoi collaboratori il merito di avere illustrato con ampiezza di documentazione altri siti, dalle tecniche edilizie al catalogo sui monasteri e luoghi di culto tra Reggio e Locri 18. Intorno al gruppo che promuove gli “Incontri di studi bizantini” (Enrica Follieri, Franco Mosino, Domenico Minuto ed altri), che con periodicità biennale si svolgono dal 1970 a Reggio Calabria, si raccolgono nuovi studiosi, nuovi temi e nuove idee, incrementando il dibattiro sulla storia, la vita sociale e religiosa, la topografia, dai luoghi di culto agli insediamenti, nella terra di Calabria. Ma ancora episodici sono gli interventi sul terreno. Si dovrà attendere il periodo tra il 1976 ed il 1980 per la grande ricerca nell'area di Reggio Lido che tocca le fasi che più direttamente interessano questo
Convegno. Le prime sintesi sono apparse sulla rivista “Klearchos” e negli atti della tavola rotonda organizzata a Roma dall'Ecole Francaise 19. Non torno qui sull'area del Lido, che, come noto, fu distrutta nel 1980 con il eonforto di tutti i 4'nulla osta", ma quel triste episodio segno, io eredo, I'avvio di una nuova, rinnovata attenzione al fenomeno "Medioevo". Così dagli scavi nella piazza della Cattedrale di Tropea (Sabbione, Di Gangi) arriviamo oggi alle ricerche nella fortif~cazione di Calanna (Castamagna) e nel S. Elia di Curinga (Spadea, Cuteri), agli scavi nel eastello di Crotone (Spadea, Cuteri) e nella fortezza sulla montagna di Tiriolo (Noyé, Spadea, Ruga), qui con risultati davvero insperati e sorprendenti. Ed ancora altri scavi si svolgono attualmente nel Castello S. Angelo di Tiriolo (Spadea, Ruga) e nuovi dovranno aprirsi nei castelli di S. Severina e di Nicastro. Nel 1989 un'altra data importante: la Soprintendenza Archeologica della Calabria e l'Ecole Francaise di Roma sottoscrivono una convenzione per la prosecuzione della ricerca nei loci Cassiodorenses e per promuovere nuove attività scientifiche nella provincia di Catanzaro. La prima espressione di questo consorzio è rappresentata proprio dalla tavola rotonda i cui atti hanno visto la luce all'inizio di questo anno. Ma altre iniziative (penso al XXXVII Corso di cultura ravennate, al Seminario su Hipponio-Vibo Valentia a eura della Seuola Normale di Pisa, alle citate note di Sabbione e Di Gangi in “Archeologia Medievale” 1991 e mi si perdonino le omissioni) si aggiungono alle tante ricerche edite ed in corso, note alla maggior parte degli studiosi qui presenti. Ma mi accorgo di avere superato abbondantemente il tempo concessomi. Chiudo ricordando l'augurio con il quale Paolo Orsi aveva concluso la sua introduzione alle Chiese basiliane calabresi: “ possa la nuova generazione degli archeologi e studiosi dell'arte coi più abbondanti mezzi di cui dispone continuare l'opera mia e cogliere nuovi allori che non le possono mancare 20. E un augurio io credo quanto mai attuale, al quale non si può non tentare con costanza, anche se senza mezzi (purtroppo quella parte dell'augurio non può ancora realizzarsi ai tempi di oggi), di dare una risposta. ROBERTO SPADEA
1 P. ORSI, Chiese e basiliche di Calabria, Firenze 1928, p. 7. 2 C. SABBIONE G. DI GANGI C.M. LEBOLE Scavi medievali in Calabria: Gerace 1. Rapporto preliminare, “ Archeologia Medievale”, XVIII, 1991, pp. 587-642. 3 P COURCELLE, Le site du monastère de Cassiodore, MR” 55,1938 pp.259-307. :o ızve//es ref herch f s sar ie morastère de f,assiodore, in Actes1954, Atene 1955, 1, pp. 511-526. 4 G. ISNARDI, Il bassorilievo della Roccelletta di Squillace, “ASCI,”, 1, 1931, pp. 4()3-4()4. 5 C JACOPI, Sarfofago (forse di Cassiodoro) con iscriziori graffite bizantine scoperto a S. Martino di Copanello nel golfo di Squillace in Actes du IX Congrès irternational d'etudes byzantines thessalonique 1953, Atene 1955, pp. 201-203. 6 C. NOYÉ-F. BOUGARD, Squillace (prov. di Catanzaro), MEFR, 98,198ó, pp.1195-1212. 7 R. SPADEA in Da Skylletion a Scolacium il parco archeologico della Roccelletta, Roma 1989 pp. 18-22. 8 R. FARIOLI Note sull'edificio triconco di S Martino nel monastero "viviarense sive castelellense " di cassiodoro, “ Magna Graecia” (nn. 1-2), 1975, pp. 20-22; EAD., La trichora di S. Martino e monastero "viviarense sive castellense"di Cassiodoro, “Aparchai”, Pisa, 1982, Il, pp. 669-677 E`. ZINZI, Per una ricerca sulla scultura fra tardo-antico e altomedioevo in Calabria. 1. Un primo gruppo di frammenti di decorazioni architettoniche dell'area di Scolacium (Catanzaro), Klearchos XX I 1637 9, p p. 109-167, Architettura ed aspetti dell'insediamento dall'altomedioevo alla dominazione normanna, in La Calabria a cura di NI.P. Di Ijario Roma 1983 pp. 89-120, p,.,\tj. l,inee e praolf mi nella letteratura sui luoghi cassiodorei in Calabria, in Atti della settimana di.studio, Cosenza-Sguillace 1983, Soveria Jannelli 1986, pp. 453-468 (con bib. prec.). 9 A. DE FRANCISC[S, Monasterace, “Not Scavi”, 1957, pp. 188-190, fig. 11. 10 E.A. ARSLAN et al., in Atti “Ce.S.D.I.R.”, II, 1969-1970, pp, 13-125.
11 0. VON HESSEN, Fibbia ir bronzo dell'alto medioevo proveniente da Roccelletta di Borgia Scolaciam, “Notizie del Chiostro Maggiore”, XXI-XXII, 1978, pp. 47-48. 12 E.A. ARSLAN, La ricerca archeologica nel Brazzio, in Bretti, Greci e Romani, Atti V Congresso storico calabrese, Cosenza, Vibo, Reggio Calabria, 1973, Roma 1983, pp. 269-310. 13 E.A. ARSLAN, Dinamica degli insediamenti in Calabria dal tardo artico al medioevo. 14 P.ORSI, in “Bruttium”, 1925, n. 9, p. 4. 15 E.A. ARSLAN, Recerti scavi a Botricello e Roccelletta, in Atti 11 Gorveg,,30 Nazionale di Archeologia Gristiara, Roma 1971, pp. 107-125 e Un complesso cultuale paleocristiaro a Botricello (Crotone), “ Aquileia Nostra ” , XLV-XLVI, 1974-1975, pp. 598-606. 16 E A. ARSLAN, L'edificio termale romano detto Tempio di Castore e Pollace presso Carirga (Catanzaro), “Klearchos ”, 61-63, 1966, pp. 23-47. 17 E. ZINZI, Per una ricerca sulla scultura tra tardo artico ed altomedioevo in Calabria Klearchos, 81 -84, 1979, pp. 106167, EAD., Prob1emi di conservazione e di recupero storico-critico dell'architettura monastica in calabria, in I Beni culturali e le Chiese di Calabria, Reggio Calabria 1981, pp. 289-414, EAD., Linee e problemi della letteratura sui luoghi cassiodorei in Calaoria, Rivista Storica calabrese, IV, 1983, pp. 635-650. 18 D. MINUTO, Catalogo dei monasteri e dei luoghi di culto tra Reggio e Locri, Roma 1977 e, per una messa a punto, ID., Chiesee monasteri in Calabria dal tardo antico all'alto medioevo, in XXXVII Corso, cit. a nota 13, pp. 303-366. 19 A.M. ARDOVINO, Edifici ellenistici e romani ed assetto territoriale a Nord-Ovest delle mura di Reggio Calabria, “ Klearchos”, XX,1978, pp 75- 112 e R. SPADEA, Lo scavo della Stazione "Lido " in La Calarre de la fin de 1’antiquité au Moyen Age, MEFR, 103-2, 1991, PP. 689-707. 20 P. ORSI, Le chiese, loc. cit. a nota 1.
La Calabria nell'Alto Medioevo (VI-X sec.)
Per meglio comprendere le brevi note sulla Calabria altomedievale che si vanno a presentare, e soprattutto il valore che vengono ad assumere i dati finora acquisiti, è quasi d'obbligo ricordare come agli inizi del secolo il Bertaux, nel suo lavoro sull'arte nell'Italia meridionale, segnalasse la totale assenza di edifici e rovine riferibili al periodo oggetto di analisi in questo convegno 1. È già stata ricordata da Roberto Spadea la fgura di Paolo Orsi, che ha certamente avuto il merito, nonostante recenti critiche ne vogliano sminuire il valore, di promuovere lo studio di diversi aspetti della cultura medievale, non solo calabrese ma anche siciliana. Erano certo i primi ma importantissimi passi di un cammino che se non ha ancora portato a definizioni esaurienti sull'intera sequenza storica, ha permesso di fissare alcuni capisaldi e di mitigare, con l'ausilio spesso di indicazioni apparentemente irrilevanti, la catastrofica visione che il Freshfeld dava nel suo lavoro sulle Cellae Trichorae. La ricerca archeologica sulla Calabria altomedievale, che non nasce in sostanza con dei connotati propri ma si sviluppa soprattutto sulla scia di quella finalizzata al chiarimento dei problemi topografici delle città greche, di quanto si veniva facendo nel campo della tarda romanità o ancora grazie a rinvenimenti fortuiti, ha indirizzato, soprattutto nell'ultimo decennio, I'attenzione al problema dell'abbandono dei centri costieri e della nascita di nuovi insediamenti sulle prime propaggini montuose. Sebbene la ricerca si sia svolta in senso pressocché univoco, si sono acquisiti, indirettamente, elementi di primaria importanza per lo studio del periodo che a noi interessa. Accanto alle tante acquisizioni che si sono verificate negli ultimi tempi con scavi stratigrafici (per una parte dei quali non sono ancora integralmente disponibili i risultati scientifci ed è il caso ad esempio del centro cultuale di Botricello, sulla costa jonica, di cui sono ancora inediti gli importantissimi corredi tombali e degli scavi nell'area del sagrato della cattedrale di Tropea), una mole notevole di indicazioni, soprattutto per quel che riguarda le produzioni e le circolazioni di oggetti (ceramiche, metalli, ecc.), si è acquisita grazie alle ricerche nei depositi museali (dove le ceramiche di età altomedievale erano talvolta inventariate come “italiote”), alle collezioni private, ai sequestri, numerosi ad esempio per il territorio di Crotone, effettuati dalla Guardia di Finanza ed alle ricognizioni in aree di forte espansione edilizia. Si tratta ovviamente in molti casi di situazioni fortemente decontestualizzate, ma non per questo trascurabili. Partendo proprio da una integrazione tra questi dati di diversa natura, vorrei brevemente accennare a quanto si è fino ad ora messo in evidenza in riferimento a Crotone ed al suo territorio, facendo talvolta riferimento alla interessantissima situazione della città di Reggio, con la quale esistono stretti rapporti derivanti dalla comune identità di città portuali e da analoghe vicende storiche. Le fonti documentarie, che ricordano la città di Crotone coinvolta nella guerra greco-gotica, rammentano anche come essa fosse, ancora nel 547, non fortificata 3: il riferimento per la prima metà del VI secolo all'assenza di mura, ci conferma come non furono utilizzate, se non forse come avamposti e comunque in situazioni non definitive o ancora come cave di materiale litico, le superstiti mura greche (analogamente a quanto attestato ad esempio per la Vibo romana) e ciò appare facilmente comprensibile se si osserva quanto esse fossero distanti dal nucleo urbano che si era oramai fortemente contratto. Gli scavi condotti all'interno dell'invaso murario della fortezza cinquecentesca non hanno per il momento fornito indicazioni sulla presenza di una struttura difensiva di età bizantina 5 a causa forse delle profonde trasformazioni che la fabbrica di età viceregnale ha prodotto sull'intero tessuto cittadino. Molto simile appare la situazione nella città di Reggio, dove però i danni maggiori Sull’ antico impianto urbanistico si sono avuti a causa del forte evento sismico verificatosi nel 1908 nell'area dello stretto e soprattutto in seguito alle totali demolizioni e rasature del terreno che furono eseguite. Fu comunque possibile, grazie ad un tempestivo intervento dell'allora Soprintendente Orsis,
documentare gli avanzi di una grossa torre quadrangolare, interpretata, sulla base dell'analisi del contesto e soprattutto della tecnica costruttiva (muratura irregolare con riutilizzo di numerosi blocchi di calcare derivanti da strutture più antiche) come un elemento della struttura difensiva di età bizantina 6. Ritornando alla Crotone di età Viceregnale ed in particolare ai lavori di costruzione di alcuní bastioni, mi preme sottolineare come siano frequenti in quello che potremmo deRnire il giornale di cantiere, databile a partire dalla metà del XVI secolo, annotazioni del tipo affiorano petre er muri antiqui, (che arrecano notevoli ritardi nello scavo delle fosse di fondazione ) o ancora taglare le petre e sderropar le anticaglie” ed infine spaccare “lo molo antiquo et mura vecchi 7. In particolare, i riferimenti al molo antico, presenti in merito alla costruzione della cortina muraria a nord, ci permettono di dare conferma a quelle ipotesi che volevano la struttura portuale rivolta verso il piccolo golfo che ii promontorio crotonese viene a formare con Punta Alice: Un altro punto di attacco doveva comunque esistere nel versante sud della città 8. Così come per Reggio, Thurii-Rossano (città per quale si conoscono alcune brocchette provenienti da più località poste nelle immediate vicinanze e da riferire ad aree di necropoli di VI-VII secolo) e Vibo 9, tutte tappe importanti nello scacchiere della guerra greco-gota, anche per Crotone sembrerebbero mancare quegli elementi cosiddetti di cultura materiale da poter mettere con certezza in relazione ad una presenza di gente di cultura gota 11. Lo stesso discorso possiamo farlo in funzione di quella presenza longobarda, certamente attestata dalle fonti documentarie ma finora non provata dalla documentazione materiale, contrariamente a quanto supposto da coloro che interpretavano le fibule cosiddette zoomorfe come espressione tipica della cultura longobarda 12, quanto piuttosto dai toponimi, presenti in numero di 29 sull'intero territorio regionale sulla base dello studio del Sabatini (con una forte presenza del vocabolo Sala), con una attestazione di ben 22 unità nell'attuale provincia di Cosenza che corrisponde al territorio che fu maggiormente interessato dalla loro occupazione 13. Per Crotone, al di là delle indicazioni di carattere documentario, le indagini archeologiche non hanno al momento evidenziato nel tessuto Urbano particolari elementi che si possano in qualche maniera mettere in relazione con eventi traumatici e l'unico suggerimento in tal senso ci viene dal ritrovamento effettuato nel 1916 a Punta Scifo, località posta a sud di Capo Colonna, di un tesoretto di aurei bizantini composto da 103 elementi e di cui se ne conservano attualmente solo 80. Per fornire un quadro quanto più completo sui possibili attracchi legati alla città di Crotone e per meglio definire i ritrovamenti subaquei, si deve necessariamente far riferimento ad alcune ricerche che la Soprintendenza Archeologica della Calabria ha promosso a Capo Le Castella: nonostante che i sondaggi all'interno del castello cosiddetto Aragonese (peraltro alterato da discutibili interventi di "restauro" ), sorto sui resti ben visibili di un phrorior di età greca, non abbiano per il momento fornito elementi di cronologia precedenti al XIII-XIV secolo, le ricerche nei fondali antistanti hanno portato all'individuazione di una grande massicciata, costruita presumibilmente in età tardoromana o bizantina anche se non si può completamente escludere una attribuzione al basso medioevo, che possiamo forse interpretare come la porzione di un molo, e di un notevole numero di ceramiche, in prevalenza frammenti di anfore, tra cui non mancano esemplari riferibili al V-VI sec. d.C.f;. L'idea che si ha di Crotone nel primo medioevo è quella di un centro ancora inserito nei traffici commerciali mediterranei (sebbene non sia attualmente quantificabile la mole delle merci circolanti) grazie ad un bacino portuale sempre attivo, così come quello di Reggio e di Otranto: tali località oltre ad essere ricordate come tappe consuete nei viaggi da e per l'oriente~b, possono essere accomunate, grazie ai risultati di più o meno recenti investigazioni, dalla presenza di particolari e importanti forme ceramiche. Gli scavi eseguiti in concomitanza con il raddoppio, tra il 1978 ed il 1980, della linea ferroviaria della stazione Lido di Reggio Calabria, situata in una lieve insenatura dove viene generalmente ubicato l'antico porto, hanno permesso di recuperare, nei livelli di distruzione di un edificio destinato ad attività artigianali, ricostruito nel VII secolo e sul quale torneremo, alcuni frammenti di ceramica a vetrina pesante e frammenti di TSA e di LR "C" riferibili alle ultime produzioni, ceramica acroma decorata a pettine e eeramica dipinta a bande rosse, per i quali è stata proposta da A. Racheli una datazione tra la fine dell'VIII ed il IX secolo. Per tali frammenti, tutti
decorati, I'analisi dell'impasto ha permesso di suggerire una produzione locale pur non escludendo un probabile rapporto di dipendenza dalla Sicilia nord-orientale, dall'Attica e da alcune isole dell'Egeo 17. Una situazione pressocché analoga è stato possibile documentare per Crotone: un piccolo saggio di scavo effettuato in un cortiletto adiacente alla chiesa conventuale di Santa Chiara 16, posta nel cuore della città vecchia, ha portato al riconoscimento, al di sotto di uno spesso strato di terreno composto da numerosi resti di ossa animali, gusci di molluschi e ceramiche da collegare alla vita del convento in età moderna e di uno strato di frequentazione di età bassomedievale, da mettere probabilmente in relazione con un grosso muro di fortificazione, di un deposito archeologico aneora non meglio interpretabile (un butto, o un piano di frequentazione) ehe ha restituito accanto a frammenti di sigillata africana dei tipi più tardi (Hayes 105), ceramiche acrome sovradipinte a bande rosse ed un interessantissimo esemplare di coperchio, dal profilo integralmente ricostruibile, in ceramica invetriata (Fig. 1). Per tale tipo di coperchio, anche se il nostro esemplare è privo di elementi decorativi, non mancano generici confronti con esemplari da Roma, Otranto, Corinto, Siracusa e per rimanere nella nostra regione, con Reggio Calabria: si tratta in sostanza di un prodotto ben attestato in area bizantina almeno a partire dall'VIII secolo 19. Per completare il quadro delle attestazioni di ceramiche invetriate altomedievali in Calabria (Fig. 2), vanno solo ricordati i frammenti rinvenuti negli scavi effettuati all'interno della basilica normanna di Santa Maria della Roccella, nel sito dell'antica Scolacium, frammenti molti simili per composizione e vetrina a quelli reggini, che rivestono un interesse particolare in quanto indizio della frequentazione di un sito ritenuto, alla fine del VII secolo, sostanzialmente spopolato 20. Se dunque i porti e nel caso specifico quello di Crotone, rimangono sostanzialmente attivi nell'altomedioevo 21, analoga sorte sembra toccare, alla viabilità terrestre. Le indagini intraprese in un'area periferica di Crotone 22, rivelano una situazione di estremo interesse: ci troviamo infatti in presenza di una porzione del tracciato viario di età tardo-romana ed in particolare di una diramazione che conduceva ad est verso il nucleo urbano, mentre volgeva, appena a sinistra, in direzione della via costiera e dunque di Petelia-Strongoli. Il rinvenimento di una moneta riferibile al VI secolo d.C., di alcuni piccoli oggetti in bronzo, nonché di alcuni frammenti di sigillata africana del tipo tardo, fra le lenti di terreno utilizzate per la risistemazione del piano, lasciano sùpporre un utilizzo della strada almeno per il primo altomedioevo. Ad una certa vitalità, ossenata per il centro cittadino e confermata anche dai ritrovamenti di V-VI secolo di via Tedeschi, corrispondono i segni di una discreta apertura commerciale dei piccoli abitati posti sulle prime propaggini collinari, in una posizione di notevole controllo del territorio circostante, spesso in prossimità delle sorgenti o lungo i corsi d'acqua. Si è qui parlato di abitati, ma è più giusto far presente come si tratti di dati che ci vengono quasi esclusivamente da contesti tombali, in rapporto ai quali è stata ipotizzata l'esistenza di insediamenti di limitata estensione, realizzati con l'impiego di materiale da costruzione di tipo precario (soprattutto legno) per i quali esistono in Calabria scarsissime attestazioni. Un confronto interessante, anche se riferibile ad una situazione che potremmo definire ex-urbana, è rappresentato dalla probabile destinazione ad uso abitativo di una parte dell'area del foro della città romana di Scolacium, nella cui pavimentazione vennero praticati numerosi buchi per pali (Fig. 3) 23, ed a cui possiamo collegare un occasionale utilizzo cimiteriale degli spazi circostanti. Non esiste nessun reperto collegato direttamente a tali strutture e l'ultimo segno di una frequantazione del piano pavimentale è dato dalla presenza di una moneta di Onorio (408-423) 24. Per quel che riguarda il materiale ceramico, quello proveniente da contesti adiacenti alle presunte strutture abitative, testimonia l'esistenza di traffici, almeno per tutto il VI secolo, con il Nord-Africa e 1'Oriente 25. Altri dati sulla produzione e circolazione di materiale altomedievale ci vengono dall'analisi dei contesti localizzati nel territorio di Crotone, a cui abbiamo precedentemente accennato: in particolare, da Santo Janni Monaco, una località posta immediatamente ad ovest della città che presenta una
importante continuità di vita fino all'età moderna, provengono numerosi materiali, e tra tutti, merita di essere segnalata una piccola ampolla a forma di borraccia 26 (Fig. 4). Dalle altre necropoli 27 poste a nord della città, in cui appare evidente il contrasto tra la semplicità delle tombe, spesso terragne o con lastroni di pietra locale disposti per taglio, e l'articolazione dei corredi che in qualche caso si presentano "ricchi", possiamo segnalare, accanto alla presenza di numerose forme ceramiche principalmente chiuse (brocchette ed anforette), talvolta con decorazione incisa o dipinta (Fig. 5), che trovano ampi confronti non solo in contesti calabresi ma più in generale con tutta l'Italia meridionale 28, 1'esistenza di affibbiagli in bronzo, attestati con caratteri morfologici che rimandano a confronti con l'area balcanica (soprattutto Dalmazia e Albania) oltre che con la Sardegna, la Puglia e la Sicilia. La presenza di tali reperti, documentata in Calabria per altre località della costa jonica quali Scolacium, Crichi e Botricello 29 ed i già citati confronti con l'area balcanica, ripropongono non solo complessi problemi di produzioni artigianali e dunque di scambi, ma fanno ipotizzare la presenza di truppe slave alle dipendenze di Bisanzio o ancora una semplice migrazione, peraltro già rammentata dalle fonti documentarie, di genti provenienti da est: emblematica è la figura di Giovanni, vescovo della diocesi di Alessio, posta nell'attuale Albania, che mandato via dagli Avari fu nominato vescovo di Squillace 30. Purtroppo attualmente non esiste nessun riferimento antropometrico che ci permetta di definire meglio tale problematica, a causa della totale carenza di studi sui reperti osteologici, se si escludono le analisi affettuate sugli scheletri della piccola necropoli di Pellaro, località posta nelle vicinanze di Reggio Calabria e su quelli coevi delle sepolture di Malvito, dove è stata evidenziata la presenza di una popolazione composta da contadini, poveri e di piccola taglia 31. Per concludere il discorso sulla cultura materiale delle necropoli del Crotonese, sono da ricordare, accanto agli orecchini in argento, principalmente del tipo a cono, le fibule a scatola in lamina d'argento dorato, attestate in numero di quattro ed in cui prevale il motivo decorativo dei due pavoni affrontati che si abbeverano ad un kartharo 32: (Fig. 6). Per tale tipo di lavorazione a foglia, del resto non estremamente complicata, si è anche pensato ad una probabile produzione di artigiani calabresi, vistane l'elevata presenza sul territorio regionale 33 (Fig. 7). Se il versante jonico appare fortemente contraddistinto dalla diffusione delle lamine circolari decorate (in oro o argento dorato), ben diversa si presenta la situazione su quello tirrenico, dove possiamo osservare una esclusiva presenza di erkolpia cruciformi in bronzo 34, che per la loro esecuzione semplice e somrnaria, soprattutto nell'elemento decorativo (ad eccezione di un solo esemplare discretamente realizzato), testimoniano la modesta estrazione sociale degli acquirenti. La dislocazione topografica dei ritrovamenti calabresi (Fig. 7), che sembra seguire, per larghe linee, il tracciato della cosiddetta via Popilia, propone l'idea di una via dei pellegrini (e non soltanto di loro), che giunti dalla Terrasanta fino alla Sicilia o al porto di Reggio, continuavano il loro cammino in direzione di Roma. Tale ipotesi potrebbe trovare conferma nel recente ritrovamento di un ekolpior in bronzo, nel sito di Malvito, interpretato come una marsio posta sulla via di collegamento tra il Tirreno e lo Jonio 35. In conclusione di questo rapido accenno alla viabilità in periodo altomedievale vorrei ricordare come alcune indicazioni sui percorsi di attraversamento dallo Jonio al Tirreno, ci vengono dalla individuazione di due interessanti insediamenti: quello di Celimarro nei pressi di Castrovillari e quello di Girifalco in provincia di Catanzaro, del quale presentiamo alcuni materiali ceramici (Fig. 8) 36. Se l'insieme dei ritrovamenti, a cui abbiamo solo in parte accennato, ci da l'idea di una avanzata ruralizzazione e di una sostanziale dispersione dell'abitato, rimangono pienamente da investigare da una parte l'articolazione dei nuovi sistemi di produzione e di conduzione della terra e dall'altra l'esistenza di gerarchizzazioni e vincoli di dipendenza (sebbene i segni dell'esistenza di figure socialmente distinte si intravedano nella realtà materiale): alcune indicazioni ci vengono dalle fonti, che continuano a parlarci di una presenza diffusa dall'allevamento e della cultura della vite e dell'olio a cui si affancherà in maniera massiccia, ma questo solo a partire dal IX-X secolo, la coltura del gelso,
che tanta importanza finirà con l'acquisire nel quadro dell'economia calabrese. Ma per una regione che presenta circa 800 Km di costa dobbiamo necessariamente pensare all'importanza avuta dallo sfruttamento della risorsa marina ed alla fonte di sussistenza venuta meno - con adattamenti alimentari ancora da investigare - al mornento dello spostamento forzato degli abitati verso le alture. Le descrizioni di Cassiodoro ci dipingono la pescosità dei mari ed i SUoi stessi vivaria sono una manifestazione tangibile di tale realtà economica . A questi dati possiamo, sulla base degli scavi effettuati a Reggio I,ido, aggiungerne di più concreti: in un'area da sempre destinata a produzioni artigianali, come sembrerebbero suggerire sia i recipienti con colori riferibili al I sec. d.C. che altri impianti di IV secolo, si edificò, all'inizio del VI secolo, un complesso finalizzato alla lavorazione del pesce, realizzato con una tecnica edilizia poverissima basata su una sistemazione a secco delle murature, come già documentato in siti rurali quali Paleapoli o Malvito,~. La struttura, per la quale esistono confronti con l'Africa e la Spagna, costituita da ambienti allungati e da vasche di forma circolare collegarc a canalizzazioni di deflusso (Fig. 9), venne distrutta alla fine del VI secolo ma fu oggetto di una pressocché immediata riedificazione (VII secolo) che mantenne inalterata la destinazione funzionale: anche in questo caso si utilizzarono per la costruzione tecniche elementari caratterizzate dall'uso di un semplice zoccolo in pietra e di un alzato ad incannucciata intonacata. 'I`ali complessi produttivi, studiati da Roberto Spadea, sono stati mcssi in relazione con la probabile produzione della muria, una salsa di pesce adoperata nell'antichità e prodotta con l'impiego del tonno, particolarmente diffuso nello stretto, e dunque con la volontà della città di godere di un'autonomia economica in riferimento al prodotto ittico. Ancora lo scavo di Reggio Lido ci offre lo spunto per accennare ad uno studio che vive ancora le sue fasi iniziali, ma che sembra fornire indicazioni interessanti: quello delle attività minerarie e metallurgiche ~~~. Per il periodo che ci interessa, le indicazioni non sono numerosissime ma appaiono comunque stimolanti. Per uno dei distretti minerari più grandi, quello di Longobucco (CS), le ricognizioni, che pure hanno permesso il riconoscimento di più punti di sfruttamento di età medievale e moderna, non hanno fornito dati per il nostro periodo, e l'unico ricordo di un possibile utilizzo rimane nel nome del torrente Macrocioli, (affluente del fiume Trionto lungo il quale sono concentrate alcune tra le più importanti mineralizzazioni), per il quale si propone una derivazione dal greco tardo “makrokoilos ” significante “una grande bocca, una grande cavità”. Spingendosi più a sud, nei dintorni di Catanzaro, troviamo dei giacimenti metalliferi con prevalenza di calcopirite e nelle loro vicinanze (monte Tiriolo) è attestata una fortezza all'interno della quale sono stati rinvenuti numerosi scarti di lavorazione metallurgica (rame e ferro), privi al momento di un preciso riferimento cronologico, nonostante sia abbondantemente provata una frequentazione anche in età altomedievale~e Ancora più a sud, al confine tra le provincie di Catanzaro e Reggio Calabria, si trova l'altro importante distretto minerario di Stilo-Bivongi, per il quale la più antica attestazione documentaria è l'atto, risalente all'anno 1094, con il qUale i Normanni cedevano alla Certosa di San Bruno tutti i proventi derivanti dallo sfruttamento delle miniere di ferro e dei forni fusori esistenti nel circondario di Stilo e Arena~z: I'idea che si ricava da tale documentazione è quella di uno sfruttamento minerario attivo già da tempo, prima ancora della venuta del Santo in Calabria, e si può forse pensare ad una continuità di sfruttamento dall'età bizantina. Una attività di lavorazione del ferro è comunque attestata nel territorio di Locri (Paleapoli) ove all'interno di una struttura (ancora in vita nel VII secolo) per la quale è stato ipotizzato un uso domestico, sono state rinvenute scorie metalliche di piccole dimensioni, all'interno di uno strato composto da ghiaia frammista a terra nera, diviso dalla presenza di una struttura muraria composta da pietre, laterizi e frammenti ceramici~s La presenza di un punto di lavorazione del ferro (forgia?), rientra comunque in uno schema già attestato in altre parti d'Italia e d'Europa, ove accanto alle strutture agricole tradizionali, sono presenti
piccoli impianti produttivi (e nel caso di Paleapoli troviamo anche una produzione di anfore domestiche- Fig. 10 -) che dovevano servire alle semplici necessità del proprietario e degli abitanti della casa o ancora di più comunità ravvicinate. Il ritrovamento comunque più interessante, al quale accennavamo in apertura di questo spazio dedicato alle attività minerarie e metallurgiche, è quello di Reggio Calabria: in una zona adiacente ai già citati impianti di lavorazione del pesce ed esattamente all'interno di un ninfeo, si assiste ad una risistemazione degli ambienti con la creazione, al di sopra di uno strato di terreno in prevalenza sabbioso che segna l'abbandono della struttura nella sua funzione originaria, di alcuni muretti a secco e, nel versante nord, alla costruzione di un forno, realizzato alterando i paramenti murari della costruzione preesistente~~ (Fig. 11). Dopo una fase di uso non quantificabile, tale struttura cade in disuso ed al di sopra, leggermente più spostata a sinistra, ne`viene costruita un'altra con murature a secco e con l'utilizzo di pietre irregolari e di laterizi che in fase di scavo si sgretolavano facilmente 4S. Dal punto di vista della documentazione scritta, il testo piu significativo per la storia dell'attività mineraria calabrese in periodo altomedievale e rappresentato da una lettera di Cassiodoro scritta nel 527 per conto di Atalarico e rivolta a Bergantino, amministratore di Una regia tenuta in Calabria+~. Ne forniamo qui di seguito solo una breve citazione: “ Ordiniamo quindi alla tua magnificenza di inviare un funzionario nella nostra proprietà Rwsticiana, situata nella provincia dei Bruzi, e se come è detto da Teodoro, esperto in questa materia, la terra è feconda delle cose suddette (metalli), costituite le officine come si deve, si indaghi diligentemente nelle viscere dei monti, si entri con l'aiuto della tecnica nel cuore della terra, e la ricca natura venga perquisita per i suoi tesori”. Dopo aver descritto i processi ci fusiane, prosegue: “pertanto la vostra amministrazione disponga qualunque cosa serva ad esercitare quest'arte con la dovuta perizia, affinché anche la terra dei Bruzi trovi in sé quel tributo che può dare, in modo che abbondi di copiosi frutti”. Questa lettera, e le strutture fusorie di Reggio, pressocché coeve, dimostrerebbero in sostanza l'esistenza di una cultura mineraria e metallurgica in età altomedievale. Ritornando al complesso problema dell'abbandono dei centri costieri ed al sorgerne di nuovi in altura e dunque della sostanziale trasformazione del paesaggio, non si può non accennare a quell'espressione edilizia "in negativo", rappresentata dal fenomeno rupestre. In particolare, nel caso di Locri, città per la quale i materiali archeologici suggeriscono Un abbandono intorno al VII secolo, è stato proposto, sulla base soprattutto di quanto emerso dalle ricerche effettuate in località Parrere, al di sotto dell'abitato di Gerace, con lo scavo ed il rilievo di alcune grotte~7, un iniziale spostamento dalla costa, con la creazione di qUesto nucleo rUpestre intorno al quale si sarebbe poi sviluppato l'insediamento civile e religioso, similmente a quanto ad esempio prospettato per Metaponto ed a quanto ipotizzabile per Rossano. Le ricerche, che oramai da tempo vengono condotte in questo settore+~, stanno permettendo una migliore cornprensione della diffusione di un fenomeno collegato per molto tempo alla esclusiva presenza di quei monaci itineranti che, soprattutto a partire dal IX secolo, attraversarono le nostre contrade, e che deve oggi necessariamente prevedere, accanto alle già citate esperienze eremitico-monastiche, un uso abitativo tradizionale. Rimangono in ogni caso legati a tale fenomeno enormi problemi di datazione delle strutture per le pressocché totale assenza di materiali all'interno degli ambienti+~ e per la non applicabilità, se non lirnitatamente, di scherni tipomorfologici, considerand;o anche che in molti casi vengono utilizzati grotte naturali, come nel caso di Mendicino (Fig~ 12). Accanto al più caratteristico degli abitati rupestri calabresi, quello di Rossano, articolato in tre nuclei distinti, ciascuno dei quali raccolto attorno ad una cappella o ad una chiesa, ed a quello non certo meno noto di Santa Severina, oggi selvaggiamente aggredito dallo sviluppo edilizio, del quale si presenta il rilievo di una grotta, effettuato agli inizi del secolo dall'Orsi (Fig. 13), troviamo attestato in
Calabria un interessante numero di grotte, poste talvolta in località non facilmente accessibili e disposte quasi lungo l'intera linea di costa (Fig. 14). I dati finora acquisiti permettono in parte di mettere in discussione quanto sostenuto in passato dal Guillou sull'estrema rarità dell'habitat rupestre calabrese e lucano, motivato a suo avviso da una sostanziale impossibilità di tagliare con facilità la dura roccia e letta dunque in chiave di regresso tecnologicos(~. In particolare, importanti rimangono da una parte le testimonianze materiali, che ci illustrano come l'uomo sia andato adattandosi al contesto naturale, e dall'altra le indicazioni fornite dalla documentazione scritta. Basti ad esempio ricordare come nella vita di Sant'Elia (morto nel 960) compaia la figura di Cosma, un uomo di estrema praticità che, con l'aiuto di altri operai molto esperti nel tagliare la pietra, eseguì nella grotta di Melicuccà una porta ampia e comoda ed effettuò altre opere quali la costruzione di una salina per uso dei monaci ed un piccolo mulino per macinare il frumento;~. Anche le ricerche effettuate nel territorio di Crotone hanno permesso di individuare numerose grotte (in vicinanza delle quali sono talvolta presenti tracce di sepolture S ) che il più delle volte appaiono fortemente trasformate sia a causa dei parziali cedimenti, sia per un frequente riuso come ricovero per gli animali o come ripostiglio per gli attrezzi S3, analogamente a quanto testimoniato per altre strutture abitative calabresi. In conclusione di questa rapida e non esaustiva analisi della Calabria nell'altomedioevo, vorrei solo accennare a quanto evidenziato dalla ricerca archeologica in relazione ai luoghi di culto: mentre la situazione appare sostanzialmente chiara per le ultime fasi dell'occUpazione bizantina, caratterizzata dal fiorire di una edilizia cultuale tecnicamente di buon livello, che trova emblematiche manifestazioni nella nota Cattolica di Stilo e nel San Marco di Rossano' per il primo altomedioevo il quadro appare meno definito. Un dato certo è la trasformazione spesso ricorrente di più antiche strutture (quali ad esempio le ville) in luoghi di culto: rappresentativi sono l'edificio extraurbano di Vibo Valentia, il complesso termale di S. Aloe, le terme di Curinga, l'insediamento di Bova Marina, il complesso monastico di San Fantino e ancora la chiesa di Santa Maria di Zarapotamo (CZ) recentemente scavata da Alfredo Ruga che, sorta al centro di un importante nodo viario nell'area di una villa, si presenta con tutte le caratteristiche di una chiesa rurale che si trasformerà, forse a partire dall'XI secolo in monasteroS+. Differente appare la situazione nel caso della chiesa di Botricello (con adiacente fonte battesimale), per la quale gli scavi non hanno messo in luce nessuna preesistenza e che sembrerebbe collegata, secondo l'interpretazione dell'Arslanss, ad un presidio militare bizantino, presidio che eesserà di esistere nel corso dell'VIII secolo (Fig. 15). Una situazione dunque sufficientemente articolata, che meriterà certamente di essere approfondita partendo da una integrazione fra dati di differente natura. Le continue ricerche archeologiche, che caratterizzano in questi ultimi tempi la nostra regione, stanno proponendo all'attenzione degli studiosi molteplici situazioni sub-regionali che ben agevolmente potranno essere inserite in un quadro di lettura più ampio e vitali risulteranno altri momenti di incontro sulla scia di quello romano ricordato in apertura. La convinzione è che il prossimo quinquennio di ricerche sarà determinante nella messa a fuoco di questa complessa realtà. L'augurio è che possano maturare autonome linee di indagine, con spazi più ampi rispetto a quelli che l'archeologia "tradizionale" ci ha finora concesso. FRANCESCO A. CUTERI
Un grazie sentito va alla dott.ssa Elena Lattanzi, Soprintendente Archeologico della Calabria, che ha voluto affidarmi il compito di rappresentare la Calabria in questo convegno ed al dott. Roberto Spadea, direttore del Museo Archeologico Statale di Crotone, per avermi permesso la consultazione e lo studio della numerosa documentazione inedita ed avermi sempre incoraggiato nella ricerca. Un ringraziamento infine ad Alfredo Ruga, con il quale, dividendo da tempo la ricerca sul campo, ho lungamente discusso sui temi dell'archeologia calabrese. 1 BERTAUX 1904, p. 69. 2 FRESHFIELDS 1913, pp. 77. L'ultima tappa di questa articolata ed incostante sequenza è rappresentata dalla Tavola Rotonda organizzata dall'Ecole Francaise, svoltasi a Roma nel dicembre del 1989 (cfr. Ca/abre 1991). Si rimanda agli atti di tale importante incontro per i necessari approfondimenti delle diverse problematiche che saranno qui affrontare solo per cenni, e per un esaustivo quadro bibliografico. 3 Proc., De b. G., ItI, 28; NOYÈ 1992, P. 283. 4 Mentre è stato riconosciuto l'impianto poligonale di età bassomedievale, caratterizzato dalla presenza di cinque torri circolari (scavi ancora in corso, diretti da R. Spadea e condotti da chi scrive). 5 ARILLOTTA 1985. La torre, ie cui mura erano spesse due metri, misurava m. 8.40X8,27. 6 A tal proposito vorrei ricordare come nel 536, al momento del passaggio di Bellisario, la città non sembra essere cinta di mura, mentre ne risulterebbe munita quasi un quindicennio più tardi, durante l'assedio portato da Totila (Proc. De /j. G., III, 39). 7 Archivio di Stato di Napoli, serie "Torri e Castelli" (voll. 35, 47) e "Dipendenze della Sommaria" (fascc. 1&7, 196-199). 8 Sull'ubicazione della strUttura portuale crotonese si veda NOYÈ 1988, P. 189, e n. 258 con relativa bibliografia. 9 COSCARELLA 1990, pp. 128, 129 e n. 27. 10 Cfr. SOGLIANI 1990, dove si affronta la problematica di Vibo nell'altomedioevo attraverso una integrazione fra dati di differente natura. 11 L'unica eccezione per la Calabria mi sembra sia rappresentata dalla presenza nel Museo Provinciale di Catanzaro, di 9 esemplari di monete di attribuzione gota (tra cui due esemplari in argento di Atalarico coniati a nome di Giustiniano D, di incerta provenienza, ma presumibilmente regionale; cfr. ARSLAN 1978, pp. 46-51 e COSCARELLA 1990, pp. 130-131. 12 CAPPELLI 1960. 13 Si veda la distribuzione dei toponimi in Coscarella 1990, p. 139. Nomi tipicamente longobardi compaiono anche nella documentazione scritta (VON FALKENHAUSEN 1982). 14 ORSI 1921. Le monete, comprese tra Teodosio 11 (408-450) e Giuseiniano I (527-566) furono ritenute dall'Orsi uno smarrimento casuale da mettere in relazione o con la pressione attuata da Totila nel 548 o con il saccheggio effettuato nel 596 dai Longobardi. Nella stessa località è stato individuato, sUI fondale marino il relitto di una nave (m.39xS) adibita al trasporto di blocchi marmorei provenienti dall'Asia Minore, per un peso di oltre trecento tonnellate, il cui affondamento, anche sulla base del materiale ceramico rinvenuto in associazione, è stato collocato tra il IV ed il V sec. d.C. (LATTANZI 1984, p. 127). 15 Materiale in deposito presso il MuscoArcheologico di Crotone. Si ringrazia il Sig. Gino Cantafora, per aver messo a disposizione la ricca documentazione fotografica, prodotta in anni di ricerca nei fondali della costa erotonese. Preziose indicazioni anche in Crotore (OZ). Ricerche sabacque, 1991, a cura della coop. Aquarius - Milano (Ministero Beni Culturali e Ambientali - Soprintendenza archeologica della Calabria). Dattiloscritto. 16 Tale impressione si ricava, oltre che dalla documentazione archeologica, da quella scritta: quando nel 710 Papa Costantino dovette recarsi a Costantinopoli, muovendosi dalla Sicilia, seguìla rotta Reggio-Crotone-Gallipoli-Otranto (VON FALKENHAUSEN 1991, p.251). 17 RACHELI 1992, p. 526. 18 Le stratigrafie ed il materiale sono in corso di studio da parte di chi scrive. L'indagine archeologica, diretta da R. Spadea, è stata condotta, nel 1987 e nel 1988, dai dott. Domenico Marino ed Alfredo Ruga, con l'aiuto del personale dell'Uff~cio Scavi di Crotone. 19 PAROL] 1992; PATTERSON 1992. 20 CuTERI-RAcHELl 1992. Non si conoscono per il momento esemplari di tali ceramiche sulla costa tirrenica, ma non è escluso che se ne possano ad esempio rinvenire nell'area tropeano-vibonese, particolarmente inserita nelle rotte commerciali romane e campane. 21 Deve ancora trovare conferma l'ipotesi di una reale soppressione della rotta jonica sUll'itinerario Roma -Costantinopoli, a seguito della presa di Siracusa da parte degli Arabi (fine IX sec.), con una forzata interruzione ad Otranto. 22 Si tratta di scavi sostanzialmente ancora inediti, eseguiti da A. Ruga per conto del Sop. Arch. della Calabria, negli anni 1988-1989, in un lotto di terreno interessato dallo sviluppo urbanistico (cantiere Foti).
23 L'assenza di tracce di carbone all'interno delle buche può forse essere attribuita sia ad un fenomeno di cattiva conservazione, come alla consuetudine (che per l'Italia settentrionale trova riscontro nella documentazione scritta) di portare via, all'atto dello spostamento verso una nuova sede, I'orditura lignea dell'abitazione. 24 DONZELL. 1991, p. 496. ~V 25 RACHEL~ 1991. 26 I materiali, inediti, sono conservati presso il Musco Civico, e furono in parte recuperati dall'arch. T. Tedesco dell'Uff Beni Culturali del Comune di Crotone. La piccola ampolla che presentiamo era probabilmente destinata, cos] come le altre già note (Bobbio, Monza) a contenere l'olio attinto alle lampade che ardevano nei santuari della Palestina, o altre piccole relique. Un'analogo esemplare, questa volta in terracotta, proveniente dal santuario di San Menas presso Alessandria d'Egitto, è attestata ad Aquileia (GUARDUCC. 1974-75). Sebbene non manchino confronti anche con la Siria (HAYES 1976), si dovrà comunque attendere la pulitura dell'oggetto per poter fornire più precise indicazioni sulla datazione (VI sec.?) e sulla provenienza. 27 SPADEA 1991a; si tratta di contesti tombali ubicati prevalentemente a nord di Crotone nel territorio di Cirò. È doveroso ringraziare, per il recupero di molti oggetti e di informazioni topografiche gli amici Ernesto Palopoli ed Elio Malena. 28 Per la Calabria, nonostante siano stati effettuati negli ultimi anni numerosi recuperi di materiali ceramici in contesti differenziati, mancano ancora dei tentativi di sintesi che aggiornino le indicazioni fornite oltre un decennio fa da Arthur-Whitehouse e Salvatore. Importantissime rimangono comunque le sempre più frequenti pubblicazioni dei singoli contesti investigati, che stanno permetterdo una discreta definizione dei quadri micro-territoriali con riferimenti sempre più specif~ci agli assetti produttivi, di consumo e circolazione dei manufatti. Per una base bibliografica sul tema si veda ARTHUR-WH TEHOUSE l 982; SALVATORE 1982 e La Calabre. 29 Il materiale di Crichi (CZ), ove tra l'altro si segnala la presenza di un insolito sperone in bronzo del tipo a stella, è conservato presso il Musco Provinciale di Catanzaro. Per Scolacium cfr. VON HESSEN 1978; per Botricello ARSLAN 1974-75. 30 VON FALKENHAUSEN 1991, p. 253. 31 Cfr. LATTANZI 1984 e CROGIEZ 1991, p.872. Sempre per rimanere in tema di contadini, rimane da chiedersi se non si possono collegare a quelle figure di agricoltori soldati, di coloni (agroikoi), tenuti a prestare il servizio militare per Bisanzio, quelle sepolture con individui che, e questo non solo in Calabria ma in tutto il meridione bizantino, presentino tra gli oggetti di corredo armi e coltelli (con l'ovvia esclusione degli individui di sesso femminile che presentano utensili legati alle attività domestiche o tessili). 32 Per tali esemplari esistono confronti anche in area albanese (SPADEA 1991a, pp. 569571). Per gli oggetti crotonesi rimane aperto il problema della datazione, poiché nonostante il contesto di rinvenimento li collochi intorno al VI-VII secolo, stilisticamente sembrerebbero essere di poco posteriori. 33 Nonostante rimanga tutto da dimostrare, in questa direzione ci potrebbe condurre il perdurare di tali tecniche orafe fino a tempi recenti. Agli inizi di questo secolo, il Lenormant (pp.312-313) recandosi nella città di Catanzaro ebbe modo di annotare: “mi soffermai davanti alla bottega di un oref~ce, per osservare i suoi lavori; il processo che egli impiegava, non usato nei nostri paesi è quello che si chiama qui lavoro a foglia e mi interessa vivamente come una tradizione dell'antichità: questo genere di lavoro serve a produrre quei gioielli leggeri e poco costosi, composti di sottili foglie d'oro stampate, di cui si adornano le contadine”. 34 si tratta come è ben noto di crocette pettorali al cui interno erano contenuti dei "ricordi", attestate anche in Basilicata, Puglia, Campania Lazio e Veneto, giunte sul suolo italico al seguito di pellegrini e di profughi provenienti daila Terrasanta, o anche dall'Egitto. Per una generale trattazione degl i oggetti calabresi e lucani si veda ROTILI 1980, pp. l 85 e sgg. 35 CROGIEZ 1991, pp. 871-872 e fig. 4. Che tale rete viaria fosse ancora attiva in periodo altomedievale lo testimoniano le fonti documentarie che ci ricordano lo spostamento delle truppe gote sulla via "a Regioad~ap~zam" o ancoracome nel 6631'imperatore Costante II, partito da Roma alla volta di Siracusa, giunto a Napoli, proseguì lungo la via di terra (VON FALKENHAUSEN 36 Per la necropoli di Celimarro si veda D'ANGELA 1980, mentre importanti dati sul popolamento in età romana del territorio di Castrovillari sono sintetizzati in SMURRA 1989, pp. 134-147 e fig. 1. Ulteriori indicazioni sul sistema viario si trovano in NOYÈ 1992, pp. 286-287. fig. 1. Il materiale di Girifalco, ancora inedito, è stato presentato da chi scrive con una relazione dal titolo Ricognizzioriattorno a Girifalco nell'ambito del III Seminario di Ricerche di Storia Medievale dedicato alle Ricerche attorno a Catanzaro, tenutosi a Roma il 27 gennaio 1992 a cura dell'Ecole Francaise de Rome. 37 Per una disamina del problema "risorse ~ ed in particolare sull'allevamento del pesce cfr. ~OYE 1991, pp. so9 e sgg. 38 LEBOLE. DI GANGI 1991, p. s76; CROGIEZ1991, p 870. 39 SPADEA 1991b, p. 692; il complesso risulta articolato in diversi ambienti destinati con ogni probabilità a differenti fasi della lavorazione del pesce, con la presenza sempre di vasche e strutture di canalizzazione. Un impianto per la lavorazione del pesce, probabilmente di età pienamente medievale e comunque posteriore al Ill sec. d.C., è stato individuato a Crotone nel cantiere Banca Popolare. 40 Tale ricerca, condotta da chi scrive, si riferisce ad un'arco cronologico che va dall'età dei metalli fmo alla metà di questo secolo: i giacimenti minerari della Calabria, notevolmente diffusi e di estensione variabile, sono stati da sempre
oggetto di sfruttamento. E attualmente in corso un censimento dei dati disponibili, con ricognizioni in aree definite per l'individuazione delle zone estrattive e la raccolta degli scarti delle operazioni metallurgiche. 41 Su tale sito è stata condotta una campagna di scavo nel 1992, dalla Sopr. Arch. della Calabria e dall'Ecole Francaise de Rome. Stupisce in ogni casi la presenza di impianti di lavorazione in una località così arroccata e priva di sorgenti' ma vi saranno forse state alla base di tale scelta esigenze di sicurezza o di controllo della produzione. Scorie di ferro sono altresì attestate nella struttura fortificata di S. Maria del Mare (NOYÈ 1991, p. 520). 42 CUNSOLO 1987, pp. 343 e sgg. Una testimonianza di attività metallurgiche in età tardobizantina è testimoniata per questa regione, nel Bre/~io~z del 1050 circa; nell'elenco cioè, peraltro incompleto, delle proprietà fondiarie dell'arcivescovado di Reggio Calabria (GUILLOU 1977, p. 41). È probabile dunque, che si sia con il tempo passati, per tali attività, da una gestione diretta dello stato, a quella, ancora da defmire, degli enti ecclesiastici. 43 LEBOLE DI GANGI 1991 p. 576, Ia struttura è stata interpretata come un probabile focolare ma non è da escludere la presenza nelle vicinanze di un punto di forgia più che di riduzione del metallo. 44 ARDOV[NO 1978. Di tale struttura fusoria si è conservata solo una parte con andamento curvilineo, concava in basso, appoggiata al muro trasversale. Tutt'intorno alla struttura si segnala la presenza di uno spesso strato di bruciato, ricco della presenza di scorie di bronzo. 45 Per tale struttura, conservata in elevato solo per metà e priva del fondo che risultava impostato sugli strati di bruciato della precedente attività, si possono forse cercare confronti con forma camino ampiamente diffusi nell'antichità ed anche con quelli del coevo distretto minerario di Zelecovice in Moravia e con altri in Lorenal Cfr. CIMA 1 99I). Si tratterà ovviamente di fare i dovuti approfondimenti. 46 Cass. Var., IX, 3; PIPINO 1983. 47 Dl GANGI-LEBOLE DI GANGI-SABBIONE 1991. Una delle grotte presenta al centro la base di un altare ed un piccolo sedile. 48 Oltre a quelle già menzionate di Di Gangi, Lebole Di Gangi nella Eocride, vorrei ricordare quelle recentemente condotte da Emilia Zinzi, che hanno portato all'individuazione nei loci cassiodorenses, di alcune unità abitative (celle) (per una storia delle ricerche ne}l'`area cff. ZINZ[ 1986), quelle di Domenico Minuto nel reggino del gruppo di Al:fondo Picone Chiodo nelta zona di Stilo, ed infine quelle condotte nella chora di Crotone con la collaborazione del locale Gruppo Archeologico diretto da Vincenzo Fabiani che voglio qui ringraziare per la cortese disponibilità. 49 Talvolta nelle immediate vicinanze è facile trovare materiali di età classica o di età moderna. 50 GUILLOU 1977, P 33 51 CAFFI 1929, P. 285. 52 ROMA 1989. 53 Un curioso episodio è narrato nella vita di San Fantino: il Santo, oramai in età avanzata vagava per gli aspri sentieri montani visitando un monastero dopo un altro ed in ogni luogo fmiva con il versare abbondanti lacrime, poiché grazie alla possibilità offertagli dall'Onnipotente di conoscere le cose future, vedeva questi centri di preghiera e di studio trasformati in stalle per asini e muli (Cfr. CAFFI 1929, P. 301). 54 Per I edificio extra-urbano di Vibo cfr. ARTHUR PEDUTO 1991; per S. AlOe SOGLIANI 1990, p. 476 e n. 66, per Curinga ARSLAN 1966; per la sinagoga di Bova COSTAMAGNA 1991; per S. Eantino COSTABILE 1976. Le indicazioni sulla chiesa di Santa Maria il cui scavo è ancora inedito, mi sono state gentilmente fornite da Alfredo Ruga. Delle prime annotazioni sono state da lui presentate con una relazione dal titolo La chiesa di Sarta Maria di Zarapotamo tra Vl e Xll secolo:primeirdagiristorico-archeologiche, letta nel corso del Seminario di Ricerca citato alla nota 36. 55 ARSLAN 1974-75.
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Il popolamento rurale in Sicilia tra V e XIII secolo: alcuni spunti di riflessione
In Sicilia non può dirsi pienamente sviluppata una vera e propria archeologia medievale, tuttavia l'affermarsi negli ultimi anni di tecniche di scavo più raffınate e di ricognizioni di superfıcie più o meno sistematiche ha permesso, a nostro avviso, di aumentare considerevolmente le conoscenze sul popolamento rurale siciliano tra il periodo tardoantico e medievale. Sebbene infatti tali ricerche siano, salvo alcune eccezioni, mirate alla conoscenza dei periodi precedenti a quello in esame, poiché rispettano la diacronia dei siti, ci offrono comunque indizi interessanti, spesso sottovalutati dalla ricerca storica. Senza dubbio, le fasi medievali sono generalmente pubblicate in maniera molto sintetica, ma anche da questo punto di vista si può notare una significativa inversione di tendenza. Alle pionieristiche indagini della Scuola Francese a Brucato e quindi a Calathamet:, e dell'Università di Zurigo a Monte Iato, si possono oggi aggiungere numerosi scavi sistematici S, nonché alcune ricognizioni topografıche. Queste indagini fornendoci anche, in alcuni casi, le dimensioni quantitative dei fenomeni permettono di proporre, anche se in via del tutto preliminare, nuovi modelli interpretativi, nei quali si possono integrare i dati di vecchi scavi e le segnalazioni occasionali. Con questa premessa non vorremmo sembrare troppo ottimisti sulle attuali conoscenze sull'alto-medioevo siciliano ed è bene precisare che a tutt'oggi non esiste alcun contesto scavato attribuibile con certezza al periodo compreso tra la seconda metà del IX e la prima metà del X secolo, così come è quasi totalmente sconosciuta la ceramica tra l'VIII e la prima metà X secolo. L'archeologia medievale è inoltre molto debole o del tutto inesistente soprattutto nei centri a continuità di vita: non possediamo quindi che pochissimi dati sulle città e su molti dei siti meglio documentati dalle fonti scritte. Infıne gli scavi recenti e sistematici (nonché sistematicamente pubblicati) si sono concentrati soprattutto sui siti di altura e nella Sicilia Occidentale. Vedremo comunque che al livello territoriale certe costanti associazioni di materiali possono essere estremamente significative ed indicare in quale direzione dovranno dirigersi le ricerche future 8. I. Le produzioni ceramiche alto-medievali siciliane: alcune ipotesi Questa sezione si propone di passare rapidamente in rassegna quanto è noto e quanto si può ragionevolmente congetturare sulla ceramica alto-medievale siciliana, al fine di mettere in evidenza gli eventuali rapporti tra la Sicilia ed altri paesi mediterranei, di valutare l'impatto della conquista araba sulle produzioni ceramiche e di meglio argomentare il quadro del popolamento rurale che ci sembra si possa proporre su base archeologica. Le sigillate africane databili al VI-VII si ritrovano numerose anche in siti rurali dell'interno dell'Isola 9 e sembrano dominare decisamente il mercato; si attribuiscono allo stesso periodo le lucerne di produzione siciliana con decorazione a "rosario" note ovunque nell'isola ed esportate in molte località del Mediterraneo. Altre produzioni locali di ceramica acroma (attribuibili al V-VI secolo) sono note sicuramente nel Siracusano, mentre una produzione variata dovevano avere le fornaci di Naxos, che fabbricavano anche alcune imitazioni delle sigillate africane (ad es. imitazioni della forma Hayes 104, delVI secolo) Le anfore tardoromane orientali e quelle africane raggiungevano certamente la Sicilia, come dimostrano i numerosi relitti attribuibili a quel periodo, rinvenuti lungo le coste; siamo tuttavia poco informati sulla diffusione sull'isola di tali contenitor. I dati noti ed editi relati all'VIII secolo sono davvero esigui. Diviene pertanto più diffıcile stabilire l'eventuale permanenza di qualche forma di scambio internazionale o interregionale di ceramiche in questo periodo, nonché le caratteristiche delle produzioni locali. Alcuni dati interessanti emergono tuttavia dai recenti studi sulle anfore di VIII secolo in particolare di Roma e Napoli, con stretti confronti con alcuni rinvenimenti di Cefalù e con produzioni orientali. In assenza di un numero adeguato di analisi degli impasti è attualmente difficile affermare se si tratti prevalentemente di produzioni locali con caratteristiche culturali comuni all'area bizantina, oppure di anfore con
un'ampia circolazione. Problemi analoghi si hanno nell'interpretazione delle lucerne del tipo cosiddetto a "ciabatta" rinvenute sempre a Roma, a Napoli e a Cefalù in contesti dell'VIII secolo e chiaramente derivate dai tipi siciliani di VII secolo. Considerate normalmente delle produzioni locali, le analisi petrografiche eseguite su esemplari romani dalla Crypta Balbi sembrano mostrare un quadro decisamente più complesso. Le uniche ceramiche locali note per il IX secolo (primo quarto) sono quelle del sepolcreto di Vittoria, abbandonato a quanto pare con l'arrivo degli arabi. Si tratta di produzioni ancora artigianali e con forme che sembrano riallacciarsi alla tradizione tardoantica: fiaschette apode a basso ventre e scodelloni. Il primo secololsecolo e mezzo della dominazione araba in Sicilia (IXprima metà Xsecolo) è, come abbiamo ricordato, totalmente sconosciuto e non solo per quanto riguarda i reperti fittili. Si possono tuttavia tentare di congetturare alcuni fıloni produttivi, alcuni probabili casi di continuità con il periodo precedente. È il caso, quasi certamente, delle pentole foggiate a mano, tra le quali il tipo più diffuso è dotato di anse ad "orecchie": note con certezza almeno dal I secolo d.C., si ritrovano ancora in epoca bizantina ed in alcuni contesti della seconda metà del X secolo. Ben attestate ancora nella prima metà del XIII secolo, sembrano scomparire definitivamente soltanto nella seconda metà di questo stesso secolo, dopo cioè i rivolgimenti dell'epoca sveva. Questo straordinario fenomeno di continuità, trova un parallelo perfetto con la Spagna sud-orientale, dove si può seguire con precisione l'evoluzione dalle pentole foggiate a mano dall'epoca tardoromana fino all'epoca califfale (X secolo). Le pentole spagnole hanno per altro una notevole somiglianza con quelle siciliane. Come ha acutamente sottolineato per la Spagna S. Gutierrez Lloret ( 1988, pp. 260-261), queste produzioni a mano possono divenire un prezioso fossile guida per l'individuazione delle popolazioni "autocrone" e per seguirne il processo di sopravvivenza ed "acculturazione" successivamente all'invasione islamica, in un'ampia zona che potrebbe includere la Sicilia, il Nord-Africa e la Spagna sud-orientale. Un altro problema su cui riflettere è, nei diversi periodi, la scala della produzione di queste pentole a mano, se cioè rimane, come sembra, nell'ambito della manifattura casalinga o se si possono invece individuare, come in epoca romana, alcuni centri specializzati di produzione. Molto più incerta rimane invece la persistenza tra il tardo periodo bizantino e quello islamico delle produzioni artigianali di acroma depurata, che tuttavia non si può escludere. Un caso di continuità, almeno delle funzioni, è senz'altro costituito dalle anfore siciliane dei secoli centrali del medioevo (secc. X-XIII): in alcune varianti formali servivano infatti per i trasporti a lungalmedia distanza come testimonierebbero i relitti di Marsala e di S. Vito lo Capo (databile tra l'XI ed il XII secolo) ed alcuni ritrovamenti di frammenti di anfora (simili a quelle del relitto), a Napoli ed altre località della Campania. Le caratteristiche formali delle anfore medievali siciliane non sono ancora state compiutamente indagate, è tuttavia abbastanza evidente che esse si riallacciano a modelli tardountichi. Nella penuria generale di dati sui primi secoli dell'altomedioevo, la presenza di ceramica dipinta a bande rosse o brune in alcuni contesti della seconda metà del XlXI secolo potrebbe essere sia il frutto di una reintroduzione della tecnica dal mondo islamico, sia un altro caso di continuità. I n sintesi, come anche testimoniato per la Spagna e per 1'Egitto, 1'arrivo degli arabi potrebbe anche in Sicilia non essere stato traumatico rispetto alle produzioni delle officine locali e adeguamento a nuovi usi di stoviglie essere stato graduale, come graduale fu senz'altro "l'acculturazione" delle popolazioni isolane. Di estremo interesse è la presenza in Sicilia di ceramica con rivestimento a vetrina pesante, recentemente censita per questa regione da L. Paroli e C. Guastella. Senza entrare nel merito dei singoli ritrovamenti mi sembra interessante notare come essi coprano un ampio arco cronologico che va da ca. I'VIII IX fino al XI XI secolo e come si possano ipoteticamente attribuire all'area romana (uno degli esemplari più antichi da Siracusa) o a quella salernitana (soprattutto gli esemplari del X-XI secolo). La relativa scarsità dei ritrovamenti, ma soprattutto la loro interna eterogeneità sia morfologica sia mineralogica, sembrano a mio parere fare escludere una produzione locale diffusa e prolungata di questa classe ceramica 34, anzi questa si può senz'altro escludere nel caso dei
frammenti di X-XI secolo. Di rilievo è inoltre il fatto che frammenti di ceramica a vetrina pesante, verosimilmente quindi importata, si ritrovino sia in ambito urbano (a Siracusa e a Palermo), sia in ambito rurale (Brucato zona bassa, villaggio altomedievale sorto sulla villa di Patti, contrada S. Agata presso Palermo, Muculufa nell'Agrigentino). Le potenzialità informative della vetrina pesante rinvenuta in Sicilia sono pertanto di estrema importanza in quanto potrebbero documentare rapporti di scambio con l'area romana ancora tra VIII e IX secolo e con l'area campana tra X-XI secolo (cui non sarebbero certamente estranei i mercanti amalfitani). Le nostre conoscenze sulla ceramica siciliana migliorano notevolmente a partire dalla seconda metà del X secolo, quando le ceramiche da mensa ci appaiono affini a quelle tunisine, purtroppo mal conosciute 35. Compaiono in questo periodo le ceramiche a tutti note grazie anche ad alcuni dei bacini delle chiese di Pisa 36. La forma più tipica è rappresentata dai catini carenati con orlo bifıdo e piede ad anello, decorati sotto vetrina, la cui produzione anche siciliana è defınitivamente dimostrata sia dalle analisi mineralogiche, sia dal recente rinvenimento di una fornace con questo tipo di catini a Mazara del Vallo . Non abbiamo purtroppo elementi per valutare i cambiamenti del X secolo, ossia se essi siano stati graduali o piuttosto repentini. Sembra comunque, come abbiamo visto, che le più grosse novità siano specialmente nel campo delle ceramiche fini da mensa piuttosto che in quelle utilitarie, con l'introduzione di tecniche e forme nuove, sotto gli influssi con ogni probabilità del Nord-Africa fatimida. E un periodo di grandi cambiamenti in tutte le produzioni ceramiche del mondo islamico occidentale: le novità siciliane si inserirebbero quindi in questa ondata e non è quindi certo che vadano considerate il segnale dell'avvenuta islamizzazione di una zona periferica. Relativamente alla diffusione delle ceramiche siciliane di X-XI secolo al di fuori dell'Isola sono di estremo interesse i rinvenimenti dei recentissimi scavi urbani nel centro di Pisa, a Piazza Dante, che testimoniano come l'importazione di ceramiche del X-XI secolo dall'area islamica (in particolare dalla Sicilia, dalla Tunisia e dalla Spagna) non sia un fatto soltanto episodico e limitato ai bacini delle chiese, ma piuttosto un indizio di precoci relazioni commerciali e di uso quotidiano di stoviglie esotiche3s. In Africa un grande mercato per le stoviglie siciliane dell'XI secolo era la zona della Cirenaica30. Per quanto riguarda infine l'evolversi delle produzioni locali nel periodo tra il X ed il XIII secolo rimandiamo a quanto proposto in altre sedi, vorremmo tuttavia sottolineare, ai fıni anche del discorso che ci sembra di poter proporre sugli insediamenti rurali, che seppure esiste una indubbia continuità tecnica e culturale tra le ceramiche del periodo arabo e quelle del primo periodo normanno, esiste anche una nettissima evoluzione del repertorio morfologico e decorativo, tale che la ceramica di questo periodo può essere considerata uno strumento affıdabilissimo di datazione. In estrema sintesi: si passa dagli esemplari riccamente decorati e policromi del X-XI secolo al prevalere progressivo delle invetriate verdi (talvolta con decorazione solcata) o giallo-verdi nella metà del XII prima metà del XIII secolo. Tra la fıne del XII e la prima metà del XIII secolo possono inoltre essere considerate dei "fossili guida" la ceramica decorata a cobalto e manganese di produzione tunisina e la spirale campana, che si ritrovano sia in ambito urbano, sia rurale. II. Le dinamiche del popolamento rurale tra V e XIII secolo (dai vandali agli svevi) Prima di proporre la sintesi dei dati archeologici, vorremmo molto brevemente riassumere i modelli del popolamento fın qui proposti soprattutto dagli storici, che per i secoli fıno al VII d.C. si sono potuti anche avvalere di una documentazione archeologica decisamente più abbondante di quella relativa ai secoli successivi. L'insediamento sparso caratteristico del periodo tardoantico e basato sull'esistenza delle grandi e meno grandi ville e dei vici (agglomerati rustici), sarebbe resistito (tuttavia con la trasformazione progressiva delle ville) sostanzialmente fıno al VII secolo, sopravvivendo quindi alle incursioni vandale del V secolo. Dalla fıne del VII secolo l'istituzione del tema siciliano, con la conseguente ruralizzazione dell'esercito, avrebbe contribuito alla progressiva erosione del latifondo, per lo meno di quello
imperiale. Effetto analogo dovrebbe avere avuto anche la perdita da parte della Chiesa dei suoi sterminati possessi siciliani nella prima metà dell'VIII secolo. La minaccia e quindi la conquista saracena (con le incursioni iniziate a partire dalla metà circa del VI I secolo) sarebbero state alla base di una "risalita" più o meno generalizzata delle sommità. Varie le opinioni sulla natura e le dimensioni di questo movimento: spontaneo e a partire dal VII secolo secondo alcuni; diretto e voluto dallo stato bizantino nell'VIII secolo secondo altri; c'è infine chi ritiene che l'incastellamento si sia intensifıcato nel IX secolo (durante la conquista araba) e comunque non sia stato assolutamente generalizzato (provocando cioè la scomparsa dei siti aperti). Nel periodo arabo sarebbero stati contemporaneamente presenti due tipi di insediamento: i siti forti di altura e quelli aperti di collina pianura, probabilmente in rapporto gerarchico. Il rescritto del califfo fatimida al Muizz datato al 967 è normalmente considerato un tentativo di porre fine all'insediamento sparso e di organizzare la popolazione nei siti di altura accentrati, accelerando contestualmente anche la conversione all'Islam, probabilmente incompleta ancora nel X secolo. Difficile la valutazione sulla reale attuazione ed effıcacia del rescritto, tuttavia si ritiene normalmente che la conquista normanna nella seconda metà dell'XI secolo non abbia influito sul quadro generale del popolamento: con i Normanni il territorio sarebbe stato organizzato secondo il sistema della "terra" (coincidente con un grande villaggio, fortificato), dominante su di un distretto popolato di casali. I conquistatori Normanni avrebbero sovrapposto il sistema feudale sull'organizzazione territoriale araba, confınando la popolazione vinta (araba e greca) nei casali di pianura collina e destinando le "terre" alla popolazione latina (della quale si sarebbe favorita l'immigrazione in massa dall'Italia peninsulare), nonché alle gerarchie feudali. La fine del sistema misto terre casali coinciderebbe invece con la tarda epoca normanna e soprattutto con quella sveva, periodo nel quale si collocherebbero le rivolte dei contadini saraceni, fıeramente represse da Federico II. L'esito finale di queste lotte sarebbe stato il trionfo di pochi grandi borghi accentrati ed il defınitivo spopolamento delle campagne. Come abbiamo già accennato, i dati archeologici raccolti negli ultimi dieci anni permettono di formulare ipotesi in parte nuove sulle dinamiche dell'insediamento tra il periodo tardo-antico ed il medioevo. Sorvoliamo sull'impatto delle incursioni vandale del V secolo, per il quale rimandiamo al quadro proposto in più sedi da R.J.A. Wilsons. Vorremmo solo ricordare che esisterebbero, secondo questo autore, indizi contrastanti: solo alcune città recherebbero consistenti segni di distruzione (ad es. Marsala e Agrigento - quest'ultima già in declino); si noterebbe inoltre un po' ovunque una riduzione degli abitati rurali, tuttavia molti centri sopravviverebbero ed in alcuni casi si ingrandirebbero. Di incerta interpretazione sarebbero anche alcUne rioccupazioni di siti di città di altura abbandonati da secoli (ad es. Morgantina, Camarina, Selinunte). Si tratterebbe in generale di nuclei molto ridotti e la cui rioccupazione sembrerebbe diffıcilmente da porsi in relazione alle incursioni vandale (come ad es. nel caso di Selinunte, che è molto esposta). In alcuni casi inoltre la rioccupazione non sembrerebbe avere avuto fortuna ed essere limitata al V secolo (come di nuovo nel caso di Selinunte)ss. Il dato che sembra invece emergere con forza dalla documentazione archeologica è la sostanziale continuità di occupazione dal periodo tardo antico bizantino ad almeno tutto il periodo arabo di un gran numero di siti rurali aperti di collina e di pianura, molti dei quali situati lungo i fıumi o lungo le principali vie di comunicazione. Non sembra invece affatto un fenomeno consistente la conquista delle sommità a partire dal VII secolo. Tale fenomeno comincia invece ad essere apprezzabile soltanto verso la seconda metà del X secolo e diviene quasi generale dopo la conquista normanna. Quest'ultima sembra comportare l'incastellamento in senso stretto: accentramento della popolazione rurale in grossi borghi di altura, fortifıcati o naturalmente forti e dominati da un fortilizio dimora signorile. Parallelamente sembrerebbe attuarsi il progressivo abbandono dell'insediamento sparso. I dati archeologici coincidono invece con quelli storici nell'indicare che lo sforzo accentratore della corona ed il conflitto con la popolazione mussulmana hanno un esito definitivo in epoca sveva, quando si possono contare decine e decine di abbandoni non solo dei siti rurali aperti, ma anche di moltissimi siti d'altura. Il risultato: campagne deserte e pochi grandi borghi accentrati popolati da
"burgisi" e braccianti. Passiamo ora ad argomentare le affermazioni fın qui fatte. Continuità dal V- VI all'XI secolo di numerosi siti rurali aperti. Le ricognizioni di superfıcie sistematiche o mirate, condotte in località anche molto diverse tra di loro: nel territorio di Himera, in quello pertinente alla chiesa di Moureale, nella pianura costiera tra Marsala e Mazara del Vallo, nel territorio di Entella nel Belice, nel territorio di Eraclea Minoa nell'Agrigentinos, hanno rivelato, in alcuni casi, la tendenza alla diminuzione quantitativa degli insediamenti rurali per tutto il periodo romano imperiale, a favore di grandi ville (con o senza elementi di lusso) o agglomerati rustici. In generale si verifica comunque un'accentuazione degli abbandoni intorno al V secolo. Tuttavia gli insediamenti maggiori hanno spesso sigillate africane databili fıno al VI-VII secolo. In questi ultimi siti si trovano in un numero molto consistente di casi anche le ceramiche invetriate policrome di X-XI secolo o, invertendo l'ottica, si può dire che gli insediamenti di pianuracollina con ceramica invetriata di X-XI secolo sono nella maggior parte delle volte su siti con sigillate databili almeno al V-VI secolo. Tutti questi mi sembrano elementi a favore della continuità di insediamento anche durante l'alto-medioevo, piuttosto che indizi di rioccupazioni successive dovute alla buona posizione geografica di queste località, come ha recentemente suggerito J.Johnso. Gli scavi più o meno sistematici condotti in siti del tipo in esame sembrano infatti confermare la prima ipotesi, sebbene le fasi di IX secolo difficilmente siano evidenti: basti qui ricordare la villa scavata in Contrada Saraceno nell'Agrigentino, Casale Nuovo presso Mazara del Vallo e la villa di Patti nella Sicilia settentrionale. Più problematico è il caso della villa di Piazza Armerina, tuttavia vi è certamente continuità di occupazione senza periodi di abbandono a Sofiana, che ne costituiva il connesso vicus, e che è situata a pochi chilometri da essa.Senza entrare nel dettaglio dei singoli casi, tuttavia vorrei rieordare la tendenza all'accentuazione progressiva del carattere rustico di tali insediamenti, nonché all'impoverimento delle strutture. In molti siti trasformazioni radicali avvengono già nel V-VI secolo (ad es. Piazza Armerina, Patti, Contrada Saraceno). Nel sito di Contrada Saraceno è attestata anche una distruzione nel IX secolo. L'esito finale nel X-XI secolo sembra normalmente essere un agglomerato di case contadine senza più alcuna relazione strutturale con gli edifıci tardo-antichi, ville o vici che fossero. Ma quali erano le caratteristiche economiche di questi siti nell'altomedioevo e chi li abitava? Abbiamo per questi interrogativi pochissimi dati, anche perché in questo caso pesa molto la mancanza di pubblicazioni esaurienti. Si è già accennato al fatto che gli agglomerati rustici alto-medievali sono situati in molti casi lungo le vie di comunicazione (corsi d'acqua o strade) e questo farebbe già pensare ad un'economia di scambio. In questo stesso senso andrebbe anche l'evidenza dei frammenti di ceramica a vetrina pesante, molto probabilmente d'importazione, rinvenuti nei siti rurali. A Casale Nuovo (Mazara) nella prima metà dell'XI secolo le importazioni di ceramiche fıni dal Nord-Africa rappresentano ca. il 43% del totale delle classi rivestite. Nello stesso sito è stato rinvenuto, purtroppo fuori contesto, un semissis d'oro della zecca di Siracusa, databile all'867 (quando cioè la città era assediata dagli arabi). Il nucleo di ceramiche islamiche orientali associate a gettoni di vetro fatimidi (X-XI secolo), segnalato da Orsi nei pressi di Donnafugata, proviene con ogni probabilità da un sito del tipo del casale. Di estremo interesse è anche la presenza nei "casali" di impianti produttivi, come nel caso di Sofiana, dove sono attestate: negli strati tardo-antichi una fornace da vetro, in quelli altomedioevali due fornaci (pUrtroppo inedite) da ceramica. Nella seconda metà del Xlprima metà dell'XI secolo sono anche presenti fornaci da ceramica nell'area della Villa di Piazza Armerina e forse fornaci da vetro nel Casale di Curbici nel Belice. I casali arabi potrebbero in sostanza avere ancora quel carattere "semiurbano", che la Cracco Ruggini attribuisce ai vici tardo-romani. Venendo poi alla composizione sociale ed etnica dei casali non abbiamo attualmente informazioni archeologiche che ci permettano di pensare ad eventuali stratificazioni sociali all'interno di essi (stratificazioni che sembrano invece trasparire in alcuni documenti di epoca normanna). Sono invece interessanti alcuni dati sugli edifıci di culto, come ad esempio ancora a Sofıana, dove sembrerebbe attestata una continuità di uso della basilica paleocristiana (apparentemente senza modifıche cultuali)
fıno ad almeno il XIII secolo76. Ma siamo qui nella Sicilia orientale dove, come è noto, più forte fu la resistenza della fede cristiana, anche dopo la conquista araba. Di grande interesse potrà essere in futuro l'analisi antropologica dei resti scheletrici rinvenuti in necropoli connesse ad insediamenti rurali aperti, attualmente tuttavia non si dispone di dati quantitativi suffıcienti ad esempio a stabilire le caratteristiche della popolazione siciliana precedentemente all'arrivo degli arabi. È con estrema cautela quindi che bisogna prendere i dati emersi dall'analisi del cimitero di rito islamico (con gli inumati con il volto verso La Mecca), connesso con il casale di Calliata nel Belice, che avrebbe rivelato la presenza di una popolazione di tipo mediterraneo (forse autoctoni?), commista ad elementi berberoidi. Sappiamo che i Berberi avrebbero fatto parte degli eserciti invasori, dovettero costituire una componente essenziale della popolazione immigrata dal Maghreb ed essere specialmente presenti nella zona compresa tra Mazara e Licata. B. Conquista delle sommità a partire dalla seconda metà delXsecolo ed accertazione del fenomeno nell'epoca normanna (firedell'XI-XII). A questo proposito disponiamo prevalentemente di dati da scavi (talvolta pluriennali), da segnalazioni occasionali e dalle ricognizioni in particolare nella Valle del Platani (condotte da una medievista). A Calathamet non vi è traccia di occupazione medievale precedente al X secolo; a Monte Iato sembra esserci una interruzione rarefazione dell'insediamento tra il VI secolo e la prima metà del X secolo; a Segesta uno iato tra la seconda metà del VI e addirittura il XII secolo7s. Ad Entella tutto sembra tacere tra il I d.C. e l'XI secolo, mentre le ricognizioni intorno alla città hanno rivelato la presenza di numerosi siti collocabili in questo arco di tempo, anzi è stato ipotizzato un abbandono dei siti aperti a favore del sito d'altura successivamente all'editto di al Muizz del 967. Le ricognizioni nella zona compresa tra Agrigento ed il Platani sembrano confermare in maniera lampante questa tendenza: gli otto siti di pianura individuati sono caratterizzati da una netta prevalenza di ceramica policroma di X-XI secolo (associata con le sigillate tarde); dei quattro siti di altura individuati nessuno ha terra sigillata, solo uno ceramiche di XI secolo, tutti gli altri invetriate verdi o giallo verdi inquadrabili tra la seconda metà del XII secolo e la prima metà del XIII secolo. Quest'ultimo periodo sembra essere in generale quello di maggiore sviluppo dei villaggi incastellati. Una schedatura sistematica dei siti di altura con ceramiche medievali sembra rivelare generalmente rioccupazioni di siti in crisi già dal periodo romano e talvolta con sporadiche rioccupazioni nel V-VI secolo. Molto significativi sembrano inoltre essere i casi accertati di "risalita delle sommità" di alcuni villaggi aperti situati in pianura collina, tra il XII ed il XIII secolo: è ad esempio il caso di Brucato, dove il quadrato H17, situato nella zona di pendio, è abbandonato dopo l'XI secolo a differenza della zona di sommità con tracce più evidenti di frequentazione a partire dal XIII secolo. Le dimore feudali di Calathamet e di Segesta, cui sono annesse altrettante chiese, risalgono entrambe al XII secolo. Di grande rilievo mi sembrano anche le informazioni che ci vengono dalle necropoli connesse con i villaggi di altura, che in alcuni casi confuterebbero la teoria secondo la quale le "terre" sarebbero state destinate dai Normanni alla popolazione latino cristiana, mentre nei casali sarebbero stati confinati i musulmani. Se il cimitero del XII-XIII secolo di Segesta è effettivamente secondo il rito cristiano ed è associato ad una chiesag4; a Monte Iato (ancora nel XIII secolo) è attestato sia il rito cristiano sia quello musulmano; ad Entella (datazione C 14 all'XI-XIII secolo) soltanto quello musulmano e lo stesso dicasi del cimitero di Monte Maranfusa (datazione C14 al XII-XIV secolo). C. Diser~iore degli insediamenti rurali aperti tra l’Xl secolo e la prima metà del XIII secolo ed ahl~ardoHo arche di numerosi castelli intorno alla prima metà del XIII. Il fenomeno degli abbandoni dei casali sembra essere piuttosto consistente già a partire dalla f ne dell'XI secolo (periodo coincidente con l'arrivo dei Normanni), ma anche i casali che sopravvivono fino alla prima metà del XIII secolo sembrano recare segni evidenti di crisi già a partire dagli inizi del XII secolo. Tutto questo è in generale rilevabile dalle percentuali relative di ceramica policroma rispetto a quelle tipiche del XIII secolo. Una tendenza in parte differente rivelerebbe la Monreale Survey, che vedrebbe invece l'accrescersi del numero dei casali nel XII secolo. Un andamento probabilmente differente degli
abbandoni dei casali si dovette verificare anche nella Sicilia orientale, dove si trova uno dei pochi casi a me noti con ceramica e monete di XIV-XV secolos. Ugualmente impressionante è, sempre nella Sicilia occidentale, il numero di abbandoni di siti incastellati verso la fíne dell'epoca sveva (intorno alla metà del XIII secolo): rimanendo ai casi più volte citati scompaiono definitivamente per non essere più occupate: Segesta, Entella e Monte Iato. Conclusioni Molti interrogativi rimangono aperti relativamente all'altomedioevo siciliano, e su alcuni di essi bisogna anche riflettere in quale modo possano essere utilizzati i dati archeologici. È il caso ad esempio del problema di quale fosse nell'altomedioevo il regime di proprietà della terra in connessione con l'insediamento per casali, in altre parole le sorti del latifondo nel periodo tardobizantino ed arabo. Data la natura composita e complessa del latifondo siciliano quale risulta dalle fonti storiche, non sembra infatti un indizio suffíciente a postulare la frammentazione della proprietà la trasformazione di una villa in un agglomerato di case contadine. È il caso ad esempio della villa di Patti, di Piazza Armerina ed in parte di quella di Contrada Saraceno, dove queste trasformazioni avvengono comunque già nel V-VI secolo. Attualmente quello che mi è sembrato si possa dimostrare è che l'arrivo degli arabi non è traumatico rispetto alla dislocazione dell'insediamento rurale, non sappiamo tuttavia quanto lo sia stato rispetto alla proprietà della terra. Per quanto riguarda la conversione all'Islam e poi la conversione al cristianesimo abbiamo visto che stanno emergendo dati molto interessanti soprattutto dalle necropoli, vorrei tuttavia ricordare che a tutt'oggi le nostre conoscenze sogli edifíci di culto specialmente del periodo arabo sono pressoché nulle. Inoltre come è stato sottolineato per la Spagnasz il problema principale della acculturazione dopo la conquista araba (nella penisola Iberica), non è tanto religioso, quanto piuttosto legato al confronto tra una organizzazione sociale protofendale ed una fondamentalmente tribale. Nel caso della Sicilia sono molto interessanti i suggerimenti di V. D'Alessandro~~, che vedrebbe quasi una tendenza all'organizzazione "tribale" dei nuclei contadini siciliani già prima dell'arrivo dei musulmani. Un altro interrogativo fondamentale rimane quello della spontaneità o meno della conquista delle sommità tra la seconda metà delXe l'XI secolo, nel periodo cioè che vede sia l'apogeo sia la fine della dominazione araba. Si possono fare molte ipotesi, ma è possibile che ci sia una casistica complessa: reale effícacia del rescritto di al Muizz (967); frammentazione politica dell'XI secolo con un fenomeno simile a quello coevo dei regoli spagnoli; fuga di fronte agli invasori normanni ed, infine, espansione demografica con dissodamento di terre marginali. Rimane a mio parere tutta da dimostrare, sebbene non si possa escludere, l'esistenza in Sicilia nell'epoca araba dell'organizzazione del territorio secondo il modello dell'hisn, verificato per la Spagnas4. Tale modello prevede infatti un'organizzazione "microterritoriale" dei centri aperti (alq~erias) intorno al sito eminente, centro ideale del distretto, non necessariamente abitato. Inoltre secondo alcuni tale modello è frutto della organizzazione sociale segmentaria e tribale, secondo altri il fenomeno è legato alla organizzazione dello stato califfale spagnolo nel corso del X secolo. Nel caso della Sicilia pertanto non mi sembra dimostrata l'esistenza del modello, con la semplice constatazione che esistevano contemporaneamente centri aperti e siti forti. Mi sembra comunque che il fenomeno della conquista delle sommità sia particolarmente evidente, soprattutto nella Sicilia occidentale, a partire dai Normanni e quindi con gli Svevi. Anche in questo caso dovette tuttavia esistere una notevole complessità dei processi: da un lato un movimento spontaneo della popolazione contadina mussulmana in fuga dai siti aperti di pianura, dall'altro il tentativo da parte della corona e della feudalità normanne di controllare la popolazione soggetta, accentrandola nelle "terre", come dimostrerebbero i fortilizi feudali posti in cima ai villaggi e la costruzione delle chiese nel XII secolo. Infine il grande numero di casali abbandonati già nel corso
del XII secolo e per giunta nelle zone maggiormente islamizzate, invita a verificare se i casali nominati dalle fonti si debbano sempre considerare come villaggi abitati. Concludendo, vorrei soltanto dire come il quadro fin qui tracciato sulla base delle fonti archeologiche possa in alcuni casi essere considerato uno stimolo ad una nuova riflessione sulle fonti storiche. Vorrei qui citare soltanto a titolo di esempio il caso di un brano del geografo araboYaquts7, attivo tra il XII XIII secolo, ma che si basa per la Sicilia su fonti antecedenti alla conquista normanna. Tale brano menziona due diverse stime degli abitati in Sicilia: quella sempre citata, anche se ritenuta esagerata, dice esservi nell'Isola diciotto città e trecentoventi rocche. Poco prima si legge invece esservi secondo il filologo siciliano Ibn al Qatta (XI secolo), ventitrè città, tredici castelli e non si sa quante masserie villaggi. Mi sembra che il quadro fornito da al Qatta, mai citato, assomigli molto di più a quello che emerge dall'archeologia! ALESSANDRA MOLINARI
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La Sicile au haut moyen age. Fortificationes, corstructions, monuments
Je me limiterai à présenter, en contrepoint de l'exposé précédent, quelques observations qui, tant6t, le confirmeront, dans d'autres cas le nuanceront, mais toujours dans l'esprit d'une adhésion globale à ce qui vient d'etre dit. Ces observations porteront sur le caractère des données dont on dispose actuellement sur le haut Moyen-Age sicilien; ensuite elles concerneront 'incastellamento ou prétendu tel, des temps byzantin; enm je poserai, à mon tour, la question de la continuité ou non de l'Antiquité, en évoquant les villes et l'architecture. Je serai tout d'abord, un peu moins optimiste, un pu moins confiant en la solidité des données dont on dispose, surtout en ce qui concerne la période antérieure à la conquete arabe. Je ne pnis pas ne pas évoquer ce qui s'écrivait sur le site de "Mura Pregne", c'est-à-dire le site de Brucato, avant la recherche que j'y ai dirigée: des structures y étaient attribuces à l'antiquité qui se sont avérées médiévales 1. On y aurait trouvé des céramiques byzantines que ni les fouilles ni les prospections n'ont ensuite jamais rencontrées 2. Sans doute s'agissait-il de céramiques qu'on ne pouvait attribuer à l'antiquité et qui étaient sculement médiévales. Je crains que beancoop des observations anciennes ne soient pas plus fíables, que les habitats ouverts attribués à l'époque byzantine par Paolo Orsi ou par Pace ne soient tout simplement postérieurs à l'antiquité 3. Les "cases recrangulaires, construites à sec à l'aide de gros blocs" paraissent, à première vue, anhistoriques. La situation s'est - elle améliorée? Certes si la céramique byzantine reste fort mal connne, du moins les productions postérieures sont maintenant suff~samment identifíées pour qu'on n'attribue pas aux VIème, VIIème, VIIIème siècles des tessons arabes ou arabo-normands, encore que je ne sois pas sur qu'on puisse toujours distinguer entre les deux époques, encore que les céramiques communes, les amphores par exemple, puissent faire problème4. Mais il existe un autre risque: c'est celui que présente la notion meme de site. C'est une notion d'abord et essentiellement archéologique à partir de laquelle on passe trop rapidement peut-etre à l'idée d'établissement, d'habitat. Il s'agit le plus souvent d'un ramassage de tessons qui n'a pas fait nécessairement l'objet d'une étude quantitative un peu attentive. J'évoquerai la lecon que nous a apportoe le "site" de Gangi Vecchios. Un ramassage superf~ciel effectué par Geoges Vallet et moi-meme avait produit des tessons grecs et des tessons médiévaux. La prospection systématique qui a suivi a montré que la céramique était romaine à 90% et la fonille n'a rencontré que les vestiges d'un établissement antique du ler siècle AD avec loquel l'occupation médiévale, tardive et de nature monastique était sans rapport. L'incastellamento sicilien appelle aussi quelques observations. Je me demande tout d'abord si le terme est toujours pertinent: Les forteresses rurales, meme établies sur des hautours, ne correspondent pas nécessairement à un incastellamento, surtout si l'occupation permanente n'est pas attestoe et si l'on peut penser à des refuges. Et si l'on est pointillcux sur la définition du terme, on dira meme que le perchement des habitats ne saurait etre assimilé, sans plus, à l'incastellame, to, celui-ci impliquant outre le regroupoment des hommes, la reorgan~sat~on des terro~rs. A s'en tenir au simple perchement des habitats, on pourrait s'étonner de le voir, à suivre les autours, se réaliser à tant d'époques différentes en Sicile. Ferdinando Maurici et J. Johns voient dès le IXème siècle une réoccupatrion des acropoles et des refuges aux dépens des habitats onverts et des sites de plaine. Ensuite viendrait le regroupement autoritaire sur les sites de hHsa„ décidé au Xème siècle par le calife Al MuCizz Ibn al Hassan. Les guerres sarrasines du temps de Frédéric II provoqueraient, dans l'ouest de l'ile notamment, le repli sur les hautours, dans la première moitié du XIIIème siècle. Suivrait, à la fin du siècle ou au début du XIVème siècle, I'incastellame, to décidé par Frédéric III en réponse aux guerres angevines~. On s'étonne que des casali de plaine aient pu subsister jusqu'à cette date et que des sites perchés soient restés inoccupés. En somme, depois la fin de l'Antiquité, le perchement serait une constante, une tendance permanente de l'évolution des habitats. Mais il faut sans doute relativiser l'amplcur du monvement, lors de chacun de ces épisodes.
Je m'associe entièrement aux réserves que fait Alessandra Molinari concernant le prétendu incastellame, to des temps byzantins. Il est exact que sur les sites qui ont fait l'objet non d'une prospection mais d'une fonille, Segeste, Monte lato, Entella, Calathamet, I'occupation ne remonte pas plus haut que la conquete arabe. Peut-on meme parler de forteresses rurales, pour l'époque byzantine? Il en est probablement, mais comme en Gaule au haut Moyen-Age, les fortif cations urbaines sont plus évidentes, plus sures, mieux reconnnes que les fortifications ruraless: des éléments d'une muraille byzantine, avec une tour, ont été reconnus à Syracuse, des fragments d'un mur de défense ont été mis en évidence à Ragusa, et l'enccinte punique de Palerme qui avait défendu la ville contre Genseric puis Bélisaire, passe pour avoir été restaurée à l'époque byzantine~o. Surtout, on peut supposer qu'étaient fortif~és les sites qui, comme Taormina ou Rametta ont opposé une forte et longue résistance au conquérant arabe (la conquete ne fut pas si facile: les Musulmans out eu la Sicile à l'usure). Mais qu'en est-il des forteresses rurales? Et d'aillcurs comment les identifier, comment les dater? Par analogie avec les forteresses d'Afrique, on attribue à l'époque byzantine les constructions en grands blocs irreguliers et les murs renforcés de petites tours quadrangulaires Malgré tout, les fortif~cations byzantines ou tennes pour telles, sont rares: on cite Mineo, déjà signalé par P Orsi, 11, Selinunte où avec les matériaux antiques on aurait construt un bastion rectangulaire à deux petites tours d'angle, édifié sur les soubassements des temples A et B 12 . Plus impressionnant serait l'Alcazar de Castronovo, le Monte Cassar, éperon triangulaire barré par une longue muraille, épaisse de 3 m., rythmoe par une dizaine de tours pleines 13. L'enccinte de Castronovo avait été datoe de la période hellenique: la présence de tuilots à surface strice suggére à F. Maurici les Vème et VIème siècles de notre ère. Mais un sondage archéologique ne s'est pas encore révélé décisif. Ce sont également des tuilots striés qui ont conduit à dater de l'époque byzantine un site du meme type au Monte della Giudecca près de Cattolica Eraclea 14. Au total, il parait quand meme diffícile de parler comme le fait Maurici d'une “précoce révolution castrale„, sanf à détourner le sens des mots. Meme si on admet un monvement général de fortification et de perchement, qui reste, en lui-meme, difficile à démontrer pour l'époque byzantine, on ne voit pas de bonleversement socio-politique qui justifierait le terme de révolution. Au surplus la fortifícation n'est pas la chateau. En Sicile, avant l'époque normande, on ne voit pas clairement de prise de possession du ponvoir sur la terre et les hommes, par le détentour du chateau. Mais, il faut tenir compte d'un phénoméne, particulièrement développé en Sicile et qui n'est pas sans rapport avec l'habitat fortifié: c'est le troglodytismet 16. On a pu, sans doute, mettre en avant les commodités qu'offrait l'habitat rupestre surtout quand le Moyen Age bénéficiait des excavations réalisées au cours des temps préhistoriques ou dans l'antiquité: il n'est pas rare que des salles troglodytiques réoccupent des hypogées à vocation funéraire, ainsi à Barcellona Pozzo Gotto où ce sont tombes sicanes qui sont ainsi aménagées à l'époque byzantine 16, - également près de Caltabellota où la nécropole "Ncapu li rocchi" composée d'une cinquantaine de tombes a été rcutilisée comme habitat 17 - et, bien sur, à Pantalica où le site de la nécropole préhistorique est réoccupé dans la 2 ème moitié du VIIème siècle 18. Il est clair que le troglodytisme ne répond pas nécessairement à des préoccupations sécuritaires mais aussi à la recherche d'une économie de moyens. En France, les habitat crcusés dans les falaises calcaires des vallées de la Loire et de la Seine ne présentent ancun caractère défensif; ils sont d'aillcurs tardifs et ont été occupés jusqu'à nos jours, ce qui est parfois le cas, aussi, en Sicile. Malgré tout, la Sicile offre des sites dont l'organisation, la conception sont celles d'une forteresse 19. Les grands ensembles troglodytiques de la région d'Ibleo présentent ainsi des habitations crcusées haut sur la paroi d'une table calacaire, et que relie entre elles tout un système de chemins de circulation eux-memes crousés dans la roche' 20. A Sperlinga, à Ispica, les établissements sont très proches du chateau et de l'habitat fortif~é, par le caractère inaccessible des lieux; les habitats crensés dans le roc s'y superposent sur plusieurs niveaux 21. L'attribution de l'habitat troglodytique aux temps byzantins ou en tout cas auxsiècles quisuiventlafın de lapaxromara, ne faitproblème que si onveut réserver à cette époque ce type d'occupation. Il est à la
fois plus ancien, courant dès les temps hélléniques, et plus récent: les Arabes connaissaient bien ces habitats rupestres qu'ils appelaient "Ddieri". Johns voit meme dans le troglodytisme une forme de perchement, un aspect de l'ircastellamerto ordonné par Al Mucizz, provoqué par la conquete normande ou déclanché par les guerres sarrasines . Mais que ce type d'habitat ait été trés largement en usage dans la Sicile byzantine parait bien établi par la présence fréquente de chapelles ou de petites églises dont la datation n'est guère doutouse Ainsi à Pantalica, les trois groupes d'habitations crcusées au flanc de la colline, et qui constituent une vaste agglomération, ont chacun lcur chapelle et la réoccupation de ce site sicule date au plus tard du VIIème siècle. La continuité de l'antiquité jusqu'aux temps arabes me parait en Sicile un fait bien établi. Alessandra Molinari en apporte les prcuves concernant l'habitatrural. Celavaudraitsans doute pourd'autres aspects de lavie matérielle, socio-économique et culturelle: les historiens sont de plus en enclins à penser que l'antiquité en Occident ne s'achève vraiment que vers l'an mil. Mais la continuité globale n'exclut pas des modifícations, des évolutions parfois importantes. La plus marquce est sans doute la ruralisation de la société et de l'économie. Mais le phénomène est si général dans l'ancien empire d'Occident qu'on ne peut s'y attarder. Comme partout, la ville subsiste le plus souvent et reste longtemps le point d'appui de l'administration. Comme partout aussi, la ville du haut Moyen Age échappe à l'archéologue qui n'en connait, au mieux, que les murailles et qui constate la dégradation des monuments antiques pillés, comme à Catane l'amphithéatre, ou détournés de lcur fonction comme les temples de Syracuse ou celui d'Imera 23. Au haut Moyen Age, on peut dire que la ville elle-meme se ruralise quand elle ne disparait pas comme Gela: Agrigente n'est plus qu'un ensemble de villages 24. Pour le moins, la ville se rétracte, ainsi Syracuse qui se replie sur Ortygiezs. En réalité, ce qui fait la ville dès cette époque, ce qui compte, ce sont ses murailles: on peut le penser, I'attrait qu'exerce la ville est du meme ordre que celui des sites perchés. Il arrive que des cités grecques, abandonnées dans l'antiquité romaine, retrouvent vie au haut Moyen Age. Ce serait le cas de Noto et d'Akrai. D'autres, détruites et abondonnées au bas-Empire, font l'objet d'une réoccupation, mais plus tardive, à l'epoque arabe, comme lato 25. Dans les deux cas, ce qui est recherché, selon toute vraisemblance, c'est la sécurité qu' offre le site: on retrouve ainsi deux des phases du perchement des habitats, sans qu'on pnisse parler de vie citadine ou de re-urbanisation. Dans les campagnes meme, le haut Moyen Age correspond à un appauvrissement qu'a bien souligné Alessandra Molinari. Si l'archéologie a pu étudier tant de villas antiques, parfois vastes et somptuenses, c'est que ces belles demoures et ces grandes exploitations ont été abandonnèes au IVe ou au Ve siècle. Ou si lcur site a continné d'etre occupées, il l'a été par un habitat rustique fort modeste, comme à Patti, à Canicatti, Bagni, a Minco, au Casale de Piazza Armerina 27: la villa a fait place à un petit village et 1'etablissement a ainsiradicalement changé de nature. Aux villas anciennement reconnues par l'archéologie, d'autres sont vennes s'ajouter dans les dernières décennies. Devant l'importance du phénomène qu'il faudrait apprécier de facon quantitative (mais qui le fera? I'antiquisant ou le médiéviste?) on peut se demander comment les anciennes structures agraires pourraient s'etre maintenues. L'archéologie invite à se demander ce que devient le latift~7~zdo, et le destin des villas incite à ne pas voir dans le grand domaine médieval l'héritier d u far7das antique. Mais encore une fois, il s'agit là de faits dotés d'une certaine universalité. Plus spécifıque serait sans doute l'hellenisation de la Sicile. L'historien peut la voir dans l'usage du grec dans l'écrit, I'épigraphiste dans les inscriptions; on peut la chercher dans l'onomastique. L'archéologue lui, la verra dans la multiplication des laures et la cherchera dans l'évolution de l'architecture religieuse. Il semble qu'ici les vues n'aient guére changé - ou que le sujet n'ait plus retenu l'attention - depuis Pace ou Agnello. A l'époque byzantine, le plan basilical qui caractérise les églises syracusaines en particulier, reste prépondérant: avec ou sans transept, il traduirait l'heritage latin. Mais on a estimé que la greffe de la coupole sur le plan basilical était clairement byzantine 28. Le plan treflé assez rare, qui concerne des églises modestes comme la cappella Bonanito de Catane, la Cuba de Malvagna est tenu pour plut8t africain, meme s'il rappelle Saint Georges de Thessalonique 29. Pour certains autours scul le plan
centré à croix inscrite dans un carré serait franchement byzantin, mais il n'est guère représenté qu'à San Salvatore de Rametta 30. L'héllenisation reste donc sujetde controverse et d'incertitude concernant non sa réalité, mais son importance. Après l'hellenisation, la Sicile subit l'imprégnation africaine etmusulmane. Bien plus forte, en tout cas dans l'Ouest de l'ile, elle imprime sa marque aux yeux de l'archéologue dans la civilisation matérielle. La céramique, on l'a vu, est tout entière ou africaine ou d'inspiration africaine, à l'esception peut-etre des céramiques culinaires, et encore cela reste-t-il à démontrer. Les habitations elles-memes, dans lcur conception, lcur plan, lcur distribution obéissent à un modèle qui vient sans doute d'Afrique du Nord: en tout cas, les maisons de Calathamet et certaines habitations de Segeste montrent ou la distribution autour d'une cour, ou, au moins, un plan allongé avec des banquettes surélevées dans les angles ou le long des parois 31. ` En revanche pour apprécier l'influence du monde musulman sur l'architecture sicilienne, on ne dispose que de monUments postérieurs aux temps arabes, mais les églises et les palais construits au XIIème siècle, dans leur architectonique, comme dans lcur décor, appartiennent encore, largement, au monde culturel africain et oriental. Des temps arabes, en dehors d'édifıces mutilés intégrés dans des monuments postérieurs, comme à Saint-Jean des Ermites, déja cité, il n'existe qu'un témoin conservé: les bains de Cefala (Diana). Une inscription, aujourd'hui illisible, attribuait lcur construction à un émir Kalbite? Mais ils n'ont pu traverser les siècles sans subir des modifıcations. La dernière lcur a été infligée par une restauration plut6t brutale: une occasion semble avoir été récemment perdue d'en savoir plus sur ce monument exceptionnel. Pace a insisté sur le contraste qui, en matière d'architecture, oppose les temps arabes aux temps byzantins qui les ont précédés. Les monuments grandioses des premiers ont disparu alors que subsiste une part notable de l'héritage byzantin, constitué d'aillcurs d'édifıces plut8t modestes;. Les domaines que j'ai évoqués, les villes du haut Moyen Age, les sites défensifs, I'architecture, ne sont pas ccux qui ont mobilisé les médiévistes dans ces dernières décennies. L'archéologie de fonille, pratiquement une nouveauté quand il s'agit de sites médiévaux, a apporté des résultats depnis 20 ans, dans l'histoire du peuplement et la céramologie, les deux champs de recherche que l'exposé d'Alessandra Molinari a privilégiés avec raison. Et il faut reconna^ıtre le bond en avant qu'a opéré l'archéologie médiévale dans ces directions. Il suff~t pour s'en convaincre de fenilleter la toute récente publication du colloque de Montevago consacrée, en octobre 1990, à 1'archéologie islamique du val de Belice du Xème au XIIIème siècle 33. Peut-etre peut-on pour terminer sonligner deux lacunes de la recherche sur le haut Moyen Age. La ville, tout d'abord, où des strates du haut Moyen Age sont tojours exceptionnelles: dans les fouilles du Castello San Pietro, à Palerme, il n'y a guère qu'un cimetière musulman qu'on pnisse attribuer à la période considérée 34. Kaukana est sans doute la scule agglomération à caractère urbuin qui ait fait l'objet de fonilles étendues 35. L'autre lacune concerne l'habitat ouvert et dispersé des casali: une fonille systématique sur un site de ce type permettrait d'équilibrer les recherches consacrées aux castra et peut-etre d'en nuancer les données. JEAN-MARIE PESEZ 1 PESEZ 1984; spécialement chapitre 11. 2 Toutefois, F. d'Angelo a noté des productions byzantines dans un des sectours de la fonille PESEZ 1984, chapitre Vl. 3 ORSI 1942; PACE 1949, P. 163 notamment. 4 Sur la céramique byzantine. cfr. DEROCHE-SPIESER 1989. 5 BECK-MACCARI-POISSON 1975. 6 MAURICI 1992, PP. 22-23-25; JOHNS 1988. 7 BRESC 1984. 8 Segeste:MOLINARI 1991; PAOLETTI PARRA 1991 , Monte Iato: ISLER 1991, Entella:CORRETTI s.d.; Calathamet: PESEZ 1984, 1985, 1986. 9 FOURNIER 1978, 1 partie. 10 PACE 1949, PP. 185 et 316.
11 MAURICI 1992, P. 26. 12 NASETTI 1972; MAURICI 1992, PP. 23-24 13 MAURICI 1992, P. 36 à 41; cfr. aussi SCUTO 1990. 14 MAURICI 1992, P. 28. 15 FONSECA 1986; BRESC 1983; MESSINA 1979. 16 PACE 1949, PP. 196, 265. 17 MAURICI 1992, P. 34. 18 PACE 1949, P. 154; MAURIC[ 1992, pp. 15 et 32. 19 MAURICI 1992, P. 32 sq; GIUSTOT IS1 1983. 20 PACE 1949, P. 164; MAURICI 1992, P. 35. 21 PACE 1949, PP. 160-161; MAURICI992, P. 35. 22 JOHNS 1986. 23 PACE 1949, pp. 315,360. 24 BONACASA CARRA 1987; DE MIRO 1980. 25 PACE 1949, pp. 326-328. 26 ISLER s.d. (Montevago). 27 Patti: VOZA 1976-77; Canicatti Bag72i: BERNARBÒ BREA 1956, P. l24; CARANDINI – RICCI - DE VOS 1982; RIZZA 1988. 28 PACE 1949, P. 374. 29 PACE 1949, PP. 362, (Bonaiuto) - 345-347 (Malvegna). 30 PACE 1949, pp. 194, 356, 359, 374. 31 PO[SSON 1990; PAOLETT[-PARRA 1991. 32 PACE 1949, pp. 379-380. 33 Catalogue du colloque publié sans lieu ni date. 34 ARCIFA-DE FLORIS-DI STEFANO PESEZ 1989. 35 GUILLOU 1976, PELEGATTI 1972 et 1972-73.
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La storia dell'altomedioevo in Sardegna alla luce dell'archeologia
Negli ultimi quindici anni la Sardegna ha visto notevolmente intensificarsi l'attività di scavo, grazie soprattutto all'opera di tutela e di programmazione intrapresa dalle due Soprintendenze Archeologiche competenti sul territorio e grazie alla proficua collaborazione fra tali organi periferici dello Stato, le Università italiane e gli Istituti di ricerca, primo fra tutti il C.N. R. Nel più ampio programma di conoscenza, tutela e valorizzazione delle testimonianze materiali di un lungo volgere di secoli - si pensi anche solo alla ricchissima documentazione delle culture preistoriche peculiari dell'Isola - per la prima volta l'attenzione è stata rivolta anche ai secoli del medioevo, sia con campagne archeologiche programmate, sia con interventi organizzati e affıdati a personale competente in occasione di lavori di pubblica e di privata utilità. Lo spazio a disposizione non consente di valutare analiticamente 1'apporto alla ricostruzione storica offerto dai singoli interventi archeologici attinenti ai secoli dell'altomedioevo; senza dubbio tra qualche anno sarà possibile riscrivere la storia della Sardegna medievale grazie all'impegno di molti ricercatori, quantunque sin da ora, solo leggendo le relazioni di scavo, gli interventi ai molti congressi, convegni e incontri culturali che si svolgono anche con ripetUta cadenza annuale, i contributi in monografie e in riviste, non è assolutamente giustificato parlare per l'Isola di "assenza di documentazione", quasi ancora in un nostalgico richiamo ai "secoli bui", sulla base unicamente del silenzio quasi totale delle fonti scritte a fronte del numero considerevole delle fonti archeologiche già acquisite e destinate ad aumentare notevolmente. Ho parlato volutamente di interventi archeologici, volendo con tale espressione riferirmi non solamente ad operazioni di scavo, bensì anche alle molte riletture di monumenti o di manufatti poco noti ovvero non correttamente valutati. Ho preferito infine nel preparare questo intervento procedere per temi, prendendo come guida i problemi storiografici sui quali si imposta il presente convegno, aggiungendone ad essi taluni scaturiti da precisi ritrovamenti archeologici, ovvero precipui nelle particolari vicende storiche dell'isola. Trattando di storia dell'altomedioevo sardo è necessario richiamare all'attenzione alcune date di riferimento per meglio comprendere, nella brevità imposta al discorso, talune indicazioni di carattere c cronologico e culturalc. Il periodo romano termina con l'inclusione della Sardegna nel regno vandalico durante il quinto o sesto decennio del secolo V. Da quel momento è possibile, pur con la prudenza che ogni periodizzazione impone, proporre tale successione: periodo vandalico: a. 456/466 - a. 534; periodo bizantino: a. 534 - sec. X; presenza ostrogota: estate 551 - sconfitta di Tagina a. 552; inizio delle scorrerie arabe: a. 710/711; autonomia giudicale: con certezza dal sec. X; sconfitta definitiva degli arabi: a.1026 o secondo fonti pisane e genovesi a.1052. 1. Le Città Inizio col presentare lo stato di conoscenza sulle vicende storiche delle città, sul loro assetto topografico, sulle loro persistenze e/o mutazioni, quale oggi siamo in grado di delineare a seguito di taluni interventi di archeologia urbana, che hanno consentito altresì di rileggere in chiave critica ritrovamenti e ipotesi ricostruttive del passato. Ho già avuto modo, in più occasioni, di presentare lo status questionis sulla topografia tardoromana e sull'impianto urbano nei secoli dell'altomedioevo per le città, nominandole in senso orario a partire da Sud, di Cagliari, di Sulei (od. S. Antioco), di Tharros, di Corous, di Forum Traiani (od. Fordongianus), di Porto Torres e di Olbia, sedi urbane dell'Isola e nello stesso terupo centri diocesani attestati tutti sotto il pontifıcato di Gregorio Magno, e per cinque di loro anehe nel concilio di Cartagine del 484. E, come allora, ritengo necessario prendere le mosse dal periodo che amerei definire di cesura tra mondo antico e mondo medievale, dal secolo V: la Sardegna, come si è detto, esce politicamente dall'orbita del mondo romano occidentale, ma nel
medesimo terupo diviene rifugio garante della sua cultura, mediata attraverso il pensiero afrieano, mentre possiamo ritenerla non esente dagli influssi della nuova classe dirigente germanica. Radicata tradizione autoctona, cultura romana, presenza dei vandali con il bagaglio di esperienze acquisite nei paesi attraversati nel loro migrare: queste le tre componenti, o se si preferisce le tre forze, con le qua}i ogni seria ricerca sulla c.d. cultura materiale dell'Isola deve necessariamente confrontarsi nei secoli iniziali del medioevo. Per Cagliari in età tardoromana gli studi recenti, basati su una più attenta lettura delle strutture già note e su una precisa valutazione dei risultati delle indagini archeologiche, in buona parte ancora in corso, verrebbero a confermare la tesi di una città "concentrica", ne} senso di un insieme di aggregati perfettamente legati alla configurazione plano-volumetrica del suolo e a diverse specializzazioni produttive con distinti approdi che si articolano lungo un'ampia rada. In tale insieme si è voluto distinguere un nucleo urbano legato al porto sul mare aperto che nel periodo tardoantico doveva rivestire ancora un ruolo importante, non definibile nel dettaglio in quanto scarsamente nota è la sua forma, e dUe aree che lo delimitano ad occidente e ad oriente, aree che al contrario hanno restituito, attraverso i dati archeologici, la indiscussa testimonianza di trasformazioni in atto a partire dalla tarda età imperiale. Nel nucleo urbano centrale e nel settore occidentale sembrerebbe rilevarsi una massiccia ristrutturazione che avrebbe determinato un cambiamento radicale nel volto della città a partire dal IV fıno a tutto il secolo VI con notevoli soluzioni di continuità rispetto alla compattezza urbanistica di età imperiale. Negli stessi siti, ma anche al limite orientale della città, sono state individuate tracce cospicue di incendio e di distruzione che dagli archeologi responsabili dello scavo si son volute collocare nel corso del secolo VII, sulla base dei dati ceramici, peraltro non suff cientemente indicativi. Al di sopra di tali tracce non sembra in generale e sulla base di quanto sinora edito, potersi ricostruire una successione di fasi ascrivibili con chiarezza ai secoli successivi del pieno medioevo, ad eccezione dell'area di S. Saturno. Al contrario lungo la laguna di Santa Gilla si è persa di fatto l'occasione di poter recuperare con ampiezza i resti della cittadella vescovile e poi giudicale, venutasi a creare con buona probabilità intorno alla cattedrale dedicata a S. Cecilia nella ricerca da parte della popolazione, a seguito delle scorrerie arabe, di luoghi più sicuri, abitati già in età punica e romana repubblicana e adibiti in seguito ad uso funerario. Quanto è stato possibile rilevare in anni recenti documenta la presenza di un complesso abitativo fortificato, di un edificio cultuale con sepolture annesse, di un lungo muro di limite, parallelo alla linea di costa e all'esterno di questo è stata acquisita una vistosa documentazione di vita quotidiana: fosse in origine con ogni probabilità adibite allo stoccaggio di derrate alimentari, in parte forse connesse con un impianto a strutture lignee documentato dai buchi di palo aperti nel pavimento di una casa repubblicana, trasformate in butti e scarichi di rifiuti, che hanno restituito una notevole quantità di resti ceramici ad abbondanti avanzi di pasto. Le produzioni ceramiche attestate, boccali, coppe, ciotole, vasellame da cucina, sono ascrivibili ad una cronologia che dall'età tardoantica non oltrepassa il secolo XIII, in perfetto accordo con la vita della cittadella di S. Igia, distrutta dai Pisani nel 1258. È stato possibile constatare che le strutture medievali posero le loro fondazioni partendo spesso dalla medesima quota di spiccato delle murature di epoca romana, utilizzando forse in taluni casi, I'incertezza deriva dalla mancanza di dati di scavo esaurienti - i medesimi pavimenti, a volte servendosi di essi come piani di fondazione e le nuove fabbriche utilizzarono le murature preesistenti riadattandole, intersecandole con diaframmi, completandole, ove mancanti, con i materiali da esse recuperati, mantenendone in sostanza gli orientamenti. Tecniche edilizie povere e recupero ir, loco dei materiali sembrano caratterizzare l'edilizia dell'insediamento. La mancata presenza di archeologi competenti per il medioevo al momento dello scavo non ha consentito l'acquisizione di ulteriori dati specie sul piano cronologico, cosicché le strutture murarie superstiti, ad eccezione dell'edificio cultuale databile tra il V e il VII secolo e dell'impianto su pali lignei forse della medesima epoca, possono essere collocate nell'ampio arco temporale di almeno sei secoli.
È plausibile supporre che la cittadella di S. Igia sia stata fortifıcata e a tale circuito difensivo ho proposto di attribuire l'epigrafe di apparato che lo pone sotto la protezione di Longino centurione, epigrafe rinvenuta nell'area lungo la laguna interessata da scavi. La dedica acquista particolare rilevanza anche per il significativo parallelo con l'altra a S. Michele nella sua accezione di difensore e che ritengo ugualmente di età bizantina, trasmessa poi al castello trecentesco che domina dalla parte opposta l'insediamento giudicale. In sostanza si può parlare per Cagliari di acquisizione di un nuovo polo urbanistico nel corso dell'altomedioevo, a partire forse già dal secolo VI, ma certamente dall'VIII e nello stesso momento, a fronte di un totale spopolamento della città romana, sostenuto a più riprese dagli storici, affermare invece un mantenimento in vita almeno di una parte dell'antico spazio urbano. A tale proposito ci si è chiesto quali fossero l'estensione e i limiti delle mura del cui assedio si preoccupavano le forze militari bizantine, inviate nell'inverno del 552 a riconquistare l'Isola e Cagliari in particolare, poiché, dice Procopio, “ivi i Barbari (cioè i Goti) avevano un presidio consistente”, e infatti l'impresa non riuscì. E ancora quale fosse la consistenza del nucleo urbano alla cui sicurezza doveva provvedere il vescovo Gennaro su sollecitudine di Gregorio Magnotti. Le indagini archeologiche nel quartiere di Marina e nelle aree ad esso contermini segnalano la presenza di torri, presenza ancora non sufficiente per riconoscere in esse elementi certi di un circuito murario, ma se sarà ulteriormente accertata, come sembra, la loro appartenenza ai secoli dell'altomedioevo, esse concorreranno a definire una continuità dell'insediamento urbano in tale settore, come del resto indica la qualifica di civitas e la presenza già da tempo di chiese documentate alla fine del secolo XII . Non conosciamo se, ed eventualmente in che misura, I'odierno quartiere di Castello, di fondazione pisana, potesse far parte dell'ambito urbano nei secoli precedenti tale fondazione: sulla base della sua posizione altimetrica sembrerebbe logico supporre una qualche utilizzazione nei secoli dell'altomedioevo, ma per ora non possediamo risposte di natura archeologica. Nel settore orientale la trasformazione del sUburbio di età romana risulta determinata dall'inserimento, nella vasta area cimiteriale di età imperiale, del culto al martire Saturno, secondo tempi e modi consueti, con una monumentalizzazione del santuario in piena età giustinianea e il mantenimento dell'area sacra sino al tardo medioevo, garanti gli insediamenti monastici di matrice africana prima e benedettina marsigliese poit. Al limite settentrionale infine, lungo le pendici della collina sono documentati fenomeni di insediamento rupestre, con localizzazioni di culti di diversificata origine e naturalmente in momenti successivi africana, ariana, orientale. La valutazione storica di alcuni fenomeni individuati in talune aree della città consente, pur nella prudenza che obbliga ad astenersi da conclusioni generalizzate, di intravedere per Cagliari, almeno sino al secolo VII e nei settori sopravvissuti, un sostanziale mantenimento dell'assetto viario romano, e in parte dell'impianto fognario e dell'approvvigionamento idrico, uno scarso e non frequente innalzamento dei livelli d'uso, pur nel variare delle destinazioni edilizie. Passando alle altre città le osservazioni pocanzi esplicitate rimangono in massima parte valide anche se i dati in proposito sono molto carenti e solo in pochissimi casi legati a scavi stratigrafici. Molto di più potrà essere detto per Tharros quando sarà portata a termine la rilettura generale delle strutture esistenti nella parte della città scavata, rilettura di cui ha fornito i primi dati Anna Maria Giuntella. Sono segnalati casi di occupazione di assi viarii in relazione alle strutture componenti il complesso episcopale e, nei quartieri di sommità a nord di quest'ultimo, di variazione negli orientamenti di unità residenziali "tarde" nell'orizzonte cronologico dell'insediamento, e con buona probabilità ascrivibili ad un periodo non anteriore al secolo VI. Così pure si attendono i risultati dell'indagine topografica intrapresa a Porto Torres con il coordinamento di Antonietta Boninu e ugualmente dello studio complessivo di Olbia a cura di Rubens d'Oriano. A Porto Torres il cantiere di scavo aperto dalla Soprintendenza Archeologica e portato avanti con la nostra collaborazione nei due atri contigui alla basilica di S. Gavino con indagini archeologiche ancora in corso, ha già consentito di delineare le modalità di insediamento sul Monte Agello con continuità dall'uso funerario alla costruzione del
primo edificio cultuale, già forse dal secolo V, edificio ristrutturato per ben due volte prima della fase medievale che oggi ancora vediamo. Sul piano più strettamente urbanistico vale segnalare talune situazioni oggettive che si riscontrano in più città dell'Isola. È stato già messo in evidenza per Cagliari il ruolo di fattore poleogenetico acquisito dalla cattedrale nei secoli dell'altomedioevo. A differenza delle sedi diocesane della penisola, ove la ricerca recente ha riportato come norma in ambito urbano l'ubicazione dei primitivi complessi episcopali, in Sardegna la chiesa vescovile sorge frequentemente in area suburbana e in relazione ad un preesistente spazio funerario,. Il caso di Cagliari, almeno a partire dall'altomedioevo, quelli di S. Antioco di Sulci, della cattedrale paleocristiana di Cornus, del S. Gavino a Porto Torres, del S. Simplicio ad Olbia, lo testimoniano con certezza, con altrettanti più o meno evidenti fenomeni di urbanizzazione di aree suburbane a partire dalla tarda antichità. Il processo di formazione del nuovo polo insediativo è naturalmente percettibile nella lunga durata in quelle città a continuità di vita - Cagliari, Sulci, Porto Torres, Olbia -, ma allo stato attuale delle conoscenze non è possibile delineare, seppure nelle linee generali, quali possono essere stati i periodi di maggiore attività edilizia, quali le risorse sul piano economico, quali le necessità sulla base di una generalmente ritenuta diminuzione del popolamento. Unica fonte di riferimento rimangono a tuttoggi i cantieri relativi alle ristrutturazioni dei complessi episcopali, con aumento delle capacità recettive dell'aUla del battistero nel corso del secolo VI a Cornus, forse nello stesso periodo a Porto Torres e in quest'ultima località anche nel periodo successivo precedente la fine del secolo XI. Ad ogni modo ancor oggi nell'impianto del moderno centro di S. Antioco, erede dell'antica Sulci, è possibile cogliere i due diversificati nuclei che lo compongono, quello romano con schema orientativamente ortogonale in pianura e quello medievale, accentrato intorno al santuario-cattedrale, sulle pendici della collina, in età punica e poi romana destinate a sepolture. Unicamente per Tharros è possibile parlare di insula episcopale urbana, sebbene in zona periferica, mentre non si hanno tuttora dati certi per attribuire dignità di sede vescovile al santuario di S. Lussorio a Fordongianus, anche se per quel centro il mancato fenomeno di inurbamento - il santuario infatti sembra essere rimasto isolato in zona suburbana - lungi dall'escluderla potrebbe al contrario avvalorare l'ipotesi affermativa, poiché la sede diocesana subì nell'altomedioevo il trasferimento, si ritiene a Santa Giusta, lasciando al complesso il solo carattere martiriale. Dal secolo VII la documentazione letteraria - Procopio, Gregorio Magno, Giorgio di Cipro e Leone il Sapiente - con fini rispettivamente di carattere topografico e di organizzazione ecclesiastica, menziona i centri pocanzi ricordati con termini che alludono a presenze di strutture fortificate e nel variare delle denominazioni ho proposto di recente di cogliere la spia di una esistente distinzione tra città antica e sede diocesana. A Sulci la rilettura di alcuni rilevamenti e relazioni archeologiche del secolo scorso, unitamente all'utilizzazione di fonti iconografıche seicentesche e della documentazione di archivio della Soprintendenza Archeologica di Cagliari mi ha consentito di ricostruire l'assetto della città nei secoli dell'altomedioevo con polo religioso sulle pendici del colle, come si è detto in precedenza, e il castram al limite dell'abitato e a protezione di esso, secondo una tipologia che trova significativi riscontri nell'Africa settentrionale di periodo giustinianeo ;. Il medesimo assetto sembra potersi proporre per Cornus e forse per Forum Traiari. Il tema delle fortifıcazioni urbane consente di accennare brevemente, poiché dell'argomento tratterà il collega Poisson, al più ampio problema dell'organizzazione militare del territorio a partire dall'opera certamente intrapresa al momento dell'entrata della Sardegna nell'orbita di Bisanzio. Fasi giustinianee sono state proposte per il castello di Medusa nel territorio di Samugheo, e dopo le iniziali campagne di scavo in collaborazione italo-francese con Jean Michel Poisson, da me stessa per il complesso fortificato di Castro, in territorio di Oschiri, con interessanti notazioni sulla tecnica edilizia, I'opera a telaio, della cinta muraria. 2. Le aree funerarie
Un tema che ha ricevuto dalle recenti indagini un inaspettato sviluppo è quella~della c.d. archeologia funeraria: le annuali campagne di scavo a Cornus hanno consentito di rileggere e riproporre, in maniera sotto molti aspetti nuova, la problematica inerente alla sepoltura a partire dall'età tardoromana sino almeno al secolo VIII e alle testimonianze cornuensi se ne sono aggiunte diverse altre in tutta l'Isola: una prima documentazione è stata fornita al IV Convegno sull'archeologia tardoromana e medievale in Sardegna di cui sono usciti nel 1990 i relativi Atti. Tipologie degli spazi funerari e delle singole tombe, riti della sepoltura e riti della commemorazione conoscono oggi nell'Isola una indiscutibile documentazione materiale, acutamente studiata in particolare da Anna Maria Giuntella e dall'équipe che con noi collabora da anni alle ricerche sarde. La presenza di corredi personali, di doni funebri, di oboli monetali nelle sepolture, quella di vasellame ceramico e vitreo con avanzi di pasto e ancora offerte monetali all'esterno di esse, anche su strutture appositamente allestite, hanno consentito di ricostruire un quadro del tutto nuovo per l'ambito cronologico non solo per la Sardegna, bensì anche per il più vasto ambiente mediterraneo, obbligando a rivedere in chiave critica buona parte della letteratura sull'argomento. Nell'imminente pubblicazione integrale dell'area funeraria cornnense ritengo doveroso astenermi dall'anticipare in questa sede il quadro delle risultanze sul piano antropologico, sociale, religioso, economico e più generalmente storico che lo studio consegnato alle stampe ha con ampiezza delineato, in stretto rapporto con i dati raccolti nell'intera Isola. Mi limiterò a richiamare più avanti taluni temi particolari in sede di trattazione della produzione e degli scambi. 3. L'ambiente termale Nuove conoscenze sono venute dalle indagini archeologiche anche sul piano dell'organizzazione e dello sfruttamento del territorio delle campagne, anche se su tale tema lo studio sistematico è appena iniziato. L'organizzazione economica fondata sulle strutture rurali, distribuite secondo gli studi storici per l'età tardoromana in villae e cobortes, sembrerebbe essersi mantenuta inalterata durante il periodo vandalico, grazie anche agli effetti della riforma voluta da Costantino nel 325 al fine di ricostruire 1'unità familiare del lavoro servile, cardine nello sfruttamento del latifondo e non mutato si ritiene il rapporto fra questo e i possessores sia laici che ecclesiastici. Per questi ultimi non va dimenticata la presenza di beni pertinenti alla Chiesa romana, venuti sin dai primi anni dopo la pace religiosa, ovvero attribuiti a tale periodo, a costituire al imis il suo patrimonio fondiario. È dunque opinione comune che continuasse nell'Isola la vocazione alla monocultura e nei decenni che videro la Sardegna isolata dalla penisola italica è stato proposto che i suoi prodotti granarii potessero prendere le vie del mare verso l'Africa. La visione delle campagne sarde nel secolo VI non doveva essere dissimile da quella che con rara effıcacia all'inizio del secolo precedente appariva attraverso le pagine di Palladio Rutilio Tauro Emiliano. Non ripeterò quanto ho già avuto occasione di scrivere in altra sede;~, ma molte delle informazioni date sulla scelta dei siti della residenza padronale, sulle delimitazioni dei terreni, sull'apporto di maestranze specializzate dalle città, sulle tecniche costruttive ecc. possono essere riscontrate nel territorio di Neapolis, ove Palladio aveva alcune proprietà. Giova ricordare che un'idea di quale fosse la produzione agricola sia in cereali e ortaggi che in bestiame può essere offerta dalla c.d. Iex portas di Cagliari, emanata al tempo dell'imperatore Maurizio Tiberio e incisa su un marmo conservato al Museo Archeologico di Cagliari: si tratta di un tariffario di dazi relativo all'introduzione di prodotti o nel territorio civico di Cagliari o nella città medesima che recentemente ha ricevuto una articolata esegesi da parte di André Guillou. In sostanza il tariffario menziona prodotti alimentari correnti (grano, vino, legumi, prodotti trasportati in ceste, bestiame, polli...) a eccezione delle palme utilizzate forse per la copertura delle case o di semplice tettoie e facenti parte dei prodotti di largo consumo. Il mercato di Cagliari doveva essere un centro di confluenza delle produzioni dell'Isola dove i prodotti arrivavano in barca via mare o a dorso di muli via terra, ma non siamo in grado di discernere se fossero tutti destinati al consumo locale
ovvero se una parte fosse esportata. Dalle quantità trasportate è possibile desumere che le barche dovevano essere molto piccole e nel testo sono menzionati solo animali da basto, dato quest'ultimo che ha fatto pensare a Guillou che le strade fossero appena tracciate e non adatte al trasporto su carri. Infine la presenza di barche che trasportano grano indicherebbe che i contadini non portavano sempre direttamente al mercato l'intera produzione, ma che a volte potevano servirsi della mediazione di mercanti specializzatı. Numerose sono le villae individuate sul territorio sardo, ma nessuna di esse è stata sistematicamente indagata e pertanto non siamo in grado di conoscere la loro effettiva persistenza nei secoli dell'altomedioevo, se non nel limitato accertamento della presenza di un impianto cultuale spesso associato a sepolture. I casi di S. Filitica in territorio di Sorso, di S. Imbenia presso Alghero, di S. Andrea Pischinapiu in agro Narbolia, di S. Maria ad aquas presso Sardara, di S. Cromazio aVilla speciosa spercitare quelli oggetto di acquisizione ovvero di attenzione recente, tutti venuti ad occupare strutture e spazi di preesistenti complessi termali, testimoniano da un lato la penetrazione dell'organizzazione ecclesiastica nelle campagne culminata nell'opera missionaria promossa da Gregorio Magno, dall'altro la continuità del sistema di sfruttamento del suolo governato dalla classe dei possessores. È possibile parlare quindi di continuità della tradizione e di perdurata potenza dell'organizzazione statale. Verso la fine del secolo VII la storiografia più recente vuole riconoscere il costituirsi di comunità di piccoli agricoltori, forse indipendenti, fittavoli o piccoli proprietari, i cui possessi potevano essersi formati dal frazionamento delle grandi proprietà, ma tali affermazioni sono ancora tutte da dimostrare sul terreno. Va ad ogni modo tenuto conto che i principi del codice rurale bizantino perdureranno a lungo nell'Isola e talune realtà nella divisione e nella organizzazione del territorio sono sopravvissute sino ai nostri giorni. In particolare nel campidano di Oristano le indagini archeologiche di superficie testimoniano almeno sino al secolo VIII una campagna fittamente abitata. 4. L'opera di "cristianizzazione" Non entro deliberatamente nel tema più vasto dell'organizzazione ecclesiastica della Sardegna quantunque molte delle indagini archeologiche recenti abbiano interessato complessi religiosi, ma essendo l'argomento non compreso fra quelli proposti nel presente convegno mi limito a riprendere brevemente l'accenno all'opera missionaria intrapresa da Gregorio Magno preoccupato per la presenza di talune sacche di paganesimo, specie fra le popolazioni della Barbagia. Due recenti scoperte ne hanno testimoniato l'effettiva realizzazione secondo le linee di orientamento religioso rispondenti alle esigenze dei contadine che, ad esempio, avevano caratterizzato l'opera di Adalberto nella Gallia. In questa si evidenziava la collocazione di alcune croci e oratori nella campagna vicino a fonti e con una preferenza, se si vuole, per una sorte di compromesso e secondo una diversa concezione nei riguardi del mondo "pagano" col non distruggere i simulacri esistenti, bensì sostituirli con monumenti cristiani, operare cioè, come ebbe a scrivere Raonl Manselli <~una deviazione del sentimento religioso, un orientamento in una direzione diversa e non più la sua eliminazione”. Il fortunato riconoscimento ad opera di Silvana Casartelli Novelli di un gruppo di monumenti scultorei, di struttura monolitica e destinati ad essere infissi nel terreno (la voce sarda è perdas fittas = pietre fitte), come conversione cristiana - sono infatti decorati da iconemi di sicura simbolica cristiana - dei monoliti protostorici sardi, è tanto più importante in quanto la loro presenza sino ad oggi accertata si colloca lungo una linea di confine appunto con il territorio delle civitates Bartariasi. La seconda scoperta si deve alle nostre ricerche archeologiche in relazione al complesso di S. Saturno a Cagliari, con il ritrovamento di un grande pozzo di costruzione romana, exaugurato in senso cristiano, ma secondo modalità risalenti ancora al mondo nuragico - recinto sacro e bucrano nelle fondazioni di questo - con buona probabilità in epoca gregoriana e legato, nella stesura della sua passio, al martirio di S. Saturno o Saturnino.
Del resto gli edifici cultuali sopra ricordati, ai quali è possibile aggiungere le due ecclesiae senza dubbio baptismales di S. Maria di Mesomundo presso Siligo impiantata ancora una volta in ambienti termali;~ e di Nurachi sulla via litoranea occidentale tra Tharros e Cornus, ubicata in relazione ad una statio+, costituiscono la testimonianza materiale dell'organizzazione della cara animaram in ambiente rurale già costituitasi nel corso del secolo VI. Molti altri sarebbero gli argomenti desunti dalle ricerche archeologiche per trattare del sentimento religioso, della mentalità, della cultura in senso lato suggeriti dall'evidenza delle fonti materiali, primo fra tutti, ad esempio, il perdurare del sacro, con una costante attenzione al mantenimento dei luoghi cultuali ancora di epoca nuragica. Ma volgendo al termine mi preme accennare, sia pure in linee molto generali al tema delle produzioni e degli scambi. 5. Le produzioni e gli scambi Un capitolo a parte dovrebbe riguardare la cultura delle committenze e degli architetti in fase progettuale, le tecniche utilizzate dalle maestranze, I'approvvigionamento dei materiali da costruzione. La nostra ricerca su questi temi ha già segnalato talune riletture critiche dei monumenti architettonici dell'altomedioevo che denotano innanzitutto una continua attività edilizia, almeno per ora documentata in massima parte dagli edifici religiosi e dalle opere di fortificazione, con una netta fase ascendente una volta affermata l'organizzazione giudicale. Circa i materiali da costruzione è stata accertata l'esistenza, ancora nel primo periodo bizantino, di figline operanti nella Sardegna centro-settentrionale, stando ai reperti recuperati, figline che segnano i prodotti con lettere greche. Per le tecniche edilizie va segnalata la continuità d'uso dall'età punica, ovvero la ripresa, dell'opera a telaio documentata con evidenza nell'età vandalica e nei primi decenni del dominio bizantino, accanto a paramenti in opera pseudoisodoma e alla generalizzata presenza di strutture che impiegano materiali lapidei diversi, spesso informi e con larga utilizzazione di spolia. Per quanto attiene le botteghe artigiane, prosegue l'opera dei musivari in relazione a strutture funerarie sino almeno al secolo VI, mentre l'attività dei lapicidi e dei marmorari è documentata a tutt’oggi da un limitato numero di iscrizioni posteriori al medesimo secolo e da altrettanto scarsi manufatti scultorei, quantunque ciò che è giunto a noi rivesta un indubbio interesse sul piano storico. Mi riferisco in particolare ai reperti epigrafici di Porto Torres, di Cornus, di S. Antioco e alle sculture architettoniche di S. Saturno;~, ancora di Cornus, di S. Gavino a Porto Torres e alle altre che testimoniano nella maggioranza dei casi la presenza di centri di produzione locali con apporti culturali di ambito generalmente mediterraneo. Nella prima età giudicale assistiamo al rifiorire delle botteghe stesse con prodotti di alta qualità sia sul piano artistico che su quello tecnico-scritturistico, che vengono a testimoniare circolazione di modelli e forse anche di artefici nel quadro di una committenza, quella appunto della classe dirigente giudicale, fortemente ellenizzata e con legami diretti con le altre parti dell'impero e con la capitale stessa. Nelle attività produttive legate all'abbigliamento va segnalata la produzione della lana, ove accanto ad una logica lavorazione di tessuti comuni è testimoniata anche quella di una lana di lusso per qualità e per colore: lo stesso pontefice Leone IV ne faceva richiesta al governatore dell'Isola per le necessità delle vesti da indossare nei giorni di festa solenne:. L'archeologia ha restituito inoltre la testimonianza di una produzione di oggetti metallici ugualmente legati al vestiario: tra questi segnalo l'avvenuta individuazione, fra le molte giunte per commercio o per presenza diretta di militari bizantini, di talune fibbie di cintura che per tecnica di lavorazione e per iconemi decorativi denunciano una indubbia fattura locale. E anche attraverso scavi di ambito funerario conosciamo taluni esemplari di vasellame metallico per i quali è lecito supporre una fabbricazione i,n loco: mi riferisco, ad esempio, ai piatti in argento di bassa lega rinvenuti a Tharros e a Nurecis, ovvero alla brocca in lamina battura da Dolianovas Circa le produzioni nel campo ceramico e vitreo presenti in Sardegna, una prima sistematica edizione spetta senza dubbio all'équipe di Cornus, coordinata per tale lavoro da Anna Maria Giuntella: dopo le prime segnalazioni è ora in stampa la relazione integrale dello scavo dell'area cimiteriale orientale del
complesso, che ha restituito una ricchissima documentazione dei prodotti circolanti nell'Isola almeno sino al secolo VIII. Si tratta di manufatti che si inseriscono da un lato nella tradizione delle produzioni tardo antiche da mensa e d'uso comune, dall'altro di vasellame che riprende il tipo ad impasto di cultura addirittura preromana ovvero imita localmente prodotti di importazione africani e bizantini. Tra le produzioni locali afferenti al primo gruppo mi preme segnalare la presenza, per ora sembrerebbe unicamente in contesti rurali, di una particolare classe ceramica ad impasto grossolano, lavorata a mano, riferibile a vasi di grandi dimensioni e in minore misura a olle, grandi ciotole, tegami e pesi da telaio. La caratteristica è data da decorazioni invadenti le superfici del corpo e dell'orlo, ottenute mediante stampigliature, più raramente con solcature o con le due tecniche abbinate. La produzione, individuata nella maggioranza dei casi in contesti preistorici rivisitati o riutilizzati nell'altomedioevo, sembra potersi collocare fra i secoli VI e VIII, ma le datazioni proposte potrebbero anche variare dopo l'edizione integrale di tutte le attestazioni, come pure ci si astiene in questa sede da considerazioni sul piano tipologico e formale e su quello di eventuali connessioni con altri ambiti territoriali e culturali in attesa di una più ampia precisa e puntuale informazione dei dati archeologici di rinvenimento. A tutt’oggi, come del resto in altre regioni, resta un vuoto non ancora colmato per i secoli IX e X, con la sola eccezione della ricca presenza della ceramica acroma dipinta, per la quale ancora anche per la Sardegna non disponiamo di una puntuale seriazione cronologica. In materia di commercio sono molte le merci che testimoniano una ricchezza di contatti e di scambi non solo con l'Africa settentrionale, compresa l'area dell'Egitto copto, in una logica continuità dall'età romana, bensì anche con le regioni orientali dell'impero bizantino almeno sino al secolo VII. Poco conosciamo per i due secoli successivi, mentre quanto è già noto per l'età giudicale induce a limitare i rapporti, segnatamente con l'oriente, unicamente sul piano di scambi culturali. Per quanto infine concerne la circolazione monetaria, una seria valutazione della ricca documentazione proveniente da scavi è iniziata solo da pochi anni; per il periodo vandalico ho già avuto modo di segnalare taluni rinvenimenti di esemplari numismatici di tale regno in particolare dall'area di Gorous con l'uso precipuo in relazione ai riti della sepoltura, ma anche come indice cronologico nella ristrutturazione della vasea battesimale, testimoniando di fatto l'esistenza di una circolazione corrente che sino a qualche anno addietro sembrava non documentata. Oggi numerosi sono i nuovi ritrovamenti. Per l'età bizantina alle segnalazioni scritte si aggiungano le molte orali: si attende un lavoro sistematico di censimento dal quale potrebbe anche venire la conferma materiale del supposto trasferimento a Cagliari della zecca imperiale di Cartagine al momento della conquista della città da parte degli arabi nel 698, anche se I'attività sarebbe poi limitata al regno di Anastasio II. E stato scritto, sulla base della moneta bizantina più recente trovata sino ad ora sul suolo sardo, almeno fra quelle note, un follis di rame dell'imperatore Giovanni Zimisce (969-976), che con buona probabilità sino a quell'epoca l'economia sarda doveva conoscere il commercio con Costantinopoli, ma per tale affermazione mancano i dati materiali dei manufatti commerciati. Ci si augura che le indagini archeologiche iniziate nel castello di Moureale (Sardara), roccaforte del giudicato di Arborea, oltre a molti dati che già iniziano a fornire per i secoli del pieno medioevo, possano offrire nuove conoscenze per il periodo iniziale dei regni autonomi sardi, come lasciano sperare taluni indizi di continuità dal periodo romano largamente testimoniato in questa zona settentrionale del campidano di Cagliari. LETIZIA PANTERMINI A causa di problemi di acquisizione a computer, non è stato possibile inserire le note e la bibliografia.
Discussione
Consideraziori sull'archeologia del territorio laziale dell'altomedioevo: 1. In linea con quanto richiestomi dal Comitato Scientifico Organizzatore, il mio intervento verterà sul territorio laziale, di cui ho avuto modo di occuparmi nell'ambito delle tematiche del Convegno. La relazione di ieri di Federico Marazzi ha toccato uno dei tanti problemi dell'archeologia altomedievale laziale; altri ne saranno affrontati sabato nella sezione concernente le città. Non essendo prevista, nel Convegno, una sintesi complessiva riguardante il Lazio, mi pare possa essere di un qualche interesse introdurre nel dibattito, anche per questa ragione, i problemi concernenti il territorio e il contributo che l'archeologia ha portato alla sua conoscenza negli ultimi decenni. Ieri abbiamo ascoltato dai colleghi della Toscana una documentata relazione sulla storia degli insediamenti rurali in quell'area, tra il III e l’VIII secolo, frutto di una ricerca basata essenzialmente sui dati provenienti dalle ricognizioni di superficie. Lo stesso tipo di indagine, come è noto, è stata condotta, negli ultimi 20-25 anni, in alcune aree del Lazio: soprattutto nell'Etruria Meridionale, a cura dei ricercatori della British School at Rome, e in qualche altra zona della Sabina e del Lazio Meridionale. L'interpretazione dei dati emersi dal censimento delle presenze territoriali basata sui resti ceramici, anche per il Lazio, ha portato ad una ricostruzione della dinamica degli insediamenti caratterizzata (sembrerebbe) da un graduale, notevolissimo e irreversibile spopolamento delle campagne tra il IIIe l'VIII secolo. Soprattutto sulla base della sintesi di T.W. Potter, riguardante l'Etruria Meridionale (The Ghargirg Landscape of South Etruria, New York 1979, pp.138-146), anche alcuni lavori di taglio prettamente storico hanno accolto, facendola assurgere a dato assiomatico (a un "modello"), questa idea di un drammatico declino della vita nelle campagne del nostro territorio durante la tarda antichità e l'altomedioevo (R. HODGES-D. WHITEHOUSE, Modammed, Charlemagre ard the origins of Europe, Oxford 1983, pp.38-53). Negli ultimi decenni, un diverso approccio tendente giustamente a valorizzare anche i dati provenienti dalle fonti storiche e penso allo studio di CHRIS WICKHAM, Historical ard Topographical Notes or Early Mediaeval So~th Etraria, in Papers of the British School at Rome, 16 (1978), pp. 132-183; 17 (1979), pp. 66-95 - ha ricondotto questa ricostruzione così schematica nei toni più articolati e sfumati propri di ogni problematica. È risultato evidente, soprattutto, quanto lacunosa per questi secoli sia la conoscenza precisa di tutti i dati materiali (ceramica, strutture murarie, ecc.) che possono contribuire ad una ricostruzione veramente attendibile e completa della dinamica degli insediamenti, e quanto sia importante, per essa, utilizzare le fonti archeologiche e storiche più disparate (cfr. in questo senso anche F. MARAZZI, L'insediamento nel suburbio di Roma fra il lV e Vlll secolo, in “Bullettino dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano, 94 (1988), pp. 251-313; G. TRAINA, Ambiente e paesaggi di Roma antica, Roma 1990, pp. 107-108). 2. Un contributo notevole a questa auspicabile visione più articolata e aderente alla realtà storica dello sviluppo degli insediamenti nel territorio laziale credo possa derivare anche dall'archeologia delle chiese e dei cimiteri tardoantichi e altomedievali, settore di ricerca non valorizzato nelle indagini topografiche sopra ricordate (e nelle sintesi storiche che ne sono derivate) (cfr. a questo proposito V. FIOCCHI NICOLAI, I cimiteri paleocristiani del Lazio, 1, Etruria Meridionale; Città del Vaticano 1988, pp. 2-3, 9-15, 383-390, 396). Confrontando la carta degli insediamenti proposta dal Potter per il "South Etruria" tra il V e l'VIII secolo (Fig. 1) - quella su cui si sono soprattutto basate queste sintesi storiche cui accennavo - con una pianta in cui sono localizzate, per la stessa zona, chiese e aree funerarie (Fig. 2), appare subito evidente come il numero dei cimiteri attivi tra il IV e il VI secolo mostri un livello di popolamento più elevato di quanto riveli quella carta (per i riferimenti ai monumenti elencati, cfr. FIOCCHI NICOLAI, I cimiteri, cit., alle singole voci). E questo anche considerando - ed è fatto di rilievo - che
queste presenze funerarie, in più di un caso, si dimostrano di notevoli dimensioni, così da poter essere ragionevolmente riferite ad un più ampio numero di insediamenti (e penso, per esempio, all'area cimiteriale ipogea di Rignano Flaminio, che ospitò, in meno di un secolo di attività, all'incirca 500-600 sepolture, e che quindi deve essere messa in relazione con un grosso centro abitato - un villaggio; le oltre trenta iscrizioni datate dell'ipogeo - che ne conta complessivamente più di 80 - ci permettono di ricostruire i ritmi e la frequenza delle sepolture tra il 339 e il 407; molte di esse, inoltre, forniscono informa/ioni importanti sulle attività degli abitanti della zona, costituendo documento prezioso della vitalità del centro cui l'area funeraria si riferisce - sul sepolcreto di Rignano, cfr. FIOCCHI NICOLAI, I cimiteri, cit., pp. 306-332. 3. Anche l'archeologia delle chiese rurali ha contribuito notevolmente, in questi ultimi anni, a ricostruire in modo più articolato la storia degli insediamenti dei territorio laziale. Fino ad una ventina di anni fa, per esempio, si riteneva che la proliferazione notevolissima delle sedi vescovili nel Lazio (41 diocesi entro il `1 secolo) avesse soffocato la precoce istituzione delle parrocchie rurali (sintesi del problema in FIOCCHI NICOLAI, I cimiteri, cit., pp. 386-387). Uno studio più accurato delle fonti mostra invece che la creazione di chiese adibite alla cura degli abitanti delle campagne laziali è precoce (e segno della vitalità di queste). Due lettere di papa Innocenzo I non lasciano dubbi sull'esistenza di parosciae nella campagna romana già in quell'epoca. La Chiesa dovette presto organizzare, dunque, anche nel Lazio, la conversione delle campagne, la sua missione pastorale e organizzativa nelle aree rurali. Sempre la carta di Fig. 2 mostra il numero delle chiese di campagna attestate tra il IV e l’VIII secolo dalle fonti coeve o da accertate testimonianze monumentali. Anche il "buio" del VII secolo e della prima metà dell'VIII sulla storia dell'insediamento laziale può essere in parte diradato dall'archeologia delle chiese. Tutti gli edifici cultuali compresi nella nostra area-campione di Fig. 2, per esempio, continuano ad essere frequentati in quel periodo. Molti di essi di origine martiriale - divengono meta del pellegrinaggio altomedievale che porta nuova vitalità e ricchezza ai centri sorti intorno ai santuari. Nuove chiese vengono costruite come centri cultuali delle quattro domu fondate nella seconda metà dell'VIII secolo in quell'area (MARAZZI, L'insediamento, cit., pp. 305-309). L'annoso problema della continuità d i occupazione degli insediamenti in questo periodo ha trovato una risposta favorevole negli scavi di alcune chiese rurali: si pensi - per restare sempre nell'Etruria Meridionale - a quelli di S. Rufina, S. Cornelia, S. Stefano (CHRISTIE, Three South Etruriar (Charches, cit., pp. 355-356) e soprattutto a quello di “Mola di Monte Gelato” che ha rivelato la presenza di un piccolo edificio di culto, con annesso cimitero di IV-V secolo, in associazione ad una villa tardoantica, e poi una ristrutturazione di esso (e una continuità d'uso funerario) nell’VIII secolo, quando la costruzione di un battistero ne codifica la funzione battesimale (cfr. T.W. POTTER-A.C. K1NG, Scavi a Mola di Monte Gelato presso Mazzaro Romano, Etruria Meridionale. Primo rapporto preliminare, in “Archeologia Medievale”, XV (1988), pp. 253-311). La stessa continuità di occupazione si è rivelata, per esempio, anche nello scavo della chiesa altomedievale di S. Ilario ad Biviam, nelle campagne di Valmontone, nel Lazio meridionale: I'edificio sorse su un'ampia necropoli tardoromana attiva tra il IV e il VII secolo, connessa con un grosso insediamento (I'area conta più di 800 tombe); questo doveva essersi fortemente modificato nell'VIII secolo, quando fu costruita la piccola chiesa di S. Ilario, che poteva ospitare un numero limitato di persone e con la quale è in fase un'area cimiteriale nettamente più modesta (v. FIOCCHI NICOLAI, Scoperta della Basilica di S. Ilario, in “Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia”, 61 (1988-1989), pp. 71-102). In conclusione, dai sintetici dati esposti, emerge evidente l'apporto che l'archeologia delle chiese e delle aree funerarie tardoantiche ed altomedievali può fornire alla ricostruzione della storia del territorio laziale tra IV e VIII secolo. In questo senso - per ritornare al dibattito di ieri - gioverà ad una corretta ricostruzione dell'altomedioevo italiano, oltre che la scontata confluenza di metodologie storiche ed archeologiche, anche quella dei diversi indirizzi della ricerca archeologica. VINCENZO FIOCCHI NICOLAI
Ceramics and early Medieval central and Southern Italy: a potted History In 1982 the volume of “Archeologia Medievale” contained two papers on early medieval pottery; one which attempted to assess the implications of f~nds for the interpretation of the early medieval economy in southern Italy, and the other which provided a conspectus of fnds in the same area,. Ten years have passed and itis rightto expectsignifcantadvances in the subject. The 80's have in fact secn some major projects that have focussed on early medieval contexts, such as the excavations at the Crypta Balbi in Rome, at Portus and Pianabella in the area of Ostia, at the monastery of San Vincenzo al Volturno and in Naples, whilst many other sites like Otranto, Avicenna and Squillace have added signif~cantly to our knowledge. There have been a number of relevant conferences (on late Roman and early medieval glazed pottery in Italy2, on the early medieval archacology of Calabria3, on Rome in the early medieval period~) and the excavations of the domus~lta of Santa Cornelia have finally appeared in printS. The publishing of John Hayes' pottery report on the excavations of Sarachane, Istanbul, also now provides a firm point of reference for Byzantine pottety from the eastern capitalt. Whilst all these initiatives are of great value in themselves, they further highlight our ignorance of central and southern Italian material culture. Unfortunately, particularly in the south, there has becn little attempt at problem-oriented research:. Furthermore, few efforts have becn made to obtain the overviews necessary to our comprehension of Italy's early medieval history. To try and make sense out of the material, we must ask ourselves what are the principal problems that need to be tackled so as to come to grips with the potential of early medieval ceramics in the study of Italian social and economic history. For present purposes, we defne the problems on three levels~ 1. Iack of archaeological evidence; 2. Iack of definitions and specific in-depth studies; 3. lack of attempts to approach the wider archacological and historical issues that may be tackled throngh the ceramic evidence. These may be summarized as follows: 1. Iack of archacological of evidence. For example: - the lack of published groups from certain areas and certain periods. Here we shoılld praise the work of scholars whose policy is to publish old excavations whose records have never secn the light of days. - the lack of known kiln sites. The kiln/production sites datable after the sixth century comprise Misenum (amphorae - eighth century), Otranto (amphorae, coarse wares - later seventh/early eighth centuries), Monte Gelato (domestic wares - late eighth/early ninth centuries), Ischia (amphorae and other wares - eighth century), Cumae (painted and domestic wares - sixth/seventh centuries) and S. Vincenzo al Volturno (domestic wares - 11th century); - the difficulty of recognizing some early medieval ceramics, and especially abraded surface survey material. 2. Iack of defmitions and of specific studies: - lack of clear def nitions of terminology used in ceramic studies, often resulting in a lack of standardization of terms: slipping, partial slipping, broad and narrow line decoration; amphorae; other terms requiring a clear defnition are those relating to technology, for example, slow-wheel, fast-wheel; impasto; - the lack of speciOc studies; - typology; - fabric characterization; - functional analyses of vessel types, etc.; - chronology: traditional dating is based on coins and African red slip wares, thus on most sites there are problems after the mid fifth-sixth centuries (with the collapse of the Roman type market economy), and on some sites after the seventh century; 3. wider archaeological/historical issues which may be approached through ceramic evidence, such as: - trade; - economy; - social differentiation; - cultural differentiation; - settlement patterning.
To try and assess the potential of ceramic evidence we propose a model for pottery development through from late antiquity to the middle ages, from an exchange system that still possesses many Roman characteristics in the f fth/ sisth centuries, through the "dark age" recession, to the opening-up of trade again at the end of the millennium. This model has been constructed by taking into account our own research and what has becn published by others. It is a f rst attempt and, whilst we realize that it may be def~cient in various aspects, we fully believe that, if nothing else, it may serve to clarify ideas and stimulate discussion. It may be broken down into four major trends of economic development throngh time based on changing patterus of settlement which we believe may be recognized in central and southern Italy. We have deliberately excluded Sicily, although the model might also apply there. The trends may be categorized as follows: 1. Successful towns and their immediately dependent territories, or those old Roman towns that maintained urban characteristics thronghout the course of early medieval times. 2. Unsuccessful towns, or those old Roman towns that did not survive into or throngh early medieval times retaining urban characteristics. Indeed, many disappeared completely. 3. Rural areas tEat remained rural areas with no particularly distinct central place in early medieval times. 4. Rural areas in which a distinct and major central place developed through the course of early medieval times. We intend to substantiate our model throngh a discussion of the ceramic evidence relating to each category. Althongh a certain amount of repetition is necessary, it will be kept to a minimum.ù Urban archacology and in particular work on early medieval Urbanism in central and southern Italy is still in its infancy. For the time being we identify successful towns with Rome, Naples, Otranto, Benevento and probably Reggio Calabria and Bari, although future work may revise and add to the list. Clearly there are other Roman towns which continued to have an administrative role throughout the early medieval period; however, whether they were urban in economic terms is uncertain, and until further archacological research has becn carried out these have been excluded. It is not surprising that our successful towns are both towns that were still very important in late Roman times and are, in general, quite important today. Those that have becn excavated have yielded abundant ceramic material dating to late Roman times, including a wealth of imports from areas such as North Africa and the Eastern Mediterranean, and indeed most examples of seventh century imported wares, including the latest production of African Red Slip ware. During the fourth, fifth and, at least, part of the sixth centuries, the local pottery found both on urban and rural settlements seoms to have come largely from a few major production sites. Indeed, both the forms and fabrics appear highly standardized and competentlyworked. In Naples, for example, much of the pottery of this date seoms to be identical to that produced in the ager Falernus kilns and paralleled by examples from the sites of Posto and San Roccò~Francolise, two Roman villas close to the kiln sites. ScientiOc analysis of the pottery fabrics is needed to prove that the ager Falernus supplied Naples, but the two areas lie only some 50 kms apart and were well connected along the coast. The various kiln sites of the late Roman pottery industry of the ager Falernus appeared during the frst century A.D., following a long tradition of ceramic manufacture in the areat:. Right from the start they produced African Red Slip ware imitations. In the fourth and f~fth centuries African Red Slip form Hayes 61 was manufactured in quantity, alongside imitation African lamps and a whole range of local forms, including ronletted cups and bowls and mortaria, all bearing an orange, red or brownish overall matt slip. Some of the vessels had applied pellets or pastilles of clay decorating their rims. Similar applied pellets have becn found on a slipped flanged bowl at Benevento, on a jug handle from Acerra, on the rims of basins from Atripalda and Venosa, as well as at San Giovanni di Ruoti and nearby Calle di Tricarico. The products of the late Roman industry of the ager Falernus find close formal parallels amongst products from kiln sites in southern Lazio (San Quirico) and at Calle di Tricarico, Basilicata, which will be discussed below under rural productions, as well as amongst other producrions whose centres
have not yet becn located. The wares from the production site of San Giacomo degli Schiavoni, Molise, for instance, fit into this pattern of late Roman industries. Around Rome, the pattern seoms to have been analogous although in this area the tradition of slipped pottery seoms to have played a more marginal role in late Roman productions. Whitehouse, whilst discussing such pottery from the Schola Praeconum, remarked that they belong to a large, but at present illdefned, group of'colour-coated'wares, which continued to be made until at least c. 600”. Manyofthe production sites seom to have essentiallyclosed down during the course of the f fth or f rst half of the sixth century. However, from the point of view of product standardization and competence these industries may also fmd parallels in more short-lived productions such as tEat of the so-called Venafro type ware, which continued into the sixth century. Venafro type ware is a pottery that comprises prevalently whole forms in an orange-brown fabric with a characteristic highly burnished exterior surface overpainted with fne geometric decoration in thin red strokes, rather after the fashion of the Carthage painted wares. Although the f~rst discoveries made at Venafro, which are so abundant as to suggest a fairly local production, were not closely datable, later f~nds suggest a chronological span for the ware from the fifth to the sixth centuries. Furthermore, a very similarware, but lacking the painted decoration, and which has becn termed a stralacido, was common in Naples from about the end of the fourth and early fifth centuries, becoming very common in late ffth and early sisth century contexts and disappearing by the seventh century. The Venafro type ware has since becn found at Forum Claudii, Saepinum and San Vincenzo al Volturno. The burnished ware commonly found in Naples has also been found at Capri, S. Anastasia, Nola, Atripalda, Agropoli, in the area of Avellino, as well as at San Vincenzo al Volturno, Venafro, Saepinum associated with Venafro type ware, and at Matrice, in Molise, San Giovanni di Ruoti, in Basilicata and even as far south as Tropea, in Calabria. The latest ceramics from these late Roman industries seom to have overlapped during the later fifth and early sixth centUry with a series of new products that set the stage for the typical early medieval wares. These have becn identif ed at Naples, Capua, and elsewhere and are still of a high technical standard when compared to some of the rural 'cemetery' vessels found in southern Italy (Fig. 2). A number of differences may, nonetheless, be noted. Ronlettingwentoutwith the disappearance oftheindustries. More significantly, painting replaces overall slipping, perhaps going through intermediate stages of partial slipping by immersion and slip coating throngh the use of cloth and brush strokes. Furthermore, thongh forms are repetitive, there is perhaps less standardization, suggesting that the material did not come from any single large "industry", but perhaps from a number of smaller, part-time (?), producers. One of these existed near the amphitheatre at Cumae, where old excavations revealed a dump of kiln material comprising one and two-handled jugs with broad painted festoons. A similar phenomenon seoms to have taken place in the Rome area, though perhaps slightly later. The late Roman productions of this area have still to be clearly defined. However, at the excavations of Pianabella (Ostia Antica), pottery with painted decoration appears alongside partially/completely slipped vessels in the sixth to seventh centuries and by the later seventh to eighth centuries has totally replaced the latter. However painted products, althongh destined to have a wider, although brief diffusion during the late eighth and early ninth centuries, were never produced in any signif~cant quantity in the Rome area. The late Roman phenomenon of dirigisme seems to have developed from the fourth century, althongh it probably bocame evermore vital during the later sisth and seventh centuries with the collapse of a generalized market system: the actual incidence of this and forms of open market exchange on the economy is still a matter of some debate~f. It is very diff~cult to detect forms of directional trade: however, we believe that the archacological distribution of some specific ceramics may be an indication of the presence of the phenomenon. In the early sixth century standard late Roman amphora types are still found on many settlements, even if they tend to fall off in quantity and variety of types in rural areas, clearly at some distance from ports of trade. A few ampLora types have in contrast very market preferential distributions. The later sixth and seventh century "Samos cistern
type" amphora, probably produced on the island of Samos itself, reaches the western Mediterranean, although it appears only at the largest of urban settlements, or on minor sites that were clearly linked to Byzantine political strategy. The former sites comprise Rome/Portus, Naples, Ravenna/Classe and Carthage. The latter include the castra in north-east Italy, the castra around Naples and the short-lived port of Kaukana in Sicily, expressly mentioned by Procopius. Good quality and professionally produced domestic, painted and cooking wares, however, never seom to have disappeared from the urban markets of Rome and Naples, suggesting a substantial continuity in these markets. Although we have few well-dated seventh century groups from either site, the eighth and early ninth century ceramic assemblages from Naples are so similar to those from Rome as to suggest close contacts betwecn the two cities (Figs. 3-4). Indeed, it wonld be worth esamining the possibility of trade in ceramics between the two sites through fabric analyses. This has becn done for the typical examples of Forum ware found in Naples which, however, appears to fall into a petrological group distributed in Campania and Molise, and not into groups distributed in the Rome area+S. Other very similar products common to both Rome and Naples include painted wares: large two-handled jars, small pots with tubular spouts, trilobed jugs (?) and occasional bowl forms (Fig. 3.35; Fig. 4.4-5; Figs. 5-ó). The Naples potters, however, appear to have applied a certain amount of fantasy in the painting of their wares, with spots and spirals accompanying the more usual painted bands (Fig. 5). Spot-painted vessels are not common althongh a jug from the Lombard cemetery at Vicenne bears such decoration combined with bands, and a beaker with spots has just becn unearthed at Oria in Puglia. The potting clay of the Neapolitan ceramics is very refned, contrasting both with earlier pots, with the vessels from nearby Ischia, and with many found in other parts of southern Italy. Byzantine influence seoms to be fairly clear in the late poorly made lamps of so-called "Sicilian" type as is expressed by f nds from Sarachane. They occur on various sites in the Byzantine Mediterranean, including in Italy, Rome, Naples, Ischia, Cumae and Reggio Calabria. A Sicilian origin for at least some of these fnds is very probablei7. Lamps often accompanied cargoes of food supplies, and in fact their diffusion corresponds with the decline in Tunisian products and with a period of growing prosperity for Sicily which exported grain towards Constantinople, Rome and Naples. Their later, eighth and early ninth century derivatives, the lucerne a ciabatta, are in many cases found on the same sites, but are probably local productions. They are common to both Rome and Naples (Fig. 3.ó; Fig. 4.ó), whilst a locally produced example has just becn found at the early medieval kiln site of Otranto~~. They are so far singularly absent from Lombard areas. The same types of transport amphorae are also very common in Rome (Crypta Balbi), Portus and Naples in the eighth and early ninth centuries, and were certainly produced at both Ischia and Misenum (Fig. 3.1-2; Fig. 4.2-3), indicating a surplUs in agricultural production and the exportation of a liquid commodity which was almost certaiuly wine. Increased regionalization from around the seventh century may be expressed by the ceramics from Ischia. Althongh the island lies very close to Naples, much of the pottery there appears to have becn produced locally with its own idiosyncrasies. The trilobed jugs with broad painted spiraling bands around the body, for example, often bear zig-zag lines incised around the shoulders. They appear to be approximately of seventh century date, as may be the lipped and flanged painted bowls which had iron-oxide trituration grits applied to the interior surface in the fashion of earlier Roman mortaria, and small painted cupss,. Large basins with broad painted arcs were probably also produceds . The only territory closely dependent on a major urban site for which we possess any evidence post-dating the seventh century is that of Rome, where a series of sites has now becn excavatedS3. Pride of place amongst these should be given to Santa Cornelia and Monte Gelato, both of which appear to be part of the domuscalta of Capracorum, founded during the late eighth century by pope Hadrian I. The domuscHltae in the Roman campagna are to be considered as satellites of Rome, as their agricultural production was expressly geared to the needs of the Papal State. Right from the time of their foundation, the same ceramic products are found as exist in Rome itself and there is evidence
for ceramiqic production, not only of domestic pottery, but probably also of a luxury product such as Forum ware. The ceramic production of the late eighth to early ninth centuries is distinguished by the richness of the decoration and finishing techniques, strikingly secn in the Forum ware with its thick glaze and elaborate applied decoration, but also in the domestic pottery with its characteristic incised combed decoration, knife trimmed bases and light surfaces giving the appearance of a slip. These developments are a further reflection of the cultural and economic revival of the urban centre, the result of the new alliance betwecn the papacy and the Carolingian empire, and renewed links with its territory. Prior to the foundation of the domasc?~llae there is little or no evidence for pottery in the Campagna and clearly this revival is directly linked to the reorganization of the area by the papacy. The foundation of the domHscaltae may have created the conditions necessary for the emergence of independent professional potters who conld also have exploited an existing system of transport and distribution, however it is also possible that in this initial phase the Church had a role in the production and distribution of pottery, perhaps with the presence of "attached specialists''St~. From the later ninth, and especially from the late tenth/1 1th centuries, the pottery appears evermore standardised. There is a gradual reduction in the range of forms (increasingly limited to a restricted number of standardized types), the fabrics become more refmed and the walls of the vessels increasingly thinner. At the same time the rich decoration of the late eighth and early ninth centuries gradually bocomes more simplifTed and during the tenth century fTnally disappears. There is a marked decrease in the quantity of glaze adopted on the Forum ware which by the 11th century has evolved into sparse glazed ware. All of these are elements which soggest increasing mass production and they coincide with an increase in the amount of pottery in circulation, especially evident in the Roman campagna. A full understanding of the circulation of pottery in early medieval towns requires examination of the evidence from Benevento, Reggio Calabria, Bari and Otranto. From 570 Benevento was the centre of Lombard domination in the south, and it has becn the focus of considerable archacological work over the last decade which has yielbed abundant early medieval remains, although these remain unpublished. For the moment, we may only hypothesize as to what some of the Beneventan material may be like throngh Peduto's escavations in Beneventan Lombard territory, which are discussed below. The only major archacological site excavated at Reggio Calabria that has yielded early medieval phases is that at the new "stazione lido", for which only fragments of ceramiGa a vetri,,a pesate have becn published. It wonld not be surprising if Reggio Calabria essentially repeated the patteros of pottery use noted for Syracuse where, again, very little is known, althongh imported unguentaria of the seventh century are worthy of note as an indication of continuing commercial contacts with Byzantium. Similarly, rather little is still known about Bari, althongh fairly recent excavations have revealed some pottery which, taken with other archacological and literary evidence, seoms to support our prediction for its status along with the few other major sites in early medieval southern Italytt~. Work at Otranto, stimulated by Francesco D'Andria, has recently provided information on seventh, and perhaps early eighth, century pottery production and a fairly reliable sequence of early medieval ceramics from the ninth/tenth centuries onwards. This later pottery includes abundant~painted and cooking wares and suggests probable continuity in professional production, although the sequence for the eighth and part of the ninth centuries still needs to be clarif ed. Close links with the eastern Byzantine empire are particularly noticcable, both in the seventh century, with the local production of coarse wares and amphorae in forms identical to those of some eastern Byzantine areas, and at the turn of the millennium, with the presence of glazed imports of Byzantine production. The 1 2th century fTnally sees a radical change in pottery manufacture and technology, in particular the introduction of glazed wares over the entire peninsula and presumably a change in the organization of workshops. This is a clear result of the growth and development of a new market economy.
2. Unsuccessful towns Unsuccessful towns are numerous in central and southern Italy, althongh few have yet been studied as regards their latest phases of occupation as towns or as something else. Amongst the best documented we may count Scolacium in Calabria, Ordona and Canosa in Puglia, and Metaponto, Grumentum and Venosa in Basilicata. What is striking is that the latest contexts identif ed at most of these sites are characterized by imported African Red Slip ware and Late Roman C, alongside pottery from the late Roman ceramic industries (see above). This does rather suggest that the main period of urban abandonment coincides with the disappearance of these industries. We have given these industries urban connotations even if, at present, known examples appear in the Roman countryside. This is bocause althongh they were not generated by any single urban market, they served various urban and rural markets through the system of n~u',,dinae or market-days that rotated around various towns according to fTxed regulations~2. Country areas were more often than not served by products available throngh these channels and when more ceramic evidence is available we will probably be able to plot the fall-offs of various products not only with distance from the manufacturing sites, but also with distance from towns involved in the dirae. This is an effTcient indirect distribution system. Fairs continued into medieval times, althongh they appear to have becn either small market concerns, reaching a limited area and, presumably, supplying a limited range ~?f predominantly agricultural products, or very large and very occasional affairs, at major sites, of ren of pilgrimage. Thus Cassiodorus describes the major fair of St. Cyprian, which was held on September 16th, at the ancieur sacred spring of Leucothea, in a plain at Marcilianum (Sala Consilina, SA): “ Everything that industrious Campania, or opulent Bruttii, or sheep-herding Calabria, or strong Apulia produces, is there to be found exposed for sale, on such reasonable terms that no buyer goes away dissatisfied. It is a charming sight to see the broad plains filled with suddeoly-reared houses formed of leafy branches intertwined: all the beauty of the most leisurely-built city, and yet not a wall to be secn. By the later sisth century, the regular market was both a thing of the past and of the future. Clearly when towns declined the markets declined with them and the rurally-based ceramic production sites bocame anti-economical for professional potters. Though their position had becn based on primary resource location (clay, wood, water, etc.), this was with the guarantoe that large markets were readily at hand throngh an effTcient (Roman) communication network. However, the collapse of many pottery industries in the fTfth and sisth centuries is probably not only to be explained by cessation in demand (althongh demand presumably diminished with diminishing population levels) or by rising marketing costs, but also by internal costs. As population levels dropped and intensive agriculture diminished, agricultural surplus bocame increasingly restricted and more highly valued as an exchange commodity. It would therefore be used primarily for exchange with money to pay taxes or for eschange with other basic goods. In this context we conld expect the emergence of an economic system directed principally towards fundamental needs. Pottery could, instead, be made by the houschold or by a houschold industry for group use and this seoms to be a pattern that emerges with the development of the village community. Only more developed societies conld permit the maintenance of a full-time workforce devoted to non-agricultural pursuits. As evidence for these industries does not generally run past the early sixth century, it may be suggested that in some cases the Greco-Gothic wars provided the fmal blow, althongh such a major trauma can only have becn the soup degrace to a pervasive market system that had becn deteriorating steadily from about the later fourth century. Some unsuccessful towns were totally abandoned, whilst others seom to have remained the site of limited pogulation groups that may, to all intents and purposes be termed rural. Certaiuly much evidence of such minor occupation has becn shovelled away by excavators in the past, eager to uncover classical remains. At times, all that has becn noted are occasional burials, that rarely escape the archacologist's attention, with often undefmable ceramic types not easily paralleled by successful town wares (see below). A good case in point is Paestum, where Paolo Peduto has attempted to
recover surviving scraps of evidence for the late Roman and early medieval phases of occupation with a certain measure of success. Unless the limited occupation of these sites was provided for by a central authority, perhaps for defense or for rural administration, the ceramics are probably going to reflect a low-level rural economy, which is discussed below. The nature of ceramic assemblages might thus be a key in interpreting the role of minor occupation on unsuccessful town sites, if not also on other rural sites. For example, the esccedingly high proportion of seventh century spateia found at Piscopio, outside of Vibo Valentia, or the Samos cistern type amphora from the declining town of Velia (SA), have becn used to argue dirigisme to minor sites that may have played an important role in state or ecclesiastical administration. Percortra at the Roman town of Rieti (Lazio), which during the later 6th to 8th centuries maintained an institutional importance as a Lombard gastaldate, the ceramics of this period suggest that despite irs administrative role, the economy was at a level which from a ceramic point of view conld be termed rural (see below, rural areas). 3. Rural areas without central place Rural areas without a central place are those that we have identified as being rural by late Roman times and which continned to be rural throngh early medieval times without the presence of major central places. Small central places generally existed, be they small Roman agro-towns in late antiquity or developing large villages and fortifed sites (incastellamento) later. The rural settlement pattern characteristic of the late Roman period is still not particularly clear. Historical and archacological evidence seoms to show that the period was characterized by the increasing abandonment of small (medium-sized?) sites and the survival of some large sites, perhaps as estate centres in the mode of latifa??dia. However, it is possible that the smallest peasant structures are not readily identifTable in the archacological record. Nonetheless, recent field surveys and excavations are beginning to shed some light on developments in late Roman times in rural areas in central and southern Italy. Some points may be considered in the present context. Until the early fifth century the pattern of ceramic consumption on urban and rural sites seoms to be essentially the samet~. From the mid fTfth century onwards imported wares arrived in greatly reduced quantities on most rural sites, presumably indicating some disruption in the regional exchange networks that supplied these wares. This is particularly clear at the excavated villa sites of Posto, San Rocco, San Vincenzo, Matrice, San Giovanni a Ruoti and Monte Gelato. A few sites near the coast, such as Sperlonga, continued to reccive imported pottery, although why this should be so is not clear. Nonetheless, despite the increasing rarity of imported ceramics, the evidence shows that up until the late fTfth to early sisth centuries a wide range of standardised products produced by local or regional specialist potters continued to be available. It is significant that these products do not differ substantially from those reaching urban sites and, as we have suggested above, both regional and local supply mechanisms still based on,dinae continned to operate. Recent studies of one of the most characteristic late Roman wares - slipped and painted pottery - seom to provide signifTcant indicators as to the nature of the economic systems in this period. Before discussing this pottery it is necessary to clarify exactly what we mean by slipped and painted. There is some` confusion as to the terminology employed to describe these wares - painted being used to describe slipped and vice versa. In this paper we refer to slipped vessels as those with a slip covering partially or entirely one or both surfaces of a vessel. In general the slip is applied throngh total or partial immersion, althongh in some cases a cloth seoms to have becn used to smear the slip on. Partial~y slipped vessels often betray drops of slip running over the interior or exterior unslipped lower surfaces. The term painted is used to def ne vessels clearly decorated with lines of slip, whether broad or narrow lined, with or without other 'random' or well-defined motifs, following a precise idea or mental pattern of the artisan. In general these lines and motifs have becn applied with a brush. Even thongh there may be some cases where it is not clear as to which category a particular vessel belongs,
these seom to be rare and, in general terms, our defmition sees to be appropriate in classifying early medieval ceramics. Slipped pottery is a characteristic element of (late) Roman assemblages througLout most of central southern Italy. In southern Italy in particular from the late Roman period (circa the mid to late fourth century onwards) a distinctive tradition seems to emerge. Vessels with slipped or partially slipped surfaces, in the same orverysimilarforms, are found overwide areas of southern Italy and form a major element of assemblages of this period. The earliest products are decidedly slipped. Sometime during the fTfth century vessels bearing both broad or narrow painted lines appear sporadically, although they are essentially characteristic of early medieval and later times, and gradually replaced the slipped wares, the latest examples of which appear to date to the seventh century. These slipped and painted wares are the most common type of fine ware found on sites in Campania, Molise, northern Puglia, Basilicata and Calabria and, whilst displaying many common attributes, do appear in distinctive local and regional variants. The evidence of slipped and painted wares is often used to argue continuity betwecn the late Roman and medieval periods, however the somewhat gradual passage from one to the other is probably indicative of some sort of higher level change which is not yet identifiable. The earliest late Roman slipped ware products are bowls, often ronletted, jugs and two-handled jars. From about the beginning of the ffth century these are increasingly accompanied by imitations of contemporary African Red Slip wares, especially form Hayes 61, closely coincidingwith the decline of exportation from North Africa, probably because of a decline in African productivity ratios, and thus clearly "flling the gap". All this suggests that the lack of imports was not the result of a fall in consumer demand or that the long-established exchange networks had already ccased to function. This seoms to be evident in Freed's detailed study of the wares circulating at San Giovanni di Ruoti, where imitations of even the most complex African forms have been found. Many of these may have becn produced at the site of Calle di Tricarico where kilus associated with large quantities of slipped and painted pottery have becn found, althongh the escavations remain unpublished. Of the many forms, three are particularly common: a two-handled narrow-mouthed jar, a heavy flanged bowl, sometimes with a tubular spout, and a deep bowl (see Fig. 7.2; 4; 5-ó). More or less identical forms have becn recovered from both urban and rural sites at Banzi-Cervarezza, Venosa, Atella, Grumentum, Metaponto, Buccino, Sibari, Egnazia, and rare examples have been found even as far as San Vincenzo al Volturno in Molise. They were certainly not all from one production site, as preliminary neutron acrivation analysis has shown. Furthermore, some of the forms found at Metaponto seom to betray eastern Mediterranean influence. Thus, in the end it is even possible to argue for a certain last-minute vitality in local pottery industries which in itself is indicative of a certain economic stability in these areas. This pattern appears to have survived until the early to mid sisth century when there was a dramatic change and the first patent signs of the everincreasing divergence betwecn urban centres and the countryside which was to characterise the early medieval period. During this period the maggrity of surviving villa sites in most rural areas appear to have becn f nally aba`ndoned. This is the case with the sites of Posto, San Giovanni di Ruoti, San Vincenzo and Matrice. The exceprions are somè coastal sites such as Sperlonga, some Iying in the immediate hinterland of major settlements, such as villas in the Phlegrean Fields near Naples, some sites in the hinterland of Rome, and perhaps some sites in southern Calabria. Althongh the abandonment dates of many of these sites are based on the absence of imported fne wares and coins, which creates a chicken and egg argument, their presence in the latest deposits of these sites and the absence of contexts with local ceramic types which continned to be present elsewhere, add more support to this hypothesis. On some villa sites careful excavation has revealed traces of later occupation, characterized by the rouse of Roman buildings and the adoption of wooden structures. However, the absence of pottery which continUed to be available in urban centres and on certain other sites where specialist production continued, implies a complete breakdown in the distribution mechanisms. Clearly the situation in this period is complex: however, all the evidence
indicates that where settlement of some sort continned after this date it was characterized by a lower level of material culture and a radical change in the socio-economic framework. In many ioland and marginal areas, we have no direct evidence for settlement following the abandonment of the surviving villa sites in the sixth century. Our rural ceramic evidence for this period comes largely from a number of cemeteries, in some cases associated with churches and in others with apparently deserted villas or farms. They are distributed thronghout central and in particular southern Italy. All these sites are dated principally from the later sixth to the later seventh centuries on associated numismatic evidence or metalwork. The ceramics contrast markedly with earlier pottety and with contemporary pottety circulating in towns such as Rome and Naples. This was noted as long ago as 1967, when Baldassarre analysed the potteryfromthe northerlycemeteries of Castel Trosino and Nocera Umbra. Indeed, many cemetery vessels from thronghout southern and central Italy display uneven profiles and irregular turning-marks although, as in the urban contexts, painted wares now predominate over slipped wares, save at Priverno and Castro dei Volsci, Lazio, where they are both absen. The restricted range of vessels found in the cemeteries may be partly explained by the choice of depositing only closed forms in burials as part of a specific rite as will be secn when we consider the, albeit limited, evidence from settlements, although wooden open forms may long since have deteriorated. These cemetery vessels have many elements in common, although some forms appear to be unique to certain areas. Of the cemetery vessels in the area of Matera studied by Salvatore, the most common painted ware form (Fig. 8.23; Salvatore's type 13) and similarcoarseware form (Salvatore's type 1 1, Fig. 5,4) are common on cemeteries of this date in both Apulia and Campania. One of the rural areas which is better known is the western territory of the duchy of Benevento. One of the earliest of these cemeteries, perhaps dating to the early sisth centUry, seoms to be that Iying to the east of Altavilla Irpina, in prop. Conte, Belvedere, where some slipped "late Roman industry" vessels were found in tile tombs (a cappaccizza), alongside cooking ware typesso. More typical seom to be the cemetery sites located by Peduto which yield a consistent group of painted, slipped and plain jugs and beakers, many trefoil-mouthed. A tomb group from Casalbore (AV) has yielded two slipped vessels which appear to be more suited to a sixth century context, thongh they are associated with orecchiri a cestello. Thongh they may in fact be seventh century, they raise both the problems of dating early medieval objects such as orecchir~i a cestello and pottery itself as well as that of ceramic residuality, especially in a period when houscholds may have becn particularly careful in prolonging the life-span of the more valued ceramic vessels. At both San Lorenzo at Altavilla Silentina (SA) and Pratola Serra (AV) some of the painted jugs were associated with coins of the emperor Heraclius (610-641), thus providing a secure terminus post quem for the depositionsNt. The general pattern seoms to repeat that of the pottery available on the nearby market of Naples, althongh with an impoverishment both of forms and manufacture. The cemetery area of San Marco at Grumentum, dating to around the seventh century andyieldingacoin of Heraclius (610-641), yielded three course pots~. One is a crude attempt at imitating the trilobed flagons of earlier times. It appears to have the unusual feature of a flat base, is undecorated, and is distinctly unaesthetic, leaving much to desire in the professionalism of the potter. Of particular interest is the cemetery of Vicenne, Bojano, where, alongside a painted jug, various hand-made cooking pots were found. Hand-made pottery is not common and this element might be explained by the particular nature of the cemetery which seoms to reflect a "traditional" group of Lombards, perhaps even semi-itinerant, buried with their horses. Thus in rural areas, according to the evidence from cemeteries, specialist pottery production was replaced by simpler modes of production that furnished coarse wares and painted vessels in a limited variety of closed forms. In some cases these were supplemented by wooden platters and bowls, such as those that have becn found alongside painted jugs with wooden bungs by Franciosi in a well at San Martino Valle Caudina (AV) and others found by Staffa in a pit at Pescara.
The little evidence we have for ceramic vessels on rural settlements of this period, suggests a similar phenomenon. Recent archacological work in the Sabina has identified some distinctive ceramic types of probable late sixth to seventh century date in deposits post-dating the latest African Red Slip wares. Although they have even turning marks and comprise open as well as closed vessels, they differ from the products available in the major urban centres, being limited to coarse ware vessels in a restricred range of forms. It is significant that the same types are present both on rural sites and at a small administrative centre such as Rieti. This maysuggestthat, despite the institutionalimportance of Rieti, which from the later sixth century was a Lombard sedegastaldale, its economy was essentially at a rural level. Specifc mention shonld now be made of southern Calabria, where important evidence has recently becn published thanks to a conference organised by the Soprintendenza and the French School at Rome in 1989. Althongh the pattern of villa decline is also evident, continuity in forms of Byzantine territorial organisation may have slowed down the process with respect to other areas. The Roman villas of Casignana Palazzi, Quote San Francesco and Gioiosa Ionica and the site of Paleapoli, Locri, have all yielded seventh century~pottery groups, and some perhaps reach the early eighth, such as the extra-mural settlement of Piscopio, Vibo Valentia Basins are usually common on these sites, generally bearing wavy-line incised or painted decoration on their rims, as are local transport amphorae, thus providing a parallel to the productions in Byzantine territories at Otranto and, presumably, Naples. All in all, the picture that emerges from southern Calabria is one of continuity in professional potting and supply, presumably fostered by the Byzantine administration. Indeed, the site of Piscopio seoms to have entered a preferential supply mechanism that made the most of surviving Byzantine territory in North Africa. From the eighth century, when the practicse of burying goods in tombs ccased, evidence for settlement and pottery is extremely rare in most rural areas of southern and central Italy. What evidence exists is limited to sporadic finds that are diffcult to date, such as those of Mondragone (site M 179) and Santa Maria in Civita. The deserted medieval village near Mondragone has yielded a pit group, with various well preserved vessels which are datable to the eighth or ninth centuries primarily on the basis of an amphora fragment similar to types produced in the Nagles area. The pit group almost seoms to represent a household assemblage and is composed of both painted table wares and a variety of cooking vessels, including a large cauldron or "stow-pot", small onehandled jars and a testo. Only the cauldron seoms to be significantly absent in the large urban assemblages. Santa Maria in Civita' is a hilltop site with radiocarbon dates ranging from the sixth to the ninth centuries: the pottery includes both painted table wares and coarse wares, including testi. Althongh most of these vessels are competently made, they may in part reflect household production. Whitohouse indeed, suggests that “in sparsely populated areas ... home production accounted for the majority of pottery made in the South in the seventh and early eighth centuries”. ;The later eighth and ninth centuries still remain largely a mystery, although shortly afterwards, coinciding with the phases of incastellamento, professional potters are attested in village communitiesa'. In fact in many rural areas it is only from this period that pottery is once more attested. If we adopt an argument of Arnold, it may be suggested that in the ninth and tenth century process of land occupation, new population pressure forced some such men into the craft of pottery production “bocause of their limited access to or ownership of agricultural land ”. Such a model however probably has only limited applicability given that in the initial phases of incastellamerto both ecclesiastical and seigneurial landowners often offered favourable terms to attract new settlers to the villages and work the lands. Two of the main consequences of incastellamento, concentration of population and intensification of agriculture, on the other hand conld have in many cases directly stimulated the emergence of pottery production. In fact some potters seom to have emigrated from leading settlements, presumably attracted by the new markets which the villages (castelli) represented. Toubert notes how the men who settled the budding agricultUral villages comprised not only farmers, but also specialist craftsmenso. The Chroricor Volturrense records the existence of two potters, Landus and Domenicus, who were amongst the 15 contractors granted land by the Abbot of
San Vincenzo to found a new village in the locality of Cerro al Volturno in 989~~. It is impossible to evaluate the social position of potters in these settlements. However, by the eleventh century magistrifig~lorHm appear close to leading central places and certain decorated pots begin to assume quite high values and travel notable distances. Despite these changes rural ceramic manufacture in much of central and southern Italy seoms to have remained at a basic level. 4. Raral areas whit developing central place We have identifed rural areas in which a distinct and major central place developed through the course of early medieval times with sites such as San Vincenzo al Volturno and Montecassino. We have left out lesser central places such as those represented by ir~castellamerto, which are referred to above. From the late eighth century in particular important foci of settlement in rural areas were the monastic complexes, such as San Vincenzo al Volturno in Molise, Montecassino in southern Lazio, and Farfa in the Sabina. For these areas, prior to the foundation of the monasteries, there is little or no evidence of settlement and pottery consumption following the abandonment of medium to large earlier Roman sites in the fifth and early sixth centuries. In other words the pattern was typically rural. The excavations of the monastery of San Vincenzo al Volturno have revealed a well-stratified sequence with rich ceramic deposits relating to the first, late eighth century, phase of the complex (before the construction of the main church in 803); to the early ninth century (the construction of the church 803-833); and to the mid to later ninth century (post construction of the church and prior to the Saracen attack, 833-881). These deposits are currently being studied. Painted pottery and coarse wares are characteristic of the assemblage thronghout the later eighth and ninth centuries. The mid to later ninth century pottery comprises painted ware in a wide range of open and closed forms, coarse ware jars, jugs and bowls, and a small amount of ceramica a vetrira pesarte. The forms, and in particular those of the painted wares decorated with irregular broad bands of red or brown slip, still betray a descendancy from Roman potting practises (Figs. 9-10). The coarse or cooking wares, on the other hand, apart from parallels in Nagles, include one large distinctive group of jars with angular collared rims which seom to find their closest analogies in south east France (Fig. 11.1-ó). Although no production centres for the ninth century pottery of San Vincenzo have yet becn found, petrological analysis indicates that the glazed pottery and some of the coarse wares were supplied by specialist potters outside the region (see, for example, Fig. 11.1-ó), whilst other wares are likely to have becn produced by the monastery itself (Fig. 11.7), perhaps by the monks or "attached specialists". Indeed, during the ninth century the complex was greatly enlarged and embellished and the settlement was transformed from a small community dependent on a modest church into a huge body of monks and lay-servants comprising an articulated social group revolving around the monastery and its terra. Craft specialisation took place thronghout this period, as is clearly evidenced by the glass and metal working furnaces and their products, the tile kiln, wall-paintings and the products of the scriptorium. Althongh documents indicate that settlement existed in the terra, intensive field survey and limited excavation of a church have revealed no ninth century pottery, suggesting that much ofthe terrawas aceramic or that the potteryin use was in no way comparable to that at the monastery itself. This further suggests that specialist products were virtually exclusive to the monastery and that it was both socially and economically distinct from its dependencies at this time. The pottery produced ourside the terra conld have becn produced by specialist potters in the dependencies outside the terra or by "attached specialists" who as part of their tribute to the monastery supplied pottery, or by potters who proftted from alinkwith the monasteryto sell theirgoods exploitingan already existing distribution system. In fact the nearest possible provenances for the clays of these non-local products are situated in western Molise/northern Campania and a large proportion of the donations of land to the monastery in the eighth and ninth centuries were in fact in this area';. A dependency in northern Campania, S. Maria a Fanciano (near mod. Falciano del Massico), has yielded good-quality painted
and cooking wares, perhaps in part produced locally, where good potting clays are to be found, and in part imported from Naples, where San Vincenzo had other dependent properties None of the pottety appears to have becn imported from San Vincenzo itself. Thus central place or not, the pattern in this case continnes to remain essentially rural until, at least, the turn of the millennium. In the tenth and 1 lthcenturies averydifferentpicture emerges. Following the Saracen attack of 881 the monastery was abandoned. When the monks returned at the beginning of the tenth century, whilst previously they had done little to develop the potential economic resources of the terra, they now found themselves in f~nancial difficulties and as a result they reorganized the terra with the foundation of many hilltop settlements, linked with land clearance and the intensifcation of agriculture. It is only from this period that we have evidence for the use of pottery outside the monastery itself In the monastery, the pottery characteristic of the tenth century is very different, with a more restricted range of forms. The coarse wares seom now to be limited almost exclusively to local products - jars in a calcite gritted fabric (Fig. 12,1-2). Althongh painted pottery continnes to be present in large quantities, it is limited almost entirely to closed forms. Field survey of the terra has identified some of these incastellamerto sites, two of which, Colle Castellano and Vacchereccia, have been excavateds7. A11 these sites have yielded pottery, but more signifcant is the fact that it is identical to that of the monastery (see, for example, Fig. 12,1-5). The evidence therefore indicates an important change in the social and economic relations between the monastery and its terra. It is probable that the creation of these concentrated settlements would have encouraged production and we know that two potters were amongst the people who founded the village of Cerro al Volturno (see above). It is notoworthy that the only vessel well represented on the incastellamento villages but not at the monastery is the testo or portable baking oven (Fig. 12.ó-8). This is probably a reflection of diverse cooking methods; at the monastery we can suppose the use of a centralized baking oven (as illustrated in the plan of St. Gall) where the kitchen served the` entire congregation, and the use of a hearth by the inhabitants of the villages. We lack evidence for Montecassino, but archacological work carried out at the monastery of Farfa and its territory suggests a similar pattern. At Farfa little material of early medieval date was recovered. From the ninth century the presence of small quantities of Forum ware of Rome production indicates renewed contacts with the capital, as this area of the Sabina once more came under Papal control. These products do not however seom to have becn available outside the monastery itself In fact in the terra of Farfa, it is only from the late tenth/early 11th century, that small groups of Forum ware and sparse glaze ware typical of the Rome productions are present on incastellamento sites such as Rocca Baldesca and from the 11th century on various sites identified by the survey, associated with coarse and domestic wares probably of local production. T`hus the evidence from Farfa sUggests, as at San Vincenzo, that the wider availability of ceramic products was in some way linked svith the process of incastellamento. Conclusion In this essay we have attempted to use the ceramic evidence to propose social and economic models. The model presented here is perforce preliminary and may not stand up to future research, but we feel that until ceramics are used to postulate social and economic models their potential is not being fully realized. We strongly believe that ceramic research is one of the areas in which archaeology contribute forcefully to understanding Roman and medieval Italy. PAUL ARTHUR, HELEN PATTERSON A causa di problemi di acquisizione a computer, non è stato possibile inserire le note e la bibliografia.
Potere e attività mirerarie nella Toscana altomedievale
Premessa Il rinnovato impegno storiografico diretto all'indagine delle attività estrattive e metallurgiche è motivato non solo dall'interesse alle vicende tecnologiche, ma anche dalla possibilità di verificare le dinamiche sociali connesse a questo settore economico. La conduzione di imprese minerarie richiedeva intrinsecamente investimenti, capacità tecniche, strumenti di controllo sugli uomini e sul territorio, tutti motivi che determinarono uno stretto legame con l'esercizio del potere economico, politico, militare. Negli ultimi anni si sono andate sviluppando l'archeologia mineraria e l'archeometallurgia, con l'obbiettivo di avvalersi degli strumenti conoscitivi propri delle discipline storiche e naturalistiche. In Toscana, in particolare, I'analisi delle vicende di un consistente numero di castelli (40 circa) localizzati in aree minerarie, lo scavo avanzato del villaggio e delle miniere di Rocca S. Silvestro, I'indagine archeologica appena iniziata sul castello di Cugnano, ci permettono di tornare a leggere la documentazione scritta con una griglia interpretativa rinnovata. In tal senso, laddove documenti ed evidenza materiale concorrono a mettere a fuoco i problemi di una storia delle tecnologie estrattive e metallurgiche, nei contesti in cui i rapporti tra potere e società attendono ancora un contributo sostanziale dall'archeologia, i dati acquisiti costituiscono una base indiziaria sufficientemente esplicita per individuare nuove linee di ricerca che permettano una più completa ricostruzione storica. 1. Attività estrattive e metallurgiche fra età tardo Artica ed alto Medioevo. Una proposta metodologica applicata sa scala regionale Lo studio delle attività estrattive e metallurgiche nel periodo successivo alla crisi dell'Impero Romano deve confrontarsi con gravi difficoltà nel reperimento e nella valutazione critica delle fonti. I riferimenti a questi temi in scritti di carattere letterario o giuridico sono sporadici, laconici e comunque difficilmente inquadrabili cronologicamente; problematica è pure la valutazione delle testimonianze materiali - antiche escavazioni e resti legati alla metallurgia estrattiva - sia per ostacoli interpretativi oggettivi, sia per una certa tendenza storiografica ad enfatizzare il peso delle lavorazioni delle età romana e preromana 1. In epoca post-classica lo sfruttamento minerario di oro ed argento ha lasciato maggiori testimonianze scritte e materiali rispetto a quello degli altri metalli, a causa del costante interessamento del potere per tali produzioni e del notevole sforzo materiale che esse comportavano 2. L'elaborazione di una tipologia datante delle escavazioni minerarie è appena agli inizi, anche per le difficoltà di recuperare contesti stratigrafici integri e cronologicamente individuabili. Le attività minerarie successive hanno violentemente sconvolto pozzi, gallerie, discariche di sterile, cumuli di scorie, che caratterizzavano il paesaggio di molte località dell'Italia centrale tirrenica, come quello di altre regioni europee. Per questo appaiono particolarmente significative le descrizioni effettuate da geologi e naturalisti prima delle recenti distruzioni di testimonianze archeominerarie, seppure siano stati generalmente poco affidabili nei loro tentativi di inquadrare cronologicamente le opere degli "antichi". La letteratura geologica e naturalistica sovviene lo studioso dell'alto Medioevo anche quando non rileva l'esistenza di opere estrattive, ma descrive semplicemente i caratteri delle mineralizzazioni metallifere. Lo sfruttamento altomedievale, intrinsecamente precario, sembra essersi rivolto a contesti minerari che, sia pur di scarsa entità, presentavano una elevata concentrazione metallica, erano reperibili senza eccessivi sforzi estrattivi e richiedevano semplici trattamenti metallurgici. Il contesto socio-economico di questi secoli lascia intravedere interventi superficiali e su scala modesta, senza l'impiego sostanziale di gallerie e cunicoli o con un riutilizzo parassitario di quelli già esistenti:
tali operazioni hanno prodotto tracce materiali assai difficilmente rilevabili, frequentemente obliterate da ben più massicci interventi posteriori e in genere sfuggite o comunque ignorate dai geologi 3. In età industriale, le imprese estrattive si sono in genere indirizzate a depositi, la cui natura fisica (profondità, soverchi allagamenti) o giacimentologica (ad es. piriti di ferro) avrebbe precedentemente reso improponibile una coltivazione, mentre hanno dedicato scarsa attenzione alle mineralizzazioni più esigue, anche se di ottima qualità. Da ciò consegue che una applicazione analogica dei loro modelli produttivi non porterebbe a risultati apprezzabili sulla produzione mineraria altomedievale. In questa sede si è inteso valutare i dati sulle antiche lavorazioni minerarie dell'Italia centrale tirrenica applicando il metodo regressivo a partire da contesti di età preindustriale, caratterizzati da apparati tecnologici e produttivi, non assimilabili toit court a quelli altomedievali ma ad essi relativamente vicini. Per ricostruire le vicende minerarie altomedievali occorre inquadrare il fenomeno nell'evolversi del sistema insediativo, nelle dinamiche del popolamento e nelle modalità di esercizio del potere. A tale scopo appare necessario prestare particolare attenzione ai rapporti topografici tra insediamenti ed aree estrattive o comunque dotate di mineralizzazioni utilizzabili 4. L'ubicazione di un abitato in prossimità di escavazioni è un dato rilevante, anche se non sufficiente di per sé ad esplicitare l'esistenza e la natura di produzioni minerarie. Tale indeterminatezza si restringe quando è possibile rintracciare precoci attestazioni documentarie o testimonianze archeologiche di attività estrattive, che illuminano anche la documentazione anteriore e sembrano palesare "tracce nascoste" dello sfruttamento minerario 5. 2.1. Il contesto europeo e la situazione dell'ltalia centro-settentrionale Il collasso del sistema economico tardoimperiale incise in modo profondo sui processi lavorativi maggiormente specializzati. In campo metallurgico, analogamente a quanto accadde per la manifattura ceramica, ad un radicale riassetto dell'organizzazione produttiva non corrisposero mutamenti tecnologici di rilievo tra età Romana e Medioevo 6. I vuoti laseiati dalla scomparsa degli apparati produttivi di età Romana furono colmati solo in parte dal riemergere di piccole iniziative locali in un sistema economico chiuso, tendenzialmente portato all'autoconsumo 7. Nella maggior parte dei casi, modeste attività estrattive o una semplice raccolta di prodotti minerari potevano essere svolte dagli abitanti di località più o meno vicine ai giacimenti attraverso un impegno temporaneo, talvolta stagionale, che si integrava con l'esercizio di più comuni attività agropastorali 8. A giudicare dai rarissimi riferimenti scritti alle attività minerarie in Italia, sembra ragionevole ritenere che produzioni di una certa rilevanza proseguirono per tutta l'età Romano-imperiale nelle isole (Sardegna, Elba, forse Sicilia 10), in contrapposizione ad una sostanziale stasi sulla terraferma, forse derivante da ostacoli legislativi 11. Una testimonianza signifcativa risale al 378 d.C., quando venne richiesto ai prefetti dell'Italia e della Gallia l'arresto dei metallarii fuggiti dalla Sardegna 12. I caratteri chimici e giacimentologici dei minerali condizionarono le modalità del reperimento e dell'utilizzazione dei diversi generi di metallo, nonché le loro vicende produttive e commerciali. La produzione di ferro, i cui depositi presentano una larga diffusione nel territorio, fu caratterizzata da un'elevata frantumazione delle iniziative estrattive e siderurgichet2; la materia prima fu spesso reperita con modestissimi interventi a cielo aperto, utilizzando anche i minerali generalmente presenti nella parte superficiale dei più diversi giacimenti metalliferi (il c.d. "cappellaccio") 13. Del resto il peso complessivo di iniziative produttive locali di modesta ed infma entità era stato rilevante in età Romano-imperiale e non venne meno neanche con la rivoluzione economica del secolo XI, quando prese nuovo impulso lo struttamento di distretti minerari specializzati nella produzione di ferro 14. Una diversa condizione ha caratterizzato l'argento: metallo poco diffuso, costituiva un indubbio indice di prestigio sociale, ma la sua estrazione e lavorazione richiedevano notevoli energie e verso le
risorse argentifere dovettero indirizzarsi con maggior convinzione le ambizioni dei ceti eminenti altomedievali. Sembra quindi che in questo settore il ridimensionamento delle imprese minerarie non si tradusse nella completa dispersione in modestissime attività estrattive, ma in una relativa frammentazione delle iniziative entro specifici comprensori 15. In un contesto segnato dalla generale scomparsa delle imprese maggiori, I'oro alluvionale poteva venir raccolto e trattato anche su piccola scala e con semplici lavorazioni. La coltivazione e la metallurgia estrattiva del rame, decisamente più complesse, dovettero mantenere, invece, una certa concentrazione produttiva nelle aree meglio provviste; in molte regioni europoe si verificò, comunque, una drastica limitazione dell'impiego di leghe cuprifere, il cui approvvigionamento era aff~dato essenzialmente alle correnti di scambio 16. 3. Potere "pubblico " e sistema produttivo minerario e metallurgico nella Toscana dei secoli VIII-X 3. 1. Metalli e circolazione monetaria L'esame della circolazione monetaria fornisce elementi indiretti per la valutazione della produzione metallica altomedievale. Mentre già dal VII secolo le regioni dell'Europa nord-occidentale erano caratterizzate dalla circolazione argentea, sino alla fme del secolo successivo il regno longobardo rimase nell'ambito della monetazione aurea e vide il passaggio ad un sistema basato sull'argento solo a seguito della conquista franca 17. La riforma carolingia comportò in Italia un accrescimento della domanda di argento 18 ed una decisa contrazione della disponibilità di oro, confermata tanto dalle fonti scritte quanto dalle testimonianze archeologiche 19 La documentazione privata relativa alla Tuscia pare indicare un più tardivo recepimento della monetazione argentea in ambiente lucchese 20, rispetto alla porzione meridionale della regione, ove aveva sede il monastero regio di S. Salvatore sul Monte Amiata. Il concilio di Francoforte, che stabi l'adozione del nuovo sistema monetario nel regno d'Italia, si era tenuto nel maggio del 794 e già nel settembre le sue direttive venivano concretamente applicate da questa abbazia, che da allora avrebbe ammesso l'uso esclusivo di denari “quales tunc per tempore per ista patria ierint ” 21 (nei primissimi anni del IX secolo si richiese più semplicemente l'adozione di denari monetati, attraverso clausole che non caratterizzarono né la coeva documentazione lucchese, né gli atti posteriori relativi allo stesso monastero ami atino). Sembra perciò di intuire come in alcune aree della Tuscia meridionale - in particolare nei territori "papali" di Sovana e Tuscania - si sia risposto alla scarsità di circolante, palesatasi anche in ambiente lucchese, con l'uso di argento non coniato, una pratica inaccettabile per l'abbazia regia in quanto lesiva del prestigio e delle casse dell'Impero 22. Le diverse reazioni registrate nelle due parti della regione all'introduzione della riforma erano connesse al minore squilibrio tra richiesta monetaria e difficoltà nell'approvvigionamento di metallo che caratterizzava il comprensorio amiatino rispetto all'area di influenza lucchese: la Tuscia meridionale era infatti relativamente spopolata, vi affluiva argento dalla vicina Roma, dove copioso giungeva dal nord Europa;, e le diffuse risorse minerarie locali potevano alleviare la generalizzata penoria di metallo 23. 3.2. Comprensori metalliferi e aree di consumo; il ruolo dei coloni e degli artigiani Non sono molte le informazioni sui meccanismi attraverso cui venne soddisfatta la domanda di metallo nella Toscana altomedievale. I minerali del ferro erano reperibili a sufficienza in alture non lontane dalle principali aree di consumo, in quanto piuttosto diffusi sui rilievi preappenninici, nelle aree collinari e sulle pendici del massiccio amiatino s. Censi in ferro percepiti in alcune curtis toscane sono indice di diffusa utilizzazione dei modesti giacimenti locali e, forse, di una produzione siderurgica condotta da mar,7er.7tes 26; ricordiamo i romeri versati nella seconda metà del IX secolo all'episcopato lucchese da un abitante di Cz~stodia (località sulle propaggini settentrionali del Monte
Pisano 27), nonché i [omeri e le ferramenta ottenuti tra IX e X secolo dal monastero di S. Salvatore sul Monte Amiata 28. Questi censi amiatini appaiono di particolare interesse in quanto sono relativi ad un molerdiam idraulico, sorto in prossimità di giacimenti ferriferi di ottima qualità: alcuni elementi indiziari sembrano ricondurli ad una precoce applicazione dell'energia idraolica alla manifattura del ferro, documentabile nell'area durante i secoli XII-XII 29. Analogamente a quanto è testimoniato per i monasteri di S. Colombano di Bobbio, di S. Giulia di Brescia e di S.Vincenzo al Volturno, alcuni centri di signorie fondiarie della Toscana furono probabilmente sede di attività metallurgiche 30. L'approvvigionamento dei metalli non ferrosi risultava di maggiore difficoltà; per sopperirvi ci si rivolse probabilmente verso quelle regioni che offrivano mineralizzazioni ad alto tenore metallico (le Apuane, le Colline Metallifere), senza comunque trascurare piccoli o piccolissimi giacimenti, talora di semplice coltivazione, ampiamente diffusi nei rilievi toscani. Lo sfruttamento delle risorse cuprifere non è attestato esplicitamente nei documenti altomedievali (un atto del 772 ricondotto da alcuni in questo ambito riguarda, in realtà, la dotazione di un'azienda rurale 31). Almeno a partire dal secolo VIII, la documentazione scritta mostra, anche in contesti "poveri", una certa presenza di manufatti in aes ed in aa7~icalco, soprattutto in riferimento alla Toscana meridionale 32. In quest'epoca la produzione di leghe rame-stagno in Italia doveva essere piuttosto problematica, per la distanza dai principali glacimenti europei 33 e per I estrema esiguità u' queul locall: te unlcne mmlere di stagno forse attive erano quelle del Campigliese 34. Nella documentazione toscana dei secoli VIII-IX sono piuttosto frequenti le menzioni di calderarii ed arifces' a fronte di ben pochifabri 35. Il maggior impegno tecnologico ed economico richiesto dal reperimento e dalla lavorazione di rame, stagno e metalli preziosi sembra spiegare il prestigio di questi artigiani, mentre i manufatti in ferro erano realizzati in genere da artifces socialmente poco differenziati dai coloni 36. Nell'alto Medioevo i maestri lucchesi e pisani probabilmente si rifornivano di metalli lungo la costa tirrenica, in maniera non dissimile da quanto risulta documentato a partire dall'XI secolo per i loro "successori", if abripisari, la cui attività andò caratterizzandosi per la lavorazione siderurgica, anche se non vennero trascurati la bronzistica ed in altri settori metallurgici 37. La potenziale ricchezza dei giacimenti maremmani forse contribuì a rafforzare gli intenti espansionistici di alcuni centri della Toscana longobarda - primi fra tutti Lucca, Pisa e Chiusi - che intrattennero solidi legami politicoeconomici con la Marittima. Già alla metà del secolo VIII è attestata una consistente esportazione di grano e sale dal territorio di Populonia agli scali lucchesi; si tratta di uno stabile traffico di beni dallo scarso valore intrinseco, che rende plausibile l'esistenza di correnti di scambio indirizzate anche ai metalli prodotti nella regione costiera 38. 3.3. Pubblici uffici e immunità ecclesiastiche. Monasteri e vescovati di fronte alla produzione mineraria Secondo la legislazione longobarda la raccolta dei metalli preziosi era esclusivo appannaggio pubblico, anche se appare probabile l'esistenza di forme abusive di coltivazione mineraria sorte su impulso di forze locali 39. Nella Penisola, la persistenza per tutto il secolo X di competenze pubbliche sull'estrazione, la lavorazione e l'eventuale coniazione di metalli preziosi 40; deve aver impedito un'esplicita attestazione documentaria di eventuali censi in metalli monetabili, assente nelle fonti prese in esame in questa sede. La documentazione scritta non è in grado di attestare lo sfruttamento parassitario dei giacimenti metallici, ma può lasciar trasparire l'eventuale esistenza di iniziative estrattive, anche abusive, condotte su vasta scala. La vicenda di taluni nuclei di potere può essere connessa alle potenzialità di controllo sulla raccolta dei metalli, in considerazione della loro localizzazione geografica. Esemplare a questo proposito è il caso del monastero di S. Pietro a Monteverdi 41, che, fondato nel 753, sembra nascere anche con lo scopo di controllare importanti giacimenti di metalli preziosi presenti nei possessi di alcuni esponenti dell'aristocrazia lucchese e pisana, già detentori di uffici pubblici ma all'epoca in forte dissidio con
l'autorità regia 42. L'abbazia ebbe sede in un'area marginale, il Cornino, situata ir iudiciaria Lacersi ed al confine tra la diocesi di Populonia e quella volterrana. Il sito prescelto per il monastero era prossimo ad una delle maggiori concentrazioni di "oro invisibile" della Toscana (I'area di Monterotondo 43) e collocato al centro di ricchi distretti minerari (il Massetano, l'alta Val di Cornia ed il Campigliese), entro i quali deteneva un vasto patrimonio fondiario. Una connessione di questa istituzione religiosa con lo sfruttamento delle risorse minerarie appare ancor più probabile se si considera che contestualmente ad essa avvenne la fondazione del monastero femminile di S. Salvatore a pitiliaHo sulla riva del flume Versilia, vale a dire nello scalo marittimo naturale delle maggiori miniere apuane 44. Le possibilità di controllo da parte delle forze locali sulle risorse minerarie della Tuscia si accrebbero dopo la conquista franca, anche in relazione alla politica carolingia tesa a favorire la concentrazione di vasti patrimoni in mano ad uomini di fiducia della Corona, laici od ecclesiastici, nell'intento di rafforzare il controllo politico-militare sul territorio. Tale strategia venne perseguita con maggior convinzione e continuità nei confronti di episcopati e monasteri, cui si concessero ampie immunità che andarono a costituire, in certi casi, una prima base giuridica per il controllo privatistico dei distretti minerari. Un qualche ruolo nello sfruttamento delle risorse minerarie locali sembra aver rivestito il monastero di S. Salvatore sul Monte Amiata. Sorto su iniziativa di re longobardi in una regione dotata di oro fluviale, le sue maggiori potenzialità consistevano nel controllo dei giacimenti di ferro, rame, argento e cinabro presenti sulle pendici amiatine, anche a brevissima distanza dallo stesso sito abbaziale 45 Tra la fae del secolo IX e l'inizio del successivo, alcuni indizi portano a ritenere che l'abbazia, forte delle immunità riconosciutele a partire dalla prima età carolingia 46, disponesse di un qualche sistema finalizzato alla raccolta dei proventi di modeste attività minerarie effettuate entro la propria area di influenza 47. In questo periodo il monastero percepiva canoni infe7+ramenta ed effettuava acquisti di rilievo, corrispondendo manufatti metallici (ad es. spata una cum ringa argentia pre solidos viginti) 48 o metalli preziosi 49. Analogamente al monastero di S. Salvatore, f n dal tempo di Carlo Magno l'episcopato volterrano fu destinatario di concessioni immunitarie, che vennero confermate ed ampliate dai sovrani successivi sino alla attribuzione al vescovo della dignità comitale nel 1164 50. Attraverso questi privilegi talvolta riconoscimenti imperiali di uno stato di fatto affermatosi con la consuetudine - i prelati volterrani acquisirono anche la legittimazione a sfruttare le risorse minerarie che caratterizzavanoin abbondanza alcune loro terre. Infatti, se i vescovi volterrani detennero diritti di sfruttamento sulle miniere con l'esplicita conferma imperiale solo nella seconda metà del XII secolo, è accertato che in precedenza essi li esercitarono sia in qualità di proprietari e possessori di fondi, sia percependo censi e terratici sui metalli estratti, dovuti come "decima" alla chiesa cittadina. La cattedra vescovile nel corso dei secoli seppe concentrare su di sé una serie di diritti di origine pubblica ed ecclesiastica sullo sfruttamento del sottosuolo, profittando, probabilmente, dei momenti di crisi dell'autorità centrale per affermare consuetudinariamente la propria ingerenza. A titolo di esempio, nel 1137, ben prima del riconoscimento ufficiale della giurisdizione vescovile sulle miniere della diocesi, il presule volterrano Aldemaro cedette iure proprietario„ al vescovo di Siena Ranieri medietatem de castello et de burgis et totius Muntielii, cum superioribus et inferioribus et cum ingressionibus et egressionibus suis et ubicunque argentaria inventa fuerit”, fatto salvo il godimento per la chiesa volterrana della decimatio de terratico ariertarie ad essa spettante 52. Le attestazioni di prerogative pubblicistiche dei vescovi massetani e rosellani sono più tarde, ma connesse in modo esplicito allo sfruttamento delle risorse minerarie. Le due diocesi toscane erano rivendicate dal papato in base alla donazione di Carlo Magno, ma in realtà i messi regi non avevano mai consegnato al pontefice i poteri giurisdizionali eminenti su di esse, trasmettendo solo alcuni possessi patrimoniali e la diretta dipendenza ecclesiastica delle chiese secolaris3. Non a caso, comunque, in quest'area i primi riconoscimenti dei diritti vescovili provennero da Roma anziché dalla corte imperiale ed appaiono legati alle tensioni emerse nel clima della Riforma, di cui la Toscana, con Gregorio VII e Pier Damiani, fu un teatro non secondario. Nelle due diocesi della Maritima il
controllo sulle risorse minerarie da parte di vescovi ed abati era fondato sul diritto canonico e su consuetudini consolidate, più che su una base giuridica pubblica. Nel 1066 Alessandro II confermava al vescovo massetano Bernardo, la decima “ argenti ac ferri aliorumque metallorum vene escavantur,' entro il territorio diocesano, riferendosi in modo particolare alla regione “intra confnum illius insulae que Ilba dicitur”, cioè all'area in cui l'esercizio di tali prerogative vescovili doveva essere più difficile e contrastato 54. Al 1072 ed al 1118 risalgono le concessioni effettuate dal vescovo di Roselle all'abate di Sestinga di metà delle decime provenienti consuetudinariamente dai territori situati al confine con la diocesi massetana, che comprendevano anche una quota di ferrum e di arigertam ivi estratti 55. 3.4. I poteri signorili ed il controllo di aree minerarie Durante i primi secoli del rinato Impero d'Occidente l'intraprendenza delle grandi famiglie aristocratiche toscane valicava i confini dei singoli comitati”s:. In taluni casi fra i motivi degli sforzi di espansione politico patrimoniale compiuti da alcuni gruppi egemoni in aree lontane dalle proprie sedi, dovette giocare un ruolo rilevante il desiderio di esercitare un controllo su beni "strategici", il cui approvvigionamento non poteva essere agevolmente effettuato nelle vicinanze dei loro originari nuclei patrimoniali. Sembra concordare con questo assunto la precoce acquisizione di molte saline maremmane da parte di esponenti di ceti eminenti lucchesi, pisani e chiusini come il loro spiccato interessamento patrimoniale per alcune regioni minerarie 57. La formazione di vasti patrimoni avvenne tanto attraverso l'accorpamento progressivo di beni allodiali e benefıciari, quanto mediante l'esercizio di funzioni pubbliche a carattere amministrativo, giurisdizionale e militare. Un viluppo giuridico che, a seconda delle epoche e del contesto storico-sociale, si sarebbe tradotto tanto nell'affidamento di incarichi istituzionali ad esponenti di gruppi parentali largamente dotati di possedimenti fondiari, quanto nella costituzione di potentati familiari attraverso un esercizio "privatistico" di funzioni pubbliche. Con la fine dell'età carolingia il complesso equilibrio di poteri attraverso cui il governo centrale aveva tentato di mantenere il controllo sul regno longobardo andò sfaldandosi e la Penisola divenne teatro di lotte tra aspiranti al titolo regio, durante le quali il processo di indebolimento del potere pubblico subì una consistente accelerazione. Famiglie signorili di origine locale ed esponenti della nobiltà d'uffıcio - con le relative prosecuzioni dinastiche - approfıttarono di questa situazione per accrescere la propria influenza sul territorio e, ispirandosi al modello costituito dai patrimoni religiosi immuni, entro i propri possedimenti iniziarono a sostituirsi al potere centrale, esercitando uno stretto controllo su vaste aree della Toscana a vocazione mineraria più o meno spiccata. La progressiva definizione di tali intenti avvenne contestualmente al più generale processo storico che condurrà al passaggio dalla signoria fondiaria, basata sulla curtis, alla signoria territoriale incentrata sul possesso di un castrum. I patrimoni di gruppi aristocratici o di enti religiosi, prima intrecciati tra loro e frammisti ad altre forme di possesso, tesero a concentrarsi e il nucleo castrense si qualificò come sede elettiva per l'esercizio di prerogative pubblicistiche 55. Tale processo culminerà tra X ed XI secolo con il costituirsi di una vasta maglia di castelli, il cui domir~s disponeva di tutti i diritti connessi simbolicamente alla fortificazione - compresi quelli relativi alle ricchezze del sottosuolo - e poteva farne oggetto di transazione patrimoniale o di coordinamento feudale 56. Anche quando lo sfruttamento minerario non costituì il movente iniziale per la formazione di un potentato familiare in una determinata regione, alcuni esponenti dei gruppi egemoni si premurarono di controllare le attività economiche di spicco, tra cui quelle estrattive, conseguendo di riflesso un maggiore radicamento politico-patrimoniale del proprio casato sul territorio. Con la crescita della domanda e del prezzo dei metalli, la diretta tensione espansionistica verso le aree produttrici di tali beni aumentò, e progressivamente emerse con maggior consapevolezza la finalità di assicurarsi il dominio sulle risorse del sottosuolo; attraverso tali meccanismi molte delle principali "dinastie
feudali" adottarono, in tempi e modi relativamente diversi, politiche patrimoniali sempre più nettamente finalizzate al controllo delle aree estrattive. 3.5. Alcune eminenti casate ed il loro patrimonio nelle aree minerarie toscane 3.5.1. GLI ALDOBRANDESCHI Gli Aldobrandeschi furono uno dei gruppi aristocratici che più precocemente si distinse per la costituzione di un potentato territoriale con caratteri pubblicistici comprendente importanti distretti minerari. Eminenti nella Lucca della prima età carolingia, perseguirono una efficace strategia che li portò nel corso del secolo IX a costituire un vasto dominato familiare nella Tuscia meridionale, in comprensori che sarebbero divenuti, di lì a poco, la base politico-patrimoniale della dinastia. Acquisito il titolo comitale in età carolingia, alla fine del X secolo gli Aldobrandeschi avvicinarono la propria condizione a quella marchionale, grazie al controllo di vaste competenze e patrimoni nei "fınes Maritimae", circoscrizione che raggruppava territori populoniensi, rosellani, sovanesi, e tuscanensi~'. Il controllo su distretti pubblici andò di pari passo con la costituzione di una sqlida cete di possessi, entro i quali nella seconda metà del secolo X è diffusamente attestata l'esistenza di castra 62. Vocazione mineraria ebbero vaste aree della contea rosellana, su cui la famiglia esercitò sin dal secolo IX funzioni pubbliche. Grosseto e fFaliaro costituirono la prima consistente acquisizione patrimoniale aldobrandesca in questo territorio (anno 803), seguita nell'862 da quella di case, caparreetres “in loco Iseli” (Istia d'Ombrone) 63. Assistiamo, quindi, ad una espansione fondiaria della dinastia dalla foce dell'Ombrone verso l'entroterra, con la conseguente acquisizione di regioni ricche di risorse minerarieti. In quest'ottica possiamo inquadrare anche la signoria aldobrandesca su “Canpagnatico cum suo castello”, area dotata di mineralizzazioni metallifere coltivabili 65, nonché l'influenza sulla regione immediatamente a nord di Roselle, comprendente i distretti ferrocupro-argentiferi di Batignano e Montorsaio 66. Le attestazioni di acquisizioni patrimoniali e dell'esercizio di prerogative pubbliche da parte di componenti della famiglia comitale nel territorio populoniense sono poco posteriori a quelle riguardanti il Rosellano. Ademari, fratello del vescovo di Lucca Geremia e di Ilbobrando II conte aldobrandesco, ricevette nell'867 in livello dal vescovado lucchese un mulino presso Tepascio, non lontano dall'attuale Massa Marittima 67. Un altro membro della famiglia, il chierico Alperto, era stato nominato dal vescovo di Lucca rettore del monastero di S. Regolo in Gualdo, istituzione religiosa situata ai confni con il territorio volterrano, da cui dipendeva un cospicuo patrimonio fondiario dotato di risorse minerariet 68 Più tardi esponenti del gruppo aldobrandesco riuscirono ad estendere la propria influenza sul secondo importante monastero del “Cornino',, quello di Monteverdi, rivendicato dal conte Lamberto nel 973 assieme ai vasti possedimenti ricchi di minerali metalliferi 69. Ancora in questo anno è attestato il controllo del conte su altri territori situati “infra comitato Popoloniense”: la “corte Canpiano cum suo castello”, la “corte Castelione”, la “corte Sunereto cum suo castello” ed infine la “corte et castello sito Montepiti 70. Ulteriori distretti castrensi, anche di spiccata vocazione mineraria, conosceranno nei secoli successivi il dominio defía potente dinastia, primo tra tutti quello di Cugnano, sul quale l'ingerenza aldobrandesca è documentata dagli inizi del Duecento ed ove giàallametàdel secoloerainvigore un “ ordinamentum montis de Cugnano”, che regolava l'intensa attività delle miniere argentifere 71. Alla fine del secolo X la famiglia aldobrandesca pare aver ottenuto il riconoscimento pontifıcio del proprio ufficio comitale sulle circoscrizioni di Sovana e Tuscania, afferenti al Patrimonio di S. Pietro 72. Anche queste regioni erano dotate di consistenti giacimenti metalliferi, il cui sfruttamento da parte della dinastia comitale, come di consueto, non è attestato prima della metà del XII secolo.
Grazie ai servigi resi, nel 1164 Ildebrandino Novello si vide confermato dall'Imperatore il “castrum de Scerpena cum tota curte et districtu suo, et cum sua argenti fodina”, tutte le regalie sui territori regi ed il non trascurabile diritto di coniare moneta 73. Rileviamo infine come il citato atto del 973 abbia enumerato anche alcuni centri del comitato chiusino controllati da Lamberto Aldobrandeschi, che si riveleranno di un certo interesse minerario: Mo7~ticlello, 1'attuale Monticchiello in Valdorcia, avrebbe conosciuto in età moderna lo sfruttamento delle risorse argentifere 74; più a sud, sulle pendici amiatine, la “corte et roca de Campelli” ospitava vene metallifere di vario genere 75. 3.5.2. I GHERARDESCHI Uno stretto legame unisce l'esercizio di attività minerarie e la "scalata al potere" di un secondo grande gruppo parentale: i Gherardeschi 76. In effetti l'azione politico-economica esercitata da alcuni rami di questa dinastia fu precocemente indirizzata all'organizzazione dello sfruttamento di territori minerari attraverso il loro incastellamento. Nella seconda metà del secolo X, i Gherardeschi disponevano di un vasto patrimonio nelle contoe di Lucca, Pisa, Populonia e Volterra, città quest'ultima in cui i membri della famiglia esercitarono l'uffıcio comitale a partire dalla sua istituzione (secolo X) sino alla metà dell'XI secolo 77. Nel 1004 esponenti della casata fondarono il monastero di S. Maria di Serena, situato nell'alta val di Merse; la ricca dotazione dell'ente comprendeva vasti possessi, i cui nuclei principali erano costituiti dai castelli "minerari" di Serena 78, Miranduolo 79 e Soveioli 80, e si estendeva a settentrione, sino al comprensorio di Frosinia 81. Alla fondazione fece seguito la donazione del monastero all'imperatore Enrico II, che nel 1014 lo prese sotto la sua protezione; atto, questo, motivato da ragioni di ordine eminentemente politico, ma che di fatto, attraverso l'acquisizione dello status giuridico di abbazia imperiale, favorì iniziative locali di sfruttamento delle ricche risorse minerarie situate entro il patrimonio di questo ente religioso, soprattutto nei territori dell'alta val di Merse e nell'area a nord di Campiglia Marittima 82. La donazione non indebolì il controllo esercitato dai Gherardeschi sulle terre abbaziali della Val di Merse, che costituirono la base patrimoniale del ramo di Frosini della famiglia comitale; tali beni furono però oggetto, agli inizi del XII secolo, di violente contese con l'episcopato volterrano, che sfociarono in un conflitto armato dal quale i Gherardeschi uscirono sconfıtti 83. Successivamente i conti, trovato in Siena un referente in grado di appoggiare le loro rivendicazioni, tra 1178 e 1179 cedettero al Comune cittadino metà delle loro ragioni sul castr~m “quod vocatur Miralduolo”, su tutto il suo territorium e adstrirtus, nonché la metà di “omnium argentariarum atque omnium generum metallorum, que sunt infra predictos fines, scu que aliquo in tempore invenientur ibidem ab aliquo 84. Altri esponenti dei Gherardeschi, nel secolo XI, possedevano vasti patrimoni nell'area compresa tra il Cornia ed il Cecina, regione che costituì la base territoriale sulla quale il ramo principale della dinastia fondò il proprio potere. Innanzitutto fu interessato il comprensorio campigliese 85 sede di ricchissimi giacimenti di solfuri misti, in grado di fornire rame, piombo, argento, stagno. Più a nord, una certa concentrazione fondiaria si registra nella bassa valle del Cecina, attorno ai distretti minerari di Riparbella e Montescudaio, il cui sfruttamento è ampiamente attestato tra tardo Medioevo e primi secoli dell'età moderna 86. I Gherardeschi di Donoratico, che prendevano il nome da un castello della zona, riuscirono in piena età comunale ad assumere un peso determinante nella vita politica pisana e ad estendere il proprio potentato anche sui principali comprensori argentiferi sardi. Noto è il ruolo di primissimo piano svolto da questa casata nella fondazione della città mineraria di Iglesias, e, più in genere, nello sfruttamento delle risorse piombo-argentifere dell'isola 87. 3.5.3. I PANNOCCHIESCHI
La famiglia comitale toscana che manifestò più espliciti legami con le attività minerarie fu quella dei Pannocchieschi. I primi atti che menzionano i suoi membri risalgono agli inizi del secolo XII, quando è in corso una violenta contesa tra Gherardeschi e vescovo volterrano per il controllo del distretto minerario montierino. La vittoria della fazione vescovile, appoggiata, a quanto è dato comprendere, da esponenti dei Pannocchieschi, si tradusse in notevoli vantaggi per questa casata: ridefiniti i nuovi equilibri di potere nell'area, episcopato e famiglia comitale procedettero ad un riassetto dei propri patrimoni nella zona. Nel fabbraio 1135 Ranieri Parrocchia vendette al vescovo di Volterra Crescenzio unvasto appezzamento di terra, che dalla “summitas montis Monterii” giungeva “iuxta castrum Montieri ”aa; si trattava, come emergerà da un atto di poco successıvo, uı un terrıtorıo ın cuı sı stavano Impıantanclo mınıere c ı argento (argerterie), che, una volta messe in funzione, avrebbero costituito parte integrante del patrimonio vescovile 89. In tal modo Ranieri ottenne, in adempimento di quanto gli era stato promesso dal vescovo Ruggero (sul soglio volterrano dal 1103 al 1132),1'investitura fendale di alcuni territori vicini, le cui potenzialità minerarie dovevano essere già evidenti. I beni oggetto della concessione fendale costituivano una vasta fascia territoriale omogenea, comprendente il castello e territorio di Fosini, metà del monte di Gerfalco (probabilmente le pendici settentrionali delle Cornate) e varie porzioni dei castelli e delle corti di Travale e Pietracorbaia (ad est ed a nQrd di Fosini) 90. Attraverso questi atti si realizzò una concentrazione topografica sia del patrimonio vescovile che di quello pannocchiesco, funzionale alla razionalizzazione del controllo sullo sfruttamento delle risorse minerarie locali. L'infeudazione coronò il processo di incastellamento dell'area, che era stato condotto in quegli anni dai Pannocchieschi con l'appoggio dei vescovi volterrani al fıne di rinnovare il loro potere sul territorio. II defınitivo incentrarsi degli interessi pannocchieschi nell'area mineraria montierina è testimoniato in un atto del 1139, quando Ranieri Parnocchia e sua moglie Sibilla vendettero al vescovo di Volterra una serie di castelli e di possessi situati “in septentrionalibus episcopatus partibus”91. Se il vero e proprio cuore del potere pannocchiesco permarrà per secoli in questa regione, la famiglia vedrà comunque nel corso del Duccento una straordinaria espansione politicopatrimoniale verso il Massetano e la Maremma grossetana, che avrebbe assicurato a diversi membri di essa il controllo di numerosi castelli minerari 92. La potenza politico-economica conseguita in tal modo dalla famiglia sfocerà nell'ascesa al soglio vescovile volterrano di Ildebrando, fıglio di Ranieri I, che ottenne dall'imperatore Enrico IV il diritto di battere moneta e la conferma delle prerogative episcopali sulle arger~tiere del Volterrano, riuscendo, tra l'altro, ad assicurare al nipote Pagano la successione nella titolarità della diocesi 93. All'iniziativa dei due vescovi si dovette la prima fondazione cistercense della Toscana meridionale: il monastero di S. Galgano in Val di Merse, poco a valle del sito ove era stata istituita dai Gherardeschi l'abbazia di Serena. 3.5.4. ALTRE FAMIGLIE COMITALI Altro gruppo familiare comitale della Toscana meridionale che concentrò i propri interessi politico-patrimoniali in un'area mineraria fu quello degli Ardengheschi-Guglieschi, discendenti da uno stesso ceppo che ricoprì l'Uffıcio comitale a Siena e che a partire dai secoli X-XI detenne un vasto patrimonio fondiario disperso nel territorio senese. A partire dalla seconda metà del secolo XI alcuni rami del gruppo iniziarono a "territorializzarsi", concentrando il patrimonio fondiario e cercando di affermare il proprio potere nel medio corso dell'Ombrone 95, area signifıcativamente caratterizzata dalla presenza di giacimenti polimetallici. Proprietà nei territori di Casenovole e Acaiao, che, assieme al vicino Monteacuto, offrono ancor oggi vistose masse di rame nativo, appartenevano nei secoli X-XI al ramo dinastico che sarebbe stato denominato dei Guglieschi 96. La politica di radicamento territoriale perseguita dai predecessori dei
conti Ardengheschi è, invece, più agevole da seguire. Questi ultimi strinsero forti legami con l'abbazia di S. Lorenzo al Lanzo e, nell'area a sud della confluenza tra Ombrone e Merse, intrecciarono tanto strettamente i propri patrimoni con quelli del monastero, che la prima sottomissione a Siena di queste regioni ( 1202) avvenne su iniziativa congiunta 97. Dalla relativa documentazione emerge come i principali insediamenti dell'area, fossero situati in zone caratterizzate da una chiara vocazione mineraria. Prestarono giuramento in quella occasione gli homines di Litiano - abitanti cioè di territori ove ancora nel seculo XVI era attiva una “miniera di ferro” 98 -, gli uomini di Monteagutolo e di Casanovola, ove abbondava il rame nativo, gli “homines de Pari et curte”, altro comprensorio 99 cuprifero, ed infıne quelli “de Castillione et curte>” e “de Tocchi ”, entrambi distretti ricchi di ferro sfruttato in epoca preindustriale 100. Ancora nel corso del XII secolo si assiste alla costituzione di un dominato locale da parte dei vescovi di Siena, in una regione poco più a nord dell'Ardenghesca - il territorio ancor oggi chiamato Vescovado -, dove alcuni insediamenti medievali (Montepescini, Vallerano, Murlo) sorsero in prossimità di miniere metalliche di età preindustriale 101. Altre grandi dinastie furono in diversa misura coinvolte - forse anche precocemente - nello sfruttamento delle risorse minerarie toscane. Vi si volsero potenti casate non radicate tradizionalmente in territori eminentemente minerari, quali i Guidi e gli Ubertini 103, ed altre (ad. es. gli Alberti), che invece si espansero con decisione verso territori ricchi di metalli 104. Conclusioni In sede conclusiva ricordiamo che è stato tralasciato il problema delle produzioni siderurgiche, per le quali occorre anzitutto chiarire gli aspetti relativi alla capillarità distributiva delle strutture di lavorazione. Per quanto riguarda viceversa l'estrazione e la lavorazione dei metalli non ferrosi possiamo sintetizzare: 1. La recessione economica tardoimperiale causò nell'Europa occidentale l'esaurirsi delle maggiori imprese estrattive e metallurgiche, per lo più di impronta pubblica, a fronte di una migliore "tenuta" delle iniziative minori, gestite da forze locali. 2. Con il secolo VII l'Occidente vide una fortissima contrazione della circolazione metallica a scopi monetari, cui si rispose in modi diversi. Nell'Europa nord-occidentale si puntò decisamente sulla monetazione argentea connessa allo sfruttamento di risorse locali, mentre nell'Italia longobarda e bizantina continuò a dominare l'oro, proveniente in gran parte dalie riserve accumulate e dai traffici mediterranei. Indizi di un potenziale sfruttamento delle risorse aurifere toscane furono le fondazioni di importanti monasteri in aree a spiccata vocazione mineraria e di incerto inquadramento politico. 3. L'adozione della riforma monetaria carolingia nel regno longobardo comportò, nell'immediato, una diminuzione del rapporto di valore AulAg, stimolando le iniziative estrattive nella Penisola, in particolare nei distretti minerari meglio provvisti di argento, quali le regioni altotirreniche e quelle sarde. 4. Nonostante la presumibile esiguità di una tradizione mineraria locale, la scarsa documentazione lascia intendere come, in età carolingia, le prerogative pubbliche sulle risorse del sottosuolo toscano dovessero essere ben solide, mentre il loro successivo affievolirsi sembra avvenire in sintonia con la parabola del prestigio imperiale in Italia. Vi sono indizi per affermare che dall'allentarsi del controllo centrale trassero un vantaggio iniziale soprattutto monasteri ed episcopati immunitari, via via affiancati dai detentori di cariche marchionali e comitali. Le rivendicazioni di diritti sulle ricchezze minerarie da parte dei gruppi aristocratici locali dovettero andare di pari passo con la costituzione della signoria fondiaria, sino ad una loro più completa definizione in concomitanza con l'incastellamento delle aree minerarie. Alcune grandi famiglie, agendo direttamente elo attraverso istituzioni religiose, riuscirono ad affermare il proprio controllo su territori minerari, imprimendo un deciso impulso all'incastellamento, sino alla realizzazione di una verticalizzazione struttUrale del
sistema produttivo, che andò a soppiantare le forme polverizzate di sfruttamento e di lavorazione metallurgica. Se dal punto di vista tecnologico non si verificarono mutamenti essenziali, il concentramento e la razionalizzazione della produzione costituirono l'impulso verso le trasformazioni tecniche attuate soltanto nei secoli XIII-XIV. ROBERTO FARINELLI, RICCARDO FRANCOVICH
1 Una certa tendenza a sopravvalutare l'entità delle escavazioni minerarie dell'età Romana classica a scapito del periodo tardoantico è stata rilevata, ad es., per i contesti iberici da EDMONDSON 1989, PP. 86-88 e per la Toscana da VITAEI 1992. 2 BRAUNSTEIN 1990, PP. 146-147. Sino al tardo Medioevo la documentazione scritta riguardante le miniere di metalli preziosi è comunque povera, disomogeneamente distribuita, scarsamente rappresentativa della realtà produttiva complessiva. Emblematico è ii caso di Rocca S. Silvestro: a fronte delle prove archeologiche della strutturale connessione dell'insediamento con le attività minerarie del comprensorio individuate a partire dal secolo X, le menzioni documentarie delle miniere non sono anteriori agli inizi del Trecento (FRANCOVICH 1991 ). 3 Anche in base a queste considerazioni è stato pianificato un progetto di ricerca che raccogliesse dati storico-archeologici e naturalistici su siti minerari e di interesse mineralogico confluito nella pubblicazione di un I'inventario comparso nel 1991. 4 Questa linea di indagine è stata portata avanti a partire dalla metà degli anni '80 dal Dipartimento di Archeologia delliUniversità di Siena ed ha dato i suoi frutti più significativi a seguito delle campagne di scavo che hanno interessato il villaggio minerario medievale di Rocca S. Silvestro. Cfr., tra l'altro, FRANCOV[CH 1985, PP. 313-322. Considerazioni analoghe sono state avanzate, ad esempio, per la Lazio protostorico (GIARDINO 1982, PP. 30-34 e GIARDINO 1984, PP. 5 È stata evidenziata, ad esempio, la necessità per lo studio delle attività estrattive e metallurgiche medievali di porre particolare attenzione ad alcune allusioni indirette contenute in “atti di amministrazione o di concessione delle acque, dei boschi e delle pasture” (BRAUNSTEIN 1990, pp. 147-148). 6 Le analisi delle scorie metallurgiche provenienti da contesti stratigrafici altomedievali nella Penisola sono scarse e quindi da esse è possibile trarre conclusioni forzatamente provvisorie (i campioni indagati provengono dagli scavi di S. Giulia di Brescia, dalla Metropolitana di Milano, dal castello di Sant'Antonio di Perti (SV), da Monte Castello (MS) e dal golfo di Follonica). Forse anche in relazione alla frammentarietà dei dati, la tipologia delle scorie, seguendo la recente classificazione proposta da CuclNI-TlzzoNl (1992, pp.35 -46), appare un po' meno varia nell'alto Medioevo, per tornare pressoché uguale a quella romana dopo il X secolo. Dal confronto tra i diagrammi ternari di fase FeO - CaO - SiO7 delle scorie analizzate è stato evidenziato che la temperatura dei forni dal periodo etrusco a quello romano è mediamente aumentata fino ad un massimo di 200 °C e durante l'alto Medioevo si è ulteriormente accresciuta di circa 50 C. Indipendentemente dalle trasformazioni socioeconomiche la tecnica di età romana non deve essersi perduta nei suoi aspetti fondamentali; è probabile inoltre che l'artigiano di villaggio abbia apportato anche qualche variazione secondaria, adeguata alla produzione su piccola scala che egli curava in tutte le sue fasi. Per questi ultimi problemi si rimanda all'articolo in Birth of Europe, Analocta Romana Instituti Danici, 1989; ed alla comunicazione fatta alla British School at Rome nel 1990: The Archasology of production ard corsumption (Nota curata da Tiziano Mannoni). 7 Questo modello interpretativo è stato recentemente confortato dai risultati degli studi condotti da Edmondson (1989, p. 91) sulla penisola iberica durante il tardo Impero ed i regni Romano-Germanici; è stato mostrato come durante il Principato erano compresenti nelle aree estrattive imprese di varia entità mentre nel tardo Impero si ebbe una riduzione della produzione complessiva connessa in massima parte alla scomparsa delle iniziative di scala maggiore. 8 Ancora in epoche successive, in alcuni villaggi minerari della Toscana comunale e mercantile, si concentrava il lavoro minerario e metallurgico nelle stagioni propizie e lo si integrava con attività agropastorali nei periodi più piovosi, quando i cunicoli erano soggetti ad allagamenti (FRANCOVICH 1991, p. 79). 9 Rutilio Namaziano nel 416 esalta il ferro elbano rapportandolo a quello sardo in un contesto ricchissimo di citazioni erudite e di suggestioni letterarie (cfr. Rutilio Namaziano, I 349-370, e pp. 93-95). Di una notevole estrazione del minerale elbano si torna ad avere notizia nel secolo Xl (cfr. irfra nel testo). Nel Xll “il geografo arabo siciliano Edrisi scriveva che la Sardegna esportava argento in molti paesi della cristianità, e la "vita di san Ranieri" redatta in quel secolo narra come alcuni tedeschi che navigavano dalla Sardegna verso Pisa, durante una tempesta issassero, come voto, dell'argento non
monetato sull'albero della nave” (HERLIHY 1973, p. 62). Ancora Edrisi, assieme ad altri geograf arabi medievali, illustra la ricchezza mineraria della Sicilia (cfr. i brani riportati in DENTICI BUCCELLATO 1984, pp. 118-119). 10 Nelle Naturalis Historiae di Plinius (111-24 e XXX111-21) si afferma che il suolo della Penisola “metallorum omaium fertilitate nullis cedit terris; sed interdictum in vetere consultum patruom, Italiae parci jubentium”. 11 EDMONDSON 1989, p. 92. 12 CIMA 1986, pp. 173-189; CUCINI 1989, cfr. anche la nota 6. 13 Su tale problematica in area altotirrenica cfr. ZIFFERERO 1989, pp. 1-4, FRANCOVICH 1991, pp. 84-86. 14 EDMONDSON 1989, p. 84; SPRANDEL 1968. 15 Adalberto 11, marchese di Toscana tra IX e X secolo, venne denominato “il Ricco” per l'ostentazione che il proprio seguito faceva di metalli preziosi; sugli stessi argomenti insistono i cronisti parlando del “Gran Marchese”, Bonifazio di Canossa (Vof~PE 1924, pp.34-35). Anche se la ricchezza celebrata dal biografo della contessa Matilde risponde in parte ad intenti propagandistici, è significativo che sia esaltato proprio lo sfoggio di argento, che, seppur potenzialmente di provemenza commerciale, soggerisce l’ipotesi di una sua estrazione locale. 16 La considerevole diminuzione di produzione bronzea nell'Europa Occidentale dell'alto Medioevo è sostenuta da NEF 1982, p. 488. 17 SPUFFORD 1988, p. 20. 18 CIPOLLA 1961, p. 625. 19 Cfr. DELOGU 1988, p. 287; TOUBERT 1983, p. 49, anche per la bibliografia citata. 20 In ambito lucchese, se le prime attestazioni di pagamenti valutati in argento risalgono al 797 (M.D.L., t. V p. 2, docc. cclxiii, cclxxvii; t. IV p. I, doc. cxxi) ed ancora nel 796 si effettua una vendita per un prezzo commisurato in soldi aurei, della quale fu testimone un Sicc1as naritarias (M.D.L., t. V p. 2, doc. cclvii), nella generalità dei casi vendite, censi e penali erano stabiliti in solidi aurei sino al 798 (M.D.L., t. V p. 2, doc. cclxvii), quando comparve nei documenti il denaro argenteo considerato però in queste fase solo come moneta di conto (M.D.L., t. V p. 2, doc. cclxxiij; a quanto risulta dalla documentazione esaminata, infatti, il denaro coniato si sarebbe affermato solo a partire dall'801 quando veniva qualificato come “grosso” (M.D.L., t. IV p. 2, doc. ii; M.D.L., t. V p. 2, docc. ccxcvii, cccx). 21 11 24 settembre 794 i monaci amiatini si premurarono di convenire con un proprio affittuario la commutazione del pagamento stabilito precedentemente per mezzo di solidi aurei - solidos do langobardiscos - in un valore corrispondente di "denari", che avessero all'epoca corso legale (C.D.A., I, doc.45). L'uso dell'attributo "langobardiscus" sembra legato alla votontà di non confondere tali monete con numerario aureo assimilabile o, più probabilmente, con il solidas argenteo carolingio. 22 Al febbraio del 799 risale il primo atto in cui il versamento di una “pinsiune” è valutato semplicemente in de7~ari (C.D.A., 1, doc.48), mentre nelle formule relative ai pagamenti relativi agli anni 800-805 si precisa che le soluzioni dovessero avvenire in “argentu dinario monitato” (C.D.A., 1, docc. 49, 53, 55), indicazioni che a (67~=2tràJrio lasciano intravedere una diffusa circolazione di argento non coniato. L'esistenza di pagamenti illegali in argento non monetato non poteva essere attestata esplicitamente negli atti patrimoniali, ma appare assai plausibile già durante il secolo VIII (LOPEZ 1961, p. 74). 23 DELOGU 1988, pp. 273-293, e DELOOU 1989, pp. 97-105. L'uso di moneta "romana" nell'area amiatina è esplicitamente attestato nella seconda metà del secolo IX e nella prima metà del successivo (C.D.A., 1, docc. 161, anno 883; 163, anno 886; 195, anno 921). 24 DELOGU 1988, pp. 282-283. 25 Affermava il naturalista settecentesco Giovanni Targioni Tozzetti, descrivendo la geologia della Toscana centrale: “ Dei metalli quello che più abbonda, e che quasi da per tutto si trova, è il ferro” (TARGIONI TOZZETTI 1768-1779, vol. Vlll p. 344). 26 Sullo sviluppo di tali considerazioni in riferimento all'ltalia padana cfr. BARUZZI 1987. D'altro canto occorre tener presente che i censi in ferro non testimoniano di per sé una produzione diretta da parte del censuario, quanto la relativa facilità di approvvigionamento per questo materiale. Durante l'alto Medioevo la presenza di una circolazione di pani in ferro grezzo in funzione di "moneta sostitutiva" è attestata in diverse aree europoe a vocazione siderurgica, cfr. ad es. sul contesto portoghese EDMONDSON 1989, p.99 e per le regioni alpine SPUFFORD 1988, p.48. 27 “Liutchari de Custodia reddet vomeres 1111” (Vescovato di L2;7cca a cura di Michele Luzzati, in CASTAGNETTI et al., pp. 205-224, in particolare p. 214). Nel Monte Pisano è ampiamente documentato in età tardomedievale lo sfruttamento dei giacimenti ferriferi e cupriferi (cfr. PAMPALONI 1975, pp.154-157; TARGfoNI TOZZETTI 1768-1779, vol. l, pp.343-356). 28 Nell'anno 890 Lamprando figlio del fu lldo prese a livello dal monastero amiatino alcuni beni “in casale Plana” presso l'attuale Castel del Piano - comprendenti la metà di un opif~cio idraulico e si impegnò a consegnare annualmente all'ente religioso “bomeri quinque, quisque una bomeri valentes denari quatuor de Rumana moneta” (C.D.A., I, doc. 167). Al 920 risale la stipula di un livello con il quale l'abate di San Salvatore concesse altri beni ancora “in casale Plana ” in cambio del versamento annuo di “ferramenta nove” a titolo di “pensione” (C.D.A., 1, doc. 194). 29 FARINF,LL7 c.s. (a).
30 Wala, abate del monastero di S. Colombano di Bobbio, riorganizzando la struttura economica dell'ente tra 1'833 e 1'835, in base alle vocazioni regionali individuò alcune Curtis specializzate in diverse produzioni e soggert che “ camararius abbatis provideat omnes fabros scutarios [...] et ipse provideat omoia ferramenta” (BARUZZI 1987, p. 159). Attraverso indagini archeologiche sono state individuate strutture di trasformazione metallurgica nel complesso monastico di S. Giulia di Brescia (MANNONI-CUCCHIARA-RABBI 1992); una situazione analoga caratterizzò durante il secolo IX l'abazia di S.Vincenzo al Volturno (DEI TREPPO 1968, PP. 34-41). 31 Secondo Lisini (1935, p. 243) il più antico indizio di attività estrattive della Toscana meridionale risalirebbe al marzo del 772, quando Guntifrido del fu Tato, esercitale della città di Chiusi, confermò a Auderado di Querino la metà di una casa posta in “Roselle, trans fluvio Umbrone, ubi dicitur luncarico, cum vineis, terris, silvis, pascuis, cultu et incultu, sco semoventjbus intrinsecus case, eramen, Ferro, peculis”, in cambio del trasporto a Chiusi di dieci moggia di sale, affidando l'altra metà degli stessi beni a Teudiperto uomo libero, alle medesime condizioni (C.D.A., 1, docc. 19-20). Probabilmente l'errata lettura di un passo del documento (portò lo studioso a fraintendere il contenuto dell'atto e ad annoverarlo tra i “ricordi di miniere della Maremma”. 32 Non sappiamo se le menzioni di oggetti in aes siano relative a rame oppure a bronzo, mentre probabilmente quelle di ricalco riguardano leghe di rame a basso contenuto di stagno, ma contenenti piombo, arsemco, zmco o altrl metalh. 33 Nonostante lo stagno fosse di scarso valore intrinseco, il suo traffico non sembra cessare completamente durante l'alto Medioevo, ancora nel sesto secolo una fonte agiografica menziona il trasporto marittimo di stagno proveniente dalla Cornovaglia e diretto verso l'area mediterranea, mentre alla fme del secolo ottavo Adriano I richiese questo metallo a Carlomagno - nei cúi domini francesi la sua estrazione non era mai cessata - per il restauro delle basiliche romane (DELOGU 1988, p. 287; EDMONDSON 1989, p. 86, nota 18; NEF 1982, p. 493). 34 si tratta di giacimenti già ampiamente coltivati in età etrusca, e nuovamente riconosciuti come tali nel XIX secolo, ma forse sfruttati anche in età medievale; cfr. Inve~,7ta7-io, schede 63-64; FARINELLI C.S. (b). 35 Numerose sono le meniioni di aa2r7fices, soprattutto quando l'introduzione della riforma monetaria carolingia nell'ltalia longobardadette un notevole impulso alla tesaurizzazione dell'oro ed uno stimolo alla ricerca mineraria e commerciale dell'argento (M.D.L., t. V p.2, doc. xxiv, cxli, cccxlvii; C.D.A., 1, docc.57, 61,72 108). Tra il 767 ed il 776 si sono rintracciati ben tre riferimenti a calderarii, di cui uno relativo a beni situati “in loco Cicina” cioè in prossimità di rilevanti mineralizzazioni cuprifere volterrane e non lontano dal Campigliese, sede dell'unico giacimento stannifero della Penisola (M.D.L., t. V p.2, docc. cii, cxlv, clxi; t. IV p.1, docc. lxxvi, lxxxii). Si noti inf ne che degli 8 7~a77~7eta7rii che Roberto Sabatino Lopez individua in atti privati riguardanti il regno Longobardo, ben sei sono attestati in documenti toscani (LOPEZ 1961, p.77). 36 Si tratta solitamente dei dipendenti di complessi curtensi, affiancati, talvolta, da “artigiani di mestiere operanti nella campagne o nelle città (BARUZZI 1987 p. 159). 37 Analogamente a quanto è documentato nel Xlll secolo per gli artigiani modenesi (LEICHT 1966, pp. 332-340), i fatri pisa7fi non si limitavano alla lavorazione del ferro, ma operavano su tutti i metalli non preziosi, come è testimoniato anche dall'intestazione del loro statuto che prevedeva la soggozione all'Arte anche dei caldalari, stagratarii e dei r etallarii in genere (BreDe 1857, p. 882). Sulla disponibilità di forti quantità di bronzo da parte`Jei fabbri pisani duccenteschi per le proprie attività metallurgiche cfr. HERLIHY 1973, pp. 167-168. 38 Nell'anno 768 i due fratelli “Autperto et Liutperto” dichiaravano di aver provveduto come di consueto a “facere vias et servitiam per condicionem traendo cum nave, tum granum quam et salem” per conto del duca Walperto e dei suoi figli. Essi però al momento della stipulazione necessitavano di una più sicura protezione per i commerci esercitati in proprio e la ricercarono nella chiesa lucchese, affermando: “granum et salem traere promittimus in f nibus Marittimae, usque in portum illum ubi est consuetudo venire laborem et salem de ipsa casa ecclesie” (M.D.L, t. V p. 2, doc. xi). 39 Nell'editto di Rotari, contestualmente alla rivendicazione esclusiva della coniazione si stabiliva “un monopolio regio sulla produzione aurifera dei fumi” (LOPEZ 1961 pp. 74-75) tali prerogative furono ribadite agli inizi del secolo Xl negli Irstitzxta regalia et mirlsteria ca~nere regrum LargooardorurH (LE[CHT 1966, pp. 293-295), ove si enumerano i flamira dell'ltalia padana “ubi aurum lavatur”: all'epoca spettava probabilmente a forze locali il controllo sulle risorse aurifere presenti in Toscana. 40 TOUBERT 1983, p.50.1n Francia, già durante il Regno Merovingio “i responsabili delle emissioni erano per la maggior parte ecclesiastici, vescovi oppure abbazie. Alcuni tuttavia erano laici come i due patrizi di Marsiglia”. (SPUFFORD 1977, p. 668; SPUFFORD 1988, p. 27). 41 Sul monastero cfr. SCHMTD 1991, anche per la bibliografa ivi citata. 42 Sulle motivazioni e le conseguenze della fondazione cfr. in particolare il contributo dello stesso curatore (SCHM[D 1991, pp. 1-18). Il principale impulso alla istituzione del monastero venne conferito da Walfred, un importante personaggio dell'aristocrazia longobarda, la cui Vita parrebbè presentarló toffie investito di un incarico pubblico, definendolo ad iastitian rertis, ir iditio verax (VIOLANTE 1991, PP. XIV XV). 43 TANELLI-BENvENuTl-MAscARo 1993. 44 MIERAU 1991, pp. 37-63. 45 Irvertario, schede 145-152.
46 I1 17 novembre 816 Lodovico il Pio confermò le immunità concesse al monastero da Carlo Magno (C.D.A., I, doc. 78). 47 Nel ricco diplomatico altomedievale di questo monastero l'introduzione della riforma monetaria carolingia appare più immediata che non nella documentazione dell'archivio vescovile lucchese, cfr. supra, § 3.1. 48 C.D.A., 1, doc. 143; 862 agosto 20. 49 Nell'873,1'acquisizione da parte del monastero amiatino di beni fondiari in Selvena avviene in cambio del versamento di Un prezzo “de presentem solutum inter aurum et argentu in solidos centum (C.D.A., 1, doc. 154; cfr. anche doc. 110; anno 833). Si tratta cioè di un pagamento in metalli preziosi, non necessariamente coniati, che appare particolarmente significativo poiché l'ultimo quarto del secolo IX si caratterizza come l'inizio di una fase di estrema rarefazione della monetazione aurea nell'occidente mediterraneo. Pagamenti in merce non meglio qualificata sono inoltre attestati in C.D.A., 1, doc.176 (12 agosto 903) e doc. l 83 (15 marzo 907). 50 AI privilegio concesso da Lodovico il Pio, a conferma di un atto del padre, oggi perduto si aggiunsero quelli emanati da Lotario, Lodovico 11, Ottone I ed Enrico 11, con Federico Barbarossa il vescovo di Volterra acquisì il titolo comitale. (ROSSETTI 1973, p. 242 e, più in generale, pp. 241-246; VOLPE 1964, pp. 141-311, in particolare pp. 149-154). 51 Si tratta, ad es., della tenuta vescovile di Mignone e forse anche di quelle di Magrignano e di Tasso, tutte situate nel comprensorio di Montieri-Gerfalco, la cui appartenenzavescovileèdocumentatadagliinizidelsecoloX(R.V.,nn.16,18,48,109,164,185,186,231,478). 52 C.V., I, docc. 15-16. È interessante notare come ancora alla metà del secolo XII i canonici volterrani rivendicassero a titolo di decima ona quota dei prodotti minerari estratti a Montieri e spettanti tanto al vescovo di Volterra, quanto al marchese di Toscana: nella bolla che il 29 dic. 1171 il papa Alessandro III rilasciava all'arcip. Ugo, poi Vescovo di Volterra, si confermava al Capitolo decimationem de Monteri de parte Episcopi et de parte Marchionis. (VOLPE 1 924, p. 47, nota 1). 5 ROSSETTI 1973, pp. 216-225, in particolare pp. 224-225. 54 VOLPE 1964, p. 16; cfr. anche A.S.S., Diplor~.2atico Bichi-Borghesi vol. 9, E 13, cc. 2v-3r. 55 CARDARELLI 1 932, p.87, nota 3. Un atto di conferma della cessione, risalente al 9 agosto 1118 è edito in A.l.AI., t. III, coll. 213-215. 56 ROSSETTI 1973, PP. 210-211 57 Durante la seconda metà dell'VIII secolo è attestata la presenza patrimoniale lucchese e pisana nelle salire maremmane di Asilacto, Casale, Sarteratichi e Cicina, sullo sfruttamento del sale rosellano da parte di personaggi chiusini cfr. Ia nota 32. Per la problematica generale cfr. SPUFFORD 1988, P. 48 e HARTMANN 1904, PP. 74SS. 58 TABACCO 1974, PP. 120- 121. 59 In linea di diritto, però, sia i distretti castrensi che il possesso delle argentarie e dei thesaura rimaneva all'Imperatore, come si ribadì nella dieta di Roncaglia del 1158 (M.G.H., Legam sertio IV, Costitutio77,es, t. I, p. 244 n. 175). Espliciti riferimenti alla escavazione di minerali si generalizzarono nella documentazione solo con il successivo incremento delle concessioni imperiali, elargite in una prima fase a vescovi, abati ed esponenti di grandi dinastie fendali e, durante gli ultimi decenni della dinastia Sveva, anche ad organismi comunali o associazioni di maggiorenti. 60 Sulle vicende altomedievali degli Aldobrandeschi cfr. ROSSETTI I 973, pp.209-337, in particolare pp. 269-320i ROSSETT~ 1981, pp. 151-163, PR[SCO 1994. 61 Sui rapporti tra Jit2es Mariti2We e genesi della signoria aldobrandesca in Maremma cfr. PRISCO 1994, vol. II, t. 1. 62 Un atto del 973 (C.D.A., II, doc. 203) documenta le rivendicazioni signorili di Lamberto, figlio di Ildebrando III Aldobrandeschi, su 45 corti distribuite nei comitati di Roselle, Sovana, Castro, Tuscania, Chiusi, Populonia, Parma e Tortona, per alcune delle quali saranno più tardi esplicitamente attestate dalle fonti attività estrattive. Questi territori rappresentavano comunque solo una parte del patrimonio fondiario della famiglia. 63 ROSSETTI 1981, p. 153; PRISCO 1989, pp. 126-128; IDEM 1994, t-II, scheda V. 64 Lo sfruttamento dei giacimenti ferrosi situati nei territorio di confine tra Istia, Roselle e Grosseto, forse per l'assenza di metalli monetabili, produsse scarse tracce documentarie comunque atti del XVI secoto vi fanno esplicito riferimento: cfr. ad. es. A.S.S., Balia 119, cc. 21v-22r (1540 gennaio 22), 26r (1540 febbraio 11), 33r (1540 febbraio 21), 42v (1540 marzo 4), 74r (1540 aprile 6). 65 Il controllo sul territorio di Campagnatico, seppur attestato sin dat 973 (C.D.A., doc. 203; 14 aprile 973), è esplicitato anche nelle sue implicazioni minerarie con il secolo XIII, quando una quota del suo distretto viene venduta cum omnibus argentifodinis et credifodinis et cum omnibus venis auri, argenti, ferri et alterius cuiuscumque generis metalli et cum omoe thesauro absconso et pecunia celata que et quod esset et inveniretur et inveniri posset, (C.V., III, doc. 956, 1283 ottobre 13). 66 Sui castelli minerari di Montorsaio e Batignano esercitarono il proprio dominio alcune famiglie signorili locali, legate da vincoli fendali con gli Aldobrandeschi e ben presto attratte nell'orbita politica senese. Attorno al 1178 Il visconte Ugolinas Scolari concesse al comune di Siena la terza parte della quota a lui spettante della vena “argenti et plumbi et auri et cuiusque metalli, que estrahetur de castello de Batignano et curte et districtu eius et de curte et districtu de Montorsaio, [...] in his finibus et in aliis usque Rosellem, Monteorsaium, Turrim et usque Unbronem” (C.V., I, doc. 29). Tale atto non precluse agli Aldobrandeschi l'esercizio di diritti su Batignano, rivendicati nel 1208 e nel 1213, quando il
conte Ildibrandino Maggiore riservò al proprio “demanium” le argentiere, infendando a Manto del fu Guglielmo il castello, la torre ed i diritti pertinenti ai Visconti (CIACCI 1936, II, doc. CCLXXXIII). 67 ROSSETT[ I973, p.298. Sull'ubicazione di Tea7pascio cfr. PRISCO 1994, vol. II, t.2, scheda III. 68 RossETTı 1973, p. 298. 69 Il conte Lamberto nel 973 rivendicava a sè “eclesia et monasterio illo beati sancti Petri apostolorum principis sito Montouirde cum eclesia et territuris scu castellis et rupis adque familiis eiusdem monaster~o pertinentibus” (C.D.A., II, doc.203). Forse un indizio dell'interesse minerario rivestito dai territori dipendenti dall'ente religioso è riconoscibile nello specifco riferimento alle “ rupes ” , assente nelle attestazioni patrimoniali relative agli altri numerosi possess~ rammentau nell'atto. 70 Le corti di Suvereto e Monte Piti sembrano aver compreso territori a nord di Campiglia ` Marittima, che accolgono ricche mineralizzazioni a solfuri misti. Il Castiglione citato nel 973 potrebbe essere identificato con Castiglion Bernardi, anche per la sua vicinanza al centro di S. Regolo in Gualdo, dal quale gli Aldobrandeschi paiono aver mutuato molti possessi; occorre comunque rammentare che l'esistenza di un Poggio Castiglione a sud di Massa Marittima lascia aperta ogni ipotesi. Per Campiano è stata proposta una localizzazione presso Boccheggiano (Repertorio, scheda 36.3, p.340), ma essa sarebbe diff~cilmente conciliabile con 1'appartenenza del "castello" al territorio populoniense. 71 La rivendicazione di diritti sul castello di Cugnano da parte dei conti Aldobrandeschi viene ripetuta nel corso del secolo XIII (testamento del 1208, atti di divisione del 1216 e del 1274), a partire dal secoloXII sono documentati anche lapresenza di esponenti di famiglie locali ed il dominio pannocchiesco su Cugnano (Repertorio, scheda 34.4, F[UMI 1961 p. 252). Il riferimento agli “ordinamenta montis de Cugnano” è contenuto in una serie di atti della seconda metà del Duecento (Appendice 1877). Il castello è oggetto a partire dal 1992 di una campagna di scavo che si inserisce nel programma di indagini archeologiche e topografiche sul territorio massetano, portato avanti dal Dipartimento di Archeologia dell'Università di Siena. 72 CIACCI 1934, I, pp. 36-37 73 CIACC~ 1934, II, doc. CCXII, pp. 72-73. Nel 1196 Filippo, duca di Toscana per conto deh'Imperarore, confermò al conte I Idebrandino i suoi possessi e le sue argentiere (VOLPE 1964, p. 38). 74 Negli anni 1548-1552 esisteva infatti “una miniera di argiento nella corta di Montakiello” (A.S.S., Biccher7,a 1087, c.ó; 1548-1552). 75 Lo sfruttamento di “una certa miniera di più diverse vene di metalli e di ferri” a Campiglia d'Orcia è attestato nel secolo XVI (A.S.S., Biccher77za 1087, c. 5;1548 giugno 21) e forse già nel XII (cfr. C.D.A., II, doc. 356; 1191 settembre 12 e FARINELLI c. s.). 76 Sulle vicende della famiglia cfr. ROSSETTI 1973, pp. 296-320; e CECCARELL[ 1981, pp. 165-190. 77 CECCARELLI 1981, p. 170. 78 Il castello di Serena sorse sull'odierno poggio della Badia, sulla riva sinistra del Merse poco a Sud dell'attuale paese di Chiusdino. 79 Miranduolo era ubicato sulla riva destra del Merse presso l'attuale poggio Castagnolo alcuni atti posteriori (secoli XII-XIII) indicano che il reiativo distretto abbracciava le due sponde del torrente; una estensione rilevante, acquisita, a nostro giudizio, attraverso l'accorpamento di terre gherardesche in precedenza pertinenti ad altri centri dell'area (VATTI 1931, pp. 123-128; VOLPE 1924, p. 31, nota 3). 80 Non è chiara l'estensione del territorio dipendente dal castello di Soveioli che sembra da collocare nelle vicinanze del torrente Mersino (sino all'Ottocento Merse-Savioii) comprendendo parte delle pendici meridionali del Poggio di Montieri (CECCARELL27 LEMUT i982, p. 14 nota 19). Il distretto di sb7viole era giuridicamente rilevante ancora agli inizi del XIII secolo (R.V., doc. 478). 81 A.l.M.,t.III,coll. 1067-1068.Sullevicendedell entereligiosocfr.CEccARFLLILEMuT,c.s. 82 CECCARELLI 1981, pp. 165-190. 83 CECCARELLI LEMUT 1982, doc. 2, p. 28. 84 c.v. I, doc. 17 pp. 29-31. La cessione riguardava anche tutti i diritti e le azioni possedute dai conti e dai loro f deles “ in Monte Beccario et in eius pertinentiis”, che appare un'area di elevato interesse minerario, si tratta probabilmente del poggio di Collebeccai, situato a quanto risulta da atti del secolo XIII, “in contrada di Cusa~~, una villa sorta nei pressi delle miniere al confine con il territorio di Boccheggiano, nel cui distretto sarebbe successivamente confluita (VATTI 1931, pp. 123-128). I1 5 gennaio 1191 I'abate di S.Maria di Serena, in cambio di altri beni, cedette al vescovo Volterrano la metà del cast7~27~ “de Mirandolo, patronatus ecclesie castri et alterius sancti Cosme et Damiani” detta “iuxta Mersam”; nel privilegio di Enrico VI datato Sutri 17 agosto 1194 sono confermati al vescovo volterrano i diritti su Mirandoolo (R.V., docc. 231, ?38). 85 A.l.M., III, coll. 1067-1068; V, coll. 745-748. Cfr. anche CECCARELLI LEMUT 1985a. 86 Sullo sfruttamento quattrocentesco delle risorse minerarie dell'area rimandiamo a FIUMI 1948, e a PAMPALONI 1975, pp. 3-182. Sugli sviluppi cinquccenteschi di tali attività cfr. FABRETTI-GUIDARELLI 1980. 87 TANGHERON[ 1985. 88 R.V., doc. 164; CECCARELLI LEMUT 1982.
89 Nel 1137 il vescovo di Volterra Aldemaro cedette al vescovo di Siena Ranieri “medietatem de argentaria, si inventa fuerit in terra quam Cresscientius [...] beate memorie Vulterrane ecclesie episcopus emit e comite Rainuccino Pannocchia ” (C.V., I, doc. 15). 90 CAVALLINI_BOCCI 1982, p. 38. Sulle attestazioni di attività minerarie medievali nei castelti di Gerfalco e Fosini cfr. VOLPE 1924, pp. 26-130; VOLPE 1964, pp. 141-319. 91 R.V., doc. 165. 92Alcuni castelli minerari del Massetano e dellaMaremma, sui quali ebbero a rivendicare diritti membri della casata pannocchiesca, furono Perolla, Pietra, Giuncarico, Roc~het~e Parro~~hies~hi, Castiglion Bernardi, Gavorrano. 94 CAMMAROSANO 1979. 95 ROCCHIGIANI 1983; ANGELUCCI 1982, pp. 120ss. 96 La Toscana 1971, pp. 364, 366, 535. 97 C.V., I, docc. 78-79. 98 All'epoca è attestata l'esistenza di “una miniera di ferro nella corta di Litiano cirka di comEno di 1 miglio,” (A.S.S., Biccherna 1087, c. 6; 1548-1552). 99 La stessafonte annovera “unaminera di rame aPari, [...], cirguitodi 2 miglia„ (Ibide7n). Sulle mineralizzazioni nel territorio di Pari cfr. La Toscana 1971, p. 535. 100 Tra gli “iurantes„ di Tocchi è ricordato anche “Gherardiunus de Ferraia„. Ai territori un tempo dipendenti da Tocchi e Castiglion della Fa7~na fece riferimento un atto cinquccentesco senese che enumerava le "miniere" dello Stato: qui è ricordata “una miniera di ferro a Ieza con suoi confini cirguito di 2 miglia” (A.S.S., Biccherna 1087, c. 6, 1548-1552) Riguardo al controllo esercitato dall'abbazia di S. Lorenzo al Lanzo su Sasso d'Ombrone, le cui miniere polimetalliche sono citate alla fine del XIII secolo cfr. ANGEE UCC~ 1982, p. 122, nota 12. 101 Il vescovo di Siena vantava diritti su Vallerano almeno a partire dall'XI secolo, condividendone la signoria con i conti Ardengheschi (C.V., I, doc. 79); presso Vallerano sono presenti mineralizzazioni cuprifere di diversa natura ed entità, per la cui coltivazione sono state realizzate gallerie e trincee (Inventario, scheda 74). Anche una quota della rocca di Montepescini appartenne al vescovato senese sin dal secolo XI e su di essa esercitarono uno stretto controllo i conti Ardengheschi; nel 1179 il castello risultò 1'unico dell'area, assieme a Rocca Gonfienti che la famiglia comitale fu autorizzata a ricostruire dopo la sua guerra contro Siena (C. V., I, docc. 26-27). Verso la metà del secolo XVI sono ricordate le risorse minerarie pertinenti a Montepescini: un atto cita “una miniera di oro overo lapislazari nella corta di Montapescini, cirguito di uno miglio„ (A.S.S., Biccherna 1087, c.ó; 1548-1552). Minerali metallici si rinvengono in prossimità del vicino castello di Murlo - un toponimo frequentemente associato a ricchezze cuprifere nella Toscana meridionale -, anch'esso saldamente sotto il dominio vescovile a partire dal secolo XII (Inventario, scheda 74). 102 Al 1191 risale un atto incui EnricoVI conferma a Guido Guerragiurisdizioni e possessi su molti castelli della Toscana e della Romagna, annoverando anche i diritti sulle miniere e sulle cave ivi esistenti (REPETTI 1846, p. 43; cfr. anche per il 1220 Regesta Irnperii, V, p. 275). 103 I129 novembre 1220 Federico 11 conferì agli Ubertini di Arezzo, un privilegio secondo il quale veniva loro confermato “argenti foveas, auri foveas, et quicquid metalli vel tesauri in terra sua inveniri potest, montes quoque, valles et ea, que ad nos et imperium spectant'”. (URKUNDEN 1874, doc. 287, pp. 321-322). 104 Sul patrimonio "maremmano" dei conti Alberti, che avevano fondato la propria fortuna familiare sui possessi fiorentino-pistoiesi cfr. CECCARELLI LEMUT, 1985b, pp. 46-57; VOLPE 1964, pp. 42-48.
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Le tecniche costruttive fra VI e X secolo
Cercare di ricostruire la realtà materiale dell'edilizia civile nei suoi componenti costitutivi e, quindi, le tecniche di costruzione per i secoli dell'alto Medioevo presuppone l'integrazione in un quadro unitario dei risultati molteplici e diversificati quantitativamente e qualitativamente delle discipline che più si occupano di storia del popolamento, degli insediamenti e della cultura materiale, utilizzando la vasta gamma di testimonianze che il passato ci ha lasciato. I dati maggiormente significativi ci sono forniti essenzialmente da fonti scritte ed evidenze materiali. Di qui la necessità di procedere di conserva, mai sufficientemente ribadita, da parte di storici ed archeologi, che hanno, però, concentrato il loro interesse su queste tematiche prevalentemente sui secoli del basso Medioevo, per i quali disponiamo di una grande abbondanza di testimonianze scritte e resti materiali. Lo studio del documento scritto, su cui mi concentrerò in questa sede, ha così portato a risultati significativi sulla storia dei centri urbani e delle campagne e sulle rispettive strutture insediative, soprattutto per i secoli dal Duecento in poi. Relativamente ai primi secoli del Medioevo l'interesse per questo indirizzo di ricerca si è sviluppato con forza in quest'ultimo ventennio. Notevoli sono infatti le difficoltà per chi si avvicina a questo tipo di indagine per i secoli dal VI al X, rendendo necessaria l'individuazione di un approccio particolare al problema. Una prima osservazione da fare concerne la minore abbondanza di testimonianze scritte per il primo periodo del Medioevo rispetto ai secoli seguenti. Questo è certamente un limite, ma ha in sé un elemento positivo. Si tratta, infatti, di un materiale, potremmo dire, più facilmente controllabile da parte dello storico, che può consentirgli di spaziare sull'intero territorio della penisola, operando una sintesi legata alla comparazione dei dati forniti per le singole realtà regionali, numericamente meno numerosi che non per i secoli seguenti e perciò più facilmente accessibili. Bisogna avere ben presente, inoltre, che la documentazione ci è pervenuta in modo frammentario. E mi riferisco qui soprattutto a quelle fonti documentarie / documenti, cioè scritture di qualsiasi tipo, riferite a interessi pubblici o privati del momento in cui sono state redatte e di cui si vuole trasmettere notizia, e soprattutto a quei documenti di carattere privato, che sono certamente per la nostra indagine i più ricchi di informazioni. Ora, non possiamo non segnalare come essi ci siano stati conservati in numero rilevante per certi secoli e non per altri (e a partire soprattutto dall' VIII secolo), per determinate aree e non per altre. Basti come esempio una osservazione sulla documentazione del periodo della dominazione longobarda: essa ci è stata conservata soprattutto per 1' VIII secolo e in particolar modo per la Toscana. L'Italia settentrionale è assai scarsamente rappresentata. È così difficile avere una continuità di dati per un arco cronologico abbastanza lungo in relazione a zone più o meno circoscritte. È necessario, quindi, estendere l'indagine ad ampie realtà regionali per supplire a questa discontinuità della trasmissione e conservazione delle testimonianze scritte e per avere consistenti dati significativi da analizzare. Realtà regionali non individuabili certamente solo sul piano geografico, ma soprattutto in base al riconoscimento, al loro interno, di una omogeneità delle tradizioni politiche, culturali, dell'organizzazione economico-sociale e delle forme di organizzazione del territorio`. Bisogna segnalare inoltre una certa concisione, una scarsa puntualità descrittiva, una certa cruda essenzialità delle informazioni che le fonti ci forniscono sulle strutture materiali degli insediamenti. Ciò è tanto più osservabile a fronte di singole situazioni eccezionali, che per diversi motivi si staccano dal quadro generale: ad esempio Ravenna, Lucca e, al Sud, Salernoe È questo un ulteriore elemento che spinge lo storico a considerare i dati su vasta scala. Possiamo tentare di avanzare qualcuna delle tante possibili spiegazioni. La documentazione di carattere pubblico ha per sua stessa natura un interesse precipuo nel definire diritti, privilegi, immunità concessi su determinati beni a enti e privati, non tanto nella definizione precisa delle relative realtà materiali. I contratti privati, da me soprattutto considerati, nelle loro diverse tipologie, sembrano concentrare l'attenzione dei contraenti soprattutto sulla terra, sul suo
possesso, più che sugli elementi insediativi su di essa costituiti. Il riferimento è spesso alla +
della casa. Riflesso questo probabile, in quel tempo, della mentalità degli uomini, legata al possesso della terra ed alla difesa della proprietà della stessa. Potremmo così parlare quasi di un 'filtro giuridico' attraverso il quale giungono fino a noi le testimonianze di determinate realtà del passato e che ci dà ragione di certi silenzi documentari;. Motivazioni di tipo diverso, potremmo dire culturali, stanno, invece, probabilmente alla base delle scarsissime ed occasionali informazioni fornite dai notai altomedievali sulle caratteristiche materiali dell'insediamento rurale in area romanica, di contro ad un interesse forte e puntuale rivolto alla realtà cittadina. Differente atteggiamento riscontrabile anche all'interno di uno stesso negozio giuridico, relativo alla contrattazione di beni ubicati rispettivamente in città e campagna. In questo caso, probabilmente, la persistente centralità politica, economica e amministrativa dei centri urbani in area bizantina determina uno scarso interesse nei confronti di elementi costruttivi ben lontani dai modelli urbani. L'organizzazione dello spazio, anche rurale, intesa secondo un'ottica cittadina porta al disinteresse nei confronti di realtà materiali sentite come diverse e, probabilmente, di inferiore qualità costruttiva. Il quadro di riferimento delineato dall'esame di questo tipo di testimonianze può essere ulteriormente allargato e integrato da quelle che la tradizione scritta ci ha trasmesso sotto forma di narrazione, ma in questo caso i dati sono ancora più scarsi e occasionali, frammentari e deformati dall'intendimento del loro autore e dall'ottica secondo la quale egli ha rivissuto e trasposto in sequenza narrativa i fatti di cui parla. in questo caso sono gu elementi secondari, accessori nel racconto, quelli per noi più suscettibili di interesse. Le fonti normative ci permettono invece di collegare l'esperienza della penisola con quella degli altri territori di influenza germanica e bizantina e, soprattutto nel caso della legislazione longobarda, di scendere nel concreto di una realtà minuziosamente descritta in quanto si vuole tendere ad una sua regolamentazione ed organizzazione dall'alto. Fatte queste necessarie premesse metodologiche sull'uso delle fonti, mi sembra che per definire il problema delle tecniche costruttive tra VI e X secolo occorra considerare 'in primis' la qualità dei materiali da costruzione, la loro utilizzazione e diffusione nelle varie zone e nei secoli, il loro interagire, spesso. Oltre a ciò, mi sembra utile risalire, indirettamente, alle tecniche edificatorie prevalenti in quel periodo partendo dall'individuazione dei costruttori e delle loro capacità specialistiche di lavoro, oltre che degli attrezzi impiegati per trasformare i vari materiali in un prodotto edilizio complesso e finito. Il legno è certamente il materiale che la documentazione scritta ci segnala come maggiormente usato nell'edilizia altomedievale. Ci sono testimoniate case esclusivamente costruite in legno oppure in legno e altri materiali; di legno potevano essere i pali di sostegno e l'ossatura dei muri, I'armatura dei tetti. Di legno potevano essere gli elementi accessori delle costruzioni, le partizioni interne agli edifici. Di legno, ancora, potevano essere coperti i tetti: cioè con “scandolue~>, tavole di questo materiale. Di tutti questi impieghi del legno nella pratica costruttiva abbiamo notizie sicure nelle fonti scritte~. Quello che le stesse testimonianze non ci dicono generalmente è di che tipo di legno si trattasse. Oltre a frequenti ma generiche precisazioni sulla qualità del materiale ligneo, che si vuole “bonus~>, abbiamo poche scarne notizie sulle essenze impiegate. Ad esempio, in alcune case salernitane l'ossatura del solaio è prevista in “trabes bonos de quertie”. Ma se il legno fosse più o meno stagionato, impiegato sotto forma di tronchi grezzi o squadrati, o sotto forma di tavolati non possiamo saperlo con precisione dalle fonti scritte. Conosciamo invece i rapidi tempi di realizzazione di queste strutture (e, quindi, viene spontaneo il rimando all'uso di legno non stagionato), la loro flessibilità, modificabilità e sostituibilità. Spesso, in aree geografiche diverse e distanti, è documentata, infatti, la pratica di smontare gli edifici, 'in toto' o anche solo in parte, per poterne riutilizzare altrimenti gli elementi. Un uso meno esclusivo del legno come materiale da costruzione lo si può rilevare nelle zone di tradizione bizantina rispetto a quelle di tradizione longobardo-franca, scelta che possiamo ricollegare
oltre che alla qualità specifica dell'ambiente e del paesaggio, all'attività economica di volta in volta prevalente, alla disponibilità di determinate materie prime e, quindi, ad una 'cultura' improntata a modelli che non suggerivano - come quelli germanici - un ricorso massiccio allo sfruttamento dell'incolto boschivo come risorsa economica primaria. Questo atteggiamento mentale, riscontrabile nella legislazione longobarda, ma anche in quella di altri popoli germanici, dai Bavari ai Burgundi, agli Alamanni, porta all'identificazione di ogni architettura con costruzioni lignee o, per lo meno, a considerare il legno come materiale principe, se non unico, per l'edilizia. Si è parlato del riutilizzo di elementi costruttivi lignei. Parimenti diffusa pare la pratica del reimpiego del materiale di recupero lapideo, soprattutto la pietra. L'approvvigionamento di questo materiale sembra essere stato più caratterizzato dalla raccolta di depositi erratici e di spoglio che non da una intensa attività di cava. Lo testimoniano concessioni relative alla possibilità di sfruttamento di pietre inutilizzate, disseminate a terra, nei pressi, ma non solo, di edifici in costruzione. Così anche la possibilità di abbattere pareti per potere recuperare le pietre poste in opera e di sfruttare, potremmo dire come cava, anche strutture monumentali antiche. Ciò premesso, non si può certo dire che la pietra fosse di impiego comune come materiale edilizio, soprattutto la pietra inserita in murature più o meno compattate da leganti, diffuse tuttalpiù laddove più facilmente era disponibile come materia prima (come nelle zone appenniniche). Le attestazioni di questo materiale sono legate inoltre soprattutto all'ambito cittadino, con una maggiore concentrazione di dati per gli ultimi decenni del secolo X. Se prendiamo il caso di Lucca, possiamo vedere come i negozi giuridici che hanno per oggetto case in pietra siano molto rari fino al secolo X, per poi infittirsi nel corso dell' XI e del XII secolo. La rinascita cittadina tin fieri' determina in questo caso la ricerca di una maggiore solidità costruttiva. Ma pietre, forse più propriamente pietrisco, ciottoli, potevano pure entrare nella composizione di impasti con le malte (a base di argilla o calcina), con i quali si costruivano muri perimetrali di edifici (ad esempio a Ravenna) e soprattutto nelle fondazioni degli stessi (ad esempio a Salerno)~~. Di materiale lapideo pregiato, 'nobile', come il marrno si segnala in prevalenza la provenienza di recupero. Elementi costruttivi di edifici antichi trovano così una diversa collocazione, svolgendo a volte una diversa funzione, in nuove costruzioni. Ma di questi Stessi elementi doveva esistere anche un commercio a largo raggio, per usi particolarmente ricercati e particolari e per rispondere alle esigenze di una committenza elevata socialmente e culturalmente 14. Per quel che concerne un altro materiale costruttivo, il laterizio (più precisamente il mattone), resta difficile precisarne e quantificarne la diffusione e le modalità di impiego e di approvvigionamento sulla scorta delle sole fonti scritte. Non si deve infatti pensare che laddove si parla solo di `<murum>, ( e sono nurnerosi i casi), senza altra puntualizzazione e senza la precisazione “latericius”, questa sia da considerarsi solo come sottintesa, perché il termine ha di per sé un significato generico, in molti casi più puntualmente definito dall'indicazione dei suoi elementi costitutivi, non omologabili spesso alla produzione laterizia. D'altronde è raro incontrare nei documenti menzioni di fornaci, anche in quelle zone dove in epoca imperiale si era sviluppata notevolmente una industria laterizia (ad esempio nel Riminese, a Roma, nella valle inferiore del Tevere). Spesso, inoltre, la genericità dell'indicazione non ci dà ragione del tipo di produzione laterizia. Così il 19 agosto 769 si fa riferimento semplicemente a “foglinas in Intuno” come parte dei beni stanziati da Grato diacono di Monza per dotare la cappella di S. Salvatore e S. Fedele in Monza da lui fondata. Più frequente è la cristallizzazione nella toponomastica altomedievale del ricordo di questa particolare attività produttiva locale, sviluppatasi precedentemente. Il silenzio delle fonti rimanda ad una decadenza dell'industria laterizia nell'alto Medioevo e al prevalente riutilizzo di materiale proveniente da edifici antichi, anche sotto forma di frammenti mischiati a malta. Tuttavia una produzione legata a centri particolari, ad una logica di autoconsumo e, quindi, a quantità 'modeste' di prodotto è testimoniata. Pensiamo al monastero di San Colombano di Bobbio nel Piacentino, dove attorno al primo trentennio del secolo IX sono organizzati dei ministeria, (o officine centrali) sul centro dominico monastico, fra i quali è previsto anche quello “figulorum”.
Il materiale laterizio più documentato e diffuso nei nostri secoli è quello da copertura, cioè “tegulis et imbricibus„, che in ambito cittadino e soprattutto nel corso del secolo X, sembra contendere il primato alle coperture vegetali, fossero esse “scandolue” lignee o paglia Fornaci per la produzione di tegole ci sono testimoniate, ad esempio, nel maggio 841 nel Bresciano o nel 977 in territorio lucchese. Nel primo caso il vescovo di Brescia Ramperto destina “tegularia Sancti Faustini in loco qui dicitur Freores” alla produzione di tegole (si precisa “terram cavandi tegulasque coquendi„) per la costruzione di una chiesa; nel secondo il vescovo di Lucca Adalongo richiede una corresponsione in tegole prodotte in località Carignano da impiegarsi per gli usi della chiesa cittadina. Anche in questo caso una produzione legata a scopi ben determinati, quasi all'autoconsumo. Per le case in 'muratura' fino al tetto il sistema di copertura preferito era quello f~ttile; a volte si utilizzava un sistema misto di scandolae, “tegalae et imbrices”, specie nei casi di edifici costruiti parte in'muratura'e parte in legnot. Ma non dobbiamo pensare al legno, alla pietra e al mattone come ai materiali esclusivi dell'edilizia. Interi edif~ci o parti di essi potevano avere le pareti di argilla, di paglia e argilla, di cannicciato, fossero esse inserite o meno su di una ossatura lignea. D'altronde la frequente menzione, specie nelle aree rurali, di “casae paliaticiae” rimanda probabilmente all'utilizzo della paglia non solo per la copertura dei tetti, ma anche per le pareti degli edifici. In questo caso potremmo pensare ad un uso esclusivo della paglia variamente contesta, connessa e compattata o ad una amalgama di paglia e argilla. Questi diversi materiali erano uniti da leganti. Fra di essi le testimonianze ricordano le malte argillose luto, arena”, la calcina/calce, per la quale non abbiamo elementi utili a precisarne la composizione qualitativa e quantitativa. In un documento cavense riguardante la città di Salerno si precisa che un astracu, doveva essere “ad calce et petre et pumice factu bonum”. “Calce et arena” dovevano anche servire per intonacare pareti, ma di questa tecnica scarsissime sono le testimonianze documentarie. Sempre a Salerno, in una abitazione si obbliga l'affittuario: “intonicet illud ad calce et arena” Le strutture edili potevano essere “terrinae/terraniae”, con il solo pianterreno, oppure solariatae, a sviluppo verticale, con un piano superiore, nella maggior parte dei casi, o con più di un piano. Sembra essere più diffuso uno sviluppo orizzontale delle costruzioni, documentato da chiare attestazioni nelle carte o dalla individuazione di particolari tipologie insediative caratterizzate da 'nuclei abitativi' articolati, cioè più edifici con qualifiche funzionali diverse correlati tra loro in un complesso unitario. È comunque all'ambiente cittadino che è legata la costruzione "solariata", le cui testimonianze si infittiscono nel corso del secolo X2e Basti segnalare il caso di Lucca, città ricca di documenti per i secoli VIII-XI, che assiste all' intensif~carsi di contrattazioni relative a case solariatae a partire dal primo decennio del secolo XI2i. Le campagne appaiono impermeabili nei nostri secoli alla diffusione di questo modello costruttivo,` potremmo dire cittadino. Anche laddove siamo di fronte a strutture edili raccolte in abitati accentrati (pensiamo ad esempio alle zone studiate dal Toubert attraverso l'esame della documentazione farfense) sembra predominare la “domus terrania„, a pianterreno, rispetto a quella sviluppata verso l'alto, attestata in questo caso soprattutto a partire dal pieno Medioevo ( dalla metà del secolo XII). Nei “solaria” spesso il piano terreno era costruito con tecniche differenti (legno, muratura), mentre il piano superiore era completamente ligneo (ad esempio a Ravenna, Salerno). In questo caso la copertura del tetto era generalmente di legno (scandolae) o eseguita con un sistema misto. Particolarmente ricchi di dettagli sulle tecniche costruttive dei “solaria” sono alcuni documenti riguardanti la città di Salerno, che prevedono la diffusione dell'arco (longitudinale) su pilastri e dei pilastri come strutture portanti degli ediEci2S. Ma ci troviamo di fronte, in questo caso, probabilmente all'intervento di maestranze specializzate nell'attività costruttiva e decorativa, che dovevano legare le loro prestazioni alle richieste e ai gusti di una committenza ristretta e di un certo livello sociale. Questi “magistri murarum, casarii, marmorarii, carpentarii, commacini”, questi “
artiEces, pictores, scultores”, che vediamo spostarsi all'interno della penisola, costituiscono delle presenze eccezionali, probabilmente per l'alta qualificazione delle loro opere. A loro non doveva infatti essere demandata l'edificazione delle minori costruzioni, quanto invece quella degli edifci pubblici (civili e religiosi) o privati di una certa importanza. Pensiamo, ad esempio, ai tre “magistri casarii” detti “transpadani” attivi a Lucca fra VIII e IX secolo. La loro attività è strettamente collegata ad un momento di affermazione della Chiesa locale e di espansione edilizia, sotto i vescovi Giovanni e Iacopo. I nostri “magistri” lavoravano per i vescovi, costrui- vano chiese e case su terre che erano o erano state del vescovo; i vescovi erano i committenti della loro attività. D'altronde le loro capacità tecniche possiamo individUarle dalla lettura del “ Memoratorio de mercedes comacinorum„, un vero e proprio tariffario delle prestazioni dei maestri commacini, dei tempi di re Grimoaldo o di Liutprando, di grande utilità per il rimando immediato a particolari tecniche costruttive . In esso inizialmente si fıssava il prezzo base di una costruzione con il solo piano terreno, detta “sala ”, coperta di tegole e quello di un edifıcio con il piano superiore sempre coperto di tegole, “solario ”. Si passava poi alla determinazione del prezzo di un muro secondo il suo diverso spessore, di costruzioni che prevedevano un secondo ordine di impalcature, della decorazione e messa in opera delle pareti di edifıci secondo le due diverse tecniche dell' “opus gallica” e dell'“ogus romanense ”, della costruzione di archi. Veniva poi indicato il prezzo dell'armatura lignea di un tetto, che poteva essere fatto o di “scandolae” lignee o di tegole, seguito da quello delle fondazioni e di alcuni lavori di rifınitura, come l'esecuzione di una stanza provvista di focolare, di chiusure per le fınestre in legno o di telai per vetri di gesso, di lastre e colonne di marmo. Da ultimo si fıssavano i compensi per la costruzione di forni con vasi o tobi fıttili al modo romano e di pozzi variamente profondi. Questi “magistri” dovevano essere esperti nella lavorazione del legno e della pietra. Nel centro monastico di San Colombano di Bobbio, ad esempio, lavoravano tra 1'833 e 1'835 dei “magistros de ligno et lapide” che “butes et bariles, scu scrinia vel molendina, casas atque muros faciunt„3u. Ma conoscenze tecniche ed esperienze costruttive nella carpenteria, oltre che nella lavorazione della pietra, dovevano avere Una ampia diffusione, anche se non ai più alti livelli di realizzazione. Si andava così, per fare qualche esempio, dalla maggioranza dei contadini che costruivano da sé la propria abitazione, generalmente in legno o con molte parti nello stesso materiale, ai contadini/carpentieri che fabbricavano “scandolue” di legno per il monastero di Santa Giulia di Brescia, insediati su terre dipendenti dal centro curtense di Serniga “curte Cervinica”. Più raramente abbiamo riferimenti alla lavorazione della pietra, come nel caso degli scalpellini, lapicidi, servi, sono nove, “qui petras tantummodo operantur”, sempre per conto del monastero bresciano, abitanti in “sortes” dipendenti dal centro domocoltile di “Summolacu”, a nord del lago di Garda. Le testimonianze relative a una forma diffusa di artigianato rurale sono molteplici e diverse. Tra di esse possiamo includere anche le informazioni sulla strumentazione agricola elencata per i poderi contadini e i centri dominicali di grandi proprietà nei contratti agrari e negli inventari dei beni dei grandi possessi monastici. Negli elenchi di attrezzi sono spesso compresi strumenti suscettibili di usi diversi e facilmente collegabili ad una attività costruttiva. Ma in questo caso la prevalenza è di una strumentazione legata alle operazioni di carpenteria e falegnameria, alla lavorazione del legno, dunque. Abbiamo così notizia di “secures, mannarias, materias, secias, dolatorias, asias, assiones, rasorias, tappolis”. Siamo di fronte a veri e propri corredi per la lavorazione del legno: asce, accette, scuri, seghe, pialle. E d'altronde, lo si è detto, il legno doveva essere nei nostri secoli un materiale da costruzione dei più diffusi, nei suoi diversi impieghi. Questi dati ne sono un'ulteriore riprova. PAOLA GALETTI
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Le tecniche costruttive fra VI e X secolo: le evidenze materiali
1. Premessa Abbiamo visto che i 'serbatoi' dai quali attingere le informazioni sono essenzialmente due: le fonti scritte e le evidenze materiali, ma non possiamo escludere a priori gli apporti specifici di altri tipi di fonti, quali, ad esempio, quelle iconografiche. Se analizziamo la situazione italiana alla luce delle acquisizioni più recenti, si avviano ad assumere un peso sempre più crescente, sia in senso qualitativo che quantitativo, le informazioni provenienti dalle campagne di scavo rispetto all'indagine del deposito 'verticale', ma la formazione della fonte materiale ha medesime leggi, un valore che non può essere parcellizzato o disconosciuto, sia che venga indagato archeologicamente il più tradizionale deposito 'orizzontale', sia che si tratti delle analisi del deposito 'verticale'. In larga parte la situazione del deposito 'verticale' può essere desunta dai repertori editi per aree geografiche o culturali, cronologiche o per destinazione funzionale, con netta predominanza degli edifici religiosi, alcuni apparsi fin dagli inizi del secolo (BERTAUX 1904 e il successivo Aggiornamento 1978, KRAUTHEIMER 1937-1980, VERZONE 1942, VENDITTI 1967, ROTIEI 1971, CANOVA DAL ZIO 1986 E ROTILI 1990 per limitarsi ai più conosciuti). Per i complessi religiosi sono state tentate, con interessanti risultati, delle sintesi fra informazione scritta e resti materiali (si vedano i contributi di PANI ERMINI 1983' CANTINO WATAGHIN 1989 per i monasteri di età longobarda e TESTINI-CANTINO WATAGHIN PANI ERMINI 1989 per le Cattedrali) pur tenendo presente la difficoltà che redigere una sintesi organica degli edifici “di età longobarda che intenda servirsi delle fonti archeologiche e non soltanto di quelle documentarie e letterarie non è ... proponibile allo stato attuale delle nostre conoscenze; ma proprio i limiti di queste danno maggior evidenza ai problemi da risolvere e permettono di indicare alcune linee di ricerca più significative„ (CANTINO WATAGHIN 1989, P.75). Per queste ragioni si deve constatare che, generalmente, la costituzione del corpus degli edifici altomedievali segue le indicazioni di una linea di studi tradizionale e sembra risentire di una stasi, limitandosi a delle riletture, precisazioni e misurati inserimenti di nuovi edifici. La situazione appare matura per una rilettura del 'sopravvissuto', attuata con strumenti messi a punto dalla ricerca più attuale e infatti solamente in questi ultimissimi anni - in parte per le acquisizioni di nuove indagini di scavo e, più raramente, riconosciute dall'analisi degli elevati edilizi - si è iniziato un meticoloso processo di revisione degli elementi costitutivi i complessi architettonici (si veda, a titolo di esempio, i risultati che si possono ottenere in NOVARA 1990). Il campo di ricerca deve tener conto, inoltre, degli interventi di restauro che, in modo direttamente proporzionale alla notorietà dell'edificio, hanno spesso resa più difficoltosa la raccolta delle informazioni e ci sembra opportuno, quando si devono affrontare i depositi 'verticali', verificare il tipo di strumento che è stato utilizzato nell'individuazione e nell'indagine dei campioni: lettura stratigrafica, criteri formali o tecnico-costruttivi. L'aver individuato la sostanziale unità del valore di documento storico, sia della stratificazione 'orizzontale' come di quella 'verticale', ci impone alcune riflessioni. In questo contesto, mentre la conoscenza dei materiali mobili ha avuto un sostanziale avanzamento, la ricerca di fossili guida alternativi all'analisi morfologica delle strutture o dei materiali decorativi, da utilizzare nella determinazione cronologica del deposito verticale senza distinzioni gerarchiche e anche per piccole parti di costruito, è ancora - ad eccezione di alcune limitatissime aree - ai primissimi passi, dopo la grande stagione del neopositivismo dei decenni '40 e '50 di questo secolo. Proprio la possibilità di scomporre l'intero universo del costruito in risultati di singole azioni costruttive - le USM - in un quadro edilizio di complesse stratificazioni, acuisce la mancanza di un apparato strumentale immediatamente utilizzabile. In questa sede si ritiene opportuno soffermarci proprio sul prodotto edilizio quale insieme costituito dai suoi componenti fondamentali - i materiali da costruzione - e sulle attrezzature e le tecniche, quando possibile anche le tecnologie, che hanno contribuito a formare la costruzione. Sono ancora
molti gli interrogativi che restano sospesi e la mancanza di una norma adattabile, ripetibile e confrontabile, da utilizzare per la descrizione delle murature è la spia di quanto ancora resti da fare, anche se non possiamo più parlare di scarsa attenzione. Tuttavia non possiamo disconoscere le difficoltà che talvolta si incontrano, nel costruire le informazioni quando si devono confrontare i dati registrati per rispondere agli obiettivi dello specifico progetto di ricerca e talvolta con tecniche diverse o comunque non standardizzate. Inoltre, per questo periodo, la scarsità dei rinvenimenti e la labilità ed aleatorietà delle tracce, di componenti edilizie limitate “alla sfera abitativa escludendo quella pubblica e dei servizi infrastrutturali” (ORTALLI 1991, p. 167~, delle altre azioni antropiche, sono i limiti e i problemi ben conosciuti e dibattuti che accompagnano i progetti di ricerca. Problema che diventa doppiamente importante quando un aspetto della ricerca si basa sulla lettura delle fonti materiali per determinare le caratteristiche delle tecniche costruttive. Per queste ragioni e nell'ambizioso tentativo di 'seminare'nuovi temi di ricerca che possano aiutare a rendere confrontabili i pochi dati veramente utili ad individuare le scarse tracce del sinuoso sentiero, evolutivo ed involutivo, percorso dalle tecniche costruttive, ci pare opportuno mettere l'accento su alcuni aspetti che, allo stato attuale della ricerca, ci sembrano i più promettenti. Individuare alcuni punti nodali, che consideriamo fondamentali per una 'descrizione' delle caratteristiche e del progredire - o del regredire - delle qualità tecniche del modo costruttivo, può costituire un momento di riflessione più coinvolgente che compilare un elenco, più o meno diligente, dei casi indagati finora e dei confronti utili alla raccolta di informazioni. Nel caso del deposito archeologico, 'orizzontale'e'verticale', lo strumento principale della conoscenza è la ricostruzione della sequenza delle vicende che hanno contribuito alla formazione della situazione attuale, stemperata con i metodi di valutazione della potenzialità dei depositi. Conoscenza che può spaziare dai problemi legati alla geomorfologia (siti in zone di pianura con forti apporti sedimentari, aumentati notevolmente dalla fine dell'Impero, e la dark earth; BROG1OLO-CREMASCHI-GELICHI 1988 e, per le diverse interpretazioni che ne sono state date, BROGIOLO 1987a; LA ROCCA-HUDSON 1986 e LUSUARDI SIENA 1989); e siti di altura o in pendio, caratterizzati dall'erosione o da riempimenti colluviali (MANNONI 1970; ARNOLDUS-HUYZENVELD-MAETZKE 1988), ai grandi quesiti storiografici, alle vicende dell'apporto antropico o all'abitudine (o concessione alla possibilità) del reimpiego del materiale da costruzione, fino alle normative attuali di tutela e di conservazione dei manufatti: problemi ben conosciuti da chi opera sul campo che appare superfluo constatare come nella catena ininterrotta del 'progetto di conoscenza si può scegliere dove porre l'accento, se deve essere indagata con un occhio di riguardo, ad esempio, la situazione relativa alla forma e al modo della produzione oppure all'aspetto tecnologico del prodotto costruzione delle grandi aree culturali in cui era divisa l'Italia. Nella situazione odierna assume un peso assolUtamente prioritario il tema della continuità o della rottura, quanto sia stata rilevante eredità tardoantica e quanto e come sia stata modificata, le condizioni economiche, l'organizzazione sociale, insomma i grandi temi della ricerca storiografica alla luce dei nuovi apporti della moderna archeologia. Situazione che, soprattutto per il periodo basso medievale, ci appare in qualche modo asimmetrica e, comunque, assai diversa dalle problematiche del secolo scorso, quando, sulla scia del positivismo, veniva dato un peso maggiore all'aspetto pratico dell'evidenza materiale. Proprio per la carenza e la labilità delle evidenze materiali delle componenti minori, ci sembra opportuno dedicare una qUalche attenzione all'integrazione delle informazioni, 'rileggendo' una situazione finora investigata in relazione a scelte di tipo culturale o sociale, quando non esclusivamente formale, piuttosto che tecnico (cfr. infra la situazione delle asce da combattimento). 2. La scelta dei materiali da costruzione, le tecniche di lavorazione e gli attrezzi Nonostante la viscosità del processo di cambiamento e la lunga durata di alcune tecniche costruttive, esistono, da Un lato, murature caratterizzare da un marcato processo di modificazione e, dall'altro lato, degli attrezzi che appartengono alla tradizione culturale di determinati popoli e non di altri. Può
essere utile verificare qUanta parte delle modifiche, delle differenze che individuiamo tra i materiali da costruzione e tra gli attrezzi simili possono dipendere dal mutare delle esigenze costruttive o dalla dífferenziazione del modo di trasmissione della conoscenza empirica, ma allo stato attuale del}e conoscenze si corre il rischio di cadere nelle analisi di tipo esclusivamente formale. L'introduzione di nuove tecnologie o la ripresa di prodotti caduti in disuso o limitati ad aree marginali, che ipotizziamo dalle variazioni dimensionali, dalle operazioni di finitura e dalla forma degli attrezzi, ci sembrano punti che possono riuscire a dare nuova luce su alcuni aspetti ancora poco chiari. Ad esempio ci sembra di poter intravedere, anche sulla base della situazione che si presenterà nei periodi successivi, una estrema specializzazione delle forme, nel modo di realizzare e nell'utilizzazione degli attrezzi per la lavorazione del legno (dalle analisi metallografiche dell'ascia merovingia tipo F 1c del Musée Eorrain di Meurthe-et-Moselle, si evince una tecnologia costruttiva che trova riscontri più puntuali nelle asce protostoriche halstattiane - VIII-VII sec.a.C. - che non in quelle romane; cfr. SALIN 1947-1959, III, P. 38). Sebbene ci siano scarse possibilità di poter verificare in maniera precisa ed adeguata una lunga durata degli utensili (ma vedi i risultati proposti da BESSAC 1986 per gli strumenti dello scalpellino), alcune costanti iconografiche e l'estrema viscosità che si riscontra nei cambiamenti delle forme degli strumenti, ci aiutano a determinare quando questi ultimi hanno raggiunto il compromesso ottimale fra forma, tecnologie di preparazione, disponibilità sul mercato e funzionalità (MANNONl 1988, p. 406). L'archeologia sperimentale e i modelli etnografici ci possono aiutare a chiarire la funzione e l'utilizzo di alcuni utensili, anche se non ci sono tecniche costruttive completamente nuove, perché si continua o si riprende una tradizione costruttiva meno appariscente, ma esistente anche in precedenza. Ma quali sono le fasi di lavorazione che esigono strumenti e tecnologie adeguate alla domanda? Legno Nonostante la scarsa quantità dei resti materiali finora rinvenuti (e che viene spiegata con la situazione di degrado legata all'ambiente di deposito e, per certi altri casi, con la pratica dell'asportazione per il reimpiego in altri luoghi, come ci è stato comunicato nella relazione Galetti) non paiono esserci molti dubbi che il legno fu il componente principale di una grande quantità di edifici od almeno di una parte considerevole delle strutture. Quale tipo di essenza legnosa, quale parte del tronco o dell'albero veniva utilizzata, come era preparato e in che modo veniva impiegato questo materiale, sono informazioni che possiamo ricavare soltanto dall'esame diretto del materiale (cfr. Ie ricerche di Goodburn in Timber B~ildiHg TechHiques 1992 e McGRAIT 1982). Già oggi è possibile registrare l'impiego del legname, sia sotto forma di tronchi grezzi (vedi la situazione, forse del VII secolo, di Molina di Ledro, loc. “Volta de Besta” dove “Sorprendente risulta il raffronto tipologico tra questo tipo di costruzioni ed i tradizionali casotti a tutto tondo dell'area regionale, i cosidetti 'Blockhaus', primogenio stadio del sistema costruttivo del pastore-contadino”; CAVADACIURT ETTI 1985, p. 91 e DAT. RI-PIVA 1985), sotto forma di tavole più o meno sagomate (cfr. CHAPELOT-FOSSTER 1980, pp. 267-281 e lo scavo delle case di Corso Porta Reno a Ferrara - cfr. Ferrara 1992), oppure con pali portanti parzialmente o perfettamente squadrati, secondo l'interpretazione che ci ha dato Monneret de Villard del termine capellare del Memoratorio (MONNERET DE VILLARD 1920, p.8). Anche le differenze del riempimento delle "buche per palo',e ci possono aiutare, quando i resti carboniosi del disfacimento del palo lasciano una traccia spesso di forma regolare che permette l'individuazione della forma e della dimensione della trave squadrata che vi era stata infissa (vedi la casa 1 del Foro di Luni, forse la prima struttura lignea medievale scavata in Italia; cfr. WARD-PERKINS 1983, p. 122). D'altra parte, che in casi eccezionali si potessero eseguire lavorazioni particolarmente raffinate si evince dalle testimonianze del restauro della copertura di importanti edifici religiosi a Roma (WARD-PERKINS 1984) e dalla più tarda iconografia del IX-X secolo (BINDING 1987, p.451). Per la scarsità e la frammentarietà dei ritrovamenti rimane ancora poco chiaro lo schema strutturale delle costruzioni, ma anche solo una rassegna del tipo di elemento di cui viene attestata la presenza (pali portanti e pareti esterne, pareti
divisorie e tramezzi, pavimentazione e solai, coperture - carpenteria e scandole-, steccati, recinzioni e sistemazioni esterne, impalcature e apparecchiature per la movimentazione dei materiali - nel caso dei grandi cantieri - forse anche sottofondazioni) ci rende edotti della complessità e ricchezza delle utilizzazioni. Ora se almeno alcuni pali portanti della struttura sembrano essere stati in una qualche maniera spaccati mediante cunei e poi squadrati, quali strumenti potevano rispondere meglio alle esigenze del lavoro e, plausibilmente, essere stati utilizzati? Si tratta di qualche tipo di seghe - già presenti nella tradizione romana - come raramente appaiono nell'iconografia (ad esempio nella miniatura di Rabano Mauro di Montecassino o a Salerno nella prima metà dell'XI secolo - cfr. BINDING 1987, pp.300,428 - o nei mosaici di Monreale e di Otranto, della seconda metà del XII secolo - il~idem, pp. 298,351 - e che nell'Europa ecntrosettentrionale sono attestate solamente dal XIII secolo: cir. Timtber Building Techiques 1992, pp. 113-114) o, più probabilmente, di quella ampia varietà di asce, accette e scuri che appaiono, in molti casi estremamente verosimili, nell'iconografia dal IX secolo in poi (BINDTNG 1987, pp. 76, 105, etc. - Fig. 1). Nelle zone appenniniche della Toscana (Garfagnana e Mugello; cfr. Il lavoro nei boschi 1988) a differenti fasi della lavorazione tradizionale del legno, corrispondono appositi utensili, situazione che si presenta simile anche in Liguria (MONTAGNANI 1993, p. 81) e nelle zone alpine, sempre con utensili differenziati ma con nomi spesso simili (BONINSEGNA 1980, SEBESTA 1983, CANIATO-DAL BORGO 1988 e 1990 e, per un quadro italiano generale, GIORDANO 1953). Abbiamo così le scuri -a manico lungo, tagliante stretto e bordi della lama quasi paralleli - che erano impiegate per abbattere gli alberi, le accette - manico lungo o medio, tagliante medio, bordi concavi divergenti - che avevano una funzione più diversificata (diramare, sbozzare, in qualche caso scortecciare) e le asce - manico generalmente, corto, tranciante largo, con piano della lama perpendicolare o parallelo all'asse del manico, in alcuni casi con lama a forma di T - che servivano esclusivamente per la squadratura finale del legname, per ridurlo in travi o tavole. Attrezzi differenziati che dovevano servire alle seguenti fasi di lavorazione: abbattimento, scortecciatura, diramatura, sbozzatura, il processo di trasformazione dal tronco al prodotto finito. A questo punto, quale riscontro abbiamo, in ambito italiano, con i reperti coevi alle strutture? Se passiamo in rassegna i ritrovamenti databili dalla f ne del VI al X secolo, e che, per il tipo di contesto si possono proporre senz'altro come attrezzi, vediamo che le attestazioni non mancano. A Imola villa Clelia - e a Belmonte si sono rinvenute associazioni di strumenti che in un caso - Imola - sono state interpretate come contenute in una cassetta per gli attrezzi, parte senz'altro da carpentiere più che per usi agricoli, e a Belmonte (nel Canavese) pur con i limiti del sistema di recupero adottato, come materiali provenienti dalla bottega-forgia di un fabbro (per Imola cfr. BARUZZI 1978; per Belmonte: SCAFILE 1971 e 1972 e una sintesi delle vicende delle escavazioni in PANTÒPEJRANI BARICCO 1992). Tra i reperti che più si avvicinano all'iconografia conosciuta, oltre alle mazze e ai cunei di ferro e lignei, esistono alcuni tipi di asce e pochissime scuri che potrebbero soddisfare le esigenze dell'utensileria della carpenteria lignea. Del primo tipo di reperto - un'ascia a lama allungata spesso definita come "barbuta" (vedi Fig. 2) - ne sono state rinvenute, entro i confini dell'attuale territorio italiano, alcune decine. Attualmente siamo a conoscenza di 28 reperti - alcuni dispersi recentemente ma il numero può benissimo aumentare per la presenza di numerosi pezzi inediti, come ci insegna il caso di Fiesole -: 2 da Belmonte, da Borgovercelli, 3 da Testona, 4 da Verona e Veronese, 2 da Aquileia,3 da Gorizia, da Cividale, da Montecchio di Reggio Emilia e Gorzano nel Bolognese,3 da Imola,4 da Fiesole,2 da Benevento e da Salerno. Quando sono associati ad un contesto affidabile, si possono collocare in una fascia cronologica attorno alla fine del VI o, più probabilmente, al VII secolo. Un secondo tipo molto meno numeroso, circa una decina di pezzi, è costituito da una stretta ascia con nuca a martello (vedi Fig.3), di tradizione romana, finora rinvenuta a Carignano, a Testona (2 esemplari), a Imola-Villa Clelia (3 esemplari), nel Bresciano e a Fiesole (3 esemplari). Infine un terzo tipo, anch'esso di corrispondono appositi utensili, situazione che si presenta simile anche in I,iguria (MONTAGNANI 1993, p. 81) e nelle zone alpine, sempre con utensili differenziati ma con
nomi spesso simili (BONINSEGNA 1980, SEBESTA 1983, CANIATo-DAL BORGO 1988 e 1990 e, per un quadro italiano generale, GIORDANO 1953). Abbiamo così le scuri -a manico lungo, tagliante stretto e bordi della lama quasi paralleli - che erano impiegate per abbattere gli alberi, le accette - manico lungo o medio, tagliante medio, bordi concavi divergenti - che avevano una funzione più diversificata (diramare, sbozzare, in qualche caso scortecciare) ed invece le asce - manico generalmente, corto, tranciante largo, con piano della lama perpendicolare o parallelo all'asse del manico, in alcuni casi con lama a forma di T - che servivano esclusivamente per la squadratura finale del legname, per ridurlo in travi 0 tavole. Attrezzi differenziati che dovevano servire alle seguenti fasi di lavorazione: abbattimento, scortecciatura, diramatura, sbozzatura, il processo di trasformazione dal tronco al prodotto finito. A questo punto, quale riscontro abbiamo, in ambito italiano, con i reperti coevi alle strutture? Se passiamo in rassegna i ritrovamenti databili dalla f ne del VI al X secolo, e che, per il tipo di contesto si possono proporre senz'altro come attrezzi, vediamo che le attestazioni non mancano. A Imola villa Clelia - e a Belmonte si sono rinvenute associazioni di strumenti che in un caso - Imola - sono state interpretate come contenute in una cassetta per gli attrezzi, parte senz'altro da carpentiere più che per usi agricoli, e a Belmonte (nel Canavese) pur con i limiti del sistema di recupero adottato, come materiali provenienti dalla bottega-forgia di un fabbro (per Imola cfr. BARUZZI 1978; per Belmonte: SCAFILE 1971 e 1972 e una sintesi delle vicende delle escavazioni in PANTÒ PEJRANI BARICCO 1992). Tra i reperti che più si avvicinano all'iconografia conosciuta, oltre alle mazze e ai cunei di ferro e lignei, esistono alcuni tipi di asce e pochissime scuri che potrebbero soddisfare le esigenze dell'utensileria della carpenteria lignea. Del primo tipo di reperto - un'ascia a lama allungata spesso definita come "barbuta" (vedi Fig. 2) - ne sono state rinvenute, entro i confini dell'attuale territorio italiano, alcune decine. Attualmente siamo a conoscenza di 28 reperti - alcuni dispersi recentemente ma il numero può benissimo aumentare per la presenza di numerosi pezzi inediti, come ci insegna il caso di Fiesole -: 2 da Belmonte, da Borgovercelli, 3 da Testona, 4 da Verona e Veronese, 2 da Aquileia, 3 da Gorizia, da Cividale, da Montecchio di Reggio Emilia e Gorzano nel Bolognese,3 da Imola, 4 da Fiesole, 2 da Benevento e da Salerno. Quando sono associati ad un contesto affidabile, si possono collocare in una fascia cronologica attorno alla fine del VI o, più probabilmente, al VII secolo. Un secondo tipo molto meno numeroso, circa una decina di pezzi, è costituito da una stretta ascia con nuca a martello (vedi Fig. 3), di tradizione romana, finora rinvenuta a Carignano, a Testona (2 esemplari), a Imola-Villa Clelia (3 esemplari), nel Bresciano e a Fiesole (3 esemplari). Infine un terzo tipo, anch'esso di tradizione romana, che finora può essere stato confuso con gli attrezzi agricoli (tagliente stretto, lama leggermente convessa, trasversale all'asse del manico, vedi Fig.4) ancora presente a Imola Villa Clelia e nel territorio circostante (per un totale di 4 pezzi) e a Belmonte. Curiosamente scarsissime sono le tracce di scuri ed accette, evidentemente non ritenute di particolare pregio per la loro somiglianza ai moderni utensili. Un caso particolare è costituito dalle asce a T, attestate almeno dal IX secolo ed estremamente comuni nell'iconografia scolpita od incisa sugli edifici del XII e XIII secolo - ma di lunghissima durata- finora, in Italia, poco studiate: solo 3 pezzi da Gorizia e un inedito da Imola. Per quanto riguarda l'ascia barbuta, un attrezzo di tradizione germanica apparentemente non conosciuto dai romani (anche sulla base delle analisi metallografiche, effettuate da France Lanord in SALIN 1949-59 e da Leoni in ROTILI 1987, che hanno chiarito le tecniche di costruzione dell'ascia, diverse da quelle romane; ma si veda quanto indicato in POHANKA 1986, pp.254-255 per il tipo 9a) e molto diffuso nell'Europa centrale; essa viene rinvenuta frequentemente nelle tombe come parte del corredo (la presenza dell'ascia è considerata, tra i Turingi e i Merovingi, una prova dell'elevato rango sociale dell'inumato; cfr. a BOHNER 1958 e STEUER 1989, p. 104) e spesso associata ad una funzione di arma da lancio o da combattimento a corta distanza (cfr. WHEEEER 1927 e SALIN 1949-59; inoltre HESSEN 1968 e 1971, ROTIEI 1977). Se non ci sono dubbi sulla funzione 'militare' della francisca, citata abbastanza comunemente nelle coeve fonti scritte (tra gli altri vedi DAHMLOS 1977), e, per la sua particolare forma, inutilizzabile come attrezzo da lavoro (una francisca è stata
rinvenuta a Villa Cogozzo PANAZZA 1964, tav. XVIII, 1 e, forse, a Sirmione, BROGIOLO-LUSUARDI SIENA - SESINO 1989, P. 87), qualche problema si incontra nello spiegare la funzione della forma allungata verso il basso e la nuca a martello dell'ascia barbuta, che si rivelano assolutamente inutili nella balistica dell'oggetto. Si può ipotizzare, allora, che l'ascia barbuta non costituisca uno strumento esclusivamente offensivo e anche quando viene rinvenuto nelle tombe (in Italia la presenza è accertata sicuramente solo a Cividale, congiuntamente ad un ricchissimo corredo: è la tomba 24 della necropoli di S. Stefano in Pertica - AHUMADA SILVA-LOREATO-TAGLIAFERRI 1990 - , a Povegliano—Materiali di età longobarda, 1989 - e molto probabilmente a Testona - CALANDRA 1883 - e Benevento - ROTILI 1977) riveli una funzione simbolica, di emblema del potere, come sembra di capire dalle fonti scritte e dalla più tarda e celebre raffigurazione dell'arazzo di Bayeux (Fig. 5, ma la forma della lama è diversa), che poteva venir surrogata dall'attrezzo più simile che si aveva a disposizione. Infine non si può escludere del tutto, quando non siamo in presenza di un corredo completo, una tradizione che poneva nelle tombe degli artigiani i loro attrezzi più comuni, analogamente a quanto è attestato per gli orafi. La definitiva funzione delle asce barbute sembra difficilmente precisabile, pur con una forte propensione ad utensile da carpenteria con una qualche flessibilità d'uso, ed anche il tentativo di fissarne le precise attitudini al lavoro, per squadrare il legname ad esempio, si scontra con la scarsa praticità della lama posta sul medesimo piano dell'asse del manico. Se non possiamo escludere un manico leggermente arcuato, l'uso ottimale sembra indirizzato verso una sbozzatura del legname e forse, dato il notevole spessore che generalmente si riscontra, per fendere il legname per la preparazione delle scandole, come, in alcune asce, sembrano far propendere le ammaccature visibili nella nuca a martello (cfr. HESSEN 1971, t. 22, n. 202). Mattoni Nelle costruzioni in laterizio ci sono alcuni aspetti legati al processo produttivo e all'ampiezza della distribuzione che attendono di essere maggiormente chiariti. In estrema sintesi ci si chiede se, tra il VI e il IX secolo, si possa ipotizzare l'esistenza o meno di una continuità del processo produttivo delle grandi quantità, col relativo mercato, oppure se la pratica del reimp~~ego del materiale laterizio aveva assunto un aspetto pressoché totalizzante. Le eccezioni esistono, tra questi estremi sembra trovare posto anche una terza ipotesi: non si deve dimenticare che in particolarissimi progetti (a Ravenna, l'edilizia giulianea della prima metà del VI secolo, RIGHINI 1991, pp. 211-212, i grandi monasteri, alcuni complessi religiosi, etc.) viene registrata una apposita produzione, probabilmente destinata quasi esclusivamente alla costruzione dell'edificio o di una sua parte e, quindi, all'autoconsumo. In uno dei più grandi cantieri del VI secolo, la costruzione della cinta muraria di Ravenna, per portare a compimento i 4,5 km del perimetro, si sono costruiti circa 50.000 metri cubi di murature. Una simile quantità presuppone una organizzazione produttiva assolutamente eccezionale anche se diluita nel tempo ma in un'unica fase costruttiva - per la preparazione degli oltre 6 milioni di mattoni necessari, e per questo la pratica del reimpiego, secondo le ipotesi di Ortalli, Gelichi e Righini (ORTALLI I 991, p. 171; GELICHI 1991, p. 156; RIGHINI 1991, p. 212) appare come la soluzione più probabile. Per l'ipotesi di una produzione di mattoni nuovi si schiera invece Christie (CHRISTIE-GISSON 1988, pp. 182-183; CHRISTIE 1989, p. 129). Non è ancora chiara la capacità produttiva di un complesso di fornaci, ma sulla base della documentazione scritta successiva, della continuità tecnologica e dalla scarsità delle fornaci rinvenute, appaiono più plaUsibili quantità come le donazioni di 25.000 mattoni per anno, destinati da Teoderico agli edifici romani. “Per quanto riguarda il Lazio ... sembra che la grande industria laterizia fiorita soprattUtto nella valle inferiore del Tevere, vicino Roma e Ostia, nell'epoca imperiale, non continuò dopo il VI secolo>, (ARTHUR-WHITEHOUSE 1983, p.528); la produzione di mattoni, a Roma, sembra avere avuto una ripresa generale forse alla f ne del XIV e sicuramente nel corso del XV secolo; comunque una qualche produzione di mattoni deve essere sopravvissuta (cfr. i mattoni dell'Atrio di Vesta e dell'abbazia di Farfa; ibidem) anche se con produzioni modeste e per utilizzazioni interne, prive quindi di mercato.
Anche in Campania si assiste ad una produzione di mattoni e tegole che termina nel corso del V o forse inizi del VI secolo. Le ipotesi formulate recentemente (RIGHINI 1990) di una produzione di elementi di tradizione greca e di tradizione romana, potrebbero costituire la base per un riscontro puntuale delle reali dimensioni dei mattoni integri impiegati nelle costruzioni dei diversi periodi, in maniera da verificare, su scala regionale o per aree più ristrette, il tipo di laterizio prodotto; se cioè la produzíone e il consumo era limitato ai soli laterizi da copertura o da pavimentazione (attestati quasi con continuità e come farebbero supporre i tegoloni impiegati nella copertura di sepolture FIORILLA 1986 - e i reperti delle fornaci rinvenute in alcuni grandi complessi religiosi, come a S.Vincenzo al Volturno e S. Cornelia; CHRISTIE 1991), oppure se, come appare probabile, la produzione comprendeva anche veri e propri mattoni (a Montecassino sono attestati mattoni dell'ultimo quarto dell'VIII secolo con caratteristiche, ci pare di intendere, ancora tardoantiche; cfr. ARTHUR-WHITEHOUSE 1983, pp. 529 e 531). In altre parole si tratta di verificare se i prodotti, soprattutto i laterizi bollati che sono stati preparati fino all'VIII secolo, sono realmente mattoni, nelle forme e nelle dimensioni da precisare, oppure se si tratta di materiale da copertura tegoloni - o da pavimentazione, che quando si rinvengono frammentari possono essere scambiati per mattoni di limitato spessore, peraltro tipici della produzione laziale anche moderna. Infine un altro aspetto rimane ancora sostanzialmente da indagare. Come si può riuscire a seguire la progressiva - o improvvisa - variazione delle misure dei mattoni di tradizione romana - i bipedali, i sesquipedali, i bessali (LUGLI 1957) o la puntigliosa classificazione proposta da Righini, con una particolare attenzione ai mattoni provinciali manubriati (RIGHINI 199O) - nel passaggio dal modulo romano a quello medievale e moderno. Il controllo dell'areale di diffusione del mattone provinciale manubriato di cm 44-48x25-30x7-10, la presenza di altre forme di mattone finora non classificate, il passaggio dai vecchi moduli dimensionali fino all'introduzione della nuova misura del mattone di cm 28-30x13-15x4-ó, possono costituire i passi necessari ad una migliore comprensione dell'indubbio processo di trasformazione che è possibile registrare. Un esempio può essere costituito dalle cosiddette altinelle, i piccoli - cm 1517xó-8x4-5 - mattoni che tradizionalmente si considerano provenienti dal centro romano di Altino, impiegati e prodotti a Venezia nei secoli XII e XIII (cfr. Mattoni di Venetia, p. 246). Mattoni così piccoli sono attestati anche nella villa romana di Sirmione, ma la maggior parte dei mattoni rinvenuti nei recenti scavi di Altino è costituita dai comuni sesquipedali e non è escluso, quindi, che i mattoni bollati illustrati (ibidem p. 272) fossero impiegati nella pavimentazione. Per quanto riguarda le modifiche dimensionali, risulta estremamente difficile seguire l'andamento delle variazioni ed il processo si legge solo saltuariamente ed in maniera puntiforme. Si deve al Merati l'aver messo in rilievo l'importanza giocata dalle variazioni dimensionali per l'individuazione delle parti più antiche della basilica Autariana di Fara Gera d'Adda (MERATI 1980-81; MERAT] 1978) e nelle vicende della produzione laterizia lombarda (gli altri due esempi citati, San Salvatore di Brescia e San Satiro a Milano, come prime attestazioni dei mattoni di modulo ridotto rispetto a quello sesquipedale romano-cm35xl6x7 a Brescia e cm 30x14xó,7 a Milano - sono stati collocati tra IX secolo - 876 - per San Satiro e inizi del IX a Brescia, recentemente avanzata alla meta dell'VIII secolo: cfr. BROGIOLO 1992). Anche a Cividale la misura dei mattoni impiegati nella fase costruttiva dell'VIII secolo del Tempietto non è più quella di tradizione romana; le misure pubblicate variano da cm 25-31x1825xó-8 (L ORANGE-TORP 1977-79, II, pp. 3,13). Una maggiore attenzione è stata spesa per l'analisi della limitata produzione decorativa, ma oltre alle variazioni dell'apparato iconografico che può essere fuorviante per l'abitudine all'imitazione, può essere istruttivo leggerla come specchio delle modifiche del processo tecnologico. Sebbene la descrizione dell'aspetto tecnico, connaturato ai modi delle decorazioni, non abbia avuto una grande fortuna e precisione (per una prima rassegna della situazione, vedi GABBRIELLI-PARENTI 1992, ma anche FIORILLA 1985-86), ci sono delle costanti che ben si accompagnano all'andamento tecnologico degli altri materiali da costruzione. Così, ad esempio, tra VIII e XIII secolo, abbiamo una ricchissima attestazione di mattoni scolpiti a cotto, analogamente ai materiali litoidi, mentre nello iato della produzione dei laterizi stampati (foggiati entro stampo negativo) che si registra fra il VII secolo
e la fine del XIII si deve leggere la perdita della capacità tecnica di realizzazione. E la sola eccezione dei mattoni stampigliati (decorati con la pressione del modello decorativo in negativo sul crudo; BERTITONGIORGI 1972), di Santa Maria di Anglona (Matera) attribuiti alla prima metà del XII secolo (SCERRAT01985,p.290;ARTHUR-WHITEHOUSE 1983,pp.534-535) può essere interessante come testimonianza del commercio di materiali costruttivi o di spostamento delle maestranze, in questo caso probabilmente arabe, che hanno adottato un repertorio figurativo di tradizione paleocristiana, ma realizzato con una tecnologia già impiegata per la decorazione di prodotti tipicamente islamici, come le giare o i mattoni da pozzo. Materiali lapidei In una situazione estremamente frammentata, dove esiste ancora un mercato con disponibilità di marmi pregiati - come nella Ravenna degli inizi del VI secolo, quando si costruiscono i 1aalrea paua dalle pareti decorate con marmi e pavimenti musivi - insieme ad abitazioni caratterizzate da una estrema precarietà, dei materiali e delle strutture, per l'approvvigionamento del materiale da costruzione sono attestate sia la pratica del reimpiego del materiale di recupero, che la raccolta di materiale erratico (cave a trovanti), sia, infìne, la più rara ripresa dell'approvvigionamento da cava (cfr. supra la relazione Galetti). In questo quadro così diversificato diventa importante conoscere la distribuzione dei litotipi - per permettere un controllo sull'ampiezza dell'areale di approvvigionamento e di diffusione -, la lavorazione e la fnitura delle pietre - per individuare il livello tecnologico delle maestranze e l'organizzazione del cantiere -, il tipo di legante e la presenza della calce (o gesso), dove, oltre al livello tecnologico, interagisce anche una forma culturale che fa convivere, sulla medesima struttura, ampie superfici intonacate - e, nei monasteri e nelle chiese alpine dell'VIII-IX secolo, anche affrescate - con murature legate con argilla, così in ambito rurale (Pieve di Manerba' Carasso di Bellinzona), come nei castra (Ibligo Invillino, Castelseprio) e nelle città (Brescia, Verona)” (BROGIOLO 1983, p. 85). Per quale ragione una malta di calce venga impiegata, in alcuni edifici, per intonacare le pareti (tra gli altri, l'edificio III di via A. Mario a Brescia scarsita delle fornaci rinvenute, appaiono più plausibili quantità come le donazioni di 25.0S30 mattoni peranno, destinati da Teoderico agli edifici romani. “Per quanto riguarda il Lazio . sembra che la grande industria laterizia fiorita soprattutto nella valle inferiore del Tevere, vicino Roma e Ostia, nell'epoca imperiale, non continuò dopo il VI secolo” (ARTHUR-WHITEHOUSE 1983, p.528); la produzione di mattoni, a Roma, sembra avere avuto una ripresa generale forse alla fine del XIV e sicuramente nel corso del XV secolo; comunque una qualche produzione di mattoni deve essere sopravvissuta (cfr. i mattoni dell'Atrio di Vesta e dell'abbazia di Farfa; ibidem) anche se con produzioni modeste e per utilizzazıoni interne, prive quindi di mercato. Anche in Campania si assiste ad una produzione di mattoni e tegole che termina nel corso del V o forse inizi del VI secolo. Le ipotesi formulate recentemente (RIGHINI 1990) di una produzione di elementi di tradizione greca e di tradizione romana, potrebbero costituire la base per un riscontro puntuale delle reali dimensioni dei mattoni integri impiegati nelle costruzioni dei diversi periodi, in maniera da verificare, su scala regionale o per aree più ristrette, il tipo di laterizio prodotto; se cioè la produzione e il consumo era limitato ai soli laterizi da copertura o da pavimentazione (attestati quasi con continuità e come farebbero supporre i tegoloni impiegati nella copertura di sepolture - FIORILLA 1 986 - e i reperti delle fornaci rinvenute in alcuni grandi complessi religiosi, come a S.Vincenzo al Volturno e S. Cornelia; CHRISTIE 1991), oppure se, come appare probabile, la produzione comprendeva anche veri e propri mattoni (a Montecassino sono attestati mattoni dell'ultimo quarto dell'VIII secolo con caratteristiche, ci pare dí intendere, ancora tardoantiche; cfr. ARTHUR-WHITEHOUSE 1983, pp. 529 e 531). In altre parole si tratta di verificare se i prodotti, soprattutto i laterizi bollati che sono stati preparati fino all'VIII secolo, sono realmente mattoni, nelle forme e nelle dimensioni da precisare, oppure se si tratta di materiale da copertura - tegoloni - o da pavimentazione, che quando si rinvengono frammentari possono essere scambiati per mattoni di limitato spessore, peraltro tipici della produzione laziale anche moderna.
Infine un altro aspetto rimane ancora sostanzialmente da indagare. Come si può riuscire a seguire la progressiva - o improvvisa - variazione delle misure dei mattoni di tradizione romana - i bipedali, i sesquipedali, i bessali (LUGLI 1957) o la puntigliosa classificazione proposta da Righini, con una particolare attenzione ai mattoni provinciali manubriati (RIGHINI 1990) - nel passaggio dal modulo romano a quello medievale e moderno. Il controllo dell'areale di diffusione del mattone provinciale manubriato di cm 44-48x25-30x7-10, la presenza di altre forme di mattone finora non classificate, il passaggio dai vecchi moduli dimensionali fino all'introduzione della nuova misura del mattone di cm 28-30x13-15x4-ó, possono costituire i passi necessari ad una migliore comprensione dell'indubbio processo di trasformazione che è possibile registrare. Un esempio può essere costituito dalle cosiddette altinelle, i piccoli - cm 1517xó-8x4-5 - mattoni che tradizionalmente si considerano provenienti dal centro romano di Altino, impiegati e prodotti a Venezia nei secoli XII e XIII (cfr. Mattone di Venezia, p. 246). Mattoni cos' piccoli sono attestati anche nella villa romana di Sirmione, ma la maggior parte dei mattoni rinvenuti nei recenti scavi di Altino è costituita dai comuni sesquipedali e non è escluso, quindi, che i mattoni bollati illustrati (ibidem p. 272) fossero impiegati nella pavimentazione. Per quanto riguarda le modifiche dimensionali, risulta estremamente difficile seguire l'andamento delle variazioni ed il processo si legge solo saltuariamente ed in maniera puntiforme. Si deve al Merati l'aver messo in rilievo l'importanza giocata dalle variazioni dimensionali per l'individuazione delle parti più antiche della basilica Autariana di Fara Gera d'Adda (MERATI 1980-81; MERATI 1978) e nelle vicende della produzione laterizia lombarda (gli altri due esempi citati, San Salvatore di Brescia e San Satiro a Milano, come prime attestazioni dei mattoni di modulo ridotto rispetto a quello sesquipedale romano-cm35xl6x7 a Brescia ecm30xl4xó,7 a Milano - sono stati collocati tra IX secolo - 876 - per San Satiro e inizi del IX a Brescia, recentemente avanzata alla meta dell'VIII secolo: cfr. E]ROGIOLO 1992). Anche a Cividale la misura dei mattoni impiegati nella fase costruttiva dell'~III secolo del Tempietto non è più quella di tradizione romana; le misure pubblicate variano da cm 25-31x1825xó-8 (L ORANGE-TORP 1977-79, II, pp. 3,13). Una maggiore attenzione è stata spesa per l'analisi della limitata produzione decorativa, ma oltre alle variazioni dell'apparato iconografico che paò essere fuorviante per l'abitudine all'imitazione, può essere istruttivo leggerla come specchio delle modifıche del processo tecnologico. Sebbene la descrizione dell'aspetto tecnico, connaturato ai modi delle decorazioni' non abbia avuto una grande fortuna e precisione (per una prima rassegna della situazione, vedi GAssR~E~~~-PARENT~ 1992, ma anche FIORILLA 1985-86), ci sono delle costanti che ben si accompagnano all'andamento tecnologico degli altri materiali da costruzione. Così, ad esempio, tra VIII e XIII secolo, abbiamo una ricchissima attestazione di mattoni scolpiti a cotto, analogamente ai materiali litoidi, mentre nello iato della produzione dei laterizi stampati (foggiati entro stampo negativo) che si registra fra il VII secolo e la fine del XIII si deve leggere la perdita della capacità tecnica di realizzazione. E la sola eccezione dei mattoni stampigliati (decorati con la pressione del modello decorativo in negativo sul crudo; BERTITONGIORGI 1972), di Santa Maria di Anglona (Matera) attribuiti alla prima metà del XII secolo (SCERRATO 1985, p.290; ARTHUR-WHITEHOUSE 1983, pp.534-535) può essere interessante come testimonianza del commercio di materiali costruttivi o di spostamento delle maestranze, in questo caso probabilmente arabe, che hanno adottato un repertorio figurativo di tradizione paleocristiana, ma realizzato con una tecnologia già impiegata per la decorazione di prodotti tipicamente islamici, come le giare o i mattoni da pozzo. Materiali lapidei In una situazione estremamente frammentata, dove esiste ancora un mercato con disponibilità di marmi pregiati - come nella Ravenna degli inizi del VI secolo, quando si costruiscono i dalle pareti decorate con marmi e pavimenti musivi - insieme ad abitazioni caratterizzate da una estrema precarietà, dei materiali e delle strutture, per l'approvvigionamento del materiale da costruzione sono
attestate sia la pratica del reimpiego del materiale di recupero, che la raccolta di materiale erratico (cave a trovanti), sia, infine, la più rara ripresa dell'approvvigionamento da cava (cfr. supra la relazione Galetti). In questo quadro così diversificato diventa importante conoscere la distribuzione dei litotipi - per permettere un controllo sull'ampiezza dell'areale di approvvigionamento e di diffusione -, la lavorazione e la finitura delle pietre - per individuare il livello tecnologico delle maestranze e l'organizzazione del cantiere -, il tipo di legante e la presenza della calce (o gesso), dove, oltre al livello tecnologico, interagisce anche una forma culturale che fa convivere, sulla medesima struttura, ampie superfici intonacate - e, nei monasteri e nelle chiese alpine dell'VIII-IX secolo, anche affrescate - con murature legate con argilla, “così in ambito rurale (Pieve di Manerba, Carasso di Bellinzona), come nei castra (Ibligo Invillino, Castelseprio) e nelle città (Brescia, Verona)~> (BRoG~o~o 1983, p. 85). Per quale ragione una malta di calce venga impiegata, in alcuni edifici, per intonacare le pareti (tra gli altri, l'edificio III di via A. Mario a Brescia e la cantina-granaio dell'edificio di Monselice; cfr. PANAZZA- BROGIOLO 1988 e BROGIOLO 1987b), addirittura alcune tombe - sempre in relazione alla vicina chiesa e quindi con un carattere esplicitamente cristiano (FIORIO TEDONE 1986) - e non come legante delle murature o per la realizzazione della pavimentazione, è un motivo che può essere spiegato sia nella continuazione di una tradizione, secondo una tecnica già nota in contesti tardoantichi dell'Italia settentrionale, sia perché siamo in presenza di conoscenze empiriche, costruttive o legate all'immediata percezione dell'ambiente, che si stavano rinnovando e ancora non ben chiarite. E per quanto riguarda i materiali lapidei veri e propri, constatata la presenza di conci ben squadrati non di reimpiego in alcuni particolari edifici, perché non presupporre anche la presenza di limitate maestranze, oltre ai famosi maestri comacini, che come attività lavorativa accessoria praticata con una strumentazione povera, esercitavano, assieme alla pratica dell'autocostruzione, anche quella del recupero di materiale da costruzione, sia da ruderi che da cave a trovanti. In effetti l'approvvigionamento del materiale da costruzione, sia come reimpiego di parti strutturali (MANACORDA 1985), sia come riuso del materiale di spoglio o raccolta di materiale erratico, sembra costituire una delle maggiori preoccupazioni dei committenti (e la tradizione costruisce, su questo aspetto, il più tardo miracolo di S. Geminiano della costruzione del Duomo di Modena; inoltre vedi FUMAGALLI 1988, p.14 per l'importanza della disponibilità del materiale da costruzione per la localizzazione dei nuovi complessi). Sono situazioni che sembrano rispecchiare un quadro legato maggiormente alla disponibilità del materiale, piuttosto che alla formazione culturale: cosı si hanno notevoli differenze fra le aree del tufo vulcanico, o altri litotipi facilmente lavorabili, e le aree di diffusione dei litotipi più tenaci, dove la squadratura dei conci diventa un problema tecnologico di difficile risoluzione, così come l'apparecchiatura del pietrame che risente della disponibilità in loco e solo successivamente della tradizione costruttiva locale, imitata con modifiche più o meno profonde. Una ricerca sulla variazione degli utensili (picconcello, polka, mannaria, etc.; Fig. 6), attestata sia dai ritrovamenti archeologici (GATTZSCH 1980), che dalle tracce lasciate sulle superfici delle pietre (BESSAC 1986), pur nelle difficoltà connesse alla scarsità delle evidenze materiali, può rivelarsi molto proficua, se effettuata per aree più ampie dello studio del singolo edificio (per una verifica dei risultati che si possono ottenere a scala subregionale, e per un periodo caratterizzato da un impiego massiccio della pietra, vedi BIANCHI-PARENTI 1991). Strutture miste ed altri materiali deperibili Nonostante la difficoltà che si incontra nell'individuarne le tracce materiali, la presenza di strutture miste (legno-pietra) è sicuramente attestata e di lunghissima durata. Non sembrano esserci delle utilizzazioni prioritarie e si incontrano in edifici dove convive la pratica del riuso strutturale, del reimpiego dei materiali lapidei - forse foderati con assi lignee - e della funzione portante svolta da pali verticali. Sempre più spesso si rinvengono le impronte, le cavità lasciate da travature lignee, ormai deperite, sia di capanne (cfr. a Trento, palazzo Tabanelli, CAVADA-CIURLETTI 1985, p. 101) come in edifici monumentali. Anche strutture miste più deperibili, come i resti di graticci intonacati con
argilla (l'inglese attle and daub), sono evidenze materiali la cui presenza comincia ad essere individuata negli scavi più recenti, ad esempio nella situazione di Brescia (PANAZZA-BROGIOLO 1988, p.59) o Filattiera (GIANNICHEDDA 1988, p.27), anche se, per la loro precarietà, sembrerebbero confinati alle pareti d'ambito delle strutture più umili o a semplici divisori interni, in questo caso anche in edifici più impegnativi. Inoltre non si può dimenticare la tecnica di costruzione in 'pisè', largamente attestata (de loto) e diffusa anche se di più difficile individuazione. Strutture in negativo, "scavate" Bisogna subito accennare all'estrema difficoltà che incontra lo strumento archeologico nello stabilire le prime fasi di escavazione degli ambienti ipogoici, con la formazione di interfacce negative che continuamente asportano le superfici precedenti e che, quindi, fanno mancare la quasi totalità delle relazioni stratigrafiche necessarie per la determinazione delle fasi di costruzione. Solo la presenza di depositi connessi alle fasi d'uso e di abbandono degli ambienti, oppure la relazione contestuale di differenti soluzioni formali permettono una serie di cronologie relative (ad esempio quando da un'apertura a tutto sesto si passa ad una architravata, che non ammette il passaggio contrario, oppure l'esempio di Sovana, dove una tomba a camera etrusca è stata ampliata come colombaia; per la differenza fra colombari e colombaia, cfr. QUILICI G1GLI 1981 ); infine, quando disponibili, apparati decorativi particolari sono utilissimi per costituire altri indicatori cronologici. Nonostante queste limitazioni, studio degli ambienti rupestri non può essere trascurato, perché tali ambienti costituiscono una realtà assai diffusa ovunque il substrato geologico lo permetta, e cioè quando si incontrano litotipi facilmente scavabili anche con attrezzature semplicissime. A grandi linee gli ambienti rupestri artificiali vengono utilizzati anche come abitazioni e, almeno nell'Etruria Meridionale, sono attestati fin dall'età del Bronzo (Sorgenti della Nova 1981), se non prima; successivamente si hanno ampie e conosciutissime attestazioni della pratica di adibire gli ambienti rupestri artificiali come sepolcreti, ma bisognerebbe verificare se l'impiego come abitazioni, saltuarie o promiscue, può essere continuato in aree marginali. Infine viene largamente attestata la ripresa dell'uso abitativo in epoca genericamente medievale. Da una panoramica della situazione della Tuscia laziale, dove sono state studiate numerose strutture religiose spesso decorate con affreschi, si nota una frequentazione relativamente tarda, dal XIII al XVII secolo e oltre (cfr. RASPI SERRA 1974 e 1976), analogamente a quanto avviene in altri centri rupestri (cfr. PARENTI 1980), ma non possiamo escludere totalmente una presenza più precoce, che, per essere discussa con più cognizione, deve essere inserita nelle vicende generali degli insediamenti. Il piccone a due punte appare l'utensile che meglio corrisponde alle tracce lasciate sulle superfici degli ambienti ipogoici, e che, oggigiorno, possiamo verificare grazie alla lunghissima durata dell'attrezzo. Materiali diversi Le evidenze di materiali quali il ferro, il piombo, il vetro, le decorazioni in stucco, etc., sembrano proprie degli edifici più monumentali, legati ad una committenza particolare, magari conservati ancora in elevato (e quasi sempre ben conosciuti, anche se sottoposti a pesanti restauri), limitate soprattutto agli aspetti utilitaristici, quali le fistole in piombo e ceramica, attestate a Ravenna nel VII secolo, e sui tubuli da volta, in laterizio (su quest'ultimo aspetto, vedi l'ampia bibliografia in RIGHINI 1991, n. 221, p. 220), anche se non mancano gli accenni a coperture in piombo; ma non possiamo escluderne del tutto una diffusione più ampia (sebbene ancora limitata), stante le attestazioni sempre più numerose di strutture tecnologiche produttive, che potrebbero essere le spie di una situazione assai più diversificata, analogamente a quanto si deduce dall'esame delle fonti scritte. 3. Conclusioni
L'accento posto sul processo tecnologico del prodotto costruito, ci mette a disposizione uno strumento atto a definire, con maggior cognizione di causa, i dati da utilizzare - insieme agli altri più tradizionali - nella costruzione del modello interpretativo. Occorre però ribadire la scarsa utilità - o comunque la difficoltà - dell'impiego del metodo comparativo, quando si vuole studiare la cronologia e la tipologia degli utensili di uso comune e soprattutto se rivestono un compito utilitario, di strumenti da lavoro (MANNON! 1989, p. 154), ma non possiamo escluderne del tutto la possibilità, per lo meno quando gli utensili si inseriscono in un processo tecnologico complessivo che non si trasmette per imitazione ma per apprendimento, pratica spesso lunga e difficoltosa. Si può solo accennare alla possibilità di utilizzare la calce come fossile-guida per la datazione di strutture in muratura, sperimentando nuovi strumenti di indagine dopo le pionieristiche esperienze sulle malte romane (Van Deman, Blake, etc.), per il largo uso che ne è stato fatto, per l'impossibilità del reimpiego, per la diffusione anche in strutture più umili, etc. (sulla sperimentazione del metodo di analisi mediante CI4 SU malte romane e medievali, si veda FOLK_VALASTRO1985). Tra i contorni un po' sfocati per la differenziazione sociale e strutturale, per l'estrema mobilità nelle campagne, almeno in Italia Settentrionale tra VIII e IX secolo, e per l'ampio processo di regionalizzazione del territorio (dove si adattarono in modi e ritmi diversi le soluzioni di continuità), la definizione delle aree culturalmente omogenee può essere letta in relazione sia al contesto urbano e dei grandi monasteri in opposizione alla situazione rurale, così come nella differenziazione tra Longobardia e Romania e poi al mondo musulmano - o, in modo più ampio, tra Italia Meridionale, Sicilia e Padania - e, infine, in maniera più strettamente cronologica. Nell'arco che costituisce il tema del convegno, ci sembra che possano costituirsi due gruppi (cfr. Ie opinioni di BROGIOLO 1989): a - un primo periodo che comprende i secoli VI e VII, ma che in grandi centri urbani come Roma può continuare anche nell'VIII secolo, dove sembra di poter cogliere, sia pure in aree geografiche differenziate e sulla base di esempi saltuari e puntiformi, una continuità nelle tecniche produttive di alcuni manufatti, soprattutto nei grandi - relativamente al periodo - progetti (il complesso monastico di S. Vincenzo al Volturno e quello di Montecassino, quello di Farfa, attestano una produzione di laterizi da copertura e mattoni ancora nell'VIII-IX secolo), anche se siamo in presenza di un fortissimo degrado delle qualità del prodottocostruito (che viene spiegato da WICKHAM 1989con lacontrazione della quantità delle opere costruite e con la diminuzione del numero di artefici in grado di costruire a determinati livelli); in altre parole le ipotesi che “L'industria laterizia crollò dopo il tardo periodo imperiale, ma la tecnica di cottura dei laterizi sopravvisse certamente a Roma e probabilmente anche altrove” (ARTHURWHITEHOUSE 1983, p. 531) sembrano valide per territori più ampi del Lazio e della Campania b - un secondo periodo che comprende i secoli VIII-X dove si registra, o si assiste ad una ripresa (meglio sarebbe dire ad una reinvenzione) di determinate tecniche costruttive o all'introduzione di altre tecnologie costruttive o decorative completamente nuove. Per rimanere ancora tra i laterizi, la nuova produzione, ad esclusione di limitatissimi - allo stato attuale delle conoscenze - esempi che potrebbero essere interpretati come un lotto di materiali realizzati da artigiani part-time, non sembra apparire in maniera generalizzata prima della metà del XII secolo e in zone marginali e con disponibilità di altri materiali costruttivi appaiono ancora più tardi. Nel complesso si assiste ad una serie autonoma di linee di sviluppo o di inviluppo, ognuna per materiali e aree geografiche differenziate, con alcuni flessi che potrebbero ricadere intorno alla seconda metà dell'VIII secolo, in analogia a quanto ci è stato presentato nell'introduzione di Delogu. ROBERTO PARENTI Ringraziamenti Aver dato forma più o meno coerente ai dati raccolti dalla scarsa esperienza personale e dalla molta letteratura specifica, fa capire quanto sia stato fondamentale il peso dei consigli, dei confronti, aiuti ed indicazioni specifiche. Era tutti desidero sottolineare l'apporto di S. Gelichi, P. Peduto, G. Berti,
Chiara Maria e Giorgio Di Gangi. Inoltre un ringraziamento particolare deve essere rivolto a C. Salvianti per la disponibilità offertami dalle strutture del Museo Civico di Fiesole. Bibliografia Aggiornamento 1978 -Aggiornamento dell'opera di Émile Bertauc sotto la direzione di Adriano Prandi, IV-VI, Rome. AHUMADA SILVA-LOPREATO-TAGLIAFERRI 1990—I. AHUMADA SILVA, P. LOPREATO, A.TAGLIAFERRI, (ed.), La necropoli di S. Stefano "in Pertica". Campagne di scavo 1987-1988, Cividale. ARNOLDUS-HUYZENVELD-MAETZE 1988—A. ARNOLDUS-HUYZENVELD, G. MAETZKE, L influenza dei processi naturali nella formazione delle stratificazioni archeologiche: l'esempio di uno scavo al Foro Romano, “Archeologia Medievale”, XV, pp. 125-175. ARTHUR WHITEHOUSE 1983 — P. ARTHUR-D. WHITEHOUSE, Appunti sulla produzione laterizia nell'Italia centro-meridionale tra il VI e il XII secolo, “Archeologia Medievale”, X, pp.525-537. BARUZZI 1978-M. BARUZZI, I reperti in ferro dello scavo di Villa Clelia (Imola). Note sull'attrezzatura agricola nell'altomedioevo, “Studi Romagnoli”, XXIX, pp. 423-446. BERTAUX 1904 - É. BERTAUX, L'artdans l'ltalieMéridionale, I-III, Paris. BERTI-TONGIORGI 1972—G. BERTI-L TONGIORGI, Frammenti di giare con decorazioni impresse a stampo trovati a Pisa, “Eaenza”, LVIII, pp. 3-10. BESSAC 1986 - J. -C. B ESSAC, L'outillage traditionnel du taillearde pierre de l'Antiquité à nos jours, Paris. BIANCHI PARENTI 1991—G. BIANCHI-R. PARENTI, Gli strumenti degli scalpellini toscani. Osservazioni preliminari, in Le Pietre nell'Architettura: Struttura e Superfici, Atti del convegno di Studi, Bressanone 25-28 giugno 1991, Padova, pp. 139-149. BINDING 1987 G. BINDING, DermittelalterlicheBaubetriel'Westearopas. Katalogdersseitgenossischen Darstellangen, Koln. BOHNER 1958 - K BOHNER, DiefrdnkischenAltertamerdesTriererLandes, “Germanische Denkmaler der VolkerWanderungszoit”, ser. B, ], I-II. BONINSEGNA 1980 - A. BONINSEGNA, Dialetto e mestieri a Predazzo. Il lessico tecnico di alcuni mestieri nel dialetto di Predazzo, Trento. BROGIOLO 1983 - G.P. BROGIOLO, La campagna dalla tarda antichità al 900 ca.d.C., “Archeologia Medievale”, X, pp. 73-88. BROGIOLO 1987a - G.P. BROGIOLO, A proposito dell'organizzazione urbana nell'altomedioevo, “Archeologia Medievale”, XIV, PP. 27-46. BROGIOLO 1 987b - G.P. BROGIOLO, Prima campagna 1988 di ricerche archeologiche sul/a Rocca di Monselice. Relazione preliminare, “Archeologia Veneta”,VII, pp. 149-165. BROGIOLO 1989 -G.P. BROGIOLO,Brescia:Building trasformation sin a Lombardeity, in The Birth of Europe. Archacology and social development in the First Millennium A.D., ( K. RANDSBORG ed.),“Analocta Romana Instituti Danici”, Supplementum XVI, pp.l56-165. BROGIOLO 1992 - G.P. BROGIOLO, Trasformazioni urbanistiche nella Brescia longobarda: dalle capanne di legno al monastero regio di S. Salvatore, in S. Giulia di Brescia. Archeologia, arte storia di un monastero regio dai Longobardi al Barbarossa, Atti del Convegno, Brescia, pp. 179-210. BROGIOLO-CREMASCHI-GELICH1 1988 — G.P. BROGIOLO_M. CREMASCHI-S. GELICHI, Processi di stratificazione in centri urbani (dalla stratificazione alla stratificazione "archeologica"), “Archeologia Stratigrafica dell'Italia Settentrionale”, I, PP. 23-30. BROGIOLO-LUSUARDI SIENA-SESINO 1989—G.P. BROGIOLO S. LUSUARDI SIENA P. SESINO, Ricerche sa Sirmione longobarda, Firenze. CAI ANDRA 1883 - C. e E. CALANDRA, Di una necropoli barbarica scoperta a Testona, “Atti della
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La circolazione monetaria (secoli V-VIII) Il tema affidato a me e alla collega può essere sviluppato con una ricerca a tre diversi livelli, solo in parte interagenti. Il primo livello d'indagine è dato dall'analisi tipologica, per il riconoscimento, con tecniche tradizionali, delle varie emissioni, da collocare nel tempo e nello spazio, cioè nelle varie zecche in seqUenza cronologica. Ho già in altra sede tentato questa via sia per gli Ostrogoti che per i Longobardi, con mie proposte di griglie cronotipologiche, sulle quali, a preferenza di altre, mi baserò in questa sede. Il secondo livello d'indagine è relativo alla StrUttUra e ai volutni delle emissioni. Tale analisi, che non può prescindere da uno schema preliminare di classificazione, viene soprattutto sviluppata attraverso la ricostruzione delle sequenze dei conii, con il calcolo del loro probabile numero originario. Si possono cosi riconoscere alcuni aspetti di politica economica, almeno per quanto riguarda l'aspetto attivo del volUme e della qualità delle emissioni.I maggiori limiti per queste ricerche, che ho svilUppato recentemente per le emissioni ostrogotea e per alcUni momenti della monetazione longobarda, sono rappresentati dall'impossibilità, per ora, di ipotizzare la produzione media dei conii con le sue variazioni nel tempo, secondo i metalli, secondo le caratteristiche dei tondelli6 e secondo le varie tecnologie applicate. Inoltre spesso i campioni statistici disponibili hanno Una troppo ridotta popolazione e sono qUindi non affidabili. Il fenomeno è dovUto non soltanto alle variabili della circolazione antica, ma anche al collezionismo moderno e contemporaneo, che tende a forme di conservazione selettiva. Inoltre, per quanto riguarda la conservazione dei materiali fino al contemporaneo, la mancata tesaurizzazione (spesso legata a situazioni di tranquillità e di prosperità) ha reso difficile l'analisi di emissioni in origine anche imponenti, per la rarità dei pezzi superstiti. Il terzo livello di indagine, il più difficile da affrontare e anche il più trascurato dalla critica, si riferisce all'analisi della struttUra della circolazione monetaria, che deriva dalle scelte tipologiche delle autorità emittenti, dai volumi delle emissioni e dalla politica economica sviluppata nel tempo. Oltre che dalla situazione economica generale, sia negli aspetti locali che in quelli di grande portata, anche continentali o mondiali. Appare utile ricordare come la circolazione in un qualsiasi territorio in un dato momento comprenda anche la moneta residuale dalle epoche precedenti e quella proveniente dall'esterno, o da emissioni irregolari (ad esempio le falsificazioni). Una popolazione presente sul mercato sulla base di premesse giuridiche diversissime, molto variabili nel tempo7. Per la fase tra Ostrogoti e Longobardi, praticamente l'unico strumento utile per una ricerca sulla struttura della circolazione monetaria appare il materiale di scavo o presente nei ripostigli, mentre per la fase affidata alla collega A. Rovelli si aggiunge la documentazione scritta. I nostri contributi, che derivano da una impostazione metodologica comUne, si differenziano quindi per la presenza, nella ricerca di A. Rovelli, di questa fonte fondamentale, con una complessità dell'analisi ed un approfondimento certamente a me negati. I fenomeni che è dato osservare per la moneta in rame nella primissima fase, con gli Ostrogoti, appaiono interessare forse più i problemi di circolazione (e di emissione) della tarda antichità che dell'altomedioevo. In altra sede infatti ho tentato di individuare non come teorico, ma come realmente emesso, il ammasdi riferimento per i folles della riforma sia Teodoriciana che di Anastasio, momento centrale della politica economica della fine del V secolo. Queste minuscole monete, per ora sempre illeggibili (ma sempre coniate), che non sappiamo se gote o bizantine, sono presenti ovunque, anche se quasi mai vengono segnalate. Un esemplare è anche a Monte Barro, in livelli ostrogoti ben difficilmente anteriori alla guerra greco-gotica. I1 7~ammas di questa fase (pesante 0,15l0,30 grammi) non sembra interessare la tesaurizzazione e non sembra giungere alla metà del VI secolo, scomparendo per la progressiva semplificazione della vita economica, che non utilizzava più il mezzo monetario per le transazioni minime. Parallelamente, dopo Teodato, sembra uscire dal mercato ilfollis: restano i nominali in rame medi, sui quali si
sviluppa la manovra monetaria di Baduela di adeguamento ponderale al follis bizantino, e che costituiscono il nucleo base dei ritrovamenti nei siti fortificati databili alla guerra greco-gotica, come Stia:6 o Monte Barro. Baduela tentò di fronteggiare la penetrazione in Italia della moneta bizantina nel corso della guerra e la probabile sistematica demonetizzazione del circolante goto ovunque i bizantini avessero il sopravvento. L'importazione di moneta in rame da parte dei bizantini appare aver interessato volumi notevoli, come si desume anche dalla presenza consistente, nei ripostigli di metà VI secolo, tutti di minimi (due nummi e mezzo), di materiali sia di emissione cartaginese, (area di origine del corpo di spedizione bizantino), vandali e bizantini, che imperiali a monogramma di V e VI seco3o:U, inconsueti nella precedente circolazione italiana. Pure dall'Africa, con i bizantini, giungono i folles con il valore XLII inciso. Per tutti i nominali in rame minori, in gran parte dell'Italia, la metà del VI secolo sembra rappresentare la soglia oltre la quale non è più possibile ammetterne la resistenza in circolazione. Con essi scompaiono non solo le ultime emissioni gote di minimi, ma anche la residuale circolazione in rame di IV e V secolo, che non troviamo più (in Italia non bizantina: altrove la situazione è diversa) successivamente, se non in funzione non monetaria. L'esame della struttura delle emissioni ostrogote: ha dimostrato l'importanza dell'argento, che viene confermata dai ritrovamenti, frequenti in Italia e in Europa. La tendenza ad una sempre maggiore articolazione delle emissioni in argento ed un loro potenziamento quantitativo appare però precedente, già di Odoacre, e sembra indiziare una precisa evoluzione economica, che pone in contrapposizione l'ambito economico occidentale (con i Vandali) e quello orientale. Fenomeno tanto potente da condizionare anche la produzione monetaria dell'esarcato bizantino in età longobarda. La tendenza all'articolazione appare evidente anche nella presenza, ormai sicura, di emissioni ostrogote di ottavi di Siliqua. La documentazione ottocentesca di Saint-Rémy, un ottavo di siliqua di Teodato38, viene ora completata dall'ottavo di Badela scoperto a Pontelambro. Non vi è quindi soluzione di continuità con le analoghe emissioni ravennati di Giustiniano e Giustino II (e successive) e con le loro imitazioni longobarde, fino agli ottavi beneventani con monogramma di Eraclio3t e quelli reali Con il monogramma, di seconda metà del VII secolo. Sembra qUindi oggi possibile seguire nel tempo nella circolazione su parte del territorio italiano una tendenza alla selezione del nominale inferiore, l'ottavo di siliq~a, che prevale sui nominali più pesanti, certo in base a precise esigenze economiche. Resta sullo sfondo il problema, a suo tempo appena delineato33, della presenza della moneta ostrogota (in argento e rame) soltanto nei gangli fondamentali dell'occupazione gota del territorio: centri amministrativi e presidii militari. ciò porterebbe a considerare le emissioni come riservate al gruppo goto, con i gruppi romanzi in una situazione di forte contrazione dell'uso della moneta, con ovvie deduzioni possibili in ambito economico e relativamente ai rapporti tra dominatori e dominati. Sappiamo però troppo poco della topografia dei centri urbani in età gota, che dovevano aver sUbito forme di contrazione e di modifica d'uso delle aree, forse rendendo non affidabili gli scavi che sembrano attestare l'assenza della moneta gota, o la Sua presenza molto rara, come a Milano o a Roma. Si hanno difficilmente in scavo associazioni valide di monete all'interno di strati affidabili. Pure la sensazione è che la circolazione del rame e dell'argento non vedesse nell'Italia gota la compresenza di materiali ostrogoti e bizantini. Ne è prova la relativa rarità di materiali isolati bizantini anteriori a C;iustiniano35, ricordando come la situazione dei ripostigli della metà del VI secolo appaia condizionata, come abbiamo visto, dai materiali importati dai bizantini per le necessità di guerra o coniati nelle aree occupate, a Roma o Ravenna. La documentazione di scavo ed i pochi ripostigli sembrano invece individuare una libera circolazione, a tutti i livelli cronologici, dell'oro, senza differenza tra quello di zecca ufficiale bizantina e di zecca gota. Ciò indica, per le transazioni maggiori, una ancora operante integrazione commerciale tra l'area italiana e il vasto mercato della moneta bizantina, in armonia con il riconoscimento delle emissioni auree ostrogote come emissioni ufficiali. Costante e cospicua è pure la presenza residuale dell'oro più antico, imperiale3s. Anche all'esterno l'oro bizantino e quello goto si
mescolano. Assente, significativamente, sembrerebbe l'oro coniato in altre aree economiche e politiche (Franchi, Burgandi ecc.), verso le quali evidentemente esistevano sbarramenti insuperabili. L'esame dei ripostigli indica una fase preferenziale di occultamento ai primi anni della guerra greco-gotica, che deve aver portato a una riduzione della presenza in circolazione dei solidi. Vi fu poi una seconda fase nelle aree più meridionali, in rapporto con le ultime fasi di scontro e negli anni immediatamente successivi4~. Comunque, durante e verso la fine della guerra, I'esame della struttura delle emissioni mostra un cedimento delle emissioni di solidi a favore di quelle di tremisses. Ciò corrisponde certamente alle tendenze della circolazione, che però dobbiamo sempre immaginarci dominata dalla moneta di Bisanzio. Un problema a parte, molto oscuro, è quello della presenza franca nella Padania. Ho altrove proposto di riconsiderare le emissioni franche di tipo ostrogoto (con monogramma o nome del re per esteso). Al noto quarto di sili]Ha di Clotario, si è aggiunto infatti recentemente un quarto di siliqua con il nome di Teodebaldo. In questo contesto infine ho dubbi circa l'attribuzione a Ildebado del quarto di siliqua di Masera (Novara), il cui monogramma potrebbe essere di Teodebaldo. Il complesso di monete attribuibili ai Franchi inizia così ad essere consistente, anche se non ci è dato sempre sapere quali di questi tipi, se franchi, sono attribuibili a zecche italiane e non, ad esempio, a Marsiglia. Solo per il quarto con il nome di Teodebaldo si ha un collegamento di conio (di Dl) con Teodato. La zecca dovrebbe quindi essere italiana. Non sappiamo quale peso avessero queste emissioni nel complesso del circolante nei territori controllati dai Franchi fin dal 540 e quale fosse la struttura di questa circolazione, mancando qualsiasi evidenza archeologica. Ci sfugge, certo per la sua brevità, pure la fase molto complessa che precedette l'arrivo dei Longobardi, anche se la documentazione numismatica apparentemente è cospicua. La distribuzione dei materiali nell'Italia settentrionale sembrerebbe però confermare per l'intero territorio una circolazione trimetallica, con materiali bizantini, con qualche presenza residuale gota. La moneta gota (in argento e rame) comunque tende a rarefarsi in Italia, mentre episodicamente ricompare, con i nominali più bassi, nei ripostigli nel bacino del Mediterraneo46. Evidentemente ne avvenne un ritiro coatto. Risulta invece potentemente presente nello spazio germanico transalpino, anche se con funzione monetaria fortemente indebolita. Intorno alla metà del VI secolo riconosciamo in atto un grande fenomeno di semplificazione della circolazione: grandi ripostigli di minimi in rame indicano la contrazione della circolazione del rame, anche nelle aree che resteranno bizantine. Ci si avvia ad una situazione particolaristica con ambiti non comunicanti tra di loro e alla definizione di una serie di modelli specifici di circolazione territorialmente delimitati. Per gran parte del territorio la documentazione numismatica recuperabile per via archeologica appare sempre più ridotta. I fenomeni che possiamo desumere da questa campionatura molto parsimoniosa devono venire quindi interpretati partendo dal presupposto di una riduzione dell'uso della moneta come mezzo di scambio ovunque molto sensibile, anche se con situazioni variabili da luogo a luogo e nel tempo. In Italia meridionale, sulla quale conviene dare qualche indicazione, tralasciando la Sicilia49, da trattare a parte, il sistema economico appare sempre sofisticato, a carattere bizantino, sia in Pugliaio, che in Calabria attuale, certamente meglio nota. In questa i ritrovamenti sembrano coprireS~ i secoli VI-VIII, con una discreta distribuzione, per oro e rame, e con una circolazione forse non soltanto a carattere urbano. In tutta l'area l'argento è assente, al contrario del rame, discretamente presente con nominali anche alti e che sembra mantenere funzione monetaria. Scambi con il resto dell'Italia sono solo con Roma e Ravenna. Un esame del monetiere di Catanzaro, di formazione locale, indica una provenienza esterna (soprattutto orientale) fino a Giustiniano I, con il quale si infittiscono i materiali di Roma e Ravenna, non oltre però l'inizio del VII secolo. Con Eraclio iniziano i materiali siciliani, affiancati da quelli orientali per un breve spazio, con Costante II, con il quale inizia il dominio assoluto delle emissioni siciliane. Simili i dati degli scavi di Crotone. Nell'esarcato la circolazione, a carattere bizantino, appare invece trimetallica. Altissima è, f~no ad Eraclio, la capacità di penetrazione all'esterno dell'oro e dell'argento. Quest' ultimo viene coniato fino
all'VIII secolo, anche nel nominale più piccolo dell'ottavo di siliq~aSó' e viene largamente imitatoS7. La moneta di Ravenna è sempre il riferimento per tutte le imitazioni nell'intera area longobarda, fatto ehe ne conferma la reale presenza, almeno iniziale, in cirecolazione. Importante è l'emissione da parte di Aistulf (751-756) di moneta, aurea e in rame, con folles di peso ridotto, analogo ai xxx nammi di Roma. Si conferma cosi, alla vigilia della chiusura della zecca, la ancora notevole sofisticazione del sistema economico a Ravenna, in parallelo con quello romano. Non forse errata l'ipotesi di una circolazione molto omogenea. La Liguria mantiene, per il poco che conosciamo, una circolazione con caratteri bizantini con rame e argento60. Per il periodo successivo alla conquista di Rotari mancano dati. In Sardegna nel VI secolo la cultura monetaria sembra quella bizantina, con assenza, per ora, di argento ed una forte presenza di rame, soprattutto dei nominali minori e non solo in ripostigli, pure particolarmente frequenti. Questo quadro, vicino a situazioni africane (si infittisce significativamente la presenza vandalica, per altro costante in tutta Italia), si modifica sUccessivamente. L'isola' con la Corsica, sembra, forse dalla fine del VII secolo, coinvolta in un tipo di circolazione molto complessa, a carattere trimetallico e con la compresenza della moneta longobarda e di quella bizantina Per l'argento vanno segnalati gli ottavi di siliqua di Linguizzetta, nella vicina Corsica. A Roma la struttura della circolazione è trimetallica, a carattere bizantino, analogamente a Ravenna e con una progressiva tendenza all'isolamento, anche nei confronti dell'esarcato. Dopo~na prima fase di VI secolo, con materiali diversificati, dominano le emissioni locali. Si inserisce in questa progressione l'inizio con Eraclio dell'emissione dell'argentoó4, quasi contestualmente all'inizio delle emissioni longobarde. Il mercato sembra richiedere quindi bassi valori intrinseci (l'ottavo di siliqua). Nelle emissioni, molto regolari, si registra una caduta della qualità della lega dalla fine del VII alla seconda metà dell'VIII, con un processo non documentabile per le parallele emissioni longobarde forse solo per la scarsità della documentazione. Si utilizza il rame, con i xxx Hammi, tra VII e VIII secolo66. La circolazione sembra discretamente sof~sticata, con un'effettiva funzione monetaria per argento e ranie67. Vi sono così analogie (I'argento) e differenze strutturali (il rame) con la circolazione dell'Italia non bizantina, che si compongono nel tempo, con una confluenza contestuale all'autonomia da Bisanzio, che segna la fine delle emissioni auree. I contatti con l'esterno, come anche con le altre zone bizantine, appaiono difficili, anche se esistono aree marginali a circolazione mista, come la longobarda Farfa (RI). La moneta comunque usciva poco da Roma e non vi entrava, O, se entrava, erano in opera mezzi efficaci per non farla circolare. Mancano i dati necessari per la ricostruzione, anche in linee molto generali, della circolazione a Napoli77, dove 1'apertura di una zecca permette di ipotizzare una situazione simile a quella romana, ma dove siamo pur sempre limitati alla sola analisi tipologica dei materiali, che permette però di riconoscere una presenza del rame almeno sino alla fine del VII secolo. In Italia settentrionale circolano tremzsses aurei e argento. Se per l'oro il nominale esclusivo sembra il tremiss, per 1'argento si ha tendenza alla riduzione dal quarto all'ottavo di siliqua, con monete ravennati o loro imitazioni. Oltre alle imitazioni delle frazioni di siliqua ravennati, già citate, è presente ad esempio un ottavo di siliqua ravennate di Maurizio Tiberio a Lomello, mentre si hanno forse quarti di siliqua con monogramma (di duchi o di re) di tipo ostrogoto. Il modello di circolazione ha escluso il rame, che appare presente ma con utilizzi non monetali. La moneta in rame bizantina contemporanea, anche se non assente, appare comunque molto rara, come a Verona. Tanto da non permetterle una attribuzione di funzione come circolante se non con molta cautela. I ripostigli indicano assenza di comunicazione con l'esterno: mai è presente moneta non longobarda, se non con il periodo carolingio. La moneta longobarda invece, sia aurea che, inizialmente, argentea, penetra nei mercati transalpini, dove la moneta in argento italiana (da Ravenna o di zecche irregolari) domina per tutto il VI secolo ed oltre.
Una probabile politica di emissione non speculativa, sia per l'oro che per I'argento, favoriva per la tesaurizzazione il trermissis, lasciando in circolazione gli ottavi di siliqua, quindi distrutti quasi integralmente. Il ripostiglio di Biella, con tremisses di Liutprando e ottavi di siliqua conperl, ci dà però testimonianza della durata in circolazione di questo nominale. Sicuramente, nell'VIII secolo, si hanno poi nominali minori prodotti per frammentazione del tremissisae L'esame tipologico dei materiali, quello dei volumi di emissione e delle percentuali del conservato, quello della composizione dei ripostigli, ci permettono un'ulteriore ipotesi per i secoli VII-VIII. La discreta rete di ritrovamenti isolati e di ripostigli notiS2 indica come il tremissis venisse perso anche isolato, anche se non ne è pensabile la circolazione quotidiana. Per l'alto valore, la tesaurizzazione avveniva quindi anche sul pezzo singolo. In questo quadro è interessante il controllo della circolazione dimostrato da Cuniperto con il ritiro dell'intera massa del circolante, tremisses di peso basso e di lega scadente, in occasione della sua riforma monetaria che vide l'imposizione di un nuovo tremissis, di tipo nazionale, con il San Michele al Rovescio, di peso alto e di ottimo oro. L'operazione, in rapporto con la crisi del potere bizantino in quegli anni, postula un forte controllo statale, una grande semplicità del sistema economico, con velocità di circolazione minima, e pochi detentori di moneta, tutti noti, collegati al potere, ben disciplinati. Sembra di poter escludere, a questo punto, che la funzione monetaria fosse fondamentale per il tremissis longobardo, che era invece un mezzo di tesaurizzazione per ristretti gruppi dirigenti. I ripostigli che ci trasmettono la maggior parte del materiale appaiono concentrati su alcune soglie cronologiche abbastanza precise: ai primi anni di Liutprando, alla metà del secolo e in concomitanza dello scontro tra Desiderio e Carlo, a ridosso della demonetizzazione dell'oro. Tali soglie segnano momenti discriminanti oltre i quali determinate classi monetarie scompaiono dal mercato. La prima porta all'uscita di circolazione delle emissioni di Cuniperto, di Ariperto II e di Liutprando nella sua prima fase, tutte con buona tenuta del valore intrinseco. La seconda porta all'uscita di circolazione delle restanti emissioni liutprandee, di Ratchis, Aistulf e forse delle prime di Desiderio (quelle con il San Michele al Rl). Quest'ultimo re attuò la riforma dello "stellato", che doveva trovare le sue premesse in una realtà economica fortemente mutata, se si giunse ad una distribuzione sul territorio della funzione di emissione. Sicuramente la riforma significò la demonetizzazione del circolante precedente. Il controllo della circolazione era quindi ancora assoluto, come viene confermato dall'assenza di materiali non longobardi nei ritrovamenti. In tutto ciò non era coinvolto l'argento, mai considerato da una autorità emittente attenta soltanto alla valuta tesaurizzabile e che non si interessava agli strumenti di scambio reale, ormai evidentemente molto ridotti e di importanza tanto secondaria da non lasciare altre tracce documentarie. L'argento non era mai scomparso, dall'età gota, e rappresentava, con la sua presenza, I'indicatore della sopravvivenza, talvolta faticosissima, della residua vitalità commerciale e di mercato dell'occidente. Per la Tuscia mancano dati da scavo per una analisi della circolazione dell'argento e del rame. Appare probabile la dipendenza da Ravenna per l'oro in base all'adozione per le emissioni di imitazione di VII secolo dei tipi ravennati di Eraclio, con la croce al Rovescioas. Forse proprio in una crisi delle emissioni bizantine con Eraclio, o poco dopo, si ebbe il presupposto per le emissioni di imitazione, analogamente a quanto avvenne anche a Benevento. Nello stesso tempo si deve supporre nella Tuscia una situazione economica e politica con larga autonomia locale nelle emissioni, sia per quelle di imitazione che per quelle successive cittadine. Se la circolazione interna sembra facile, i contatti con l'esterno fino alla metà dell'VIII secolo non lo erano: la moneta della Tuscia sembra assente in Italia Padana e meridionale. Successivamente invece la situazione si capovolse, con la diffusione ubiquitaria della moneta aurea di Lucca, chiaro indicatore di una integrazione dei due spazi, Italia Padana e Tuscia, sul piano economico e monetario. Un aspetto di grande interesse, ancora da approfondire, è quello delle emissioni plumbee di Luni37, città che doveva avere Una autonomia analoga a quella dei centri della Tuscia.
La circolazione nella città, molto ben nota, mostra una notevole articolazione, con materiali longobardi (del regno e della vicina Tuscia, con monete autonome di Lucca), bizantini88, e con le emissioni in piombo di VII-VIII sec., ad integrazione chiaramente del circolante spicciolo ormai carente). Queste mostrano una certa capacità di penetrazione nel territorio circostante, se sono state trovate ad Ansedonia. Anche in Benevento il modello appare analogo a quello bizantino, con probabile utilizzo forse sino ad Eraclio (o poco dopo) di circolante bizantino, quando iniziano le emissioni locali, alternative a quelle bizantine, per le quali il mercato si chiude. Situazione campione è la necropoli di Campochiaro. Contestualmente Benevento si svincola dalla dipendenza da Ravenna anche per l'argento, con l'emissione dell'ottavo di siliqua imitato da quello ravennate di Eraclio con monogramma, ormai noto da numerosi ritrovamenti9e Il rame sembra escluso. Non sembra esserci penetrazione di altra moneta sia da ambiti longobardi che bizantini (Roma compresa), dopo Costante II. Dalla fine dell'VIII secolo l'oro beneventano penetra nei mercati non più riforniti dall'Italia settentrionale, dopo la demonetizzazione carolingia dell'oro: ne sono indizi il ripostiglio del Reno o i ritrovamenti di Cividale (UD), di Nitra in Slovacchia e di Traù in Dalmazia. In tutta Italia, con l'esclusione delle aree meridionali bizantine e delle isole, la circolazione presenta alcuni comuni denominatori, tra i quali appare interessante l'utilizzo dell'argento in alternativa al rame, con nominali di basso valore intrinseco ma con circolazione non fiduciaria. L'alternativa è completa in area longobarda, mentre consente invece in altri ambiti (Esarcato, Roma, Napoli), più legati allo spazio bizantino, una resistenza nel mercato del rame, in una circolazione trimetallica. L'esame della documentazione tende però a definire l'ipotesi di un progressivo irrigidimento della circolazione nelle singole aree, con spostamenti di valuta da una all'altra sempre più difficili ed emissione di tipi di imitazione prima e di tipi specifici poi. Forse come riflesso di una evoluzione economica sempre più differenziata. Il sistema generale, ancora parzialmente integrato, con presenza prevalente sul mercato della moneta Ravennate, entrò in crisi a partire dall'età di Eraclio. Il mondo bizantino che in Italia Meridionale e Sicilia aveva definito strutture economiche del tutto autonome, nelle altre perse progressivamente dalla metà del secolo la capacità di condizionare la situazione. Cedette anche qualsiasi forma di integrazione interna tra le diverse aree Controllate politicamente da Bisanzio, alcune delle qUali si avviavano all'autonomia. Così, in questa fase, iniziarono, non solo in Tuscia e Benevento ma anche, ad esempio, a Roma, emissioni di tipi di imitazione o autonomi, sia per l'oro che per l'argentO, cosa che conferma la contrazione o l'impossibilità dell'utilizzo di materiali originali. In questa situazione, con forti specificità locali e certo con forti differenziazioni nella struttura economica, della quale la circolazione monetaria è estrinsecazione, si possono seguire, già dalla metà dell'VIII secolo, i prodromi dell'evoluzione che portò al momento unificante delle riforme carolinge, con un nuovo confiine tra area dell'argento ed area dell'oro. Tema che affido alla collega. ERMANNO A. ARSLAN
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La funzione della moneta tra l'VIII e il X secolo. Un'analisi della monetazione archeologica
Come è stato anticipato da Ermanno Arslan, cercherò di focalizzare alcuni problemi relativi all'uso della moneta durante il periodo grosso modo compreso tra l'VIII e il X secolo. La ricerca ha interessato principalmente i territori compresi nel Regno italico e nei domini della Chiesa di Roma. L'ambito geografico prescelto collima dunque con quelle aree in cui le zecche, in seguito alla conquista di Carlo Magno, iniziarono a coniare esclusivamente argento, entrando in quella che viene generalmente definita come la “lunga età del denaro d'argento”2. Nelle regioni a sud di Roma, invece, accanto alla persistente tradizione monetaria romano-bizantina si diffuse la moneta aurea araba 3 . Malgrado questa tradizionale divisione dell'Italia in due aree monetarie ben distinte, I'una ancora dominata dalla moneta aurea, I'altra dalla nuova moneta d'argento, sia probabilmente eccessivamente schematica 4, è peraltro vero che la riforma monetaria introdotta da Carlo Magno, probabilmente nel 781 5, mutò radicalmente, nei territori entrati a fare parte del dominio franco, la struttura del sistema monetario. Infatti, mentre la monetazione bizantina e quella longobarda erano basate sull'oro, a cui potevano affiancarsi anche riominali minori in argento e, nel caso bizantino, in bronzo, le zecche del Regno italico coniarono un unico nominale d'argento: il denaro. Inoltre, a differenza della Gallia merovingia, dove la transizione dalla monetazione aurea a quella argentea seguì un processo durato quasi un secolob, in Italia il passaggio al monometallismo argenteo fu determinato da una precisa volontà dell'autorità emittente. Sui motivi che spinsero i sovrani barbarici, e in ultimo lo stesso Carlo Magno, a non coniare più oro, si è acceso un dibattito storiografico che, andando ben oltre il problema puramente numismatico e monetario, si è sviluppato in stretto rapporto con la discussione suscitata dalle teorie di H. Pirenne. Contrariamente alla dibattuta tesi pirenniana che aveva visto nel sistema monetario carolingio il risultato e il simbolo della crisi economica dell'Occidente 7, attualmente la ricerca storica e numismatica concordano nel ritenere il denaro d'argento lo strumento che ne avrebbe facilitato la ripresa. L'impero carolingio, infatti, avendo adottato un sistema a base argentea, era in grado di utilizzare le proprie risorse metalliche e dunque le zecche potevano contare, almeno in teoria, su una più agevole reperibilità del metallo 8. Nonostante i mutati orientamenti storiografici, rimangono aperti numerosi problemi. Rispetto ai sistemi monetari in uso a Bisanzio e nell'Islam, entrambi trimetallici e dunque, grazie alla presenza di diversi nominali sia in oro che in argento e in bronzo, opportunamente duttili, il sistema carolingio era notevolmente semplificato. Si coniava infatti, come ho ricordato, un solo metallo: I'argento, e un solo nominale: il denaro, affiancato in alcuni casi da emissioni di oboli (mezzi denari). Malgrado si tenda oggi a superare sia la troppo rigida contrapposizione tra "economia naturale" ed "economia monetaria"9, sia l'idea che l'economia curtense fosse estranea al mercato 10, la riduzione del sistema monetario ad una unica moneta metallica rende difficile valutare sia il suo potere d'acquisto 11, sia la sua capacità di fare fronte alla varietà delle transazioni economiche. Altrettanto controversi rimangono i giudizi riguardo alla concreta capacità produttiva delle miniere, delle zecche e, in definitiva, riguardo al volume delle emissioni 12 . Ph. Grierson, pur essendo stato forse il primo assertore dei vantaggi che sarebbero derivati dall'abbandono dei sistemi monetari ancora in parte legati alla tradizione bizantina in favore del monometallismo argenteo 13, suppone che le monete carolinge avessero comunque una circolazione pittosto lenta e limitata 14. D. Metcalf, in un famoso contributo 15 cercò di dimostrare il contrario, ma, più recentemente, sembra essere approdato a conclusioni prossime a quelle espresse dal Grierson. In uno studio comparativo sulla circolazione monetaria nella penisola iberica, dall'età visigota al XII secolo circa, ha potuto constatare che le monete arabe di ogni periodo risultano ovunque ben distribuite. I rinvenimenti
monetali, sia in ripostigli che sporadici sono numerosi. Viceversa le monete carolinge e post carolinge sono estremamente rare anche nello stesso settore nord-occidentale che ha peraltro restituito numerose monete del periodo visigotico. I pochi denari rinvenuti sono, oltretutto, successivi alla metà dell'XI secolo. This arguments - conclude Metcalf- throws us into the thick of the debate about the Pirenne thesis, the continuity of economic activity through the early middle ages, and the balance betwecn a natural economy and a money economy 16. Gli studi effettuati fino ad ora sui fondi d'archivio italiani hanno suscitato, analogamente a quanto è stato verificato per altre regioni dell'impero carolingio, giudizi contraddittori 17. L'introduzione del denaro d'argento, in sostituzione del tremisse aureo longobardo, avrebbe consentito al sistema monetario carolingio, secondo Toubert, ``di eliminare quel grande angolo cieco della circolazione dell'alto Medioevo costituito dall'economia quotidiana con le sue necessità di un numerario a potere liberatorio debole” 18 Questa recente e, attualmente, predominante teoria capovolge i più cauti giudizi espressi da Bognetti, Lopez e Cipolla secondo cui il denaro d'argento carolingio avrebbe, pur sempre, mantenuto un valore elevato e quindi non sarebbe stato in grado di risolvere il problema della mancanza di moneta spicciola 19. Nel tentativo di redifinire i termini della questione allargando, per quanto possibile, I'orizzonte documentario, procederò ad un riesame della documentazione d'archivio e dei dati archeologici. Questi ultimi pongono, a mio parere, un quesito cui si tendeva a non dare risposta: a differenza delle fonti scritte che lasciano supporre una larga diffusione della moneta, essi presentano un quadro in cui la circolazione monetaria sembra ridursi a livelli insignificanti. I denari carolingi si trovano infatti con notevole rarità nei contesti archeologici. Constatato ciò, si pone il problema di ipotizzare e capire diversi livelli dello scambio e diversi usi dello strumento monetario e, di conseguenza, è necessario impostare con correttezza le domande che si intendono porre ai due diversi tipi di fonte documentaria: quella scritta e quella archeologica. E probabile, infatti, che i contrastanti risultati ottenuti finora dipendano in buona parte dal fatto che si tende a generalizzare~le indicazioni offerte dalla documentazione scritta presumendo che queste possanò offrire un quadro esaustivo della circolazione monetaria. In realtà, la documentazione scritta, che riporta contratti di vendita, concessioni, privilegi, giudicati, diplomi, riflette transazioni che si situano ad un livello medio-alto dello scambio. I dati ricavabili dal materiale archeologico, invece, riguardano principalmente la moneta minuta e dunque i problemi relativi al quotidiano uso della moneta. Il materiale numismatico recuperato negli scavi archeologici di~ questi ultimi decenni fornisce nuovi dati al dibattito storiografico che fino ad ora ha usufruito della sola documentazione d'archivio o che, comunque, ha evitato di porre in esplicita correlazione le due fonti. Scavi urbani, di siti incastellati, di centri monastici, di pievi, di curtes si sono moltiplicati fornendo un campione documentario che si può considerare significativo e che, come tale, può essere utilizzato per integrare la documentazione scritta e per ricomporre la dicotomia, a prima vista inspiegabile, tra la documentazione archeologica, che sembra riflettere una notevole difficoltà di circolazione del denaro carolingio, e la documentazione d'archivio che, viceversa, lascia supporre un'ampia, anche se non costante, diffusione dello strumento monetario. Allo stato attuale, il dato, a mio avviso, più indicativo consiste nella mancanza o, quanto meno' nella brusca contrazione di rinvenimenti numismatici che si osserva nelle stratigrafie in concomitanza al calo e poi interruzione delle emissioni in bronzo e, per quanto riguarda l'argento, delle minuscole frazioni di siliqua 20. Descrivo brevemente alcuni casi. Gli scavi compiuti in diverse zone di Milano hanno restituito oltre 500 monete2~. Tra queste si nota una consistente cesura che va dal VI alla fine del X secolo. I ritrovamenti riprendono con i denari della dinastia degli Ottoni (9621002), ma diventano numerosi solo con la monetazione a nome degli imperatori euriciani che copre un periodo molto lungo, fino all'inizio del XIII secolo.
Roma presenta una situazione molto simile con la differenza data da una più prolungata presenza del materiale bronzeo bizantino che si ritrova fino alle ultime emissioni della zecca di Roma, dei primi decenni dell'VIII secolo. In seguito i reperti sono estremamente rari mentre tornano ad essere consistenti con le emissioni della fine del XII secolo. Non mi soffermo sui dati della Crypta Balbi, che sono stati già in parte divulgati 22, se non per sottolineare che alla rarità dei reperti numismatici 23 fa riscontro una notevole consistenza dei rinvenimenti ceramici di cui si contano decine di migliaia di frammenti databili tra IX e X secolo. Di conseguenza, la mancanza di rinvenimenti non dipende certamente dal deposito archeologico ma deve essere considerata indicativa della esclusione dalla circolazione quotidiana dei denari carolingi. Gli scavi sotto la Confessione di San Pietro al Vaticano permettono una ulteriore verifica del panorama che ho appena delineato. Le monete di zecche italiane sono 52624. Tra queste si conta un tremisse aureo a nome di Carlo Magno coniato a Lucca,4 esemplari databili al IX secolo 2S,1 denaro di Berengario I (888915), 25 denari ottoniani (962-1002). Un deciso aumento dei ritrovamenti è rappresentato ancora una volta dai denari euriciani. Della sola zecca di Verona si sono rinvenuti 181 esemplari per la maggior parte delle emissioni più tarde recentemente datate alla fine del XII secolo se non oltre 26. Al momento attuale, la serie dei rinvenimenti di età carolingia dagli scavi di Roma si conclude con un denaro emesso da Niccolò I e Ludovico II (858-867), rinvenuto alle Terme di Diocleziano 27. Gli scavi compiuti, ad esempio, a Torino 28, Genova 29, Brescia 30, Verona 31, Pistoia 32 ripropongono una situazione del tutto analoga. E così si può dire riguardo al materiale che proviene dagli scavi di centri rurali, castelli e centri monastici. A Scarlino, ad esempio, che ha conosciuto diverse fasi insediative dalla tarda età del Bronzo, è stato individuato un abitato altomedievale indubbiamente di una certa importanza, se si considerano gli affreschi del IX secolo che decoravano la chiesa, e le strutture di una curtis che fu fortificata nel tardo X secolo, la documentazione numismatica di età medievale inizia con un denaro di Ottone II. A questo fa seguito un denaro enriciano, ma il vero incremento Si osserva alla fine del XII secolo e soprattutto tra il XIII-XIV secolo, a cui si datano 25 esemplari 33. Altrettanto indicativi sono i materiali provenienti dallo scavo del castello di Montarrenti (SI). Le prime fasi insediative sono state datate all'VIII-IX secolo, ma la moneta più antica è un~enaro eoriciano della fine del XII secolo a cui segue un "picciolo" senese databile al 1250 circa. Il nucleo più consistente è rappresentato da esemplari di mistura del XIV secolo 34. L'ampia diffusione dello strumento monetario durante il XIII-XIV secolo è ben testimoniato dai materiali provenienti da Rocca San Silvestro 35. La storia di questo insediamento è diversa dai due casi precedenti. San Silvestro è un castello di nuova fondazione, in cui non si sono rinvenute fasi precedenti al tardo X secolo. Rientra dunque, sotto molti aspetti, nel modello toubertiano dell' "incastellamento". La diversa genesi insediativa vede peraltro un sostanziale parallelismo per quel che concerne la presenza di moneta. Le monete da San Silvestro, ancorché più numerose, riproducono gli stessi picchi di frequenza constatati a Montarrenti e a Scarlino. Si sono infatti rinvenuti 2 assi del periodo repubblicano e un sesterzio di Antonino Pio, probabilmente da collegarsi ad una sporadica frequentazione del sito in età romana. La documentazione del periodo medievale inizia solo con i consueti denari enriciani (10391 125) della zecca di Lucca, posteriori dunque di oltre un secolo alla fondazione del castello. Anche a San Silvestro, la presenza di moneta diventa tangibile con la comparsa delle emissioni lucchesi e pisane della seconda metà del XII secolo, a cui fanno seguito le ancor più consistenti emissioni del XIII prima metà del XIV secolo. Gli strati, come si è detto, restituiscono di preferenza materiale di scarso potere liberatorio, e San Silvestro non fa eccezione. Dei 436 pezzi recuperati finora, solo due appartengono alla cosiddetta moneta "grossa". Si tratta di un Popolino di Firenze e di un Carlino di Napoli. Infine, I'esempio dello scavo di una grande abbazia, quella di Farfa. Le monete, recuperate nel corso di scavi condotti dalla British School at Rome, sono 1 78 tra cui alcuni bronzi di età romana e bizantina 3. Di questi ultimi, il più recente è un esemplare da XXX nummi della zecca di Roma
databile tra il 680 e il 740. Dopo una cesura tra l'VIII e il X secolo, i rinvenimenti riprendono con due esemplari ottoniani. Il seguito ricalca il quadro ormai noto dato da numerosi denari della fine del XII secolo o del XIII-XIV. Il panorama delineato finora attraverso pochi esempi, scelti tra i più significativi, ma ampiamente verificabile in numerosi altri scavi, e nelle poche sintesi regionali finora condotte 37, conosce solo poche eccezioni date da rari rinvenimenti di denari di età carolingia che è opportuno analizzare, anche in questo caso, attraverso la descrizione di alcune delle situazioni più significative: Aosta, Torcello, Luni, Lomello e Villa Clelia 38. Ad Aosta, le rarissime monete carolinge 39 provengono da scavi effettuati in più zone della città. Dalla chiesa di san Lorenzo provengono un denaro di Pipino il Breve (751 -768) coniato ad Antrain e dUe denari di Carlo Magno coniati a Milano (774-778) ed a Pavia (781 l800). Il frammento di un terzo denaro carolingio della zecca di DuUrstede (768-781) nei Paesi Bassi proviene dagli scavi delle cosiddette i7~7s~1ae 51l52. Un denaro di papa Adriano I (781 cal795) della zecca di Roma, è stato rinvenuto nella zona del Foro. A questi possiamo aggiungere duesceattasinglesi rinvenuti nei luoghi di culto fuori porta decumana e nella cattedrale. Si tratta di un esemplare di EadUerth, re di Northumberland (737 l758), e di una moneta anonima coniata nel South Wessex nello stesso periodo. Per il IX secolo mancano rinvenimenti che riprendono con il X secolo, a cui si datano 5 denari pavesi, di cui uno a nome di Berengario I re d'Italia (915924) e 4 degli Ottoni (962-1002), e due denari della zecca di Langres coniati da Ludovico IV d'Oltremare (936-954). Luni (Sarzana, SP) ripropone una documentazione altrettanto eterogenea 40. Anche dopo l'occupazione longobarda avvenuta intorno al 641-642, le monete bizantine delle zecche di Costantinopoli, Roma e Siracusa continuarono ad affluirvi e a circolare. In particolare la zecca di Siracusa è ben rappresentata da numerosifollesdi cui il più recente è un esemplare di Michele III con la madre Teodora (85~-856)41. Da Luni provengono persino alcuni tremissi aurei di zecca longobarda. Oltre a quello emesso dalla zecca di Lucca, nel 712-749 circa, rinvenuto durante la campagna di scavo del 1970, vanno ricordati i tre tremissi rinvenuti nei sondaggi del secolo scorso dal Remedi e quelli conservati nel Museo civico spezzino 42. Riguardo ai denari carolingi, un esemplare a nome di Carld Magno, successivo al capitolare di Francoforte (peso di g. 1,55), della zecca di Me~v11O, l'odierna Melle en Poitou, è stato rinvenuto nel corso degli scavi diretti da Frova 43. Esso va ad aggiungersi ad altri denari di Carlo Magno provenienti dalle zecche di Duurstede, Magonza, St. Martin de Tours, Sens, RA (sigla di zecca non determinata) e Milano rinvenuti nel 1868 dal Remedi (pare in una tomba) che costituiscono il cosiddetto tesoro di “Sarzana-Luni”48 Ancora nel catalogo Remedi appaiono tre denari carolingi da Milano, Pavia e Arles. Di Ludovico il Pio sono ricordati 4 dènari provenienti da Milano, Pavia, Treviso ed uno da zecca incerta 45. Malgrado le indubbie testimonianze archeologiche del degrado della città 46, questi ritrovamenti sono un indizio del persistere di attività legate al commercio mediterraneo e transalpino. Notizie sull'approdo di navi a Luni si hanno f no al XII secolo, malgrado fosse già in funzione, nell'estuario del Magra, il porto di Ameglia47. A riprova della continuità di approdo si possono, del resto, portare ad esempio anche un follis di Mansone III duca di Amalfi, signore di Salerno (981-983), un follis di Ruggero Borsa, duca di Puglia (1085-1111) e due denari provisini di Tebaldo III conte di Champagne (1197-1201)48. Certamente al commercio era legata anche la fortuna di Torcello (VE), da cui proviene un denaro di Carlo Magno, emesso a Milano, trovato insieme a un dirhem dell'VIII-IX secolo 49. In defmitiva, questi tre siti erano, come è noto, tra le tappe principali del commercio internazionale. Da Aosta transitava il commercio transalpino fin dall'età pre-romana. Tra le monete recuperate nel corso degli scavi effettuati nel secolo scorso al “Plan de Jupiter”” al Gran San Bernardo risulta, ad esempio, anche un denaro di Carlomanno, re dei Franchi (768-771) 50. Oltre 500 monete delle diverse tribù galliche sono state recuperate in varie località, lungo le strade dei passi alpini e ad Aosta, nel 1834, fU rinvenuta una moneta punica; monete dei Tolomoi provengono da Aymaville e Bard; monete greche sono state rinvenute ad Aosta, Villeneuve, St. Pierre; uno statere d'oro dei Vindelici proviene da Aosta ed altre tre monete d'oro attribuibili forse ai Salassi sono state rinvenute nei pressi di Aosta ed a VerresS,. Torcello svolgeva nel Mediterraneo un ruolo che può essere paragonato a
quello che per il Nord Europa erano gli emporia come Hamwic o Birka 52. Luni mantenne a lungo in vita, malgrado il degrado, le strutture portuali. La sequenza dei ritrovamenti numismatici acquista, dunque, maggior significato se si considerano le associazioni dei diversi materiali. Ad Aosta si sono rinvenuti gli sieattas dei re Anglo-Sassoni, e i denari di età carolingia provenivano, come si è visto, da varie regioni dell'Impero. La stessa eterogeneità di zecche carolinge si riscontra a Luni che ha restituito ancora per l'VIII e IX secolo monete bizantine. Monete arabe arrivavano a Torcello. L'evidenza numismatica nel suo insieme soggerisce dunque di vedere i denari carolingi connessi principalmente-al grande commercio piuttosto che alle transazioni di beni di uso quotidiano. La maggiore, ma anche passeggera, affluenza di massa monetaria in queste località, che costituivano le tappe dei percorsi internazionali, spiega la presenza di monete, anche di valore, non escluse quelle auree. Sotto questa angolazione si possono probabilmente interpretare anche il rinvenimento fuori contesto di un denaro di Pipino il Breve presso il santuario di San Romedio (comune di Sanzeno, TN)5i, e di un denaro a nome di papa Giovanni VIII (872-882) e degli imperatori Carlo il Calvo (875877) o Carlo il Grosso (881-882), a Pre Alta (TN)s+. Entrambe le località erano situate lungo la viabilità che conduceva ai valichi alpini 59. Il fenomeno riscontrato presenta alcune analogie con quanto è stato notato da Metcalf nella Valacchia sud-occidentale e in Transilvania, dove numerosi siti hanno restituito discrete quantità di ceramica, ma non monete, mentre queste ultime sono state rinvenute lungo le direttive principali della transumanzai6. Anche il ritrovamento di alcuni denari a Lomello (PV);, sede di una curtis regia, e a Villa Clelia (Imola, BO) 58, dove è stato supposto che nel castram Sancti Cassiari avesse sede l'episcopio imolese, va probabilmente connesso alla riscossione dei censi e delle imposte da parte dell'autorità pubblica ed ecclesiastica, piuttosto che all'uso della moneta in transazioni legate al commercio dei beni di uso quotidiano. È interessante, a proposito di quest'ultimo, un veloce confronto con la presenza di monete nei coevi contesti dell'Italia meridionale che usufruiva di numerario di tradizione bizantina, e dunque di una circolazione trimetallica. Gli scavi di Otranto hanno restituito 140 monete bizantine, tutte di bronzo, databili tra il VI e il XIII secolo. Le monete coniate tra la seconda metà del IX secolo e la prima metà del successivo costituiscono circa un terzo del totaleS9. A Capaccio Vecchia (SA)63, le 89 monete recuperate, databili tra il III secolo a. C. e il XIX secolo, sono tutte di bronzo o mistura ed erano dunque parte del numerario "minuto". Il X secolo, grazie alla presenza di 17 folles di bronzo, ha la più alta percentuale di rinvenimenti. I siti medievali dell'Italia meridionale, che disponevano di numerario bronzeo "spicciolo", propongono un panorama dei rinvenimenti che in età romana era, a grandi linee, comune a tutta l'Italia. La rarità di rinvenimenti, negli strati di frne VIII-IX e buona parte del X secolo, dai siti dell'Italia centro settentrionale sembra dunque strettamente legata alla qualità del circolante che era costituito da un nominale di buon argento. Un rapido sguardo sull'insieme dei rinvenimenti in altre regioni europoe porta ulteriori conferme. In Inghilterra, ad esempio, alla enorme diffusione delle serie più svalutaté degli sceat~as6i fa seguito una contrazione dei rinvenimenti in concomitanza del rafforzarsi della moneta nel IX secolo. Da un'indagine compiuta da Rigold, risulta che anche in Inghilterra lo strumento monetario tornò a diffondersi nel corso del XII secolo raggiungendo l'apice all'inizio del XIV secolo oZ. I rinvenimenti in Germania, Francia e Paesi Bassi offrono un quadro simile ~3. In Francia gli scavi in corso a Saint-Denis hanno restituito 1152 monete, di cui 17 appartengono al periodo merovingio, 9 a quello carolingio e 19 si datano al X secolo 64. Il panorama delineato dall'evidenza numismatica suggerisce dunque che il denaro d'argento carolingio avesse un buon potere d'acquisto che ne limitava drasticamente le perdite casuali. Del resto Carlo Magno aveva portato a compimento un processo di rafforzamento della moneta chiaramente perseguito rispetto alle prime emissioni argentoe merovinge. I denari emessi intorno al
670 pesavano circa 1 g., Pipino portò il peso a g. 1,3, Carlo Magno nel 793l794 lo alzò a g. 1,70 e tale rimase per circa un secolot;. Dunque sembra difficile sostenere che Carlo Magno abbia inteso creare una moneta adatta a tutti i livelli dello scambio. Fuorviante, mi sembra, rispetto alla reale struttura del sistema monetario, il modello proposto dal Toubert il quale sostiene che: Il problema della moneta spicciola si è posto in termini nuovi con l'introduzione del denaro d'argento. Fino a quando allo stesso denaro è stato assicurato un valore abbastanza forte e stabile, cioè fino a Ludovico II, la contemporanea coniatura, con gli stessi tipi e nelle stesse zecche, di monete chiaramente più leggere chiamate "oboli" o mezzi-denari ha sicuramente risposto a questo settore della domanda monetaria. Dal momento in cui si è accentuata la svalutazione del denaro, è evidente che il bisogno di "petty coins" è stato soddisfatto in modo sempre più facile attraverso l'introduzione di una specie di "bi-metallismo argento" di cui abbiamo cercato di analizzare il meccanismo altrove” 66. In realtà, le zecche del Regno italico non coniarono oboli ed anche in altre regioni dell'impero le emissioni di oboli furono saltuarie e sporadiche 67. Il concetto di "bi-metallismo argento" che lo stesso Toubert ha introdotto in modo molto appropriato per spiegare i meccanismi di avvicendamento delle varie specie monetarie nel Lazio del XII secolo, secondo i principi della "legge di Gresham"~a, non può essere applicato al IX e al X secolo6s. La strUttura del sistema monetario, fondato principalmen~te sul denaro, che si mantenne stabile lungo tutto il IX secolo, non consentì questa ipotesi. Anche nel secolo X, malgrado la progressiva svalutazione, e l'indubbio incremento del volume delle emissioni del periodo ottoniano, I'uso del denaro rimase prevalentemente relegato ad alcuni settori dello scambio. L'economia dell'età carolingia e la stessa economia curtense non erano, dunque, per denaratam. Il denaro carolingio si trova con rarità nei contesti stratigrafici. Esso si comportava, infatti, come tutte le monete "grosse", di buon potere liberatorio e come tale deve essere considerato. Bisogna dunque escludere per il denaro, come per ogni moneta di buon peso e di buona lega, un uso per le piccole transazioni. Il mercato dei beni di uso quotidiano, compreso quello urbano, avveniva, evidentemente, senza che si dovesse fare ricorso ad una moneta spicciola. Gli scavi urbani, infatti, non hanno restituito monete,. presentando dunque un quadro della circolazione del tutto simile a quello di altri insediamenti, come castra, siti rurali o centri monastici. In sostituzione delle mancanti monete spicciole, si può supporre che si facesse ricorso, oltre ad alcuni beni di largo consumo, secondo l'ipotesi di Bognetti t;, anche a forme di piccolo credito. Quest'ultimo, naturalmente, come anche la moneta spicciola, non trova facile menzione nelle fonti scritte in quanto riguardava transazioni prive di rilevanza. Riferimenti precisi in proposito sono infatti particolarmente rari. Viceversa, i risultati di ricerche antropologiche suggeriscono alcune ipotesi sui modi di regolare piccoli acquisti senza ricorso alla moneta. Un esempio interessante è dato da un'usanza attestata nelle paludi pontine all'inizio di questo secolo. Qui, i contadini che lavoravano nei latifondi compravano il poco di cui avevano bisogno nello spaccio della tenuta che era, normalmente, di proprietà del latifondista. Essendo analfabeti, segnavano l'importo "a taglia". Ciò significa che venivano praticate delle tacche uguali su due pezzi di legno, di cui uno veniva conservato allo spaccio, I'altro veniva riportato a casa. La spesa veniva, poi, scalata dal raccolto 71. Pratiche simili, risalenti almeno al XII secolo, sono attestate in Inghilterra dove si conservano alcuni di questi bastoni intaccati 72. Data l'elementarità, nonchè la praticità di un simile sistema, penso che soluzioni come questa, od altre analoghe siano intervenute per sanare la mancanza di numerario spicciolo nel corso dell'VIII-X secolo, nei casi in cui se ne fosse sentita la necessità. Lo studio della ceramica offre, indirettamente, altri spunti per verifıcare l'evolversi del sistema monetario e delle forme d'uso della moneta. Non è probabilmente un caso che, tra le forme ceramiche, il salvadanaio, diffuso già in età romana per la raccolta dei piccoli risparmi dati, appunto, dagli spiccioli, ricompaia, dopo secoli di assenza, solo a partire dalla prima metà del XIII secolo 73.
Le fonti documentarie, del resto, sono indicative dell'uso del denaro d'argento in transazioni ben precise, che si situano ad un livello medio-alto dello scambio come ad esempio vendite, concessioni a vario titolo, multe, pedaggi ecc. e che, è evidente, non possono essere arbitrariamente impiegate come spie di un generalizzato uso dello strumento monetario. Benché si porti spesso a riprova della "monetarizzazione" dell'economia curtense il progressivo prevaiere dei: canoni in moneta su quelli in natura, va detto che non sono certo i canoni i più attendibili indicatori del grado di diffusione della moneta, soprattutto della moneta minuta. È noto, infatti, che dUrante i secoli XII-XIV i canoni tornarono ad essere prevalentemente in natura arrivando in alcune zone, come Lucca, a coprire quasi il 90% delle rendite 74. Eppure, il ritorno a canoni in natura corrispose in realtà, come si è visto, ad un periodo di fortissima espansione della massa di circolante, ormai notevolmente evoluto. Si coniavano infatti denari piccoli (quelli che troviamo nelle stratigrafie), grossi d'argento e, dalla metà circa del XIII secolo, monete auree. Delimitato così il livello d'uso della moneta, è necessario analizzare l'effettiva capacità di circolazione del denaro. Per il periodo romano è stato accertato il fondamentale ruolo svolto dagli eserciti e, più in generale, da diversi settori dell'apparato statale, ad esempio quelli che sovrintendevano alla riscossione delle tasse e ai sevizi postali, come elemento propulsore della circolazione monetaria 75. Un modello del genere è ovviamente inapplicabile al periodo altomedievale. Al tempo stesso disponiamo ancora di ben pochi elementi per misurare la frequenza, I'intensità e le direttive principali del commercio interregionale specie tra Nord e Sud. Tenuto conto di questi elementi, mi sembra che la linea interpretativa proposta da Cipolla riacquisti attualità: “[...] il grado di liquidità della moneta - sostiene infatti Cipolla - dipende in larga parte dal grado di efficienza del mercato. Se [...] I'imperfetto funzionamento del mercato crea nel consumatore un alto grado di incertezza circa il rifornimento dei beni desiderati, la "utilità" della moneta viene fortemente diminuita. La liquidità della moneta stessa e la sua domanda vengono ridotte in proporzione. [...] Istituzioni come quella del dono fıoriranno acquisendo un alto signifıcato economico 76. Le fonti documentarie, in particolare le carte private, mettono del resto in luce importanti differenze nella circolazione monetaria delle varie regioni che generalmente si tende a considerare unifıcate dalla comune appartenenza all'area del denaro d'argento. Nell'area padana ad esempio, diversamente che in altre, la riforma carolingia sembra essere stata effıcacemente imposta. Il denaro d'argento è la sola moneta citata dalle fonti. La disponibilità di moneta sembra essere stata, per le transazioni di una certa importanza, buona, rendendo cosi' raramente necessario il ricorso alla moneta sostitutiva e al metallo non monetato. Nelle carte i prezzi risultano sempre con chiarezza defıniti in unità di conto di moneta coniata, e sono così citati: 77. La disponibilità di moneta coniata è stata certamente facilitata dalla particolare concentrazione delle zecche situate a Pavia, Milano, Treviso (sostituita poi da Verona) a cui, intorno all'820, si aggiunse Venezia. Gli studi di Violante 78 su Milano e di Jarnut 79 su Bergamo concordano nel dimostrare che a partire dalla metà del X secolo, con ritmi progressivamente più veloci, la moneta diventò il mezzo più importante per l'acquisto di fondi, togliendo con ciò tale ruolo alla permuta. Pur se con cautela, è stato possibile collegare l'andamento dei prezzi ad alcune caratterisiche dei terreni, quali il tipo di coltura, e la vicinanza ai centri abitati. In definitiva il mercato dei beni fondiari sembra aver assunto caratteristiche tipicamente "economiche". Diversa appare essere la situazione in alcune zone della Toscana. Qui la riforma carolingia sembra essere stata accolta con circa due decenni diritardo. C. Wickham 80 ha inoltre evidenziato come, nella determinazione det prezzi della terra, i rapporti sociali, che grazie alla cessione della terra venivano stretti tra le due parti giocassero un ruolo determinante. Questo fenomeno si riscontra non solo in zone relativamente isolate, come il Casentino, ma anche nella piana di Lucca dove non si nota alcuna coerenza nei prezzi della terra, nonostante la generale omogeneità del terreno. È ovvio che quando questo fattore, che possiamo defınire "politico" o "sociale", si inserisce nella determinazione del
prezzo di una qualsiasi transazione, I'aspetto economico ne risulta notevolmente diminuito. E con esso diminuisce sensibilmente il ruolo della moneta nello scambio, così come anche la nostra possibilità di determinarne il potere d'acquisto. Ancora diversa sembra essere la situazione nel Lazio. Qui, il denaro d'argento, benché le carte ne registrino con prontezza l'introduzione, è ancora più lento nell'imporsi come mezzo privilegiato dello scambio. Risulta difficile determinare quanto questo dipenda da Una eventuale scarsa produzione della zecca di Roma. D'altra parte ciò potrebbe spiegare sia la protratta presenza in area romana della vecchia moneta aurea bizantina, sia l'infıltrazione di un'altra moneta aurea, il mancuso attestato nel IX secolo. Rispetto all'area padana le carte laziali, in particolare quelle di Farfa, denotano una situazione più eterogenea. Non è da escludere il ricorso al metallo non monetato soggerito dai generici riferirimenti ad argenti liorae. Anche la moneta sostitutiva è decisamente più presente. Infatti, benché sia stato affermato che sulle oltre 3000 carte raccolte nel Regesto di Farfa i pagamenti in moneta sostitutiva sarebbero limitati ad alcune decine 81 va sottolineato che questi, in realtà, risolsero i 2l3 dei pagamenti nelle vendite di terra intercorse durante 1'XI secolo. Inoltre, la componente non economica individuata da Wickham in alcune zone della Toscana, gioca un ruolo importante anche in molte stipule farfensi 82 . In conclusione, la scarsissima presenza dei denari d'argento nelle stratigrafıe ne conferma l'elevato potere liberatorio e il loro limitato uso per il commercio minuto. Piuttosto che definire il denaro d'argento come uno strumento adatto a tutti i livelli dello scambio, attribuendogli una improbabile versatilità, è forse più opportuno defınirne il ruolo come strumento di accumolo di ricchezza, pagamento di censi, imposte, penali all'interno di un sistema che, questo sì, era notevolmente elastico. A seconda delle zone e delle necessità, il denaro d'argento poteva infatti essere affiancato da altri strumenti dello scambio: metalli non monetati, moneta aurea, beni in natura a cui possiamo aggiungere per alcune attività quotidiane, il ricorso al credito. ALESSIA ROVELLI
1 Desidero ringraziare Ermanno Arslan, Federico Marazzi, Aldo Settia e Chris Wickham per i loro suggerimenti, Cristina La Rocca e Giusto Traina per le indicazioni bibliografiche Michel Denhin, Fedora Filippi, Oliver Gilkes, Richard Hodges, Luisella Pejrani e Andrea Staffa per avermi forniro con grande gentilezza notizie su materiali ancora inediti. 2 TOUBERT 1983, p.48 3 CIPOLLA 1975, p. 17; ABULAFIA 1983, pp.223-270. 4 Una riconsiderazione di alcuni esperti del problema in ROVELLI 1992, pp.109-144. 5 GRIERSON 1954, pp.65-79. La più aggiornata sintesi SUI sistema monetario carolingio è in GRIERSON-BLACKSURN 1986, pp.190-266, inoltre si veda SUCRODOLSKI 1987, pp.289-309. 6 GRIERSON-BLACKSURN 1986, pp.90-97. 7 PIRENNE 1933, p.17 8 DOEHAERD 1982, pp.314-319. SecondoVIOLANTE 1953,pp.45-46,Carlo Magno adottò il monometallismo argenteo spinto anche da ragioni di opportunità politica per cui avrebbe cercato di non urtare la suscettibilità dell'imperatore di Bisanzio che un tempo aveva avuto il monopolio delle coniazioni auree. 9 Un'ampia sintesi del problema, analizzato da molteplici angolature in Econosnia natarale, econosnia snone~aria. 10 DEL TREPPO 1956, pp.31 -110; FUMAGALL! 1976; WICKHAM 1982; TOUBERT 1983, pp.5-63. 11 A titolo d' esempio cfr. il giudizio espresso in DOEHAERD 19822, p. 317: “la nonveauté du système monétaire des Carolingiens consiste dans le fait qu' ils lui ont donné pour base une monnaie de valcur faible”. Opposta, invece, è l'opinione pronunciata da G. Bois durante un suo recente intervento a Spoleto per cui: “Le denier de Charlemagne est encore trop lourd et cher pour etre un instrument commode dans les échanges“. Cfr. Ilsecolo di ferro, p. 678.
12 LOPEZ 1953, pp. 16-19, valuta che la zecca di Pavia producesse, nel X secolo, circa 23.000 denari 1'anno. I calcoli di Lopez sono stati messi in discussione da GRIERSON 1957, pp. 462-466, che peraltro preferisce non fare ipotesi precise, limitandosi a supporre un volume più consistente. Le stime più recenti calcolano che con una coppia di conii si potessero battere da 10.000 a 30.000 monete; cfr. DUMAS 1991, p. 566. 13 GRIERSON 1961, pp. 360-361. 14 GRIERSON 1965, pp. 534-536. 15 METCALF 1967, pp. 344-357. 16 METCALF 1986, P.324. 17 STUMPO 1983, in particolare pp. 523-533. 18 TOUBERT 1983, P.46. 19 BOGNETTI 1959, P.56. LOPEZ 1961, P.81. C[POLLA 1956, P.12. CIPOLLA 1975, P.14. L'opinione avanzata da sognetti, Lopez e Cipolla gode di una consolidata tradizione nella storiografia italiana. CORDERO Dl SAN QUINTINO 1860, analizzando i problemi che genera un sistema monerario privo dei nominali minori (P. 84), riportò l'analogo pensiero di ZANETTI 1789, P.12, che dichiarò di non “porer comprendere come potevano fare que' popoli a provvedersi le cose minute: il che recò non poca maraviglia anche al Muratori come può vedersi nel fine della Dissertazione XXVIII ”; cfr. MURATOR[ 1739, coll. 825-826. 20 Riguardo alla circolazione di queste ultime, rimando al contributo di E. Arslan in questa stessa sede. 21 ARSLAN 1991, pp. 71-130 a coi rimando anche per la bibliografia precedente. 22 ROVELLI 1989, pp. 49-95; SAGUl-PAROL} 1989, pp. 21-47; DELOGU 1989, pp. 97-105; ROVELL£ 1990, pp. 169-194. 23 Tra le oltre 1500 monete recUperate si conta un solo denaro del tipo degli, probabilmente di Benedetto III e Ludovico II (855-858). 24 SERAFINI 1951, pp. 225-244. 25 Si tratta di un denaro di Lotario imperatore (840-855), emesso a Pavia, un denaro di Ludovico II (855-875) dellazeccadi Milano, un denaro di StefanoVI e Carlo il Grosso (885-888), Un denaro di Berengario I e Arnolfo (895-899) emesso a Milano. 26 SACCOCCI 1991, pp. 245-262. Questi piccioli della seconda metà del XII secolo contenevano non più di 0,1 gr. d'argento. Avevano dunque ben poco in comune con i loro antenati carolingi che pesavano g. 1,7 ed erano di un'ottima lega, pari a circa il 95% d'argento (METCALF-NORTHOVER 1989, pp. 101-120). 27 TRAVAINI 1988, pp. 225-229. Sulla circolazione monetaria a Roma e nel Lazio in età tardo antica e altomedievale si veda inoltre SPAGNOLI 1993 e ROVELLI 1993. 28 I recenti scavi, condotti nell' area retrostante Palazzo Madama che hanno messo in luce quella che fu l'asse della via d'uscita orientale della città antica e l'area immediatamente retrostante il castello medievale, hanno evidenziato una stratigrafia senza soluzione di continuità databile tra l'età romana e il XVI-XVII secolo. I reperti numismatici sono costituiti da esemplari di bronzo di età romano-imperiale e da monete di mistura basso-medievali. Lo studio dei materiali è ancora in corso, e mi è stato possibile prenderne visione grazie a F. Filippi della Soprintendenza Archeologica del Piemonte che ha diretto lo scavo; cfr., sullo scavo, FILIPPI 1990, p. 517. 29 Gli scavi hanno interessato la collina di Castello, nel centro storico di Genova, dove vi fu continuità insediativa a partire da un oppidum pre-romano. Tra le monete recuperate, la più antica è un quadrante semionciale databile al 90l88 a. C. Per il periodo medievale, i reperti iniziano con i denari di mistura di I tipo (1139-1339), a nome di Corrado, con cui la zecca di Genova iniziò la propria attività, cfr. BERTIND L.M. 1977, pp. 208-212. 30 Lo scavo di parte delle strutture del convento di Santa Giulia è in corso da anni e il materiale è in via di pubblicazione. Dalle prime informazioni, gentilmente fornite da Gian Pietro Brogiolo, dell'Università di Siena, che ha diretto lo scavo, e da Ermanno Arslan, direttore delle Civiche Raccolte Archeologiche e Numismatiche di Milano che ha in studio le monete risulta che il materiaie numismatico è costituito da un primo nucleo di monete che termina con esemplari di bronzo di età gota. Il secondo gruppo inizia con denari databili tra il X e l'XI secolo. Notizie preliminari sullo scavo e bibliografia in PANAzzA-BRoG~oLo 1988. 31 Le monete provenienti dagli scavi nel cortile del Tribunale, nel cortile del Mercato Vecchio e in via Dante, dove è stato possibile seguire i cambiamenti dell'assetto urbano tra il I I sec. a. C. e il XIV, sono ancora in corso di studio, ma da una indagine preliminare risulta che tra la metà del VI fino all'XI secolo la circolazione monetaria è attestata solo da tre esemplari bronzo e di zecche bizantine che non vanno oltre la metà dell'VIII secolo, tra l'XI e il XII secolo ricompaiono invece numerose monete. Sono stati identificati 80 denari veronesi, cfr. ARZONE 1987a, pp. 199-207, riguardo lo scavo cfr. HUDSON 1985, pp. 281-302; LA RoccA-HuDsoN 1986, pp.31 -78. Le monete dello scavo di piazza del Monte dei Pegni hanno invece avuto una precoce pubblicazione rispetto allo scavo e agli altri materiali. Da quest'area provengono 85 monete di bronzo, per la maggior parte databili al IVe al V secolo e un denaro euriciano datato al 1100-1135. Cfr. ARZONE 1987b, pp. 123-135. 32 TONDO 1978, pp. 520-522; TONDO 1985, pp. 472-478; TONDO 1987, pp. 819-823. 33 Le monete recuperate sono 90 e possono essere, a grandi linee, ripartite in tre gruppi diversi per consistenza e cronologia; si contano infatti 6 monete di età romana, 59 esemplari di età medievale e moderna (X-XVII secolo),25 monete comprese tra il XIX e il XX secolo, tutte, ad eccezione di due, post-unitarie. Cfr. ROVELLI C.S.
34 Sullo scavo cfr. FRANCOVICH-MILANESE 1989, pp. 9-288, in particolare p. 35 e 46. Per il catalogo delle monete cfr. ROVELLI 1984, pp. ?75-277 e ROVELJ,[ 19XSb, pp. 415-416. 35 RovELLI 1985, pp. 379-387; ROVEI.LI 1987, pp. 117-119; FINETTI 1991, pp. 130-134. 36 I materiali sono in corso di pubblicazione. R. Hodges, direttore della British School at Rome e O. Gilkes mi hanno gentilmente fornito l'elenco delle monete redatto dal dott. A. Finetti che ringrazio. Non sono noti, invece, i reperri mobili, compresi quelli numismatici, recuperati durante i precedenti scavi condotti da P. Markthaler e, in seguito, da G. Croquison e dalla Soprintendenza ai Monumenti del Lazio. Riguardo agli interventi più rècenti cfr. WHITEHOUSE 1984, pp. 245-255 e MCCLENDON 1987 a cui rimando anche per la bibliografia. 37 Sulla scarsissima incidenza della monetazione sia longobarda che carolingia e, viceversa sul sensibile incremento dei rinvenimenti con le monete coniate a nome degli imperatori "euriciani", in Veneto e Friuli si rimanda a SACCOCCI 1986, p. 283; GORINI 1988 pp.l87-200; GORINI 1989, pp. 180-187, SACCOCCI 1989, pp. 303-319, SACCOCCI 1991, pp. 218-213. Per il Trenrino, una veloce rassegna dei rinvenimeuri in GORINI 1986, pp. 237-242. Per la provincia di Cuneo, FEA 1986, pp. 109-129. 38 Oltre ai citati rinvenimenti, sono a conoscenza di pochi altri casi. Una moneta d'argento dell'imperarore Lotario della zecca di Pavia proviene da S. Lorenzo di Caraglio (CN); cfr. FEA 1986, p.120. Un denaro carolingio di autorità incerta è stato rinvenuto aCentallo (CN), nello scavo della chiesa. Il materiale è inedito, devo l'informazione alla cortesia di L. Pejrani della Soprintendenza Archeologica del Piemonte. Brevi notizie sullo scavo in MOLLI BoFFA-PEJRAN[ 1991, pp. 150-151. Un denaro di Carlo Magno, di zecca non precisata, è stato scoperto durante lo scavo presso il muro perimetrale dell'antico battistero, nel comune di Bedizzole, in frazione Pontenove (BS), cfr. PAUTASSO 1987, p. 582. Un denaro di Berengario I (888-915), zecca di Pavia, è venuto alla luce durante gli scavi presso la Torre Civica di Pavia; il materiale è inedito e devo la segnalazione ad E. Arslan. Da Padova si può segnalare un denaro della zecca di Venezia del tipo ~rist~s i~r;per (SACCOCCI 1986, p. 283~. Un denaro di Ludovico il Pio proviene da Aquileia, non sono note le circostanze del rinvenimeuro, cfr. VALE 1936-37, col. 59. InFne, un denaro di Carlo Magno, emesso a Milano tra il 774 e il 781, proviene dagli scavi di Roselle (GR), cfr. CATALL[ 1976-77, PP. 121. Da contesti tombali provengono un denaro di papa Adriano III (884-885), rinvenuto durante gli scavi alla Mola di Monte Gelato (Mazzano Romano, VT), cfr. POTTER 1993, P. 146; un denaro di Carlo Magno del tipo CarrolslRex Fracoram recuperato a Mosciano S. Angelo (TE), cfr. SAVINI 1925, pp. 85-87, e una bella moneta carolina, a Laerru (Ss), cfr. TARAMELLf 1905, pp.111-121. 39 ORLANDONI 1988, p.442. 40 BERTINO A. 1965-1967, pp.171-210; BERTINO A. 1968, pp.158-177; BERTINO A. 19691970, pp.258-291; BERTINO A.1973, coll.837-872; BERTINO A.1977, coll.679-707; BERT[NO A. 1983, pp.265-300. 41 BERTINO A.1983, p.274 e pp.299-300. 42 BERTINO A.1969 l70, p.287 e BERTINO A. 1983, pp.279-282. 43 BERTINO A. 1977, n.252. 44 LAFAURIE 1974, pp.43-56. 45 Catalogo delle monete romane consolari ed imperiali, delle zecche italiane medioez7ali e moderne e delle medaglie componerti la colle~io77e del signor marchese e commendatore A77gel0 A7emedi 1...l. Esposi~iorepal701icailSe6gennaio 1885~...l. Milano, Tipografa Luigi di GiacomoPirola, 1884, citato in BERTfNO A. 1983, p.266, nota 6 e p. 286. 46 WARD PERKINS 1981' pp.91-98; LUSUARDI SfENA 1985, pp.303-311. 47 GAMBARO 1985, pp.29-32. Per i rapporti tra Luni e P entroterra attraverso la via del Monte Bordone, cfr. OPLL 1986, pp.57-58. 48 BERTINO A. 1965-67, pp.171-210. 49 TABACZYNSKI 1977, pp.271-286. 50 FERRERO 1892, p.77. 51 ORLANDONI 1988, pp.435-438. 52 Sul commercio lungo le rotte del Mare del Nord e gN emporta, cfr. HODGES 1982. 53 AMANTE SIMONI 1984, p.901 e p. 918. I1 sito di San Romedio oltre che essere posto a ridosso di un importante itinerario era dotato di una propria specifica attrattiva in virtù del santuario che ospitava. 54 CLARK 1992, p.261, la lettura della moneta è a cura di L. Travaini. 55 Sulla viabilità nel Trentino, cfr. BIERBRADER 1991, pp.121 -174, in particolare pp. 138-140. 56 METCALF 1979, pp.22-24. 57 Lo scavo ha restituito: un denaro di Ludovico II (855-875) e uno di Berengario I imperatore (915-924), entrambi della zecca di Milano. Inoltre un denaro di Ottone I e Ottone II associati (962-967), un denaro di Arduino (1002-1024) e tre denari "euriciani". I materiali sono ancora inediti e devo l'informazione alla gentilezza di Ermanno Arslan. 58 Le campagne di scavo, condotte nel 1978 e nel 1979, hanno portato al recupero di 79 monete, per la maggior parte di età tardo-romana e bizantina. Per il periodo medievale è da sottolineare la presenza di un denaro di Ludovico II (855-875), della zecca di Milano, di tre dénari di Ottone III (973-1002), emessi aMilano e di altri tre di Enrico II (1004-1024) da Lucca. Cfr. ERCOLANI COCCHI 1978, pp. 367-399, sui contesti stratigraf~ci, recentemente riaperti sotto la direzione di SaUro Gelichi, cfr. CuRINAetal.1990, pp.121-234, a cui rimando per la bibliografia precedente. 59 TRAVAoLINI 1992, p. 245, un'analisi preliminare in WHITEHOUSE 1978, pp. 537-541.
60 TRAVAINI 1984, pp. 357-374. La capillare presenza della moneta bronzea bizantina risulta con chiarezza dal censimento dei rinvenimenti in Calabria condotto da GUZZETTA 1986 e, soprattutto, dai dati che E. Arslan mi ha gentilmente fornito anticipandomi i risultati di una sua ricerca tuttora in corso. 61 Sulle serie degli segattas cfr. HILL-METCALF 1984 e GRIERSON-BLACKSURN 1986, pp. 155-189 e pp. 267-325. 62 RIGOLD 1977, pp. 59-80. 63 BLACKBURN 1989 19901, p.10(versione inglese di una comunicazione tenuta nel 1988 a Wloclawek, che Richard Hodges mi ha gentilmente trasmesso, pubblicata in polacco con riassunto in inglese. 64 I dati mi sono stati gentilmente forniti da Michel Denhin, Conser.vatore del Cabinet des Médailles della Bibliothèque Nationale di Parigi, che ha in corso lo studio dei reperti numismatici. Questi ultimi dati risultano leggermente discordanti rispetto a quelli anticipati da DUMAS 1991, P. 585 che riferisce di 3 esemplari per il IX secolo, 20 per il X e 22 per il successivo. 65 GRIERsoN-BLAcKsuRN 1986, p. 206. 66 TOUBERT 1983, p. 54. 67 GRIERsoN-BLACKSURN 1986, pp. 194 e 250; MuRARf 1958, pp. 37-44. In ultimo, con particolare riferimento al caso di Verona, SACCOCC[ 1991, p. 248. 68 TOUBERT 1973a, pp. 584-601; TOUBERT 1973b, pp. 180-189. 69 Per quanto riguarda le monete emesse a partire dal XII secolo, invece, si nota che anche il materiale proveniente degli scavi riflette con precisione i meccanismi della "legge di Gresbam". Come si è visto, tra le monete recuperate durante gli scavi della Confessione di San Pietro al Vaticano prevalgono quelle di Venezia, cioè quelle dall'intrinseco peggiore. 70 BOGNETTI 1959, PP. 51-60. 71 METALLT 1903, P. 75. 72 CLANCHY 1979, PP. 95-97. 73 RICCI 1990,-P. 300. Sul rinvenimento di salvadanai si veda inoltre SUTT NA 1906, PP. 135-136; ROVINA 1985, PP. 244-245. 74 KOTEL NIKOVA 1983, PP. 93-112. 75 CRAWFORD 1970, PP. 40-48; una revisione in Lo CASCIO 1981, PP. 76-86; la struttura amministrativa della monetazione tardoromana e i problemi connessi all'emissione e all'uso della moneta sono stati oggetto di numerosi studi da parte di Michael Hendy raccolti in HENDY 1989. 76, CIPOLLA 1961, P. 623. 77 ROVELLJ 1992, PP. 133-137 e ROVELLI 1993, PP. 343-344. 78 V OLANTE 1953, PP. 123-137. 79JARNUT 1981, PP. 254-259. 80 WICKHAM 1987, PP 355-377 81 TOUBERT 1973, 1, pp. 603-604. 82 ROVELLI 1993, pp. 338-349.
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Discussione Creo haber sido invitada a participar en la mesa redonda sobre Producion e Scambi por un doble motivo: de un lado, mi condición de arqucóloga que ha trabajado precisamente sobre las cerámicas altomedievales, atendiendo tanto a su producción como a sus distintos niveles de intercambio local, regional o a larga distancia, con la intención de convertirlas en indicadores de la evolución del poblamiento e insertando su estudio en una perspectiva económica y social que, como ha senalado H. Patterson con anterioridad, es la única "productiva". De otro lado, por el hecho de trabajar habitualmente en un pais con una problemática próxima pero a la vez diversa, Espana; cercano en tanto que participa de la misma descomposición de un sistema pol~tico y económico en la tardoantiguedad - el Imperio Romano -, pero diverso porque la experiencia pohtica del Reino visigodo de Toledo se ve afectada en su desarrollo por la llegada de los musulmanes a principios del siglo VIII, con la subsiguiente islamización social y cultural de la Penfusula Ibérica, que a partir de ahora será conocida como al-Ardalas. Desde este punto de vista, creo que se espera de m~ que ponga en relación ambas realidades. En este bloque temático se han tratado varios aspectos: la producción y distribución de una mercancia concreta de especial valor cronológico, como es la cerámica, en la Italia central; la producción en sentido estricto de recursos primarios y la organización de los procesos de trabajo; la organización de los espacios de hábitat en su sentido más elemental, la edilicia, o la circulación del elemento principal de intercambio, la moneda. Todos han aportado argomentos de discusión signif cativos, pero me centraré especialmente en aquel trabajo que está más próximo a mi ámbito personal de estudio: la aportación de P. Arthur y H. Patterson. La sfutesis de la situación productiva de la Italia central altomedioval ha si do excelente y pl antea interesantes sugere ncias. En pri mer lugar, el panorama esbozado evidencia, al igual que ocurre en Espana, qUe el estudio de la cerámica altomedieval sólo puede abordarse desde una perspectiva regional y que su propia diversidad es fruto de la crisis de un sistema de intercambios complejo vinculado al mundo romano. Cuando dejan de llegar las manufacturas que participan en sistemas de producción a gran escala, como las ánforas o la terra sigillata, y dejan de producirse las manufacturas locales que aon se caracterizan por un alto nivel técnico, solo sobreviven aquellas otras de carácter local o regional, que se caracterizan por niveles tecnológicos más elementales y que están mejor adaptadas a las necesidades de un mercado menos exigente pero más estable. Me parece fundamental, en el marco de este debate, la elaboración de modelos sociocconómicos que expliquen de forma desigual las transformaciones produc:tivas del paso de la economia tardoantigua al medievo; en este sentido es muy signifcativa la apreciación de las diferencias entre lo.s ámbitos urbanos y los rurales, puesto que la descomposición de los mercados urbanos y su diversa capacidad de intervención en el entorno rural incidc enormente en el comportamiento desigual de las diversas áreas, como ha sido explicado en el caso de la Italia central. No obstante, este análisis en confrontación con la situación espafiola, suscita una segonda cuestión: el problema de la supervivencia de producciones de carácter doméstico, tecnología elemental (modelado manual o con tornos lentos, pastas bastas, sistemas de cocción en área abierta con bajas temperaturas), distribución local o regional y consumo adecuado a una demanda poco diversificada, con pocas variantes formales. Producciones de estas caracrerísticas procedentes de Sicila han sido mostradas esta manama por A. Molinari y J. M. Pesez, si bien en contextos cronológicos más tardíos que los espanoles, pero están escasamente representados en la Italia centromeridional. Esta ausencia es doblemente signifıcativa puesto que producciones de estas características, como las de Pantelleria, existen ya en contextos romanos, susceptibles incluso de una amplia comercialización. En tal caso parece lógico suponer su continuidad en contextos tardorromanos, como por otro lado es frecoente en diversos lugares del Mediterráneo occidental; de hecho, el incremento de estas producciones implica evidentes transformaciones en los sistemas productivos, pero no debe interpretarse únicamente en clave "peyorativa". Creo que responde, en realidad, a una estrategia productiva diferente; una solución tecnológica "inteligente" yadecuada a un sistema
"descomercializado", utilizado las palabras de la propia H. Patterson. Por el contrario, no ocurre así en el área italiana estUdiada, donde estas producciones brillan por su ausencia; ante tal paradoja cabe preguntarse si dicha ausencia no se deberá a un problema de registro, puesto que materiales similares han sido puestos en evidencia por P. Arthur en Capua. No obstante, también es cierto que su escasez respecto a otras áreas es innegable, lo que quizá se pueda explicar precisamente por la mayor pèr~manencia de importantes núcleos urbanos, como Roma o Nápoles, y de centros rurales estructurados, capaces de mantener y organizar sistemas de mercado relativamente complejos. SONIA GUTIERREZ LLORET Il mio intervento verterà su un aspetto messo in luce dalla relazione di Ermanno Arslan. La circolazione della moneta ostrogota di bronzo, come ha puntualmente evidenziato il relatore, sta ricevendo una nuova configurazione negli ultimi anni, sulla base delle recenti indagini di scavo. Sembra particolarmente signifıcativa l'attestazione di bronzi goti in siti come quello di Monte Barro o di Poggio Castagnoli di Stia, che permettono all'Arslan di parlare di coniazioni castrensi (cfr. E.A. ARSLAN, Scavi di Morte Barro. Morete, Archeologia Medievale, XV (1988) p. 232). In effetti, tale abbondanza di ritrovamenti contrasta ampiamente con il quadro che si sta delineando, ad esempio, negli scavi più recenti all'interno della cinta urbana di Roma, città che subì lunghi anni di dominazione gotica. Dall'analisi condotta da Rovelli (A. ROVELLI, La Crypta Balbi. I reperti numismatici. Appunti sulla circolazione a Roma nel Medioevo, in La moneta rei cortestiarcheologici. Esempidagliscavidi Roma, Roma 1989, pp. 49-95) e da quella da me portata avanti sui rinvenimenti monetali della Porticus Liviae (M.C. MOLINARJ, I rinvenimerti moretali della Porticus Liviae, in La Porticas Liviae sal colle Oppio a Roma, a cura di C. Panella, in corso di pubblicazione) o di via del Foro romano, soltanto i nummi di Atalarico risultano frequentemente attestati, mentre gli unici esemplari di valore superiore sono due pezzi di I secolo contromarcati (R. REECE, A collectior of coins from the certre of Rome, PBSR, 50 (1982), p. 126 e ROVELLI, La Crypta, cit., p. 58 n. 78), qualora si voglia attribuire la contromarca agli ostrogoti (P. GRIERSON, Medieval European Coinage, I, Cambridge 1986, pp.28-31). Infatti tali monete sono state rinvenute in numero considerevole in Italia e, agli esemplari catalogati dal Grierson, vanno aggiunti altri quattro bronzi di Claudio e Vespasiano che sono conservati nel Medagliere Capitolino e che presentano il marchio di valore XLII. Arslan ritiene, invece, concordemente con quanto affermato da Morrisson che le contromarche siano da attribuire ad area africana per la stretta analogia esistente con il sistema monetario vandalico, che è l'unico a prevedere la coniazione di questi nominali. Nel tentativo di ricostruzione della circolazione monetale di Roma, la lacuna determinata dalle emissioni gote assume un ruolo rilevante nel caso dello scavo di via del Foro romano, ove sono state rinvenuti, in due contesti differenti, una "borsa" di monete databili dal II al VI secolo e un ripostiglio che si chiude nell'VIII secolo (cfr. G. MAETZKE, La struttura stratigrafica dell'area nordoccidertale del Foro romano come appare dai recerti interventi di scavo, Archeologia Medievale, XVIII, (1991), p. 86 nota 42 e p. 85 nota 39). Entrambi i ritrovamenti presentano un cospicuo numero di monete più antiche rispetto alla datazione dei contesti stratigrafıci. Tali monete non debbono, a mio avviso, essere considerate "residuali", bensì ancora in circolazione nei secoli successivi alla loro coniazione (cfr. M.C. MOLINARI, Le monete della Meta, Annali dell’Istituto Italiano di Numismatica”, 39 (1992), nota 67, (in corso di stampa). Più difficile sembra essere l’identificazione del valore nominale che nel VI-VII secolo si attribuiva a questi pezzi, identificazione che risulta complessa anche nel caso dei cosiddetti "minimi", uniche emissioni bizantine che risultano non essere marcate. Si tratterebbe, dunque, di una circolazione di materiale estremamente variegato, di IV secolo, talvolta tosati, di nummi di V secolo con notevole oscillazione ponderale, ovvero di monete che continuavano ad avere una lunga "sopravvivenza".
Alla luce di quanto esposto, appare non comprensibile l'esiguità quantitativa della moneta ostrogota, né sembra convincente l'ipotesi avanzata da Arslan in questa sede, di un ritiro delle emissioni ostrogote, operate dai bizantini in seguito alla loro riconquista dell'Italia. Non bisogna, infatti, dimenticare che nella Costitutio Pragmatica di Giustiniano del 554 (Giustiniano, Appendix Costitutionum, VII, 1 e 5 ed. C.G. KROLL) furono mantenuti i provvedimenti assunti nella precedente dominazione, ad eccezione di quelli adottati da Totila. Se dunque si fosse verifıcata una damnatio memoriae per la monetazione a nome di Baduela, sembra inspiegabile l'assenza di coniazioni a Roma degli altri re goti, là dove era consentita la circolazione di materiale di molti secoli prima. In conclusione sembra forse necessario, allo stato attuale delle indagini, utilizzare una maggiore cautela, pur rilevando l'importanza dell'intervento di E. Arslan al fine di una ricostruzione della circolazione di moneta enea ostrogota in Italia. MARIA CRISTINA MOLINARI
“Castrum del potius civitas”. Modelli di declino urbano in Italia settentrionale durante l'alto medioevo
1. I centri abbandonati e le differenze regionali Tema di questo lavoro sono i diversi aspetti che permettono di delineare la soluzione di continuità insediativa e istituzionale urbana nell'Italia settentrionale tra tarda antichità e altomedioevo: un fenomeno che si manifestò sia nella scomparsa di molti centri di origine romana, sia nella formazione di nuove città. Nell'alto medioevo vi furono infatti municipia che persero la loro qualifica istituzionale, 'centri minori' che aspirarono a diventare città, infine centri urbani fondati ex novo come centri di raccordo politico dell'insediamento sparso. Il tema è recentemente stato ridiscusso in una prospettiva complessiva, proponendo che l'abbandono delle città dell'Italia settentrionale sia da inquadrare in un contesto complessivo di crisi urbana, aggravato dalla migrazione longobarda. Tale trend negativo sarebbe stato accentuato, per le attuali regioni del Piemonte e del Veneto, dalla posizione geografica confinale dei due territori. Qui il numero particolarmente cospicuo di città abbandonate sarebbe direttamente imputabile all'effetto destabilizzante della continua frizione tra le terre rimaste possesso imperiale e quelle occupate dalla popolazione germanica. Questa interpretazione suppone allora che gli abbandoni delle città romane si siano, se non iniziati, certo incrementati e accelerati durante l'età longobarda: il Veneto e il Piemonte, in particolare, sono assimilati per la rilevanza quantitativa degli abbandoni, sia per la cronologia e la qualità dei fallimenti urbani 1. Il primo punto è inconfutabile: il Piemonte e il Veneto sono infatti le regioni italiane ove tale fenomeno si verificò in modo numericamente più significativo. Maggiore attenzione deve essere invece prestata ai modi e ai tempi in cui i fallimenti urbani si manifestarono e alle cause che li provocarono. In altri termini, se l'esito del processo fu indubbiamente una netta modificazione dell'assetto territoriale altomedievale rispetto a quello precedente, diversi appaiono i tempi e le modalità del percorso compiuto, nelle due regioni, per giungere a tale risultato. Vediamo anzitutto le principali differenze qualitative, che è possibile cogliere anche attraverso la diversa tradizione elaborata in ambito locale per spiegare tale cambiamento. Diversi, nelle due regioni sin dallo stesso periodo altomedievale, furono infatti considerati i responsabili diretti degli abbandoni e altrettanto diverse furono le vicende tradizionali che vennero a scandire le fasi salienti del passato storico nelle due regioni. In Veneto, sin da Paolino di Aquileia, il mito delle distruzioni e della rinascita si articolò nelle sue linee fondamentali con un colpevole illustre (Attila); una vittima altrettanto celebre (Aquileia), città morta per eccellenza; una modalità di salvezza per gli abitanti (la fuga di massa nella laguna); e un lieto fine (la nascita di Venezia) 2. Niente di simile fu invece elaborato nella regione subalpina durante il medioevo. durante l'XI secolo ci si limitò a imitare la tradizione veneta e a 'importare' I'intervento di Attila, ormai ritenuto la prova più palmare della condizione di 'città morta' di un antico centro 3. Soltanto nella ricerca ottocentesca le colpe attilane vennero spartite con i Saraceni, a cui furono attribuiti gli abbandoni di tutte le antiche città situate nell'odierna provincia di Cuneo 4. In Piemonte, durante l'alto medioevo, non si costruì una linea interpretativa volta a motivare il cambiamento numerico delle città: il che di per sé appare denunciare l'età remota in cui tali abbandoni si erano effettivamente verificati. Diversi sono poi, allo stato attuale della ricerca archeologica, i dati a disposizione. In Piemonte vi è stata, negli anni recenti, una consistente ripresa degli scavi nei siti abbandonati, e la revisione cronologica dei dati ottocenteschi è stata effettuata attraverso indagini stratigrafiche e attraverso un interesse più marcato alla fase altomedievale dei siti stessi. La relativa mancanza di spiegazioni tradizionali per gli abbandoni stessi ha inoltre spinto gli archeologi a derivare le loro datazioni direttamente dai dati stratigrafici.
In Veneto invece, I'archeologia medievale ha una tradizione ancor più recente che nel resto dell'Italia settentrionale. L'interesse prevalente ha privilegiato la ricerca su temi per così dire tradizionali (la ricerca sulle testimonianze religiose), oppure si esprime attraverso una vastissima quanto sporadica e frammentaria ricerca locale. Gli scavi archeologici attualmente intrapresi in ambito cittadino sono recenti e pressoché tutti in fase di rapporto preliminare: ma essi risultano altamente influenzati, nell'interpretazione e nella scansione cronologica, dall'impostazione ideologica delle fonti sulle origini di Venezia, derivando da esse, con un procedimento circolare, le informazioni datanti, che sono poi riferite alle strutture rinvenute. Dati documentari e dati archeologici ricevono così reciproca conferma 5. Le fonti sulle origini di Venezia, che per analogia vennero estese durante il medioevo alle città della terraferma~, possopo invece essere utilizzate solo con grandissima cautela per derivare appigli cronologici per datare le: strutture scavate. Esse si confıgurano infatti come costruzione progressiva e coe`rente volta a spiegare secondo un modolo fisso la storia del passato, e non come testimonianza indiscutibile di fatti realmente avvenuti 7. La costruzione dell'interpretazione archeologica in Veneto e in Piemonte si avvale dunque di parametri storiografici non paragonabili tra loro. 2. Città scomparse, citta nuove, “quasi città” Fare storia del Veneto, si sa, vuol dire parlare di una bipartizione, viva non solo nella tradizione di studi volta per molto tempo a celebrare Venezia e a ignorare parallelamente la specifica evoluzione della terraferma, ma operante di fatto nei secoli che qui si considerano: I'area lagunare - la Venetia- in mano ai bizantini, e l'entroterra, I'Austria, conquistata dai Longobardi. In Piemonte invece l'intero territorio venne uniformemente occupato con la prima ondata di invasioni longobarde. Occorre chiedersi se la tenuta delle città in queste due aree si sia differenziata in rapporto alla dominazione politica e se sia possibile osservare una divisione effettiva delle dinamiche territoriali tra Longobardia e Romania, come si tende attualmente a proporrea. È questo l'aspetto che esaminiamo per primo. Anzitutto alcuni dati di comparazione, che permettano di valutare dall'inizio il fenomeno degli abbandoni urbani: nell'odierno Piemonte meridionale, su 14 città testimoniate da Plinio in età augustea, soltanto 4 furono sedi vescovili, 5 persero il loro nome durante 1'altomedioevo, in 5 casi il toponimo originario identificava nell'altomedioevo semplici loci. Durante l'altomedioevo non si creò alcuna nuova sede vescovile,. In Veneto invece, su 12 città documentate come tali in età romana, soltanto Este non fu sede vescovile, nessun centro cambiò nome, 4 centri risultano inoltre privati dalla dignità vescovile stessa (Oderzo, Adria, Aquileia, Concordia), ma essi furono sostituiti e ampliati di numero nel corso dello scisma aquileiese. Dal patriarcato di Grado (610) dipendevano infatti i vescovi filopapali di Jesolo, Olivolo, Parenzo, Pola, Torcello, Caorle, Chioggia, Eraclea; mentre da quello cividalese, erede di Aquileia e scismatico, dipendevano Mantova, Padova, Treviso, Trento, Verona, Vicenza, Altino, Asolo, Belluno, Ceneda, Como, Concordia e Feltre. Vale la pena di notare che tutte le sedi vescovili dipendenti da Grado non sono municipia di età romana, mentre tra quelli scismatici solo Ceneda, peraltro di datazione controversa, è centro nuovo. Il rapporto tra fallimenti e persistenze, se non altro dal punto di vista istituzionale, è a vantaggio dell'area longobarda: ove la sola Opiteium fallì, contro ai 5 fallimenti urbani di area adriatica (Este, Altino, Adria, Aquileia, Concordia). Sin da questi dati possiamo intravedere una sostanziale diversità del carattere della'tenuta' urbana nelle due regioni, che sembra essere avvenuto attraverso parametri diversi da quelli attualmente prospettati: in Piemonte il fallimento urbano fu veramente tale, poiché non scatenò-alcuna dinamica di sostituzione (neppure istituzionale) dei centri scomparsi. In Veneto, e in particolare nell'area controllata politicamente da Bisanzio, invece si può più appropriatamente parlare di trasferimento di almeno una funzione urbana (quella vescovile) da alcune città romane a centri emergenti o di nuova fondazione. Vediamo allora attraverso quali fonti è possibile identificare i parametri che durante l'alto medioevo venivano utilizzati per evidenziare la decadenza o lo sviluppo di un centro, poiché entrambi non possono essere limitati a delineare la scomparsa fisica delle strutture materiali delle città, oppure la
costruzione di strutture nuove. È noto che gli abbandoni delle città sono stati a lungo spiegati in modo piuttosto automatico chiamando in causa avvenimenti risolutori, quali le catastrofi naturali oppure singoli episodi bellici. Il carattere specifico del fallimento di un centro urbano sta invece anzitutto nell'interruzione delle funzioni di una città in rapporto al territorio circostante e nella tendenza, da parte degli abitanti, a ricreare altrove nuovi equilibri. Il fallimento di una città è precedente all'abbandono materiale dei suoi edifici, è anzitutto il fallimento di Dn rapporto amministrativo, economico, religioso tra la città stessa e il territorio D. Allo stesso rnodo, I'emergere di un centro nuovo risulta preparato e anticipato anche dalla costruzione di edifici nuovi, ma questo elemento assume un valore defınitivo solo quando tali iniziative trovano una ufficiale conferma politica di status urbano. È perciò particolarmente stimolante la prospettiva di analisi recentemente proposta sulle modalità di affermazione politica delle “quasi città”: centri che dirnostrarono una spiccata tendenza ad assumere caratteristiche urbane, senza che nel vocabolario coevo si riuscisse a identificare una forma espressiva pienamente adatta a definire la loro identità. Essi apparivano fisicamente come vere e proprie città pur senza avere alle spalle una tradizione urbana di rilevanza politica e di prestigio sociale dei loro abitanti~~. L'esame del vocabolario utilizzato nelle fonti scritte dell'VIII secolo offre l'occasio`ne di valutare il significato dei termini insediativi e quale rapporto con la città essi tendano a esprimere, cioe se sia possibile rintracciare, anche in quest’epoca e attraverso quali coordinate, delle linee di aspirazione verso la città oppure dei parametri che identificassero con chiarezza il fallimento di città già esistenti. Anzitutto l'alto medioevo appare come epoca di catalisi dei processi già in atto nel periodo precedente, una sorta di banco di prova in cui le situazioni di crisi sembrano trovare uno sbocco definitivo. È anche vero che tale caratteristica appare più netta per la cesura cronologica delle fonti: con l'VIII secolo e la ripresa della docurnentazione scritta, alcuni abbandoni appaiono già compiuti definitivamente, senza che vi sia la possibilità di sfumare adeguatamente le tappe e i modi di un cambiarnento che è da supporsi lento e non traumatico. Proprio per queste caratteristiche appare opportuno considerare l'VIII secolo come punto di arrivo di un processo di progressivo mutamento in due opposte direzioni: indice di dinamismo verso il basso per quei centri cittadini attestati come civitates in età tardoantica, che nell'altomedioevo risultano privati di tale dignità; verso l'alto per gli abitati che, attestati come castra oppure villae, denunciano in vario modo aspirazioni cittadine. Occorre poi, come si è poc'anzi accennato, specificare un ulteriore elemento di rapporto tra fonti scritte e fonti materiali nella valutazione delle fasi di transizione del fallimento, oppure della promozione cittadina. son sempre la decadenza o la promozione di status di un centro ebbero necessariamente riflessi materiali e si concretizzarono in abbandoni repentini o in crescite subitanee: i dati materiali appaiono a volte relitti di una condizione giuridica già superata, a volte anticipatori di un riconoscimento a venire. “Quasi città” sia come punto di arrivo sia come punto di partenza della vita di un insediamento: entrambi casi che presuppongono uno specifico e ben definito status di città a cui tendere o che risulta ormai venuto meno. Vediamo allora quali oscillazioni semantiche vengono a essere attribuite nell'Historia Langobardorum per indicare le diverse condizioni dei centri urbani, iniziando dai centri falliti. Le città decadute sono identificate da Paolo Diacono attraverso tre espressioni distinte, di cui soltanto la prima sembra indicare senza dubbio la decadenza insediativa; al secondo gruppo si riferiscono episodi bellici che si rivelano con effetti di lunga durata soltanto qualora tale avvenimento segni in qualche modo la sorte irreversibile di abitati già in crisi per motivi cliversi ed esterni al singolo fatto militare stesso; infine vi sono distruzioni ad solum usque, volte a squalificare un centro dalla propria dignità di civitas, il che, naturalmente, non implica necessariamente alcuna conseguenza diretta sulla sopravvivenza materiale dell'insediamento stesso. Al primo caso di riferiscono le città vetastate consarpue, oppure antiquitatis consamptue, o semplicemente veteres. I centri veneti designati con questi attributi, sono Adria e Aquileia. La consunzione per antichità, cioè la morte per vecchiaia che viene attribuita a queste città, secondo un modello culturale di età tardoantica che vedeva la vita delle città simile a quella umana, è da
intendersi come la constatazione della fine dell'esistenza degli antichi centri, avvenuta e compiuta al tempo di Paolo, che non è messa in alcun rapporto con avvenimenti bellici o con azioni dirette da parte dei Longobardi. Nel caso della morte di Aquileia, semmai essa fornisce un'ulteriore giustificazione all'accrescimento di Cividale, che “nuova” sostituisce un centro ormai decrepito~z. La seconda espressione, oggetto di interpretazioni a posteriori come segno di rovina, indica invece singoli avvenimenti bellici che Paolo stesso giudica non aver avuto effetti determinanti sulla sopravvivenza e sulla consistenza materiale delle città. I verbi usati sono in prevalenza invado e i suoi composti, e hanno oggetto indifferentemente centri tuttora esistenti e altri scomparsi. Soltanto nel caso di Foram Popilii l'invasione è direttamente connessa alla fine dell'abitato ut usque hodie paucissimi in ea commaneant habitatores: ma si tratta evidentemente della spiegazione semplicistica delle cause di spopolamento più recente, ma ugualmente irreversibile, ancora in atto nel momento in cui Paolo scrive e che serve oltretutto a giustificare l'efficacia dell'odio del re Grimoaldo contro i Bizantini 13. Vi è infine una serie di d~istruzioni “ad solum usque” che sono riservate non ad azioni di conquista diretta, bensì di rappresaglia punitiva. Per i centri colpiti e puniti (Brescello, Padova, Cremona, Mantova e Oderzo) la distruzione è strettamente connessa con l'abbattimento delle mura cittadine, vale a dire con un'azione simbolica volta a privarli delle mura, cioè della loro dignità di città 14. Questo intento è infatti esplicitamente dichiarato nella cronaca dello Pscudo Fredegario, che, descrivendo la conquista della Liguria da parte di llotari afferma che il re distrusse “muros civitatobus supscriptis usque ad fundamento” e ordinò che esse, da quel momento, venissero chiamate vici, cioè villaggi 15. Anche in Agnello Ravennate (inizio IX secolo), negli immaginari accordi pattuiti tra Attila e il vescovo Giovanni, nonostante la promessa di Attila di non devastare la città, se ne stabilisce una conquista almeno simbolica: i tavennati avrebbero dovuto aprire una breccia nelle mura e porre al suolo le porte delle loro case, così da simulare la presa di possesso della città da parte del re, salvandone così l'onore di guerriero 16. A queste azioni punitive non occorre necessariamente attribuire effetti immediati sull'entità del popolamento. Esse si esercitarono di fatto su due tipi di città: da un lato centri quali Oderzo e Brescello, per cui i dati archeologici testimoniano, a partire dal IV secolo, un accentuato livello di abbandono delle strutture pubbliche della basilica e del foro 17. Per Padova, Cremona e Mantova la perdita temporanea di un ruolo istituzionale non sembra aver nuociuto né all'entità dell'insediamento né alla perdita di identità urbana nel lungo periodo 18. 3. I resti archeologici delle città fallite Se si esamina il carattere delle testimonianze archeologiche relative al periodo di abbandono delle città “ vetustate consumptae ” si vedranno due categorie essenziali, distinte anche cronologicamente. Alla prima appartengono Altino, Este, Adria: città di origine paleoveneta, che vennero inserite nell'amministrazione romana ma che denunciarono, già nel corso del I e II secolo dell'Impero forti difficoltà a mantenere la propria funzione di centro commerciale e amministrativo, grazie al parallelo ingrandirsi di Aquileia e Ravenna, le quali oltre ad attirare su di sè i commerci divennero anche il punto di riferimento più prestigioso per il patronage pubblico e privato 19. Il sovradimensionamento di Aquileia tra III e V secolo, esplicitato nella formazione di un territorio molto ampio, mise in crisi l'efficienza delle altre: ne derivò una distribuzione sbilanciata, nell'area adriatica, che si manifesta anche nel numero esiguo di sedi vescovili tra IV e V secolo 20. Nel Piemonte meridionale, invece, la romanizzazione venne condotta con un numero di città in esubero rispetto all'effettiva consistenza del popolamento, e il fallimento sembra da imputarsi all'esaurirsi dall'interno dei rapporti con le attività del territorio circostante. Vale la pena di notare che finora in quest'area non è stata rinvenuta se non una necropoli di età longobarda, indicando la scarsa attrazione che queste zone esercitarono per il popolamento fino alla fine del X secolo. Dei quattro municipia del Piemonte meridionale (Pollentia, Augusta Bagiennorum, Pedona e Alha) soltanto quest'ultimo, pur denunciando anch'esso una notevole contrazione dell'abitato che si riflette anche
nella totale discrepanza tra il reticolato viario medievale e quello romano, fu sede vescovile. Gli altri luoghi persero invece in due casi anche il nome originario: la romanizzazione del Piemonte si caratterizzò per un numero di città in eccesso rispetto all'effettiva consistenza del popolamento. I recenti dati archeologici testimoniano che il fallimento di queste città era già compiuto all'inizio del III secolo d.C. In Lombardia invece, ove le ricerche archeologiche condotte in città 'vincenti' (Brescia e Milano) hanno evidenziato il carattere di generale impoverimento della qualità materiale della vita delle città durante l'età longobarda, la tenuta dei centri sede di municipi?'m in età classica è pressoché totale. L'impoverimento della cultura materiale non sembra allora dover necessariamente implicare anche sconvolgimenti all'assetto territoriale antico, e il ruolo decisivo dell'invasione longobarda nell'accelerare la decadenza di status delle città antiche. Al contrario del Piemonte, in Veneto centri nuovi presero (o almeno aspirarono a prendere) il posto e la funzione di quelli antichi: la stessa accentuata mobilità delle diocesi, specie nell'area lagunare, è segno inequivocabile di una realtà territoriale complessa, che palesò un' attiva dinamica di sostituzione e di alternativa ai centri decaduti, manifestando la necessità di città o di centri di raccordo con il territorio. Essi si caratterizzarono come sede di un'autorità politica e religiosa di tipo pubblico. Il Veneto cioè fu un'area ove il modello urbano di età classica non ebbe successo pieno in età tardoantica, senza per questo voler dire che andò in crisi il modello cittadino in quanto tale: anzi il modello cittadino fu l'unico a essere ritenuto operante e attivo nel rapporto con il territorio. È sintomatico che nell'area bizantina il controllo del territorio in seguito allo scisma aquileiese venisse effettuato attraverso un parametro cittadino: dotando dell'attributo di sede vescovile (cioè di una qualifica potenzialmente urbana) un alto numero di località che ne erano prive. L'aspetto archeologico più indagato, quello della strutturazione degli edifici di culto, recentemente oggetto di un lavoro di sintesi complessiva 21, testimonia allora non tanto l'effettiva condizione urbana dei centri promossi a sedi vescovili, quanto il tentativo di fornire nuovi capisaldi istituzionali a un territorio abitato in modo discontinuo. Spesso infatti, a fronte di resti ecclesiastici che denunciano buona fattura, non si sono finora ritrovati segni di abitati, qualificabili come propriamente urbani: ne sia un esempio il caso di Concordia, dove la cattedrale paleocristiana, circondata da un'ampia necropoli, e con un pavimento musivo recante i nomi dei donatori, non ha altro riscontro abitativo se non indizi di attività industriale sulle rovine del teatro 22. Oppure di Eraclea (luogo fondato ex novo), dove le recenti indagini archeologiche hanno potuto riscontrare, invece del supposto sinecismo urbano, il progressivo restringimento sulle sommità dei dossi fluviali di un haZiitat sparso 23. Il tentativo effettuato in area bizantina sembra pertanto essere consistito in una ridistribuzione delle funzioni pubbliche e religiose in un arco territorialmente più ampio, in una sorta di "gara di città" a cui lo scisma tricapitolino 24 contribuì a fornire anche una forte valenza di separazione e competizione religiosa. Il mito delle fughe precipitose degli abitanti delle antiche città nelle nuove sedi lagunari potrebbe allora solo celare lo spostamento territoriale della sede religiosa: la fuga degli abitanti di fronte ad Attila non sembra rappresentare altro che la fuga ideale é rnateriale dall'eresia verso nuove sedi cattoliche 25. Senza voler per questo trarre conclusioni premature, le sedi vescovili in area lagunare testimoniano allora l'aspirazione a dotare nuovi centri di un attributo cittadino: un attributo che da solo non risulta invece sufficiente, nell'area longobarda, a qualificare un centro come civitas. Ce lo dice lo stesso Paolo Diacono attraverso la vicenda di Cividale, scandita nelle fasi che le permisero di diventare una vera e propria città. L'alternanza tra castrum è civitas, che Paolo adotta per qualificare Cividale nasce dalla contraddizione tra la rilevanza del luogo al tempo in cui Paolo scrive, e quella che lo stesso Paolo le attribuisce alla fine del VI secolo. Descrivendo l'entrata di Alboino in Italia, Paolo afferma infatti che egli conquistò anzitutto “civitatis vel potius castri Foroiulani terminos” e che qui lo stesso re creò la prima sede ducale 26. Da questa premessa deriva la successiva promozione di Cividale a città, immediatamente evidenziata da Paolo: se anticamente la principale città della Venetia era Aquileia, nell'VIII secolo essa è stata sostituita da Foram Iulii, che non ha nulla da invidiare alla prima in quanto a dignità e antichità di origini. Sebbene non centro di diocesi Cividale può legittimamente aspirare a essere considerata città perché anch'essa di origine romana: infatti,
spiega Paolo, il toponimo deriva dal fatto che “Iullus Caesar negotiationis forum ibi statuerat” 27. Tale giustificazione è necessaria come rivendicazione di un antico ruolo municipale: solo nel VI secolo Cividale assume nuova rilevanza politica in alternativa ad Aquileia, pur non essendo sede vescovile. All'ingresso di Alboino, Cividale non può dunque essere definita civitas bensì castrum: gli avvenimenti successivi contribuiranno invece a trasformarla in una città a pieno titolo. Nel senso di una crescente promozione del luogo andranno quindi intese le ambiguità semantiche che nella Historia sono riservate alla sola Cividale. Essa, come una città, venne anzitutto dotata di una cinta muraria: secondo Paolo essa fu costruita da Romilda e dai Longobardi che erano riusciti a sfuggire all'assalto degli Avari 28. La fortuna insediativa e funzionale di Cividale si esplicò poi dal punto di vista sociale. Se i castra, secondo la definizione isidoriana, non hanno nulla della dignità cittadina essendo soltanto “vulgaris hominum conventus”, a Cividale vi era invece la residenza del duca Agone “de cuius nomine husque hodie domus quaedam intra Foroiuli constituta”. A Cividale aveva poi trasferito la sua residenza Fidenzio, vescovo “de castro Iuliensi”, scatenando la gelosia del patriarca aquileiese Callisto, che nel frattempo era costretto a risiedere nel castrum di Cormons 29. Abbiamo, in questo episodio tre centri denominati castram, che si differenziano nettamente tra loro, sia per origini, sia per composizione sociale e quindi per prestigio: due centri di nuova formazione, Cormons e Cividale, e un antico municipium declassato, Zuglio. Ma soltanto Cividale appariva al patriarca Callisto “qui erat nobilitate conspicuus” degna del suo prestigio: qui avrebbe potuto abitare “cum duce et Langobardis”. A Cormons invece la sua autorità risultava del tutto sminuita dall'esser costretto a condurre la propria esistenza “tantum volgo sociatus”. Il maggior prestigio sociale di Cividale era evidententemente lo stesso motivo che aveva spinto il vescovo di Zuglio ad abbandonare il municipiam in declino (come attesta l'appellativo di castrum) in cui la propria diocesi aveva originariamente sede, e a trasferirsi a Cividale. In area longobarda un vescovo non è quindi sufficiente, da solo, a conferire dignità di città a un àbitato, ma è la alta stratificazione sociale di un luogo che conferisce dignità al vescovo e che contribuisce a candidare il luogo stesso ad apparire propriamente una città. Residenza di ceti egemoni e del vescovo, dotata di mura, ora Cividale può dirsi città a tutti gli effetti. I modi di affermazione di Cividale nel corso dell'VIII secolo vengono dunque prospettati attraverso parametri cittadini: I'alternanza tra castram e civitas non sembra quindi soltanto indicare che le città fossero ridotte a semplici fortificazioni 30, ma anche il percorso inverso, cioè che alcuni castra stavano assumendo le sembianze di città. Del resto anche il VersusdedestractioneAquilegiaenumquam restaurandae, nel delineare gli aspetti che inequivocabilmente testimoniano la morte della città, colloca al primo posto la variazione del ceto sociale dei suoi abitanti: quella che era stata originariamente la “civitas nobilium” appariva “ rusticorum spelcum”: la città dei re si era trasformata in “pauperum tugurium” 31 . Le città che indubbiamente decaddero, o che erano già scomparse durante l'alto medioevo, non sembrano mettere in discussione i parametri di sviluppo e di promozione: un luogo è in via di affermazione qualora si comporti da città. Sia le fasi cronologiche che scandiscono il fallimento delle città, sia la qualità degli abbandoni in Piemonte e in Veneto, risultano a un esame ravvicinato, profondamente diverse. In Piemonte il fallimento urbano si esplicò con durevolezza a partire dal III secolo, creando un equilibrio tra il numero di città e il popolamento che si alterò soltanto nella piena età comunale, con la fondazione delle villenoz'e. In Veneto invece il mutamento degli equilibri territoriali tra città e territorio si attuò in coincidenza con la bipartizione politica tra Longobardi e Bizantini, attraverso un processo attivo di promozione di stata di centri già esistenti o fondati ex novo. Nella Venetia attribuendo funzione vescovile a centri già esistenti (ma non per questo classificabili dal punto di vista insediativo come vere e proprie città); in Langobardia attribuendo un valore determinante al prestigio sociale degli abitanti di un luogo. Essi furono in grado di far percepire il centro in cui essi risiedevano come il più rappresentativo anche per le sedi vescovili. Il fallimento delle città e la formazione di nuovi centri urbani è un argomento centrale per coroprendere le variazioni insediative e territoriali verificatesi in Italia durante l'età altomedievale.
Gli spunti contenuti in questo breve lavoro possano essere da stimolo per ulteriori e necessari approfondimenti sulle complesse fasi della sua attuazione prima di tutto attraverso le fonti archeologiche, valutate e considerate d' per; sé, prima di confrontarsi con la complessa tradizione che gli uomini altomedievàli elaborarono del proprio passato. CRISTINA LA ROCCA
1 DELOGU 1990, PP. 157-160: “Sembra dunque di poter concludere che effettivamente scomparvero o ridussero fortemente il loro funzionamento a seguito dell'invasione, soprattutto le città che vennero a trovarsi nell'area di massima frizione politica tra i conquistatori longobardi e i territori salvati dall'impero” (p. 159). 2 Cfr. CARILE 1976 che esamina complessivamente la stratificazione cronologica delle fonti sull'origine di Venezia. 3 La costruzione della tradizione in rapporto alle città abbandonate del Piemonte è esaminato da LA ROCCA 1993. Per la discussione di questo mito storiografico, cfr. SETTIA 1987, pp. 127-143. 4 Le diverse fasi delle mura di Aquileia sono per esempio attualmente riconnesse con precisione agli assalti che essa avrebbe subito da parte delle varie ondate di barbari: cfr., per esempio BUORA 1988, pp. 335-362, con le puntuali osservazioni di CHRISTIE 1991, pp. 187 sgg. 6 Cfr. Ie osservazioni di SETTIA 1994. Ringrazio Aldo Settia per avermi permesso di leggere il dattiloscritto di questo lavoro. 7 La letteratura sull'argomento è vastissima: basti, in questa sede, rinviare a ARNALDI CAPO 1976; PAVAN-ARNALDI 1992. 8 La tenuta delle città in Romania e il fallimento delle città della Longobardia è oggetto di numerosi lavori della scuola bolognese di Vito Fumagalli, tra cui si segnala GALETTI 1989, con bibliografia relativa. 9 Sul fenomeno delle città abbandonate in Italia cfr. SCHMIEDT 1974, PP. 503-607 SCHMIEDT 1978, PP. 59-96. In particolare per il Piemonte LA ROCCA 1993, per il Veneto manca invece una sintesi recente e occorrerà rifarsi ai contributi, riferiti alle singole città, per la sola fase romana e tardo romana, in CAVALIERI MANASSE (a cura di) 1986, per 1'Emilia il contributo di GELICHI in questo volume' CAPO 1976; PAVAN-ARNALDI 1992. 10 La tenuta delle città in Romania e il fallimento delle città della Longobardia è oggetto di numerosi lavori della scuola bolognese di Vito Fumagalli, tra cui si segnala GALETTI 1989, con bibliografia relativa. 11 Sul fenomeno delle città abbandonate in Italia cfr. SCHMIEDT 1974, PP. 503-607 SCHMIEDT 1978, PP. 59-96. In particolare per il Piemonte LA ROCCA 1993, per il Veneto manca invece una sintesi recente e occorrerà rifarsi ai contributi, riferiti alle singole città, per la sola fase romana e tardo romana, in CAVALIERI MANASSE (a cura di) 1986, per 1'Emilia il contributo di GELICHI in questo volume' 12 RONCAYOLO 1988; BORDONE 1987. 13 CHITTOLINI 1990, PP. 3-27. Pauli, Historia Langobardorum, II, 19 (Adria); IV, 33 (Aquileia); IN1, 29 (Samnium). Pauli, HistoriaLangobardorum, IV, 25 (Monselice); IV, 28 (Brescello); IV, 45 (Oderzo); III, 15 e VI, 44 (Classe); V, 27 (Forum Popilii). 15 Pauli, HistoriaLangobardorum, VI, 10 (Cartagine); III, 18 (Brescello); IV, 23 (Padova); IV, 28 (Cremona, Mantova e Oderzo). 16 Fredegarii, Chronica,IV,71,pp.l56-157: “ ChrotariuscumexercitoGenavamaretema Albingano, Varicotti, Saona, Ubitergio et Lune civitates litore mares de imperio auferens vastat, rumpit, incendio concremans; populum derepit, spoliat et captivitate condemnat. Murus civitatebus supscriptis usque ad fundamento distruens, vicus has civitates nomenare praccepit>~. 17 Agnelli, LilierPontificalis, 37, p. 302. 18 TIREEEI 1986; LA ROCCA 1989. ta Per Padova: COLLODO 1990, PP.101-136; per Mantova: PIVA 1987, PP.143-145. Vale la pena ricordare che la dignità vescovile ritornò a queste tre città nel corso del IX secolo: LANZONI 1927, PP.911-917; 943-944. 19 Per le vicende di questi tre centri in età romana, cfr. Ie recenti messe a punto di DE MIN 1986; TOMBOEANI 1986; e da ultimo WATAGHIN CANTINO 1992.
20 Come ha di recente fatto osservare CAMMAROSANO 1988, PP.25-35. 21 LUSUARDI etal. 1989. 22 Dl FILIPPO BALESTRAZZI 1988; 1989 23 Per le indagini a Eraclea cfr. il recente SALVATORI 1992, con la relativa bibliografi~a. 24 TABACCO 1986, PP. 24-33; CAMMAROSANO 1988, PP. 32-42. 25 Sull'estensione delle vicende attilane in Paolo Diacono, per esempio nel celebre incontro tra Alboino e il vescovo di Treviso, che ricalca quello tra Attila e papa Lecne Magno, cfr. Ie convincenti osservazioni di GASPARRI 1991, PP. 5-7; sulla figura di Attila nella tradizione veneta successiva, cfr. COLLODO 1973. 26 Pauli, Historia Langobardorum, II, 9, P. 77. 27 Pauli, Historia Langobardorum, II, 14, p. 81. 28 Pauli, Historia Langobardorum, IV, 37, p. 129. 29 L'episodio è narrato in Pauli, Historia Langobardorum, VI, 51, p. 182 e vale la pena citarlo integralmente. Paolo motiva la discordia sorta tra Pemmone duca di Cividale e il patriarca aquileiese Callisto, perché :“Adveniens anteriore tempore Fidentius episcopus de castro Iuliensi, cum voluntate superiorum ducum intra Foroiulani castri muros habitavit ibique sui episcopatus sedem stabuit. Quo vita decidente, Amator in eius loco episcopus ordinatus est. Usque ad enndem enim diem superiores patriarchae, quia in Aquileia propter Romanorum incursionem habitare minime poterant, sedem non in Foroiuli, sed in Cormones habobant. Quod Calisto, qui erat nobilitate conspicuus, satis displicuit, ut in eius diocesi cum duce et Langobardis episcopus habitaret et ipse tantum vulgo sociatus vitam duceret>,. Cfr. CAMMAROSANO 1988, pp. 11-13. 30 MONTANARI 1988, pp. 100-102.
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La città longobarda nelperiodo della conquista (569-in. VII)
Gian Piero Bognetti in un contributo del 1959 (BOGNETTI 1959), letto alla VI settimana di studi sull'alto Medioevo dedicata alla città, contributo che contiene in nuce la maggior parte dei temi che saranno oggetto, trent'anni dopo, dell'animato dibattito tra storici e archeologici sulla città altomedievale, insiste sulla raccomandazione del suo maestro, Enrico Besta: “la storia, Bognetti, è soprattutto cronologia”. E, in realtà, la differenza di giudizio, manifestata in alcuni recenti lavori, deriva anche da un'indebita estensione alle prime fasi della conquista longobarda di assetti sociali ed economici che si avvertono, nella documentazione scritta, soltanto a partire dalla fine del VII secolo e, per quanto riguarda gli aspetti urbanistici, di modelli di organizzazione dell'abitato desumibili dagli atti per lo più privati che iniziano a comparire attorno alla metà dell'VIII secolo, ma risultano generalmente diffusi (e non in tutte le città) non prima del IX-X secolo. Ad accentuare questa discrasia si aggiunge inoltre, dalla metà del VII secolo, per i territori del Regnum (Italia settentrionale e Tuscia), I'affievolirsi dell'evidenza archeologica per il venir meno di prodotti ceramici di buona qualità, ed in particolare di anforacei. Lacuna, che, come vedremo, non sembra imputabile a difetto di ricerche, ma ad una loro effettiva rarefazione. Per l'archeologo, sono quindi relativamente ancora ben studiabili, attraverso le suppellettili domestiche, che consentono di datare con una buona approssimazione i contesti stratigrafici e di distinguerli dal punto di vista sociale e culturale, i decenni a cavallo del VII secolo, quelli che coincidono con il periodo più buio (quanto a documentazione!) degli storici. L'opportunità di costruire, almeno per alcune città, modelli sulle trasformazioni intervenute nei primi tempi dalla conquista, acquista poi un particolare rilievo, se si considera che furono caratterizzati dalla necessità, per i Longobardi, di stabilire un saldo potere sul territorio, attraverso un'occupazione, á tratti violenta, che mantenne caratteri militari, come ha opportunamente ribadito Gasparri (GASPARRI 1990), fino alla metà del VII secolo. Decenni che si presentano, ad una lettura storica (DELOGU 1980) con un contraddittorio alternarsi di aspetti di continuità e di cesura con l'età precedente. Una prima fase vede l'inarrestabile e facile occupazione di molte città da parte di Alboino, in cui episodi di benevolenza (è il caso della pacifica sottomissione di Treviso) e di umanità (nei confronti di Pavia, i cui cittadini hanno salva la vita) si alternano ad altri che sembrano adombrare quantomeno una diffidenza nel confronto dei nuovi arrivati e che consigliando alla fuga i vescovi di Grado e di Milano, unitamente, è credibile, ad una parte dell'aristocrazia; una seconda, con Clefi e soprattutto durante l'interregno, fa seguito all'uccisione di Alboino e comprende la conquista di nuove città, è accompagnata da episodi di saccheggi, distruzioni, fughe ed eliminazione di nobiles romani; una terza, con Autari, consente un primo consolidamento del regno, sorretto dall'imposizione fiscale, nei confronti dei romani, della tertia; ed infine, un'ultima fase durante la quale Agilulfo distrugge, almeno secondo le fonti, e smembra il territorio delle città poste a nord del Po (Cremona, Mantova, Padova) che rappresentavano un ostacolo al pieno controllo della Transpadana. Un periodo, lo ribadisco (BROGIOLO 1987: contra LA ROCCA 1989) che costituì una sorta di filtro per l'urbanesimo altomedievale, dal quale usciranno, relativamente al Regno, come sedi del sistema politico-amministrativo, una ventina di città di antica fondazione e altrettanti castra, quei centri che le fonti coeve chiamano civitates, accomunando nel medesimo appellativo sia centri di indiscussa tradizione urbana ed abitati di modesta entità; il che non può non farci riflettere sul significato di luogo di potere che i contemporanei gli attribuivano. Le fonti scritte non consentono peraltro di andare molto al di là di un'affermazione di continuità urbana, intesa come luogo di difesa e sede dei poteri civili e religiosi e degli entourages che ne dipendevano. Rimane soprattutto impossibile una stima del fenomeno, oltre che nella sua evoluzione
urbanistica ed edilizia e nella sua reale consistenza demografica, anche nei modi in cui i centri di potere alimentavano le proprie risorse e in rapporto alla presenza di ceti sociali urbani produttivi, il che significa determinare se il consumo della città fosse o meno parassitario, dipendendo (e in quale misura) da risorse originate nella campagna e raccolte attraverso contributi impositivi (DELOGU 1990). La potenzialità dell'urbanesimo di area longobarda andrebbe inoltre verificata in modo peculiare, più che alla luce del declino e della definitiva scomparsa di numerose città romane, fenomeno, che, iniziando nel III secolo, precorre il periodo che stiamo esaminando, o dell'eclissi temporanea delle città conquistate da Agilulfo e da Rotari, nell'evoluzione dei centri emergenti. Sia dei castra (BROGIOLO-CANTINO-WATAGHIN in questo stesso convegno), destinati, in questo periodo, ad assumere un inedito ruolo politico e amministrativo che ben rifletteva il rnodello militare dell'occupazione longobarda che delle città di antica fondazione, particolarmente di quelle che vennero occupate nella prima fase e formarono, forse per una migliore coesione tra germani e romani (BOGNETTI 1959), 1'elemento più vitale del sistema di potere longobardo in Italia settentrionale. Su queste si sono venute infittendo, grazie alla diffusione dei metodi dell'archeologia urbana, informazioni su molti aspetti dell'urbanesimo altomedievale: continuità o meno delle infrastrutture e degli edifici della città antica; localizzazione degli insediamenti germanici e delle sedi di potere pubblico (palazzo ducale e successivamente, a partire da Autari, del centro amministrativo dei beni fiscali del sovrano); ubicazione del centro episcopale, delle cattedrali e, dalla metà del VII secolo, dei monasteri urbani; disposizione e percentuale, nei diversi isolati, delle parcelle edificate rispetto a quelle di altra destinazione; tecnologia delle nuove costruzioni; indicatori di attività produttive e commerciali. Longobardi e romani: nuovi dati per Brescia e Milano Brescia e Milano, dopo le ultime intensive indagini archeologiche, che hanno permesso di confermare alcune ipotesi e di avanzarne altre, costituiscono un buon campione e possono perciò essere riproposte, come già fece il Bognetti trent'anni orsono, a modello delle trasformazioni avvenute in una città longobarda, che le fonti ci indicano di primaria importanza: Milano, sostanzialmente la capitale del regno con Agilulfo; Brescia, patria di due re che, come afferma Paolo Diacono (H.L.,V, 36), “magnam semper nobilium Langobardorum moltitudinem habuit”. Brescia La città romana occupava un pentagono, di ca. 80 ettari, che dal colle Cidneo scendeva al pedemonte, sviluppandosi verso sud per un'ampia fascia urbanizzata, oltre la quale si situavano le necropoli. Se costituisce un problema irrisolto l'andamento, in piano, delle mura di età augustea, di cui si conservano invece alcuni tratti sui versanti del colle, quel che è certo è che le fortificazioni tardoantiche o di età gota riorganizzano completamente l'assetto urbanistico. Rimangono fuori dalle mura gli isolati meridionali; ad ovest, al contrario, vi è un allargamento che ingloba un edificio pubblico, interpretato in origine come horrum, ma che, senza dubbio, almeno in età longobarda fu sede della corte ducale; la sommità del colle, occupata da un tempio e da cisterne d'acqua, venne riconvertita in luogo di culto (nel VI secolo: PANAZZA 1988; tra VI e XI: BREDA 1987). Nei pressi, sorsero un impianto termale (VI sec.: BREDA 1988-89) e abitazioni private (BREDA 1983). Il Panazza ha avanzato l'ipotesi che il complesso avesse una funzione militare, ipotesi, che sebbene non provata, sembrerebbe plausibile se inquadrata nel generale intervento di riassetto strategico della città. Corollario di questa trasformazione fu anche la costruzione di un porto a sudest della città (M~RAsEL~A-RosERT~ 1963), alimentato quasi certamente dal Garza, deviato ad est a protezione del percorso pedemontano delle mura. Porto al quale attraccavano le navi dei comacchiesi e che concretizzò per tutto l'altomedioevo un riferimento del paesaggio urbano di Brescia.
Gli isolati della città longobarda, limitati ad una parte della superficie interna del perimetro difensivo, potevano àpprossimativamente estendersi su 25 ettari, un terzo dell'area urbanizzata in età primoimperiale. Non conosciamo tuttavia in modo esauriente le fasi (progressive ?) di riduzione dell'area abitata e abbiamo elementi contraddittori che non ci consentono di stabilire i tempi di abbandono del settore a sud delle mura tardoantiche, ove continuarono ad essere utilizzate tre chiese paleocristiane (S. Faustino adsanguinem, S. Lorenzo e S. Alessandro: PICARD 1988). Una piccola necropoli di fine III-inizio IV sec. (MARIOTTI 1990a; EAD. 1990b: contra, per una posteriorità dell'edificio rispetto alla necropoli, Rossi 1988-89), appena fuori le mura, attuale corso Magenta, nell'area di una vasto edificio pubblico, sembrerebbe indicare un precoce abbandono, analogo nella cronologia e nelle cause (rafforzamento del sistema di difesa che comporta l'abbandono dei quartieri periferici) rispetto a quello riscontrato in altre città (ORTALLI 1992; ARSLAN-CAPORUSSO 1991, I, p. 355 per Milano; GELICHI in questo stesso convegno). Abbandono che tuttavia non fu generalizzato: lungo la strada (attuale via Calini), sulle fondazioni romane si imposta un edificio con muro legato da argilla e palo verticale incluso (GERSOMINI 1992) simili a quelli di S. Giulia e del Castello (BROGIOLO 1989). Ci fu dunque un notevole restringimento della superficie abitata, ma non credo che tale evento abbia comportato un proporzionale calo demografico, pur se non è da dubitare che la Brescia altomedievale fosse meno popolata di quella romana: negli isolati orientali, a nord del decumano, le capanne, distribuite fittamente, potevano essere abitate da un numero superiore di persone rispetto alle domus, mentre altrove la presenza di orti e spazi liberi, caratteristica comune a tutte le città altomedievali, è indizio indiscutibile di una riduzione degli abitanti. Si va invece delineando con una certa forza una tripartizione funzionale dell'abitato all'interno delle mura, evidenza che consente di riproporre con maggior dovizia di argomenti ipotesi prospettate da alcuni studiosi, sia per Brescia che per altre città (CAGIANO 1974), circa le modalità di insediamento longobardo. Alla fine del VI secolo, a est del Foro, in un settore urbano che si sviluppa fino alla cinta difensiva e che è occupato in età romana da ricche domus, abbiamo, dopo una crisi edilizia nel corso del V secolo e un parziale recupero in età gota, una sequenza che si caratterizza in modo differente nei comparti posti rispettivamente a nord e a sud del decumano massimo. A nord, nell'area del Capitolium, del teatro e delle domus degradate di S. Giulia e dell'Ortaglia, fino alle mura urbiche, si insedia un gruppo di persone culturalmente omogeneo: procede ad una sistematica riutilizzazione dei ruderi, alterandone tuttavia i piani d'uso; costruisce le proprie case, distribuendole sia all'interno degli isolati che lungo le strade (una quindicina quelle scavate su un campione pari ad 1/10 dell'area potenzialmente disponibile per 1'insediamento); impiega tecnologie costruttive assai povere; scarica i rifiuti all'interno delle abitazioni e nei cortili provocando un'ininterrotta crescita dei piani d'uso; seppellisce presso le case, in tombe che, in alcuni casi, contengono corredi longobardi, anche se mancano del tutto le armi; presenta antropologicamente caratteri germanici ibridizzati; utilizza, come suppellettili da mensa, oltre alle grezze, anche ceramiche longobarde; vive su aree che, in gran parte, nel 750 sono indicate come appartenenti al fisco regio; è impegnato in attività metallurgiche (MANNONI et al. 1992). Evidenza questa che non può non richiamare la notevole disponibilità di minerale ferroso, proveniente dalle Prealpi bresciane, che il monastero, erede del fisco regio e ducale, aveva ancora alla fine del IX sec., sì da farne uno dei cespiti economici più rilevanti nonché uno dei caposaldi del suo potere politico (PASQUALI 1992). L'insieme di queste informazioni mi sembra si possa sintetizzare in una ipotesi verisimile: che in questo settore urbano si fosse insediato, fin dai primi anni della conquista e su beni pubblici, un gruppo alloctono, composto da alcune centinaia di persone di cultura longobarda che si può ritenere fossero, per l'assenza di armi nelle sepolture e la povertà degli edifici, di basso rango sociale, forse servi legati ai beni fiscali, impegnati, oltre che nella metallurgia, produzione strategicamente vitale per la forgiatura di armi e di utensili, anche in attività agricole e di allevamento che interessavano l'area a sud del decumano.
In questo comparto meridionale, gli edifici romani e di età gota, vengono utilizzati, seppur in modo degradato come è emerso dallo scavo di via Alberto Mario (BROGIOLO 1988), fino alla fine del VI secolo (termine post quem sigillata Hayes 105). Gli strati di crollo di questi edifici, lasciati in sito, sono poi ricoperti da una spessa coltre di limo fine fortemente organico. Non è l'evidenza di orti adiacenti alle abitazioni, ma, per l'omogeneità e l'ampia estensione, confermate da una sezione nord-sud dal decumano fino alla cinta, si può interpretare come una stratificazione formatasi su tutta l'area per un identico processo di pedogenesi. Tradotto in termini urbanistici, significa che, una volta eliminati i resti di edifici superstiti, si intervenne in modo radicale, forse perché l'area, lasciata libera dagli antichi possessori, era pervenuta nelle mani di un solo proprietario. Nell'XI secolo, l'intera zona appartiene al monastero di S. Salvatore ed è descritta come braida idificata. Mi sembra si possa perciò prospettare l'ipotesi che fosse proveniente, come quella a nord del decumano, dalle cospicue donazioni fatte dal re Desiderio (ANDENNA 1992), compendiariamente citate, anche se non è del tutto certo se si tratti delle sole proprietà urbane, in un documento del 760 (CDL, III,1, n. 33; PASQUALI 1992, p. 134) come “omnia et in omoibus mobilibus et inmobilibus rebus simul cum animalibus, bovibus, bubulcis, familiis utriusque sexus ibidem pertinentibus”. Un insieme di proprietà rurali all'interno delle mura pertinenti, secondo una plausibile eongettura del Pasquali (PASQUALI 1979), a quella corte in civitate descritta, alla fine del IX secolo, nel Polittico, il noto censimento delle proprietà del monastero. Mi sembra perciò si possa ragionevolmente concludere: primo, che l'inserimento di un gruppo longobarda nord del decumano abbia avuto come corollario la formazione di un'area rurale a sud dello stesso; secondo, che tali interventi siano avvenuti in un'area di proprietà del fisco regio; terzo, che, sulla scorta dei dati di scavo di S. Giulia e di via Alberto Mario, l'intervento vada collocato nella prima fase della conquista; quarto, che l'insieme delle proprietà fiscali pervenute al monastero di S. Salvatore poco oltre la metà dell'VIII secolo, salvo l'isolato occupato dagli edifici monastici, continuò ad essere organizzato in una corte rurale e a caratterizzare il paesaggio urbano di Brescia fino all'XI secolo. Sul lato opposto della città, ad occidente, in un ridotto fortificato che si protende, come un cuneo, al di là del percorso delle mura augusto e, si stabili ch e invece la corte ducale in un palazzo che ho recentemente (BROGIOLO 1993) proposto di identificare in un edificio malamente scavato negli anni Trenta e finora interpretato come criptoportico romano. Pur mancando una datazione dell'edificio, preesistente allo stanziamento ducale, ritengo sia da rigettare tale proposta: la pianta ad ali ricorda infatti analoghe costruzioni palaziali di età gota; rimase in uso per tutto l'altomedioevo; in contiguità, venne poi costruita una chiesa intitolata a S. Ambrogio, che nelle carte bassomedievali viene ubicata In base a questa ricostruzione, l'ipotesi che le corti ducali e regie fossero ubicate presso le porte della città, prospettata per Milano (CAGIANO 1974) e Pavia (HUDSON 1987), troverebbe dunque un parallelo anche a Brescia. Si confermerebbe inoltre, almeno per le fasi iniziali della conquista, una separazione etnica tra longobardi e romani. Nel mezzo, tra il Foro ed il centro episcopale, vi è una terza zona che non è stata sinora oggetto che di parziali interventi archeologici. Vi è però da osservare che: mostra una buona sovrapposizione del reticolato stradale attuale su quello romano; rivela, forse anche per la presenza stabilizzante del complesso delle cattedrali e dell'episcopio, una minor crescita dei livelli d'uso nel corso dell'altomedioevo (ad esempio, le quote del pavimento del Duomo Vecchio, dell'XI secolo, sono superiori di solo mezzo metro rispetto a quelle romane); presenta alcune rasature di muri romani ad una quota tanto elevata da farne ipotizzare un uso prolungato; era attraversata, nella parte più settentrionale dal nuovo acquedotto, costruito nel 761 (CDL, II, 151-153, 158), che si sviluppava su modeste parcelle occupate da orti, piccole case e chiese, con una frammentazione della proprietà che contrasta con quanto si è visto nel settore orientale della città. Se l'attestazione contenuta in una lettera di Gregorio Magno (IV,37), che annota la presenza, nel 593, di cives romani con capacità di organizzazione e di libera espressione, quantomeno nelle questioni religiose, dipingono, come tutto lascia credere, uno scenario veritiero, è possibile che tali cives
continuassero a vivere in questi quartieri, stretti attorno all'episcopio, utilizzando ancora edifici romani o tardoromani, secondo un modello che possiamo ipotizzare simile a quello di via Oante a Verona, dove edifici di V secolo, già radicalmente diversi, per tecnologia più povera e pianta elementare, da una domus romana, si affacciano su una strada e sono usati, pur con successive sopraelevazioni del piano d'uso, fino all'XI secolo (HUDSON 1985). Una situazione simile è documentata a Bergamo, in piazza Rosate, dove una domus romana è occupata almeno fino al VII sec., con partizioini interne in muratura (FORTUNATI 1990). Milano Un panorama, per alcuni versi, analogo, anche se più frammentario rispetto a quello del campione bresciano, presentano i grandi scavi, eseguiti in occasione della costruzione della linea 3 della metropolitana, pubblicati con grande tempestività in una monumentale edizione. Le indagini hanno interessato un campione di 9 siti, distribuiti lungo un asse Nord-Sud che attraversa il centro e le aree periferiche della città romana. In questa città, l'insediamento periferico è già in crisi nel V secolo; la via porticata è demolita alla fine di quel secolo o all’inizio del successivo; anche i quartieri in prossimità delle mura sembrano seguire la medesima sorte: in piazza Missori, la fogna stradale va in disuso; gli edifici che fiancheggiano la via vengono demoliti e il basolato e ricoperto “ da un battuto di limo e macerie ” (ARSLAN-CAPORUSSO 1991, p. 357). Maggior continuità si ha in un'area centrale (attuale piazza Duomo), nei pressi della grande basilica paleocristiana di S. Tecla; qui, dopo una ripresa edilizia ed il rifacimento di un basolato stradale in età gota, segue, nel corso del sesto secolo, un uso degradato dell'edificio con tramezzi lignei e pavimenti in semplice battuto. Solo alla fine del secolo, non resta più traccia di strutture edilizie in muratura, spogliate per un recupero integrale dei laterizi. Anche la strada viene sepolta sotto uno spesso strato di macerie. Le nuove costruzioni, della fine del VI-inizi VII, sono integralmente in legno e potrebbero riflettere il passaggio ai Longobardi del controllo della città (PERRING 1991, l, p. 158). Nel corso del VII secolo, l'intera area è ridotta a coltura o a giardino, forse in connessione con gli edifici ecclesiastici circostanti S. Tecla (PERRING, ivi). Queste sequenze sarebbero emblematiche, nel giudizio degli scavatori, di una “ decadenza drammatica di tutto il complesso urbano” (ARSLAN-CAPORUSSO 1994 p. 357). In realtà, pur se i dati dei singoli siti appaiono incontrovertibili e portano un grosso contributo alla conoscenza dell'evoluzione di un'area centrale della città, è forse prematuro generalizzarli (BAARETTI 1991), soprattutto perché i risultati di altri, pur importanti scavi, non sono ancora pubblicati. Le notizie preliminari finora edite di due grandi scavi eseguiti nell'area del Foro, cuore della città rornana e altomedievale, non consentono infatti di pervenire ad una conclusione: processi di stratificazione sono analoghi a quelli degli scavi della Metropolitana, ma non sono state fornite puntuali cronologie delle sequenze altomedievali. La parte meridionale della piazza del Foro, in cui il lastricato comincia ad essere asportato nel V-VI secolo (CERESA MORI et al. 1990) risulta occupata, probabilmente nell'altomedioevo, da abitazioni private, ma “mancano (...) elementi che consentano di stabilire a quale secolo se ne possa far risalire la definitiva scomparsa” (ivi). L'area dove si trovava l'edificio della zecca, affacciato sul lato orientale del Foro, sarebbe stata invece in declino fin dalla fine del V secolo, quando vengono demoliti un tratto del fognolo e del basolato stradale (CERASA MORI et al. 1987), ma non è chiaro cosa sia successo in seguito. Le sequenze ricostruite dall'archeologia urbana a Brescia e a Milano sono dunque, pur nell'incertezza lasciata da alcune relazioni di scavo, in larga misura confrontabili. In entrambe troviamo processi di degrado delle infrastrutture e degli edifici romani. Alla fine del VI secolo, con l'inserimento dei Longobardi, le trasformazioni si acuiscono: da un lato, nuove costruzioni tecnologicamente rudimentali, dall'altro sviluppo, con processi pedologici che saranno ulteriormente da indagare (per accumulo di rifiuti o per sistematico riporto di terreno agricolo?), di aree rurali, non solo orti, ma, come si è dimostrato archeologicamente a Brescia, anche estese zone che contribuiscono a darci
l'immagine di una città del primo altomedioevo ridotta ad isole edilizie, intercalate da molti spazi liberi. Un panorama dunque nel quale vi sono per ora solo indizi, ma non prove, di una persistenza nell'utilizzo dell'edilizia privata tardoromana, che pur, come abbiamo visto, si ritrova, seppur in modo sporadico, in altre città: non è per ora possibile dire se ciò sia dovuto alla casualità delle ricerche, che si sono concentrate in alcuni quartieri, o al fatto che tale continuità era eccezione più che norma. Sorprende anche, nel campione sempre più rappresentativo fornito dall'archeologia, non solamente in queste due città, ma nell'intera Padania longobarda, l'assenza di nuovi edifici di buona qualità, appartenenti al ceto dei funzionari e nobili, quali quelli di area bizantina, testimoniati, ancora nel VII secolo per Rimini e Ravenna, dalla documentazione scritta e da quella archeologica (ORTALLI 1991). Conclusioni Sulla città nei primi decenni della conquista longobarda, disponiamo ora di un insieme di informazioni che, pur frammentarie, delineano un'accelerazione, nell'ambito di processi di lunga durata, verso un modello di città parzialmente ruralizzata e con un'edilizia in larga misura tecnologicamente povera. Come queste trasformazioni incidano sulla struttura economica, demografica e sociale delle città del Regno è problema ancora aperto, sul quale potrà gettare parzialmente luce solo l'archeologia, lavorando lungo due direttrici di ricerca: I'edilizia, considerata non tanto come storia dell'architettura, quanto piuttosto come riflesso di condizioni sociali e di organizzazione dell'artigianato ad essa collegabile, é la più tradizionale storia dei manufatti, vista non solo come evoluzione di tecniche e di tipi, ma soprattutto come riflesso di produzioni e commerci. Quanto alla prima, accanto alla generalizzata presenza di edilizia povera, realizzata verisimilmente in ambito familiare (BROGIOLO 1989), trova altresì sempre più numerose conferme, salvo che per aree marginali, la persistenza di fornaci, in cui venivano cotte almeno le tegole di copertura che non potevano essere reimpiegate in frammenti. Oltre ai ben noti bolli delle figline regie, sempre più numerose si fanno infatti le datazioni di laterizi all'età longobarda attraverso la termoluminescenza (Pavia; Trino: NEGRO PONZI in stampa; Castelseprio; Terno, Milano ecc.). Mancando lavori sistematici, è però impossibile stabilire in che percentuale il laterizio nuovo incidesse rispetto a quello riutilizzato. E rimane anche inevasa la questione se questo lavoro, che richiedeva conoscenze tecnologiche ben precise, fosse stanziale o, come l'artigianato edile dei magistri commaci ricordati, qualche decennio dopo, nell’Editto di Rotari (MONNERET DE VILLARD 1920; BOGNETTI 1968) e come altre lavorazioni specialistiche, venisse svolto da maestranze itineranti che si spostavano là dove la committenza privilegiata richiedeva restauri o nuove costruzioni di buon livello tecnologico. Quel che è evidente è che i laterizi altomedievali hanno caratteristiche di cottura più grossolane rispetto all'età romana, a causa dell'impiego di forni precari con scarsa areazione, il che parrebbe suggerire un lavoro svolto occasionalmente in forni a fossa. Sulle suppellettili di uso quotidiano, anche dopo la pubblicazione degli scavi della metropolitana di Milano non sono cambiate le conclusioni cui si era pervenuti attraverso gli scavi di Brescia (BROGIOLO 1984, 1988). Dopo il V secolo, sono assai rare le attestazioni di sigillate da mensa, (ROFFIA 1990), sì da far dubitare che fossero oggetto di mercato diffuso. Mentre per le anfore scanalate orientali, la presenza, anche in livelli di prima età longobarda, non può essere considerata sicura, in quanto tali strati denunciano di norma una forte residualità ( sintomo di rimaneggiamenti delle stratificazioni più antiche) e al contempo le anfore non mostrano variazioni tipologiche o di manifattura, attualmente apprezzabili, dal IV al VII. Non c'e quindi la prova, per l'area padana, di quella ripresa dei commerci che accompagna, nelle zone costiere, la riconquista bizantina e che garantisce un afflusso di merci esotiche fino al VII secolo.
Elesta da chiarire se tale tendenza sia più il frutto della crisi delle rotte commerciali o dell’assenza di domanda, a seguito della rarefazione della ricchezza urbana. Anche le invetriate che, come sostituti dalle sigillate, vedono nella prima metà del secolo un deciso incremento, sia nelle forme che in termini percentuali, si avviano ad un rapido declino nella seconda metà e non ne è accertata con sicurezza la sopravvivenza in quello successivo. Con i Longobardi si diffonde invece, almeno per una quarantina d'anni, la tipica ceramica pannonica decorata a stampiglia e stralucido, presente in contesti insediativi, più di area urbana ehe rurale. Per questa, rimane il dubbio di una sua reale circolazione sul mercato: la sua ampia diffusione nell'area longobardizzata di Brescia potrebbe sottolinearne una caratterizzazione etnico culturale per un autoconsumo. Il solo tipo ceramico di cui è sinora accertata la continuità (BROGIOLO GELICHI 1986) è quello delle grezze di tradizione romana e su di esse occorrerà lavorare, in modo più approfondito di quanto si sia fatto sinora, per cercare di chiarire se esistano e quale delimitazione abbiano i relativi mercati. In particolare se ne risulti un rapporto di interscambio città-contado o linee di penetrazione più legate a sistemi economici chiusi. Unitamente alla pietra ollare alpina che, in sostituzione dei recipienti da fuoco metallici, raggiunge capillarmente tutta l'area padana, sia longobarda che bizantina (BOLLA 1991), le grezze rappresentano la sola traccia archeologica conservata. Certo non disponiamo di dati sulla produzione tessile, né su quella alimentare (a S. Giulia vi sono buone campionature, in attesa di studio), né sui material'deperibili (legno e cuoio) che dovevano costituire la gran parte degli articoli commerciati, e pertanto un giudizia complessivo sull'economia delle città longobarde, almeno fino al VII secolo, è fuori dalla nostra portata. E del resto una valutazione sulla sola base delle suppellettili domestiche sarebbe oltremodo fuorviante: è sufficiente riflettere sul fatto che, a nord del Po, almeno fino al XIII secolo, continuano ad essere esclusivamente rappresentate da grezze e pietra ollare. Queste non incarnano più un indicatore economico come nelle società classiche, ma sono divenute una variabile indipendente dalla struttura economica delle città. GIAN PIETRO BROGIOLO
Ho riutilizzato questo contributo, che coincide con il testo letto al convegno, in una monografia su Brescia altomedievale (BROGIOLO 1993). Bibliografia ANDENNA 1992 - G.C. ANDENNA, Il monastero e l’evoluzione urbanistica di Brescia tra Xl e XII secolo, in (Atti del convegno, Archeologia, storia e arte di un monastero regio dai Longobardi al Barbarossa), Brescia 4-5 maggio 1990, pp. 93-118. ARSLAN-CAPORUSSO 199 1—E. ARSLAN CAPORUSSO, I rinvenimenti archeologici degli scavi nel contesto storico diMilano, in CAPORUSSO lggl, pp. 3S1-358. BALZARETTI 1991 —R. BALZARETTI, History, archaeology and early medieval arbanism: the north Italian debate, “The Journal of the Accordia Research Centre”, 2, pp. 87-104. BOLLA 1991 - M. BOLLA, Recipienti in pietra ollare, in CAPORUSSO 1991,3.2, pp.11-37. BREDA 1983—A. BREDA, Brescia Castello, “NSAL”, pp. 78-80. BREDA 1987 - A. BREDA, Brescia Castello. Scavo nel piazzale Mirabella, “NSAL”, pp. 107110. BREDA 1988-89—A. B REDA, Brescia CIastello, cortile del mastio visconteo, “NSAL„, pp. 239-241. BOGNETTI 1959—G. P. B OGNETTI, Problemi di metodo e oggetti di studio nella storia delle città italiane dell'alto Medioevo, in VI sett. di studi Spoleto 1958, Spoleto, pp. 59-87. ripubbl. in L'età Longooarda, IV, pp. 221 -250.
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Le città in Emilia-Romagna tra tardo-antico ed alto-medioevo
1. L 'area geografica L'attuale circoscrizione amministrativa regionale coincide pressappoco con l'antica distrettuazione augustea della Regio VIII Flaminia-Aemiliat che, come sappiamo, aveva valore esclusivamente statistico:. Tale suddivisione rifletteva una unitarietà che prima di essere culturale era geografica: il Po a nord, gli Appennini a sud e il mare Adriatico ad est. A partire dal II secolo, però, e soprattutto nel momento della creazione della diocesi italiciana da parte di Diocleziano, il governo centrale, in una politica di progressiva ingerenza sulle autonomie locali, non mancò di accorpare e spostare territori di quella che un tempo era stata l'Aemilia; si venne così a creare una demarcazione fra l'area occidentale della regione e quella orientale, che tenderà a consolidarsi in età longobarda e a stabilizzarsi nella successiva epoca franca. Così la regione, nel primo alto-medioevo, era politicamente e culturalmente suddivisa in due grandi aree: la Langobardia, che unificava i territori occidentali, Bologna compresa, i quali gravitavano o avevano finito col gravitare, con le ultime conquiste di Liutprando, nell'orbita del regno longobardo; e la Romania, coincidente con le zone rimaste sempre in mano ai Bizantini (Pentapoli) e comprendente anche alcuni territori delle Marche attuali, che in età franca passarono sotto il diretto controllo del Patrimoniam Saneti Petri. Tali premesse giustificano, dunque, anche sul piano storico, un approccio che tenda ad affrontare il fenomeno urbano esclusivamente in questa porzione dell'area padana: non solo, ma da tempo parte della storiografia si è mossa a rimarcare i caratteri originali di questa antinomia, facendone uno dei temi di ricerca tra i più vivaci e stimolanti di questi ultimi anni. La vastità dell'area da indagare e la disomogeneità con cui si è mossa la ricerca archeologica, ci spingono tuttavia ad affrontare questo argomerdo privilegiando e discutendo criticamente innanzitutto gli elementi di novità emersi dagli scavi di questi ultimi anni. Inoltre alcuni temi, come quello delle sedi di potere, sono stati di recente ed esaurientemente trattati, nello specifico dell'ubicazione delle sedi episcopali, dalla Cantino Wataghin; su altri, ad esempio la dislocazione delle sepolture e delle necropoli, in relazione e non, con gli edifici di culto, si sta ancora lavorando per predisporre una base documentaria sufficientemente ampia ed attendibile. È poi evidente come una ricostruzione complessiva di tutti quegli aspetti che compongono la realtà materiale delle città di questa regione, oltre a non essere possibile, non può venire analiticamente discussa in questa sede, né un taglio puramente catalogico (cioè città per città) sarebbe utile ai fini di un seppur modesto tentativo di sintesi. 2. Città di antica fondazione, attandoni e nuove città Un primo problema che dobbiamo affrontare è quello della verifica di quante e quali città, di antica fondazione, sopravvissero tra l'antichità e il medioevo, e quante nuove vennero costruiteó, anche se la "scomparsa" e la "nuova formazione", come giustamente è stato rilevato, non sono che l'esito di immediata evidenza di un processo lungo e complesso. Punto di partenza può essere una cartina recentemente pubblicata da Ward Perkins, utile in quanto pone a confronto la nostra regione con il resto del nord della penisola(Fig. 1). La carta, benche incompleta risulta sufficientemente indicativa: su diciassette città menzionate come esistenti in un periodo compreso tra il 300 e 1'800 circa, solo due risultano completamente abbandonate in epoca tardo-antica. Ad una ulteriore analisi di dettalio, il numero dei centri dove le tracce antiche sono modeste o nulle risulta abbastanza ridotto: in quattro casi (Caesena, Forum Popili, Forum Livi e Fidentia, lungo la via Emilia):o, non vi sono ancora certezze circa la precisa ubicazione e la reale estensione dell'antico nucleo abitato rispetto a quello medievale e moderno, anche se non sembrano essersi verificati
spostamenti di rilievo. Nel caso di Mutina, invece, I'ubicazione del centro antico è abbastanza ben conosciuta ma, nello stesso tempo, si è accertato uno spostamento verso occidente, che inglobò solo parte dell'abitato romano. La situazione dell'antica colonia di Modena deve però essere vista in relazione alla sua posizione nevralgica nella prima età longobarda: non può ritenersi infatti casuale che la città, per la quale si registra una certa ripresa, al pari di altri centri della regione, in età gota?~, fu interessata, come il territorio, da una profonda crisi, anche istituzionale, tra il regno di Agilulfo e quello di Cuniperto. Per sintetizzare, ed anche a confronto con il panorama del nord della penisola, se un elemento di "continuità" è innanzitutto da rilevarsi nella persistenza topografica di un sito, possiamo sostenere che l'antica Regio VIII risulta tra le aree più conservative, seppure in un generalizzato quadro di crisi dell'urbanesimo26. Individuare costanti univoche in questo andamento sostanzialmente positivo non è facile, in considerazione anche del fatto che i fenomenì ora rilevati, sia in termini di "abbandoni" che di "persistenze", si scaglionano lung~n percorso cronologico disomogeneo e si distribuiscono all'interno di un quadro socio-politico diversificato a seconda delle singole realtà territoriali, quali si erano venute a creare dopo il III sec. d.C.: quadro che incide in maniera talvolta non marginale nell'accelarazione o nella decelerazione di determinati fenomeni insediativi. Tuttavia, senza voler sottovalutare l'incidenza di altri fattori, mi sembra che le componenti politico-istituzionali ed economiche costituiscano gli elementi trainanti per giustificare una generalizzata tenuta degli organismi urbani nella nostra regione. Gran parte delle città, infatti, mantennero intatto il loro ruolo istituzionale, come sedi del potere pubblico ed ecclesiale, che in molti casi, nell'alto-medioevo, vennero spesso a coincidere. La creazione, quasi sempre precoce ed all'interno dell'abitato:~, di sedi episcopali, dovette favorire questo processo: tutte le città antiche sopravvissute furono infatti sedi di diocesi. Claterna nonostante le argomentazioni del Lanzoni, non fu mai centro episcopale2s; lo stesso vale per Veleia e per Tannetam. Unica eccezione Brixellum, sede vescovile già nel V secolo, abbandonata nel corso del secolo VIII o. Ma tale corrispondenza non è sempre automatica. La sopravvivenza è anche legata alle capacità che le città dimostrarono nel rispondere alle nuove esigenze3~: dove tali condizioni non si verificarono, una pur precoce presenza episcopale non fu da sola sufficiente a garantire la persistenza di un abitato, come nel caso di Vicus Haljentiae (vd. infra)~7. In questo senso la componente socio-economica non risultò affatto marginale. In un contesto generalmente contrassegnato da un ritorno ad un regime di autoconsumo (ed emblematicamente rappresentato dall'organizzazione curtense che si radicò soprattutto nella zona occidentale della regione in epoca franca), le città continuarono infatti a svolgere un ruolo non secondario nelle transazioni economiche e nella riconversione dei profitti; e questo soprattutto nell'area padana, dove la fitta rete idrografica favorì certamente quei collegamenti commerciali ampiamente testimoniati dalla circolazione delle merci, come traspare dalle fonti scritte e da quelle archeologiche. Inoltre, come sostiene giustamente Ward Perkins, le città nel nord Italia sopravvissero bene perché l'economia rurale, dalla quale le città inevitabilmente dipendevano, "sopravviveva inusualmente bene". Dunque, non è forse un caso che tra i centri di nuova fondazione della Regio VIII acquisirono sempre più rilevanza, fino ad assurgere al ruolo di vere e proprie città, quegli insediamenti che seppero ben presto divenire importanti e vivaci nodi commerciali, come Comacchio e Ferrara. Il primo, vero e proprio terminale dei commerci padani, contese a lungo l'egemonia dei traffici marittimi a Venezia, per esserne poi sopraffatto solo nel secolo IX3~; il secondo, sorto probabilmente in origine come castrum a difesa del limes esarcale verso gli inizi del VII secolo, seppe ben presto riconvertirsi in centro commerciale, palesando questa sua vocazione anche nello sviluppo urbanistico, col disporsi, vero e proprio emporio, lungo la sponda settentrionale del ramo principale del Po, di fianco al primitivo impianto castrense. Ma non è neppure un caso che ambedue i centri di nuova fondazione siano diventati ben presto sedi episcopali: Comacchio nel secolo VIII e Ferrara, a spese di VicusHabentiae, prima del X39. Diversa, ed emblematicamente corrispondente, la storia del terzo centro fondato nell'alto-medioevo nella Regio VI1I: la Civitas Geminana o Nova, nei pressi di Modena. Sito la cui creazione si fa risalire al re Liutprando, Cittanova divenne sede di un gastaldo, cioè un amministratore del fisco regio, in epoca longobarda, e residenza di un conte nella prima età
carolingia. Ma la rilevanza che l'abitato dell'antica M?`tina, da sempre sede dell’episcopio (che dovette accrescere sempre di più il proprio potere e prestigio nei secoli IN e X), costituì un forte elemento di disgregazione per lo sviluppo del sito, che non assunse mai veri e propri connotati di città e ben presto scomparve a discapito, anche sul versante demico, del riemergente antico nucleo urbano. 3. Lo spazio urbano Nella carenza di una documentazione archeologica che spesso si limita all'analisi delle esclusive testimonianze dell'età classica, un primo elemento che ci consente di riflettere sulla trasformazione degli abitati del primo altomedioevo, è la presenza e l'estensione dei perimetri murari. Non tutte le città di antica fondazione erano provviste di mura (e quando lo erano o caddero in disuso o furono successivamente modificate): così la realizzazione, quando attestata e documentata, di cinte difensive, rappresenta una prima, macroscopica e spesso tangibile testimonianza di un cambiamento in atto nel tessuto urbano. Poiché la realizzazione di tali intraprese edilizie~lascia resti materiali difficilmente: eludibili (a meno che non si tratti di strutture in materiale deperibile)~~, è questo il settore della ricerca archeologica su cui abbiamo più documentazione, e quello su cui la critica ha già avuto modo di riflettere da tempo: ma ciò non significa che sempre si sia arrivati a risultati definitivi sul piano della cronologia, della reale estensione di tali perimetri urbani e delle motivazioni che hanno promosso tali iniziative. Siamo tuttavia in grado di distinguere almeno tre casi diversi: 1. Città le cui mura furono costruite o ricostruite in epoca tardo-antica. 2. Città parzialmente rifortificate nell'alto medioevo. 3. Città che non furono mai cinte da mura (la cui presenza è al momento solo attestata per le fasi bassomedievali oppure è documentato un centro fortificato nei pressi che non è direttamente identificabile con l'antica città). Appartengono alla prima categoria centri come Piacenza, Parma, Brescello, Bologna, Rimini e Ravenna. Piacenza ha conosciuto almeno due fasi di fortificazioni: una prima databile all'epoca della colonizzazione e, una seconda, di recente individuata, attribuita molto genericamente ad età tardo-antica (Fig. 2). L'andamento di ambedue i perimetri urbani, per quanto meglio conosciuti di altre città dell'Emilia occidentale, non è stato identificato con certezza, anche se si tende ad ipotizzarne una sostanziale coincidenza, conseguenza, secondo una recente ipotesi, della particolare conformazione orografica del sito piuttosto che riflesso di una sostanziale stabilità dell'abitato~~. Parma conobbe una cinta muraria nel III secolo d.. (verso il 270), la cui erezione è stata messa in relazione con le pressioni delle popolazioni barbariche, in particolare gli Iutungis. Il nuovo perimetro avrebbe circondato un'area più ristretta rispetto a quella che, induttivamente, è stata collegata con l'espansione della prima età imperiale. Edifici pubblici posti in zone periferiche, come il teatro, costruito nel I secolo d.C., sarebbero stati precocemente smantellati per ricavare materiale da costruzione utili alla nuova fabbrica. Sulla cinta di Brescello possediamo solo notizie derivate da fonti narrative: sappiamo infatti che la città era provvista di difese da un passo di Paolo Diacono, il quale ci narra che le mura furono rase al suolo dai Longobardi tra il 584 e il 585-8. Più sicuro l'andamento e la cronologia delle mura di Ravenna, fatte costruire nella prima metà del V secolo da Onorio e Valentiniano, quando la città divenne capitale dell'Impero Romano di Occidente. L'unitarietà costruttiva di un percorso urbano eccezionalmente ancora conservato, è stata di recente e convincentemente riproposta da Christie e Gibson~s: nel nuovo perimetro urbano vennero inglobate esclusivamente le parti, meridionale e occidentale, della c.d. Ravenna quadrata, mentre il resto della cinta, di forma piuttosto irregolare, andava a chiudere un'area molto più ampia e che possiamo solo induttivamente ipotizzare come espressione di un'espansione edilizia della prima e media età imperiale. Anche l'andamento delle mura di Rimini è sufficientemente noto e ricostruibile con una certa attendibilità: esse cingevano l'intero perimetro urbano della città antica e la loro costruzione viene indizialmente datata verso la seconda metà del III
secolo. Bologna, infine, costituisce l'unico caso certo nel quale il perimetro andava a chiudere un'area sensibilmente ridotta rispetto all'estensione dell'abitato della prima età imperiale (Fig. 3). Se il circuito è oramai noto, anche in molti dettagli, grazie alle risultanze archeologiche, non unanime consenso vi è tra gli studiosi nei confronti della sua cronologia, che oscilla dalle proposte seriori del Finelli e dekdergonzoni (inizi V o seconda metà III secolo)S:' a quelle intermedie della Fasoli (fine V-inizi VI)s;, a quelle recenziori del Pini (fine VI-inizi VII)ss. Recenti dati archeologici consentono di collocare la c.d. cinta di selenite verso la fine del IV secolo (Fig. 4). Il secondo caso è rappresentato dalle città di Reggio Emilia e Modena, ricordate già da Ammiano Marcellino come oppidaS7' ma le cui testimonianze sulle mura sono piuttosto incerte. Per quanto concerne l'antica Regium Lepidi, tra il 1980 e il 1981, venne identificata una porzione di una cinta muraria nello scavo della banca Agricola Commerciale, ora Credito Romagnolo, ubicata direttamente a settentrione del tratto della via Emilia urbana. Il lacerto di muro, conservato solo in fondazione (a sacco di ciottoli di fiume legati con malta piuttosto povera), era largo circa m. 2 e sembra fosse provvisto di una torretta. Questa struttura, datata in un primo momento piuttosto genericamente, venne poi attribuita ad epoca tardo-antica, sulla scorta di confronti con mura del nord Italia. In questo caso, niente a che fare avrebbe con una porzione di cinta muraria, scoperta questa nel 1935, in prossimità dell'episcopio ed interpretata come, pertinente al castrum fatto erigere da un presule reggiano nel X secolo. Se il fatto che ambedue i tratti scoperti possano appartenere ad un'unica fase edificatoria resta problema aperto, è comunque certo dalle fonti scritte e dal ritrovamento del 1935, che una parte della città venne comunque rifortificata nell'altomedioevo. Anche delle presunte mura romane di Modena non abbiamo che labili indizi; è vero che la città venne "restaurata" dal re longobardo Cuniperto sul finire del secolo VIII, ma non è affatto sicuro che in quella circostanza siano state ricostruite, come si crede, le mura. Ancora secondo le fonti scritte, però, un perimetro difensivo, probabilmente costituito da soli terrapieni e fossati, chiudeva, nel IX secolo, la città che si era sviluppata intorno al nucleo dell'episcopio Il terzo caso è rappresentato, infine, dagli altri centri della regione. Cesena, la cui estensione dell'abitato in epoca romana è ancora incerta, viene citata nelle fonti tardo-antiche come corstrum ed è probabile che le difese siano state limitate al Garampo, un rilievo roccioso immediatamente a sud dell'abitato antico6s. Di Forlimpopoli non abbiamo alcuna informazione ma, se diamo credito alle parole di Paolo Diacono, dopo le distruzioni di Grimoaldo, il centro era pressocché disabitato66. Forum Corneli non risulta provvista di mura ma, dal IX secolo, è documentato un castello (Castrum Imolas ancora secondo l'indicazione di Paolo Diacono)67, che si ritiene ubicabile a sud del fiume Santerno, sulle prime propaggini collinari. La sua costruzione, tradizionalmente riferita al Longobardi, è stata invece di recente attribuita ai bizantini. Tuttavia è da rilevare una precoce e stanziale presenza di Longobardi in questi territori almeno a partire dall'ultimo quarto del VI seeolo70. I dati archeologiei, infatti, documentano una importante necropoli in podere Cardinala7~, non molto distante dal Monte Castellaccio, dove già nel secolo scorso furono rinvenute sepolture alto-medievali7z e sito tradizionalmente, e convincentemente, ritenuto sede del castrum Imolas (vd. supra). Ai Longobardi viene poi erroneamente assegnata anche la presunta distruzione dell'antica città, all'incirca negli stessi anni73: ma la fonte ravennate che ne parla è stata male interpretata e la ipotizzata distruzione della città viene destituita, dunque, di qualsiasi fondamento. Acquista allora altro rilievo, e piena coerenza con quanto riportato anche da Andrea Agnello, la menzione, in Paolo Diacono, di Forum Corneli tra le locapletibus urbis della regione. L'ipotesi che si fa strada, dunque, sembrerebbe vedere la presenza, negli anni tra l'ultimo quarto del VI e il primo quarto VII secolo, di un consistente nucleo di Longobardi, cui sarebbe anche da attribuire l'attribuzione del nome (se non addirittura la fondazione) del castrum Imolas. Tornando al problema delle fortificazioni sappiamo che l'episcopio, che almeno dal secolo IX si trovava fuori dell'antico centro abitato, sarà incastellato solo a partire dagli inizi del secolo XI e, in questa prima fase, I'apparato difensivo sembra circoscrivere esclusivamente gli edifici adibiti al culto e non l'intera area abitata.
Il quadro appena delineato, pur con alcune incertezze che derivano da una documentazione non ancora sufficientemente chiara, ci consente di avanzare alcune ipotesi interpretative. L'attività edificatoria è circoscrivibile a due specifici momenti della storia della regione, e cioè un primo periodo compreso tra il III e gli inizi del V secolo, e un secondo, compreso tra il IX e l'XI secolo. Il primo periodo coincide con una fase di forte instabilità, politica, istituzionale e militare, in cui la regione cade dopo 1a 1unga pax della prima età imperiale. L'anarchia militare e le forti pressioni, che d'ora in avanti esercitano le popolazioni barbariche, spingono alla realizzazione di opere difensive, costruite in tempi abbastanza brevi e facendo ampio uso di materiale di reimpiego. Tuttavia si tratta di intraprese realizzate ancora con una certa attenzione e cura, come testimoniano, ad esempio, le frequenti presenze di elementi aggiuntivi, quali le torri. Ma quello che qui interessa è sottolineare come, con l'eccezione del caso di Bologna, e forse di Parmaso, nessuna delle altre situazioni mostra caratteristiche tali da rilevare, insieme con la costruzione delle mura? un abbandono o decadimento di una porzione consistente della città. E anche possibile che una lettura cronologicamente frazionata dei singoli casi possa meglio giustificare questa discrasia: cioè gli episodi di Parma, Rimini e Ravenna (il primo e il secondo databili nella seconda metà del III, il terzo agli inizi del V) potrebbero anche spiegarsi con un atteggiamento previsionale di rioccupazione (Parma e Rimini) o di nuova occupazione legata ad un avvenimento eccezionale (Ravenna), dell'antico spazio urbano, mentre la costruzione delle mura bolognesi avverrebbe in un momento in cui la crisi dell'urbanesimo antico (fine IV secolo) sarebbe divenuta oramai irreversibile e tale, dunque, da sconsigliare un perimetro urbano ben oltre le effettive aree insediate da proteggere. Tuttavia tutto questo dimostra come la presenza di un elemento fisico quale quello delle mura, non può essere considerato, da solo, a giustificare una lettura corretta degli sviluppi urbanistici e demografici della città tardo-antica. Inoltre la cronologia di tutte queste intraprese edilizie attesta inequivocabilmente come i processi di trasformazione degli organismi urbani fossero già in atto nel corso del III secolo, come per altri versi dimostrano altre risultanze archeologiche di cui parleremo nel paragrafo seguente. La seconda fase edificatoria, ben identificabile nei casi diMutina e Regiam Lepidi, sembrerebbe documentare un momento di effettiva, anche se non generalizzata, contrazione insediativa di alcuni di questi centri. Nel caso di Modena la realizzazione di un sistema difensivo si data con il vescovo Leodoino, nell'89 1, il quale viene autorizzato a cingere di fosse e steccati 1'area dell'episcopio per l'estensione di un miglio. Per quanto riguarda Reggio è invece il vescovo Pietro che nell'ottobre del 900 ottiene dall'imperatore la facoltà di fortificare, anche lui, la zona dell'episcopio. Se non è un caso, dunque, che ambedue le intraprese edilizie siano promosse e volute dall'autorità vescovile, I'unica che in questo periodo riuscisse a ricondurre ad unità il frázionato potere ecclesiastico e temporale, nello stesso tempo dobbiamo anche rimarcare come tale specifica connotazione ridimensioni fortemente una interpretazione per così dire 'restrittiva' dell'area urbana realmente insediata. Tali iniziative, infatti, che trovano ad esempio un pèndant nella fortificazione dell'episcopio imolese di qualche anno più tarda, sembrano rientrare, più generalmente, in quel fenomeno di protezione che molte sedi episcopali conoscono proprio in questo periodo. Ed è significativo che nelle fonti reggiane, a partire dal secolo XI, si distingua tra castrum e civitas vetus, dove non vedrei necessariamente, in quel civitas vetus, un riferimento ad un'area abbandonata, bensì esclusivamente ad una porzione dell'abitato (antico) rimasta esterna alla zona effettivamente fortificata. 4. Lo spazio urbano: le città e 1'edilizia abitativa Da quanto esposto in precedenza appare dunque abbastanza evidente come, per conoscere lo sviluppo urbanistico dei centri abitati altomedievali, non ci si possa basare esclusivamente sull'analisi dell'area effettivamente circoscritta dalle mura cittadine (quando presenti), bensì verificare nel dettaglio la densità, oltre che la qualità, del tessuto insediativo: ed è, questo, problema ben più complesso. Negli ultimi anni si è fatto strada, ed ha preso sempre più corpo nel dibattito storiografico sull'area padana, il concetto di una forte disegualianza, politica, sociale ma anche culturale, tra la zona
occidentale dell'antica Regio VIII (cioè l'attuale Emilia) e la sua porzione orientale (I'odierna Romagna)a~: tale disegualianza, quando non vera e propria frattura, si sarebbe radicalizzata a partire dall'età longobarda per consolidarsi in epoca franca ed avrebbe investito svariati aspetti dell'organizzazione del territorio, fino ad incidere anche sugli organismi urbani. Ciò spiegherebbe, secondo taluni studiosi, una effettiva diversità tra la funzione svolta dalla città nell'area orientale della regione (la quale avrebbe mantenuto, insieme ad un ruolo di coordinamento della vita economica, amministrativa, sociale e politica, anche una fisionomia più organica sul piano dell'organizzazione degli spazi e della struttura materiale) di contro a quella della parte occidentale (la quale avrebbe perso, lentamente, la connotazione di centro operante sul territorio, assumendo un aspetto più marcatamente rurale). Una diversa lettura delle fonti scritte, ed ora anche di quelle archeologi che, suggerisce, tuttavia, una interpretazione leggermente più sfumata. Uno studio recente sull'edilizia residenziale nella tarda antichità nelI'area orientale di questa regione, esemplificata dall~analisi di una serie sufficientemente ampia di scavi archeologici, più o meno recenti, ha posto in evidenza due aspetti significativi: la cronologia e la natura degli abbandoniaG. Per quanto concerne il primo punto sembra accertato come una serie di distruzioni di domus urbane sia databile nel corso del III secolo. Per quanto riguarda, invece, il secondo aspetto, è stato rilevato come tali abbandoni siano quasi sempre collegati ad eventi di carattere traumatico (distruzioni, incendi etc.) e, quel che più conta, ad essi non abbiano fatto seguito nuove intraprese edilizie. Ciò significa che la crisi di un modello residenziale basato su ampie proprietà unifamiliari a sviluppo tendenzialmente estensivo, dati a ben prima dell' alto medioevo, e che a tale crisi non vi fu alcun tipo di risposta, se non di rioccupazıone parziale e parassitaria, mediante talora il frazionamento dell'antica unità catastale (fenomeno spesso archeologicamente di non facile individuazione, specie negli scavi condotti qualche decennio fa)..Le nuove intraprese edilizie, caratterizzate dalla realizzazione di modelli abitativi di antico regime, si colloca in un periodo compreso tra il V-VI secolo e, al momento, soprattutto in un'area specifica della regione. Una eco di questa edilizia di tipo aulico possiamo riscontrarla in una serie di probabili sedi di funzionari pubblici, che adottano ancora unità abitative complesse, quasi una reduplicazione delle più importanti residenze imperiali, provviste di ampie aree cortilizie, lunghi ambulacri e aole absidate spesso decorate in mosaico o sectile, con chiare funzi~i di rappresentanza e amministrative: se ne conoscono esempi a Riminia~~, Cesena~~'(Fig. 5), Faenzas~ (Figg. 6-7) ed Imola. Ma si tratta, ed è evidente anche dalla rarità di tali intraprese, di episodi circoscritti nel tempo e che andavano ad innescarsi in un tessuto urbano oramai disgregato; fatto questo non in contraddizione con una loro ubicazione in specifici settori della città, dove paiono concentrarsi anche altre sedi, sul piano istituzionale altrettanto rilevanti. Sulla stessa scia possiamo inserire anche alcuni tardi edifici di epoca gota, di cui si hanno esempi ancora in Romagna, alcuni dei quali direttamente collegabili alla figura di Teodorico (Palazzolo presso Ravenna) (Fig. 8), altri, con tutta probabilità, ad alti funzionari della sua corte (Galeata, Meldola)(Figg. 9-10). Al di là delle ascendenze tipologiche di queste strutture, è interessante notare come, contemporaneamente, I'edilizia venga a caratterizzarsi per la presenza di ampie aule pilastrate dislocate intorno ad un cortile centrale anche nell'area occidentale della regione: la loro individuazione in ambito urbano è più difficoltosa, ma non è improbabile che una struttura del genere debba riconoscersi in un'aula scoperta di recente a Parma, nell'area dell'ex Cinema Capitols7. Del frazionamento delle antiche unità catastali abbiamo una eco tardiva, ma non per questo meno significativa, nella documentazione scritta. I numerosi atti privati altomedievali che riguardano città come Rimini o Ravenna (ma anche altre città della Pentapoli qui non analizzate)sa sono, sotto questo profilo, estremamente illuminanti, poichè, quando fanno riferimento ad edifici di carattere abitativo, descrivono quasi sempre case di dimensioni modeste, non sempre con il piano superiore, spesso accorpate tra di loro e provviste di portico, talora con il fronte su una via pubblica, con un lato confinante con una andronella e con il retro che dava in una corte attrezzata di servizi in comune (come i pozzi).
Qualche indicazione archeologica ci viene fornita dallo scavo del quartiere portuale di C lasse (podere Chiavichetta) dove, nel corso del VII secolo (questa l'indicazione fornita dagli archeologi), il grande portico a pilastri dell'edificio ovest del quartiere B venne chiuso e suddiviso in piccole stanze, con divisori costituiti da muretti a secco di laterizi di recupero e tramezzi lignei, provviste di focolari e con tutta probabilità usate come abitazioni. Lo stesso avviene in un altro grande edificio del quartiere A, che già parzialmente demolito e privo di tetto, venne ristrutturato per la realizzazione di una abitazione. La nuova casa era costituita da un unico vano di forma rettangolare (m. 4x7,5), ubicato nell'angolo nord-occidentale del magazzino, confinante da un lato con una grande strada basolata (ancora in funzione) e dall'altro con uno stretto viottolo (sotto il quale correva una fogna), che conduceva direttamente al porto-canale (Fig. 11). All'edificio si accedeva mediante due ingressi: uno ubicato a settentrione, su quella che usando un termine che diverrà comune nella documentazione alto-medievale di quest'area, potremmo chiamare andronella, l'altro a meridione, posto in relazione con un porticato. Da questo porticato, poi, si accedeva anche all'antica corte del magazzino con pozzo e ad alcuni ambienti di servizio retrostanti l'edificio, dove era con tutta probabilità ubicata la scala per salire al piano superiore (Fig. 12). Anche analizzando la sola collocazione topografica dell'edificio, impressiona la forte analogia con le case attestate in Ravenna già nelle fonti scritte di VII secolo, con un fronte su una strada pubblica ed un lato confinante con una andronella. Se dunque il frazionamento costituisce una delle soluzioni in cui si realizza la disgregazione della antiche unità catastali, nello stesso tempo si avvertono anche altri modi di riconversione degli spazi abitativi. Alcune aree, ad esempio, vengono utilizzate per l'impianto di attività artigianali (Rimini, domus di Palazzo Diotallevi, altre per far posto a strutture d'uso pubblico (a Ravenna i c.d. Bagni del Clero impiantati al di sopra di una domus)~o~7 o destinate alla liturgia (es. chiese: vd. ancora a Ravenna l'edificio al di sotto di Santa Croce). Tuttavia questo processo di disgregazione dovette portare anche alla citazione di ampi spazi vuoti: “domo in integro que nunc destructa esse videtur ”, recita un documento ravennate del 982; “spatio terre in integrum ubi dudum sala fuit, que modo in ruinis esse videtur”, leggiamo ancora in un documento ravennate dello stesso anno~oó. Se i casi ora citati ci portano però ad un'epoca piuttosto tarda (X secolo), non è improbabile riconoscere nelle coeve testimonianze di spazi incolti, usati ad orto o a vigna, all'interno e nelle immediate vicinanze della città, una eco di un processo iniziato ben prima di quelle date'. Il quadro che ne esce sembra confermare in pieno l'impressione di una città che si sviluppa oramai ad isole, secondo una espressione usata qualche anno fa da Brogiolo a proposito di Brescia, e che mi sentirei di riproporre nella stessa maniera anche per gli antichi centri abitati dell'antica Regio VIII. I documenti che abbiamo ricordato (e non è stata scelta casuale) riguardano prevalentemente Ravenna, dove il quadro insediativo non sembra apparire molto diverso da quanto è stato ipotizzato per altri centri della regione, nei quali, secondo taluni studiosi, il processo, per così dire di "ruralizzazione", sarebbe stato maggiore e più vistoso. 5. Strutture e tecniche nell'edilizia abitativa Le fonti scritte sulle case alto-medievali sono da tempo note e a lungo discusse: non è dunque il caso tornarvi con un'analisi di dettaglio. Le carte relative ad una serie di edifici di città della Pentapoli attestano ancora l'esistenza di case costruite secondo tecniche di antica tradizione: in muratura e con copertura in mattoni. Il tenore di vita, inoltre, sembra essere in qualche caso ancora abbastanza elevato: talora si parla, infatti, di “ balneum, cun vaso et fistula”, di cisterne, di lavelli marmorei. Scavi archeologici non hanno per il momento messo in luce alcuna di queste strutture, se non il precoce edifico sopra menzionato di Classe (Figg. 11-12), ed è quindi impossibile una verifica sulla effettiva rappresentatività di tale modello. Nello stesso tempo, ed ancora nelle fonti relative alla Pentapoli, fanno la comparsa descrizioni che riferiscono di edifici costruiti in legno (“axe columnello constructa”), oppure con murature in terra (“exluto”), o ancoracon coperture in legno (“scindolis”). Nonostante risultino
più difficili da individuare e riconoscere in scavo, le tracce archeologiche di un'edilizia in legno sono, per quanto ancora modeste, attestate in alcuni siti della regione. Se escludiamo i riferimenti ad edifici di legno, segnalati ma non pubblicati, a Piacenza, Parma e Fidenza, un caso abbastanza eccezionale è rappresentato dalle abitazioni scavate in Corso Porta Reno a Ferrara. In questo contesto, ubicato in un'area in prossimità del sito della nuova cattedrale (ma certamente urbanizzata nell'alto-medioevo), sono stati individuati una serie di edifici in legno sovrapposti. Per il primo (Building3) è incerta la sua funzione di abitazione (Fig. 13): potrebbe esser servito come laboratorio o ricovero per animali. Nella stessa area sono stati impiantati quattro successivi edifici, ancora in legno, identificati attraverso una serrata sequenza di battuti pavimentali (Ho?`se4, 8, 11 e 13): la loro funzione, quali abitazioni, sembra sicura. Di queste case solo l'ultima (Hoa~se 13) presentava ancora parti ben conservate dei divisori in legno, che scandivano la struttura in tre ambienti (Fig. 14). Tali divisori erano costituiti da lunghe travi orizzontali poggiate direttamente sul terreno e rincalzate da frammenti di laterizi. I modi di realizzazione, con incassi per Unserimento di porte, dimostrano una tecnica di carpenteria piuttosto evoluta. In tutte le fasi sono stati individuati focolari a fiamma libera, ubicati in posizioni diversificate, e latrine. Solo nel corso del XIII secolo la sequenza di edifici in legno si interrompe con la realizzazione di una casa in muratura di mattoni, che ne ripercorre però i perimetrali. La cronologia degli edifici, fino alla casa 15 (quella in muratura), resta al momento incerta: essa si colloca comunque dopo il VII secolo e prima del XIII. Si è obiettato che essendo Ferrar città di recente fondazione, la scarsità di materiale da costruzione di recupero (pietra, marmo, laterizi), avrebbe favorito un'edilizia esclusivamente lignea. Ma questo non è il caso di Bologna. Negli scavi di piazza del Maggiore (settore 2) e dell'ex sala Borse, sono stati individuati i resti di due edifici in legno, che, almeno in un caso, è certo trattarsi di una residenza abitativa~20. Del primo (settore 2) si sono riconosciute le tracce archeologiche di parte dei perimetrali orientale e meridionale (per una lunghezza residua di m. 4,50 e 5), costituite da modesti incassi nel terreno per l'alloggiamento di travi lignee orizzontali (rincalzate da pezzame laterizio) e dalla presenza di un blocco di selenite, forse per l'appoggio di un palo verticale. In fase con questo edificio conosciamo vari livelli di battuti pavimentali e un focolare a fiamma libera, in prossimità del perimetrale est. Come nel caso ferrarese sopra citato, I'edificio ripeteva, almeno nelle parti conservate, I'andamento di quelli che saranno i muri in laterizio e selenite della casa posteriore (databile tra XII e XIII secolo). Questa abitazione di legno, inoltre, si sovrapponeva alla spoliazione delle imponenti strutture di un grande edificio pubblico di epoca romana, che erano in parte sopravvissute durante l'altomedioevo. Una situazione analoga si è rilevata nel settore aperto negli ambienti dell'ex Salà Borse, ubicato anch'esso all'interno di un' antica izzsula, nella quale si identifica parte dell' area forense della città romana. In questo caso l'edificio, con tutta probabilità una casa, è stato identificato per la presenza di una serie di battuti pavimentali, delimitati, su un lato, dall'allineamento di tre grosse buche per l'alloggiamento di pali lignei, con un interasse di circa m. 3. Tale edificio era precedente ad una casa in muratura (XIII secolo), che solo in parte ne ripercorreva i perimetrali, e, come nel caso del settore 2 di piazza Maggiore, immediatamente anteriore alle spoliazioni di un altro edificio pubblico romano: ciò significa che asportazioni di murature antiche e ricostruzioni di edifici in laterizi, come nel caso rilevato in piazza Maggiore, non furono strettamente consequenziali. Gli esempi presentati sono pochi per generalizzazioni, tuttavia consentono di formulare alcune riflessioni, così sintetizzabili:. a) una edilizia in legno sembra prevalente fino almeno al XII secolo e questo anche in città di antica fondazione. Nel caso di Bologna, inoltre, ambedue gli edifici si collocano in una zona centrale dell'abitato, all'interno della cerchia di selenite, non lontani dall'area della sede episcopale~?~ e del (:astello Imperialet; inoltre uno di questi si affaccia lungo una strada importante, un cardine dell'antica città (forse il cardine massimo), ancora funzionante per tutto l'alto medioevo (la c.d. platea maior).
b) ancora nel caso di Bologna una parte degli edifici antichi sopravvisse a lungo durante l'alto-medioevo e certamente venne riutilizzata. La loro definitiva spoliazione, che sembra direttamente ricollegabile con la ripresa edilizia dei secoli XI-XII, non pare invece strettamente riferibile alle nuove case in muratura che vi si sovrapposero solo tempo dopo. c) sia nel caso di Ferrara che di Bologna si rileva una persistenza nei limiti di proprietà degli edifici in legno con quelli in muratura. 6. Città, alluioni, "dark earth" e infrastrutture È da tempo noto come una, delle caratteristiche delle città alto-medievali dell'area padana, sia da identificare in una forte crescita dei piani d'uso e in una conseguente formazione di più o meno spessi depositi archeologici~24. Scavi recenti hanno documentato la presenza di "dark earth" a Parma e Bologna~2s: altri sono induttivamente segnalabili a Modena, attraverso una lettura più attenta della documentazione di Archivio~?ó. Minori attestazioni, invece, si hanno per le presunte alluvioni, che avrebbero devastato la regione in epoca tardo-antica e nel primo alto-medioevo e di cui si ha memoria soprattutto nella documentazione agiografica e nella cronachistica: sembra questo più un toposletterario che un dato reale, da non estendere erroneamente, come è stato anche fatto, a quasi tutte le città della Regio VIII, ma che non va di converso neppure sottavalutato. Scavi recenti, condotti nel centro di Modena, hanno parzialmente confermato le indicazioni, peraltro già presenti nella letteratura archeologica locale, di spessi sedimi alluvionali tra le fasi romane (o tardo-romane) e quelle alto-medievali. I depositi alluvionali rilevati in piazza Grande sono stati anche datati a non prima dell'ultimo venticinquennio del VI secolo, in quanto ricoprivano un sarcofago contenente, tra le altre inumazioni, le spoglie di una donna longobarda sepolta con corredo della prima fase delle migrazioni (Fig. 15). È comunque evidente che l'immagine colorita di una anonima fonte del X secolo, che descrive la città “invasa dalle acque e circondata da fiumi, stagni e paludi” debba essere mitigata. I depositi alluvionali riscontrati in piazza Grande, infatti, decrescevano (ma non scomparivano) nel saggio A, quello in prossimità dell'attuale cattedrale, suggerendo l'ipotesi che la chiesa fosse stata costruita su un rilevato forse naturale(Fig. 16); in altri punti della città antica, e forse non a caso in quelli dove maggiori sono i segni di una persistenza dell'assetto urbanistico di età romana, la presenza di depositi alluvionali sembra minore e la stratificazione archeologica pare più vicina ai tradizionali trend riscontrati nelle altre città di pianura. Pochi dati si posseggono poi sulla durata delle infrastrutture, come ad esempio fogne, acquedotti e strade, anche se generalmente si tende a sostenere il loro interramento nel primo caso, il loro disuso nel secondo e nel terzo. Per quanto riguarda i forti depositi di terre nere è noto come sia ancora aperto:;il dibattito sulla loro natura: non entreremo quindi nel merito del problema, rimandando direttamente ad altri specifici studi. Più interessante è invece il problema della durata della loro formazione, che generalmente si tende a collocare in un lungo arco di tempo. Recenti studi su situazioni analoghe riscontrate in Inghilterra sembrano indicare che questi depositi si formarono in epoca tardo-romana e comunque in tempi piuttosto brevi'30. Qualche caso del genere è possibile documentare anche per la nostra area. Ancora a Bologna, ad esempio, un deposito di "dark earth" ricopriva una strada basolata romana nel settore 2 del già citato scavo di piazza Maggiore: i materiali rinvenuti al suo interno, tuttavia, sembrano indicare un periodo di formazione molto breve (verso il VI secolo), cui non è estraneo il fatto che la strada venne subito ricostruita in pezzame laterizio. Anche in questo caso non è corretto generalizzare: tuttavia mi sembra opportuno rimettere in discussione l'automatica affermazione che questi depositi siano il frutto di attività prolungatesi a lungo nel tempo. Veniamo infine al problema delle strade. Il forte conservatorismo degli impianti antichi della stragrande maggioranza delle città di antica fondazione della nostra regione può essere più facilmente spiegato con una persistenza d'uso nei percorsi stradali. Il caso di Bologna risulta fortemente emblematico. Possiamo distinguere due casi: strade suburbane e strade urbane. Per quanto riguarda le strade suburbane è stata provata una cesura (coincidente all'incirca con l'età alto-medievale) e una
successiva ripresa costruttiva in epoca comunale. La spiegazione che questi percorsi siano rimasti in funzione come piste in terra battuta sembra dunque estremamente plausibile. Nei due casi, invece, di strade urbane scavate, non solo è stata documentata una continuità d'uso, ma anche una continuità di manutenzionee e frequenti ricostruzione, anche se con tecniche certamente diverse. Del resto non vi è molta diversità con quanto avveniva anche in epoca romana, quando quasi solo le strade urbane erano basolate ed altre tecniche venivano impiegate per quelle suburbane ed extra urbane. Questa "continuità", non solo d'uso ma anche di ricostruzione, 7 sembra rilevarsi pure in altri casi, come in più punti nella città di Ravenna e : persino a Modena, per aree rimaste poi al di fuori dell'abitato alto-medievale. 7. Conclusioni Difficile proporre una conclusione in ragione di processi formativi ed evolutivi ancora fortemente discontinui nella documentazione archeologica: tenteremo tuttavia di focalizzare gli elementi che ci sono parsi più significativi nella panoramica ora presentata. La crisi dell'urbanesimo, o, se vogliamo usare un termine meno impegnativo, la sua trasformazione, ha radici abbastanza precoci. Sul piano dell'edilizia privata i primi sintomi di dissoluzione dei modelli abitativi d'antica origine datano almeno partire dal III secolo. Le monumentali intraprese edilizie successive (non posteriori comunque al VI secolo) si ricollegano a fatti specifici e circoscritti. Nulla purtroppo conosciamo dell'edilizia di potere alto-medievale e poco, nello specifico, di quella ecclesiastica: resta questo un campo tutto da indagare. Per quanto riguarda il versante abitativo i pochi casi archeologicamente documentati attestano una prevalente edilizia in legno ancora fino al secolo XII. Le fonti scritte, anche di area bizantina, non sembrano in contraddizione con questa tendenza, anche se in taluni casi paiono documentare l'impiego di tecniche d'antico regime: questo non solo per quanto concerne l'adozione di materiali quali la pietra o il laterizio, ma anche nell'uso di costruire in argilla, già noto, nelle stesse aree (es. Rimini), in epoca romana. Sul versante urbanistico le presunte e generalizzate contrazioni delle città, che sarebbero archeologicamente provate dalla realizzazione delle mura, si riducono a non molti casi, peraltro di cronologia non sicura e comunque scaglionati nel tempo. La crescita dei depositi urbani e il dissesto delle antiche strutture e infrastrutture, nonostante la valgata, raramente è imputabile a fenomeni esondativi. Più frequente la presenza di spessi depositi di "dark earth" che, anche nella nostra regione, paiono separare le sequenze tra l'epoca romana e la ripresa edilizia dei secoli XI-XII. Tuttavia, anche in questo caso, è opportuno rifuggire da facili generalizzazioni, non solo nell'identificazione unilaterale delle cause ma anche, e soprattutto, dei tempi di formazione. Il recuE'ero di materiale edilizio, fenomeno ampiamente noto, proseguì certamente nell'alto-medioevo, ma probabilmente in forme meno macroscopiche che non in età tardo-antica e nei secoli XI-XII. La ripresa edilizia immediatamente posteriore al Mille, cui è imputabile, a mio parere, la defintiiva e totale scornparsa di gran parte delle testimonianze archeologiche antiche, non sembra ancora direttamente collegabile con una diffusa edilizia abitativa in muratura. Almeno`nella Regio VIII le città di antica fondazione si conservano e, a fronte di poche defezione, nuovi centri vengono fondati: restano quali sedi del potere, mantengono una funzione di controllo territoriale, sono ancora il veicolo principale dei traffici commerciali. Ma la qualità della vita è certamente mutata. -Si modificano, I'abbiamo detto, le tipologie abitative; si frazionano le antiche unità catastali. Anche sul versante delle produzioni materiali il legno sostituisce il metallo e la ceramica; le fini produzioni da mensa scompaiono; i contenitori commerciali sono sempre più rari. Anche se la decadenza delle infrastrutture non è generalizzata (insieme a casi di abbandono o collasso dei sistemi fognari, si assiste ancora ad una costante manutenzione e ricostruzione dei percorsi stradali) ampie zone dell'antico abitato rimangono deserte ed utilizzate ad orti. La città, in sostanza, sopravvive, per riprendere una definizione cara al dibattito storiografico di questi ultimi anni, in bilico costante tra "continutà" e "frattura".
SAURO GELICHI A causa di problemi di acquisizione a computer, non è stato possibile inserire le note e la bibliografia.
La Toscana centro-meridionale: i casi di Cosa-Ansedonia e Roselle 1
1. Ansedonia, da centro bizantino a castello medievale Le campagne di scavo condotte fra gli anni 1990 e 1993 hanno avuto per oggetto le fasi più tarde della storia di Cosa:. Secondo una stimolante ipotesi l'occupazione delle alture in questa parte della Maremma sarebbe ricominciata verso la metà del V secolo, dopo le invasioni dei Goti e Cosa appariva un luogo ideale per verificarla. Lo scavo ha seguito due strategie: saggi di grande estensione sull'arx e nel foro e piccoli saggi-campione, finalizzati a determinare i limiti cronologici dell'occupazione di Cosa, dislocati nella maggior parte delle insulae della città romana. Secondo i dati finora emersi, I'esigua occupazione della prima metà del III d.C. (da collegare all'istituzione della res pablica Cosanoram 4) si concluse alla fine del secolo con l'abbandono pressoché totale della città. Restarono in vita solo una casa, forse con funzioni amministrative, e il santuario di Liber Pater da interpretare, a questo punto, come santuario rurale. L’area della città fu rioccupata solo verso l'inizio del VI secolo, se non più tardi. Sull'arx fu costruita una mansio con un granaio, un fienile e stalle sufficienti a sistemare circa quindici cavalli. Dopo che un incendio ebbe distrutto il granaio, l'arx fu fortificata con un muro che chiudeva il preesistente circuitO5 ancora riferibile alla colonia (Figg. 2-3). L'area fu abitata fino alla fine del VI secolo; a partire da questa data e fino alla fine del X secolo manca, sull'arrx, qualsiasi traccia di frequentazione. Se le costruzioni sull'arx sembrano aver avuto funzioni militari e amministrative, quelle contemporanee del foro sembrano riferibili almeno in parte ad un abitato a carattere civile. Sui resti della basilica romana furono costruiti una chiesa e un grosso forno da pane. Il foro e le insulae attigue furono circondati da un muro con porte a sud, verso l'arx, e a ovest, verso la porta nord-ovest. L'accesso principale all'insediamento era la c.d. Porta Romana, a nord-est, dalla quale una strada portava verso il foro passando con una rampa sui ruderi della curia, per poi proseguire verso l'arx. Accanto a questa strada era un piccolo cimitero, connesso alla nuova chiesa. L'insediamento era comunque molto limitato e costituito da poche case di pietra e malta. L'interpretazione del sito in questo periodo deve tenere conto di due componenti: la mansio fortificata e l'abitato civile. In un primo tempo si è interpretata la mansio come elemento, insieme con Talamone e Roselle, di un programma statale di fortificazione della costa e della Via Aurelia, simile alle catene di castra che controllavano la costa ligure o la Via Flaminia6. L'esistenza dell'insediamento civile del foro sembra dare a Cosa un ruolo più ampio nella sistemazione territoriale della costa: poteva essere il centro amministrativo, la civitas (come sarà poi chiamata nei documenti bassomedievali) cui faceva riferimento l'area. La presenza nella città di funzionari dell'amministrazione bizantina - uno scriniarius e un consiliarus- parenti di un arcidiacono della chiesa romana, va a favore di questa ipotesi7. E infine, su una iscrizione trovata sull'arx e databile, in base alla paleografia, nel corso del VI secolo, compare una Neapolis che potrebbe dimostrare l'ampiezza della visione con cui il centro fu fondato. La limitatezza dell'abitato mostra però che l'ambizioso progetto fu attuato solo in minima parte. Si tratterebbe quindi non della ricostruzione di Cosa, ma della fondazione di una città del tutto nuova: Ansedonia 8. La cittadella sull'arx ospitava certamente un piccolo numero di soldati, come dimostrano due fibule a braccia simmetriche trovate sul posto 9. L'organizzazione territoriale e militare bizantina non sembra essere sopravvissuta all'invasione longobarda: I'insediamento e la chiesa furono del tutto abbandonati. Solo più tardi fu costruita una seconda chiesa nelle rovine del tempio B nel foro, e accanto si organizzò un cimitero piuttosto vasto con oltre duccento inumazioni senza corredo. In attesa di una datazione al radiocarbonio si propone di associare questitresti con un abitato sparso di capanne individuato nell'area della città (Fig. 4). Nel 1993 sono state scavate due capanne: si tratta di strutture rettangolari tagliate negli strati romani di distruzione, interrate per circa 40 cm (Fig. 5). Una delle due capanne, nei pressi del foro, misurava 4.5 x 4 metri e si può supporre, in base allo strato di crollo, che avesse almeno uno zoccolo in pietra; l'altra, sull'altura orientale,
misurava 4.5 x 10 metri e conservava tracce di strutture in legno. Un terzo esempio, con fondazioni in blocchi grossolani di pietra, è stato riconosciuto a sud-ovest dell'arx, ma non ha restituito materiale datante. L'abitato è quindi costituito di case isolate e sparse che hanno come unico punto di riferimento comune la chiesa con il cimitero. Il confronto più stringente si ha con le capanne seminterrate scavate a Brescia e in altri luoghi dell'Italia del nord, datate in genere nel primo periodo longobardo 10. Si può anche pensare ad una analogia con i piccoli siti rurali dello stesso periodo, individuati nella valle dell'Albagna 11. Il raro materiale, in massima parte brocche a fondo piatto con piccole anse a nastro, è del tutto simile nelle capanne di Cosa e nei siti rurali. L'uso del cimitero cessò con la costruzione di un nuovo sistema difensivo attorno all'altura orientale (Fig. 6). Le fortificazioni, che si congiungevano alle mura di cinta romane, consistevano in un doppio fossato con aggere interposto ed erano difese in un punto da una piccola torre e da una postierla. All'interno, subito sotto il punto più alto della collina, un terzo fossato è stato riconosciuto nel 1993. Non si sa perà a quale abitato si possa riferire: sulla sommità della collina sono stati riconosciuti buchi di palo, ma manca del tutto materiale datante. L'abbandono della fortificazione in terra sembra collocarsi fra il IX e l'XI secolo. Manca del tutto la ceramica invetriata, con l'eccezione di un frammento a vetrina sparsa nel riempimento del fossato più interno. È quindi difficile stabilire se ci sia stata continuità fra questo insediamento e la costruzione del castello sull'altura orientale. Il castello è delimitato da una cinta muraria che copre il fossato della fase precedente, ha una torre interna e alcune strutture sussidiarie (Fig. 6). L'ottima muratura di tipo romanico sembrerebbe datare l'insieme al XII secolo. Successivamente la torre fu ulteriormente rinforzata sui lati ovest e sud con una struttura a scarpa all'interno della quale era una grande cisterna, trovata in buonissimo stato di conservazione. Un bacino di raccolta intonacato permetteva di immettervi l'acqua piovana. La cisterna sembra aver cambiato ben presto funzione: graffiti al suo interno (varie croci, due barche dipinte e la data in caratteri gotici An(no) D(o)m(ini) MCCX) testimoniano un possibile uso come prigione. Il confronto fra la sequenza archeologica e la documentazione scritta chiarisce solo l'ultima fase di vita del sito. Ansedonia compare in documenti d'archivio per la prima volta nel 1081, in una lista di proprietà del monastero di San Paolo fuori le Mura di Roma. È presente poi in una serie di bolle di conferma dei possedimenti maremmani dell'Abbazia di S. Anastasio ad Aquas Salias o delle Tre Fontane, databili a partire dal terzo quarto del XII secolo 12. La costruzione del piccolo castello fu probabilmente un'iniziativa dell'Abbazia che attud un vasto progetto di incastellamento nei suoi possedimenti dando all'antico Cosano l'assetto ben documentato nel XIII secolo quando la Maremma passù pressoché tutta agli Aldobrandeschiti. E. F. 2. Roselle, da sede vescovile a "castram" Il complesso tardoantico e altomedievale alle pendici della collina nord di Roselle, comprendente la possibile cattedrale e un vasto cimitero, è in corso di scavo dal 1987 14. Dati sulle fasi più tarde della storia di Roselle sonò emersi negli ultimi anni anche in altre zone del centro monumentale 15. La fase tardoantica di Roselle sembra rientrare in uno schema piuttosto consueto: una prima evidente cesura nella storia della città si colloca fra la fine del III e il IV secolo, quando gli edifici del centro monumentale appaiono riusati con funzioni totalmente diverse da quelle originarie (è il caso della Domus dei Mosaici, occupata in buona parte da un fabbro che riciclava bronzi di età precedentetó) oppure sono già in abbandono e in rovina, come 1'edificio termale di età adrianea su cui verrà poi costruita la chiesa. Mancano del tutto dati sul foro, mentre un quartiere di abitazione compreso fra le terme e il foro 17 sembra utilizzato con continuità almeno per tutta l'età imperiale (Fig. 7). In questo panorama estremamente frammentario scompare la documentazione epigrafica 18, si rarefà, soprattutto a partire dal 360, la circolazione monetaria 19, e si arresta ogni attività edilizia nel centro cittadino. Bisogna però registrare un intervento di carattere monumentale in un'area periferica
della città: un nuovo impianto termale viene costruito nei pressi della porta orientale, detta Porta Romana (Fig. 7, f). Questo edificio viene dedicato, come testimonia una complessa iscrizione metrica, da un corrector Tascinert Umbriae, che si colloca nella seconda metà del IV secolo 20. L'intervento è segno di un cambiamento nel rapporto fra la città e il territorio, con una tangibile perdita di importanza del quartiere centrale intorno al foro, in posizione di sommità, a favore di una zona bassa e periferica, ma vicina alla porta e quindi alle vie di comunicazione e alla campagna. L'edificazione delle nuove terme sembra però avere soprattutto un carattere artificiale, che contrasta con il profondo degrado della vita urbana. A questo proposito appare significativo il ritrovamento di un fondo di capanna circolare sulla superficie degli strati di crollo delle terme di età adrianea, da collocare fra il IV secolo (crollo delle terme) e la fine del V (impianto del complesso paleocristiano). Questo dato, finora isolato, potrebbe essere indizio di presenze analoghe in altre parti dell'area centrale e particolarmente nel foro. La chiesa fu costruita sulle rovine delle terme, riutilizzando il grande peristilio con piscina centrale e alcuni ambienti minori adiacenti 21 (Fig. 8, amb. 1-3, 6-7, 12-15; Fig. 9). La datazione dell'edificio, scavato pressoché integralmente negli anni '30 e '40 22 (Fig. 10), è complessa; per il momento si ipotizza che l'edificazione della chiesa coincida con la prima sistemazione del circostante cimitero (fine V - inizi VI), anche sulla base della tipologia piuttosto antica della vasca battesimale (Fig. 8, amb. 14). Si tratta dell'unica chiesa finora riconosciuta all'interno della città, ma mancano elementi certi che permettano una identificazione definitiva con la cattedrale di Roselle, nota come sede vescovile almeno dal 49933. Intorno alla chiesa, sulla pendice a nord e davanti alla facciata, la più antica fase cimiteriale si organizza ordinatamente a terrazze. La tombe sono regolari, distanziate, ben costruite e orientate a nord-ovest. Sono scavate in uno strato datato da africana D e da ceramiche a gocciolature o a bande di ingobbio rosso e contengono corredi databili fra il VI e la metà del VII secolo. FQjrse già nel VI secolo un edificio viene costruito sopra alcune tombe di primalase in un'area antistante la chiesa dove sono particolarmente fitte le tombe di bambini. Sembra consistere in un recinto, costruito per un tratto in opera a telaio, che contiene un basamento in grossi blocchi di travertino e un focolare. Potrebbe trattarsi di una sepoltura privilegiata, ma per il momento non è emerso alcun elemento utile a verificare o escludere questa ipotesi. Il VI secolo vede nel centro monumentale di Roselle anche altri mutamenti sostanziali: la strada basolata di età imperiale che conduceva alle terme viene abbandonata e sostituita da un percorso di livello più elevato, probabilmente in terra mista a materiali di crollo, terrazzato da un muro in opera a telaio che oblitera, almeno in gran parte, gli ingressi delle case-botteghe adiacenti alle pendici della collina nord (Fig. 7, b), ma che non sembra essere parte di una fortificazione24. Con la fine del VI secolo Roselle è però uno dei residui caposaldi bizantini sulla costa toscana25, e non è improbabile che sia stata dotata di una fortezza. Ipoteticamente si propone di individuarla nell'anfiteatro (Fig. 7, e), in ottima posizione strategica sulla sommità della collina nord, il quale, persa la sua funzione originaria, potrebbe essere stato occupato da costruzioni e fortificato già in questa fase così antica. Le tracce, per altro cospicue, di mura di fortificazione conservate a nord e a ovest dell'edificio sono però di cronologia incerta, e l'occupazione dell'arena è documentata con certezza solo a partire dal XIV secolo 26. Tornando al complesso cristiano, una fase edilizia certa della chiesa è riconoscibile nella ridecorazione complessiva di cui restano numerosi elementi (plutei, pilastrini di recinzione, un frammento di ciborio), riconducibili alla fine dell'VIII secolo 27. Su uno dei plutei (Fig. 1 1), oggi inserito in un muro del podere "il Serpaio" ai piedi di Roselle, è presente una firma (Magester Iolannes) 28. Interventi analoghi, collocabili fra metà VIII e inizi IX secolo, sono testimoniati in altre chiese cattedrali, come ad esempio a Luni e a Sovana 29. La seconda fase di uso del cimitero è caratterizzata dall'assenza di oggetti associati alle inumazioni; in mancanza di elementi certi di cronologia si suppone che questa fase si sviluppi fra la fine del VII secolo e l'abbandono dell'area, nel XII secolo. Le tombe di nuovo tipo, molto più numerose delle precedenti, sono disposte in modo caotico, le une sulle altre, dove possibile tagliando muri e crolli; sono costruite con lastre di pietra sottili e irregolari ed hanno forma antropoide.
La chiesa infine viene dotata di una massiccia torre (Fig. 8, amb. 13), appoggiata alla facciata e accessibile solo dall'interno della chiesa stessa, databile fra X e XI secolo 30. La costruzione della torre rende disagevole o impossibile l'uso del fonte battesimale, mentre all'esterno della chiesa sconvolge numerose sepolture: mucchi di ossa sono stati trovati nella fossa di fondazione e nelle immediate vicinanze. Il cimitero non venne più usato probabilmente a partire dal XII secolo, forse a seguito della traslazione della sede vescovile (1138) 31. L'area in seguito venne fortificata con muri di tecnica molto rozza, costruiti sopra gli ultimi strati di sepolture. Si tratta probabilmente delle fortificazioni del castello di Roselle, citato in alcuni documenti di XII e XIII secolo successivi alla traslazione della sede vescovile 32 . In base ai dati archeologici sembra che il castrum si limitasse alla collina nord, dacui peraltrovengono le attestazioni più tarde della frequentazione di Roselle, di circa tre secoli più lunga di quanto testimoniano i documenti 33. In queste ultime fasi l'area abitata si ridusse al solo anfiteatro, diventato rifugio di una piccola comunità che si estinse solo nel XVI secolo. M. C. 3. Considerazioni conclusive Nella Toscana centro-meridionale, almeno a partire dalla fine del II secolo, si assiste ad una riduzione delle città a centri amministrativi e di servizio, di esigua o quasi nulla rilevanza demografica. È questo il caso dei tre capoluoghi del vecchio territorio vulcente (Cosa, Heba e Saturnia 34), colonie di età repubblicana che avevano ormai da tempo esaurito il loro ruolo, ma anche probabilmente di centri più antichi quali Populonia e Vetulonia. Appaiono significative a questo proposito le attestazioni di curatores republicae a Cosa, eba, e Vetolonia nel III secolo, che segnalano un impegno economico e organizzativo del governo centrale in centri urbani ormai degradati e con le finanze in dissesto 35 nessuno dei quali diventerà in seguito sede vescovile. Già con il IV secolo molti di questi centri non possono più essere definiti città: Heba regredisce a villaggio, mentre a Cosa sembra frequentato un unico edificio oltre al santuario di Liber Pater; a Saturnia, ancora vitale nel III secolo, manca del tutto ceramica di IV (M. Michelucci, com. pers.) 36. Il caso di Cosa-Ansedonia, particolarmente ben documentato, mostra quanto profonda sia la frattura nella storia dell'insediamento e come una successione di abitati di natura diversa l'uno dall'altro non possa essere confusa con una generica continuità di vita urbana 37. Dopo la res paiolica del III secolo e il santuario di IV, nell'area dell'antica colonia si susseguono infatti il castrum bizantino (forse inteso come nucleo di un progetto più vasto mai realizzato), I'abitato di tipo rurale del primo periodo longobardo, I'insediamento difeso da fortificazioni di terra sull'altura orientale e infine il castello. È evidente in questa sequenza che il castrum bizantino e il castello bassomedievale testimoniano iniziative esterne, dei bizantini in un caso, dell'Abbazia delle Tre Fontane nell'altro, per certi versi analoghe all'impegno di Roma documentato dall'invio dei curatores r.p. nel III secolo. Questi insistenti tentativi di riorganizzare il territorio, in circostanze storiche diversissime, rifondando artificialmente quello che era stato uno dei suoi capoluoghi si spiega solo se si considera che la costa maremmana raggiunse fra tardo antico e alto Medioevo il più basso livello insediativo della sua storia. Il contrasto fra le costruzioni in muratura di epoca bizantina e le capanne di VII secolo è inoltre talmente stridente da far pensare all'arrivo di popolazioni diverse. Passando ad esaminare città apparentemente più vitali, bisogna notare come la scelta di Roselle, Sovana e Populonia come centri di diocesi 38 non sia sufficiente a testimoniare una continuità di vita urbana. A Roselle, come si è visto, lo scenario è eterogeneo: vi convivono recuperi e riusi, costruzioni di fortuna e nuovi impianti, ma indubbiamente la frattura fra la città antica e gli insediamenti successivi (la civitas sede vescovile e poi il castram) è profonda. Un quadro simile può forse immaginarsi anche per Sovana, dove il degrado delle infrastrutture della città tardoantica è segnalato dal disuso dei cunicoli di drenaggio scavati nel tufo 39, mentre la più antica cattedrale, identificabile con la chiesa di San Mamiliano, oggi ridotta a rudere, rioccupa un
edificio precedente in opera reticolata 40. Scavi recenti al margine nord dell'abitato attuale e a ovest del duomo hanno inoltre rivelato la presenza di due aree cimiteriali con deposizioni databili a partire dal VI secolo e tombe costruite in blocchi o scavate direttamente nel tufo 41. Alla metà dell'VIII secolo risale infine il noto ciborio 42, originariamente collocato nella cattedrale. Nel caso di Populonia, la antica città sul promontorio viene segnalata come desolata già in piena età imperiale e definitivamente in rovina all'inizio del V secolo 43. La sede vescovile va quindi probabilmente identificata con l'abitato, per altro noto molto frammentariamente, presso il porto sulla rada di Baratti, mentre la cattedrale doveva essere nelle vicinanze dell'attuale cappella di San Cerbone 44. La scelta di Populonia come sede vescovile si rivelò ben presto fragile: alla fine del VI secolo l'avanzata longobarda la investì pesantemente, costringendo il vescovo a fuggire all'Elba e mettendo le premesse per un precoce trasferimento della sede vescovile 45. Ma anche Sovana e Roselle non avranno maggior successo. Se nel caso di Populonia, distrutta da corsari non ben identificati nei primi anni del IX secolo, si può collegare l'abbandono definitivo del sito ad un preciso e traumatico avvenimento 46, per Roselle, se si esclude una radicata tradizione che attribuisce la decadenza del centro ad una incursione saracena del 935 47, il trasferimento della sede vescovile sancisce definitivamente il superamento storico di una città che era stata tenuta in vita artificialmente dopo la crisi tardoantica. In seguito, le città della Maremma toscana, già colpite dalla precoce crisi di età medio e tardoimperiale, non vedranno la rinascita bassomedievale che invece investe pressoché tutti i centri antichi della parte settentrionale della regione. Il confronto con l'odierno panorama urbano, ricalcato integralmente sulla fase dell'incastellamento bassomedievale e privo di qualsiasi punto di contatto con il paesaggio antico, sottolinea con grande evidenza gli effetti del fallimento di una intera fase storica. MARIA GRAZIA CELUZZA, ELIZABETH FENTRESS
1 Per una serie di circostanze sfortunate la prima versione di questo contributo è andata perduta. Il testo che qui si presenta è quindi ridotto e incompleto per quanto riguarda riferimenti bibliografici e apparato illustrativo. 2 E. FENTREss-M. HosART-T. CLAY-M. WEBB, LateRoman andMedieval Cosal:the Arxand the Strurture near the Eastern Height, “PBSR” 59, 1991, pp. 197-230. Si tratta di un progetto comune dell'Accademia Americana e della Scuola Britannica di Roma, a cui ha contribuito anche il Craven Committoe dell'Università di Oxford, Io scavo è stato condotto con M.Hobart T.Clay, M.Webb. 3 G. CIAMPOLTRINI-P. RENDINI, L agro cosano fra tardo antico e alto Medioevo, “Archeologia Medievale”, XV, 1988; G. CIAMPOLTRINI, Un insediamento tardoantico nella valle dell'Osa, “Archeologia Medievale”, XVI, 1989, pp. 513-521. 4 E. FENTRESS, Cosa in the Empire: the un-maling of a Roman, “JRA”, 7, in corso di stampa; D. MANACORDA, Considerazioni sull'epigrafia della regione di Cosa, “Athenacum”, 57, 1979, pp. 73-97.
5 FENTRESS et al., Late Roman and Medieval Cosa I, cit., pp. 197-230. 6 G. CASTIGLIONI et al., Il castrum tardoantico di Sant'Antonino di Perti, Finale Ligure, campagne di scavo 1982-1991, “Archeologia Medievale”, XIX, 1992, pp. 279-369, E. FENTRESS et al., Late Roman and Medieval Cosa I, cit., pp. 208-209; sulla Via Flaminia: A. PERTUSI, Ordinamenti militari dei Bizantini, in Ordinamenti militari in Occidente nell'alto Medioevo, Settimane di studio di Spoleto XV, pp. 632-700, in part. p. 687. 7 Questi personaggi sono nominati in una iscrizione ora dispersa un tempo visibile a Orbetello: GIG IV, 9853; F. BISCONTI, Tarda antichità e alto medioevo nei territorio orbetellano: primo bilancio critico, Atti del V Congresso nazionale di Archeologia Cristiana, 1987, pp. 63-78; si veda ora: C. CITTER, L'epigrafe di Orbetello e i Bizantini nell'Etruria Marittima, “Archeologia Medievale”, XX, 1993, pp. 617-621. 8 Possibili derivazioni dal greco proposte in CITTER, L'epigrafe, cit., pp. 622-623, si basano su una improbabile alternanza th-s. In ambito germanico si può invece ipotizzare una derivazione da anse = dea. Si ringrazia G. Bonsante per i preziosi suggerimenti. 9 FENTREsseta1.,Late Roman and MedievalCosa,cit.,p.226.Si veda ora G.CIAMPOLTRINI, Lafalvedelguerriero, “ Archeologia Medievale”, XX, 1193, pp. 603-604, che avanza una ipotesi interessante che però non spiega la presenza delle iscrizioni, né delle fibule a bracci uguali indizio certo della presenza di militari. 10 Si veda G.P. BROGIOLO, Brescia: Building Transformation in a lombard City, in K. RANDSBORG (a cura di), The Birti of Europe, “Analocta Romana Instituti Danici” suppl. 16, 1989 pp. 156-165, in part. p. 161: gli esempi citati si datano fra la fine del VI e la metà del VII secolo. 11 Si rimanda alla relazione di F. Cambi e altri sul territorio della Toscana in questo stesso volume. 12 R CARDARELLI Confini fra Magliano e Marsiliana; fra Manciano e Montauto, Scerpenna, Stachilagi;fra Tricosto e Ansedonia;fra Mont'Ercole e Monte Argentario, “Maremma” 2, 1925, pp. 336? 75-128, 147-214; A. LUTTRELL, The Medieval Ager Cosanus? in Da Rosele a Grosseto: strutture laiche ed ecclesiastiche nella Maremma grossetana fra XI e Xll secolo, Atti del Convegno (Grosseto 1989), in corso di stampa; E. FENTRESS-C. WICKHAM, La valle dell'Albegna fra Vll e Xl seco/o, in Da Roselle a Grosseto, cit. 13 FENTRESS-WICKHAM, La valle dell’Albegna, cit. 14 Lo scavo viene condotto dal Musco Archeologico della Maremma di Grosseto con fondi della Regione Toscana; lo scavo delle singole aree è stato curato da G. Agricoli, C. Casi, C. Citter, F. Colmayer; I'indagine sulle ossa umane si deve a E. Pacciani, uno studio preliminare della ceramica tardoantica e altomedievale si deve a C. Citter. L'area era stata già interessata da scavi piuttosto estesi, ma scarsamente documentati, negli anni 1932-33 (H. RIESCH, “Studi Etruschi”, 7, 1933, pp. 349-350) e 1942-43 (A. MINTO, “Studi Etruschi”, 16,1942, p. 575, ID. “Studi Etruschi”, 17, 1943, pp. 554-556). Una relazione di scavo è in corso di stampa in Da Roselle a Grosseto, cit. 15 Recenti indagini condotte dalla Soprintendenza Archeologica della Toscana sono edite in: M. MICHELUCCI, Roselle. La Domus deiMosaici, Catalogo della mostra, Grosseto 1985 E. PARIBENI (a cura di), Un decennio di ricerche a Rose//e: statue e ritratti, Catalogo della mostra, Grosseto 1990. 16 MICHELUCCI, Roselle. La Domus, cit., pp. 43, 115-116. 17 E. MANGANI, in PARIBENI (a cura di), Un decennio, cit., pp. 94, 97, tav. XXXVII. 18 V. SALADINO, Iscrizioni latine di Rose//e (111), “ZPE”, 40, 1980, p. 242. 19 F. CATALLI, Ritrovamenti di monete negli scavi di Roselle: le campagne 1959-1967, “Annali Istituto Italiano Numismatica” 23-24, 1976-1977, pp. 121-150; MICHELUCCI, Rose//e.LaDomus, cit., pp. 113-114. 20 L'iscrizione è in corso di pubblicazione da parte di G. De Marinis, che ha cortesemente comunicato i dati. 21 SOPRINTENDENZA ARCHEOLOGICA DELLA TOSCANA, Roselle: gli scavi e la mostra, Pisa s.d. (ma 1977), pp.119-122,126-127. 22 H. RIESCH, “Studi Etruschi”, 7,1933, pp.349-350, A. MINTO, “Studi Etruschi”, 16, 1942, p.556; ID., “Studi Etruschi”, 17,1943, pp.554-556. 23 Un Vitalianas vescovo di Roselle è noto per essere intervenuto al sinodo romano del 1 marzo 499: M.G.H., Auctores antiquissimi, XII, Berolini 1894, p.400, n. 12. 24 O.W. VON VACANO, Der Talamonaccio, Firenze 1988, p. 6 ss. Diversamente, interpretano il muro come fortificazione: F. NICOSIA-G. POGGESI in PARIBENI (a cura di), Un decennio, cit., p.20, e FENTRESS et al., Late Roman and Medieval Cosa 1, cit., pp. 208-209. 25 F. SCHNEIDER, L'ordinamento pabblico nella Toscana medievale, (a cura di F. Barbolani di Montauto), Firenze 1975, pp. 20-21, B. BAVANT, Le Duché Byzantin de Rome, “MEFRM”, 91 1979, pp. 41 ss. e in part. p. 80. La conquista longobarda investì Roselle solo all'inizio del VII secolo. L'ondata degli ultimi decenni del VI secolo, che colpì duramente Populonia, lasciò indenne la costa a sud: lo prova la notizia che il papa Gregorio Magno nel 591 scelse di affidare proprio al vescovo di Roselle gli scarsi abitanti restati a Populonia, abbandonata dal suo vescovo (G. ROSSETTI, Società e istituzioni nei secoli IX e X: Pisa Volterra e Populonia, in Atti del V Convegno Internazionale sull'AltoMedioevo (Lucca 1971), Spoleto 1973, p. 247). Gli effetti della conquista longobarda su Roselle non sembrano così appariscenti e si limitano per il momento ad una rarefazione delle testimonianze relative alla sequenza dei vescovi del VII secolo. 26 SOPRINTENDENZA ARCHEOLOGICA DELLA TOSCANA, Roselle: gli scavi, cit., pp. 114, 127 e fig. 12.h.
27 A. Minto, “Studi Etruschi”, 17, 1943, pp. 555-556; SOPRINTENDENZA ARCHEOLOGICA DELLA TOSCANA, Roselle:gli scavi, cit., pp.126- 127, tav. XXII. Il ciclo decorativo di Roselle è stato di recente riesaminato da G. CIAMPOLTRINI (Annotazioni sul di età carolingia in Toscana “Prospettiva”,62,199 l, pp.61 -63; ID., "Pulchrius ecce micat nitentes marmoris decus ". Appunti sulla scultura di età longobarda nella Toscana meridionale, “Prospettiva”, 64, 199l, p.47). 28 SALADINO, Iscriizioni, cit., p. 239. 29 Sulla cattedrale di Luni: S. LUSUARDI SIENA, Lani paleocristiana e altomedievale nelle vicende della s?'a cattedrale, in Studi lunensi e prospettive sull'occidente romano, Atti del Convegno (Lerici 1985), “Quaderni di Studi Lunensi” 10-12, 1985-87, pp. 289 ss. e in part. p. 301; sul ciborio di Sovana: CIAMPOLTRINI, cit., pp.45-46, che propone una datazione intorno alla metà dell'VIII secolo. 30 Cfr. Ia torre della cattedrale di Luni: LUSUARDI SIENA, Luni paleocristiana, cit., p. 302. 31 La bolla di Innocenzo II che dispone lo spostamento della sede vescovile a Grosseto è edita in P. KEHR, Regesta Pontifcum Romanorum, Italia Pontif cia 111, Berolini 1908, p. 260, n. 8. Si può escludere che l'area sia stata frequentata nei secoli successivi in base all'assenza totale di maiolica arcaica, presente in quantità non trascurabili in altre zone della città. 32 La prima attestazione del castrum di Roselle è del 1179: F. SCHNEIDER, Regestum Senense, Roma 1911, n. 291; nel 1302-1303 una chiesa di Roselle compare nelle liste delle decime: G. GIUSTI-P. GUIDI, Rationes Decimarum Italiae nei secoli Xll e XIV: Tuscia 11, Città del Vaticano 1932, p. 188. 33 SOPRINTENDENZA ARCHEOLOGICA DELLA TOSCANA, Roselle: gli scavi, cit. p. 127; C. CITTER, Carta Archeologica del territorio di Roselle-Grosseto, Tesi di laurea (rel. Prof. R. Francovich), Univ. di Siena, anno acc. 1979-80. 34 Sulle tre colonie e i relativi territori: A. CARANDINI (a cura di), La romanizzazione dell'Etruria: il territorio di Vulci, Catalogo della mostra, Milano-Firenze 1985; A. CARANDINl-F. CAMBI-M. CELUZZA E. FENTRESS (a cura di), Paesaggi d'Etruria tra l’AIbegna e il Fiora, in preparazione. 35 G. CAMODECA, Ricerchesuicuratores reipu~licae, ANRW2.13, Berlin-New York 1980, p. 453 ss.; F. JACQUES, Le privilègede libertè, (CEFAR 76), Roma 1984, pp. 161-244. 36 Su Heba: M. CELUZZAA-E. FENTRESS, La ricognizione di superf cie come indagine preliminare allo scavo, in R. FRANCOVICH-D. MANACORDA (a cura di), Lo scavo archeologico dalla diagnosi all'edizione, III ciclo di lezioni sulla ricerca applicata in archeologia (Siena 1989), Firenze 1990 pp. 1 59- 1 62, fig. 1; su Saturnia: E. FENTRESS, Saturnia. figures in a centuriated landscape, in Etudes à l'homme de F. Jacques, in corso di stampa. 37 Sul significato storico del regresso della città a forme di insediamento diverse fra tardo antico e alto Medioevo, da ultimo: A. CARANDINI, L'ultima civiltà sepolta o del massimo oggetto, in Storia di Roma, Torino 1993, p.11 ss. e in part. pp. 14-17. 38 Su Roselle vd. sopra, nota 23; il primo vescovo noto di Populonia è presente al sinodo di Palmira del 501 (KEHR, Italia Pontificia 111, cit., p. 268; ROSSETTI, Società e istituzioni, cit., p. 247); nel caso di Sovana la prima testimonianza certa è solo del 680, ma sembra che l'istituzione della diocesi risalga agli anni del pontificato di Giovanni I (523-526) (G.F. GAMURRINI Dell’antica diocesi e chiese di Sovana, Pitigliano 1891; R. BIANCHI BANDINELLI, Sovana. Topografia ed arte, Firenze 1929, pp. 18-19 e 122 nota 13). 39 Cunicoli appaiono riempiti da un sedimento ricco di ceramiche medio e tardoimperiali (cortese segnalazione di A. Maggiani). 40 BIANCHI BANDINELLI, Sovana, cit., p. 25. 41 I dati sono stati cortesemente comunicati da N. Negroni Catacchio che conduce gli scavi nei pressi del duomo, e da A. Maggiani che dirige l?indagine nell'area a nord. Alcuni elementi di cintura di tipo "longobardo" provenienti da Sovana, databili all'inizio del VII secolo sono editi in: G. CIAMPOLTRINI, Segnalazioni per l'archeologia di età longobarda in Toscana, “Archeologia Medievale”, X, 1983, p. 511 s., fig.2. 42 CIAMPOLTRINI, PulcArius ecce micat, cit., pp. 46-47. 43 Strab. 5.2.ó; Rut. Nam., De reditu 1.409 ss. 44 Sui resti nei pressi del porto: F. FEDELI, Populonia. Storia e territorio, Firenze 1983, pp. 156-158 la proposta di identificazione della cattedrale è in: S. GELICHI. Premessa ad una carta archeologica medievale del territorio di Piombino, “Rassegna di Archeologia”, 4, 1984, p. 341 ss. e in part. p. 345 e fig. 3. 45 ROSSETTI, Società e istituzioni, cit., p.247. Vd. anche sopra, nota 25. 46 ROSSETTI, Società e istit?'zioni, cit., pp. 247-248; GELICHI, Premessa, cit., p. 345. 47 La notizia riportata da Malavolti (Dell'historia di Siena, Venezia 1559), è ritenuta infondata da Schneider (L 'ordinamento cit., p. 125, nota 100). Malavolti attribuisce la stessa sorte ad Ansedonia; la notizia viene definita con molta cautela “non impossibile” da Cardarelli (Confini cit., p. 91).
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Città frammentate e città-fortezza. Storie urbane della Toscana centro-settentrionale fra Teodosio e Carlo Magno
L'archeologia urbana è in Toscana disciplina di lunga tradizione: già sul finire dell'Ottocento il rinnovamento dei centri di Firenze e di Pistoia offrì l'occasione di campagne di scavo esemplari, almeno per i tempi 1, e nel corso del nostro secolo le occasioni che di volta in volta si sono offerte per incrementare la documentazione disponibile sono state raccolte, anche se si è dovuto attendere gli anni Settanta per l'avvio di campagne di scavo nate o condizionate da specifiche esigenza di ricerca. All'impegno sul campo non ha fatto riscontro un fervore editoriale comparabile, sì che, dai materiali raccolti a Firenze nell'ultimo decennio dell'Ottocento, ai recenti, impegnativi programmi di scavo realizzati in alcune città-campione, gli inediti condizionano pesantemente le valutazioni sulla storia urbana dei singoli centri, e sulla dinamica del rapporto città-territorio. Se è faticoso delineare le linee di fondo per l'età romana, avventurarsi nel periodo compreso tra la Tarda Antichità e la nascita della città comunale è oggi impresa destinata a proporre scenari altamente ipotetici; troppi sono i fattori incogniti che gravano sulle linee di tendenza che emergono dai "casi" urbani più felici, e questi - che si tenterà di ricomporre - non possono essere considerati esemplari se non perché altre storie urbane sono ancor più oscure. Quattro storie urbane 1. Lucca L'esplorazione integrale del sottosuolo della chiesa dei SS. Giovanni e Reparata, condotta fra il 1968 e il 1977 3, ha aperto, pur con i limiti imposti dalla metodologia d'indagine adottata, un periodo di consistente impegno nella ricerca archeologica urbana a Lucca. L'analisi sistematica della documentazione altomedievale curata dalla Belli Barsali nel 1973 ha offerto, negli stessi anni, un fondamento indispensabile per la ricerca sul campo 4. Questa si è sviluppata per tutti gli anni Ottanta con le tipiche caratteristiche dell'archeologia urbana d"'emergenza", seguendo quindi non un piano organico, ma le esigenze della ristrutturazione edilizia, o delle opere pubbliche. Sull'arco di un decennio, tuttavia, è stato possibile recuperare dati da tutto il centro storico, in maniera sostanzialmente uniforme, anche se con una prevalente concentrazione nel cuore della città moderna, la Via Fillungo. Con una rudimentale valutazione statistica, si dovrebbe concludere che il campione di dati raccolto può offrire un'immagine accettabile della storia urbana di Lucca, così come emerge dalla documentazione archeologica 5. Gli "strati neri" con materiali dell'avanzato II o degli inizi del III secolo formano una delle componenti più comuni e corpose delle sedimentazioni stratigrafiche urbane (Fig. 1), e s'incontrano tanto nel cuore della città romana - l'area del Foro - quanto nei quartieri periferici e nell'immediato suburbio. La loro natura sembra almeno duplice: da un lato hanno l'aspetto di discarica, ricca di materiale organico, accumulata in aree abbandonate; ma sono anche livellamenti, che colmano fosse di spoliazione (particolarmente evidenti nell'area del Foro)` e preparano una nuova urbanizzazione, di solito povera e ottenuta prevalentemente con materiale di spoglio. L'età severiana, in conclusione, sembra segnare un autentico "punto di svolta" nella storia urbana, con l'apice e la conclusione della crisi avviata fin dagli anni iniziali del II secolo, e con l'affermazione, certamente assai lenta, di un nuovo modello urbano 7. È possibile che la "rinascita" di Lucca - che tutto induce a credere città in pieno declino ancora per tutto il III secolo 8 - sia stata favorita dalla cerchia urbica in opera quadrata, retaggio degli anni della fondazione, nel II secolo a.C. La possibile evidenza epigrafica di lavori di restauro curati sotto Probo da un funzionario imperiale di rango equestre trova comunque conforto nell'inserimento della città, sede di una fabbrica imperiale di armi, nel sistema tardoantico di sicurezza dell'Italia centro-settentrionale. Se l'impianto della fabbrica
rientra, come è plausibile, nella riorganizzazione dioclezianea, la coincidenza fra recupero del ruolo di città-fortezza, sotto Probo, e la "militarizzazione" indicata dalla presenza della fabbrica sarebbe decisamente significativa. Il ruolo di piazzaforte, il recupero dell'insediamento rurale, nella piana e nel distretto montano, che aveva subito una crisi parallela, per sviluppo e profondità, a quella della città 10, dovrebbero riverberarsi nella riorganizzazione del tessuto urbano. L'area del Foro, in pieno abbandono già fra II e III secolo, sembra ormai zona marginale, in cui si accumulano discariche; il recupero delle due dediche alla casa imperiale note a Lucca per il IV secolo, a Costantino e Licinio, e a Giuliano, nel quadrante sud-orientale della città (Fig. 1, 1), segna la formazione di un nuovo "centro urbano" 11, probabilmente condensatosi intorno ad edifici pubblici rimasti in efficienza, come quelli impiantati entro i decenni iniziali del II secolo nell'area dei SS. Giovanni e Reparata (Fig. 1, 2 A), e sui quali verrà fondata, probabilmente non molto dopo la metà del IV secolo, la cattedrale cittadina 12. La chiesa, verosimilmente già dedicata a Santa Reparata, è un imponente edificio a tre navate, dotato di una completa pavimentazione musiva 13 per cui, come di consueto, dovettero essere mobilitate le risorse delle varie componenti della società cittadina. La fondazione del grande edificio sacro suscita - o comunque corrobora - la vitalità del quartiere sud-orientale: altri edifici, di destinazione indefinibile, vengono fondati a sud del complesso negli stessi anni, e a questo periodo potrebbe essere ricondotto anche il mosaico scavato agli inizi degli anni '30 nella vicina Piazza San Giusto 14. La riorganizzazione della città parrebbe conclusa entro i decenni iniziali del V secolo, se a quest'epoca deve essere attribuita la chiesa extramuranea di San Vincenzo, poi di San Frediano (Fig. 1, 3), fondata al centro di una vasta area sepolcrale, che parrebbe continuare la necropoli medio-imperiale - con tombe alla cappuccina - che era stata impiantata, subito fuori della porta settentrionale della città, su edifici in abbandono. La datazione al V secolo parrebbe assicurata sia dall'icnografia della chiesa, a pianta cruciforme, fedele a modelli padani, e, particolarmente, milanesi, che dai livellamenti sui quali vengono collocate le inumazioni. Nel San Vincenzo, come nelle strutture in elevato di Santa Reparata, si afferma una tecnica edilizia peculiare, che impiega pietre di cava, spaccate e regolarizzate sulla sola faccia destinata al paramento, e le lega con un'ottima malta per cui si ricorre ad inclusi macroscopici, talora di laterizio tritato 15. Sulla scorta della continuità altomedievale, sarebbe suggestivo datare a questi anni le altre tre chiese suburbane, poste nelle immediate adiacenze delle porte cittadine, che hanno destinazione sepolcrale, e daranno nome alle porte e ai quartieri, già almeno nell'VIII secolo, costituendo evidentemente i poli di aggregazione di una realtà urbana radicalmente diversa da quella della prima età imperiale 16. L'evidenza archeologica per l'Alto Medioevo, fra VI e VII secolo, dopo i livellamenti connessi alla pianificazione delle aree sepolcrali, in età teodosiana, è a dir poco esigua, e legata a fosse e buche di funzione oscura, come quelle esplorate nel cuore della città, in Via Buia (Fig. 1, 4), apparentemente non funzionali a spoliazioni 17; a trincce di spoliazione, come in Via San Pierino (Fig. 1, 5), quasi a ridosso delle mura, che indicano comunque una vitalità urbana soprattutto "periferica", concentrata nell'area immediatamente a ridosso delle murata. I pochi, sottili sedimenti riferibili - non senza difficoltà - a questo volgere di tempo sono stati incontrati ancora in Via Burlamacchi (Fig. 1, 6), nei pressi del lato sud-occidentale delle mura, e in Via San Tommaso (Fig. 1, 7) 19, nel quartiere nord-occidentale della città, per cui i documenti dell'VIII e IX secolo indicheranno una cospicua concentrazione di edifici, privati e sacri, che trova dunque un riflesso, assai pallido, anche nella documentazione archeologica. Nell'antico centro urbano si incontrano soprattutto tombe, databili con buon margine di approssimazione solo in pochi casi: in Via Fillungo (Fig. 1, 8); in Via Sant'Anastasio (Fig. 1, 9), in un'area sepolcrale la cui continuità d'uso parrebbe tracciata dagli inumati degli scavi 1985 e da quelli d'età longobarda del ritrovamento del 1859 7. La presenza di deposizioni genericamente collocabili nell'Alto Medioevo è comunque tratto comune e diffuso delle sequenze stratigrafiche lucchesi, e parrebbe segnalare una sostanziale commistione fra città dei vivi e città dei morti, pur se questa ha un suo luogo specifico - incrociando ancora dati archeologici e documentari -
intorno alla chiese extramuranee. Qui parrebbero comunque concentrarsi anche le attività artigianali, che evidentemente trovano nelle porte, punto d'incrocio fra città e campagna, il luogo naturale di sviluppo 21. Un ruolo a parte ha ovviamente il "cuore" religioso e amministrativo della città, nel quartiere sud-orientale, compreso fra la prima cattedrale, di Santa Reparata, e la seconda, di San Martino (Fig. 1, 2 B), che nulla vieta di attribuire, aderendo alla tradizione, all'infaticabile attività del vescovo Frygianus - Frediano nella tradizione locale - fiorito nel pieno VI secolo, e che si fece poi seppellire nella chiesa extramuranea di San Vincenzo, destinata a straordinaria fioritura con il suo nome. La corte regia del secolo VIII, posta nelle adiacenze del complesso episcopale (Fig. 1, 2 C), contigua anche alla zecca, conferma la funzione "specializzata" di questo settore della città 23, se addirittura non sfruttava edifici destinati alle strutture amministrative tardoantiche; I'impegno della comunità lucchese nelle opere di arginatura del Serchio, seppure inutile senza l'intervento miracoloso del santo vescovo Frygianus, conferma che alla vigilia della conquista longobarda la città aveva ancora una struttura amministrativa efficiente, ed altrettanto emerge dalla narrazione dell'assedio diretto da Narsete nel 553 24. La continuità d'uso delle necropoli, evidente sia in Via Sant'Anastasio che nel sepolcreto del San Vincenzo (Fig. 2, 9-10) 25, ribadisce che se 1'occupazione longobarda dovette trasformare radicalmente l'assetto sociale della città, ne conservò fedelmente l'organizzazione urbana. Lucca, città-fortezza che forse i Longobardi avevano già saggiato al soldo di Narsete 26, soddisfaceva in pieno al modello urbano che gli invasori cercavano fra VI e inizio del VII secolo: una piazzaforte posta su assi viari di rilevanza strategica, facilmente rifornibile per via d'acqua, e dotata di un retroterra agricolo sufficiente a garantirne gli approvvigionamenti 27. A partire dai primi decenni del VII secolo, probabilmente anche per la difficoltà di datare adeguatamente i contesti - sedimenti e necropoli - dei secoli centrali del Medioevo, quasi si estingue la documentazione di "scavo" tradizionale; acquista invece un ruolo prezioso, come indice della storia urbana - che a Lucca non potrà comunque che essere affidata soprattutto alle carte arcivescovili - una peculiare documentazione archeologica: le reliquie della produzione scultorea che accompagna, per più di un secolo, un'opera di rinnovamento e trasformazione della città che ha precedenti, per dimensioni e capillarità, solo nell'urbanizzazione tardorepubblicana e della prima età imperiale. I rilievi forniti dalla città e dal suburbio forniscono il commento "materiale" ai dati che emergono dai documenti del tardo VII e VIII secolo, e che lo scavo ancora non ha concesso: dalle prime imprese promosse, sotto Cuniperto, dall'alta burocrazia regia, all'impegno coordinato dei magnati cittadini per sviluppare il ruolo di Lucca sulla via per Roma, con le fondazioni ospedaliere del 722/23; infine, alla massa di fondazioni sacre dell'VIII secolo, e degli inizi del IX, coronate dal rinnovamento della cattedrale, curato dal vescovo Giovanni nel 780 e negli anni successivi, con l'impianto di una cripta e di chiese "satelliti" 28. Ancora, I'esaurimento della produzione scultorea in marmo rimane il miglior indice archeologico della seconda crisi dell'assetto cittadino, avviata nei decenni iniziali del IX secolo, che è comunque meglio riconoscibile nei .crescenti accenni, nel corso del IX secolo, ad aree urbane edificate e ora in abbandono 29. La crisi non sembra risolversi prima della fine del X secolo; poco prima del Mille compare una formula notarile che descrive una possibile novità edilizia,l’edificio murato, apetraetralcinase~harenaconstrurtum, e nel corso dell'XI secolo la città si copre di edifici sacri e privati che portano a soluzioni sempre più raffinate la tecnica edilizia del ciottolo disposto in filari a spinapesce, legati da malta, più che da terra. La costruzione della nuova cattedrale, con cui il vescovo di Lucca, e pontefice a Roma, Alessandro, fra 1060 e 1070 sostituì drasticamente l'edificio di Frediano e di Giovanni, chiude, paradigmaticamente, la storia della città altomedievaleio. 2. Fiesole
La fortuna archeologica di Fiesole etrusca e romana si è felicemente estesa anche alla città tardoantica e altomedievale, le cui reliquie hanno goduto, fin dalle prime imprese archeologiche agli inizi dell'Ottocento, di un'attenzione non dissimile da quella che veniva rivolta ai materiali più antichi; la recente carta archeologica della città 31 consente di cogliere con sufficiente nitore alcuni episodi di storia urbana fra Tarda Antichità e Alto Medioevo. Fiesole romana è essenzialmente una città "di servizi", con una componente residenziale esigua, ma arricchita, grazie all'impegno costante del municipium, delle opere pubbliche che qualificano la città come tale, e ne fanno punto di coagolo civile, amministrativo, economico - con i mercati - del territorio dipendente. La costruzione delle terme, nei decenni a cavallo fra I e II secolo d.C., sembra esaurire il ciclo delle opere pubbliche iniziato in età augustea con il teatro 32; in età severiana gli impegni della comunità sono ormai concentrati nel recupero del patrimonio monumentale, come con la restitutio del Capitoliam a cui partecipò anche l'ordo della vicina città di Firenze 33. Data la particolare natura della città, la crisi dell'assetto urbano è a Fiesole essenzialmente crisi delle opere pubbliche, e quindi riferibile piuttosto alla dissoluzione o all'esaurimento delle strutture amministrative municipali, che non all'evoluzione della società cittadina. I recenti scavi di Via Marini offrono la documentazione minuziosa del lento decadere di un imponente edificio pubblico, avvenuto non in maniera continua, e ripetutamente contrastato fino al disuso completo, nei decenni iniziali del V secolo;~. Questo periodo, in effetti, parrebbe segnare il culmine del disfacimento degli edifici pubblici anche nelle indicazioni numismatiche - le sole concretamente apprezzabili - fornite dai resoconti di scavo della fine dell'Ottocento e dei primi del Novecento. Dai sedimenti accumulati sulle terme, la relazione dello scavo del 1891, ad esempio, segnala “un Massenzio, due piccoli bronzi di Costantino juniore, tre di Flavio Giulio Costanzo, un Numeriano e Tetrico juniore” 35; considerando il necessario periodo d'uso delle monete, si porrebbe il disuso del complesso termale sul finire del IV secolo. Nel corso del secolo successivo si accumulano o vengono depositati sedimenti anche nell'arca del tempio etrusco; le relazioni degli scavi condotti a più riprese annotano monete fino agli inizi del V secolo 36. La continuità di vita segnalata dai materiali restituiti dagli scarichi, e lo stesso formarsi degli scarichi, indicano però che la crisi dell'assetto urbano definito fra l'età augustea e Traiano è piuttosto una metamorfosi: a Fiesole continua a vivere una comunità fornita di un potenziale economico sufficiente a consentirle l'apertura ai flussi commerciali che trovano lungo l'Arno, alla fine del IV e ancora nei primi decenni del V secolo, una nuova vitalità 37. Benché il silenzio della documentazione archeologica ed epigrafica la renda aleatoria, è dunque immediata l'ipotesi che la nuova vita di Fiesole sia condizionata dall'antica acropoli (Fig. 2, A), che la natura del luogo e le mura etrusche rendono punto strategico essenziale sulle vie transappenniniche; I'incursione di Radagaiso, nel 405, ne aveva dato la migliore prova. Se fosse possibile assegnare a questo volgere di tempo l'edificazione, su opere di terrazzamento d'età etrusca, della chiesa di Sant'Alessandro (Fig. 2, e) 38, la ritrovata centralità dell'arx avrebbe una conferma decisiva. In effetti, I'assoluta identità delle colonne e dei capitelli con cui l'attuale edificio romanico è costruito impone almeno di valutare la proposta che questo derivi, per un tramite tardoantico, dal metodico smantellamento di un edificio pubblico romano (d'età augustea, stando alla tipologia dei capitelli) 39, forse la basilica cittadina; parrebbe immediato collocare questo episodio nei decenni di passaggio fra IV e V secolo che segnano la "morte" di Fiesole romana. E certo invece che fra VI e VII secolo, quando i materiali disponibili si fanno più consistenti e integrano le notizie offerte dalla tradizione scritta, la metamorfosi del "centro di servizi" civili e amministrativi d'età imperiale in città-fortezza è completata: Fiesole ha un ruolo notevole negli episodi iniziali della guerra gotica 40; i monumenti pubblici da discarica sono divenuti necropoli. In effetti, fra opere pubbliche ridotte a rudere e avanzi di edifici privati l'indagine archeologica non incontra che tombe, distribuite "sistematicamente" fra ruderi in abbandono, o recuperati come chiese cimiteriali. Questo parrebbe il caso del sepolcreto che, a partire dai decenni finali del VI secolo, si
distende sull'area del tempio etrusco, la cui cella è verosimilmente divenuta un piccolo edificio di culto (Fig. 2, d) 41. I ritrovamenti ottocenteschi di Piazza Umberto I, oggi Garibaldi (Fig. 2, a; 3), e, negli anni Ottanta, il recupero di una tomba nell'area adiacente a sud (Fig. 2, b), mostrano che anche il nucleo longobardo che si insediò nella città, probabilmente dopo il definitivo inserimento di questa nel Regno di Pavia, negli anni iniziali del VII secolo, scelse come area sepolcrale ruderi di edifici pubblici, apparentemente senza alcuna correlazione a questi, che non sia lo sfruttàmento di resti murari per definire la tomba 42; a questa esigenza doveva rispondere anche la struttura romana del parco di Villa Marchi a cui fu addossata una tomba femminile (Fig. 2, C) 43. Le poche tracce di vita offerte dall'acropoli44 non sono certo sufficienti a provare la consistenza dell'insediamento altomedievale sull'acropoli, ma il sepolcreto che si distende intorno alla chiesa di Sant'Alessandro, con le tombe "privilegiate", qualificate dalla crocetta aurea di un'inumazione e dalla croce a rilievo sulla copertura di un'altra4S, ne conferma il ruolo centrale nella vita cittadina del VII e - forse - VIII secolo. 3. Firenze Gli sventramenti della fine dell'Ottocento, documentati da Corinto Corinti con tenacia e precisione 46, e una sequenza pressoché ininterrotta di indagini dal secondo dopoguerra ai giorni nostri hanno accumulato su Florentia una massa enorme di dati archeologici, che attende un'adeguata presentazione 47. La situazione dell'archeologia urbana di Firenze è dunque per certi aspetti paradossale: sui pur cospicui materiali editi grava il condizionamento del molto noto solo da accenni, e fenomeni della storia urbana che parrebbero evidenti potrebbero essere smentiti dalla revisione dei dati d'archivio, o dalla rilettura di sequenze stratigrafiche sinora solo anticipate. L'urbanizzazione di Florentia segue una linea dissimile da quella presumibile per le altre città dell'Etruria settentrionale, raggiungendo l'apice fra la fine del I secolo 48 e l'età antonina, se realmente i grandi impianti termali cittadini devono essere posti negli anni di Adriano 49, e la costruzione dell'Isco scende ai decenni finali del II secolo 50,. La città mercantile e manifatturiera, con il tessuto sociale articolato, anche nelle sue contraddizioni, che ancora negli anni di Severo si manifesta nelle dediche dell'Isco 51, sembra misteriosamente eclissarsi nel corso del III secolo, subendo probabilmente, con un ritardo di qualche decennio, un processo di crisi paragonabile a quello riconosciuto a Lucca. A testimoniarlo non intervengono a Firenze - almeno nei dati sinora disponibili - le discariche e le spoliazioni viste a Lucca, ma la riurbanizzazione che si profila a partire dai decenni iniziali del IV secolo, e si completa nel corso di un secolo: I'edificio con pavimento musivo di Via della Nave, costruito anche con materiale spoliato da tombe monumentali; le fogne in cui sono messi in opera frammenti di sculture e basoli 52; il singolare edificio a pianta circolare costruito direttamente su un pavimento musivo nell'area della Chiesa di Sant'Andrea (Fig. 4, A) 53; i modesti edifici della riurbanizzazione dell'area del Battistero e di Santa Reparata 54. La documentazione archeologica può essere sfruttata per argomentazioni anche contraddittorie: il sedimento con monete del IV secolo che si deposita su un ambiente con suspensarae 55 del piccolo impianto termale costruito a ridosso della porta settentrionale della città può indicare l'abbandono delle terme, ma anche una spoliazione per la nuova urbanizzazione, o un livellamento per la definizione di nuove aree di vita. Altrettanto si potrà dire per gli scarichi che nello stesso momento si depositano nelle terme meridionali, di Piazza della Signori 56. Fattori "positivi" - la costruzione dei nuovi edifici pubblici per eccellenza, le chiese - e "in negativo" - i livellamenti con discariche - convergono con l'abbondante materiale epigrafico nel proporre una città che fra la fine del IV e i primi decenni del V secolo ha ritrovato, sia pure nella nuova, più modesta scala, vivacità e ricchezza, e una società urbana articolata. La vivacità delle attività manifatturiere e commerciali che trovano un veicolo eccellente nell'Arno ha riscontro archeologico
nell'officina vetraria di Piazza della Signoria 57, e epigrafico nella comunità siriaca che si fa seppellire nella chiesa cimiteriale di Santa Felicita, subito sulla sinistra del fiume. Le tracce di vita offerte dalle discariche, e la distribuzione delle chiese, inducono a proporre per Florentia tardoantica un modello urbano simile a quello delineato per Lucca: la chiesa di San Lorenzo a nord, poco fuori della porta settentrionale, fondata nel 393 59, quella di Santa Felicita a sud, in uso come sepolcreto già nel 405 60, paiono indicare che anche a Firenze la vita si addensa intorno alle porte e gli assi di comunicazione: “ante portas civitatis”, dunque nel luogo "centrale" del nuovo assetto urbano, è giustiziato Radagaiso, nel 405 61. La costruzione delle grandi chiese intramuranee, di Santa Cecilia a sud, in un momento del V secolo ancora non definito, di Santa Reparata a nord, intorno al 500, sembra confortare 1'immagine di Firenze tardoantica come città "frammentata" in due nuclei, coagulati uno intorno alla porta settentrionale, l'altro lungo l'Arno; in questa prospettiva possono essere letti anche i modesti episodi di riurbanizzazione che pare di cogliere nell'area del Battistero e di Santa Reparata, probabilmente fra fine del IV e inizi del V secolo 62, in una commistione fra "spazio dei vivi" e sepolcreti che sembra replicare le indicazioni di Lucca. Pur con la fragilità degli argumenta ex silentio, la mancanza di interventi tardoantichi sui grandi edifici del Foro, il capitoliam e le Terme Capitoline, che pare comunque di ricavare dalle Cartoline del Corinti, induce a supporre che il "cuore" monumentale della città romana sia ormai paesaggio di ruderi, che la loro marginalità rispetto ai nuovi poli della vita cittadina esclude da un metodico riuso; spiccano ancora le rovine, che nell'XI secolo potranno essere riutilizzate nella riurbanizzazione romanica`~. Sembra addirittura episodico anche l'impiego come area sepolcrale: in un sol caso il Corinti segnala, fra Via del Campidoglio e Via degli Agli, tombe che, per la collocazione subito a ridosso dei basolati romani, potrebbero essere attribuite a questo momento 64. La fortuna di Firenze tardoantica ha forse la motivazione più solida nella ripresa delle attività agricole, manifatturiere, commerciali, che trova indici archeologici nella diffusione dell'anfora "di Empoli" e di una peculiare produzione ceramica locale`S' e nell'abbondanza di materiale d'importazione - alimentare e ceramico - restituito dalla stretta fascia lungo l'Arno, tornato ad essere vitale arteria di traffico, con un terminale nel porius Pisanus che è per tutta la Tarda Antichità anche arsenale navale 66. Grazie alle mura della colonia augustea, ancora efficienti o ripristinate, Firenze è però anche una piazzaforte su una via transappenninica la cui rilevanza è accresciuta dal trasferimento della corte imperiale a Ravenna, come dimostra nel 405 1'incursione di Radagaiso; nei primi decenni del V secolo accoglie militari della schola Gentiliam, subito omologati, con la sepoltura in Santa Felicita, alla classe dirigente cittadina 67, e ancora nei primi anni della guerra gotica ha un ruolo notevole 68. SM Non sono finora noti episodi monumentali attribuibili alla fase tardoantica: G. DE MARINIS, San Lorenzo: i dati archeologici, in San Lorenzo 393-1993, Firenze 1993, p. 31 e ss. L'assenza - sin qui - di tombe specificamente riferibili a Longobardi 69 potrebbe essere correlata alla nuova fortuna di Fiesole: l'arce fiesolana è per le sparute formazioni militari tardoantiche e altomedievali assai meglio difendibile del lungo circuito fiorentino, ed ha un ruolo tattico-strategico equivalente. La scomparsa della classe dirigente tradizionale, nel vortice delle guerre gotiche e della conquista longobarda, il mancato inserimento del nuovo gruppo sociale dominante, longobardo, potrebbero essere responsabili del declino di Firenze fra VI e VIII secolo: l'edificio della modesta riurbanizzazione tardoantica di Piazza Sant'Andrea è coperto da discariche su cui viene costruita una tomba (Fig. 4, B) 70; tombe occupano anche il basolato stradale a ridosso della porta settentrionale 71. Lo scarico con materiali del VII e dell'VIII secolo che si accumula sui residui dell'officina vetraria tardoantica, in Piazza della Signoria 72 conferma che nel quartiere meridionale della città, lungo l'Arno, la vita continua, e si riverbera nei rinnovamenti altomedievali di Santa Cecilia, così come, nel settore settentrionale, nell'ampliamento carolingio di Santa Reparata 73. 4. Chiusi
Chiusi offre, per più aspetti, un puntuale parallelo a Fiesole. La continuità e la coerenza dell'indagine archeologica, pur ovviamente privilegiando la città etrusca e romana, hanno fornito anche per Tarda Antichità e Alto Medioevo materiale che la recente redazione di un'accuratissima carta archeologica rende agevolmente disponibile 74. Dopo il fervore del rinnovamento urbanistico della Tarda Repubblica e della prima età augustea, Chiusi sembra adeguarsi al tranquillo ruolo di capoluogo amministrativo di una regione agricola, che la facilità di comunicazioni con il grande mercato urbano salva dai momenti più acuti di crisi. Nel II secolo, quando l'edilizia privata in altre città è inconsistente, a Chiusi si edificano dimore fornite di pavimenti musivi adeguati ai migliori livelli contemporanei 75, e il procedere dell'urbanizzazione coinvolge aree fino a quel momento - apparentemente - non occupate, dentro e fuori la cerchia urbana (Fig. 5, 2-4). Non è da escludere che le domus urbane abbiano un ruolo analogo a quello delle grandi ville suburbane, attestate soprattutto dal complesso di Monte Veneri 76, come dimora saltuaria dei grandi proprietari terrieri, di origine locale o esterna. Sono proprio le tombe che si incontrano sui pavimenti musivi 77 a indicare una cesura della vita cittadina; questa ha un indice affidabile anche nei materiali che segnano il disuso dei cunicoli di Piazza del Duomo, sul finire del IV secolo78. La fine del tradizionale sistema di "servizi" sotterranei della città etrusca e romana sembra coincidere con la nascita di una nuova vita; sui resti di una domus medioimperiale (Fig. 5, 1) - stando ai mosaici 79 - viene fondato, in età teodosiana, verosimilmente grazie all'intervento di un clarissimus cittadino, un edificio di culto di non ampie dimensioni, ma dal nobile pavimento musivo 80, che rinnova il ruolo della città nei confronti del territorio. Seppur di cronologia incerta, fra V e VI secolo, i corredi delle tombe impiantate su un edificio forse pubblico, al margine dell'area urbana (Fig. 5, 3) 81, segnalano il tono decoroso dell'aristocrazia municipale tardoantica; il rinnovamento e l'ampliamento della cattedrale, probabilmente negli anni finali delle guerre gotiche, deve essere però sostenuto dal vescovo Florentinus 82. La vera "ripresa" di Chiusi - nell'evidenza archeologica - è con la discesa longobarda; la città ha sin dal 570 un ruolo strategico eccezionale, dapprima come piazzaforte bizantina a protezione avanzata dell'asse Roma-Ravenna, e poi come spina nel fianco, longobarda, dello stesso sistema. Alla posizione, si aggiunge a Chiusi la dotazione di mura, e, soprattutto, l'evidente possibilità di ritagliare all'estremità occidentale dell'area protetta dall'antica cerchia (Fig. 5, 7) un vero e proprio castellarr', che le mura ''sillane'' 83 rendono arduo da espugnare alla mediocre poliorcetica delle soldatesche del VI e VII secolo. La ricchezza degli inumati nell'area extramuranea dell'Arcisa (Fig. 5, 6) che emerge dagli scavi ottocenteschi assai più che dal tratto di necropoli esplorata nel 1911-1912 84, sembra postolare, per i decenni finali del VI secolo, la benevolenza imperiale per il nucleo di Longobardi che da questa piazzaforte si oppone ai connazionali di Pavia 85. Anche quando la città entra far parte del Regno di Pavia, l'Arcisa continua ad essere area sepolcrale per eccellenza dei Longobardi 86. Nel corso del VII secolo, e forse anche agli inizi dell'VIII, la comunità longobarda sembra dotarsi di una propria necropoli anche entro l'antica cerchia urbana, seppure al margine dell'abitato (Figg. 5, 5; 6)87, ma ricorre anche a tombe nell'area del Duomo (Fig. 5, 1) 88, quasi fornendo il commento archeologico al processo di integrazione culturale e religioso che si conclude sul finire del secolo, e trova nel 729, nel rinnovamento della chiesa della santa locale, Mustiola, ad opera del dux Gregorio e di sua moglie, la celebrazione monumentale 89. Città frammentate e città-fortezza. Continuità e cesura fra tarda antichità e alto medioevo. 1. La tarda antichità La città che nel IV secolo emerge dalla pesante crisi che aveva sconvolto l'Etruria settentrionale nel corso del II secolo, culminando negli anni dei Severi 90, è radicalmente diversa dalla solida città
"centripeta" plasmata dai ceti affaristico-mercantili di estrazione libertina e dalle tradizionali aristocrazie municipali con il secolare impegno urbanistico iniziato in età augustea, e esaurito al volgere fra I e II secolo. Edifici pubblici in abbandono, o utilizzati solo in parte, quartieri residenziali sconvolti dalla crisi demografica e dei ceti produttivi, impongono di disegnare una nuova forma urbana, che trascura l'antico cuore monumentale, con le sue strutture rese ormai inutili dalla crisi delle istituzioni municipali, o dalla fine dei culti tradizionali, e valorizza piuttosto i settori periferici della città che già fra I e II secolo gli edifici per spettacolo e le terme avevano promosso a centro pulsante della vita quotidiana. Le indicazioni di Lucca e Firenze convergono nel proporre una città "frammentata" in nuclei distribuiti di preferenza intorno alle porte e agli assi viari principali, in cui continua l'attività artigianale, e i traffici possono cogliere anche le minori occasioni. Del tutto oscura è però la concreta articolazione dei nuovi quartieri; si può solo immaginare modesti edifici costruiti con materiale di recupero, o addossati a ruderi, alternati a spazi vuoti che possono essere impiegati anche per sepolcreti improvvisati. Nella crisi del tessuto urbano, le mura sono, anche "fisicamente", elemento di coesione, e garantiscono la continuità della vita cittadina. Grazie ai vecchi impianti tardorepubblicani o coloniali, o dotandosi di protezioni tumultuarie, le città dell'antica Etruria settentrionale riescono tutte (con la possibile eccezione di Cortona), a superare la crisi della media età imperiale, e a riproporsi come punto di riferimento della vita del territorio, ricalcando i ruoli che in questo già svolgevano: le città con una tangibile componente manifatturiera e commerciale, come Firenze, Lucca, Pisa, integrano ancora il ruolo militare, amministrativo, religioso, con quello produttivo; le città che, come Fiesole o Chiusi, erano essenzialmente "centro di servizi" del territorio, si propongono ora soprattutto per il peculiare "servizio" che la calamità dei tempi rende prioritario, la sicurezza. E un elemento di continuità anche l'impegno delle classi dominanti cittadine, o delle grandi famiglie superstiti, a corroborare il ruolo della città verso il territorio; ovviamente questo è affidato soprattutto agli edifici del culto cristiano, ma ancora nella seconda metà del IV secolo le terme continuano a svolgere il ruolo di cerniera fra città e territorio che avevano coperto fin dalla prima età imperiale. In città in crisi, o di modesto spessore demografico, come Volterra e Roselle, le terme che vengono costruite in età tardoantica al margine della città, "aperte" anche topograficamente al territorio, hanno un ruolo fondamentale nel richiamare dalle campagne alla città 91. La "costruzione" della città tardoantica si conclude negli anni della dinastia teodosiana, con il completamento delle cattedrali e delle chiese cimiteriali che sono il nuovo punto di riferimento dei quartieri. Parallelamente, si completa la ricostruzione della società cittadina, anche nella classe dirigente; le iscrizioni fiorentine di Santa Felicita e quelle aretine del Duomo Vecchio vedono i curiali omologati al clero, ai militari delle guarnigioni, ai mercanti 92. 2. La città in epoca longobarda (VI-VII secolo) L'evidenza archeologica contribuisce in maniera risolutiva a delineare le vicende del trentennio compreso fra l'irruzione longobarda a Sud degli Appennini, intorno al 570, e la definitiva conquista al Regno di Pavia, con Agilulfo. Le vicende di quegli anni ebbero conseguenze decisive per la storia delle città, e può quindi essere utile ripercorrerle brevemente. La Tuscia fu naturalmente coinvolta nelle offensive longobarde che nel decennio 570-580 giunsero fin sotto Roma, ma non sembra che queste abbiano portato ad una conquista capillare e definitiva. Lucca, punto d'arrivo in Toscana di un asse viario transappenninico ormai fondamentale 93, dovette probabilmente rimanere nelle mani di Longobardi fedeli al re, pur se la dedica di un comes bizantino dal nome germanico 94 può far insinuare il sospetto che anche i Longobardi insediati nella città e nei vici e castella del territorio lucchese 95 non fossero insensibili all'oro imperiale; questo accadde probabilmente a Chiusi, forse anche ad Arezzo 96, determinando una situazione precaria e foriera di turbam`~enti sociali e religiosi in città divenute di frontiera, come Fiesole 97.
Le città della Toscana meridionale, ritornate o mai sfuggite al controllo bizantino, dovevano essere esposte alternatamente all'azione dei Longobardi di Lucca, che con un dux crudelissimus giunsero, forse già nel decennio 570-580, ad impossessarsi di gran parte del territorio di Populonia, provocando la fuga dell'episcopato nella piazzaforte bizantina dell'Elba 98, e di quelli spoletini, che nel 592 costringevano Sovana a trattative 99. Pisa, ancora nei primi anni del nuovo secolo, sembra in grado di muoversi autonomamente nel groviglio dei conflitti 100. L'azione di Agilulfo, nel decennio iniziale del VII secolo, unifica la Tuscia centro-settentrionale, sino ai confini che finiranno per essere, con limitate trasformazioni, quelli della Toscana 101. La Tuscia Langobardordum è dunque regione di frontiera, su tre versanti: a nord Lucca, Pistoia, Fiesole, e forse Arezzo, presidiano gli itinerari transappenninici; Lucca, in particolare, garantisce l'unica via in mano al Regno, mentre Pistoia e Fiesole fronteggiano la Romania padana. A sud-est il ruolo chiave è affidato a Chiusi, mentre sul mare Pisa si contrappone alla catena di basi insulari che raccordano Roma alla Liguria bizantina. Ancor più che nella Tarda Antichità, le mura sono dunque l'elemento che condiziona l'articolazione e la vita delle città: Lucca, la più vivace nel VII e VIII secolo, oltre alla posizione strategica vanta mura di provata efficienza; a Fiesole, Arezzo tt, Chiusi, la conservazione delle antiche mura si combina con la possibilità di adattare l'antica acropoli a castellam che possa essere difeso anche da un manipolo di armati. Potrà non essere casuale che l'insediamento longobardo, attestato solo da necropoli, sia concentrato in queste città-fortezza. Un insediamento longobardo topograficamente distinto da quello romano può essere indiziato, almeno in alcuni casi, dalla collocazione del sepolcreto: il caso di Lucca e Pisa 103, dove le aree sepolcrali non sono distinte, potrebbe essere riferito alla peculiare storia delle due città, mentre a Chiusi-Arcisa e a Arezzo l'insediamento di nuclei longobardi, avvenuto verosimilmente d'intesa con l'autorità imperiale, potrebbe aver comportato l'acquartieramento in un settore urbano "esclusivo", collegato ai sepolcreti extramuranei; è ormai dentro l'area urbana il più tardo sepolcreto chiusino della Caserma dei Carabinieri. La vita di queste città di ruderi e di morti è nel VII secolo, anche nell'evidenza archeologica, a dir poco oscura: solo la continuità delle istituzioni religiose, e il ruolo amministrativo che le città comunque conservano, garantiscono che la strutturazione tardoantica sopravvive al cambiamento di classe dirigente. Con una semplificazione forse non eccessiva, si potrebbe concludere che la città toscana del VII secolo altro non è che la naturale evoluzione della città tardoantica: I'aristocrazia municipale, "civile", degli honestiores insigniti talora del rango di clarissimus, che le iscrizioni funerarie ancora del VI secolo, e la scarsa evidenza archeologica 104, indicano residente in città, è sostituita dalla classe dirigente longobarda, che stando all'evidenza dei contesti tombali è ugualmente concentrata nelle città. Se si vuole, anche questo non è elemento di frattura, ma estrema conseguenza della "militarizzazione" della città e del territorio avviata nella Tarda Antichità. La "continuità nel cambiamento" fra VI e VII secolo ha per sfondo, comunque, un drastico ridimensionamento, la cui spia più manifesta - nell'evidenza archeologica - è la fine della produzione scultorea lapidea 105 le classi dirigenti longobarde non sono interessate al rinnovamento degli edifici ecclesiastici, e quel che sopravvive della classe dirigente romana - dalle cui fila esce probabilmente l'episcopato cattolico - è manifestamente affranto. Ma forse l'indice archeologico migliore dell'evoluzione fra i due secoli è la produzione ceramica: tecnologia e forme segnano una sostanziale continuità con le produzioni tardoantiche, ma il repertorio morfologico si riduce a pochissime forme, polivalenti 106. Un caso di rapido adeguamento è offerto invece dalle produzioni di oggetti d'ornamento personale; la sostituzione di classe dirigente porta a modeste trasformazioni nella domanda di oggetti in metallo prezioso e in bronzo, subito assecondate dalle of ficine 107, che, come indicano i ritrovamenti di Lucca 108 e Luni 109, hanno sede in città. I più evidenti tratti di cesura fra città tardoantica e d'età longobarda sono dunque, nell'evidenza archeologica, la distinzione "etnica" dei sepolcreti, e l'esaurimento delle produzioni artistiche monumentali. Entrambi sono sanati già nel volgere del VII secolo, quando per impulso degli ambienti legati alla corte di Pavia riprende l'opera di restauro e abbellimento degli edifici di culto, partendo da
quelli che, dedicati ai culti cittadini, sono un fattore unificante della società urbana 110, e gli edifici di culto cattolici accolgono anche deposizioni di Longobardi: le croci auree della tomba "privilegiata" di Lucca-Santa Reparata 111 e di una tomba del sepolcreto fiesolano della chiesa di Sant'Alessandro, le tombe di Longobardi dell'area del Duomo di Chiusi, indicano la completa integrazione dei ceti urbani longobardi nei modelli culturali tardoantichi. A questi si richiamano esplicitamente le produzioni scultoree della fine del VII e dei primi decenni dell'VIII secolo, e anche la tecnica edilizia monumentale parrebbe recuperare i modi regionali tardoantichi 112. Il dax Gregorio celebra a Chiusi le sue imprese architettoniche recuperando i versi di un epigramma ravennate della metà del VI secolo 113. Con la scomparsa dell'uso della suppellettile funeraria, e nella perdurante difficoltà di datare i contesti ceramici dei secoli centrali del Medioevo, almeno nell'ambito regionale, la ricostruzione dell'assetto urbano d'età carolingia deve essere affidata essenzialmente alla documentazione scritta; le reliquie della produzione scultorea e la modesta evidenza archeologica segnalano soprattutto la recuperata centralità della cattedrale nella vita cittadina, anche nell'aspetto monumentale 114: la città di Carlo Magno ricalca anche in questo la città di Teodosio. GIULIO CIAMPOLTRINI
1 Un cenno in CIAMPOLTRINI 1993a, p. 52 e ss. 2 Si veda qualche timida proposta in CIAMPOLTRINI 1993a, passim. 3 Si veda la recente edizione: S. Reparata. 4 BELLI BARSALI 1973, p. 461 e ss. 5 CIAMPOLTRINI_NOTINI 1990; CIAMPOLTRINI 1992a. 6 Scavi 1987- 1990 nell'area compresa fra Via di Poggio, Piazza San Michele in Foro, Corte Portici, inediti; per un cenno, CIAMPOLTRINI 1988. 7 Per il ruolo nodale svolto dal periodo anche nell'ambito regionale, cfr. CIAMPOLTRINI 1992d 8 CIAMPOLTRINI 1988, p. 95. 9 CIL XI, 204; CIAMPOLTRINI 1991a, p. 255 e ss.; per il sistema difensivo tardoantico dell'Etruria settentrionale, CIAMPOLTRINI 1989a, p. 247 e ss.; CIAMPOLTRINI 1990a, p. 379 e ss. Per un intervento tardoantico nell'area delle mura di Lucca, CIAMPOLTRINI NOTINI 1990, P 561 e ss. Sulle mura romane di Lucca, di prossima pubblicazione G. CIAMPOLTRINI, Lucca. La prima cerchia. 10, Cfr. G. CIAMPOLTRINI_P. NOTINI-P. RENDINI, Materiali tardoantichi e altomedievali della valle del Serchio, “ Archeologia Medievale”, XVIII (1991), p. 699 e ss. 11 CIAMPOLTRINI 1991a, p. 258; CIAMPOLTRINI_NOTINI 1990, P. 590 e ss. 12 G. CIAMPOLTRINI, La chiesa dei SS. Giovanni e Reparata nell'assetto urbano d'età romana, in S. Reparata, p. 191 e ss. 13 G. DE ANGELIS D'OSSAT, La basilica episcopale d'età paleocristiana, in S. Reparata, p. 17 e ss. La suggestiva ricostruzione proposta dal De Angelis d'Ossat non impedisce di riconoscere nei grandi pilastri laterizi leggibili nella parete settentrionale dell'area esplorata - costruiti con materiale di spoglio - I'elemento di scansione fra la navata centrale e la navata settentrionale del pristino edificio, che si sarebbe articolato quindi su tre navate, a questa fase appartiene certamente la pavimentazione musiva, per la connessione fra partizioni musive e architettoniche Santa Reparata I avrebbe, con la "classica" pianta basilicale, mossa solo dalla piccola abside e con il canonico impianto di una solea con cui il presbiterio si prolungava nella navata centraie un impianto sostanzialmente esemplato su quello degli edifici costantiniani di Roma, e radicato nella tradizione della "basilica" laica tardoantica. I pilastri distribuiti nella navata centrale, cui il De Angelis assegna la destinazione di lampadofori, potrebbero piuttosto essere attribuiti ad un ridimensionamento del complesso, in cui la chiesa avrebbe acquisito un'icnografia cruciforme, "ambrosiana", per la soppressione delle antiche navate laterali, salvo che nelle due campate orientali, divenute transetto di Santa Reparata II. In questa fase il pavimento musivo - la cui rigorosa geometria è comunque ignorata dalle nuove scansioni architettoniche parrebbe abbandonato, sostituito da una semplice pavimentazione in calce, ben leggibile, a un livello superiore di ca. 20 cm., nel testimone superstite al centro della navata centrale, nell'area occidentale. In assenza di dati stratigrafici, la datazione delle due fasi, probabilmente non molto lontane nel tempo, sembra imposta rispettivamente dai mosaici
pavimentali, fortemente radicati nella tradizione attiva anche in area regionale fin dagli inizi del IV secolo (CIAMPOI,TRIN~ 1990a, p. 369 e ss.), e dagli affreschi sui pilastri della ristrutturazione, che certamente non escono dalla tradizione tardountica. Provvisoriamente, si potrebbe collocare la fondazione della cattedrale nei decenni centrali della seconda metà del IV secolo, e assegnare la ristrutturazione allo stesso momento di trasformazione, entro la metà del V secolo, a cui si deve anche l'accumulo di sedimenti sul pavimento del "battistero quadriconco" (per questo, G. DE MARINIS, Lo scavo del l~attistero, in S. Reparata, p. 113, note 87-89; la prudenza del De Marinis nel datare la produzione di sigillata chiara D, con stampigliature attribuibili - sulla scorta della descrizione fornitane - allo stile Hayes Aii-iii, fin entro il VI secolo sembra decisamente eccessiva). 14 Rispettivamente scavi inediti della Soprintendenza Archeologica per la Toscana (1990-1); A. MINTO, Lucca. Pavimenti a mosaico..., “NOt. Scavi”, 1934, p. 22 e ss. 15 Sulla chiesa di San Vincenzo, CIAMPOLTRINI_NOTINI 1990, p. 574 e ss.; CIAMPOLTRINI l991b , p. 42 e ss. 16 CIAMPOLTRINI-NOTINI199O, P. 588 e ss. 17 CIAMPOLTRINI-NOTINI199O, P. 567 e ss. 18 Scavi della Soprintendenza Archeologica per la Toscana (1991), inediti. 19 Cenni rispettivamente in CIAMPOLTRINI-NOTINI199O' P. 569; CIAMPOLTRINI 1992a, p. 714 e ss. 20 CIAMPOLTRINI-NOTINI 199O, p. 569 e ss. 21 CIAMPOLTRINI-NOTINI 199O, p. 588 e ss. 22 Cfr. CIAMPOLTRINI 1991b, p. 46; CIAMPOLTRINI 1992b, p. 44 e ss. 23 BELLI BARSALI 1973, p. 509 e ss. 24 Rispettivamente Gregorii, Dialogi, III, 17; Agathias, Hist., I, 12-18. 25 CIAMPOLTRINI-NOTINI 199O, p. 569 e ss., e p. 578 e ss. 26 Per una possibile evidenza archeologica dell'assedio, G. CIAMPOLTRINI, Un ritrovamento seicentesco di monete bizantine a Lucca, “Rivista Italiana di Numismatica”, XCIII (1991), p. 195 e ss. 27 Cenni in CIAMPOLTRINI l990b, p. 689 e ss . 28 CIAMPOLTRINI l991b, p. 42 e ss.; CIAMPOLTRINI 1991C, P. 59 e ss. 29 CIAMPOLTRINI 1991C, P. 64. 30 Cfr. in merito CIAMPOLTRINI 1992a, p. 725 e ss. 31 DE MARCO 1990, P. 25 e ss. 32 CIAMPOLTRINI,C.S. 33 CIL XI, 1545; per la datazione, cfr. CIAMPOLTRINI 1989b, p. 326. 34 G. DE MARINIS, in Archeologia urbana a Fiesole. Lo scavo di Via Marini - Via Portigiani, Firenze 1990, p. 21 e ss. 35 Arch. SAT, Relazione della Commissione Archeologica dell'anno 1891. 36 Cfr. CIAMPOLTRINI 1992c, p. 696 e ss. con rinviii bibl. e archivistici. 37 DE MARINIS, op. cit., (a nota 34) p. 22. 38 Per questa DE MARCO 1990, P. 27, con rinvii bibl. 39 Per questi J.J. HERRMANN, Thelonic(7apitalinLateAntiqueRome, Rome 1988, p.72, nota 40 L'eterogeneità che a Pisa, Lucca, Firenze, nell'XI e XII secolo caratterizza senza eccezioni i reimpieghi di materiale architettonico acquisito a Roma, fa preferire l'ipotesi che il materiale reimpiegato in Sant'Alessandro sia di provenienza locale all'alternativa, che sia stato sistematicamente smantellato un edificio dell'Urbe per comporre un carico omogeneo, da inviare nella piccola città toscana. 41 Procop., Bellum Gotlicum, II, 23-26. 42 Cfr. da ultimo CIAMPOLTRINI 1992c, p. 696. 42 DE MARCO 1990, p. 28. Le puntualizzazioni di R. FRANCOVICH, Rivisitando il Museo di Fiesole, in Studi di antichità in onore di G. Maetcke, Roma 1984, p. 620, nota 6, sono confermate dalla testimonianza di G.F. GAMURRINI, Scoperte a Fiesole, “Bullettino dell'Istituto”, 1879, p. 43 Per la localizzazione della tomba di Villa Marchi, presso la Via dei Carri, U. PASQU Fiesole. Avanzi di caseggiati e tomoe d'età l’arvarica entro l'antica cinta muraria, “Not. Scavi”, 1907 p. 729 e ss.; E. GALLI, Avanzi di mura e vestigia di antichi monumenti sacri s?`ll'acropoli di Fiesole “Mon. Antichi Acc. Lincci”, XX (1910), col. 929. 44 Possibili presenze altomedievali fra i materiali della cisterna: GALLI, art. cit., col. 899 e ss., fig. 24. 45 DE MARCO 1990, p. 26. 46 Cfr. da ultimo OREFICE 1986. 47 Per una presentazione divulgativa, ma di grande efficacia, dei lavori di Piazza della Signoria, DE MARINIS 1993. 48 Per l'evoluzione dell'urbanistica residenziale, si veda CIAMPOLTRINI 1993a, p.54 e ss. 49 Cfr. CIAMPOLTRINI C.S.; per le terme di Piazza della Signoria, DE MARINIS 1993. 50 CIAMPOLTRINI 1989b, p. 321 e ss. 51 CIAMPOLTRINI 1989b, p. 324 e ss. 52 Cfr. in merito CIAMPOLTRINI 1990a, p. 371 e ss. 53 CORINTI, Cartolina 74 (da cui fig. 4); OREFICE 1986, p. 204 e ss. 54 TOKER 1975, p. 174.
55 OREFICE 1986, p. 225 e ss.; CORINTI, Cartolina 8. 56 DE MARINIS 1991, p. 56. 57 DE MARINIS 1991, P. 55 e SS. 59 Utile sintesi in M. LOPES PEGNA, Firenze dalle origini al Medioevo, Firenze 1974, p. 59 e ss. 60 Additamenta ad Prosp., AlGH, Cronica Minora, I, p. ?99, 535. 61 si veda la presentazione di DE MARINIS 1993. 62 TOKER 1975, p. 174 e s. 63 Esemplare il caso della Chiesa di San Tommaso, eretta sugli avanzi del frigidarium delle Terme Capitoline: CORINTI, Gartolina 72; si veda anche, ivi,43 e 46, il caso di S. Maria in Campidoglio. 64 OREFICE 1986, p. 203: “la copertura di tali sepolcri corrisponde ... al piano di livello delle strade romane”; le tombe erano costruite con materiale di spoglio. 65 Cfr., con bibl. ant., G. CIAMPOLTRINI, Aspetti dell'insediamento tardoantico ed altomedievale nella Tascia: due schede d'archivio, “Archeologia Medievale”, XVIII (1991), p. 691. 66 Claud., Bell?'m Gildonicam, v. 438 e ss.; si vedano anche le preoccupazioni della cancelleria teodoriciana per la navigazione sull'Arno e sull'Auser, chiaramente in funzione dell'approvvigionamento del legname per Pisa: Cassiodori, Variar~m, IV, 17 e ?0. Qui forse avevano sede i navicalarii Tuscine (Cassiodori, Variarum, IV, 5). 67 CIAMPOLTRINI 1989a, p. ?49 e s. 69 Procop., Bellum Gotlicum, II, 30. 70 Cfr. O. VON HESSEN, Reperti di età longobarda dagli scavi di Santa Reparata, “Archeologia Medievale”, II (1975), p. ?11 e ss. 71 Supra, nota 53. 72 CORINTI, Cartolina 8; LOPES PEGNA, op. cit., (a nota 59), fig. 6. 73 DE MARINIS 1992, p. 56 e Ss. 73 TOKER 1975, p. 181 e ss.; per Santa Cecilia, DE MARINIS 1993. 74 PAOLUCCI 1988, p. 105 e Ss. 75 Via della Violella (0g. 5, 4); Orto Golini (0g. 5, 2): G. ZAZZARETTA, Ritrovamenti di mosaici nel centro 7urtano, in / Romani di Chi7~si, cit., p. 143 e Ss. 76 Cfr. da ultimo A. CALLAIOLI, Agro chiusino: nun em~lema musivo da Monte Venere, in I Romani di Chiusi, Cit., p. 133 e Ss.; puntualizzazioni cronologiche di CIAMPOLTRINI 1992d. 77 PAOLUCCI 1988, p. 115 e ss.: via Arunte (0g. 5, 3); Orto Golini (0g. 5, 2). 78 D. LEVI, Chiusi. Scavi nel sottosuolo della città, “Not. Scavi”, 1933, p. 1 e Ss., in part. p. 30 e Ss. 79 ZAZZARETTA, art. cit., p. 143 e ss. 80 Cfr. per ora G. MAETZKE, in Actes de XIe Congrès International d'Archéologie Chrétienne I, Rome 1989, p. 120 e Ss.; per la datazione, cfr. anche CIAMPOLTRINI 1990a, p. 373 e Ss., nota 15. 81 G. NARDI Dei, “Not. Scavi” 1887, p. 399, PAOLUCCI 1988, p. 115, n. (0g. 5, 3); ZAZZARETTA, art. cit., (a nota 75), p. 143. 82 CIAMPOLTRINI 1992b, p. 46 e Ss. 83 PAOLUCCI 1988, p. 110 e Ss. 84 Cfr. da ultimo CIAMPOLTRINI 1990b, p. 689 e s. 85 G. CIAMPOLTRINI, Letombe 6-l Odelsepolcreto di Chiusi-Arcisa. Per7~n riesamedei materiali, “Archeologia Medievale”, XIII (1986), p. 555 e Ss. 86 Si attende da G. Paolucci il riesame sistematico dei trovamenti ottocenteschi all'Arcisa; per il momento CIAMPOLTRINI 1990b, p. 689 e Ss. 87 Necropoli “della Caserma dei Carabinieri”. D. LEVI, Rinvenimenti di tombe barbariche nell'area della Caserma dei RR. Carabinieri, “Not. Scavi”, 1933, p. 38 e Ss., fig. 1; O. VON HESSEN, Secondo contributo alla archeologia longobarda in Toscana, Firenze 1975, p. 20e s., dalla documentazione d'archivio della Soprintendenza Archeologica per la Toscana (9 Siena 18, 1925-1950) è tratta la fig. 6; lo schizzo del sax e del pettine in osso (da identificare dunque con quello edito da VON HESSEN, op. cit., p. 74, tav. 2,2) della sola tomba che restituì suppellettile è nella comunicazione del ritrovamento, del 30 maggio 1930. 88 G. MAETZKE, Tomba longobarda e medievale da Chiusi, “Archeologia Medievale”, XII (1975), p. 701 e ss. 89 Cfr. CIAMPOLTRINI, 1991d, p. 43 e S. 90 Cenni in CIAMPOLTRINI 199?d. 91 Per Roselle, cfr. in questa sede il contributo di M.G. CELTTZZA; per Volterra, Terme del Teatro, C. CORVO, Le terme di Vallebona, in Il teatro romano di Volterra, Firenze 1993, p. 77 e ss., con le precisazioni cronologiche, per la datazione alla fine del IV secolo, di A. MAGGIANI, ivi, p. 107. Sono ancora inedite le terme di San Felice, sul versante opposto della città, per le quali i mosaici ricomposti al Musco Guarnacci impongono almeno un completo rifacimento nei decenni iniziali del IV secolo. 92 CIAMPOLTRINI 1989a, p. Z49; CIAMPOLTRINI 1990a, p. 379 e ss. 93CIAMPOLTRINI 1992b, p. 45. 94 CIAMPoLTRINI-NoTINI-RENDINI, Mate7riali tardountichi, cit. (a nota 10), p.709 e ss.
95 CIAMPOLTRINI 1990b, p. 689 e ss. 96 Per il sepolcreto aretino del “sobborgo Santa Croce”, G. CIAMPOLTRINI, p. 597 e ss. 97 Cfr. G. CIAMPOLTRINI, Un contribato perla "la~nina diAgilalfo ", “Prospettiva ”,52 (1988), p. 52 e ss.; CIAMPOLTRINI 1992 c, p. 696 e ss. 98 Gregorii, Epist~lae, I, 15. 99 Gregorii, Epist?'lue, II, 30. 100 Gregorii, Epist~lae, XIII, 26. 101 Per la possibile evidenza archeologica e numismatica della campagna di Agilulfo, CIAMPOLTRINI 1990b, p. 691 e ss. 102 Per Arezzo, supra, nota 96. 103 Perla necropoli di Pisa-Piazza del Duomo, cfr. da ultimo CIAMPOLTRINI 1 993b, p. 595 e ss. 104 Cfr. p. es. G. CIAMPOLTRINI, Due orecchini bizantini da Luni, “Archeologia Medievale”, XVI (1989), p. 737 e ss. 105 CIAMPOLTRINI 1992b, p. 47. |106 Rinvio in merito a G. CIAMPOLTRINI P. NOTINI, Massaciuccoli (Com. Massarosa, Lucca) ricerche sull'insediamento post-classico nell'area della villa, “Archeologia Medievale”, Xx ( 1993), p.396es. 107 Per l'ambito regionale, cfr. G. CIAMPOLTRINI, Considerazioni sul "tesoro" di Perugia, “Prospettiva”, 40 (1985), p. 53 e ss. 108 CIAMPOLTRINI-NOTIN1 1990, p. 588 e ss. 109 S. CINI-A. PALUMBO-M. Rlocl, Materiali altomedievali conservati nei Musei di Luni e La Spezia, “Quaderni Centro Studi Lunensi”, 4-5 (1979-80), p. 42 e ss. 110 CIAMPOLTRINI 1991b, p. 45 e s. 111 C. AMANTE SIMONI, Lastrine di osso la~orato ..., in S. Reparata, p. 237 e Ss. 112 Si veda il caso del Sanvincenzo-San Erediano lucchese: CIAMPOLTRINI-NOTINI 1990 p. 574 e Ss. 113 CIAMPOLTRINI 1991d, p. 43 e S. 114 CIAMPOLTRINI 1991b, p. 59 e ss.
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Sul paesaggio urbano di Roma nell'Alto Medioevo
Le indagini archeologiche condotte nel centro di Roma nelle cantine degli stabili prospicienti il lato sud del tratto centrale della Via delle Botteghe oscure hanno consentito una ricostruzione abbastanza dettagliata della formazione e trasformazione del tracciato stradale che venne a formarsi nel corso della prima metà del V secolo tra i ruderi dell'antica Porticus Minicia e i muri - ancor massicci - della Crypta di Balbo 1. I risultati di quell'indagine hanno dimostrato in maniera evidente l'esistenza di un nuovo asse stradale, la sua continuità e manutenzione nei secoli successivi, sino almeno all'VIII secolo, ed il progressivo raggiungimento della sede storicamente definita, ed hanno contribuito a portare un elemento di maggiore concretezza sia nella ricostruzione dell'itinerario dell'Anonimo di Einsideln, sia nella valutazione dello stato della viabilità in formazione in questo tratto della Roma medioevale. Possiamo provare a delineare un quadro della viabilità che, sulle rovine della Roma imperiale, si era andata formando nel corso dell'Alto Medioevo in questi secoli all'interno e all'esterno dell'antico quadriportico frumentario (Fig. 1). Due direttrici principali, in senso E-W, si erano formate lungo gli assi maggiori del quadriportico: le future vie delle Botteghe oscure e della Pellicceria (Via Papale), che avrebbero giocato un ruolo di primo piano nell'urbanistica della Roma tardomedioevale 2. In senso N-S un tracciato viario principale si era andato formando nella fascia di terreno compresa tra il lato occidentale della PorticusMinucia e il portico di accesso all'Area Sacra di Largo Argentina. Destinato a divenire il centro della contrada del Calcarario, questo tracciato seguiva l'allineamento di un'antica fognatura 3, collegando 1'area del Pantheon al Tevere e lasciandosi ai lati i deri del portico frumentario e del teatro di Balbo a E, e quelli degli antichi santuari di età repubblicana a W. Altri due percorsi minori, paralleli a quest'ultimo, attraversavano l'area interna del quadriportico. Il primo, corrispondente all'attuale Via dell'Arco dei Ginnasi, collegava trasversalmente le due direttrici E-W. Nato forse già per collegare gli insediamenti sorti sui ruderi del Diribitore~m con quelli sviluppatisi sul complesso di Balbo, fu precocemente consolidato dall'affaccio che su di esso avrebbe presentato la chiesa di S. Lucia. Il secondo, corrispondente all'attuale Via Celsa, collegava i due assi viari maggiori sfociando nell'area della futura Piazza degli Altieri (Piazza del Gesù), che si sarebbe creata in un punto particolarmente debole dei ruderi antichi, corrispondente all'angolo N-E dell'antico quadriportico. L'antichità del tracciato sembra in questo caso confermata dal fatto che la via si apriva il varco tra l'allineamento del portico orientale della framentaria e il muro posteriore del tempio delle Ninfe, evidentemente entrambi ancora tanto emergenti da poter condizionare l'orientamento degli assi viari. Ad E della Porticus Minucia una strada, con andamento obliquo rispetto agli assi del tracciato viario prevalente, doveva indirizzarsi verso il Campidoglio. La futura Via Capitolina, destinata a progressivi ampliamenti e raddrizzamenti che ne avrebbero esaltato il ruolo di importante arteria cittadina, nasceva in realtà, a differenza degli altri tracciati ora esaminati, ricalcando da presso quello di un'antica via testimoniata in età imperiale da un frammento della Pianta marmorea severiana 4. Analogamente, I'antico sistema stradale romano sopravviveva, sia pure alterato e riadattato alle nuove esigenze, nel tracciato che si veniva a formare, ad E della Crypta di Balbo, sul luogo della futura Via dei Polacchi 5. La viabilità che abbiamo cercato di ricostruire trova dunque nell'asse della futura Via delle Botteghe oscure un suo principale punto di riferimento, confermato dalla concretezza dell'evidenza archeologica 6. Sembra probabile che questo tracciato svolgesse di fatto un ruolo di collegamento primario già nell'VIII secolo, in un'epoca dunque che vede l'abitato ancora concentrato prevalentemente nel Campo Marzio meridionale e non ancora espanso verso l'ansa del Tevere. Ma gli eventi dei secoli IX e X non hanno lasciato tracce nell'area indagata. Più precisamente, è il complesso della stratificazione urbana relativa a quei secoli che ci viene a mancare a causa delle attività
distruttive praticate nel sito in relazione con gli interventi edilizi di età basso-medioevale e rinascimentale 7. Il Castrum auream Sul terreno che si estendeva a S della via, corrispondente ai ruderi dell'antico teatro di Balbo e della sua crypta, sorge nel IX secolo un insediamento che i testi di XII secolo indicano con il nome di Castrum o Castellam auream. Nostra fonte principale è la bolla con la quale Celestino III nel 1192 confermava al rettore delle chiese di S. Maria domine Rose e S. Lorenzo i possessi e le donazioni ad essa attribuite da alcuni suoi predecessori nel corso dell'XI e del XII secolo 8. La bolla descrive con relativa dovizia di particolari il Castellum auream, che compare quale elemento centrale dei possessi confermati all'istituzione ecclesiastica. Sembra sia possibile distinguere due nuclei fondamentali: le parietes alta et antiquae in circuitu positae e l'ortum qui est iuxta castellum cam utilitatilibus suis et superiorius criptarum 9. Nella prima parte si deve riconoscere il nucleo edilizio vero e proprio, sorto sfruttando le rovine del teatro, identificabili nell'andamento circolare delle sue mura 10. A due secoli e mezzo di distanza dalla bolla quella forma semicircolare dell'edificio non sarebbe ancora del tutto scomparsa, se ad esso si riferirà Flavio Biondo come ad una exteriormuripinna ingirum arcata, la quale conservava quandam theatri speciem 11. Nella seconda parte dobbiamo invece riconoscere un'area annessa al fortilizio, aperta, ma circondata da mura, nella quale non può non identificarsi l'area un tempo occupata dalla Crypta di Balbo e dalla sua corte interna, le eui pareti perimetrali in opera quadrata ben si prestavano ad una funzione difensiva sui tre lati del complesso rivolti a meridione, oriente e settentrione. Due porte davano accesso al fortilizio a parte Gampitelli et regionis sancti Angeli e aparte Pinee, cioè sui lati sud e nord del complesso, almeno nel tardo XII secolo 12. Al centro di questo settore annesso al castello sorgeva la chiesa dedicata a S. Maria e a S. Lorenzo, definita in castello aureo poiché interna all'area recintata, e quindi alla Crypta di Balbo, anche se esterna al nucleo dell'edificio eretto sulle rovine del teatro. La bolla indica anche i nomi dei fondatori della chiesa: Graziano, Gregorio, Rosa e Imilla. Si tratta di personaggi che - nonostante l'esistenza di alcuni omonimi noti da documenti del Regesto Sul~lacense in anni compresi fra il 927 e il 994 ~3 - dovrebbero essere riferiti ad un'età anteriore alla fine del IX secolo. La bolla menziona alcuni possessi risalenti alla donazione di un certo Palus nobilissimus vir Romanorum consul Uvinisi comitis f lius temporil'us domniAdriani iunioris Pape (884-885), che il Marchetti Longhi 4 ha ritenuto di porre in relazione con il Paulus consul etdux teste nel 927 in una donazione al monastero di Subiaco~s. Ciò può indicare che la fondazione della chiesa, generalmente ritenuta del X secolotó, dovrebbe risalire ad età più antica, forse al tempo di Giovanni VIII (872-882), come ha suggerito lo stesso Marchetti Longhi, proponendo di riconoscere nei suoi fondatori, Graziano e Gregorio, alcuni personaggi noti nelle fonti coeve e forse in rapporto con la nobile famiglia degli Stofaneschi 17. Il riferimento è ad un Gregorius dux Gratianifili?'s attestato in un documento del 1211 e in via di ipotesi identificabile con un personaggio noto da un placito di Giovanni VIII dell'873 19. -A maggior ragione l'occupazione del complesso - se non la costruzione della chiesa che è comunque assente nella lista di Leone III dell'807- dovrebbe dunque risalire almeno al pieno IX secolo. Le chiese La bolla di Celestino III è inviata “Iohanni Primicerio nostro, rectori ecclesie S. Marie Domine Rose et B. Laurentii, quepositesuntin Castello aureo”. La definizione è ambigua; il testo infatti non specifica con chiarezza se siamo in presenza di una sola chiesa o di due, come nel proseguimento
della bolla potrebbe intendersi a proposito dei quattro citati personaggi, definiti “ ipsarum ecclesiarum fundatoribus”. L'esistenza di due edifici sembra convalidata dal Catalogo di Parigi, che menziona nella prima metà del XIII secolo due chiese distinte: S. MariudeRosa e S. La?'rencius de monte Domne Rose 20. La distinzione è ripresa nel catalogo quattrocentesco del Signorili, dove entrambe le chiese appaiono con la denominazione Downe Rose 21. Ma se le chiese inizialmente dovettero forse essere due, un documento del 1395 lascia tuttavia intendere che nel tardo Medioevo esse dovevano costituire ormai un insieme probabilmente unitario. Nella controversia sorta allora tra le due parrocchie di S. Valentino e di S. Maria domineRosecirca la delimitazione delle rispettive giurisdizioni vengono infatti citati il primicerio, i canonici e il capitolo “ecclesie Sancte Marie de Rosa Sancti Laurentii, posite intra Castellum aurcum”22. Questa ipotesi sembra confermata da un appunto del Grimaldi23 il~quale - pur errando nella identificazione dell'edificio, definito in Palatinis (Pallacinis) - testimonia che la chiesa di S. Lorenzo “e regione palatii Matthaciorum” fu demolita “in construendo puellarum eoenobio”, cioè al tempo della costruzione del nuovo monastero di S. Caterina nel XVI secoloz4, quando infatti venne demolita la chiesa di S. Maria. L'argomento necessita dunque di un approfondimento. Ma un elemento di novità giunge dalle indagini archeologiche effettuate nel centro dell'isolato (saggio XII), che hanno rimesso in luce l'area presbiteriale della chiesa di S. Maria precisamente là dove il Bufalini nella sua pianta la delineava25, evidenziando sulla parete di fondo della navata sinistra della chiesa un frammento superstite di intonaco dipinto che reca il nome di S. Lorenzo26. Sembra dunque di poter concludere che in piena età medioevale un unico edificio accogliesse i due culti, almeno a partire già dal XII secolo, come d'altronde lascia presumere - nonostante la diversa indicazione del catalogo parigino - I'assenza di una chiesa di S. Lorenzo in castello aureo tanto nella lista del presbiterio di Cencio Camerario quanto nel più tardo catalogo torinese 27. Questa situazione sarebbe pertanto riflessa dall'ambigua definizione data dalla bolla di Celestino III della fine dello stesso secolo. La conferma di questa ipotesi giunge per il XV secolo dalla menzione esplicita, a proposito della chiesa di S. Maria domine Rose, della esistenza di una “Capella sancti Laurentii sita in dicta ecclesia discoperta”, attestata da una bolla di Martino V del 142223. L'insediamento nel Calcarario L'insediamento del Castrum aurcum, quali che fossero i suoi primitivi proprietari, sembra dunque sorgesse nella tarda età carolingia quale residenza protetta in possesso di alcuni esponenti delle famiglie nobili romane del tempo. Un analogo fenomeno insediativo di rioccupazione delle rovine dei monu~enti pubblici antichi non sappiamo se si andasse manifestando in quel tempo anche nell'area del vicino teatro di Marcello 29. Traccia di insediamenti chiusi entro massicce mura emergono forse anche nell'area della antica Porticus Minucia vetus, dove ingenti strutture medievali, demolite nel corso degli scavi di questo secolo, lasciano supporre l'esistenza di un vasto e eomplesso insediamento - forse di natura ecclesiastica - affacciato sulla via dei Calcarari e recintato, o comunque protetto, da cospicoe mura in blocchi di tufo reimpiegati. D.M. L 'insediamento altomedievale nell'area di Largo Argentina L'ipotesi dell'esistenza di un recinto fortificato di epoca altomedievale che racchiudesse una parte almeno dell'antica Area Sacra di Largo Argentina fu avanzata già all'inizio degli anni Sessanta da
Giuseppe Marchetti Longhi 30, che aveva seguito in collaborazione con l'ing. Edoardo Gatti le attività di scavo svoltesi in quell'area a partire dal 1926 e proseguite poi per quasi un decennio 31. Il Marchetti Longhi credette di riconoscere le strutture di un castrum in due tratti di muro in grandi blocchi di tufo di reimpiego posti rispettivamente sul lato orientale e su quello meridionale dell'area (paralleli cioè alle attuali vie di S. Nicola dei Cesarini e Florida) e il cui andamento lasciava ipotizzare un loro congiungersi ad angolo retto proprio in corrispondenza del luogo dove sarebbe in seguito sorta la torre c.d. del Papito 32, il cui profilo caratterizza ancor oggi l'angolo della piazza moderna. Più incerto era in quell'ipotesi l'andamento della recinzione nelle sue zone settentrionale e orientale: lo studioso individuava infatti un probabile caposaldo angolare in una struttura quadrilatera posta nell'area compresa tra i templi A e B e nella quale credeva di riconoscere la fondazione di una torre medievale; egli indicava inoltre la presenza di un terzo muraglione, anch'esso in conci di tufo e orientato in direzione E-W, del quale non riusciva però a precisare l'esatta ubicazione 33. Il riesame della questione legata alla possibile esistenza di questo insediamento medievale nell'area si scontra con lo stato assai frammentario della documentazione oggi disponibile. Gran parte dei resti archeologici cui ci si è fin qui riferiti furono infatti distrutti e al pari di quasi tutte le altre emergenze medievali messe in luce nella prima fase degli scavi - nel corso di una frettolosa sistemazione provvisoria dell'area monumentale in occasione della sua inaugurazione ufficiale avvenuta il 21 aprile 192934. Tutto ciò che oggi ne rimane sono alcune fotografie generali e di dettaglio prese al momento dello scavo e conservate nell'archivio privato del Marchetti Longhi, oggi depositato in parte presso la X Ripartizione del Comune di Roma e in parte presso la Società Romana di Storia Patria 3s. La documentazione relativa alle fasi medievali dell'area è poi completata da alcuni appunti redatti al momento dello scavo e riemersi nel corso del riordinamento dell'archivio di Gugliemo Gatti, conservato presso l'Archivio Centrale dello Stato. Ancor oggi visibili, seppure anch'essi parzialmente demoliti nel corso della sistemazione definitiva dell'area, sono invece i resti del tratto di muro in blocchi posto nel settore meridionale dello scavo, venuti in luce solo dopo il 1930 e conservati al di sotto della moderna costruzione di Via Florida. A dispetto della disorganicità e della frammentarietà della documentazione disponibile, appare comunque oggi possibile condurre un riesame dei resti sussistenti o comunque documentati, al fine di cercare di precisare meglio l'effettiva consistenza monumentale delle strutture in questione, a partire proprio dall'unica emergenza conservatasi (Fig. 2). Le strutture documentate Al momento dello scavo, come documenta una fotografia dell'epoca (Fig. 3), il muro ancor oggi visibile sotto Via Florida si conservava per un tratto di oltre 10 m. e presentava uno sviluppo massimo in altezza di quattro assise di blocchi parallelopipedi di tufo, oltre all'assise di fondazione costituita da blocchi di forma più irregolare. Allo stato attuale il muro (Fig. 2, a) risulta ribassato a due sole assise oltre quella di fondazione e tagliato tanto verso W, nel lato che si approssima al basamento dell'antico tempio D, quanto verso E, dove appare ~ parzialmente inglobato nella parete di fondo di un locale destinato a magazzino. G Nonostante la riduzione dimensionale, ne rimangono ancora ben leggibi- ~ li le caratteristiche costruttive e strutturali (Fig. 4): l'alzato è costituito di blocchi G di tufo di reimpiego, apparecchiati con sufficiente regolarità secondo una tessitura pscudoisodoma e prevedendo l'impiego di sottili letti di malta tra blocco e blocco al fine di compensare le irregolarità superficiali dei singoli pezzi. I blocchi presentano dimensioni piuttosto regolari, con uno spessore e una profondità costanti intorno ai 50 cm. ed una lunghezza che varia da poco più di un metro a circa m. 1,25. La fondazione è invece costituita da un solo filare di blocchi di forma e dimensioni più irregolari, tra cui si notano conci analoghi a quelli che costituiscono l'alzato, impiegati però in questo caso di testa anziché di taglio. Ne deriva un'assise dell'altezza media di ca. 50 cm., sensibilmente più profonda rispetto a quelle dell'alzato, con una risega che verso N aggetta rispetto al filo del muro da un minimo di 20 ad un massimo di 55 centimetri, mentre verso S si allinea perfettamente ai filari sovrastanti.
Quest'ultimo elemento contribuisce a determinare con qualche attendibilità una quota assoluta di ca. 13,10-13,30 metri s.l.m. per i piani di calpestio riferibili alla struttura stessa, almeno per quel che concerne il settore immediatamente a N di quest'ultima 36. Rispetto a questo livello doveva quindi approssima al basamento dell'antico tempio D, quanto verso E, dove appare parzialmente inglobato nella parete di fondo di un locale destinato a magazzino. G Nonostante la riduzione dimensionale, ne rimangono ancora ben leggibili le caratteristiche costruttive e strutturali (Fig. 4): l'alzato è costituito di blocchi G di tufo di reimpiego, apparecchiati con sufficiente regolarità secondo una tessitura pscudoisodoma e prevedendo l'impiego di sottili letti di malta tra blocco e blocco al fine di compensare le irregolarità superficiali dei singoli pezzi. I blocchi presentano dimensioni piuttosto regolari, con uno spessore e una profondità costanti intorno ai 50 cm. ed una lunghezza che varia da poco più di un metro a circa m. 1,25. La fondazione è invece costituita da un solo filare di blocchi di forma e dimensioni più irregolari, tra cui si notano conci analoghi a quelli che costituiscono l'alzato, impiegati però in questo caso di testa anziché di taglio. Ne deriva un'assise dell'altezza media di ca. 50 cm., sensibilmente più profonda rispetto a quelle dell'alzato, con una risega che verso N aggetta rispetto al filo del muro da un minimo di 20 ad un massimo di 55 centimetri, mentre verso S si allinea perfettamente ai filari sovrastanti. Quest'ultimo elemento contribuisce a determinare con qualche attendibilità una quota assoluta di ca. 13,10-13,30 metri s.l.m. per i piani di calpestio riferibili alla struttura stessa, almeno per quel che concerne il settore immediatamente a N di quest'ultima36. Rispetto a questo livello doveva quindi ancora apparire leggermente sopraelevato il piano della cella del contiguo tempio D, che si trova infatti ad una quota di circa 14 metri. Un ultimo elemento interessante è costituito dall'allineamento del muro, che non riprende l'orientamento dei monumenti antichi in quella zona, ma corre in direzione E-W con andamento sensibilmente obliquo e convergente rispetto al tempio D, alle cui strutture poteva in qualche modo raccordarsi. Il secondo dei muri esplicitamente citati dal Marchetti Longhi, quello che correva in direzione N-S, e parallelo quindi alla linea del porticato orientale dell'antica Area Sacra (Fig. 2, g), è stato invece completamente demolito e la sua riscostruzione topografica e strutturale si basa solo sugli elementi desumibili dalle fotografie prese all'epoca dello scavo37 (Figg. 5-ó). Anche in questo caso si tratta di un muro rettilineo, costituito, tanto nelle tre assise dell'alzato quanto in quella di fondazione, di blocchi antichi reimpiegati. Nonostante l'indicazione contraria del Marchetti Longhi33, che assimila il materiale costruttivo di questo muro a quello del tratto conservato sotto Via Florida, questa struttura sembra essere realizzata in larga misura in blocchi di travertino (presenti sicuramente in tutta l'assise di fondazione e nel primo filare dell'alzato), con impiego anche di conci di tufo nelle assise superiori dell'elevato. Anche in questo caso le soluzioni tecniche adottate nella costruzione furono però analoghe a quelle già viste in precedenza: I'assise di fondazione è unica e costituita da blocchi disposti per testa, definendo una evidente risega sia verso E, dove sporge in maniera sensibile dal filo del muro sovrastante, sia verso W, dove l'aggetto appare assai più limitato. A causa della ripresa obliqua delle fotografie è difficile valutare le dimensioni dei singoli blocchi e di conseguenza quelle del tratto conservato: i conei appaiono comunque in generale di forma meno allungata che non nel caso precedente e apparecchiati secondo uno schema meno regolare. Assumendo però eome accettabile uno spessore dei conci pari a 50-60 cm. ed una loro lunghezza media, almeno per quanto riguarda la prima assise dell’alzato, di 6080 cm., se ne ricava per il tratto di muro nel suo complesso una lunghezza approssimativa compresa tra i 17 e i 20 m. ed uno sviluppo in alzato di 1,50-1,80 metri, esclusa la fondazione. Tale lunghezza presunta si rivela ben eompatibile con le informazioni che si possono ricavare dalle fotografie circa la posizione topografica del tratto di muro. Sulla base di una fotografia generale presa da W (Fig. 10), la sua testata meridionale sembra infatti coincidere grosso modo con l'allineamento del limite meridionale della scalinata del tempio B; un'altra fQtogr~fia (Fig. 6) mostra invece chiaramente come il muro medievale riprenda pressoché esattamente l'allineamento di un precedente muretto in opera listata, aneor oggi eonservato nell'area e
che corre parallelo all'antico porticato orientale ad una distanza di ca. 5,50 m. da quest'ultimo. Un'ultima fotografia mostra infine come il muraglione medievale in blocchi non giungesse fìno all'area occupata da un edificio quadrilatero in opera listata di epoca tardoantica o altomedievale (la c.d. sciola)' i cui resti si conservano nella zona nordorientale dell'attuale area monumentale. La sovrapposizione rispetto al muretto in opera listata permette di ottenere qualche informazione circa la quota dei piani di calpestio riferibili alla vita della struttura: dato che il muretto si conserva infatti attualmente per un'altezza massima di ca. 70 cm. al di sopra del livello del piano di travertino e ehe l'assise di fondazione del muro in blocchi sembra poggiarsi in quel punto direttamente sulla struttura più antica, ne deriverebbe una quota assoluta per il piano di calpestio medievale di ca. 13,30-13,40 metri s.l.m., praticamente coincidente con quella ipotizzabile per il muro meridionale e ben compatibile con quella del piano della cella del tempio B, che si trova a pochi metri di distanza dal nostro muro e le cui strutture dovevano ancora conservarsi almeno parzialmente in alzato. Le altre strutture ipoteticamente attribuite dal Marchetti Longhi alla fortificazione altomedievale sono di identificazione assai più incerta: la “fondazione quadrilatera a scaglie di marmo e selce [...} che si vede tuttora quasi al centro dell'Area tra il tempio A ed il tempio B”39 sembra infatti dover essere interpretata come struttura di epoca romana, cui vanno addirittura ad addossarsi altri tratti di muri antichi in opera laterizia. Altrettanto incerta appare l'identificazione di un tratto del muro di recinzione settentrionale, riconosciuto dal l\Iarehetti Longhi e genericamente indicato come facente angolo sul fianco del tempio rotondo B e del quale sarebbe esistita una fotografia eseguita al momento dello scavo40. Nelle fotografie pubblicate o disponibili negli archivi non compare alcun muro che possa essere interpretato come recinzione settentrionale di un ipotetico fortilizio medievale e che, se è corretta la posizione indicata dallo studioso, andrebbe ricercato nell'area compresa tra il tempio A e quello B, probabilmente a NW di quest'ultimo. Ad un muro medievale posto proprio in quella zona si riferisce invece un appunto corredato da uno schizzo, riprodotto in più copie nell'archivio Gatti. Stando al disegno e alla sua didascalia, si trattava di un muro in grandi blocchi tufacei di reimpiego dello spessore medio di 60 cm., che correva con andamento E-W e che fu visto per almeno 11,20 m. e proseguiva poi verso W sotto la strada antistante il teatro Argentina; la testata orientale del muro disegnava un angolo retto e proseguiva poi per un breve tratto verso . Del muro documentato dal Gatti non rimane oggi più alcuna traccia; la struttura venne probabilmente sacrificata nel corso del riassetto dell'area retrostante il tempio 13 per permettere un più agevole accesso alla rampa di servizio del cantiere il cui percorso è ancor oggi riconoscibile nel taglio delle strutture antiche retrostanti i templi C e D. Sembra tuttavia assai poco probabile che questo tratto di rnuro, di cui appare peraltro discutibile la cronologia medievale, possa essere interpretato come parte della recinzione settentrionale dell'insediamento fortificato 42. Fin qui giungono le indicazioni del Marchetti Longhi e le documentazioni contenute nell'archivio Gatti circa le strutture da riferire sicuramente o ipoteticamente ad una fase altomedievale dell'urbanizzazione dell'area di Largo Argentina; al t;orpas delle murature in opera quadrata di blocchi di reimpiego debbono però essere aggiunti alcuni altri tratti di muro emersi nel corso del riesame della documentazione fotografica dell'epoca. In una fotografia di dettaglio compare un primo segmento di muro in blocchi di tufo, che può essere posizionato con una certa precisione grazie a un'immagine più generale conservata nella parte dell'archivio Marchetti Longhi depositata presso la Società Romana di Storia Patria (Figg. 7-g). Si tratta di un muro rettilineo che corre in direzione E-W e che sembra partire proprio a ridosso I narlei edificati Riassumendo brevemente gli elementi fin qui analizzati appare del tutto prematuro avanzare qualsiasi conclusione circa la sistemazione edilizia dell'area;i invece possibile condurre qualche considerazione preliminare sogli aspetti più generah della sua topografia in epoca altomedievale. Allo stato attuale sembrano riconoscibili almeno tre nuclei edificati: uno costituito dalla costruzione rettangolare posta a ridosso del portico orientale, un secondo, ancora collocato a ridosso dello stesso
portico, ma più a S, ed un terzo, che sembra ruotare intorno ad un riutilizzo degli ambienti del tempio El. Nel primo caso la struttura dell'edificio appare chiaramente leggibile sui lati E, S e W- lungo quest'ultimo, meglio documentato dalle fotografie, appare anche possibile ipotizzare l'esistenza di un accesso posto all'estremità S – mentre manca qualsiasi informazione circa la terminazione settentrionale; verso N l'edificio non doveva comunque svilupparsi molto oltre il tratto conservato, anche tenendo conto del limite fisico costituito dai resti tuttora visibili del già citato edificio in opera listata, conservati ad una quota superiore a quella della fondazione del muro occidentale del nostro edificio. Meno chiaro è invece lo sviluppo del secondo nucleo quadrangolare posto a ridosso del portico antico, che potrebbe comunque ricalcare le strutture dell'edificio appena descritto. Ancora incerta è infine l'articolazione dell'edificio che poteva riutilizzare parte almeno delle strutture del tempio B, le quali, ben conservate in alzato, hanno peraltro caratterizzato e in parte condizionato fino ad epoca moderna lo sviluppo edilizio in quell'area. Più complesso appare il problema posto dai due muri che corrono isolati in direzione E-W: la loro pertinenza ad un recinzione difensiva non può essere né provata né smentita, né appare chiaro se essi appartengano ad una stessa fase edilizia e possano in qualche modo essere stati raccordati tra loro come parti di una stessa struttura. Ambedue, ben conservati in altezza al momento dello scavo, potrebbero tuttavia aver svolto un ruolo significativo nel determinare gli orientamenti di strade e corpi di fabbrica nati in epoca successiva in quell'area: il più settentrionale dei due, quello allineato con lo spazio tra i templi B e C, poté costituire, insieme a quello documentato a ridosso del tempio B, uno degli elementi che determinarono gli allineamenti degli edifici del pieno e tardo Medioevo in quel settore. La pianta delle strutture medievali individuate in elevato nel corso delle demolizioni degli anni Venti 4` evidenzia infatti chiaramente l'esistenza di diversi allineamenti paralleli, due dei quali sembrano riprendere esattamente proprio il tracciato dei due tratti di muro a blocchi. L'estremo muro meridionale, con il suo andamento angolato rispetto a quello del tempio D - il quale per parte sua conservava un orientamento parallelo a quello degli altri tre templi dell'Area Sacra potrebbe infine aver avuto un qualche ruolo nella definizione del tracciato medievale di Via Florida, al cui andamento sembra allinearsi. Come si è accennato in precedenza, mancano elementi certi circa la presenza di strutture di recinzione riferibili a questa fase lungo i lati occidentale e settentrionale dell'area, anche se va rilevato che la massiccia presenza dei portici pompciani, ancor oggi ben conservati in altezza, si prestava, almeno per quel che riguarda il settore sudoccidentale dell'area, ad essere agevolmente riutilizzata come limite di insediamento. La cronologia dell'insediamento L'insieme delle considerazioni fin qui svolte consente infine di avanzare qualche ipotesi circa la cronologia di questa fase medievale di insediamento nell'area di Largo Argentina. In mancanza dei dati ricavabili dai materiali associati ai piani d'uso delle diverse strutture individuate, indicazioni cronologiche possono essenzialmente trarsi dall'esame della tecnica edilizia, dallo studio dei livelli e dall'unico dato stratigrafico costituito dalla sovrapposizione del muraglione orientale già individuato da Marchetti Longhi ai resti della citata struttura in opera listata. La cronologia di quest'ultima struttura appare tutt'altro che chiara, ma anche in considerazione del fatto che essa era già completamente distrutta e interrata al momento della costruzione del grande muro in blocchi, se ne può ricavare per quest'ultimo una generica datazione post quem al V-VI secolo. Ad una cronologia più bassa sembra condurre l'analisi della tecnica edilizia: il reimpiego di grandi blocchi di tufo e travertino di epoca antica appare infatti uno degli elementi più caratteristici dell'architettura civile e religiosa a Roma nell'VIII e IX secolo. Lo si ritrova nei livelli di fondazione e nelle parti basse dello spiccato dei muri perimetrali di importanti chiese (per esempio S. Prassede, S. Silvestro in Capite, Ss. Quattro Coronati e S. Martino ai Monti 47), in opere di recinzione e tamponamento sempre collegate ad edifici ecclesiastici (per esempio a S. Saba e a S. Anastasia 48) e ancora in larghi tratti di muro pertinenti alla fase originaria delle fortificazioni del Vaticano fatte
erigere alla metà del IX secolo da papa Leone IV (847-855)49. Ad una cronologia nell'ambito dell'VIII-IX secolo potrebbe anche ipoteticamente riferirsi, almeno sulla base dei numerosi frammenti scultorei altomedievali rinvenuti nell'area, anche la primitiva trasformazione in chiesa dello stesso tempio A di Largo Argentina; in questo caso una muratura a grossi eonci di tufo di reimpiego è tutt'oggi visibile nelle fondazioni dell'abside e della testata della navata settentrionale (Fig. 2, i) mentre le fotografie eseguite al momento dello scavo la testimoniano impiegata in alzato nella tamponatura degli intercolumni del portico nord (Fig. 2, l), probabilmente eseguita proprio in funzione della trasformazione del rudere antico in chiesa. Un dato sicuramente congetturale ma in qualche maniera significativo è infine ricavabile dall'esame delle quote. Come si è visto infatti tutti i muri che è oggi possibile esaminare direttamente o attraverso le fotografie rimandano ad un piano di calpestio all'epoca della loro costruzione attestato intorno ad una quota di 13,30-13,40 metri s.l.m.; tale quota trova una corrispondenza piuttosto precisa nei livelli altomedievali scavati nelle cantine degli stabili posti lungo Via delle Botteghe Oscure. In quella zona è stato infatti individuato alla quota di ca. 13,20 metri s.l.m. un livello stradale ben databile sulla base dei materiali rinvenuti e della collocazione stratigrafica al pieno VII secolo, mentre ad una quota di ca. 13,50 metri s.l.m. è stato individuato un riporto di terra databile nell'ambito della prima metà dell'VIII secolos0. Considerando che i livelli delle pavimentazioni di età imperiale dell'Area Sacra dell'Argentina e della Porticus Minacia erano sostanzialmente coincidenti intorno ai 12,10-12,20 metri s.l.m. e che nello svilupparsi della stratificazione medievale e moderna l'area di Via delle Botteghe Oscure sembra denunciare una crescita dei livelli progressivamente magg~ore man mano che si procede verso E, anche l'esame delle quote sembr~a soggerire per la costruzione dei grandi muri in blocchi di reimpiego una datazione genericamente riferibile all'VIII-IX secolo. E.Z. Le caratteristiche dell'aristocrazia romana fra VIII e IX secolo: Considerazioni La presenza di insediamenti civili di una certa consistenza e in qualche misura protetti in questo settore della Roma altomedievale pone di fatto il problema di tentare di definire nelle linee essenziali i caratteri di quella classe sociale che a residenze di questo tipo avrebbe potuto almeno ipoteticamente fare riferimento. Il mondo dell'aristocrazia senatoria tardoimperiale che muore definitivamente al tempo di Gregorio Magno, quindi agli inizi del VII secolo, lascia un vuoto che si è nuovamente colmato, forse, all'interno della società romana, solo dopo l'unità d'Italia: vale a dire quello relativo alla presenza di un ceto preminente per il fatto di ricoprire funzioni di carattere burocraticoamministrativo. Le nuove leve, che dal terzo quarto del VII secolo in poi appaiono, spesso magmaticamente, a costituire il terzo polo di una società cittadina articolata in clero e popolo, sono raggruppate nell'exercitus Romanum, organizzato dai Bizantini a difesa dell'Urbe e, come sembra ormai fuor di dubbio, pienamente reclutato in loco 51. Questo ordo armato si presenta come uno dei tratti più fortemente e precocemente "medievalizzati" della società romana. Come acutamente osservava la Patlagean, quelle forze armate, che ancora al tempo di Gregorio sono considerate come uno strumento al servizio dell'ordine costituito imperiale, si trasformano via via in una componente stabile del "paesaggio umano" della città, e non si capisce più bene, agli inizi dell'VIII secolo, da chi prendano ordini, e se effettivamente vi sia ancora qualcuno in grado di darne a tutti. Quanto è fluido il processo che, nel corso della seconda metà dell'VIII secolo, porta progressivamente alla formazione di una signoria pontificia sui territori ex-bizantini dell'Italia Centrale 52, altrettanto, all'interno di Roma, risulta difficile incasellare in uno schema preciso i rapporti di potere che intercorrono fra le consorterie familiari, eredi dell'esercito bizantino, e le gerarchie ecclesiastiche del Laterano, chiamate a proporsi in qualità di nascente burocrazia della nuova Res Pablica Romanorum.
Il Bertolini parlava di contrasti, allo scorcio dell'VIII secolo, fra aristocrazia "laica" ed "ecclesiastica", come radice delle ondate di sanguinosi tumulti che attraversarono Roma fra la morte di Paolo I (767) e 1'elezione di Adriano I (772). In realtà, col Brezzi 53, dovremmo piuttosto dire che la situazione era, di regola, assai più sfumata: I'amministrazione pontificia aveva necessità di guadagnarsi delle protezioni di carattere militare, e queste non potevano prescindere da quella che, ancora nel 799, viene definita la militia Romanorum (LP, II, 6); e i laici, dal canto loro, non potevano sottrarsi all'attrazione del prestigio della Chiesa romana. Soffermandoci su aspetti particolari, non si può non considerare, in questo senso, la rapidissima "romanizzazione" del clero, che, sino alla metà del secolo VIII, era stato dominato da personaggi di provenienza orientale. Papa Adriano I (772-795), nipote e zio rispettivamente di un Teodoto e di un Teodoro, ambedue insigniti della dignità di consul et dax, esemplifica la saldatura di interessi tra le componenti laica ed ecclesiastica della società romana. L'istituzione, probabilmente alla fine dell'VIII secolo, della carica di superista, cioè di comandante militare del palazzo lateranense, che nel corso del IX secolo appare esercitata da personaggi di indubbia condizione laica, offre un altro esempio lampante di quanto appena detto54. Tuttavia non va dimenticato che, quantunque in termini tutti ancora da chiarire nei dettagli, il laicato romano eminente sembra andasse progressivamente acquisendo, nel corso del IX secolo, quella che si potrebbe definire una embrionale "coscienza di sé". Essa andava verso una definizione, tanto aulica quanto fluida, del corpo degli ottimati quale "senato cittadino": un consesso civile, quindi, che implicitamente poteva candidarsi a rappresentare autonomamente la città, e non una semplice nebulosa di uomini d'arme. Sebbene la riesumazione del termine senatus si abbia già a partire dalla metà dell'VIII secolo in ambito pontificio 55, è però indubitabilmente dal successivo che la coloritura prettamente militare dell'aristocrazia romana tende a mescolarsi con tinte diverse. Nel caso in cui i pontefici fossero essi stessi espressione di quelle stesse consorterie familiari "senatorie", come nel caso di Adriano I, Stofano IV (816817) o Sergio II (844-847), si assiste ad un sostanziale equilibrio, in Roma, tra le forze in campo. Quando, tuttavia, il soglio papale fu occupato da personaggi più decisi a conferire accenti autocratici al proprio ruolo - come Leone III (795-816), Pasquale I (817-824), Nicola I (858-867) o Giovanni VIII (872-882) -, gli scontri armati che puntualmente si verificavano tra questi e gruppi di ottimati romani, non senza appoggi nel cleroSó, riproponevano tutti i problemi irrisolti rispetto alla ripartizione dei poteri e dei compiti all'interno della città. Dunque, le fonti scritte ci dicono sen'altro che l'aristocrazia romana, fra VIII e IX secolo, pur tendendo a svolgere un ruolo più complesso nella vita cittadina, non cessa di costituire essenzialmente un ceto militare. Tuttavia, i personaggi che ne fanno parte si muovono come fantasmi entro uno scenario urbano che resta come uno sfondo indistinto su cui risultano, finché il Liber Pontif ralis ce ne parla, solo delle iniziative pontificie. Come ha opportunamente puntualizzato Etienne Huberts7, inserendo le concrete azioni degli uomini all'interno del grande affresco di Roma steso dal Krautheimer, si riesce a ricostruire, per il secolo X e gli inizi dell'XI, una tipologia della dimora aristocratica che si caratterizza come una parodia imbarbarita della domus tardoromana, ché tale ancora viene prevalentemente definita dalle fonti. La troviamo costituita da un corpo di fabbrica sovente a due piani decorato più o meno riccamente conspolia, circondato di spazi aperti, detti curtes, destinati a giardino o a coltura ed eventualmente ospitanti servizi accessori, quali pozzi, balnea o cappelle; il tutto delimitato talora da rovine di edifici antichi. Non troppo dissimili, forse, questi agglomerati, da quelli, purtuttavia più rozzi, emersi, per le fasi di VIII-X secolo, dagli scavi dei siti di Santa Corneliass e di Monte Gelato 59, i cui complessi residenziali sembrano essere delimitati da strutture di recinzione non troppo impegnative. In sostanza, resta ancora difficilmente superabile la discrasia tra l'immagine di un'aristocrazia romana politicamente assai attiva e turbolenta, talora protagonista di episodi di inaudita ferocia che le fonti narrative ci propongono, e quella, speculare, di un paesaggio urbano assai poco "militarizzato", che tale perm~rà sino all'XI secolo inoltrato. Una città "disaggregata", come ce la restituisce Hubert, bastava a rendere inutile il proliferare di apparecchi difensivi ? Oppure ci sfugge ancora qualcosa di molto importante riguardo la mentalità e i rapporti di forza nella Roma del tempo, che tratteneva i
singoli dal crearsi castelli privati e contribuiva a serbare presso i pubblici poteri (il pontof~ce, I'imperatore, il pr~nceps Romanore~m) il muna~s della fortificazione? Molto della risposta giace in una storia della società romana fra IX e X secolo, che non è ancora stata scritta. F.M. La continuità dell'insediamento Pur nella labilità delle fonti a disposizione sembra dunque che l'età carolingia segni in questo settore della città un mutamento significativo del paesaggio: il sistema viario ormai sufficientemente consolidato sembra svolgere un ruolo di raccordo tra diversi insediamenti, anche cintati, che sembrano svilupparsi in quest'area marginale dell'abitato. Il nucleo insediativo della città doveva infatti ormai essersi prevalentemente ristretto nella zona compresa tra Campidoglio e Tevere, includendo gli antichi portici del Circo Flaminio, ma non superando probabilmente in maniera consistente il limite segnato approssimativamente dall'attuale Via Arenula 60. Rispetto all'ipotesi 61, che descrive un sostanziale vuoto insediativo tra questa area e quella aggregatasi nel frattempo attorno al Pantheon, almeno fintanto che non venne a formarsi la contrada del Calcarario 62, sembra a noi dunque che il paesaggio urbano di questo settore si caratterizzasse, più che per una mancanza di insediamenti, per la presenza di pochi complessi, anche di considerevole mole, alternati ad aree aperte, destinati a condizionare lo sviluppo della viabilità e, in seguito, le forme della rinascita dell'abitato. Intorno alla fine del millennio l'asse, in particolare, della futura via delle Botteghe oscure ci si presenta pertanto come un segmento di una rete stradale che si snoda tra una serie di nuclei edificati e di aree più o meno aperte o abbandonate, dove si inseriscono insediamenti ecclesiastici che ne fiancheggiano sia il lato settentrionale (S. Lucia e, più defilati, S. Lorenzo e S. Salvatore de Calcarano), sia il lato meridionale (S. Maria e S. Lorenzo in Castro arureo, S. Lorenzo/Salvatore in pensilis). Possiamo domandarci se l'insediamento ecclesiastico della basilica di S. Marco possa aver svolto in questo contesto il ruolo di un rilevante polo di attrazione per un settore cittadino potenzialmente già periferico. Tra VIII e IX secolo l'iniziativa dei papi Adriano I e Gregorio IV concernente non solo il ripristino del monastero di S. Lorenzo in Pallacinis, ma anche il restauro della chiesa di S. Marcob3, potrebbe infatti iscriversi nel contesto della formazione dei nuclei residenziali di alcune preminenti famiglie romane in settori urbani o periurbani più adatti ad una espansione dell'insediamento ed al controllo dell'area ad esso circostante64. La presenza della residenza familiare di Adriano I nei pressi della basilicaóS può giustificare tale iniziativa ed insieme aiutare a definire il ruolo che il tracciato della via che attraversava l'antica Portic'4sMin?'cia era chiamato a svolgere nella Roma carolingia, tanto nella viabilità locale quanto come segmento del tracciato che collegava il Vaticano al complesso del Laterano. Le calcare Tra gli insediamenti abitativi ed ecclesiastici si sviluppano in questa età le attività delle calcare, in ideale successione con quelle dei lapicidi e marmorari tardoantichi. Dalla loro presenza trarrà il nome di Caleararo la contrada che avrà il suo centro nella omonima strada aperta tra le due anticheporticusMinaciae. Se la più remota denominazione della contrada non ci conduce 7~1 di là dell'XI secolo66, non vi è dubbio tuttavia che 1'attività di calcinazione dei marmi e dei travertini antichi di Roma si fosse andata sviluppando in questo settore del Campo Marzio assai per tempo, certo sin dal secolo VIII 67. Quel nome doveva dunque essere attribuito all'area urbana interessata dallo sviluppo dei forni da calce sin dai primi secoli dell'alto Medioevo. Confermano questa impressione le testimonianze archeologiche relative a calcare che vengono ad anticipare considerevolmente le numerose testimonianze scritte che
dall'XI al XVI secolo illustrano abbondantemente la diffusione di questa attività economica nell'area delle Botteghe oscure 68. Dall'area stessa della Crypta Ball~i sono infatti emersi i resti, assai ben conservati, di una calcara messa in opera nel vano dell'esedra antica, allorché il livello del suolo si era andato alzando di circa un metro rispetto al pavimento antico. Dopo un lungo abbandono il rudere dell'esedra si era quindi prestato alla installazione di una attività produttiva evidentemente alimentata innanzitutto con i materiali provenienti dalla demolizione dello stesso edificio ospitante, in un'epoca compresa tra la fine dell'VIII e l'inizio del IX secolo 69. Indipendentemente dalla episodicità delle testimonianze archeologiche finora riscontrate sul terreno, la calcinazione dei marmi antichi dovette comunque costituire l'attività economica prevalente di questo tratto di abitato, anzi forse di periferia urbana, che abbiamo visto purtuttavia caratterizzato da consistenti insediamenti, ma non da una densa rete di abitazioni. Ma accanto alle calcare sembra che altre attività produttive possano aver mantenuto a questo tratto del Campo Marzio una sia pur ridotta vocazione artigianale, che potrebbe aver caratterizzato anche gli anni centrali dell'alto Medioevo. Gli scavi delle fasi altomedioevali dell'antica esedra della Crypta Balói hanno dato testimonianza infatti nei contesti del VII secolo dell'esistenza in quest'area di un'officina adibita alla lavorazione del metallo e forse anche dell'osso e poi nell'VIII secolo avanzato di attività di carattere metallurgico, connesse alla lavorazione del rame, e verosimilmente riferibili alla vita del vicino insediamento ecclesiastico di S. Lorenzo 70. E non mancano le tracce archeologiche che lasciano supporre - sempre nell'VIII secolo - I'esistenza di attività relative anche alla lavorazione del vetro, forse estrema testimonianza nel tempo di quelle saltuarie attività di produzione vetraria che Lucia Saguì ha potuto individuare per l'età tardoantica nell'area della stessa antica esedra 71. Nel caso almeno delle attività dei calcarari, ci troveremmo in presenza di forme di insediamento produttivo concentrate in aree a vocazione artigianale ben definita, del genere che ci è parso di scorgere nell'attigua contrada del Caccabariam, dove - a partire dalla presenza di un arcaico santuario di Vulcano - I'attività metallurgica e bronzistica si sarebbe tramandata eccezionalmente intatta addirittura per millenni, e quindi anche nei secoli dell'Alto Medioevo, concentrandosi attorno alla chiesa di S. Maria in cacaóaris o de' calderai 72, il cui ricordo è traslato oggi nella chiesa di S. Carlo ai Catinari, sorta a ridosso dell'area consacrata già a Vulcano e alle sue arti 73. La rinascita dopo il Mille: la ripresa dell'abitato Una svolta nel paesaggio urbano dovette verificarsi in quest'area nel corso della prima metà dell'XI secolo, quando venne portata a compimento una massiccia opera di demolizione e recupero delle strutture antiche, e in particolare del muro sud della Porticus Minucia, verificata dallo scavo nelle diverse cantine sottoposte ad indagine 74. Nell'ambito di un processo di ampliamento dell'abitato, teso a favorire il ricongiungimento di quei nuclei che avevano mantenuto più di altri continuità di insediamento nel corso dell'Alto Medioevo la città riconquistava gli spazi e si espandeva verso nord 75. Prime tracce di attività edilizie di probabile carattere abitativo appaiono proprio in questo torno di tempo nella Via delle Botteghe oscure, come conseguenza - non sapremmo dire quanto diretta - del citato intervento di recupero delle rovine antiche. Si venne allora a formare una modesta unità abitativa, composta forse di due ambienti, I'uno ricavato nel rudere stesso, I'altro organizzato in quella fascia marginale alla via, che abbiamo visto progressivamente allargarsi nel corso dei secoli. Nello stesso tempo assistiamo al succedersi di attività edilizie anche sul lato orientale del Castrum aurem, nell'area dell'antica esedra della Crypta Baloi, che dall'inizio del millennio ospitava un bagno 76. La prima metà del XII secolo vede d'altronde accrescere il ruolo dell'area gravitante attorno al colle Capitolino 77. Questo processo economico e sociale che caratterizza la Roma del XII secolo trova un riscontro archeologico nelle grandi case che, per la prima volta, vengono a marcare in questo settore
urbano una ripresa generale delle attività edilizie, riflesso delle mutate condizioni economiche e demografiche e causa di un repentino cambiamento del paesaggio urbano. Nel corso del XII secolo, in concomitanza con una più intensa edificazione anche del bacino dell'antica esedra 76 sorge infatti lungo il fronte sud della via una serie di vere e proprie case di abitazione, affacciate sulla strada e addossate al muro esterno del Castrum auream. Quattro di queste, in condizioni di conservazione assai diverse, sono state evidenziate dallo scavo e dall'analisi, ancorché parziale, degli elevati sottoposti a restauro 77. Anche se il grado di conservazione delle singole unità abitative varia da casa a casa, esso non impedisce di cogliere nel suo complesso il risultato di una attività di edificazione concentrata nel tempo, che forse tradisce in quell'area un assetto della proprietà, e quindi una organizzazione degli spazi, ancora unitaria. Alla fine del XII secolo siamo già in presenza di un nucleo cospicuo di domussolarateetteg~late, che marcano uno stacco profondo rispetto al paesaggio urbano appena formatosi con la ripresa edilizia dei decenni precedenti, ma anche con il paesaggio urbano tuttora prevalente 60. In esse si insediano ceti sociali emergenti prevalentemente mercantili e in grado di dotarsi di abitazioni qualitativamente superiori al panorama esistente, puntigliosamente registrate nella bolla papale del 1192 attraverso la menzione specifica di domus e di caminate addossate alle parietes alte et antique del Castellum ó'. Queste case segnano dunque il radicamento nel rione di un nuovo ceto sociale e marcano al tempo stesso un sensibile mutamento dell'uso degli spazi su tutta l'area pomeriale esterna a N del Castrum aureum. Con la definizione anche architettonica del tracciato stradale, la formazione del gruppo di isolati gravitanti sulla via sorta nel V secolo è ormai definitiva. D.M. DANIELE MANACORDA, FEDERICO MARAZZI ENRICO ZANINI 1 Per un'analisi più dettagliata si rinvia a MANACORDA 1993 (ivi anche bibliografia precedente), di cui questo contributo costituisce una continuazione e un approfondimento. 2 La appartenenza della contrada della Pellicceria al tracciato della Via Papale (su cui cfr. ADINOLFI 1865) è certa nel XV secolo, anche se il nome di Via Papae appare talvolta limitato al tratto occidentale del percorso, come attesta, ad esempio, il Diario di Stofano Caffari nel 1442: “...et vie pelliparie usque ad domum R. Montanarii et ibi volvit et ivit per viam pape” (COLETTI 1885, p. 567). Il suo sbocco orientale coincideva con la piazza di S. Marco (cfr. ad esempio il Diario di Biagio da Cesena relativo all'ingresso di Carlo V in Roma nel 1536, in PODESTÀ 1878 p. 328); il tratto occidentale aveva invece inizio là dove alla fine del XV secolo sorgevano le case dei Cesarini, in corrispondenza del cosidetto Quatrivio Pellipariae (cfr. EGIDI 1908, I, p.326: fine del XIV secolo), dove la strada incrociava la Via dei Calcarari e dove sorgeva la già ricordata chiesa dei SS. Quaranta de Calcarariis, altrimenti detta de Pellicciaria (cfr. ibid., p. 346). Non sappiamo quando la Pellicceria ebbe a sostituire la sua parallela meridionale nei percorsi processionali e trionfali. È possibile che la formazione di alcuni insediamenti nobiliari di rilievo lungo il suo allineamento - tra cui principalmente quello degli Altieri accentrato attorno all'omonima piazza (cfr. PROIA-ROMANO 1936, p.112 e SCHIAVO 1962) -possa aver svolto un ruolo di attrazione rispetto alla via delle botteghe, cioè all'arteria mercantile lungo la quale non troviamo nel corso del tardo Medioevo insediamenti altrettanto cospicui. 3 LANCIANI 1893, tav. XXI, si veda anche la pianta pubblicata in MANACORDA 1990, p.40 fig. 4, lett. ~ (Chiavica dell'Olmo). RODRIGUEZ ALMEIDA 1981, tav. XXVI, 35cc=411. 5 RODRIGUEZ ALMEIDA 1981, tav. XXII, 3De=398; cfr. MANACORDA 1988/89, p. 78. 6 È possibile che il violento terremoto che colpì Roma nell'847 (Lib. Pont., II, p. 108 = V, XII; Terremoti 1989, pp. 613-614) abbia lasciato le sue tracce nel circondario, se ad esso dobbiamo attribuire il crollo delle ultime coperture dell'antica esedra della Crypta Balbi (SAGUì 1989, p. 33 Crypta Balti 5, p. 9) e probabilmente anche quello di parte almeno della facciata interna deli'intero monumento, il cui crollo è riemerso nell'area del Saggio X, attualmente in corso di studio (per una sua localizzazione si veda la piantina in MANACORDA 1987, p. 604; notizia del rinvenimento in MANACORDA 1988, p. lO).Quel terremoto potrebbe aver causato anche la caduta del rudere del tempio della Ninfe, sul lato opposto della via. Le colonne meridionali della sua petistasi vennero infatti rinvenute al suolo disposte in modo tale da lasciar supporre un evento sismico di carattere analogo a quello ipotizzato per il crollo dei muri del complesso di Balbo. Le osservazioni fatte al momento della scoperta del tempio nel 1938 non sono tuttavia sufficienti per proporre una
cronologia soddisfacente dell'evento. Un appunto del Lugli (1951, p. 488) potrebbe indicare una datazione del crollo ad età piuttosto antica, dal momento che le colonne del tempio sembra venissero rinvenute “sopraun leggero strato diterriccio”, al di sotto di uno “scarico” di circa 4 metri. In tal caso, considerato che i livelli di IX secolo si collocano sull'altro lato della via a circa 1,25-1,50 metri dal suolo di età imperiale, non si potrebbe escludere per il crollo del tempio una cronologia ancor più alta, da mettere in relazione con i citati terremoti del V secolo o con quelli che colpirono ripetutamente la città alla fine dello stesso secolo e ancora fino al 618 (cfr. Terre~noti 1989, pp. 148, 609-610). Risulta in proposito di grande interesse la notazione "giornalistica" di un testimone, che poté osservare la stratificazione dell'area in occasione di una visita agli scavi nel giugno 1938: “Il tempio, da quel che lo scavo ha rivelato in modo indiscutibile, è caduto in rovina in periodi ben distinti, ed, infatti, gli strati archeologici dànno per risultato che al livello antico sono i cornicioni, su questi è un alto strato di terreno di riporto, e sopra ancora sono i tamburi delle colonne. Da una breve indagine - breve come lo permetteva il tempo della visita - è sembrato di trovare, a chi scrive, nel terreno di riporto tre strati: il superiore è terriccio, il secondo, di frammenti fittili antichi ed in due punti allo stesso livello ma a distanza fra loro, anche con scorie di materiale combusto; il terzo strato che s'adagia sul livello antico è di terriccio pur esso. Gli strati sono inclinati come falde di un tumulo formatosi col vertice sul tempio. Un lasso di tempo piuttosto considerevole deve esser quindi passato tra il momento in cui sono caduti i cornicioni e quello che ha visto, invece, il crollo delle colonne” (traggo il testo da un ritaglio di giornale anonimo, firmato LAZZ, conservato presso l'archivio della X Ripartizione AA.BB.AA. del Comune di Roma; ringrazio per l'informazione R. Santangeli Valenzani). 7 MANACORDA-ZANINI 1989, pp. 30-31. 8 SCHIAPARELLI 1902, pp. 345-349, n. LXXIX; KEHR 1906, I, pp. 108-109, MARCHETTI LONGHI 1922, p. 667 ss.; Crypta Balti 1, p. 104, fig. 31. 9 Per il concetto di crypta in documenti coevi cfr. DE MINICIS 1988, p. 13 e HUBERT 1990, p. 204. 10 Dell'antico teatro doveva allora essersi persa infatti la memoria, ma non del tutto la forma, probabilmente ancora riconoscibile nel XIII secolo in quel che le fonti ci testimoniano per il 1203, allorché vi furono rinchiusi gli elettori al tempo della contesa che oppose il popolo di Roma ad Innocenzo III (R.l.S. 1723, pp. CXXXIX-CXL). 11 BIONDO 1531, II, c. CIX, p. 258; cfr. MARCHETTI LONGHI 1922, p. 662. 12 Cfr Crypta Balbi 5, p. 133. 13 ALEO DI-LEvl 1895, nn. 38, 40, 52, 62, 118, 167. 14 MARCHETTI LONGHI 1922, pp.669-670. 15 ALLODI-LEVI 1895, p.105. 16 HUELSEN 1927, p.331; ARMELLINI-CECCHELLI 1942, II, p.695. 17 MARCHETTI LONGHI 1926, pp.379-381. 18 llid., p. 380, nota 153. 19 Cfr. GEERTMAN 1975, p.97. 20 FABRE 1887, p.438, n.49, p.444, n.158. 21 HUELSEN 1927, p.331. 22 MARCHETTI LONGHI 1919, PP. 502-504. 23 GRIMALDI 1622, f.39r-v 24 Cfr. anche HUELSEN 1927, p.285. 25 Cfr. Crypta Balbi, p. 25 e un dettaglio della planimetria del Bufalini ibid., p. 105, fig. 32. 26 Per la localizzazione dell'area (XII) degli scavi - da molti anni purtroppo sospesi - cfr. Ia piantina in MANACORDA 1987, p. 604. 27 Cfr. MARCHETTI LONGHI 1919, P. 428, nota 3 che a proposito delle due chiese parla di una non meglio definibile “contiguità assoluta”. 28 ASV, Reg.Lat 222, f. 274r 29 Cfr. per l'età più tarda HUELSEN 1923. 30MARCHETTI LONGHI 1960, p. 21; MARCHETTI LONGHI 1972. 31 Per la cronistoria delle diverse fasi dello scavo di quest'area cfr. MARCHETTI LONGHI 1930, pp. 11-18; MARCHETTI LONGHI 1932, pp. 253-276; MARCHETTI LONGHI 1960, pp. 4-8. 32 Per l'identificazione della torre e per i problemi connessi alla toponomastica della zona in epoca tardomedievale cfr. MARCHETTI LONGHI 1932a; CUSANNO 1992. 33 Cfr. MARCHETTI LONGHI 1972, p. 28. 34 Cfr. MARCE1ETTI LONGHI 1930, p. 17, fig. a p. 8. 35 A questo proposito ci è gradito sottolineare la cortese collaborazione della prof. Maria Letizia Pani Ermini, Presidente della Società Romana di Storia Patria, e dei funzionari della X Ripartizione del Comune di Roma, che ci hanno agevolato nel reperimento e nella riproduzione del materiale loro affidato. Un ringraziamento particolare va a Riccardo Santangeli Valenzani, da tempo impegnato nello studio delle fasi tardoantiche e altomedievali dell'Area Sacra, con cui abbiamo potuto discutere molti dei problemi qui affrontati. 36 I filari di fondazione poggiano a loro volta su uno strato di terra dello spessore di ca. 50 cm. (ben visibile nella foto d'epoca e oggi pressoché totalmente sostituito da un moderno conglomerato cementizio di sostegno), che oblitera in quel punto il piano della pavimentazione in travertino di età imperiale, posto a una quota assoluta di ca. 12,10 m. s.l.m.
37 Cfr. MARCHETTI LONGHI 1970/71, tav. XI. 38 Cfr. MARCHETTI LONGHI 1960, P. 21. 39 MARCHETTI LONGHI 1960 P. 31. 40 MARCHETTI LONGHI 1972, P. 28. 4'1Si tratta dell'appunto conservato in più copie redatte in momenti diversi e contrassegnate dai numeri d'inventario 3433-3435. {Jna esplicita indicazione dell'orientamento ~lel muro viene fornita solo nel disegno contrassegnato dal numero d'inventario 3434 e che c~tituisce una copia redatta nel 1942 dell'appunto originario preso nel 1930 (cónservato a sua volta in due versioni: nn. 3433 e 3435). L'orientamento indicato appare però rovesciato ed evidentemente incompatibile con altre indicazioni contenute nell'appunto originario. 42 I dati relativi alle quote che si ricavano dalle indicazioni a corredo dello schizzo sembrano infatti incompatibili con tale interpretazione. Secondo l'appunto, la seconda assise dei blocchi che costituiscono il muro giaceva a una quota di ca. 5,00 metri sotto il piano stradale: considerando una quota assoluta del piano stradale al momento dello scavo valutabile intorno ai 17 m. s.l.m. (sulla base di altri appunti riferiti a zone vicine), se ne ricaverebbe che la quota assoluta del piano di fondazione si collocherebbe circa 60 cm. al di sotto del livello della pavimentazione in travertino di epoca imperiale, con un salto di quota di quasi due metri rispetto ai piani di fondazione delle strutture medievali fin qui esaminate. Va notato inoltre come i resti degli edifici antichi siano ancora conservati in quell'area a quote ben superiori e che l'unica zona in cui sarebbe potuto passare un muro di quelle dimensioni e a quella quota si colloca già dietro il tempio B, in posizione non facilmente compatibile con l'allineamento dettato dal tratto di muro medievale posto lungo il lato orientale dell'Area Sacra. La questione posta dall'appunto del Gatti è quindi piuttosto complessa e lascia spazio sostanzialmente a due ipotesi: o l'appunto, già peraltro impreciso in qualche particolare, contiene anche una errata modificazione delle quote, per cui il preteso muro medievale fu visto in realtà ad una quota sensibilmente più alta, o si tratta invece di un errore di interpretazione e il muro stesso deve essere letto come un resto di una struttura più antica, analoga a quelle dello stesso tipo che compaiono in quella zona all'incirca alle stesse quote. In ogni caso, anche alla luce della mancanza della documentazione fotografica citata dál Marchetti Longhi, sembra che sia di fatto da escludere una pertinenza di questa struttura al tessuto dell'ipotetico insediamento fortificato altomedievale. collocazione del muro in questione rispetto all'antistante palazzina e al portichetto della c.d. Torre del papito può essere ricavata solo in termini approssimativi. Al corpas delle murature altomedlevah m grandi blocchi di reimpiego presenti nell'area di Largo Argentina deve infine essere aggiunto un altro segmento di muro, costituito da due filari di blocchi squadrati di tufo, posti a sopraelevare precedenti tamponature in laterizio, in uno degli intercolumnij probabilmente il terzo da W, del porticato che correva quasi a ridosso del tempio A, costituendo di fatto il limite settentrionale dell'antica Area Sacra (Figg. 2, m; 12). 46 Cfr. MARCHETTI LONGHI 1932, p.12, fig.3. 47 Cfr. KRAUTHEIMER 1981, p.163,174; per S. Martino ai Monti cfr. anche BERTELLI GUIGLIA-ROVIGATT1 1976-77, pp.150-152 48 Cfr. \4ARTA 1989, pp.21-28 49 Cfr. GIBSON WARD PERKINS 1979, p.43, tavv. V,b e Vl,a-b. 50 Cfr. MANACORDA-ZANINI 1989, PP. 30-31. 51 Cfr. PATEAGEAN 1974; BROWN 1984. 52 Cfr. BERTOLINI 1941; ARNALDI 1987. 53 Cfr. BREZZI 1947, PP. 97-99. 54 Cfr. NOBLE 1984, PP. 235, 248-249. 55 Cfr. ARNALDI 1982. 56 Cfr. DUCHESNE 1447; LLEWELLYN 1975. 57 Cfr. HUBERT 1990, PP. 74-83; 179-189. 58 Cfr. CHRISTIE 1991. 59 Cfr. MARAZZI-POTTER-KING 1989. 60 Cfr. KRAUTHEIMER 1981, P. 304 SS. Sui caratteri essenziali della Roma d'età carolingia cfr. DEEOGU 1993, P. 24SS. 61 KRAUTHEIMER 1981, PP. 317-318. 62 SAGUI’ cfr. infra. 63 Per S. Marco cfr. KRAUTHEIMER 1962, P.219. SU S. Lorenzo in Pallacinis, probabilmente da identificare con S. Lorenzo/S. Salvatore in pensilis (su cui cfr. MANACORDA 1993, PP.43-46), tornerò in altra sede (per le fonti efr. FERRARI 1957, P. 192). 64 KRAUTHEIMER 1981, PP. 147, 321. 65 Lib.Pont.,1,486=XCVII,2;sullasuafigurainrapportoaRomacfr.KRAuTHEIMERl981, P. 143 SS. 66 Più precisamente al 1024: cfr. Ia citazione di un Rodalplo qui resedit ad Calearia in HARTMAN 1895, PP. 58-54, n. 47 e in CECCHEEEI 1932, P. 112, nota 3. 67 Sul fenomeno, in generale, osservato attraverso i documenti a partire dal X-XI secolo cir. HUBERT 1990, PP. 225-226. 68 Per la presenza di calcare nel XVI secolo si vedano, ad esempio, i dati archivistici ed archeologici esposti in Crypta Balbi 4, pp. 26-27.
69 Sullo scavo della calcara cfr. SAGUì 1986. Una calcara di dimensioni e struttura assai simili, definita come "medievale", è tornata in luce a non grande distanza dall'isolaro di S. Carerina nel corso dei lavori di demolizione degli stabili sulla Piazza Campirelli (cfr. COLINI 1941). 70 Cfr. rispertivamente SAGuì 1993a e CIPRIANO etal. 1991, pp. 9s-1o1. 71 SAGuì 1993, in part. p. 132 72 Cfr. HUELSEN 1927, p. 315, ARMEELINI-CECCHELLI 1942, II, p. 1350 e—per quanto attiene alla ropografia medioevale della zona - MARCHETTI LONGHI 1940, p. 264 ss. e GÙNTHER 981, pp. 371-372. 73 MANACORDA lsso, in part. p. 43. 74 Cfr. MANACORDA-ZANINI 1989 e MANACORDA 1993. 75 KRAuTHE1MER 1981, p. 337 ss., p. 309, fig. 193a; HUBERT 1989 e 1990, p. 127 ss.. 76 Cfr. Crypta Balbi 5, p. 15 ss. 77 Cfr. in generale FRUGONI 1950 e in particolare KRAUTHEIMER 1981, pp. 315, 354 e BONASEGAEE PITTEI 1983, p. 608. 78 C7:vpta Ball i 5, p p ~ 44-5 2 79 Cenni in MANACORDA 1988, pp. 111-1 12. 80 Cfr HUBERT 1990, PP. 172 ss. e in part. p. 174 per la stima di un rapporto quantitativo rra domus terranee e solarate di 4 a 1 in favore delle prime nel periodo compreso tra 1150 e 1200. 81 Sulla rarità delle caminate nelle case private del XII secolo cfr. HUBERT 1990, PP. 20s206; sul loro valore cfr. ibiid., p. 353.
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Villes, économie etsociété dans la province de Bruttium-Lucanie du IV au VIIe siècle
L'historiographie des villes de la province unissant le Bruttium, (devenu Ca,labre dans la seconde moitié du VIIe siècle, nom jusque là réservé à l'actuel Salento) à la Lucanie avait jusqu'à il y a peu un grand retard non sculement pour l'Antiquité tardive et le haut Moyen Age, mais aussi pour la période impériale. Les Romains, lorsqu'ils établirent lcur domination sur la Grande Grèce, maintinrent certes en vie les agglomératiQns urbaínes préexistantes, lcur accordant progressivement le statut de municipe ou y créant des colonies. Les memes raisons qui avaient fait élire le site de la polis grecque (I'ouverture sur la mer indispensable aux échanges, I'existence de plaines fluviales et littorales fertiles) assurent alors sa pérennité. Mais les villes, qui perdent lcur r81e politique et voient lcur superficie réduite de fa,con drastique au cours du IIIe siècle av. J.-C., sonffrent désormais de la comparaison avec l'age d'or qui précède et qui a longtemps accaparé l'attention des chercheurs. Citons le cas de Locres dont le périmètre hellénistique, défendu par une enccinte continne, est bien connu: la ville grecque, situce à 3~5 km de 1'actuelle Locri, entre les fiumare Gerace et Portigliola, s'étendait sur 230 ha à cheval sur la plaine c8tière et les collines. A I'époque romaine, I'habitat ne couvre plus guère qu'une trentaine d'hectarest. Crotone s'étalait elle aussi cntre les collines et la mer, de part et d'autre de l'embouchure de l'Esaro, jusqu'au prornontoire de l’actuel centre historique (618 ha), occupé par 1'acropole; la zone basse est progressivement abandonnée puis détruite au profit de cette hautour qui stavance dans la mer. Métaponte se réduit à un castrum presque carré défendu par un système vallum-agger qui ne convre qu'un dixieme de la superf~cie primitive. Ces agglomerations n'en constituent pas moins de véritables villes au sens romain du terme: centres administratifs et lieux d'échanges qui :4rainent les produits de I'arrière-pays pour lcur propre consommation et pour I'exportation et redistribuent les marchandises importées d'outremer. Si lcurs vestiges, longtemps négligés et méconnus, ont pu etre interprétés comme de simples bourgs de colons2, des progrès sensibles ont éré réalisés en ce domaine: les informations, encore éparses, convergent pour donner de la ville rornaine une image coherente et homogène. Les plans de Locres, Scolac~um, Vibona, Copia Thur~i et Métaponte obéissent à un urbanisme rationnel, organisé selon des réseaux orthogonaux de rues souvent dallées, hérites de la Grande Grèce. Surtout elles s'enorgueillissent d'une architecture monumentale, symbole de l'ancienneté et de la permanence de la civilisation3, manifestation tangible de la puissance et de l'aisance économique des grands propriétaires qui y résident dans des dom~us décorées de fresques et de mosa~ques. Enfin elles offrent un certain nombre de services et d'aménagements d'intéret public (forum, thermes, aqueducs). Ainsi, au nord de Reggio, immédiatement à l'extérieur des vieux murs grecs, le bord de mer est aménagé à grands frais, de part et d'autre du torrent Santa Lucia, dont l'embonchure est canalisée et régolarisée: un mur de terrassement orné de niches flanque un grand nymphée à exèdre onvrant sur la mer et communiquant avec la partie arrière où est installée une citerne; cette réalisation monumentale est nettoyée et entretenne pendant deux siècles4. Aux IVe-VIIe siècles5, comme partout aillcurs, ces agglomérations subissent une mutation radicale: quelques - unes sont désertées, d'autres survivent sous une forme différente. Surtout de nombrcux autres habitats groupés apparaissent alors qui ne sont pas officiellement urbains, sont sonvent inconnus des textes, mais concurrencent les villes et finissent parfois par les remplacer. Les données archéologiques des vingt dernières années ont déjà comblé de nombrcuses lacunes des sources écrites, immenses pour les IVe-Ve siècles, et bonleversent les typologies établies; elles facilitent une relocture des ccuvres qui éclairent en revanche le VIe siècle (Variae de Cassiodore, Guerre gotliq?`e de Procope, correspondance de Grégoire le Grand), mais ont été insuffisamment exploitoes pour l'histoire sociale. Mieux vaut donc partir de ces réalités parfois inattendues et très diversifiées, "urbaines", semi-urbaines, ex-urbaines ou en voie d'urbanisation, et tenter d'en dégager les caractères spécifiques par rapport aux autres habitats connus~;ce qui les distingue dans les structures matérielles et les
fonctions, la vision aussi qu'en avaient les contemporains. Les pages qui suivent s'efforcent d'utiliser de manière égale l'archéologie et les sources écrites, non sculement pour définir les modes de production et de consommation des deorées et des biens, mais pour tenter une approche des groupes dirigeants, de lcur comportement et de lcur évolution ainsi que du controle et de la territorialisation des ponvoirs étatique, religieux, économique et "seigneurial". Le IVe siècle est un bon point de départ pour l'étude de la transition: le cadre traditionnel s'est maintenu, avec l'organisation en villae et villes6 qui ont conservé lcur physionomie impériale. Il est marqué par deux faits majeurs: I'épanouissement du christianisme avec l'émergence de l'Église comme puissance économique et financière d'une part, la reprise d'une conjoncture économique favorable d'autre part. L'exposé de ces phénomènes fournira la matière de notre première partie. C'est aussi au IVe siècle que s'affirment les établissements intermédiaires et s'accentue un processus de séloction des villes, certaines connaissant un renouveau, d'autres un déclin rapide; I'évolution staccentue avec les invasions du Vò siècle qui finissent par provoquer un effacement général des agglomérations urbaines. Les années 530 sont décisives, qui voient s'inverser cette tendance sous l'impulsion d'événements surtout politiques: on observe un redémarrage des villes, marqué parl'apparition de caractères nouveaux, désormais spécifiquement médiévaux. Le tournant des VIe-VIIe siècles donne le signal d'une grave crise militaire et économique, mais le fait déterminant pour l'habitat est le maintien des échanges à longue distance jusqu'à la fin du VIIò siècle. 1. Éve^~ues, capitalistes et spéculateurs: les conditio~zs no?~velles de la repr~se économique La diffusion du christianisme est bien attestoe dans le Bruttium dès le IVe siècle par le mobilier et les inscriptions, notamment dans le Sud. L'encadrement pastoral n'est cependant sans doute mis en place que peu à peu, meme si nos informations sur les sièges épiscopaux sont certainement très lacunaires. Les sculs évechés connus au IVe siècle, par le hasard des inscriptions, sont ccux de Blanda et Tauriana7. Lorsque ccux de Scolaciam, C?opia Thurii et Vibor~a apparaissent dans la documentation écrite à la fin du Ve siècle, ils sont cependant déjà richement dotés et bien structurés, avec un clergé hiérarchisé et des archives. L'Église utilise d'abord les cadres administratifs disponibles, en instaurant des sièges dans les principales civitates: outre celles déjà citoes, à Temesa, surement aussi à Reggio et peut-etre à Cosenzaa. Le paysage urbain s'en tronve profondément transformé: I'éveque et son entourage habitent en ville; basiliques, baptistères, abris des archives et du trésor, résidence meme du prélat, de sa parentèle (à Scolaciums) et de son clergé, qui appara~t sonvent fourni à la fin du VIe siècle (pretres, sous-diacres, archidiacre, administratours, miles à Myr~a, Cosenza et Reggio~o, sans compter les réguliers), forment un ensemble d'édifices d'un certain niveau architectural qui constituent un nouveau p81e d'attraction, sans doute sonvent assez éloigné (pour des raisons idéologiques?~~) de l'ancien centre et de ses monuments abandonnés. Ces groupes épiscopaux ont rarement été identifiés (Métaponte en donne sans doute pourtant un bon exemple), en partie pour la meme raison probablement, mais tout semble indiquer qu'ils ont provoqué, ou contribué à l'éclatement de certaines villes en plusieurs noyaux ou à des glissements de sites et que lcur transfert sur des lieux plus protégés a pu etre déterminant. Mais l'Église, surtout, a concurrencé la ville en accaparant les largesses des fidèles: tot (code théodosien) en position juridique de recevoir et de gérer des biens, elle a vu son patrimoine foncier s'accro~^tre rapidement dans le Br~?ttium, par donation des empercurs, puis des rois goths~2, mais aussi des personnes privées. Les massae pontificales ~uvrent de vastes portions de l'agerpullicus montagneux~3 dans la chame tyrrhénienne et les Serrest4 pois la Sila~s, qui fournissent dès la fin du VIe siècle, et encore au tournant des VIIò-VIIIà siècles, le bois de charpente des églises romaines~ó; elles comprennent aussi les bonnes terres vinicoles et céréalicoles des hauts plateaux vallonnés du PorrO7 qui ravitaillent Rome en grains. La massa trapcia'~a? peutetre issue d'une donation de Constantin, est attestoe très probablement dès la première moitié du IVe siècle, en tout cas au milieu du siècle suivantt7 et celle de Nicorcra au VIe siècle~~. Quant aux biens des évechés et meme de lcurs églises paroissiales, ils sont assez étendus pour exciter la convoitise, notamment celle des gen?tes locales, surtout lorsque celles-ci epronvent des difficultés
économiques à la fin du Ve sièclet9 et au VIe siècle20. Les ministeria des églises de M>r~a et de Cosenza comprennent de la monnaie d'argent et des vases2~. Les monastères sont aussi dotés23. Les fidèles investissent pour lcur salut, mais aussi pour lcur profit immédiat car la construction d'églises est rentable; le patronage religieux 23 pourrait dans une certaine mesure se substituer à l'évcrgetisme, mais il prend souvent la forme d'oratoires privés qui, s?ur les domaines, cristallisent la population 24 et, dans les villa?e suburbaines, favorisent eux aussi la "polynucléarisatiQn". Et le surplus est desormais drainé de diverses manières, qui n'ont pas forcément laissé de traces archéologiques: en objets précieux, en argent pour l'entretien du clergé 25 et, malgré les interdictions, en paiement de certains serviceS:ó. Le sacerdoce est également très convoité, qui dispense de la curie et donne accès aux richesses ecclésias?tiques: malgré les interdictions, il pnise sans doute largement dans les élites; on en veut pour prcuve la violence des rivalités pour s'ass?urer du siège de Scolacium? 27 et les efforts du pape pour contr81er la nomination des éveques, en proposant des candidats venus d'autres diocès 28, De meme, de petits propriétaires ruinés, des curiales donc souvent, cedent lcurs bien$ à 1'Eglise, perdant lcur liberté, et on peut supposer que celleci les y contraint parfois, affaiblissant d'autant les villes 29. La modestie du réseau urbain provoque dès le IVe siècle 1?installation d ?autres évechés dans des stationes nées au cocur de grandes villae pourvues d'un sanctuaire (Tauriana); assez rapidement (au VIe siècle) le pape est en outre amené, pour convrir les besoins de ses massae, à crécr de nonveaux sièges dans des centres de gestion domaniaux (Tropea, Nicotera). Ces évechés, associés aux noyaux le$ plus dynamiques de 1'habitat, jonent un r81e caractéristique dans la naissance de la ville, comme ccux qui existent dans certains vici ou latifundia de Ponille30. Les souscriptions conciliaires et les notices épiscopales, notre source principale - parfois unique - de meme que la correspondance pontificale, qui s'adresse préférentiellement aux éveques, pourraient ainsi donner une image fausse de la hiérarchie des établissements. Elles ignorent en effet des regroupoments considérables, qui égalent ou éclipsent les cités épiscopales, les stationes du sud-est aux IVe-VIe siècles ou, aux VIe-VIIò siècles, I'ensemble de Tiriolo, connu par une scule mention hagiographique avant le Xe siècle. Aux VIIe-VIIIe siècles en revanche, les géographes et chroniqueurs lombards3i citent à plusieurs reprises comme les civitates les plus importantes de la Calabre, outre l'éveché de Cosenza, Malvito et Laino, qui ne sont pas villes épiscopales et non Bisignano, où l'existence d'un éveque est attestoe dès 74332. La renaissance de l'Italie méridionale à la fin de l'Antiquité, mise en évidence par F. De Robertis, qui défend l'idée d'une économie en pleine expansion et d'un progrès constant de l'agriculture au cours de la période, est acceptoe par K. Hannestad pour la fin du Ve et le VIò siècles. Cette thèse a été rejetoe par L. Cracco-Ruggini: en accord avec l'image traditionnellement sombre de la transition, celle-ci voit les provinces du Sud, meme si elles approvisionnent désormais le reste de l'Italie, engagées depuis la fin du IVe siècle dans un processus continu de décadence, qui s'aggrave surtout au VIe siècle33. En fait l'archéologie a renouvelé la question en montrant que l'intuition de F. De Robertis était juste et que l'Italie méridionale, au-delà d'un nombre non négligeable de caractères généraux distinctifs, présente des situations micro-régionales très diverses. Dans la mesure où l'équilibre agricole est fragile, les crises sont fréquentes; mais qu'elles soient de caractère naturel (sécheresse et tremblements de terre) ou événementiel (invasions terrestres ei raids maritimes), elles touchent très inégalement les différentes aires considérées. À cela stajoutent des productions relativement diversifiées qui subissent différemment la concurrence des provinces extra-italiennes, puis à l'inverse le contrecoup de lcur perte par l'empire. Ainsi la Ponille connaıt-elle aux IIe et IIIe siècles une période de récession, très sensible dans l'histoire des villae de la Capitanate34. Les désertions sont tout aussi nombrcuses en Lucanie, ainsi à San Giovanni di Ruoti, villa du Ier siècle av. J.-C. édifiée à 25 kilomètres au nordouest de Potenza3;. Métaponte, qui est encore au Ier siècle de notre ère un oppida~n jouissant du statut municipal, tombe en ruines: le fossé, volontairement comblé, est définitivement transformé en nécropole, les matériaux hellénistiques sont rcutilisés dans de rares et pauvres petites pièces tandis que l'agerse réduit notablement36.
Dans le Bruttium en revanche, I'épanonissement architectural de l'ensemble des établissements est attribué aux Ier-IIIe siècles; scules les villes, après une période faste au IIe siècle (ainsi Scolacium où les monuments sont embellis), sont touchées par la crise générale du IIIe siècle, sensible à Reggio, dépeuplée par la peste de 24637. La baisse continne des prix du vin, du blé et du lard aux Ve-VIe siècles, alors que l'Italie est de plus en plus réduite à l'autosuffisance, n'est sans doute que partiellement due à une diminution de la population33. Celle-ci est sure à Rome au VIe siècle39 et est en partie à 1'origine d'une notable réduction de l'annone adaerata du Bru~tiam-Lucanie par rapport au milieu du IVò siècle, mais le Sud lui n'est victime d'ancune chute démographique notable, au moins perceptible par l'archéologie; le Bruttiam en particulier ne semble pas avoir été touché par la peste de Justinien et peut-etre Hannestad a-t-il meme raison de supposer une augmentation de la population. Les divisions planimétriques internes des habitats l'attestent dans les villes40, dont 1'abandon se double toujours par aillcurs de la création d'un, voire de plusieurs autres centres, comme dans les agglomérations intermédiaires4~. La réduction drastique des sites ruraux, générale du IVe au VIe siècle42, résulte surtout du rassemblement d'une main- d'ccuvre jusqutalors dispersée en petits noyaux sur les lieux memés d'exploitation et de la concentration des fundi en massae. Et ces regroopements ne doivent pas etre interprétés uniquement en termes de récessigln: la sécurité jone tout autant que de nonvelles nécessités économiques. Des villue sont réoccupoes et agrandies au tournant des IIIe-IVò siècles43, tandis que de nouveaux sites sont aménagés en grand nombre. Reste la reprise de la production, celle des porcs et de l'huile, du vin et du blé, tous phénomènes que L. Cracco-Ruggini n'admet qu'avec de fortes nuances et repentirs. Trois factours ont été déterminants de ce point de vue pour l'Italie méridionale: I'annone d'abord joue de manière très contradictoire, mais toujours positive pour le Sud, directement en régularisant les prélèvements et en libérant le surplus pour le commerce libre, ou par contrecoup. En provoquant aillcurs le recul de certains sectours de l'activité agricole qutelle grève trop lourdement, elle laisse en effet le champ libre aux régions qui ne sont pas tonchées dans ces domaines spécifiques. Viennent ensuite la persistance d'une forte demande privée, à Rome notamment jusqu'à la guerre grécogothique, et le maintien d'un commerce libre qui incitent à la spéculation44, certaines provinces, comme la Campanie aux IVò-Ve siècles, ne suffisant pas à lcurs propres besoins en porc, vin4S et blé; la conquete enfin de nombrcuses provinces par les Vandales au Ve siècle. C'est sans doute pour les besoins de l'imp8t en nature que les routes, dont les sources littéraires décrivaient l'état d'abandon dans le Sud, sont restaurées, la route littorale ionienne tout particulièrement, à partir de Constantin46. Elles servent la croissance d'autres productions agricoles commercialisables et celle de l'artisanat, qu'il y soit lié ou non (amphores, céramique), et favorisent l'essor des statiores qui s'y échelonnent. Malgré un relief essentiellement accidenté, un réseau hydrographique très articulé autorise, avec les plaines littorales, un système de circulation organique et efficace. Trois grands axes traversent le Sud de l'Italie: la Traiana, parallèle à la cote orientale de la Ponille; I'Appia, de Capone à Tarente, et son diverticule, la Popilia qui de Salerne se dirige vers Reggio par l'intérieur pnis par le littoral au sud du Savuto. La plus grande partie du Bruttium et de la Lucanie jonissent d'une économie à prédominance silvo-pastorale, stimulée au départ par l'annone. L'exemple de San Giovanni di Ruoti montre de manière éclatante qu'il en est ainsi pour l'élevage des porcs en Lucanie, de manière encore limitoe au IVe siècle, beancoop plus nette ensuite avec l'occupation de la Sardaigne, autre gros fournisscur, vers 45547. Le meme phénomène se produit sans doute pour celui des bocufs du Bruttiam qui semble avoir fourni les fonds nécessaires à l'essor de la viticulture et de la fabrication d'amphores, toutes entreprises exigeant des investissements en capitaux et en main- d'ccuvre. La province suffit toujours au ravitaillement de Rome en viande et en lard au Ve siècle, alors que la ville est encore très peuplée43; et au VIe siècle, meme si, on l'a vu, le montant global de sa contribution49 est fortement réduit par rapport au IVò siècle, bien que la consommation se maintienne: L. Cracco-Ruggini y voit d'abord le signe d'une crise, puis admet une certaine reprise de l'élevage, tout en supposant que le marché libre a du de plus en plus suffire aux besoinsSo. On ajoutera à ce tableau les ovins des
plateaux calcaires de Pouille et, à partir du Ve siècle en tout cas, les vastes troupeaux de chevaux du Bruttiumst. Dans le meme domaine, bois et poix sont plus que jamais utiles durant cette période avec le recul de la ma,connerie et les besoins de la marine byzantine, mais aussi l'essor de la production artisanale. Or les forets, malgré la fragilité écologique du milieu, ne sont que très partiellement épniséesS2. Mais la relative variété des sols et des reliefs permet à ces régions une production diversifiée. La vigne, déjà traditionnelle dans le Bruttiam, s'y développe considérablement au IVe siècle, en partie grace à la crise agri~le et à la pression fiscale qui frappent le Nord. Un vin de renom est, comme l'indique la distribution de la Keay LII, exportéS3 non sculement sur la cote ouest de l'Italie centro-septentrionale, où son prix baisse aux VIe-VIIe siècles, mais dans tout le bassin occidental de la Méditerranée, dans l'Adriatique et en Grèce. Les aléas du ravitaillement au IVe siècleS4 et surtout 1'occupation de l'Afrique par les Vandales dans les années 430-440 favorisent par aillcurs certainement le développoment de l'oléicultureSS. L'olivier, qui se satisfait des memes sols et exige le meme travail spécialisé, est le plus sonvent associé à la vigne, tant dans le sud-est du Bra~ttia~ms6 qu'en Ponilles7, presque toujours dans les territoires les plus proches des villes, mais on ignore encore $i 1'huile est destinée à 1'exportation ou sculement à la consommation locale. Du reste l'essor de ces cultures à risque, qui exigent une abondante main- d'ccuvre constitue en lui-meme une prcuve de prospérités8. À partir du moment où le blé d'Égypte est accaparé par Constantinople, Rome est ravitaillée en grains par l'Afriquess et par 1'Italie septentrionale60. Dès ce moment cependantóó, le Sud paraıt développer une céréaliculture déjà traditionnelle en de nombrcuses régions (dans la plaine de Sibari par exemple) pour la consommation locale, avec parfois un surplus pour le marché libre et déjà sans doute la spéculation62. De plus en plus à partir de la fın du IVe siècle, I'annone recourt au blé méridional, celui de l'Apulie-Calabre et de la Sicile en particulier, qui remplacent enfin l'Afrique conquise par les Vandales dans les années 43063. Les razzias en Sicile à partir des années 440 et 1'occupation de 1'ıle en 468 entraınent une intensifícation de la céréaliculture dans le sud de la péninsule, peut-etre moins en Ponille où les villue du Tavoliere par exemple conservent lcurs structures de production de l'huile pendant tout le siècle64, que dans d'autres régions fertiles qui ne sont pas écrasées par la coemptio et peuvent conce~rer, éventuellement par voie fluviale, les grains dans les ports, d'où ils sont convoyés sur les marchés libresóS: tel est le cas du golfe de Tarente66 et de certaines régions du Bruttium comme le massif du Porro où la cote entre Soverato et Botricello (à Scolacium en particulier)67. Une telle évolution rend compte en partie de la baisse de l'annone du porc et des bccufs, et explique l'essor connu par la massa pontificale de Tropea au Ve siècle. Elle prend diverses formes: petites ou moyennes propriétés gravitant autour de la statio portuaire de Métaponte (cf. infra) ou possessores-negotiantes pratiquant une céréaliculture intensive sur lcur indominicatum et se livrant à des spéculations du genre de celles que décrit Cassiodore pour une zone non spécifiée6s. Enfin la peche alimente la consommation locale (on pense aux viviers de Cassiodore) et l'exportation de luxe, ainsi que des industries. LeBruttium et la Lucanie exportentdoncvers l'onestetle nord l'excédent de lcur production agricole; ils forment aussi avec la Sicile dont ils constituent le prolongement un pont naturel entre l'Afrique et l'Italie centrale d'une part, entre l'est et I jonest du bassin méditerranécn d'autre part; d'où lcur importance stratégique pour Byzance, comme pivot de la reconquete de la pars occidentalis, d'où lcur double appartenance aux deux aires culturelles et commerciales aussi. Les échanges interrégionaux et à longue distance ne semblent guère y avoir faibli du IVe au VIe siècle et se maintiennent jusqu'à la fın du siècle suivant, avec un net flochissement il est vrai. Les troupeaux, à qui le trajet faisait perdre une bonne partie de lcur poids, étaient conduits par voie de terre70. Les porcs de Lucanie pouvaient emprunter les multiples axes reliant le golfe de Tarente à la Popilia. L'Appennin lucanien en particulier était drainé au Bas Empire par une route nord-sud unissant la Popilia à l'Appia par Potenza, sur laquelle était placce, à proximité d'un col, la villa de Ruoti, vouce à l'élevage des porcs. Les bocufs suivaient les sentiers de transhumance bien attestés dans la Sila7i et franchissaient le Pollino par le Vallo di Diano où ils étaient vendus annnellement avec d'autres betes à la foire de Marcellianz~m72.
Certaines denrées étaient transportoes, en cas de nécessité (péril sur mer par exemple en période de guerre) par chariots à bocufs73. Mais les trajets terrestres sont extremement lents74, lcur cout est prohibitif pour les marchandises et ils présentent des difficultés parfois insurmontables. Aussi a-t-on le plus souvent possible recours aux navicularii. Les produits sont souvent acheminés vers les grands ports par les fleuves, pnis par cabotage le long des cates. Ainsi les grains de la plaine métapontine sont-ils stocl~és dans les magasins du port fluvial relié à la mer. Les importations arrivent et se diffusent de la meme manière: Cassiodore se fait l'écho de ce trafıc intense qui s'effectue dans les deux sens sur l'ensemble des cotes de la province75. Les produits africains en premier lieu sont, comme dans toute l'Italie méridionale76, largement majoritaires jusqu'à la fin de la période. Mais scul le versant adriatique ou ionien entretient, à partir du Ve et surtout du VIò siècles, des rapports de toutes sortes avec la Dalmatie, ce qui est naturel, mais aus$javec la Grèce et avec l'Orient, phénomène qui confère à sa physionomie sociale un aspect original. C'estparlac8te occidentale que passe 1'axe principal reliant Rome au Sud par le littoral ou par la Popilia. Les ports stratégiques et commerciaux de Reggio et Vibona drainent par la route cotière et l'isthme de Catanzaro les produits de toute l'extrémité de la péninsule, recoivent les importations d'Afrique (à Tropea par exemple) et distribuent le tout vers l'Italie du Nord et l'onest de la Méditerranée, vers lesquels ils constituent une escale. Par son orientation géographique, ce versant du Bruttiam gravite dans une aire occidentale incluant l'Espagne et la Sardaigne77; ses liens avec Rome (qutil ravitaille en bois et en blé) sont renforcés par le développoment des massae pontifıcales. Les rapports de la cote orientale et de la Lucanie avec l'Afrique sont tout aussi étroits et continus, qutil s'agisse d'échanges commerciaux ou d'influences socio-culturelles, celles-ci pénétrant notamment les sphères chrétiennes et aisées. La céramique africaine est bien attestoe jusqu'à une date tardive sur tous les sites du littoral ionien, qu'il s'agisse de sites urbains7s, de ~illue etlou de stationes ou autres regroupoments79, jusqu?au golfe de Tarente. Et elle est largement imitoe sur place à partir du IV~ siècle, dans le nord-est de la Lucanie où des fours ont été retrouvés à Calle di Tricarico, et sans doute dans le sud-est du Br~ttiamso: la sigillée par un revetement d'argile ocre, rouge ou brune délayée, d'abord étendu sur l'ensemble du vase, puis réduit à quelques larges bandes pcintes, simples conlures ou ornements géométriques sonvent grossiers; les amphores ensuites~, et les lampes. C'est d'une véritable symbiose avec l'Afrique qutil faut parler pour le sud de la péninsule, qui sert aussi de relais vers Rome, notamment pour les pèlerins qui empruntent la route ionienne jusqu'à l'isthme de Catanzaro (cf. infra): les affinités des classes dirigeantes avec celles de l'Afrique y sont grandes pour le mode de vie et les mentalités; elles se traduisent notamment dans le plan des villae ~ Brattiam ou les motifs de lcurs mosa~ques. Les communautés juives également semblent lices à celles de Tunisies3 et de Rome: elles se ramifient au long des axes sud-nord passant par Reggio etlou le littoral orientals4. Si une baisse des importations africaines a été observée sur certains marchés, dans le Brutti?'m elles ne semblent pas sonffrir de l'installation des Vandales, qui avaient évidemment tout intéret à maintenir le trafic. Mais la guerre a forcément ralenti les livraisons, poussant les grands propriétaires à développer l'oléiculture et la fabrication locale non sculement d'amphores, mais aussi de vaisselle de table: le fait que l'imitation de la céramique africaine prenne justement son essor au Vò siècle incite à mettre en relation les deux phénomènes, ainsi que la prépondérance de la Keay LII sur certains sites du sud-est cultivant la vigne et les oliviers (Bova par exemple); à partir du moment où des structures artisanales sont mises en place, il est évidemment tentant de développer la production d'autres terres cuites et l'archéologie a bien montré que les ateliers étaient polyvalents. L'essor de la viticulture et les débonchés commerciaux offerts par une population dense ont joné dans le meme sens. Des motivations idéologiques ont du aussi exister, si on pense justement à la haine suscitoe chez les propriétaires fonciers africains, expropriés et parfois exilés, certains précisément en Italie, par les Vandales ariens. C'est d'autre part au meme moment que les amphores d'Asie mineure et de Palestine, qui coexistent partout avec les africaines, les concurrencent sériensement dans les principaux établissements
méridionaux. Elles y affluent à partir de la fin du VIe siècle, tandis que la céramique fine de meme provenance y est aussi représentoe. Dès le IVess, mais surtout du Ve au VIIò siècle, I'Italie méridionale produit de la céramique à grande échelle. Pichets, cruches et petites amphores de production locale, portant parfois sur l'épaole un décor incisé et sonvent ornés de larges bandes pcintes se retronvent dans toute l'Italie méridionales6 et forment un groupe cohérent qui frappe par son amplcur et son homogénéité. Ils abondent dans les niveaux tardifs de tous les sites urbains en Lucanie et dans le Brattium (à l'est Copia Thur~i, Locres, Scolacium romaine et tardo-antiques;, Reggio-Lido et, sur l'autre cote, Vióona, Nicotera et Tropeass) et y caractérisent, comme en Pouille et en Campaniess, les habitats mineurs des VIe-VIIe sièclesso. Si une certaine irrégularité dans l'exécution montre qu'il ne s'agit plus désormais d'une production industrielle, le nombre et l'aspect relativement standardisé des formes et le maintien d'une certaine qualité dans la technique de la pate, le tournage et la cuisson sont cependant le fait d'ateliers professionnels; on se sert d'une céramique de cuisine strictement locale, mais on achète aussi partout, meme dans les petits établissements ruraux, de la vaisselle de table importoe ou non. Ceci suppose l'existence d'un niveau de prospérité agricole assez élevé pour dégager un surplus et d'entrepreneurs en mesure d'organiser la production et la distribution. La capillarité de cette dernière, comme l'intensité de l'ensemble des échanges rendent amplement compte du maintien de l'importance des quelques grands ports et de l'installation systématique des habitats de tous types sur les petits fleuves sans doute encore navigables pour la plupart. 2. IVe-Ve siècles. Aristocrates ruinés et parvenas orientaux: le déclin des vieilles familles et la prolétarisation des villes Malgré l'absence presque totale de témoignages écrits pour le IVe siècle, I'archéologie montre donc qu'en dépit de désastres naturels répétés (tremblements de terre et raz-de-marée surtout dans la seconde moitié du siècle) tous les faits de société et d'habitat doivent etre interprétés e~Italie méridionale dans un contexte de croissance. Cette courbe ascendante est ralentie ou momentanément interrompue cette fois, au Ve siècle, par une série d'événements de type "catastrophique". Le tournant des IVe-Ve siècles avait déjà été marqué par une série de mauvaises récoltesst et une crise politique. La descente des Wisigoths dans le Sud en 410 semble s'etre accompagnée, dans la ligne du sac de Rome, de ravages assez désastrcux pour justifier de gros dégrèvements fiscaux et crécr une crise durable92. Les raids vandales ont pu atteindre les cotes d'Italie à partir de 44093, avec unc rccrudescence vcrs 455 ~I, jusqu'à la mort de C'enséric cn 477. Mais unc fois de plus, lcs différentes rogions paraissent avoir été tres incgalement attcintes: la Pouillc beaucoup plus par les WisigotUs 5, le Bruttium dc manière continne, surtout le littoral où les dcstructions sont nombrcuses (Rcggio I,ido peut-ctrc, Casignana l'alazzi surement ). 1,a 1,ucanie quant à elle semblc preservée, sur la cotc comme à l'intcrieur, OU la villa de San Giovanni di Ruoti cst rcconstruite et cmbollie à deux rcprises. Seol un petit nombre dc villes profite dc la renaissance cconomique. Ce sont les centres dc pouvoir(Reggio etCanosa) et les ports en mesure d'accueillir les navircs dc gros tonnagc sur des sites stratégiques favorablcs aux échangcs à longuc distance: Tarentc, aboutissement de l'Appio~, Otrantc et Crotone, tctes de pont vers l'Orient, ou Vilona. Comme à Canosa, la nonvelle organisation provinciale confèrc à Keggio, siègc du corrertor, un rolc de premier plan ct y fixe la population de rnanière stable (foncrionnaires et burcaux) ou provisoirc avec les multiplcs déplacements administratifs. Les hesoins nés de ces rassemblcments et lcur role motour dc contre de commandcment, ne peuvent qu'accro~trc unc vitalité commerciale due à la position de Canosa sur la 7raiarna, de Rcggio sur le détroit, à l'extrémitc de la Pop~lia. 'I`outes ces villcs drainent ensuitc lcs ressources dc l'arrière-pays pour lcurproprc consommation etpourles redistribucr. Elles stimulentune production diversifiée, en partic destinée à l'cxportation: huilc, vin, légomes pour le tcrritoire de Rcggio, voué par ses sols à ce type dc cultures qui nécessite une abondante main- d'o_uvre~7. Tarente, comme certainement Reggio et Canosa, Crotone sans doute aussi sont de gros marchés de l'huile etlou du vin. Il en est de mcme pourVibora, lieu
d'embarquemcnt vers Rome de la poix, du bois, pnis du grain lorsque les papes ont pris en mains le ravitaillement de la ville. Ce sont aussi des centres de transformation dcs produits de la peche (scctcur peut-etre stimulé par l'occupation de l'Afrique tant pour la teinture que pour les sauces de poisson), de l'élevage et évcntuellement de l'extraction minière. En Ponille, le murex et la laine des troupeaux d'ovins alimentent dès le IVò siècle l'industrie textile de Canosa et de Venosa'~, ainsi que des tcintureries à'I'arente' et peut-etre aussi à Otrantc où la pourpre est cn tout cas récoltoe depuis le Ve siècle au moinsit. A Reggio de petites structures d'habitat et d'artisanat (fonte du bronze et pcut-etre travail des peaux) sont installées, vers le début du IVe siècle, sur le littoral à l'intérieur de la grande fa,cade à niches (cf. supra). Ces activités provoquent une expansion de la ville en direction de la mer, comme à Marseille entre le Ve et le VIIe siècles et à Otrante où un quartier de petites boutiques remplace au IVe siècle une nécropole abandonnée, employant de nombrcux ouvriers et faisant prcuve d'une remarquable vitalité'`~~. Reste que celle-ci peut aussi donner, du point de vue archéologique, une impression de paupérisationlt, . Ainsi à Reggio-Lido, les structures fonctionnelles sont privilégices au détriment de l'aspect monumental: le mur de terrassement, les digues et la converture du fleuve sont refaits au début du Ve siècle, mais si on y ajoute encore un portique et un escalier menant à la fontaine impériale de la terrasse supérieure, aucun sonci édilitaire ne transparalt plus ensuite, tandis que les murs se réduisent à des galets ou des briques mal cuites assemblés à sec et quton substitue de la terre battue aux pavements. L'abandon de certaines dom~xs luxuenses (phénomène autant lié à l'installation de lcurs propriétaires à la campagne qu'à la concentration accrue des richesses) et lcur réaménagement précaire ne signif~ent pas déclin de la ville, mais afflux de salariés, accentuation de son caractère productif aux dépens de l'aspect résidentiel; ce salariat urbain s'appauvrit-il réellement? Le fait est loin d'etre sur, avant la guerre gréco-gothique tout au moins~03; les points de comparaison manquent pour en décider, car on ignore tout des habitats modestes de la période impériale. Ces industries centrées sur la ville sont gérées par l'État (une teinturerie impériale à Tarente au IVe siècle, la gestion de la pourpre à Otrante au VIe siècle) alors qu'à l'extérieur un artisanat davantage lié à l'agriculture semble pris en main par les possessores, et peut-etre faut-il y voir un élément de lcur désaffection à l'égard de la ville. Mais toute la main- d'ccuvre ne réside pas intra muros: à Otrante, souligne Cassiodore, la pourpre fait vivre tot artifices, tot rautarum catervae, mais aussi tot familiae r~sticorum; le fait qu'entre Canosa et Venosa tout un système de manufactures impériales s'échelonne dans la vallée de l'Ofanto~o4, plaide pour une décentralisation du travail plutot que pour des paysans allant travailler en ville. Tout ce qui précède montre que les grandes villes vivent en symbiose avec un territoire densément peuplé qu'elles animent et où une certaine hiérarchie de la propriété semble s'etre maintenue, puisqu'on y tronve aussi bien des villue que des vici ou cio^riatoS. La plupart des nombrcuses villue impériales qui s'étagent sur des terrasses fertiles et panoramiques au nordouest de Vil~ora survivent jusqu'au Ve siècle inclus; particulièrement denses vers la cote où elles sont sonvent desservies par de petits ports, elles allient l'exploitation du bois à une économie agricole et marine: on y élève le poisson pour la fabrication de conserves salées, de thon surtout. Elles re~coivent la céramique africaine et cristallisent le peuplement. Le IVe siècle voit aussi une floraison d'habitats groupés sur les cotes sud et sud-est, véritable capillarisation de l'occupation du littoral: villae imp~iales ou agglomérations avec lcurs nécropoles associces. La production de vin et d'huile a suscité la concentration dans la meme zone, riche par ailleurs en argile de qualité et largement fournie en bois par l'Aspromonte, d'ateliers fabriquant des amphores. La fonille de l'un d'entre eux, à Pellaro, a confirmé pour la première fois de manière sure que la fabrication de la forme Keay LII, ultérieure manifestation du redémarrage économique de la région, devait bien etre attribuce au Brattium, tout en fournissant une datation sure aux IVe-Ve siècles. Il stagit d'un gros centre regroupant, comme sans doute la plupart des autres, plusieurs fours et vasques de décantation et associant à celle des amphores la fabrication d'autres terres cuites, dont la
céramique commune. Des fours ou dépotoirs de ratés de cuisson ont été repérés sur quatre autres sites voisins, datés par le matériel associé des IVe-VIe siècles. Ils s'échelonnent, comme tous les autres établissements, sur la route c8tière, à proximité des rivières assurant l'indispensable ravitaillement en eau, avec la possibilité d'utiliser lcur embonchure comme ports-canaux, en mesure donc d'exporter lcurs produits. À l'exception de celui de Pellaro, implanté sur un site neuf, ces ateliers sont associés à de grandes villae impériales, le plus sonvent à celles qui, du IVe au VIe siècle, ont développé autour d'elles de vastes stationes~06. Ainsi la croissance semble avoir été prise en main dans la majeure partie des cas par la frange la plus dynamique des grands propriétaires terriens, des clarissimi sonvent ( Lazzaro est peut-etre la villa où Cicéron a été re ,cu par Pul~lius Valerius), les sculs à disposer de réserves financières et qui les investissent dans la vigne et la production industrielleto7, prenant en mains 1'exportation du vin et peutetre de l'huile. Ils rassemblent une main- d'ccovre rurale et artisanale autour des centres de gestion de lcurs domaines et intriguent peut-etre meme pour que des stationes y soient installéesto8. Le meme modèle se retronve sur les fertiles plateaux céréalicoles et vinicoles qui bordent la cote au nord-est de Reggio. Tauriana n'est à l'origine qu'une des villae qui s'y développent dans les deux premiers siècles de notre ère, à quelques centaines de mètres sculement d'un port mineur mais suros. Son nymphée semi-enterré est transformé dès la première moitié du IVe siècle en basilique funéraire pour la nécropole désormais chrétienne de l'établissement. Saint Fantino y est enseveli, tandis que la statio qui s'est développoe autourtt~ devient siège épiscopal. L'ancien nymphée, devenu la crypte du sanctuaire décrit~ans la vita du saint au début du IXè siècle sans doute, par l'éveque Pierre de Tauriana, est en effet expressément qualifié d 'agiasiailatiolikèsekklèsias. Parmi les entrepreneurs figurent certainement les communautés juives vennes de Tunisie, ainsi à San Lazzaro et surtout à Bova-San Pasquale où une synagogue est construite au début du IVe siècle, et fonctionne aux Vò-VIe siècles un four produisant céramique de table et amphores ornées d'une ménorahttS. Peut-etre meme les Juifs ont-ils acquis au IVe siècle la villa voisine du premier age impérìal, devenant d'abord propriétaires terriens et passant au Ve siècle à une activité marchandet. L'exploitation des ressources semble aussi avoir eu pour cadre des petites communautés de propriétaires indépendants, peut-etre soudées par la nécessité de planifier et coordonner l'organisation des récoltes, I'utilisation des pressoirs et les rapports avec le marchét. Certains établissements des environs de Vil~ona pourraient etre ainsi des pré-villages, tot pourvus d'églisestt3 comme d'autres sur le promontoire du Porrot~9. Il en est de meme de quelques petits vici et stationes sur le territoire de Reggio; il n'est cependant pas toujours possible de savoir si une villa n'est pas à l'origine de ces regroupoments. Spontanés, ils peuvent avoir été favorisés par les besoins créés par la croissance, ne serait-ce que du point de vue des échanges. Les grandes villes ont scules maintenu avec le territoire qui constitue lcur support économique les rapports harmonieux qui caractérisaient la vie romaine. Les grosses agglomérations intermédiaires dotoes comme Bova-San Pasquale'20 d'un véritable port et très étendues, ont certainement lcur propre marché et se passent de mieux en mieux des anciennes citést2~. Lespossessores-negotiantes ont cependant tout intéret à posséder lcur siège principal à Reggio, lieu d'échanges et de commandement, les Juifs comme les autres, qui y disposent d'une synagogue. D'autres établissements comme Locres souffrent en revanche de cette concurrence. Sa période de splendeur remonte aux Ie'-IIIe siècles où elle s'orne d'imposants édifices publics, exemple de symbiose idéale entre une ville et son agerriche et densément peuplé,22 Et de nombrcuses familles dominantes, qui possèdent de grandes villue extraurbaines, y résident. Au IIIe et surtout au IVe siècle le territoire conna~^t une phase de grande prospérité, fondée sur l'association d'une probable céréaliculture d'autosubsistance et de la production de l'huile et du vin, celle-ci surement pour l'exportation~23. Cette conjoncture favorable semble avoir suscité une vague édilitaire rurale de la part des citadins ou d'immigrés: en sont témoins les villae qui y fleurissent alors. On y distingue deux catégories de propriétaires terriens. Un bon nombre de domaines d'importance moyenne subsistent, dont la villa du Naniglio fournit un bon exemple: construite à la f~n du Ier siècle
av. J.-C., elle est réaménagée jusqu'au IIIe siècle au moins, sinon au IVe, sur un plan connu par les mosa~ques africaines et pourvue de thermes. Son luxe est modéré: les matériaux, de provenance locale si l'on excepte quelques marbres, ont été travaillés par des ma~tres d'ccuvre du pays. La villa pourvoit à ses propres besoins en métaux et terres cuites et les importations, africaines ou orientales, y sont limitoes. Des propriétaires traditionnels de ce style, sans doute de racines locales (ou installés dès le tournant des IIIe-IVe siècles), largement onverts aux influences africaines, sont encore profondément imprégnés des valcurs de la civilisation romaine, cultivent le respect de la vie citadine et conservènt sans doute lcur demoure principale en ville. Mais l'enjeu politique y a depuis longtemps disparu et l'attention d'autres possessores est en train de se reporter sur le profit qui d'aillcurs sous - tend désormais le ponvoir: déjà quelques - uns d'entre eux semblent gérer lcurs fundi de manière novatrice et y adapter lcurs modes de vie. L'ensemble de Casignana de Palazzi présente en effet un tableau bien différent de celui du Naniglio, avec son luxe ostentatoire, ses marbres importés à grands frais, la qualité de ses mosa~ques, sa vaisselle et ses amphores d'Afrique. Ses propriétaires ont rassemblé autour du centre d'exploitation une agglomération qui convre 15 pas, mais ils doivent abandonner les batiments devenus dangereux faute d'un entretien, très coutoux pour des structures de cette amplcur. La vie se poursuit cependant à coté, jusqu'à la seconde moitié du VIIe, peut-etre jusqu'au VIIIe siècle. Les idées toujours rebattues d'abandon des villae, de lcur "réoccupation" par une catégorie sociale inférieure, de l'appauvrissement des techniques de construction, ne traduisent sans doute pas la réalité: I'habitat des cultivatours et des dépendants, auxquels se joignent peut-etre les possessores ruinés, perdure à c8té de la résidence devenue inhabitable sous la forme qui a toujours été la sienne (solins de pierres liés d'argile, élévation de torchis ou de briques crues, sols de terre battue). Comme on l'observe à Casignana, saccagée après 425, les propriétaires n'ont plus assez d'argent pour reconstruire les thermes, mais ils occupent peutetre encore une partie, meme réduite, des autres structures; en tout cas, les dalles de marbre et le métal sont récupérés et les ruines sont utilisées comme dépotoir par l'habitat voisin, d'abord la partie centrale, pnis sans doute lorsque celle-ci devient impraticable, les pièces périphériques, jusqu'à la fin du VIIe siècle et peut-etre au VIIIe et meme au-delà. Les débris de tombeaux profanés lors du raid semblent avoir été mis à l'abri au meme endroit, le plus décent dont on disposait alors. Par la suite d'aillcurs, les ruines, qui fournissent une sorte d'enclos et de protection aux sépultures (toutes appuyées aux murs), servent toujours de cimetière. Tout cela n'empeche ancunement que, dans d'autres cas, des populations en quete de stabilité et d'identité aient pu s'installer à coté de villue abandonnées depnis un siècle ou plus, mais dont les vestiges marquaient encore le paysage, assurant, outre des materiaux de remploi, un point d'ancrage et de référence sur des sites par aillcurs favorables. Quoi qu'il en soit, c'est bien la débacle de la catégorie dominante traditionnelle qui semble avoir entra~né l'abandon de Locres où la céramique de surface se raréfie de manière drastique au VIe siècle. Elle sera remplacce par cette nonvelle génération de possessores qu'on a déjà vue émerger: très atteinte elle aussi par les Vandales, elle est plus à meme de réparer ses forces et ses rescapés concentrent alors lesfundi en immenses domaines. Le changement de gout perceptible dans certaines villae comme Casignana dès le IVe siècle traduit tout autant les transformations culturelles et mentales introduites par le boom économique que l'origine souvent orientale de ces parvenus, plus tournés vers lcurs propres intérets que vers le bien public. Scolacium, sur le territoire de laquelle lesfundi associent certainement vigne, oliviers et élevage, suit une évolution semblable, mais son importance stratégique, au carrefour de la voie isthmique et de la route ionienne, lui confère une capacité de résistance majeure. Siège d'une importante colonie et dotoe elle aussi de monuments considérables'3~, son éveché est le premier attesté de manière sure dans le Brattium~32. En dépit de l'abondance et de la qualité de la céramique et des importations, le théatre, détruit par un incendie, est enseveli dès le milieu du IVe sièclet33; I'édifice public à abside et leforz~m y font encore l'objet de réaménagements de style monumental, de peu d'envergure, mais le début du siècle suivant ne verra plus que des interventions limitoes. Bon nombre de possessoresy font
cependant encore vivre les mediocressans doute plus que jamais de lcurs largesses: les émoutes qui y ont lieu à la fin du Ve siècle (cf. supra) sont le fait d'une plèbe urbaine qui constitue la clientèle des Grands. Mais si ccux-ci y ont toujours lcur champ d'action, ils consacrent désormais une bonne part de lcurs richesses au patronage religieux et à lcurs villae suburbaines: des sépultures sont pratiquces aux Ve-VIIe siècles sur la colline jusqu'alors inoccupoe qui domine le théatre, autour et au-dessus d'un édifice à fonction sans doute cultuellet34. La ville est alors victime, comme celle de Locres, d'une "polynucléarisation" qui privilégie les positions dominantes plus sures et le voisinage du fleuve: au nord, une nécropole des N7e-VIe siècles est proche de la villa de Casa Donnaci. Mais la ville est encore capable de fournir un gros effort militaire. Valentinien III abandonne en effet aux populations méridionales, vers le milieu du Ve siècle, le soin de défendre lcur propre pays contre les Vandales jusqu'à ce que Rome soit en mesure de prendre le relais. La résistance est organisée par les Grands, sans doute officiellement mandatés: il semble que des troupes commandées par l'arrière-grand-père de Cassiodore aient alors empeché Genséric d'envahir la Sicile et le Bruttium~36 et qu'une sorte de limes ait été constitué sur les cotes méridionale et orientalet37, axé sur la fortification de points-clés: (:opia Thariiau nord et Reggio au sud, les scules villes respectivement qualifiées de pirourion et d'oppidum au début de la guerre gréco-gothiquet38. Peut-etre en est-il ainsi à Scolacium, patrie des Cassiodore: un mur d'enceinte, flanqué de tours en galets et briques de remploi, est en effet élevé à l'onest, délimitant une aire semble-t-il encore non urbanisée~39. Il n'est pas impossible qu'ait été planifié assez tot un véritable glissement de la ville sur les hautour~`de l'arrière-pays: c'est vers le milieu du Ve siècle qu'est entreprise sans doute par les habitants eux-memes, dans le centre jusque là fréquenté de manière normale, une récupération systématique des éléments métalliques et des dalles de marbre~40. Mais le projet ne semble pas avoir été porté à son terme. En tout cas, les émoutes de la fin du Ve siècle traduisent ici aussi une crise sociale grave. L'Église semble avoir maille à partir avec ces nouvelles familles, dont le plus bel exemple est fourni par la dynastie des Cassiodore qui arrive d'Orient pour faire fortune dans l'élevage des chevaux. Le bisa~eul de Cassiodore occupait une fonction administrative et a certainement lutté contre les Vandales ès qualités; reste que l'appel aux Grands d'Italie méridionale, fruit de l'impuissance de l'armoe d'État, a officialisé lcur autonomie croissante et préludé à la création de milices privées. Les possessores se fortifient dès lors sur lcurs terres où se développe une nonvelle structuré sociale qui ne doit plus rien aux villes. À San Giovanni di Ruoti, résidence au Ve siècle d'un dominus et de safamilia~4~, de lcurs domestiques et d'un groope de dépendants, les traditions classique et tardive sont associces, avec les thermes d'une parr42, le praetorium d 'autre part. L'aula d e réception du premier étage est l'expression d e nonveaux rapports sociaux, comme aussi la défense forcément assurée par un groope de dépendants. L'ensemble résidentiel de Quote San Francesco reproduit ce modèle à la meme époque au sud de Locrest4~, avec le meme luxe relatif des thermes. Le plan, déconvert sculement en partie, storganise, sur 60 mètres environ, autour de deux édifices rectangolaires affrontés, terminés par des absides polygonales. Le secteur nord-est scul a été exploré: il s'agit d'une grande a~la basilicale. Le rez-de-chaussée assez bas, au simple sol de terre battue, chichement éclairé par d'étroites monophores ébrasées, a un caractère nettement défensif et devait servir de magasin ou d'étable-écurie et la partie de résidence et de représentation se tronvait à l'étage supérieur. Ce type de résidence "seigneuriale" est caractéristique du saltus montagneux et de ses franges (comme dans le Pollino ou en Lucanie où les massae sont bien attestoes dans la première moitié du VIe sièclet44). C'est par excellence le royaume du bois et de l'élevage où la rivalité attestoe à l'origine avec lesfundi agricoles de la plainet4S semble s'etre résolue dans une économie mixte. Un tel système est, on y reviendra au chapitre suivant, peu compatible avec la prospérité des villes. Ce n'est pas un hasard si à Otrante, Reggio, et Copia Thurii d'abord, à Crotone et Tarente ensuite on fortifie la ville elle-meme et à Locres plut8t le platpays. Grumentum, dans les montagnes de Lucanie, densément fréquentoe et prospère au IVe siècle, t8Ot pourvue d'un évechét46, est rapidement abandonnée vers le
milieu du siècle suivant: la ville, peut-etre saccagée par les Wisigoths, éclate en noyaux périphériques centrés sur les lieux de culte sonvent flanqués de petites nécropoles utilisées aux VIò-VIIe siècles. La situation est bien différente dans les plaines céréalicoles du nord du Bruttium et du golfe de Tarente. Celle de Sibari est encore fertile et certainement pas impaludée avant la reprise des déboisements intensifs vers le XIIIe siècle, s?uf peut-etre la frange littorale; les grains y sont encore cultivés au haut Moyen Age et jusqu'aux XIe-XIIe siècles~4~. La plaine, d'où part la route isthmique par la vallée de l'Esaro, constitue en outre un p81e d'attraction pour les principales voies nord-sud~4s. La ville portuaire romaine, Copia Thurii, est situce entre le Crati et son actuel aMuent, le Coscile, qui se jette alors séparément à 4 kilomètres au nord dans la mer ionienne~49. Un certain nombre de petites villare rustiques correspondent au sud à sa zone de colonisation, mais la quasidisparition des etablissements à l'ouest et au nord dans l'Antiquité`tardive semblerait indiquer que le territoire est alors exploité, au moins dans ~ rayon correspondant à un parcours quotidien pour rejoindre les champs, par des cultivatours résidant dans l'agglomération urbaine. Celle-ci est d'aillcurs relice à l'arrière-pays par une multitude de chemins secondaires et reste densément peuplée aux IVò et Ve siècles. On n'y observe aucun changement dans l'édilité publique ou privée ponvant traduire un appauvrissement notable ou des perturbations sociales. Une certaine hiérarchie de la propriété s'est sans doute maintem~c, préservant une communatlté de petits et moyens propriétaires (encore en mesure d'entretenir lcurs monuments). Dès ce moment, les sites occupés se réduisent eertes de manière drastique dans le reste de la plaine, phenomène qui s'accentuera aux VlC et Vllò siècles, et la distribution réguliere des habitats survivants par rapport à ccux qui sont abandonnés suggère la sélocrion d'un etablissement par unité micro-régionale - une dizaine de kilomètres carrés - suite sans doute à une concentration des domaines. ~lais les grandes v~i~l~e "seigneuriales" s'échelonnent sur la pente de l'amphithéatre dc collines et un peu en amont au long des vallées fluviales suivies par les routes, donc loin de la ville . 1,e siège épiscopal, atteste en 492-496, se maintient malgré de brèves periodes cle vacance jusqu'en 680 au moins ;~. Mais la ville, qtli est pourtant tot christianisée~~, n'a livré anenne trace d'église, meme aménagée dans une structure preexistante; et elle est totalement désertoe à la fin du Vò siècle, au moment meme où l'éveché appara~t dans les textes. Procope d'aillcurs, certainement ignorant des lieux, ne cite plus 77urium qu'à 1'occasion de descriptions géographiques, certainement sur la foi de sources plus anciennes';, et, étrangement, ne lui fait joner ancun role lors des batailles qui se déronlcut dans la plaine de Sibari en 547-548. Lep~rourion qui est alors assiégé par Totila a été construit à l'entrée du Br~ttium, nous dit l'autour, par les “anciens }(omains” ce qui situe l'événement au vc siècle, lors de la descentc d'Alaric ou de la constitution du limes contre les Vandales~~~. Les dates incitent à penser que Ie notlveau centre religieux de 77urium s'est rapidement installé dans cette pnissante fortification et a contribué à y attirer les habitants de la ville au début du VIC sièele. 1,e transfert, effectué sans hate et méthodiquement, n'cst pas du à un événement traumatique, mais plutot à la perte de fonetion du port qui avait assuré la richesse de la ville. I,n premier alluvionnement, encore limité, avait en effet eotra~né, dès le ler siècle de notte ère, une avancée de la cote et des variations du tracé des fleuvcs justifiant des modifications de la viabilité intcrne. I,e port est cnsablé, ainsi pcut-etre que le canal qui le relie à un des cours d'eau, ce qui oblige l'agglomération, exportatrice de blé et toujours largement onverte aux trafics d'outre-mer, à utiliser celui de la st~ztio cotière de llossano';;. Il est donc possible que les habitants aient cherché à se rapprocher d'un monillage à l'embonchure du Crati, encore navigable ou du moins utilisable dans son cours inférieur pour le transport des marchandises~ . C'est probablement la fixation de la frontière lombardo-byzantine dans la plaine à la fin du Vlle siècle qui provoque l'abandon, peut-etre volontaire, du p~rourior pour eréer un espaee vide, une sorte de marehe en somme. La position de l'établissement en plaine, alors que tous les habitats se protégeaient par le perehement, devait etre d'aillcurs de plus en plus difficile à tenir. Métaponte, eommunauté de petirs et moyens propriétaires, offre une image semblable. L'établissement renaı^t, d'abord timidement à la fin du IIIe siècle, de manière plus éclatante au siècle
suivant, comme statio de la route cOtière. Elle se repeuple alors d'agricultours dont le niveau économique et s,ocial paraıt assez homogène. Ceux-ci résident dans des fermes constituant des ~noyaux séparés qui regroupent chacun plusieurs pièces dont certaines sont réservées au stockage des aliments. Leur aisance économique est attestoe par l'activité édilitaire (un four à chaux y fonctionne pendant toute la période) et l'abondance de la céramique. Témoin également le caractère véritablement urbain de l'agglomération, qui s'organise autour d'un portique à colonnes cannelées, d'une fontaine monumentale et de thermes et traduit le maintien d'une structure civique. Un tel phénomène, lié à l'absence de grands domaines aussi sur le territoire, donne tout son sens à une lettre de Cassiodore évoquant, en Lucanie, une nette supériorité des curiales, qui s'y distinguent des mediocres, sur lespossessores' sa. Les habitants disposentégalementderessources suffisantes pour édifier dès avant 350 une première basilique qui, malgré des dimensions relativement modestes, tranche sur les autres batiments par sa ma,connerie de blocs équarris de remploi et possède un preskyteriam légèrement surélevé. Flanquce, dès la deuxième moitié du IVe siècle, d'un grand baptistère à l'architecture soignée~s9 qui reste en fonction jusqu'à 1'abandon de la ville, elle est de plus certainement remplacce par une seconde basilique après sa désaffectation au Ve siècle. Enfın, au nord-onest de cet ensemble, s'élève une autre construction que tout désigne comme un édifice public ou religieux et qui est restaurée au moins une fois. Une route rectiligne relie l'agglomération à son port, situé au liendit Mele, dans les dunes du bord de mer, à proximité d'une anse antìque du Basento~óó. L'activité commerciale y est intense: exportation de blé et importations de produits d'Afrique et, surtout à partir du Ve siècle, d'Orient. Les amphores sont stockées sur les planchers de magasins rectangulaires, celles qui contiennent les grains à l'abri d'appentis appuyés au dos des batiments. Les ~ergot~atores pèsent et eoregistrent les deorées dans un ou plusieurs bureaux. Métaponte est atteinte de plein fouet par l'expédition navale byzantine de 508 qui ravage le littoral apulien jusqu'à Tarente et certainement audelàt63. Le froment est alors brulé, comme vraisemblablement dans les autres ports où il est stocké en attendant l'embarquement; c'est sans doute la raison pour laquelle les cosndurtores des domaines royaux, dont les récoltes sur pi~l ou les réserves sont plus à l'abri vers l'intérieur des terres sont moins ruinés que les regotiatores de Siponto. Les massae pontificales présentent sans doute une physionomie assez semblable, mais dans un contexte de latifundia, une sorte de compromis en somme entre deux situations extremes. Tropea n'est au départ qu'un centre de gestion domaniale, mais qui présente cette particularité d'etre implanté au Vò siècle sur un site nenf aux défenses naturelles impressionnantes: il s'agit d'un promontoire entouré de falaises rochenses à pic dans la mer, dont l'accès est barré par un profond ravin. Le sommet est cependant assez vaste pour que s'y développe un habitat important qui domine en outre un des rares points d'approche entre Vibona et le cap VaticanotóS. Peut-etre faut-il y voir une entreprise de regroupomentetde controledeshommes, àl'initiative de l'Église cette fois, sur un site protégé tourné vers Rome, pour assurer la mise en valcur des propriétés pontifıcales. Ici, malgré la présence d'une condurtr~x, pas de villa luxuense mais une communauté prospèret66, peut-etre divisée à 1'origine en deux noyaux, qui se distingue par son encadrement religieux (un pretre et une pres~ytera) et son haut niveau culturel, attesté par le nombre considérable d'inscriptions. Un petit édifice religieux y est bientat édifıé dans le centre, à l'emplacement de la future cathédrale, puis un couvent, attesté dans la seconde moitié du VIe siècle. La massa de Nicotera prend le nom d'une statio, encore mal localisée, qui pourrait correspondre au port utilisé de l'Antiquité au Moyen Age en contrebas de la ville actuelle: elle se serait alors constituce de manière classique, autour de la résidence luxuense dont subsistent de nombrcux vestiges, celle de l'intendant ou du locataire d'un ancien domaine impérial. D'autres établiss~ments sont attestés dans le massif du Porro et, au sud de Nicotera, dans la plaine du Mesima. Il s'agit surtout, semble-t-il, d'agglomérations rurales, probablement déjà constituces en paroisses où résident des pretres~70. Dans cette région aussi la crise du Vò siècle paraı^t avoir été suivie d'un mouvement de concentration au profit de sites de monillage comme celui de la massa de Tropea: le rythme des inhumations n'y faiblit pas jusqu'au début du VIIe siècle, date à laquelle la désaffectation du cimetière au centre de
l'établissement pourrait résulter d'une densité majeure de la population; c'est aussi alors qu'apparaıAt l'éveché dans les listes conciliaires. Le processus est plus lent autour de Nicotera où ce sont les “ habitants de la massa” qui réclament en 596 I'ordination d'un pretre, expression qui soggère le maintien d'une population dispersée, hypothèse confirmoe par la prospection archéologique. Le transfert du centre sur l'éperon qu'il occupe actuellement, protégé sur trois c8tés par des à-pics et placé sur une crete stratégique controlant à la fois les hautours de l'arrière-pays, la plaine et la mer n'est pas postérieur au VIIe siècle: peut-etre est-il en partie lié à la création de l'éveché dans le courant du VIe siècle. 3. VIe-VIIe siècles: legénocide desgrandesfarmilles et la renaissarnce des ~illes a) L'apogée de la crise urbaine La phase la plus aigue de la crise urbaine au tournant des Ve et VIe siècles co~ncide avec l'apogée des grandes familles latifundiaires. Leur ascension politique a été facilitoe par la réduction des moyens d'intervention du ponvoir central dans le Sud; Odoacre (comme Théodoric) maintient les cadres traditionnels, auliques et sénatoriaux, et favorise la noblesse provinciale. Il semble que celle-ci soit déjà assez puissante au Ve siècle comme elle le sera avant le débarquement de Bélisaire dans les années 530 pour faire payer sa loyauté par de fortes réductions dimpots. L'aristocratie profite certainement des troubles engendrés par l'installation des Ostrogoths et c'est elle qui lcur rallie les provinces méridionales; lorsque Théodoric cherche à reprendre la situation en mains, il est trop tard et il ne peut que chercher l'appui des Grands. S'il n'installe aucune garnison dans le Sud, c'est bien sur pour épargner sa principale source de ravitaillement, mais aussi pour conserver la faveur des possessores. Les troopes pèsent, il est vrai, lourdement sur le pays: s'il ne stagit pas de pillages purs et simples dus à l'indiscipline, la réquisition à très bas prix des denrées et chevaux disponibles stajoute à l'impot. Lorsqutune région ne peut fournir le ravitaillement, l'armoe exige probablement des habitants son importation ou une adaeratio à prix très élevés. Sans doute l'accueil favorable réservé par le Bruttiam à Bélisaire résulte-t-il en partie de la rupture des Ostrogoths avec le Sénat et de lcur arianisme, objet d'une haine clairement exprimoe. Surtout, les possessores n'ont pas supporté le séjour des armoes et la multiplication des evertionest'ó: ils se rebellent alors onvertement. Ils constituent désormais une minorité très pnissante, formoe de quelques "maisons" t78 dont les membres sont qualifíés d e possessores validi ou de domini (cf. supra). Propriétaires privés etlou conduetores des patrimoines impériaux ou sénatoriaux, ils gèrent des massue~so d'étendue considérable qui s'étendent sur plusieurs provinces~s~. Un bon exemple est fourni par le loyer et les taxes dus pour des prardia royaux apuliens concédés, sans doute en emphytéose, à un certain Thomas et qui atteignent pour deux indictions la somme colossale de dix mille sous d'or~s2. Cespossessores tiennent lcur ponvoir des hautes fonctions qu'ils assument localement dans le cadre traditionnel de la carrière sénatoriale provinciale. Formant de véritables dynasties~s3, ils sont corrertores cor~ne les Cassiodore et ce Venantius qui, s'il est bien le père du magnat Tullien, actour de la guerre gréco-gothique, possède des biens étendus dans le Bruttium et en Lucanie~s4; praepositi comme N7alérien, à qui Cassiodore s'adresse en 533-536 comme à l'un des cond~óctores et possessores concernés par sa missive~85; arcarii comme Jean qui, cautionnant la dette de Thomas, sera dédommagé par ses biens si celui-ci s'avère incapable de la régler dans le délai donné. Ils tirent lcurs richesses de lcurs patrimoines, mais aussi de lcurs fonctions memesis7. Les Varinefournissentun large échantillon de prévarications auxquelles donnent lieu les evertiones~ss et la perception meme des impOts~s9, surtout celle de l'annone, à des fins probables de spéculation (pracemptio à des prix inférieurs au marché, perception au détriment des negotiatores de sommes illicites au nom de l'interpretium, etc). La corruption ressort à l'évidence du cas de Thomas qui n'a pu rcussir que per diversas l?'difrationes avec aussi la nécessaire complicité d'agents locaux, à accumuler un pareil arriéré sur deux indictions. Les menaces de répression et les précautions prises par l'État à propos de l'annone montrent que ces abus relèvent de la pratique courante; la répétition meme de ces mesures tend à prouver lcur inefficacité. La ruine des propriétaires moyens n'a laissé que les mediocres et minores ou ten~es, face aux prarpotentes, sous l'égide desquels textes et archéologie laissent entrevoir la mise en place d'une
nonvelle structure sociale par le biais du clientélisme et du patronage. Le fait est sensible dans la manière ambigue dont gonvernent les correctores: Cassiodore I fait ainsi régner son autorité dans sa province moins par la force du droit que par sa noblesse et ses continnels bienfaits (I'ingénuité avec laquelle l'autour rapporte ce trait montre à quel point ce comportement était passé dans les mccurs). Les ravages du siècle précédent ontcertainementaussi ruiné bon nombre de petits propriétaires libres: dépourvus de mar.ges financières, ccux-ci, lorsque plusieurs récoltes ont été mauvaises ou détruites, doivent contracter un emprunt pnis vendre lcurs terres ou les céder à lcurs créanciers, devenant ainsi colons, à moins que 1'insécurité ne les pousse à aliéner lcur liberté contre une protection. Ainsi l'agglomération de Métaponte, qui a vu ses récoltes brolées lors du raid byzantin, reste affaiblie: sa population, appauvrie, diminue progressivement jusqu'au milieu du VIe siècle. L'abandon de l'établissement, où entrent aussi, on y reviendra, d'autres raisons, n'est cependant pas total: dans la seconde moitié du VIe et au VIIe siècles subsiste un groupe d'agricultours d'un haut niveau sociali93, dont la résidence, certainement proche et sans doute ma,connée (comme le soggèrent de nombrcux imbrices décorés au doigt), n'a pas été explorée. Le blé joue un role non négligeable dans ces transformations sociales. C'est en effet désormais l'Italie qui fournit scule l'annone de Romet94, la Sicile surtout - et c'est pour épargner ce grenier que les Ostrogoths n'y laissent pas de garnisons, toujours lourdes pour le pays - la Campanie et 1'ApulieCalabre. Les raids barbares, en anéantissant les cultures traditionnelles et en coupant l'Italie de l'Afrique, puis de la Sicile et de la Sardaigne, ont contribué à la conversion de nombrcuses zones, meme de celles d'élevage, à la céréaliculture, surtout dans les provinces sur lesquelles ne pesait pas lourdement la cormptio; ainsi en Lucanie, où les grains apparaissent dans la dernière période de S. Giovanni di Ruoti, et dans le Bruttiam (cf. supra) dont certaines régions comme celle de Scolacium et la plaine de Sibari sont en mesure de ravitailler des armoes. Peut-etre sont-ce surtout ces contrées qui exportent alors des grains hors de la péninsule, comme le suggère 1'acheminement de vivres vers des régions affamoes par des naviculaires de Lucanie. Lespossessores étendent certainement lcur indominicatum pour une céréaliculture intensive au détriment des petits tenanciers que la spéculation contribue encore à ruiner. La désertion de nombrcux sites ruraux illustre parfaitement le phénomène, de meme que le brigandage recrute chez les petits cultivatours dépossédés et la main-d'ccuvre salarice au chomage: témoins le vol des chevaux d'un voyageur près de Scolacium et le sac des stocks de marchandises à la foire d eMarcellianum, dans le Vallo di Diano, attribué à des rustici, ainsi que 1'appauvrissement général des paysans dans ces régions de massae associant élevage et grains. Ces bandes organisées peuvent constituer, avec les colons, des milices privées qui, avec le conflit gréco-gothique, prennent l'allure de véritables troupes quton voit intervenir au début de la guerre à Scolacium, pnis lorsque Tullien est en mesure de lever une armoe de paysans pour barrer les cols de Lucanie. Dans le premier tiers du VIe siècle, il est clair que les Grands ont atteint chez eux une quasi-autonomie, renforcce par l'absence de garnison: les pouvoirs publics, reconnaissant implicitement lcur incapacité, les invitent à exercer euxmemes police et justice dans lcurs massae et Cassiodore s'adresse plusieurs fois directement à eux. Ils tiennent en mains des régions entières (Tullien se fait fort de rallier aux Grecs toutes les populations du golfe de Tarente) et lcur appni est déterminant durant la guerre. Le salt~s, 1'arrière-pays qui constitue traditionnellement une zone répulsive du monde romain, domaine de la barbarie, échappe au contr81e du réseau urbain, qui y était plus fragile et reprend la préominence qu'il avait connu avec les Brettii et les Lucani. On verra d'aillcurs que la trame des habitats perchés et fortifiés, qui avaient été démantelés lors de la conquete, se reconstitue alors. En exagérant à pcine, on peut dire que ce sont les villes, grignotoes par les grands domaines, qui se trouvent à lcur tour marginalisées. Les possessores et conductores y sont systématiquement distingués des ca~riales, qui semblent désormais s'identif~er aux moyens propriétaires, constituant une sorte d'échelon intermédiaire entre les praepotentes et les petits. Cette distinction confirme que nombre de Grands sont des parvenus du Ve siècle qui ont obtenu une dispense de curie ou qu'ils ont déjà quitté la ville depuis fort longtemps.
L'origine souvent orientale des familles d'extraction récente joue en effet contre les institutions municipales. Elles apportent une idéologie nonvelle, conforme au modèle constantinopolitain, et lcur indifférence envers la capitale ostrogothe ne cesse de grandir. Au Ve siècle, c'est une mentalité de parvenus plus sonciense des intérets propres de son groupe social que du bien public. Ce qui vient d'etre dit en est déjà une illustration; Cassiodore ne constitue à cet égard qu'une exception relative, les nombrcuses mesures qu'il prend en faveur de ses amis d u Bruttium étant probablement moins dues à l'appauvrissement de la province qu'à son esprit de corps. Dans le meme ordre d'idées, des Juifs s'appuient sur des lois orientales pour refuser les charges de la curie à la fm du IVt siècle. Seols les possessores rcussissent à ne pas payer lcur part des impots2is, qui du coup pèsent sur les plus faibles. Sous la pression des perceptours et des saiones, les curiales, responsables du bon versement des sommes, en sont réduits, et en premier lieu les moins riches d'entre eux, à vendre lcurs propres biens et parfois meme à aliéner lcur liberté. Le famonx édit de 527 rappelle 1'idéal romain de la ville: foyer de patriotisme et de civilisation, institution autonome et tremplin pour la vie publique. La description de Cassiodore est déjà caduque, mais pas depnis longtemps, c'est pourquoi il peut la regretter et parler encore au présent. Les titres, dignités et avantages qu'il énumère ont en effet bel et bien disparu. Ils peuvent etre regroupés en trois rnbriques. La ville d'abord est libre de s'administrer et d'édicter ses propres lois. Il est inutile de revenir ici sur les empiétements qui ont peu à peu au Bas Empire rongé les institutions municipales; ce qui a été dit plus haut suffit à montrer que les villes constituent de moins en moins un centre de référence politique ou meme administratif. L'État semble alors avoir compris son intéret à la défense des communautés urbaines et de la petite propriété, garantes d'une fiscalité régulière et d'un véritable contr81e politique. Il les défend énergiquement (mais la fréquence de ses prises de position les réduit à de pienses paroles), se déclare pret à accueillir lcurs plaintes, menace de graves sanctions ccux qui les molestent et lcur assure sa protection et celle des gonverneurs contre les abus des perceptours. En outre il ne mesure pas ses efforts pour revaloriser les fonctions municipales, dans les faits, et surtout dans les termes. Mais son action est condamnée par l'ambigu~té à laquelle il ne peut échapper: tout en luttant contre l'autonomie croissante des Grands, il se voit contraint de les utiliser. De meme la ville n'est plus le piédestal des ambitions politiques, où les enfants apprennent la vie publique, où la reconnaissance de vos mérites par vos concitoyens vous assure la notoriété. En ville, dit encore Cassiodore, les enfants sont éduqués dans les écoles, on y cultive les arts et les lettres. C'est enfin un lieu de convivialité et de plaisirs qui nécessitent un forum, des bains et de confortables domus. L'autour insiste longuement sur cet aspect: aux rapports en quelque sorte horizontaux qu'il préconise entre concitoyens s'opposent les rapports sociaux verticaux qui se sont instaurés dans les grands domaines. Cassiodore n'est pas choqué225 par le contraste entre le role dévolu à la ville et la réalité. Lorsqutil se livre à une évocation dithyrambique de sa ville natale,prima a~rbium Bruttiorz~m, on a du mal à croire, meme en faisant la part de son langage fleuri et rhétorique et de son esprit de clocher, qu'il s'agit bien de Scolacium telle que nous l'avons vue réduite au début du VIe siècle. Il la décrit en tout cas largement onverte sur les champs dont ne la sépare ancun mur et trouce de parcelles cultivées; ce ne sont plus ses monuments qui y attirent les fraudeursparaveredor~m etannonarum, mais bien son caractère campagnard. Et le texte laisse supposer que la plupart des autres villes sont comme elle dépeuplées et fortement ruralisées, lcurs marges se fondant insensiblement dans la campagne. En dehors de Reggio et dupirourion ecluro^taton de la plaine de Tharii, elles ne sont pas entourées de murs: le fait, confirmé par Procope, notamment à propos de Crotone, est d'aillcurs général en Italie méridionale et en Sicile où scules sont f~tifiées Palerme, Syracuse, Naples, Bénévent et Otrante. Mais la lettre de Cassiodore montre dans le meme temps que survit dans l'esprit des contemporains une hiérarchie théorique des habitats où ces agglomérations sont bien considérées comme des villes et dignes de l'etre. Cependant l'auteur, qui vante aillcurs les délices de son domaine de vivariam où il s'est doté de tous les instruments culturels, fait ici prcove d'une certaine hypocrisie. À son image, les possessores vivent dans un petit nombre de villae somptueuses, comme celle de Piano della Musica, à l'onest de la plaine de Sibari, ou celles des zones de vitona et Tropea.
On ne peut guère à lcur propos parler de fuite, d'abord parce que les sites sont sonvent proches des villes, ainsi du praetorium de Quote S. Francesco qui s'élève à 500 mètres de la Locres romaine et disposent d'un accès facile, ensuite parce que la plupart de lcurs propriétaires sont exonérés ou, on l'a vu, toujours plus en mesure, avec le temps, d'échapper aux impots. Les sculs qui ont pu alors commencer à fu~r sont les curiales et mediocres laminés. Il ne faut pas non plus parler, à propos de ces domaines, d'autarcie et d'économie naturelle, puisqutils visent au contraire à produire pour l'exportation. Seules quelques-unes des grandes villes du IVe siècle semblent avoir rcussi à maintenir un certain équilibre avec lcur territoire. Ainsi la concentration des domaines semble avoir été forte sur le territoire de Vil~ona vers la fin du Ve siècle: les établissements y sont alors abandonnés en très grand nombre au profit de quelques villae luxuenses. Mais les Grands ne délaissent pas pour autant la ville. Les trois domus qui y ont été explorées, vastes et décorées de marbres polychromes et de mosa~ques souvent figurées, sont toujours occupoes et réame~nagées au VIe et meme parfois au VIIe siècles232. Certes on y distingue les signes de la classique "polynucléarisation": une ~illa suburbaine, sur la colline de Piscino di Piscopio, où Frédéric II refondera plus tard la ville, est flanquce d'un ensemble religieux (ou sépulcre monumental), doté au VIe siècle d'une mosa~que à trois coulcurs portant une inscription chrétienne233. L'évergétisme y est privé et la richesse est celle d'une strate sociale, pas de la ville; les Grands y affrontent une église toujours plus puissante. L'éveque est en effet l'interlocutour attitré du pape, son chargé d'affaires en quelque sorte; il intervient à deux reprises, sur son ordre, dans les affaires de l'église de Squillace et se rend au concile romain de 499. Il conserve un r81e de premier plan au VIe siècle et, au lendemain du désastre lombard, prend en mains la vallée du Crati et la région qui stétend au sud-ouest de sa ville. Lorsque Bélisaire, arrivant de Sicile, débarque à Reggio en mai 536, c'est une population désignant elle- meme ses habitats comme des cho^ria onverts qui vient lui faire sa soomission, et non des délégations des villes. Alors que I'armoe grecque est obligée d'assiéger Naples, les villes du Sud ne jonent ancun role dans cette première partie de la guerre. b) La renaissance des villes sous la domination byzantine au VIe siècle Close la parenthèse du Ve siècle, le Bruttium et la Lucanie retronvent, avee les Ostrogoths, lcur bien-etre économique. Se~le la prospérité peut d'aillcurs expliquer ia renaissance urbaine qui y pnise les rnoyens, les homrnes et y tronve une de ses fustifications. hlise à part la forte poussée du blé, I'exploitation des ressources ne change guère, au moins jusquta la fin du VIe siècle: I'élevage se maintient et le bois est toujours exporté (ci:. sapra). La vigr~e et l'olivier sont de nonveau cultivés, comme les jar~lins, au sud et à l'est du B,uttium en tout cas, ou la fabrication d'amphores et de céramique achrome n'a pas cessé. La densité démographique s'y rnaintient: outre Cassiodore, plusieurs autres sources témoignent en ce scns. Les réfugiés amuent des BalLans sous la poussée des "Barbares" (slaves et avars), qu'il s'agisse d'individus corome l'évec~ue de Scolacin~ Jean, chasse de Durazzo au tournant des ~TIe-VIIe siècles, ou de populations entières comrne celle de Patras qui s'instalLe dans la zone de Reggio, peut-etre attirée par la prospérité et le marché elu travail. La tradition attribuant à 13élisaire le repeuplement de Naples avec les habitants cles civitates de Reggio, Malvito et Cosenza va dans le rneme sens. La plupart des établissernents cotiers productcurs etlou utilisatours de Keay LII prospèrent: à Bova7 la eommunauté, qui s'accro~t sans doute, est assez ~ynamique pour entreprendre de gros travaux tandis que la synagogue est restructurée clans un sens monumental. hlerne si une partie cles scories retrouvées à S. Maria del Mare, Locres et Tiriolo sont ecrtainement des résidus de forge, les gisements métallifères et le bois de la région alimentent probablement extraction minière et fabrication du métal. Le gonvernement ostrogoth jone un role non négligeable dans la relance de l'économie, surtout dans ce dornaine qui l'intéresse au premier chef: ainsi des prospections sont el~fectuces sur son initiative `}ans le Pruttium dans la massa K~stician~z (de localisation inconnne,~, certainement suivies de i'onverture de mines pour l'extractior~ de l'or et de l'argent, avec des corps de métier spécialisés. Il semble d'aillcurs avoir rnaintenu le eontrdie de 1'État sur les industries textiles à Tarente et à OtranEe,
où existent aussi des ateliers de production citamphores; et contribué ainsi au maintien des g~uel~E~es grandes agglomérations. A Reggio- Lido est installé au début du VIe siecle un ensemble artisanal sans ~loute spécialisé dans la production d;e sance de poisson (gar~m), qui fonctionne eneore pendant tout ie \7IIà siècle; ia ville reste une pla~ue tournante qui re,eoit les productions du l~or`1 (fragments de '`vetrina p~ante" fabriquce à lRome ou en Gampaf~ie) et des am~hores a~ricaines au \711 e siècle. Ces quelques grands ports sont cependant, comme les autres, dépeuplés (ou le travail est, on l'a vu, largement décentralisé sur le territoire ou bien toute la main- d'ocuvre ne réside pas en ville). C'est certainement le cas de Tarente, si Bélisaire parvient à rassembler à l'intérieur de la nouvelle enccinte les habitants du golfe; comme ccux de Reggio, ses environs sont d'aillcurs parsemés de nombrcux établissements secondaires. On peut supposer que, dans de nombrcux cas, ces agglomérations intermédiaires se sont désormais affranchies de toute emprise des propriétaires des villue voisines, ruinés au Ve siècle, premières manifestations d'un phénomène qui se développera largement pendant tout le VIe siècle avec l'élimination physique des possessores. La guerre gréco-gothique a certes épronvé la province, aussi bien lors du séjour prolongé de l'armoe gothe dans la phase préliminaire qu'ensuite lorsque les troupes grecques s'y livrent aux memes méfaits, comme sten lamentent les possessores. Mais on n'y dénombre que trois batailles, dont l'une s'est déronlée en pleine montagne, et quelques sièges de places portuaires sur la c8te est. Les destructions semblent limitoes à certaines zones stratégiques comme les cols et passages lucaniens (Ruoti) ou l'isthme (Reggio), et le Bruttium apparaıt beancoup moins ravagé que l'Italie du centre ou du nord. Il faut aussi, on l'a vu, faire la part des causes réelles de certaines mesures de réduction fiscale. Les richesses existent toujours: témoins le luxe frappant de la grande majorité des nécropoles, dont un grand nombre sont connues aux VIe-VIIe siècle, notamment sur le golfe de Tarente et sur le rebord oriental de la Sila et, dans la meme région, le montant de la ran~con exigée par les Lombards pour le rach~t des captifs de Crotone et de Myria (cf. infra). Peut-etre les différences sociales sont-elles plus marquces et investit-on surtout dans des biens mobiliers, objets précieux offerts aux églises et retronvés dans les tombes. Cette période de prospérité est en effet caractérisée, pendant tout le VIe siècle, malgré une certaine insécurité, par une grande mobilité des hommes et des marchandises, et par une hellénisation croissante de la société. La vitalité des échanges interrégionaux est illustrée par la foire de Marcellianum qui draine en Lucanie les esclaves, animaux, vetements et produits de tout type apportés par des marchands de l'ensemble des provinces méridionales. Les hommes se déplacent beaucoop, aussi bien les particuliers, possessores-condurtores et négotiants pour lcurs affaires ou pèlerins que les clercs et les fonctionnaires: les éveques en particulier traversent couramment une bonne partie du 13ruttium pour visiter un diocèse momentanément vacant, sonvent éloigné. Les invasions ou l'action autoritaire de l'État sont, on l'a vu, à l'origine d'une certaine mobilité démographique. Celle-ci existe également dans la société: on connaıt au moins un exemple de passage of ficiel de la catégorie des curiales à celle d es possessores; à l'inverse, les déclassements sont fréquents, qui jettent les petits propriétaires dans le colonat ou le vagabondage. La reconquete byzantine du milieu du VIe siècle stimule l'ensemble des trafics à longue distance: elle s'inscrit dans la droite ligne de celle de l'Afrique du Nord qui constitue par la Sicile une des deux voies reliant Byzance à l'Italie; surtout elle resserre et diversifie les liens de l'Italie méridionale avec Byzance, ne serait-ce que par la multiplication des allées et vennes des troupes, du clergé et l'arrivée des fonctionnaires civils et militaires (Cassiodore lui-meme, les éveques de Scolaciam et de Crotone se trouvent alors à Constantinoplezs9). L'élite à nonveau décimoe par la guerre est ainsi en partie renouvelée et son gout toujours plus soomis aux influences orientales. Les importations prennent d'aillcurs à partir du VIe siècle un caractère somptuaire qui s'accentue au siècle suivant. Celles de marbres et de fragments architecturaux asiatiques ou grecs, qui s'inscrivent dans une longue tradition, sont bien attestoes aux VIe-VIIe siècles à Scolaciam et à Materaainsi que par la petite église préfabriquce coulée avec son navire transportour à Marzemini, aux abords de la Sicile. Des vases de
bronze byzantins et du verre sans doute travaillé en Asie mineure ont été retronvés en Lucanie orientale; des objets de métaux précieux et de verre circulent, comme les influences, le long de la c8te adriatique depuis la Sicile26s jusqu'à la Dalmatie et l'Albanie. Vers le milieu et dans la seconde moitié du VIe siècle le conflit grécogothique, I'installation des Byzantins et l'invasion lombarde jonent en faveur d'un renonveau urbain, marqué par l'apparition de caractères défensifs, tandis que l'ccuvre de rassemblement des hommes s'accentue. L'extrémité de la péninsule revet une grande importance stratégique pour les Grecs à qui se pose rapidement le problème des liaisons que Totila s'efforce de couper. Il s'agit en effet d'acheminer renforts et soldes et d'assurer le ravitaillement de Rome depnis les provinces méridionales266. La reconquete de l'Italie part d'abord de la Sicile, d'où les armoes remontent vers le nord par la Popilia267, empruntant éventuellement après l'isthme de Catanzaro la route c8tière, tandis que les bateaux chargés de grains suivent le littoral tyrrhénien. Le contr81e du détroit de Messine est donc constamment au centre des préoccupations des deux parties. Meme si Procope mentionne encore quatre arrivées de la flotte grecque en Sicile dans la suite de la guerre, les convois de la méditerranée orientale, qui transitent souvent par la Dalmatie dans la deuxième partie du confli, accostent surtout sur la c8te orientale du Sud de la péninsule, où sa position favorable fait d'Otrante, déjà fortement défendue au dél~t des hostilités, la plus grande base navale. De là, les bateaux peuvent repartir soit vers l'Adriatique, soit, pour gagner rapidement Rome, vers le détroit de Scylla, en faisant escale à Tarente274 et à Crotone qui servent plusieurs fois d'ancrage ou ~ie point de ralliement lors des combats autour d u phro~r~on de Th'ónun. La reprise de Bénévent, pnis de la Campanie en 543, renforcce par une flottille qui coupe les liaisons tyrrhéniennes, I'occupation enfın d'Acerenza et de la c8te moyenne de la Ponille, font des passages montagneux de la Lucanie orientale et de l'isthme de Sibari un enJeu durement disputé, les Goths tenant désormais les tron~ons septentrionaux de l'Appia et de la Tra~ana. C'est à ce moment que les Grees inaugurent lcur monvernent de fortification, qui correspond également à une transformation de la tactique militaire. La stratégie est au début eelle de la guerre romaine "classique" telle qu'elle est encore pratiquce dans l'Ant~quité tardive, avec des mouvements d'armoe et de véritables batailles. La rareté des fortifications dans le Sud interdit d'y placer des garnisons, aucune troupe, Procope le sonligne à plusieurs reprises, ne ponvant tenir un établissement ouvert contre 1'ennemi. Il n'est pas rare que les armoes négligent les rares points d'appni fortifiés, ainsi des armoes gothiques envo~rées défendre le détroit de l\Iessine. Enfin la population, indifférente à des armoes étrangères qui emploient toutes deux des Barbares et lui font violence, ne prend aucune part à l'action: certes l'Italie méridionale se livre sans coop férir aux Byzantins, mais elle ne réagit pas plus à la reconquete de Totila dans les années 540. La précarite des résultats obtenus et la faiblesse des effectifs amènent rapidement les belligérants à recourir aux forces locales et à accorder une importa~ce sans cesse grandissante aux fortifications. Ainsi Totila recrute-t-il des paysàns lucaniens. Surtout, les Grands s'engagent aux cotés des Grecs, entraınant l'adhésion du Bruttiu?n et de la Lucanie. Les Ostrogot~s, dé,cus par la première trahison des provinces méridionales, se sont en effet, avec logique, vengés sur les possessores q2utils avaient tant favorises: Totila, qui sten était déjà pris aux sénatours romains titolaires de biens dans le Sud, per,cut après la reconquete de la région non sculement les impots, comme il est naturel, mais aussi les revenus des domaines à la place des propriétaires, ee qui équivalait à une véritable confiseation. Le résultat ne se fit pas attendre: Tullien, au nom des Grands de la Lucanie et du Brutti~f~, négocie avec Jean le ralliement des habitants du golfe de Tarente et s'engage à défendre, avec une armoe levée sur ses terres et celles voisines des sénatours, I'accès des cols de Lucanie. Totila, pour démobiliser ces dépendants, semble alors stengager ~ians une véritable lutte de classes: il fait prornettre par les senatours aux paysans qu'ils garderont désormais la part de fruit due aux propriétaires. La guerre semble d'aillcurs tourner ensuite, de la part des Got~s, à un règlement de compte sons merci avec cette catégorie sociale: témoins lcur attitude à l'égard des villes du Br~ttiam qui lcur résistent et sans doute aussi la destruction de S. Giovanni di 3Ruoti; I'incendie de la villa n'est peut-etre en effet pas
sculetuent du aux hasards de la guerre, mais à une résistance de son ~orninus qui a pu participer, avec Tullien, à la défense du col voisin. La fortification permettait en tout cas une résistance. - Les populations doivent cependant disposer de retranchements, de meme que les positions prises doivent etre tennes. Un premier indice de cette évolution tactique est le démantèlement des murs de Bénévent et de Naples par Totila en 542-543, afin que des armoes byzantines ne puissent les utiliser comme bases. À la prolifération des fortifications défendues par des garnisons et les habitants répond désormais l'importance prise par les sièges dans les opérations. Très révélatours sont les énormes travaux entrepris par Jean à Tarente dans la dernière phase de la guerre: 1'isthme est complètement entouré d'une enccinte ma3connée et barré en outre d'un fossé des deux c8tés. Il y rassemble avec les habitants de la ville ccux des environs, jusqu'alors relativement dispersés, et confie lcur défense à une grosse garnison. Cela suffit, ajoute Procope, pour que les populations du golfe de Tarente se rangent définitivement aux c8tés des Byzantins. On assiste donc à une réduction drastique de la ville auparavant très étendue, qui est désormais delimitoe par une enccinte. La construction du mur garantit certes une protection, mais revet surtout une forte valcur symbolique: tous les habitants de la région n'ont sans doute pas pu y trouver place. Il s'agit donc d'une prise de position, d'une affirmation de pnissance de la part des Grecs. Au général revient l'initiative au nom du basile~s; aux architectes de l'État sans doute la conception de l'ouvrage, meme s'il est ensuite réalisé non sculement par les soldats, mais par la population locale. La concentration autoritaire des hommes à l'intérieur de l'enccinte est aussi réelle: la désertion de Métaponte au meme moment donne en effet du poids aux paroles de Procope. Jean stempare alors du phro?'r~on de Thz~r~um et y laisse des forces considérables. Crotone, qui soutient à la fin de la guerre un siège très dur, est certainement aussi fortifiée au cours des hostilité comme peut-etre la nouvelle Scolaciurn. Cette dernière est en tout cas construite sous Justinien à ~ lcilomètres au sud de la ville romaine, sur la pointe sud du promontoire de Staletti, à S. Maria del Mare. Le site a été de toute évidence choisi pour son caractère stratégique (il domine l'ensemble du golfe de Squillace) et ses fortes défenses na~relles: il s'agit d'un éperon protégé à l'est par une pente abrupte, au sommet duquel subsistent les vestiges d'une fortification des Ve-IVò siècles av. J.-C., rcutilisés comme fondation de l'enccinte et fournissant des matériaux de remploi. L'entreprise répond parfaitement aux prescriptions des traités d'architecture grecs du moment qui recommandent le recours aux défenses naturelles pour renforcer la sécurité et épargner le cout de la ma,connerie. L'établissement domine en outre un port fréquenté à l'époque romaine qui peut alors se développer. Il représente, avec Otrante, le type le plus achevé du pirozmon hectares, la statio d'Altana7m probablement, aux habitants de laquelle est peutetre réservée une partie des thermes et il est tentant d'y voir les effets d'une démarche similaire à celle qui se devine aux environs de Reggio. On est ici en présence de familles extremement riches, qui pourraient appartenir à la classe sénatoriale locale: exonérées de charges municipales s'il s'agit bien d'honorati, elles tronvent certainement plus rentable de se fixer sur lcurs domaines pour mieux en surveiller l'exploitation et y gérer au plus près lcurs intérets; économiquement Locres n'est plus incontournable, pnisqutelle n'est plus relice directement à un grand port. Les marchés se déplacent vers ces gros bourgs nés autour des villae, dans des sites bien plus favorables aux échanges. C'est là que les propriétaires investissent désormais pour améliorer le confort des résidences et c'est là qu'ils se font inhumer. Le sépulcre monumental de la villa de Giudeo à Ardore montre que ses dominit2S adoptent sans doute un comportement similaire, ainsi surtout que ccux de Gioiosa Marina dont le théatre à pcine plus petit que celui de Locres se justifie par l'existence d'une agglomération née autour de la villa, qui a peutetre meme été pourvue d'un éveché. Seols quelques - uns de ces grands possessores maintiennent lcur point d'attache à Locres, comme en témoignent des tombes monumentales. Au total, malgré une désertion, certainement importante, au profit des fonctions ecclésiastiques et impériales, la curie subsiste grace aux moyens propriétaires. Si l'on observe déjà une réduction de l'aire urbaine, à l'est notamment, la fréquentation reste dense aux IVe-Ve siècles. Mais si les richesses circulent, la ville en tant qu'institution en profite de moin.<en moins: I'édilité publique disparalt peu à peu. Les investissements vont aux édifices religieux comme le grand édifice rectangulaire de Marasa.
La désaffection progressive à l'égard du centre de la ville se traduit par un éclatement en noyaux périphériques, autour de foyers religieux ou de villae suburbaines, comme celle de Casale Macri. Deux de ces établissements, I'un proche de la fiumara Portigliola, I'autre de la mer cristalliseront la population au VIe siècle. La villa de Quote San Francesco comprend ainsi une partie résidentielle et, à 30 mètres de distance au sud-onest, un ensemble thermal de briques du IVe siècle. Le second noyau, lui, s'est maintenu, peut-etre pendant tout l'empire, contre l'enccinte grecque, à Centocamere: on y connal^t une nécropole et des tombes d'un certain niveau social, ainsi qu'un édifice du Bas Empire (peut-etre un grenier) et trois autres petites structures~26. Les invasions du Ve siècle stavèrent assez destructrices pour ruiner les cultures fragiles comme la vigne et démanteler le réseau des villue moyennes. On observe une décadence progressive, sinon une totale désertion de la plupart des villue à partir du milieu du siècle. Celle du Naniglio, sans doute épronvée par des ravages divers, réduit sa productiont29. Les propriétaires appauvris occupent la villa jusqu'à la fin du siècle avec un train de vie réduit et lcurs moyens ne lcur permettent plus de faire face aux réparations que nécessitent les dégats d'une inondation à fort alluvionnement: peut-etre ne s'en vont-ils dans le Sud de la péninsule, qui associe une citadelle à l'enccinte entourant l'habitat. À S. Maria del Mare, la première est une sorte d'acropole protégée par une courtine qui occupe le sommet de l'éperon: un pnissant mur de barrage en défend l'accès, flanqué de cinq tours en U, dont deux entourent la porte principale. Le dispositif frappe par sa sophistication: un chemin de ronde en bois reposant sur des piliers mac,onnés suit son parcours, renforcé à l'extérieur par un avant-mur et un fossé aménagé dans une dépression naturelle; la tour situce sur le point le plus élevé tient lieu de donjon. Enfin un système de canalisation amenant l'eau depuis la montagne voisine est inséré dès l'origine dans le rempart. Les travaux de construction ont donné lieu à l'onverture d'un vaste chantier comportant une série d'aires de gachage du mortier et au moins une calvaria. Non loin du barrage, deux batiments de plan allongé comportant des foyers semblent assez vastes pour avoir abrité, comme d'aillcurs les tours elles-memes, la garnison. La ville, entourée d'une enccinte polygonale, convre la pente occidentale de la hautour. On possède moins d'informations sur lopirourion de Tharium. Il comporte en tout cas une enccinte autour de l'habitat, sans laquelle la population n'aurait pu résister aussi longuement à Totila289. Il en est probablement de meme à Crotone, défendue par les habitants, les soldats et la garnison: les secours tardant, les assiégés prévoient, selon les termes de Procope, de rendre euxmemes et la ville2so. À Reggio en revanche, le mur (péribolos) semble correspondre à une citadelle s'élevant à l'intérieur de l'habitat: la langue de Procope, très précise en la matière, distingue en effet ce second type de fortification par l'expres~on én Reggio, au lieu d'employer le génitif. C'est là que se retranche une garnison composée cette fois simplement de soldats de l'armoe, que scul le blocus amène à se rendre. Il faut noter que ces fortifications sont toutes réellement efficaces: ancune ne succombe à un assaut et toutes résistent à de très longs sièges qui permettent souvent l'arrivée de secours. Justinien, comme en Afrique, a donc sans doute bel et bien con,cu un programme de fortification des provinces méridionales reconquises. Il stagissait, dans la perspective d'une reconquete du bassin méditerranécn occidental, de garantir des bases sures pour le maintien des liaisons avec le cccur de l'empire sur les deux cótes, à l'est surtout292, mais aussi sans doute à 1'ouest au débouché des routes principales: à Amantea par exemple293, immense place-forte installée au sommet d'une table rocheuse isolée de tous cotés par des abrupts et entourée pourtant d'une muraille périphérique. L'empercur avait d'autre part hérité à son tour des vastes domaines du patrimoine, qu'il devait protéger et faire fructifier. Quelques indices laissent en outre supposer que la Calabre constitue encore au VIIe siècle et meme au VIIIe siècle une source fiscale et un réservoir d'hommes294 non négligeables. La conception d'une défense en profondeur, axée sur de puissants points d'appui, continue à prévaloir par la suite, Byzance, mobilisée sur d'autres fronts, s'avérant incapable de défendre le Bruttiam et la Lucanie contre les invasions. La scule résistance opposée aux Lombards semble le fait de garnisons locales centrées sur les villes fortifiées (Crotone, Scolacium, Reggio), sans ancune coordination. Les populations, si elles ne s'enfuient pas en Sicile, s'y réfugient.
Dès 599, la plus grande partie du Bruttium est sans doute aux mains des Lombards qui y installent rapidement une administration. Seuls le Sud et quelques forteresses de la c8te orientale (Thurium) et peut-etre les massae de Tropea et Nicotera (mais pas Vil~ona) sont encore aux mains des Grecs. Les fortifications du milieu du VIe siècle s'inscrivent dans une reprise de la concentration de l'habitat, dont on n'est pas toujours en mesure d'identifier les promotours. Les nécessités des échanges prévalent encore sur celles de la défense jusqu'à la fin du VIe siècle: ce sont souvent, comme par le passé, les sites cotiers qui sont séloctionnés. Ainsi à Botricello, proche de l'embouchure d'un fleuve important, le Tacina, qui constitue un axe de pénétration vers la Sila et est relié à la cote ionienne par le bassin du Savuto, une agglomération riche et importante, organisée autour d'une église flanquce d'un baptistère, apparalt vers le milieu du VIe siècle. Il est aussi certain que l'Église, pour faire cultiver ses domaines, continue à rassembler les hommes et que le monvement est repris à son compte par Byzance après la reconquete. Il s'agit de stabiliser une population nombrcuse, mais, on l'a vu, très mobile. Dans la zone des massae, on connalt au moins un village-paroisse. Et le nouveau castrum de Squillace s'est développé autour des maisons d'un groupe de cultivatours vivant sur les terres du monastère Castellense297. L'État quant à lui est intéressé à la fixation de ses sujets, ne serait-ce que pour mieux les controler: outre d'évidents impératifs de sécurité jouent également des nécessités fiscales. Il s'intéresse surtout aux villes que Justinien semble bien avoir tenté de ranimer aussi dans le Br~ótti?'m. Le site de la Locres romaine semble désormais abandonné. La population, encore relativement nombrcuse, s'est peut-etre déjà en partie retranchée sur les collines qui protégeaient les arrières de la ville grecque, fertiles et riches en sources300, mais s'est surtout regroupoe dans les zones proches de la mer, à Centocamere et un peu au sud, près de l'embouchure de la fiumara Portigliola, où une vaste agglomération du VIe siècle a été découverte récemment au lieudit Paleapoli. Couvrant 2 ou 3 hectares, elle s'étendait probablement jusqu'à la villa fortifiée de Quote San Francesco, qui pourrait en avoir constitué le noyau d'origine. L'a~la de la partie résidentielle, qui semble abandonnée au Ve siècle, a pu etre transformoe en église, ce qui rendrait compte de l'absence de mobilier. Un habitat densément occupé existe en tout cas au voisin~ge des thermes, alors qu'ils sont abandonnés et en voie d'écroulement au VIIe siècle. Ce qu'on peut appeler désormais la ville de Locres connalt un nonvel épanonissement au cours du VIe siècle. Bien qu'on ignore tout de l'aspect institutionnel du phénomène, I'apparition du siège épiscopal à la meme époque ne peut etre fortuite. Le site n'est abandonné que dans la seconde moitié du VIIe siècle, lorsque l'éveché est transféré à Gerace. Squillace est une véritable refondation, marquce nous l'avons vu par la s~onstruction d'un ac ueduc et d'une enccinte qui confère à la ville une nette individualité par rapport au plat pays et constitue désormais son caractère le plus rnarquant, privilégié dans la terminologie (il s'agit désormais d'un castrum) au détrimentd'autres aspects. L'établissementde plaine estalors définitivement abandonné après avoir été détrwt par un nouveau tremblement de terre; le nom est transféré avant 59X309. On est ici de toute évidence, comme à Tarente, en présence d'une entreprise conc,ue et dirigée par l'État. Si les travaux paraissent trop importants pour ne pas avoir bénéficié, comme dans d'autres cas, d'une subvention publique, ils ne peuvent guère se concevoir hors d'un contexte économique resté favorable. La tentative justinienne de restauration urbaine n'est ici sans doute pas tot:alement artificielle, ni dépourvue d'effets, au moins pour une certaine période. Quelques indices, dans les sources écrites, laissent en effet supposer un retour des Grands vers la ville. Déophéron, frère de Tullien, fait ainsi partie de la garnison d u pirourion de Thuri?'m avec de nombrcux italiens de haut rang (logimoi). Lors de la prise de Crotone en 596, de nombrcux nobiles, hommes et femmes, incapables de payer immédiatement la ran,con élevée qutexigent les Lombards, sont restés captifs. Enfin, vers la meme date, I'ex-préfet Grégoire, ses hommes et ses biens se tronvent à Reggio. Byzance reprend à lcur égard la politique de Théodoric et y est d'aillcurs contrainte par la faiblesse de ses moyens. L'archéologie montre que la ville redevient un centre administratif et il y a fort à parier que les Grands se jettent sur les nouvelles fonctions. La refondation est parachevée par le transfert du siège
épiscopal, la construction d'une église par l'éveque et sa consécration . Édifice administratif et cathédrale trouvent lcur place dans la citadelle avec quelques maisons. Il est intéressant de noter qu'on retrouve dans la ville byzantine les éléments énumérés par Cassiodore, avec leforum (situé à Squillace à l'extrémité de la citadelle) et sans doute des bains. Si on tente maintenant de préciser les rapports de force à l'intérieur de la ville, on constate une évolution: I'éveque a pris le pas sur les Grands et la petite propriété est revalorisée. La fonille de Squillace donne l'image d'une économie associant la céréaliculture à la consommation des porcs nourris sur un ircultum, qui pourrait etre le fait d'un groupe de petits propriétaires jouissant de biens communaux. La papauté combat d'autre part efficacement, au moins jusqu'à la fin du VIIe siècle, I'infiuence grecque. Car le Sud revet une importance fondamentale pour l'Église, à partir du moment où elle reprend en mains l'annone de Rome, assurée par l'Etat byzantin pendant et après la guerre, mais certainement plus apres l'arrivée des Lombards. Le fait qu'elle s'approvisionne alors dans ses massae méridionales est attesté. La désorganisation de l'administration byzantine dans le Br~ttiam à la fin du VIe siècle transparat dans les textes: c'est le pape qui apprend en 597 à la sccur de 1'empereur, Theoctista, la prise de Crotone l'année précédente et c'est au recteur du patrimoine de Saint-Pierre et non a un fonctionnaire byzantin que celle-ci remet l'argent de la ran,con des captifs. Bien que nos informations soient fortement conditionnées par les sources, il semble que les éveques, présents dans les principaux castra, gardent sculs le controle de la situation, sous l'égide de Rome, et ce d'autant plus que le pape a très vite instauré de bons rapports avec le duc de Bénévent et que les évechés ont rapidement retronvé un fonctionnement normal dans les zones occupoes. L'éveque parvient sonvent dans les provinces méridionales à prendre en mains la construction et l'entretien des structures urbaines fondamentales, murs et aqueduc et gère, pour cela, les fonds publics. Le fait qu'il entre ainsi en rivalité avec le curator civitatis pourrait indiquer qu'il ne s'agit pas, comme le soutient la thèse légaliste, d'une délégation de l'autorité publique, mais d'un état de fait. L'invasion lombarde semble d'autre part avoir eu, pour l'élite sociale, les memes conséquences que la guerre gréco-gothique. Le clergé et les administratours de l'Église, ainsi que les possessores (à Cosenza) se sentent en effet particulièrement menacés et sont d'aillcurs les plus durement touchés. Ce sont eux qui s'enfuient en emportant lcurs trésors et ccux qui n'ont pu s'échapper sont ran,connés: c'est le cas des filles d'un miles (probable notaire) de Myria et, on l'a vu, des nobles de Crotone. Les Lombards ont logiquement cherché le butin là où il se tronvait, mais ils ont sans doute aussi sciemment éliminé un certain nombre de propriétaires. S'ils ont souvent pris lcur place, on peut aussi supposer que ces disparitions ont favorisé l'émancipation non sculement des vici et autres statiores nées à l'ombre des villae, mais aussi celle des colons, dont les petites propriétés avaient survécu, sous une autriÙ forme juridique, à l'intérieur des massae. Le système des pagi et vici de la zone interne des Brettii, démantelé à l'arrivée des Romains, semble remis en vigueur par les Byzantins327. Des sites très perchés, fortifiés aux IVe-Ve siècles av. J.-C., abandonnés ensuite au profit de villae en contrebas, sont en effet réoccupés aux VIIe-VIIIe siècles, peut-etre parfois dès le VIe siècle. Il s'agit d'éperons ou de hautours tabulaires protégés par des abrupts, occupant des points-clés contr81ant de vastes territoires ou des passages stratégiques. Ils associent parfois une citadelle-acropole à un habitat s'échelonnant en terrasses sur la partie supérieure des pentes et sonvent luimeme protégé par une enccinte. Leur fortification doit etre sonvent lice à la stabilisation de la frontière gréco-lombarde. Sur l'isthme de Catanzaro, un certain nombre de ces enccintes semblent servir de référence à des villages onverts gravitant alentour. Le site de Tiriolo, sur la montagne qui domine la ville actuelle, associe ainsi à une citadelle un habitat permanent et une probable enccinte-refuge. La citadelle, édifiée aux VIe-VIIò siècles329, est délimitoe par une courtine à laquelle s'appuient de probables logements de garnison très proches de ccux de Squillace. L'ensemble évoque une sorte de vaste caravansérail, point de contact et d'échanges entre les communautés d'éleveurs semi-itinérants de la Sila et les agricultours de la plaine, qui prend sans doute rapidement l'importance d'une ville. L'État byzantin a probablement favorisé, à partir du VIIe
siècle, ce système, à l'origine des cio^r~a qui apparaissent déjà bien constitués dans les textes au début du IXe siècle. Les invasions lombardes, qui provoquent de nombrcuses destructions (Reggio-Lido, Bova), donnent le signal de la décroissance. C'est sculement du coté lombard que s'observe la formation d'un certain nombre de villes, sonvent probablement à partir de centres domaniaux qui se retranchent sur des positions naturellement très défendues (Malvito, Cassano), entreprises privées donc. Les importations se maintiennent cependant et les établissements ne désertent pas les ~aines littorales: ainsi Vilona semble meme avoir été concurrencce par son port, où l'éveché a pu etre transféré. La désertion des c8tes se produit au VIIIe siècle, pour des motifs variés: cessation des importations d'outremer en premier lieu, installation de la frontière sans doute, on l'a vu, dans le cas de Thur`am, guerres lombardes peut-etre dans d'autres cas, raids sarrasins enfin. Dans les années 730, la conjoncture s'inverse de nonveau et Byzance encourage sans doute la fondation de kastra, dans le cadre d'une hellénisation poussée à son terme et, peut-etre, d'une recolonisation de l'intérieur. GHISEAINE NOYÉ
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Discussione
1. La crise de la basse Antiquité et du haut Moyen Age est apparemment composite. Tout le monde s'accorde à en placer la phase la plus aigue entre la fin du VIe et le VIIIe siècle, et la date symbolique de 680 choisie par Paolo Delogu peut très bien en marquer approximativement le fond. Il stagit alors d'une crise structurelle globale, qui se manifeste en particulier par la disparition d'un grand nombre de cités antiques et le rétrécissement déf nitif de celles qui survivent. Tout en outre porte à croire que la population a alors diminné sensiblement: les abandons et rétrécissements ne paraissent pas compensés, il sten faut, par des fondations réelles mais rares. Nous tendons à attribuer cette baisse démographique à la peste de VI e siècle. Certes, les documents locaux la signalent à pcine; mais les travaux de J.-N. Biraben, confortés par l'amplcur de la catastrophe semblable qu'a connu le XIVe siècle, incitent à voir dans cette épidémie (dont l'existence meme ne peut plus etre mise en doute) un factour démographique déterminant. En Italie, les multiples causes de la crise ont été longtemps occultoes par l'une d'entre elles: I'invasion lombarde, qui est de fait la mieux documentoe; la polémique qui opposait il y a près d'un siècle L. Duchesne et A. Crivellucci ne portait que sur le r81e dévastatour de cette conquete. Nous avons montré qu'elle avait pu avoir des effets déterminants, mais indirects sur les abandons dans les régions les plus vulnérables; on ne peut plus en faire la cause de tous les maux, qui frappent aussi les zones restoes byzantines. Ses effets se greffent sur ccux de monvements plus profonds pour les accentuer. Le moment de l'inversion de conjoncture qui amorce la fın de la crise mériterait d'etre précisé. Pour la plupart des archéologues, le VIIIò siècle, très mal documenté, représenterait le fond de la courbe; les historiens des textes tendent au contraire, en analysant la quantité non négligeable de doc~nents conservés, à y discerner un début de reprise, renvoyant au VIIe siècle, pratiquement moet de lcur point de vue, le point le plus bas. Un tel décalage, qui, à notre avis, ne rend pas vraiment incompatibles les deux optiques, mérite d'etre étudié fınement: on doit pouvoir analyser le rythme de l'ajustement sectour par sectour. 2. Avant la crise structurelle globale des VIe-VIIIe siècles, nombre d'archéologues constatent, en particulier sur les sites urbains, des éléments de malaise dès les IVe et Và siècles, rejoignant ainsi l'opinion traditionelle des historiens sur l'existence d'une longue crise diffuse du Bas-Empire. En Italie méridionale, un tel phénomène est peu sensible à qui travaille sur les textes. Certes, on connaıt quelques mesures prises pour sauvegarder les institutions citadines menacces; mais on voit aussi que meme la guerre gothique n'a pas laissé de traces précises de ruines et que des constructions religieuses sont entreprises au lendemain de la reconquete byzantine, prcove de la vitalité persistante de certains organismes urbains. Aussi se pose-t-on deux questions. La première concerne la nature de cette première crise; elle ne semble pas affecter le commerce, pnisque les archéologues continuent de voir arriver des céramiques africaines et orientales; rien non plus ne semble attester une baisse démographique sérieuse. Le sonci principal des autorités semble etre de revenir en arrière, comme s'il stagissait simplement d'une mauvaise conjoncture. La crise est-elle purement conjoncturelle? Est-elle due simplement à un abus des dépenses de prestige jusq'alors destinées à embellir les cités et qu'on refuse désormais? Si elle est plus profonde, quels sectours économiques précis tonche-t-elle? La seconde question est d'ordre géographique. Si la malaise des IVe et Ve siècles nous semble peu sensible en Italie méridionale, on en nie jusqu'à l'existence en Afrique, alors qu'on l'évoque dans des régions plus septentrionales. Une telle disparité correspond-elle à la réalité? 3. En tout cas, la crise des VIò-VIIIe siècles, bien qu'universelle, n'affecte pas du toutde lameme fa,con les différentesvilles (“successful” et “unsuccessful towns” d'H. Patterson Coccia) et surtout les différentes régions: elle aboutit à des abandons défınitifs de cités plus nombrcux d'une part en territoire lombard qu'enpays resté byzantin, mais aussi, globalement, dans le sud que dans le nord (Emilie par exemple). Aussi est-on conduit à se demander à quels factours est due la volnérabilité
supérieure du sud. On en verrait volontiers une cause (non la scule) dans la nature meme du réseau de cités antiques, formé, dans bien des régions méridionales, d'un semis serré de petits établissements. On n'est pas sur en outre que, dans ces régions, le vicus ait tenu une place aussi importante qu'en Italie du Nord (aux archéologues de nous le dire), ce qui pose accessoprement aussi le problème institutionnel de la ple~s, pratiquement inexistante dans le Midi pendant le haut Moyen Age d'après les sources écrites. On sait que, durant la période le plus brillante du Moyen Age, la ville méridionale n'est comparable à celle de l'Italie communale ni par ses institutions, ni par son role politique et économique. Mais, dans la basse Antiquité, la ville méridionale n'était-elle pas déjà en fait (et sauf de rares exceptions, comme Naples) plus fragile et moins importante que celle du nord? JEAN-MARIE MARTIN Une bonne partie des controverses qui ont eu lieu autour des villes de l'antiquité tardive auraient été évitoes ou, au moins, auraient gagné en clarté si deux points de vue avaient été pris en compte: la prospérité des villes, lice certes à la prospérité générale de l'empire, mais aussi à des conditions locales particulières; I'existence, par aillcurs, de ce que l'on doit appeler un modèle, c'est-à-dire un statut politique, économique, social, sous-tendu et renforcé par une certaine conception de la ville. Chaque fois que l'on lie le déclin de la ville antique à la scule notion de crise de l'empire et que l'on considère, par exernple, que les invasions, éventuellement aidées par les tremblements de terre ou les épidémies, sont la cause essentielle du déclin de la cité, telle qu'elle avait pris forme dans le monde romain, un des aspects de la question est ignoré. Au-delà des difficultés d'une période de crise, il faut rendre compte du caractère irréversible du phénomène observé, qui est bien du à une cause plus profonde, la disparition d'un modèle de la ville, dont le statut de cité et les monuments ne sont que l'aspect le plus apparent. Il faut donc aller au-delà du problème sur loquel stest focalisé le discours sur les villes, I'interprétation des données archéologiques. L'arehéologie, par sa nature meme, nous renseigne d'abord sur une situation locale qui est l'objet propre de l'interprétation, en fonction d'une histoire particulière dont il faut démeler les incidents et les accidents. Elle nous renseigne sur des faits, parfois sur les causes d'une destruction, plus rarement sur les raisons qui font qu'une ville n'est pas reconstruite ou ne re,coit plus de monuments. Je vondrais montrer qu'au-delà des réelles et profondes mutations géopolitiques de l'Antiquité tardive qui peuvent provoquer des ruptures dans la prospérité d'un certain nombre de villes, sinon dans lcur existence meme, les règles du jeu changent aussi à un niveau conceptuel. Je partirai d'une définition du modèle de la cité, proposé pour la partie orientale de l'empire romain (A. CAMERON, ChristianityandtheRhetoricafEmpire, Berkeley 1991, pp.76-78), mais valable en fait, avec quelques adaptations, pour l'ensemble de l'empire: les villes sont dirigées par des aristocraties locales, qui imitent le modèle romain. Les dépenses somptuaires, qui consistent essentiellement en constructions, sont un élément fondamental de cette culture, dans la mesure où elles permettent une compétition à l'intérieur des cités et entre les cités. Cette compétition est appuyée par une rhétorique qui la justifie et la met en scène. Ces aristocraties justifient et légitiment lcur ponvoir par lcur reconnaissance du ponvoir impérial romain (voir l'exemple du Sébasteion d'Aphrodisias et de son décor sculpté cité par A. Cameron). Ce modèle, comme l'a montré B. Ward-Perkins (From ClassicalAntiq~ity totheMiddleAges, Oxford 1984) pourl'Italie, s'estompe. Lepatronagetraditionnel décline, ce qui est lié à la constatation que le ponvoir local n'est plus gratifiant. Les surplus de richesses s'orientent vers des destinations lices au christianisme (fondations d'églises, ocuvres charitables en particulier). Un signe notable de ce changement est la présence à l'épiscopat de personnages d'un haut niveau social (Ambroise, Paulin de Nole par exemple). Les éveques de la Gaole aussi, aux Ve et VIe s., proviennent d'un petit nombre de familles qui se distinguent par lcur statut économique et culturel (voir par exemple R. MARKUS, The End of Ancient Christianity, Cambridge 1990, pp. 199-200). Mais le changement est longtemps masqué par le maintien de formes traditionnelles; dans l'Empire d'Orient, la monumentalité des villes
n'est pas mise en cause jusque sous le règne de Justinien. La construction des églises apporte meme un élément nonveau, s'ajoutant aux constructions traditionnelles plutat que s'y substituant. Plus profondément, l'Eglise utilise le cadre de la cité pour provoquer une évolution. Par exemple, une agglomération peut obtenir le droit de cité grace au culte des saints. Un exemple classique en est Euchaita du Pont qu~ devient cité et siège épiscopal grace à la ferveur que montre l'empercur Anastase envers lemartyrThéodore d'Euchaita. Les éveques revendiquent aussi très consciemment le role d'évergète traditionnellement assigné à ccux qui ont le pouvoir dans la cité: Grégoire de Nazianze l'Ancien, mort en 374, avait doté sa ville d'une église neuve construite essentiellement sur sa propre fortune. Les donations pour des constructions religieuses sont ainsi l'expression de conduites de meme nature que les constructions traditionnelles. L'opposition que cherche à voir B. Ward-Perkins entre dons à destination "civique", qui relèveraient plutat d'une conduite sociale, et dons à destination religieuse, qui relèveraient d'une conduite individuelle, projette sur la réalité de l'Antiquité tardive une distinction beancoup plus récente, qui tend à méconnaıtre ou à diminuer la composante sociale du christianisme et de son développoment. La continuité l'emporterait sur le renonveau si scule la nature des monuments construits changeait. Il convient de faire intervenir un certain nombre de faits, moins apparents et moins spectaculaires, qui se passent en quelque sorte à l'arrière-plan. Ils échappent à l'historien d'autant plus facilement que les contemporains eux-memes ont eu du mal à saisir les changements dont ils étaient actours: l'historiographie traditionnelle narre ce dont elle rend compte dans les cadres traditionnels de la cité, sans soop,conner que cela se passe "autrement". Cet "autrement" ne peut se lire que dans des textes qui se situent en-dehors du cadre habituel et qui ont déjà adopté un nonveau point de vue, d où l importance des textes hagiographiques (E. PATUAGEAN, Ancienne hagiographiel~yzantineetlistoiresociale, “Annales E.S.C.”, 1968, pp. 106-126). L'historien des villes ne peut ignorer des évolutions fondamentales qui modifıent profondément le système de redistribution des richesses, dans sa forme et dans le discours qui rend celle-ci légitime. Les conclusions auxquelles est arrivée E. Patlagean, sontparticulièrementimportantes. La rétribution sans travail, déjà largement acceptée dans la cité antique, va devenir essentielle dans une vision chrétienne, sous la forme de l'aumone, qui va remplacer des formes traditionnelles de distribution. Je ne sais pas si on peut aller jusqu'à parler d'invention de la pauvreté, mais nous tonchons là un point central de la justification du prélèvement chrétien. Par aillcurs, toujours comme l'a montré E. Patlagean, le don monumental chrétien prend une forme différente du don traditionnel: il n'est pas enfermé dans le cadre de la cité. Il n'est plus réservé à ccux qui ponvaient engager de très grosses dépenses: des fortunes moyennes peuvent etre mobilisées dans les dons, par exemple de parties de mosaiques (A. CUTTER, Art in Byzantine Society: Motive Forces of Byzantine Patronage, “JOB ” 31/2, 1981, pp. 759-787). Le succès de cet évergétisme chrétien suffit pour montrer qu'il est efficace et gratifiant: en effet, si de nombrcux indices montrent l'évergétisme traditiònnel “stessouffler” au IIIe s. (voir par ex. C.M. ROUECHÉ, Aphrodisias in LateAntiquity, Londres 1989), le meme milieu social, qui relachait son effort dans ce domaine, va investir largement dans un contexte chrétien. Ce n'est pas le lieu ici de chercher à comprendre pourquoi et comment ces nouvelles formes de redistribution sont ressenties comme gratifiantes par ccux qui les pratiquent. Mais le role, comme intermédiaire, d'une institution, l'Eglise, qui permet des accumulations qui échappent à l'individu et qui tient un discours qui valorise ces pratiques, est un élément fondamental de cette transformation. On doit surtout se demander comment un modèle aussi fondamental dans le fonctionnement social et politique de l'Antiquité tardive a pu etre éliminé. Un modèle qui fonctionne est nécessairement intégré dans un réseau de relations qui elles-memes paraissent légitimes, car allant de soi. Ce réseau est constitué par la mémoire, par l'inscription d'une mémoire sociale dans les mémoires individuelles (voir le livre précurseur de M. HA~swAcHs, La mémoire collertive, Paris 1950). Le temps et l'espace sont des constituants essentiels de cette mémoire (cfr., par exemple, P. BERGER and T. LUCKMANN, The social construrtion of reality, New York 1967). L'appropriation du temps par l'Eglise chrétienne est bien connne, que ce soit par la construction d'une chronologie qui part de la
Création ou par l'élaboration du calendrier annuel. Mais l'appropriation de l'espace doit aussi etre prise en compte (pour une étude d'un tel processus en ocuvre, voir T. RANGER, Talingl old of the Land: holy places and pilgrimages in 20th cent. Zimle, “Past and Present”, 117 (1987), pp.158194). Par le don monumental chrétien, on construit de nouveaux lieux de mémoire. Non sculement ils tendent à remplacer ccux qui existaient et à les dévaloriser, mais par lcur situation, lcur fonctionnement, lcur structure meme, ils prennent le contre-pied du réseau existant: ce sont les cimetières qui sont investis, c'est l'or et la splendeur de l'intérieur de l'église où l'homme est mis face à son dieu, représenté dans la voute de l'abside, qui remplacent l'espace onvert, suó divo, de la ville antique. Parallèlement, l'homme de l'ame, l'homme qui scrute son intérieur, remplace, dans le nouveau discours, I'homme que son corps inscrit dans le monde. Ces changements ne sont pas l'ocuvre spontanée du peuple chrétien. Il n'est pas besoin de rappeler combien de textes patristiques sont préoccupés de christianiser le temps et l'espace, christianisant ainsi la mémoire sociale. Ces transformations très profondes, ces nouvelles valcurs qui informent les esprits retirent toute légitimité au modèle traditionnel de la ville. Les villes ellesmemes se modifient lentement, ne serait-ce que parce que lcurs monuments étaient faits pour durer et qu'ils entraınaient donc une grande inertie dans l'évolution du paysage urbain. Mais, de manière irréversible pour de très longs siècles au moins, est créce une situation où, en dehors de tout problème de prospérité, est rendu impossible, parce que non légitime, un modèle de circulation des richesses permettant de recrécr des villes caractérisées par un urbanisme monumental. Dans cette perspective, le christianisme est la forme prise par la mutation de la société de l'Antiquité Tardive, lorsque après avoir beancoup tatonné, le changement a fini par se stabiliser dans une forme qui permettait à une société en évolution de se penser elle-meme, avec de nonvelles valcurs, un mode de pensée élargissant l'horizon au-delà de la cité, cassant de vieux clivages sociaux, permettant en meme temps de penser la légitimité d'un pouvoir unique sur le monde. La transformation de la cité antique n'est qu'un aspect de ce vaste phénomène. JEAN-MICHEL SPIESER