PHILIP JOSÉ FARMER NOTTE DI LUCE (Night Of Light, 1957) (A Few Miles, 1960) (Prometheus, 1961) (Attitudes, 1953) (Father...
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PHILIP JOSÉ FARMER NOTTE DI LUCE (Night Of Light, 1957) (A Few Miles, 1960) (Prometheus, 1961) (Attitudes, 1953) (Father, 1955) PARTE PRIMA Notte di luce (I) Sulla Terra sarebbe stato raccapricciante. Un uomo correva per strada, cercando di afferrare la pelle di un volto umano. Un sottile strato di tessuto organico, portato via dal vento come un foglio di carta. Sul pianeta Dante's Joy, invece, lo spettacolo non destava che una minima sorpresa nei pochi passanti. E questi se ne interessavano soltanto perché si trattava di un terrestre, e dunque di un'assoluta rarità. L'uomo che correva si chiamava John Carmody. Ai suoi fianchi, per la strada lunga e dritta, si susseguivano le grandi case di pietra squadrata, le torri e le facciate scolpite. Dall'oscurità delle nicchie i demoni gli mostravano i denti. Dai piedistalli sporgenti le divinità gli mandavano qualche benedizione. Carmody era un ometto insignificante, e tra quelle case e quelle torri sembrava ancora più piccolo. Inseguiva freneticamente la pelle che girava e rigirava nell'aria, che gli mostrava le orbite vuote, la bocca spalancata e i fori delle orecchie. Dall'orlo della fronte, dove cominciava il cuoio capelluto, si agitavano pochi capelli lunghi e biondi. Il vento soffiava, e la furia degli elementi pareva sottolineare la furia dell'uomo. Ondeggiando nell'aria, la pelle gli era quasi giunta a portata di mano, ma un soffio improvviso la spinse verso l'alto. Carmody lanciò una bestemmia e spiccò un balzo per afferrarla. Quasi ci riuscì, ma la pelle gli sfuggì di mano e andò a posarsi su un balconcino a tre metri sopra di lui, sul piede granitico del dio Yess. Trafelato, comprimendosi la milza, John Carmody si appoggiò alla casa. Anni prima, quando era campione federale dei welter, il suo fisico era in condizioni eccellenti, ma negli ultimi tempi si era lasciato andare e aveva messo su pancia. Il grasso gli si era accumulato anche sotto il mento, come un nodo scorsoio, ma Carmody aveva rinunciato a combatterlo. La cosa
non aveva importanza, per lui o per altri: John Carmody non era mai stato una bellezza. Aveva sempre avuto una zazzera nero-blu da porcospino, testa a forma di melone, una palpebra perennemente abbassata, naso troppo lungo e sottile, bocca troppo piccola e storta, denti troppo radi. Il tutto gli dava un aspetto disordinato, una smorfia perpetua. Guardò in alto verso la statua, e nel farlo piegò la testa sulla spalla, come un colombo della Terra. Studiò la parete e giunse alla conclusione che non poteva scalarla. Non offriva appigli: le finestre erano chiuse da spesse imposte di ferro e la porta anch'essa di ferro era sprangata. Un cartello in caratteri kareenani ne spiegava il motivo: SONNO. Carmody scosse le spalle, sorrise con noncuranza, e si allontanò come se, fino a qualche momento prima, non fosse stato lui a correre. Intanto il vento era calato, ma adesso riprendeva a soffiare con violenza. Improvvisamente Carmody fu colpito da una raffica forte come il pugno di un gigante. Prese la posizione del pugile. Si piegò sulle ginocchia, riguadagnò l'equilibrio e si spinse contro il vento. A testa bassa, ma sempre con gli occhi fissi davanti a sé. Nessuno era mai riuscito a vincerlo con la sorpresa. Raggiunse la cabina telefonica all'angolo, un enorme parallelepipedo di marmo che avrebbe potuto comodamente accogliere venti uomini. Era in dubbio se entrare o no, ma una raffica ancora più violenta lo costrinse a mettersi al riparo. Si avvicinò a uno dei sei telefoni e alzò il ricevitore: di fronte c'era un largo sedile di pietra, ma non si sedette perché in piedi si sentiva più sicuro. Spostava nervosamente il corpo a destra e a sinistra e sorvegliava l'entrata. Formò il numero della pensione della signora Kri. La donna venne a rispondere. «Pronto?» le disse. «Ciao bella, sono John Carmody. Chiamami padre Skelder, oppure padre Ralloux.» Come s'aspettava, la signora Kri ridacchiò compiaciuta del complimento. «Padre Skelder è qui vicino» gli comunicò. «Aspetta un momento, te lo chiamo.» Ci fu una breve pausa, poi si udì una profonda voce maschile: «Pronto? Carmody? Cosa c'è?» «Nulla d'importante» fece lui per stuzzicare la curiosità di Skelder, e attese che l'altro parlasse. Di sicuro era immobile, combattuto tra il desiderio di sapere e il timore di essere ascoltato dalla donna. Carmody sorrise immaginando la scena: il volto lungo e rugoso del religioso, gli zigomi ossuti e le guance vuote, la pelata lucida, le labbra indispettite che si stringevano
come le pinze di un granchio... Il religioso era sul punto di cedere, di ammettere la sua curiosità, di umiliarsi a chiedere. Carmody rincarò la dose: «Ascolta, Skelder. Ho qualcosa da dirti. Non so se sia importante, ma mi è successa una cosa piuttosto strana.» E tacque. Ancora pochi secondi, poi Skelder sbottò: «Allora, cos'è successo? Che hai? Non puoi dirlo per telefono?» «Certo. Ma non volevo darti troppo disturbo» rispose amabilmente Carmody. «Dimmi un po', ti è successo qualcosa di strano, circa cinque minuti fa? C'è stato qualche fenomeno fuori del normale?» Skelder fece una lunga pausa, poi gli rispose evasivamente: «Sì, ho visto che il sole cambiava colore e ho provato un senso di stordimento. Mi pare sia successo anche alla signora Kri e a padre Ralloux.» Carmody attendeva che il sacerdote aggiungesse qualcosa, ma pareva proprio che non volesse dirgli di più. «Tutto qui» gli chiese «nient'altro?» «No, perché?» Carmody gli descrisse la strana pelle apparsa dal nulla e aggiunse: «Ho pensato fosse successo anche a te.» «No. Non mi è successo niente. Solo quel piccolo senso di stordimento.» Dal tono della voce, Carmody capì che il religioso gli nascondeva qualcosa. Bene, l'avrebbe scoperto in seguito. Dal telefono, Skelder riprese a parlare: «La signora Kri è andata via. Che cosa volevi dirmi, Carmody? Perché mi hai chiamato?» «Oh, niente» gli rispose allegramente. «Solo quello che ti ho già detto: informazioni astronomiche. Ma già che siamo nel discorso, mi vien voglia di raccontarti cosa ho scoperto nel tempio di Boonta.» «Con tutto il tempo che sei stato via» brontolò Skelder «devi avere scoperto quasi tutto. Ieri sera non ti sei fatto vedere, e ho pensato a un incidente.» «Spero che non avrai chiamato la polizia.» «No di certo» si indignò il religioso. «Sono un prete, ma non sono stupido come credi. E poi, ti assicuro, non vale la pena che mi disturbi per te.» Carmody sogghignò. «"Ama il tuo prossimo come un fratello." Mah, io non mi sono mai preoccupato molto di mio fratello. E neppure dei fratelli degli altri. Hai ragione, sono in ritardo. Ma è un ritardo minimo: una ventina di ore! E sono in ritardo perché ieri sera, nel Tempio, ho partecipato alla processione e alle altre cerimonie.» Rise di nuovo e aggiunse, per fare dispetto al religioso: «Questi kareenani hanno una religione davvero sim-
patica. Si divertono molto.» Con voce fredda e severa, Skelder domandò: «Hai preso parte a un'orgia sacra?» Carmody rise ancora più forte: «Ma certo. "Chi va con lo zoppo..." eccetera, no? Te l'ho già raccontato. Ma non divaghiamo: tu sei prevenuto contro il boontismo e ci vedi solo il sesso, ma ti posso assicurare che le cose sono diverse. D'accordo, la cerimonia che si è svolta nel Tempio aveva i suoi lati sensuali, ma non era tutta lì. Prima mi sono dovuto sorbire un rituale molto noioso, come tutti i rituali. Poi, a mezzanotte, la gran sacerdotessa ha dato il via...» «... e tu hai preso parte all'orgia.» «Naturalmente. E proprio con la gran sacerdotessa. È stata una cosa molto normale per le abitudini locali. I kareenani non hanno i tabù sessuali che hai tu, Skelder. Per loro il sesso non è una cosa esecrabile: non è nemmeno un peccato. Lo considerano un sacramento. Se tu fossi stato presente, l'avresti giudicata un'orgia ributtante, ma per loro è stato un atto di culto. Puro e casto e benedetto dalla Dea. La tua e la loro sono opinioni diametralmente opposte, e se t'interessa ti aggiungo anche la mia: siete in errore tutti e due. Per me il sesso è solo una forza di cui ci si può servire per dominare gli altri. Però sono d'accordo con te su una cosa: il modo di comportarsi dei kareenani è di gran lunga più divertente!» Skelder gli rispose con il tono dell'insegnante annoiato che ripete le lezioni allo zuccone della classe. Forse era in collera, ma non lo mostrava. «Tu non hai capito nulla della dottrina della Chiesa. In sé e per sé, il sesso non ha nulla di peccaminoso. È lo strumento voluto da Dio per la trasmissione della vita, e negli animali è un innocente atto biologico. Dio ce l'ha dato come una forza, e l'uomo e la donna, entro il santo legame del matrimonio, possono servirsene per assaporare l'estasi che proveranno nell'altra vita, la visione gloriosa e la partecipazione...» «Gesummio, Skelder!» lo interruppe Carmody. «Fammi il favore, risparmiami la lezioncina! Poveri parrocchiani, chissà che gemiti quando sali sul pulpito! Che Dio li aiuti! «E quanto alla dottrina» continuò «non c'entra nemmeno. Io parlo di te: sei tu che ritieni disgustoso il sesso. Sei tu che lo giudichi indecoroso, anche quando è permesso dal matrimonio. È una cosa sporca, e più presto finisce e si fa la doccia, meglio è. «Ma sto perdendo il filo. Questi scoppi di frenesia dei kareenani esprimono gratitudine per il Creatore... Creatrice, anzi... che ha dato loro la vita
e le sue gioie. Ma queste cerimonie religioso-sessuali sono l'eccezione: la loro vita di tutti i giorni è piuttosto noiosa.» «Carmody!» sbuffò Skelder. «Le lezioni non servono neanche a me. Sono un etnologo. Le infami abitudini di questi nativi mi sono ben note.» «Ah, è così» fece Carmody. «E allora perché non c'eri tu a studiarle nel Tempio?» Rise. «Te lo imponeva il tuo dovere di etnologo. Perché hai mandato me? Avevi paura che lo spettacolo ti contaminasse? O temevi di venire catechizzato?» «Lasciamo perdere» disse freddamente Skelder. «I dettagli della tua depravazione non mi interessano. Dimmi solo se hai scoperto qualche notizia utile per la nostra missione.» Alla parola missione, Carmody rise. «Ma certo, babbo. La sacerdotessa mi ha detto che la Dea appare solo come una forza che s'impossessa del corpo dei suoi fedeli, ma che invece il figlio della Dea, Yess, esiste in carne e ossa. Me l'hanno confermato in molti: dicono che l'hanno visto e che gli hanno parlato. Durante il periodo del Sonno, Yess sarà in questa città. È tradizione che venga qui, perché qui è nato, e qui è morto e risorto.» «Sì» replicò il sacerdote «ho sentito anch'io la leggenda. Bene: quando questo impostore sarà in mano nostra, vedremo cosa avrà da dire. Ralloux sta terminando di preparare gli strumenti.» «D'accordo» replicò Carmody senza mostrare interesse alla cosa. «Sarò a casa tra mezz'ora, sempre che non incontri qualche femmina particolarmente dotata di fascino. Ma non ci conto. Questa città è quasi deserta.» Rimise a posto il ricevitore e sorrise pensando a Skelder e alla sua faccia disgustata. Sapeva già come sarebbe andata: il religioso sarebbe rimasto immobile per qualche minuto a mormorare preghiere per l'animaccia nera di John Carmody. Poi sarebbe corso di sopra a cercare Ralloux e gli avrebbe raccontato tutto. Ralloux, con il saio marrone dei giairiti, sbuffando fumo dalla pipa e continuando a tarare i suoi strumenti elettronici, lo avrebbe ascoltato senza parlare, senza esprimere disgusto o divertimento per le azioni di Carmody, e avrebbe poi detto che sì, purtroppo era un guaio dover lavorare con lui, ma le vie della Provvidenza sono infinite: forse la loro presenza e il loro esempio potevano convertirlo. Intanto, visto che né Carmody né Dante's Joy erano come li volevano loro, tanto valeva rassegnarsi e lavorare con i mezzi disponibili... Indubbiamente, pensava Carmody, Skelder detestava il collega. Lo detestava quasi come detestava lui. Skelder era tradizionalista e conservatore, e Ralloux apparteneva a un ordine molto sospetto per la sua modernità. Inol-
tre Ralloux si era professato d'accordo con la concezione dell'evoluzione della dottrina, la nuova teoria che aveva portato a un'aspra controversia tra le varie correnti della Chiesa. Forse si era sull'orlo di uno scisma. Molti si attendevano nel prossimo futuro notevoli trasformazioni in campo religioso. I due religiosi sì sforzavano di andare d'accordo, ma già una volta Skelder era montato su tutte le furie e aveva insultato l'altro: in occasione di uno scambio di idee sul celibato dei preti, una questione di disciplina e non di dottrina. Ricordando la faccia congestionata di Skelder e le sue forti lamentele, Carmody sorrise. Nel corso della discussione si era divertito a punzecchiarlo e non gli aveva nascosto il suo disprezzo. Quello sciocco non aveva ancora capito che la vita è solo una grande presa in giro, e che l'unica cosa sensata è riderne! Era già ridicolo che loro tre fossero insieme. I due religiosi si odiavano e odiavano di cuore Carmody, che a sua volta li disprezzava entrambi. Un giorno che si sentiva più gentile del solito, Carmody ne aveva accennato a Skelder. "Il delitto crea delle strane compagnie" gli aveva detto, ma il religioso gli aveva risposto freddamente che la Chiesa in questo mondo doveva servirsi degli strumenti che trovava. Carmody era uno strumento ripugnante, ma purtroppo era l'unico a portata di mano. E smascherare una falsa religione non era un delitto: era un dovere. «Vacci piano, Skelder» gli aveva risposto allora Carmody. «La Chiesa e il governo vi avevano dato ordini ben precisi. Dovevate limitarvi a studiare la Notte di Luce e parlare a Yess, ammesso che esista e che si possa parlargli. Ma tu stai prendendo delle iniziative non autorizzate. Tu vuoi che noi catturiamo un dio, che gli diamo il siero della verità e che gli facciamo confessare che è tutto un trucco. Quando ritornerai sulla Terra verrà aperta un'inchiesta e avrai dei fastidi.» Di fronte a questa precisa accusa, Skelder gli aveva risposto di essere pronto ad affrontare ogni rischio personale pur di poter estirpare la religione di Dante's Joy dalle radici. Il culto della dea Boonta si era già diffuso su molti pianeti: la sua parodia dei riti e dei sacramenti, le orge sacre che permetteva costituivano una seria minaccia per la Chiesa. Diocesi intere erano già passate al boontismo. C'era per esempio la storia del pianeta Cameonin: il vescovo e tutto il suo gregge, quarantamila anime, avevano abiurato e li avevano trovati che... Ma all'insaputa del religioso, anche Carmody aveva un suo piano: il suo
modo di "estirpare la religione dalle radici": una mini dumdum da cento colpi. Se Yess esisteva in carne e ossa, carne e ossa non resistevano ai proiettili esplosivi. Yess sarebbe stato costretto a risorgere un'altra volta! La storia delle resurrezioni incuriosiva Carmody. Chissà se erano vere? Se ne avesse visto una, avrebbe potuto credere a tutte le altre storie della Notte di Luce. Però la possibilità che fossero vere non era da trascurare. Forse erano veri anche i miracoli di cui si parlava. E allora? E allora niente. La cosa non lo riguardava. Lui non poteva operare miracoli, e non sarebbe mai risorto: l'unica cosa che poteva fare era approfittare dei piccoli piaceri della vita. Una buona bistecca, un po' di liquore per avvicinarlo alle verità irraggiungibili, divertirsi a guardare la stupidità umana, deridere il prossimo e beffarsi dei loro valori. E quando John Carmody prendeva in giro qualcuno non lo faceva per posa: le fedi a cui molti si aggrappavano erano insignificanti per lui. La sua vita era tutta su questo mondo: qualche bella risata e poi il grande sonno. Sarebbero stati gli altri a ridere per ultimi, ma John Carmody non sarebbe più stato in grado di ascoltarli e quindi, a tutti gli effetti, l'ultimo a ridere sarebbe stato lui... All'improvviso sentì una voce nota, che lo chiamava, dall'esterno della cabina. «Vieni dentro, Tand!» gli gridò in kareenano. «Pensavo che avessi già preso il Sonno. Non avrai deciso di scegliere il Rischio, spero! Oppure mi sbaglio?» Tand gli offrì una sigaretta locale e ne accese un'altra per sé. Soffiò lentamente il fumo e, senza entrare nei dettagli, gli rispose: «Devo ancora concludere un affare molto importante. Conto di prendere il Sonno appena finito. Sempre che riesca a farcela.» «Davvero?» fece Carmody. «Credevo che voi kareenani pensaste solo al bene e all'anima. Che il denaro non vi interessasse.» Tand sorrise. «Siamo anche noi come gli altri, abbiamo santi e peccatori, e tutta la gamma intermedia. Ma sembra che siamo celebri per i nostri eccessi, anche se non è chiaro se siano eccessi in bene o in male... C'è chi dice che siamo tutti santi e asceti, e c'è chi afferma che siamo il popolo più sensuale e abietto della Galassia. Quando poi si arriva a parlare della Notte di Luce, saltano fuori le cose più fantastiche. E se ne raccontano così tante che se uno di noi va su un altro pianeta, lo guardano come un fenomeno da baraccone. Sono anch'io d'accordo che noi kareenani siamo strani, ma non più strani degli altri popoli della Galassia.»
Carmody non gli chiese nulla dell'affare che doveva concludere: i kareenani ritenevano che quelle domande fossero indiscrete. Lo osservò: era alto un metro e ottanta ed era decisamente un bell'uomo. Da lontano era indistinguibile da un Homo sapiens la sua specie era frutto di un'evoluzione parallela a quella terrestre ma da vicino si vedeva che il suo volto non era normale. Sulla testa gli crescevano piume lunghe e sottili, denti e unghie erano blu. Tand portava una specie di berretto grigio, conico e senza tesa; i capelli erano corti, e alcune ciocche più lunghe cadevano a coprirgli le orecchie ferme. Indossava una tunica viola lunga fino alle anche, chiusa al collo da un alto colletto di pizzo e stretta in vita da una cintura grigia di velluto. Le gambe erano nude, e calzava sandali. I suoi piedi avevano quattro dita. Secondo Carmody era un poliziotto. Si imbatteva in lui troppo spesso, e Tand era venuto ad abitare dalla signora Kri subito dopo di lui. Ma non se ne preoccupava: anche la polizia avrebbe preso il Sonno tra poche ore. «E tu?» chiese Tand. «Sei sempre dell'idea di scegliere il Rischio?» Carmody gli accennò spavaldamente di sì. «Che cosa rincorrevi?» aggiunse Tand. Alla domanda, Carmody si accorse che le sue mani tremavano: le nascose in tasca. Parlò tra sé e sé per farsi coraggio: "Su, Carmody, smettila" si disse. "Lo sai che nulla ti tocca. Perché tremi? Cos'è questo freddo disagio alla bocca dello stomaco?" Adesso era Tand a sorridere, e si scorgevano i denti blu. «Ho intravisto la cosa che rincorrevi. Era l'inizio di una faccia, e non ho capito bene se era kareenana o terrestre. Ma è probabile che fosse terrestre: l'hai creata tu.» «Cosa hai detto? Creato?» esclamò Carmody. «Ma certo. Non hai visto come è apparsa dal nulla, proprio davanti a te?» «Impossibile.» «Tutt'altro. Non è un fenomeno comune, ma è già successo altre volte. Di solito è un effetto che si manifesta dentro il corpo di chi lo crea, ma questa volta è successo fuori. Ne deduco che il tuo problema deve essere straordinariamente forte.» «Io non ho nessun problema» mormorò Carmody da un angolo della bocca. La sigaretta gli giostrava dall'altro angolo come il fioretto di uno schermidore. Tand scosse le spalle: «Pensala come vuoi, ma, se ascolti me, devi scap-
pare finché sei in tempo. L'ultima astronave parte tra quattro ore, e poi non ce ne saranno altre, per tutto il Sonno. E prima che il Sonno sia finito, nessuno sa cosa possa succedere...» Carmody aveva l'impressione che l'altro lo prendesse in giro. Lui non poteva allontanarsi da Dante's Joy perché lo avrebbero subito arrestato. Forse Tand aveva dei sospetti sul terzetto dei terrestri, forse aveva avuto sentore del suo piano per lasciare senza pericolo il pianeta. Intanto il tremito alle mani si era calmato. Carmody le tolse di tasca e spostò la sigaretta. "Maledizione" si disse "perché sei così imbarazzato, Carmody? Hai perso il tuo fegato? No, non può essere. È la situazione di sempre: tu da solo contro l'intero universo. Ma le altre volte non hai mai tremato. Ti sei sempre scagliato contro le cose che non capivi, e se non potevi distruggerle le ignoravi. "Ma adesso sei di fronte a uno strano problema, un problema che non riesci ad afferrare. E allora? Aspetta che sia tutto chiaro. Poi lo avrai tra le mani, lo schiaccerai come hai schiacciato..." Nel ricordarlo, strinse le mani e serrò le labbra. La faccia che volava per l'aria, era quella di sua... No! «Sono fatti impossibili» disse. «So che su questo pianeta succedono fenomeni molto strani, ma non posso credere alle tue parole.» «Ho già visto dei terrestri alle prese con questo genere di cose» gli rispose Tand. «A voi sembrano favole, miti, incubi. Anche se non so bene che cosa siano gli incubi: noi non ne abbiamo.» «Già» disse Carmody. «I vostri incubi si svolgono all'esterno, ogni sette anni. E li evitate col sonno, mentre col sonno noi li incontriamo.» Si interruppe, sorrise, e aggiunse: «Ma io sono diverso. Io non sogno mai. Io non ho mai incubi.» Tand gli rispose con un tono strano, ma senza cattiveria: «Penso che non ne hai perché sei privo di coscienza morale. In genere i terrestri hanno dei rimorsi, quando uccidono la moglie a sangue freddo.» A quelle parole, Carmody rise, e la sua risata rimbombò tra le strette pareti della cabina. Tand lo guardò senza battere ciglio e commentò: «Tu ridi forte, ma lui ride più forte di te.» E indicò il vento che soffiava per la via. Carmody non comprese il senso delle parole di Tand, e la sua assenza di reazioni lo sorprese. Quando rideva del suo "delitto" si aspettava che gli altri si sdegnassero. La pietà e la sensibilità dei kareenani erano note in tutta la Galassia. Forse Tand mascherava le sue reazioni con l'autocontrollo del poliziotto, ma la cosa non costituiva una prova sufficiente. In ogni caso,
l'omicidio era avvenuto sulla Terra, a diecimila anni-luce di distanza, e non si poteva pretendere che il kareenano se la prendesse a cuore per la sorte di una persona così lontana, di un'altra specie intelligente. La discussione gli stava venendo a noia, e così disse: «Me ne torno da Mamma Kri. Mi accompagni?» «Perché no? Oggi sarà l'Ultima Cena della signora Kri. Poi prenderà il Sonno.» Si avviarono senza parlare, anche se adesso non c'era più vento e si poteva fare conversazione. Intorno a loro giganteggiavano le pesanti costruzioni decorate: edifici destinati a durare in eterno, a proteggere i loro abitanti da ogni offesa del vento, del fuoco, del terremoto. Qua e là si affrettava qualche indigeno silenzioso e solitario, intento a un ultimo affare prima del Sonno. Le folle del giorno prima erano scomparse, e con loro ogni rumore, ogni traffico, ogni segno di vita. Carmody osservò una ragazza che passava e rifletté che, con un sacco sulla testa, era uguale a una terrestre. Le stesse lunghe gambe, gli stessi fianchi, lo stesso seno… Poi, tutt'a un tratto, la luce cambiò colore. Carmody alzò la testa e osservò il sole: prima era bianco, accecante, e adesso era un enorme disco violetto con una corona rossastra. Si sentì stordito, febbricitante, e la luce si annebbiò come se il sole fosse divenuto liquido. Poi la sensazione passò. Il sole era di nuovo una palla di fuoco bianco. Il terrestre dovette distogliere lo sguardo. «Ma cos'è successo?» chiese. Tremava e si sentiva senza forza. «Cos'è successo?» ripeté. Carmody ricordava che già in precedenza gli era accaduto qualcosa di simile, che anche allora il sole era diventato viola e che si era sentito bruciare, ma era stata una sensazione veloce come un lampo. Poi l'aria si era fatta più densa ed era apparsa quella faccia, subito spazzata via dal vento. Rabbrividì perché il vento s'era alzato di nuovo, poi urlò. A tre metri da lui, sul terreno, c'era un altro pezzo di pelle. Il vento lo stava già portando via. Fece un passo per rincorrerlo ma si fermò subito. Scosse la testa, si toccò perplesso la punta del naso e sorrise. «Mi ha preso in giro una volta» disse forte «ma John Carmody non ci casca più. Per quel che me ne importa, quella pelle può andarsene a finire nella spazzatura, che è il suo posto.» Prese un'altra sigaretta e l'accese. Guardò in giro cercando Tand. L'uomo era in mezzo alla via, chino sulla ragazza. L'aveva adagiata sulla schiena.
Braccia e gambe sussultavano, gli occhi erano sbarrati, e dalla bocca le uscivano sangue e schiuma. Carmody si avvicinò di corsa, diede un'occhiata e disse: «Convulsioni. Continua pure, Tand, non lasciare che si morda la lingua. Hai anche tu delle conoscenze mediche?» Si pentì subito di avere parlato. Ora l'uomo conosceva un'informazione in più sul suo passato. Non che gli fosse molto utile, ma Carmody non era disposto a dare informazioni senza una contropartita. Mai dare niente per niente. Era contrario alle leggi dell'universo. Per continuare a vivere si deve prendere più di quanto si dà. «No» gli rispose Tand, senza guardarlo. «Ma per il mio lavoro devo conoscere quel minimo di pronto soccorso. Povera ragazza: avrebbe già dovuto prendere il Sonno. Forse non credeva di essere colpita dall'epilessia. Oppure sceglieva il Rischio per guarire.» «Cosa vuoi dire?» Tand indicò il sole: «Quando cambia colore ha anche un effetto sulle onde cerebrali. Se la persona è sveglia, è come un elettroshock: vengono fuori tutte le tendenze dell'epilessia. Ma è una malattia poco comune. Con l'andar del tempo le predisposizioni ereditarie si sono estinte. Di solito chi le ha non sopravvive al periodo del Rischio. Ma se lo supera è guarito per sempre.» Carmody guardò incredulo il cielo: «Una fiammata del sole, lontana 140 milioni di chilometri, è la causa di queste cose?» Tand scosse la testa e si alzò. La ragazza aveva smesso di fremere e sembrava tranquillamente addormentata. «Perché no? Mi hanno detto che anche sul vostro pianeta sentite le tempeste solari. I vostri scienziati hanno registrato tutti i cicli climatici, psicologici, fisici, commerciali, politici, sociali e altri che ne dipendono. Li possono prevedere con un secolo di anticipo. Perché ti sorprendi se il nostro sole fa la stessa cosa su scala molto più vasta?» Carmody stava per fare un gesto di meraviglia, ma bloccò subito il braccio, per non far pensare che anche lui aveva momenti di incertezza. «Ma perché accadono queste cose? Il letargo, le incredibili trasformazioni fisiologiche, la... la proiezione fisica di immagini mentali?» «Non lo so» disse Tand. «I nostri astronomi studiano il fenomeno da migliaia d'anni. Anche la tua gente ha costruito un osservatorio. Ma non possono esaminare il fenomeno perché abbandonano la base durante il Sonno. Anche i nostri astronomi hanno la stessa difficoltà: gli effetti men-
tali della radiazione impediscono di studiarla.» «Sì, ma gli strumenti non dovrebbero risentirne.» Tand sorrise: «Credi proprio? Registrano un caos di onde, come se anche le macchine avessero l'epilessia. Forse queste registrazioni nascondono un significato, ma chi può decifrarle? Nessuno.» Fece una pausa e aggiunse: «No, sbaglio. Ci sono tre persone che potrebbero spiegare tutto. Ma non lo spiegheranno.» E indicò un punto alla fine della via. Carmody seguì la direzione del dito e vide le tre statue di bronzo: la dea Boonta che proteggeva il figlio Yess dall'attacco del dio nero, il suo gemello Algul nella metamorfosi del drago. «Quelli?» «Sì, quelli.» Carmody osservò, con una punta di ironia: «Mi sorprende che un uomo intelligente come te presti fede a una superstizione così primitiva.» «Intelligenza e fede sono due cose diverse» rispose Tand. Si chinò sulla ragazza; le tastò il polso e si alzò. Con una mano si tolse il berretto e con l'altra fece un segno circolare. «È morta.» Ci fu una pausa di un quarto d'ora. Tand chiamò l'ospedale: giunse un'autoambulanza lunga e rossa, azionata da un motore a vapore che bruciava petrolio. Il veicolo era fatto come una carrozza e l'autista balzò giù dall'alto sedile sul davanti. «Siete fortunati» disse «perché questa è l'ultima chiamata cui rispondiamo. Tra un'ora prendiamo il Sonno.» Tand cercò i documenti della ragazza e Carmody notò che li cercava con un'efficienza sospetta, da poliziotto. Il kareenano passò poi i documenti agli infermieri e consigliò di non avvertire i familiari prima della fine del Sonno. Più tardi, mentre camminavano, Carmody chiese: «Chi fa funzionare tutti i servizi della città durante il Sonno? Chi si prende cura degli incendi, della polizia, degli ospedali, delle scorte di cibo?» «Incendi qui non ne abbiamo, costruiamo tutto in pietra. Immagazzinare il cibo non è un problema, perché quelli che restano svegli sono pochi. E per la polizia, be’, in quel periodo non c'è legge. Voglio dire, non c'è legge umana.» «E se un poliziotto sceglie il Rischio?» «Ti ho già detto che la legge è sospesa.» Avevano superato la zona commerciale della città di Rak ed erano arrivati alla zona delle abitazioni. Intorno alle case c'erano larghi spiazzi, ma
restava nell'aria il senso di pesantezza, di sovradimensionamento, di eternità congelata nella pietra. Le case erano alte almeno tre piani ed erano fatte di blocchi massicci, con porte pesanti e finestre di ferro. I canili avrebbero potuto resistere a un assedio. Vedendone alcuni, Carmody si accorse che la vita animale era improvvisamente scomparsa. Erano spariti gli uccelli che riempivano l'aria dei loro rumori. Non si vedevano più gli animali domestici, e anche gli scoiattoli si erano rintanati sugli alberi. Rispondendo alla domanda di Carmody, Tand spiegò: «Sì, gli animali vanno istintivamente in letargo durante la Notte, e lo hanno sempre fatto fin dal sorgere della vita su questo pianeta. Ma l'uomo può scegliere: può darsi il letargo oppure può rimanere sveglio. Anche gli uomini primitivi conoscevano la pianta che dà il Sonno: ci sono delle pitture parietali che la ritraggono.» Si fermarono vicino alla casa della donna che Carmody chiamava Mamma Kri. Per ordine del governo kareenano, gli ospiti terrestri venivano alloggiati in quell'edificio, volenti o nolenti. Era una casa a pianta circolare di pietra e calce, alta quattro piani, coperta da un tetto di pietra grigia. Sorgeva in mezzo a uno spiazzo quadrato di almeno duecento metri di lato. Un vialetto alberato, lungo e tortuoso, portava a un grande porticato che correva intorno alla casa. A metà del viale Tand si fermò accanto a un albero. «Vedi niente di strano in quest'albero?» chiese al terrestre. Carmody, senza fissare Tand, rifletté a voce alta: «Sembra un albero adulto ma è piuttosto basso, circa un metro e mezzo; ricorda un pioppo nano. Fino a un terzo dell'altezza ha un doppio tronco, poi ha solo due rami principali, come se avesse braccia e gambe. Se lo vedessi di notte penserei che è un albero che è uscito a farsi una passeggiata.» «Ci sei andato vicino» disse Tand. «Prova a toccare la scorza. Sembra legno, eh? Anche alla vista. Ma al microscopio ha una struttura cellulare molto strana. Né umana né vegetale, ma simile a entrambe. Perché?» Si fermò, sorrise e disse: «È il marito della signora Kri.» Senza mostrare sorpresa, Carmody replicò: «Davvero?» Rise e aggiunse: «Sembra una persona piuttosto sedentaria!» Tand alzò le sopracciglia piumate. «Esattamente. Quando era uomo preferiva starsene seduto, guardare gli uccelli, leggere libri di filosofia. Era taciturno, non gli piaceva la gente. Non riuscì mai a combinare nulla nel suo lavoro.
«La moglie dovette affittare le stanze per vivere e, come rappresaglia, gli rese la vita impossibile, ma non riuscì mai a comunicargli il suo entusiasmo e la sua ambizione. Alla fine lui scelse il Rischio, e credo l'abbia fatto per allontanarsi dalla moglie. Molti dicono che gli è andata male, ma io non ne sono sicuro. Ha ottenuto ciò che voleva: il suo desiderio più profondo.» Sorrise. «Dante's Joy è il pianeta dove si ottiene ciò che si vuole realmente. Ecco perché è sconsigliabile agli altri popoli della Galassia. È pericoloso poter realizzare le nostre richieste inconsce. Realizzarle in pieno e alla lettera.» Carmody non era sicuro di avere capito tutto, ma riuscì ancora a dire: «Avete provato a esaminarlo ai raggi X? Chissà se ha un cervello?» «Sì, qualcosa di simile, ma non so dirti che razza di pensieri legnosi possa ancora avere.» Carmody rise di nuovo: «Un vegetale umano. Senti un po', Tand, cosa cerchi di fare, di spaventarmi perché vada via o prenda il Sonno? Be', non funziona. Nulla mi spaventa. Nulla.» Ma la sua risata terminò bruscamente. Le forze lo lasciarono e si sentì bruciare, l'aria ebbe un tremolio e divenne speculare, poi, lentamente, davanti a lui, come un pallone che si sgonfia, un'altra pelle si afflosciò. Ma non senza che Carmody ne riconoscesse il volto. «Mary!» Prima che potesse toccare la cosa sul marciapiede, passò del tempo. Uno dei motivi era questo: non ne aveva la forza. Solo la determinazione a non mostrarsi debole lo spinse a raccoglierla. «Vera pelle?» chiese Tand. Da qualche punto del vuoto che aveva dentro, Carmody riuscì ancora a trarre una risata: «È proprio uguale, liscia, perfetta come la sua. Aveva la più bella pelle del mondo.» Corrugò la fronte. «Ma quando tra noi...» Le sue dita si aprirono e lasciò cadere la pelle. «Vuota come era vuota lei. Niente in testa. Niente sostanza.» «Tu non ti impressioni» disse Tand. «Oppure non hai niente dentro. Bene: lo vedremo.» Raccolse il sacchetto di pelle e lo tenne con due mani; il vento lo gonfiò come una bandiera. Questa volta non era apparsa solo la faccia: c'erano anche il cuoio capelluto, la parte anteriore del collo e un pezzo di spalla. Dal cuoio capelluto spuntavano molti capelli biondi, lunghi come fili di ragnatela, e sotto le palpebre si era formato il primo strato del bulbo oculare. Il kareenano disse a Carmody: «Incominci a capire come funziona?»
«Io? Ti assicuro che non so proprio cosa succeda.» Tand si toccò la fronte e il petto: «Loro lo sanno.» Appallottolò la pelle e la gettò in un cestino dei rifiuti. «Le ceneri alle ceneri» disse Carmody. «I morti coi morti.» «Vedremo» rispose Tand. Nel cielo si erano formate delle nubi che avevano coperto il sole. La luce rendeva tutto grigio, lugubre, e all'interno della casa era ancora peggio. Nella sala da pranzo, quando Tand e Carmody entrarono, fu un gruppo di spettri che li salutò. C'erano Mamma Kri, i due terrestri e un vegano chiamato Aps, seduti a una tavola rotonda alla luce di sette candele. Dietro la padrona di casa c'era un altare con una statua della Dea Madre, raffigurata con in braccio Yess e Algul lattanti. Yess succhiava placido dalla mammella destra; Algul mordeva e graffiava la sinistra; la madre li guardava imparziale, con un sorriso beato. Sulla tavola c'erano i simboli di Boonta: la cornucopia, la spada di fiamma, la ruota. Vedendoli entrare, Mamma Kri sorrise. Era una donna piccola, grassa e larga di petto. Disse: «Benvenuti, signori. Siete appena in tempo per l'Ultima Cena.» «L'Ultima Cena» disse Carmody andando in bagno. «Io sarò il mio omonimo, il buon Giovanni, ma chi farà la parte di Giuda?» Padre Skelder sbuffò indignato e padre Ralloux disse: «C'è un piccolo Giuda in ciascuno di noi.» L'occasione era troppo bella perché Carmody potesse resistere. Si fermò, chiese: «Sei incinto, caro?» e si allontanò ridendo forte. Quando ritornò e si sedette a tavola, sopportò le benedizioni di Skelder, rivolte al cibo e a Mamma Kri che gliele aveva chieste. Era più semplice stare zitto che fare baccano per essere servito immediatamente. «Chi sta con lo zoppo...» disse a Skelder e sorrise dello stupore dell'altro. «Passami il sale, per favore» continuò «ma non versarlo.» Poi scoppiò a ridere perché Skelder l'aveva versato. «Ecco Giuda!» esclamò. Il religioso arrossì indignato: «Con questa mancanza di serietà, signor Carmody, non supererai il Rischio.» «Pensa a te» gli rispose Carmody «che io so già come fare. Conto di trovare qualche femmina compiacente e di non accorgermi neppure che il tempo passa. Prova anche tu a farlo, reverendo.» Skelder strinse le labbra. La sua faccia lunga e sottile pareva costruita
apposta per disapprovare. Le profonde linee della fronte e delle guance, gli angoli duri degli zigomi e della mascella, il naso lungo e carnoso, l'insieme di rette e di curve sembravano le impronte di un Creatore che avesse usato la sua carne per modellare il ritratto del giusto, e che poi l'avesse resa dura come pietra con una vampata di gelo. Adesso la pietra dimostrava di essere viva perché arrossiva e perché i pallidi occhi grigi brillavano dietro le ciglia dorate. Padre Ralloux disse: «L'ira non è una virtù.» Quell'altro prete aveva un aspetto strano, una faccia costruita di connotati discordanti tra loro. Le grandi orecchie sporgenti, i capelli rossi, il naso rincagnato, le larghe labbra sorridenti dell'irlandese delle vignette si scontravano coi grandi occhi neri, dalle lunghe ciglia femminili. Le spalle erano larghe, il collo e le braccia erano muscolosi, ma le mani erano delicate come quelle di una donna. Lo sguardo era sincero e penetrante, ma era chiaro che quegli occhi miti nascondevano qualcosa: un tremendo conflitto interiore. Carmody si era chiesto perché lo avevano mandato insieme a Skelder, che era molto più celebre di lui. Ma Ralloux era un ottimo antropologo, molto più competente dell'altro. Il capo della spedizione era però Skelder, per dei motivi di tutt'altro genere. Quel religioso sparuto comandava l'ala conservatrice della Chiesa, quella che si proponeva di riformare la morale dei laici. Su tutti i pianeti lo si era visto tuonare contro la nudità nelle spiagge e nelle case, contro i matrimoni a breve termine, contro le perversioni. Insomma, contro tutte quelle cose che una volta erano vietate dalla cultura occidentale terrestre, e in particolare dalla Chiesa, ma che oggi erano tacitamente permesse ai laici perché non danneggiavano la società. Pretendeva il ritorno ai costumi del passato, voleva che la Chiesa ricorresse alle sue armi più forti. I progressisti e i moderati gli dicevano che quella mentalità era ottocentesca, ma la cosa non gli dava fastidio: l'Ottocento era il suo secolo preferito in fatto di morale. Tutti questi retroscena spiegavano perché adesso rivolgeva a padre Ralloux una furiosa occhiata. «Anche Nostro Signore si adirava quando era necessario. Ricorda i mercanti del Tempio!» Puntò un lungo dito contro il compagno: «È sbagliato pensare a Lui come al Buon Gesù. Basta prendersi la briga di leggere il Vangelo e si vede che era un uomo severo, che...» «Dio, che fame!» esclamò Carmody, interrompendolo, un po' per fermare quella filastrocca e un po' perché era davvero affamato. Non si era mai sentito così vuoto.
Tand li avvertì: «Nei prossimi giorni te ne accorgerai. Dovrai consumare grandi quantità di cibo. La tua forza si esaurirà subito.» Mamma Kri uscì e ritornò subito con un vassoio pieno di dolci: «Ce ne sono sette, signori. Ciascuno ha la forma di uno dei Sette Padri di Yess. Sono dolci che facciamo quando ci sono certe feste religiose: una è l'Ultima Cena prima del Sonno. Spero che mangiarli in comune non vi dia fastidio. Secondo la tradizione si prende un boccone da ciascuno dei sette dolci e ogni volta si beve un sorso di vino. Questa comunione vuol dire che ci dividiamo la carne e il sangue di Yess e che possiamo anche noi creare il nostro dio, come i Sette.» «Ralloux e io non possiamo farlo» disse Skelder. «Sarebbe un sacrilegio.» La signora Kri sembrava delusa, ma Carmody e Aps, il vegano, le dissero che avrebbero preso parte alla cerimonia. Carmody pensava che era una buona mossa diplomatica per poi servirsi di lei. La donna disse: «Non credo avrebbe obiezioni se conoscesse la storia dei Sette, padre Skelder.» «Ma certo, la conosco» disse il religioso. «Prima di venire qui ho studiato la vostra religione. Cerco sempre di informarmi di tutto. Il mito dice che all'inizio dei tempi la dea Boonta concepì e generò due figli. Quando raggiunsero la maturità, uno dei figli, quello malvagio, uccise l'altro e lo tagliò in sette pezzi che poi nascose in posti molto distanti perché la madre non potesse riunirli e farli rivivere. Algul, il figlio malvagio, dominò il mondo e solo la madre gli impedì di distruggere l'umanità. Il male regnava e gli uomini erano corrotti come al tempo di Noè. I pochi buoni pregarono la Madre di ridare loro il figlio Yess, e lei rispose che suo figlio sarebbe risorto quando si fossero trovati sette buoni. Alcuni volontari si presentarono per farlo rivivere, ma non vi furono mai sette buoni contemporaneamente sul pianeta. Passarono sette secoli, e il mondo divenne ancora più malvagio. «Infine sette uomini si incontrarono. Sette buoni. E Algul, per fare fallire la loro impresa, precipitò tutti nel sonno, fuorché sette dei suoi più crudeli discepoli. Ma i sette buoni vinsero il Sonno ed ebbero una mistica unione con la Madre, una specie di unione carnale psichica» qui Skelder fece una smorfia di disgusto «e ognuno divenne il suo amante e i sette pezzi di Yess tornarono in vita. I sette cattivi furono trasformati in ogni sorta di mostri. I sette buoni divennero divinità minori, gli sposi della Madre. Yess riportò il mondo allo stato di prima. Algul fu tagliato in sette pezzi e sotterrato in
sette punti lontani. Da allora il bene ha sempre vinto il male, ma c'è ancora molto male nel mondo; e la leggenda aggiunge che quando sette uomini assolutamente corrotti riusciranno a incontrarsi durante il Sonno potranno far rivivere Algul.» Si fermò e sorrise come per fare dell'ironia sul mito. Aggiunse: «Vi sono altre sfumature, ma vi ho detto l'essenziale. Si tratta ovviamente di un racconto che simboleggia l'eterna lotta tra il bene e il male. Alcuni suoi elementi sono universali, si trovano in quasi tutte le religioni.» «Simbolismo o no, universale o no» disse la signora Kri «resta il fatto che Yess esiste in carne e ossa. E che lo hanno creato sette uomini. Ne sono sicura. L'ho visto per le strade di Kareen e l'ho toccato. L'ho visto anche operare dei miracoli, ma li compie malvolentieri. E so che durante il Sonno ci sono dei malvagi che si incontrano per creare Algul. Conoscono l'antica promessa: quando ritornerà a vivere domineranno il mondo.» «Oh, su, signora Kri. Non voglio dir male della sua fede, ma che prove ha che quest'uomo è davvero il dio Yess?» chiese Skelder. «E poi è incredibile che degli uomini abbiano creato un dio dal nulla.» «Lo so perché lo so» disse la donna, dando l'antica e indiscutibile risposta di chi crede. Si toccò l'ampio petto: «Il cuore mi dice che la verità è ciò che vi ho detto.» Carmody rise. Una risata lunga, acuta, irritante. «Non puoi più dir niente, Skelder. La donna ti ha catturato con la tua stessa rete. Anche la Chiesa ricorre a questo tipo di argomenti quando è crollata ogni altra difesa.» «No» rispose gelidamente Skelder. «Non è vero. Non crolla mai nessuna difesa. Sono tutte salde come roccia. Inattaccabili dalle beffe degli atei miserabili, inattaccabili dalle mazzate dei governi costituiti. La Chiesa e i suoi insegnamenti sono imperituri. La sua logica è inconfutabile, la Verità è il suo regno.» Carmody sorrise e non disse nulla. Che importanza potevano avere le parole di Skelder o di un altro? Ormai desiderava solo una cosa: agire. Era stanco di frasi senza costrutto. La signora Kri si era alzata da tavola e sparecchiava. Carmody, che voleva ricavare da lei ulteriori informazioni senza che gli altri lo ascoltassero, si offrì di aiutarla. La donna ne fu deliziata: provava una forte simpatia per lui perché le faceva dei piccoli piaceri e le rivolgeva sempre dei piccoli complimenti. Era abbastanza intelligente per capire che non lo faceva senza scopo, ma Carmody le risultava simpatico lo stesso. In cucina lui disse: «Su, Mamma Kri, dimmi la verità. Hai visto Yess in
carne e ossa? Proprio come vedi me?» La donna gli passò un piatto da asciugare. «Ho visto più volte lui di te. Una volta è venuto qui a pranzo.» Un incontro così prosaico con la divinità lasciò interdetto Carmody. «Oh, davvero?» esclamò. «Davvero.» «E dopo avere mangiato è anche andato in bagno?» le chiese, pensando che era la prova suprema, la distinzione fondamentale tra divino e umano. Si poteva credere che un dio sedesse a mensa, magari perché i fedeli fossero a loro agio, magari per gioire dei piccoli piaceri della vita, ma l'evacuazione sembrava così mutile, così poco divina... «Ma certo» gli rispose la signora Kri. «Anche Yess ha sangue e intestino.» In quel momento si fece avanti Skelder col pretesto di bere un bicchiere d'acqua, ma in realtà, pensava Carmody, per ascoltarli di nascosto. «Certo che c'è andato» disse il religioso. «Non ci vanno tutti? Ma mi dica, signora Kri, da quanto tempo lei conosce Yess?» «Da quand'ero bambina. Adesso ho cinquant'anni.» «E rimane sempre giovane? Non è mai invecchiato?» chiese Skelder con una punta di sarcasmo. «Oh, sì. Ormai è vecchio. Può morire da un momento all'altro.» L'affermazione della donna sorprese i due terrestri. Skelder calò su di lei come un avvoltoio: «Forse c'è un malinteso» disse. «Forse una differenza di significato o di interpretazione delle parole, perché un dio, nel nostro senso del termine, non muore.» Tand era entrato in cucina e aveva ascoltato le ultime frasi: «Ma il vostro dio non è morto crocefisso?» chiese. Skelder si morse le labbra. Poi sorrise: «Vi prego di scusarmi» disse «e vi confesso di avere peccato di dimenticanza. Certo, ho peccato: ho peccato perché ho lasciato che l'ira mi annebbiasse la mente, ho dimenticato la distinzione tra natura umana e divina di Cristo. Pensavo in termini puramente pagani, ma ero in errore lo stesso perché gli dèi pagani non sono necessariamente immortali. Forse anche voi kareenani distinguete tra natura umana e divina di Yess: non lo so. Non ho ancora avuto il tempo di informarmi su questo aspetto della vostra teologia: c'erano troppe altre cose da studiare prima.» Si fermò e trasse un lungo respiro. Poi rizzò il capo, curvò le spalle ossute come se dovesse tuffarsi in mare, e disse: «Ma continuo a sostenere che
c'è una profonda differenza tra la vostra concezione di Yess e la nostra di Cristo. Cristo risorse e andò in cielo per unirsi al Padre. E morendo ha preso su di sé tutti i peccati dell'umanità.» «Quando Yess muore, un altro Yess risorge.» «Non mi sono spiegato. C'è la differenza che...» «Che la sua storia è vera e la nostra è falsa, è un mito pagano?» rispose sorridendo Tand. «E come si può affermare che una cosa è un mito e che un'altra è invece vera? Oppure che il mito non è una cosa reale e questo tavolo invece lo è? Realtà sono le cose che generano azioni. Se un mito dà come risultato un'azione, allora anche il mito è una realtà. Le parole che pronunciamo si spegneranno in vibrazioni sempre più deboli, ma chi può dire gli effetti duraturi che produrranno?» Improvvisamente la stanza si oscurò e tutti cercarono qualche appiglio: lo schienale di una sedia, l'orlo della tavola, qualsiasi cosa che servisse a tenerli fermi. Carmody si sentì percorrere da un'onda di calore, vide che l'aria diventava densa e riflettente come uno specchio. Da quello specchio uscì con violenza uno zampillo di sangue. Gli colpì la faccia, lo inzuppò, lo accecò, gli riempì la bocca. Il suo gusto salato gli scese per la gola. Sentì un urlo: non suo, ma di qualcuno accanto a lui. Tirò fuori il fazzoletto e si pulì gli occhi. L'aria non era più speculare e lo zampillo era cessato, ma sul pavimento e sulla tavola c'era uno strato di sangue. Ce ne dovevano essere una dozzina di litri, pensò Carmody. La quantità che ci si può aspettare da una donna di cinquanta chili... Qualcosa lo interruppe: fu costretto a spostarsi per non farsi travolgere da Skelder e dalla signora Kri che si rincorrevano per tutta la cucina. Era la signora Kri a incalzare il religioso perché era la più pesante e forse anche la più forte dei due. Certo era la più aggressiva: cercava con tutte le sue forze di strangolarlo. Skelder si piegava sotto la stretta e gridava: «Tolga le sue manacce da me, lei... femmina!» Carmody rise fragorosamente, e quel suono dissipò l'incantesimo. La donna si arrestò come se si fosse destata da un sogno. Sbatté le palpebre e disse: «Cosa ho fatto?» «Quasi mi uccideva!» gridò Skelder. «Ma cosa le è preso?» «Povera me, cosa ho fatto!» disse la donna. «È già più tardi di quel che credevo, sarà meglio che prenda subito il Sonno. Tutt'a un tratto lei mi sembrava l'uomo più odioso del mondo, per quello che ha detto di Yess. Ed effettivamente le sue parole mi hanno dato un po' fastidio, ma non fino
al punto di desiderare di ucciderla.» Tand disse: «Signora Kri, è evidente che le parole di padre Skelder l'hanno offesa più di quanto lei creda. Lei non ha voluto ammettere la sua ira, l'ha rimossa nell'inconscio, e così...» Non riuscì a finire: la donna si era voltata verso Carmody e si era accorta che era coperto di sangue e che tutta la cucina ne era piena. Urlò. «Chiudi quella maledetta bocca!» disse Carmody e la colpì freddamente sulle labbra. La donna smise di urlare e pigolò: «È meglio che pulisca questa sporcizia. Non voglio mettermi a grattarla quando sarà secca. Sei sicuro di non esserti fatto male?» Carmody non la degnò di risposta. Uscì e salì anella sua stanza. Si tolse gli abiti bagnati. Ralloux lo aveva seguito: «Incomincio ad avere paura» disse. «Se succedono di queste cose, ed è ovvio che non sono allucinazioni, chi può dire che cos'altro ci potrà ancora succedere?» «Pensavo che le nostre apparecchiature elettroniche ci dessero la sicurezza» disse Carmody. Si tolse l'ultimo degli indumenti bagnati e si diresse alla doccia. «Oppure non ne sei sicuro?» Rise all'aspetto poco convinto di Ralloux e da dietro un velo d'acqua gli disse: «Cosa hai? Hai davvero paura?» «Sì, lo ammetto. Tu non l'hai?» «Io? Avere paura? No. In tutta la mia vita non ho mai avuto paura di nulla. E non lo dico per scherzo: io la paura non la conosco.» «Ho il sospetto che tu non conosca nessun sentimento» disse Ralloux. «A volte mi domando se hai un'anima. Devi averla, certo, ma nascosta così in fondo che nessuno può scorgerla, neanche tu. Altrimenti...» Carmody rise e si accinse a insaponarsi la faccia. «Quando mi hanno rinchiuso al Johns Hopkins, lo scruta-cervelli mi diceva che sono uno psicopatico congenito, incapace di comprendere un codice morale. Non ho né colpe né virtù. E non sono nato con una malattia di mente, capisci, ma mi manca qualcosa, una delle cose che rendono umano un essere umano. Mi diceva che sono uno di quei rari individui di fronte ai quali la scienza dell'Anno del Signore 2256 è impotente. Mi diceva che dovevo restare lì per il resto della mia vita, probabilmente sotto un sedativo debole, per essere innocuo e disposto a collaborare. E sarei stato la cavia di migliaia di esperimenti.» Carmody fece una pausa. Uscì dalla doccia e si asciugò.
«Vedi anche tu» continuò ridendo «che non potevo accettarlo. Non io. E così sono scappato dal Johns Hopkins. Sono scappato dalla Terra. Sono andato al limite della Galassia, a Springboard, il più remoto pianeta della Federazione. Ci sono rimasto un anno e mi sono fatto una fortuna col contrabbando. Lo Sherlock Holmes galattico, Raspold, stava per catturarmi, ma sono riuscito a sfuggirgli e mi sono rifugiato qui, a Dante's Joy, dove la Federazione non ha potere. Ma non conto di fermarmi. Non che mi dispiaccia come pianeta: qui potrei farmi dei soldi, cibo e bevande sono buoni, e le donne sono abbastanza non umane da attrarmi. Ma voglio mostrare ai terrestri che sono un branco di asini: conto di ritornare sulla Terra e di stabilirmi lì al sicuro da ogni pericolo di arresto. E di fare quello che mi pare, anche se è ovvio che cercherò di non dare troppa pubblicità a certe cose.» «Sei matto. Ti arresteranno come muoverai un passo fuori dell'astronave.» Carmody sorrise: «Tu credi? Tu sai, suppongo, che l'ufficio federale di investigazione dipende completamente dal Boojum.» Ralloux fece segno di sì. «Bene. Il Boojum è solo un enorme calcolatore proteico: si affida alle sue memorie e agisce seguendo il calcolo delle probabilità. Nelle sue cellule ha registrato tutte le informazioni su John Carmody e ha dato ordine di cercarlo su tutte le astronavi che giungono da Dante's Joy. Ma cosa succede se arrivano le prove che John Carmody è morto? Il Boojum ritira tutti gli ordini che lo riguardano, cancella le informazioni e le archivia nelle sue memorie meccaniche. Se poi arriva sulla Terra un colono qualsiasi, un colono che si è fatto un gruzzolo qui e vuole spenderlo sul pianeta dei suoi padri, chi vuoi che si curi di lui anche se assomiglia a John Carmody?» «È assurdo! Il Boojum deve avere delle prove concrete che tu sei morto: dove le trova? E poi, appena arrivi sulla Terra ti prendono le impronte digitali, le foto della retina, i tracciati delle onde cerebrali e li riconoscono.» Carmody sorrise felice: «Per le prove concrete lascia fare a me. E per le impronte non me ne curo. Nessuno le andrà a controllare: saranno quelle di un immigrante qualsiasi, nato su una colonia e registrato per la prima volta. Non avrò neppure bisogno di cambiare nome.» «E se qualcuno ti riconosce?» «In un pianeta con dieci miliardi di abitanti? Correrò il rischio.» «C'è sempre il rischio che io vada a dire tutto alla polizia.» «I morti non parlano.»
Ralloux impallidì, ma non batté ciglio. Conservava il suo aspetto grave e gentile, e i grandi occhi neri gli davano un'aria un po' buffa perché stonavano nel contesto del volto, tra il naso rincagnato e lentigginoso, i labbroni e le orecchie a sventola. «Hai intenzione di uccidermi?» chiese. Carmody rise: «Non sarà necessario. Né tu né Skelder supererete la Notte. Hai già visto cosa è successo. Erano preludi, battute d'attacco. Come sarà la Notte vera?» «Anche tu corri lo stesso pericolo.» Carmody fece spallucce. Si passò la mano tra i capelli di porcospino. «A quanto vedo» disse «il mio inconscio ricrea dei pezzi del corpo di Mary. Potresti dirmi che ricostruisce il delitto. Non so quale sia il meccanismo, come si possa prendere un pensiero e trasformarlo in un oggetto reale. Tand dice che vi sono varie teorie che lo spiegano in modo razionale, senza fare ricorso al divino o al soprannaturale. La cosa non mi preoccupa. Non mi ha preoccupato tagliare a pezzetti il corpo di Mary, e non mi preoccuperà incontrarne degli altri pezzi che ritornano nella mia vita. Per raggiungere il mio scopo potrei nuotare nel suo sangue. O in quello di qualsiasi altra persona.» Fece una pausa. Lo guardò socchiudendo gli occhi: «E tu» disse «cos'hai visto in quei momenti?» Ralloux inghiottì. Si fece il segno della croce. «Non dovrei dirtelo, ma voglio essere sincero. Ero all'Inferno.» «All'Inferno?» «E bruciavo. Con gli altri dannati. Con il novantanove per cento di tutti coloro che sono vissuti, che vivono e che vivranno. Miliardi e miliardi.» Il volto del religioso grondava sudore. «E non era immaginazione» aggiunse. «Sentivo l'agonia. Mia e degli altri.» E tacque. Carmody piegò il capo perplesso, come un piccione preoccupato di capire un altro piccione. Poi Ralloux aggiunse ancora: «Il novantanove per cento!» «Quindi» disse Carmody «le cose che più ti preoccupano sono la dannazione e le pene infernali. Esse dominano la tua mente.» «Non me n'ero mai accorto» mormorò il religioso. «Quanto sei assurdo! Da secoli la tua Chiesa ha smesso di minacciare ai peccatori le fiamme infernali; roba da Medioevo. Non so che dirti. Per me, diversa gente merita di finire arrosto. Ne ho incontrati molti: soprattutto certi egoisti...» «Proprio tu non sopporti l'egoismo!» esclamò stupito Ralloux.
Pulito e rivestito, Carmody sogghignò e scese al piano inferiore. Lo sporco, annunciò la signora Kri, era stato tolto di mezzo; lei se ne andava nella cripta per il Sonno. Lasciava la porta aperta, aggiunse, ma sperava di non trovare tutto in disordine al suo risveglio. Si raccomandava di pulirsi i piedi prima di entrare, di vuotare i portacenere e di lavare i piatti. Volle che ciascuno accettasse il suo bacio di saluto e si mise a piangere perché forse non li avrebbe mai più visti tutti insieme. Chiese perdono a Skelder per averlo aggredito. Il religioso non diede peso all'accaduto e le concesse la sua benedizione. Giù in cantina, cinque minuti dopo, la signora Kri si iniettò la sostanza che dava il Sonno e chiuse la grande porta di ferro. Bloccò la serratura. Tand li salutò: «Se non faccio in tempo ad arrivare alla mia cripta, dovrò passare la Notte sveglio. Volente o nolente. Quando è cominciata non si può più tornare indietro: o si arriva alla fine o non si arriva. Passata la Notte si è dèi, o cadaveri, o mostri.» «E cosa ne fate dei mostri?» chiese Carmody. «Nulla, se sono innocui come il marito della signora Kri. Gli altri li uccidiamo.» Scambiò ancora poche parole e strinse loro la mano, all'uso terrestre; non augurò la buona fortuna ma una giusta ricompensa. Per ultimo salutò Carmody, gli tenne la mano a lungo e lo fissò negli occhi. «È la tua ultima occasione. Se la Notte non riesce a spezzare i gelidi abissi della tua anima, se resti un blocco di ghiaccio, per te è finita. Ma se c'è in te la minima scintilla di calore e di umanità, lascia che divampi e che l'incendio ti consumi. Senza pensare al dolore. Il dio Yess disse che per guadagnarsi la vita la si deve perdere. E in queste parole non c'è nulla di nuovo: le hanno già dette altri dèi e altri profeti, dovunque esistono esseri umani. Ma sono vere in infiniti modi. Modi che non si immaginano.» Uscito Tand, i terrestri salirono in silenzio alle loro stanze. Da un grosso baule presero tre elmetti con alla cima una piccola scatola e una lunga antenna. Se li posero sul capo e girarono una manopola accanto all'orecchio. Skelder fece una smorfia di dubbio e disse: «Spero che i tecnici che li hanno progettati abbiano ragione. Dicevano che quando questi strumenti intercettano un'onda elettromagnetica ne inviano un'altra che la cancella. Che potremo superare indenni la tempesta solare.» «Lo spero anch'io» disse Ralloux chinando il capo. «Questa prova ha visto cadere uomini più forti di me, e la mia sicurezza di superarla era il peccato peggiore: la superbia. Che Dio mi perdoni. In tutta umiltà Lo ringra-
zio di questi elmetti.» «Anch'io Lo ringrazio» disse Skelder «ma credo che noi due non dovremmo usarli. Dovremmo riporre tutta la nostra fiducia in Lui. Liberare le nostre teste e i nostri cuori, offrirli alle forze diaboliche di questo pianeta pagano.» Carmody sorrise cinicamente: «Nulla ti trattiene. Fa' pure. Potresti guadagnarti un'aureola.» «Ho ordini dei miei superiori» rispose freddamente Skelder. Ralloux si alzò e si mise a passeggiare nella stanza: «Non riesco a capire» disse. «Le tempeste magnetiche di questo sole turbano l'equilibrio delle nostre cellule cerebrali. Stuzzicano l'inconscio, lo muovono a operare trasformazioni incredibili. Come è possibile? Il sole diventa viola, allunga la sua bacchetta magica e desta la bestia nascosta nelle profondità della mente, oppure sveglia in noi la parte divina. Qualcosa posso anche capirlo: anche il nostro sole ha un piccolo influsso sul clima, sulle precipitazioni, sul comportamento umano, ma questa stella distorce la carne e il sangue, scioglie la rigidezza degli arti e li modella in forme innaturali, estranee al codice genetico.» «Lascia stare i geni» interruppe Carmody «perché non li conosciamo abbastanza. Mi ricordo che quando studiavo medicina ho visto molte cose strane, nel campo delle mostruosità.» E tacque riandando col pensiero a quei giorni. Skelder sedeva impettito e severo. Con l'elmetto in testa sembrava più un soldato che un religioso. «Ormai non manca molto all'inizio della Notte» disse Ralloux continuando a passeggiare inquieto. «Tand diceva che nelle prime venti ore cadranno tutti in un coma profondo. Tutti tranne noi che abbiamo gli elmetti. Durante il coma il corpo si costruisce una parziale resistenza e poi si sveglia. Una volta sveglio è carico di energia, o di qualche potere, e non ha più bisogno di riposare fino al termine della fase violenta. Appena sarà iniziata la Notte, mentre tutti dormiranno, noi...» «... faremo la parte sporca del lavoro!» disse allegramente Carmody. Skelder si indignò: «Protesto! Noi due siamo qui per una indagine scientifica, e ci siamo messi d'accordo con te soltanto perché c'è un certo tipo di prestazioni che...» «... non vogliamo che sporchi le nostre manine di giglio» disse Carmody. Improvvisamente la luce si oscurò. Ebbero un capogiro e persero i sensi
per un attimo, ma un attimo che bastò a indebolire le gambe, a mandarli lunghi e distesi sul pavimento. Barcollando, Carmody si levò carponi, scosse la testa come se l'avesse colpito una mazzata e disse: «Ehi, che botta! Buon per noi che avevamo gli elmetti. Sembra che ce l'abbiamo fatta.» Si alzò in piedi con i muscoli rigidi e doloranti. La stanza era scura e silenziosa. «Che hai, Ralloux?» chiese. Ralloux era pallido come uno spettro e aveva la faccia contorta da una smorfia di dolore. Si alzò di scatto, urlò, si strappò l'elmetto e fuggì. Si udirono i suoi passi attraversare il corridoio, scendere pesantemente gli scalini. La porta sbatté. Carmody si voltò verso l'altro religioso: «Ralloux è... ma che ti prende?» Skelder fissava sbalordito l'orologio sulla parete. Si voltò repentinamente verso Carmody: «Vai via!» ringhiò. Carmody sbatté le palpebre e disse sorridendo: «Certo. Non avere paura; non ti tocco: ti assicuro che non sei il mio tipo.» Lo osservò divertito. Il religioso si muoveva di traverso, lungo il muro, verso la porta. «Perché zoppichi?» gli chiese. Skelder non rispose. Si allontanò camminando come un granchio e dopo un momento si sentì il pesante colpo della porta. Carmody era rimasto solo: rifletté un istante e lanciò uno sguardo all'orologio. Come molti orologi kareenani dava l'ora, il giorno, il mese e l'anno. L'attacco era avvenuto alle diciassette e venticinque. Adesso erano le diciassette e trenta. Erano passati cinque minuti. Più ventiquattro ore. «Ecco perché mi sento tutto anchilosato» esclamò Carmody. «Ecco perché ho fame.» Si tolse l'elmetto e lo lasciò cadere a terra. «Bene. È andata così. Nobile esperimento.» Scese in cucina. Si aspettava che qualche spruzzo di sangue ritornasse a colpirlo, ma non successe nulla. Fischiettando allegramente prese un po' di provviste dalla dispensa e si preparò dei panini. Mangiò di buon appetito, controllò la pistola, si alzò soddisfatto e si diresse all'uscio. Squillò il telefono. Carmody ebbe un attimo di esitazione ma decise di rispondere. «Che diavolo!» mormorò. Sollevò il ricevitore: «Pronto?»
«John!» disse un'amabile voce femminile, e Carmody ritrasse la testa come se avesse visto un serpente. «John!» ripeté la voce, lontana, spettrale. Carmody trasse un lungo respiro, raddrizzò le spalle e rimise il ricevitore all'orecchio, con decisione. «Pronto? Sono John Carmody. Chi parla?» Nessuna risposta. Lentamente riappese il ricevitore al suo gancio. Più tardi, lasciata la casa, l'oscurità lo avvolse. Era un'oscurità rischiarata solo da qualche lampione isolato, a intervalli di trenta metri, e dalla luna sospesa all'orizzonte, enorme, pallida, maligna. Nel cielo non c'erano nuvole, e le stelle sembravano affacciarsi alla sua superficie come bolle affioranti nella foschia violacea. Gli edifici apparivano all'improvviso e si profilavano come iceberg tra la nebbia, minacciando di cadergli addosso. Solo da vicino ritornavano solidi. La città giaceva immobile, avvolta nel silenzio. Non si udivano rumori di cani né strida di uccelli notturni, né colpi di tosse, né suono di passi. La luce era ovattata, il rumore era morto. Carmody aveva visto un'auto parcheggiata accanto al marciapiede ed era in dubbio se prenderla. Da lì al Tempio c'era un lungo tratto a piedi: sette chilometri pieni di insidie. Non le temeva, ma giudicava inutile rischiare. L'auto aveva i suoi vantaggi, ma, d'altra parte, in auto non poteva passare inosservato. Decise di utilizzarla per la prima metà del percorso e di fare il resto a piedi. Aprì la portiera e subito indietreggiò: la mano corse alla pistola. Ma non c'era pericolo: il guidatore era seduto al volante, aveva la testa piegata all'indietro ed era morto. Al posto del viso c'era un mucchio di piaghe secche: il cancro l'aveva consumato, divorandogli anche occhi e naso. Carmody tirò fuori il cadavere e lo lasciò sulla strada. Portò a ebollizione l'acqua della caldaia e avviò lentamente il veicolo, a fari spenti. Durante il percorso osservò con attenzione che non ci fossero estranei per la via, e si tenne accosto al marciapiede per avere un contatto con qualcosa di solido. Continuava a pensare alla voce che aveva udito al telefono e cercava di analizzare il fenomeno. Ormai non aveva più dubbi: la sua mente poteva creare le cose dal nulla. Ma le energie in gioco erano troppo grandi: il suo corpo non poteva fornirle, si sarebbe consumato prima ancora che il processo avesse inizio. L'unica fonte che poteva dare l'energia necessaria era il sole. Il sole era il generatore; la sua mente era l'intermediario, il trasformatore.
Non era consapevole del processo, ma non era un semplice spettatore: era l'architetto, il progettista. Era lui a stabilire i dettagli: la moglie era risorta per merito suo. Probabilmente il processo utilizzava i dati contenuti nei geni di ogni sua cellula: le cellule si erano moltiplicate a distanza, si erano riprodotte direttamente nel nuovo corpo di Mary, e quindi le cellule di Mary erano la copia esatta delle sue. Poteva anche spiegare come si erano creati gli organi tipicamente femminili, quelli che nel suo corpo non esistevano. La sua memoria era bene informata sulle anatomie, ne possedeva dei ricordi minuziosi. Da studente aveva fatto l'autopsia di molti cadaveri e conosceva perfettamente quello di sua moglie: prima di buttarne i pezzi nell'inceneritore l'aveva sezionato con cura, scientificamente. Aveva anche esaminato l'embrione di quattro mesi; la causa prima del suo odio e del suo delitto; l'estraneo che stava trasformandola in un mostro; l'estraneo che avrebbe preteso da lei una parte del suo amore per John Carmody. Anche una parte era troppo. Lui era l'unico possessore dell'affetto di sua moglie. Possedeva l'essere più perfetto e desiderabile: doveva rimanere suo, completamente. Le aveva proposto di sbarazzarsene e Mary gli aveva detto di no. Aveva insistito: lei l'aveva respinto; gli aveva confessato piangendo che non lo amava più come una volta, che il figlio non era suo ma di un altro: di un uomo che era un uomo e non un mostro di egoismo. E a questo punto, per la prima volta nella sua vita, Carmody si era infuriato. Infuriato è poco. Aveva completamente perso il controllo. Aveva, alla lettera, visto rosso, era stato travolto da un'onda rossa. Era stata la prima e l'ultima volta. Ed era a causa di quella volta che adesso si trovava lì. O forse no. La collera l'aveva reso pazzo, ma pensava che l'avrebbe uccisa lo stesso, soltanto perché lo richiedeva la logica. Soltanto perché non sopportava l'idea che la più bella cosa dell'universo si sciupasse, ingrossasse, divenisse mostruosa... Forse. Ma erano divagazioni inutili, fatti che non erano mai accaduti. Le uniche cose da prendere in esame erano quelle realmente successe. Ritornando alla resurrezione di Mary, restavano due problemi: le cellule della donna, che dovevano essere femminili ma che se erano la copia delle sue erano invece maschili. E il cervello: poteva crearle un corpo perché conosceva le strutture genetiche e organiche, ma il cervello non poteva essere quello di Mary. La forma originale, le migliaia di collegamenti micro-
scopici della memoria di sua moglie erano al di fuori di ogni suo potere. Se il corpo di Mary aveva un cervello, il cervello era quello di John Carmody. E se era il suo, conteneva le sue pulsioni e i suoi ricordi, non quelli di sua moglie. Si sarebbe stupito di trovarsi nel corpo di Mary, non avrebbe saputo come comportarsi, cosa pensare. Ma era un altro John Carmody, e avrebbe trovato il modo di approfittare della situazione. L'idea gli piaceva. Doveva cercare la donna; era la compagna perfetta: l'insuperabile bellezza di Mary e la mente di John Carmody, una volontà che sarebbe sempre stata d'accordo con lui. La più alta forma di onanismo. Rise. Mary aveva già usato quel concetto, nell'ultimo terribile istante prima che lui perdesse il controllo. Aveva detto che per lui non era mai stata una donna, una moglie, ma soltanto un complicato strumento per fare all'amore con se stesso. Non aveva mai provato quella gioia che ogni moglie merita di provare. No, si era sempre sentita lontana. Ed era dovuta andare da un altro uomo, e anche allora la sua gioia era stata incrinata perché sapeva di peccare. Anche allora la completezza dell'unione le era stata negata, ma con l'altro uomo si era sentita più moglie e più donna che con suo marito. "Bene" si disse Carmody "è andata così. L'hai già detto: lascia perdere il passato. Pensa alla nuova Mary." (Era contento che i fenomeni associati alla Notte di Luce si presentassero al suo esterno e non al suo interno come capitava agli altri. Forse la sua anima era davvero di pietra, ma in questo c'erano anche dei lati positivi. La sua freddezza, la sua distanza, ponevano l'inconscio al di fuori di lui, e il suo Io poteva combatterlo. Una dopo l'altra, poteva affrontare anche un'intera legione di Mary, mentre invece gli altri, la ragazza epilettica, il marito della signora Kri, il guidatore dell'auto, non avevano avuto possibilità di sfuggire ai loro fantasmi inconsci.) Pensa alla nuova Mary. Se è nata dal mio cervello, al momento della nascita aveva una mente uguale alla mia. Ma da quel punto in poi le nostre strade si sono separate, ha incominciato ad avere pensieri e impulsi suoi. Che cosa faresti, John Carmody, se ti trovassi estromesso dal tuo corpo, alloggiato nella carne di una donna che hai ucciso e se sapessi che l'altro tu è nel tuo corpo originario? «Io» rispose a se stesso «accetterei subito il fatto di trovarmi dove sono e di non poterne uscire. Cercherei di definire i miei limiti e le mie possibilità e mi metterei subito all'opera. Me ne andrei da Dante's Joy, mi recherei sulla Terra o su un altro pianeta, e mi troverei un marito ricco. Potrei fare
tutto ciò che voglio. Sarei la più bella donna del mondo.» Il pensiero lo entusiasmò. Già altre volte aveva immaginato di essere donna, si era chiesto che effetto avrebbe fatto. Una bella donna con il suo cervello avrebbe avuto in mano l'universo, lo avrebbe tenuto stretto in pugno e non se lo sarebbe lasciato scappare. Avrebbe... Strinse le mani sul volante e raddrizzò la schiena: una nuova idea l'aveva colpito come un ferro rovente. «Ma perché non ci ho pensato subito?» disse forte. «Se lei e io potessimo metterci d'accordo... Sarebbe l'alibi perfetto! Non ho mai confessato di averla uccisa e non hanno trovato nessuna traccia. Potrei ritornare sulla Terra e dire: "Signori, eccovi mia moglie. Era scomparsa, ha avuto un incidente, una ferita alla testa e ha perso la memoria. L'ho incontrata su Dante's Joy. Sembra un romanzo d'appendice, ma si sono già visti altri casi. Come, non ci credete? Bene, prendete le sue impronte digitali, fotografatele la retina...".» Se però le cellule della donna erano immagini speculari delle sue, anche i segni caratteristici sarebbero risultati uguali ai suoi. Poteva essere così, ma c'era anche la possibilità che fossero quelli di Mary. Lui ne aveva visto le fotografie e forse il suo inconscio li aveva riprodotti. Ma l'elettroencefalogramma... Se i loro cervelli erano uguali, anche le loro onde cerebrali erano uguali... Be', a volte il tracciato cambiava dopo una ferita al cervello; poteva essere una prova a suo favore. Ma le onde avrebbero indicato che era un maschio, e i funzionari dell'immigrazione l'avrebbero fermata per indagini. Le sole volte che le onde cambiavano il loro tracciato da tipo maschile a femminile, o viceversa, era quando il paziente cambiava sesso. Un esame avrebbe mostrato che era femmina, che i suoi ormoni erano femminili. Ma ne era proprio sicuro? Se le cellule della donna erano immagini speculari delle sue, anche i geni sarebbero stati maschili e anche gli ormoni. E un esame radiografico? Avrebbe rivelato organi femminili, o la nuova Mary era il suo duplicato anche a livello degli organi interni? Per un attimo si sentì perduto, ma riuscì subito a trovare una scappatoia. Ma certo! Era stata su Dante's Joy durante il Rischio! E quindi in lei si erano effettuate delle trasformazioni, non vi pare? Tutte le differenze riscontrabili in laboratorio, le onde cerebrali, gli ormoni, gli organi interni sarebbero stati spiegati dal Rischio. La cosa avrebbe fatto indubbiamente scalpore; avrebbe dovuto stare attenta ai passi falsi. Ma con i nervi di ferro e l'inflessibile volontà di John
Carmody non ci sarebbero stati pericoli. Che coppia, loro due! Ma se era disposta a cooperare, perché aveva interrotto la comunicazione telefonica? Perché non aveva combinato un abboccamento? Corrugò la fronte. C'era una possibilità molto spiacevole: forse non era una copia femminile di John Carmody. Forse era davvero Mary. Per scoprirlo doveva incontrarla. Ma la donna non entrava ancora nel suo piano immediato, il piano che richiedeva l'uso della pistola e che gli avrebbe dato un'emozione irripetibile, unica. A quel punto, nel chiarore di un lampione, gli sembrò di vedere le figure di un uomo e di una donna. La donna era vestita, l'uomo era nudo. Si stringevano tra le braccia e l'uomo la spingeva impetuosamente contro la colonna di ferro. La spingeva? Tutt'altro: la donna era pienamente d'accordo! Carmody rise. Il suono aspro ruppe il silenzio della notte; l'uomo voltò la testa e fissò sorpreso il terrestre. Era Skelder, ma uno Skelder irriconoscibile. I lunghi lineamenti del suo volto si erano allungati ulteriormente; sul cranio gli era spuntata una rada peluria dorata e, adesso che era privo della tonaca, le sue gambe erano una deformità, una mostruosità più animalesca che umana. Sotto il ginocchio, le ossa delle gambe si erano piegate all'indietro e anche i piedi nudi, più lunghi e sottili, ne seguivano la linea. Camminava sulle punte come una ballerina, e le estremità erano coperte da uno strato corneo, lucido come lo zoccolo di un animale. «Lo zoccolo del caprone!» esclamò Carmody, ormai incapace di mascherare il suo divertimento. Skelder lasciò andare la donna e si voltò verso Carmody, così mostrando i connotati caprini e l'aspetto anormale del satiro, repulsivo ma a suo modo affascinante. Carmody alzò il capo per ridere ancora, ma si fermò a bocca aperta, con un suono strangolato. La donna era Mary. La fissò paralizzato e la donna gli sorrise, agitò allegramente la mano, poi prese sottobraccio Skelder ed entrò con lui nell'oscurità, ancheggiando in modo esagerato. In altre circostanze sarebbe stata una scena comica: la donna era incinta di sei mesi e la vita e le natiche erano grosse in proporzione. Nello stesso istante, Carmody avvertì un sentimento che prima non ave-
va mai provato e che non riusciva a controllare. Un passionale trasporto verso l'osceno religioso e insieme un freddo disprezzo di sé. Sentì terribile e invincibile il desiderio di Skelder, ma sentì anche che una sua parte si manteneva distante e rideva beffardamente di se stesso. E al di sotto di tutto, travolgente, c'era un'onda che lentamente si alzava, che minacciava di sommergere tutte le altre emozioni: la bramosia di possedere ancora Mary, e insieme l'orrore di provare ancora quel desiderio e lo strano senso di venire tagliato in pezzi. Contro quella schiera di invasori c'era una sola difesa e Carmody vi fece immediatamente ricorso. Balzò fuori dell'auto, si riparò dietro il cofano, alzò la pistola e fece fuoco attraverso la nebbia. Skelder lanciò una specie di nitrito, si buttò a terra e rotolò su se stesso come un lungo fagotto di stracci, sparendo nell'ombra di un titanico arco rampante, spinto dal vento della disperazione. Mary girò su se stessa. La sua bocca spalancata era una scura "o" sul viso pallido; le sue bianche mani erano degli uccelli che imploravano la grazia. Cadde con un tonfo. E John Carmody barcollò, mentre un colpo dietro l'altro lo colpiva pesantemente al torace e allo stomaco e le esplosioni gli laceravano cuore e visceri. Si sentì cadere, cadere, con il sangue che gli sfuggiva da tutto il corpo, cadere nell'oscurità. Qualcuno aveva improvvisamente aperto il fuoco contro di lui, pensò, e questa era la fine, l'addio, la liberazione, e gli altri avevano riso per ultimi... E poi scoprì che era sveglio, che giaceva sulla schiena e che queste cose le aveva soltanto pensate e che ora stava fissando la macchia rossastra della luna, una macchia simile a un enorme guanto di sfida gettato nel cielo da un enorme cavaliere. Avanti, sir Carmody, grasso ometto dalla sottile armatura! Entra in lizza! «La partita continua» mormorò a se stesso e si alzò in piedi a fatica, tastandosi incredulo il corpo, cercando i grandi fori dei proiettili. Ma non ne trovò: la sua carne era intatta, i vestiti non erano macchiati di sangue. Erano soltanto umidi di sudore. Dunque, pensò, questo è ciò che prova chi muore. È orribile perché ci si sente così inermi, come un bambino stritolato da un adulto, non perché lo odia ma perché nell'ordine delle cose deve uccidere, e per compiere il suo mandato conosce un solo modo: stringere. La sensazione l'aveva sopraffatto, ma adesso riprendeva a pensare chia-
ramente. Questo, ovviamente, era ciò che avevano provato Skelder e la nuova Mary. Erano emozioni troppo pericolose: occorreva evitare ad ogni costo di perdere il controllo delle proprie azioni. Quando Mary era stata colpita, gli aveva trasmesso le sue sensazioni, i colpi dei proiettili che le straziavano le carni, e la scossa era stata così forte che aveva perso conoscenza, aveva creduto di essere morto. Che cosa gli sarebbe successo se avesse continuato a credersi morto? Sarebbe davvero morto, no? Be', e allora? «Non cercare di ingannarti, Carmody» disse. «Sii onesto con te stesso. Ti sei spaventato. Ti sei spaventato... a morte! Hai invocato aiuto. Da chi? Da Mary? Forse. Da mia madre? Si chiama Mary anche lei. Ma il fatto è che io, cioè questa cosa qui» disse toccandosi la testa «non ero responsabile. Era il John Carmody bambino che chiamava, il bambino sepolto in me che chiamava mammina piangendo, che la chiamava senza risposta perché mammina era sempre via al lavoro o fuori con qualche uomo, sempre, sempre lontana e io ero solo e lei non veniva e quando veniva mi diceva che ero un piccolo mostro...» Raggiunse Mary e la girò. Dall'oscurità un grido lo scosse. Si voltò con la pistola pronta ma non vide nessuno. «Skelder?» chiamò. Nessuna risposta, solo un altro grido, inumano. Innanzi a lui, la via proseguiva diritta per un centinaio di metri e poi voltava ad angolo retto. All'angolo c'era un alto edificio, e ognuno dei suoi sei piani si sporgeva su quello sottostante come un cannocchiale piantato nel terreno. Dall'ombra dell'edificio balzò fuori Ralloux con una smorfia di dolore sul volto. Vedendo Carmody rallentò la sua corsa. «Fammi largo, John!» gridò. «Di me non mi importa, ma non voglio che ci sia anche tu. Togliti! Prenderò io il tuo posto. Lo voglio! C'è posto per una persona sola e quella persona voglio essere io.» «Ma cosa dici?» ringhiò Carmody. Senza farsene accorgere continuava a tenere la pistola puntata contro il religioso. Pensava che il suo farneticare nascondesse un'insidia. «L'Inferno! Parlo dell'Inferno. Non vedi la fiamma? Non la senti? Quando ci sono dentro io brucia me, e quando non ci sono brucia un altro. Scostati, John, lascia che prenda le tue pene su di me. Finirà col consumarmi ma, appena la riesco ad afferrare, la fiamma mi sfugge e devo rincorrerla perché va a circondare un'altra anima tormentata e non la lascia se non mi
offro io. E io continuo a offrirmi anche se il dolore è insopportabile.» «Sei matto» disse Carmody. «Sei...» E subito lanciò un grido, lasciò cadere la pistola, prese a battersi gli abiti, si rotolò in terra. Improvviso come era venuto, il dolore se ne andò. Si sedette per terra respirando affannosamente. «Mio Dio!» esclamò. «Mi sembrava di essere nel fuoco!» Ralloux si era messo nel punto occupato da Carmody ed era lì, immobile, a pugni stretti e con gli occhi che si muovevano disperatamente, come se volesse sfuggire al suo tormento invisibile. Si accorse che Carmody si accostava, e fissando su di lui lo sguardo gli disse: «Carmody, nessuno si merita una sofferenza come questa, neppure il più malvagio degli uomini. Neppure tu!» «Mi fa piacere che la pensi così» rispose Carmody. Ma il suo solito tono di derisione era scomparso. Adesso aveva capito che cosa tormentava il religioso. Ma non se ne spiegava ancora il meccanismo. Come Ralloux potesse proiettare nella mente di un'altra persona le sue allucinazioni, trasmetterle con la stessa intensità con cui le provava lui. Forse l'unica spiegazione possibile era che il fenomeno solare faceva emergere delle doti telepatiche; che le persone potevano trasmettersi direttamente il pensiero. Ciò non costituiva una novità: la radio trasmetteva i suoni e la televisione le immagini; in tutti e due i casi c'era un intermediario tra il fatto osservato e l'osservatore, ma il risultato era uguale. E così era efficace anche questa trasmissione di emozioni, qualunque ne fosse il meccanismo. Prima aveva sentito dentro di sé i proiettili che colpivano Mary, e aveva provato il terrore della morte. Che quel terrore fosse il suo o quello di Mary non aveva importanza. Forse la cosa sarebbe ancora continuata nelle prossime notti. Forse ogni persona incontrata per la via gli avrebbe trasmesso le sue sensazioni, senza che potesse opporsi. No: gli restava pur sempre una via. Poteva uccidere gli autori dell'emanazione, i trasmettitori della forza... «Carmody» gridò Ralloux cercando di superare il dolore del fuoco «Carmody, questa fiamma non mi appartiene. Non è la fiamma che segue me: sono io che seguo la fiamma e non le permetterò di sfuggirmi. Io desidero stare all'Inferno! «Ma non devi credere che abbia perso la mia fede, che abbia abbandonato la mia religione e che per questo sia stato condannato alle fiamme. Io credo più di prima alla dottrina della Chiesa! Io non posso fare a meno di
credere! Ma ho scelto la via delle fiamme perché non è giusto che il novantanove per cento delle anime create da Dio siano dannate. E se invece è giusto, voglio essere anch'io tra coloro che soffrono. «Credo fermamente a ogni parola della dottrina, ma mi rifiuto di andare tra i giusti, se lì è il mio posto. No, Carmody, io mi pongo con i dannati e protesto contro l'ingiustizia divina. Se solo una parte deve essere salva, o anche se fosse viceversa e il novantanove virgola nove nove fino al novantanovesimo posto dovessero salvarsi e una sola anima dovesse avere tutto l'Inferno per sé, io rinuncerei ai Cieli e andrei all'Inferno con quell'anima miseranda. Le direi: 'Fratello, non sei solo perché qui con te ci sono anch'io, per l'eternità o finché Dio non si muoverà a compassione'. Ma da me non sentirai nessuna recriminazione, nessuna richiesta di pietà. Resterò lì e brucerò, finché quell'unica anima non sarà liberata dal suo tormento e andrà a raggiungere il novantanove virgola nove nove fino alla novantanovesima cifra. Io...» «È matto da legare» si disse Carmody, ma non ne era poi così sicuro. Il volto di Ralloux era una smorfia di dolore, ma il conflitto era scomparso dai suoi lineamenti. Dal dolore usciva un'armonia interiore: non c'era più lotta nel suo intimo. Carmody non capiva quale forza l'avesse pacificato, proprio adesso che il dissidio era più terribile. Scosse le spalle e si volse verso l'auto. Ralloux gli gridò ancora qualcosa tra la supplica e l'avvertimento, e nell'istante successivo Carmody sentì che il calore lo avvolgeva. La sua carne urlò. Si voltò e fece fuoco in direzione del religioso, senza vederlo perché le fiamme lo abbagliavano. Di colpo, luce e calore sparirono. Carmody batté gli occhi e si sforzò di metterli a fuoco nella foschia. Cercava con lo sguardo il corpo di Ralloux, riteneva che l'allucinazione fosse morta insieme a chi la proiettava. Ma c'era un solo corpo, quello di Mary. Giù per la via, una forma scura voltò l'angolo. Suonò un grido: era Ralloux che inseguiva il suo tormento. «Non starò certo a rincorrerlo» disse Carmody. «Basta che si porti via la sua fiamma.» "Ma è la fiamma" pensò "a portarsi via lui." Adesso che Mary era morta, poteva dare una risposta a un suo interrogativo. Quel lavoro richiese un po' di tempo. Andò all'auto e prese un martello e una specie di scalpello che serviva a sfilare la camera d'aria. Con questi arnesi riuscì ad aprirle la scatola cranica. Li posò a terra, trasse di tasca la lampadina e si mise in ginocchio sopra il corpo. Allargò il soprabito per nascondere la luce e avvicinò il volto. Sapeva già che non si poteva distin-
guere un cervello da un altro, che non avrebbe potuto capire se il cervello era quello di Mary oppure il suo, ma voleva essere certo che la nuova Mary avesse un cervello. Forse possedeva soltanto un grosso intreccio di nervi, una rete che riceveva ordini telepatici da lui. Forse la donna era solo una marionetta, che agiva comandata dal suo inconscio. Accese la luce. Non c'era nulla di simile a un cervello, ma non ebbe tempo di vedere. Scorse una forma arrotolata, due occhietti rossi e brillanti e due zanne bianche e ricurve; poi la cosa scattò a colpirlo e tutto si confuse. Cadde all'indietro e la luce gli sfuggì di mano, rotolò via brillando nella notte. Non se ne curò, non se ne accorse neppure: la guancia aveva cominciato subito a gonfiarsi, e dal punto colpito si irradiava un dolore acuto. Si sentiva le vene invase dal fuoco, come se il sangue fosse diventato argento fuso. Si poteva sfuggire alle fiamme di Ralloux, ma da quel fuoco non c'era scampo. Urlò, balzò in piedi fuori di senno e abbassò il tacco contro il serpente che l'aveva morso sulla guancia, il serpente che cresceva dalla colonna vertebrale di Mary. Per tutto quel tempo era rimasto lì, arrotolato nel cranio, aspettando che John Carmody lo liberasse dal suo nido di osso. E aveva iniettato il suo mortale veleno nella carne dell'uomo che l'aveva creato. Carmody si fermò solamente dopo avere schiacciato quell'orribile animale, dopo averlo ridotto a una macchia da cui sporgevano ancora due zanne ricurve spezzate. I tessuti del suo corpo erano un rogo di legna secca, e il terrore di annullarsi per sempre gli strappava un pianto: la sua gola era troppo piena di paura per emettere ancora un grido... Da quel terrore emergeva un solo pensiero. La sola forma nel caos. La sola cosa rimasta intera tra il fuoco. Si era ucciso con le sue mani. Da un punto indistinguibile, tra la nebbia purpurea e lunare, suonò un gong. Lontano, l'arbitro scandiva i secondi: «... cinque, sei, sette.» Qualcuno dal pubblico (Mary?) gridava: «Alzati, Johnny, alzati! Vinci, Johnny, alzati! Vinci quel bestione! Non farti contare, Joooohnnyyy!» «... otto...» John Carmody mandò un gemito, si rizzò a sedere e cercò invano di alzarsi in piedi. «... nove...» Udì un altro suono del gong. Ma perché doveva alzarsi se il gong era già
suonato? E perché l'arbitro continuava a contare? Che combattimento era, che la ripresa non finiva neppure dopo il suono del gong? O quel suono annunciava l'inizio della nuova ripresa? «Devo alzarmi, devo battermi, devo vincere quel bastardo» mormorò. Si sentiva ancora l'eco del "nove" come se l'avessero lanciato nell'aria; brillava nella nebbia, fosforescente. «Ma chi è l'avversario?» si chiedeva, e si sforzava di alzarsi. Adesso aveva gli occhi aperti e il suo corpo era in posizione d'attacco: il pugno sinistro proteso a sfidare il nemico; il mento dietro, la spalla; il destro in guardia. Quel destro che gli aveva fatto vincere il campionato. Ma non c'era nessun avversario. Nessun arbitro. Nessun pubblico. Nessuna Mary che gli gridava le sue incitazioni. Era solo. Da qualche parte, però, qualcosa stava suonando. «Il telefono» mormorò, e si guardò intorno. Il suono veniva dalla cabina a mezzo isolato di distanza. Vi si diresse automaticamente; aveva un tremendo mal di testa e gli facevano male i muscoli. Gli pareva di sentire le budella torcersi come un groviglio di serpi che si destano al calore del sole del mattino. Alzò il ricevitore e rispose: «Pronto?» Intanto si chiedeva perché mai fosse andato a rispondere; la chiamata non poteva certo essere per lui. «John?» chiese là voce di Mary. Il ricevitore gli sfuggì di mano e il telefono scoppiò in frantumi sotto gli spari di Carmody. Pezzi di plastica lo colpirono sul viso, dalle guance gli sgorgò il sangue. Sangue vero. Il suo. Dolorante, scappò via di corsa, senza badare a dove metteva i piedi. Ricaricò correndo la pistola e si ripeté: «Stupido che non sei altro, hai rischiato di accecarti, hai rischiato di ucciderti. Perdere la testa così!» Si fermò all'improvviso, rimise la pistola nella tasca, prese un fazzoletto e si pulì il sangue dalla faccia. Aveva molte ferite, ma erano solo graffiature. E la faccia non era più gonfia. Solo allora comprese il significato della voce. «Madre di Dio!» gemette. Ma anche in questa sua angoscia, una parte di lui riusciva a conservarsi distante e lo osservava freddamente. Commentava che fin da bambino non aveva più bestemmiato, ma che adesso, su Dante's Joy, continuava a farlo. Aveva smesso di bestemmiare perché lo facevano tutti, e lui non voleva fa-
re le cose che facevano tutti, e perché bestemmiando si mostra di credere a chi si bestemmia, e lui certo non era un credente. Il freddo osservatore gli parlò: «Su, John, ritorna padrone di te. Ti sei lasciato impressionare, ma noi non ci lasciamo mai impressionare da nulla, vero?» Cercò di ridere, ma non ne fu capace. «Eppure l'ho uccisa» mormorò a se stesso. «Due volte» si rispose. Si raddrizzò, rimise la mano in tasca e afferrò l'impugnatura della pistola. «Va bene, va bene. Ritorna in vita ogni volta, e il responsabile sono io. E allora? Continuerò a ucciderla ogni volta che risorge, e finita la Notte sarà finita anche lei, e me ne sarò liberato per sempre. E così farò, anche se dovessi riempire la città dei suoi cadaveri. Certo che poi ci sarà una puzza terribile» e qui cercò di fare una debole risata «ma questo è un problema della nettezza urbana.» Ritornò all'auto, ma prima decise di andare a vedere il vecchio corpo di Mary. Sul selciato c'erano larghe macchie di sangue nero, e impronte che scomparivano nella notte, ma il corpo della donna era introvabile. «Be', perché no?» mormorò a se stesso. «Se la tua mente può creare un corpo dal nulla, a maggior ragione può riparare un corpo ferito, risanare un corpo morto. È il principio di minor resistenza, l'economia della natura, il rasoio di Occam, la legge di minimo sforzo. Non c'è nulla di miracoloso. E avviene tutto al tuo esterno. Il tuo interno è al sicuro, non ha subito nessuna trasformazione.» Rientrò nell'auto e avviò il motore. La notte si era fatta un poco più chiara: poteva viaggiare ad andatura più sostenuta. Anche la sua mente era uscita dal torpore prodotto dalle precedenti peripezie, e ora riprendeva a pensare con la lucidità e la velocità di sempre. «Dico "Sorgi da morte" e risorge» mormorò. «Come Cristo e la figlia di Giairo. Sorgi ragazza: Talitha koumi. Sono un dio? Sarei un dio se potessi farlo su un altro pianeta, ma qui» aggiunse ridacchiando con un po' del vecchio vigore «qui sono un barbone, uno del mucchio, e infesto la notte come gli altri mostri.» Davanti a lui, per due chilometri, la strada proseguiva dritta come un raggio laser. Di giorno si sarebbe potuto scorgere il tempio di Boonta, ma ora, nonostante l'enorme globo della luna, la grande massa del Tempio appariva solamente come una macchia più scura tra la nebbia. La macchia
dava però l'impressione di essere di pietra e non d'ombra, di essere la sostanza e non il fantasma... ed era un'impressione sinistra. Al di sopra del Tempio splendeva la luna col suo colore rossiccio. Era immensa, e sembrava che stesse per cadere. Quando la fissava, pareva gonfiarsi; quando smetteva di fissarla ritornava alla sua dimensione normale. Carmody distolse lo sguardo da quel globo indistinto: non era il momento di perdersi nella sua enormità, di sentirsi piccolo e inerme, oppresso dalla sua mole. Nella minacciosa oscurità della Notte era indispensabile vigilare. Ogni cosa era pronta a ingoiarlo; era un piccolo topolino in mezzo a gatti enormi, e la sua posizione non gli piaceva. Scosse la testa come per risvegliarsi: si era quasi addormentato, pensò. Nei brevi istanti in cui aveva fissato la luna era stato inconsapevole del trascorrere del tempo. La luna era una spugna che succhiava tutta la sua attenzione. Ormai il tempio di Boonta distava solo un chilometro, non si ricordava di avere percorso l'ultimo chilometro e mezzo. «Fermati, John» mormorò. «Le cose vanno troppo in fretta!» Diresse l'auto verso un posto riparato, dietro un monumento all'incrocio di due vie. L'ampio piedistallo l'avrebbe nascosta agli occhi di chiunque stava davanti al Tempio o guardava dalle sue finestre. Uscì dalla macchina e diede un'occhiata in giro. Nei veli purpurei della nebbia, il suo sguardo non poteva giungere molto lontano, ma entro quel limite non si vedeva anima viva. Qui e là c'erano sul selciato dei corpi, e altri erano sparsi sulla salita che portava al vasto porticato del Tempio. Ma nessuno sembrava pericoloso, a meno che qualcuno non facesse il morto e sperasse nella disattenzione dei passanti per divenire l'uccisore anziché l'ucciso. Si avvicinò con cautela. Prima di passare accanto a un corpo si fermava a osservarlo, ma nessuno dava segni di vita e molti non potevano essere ancora vivi. Erano sbranati, mutilati, sfigurati da cancri e ferite spaventose. Superò i corpi e salì la rampa. Le scure colonne del porticato si alzavano altissime, e i capitelli si confondevano tra le volute della nebbia. Le basi delle colonne erano scolpite in forma di immense gambe, alcune maschili, altre femminili. Al di là delle immense gambe c'erano solo ombra e silenzio. Dov'erano finiti i sacerdoti e le sacerdotesse, dov'erano il coro, i portatori, le donne urlanti e insanguinate che agitavano i coltelli con cui si erano colpite? Queste cose erano successe, ma quanto tempo era passato da allora? Quando aveva assistito ai riti era stato una persona tra le altre migliaia, in
mezzo a un rumore assordante. Ora tutto era silenzio. Il dio Yess viveva davvero nel Tempio come affermavano i kareenani? E adesso era lì ad aspettare la fine di un'altra Notte di Luce? La tradizione diceva che per tutta la Notte Yess non poteva mai essere sicuro che la Madre non gli avesse tolto la Sua grazia. Se avesse favorito il suo gemello, Algul lo avrebbe ucciso. Oppure, più presumibilmente, l'avrebbe ucciso un adepto di Algul. A volte, diceva il mito, un seguace di Algul riusciva a essere così forte, così grande nel male, da poter uccidere il dio. E allora, finita la Notte e risvegliatisi i dormienti, un nuovo dio avrebbe regnato. E i fedeli di Algul l'avrebbero avuta vinta. Fino alla Notte seguente. John Carmody sentiva il cuore battere ancora più forte. Non c'era azione più grande che uccidere un dio. Deicida! Nessuno dei miliardi di uomini poteva vantarsi di una cosa simile. La sua fama era già grande in tutta la Galassia, ma sarebbe diventata irraggiungibile! Al confronto, il suo furto del diamante Staronif sarebbe stato una cosa da nulla! Finora, si disse, aveva sempre compiuto azioni senza importanza. Strinse la canna della pistola e passò tra le caviglie di una donna di pietra. La nebbia si addensava, diventava nera, e Carmody camminava lentamente, un passo dietro l'altro. Innanzi a sé non vedeva nulla. Una volta si girò a guardare indietro: tra le gambe della statua c'era luce, cioè buio meno fitto. Ancora più indietro l'oscurità non aumentava, ma la luce ondeggiava come una tenda mossa dal vento. Ritornò ad affrontare l'oscurità dietro la facciata del Tempio. Non conosceva il significato di quella luce ondeggiante, ma sembrava qualcosa di minaccioso: una minaccia superiore a tutti i pericoli che aveva incontrato in questa lunga Notte. Oppure era un fenomeno proiettato da qualche entità che voleva forzarlo a entrare nel Tempio? Si fermò. L'idea che la sua presenza era conosciuta, che era atteso da un'entità ansiosa di afferrarlo non gli piaceva assolutamente. Mormorò: «Non ti sarà mica venuta paura dei fantasmi, John? Non sei mai stato così nervoso; perché devi esserlo proprio adesso? Anche se è il dio del pianeta, non devi lasciarti impressionare. Non te lo puoi permettere. E poi, che ti vada bene o che ti vada male, che differenza fa? O ce la fai, o non ce la fai. «Comunque, mi piacerebbe farcela. Dargli il fatto suo a tutti quegli altri bastardi.» Non sapeva bene che cosa volesse dire con quella frase, ma non si sof-
fermò a pensarci. Non c'era nessun male a voler sempre superare gli altri. O forse c'era? Se anche era un difetto, non gliene importava nulla. Allontanò quel pensiero dalla mente. Doveva pensare soltanto alle cose immediate. Spacciarlo... spicciarsi. Tutte e due le cose. A un tratto, senza altre indicazioni, seppe di avere superato il porticato e di trovarsi all'interno del Tempio. Né la luce né il suono erano cambiati, ma sapeva di essere dentro. Senza vederlo, visualizzava il pavimento di pietra levigata che si stendeva per mezzo chilometro, dall'entrata alla parete. Anche i lati della stanza erano lucidi come vetro, ma non erano dritti: si curvavano leggermente verso l'interno a formare una sfera. L'esterno del Tempio era ricoperto di immagini, ma i muri interni erano spogli. Lentamente, proseguì. Teneva le ginocchia leggermente piegate, pronte a scattare al più piccolo suono o al contatto più debole. La spessa oscurità lo avvolgeva, gli entrava nelle orecchie, negli occhi, nelle nari e rendeva ancora più nero il buio dentro di lui. Quando si voltò per controllare la sua direzione, non riuscì più a distinguere la sagoma delle arcate. Era un granello di polvere in un raggio di oscurità. Ma, a differenza del granello, non era spinto da niente di esterno a lui. Aveva la sua volontà. Era lui a guidarsi, e aveva uno scopo da raggiungere. Ma per arrivarci gli occorreva un mucchio di tempo. Era molto lungo percorrere mezzo chilometro un passo dietro l'altro, con frequenti pause per ascoltare. Infine, quando già pensava di essersi mosso in tondo, il suo piede incontrò qualcosa di solido. Si inginocchiò e tastò con la mano: era il primo gradino. Alzò il piede, salì e andò avanti. Il secondo gradino fermò il suo piede. Salì e proseguì finché arrivò al trono. «Vediamo» mormorò. «La sedia è rivolta da questa parte, verso l'entrata. Se vado avanti in linea retta, partendo da dietro lo schienale della sedia, arrivo alla piccola entrata sul muro. E dopo il muro...» Dopo il muro, gli avevano detto, c'era l'Arga Uboonota, il Sancta Sanctorum. Per entrare si spingeva il muro; così si apriva una porta di pietra che dava nell'interno. Si diceva che quella porta desse in una camera in cui erano ammessi solo i grandi sacerdoti, i grandi uomini di stato e, ovviamente, gli arrshkiim, una parola kareenana che si poteva tradurre con "coloro che sono passati": coloro che avevano superato la Notte di Luce. In quella stanza venivano celebrati i più alti misteri. E in quella stanza, a prestar fede ai kareenani, nascevano gli dèi Yess e Algul. In quella stanza la grande dea Boonta manifestava la sua presenza. E qui entrava in mistica unione con i Sette Buoni o con i Sette Malvagi per generare i suoi figli.
La porta, secondo le sue informazioni, non veniva mai chiusa a chiave. Nessun kareenano avrebbe mai osato aprirla se non se ne riteneva degno, né avrebbe osato guardare dentro se l'avesse trovata casualmente aperta. E gli eletti vi entravano a loro estremo pericolo. C'era un proverbio kareenano che diceva: "Boonta non guarda chi divora, e ha sempre fame". Erano parole che non venivano mai spiegate, forse perché chi le pronunciava ripeteva solamente una frase fatta, non ne aveva mai preso in considerazione le implicazioni. Ma pronunciandole faceva sempre quel segno circolare, come per proteggersi. John Carmody aveva sempre pensato che la religione kareenana fosse fondata sulla frode e che usasse la superstizione per diffondersi, come facevano tutte le religioni. Ma adesso incominciava a pensare che il boontismo contenesse anche qualche elemento di verità. Aveva visto accadere troppi fenomeni che su un altro pianeta sarebbero stati impossibili. La sua mano destra, quella libera, toccò il muro. Al tatto la pietra era calda, troppo calda come se dall'altra parte ci fosse un fuoco. Spinse, e il muro cedette; la porta girò sui suoi cardini. Non filtrava nessuna luce: l'interno era scuro come l'esterno. Per un lunghissimo istante stette fermo sulla soglia appoggiando la mano alla porta, senza andare né avanti né indietro. Forse, se entrava e lasciava che la porta si chiudesse alle sue spalle, sarebbe rimasto intrappolato. «Ma che diavolo!» mormorò. «O tutto o niente.» Spinse con forza, e la porta si mosse senza rumore. Aveva tenuto, o cercato di tenere la mano contro di essa, ma non si accorse che si chiudeva. Adesso era chiusa, e lui non conosceva il modo di aprirla. Ci provò, ma la porta non si mosse. Era tentato di accendere la lampada. Se c'era qualcuno che voleva tendergli un agguato, avrebbe potuto sorprenderlo, sparare il primo colpo. Ma se invece nessuno si era ancora accorto della sua presenza, sarebbe stato stupido tradirsi. No, avrebbe continuato a muoversi nell'oscurità. L'oscurità era sempre stata la sua alleata: il gatto era lui, i topi erano gli altri. Mosse lentamente un passo e poi continuò ad andare avanti. Ogni tre passi si fermava ad ascoltare. Il silenzio pulsava, poteva sentire il sangue che batteva nelle sue orecchie e anche il battito del suo cuore. O era il cuore di un'altra persona? Sentiva un tum tum simile al suono smorzato di un tamburo lontano, ma nei colpi c'era qualcosa di vicino, di abbastanza vicino da poter essere l'eco di un cuore vicino al suo.
Si voltò lentamente, cercando di scoprire l'origine del suono. O che fosse il fantasma di un suono? Oppure un motore che girava in folle, uno stantuffo leggermente sfasato rispetto al suo cuore? "Forse" pensò "questa camera ha un'eco che scopre, amplifica e riflette il rumore del mio cuore." No, era un'assurdità. E allora, per dio, che cos'era? L'aria scivolava su di lui, raffreddando il sudore del suo volto. La temperatura della stanza non era né troppo alta né troppo bassa. Ma Carmody sudava per il calore e tremava per il freddo E sentiva un odore sconosciuto: era l'odore della pietra antica, lo sapeva anche senza averlo mai sentito prima. Imprecò tra sé e si impose di non tremare. Smise, ma adesso era l'aria stessa che tremava intorno a lui. Forse ciò costituiva l'equivalente psichico di quei fenomeni fisici che aveva già provato prima. Quei momenti in cui l'aria si era fatta più densa, era diventata gelatina vetrosa. Forse nell'oscurità intorno a lui si stava formando un'altra Mary. Aggrottò la fronte e fece una smorfia rabbiosa. "La ucciderò" pensava. "La ucciderò! E non resterà più nulla di lei, solo dei brandelli sanguinolenti. La distruggerò così completamente che non potrà più ritornare." Senza più preoccuparsi di rivelare la sua presenza, trasse di tasca la lampada. Il raggio attraversò un vasto spazio e la sua luce cadde sul muro di fronte a lui. Pietra con rosse venature che tracciavano lente volute su un fondo bianchiccio. Fece correre il raggio per l'immensa stanza, e lo fermò su una statua di pietra che si innalzava fino al soffitto. Era alta sessanta metri e raffigurava una donna titanica, nuda e con numerose mammelle rigonfie. Con una mano si estraeva dal ventre un bambino e con l'altra ne teneva stretto un secondo, che gemeva dal terrore perché la bocca della donna era spalancata e stava per mordergli la testa con le sue zanne. Sul suo corpo erano sparsi altri bambini. Alcuni succhiavano dalle mammelle, altri ne scivolavano giù, ed erano stati scolpiti nell'atto di cadere da quelle mammelle grandi come montagne. Il volto della dea Boonta era un esempio di sdoppiamento della personalità. Un occhio, fisso sul bambino che stava divorando, era crudele e selvaggio. L'altro occhio era calmo e materno, ed era puntato su un bambino
che succhiava placidamente dalla mammella più vicina. Una metà del volto era amorevole, l'altra metà era minacciosa. «D'accordo» mormorò John Carmody. «Ho capito: questa è dunque la dea Boonta. L'idolo puzzone di un mucchio di barbari puzzoni.» Abbassò il raggio di luce. Aggrappati alle gambe della statua c'erano due bambini di pietra, entrambi sui cinque anni d'età, se le proporzioni erano giuste. Yess e Algul, si disse. Tutt'e due la guardavano dal basso con un'espressione di timore e di speranza. «Ne avrete un mucchio di amore materno» disse. «Come me ne ha dato mia madre. Quella troia!» Continuò a illuminare la stanza con il raggio della lampadina. Se non altro, pensava, sua madre non si era materializzata. Male. Gli sarebbe piaciuto far saltare le budella anche a lei come a Mary. Fermò la luce su un altare coperto da un drappo di velluto rosso. In mezzo all'altare c'era un pesante candelabro d'oro. Ma la candela mancava. «La sto mangiando io» disse una voce in kareenano. Carmody si voltò di scatto, e fu tentato di premere il grilletto. La sua lampada illuminò un uomo seduto su una sedia. Era robusto e ben costruito. Il suo volto, secondo il metro kareenano e anche secondo quello umano, era bello. Ma era vecchio. I capelli piumati erano bianchi, e lo erano anche i peli del pube. Sul collo e sul volto aveva rughe profonde. Il kareenano diede un altro morso alla candela. Le sue mascelle si muovevano vigorosamente, e i suoi occhi blu rimanevano fissi su Carmody. Il terrestre si fermò a pochi passi da lui. Disse: «Il grande dio Yess, suppongo?» «Conosco l'originale della frase» disse il kareenano. «Tu sei dotato di molta freddezza. Per la tua domanda, sì: io sono Yess. Ma non lo rimarrò ancora per molto.» Carmody ritenne che il kareenano non rappresentasse un pericolo. Continuò a esaminare la stanza alla luce della lampada. Da un lato c'era un'arcata con degli scalini che salivano. Sopra, a quaranta metri d'altezza, c'era un balcone con una fila di seggiole. Sulla parete opposta c'erano un'altra arcata e un altro balcone. E nient'altro: la stanza conteneva soltanto la gigantesca statua di Boonta, l'altare e il candelabro, la sedia e l'uomo - o il dio? - seduto sopra. Era davvero Yess, oppure era una trappola?
«Sono davvero Yess» disse il kareenano. Carmody si stupì: «Riesci a leggermi nella mente?» «Non allarmarti: non ti posso leggere nella mente. Ma riesco ad avvertire le tue intenzioni.» Yess inghiottì il boccone che aveva masticato e disse con un sospiro: «Il Sonno del mio popolo è inquieto. Il mio popolo ha degli incubi. Dal fondo della loro anima escono dei mostri, ed è per questo che ti trovi qui. Che cos'altro accadrà in questa Notte? Il trionfo di Algul? Il suo lungo esilio lo ha reso impaziente.» Si fece il segno del cerchio: «Se così vuole la Madre.» «La curiosità sarà la mia morte» disse Carmody. Rise, ma soffocò subito la risata sentendo che le pareti la riflettevano. «Che cosa intendi dire?» gli chiese Yess. «Non molto» gli rispose Carmody. Pensava che doveva uccidere quell'uomo (dio) finché ne aveva la possibilità. Sarebbe stato poco igienico per lui se fossero arrivati i suoi accoliti. Ma ucciderlo poteva essere pericoloso se era solo un paravento, un'esca. Era meglio aspettare di esserne sicuro. E poi, poteva essere la sua unica occasione di parlare a un dio. «Che cosa vuoi?» chiese Yess. Prese un piccolo boccone dalla candela e incominciò a masticarlo. «Puoi darmelo?» chiese Carmody. «Non che il tuo consenso abbia importanza: sono abituato a prendere le cose che voglio. La carità non è uno dei miei vizi, né nel dare né nel ricevere.» «Allora è uno dei pochi vizi che non hai» disse Yess. Guardò il terrestre e gli sorrise: «Che cosa vuoi?» «È come la favola dell'orco» rispose Carmody. «Io voglio te.» Yess lo fissò senza mostrare sorpresa: «No, in realtà non è così. Tu sei un seguace di Algul; su questo non ci sono dubbi. È una cosa che ti brilla da ogni poro della pelle, che si irradia con ogni battito del tuo cuore. C'è il male nel tuo respiro.» Yess sollevò la testa. Poi chiuse gli occhi. «Tuttavia... c'è qualcosa d'altro» disse. Aprì gli occhi: «Tu, povero essere! Sciagurato insetto concepito nel dolore! Tu muori nello stesso istante in cui ti vanti di vivere come non osa vivere nessun altro. Tu...» «Taci!» gridò Carmody. Poi sorrise e abbassò la voce: «Mi hai punto nel vivo, vero? Ma sei riuscito a ferirmi solo perché ho passato quello che ho passato, in questa Notte infernale. Una notte che avrebbe fatto impazzire
molti.» Puntò la pistola contro Yess: «Non riuscirai più a farmi andare in bestia. Ma puoi essere fiero di te: hai fatto una cosa che è riuscita a pochi, e quei pochi che se ne potevano vantare sono morti.» Indicò la candela con la pistola. «Ma perché mangi quella robaccia? Un topo in chiesa muore di fame, ma non credevo che anche i grandi dèi del Tempio fossero ridotti a questo punto.» «Non hai mai mangiato del cibo così prezioso» gli rispose Yess. «Questa è la più costosa candela del mondo. È fatta con le ossa del mio predecessore, ridotte a farina e mescolate alla cera del divino uccello trogur. Come tu saprai, il trogur è consacrato a mia madre; su questo pianeta e in tutto l'universo ce ne sono solo ventuno esemplari, e sono custoditi dalle sacerdotesse del tempio di Vantrebo. «Ogni sette anni, poco prima che inizi la Notte, alla cera di trogur viene mescolato un pizzico di polvere delle ossa dello Yess che è morto 763 anni fa. La candela di ossa e cera viene messa su questa tavola e viene accesa. Io mi siedo qui e attendo, mentre i miliardi di Dormienti si agitano inquieti nel loro Sonno. Mentre i mostri urlano e uccidono nelle strade di Kareen. «Quando la candela si è un po' consumata, io la spengo e la mangio secondo un rito che risale a epoche immemorabili. Così facendo entro in comunione con il dio morto e partecipo della sua divinità. La sua divinità dà nuova forza alla mia. «Ma anch'io morirò, forse questa stessa Notte. E la mia carne sarà separata dalle mie ossa, le mie ossa saranno macinate e la loro farina sarà mescolata alla cera di trogur e ne sarà fatta una candela. E ogni sette anni una parte di me brucerà come un'offerta al mio popolo e a mia Madre. Il fumo della candela si alzerà e si diffonderà nell'aria della Notte. E io sarò bruciato e mangiato dal dio che mi seguirà. Se sarà uno Yess. «Perché un Algul non mangia uno Yess. Il male cerca il male e il bene il bene.» Carmody sorrise e gli disse: «Ma tu davvero credi a tutte queste fandonie?» «Io so.» «Sono riti magici, da primitivi» disse Carmody. «E tu, che sei un cosiddetto essere civile, inganni deliberatamente i tuoi discepoli: quei poveri stupidi accecati dalla superstizione.» «Non è vero. Se io fossi sulla Terra, allora la tua accusa sarebbe giustifi-
cata. Ma dovresti già esserti accorto che su Dante's Joy tutto è possibile: dovresti saperlo perché sei riuscito ad attraversare la Notte, e ciò costituisce un cattivo presagio per me.» «Sono sicuro che sono tutte cose che si potrebbero spiegare con le leggi della fisica, ma non è problema che mi riguardi. Ti dico però una cosa: tu stai per morire.» «Stiamo tutti per morire» disse Yess sorridendo. «Voglio dire adesso!» ringhiò Carmody. «Ho 763 anni. Sono stanco, e un dio stanco non va bene per il mio popolo. E la Madre non desidera un figlio stanco. Io devo morire, anche se il trionfatore di questa Notte sarà ancora Yess. Sono pronto. Se non sarai tu lo strumento della mia morte, allora lo sarà un'altra persona.» Carmody, urlò: «Io non faccio da strumento a nessuno! Io faccio solo quello che pare a me, sono il solo a comandare alle mie azioni. Sono solo io, mi senti?» Yess sorrise di nuovo: «Ti sento. Tu cerchi di arrivare allo stato di eccitazione che ti permetterà di uccidermi.» Carmody fece fuoco. Sotto l'impatto dei proiettili Yess e la sua sedia furono sospinti violentemente all'indietro. Il corpo di Yess si ricoprì di sangue. La testa si piegò di lato. Le braccia si alzarono e si allargarono, le gambe si tesero di scatto. Cadde all'indietro e toccò terra con un tonfo. Carmody smise di sparare solo quando il caricatore fu vuoto. Poi si chinò e posò in terra la lampada. Ricaricò l'arma. Il suo cuore batteva furiosamente. Le sue mani tremavano per l'emozione. Questa era la vetta della sua carriera, il suo capolavoro. Spesso pensava di essere un artista, un grande artista del crimine, forse il più grande di tutti. A volte rideva di questa sua idea, ma era un'idea che gli tornava sempre alla mente e forse ci credeva davvero. Forse era un'idea giusta; forse anche il crimine richiedeva arte. Se era così, allora il sommo artista di tutti i tempi era lui. Solo lui aveva assassinato un dio! L'essere così in alto lo rendeva un po' triste. Che cosa poteva ancora fare per superare se stesso? Be', qualcosa sarebbe venuto fuori. L'universo era grande e gli teneva in serbo prove ancora più superbe. Quel che doveva fare subito era una cosa sola: uscire da quella situazione. Le altre prove ancora più allettanti le avrebbe cercate dopo. In fondo, il suo successo non sarebbe stato completo se non fosse riusci-
to a uscirne fuori vivo e libero. Le vere opere d'arte devono essere rifinite fino all'ultimo, al minimo dettaglio. Ma non l'avrebbero preso. Non si sentiva così falena da finire nelle fiamme per fare un bel gesto. Trasse di tasca un piccolo spray e ne spruzzò il contenuto su tutto il corpo di Yess. Quando lo ebbe coperto con un sottile velo di liquido, fece un passo indietro e alzò la falda del soprabito per coprirsi il volto. Da un altro recipiente spruzzò un secondo liquido: Yess scoppiò in fiamme. Carmody sorrise. I kareenani non avrebbero più fatto nessuna candela con le ossa del loro dio. L'ultranapalm non finiva la sua azione finché non rimaneva altro che cenere. Restava ancora il pezzo di candela, caduto dalla mano di Yess quando era stato colpito. Carmody si fermò e lo raccolse. Il suo primo pensiero fu di bruciare anche quello, ma si fermò, sorrise e prese a masticarlo. Aveva un gusto leggermente amaro, ma si lasciava mangiare. Lo divertiva il pensiero che cibarsi della candela era un gesto unico, mentre l'assassinio aveva solo importanza per gli storici. Altri Yess erano stati uccisi, anche se lui era il primo terrestre a farlo. Ma non era mai successo che qualcuno si mangiasse la divina candela: solo il divino figlio di Boonta. Mangiando, cercava un'uscita tra le volute del fumo, alla luce del corpo che bruciava. Dietro le gambe di Boonta vide un'apertura nel muro. Prima, quando aveva esaminato le pareti con la lampada, non l'aveva vista. Vi si diresse e si accorse che era molto stretta, che era alta come la sua testa, e che per passarci doveva mettersi di profilo. Ecco la punizione per le sue concessioni alla buona cucina. Era diventato troppo grasso; si sentiva come un turacciolo dentro il collo di una bottiglia. Bestemmiando per lo sforzo di entrare, si chiedeva come facessero gli altri a servirsi di quell'uscita. La maggior parte della gente non poteva assolutamente passare: ma che razza di porta era? Non era una porta, era una trappola! Si tolse subito di lì e fece alcuni passi indietro. Osservò il passaggio e vide che l'architrave si stava lentamente chiudendo: quella parte della parete era fatta di plastosilicato. Ma anche se lo sapeva non gliene veniva beneficio: non aveva nessuno strumento per aprirsi la via. Sentì delle voci dietro di sé. Uomini e donne che gridavano. Si voltò e vide che adesso la porta era spalancata: la porta da cui era entrato e che si era chiusa dietro di lui. Alcuni kareenani erano già entrati nella stanza, e altri ne stavano arrivando. Quelli che erano entrati per primi indicavano
con orrore il cadavere in fiamme. John Carmody lanciò un grido e si buttò contro di loro attraverso il fumo. Abbattuti alcuni che cercavano di fermarlo, gli altri si dispersero e Carmody si allontanò di corsa dalla stanza. Tossiva e gli occhi gli bruciavano, ma continuò a correre fino a uscire dalla porta principale. Poi rallentò la sua andatura e, a un quarto di chilometro dal Tempio, si fermò. C'era qualcosa per terra, davanti a lui. Sembrava un uomo ma era duro e rigido. La cosa lo incuriosì; osservò meglio. Era la statua formato naturale di Ban Dremon, rimossa dal suo piedistallo. Osservò il monumento. Il posto della statua doveva essere vuoto, ma invece c'era un secondo Ban Dremon. Si afferrò all'orlo della base marmorea e si tirò su. L'istante successivo era faccia a faccia con la statua. Non era una statua. Era un uomo, un kareenano. Aveva la stessa posizione della statua: la mano destra era tesa in un saluto, la mano sinistra teneva un bastone, la bocca era aperta in un comando. Carmody toccò la pelle del volto: era molto più scura di quella di un kareenano, ma non era ancora scura come il bronzo. Era dura, liscia e fredda come il metallo. Gli occhi avevano perso il loro colore chiaro. Provando a schiacciarli con il pollice opponevano resistenza. Ma quando infilò un dito nella bocca aperta sentì che la radice della lingua cedeva leggermente; sotto la superficie metallica la carne era ancora morbida. Ma la bocca era asciutta. Carmody si domandava come fosse avvenuta la metamorfosi. Quell'uomo aveva trasformato in bronzo il suo protoplasma, ma le cellule viventi non contengono né il rame né lo stagno necessari, e non hanno i mezzi per unirli in una lega. Il meccanismo della metamorfosi gli era sconosciuto: tutto ciò che poteva dire era che il sole forniva l'energia e la mente le dava la forma. Durante le notti del Rischio la psiche aveva via libera, riusciva a utilizzare ignote forze naturali. Quindi ogni uomo era potenzialmente un dio o, se non proprio un dio, un titano. Ma un titano di serie B, un titano cieco, un ciclope con la vista annebbiata. E perché questi poteri, questi grandi poteri di piegare l'universo alla propria volontà, si potevano avere solo durante la Notte? Se avesse potuto averli sempre a sua disposizione, l'uomo sarebbe stato capace di tutto. Avrebbe potuto muoversi tra i pianeti senza astronavi, fare un passo
dalla via del tempio di Dante's Joy a Manhattan sulla Terra, a diecimila anni-luce di distanza. Avrebbe potuto compiere qualsiasi impresa, scagliare i pianeti nello spazio come i bambini scagliano le pietre. Spazio e tempo e materia non sarebbero più stati un confine: sarebbero stati le porte di passaggio. Un uomo avrebbe potuto assumere qualsiasi forma. Diventare un albero come il marito della signora Kri. Oppure una statua di bronzo come quest'uomo sul piedistallo; scavare nelle profondità della terra con invisibili mani, estrarne metalli e depositarli nelle sue cellule. Ma la trasformazione in statua aveva uno svantaggio: una volta terminata la metamorfosi, l'uomo moriva. Era stato capace di evocare il miracolo, ma non poteva compiere il miracolo di continuare a vivere nel metallo. Questa mezza statua sarebbe morta, come sarebbe morto Skelder che si era fatto crescere uno smisurato membro per appagare la propria lussuria. La sua oscenità avrebbe continuato a ingrossare, sarebbe diventata più grande di lui e Skelder, ridotto a un'appendice del suo organo, un'appendice immobile e incapace d'altro che di nutrirsi e nutrirlo, si sarebbe consumato il cuore per pompare la quantità di sangue necessaria al suo organo parassita. Sarebbe morto, proprio come sarebbe morto Ralloux nelle vampe della sua immaginaria fiamma infernale. Se non riuscivano a rovesciare il processo mentale che produceva le loro metamorfosi, morivano tutti. E tu, John Carmody? È Mary che vuoi? Ma che motivo avrei di desiderarla ancora? E se anche resuscita, a me non dà nessun fastidio. Gli altri sono già condannati in partenza, ma tu, quando ridai vita a Mary, non vieni toccato, non corri rischi. Perché sei proprio tu l'eccezione? "Io sono John Carmody" si disse. "Sono sempre stato, sono, sarò sempre un'eccezione." Dal basso, dietro le sue spalle, venne un forte ruggito simile a quello di un leone. Degli uomini urlarono. Un altro ruggito. Un ringhio. Un urlo di agonia. Ancora un ruggito. Poi uno strano suono simile a uno scoppio. Vagamente, John Carmody si sentì le caviglie bagnate. Si guardò intorno e vide che la luna era tramontata ed era sorto il sole. Che cosa aveva fatto durante tutta la Notte? Era rimasto lì a sognare? Sbatté gli occhi e scosse la testa. Si era lasciato intrappolare dai pensieri bronzei della statua, aveva preso parte ai suoi sentimenti. Il tempo si era rallentato e aveva vissuto il sogno dell'altro uomo, come prima aveva provato la bramosia di Skelder e i trasporti di Mary verso il prete-satiro, i colpi dei proiettili, il terrore della morte e del dissolvimento, l'agonia di Ral-
loux nel suo lenzuolo di fiamme e la sua sofferenza per la dannazione. E adesso era caduto preda della filosofia minerale di questa creatura, e sarebbe finito come lui se qualcosa non lo avesse scosso dalle sue pericolose meditazioni. Adesso era uscito dal coma, ma la silenziosa tranquillità costituiva ancora una tentazione: lasciare scorrere il tempo e lo spazio, dolci e leggeri... Ma dopo un secondo si svegliò del tutto. Aveva provato a spostarsi e aveva scoperto che la sua ancora non era solo mentale; i denti della statua gli serravano il dito che le aveva infilato nella bocca: lo tirava violentemente ma non riusciva a liberarlo. Non sentiva nessun dolore, solo un torpore dovuto al fatto che nel dito non circolava più sangue. Ma avrebbe dovuto sentire anche dolore, a meno che i loro pensieri non si fossero fusi fino al punto di trasformare in bronzo anche lui. Quando Carmody era salito sul piedistallo, l'uomo-statua non aveva ancora terminato la sua metamorfosi. La soffice radice della lingua conservava ancora un po' di sensibilità: aveva reagito automaticamente serrando le mascelle durante la Notte. Quando il sole era sorto e la metamorfosi era ormai terminata, la bocca era definitivamente serrata e non si sarebbe più aperta perché la mente che la comandava era morta: l'uomo non irradiava più nessun pensiero. Carmody si guardò intorno preoccupato perché non sapeva come liberarsi dalla sua trappola e perché era in posizione esposta e la pistola gli era caduta. Era accanto ai suoi piedi, ma anche se cercava di afferrarla con l'altra mano, le punte delle dita ne distavano sempre almeno dieci centimetri. Si tirò su e si permise il lusso di una scarica di bestemmie. Era una cosa ridicola, non aveva nessuna utilità pratica, ma lo aiutò a sentirsi un po' meno teso. Guardò su e giù per la strada. Nessuno in vista. Guardò in basso, ricordando che qualcosa gli aveva bagnato le gambe durante la Notte. Sui sandali e sulle gambe c'era del sangue secco. Mormorò: «Oh, no! Un'altra volta!» pensando allo spruzzo di sangue che gli era venuto addosso nella cucina della signora Kri. Ma osservando meglio, vide che Mary non c'entrava. Era il sangue di un mostro, che adesso era morto e giaceva alla base del piedistallo, con gli occhi sbarrati sul cielo purpureo. Il mostro era alto il doppio di un normale kareenano ed era coperto di piume azzurrognole: le piume si erano sviluppate dai peli del suo corpo, che normalmente erano radi come quelli dei terrestri. Gambe e piedi si erano allargati per sorreggere il peso. Dalle reni gli era cresciuta
una coda lunga e conica come quella di un tirannosauro. Le mani erano regredite a zampe e la faccia si era allungata e formava un angolo bestiale. Le mascelle si erano irrobustite, avevano sviluppato una potente muscolatura, si erano munite di denti affilati. E i denti stringevano ancora un braccio, strappato netto dal corpo di qualche malcapitato: probabilmente uno di quelli che lo avevano ucciso durante la lotta notturna. Ma non c'era segno degli altri uomini: c'erano solo grandi macchie sulla strada e sul marciapiede. Poi, da dietro l'angolo, giunsero sei uomini e si fermarono a guardarlo. Erano disarmati, ma la risolutezza delle loro espressioni lo mise in guardia. Cercò di estrarre il dito con violenza, provando e riprovando a strattoni. Poi, esausto, ansimante, non gli rimase altro che fissare le labbra rigide e gli occhi sbarrati della statua. E maledirla. Un tempo, pensava, questa cosa era un uomo, e si poteva vincerla: era un debole organismo di carne e di sangue. Ma adesso era morta; adesso era di metallo inflessibile; era di metallo sordo. Era fuori dalla sua portata, era fuori dal potere delle sue minacce. Strinse i denti e si disse: "Se non mi aiutano... e non c'è nessun motivo per cui mi debbano aiutare... sarò costretto a tagliarmi il dito. È logico; è l'unico modo per ritornare libero. Mi resta sempre il coltello: posso prenderlo dalla tasca e...". Come se gli avesse letto i pensieri, uno degli uomini gli disse ironicamente: «Avanti, terrestre, tagliati il dito! Tagliatelo; vediamo se sei capace di mutilare la tua preziosa carne!» Solo allora Carmody lo riconobbe: l'uomo che aveva parlato era Tand. Non ebbe il tempo di rispondere perché gli altri incominciarono subito a ridere, a prenderlo in giro per il modo ridicolo in cui si era fatto intrappolare. Gli chiedevano se dava sempre pubblico spettacolo di se stesso. Ridevano e schiamazzavano, si davano grandi manate sulle cosce, grandi pacche sulle spalle in un modo che, per la sua mancanza di inibizione, era tipicamente kareenano. «Ecco l'ometto che ha voluto uccidere un dio!» gridò Tand. «Ammirate il grande deicida: ha messo la mano nel vaso della marmellata e non riesce più a toglierla! Peggio di un bambino! «Tienti calmo, Carmody, le loro parole non ti toccano.» Era una bella frase, e non voleva dire assolutamente nulla. Era stanco: il suo orgoglio e la sua aggressività se ne erano andati; la forza lo aveva abbandonato, era stata completamente assorbita dalle emozioni della Notte. Il dito era insensibile perché era di metallo, ma adesso si accorgeva che le
gambe non lo reggevano più, come se fosse stato in piedi per giornate intere. E a un tratto si accorse di avere paura. Per quanto tempo era rimasto su quel piedistallo? Quanto tempo era passato? Quanto tempo gli rimaneva prima che la Notte di Luce fosse finita? «Tand» disse uno degli uomini «onestamente, credi davvero che questa aspirante statua abbia il Potere?» «Certo» rispose Tand. «Pensa alle cose che ha già compiuto finora.» Si rivolse a Carmody: «Amico, hai ucciso il vecchio Yess. Ma lui sapeva già che sarebbe morto: me l'aveva comunicato prima che iniziasse la Notte. «Ecco come stanno le cose: siamo in sei e cerchiamo ancora una persona per diventare i Sette amanti della Grande Madre, i Sette Padri di Yess Bambino.» «Allora mi avevi ingannato» ringhiò Carmody. «Allora non andavi a prendere il Sonno!» «Se cerchi di ricordare le mie esatte parole» rispose Tand «vedrai che non ti ho ingannato: ti ho solo detto la verità in modo ambiguo. Sei stato tu che hai dato alle parole la tua particolare interpretazione.» «Amici» interruppe un altro dei sei «penso che qui sprechiamo solo del tempo. Forse diamo al Nemico un vantaggio che poi sarà la nostra sconfitta. Quest'uomo ha un potere tremendo, posso sentirlo anche senza cercarlo, ma vi dico che è un discepolo di Algul, una delle anime nere. E in realtà dubito che abbia ancora un'anima. Oppure, se ce l'ha, è un frammento, uno straccio, una foglia sottile nascosta nel buio e nell'angolo più profondo. Un'anima timorosa di entrare in contatto col corpo, un'anima che lo lascia agire come vuole, che rifiuta di assumersi qualsiasi responsabilità, che non vuole neppure ammettere di esistere.» Per i kareenani, quel tipo di discorso doveva essere molto divertente: ridevano di gusto e si lanciavano facezie a spese di Carmody. Sotto le loro risate Carmody tremava. La loro ironia e il loro disprezzo lo colpivano come magli: uno dopo l'altro, poi tutti insieme, poi di nuovo di seguito, come una catena di forge. E i colpi erano ancora più forti perché sentiva di darli e di riceverli insieme, era allo stesso tempo l'aguzzino e la vittima. Aveva sempre creduto di essere superiore al disprezzo e alla derisione, ma adesso di colpo si accorgeva della debolezza delle sue difese. Non era l'altezza a proteggerlo: era solo uno schermo, una barriera che si era costruita intorno. E adesso quella barriera era crollata.
Stanco e sfiduciato, si rimise a dare strattoni al dito. Poi, vedendo che dalla strada giungevano altri sei stranieri, smise. Anche questi uomini erano disarmati, e anch'essi avevano sul volto l'orgoglio e la risolutezza dei primi. Anch'essi si fermarono davanti a lui, e non degnarono di un'occhiata gli altri sei. «È questo l'uomo?» chiese uno. «Penso di sì» rispose un secondo. «Lo liberiamo?» «No. Se vorrà venire con noi si libererà da solo.» «Ma si libererà da solo anche se vorrà andare con loro.» «Terrestre» disse un terzo «nessuno ha mai ricevuto l'onore che ora ricevi tu: tu sei l'unico individuo di un altro pianeta che sia mai stato onorato così.» «Vieni con noi» disse un quarto «andremo al Tempio e lì giaceremo con Boonta per essere padri del vero principe di questo mondo: padri di Algul.» Ascoltando quell'offerta, Carmody si sentì meno umile. Era evidente che lui era una persona importante, e non solo per il secondo gruppo ma anche per il primo. Ma se il primo gruppo aveva bisogno di lui, aveva uno strano modo di arruolarlo... Carmody notò una cosa curiosa: nessuno dei due gruppi era caratterizzato dai tradizionali connotati del bene o del male. Tutti erano belli, vigorosi e sicuri di sé. L'unica differenza era che i primi, quelli che parlavano in favore di Yess, sembravano allegri e non avevano paura di perdere la loro dignità per il fatto di ridere. Invece i secondi erano uniformemente seri e piuttosto rigidi. "Devono avere un disperato bisogno di me" pensò Carmody. «Che cosa mi darete?» gridò, scorrendo i due gruppi con un'occhiata. Quelli del primo gruppo si guardarono e scossero le spalle. Tand disse: «Non ti daremo nulla che non potresti avere da solo.» Poi parlò il portavoce degli uomini di Algul, un giovane alto ed eccezionalmente bello. Disse: «Quando saremo nel Tempio e giaceremo con Boonta la Madre Nera e saremo padri di Algul il Figlio Nero, proverai un'estasi che non si può descrivere, un'estasi come non hai mai provato. E negli anni che occorreranno al bambino per raggiungere la maturità, sarai uno dei reggenti e nulla ti sarà negato...» «... neppure la paura» interruppe Tand. «La paura che gli altri Padri ti uccidano per il timore di dividere con te le loro ricchezze: le ricchezze che
non riusciranno mai a spendere, neanche in tutto il corso della loro vita. Perché è vero che quando i Sette Neri trionfano, essi cercano subito di eliminarsi l'un l'altro: la loro unione non dura oltre la nascita di Algul. E sempre accade che uno solo sopravviva, e che poi lo uccida lo stesso Algul perché non sopporta di avere un padre umano.» «E come fanno per evitare che uno dei Padri uccida Algul?» chiese Carmody. Anche in quella luce attenuata si vedeva che gli uomini del secondo gruppo erano impalliditi alle parole di Tand. Si guardavano tra loro con sospetto. «Anche se Algul è un lattante, anche se bisogna nutrirlo e cambiargli i pannolini» proseguì Tand «devi tener presente che Algul è un dio. Ed essendo un dio rappresenta la somma, l'essenza delle menti che lo hanno creato. È immortale perché gli uomini che lo creano desiderano l'immortalità. Ma è malvagio: non ha fiducia nei suoi Padri, e quindi i suoi Padri devono morire. E quando muoiono anche Algul invecchia e poi muore. Algul è potenzialmente immortale, ma in realtà incomincia a morire nello stesso momento in cui nasce: in lui c'è il seme del male, un brutto seme che fiorisce in sfiducia e odio.» «Molto bene» disse Carmody e chiese: «Ma perché allora invecchia e muore anche Yess, il dio che dovrebbe rappresentare la bontà e la fiducia?» Gli uomini di Algul risero, e il loro capo esclamò: «Ben detto, terrestre!» Con pazienza, come se parlasse a un bambino, Tand gli spiegò: «Yess, anche se è un dio, è anche un uomo: un essere di carne, e d'ossa. E come tale ha dei limiti, opera entro i confini della carne, e come tutti gli uomini deve morire. Inoltre è la somma e l'essenza delle menti dei Dormienti che l'hanno fatto nascere o, se preferisci, che l'hanno creato. I Dormienti prendono parte alla sua nascita come la prendiamo noi sette Veglianti: anch'essi danno forma al suo corpo e modellano il suo spirito. I Dormienti sognano, e la forza collettiva dei loro sogni sceglie il dio che nascerà durante la Notte, sceglie quale sarà il suo spirito, la sua personalità. Se la gente che ha preso il Sonno è stata incline al male negli anni che hanno preceduto la Notte, allora è probabile che nasca un Algul. Se invece è stata incline al bene nascerà uno Yess. In realtà, i fattori determinanti non sono i Padri. Noi Padri siamo solo i delegati, i rappresentanti: la volontà sono i Dormienti, i due miliardi di persone di questo pianeta.» Tand fece una pausa, guardò fisso Carmody per mostrargli la sua sincerità e aggiunse: «Sarò franco. Tu sei così importante anche perché sei un
terrestre, un essere di un altro pianeta. Solo negli ultimi anni noi kareenani ci siamo interessati alle religioni degli altri mondi, abbiamo avvertito il significato della loro esistenza. Ci siamo resi conto che la Grande Madre, Dio, la Causa Prima, cioè il Creatore comunque tu voglia chiamarlo, non restringe il suo interesse alla nostra piccola nuvola di polvere ma diffonde per tutto il cosmo le sue creature. «E quindi i Dormienti desiderano che uno degli stranieri venuti dalle stelle sia il padre del loro dio. I Dormienti sanno che l'uomo non è solo, che ha fratelli dovunque esiste la vita da qui all'eternità e all'infinito. Lo Yess che nascerà in questa Notte non sarà più il vecchio Yess. Sarà diverso da lui come un bambino è diverso da suo padre. E noi speriamo che almeno in parte il nuovo Yess sia di un altro mondo, a causa della sua origine; durante il suo principato ci permetterà di capire gli stranieri, di fondere il nostro spirito con il loro. Per merito del nuovo Yess e del suo padre straniero noi saremo migliori: ecco la ragione per cui ti vogliamo con noi, Carmody.» Tand indicò i suoi nemici. «E anche questi ti vogliono come settimo, ma non per la stessa ragione. Se tu sarai uno dei Padri di Algul, allora forse Algul potrà estendere il suo dominio alle stelle, portarlo al di là di questo pianeta. E con Algul anch'essi avranno la loro parte del bottino cosmico.» Carmody sentì risorgere una speranza e con essa una bramosia che portò un po' di forza al suo corpo esausto. Prenderti i più ricchi pianeti come ti prenderesti la collana dei più grossi diamanti! Legarli a una corda di spazio e metterli al collo! I vasti poteri di un reggente di Algul gli avrebbero permesso tutto! Assolutamente tutto! Vedendo l'esitazione di Carmody, il secondo gruppo comprese che era giunto il momento di passare all'attacco. Lanciarono contro di lui la forza collettiva dei loro sentimenti, ed egli vacillò sotto la violenza dell'attacco: l'avevano colto impreparato. Buio... Estasi... Sarebbe rimasto per sempre l'uomo che gli mostravano, il John Carmody inviolato, forte e spavaldo, quello che piegava e distruggeva tutto ciò che ostacolava i suoi desideri. Nessun pericolo di cambiare, di diventare qualcosa di diverso da ciò che era adesso. Corpo, mente e anima nella fiamma di questa buia estasi, si sarebbe temprato, si sarebbe indurito, come il diamante per resistere a ogni trasformazione. Duraturo, sempiterno John
Carmody! La razza umana poteva morire, fermarsi i soli e i pianeti cadere negli astri che li avevano generati, ma John Carmody si sarebbe sempre spinto avanti, espandendosi con l'universo. Sarebbe atterrato sui pianeti appena nati, ne avrebbe visto la vecchiaia e la morte e poi li avrebbe abbandonati. E sarebbe rimasto se stesso per sempre, oggi e domani, immutato, lo stesso John Carmody duro e lucido come una pietra preziosa. Poi fu la volta del primo gruppo. Ma invece di cercare di colpirlo con l'essenza delle loro personalità, essi non fecero altro che abbassare le loro difese e gli lasciarono via libera per attaccarli. Non c'era traccia di attacco o di pressione da parte loro, e a differenza dei padri di Algul non nascondevano nulla di se stessi. Erano aperti e trasparenti fino alla profondità del loro essere. Come una tigre che scorga una capra legata a un albero, John Carmody non resistette alla tentazione di attaccare. Luce... Estasi... Ma non era l'estasi di prima, l'estasi che temprava, che induriva per sempre. Era un'estasi minacciosa, e lo intimoriva perché si sentiva dissolvere, sì sentiva scoppiare in migliaia di pezzi. Gridando disperatamente contro se stesso, cercò di raccogliere i suoi centomila frammenti, di rimetterli insieme, di rifonderli nell'immagine del vecchio John Carmody. Non poteva resistere alla sofferenza di distruggersi. Sofferenza; ma era uguale all'estasi. Dolore ed estasi come potevano essere la stessa cosa? Non lo sapeva. Sapeva solo di essere indietreggiato davanti ai sei Padri di Yess. La loro difesa era la loro mancanza di protezione. Per nulla al mondo li avrebbe ancora attaccati, perché facendolo avrebbe distrutto John Carmody. «Sì» disse Tand, senza bisogno che Carmody parlasse. «Tu devi prima morire. Tu prima devi dissolvere il vecchio John Carmody e costruirne uno nuovo, uno migliore. Come lo Yess che nascerà sarà migliore del vecchio dio che è morto.» E improvvisamente John Carmody voltò la schiena ai due gruppi e prese di tasca il coltello. Schiacciò il pulsante del manico: la lama guizzò fuori come una lingua azzurrina. Come la lingua del serpente che l'aveva morso. C'era una sola cosa da fare per liberarsi da quelle mascelle metalliche. Abbassò il coltello sul dito imprigionato. Il dolore era forte, ma non forte come credeva. E la ferita non sanguinò:
Carmody aveva ordinato mentalmente ai vasi di chiudersi, ed essi gli avevano obbedito, come fiori all'approssimarsi della notte. La fatica di tagliare carne e osso lo lasciò stremato come se avesse corso per chilometri. Gli tremavano le gambe, i volti sotto di lui erano diventati nebbia e avevano formato due larghe macchie indistinte. Non poteva resistere ancora a lungo. Il portavoce degli uomini di Algul venne avanti e stese le braccia. «Salta, Carmody» lo chiamò con gioia. «Salta! Ti prenderò io: le mie braccia sono robuste. Poi confonderemo questo gruppo debole e piagnucoloso, andremo nel Tempio e...» «Aspetta!» Da un punto alle loro spalle, forte e imperiosa ma insieme musicale, la voce della donna li bloccò. Carmody alzò lo sguardo, oltre le teste degli uomini. Mary. Era Mary, viva e di nuovo intera come l'aveva vista prima di scaricarle la pistola addosso. Identica a quella che era prima, eccetto un particolare: il suo ventre si era enormemente ingrossato, era ancora cresciuto da quando l'aveva vista l'ultima volta. Adesso era pronta a mettere al mondo la vita che conteneva. Il capo degli uomini di Algul chiese a Carmody: «Chi è questa terrestre?» In piedi sull'orlo del piedistallo, Carmody era pronto a saltare giù. Ebbe un attimo d'esitazione, aprì la bocca per parlare, ma Tand lo precedette: «È sua moglie. L'ha uccisa sulla Terra ed è fuggito qui. Ma l'ha creata nella prima notte del Sonno.» «Ahhhh!» Agli uomini di Algul si mozzò il respiro. Fecero un passo indietro. Carmody li guardava senza capire. Era chiaro che l'avvenimento descritto da Tand nascondeva un significato che gli era ignoto. «John» disse la donna «è inutile che tu continui ogni volta a uccidermi. Io risorgo sempre. Io risorgerò sempre. E sono pronta a dare alla luce il figlio che tu non hai voluto. Nascerà tra poche ore: all'alba.» Lentamente, con un tremito che tradiva la sua tensione, Tand disse: «E allora, Carmody, chi sarà?» «Chi sarà chi?» chiese Carmody, e la domanda suonava stupida anche a lui. «Sì» disse il portavoce di Algul, allontanandosi di un passo dal piedistal-
lo. «Chi sarà quel bambino? Sarà Yess o Algul?» «Ecco!» disse Carmody. «L'economia della Dea, della Natura, di Come la Chiami. Perché si deve creare un altro bambino se ce n'è già uno disponibile?» «Sì» disse forte Mary, e la sua voce era ancora musicale ed esigente, come una campana di bronzo. «John, tu non vuoi che il nostro bambino sia uguale all'uomo che eri tu, no? Un'anima buia e ghiacciata? Tu vuoi che sia calda e luminosa, vero?» «Uomo» disse Tand «ma non vedi che la tua decisione è già stata presa? Non ti sei ancora accorto che la donna non ha un cervello suo, che ciò che dice sono pensieri tuoi, che sono i veri desideri del profondo del tuo cuore? Non ti accorgi che le metti nella bocca le tue parole, che le sue labbra si muovono come le dirigi tu?» Carmody quasi svenne, ma non per debolezza o fame fisiche. Luce... Fuoco... Dissolviti. Risorgerai come la fenice... «Prendimi, Tand» disse senza forza. «Salta!» disse Tand. Adesso rideva forte, e dagli uomini di Yess venne un clamore di risa e di grida di trionfo. Ma gli uomini di Algul gridarono un allarme e presero a fuggire in tutte le direzioni. Intanto la scura nebbia purpurea si era chiarita e ormai era viola pallido. Poi improvvisamente apparve all'orizzonte la sfera di fuoco del sole, e il viola scomparve come se qualcuno avesse tirato una tenda. E gli uomini di Algul ancora in vista barcollarono, caddero a terra e morirono tra convulsioni che li squassarono da parte a parte rompendo loro le ossa. Per qualche istante ebbero ancora un sussulto come animali abbattuti, poi giacquero immobili con il sangue alla bocca. «Se tu avessi scelto altrimenti» disse Tand ancora abbracciando Carmody dopo il suo salto «tra la polvere della strada ci saremmo noi.» Si incamminarono verso il Tempio formando un cerchio intorno a Mary. La donna procedeva lentamente e si fermava ogni tanto quando la prendevano le doglie. Carmody camminava dietro di lei: stringeva i denti e si lamentava flebilmente perché anche lui ne sentiva gli spasimi. E non li sentiva lui solo: anche gli altri si mordevano le labbra e si tenevano il ventre stretto con le mani. «E cosa le accadrà dopo che sarà nato Yess?» sussurrò a Tand. Aveva parlato sottovoce perché adesso era diventato molto sensibile ai sentimenti degli altri: anche se questa Mary non era cosciente di sé e in realtà era
mossa dai suoi pensieri, non voleva correre il rischio di ferire la sua suscettibilità, anche se la cosa sembrava impossibile. «Quando sarà nato Yess, il suo compito sarà terminato» disse il kareenano. «Morirà. E già adesso sta morendo: la sua morte è incominciata con la fine del Sonno. Adesso la mantengono in vita le nostre energie e la volontà del bambino che porta dentro di sé. Affrettiamoci. Presto i Dormienti usciranno dalle loro cripte e non sanno ancora se ha vinto Yess o Algul, se devono rallegrarsi o piangere. Non dobbiamo lasciarli nel dubbio, dobbiamo arrivare al Tempio. Lì entreremo nella santa camera della Grande Madre, lì giaceremo in mistico amore e procreazione con Lei, nell'atto che non può venire descritto ma solo provato. Il corpo di questa creatura del tuo odio e del tuo amore partorirà il bambino e morirà. E noi laveremo e fasceremo il bambino e lo mostreremo all'adorazione della folla.» Scosse amichevolmente la mano di Carmody, poi serrò la stretta perché lo avevano colpito le doglie. Ma Carmody non sentì il dolore di quella stretta tenace perché era troppo occupato a combattere contro il suo stesso dolore: le fitte forti e brucianti che gli venivano dal ventre, che aumentavano e calavano a ondate: il dolore e l'estasi terribili di dare vita alla divinità. E in quel dolore c'era anche la vampa del suo Io che esplodeva dissolvendosi in milioni di particelle. Ma ora nel processo non c'era più la disperazione che aveva provato prima: rimaneva solo la gioia. Una gioia che non aveva mai conosciuto: la gioia di accettare questa vampa e questa luce, la sicurezza che alla fine della distruzione della sua personalità avrebbe raggiunto una superiore unità, la totalità della coscienza. Al dolore, alla gioia, alla sicurezza, era unita la determinazione a espiare il male che aveva fatto nella sua vita precedente. Non espiare inteso come affondare per sempre nell'autopunizione, nella tristezza del rimorso e dell'odio di se stesso. No, quel modo di espiare non era il modo sano: quello era il modo malato. Doveva portare la bilancia al pareggio compiendo qualcosa di costruttivo, in cambio di ciò che era stato e di ciò che aveva fatto. L'universo correva come una macchina dura e fredda e non porgeva nessun sorriso all'umanità, ma quest'universo poteva ancora essere cambiato. Non conosceva ancora i mezzi da impiegare e lo scopo da scegliere, ma quelli sarebbero venuti dopo. Adesso era troppo occupato a recitare il finale del dramma del Sonno e del Risveglio. E improvvisamente vide due volti che credeva di non rivedere mai più:
Ralloux e Skelder, uguali ma trasfigurati. Dal volto di Ralloux s'era allontanato il conflitto ed era subentrata la serenità. Dal volto di Skelder erano usciti l'intolleranza e il rigore, sostituiti dalla dolcezza di un sorriso. «Siete riusciti tutti e due a passare la Notte» disse rauco Carmody. Osservò con stupore che mentre uno dei due aveva ancora indosso la sua tonaca, l'altro l'aveva invece abbandonata e indossava un costume indigeno. Gli sarebbe piaciuto scoprire perché uno avesse conservato la sua fede e l'altro l'avesse lasciata, ma non dubitava che tutt'e due avessero le loro buone ragioni: ragioni giuste e sufficienti, altrimenti non sarebbero sopravvissuti. Sulle loro facce era lo stesso sguardo, e al momento non importava quale strada avessero scelto per il loro futuro. «Siete arrivati tutti e due sino alla fine» mormorò Carmody ancora incapace di credere. «Sì» rispose uno, e Carmody non poteva dire quale fosse: tutto era simile a un sogno, l'unica realtà era il dolore nelle sue viscere. «Sì, tutti e due abbiamo vinto il fuoco. Ma ci ha quasi distrutto. Su Dante's Joy, lo sai, si ottiene quello che si vuole davvero.» PARTE SECONDA Un viaggio di pochi chilometri Fra John Carmody era curvo sui filari dell'orto, occupato a raccogliere le carote, quando sentì chiamare il proprio nome. Si raddrizzò, con un: "Ohi!", portando la mano alla schiena dolorante. Poi attese fratello Francis, dato che questi non gli aveva chiesto di recarsi da lui espressamente e si era limitato a pronunciare il suo nome. Fra John era un individuo di bassa statura, di corporatura pesante, con viso piatto, palpebra cascante, capelli nerissimi e irti come un porcospino. I terziari dell'ordine di san Giairo, ai quali apparteneva, non portavano la tonsura. Indossava una tonaca marrone di fibra sintetica, lunga fino alle caviglie, e calzava sandali di plastica di uguale colore. Per cintura aveva un cordone di plastica da cui pendevano un crocefisso e un libriccino dalla legatura scura. Fratello Francis (alto, magro, dal viso affilato e dal naso che, di profilo, seguiva la curva di un trampolino sciistico) giunse davanti a lui, e lì si fermò. Tese la mano verso le carote e domandò: «Fratello, che cos'è capitato a quelle?» «I conigli!» esclamò fra John. Sollevò lo sguardo e strinse il pugno, ma
aveva un mezzo sorriso, ed era chiaro che si trattava di collera finta. «I conigli!» ripeté. E: «Sapresti spiegarmelo? Abitiamo in città chiuse entro una cupola e una cinta di mura, e tali mura sprofondano per una grande distanza nel terreno. Eppure i conigli e i topi le superano senza difficoltà e vengono a fare razzie negli orti e nelle dispense. E a volte puoi scorgere qualche scoiattolo su un ramo, e gli uccelli, che probabilmente passano dalla cupola, infilandosi tra una molecola e l'altra, hanno nidi su ogni albero. E perfino gli insetti, che non scavano nella terra, ma solamente volano e saltano, sono continuamente a portata di mano.» Alzò la mano per scacciare una mosca. «E sul mio naso, anche. Quella fastidiosa creatura di Satana mi ha tormentato per ore l'appendice nasale. Ma mi sono limitato a scacciarla, senza ucciderla, perché forse mi era stata inviata allo scopo di tentarmi all'ira, alla violenza. Confesso che presto sarebbe riuscita nella sua impresa, temo.» «Fra John, tu parli troppo» disse fratello Francis. «Troppissimo. Comunque, non sono venuto qui allo scopo di riprenderti per codesto tuo vizio...» «Anche se poi ti sei fermato a farlo» lo interruppe fra John, e subito, prima che l'altro sbottasse: «Oh, ti chiedo perdono di quest'ultima frase. E anche delle precedenti. Come giustamente hai detto, io davvero parlo troppo. Ed è un difetto assai grave, o, se forse non di difetto si tratta, è certo un'abitudine che giustamente fa corrugare la fronte, e io...» «Fra John!» gridò fratello Francis. «Vuoi startene zitto un istante, e lasciarmi dire perché sono venuto? Non sono venuto qui per soddisfare la mia curiosità, lo sai.» «Perdonami» disse fra John. «Sono tutto orecchie.» «Il vescovo desidera vederti. Subito» disse fratello Francis, pronunciando la frase molto rapidamente, come per paura che l'altro gli rubasse subito la parola, se lo avesse colto a prendere fiato. Fra John si voltò e gettò in una carriola le carote rosicchiate dai conigli, in un'altra quelle buone. Poi si diresse verso l'edificio principale, una costruzione lunga e bassa, di mattoni, verniciata di marrone scuro. Il tetto aguzzo si innalzava molto al di sopra delle pareti, sorretto da travicelli sottili, e lo spazio intermedio era riempito da una griglia metallica. All'ingresso non c'erano porte, perché era tradizione dell'ordine non chiudere mai la porta a chiave e perché lì, nell'ambiente climatizzato della città coperta, non era necessario ripararsi dai fenomeni atmosferici. Il tetto serviva soltanto a ripararsi dalle occhiate indiscrete di coloro che sorvolavano l'edifi-
cio. Fra John entrò nell'edificio, e, senza preoccuparsi di andarsi a lavare le mani e il viso sudici, si recò direttamente nell'ufficio del Padre Superiore. Quando il capo chiama, non lo si fa attendere. All'interno dell'edificio le stanze avevano la loro regolare porta, che però non aveva serratura. Poiché la porta dell'ufficio del Padre Superiore era accostata, fra John bussò. «Entra!» disse una voce dall'interno; fra John, non per la prima volta dal suo ingresso nell'ordine come fratello laico, entrò nell'ampia stanza triangolare. Si fermò alla base del triangolo, mentre il Padre Superiore rimaneva seduto alla grande scrivania traslucida, al vertice del triangolo. Sul ripiano della scrivania c'erano mucchi di bobine, una macchina stenografica, un visifono. Tuttavia il Padre Superiore non scompariva in mezzo a quella massa: era un individuo di alta statura. Aveva viso largo, capelli rossicci e barba dello stesso colore; in quell'"ostello" dell'ordine, soltanto lui poteva fregiarsi di una piena barba. In quell'istante fumava un immenso sigaro avana. Fra John, che si era negato il fumo come penitenza per uno dei suoi vari peccati, inalò con vivo desiderio le pigre volute che giungevano fino a lui. Il Padre Superiore spense la macchina stenografica in cui era intento a dettare. «Buon giorno, fra John» disse. Gli porse un cilindretto postale. «Ho qui una disposizione, giunta ora per astronave. Devi recarti immediatamente sul pianeta Wildenwooly e presentarti al vescovo di Breakneck. Ci mancherai molto, ma il nostro affetto per te è sempre grande. Dio ti conceda la grazia della sveltezza; noi ti diamo la nostra benedizione.» Fra John rimase allibito. Non si mosse, e per la prima volta in un lungo periodo di tempo, non fu capace di parlare. Il Padre Superiore, tuttavia, aveva già socchiuso gli occhi, si era appoggiato allo schienale della poltroncina e aveva ripreso a dettare da un angolo della bocca, mentre dall'altro continuava a fumare. Era chiaro che riteneva di avere dato tutte le istruzioni necessarie. Per un momento fra John rimase a fissare la cenere sulla punta del sigaro del Padre Superiore. Quella cenere era sul punto di cadere, e Carmody si aspettava che cadesse sulla barba patriarcale del fumatore. Invece, senza neppure aprire gli occhi, il Padre Superiore si tolse il sigaro di bocca e lasciò cadere la cenere sul pavimento. Fra John alzò le spalle e uscì dalla stanza; sul suo volto l'aria di meravi-
glia non era cambiata. Fuori della stanza, rimase in dubbio per alcuni istanti. Poi, con un sospiro, uscì dall'edificio e si diresse verso fratello Francis, nell'orto. «Fratello Francis, posso parlare?» «Certo» disse l'altro. «Purché ti limiti alle questioni importanti e non approfitti dell'occasione per dare libero sfogo alla tua lingua.» «Dov'è Wildenwooly?» chiese fra John, con un tono che sconfinava nel patetico. «Wildenwooly? Si tratta, mi pare, del quarto pianeta di Tau Caesari. Laggiù il nostro ordine ha una chiesa e un ostello» disse. Ovviamente, e nonostante il nome, non si trattava di un albergo, taverna, o simili. Le abbazie dell'ordine venivano sempre chiamate "ostelli", perché così le aveva chiamate il fondatore san Giairo. «Perché me lo domandi?» seguitò fratello Francis. «Mi è stato prescritto, proprio in questo momento, di recarmi su Wildenwooly, da parte del Padre Superiore.» E fissò speranzoso l'altro religioso. Ma fratello Francis si limitò a dire: «Allora, devi partire immediatamente. Dio ti conceda la grazia della sveltezza, fra John. Il mio affetto per te è sempre grande. Forse ti ho rimproverato, qualche volta, ma l'ho sempre fatto per il tuo bene.» «Ti ringrazio del tuo affetto» disse fra John «ma non so proprio come fare.» «Davvero?» «Già. Non so a chi debba chiedere il biglietto per l'astronave. E chi mi dà un acconto per le spese di viaggio. E non ho una lettera di presentazione per il vescovo di Breakneck. Non so neppure come si chiami, il vescovo. Non so quando ci possa essere un'astronave per Wildenwooly, ossia quanto mi toccherà aspettare prima che ne parta una, e neppure dove posso mettermi in attesa che l'astronave parta. Non so neppure dove sia lo spazioporto!» «Tu parli troppo» disse fratello Francis. «Hai già avuto tutte le istruzioni che ti saranno date. O che ti occorrono. Per ciò che riguarda lo spazioporto, dista pochi chilometri dalla città. E l'ostello di Wildenwooly dista pochi chilometri dalla città di Breakneck. Con un po' di buona fortuna potrai essere laggiù prima che si faccia sera.» «E non hai altro da dirmi?» fece fra John, incredulo. «Un viaggio di pochi chilometri» ripeté fratello Francis. «Devi partire
immediatamente. Sono gli ordini, lo sai.» Fra John rivolse uno sguardo truce a fratello Francis. Si trattava della sua immaginazione, o c'era davvero l'ombra di un sorriso, su quella faccia lunga e affilata, che non sorrideva mai? No, doveva essersi confuso. La faccia era severa e immobile. «Non preoccuparti» disse fratello Francis. «Anche a me fu dato, tempo fa, un ordine esattamente uguale. E così ad altri.» Fra John socchiuse le palpebre. «Cos'è, una specie di prova?» «L'ordine non ti invierebbe a quarantamila anni-luce di distanza soltanto per metterti alla prova» disse fratello Francis. «A Wildenwooly ti aspettano e hanno bisogno di te. Dunque vai.» Fra John Carmody non esitava quasi mai. Una volta deciso un corso di azioni (e di solito la decisione non gli richiedeva molto tempo) passava all'azione. Ora si diresse rapidamente alla doccia comune, si tolse la tonaca e la inserì in un foro rettangolare della parete, quindi entrò sotto la doccia. Non vi rimase a lungo, comunque, perché, anche se l'ordine aveva installato una doccia totalmente automatica, aveva imposto di fornire soltanto acqua fredda, in modo di raggiungere il massimo dello sconforto per i suoi membri. Una volta al mese era concessa una doccia tiepida. Uscì fuori dalla doccia, rabbrividendo, e si asciugò in un soffio d'aria, anch'essa fredda, che proveniva dagli opercoli della parete. Poi prese la tonaca dal ricettacolo sottostante a quello in cui l'aveva infilata, e se la rimise. Rivolse un piccolo pensiero di ringraziamento verso il suo ordine, che almeno aveva installato un apparato per il lavaggio. Una volta giunto al pianeta di frontiera Wildenwooly, probabilmente gli sarebbe toccato di lavarsi a mano i propri indumenti. E forse, data la sua umile posizione, anche quelli degli altri. Infilatasi la tonaca, si recò nella propria cella. Era una stanza di un metro e ottanta per due, con pareti luminescenti, crocefisso alla parete, materasso che di giorno veniva arrotolato su se stesso, scrittoio ripiegabile e una nicchia nel muro, in cui il fraticello conservava tutte le sue proprietà terrene. Prese tali proprietà, costituite da un breviario, una storia della Chiesa dall'inizio dell'Era volgare al 2260, una grammatica latina e una vita di san Giairo e infilò il tutto nel sacco che gli veniva offerto dal cappuccio della tonaca. Poi si inginocchiò davanti al crocefisso, disse: «Signore, Divin Maestro, fammi sapere che cosa faccio. Così sia» si alzò e si diresse alla porta della sua cella. Prima di passare per la porta, e senza rallentare il passo, allungò la mano e prese un lungo bastone da pastore appeso a un chio-
do della parete. Tutti i terziari avevano il dovere di portare con sé quell'arnese quando uscivano nel mondo esterno, anche se non era esatto dire che la città incapsulata del Quattro di Luglio fosse il "mondo esterno". Era passato il mezzogiorno, e il sole estivo dell'Arizona stava già invertendo il suo corso. Fra John trovò la temperatura non molto diversa da quella all'interno dell'ostello: pochi gradi in più, al massimo. Il tetto di plastica al di sopra della città era, a quell'ora del giorno, abbastanza opaco da riflettere buona parte dei raggi. Comunque, fra John non vedeva l'ora di uscire dal perimetro cittadino, anche se questo significava trovarsi immerso nello spietato calore dell'estate. Da tempo si sentiva chiuso, ristretto, e, anche se non se ne era mai lamentato, ne aveva provato il desiderio. E pertanto si era confessato e aveva fatto penitenza. Per un momento rimase nel dubbio. Sapeva che c'era uno spazioporto nei pressi della città del Quattro di Luglio, ma non aveva idea della direzione in cui si trovasse. Si recò quindi da un vigile. Il vigile era uno dei nuovi tipi, un Modello 54. Faccia e corpo erano fatti di una lega al tantalio, ma gli occhi erano di protoplasma: copiati da quelli di qualche lontano cadavere e cresciuti in laboratorio. Ed era capace di azione semiindipendente, perché il cervello contenuto nella sua pancia metallica non era un meccanismo comandato a distanza dalla Centrale di polizia, in qualche punto del sottosuolo, bensì una massa grigia di protoplasma, simile a quello di un uomo, grande il doppio e intelligente la metà. Non poteva sostenere una conversazione decente né, a maggior ragione, una indecente ma poteva svolgere ottimamente la propria funzione, e non poteva venire corrotto né distolto dal suo compito. Inoltre, a differenza dei suoi predecessori, si muoveva su gambe invece che su ruote. E, naturalmente, come si addice a un poliziotto, i suoi piedi erano piatti. Fra John lesse il nome sulla piastra e disse: «Guardia O'Malley, dov'è lo spazioporto?» «Quale spazioporto?» rispose il vigile. La voce era forte, priva di timbro, e destò un brivido lungo la spina dorsale di fra John. Gli pareva di parlare con un uomo privato dell'anima. «Ah, già, dimenticavo» disse. «Da molto tempo non parlavo più con una guardia. E di solito le avevo alle calcagna che mi rincorrevano con le armi spianate. Devo rivolgere domande dirette, n'est-ce pas?» «N'est-ce pas?» ripeté diligentemente il poliziotto. «In che lingua parli? Attendi, ti metto in contatto con la Centrale.» E allungò la manaccia, coperta di scaglie grigie, verso il microfono, assicurato a un lato della sua te-
sta. «No, no, parlo americano» si affrettò a dire fra John. «Vorrei sapere come posso arrivare allo spazioporto del Quattro di Luglio da qui.» «Intendi andare con la metropolitana, oppure hai una tua auto?» chiese il poliziotto. Fra John infilò la mano nell'ampia tasca della tonaca, e la ritrasse vuota. «Col cavallo di san Francesco» disse, desolato. «Hai detto che avresti parlato in americano» disse il poliziotto. «Per favore, parla americano.» «Voglio dire, intendo recarmi allo spazioporto a piedi. Camminando.» Il poliziotto rimase in silenzio per un momento. La sua faccia era priva di espressione come una statua, ma fra John, che disponeva di un'immaginazione vivace, credette di scorgervi un velo d'imbarazzo, subito sparito. «Non so dirti come raggiungerlo camminando» disse il poliziotto. «Un istante. Ti metto in contatto con la Centrale.» «No, non è il caso» si affrettò a ripetere fra John. Già si vedeva indaffarato a fornire una lunga spiegazione soltanto per far capire perché andasse a piedi verso un'uscita della città da quel punto lontano. E si vedeva costretto a perdere tempo per aspettare che arrivasse una guardia umana a perquisirlo lì sul posto. «Posso seguire il tragitto della metropolitana» disse. Indicò la fila di alti tralicci, ciascuno sormontato da un grande anello metallico. «In quale direzione devo andare per raggiungere l'uscita più vicina allo spazioporto? Il Quattro di Luglio?» aggiunse. La guardia rimase in silenzio per un paio di secondi. Poi disse: «Non intendi dire che vuoi arrivare laggiù il quattro del mese di luglio, vero? Ti riferisci allo spazioporto chiamato Quattro di Luglio, giusto?» «Giusto» disse fra John. Il poliziotto indicò la linea della metropolitana più vicina. «Prendi una vettura che va a nord, linea dieci. Scendi all'uscita dalla città. Esci dalla città. Da quel punto prendi un taxi fino allo spazioporto del Quattro di Luglio.» «Grazie!» disse fra John. «I servizi della città sono sempre a tua disposizione» disse il poliziotto. Fra John sgattaiolò via. Quegli occhi vivi, in quella faccia morta, lo mettevano a disagio. Ma non poté evitare di chiedersi se il poliziotto fosse davvero incorruttibile. Ah, se fosse stato il vecchio John Carmody a parlare al poliziotto, allora sì che le cose sarebbero state differenti! Non un umi-
le fraticello dell'ordine di san Giairo che chiedeva la strada, ma il più astuto fuorilegge del cosmo, che cercava di vedere una buona volta se esistesse un poliziotto che non si lasciasse corrompere, ingannare o ricattare. «John Carmody» disse fra John a se stesso «sei ancora ben lontano dall'avere raggiunto la condizione dei puri di spirito. E ora hai aggiunto alla tua non piccola lista un altro peccato da espiare. Che Dio ti preservi! Hai appena messo il piede fuori del chiostro, ti sei appena avventurato nel mondo esterno, e già stai pensando ai vecchi tempi come ai bei vecchi tempi. Mentre invece eri un mostro, John Carmody, un mostro odioso, che meritava di essere cancellato dall'universo. Non eri affatto un simpatico fuorilegge, quale ti stavi raffigurando or ora.» Cominciò a camminare sotto la metropolitana. In alto, una vettura attraversò rapidamente gli anelli in cima ai tralicci, poi si fermò a un centinaio di metri da lui e scese a terra per scaricare i passeggeri. Il frate rimpianse di non avere un decimo di credito, volgarmente "deca", per il biglietto. Sarebbe bastato un decimo di credito per portarlo all'uscita della città, così risparmiandogli la quindicina di chilometri di "cavallo di san Francesco" che lo attendevano. Sospirò, e si disse: «John, se le speranze fossero dei cavalli, saresti già in sella, come dice il proverbio...» e rise, immaginandosi in sella a un cavallo in quella città. Il panico che si sarebbe creato! La gente che accorreva ad ammirare il mostro, visibile oggi soltanto in televisione o allo zoo! La gente che poi scappava via spaventata, la polizia che arrivava, e lui... in gattabuia. E colpevole non soltanto di un crimine secolare, ma anche di uno ecclesiastico. Un umile terziario che si comportava in modo tutt'altro che umile, caracollando orgogliosamente su un cavallo (o era il cavallo, che caracollava?). Colpevole di esibizionismo in pubblico, di avere turbato la folla e Dio solo sa di quante altre cose. Sospirò ancora e riprese a camminare. "Fortunatamente" pensò "una persona può camminare da un capo all'altro della città seguendo lo stretto sentiero creato dai tralicci della metropolitana." A differenza di una volta, quando le persone camminavano per le strade, la città era un unico labirinto di piccoli spazi cintati, con alti muri di cinta e una singola stanza di soggiorno nel mezzo dello spiazzo e dell'erba, e con le altre stanze sotto terra. E, sotto le case, le fabbriche e gli uffici in cui gli abitanti si guadagnavano la vita. Se si poteva chiamare vita. Continuò a camminare, mentre in alto, sopra la sua testa, i cittadini viaggiavano sui vagoni della metropolitana o volavano nei loro veicoli pri-
vati (presi a nolo dalla loro corporazione di appartenenza). Una volta un pettirosso passò su di lui, e fra John disse: «Ah, John, se tu credessi alla perniciosa dottrina della trasmigrazione, desidereresti entrare nuovamente nel ciclo del karma sotto forma di uccello. Ma dimmi, perché ti è colta questa bramosia di provare l'estasi delle ali? Sono i tuoi piedi doloranti, che destano in te questi pensieri pericolosi. Va', John, va'! Continua a camminare come un somaro stanco, perché un gran somaro tu sei veramente.» Percorse ancora tre o quattro chilometri, e poi, con gioia, scorse un parco davanti a sé. Era uno dei due grandi parchi pubblici della città, dove accorrevano, a frotte, i cittadini desiderosi di sperimentare un surrogato del mondo esterno. Nel parco c'erano dei sentieri tortuosi, non lastricati, e pietre messe l'una sull'altra in modo da assomigliare a montagne, e caverne nelle montagne e alberi e uccelli e scoiattoli e laghi in cui nuotavano cigni, oche e anatre e di tanto in tanto si affacciava alla superficie un pesce. Si trattava, in confronto alla giungla geometrica attraverso cui era passato, di un vero paradiso. Ma, ahimè!, quel paradiso non aveva serpenti, ma aveva troppi Adami ed Eve. Sciamavano dappertutto con i loro piccoli Caini e Abele, gironzolando, bevendo, mangiando, urlando, correndo, strillando, muggendo, amoreggiando, litigando, ridendo e guardandosi trucemente fra loro. Sorpreso, fra John si arrestò. Era rimasto chiuso per così tanto tempo all'interno di Nostra Signora del Quattro di Luglio, che si era scordato dell'alveare umano. Si arrestò, e proprio in quel momento udì un suono che fece tacere ogni altro clamore. La sirena dei pompieri che echeggiava a distanza. Si voltò, e scorse il fumo che usciva da un ristorante ai bordi del parco. E in alto, che sfrecciava nell'aria, la rossa sagoma affilata di una prima vettura dei pompieri. Fra John corse verso il ristorante. Era uno dei locali pubblici di superficie della città; un edificio costruito in modo da assomigliare a un'antica capanna di tronchi americana. Vi si recavano a mangiare gli amanti del picnic, per godere della sua "atmosfera" e togliersi dalle mense, amplissime e spaventosamente lustre, dei loro quartieri sotterranei. Il proprietario della Vecchia Arizona era fermo sulla soglia. Sbarrò l'ingresso a John Carmody. «Niente furti!» urlò. «Scannerò il primo che cercherà di entrare!» Nella manona teneva un coltello da macellaio.
Fra John si fermò e disse, trafelato: «Non ho intenzione di rubare nulla, amico mio. Sono corso a vedere se potevo aiutarla.» «Non mi occorre aiuto» disse il proprietario, continuando a puntare il coltellaccio. «C'è stato un incendio un paio d'anni fa, e la folla è entrata e si è fregata tutto, prima che arrivassero i poliziotti. Non voglio che la cosa si ripeta.» Fra John si sentì spingere alle spalle. Si guardò dietro e vide che veniva spintonato in avanti dalla pressione di molti uomini e donne. Era chiaro che desideravano fare irruzione e rubare ogni cosa su cui potessero mettere le mani, e sfasciare il resto prima dell'arrivo della polizia. Era una cosa che si ripeteva ogni volta che nella città succedeva qualche incidente: espressione del risentimento che provavano nei riguardi della loro vita inscatolata e dei tutori non umani della legge. Il proprietario fece un passo indietro e urlò: «Aiutami a fermarli. Spaccherò la testa al primo che metterà piede qui dentro.» La folla urlò per la rabbia, ringhiò contro di lui perché aveva la sfrontatezza di negare loro il divertimento. Spinse avanti uno pseudopodo di forza, e fra John, volente o nolente, sì trovò a essere l'avanguardia e il vicario della violenza. Fortunatamente, in quel momento, l'ombra del veicolo dei pompieri scese sulla folla, e, un momento dopo, tutti vennero soffocati da un bagno di schiuma. Indietreggiarono, boccheggiando, e lo stesso fra John si sentì quasi soffocare prima di poter uscire da quella massa che gli giungeva all'altezza delle anche. Immediatamente dopo, i veicoli della polizia, con tutte le sirene in azione, scivolarono lentamente a terra. E le guardie ne uscirono a frotte: gli anelli metallici delle loro gambe luccicavano, così come il loro petto rotondo e gli occhi neri viventi, che, umidi e mobili nelle morte facce di metallo, spazzavano la zona da sinistra a destra. Le loro voci si alzarono al di sopra dello schiamazzo della folla, e in breve tempo riportarono l'ordine nel parco. I pompieri entrarono nel ristorante, e ne uscirono dopo una decina di minuti. Alcuni di loro rimasero a pulire la schiuma, altri ripartirono. Un solitario poliziotto si fermò a registrare la deposizione del proprietario del locale, poi si allontanò. Il proprietario era un uomo di una cinquantina d'anni, tozzo e bruno. Aveva un paio di baffoni spioventi, da tricheco, e continuò a bestemmiare per cinque minuti, con convinzione, in americano, in gergo, e in messicano. Poi cominciò a chiudere le serrande.
Fra John, che era rimasto lì a osservare, insieme a pochi rimasugli della folla precedente, disse: «Perché chiude il locale? Mi pare che tutto sia stato messo a posto.» Il motivo che spingeva l'uomo a chiudere, in realtà, gli importava poco; sperava soltanto di trovare il modo di farsi dare qualcosa da mangiare. Da una buona mezz'ora il suo stomaco brontolava come un cane rabbioso. «Oh, è a posto, certo» disse l'uomo. «Ma il cuoco automatico si è scassato. Si è messo a fumare; per questo ho chiamato i pompieri.» «E non può farlo riparare?» chiese fra John. «Dovrei prima firmare un nuovo contratto con il Sindacato Riparazioni Elettriche» brontolò l'uomo. «E non voglio firmarlo. È in sciopero per un aumento del contratto. Oh, accidenti! Piuttosto di trattare con quelli, chiudo tutto. Aspetto che mio fratello Juan arrivi dal Messico. È un tecnico elettronico; si metterà in società con me, e sarà capace di mantenere in funzione il cuoco. Ma non arriverà fino alla prossima settimana. E quando arriverà, gliela faremo vedere noi. a quei bastardi.» «Guarda caso» disse fra John, che già si sentiva l'acquolina in bocca alla prospettiva di tutto il ben di Dio che c'era là dentro «io sono un buon tecnico elettronico, tra le altre cose. Potrei ripararle il cuoco automatico.» L'uomo lo studiò con diffidenza. «E che cosa vuoi?» «Un buon pasto» disse fra John. «E il prezzo di una corsa fino allo spazioporto.» L'uomo si guardò intorno, poi disse: «E non hai paura del sindacato? Piomberanno su di noi come un aereo con l'antigravità rotta.» Fra John ebbe un istante d'esitazione. Ma la sua pancia emise un cupo brontolio. «Non voglio fare il crumiro» disse. «Ma se suo fratello verrà a ripararlo in qualsiasi caso, non vedo alcun male nel riparare l'apparecchio qualche giorno prima che arrivi lui. Inoltre ho appetito.» «D'accordo» disse il proprietario. «È il tuo funerale. Comunque, devo avvertirti che c'è un picchetto stazionato in cucina.» «E crede che si opporrà con la violenza?» chiese il frate. Il proprietario si tolse il sigaro di bocca e fissò il religioso. A lungo. Poi disse: «Ma dove vivi?» «Sono stato alcuni anni lontano dalla Terra» disse fra John. «E la mia vita, qui sulla Terra, è stata un po' ritirata, dopo il mio arrivo...» Non gli parve necessario spiegare che il primo anno lo aveva passato all'istituto Johns Hopkins, dove era stato oggetto di complessi studi psicologici dopo essersi consegnato alla polizia.
Il proprietario scrollò le spalle e condusse fra John fino alle cucine. Ivi giunto, indicò un quadro appeso alla parete, Alba su Antares II, di Trudeau. «Sembra un dipinto» disse «ma è il picchetto. Una telecamera. Collegata con la centrale del sindacato. Appena ti vedranno lavorare sull'autocuoco, caleranno su di noi come il lupo sull'agnello.» «Non intendo suggerire nulla d'illegale o di immorale» disse fra John «ma che cosa succederebbe se noi... se io... staccassi l'interruttore del picchetto?» «Non si può "staccare l'interruttore" senza sfasciarlo» disse il proprietario, cupo. «L'interruttore è comandato a distanza dal sindacato.» «E se ci mettessimo un asciugamani sopra?» chiese fra John. «Suonerebbe un allarme nella centrale» rispose il proprietario. «E io verrei portato in galera da uno di quei puzzoni di poliziotti zombie. È contro la legge che io interferisca in qualsiasi modo con il campo di visione del picchetto. Anzi, devo addirittura tenere la luce accesa in cucina giorno e notte. E sono io che devo pagare la bolletta, non quel cazzo di sindacato.» La parolaccia non disturbò fra John. Da tempo quei termini non avevano più alcun significato biologico. La cultura del XXIII secolo aveva nuove parole impronunciabili: forse fra John si sarebbe offeso se l'uomo avesse usato una di quelle in sua presenza. Il religioso chiese pinze, cacciavite, forbici e nastro isolante. Poi infilò la testa nel foro lasciato dai pompieri, i quali avevano tolto il pannello laterale dell'apparecchio. Il proprietario cominciò a passeggiare nervosamente avanti e indietro, col sigaro che sbuffava come una ciminiera. «Forse avrei fatto meglio a non lasciarti cominciare» disse. «A quest'ora il sindacato avrà già inviato la sua squadra. Verranno qui a spaccare tutto. E forse mi faranno anche causa. Non è come se fosse mio fratello a ripararmi lo stramaledetto cuoco. Non possono dire niente se chi esegue la riparazione è uno dei proprietari.» Fra John si pentì di non avergli chiesto da mangiare prima di mettersi al lavoro. Il suo stomaco brontolava più forte che mai, e adesso sentiva aggrovigliarsi anche l'intestino. «Chiami un poliziotto» disse. «Potrebbe mantenere l'ordine.» «Non sopporto quegli zombie di metallo» rispose l'altro. «E, come me, non c'è nessuna persona benpensante che li sopporti. Siamo al punto che nessuno chiama i poliziotti se non c'è un'assoluta necessità. La gente tende a farsi giustizia da sola, perché non vuole rivolgersi ai poliziotti. E io pre-
ferirei che mi spaccassero tutto, e tenermi i danni, piuttosto che chiamare in aiuto uno di quei maledetti zombie.» «La tutela impersonale e incorruttibile della legge è sempre stata un ideale umano» disse fra John. «E ora che l'abbiamo...» «Senti, frate, se tu non fossi un religioso, ti insegnerei dove ficcarti il tuo ideale» disse il proprietario. «Mi sono spiegato?» «Ah» fece intanto fra John «ecco trovato il guasto. Si è bruciato il trasformatore dell'alimentatore. È una fortuna che il guasto sia così semplice. O forse non lo è affatto, se non possiamo sostituire il trasformatore. Ha dei pezzi di ricambio? Oppure se li fa fornire dal Sindacato Riparazioni?» Il proprietario sorrise. «Sì, di solito» disse. «Ma mio fratello mi ha detto di farmi una scorta di pezzi di ricambio, prima che il sindacato sappia del suo arrivo. Sai, una volta che si accorgeranno della sua presenza, ordineranno ai negozi di non vendermi più nulla. Oh, che bastardi! In un modo o nell'altro, trovano sempre il modo di farti chiudere!» «Be', anche loro devono vivere» disse fra John. «Bisogna ascoltare anche l'altra campana, nei conflitti tra lavoratori e industriali.» «Se la ficchino dove dico io, l'altra campana» disse il proprietario, stizzito, pestando il sigaro. «E poi, io non sono un industriale. Io sono un artigiano che deve pagare prezzi profumatissimi, da veri predoni di strada, per mandare avanti i miei macchinari, ecco cosa sono.» «Mi faccia un po' vedere i pezzi di ricambio» disse fra John. E s'immobilizzò. In cucina era giunto l'eco di colpi profondi, battuti sulla porta d'ingresso del locale. Il proprietario fece una faccia truce e disse: «Eccola là, la squadra. Ma non possono entrare se non apriamo la porta. O se non la buttano giù.» Corse in una stanza dietro la cucina, fra John lo seguì, e lì trovò il trasformatore che gli occorreva. Quando tornarono in cucina, il rumore dei colpi alla porta era più forte, e più nervoso. «Li lascerà entrare?» chiese fra John. «Se non li lascio entrare, mi sfondano la porta a calci» fece il proprietario. «E io non posso protestare. Secondo la legge, hanno il diritto di assicurarsi che nessuno, tranne il proprietario, ripari le apparecchiature elettroniche. Anzi, hanno presentato una legge che impedirà anche al proprietario di farlo.» «Sì, davvero continua a restringersi, la libertà individuale» disse fra John. «Sulla Terra, intendo dire. Ed è appunto per questo che gli individualisti e i non conformisti lasciano questo mondo, in gran numero, per i
pianeti di frontiera.» S'interruppe, aggrottò la fronte come se stesse pensando profondamente, e disse: «Forse è appunto questo, il motivo per il quale mi mandano su Wildenwooly.» Sospirò, e concluse: «Anche se ho l'impressione che non riuscirò mai ad arrivarci.» Infilò la testa nel pannello aperto e disse: «Cerchi di tenerli lontano per qualche minuto, senza ricorrere alla violenza. Può darsi che riesca a ripararlo prima che arrivino qui.» Non ci volle molto, perché fu sufficiente inserire il trasformatore nuovo al posto di quello bruciato e connettere i fili. Rise. Era talmente semplice, che il proprietario, se si fosse preso la briga di esaminare la situazione, avrebbe potuto eseguire da solo la riparazione. Ma quell'uomo, come moltissimi altri, riteneva che l'elettronica fosse una scienza talmente misteriosa e complicata da richiedere un esperto ogni volta. C'erano, è vero, moltissimi guasti che soltanto un tecnico di comprovata esperienza poteva riparare, ma questa volta le cose erano assai più semplici. Sfilò la testa dal portello proprio nel momento in cui il proprietario, spinto da quattro energumeni del Sindacato Riparazioni, entrava incespicando nella cucina. I quattro indossavano tute rosse e berretti blu; sul petto avevano lo stemma del sindacato, fulmine e cacciavite incrociati. Scorgendo fra John, s'immobilizzarono per la sorpresa; evidentemente non l'avevano visto dal televisore a circuito chiuso: avevano soltanto ricevuto l'ordine di andare a fermare un crumiro. Il capintesta del gruppo, un tipaccio grosso come un armadio, un metro e novanta, fronte bassa, mascella squadrata, che faceva subito pensare a un campione di lotta libera, si fece avanti. «Non so bene cosa tu ci faccia, qui dentro, frate» disse. «Ma farai bene a fornirmi una spiegazione convincente.» Un altro del gruppo, meno alto del primo ma ancora più massiccio, disse: «Forse il padre non sa quello che fa.» Il primo si giro di scatto verso il compagno. «Non è affatto un "padre"» ringhiò. «Se tu non appartenessi a un'altra chiesa, lo sapresti. È un religioso, un frate, un terziario o qualcosa di simile. Ma non è un sacerdote!» «Sono un terziario dell'ordine di san Giairo» disse l'interessato. «Fra John è il mio nome.» «Benissimo, fra John» disse l'uomo più alto. «Forse te ne sei stato chiuso in meditazione in convento per tanto tempo da non sapere che ci porti via il pane di bocca.»
«Sapevo quello che avrei fatto se non avessi riparato l'autocuoco» disse fra John. «Avrei tolto il pane di bocca a quest'uomo» indicò il proprietario «e avrei impedito anche a molte persone di allontanarsi, una volta tanto, da quelle orribili mense sotterranee.» «Tutto ciò che questo capitalista deve fare» ringhiò l'uomo alto «è di pagarci quanto gli chiediamo. Poi potrà dare da mangiare a tutti coloro che desidera.» «Be'» fece fra John «ormai il guasto è riparato.» L'omaccione divenne rosso in viso e strinse i pugni. «Vergogna» disse fra John. «Saresti pronto a colpire un uomo della tua fede, che per di più appartiene a un ordine religioso. Mentre invece il tuo compagno» e indicò l'altro «un uomo di un'altra fede, sarebbe pronto a comportarsi in modo molto più ragionevole.» «Il mio compagno è uno di quegli scomunicati della Luce Universale» disse l'omaccione. «Sempre pronto a venire incontro agli altri, anche se poi ci rimette.» «La tua vergogna, allora, è ancora maggiore» disse fra John. «Non sono venuto qui per farmi svergognare!» esclamò l'omaccione. «Sono qui per togliere di mezzo un untuoso, miserabile crumiro che si nasconde dietro una tonaca! Vergogna, anzi vergognissima a te, dico!» «E, scusa, esattamente, che cosa conteresti di fare?» disse fra John. Tremava tutto, non per la paura, ma per il timore di perdere il controllo di sé e di colpire l'omaccione, tradendo in tal modo i propri principi. Oltre ai principi dell'ordine a cui apparteneva. Se i suoi superiori fossero venuti a conoscenza dell'incidente! Che cosa avrebbero detto! Che cosa avrebbero fatto! «Per prima cosa, conto di buttarti fuori» disse l'omaccione. «E per seconda, conto di togliere il trasformatore che hai messo lì dentro.» «Non potete farlo!» esclamò il proprietario. «Quel che è fatto è fatto!» «Ascolti un attimo» disse fra John, rivolto ora al proprietario. «Non c'è bisogno di allarmarsi. Lasci che stacchino il trasformatore. Poi potrà rimetterlo lei stesso; loro non potranno impedirglielo.» Di nuovo l'omaccione divenne rosso in viso, strabuzzando gli occhi. «Non lo rimetterà a posto neanche morto!» fece. «Se il picchetto lo vedrà fare una cosa simile, caleremo su di lui come se cascasse giù il tetto della città!» «No, non potete impedirmelo» fece il proprietario, sorridendo astutamente. «Fate pure. Staccate il trasformatore. Io osserverò come fate, e poi
sarò capace di rimetterlo.» «Ha ragione» disse il secondo dei due, quello della Luce Universale. «Non possiamo far nulla, se la riparazione è così facile.» «Ehi» fece l'altro «da che parte stai? Sei anche tu un crumiro?» «No. Desidero solo rispettare la giustizia» rispose. «Comunque, potremmo noleggiare un picchetto umano per controllare il posto.» «Dai i numeri?» fece l'omaccione. «Sai benissimo che il Sindacato Picchetti Umani ha aumentato le tariffe, e che non possiamo permetterci di assumerli. E non abbiamo abbastanza uomini per il picchettaggio. Inoltre, quei maledetti del Sindacato Picchetti vogliono far passare una legge che impedisca di fare picchetti a chi non fa parte del loro sindacato. Che coraggio, quei vermi!» Fra John sorrise, scotendo il capo. «Vi avverto tutt'e due!» gridò l'omaccione, agitando il pugno verso il proprietario e il frate. «Se riparate di nuovo l'autocuoco, qui non ci sarà più un ristorante!» Il proprietario, che era adesso scarlatto in volto, d'improvviso si scagliò contro l'omaccione del sindacato, trascinandolo a terra. I due finirono sul pavimento, avvinghiati in un furioso ancorché non certo mortale combattimento. Un altro della squadra riparazioni cercò di dare un pugno a fra John. Questi lo scansò, e, prima di poter pensare, si sentì impadronire dai propri riflessi automatici. Alzò il sinistro per parare il pugno dell'altro, e, vedendo che l'uomo era fuori guardia, lo colpì alla bocca dello stomaco con un destro violentissimo. Si sentì percorrere da una vampata di gioia. Prima di poter riflettere sul comportamento che avrebbe dovuto tenere, si accorse di avere già fatto tutto ciò che non avrebbe dovuto fare. Ex pugile e dilettante di ogni sorta di lotta a mani nude, reduce di cento zuffe di porto, entrò in azione come una gatta rabbiosa che si vedesse minacciare i micini. Un colpo di taglio su un collo, un colpo di punta in una pancia molle, un colpo di tallone su un mento, una ginocchiata a un basso ventre, una gomitata a una gola, e in lizza rimase soltanto l'omaccione. Seguendo il precetto biblico di conservare il meglio per ultimo, fra John staccò l'uomo dal proprietario e si mise a lavorare su di lui con il taglio della mano, le dita, il ginocchio, il piede e il gomito. L'omaccione cadde come una sequoia assalita da cento tagliaboschi. Rialzandosi in piedi, il proprietario scorse con stupore che fra John era in ginocchio, aveva gli occhi chiusi, ed era intento a pregare.
«Che è successo?» fece l'uomo. «Sei ferito?» «Non fisicamente» rispose fra John, rialzandosi in piedi. Non riteneva che le preghiere estemporanee dovessero essere troppo lunghe. «Sono ferito per avere mancato.» «Mancato?» fece il proprietario, lanciando un'occhiata alle persone che lo circondavano e che erano o svenute, o intente a lamentarsi. «Uno di loro è riuscito a scappare?» «No» disse fra John «ma dovrei essere io colui che è steso a terra, e non loro. Mi sono lasciato prendere dalla collera, ho perso il rispetto di me stesso. Avrei dovuto lasciare che mi colpissero come intendevano, senza alzare un dito per colpire a mia volta.» «Balle!» esclamò il proprietario. «Considera la cosa sotto un altro punto di vista. Hai impedito a queste persone di diventare degli assassini. Poiché, credimi, avrebbero dovuto uccidermi, prima di lasciar loro mettere le mani sul mio autocuoco. No, no, hai reso un grande servizio a loro, e a me. Anche se non so cosa succederà quando ritorneranno al loro quartier generale. Ci troveremo in un inferno.» «Di solito, infatti, quella è la destinazione» disse fra John. «Cosa intende fare, ora?» «Ho cambiato idea» rispose il proprietario. «Questa volta è finita in una lotta libera, ma la prossima non finirà più così. Ecco cosa farò: trascinerò fuori questi energumeni... e se mi dessi una mano mi faresti un favore... e poi chiuderò il locale. Dopo di che, anche se mi spiace di avere a che fare con quelle teste di metallo, chiamerò i poliziotti. Possono mettere una guardia qui intorno e impedire che mi gettino una bomba sul locale. Gli zombie hanno tanti difetti, ma almeno non si lasciano spaventare.» Fra John aiutò il proprietario a trasportare i quattro del sindacato fuori del ristorante. Non appena i quattro furono sul marciapiedi, si udì la sirena della polizia. «Devo scappare» disse fra John. «Non posso rischiare che il mio nome compaia nei registri della polizia o sui giornali. I miei superiori non approverebbero questo tipo di pubblicità. E neanch'io la desidero» aggiunse, pensando ai suoi giorni precedenti la conversione. Era possibile che lo riportassero al Johns Hopkins per ulteriori osservazioni. «Cosa devo dire alla polizia?» fece il proprietario. «Dica loro la verità» disse fra John. «Dica sempre la verità. Mi spiace di avere mancato così miserabilmente nei suoi riguardi. Ho ancora molto da imparare. E ho ancora appetito» aggiunse, ma il proprietario non udì
quest'ultima frase, in quanto fra John, nella sua informe tunica marrone, correva già via per trovare riparo fra gli alberi, come un orso spaventato, all'arrivo dei poliziotti. Una volta giunto dietro gli alberi, si arrestò. Non perché volesse fermarsi proprio lì, ma perché era inciampato in una tovaglia da picnic e aveva infilato un piede in un'insalatiera piena di patate bollite. Precipitò a faccia in avanti in un vassoio d'insalata di pesce. E lì rimase, immobile per la sorpresa, soltanto vagamente consapevole delle risate intorno a lui. Quando riuscì a mettersi a sedere e si guardò intorno, vide che era circondato da sei ragazzi dai quindici ai diciott'anni, di ambo i sessi. Fortunatamente per lui, parevano avere preso la cosa dal lato buffo, perché se si fossero irritati avrebbero potuto ferirlo o magari ucciderlo. Erano vestiti da "puzzole", come la gente li chiamava e come amavano chiamarsi essi stessi. Cioè giubbetti a righe bianche e nere, con cappuccio aderente; anche le gambe erano dipinte a righe bianche e nere verticali. Le ragazze avevano gli occhi dipinti a grandi cerchi neri, e i ragazzi a cerchi bianchi, di vernice lavabile. «Leggi, il gran sacerdote!» esclamò uno dei maschi. Indicò, con un dito dall'unghia smaltata di rosso, fra John. «Non è favoloso?» «Uno schianto» fece una delle ragazze. Si sporse verso fra John e tirò una cordicella che penzolava a lato del suo giubbetto. I seni della ragazza scattarono fuori dal corpetto aderente e fissarono il frate con due occhi dalle pupille nere, bistrati di azzurro. Tutti gli altri lanciarono un urlo e rotolarono sull'erba, ridendo come pazzi. Fra John distolse lo sguardo. Aveva già sentito parlare di quel trucco, uno degli scherzi più diffusi tra le ragazze delle bande di delinquenti minorili. Il falso seno che saltava fuori come un pulcinella a molla dalla sua scatola, sotto il naso degli estranei allibiti. Ma non era sicuro che quei seni fossero falsi e di gomma... La ragazza infilò nuovamente l'apparato entro il giubbotto, ricostituendo il petto esageratamente voluminoso. Rivolse un sorriso a fra John, che dal canto suo osservò che si sarebbe trattato di una ragazza molto carina, se non si fosse dipinta la faccia a quel modo assurdo. «Che cosa ti morde, amico?» gli chiese. Fra John si alzò in piedi, e, mentre si ripuliva la faccia col fazzoletto, disse: «Sto scappando dalla polizia.» Questa frase gli guadagnò la loro immediata simpatia. «Ah, stai scavalcando le dame? Ehi, gente, non vi avevo detto che era
favoloso? E ha proprio l'aspetto del reverendo. No, adesso che lo raccolgo meglio, è un religioso senza reverendo, perché quelli li spianano a zero sulla cima.» Eccomi tra i miei simili, si disse fra John, e subito, dietro questa constatazione, dalla sua coscienza si alzò una protesta violenta: No, non sono i miei "simili"! Sono i miei fratelli, i miei figlioli, sono peccatori come me, ma non sono i miei "simili" in quel senso: io non sono uno di loro. Posso capirli, capire cosa sono e perché sono così, ma non voglio più essere dei loro. Non sono più disposto a ferire un uomo con malvagità come se ciò fosse una cosa senza importanza. «Incollati a me» disse la ragazza che gli aveva sparato in faccia i seni, di gomma o no. «lì porto in una tana sicura. Fra John interpretò che la ragazza gli chiedeva di darle la mano per accompagnarlo a un nascondiglio.» «Metti anche me nel giro» disse un ragazzo che si distingueva tra gli altri perché era molto alto e aveva gli occhi ravvicinati. «Sei un bel ficca» disse la ragazza, e fra John capì che il ragazzo li avrebbe accompagnati e che la ragazza riteneva che la cosa non fosse necessaria. La ragazza accompagnò fra John fuori del boschetto, poi per un sentiero con varie giravolte e in un altro boschetto dove dovettero scavalcare diverse coppie assorte in vari gradi di passione. Poi una collinetta e una cascata artificiale e un'altra macchia di alberi. Fra John si guardò ogni tanto alle spalle. Una vettura della polizia era ancora librata nell'aria, ma i poliziotti non parevano essersi accorti di lui. D'improvviso la ragazza lo fece sedere in uno spiazzo dietro alcuni cespugli molto fitti e si sedette anch'essa. Il ragazzo si infilò tra i due e cominciò a bere da una bottiglia di birra che si era portata dietro. La ragazza porse a fra John un panino, ch'egli divorò immediatamente. Lo stomaco brontolava più che mai. Quando fra John terminò di mangiare, la ragazza prese la birra dell'amico e la porse al religioso. Fra John ne mandò giù alcune sorsate, poi il ragazzo gliela tolse di mano. «Non fare troppa strada» disse, che, liberamente tradotto, doveva voler dire: "Non berla tutta". «A chi hai dato aria?» chiese la ragazza. Fra John interpretò la richiesta nel senso che la ragazza voleva sapere da chi stesse fuggendo. Allora spiegò di essere un terziario dell'ordine di san Giairo, e di non avere ancora preso i voti. Il suo anno di prova sarebbe terminato quella stessa settimana e per allora, se egli avesse voluto lasciare l'ordine, avrebbe potuto farlo. Non ci sarebbe neppure stato bisogno di av-
vertire i superiori. Non espose il suo sospetto, cioè che l'ordine di recarsi su Wildenwooly, proprio mentre l'anno stava per scadere, gli fosse giunto per permettergli di chiarire a se stesso se voleva rimanere con l'ordine di san Giairo. Disse che forse sarebbe entrato nel sacerdozio, ma che forse sarebbe stato più felice se fosse rimasto un umile fraticello. Gli sarebbero toccati tutti i lavori servili, certo, ma non sarebbe stato sfiorato dalle grandi responsabilità comportate dal sacerdozio. Inoltre, anche se non lo disse, non sarebbe riuscito a sopportarne l'umiliazione, se non gli avessero permesso di divenire sacerdote. E non era certo di esserne dégno. Cadde il silenzio, interrotto soltanto dal rumore che faceva il ragazzo mentre beveva la birra, fra John guardò al di là dei cespugli e vide che erano vicino a un recinto. Dietro il recinto c'era una sottile striscia di terra, e poi un fossato profondo. Al di là del fossato c'era una larga spianata, di pietre, e una montagnola artificiale con una caverna. Evidentemente si trattava della gabbia di un animale, allestita in modo da imitarne l'ambiente d'origine. Cercò con lo sguardo l'animale, ma non riuscì a scorgerlo. Poi vide il cartello, accanto al recinto: HOROWITZ FEROCE UCCELLO CARNIVORO DI GROSSE DIMENSIONI. NATIVO DEL PIANETA FERAL. MOLTO INTELLIGENTE. COSÌ CHIAMATO DAL NOME DEL SUO SCOPRITORE, ALEXANDER HOROWITZ. SI PREGA DI NON MOLESTARE TUTTA LA ZONA È SOTTO OSSERVAZIONE COSTANTE La ragazza sfiorò col dito il mento di fra John. «Gran cosa» disse. Poi si voltò verso il ragazzo e gli fece segno di andarsene, col pollice. «Perché non prendi aria?» disse. Il ragazzo la studiò socchiudendo le palpebre, poi disse: «Io? La suddetta cerca rigor mortis?» «Non mi sono mai fatta un frate» disse la ragazza, scoppiando a ridere e rivolgendo a fra John un'occhiata che gli parve di conoscere fin troppo be-
ne. «Farti il frate?» disse il ragazzo, con una smorfia di rabbia, ma fra John capì immediatamente la minaccia nascosta sotto la finta proposta della ragazza. «Farti il frate» ripeté il ragazzo. «Io stronco la suddetta, se questa non mi toglie il frate dai cosi.» Si voltò verso fra John: «Aria, trippa!» D'improvviso comparve un coltello in mano alla ragazza. La punta dell'arma era appoggiata alla gola del compagno. «Prevedo rigor mortis» gli disse, con voce roca, da megera. «Al desso?» fece il ragazzo, sorpreso, indicando fra John. La ragazza annuì col capo. «Al desso. Mai fatta un frate che mi fa, m'intendo? Tu, aria; alla superrazzo. Oppure rigor mortis al suddetto te, chiaro?» Il ragazzo appoggiò le palme a terra, dietro di sé, e cercò di allontanarsi dal coltello. La ragazza seguì il suo movimento, spostando in avanti l'arma. Mentre la ragazza seguitava a spostare la lama, la mano di fra John guizzò in avanti e le fece cadere il coltello di mano. Tutt'e tre si tuffarono per prenderlo, e le loro teste cozzarono. Fra John vide le stelle; quando si riprese, si accorse che il ragazzo lo aveva afferrato per la gola e stava cercando di strangolarlo. Fra John si difese assestandogli un colpo di punta alla bocca nello stomaco; il ragazzo lanciò un: "Oof!" e lasciò la presa. La ragazza, con in mano il coltello, saltò addosso al compagno, che si voltò e la colpì alla mascella con un pugno, facendola piombare a terra senza conoscenza. Poi, prima che fra John potesse avvicinarsi, il ragazzo lo afferrò per la tonaca e lo sollevò in aria. Fra John s'accorse di volare al di sopra del recinto. Colpì duramente il suolo, rotolò su se stesso, sentì che la terra gli sfuggiva da sotto, e si accorse di cadere nel fossato. Cadde, e in quel momento... udì una voce che gridava: «Ehi, John! Ehi, John! Sono qui, John!» Quando si riebbe, sentì ancora la voce: «Ehi, John! Sono qui!» Era steso sulla schiena, e fissava in alto, al di là delle grigie pareti del fossato, il tetto della città. Il tetto non era più trasparente: aveva il colore azzurro del cielo dell'Arizona. Al di là del tetto era scesa la notte, ma ora il tetto stesso forniva l'illuminazione, restituendo la luce che aveva accumulato nella giornata. Con un brontolio, fra John cercò di mettersi seduto per vedere se avesse qualche osso rotto. Ma non poté muoversi.
«Santa Madre di Dio!» disse in un soffio. «Sono paralizzato! San Giairo, aiutami tu!» Ma non era completamente paralizzato. Poteva muovere le braccia e le gambe. Però gli pareva di avere un grande peso sul petto, che lo teneva premuto contro il terreno. Voltò la testa, e per poco non svenne per la paura. Ecco il peso che lo schiacciava. Un enorme uccello... L'uccello era accovacciato al suo fianco, teneva una zampa gigantesca appoggiata sul suo petto, e lo schiacciava contro il suolo. Ora che vide che l'uomo aveva aperto gli occhi, l'uccellaccio si rizzò su una zampa, senza togliere l'altra dal suo petto. «Eh, John!» gridò. «Sono qui, John!» «Ti ho visto» disse fra John. «E che ne diresti di lasciarmi alzare?» Ma non si aspettava nulla da questa richiesta, perché era chiaro che l'uccellaccio (se poi era un uccello) aveva una facoltà di imitazione simile a quella dei pappagalli. Lentamente, mosse le braccia, cercando di non allarmare l'horowitz (perché appunto dell'horowitz doveva trattarsi). Con i tre artigli della zampaccia o con il becco, grosso come quello di uno struzzo, l'animale avrebbe potuto spacciarlo in un amen. Evidentemente si era lanciato nel fossato dopo di lui, ma fra John non poteva capirne lo scopo. Tenendo i gomiti aderenti ai fianchi, si portò le mani al petto per tastarselo. Si chiedeva che cosa avesse sul petto, che adesso era nudo perché l'uccello gli aveva stracciato la tonaca. Provò desiderio di vomitare. Sul suo petto c'era un uovo. Era un uovo piccolo, non molto più grande di un uovo di gallina. Non capiva perché una creatura così grande deponesse un uovo così piccolo, né perché lo avesse deposto su di lui. Ma l'uovo era proprio di quella dimensione, e su di lui era stato deposto. L'horowitz, scorgendo la mano dell'uomo intenta a esplorare l'uovo, emise un grido di protesta. Il grosso becco calò sulla faccia del frate, il quale serrò le palpebre e sentì l'odore nauseabondo del fiato dell'animale. Ma il becco non lo colpì. Dopo un istante, il frate riaprì gli occhi. Il becco distava pochi centimetri dalla sua faccia, pronto a completare il tragitto se avesse danneggiato l'uovo. Fra John recitò una preghiera più lunga del normale, poi cercò di trovare il modo di uscire da quel guaio. E non lo trovò. Non osava servirsi della forza per scappare, e non pote-
va, una delle rare volte nella sua vita, salvarsi con le chiacchiere. Girò la testa verso il ciglio del fossato, verso il punto da cui era caduto, pensando che qualche spettatore si sarebbe accorto di lui. Ma non c'era nessuno, e dopo qualche istante ne comprese la ragione. Probabilmente, la gente che aveva visto nel parco era andata a cena o al lavoro, e il turno successivo non era ancora arrivato al parco. Però, naturalmente, era anche possibile che nessuno si recasse lì per molto tempo. E non voleva gridare per paura di allarmare l'horowitz. Era costretto a rimanere immobile, con la pancia in aria, e attendere che il grande uccello lo lasciasse. Sempre che avesse intenzione di lasciarlo. E non pareva proprio. Per qualche suo motivo, l'uccello si era gettato nel fossato dopo di lui, per deporre l'uovo sul suo petto. E non era capace di risalire. La qual cosa significava che presto o tardi avrebbe avuto fame. «Chi avrebbe mai detto» mormorò fra John «che l'ordine di recarmi su Wildenwooly mi avrebbe portato a morire nello zoo cittadino, prima ancora di uscire dall'abitato? Strane e misteriose sono le vie del Signore!» Continuò a rimanere immobile, guardando ora il tetto luminoso, ora il grande becco e gli occhi neri e cerchiati di rosso dell'uccello, e di tanto in tanto anche il ciglio del fossato, nella speranza di scorgere un passante. Dopo qualche tempo cominciò a sentire prurito sul petto, proprio in corrispondenza dell'uovo. Il prurito divenne più forte di attimo in attimo. Provò il folle desiderio di grattarsi; folle perché assecondarlo sarebbe equivalso a morire. «Santa Madre di Dio» disse «se ora mi stai torturando per indurmi a pensare ai miei peccati prima di morire, ti confesso che ci stai riuscendo perfettamente. Cioè, ci riusciresti perfettamente se non fossi così assorbito dal prurito in sé e per sé. Non riesco a pensare ai miei peccati più gravi a causa di questo maledettissimo pizzicore. Devo grattarmi! Devo!» Ma non osò grattarsi. Grattarsi sarebbe equivalso a commettere suicidio, e la cosa, il peccato imperdonabile perché non permetteva il pentimento, era impensabile. O forse non proprio impensabile, dato che in quel momento vi stava pensando; com'era la parola esatta? Inattuabile? No, ma la cosa non importava. Se soltanto si fosse potuto grattare! Infine, dopo quelle che gli parvero ore, ma che in realtà fu al massimo un quarto d'ora, il prurito cessò. La vita ritornò sopportabile, anche se non certo piacevole. In quel preciso istante, il giovane che lo aveva gettato entro il recinto comparve in alto, sul ciglio del fossato.
«Recupero!» gridò il giovane. «Ti tiro una corda!» Fra John osservò il giovane che legava un capo della corda alle sbarre del recinto e gettava l'altro capo all'interno del fosso. Si chiese cosa si aspettasse: che si recasse fino alla corda e vi salisse come se niente fosse, senza badare alla presenza dell'uccello? Avrebbe voluto gridargli che non poteva alzarsi, ma temeva che la sua voce allarmasse l'animale. Comunque, non ebbe bisogno di intraprendere alcuna azione. L'istante in cui la corda toccò il fondo del fosso, l'horowitz tolse la zampa dal petto dell'uomo e corse alla corda. La afferrò con le sue piccole mani, e, puntando le zampe contro la parete del fosso, cominciò ad arrampicarsi. Fra John si rialzò e urlò: «Non far salire l'animale in cima al fosso, figliolo! Altrimenti ti ucciderà.» Il giovane fissò a occhi sbarrati l'animale che si arrampicava lungo la corda. Quando la testa dell'horowitz giunse al livello del terreno, il giovane uscì da quella sorta di paralisi. Si avvicinò all'uccello e gli assestò un forte calcio sulla testa. L'uccello emise un grido, lasciò la corda e cadde all'indietro. Colpì il fondo, rotolò un paio di volte e rimase a terra senza conoscenza, con gli occhi vitrei. Fra John non esitò. Corse alla corda e cominciò a issarsi a forza di braccia. Giunto a metà strada, sentì la corda tendersi sotto di lui. Guardò in basso, e vide che l'horowitz si era ripreso e lo stava inseguendo, su per la corda, strillando furiosamente e mescolando agli strilli le grida di: «Ehi, John! Sono qui, John!» Fra John salì ancora di mezzo metro, poi si tenne aggrappato alla corda con le sole mani, e colpì a calci la testa sotto di lui. Sentì il piede entrare pesantemente in collisione con qualcosa di duro, e ancora una volta l'uccello perse la presa e cadde all'indietro verso il fondo. Boccheggiante, restò a terra quel tanto che permise a fra John di ritirare la corda. «Dobbiamo informare il personale dello zoo» disse. «Altrimenti quella povera creatura morirà di fame. Inoltre, ho qui qualcosa che appartiene allo zoo.» «Non ti raccolgo proprio» disse il giovane. Fra John tradusse che il ragazzo non lo capiva. «Quello voleva rigor mortis il suddetto te.» «L'uccello non faceva altro che obbedire ai dettami della sua natura» disse fra John. «Diversamente da noi, non possiede il libero arbitrio.» «Libero no» disse il giovane. «Ehi, leggi il cocco!» «Vuoi dire: "Guarda l'uovo"?» rispose fra John. Abbassò lo sguardo per esaminare la strana situazione dell'uovo. Non era caduto dal suo petto
quando si era alzato, e continuava a stargli appiccicato alla pelle, come incollato. Provò a tirare, ma si tese anche la pelle. «La cosa è sempre più strana» disse. «Forse l'uccello emette una sostanza adesiva, quando depone l'uovo. Ma non ne comprendo il motivo.» Poi pensò che avrebbe fatto bene a ringraziare il suo salvatore, e disse: «Ti ringrazio per essere venuto alla mia riscossa. Anche se devo ammettere che la cosa mi ha sorpreso, dato che (e ti chiedo scusa se mi trovo a ricordartelo) sei stato proprio tu a buttarmi lì dentro.» «Ero andato fuori dei piloni» disse il giovane, per dire che aveva perso la testa. «Andato in buia nel leggere che la ganza tirava a te. Quella non è niente di buono. L'ho spedita al ricambio dell'avorio.» «Le hai buttato giù dei denti?» fece fra John. «Hai raccolto giusto» annuì il giovane. «Le ho detto aria. Dieci volte al giorno, quella ganza, me l'ha fatta leggere assai storta.» «Hai detto alla ragazza di non farsi più vedere perché ti metteva sempre nei pasticci?» «Raccolto. Ti voleva rigor mortis. E io sarei finito in gabbia a farmi svitare la materia grigia.» «Vuoi dire che se fossi morto ti avrebbero mandato in un istituto dove ti avrebbero alterato la personalità? Già. Comunque, il fatto che sei tornato indietro mostra che per te c'è speranza. Vorrei poterti ringraziare in modo più concreto, ma non ho nulla da darti.» D'improvviso, cominciò a grattarsi furiosamente, e aggiunse: «Tolti questi maledetti pidocchi che l'uccello mi ha attaccato. Posso fare qualcosa per te?» Il giovane alzò le spalle, senza interesse. «Siamo pari. Vai su Wildenwooly?» Fra John annuì. Il giovane alzò gli occhi al cielo, e fissò la cupola luminosa. «Ciao ciao, magari ci vado anch'io. Tutto il giorno qui non c'è nient'altro che il vai e vieni nel formicaio. Laggiù nello spazio è un altro vivere.» «Già. Allontanarti dalla Terra e andare a vivere su un pianeta di frontiera potrebbe fare di te un uomo nuovo» disse fra John. «Be', Dio sia con te, figliolo. Se giungerai su Wildenwooly prima di me, di' loro che sto facendo del mio meglio per arrivare. Santa Maria, fratello Francis diceva che si trattava di un viaggio di pochi chilometri!» Si allontanò. Dietro di lui si alzò un lamentoso: «Ehi, John! Sono qui, John! Il tuo vecchio socio, John!»
Rabbrividì e si fece il segno della croce e continuò a camminare. Ma non riuscì a dimenticare l'uccellaccio nel fosso. I parassiti che si rincorrevano sotto la sua tonaca e lo facevano quasi impazzire dal solletico glielo ricordavano costantemente. E così pure l'uovo che portava attaccato al petto. Fu la combinazione delle due cose a farlo decidere a cercare un punto isolato del laghetto e a buttarsi nell'acqua. Sperava di poter affogare i pidocchi e sciogliere la colla che faceva aderire l'uovo. Tuttavia la ricerca di un luogo solitario non risultò affatto semplice. Il primo turno era uscito dalle fabbriche sotterranee ed era già sulla spiaggia o nell'acqua. Fra John fece del proprio meglio per distogliere gli occhi dalle nudità, mentre passava in mezzo alla gente. Ma era impossibile non vedere le donne sdraiate sulla sabbia o in corsa accanto a lui. Così, dopo qualche tentativo, smise di distogliere la vista. Dopotutto, si disse, per tutta la vita ne aveva viste a mucchi, nei bagni o in casa propria, prima di entrare nell'ordine di san Giairo. E i fulmini della Chiesa non erano stati capaci di impedire ai fedeli di comportarsi come tutti gli altri, così come nei secoli precedenti non erano stati capaci di far allungare i costumi da bagno. Da tempo la Chiesa aveva smesso di tuonare contro la nudità nei bagni pubblici, e continuava a condannare soltanto la nudità nelle strade. Nessuno però sapeva quale poteva essere la sua politica di lì a vent'anni. Ogni tanto qualcuno si recava nudo nei negozi e per la strada, e la polizia lo multava per indecenza, così come nel XX secolo si multavano le donne che uscivano dalla spiaggia in calzoncini corti. Comunque, la Chiesa permetteva ai laici di spogliarsi nei bagni pubblici, ma lo vietava ai religiosi. Anzi, vietava loro di entrare in quei luoghi. E lui, fra John, recandosi laggiù al laghetto, disobbediva alle regole del proprio ordine, oltre che ai comandi della Chiesa tutta. Ma a volte la necessità comandava di infrangere le regole, e i pidocchi che lo addentavano pazzamente esigevano che se li togliesse di dosso, per non dare turpe spettacolo di sé. Fra John dovette fare mezzo giro del laghetto prima di trovare ciò che cercava. Si trattava di uno scoglio, riparato dietro una fitta macchia di cespugli. Attraversò il fogliame e per poco non mise il piede su una coppia che evidentemente pensava di essere sola nel Giardino dell'Eden. La scavalcò e proseguì fino a quando non la scorse più, anche se i rumori dei due continuavano a dargli fastidio. Rapidamente, si tolse la tunica e si lasciò scivolare nell'acqua. Rabbrividì al contatto con l'acqua più fredda della pelle, e poi, dopo un istante, non provò più freddo. Ricordando come la volpe della favola si fosse liberata
delle pulci, continuò a immergersi lentamente. Sperava che gli insetti si arrampicassero progressivamente sul suo corpo a mano a mano che l'acqua invadeva i loro territori, e che, una volta immersa anche la testa, si trovassero a galleggiare come naufraghi. Anche la testa andò sotto l'acqua. Tenne il respiro, contando rapidamente fino a centoventi. Poi risollevò la testa al di sopra del pelo dell'acqua. Non scorse la collezione di insetti affogati che si aspettava, tutti lì a galleggiare davanti al suo naso, ma evidentemente i pidocchi dovevano essersene andati, perché non lo mordevano più. Quindi cercò di staccare l'uovo dalla pelle, permettendo che l'acqua ammollasse la colla. Ma non ottenne alcun risultato. "È come se avesse messo radici nella mia pelle" si disse. Spalancò gli occhi, e impallidì. «Bontà di san Giairo! Forse è proprio ciò che mi è successo!» Si impose di dominare il panico e di pensare, se non proprio con calma, almeno con coerenza. Forse l’horowitz deponeva le uova come le vespe. Forse l'istinto gli comandava di deporre le uova su un animale morto, o magari vivo. E l'uovo poteva emettere delle sottili radici carnose, che si tuffavano nei vasi sanguigni dell'ospite. E dalle radici traeva il nutrimento che gli occorreva per crescere e per passare attraverso le varie fasi dell'embrione. L’horowitz poteva avere dunque seguito una linea evolutiva analoga a quella degli animali placentati, con la differenza che l'uovo si sviluppava all'esterno del corpo dell'ospite, anziché all'interno del corpo materno. Fra John non si sentiva molto portato ad assumere l'atteggiamento rigoroso e distaccato dello zoologo o del biologo. La faccenda che si era attaccata al suo corpo era una mostruosa sanguisuga, e gli stava succhiando il sangue. Non era detto che risultasse mortale. Inoltre, poteva uccidere l'uovo: in tal modo, pensava, le radici si sarebbero dissolte da sole. Ma c'era da considerare anche l'aspetto strettamente morale della cosa. L'uovo non era suo. Non poteva farne ciò che voleva. L'uovo apparteneva allo zoo. Fra John represse il desiderio di strapparsi via il tutto, uovo e radici, e di scagliarlo il più lontano possibile. Doveva restituirlo alle autorità dello zoo. Anche se avrebbe certamente perso un mucchio di tempo per raccontare la storia lunga e complicata di tutta la concatenazione di fatti che l'avevano condotto a farsi deporre un uovo sul petto. Ritornò al suo scoglio. E lì rimase di stucco. La tonaca era sparita.
Fra John aveva sempre pensato di essere molto forte di carattere. Ma si sentì le lacrime agli occhi, e prese a lamentarsi: «Sempre peggio! Ogni passo che faccio verso Wildenwooly mi porta indietro di due! Come potrò mai uscire da questo pasticcio?» Alzò gli occhi al cielo. Ma non era il cielo; era soltanto una coltre di luce proveniente da un tetto fabbricato dalla mano dell'uomo. Luce, ma non rivelazione. Pensò al motto dell'ordine di san Giairo. Fai come avrebbe fatto egli stesso. «Sì, ma lui non si è mai trovato in una situazione come la mia!» esclamò. Comunque, pensò, la meditazione sulla vita di san Giairo mostrava che aveva sempre scelto, tra due mali, il minore, a eccezione delle occasioni in cui tale scelta conducesse a un male più grande di quello evitato. Nel qual caso si sceglieva il male maggiore, dovendo scegliere. «John» disse, rivolto a se stesso «tu non sei un filosofo. Sei un uomo d'azione, per malaugurata che tale azione possa essere. Non ti sei mai affidato alla riflessione per uscire da qualche pasticcio. La qual cosa, forse, spiega perché ti trovi nel pasticcio attuale. Ma ti sei sempre affidato all'intima sapienza delle tue capacità di districarti. Agisci, dunque!» La prima cosa da fare era quella di vestirsi. Poteva rimanere nudo mentre cercava lungo la riva colui che gli aveva rubato la tonaca. Ma non gli pareva probabile che il ladro, o il burlone, si sarebbe fatto trovare facilmente. E non aveva nulla con cui coprire l'uovo che gli spuntava sul petto. Esso avrebbe certamente fatto nascere molta curiosità, e magari dei guai, entro breve termine. Sarebbero giunti i poliziotti, e lui sarebbe potuto finire in prigione. E avrebbe dovuto fornire molte spiegazioni, non soltanto alle autorità secolari, ma anche ai suoi superiori. No. Doveva trovare dei vestiti. Poi doveva trovare una moneta per telefonare al direttore dello zoo perché provvedesse all'uovo. E infine, in un modo o nell'altro, doveva trovare il denaro necessario a garantirgli il passaggio fino a Wildenwooly. Con circospezione, si infilò tra i cespugli. La coppia su cui era quasi inciampato era ancora al suo posto; ora parevano tutt'e due addormentati, l'uno nelle braccia dell'altra. Mormorando pianissimo: «È soltanto un prestito. Poi te lo restituirò» allungò la mano e prese l'abito dell'uomo dalla frasca a cui era appeso. Poi si ritirò dall'altra parte della riva e se lo infilò. L'esperienza risultò antipatica per tutta una serie di ragioni. Per prima
cosa, dava alla polizia un ulteriore motivo per mettersi alla sua ricerca. Per seconda cosa, quell'uomo, una volta che si fosse svegliato, si sarebbe trovato nelle stesse difficoltà di fra John, cioè di tornarsene a casa senza vestiti, anche se, indubbiamente, poteva mandare la donna a procurargliene degli altri. Tre, i calzoncini che si era infilato erano a pallini giallognoli e rosa molto appariscenti. Questo non soltanto era un crimine estetico, ma, quarto, i calzoncini stessi erano unti e bisunti, e puzzavano. Cinque, la maglietta che si infilò era di un blu intenso, con perline di vetro ricamate e penzolanti da tutte le parti. «Gusti orribili» fece fra John, rabbrividendo. Era ben cosciente di essere molto ridicolo. «Ma sempre meglio di un uovo che ti spenzola dal torace» concluse, e si diresse per il parco, verso la città. Contava di entrare in una cabina telefonica e di cercare l'indirizzo del direttore dello zoo. Poi di dirigersi alla sua casa per raccontargli la storia dell'uovo. Quel che sarebbe successo poi, si disse, era affidato alle mani di Dio e alla vivace (?) intelligenza di John Carmody. E, in un modo o nell'altro, avrebbe dovuto anche riportare gli abiti rubati (presi a prestito) al loro legittimo proprietario, insieme con qualche piccola ricompensa per il disturbo. Fra John si diresse a passo spedito verso i confini del parco. Non si guardava alle spalle, mentre passava accanto ai corpi bianchicci dei bagnanti intorno a lui. Ma provava una sensazione che da tempo non aveva più provato, la sensazione solleticante, allarmante, semi-esilarante che da un momento all'altro poteva echeggiare il grido di: "Al ladro!". E lui si sarebbe trovato in fuga, inseguito dalla gente. Non che la cosa fosse molto probabile. Il proprietario dei vestiti dormiva troppo profondamente. «Al ladro!» echeggiò il grido. Automaticamente, fra John affrettò il passo, ma non si mise a correre. Invece, indicò teatralmente un tizio, il quale, per una felice coincidenza, si stava allontanando di corsa. «Eccolo!» gridò. E la folla si levò attorno a lui, e si mise a inseguire l'innocente. Sfortunatamente, la folla incitata da fra John incontrò l'altra folla, quella che accompagnava l'uomo a cui fra John aveva preso (a prestito) i vestiti. Qualcuno spinse qualcun altro, e in due secondi il tutto diede origine a una zuffa in grande stile, che coinvolse tutta quella parte di parco. Si udì il fischietto di un poliziotto; alcuni uomini si tuffarono sull'uomo
di metallo e lo trascinarono a terra grazie al loro puro peso. Fra John si disse che era il momento migliore per darsela a gambe. Raggiunse il confine del parco e si avviò di corsa per una stradicciola stretta, formata dai recinti che circondavano i giardinetti delle case private. Era una sorta di labirinto, in cui poteva facilmente sfuggire a chiunque lo inseguiva da terra. Ma in alto sulla sua testa c'era una vettura della polizia, diretta alla rissa del parco, cosicché fra John volteggiò al di sopra di un recinto, leggero come un gatto nonostante la pancia. Toccò terra agilmente e si nascose dietro il recinto, afferrandosi a esso per non farsi scorgere dall'alto. I passi di qualcuno che correva giunsero davanti al recinto e si allontanarono. Fra John sorrise, poi il sorriso si irrigidì quando udì alle proprie spalle un sordo brontolio. Lentamente, girò il capo. Era nel giardino di una casa uguale a mille altre. Uno spiazzo di terreno erboso, con al centro una veranda. Nella veranda un tavolo, alcuni sgabelli, una sedia a sdraio e l'ingresso della casa sotterranea. Non c'era alcun essere umano in evidenza, ma in evidenzissima c'era qualcosa d'altro: un cane. Molto grosso, tipo dobermann, e pronto a saltargli addosso. Fra John ripeté immediatamente l'agile volteggio al di là del recinto, col cane così vicino che per poco non gli addentò il fondo dei calzoni. Una volta sulla strada, riprese a correre. Poi, dopo un centinaio di metri e dopo essersi guardato alle spalle, caso mai il cane l'avesse inseguito al di là del recinto, smise di correre e si limitò a camminare. Scorse una cabina telefonica e fece per entrarvi. Ma mentre era sulla soglia, qualcuno gli toccò il braccio. «Devo parlarti» gli disse il nuovo venuto. «Posso risolverti tutti i problemi in un atomo.» Fra John osservò con attenzione quell'uomo. Era un tizio di bassa statura, magrissimo, con una faccia da topo. Aveva i vestiti incastonati di falsi diamanti, e portava un cappello con una penna lunghissima. L'abbigliamento lo descriveva subito come un membro della classe più povera. Gli orecchini a forma di tibia, ma di plastica e non d'osso, lo facevano riconoscere per un criminale di bassissima tacca. «Ho varie conoscenze» disse, guardandosi intorno con circospezione, come un uccelletto timoroso che il gatto gli saltasse addosso da un momento all'altro. «Sentito di te quando ti hanno fregato la veste. Sentito anche dell'uovo. È proprio di quello, che ti voglio parlare. Tu me lo vendi; io
lo rivendo a un tizio di Phoenix. Un tizio strambo, sai? Mangia robe rare, quando le mangia si sente un dio. Da un mucchio di tempo fa la corte all'horowitz dello zoo per pigliargli l'uovo. Mi hai raccolto?» «Ti ho raccolto» disse fra John. «Vuoi dire che un riccone di Phoenix paga cifre forti per dei cibi difficili da trovare, un po' come quegli antichi cinesi che pagavano delle fortune per le cosiddette "uova di mille anni"?» «Mi hai raccolto giusto. So che ti serve un biglietto per Wildenwooly. Potrei metterci il dito.» «Tu mi tenti, amico» disse fra John. «Risolveresti tutte le mie difficoltà temporali.» «Ci stai? Affare fatto. L'unico fastidio è che prima devi andare a Phoenix. Se togliamo l'uovo qui, l'affare va in fumo. Se l'uovo è rigor mortis, niente grano l'amico ricco scuce.» «Tu mi tenti, amico» ripeté fra John. «Ma, fortunatamente, non dimentico che incontrerei anche delle difficoltà eterne, se trattassi con te. E inoltre, l'uovo attaccato con tanto zelo alla mia pelle non è di mia proprietà. Appartiene allo zoo.» L'uomo socchiuse le palpebre. «Niente affare, allora. Ma verrai con me lo stesso.» Estrasse da un taschino una specie di fischietto, e vi soffiò dentro. Non ne uscì alcun suono, ma si avvicinarono tre uomini, provenienti da una taverna. Tutti e tre avevano delle pistole ad aria compressa, che indubbiamente dovevano sparare proiettili paralizzanti. Fra John scattò come un serpente a sonagli. L'ometto dalla faccia da topo emise un gemito, e portò la mano alla tasca. Ma fra John lo mise fuori combattimento con un colpo di taglio, e poi se lo mise davanti, come uno scudo. Si udirono due piccoli tonfi quando i proiettili colpirono l'uomo svenuto. Poi, sollevandolo di peso, il religioso si avviò di corsa verso i tre avversari. Un altro dardo penetrò nella carne del suo scudo, e infine fra John saltò loro addosso. O furono loro a saltare addosso a lui; la cosa non fu molto chiara. Volò a terra; si rialzò; pistole ad aria compressa spararono e lo mancarono; qualcuno urlò quando venne colpito da un dardo; qualcun altro si piegò su se stesso quando alcune dita gli penetrarono nella bocca dello stomaco; poi l'impugnatura di una pistola colpì la tempia di fra John. Stelle... oscurità. Quando si ridestò, scoprì di essere steso su un lettino, in una stanza che non conosceva. E una persona, altrettanto sconosciuta, era china su di lui.
«Protesto contro questo sprezzante modo di violare i diritti più elementari di un essere umano» disse fra John. «Se pensa di poterla fare franca, si sbaglia. Io, un tempo, ero noto come John Carmody, l'unico uomo in tutta la Galassia che sia riuscito a fregare il famoso Raspold. Le darò la caccia, e una volta che l'avrò presa, io la... consegnerò alla polizia» terminò in tono blando. L'uomo sorrise e disse: «Non sono quello che lei crede, fra John. I malfattori che cercavano di rapirla sono stati catturati da una vettura della polizia subito dopo averla messa fuori conoscenza. È stato somministrato loro il siero della verità, e hanno reso piena confessione. E anche a lei è stato somministrato. Conosciamo tutta la storia. Che è una storia, se mi è concesso dirlo, assai stupefacente, anche per uno come me, che ne ha già sentite molte.» Fra John si rizzò a sedere e si sentì girare la testa. L'altro disse: «Se la prenda pure comoda. Mi conceda di presentarmi. Sono John Richards, direttore dello zoo.» Fra John si tastò il petto. L'uovo era ancora lì. «Senta un attimo» disse. «L'horowitz ripete parole a pappagallo. È stato lei a insegnargli a ripetere il suo nome, John? Raccoglie? Voglio dire, è giusto?» «Giusto» disse John Richards. «E se la cosa la può consolare, posso risolvere il suo problema.» «L'ultima volta che mi sono sentito rivolgere questa offerta, per poco non mi hanno rapito» disse fra John. Ma sorrise. «D'accordo. Qual è la soluzione?» «Si tratta di questo, Da molto tempo aspettavamo che l'horowitz deponesse l'uovo; avevamo già pronto anche l'animale ospite. La sua comparsa ha sconvolto un po' tutto; ma non è detto che la situazione non si possa ancora rimediare. Se è disposto a recarsi su Feral, pianeta d'origine dell'horowitz, e a permetterci di studiarla mentre è laggiù e l'uovo raggiunge il suo pieno sviluppo, allora noi...» «Signor Richards, lei mi dà una speranza. Ma mi pare di notare un sottofondo, nel tono delle sue parole, che non mi va. In particolare, quanto tempo richiederà, la cosa?» «Noi... il gruppo di studio su Feral... vorremmo che lei andasse su Feral a vivere come uno di loro mentre...» «Uno degli horowitz? E come? Mi uccideranno!» «No, no. Non uccidono l'animale ospite finché l'embrione non è... ehm... nato. Ma noi interverremo prima di quel momento. Lei sarà sotto stretta
osservazione, ogni momento. Non cercherò di ingannarla facendole credere che non ci siano rischi. Ma se è d'accordo, renderà un grande servizio alla scienza. Potrà fornirci un resoconto assai più dettagliato, in prima persona, di quello che potremmo raccogliere noi con i cannocchiali. «E poi, fra John, alla fine del suo servizio, le assicureremo un immediato passaggio per Wildenwooly. Oltre a un cospicuo contributo alla sua Chiesa.» «Quanto mi occorrerà, per arrivare su Wildenwooly?» «Circa dieci mesi.» Fra John chiuse gli occhi. Richards non capì se stesse pensando o se stesse pregando. Probabilmente, si disse, entrambe le cose. Poi fra John aprì gli occhi, e sorrise. «Se cercassi un lavoro sulla Terra, dovrei lavorare due anni per mettere da parte il denaro necessario. Forse potrei trovare qualche altro modo, ma così, su due piedi, non saprei proprio. E dal modo strano in cui si sono svolti gli eventi, ho l'impressione di essere stato come spinto in quel fossato, e di lì a lei. Almeno, mi piace pensare che le cose siano così. «D'accordo, mi recherò su Feral per quei mesi. Non è detto che la via migliore per il buon esito sia quella più rettilinea. A volte la riuscita si ottiene per vie traverse.» Fra John sedeva nella sala d'attesa dello spazioporto, e meditava. Soprattutto ringraziava Dio del fatto che l'ampia tonaca del suo ordine non permetteva di scorgere l'uovo attaccato al suo petto. Tra pochi minuti, una campanella avrebbe avvertito che era l'ora di salire sull'astronave. Arrivò un tale, posò la valigia sul pavimento e si sedette accanto a lui. Per qualche tempo l'uomo si guardò intorno, lanciando di tanto in tanto un'occhiata a fra John. Fra John sorrideva quando il loro sguardo si incontrava, ma non diceva nulla. Stava imparando il valore del silenzio. Infine l'uomo disse: «Va alla frontiera, padre?» «Mi chiami soltanto fratello» disse fra John. «Non sono un sacerdote, ma soltanto un terziario, un fratello laico. Sì, certo, vado verso la frontiera. Su Wildenwooly.» «Wildenwooly! Ma guarda che combinazione, anch'io! E, grazie a Dio, mi allontanerò dalla Terra! Che posto noioso, asfissiante! Quaggiù non succede mai nulla d'interessante. Sempre uguale: dentro e fuori, su e giù, un giorno dopo l'altro. Mentre invece, prendiamo Wildenwooly! Ecco un posto dove vorrebbe recarsi ogni uomo avventuroso, dal sangue caldo, amante dell'imprevisto! Laggiù, basta camminare per un paio di chilometri,
e ti capitano un mucchio di avventure strane e incredibili, più di quante non te ne capitino in tutta la vita su questa noiosa Terra!» «Dio la benedica!» fece fra John. L'uomo lanciò un'occhiata al religioso e poi cambiò posto. Non riuscì mai a capire perché la faccia di fra John fosse diventata rossa, e la sua mano sì fosse stretta a pugno, come per colpire. PARTE TERZA Prometeo L'uomo sul cui petto cresceva un uovo scese dall'astronave. Alla luce dell'alba, la prateria del pianeta Feral poteva assomigliare superficialmente alle pianure dell'Africa prima che l'uomo bianco vi ponesse piede. Era coperta di erba bruna, alta fino a mezza gamba. Qua e là crescevano alberi dal tronco massiccio, molto alti, isolati o in macchie che potevano comprendere da cinque, sei piante a una trentina o poco più. A perdita d'occhio, si vedevano vasti branchi di animali, che stavano brucando l'erba, oppure si abbeveravano in uno specchio d'acqua, a mezzo chilometro di distanza. Visti da lontano, assomigliavano ad antilopi, gnu, giraffe, maiali, ed elefanti. C'erano altre creature che parevano uscite dal Pliocene della Terra. E altre che non avevano alcun equivalente terrestre. «Non ci sono mammiferi» disse una voce alle spalle dell'uomo con l'uovo attaccato al petto. «Sono discendenti a sangue caldo dei rettili. Ma non mammiferi.» Colui che aveva parlato passò davanti a John Carmody. Era il professor Holmyard, sapientologo, zoologo, capo della spedizione. Un uomo alto, di circa sessant'anni, con un corpo magro e un viso ancor più magro e capelli bruni che un tempo erano stati rossi. «I due precedenti studi hanno stabilito che i mammiferi o non si sono mai sviluppati, o sono stati spazzati via ai loro primi stadi evolutivi. A quanto pare, rettili e uccelli sono partiti presto nella corsa dell'evoluzione. E sono riusciti a riempire la nicchia ecologica che i mammiferi hanno occupato sulla Terra.» Holmyard indicò una macchia d'alberi che si trovava a un paio di chilometri a nord. «Quella sarà la sua futura casa, finché l'uovo non si sarà aperto» disse. «E, se vorrà restarci anche dopo, ne saremo felici.» Fece un gesto in direzione dei due uomini che l'avevano seguito fuori dall'astronave; costoro si avvicinarono a Carmody. Gli tolsero il kilt, e af-
fibbiarono una cintura trasparente intorno al suo stomaco. Poi vi attaccarono una sorta di grosso tascapane, tutto coperto di piume, a strisce bianche e rosse. Sul cranio, che prima venne rasato, fu sistemato un parrucchino, con un'alta cresta di piume rosse e bianche. Poi, un falso becco irto di denti gli venne infilato sul naso. La bocca, però, venne lasciata libera. E infine venne fissato alla cintura, posteriormente, un cuscino dal quale s'innalzava un pennacchio bianco e rosso, a mo' di coda. Holmyard girò intorno a Carmody, meditabondo. Scosse il capo. «Quegli uccelli... se sono uccelli... non rimarranno ingannati neppure per un secondo, se le daranno un'occhiata da vicino. Però la sua forma generale è abbastanza convincente per permetterle di avvicinarsi passabilmente a loro, prima che decidano che è un simulatore. E allora, potranno essersi incuriositi a sufficienza da permetterle di unirsi a loro.» «E se mi attaccano?» disse Carmody. Malgrado la gravità di quel che poteva accadere, stava sorridendo. Si sentiva un po' folle, addobbato come un uomo pronto ad andare a un ballo mascherato travestito da gallinaccio. «Abbiamo già inserito il microfono nella sua gola» disse Holmyard. «La ricetrasmittente è piatta, segue la curva del suo cranio. Può chiedere aiuto, e noi accorreremo in forze. Non dimentichi di spegnere la ricetrasmittente, quando non la usa. La carica non potrà durare per più di cinquanta ore operative. Ma, nel deposito, potrà rinnovare la carica.» «E voi stabilirete l'accampamento in un luogo a una decina di chilometri a sud da qui?» disse Carmody. «Poi l'astronave decollerà?» «Sì. Non dimentichi una cosa: se... cioè, quando sarà accettato dal gruppo, torni al deposito nascosto e prenda gli apparecchi da ripresa. Potrà sistemarli nella posizione migliore per filmare gli horowitz.» «Quel se mi piace» disse Carmody. Guardò, attraverso la pianura, la sua destinazione, e poi strinse la mano agli altri. «Dio sia con voi» disse il fraticello. «E anche con lei» disse Holmyard, scuotendogli con calore mano e braccio. «Lei sta rendendo un grande servizio alla scienza, John. Forse a tutto il genere umano. E anche agli horowitz. Non dimentichi quel che le ho detto.» «Tra i miei molti difetti, non è compresa una cattiva memoria» disse John Carmody. Si voltò, e s'incamminò per la prateria. Pochi minuti dopo, il grande vascello si innalzò silenziosamente a una quota di sei metri, e poi sfrecciò via, in direzione sud. Un ometto solitario, ridicolo in quelle penne non sue, simile non tanto a
un essere umano quanto piuttosto a un gallo che ha perso una zuffa (e con proprio lo stesso umore, sul momento), John Carmody camminò rapidamente tra l'erba alta. Indossava delle scarpe trasparenti: i sassi sui quali camminava non gli ferivano i piedi. Un branco di creature equine smise di brucare l'erba, per guardarlo e fiutare l'aria. Le bestie avevano più o meno le dimensioni di grosse zebre, ed erano completamente glabre, con una pelle liscia e giallastra chiazzata di quadrati rossicci. Non possedendo coda, non avevano armi per proteggersi dalle mosche che volavano intorno a loro, ma le loro lingue lunghissime, diverse da quelle dei rettili, sfrecciavano veloci, e liberavano dalle mosche i fianchi dei compagni. Al passaggio di Carmody, sbuffarono come cavalli, e nitrirono. Dopo avere osservato Carmody per circa un minuto, improvvisamente ruppero i ranghi, e si allontanarono di circa cento metri. Poi fecero dietro-front, come un battaglione di soldati, e lo fronteggiarono di nuovo. Carmody decise che doveva essere stato il suo odore sconosciuto a spaventarli, e sperò che gli horowitz non fossero della stessa idea. In quel momento, stava cominciando a dirsi che era stato uno stupido a offrirsi per quel lavoro. Lo pensò soprattutto quando una grossa creatura, alla quale mancavano le lunghe zanne per risultare la copia di un elefante, sollevò la proboscide e barrì nella sua direzione. Comunque, la creatura cominciò subito a scuotere un albero, per far cadere i frutti, e non badò più a lui. Carmody continuò a camminare, non senza lanciare diverse occhiate di sottecchi, per assicurarsi che il mastodonte continuasse a tenere quell'atteggiamento d'indifferenza. Ormai, però, il suo ottimismo aveva ripreso il sopravvento. Nel cielo volavano stormi di migliaia di uccelli. Una creatura grossa come un elefante, ma con un collo lunghissimo e quattro corni nodosi sul muso, stava brucando le foglie di un albero. La creatura non gli prestò attenzione, e quindi Carmody non girò alla larga, ma camminò secondo una linea retta che lo condusse a meno di cinquanta metri dalla bestia. Poi, da una grande macchia d'alberi uscì un animale che Carmody riconobbe immediatamente come uno dei grandi carnivori locali. Aveva il colore di un leone, e anche la taglia e la forma erano quelle del leone. Ma non aveva peli. Il muso felino era raggrinzito in un ringhio silenzioso. Carmody si fermò, e fece una mezza giravolta per fissarlo direttamente. La sua mano scivolò tra le piume della falsa coda, e strinse l'impugnatura della pistola che vi era nascosta.
Era stato messo in guardia rispetto a quel tipo di carnivoro. «Solo se sono affamati, o troppo vecchi per catturare delle prede più veloci, la assaliranno» aveva detto Holmyard. Quella creatura non sembrava vecchia, e aveva i fianchi ben pasciuti. Ma Carmody pensò che, se aveva un temperamento come quello di un leone, avrebbe potuto assalirlo solo per ammazzare la noia. Il leonoide batté le palpebre, fissandolo, e sbadigliò. Carmody cominciò a respirare di nuovo. La creatura si accovacciò al suolo, e lo fissò, con uno sguardo uguale a quello di un curioso gattone troppo cresciuto. Lentamente, Carmody si allontanò. Il leonoide non fece alcun tentativo di seguirlo. Carmody si stava congratulando mentalmente, quando, alla sua sinistra, una creatura uscì rapidissima da una macchia d'erba alta. Carmody vide che si trattava di un horowitz non ancora adulto, ma non ebbe tempo per osservarlo. Il leonoide, sorpreso come Carmody, spiccò un gran balzo, e si mise a inseguire il fuggiasco. L'horowitz lanciò un alto grido di paura. Il leonoide ruggì. Aumentò la propria velocità. Improvvisamente, dalla medesima macchia erbosa dalla quale era uscito il giovane uccello, uscì rapidissimo un adulto. Questi impugnava una clava. Benché le sue forze fossero assai inferiori a quelle del grande carnivoro, l'uccello gli corse incontro, stringendo la clava nella mano, assai simile a una mano umana, e gridando. A questo punto, Carmody aveva già estratto la pistola dalla fondina, e aveva diretto la raffica di proiettili contro la belva. Il primo colpo esplose al suolo, a pochi metri dalla creatura; gli altri le tempestarono i fianchi. La belva si girò più volte, rotolò, e poi cadde. L'horowitz adulto lasciò cadere la clava, raccolse tra le braccia il giovane e cominciò a correre verso la macchia d'alberi, a un paio di chilometri di distanza, che era la sua casa. Carmody si strinse nelle spalle, ricaricò la pistola, e ricominciò a camminare. «Forse, posso sfruttare nel modo migliore questo incidente» disse ad alta voce. «Se queste creature sono capaci di provare gratitudine, dovrei essere accolto a braccia aperte. D'altra parte, potrebbero avere tanta paura di me, da lanciarsi in un attacco in massa. Bene, vedremo.» Quando si fu avvicinato alla macchia d'alberi, notò che i rami brulicavano di horowitz, femmine e giovani. E i maschi erano riuniti in parata da-
vanti ai primi tronchi. Uno, evidentemente un capo, era in piedi davanti al gruppo. Carmody non poteva esserne sicuro, ma gli parve che fosse quello che era corso via con il piccolo. Il capo era armato di bastone. Lentamente, rigidamente, camminò verso il nuovo venuto. Carmody si fermò, e cominciò a parlare. Anche il capo si fermò, e piegò il capo da un lato, con un gesto da uccello, per ascoltare. Era come tutti gli altri della sua specie, anche se un poco più grosso... alto circa due metri. I piedi avevano tre dita, le gambe erano grosse, per reggere il peso del corpo, e il corpo somigliava superficialmente a quello di uno struzzo. Ma non aveva ali, neppure rudimentali: aveva, invece, braccia ben sviluppate, e mani con cinque dita, benché le dita fossero molto lunghe, in proporzione a quelle di un uomo. Il collo era grosso, tozzo, e la testa era grande, con una scatola cranica ben sviluppata. Gli occhi castani erano disposti nell'ampia testa come quelli di un uomo; il becco corvino era piccolo, con minuscoli denti aguzzi, ed era nero. Il corpo era privo di piume, a eccezione delle penne a strisce rosse e bianche nella regione pelvica, sul dorso, e sul capo. Sul capo si alzava un'alta cresta di piume, e intorno alle orecchie c'erano penne rigide, che servivano a concentrare i suoni, come nei gufi. Carmody ascoltò per un minuto il suono della voce del capo, e di quelli che gli stavano dietro. Non riuscì a distinguere uno schema definito di linguaggio, nessun ritmo caratteristico, nessuna ripetizione di parole. Eppure, quelle creature pronunciavano delle sillabe definite, e c'era qualcosa di familiare nel loro modo di parlare. Dopo un minuto, riconobbe la somiglianza, e fu sorpreso. Stavano parlando come un bambino ancora all'età dei primi balbettii. Si muovevano lungo la scala dei fonemi possibili, su e giù, casualmente, a volte ripetendoli, spesso non ripetendoli. Carmody sollevò la mano lentamente verso la propria testa, con estrema prudenza, per non spaventarli con un gesto troppo brusco. Spostò il minuscolo interruttore della ricetrasmittente aderente al suo cranio, sotto la cresta posticcia, in modo che gli zoologi rimasti nell'accampamento potessero ascoltare. Carmody parlò sommessamente: il microfono inserito nella sua gola avrebbe riprodotto la sua voce per coloro che ascoltavano, all'accampamento. Descrisse la situazione, e poi aggiunse: «Ora entrerò in casa loro. Se sentite un rumore violento, sarà un bastone che mi ha rotto il cranio. O viceversa.»
Cominciò a camminare, non direttamente verso il capo, ma da una parte. Il grosso horowitz si voltò, quando l'uomo passò, ma non fece alcun gesto minaccioso con il bastone. Carmody continuò a camminare, benché si sentisse formicolare la schiena quando non poté più vedere il capo. Poi si diresse verso la folla; e vide che tutti si facevano da una parte, tenendo piegata la testa da un lato, emettendo quei loro balbettii infantili. Passò sano e salvo in mezzo alle creature, fino al centro della macchia d'alberi, simili a pioppi. Qui le femmine e i piccoli lo guardarono dall'alto. Le femmine somigliavano ai maschi, sotto molti aspetti, ma erano più piccole, e le creste erano brune. Quasi tutte portavano delle uova sul petto, oppure tenevano i più piccoli tra le braccia. I piccoli erano coperti dalla testa alla gamba da un piumino bruno-dorato, simile a quello dei pulcini. I più grandi, però, l'avevano perduto. Le femmine adulte parevano sconcertate come i maschi, ma i piccoli parevano essere soltanto curiosi. I più grandi erano scesi sui rami più vicini a Carmody, e lo stavano fissando. E anche essi balbettavano come bambini. Dopo qualche tempo, un horowitz adolescente (una femmina, come si capiva dalla cresta bruna) scese da un albero e lentamente si avvicinò a lui. Carmody infilò la mano nella borsa nascosta tra le penne della coda, e ne trasse una zolletta di zucchero. Per prima cosa, l'assaggiò lui stesso per mostrare alla giovane horowitz che non era velenoso e poi tese la mano, e produsse dei suoni aspiranti. La ragazzina (stava già pensando a quelle creature in termini umani) gli strappò di mano la zolletta, e ritornò di corsa verso il tronco dell'albero. Qui giunta, rigirò più volte la zolletta, ne saggiò la consistenza con la punta delle dita, e poi sfiorò appena lo zucchero con la punta della lunga, ampia lingua. Parve soddisfatta. Questo sorprese Carmody, perché non aveva pensato alla possibilità che delle espressioni simili a quelle umane potessero apparire su quei volti da uccelli. Ma il viso era largo e piatto e ben fornito di muscoli, e perciò capacissimo come quello di un uomo di riflettere delle emozioni. La ragazzina si infilò in bocca l'intero cubetto, e assunse un'aria estatica, rapita. Poi si rivolse al grosso horowitz (che intanto si era avvicinato ai due) e pronunciò una serie di sillabe. C'era un'evidente soddisfazione nella sua voce. Carmody porse un'altra zolletta di zucchero al capo, che la prese e se l'infilò nel becco. E sul suo viso si dipinse un'espressione soddisfatta. Carmody parlò ad alta voce, a beneficio degli uomini dell'accampamen-
to: «Mettete una buona provvista di zucchero nel deposito» disse. «E anche del sale. Credo che questa gente abbia una dieta priva anche di sale.» «Gente!» esplose la voce spettrale nel suo orecchio. «Carmody, non cominci a commettere degli errori antropocentrici, riguardo a queste creature.» «Lei non le ha conosciute» disse Carmody. «Forse lei può mantenere il distacco di uno zoologo. Ma io non posso. Umano è ciò che si comporta da essere umano.» «Va bene, John. Ma quando fa rapporto, fornisca solo una descrizione, e non si preoccupi delle sue interpretazioni. Dopotutto, io sono umano e, di conseguenza, aperto ai suggerimenti.» Carmody sorrise, e disse: «Va bene. Oh, adesso cominciano a danzare. Non so cosa significhi la danza, se sia qualcosa di istintivo o qualcosa che hanno inventato.» Mentre Carmody stava parlando, le femmine e i piccoli erano discesi dagli alberi. Avevano formato un semicerchio, e avevano cominciato a battere le mani all'unisono, ritmicamente. I maschi si erano radunati davanti a loro, e stavano saltando, balzando, girando, inchinandosi, facendo passi con le ginocchia piegate, come anatre. Lanciavano delle grida bizzarre e, di quando in quando, agitavano le braccia e saltavano in aria, come simulando il volo degli uccelli. Dopo circa cinque minuti, la danza ebbe improvvisamente termine, e gli horowitz formarono una fila, uno dopo l'altro. Il loro capo, primo della fila, camminò verso Carmody. «Oh, oh» disse Carmody. «Credo che stiamo assistendo alla formazione della prima fila di postulanti nella non-storia di questa gente. Solo che questi postulanti non chiedono pane, ma zucchero.» «Quanti sono?» domandò Holmyard. «Circa venticinque.» «Ha abbastanza zucchero?» «Solo se spezzo le zollette e ne do una piccola parte a ciascuno.» «Provi a farlo, John. E mentre lo fa, manderemo subito dell'altro zucchero al deposito, a bordo di una jeep. Poi, quando ce ne saremo andati, potrà condurli là.» «Forse riuscirò a condurli là. In questo preciso momento, sono preoccupato di quella che sarà la loro reazione, se non otterranno una zolletta a testa.» Cominciò a dividere le zollette in pezzetti piccolissimi, e ne posò uno in ogni mano tesa. Ogni volta, disse: «Zucchero.» Quando l'ultima della fila
(una madre, che teneva in braccio un neonato coperto di peluria) tese la mano, gliene restava soltanto un frammento. «È un miracolo» disse, sospirando di sollievo. «È stato appena sufficiente. Ora sono tornati a quelle che, presumo, sono le loro normali occupazioni. A parte il loro capo, e qualche bambino. Questi, come potete sentire, stanno balbettando come dei matti verso di me.» «Stiamo registrando i loro suoni» disse Holmyard. «Faremo un tentativo di analizzarli più tardi, per scoprire se possiedono una forma di linguaggio.» «So che dovete seguire la procedura scientifica» disse Carmody. «Ma io ho un orecchio molto allenato, come tutti i chiacchieroni, e sono già in grado di dirvi che non possiedono un linguaggio. Non nel senso che noi diamo alla parola, comunque.» Pochi minuti più tardi, disse: «Correzione. Per lo meno possiedono un principio di linguaggio. Una delle bambine si è presentata in questo momento, ha teso la mano, e ha detto: "Zucchero". Perfetta riproduzione della parola, se potete ignorare il fatto che non usciva da una bocca umana. Come un pappagallo, o un corvo.» «L'ho sentita! È assai significativo, Carmody! Se la piccola è stata capace di fare la correlazione con tale rapidità, deve essere capace di pensiero simbolico.» Aggiunse, in tono più moderato: «A meno che non sia stato un caso, naturalmente.» «Nessun caso. Ha sentito anche gli altri bambini chiedere dello zucchero?» «Debolmente. Mentre li osserva, cerchi di fornire loro qualche altra parola da apprendere.» Carmody sedette alla base di un grosso tronco, all'ombra dei rami, perché il sole cominciava a riscaldare troppo l'aria. L'albero aveva una corteccia spessa e rugosa, come un pioppo, ma tra i rami c'erano dei frutti. I frutti crescevano sui rami più alti, e a una certa distanza sembravano delle banane. La bambina gliene portò uno, glielo tese, dicendo, nello stesso tempo: «Zucchero?» Carmody avrebbe voluto assaggiare il frutto, ma non gli parve onesto ricevere senza dare in cambio quel che desiderava la bambina. Scosse il capo, in segno di diniego, benché non si aspettasse che lei interpretasse correttamente il gesto. Lei piegò il capo da un lato, e il suo viso mostrò delusione. Malgrado ciò, non ritirò il frutto. E Carmody, dopo essersi assicurato che avesse capito che era rimasto privo di zucchero, accettò il dono. Il
guscio richiese di essere battuto contro il tronco dell'albero, per aprirlo: si spezzò al centro, dov'era corrugato. Assaggiò un boccone, e riferì a Holmyard che aveva un sapore tra la mela e la ciliegia. «Non si nutrono soltanto di questi frutti» disse. «Mangiano anche i germogli di una pianta che somiglia al bambù. Inoltre, ne ho visto una catturare e mangiare un animaletto simile a un roditore, che è sbucato da sotto un macigno che la horowitz ha fatto rotolare. E si spidocchiano a vicenda, e mangiano gli insetti che trovano accanto alle radici dell'erba. Ne ho visto uno che tentava di prendere un uccello che stava mangiando i germogli del bambù. «Oh, il capo sta battendo una clava per terra. Interrompono tutto quello che stanno facendo, e si radunano intorno a lui. Sembra che si preparino a uno spostamento. Le femmine e i giovani hanno formato un gruppo. I maschi, tutti armati di bastoni, li circondano. Penso che anch'io mi unirò a loro.» La loro destinazione, scoprì Carmody, era una pozza d'acqua, situata a circa due chilometri di distanza. Era una piccola depressione del terreno, larga cinque o sei metri, e piena di acqua fangosa. Intorno a essa erano già presenti vari ammali: creature simili a gazzelle, un grosso suino con un'armatura somigliante a quella di un armadillo, vari uccelli che a una prima occhiata, da lontano, gli parvero horowitz, ma quando Carmody giunse accanto alla pozza, vide che erano alti soltanto un'ottantina di centimetri, che avevano le braccia assai più lunghe, in proporzione, di quelle degli horowitz, e che avevano la fronte inclinata. Forse erano forme che riempivano la nicchia ecologica che sulla Terra è occupata dalle scimmie. Gli animali fuggirono all'arrivo degli horowitz. Questi istituirono delle sentinelle, una a ciascuno dei quattro punti cardinali, e gli altri bevvero a sazietà. I giovani balzarono dentro l'acqua e sguazzarono, gettandosi l'acqua addosso e strillando allegramente. Quindi vennero sollevati dalle femmine e portati via, nonostante le proteste. Anche le guardie si recarono a bere, e poi il gruppo si accinse alla marcia di ritorno alla sua casa, il boschetto che aveva lasciato. Anche Carmody aveva sete, ma non gli garbavano né l'aspetto né l'odore dell'acqua, che gli dava l'impressione di contenere qualche animale morto. Si guardò attorno e vide che gli alberi, una decina, che circondavano la pozza erano diversi da quelli del boschetto. Si trattava di piante alte una quindicina di metri, con una corteccia liscia color marroncino chiaro e con poche fronde, le quali crescevano in un grosso ciuffo sulla cima. All'attac-
catura dei rami crescevano grappoli di frutti simili a zucche. Alla base degli alberi c'erano molte zucche vuote. Carmody ne raccolse una, spezzò l'estremità più piccola e tuffò la zucca nell'acqua. Poi gettò nell'acqua così raccolta una pastiglia disinfettante, presa dal tascapane posteriore. Bevve l'acqua con una smorfia, perché aveva davvero un saporaccio. La ragazzina che per prima gli aveva chiesto lo zucchero si avvicinò a lui, e Carmody le insegnò a bere dalla zucca. Lei rise (una risata che suonava quasi umana), spalancò il becco e vi versò l'acqua a sua volta. Approfittando della curiosità degli altri, Carmody mostrò anche a loro come prendere le zucche e riempirle d'acqua, e come portarle con sé fino al loro boschetto. In questo modo il primo manufatto venne inventato (o donato dall'alto) sul pianeta Feral. In pochi minuti, ciascun uccello ebbe le sue brave zucche piene d'acqua. E il gruppo, chiacchierando animatamente come un mucchio di bambini piccoli, riprese la marcia verso casa. «Non so se siano già abbastanza intelligenti da poter imparare una lingua» disse poi Carmody a Holmyard. «Infatti penso che se lo fossero, ne avrebbero già una. Comunque, si tratta senza dubbio degli animali più intelligenti che io abbia mai visto. Molto superiori allo scimpanzé e al delfino. A meno che non si tratti unicamente di una straordinaria capacità d'imitazione.» «Abbiamo esaminato all'analizzatore vari campioni delle parole da essi pronunciate» disse Holmyard. «Non abbiamo trovato distribuzioni ricorrenti che indichino la presenza di un linguaggio organizzato. E neppure di un linguaggio incipiente.» «Le dirò una cosa» rispose Carmody. «Se non altro, hanno certamente dei suoni con cui si riconoscono tra loro. Ho notato che quando vogliono richiamare l'attenzione del capo, dicono: "Whoot!" e il capo risponde. Inoltre la ragazzina che mi chiedeva lo zucchero risponde all'appello di: "Tutu". Perciò adesso userò questi suoni come loro nomi.» Carmody passò il resto della giornata a osservare gli horowitz e a fare rapporto a Holmyard. Riferì che nei momenti di pericolo o durante le attività comuni, come per esempio quella di andare ad abbeverarsi, il gruppo agiva come un'unica entità. Mentre invece, nel resto del tempo, pareva operare sotto forma di piccole unità familiari. La famiglia media pareva essere costituita di un maschio, vari piccoli e da una a tre femmine. Quasi tutte le femmine portavano un uovo sul petto o sull'addome, e Carmody riuscì a rispondere a un problema che aveva incuriosito Holmyard: se cioè
di norma le femmine depositassero le uova sul corpo di altre femmine, che così venivano poi ad allevare dei figli adottivi, oppure se, dopo avere deposto un uovo, se lo accostavano alla propria pelle. Verso sera, Carmody vide una femmina deporre un uovo e quindi premerlo contro il petto di un'altra femmina. In pochi minuti, dal guscio dell'uovo, fatto di una sostanza simile a cuoio, uscirono piccole propaggini carnose che si spinsero nel flusso sanguigno dell'animale ospite. «Credo che sia questo il comportamento abituale» disse Carmody. «Tuttavia c'è anche un maschio, uno solo, che al pari di me porta un uovo sul petto. Non so perché sia stato scelto proprio lui fra i tanti. Posso suggerire che al momento in cui è stato deposto l'uovo, la femmina e il suo compagno erano lontano dagli altri, e la femmina ha preso la decisione migliore. Non chiedetemi perché mai le femmine non si limitino ad attaccare l'uovo al proprio corpo. Forse c'è un fattore biochimico che impedisce all'uovo di attecchire sul corpo della propria madre. Forse qualche sistema di anticorpi. Non so. Ma ci dev'essere qualche ragione, anche se per il momento la conosce soltanto il Creatore degli horowitz.» «Non si tratta di un sistema di riproduzione seguito da tutti gli uccelli del pianeta» disse Holmyard. «C'è ogni sorta di specie: vivipare, ovipare, e ovovivipare. Ma l'ordine di uccelli a cui appartengono gli horowitz, che ne sono la specie più alta, l'ordine degli Aviprimati, presenta in ogni sua specie questa caratteristica. Dalla specie più alta a quella più bassa, tutte le specie appartenenti a questo ordine depongono le uova e poi le attaccano a un ospite.» «E come mai questa particolare linea filogenetica di creature non ha sviluppato il viviparismo?» chiese Carmody. «Mi pare che sia il miglior metodo per proteggere i nascituri.» «E chi può dirlo?» fece Holmyard (Carmody ebbe l'impressione che l'altro accompagnasse queste parole con una scrollata di spalle). «È una domanda che forse troverà risposta nel nostro studio. Dopotutto, questo pianeta è nuovo per noi. Non vi è stato ancora svolto uno studio esauriente. È stato un caso fortunato che Horowitz abbia scoperto questi uccelli durante la sua breve permanenza. E un altro caso fortunato è quello che ci ha fatto avere i fondi per finanziare le attuali ricerche.» «Una ragione per la gestazione esterna potrebbe essere questa: anche se l'embrione subisce dei danni o muore, l'ospite rimane illeso» disse Carmody. «Se invece l'embrione di una madre vivipara viene danneggiato, di solito la madre muore. Mentre ora, penso, anche se l'embrione è maggior-
mente esposto ai rischi, la portatrice del nascituro è relativamente esente da traumi.» «Non so» disse Holmyard. «La natura è una sperimentatrice. Forse, essa intende mettere alla prova questo metodo su questo pianeta.» "Egli intende mettere alla prova questo metodo, vuoi dire" pensò Carmody, ma non disse nulla. Il sesso del Creatore non contava. Lui e lo zoologo parlavano della stessa Entità. Carmody continuò a fornire informazioni. Le madri nutrivano i piccoli nella maniera solita degli uccelli, cioè masticando il cibo e poi rigurgitandolo in bocca ai figli. «Mi pareva assai probabile» disse Holmyard. «I rettili di qui hanno dato origine a una classe di animali a sangue caldo, ma nessuno di questi animali possiede peli, né ghiandole mammarie, neppure rudimentali. Gli horowitz, come le ho detto, si sono evoluti a partire da un uccello molto primitivo che adottò la vita arboricola pressappoco nel periodo in cui i suoi cugini cominciavano a dedicarsi al volo librato. Le grosse pieghe di pelle che pendono tra braccio e costole sono i resti del breve periodo in cui gli antenati degli horowitz planavano da un ramo all'altro: invece di continuare lungo questa direzione evolutiva, che li avrebbe portati al vero volo, rimasero legati agli alberi e divennero simili ai lemuri terrestri. «Almeno, questa è la nostra impressione. In realtà i fossili che abbiamo trovato sono ancora troppo pochi per poter affermare qualcosa in modo autorevole.» «Hanno certi gridi che costituiscono dei segnali per gli altri. Per esempio un grido di aiuto, un grido che invita l'altro a spidocchiare chi lo emette, un grido di allarme e così via. Ma non c'è altro. Cioè, alcuni bambini adesso conoscono le parole che vogliono dire "zucchero" e "acqua". Ma sanno anche riconoscersi tra loro con dei suoni particolari. Secondo lei, questo potrebbe essere il primo passo per la creazione di un linguaggio?» «No, non credo» disse Holmyard, sicuro di sé. «Se però riuscisse a insegnare loro a prendere un gruppo di parole diverse e a legarle in modo da dare una frase provvista di un senso compiuto, e se essi fossero capaci di unire, mediante il ragionamento, queste parole a formare frasi diverse dalla prima e adatte a situazioni diverse, allora direi che sono già decisamente entrati nella fase del linguaggio. Ma la possibilità che lei riesca a farlo è piuttosto remota. In fin dei conti, potrebbero semplicemente trovarsi in uno stadio prelinguistico, essere sul punto di acquisire il simbolismo verbale. Ma la avverto che per acquisirlo veramente potrebbero occorrere altri die-
cimila anni, o magari altri cinquantamila, prima che in loro si sviluppi questa abilità. Prima cioè che compiano il passo che separa l'animale dall'essere umano.» «Be', magari potrei dare io la spintarella» disse Carmody. «Chissà...» «Chissà cosa?» fece Holmyard, accorgendosi che Carmody taceva. «Sono davanti a una questione teologica che la Chiesa ha formulato vari secoli prima del viaggio interstellare» disse Carmody. «In quale preciso momento la scimmia divenne uomo? In quale momento la scimmia acquistò un'anima e...» «Gesù Cristo!» esclamò Holmyard. «So che lei è un frate, Carmody, ed è giusto che pensi a interrogativi di questo tipo! Ma, per piacere, non cominci ad almanaccare su problemi completamente slegati dalla realtà, come quello del momento esatto in cui un'anima viene infilata in un animale! Non permetta che queste... queste assurdità, tipo quanti angeli possono stare in punta a uno spillo... influenzino i suoi rapporti. La prego di rimanere aderente a un punto di vista strettamente scientifico e obiettivo. Si limiti a descrivere ciò che vede, e niente di più!» «Calma, calma, professor Holmyard! Non intendo fare altro. Ma non può rimproverarmi per questo mio interesse. Comunque, non sta a me decidere su una questione così importante. La lascerò ai miei superiori. Il mio ordine, l'ordine di san Giairo, non si occupa molto di speculazioni teologiche; siamo soprattutto persone d'azione.» «Va bene, va bene» disse Holmyard. «Era tanto per mettere alcune cose in chiaro. Allora, intende introdurre il fuoco fra gli horowitz questa notte?» «Non appena farà buio.» Carmody passò il resto della giornata a insegnare alla piccola Tutu le parole albero, uovo, zucca, alcuni verbi di cui le mostrò il significato a gesti, e i pronomi. La bambina imparava molto in fretta, e Carmody era sicuro che non si trattava di una capacità puramente imitativa di ripetere le parole, come i pappagalli. Per fare la prova, le fece una domanda. «Tu vedi l'albero?» disse, indicando un grande albero da frutta, simile a un sicomoro. La bambina annuì (aveva imparato da lui il modo di annuire col capo) e rispose con la sua strana voce da uccello: «Sì, Tutu vede l'albero.» Poi, prima che Carmody potesse formulare un'altra domanda, la bambina disse, indicando il capo: «Tu vedi Whoot? Tutu vede Whoot. Lui horowitz. Io horowitz. Tu...»
Per un attimo, Carmody rimase senza parole, e la voce di Holmyard gli risuonò all'orecchio con il suo suono stridulo: «John, l'ha sentita? È capace di parlare e di capire la nostra lingua! E in un così breve tempo, per di più! John, questa gente doveva essere pronta per acquisire un linguaggio! E noi gliel'abbiamo dato!» Carmody poteva udire il respiro affannoso di Holmyard, come se l'uomo fosse stato accanto a lui. Disse: «Si calmi, caro amico. Anche se non posso biasimarla, se è così emozionato.» Tutu piegò il capo da un lato, e disse: «Tu parli a...» «Io un uomo» disse Carmody, rispondendo alla precedente domanda. «Uomo, uomo. E io parlo a un uomo... non io. Uomo lontano.» Poi, rendendosi conto che Tutu non poteva comprendere il significato della parola "lontano", indicò la distanza con un ampio gesto del braccio, l'indice puntato verso l'orizzonte della prateria. «Tu parli a... un uomo... lontano?» «Sì» disse Carmody, desideroso di abbandonare quell'argomento. La bambina non era preparata a comprendere una spiegazione della sua capacità di comunicare attraverso grandi distanze, così le disse: «Io dico a te un giorno...» E qui s'interruppe di nuovo, perché non aveva parole sufficienti per spiegare lo scorrere del tempo. Anche questo avrebbe dovuto attendere. «Io faccio fuoco» disse. Tutu continuò ad apparire perplessa, come se avesse compreso solo la prima parola della frase. «Io mostro a te» disse Carmody, e cominciò a raccogliere fasci d'erba secca e rami da un albero secco. Fece un mucchio di tutto quanto, e poi strappò dei ramoscelli e dei piccoli rami secchi, che posò accanto alla prima pila. A questo punto, molti bambini e alcuni adulti si erano riuniti intorno a lui. Prese dalla borsa nascosta sotto le piume della coda una pietra focaia, e un pezzo di pirite. Aveva portato con sé le due cose dall'astronave, perché gli zoologi gli avevano detto che quella regione era povera di entrambi i minerali. Mostrò i due pezzi ai presenti e poi, dopo sei tentativi, riuscì a produrre una scintilla. La scintilla cadde sull'erba, ma non attecchì. Tentò altre tre volte, prima che una scintilla attecchisse. Dopo pochi secondi, il fuoco era già acceso, e Carmody poté scagliare sopra di esso dei rametti, e poi dei rami secchi. Quando si alzò il primo guizzo di fiamma, tutti gli astanti mormorarono,
spalancando gli occhi. Ma non fuggirono, come Carmody aveva temuto. Invece, cominciarono a lanciare dei richiami che attrassero gli altri. Ben presto, l'intera tribù si riunì intorno a lui. Tutu, dicendo: «Au! Au!» (che Carmody interpretò come un suono di sorpresa o di piacere per una visione di bellezza) tese la mano, per afferrare le fiamme. Carmody aprì la bocca, per dire: «No! Fuoco cattivo!» Ma la richiuse immediatamente. Come poteva dirle che qualcosa poteva essere molto dannoso e, nello stesso tempo, molto buono? Si guardò intorno, e vide che una delle bambine in piedi dietro la folla stava tenendo in mano un roditore, delle dimensioni di un topo. La piccola era così affascinata dallo spettacolo del fuoco, che ancora non si era infilata nel becco l'animaletto vivo. Carmody si avvicinò a lei, e l'attirò vicino al fuoco, in un punto dove tutti potevano vederla. Poi, non senza fatica nel vincere la riluttanza della piccola (dovette fare molti gesti rassicuranti) riuscì a farsi consegnare il roditore. Con un certo disgusto, batté la testa della bestia contro una roccia, per ucciderla. Poi estrasse il coltello, tolse la pelle, sventrò e decapitò la creatura. Poi affilò un lungo bastone, e vi infilzò il roditore, come su uno spiedo. E infine, prese Tutu per il gomito, e la guidò vicino al fuoco. Quando la bambina sentì l'intenso calore indietreggiò. Carmody le permise di farlo, dicendo: «Fuoco caldo! Brucia! Brucia!» Tutu lo guardò con occhi spalancati, e Carmody le sorrise, e le accarezzò la cresta piumata. Poi si accinse ad arrostire il topo. Subito dopo, tagliò l'animaletto in tre parti, fece raffreddare i pezzi, e ne diede uno alla piccola che gli aveva dato il topo, uno a Tutu, e uno al capo. Tutti e tre assaggiarono la porzione, dapprima impacciati, e nello stesso istante emisero un uguale commento estatico: «Ah!» Carmody non riuscì a dormire molto, quella notte. Tenne acceso il fuoco, mentre l'intera tribù sedeva intorno alle fiamme, e le ammirava. Diverse volte, alcuni grandi animali, attirati dalla luce, si avvicinarono tanto da permettere a Carmody di vedere i loro grandi occhi luminosi. Ma gli animali non tentarono in alcun modo di avvicinarsi ulteriormente. Il mattino dopo, Carmody parlò con Holmyard: «Almeno cinque bambini sono a un passo da Tutu, nell'apprendimento della lingua» disse. «Finora, nessuno degli adulti ha mostrato qualche inclinazione a ripetere anche una sola delle parole, ma forse i loro modelli di comportamento sono troppo rigidi per imparare. Non so. Oggi cercherò di lavorare sul capo, e su alcuni altri. Oh, sì, quando lascerete delle munizioni nel deposito, volete an-
che lasciare una fondina e un cinturone per la pistola? Non credo che li troveranno troppo strani. A quanto pare, sanno che io non sono un vero horowitz. Ma a quanto sembra, la cosa per loro non ha la minima importanza. «Oggi ucciderò un'antilope, e insegnerò loro a cuocere la carne su grande scala. Ma saranno svantaggiati, finché non riusciranno a trovare selce, o altri minerali, per fabbricarsi dei coltelli. Comincio a credere che sia necessario condurli in un luogo nel quale possano trovare il necessario. Lei può suggerirmi qualcosa?» «Usciremo con la jeep, e vedremo di trovare un luogo adatto» disse Holmyard. «Ha ragione. Anche se fossero capaci di imparare a modellare attrezzi e contenitori, non si trovano in una regione adatta a sviluppare questa capacità.» «Perché non ha scelto un gruppo residente nelle vicinanze di una regione ricca di minerali?» «Soprattutto perché è stato in questa regione che Horowitz ha scoperto le creature. Noi scienziati siamo capaci di rimanere in un vicolo cieco come chiunque altro, così non abbiamo saputo leggere nel futuro. Inoltre, non avevamo la minima idea che quegli animali... uh... queste persone, se davvero meritano la definizione... fossero così ricche di potenzialità.» In quel preciso momento Tutu, tenendo in mano una cavalletta grossa come un topo, si avvicinò a Carmody. «Questo?...» «Questo una cavalletta» disse Carmody. «Tu bruci... il fuoco?» «Sì, io brucio sul fuoco. No, non brucio. Io cuocio sul fuoco.» «Tu cuoci sul fuoco» disse lei. «Tu dai a me. Io mangio; tu mangi.» «Adesso ha imparato una nuova preposizione... credo» disse Carmody. «John, perché questa grammatica ridotta?» domandò Holmyard. «Perché evita "è" e ripete sempre il pronome?» «Perché "è" non serve» rispose Carmody. «Molte lingue ne sono prive, come lei sa. In quanto alla semplificazione portata dalla ripetizione del pronome, permette di evitare le irregolarità nella coniugazione dei verbi. Del resto, è la tendenza della lingua parlata, e penso soltanto di allinearmi con quello che sarà un prossimo sviluppo delle lingue terrestri. «Quanto al fatto che io insegno loro una lingua da semianalfabeti, be', penso che la lingua degli analfabeti finirà col trionfare. Lei sa che già oggi, nelle nostre scuole, gli insegnanti faticano a convincere gli studenti delle classi agiate a rinunciare a servirsi del gergo sbrigativo delle classi econo-
micamente inferiori.» «D'accordo, d'accordo» disse Holmyard. «Comunque, non ha importanza. Gli horowitz non hanno alcuna idea... per quello che ne so... della differenza. Grazie a Dio, non sta insegnando loro il latino!» «Un momento!» esclamò Carmody. «A questo non avevo pensato! Perché no? Se gli horowitz riusciranno un giorno a raggiungere uno stadio di civiltà che permetta loro di avere il volo interstellare, in questo modo sarebbero sempre in grado di parlare con i preti, dovunque vadano.» «Carmody!» Carmody ridacchiò, e disse: «Scherzavo, professore. Ma ho anche una proposta seria da fare. Se altri gruppi dovessero mostrarsi ugualmente capaci di apprendimento linguistico, perché non insegnare a ciascun gruppo una lingua diversa? Solo un esperimento? Questo gruppo sarebbe la nostra scuola indoeuropea; un altro gruppo, la scuola orientale; un altro ancora, la scuola Amerinda; e un altro, infine, la scuola bantu. Sarebbe di enorme interesse vedere come i diversi gruppi saprebbero svilupparsi socialmente, tecnologicamente, e filosoficamente. Ciascun gruppo seguirebbe le linee generali di evoluzione sociale che i suoi prototipi hanno seguito sulla Terra? Il caratteristico tipo di linguaggio usato da un gruppo lo porterebbe su una strada particolare, durante la sua scalata alla civiltà?» «Un'idea allettante» disse Holmyard. «Ma sono contrario. Gli esseri senzienti hanno abbastanza barriere, nel comprendersi vicendevolmente, senza che sia necessario porre degli altri ostacoli, come le lingue diverse, sulla loro strada. No, credo che a tutti debba essere insegnata la stessa lingua. Un solo linguaggio darebbe loro per lo meno un elemento unificatore. Anche se Dio solo sa in quanti dialetti si ramificherà presto la loro lingua.» «D'accordo, allora; continuerò a insegnare loro una lingua da uccelli» disse Carmody, sorridendo. Una delle prime cose che dovette fare fu quella di correggere Tutu sul significato della parola albero. La bambina stava insegnando ad alcuni dei suoi coetanei quel poco che era riuscita a imparare della lingua fino a quel momento, e stava puntando la mano verso un pioppo, e gridava: «Albero! Albero!» Poi puntò la mano verso un altro pioppo, e tacque. Pensierosa, lanciò un'occhiata a Carmody, ed egli capì in quel momento che la bambina lo considerava un "albero". Ma la parola, per lei, significava un'entità o una cosa individuale. Non aveva alcun concetto generico di albero. Carmody cercò di insegnarle la cosa, illustrandone il significato. Indicò
il secondo pioppo e disse: «Albero.» Poi indicò un altro degli alberi alti e sottili, e ripeté la parola. Tutu piegò il capo da un lato, e un'evidente perplessità si dipinse sul suo viso. Carmody la confuse ulteriormente, indicando i due pioppi e chiamandoli ciascuno con il suo nome. Poi, improvvisando, creò un nome per gli alberi alti e sottili, e disse: «Tumtum.» «Tumtum» disse Tutu. «Albero tumtum» disse Carmody. Indicò il pioppo: «Albero pioppo.» Puntò la mano verso le distese della savana: «Rovo. Albero rovo.» Fece un gesto che includeva ogni cosa: «Tutto albero.» I giovani, accanto a Tutu, non parvero afferrare il significato di quella spiegazione, ma lei rise... una risata da corvo... e disse: «Tumtum. Pioppo. Rovo. Tutto albero.» Carmody non capì se avesse compreso quello che le aveva detto, o se lo stesse solamente scimmiottando. Poi la bambina disse, rapidamente (forse era capace di interpretare l'espressione di frustrazione che era comparsa sul viso di Carmody): «Albero tumtum. Albero pioppo. Albero rovo.» Sollevò tre dita, e fece un largo gesto con l'altra mano. «Tutto albero.» Carmody ne fu compiaciuto, perché era sicuro che ora Tutu conosceva "albero" non solo come un termine individuale, ma anche come termine generale. Non sapeva come spiegarle la differenza tra un albero e un arbusto, ma la cosa, si disse poi, non aveva importanza. Era meglio non far nascere confusioni. «Sembra che stia facendo un lavoro formidabile» disse la voce di Holmyard. «Qual è il prossimo impegno sulla sua agenda?» «Penso di filarmela, a un certo momento, e di arrivare al deposito, per prendere lo zucchero e le munizioni» disse Carmody. «Prima di quel momento, potrebbe fornire il deposito di una lavagna, di un po' di carta, e di matite?» «Non dovrà prendere appunti» disse Holmyard. «Ogni parola che lei dice viene registrata... credevo di averglielo detto, una volta» aggiunse lo scienziato. «Non ho la minima intenzione di prendere appunti» disse Carmody. «Intendo cominciare a insegnare loro a leggere e a scrivere.» Ci fu silenzio per diversi secondi, e poi: «Che cosa?» «Perché no?» replicò Carmody. «Anche a questo punto, non sono del tutto certo che siano davvero in grado di comprendere la lingua. Sono sicu-
ro al novantanove per cento, sì. Ma voglio essere sicuro al cento per cento. E se riescono a capire la lingua scritta, non ci sarà più alcun dubbio. «Inoltre, perché aspettare ancora per molto? Se non riescono a imparare ora, potremo tentare in seguito. Se imparano subito, non avremo perso tempo.» «Devo chiederle scusa» disse Holmyard. «Mancavo d'immaginazione. Avrei dovuto pensare a questo passo. Sa, John, me l'ero presa per il fatto che lei, per una pura combinazione, fosse stato scelto per compiere questa prima ricerca tra gli horowitz. Ero convinto che uno scienziato esperto, preferibilmente io, doveva essere scelto per il primo contatto. Ma adesso mi rendo conto che avere mandato lei non è stato un errore. Lei possiede quello che noi professionisti perdiamo spesso: l'immaginazione entusiastica del dilettante. Conoscendo le difficoltà, o anche le improbabilità, ci lasciamo condizionare dalla troppa prudenza.» «Oh, oh!» disse Carmody. «Mi scusi, ma sembra che il capo stia organizzando tutti per qualche grande operazione. Sta correndo dappertutto, urlando le sue sillabe senza senso come un pazzo, e indicando il nord. Sta anche indicando i rami degli alberi. Oh, adesso capisco cosa vuol fare. Quasi tutti i frutti sono stati mangiati. E vuole che lo seguiamo.» «In quale direzione?» «A sud. Verso di voi.» «John, c'è una bellissima valle, che si trova circa millecinquecento chilometri a nord da qui. L'abbiamo scoperta durante l'ultima spedizione, e l'abbiamo notata perché è più elevata, più fresca, più irrigata, e più fertile. E non solo contiene selci e pietre focaie, ma anche minerali di ferro.» «Sì, ma il capo, evidentemente, vuole che andiamo nella direzione opposta.» Ci fu una pausa. Finalmente, Carmody sospirò, e disse: «Ho ricevuto il messaggio. Lei vuole che li conduca a nord. Be', sa benissimo quel che significa.» «Mi dispiace, John. So che significa conflitto. E non posso ordinarle di combattere il capo. Cioè, se per lei è necessario combattere.» «Credo proprio che sia necessario. Un vero peccato, direi; non chiamerei esattamente questo luogo il Giardino dell'Eden, ma per lo meno non è mai stato versato del sangue, tra questa gente. E ora, perché noi vogliamo sondare le loro potenzialità, guidarli a cose più grandi e più elevate...» «Non è obbligato a farlo, John. E non me la prenderò con lei, se si limiterà a seguirli e a studiarli, dovunque essi vadano. Dopotutto, abbiamo rac-
colto un numero di dati assai superiori ai nostri preventivi. Però...» «Però, se io non provo ad assumere le redini del comando, questi esseri potranno restare a un livello infimo per molto, molto tempo. Inoltre, dobbiamo stabilire se hanno capacità tecnologiche. Così... il fine giustifica i mezzi. Come dicono i gesuiti. Io non sono un gesuita, ma posso giustificare la premessa sulla quale stiamo basando la logica di questa discussione.» Carmody non disse altro a Holmyard. Camminò verso il robusto capo, si fermò con aria decisa davanti a lui, e, scuotendo fieramente il capo, e indicando il nord, gridò: «Noi andiamo questa parte! Noi non andiamo quella parte!» Il capo smise di strillare i suoi ordini, piegò la testa da un lato, e fissò Carmody. Il suo viso, privo di piume, diventò rosso. Carmody non riuscì a stabilire, naturalmente, se fosse il rossore dell'imbarazzo o della collera. Per quel che aveva potuto determinare, la sua posizione in quella società era del tutto particolare... dal punto di vista della società. Non aveva impiegato molto tempo per stabilire che esisteva un ordinamento gerarchico, tra gli horowitz. Il grosso horowitz poteva sopraffare chiunque volesse. Il maschio che si trovava subito dopo di lui, in quella gerarchia, non poteva o non voleva resistere all'autorità del capo. Ma a sua volta poteva sopraffare tutti quelli che erano sotto di lui. E così via. Tutti i maschi, a eccezione di uno dal carattere debole, potevano dominare le femmine. E le femmine avevano il loro sistema, simile a quello dei maschi, ma più complesso. La prima femmina nel sistema poteva dominare tutte le altre femmine meno una, eppure questa femmina era soggetta all'autorità di almeno metà delle altre femmine. E c'erano altri casi, talmente intricati da sfidare le capacità di analisi di Carmody. Aveva notato una cosa, però, e cioè che tutti i piccoli venivano trattati con gentilezza e affetto. Erano, in realtà, come dei bambini viziati e troppo coccolati. Però anch'essi avevano la propria organizzazione, per dare e ricevere gli ordini. Fino a quel momento, Carmody non aveva occupato alcuna posizione nella scala sociale. Gli horowitz parevano considerarlo qualcosa di diverso, di staccato, una specie di rara avis, un'entità sconosciuta. Il capo non aveva agito in alcun modo per stabilire la posizione di Carmody nel gruppo, e gli altri non avevano osato tentare. E, probabilmente, il capo non aveva osato perché aveva visto come Carmody aveva ucciso il leonoide. Ma ora lo straniero lo aveva posto in una situazione nella quale doveva combattere, oppure lasciare la sua preminenza. E il capo doveva essere sta-
to il più importante per troppo tempo, per sopportare la seconda ipotesi. Pur conoscendo il potenziale distruttivo di Carmody, non intendeva sottomettersi tranquillamente. Tutto questo Carmody lo dedusse dalla pelle arrossata, dal petto gonfio, dalle vene che sporgevano sulla fronte, dagli occhi fiammeggianti, dal becco che si serrava con uno schiocco, dai pugni serrati, e dal respiro divenuto d'un tratto affannoso. Whoot superava di almeno quaranta centimetri l'uomo, le sue braccia erano lunghe e muscolose, il torace enorme, e il becco, con i denti aguzzi da carnivoro, e le gambe dalle tre dita, con gli artigli affilati, sembravano in grado di strappare il cuore a Carmody. Ma il fraticello sapeva che l'horowitz non pesava come un uomo della sua altezza, perché aveva le ossa cave di un uccello. Inoltre, benché il capo fosse senza dubbio un combattente capace e feroce, e intelligente, John conosceva l'elaborata scienza di centinaia di combattimenti su una dozzina di pianeti. Carmody era pericoloso, e mortale, con le mani e i piedi, come pochi uomini viventi; molte volte, quando era stato un avventuriero, aveva ucciso e mutilato. La lotta fu dura, ma breve. Carmody usò una combinazione di tutte le sue arti di offesa, e ben presto il capo barcollò, con il becco insanguinato, e gli occhi vitrei. Carmody diede il colpo di grazia con il taglio della mano, abbattendo tutta la forza del braccio su un lato del collo massiccio. Rimase immobile, sopra il corpo privo di sensi di Whoot, respirando affannosamente, perdendo sangue da tre ferite inferte dalla punta del becco e dai denti appuntiti, e con il fianco dolorante per un pugno ricevuto nelle costole. Aspettò, fino a quando il grosso horowitz non ebbe aperto gli occhi, e, barcollando, si fu rimesso in piedi. Poi, puntando la mano verso il nord, gridò: «Tu segui me!» Entro breve tempo, tutti stavano camminando dietro di lui; Carmody si diresse verso una macchia d'alberi, a circa tre chilometri di distanza. Whoot seguiva il gruppo, in fondo alla fila, a testa bassa. Ma dopo qualche tempo, parve recuperare una parte del suo spirito. E, quando un grosso maschio cercò di fargli portare alcune zucche piene d'acqua, egli balzò sul maschio, e lo fece cadere a terra. Questo servì a ristabilire la sua posizione all'interno del gruppo. Whoot era sotto Carmody, ma sempre più in alto di tutti gli altri. Carmody ne fu felice, perché la piccola Tutu era figlia di Whoot. Aveva
temuto che la sconfitta del padre potesse renderla ostile nei suoi confronti. A quanto pareva, il cambiamento di autorità non aveva prodotto alcuna differenza, o meglio, la differenza era data dal fatto che Tutu restava ancor più di prima a fianco di Carmody. Mentre camminavano fianco a fianco, Carmody indicò molti altri animali e piante, formulando il loro nome. Tutu ripeté le parole, con una pronuncia perfetta, seguendo le istruzioni dell'uomo. Ormai, la piccola aveva adottato perfino il suo modo di parlare, le sue inflessioni, il suo modo di dire "eh?" quando un pensiero nuovo lo prendeva, e perfino l'abitudine che Carmody aveva di parlare da solo. E imitava perfettamente la sua risata. Carmody indicò un uccello esile, dall'aspetto sparuto, con le piume che sporgevano tutt'intorno, e che somigliava a una scopa vivente. «Quello un borogovo.» «Quello un borogovo» ripeté lei. D'un tratto, Carmody rise, e anche Tutu rise. Ma Carmody non poté spiegarle la fonte della sua allegria. Come avrebbe potuto spiegarle Alice nel Paese delle Meraviglie? Come avrebbe potuto dirle che si era chiesto cosa avrebbe pensato Lewis Carroll, se avesse potuto vedere la creazione della sua fantasia acquistare vita su uno strano pianeta che ruotava intorno a una stella straniera, e molti secoli dopo la sua morte? E cosa avrebbe pensato lo scrittore, nello scoprire che le sue opere erano ancora vive e davano frutti, anche se si trattava di frutti bizzarri? Forse, Carroll avrebbe approvato. Perché era uno strano ometto... come lui stesso, pensò Carmody... e avrebbe considerato il nome dato a quell'uccello il vertice della sua coerente incoerenza. Carmody ritornò immediatamente serio, perché un enorme animale, simile a un rinoceronte verde, con tre corni bitorzoluti, avanzò trottando pesantemente verso di loro. Carmody estrasse la pistola dalla coda, facendo spalancare gli occhi a Tutu ancor più che la vista del tricorno. Ma, dopo essersi fermato a pochi metri dal gruppo, e dopo avere fiutato il vento, il tricorno si allontanò lentamente. Carmody rimise a posto la pistola, e chiamò Holmyard. «Si scordi pure di depositare in quell'albero quello che le ho chiesto» disse. «Li sto guidando nell'esodo fin da questo momento. Accenderò un fuoco, stanotte, e lei potrà sistemarsi a otto chilometri di distanza. Cercherò di spingerli a oltrepassare quel bosco che abbiamo davanti, e a raggiungerne un altro. Ho intenzione di far loro percorrere circa cinque chilometri al giorno. Credo che sia impossibile fare di più. Dovremmo raggiungere la
valle di latte e miele che mi ha descritto entro nove mesi. E per allora, mio figlio» accarezzò l'uovo che gli cresceva sul petto «dovrebbe schiudersi. E il mio contratto con voi dovrebbe terminare.» Gli inconvenienti furono assai minori del temuto. Benché il gruppo si disperdesse non appena raggiunse il bosco, tutti si radunarono, alle sue esortazioni, e lasciarono i freschi frutti tentatori e i molti roditori che riposavano sotto le rocce. Non si lamentarono in alcun modo, quando egli li condusse per un paio di chilometri, fino a un altro bosco. Qui giunto, decise che si sarebbero accampati per il resto del giorno e per la notte. Quando fu scesa l'oscurità, e dopo aver sorvegliato le operazioni per accendere il fuoco (il compito era stato delegato a Tutu) Carmody si allontanò di soppiatto nelle tenebre. Non senza qualche apprensione, perché sotto le due piccole lune si aggiravano più carnivori di quanti non ne vagassero sotto la luce del sole. Malgrado ciò, percorse senza incidenti un altro paio di chilometri, quindi incontrò il professor Holmyard, che lo aspettava a bordo della jeep volante. Dopo avere avuto una sigaretta da Holmyard, Carmody descrisse gli avvenimenti della giornata con maggiori particolari di quanto non avesse potuto fare attraverso la ricetrasmittente. Holmyard premette gentilmente l'uovo aggrappato al petto di Carmody, e disse: «Come ci si sente non soltanto a dare vita a un horowitz, ma anche a dare vita a una lingua, tra di essi? A diventare, in un certo senso, il padre di tutti gli horowitz?» «Mi fa sentire molto strano» disse Carmody. «Emi rende consapevole di un pesante fardello che grava sulle mie spalle. Dopotutto, quel che io insegno a queste creature senzienti determinerà il corso delle loro vite per migliaia di anni a venire. E forse ancora di più.» Fece una pausa. «E penso anche che tutti i miei sforzi potrebbero non approdare a nulla.» «Deve fare attenzione. Oh, a proposito, ecco le cose che ha chiesto. Una fondina e un cinturone. E, in questa borsa, una torcia elettrica, zucchero, sale, carta, penna, e mezzo litro di whisky.» «Non si aspetterà che dia loro la famosa "acqua di fuoco"!» disse Carmody. «No» ridacchiò Holmyard. «Questa bottiglia è la sua riserva privata. Pensavo che un sorso le farà bene, di quando in quando. Dopotutto, ha bisogno di qualcosa per scaldarsi lo spirito, essendo lontano dalla sua gente.» «Sono stato troppo occupato per sentirmi solo. Ma nove mesi sono lun-
ghi. No, non credo proprio che sentirò il peso tremendo della solitudine. Questa gente è strana. Ma sono certo che gli horowitz possiedono uno spirito affine al mio, che attende soltanto di essere sviluppato.» Continuarono a parlare per un poco, progettando il metodo di studio da seguire per l'anno che li aspettava. Holmyard annunciò che un uomo sarebbe sempre rimasto a bordo dell'astronave, e in contatto con Carmody, nella eventualità che nascesse qualche situazione di emergenza. Ma tutti gli altri sarebbero stati occupati, perché la spedizione aveva molta carne al fuoco, e un enorme numero di progetti di ricerca da portare a termine. Avrebbero dovuto raccogliere e sezionare esemplari di tutti i generi, eseguire analisi del suolo e dell'aria, effettuare ricerche geologiche, compiere scavi alla ricerca di fossili, e così via. Spesso l'astronave avrebbe dovuto fare viaggi in altre regioni, anche sull'altra faccia del pianeta. Ma, in questi periodi, sarebbero sempre rimasti due uomini e una jeep, pronti ad accorrere da Carmody. «Ascolti, professore» disse Carmody. «Non potrebbe fare un viaggio fino a quella valle, e prendere qualche minerale siliceo? E poi lasciare i frammenti vicino a noi, in modo che il mio gruppo possa trovarli? Mi piacerebbe scoprire subito se queste creature sono capaci di usare armi e utensili.» Holmyard annuì, e disse: «Eccellente idea. Lo faremo. Prima che finisca la settimana, avrà i minerali.» Holmyard strinse la mano a Carmody, e il fraticello se ne andò. Usando la torcia elettrica, Carmody illuminò la propria strada, sperando che la luce, pur attirando alcuni dei grandi carnivori, potesse convincerli a non avvicinarsi troppo. Non aveva percorso più di cento metri quando provò l'impressione di essere seguito. Si sentì stupido perché obbediva a un impulso irrazionale, ma si girò di scatto. E il raggio della sua torcia centrò in pieno la piccola figura di Tutu. «Cosa stai facendo qui?» disse. La piccola si avvicinò lentamente, come se avesse paura di lui, e Carmody si affrettò a riproporre la domanda in altri termini. C'erano tante parole che lei non conosceva, che era impossibile, a questo punto, comunicare completamente con lei. «Perché tu qui?» Non aveva mai usato in passato la parola perché, ma pensava che in quel momento, e in quelle circostanze, lei potesse capirne il significato. «Io...» e accennò il gesto di seguirlo.
«Seguo» suggerì Carmody. «Io seguo... te. Io non... voglio te ferito. Grandi carnivori in oscurità. Mordono, feriscono, uccidono, mangiano te. Tu muori; io... come tu dici?» Capì cosa volesse dire, perché i grandi occhi castani della bambina erano pieni di lacrime. «Piango» disse. «Ah, Tutu, tu piangi per me?» Era commosso. «Io piango» disse Tutu, con la voce tremante, sul punto di singhiozzare. «Io...» «Provo dolore. Provo dolore.» «John muore dopo adesso... io voglio morire. Io...» Carmody si accorse che la bambina aveva coniato un termine, nell'ultima frase, per definire il futuro, ma non cercò ancora di insegnarle la coniugazione del futuro. Invece, allargò le braccia e la strinse. Lei posò la testa contro di lui, infilò la punta del becco tra il braccio e le costole del frate e si mise a singhiozzare. Accarezzandole le piume della testa, Carmody le disse: «Non provare dolore, Tutu. John ti ama. Tu sai... io ti amo.» «Amo. Amo» disse Tutu fra i singhiozzi. «Amo, amo. Tutu ama te!» Ma, bruscamente, si allontanò da lui, e Carmody la lasciò andare. Cominciò ad asciugarsi le lacrime con il dorso della mano e disse: «Io amo. Ma... io paura di John.» «Hai paura? Perché tu hai paura di John?» «Io vedo... ehm... horowitz... vicino a te. Tu sembri a lui, ma non sembri a lui. Lui... come dici?... sembra strano, vero? E lui vola come avvoltoio, ma non ha ala... io non capace di dire come vola. Molto strano. Tu parli a lui. Io capisco alcune parole... molte non capisco.» Carmody sospirò. «Io posso dire a te adesso soltanto questo: lui non horowitz. Lui uomo. Uomo. Lui viene da stelle.» E indicò il cielo. Anche Tutu alzò lo sguardo, poi ritornò a guardare John e disse: «Tu vieni da stelle?» «Bambina, tu lo capisci?» «Tu non horowitz. Tu metti becco e piume. Ma... io capisco tu non horowitz.» «Io uomo» disse Carmody. «Ma adesso basta, bambina. Un giorno... dopo adesso... io dico a te di stelle.» E, nonostante le insistenze di Tutu, si rifiutò di parlare ancora dell'argomento. I giorni, e poi le settimane, e poi i mesi, passarono. Costantemente, per-
correndo cinque o sei chilometri al giorno, spostandosi di bosco in bosco, la banda di horowitz seguì Carmody verso nord. Lungo la strada, trovarono i minerali lasciati dall'astronave. E Carmody insegnò agli horowitz il modo di fabbricare punte di lancia e punte di freccia e scalpelli e coltelli. Fabbricò degli archi e insegnò loro a tirare con l'arco. In breve tempo, ogni horowitz che aveva talento per i lavori manuali stava fabbricando armi e utensili senza bisogno di assistenza. Dita e mani vennero ammaccate e ferite, nel corso delle operazioni, e un maschio perse un occhio, per colpa di una scheggia. Ma il gruppo cominciò a mangiare meglio; andarono a caccia dei cervidi e degli equinidi e in generale di tutte le creature che non fossero troppo grosse, e avessero un aspetto commestibile. La cottura della carne diventò un uso generale, e Carmody insegnò ad affumicare e a essiccare la carne, per conservarla. Cominciarono a farsi molto audaci, sicuri di sé oltre ogni misura, e questa fu la fine di Whoot. Un giorno, mentre era in compagnia di altri due maschi Whoot colpì un leonoide che rifiutò di togliersi dalla loro strada. La freccia servì soltanto a infuriare la belva, che caricò a testa bassa. Whoot rimase dov'era, coraggiosamente, e infilò altre due frecce nel corpo dell'animale, mentre i suoi compagni lo colpirono con la lancia. Ma la belva morente riuscì a raggiungere Whoot, e con una zampata gli squarciò il petto. Quando i due cacciatori ebbero raggiunto Carmody, e Carmody fu accanto a Whoot, Whoot era già morto. Era stata la prima morte, nel gruppo, da quando Carmody era entrato tra loro. E ora il frate si accorse che le creature non consideravano la morte passivamente, stolidamente, come fanno usualmente gli animali: la considerarono un evento che suscitò grida di protesta. Piansero e si lamentarono e si batterono il petto e si gettarono al suolo e si rotolarono tra l'erba. Tutu, in piedi accanto al cadavere del padre, pianse a lungo e in silenzio. Carmody si avvicinò a lei, e l'abbracciò, mentre lei continuava a singhiozzare disperatamente. Aspettò che il dolore si fosse consumato, e poi organizzò la sepoltura. Questa fu una cosa completamente nuova, per gli horowitz; la loro usanza era quella di lasciare i morti sul terreno. Ma capirono quel che Carmody voleva, e scavarono una fossa nel terreno, con bastoni appuntiti, e accumularono terra e sassi sopra la tomba. Fu allora che Tutu gli disse: «Padre: dove lui va adesso?» Carmody rimase muto per diversi secondi. Senza ch'egli avesse detto una sola parola al riguardo, Tutu aveva pensato alla possibilità di una vita dopo la morte. O così supponeva, perché era facile interpretare nel modo
sbagliato le parole della bambina. Forse lei non era capace di comprendere la fine della vita di una persona che amava. Ma, no, la bambina conosceva bene la morte. Aveva visto altri morire, prima che Carmody si unisse al gruppo, e aveva visto la morte e la dissoluzione di molti grandi animali, per non parlare degli innumerevoli roditori e insetti che aveva mangiato. «Cosa pensano gli altri?» disse, indicando il resto del gruppo. Lei lo guardò. «Adulti non pensano. Loro non parlano. Loro come animali. «Io una bambina. Io pensare. Tu insegnato me a pensare. Io chiedo te dove Whoot va perché tu capisci.» Come aveva fatto molte volte, dopo averla conosciuta, Carmody sospirò profondamente. Aveva una responsabilità grave e pesante. Non voleva dar loro delle false speranze, eppure non voleva distruggere le loro speranze... se ne avevano... di una vita dopo la morte. E lui, semplicemente, non sapeva se Whoot avesse un'anima o, in caso affermativo, quali previsioni poter fare sulla sua sorte, quale luogo le era stato destinato. E lo stesso poteva dirsi per Tutu. Gli pareva che un essere senziente, un essere che possedesse coscienza di sé, un essere capace di usare il simbolismo verbale, dovesse avere un'anima. Eppure, non poteva saperlo. E non poteva neppure tentare di spiegare alla piccola il suo dilemma. Il vocabolario della piccola, dopo soli sei mesi di contatto con lui, non poteva affrontare il concetto dell'immortalità. E neppure il suo vocabolario poteva farlo, perché perfino il complesso, ultracivilizzato linguaggio del quale lui disponeva non affrontava la realtà, ma solo delle astrazioni malamente comprese, con vaghe speranze. Era necessario avere fede, e tentare di tradurre questa fede in un'azione efficace. Ma era tutto. Lentamente, disse: «Tu capisci che corpo di Whoot e corpo di leone diventano terra?» «Sì.» «E che semi cadono su questa terra, ed erba e alberi crescono dalla terra che Whoot e leone diventati?» Tutu annuì. «Sì, e gli uccelli e gli sciacalli mangiano il leone, e mangiano anche Whoot, se capaci di togliere le pietre sopra di lui.» «Ma almeno una parte del leone e di Whoot diventa terra. E l'erba che cresce da loro diventa in parte loro. E l'erba a sua volta è mangiata da antilopi, e il leone e Whoot diventano non soltanto erba, ma anche animale.» «E se io mangio antilope» interruppe Tutu, eccitata, con il becco che batteva e gli occhi brillanti «allora Whoot diventa parte di me, e io di lui.»
Carmody si accorse di essersi addentrato in un territorio molto pericoloso dal punto di vista teologico. «Io non voglio dire che Whoot vive in te» disse. «Io voglio dire che...» «Perché non vive in me? E nelle antilopi che mangiano l'erba, e nell'erba? Oh, capisco! Perché Whoot allora diviene spezzato in tanti pezzi! Lui vive in molte diverse creature. Questo intendi dire, John?» Tutu corrugò la fronte. «Ma come lui vive, se tutto fatto a pezzi? No, non lui! Suo corpo va in tanti posti. Quello che ti chiedo, John, dove va Whoot.» E ripeté decisa: «Dove lui va?» «Lui va dove il Creatore lo manda» rispose Carmody, disperato. «Cre-a-to-re?» ripeté la bambina, sillabando. «Sì. Io ho insegnato a te la parola creatura, che vuole dire ogni essere vivente. E una creatura deve essere creata. Il Creatore l'ha creata. Creare vuole dire dare vita. E vuole anche dire fare una cosa che non è mai esistita prima.» «Mia madre mia creatrice?» Non parlò del proprio padre, perché lei, al pari degli altri bambini e probabilmente degli adulti, non collegava la copulazione alla riproduzione. E Carmody non le aveva ancora spiegato la relazione tra le due cose, perché al momento non ne avevano ancora il vocabolario. Carmody sospirò e disse: «Sempre peggio. No, tua madre non tuo Creatore. Tua madre fa l'uovo con il suo corpo e con il cibo che mangia, ma non ti crea. All'inizio...» E qui s'interruppe. E rimpianse di non essere un sacerdote e di non avere le conoscenze di un sacerdote. Era soltanto un frate. Non un fraticello qualsiasi, perché conosceva fin troppo bene la Galassia e aveva troppa esperienza sulle spalle, ma non aveva le conoscenze per trattare quell'argomento. Per prima cosa, non poteva propinare alla bambina una teologia bell'e pronta. La teologia di quel pianeta era in formazione, e non sarebbe nata finché la bambina e tutta la sua specie non avessero avuto un vero linguaggio. «Io ti dirò di più nel futuro» concluse. «Tra molti soli. Per questa volta, devi accontentarti del poco che posso dirti. E del fatto che... be', il Creatore ha fatto questo mondo, le stelle, il cielo, gli animali e gli horowitz. Egli ha fatto tua madre e la madre di tua madre. Molte madri, molti soli fa, egli ha...» «"Egli"? Questo suo nome? "Egli"?» Carmody, che per semplicità aveva insegnato soltanto la forma "lui",
buona per il soggetto e per il complemento oggetto, si accorse di avere usato la forma diretta, per la forza dell'abitudine. «Sì, puoi chiamarlo "Egli".» «Egli Madre della prima madre?» disse Tutu. «Egli Madre delle madri di tutte le creature?» «Ecco, prendi una zolletta di zucchero. E vai a giocare. Ti dirò altre cose in futuro.» "Quando avrò avuto il tempo di riflettere" disse a se stesso. Finse di grattarsi la testa, e abbassò l'interruttore della ricetrasmittente che aderiva al suo cranio. E domandò all'operatore di turno di chiamare Holmyard. Un minuto più tardi, la voce di Holmyard disse: «Che succede, John?» «Professore, non è previsto l'arrivo di un'astronave tra qualche giorno, per raccogliere i documenti e gli esemplari che avete accumulato fino a oggi? Vorreste farle portare un messaggio per la Terra? Notificare al mio superiore, l'abate della città del Quattro di Luglio, Arizona, che ho un profondo bisogno di una guida spirituale?» E Carmody riferì il suo dialogo con Tutu, e le domande alle quali avrebbe dovuto rispondere in futuro. «Avrei dovuto dirgli dove andavo, prima della mia partenza» disse. «Ma ho avuto l'impressione che mi avesse lasciato a me stesso. Adesso, però, mi trovo in una situazione nella quale ho bisogno che uomini più saggi e più istruiti mi aiutino.» Holmyard ridacchiò. Disse: «Trasmetterò il suo messaggio, John. Benché non pensi che abbia bisogno di aiuto. Nessuno al suo posto potrebbe fare meglio, e di più. Cioè, nessuno che tenti di conservare la propria obiettività. È sicuro che i suoi superiori siano capaci di fare altrettanto? O che non ci vorranno cento anni, prima che giungano a una decisione? La sua richiesta potrebbe addirittura provocare un Concilio della Chiesa.» Carmody gemette, poi disse: «Non lo so. Credo che comincerò a insegnare ai bambini a leggere, a scrivere e a fare di calcolo. Così, almeno, potrò navigare in acque più sicure.» Spense la ricetrasmittente, e chiamò Tutu e gli altri bambini che parevano in grado di imparare a leggere. Nei giorni e nelle notti che seguirono, i giovani fecero dei progressi eccezionali, o almeno così parve a Carmody. Sembrava che quei giovani fossero stati come frutti maturi, in attesa soltanto del tocco di Carmody per
diventare umani. Senza troppe difficoltà, impararono la relazione esistente tra la parola scritta e quella parlata. Per impedir loro di confondersi, Carmody modificò l'alfabeto terrestre e creò un vero sistema fonetico, in modo che ogni fonema avesse una notazione diversa. Si trattava di una cosa che era stata discussa per duecento anni tra coloro che parlavano la lingua inglese, sulla Terra, ma che nessuno, fino a quel momento, aveva fatto. L'ortografia inglese, pur con i cambiamenti sopravvenuti negli anni, continuava a presentare quelle differenze sostanziali dalla pronuncia che formavano il quadro esasperante e confuso che faceva invariabilmente impazzire lo straniero che voleva imparare l'inglese. Ma il leggere e lo scrivere costrinsero presto Carmody a insegnare un'altra arte: quella del disegno. Tutu, senza alcun suggerimento da parte sua, un giorno cominciò a disegnare Carmody. Il risultato fu approssimativo, rudimentale, e lui avrebbe potuto correggerla molto rapidamente. Ma, a parte un successivo insegnamento della prospettiva, non fece alcun tentativo né di dissuaderla, né di correggerla, né comunque di aiutarla. Si accorgeva che, se Tutu e gli altri che cominciavano ora a disegnare, fossero stati troppo influenzati dalle idee terrestri sull'arte e sulla pittura in genere, un'autentica arte di Feral non avrebbe mai potuto svilupparsi. Questa sua decisione fu lodata da Holmyard. «L'uomo possiede un cervello fondamentalmente da primate, e così ha un atteggiamento da primate in tutta la sua arte. Fino a questo momento, non abbiamo avuto alcuna forma d'arte prodotta da cervelli di uccello. Sono con lei, John, nel lasciarli dipingere e scolpire a modo loro, seguendo i loro istinti. Un giorno il mondo potrà essere arricchito da un'arte degli uccelli.» Carmody era occupatissimo dal momento del risveglio, e cioè all'alba, fino al momento in cui andava a dormire, circa tre ore dopo il tramonto. Non solo doveva trascorrere molto tempo nelle sue lezioni, ma doveva svolgere anche le funzioni di arbitro... o meglio, dittatore... in tutte le dispute che sorgevano nel gruppo. Le dispute tra gli adulti erano assai più faticose da risolvere di quelle tra i giovani, perché con questi era in grado di comunicare facilmente. La spaccatura tra i giovani e gli adulti era meno profonda di quanto avesse immaginato. Gli adulti erano intelligenti, e, pur non essendo in grado di parlare, impararono a fabbricare utensili di selce e armi, a tirare con l'arco e a usare le lance. Impararono perfino a cavalcare. A metà strada, nel lungo avvicinamento alla loro destinazione, comincia-
rono a incontrare branchi di animali che somigliavano a cavalli glabri. Carmody, a titolo sperimentale, ne prese uno e lo domò. Fabbricò una briglia servendosi di osso e di erba di fibra dura. All'inizio non aveva sella, ma cavalcava sul dorso nudo della bestia. Più tardi, quando gli altri bambini e gli adulti ebbero domato altri cavalli, e cominciarono a cavalcarli, Carmody insegnò loro a costruire selle e finimenti, conciando la pelle durissima dei tricorni. Poco dopo, Carmody per la prima volta si trovò di fronte a una resistenza da parte dei giovani. Avevano raggiunto un luogo nel quale c'era un lago, dove gli alberi crescevano folti e rigogliosi, dove una brezza fresca soffiava quasi continuamente dalle vicine colline, e dove la selvaggina era numerosissima. Tutu disse che lei e gli altri pensavano che sarebbe stata una buona idea costruire in quel luogo un villaggio recintato, come Carmody aveva previsto di costruire una volta arrivati nella Valle. «Molti horowitz senza parola vivono qui intorno» disse lei. «Noi possiamo prendere i loro giovani e allevarli, fare di loro gente nostra. Così, noi diventiamo più forti. Perché viaggiamo ogni giorno? Noi stanchi di viaggiare, male ai piedi, male alla schiena. Noi possiamo fare... stalle?... per i cavalli. E possiamo catturare altri animali, allevarli, avere molta carne senza andare a caccia. Inoltre, noi possiamo piantare i semi come tu ci hai insegnato e coltivare vegetali. Questo posto è buono. Come la Valle che tu hai descritto, forse migliore della Valle. Noi ragazzi abbiamo discusso della cosa, abbiamo deciso di fermarci qui.» «È un buon posto» disse Carmody «ma la Valle è migliore. Io conosco la Valle, e so che la Valle possiede molte cose che qui non ci sono. Come selce, ferro, che è molto migliore di selce, una temperatura più gradevole, non tante bestie carnivore come qui, migliore terreno per piantare i vegetali, e altre cose.» «Come tu hai conoscenza della Valle?» disse Tutu. «Tu la hai veduta? Tu andato là?» «Io conosco la Valle perché me ne ha parlato una persona che è stata laggiù» disse Carmody. «Chi ha detto a te della Valle?» chiese Tutu. «Nessun horowitz può avere detto a te della Valle, perché nessuno parlava prima che tu hai insegnato loro come parlare. Chi ha detto a te?» «L'uomo ne ha parlato» rispose Carmody. «Lui andato laggiù.» «L'uomo che venuto dalle stelle? L'uomo che io visto parlare con te quella notte?»
Carmody annuì, e Tutu disse: «Lui sa dove noi andiamo dopo morte?» Fu colto di sorpresa, e rimase muto, a bocca aperta, fissandola per qualche secondo. Holmyard era un agnostico, e negava che esistesse alcuna prova valida dell'immortalità dell'uomo. Carmody, naturalmente, concordava con lui sul fatto che non esistevano prove dimostrabili scientificamente, che non esistevano fatti concreti. Ma c'erano indicazioni della sopravvivenza dei morti sufficienti per costringere a meditare sulla possibilità qualsiasi agnostico di mentalità aperta. E, naturalmente, Carmody credeva che ogni uomo sarebbe vissuto per sempre, perché aveva fede. Inoltre, aveva avuto un'esperienza personale che lo aveva convinto. (Ma quella era un'altra storia.) «No, l'uomo non sa dove andiamo dopo la morte. Ma io so dove andiamo.» «Lui un uomo; tu un uomo» disse Tutu. «Se tu sai, perché lui non sa?» Anche questa volta, Carmody rimase senza parole. Poi disse: «Come sai che io sono un uomo?» Tutu alzò le spalle e disse: «All'inizio, tu ci hai ingannato. Dopo, tutti abbiamo saputo. Facile vedere che tu hai messo penne e becco finto.» Carmody cominciò a togliersi il becco finto, che da mesi gli dava fastidio. «Perché non l'hai detto a me?» fece, con ira. «Tu cerchi di prendere me in giro?» Tutu parve offesa. Disse: «No. Nessuno prende in giro te, John. Noi amiamo te. Noi soltanto pensato che a te piace mettere becco e penne. Noi non sappiamo perché a te piace, ma se a te piace, per noi va bene. Comunque, non cercare di allontanarti da discorso. Tu dici tu conosci dove vanno i morti. Dove?» «Io non posso dire a voi il posto. Almeno, non adesso. In futuro.» «Tu non vuoi spaventarci? Forse posto brutto, e a noi non piace? Questo motivo?» «In futuro, io dico a voi il posto. È così, Tutu: quando io sono arrivato tra voi e vi ho insegnato a parlare, io non ho potuto insegnarvi subito tutte le parole. Solo le parole che voi potevate capire. Poi vi ho insegnato parole più difficili. Adesso è come allora. Voi non siete capaci di capire, anche se io ve lo dico. Voi adesso diventate più vecchi, avete conoscenza di più parole, diventate più intelligenti. E io ve lo dico. Capito?» La ragazza annuì e schioccò il becco per mostrare assenso. «Io dico agli altri» disse. «Molte volte, mentre tu dormi, noi parliamo
del posto dove andiamo dopo morti. A che cosa serve vivere solo un tempo piccolo se noi non continuiamo a vivere? Che bene fa? Alcuni dicono che non bene e non male: noi viviamo e moriamo e basta. Perché fare domande? Ma molti di noi non capaci di pensare così. Ci spaventiamo. Inoltre, non ha senso per noi. Ogni cosa del mondo ha senso. O sembra avere senso. Ma la morte non ha senso. La morte che dura per sempre non ha senso. Forse noi moriamo per fare posto ad altri. Perché se noi non moriamo, se antenati non muoiono, presto questo mondo diventa pieno, e tutti muoiono di fame. Tu hai detto questo mondo non è piatto, ma rotondo come una palla, e questa forza... come la chiami? gravità?... impedisce a noi di cadere. Così noi capito che presto non più posto per noi se noi non moriamo. Ma perché non andiamo in un posto con spazio? Nelle stelle, forse. Tu dici molti mondi rotondi come questo tra le stelle. Perché noi non andiamo laggiù?» «Perché quei mondi sono già pieni di altre creature» disse Carmody. «Horowitz?» «No. Alcuni hanno uomini su di loro; altri hanno creature diverse sia da uomo, sia da horowitz. E anche diverse da cavalli e insetti.» «Molto da imparare. Io sono lieta di non dovere scoprire tutto da sola. Io aspetto che tu mi dici ogni cosa. Ma io sono eccitata quando penso a queste cose.» Carmody tenne consiglio con gli altri piccoli, e, come risultato, si dichiarò d'accordo sull'opportunità di sistemarsi in quel luogo per qualche tempo. Pensava che, una volta iniziata l'opera di abbattere gli alberi per preparare palizzate e case, le asce di selce si sarebbero consumate e rotte, e in breve tempo gli horowitz avrebbero esaurito tutte le riserve di selce. Per non parlare del fatto che la sua descrizione della Valle avrebbe convinto i più irrequieti a continuare. Nel frattempo, l'uovo che portava nel petto diventava più grosso e più pesante, e Carmody lo trovò sempre più fastidioso e irritante. «Il fatto è che io non sono tagliato per essere una madre» disse a Holmyard, attraverso la ricetrasmittente. «Mi piacerebbe diventare un padre, sì, in senso ecclesiastico. E questo richiede certe qualità materne. Ma, letteralmente, e fisicamente, comincio a trovare la cosa pesante.» «Venga qui, e prenderemo un'altra sonoscopia dell'uovo» disse Holmyard. «Tanto, è tempo che prendiamo un'altra registrazione della crescita dell'embrione. E faremo un completo controllo fisico, per assicurarci che l'uovo non la sottoponga a uno sforzo troppo forte.»
Quella notte, Carmody incontrò Holmyard, e a bordo della jeep i due raggiunsero in volo l'astronave. Il vascello cosmico si trovava ora a circa trenta chilometri da Carmody, grazie alla maggior capacità di movimento degli horowitz a cavallo. Nel laboratorio dell'astronave, il fraticello fu sottoposto a una serie di esami. Holmyard disse: «Ha perso molto peso, John. Non è più grasso. Mangia normalmente?» «Più di quanto abbia mai mangiato in vita mia. Sa, adesso mangio per due.» «Be', non abbiamo trovato nulla di allarmante, e neppure di vagamente preoccupante. Non è mai stato così bene, soprattutto perché si è liberato di tutto quel grasso superfluo. E il diavoletto che sta portando cresce bene. Dagli studi che abbiamo compiuto sugli horowitz che avevamo preso a suo tempo, l'uovo continua a crescere fino a quando raggiunge un peso di due chili. «Questo meccanismo biologico di attaccare delle uova al sistema circolatorio di ospiti di altre specie è sorprendente. Ma quale meccanismo permette al feto di fare questo? Che cosa gli impedisce di formare anticorpi che lo ucciderebbero? Come può accettare il sangue di una specie totalmente diversa? Naturalmente, un fattore positivo è che le cellule sanguigne sono uguali, come dimensioni, a quelle umane. L'esame microscopico non è in grado di rivelare alcuna differenza. E la composizione chimica è all'incirca la stessa. Malgrado ciò... sì, probabilmente otterremo un altro stanziamento solo per studiare questo meccanismo. Se riuscissimo a scoprirne il segreto, il genere umano potrebbe trarne un immenso beneficio.» «Spero che riusciate a ottenere un altro stanziamento» disse Carmody. «Sfortunatamente, non potrò più aiutarvi. Devo presentarmi all'abate del monastero di Wildenwooly.» «Non gliel'ho detto subito, quando è arrivato» disse Holmyard «perché non volevo turbarla prima della visita medica. Ma l'astronave dei rifornimenti è atterrata ieri. E abbiamo un messaggio per lei.» Porse a Carmody una lunga busta, coperta di timbri e sigilli e dall'aria molto ufficiale. Carmody l'aprì, e lesse il contenuto. Poi sollevò lo sguardo e fissò Holmyard. «Cattive notizie, immagino, a giudicare dalla sua espressione» disse Holmyard. «In un certo senso, no. Mi informano che devo rispettare i termini del mio contratto completamente, e che non posso partire da qui fino a quando l'uovo non si sarà schiuso. Ma il giorno in cui scadrà il mio contratto, do-
vrò partire. E, inoltre, non devo dare agli horowitz nessuna istruzione religiosa. Essi devono scoprirla da soli. O piuttosto, devono ricevere la loro particolare rivelazione... se l'avranno. Almeno, fino a quando non sarà stato convocato un Concilio della Chiesa, e fino a quando una decisione non sarà raggiunta. E quando lo sarà, naturalmente, io sarò già partito.» «E ci penserò io a evitare che il suo successore abbia qualsiasi addentellato religioso» disse Holmyard. «Mi perdoni, John, se le sembro troppo anticlericale. Ma credo che gli horowitz, se devono sviluppare una religione, debbano farlo da soli.» «Allora, perché non sviluppare anche il linguaggio e la tecnologia? Perché dobbiamo essere noi a insegnare questo?» «Perché si tratta di utensili, per mezzo dei quali essi potranno vivere meglio nel loro ambiente. Si tratta di cose che, col tempo, essi avrebbero sviluppato su linee simili a quelle della Terra.» «Non hanno bisogno di una religione, forse, per garantire che non facciano cattivo uso del linguaggio e della tecnologia? Non hanno forse bisogno di un codice etico?» Holmyard sorrise, e gli lanciò un'occhiata prolungata. Carmody arrossì, e tacque. «D'accordo» disse Carmody, alla fine. «Avrei fatto meglio a tapparmi la bocca. Non ha bisogno di ricordarmi la storia delle diverse religioni della Terra. E so che una società può avere un codice etico funzionale senza alcun concetto di una divinità che possa punire i trasgressori, temporalmente ed eternamente. «Ma il fatto è che le religioni possono cambiare ed evolversi. Il cristianesimo del XII secolo non è esattamente uguale a quello del XX secolo, e lo spirito della religione del nostro tempo differisce in più di un aspetto da quello della religione del XX secolo. Inoltre, io non intendevo convertire gli horowitz. La mia Chiesa sarebbe la prima a non permettermelo. Quello che ho fatto, fino a ora, è stato dire loro che esiste un Creatore.» «E anche questo l'hanno frainteso» disse Holmyard, ridendo. «Si riferiscono a Dio chiamandolo Egli, ma lo classificano come una femmina.» «Il genere non conta. Ciò che conta è il fatto che io non sono in grado di rassicurarli a proposito dell'immortalità.» Holmyard si strinse nelle spalle, per indicare che non riusciva a capire cosa importasse questo. Ma disse: «Comprendo la sua delusione, perché le arreca dolore e ansia. Comunque, io non posso fare nulla per aiutarla. E, a quanto pare, neppure la sua Chiesa intende aiutarla.»
«Ho fatto una promessa a Tutu» disse Carmody. «E non voglio violarla. In caso contrario, lei perderebbe la fede.» «Lei crede che la considerino Dio?» «Che il Cielo mi aiuti, no! Ma devo ammettere di essermi preoccupato, riflettendo sulla possibilità che questo avvenisse. Finora, nulla ha indicato, da parte loro, che abbiano seguito questo inammissibile corso di ragionamento.» «Ma cosa accadrà, dopo che se ne sarà andato?» disse Holmyard. Carmody non poté dimenticare queste parole dello zoologo. Quella notte, non ebbe alcuna difficoltà a addormentarsi. Per la prima volta, da quando era entrato nel gruppo, gli fu permesso di dormire fino a tardi. Il sole aveva già compiuto metà della scalata verso lo zenit, quando Carmody si svegliò. E trovò il villaggio, parzialmente costruito, in tumulto. Non si trattava del tumulto del caos, ma di un'azione deliberata, di uno scopo ben preciso. Gli adulti erano qua e là, ai margini, e avevano un aspetto trasognato, stordito, ma i giovani erano occupatissimi. In sella ai cavalli, stavano guidando come un branco di animali, pungolandoli con le lance, numerosi horowitz stranieri. Tra questi c'erano alcuni adulti, ma la maggioranza era costituita da giovani, di età variabile tra i sette e i dodici anni. «Che cosa fate?» chiese Carmody, indignato, a Tutu. I muscoli mimetici intorno al becco della piccola si arricciarono. Rise forte. «Tu non eri qui la notte prima, e noi non abbiamo potuto dire a te le nostre intenzioni. Comunque, bella sorpresa, eh? Noi abbiamo deciso di prendere horowitz selvatici che vivono qui intorno. Noi li abbiamo presi nel sonno; allontanato gli adulti, dovuto ucciderne qualcuno, mi spiace.» «Ma perché avete fatto questo?» chiese Carmody, accorgendosi di essere sul punto di perdere la pazienza. «Tu non capisci? Io pensavo tu capivi ogni cosa.» «Io non sono Dio» rispose Carmody. «Mi pare di avertelo già detto.» «A volte io dimentico» disse Tutu, perdendo il sorriso. «Tu sei in collera?» «Io non sono in collera finché non mi dici perché lo hai fatto.» «Perché? Per fare diventare più grande la tribù. Noi insegniamo ai piccoli a parlare. Se non imparano da noi, diventano adulti e non imparano più a parlare. Diventano come le bestie. Tu non vuoi questo, vero?» «No, ma voi avete ucciso degli horowitz!»
Tutu alzò le spalle. «Che cosa potevo fare? Gli adulti hanno cercato di uccidere noi; noi invece abbiamo ucciso loro. Non tanti. Gli altri sono scappati. Inoltre, tu dici che va bene uccidere gli animali. E gli adulti sono come gli animali perché non parlano. Noi non uccidiamo i bambini perché loro sono capaci di imparare a parlare. Noi... come dici? adottiamo?... adottiamo questi giovani. Diventano nostri fratelli e sorelle. Tu hai detto che ogni horowitz è mio fratello e sorella, anche se io non lo ho mai visto.» Riprese il sorriso e, chinandosi tutta interessata verso di lui, disse: «Io ho avuto un buon pensiero mentre catturavo loro. Invece di mangiare le uova che le madri depongono quando non ci sono abbastanza adulti, perché non attaccare le uova ai giovani e anche agli altri animali? In questo modo la tribù aumenta molto presto.» E così fu. Nel giro di un mese, ogni horowitz abbastanza grande, e ogni cavallo, portava un uovo sul petto, maschio o femmina che fosse. Carmody annunciò questo a Holmyard. «Ora capisco il vantaggio di uno sviluppo extrauterino dell'embrione. I nascituri non sono protetti da eventuali danni, ma questo metodo offre la possibilità di far nascere un numero assai maggiore di creature.» «E chi si prenderà cura di tutti questi giovani?» disse Holmyard. «Dopotutto il pulcino horowitz è indifeso come un bambino umano, e richiede altrettanta assistenza.» «Non stanno facendo pazzie. Il numero dei nascituri è strettamente regolato. Tutu ha già calcolato quanti piccoli possono essere accuditi da ciascuna madre. Se la madre non potrà fornire sufficiente cibo, prepareranno una specie di pastone di frutta e di carne per i piccoli. Le madri non dovranno passare gran parte del loro tempo, come prima, alla ricerca del cibo; ora questo è compito dei maschi.» «Questa vostra società non si sta sviluppando esattamente lungo le linee della società del Paleolitico terrestre» disse Holmyard. «Mi pare di notare una tendenza verso una società comunista, in futuro. I bambini verranno prodotti in massa, e l'allevamento e l'educazione dovranno essere fatti collettivamente. Comunque, a questo stadio, per arrivare a una popolazione sufficientemente vasta per garantire la stabilità, può essere la migliore soluzione, quella di organizzarsi lungo una specie di catena di montaggio. «Ma c'è una cosa che non ha notato, o che ha trascurato di sottolineare di proposito. Ha detto che la distribuzione delle uova agli ospiti sarà rigidamente regolata. Significa forse che ogni uovo al di sopra del numero previ-
sto verrà mangiato? Questo non è per caso un metodo di controllo delle nascite?» Carmody tacque per un lungo momento, e poi disse: «Sì.» «Ebbene?» «Ebbene, cosa? Ammetto che l'idea non mi piace. Ma non ho alcuna giustificazione, per rivolgere delle obiezioni agli horowitz. Come sa, questa gente non ha nessuna ingiunzione divina, non ha comandamenti usciti dalle Scritture. Non ancora, per lo meno. E inoltre, con questo sistema, sarà data una possibilità di vivere a un numero di horowitz superiore a quello del passato.» «Cannibalismo, e controllo delle nascite» disse Holmyard. «Direi che dovrebbe essere felice di andare via di qui al più presto, John.» «Adesso chi è che parla dell'atteggiamento antropocentrico?» rispose Carmody. Comunque, Carmody era turbato. Non poteva dire agli horowitz di non mangiare le uova superflue, perché essi, semplicemente, non avrebbero capito il perché. Il cibo non era così facile da procurare... almeno, non fino al punto da trascurare questa fonte di alimentazione. E non poteva dire a quelle creature che, così facendo, commettevano un omicidio. L'omicidio era l'uccisione illegale di un essere provvisto di un'anima. E gli horowitz possedevano un'anima? Non lo sapeva. La legge terrestre stabiliva che l'uccisione illegale di qualsiasi membro di una specie capace di esprimersi con simbolismo verbale era un omicidio. Ma la Chiesa, benché ordinasse ai suoi membri di obbedire a quella legge, e in caso di violazione li lasciasse punire dal governo secolare, non aveva ammesso che la definizione avesse una valida base teologica. La Chiesa stava ancora cercando di formulare una regola generale, che potesse venire applicata per riconoscere un'anima in creature extraterrestri. Nello stesso tempo, ammetteva la possibilità che esseri senzienti di altri pianeti potessero essere privi di un'anima, potessero non averne bisogno. Forse il Creatore aveva disposto altrimenti, per assicurare la loro immortalità... se era questo il caso. "È facile per loro sedere intorno a un tavolo e discutere le loro teorie" disse tra sé Carmody. "Ma io sono sul teatro dell'azione; io devo lavorare improvvisando, andando a lume di naso. E che Dio mi aiuti, se commetterò qualche errore!" Durante il mese successivo fece molte cose, in campo pratico. Si accordò con Holmyard per spedire l'astronave nella Valle, e scavare là, per poi trasportare alla periferia del villaggio, diverse tonnellate di minerale di fer-
ro. Il mattino dopo portò i bambini nel luogo in cui si trovava il minerale. Tutti lanciarono alte grida di stupore, grida che aumentarono, quando disse cosa avrebbero dovuto fare di tutto quel materiale. «E da dove viene questo minerale ferroso?» domandò Tutu. «Gli uomini l'hanno portato dalla Valle.» «Con i cavalli?» «No. L'hanno portato con una nave venuta dalle stelle. La stessa nave che ha portato me.» «Io posso vederla un giorno?» «No. A te è proibito. Non è bene per te vedere la nave.» Tutu corrugò la fronte con evidente disappunto, e schioccò il becco. Ma sul momento, non insisté sull'argomento. Invece, lei e gli altri, aiutati da Carmody e da alcuni degli adulti più disposti a collaborare, edificarono delle fornaci per fondere il metallo. In seguito, costruirono una fornace per aggiungere carbone fossile al ferro, e fabbricarono armi di acciaio, e attrezzi di diversi tipi. Poi cominciarono a forgiare dei pezzi d'acciaio. Carmody aveva deciso che era giunto il momento d'insegnare a costruire dei carri. «Questo è bello» disse Tutu «ma che cosa noi facciamo, quando tutto il minerale è finito e l'acciaio si è consumato?» «Nella Valle c'è molto minerale» disse Carmody. «Ma noi dobbiamo andare alla Valle. La nave non porta altro minerale.» Tutu piegò la testa e rise. «Tu uomo dritto, John. Tu conosci il modo di fare andare noi alla Valle.» «Se vogliamo arrivarci, dobbiamo partire presto» disse Carmody. «Dobbiamo arrivare prima che giunga l'inverno e cada la neve.» «Difficile per noi immaginare l'inverno» disse la ragazzina. «Questo "freddo" che tu dici è una cosa che noi non capiamo.» Tutu parlava con cognizione di causa. Quando Carmody convocò un altro consiglio plenario, ed esortò gli horowitz a partire subito per la Valle, incontrò una notevole resistenza. La maggioranza non voleva partire; stavano troppo bene dov'erano. E Carmody si accorse che, anche tra gli horowitz, e benché tutti fossero così giovani, la personalità conservatrice era dominante. Solo Tutu e pochi altri spalleggiarono Carmody; costoro erano i radicali, i pionieri, gli avventurieri. Carmody non cercò di dettare ordini. Sapeva di essere tenuto in gran conto, di essere, anzi, considerato quasi un dio. Ma anche gli dèi potevano incontrare resistenza, quando minacciavano la comodità delle loro creatu-
re, e Carmody non voleva mettere alla prova la sua autorità. Se fosse stato sconfitto, tutto sarebbe stato perduto. Inoltre, sapeva che se fosse diventato un dittatore, quella gente non avrebbe appreso le norme fondamentali della democrazia. Ed era convinto che la democrazia, malgrado tutti i suoi errori e i suoi difetti, fosse la forma migliore di governo secolare. L'arma più forte che avrebbe usato sarebbe stata semplicemente una gentile coercizione. O almeno, lo pensava. Dopo un altro mese di inutili tentativi di persuasione, cominciò a disperare. Sotto la tutela di Carmody, avevano coltivato orticelli di verdure e frumento, piantando semi locali e semi (per il frumento) che erano stati portati dall'astronave dei rifornimenti, dietro richiesta di Carmody. Se ora fossero partiti, non avrebbero potuto trarre profitto da tutto quel duro lavoro. Ogni cosa sarebbe andata perduta. Perché Carmody aveva permesso loro di rompersi la schiena, scavando, piantando, arando, irrigando e scacciando le creature selvagge, se non intendeva restare? «Perché ho voluto mostrarvi il modo di coltivare la terra» rispose Carmody. «Io non intendo rimanere con voi per sempre. Quando noi saremo nella Valle, io me ne andrò.» «Non lasciarci, amato John!» esclamarono. «Noi abbiamo bisogno di te. E adesso abbiamo un altro motivo per non andare nella Valle. Se noi non ci andiamo, tu non ci lasci.» Carmody sorrise a questo ragionamento infantile, ma subito divenne severo. «Che vi piaccia o no, io me ne andrò quando questo uovo si schiuderà. Anzi, io vado via subito. Se non venite, io vi lascio dietro. Io adesso chiamo qui tutti coloro che vogliono venire con me. Chi vuole venire mi segua.» Radunò Tutu, e altri undici adolescenti, più i loro cavalli, i carri, le armi, le provviste, e venti bambini più piccoli, insieme a cinque femmine adulte. Sperava che la visione della sua partenza inducesse gli altri a cambiare idea. Ma, benché tutti piangessero e lo implorassero di restare, nessuno volle venire con lui. Fu allora che Carmody perse la pazienza, e gridò: «Benissimo, allora! Se voi non fate quello che io vi dico di fare perché so che è meglio per voi, allora io distruggo il vostro villaggio! E voi dovete venire con me perché non avete un altro posto dove andare!» «Che cosa dici?» gridarono. «Dico che questa notte un mostro delle stelle verrà a bruciare il villaggio. Vedrete!» Immediatamente dopo, parlò a Holmyard: «Mi ha sentito, professore?
Mi sono reso conto, improvvisamente, che dovevo fare qualche pressione su di loro. È l'unico modo per farli muovere!» «Avrebbe dovuto farlo già da tempo» replicò Holmyard. «Anche se ora viaggerete a tappe forzate, sarete davvero fortunati se raggiungerete la Valle prima dell'inverno.» Quella notte, mentre Carmody e i suoi seguaci erano fermi sulla vetta di un'alta collina, a un paio di chilometri dal villaggio, osservarono l'astronave apparire d'un tratto nel fievole chiarore che le due piccole lune irradiavano nel cielo stellato. Tutti gli abitanti del villaggio dovevano avere guardato ansiosamente il cielo, in attesa del distruttore promesso, perché un alto grido si levò da cento gole. Immediatamente, ci fu una folle corsa verso le strette porte del villaggio, e molti vennero calpestati dalla folla. Prima che tutti i bambini, i neonati, e gli adulti potessero uscire, il mostro lanciò una lingua di fuoco contro le mura di legno che racchiudevano il villaggio. Le mura del lato sud cominciarono ad ardere, lanciando intorno grandi vampate di fuoco, e il fuoco iniziò a propagarsi rapidamente. Carmody fu costretto a scendere di corsa dalla collina, per riorganizzare i demoralizzati horowitz. Fu costretto a minacciarli di morte, se non gli avessero obbedito, e solo allora accettarono di ritornare entro le mura del villaggio, per portare fuori i cavalli, i carri, il cibo, e le armi. Poi tutti si gettarono ai piedi di Carmody, nascondendo il viso nell'erba e nella terra, e implorarono il perdono, dicendo che mai più si sarebbero opposti ai suoi voleri. E Carmody, pur provando vergogna per averli spaventati così, e profondamente addolorato perché il panico aveva provocato delle vittime, rimase comunque severo e duro come la pietra. Diede loro il suo perdono, ma annunciò con ferme parole che era più saggio di loro, e sapeva quel che per loro fosse più conveniente. Da quel momento in poi, ottenne un comportamento sottomesso, docilissimo, e una totale obbedienza da parte degli adolescenti. Ma aveva perduto, nello stesso tempo, l'intimità con loro, anche con Tutu. Tutti lo rispettavano e gli obbedivano, ma trovavano difficile rilassarsi quando lui era vicino. Erano scomparsi gli scherzi e i sorrisi che prima di quella notte uomo e horowitz si erano affettuosamente scambiati. «Lei ha fatto entrare in loro il timore di Dio» disse Holmyard. «Mi ascolti bene, professore» disse Carmody. «Se con queste parole vuole insinuare che mi credono Dio, farebbe meglio a rimangiarsele. Se lo credessero davvero, ci penserei io a far cessare questa bestemmia!» «No, non la credono Dio, ma certamente ritengono che lei sia il suo rap-
presentante. E forse un semidio lei stesso. A meno che non spieghi l'intera faccenda dall'inizio alla fine, continueranno a crederlo. E non credo che la spiegazione servirebbe a molto. Lei dovrebbe fornire un preciso quadro della nostra società, in tutte le sue branche, e non ha né il tempo, né la capacità di fare questo. Qualsiasi cosa lei dica, la fraintenderanno.» Carmody tentò di ristabilire il clima d'intimità e di calore esistente prima della Notte del Mostro, ma trovò la cosa impossibile. E allora si dedicò con tutte le sue forze a insegnare tutto quello che poteva. Cominciò a scrivere, o a dettare a Tutu e agli altri scribi della tribù, tutte le nozioni scientifiche che il tempo limitato gli permetteva di insegnare. Benché il territorio che avevano attraversato, fino a quel momento, fosse privo di depositi di zolfo e salnitro, Carmody sapeva che la Valle conteneva quegli elementi preziosi. Così dettò e scrisse le regole per riconoscerli, per scavarli, e per purificare le due sostanze chimiche, e anche il sistema per creare la polvere da sparo. Inoltre, descrisse con ampi particolari come fabbricare fucili e pistole e fulminato di mercurio, come trovare, scavare e lavorare il piombo. Questi furono solo alcuni dei molti ritrovati tecnologici che registrò. Quindi scrisse i principi della chimica, della fisica, della biologia, e dell'elettricità. Inoltre, tracciò lo schizzo di un'automobile spinta da un motore elettrico alimentato da celle a combustibile. Questo necessitava di un procedimento dettagliato per ricavare idrogeno in virtù della reazione del vapore riscaldato, con zinco o ferro come catalizzatore. Questo, a sua volta, richiedeva che spiegasse il metodo per individuare dei giacimenti di rame, e i procedimenti necessari per raffinare il rame e fabbricare del filo di rame... richiedeva la conoscenza dei principi del magnetismo, e il metodo per ottenere dei magneti, e le formule matematiche degli avvolgimenti dei motori elettrici. Per fare questo, fu costretto a chiamare più volte Holmyard, per avere la sua assistenza. Un giorno, Holmyard disse: «Ormai siamo andati troppo oltre, John. Si sta riducendo a uno scheletro, si ucciderà per la fatica. E sta tentando di realizzare l'impossibile, di comprimere centomila anni di progresso scientifico in un anno soltanto. Sta offrendo agli horowitz, su un piatto d'argento, quello che il genere umano ha scoperto in centomila anni di progresso. Si fermi! Ha già fatto abbastanza, dando loro una lingua e le tecniche di lavorazione della selce, e le tecniche agricole fondamentali. Lasci che facciano da soli, d'ora in avanti. Inoltre, successive spedizioni probabilmente stabiliranno dei contatti con loro, e daranno loro tutte le informazioni che ora cerca di comprimere nelle loro teste.»
«Probabilmente ha ragione» si lamentò Carmody. «Ma quello che mi affligge sopra ogni altra cosa è che, benché io abbia fatto del mio meglio per dare loro tutti i mezzi per affrontare l'universo materiale, non ho fatto quasi nulla per dare loro un'etica. E invece, dovrei preoccuparmi di questo sopra ogni altra cosa.» «Lasci che siano loro a crearsene una.» «No. Consideri le molte strade cattive, sì, perfino mortali, che essi potrebbero prendere.» «Comunque vadano le cose, sceglieranno sempre le strade peggiori.» «Sì, ma almeno ne avranno una giusta da seguire, se vorranno.» «E allora, in nome di Cristo, dia loro questa strada!» esclamò Holmyard. «La pianti di tormentarsi! Faccia qualcosa, o non ne parli più!» «Suppongo che lei abbia ragione» disse Carmody, umilmente. «In ogni modo, non mi rimane molto tempo, ormai. Tra un mese dovrò partire per Wildenwooly. E questo problema sarà uscito dalle mie mani.» Durante il mese successivo, la tribù lasciò le calde pianure e cominciò a viaggiare su alte colline, e ad attraversare passi tra maestose montagne. L'aria diventò più fredda, la vegetazione cambiò, diventando un equivalente della vegetazione di montagna della Terra. Le notti erano fredde, e gli horowitz dovettero riunirsi intorno ai fuochi. Carmody insegnò loro a conciare le pelli, ricavandone degli indumenti pesanti, ma non permise loro di sprecare il tempo a cacciare animali da pelliccia, a conciarli, e a preparare degli abiti più adatti. «Potrete farlo quando sarete nella Valle» disse. E, due settimane prima che raggiungessero il passo che li avrebbe condotti nella Valle, Carmody fu svegliato nel cuore della notte. Sentì un battito costante nell'uovo che portava sul petto, e capì che il becco del pulcino stava cercando di rompere il doppio involucro cuoioso. Al mattino, un foro apparve sulla superficie dell'uovo. Carmody fece quello che aveva visto fare alle madri. Afferrò i bordi della spaccatura, e aprì l'uovo. Gli parve di aprire la propria pelle, tanto era stato il tempo che l'uovo aveva fatto parte di lui. Il pulcino era bello e pieno di salute, maschio, coperto di una peluria dorata. Guardò il mondo con grandi occhi azzurri, stordito, ancora incapace di vedere distintamente. Tutu parve deliziata. «Tutti noi abbiamo occhi scuri! Lui è il primo horowitz che io ho mai visto con gli occhi azzurri! Anche se mi hanno detto che gli horowitz selvaggi di questa zona hanno gli occhi azzurri. Sei stato
tua fargli avere gli occhi azzurri, per fare sapere a tutti noi che è tuo figlio?» «Io non ho niente a che fare con il colore dei suoi occhi» rispose Carmody. Non disse che il pulcino poteva essere una mutazione, o avere dei geni recessivi, frutto di un accoppiamento dei suoi antenati con un membro della razza dagli occhi azzurri. Ci sarebbe voluta una spiegazione troppo lunga. Ma si sentì a disagio. Perché questo era accaduto al pulcino che lui aveva portato? A mezzogiorno, i sottili filamenti che tenevano avvinto l'uovo alla sua carne si erano seccati, e la pelle vuota cadde a terra. Nel giro di due giorni, i molti forellini scuri che coprivano il suo petto si chiusero; la pelle ritornò liscia e normale. Stava ormai tagliando i suoi legami con quel mondo. Nel pomeriggio, Holmyard lo chiamò, e gli disse che la richiesta di un prolungamento del suo soggiorno su Feral era stata respinta. Il giorno in cui fosse terminato il suo contratto, doveva partire. «Stando ai termini del nostro contratto, dobbiamo fornirle un'astronave che la trasporti su Wildenwooly» disse Holmyard. «Così, vede, preferiamo usare la nostra astronave. Ci vorranno solo poche ore per portarla alla sua destinazione; e le confesso che avrò molto piacere nel discutere con lei ancora per un poco, durante il tragitto.» Durante le due settimane successive, Carmody fece procedere la carovana a un ritmo forsennato, concedendo poche ore di sonno per notte, e fermandosi solo quando i cavalli erano esausti. Fortunatamente, gli equini di Feral erano più resistenti, anche se meno veloci, dei loro equivalenti terrestri. La sera del giorno precedente a quello fissato per la partenza, raggiunsero l'alto passo di montagna che li avrebbe portati alla Valle promessa. Accesero molti fuochi, e si rannicchiarono al caldo. Un vento gelido soffiava attraverso il passo, e Carmody faticò a addormentarsi. Ma non era l'aria gelida a turbarlo, quanto i suoi pensieri. Continuavano a girare e a girare, come indiani che cavalcavano intorno a una diligenza, e lanciavano frecce in direzione degli assediati. Non poteva evitare di preoccuparsi per quello che sarebbe accaduto ai suoi pupilli, dopo la sua partenza. E provava un'amarezza enorme, al pensiero di non aver dato loro alcuna guida spirituale. Domattina, pensò, sarà la mia ultima occasione. Ma il mio cervello è torpido. Se la decisione fosse lasciata a me, se i miei superiori non mi avessero ordinato il silenzio... ma loro sanno. Io, probabilmente, farei la cosa sbagliata. Forse è meglio sperare nella rivelazione divina. Però, Dio
opera per mezzo dell'uomo, e io sono un uomo... Doveva essersi addormentato, perché si svegliò improvvisamente nel sentire un corpicino che scivolava accanto al suo. Era la sua favorita, Tutu. «Io ho freddo» disse la ragazzina. «E poi, molte volte, prima del fuoco nel villaggio, io ho dormito fra le tue braccia. Perché non mi chiedi di farlo questa notte? La tua ultima notte!» disse con voce piangente. Le tremavano le spalle, e il becco gli picchiava sul petto mentre Tutu premeva la faccia contro di lui. E non per la prima volta, Carmody rimpianse che quelle creature avessero un becco duro. Non avrebbero mai conosciuto il piacere dell'incontro di labbra soffici in un bacio. «Io ti amo, John» disse lei. «Ma da quando il mostro delle stelle ha distrutto il villaggio, io ho paura di te. Ma questa notte ho dimenticato la mia paura, e devo dormire tra le tue braccia ancora una volta. Per ricordare questa notte per il resto della mia vita.» Carmody si sentì gli occhi pieni di lacrime, ma riuscì a tenere ferma la propria voce. «Coloro che servono il Creatore» disse «dicono che io devo fare del lavoro da un'altra parte, fra le stelle. Io devo andare, anche se non voglio andare. Io sono triste, come te. Ma forse un giorno ritornerò. Non posso prometterlo. Ma resta sempre la speranza.» «Tu non devi andare. Noi siamo ancora bambini, e abbiamo da compiere un lavoro da adulti. Gli adulti sono come bambini, e noi siamo come gli adulti. Noi abbiamo bisogno di te.» «Io so che è vero» rispose Carmody. «Ma pregherò Egli di sorvegliarvi e di proteggervi.» «Io spero che Egli abbia più cervello di mia madre. Spero che sia furbo come te.» Carmody rise e disse: «È infinitamente più intelligente di me. Non preoccuparti. Quel che sarà, sarà.» Le parlò ancora, soprattutto per darle dei consigli sulle cose da fare nel prossimo inverno e per assicurarle una sua futura visita. Se non fosse venuto lui, le disse, sarebbero venuti degli altri uomini. Alla fine si riaddormentò. Ma venne destato da uno strillo di terrore della bambina, gridato nel suo orecchio. Si mise a sedere e disse: «Perché piangi, piccola?» Tutu si afferrò a lui: i suoi occhi parevano ancora più grandi, nel riflesso del fuoco. «Mio padre è venuto da me, e mi ha svegliato! Ha detto: "Tutu, ti domandi dove vanno gli horowitz dopo morti! Io lo so, perché io sono
andato nella terra dopo la morte. È una terra bellissima; non devi piangere perché John sta per andarsene. Un giorno, tu lo vedrai laggiù. Io ho avuto il permesso di venire a dirtelo. E tu devi dire a John che noi horowitz siamo come gli uomini. Noi abbiamo l'anima, e non ci limitiamo a morire e divenire polvere e mai più rivederci tra noi". «Mio padre mi ha detto questo. E ha allungato la mano per toccarmi. E io ho avuto paura, e mi sono svegliata in pianto!» «Su, su» disse Carmody, cercando di calmarla. «È stato soltanto un sogno. Sai bene che tuo padre non era capace di parlare quando era vivo. Come può parlare adesso che è morto? Hai sognato.» «Niente sogno! Niente sogno! Lui non era nella mia testa come sogno! Lui era fermo in piedi, fuori della mia testa, tra me e il fuoco! Lui faceva ombra! I sogni non fanno ombra! E perché dici che non sa parlare? Se può vivere dopo morto, allora può anche parlare, no? Come dici tu: "Perché prendersela per una mosca e poi mandare giù un cavallo?".» «La voce dell'innocenza...» mormorò Carmody, e passò il resto della notte a parlare con Tutu. L'indomani a mezzogiorno, gli horowitz erano fermi sul bordo del passo. Sotto di loro si stendeva la Valle, luminosa del verde, dell'oro, del giallo e del rosso della vegetazione autunnale. In pochi giorni i colori gai sarebbero diventati cupi, ma oggi la Valle splendeva di bellezza e di promesse. «Tra pochi minuti» disse Carmody «gli uomini del cielo giungeranno nel carro delle stelle. Non dovete spaventarvi; il carro non vi farà del male. Io ho ancora alcune parole da dire, parole che spero voi e i vostri discendenti non dimenticherete mai. «La scorsa notte, Tutu ha visto suo padre, che è morto. Lui le ha detto che tutti gli horowitz hanno l'anima e vanno in un altro luogo dopo morti. Il Creatore ha un posto per voi... così ha detto Whoot... perché voi siete i figli di Egli. Egli non vi dimentica mai. E voi dovete diventare per Egli dei buoni figli, perché Egli...» A questo punto s'interruppe, perché per poco non aveva detto "è vostro Padre". Ma, sapendo che gli horowitz avevano in mente l'immagine materna, continuò: «... perché Egli è vostra Madre. «Vi ho detto la storia di come il Creatore ha fatto il mondo dal nulla. Prima c'era lo spazio. Poi atomi creati nello spazio. Gli atomi si unirono per dare materia informe. La materia informe divenne stelle, grandi stelle con piccole stelle intorno. Le piccole stelle si raffreddarono e divennero pianeti, come quello su cui vivete ora. Si formarono mari e terre.
«Ed Egli creò la vita nei mari, vita troppo piccola per vederla a occhio nudo. Ma Egli vede. E un giorno anche voi vedrete. E dalle piccole creature vennero le grandi creature. Vennero i pesci. E alcuni pesci si arrampicarono sulla terra e respirarono l'aria e camminarono con le gambe. «E alcuni animali salirono sugli alberi e vissero lì, e le loro zampe davanti divennero ali, e divennero uccelli e volarono. «Ma una specie di queste creature scese dagli alberi prima di diventare un uccello. E camminò su due gambe, e quelle che potevano diventare ali divennero braccia e mani. «E questa creatura divenne il vostro antenato. «Voi sapete queste cose, perché io ve le ho dette molte volte. Voi conoscete il vostro passato. Ora io vi dirò cosa dovete fare nel futuro, se volete diventare dei buoni figli di Egli. Io vi do la legge degli horowitz. «Questo è ciò che Egli vuole che voi facciate ogni giorno della vostra vita: «Amate il vostro Creatore ancor più dei vostri genitori. «Amatevi l'uno con l'altro, anche colui che vi odia. «Amate anche gli animali. Voi siete capaci di uccidere gli animali per mangiarli. Ma non causate loro dolore. Fate lavorare gli animali, ma nutriteli e fateli riposare bene. Trattate gli animali come bambini. «Dite la verità. Inoltre, cercate sempre la verità. «Fate le cose che la società vi dice di fare. A meno che la società non vi chieda di fare le cose che Egli vi chiede di non fare. In questo caso opponetevi alla società. «Uccidete soltanto per evitare di venire uccisi. Il Creatore non ama un assassino o una popolazione che fa guerra senza una giusta causa. «Non usate dei mezzi cattivi per ottenere un fine buono. «Ricordate che voi horowitz non siete soli in questo universo. L'universo è pieno dei figli di Egli. Loro non sono horowitz, ma voi dovete amare anche loro. «Non temete la morte, perché vivrete ancora.» John Carmody li fissò per un momento, chiedendosi sopra quali sentieri di bene e di male li avrebbe condotti il suo discorso. Poi si diresse verso una grossa roccia dalla superficie piatta, su cui aveva posato una ciotola d'acqua e una pagnotta fatta di farina di frumento. «Ogni giorno a mezzogiorno, quando il sole è più alto, un maschio o una femmina scelta da voi deve fere questo per voi, davanti a voi.» Prese un pezzo di pane e lo bagnò nell'acqua e lo mangiò, e poi disse: «E
il Prescelto dovrà dire in modo che tutti lo sentano: "Con questa acqua, da cui la vita è nata inizialmente, ringrazio il mio Creatore della mia vita. E con questo pane ringrazio il mio Creatore per le benedizioni di questo mondo e perché mi dia forza contro i mali della vita. Grazie a Egli".» Tacque. Tutu era l'unica che non lo guardava, perché era indaffarata a scrivere le sue parole. Poi Tutu alzò lo sguardo verso di lui, come se si chiedesse se Carmody dovesse dire ancora altro. Ed emise un grido e lasciò cadere la matita e il foglio di carta e corse verso di lui e gli mise le braccia al collo. «La nave arriva!» gridò. «Tu non andare!» Dalla folla si alzò un mormorio di paura e di stupore quando tutti videro il mostro lucente sorvolare la montagna e venire verso di loro. Con gentilezza, Carmody si sciolse dal suo abbraccio e si allontanò da lei. «Viene il momento in cui il genitore deve andarsene, e il bambino deve diventare adulto. Questo momento è giunto. Io devo andare perché mi vogliono da un'altra parte. «Ma ricorda che io ti amo, Tutu. Io vi amo tutti. Ma non posso rimanere qui. Però, Egli è sempre con voi. Io vi affido alla cura di Egli.» Carmody era in piedi, nella cabina di pilotaggio, e fissava l'immagine di Feral sullo schermo. Ora il pianeta non era più grande, per lui, di un pallone di gomma. Parlò a Holmyard. «Probabilmente dovrò spiegare quella scena finale ai miei superiori. Forse, sarò severamente redarguito, e punito. Non lo so. Ma ero convinto, in quel momento, di agire bene.» «Lei non doveva dire a quelle creature che possiedono un'anima» disse Holmyard. «Non che la cosa m'importi, in un senso o nell'altro, personalmente. Credo che l'idea di un'anima sia ridicola.» «Ma lei può concepire l'idea» disse Carmody. «E così pure gli horowitz. Una creatura capace di concepire l'idea di un'anima può esserne priva?» «Domanda interessante. E senza risposta. Mi dica, crede davvero che quella piccola cerimonia che ha istituito li terrà sempre sulla retta via?» «Non sono completamente stupido» disse Carmody. «Naturalmente no. Ma avranno un'istruzione fondamentale giusta. Se pervertiranno l'idea, la colpa non sarà mia. Ho fatto del mio meglio.» «Davvero?» disse Holmyard. «Lei ha gettato le fondamenta di una mitologia, nella quale lei potrà diventare il dio, o il figlio del dio. Non pensa
che, quando il tempo avrà offuscato la memoria di questi eventi a cui ha dato inizio, e le generazioni saranno passate, mito dopo mito, distorsione dopo distorsione, altereranno completamente la verità?» Carmody fissò il globo che rimpiccioliva a vista d'occhio sullo schermo. «Non lo so. Ma io ho dato loro qualcosa, che potrà innalzarli dalla condizione animale a quella umana.» «Ah, Prometeo!» mormorò Holmyard. E rimasero in silenzio per molto tempo. PARTE QUARTA Il giusto atteggiamento Roger Tandem si acquattò dietro la propria mano di ramino come se si nascondesse dietro uno scudo. I suoi occhi guizzarono rapidi come furetti sul volto degli altri giocatori seduti al tavolo verde, nel quadrato del mercantile interstellare Lady Fortuna. «Padre John» disse infine «ormai ho capito le sue intenzioni. Lei sarà cortesissimo con me, farà delle battute divertenti, giocherà a ramino con il sottoscritto, anche se non giocherà a soldi, naturalmente. Arriverà a farsi una birra in mia compagnia. E una volta che io abbia cominciato a dirmi che è un simpaticone, mi condurrà pian piano verso un certo discorso. Lo affronterà sempre a distanza, pronto a scivolare via se mostrerò fastidio o preoccupazione; farà un largo giro, ma vi ritornerà di nuovo. E poi, tutt'a un tratto, quando avrò abbassato le difese, zac, toglierà il coperchio che nasconde tutte le fiamme infernali e mi inviterà a dare un'occhiata. E pensa che sarò talmente spaventato che ritornerò sotto l'ala della Madre Chiesa.» Padre John sollevò gli occhi dalle carte, il tempo sufficiente per dire, in tono blando: «Ha ragione, sull'ultima metà dell'ultima frase. In quanto al resto, chissà?» «Lei è furbo, padre, con questi suoi trabocchetti religiosi. Ma con me non concluderà niente. Sa perché? Perché non ha l'atteggiamento giusto.» Le sopracciglia degli altri cinque giocatori s'inarcarono. Il capitano della Lady Fortuna, Rowds, tossì, fino a quando non diventò rosso in viso, e poi, soffiandosi il naso in un fazzoletto, disse: «Piantala, Tandem, che cosa... ah... intendi dire, affermando che... ah... non ha l'atteggiamento giusto?» Tandem sorrise come un uomo molto sicuro di sé, e rispose: «So che pensate che ho del fegato, a dire questo. Ecco davanti a voi Roger Tandem,
un giocatore professionista, e un collezionista... e venditore... di objets d'art interstellari, che rimprovera un sacerdote. Ma ho da aggiungere qualcosa. Non solo non credo che padre John abbia l'atteggiamento giusto, non credo neppure che qualcuno di voi signori ce l'abbia.» Nessuno replicò. Le labbra di Tandem si curvarono in una smorfia di disprezzo, ma i suoi compagni di gioco non poterono vederla, perché teneva le carte davanti alla bocca. «Voi siete tutti pii, più o meno» disse. «E perché? Perché avete paura di correre un rischio, ecco perché. Vi dite di non essere sicuri che esista una vita dopo questa, ma che non si sa mai. Così decidete di andare sul sicuro, e chiedete un passaggio a una religione o a un'altra. Nessuno di voi appartiene alla stessa confessione, ma tutti avete questa elemento in comune. Pensate di non avere nulla da perdere, se professate di credere in questo o in quell'altro dio. D'altra parte, se voi negate, potreste perdere tutto. Così, perché non professare una religione? È più sicuro.» Posò le carte, si accese una sigaretta, e subito cominciò a emettere volute di fumo, che gli nascosero il viso. «Io non ho paura di correre un rischio. Io scommetto forte. La mia cosiddetta anima immortale contro la convinzione che non ci sia nulla, dopo questa vita. Perché non dovrei fare sempre quello che voglio, rendendomi così infelice e ipocrita, quando posso divertirmi fino all'ultimo?» «Questo» disse padre John Carmody «è il punto dove lei commette un errore. La mia opinione è che sia lei ad avere l'atteggiamento sbagliato. Noi tutti stiamo facendo delle puntate in un gioco in cui esiste una maniera sola nella quale possiamo vincere. Ed è la fede. Ma il suo metodo di fare la puntata non è, a mio parere, quello sensato. Anche se dimostrasse alla fine di avere avuto ragione, non lo saprebbe. Come farebbe a incassare la posta?» «La incasso mentre vivo, padre» disse Tandem. «E questo mi basta. Quando sarò morto, non mi preoccuperò che qualcuno fugga con i soldi delle puntate. E potrei aggiungere, padre, che sarà meglio che lei abbia più fortuna con la sua fede di quanta non ne abbia con le carte. Non è un grande giocatore, sa?» Il frate sorrise. Il suo volto rotondo e grassoccio, quando era divertito, appariva piacevole e simpatico. Si aveva l'impressione che avesse un diapason, dentro di sé, che desse il la dell'allegria, invitando tutti a condividerla. A Tandem quest'allegria piaceva, fino a quando non gli pareva che fosse
alle sue spalle. Allora la sua bocca si curvava nell'espressione che spesso assumeva, quando era nascosta dalle carte. In quel momento, una voce giunse dall'intercom, e una luce gialla cominciò a lampeggiare sull'entrata del quadrato. Il capitano Rowds si alzò, e disse: «Ah, vogliate scusarmi, signori. La... ah... cabina di pilotaggio mi desidera. Stiamo per uscire di Traslazione. Non dimenticate che saremo... ah... in caduta libera, non appena si accenderà la luce rossa.» La mano non era finita. Le carte vennero riposte in una scatola, il cui lato magnetizzato sarebbe rimasto aggrappato a un pannello di ferro sistemato nel tavolo. I giocatori si prepararono ad attendere, fino a quando la Lady Fortuna non fosse uscita dallo spazio perpendicolare, per rimanere in caduta libera per un periodo di dieci minuti, mentre il calcolatore si orientava. Se fossero emersi nel punto desiderato, avrebbero proseguito per la loro destinazione servendosi della normale propulsione spaziale. Tandem si guardò intorno, e sospirò. Gli incassi erano stati scarsi, durante quel viaggio. Aveva trascorso quasi tutto il tempo a giocare per divertimento con padre John, il capitano Rowds, il missionario della Luce Universale, e i due professori di sociologia. Era un vero peccato che i suoi compagni non avessero denaro, e si considerassero dei gentiluomini. Se avessero giocato per denaro, si sarebbero offesi se qualcuno avesse chiesto di sospendere sul tavolo da gioco un indicatore psicocinetico o di percezione extrasensoriale. E Tandem, allora, non avrebbe esitato un solo momento a servirsi dell'uno o dell'altro di quei talenti. Secondo lui, quei talenti erano stati dati per un motivo. La faccenda di Chi glieli avesse dati non gli sfiorava la mente. Aveva guadagnato un po' di denaro, durante il balzo da B Velorum a Y Scolpii, quando aveva conosciuto un giovane ricchissimo e appassionato dei dadi: il tipo che si sarebbe offeso a morte se qualcuno avesse sistemato sul pavimento un allarme. Quello era stato un vero giocatore! Cioè, capiva che uno psicocinetico, un PK, si accorgeva immediatamente se un altro PK usava delle energie teoricamente proibite durante una partita. Ma capiva anche che oggi uno dei rischi più emozionanti era quello di imbattersi in qualcuno che fosse in gamba come te. O di più. Qualunque cosa fosse accaduta, quando due persone dotate del talento erano impegnate in una partita con un gruppo di non PK, né l'una, né l'altra persona rivelava che l'altra barava. Allora diventava un duello tra i due che si consideravano gli "aristocratici" del gioco. I plebei venivano lasciati
fuori, al freddo, e alla fine della partita non possedevano né la conoscenza dell'accaduto, né il denaro. Tandem era migliore del giovane ricco. Ma, proprio quando era stato sul punto di convincerlo a puntare forte, la Lady Fortuna (un nome sbagliato, se mai ce n'era stato uno!) aveva compiuto la Traslazione fino alla loro destinazione, la partita era terminata, e il pollo se ne era andato poco dopo. Ora, non solo era quasi in bolletta, ma era, ancora peggio, annoiato. Perfino la lunga polemica con padre John... se si poteva chiamare "polemica" una schermaglia così blanda... non lo stimolava più. E ora, forse, fu quella mancanza d'interesse, e la vaga sensazione che fosse stato il religioso a ottenere il massimo divertimento dalla discussione, a indurlo a fare ciò che fece. Infatti, quando la luce rossa cominciò a lampeggiare, e l'intercom avvertì i passeggeri di stare attenti, Tandem slacciò la cintura che lo teneva stretto alla sedia. Con un leggero movimento del piede, si spinse in alto. E, galleggiando verso il soffitto, portò le mani alle labbra, in atteggiamento di preghiera, e adottò un'espressione che era una meravigliosa mescolanza di stolidità e di santità. «Ehi, padre John!» chiamò. «Guardi! Giuseppe da Copertino!» Ci furono delle occhiate imbarazzate, e delle sommesse risatine, da parte dei passeggeri. Anche l'apostolo della Luce Universale, pur essendo un concorrente del sacerdote, corrugò la fronte, alla vista di quello che, secondo lui, era pessimo gusto, e, in un certo senso, un oltraggio alla sua stessa fede. «Atteggiamento sbagliato» borbottò. «Decisamente, un atteggiamento sbagliato.» Padre John sbatté le palpebre una volta, prima di capire che Tandem stava facendo la parodia dei guai che un famoso santo medievale aveva avuto con la levitazione involontaria. Ma, invece di essere offeso, prese con estrema calma un quaderno d'appunti dalla tasca, e cominciò a scrivere qualcosa. Indipendentemente dagli eventi, cercava sempre di trarne profitto. Perfino il diavolo deve essere ringraziato quando dà degli utili esempi. La pagliacciata di Tandem gli aveva dato l'idea per un articolo. Se lo avesse finito in tempo e fosse riuscito a darlo a un'astronave postale, probabilmente sarebbe riuscito a farlo pubblicare sul prossimo numero del periodico del suo ordine. Titolo dell'articolo: "La caduta libera dell'uomo: verso il basso o verso l'alto?".
Tandem aveva provato la tentazione di scendere sul pianeta dove scendeva il suo ex "pollo": Wildenwooly. Era un pianeta vergine, che offriva molto lavoro ai suoi coloni, e pochissime possibilità di divertimento. Il gioco era la principale. Ma il guaio di Wildenwooly era che su di esso non c'erano molte persone ricche, e che gli abitanti erano patologicamente pronti a offendersi al minimo appiglio. La fortuna di Tandem avrebbe potuto insospettirli e, se fosse stato disponibile un indicatore, lo avrebbero usato. Un eventuale tentativo di smorzare i suoi poteri non gli sarebbe stato di grande aiuto. Il risultato sarebbe stato una sfortuna altrettanto straordinaria. Tutti avevano un po' di talento psicocinetico. Gli indicatori erano regolati su una scala troppo alta per registrare l'energia media. Tandem, e uomini come lui, non potevano ridurre i loro poteri alla media umana, se non mantenendo un rigido controllo. E, quasi sempre, si eccitavano, durante una partita, o cedevano alla tentazione di usarne una quantità anormale. Il risultato sarebbe stato la loro scoperta. Così, per evitare questo, dovevano reprimere completamente il loro talento. E questo provocava uguali sospetti. E mentre gli abitanti di Wildenwooly non avrebbero potuto dimostrare di essere stati ingannati, avrebbero potuto seguire la loro usanza di fare giustizia con le proprie mani. Poiché a Tandem non piaceva l'idea di essere picchiato, o di essere mandato fuori dalla città, su un carrello della ferrovia (uno sgradevole revival di una vecchia usanza americana) decise di rimanere sulla Lady Fortuna, fino a quando l'astronave non avesse raggiunto Po Chü-I. Si trattava di un pianeta pieno di Celestiali, le cui tasche erano gonfie di crediti della Federazione, e i cui occhi splendevano dell'antica passione per la Dama Fortuna. Prima di raggiungere Po Chü-I, la nave si fermò a Weizmann e prese a bordo un altro ricco giovanotto. Tandem si fregò le mani, e si gettò sul pollo, deciso a spennarlo per quanto gli era possibile. Era questa la bellezza dell'età tecnologica. Indipendentemente dai progressi scientifici, si potevano trovare gli stessi tipi umani di una volta, che letteralmente imploravano di venire spennati. Il giovanotto ricco e Tandem trovarono varie altre persone disposte a giocare con loro, fino a quando le poste in palio non si fossero fatte troppo alte. I vecchi compagni di Tandem, il capitano, i professori, e i due reverendi, vennero ignorati, mentre lui aumentava la posta. Disgraziatamente, poco dopo il decollo per Po Chü-I, al giovanotto ricco saltò la mosca al naso, litigò con lui su un argomento diverso dal gioco, e
gli fece un occhio nero. Tandem non restituì il colpo. Disse al giovanotto ricco che lo avrebbe denunciato presso un tribunale terrestre, per avere violato la sua libertà di decisione. Non aveva dato il permesso di colpirlo. Inoltre, si sarebbe sottoposto volontariamente a una iniezione di Telol. Un interrogatorio, sotto l'influsso di quella droga, avrebbe rivelato che non aveva barato. Per qualche motivo che non capì, nessuno, all'infuori di padre John, gli volle parlare per tutto il resto del viaggio. E Tandem non aveva voglia di parlare con il padre. Giurò che sarebbe sceso alla prossima fermata, indipendentemente dal tipo di pianeta sul quale si sarebbe ritrovato. La Lady Fortuna lo giocò, facendolo scendere su un pianeta che era terra incognita, per i terrestri. Nessuna colonia umana vi era stata fondata. L'unico motivo per cui la nave vi atterrò fu che era necessario rifornire i serbatoi d'acqua. Il capitano Rowds annunciò all'equipaggio e ai passeggeri che avrebbero potuto scendere sul suolo di Kubeia per sgranchirsi le gambe. Ma in nessun caso avrebbero dovuto avventurarsi oltre l'altra riva del lago. «Ah... signore e signori... ah... si dà il caso che l'Agente Sociologo Federale abbia... ah... fatto un accordo con gli aborigeni, che ci concede l'uso di quest'area. Ma non dobbiamo avere alcun contatto o commercio con... ah... i kubeiani. Questa gente ha molte strane istituzioni che... ah... noi terrestri potremmo offendere per... se volete scusarmi l'espressione... semplice ignoranza. E alcune delle loro usanze sono... ah... se posso esprimermi così, piuttosto... ah... bestiali. Uomo avvisato... ah... mezzo salvato.» Tandem scoprì che l'astronave avrebbe impiegato circa quattro ore per rifornirsi d'acqua. Perciò, concluse, se aveva voglia di fare un po' d'esplorazione, avrebbe avuto tempo a volontà. Era deciso a dare almeno un'occhiata al mondo di Kubeia. La loro posizione, all'interno di una piccola valle boscosa, lo proibiva. Se avesse scalato una collina, e poi si fosse arrampicato su un albero, avrebbe potuto vedere la città dei nativi, i cui bianchi edifici era riuscito a scorgere da un oblò, quando l'astronave era discesa. In realtà, non provava un interesse particolare, a parte il fatto che il capitano lo aveva proibito. Questo, per Tandem, equivaleva a un ordine. Anche da bambino, aveva sempre provato una deliziosa soddisfazione nel disobbedire a suo padre. E, da adulto, non si era mai chinato a nessuna autorità. A capo chino, passandosi una mano sul mento, girellò intorno, fino a giungere dall'altra parte del gigantesco vascello spaziale, e vide che laggiù
non c'era nessuno che potesse ordinargli di tornare indietro. Affrettò il passo. E, nello stesso tempo, udì una voce: «Mi aspetti! Farò un po' di strada con lei.» Si voltò. Era padre John. Tandem s'irrigidì. Il frate sorrideva: i suoi occhi erano radiosi. Ed era questo il guaio. Tandem non si fidava di quell'uomo, perché era sempre troppo poco coerente con se stesso. Era impossibile capire cosa stava per fare. Un attimo prima era scivoloso come una buccia di banana; un attimo dopo, era ruvido come una barba di tre giorni. Il giocatore abbassò la mano che gli copriva la bocca. Comparve un'espressione che era per metà sorriso, per metà smorfia di disprezzo. «Se le chiedo di percorrere con me un chilometro, padre, lei deve, secondo la sua fede, venire con me almeno per il doppio.» «Ne sarei felice, figliolo, solo che il capitano l'ha proibito. E, presumo, con ottime ragioni.» «Senta, padre, cosa può esserci di male nel dare semplicemente un'occhiata? I nativi credono che quest'area sia tabù. Non ci daranno fastidio. Così, perché non si può fare una passeggiata?» «Non ci sono motivi per trascurare le parole del capitano. Lui ha una completa giurisdizione sull'astronave, che è il suo piccolo mondo. Conosce il suo mestiere; e io rispetto i suoi ordini.» «Va bene, padre, si avvolga pure in quella sua piccola tunica di sottomissione. Può restarsene al sicuro, là dentro, ma non vedrà mai nulla, né godrà mai nulla, di ciò che sta al di fuori. In quanto a me, io corro il rischio. Non che si tratti di un grosso rischio.» «Spero che abbia ragione.» «Senta, padre, si tolga quell'espressione mansueta dalla faccia. Io salirò sulla collina, e mi arrampicherò su un albero, ecco tutto. Poi tornerò subito indietro. C'è qualcosa di male?» «Lo sa lei, se c'è qualcosa di male.» «Certo che lo so» disse Tandem. Si era di nuovo portato le dita davanti alla bocca. «Dipende tutto dal suo atteggiamento, padre. Cammini coraggiosamente, non abbia paura, non si nasconda a qualcuno, o a qualcosa, che può incontrare, e riuscirà ad avere dalla vita proprio quello che ci metterà.» «Sono d'accordo sul fatto che lei ha dalla vita proprio quello che ci mette. Ma in quanto alla prima parte della sua affermazione, non sono d'accordo. Lei non cammina coraggiosamente. Lei ha paura. Si cela sempre.»
Tandem si era già incamminato, ma a quelle parole si fermò, e si girò di scatto. «Cosa intende dire?» «Voglio dire che pensa di doversi sempre celare a qualcuno, o a qualcosa. Altrimenti, per quale motivo si coprirebbe sempre le labbra con le dita, o, se non con le dita, con uno scudo di carte da gioco? E quando è costretto a esporre il volto, piega la bocca in una smorfia di disprezzo per tutto il mondo. Perché?» «Adesso siamo alla psichiatria!» sbuffò Tandem. «Lei resti qui, padre, incollato alla sua piccola valle. Io vado a vedere cos'ha da offrire il resto di Kubeia.» «Non dimentichi che partiamo tra quattro ore.» «Ho l'orologio» disse Tandem, e ridendo aggiunse: «Lascerò che sia l'orologio la mia coscienza.» «Gli orologi ritardano.» «Anche le coscienze, padre.» Sempre ridendo, Tandem si allontanò. A metà della collina, si fermò a guardare indietro, tra gli alberi. Padre John era là, in piedi, e lo osservava. Una piccola figurina, nera e solitaria. Ma doveva essersi voltato lievemente perché il sole lampeggiò sulla mezza luna del colletto bianco, e il riverbero ferì gli occhi di Tandem. Il giocatore batté le palpebre, imprecò e si accese una sigaretta. Si sentì molto meglio quando la cortina di fumo gli velò il viso. Non c'era niente di meglio che una buona boccata di fumo, per rilassare un uomo. Per tutta la vita, si potrebbe dire, Tandem aveva cercato dei polli da spennare. Non dovette faticare molto, ora, per trovarli. Dal suo punto di osservazione, sulla cima di un grande albero, poteva guardare nella valle contigua. E là poteva vedere i polli da spennare. Anche su Kubeia. Era impossibile sbagliarsi sui propositi della folla riunita in due anelli concentrici ai piedi della collina. C'era il circolo più piccolo di uomini, il circolo interno, tutti inginocchiati, e intenti a osservare un oggetto, al loro centro. E dietro di loro c'erano in piedi moltissime persone, che guardavano a loro volta con estrema attenzione una cosa che assomigliava, almeno da quello che Tandem poteva vedere, a una banderuola. Ovviamente, non era una banderuola del tipo che si poteva vedere sui tetti, per indicare il vento. Tandem poteva capire, dall'atteggiamento di coloro che si trovavano intorno, quale ne era lo scopo. E il cuore gli balzò in
petto. Impossibile sbagliarsi. Tandem era capace di sentire l'odore di un gioco d'azzardo a un chilometro di distanza. Poteva trattarsi di un gioco lievemente diverso da quelli terrestri che conosceva, ma essenzialmente uguale. Frettolosamente, discese dal tronco e cominciò a camminare tra gli alberi che ricoprivano i fianchi della collina. Un rapido sguardo all'orologio gli rivelò che aveva ancora a disposizione tre ore e mezzo. Inoltre, era inconcepibile che il capitano Rowds decidesse di partire senza il suo passeggero. Tandem doveva vedere quel gioco d'azzardo kubeiano. Non intendeva partecipare, naturalmente, perché non conosceva le regole e non aveva denaro locale da puntare. Si sarebbe limitato a osservare, per un po', e poi se ne sarebbe andato. Il cuore gli batté più forte; le mani s'inumidirono di sudore. Era quello il motivo per cui viveva, quella tensione, l'incertezza, l'eccitazione. Correre il rischio. Vincere o perdere. Avanti, dadi, rotolate e fatemi un sette! Sorrise, tra sé. A che stava pensando? Non poteva partecipare al gioco. E c'era la possibilità che i kubeiani rimanessero sorpresi dall'apparizione di un terrestre e interrompessero il gioco. Una possibilità molto piccola, però. I giocatori erano notoriamente imperturbabili. Nulla, all'infuori di un cataclisma o della polizia, poteva strapparli dal gioco, finché c'era ancora del denaro sul tavolo. Prima di rivelarsi, esaminò i giocatori. Erano umanoidi, avevano carnagione bruna, testa tonda, coperta di capelli corti, crespi, bruni, volto triangolare privo di peli, a eccezione di sei "baffi" sul labbro superiore sporgente, naso nero simile a un guantone da pugilato, labbra nere e simili a cuoio, denti aguzzi da carnivoro, mento sporgente. Intorno al collo avevano un collarino di pelo nero, simile a un boa di cigno. Tutti indossavano lunghe giacche nere e calzoni larghi, bianchi, lunghi fino al ginocchio. Solo uno portava un cappello. Quell'indigeno pareva un maestro di cerimonie, o, come lo giudicò immediatamente Tandem, il croupier. Era più alto e più magro degli altri, e portava una specie di alto cappello conico, con una grande visiera verde. Era in piedi, di lato, e faceva da arbitro nelle dispute sulle puntate, e dava il segnale d'inizio di ogni partita. Dal croupier, capì Tandem, dipendeva il comportamento della folla nei confronti del nuovo arrivato. Respirò profondamente, atteggiò le labbra nella familiare smorfia e si fece avanti, uscendo dai cespugli. L'atteggiamento dei kubeiani nei confronti degli stranieri fu quello che
Tandem aveva previsto. Gli indigeni che si trovavano nel cerchio esterno sollevarono lo sguardo, spalancarono gli occhi, lievemente obliqui, e rizzarono le orecchie appuntite, simili a quelle delle volpi. Ma, dopo qualche rapido sguardo per assicurarsi che lo straniero era innocuo, ritornarono al gioco. O l'ostentare flemma era una loro abitudine sociale, o erano davvero adattabili come sembravano. Comunque, Tandem decise di approfittare della situazione. Delicatamente, tentò di avanzare, attraverso la folla degli spettatori, e li trovò disposti a lasciarlo passare. Poco dopo, si trovò in prima fila. Guardò attentamente il croupier, che gli lanciò uno sguardo enigmatico e sollevò entrambe le mani verso il cielo. Due, delle quattro dita di ciascuna mano, erano incrociate. La folla esplose in un grido, e imitò il suo gesto. Poi il croupier abbassò le mani. Il gioco proseguì come se il terrestre fosse lì da sempre. Tandem, dopo un rapido studio, si convinse di essere nel proprio elemento. Quella che si svolgeva davanti a lui era una versione un po' più complessa del gioco, a lui familiare, della boule. Il centro dell'attenzione era una statua di un kubeiano, lunga un metro e ottanta. Le due braccia erano tese ad angoli retti, su entrambi i lati, e le gambe erano in perfetta linea con il corpo. Era a faccia in giù, e ruotava liberamente sull'ombelico, che faceva perno su un bastone saldamente cementato in un grande blocco di marmo. La testa della figura era dipinta di bianco. Le gambe erano nere. Un braccio era rosso; l'altro, verde. Il corpo era grigio acciaio. Il cuore di Tandem cominciò a battere più forte. La statua, ne era sicuro, era di platino. Osservò. Un giocatore prese una delle braccia, e cominciò a salmodiare una specie di cantilena, nella sua lingua esotica: una cantilena i cui toni erano uguali a quelli usati da qualsiasi giocatore terrestre prima di lanciare i dadi. Poi, dopo avere ricevuto un segnale dal croupier, l'indigeno diede al braccio una spinta vigorosa. La figura cominciò a girare, e il sole ne trasse uno scintillio rosso e verde e nero e bianco e argento. Quando cominciò a rallentare, i giocatori rimasero senza fiato, in attesa, oppure tesero le braccia alla figura, lanciando invocazioni che erano uguali in tutta la Galassia, indipendentemente dalla lingua usata. Nel frattempo, giocatori e spettatori stavano facendo delle scommesse. Ciascuno aveva una o più copie, in scala ridotta, della statua. Mentre la statua girava, gesticolavano tra loro, parlavano animatamente, poi lancia-
vano le loro figure nell'aria, in modo da farle girare. Tandem era sicurissimo che anche quelle figure più piccole fossero di platino. La figura rotante si fermò. Il braccio verde era puntato contro uno dei giocatori. Un grido si alzò dalla folla. Molti si fecero avanti, e posarono le loro figurine davanti all'uomo così indicato. L'uomo diede alla Boule (Tandem la battezzò subito così) un'altra spinta. La figura ricominciò a rotare. Il terrestre aveva ormai analizzato il gioco. Si prendeva uno dei propri piccoli simulacri e lo si lanciava in aria. Se uno degli arti o la testa si piantavano nel terreno molle, e quello che si piantava era dello stesso colore della grande appendice della Boule centrale, puntata contro di voi, si raccoglievano le statuette che erano cadute su colori diversi. Se la Boule sceglieva voi, ma la vostra statuetta era affondata su un colore diverso, non si perdeva né si vinceva, ma si aveva diritto a un altro tentativo. Altrimenti, toccava al prossimo della fila di tentare la propria fortuna. Mentalmente, Tandem si fregò le mani. Mostrò il suo orologio a un vicino, facendogli capire che desiderava scambiarlo con una statuina. L'ingenuo indigeno, dopo avere ottenuto un cenno d'assenso dal croupier, accettò prontamente l'offerta, e parve soddisfatto di avere perduto, nel baratto, molte migliaia di crediti. Tandem fece numerose puntate e vinse. Armato di una buona scorta di statuine, si spinse audacemente nell'anello interno. Una volta là, usò freddamente il suo talento psicocinetico per rallentare la grande Boule, e fermarla esattamente davanti alla persona giusta, e nel colore giusto. Fu abbastanza abile da non farsi indicare, per alcune volte; gran parte della fortuna che stava rapidamente accumulando veniva dalle puntate indirette. A volte perdeva di proposito; a volte per caso. Era sicuro che vari kubeiani presenti possedevano dei poteri PK inconsci, che avrebbero operato in loro favore, se in numero sufficiente si fossero concentrati sullo stesso colore. Poteva percepire emanazioni leggere, qua e là, ma non riusciva a localizzarle. Si perdevano, nella massa. Non importava. Gli indigeni non potevano possedere il suo talento allenato. Dimenticò quel particolare, e cercò di valutare gli umori della folla. Era già stato solo tra gli alieni, in passato, e li aveva visti cambiare, diventare odiosi, quando aveva cominciato a vincere troppo. Era pronto a cominciare a perdere perché si calmassero, o, nella peggiore delle ipotesi, era pronto a fuggire. Non si fermò a pensare neppure per un momento in qual modo a-
vrebbe potuto correre, con il peso delle statuette vinte. Ma era sicuro che, in un modo o nell'altro, ce l'avrebbe fatta. Non accadde nulla di quanto si aspettava. Gli indigeni non persero neppure un'ombra dei loro sorrisi, e i loro occhi parevano sinceramente amichevoli. Quando vinceva, gli davano delle manate sulla schiena. Alcuni lo aiutavano addirittura a raccogliere le vincite. Li teneva d'occhio, per assicurarsi che nessuno tra loro nascondesse qualcosa sotto le lunghe giacche nere, simili a quelle di un pastore protestante della Terra. Ma nessuno tentò di rubare. Il pomeriggio scorreva ruotando in abbaglianti vortici di verde e rosso e bianco e argento e nero. Non troppo ostentatamente, le statuine, ai suoi piedi, cominciarono a salire, fino a diventare una piccola montagnola. Esteriormente freddo, interiormente era ubriaco. Non era fuori di sé al punto di dimenticare di lanciare, di quando in quando, rapide occhiate all'orologio che era intorno al polso del kubeiano con cui l'aveva barattato. Vedeva però, di avere il tempo necessario per giocare qualche altra partita. Occupato com'era, notò anche che la folla degli spettatori stava aumentando. Quel gioco era come tutti i giochi d'azzardo, in ogni parte della Galassia. Bastava che qualcuno vincesse un po', e subito, mediante qualche sconosciuto mezzo di comunicazione, lo veniva a sapere tutto il vicinato. Attraverso gli stretti passi, dozzine d'indigeni si riversavano nella piccola valle, spingendo gli spettatori sempre più vicino ai giocatori, chiacchierando ad alta voce, fischiando, applaudendo, lanciando strane grida rauche che parevano guaiti, e creando un notevole fetore, sotto il sole rovente, per l'accumularsi di corpi sudati e pelosi. Occhi obliqui scintillavano: orecchie appuntite si drizzavano; il pelo dei collari si drizzava; lunghe lingue rosse, con verdi punte bulbose, si leccavano le labbra; e, ovunque, braccia si levavano al cielo, in un gesto particolare, con due dita incrociate. Tandem non badò a questo. Aveva sentito... e annusato, certo!... folle simili a quella, in passato. Quando vinceva, era la sua orgia. Gira, Boule! Accumulatevi, statuette! Sali, mucchio! Così si vive! Neppure i liquori e le donne potevano inebriarlo a tal punto. Venne il momento in cui soltanto quattro indigeni avevano ancora qualche statuetta davanti a loro. Toccava a Tandem dare la spinta alla statua. Lanciò in alto la sua figurina, la vide cadere, con le gambe nere infilate nel terreno soffice, e si fece avanti, per spingere la grande figura. Lanciò una occhiata di sbieco al croupier, e vide i suoi occhi pieni di lacrime. Tandem ne fu sorpreso, ma non cercò neppure d'immaginare che cosa
avesse prodotto quella strana emozione. Gli bastava giocare, e aveva avuto il via dall'indigeno. Ma quando posò le mani sul braccio verde, udì un grido, che dominò il brontolio della folla, e gli impedì, per lo stupore, qualsiasi movimento. Era la voce di padre John, che stava gridando: «Si fermi, Tandem! Per l'amor di Dio, si fermi.» «Che diavolo viene a fare?» ringhiò Tandem. «Vuole rovinare tutto?» «Ho percorso il secondo chilometro, figliolo» disse padre John. «Ed è stato un bene per lei, le dirò. Ancora un secondo, e sarebbe stato perduto.» Rivoli di sudore scendevano dalle sue guance grassocce. Un ramo doveva averlo ferito, perché tre graffi rossi gli solcavano una guancia. Gli occhi azzurri parevano vibrare in risonanza con un diapason sepolto nel suo corpo, ma la nota non era quella dell'allegria. «Indietro, Carmody» disse Tandem. «Questo è l'ultimo giro. Poi tornerò indietro. Ricco!» «No. Senta, Tandem, non abbiamo molto tempo...» «Fuori dai piedi! Questa gente potrebbe approfittarne, e interrompere il gioco!» Padre John lanciò un'occhiata disperata al cielo. Nello stesso tempo, il croupier lasciò il punto in cui era rimasto per tutta la durata del gioco, e avanzò, a mani tese. La speranza sostituì la disperazione, sul volto di padre John. Ansiosamente, cominciò a fare una serie di gesti, rivolgendosi al croupier. Tandem, benché esasperato, non poté fare altro che osservare, e sperare che quel frate impiccione venisse mandato via dal croupier. Era irritato, fino alle lacrime, al pensiero di avere avuto a portata di mano la vittoria completa, per vedersela portare via da quel puritano ficcanaso. Padre John non prestava alcuna attenzione a Tandem. Avendo attirato l'attenzione del croupier, si affrettò a indicare se stesso e Tandem, e a tracciare un circolo nell'aria, intorno a loro. Il croupier non cambiò espressione. Senza essere minimamente turbato da questo fatto, padre John puntò il dito verso l'indigeno, e verso la folla dei nativi, e indico un cerchio intorno a essi. Ripeté la manovra per due volte. Bruscamente, gli occhi obliqui si spalancarono e scintillarono. L'indigeno fece girare rapidamente il capo, un gesto che pareva l'equivalente di un cenno d'assenso. Pareva avere capito che Carmody stava indicando che i due umani appartenevano a una categoria diversa dai kubeiani. Padre John puntò allora l'indice verso la Boule, e subito dopo lo puntò
verso il croupier. Fu tracciato di nuovo il circolo, che questa volta racchiudeva chiaramente l'indigeno e la statua a faccia in giù. Poi, un altro circolo intorno ai due terrestri. Subito dopo, padre John sollevò il crocifisso che gli pendeva dal collo, in modo che tutti potessero vederlo chiaramente. Un unico grido si sollevò dalla folla. Quel grido conteneva, stranamente, una nota di delusione, e non di sorpresa. Tutti si fecero avanti, ma, a un grido secco del croupier, indietreggiarono di nuovo. Il croupier si fece avanti, ed esaminò con mani tremanti il simbolo. Quando ebbe fatto questo, guardò padre John, aspettando. Aveva gli occhi pieni di lacrime. «Cosa sta facendo, Carmody?» disse Tandem. «Le dà fastidio che io vinca qualcosa?» «Zitto, sono riuscito quasi a convincerli. Forse possiamo ancora sospendere il gioco. Non so, però... ormai c'è dentro troppo profondamente.» «Quando arriveremo sulla Terra, o al primo scalo importante, la denuncerò per avere violato la mia libertà di decisione.» Sapeva che si trattava di una minaccia vuota, perché la legge non si applicava a questo caso. Ma la minaccia, stranamente, lo faceva sentire meglio. Padre John non lo aveva udito. Infatti era intento ad assumere un atteggiamento di crocifissione, con le braccia aperte, le gambe unite, e un'espressione di terribile sofferenza sul volto. Non appena vide che il croupier girava il capo, in segno di assenso, il sacerdote indicò nuovamente Tandem. Il croupier parve sorpreso; il suo naso nero parve sussultare, a causa di qualche sconosciuta emozione. Scrollò le spalle, e sollevò le mani, con il palmo in alto. Padre John sorrise; tutto il suo corpo pareva vibrare con l'invisibile diapason nascosto dentro di lui. Questa volta, era una nota di sollievo. «Lei è fortunato, ragazzo mio» disse a Tandem. «Poiché, poco dopo la sua scomparsa, ho ricordato un articolo letto sul "Giornale interstellare di Religioni comparate". L'articolo era scritto da un antropologo che aveva trascorso qualche tempo qui, su Kubeia, e...» Il croupier lo interruppe, facendo dei cenni vigorosi. Evidentemente, padre John aveva frainteso le sue intenzioni. Il sacerdote spalancò la bocca, e borbottò: «Anche questo tizio ha sentito parlare della libertà di decisione, Tandem. Insiste che decida lei se vuole...» Tandem non aspettò di udire la conclusione della frase, ma gridò, con aria gioiosa: «Signori, avanti col gioco!»
Non udì neppure il grido di protesta del sacerdote, ma afferrò il braccio verde e gli assestò una spinta che lo mandò a girare vorticosamente. E non udì nessun commento, perché era profondamente concentrato nell'attesa del momento in cui la figura rallentava, e in cui poteva cominciare a esercitare la leggera pressione che avrebbe portato le gambe nere a puntare direttamente su di lui, e... La figura girava e girava. Mentre girava, le statuette degli altri giocatori volavano nel sole. Tra gli indigeni, fortune vennero accumulate o perse. Tandem rimase immobile, nella posizione di un lottatore, compiaciuto, sicuro di vincere. I quattro che lo affrontavano non avevano il suo talento né individualmente, né collettivamente. Ora! La Boule stava compiendo l'ultimo giro. Il braccio verde gli passò davanti, poi le gambe. Una piccola spinta le avrebbe riportate davanti a lui, un'altra piccolissima spinta, e, infine, un lievissimo colpo per arrestarle. Ecco, stavano andando così. Ecco, stavano arrivando, lunghe e nere, con i piedi stilizzati che sporgevano, sullo stesso piano delle gambe. Ecco, stavano arrivando, piano, piano... ah! Ah. La folla, che aveva trattenuto il respiro, ricominciò a respirare, in un improvviso ululato di sorpresa e di delusione. E Tandem era impietrito, e la sua mente non credeva a quello che i suoi occhi vedevano, e i capelli, sulla nuca, gli formicolarono, alla percezione della forza improvvisa e irresistibile che era comparsa d'un tratto, e aveva mosso le gambe di quel tanto che bastava per mancare lui, e per puntare il braccio verde su uno dei suoi avversari. Fu padre John a scuoterlo e a dire: «Andiamo, amico. Lei è fuori del gioco.» Stordito, incredulo, Tandem vide che il croupier, piangente, segnalava qualcosa agli indigeni; gli indigeni sciamarono davanti alla sua montagnola di statuine, e le portarono tutte al vincitore. Ora, anche se lui non se ne era accorto, le regole erano cambiate. Ora il vincitore prendeva tutto. Prima che i due terrestri potessero andare via, il croupier si avvicinò al padre, e gli porse una delle statuette. Padre John esitò, poi si sfilò la catena dal collo, e porse il crocefisso all'indigeno. «Perché?» chiese Tandem. «Omaggio professionale» disse il sacerdote, guidando Tandem per il gomito attraverso la folla di kubeiani, che stavano ululando e danzando follemente. «È un brav'uomo. Per niente invidioso.»
Tandem non tentò neppure di decifrare quelle parole enigmatiche. La sua collera, che stava friggendo sotto la superficie di stordimento, sbottò. «Maledizione, quegli indigeni nascondevano la potenza del loro talento psicocinetico! Eppure, malgrado ciò, non avrebbero potuto prendermi di sorpresa, se lei non avesse interrotto il gioco, dando loro il tempo di concentrare le forze contro di me! È stato solo per caso, per una pura combinazione, che si siano concentrati tutti nello stesso momento? Se lei non fosse stato un puritano impiccione, avrei vinto! Adesso sarei ricco!» «Mi assumo tutta la responsabilità. Nel frattempo, lasci che le spie... oh, attento!» Tandem incespicò, e sarebbe caduto se padre John non lo avesse sorretto in tempo. Tandem si riprese subito, e si sentì più in collera di prima. Non voleva essere debitore di niente al sacerdote. In silenzio, avanzarono lentamente attraverso la densa vegetazione, fino a quando non raggiunsero una radura. Là, dietro insistenza di padre John, Tandem si voltò. Grazie a una specie di sentiero che si apriva tra gli alberi, aveva una visione completa della valle. «Vede, Roger Tandem, io avevo letto quell'articolo sul "Giornale". Era intitolato Atteggiamenti, ed è stato un bene che le sue precedenti chiacchiere sullo stesso argomento me l'abbiano riportato alla mente. Ho deciso, in quel preciso momento, dì... se vuole scusare l'affermazione... di percorrere il secondo chilometro. O il terzo, in caso di necessità. «Vede, Roger, quando lei ha visto quella gente, ha interpretato la scena in termini di ciò che lei già conosceva. Ha visto quegli indigeni intorno a un congegno che pareva fatto apposta per il gioco d'azzardo. Ha visto molti altri indizi: gente in ginocchio, scommesse febbrili, intensa concentrazione sul congegno, e ha sentito salmodiare, ha sentito suppliche alla Fortuna, brontolii, esclamazioni, grida di trionfo, gemiti di sconfitta. Ha visto un maestro di cerimonie, il giocatore capo, il padrone del locale. «Quello che non ha colto è un certo parallelismo tra le posizioni e i suoni adottati durante una partita di gioco d'azzardo, e quelle che contraddistinguono le funzioni religiose di certi tipi di culto, in ogni parte dell'universo. Sono molto simili. Osservi i partecipanti a una partita di gioco d'azzardo, e poi osservi quelli di antiche feste religiose. C'è molta differenza?» «Cosa intende dire?» Padre John puntò il braccio verso la valle. «Per poco non è diventato un loro correligionario.» Laggiù, nello spiazzo dove si era svolto il gioco, il vincitore era in piedi,
orgoglioso, accanto all'enorme catasta di statuette. Pareva esultare interiormente della sua vittoria, perché era in piedi, diritto e silenzioso, con le mani sui fianchi. Ma non rimase così per molto. Un certo numero di robusti giocatori lo afferrarono da dietro. Le sue braccia vennero aperte, tese, e legate saldamente a un lunghissimo legno. Un'altra trave venne applicata alla sua schiena. Le gambe, la vita, e la testa, vi vennero legate saldamente. Crocifisso, venne sollevato e portato avanti. Nello stesso momento, la Boule venne sollevata dal supporto. Neppure allora Tandem si rese conto di che cosa aveva rischiato, fino a quando l'indigeno non venne posato, a faccia in giù, sul supporto, e la punta non venne infilata proprio nel suo ombelico. Poi uno dei fedeli afferrò il braccio teso del vincitore, e spinse. Se la Boule vivente emise un grido di dolore, fu impossibile sentirlo, nel tumulto della folla. Fino a quando la punta del supporto non s'infisse nel legno legato alla sua schiena, il vincitore continuò a girare, e la folla salmodiò a gran voce. Padre John stava pregando. «Se ho interferito, l'ho fatto per amore di quest'uomo, e perché devo scegliere a seconda dei dettami del mio cuore. Sapevo che uno di loro doveva morire, Signore, e non credevo che l'uomo fosse pronto. Forse neppure l'indigeno di questo mondo era pronto, ma non avevo modo di saperlo. Ma lui giocava con piena conoscenza di quanto gli sarebbe toccato in caso di vittoria, mentre Tandem non sapeva nulla. E Tandem è un uomo come me, Signore, e io devo presumere che, se non ho qualche conoscenza o qualche prova del contrario, sia mio dovere fare del mio meglio per salvarlo, affinché, un giorno, possa fare del suo meglio per salvare se stesso. Se ho errato, l'ho fatto per ignoranza e per amore.» Quando padre John ebbe finito, condusse Tandem, che era pallido e tremante, su per la collina. «Il banco vince sempre» disse padre John, che era un po' pallido anche lui. «Quell'uomo che secondo lei era il croupier, in realtà era il sacerdote. Le lacrime che ha visto all'inizio nei suoi occhi erano di gioia, per avere conquistato un converso, e quelle che ha visto più tardi erano lacrime di delusione, per averlo perso. Voleva che lei vincesse quel gioco rituale millenario. Se lei avesse vinto, sarebbe stato il primo terrestre a diventare il rappresentante vivente del loro Dio, che venne sacrificato in quella maniera particolarmente dolorosa. E tutta la vincita sarebbe stata sepolta con lei: un'offerta al Dio di cui era l'immagine vivente.
«Ma, come le ho detto, il banco non perde mai. Più tardi, il sacerdote avrebbe disseppellito le statuette, e le avrebbe aggiunte al tesoro della chiesa.» «Vuole dire che tutti i segni che ha fatto al crou... al sacerdote... avevano lo scopo di convincerlo che io...» «... che lei appartiene al Dio della Croce Verticale, sì. Non al Dio della Croce Orizzontale. Ed ero quasi riuscito a convincerlo, quando lui ha pensato al libero arbitrio, e le ha dato l'occasione di entrare nella sua setta. E io, come ha detto lei stesso, non sono certo riluttante a intervenire, in questi casi.» Tandem si fermò, per accendersi una sigaretta. Aveva le mani che tremavano, ma dopo poche boccate, quando il fumo lo celò, si sentì meglio. Raddrizzando le spalle e sollevando il mento, disse: «Senta, padre John, se pensa che questo mi spaventi a tal punto da saltare sotto l'ala della Madre Chiesa, si sbaglia. Ho fatto un errore? Be', è solo un mezzo errore, deve ammetterlo, perché loro stavano giocando d'azzardo. E chiunque poteva essere ingannato. Non ho avuto bisogno del suo aiuto, comunque.» «Davvero?» «Be', suppongo che sia stato un bene che lei sia arrivato... No, non ho avuto bisogno di aiuto. Ho perso; ma in nessun caso avrei potuto vincere, con quei quattro coalizzati contro di me. Così, che cosa avevo da perdere? Mi sono divertito, e non ho perso niente.» «Ha perso l'orologio.» Padre John pareva non essersi ripreso dall'ombra che era caduta sul suo volto, da quando aveva condotto Tandem fuori della valle. La sua espressione era sempre più cupa. «Senta, padre» disse Tandem. «Lasciamo perdere tutti questi simboli e tutta questa morale, eh? Non facciamo confronti tra il mio orologio e la mia coscienza, eh? Si possono distorcere queste cose, fino a perdere il senso delle proporzioni, lo sa.» Rapidamente, girò intorno all'immensa curva dell'astronave, in modo da lasciare indietro il sacerdote. Ma poi si fermò. Un pensiero, che era rimasto nascosto nel buio, era balzato improvvisamente in piena luce. Si voltò, e ritornò indietro. «Senta, padre, a proposito di quei quattro che rimanevano, io avrei giurato che non possedevano abbastanza...» Si fermò. Padre John era a una ventina di metri da lui, e gli voltava la schiena. Le sue spalle erano lievemente più dritte di prima, e c'era qualco-
sa, nella posizione del suo corpo, a rivelare che il suo umore si era rasserenato. Tandem registrò queste cose in modo semiconscio. Ciò che padre John stava facendo lo aveva soggiogato e s'era preso tutta la sua attenzione. Il sacerdote lanciava in aria la statuina e la guardava infilarsi a terra con le gambe nere. Per quattro volte Carmody ripeté il gioco. Tutt'e quattro le volte, le gambe della statuina si piantarono in terra. E persino da quella distanza Tandem riusciva a sentire l'urto del suo potere psicocinetico. PARTE QUINTA Il padre del pianeta L'ufficiale di rotta della Gull rialzò lo sguardo dal tavolo di astronavigazione e indicò le cifre che la penna magnetica stava tracciando sul visore. «Se i dati sono corretti, capitano, siamo a centomila chilometri dal secondo pianeta. Il sistema ne comprende dieci. E il secondo è abitabile, fortunatamente.» Tacque, e il capitano Thu, incuriosito, gli rivolse un'occhiata. Gli era parso che fosse impallidito in modo visibile e che avesse messo un certo accento ironico nella parola fortunatamente. «Il secondo pianeta dev'essere Abatos, capitano.» A quelle parole, la faccia del capitano, il cui colorito, in condizioni normali, era leggermente bruno, impallidì a sua volta. Mosse le labbra per lanciare un'imprecazione, poi le strinse in una smorfia. Alzò la mano destra per compiere un gesto a lui abituale, ma non lo terminò; la mano ricadde. «Benissimo, Givens. Faremo un tentativo di atterraggio. Del resto, è l'unica cosa che possiamo fare. Resti in attesa di ulteriori ordini.» Si voltò dall'altra parte, per non farsi scorgere in viso. «Abatos...» mormorò. Si umettò con la lingua le labbra secche, e portò le mani dietro la schiena. Risuonò il ronzio di un campanello: due volte. Il tenente N'kruma sfiorò un interruttore a piastra e disse: «Qui ponte di comando» a uno schermo che si era acceso al suono del campanello e in cui era apparsa la faccia di un cameriere di bordo. «Signore, informi il capitano che il vescovo André e padre Carmody lo attendono nella cabina numero 7.»
Il capitano Thu guardò l'orologio del ponte; la mano gli corse al crocefisso d'argento che portava appeso all'orecchio destro: lo dondolò un paio di volte, tirandolo leggermente, ma poi si affrettò a riportare la mano dietro la schiena. Givens, N'kruma e Merkalov lo tenevano d'occhio, con apprensione, ma distolsero immediatamente lo sguardo quando incrociarono il suo. Thu, guardandoli in viso, rivolse loro un sorriso truce; nello stesso tempo si portò le mani ai fianchi e raddrizzò la schiena. Comprendeva che i suoi uomini esigevano da lui un comportamento freddo e calmo: la sua calma sarebbe stata interpretata come sicurezza, e anch'essi si sarebbero sentiti sicuri che il loro capitano potesse portarli in salvo. Per un buon mezzo minuto, dunque, rimase fermo, monolitico, in posa, nella uniforme blu degli ufficiali, sempre uguale fin dal XIX secolo. Si sentiva un po' ridicolo quando la indossava a terra e i suoi uomini se n'erano accorti ma sulla propria astronave si sentiva come un antico cavaliere con indosso l'armatura. Giacca e calzoni lunghi erano un abbigliamento arcaico, ormai si potevano vedere soltanto ai balli mascherati, nelle registrazioni storiche o addosso agli ufficiali delle navi interstellari... ma davano davvero un senso di distacco e di diversità, possedevano l'eterno fascino della divisa, e aiutavano a mantenere la disciplina. Il capitano aveva bisogno di tutta la fiducia e il rispetto disponibili: ecco perché adesso recitava la parte del comandante calmo e saggio, talmente sicuro delle proprie azioni da poter sprecare un po' del suo tempo nei rapporti sociali. «Riferisca al vescovo che sarò immediatamente da lui» disse infatti al tenente. Uscì maestoso dal ponte, percorse vari corridoi ed entrò nel piccolo quadrato. Lì giunto, si fermò sulla soglia, per dare un'attenta occhiata ai passeggeri. Erano tutti in quella sala, a eccezione dei due sacerdoti. Nessuno di loro sapeva che la Gull si trovava in una situazione pericolosa, anziché in una delle numerose transizioni dallo spazio normale allo spazio perpendicolare. I due fidanzatini, Kate Lejeune e Pete Masters, seduti su un divano in un angolo appartato, si tenevano la mano e si parlavano fitto fitto, scambiandosi ogni tanto qualche sguardo di passione, tenuta a freno con fatica. All'altro capo della stanza, la signora Recka sedeva a un tavolino, intenta a giocare al doppio solitario con il medico di bordo, Chandra Blake. La signora era una biondona alta e giunonica, la cui bellezza cominciava tuttavia a cedere sotto l'assalto del doppio mento e delle borse agli occhi. La bottiglia di bourbon posata sul tavolo, e ormai già mezzo vuota, spiegava le origini del suo aspetto trasandato; coloro che conoscevano an-
che la sua storia sapevano che alla stessa origine era dovuta la sua presenza sull'astronave. Separatasi dal marito su Wildenwooly, tornava dalla madre sul lontano pianeta di Diveboard, sul ciglio della Galassia. Le era stato chiesto di scegliere tra il marito e il bourbon, e lei aveva scelto il più semplice e trasportabile dei due. Come stava appunto dicendo al dottor Blake quando il capitano entrò nel quadrato, il bourbon non ti rimproverava mai e non ti dava dell'ubriacona e della puttana. Chandra Blake, che era piccolo di statura, e aveva zigomi prominenti e grandi occhi castani, sedeva al tavolo con un sorriso tirato. Era molto a disagio perché la Recka spiegava a voce alta quelle cose; ma era troppo educato per andarsene. Il capitano Thu si sfiorò con la mano il berretto mentre passava davanti ai suoi quattro passeggeri; rispose con un sorriso ai loro saluti, ignorò l'invito della signora Recka a sedere al tavolo. Poi si avviò per un lungo corridoio e infine premette il campanello della cabina numero 7. La porta della cabina si aprì. Il capitano entrò. In quel momento, così alto, magro e rigido, parve fatto di qualche metallo scuro e inflessibile. Si fermò improvvisamente, dopo avere varcato la soglia, e compì quello che pareva quasi un miracolo: si piegò in avanti. Lo compì per baciare la mano che il vescovo gli porgeva, ma la baciò con una tale riluttanza, con una tale mancanza di grazia, da togliere al gesto ogni significato. Quando si raddrizzò, diede l'impressione di emettere un sospiro di sollievo. Si capiva chiaramente che il capitano non amava inchinarsi davanti a nessuno. Aprì le labbra, come per dare subito la brutta notizia, ma padre John Carmody gli mise in mano un bicchiere. «Un brindisi, capitano; beviamo al nostro rapido arrivo su Ygdrasil» disse con voce bassa, un po' chioccia. «Per quanto amiamo la permanenza a bordo, abbiamo gravi motivi per giungere in fretta alla nostra destinazione.» «Berrò alla sua salute e a quella di Sua Eccellenza» rispose Thu, in tono brusco e un po' roco. «Per quanto riguarda il "rapido arrivo", temo che occorrerà una preghiera. Anzi, forse molte preghiere.» Padre Carmody sollevò le sopracciglia (straordinariamente folte, veri ciuffi di pelo), ma non disse nulla. Il fatto che rimanesse zitto rivelò molte cose sulla sua reazione alla notizia, perché era un uomo che non la smetteva mai di parlare. Era sempre in agitazione, pareva doversi muovere di continuo per non esplodere; doveva toccare questo e quello, ficcare il naso di qua e di là, ridere sempre e chiacchierare; dava l'impressione di vibrare,
dentro di sé, come un grande diapason. L'altro religioso fermo accanto a lui, il vescovo André, era talmente alto, immobile e robusto, da parere una quercia trasformata in uomo; e Carmody pareva lo scoiattolo che correva intorno ai suoi piedi. Le larghe spalle, il torace muscoloso, lo stomaco incavato, i polpacci rigonfi rivelavano una grande forza fisica, tenuta rigidamente sotto controllo, e mantenuta a un livello da campione pugilistico nel pieno della forma. Anche i tratti del viso erano in armonia con il fisico: testa grande, zigomi alti, folti capelli di un colore fulvo uguale a quello del mantello del leone. I suoi occhi avevano un colore luminoso: verde spruzzato di pagliuzze dorate; il suo naso era dritto, di profilo classico, anche se, guardandolo di fronte, appariva un po' sottile e le nari apparivano un po' troppo strette; le labbra erano piene e sanguigne, con rughe profonde agli angoli. Al pari di padre John, il vescovo era il beniamino di tutte le buone dame della diocesi di Wildenwooly, ma lo era per una ragione molto diversa da quella del suo compagno. Padre John era divertente da avere intorno: le faceva sempre sorridere, e faceva parere non insormontabili i loro problemi, anche quelli di maggiore gravità. Ma il vescovo André faceva tremare loro le ginocchia quando le fissava negli occhi. Era il tipo di sacerdote che faceva rimpiangere di non essere disponibile come marito. E l'aspetto peggiore di tutta la situazione era che Sua Eccellenza sapeva benissimo l'effetto da lui suscitato sulle fedeli, e lo detestava con tutto il cuore. A volte si era dimostrato molto sgarbato, troncando subito la cosa, e di norma era molto riservato. Ma nessuna donna riusciva a rimanere irritata nei suoi riguardi per molto tempo. E in verità, come dicevano tutti, il vescovo doveva parzialmente la rapidità della sua carriera agli sforzi delle dame, dietro le quinte. Con questo non si vuol dire che non fosse degno del posto che occupava. Anzi, ne era più che degno; ma era arrivato a essere vescovo un po' più in fretta del previsto. Padre John versò un po' di vino in un bicchiere, poi ne riempì di limonata altri due. «Io berrò il vino» disse. «Lei, capitano, sarà costretto a mandar giù questa bevanda analcolica a causa del fatto di essere in servizio. Quanto a Sua Eccellenza, rifiuta il calice che rallegra (eccetto, beninteso, come sacramento), e lo rifiuta per tenere fede ai propri principi. Io, invece, devo bere vino perché mi fa bene allo stomaco.» Si batté una manata affettuosa sulla pancia. «Poiché il mio stomaco costituisce una parte di me così grande, ogni cosa che prendo per il bene dello stomaco, la prendo anche a beneficio dell'intero mio corpo. Cosicché,
non soltanto se ne giovano le mie viscere, ma l'intero corpo si accende di benessere e di gioia, e reclama un'altra dose di tonico. Sfortunatamente, il vescovo pone davanti a me un esempio così edificante, che io non potrei sopportare di non imitarlo, e dunque mi devo limitare a una sola dose. E ciò nonostante io soffra di mal di denti, e un bicchiere o due extra potrebbero diminuirmi il dolore.» Sorridendo, alzò il bicchiere verso il capitano, che, nonostante la tensione, gli sorrise, e verso il vescovo, che, per l'immobilità del viso e il portamento austero, pareva un leone assorto in meditazione. «Ah, mi perdoni, Eccellenza» disse. «Non posso fare a meno di pensare che sia eccessivo nella sua temperanza, ma non avrei dovuto farlo capire. In verità il suo ascetismo è il modello che ciascuno di noi deve ammirare, anche se non abbiamo la forza di carattere di imitarlo.» «Sei perdonato, John» disse il vescovo, con tono grave. «Ma preferirei che confinassi la tua presa in giro (perché non posso fare a meno di interpretarla per quella che è) ai momenti in cui siamo soli. Non è bene che tu parli in questo modo alla presenza d'altri, che potrebbero ricavarne l'impressione che tu nutra disprezzo per il tuo vescovo.» «Oh... Dio mi perdoni, non intendevo certamente dare quest'impressione» si lamentò Carmody. «Anzi, in verità, la mia ironia è diretta verso me stesso, perché amo troppo le buone cose di questa vita, e invece di crescere in sapienza e in santità, cresce solo la circonferenza della mia cintura!» Il capitano fremette, imbarazzato, poi cercò di frenare i movimenti che tradivano i suoi pensieri. Chiaramente, l'aver sentito nominare il nome di Dio al di fuori di un luogo di culto lo aveva messo in imbarazzo. Inoltre, non c'era molto tempo da perdere in chiacchiere frivole. «Beviamo alla nostra salute» disse, e mandò giù la sua limonata. Poi, posando il bicchiere sul tavolo con l'espressione decisa di chi chiude definitivamente un argomento, come se non prevedesse di poter mai più bere da un bicchiere, disse: «Le notizie che vi porto sono assai cattive. Il nostro sistema di traslazione ha smesso di funzionare circa un'ora fa, improvvisamente, e ci ha lasciato nello spazio normale, dispersi. Il nostro ingegnere di macchina dice di non scorgere niente di rotto nel sistema di traslazione, ma di non riuscire a farlo funzionare. Non ha idea di come rimetterlo in moto. È un uomo molto competente nel suo lavoro, e se ammette la propria sconfitta, allora vuol dire che il problema non si può risolvere.» Scese un lungo silenzio. Poi padre John disse: «Quanto distiamo dal più vicino pianeta abitabile?»
«Circa centomila chilometri» rispose Thu, toccandosi il crocifisso d'argento appeso all'orecchio. Poi, accorgendosi di tradire la propria ansia, abbassò la mano. Padre Carmody alzò le spalle. «Non siamo in caduta libera, e dunque la propulsione interplanetaria funziona. Chi ci vieta di scendere su quel pianeta?» «Cercheremo di scendere, infatti. Ma non sono certo della nostra riuscita. Qual pianeta è Abatos.» Carmody lanciò un fischio e si accarezzò il naso. Il viso abbronzato del vescovo André impallidì. Poi Carmody posò il bicchiere e fece una smorfia preoccupata. «La cosa è piuttosto grave» disse. Guardò il vescovo. «Posso dire al capitano perché siamo così ansiosi di arrivare in fretta su Ygdrasil?» Il vescovo André annuì col capo, abbassando gli occhi come se stesse pensando a qualcosa che non riguardava affatto gli altri due. «Sua Eccellenza» spiegò Carmody «lascia Wildenwooly per recarsi su Ygdrasil perché teme di essere stato colpito dal male dell'eremita.» Il capitano rabbrividì, ma non cercò di allontanarsi dal vescovo. Carmody sorrise e disse: «Non abbia paura di prendere la malattia. Non ce l'ha neppure il vescovo. Alcuni sintomi da lui presentati ricordano quelli del male dell'eremita, ma all'esame medico non si è riscontrata la presenza dei suoi caratteristici microrganismi. E poi, Sua Eccellenza non ha mai mostrato un comportamento tipicamente asociale. «Comunque, i medici hanno deciso di mandarlo su Ygdrasil, dove sono meglio attrezzati: Wildenwooly è ancora molto primitivo, lo sa anche lei. Inoltre su Ygdrasil c'è un certo professor Reudenbach, che dicono sia uno specialista nelle varie forme epilettoidi. Si è pensato che fosse bene consultare il professor Reudenbach, dato che le condizioni di Sua Eccellenza non accennavano a migliorare.» Thu allargò le mani, come per dimostrare la propria impotenza. «Mi creda, Eccellenza» disse «la notizia mi addolora sinceramente, e accresce il mio dispiacere per l'incidente. Ma purtroppo non c'è nulla da...» André uscì dal proprio sogno a occhi aperti. Per la prima volta, sorrise: un sorriso lento, caldo, e anche molto bello. «Che sono, le mie preoccupazioni, a paragone delle sue? Lei ha la responsabilità di questa nave, e del carico prezioso che porta. E inoltre, assai più importante, un altro carico: venticinque anime e il loro benessere.» Prese a camminare avanti e indietro, senza smettere di parlare con il suo
timbro di voce sonoro. «Ciascuno di noi ha sentito parlare di Abatos. Sappiamo cosa potrà significare, se il traslatore non riprenderà a funzionare. O se incontreremo lo stesso destino delle altre navi che hanno cercato di atterrare sul pianeta. Siamo a circa otto anni-luce da Ygdrasil, e a sei da Wildenwooly, e quindi non possiamo raggiungere nessuno dei due pianeti con la propulsione normale. O riusciremo ad avviare nuovamente il traslatore, o dovremo atterrare. Oppure rimanere nello spazio finché non saremo morti.» «E anche se ci verrà concesso di atterrare» disse Thu «forse dovremo passare su Abatos il resto della vita.» Dopo un istante, uscì dalla cabina. Venne però fermato da Carmody, che gli era scivolato dietro. «Quando intende dirlo agli altri passeggeri?» Thu guardò l'orologio. «Entro due ore al massimo. Prima di allora sapremo se Abatos ci lascerà scendere. Non posso rimandare ancora il momento della comunicazione, perché si sono già accorti che dev'essere successo qualcosa. Ormai dovremmo già essere in fase di atterraggio su Ygdrasil.» «Il vescovo ha già cominciato a pregare per tutti noi» disse Carmody. «Io invece preferirò concentrare le mie preghiere su un'unica richiesta: che l'ingegnere di macchina riceva un'ispirazione illuminante. Gli farà comodo.» «Non c'è nulla di guasto, in quel traslatore» disse Thu, tutto d'un fiato. «Soltanto... non vuole saperne di funzionare.» Carmody lo studiò dal basso all'alto, strofinandosi il naso. «Pensa che non sia stato soltanto un semplice incidente meccanico, a spegnere i motori?» chiese. «Me la sono vista brutta molte volte» rispose Thu «e conosco anche la paura. Sì: la paura. Non lo confesserei a nessuno, soltanto a lei... o magari a un altro sacerdote... ma sono stato spaventato varie volte, nella mia vita. Oh, so che si tratta di una debolezza, forse anche di un peccato...» A questo punto, Carmody alzò le sopracciglia, sorpreso da un simile atteggiamento, forse addirittura un po' intimorito. «... ma, semplicemente, non potevo farne a meno, anche se ho giurato che non mi sarei mai più sentito come allora, e se non ho mai permesso a nessuno di vedermi così. Mia moglie diceva sempre che se mi fossi lasciato andare, qualche volta, a mostrare un po' di debolezza, non molta, soltanto un po'... Be', forse è stato quello, il motivo che l'ha fatta fuggire, non so, e in realtà non ha più molta importanza, salvo quando…»
Accorgendosi che stava divagando, il capitano tacque, fece uno sforzo, ben visibile, di riprendersi, raddrizzò le spalle e proseguì: «Comunque, padre, ciò che è successo questa volta mi spaventa più di quanto non mi sia mai spaventato in vita mia. Il motivo di questa mia paura, be', non saprei dirglielo con esattezza, ma ho la sensazione che un "qualcosa" abbia causato quell'interruzione di funzionamento, e che l'abbia causata per un suo motivo: un motivo che non ci piacerà affatto, quando giungeremo a scoprirlo. Gli unici elementi su cui baso le mie congetture sono i fatti accaduti a quelle tre altre navi. Lo saprà certamente, tutti ne hanno parlato: la Hoyle è atterrata su Abatos e non se ne è più saputo nulla; la Priamo è andata a svolgere indagini sulla sua scomparsa, ma non ha potuto avvicinarsi a meno di cinquanta chilometri dal pianeta perché il suo apparato propulsore si è guastato; e l'incrociatore Tokyo ha cercato di piombarvi a motori spenti, ed è riuscito a salvarsi soltanto perché la sua velocità era sufficiente a fargli superare il limite dei cinquanta chilometri. Eppure, anche così, per poco non si è carbonizzato mentre attraversava la stratosfera.» «Non posso capire una cosa» disse Carmody. «Come questo suo "qualcosa" possa avere influenza su di noi mentre siamo in traslazione ortogonale. In teoria, noi, nello spazio normale, in quel momento non esistiamo neppure.» Thu si tirò nuovamente il crocefisso. «Sì, lo so. Eppure siamo qui, e ci ha influenzato. Di qualsiasi cosa si tratti, ciò che ci ha messo in questa situazione possiede un potere sconosciuto all'uomo. Altrimenti non sarebbe stato capace di individuarci con tanta precisione, durante la traslazione, in un punto così vicino al suo pianeta.» Carmody sorrise allegramente. «E allora, di che cosa dobbiamo preoccuparci? Se ci può cogliere così come ha fatto, come pesci nella rete, evidentemente vorrà che atterriamo. Perciò non dobbiamo avere timore di un insuccesso della manovra di discesa.» D'improvviso, il suo allegro sorriso si trasformò in una smorfia di dolore. «Accidenti, questo dente cariato!» spiegò. «Volevo farmelo togliere e fare innestare un germe dentario al suo posto, ma sono dovuto partire di corsa per Ygdrasil. E avevo anche giurato di non mangiare più tutta quella cioccolata, che mi piace in modo delittuoso, oserei dire, ma che mi ha già causato la perdita di vari denti. E adesso devo pagare per i miei peccati, perché siamo partiti talmente in fretta che mi sono dimenticato di portare con me degli analgesici, a eccezione del vino. Che si sia trattato di un lapsus freudiano?»
«Il dottor Blake ha di sicuro delle pillole calmanti.» Carmody rise. «Ma certo! Un secondo caso di dimenticanza molto comoda! Evidentemente speravo di potermi limitare alla medicina naturale della vite, evitando le pozioni fabbricate in laboratorio, che non hanno alcun gusto e debilitano l'organismo. Ma ahimè, c'è troppa gente che si preoccupa della mia salute. È lo scotto che si deve pagare quando si è celebri.» Batté la mano sulla spalla di Thu. «Grandi avventure ci attendono, Bill. Avanti!» Il capitano non parve offendersi per quella familiarità. Evidentemente conosceva Carmody da molto tempo. «Mi piacerebbe avere il suo coraggio, padre.» «Coraggio!» fece il sacerdote, sbuffando. «Tremo come una foglia, sotto il mio cilicio. Ma dobbiamo prendere ciò che il Signore ci manda, e quando si tratta di cose che ci possono piacere, tanto meglio per noi.» Thu si concesse un sorriso. «Lei mi piace, padre, perché riesce a dire una frase come questa senza suonare falso, o untuoso, o... ehm... pretesco. Capisce cosa voglio dire?» «Certo che lo capisco» rispose Carmody. Poi, passando dal tono allegro a uno più grave: «Seriamente, però, Bill, spero davvero che si possa riprendere il viaggio quanto prima. Il vescovo è conciato male. A guardarlo, pare che stia benissimo, ma da un momento all'altro corre il rischio di avere un attacco. E se avrà un attacco, io sarò molto indaffarato con lui per vario tempo. Non posso dirle molto di più sulle sue condizioni, perché sarebbe lui a vietarmelo. Esattamente come lei, il vescovo è assai restio a confessare una qualsiasi debolezza; probabilmente mi deplorerà, quando rientrerò in cabina, per avere parlato della sua malattia davanti a lei. Ed è per non voler confessare mai la debolezza, che non ha detto nulla al dottor Blake. Quando ha uno dei suoi... momenti, vuole che soltanto io mi prenda cura di lui. E anche questa piccola dipendenza da me gli dà un forte fastidio.» «Allora sta proprio male, eh? Non l'avrei mai creduto. Ha un aspetto così vigoroso: non vorrei trovarmelo davanti in una zuffa. Ed è anche un uomo ottimo. Il più giusto, il più corretto che si possa incontrare. Ricordo un suo sermone, a San Pio, su Lazy Fair. Ce ne ha dette di tutti i colori, e mi ha messo una fifa tale, che, ricordo, mi ha fatto vivere in perfetta purezza per tre settimane intere. I santi stessi forse pensavano di doversi già scomodare per farmi posto, ma poi ho incontrato...»
Scorgendo l'espressione che era apparsa nello sguardo di Carmody, Thu si interruppe di botto, diede un'occhiata all'orologio, e disse: «Be', ho ancora qualche minuto, e mi sono comportato meno bene di quanto non avrei potuto, anche se penso che ciascuno di noi potrebbe dire lo stesso, eh, padre? Non potremmo andare nella sua cabina? Non si sa mai cosa potrebbe succedere nelle prossime due ore, e preferirei essere preparato.» «Ma certo. Mi segua, figliolo.» Due ore più tardi, il capitano Thu disse la verità ai membri dell'equipaggio e ai passeggeri, dal video del ponte di comando. Quando la sua voce tacque e la sua faccia magra e seria svanì dagli schermi del quadrato, lasciò dietro di sé una scia di silenzio e di visi sconvolti. Tutti, eccetto Carmody, sedevano sulle loro poltroncine come se la voce del capitano fosse stata una freccia che li inchiodava ai cuscini. Carmody era fermo in mezzo al quadrato; una figura vestita con sobrietà, bassa di statura, che faceva contrasto con i colori sgargianti dei vestiti degli altri. Non portava orecchini, le sue gambe erano tinte di un riservatissimo nero, i calzoncini avevano pochissime pieghe, il corpetto era severo, senza gioie e ori. Come tutti i membri dell'ordine di san Giairo, metteva il colletto duro soltanto quando era su un pianeta, e ciò in ricordo del fondatore dell'ordine e dei suoi motivi bizzarri, ma giustificabili per comportarsi così. Osservò con attenzione i passeggeri. Dondolava avanti e indietro sui tacchi, si passava il dito sul profilo del naso, e pareva che l'annuncio del capitano gli interessasse soltanto per le reazioni che destava nei compagni di viaggio. Non pareva che si preoccupasse della propria persona. La signora Recka continuava a sedere davanti alle carte da gioco, con la testa china su di esse, come per studiarle. Ma la sua mano correva alla bottiglia con maggior frequenza del solito. Una volta la rovesciò, con un rumore che fece fare un sobbalzo a Blake e ai due fidanzatini. Senza prendersi il disturbo di alzarsi dalla sedia, la signora Recka lasciò che il mezzo litro di liquore si rovesciasse a terra, e chiamò il cameriere per farsene portare un altro. Forse il preciso significato delle parole del comandante non si era ancora fatto strada tra la nebbia che le offuscava il cervello. O forse preferiva non preoccuparsene. Pete Masters e Kate Lejeune, i due fidanzatini, non si erano mossi di posto, e non avevano detto una parola. Si erano accostati l'uno all'altra ancora di più (sempre che la cosa fosse possibile) e si stringevano le mani con maggior forza: pallidi com'erano, le loro teste dondolavano come due palloncini bianchi agitati da un vento interiore, e le labbra di Kate, dipinte di
un rosso intenso, vivacissimo sullo sfondo della pelle esangue, si aprivano come uno squarciò sul palloncino; uno squarcio che però, per qualche miracolo, non ne faceva uscire l'aria, cosicché la testa-palloncino non si afflosciava. Carmody li guardò con grande pietà, perché conosceva la loro storia molto meglio di quanto sospettavano i due giovani stessi. Kate era figlia di un ricco cacciatore di peltri di Wildenwooly. Pete era figlio di un boscaiolo squattrinato, uno di quei tagliaboschi che si avventuravano, con la corazza addosso, nelle micidiali foreste del pianeta, alla ricerca di alberi del desiderio. Dopo che il padre era scomparso in qualche caverna sotterranea delle snoligostre, Pete era andato a lavorare per il vecchio Lejeune. Il fatto che avesse coraggio si vide presto, perché ci voleva un certo fegato ad andare nelle zone dei peltri - animali dalla pelliccia ricchissima, ma molto feroci - a farli uscire col suono dell'ocarina dalle loro tane scavate nel tronco degli alberi, e a trascinarli, ammansiti dal suono, fino in braccio a coloro che li avrebbero uccisi e scuoiati. E che fosse anche un po' sventato si vide altrettanto presto, perché si era incapricciato di Kate con la stessa profondità con la quale la ragazza si era incapricciata di lui. Una volta messo insieme il coraggio necessario per andare a chiedere al padre la mano della ragazza il vecchio Lejeune era ombroso e collerico come e più dei peltri a cui dava la caccia, e non si lasciava ammansire dal suono delle ocarine era stato gettato fuori di peso, con varie contusioni e vari graffi, una leggera commozione cerebrale e l'assicurazione che, se si fosse fatto nuovamente vedere a parlare con la ragazza, gli avrebbero fatto la pelle. Il resto della storia seguiva le solite linee, antichissime e inevitabili. Dopo essere uscito dall'ospedale, Pete aveva fatto avere a Kate dei biglietti, per mezzo di una zia della ragazza, una vedova. Questa zia detestava cordialmente il fratello, e inoltre era una tale appassionata di teleromanzi da essere disposta a qualsiasi cosa, pur di spianare la via al vero amore. Così, era andata a finire che al porto di Breakneck era sceso bruscamente un elicottero, poco prima che la Gull partisse. Dopo avere dichiarato la propria identità e avere acquistato il biglietto due atti in cui si esaurivano tutte le formalità del trasporto interstellare, perché non occorrevano né visti né passaporti per gli esseri umani che si spostavano tra i pianeti del Commonwealth erano entrati nella cabina numero 9, immediatamente dopo quella del vescovo, ed erano rimasti in cabina fino a poco prima che il traslatore andasse misteriosamente in avaria. Ma la zia di Kate era troppo orgogliosa della propria parte di Cupido per
riuscire a starsene zitta, e pertanto aveva raccontato tutto a una mezza dozzina di amiche, dopo aver ottenuto la solenne promessa di non parlarne con nessuno. Risultato: padre Carmody conosceva tutta la verità, e anche parecchie menzogne, sulla faccenda Masters-Lejeune. Quando la coppia era scivolata a bordo, aveva capito immediatamente cosa fosse successo; anzi, si era aspettato di veder comparire, a ruota, il padre offeso, insieme con una banda di robusti cacciatori di peltri che si sarebbero presi cura di Pete. Ma la nave era partita come un fulmine, e ormai anche la possibilità che i due fuggitivi trovassero a Ygdrasil, ad attenderli, l'ordine di carcerazione, si era fatta piuttosto remota. Sarebbero stati fortunati se mai ci fossero arrivati, a Ygdrasil... Carmody si diresse verso di loro, fermandosi davanti al divano. «Niente timore, ragazzi» disse. «L'opinione personale del capitano è che l'atterraggio su Abatos non comporterà alcuna difficoltà.» Peter Masters era un giovane dai capelli rossi, dal naso aquilino, le guance incavate e il mento un po' troppo grande. Era ampio di spalle, ma pareva ancora un adolescente, perché non aveva ancora la muscolatura di un uomo fatto e se ne stava un po' curvo e dinoccolato come un ragazzo cresciuto troppo in fretta. Coprì la manina affusolata di Kate con la sua manaccia ossuta e disse, fissando con occhi truci il piccolo sacerdote: «E suppongo che ci consegnerà alle autorità non appena atterrati, vero?» Carmody batté le palpebre per la sorpresa, di fronte al tono sfrontato del giovane, e si piegò leggermente in avanti, come se fosse in mezzo a una folata di vento. «Niente affatto» disse, piano. «Se ci sono delle "autorità" su Abatos, noi non le abbiamo ancora incontrate. Ma le incontreremo, ne sono convinto.» Tacque, e fissò Kate. La ragazza era graziosa, piccola di statura. I capelli biondi e stopposi erano raccolti a coda sulla nuca, tenuti fermi da un cerchietto d'argento; aveva occhi grandi, dalle iridi di un caldo colore azzurro. Ora alzò lo sguardo per fissare in viso il sacerdote con aria innocente e supplichevole. «In effetti» disse il sacerdote «tuo padre non può fare nulla... nulla di legale... per fermarvi, a meno che non commettiate un reato. Vediamo, tu hai diciannove anni, Pete, eh? E tu, Kate, ne hai solamente diciassette, vero? Se ricordo bene gli articoli della legge sulla libertà di consenso, il fatto che tu non sia ancora maggiorenne non può impedirti di lasciare la casa di tuo padre senza il suo permesso. Hai già raggiunto l'età della mobilità. Invece, considerando l'altra faccia della medaglia, tu non hai ancora, secondo la
legge, l'età per sposarti. Le realtà biologiche, certo, smentiscono questa affermazione, ma bisogna tener presente che viviamo in un mondo sociale, un mondo di leggi fatte dall'uomo. Tu non puoi sposarti senza il consenso di tuo padre. Se tu cercassi di farlo, potrebbe legalmente impedirtelo. E non dubito che lo farebbe.» «Non può far nulla» interruppe Pete, seccamente. «Non ci sposeremo fino a quando Kate non sarà maggiorenne.» E fissò il sacerdote con occhi di fiamma, aggrottando le sopracciglia bionde. Il pallore di Kate scomparve, sommerso da un'ondata di rosso. Abbassò gli occhi, fissandosi le gambe magre, dipinte di giallo canarino, e le unghie dei piedi smaltate di rosso. Con la mano libera si rassettò la gonna color verde intenso. Carmody non smise di sorridere. «Scusate un prete ficcanaso, che si interessa a voi soltanto perché non vuole che vi succeda del male. O che voi facciate del male a qualcuno. Ma io conosco bene tuo padre, Kate, e so che è perfettamente capace di mantenere la minaccia di morte fatta a Pete. Ti piacerebbe che Pete venisse rapito, picchiato brutalmente, o magari ucciso?» La ragazza alzò verso di lui i grandi occhi e le guance arrossate. Era molto bella, molto giovane, molto appassionata. «Mio padre non oserebbe farlo!» disse con voce fioca, ma piena di calore. «Sa che se dovesse succedere qualcosa a Pete, io mi ucciderei. Gliel'ho detto nel biglietto che ho lasciato per lui, sa che ho una testa dura come la sua. Mio padre non farà del male a Pete, perché mio padre mi ama troppo.» «Lascia perdere, cara» disse Pete «non rispondergli più. Me ne occupo io. Carmody, non vogliamo nessuna interferenza da parte di nessuno, neppure con le migliori intenzioni del mondo. Vogliamo essere lasciati soli.» Padre John sospirò. «Essere lasciati soli è un desiderio abbastanza piccolo. Sfortunatamente, o forse fortunatamente, è una delle cose più rare dell'universo, altrettanto rara quanto la pace della coscienza o un sincero amore per il prossimo.» «Mi risparmi le sue frasi fatte» disse Pete. «Le conservi per i sermoni che tiene in chiesa.» «Ah, già, una volta ti ho visto alla chiesa di Santa Maria, vero?» disse padre John, strofinandosi un lato del naso. «Due anni fa, durante quell'epidemia del mal dell'eremita. Mmmm.» Kate posò la mano sul polso del giovane. «Per favore, amore. Lo fa per il nostro bene, e poi, le cose che ci dice sono vere.»
«Grazie, Kate.» Carmody indugiò un attimo ancora, e poi, con un'espressione triste e preoccupata, infilò la mano in tasca e prese un foglio di carta gialla. Lo porse a Kate, che lo prese con mano tremante. «Questo è stato dato a un ufficiale della nave, pochi istanti prima che partisse» spiegò. «A quel punto era ormai troppo tardi perché si potesse fare qualcosa. Infatti, a meno che non si tratti di questioni di vita o di morte, l'orario di partenza viene sempre rispettato.» Kate lesse il foglietto e impallidì nuovamente. Pete, che lo leggeva da dietro la spalla della ragazza, divenne tutto rosso in viso; le sue narici si dilatarono. Strappando il foglio dalla mano di Kate, scattò in piedi. «Se il vecchio Lejeune pensa di potermi cacciare in prigione accusandomi di avergli rubato del denaro, quell'uomo è pazzo!» latrò. «Non potrà mai dimostrarlo, perché io non ho rubato niente! Sono innocente, e lo dimostrerò sottoponendomi volontariamente al siero della verità! Così vedranno tutti che bugiardo è il vecchio!» Padre John spalancò gli occhi. «Ma intanto, voi due sarete presi in consegna dalla polizia, e il padre di Kate farà dei passi per riavere la figlia, o almeno per farla mandare al capo opposto della Galassia. Ora, la cosa che vi consiglierei di fare...» «Lasci perdere i suoi suggerimenti da ficcanaso!» latrò di nuovo Pete. Accartocciò il foglietto e lo gettò a terra. «Alzati, Kate, andiamo in cabina.» La ragazza si alzò, sottomessa, ma diede a Pete un'occhiata, come se volesse dire anche lei la sua opinione. Pete ignorò l'occhiata. «Sappia» continuò il giovane «che sono lieto di dover atterrare su Abatos. Da quel che ho letto, la Tokyo ha determinato che si tratta di un pianeta abitabile, magari addirittura di un altro Eden. Quindi io e Kate dovremmo essere in grado di vivere abbastanza bene su di esso. In cabina ho il mio attrezzo a raggi; servendomi di quello potremo costruirci una capanna, arare la terra e andare a caccia e a pesca e allevare i nostri figli come vorremo. E non ci saranno interferenze da parte di nessuno. Nessunissimo!» Padre John piegò la testa da un lato e lasciò che si abbassasse la palpebra sinistra. «Adamo ed Eva, eh? Non vi sentirete un po' troppo soli? E poi, che ne sapete dei pericoli che potremo incontrare su Abatos?» «Io e Pete non abbiamo bisogno di altre persone intorno a noi» rispose Kate, piano. «E non abbiamo paura di nulla.» «Già, tranne che di tuo padre.»
Ma i due se ne erano già andati, mano nella mano. Probabilmente non avevano udito le ultime parole. Padre John si chinò a raccogliere il foglietto spiegazzato, e, nel chinarsi, emise un brontolio. Si raddrizzò con un sospiro, stirò la carta e lesse quanto vi era scritto. Il dottor Blake si alzò dal tavolino e si avvicinò a lui. Sorrise con un misto di affabilità e di rimprovero. «Non le pare di essersi comportato in modo un po' troppo rigido?» chiese. Carmody sorrise. «Lei mi conosce da molto tempo, Chandra. Sa che questo mio naso lungo e affilato è un eccellente simbolo del mio carattere, e che non metterei certamente la mano sul fuoco per negare di essere un intrigante e un ficcanaso. Comunque, ho sempre la scusa di essere un sacerdote, e che quindi la cosa è un dovere professionale. Non posso fare a meno di ficcare il naso, costituzionalmente. E inoltre, amo quei ragazzi; vorrei che potessero uscire da questa brutta faccenda senza danni.» «È più probabile che si ritrovi con un'ammaccatura sul suo famoso naso. Quel Pete pare abbastanza collerico da mollarle un pugno.» Padre John si accarezzò la punta del naso. «Be', non sarà la prima volta che si ammacca. Ma non credo che Pete arriverà a colpirmi. È un vantaggio, per un chiacchierone, essere un sacerdote. Anche i più maneschi hanno sempre un attimo di esitazione, prima di colpire un prete. È come colpire una donna. O un'immagine di Dio. O entrambe le cose. Noi codardi a volte approfittiamo di questo stato.» Blake sbuffò. «Codardo?» Poi: «Kate non è neppure della sua religione, padre, e Pete è come se non lo fosse.» Carmody alzò le spalle e allargò le palme, come per indicare che le sue mani erano lì per chiunque ne avesse bisogno. Pochi minuti dopo, premette il campanello della cabina del vescovo. Non udendo risposta, si volse, come per andarsene, poi si fermò, accigliandosi. Bruscamente, come se obbedisse a un allarme interiore, spinse la porta. Non era chiusa a chiave, e si spalancò. Padre John rimase a bocca aperta e si precipitò dentro. Il vescovo giaceva riverso in mezzo alla cabina, con le braccia larghe e le gambe tese, a guisa di crocefisso, la schiena inarcata, gli occhi spalancati e fissi su un punto del soffitto. Il volto era rosso, coperto di sudore; il respiro gli usciva sibilando dalla bocca; dalle labbra aperte scendeva un rivolo di schiuma. Eppure la sua posizione era diversa da quelle tipiche degli attacchi di epilessia, perché la parte superiore del suo corpo pareva immo-
bile, come se fosse fatta di cera in procinto di fondere, riscaldata da una fonte interna di calore. La parte inferiore, però, sussultava violentemente. Le gambe erano tese e il bacino sferrava colpi verso l'alto. Si aveva l'impressione che una lama si fosse aperta un cammino invisibile attraverso la sua regione addominale, tagliando i nervi e i muscoli che collegavano tra loro le due parti. Il tronco pareva avere ripudiato le gambe e i fianchi, e aver detto: "Fate quello che volete, perché quello che fate non mi interessa". Carmody chiuse la porta e si affrettò a fare quanto necessario per il bene del vescovo. La Gull scelse per l'atterraggio un punto in centro all'unico continente di Abatos: una massa che si estendeva sull'intera circonferenza del pianeta, larga quanto l'Africa e l'Asia insieme, situata completamente nell'emisfero settentrionale. «Il miglior atterraggio da me fatto» commentò il capitano Thu, rivolto al primo ufficiale. «Quasi come col pilota automatico. Siamo atterrati con estrema facilità.» E tra sé e sé aggiunse: «Forse risulterà che ho risparmiato per il mio ultimo atterraggio la mia manovra migliore.» Carmody non uscì dalla cabina prima di ventiquattrore. Dopo avere riferito al medico e al capitano che il vescovo André si era calmato, che riposava e non voleva essere disturbato, Carmody chiese che cosa avessero scoperto fino a quel momento. Ovviamente, era stato divorato dalla curiosità mentre era rimasto chiuso in cabina, perché aveva pronte mille domande e pareva aver paura di non riuscire a spararle fuori abbastanza in fretta. I due ufficiali poterono dirgli poco, sebbene le loro esplorazioni avessero già coperto un vasto territorio. Il clima pareva quello che si può trovare nel mese di maggio nelle zone temperate della Terra. La vegetazione e la vita animale avevano molti paralleli con la flora e la fauna terrestre, anche se, com'era ovvio, c'erano molte specie assolutamente diverse. «Ecco qualcosa di strano» disse il dottor Blake. Prese alcuni dischi sottili, sezioni del tronco di alcuni alberi, e li mostrò al sacerdote. «Pete Masters ha tagliato queste sezioni col suo attrezzo portatile. A quanto pare, cercava il miglior tipo di legno con cui costruire una capanna di tronchi d'albero... o forse è meglio parlare di palazzo, perché ha grandi idee su ciò che conta di fare qui. Notate la grana e la distanza tra gli anelli del legno. Una grana perfetta. E gli anelli si susseguono a distanza esattamente ugua-
le. Inoltre, non ci sono nodi, né fori di parassiti di alcun tipo. «Questi interessanti particolari mi sono stati segnalati da Pete, e allora abbiamo tagliato una quarantina d'alberi di diverse specie, con la sega degli attrezzi d'emergenza dell'astronave. E tutti i campioni hanno mostrato la stessa incredibile perfezione. Non soltanto, ma il numero degli anelli, unito al metodo di Mead per la datazione fotostatica, hanno mostrato che tutti gli alberi hanno esattamente la stessa età. Sono stati piantati diecimila anni fa, tutti!» «Ogni mio commento sarebbe insufficiente» disse Carmody. «Hmmm. La spaziatura costante degli anelli di crescita indicherebbe che le stagioni, sempre che le stagioni ci siano, seguono uno schema regolare, e che non ci sono stati periodi irregolari di umidità e di siccità, bensì una proporzione costante di pioggia e di illuminazione solare. Ma questi boschi sono abbandonati, selvaggi. Come si spiega la mancanza di danni provocati da parassiti? Forse non ne esistono.» «Non lo sappiamo. Inoltre, i frutti di questi alberi sono molto grandi, gustosi e abbondanti... paiono quelli di specie vegetali coltivate, selezionate e curate con attenzione. Eppure non abbiamo visto tracce di vita intelligente.» Mentre Blake così spiegava, i suoi occhi mandavano lampi, e le sue mani si agitavano per l'eccitazione. «Ci siamo permessi di abbattere vari animali per poterli esaminare. Ho dissezionato rapidamente una piccola creatura simile a una zebra, poi una sorta di lupo dal muso molto lungo, fulvo, un uccello simile al corvo, ma giallo e con una cresta rossa, e uno pseudomarsupiale simile al canguro. Eppure, nonostante la fretta con cui li ho condotti, gli esami mi hanno rivelato alcuni aspetti davvero sorprendenti: uno di questi aspetti, anzi, era chiarissimo, anche per un profano.» S'interruppe, poi disse a precipizio: «Erano tutte femmine! E la datazione delle loro ossa indicava che anche questi animali, come le piante, avevano diecimila anni!» Le sopracciglia cespugliose di padre John non potevano sollevarsi ulteriormente; erano due ali disordinate che battevano pesantemente, per sollevare un grosso carico di stupore. «Sì! Non abbiamo ancora visto un solo individuo di sesso maschile tra tutte le migliaia di bestie che ci sono capitate sotto gli occhi. Neppure uno. Tutte femmine. Tutte!» Afferrò il gomito di Carmody e lo accompagnò verso il bosco.
«Diecimila anni, avevano quegli scheletri. Ma non era questa l'unica cosa stupefacente che li riguardasse. Le ossa erano assolutamente prive di residui dell'evoluzione biologica: erano funzionali al massimo. Carmody, lei che è un paleontologo dilettante, dovrebbe sapere come questa situazione sia unica. Su ogni pianeta dove abbiamo studiato scheletri fossili e contemporanei, abbiamo visto che mostrano appendici ossee la cui struttura si è degenerata a causa della perdita della loro funzione. Consideri le dita del cane, gli zoccoli del cavallo. Il cane cammina sulle dita e ha perso l'alluce e ha ridotto il pollice a una dimensione minima. Sullo zoccolo del cavallo restano le vestigia di due dita; lo zoccolo è l'unghia del dito di mezzo che si è irrobustito: su di esso camminava il cavallo fossile. Ma la zebra di Abatos non ha vestigia di dita, né il lupo ha dita rudimentali che hanno perso la loro funzione. Lo stesso discorso vale per tutte le creature che ho studiato qui. Erano perfette dal punto di vista funzionale.» «Ma, ma...» disse padre John «sa che l'evoluzione, sugli altri pianeti, non segue mai esattamente lo stesso schema che ha seguito sulla Terra. Inoltre, la somiglianza tra una specie terrestre e una extraterrestre può ingannare. Anzi, perfino la somiglianza tra due specie terrestri può ingannare. Pensi a come i marsupiali dell'Australia, isolati, hanno sviluppato forme parallele a quelle dei mammiferi placentati. Sebbene privi di collegamenti con i mammiferi degli altri continenti, questi mammiferi hanno dato origine a forme simili al cane, al topo, alla talpa, all'orso...» «Lo so benissimo» disse Blake, tagliando corto. «Non sono ignorante fino a questo punto. Ci sono altri fatti che potrei citare a sostegno della mia opinione, ma lei parla così tanto che non mi ha dato la possibilità di riferirli.» Carmody rise. «Io? Parlare? Avrò detto sì e no una parola. Comunque, lasciamo perdere. Mi perdoni lo sproloquio. Che altro c'è?» «Be', ho incaricato alcuni uomini dell'equipaggio di esplorare i dintorni. Hanno portato centinaia di insetti, ed è chiaro che ho potuto dare loro solamente un'occhiata assai superficiale. Ma nessuno di quegli insetti mostrava somiglianze con le forme larvali degli insetti terrestri. Erano tutte forme adulte. Quando me ne sono reso conto, ho ricordato una cosa che abbiamo avuto tutti sotto gli occhi, ma che non abbiamo notato: forse non l'abbiamo notata perché le deduzioni che se ne possono trarre sono troppo enormi, o forse perché semplicemente non ci siamo guardati intorno sotto questa angolazione. Si tratta del fatto che non abbiamo scorto dei piccoli tra gli animali.»
«Enigmatica cosa, anzi allarmante» disse Carmody. «Può lasciarmi il gomito, ora, grazie. Verrò con lei spontaneamente, la qual cosa me ne richiama subito alla mente un'altra: dove mi porta?» «Qui!» Blake si fermò davanti a un albero simile a una sequoia, altissimo, giganteggiante per più di cinquanta metri. Indicò un foro molto grande nel tronco, a circa mezzo metro dal terreno. «Questa cavità non è dovuta a malattia e non è un foro di qualche animale. Si tratta ovviamente di una cavità che fa parte della struttura dell'albero.» Diresse nell'interno della cavità il raggio di una lampada portatile. Carmody infilò la testa all'interno e dopo un attimo la tirò indietro. Aveva un'espressione pensosa sul volto. «Ci saranno dieci tonnellate di una sostanza simile alla gelatina, all'interno della cavità» disse. «Una gelatina che contiene ossa, al suo interno.» «Dovunque vada, troverà questi "alberi della gelatina", come li abbiamo subito battezzati» disse Blake. «E una buona metà di quegli alberi contiene scheletri di animali.» «E che cosa sono? Una sorta di pianta carnivora?» chiese il sacerdote, arretrando istintivamente di un passo. «No, non è possibile, altrimenti mi avrebbe impedito di infilarci dentro la testa. O si tratta di una pianta che, al pari di molti esseri umani, trova indigesti i soggetti religiosi?» Blake rise, ma subito divenne serio. «Non ho nessuna idea del motivo per cui quelle ossa sono lì dentro, o dello scopo di quella gelatina» disse. «Ma posso spiegarle in che modo gli scheletri ci arrivano. Vede, mentre sorvolavamo la zona, per tracciarne le carte geografiche e per compiere altre osservazioni, abbiamo visto dei carnivori locali che uccidevano varie prede. Ci sono due specie di carnivori che preferirei non incontrare, anche se abbiamo i mezzi di respingerli. Se non ci saltano addosso da dietro, beninteso. Il primo è un felino delle dimensioni di una tigre del Bengala, simile a un leopardo, ma con grandi orecchie tonde e ciuffi di pelo grigio sulla parte posteriore delle zampe. L'altro è un mammifero alto tre metri, dal pelo nero, costruito come un tirannosauro e con testa simile a quella dell'orso. Tutt'e due mangiano le zebre, i daini e le antilopi, che sono piuttosto numerosi. Penserebbe che dei carnivori che si nutrono di prede come queste, molto agili e svelte, debbano essere snelli e scattanti: invece non lo sono affatto. I grossi felini e gli ursinoidi sono i carnivori più grassi e più pigri che si possa immaginare. Quando attaccano, ci si aspetterebbe che
scivolassero a passi felpati in mezzo all'erba, e che poi facessero una corsa molto veloce, ma piuttosto breve. E invece no: si avvicinano in piena vista, sfacciatamente, ruggiscono un paio di volte, aspettano che la maggior parte del branco si sia allontanata di corsa, poi scelgono uno degli animali più docili, che si sono rifiutati di fuggire, e lo uccidono. A questo punto gli animali che erano fuggiti ritornano indietro. La vista del predatore che divora una delle loro sorelle non li spaventa. No: sembrano soltanto un po’ allarmati, ma niente di più. «E poi, come se questo non fosse già straordinario, ciò che segue è addirittura sbalorditivo. Dopo che il grosso predatore si è ben bene ingozzato e se ne è andato, scendono giù dagli alberi i piccoli animali divoratori di carogne: i corvi gialli, le volpi bianche e marrone. Le ossa vengono ripulite a dovere. Ma non restano lì a imbiancare al sole. Presto arriva uno scimmione nero, con un muso lungo e un'aria di malaugurio... la scimmia becchina, l'abbiamo chiamata... e questo scimmione raccoglie le ossa e le deposita nella gelatina contenuta nel cavo dell'albero più vicino. E adesso, mi dica, che cosa ne pensa?» «Penso che, anche se la giornata è abbastanza calda, sento un brivido per la schiena. Io non... oh, c'è Sua Eccellenza. Mi scusi.» Il sacerdote attraversò di corsa il prato costellato di margherite, agitando un lungo astuccio nero. Il vescovo non attese il suo arrivo, ma uscì dall'ombra della nave ed entrò nella zona illuminata. Anche se il sole giallo era sorto solamente da un'ora al di sopra delle montagne azzurrine dell'Est, la sua luce era molto chiara. Quando questa luce colpì il vescovo, la sua figura parve esplodere in forma di fiamma intorno a lui, e renderlo più grande, quasi come se il tocco di quella luce fosse il tocco di un dio dorato che trasferiva su di lui una parte della sua grandezza sovrumana. L'illusione era ancor più grande a causa del fatto che il vescovo André non mostrava nessuna conseguenza della propria recente indisposizione. Il suo viso era raggiante, mentre avanzava a grandi passi verso il gruppo di persone ferme ai margini della foresta. Le spalle larghe e l'ampio petto che si alzava e si abbassava davano l'impressione che cercasse di comprimere entro i polmoni tutta l'aria di quel pianeta. Carmody, che lo raggiunse a metà strada, disse: «Ah, fa bene a respirare a pieni polmoni l'aria superba di questo pianeta, Eccellenza. Ha un aroma e una freschezza che sono veramente verginali. Aria che non è mai stata respirata da nessun uomo prima di lei.» André si guardò intorno, con la lentezza e la sicura maestà di un leone
che osserva un nuovo territorio di caccia. Carmody sorrise lievemente tra sé. Il vescovo aveva un portamento nobile, ma in quel momento dava una vaga impressione di posare: un'impressione talmente vaga che soltanto una persona maliziosa come Carmody poteva accorgersene. André, scorgendo l'ombra di sorriso che increspava gli angoli delle labbra del piccolo sacerdote, aggrottò la fronte e sollevò le mani in segno di protesta. «So che cosa stai pensando.» Carmody chinò il capo per guardare l'erba verdissima su cui camminavano. Forse lo fece per nascondere un sogghigno, fatto sta che riuscì a celare al vescovo il proprio viso. Poi, come comprendendo che non era bene nascondere i propri pensieri, raddrizzò la testa e fissò negli occhi il vescovo. Il suo atto fu simile a quello di André e ne ebbe la nobiltà, ma non fu altrettanto bello, perché Carmody non era mai apparso bello a nessuno in vita sua, se non della bellezza più profonda che nasce dall'onestà. «Spero che possa perdonarmi, Eccellenza. Ma le vecchie abitudini sono dure a morire. La presa in giro è stata per così tanto tempo una parte di me, prima che mi convertissi... anzi, era una necessità, per sopravvivere sul pianeta dove ero finito, Dante's Joy, come certo lei sa... che si è incisa il proprio cammino nel mio sistema nervoso. Ritengo di fare sempre un sincero sforzo per superare la mia abitudine; ma, essendo solamente umano, a volte mi sfugge il controllo.» «Dobbiamo tendere sempre a essere più che umani» rispose André, e fece un gesto con la mano. Il sacerdote, che conosceva bene il proprio vescovo, lo interpretò come il suggerimento di lasciar cadere l'argomento. Non fu un gesto perentorio, perché il vescovo era quasi sempre assai cortese e paziente. Il proprio tempo non gli apparteneva; suoi padroni erano gli umili. Se Carmody avesse continuato su quel tipo di considerazioni, il vescovo non glielo avrebbe proibito. Ma il sacerdote accettò le decisioni del suo superiore. Gli tese l'astuccio nero e sottile, lungo quasi due metri. «Pensavo che forse Vostra Eccellenza avrebbe piacere di provare la pesca su questo pianeta. È ben vero che Wildenwooly è famoso in tutta la Galassia come paradiso dei pescatori, ma c'è qualcosa, nell'aspetto di Abatos, che mi dice che vi troveremo una pesca così miracolosa da mettere gioia nei nostri cuori... e da farci venire un appetito degno di una balena. Amerebbe fare qualche lancio? Vostra Eccellenza ne trarrebbe certamente giovamento.» Il gentile sorriso di André fu lento a formarsi, ma si alzò fino a mostrare pura delizia. «Lo amerei molto, John. Non avresti potuto darmi consiglio
più gradito.» Si volse verso Thu. «Capitano?» «Penso che non ci saranno pericoli» rispose Thu. «Abbiamo mandato gli elicotteri in esplorazione. Hanno riferito la presenza di alcuni grossi carnivori, ma nessuno nei paraggi. Però, alcuni degli erbivori possono essere pericolosi. Ricordi, anche un toro domestico può uccidere una persona. Gli uomini degli elicotteri hanno provato a farsi caricare dalle bestie di grossa taglia, ma non sono riusciti a indurli ad assalirli. Gli animali li hanno ignorati, oppure si sono allontanati da loro. Penso che possa andare a pescare senza correre pericolo, anche se preferirei che il lago fosse più vicino a noi. E se la facessi portare con un elicottero? Tornerebbe poi anche a prenderla, naturalmente.» «No, grazie» rispose André. «Non riusciremo a tastare il polso del pianeta, se ci limiteremo a sorvolarlo in elicottero. Ci recheremo al lago a piedi.» Il primo ufficiale porse loro due pistole di foggia strana. «Ecco a voi, reverendi. Qualcosa di nuovo. Pistole infrasoniche. Emettono un raggio di suoni che induce un senso di panico negli uomini e negli animali. Fa venir loro voglia di togliersi dai piedi e di andarsene al diavolo più in fretta che possono, se mi scusate l'espressione.» «Parli pure liberamente, non ci formalizziamo. Tuttavia non possiamo accettare l'offerta di queste armi. Ai membri del nostro ordine religioso non è permesso portare con sé alcuna arma, per nessun motivo.» «Preferirei che per una volta faceste uno strappo alla regola» disse Thu. «Le leggi non sono fatte per essere infrante; nessun capitano accetterebbe il vecchio detto che proclama il contrario. Ma ci sono dei momenti in cui occorre esaminare il contesto entro cui le singole regole si devono applicare.» «No, assolutamente no» rispose il vescovo, rivolgendo a Carmody uno sguardo severo, perché aveva visto che il piccolo sacerdote tendeva la mano per prendere la pistola a infrasuoni. Di fronte all'occhiataccia del vescovo, padre Carmody lasciò ricadere la mano. «Volevo soltanto esaminare l'arma» si scusò. «Ma ammetto che non ho mai dato molta importanza a quella regola. È vero che san Giairo aveva il suo particolare potere nei riguardi delle bestie da preda. Tuttavia la cosa non ha necessariamente dotato anche i suoi discepoli di una simile prerogativa. Pensi a cosa è successo su Jimdandy a causa del fatto che san Victor si è rifiutato di prendere con sé una pistola. Se ne avesse usato una, avrebbe potuto salvare mille anime...»
Il vescovo serrò le palpebre e mormorò piano, talmente piano che soltanto Carmody poté udire le sue parole: «"Pur s'io m'addentrerò nella buia valle, non temerò alcun male..."» «Be'» replicò Carmody «quel buio, a volte, è anche accompagnato dal freddo, e i nostri capelli si rizzano per la paura, anche se diventiamo rossi per la vergogna.» «Hmmm. A proposito di vergogna, John, tu riesci sempre, in un modo o nell'altro, sebbene le tue deprecazioni siano rivolte, come dici tu, unicamente verso te stesso, tu riesci sempre, dicevo, a farmi provare un senso di sconfitta e di piccineria. Ma forse è bene che questo particolare talento sia posseduto dalla persona che più di ogni altra mi sta vicina, perché taglia subito alle radici la mia inclinazione a menar vanto di me stesso. Però, esaminando l'altro risvolto della cosa...» Carmody agitò il lungo astuccio che teneva in mano. «Esaminando l'altro risvolto della cosa» disse «non credo che i pesci aspetteranno per sempre i nostri comodi.» André annuì, e si avviò verso il bosco. Thu disse qualcosa a un uomo dell'equipaggio, il quale raggiunse di corsa i due religiosi e diede a Carmody un trovanave: cioè un oggetto simile a una bussola, la cui lancetta rimaneva sempre puntata nella direzione della Gull. Carmody ringraziò con un sorriso, e, raddrizzando allegramente le spalle, rincorse il vescovo, che aveva continuato a camminare a lunghe falcate. Con l'astuccio delle canne da pesca che gli ballonzolava sulla schiena come un'antenna impertinente, fischiettava una vecchia canzone: Amico mio. Tuttavia, anche se pareva avere l'aria più spensierata del mondo, con gli occhi non perdeva un solo aspetto dell'ambiente circostante. Non mancò di scorgere Pete Masters e Kate Lejeune che scivolavano nei boschi, mano nella mano, in una direzione diversa da quella dei due religiosi, e si immobilizzo appena in tempo per non finire a sbattere contro il vescovo, il quale si era voltato indietro e fissava qualcosa in direzione della nave, con un'espressione profondamente accigliata. Dapprima Carmody pensò che anche il vescovo André avesse notato la coppia dei giovani, poi si accorse che stava osservando la signora Recka e il primo ufficiale Givens, i quali, fermi da una parte, parlavano animatamente tra loro. Poi i due si avviarono lentamente verso il grande emisfero della Gull, all'altro estremo del prato. André rimase immobile a osservare nella direzione in cui era scomparsa la coppia, all'interno dell'astronave, finché i due non ricomparvero, qualche momento più tardi. Questa volta la
signora Recka aveva con sé la propria agenda: un quaderno di dimensioni cospicue, certo, ma pur sempre insufficienti a nascondere del tutto la forma della bottiglia che intendeva mascherare. Sempre parlando tra loro, i due scomparvero dietro la curva dell'astronave, poi riemersero in un punto dove i sacerdoti li potevano ancora scorgere, ma non il capitano Thu o gli altri membri dell'equipaggio. Carmody disse: «Ci dev'essere qualcosa, nell'aria di questo pianeta, che...» «Che cosa intendi dire, con queste parole?» chiese il vescovo, con un'aria di profonda severità, aggrottando la fronte e lanciando fiamme dagli occhi verdi. «Se questo è un nuovo Eden, dove il leone giace a fianco dell'agnello, allora è anche un luogo dove uomo e donna...» «Se Abatos è fresco e puro e innocente» disse il vescovo, con ira «non rimarrà a lungo in queste invidiabili condizioni. Non lo rimarrà di certo, con gente come quella, che lorderebbe qualsiasi nido...» «Be', noi due dovremmo limitarci alle gioie della pesca.» «Carmody, non sorridere maliziosamente, quando parli in questo modo! Pare quasi che tu intenda dare loro una benedizione, invece di condannare il loro comportamento!» Il piccolo sacerdote perse subito l'accenno di sorriso. «Niente affatto! Non intendevo né benedirli né condannarli. E neppure giudicarli troppo in fretta, perché non so che cosa abbiano esattamente intenzione di fare. Ma è vero che in me c'è una dose forse eccessiva del mondano, del terra-terra: una spruzzata goliardica e rabelaisiana, forse, presente nel mio carattere. Non che io intenda suggerire certi contegni, naturalmente. È solo che li capisco fin troppo bene...» Senza rispondere, il vescovo si voltò bruscamente dall'altra parte e riprese il cammino, con le sue lunghe falcate. Carmody, con aria leggermente sottomessa, lo seguiva alle calcagna, anche se lo spazio era più che sufficiente e si sarebbe potuto comodamente camminare fianco a fianco. Poiché avvertiva bene l'umore del vescovo André, sapeva che era meglio tenersi fuori dalla sua vista, almeno per qualche tempo. E intanto rivolgeva la sua attenzione all'ambiente che lo circondava. Coloro che erano usciti in esplorazione con gli elicotteri avevano riferito che il paesaggio compreso tra le montagne a oriente e l'oceano a occidente era piuttosto uniforme: una distesa ondulata, che a volte giungeva a essere collinosa, e in cui le grandi praterie si alternavano alle foreste. Le foreste,
tuttavia, parevano dei parchi, non dei boschi selvaggi. L'erba era grassa, piena di linfa, e si incaricavano gli erbivori di mantenerla a una non grande altezza; molti degli alberi avevano degli equivalenti tra la flora delle latitudini temperate della Terra. Soltanto occasionalmente si incontravano macchie di vegetazione intricata e insuperabile, alle quali si poteva propriamente conferire l'appellativo di selvagge. Il lago verso il quale si dirigevano i due sacerdoti giaceva nel bel mezzo di una di queste "giungle". Laggiù le querce, i pini, i cipressi, le betulle, i sicomori e i cedri ben distanziati cedevano il passo a una vera e propria isola di quei grandi alberi simili a sequoie che contenevano nel loro incavo la sostanza gelatinosa già osservata da Carmody. Queste piante non erano a immediato contatto tra loro, ma davano l'impressione di esserlo, perché erano collegate da una fitta siepe di viticci e di liane e di piante parassite, basse e simili ad agrifogli, che crescevano orizzontalmente dalle fenditure del tronco di quegli alberi giganteschi. Sotto i rami carichi di fronde, il percorso era più buio di quello incontrato fino a quel momento dai due religiosi, anche se di tanto in tanto penetravano fino a terra i raggi obliqui del sole: raggi che parevano solidi anch'essi, come tronchi di alberi dorati. La foresta era rallegrata dal colore vivace e dal canto degli uccelli, e dai corpi scuri e dal chiacchiericcio di vari animali arboricoli. Alcuni di questi animali erano simili alle scimmie dell'America meridionale: quando saltavano da un ramo all'altro e giungevano in piena vista, la somiglianza risultava sorprendente. Tuttavia non pareva che discendessero da un ceppo affine a quello delle proscimmie: parevano piuttosto derivare da felini ai quali l'evoluzione avesse dato mani invece di zampe, e avesse fatto assumere una postura quasi eretta. Avevano il mantello, sulla schiena, di colore marrone scuro, ma sulla pancia e il torace il pelame si faceva grigio, e le lunghe code prensili terminavano con un vistoso ciuffo di peli color del rame. Il muso aveva perso l'aspetto appuntito e bestiale del carnivoro, ed era divenuto piatto come quello delle grandi scimmie della Terra. Sul labbro superiore avevano tre lunghi peli, molto grossi, a ciascuno dei due angoli: questi peli parevano derivare da quelli dei felini, cioè dai baffi o vibrisse. Avevano denti lunghi e aguzzi, ma si cibavano di grossi frutti che crescevano sulle liane e che parevano simili ad avocado. Avevano pupille fessurate come quelle dei felini, capaci di dilatarsi enormemente nell'oscurità e di contrarsi immediatamente quando entravano nelle zone illuminate. Si scambiavano tra loro un fitto chiacchiericcio e si comportavano in generale come le scimmie della Terra, a
eccezione del fatto che parevano assai più morigerate di quelle. «Magari qualche specie affine si è evoluta fino a diventare umanoide» disse Carmody, ad alta voce. Parlò ad alta voce in parte perché aveva l'abitudine di parlare sempre così con se stesso, e in parte perché voleva vedere se il vescovo era ancora irritato con lui. «Eh?» fece André, fermandosi a osservare a propria volta quegli animali, che gli ricambiarono lo sguardo con una curiosità non minore della sua. «Ah, già. La teoria di Sokolov, della Possibilità Necessaria. Ogni ramo del regno animale a noi noto sulla Terra pare avere avuto la possibilità di dare una razza intelligente nell'uno o nell'altro dei pianeti della Galassia. I vulpoidi di Kubeia, gli aviani di Albireo IV, i cetacei di Oceanos, i molluscoidi di Baudelaire, gli Houyhnhnms di Altrove, i cosiddetti falsi bachi di Münchhausen, gli... be', potrei andare avanti per un pezzo. Sui pianeti di tipo terrestre la linea filogenetica che, cogliendo l'occasione che Dio le ha offerto, è giunta all'intelligenza, è passata quasi sempre, con rare eccezioni, per uno stadio arboricolo scimmiesco e da esso è fiorita in una creatura a stazione eretta che assomiglia all'uomo.» «Sia le une sia le altre, comunque, pensano di essere l'immagine di Dio, perfino i delfinoidi di Oceanos e i molluscoidi di Baudelaire» commentò Carmody. «Be', basta con la filosofia. Se non altro, i pesci sono sempre pesci, su ciascun pianeta.» Erano usciti dalla foresta e si affacciavano sulla riva del lago. Era uno specchio d'acqua ampio circa un chilometro e mezzo e lungo il doppio, alimentato da un ruscello dalle acque purissime che scendeva da settentrione. L'erba cresceva fino al ciglio, e al loro arrivo alcune ranocchie si buttarono nell'acqua. Carmody tolse dall'astuccio le loro due canne da pesca, ma staccò dal galleggiante il piccolo meccanismo jet che avrebbe spinto le esche a molta distanza da loro, nell'acqua del lago. «Non sarebbe sportivo» disse. «Dobbiamo concedere qualche possibilità a questi pesci stranieri, no?» «Esatto» rispose il vescovo, sorridendo. «Se non potessi più arrivarci con la sola forza del mio braccio, meglio tornarmene a casa con il cestino vuoto.» «A proposito, ho scordato di portare un cestino. Comunque, potremmo usare alcune foglie di queste pseudoviti per avvolgere le prede.» Un'ora più tardi furono costretti a smettere a causa della pila di pesci che si accumulava alle loro spalle. E si trattava soltanto dei più grossi. Gli altri li avevano ributtati in acqua. André aveva preso all'amo la più grossa, una
magnifica trota di quindici chili: una grande lottatrice, che richiese venti minuti per farsi trascinare a riva. E a quel punto, sudato e affannato, ma con gli occhi scintillanti, André disse: «Ho caldo. Che ne diresti di una bella nuotata, John?» Carmody sorrise nel sentirgli nuovamente usare il suo nome di battesimo e gridò: «Chi arriva ultimo è un siriano!» In pochi secondi due corpi nudi si tuffarono nelle acque fredde e cristalline, esattamente nello stesso istante. Quando riaffiorarono, Carmody prese una boccata d'aria e disse: «Credo che proveniamo entrambi da Sirio, ma lei ha vinto, perché io sono il più brutto. O questo vuol dire che ho vinto io?» André rise di gioia, poi si lanciò a nuoto verso il centro del lago, con un veloce crawl. L'altro non si sognò neppure di seguirlo, ma si limitò a galleggiare sulla schiena, con gli occhi chiusi. Una sola volta alzò il capo per vedere come procedesse il vescovo, e poi ritornò a fare il morto quando vide che se la cavava benissimo. André aveva raggiunto la riva opposta, e stava ritornando indietro a bracciate più lente ma sempre sciolte. Quando lo ebbe raggiunto e si fu riposato per alcuni minuti sulla riva, André disse: «John, ti spiacerebbe uscire dall'acqua e misurare la durata di una mia immersione? Sono curioso di vedere se sono ancora in forma. Qui l'acqua è alta un paio di metri, non è molto profonda.» Carmody risalì sulla riva erbosa, regolò l'orologio e diede il segnale. André s'immerse. Quando riaffiorò, ritornò subito a riva. «Com'è andata?» chiese, mentre usciva dall'acqua, in forma magnifica, luccicante di gocce che il sole del pomeriggio inoltrato tingeva d'oro. «Quattro minuti, tre secondi» disse Carmody. «Quaranta secondi al di sotto del suo record. Ma sempre meglio, ne sono certo, di chiunque altro, in tutta la Galassia. Vostra Eccellenza è sempre il campione.» André annuì, con un debole sorriso. «Venti anni fa, ho stabilito il record. Credo che se ritornassi a seguire un allenamento rigoroso, potrei di nuovo eguagliarlo, e magari batterlo. Ho imparato molto, da allora, sul controllo del mio corpo e della mia mente. A quell'epoca non mi sentivo perfettamente tranquillo, nella pressione e nel buio del mondo subacqueo. Lo amavo, ma il mio amore aveva in sé una piccola sfumatura di terrore. Un atteggiamento che si avvicina, potresti dirmi, a quel che è il nostro atteggiamento verso Dio? Forse fin troppo, come un tempo uno dei miei parrocchiani ebbe la gentilezza di farmi notare. Credo che intendesse dire che prestavo troppa attenzione a quello che era solo un diversivo per i miei
momenti di ozio. «E aveva ragione, naturalmente, anche se io, quando me lo disse, me ne risentii. Non poteva sapere che per me era una sfida irresistibile, quella di galleggiare sotto la superficie luminosa, tutto solo: sentirmi sorretto come se fossi tra le braccia di una grande madre, ma sentire anche che le sue braccia mi stringevano un po' troppo forte. Dovevo lottare contro il desiderio di risalire immediatamente alla superficie e di respirare grandi boccate d'aria vitalizzante, eppure ero orgoglioso di poter lottare contro quel panico, di poterlo vincere. Mi sentivo sempre come se fossi in pericolo, ma che proprio a causa di quel pericolo fossi precisamente sul punto di fare una grandissima scoperta su me stesso: quale scoperta fosse, be', non sono mai riuscito a saperlo. Ma ho sempre pensato che se fossi rimasto in immersione abbastanza a lungo, se fossi riuscito a respingere il buio e la minaccia di perdere conoscenza, avrei scoperto il segreto. «Pensiero strano, non ti pare? Mi ha indotto a studiare le discipline neoyoga che, a quanto si dice, permetterebbero a una persona di porsi in animazione sospesa, nella morte vivente. Sul pianeta Gandhi c'era un uomo che riusciva a rimanere sepolto, senza morire, per tre settimane, ma io non sono mai riuscito ad appurare se mentisse o no. Comunque, mi fu di molto aiuto. Mi insegnò che se fossi riuscito, come diceva lui, a morire qui, prima di tutto» e André si toccò il petto, dalla parte sinistra «poi qui» e si toccò i fianchi «il resto sarebbe venuto da sé. Sarei potuto divenire come un embrione che galleggia nel sacco amniotico, che vive, ma che non richiede respiro, non richiede ossigeno al di fuori di quello che s'infiltra tra le cellule, come diceva lui. Una teoria assurda, scientificamente parlando, ma che, entro i suoi limiti, risulta utile. Non ci crederai, ma ora devo costringermi a risalire alla superficie, perché là sotto mi pare tutto così sicuro, così bello e così tiepido, anche quando l'acqua è molto fredda, come in questo lago.» Mentre parlava, si era asciugato l'acqua dalla pelle con la maglietta, voltando le spalle a Carmody. Il sacerdote sapeva che il vescovo si sentiva molto imbarazzato a esporre il proprio corpo nudo. Mentre invece Carmody, benché sapesse che il proprio corpo aveva un aspetto sgraziato, grottesco, al confronto del magnifico fisico dell'altro, non provava nessun imbarazzo nel mostrarsi. Ma Carmody era sempre vissuto in un ambiente dove la nudità era normale, mentre André, nato nella Chiesa, era stato allevato in modo molto severo da genitori assai devoti, i quali gli avevano imposto di seguire gli antichi modelli di morale, nonostante che il mondo, intorno a lui, li deridesse.
E appunto di questo il vescovo André si mise a parlare, come indovinando il pensiero di Carmody. «Ho disobbedito a mio padre una volta soltanto» disse. «Quando avevo dieci anni. Abitavamo in un quartiere composto prevalentemente di agnostici e di membri del tempio della Luce Universale. Ma io avevo degli amici molto cari tra la locale banda di ragazzini e di monelli. Una volta, una sola volta, mi convinsero ad accompagnarli a nuotare nel fiume, senza costume da bagno, naturalmente. Ed è ovvio che mio padre mi sorprese; pareva avere un sesto senso per riconoscere i casi in cui il peccato minacciava la sua famiglia. Mi diede la più sonora bastonata di tutta la mia vita... possa la sua anima riposare in pace» aggiunse, senza essere neppure lontanamente sfiorato dalla tentazione di fare dell'ironia. «"Chi risparmia il bastone rovina il figlio" era la sua massima prediletta, eppure soltanto quella volta in tutta la mia vita usò con me la cinghia. Anzi, dovrei dire quelle due volte, perché riuscii a scappargli di mano mentre mi picchiava davanti agli altri ragazzi, mi tuffai nel fiume e mi immersi a grande profondità, e ci rimasi a lungo, per farlo spaventare al pensiero che fossi morto. Alla fine, naturalmente, dovetti risalire. Mio padre continuò la punizione. Tuttavia, non fu più severo di prima, la seconda volta. Se lo fosse stato, mi avrebbe ucciso. Anzi, in realtà mancò poco che non lo facesse davvero. Se la scienza moderna non fosse capace di fare sparire le cicatrici, le porterei ancora, sulla schiena e sulle gambe. E in verità le porto ancora, qui dentro» concluse, indicandosi il cuore. Terminò di asciugarsi e raccolse i suoi abiti. «Be', è successo trentacinque anni fa, a migliaia di anni-luce da qui, ma oso dire che quelle botte mi hanno fatto un grandissimo bene.» Alzò gli occhi verso il cielo pulito e i boschi, gonfiò l'ampio petto in un profondo respiro, e disse: «Questo è un pianeta meraviglioso e intatto, una testimonianza dell'amore di Dio per la bellezza delle sue creature e la sua generosità nel distribuirle in tutto l'universo, quasi come se fosse stato suo dovere farlo! Qui sento che Dio è davvero nel suo cielo, e che al mondo tutto procede nel modo migliore. La simmetria e la fecondità di questi alberi, l'aria e le acque cristalline, i molteplici canti di questi uccelli e i loro colori vivaci...» E qui s'interruppe, perché improvvisamente si accorse di un fenomeno che anche Carmody aveva notato, un istante prima di lui. Non era rimasto alcuno degli invadenti, ma assai melodiosi, cinguettii, pigolii e gorgoglii degli uccelli, e neppure dei chiacchiericci delle scimmie. Tutto taceva.
Come una spessa coltre di muschio, il silenzio si era adagiato sulla foresta. «Qualcosa deve avere spaventato gli animali» bisbigliò Carmody. Rabbrividì, anche se il sole prossimo al tramonto era ancora caldo, e si guardò intorno. Accanto a loro, su un lungo ramo che si protendeva al di là del perimetro del lago, era seduto un gruppo di scimmie gatto, che pareva apparso dal nulla. Avevano il pelo grigio, a eccezione di una grossa figura bianca sul petto, pressappoco in forma di croce. Il pelo che copriva la loro testa s'infoltiva sul davanti e nascondeva la fronte come il cappuccio di un frate. Tenevano le mani davanti agli occhi, nell'atteggiamento della scimmia che non vede. Ma da dietro le dita si scorgeva il luccichio degli occhi, e Carmody, nonostante il senso di inquietudine che lo aveva colto improvvisamente, trovò buffissima la cosa, e mormorò: «Non vale sbirciare!» Nella foresta echeggiò un profondo colpo di tosse; le monachine, come le aveva immediatamente battezzate, si ritrassero e si rannicchiarono strettamente l'una contro l'altra. «Chissà che cos'è?» disse il vescovo. «Dev'essere qualche animale di grossa taglia. Ho sentito a volte dei leoni che tossivano: facevano lo stesso rumore.» D'improvviso, la grossa mano del vescovo si strinse su quella di Carmody, assai più piccola. Allarmato dall'espressione comparsa sul viso di André, Carmody disse: «Si avvicina una delle sue crisi?» Il vescovo scosse la testa in segno di diniego. Aveva gli occhi vitrei. «No. Strano, ma per un momento mi sono sentito come mi sentii quando mio padre mi sorprese al fiume.» Lasciò la mano di Carmody e trasse un respiro profondo. «Adesso sto di nuovo bene.» Sollevò i calzoncini per infilarseli. Carmody boccheggiò per la sorpresa. André drizzò il capo di scatto ed emise un grido. Qualcosa di bianco era apparso nell'ombra degli alberi, e si muoveva lentamente, ma con sicurezza, verso di loro: l'epicentro e la causa del silenzio che si diffondeva tutt'intorno. Poi divenne più scuro quando entrò in una zona illuminata e si fermò per un istante, non per abituare i propri occhi al forte chiarore, ma per permettere a coloro che lo contemplavano di adattare gli occhi alla sua vista. Era alto quasi due metri e mezzo ed era assai simile a un essere umano, e camminava con una tale dignità e una tale grazia che la terra pareva farsi indietro, rispettosamente, a ciascuno dei suoi passi. Aveva la barba lunga ed era nudo ed egregiamente maschio, e i suoi occhi parevano quelli della
statua di granito di un dio che si fosse fatta carne, troppo terribili per fissare in essi lo sguardo. Parlò. E allora i due religiosi conobbero l'origine di quei colpi di tosse, che giungevano dal fondo di polmoni profondi come il pozzo di un oracolo. La sua voce era il ruggito del leone; costrinse i due pigmei a stringersi nuovamente per mano; e sciolse i loro muscoli fino a dar loro l'impressione che stessero per cadere a pezzi. Eppure i due religiosi non ritennero per nulla sorprendente il fatto che parlava nella loro lingua. «Salve, figli miei!» tuonò. I due religiosi chinarono il capo. «Padre.» Un'ora prima del tramonto del sole, André e Carmody giunsero di corsa dai boschi. La loro fretta era causata dal chiasso tremendo che aveva scosso la foresta per chilometri. Vari uomini stavano gridando, una donna stava urlando, e qualcosa ruggiva fortemente. Giunsero appena in tempo per vedere la conclusione del trambusto. Due enormi animali, bipedi e dalla coda massiccia, con il muso simile a quello dell'orso, inseguivano Kate Lejeune e Pete Masters. Kate e Pete correvano tenendosi per mano, e lui la trascinava così velocemente che la ragazza pareva volare nell'aria a ogni passo. Nell'altra mano, Pete aveva la sua sega a raggi. Né l'uno né l'altra avevano una pistola a infrasuoni con cui difendersi, sebbene il capitano Thu avesse ordinato di non allontanarsi dall'astronave senza una di quelle pistole. Un momento più tardi apparve chiaro che la presenza della pistola non avrebbe cambiato nulla, perché vari uomini dell'equipaggio, fermi nei pressi dell'astronave, puntarono le armi contro le bestie. Per nulla atterriti dagli effetti dei raggi, i mostri balzarono sulla coppia e la travolsero a metà del prato. Sebbene fossero disarmati, André e Carmody si avventarono contro gli animali, stringendo i pugni. Pete si rivoltò contro l'animale che lo aveva afferrato e lo colpì sul muso con l'attrezzo che teneva in mano. Kate emise uno strillo acuto, poi svenne. D'improvviso, i due si trovarono a giacere sull'erba, perché gli ammali li avevano lasciati cadere e si stavano dirigendo, a passo da oziosi, si sarebbe detto, verso il bosco. Era evidente che non erano state le pistole soniche, e neppure l'arrivo dei due preti, a spaventarli. Passarono accanto ai due religiosi senza neppure badare loro, e se le pistole avevano disturbato il loro sistema nervoso, be', gli animali non lo diedero a vedere.
Carmody lanciò uno sguardo verso la giovane donna e gridò: «Dottor Blake! Chiamate subito il dottor Blake!» Come il genio della lampada di Aladino, evocato dal suono del proprio nome, Blake comparve con la sua borsa nera. Fece portare immediatamente una barella; Kate, che gemeva e voltava la testa da una parte e dall'altra, venne trasportata nell'infermeria della nave. Pete continuò a dare in smanie finché Blake non gli ordinò di andarsene. «Prenderò un fucile e ucciderò quelle bestie! Le inseguirò e le troverò, anche se dovessi impiegarci una settimana. O un anno! Metterò delle trappole e...» Carmody lo spinse via, nel quadrato, dove lo fece sedere. Con mano tremante, accese due sigarette e ne diede una a Pete. «Non ci ricaveresti niente, a uccidere quelle bestie» gli disse. «Entro pochi giorni sarebbero di nuovo in piedi e te le troveresti di nuovo davanti. Inoltre, si tratta soltanto di animali che obbedivano al comando del loro padrone.» Aspirò dalla sigaretta, chiuse l'accendino e se lo rimise in tasca. «Io sono altrettanto scosso quanto te. Gli ultimi avvenimenti si sono svolti troppo in fretta e sono troppo incomprensibili: il mio sistema nervoso non è ancora riuscito a mettersi al passo. Ma non mi preoccuperei di Kate, se fossi in te. So che pareva piuttosto ridotta male, ma sono certo che ritornerà perfettamente a posto, e piuttosto presto, anche.» «Pezzo d'asino, cieco e ottimista!» gridò Pete. «Ha visto che cosa le è successo!» «È un attacco isterico, non sono effetti fisici del suo aborto» rispose Carmody, con calma. «Scommetto che tra pochi minuti, quando Blake l'avrà calmata con un sedativo, uscirà dall'infermeria sulle sue gambe, in condizioni altrettanto buone quanto quelle di stamattina. Sai, figliolo, ho appena parlato con un essere che non è Dio, ma che riesce a convincerti di essere qualcosa di molto vicino a Lui.» Pete rimase a bocca aperta. «Che cosa? Di che cosa parla?» «So che do l'impressione di dire delle sciocchezze. Ma ho conosciuto il proprietario di Abatos. Anzi, lui stesso è venuto a parlare con me, e le cose che ha mostrato a me e al vescovo sono, a dire poco, sconvolgenti. Ci sono cento cose da far sapere a te e agli altri, dando tempo al tempo. Intanto, posso darti un'idea dei suoi poteri. Spaziano entro una gamma enorme, da un'azione banale, benché stupefacente, come quella di guarirmi dal mal di denti con una semplice imposizione delle mani, a quella di riportare in vita
le ossa morte e di ricoprirle di carne. Ho visto i morti alzarsi e andarsene via. Anche se, probabilmente, l'unico risultato che otterranno sarà quello di farsi mangiare di nuovo.» Aggrottando la fronte, aggiunse: «A me e al vescovo è stato permesso di eseguire... o dovrei dire di commettere?... una resurrezione da soli. La sensazione che si prova non è indescrivibile, ma per il momento preferisco non parlarne.» Pete si alzò in piedi, con i pugni serrati; la sigaretta andò in pezzi. «Lei è pazzo.» «Sarebbe davvero bello che lo fossi, perché in tal modo verrei sollevato da una spaventosa responsabilità. Anzi, se dovessi scegliere, preferirei una pazzia incurabile. Però, purtroppo, non riuscirò a cavarmela così facilmente.» D'improvviso, padre John perse la sua calma; parve sul punto di rompersi in mille pezzi. Nascose la faccia tra le mani, e Pete lo fissò stupito. Poi, altrettanto improvvisamente, il sacerdote abbassò le mani e presentò di nuovo la faccia tonda e sorridente che tutti conoscevano. «Fortunatamente, l'ultima decisione non spetterà a me, bensì a Sua Eccellenza. E anche se è una vigliaccata rallegrarmi del fatto di poter passare a lui la patata che scotta, devo confessare che sarò lieto di passargliela. Il potere di decidere in questo caso spetta a lui, e anche se il potere ha le sue glorie, esso ha anche i suoi fardelli e i suoi affanni. In questo momento non vorrei trovarmi nei panni del vescovo.» Pete non ascoltò le ultime parole del sacerdote. Stava fissando le portine dell'infermeria, che si aprivano in quel momento. Ne uscì Kate, un po' pallida ma in grado di camminare. Pete corse da lei; si abbracciarono; poi Kate si mise a piangere. «Stai bene, cara?» continuava a ripetere Pete. «Oh, mi sento a posto» rispondeva lei, continuando a piangere. «Non so perché, ma mi sento a posto. Mi sento guarita, tutto a un tratto come se una mano fosse passata su di me, e ne fosse discesa una forza che ha rimesso a posto tutto il mio corpo.» Blake, che era apparso dietro di lei, annuì. «Oh, Pete» singhiozzò Kate. «Io sto bene, ma ho perso il nostro bambino! E so che l'ho perso perché abbiamo rubato quei soldi al babbo. È la nostra punizione. È stato già abbastanza brutto scappare, anche se abbiamo dovuto farlo perché ci amavamo. Ma non avremmo mai dovuto prendere quel denaro!»
«Zitta, cara. Hai parlato troppo. Andiamo nella nostra cabina: laggiù potrai riposare.» Gentilmente, la spinse fuori del quadrato; mentre così faceva, si voltò verso Carmody e gli indirizzò un'occhiataccia di sfida. «Oh, Pete» continuò a lamentarsi la ragazza «tutto quel denaro, e adesso ci troviamo su un pianeta dove non ci può servire assolutamente a nulla. Solo un peso.» «Tu parli troppo, ragazza!» fece Pete; nella sua voce, ora, un tono duro aveva scacciato la gentilezza. Sparirono per il corridoio. Carmody non disse nulla. Con gli occhi bassi, anche lui si diresse alla propria cabina e chiuse la porta dietro di sé. Mezz'ora più tardi, uscì e chiese del capitano Thu. Quando gli fu detto che Thu era fuori, lasciò la Gull e trovò un gruppo di persone occupate ad ascoltare attentamente, ai margini del prato, dall'altro lato della nave. Al centro dell'attenzione c'erano la signora Recka e il primo ufficiale. «Eravamo tranquilli a sedere sotto uno di quei grossi alberi della gelatina, bevevamo un goccio e parlavamo di tante cose» disse Givens. «Soprattutto di cosa fare se avessimo scoperto di essere dispersi su questo pianeta per il resto della vita.» Qualcuno sogghignò. Givens arrossì, ma continuò senza cambiare tono. «Tutt'a un tratto, io e la signora Recka abbiamo avuto un violento mal di stomaco. Abbiamo vomitato, e ci siamo sentiti coprire di sudore freddo. Una volta svuotatoci lo stomaco, abbiamo avuto la certezza che il whisky era avvelenato. Abbiamo pensato che saremmo morti laggiù nella foresta, e che magari nessuno ci avrebbe mai più trovato, perché ci eravamo molto allontanati dall'astronave e ci trovavamo in un posto difficile da vedere. «Ma con la stessa rapidità con cui era cominciato, il malessere scomparve. Ci sentimmo completamente a posto, e felici. L'unica differenza, era che tutt'e due eravamo assolutamente certi che non avremmo mai più toccato un goccio di whisky.» «O di qualsivoglia altra bevanda alcolica» aggiunse la signora Recka, rabbrividendo. Coloro che conoscevano il suo debole, la osservarono con curiosità e con un'espressione di leggero dubbio. Carmody toccò il gomito del capitano e lo chiamò in disparte. «Adesso» chiese «la radio e le altre apparecchiature elettroniche funzionano?» «Hanno ripreso a funzionare pressappoco quando siete ritornati. Ma il
traslatore rifiuta ancora di muoversi. Mi sono preoccupato quando non avete risposto alle chiamate che vi avevo indirizzato attraverso le radio da polso. Per quanto ne sapevo, qualche bestia da preda poteva avervi ucciso, oppure eravate cascati nel lago ed eravate affogati. Ho organizzato una squadra di ricerca, ma prima che avessimo percorso un chilometro, ci siamo accorti che le bussole dei trovanave giravano come pazze. Perciò siamo ritornati indietro. Non desidero perdermi nei boschi, perché il mio primo dovere è verso la nave, naturalmente. E non potevo mandare una squadra con l'elicottero, perché, semplicemente, gli elicotteri non volevano partire. Adesso, però, hanno ripreso a funzionare. Che cosa ne pensa di tutti questi avvenimenti?» «Oh, so perfettamente chi è stato a causarli. E perché.» «Per l'amor di Dio, amico, chi è?» «Non so se sia proprio per l'amor di Dio, o di chi...» Carmody diede un'occhiata all'orologio. «Venga con me. C'è qualcuno che le devo far conoscere.» «Dove andiamo?» «Si limiti a seguirmi. Vuole scambiare due parole con lei perché è il capitano e dovrà dare anche la sua opinione. Inoltre, voglio che sappia con che cosa abbiamo a che fare.» «Chi è questo "qualcuno"? Un nativo di Abatos?» «Non esattamente, anche se vive qui da molto più tempo di ogni creatura del pianeta.» Thu si raddrizzò il berretto e si spazzolò dall'uniforme la polvere. Si avviò a grandi passi per i corridoi della giungla chiassosa, come se gli alberi fossero truppe in parata e li stesse ispezionando. «Se è qui da più di diecimila anni» disse il capitano «allora deve essere giunto ben prima che sulla Terra si parlasse la nostra lingua: a quell'epoca l'antenato di tutte le nostre lingue indoeuropee era un linguaggio parlato da qualche tribù selvaggia. Come possiamo parlare con lui? Telepatia?» «No. Ha imparato la nostra lingua da un superstite del naufragio della Hoyle, l'unica nave alla quale abbia permesso di passare.» «E dov'è quest'uomo della Hoyle?» chiese Thu, lanciando un'occhiata di fastidio a un coro di scimmie urlatrici sedute su un alto ramo. «Non era un uomo. Era una donna, un ufficiale medico. Dopo avere trascorso un anno quaggiù, si è suicidata. Ha costruito una pira funeraria e si è bruciata lì sopra. Non sono rimaste che poche ceneri.» «E perché?»
«Immagino che la cremazione fosse l'unico modo in cui poteva mettersi al di là della sua portata. Altrimenti avrebbe messo le sue ossa in un albero della gelatina e l'avrebbe riportata in vita.» Thu si arrestò. «La mia mente capisce le parole, ma la mia capacità di credere è come stordita. Perché si è uccisa, dato che, se non sbaglio, aveva davanti a sé la vita in eterno, o almeno qualcosa di molto simile?» «Lui... il Padre... dice che la donna non poteva sopportare il pensiero di vivere per sempre su Abatos con lui come unico compagno umano, o umanoide che sia. So come si doveva sentire quella donna. Sarebbe come dividere il mondo con Dio, e avere soltanto lui con cui parlare. Il senso d'inferiorità e la solitudine devono averla sopraffatta.» Carmody s'interruppe bruscamente e si perse nei propri pensieri, con la testa piegata da un lato, la palpebra abbassata. «Hmmm. Questo è strano. Ha detto che anche noi potremmo avere i suoi poteri, divenire come lui. Perché non li ha insegnati a quella donna? Forse perché non voleva dividere con lei i suoi possedimenti? Ora che ci penso, non si è offerto di dividere i suoi domini. Desidera solamente la sostituzione. Hmmm. O tutto o niente. O lui, o... o cosa?» «Ma di che diavolo sta parlando?» fece il capitano Thu, irritato. «In questo forse lei ha ragione» disse Carmody, distratto. «Osservi, là c'è un albero della gelatina. Che ne direbbe se facessimo un po' i ficcanaso? È vero che ha proibito le ficcanasate da parte degli extra-abatosiani come noi; è vero che questo può essere un altro giardino dell'Eden e che io, da fin troppo vero figlio di Adamo, ahimè, potrei replicare una seconda volta la caduta dalla grazia, e venire scacciato con spade fiammeggianti (anche se non mi darebbe affatto fastidio, venire rispedito su qualche pianeta familiare), o potrei addirittura venire colpito dalla folgore perché ho bestemmiato contro la divinità locale. Sia come sia, sono convinto che scavare un poco nell'interno di questa cavità potrebbe essere altrettanto utile quanto l'opera di scavo, sulle cavità, compiuta da un dentista. Che ne dice, capitano? Le conseguenze del nostro gesto potrebbero essere alquanto disastrose, la avverto.» «Se intende dire che ho paura, posso dirle che ormai dovrebbe saperlo» borbottò Thu. «Non permetterei mai che un prete avesse più fegato di me. Lei cominci a darsi da fare, e vedrà che io la difenderò fino in fondo.» «Ah» fece Carmody, avviandosi a passo spedito verso il piede dell'enorme sequoia «ma lei non ha ancora visto il Padre di Abatos e non gli ha parlato. Non è questione di difendermi, perché potrebbe fare ben poco, se
fossimo scoperti. Si tratta di darmi il coraggio morale, di farmi provare vergogna con la sua presenza, in modo che non mi metta a correre come un coniglio se lui dovesse cogliermi con le mani nel sacco.» Con una mano prese da una tasca una fialetta, e con l'altra una lampadina portatile. Puntò il raggio della lampadina nello scuro cerchio del foro alla base dell'albero. Da dietro le sue spalle, Thu osservava incuriosito. «Vibra tutta, quasi come se fosse viva» disse, a bassa voce. «Ed emette anche un debole brusio. Se posasse delicatamente la mano sulla sua superficie, potrebbe sentire la vibrazione.» «Che cosa sono quelle cose bianchicce, sepolte nel suo interno?» chiese il capitano. «Ossa?» «Sì. La cavità è piuttosto profonda, non le pare? Va ben al di sotto del livello del terreno. Vede quella massa scura in un angolo? Una specie di antilope, sembra. Mi pare che la carne venga ricostruita a strati, dall'interno verso l'esterno; i muscoli e la pelle non sono ancora stati ricostruiti.» Il sacerdote raccolse un campione della gelatina, chiuse la fiala e se la rimise in tasca. Non si raddrizzò, e continuò a muovere il raggio della lampadina su e giù per la cavità. «Questa sostanza fa ballare il ballo di san Vito alle lancette di un contatore Geiger. E non solo: irradia anche onde elettromagnetiche. Penso che siano state le onde radio emesse da questa gelatina a fare impazzire i comunicatori da polso, le pistole soniche e i trovanave. Ahi, guardi là! Vede quei fili bianchi, minutissimi, che si diramano per tutta la massa? Non assomigliano a nervi?» Prima che Carmody potesse fermarlo, Thu si curvò a sua volta e raccolse una manciata della sostanza gelatinosa e tremolante. «Sa dove ho già visto qualcosa di simile?» chiese. «Questa roba mi ricorda i circuiti integrati proteici che usiamo nei traslatori.» Carmody aggrottò la fronte, pensoso. «Sono le uniche parti dell'apparato di propulsione, vero, che siano fatte di sostanza biologica? Mi pare di avere letto da qualche parte che se non si usassero circuiti integrati proteici, il traslatore non riuscirebbe a ruotare la nave nello spazio perpendicolare.» «Be', si potrebbero usare circuiti a stato solido» corresse Thu. «Ma richiederebbero un volume grande come l'intera nave. Gli integrati proteici occupano poco spazio, al confronto: potrebbe portare sulla schiena quello della Gull. In effetti, però, quella parte del traslatore non è soltanto un computer, ma è anche una memoria di enorme capienza. Ha la funzione di
"ricordare" lo spazio normale. Deve conservare un'immagine matematica dello spazio reale, "orizzontale", distinto dallo spazio perpendicolare. Mentre una parte del traslatore ci "rovescia su di noi", come diciamo in gergo, il suo cervello proteico ricostruisce l'immagine dello spazio che circonda la nostra destinazione; un'immagine fedele fino a livello elettronico. A dirlo così, sembra magia imitativa, non le pare? "Costruisci un simulacro, e potrai stabilire un'affinità tra la realtà e il simulacro."» «Che cosa è successo alle memorie proteiche dell'astronave?» «Niente che si possa scoprire. Le memorie funzionavano normalmente.» «Forse non vi circolano i flussi di informazione. L'ingegnere capo ha controllato le sinapsi, oppure si è limitato a misurare la carica biostatica complessiva? La carica potrebbe essere normale, sa, ma la trasmissione potrebbe essere interrotta.» «Be', questo campo è di pertinenza dell'ingegnere capo. Non intendo invadere il suo campo, così come lui non viene mai a sindacare sul mio.» Carmody si raddrizzò. «Vorrei parlare all'ingegnere. Io ho una delle mie solite teorie da profano, ma, come tutti i dilettanti, forse è l'ignoranza a farmi innamorare della mia teoria. Se è d'accordo, preferirei non scendere nei dettagli, per il momento. Specialmente qui, perché la foresta ha orecchie...» Sebbene il capitano non avesse neppure aperto bocca, il sacerdote si era portato il dito alle labbra, intimando silenzio. Subito divenne chiaro che il silenzio c'era già; in tutta la foresta non si udiva un solo suono, a eccezione del sospiro del vento tra le fronde. «È qui nei paraggi» bisbigliò Carmody. «Getti via quella manciata di gelatina, e allontaniamoci dall'albero.» Thu alzò la mano per farlo. In quel momento echeggiò un colpo di fucile, non molto lontano. Entrambi gli uomini sobbalzarono. «Mio Dio, chi è il pazzo che spara?» esclamò Thu. Disse qualcosa d'altro, ma la sua voce fu sommersa dal bailamme che si scatenò nella foresta: strida di uccelli, latrati di scimmie, barriti, nitriti, ruggiti di migliaia di animali. Poi, improvvisamente come si era alzato, il chiasso terminò: come ad un segnale dato, cadde il silenzio. Poi un grido. Di un uomo. «È Masters» gemette Carmody. Si udì un brontolio, come se un animale di grossa taglia ringhiasse dal profondo del petto. Una delle creature simili a leopardi, con le orecchie rotonde e i ciuffi di pelo grigio sulle zampe, uscì dai cespugli a passi misurati. Teneva tra le fauci il corpo esanime di Pete Masters, con la stessa facili-
tà con cui un gatto tiene un topo. Senza badare minimamente ai due uomini fermi accanto all'albero, passò davanti a loro e si diresse ai piedi di una grande quercia: laggiù si fermò, e lasciò cadere il giovane davanti a un altro intruso. Il Padre era immobile come se fosse di pietra. Una mano priva di unghie era posata sulla lunga barba color rosso-oro. Gli occhi profondamente incavati nelle orbite guardavano verso il basso, pensosi, verso la figura stesa sull'erba. Si mosse solo quando Pete, uscendo dalla paralisi, si contorse in una crisi di vergogna e chiese pietà. Allora il Padre si piegò e toccò rapidamente il giovane, sulla nuca. Pete si rialzò di scatto e, tenendosi la testa fra le mani e urlando come se provasse un forte dolore, si allontanò di corsa, scomparendo fra gli alberi. Il leopardo rimase sdraiato in terra, battendo lentamente gli occhi come un gattone domestico, grasso e pigro. Il Padre parlò al leopardo. Poi si avviò maestosamente per i boschi, e il leopardo volse i grandi occhi verdi verso i due uomini. Nessuno dei due provò la tentazione di mettere alla prova le sue capacità di guardia del corpo... Il Padre si fermò sotto un albero coperto di liane, dalle quali crescevano grossi frutti carnosi, simili a noci di cocco bianche e prive di rivestimento. Crescevano ad almeno quattro metri di altezza, ma non ebbe difficoltà ad afferrarne una e a stringerla fra le dita. La noce si aprì con un forte crac, e dal guscio uscì dell'acqua. Thu e Carmody impallidirono; il capitano mormorò: «Preferirei accapigliarmi con quel grosso gattone, piuttosto che con lui.» Il gigante si girò, e, pulendosi le dita nell'acqua della noce, avanzò a grandi passi verso di loro. «Ti piacerebbe spaccare le noci di cocco con le mani, capitano?» tuonò. «Non è nulla. Posso insegnare anche a te il modo di farlo. Posso sradicare quella giovane betulla. Posso dire una parola a Zeda, qui, e lei mi seguirà come un cane. Non è niente. Posso insegnare anche a te questo potere. Posso udire i tuoi mormorii a cento metri di distanza, come ormai avrai notato. E in meno di dieci secondi potrei afferrarti, anche se tu partissi di corsa e io partissi da seduto. Non è niente. Posso dire all'istante dove si trova sulla faccia di Abatos ciascuna delle mie figlie, e lo stato di salute in cui è, e quando è morta. Non è niente. Tu potresti fare lo stesso, se divenissi come questo prete. Potresti perfino far risorgere i miei morti, se tu volessi essere come padre John. Potrei prenderti la mano e mostrarti il modo in cui si rida vita ai corpi morti, anche se preferisco non toccarti.»
«Per l'amor di Dio, ditegli di no» mormorò Carmody. «È già fin troppo grave che il vescovo e io siamo sottoposti a questa tentazione.» Il Padre rise. Thu afferrò la mano di Carmody. Non avrebbe potuto rispondere al gigante neppure se lo avesse voluto, perché boccheggiava come un pesce fuor d'acqua, e aveva gli occhi fuori delle orbite. «C'è qualcosa, nella sua voce, che ti scioglie le budella e ti fa tremare le ginocchia» disse il sacerdote, poi tacque. Il Padre giganteggiava su di loro, e si asciugava le mani sulla barba. A parte la barba magnifica e i folti capelli, non aveva altra peluria sul corpo. La pelle, color rosso pallidissimo, non aveva il minimo difetto, ed era irrorata da un sangue perfetto al di sotto di quella sottile superficie. Il naso dall'attaccatura alta era privo di setto: l'unica narice era larga e formava un angolo acuto, come un arco gotico. Mentre parlava, si scorgevano i suoi denti rossi e lucenti; una volta, la lingua venata di azzurrino guizzò fuori per un secondo, come una fiamma, poi le labbra di colore rosso cupo si tesero e si chiusero. L'aspetto complessivo del Padre era strano, certo, ma non era tanto strano, agli occhi di quei due uomini che avevano viaggiato a lungo fra le stelle, da metterli a disagio. Ciò che li stordiva, invece, erano la voce e gli occhi: il rombo che pareva scuotere le ossa fino a farle battere tra loro, e gli occhi neri iniettati di pagliuzze d'argento. Pietra divenuta carne. «Non preoccuparti, Carmody. Non mostrerò a Thu come far risorgere i morti. Diversamente da te e André, comunque, lui non sarebbe capace di farlo. Né sarebbe capace di farlo alcuno degli altri, perché li ho osservati, e so. Ma ho bisogno di te, Thu. Te ne dirò il motivo, e quando te lo avrò detto, vedrai che non potrai fare diversamente. Ti convincerò con la ragione e non con la forza, perché odio la violenza, e, anzi, sono costretto a non usarla, a causa della stessa natura del mio essere. A meno che non lo richieda un'emergenza.» Il Padre continuò a parlare. Un'ora più tardi, tacque. Senza aspettare che i due dicessero una parola, sempre che ne fossero capaci, si voltò e si allontanò; il leopardo lo seguì a una distanza rispettosa. Dopo un poco ripresero anche i normali suoni degli animali della foresta. I due uomini si scossero e tornarono in silenzio alla nave. Ai bordi del prato, Carmody disse: «C'è una sola cosa da fare. Riunire un Consiglio d'Inchiesta di Giairo. Fortunatamente, lei è proprio il tipo di laico adatto al ruolo del moderatore. Chiederò il permesso del vescovo, ma sono certo che sarà d'accordo. È l'unica cosa da fare. Non possiamo metterci in contatto con i nostri superiori per rimandare il problema al loro
giudizio. La responsabilità posa su di noi.» «È un peso terribile» disse il capitano. Alla nave, chiesero del vescovo, e vennero a sapere che si era allontanato nella foresta poco tempo prima. Le radio da polso avevano ripreso a funzionare, ma da André non giunse alcuna risposta. Seguirono il sentiero del lago, e Thu, di tanto in tanto, controllò con la propria radio; nel frattempo, un elicottero continuò a sorvolare la zona. Dall'elicottero riferirono che il vescovo non era sulla riva del lago, ma Carmody pensò che forse non vi era ancora arrivato, o che forse era semplicemente seduto da qualche parte a meditare. A circa un chilometro e mezzo di distanza dalla Gull, lo scorsero, ai piedi di un albero della gelatina assai più alto del normale. Thu si fermò bruscamente. «Padre Carmody: ha un attacco.» Carmody si sedette sull'erba, con la schiena al vescovo. Accese una sigaretta, ma subito la gettò a terra e la schiacciò sotto il tacco. «Dimenticavo che il Padre non vuole che si fumi nei suoi boschi. Non per timore del fuoco. Il Padre non ama l'odore del tabacco» spiegò Carmody. Thu si avvicinò al sacerdote e continuò a fissare la figura sotto l'albero, che si contorceva. «Non va ad aiutarlo? Finirà col mordersi la lingua o slogarsi qualche osso.» Carmody alzò le spalle e scosse il capo. «Ha dimenticato che il Padre ha guarito le nostre infermità per dimostrare i suoi poteri. Il mio dente cariato, l'alcolismo della signora Recka, gli attacchi di Sua Eccellenza.» «Sì, ma...» «Sua Eccellenza è entrato volontariamente in questo cosiddetto attacco e non corre pericolo di slogarsi le articolazioni o di lacerarsi la lingua. Anzi, preferirei che fosse un attacco vero, perché in tal caso saprei cosa fare. Ora come ora, le consiglierei di fare l'unica cosa possibile: anche lei gli volti le spalle. Non mi è piaciuta affatto, la cosa, quando l'ho vista per la prima volta; e ancora adesso non mi piace.» «Forse lei non può fare niente, ma io, accidenti, intendo andare a dargli una mano» disse Thu. Fece un passo, ma subito si fermò, senza fiato. Carmody si voltò a guardarlo, poi si alzò a sua volta. «Non è niente» disse. «Non si allarmi.» Il vescovo era stato scosso dall'ultimo, violento spasmo: un inarcamento del bacino, che aveva sollevato da terra il suo corpo. Nello stesso tempo
aveva emesso un forte singhiozzo. Quando ricadde a terra, rimase in silenzio, immobile. Ma Thu non guardava André: guardava il foro dell'albero. Da esso strisciava fuori un grande serpente bianco, con macchie triangolari nere sulla schiena. Aveva la testa grande come un'anguria; i suoi occhi verdi luccicavano come vetro; dalle sue scaglie gocciolava gelatina piena di fili bianchi. «Mio Dio» disse Thu «non finisce mai? Continua a uscire dal foro. Sarà lungo quindici metri.» La sua mano corse alla pistola sonica che teneva nella tasca, ma Carmody lo fermò con un altro cenno del capo. «Quel serpente non intende farci del male. Anzi, se conosco questi animali, si rende conto in modo opaco di avere ricevuto nuovamente la vita, e prova un senso di gratitudine. Forse il Padre li rende consapevoli del fatto che è lui a farli risorgere, e così gode del loro culto automatico. Ma, naturalmente, non riuscirebbe mai a sopportare ciò che quella bestia sta facendo in questo momento. Il Padre, non so se lei l'ha notato, non sopporta il contatto della sua progenie. Avrà notato come si è lavato le mani dopo avere toccato Masters. Le uniche cose che tocca sono i fiori e gli alberi.» Il serpente era giunto con la testa al di sopra della figura distesa del vescovo e gli lambiva il viso con la lingua guizzante. André emise un gemito e spalancò gli occhi. Scorgendo il rettile, rabbrividì di paura, poi s'immobilizzò e si lasciò sfiorare. Quando comprese che l'animale non intendeva fargli del male, gli accarezzò il dorso. «Be', se il vescovo subentrerà al Padre, almeno darà a questi animali ciò che hanno sempre desiderato e non hanno mai ottenuto: tenerezza e affetto. Sua Eccellenza non odia questi animali. O almeno, non li odia ancora.» E in tono di voce più forte, soggiunse: «Spero di fronte a Dio che una tale cosa non avvenga mai.» Con un sibilo, il serpente scivolò via nell'erba. André si drizzò a sedere, scosse la testa come per schiarirsela, si alzò per salutare Carmody e il capitano. Il suo viso aveva perso la dolcezza che aveva avuto quando aveva accarezzato il serpente. Adesso era duro; e la voce conteneva un tono di sfida. «Pensate che sia giusto venire a spiarmi?» «Scusi, Eccellenza, ma non spiavamo. Cercavamo di lei perché abbiamo deciso che la situazione richiede un Consiglio d'Inchiesta di Giairo.» Thu aggiunse: «Eravamo preoccupati perché Vostra Eccellenza pareva colta da un altro attacco.»
«Io? Un attacco? Ma pensavo che il Padre avesse messo a posto... voglio dire...» Tristemente, Carmody annuì. «Infatti, ha messo a posto i nostri mali. Mi chiedo se Vostra Eccellenza mi vorrà scusare se esprimerò la mia opinione. Non credo che abbia avuto una crisi epilettica nello stesso momento in cui ha riacceso una nuova vita nel serpente. Il suo apparente attacco era soltanto un'imitazione del male di cui ha sofferto in precedenza. «Forse non mi sono spiegato. Mi esprimerò in un altro modo. Il medico di Wildenwooly pensava che la sua affezione avesse un'origine psicosomatica, e le aveva consigliato di recarsi su Ygdrasil, dove un uomo più competente avrebbe potuto curarla. Prima di partire, lei stesso me lo ha detto. Il medico pensava che i sintomi avessero origine dal desiderio rimosso di...» «Credo che ti debba fermare qui» disse il vescovo, freddamente. «Non intendevo andare oltre.» Ripresero il cammino verso l'astronave. I due sacerdoti si accodarono al capitano, che camminava senza voltarsi. Il vescovo disse, esitante: «Anche tu hai provato la gloria... gloria forse pericolosa, ma pur sempre gloria... di riportare in vita i morti. Ti ho osservato, e tu hai osservato me. E la cosa non ti ha lasciato indifferente. È vero che non sei caduto a terra e non hai perso parzialmente la conoscenza come me. Ma tremavi e gemevi nell'estasi.» A quel punto abbassò gli occhi a terra, e poi, come se si vergognasse della propria esitazione, rialzò lo sguardo e fissò Carmody negli occhi, senza battere ciglio. «Prima della tua conversione, sei stato, in modo assai intenso, un uomo di questo mondo. Confessami, John, questo modo di essere padre di una creatura che risorge, non è forse simile al giacersi con una donna?» Carmody distolse lo sguardo. «Non voglio né la tua compassione né la tua avversione» disse André. «Soltanto la verità.» Carmody trasse un profondo sospiro. «Sì» disse «le due esperienze sono molto simili. Ma il far risorgere è un'esperienza ancora più intima, perché, una volta cominciato il processo, non c'è più controllo, non c'è più modo di ritrarsi dall'intimità; tutto il proprio essere, mente e corpo, si fonde e si concentra sui processo di resurrezione. Il senso di unità... che nell'altro atto è tanto desiderato e che invece è così raro... qui è inevitabile. Ci si sente come se si fosse il resuscitatore e il resuscitato. In seguito, si ha in noi una parte dell'animale, come lei sa, perché nel nostro cervello c'è una piccola
scintilla che è un pezzo della sua vita, e quando la scintilla si muove, sappiamo che l'animale che abbiamo fatto risorgere si muove. E quando si affievolisce, sappiamo che dorme, e quando divampa sappiamo che è impaurito o che prova un'altra emozione profonda. E quando la scintilla muore, sappiamo che l'animale è morto. «Il cervello del Padre è una costellazione di queste scintille, miliardi di stelle che sono l'immagine lucente della vitalità degli animali corrispondenti. Conosce il punto dove si trova, su questo pianeta, ogni unità individuale di vita; sa quando si spegne; e quando si è spenta, attende che le ossa si rivestano di carne, e a questo punto le suscita...» «"Egli le suscita: colui la cui bellezza non varia. Lodatelo!"» esclamò André. Sorpreso da quella citazione, Carmody alzò gli occhi: «Hopkins, secondo me, non sarebbe affatto contento di sentirle citare i suoi versi in questo frangente. Anzi, credo che ribatterebbe subito con questi altri suoi versi: "Lo spirito dell'uomo sarà coperto dalla carne nel suo momento più alto, ma non ne subirà il peso: la collina non teme l'arcobaleno che la calca, né egli temerà le sue ossa risorte".» «La tua citazione» disse André «non fa che confermare la mia. "Le sue ossa risorte." Che vorresti, di più?» «"Ma non ne subirà il peso." Qual è il prezzo di questa estasi? Questo pianeta è bellissimo, certo, ma è sterile, è in un vicolo cieco. Be', per ora non pensiamo a questo. Vorrei ricordare a Vostra Eccellenza che il potere e la gloria del Padre provengono dalla comunione con i bruti e dal loro controllo. Questo mondo è il letto del Padre, ma chi vorrebbe giacervi per sempre? E perché il Padre vuole adesso lasciarlo, se è così desiderabile? È un bene o è un male, questo suo desiderio?» Un'ora più tardi, i tre entrarono nella cabina del vescovo e si sedettero alla tavola, nuda e rotonda, collocata in mezzo a essa. Carmody aveva con sé una valigetta nera. La mise sotto la propria sedia senza dare spiegazioni. Tutt'e tre indossavano una tonaca nera, e non appena André ebbe recitato la rituale preghiera di apertura, tutt'e tre si misero sul volto la maschera del fondatore dell'ordine. Per un attimo si fece silenzio, mentre si fissavano dal riparo di quelle maschere identiche che assicuravano la sicurezza dell'anonimato: pelle scura, capelli crespi, naso schiacciato, labbra grosse. E con l'intensa africanità della faccia, colui che aveva fabbricato le maschere era riuscito a dar loro la gentilezza e la nobiltà d'animo, entrambe leggendarie, che avevano caratterizzato Giairo C’bwaka.
Il capitano Thu disse, con labbra rigide: «Siamo raccolti in questo luogo, in nome dell'amore di Dio, per dare nome alla tentazione, se tentazione c'è, a cui ci troviamo di fronte, e per scegliere l'azione, se scegliere un'azione si deve, contro di essa. Parliamo come fratelli, ricordando, ogni volta che alziamo lo sguardo verso chi ci sta di fronte e che così facendo vediamo il volto del fondatore, come egli non abbia mai perso la calma, salvo che in una singola occasione, e come non abbia dimenticato mai il suo amore, salvo che in una singola occasione. Ricordiamo il tormento morale che continuò a provare a causa di quella dimenticanza, e ricordiamo ciò che ci ha comandato di fare, religiosi e no. E che possiamo essere degni del suo spirito alla presenza del simulacro della sua carne.» «Preferirei che non avesse pronunciato così in fretta queste parole» disse il vescovo. «A quella velocità, tutto lo spirito delle parole si perde.» «Il fatto che critichi il mio operato non può rimediare a ciò che è già stato fatto.» «Il rimprovero è accettato. Le chiedo di perdonarmi.» «Certo» disse Thu, un po' a disagio. «Certo. Be', passiamo al dunque.» «Io parlerò per il Padre di Abatos» disse il vescovo. «Io parlerò contro il Padre di Abatos» disse Carmody. «Si parli per il Padre di Abatos» disse Thu. «Tesi» disse André. «Il Padre rappresenta le forze del bene. Ha offerto alla Chiesa il monopolio del segreto della resurrezione.» «L'antitesi» disse Thu. «Il Padre» disse Carmody «rappresenta le forze del male, perché scatenerà sulla Galassia una forza capace di distruggere la Chiesa se questa cercasse di mantenerne il monopolio. Inoltre, questa forza, anche se la Chiesa rifiutasse di avere qualcosa a che fare con essa, distruggerà l'umanità in ogni luogo, e anche la Chiesa, di conseguenza.» «Sviluppo della tesi.» «Tutte le sue azioni sono volte al bene. Prova: ha curato le nostre affezioni, piccole e gravi. Prova: ha impedito a Masters e Lejeune di avere un rapporto carnale, e forse ha fatto la stessa cosa anche nel caso di Recka e Givens. Prova: ha indotto la prima coppia a confessare di avere rubato il denaro al padre della Lejeune, e da allora in poi la Lejeune ha cominciato a venire da me per chiedermi consigli spirituali. Mi pare che abbia preso seriamente in considerazione il mio suggerimento di non avere più nulla a che fare con Masters e di ritornare da suo padre, se ne avrà la possibilità, per tentare di risolvere i loro problemi con il suo consenso. Prova: la Le-
jeune sta ora leggendo un manuale che le ho dato, e forse potrà venire condotta alla Chiesa. Sarà merito del Padre e non di Masters, il quale ha dimenticato la Chiesa, pur essendone ancora, di nome, un membro. Prova: il Padre concede il perdono, perché non ha permesso al leopardo di fare del male a Masters, anche se il giovane ha tentato di ucciderlo. E ha detto che il capitano può liberare Masters dalla stiva, perché non teme nulla, e le nostre leggi penali gli risultano incomprensibili. È sicuro che Masters non proverà più a farlo: dunque, perché non dimenticare il fatto che abbia rubato un fucile dall'armeria della nave e non liberarlo? Noi usiamo la forza per raggiungere il nostro scopo, che è la punizione, e ciò non è necessario, perché, secondo le leggi della psicodinamica che il Padre ha studiato in diecimila anni di solitudine, una persona che si serva della violenza come di un mezzo per raggiungere un dato scopo, si autopunisce, perde una porzione dei propri poteri. Anche il suo primo atto, quello con cui ha fatto scendere su questo pianeta l'astronave, gli ha causato un male talmente grande che per qualche tempo il Padre non riavrà pienamente l'uso delle proprie energie psichiche. «Perciò, io formulo la richiesta di accettare la sua offerta. Non ci può essere alcun danno nel fatto che voglia venire via come passeggero. Sebbene io, naturalmente, non possegga personalmente del denaro, autorizzerò a pagare il suo biglietto con le proprietà dell'ordine. E prenderò il suo posto su Abatos mentre egli sarà lontano. «Ricordate, comunque, che la decisione di questo specifico Concilio non impegnerà la Chiesa ad accettare l'offerta del Padre. La Chiesa si limiterà a prenderlo per qualche tempo sotto la sua protezione.» «L'antitesi» disse Thu. «Ho un'affermazione di tipo generale» disse Carmody «che può rispondere alla maggior parte dei punti della tesi. Cioè, che il male peggiore è quello che adotta i connotati del bene, di modo che occorre guardare molto attentamente per distinguere il vero volto che si nasconde sotto la maschera. Il Padre di Abatos, indubbiamente, ha appreso dai superstiti della Hoyle il nostro codice morale. Ha evitato di venire a contatto ravvicinato con noi, cosicché non potessimo osservare nei particolari il suo comportamento. «Si tratta, comunque, di congetture. La cosa che non si può negare, invece, è che questo atto della resurrezione è una droga: la droga più potente e più insidiosa a cui sia mai stata esposta l'umanità. Una volta che una persona abbia sperimentato l'estasi che accompagna l'atto della resurrezione, quella persona desidererà ripeterlo. E perché il numero di questi atti è limi-
tato dal numero di morti disponibili, si prova il desiderio di aumentare il numero dei morti, in modo da poter godere di altri atti di resurrezione. E lo scenario creato dal Padre su questo pianeta unisce il massimo della tentazione al massimo delle occasioni di consumarla. Una volta che un uomo abbia provato l'atto, comincerà seriamente a pensare alla possibilità di trasformare il proprio mondo in un pianeta come Abatos. «Ed è questo, ciò che noi vogliamo? Io dico di no. Io prevedo che se il Padre si allontanerà da qui, aprirà la strada a questa possibilità. Ogni uomo che abbia il potere della resurrezione non comincerà a pensare di essere una specie di divinità? Non diventerà come il Padre di Abatos, insoddisfatto del pianeta, caotico e rozzo, da lui originariamente incontrato? Non troverà insopportabili il progresso e l'imperfezione, e non rimodellerà le ossa delle sue creature per togliere tutte le vestigia dell'evoluzione e per dare loro degli scheletri perfetti? Non cancellerà l'accoppiamento tra gli animali... e forse anche tra i suoi compagni esseri umani... lasciando che i maschi muoiano senza risorgere, fino all'ultimo, in modo che restino solo le femmine, più tranquille e miti, e che nessun giovane nasca più? Non trasformerà il proprio pianeta in un giardino: un paradiso bellissimo, ma sterile e incapace di progredire? «Osservate per esempio il metodo di caccia usato da quelle bestie da preda grasse e pigre. E consideratene i risultati disastrosi, dal punto di vista dell'evoluzione. All'inizio hanno scelto come preda gli erbivori più lenti e più stupidi. Questo ha portato come risultato quello della selezione naturale, cioè la nascita di giovani più veloci e più intelligenti? Niente affatto, perché i morti sono risorti e poi sono stati aggrediti e uccisi di nuovo. E poi di nuovo ancora. Così, ora, quando un leopardo o un lupo si reca a caccia, gli animali non condizionati corrono via, e quelli condizionati restano fermi a tremare, paralizzati, e si lasciano uccidere come animali domestici al macello. E quelli che non sono stati divorati ritornano a brucare senza preoccupazioni, a pochissima distanza dal predatore che sta divorando il loro compagno. Questo è un pianeta ben liscio, dove gli stessi avvenimenti scivolano ogni giorno nello stesso solco privo di scosse. «Eppure, perfino il nostro superperfezionista, il Padre, comincia ad annoiarsi, e desidera trovare un mondo vergine, sul quale possa darsi da fare a modo suo, finché non lo avrà ridotto nello stesso stato in cui è Abatos. E questo continuerà finché l'intera Galassia non mostrerà più una molteplicità di mondi, ciascuno straordinariamente diverso dall'altro, ma mostrerà in ogni suo punto un duplicato di Abatos, uguale fino all'ultima virgola. Vi
avverto: questo pericolo è molto reale. «Prove di importanza meno rilevante. Il Padre è un omicida perché ha fatto abortire Kate Lejeune, e...» «Obiezione. Il Padre afferma che è stato un incidente, se Kate ha perso il feto; dice che ha inviato le sue bestie a cacciare via dai boschi lei e Masters, i quali stavano copulando. E il Padre non poteva sopportarlo. Prova: un tale atteggiamento va a favore del Padre, e mostra come egli sia buono e stia dalla parte della Chiesa e di Dio.» «Prova: per lui, sarebbe lo stesso anche se Pete e Kate fossero uniti in matrimonio. Per il Padre, è insopportabile la copula, in sé e per sé. La ragione non la so. Forse l'atto sessuale offende il suo senso di proprietà, perché soltanto lui è il datore di vita su questo pianeta. Ma io sostengo che la sua interferenza è stata malvagia, perché ha portato come conseguenza la perdita di una vita umana, ed egli non ignorava che questa, appunto, ne sarebbe stata la conseguenza.» «Prova» disse il vescovo, che cominciava ad animarsi. «Questo mondo, da quel che abbiamo visto, è un pianeta privo sia di vera morte, sia di vero peccato. Noi abbiamo portato con noi questi due mostri, e il Padre non sopporta né l'una né l'altro.» «Prova: non siamo stati noi a chiedere di scendere, ma siamo atterrati perché siamo stati costretti a farlo.» «Ordine» disse il moderatore. «Prima la domanda che è lo scopo dell'inchiesta, poi la formulazione della tentazione, come insegnano le regole. Se diremo di sì, e il Padre verrà con noi, uno di noi dovrà rimanere qui al suo posto. Altrimenti, così dice il Padre, questo mondo andrà in rovina a causa della sua assenza.» Il moderatore si interruppe e poi riprese: «Per qualche motivo, il Padre limita a voi due la scelta dei propri sostituti.» «Prova» disse il vescovo. «Noi siamo gli unici candidati perché abbiamo fatto voto di totale astinenza dai rapporti sessuali. Pare che il Padre pensi che le donne siano vasi di iniquità ancor più grandi che gli uomini. Dice che la copula comporta una perdita delle energie psichiche necessarie per l'atto della resurrezione, e pare accennare al fatto che ci sia qualcosa di sporco... o forse dovrei dire qualcosa di troppo materiale e animalesco... nell'atto. Ovviamente non mi pare che l'atteggiamento del Padre sia completamente giustificabile, né posso associarmi alla sua convinzione che tutte le donne siano sullo stesso piano degli animali. Ma dovete ricordare che il Padre non vede una donna da diecimila anni, e che forse le femmine del-
la sua specie potrebbero giustificare la sua reazione. Dalle conversazioni con il Padre ho avuto l'impressione che ci fosse una grande distanza tra i sessi della sua specie, sul suo pianeta di origine. Tuttavia, si è sempre comportato gentilmente con le donne della nostra astronave. Non le toccherebbe in alcun caso, certo, ma dice che ogni contatto fisico con noi gli risulta assai penoso, perché gli sottrae la sua... come dire, santità? Mentre invece, quando si tratta di fiori e di alberi...» «Prova. Quanto ci ha detto mostra l'aberrazione insita nella natura del Padre» disse Carmody. «Prova. Hai confessato» disse André «che non oseresti dirgli in faccia una cosa simile, perché sei intimorito dal senso di potere che emana dal Padre. Prova. Il Padre si comporta come una persona che abbia fatto voto di castità; forse la sua natura è tale che un contatto troppo ravvicinato lo sporca, parlando figurativamente. Per me, questo atteggiamento religioso è un altro segno in suo favore.» «Prova: anche il diavolo può essere casto. Ma per quale motivo? Perché ama Dio o perché ha paura del sudiciume?» «È il momento dell'inversione» disse Thu. «La tesi o l'antitesi hanno cambiato idea su uno degli argomenti o su tutti? Non esitate ad ammetterlo. L'orgoglio deve farsi indietro, davanti all'amore della verità.» «Nessun cambiamento» disse il vescovo, con voce ferma. «E mi sia concesso di ripetere che non credo che il Padre sia Dio. Ma ha vari poteri divini. E la Chiesa dovrebbe servirsene.» Carmody si alzò in piedi, tenendosi al bordo del tavolo. La sua testa era tesa aggressivamente in avanti, la sua posa faceva uno strano contrasto con la tenera malinconia della maschera. «Anche l'antitesi non riferisce alcun cambiamento. Benissimo. La tesi ha affermato che il Padre di Abatos ha poteri divini. E io dico che anche l'uomo li ha, entro certi limiti. Questi limiti sono dati da ciò che l'uomo può compiere sulle cose materiali con i mezzi materiali. Io sostengo che il Padre si limita a questi mezzi, che non c'è niente di sovrannaturale nei suoi cosiddetti miracoli. Anzi, in realtà l'uomo può già fare oggi ciò che fa il Padre, sebbene su scala più primitiva. «Ho discusso a un livello spirituale, sperando di convincere la tesi con argomenti spirituali prima di rivelarvi le mie scoperte. Ma non ci sono riuscito. Benissimo. Adesso vi dirò ciò che ho scoperto, e forse adesso la tesi sarà disposta a cambiare opinione.» Si curvò a raccogliere la borsa nera e la posò sulla tavola davanti a sé.
Mentre parlava, tenne una mano su di essa, come per richiamare l'attenzione degli altri. «I poteri del Padre di Abatos, ho pensato, potrebbero essere semplicemente delle estensioni di ciò che possiamo già fare noi umani. I suoi poteri sono molto più raffinati perché ha alle spalle una scienza molto più vecchia della nostra. Dopotutto, anche noi siamo capaci di ringiovanire i vecchi, e ora la nostra durata di vita è di un secolo e mezzo. Costruiamo organi di carne artificiale. Entro un limitato periodo dalla morte, possiamo rianimare i morti, purché si riesca a congelarli abbastanza in fretta e poi a operare su di essi. Abbiamo perfino costruito un primitivo cervello proteico, a livello inferiore a quello umano. E il senso del numinoso e del panico non è niente di nuovo. Anche noi abbiamo infrasuoni che creano un effetto simile. Come affermare che il Padre non usi mezzi simili? «Il fatto che l'abbiamo visto nudo e privo di macchine non significa che egli ottenga questi effetti per trasmissione mentale di energia. Noi, ora come ora, non possiamo immaginare una scienza che non si serva di dispositivi meccanici, ma chi ci dice ch'egli non possegga altri mezzi? Per esempio, gli alberi della gelatina, che mostrano effetti di tipo elettromagnetico. Che cosa era quel debole brusio che abbiamo sentito quando ci siamo avvicinati alla gelatina? «Per vedere se queste mie ipotesi erano giuste, ho preso a prestito dalla sala macchine un microfono e un oscilloscopio, ho approntato un semplice dispositivo per rilevare i suoni, l'ho sistemato nella borsa e mi sono messo a guardarmi in giro. E ho notato che anche Vostra Eccellenza faceva buon uso del proprio tempo prima dell'Indagine, e che parlava nuovamente con il Padre. E mentre Vostra Eccellenza gli parlava, gli alberi della gelatina emettevano infrasuoni alla frequenza di quattro e di tredici cicli al secondo. Sapete l'effetto di queste frequenze. La prima massaggia gli organi interni e favorisce la peristalsi. La seconda genera un senso di oppressione, di soggiogamento. Inoltre c'erano altre emissioni sonore: alcune di ultrasuoni, altre di infrasuoni. «Mi sono allontanato dalle vicinanze del Padre per svolgere delle ricerche in altri punti. E anche per pensare un poco. Mi pare significativo il fatto che abbiamo avuto poche occasioni, o poca voglia, di meditare, da quando siamo scesi quaggiù. Il Padre ha continuato a premere, ci ha tenuto sbilanciati. Ovviamente, vuole offuscarci la mente con un corso troppo rapido di avvenimenti. «Ho compiuto delle riflessioni, anche se frettolose, e ho concluso che
l'atto della resurrezione non riceve il via dalla scintilla di genesi. Tutt'altro, anzi. È un atto completamente automatico, e ha luogo quando il corpo appena formato è pronto per uno shock bioelettrico da parte della gelatina. «Ma il Padre sa quando il corpo è pronto, e beve alle onde della vita che rinasce: se ne nutre. Come fa? Ci dev'essere un collegamento in andata e ritorno tra le onde cerebrali del Padre e quelle della gelatina. Noi sappiamo che il nostro pensiero è sotto forma di simboli, e che un simbolo mentale è fondamentalmente una combinazione complessa di onde cerebrali che si presentano come una serie di singole immagini. Il Padre fa scattare nella gelatina certi meccanismi già predisposti: li fa scattare per mezzo dei propri pensieri, cioè con la proiezione mentale di un simbolo. «Comunque, non tutte le persone possono farlo, perché soltanto noi due sacerdoti, votati all'astinenza dall'unione sessuale, siamo capaci di inserirci nel flusso delle onde cerebrali. Evidentemente, chi vi si inserisce deve avere una particolare disposizione di mente-corpo. Perché? Non lo so. Forse c'è qualcosa di spirituale in tutto il processo, ma non dimentichiamo che anche il diavolo è un puro spirito. Comunque, le azioni mente-corpo sono ancora un continente inesplorato. Io non posso risolverle, posso soltanto fare qualche congettura. «Per quanto riguarda l'abilità del Padre di curare le malattie a distanza, probabilmente si serve degli alberi della gelatina come di un mezzo per diagnosticare e per curare. Questi alberi ricevono e trasmettono, individuano le onde anormali o malate che sono trasmesse dalle nostre cellule e inviano le onde terapeutiche che cancellano quelle anormali. Non c'è nulla di miracoloso in questo processo. Esso opera in accordo con la scienza materiale. «Io credo che quando giunse qui, il Padre sapeva perfettamente che gli alberi davano l'estasi, e si limitava semplicemente a sintonizzarsi sulla loro lunghezza d'onda. Ma dopo millenni di solitudine e di uno stato quasi ininterrotto di stupore estatico, ha finito per convincersi di essere lui a dare la scintilla della nuova vita. «Ci sono altri punti alquanto misteriosi. Come ha fatto a prendere la nostra nave? Non lo so. Ma la superstite della Hoyle può avergli parlato del motore a traslazione, e il Padre può essere riuscito a disporre gli alberi sulle lunghezze d'onda che neutralizzavano l'operato delle memorie proteiche che conservano l'immagine dello 'spazio normale'. Chissà da quanto tempo continuava a far trasmettere su quella lunghezza d'onda una gran parte degli alberi del pianeta; la trappola avrebbe finito col prendere prima o poi
una nave di passaggio.» Thu chiese: «Che cosa è successo alla nave con cui è giunto il Padre su questo pianeta?» «Se lasciassimo la Gull al sole e alla pioggia per diecimila anni, che cosa succederebbe?» «Diventerebbe un mucchio di ruggine. Anzi, neppure quello.» «Giusto. Ora, io sospetto che il Padre, quando è giunto qui, avesse sulla propria nave un laboratorio ben attrezzato. La sua scienza era capace di trasformare a volontà le caratteristiche genetiche degli esseri viventi, e lui usò i suoi strumenti sugli alberi del pianeta, per trasformarli in alberi della gelatina. Questo spiegherebbe anche come ha potuto cambiare lo schema genetico degli animali, facendo perdere ai loro corpi le vestigia dell'evoluzione, facendoli diventare organismi perfettamente funzionali.» Il piccolo uomo con la maschera sul viso si sedette. Si alzò in piedi il vescovo. La sua voce era strangolata. «Ammettendo che le tue ricerche e le tue ipotesi abbiano indicato che i poteri del Padre sono trucchi non spirituali... e in tutta sincerità occorre ammettere che sembri essere nel giusto... ammettendo questo, dunque, io continuo a parlare in difesa del Padre.» La maschera di Carmody si piegò a sinistra. «Come?» «Sì. È nostro dovere verso la Chiesa affidare alle sue mani questo meraviglioso strumento, questo strumento che, come ogni cosa di questo universo, può essere usato per il male o per il bene. Anzi, è obbligatorio che la Chiesa ne ottenga il controllo, in modo che possa impedire di usarlo a coloro che avrebbero l'intenzione di usarlo male, in modo che essa possa divenire più forte e attrarre un maggior numero di persone sotto le sue ali. Credi che la vita eterna non sia un grande richiamo? «Ora, tu dici che il Padre ci ha mentito. Io dico invece che non ci ha mentito affatto. Non ci ha mai detto che i suoi poteri fossero puramente spirituali. Forse, appartenendo a una specie diversa dalla nostra, non ha inteso correttamente le nostre capacità di comprensione, e ha dato per certo che capissimo il suo modo di operare. «Comunque, non è questa l'essenza della mia tesi. L'essenza è che dobbiamo prendere con noi il Padre e dare alla Chiesa la possibilità di decidere se accettarlo o no. Non c'è nessun pericolo, in questo, perché sarà un singolo individuo in mezzo a miliardi di altri. E se noi lo lasciassimo qui, potremmo incorrere in un rimprovero, o forse in qualche azione ancora più forte, da parte della Chiesa, per essere stati codardi e avere rifiutato il suo dono.
«Io rimarrò su questo pianeta, anche se i miei motivi per farlo hanno destato dei dubbi in chi non avrebbe alcun diritto di esprimere dei giudizi sul mio conto. Io sono uno strumento di Dio, come lo è il Padre; è giusto che entrambi siamo usati al meglio delle nostre abilità; il Padre non potrà fare del bene né alla Chiesa né agli uomini se resterà isolato su questo pianeta; io sopporterò la mia solitudine mentre attenderò il suo ritorno, con il pensiero che lo faccio come un servo che trae gioia dal compimento del proprio dovere.» «Bella gioia!» esclamò Carmody. «No! Io dico di rifiutare il Padre una volta per tutte. Dubito molto che ci permetta di andare via, perché pensa che, di fronte alla prospettiva di passare il resto della vita qui, e poi di morire (non credo, infatti, che ci resusciterà se non gli diremo di sì), noi accetteremo. E baderà a tenerci imprigionati nell'astronave, inoltre. Non oseremo uscire, perché saremo bombardati da onde di panico o attaccati dalle sue bestie. Comunque, questo non si può ancora dire. La cosa che vorrei chiedere alla tesi è questa: perché non possiamo limitarci a rifiutare il Padre e lasciare a qualche altra nave il problema di portarlo fuori da Abatos? Riuscirà facilmente a catturarne un'altra. O anche, se torneremo a casa, potremmo mandare una nave del governo a fare indagini.» «Il Padre mi ha spiegato che siamo l'unica sua possibilità un po' certa. Può darsi che debba aspettare altri diecimila anni, prima di riuscire a catturare un'altra nave. O che non riesca mai più a catturarne. La cosa funziona in questo modo. Sapete che la traslazione di una nave da un punto all'altro dello spazio normale si verifica in modo simultaneo, per quanto riguarda gli osservatori esterni. Teoricamente, la nave ruota le due coordinate del suo asse speciale, ignora il tempo, sparisce dal punto di partenza e riappare contemporaneamente nel punto di destinazione. Comunque c'è anche un effetto di scarica, un simulacro della nave, costituito di campi elettromagnetici, che si irradia intorno al punto di partenza, e si allontana con accelerazione tendente all'infinito, lungo sei direzioni ad angolo retto. Questi simulacri vengono chiamati "spettri". Non sono mai stati visti, e non abbiamo alcuno strumento con cui rilevarli. La loro esistenza viene affermata dall'equazione di Guizot, che spiega perché le onde elettromagnetiche possano superare la velocità della luce, così seguendo Auschweig il quale contraddiceva l'affermazione di Einstein che la velocità della luce fosse l'assoluto. «Ora, se tiraste una linea retta da Wildenwooly a Ygdrasil, trovereste che Abatos non giace su questa linea, ma che sta da una parte, vicino a
Wildenwooly. Ma la rotta tra Abatos e Wildenwooly è perpendicolare all'altra, e uno degli 'spettri' passa di qui. La rete elettromagnetica tesa dagli alberi lo ha preso al volo. Come risultato, la Gull è stata letteralmente risucchiata lungo la linea di forza, e ha seguito quel proprio spettro fino ad Abatos, invece di recarsi su Ygdrasil. Immagino che siamo apparsi per una frazione di millisecondo nella nostra destinazione originaria, e che poi siamo stati risucchiati qui. Ovviamente non ce ne siamo accorti, e a Ygdrasil non ci hanno visti. «Ora, i viaggi tra Ygdrasil e Wildenwooly non sono molto frequenti, e il campo degli alberi deve mettersi perfettamente in fase con lo 'spettro', altrimenti questo passa tra un impulso e l'altro. Perciò le possibilità del Padre di catturare un'altra nave sono assai ridotte.» «Certo, ed è questo il motivo per il quale non ci permetterà mai di andarcene. Se ci allontaneremo senza di lui e manderemo una nave da guerra a indagare, la nave potrebbe installare qualche sistema capace di cancellare gli effetti delle radiazioni degli alberi. Perciò noi rappresentiamo per il Padre l'unica possibilità. E io dico di no, anche se dovessimo rimanere qui, naufraghi.» La discussione divampò per altre due ore, finché Thu non chiese di esprimere le formulazioni finali: «Benissimo. Abbiamo ascoltato. L'antitesi ha affermato che il pericolo sta nella tentazione che l'uomo diventi uno pseudodio, anarchico e sterile. «La tesi ha affermato che il pericolo è quello di rifiutare un dono che potrebbe rendere nuovamente universale, come numero e come diritto, la Chiesa, che avrebbe letteralmente e fisicamente le chiavi della vita e della morte. «La tesi è pregata di votare.» «Dico di accettare l'offerta del Padre.» «Antitesi.» «No. Rifiutiamola.» Thu posò sul tavolo le mani grosse e ossute. «Come moderatore e giudice, sono d'accordo con l'antitesi.» Si tolse la maschera. Gli altri, come se provassero dispiacere a dover riprendere l'identità e la responsabilità, si sfilarono lentamente le loro. Rimasero seduti a lanciarsi occhiatacce, e non badarono al comandante, quando questi tossicchiò rumorosamente. Come le false facce che s'erano tolte, avevano lasciato ogni pretesa di amore fraterno. Thu disse: «In tutta onestà, devo fare notare una cosa. Cioè che come
membro laico della Chiesa io posso essere d'accordo nel rifiutare il Padre come passeggero. Ma come capitano della nave Gull delle Linee Saxwell è mio dovere, quando atterro in corrispondenza di una fermata imprevista, di prendere a bordo chiunque desidera allontanarsi dal pianeta, purché egli abbia il denaro per pagarsi il passaggio e ci sia posto per lui sulla nave. Si tratta di una legge del Commonwealth.» «Non credo che ci si debba preoccupare che qualcuno gli paghi il biglietto» disse Carmody. «Almeno, non più. Comunque, se il Padre avesse il denaro, sarebbe un bel dilemma.» «Davvero. Dovrei riportare il mio rifiuto sul giornale di bordo, naturalmente. E sarei processato e potrei perdere il grado, e per tutto il resto della mia vita resterei in servizio a terra. La prospettiva mi risulta... be', insopportabile.» André si alzò. «È stata una seduta molto faticosa. Andrò a fare due passi nei boschi. Se incontrerò il Padre, gli riferirò la nostra decisione.» Anche Thu si alzò. «Prima glielo direte, meglio sarà. Chiedetegli di riattivare subito il nostro traslatore. Non ci prenderemo neppure il disturbo di filarcela nella maniera ortodossa. Ci trasleremo, e ci orienteremo dopo il salto. Basta andare via di qui.» Carmody si frugò nella tonaca, alla ricerca di una sigaretta. «Penso che andrò a parlare con Pete Masters. Potrei riuscire a mettergli in zucca un po' di buon senso. Poi mi recherò anch'io nei boschi. Ci sono ancora molte cose da sapere, qui intorno.» Fissò la figura del vescovo che usciva, e scosse tristemente il capo. «È stato molto duro, per me, mettermi contro il mio superiore» disse a Thu. «Ma Sua Eccellenza, pur essendo un grand'uomo, difetta di quella comprensione che ti viene dall'avere commesso molti peccati.» Si batté una mano sulla pancia grassa e sorrise come se tutto fosse a posto, ma non risultò molto convincente. «Non c'è soltanto del grasso, depositato qui sotto» disse. «Impacchettati solidamente, ci sono anni di esperienza, guadagnata vivendo nei bassifondi. Ricordi che sono sopravvissuto su Dante's Joy. Mi sono fatto le mie indigestioni di iniquità. Al minimo accenno, ora la rigurgito. Le dico una cosa, capitano: il Padre è carne marcia, vecchia di diecimila anni.» «Parla come se non ne fosse sicuro al cento per cento, però.» «In questo mondo di apparenze fuggevoli e in cui è carente la vera conoscenza di noi stessi, chi mai può esserlo?»
Masters era stato rimesso in libertà dopo avere promesso a Thu di non provocare altri guai. Carmody, non trovando il giovane all'interno della nave, andò fuori e lo chiamò al comunicatore da polso. Nessuna risposta. Continuando a portare con sé la borsa nera, il sacerdote si avviò nei boschi con tutta la velocità che gli permettevano le sue gambe. Fischiettando, passò sotto i rami pieni di frasche, rifece il verso agli uccelli sopra la sua testa, si fermò una volta per rivolgere seriamente un inchino a un alto uccello, simile a un airone, con una maschera di piume color viola cupo sugli occhi, poi si allontanò tenendosi la pancia per le risate quando l'uccello gli rispose con un richiamo uguale al suono di una ventosa che stappa un lavandino, infine si sedette sotto un albero per asciugarsi con un fazzoletto la faccia madida di sudore. «Signore, Signore, ci sono più cose in questo universo... Certo devi avere un gran senso dell'umorismo» disse forte. «Tuttavia, non devo dare la tua identità a un punto di vista puramente umano, commettendo l'errore antropomorfico.» Tacque, e poi disse con un tono di voce più basso, come per non farsi ascoltare neppure da Dio: «Be', perché no? Non siamo noi, in un certo senso, il centro della creazione, l'immagine del Creatore? Sicuramente anche il Signore avrà bisogno qualche volta di un sollievo, e lo troverà in una bella risata. Forse la sua risata non esce come un semplice rumore privo di significato, ma si manifesta a un livello informativo, altamente economico. Forse Egli fa scaturire una nuova Galassia, invece di farsi una spanciata di risate. O il suo risolino consiste nello spingere una specie a salire di un altro scalino nella Scala di Giacobbe dell'evoluzione, e nell'avvicinarla a uno stato più umano? «Oppure, per quanto la cosa possa parere antiquata, si concede la pura gioia di un miracolo per mostrare ai suoi figli che questo non è un universo ordinato fino all'assurdo, come un orologio. I miracoli sono la risata di Dio. Hmm, non male. Dove ho cacciato la mia agenda? Lo sapevo, in cabina. Sarebbe stata un'ottima frase per un articolo. Be', lasciamo perdere. Probabilmente riuscirò a ricordarla, e anche se non ci riuscirò, la posterità non morirà perché non gliel'ho tramandata. Ma spiritualmente saranno un poco più poveri, e...» Tacque precipitosamente, perché aveva udito le voci di Masters e della Lejeune, lì nei pressi. Si alzò e si diresse alla loro volta, chiamandoli per nome per non destare il sospetto che stesse spiandoli. Erano uno di fronte all'altra, e in mezzo a loro c'era un enorme fungo dal
cappello a frange. Kate tacque, ma Pete, con la faccia rossa come i capelli, continuò a parlare rabbiosamente, come se il sacerdote non esistesse. Agitava violentemente una mano, gesticolando, mentre l'altra mano, ferma, stringeva uria sega a ultrasuoni. «È la mia ultima parola! Non torneremo su Wildenwooly. E non pensare che io abbia paura di tuo padre, perché io non ho paura di nessuno. Certo, non sporgerà denuncia contro di noi. Può permettersi di fare il grandioso. Il Commonwealth si occuperà di incriminarci per lui. Sei così stupida da non ricordare che la legge ordina alle autorità sanitarie di prendere in custodia tutti coloro che sono sospettati di pratiche contro la salute mentale? Ormai tuo padre avrà informato Ygdrasil. Verremo arrestati non appena vi porremo piede. E tutt'e due saremo inviati a un istituto di cura. Non verremo neppure inviati insieme nello stesso posto. Non mandano mai i correi nello stesso istituto. E come potrò sapere di non averti perduto? Quelle case di riabilitazione fanno certe cose alla testa della gente, cambiano le loro idee. Potresti perdere l'amore per me. E forse la cosa sarebbe molto conveniente, per loro. Direbbero che hai acquisito un atteggiamento più sano, nello sbarazzarti di me.» Kate alzò verso di lui i grandi occhi. «Oh, Pete, questo non succederà mai. Non dire queste cose. Inoltre, il babbo non ci denuncerebbe mai. Sa che mi porterebbero via per molto tempo, e non riuscirebbe a sopportarlo. Non informerà le autorità; manderà i suoi uomini a cercarci, non la polizia.» «Ah, sì? E il telegramma ricevuto dalla Gull un momento prima che partissimo?» «Il babbo non ha parlato dei soldi. Ci avrebbero arrestati soltanto per infrazione al codice dei minorenni.» «Certo, e poi i suoi tagliagole mi avrebbero battuto a dovere e mi avrebbero gettato nei boschi. Penso che questo ti piacerebbe.» Gli occhi di Kate si riempirono di lacrime. «Per piacere, Pete, non dire queste cose, sai che ti amo più di ogni altro al mondo.» «Be', forse sì e forse no. Comunque, dimentichi che questo prete sa del denaro, e ha il dovere di denunciarci.» «Forse sarò un prete» disse Carmody «ma questo non mi classifica immediatamente come disumano. Non mi sogno neppure di denunciarvi. Sarò un ficcanaso, ma non amo mettere con malizia nei pasticci gli altri. Mi piacerebbe aiutarvi a uscire dai vostri guai, anche se in questo momento devo confessare che provo anche l'impulso di darti un pugno sul naso per il
modo con cui parli a Kate. Comunque, questo non c'entra. La cosa importante è che non ho obbligo di riferirlo alle autorità, anche se non mi è stato detto in confessione. «Ma credo invece che dovresti seguire il consiglio di Kate e tornare da suo padre per confessare tutto e per cercare di raggiungere un accordo. Forse sarà disposto a consentire al vostro matrimonio se tu gli prometterai di attendere fino al giorno in cui avrai dimostrato di potere mantenere Kate. E avrai dimostrato che il tuo amore per lei si basa su qualcosa di più che l'infatuazione sessuale. Pensa anche a cosa prova lui. La cosa lo preoccupa quanto te. Anzi, di più, perché la conosce da più tempo, la ama da più tempo di te.» «Oh, al diavolo lui e tutta la situazione!» gridò Pete. Si allontanò e andò a sedere sotto un albero, a venti metri di distanza. Kate cominciò a piangere sommessamente. Carmody le offrì il fazzoletto, dicendo: «Forse è un po' sudaticcio, ma la santità caccia via i microbi.» Sorrise della sua stessa battuta, con tanta allegria, e insieme con una tale presa in giro di se stesso, che la ragazza non poté fare a meno di sorridere a sua volta. Mentre si asciugava le lacrime, gli diede la mano da tenere. «Tu sei dolce e paziente, Kate, e sei molto innamorata di un uomo che, temo, è affetto da un carattere violento e sbrigativo. Ora, dimmi la verità, non è anche tuo padre uguale a lui? Una delle ragioni per cui sei scappata con Pete non è stata il desiderio di allontanarti da un padre troppo esigente, geloso e burbero? E da quel giorno in poi, non hai notato che Pete è talmente simile a tuo padre che hai l'impressione di avere rinunciato a un'immagine per averne il duplicato?» «Lei è molto acuto. Ma io amo Pete.» «Sì, ma dovresti tornare a casa lo stesso. Pete, se ti ama davvero, ti seguirà e cercherà di raggiungere un'intesa chiara e onesta con tuo padre. Dopotutto, devi ammettere che l'avere preso i soldi non è stato giusto.» «No» disse lei, riprendendo a piangere. «Non è stato giusto. Non voglio essere debole e dare la colpa a Pete, perché sono stata d'accordo nel prendere i soldi, anche se è stato lui a consigliarlo. L'ho fatto in un momento di debolezza. E da quel momento in poi, ho cominciato a pentirmene. Anche quando ero in cabina con lui e dovevo essere immensamente felice, il pensiero del denaro mi tormentava.» Masters si alzò in piedi di scatto e si recò verso di loro, dondolando nella mano la sega a ultrasuoni. Era un attrezzo dall'aria minacciosa, con un'imboccatura regolabile che si allargava a ventaglio dal corpo del generatore.
Ora Masters la stringeva come una pistola, con la mano sul manico e un dito sul grilletto. «Togli le zampe da lei» disse. Kate ritirò la mano che Carmody le stringeva, ma fissò con aria di sfida il fidanzato. «Non mi ha fatto del male. Mi offre finalmente della vera comprensione e del calore umano, e cerca di aiutarmi.» «Oh, li conosco, questi vecchi preti. Approfitta di te per carezzarti e pomiciarti e...» «"Vecchio"?» sbottò Carmody. «Senti, Masters, ho solo quarant'anni...» Rise. «Sei quasi riuscito a farmi saltare la mosca al naso, vero?» Si voltò verso Kate. «Se riusciremo ad allontanarci da Abatos, torna a casa da tuo padre. Io rimarrò a Breakneck per vario tempo; puoi venire a trovarmi quando vuoi, e farò del mio meglio per aiutarti.» E anche se prevedo vari anni di martirio per te, nella tua posizione tra due fuochi, cioè Pete e tuo padre, penso che tu sia fatta di fibra robusta. E strizzando l'occhio, aggiunse: «Anche se all'apparenza sembri davvero fragile, e molto bella e carezzabile e pomiciabile.» In quel momento, un daino fece il suo ingresso, trotterellando, nel piccolo spiazzo erboso. Aveva un colore rosso ruggine, punteggiato di piccole chiazze bianche dai contorni neri; i grandi occhi umidi erano neri e non contenevano paura. Giunse fino a loro col suo passo di danza e sporse il muso con curiosità verso Kate. Il daino, che come ogni altro animale del pianeta era una femmina, pareva sapere che Kate era l'unica altra femmina del gruppo. «Evidentemente si tratta di uno degli animali non condizionati a farsi uccidere dai predatori» disse Carmody. «Su, bella, vieni qui! Mi pare di avere con me dello zucchero per un'eventualità come questa, sai? Come ti chiami? Alice, credo, perché al nostro party sono tutti pazzi, anche se non prendiamo il tè come nel Paese delle Meraviglie.» Kate emise un gridolino di gioia e accarezzò il muso del daino. L'animale le leccò la mano. Pete sbuffò, disgustato. «Adesso ti metterai a baciare quella bestia.» «Perché no?» Accostò le labbra al suo naso nero e umido. La faccia di Pete divenne ancora più rossa. Con una smorfia, posò l'imboccatura della sega contro il collo dell'animale e premette il grilletto. Il daino cadde a terra, trascinando con sé anche Kate, che, troppo sorpresa, non aveva tolto le braccia dal collo dell'animale. Uno schizzo di sangue macchiò la sega, il petto di Pete e il braccio della ragazza. L'imboccatura a
ventaglio dell'attrezzo, emettendo il suo raggio di onde ultrasoniche capace di tagliare il granito, aveva forato da parte a parte il collo dell'animale. Masters fissava la forma della bestia. Ora il suo viso era mortalmente pallido. «L'ho soltanto toccato. Non volevo premere il grilletto. Devo avere tagliato la vena. Il sangue, il sangue...» Anche Carmody era pallidissimo, e aveva la voce tremante. «Fortunatamente, il daino non rimarrà morto. Ma spero che tu, la prossima volta che sarai incollerito, pensi allo spettacolo di questo sangue. Con altrettanta facilità, si sarebbe potuto trattare di sangue umano, e lo sai.» Tacque, per ascoltare. I rumori della foresta si erano spenti, sopraffatti da un'onda di silenzio, simile all'ombra di una nube. Poi comparvero la lunga falcata e gli occhi di pietra del Padre di Abatos. La sua voce si rovesciò ruggendo su di loro, come se si fossero trovati sotto una cascata. «Collera e morte nell'aria! Le sento quando le bestie da preda sono affamate. Sono accorso rapidamente, perché sapevo che questa volta non si trattava dei miei predatori. E sono accorso anche per un'altra ragione, Carmody, perché il vescovo mi ha parlato delle tue indagini e della loro erronea conclusione, e della decisione che il vescovo e il capitano hanno finito col prendere, costretti da te. Sono venuto per mostrarti come ti sia ingannato a proposito dei miei poteri, e per insegnarti l'umiltà verso x superiori.» Masters emise un grido soffocato, afferrò il braccio di Kate con la sua mano sporca di sangue e si allontanò, metà di corsa, metà incespicando, trascinando con sé la ragazza. Carmody, sebbene tremasse, non si mosse dal suo posto. «Spegni l'emissione di infrasuoni. So come riesci a creare timore e panico nel mio petto.» «Hai nella borsa il tuo apparecchio, Carmody. Controlla se gli alberi emettono qualche radiazione.» Obbedendo al suggerimento, il sacerdote aprì la borsa con le dita tremanti, e dovette ripetere per tre volte il procedimento prima di riuscire a far scattare la serratura. Girò una manopola. I suoi occhi si spalancarono per la sorpresa quando la manopola giunse a fine corsa senza che la lancetta dell'indicatore si fosse mossa. «Convinto? Non ci sono infrasuoni a quel livello, vero? E adesso... tieni d'occhio l'oscilloscopio, ma con l'altro occhio osserva me.» Il Padre raccolse dal foro dell'albero più vicino una grande manciata di
gelatina e la cosparse sull'area insanguinata del collo del daino. «Questa carne liquida chiuderà la ferita, che fortunatamente non è molto estesa, e ricostruirà le cellule guaste. La gelatina invia onde esplorative verso le parti immediatamente vicine alla ferita, ne individua la struttura, e dunque anche la struttura delle cellule mancanti o rotte, e comincia a riempire i vuoti. Ma perché ciò avvenga, è necessario che io diriga il processo di ricostituzione. E io posso, se occorre, anche fare a meno della gelatina. Non ne ho strettamente bisogno, perché il mio potere è buono, mi viene da Dio. Anche tu dovresti passare diecimila anni senza parlare con nessun altro, eccetto Dio. Allora vedresti che mi è impossibile fare altro che il bene, vedresti che scorgo il cuore mistico delle cose, ne tasto il polso come e più che se tastassi quello del mio corpo.» Aveva posto la mano sugli occhi del daino, ora velati dalla morte. Quando ritrasse la mano, gli occhi avevano nuovamente il loro colore nero e brillante, e i fianchi avevano ripreso ad alzarsi e ad abbassarsi. Dopo un poco si rimise in piedi sulle zampe, sporse il muso verso il Padre, ne fu allontanato con un gesto della mano, girò su se stesso e partì di corsa. «Forse desidererai convocare un'altra Indagine» ruggì il Padre. «Mi pare che le nuove prove lo permettano. Se avessi saputo che eri così pieno di una curiosità scimmiesca... e che le tue facoltà mentali sono sul livello delle scimmie... ti avrei mostrato con esattezza che cosa sono capace di fare.» Il gigante si allontanò maestosamente. Carmody continuò a fissare la sua figura. Scosso, ripeté a se stesso: «Ho sbagliato? Ho sbagliato? Ho mancato di umiltà, ho disprezzato troppo le facoltà di percezione di Sua Eccellenza, con la scusa che gli mancava la mia esperienza... o almeno ciò era quanto io credevo. Ho voluto leggere troppo nella sua malattia, e ne ho frainteso completamente le cause?» Trasse un profondo respiro. «Be', se ho sbagliato, lo confesserò. E lo confesserò in pubblico. Ma come mi rende piccolo, questo. Un pigmeo che corre intorno ai piedi dei giganti, cercando di farli inciampare per dimostrarsi più forte di loro.» Riprese a camminare. Soprappensiero, allungò la mano verso un ramo da cui pendevano grossi frutti simili a mele. «Hmmm. Ottimo. Questo mondo è assai comodo, come abitazione. Non sì è mai affamati, e non c'è da temere la morte. Si può diventare grassi e pigri, stare tranquilli nella terra del latte e del miele, provare l'estasi della creazione. È questo, ciò che hai sempre desiderato con una parte della tua anima, vero, John Carmody? Dio sa che sei già abbastanza grasso, e se dai
agli altri l'impressione di essere pieno di energia, questa energia, a volte, ti costa dei grandi sforzi. Devi ignorare la stanchezza, dare l'impressione di spumeggiare dalla voglia di lavorare. E i tuoi parrocchiani, certo, e anche i tuoi superiori, che pure non dovrebbero lasciarsi ingannare, prendono la tua fatica come una cosa scontata, e non si soffermano mai a chiedersi se anche tu, qualche volta, non sia stanco, o affranto o dubbioso. Qui su Abatos tutto questo non potrebbe succedere.» Gettò via la mela, senza mangiarla, e colse alcune more di colore viola da un arbusto. Brontolando tra sé, con la fronte aggrottata, le assaggiò senza distogliere gli occhi dalla figura del Padre di Abatos, dalle sue spalle ampie e dalla sua chioma fulva che si allontanavano. «Eppure...» Dopo un poco, rise tra sé. «È davvero un paradosso. John Carmody, che ti soffermi di nuovo a pensare alla tentazione dopo avere convinto il comandante Thu e il vescovo André a combatterla. Sarebbe una lezione memorabile (e tu non sarai, spero, tanto poco intelligente da non trarne profitto) se ora le tue stesse parole ti convincessero a cambiare idea. Forse te la meriti, perché non hai considerato quanto fosse forte la tentazione del vescovo, perché hai provato una punta... minima, ma pur sempre una punta... di disprezzo per lui per il fatto che fosse caduto in tentazione così facilmente, mentre tu eri riuscito a resistere così facilmente. «Ah, hai pensato di essere così forte, perché avevi accumulato nella tua pancia tanta saggezza! Ma era soltanto vento e grasso, ciò che ti riempiva, Carmody. Eri pregno di ignoranza e di orgoglio. E ora devi dar luce all'umiliazione. Anzi, all'umiltà, perché si tratta di due cose diverse, e questa dipende dall’atteggiamento di chi la prova. Che Dio ti conceda la comprensione, in modo che tu possa provare l'umiltà! «E, ammettilo, Carmody, ammettilo. Anche nel momento in cui eri traumatizzato dalla vista del daino morto, hai provato gioia perché avevi una scusa che ti permetteva di far risorgere l'animale e di provare nuovamente la cosa che, come tu sai, dovrebbe essere vietata, perché è davvero una droga e distoglie davvero la tua mente dagli affanni urgenti della tua vocazione. E anche se ti ripetevi che non lo avresti fatto risorgere, la tua voce, nel ripeterlo, era flebile, priva dell'autorità della convinzione. «Però, guardando l'altra faccia della situazione, Dio non prova forse estasi quando crea, dato che è il Sommo Artista? Non è l'estasi una parte dell'atto della creazione? E non dovremmo provarla anche noi? Però, se la proviamo ci induce a pensarci simili a Dio? Eppure, il Padre di Abatos di-
ce di sapere da dove gli vengano i suoi poteri. E se si comporta in modo superiore e distante, noli me tangere, lo si può anche scusare, dopo diecimila anni d'isolamento. Dio sa, taluni santi erano talmente strambi da essere stati martirizzati dalla stessa Chiesa che in seguito li ha posti sugli altari. «Ma è davvero una droga, questa faccenda della resurrezione. E se lo è, tu, Carmody, hai ragione, e il vescovo ha torto. Però, anche l'alcol, il cibo, l'amore per i libri e tante altre cose possono diventare una droga. Ma il loro desiderio può venire regolato, le si può usare con temperanza. Perché non si potrebbe farlo anche per la resurrezione, una volta superato il primo accesso d'intossicazione? Davvero, perché no?» Gettò via le more e staccò un frutto che pareva una banana, ma con un guscio marrone e sottile invece della buccia morbida. «Hmm. Il Padre di Abatos ha un'ottima cucina. Sa un po' di arrosto, con sugo e un pizzico di cipolla. Piena di proteine, ci giurerei. Niente di strano che il Padre possa essere così ostentatamente, sconvolgentemente maschio, così virile di apparenza, pur essendo rigorosamente vegetariano. «Ah, tu parli troppo con te stesso, John Carmody. Una brutta abitudine, che hai preso su Dante's Joy e che non hai mai lasciato, neppure dopo la Notte della tua conversione. Sono stati momenti terribili, vero, Carmody, e solo la grazia del Signore... Be', perché non stai zitto?» Bruscamente, così dicendo, si gettò dietro un cespuglio Il Padre era giunto dietro una larga montagnola che sorgeva nella foresta, spoglia a eccezione di un singolo, gigantesco albero che spuntava sulla sua cima. Il largo foro rotondo alla base del tronco ne indicava la natura, ma mentre gli altri alberi della gelatina avevano il tronco di colore marrone e le foglie di colore verde chiaro, questo aveva una corteccia bianchissima, e le foglie di un verde talmente cupo da parere nero. Attorno alle sue radici bianche, mostruosamente grandi, che si gonfiavano come onde al di sopra della superficie del terreno, c'era una vera folla di animali. Leonesse, femmine di leopardo, lupe, orse, una grossa mucca nera, un rinoceronte, un gorilla dal muso rosso, un'elefantessa, un uccello simile a un moa, capace di sbudellare un elefante con un singolo colpo di becco, una lucertola verde grande come un uomo, con una enorme cresta sul collo, e vari altri. Tutti ammassati insieme, si muovevano senza posa, ma si ignoravano a vicenda e non emettevano un solo grido. Quando scorsero il Padre, emisero un singolo ruggito, tutti insieme: un rombo cupo, che pareva uscire dal ventre. Si spostarono per fargli largo, formando un corridoio attraverso il quale il Padre avanzò.
Carmody boccheggiò per la sorpresa. La massa bianca ai piedi dell'albero, che aveva scambiato per radici esposte all'aria, erano pile di ossa: un tumulo di scheletri. Il Padre si fermò davanti a quelle ossa, si voltò, rivolse alle bestie una cantilena in una lingua ignota e agitò le mani, descrivendo una serie di cerchi, grandi e piccoli che si intersecavano. Poi si chinò e si mise a raccogliere i teschi a uno a uno, li baciò ogni volta sui denti aperti in un sogghigno, e ogni volta li rimise al loro posto, delicatamente. Durante tutto il tempo, le bestie rimasero accovacciate in silenzio, senza muoversi, come se capissero ciò che aveva detto e ciò che stava facendo. Forse, a modo loro, lo capivano davvero, perché si poteva cogliere fra loro, come quando una folata di vento passa sul pelo di un animale, il passaggio di una corrente di attesa. Carmody, aguzzando lo sguardo, mormorò: «Crani umanoidi. Della taglia del Padre di Abatos, inoltre. Che sia giunto qui con dei compagni e che essi siano morti? O che sia stato lui stesso a ucciderli? E se li ha uccisi, perché questa scena dell'amore, delle carezze?» Il Padre depose l'ultimo di quei cimeli raccapriccianti, alzò le mani verso l'alto e poi le allargò in un gesto che abbracciò tutti i cieli e che terminò sulle sue spalle. «Il Padre è venuto dal cielo? Oppure vuole dire che si identifica con il cielo, o magari con l'intero universo? Panteismo? O che?» Il Padre lanciò un grido così forte che per poco lo stesso Carmody non balzò fuori del suo riparo e non si mostrò. Le bestie ringhiarono in risposta, come un'antifona. Carmody strinse i pugni e sollevò il capo, fissando con ferocia la scena. Si sentì prendere dalla collera. Pareva lui stesso una bestia da preda, tanto era truce la sua smorfia, identica a quella degli animali che ringhiavano, riuniti sotto l'albero. Anch'essi erano stati presi dalla furia. I grandi felini soffiavano. I pachidermi barrivano. La mucca e gli orsi muggivano. Il gorilla si batteva il petto come un tamburo. La lucertola sibilava come una vaporiera. Il Padre lanciò un altro urlo. L'incantesimo che aveva tenuto a freno le belve si spezzò bruscamente. In massa, il branco si gettò sul gigante. Senza offrire resistenza, il Padre si lasciò travolgere da quel mare tumultuoso di schiene nere e pelose. Una volta, una mano s'innalzò ancora al di sopra di quella mischia urlante, e compì un gesto circolare, come se stesse ancora descrivendo i gesti immutabili di un rituale. Poi sparì nella bocca di una leonessa, e il moncherino sanguinolento cadde a terra.
Carmody aveva continuato ad agitarsi tra la polvere, con le dita piantate nell'erba, trattenendosi con tutte le sue forze dall'accorrere sulla scena del massacro per prendere parte a esso. Nel momento in cui la mano del Padre cadde a terra, Carmody si rialzò, con un'espressione assai diversa sul viso. Un'espressione di paura, e di orrore. Corse via per i boschi, piegato in due perché gli alberi lo nascondessero alla vista degli animali. Una sola volta si fermò, dietro un albero, per vomitare, poi riprese a fuggire di corsa. Dietro di lui continuava a levarsi il tuono delle bestie da preda impazzite per l'odore del sangue. L'enorme luna, percorsa da strisce verticali come quelle di un melone, si alzò a breve distanza dalla caduta della notte. I suoi raggi chiari si rifletterono sull'emisfero della Gull e sulle facce pallide delle persone raccolte ai bordi del prato. Padre John, che giungeva dall'interno della foresta, si fermò e chiese: «Che cosa è successo?» Thu si separò dal gruppo degli altri. Indicò il boccaporto principale della nave, che era aperto e lasciava uscire un rettangolo di luce. Padre John rimase senza fiato. «Lui? Di già?» La figura maestosa era ferma ai piedi della scaletta, in attesa, con l'atteggiamento di chi era disposto ad attendere pazientemente anche per altri diecimila anni. La voce di Thu, sebbene incollerita, conteneva un'ombra di dubbio. «Il vescovo ci ha tradito! Gli ha parlato della legge che ci obbliga ad accettarlo, e gli ha dato denaro per il viaggio!» «E che cosa conta di fare?» disse Carmody. La sua voce, che già normalmente era aspra, adesso era più scortese del solito. «Fare? Che cosa posso fare, oltre che prenderlo a bordo? Me lo ordina il regolamento. Se rifiutassi... se rifiutassi perderei il comando della nave. Lo sa. Il massimo che posso fare è di rimandare la partenza fino all'alba. Può darsi che il vescovo, prima di allora, cambi idea.» «Dov'è Sua Eccellenza?» «Non dia dell'”Eccellenza" a quel traditore. Se ne è andato per i boschi, a diventare un altro Padre di Abatos.» «Dobbiamo trovarlo per salvarlo da se stesso!» gridò Carmody. «La accompagno a cercarlo» disse Thu. «Per me, potrebbe andarsene al diavolo come meglio preferisce, se non fosse che i nemici della nostra Chiesa ne riderebbero. Mio Dio, addirittura un vescovo!» Pochi minuti dopo, i due uomini, provvisti di lampade portatili, trovana-
ve e pistole soniche, si addentrarono nella foresta. Andarono soltanto loro due, perché Carmody non voleva esporre il proprio vescovo all'imbarazzo di trovarsi di fronte a una folla di persone incollerite. Inoltre, pensava che fosse più facile ricondurlo alla ragione se fossero stati presenti soltanto i suoi due vecchi amici. «Ma dove diavolo si sarà cacciato?» si lamentò il capitano. «Dio, com'è scuro, qui sotto. E guardate quegli occhi. Ce ne devono essere migliaia.» «Le bestie sanno che sta per succedere qualcosa di straordinario. Ascolti, tutta la foresta pare sveglia.» «Celebrano il nuovo sovrano. Il re è morto; viva il re. Dove sarà finito?» «Probabilmente sarà andato al lago. Il posto che amava di più.» «Perché non me lo ha detto subito? Con l'elicottero ci saremmo potuti arrivare in due minuti» osservò Thu. «Questa notte gli elicotteri sono inutilizzabili.» Così dicendo, padre John diresse la luce della lampada sul proprio trovanave. «Guardi l'ago: pare impazzito. E scommetto che anche le radio da polso sono inutilizzabili.» «Pronto, Gull, Gull, rispondete... Ha ragione. Non funziona. Cristo, questi occhi fosforescenti: gli alberi ne sono gremiti. E anche le nostre pistole soniche sono inutilizzabili. Perché invece le lampade funzionano?» «Forse perché il Padre sa che permettono alle sue bestie di trovarci più facilmente. Provi a sparare un colpo con la pistola. Il detonatore è elettrico, vero?» Thu gemette di nuovo. «Non spara. Oh, averne una del vecchio tipo a percussione!» «Può ancora tornare indietro» disse Carmody. «Potremmo non uscire vivi da questi boschi, se riusciremo a trovare il vescovo.» «Che le piglia? Mi prende per un codardo? Non permetto a nessuno, uomo o prete che sia, di considerarmi tale!» «Niente affatto. Ma il suo primo dovere riguarda l'astronave, lo sa.» «E i passeggeri. Avanti.» «Ho pensato di essermi sbagliato. Ho quasi cambiato idea sul Padre» disse Carmody. «Forse usava i suoi poteri, che non dipendevano totalmente da fonti materiali, per fare del bene: così mi dicevo. Ma non ne ero certo. Perciò l'ho seguito, e poi, quando ho assistito alla sua morte, sono stato certo di avere avuto ragione, e che qualsiasi tentativo di servirsi del Padre non avrebbe causato che del male.» «La sua morte? Ma se era sulla Gull un momento fa.»
Carmody raccontò brevemente ciò che aveva visto. «Ma, ma... Non capisco. Il Padre non sopporta il contatto delle sue creature, ed esercita un perfetto controllo su di esse. Perché quell'ammutinamento? E come può essere ritornato in vita così rapidamente, soprattutto dopo essere stato fatto a pezzi? Ehi, forse c'è più di un solo Padre di Abatos, sono due gemelli, e ci ha giocato qualche tiro. O forse ha il controllo solamente di una parte degli animali. È un bravissimo domatore di leoni, e si porta dietro le sue bestie ammaestrate quando viene da noi. Ed è incappato in un gruppo di animali che non gli obbediscono.» «Ha parzialmente ragione. Per prima cosa, si è trattato di un ammutinamento, ma un ammutinamento a cui li ha spinti lui: una ribellione rituale. Io stesso ho sentito il suo comando mentale; per poco non ha spinto anche me a tuffarmi nella mischia per farlo a pezzi. Per seconda cosa, penso che sia tornato presto alla vita perché l'albero bianco è particolarmente potente e ha un'azione rapidissima. Terzo, ci ha giocato qualche tiro, certo, ma non del tipo che lei ha suggerito.» Carmody rallentò il passo: ansimava. «Ecco, ora sconto i miei peccati di gola. Dio mi aiuti, ora decido di mettermi a dieta. E farò ginnastica, una volta finita tutta questa faccenda. Mi vergogno della mia grassa carcassa. Ma cosa succederà quando sarò seduto davanti a una tavola, affamato, su cui si ammucchiano le ottime cose della vita, che furono create all'inizio dei tempi perché venissero debitamente apprezzate? Che cosa succederà?» «Potrei dirglielo io, cosa succederà, ma adesso non ho tempo per queste scempiaggini. Continui il discorso di prima» brontolò Thu. Notoriamente, il capitano della Gull non aveva mai sopportato coloro che tendono a commiserarsi alla prima occasione. «Bene. Come ho detto, si trattava chiaramente di un rito di sacrificio della propria persona. È stato appunto il fatto di saperlo, ciò che mi ha spinto alla ricerca del vescovo: ricerca che poi non ha avuto esito. Intendevo riferirgli che il Padre ha mentito soltanto a metà quando ha detto che i suoi poteri derivavano da Dio e che venerava Dio. «Il Padre di Abatos venera un dio, certo. Ma il suo dio è egli stesso! Nel suo grandissimo egoismo rassomiglia alle antiche divinità pagane della Terra, delle quali si diceva che avevano ucciso se stesse e poi, dopo avere compiuto in tal modo il sacrificio estremo, si erano fatte risorgere. Odino, per esempio, che si era impiccato.» «Ma il Padre non può averne sentito parlare. Perché dovrebbe imitare queste divinità?»
«Non occorre che conosca i miti della Terra. Dopotutto, ci sono certi riti e certi simboli religiosi che sono universali, che sono nati spontaneamente su cento pianeti diversi. Il sacrificio a un dio, la comunione con un dio, compiuta cibandosi delle sue carni, le cerimonie della semina e del raccolto, il concetto di essere un popolo eletto, i simboli del cerchio e della croce. Il Padre può quindi avere preso l'idea dal proprio mondo. O può esserselo immaginato da solo, come il più alto atto di cui fosse capace. L'uomo deve avere una religione, anche se questa si riduce a venerare se stesso. «Inoltre, non dimentichiamo che il suo rituale, come tanti altri, unisce l'aspetto religioso a quello pratico. Il Padre ha diecimila anni, e ha conservato la propria longevità recandosi di tanto in tanto all'albero della gelatina. Ha pensato che, partendo con noi, gli sarebbe occorso un certo tempo prima di avere un altro albero su un mondo diverso. E un trattamento di ringiovanimento fa parte integrante del processo di ricreazione, deve sapere. I depositi nel sistema vascolare, i depositi di grasso nelle cellule cerebrali, le altre degenerazioni che danno la vecchiaia, sono lasciate fuori del processo. Si emerge freschi e giovani dagli alberi.» «E i teschi?» «Non occorre l'intero scheletro per la ricreazione, anche se di solito lo si mette tutto nella cavità. Basta una scheggia d'osso, perché ogni cellula dell'organismo contiene l'intero schema genetico. Vede, avevo trascurato di riflettere su un particolare. Si trattava del problema degli animali condizionati a lasciarsi uccidere dai carnivori: come si sono potuti condizionare a lasciarsi uccidere? Se la loro carne ricresce intorno alle ossa in base al solo schema dei loro geni, allora l'animale non ha alcun ricordo della propria vita precedente. E il suo sistema nervoso non può avere acquisito il riflesso condizionato. Ma invece questi animali rinascono con i loro riflessi. Evidentemente, la gelatina deve anche riprodurre tutti i contenuti del sistema nervoso. E come fa? Secondo me, nel preciso istante della morte, il deposito di gelatina più vicino registra la completa emissione di onde da parte delle cellule, compreso il complesso di onde irradiato dalle catene molecolari della memoria. E poi le riproduce. «Così, i teschi del Padre restano fuori, e quando lui risorge, viene accolto dalla loro vista, che per lui è una vista assai gradevole. Ricorda che li ha baciati durante il sacrificio. In questo modo, ha mostrato il proprio amore per se stesso. La vita che bacia la morte, perché sa di averla vinta.» «Ugh!» «Sì, ed è proprio ciò che succederà in tutta la Galassia se il Padre si al-
lontanerà da questo pianeta. Anarchia, una sanguinosa battaglia finché non rimarrà che una sola persona su ciascun pianeta, e poi il ristagno, la fine della vita senziente quale noi ora la conosciamo, più nessuno scopo da raggiungere... Ecco, vedo davanti a noi il lago!» Carmody si fermò dietro un albero. André era fermo sulla riva e volgeva loro la schiena. Aveva la testa piegata in avanti, come se pregasse o meditasse. O se provasse dolore. «Vostra Eccellenza» mormorò il sacerdote, uscendo dal riparo dell'albero. André sobbalzò per la sorpresa. Poi le sue mani, che evidentemente erano giunte sul petto, si allargarono ai lati. Ma non si voltò. Trasse un profondo respiro, piegò le ginocchia e si tuffò nel lago. Carmody gridò: «No!» e si tuffò a sua volta, di pancia, Thu, che non gli era molto distante, si fermò sul bordo. Si mise a sedere sull'erba, mentre le piccole onde causate dal tuffo dei due religiosi si allargavano, diventavano grandi cerchi di luce lunare sulla superficie del lago. Si tolse la giacca e le scarpe, ma per il momento non si tuffò. Poi una testa ruppe la superficie delle onde e si udì un lungo sibilo, quando trasse un profondo respiro. Thu gridò: «Carmody? Il vescovo?» La testa affondò nuovamente. Thu si tuffò nell'acqua, scomparve sotto la superficie. Passò un minuto. Poi tre teste emersero simultaneamente. Dopo un poco, il capitano e il piccolo sacerdote furono sulla riva, intenti a respirare profondamente, curvi sulla forma immobile del vescovo. «Mi ha respinto» disse Carmody con la voce roca, mentre il suo petto si alzava e si abbassava rapidamente. «Ha cercato di spingermi via... Così, gli ho messo... i pollici dietro le orecchie... all'attaccatura della mascella... e ho spinto... ha perso i sensi, ma non so se ha respirato dell'acqua... o se sono stato io a farlo svenire... o tutt'e due le cose... non è il momento di perdere tempo a parlare...» Il sacerdote mise il vescovo a pancia in giù, gli girò la testa da un lato e si posizionò sopra di lui. Spingendogli le spalle con le palme, cominciò a premere e a rilasciare, in modo che l'acqua gli uscisse dai polmoni e vi entrasse l'aria. «Come ha potuto fare una cosa simile?» disse Thu. «Come ha potuto, lui, una persona nata e cresciuta nella fede, un vescovo consacrato e amato, come ha potuto tradirci? Chi l'avrebbe mai pensato? Guardi cosa ha fatto per la Chiesa su Lazy Fair, era un grand'uomo. E come ha potuto, sapendo cosa significa il suo atto, tentare di uccidersi?» «Chiuda quella maledetta bocca!» rispose Carmody seccamente. «È mai
stato esposto, lei, alle sue tentazioni? Cosa ne sa dei suoi tormenti? Smetta di giudicarlo. Si renda utile, piuttosto. Mi dia il tempo con il suo orologio, affinché possa fargli la respirazione artificiale in modo più regolare. Ecco. Uno... due... tre...» Quindici minuti più tardi, il vescovo era in grado di mettersi a sedere e di tenersi la testa fra le mani. Thu si era allontanato un poco e poi si era fermato in disparte, volgendo le spalle ai due religiosi. Carmody si inginocchiò e disse: «Pensa di poter camminare, ora, Eccellenza? Dovremmo uscire da questa foresta il più presto possibile. Sento come un pericolo nell'aria.» «C'è più che il solo pericolo. C'è la dannazione» disse André, debolmente. Si alzò in piedi e per poco non cadde; venne sorretto dalle mani forti dell'altro. «Grazie. Andiamo. Ah, amico mio, perché non mi hai lasciato sprofondare e morire sul fondo del lago, dove il Padre non avrebbe mai trovato le mie ossa, e dove nessuno avrebbe mai saputo della mia caduta dalla grazia?» «Non è mai troppo tardi, Eccellenza. Il fatto che abbia rifiutato il suo baratto e che il rimorso l'abbia spinta a...» «Sbrighiamoci a tornare prima che sia troppo tardi. Ah, sento la scintilla di un'altra vita che rinasce. Tu sai com'è, John. Si accende e cresce e divampa finché ti riempie tutto il corpo, e ti senti scoppiare di fuoco e di luce. Questa è fortissima. Dev'essere in un albero qui vicino. Trattienimi, John. Se mi vedi colto da un altro attacco, trascinami via, per quanto io possa lottare. «Tu hai provato ciò che io ho fatto, e mi pari abbastanza forte da resistere, ma io ho lottato contro qualcosa di simile per tutta la vita, e non l'ho mai rivelato a nessuno, l'ho perfino negato nelle mie preghiere... e questa è la cosa peggiore che avrei potuto fare... finché il corpo, punito per troppo tempo, ha preso il sopravvento e si è espresso sotto forma della mia malattia. E ora ho paura che... Svelto, svelto!» Thu afferrò il gomito di André e aiutò Carmody a spingerlo avanti, nell'oscurità rischiarata solamente dalla lampada portatile del sacerdote. Sulle loro teste c'era un intrico compatto di rami. Qualcosa tossì. I tre uomini si fermarono, come impietriti. «Il Padre?» bisbigliò Thu. «No. Un suo rappresentante, temo.»
Venti metri più in là, davanti a loro, in mezzo al passaggio, c'era un leopardo, accovacciato per terra: maculato e con ciuffi di pelo sulle zampe, due quintali e mezzo pronti a balzare. I suoi occhi verdi sbatterono, e le pupille si strinsero alla luce della lampada. D'improvviso si alzò e avanzò lentamente verso di loro. Si muoveva con una ridicola mescolanza di grazia felina e di tremolio da eccessiva ciccia. In un altro momento si sarebbero messi a ridere di quella creatura, del grasso che inguainava i suoi muscoli d'acciaio e del ventre gonfio e dondolante. Ma ora nessuno si sentì di ridere, perché quella bestia poteva farli a pezzi... e forse li avrebbe davvero fatti a pezzi. D'improvviso la coda dell'animale, che prima oscillava piano, si drizzò. L'animale ruggì una volta, poi balzò contro padre John, che si era messo davanti a Thu e ad André. Padre John lanciò un grido. La sua lampada volò nell'aria e finì tra gli arbusti. Il grosso felino emise un gemito e saltò via. Si udirono due suoni: quello di un grosso corpo che spezzava i rami e gli arbusti, e la voce di padre John che lanciava pittoresche bestemmie, non perché intendesse davvero bestemmiare, ma perché provava un grande sollievo. «Che è successo?» chiese Thu. «E che cosa fa, lì in ginocchio?» «Non prego: pregherò dopo. Quella torcia elettrica si è spenta, e non riesco a trovarla. Si metta anche lei in ginocchio e mi aiuti, si dia da fare. Si sporchi le mani una buona volta; non siamo a bordo di quella sua maledetta nave.» «Che cosa è successo?» «Ho fatto come un topo con le spalle al muro» borbottò Carmody. «Ho restituito il colpo. Per pura disperazione ho colpito con un pugno, e per caso ho colpito la bestia sul naso. Anche se l'avessi preparato, non avrei potuto fare di meglio. Quelle bestie da preda sono grasse e pigre e vigliacche, dopo diecimila anni di dolce vita a divorare prede condizionate. Non hanno un vero coraggio. La resistenza le spaventa. Anche questa non avrebbe attaccato se il Padre non l'avesse spinta a farlo, ne sono certo. Non è così, Eccellenza?» «Sì. Il Padre mi ha mostrato come controllare ogni animale di Abatos, in qualunque punto del pianeta. Finora non sono abbastanza allenato per riconoscere i singoli individui quando sono fuori vista e per trasmettere comandi mentali, ma posso farlo a distanza ravvicinata.» «Oh, ho trovato la maledetta torcia.» Carmody accese la lampada e si alzò in piedi. «Allora, mi sbagliavo a
pensare che il mio debole pugno avesse scacciato quel mostro? È stato lei a instillare in lui il panico?» «No. Ho cancellato le onde mentali del Padre e ho lasciato che l'animale facesse da sé. Troppo tardi, naturalmente... una volta cominciato un attacco, l'istinto stesso lo spinge a continuarlo. Dobbiamo la sua fuga al tuo coraggio.» «Se il mio cuore la smettesse di battere a precipizio, anch'io potrei credere al mio coraggio. Be', possiamo andare. Vostra Eccellenza si sente meglio?» «Posso reggere qualunque passo tu voglia scegliere. E non servirti del titolo. L'atto di oppormi alla decisione del Consiglio d'Indagine costituisce automaticamente le mie dimissioni. Lo sai.» «So soltanto ciò che mi ha detto il capitano Thu a proposito delle affermazioni del Padre.» Continuarono a camminare. Di tanto in tanto, Carmody illuminava il sentiero alle loro spalle. E questo gli mostrò che il leopardo o una delle sue sorelle li seguiva a distanza di una quarantina di metri. «Non siamo soli» disse. André non rispose, e Thu, che non aveva capito il senso di quelle parole, si mise a pregare a voce bassissima. Invece di chiarirgli la cosa, Carmody disse solo di affrettarsi. D'improvviso l'ombra della foresta si ritirò di fronte al chiarore della luna. C'erano ancora molte persone sul prato, ma erano lontane dalla foresta, e si raggruppavano tutte sotto la curva della nave. Il Padre non era visibile. «Dov'è il Padre?» chiese Carmody. Dall'altra parte del prato gli rispose l'eco delle proprie parole, seguito subito dalla comparsa del gigante sulla soglia del boccaporto principale. Il Padre si curvò per uscire e poi scese a terra. Lì riprese la sua immobile vigilanza. André mormorò: «Dammi la forza.» Carmody si rivolse al capitano: «Deve operare una scelta. Faccia ciò che la sua fede e la sua intelligenza le consigliano come migliore corso di azioni. Oppure obbedisca alle regole della Saxwell e del Commonwealth. Allora, cosa decide?» Thu era rigido e silenzioso, sprofondato nei propri pensieri come se fosse una statua di bronzo. Senza aspettare una risposta, Carmody si avviò verso la nave. Giunto a metà del prato, si fermò e sollevò i pugni, gridando: «Non serve, Padre, provare con noi quel trucco del panico! Sapendo che cosa fai, e come lo fai, possiamo vincerlo, perché siamo uomini!» Le sue parole non giunsero alle persone radunate accanto alla nave, che
urlavano e si spingevano per salire gli scalini che li avrebbero portati all'interno della nave. Il Padre doveva avere evocato una vera barriera di onde dagli alberi che li circondavano: un'emissione assai più potente di quelle usate fino a quel momento. Colpì come un'onda di marea, trascinando ogni cosa innanzi a sé. Ogni cosa, tranne Carmody e André. Perfino Thu ne fu vinto e corse verso la Gull. «John» gemette il vescovo. «Mi spiace. Ma non posso sopportarlo. E non mi riferisco agli infrasuoni. No. Parlo del tradimento. L'avere riconosciuto quello che ho sempre cercato di vincere fin dal mio ingresso nell'età adulta. Non è vero che quando vedi per la prima volta la faccia del tuo ignoto nemico tu abbia già vinto per metà la battaglia. Non lo sopporto. Il bisogno che provo di quella esecrabile comunione... Mi spiace, credimi. Ma devo...» Si voltò e ritornò di corsa nella foresta. Carmody lo rincorse, urlando, ma le sue corte gambe non potevano uguagliare le lunghe falcate dell'altro. Davanti a lui, dall'oscurità, si udì un ruggito. Un urlo. Silenzio. Senza esitare, il sacerdote corse avanti, con il raggio della lampada puntato davanti a sé. Quando vide il grosso felino accovacciato sulla figura inerte, intento a lacerare con una zampa pelosa il ventre della vittima, urlò di nuovo e lo assalì. Soffiando, il leopardo inarcò la schiena, parve pronto ad alzarsi sulle zampe posteriori e a colpire l'uomo con le zampe sporche di sangue, poi ruggì, si voltò e balzò via. Era troppo tardi. Questa volta non si poteva rianimare il vescovo. A meno che non lo si mettesse in un... Carmody rabbrividì, sollevò sulle braccia la forma inerte, e si avviò incespicando per il prato. Il Padre venne verso di lui. «Dammi il corpo» tuonò la voce. «No! Non lo metterai nel tuo albero. Lo riporto alla nave. Quando saremo a casa gli daremo una degna sepoltura. E potresti anche smettere di trasmettere il tuo panico. Sono arrabbiato, non spaventato. E ce ne andremo nonostante te, e non ti porteremo con noi. Perciò, fa' pure del tuo peggio!» La voce del Padre divenne più sommessa. Aveva un tono triste e perplesso: «Tu non mi capisci, uomo. Sono salito sulla tua nave e sono entrato nella cabina del comandante e ho provato a sedere su una sedia che era troppo piccola per me. Mi sono dovuto sedere sul pavimento freddo e duro, e, mentre attendevo, ho pensato alla prospettiva di ritornare nello spazio vastissimo e vuoto, e di rivedere tutti i numerosi mondi strani e scomodi, così sottosviluppati da dare il voltastomaco. Mi pareva che le pareti
fossero troppo strette e che stessero crollando su di me. Che stessero per schiacciarmi. Bruscamente, ho capito che non avrei sopportato la loro vicinanza neppure per un istante, e che, anche se il viaggio sarebbe durato poco, presto mi sarei trovato in altre stanze troppo piccole. E ci sarebbero stati moltissimi pigmei che mi sarebbero sciamati intorno, schiacciandosi l'uno con l'altro, e forse schiacciando anche me, per il desiderio di guardarmi a bocca spalancata e di toccarmi. Milioni di loro, e tutti avrebbero cercato di mettere su di me le loro mani piccole, sudice e pelose. E ho pensato ai pianeti gremiti di femmine impure, pronte a figliare da un momento all'altro con tutte le immondezze associate. E i maschi pazzi per la fregola di far loro fare figli. E le orride città puzzolenti di rifiuti. E i deserti che sporcano quei mondi trascurati, il disordine, il caos, l'incertezza. Sono stato costretto a uscire un momento a respirare l'aria di Abatos, chiara e sicura. Fu in quel momento che il vescovo comparve dal bosco.» «Eri atterrito al pensiero del cambiamento. Potrei anche provare pietà per te, se non fosse per ciò che hai fatto a lui» disse Carmody, indicando col capo la forma che reggeva fra le braccia. «Non voglio la tua pietà. Dopotutto, io sono il Padre. Tu sei un uomo che cadrà in polvere per sempre. Ma non biasimare me. André è morto a causa di ciò che era, e non per causa mia. Chiedi al suo vero padre perché non gli ha dato amore, oltre che percosse, e perché lo faceva vergognare di sé senza spiegargli perché si dovesse vergognare, e perché gli ha insegnato a perdonare agli altri, e mai a se stesso. «Ma basta con queste cose. Dammelo. Mi piaceva, riuscivo quasi a sopportare il suo tocco. Lo risolleverò, perché mi faccia da compagno. Anch'io amo parlare a qualcuno che mi possa capire.» «No» disse Carmody. «André ha fatto la sua scelta. Confidava che io mi prendessi cura di lui, lo so. Lo amavo, anche se non sempre approvavo le sue azioni o la sua natura. Era un grand'uomo, pur con le sue debolezze. Nessuno di noi può dire nulla contro di lui. Via di qua, prima che commetta quella violenza che tu dici di temere tanto, ma che non ti impedisce di inviare bestie selvagge a compiere la tua volontà. Via!» «Tu non capisci» disse il gigante, tirandosi la barba con una mano. Gli occhi neri spruzzati d'argento lo fissarono con durezza, ma la mano non si sollevò contro Carmody. In meno di un minuto, il sacerdote portò il suo fardello all'interno della Gull. Il portello si chiuse piano, ma definitivamente, alle sue spalle. Qualche tempo dopo, il capitano Thu, terminati i suoi doveri relativi alla
traslazione della nave, entrò nella cabina del vescovo. Nella cabina c'era Carmody, inginocchiato accanto al letto dove giaceva la salma. «Ho fatto tardi perché ho dovuto allontanare dalla signora Recka la bottiglia e chiudere la stessa signora Recka in cabina per qualche tempo» spiegò. Fece una pausa, poi aggiunse: «Per favore, non pensi che ce l'abbia con lui. Ma quel che è giusto è giusto. Il vescovo si è ucciso, e non merita sepoltura in terra consacrata.» «Come fa a dirlo?» chiese Carmody, con la testa sempre china e quasi senza muovere le labbra. «Non voglio mancare di rispetto ai morti, ma il vescovo aveva il potere di controllare le bestie, e deve avere ordinato a quell'animale di ucciderlo. È stato un suicidio.» «Dimentica le onde di panico che il Padre ha fatto sollevare: avevano lo scopo di farci correre all'astronave, ma devono avere scosso tutti gli animali della zona. Il leopardo può avere ucciso il vescovo semplicemente perché bloccava la sua strada. Come possiamo saperlo? «Inoltre, Thu, non dimentichi un'altra cosa. Il vescovo potrebbe essere un martire. Sapeva che l'unica cosa che avrebbe costretto il Padre a rimanere su Abatos era la sua morte. Il Padre non avrebbe sopportato l'idea di lasciare il proprio pianeta senza un Padre. Tra di noi, André era l'unico che avrebbe potuto prendere il posto da lui lasciato. In quel momento André non poteva sapere, naturalmente, che il Padre aveva cambiato idea perché era stato colto da claustrofobia. «Il vescovo sapeva soltanto che la sua morte avrebbe incatenato il Padre su Abatos e avrebbe lasciato liberi noi. E se si è ucciso volontariamente per mezzo del leopardo, questo non gli toglie la qualifica di martire. Ci sono donne che hanno preferito la morte al disonore e che per questo sono state fatte sante. «Non potremo mai conoscere i veri motivi di André. Lasceremo a un Altro la conoscenza di questi motivi. «E per quanto riguarda il padrone di Abatos, il sentimento da me provato contro di lui era giusto. Nulla di ciò che ci ha detto era vero, ed è altrettanto vile quanto tutte le sue bestie grasse e pigre. Non è un dio. È il Padre, sì, ma... delle Menzogne.» PARTE SESTA Notte di luce (II)
«E così dovrei ritornare su Kareen?» disse padre John Carmody. «Dopo ventisette anni!» Era rimasto tranquillamente a sedere mentre il cardinale Faskins gli spiegava quel che gli chiedeva la Chiesa, ma adesso non poté più stare fermo. Rimanendo seduto sulla poltrona e si raddrizzò di colpo, alzando e abbassando le braccia come per volare; un gesto che tradiva il suo desiderio di fuggire, lontano dal cardinale e da tutto quello che il cardinale rappresentava. Poi si alzò e si mise a passeggiare nervosamente avanti e indietro. Apriva e serrava le mani dietro la schiena, le portava improvvisamente davanti allo stomaco. Senza alzarsi dalla sua poltrona, il cardinale Faskins voltò la testa verso di lui. I suoi occhi verdi fissavano Carmody dall'alto del nasone a uncino, e la sua testa si muoveva a destra e a sinistra per osservarlo. Era un vecchio falco che studiava la preda per approfittare della prima occasione. La sua faccia era piena di rughe e i suoi capelli erano bianchi: già da tempo non prendeva più il siero della longevità, e i suoi centoventisette anni incominciavano a farsi notare. A un tratto Carmody si fermò davanti al cardinale. Corrugò la fronte e sbottò: «Ma ci sono solo io che posso compiere questa missione?» «Tu sei quello che può compierla meglio» puntualizzò Faskins. Si mise più comodo e posò le mani sui braccioli della poltrona come se volesse alzarsi e gettarsi in una mischia. «Ti ho già spiegato che è una cosa urgente» continuò «e non c'è bisogno che te lo ripeta, sei una persona intelligente. E sei anche fedele alla Chiesa. È per questo che ti tenevo gli occhi addosso per farti vescovo.» Il sacerdote raccolse e valutò rapidamente il rimprovero sottinteso da quelle parole. Sapeva che la sua decisione di risposarsi, quando la Chiesa aveva dato la dispensa dal celibato ecclesiastico, aveva addolorato il cardinale. Per molto tempo Faskins aveva lottato per dargli la diocesi del pianeta Wildenwooly. Aveva dovuto combattere una dura battaglia contro chi sosteneva che i modi usati da Carmody per diffondere il messaggio di Cristo erano poco ortodossi. Non che qualcuno dubitasse della sua fede, tutt'altro, ma il suo modo di agire, un po' troppo sbrigativo, destava perplessità. Era decoroso che un tale "eccentrico" e questa era una delle parole più gentili usate per definirlo ricevesse la mitra vescovile? E poi, quando Faskins era quasi riuscito a farlo accettare, Carmody si era sposato, e con questo si era chiuso la possibilità. E le perplessità dei suoi
avversari avevano trovato giustificazione. Ma il cardinale non gli aveva mai rivolto una sola parola di rimprovero. Pensando a questi retroscena, John Carmody si chiedeva se il cardinale non stesse per caso usando il suo "tradimento" per fare leva su di lui. O era lui stesso che si sentiva colpevole, e che si inventava l'ostilità di Faskins per non ammetterlo? Faskins lanciò uno sguardo all'orologio sulla parete: «Hai due ore per prepararti» gli disse. «Faresti meglio a incominciare subito, se vuoi arrivare in tempo allo spazioporto.» Tacque, e il suo sguardo rimase fisso sulle lancette. Carmody rise, e disse: «E cos'altro posso fare? Lei non mi dà nessun ordine, mi dice solo che devo offrirmi volontario. Bene, allora mi offro: lei lo sapeva già. E mi metto a fare i bagagli. Ma dovrò dirlo ad Anna. Le faremo una bella sorpresa!» Faskins, a disagio, disse: «La vita del sacerdote non è tutta rose e fiori. Tua moglie lo sapeva in partenza.» «Lo so anch'io che ne era al corrente!» esclamò Carmody. «Mi ha riferito il discorso che lei le ha fatto quando ho chiesto la dispensa per sposarla. Le ha fatto un ritratto davvero incoraggiante del matrimonio con un sacerdote!» «Mi spiace, John» replicò il cardinale con un sorriso quasi impercettibile «ma la realtà non è sempre rosea.» «Certo, e lei è famoso per parlare poco; Faskins il Taciturno, la chiamano. Ma quando ha parlato ad Anna non la finiva più.» «Mi spiace ancora.» «Lasciamo perdere» disse Carmody «è acqua passata. Ma non mi preoccupo delle reazioni di Anna. Il mio solo rimpianto è di non averla sposata prima. Lei lo sa, cardinale: sono stato io a battezzarla, e Anna è sempre vissuta nella mia parrocchia.» Esitò, poi proseguì: «E inoltre adesso aspetta un bambino. Ecco la ragione per cui preferirei non lasciarla sola.» Il cardinale non disse nulla. Carmody mormorò: «Mi scusi. Mi preparo in dieci minuti. Telefono ad Anna e le dico di venire a casa. Verrà allo spazioporto con noi.» Il cardinale si alzò allarmatissimo: «È meglio che ti lasci, John. Voi due avrete bisogno di stare soli, e gli unici momenti disponibili sono il tragitto da qui allo spazioporto.» «Niente da fare» disse il sacerdote. «Lei deve soffrire insieme a me. E
poi non ho nessuna intenzione di stare solo: Anna può accompagnarmi fino a Springboard. Lì ci sarà da aspettare l'astronave per Kareen e potremo stare soli. Ma adesso lei viene insieme a mia moglie e me!» Il cardinale scosse la testa e allargò le braccia, rassegnato. Carmody gli versò un altro bicchiere di liquore e andò a prepararsi. Prese una valigia e la posò sul letto: una sola valigia gli era più che sufficiente, ma Anna avrebbe certamente insistito per prendere due valigie grandi, anche se il viaggio era breve. Sua moglie preferiva viaggiare con una scorta di vestiti per tutte le occasioni. Prese altre due valigie per lei e schiacciò un piccolo pulsante sul comunicatore che portava al polso. Lo schermo si illuminò ed emise un lieve ronzio. Continuò a fare le valigie: Anna avrebbe risposto subito e non voleva perdere tempo. Ma quando ebbe finito incominciò a preoccuparsi: erano già passati dieci minuti. Si avvicinò al telefono sul comodino e chiamò la signora Rougon. La donna venne immediatamente all'apparecchio, e quando vide Carmody la sua faccia rotonda si schiarì: «Padre John! Stavo proprio per chiamarla! Voglio dire Anna. Doveva finire le compere e venire qui mezz'ora fa. Pensavo se ne fosse dimenticata e fosse già a casa.» «No, non l'ho ancora vista» rispose Carmody, e le spiegò che non riusciva a trovarla. «Forse si è tolta il comunicatore e si è dimenticata di rimetterselo. Lo sa anche lei, padre, che ogni tanto è un po' distratta, e specialmente adesso che pensa al bambino. Oh, mio Dio, Alice piange! Devo andare! Mi telefoni appena trova Anna. Se viene qui le dico di chiamarla.» Carmody telefonò subito al negozio di confezioni dove era andata sua moglie. La signora Carmody era già uscita da un quarto d'ora, gli disse il commesso. «Ha detto dove andava?» chiese Carmody. «Sì, padre. Passava un momento dall'ospedale. Voleva andare a trovare il signor Augusta, ha detto che da quando ha avuto l'incidente non migliora.» Carmody respirò di sollievo e ringraziò. Chiamò l'ospedale ed ebbe subito risposta. Vedendo sullo schermo il fondatore dell'ospedale, la telefonista sembrava leggermente in soggezione. «La signora Carmody è uscita cinque minuti fa, padre. No, non ha detto dove andava.» Carmody richiamò la signora Rougon. «Mi spiace, ma dovrete rinuncia-
re alla vostra conversazione. Dica a mia moglie di telefonarmi appena arriva. È una cosa molto importante.» Chiuse la comunicazione, ma non era per niente soddisfatto. Perché non riusciva a parlare per comunicatore? Che fosse guasto? Forse, ma era improbabile. Un comunicatore da polso non si logorava mai, e non aveva parti mobili che potessero guastarsi: lo si poteva rompere solo con una martellata. Ma lo si poteva dimenticare in giro: forse la signora Rougon aveva ragione, forse Anna se lo era tolto per lavarsi le mani, anche se l'apparecchio resisteva all'acqua, ai detersivi e anche agli ultrasuoni. E poi si era dimenticata di rimetterselo. C'era anche la possibilità che lo avesse rubato un ladro: c'era sempre qualcuno che si ostinava a rubare, per qualche suo motivo; anche su quel pianeta dove il benessere era diffuso. Ritornò alle valigie. Anna non avrebbe approvato né la sua scelta di abiti né il modo con cui li metteva via in fretta e furia, ma non c'era il tempo di trastullarsi con il guardaroba. Riempita la prima valigia, incominciava a preparare la seconda quando sentì suonare il telefono. Lasciò cadere il vestito che teneva in mano, passò in fretta il palmo sullo schermo per attivare il ricevitore e accostò il volto, anche se non ce n'era bisogno. Preferiva stare vicino alle persone con cui parlava, e soprattutto voleva stare vicino ad Anna. Sullo schermo apparve un poliziotto. A Carmody si bloccò il fiato per la sorpresa, sentì un nodo allo stomaco come se l'avesse colpito un pugno. «Sergente Lewis, padre» disse l'uomo. «Mi spiace... ma devo darle una brutta notizia... riguardo a sua moglie.» Carmody era senza parole. Guardava la larga faccia del sergente Lewis e intanto osservava una cosa del tutto irrilevante: un moschino che gli volava intorno alla testa. Non ce ne libereremo mai, pensava. Il XXIII secolo ci mette a disposizione tutte le risorse della scienza, ma i moschini e tutti gli altri piccoli insetti striscianti e fastidiosi continuano a moltiplicarsi, e ci disturbano a dispetto di tutti i nostri sforzi. «... lo scoppio ha cancellato il tatuaggio e non possiamo procedere al riconoscimento ufficiale, anche se il viso è rimasto intero e alcune persone che erano lì vicino l'hanno riconosciuta» diceva il sergente. «Sono davvero spiacente, ma deve venire qui a riconoscerla.» «Cosa?» chiese Carmody, ma poi le parole del poliziotto andarono a posto. Anna aveva lasciato l'ospedale con la sua auto. Pochi isolati dopo, era scoppiata una bomba, nascosta da qualcuno sotto il sedile. Era rimasta solo
la parte superiore del corpo ed era andato distrutto anche il braccio, se non c'era più il tatuaggio di identità. Carmody disse: «Grazie, sergente. Verrò subito.» Si allontanò dal telefono e ritornò nella sala. Il cardinale, vedendo il suo volto pallido e il suo aspetto desolato, fece un balzo dalla poltrona e mandò in terra il bicchiere. Carmody riferì tristemente l'accaduto, e in quel momento il cardinale pianse. Da quella volta in poi, quando si riprese dallo shock, Carmody ebbe la prova di quanto fosse profondo l'affetto del cardinale per lui: tutti quelli che lo conoscevano erano convinti che da Faskins si potessero cavare meno lacrime che da un osso vecchio. Per quel che riguardava lo stesso Carmody, non piangeva; in lui non funzionava più nulla: solo le gambe e le braccia e, a tratti, la voce. «Ti accompagno» disse il cardinale. «Ma prima lasciami chiamare lo spazioporto per cancellare il tuo viaggio.» «No» disse Carmody. Ritornò in camera da letto e prese la valigia. Diede un'occhiata alle altre due, una chiusa e una aperta, e uscì dalla stanza. Il cardinale lo guardava senza dire nulla. «Il mio dovere è andare» disse Carmody. «Non sei in condizioni di compierlo.» «Lo so. Ma riuscirò a esserlo.» Si sentì suonare alla porta. Entrò il dottor Apollonios con in mano la valigetta del pronto soccorso. Disse: «Mi spiace, padre.» Estrasse una compressa: «Tenga, questo le servirà.» Carmody scosse la testa: «Posso farcela con i miei mezzi. Chi è stato a telefonare?» «Gli ho detto io di venire» disse Faskins. «Penso che faresti bene a prendere quella compressa.» «La sua autorità su di me non arriva fino al punto di prescrivere medicinali» rispose Carmody. Si sentì un suono di carillon. Carmody posò la valigia e si avvicinò alla parete. Aprì uno sportellino e ne trasse un piccolo cilindro lungo e stretto. «La posta» disse, senza parlare a nessuno in particolare. Controllò se c'era qualche messaggio registrato, ma la luce rossa era spenta. Mise la lettera in tasca e ritornò alla sua valigia. Mentre viaggiavano diretti all'obitorio, il cardinale parlò con Carmody: «Non avevo il coraggio di chiedertelo, John. Ma visto che ti sei offerto tu, non ho nulla da aggiungere. Anna...» «... è solo un essere umano» continuò Carmody per lui «e il destino di miliardi d'altri dipende da me. Sì, lo so.»
Il cardinale disse che non sarebbe più partito nel pomeriggio, come credeva prima. Doveva ritornare subito a Roma, ma si sarebbe fermato per il funerale di Anna. Avrebbe pensato lui a tutto, anche alla polizia. Una volta arrivato su Kareen, Carmody avrebbe avuto le notizie e i risultati dell'inchiesta, per lettera o da un suo inviato. «La polizia» disse turbato Carmody. «Mi chiedo chi possa odiarmi al punto da uccidere mia moglie: Anna non aveva nemici. Ma non c'è pericolo che la polizia mi fermi per interrogarmi e mi faccia perdere l'astronave?» «Ci penso io» lo assicurò Faskins. Più tardi, Carmody compì tutte le formalità senza accorgersene. Alzò il lenzuolo senza emozione e senza dolore e osservò per un attimo il volto annerito, la bocca spalancata. Ripeté al capitano della polizia le cose che aveva già detto al cardinale. No, non aveva idea di chi avesse messo la bomba. Qualcuno era tornato da un passato che Carmody sperava cancellato per sempre, e gli aveva tolto la sua Anna. I due religiosi presero un taxi per lo spazioporto. Oltrepassarono gli uffici dell'ordine di san Giairo su Wildenwooly. Ventitré anni prima, la costruzione era alla periferia di una piccola cittadina, ma adesso era nel centro della grande capitale del pianeta. Dove c'erano stati edifici di due piani, adesso sorgevano dozzine di grattacieli. E se allora bastavano venti minuti per attraversare a piedi la città, adesso un uomo poteva camminare dall'alba al tramonto in mezzo alle case. Tutte le vie erano asfaltate, e le autostrade che portavano alla campagna erano ricoperte di grigite: quando Carmody era giunto sul pianeta come fratello laico dell'ordine, uscendo dallo spazioporto si era sporcato di fango i sandali. E le costruzioni erano di calce e legno. Anna. Se non l'avesse sposata, adesso ci sarebbe stato lui, seduto alla grande scrivania lucida della direzione generale. Avrebbe controllato la sua Chiesa su un pianeta vasto come la Terra. Wildenwooly contava solo cinquanta milioni di abitanti, ma ce n'erano solo un milione quando Carmody vi aveva messo piede la prima volta. Era un paradiso di spazio libero. La Terra era congestionata, la gente viveva a contatto di gomito, si scorticava a furia di battere il naso contro il vicino. Anna. Se non lo avesse sposato, adesso sarebbe stata ancora viva. Ma quando Carmody le aveva detto che forse il matrimonio non era il passo giusto, Anna gli aveva risposto che se non avesse potuto sposarlo si sareb-
be chiusa in convento. Carmody si era messo a ridere e le aveva detto che il suo era un comportamento da romanzetto: lei aveva solo bisogno di un uomo, e se non era lui era un altro. Si erano insultati ferocemente, e poi erano finiti l'uno nelle braccia dell'altra. Il giorno dopo era partito per il suo rapporto annuale. Era rimasto sulla Terra due settimane e quando aveva preso l'astronave del ritorno era ansioso di rivederla. Adesso il Vaticano era un cubo di ottocento metri di lato. Vi abitavano, oltre al Santo Padre, tutta la massa di persone che amministrava la complessa organizzazione della Chiesa un'organizzazione che abbracciava la Terra e quaranta pianeti-colonia e gli addetti ai servizi e le loro famiglie. Il Vaticano conteneva anche un titanico calcolatore proteico, superato in dimensioni solo dal Boojum del governo federale. Il resto di Roma era una struttura alta quattro chilometri, e il Vaticano ne era circondato. Gli eterni sette colli erano già stati livellati da tempo; il Tevere scorreva in un condotto di plastica nei livelli più bassi della metropoli. Negli avvenimenti umani, e in quelli cosmici, l'unica cosa fissa era la trasformazione. Gli uomini nascevano e morivano... Anna! Non riuscì a trattenersi, pianse e singhiozzò come se fosse stretto da una grande mano che gli cacciava fuori il respiro e le lacrime a forza. Dapprima il cardinale si irrigidì imbarazzato, poi prese la testa di Carmody e se la portò al petto mormorando parole di consolazione, e infine lasciò da parte ogni scrupolo e pianse insieme a lui. Quando raggiunsero lo spazioporto, Carmody si era raddrizzato e si stava asciugando gli occhi con un fazzoletto. «Adesso va meglio» disse «almeno per un po'. Se non altro, il viaggio mi dà una scusa per andare via. Se fossi rimasto, sarei crollato. Che bell'esempio avrei offerto ai miei parrocchiani, a chi consolavo nel dolore, a chi mi ha ascoltato predicare che la morte è un'occasione di gioia e non di tristezza, perché la morte è gloria, perché chi muore è fuori delle tentazioni e dei mali del mondo! Anche quando le pronunciavo, io sapevo benissimo che quelle parole servono a poco. Possono dare conforto più tardi, quando il dolore si è già affievolito.» Il cardinale non disse nulla, e dopo un attimo erano allo spazioporto. Era un edificio di cinque piani che copriva dieci ettari, ed era quasi tutto costruito col marmo bianco delle montagne di Whizaroo, a cento chilometri dalla capitale. La grande sala di transito era piena di persone che venivano da tutti gli altri pianeti della Federazione, e tra esse spiccava un certo nu-
mero di extraterrestri. Molti erano lì per affari o per politica, gli altri erano turisti abbastanza ricchi da permettersi il costo dei viaggi interplanetari. Chi veniva su Wildenwooly come immigrante usciva invece da un'altra ala dell'edificio, e lì la gente non era disinvolta come questa, né vestita con la stessa ricchezza. I due religiosi attraversavano lentamente la folla. Intorno a loro, molti avevano in testa la "medusa", una bio-parrucca che si pettinava da sola e che ogni ora cambiava colore. Molti indossavano mantelline con spalline sporgenti, e con appesi piccoli oggetti sonori che seguivano con le loro note le variazioni della temperatura e della pressione dell'aria. Alcuni tra i più anziani si dipingevano ancora le gambe, ma gli altri indossavano calzamaglie illustrate: sulla loro superficie apparivano filmine del proprietario, dati personali e minibiografie. Una donna, che senza dubbio aveva soldi da sprecare, ci si era fatta disegnare la propria vita a cartoni animati... Carmody salutò Sua Eminenza che ritornava in città a preparare il funerale. Andava anche a dettare qualche lettera per spiegare ai suoi superiori del Vaticano i motivi del ritardo. Le formalità richieste ai viaggiatori interplanetari durarono una mezz'ora. Carmody si tolse gli abiti e li mandò alla decontaminazione. Rimase immobile un paio di minuti nella cabina dell'esame medico mentre raggi invisibili gli esaminavano gli organi interni. Alla fine di quel breve intervallo ricevette un certificato di buona salute. Un altro certificato accompagnava i vestiti. Si rimise il cappello, il colletto rigido, la giubba, i tradizionali calzoncini a sbuffo, la calzamaglia marrone. Da quel momento in poi non poteva più ritornare nell'altra sezione dell'edificio. Prima di partire, gli giunse una lettera per posta pneumatica: anche la lettera era stata decontaminata. Dall'altoparlante una voce femminile gli comunicò che era appena arrivata dalla nave Mkuki, espresso dalla Terra. Carmody diede un'occhiata al sigillo: c'erano il suo nome e quello del mittente: R. Raspold. La mise in tasca con l'altra lettera. Intanto il passaporto e le altre sue carte venivano aggiornati, controllati, convalidati. Firmò una dichiarazione che liberava i governi di Wildenwooly e della Federazione da ogni responsabilità in caso di morte o di disgrazia su Kareen. Si fece anche un'assicurazione sulla vita, valida fino a Springboard. Metà andava al suo ordine, un quarto alla figlia adottata due anni dopo il sacerdozio, un quarto all'ufficio per la protezione degli indigeni di Wildenwooly, intelligenti ma ancora allo stadio dei primitivi. Finì alcuni minuti prima che venisse annunciata la partenza della sua a-
stronave: il White Mule, una piccola nave delle Linee Stellari Saxwell, ed ebbe così la possibilità di esaminare la lista dei passeggeri. Le persone in partenza da Wildenwooly erano quattro, e tre scendevano prima di lui. L'unico che andava su Kareen era un tale Raphael Abdu. Un uomo di media altezza, uno e novanta, di corporatura normale ma con mani e piedi enormi. La faccia larga e carnosa, la pelle scura, i capelli bruni e ondulati facevano supporre una lontana origine mongolica. Dai dati che aveva fornito, risultava che era nato sulla Terra e che si era fermato su Wildenwooly per alcune settimane. La sua professione era descritta come "importatore": un termine che poteva coprire qualsiasi cosa. Una voce all'altoparlante disse di rimanere ai propri posti. Un minuto più tardi, l'intera stanza si staccò dal corpo principale dell'edificio e si mosse verso il White Mule. L'astronave era un emisfero appoggiato con la base sulla pista di grigite, e la sua bianca copertura brillava sotto il sole del tardo pomeriggio. Al loro avvicinarsi, la superficie apparentemente continua del White Mule si aprì al livello del suolo, formando un'apertura circolare. Il loro veicolo si accostò delicatamente all'entrata e la parete si piegò su se stessa. Entrò un ufficiale con l'uniforme verde delle Linee Saxwell e diede loro il benvenuto. Passarono in un corridoio che per unico arredamento aveva un tappeto verde, poi entrarono in una sala. Era uno dei bar dell'astronave, ma in quel momento era chiuso. Proseguirono e in un'altra sala ricevettero un fascio di pieghevoli. Carmody diede un'occhiata per vedere se c'era qualche novità, poi mise il tutto in un'altra tasca della giubba. Quei pieghevoli contenevano una breve storia delle linee Saxwell e una lista di consigli per i viaggiatori, tutte cose che Carmody già conosceva. Per i passeggeri c'erano tre piani: prima, seconda e terza classe. Carmody aveva un biglietto di terza classe, secondo i principi di economia del suo ordine. Il piano della terza classe era un vasto ambiente simile a un teatro; al posto delle pareti c'erano schermi che mostravano il panorama esterno all'astronave. I sedili erano disposti a file di due, e tra le file c'erano i passaggi. C'erano ottocento posti ed erano quasi tutti occupati: il rumore delle voci era piuttosto fastidioso. In quel momento Carmody avrebbe preferito trovarsi in una cabina di prima classe per rimanere solo. Ma la cosa era fuori discussione, e così si sedette vicino a un posto vuoto. Una hostess controllò la sua cintura di sicurezza e gli chiese se aveva letto le istruzioni per i viaggiatori. Voleva una compressa contro il mal di spazio? Carmody rispose che non ne aveva bisogno.
La donna sorrise e passò ad un altro passeggero. Carmody gli sentì dire che ne voleva un'altra. Sullo schermo centrale apparve il volto sorridente del pilota. Diede loro il benvenuto sul White Mule, una buona nave che in dieci anni di navigazione non aveva mai avuto guasti e non era mai arrivata in ritardo. Avvisò che la partenza era prevista tra dieci minuti, disse di seguire le istruzioni delle hostess e di non togliere la cintura. Parlò brevemente della fermata successiva e poi la sua immagine scomparve. Lo schermo rimase vuoto per un attimo e subito dopo, a un metro da esso, apparve la registrazione di uno spettacolo musicale di Jack Wenek, un noto comico. Carmody non aveva voglia di ascoltare una cosa di pura evasione: ignorò il pulsante del sonoro. Sentiva il bisogno di spettacoli grandiosi, di qualcosa più forte di una distrazione. Qualcosa che desse una prospettiva diversa alla sua tristezza e alle sue preoccupazioni, aveva bisogno di immensità, di sentirsi piccolo per il timore e lo stupore. Cercò sotto il sedile e ne trasse una specie d'elmetto con una visiera abbassabile. Lo mise in testa e portò la visiera davanti agli occhi: immediatamente sentì la voce di un ufficiale del White Mule: «... ve ne è stato dato uno ciascuno perché i vostri vicini siano liberi di non guardare se la cosa non li interessa. Alcuni si spaventano, quando vedono per la prima volta questo spettacolo.» Sulla superficie interna del visore apparve un'immagine 3D. Carmody poteva vedere tutto ciò che circondava la nave: lo spazioporto, i bianchi edifici, gli affreschi sulle pareti illuminate dal sole, la gente alle finestre che guardava la partenza del White Mule. «Da questo spazioporto» continuava l'ufficiale «partono tutti i giorni dozzine di astronavi. Ma lo spettacolo, nella sua semplicità, continua ad attrarre centinaia e migliaia di curiosi, su tutti i pianeti della Federazione. E anche sui pianeti stranieri, e gli alieni sono curiosi come i terrestri. Neanche i veterani dello spazio, neanche gli impiegati dello spazioporto e gli equipaggi delle astronavi si abituano a queste cose, che conservano un sapore di magia.» Carmody tamburellava con le dita sul bracciolo: erano informazioni che aveva già sentito molte volte. Subito sentì una voce: «Tutto a posto, signore?» Carmody fece un: «Come?» Poi rise. «No, no, era solo per il discorso; ho già fatto un centinaio di salti.» «Ah, molto bene, signore. Mi scusi per il disturbo.»
Si sforzò di vincere l'impazienza e ritornò a concentrarsi sulla scena del visore. La voce ritornò: «... tre, due, uno, zero!» Carmody sapeva già cosa lo attendeva: la scena non lo sorprese. Wildenwooly e il suo sole brillante erano spariti. Si vedeva uno sfondo nero con appese luci colorate: rosso, verde, bianco, blu, viola. Le bestie monocole della giungla dello spazio lo fissavano minacciose. «... a circa cinquanta anni-luce di distanza nel vuoto siderale. Il pianeta tipo Terra dove eravamo un attimo fa, adesso è troppo distante per vederlo, e il suo sole è solo uno dei miliardi di soli sparsi a piene mani per l'universo, "i pensieri divini scintillanti", per dirla col poeta. «Un attimo «continuava la voce.» La nostra nave si sta voltando per mettersi in linea col prossimo salto. Il calcolatore proteico che vi ho appena descritto sta rilevando la parallasse di una dozzina di stelle che irradiano un particolare spettro luminoso, e che stanno tra loro in una certa relazione spaziale. Quando il cervello sintetico del calcolatore avrà fatto il punto, punterà l'astronave e saremo pronti per un altro salto. Sul visore di Carmody apparve un sottile reticolo di linee orizzontali e verticali. La voce proseguì inesorabile: «Per vostra comodità appare un numero in corrispondenza di ogni quadrato del reticolo. Il quadrato numero quindici, vicino al centro, conterrà tra pochi secondi l'immagine del sole di Wildenwooly. Adesso è nel numero sedici e lo attraversa a un angolo di quarantacinque gradi. Ora diventa più luminoso, ma non dovete pensare che stiamo avvicinandoci: stiamo soltanto amplificando la sua luce per farvelo vedere meglio.» Una scintilla gialla passò sotto un'altra scintilla di colore blu pallido, poi entrò nel quadrato quindici, esitò sulla linea di demarcazione, si fermò e poi si mosse verso il centro. Carmody si ricordava la prima volta che aveva visto quello spettacolo, molti anni prima. Aveva sentito un dolore allo stomaco come se gli avessero rimesso il cordone ombelicale e poi glielo avessero crudelmente strappato per buttarlo via nello spazio. Si era sentito solo, solo come mai prima. «Adesso il calcolatore ha memorizzato la posizione del sole di Wildenwooly e degli altri punti stella. Da diversi milioni di microsecondi l'astronave è pronta a fare il salto nell'iperspazio. Ma il capitano non ha ancora dato il segnale: le Linee Interstellari Saxwell desiderano che i passeggeri possano apprezzare la loro indimenticabile esperienza. La Saxwell vuole che i suoi ospiti vedano di persona ciò che accade all'esterno del White Mule.
«Il prossimo salto ci farà percorrere altri cinquanta anni-luce, e noi, per così dire, emergeremo dall'iperspazio in un punto a cento chilometri dall'atmosfera della nostra prossima destinazione, il pianeta Maometto. Una tale precisione è possibile solo perché il White Mule ha già compiuto numero sì voli tra Wildenwooly e Maometto. Nel tempo passato dal nostro ultimo viaggio, le posizioni relative dei due pianeti sono cambiate, ma il calcolatore è in parallelo con un orologio al cesio e ha calcolato la deviazione angolare dei due pianeti. Quando il capitano azionerà il comando, il complesso astrogatore del White Mule aggiornerà tutti i calcoli al microsecondo, e poi farà automaticamente compiere il salto alla nave.» L'ufficiale fece una pausa, poi disse: «Signori e signore, siete pronti? Ha adesso inizio il conto alla rovescia.» Il salto più breve, per qualche motivo che Carmody non sì era mai curato di sapere, era uguale alla lunghezza della nave. Quello più lungo dipendeva dal numero di generatori e dalla potenza disponibile. Con un salto solo, il White Mule poteva passare dalla Galassia alla nebulosa di Andromeda: un milione e mezzo di anni-luce, superati con la velocità di un salto di orbita di un elettrone. La distanza tra Wildenwooly e Kareen poteva venire percorsa in quattro manovre, tempo "reale" totale: sessanta secondi. Ma i proprietari del White Mule avevano più interesse a guadagnare denaro che a mostrare le possibilità dell'astronave: prima di Kareen si facevano due altre fermate. L'oscurità e i globi incandescenti scomparvero. Davanti a Carmody apparve il grande arco di un pianeta, teso eternamente dalla forza di gravità. Il sole batteva su un oceano e si vedeva un continente a forma di testuggine, con una bianca massa di nuvole simile a una vecchia ferita. Nonostante le sue esperienze di volo, Carmody si ritrasse istintivamente. Gli pareva che la massa enorme gli cadesse addosso. Poi l'ammirazione ebbe il sopravvento, come sempre, tanto la manovra appariva facile e sicura. Il complesso di cellule artificiali, grande il triplo di un cervello umano, aveva dato la giusta rotta alla nave, ne aveva diretto il salto e l'aveva fatta apparire dal nulla, come il classico coniglio dal cappello. Adesso il White Mule si trovava vicino alla stratosfera di Maometto, in orbita di parcheggio sopra l'emisfero su cui doveva atterrare. Carmody toccò il visore e l'orizzonte fece un balzo verso di lui. Un'altra regolazione e apparvero un lago, un contrafforte montano, alcune nuvole. L'astronave ruotò per alcuni secondi, poi si stabilizzò quando entrarono in azione i giroscopi.
Un altro colpo al visore. Adesso il contrafforte si era ridotto a una dozzina di montagne, e il lago si era esteso. Sulla riva occidentale c'era la ragnatela di strade di una città e un certo numero di macchie bianche e rotonde, simili alle uova del ragno nel centro della tela: le piste di atterraggio. Giù, sulla superficie del pianeta, chi guardava in alto vedeva il White Mule come un riflesso di luce. Ma dopo pochi secondi si sentiva il bang dell'astronave che si materializzava nell'atmosfera. Poi, quando l'astronave diventava visibile come un disco più grande, un altro bang faceva seguito al primo. Poi un terzo. Adesso l'astronave rallentava e posava la sua carena piatta sulla pista d'atterraggio numero sei, leggera come un aerostato. C'erano due ore di attesa, ma Carmody rimase all'interno della nave. Non aveva voglia di ripetere il noioso cerimoniale della decontaminazione, voleva leggere le lettere che aveva ancora in tasca, e soprattutto voleva rimanere solo. Andò al bar e si fece servire un bourbon, poi si ritirò in una sala scrittura. Dopo aver bevuto alcune sorsate, prese le lettere e per diversi minuti giocò con i due cilindri, privo della sua solita rapidità di decisione. Si chiedeva quale leggere prima, come se quella scelta fosse importantissima. Poi la curiosità ebbe il sopravvento: prese la lettera non firmata e la inserì nel lettore, una cassettina attaccata al muro. C'era anche una cuffia con un visore. La mise in testa, abbassò lo schermo sugli occhi e schiacciò il pulsante di lettura. L'interno del visore si illuminò: apparve un'immagine che gli destò un moto istintivo di repulsione. Una maschera che raffigurava una faccia deturpata da un incidente. La voce era maschile ed era molto roca: «Carmody, è Fratt che ti manda questa lettera. Ormai tua moglie è morta, e tu non sai chi l'ha uccisa e perché lo ha fatto. Te lo spiego io. «Molti anni fa tu hai accecato Fratt e hai ucciso suo figlio. L'hai fatto di proposito e con malvagità, senza che ce ne fosse bisogno. Avresti potuto continuare i tuoi piani diabolici senza fare del male a Fratt e a suo figlio. «Se in te c'è un po' di umanità o di amore... e ne dubito... adesso tu sai esattamente cosa ha sofferto Fratt quando suo figlio è morto. «Adesso tu continuerai ad avere paura, per quello che è successo a tua moglie e perché non sai né quando né dove la morte ti colpirà. E la morte ti verrà dalla mano di Fratt. «E non sarà una morte facile, o una morte veloce come ha avuto la for-
tuna di avere tua moglie. Tu morrai lentamente, e soffrirai, e pagherai per il tuo delitto. Proverai l'agonia che ha provato Fratt, che ha provato la tua vittima innocente. «E allora saprai chi ha ucciso tua moglie, chi per tutti questi anni ha pensato solo alla vendetta. «Rivedrai chi non ti ha mai dimenticato. Maledetto!» Lo schermo ritornò bianco e la voce si fermò. Carmody alzò il visore. La mano gli tremava, respirava con affanno. Le sue ipotesi erano giuste. Qualche vecchio nemico che non aveva perdonato, qualcuno che aveva sofferto per colpa sua, qualcuno che lui aveva danneggiato nel suo passato, nei giorni del delitto. E le sue colpe di una volta gli avevano tolto la moglie, la sua felicità. Anna, povera Anna... Abbassò il visore e riascoltò la lettera. Si capiva dalle frasi che non era Fratt a parlare. E la lettera non chiariva se Fratt era un uomo o una donna. Tutta la lettera era stata preparata in modo da non dare indicazioni sull'identità di Fratt, sulle circostanze del crimine di cui lo accusava. «Fratt?» mormorò. «Fratt? Il nome non mi dice nulla. Non ricordo nessun Fratt. Eppure dovrei ricordarlo, ho una memoria eccellente. Ma quei pochi anni sono così densi di luoghi e di persone, e mi curavo così poco di chi fossero le mie vittime... Che Dio mi perdoni! Ho torturato e ucciso molti di cui non so neppure il nome. «Forse non ricordo Fratt perché non ho mai saputo come si chiamava. Il figlio di Fratt? Dovrebbe darmi una traccia. Ma forse non ho mai saputo che Fratt avesse un figlio. Mio Dio!» Bevve un altro sorso di liquore e sperò che potesse lavare via tutti i ricordi del suo passato. Ma adesso non era più il John Carmody che Fratt aveva conosciuto. Il suo nome e il suo corpo erano gli stessi, ma il suo animo era diverso. Quel John Carmody era morto, proprio come se fosse morto su Kareen durante la Notte di Luce. Ma gli altri non erano morti, e non avevano dimenticato, non avevano perdonato. Al momento non poteva far niente, ma almeno era avvertito: Fratt non l'avrebbe raggiunto facilmente. E non avrebbe trovato una vittima passiva, un uomo indebolito dal pentimento e dalla vergogna, un uomo desideroso di pagare con la morte, una vittima che saliva volontariamente l'altare del sacrificio. Batté il pugno sul tavolo e quasi rovesciò il bicchiere. Maledetto Fratt! Carmody era stato malvagio e aveva espiato il suo male, ma Fratt non aveva nessun diritto alla vendetta. Fratt era stato una vittima innocente, ma
adesso innocente non era più. Ma poi si accorse che la responsabilità delle azioni di Fratt cadeva su di lui. Fratt lo odiava per l'ingiustizia subita: era stato Carmody che lo aveva portato al male. Fratt aveva rinunciato al bene come Carmody aveva rinunciato al male, ed era diventato quel mostro che prima era lui. Azione e reazione. Dietro-front. E la colpa era di Carmody. Invece di sentirsi schiacciato dal dolore, Carmody sentiva risorgere la vecchia personalità. "La vendetta è mia, dice il Signore." E chi si vendica è il suo strumento. «No» disse a se stesso, e scosse la testa. «Io sto cercando di giustificare la mia tentazione. Devo amare il mio nemico, devo concedergli il perdono. Ama il tuo prossimo come te stesso. L'ho predicato per tutti questi anni. E ne ero convinto, o almeno credevo di esserlo.» Batté un altro pugno sul tavolo: «Ma lo odio! Oh, se lo odio!» O odiava se stesso? «Mio Dio, mostrami il mio errore!» Vuotò il bicchiere e chiamò il cameriere per averne un altro. Quando fu servito, Carmody tolse la lettera di Fratt dal lettore e inserì quella di Raspold. Sullo schermo si vedeva lo studio dell'investigatore, al sedicesimo livello della città di Denver. Raspold, invece di stare seduto davanti a lui, era in piedi. Nervoso e pieno di energia come lo stesso Carmody, non riusciva a rimanere fermo più di pochi secondi. Raspold era una lama in un fodero di pelle: alto e magrissimo, aveva capelli neri e lisci, occhi marrone taglienti come due accette, naso largo e carnoso come quello di un cane da caccia. Portava la veste scarlatta e il colletto nero degli impiegati della Interstellare Prometeo. Carmody non fu assolutamente sorpreso dallo strano abbigliamento: sapeva che il detective doveva spesso usare dei travestimenti nel corso delle sue indagini. Raspold stava passeggiando e si fermò a fargli un cenno di saluto: «Salve, John, vecchio pendaglio da forca» gli disse. «Scusa la brevità di questa lettera.» Riprese a camminare avanti e indietro, e intanto parlò con la sua voce baritonale: «Tra pochi minuti devo scappare, e non so per quanto tempo ne avrò. E questa lettera deve partire tra mezz'ora. «John, durante le mie indagini sulla Prometeo ho saputo per caso una notizia molto grave. Molto grave, credimi. Un gruppo di ricchi fanatici, e mi spiace dirlo, ma appartengono alla tua Chiesa, ha deciso di uccidere Yess, il dio di Kareen. Nessuno di loro andrà personalmente a compiere l'attentato, ma hanno mandato un assassino, forse più di uno. È uno dei
grandi professionisti del delitto: non conosco il suo nome, ma so che verrà dalla Terra. E se il piano avrà successo, o anche se solo verrà scoperto, le ripercussioni saranno enormi. «Io non posso venire perché sono legato mani e piedi qui. Ho comunicato la cosa alla Polizia Interstellare, e senza dubbio manderanno a Kareen un loro uomo. Forse avvertiranno Yess, ma c'è anche la possibilità che non vogliano dire nulla per non far sapere che il piano è stato organizzato sulla Terra. «Ma credo che tu potresti interessartene e che saresti felice di metterci uno zampino. Forse l'assassino è un uomo che ha superato la Notte e che è diventato algulista. Un uomo pericolosissimo, quindi. Per tenergli testa ce ne vuole un altro come lui, ed è meglio che sia terrestre. Naturalmente, il fatto che sia algulista è solo una supposizione, sono voci che non so quanto valgano. Forse la cosa non è neppure possibile, non conosco abbastanza Kareen per saperlo. Se l'omicida non ha mai superato la Notte, dovrà agire prima che la Notte abbia inizio. E quindi non ha molto tempo, e non ne hai neppure tu. «Forse deciderai di ignorare la mia segnalazione. Forse Yess non ha bisogno di protezione, ma preferisco darti il nome di qualche persona che potrebbe essere l'assassino. Sono i migliori professionisti del crimine, e credo che tu non li conosca: tutti quelli che circolavano quando tu eri giovane adesso sono morti, scomparsi, in prigione, o, come te, hanno subito il trattamento di riabilitazione.» Raspold gli fornì dieci nomi, li ripeté e aggiunse una breve descrizione di ciascuno. Concluse: «Buona fortuna e saluti, John. La prossima volta che vieni sulla Terra spero di poterei essere anch'io. Sarò lieto di rivedere la tua brutta faccia, e tu potrai deliziarti a guardare la mia figura statuaria, ad ascoltare le mie frasi brillanti e la mia spropositata erudizione. Ma per ora ti saluto. In bocca al lupo.» Carmody si tolse la cuffia e allungò la mano verso il secondo bourbon. Ma prima di toccarlo si arrestò: non era questo il momento di bere. Doveva pensare a Fratt, e forse Fratt era sulla nave, e adesso aveva anche questo secondo problema. Doveva subito informare il cardinale del messaggio di Raspold. Se Raspold aveva detto la verità, e di solito Raspold era attendibile, la Chiesa correva pericoli ancor più gravi di quelli previsti da Faskins. L'assassinio di Yess da parte di un membro della Chiesa avrebbe scatenato un cataclisma. «Quegli stupidi!» imprecò Carmody. «Quegli incoscienti!»
Infilò due monete in un distributore sulla parete, e l'apparecchio gli fornì una lettera non impressionata. La mise nel lettore, infilò tre monete nella gettoniera e schiacciò il pulsante della registrazione. Quando ebbe finito di dettare la lettera, chiamò la hostess e le chiese di far partire la lettera con la prima astronave per Wildenwooly. Dovette anche firmare e mettere la sua impronta digitale sul conto: le lettere interplanetarie erano molto costose, non aveva con sé abbastanza denaro. Di lì, Carmody si recò al bar e si fece dare una pastiglia ossidante per eliminare l'alcol che aveva ingerito. L'unica persona presente era Abdu, l'importatore salito con lui a Wildenwooly. Carmody cercò di attaccare conversazione, ma l'altro non lo incoraggiò a continuare. Disse solo qualche "Già","Ah, sì?" e qualche grugnito. Carmody rinunciò e ritornò alla sua poltroncina nella sala principale. Sedeva da una decina di minuti, con gli occhi chiusi e del tutto disinteressato allo spettacolo, quando venne qualcuno a interromperlo. «È libero questo posto, padre?» Davanti a lui c'era un giovane sacerdote dell'ordine dei gesuiti, e gli sorrideva, mostrando, a giudizio di Carmody, troppi denti. Alto e sottile, aveva un volto ascetico, occhi azzurri, capelli scuri e pelle pallida. Parlava con accento irlandese e un momento più tardi raccontò di essere padre Paul O'Grady di Dublino Bassa. Era stato nella parrocchia di Città del Messico, per un anno dopo il diploma del seminario. Adesso lo mandavano su Springboard per aumentare le forze del clero su quel pianeta. O'Grady confessò che il viaggio lo spaventava: «Mi sento smarrito. Staccato da me stesso, oltre che dalla Terra. Mi sembra di rompermi in piccoli pezzi. Mi sento piccolo, e intorno a me è tutto immenso.» «Si tenga su» disse Carmody. Non aveva voglia di fare conversazione, ma non poteva lasciare quel povero giovane senza una parola di incoraggiamento: «Non è il solo a sentirsi così. Almeno la metà dei passeggeri della nave prova quello che prova lei, ci scommetto. Vuole bere qualcosa? C'è ancora un po' di tempo prima che la nave parta.» O'Grady scosse la testa: «No, padre. Grazie, ma non voglio dipendere da una droga.» «Diavolo, una droga!» esclamò Carmody. «Non sia ridicolo, fratello. Se uno ne ha bisogno, ne ha bisogno. Presto sarà tutto finito. I suoi piedi ritorneranno sulla solida terra di un pianeta e ci sarà di nuovo un cielo blu sulla sua testa. Hostess!» «Lei penserà che io sia un bambino» disse O'Grady.
«Certo» fece Carmody. Rise all'imbarazzo del giovane sacerdote: «Ma non penso che sia un codardo. Sarebbe stato un codardo se avesse rifiutato di continuare il viaggio. Ma non l'ha fatto. Diventerà adulto anche lei.» O'Grady rimase zitto per un po', rimuginando le osservazioni di Carmody. Poi disse: «A proposito, ero così nervoso che mi sono dimenticato di chiederle il suo nome, padre.» Carmody glielo disse. O'Grady spalancò gli occhi: «Lei è quel padre Carmody che è... il padre del...» «Lo dica.» «... del falso dio Yess di Kareen?» Carmody fece un cenno di assenso. «Si dice che lei stia andando in missione su Kareen» sbottò O'Grady. «Si dice che vada a denunciare Yess e a smascherare il boontismo.» «Chi lo dice?» chiese piano Carmody. «E tenga bassa la voce.» «Oh, lo sanno tutti» rispose O'Grady, e fece un gesto come a indicare tutto l'universo. «Il Vaticano sarà felice di sapere come sono conservati bene i suoi segreti» disse Carmody. «Ma visto che le fa piacere saperlo, io non vado affatto su Kareen a denunciare Yess.» O'Grady afferrò il braccio di Carmody: «Non avrà mica intenzione di passare al boontismo?» Carmody scostò la mano dell'altro: «Cos'è? Un'altra chiacchiera di corridoio?» disse freddamente. «No. Posso ammettere che il boontismo ha taluni aspetti inspiegabili, ma la mia fede resta salda. Forse può essere un po' confusa, ma non è scossa. E lei può dirlo a tutti.» «La situazione su Springboard è molto brutta» confessò O'Grady. «Un gran numero di fedeli è già passato al boontismo. Non sono autorizzato a rivelare il numero esatto, ma è una cifra allarmante.» «Vedo» disse Carmody. «Padre, forse lei potrebbe fermarsi qualche tempo su Springboard e fare un ciclo di prediche. Ci serve un uomo come lei, un uomo che è stato su Kareen e che può smascherare i loro cosiddetti miracoli e il loro cosiddetto dio.» «Non ho assolutamente tempo di fermarmi» disse Carmody «e poi temo che sarei costretto a deluderla. I cosiddetti miracoli sono veri, e neppure il Santo Padre può rispondere alla domanda se Yess è il vero redentore del suo pianeta. Non ancora.»
Carmody alzò la testa, si voltò verso lo schermo e disse, senza guardare le immagini che vi apparivano: «L'avverto: farà meglio a non dire a nessuno di avermi incontrato o di avermi parlato. La mia missione è segreta, ma vedo che le chiacchiere hanno già incominciato a diffondersi. Le chiacchiere sono la sola cosa che riesce a superare la velocità della luce. Ma se lei dirà una sola parola riceverà un ammonimento severissimo e una nota di biasimo che le resterà addosso per vent'anni. Quindi tenga la bocca chiusa.» O'Grady sbatté le palpebre per la sorpresa e arrossì indispettito. Carmody fu salvato dal segnale della partenza e dal solito discorsetto del capitano. Per tutto il resto del viaggio fino a Springboard, O'Grady non parlò. Era troppo preso dalla sua paura del volo. Quando il White Mule atterrò, Carmody decise di lasciare la nave per fare una passeggiata. Sentiva bisogno di sgranchirsi le gambe, di rivedere i luoghi dove era vissuto. Inoltre Springboard era l'ultimo pianeta "normale" che avrebbe visto per un po' di tempo. Lo spazioporto era molto cambiato in dieci anni, e anche la città che gli stava intorno. Si vedevano ancora i giganteschi coni delle beviti, gli animali a sangue freddo, originari del pianeta, che ricordavano le termiti terrestri perché mangiavano legno e costruivano grandi nidi a forma di cono. I primi coloni avevano ucciso le beviti e si erano installati in quei grattacieli già pronti, poi gli spazi tra i coni si erano riempiti di case di legno e di plastosilicato espanso, e adesso le prime costruzioni umane erano scomparse e al loro posto c'erano grattacieli di pietra e similvetro. Sulle piste dell'astroporto c'erano molte navi: dalla sua ultima visita al pianeta il loro numero era enormemente aumentato. Carmody si rallegrò di aver potuto vedere i pianeti prima che la mano dell'uomo li toccasse. Non che mancassero pianeti inesplorati, ma da qualche tempo si era mosso tra pianeti fin troppo colonizzati. Per una mezz'ora camminò tra le costruzioni dell'astroporto, poi ritornò alla stazione di decontaminazione. La sala d'attesa era affollata e non si riusciva ad andare avanti: si sentivano grida rabbiose, si vedevano facce gonfie d'ira e persone che mostravano i pugni, ma non se ne comprendeva la causa. Poi Carmody si accorse che un gruppo di persone, con cartelli della Lega dei Difensori di Cristo, aveva circondato una dozzina di uomini e donne e non li lasciava muovere. Questi ultimi sembravano uguali ai loro persecutori: l'unica differenza era l'espressione allarmata e la loro posizio-
ne di difesa. Carmody riuscì a farsi avanti tra la folla, arrivò al gruppetto degli assediati e fu allora che scorse i grossi anelli che portavano al dito. Ne aveva già visti su Wildenwooly, riconobbe subito il simbolo che vi era inciso: un cerchio tra due lance incrociate. Li portavano i convertiti al boontismo. I boontisti erano raccolti vicino all'ufficio della dogana e cercavano di ignorare le minacce e gli insulti. Gli altri, gli appartenenti alla Lega, erano guidati da un sacerdote grande e grosso, con folte sopracciglia e naso imponente. Carmody lo riconobbe subito, anche se non lo vedeva da una dozzina di anni. Era padre Christopher Bakeling, che era diventato sacerdote insieme a Carmody dopo essere entrato con lui nell'ordine di san Giairo. Carmody si fece strada verso di lui, e la folla si aprì vedendo i suoi abiti religiosi. Carmody si piazzò tra il gigantesco prete e i boontisti. «Padre Bakeling, cosa sta succedendo?» Bakeling spalancò gli occhi. «John Carmody! Come mai da queste parti?» «Sono qui e cerco di non dar fastidio a nessuno, ma vedo che c'è sempre qualcuno che va a caccia di guai. Perché ti sei messo a scocciare questa gente?» «Scocciare!» esclamò il gigantesco prete. «Scocciare! Ti conosco bene, Carmody. Se c'è uno che scoccia, sei proprio tu. Tu sei venuto qui a piantar grane, com'è vero che sei un ficcanaso.» Farfugliò ancora qualche parola incoerente, poi riuscì a controllarsi. Indicò un uomo alto e di bella presenza che sostava vicino allo sportello dei passaporti: «Guardalo! Quello è padre Gideon! Ha tradito il suo dolce Gesù e si è messo ad adorare Boonta, l'idolo degli sciocchi. Vuol portare all'inferno tre parrocchiani suoi e, come se non bastasse, anche due dei miei!» Tra la folla, una donna gridò: «Gideon è l'Anticristo! Ecco cos'è! È l'Anticristo! Ed era il mio confessore! Mettiamolo in galera! Non lasciamogli raccontare i segreti dei suoi parrocchiani!» «Si merita di essere lapidato» gridò Bakeling. «Lapidato! Impiccato come Giuda. Ha tradito il suo Signore per le lusinghe del demonio...» «Piantala, Bakeling» disse severamente Carmody. «È una brutta situazione e tu la stai peggiorando con le tue sciocchezze e le tue buffonate. Dovevi tenere tutto sotto silenzio, evitare questa pubblicità a noi e anche a loro.» Bakeling avanzò a pugni stretti verso Carmody e il piccolo prete fu co-
stretto a indietreggiare. «Ah, è così!» ringhiò. «Ti sei messo dalla loro parte! Ti conosco, Carmody! Il boontismo ha sedotto anche te! Me lo avevano detto che hai fornicato con le sacerdotesse di Boonta o qualcosa di altrettanto diabolico, me l'avevano detto che il figlio di Boonta è anche figlio tuo! Ma non ci ho mai voluto credere. Nessuno della nostra religione potrebbe essere così immondo, neppure uno sgorbio come te! Ma adesso incomincio a credere che quelle voci fossero vere!» «Tienti lontano, Bakeling» disse Carmody. Sentiva la rabbia salire come la colonnina del mercurio di un termometro. «Vattene, e cerca di comportarti come un ministro di Dio!» Si fermò, poi non riuscì più a trattenere la rabbia: «E non toccarmi» aggiunse «o non rispondo più delle mie azioni!» «Ah, fai il prepotente!» rise Bakeling. «Ti sei lasciato illudere dalla tua stessa fama di essere un duro! Piccolo come sei, non riesco neppure a sputarti sopra! E non vali quello che sputo!» La donna che aveva denunciato Gideon alzò la voce: «Ma che razza di prete è lei? Mettersi contro la sua religione! Il suo gregge!» Carmody cercava di calmarsi. Abbassò la voce e disse: «Cerco solo di fare il mio dovere cristiano, cerco di fermarvi quando siete spinti dall'odio. Ricordate le parole del Signore: Ama il tuo prossimo.» La donna incominciò a strillare: «E poi ci verrà a dire di porgere l'altra guancia e di invitare a cena quegli schifosi. Padre, quella gente è il male, è il nemico! E padre Gideon è Satana. Ma come fa... Ma come fa?» E lasciò partire una scarica di imprecazioni e di insulti che sarebbe senza dubbio piaciuta anche a Carmody, nei giorni prima della sua conversione. Quella donna frenetica aveva un certo talento... «Via da me, Carmody!» minacciò il grosso prete. «Gideon tornerà sui suoi passi. Anche a costo di torcergli il collo!» «Non è così che si fa» disse Carmody. «Vai al diavolo!» rispose Bakeling, e cercò di colpirlo. Il piccolo prete si scansò per evitare il colpo e lasciò libera tutta la frustrazione che si era accumulata in lui dalla morte di Anna. Piantò con violenza un sinistro nello stomaco grasso e molle di Bakeling. L'altro abbassò le braccia, emise un lamento, si piegò su se stesso e fu colpito in pieno naso da un secondo pugno. Alcune gocce di sangue caddero sulle scarpe e sulle gambe di Carmody. La folla emise un grido e si mosse compatta contro Carmody, lo spinse contro i boontisti che urlavano spaventati. Si sentirono i fischi dei poliziot-
ti, Carmody ricevette alcuni colpi e perse conoscenza. Quando riaprì gli occhi, sentiva male alla testa, al mento, alle spalle, alle costole. Un uomo con l’uniforme bianca e nera e il cappello conico della polizia di Springboard lo stava facendo rientrare in sé. Prima che Carmody riuscisse a dire qualche parola, due uomini lo sollevarono e lo trasportarono verso l'uscita. Fuori dello spazioporto c'erano due grossi cellulari in attesa di lui e degli altri che erano stati colpiti nella rissa o che non erano stati abbastanza svelti nella fuga. A Carmody fu riservato un trattamento particolare. Gli altri finivano nei cellulari, ma lui venne accompagnato a un'auto e messo sul sedile posteriore. Al suo fianco c'era un sottufficiale, e dall'altra parte c'era Bakeling che si tamponava il naso con un fazzoletto. «Hai visto cos'hai combinato, rompiscatole» mormorò Bakeling. «Hai dato esca a una rissa e hai fatto fare una brutta figura alla tua Chiesa e al tuo ministero.» «Io!?» Carmody lo guardò sorpreso: l'enormità della cosa lo spinse a ridere, ma smise subito perché sentiva una fitta alle costole. «Siamo in arresto?» chiese al sottufficiale. «Padre Bakeling le ha mosso querela» disse, e passò al sacerdote un comunicatore da polso. «Lei ha diritto di fare una chiamata al suo avvocato.» Carmody ignorò l'offerta e si voltò verso Bakeling: «Se mi trattengono e perdo la nave per Kareen, tu ne dovrai rispondere all'autorità più alta. E intendo proprio riferirmi alla più alta.» Bakeling si tamponò il naso con il fazzoletto e borbottò: «Non cercare di spaventarmi, Carmody. Ti conosco: sei un piccolo imbroglione bugiardo.» Carmody gli fece spallucce e si rivolse al poliziotto: «Ci ho ripensato. Voglio fare una chiamata.» Prese il comunicatore: «Com'è il prefisso?» Il sottufficiale gli disse il numero e Carmody lo formò. Da grigia la superficie dello schermo divenne luminosa. «Dammi il numero del vescovo Embaza.» Alla richiesta di parlare con il suo superiore, Bakeling sussultò. Il poliziotto sbatté le palpebre. Bakeling si stizzì: «Non te lo dirò mai.» «Benissimo. Sergente, me lo dia lei.» L'uomo mandò un sospiro, trasse di tasca un libretto e lo consultò: «Sei, zero, sei.» Carmody fece il numero e dopo un attimo la faccia di un giovane sacerdote apparve sullo schermo. Carmody regolò una levetta: la faccia si allar-
gò e ne apparve un'immagine 3D a un palmo dalla superficie dell'apparecchio. «Parla padre John Carmody di Wildenwooly. Devo parlare al vescovo. Subito: è un caso di emergenza.» La proiezione sbiadì; lo schermo rimase vuoto ma continuò a essere luminoso. Improvvisamente apparve il volto di un mulatto. Lanciava sguardi minacciosi e la voce era dura e profonda: «Carmody? Ma in che razza di pasticcio si è andato a mettere?» «Vostra Eccellenza» si scusò Carmody «è un pasticcio che mi è capitato addosso senza che ne avessi tutta la colpa. Io ho solo cercato di compiere il mio dovere cristiano, per carità cristiana. Ma non ci sono riuscito. E adesso mi trovo in stato di fermo, e mi portano al commissariato per l'accusa formale.» «Ho saputo cos'è successo allo spazioporto, e ho saputo che c'era anche lei» disse Embaza. «Anch'io ho incominciato ad agire; forse non sarà un agire da cristiano, ma sono questioni della massima importanza.» Carmody voltò il comunicatore per mostrare Bakeling al vescovo. Embaza lo guardò torvo: «Bakeling! È vero che facevi a pugni con un altro sacerdote? E che guidavi un gruppo di tuoi parrocchiani contro i boontisti?» Bakeling incominciò a balbettare una scusa: «Volevo solo mostrare il loro errore a padre Gideon e ai suoi, Vostra Eccellenza. Ma questo ficcanaso si è messo in mezzo per difenderli! E mi ha attaccato. Ha attaccato un confratello, un sacerdote del suo stesso ordine, e tutto per difendere i pagani boontisti!» «È vero?» chiese Embaza. «Carmody! Volti il comunicatore e mi mostri la faccia!» Carmody voltò l'apparecchio e disse: «Vostra Eccellenza: la storia è lunga e occorrerebbe molto tempo per dipanare i fili della verità da quelli della passione. Ma non ho il tempo di spiegarmi, devo andare su Kareen. Immediatamente. Sto compiendo una missione della più grande importanza, autorizzata personalmente dal Santo Padre!» «Sì» disse Embaza «lo so. È venuto ieri un corriere del Vaticano e mi ha informato che devo aiutarla ad accelerare il suo viaggio, per strane o irragionevoli che mi sembrino le sue richieste. So qualcosa della sua missione e sono preparato ad aiutarla. Ma Carmody! Una rissa! Lei più di tutti dovrebbe sapere che non deve lasciarsi coinvolgere da nulla che la possa rallentare!»
«Lo so, e mi spiace. Ma è andata così. Adesso come faccio ad arrivare allo spazioporto in tempo per prendere il White Mule prima che parta? Sono ancora in tempo?» Embaza chiese di parlare al sottufficiale. Carmody voltò il comunicatore perché vescovo e poliziotto potessero parlare faccia a faccia. Il poliziotto elencò la lunga lista delle accuse che venivano mosse a Carmody, e il vescovo si accigliò così fieramente da apparire uno degli idoli d'ebano che i suoi antenati usavano scolpire nei secoli precedenti. «Sentirà ancora mie notizie, sergente. O le sentirà qualcun altro!» Il volto del vescovo scomparve, ma lo spettro della sua ira continuava ad aleggiare. Bakeling sembrava a disagio, non smetteva di muoversi per trovare una posizione comoda e dava ogni tanto un'occhiata a Carmody. «Se riesci a cavartela, piccolo imbroglione» disse «e danno ingiustamente la colpa a me, se mi metti nei guai... mi devi aiutare, io...» «Tu cosa? Ti rifiuti di imparare la lezione e sbatti di nuovo contro il muro la tua testaccia dura?» «Sei ripugnante, Carmody. Sei la vergogna del tuo sacro ministero.» «Forti situazioni richiedono forti azioni» disse Carmody. «Ma non ti veniva in mente che il vescovo si sarebbe infuriato perché stavi trasformando in martiri quei boontisti? È la sola cosa che la Chiesa non intende assolutamente fare, e tu stavi appunto per farla.» «Agivo come mi dettava la coscienza» rispose Bakeling irrigidendosi. «Faresti meglio a tirare fuori la tua coscienza e a darle una lucidata» disse Carmody. «Falla brillare come uno specchio e datti una bella occhiata lì dentro. Sarà una vista rivoltante, credimi, ma a volte bisogna liberarsi lo stomaco per stare bene dopo.» «Piccolo bugiardo ipocrita!» L'unica risposta di Carmody fu una scrollata di spalle. Ritornava a sentirsi triste perché sapeva che le parole dell'altro nascondevano un fondo di verità. L'auto si fermò davanti alla sede distrettuale della polizia. Era uno dei coni delle beviti conquistati dai primi colonizzatori. Una massa di un bianco sporco, larga alla base un centinaio di metri e alta quattrocento. Una volta il cono bastava a contenere tutta l'organizzazione della polizia planetaria, ma in cinquant'anni di colonizzazione la popolazione era cresciuta al punto che adesso quel cono bastava solo al primo distretto. Il quartier generale era stato spostato di una ventina di chilometri, e adesso si trovava in
un grattacielo costruito dagli uomini. L'ingresso, che in origine era largo quel tanto che bastava a lasciar passare due beviti spalla a spalla, era stato allargato in una grande arcata. Carmody vi passò con il sergente e Bakeling, ed entrarono in un corridoio alto e lungo, ricoperto di formite verde. Di lì passarono in una grande stanza. C'era un odore curioso in cui si mescolavano le tracce, vecchie di cinquant'anni, dell'odore delle beviti e il tradizionale effluvio degli uffici di polizia e dei tribunali: odore di fumo e di gabinetto. Sotto lo strato verde, Carmody sapeva, c'erano chiazze e grumi di sangue: le beviti non si erano lasciate buttar fuori senza difendersi. Carmody e Bakeling si sedettero su una panca mentre il sergente andava a parlare con i suoi superiori. Ritornò dopo cinque minuti: aveva la faccia pallida e stringeva le labbra. «Il vescovo ha fermato l'inchiesta della polizia!» disse. «Avrà fatto valere tutta la sua autorità. Mi è stato consigliato di lasciar cadere tutte le accuse contro voi due e di lasciarvi liberi. E, come se la cosa non fosse già spiacevole, devo accompagnare padre Carmody allo spazioporto.» I due sacerdoti si alzarono in silenzio e uscirono con lui dall'edificio. Questa volta Carmody fu fatto accomodare in un aeromezzo. Il velivolo si alzò accelerando in direzione dello spazioporto: teneva le sirene spiegate e tutte le sue luci lampeggiavano. Improvvisamente il sergente, seduto davanti a Carmody, si voltò e gli passò il comunicatore: «Il vescovo» disse, e ritornò a voltargli la schiena. Dallo schermo si materializzò il volto di Embaza, e si fermò a pochi centimetri da quello di Carmody. Era così vicino che poteva vedere le sottili linee luminose che componevano l'immagine: i loro luccichii furono i lampi della tempesta di parole indignate che il vescovo scatenò su di lui. Poi Carmody, sgridato e contrito, mormorò le sue scuse. Non parlò della morte di sua moglie, ma il vescovo probabilmente sapeva già l'accaduto: subito dopo la ramanzina il suo volto si raddolcì. «So che il suo è un incarico gravoso, John» disse Embaza. «In circostanze normali non le avrei detto nulla, ma lo sa anche lei: niente doveva allontanarla dalla missione.» «A volte le situazioni ci sfuggono di mano» rispose Carmody. «Ma presto sarò su Kareen e mi dedicherò completamente all'incarico che mi è stato affidato.» Il vescovo rimase un attimo in silenzio, poi disse: «Sarebbe troppo se le chiedessi qualche dettaglio della sua missione? Ne ho un'idea generale, ma
non mi è stato detto nulla di preciso. Ma non creda che la mia sia solo curiosità. Mi consideri un correligionario che è seriamente preoccupato, ma che sa tenere la bocca chiusa.» Carmody indugiò il tempo necessario ad accendersi una sigaretta, poi rispose: «Posso dire a Vostra Eccellenza che la mia missione è cercare di convincere Yess a rinunciare a due cose. La prima è non mandare i suoi missionari sui pianeti extrakareenani. La seconda è non forzare tutta la popolazione di Kareen a esporsi alla Notte di Luce.» Embaza ne fu colpito: «Non sapevo che Yess volesse tenere svegli tutti i suoi fedeli!» «Non ha ancora dato l'annuncio, a quanto pare ci sta ancora pensando. Deciderà poco prima che la Notte abbia inizio.» «Ma per quale motivo lo fa?» «Mi è stato detto che vorrebbe estirpare completamente il culto segreto di Algul, e insieme eliminare anche i tiepidi e i finti devoti. Vuole che la popolazione sia composta esclusivamente di fanatici religiosi.» Il vescovo scosse la testa: «E poi Yess manderà questi fanatici come missionari sugli altri pianeti, giusto?» «Giusto.» «Ma Yess può realmente farlo? Ha l'autorità di costringere tutta la popolazione a esporsi ai terribili pericoli della Notte?» «Sì, ne ha l'autorità.» Il vescovo esitò, aggrottò la fronte e aggiunse: «Evidentemente i nostri superiori pensano che lei, Carmody, abbia qualche possibilità di successo. Altrimenti non la manderebbero da Yess.» «Forse lo fanno perché sono disperati» disse Carmody. «Il boontismo ha già scavato solchi profondi tra i nostri fedeli, e anche tra quelli delle altre religioni. E la situazione andrà sempre peggio.» «Lo so, e tuttavia... lei ha passato la Notte... si dice anche che lei è uno dei Padri di Yess... e tuttavia non si è convertito al boontismo. Quindi ci può essere ancora speranza, anche se non capisco perché la Chiesa non rende nota la sua esperienza su Kareen. Lei è il miglior testimone a favore della nostra fede.» Carmody fece un sorriso triste e disse: «Come testimone sono molto pericoloso. La mia esperienza è un'arma a doppio taglio. Cosa direbbe la gente davanti alla mia affermazione che i fenomeni della Notte sono veri? Che in quel periodo accadono miracoli? Che il dio Yess si è formato dal nulla, dalla mistica unione tra la Grande Madre e i Sette Padri? Su Kareen i mi-
racoli vanno a un soldo la dozzina, il boontismo può offrire la prova vivente delle sue affermazioni, può dare subito dei risultati concreti e visibili del Soprannaturale. «Cosa direbbe la gente» seguitò Carmody «sapendo che ero un criminale della peggior sorta, un pluriomicida, un ladro, tutto ciò che si può pensare, ma che, dopo avere superato la Notte, non ho neppure avuto bisogno di venire sottoposto al trattamento di riabilitazione? «Se fossi rimasto su Kareen, forse mi sarei convertito anch'io. Ma sono subito ritornato sulla Terra. E mentre ero al Johns Hopkins ho vissuto un'esperienza. Non mi dilungo nei dettagli: basti dire che ho sentito la vocazione alla vita religiosa, che sono diventato fratello laico, prima, e poi sacerdote.» Il vescovo disse: «Non riesco ancora a capire: lei afferma la validità di Boonta e di Yess, ma dichiara anche che la nostra è la vera fede. Come riesce a conciliare questi opposti?» Carmody scrollò le spalle: «Non ci riesco» ammise. «Ho anch'io i miei interrogativi, ne ho un mucchio. E finora non hanno trovato risposta. Forse questo viaggio su Kareen sarà utile a chiarirli.» L'aeromezzo si posò sul parcheggio, Carmody salutò Embaza, ricevette la sua benedizione, poi si fermò ancora un attimo per raccomandargli di non essere troppo duro con Bakeling. Embaza rispose che aveva intenzione di agire secondo giustizia. Ma prima di avere finito, contava di far capire a Bakeling il suo errore e di farsi promettere che nel futuro non ci sarebbe più caduto. Carmody arrivò al suo posto su White Mule un minuto prima che l'astronave chiudesse i portelli. Vide che quasi tutti i boontisti coinvolti nella rissa erano riusciti a salire sulla nave. Una persona entrata subito dopo Carmody non era un boontista. Era un uomo basso e massiccio che sembrava avere l'età psicologica di Carmody, un'età qualsiasi tra i trentacinque e i cent'anni. Aveva capelli folti e ricciuti, faccia larga da indiano d'America, naso aquilino, labbra sottili, mento angoloso e sporgente. Era completamente vestito di bianco: cappello conico con tesa larga e sottile, camicia aderente con maniche a sbuffo, una larga cintura in similcuoio con fibbia metallica esagonale, borsa bianca e calzoni a zampa d'elefante: stretti sulle cosce e larghi alle caviglie. Le scarpe erano opache e di modello classico, senza le frange e i grappoli di sonaglini alla moda. Stringeva in mano un grosso libro rilegato in bianco. Sulla copertina
spiccava un titolo nero, scritto nel vecchio alfabeto non sillabico: SACRA SCRITTURA - VERSIONE ORIGINALE. Dal libro e dai vestiti Carmody lo riconobbe per un pastore protestante, appartenente a una setta che in quegli anni attraversava un momento di espansione. I membri della Primissima Chiesa di Dio, detti anche "teste dure" dai loro nemici, erano fondamentalisti che dicevano di essere ritornati alla fede dei primi cristiani. Carmody ne aveva visti alcuni su Wildenwooly. Ma non fu la sua religione a lasciare Carmody a bocca aperta. Fu la sorpresa di riconoscerlo. Quindi non era vero che tutti i vecchi professionisti del crimine fossero morti! Quell'uomo era Al Lieftin, e un tempo aveva lavorato con Carmody, all'epoca del furto del diamante Staronif. Anche Lieftin era rimasto a bocca aperta vedendo Carmody. E la sua sorpresa era ancora aumentata vedendo che indossava il vestito marrone dell'ordine di san Giairo. Lieftin alzò la mano in una specie di segnale d'avvertimento, fece un passo indietro e si voltò per andare via. Ma Carmody lo chiamò indietro. «Al Lieftin! Vieni a sederti vicino a me! Non c'è bisogno che tu finga di non conoscermi: non ho nulla da nascondere! E sembra che siamo cambiati tutt'e due!» Lieftin si fermò. Sul suo volto ritornò il colore. Sorrise e si avvicinò a Carmody con aria quasi spavalda. «Mi avevi sorpreso» disse. «Dopo così tanti anni! Tu... tu adesso sei padre Carmody?» «Sì, padre Carmody» rispose il sacerdote. «E tu?» «Io sono un pastore della Vera Chiesa» rispose Lieftin. «Sia lode al Signore! Ho lasciato per sempre i giorni del male; ho scorto per tempo la Luce. Mi sono pentito, ho pagato per i miei peccati. E adesso predico il Vangelo Fondamentale.» «Sono davvero lieto che tu abbia trovato la serenità» disse Carmody. «Almeno, penso che tu l'abbia trovata. Le strade che abbiamo preso sono diverse, ma credo che entrambe siano buone strade. Le strade giuste. «Ma dimmi» continuò Carmody «cioè, dimmi se non hai niente in contrario. Perché vai su Dante's Joy? Tra poco ci sarà la Notte di Luce. Non avrai mica intenzione di passarla sveglio?» «Giammai! No, ci vado perché mi ha mandato la mia Chiesa. Devo raccogliere informazioni sui riti che precedono la Notte. Poi prenderò l'ultima nave in partenza. Ti confesso che la cosa non mi attira molto: io preferivo
non dovere assistere a quelle azioni sataniche, ma è stato l'Anziano in persona a chiedermelo.» «Ma come mai la tua Chiesa ha bisogno di rapporti?» si stupì Carmody. «Nelle biblioteche della Terra ci sono tutte le informazioni su Kareen.» «L'amara verità» rispose Lieftin «è che il falso dio Yess ci ha rubato più anime di quante vogliamo ammettere. Uomini e donne, che avrei giudicato superiori a ogni tentazione, hanno abbandonato il Vangelo Fondamentale, hanno ceduto alle esche diaboliche dei missionari kareenani. «Devo fare un rapporto dettagliato» continuò a spiegare «devo scoprire ciò che i libri non dicono, portare la mia diretta testimonianza. Girerò anche qualche ripresa, e poi la useremo per fare dei cicli di conferenze sulla Terra. Mostrerò alle genti del nostro pianeta i peccati dei kareenani: quando vedranno le indescrivibili oscenità perpetrate su quel pianeta, i terrestri rimarranno saldi nella loro fede e non si convertiranno più al boontismo. Non dopo avere visto le abominazioni praticate nel nome di Boonta.» Carmody non disse a Lieftin che questo tipo di tentativi era già stato messo in pratica, da tempo. A volte la cosa funzionava, ma spesso si otteneva proprio l'effetto opposto: si risvegliava nella gente la curiosità, e anche il desiderio. Carmody accese una sigaretta e vide che Lieftin annusava l'aria. «Tu eri un fumatore accanito» gli disse. «Hai trovato molta difficoltà a smettere?» «No, sia lodato il Signore. Non mi sono più sentito tentare, dall'istante in cui ho scorto la Luce. Mai! Ho abbandonato i demoni del tabacco, dell'alcol e della fornicazione. E ringrazio il Signore per avermi difeso da tutte le tentazioni.» «Tabacco e alcol possono essere mali quando uno ne abusa» disse Carmody. «Ma anche la moderazione è una virtù. O almeno lo è molte volte.» «Non crederlo, Carmody. Quando si combatte il male, non bisogna fargli nessuna concessione.» Esitò un attimo, poi riprese: «È una fortunata occasione quella che ci ha fatto incontrare, e ne approfitterei per chiederti una cosa. Forse non dovrei disseppellire i vecchi giorni del male, ma spiegami un po': cos'è poi successo quella volta del furto dello Staronif? Ricordo ancora quella notte: siamo dovuti scappare tutti. Personalmente sono sfuggito per un pelo alle guardie e ai loro cani. Poi mi hanno detto che Raspold ti aveva quasi raggiunto e che tu lo hai messo su una falsa pista. Ma cos'è successo allo Staronif? Sei fuggito con il diamante?» «Sono sfuggito a Raspold, perché è dovuto salire su un albero per salvarsi da una lugar» spiegò Carmody, riferendosi alla grande tigre del pia-
neta Beulah. «Ero quasi giunto alla nostra astronave, ma sono dovuto scappare su un albero anch'io. La lugar stava arrivando, e non credere a quelle storie che sono troppo grosse per salire sugli alberi. Avevo scaricato la pistola sulle guardie, e mi rimaneva una sola arma. L'arma era lo Staronif. «L'ho cacciato giù per la gola della lugar» concluse Carmody «e la bestia lo ha ingoiato. L'ultima volta che l'ho vista, la lugar stava scappando per la foresta come se avesse il più feroce dei mal di pancia!» «Dio!» esclamò Lieftin, ma si corresse subito: «Mi spiace, non intendevo nominare invano il nome del Signore. Ma lo Staronif! Dieci milioni di gifford finiti in pancia a un gatto! Avresti potuto ricavarci una fortuna! Dopo tutti quei mesi di preparazione, tutti i soldi che hai investito nei preparativi del furto!» Carmody sorrise: «Ti assicuro che la cosa, in quei momenti, non mi ha divertito affatto. Ma adesso riesco a riderne. In un punto di quella grande foresta c'è il più prezioso gioiello della Galassia, nascosto nello scheletro di una lugar!» Lieftin estrasse un fazzoletto dalla manica e si asciugò la fronte. Carmody diede un'occhiata e si chiese se nel fazzoletto c'era ancora la pallina d'acciaio nascosta nell'angolo. Una volta Lieftin era famoso perché la faceva schioccare sul volto dell'avversario durante la lotta: spesso riusciva a cavargli un occhio. Ma adesso la pallina sembrava scomparsa. La hostess annunciò la partenza. Dieci minuti dopo, tempo dell'astronave, il White Mule era nell'atmosfera di Kareen. Dopo altri dieci minuti era atterrato nella luce del tardo pomeriggio. Carmody dovette di nuovo sottoporsi al processo di decontaminazione. Perse di vista Lieftin, ma lo incontrò nel corridoio dell'uscita: passando davanti alla porta della toeletta, progettata per bipedi maschi di origine extrakareenana, la porta si aprì. Scorse Lieftin che spegneva una sigaretta nel portacenere. Nello stesso istante, Lieftin alzò gli occhi e lo vide. Ebbe un moto di sorpresa, uscì in fretta e strinse il braccio di Carmody. «Perdonami, Carmody. Ti ho mentito. Ogni tanto sento ancora le tentazioni, e di solito il Signore mi aiuta a vincerle; ma questa volta ci sono caduto. Forse perché questo viaggio mi dà apprensione. Devi capirmi: arrivare in un luogo così ciecamente dedito al peccato!» «Questo pianeta è come tutti gli altri» disse Carmody. «Non preoccuparti di me. Non ti giudico. E non ne riderò, non ne parlerò. Dimentichiamo la
cosa. Ma scusami, credo siano arrivati i delegati ufficiali che mi devono dare il benvenuto del governo.» Aveva visto il suo vecchio amico Tand entrare nell'astroporto. Tand non sembrava molto invecchiato dall'ultima volta che lo aveva incontrato. C'era qualche striscia grigia nei suoi capelli piumati e sembrava un po' più pesante di come lo ricordava Carmody. Ma era la stessa persona cordiale, e i suoi denti blu erano aperti in un sorriso. Adesso occupava un'alta carica, ma il suo modo di vivere non era cambiato. Portava ancora abiti semplici e classici. Tand corse verso di lui, aprì le braccia e lo chiamò: «John Carmody! Benvenuto su Kareen!» Si abbracciarono e Tand disse in lingua galattica: «Come stai, Padre?» Sorrise perché stava usando la parola nei due sensi. «Bene» rispose Carmody in kareenano. «E tu, Padre Tand?» La parola usata da Carmody era Pwelch, riservata ai Padri di Yess. Tand fece un passo indietro e disse: «Sono molto felice. Provo tutta la felicita che è possibile provare nelle attuali condizioni. Oh...» si voltò verso gli altri kareenani del seguito. «Permettetemi di presentarvi...» Carmody li salutò con il saluto del cerimoniale: una stretta di mano e un piccolo inchino piegando le ginocchia. Erano in quattro: un ufficiale della polizia segreta, un sacerdote di Boonta, un incaricato degli affari extrakareenani e il segretario del capo dello stato. Tutti sembravano curiosi di sapere cosa aveva fatto ritornare Carmody sul pianeta. Abog, il segretario di Rilg, capo dello stato, era un giovane di bella presenza, ma nel suo comportamento, o nella sua voce, c'era qualcosa che non ispirò fiducia a Carmody. Abog parlò per tutti: «Speriamo sia venuto per annunciare la sua conversione al boontismo.» «Sono venuto per incontrare Yess» disse Carmody. Tand intervenne: «Ti posso accompagnare all'albergo? Sei uno dei Padri, e ti abbiamo riservato uno degli appartamenti migliori. A spese dello stato, ovviamente.» Tand si voltò verso gli altri e disse che probabilmente avevano qualche importante faccenda da sbrigare. Quelli raccolsero il suggerimento e salutarono. Abog, prima di andare via, insistette perché Carmody gli fissasse un appuntamento, possibilmente quella stessa sera. Carmody rispose che ne sarebbe stato lieto. Allontanatesi le autorità, Tand condusse Carmody alla sua auto. Era un veicolo a degravitazione, come quasi tutte le altre auto che circolavano nei
pressi dello spazioporto. «Tutto cambia» disse Tand. «Tutto si trasforma nell'universo, anche sul nostro pianeta periferico. La popolazione si è quadruplicata. Nuove industrie, basate sulle tecnologie della Federazione, e spesso anche sul suo finanziamento. Ne sono sorte a migliaia.» Tand guidava, e Carmody osservava il panorama dal finestrino. Le massicce costruzioni di pietra, con le loro sculture sorridenti o minacciose, erano uguali a prima. Ma per le strade c'era più gente, e indossava vestiti chiaramente ispirati alle mode della Federazione. «La città che conoscevi è rimasta quasi la stessa. Ma intorno» spiegava Tand «su quelli che erano campi o foreste, c'è una nuova grande città. Non è fatta di pietra, non è fatta per durare. Troppi abitanti, troppa fretta. Non possiamo più perdere tempo a costruire.» «È così dappertutto» replicò Carmody. «Dimmi, sei ancora in contatto con la polizia?» «Non più. Ma ho le mie aderenze. Tutti i Padri ne hanno. Perché?» «Con il White Mule, insieme a me, è arrivato un uomo chiamato Lieftin. Una volta era un assassino su commissione. Adesso viaggia sotto il suo vero nome, e quindi penso gli sia stato fatto il trattamento di riabilitazione, al Johns Hopkins o in qualche istituto simile. Afferma di essere uh pastore della Primissima Chiesa di Dio, e forse la sua storia è vera. Se avessimo tempo, potremmo fare dei controlli, ma è appunto il tempo che ci manca. E c'è la possibilità che sia proprio lui l'assassino mandato dai fanatici terrestri per uccidere Yess. Lo hai saputo, vero?» «Ne ho sentito parlare. Dirò alla polizia di sorvegliare quel tale Lieftin» promise Tand «ma sarà difficile tenerlo sotto controllo, a meno che non lo pongano sotto arresto domiciliare. Se scende in città, tra la folla delle celebrazioni che precedono la Notte, potrà facilmente sfuggire a qualsiasi pedinamento.» «E che possibilità ci sono di confinarlo nella sua stanza?» «Nessuna. Sono cose che non si possono passare sotto silenzio, e le autorità non vogliono dar fastidio a un cittadino della Federazione se non ci sono buone ragioni.» Carmody rimase a lungo silenzioso. Poi riprese a parlare: «C'è un'altra persona che vorrei far sorvegliare, ma non so chi sia. È una cosa mia personale, e per me è importante, anche se è molto piccola in confronto alla congiura contro Yess.» Raccontò all'amico le minacce ricevute dalla persona che si faceva
chiamare Fratt. Tand ci meditò a lungo, poi disse: «Credi che il terrestre Abdu possa essere Fratt?» «Forse, ma è improbabile. Non ha avuto abbastanza tempo: non poteva sapere della mia improvvisa decisione di venire su Kareen.» «Se sapessimo cosa ha fatto, scopriremmo qualche spiegazione semplicissima» disse Tand. «Lo farò sorvegliare. La polizia ha da fare con la folla e non può rinunciare neppure a un uomo. Ma assumeremo un investigatore privato.» Tand fermò l'auto davanti alla loro destinazione. Arrivò subito un facchino che prese in consegna la valigia di Carmody, poi i due si recarono direttamente nell'appartamento. Tand aveva già provveduto a tutte le formalità, non ci fu neppure bisogno che Carmody firmasse il registro. C'era un gruppo di giornalisti, e cercarono di intervistare Carmody. Tand fece segno di allontanarsi e quelli, anche se non erano meno aggressivi dei loro colleghi terrestri, obbedirono. Anni prima, quando Carmody era stato su Kareen, si poteva salire ai piani superiori solo per mezzo delle grandi scalinate a chiocciola, ma il progresso aveva portato un sistema di ascensori antigravità. I pozzi delle scale erano così grandi che non c'era stato bisogno di tagliare gli scalini per far passare le cabine. «Questo edificio è sempre stato un albergo» spiegò Tand. «Probabilmente è il più antico albergo dell'universo. L'hanno costruito più di cinquemila anni fa. «È stato abitato per così tanto tempo» proseguì con una punta di orgoglio «che si dice che con un po' di attenzione si riesce a sentire l'odore della carne, assorbito dalla pietra durante i millenni.» La cabina si arrestò al settimo piano: un numero fausto, scelto per rendere omaggio a Carmody in veste di uno dei Sette Padri. Il suo appartamento distava circa duecento metri dalla scala, e vi arrivarono percorrendo un lungo corridoio dalle pareti di pietra. Le porte delle stanze erano di ferro: sembravano le porte blindate di una banca. Come molte porte kareenane, invece di essere incernierate da un lato erano montate su perni a metà della larghezza. Le stanze erano così ben protette che gli ospiti dell'albergo prendevano il Sonno direttamente nelle loro stanze, senza bisogno di andare nei rifugi preparati dallo stato. Carmody esaminò le tre stanze che costituivano il suo appartamento. I letti erano ricavati dai blocchi che formavano le pareti, e i tavoli facevano tutt'uno con il granito del pavimento.
«Costruzioni come questa, ormai non se ne faranno più» disse Tand con un'ombra di tristezza. Versò del vino rossastro e sciropposo in due coppe di legno. Il vino venne giù lentamente, come se fosse anch'esso di granito fuso... «Alla tua salute, John.» «Alla tua. E a tutti gli uomini di buona volontà, dovunque si trovino, sotto qualunque forma, e alla redenzione dei perduti e che Dio sia benevolo verso i bambini!» Mandò giù un sorso e scoprì che il vino non era dolce come si aspettava. Era quasi secco, ma riusciva a non essere amaro: dopo il primo contatto il gusto divenne piacevole. Sentiva uno strano calore che partiva dal suo interno e si irradiava a tutta la stanza. La penombra dell'ambiente incominciava a ricoprirsi di una luce dorata... Tand gliene offrì un altro bicchiere, ma Carmody lo rifiutò con un cenno. «Voglio incontrare Yess» disse. «Quanto tempo ci vorrà?» Tand sorrise: «Sei sempre impetuoso come una volta. Anche Yess è impaziente di vederti, come tu sei impaziente di vedere lui. Ma Yess ha molti doveri. È un dio, ma deve lavorare come un qualsiasi mortale. Adesso andrò da lui, cioè dal suo segretario, e combinerò un appuntamento.» «Sono a sua completa disposizione» disse Carmody. Scherzò: «Ah, dov'è finito l'amore filiale? Un figlio che fa aspettare il proprio vecchio Padre, assente da lungo tempo!» «Tu sei sette volte il benvenuto, John, ma la tua presenza è un po' imbarazzante, o potrebbe esserlo. Vedi, il popolo conosce la tua esistenza, ma non ha nessuna notizia sul tuo conto. Ben pochi sanno che non appartieni alla nostra fede, e se la cosa divenisse di pubblico dominio potrebbe dare origine a confusione nelle menti dei più sprovveduti. E anche dei più istruiti. Ma come fa un Padre a non credere a Boonta?!» «Me lo chiede anche la mia Chiesa. E io non so rispondere. Qui ho visto dozzine di quelli che chiamate miracoli, abbastanza da convincere legioni di infedeli. Quel che ho visto bastava a convertire il materialista più incallito, ma io non ho sentito il bisogno di convertirmi. «Le cose stavano così» continuò Carmody. «Al momento di lasciare Kareen per la Terra non ero più ateo, ma non mi sentivo portato verso nessuna religione in particolare. Ma mentre ero al Johns Hopkins ho avuto un'esperienza strana e inesplicabile. È stata appunto questa esperienza che mi ha portato alla Chiesa. Ma te l'ho già descritta per lettera e non c'è bisogno che te la racconti di nuovo.»
Tand si alzò dalla sua poltrona e disse: «Vado da Yess. Ti telefono.» Baciò l'amico e uscì. Rimasto solo, Carmody aprì la valigia e mise a posto gli abiti, poi si recò in bagno: nell'interno della vasca si vedevano solchi profondi prodotti dall'attrito di cinque millenni d'acqua e di corpi. Si era appena vestito quando sentì bussare. Liberò il chiavistello e incominciò a spingere un lato della porta per farla ruotare sui perni. La porta era pesante, ma era perfettamente equilibrata e ruotava con la grazia di una ballerina. Fece un passo indietro e allungò la mano per fermare la metà della porta che si apriva verso l'interno. Nello stesso tempo si accorse che il kareenano che aveva bussato metteva la mano in tasca. Non attese un istante di più: i vecchi riflessi agirono automaticamente. Fece un balzo in avanti, si appoggiò al muro e spinse violentemente il lato della porta che era già nel corridoio. Il kareenano aveva estratto la pistola e stava entrando lentamente con la schiena alla porta: evidentemente voleva cogliere Carmody di sorpresa per sparargli, e sperava che la porta lo nascondesse agli occhi della sua vittima. Ma c'era la spalla di Carmody che spingeva, e la porta continuava a girare, più in fretta di quanto avesse previsto l'assassino. La porta fece un mezzo giro e lo colpì senza che se lo aspettasse. Il peso lo buttò nella stanza; Carmody vide ancora il suo sguardo sorpreso, poi la porta, compiuta una rotazione completa, chiuse di nuovo l'ingresso. Dopo un istante la porta ritornò ad aprirsi: questa volta era spinta dal kareenano, che non voleva lasciarsi intrappolare lì dentro mentre la sua preda scappava per il corridoio. La scala era troppo distante: Carmody sapeva che il kareenano non gli avrebbe lasciato il tempo di raggiungerla. Il corridoio era deserto e tutte le porte delle stanze erano chiuse. Carmody si nascose dietro la porta e rientrò nell'appartamento mentre l'altro ne usciva. Il kareenano imprecò per la sorpresa e la rabbia di non vederlo, ma Carmody aveva già bloccato il chiavistello. Era al sicuro, almeno per il momento. Andò al telefono e chiamò il centralino: dopo un minuto la polizia era lì. No, non conosceva il suo aggressore. Sì, aveva ricevuto minacce da una persona che si faceva chiamare Fratt. Carmody descrisse la lettera da lui ricevuta, e disse che Tand gli aveva già promesso di occuparsene. La polizia se ne andò, ma due guardie rimasero a sorvegliare la porta. Era inconcepibile che un Padre rimanesse senza protezione, adesso che si sapeva che la sua vita era in pericolo. Carmody avrebbe fatto volentieri a
meno della sorveglianza perché le due guardie costituivano un impaccio, ma non avrebbe avuto difficoltà a liberarsene, pensava. Si versò un altro bicchiere di vino per calmare i nervi, e intanto ripensò all'accaduto. Il kareenano era stato mandato da Fratt? Sembrava poco probabile: Fratt voleva prendersi la vendetta da sé. Qualunque fosse la tortura o la morte che meditava per lui, voleva dargliela con le sue stesse mani. Si chiese anche di Lieftin. Se il suo comportamento era una finzione, se i suoi discorsi e i suoi vestiti erano un travestimento, se era lui l'assassino mandato dai fanatici terrestri, poteva avere intenzione di rapire Carmody. Forse pensava di strappargli informazioni su Yess. Carmody finì il vino e si mise a passeggiare avanti e indietro. Non voleva lasciare la stanza prima della telefonata di Tand, ma l'attesa lo rendeva nervoso. Suonò il telefono. Passò la mano sullo schermo ed esso si illuminò. Era Abog, il segretario del capo dello stato. «Sono un po' in anticipo, Padre, ma ho molta fretta di parlare con lei. Posso salire?» Carmody gli disse di salire, e dopo alcuni minuti sentì bussare alla porta. Carmody aprì uno spiraglio e fece capolino. Le guardie erano rimaste impressionate dagli splendidi vestiti e dalle credenziali di Abog; erano impietrite. Il segretario entrò e, immediatamente dopo, il telefono suonò di nuovo. Questa volta era un terrestre. «Job Gilson» disse. «Sicurezza Extraterrestre. Mi hanno detto che volevate vedermi.» Gilson era un uomo di mezz'età. Aveva carnagione chiara e lentigginosa, e i suoi connotati erano così regolari che non facevano nessuna impressione: una cosa preziosa per un poliziotto. «Può aspettare? Ho una visita.» «Sono abituato» disse Gilson. Sorrise: «Sono un piedipiatti.» Carmody ripassò la mano sullo schermo e lo spense. Offrì da bere ad Abog e il kareenano accettò. «Se fossimo in condizioni normali» incominciò Abog «non avrei nessuna fretta. Ma, sfortunatamente, non c'è tempo per i soliti indugi diplomatici. Il Padre non avrà nulla in contrario se verrò subito allo scopo della mia visita?» «Niente affatto. Mi spiacerebbe se lei girasse intorno al suo argomento come un serpente sull'olio, cioè come un uomo politico. Preferisco la decisione, in questo tipo di cose.»
«Ah, benissimo. Tuttavia il Padre dovrebbe avere qualche informazione sull'ampiezza dell'autorità che rappresento. E qualche notizia sulle nostre strutture di governo e sull'uomo che ne è a capo. Io penso....» «... io penso che le sue buone intenzioni di venire subito al sodo» lo interruppe Carmody «sono state tradite dal suo addestramento alla diplomazia. Lasci pure stare tutto il resto.» Abog appariva un po' scosso, ma si riprese subito con un veloce sorriso: «Benissimo. Volevo solo dire che il mio governo non chiederebbe mai nulla della sua vita privata e delle sue opinioni personali. Cioè, non lo chiederebbe in condizioni normali. Ma ora le dobbiamo chiedere...» «Chieda.» Abog trasse un profondo respiro e disse: «Lei è venuto ad annunciare la sua conversione al boontismo?» «Tutto qui? No, non è quello il motivo che mi ha fatto venire. Io continuo a mantenere la mia fede.» «Oh!» Abog sembrava deluso. Dopo un silenzio e una lunga occhiata in giro, riprese a parlare: «Però forse potrebbe usare la sua influenza di Padre per dissuadere Yess.» «Non so che influenza posso avere. Dissuadere Yess da cosa?» «Francamente: il mio capo, Rilg, è molto preoccupato. Se Yess deciderà che tutti devono restare svegli, le conseguenze saranno catastrofiche. Sopravvivranno i "buoni", i "purificati", ma quanti saranno coloro che supereranno la Notte? Le statistiche prevedono che moriranno più di tre quarti della popolazione. Pensi alla cifra, Padre. Tre quarti! La civiltà kareenana sarà distrutta alle radici!» «Yess ne è al corrente?» «Glielo abbiamo detto. È d'accordo con noi che le statistiche possono essere vere, ma pensa che possono anche essere sbagliate. Dice che se di solito Yess riesce a vincere Algul è perché ci sono dei buoni motivi. Dice che la maggioranza dei Dormienti è composta di "buoni": i loro sogni riflettono i loro veri desideri, e influenzano coloro che restano svegli. È per questo che vince Yess. «Secondo il ragionamento di Yess» proseguì Abog «se tutti staranno svegli, l'effetto sarà lo stesso di sempre, ma coloro che sono fondamentalmente 'buoni', e che di solito non prendono il Sorino perché non si fidano, avranno invece la possibilità di eliminare dalla loro personalità quelle tracce di male che sono sempre presenti, anche nei migliori.»
«Yess potrebbe avere ragione» osservò Carmody. «Potrebbe anche avere torto marcio!» ribatté Abog. «E noi crediamo che lo abbia. Ma anche se avesse ragione, pensi a quello che succederà! Le previsioni possono sbagliare, ma come minimo morirà un quarto della popolazione. Che distruzione, che macello! Uomini, donne, bambini!» «È spaventoso.» «Spaventoso? È orribile, è crudele! Nemmeno lo stesso Algul sarebbe capace di studiare un'azione così malvagia! Se non fossi ben sicuro di come sono andate le cose, sarei tentato di dire...» Si fermò, si alzò e andò accanto al terrestre. Gli sussurrò: «Alcune voci dicono che in quella Notte non è nato Yess. Che è nato Algul e che, furbo com'è, ha fatto finta di essere Yess. Un trucco che ben si addice alla personalità dell'Ingannatore!» Carmody sorrise e disse: «Non parlerà sul serio!» «Certo che no! Mi crede uno di quei poveri sciocchi? Ma sono voci che mostrano la confusione del popolo. I kareenani non riescono a capacitarsi che il loro dio grande e gentile possa obbligarli a quel passo.» «Ma quel passo era previsto dalle vostre Scritture.» Abog sembrava spaventato. Nella sua voce c'era una nota di panico. «Vero» concesse. «Ma nessuno si aspettava che succedesse davvero. Gli unici che ci credevano erano un pugno dei più fanatici: pregavano perché venisse la Notte della Veglia generale.» «Non mi è chiara una cosa» disse Carmody. «Che cosa succede a chi si rifiuta di esporsi alla Notte?» «Chi si rifiuta di obbedire a un ordine di Yess è automaticamente e legalmente classificato come algulista. Viene arrestato e imprigionato.» «Ma non sarà esposto alla Notte.» «Oh no, tutt'altro. Non gli vengono date le droghe del Sonno. Qualunque cosa gli capiti, dovrà affrontarla in una cella di prigione.» «Ma supponiamo che ci sia una resistenza di massa» chiese Carmody. «Il governo non avrebbe né il tempo né la possibilità di opporsi alla volontà popolare, non le pare?» «Lei non conosce i kareenani. Per atterriti che siano, la maggioranza penserà sempre che disobbedire a Yess sia inconcepibile.» Più Carmody ci pensava, meno la cosa gli piaceva. Poteva anche essere d'accordo sul costringere gli adulti, ma i bambini! Gli innocenti avrebbero sofferto, molti sarebbero morti. Se un genitore odiava inconsciamente il figlio, durante la Notte l'avrebbe ucciso. E se l'altro genitore si fosse messo a
difenderlo, prima sarebbe stato ucciso lui, poi sarebbe morto anche il figlio. «Non capisco» disse. «Ma lei lo ha detto: non sono un kareenano.» «Cercherà di convincere Yess a non forzare la popolazione alla Veglia?» «Il governo ne ha già parlato con gli altri Padri?» si cautelò Carmody. «Con alcuni» disse Abog. «Ma non abbiamo cavato un ragno dal buco. I Padri seguiranno Yess fino alla fine.» Carmody rimase silenzioso per un po' di tempo. Era sua intenzione cercare di convincere Yess a rinunciare alla sua idea, ma non sapeva se poteva fidarsi di dirlo ad Abog. Che uso ne avrebbe fatto delle sue parole? E cosa avrebbe potuto dire Yess, se Carmody avesse raccontato in giro le sue intenzioni? «Devo assumermi le mie responsabilità» disse forte Carmody. Si rivolse ad Abog: «Allora siamo d'accordo. Cercherò di convincere Yess a non prendere la decisione temuta dal suo governo. Ma siamo chiari: non voglio che se ne parli alla TV, O che questa intervista sia passata alla stampa. Se dovesse succedere, sarei costretto a smentire tutto.» Abog sembrava soddisfatto. Disse sorridendo: «Molto bene. Forse lei può riuscire dove gli altri Padri non hanno avuto successo. C'è ancora tempo: finora Yess non ha dato nessun annuncio ufficiale.» Ringraziò Carmody e uscì. Il sacerdote telefonò a Gilson e gli disse di salire. Poi avvertì le guardie di lasciarlo passare. Il telefono suonò una terza volta. Era Tand. «Mi spiace, John, ma Yess non può incontrarti questa stessa notte. Però vi incontrerete domani pomeriggio al Tempio. Cosa conti di fare per passare il tempo?» «Penso che mi metterò una maschera sulla faccia e mi unirò alla gente.» «Tu puoi farlo perché sei un Padre» disse Tand. «Ma i tuoi compatrioti terrestri Lieftin e Abdu, gli uomini che mi hai segnalato, non lo possono fare. Sono riuscito a ottenere una cosa: la polizia li confina all'albergo, a meno che non accettino di esporsi alla Notte. Tutti gli extrakareenani sono confinati alle loro abitazioni a partire da questa sera. Temo ci saranno molti turisti e molti scienziati di cattivo umore, questa volta. Ma è meglio che sia così.» «Tu hai un'influenza notevole, Tand.» «Cerco di non abusare del mio potere. Ma penso che questa restrizione sia una buona idea. Vorrei venire con te, John, ma sono legato a troppe ce-
rimonie ufficiali. Il rango impone degli obblighi, lo sai anche tu.» «Certo. Buonanotte, Tand.» Passò la mano sullo schermo e si allontanò. Il telefono suonò un'altra volta. Apparve un'orribile maschera che riempiva tutto il campo. Dai rumori, Carmody suppose che la chiamata venisse dalla cabina pubblica di una delle vie principali. Dalle rigide labbra della maschera usciva una voce distorta. «Carmody, qui è Fratt. Volevo solo darti un'occhiata prima della tua morte. Voglio vedere se soffri, anche se non soffrirai mai come mio figlio e me.» Il sacerdote si sforzò di rimanere calmo. Disse con voce tranquilla: «Fratt, io non ti conosco. Tu hai parlato di un mio delitto, ma io non lo ricordo. Perché non vieni a discuterne nella mia stanza? Forse cambieresti idea.» Ci fu una lunga pausa; così lunga che Carmody ritenne di averlo sorpreso. Poi l'uomo rispose: «Non mi crederai così stupido da mettermi nelle mani di uno come te? Sei pazzo.» «Bene, allora fissa tu il posto e l'ora. Verrò all'appuntamento da solo. Ci metteremo d'accordo.» «Oh, mi incontrerai, puoi esserne certo. Ma quando e dove meno te lo aspetti. Vedo che hai paura, che chiedi pietà!» Sulla faccia passò un guanto a forma di zampa, lo schermo divenne bianco. Carmody sentì bussare e andò ad aprire la porta. Entrò Gilson. «Non credo che potrò aiutarla molto, padre» disse con un certo nervosismo. «Mi hanno appena detto che non posso lasciare l'albergo.» «È colpa mia» rispose Carmody, e lo informò della situazione. A Gilson la cosa piacque poco, e quando sentì il resoconto della telefonata di Fratt gli piacque ancora meno. «Per quel che posso fare» disse «tanto vale che me ne parta con la prima astronave.» «Scendiamo al ristorante dell'albergo» propose Carmody. «Offro io. L'albergo ha un cuoco terrestre per chi non vuole adattarsi alla dieta kareenana. C'è però un guaio: è messicano. Se non le piace la cucina piccante...» Quando arrivarono al ristorante trovarono Abdu e Lieftin allo stesso tavolo. Mangiavano con poca voglia ed erano di pessimo umore. Carmody si invitò al loro tavolo e Gilson seguì il suo esempio. Gilson fu presentato come un uomo d'affari. «Sei riuscito ad avere un colloquio con Yess?» chiese Carmody a Lieftin.
Lieftin fece una smorfia e rispose: «Sono stati molto gentili, ma mi hanno detto chiaramente che non potevo incontrare Yess fino a dopo la Notte.» «Potresti prendere il Sonno» propose Carmody. Poi, ripensandoci: «Mmm... Se Yess proibisce il Sonno, anche gli extrakareenani dovranno obbedire...» «Mi consigli di prendere il Sonno e di incontrarlo dopo la Notte?» fece incollerito Lieftin. «Assolutamente no!» Carmody si chiedeva la ragione della collera di Lieftin, ma se l'assassino era lui, era suo interesse finire tutto prima della Notte. «Lei adesso ritorna sulla Terra?» chiese Carmody ad Abdu. «Con le nuove disposizioni non riuscirà a combinare nessun affare.» «La restrizione mi dà un po' fastidio» ammise Abdu. «Ma posso seguire i miei interessi per telefono.» «Non penso che si possa combinare molto. Durante i festeggiamenti i mercati sono fermi.» «I kareenani sono come i terrestri. C'è sempre qualcuno disposto a commerciare senza badare a niente, anche in mezzo al terremoto.» Lieftin indicò l'ingresso dell'albergo: «Avete visto quei due con le piume rosse e blu? Sono poliziotti. Controllano che non ci allontaniamo da questa maledetta tomba.» «Tutto tace» disse Carmody, e si guardò intorno. A eccezione di un cameriere, dieci tavoli più in là, non c'erano altre persone nel ristorante. Nel corridoio c'erano solo alcuni impiegati e fattorini, tutti silenziosi e preoccupati. «Non riesco a sopportare la mia stanza» disse Lieftin. «Mi sembra di essere in un mausoleo: tutta quella pietra e quel silenzio. Ma come fanno i kareenani a vivere in posti come questo?» «I kareenani hanno molte cose in comune con gli antichi egizi» spiegò Carmody. «Pensano sempre alla morte e alla brevità della loro permanenza su questo pianeta. Amano ricordare che questa vita è solo un passaggio.» «Ma credono in un Paradiso?» chiese Abdu. «O in un Inferno?» Carmody stava per rispondere, ma attese che rispondesse Lieftin. Se Lieftin era veramente un religioso, doveva conoscere almeno i primi elementi della fede kareenana. Era improbabile che la sua Chiesa avesse scelto un uomo impreparato: i viaggi interstellari costavano troppo. Lieftin chinò gli occhi sul piatto e riprese a mangiare. Era chiaro che non aveva nessuna intenzione di rispondere alla domanda di Abdu. Rispose
Carmody: «Il boontismo ha due livelli di Paradiso. Il più basso è per coloro che sono fedeli a Yess, che cercano di essere "buoni" ma che non osano mettersi alla prova esponendosi alla Notte. Essi vanno in un luogo dove vivono come sono vissuti qui. Devono lavorare, dormire, hanno delusioni, dolori, noia. Ma vivono per sempre. «Il livello superiore» proseguì Carmody «è per i fedeli di Yess che superano la Notte. Si crede abbiano un eterno piacere, un'estasi mistica. Un'esperienza, si potrebbe dire, simile a quella promessa dalla religione cristiana. Vedono Dio faccia a faccia, ma nel loro caso è il volto mistico di Yess, la gloria dietro la maschera di carne. Ma nessuno mai vede Boonta, neppure il suo stesso figlio.» «E il loro Inferno?» chiese ancora Abdu. «Ci sono anche due livelli di Inferno» spiegò Carmody. «Il piano inferiore è per gli indifferenti, i tiepidi, gli ipocriti. E anche per chi ha scelto il Rischio ma non l'ha superato. Vedete, è per questo che sono sempre pochi a scegliere il Rischio. È vero che il premio vale il pericolo, ma il fallimento li manda subito all'Inferno, e c'è sempre un'alta percentuale di fallimenti. È più sicuro non esporsi, e andare al livello inferiore di Paradiso. «Il livello superiore dell'Inferno è riservato ai veri algulisti. Ed essi hanno una loro estasi, analoga a quella degli yessiti del livello superiore. Ma è la gioia nera, l'orgasmo del male. Inferiore alla gioia del Paradiso, ma ogni vero algulista la preferisce. Il male vuole il male, preferisce il male.» «È una religione matta» disse Lieftin. «I kareenani dicono che è matta la nostra.» Carmody si scusò, salutò Gilson e ritornò alla sua stanza. Si fece chiamare Gilson al telefono. «Esco per un po' di tempo. Vado a trovare una mia vecchia amica, una kareenana. E voglio offrire a Fratt la possibilità di colpirmi. Forse è il modo giusto per incontrarlo, e neutralizzarlo o riportarlo in senno. Almeno potrò sapere chi è, e cosa lo rende così assetato di vendetta.» «Potrebbe essere più veloce lui» obiettò Gilson. «Lo so benissimo» rispose Carmody. «Ah, dimenticavo. Adesso chiamo Tand e gli dico di usare ancora la sua influenza. Voglio che la liberi dalla restrizione all'albergo. Lei dovrebbe sorvegliare il nostro primo sospettato, Lieftin. Se riesce a scappare, e sono sicuro che riuscirà, non voglio che lei sia bloccato qui senza poterlo inseguire.» «Grazie» disse Gilson. «Gli terrò gli occhi addosso.» Carmody tolse il contatto e fece il numero di Tand. Il volto del kareena-
no apparve sullo schermo. «Sei stato fortunato a trovarmi ancora in casa» gli disse. «Stavo proprio uscendo. Cosa posso fare per te?» Carmody gli espresse il suo desiderio. Tand rispose che non c'erano difficoltà. Avrebbe dato immediatamente l'ordine. «È un momento in cui ci occorre tutto l'aiuto che possiamo trovare. Non abbiamo nessuno per pedinare Lieftin se scappa dall'albergo, e riuscirà certo a scappare, se sarà abbastanza furbo.» «Il vecchio Lieftin ce l'avrebbe fatta» disse Carmody. «La situazione è brutta» spiegò Tand. «Gli assassini terrestri ci preoccupano, ma non sono i soli. Ci sono anche gli algulisti, e si preparano a colpire prima che la Notte abbia inizio. E quando dico algulisti, non mi riferisco solo a quelli che hanno superato la Notte. Parlo di tutta la società segreta, composta di persone che non hanno mai scelto il Rischio. Ce ne sono un mucchio nel governo, te lo dico anche se forse stanno intercettando questa comunicazione.» «Non mi è chiara una cosa» disse Carmody. «Questi algulisti, quelli che hanno superato la Notte quando ha vinto Yess, sono ancora vivi? Ricordi quando ero bloccato dalla statua e non mi era ancora chiaro se avrei scelto Yess o Algul? Fatta la mia scelta e definitivamente certi che il bambino era Yess, gli aspiranti Padri di Algul hanno cercato di fuggire. Ma sono morti tutti. «Ora» continuò Carmody «ho sempre pensato che gli algulisti superano la Notte solo se vince Algul, ma sento dire che ci sono algulisti che hanno superato la Notte vivi, che ce ne sono anche adesso. Come mai?» «Quelli che hai visto sono morti perché lo abbiamo voluto noi, consciamente o inconsciamente. Ma gli altri algulisti, quelli che non facevano parte dei sei Padri, sono sopravvissuti. Non li abbiamo uccisi perché non li conoscevamo. Essere algulista è contro la legge, lo sai. La pena è la morte. Se dovesse vincere Algul (e Boonta ce ne scampi!) puoi essere sicuro che chi viene scoperto yessita viene ucciso. E con molti tormenti.» «Grazie, Tand. Adesso vado a trovare la signora Kri. Vive sempre nella stessa casa dove abitavamo una volta?» «Non saprei dirtelo. Sono molti anni che non la vedo, e non ho più sentito parlare di lei.» Carmody si fece portare un costume con la grande maschera dell'uccello trogur. La indossò e uscì dall'albergo presentando le credenziali agli agenti della porta principale. Prima di uscire diede un'occhiata al ristorante. Gil-
son, Lieftin e Abdu non c'erano più, ma erano arrivati una dozzina di turisti extrakareenani e stavano cenando. Anch'essi avevano l'aria depressa. Di fuori, il silenzio cimiteriale dell'albergo lasciava posto a una tempesta di musica e di voci. Fischi, scoppi di petardi, tamburi e raganelle: le strade erano piene, un caos di uomini in costume, chiassosi e in cerca di divertimento. Lentamente, a forza di spintoni, Carmody si spinse tra la folla. Dopo un quarto d'ora riuscì a entrare in un vicolo laterale meno affollato. Camminò ancora per un mezzo chilometro, poi vide un taxi. L'autista non sembrava molto soddisfatto al pensiero di viaggiare tra il caos che c'era per strada, ma dietro le insistenze di Carmody avviò la macchina brontolando. Una volta usciti dalle vie principali, la folla si diradava e il taxi poté procedere con una certa velocità, ma anche lì doveva ogni tanto fermarsi per lasciar passare qualche gruppo di uomini mascherati, diretti alle strade del centro. Dopo una mezz'ora, il taxi era arrivato alla casa della signora Kri. Ormai la grande luna di Kareen era alta nel cielo e versava coriandoli d'argento sulle pietre bianche e grigie delle costruzioni massicce. L'autista si era rassegnato a perdere il divertimento: non fece obiezioni quando Carmody gli chiese di aspettarlo per il ritorno. Carmody avanzò per il vialetto che portava alla casa, e si fermò a dare un'occhiata all'albero che era stato Mr Kri. Dall'ultima volta era molto cresciuto: adesso raggiungeva un'altezza di trenta metri, e i suoi rami si allargavano sul cortile. «Salve, signor Kri» disse Carmody, e diede un buffetto al tronco. Oltrepassò l'uomo-pianta senza riceverne risposta, e bussò alla grande porta di ferro. Tutte le finestre erano buie: forse Carmody aveva preso la decisione troppo in fretta, forse avrebbe dovuto dare una telefonata d'avviso. Ma la signora Kri era di sicuro una vecchia che non usciva di casa: le droghe della longevità terrestri erano costose, solo i kareenani molto ricchi potevano permettersele. Bussò di nuovo alla porta, ma gli rispose solo il silenzio. Si voltò e stava già per andarsene quando sentì che la porta si apriva con un cigolio. «Chi è?» chiese timidamente una voce. Carmody tornò indietro e si tolse la maschera. «Sono John Carmody, un terrestre» si presentò. Dalla porta uscì un filo di luce. Sulla soglia stava una vecchia, ma non era la signora Kri. «Molto tempo fa» disse Carmody «abitavo qui. Sono venuto a salutare la signora Kri.»
La donna, vecchia e incartapecorita, sembrava allarmata a vedersi davanti un mostro extrakareenano venuto dallo spazio. Si nascose dietro la porta, sporse solo la punta del naso, e disse con voce tremolante: «La signora Kri non abita più qui.» «Mi saprebbe dire dove posso trovarla?» chiese gentilmente Carmody. «Non lo so. Ha deciso di scegliere il Rischio la scorsa Notte, e da allora non se ne è saputo più nulla.» «Oh, mi spiace molto» disse Carmody, e gli spiaceva davvero. La signora Kri era una donna permalosa e irascibile, ma le era affezionato. Ritornò al taxi. Stava per entrare quando vide i fari di un'auto che girava dietro un angolo e che veniva contro di lui. Carmody si chinò istintivamente, riparandosi dietro il taxi. Probabilmente si stava comportando da sciocco, pensò, ma preferiva non discutere con il suo istinto. E questa volta il suo istinto aveva ragione. Sentì il colpo di un'arma e il rumore dei vetri infranti. L'autista del taxi lanciò un grido: l'auto degli assalitori acquistò velocità e si allontanò per la strada. Si sentirono ancora i pneumatici stridere voltando una curva. L'auto era scomparsa. Carmody fece per alzarsi ma qualcosa scoppiò davanti a lui, nell'interno del taxi. Il colpo lo buttò indietro, lo accecò e lo assordò. Quando riuscì a rimettersi in piedi, tremava ed era avvolto da un fumo soffocante. L'interno del taxi era in fiamme. Da una portiera scardinata pendeva il corpo senza vita del tassista. Carmody ritornò di corsa alla casa e bussò diversi colpi alla porta ermeticamente chiusa, ma non ebbe risposta. Probabilmente la vecchia era al telefono che chiamava la polizia. Raccolse da terra la maschera, la rimise sulla faccia e si allontanò a piedi. Sentiva ancora un ronzio alle orecchie e aveva negli occhi il bagliore dell'esplosione. Dopo qualche centinaio di metri raggiunse una cabina telefonica pubblica e provò a chiamare Gilson all'albergo. L'investigatore non c'era. Si fece chiamare Lieftin: questa volta apparve il volto di un poliziotto kareenano. L'agente gli chiese di togliere la maschera, e fu piuttosto sorpreso di riconoscere il Padre di Yess. Assunse subito una espressione deferente. «Il terrestre Lieftin è scappato dall'albergo» spiegò «circa mezz'ora fa. Ha usato un laser per tagliare le sbarre della finestra, e si è calato con una corda che aveva nei bagagli. Abbiamo dato ordine a tutte le nostre forze di cercarlo, ma è mascherato. Si è fatto portare un costume da un fattorino.» «Per favore» chiese Carmody «controllate se il terrestre Raphael Abdu è
ancora nella sua stanza. E sapete qualcosa di Gilson?» «Gilson è uscito quando ha scoperto la fuga di Lieftin. Il Padre attenda all'apparecchio: cercheremo Abdu.» Passarono cinque minuti, poi l'agente ritornò allo schermo e disse: «Il terrestre Abdu è nella sua stanza, Padre.» Il volto del poliziotto scomparve, ma si sentì ancora la sua voce: «Attenda ancora un attimo, Padre.» Parlò brevemente a qualcuno che Carmody non poteva vedere. «Bene» mormorò, e ritornò allo schermo: «Gilson ha mandato un messaggio per lei: deve mettersi in contatto con lui a questo numero.» Carmody formò il numero e apparve il volto di Gilson. Si sentivano voci e risate. «Sono nella taverna tra Wiilgrar e Tuwdon» disse Gilson. «Attenda un attimo che mi rimetto la maschera. Me la sono tolta per farmi riconoscere da lei.» «Cosa succede?» chiese Carmody. «Mi hanno detto che Lieftin è scappato dall'albergo.» «Ah, lo sa? Bene. Lo sto seguendo. È qui nella taverna e parla con un altro. Un kareenano, ne sono certo: ha unghie blu e piume che gli escono dalla maschera. Lieftin ha un costume che raffigura qualche animale; credo sia un cervo kareenano: la maschera ha un muso con delle corna. Il suo compagno ha un costume da gatto.» Probabilmente Ardour ed Eeshquur, pensò Carmody. Conosceva un poco la mitologia e la favolistica kareenane, e la descrizione di Gilson gli aveva fatto riconoscere i due personaggi. Ma non perse tempo a raccontarlo a Gilson. «Resti lì e mi aspetti, cerco un taxi» disse Carmody. «Mi sono successe alcune cose, ma gliele racconterò quando arrivo.» Tolse il contatto con Gilson e cercò un taxi. Passarono dieci minuti prima che ne trovasse uno; stimolato da una grossa somma di denaro, l'autista infranse tutte le leggi del traffico: il viaggio non richiese un attimo più del minimo indispensabile. La taverna di Tiiwit non era in una delle strade principali della città di Rak, ma quella notte era affollatissima perché, terminata la processione, la gente era sciamata da quella parte. Gilson indossava un costume uguale a quello di Carmody, e lo aspettava accanto all'ingresso. Si scambiarono qualche parola, poi entrarono insieme. Lieftin e il kareenano erano seduti a un tavolo in fondo alla sala. Dai ge-
sti del kareenano, Carmody aveva l'impressione di averlo visto non molto tempo prima. Quando si alzò per andare alla toeletta, lo riconobbe dal suo modo di camminare. «È Abog» disse a Gilson. «Il segretario di Rilg. Ma perché è qui che parla con Lieftin?» Era improbabile che Abog fosse lì di sua iniziativa, solo per passare il tempo: di sicuro l'aveva mandato Rilg. Forse Rilg faceva parte della società segreta degli algulisti. Poteva avere saputo che i fanatici terrestri avevano mandato un assassino, e avere deciso di fare causa comune. «Mi ascolti, Gilson» disse Carmody. «D'ora in poi sarà meglio non fidarci della polizia. Può darsi che lavori per Rilg. Adesso lei esca e vada all'albergo. Pedinerò io Lieftin. Se prendono me ho più probabilità di venire rispettato.» «Vado» disse Gilson «ma preferirei che lei non corresse rischi.» «Non si preoccupi per me: conosco questo pianeta meglio di lei. E poi, a meno che lei non intenda esporsi alla Notte, tra poco dovrà partire.» L'investigatore uscì augurando buona fortuna a Carmody. Il sacerdote rimase qualche tempo al banco, davanti a una birra kareenana. Appena un tavolo si rese libero, si sedette vicino a Lieftin e Abog. La taverna era rumorosa e non poteva sentire le parole che i due si scambiavano. Si pentì di non avere portato con sé una fonospia: avrebbe potuto puntarla sui due e ascoltarli senza farsene accorgere. Improvvisamente i due si alzarono e si diressero in fretta all'uscita. Carmody lasciò passare un momento prima di seguirli. Forse erano in allarme: Abog continuava a guardarsi dietro. I due uscirono dalla porta quando Carmody era a metà della sala. Appena usciti i due, tre poliziotti apparvero sulla soglia bloccando il passaggio. Carmody si fermò e fece un elegante dietrofront, ma dall'uscita di servizio stavano già arrivando altri poliziotti. Che Lieftin o Abog li avessero riconosciuti? Carmody ne dubitava: era più probabile che fossero solo misure di sicurezza, per evitare di essere seguiti. Carmody si diresse alla toeletta; si sentivano già i primi colpi di fischietto e i primi strilli di avventori spaventati. Uscì dalla finestra senza che nessuno lo vedesse. Scivolava come un gatto sull'acciottolato del vicolo, quando sentì una voce che diceva: «Fermo là! Mani sulla testa!» Carmody voltò la testa e alzò le braccia. Dietro a lui c'era un poliziotto e
gli puntava la pistola: «Voltati! Schiena al muro! Presto!» «Non faccio niente, capo!» mormorò Carmody in dialetto kareenano. Finse di obbedire, ma mentre si voltava alzò la maschera e terminò il movimento sbattendola violentemente in feccia al poliziotto. L'uomo lanciò un grido e fece fuoco: il proiettile si schiacciò contro il muro. Carmody si tuffò contro le gambe del poliziotto, lo buttò a terra e gli fu sopra prima ancora che riuscisse a fare una mossa di difesa. Gli affondò i pollici sotto la gola e l'uomo svenne, Carmody raccolse la pistola e la maschera. Mentre correva verso la fine del vicolo si rimise sul volto la maschera e nascose l'arma in tasca. Sentì fischi e colpi d'arma da fuoco che lo inseguivano. Si buttò a terra per evitare i proiettili, percorse l'ultimo tratto a rotoloni, svoltò l'angolo, si rialzò e riprese a correre. Dopo un minuto era di nuovo sulla via principale e si era confuso tra la folla. Un'auto della polizia si muoveva lentamente a sirene spiegate. Carmody si scostò e la guardò passare. Il suo pedinamento finiva qui: Lieftin e Abog gli erano sfuggiti. A questo punto, tanto valeva ritornare all'albergo. Dal corridoio dell'albergo chiamò la stanza di Gilson, ma non ebbe risposta. Chiamò Tand, e un servo gli disse che Tand non sarebbe ritornato fino al mattino dopo. Salì alla sua stanza accompagnato da due poliziotti, aprì la porta e fece ispezionare l'appartamento. Gli riferirono che non c'era nessun estraneo e che non sembrava ci fossero oggetti sospetti. Carmody ringraziò i poliziotti e serrò il chiavistello. Dopo essersi servito un bicchiere di vino, Carmody camuffò il letto per farlo sembrare occupato. Allargò sul tavolo una tovaglia pendente fino a terra, si nascose sotto, si raggomitolò e si addormentò. Lo risvegliò il telefono, posato sul tavolo sopra di lui, e Carmody, invece di alzarsi per andare a rispondere, alzò soltanto un lembo della tovaglia e diede un'occhiata in giro. Dalle sbarre e dai doppi vetri della finestra filtrava la luce del mattino, tutto sembrava sicuro. Uscì dal suo nascondiglio. Gli facevano male i muscoli, per le acrobazie della sera prima e per la posizione scomoda in cui aveva dormito. Al telefono c'era Tand, e sembrava non avere dormito meglio di Carmody. Aveva la faccia tirata e due rughe che gli correvano dagli angoli del naso all'orlo delle labbra. Ma sorrideva. «Com'è andata la prima notte all'albergo?» chiese Tand. «Non mi sono annoiato» rispose Carmody. Diede un'occhiata all'orologio sul muro. «Quasi ora di colazione. Ho dormito tutta la mattina.»
«Ho buone notizie» disse Tand. «Yess ti vedrà oggi pomeriggio. All'ora del thrugu, nei suoi quartieri al Tempio.» «Ottimo» rispose Carmody, e aggiunse: «Dimmi un po', credi che le nostre telefonate siano intercettate da qualcuno?» «E chi lo può dire? Potrebbe anche essere. Perché?» «Devo parlarti. Subito. È una cosa importantissima.» «Volevo andare a dormire» disse Tand «ma chi ci riesce, in questi giorni? D'accordo. Perché non vieni da me? O preferisci un altro posto?» «La tua casa potrebbe essere sorvegliata.» Tand perse subito il sorriso: «La situazione è così grave? Allora ci troviamo tra mezz'ora davanti all'albergo.» Mentre aspettava nella sua stanza, Carmody passeggiava nervosamente avanti e indietro. Agitava le braccia e le portava ai fianchi. Il nome di Fratt continuava a battere come un martello. Fratt! Fratt! Chi? Dove? Quando? Aveva una memoria eccellente, completa e senza blocchi. Ricordava tutti gli orribili delitti commessi. C'era stato un tempo in cui pensava che solo con la morte si sarebbe liberato del rimorso. Ma da allora era passato molto tempo: adesso era in grado di ripercorrere l'elenco dei suoi crimini come se li avesse commessi un altro. Ma perché non riusciva a far riemergere dal suo passato l'uomo chiamato Fratt? Ripensò a tutte le vittime di cui conosceva il nome. Erano tante. Poi cercò di ricordare i volti sconosciuti, e anche questi erano tanti. Arrivato il momento di uscire, aveva ormai rinunciato. Sentiva anche un leggero mal di testa: una cosa di cui non soffriva da anni. Che fosse la sua coscienza? C'era ancora un rimorso nascosto nel suo inconscio, invece di essersene completamente liberato, come credeva? Uscì dall'albergo mentre Tand arrivava in un'auto lunga e nera. La porta destra si aprì e Carmody si accomodò accanto a Tand sul sedile anteriore. «È una macchina da competizione» disse Tand con un certo orgoglio. «Le costruiamo su licenza terrestre.» Tand si allontanò dalle vie del centro e si diresse verso una zona residenziale. Fermò l'auto accanto a un giardino. «Non preoccuparti di fonospie puntate su di noi» disse «ho fatto installare uno schermo.» Carmody gli riferì le sue peripezie della notte precedente. «Anch'io sospettavo qualcosa del genere» disse Tand «ma non possiamo farci nulla. Non abbiamo nessuna prova concreta. In questo momento potremmo mettere Abog di fronte alla tua accusa, ma cosa ne caveremmo? Non hai nessuna prova che l'uomo in costume da Eeshquur fosse Abog. Tu
ne sei sicuro, ma non puoi identificarlo concretamente, nel senso legale. E poi, anche se riuscissimo a dimostrare che era lui, non possiamo accusarlo di nulla. Cosa faceva? Parlava con un terrestre, in una taverna. È una cosa comune nelle feste che precedono la Notte, e potrebbe dire che non sapeva neppure che Lieftin fosse un terrestre.» «No, non credo» disse Carmody. «Non penso che Lieftin possa parlare kareenano come uno di qui.» «Mettiti il cuore in pace. Tu non puoi dimostrare nulla, disse Tand in galattico.» Ma, come dite voi terrestri, uomo avvisato mezzo salvato. Carmody sorrise perché Tand si era fatto il segno che i bambini kareenani e i contadini superstiziosi si facevano per scacciare il diavolo Duublow, che si nasconde dietro gli angoli delle case e afferra gli ignari viandanti. «E non è detto che Rilg sia un algulista» riprese Tand. «Anzi, forse è convinto di essere un devoto yessita. Ma è il capo del nostro governo, e si preoccupa soprattutto di una cosa: la sopravvivenza dello stato e il benessere dei kareenani. Nella sua personalità c'è un conflitto tra il religioso, che vorrebbe accettare ciò che il suo dio gli comanda, e l'uomo di stato, che vorrebbe mantenere lo status quo. Aggiungi i suoi dubbi di riuscire a superare la Notte: direi che questo è l'elemento più forte, in lui e in molti altri. «Ma c'è una cosa che Rilg non capisce, e come lui non la capiscono in molti. Una volta o l'altra si rende necessaria una selezione. E allora perché non adesso, anche se sarà dolorosa? Credimi, molti manifestano resistenza perché la loro fede è debole. È facile seguire la religione più popolare, adorare il dio vittorioso. Ma quando siamo chiamati alla prova suprema, allora la cosa è diversa!» «Ma cosa intende fare Yess? Separare i maturi dagli immaturi?» «Si potrebbe anche vederla sotto questo aspetto» disse Tand. «Ma i bambini!» Tand fece una smorfia: «La cosa non piace neppure a me, credimi. Ma se ci dev'essere una selezione, dev'essere completa. Non si possono fare eccezioni.» «Non mi sembra logico» obiettò il sacerdote. «Ma cosa credete? Di selezionare i "buoni" per fare razza? E chi vi dice che anche i loro figli saranno "buoni"? Non verrai a dirmi che la bontà, qualunque sia la sua definizione, è una caratteristica ereditaria!» «No, ma in generale i bambini tendono a comportarsi come i genitori. E poi la cosa non ha importanza: se Yess decreta una Veglia generale non ci
sarà più Sonno. Tutti i kareenani saranno esposti a tutte le Notti.» «Va bene, non vale la pena discuterne. Cambiamo argomento: cosa hai deciso riguardo a Rilg e Abog?» «Conto di aumentare i provvedimenti presi in difesa di Yess. E di proteggere anche te. Ho già fatto trasferire le tue cose a una stanza del quattordicesimo piano. Gli agenti che ti sorvegliavano verranno sostituiti da uomini di cui mi posso fidare. Non muoverai un passo fuori della tua stanza senza che siano state prese tutte le precauzioni.» «Sono d'accordo» disse Carmody «anche se la sorveglianza mi limiterà i movimenti. A proposito, potresti provvedere alla famiglia del tassista? Non ho nessuna responsabilità nella sua morte, ma, se non fosse per me, sarebbe ancora vivo.» «Ho già provveduto» rispose Tand. Sorrise tristemente: «Ma forse quel denaro non servirà a nulla, dipende da come supereranno la Notte. E forse, alla fine della Notte, i nostri denari non avranno più valore.» Tand avviò l'auto e si diresse verso l'albergo. Carmody rimase a lungo in silenzio. Il suo cardinale gli aveva dato l'incarico di convincere Yess a non imporre una Veglia generale. Ma le notizie raccolte su Kareen gli avevano mostrato che, dal punto di vista degli interessi della Chiesa, una Veglia era la miglior cosa che si potesse desiderare. Se la civiltà kareenana fosse crollata, i missionari del boontismo avrebbero cessato la loro opera di proselitismo e non l'avrebbero più ripresa per molti anni. Se invece si guardavano le cose dal punto di vista della carità cristiana, il cardinale aveva ragione. Ma Carmody era certo che il cardinale e i suoi superiori non pensavano a questi sviluppi della situazione: erano a diecimila anni-luce di distanza da una civiltà extraterrestre, e non conoscevano gli effetti dell'atto di Yess. Pensavano solo ai danni che avrebbe potuto fare un pianeta di yessiti fanatici. Vedevano già con terrore sciami di missionari che invadevano la Terra e le colonie. Cosa doveva dire a Yess? Doveva disobbedire alle istruzioni del cardinale e incoraggiare Yess a ordinare una Veglia generale? O doveva seguire gli ordini che gli aveva dato Faskins, e agire contro gli interessi della Chiesa? Nella coscienza di Carmody non c'era dubbio. Uno solo era il suo dovere: lottare contro il dolore e la morte. Un cristiano non poteva comportarsi diversamente. Solo un uomo sul posto poteva conoscere la situazione, e quest'uomo doveva agire contro gli interessi materiali della Chiesa. E se i suoi superiori non fossero stati d'accordo, era già adesso pronto a ricevere
la punizione che gli avrebbero dato. Aveva una sola perplessità: forse Tand e gli altri si allarmavano più del necessario. Forse l'unico che conosceva davvero la situazione era Yess. Tand lo lasciò all'ingresso dell'albergo, e tre poliziotti in borghese corsero verso Carmody per scortarlo. Tand lo salutò: «Nel pomeriggio manderò una macchina a prenderti. Ci incontreremo all'esterno dei quartieri di Yess, e ti darò istruzioni per l'udienza.» Carmody lo ringraziò e ritornò alla sua stanza, che adesso si trovava al quattordicesimo piano. Gli uomini di Tand si posero di guardia nel corridoio. Chiamò Gilson al telefono ma non ebbe risposta. Chiamò il portiere, gli chiese se Gilson avesse lasciato qualche messaggio per lui. L'uomo rispose che il signor Gilson non aveva più fatto sapere nulla fin dalla notte prima. Carmody era preoccupato. Fece diverse volte il numero di Tand senza riuscire a entrare in contatto con lui, poi chiese di parlare all'ufficiale a capo della squadra che lo aveva sorvegliato in precedenza. I poliziotti erano stati destinati ad altri servizi, ma l'ufficiale continuava le indagini. Il tenente Piinal era nel corridoio del piano terreno, ma salì subito da Carmody per parlargli nella sua stanza. Piinal era un giovane kareenano molto alto, sottile e solenne. «Il Padre sospetta che ci sia qualche traditore nell'albergo?» chiese. «Può darsi» non escluse Carmody. Non aveva dato a Piinal la vera versione degli incidenti della notte. Gli aveva raccontato che Gilson aveva seguito Lieftin nella taverna di Tiiwit, e che vi si era recato anche lui quando Gilson lo aveva chiamato per telefono. Gli aveva detto che avevano sorvegliato Lieftin, ma non gli aveva parlato dei suoi sospetti su Abog. Aveva continuato dicendo che Gilson aveva seguito Lieftin fuori della taverna, ma che lui stesso non aveva potuto accompagnarlo: era ritornato all'albergo perché aspettava una telefonata di Tand. E non gli aveva fatto parola dell'incidente nel vicolo, con i poliziotti. «Potrei mandare alcuni uomini a fare indagini» disse Piinal «ma il Padre deve capire che i festeggiamenti ci stanno mettendo a dura prova. Le strade sono piene di persone mascherate, in tutte le ore del giorno e della notte. La gente balla, beve e fa l'amore fino a cadere in terra dalla stanchezza. Poi dorme qualche ora e ricomincia. E con tutte le maschere che ci sono in giro, è difficile riconoscere una persona, anche se è un terrestre.» «Capisco» rispose il sacerdote. «Penso che dovrò svolgere le ricerche da solo. Conosco il modo di gesticolare e di camminare di Gilson, posso rico-
noscerlo anche se mascherato.» «Ho l'ordine di proteggere la sicurezza del Padre» disse il tenente «e tra la folla non posso farlo. Mi spiace ma è impossibile.» «Il Padre Tand mi ha dato tre guardie del corpo» disse Carmody. «Chiedo ancora scusa al Padre, ma lei non può uscire dall'albergo. Gli uomini del Padre Tand potrebbero sorvegliarla, ma sono sotto il mio comando.» Suonò il telefono e rispose Piinal che era più vicino. Apparve la faccia di un poliziotto. Disse: «Windru a rapporto, tenente. È per il terrestre Gilson. Lo hanno trovato: è morto. Due pugnalate alla schiena e un taglio alla gola.» Carmody mandò un gemito: «Windru» disse «è certo del riconoscimento?» Windru interrogò con lo sguardo il suo superiore, e Piinal disse: «Tutto a posto, parla pure.» «Sì, Padre. Aveva i documenti nel portafogli. Abbiamo controllato le fotografie e le impronte.» Piinal si scusò dicendo che doveva disporre il trasporto della salma. Evidentemente la Sicurezza Extraterrestre era d'accordo con le autorità kareenane per farsi rispedire sulla Terra i corpi dei loro agenti morti in servizio, e Piinal se ne serviva come scusa per troncare una conversazione imbarazzante. Cercò ancora una volta di telefonare a Tand, ma gli dissero che non riuscivano a trovarlo. Riprese a passeggiare avanti e indietro per la stanza. Quella specie di prigionia era insopportabile, avrebbe voluto fare qualcosa. Lieftin era certo collegato alla morte di Gilson, e probabilmente aveva la sua parte di colpa anche Abog. Ma Carmody non poteva far nulla. Nulla. E dove era finito Lieftin? Dovunque fosse in quel momento, Lieftin seguitava a mandare avanti il suo piano: l'assassinio di Yess. La furia di Carmody era giunta al punto di maledire il gruppo di terrestri che avevano assoldato Lieftin, i suoi correligionari. Discepoli di Cristo e discepoli di Algul uniti insieme! Sentì battere alla porta, un colpo attutito dallo spessore della lamiera. Carmody aprì il chiavistello e spinse la porta per far segno ai poliziotti di entrare. Ma la porta continuò il suo giro e ne entrarono due kareenani che impugnavano la pistola. Dietro di loro, nel corridoio, ce n'erano altri due. Spingevano nella stanza i corpi delle guardie.
Carmody indietreggiò con le braccia alzate. Mentre un uomo continuava a puntargli la pistola, l'altro andava ad aiutare i due che trasportavano le guardie. Queste non erano morte come pensava Carmody. Erano fuori conoscenza, dormivano sotto l'effetto di un potente anestetico. Un kareenano passò al prete un costume e una maschera. «Mettili» ordinò. Carmody non poteva fare altro: obbedì. «Vi manda Fratt?» chiese. Ma nessuno dei quattro gli rispose. Quando si fu vestito e si fu messa sul volto la maschera (una testa di Ardour) uno degli uomini gli ordinò di uscire con loro. Gli rimanevano dietro. Se avesse cercato di scappare o di chiamare aiuto gli avrebbero sparato alle gambe. Anche i kareenani si erano rimessi le maschere, e non erano diversi da un qualsiasi gruppo che andasse a divertirsi. Lo portarono fino a dove il corridoio iniziava, gli dissero di salire la scala. Giunti al piano superiore, ripercorsero il corridoio fino alla stanza che stava esattamente sopra la sua. Uno dei rapitori bussò alla porta: due colpi, una pausa, poi altri tre colpi. La porta fu aperta. Carmody si sentì puntare una pistola alla schiena. Dovette entrare. Per il corridoio non c'era nessuno. La porta fu chiusa dietro di lui, e il chiavistello la bloccò con un rumore sordo. Gli tolsero la maschera: vide che la stanza era arredata come la sua e che le porte interne erano aperte. Nel mezzo della stanza, accanto al tavolo di pietra, c'era Raphael Abdu, e vicino alla tavola sedeva una vecchia terrestre. Era vestita alla moda di trent'anni prima, e alcuni particolari dei suoi abiti denunciavano un'origine coloniale. Carmody non riuscì a riconoscerne il pianeta d'origine. La donna aveva lunghi capelli bianchi, raccolti in una treccia annodata sulla cima della testa. Il viso era pieno di rughe, ma quand'era giovane doveva essere stata bellissima. Adesso nascondeva gli occhi dietro grandi occhiali da sole esagonali. «Sei assolutamente certo che l'uomo è John Carmody?» chiese la donna ad Abdu, e il suo accento non era terrestre. Spazientito, Abdu rispose: «Non sia ridicola! Vuole che lo faccia parlare perché lei possa riconoscere la sua voce?» «Sì!» esclamò la donna. «Parla, Carmody!» grugnì Abdu. «Dacci qualche bella frase di un tuo sermone. La signora vuole sentirti.» «Ah, Fratt!» esclamò Carmody. «Ecco perché non riuscivo a ricordarmi di lei! Credevo lei fosse un uomo. Ed è ovvio che faceva parlare un altro al
posto suo.» «È lui!» gridò la donna, trionfante. «Quella voce! Non l'ho mai dimenticata! Finalmente, dopo tanti anni!» Afferrò il braccio di Abdu. La mano della donna era tutta una ragnatela di vene. «Paga i kareenani» disse. «Falli andare via.» «Va bene» disse Abdu. Andò in un'altra stanza e ritornò subito con un grosso fascio di banconote kareenane. Diede a ciascuno la sua parte e attese che finissero di controllare. Tre uscirono subito e uno rimase. Afferrò Carmody e gli legò le braccia dietro la schiena. Lo spinse su una sedia e gli legò le caviglie con del nastro adesivo. Poi prese una corda da sotto il mantello e gli legò la vita alla sedia. Due altre strisce di nastro gli fissarono le spalle allo schienale. «La bocca?» chiese il kareenano. Abdu tradusse per la donna. «No» rispose lei. «Se ne avremo bisogno, lo faremo stare zitto noi. Digli che lasci il nastro sul tavolo.» «Non ho ancora capito chi è lei» disse Carmody. «Hai troppi delitti sulla coscienza» rispose la donna. «Ma io non ho dimenticato. E solo questo conta.» Il kareenano uscì e Abdu chiuse la porta dietro di lui. Ci fu qualche attimo di silenzio. Carmody ritornò a studiare i connotati della donna, e improvvisamente gli ritornò alla memoria tutto. Era la donna che gli aveva dato la pianta della fortezza che conteneva il diamante Staronif. Carmody era arrivato sul pianeta Beulah per nascondersi: Raspold e gli altri che lo inseguivano lo avevano quasi raggiunto su Springboard, ma era riuscito a fuggire in tempo. Beulah era un pianeta abitato in prevalenza da inglesi e scandinavi, e Carmody aveva vissuto l'identità di un cercatore minerario. Per molto tempo non aveva pensato al diamante perché non voleva dare nell'occhio. Ma quando pareva che Raspold avesse perduto le sue tracce, Carmody aveva lasciato da parte la sua identità ed era ritornato a stabilire contatti. Non poteva più resistere alla tentazione: aveva lasciato da parte le esitazioni e si era messo a cercare il modo di rubare lo Staronif. Gli erano occorsi quattro mesi per elaborare tutti i dettagli: un tempo abbastanza breve, vista l'importanza del furto. Aveva raccolto intorno a sé una discreta banda di malviventi, e tra questi c'era anche Lieftin. Procuratosi un'astronave per allontanarsi da Beulah, era riuscito a corrompere una delle guardie dello Staronif, e la cosa era già un notevole successo: quelle guardie erano note
per la loro fedeltà. La guardia doveva staccare l'allarme e aprire la porta per lasciarli entrare; aveva procurato la pianta della costruzione, e dei segnali d'allarme installati nella camera blindata che rinchiudeva lo Staronif durante la notte. Ma il principe del piccolo stato di Beulah aveva avuto l'impressione che le cose fossero ferme da troppo tempo. Aveva allontanato tutte le guardie e ne aveva assunto di nuove. Aveva anche dato inizio a lavori di trasformazione, cambiando la disposizione delle stanze e dei segnali d'allarme. Carmody temeva le reazioni della guardia: se l'uomo si fosse ritenuto estromesso dal piano e dalla sua parte di bottino, avrebbe potuto tradirli. Doveva morire e Carmody l'aveva ucciso. I suoi complici volevano rinunciare al furto, ma Carmody aveva ordinato di continuare e di attenersi al programma stabilito. Dopo alcune indagini, era riuscito a sapere che la segretaria del principe non era stata allontanata; si diceva che fosse la sua amante e che il principe non volesse perderla. Carmody era entrato nella casa della donna la notte prima del furto. La signora Geraldine Fratt, così si faceva chiamare, era insieme a un'altra persona: suo figlio. Il figlio viveva in un altro stato e si trovava lì per caso: era andato a trovare la madre. La donna non aveva parlato neanche sotto tortura, e quando divenne chiaro che preferiva morire piuttosto che rivelare qualcosa, Carmody aveva incominciato a torturare il figlio. La donna non poteva sopportare che il figlio venisse torturato sotto i suoi occhi, anche se la implorava di non parlare. La signora Fratt li aveva guidati nell'interno della fortezza. Lieftin e un altro avevano portato via il figlio per essere sicuri che la donna non li tradisse. Tolto lo Staronif dalla camera blindata, Carmody vi aveva spinto dentro madre e figlio. Poi aveva gettato una bomba a mano e chiuso la porta. Ma l'esplosione aveva azionato un allarme, costringendo Carmody e i suoi a una fuga precipitosa, invece del tranquillo rientro all'astronave che avevano progettato. Raspold era arrivato su Beulah, e si era unito alle ricerche. Carmody era fuggito su un graviplano rubato. Forzato ad atterrare ai margini della Grande Foresta di Thorn, si era dato alla fuga a piedi. E in quella foresta aveva dovuto cacciare lo Staronif giù per la gola della lugar. Più tardi era fuggito da Beulah, e alla fine era arrivato su Dante's Joy. «Non avevo pensato a lei, signora Fratt» disse Carmody «perché credevo che la lettera fosse stata spedita da un uomo. E poi ero sicuro di avervi
ucciso tutt'e due.» «Mio figlio mi ha protetto con il suo corpo» disse la donna «ed è morto sul colpo. Le schegge mi hanno straziato la faccia e distrutto gli occhi. Mi sono fatta riparare la faccia, ma gli occhi...» Si tolse gli occhiali e Carmody scorse le orbite vuote. «Ma poteva farseli rimettere!» esclamò il sacerdote. «Avevo giurato di rimanere cieca finché non ti avessi restituito tutto il male che hai fatto a Bart e a me. Ho speso molto tempo e molto denaro per cercarti, Carmody. Avevo un mucchio di denaro: il principe mi ha lasciato una fortuna in eredità. Ma quel denaro era quasi tutto finito quando finalmente ho saputo che facevi il prete a Wildenwooly. Avevo già rinunciato al siero della longevità per destinare tutti i miei mezzi alla tua ricerca: ecco perché mi vedi così invecchiata. Avevo paura di morire prima di trovarti, ma ti ho trovato, grazie a Dio!» «Tutti quegli anni per trovarmi?» chiese sorpreso Carmody. «Signora Fratt, ma che razza di incapaci mi ha messo dietro?» «Raphael Abdu ha condotto la ricerca per conto mio. Non osare, non dire una sola parola contro di lui, mostro diabolico! Abdu è un uomo capace e fedele. Ha lavorato per anni senza posa. Lo conosco e mi fido di lui.» «E alla fine, quando le ha succhiato tutto il denaro e non ce n'è altro in vista, lui mi scopre adesso, al momento opportuno?» disse il sacerdote. «Bene, se non altro diamogli un punto di merito perché non ha lasciato cadere tutta la cosa nel nulla. Le ha dato qualcosa in cambio di un buon lavoro redditizio durato trent'anni. Ah, che buon servitore! che fedeltà!» «Devo chiudergli la bocca, signora Fratt?» chiese Abdu. «Potrei buttargli giù i denti, tanto per incominciare.» «No, lascialo dire. Le sue parole non hanno importanza, non riuscirà a farmi tornare indietro dalla mia decisione.» «Signora Fratt» disse Carmody «Abdu mi poteva trovare facilmente, in ogni momento da quando ho lasciato Dante's Joy. Per un anno sono stato al Johns Hopkins. La polizia sapeva dove mi trovavo, e la mia Chiesa non aveva nessun motivo di nascondere la mia identità e il mio luogo di residenza. Abdu ha approfittato della sua ingenuità.» «Sei un diavolo senza scrupoli» rispose la donna. «Sei riuscito a scappare al primo uomo mandato da Abdu, e ci hai reso le cose difficili. Ma adesso sei qui, e nulla ti potrà salvare.» La stanza era fredda come una tomba, ma Carmody sudava. «Signora Fratt» disse, senza far trasparire la sua disperazione «capisco
che lei voglia vendicarsi. Lo capisco almeno in parte, perché, dopo tutti questi anni e dopo la mia conversione, non sono più l'uomo che lei ha conosciuto. Ma c'è una cosa che non capisco e che non posso perdonare: lei ha ucciso una persona innocente. Mia moglie!» La donna si afferrò ai braccioli della sedia: «Come? Cosa hai detto?» «Lo sa benissimo cosa ho detto!» rispose duramente Carmody. «Lei ha fatto assassinare la mia Anna! E con quell'azione si è resa pazza e colpevole come quel John Carmody che lei odia. Lei è crudele e malvagia quanto lui, lei non ha diritto di parlare di giustizia o di vendetta.» «Cosa dici?» strillò la donna, voltando la testa cieca prima verso Abdu e poi verso Carmody. «Cos'è questa storia di tua moglie? Io non sapevo neppure che ti fossi sposato! Assassinata, dici? Assassinata?» Rispose Abdu con voce untuosa, riuscì anche a fare una risata, ma intanto guardava Carmody con aria truce: «L'avevo avvertita di stare attenta con quest'uomo, signora Fratt. È furbo come il demonio. Si sta inventando tutta la storia di sua moglie per confonderla e per mettere un'ombra di sospetto su di me. Sua moglie sta benissimo. L'ho vista che lo salutava quando è partito da Wildenwooly.» La signora Fratt aveva un'espressione infuriata: «Bugiardo! Cosa non faresti, Carmody, pur di salvarti la pelle!» «Ho detto solo la verità» disse Carmody. «Mia moglie è stata uccisa da una bomba. E poco prima che lei morisse ho ricevuto una lettera da un uomo mascherato: mi ha detto che la responsabilità cade su di lei!» «Tu menti!» «Allora forse mi potrà spiegare un'altra cosa. Se mi voleva vivo, perché ha cercato di uccidermi vicino alla casa di una mia vecchia amica, qui a Rak?» La donna divenne ancora più pallida e si morse le labbra. «Nel suo odio contro di me» seguitò Carmody «lei ha causato la morte di mia moglie, non solo, ma ha anche fatto uccidere un innocente: l'autista del taxi che mi aspettava. È stato ucciso dalla bomba destinata a me.» «Continua a mentire!» esclamò ferocemente Abdu. «Lo giuro! Direbbe qualsiasi menzogna per salvarsi, ma non si salverà!» La signora Fratt allungò un braccio, toccò Abdu e gli cercò la mano a tastoni. «Dimmi che non è vero, dimmi che non hai fatto quelle cose terribili, dimmelo! Tu non hai ucciso sua moglie e quell'altro uomo, tu non li hai uccisi! Tu non hai cercato di uccidere Carmody, non hai cercato di rubar-
melo!» «Deve avere fiducia in me, signora Fratt» rispose Abdu. «Farebbe meglio a non dargli più ascolto. Quell'uomo riuscirebbe a convincere un serpente affamato a non mangiare un uccello.» Diede un'occhiata all'orologio: «Signora Fratt, c'è ancora una decina di ore prima dell'ultima astronave. Sarebbe meglio incominciare. Lei non ha mai pensato a una vendetta breve, ricorda?» «Oh» disse la donna «adesso mi accorgo del mio sbaglio. Avrei dovuto farmi trapiantare gli occhi: mi piacerebbe vederlo soffrire! Ma non c'era tempo.» «Non ha molta importanza: può sentire la sua voce.» «Signora Fratt» disse Carmody, e la sua voce tremava senza che riuscisse a evitarlo «le rivolgo un ultimo appello. Poco fa lei ha parlato di Dio, Lo ha ringraziato. Crede che Dio approvi ciò che lei sta per fare? Se lei è cristiana, per l'amor di Dio non lo faccia! Anche se fossi l'uomo che le ha fatto del male, Dio non vuole che lei mi torturi. "La vendetta è mia" dice il Signore, e io non sono più...» «"La vendetta è mia, dice il Signore!"» sibilò la signora Fratt. «Anche il diavolo cita le Scritture, dicono! Ma continua! Piangi, chiedi misericordia! Io ti imploravo per amore di mio figlio e tu ridevi di me! Ridi adesso!» Carmody non aggiunse altro. Sperava di riuscire a morire con dignità. Sarebbe arrivato al limite della resistenza, ma non avrebbe né pianto né chiesto misericordia. Ma non poteva fermare i tremiti del suo corpo. «Signora Fratt» disse «finché riesco ancora a parlare e agire razionalmente, sappia che la perdono. Spero che anche Dio possa perdonarla. Qualsiasi cosa dirò poi, si ricordi che questo è il mio desiderio: Dio la perdoni!» La signora Fratt si era alzata in piedi. Prese a camminare lentamente verso di lui, con Abdu che le teneva la mano. Si fermò e portò la mano al cuore. Rimase, così, senza parlare, finché non intervenne Abdu: «È solo un altro trucco, signora Fratt. Non gli dia ascolto.» «Aiutami, Raphael» mormorò la donna con un filo di voce. «Aiutami.» «Le darò io la forza» promise Abdu. Andò al tavolo e alzò la tovaglia. Alla luce della finestra, si vedeva il luccichio dell'acciaio. Lunghi coltelli affilati, bisturi e scalpelli chirurgici, un trapano con una serie di punte elicoidali, una sega. C'erano anche sottili stecchini di duul kareenano, un legno simile al bambù, e poi fili, forbici, un paio di pinze con larghi orli sottili, una mazza e un martello.
Abdu scelse un bisturi, si diresse verso la signora Fratt e glielo mise in mano. «Come inizio, questo andrebbe bene» disse. «Facciamogli qualche sfregio sulla faccia. Deve sentire un po' del dolore che ha sofferto lei, signora Fratt.» La donna toccò con esitazione il bisturi, poi ritrasse la mano. «Se le manca la forza proprio adesso» disse Abdu «tutta la sua attesa sarà sciupata. Ha perso gli occhi per niente?» La donna scosse la testa: «Fammi toccare la sua faccia. Sono cieca, ma forse, riconoscendolo al tatto, riuscirò a odiarlo come lo odiavo quella volta. Dio! Non avrei mai creduto di poter esitare! C'erano delle volte che piangevo perché non l'avevo tra le mie mani!» Si avvicinò a Carmody. Allungò la mano e gli toccò la fronte. Abbassò la mano, poi la rialzò e la mosse sul suo volto. Carmody le serrò le dita tra i denti. La donna gridò per il dolore e la sorpresa. Cercava di ritirare la mano, ma Carmody continuava a tenere i denti stretti. Aveva le caviglie legate insieme, ma non gliele avevano assicurate alle gambe della sedia. Le diede un calcio violento, e la donna gridò di nuovo. Abdu imprecò e accorse ad aiutarla. Carmody ritirò le gambe contro il petto, e la contorsione gli costò dolore. Aprì la bocca: la donna ritrasse la mano e indietreggiò barcollando. Carmody raddrizzò le gambe e la colpì alla bocca dello stomaco: la donna si piegò su se stessa e cadde su Abdu. Poi scivolò esanime sul pavimento. Abdu guardava con aria stupita il bisturi insanguinato che teneva in mano e il sangue che usciva dalla schiena della donna. Buttò a terra la lama e si inginocchiò accanto alla signora Fratt. Chiamò invano il suo nome, le sentì il cuore e infine si alzò. «Non è stato il bisturi» disse «la ferita non è abbastanza profonda. L'hai uccisa tu col tuo calcio, bastardo!» «Non volevo ucciderla» prese fiato Carmody «ma ho dovuto farlo per colpa tua. Cosa credevi? Che me ne stessi buono buono mentre mi tagliava a pezzi con quel tuo coltello?» «Tu non hai nessuna speranza, Carmody» disse lentamente Abdu. «Quel trucco non funziona due volte. Raccolse il bisturi e si mise a lato di Carmody.» «Ma cosa vuoi, Abdu?» chiese il sacerdote. «Hai vissuto bene alle spalle sue. Non ti basta? Che ti importa di torturarmi?» «Vero. Lei mi manteneva e io vivevo da re. Ma la vecchia mi piaceva, anche se era una stupida. E poi sono sempre stato curioso di sapere che ti-
po di uomo sei, Carmody.» Adesso era dietro la sedia e gli teneva ferma la testa con il braccio sinistro. Il bisturi incise la guancia di Carmody e tagliò verso il basso. «Fa male, Carmody?» sussurrò Abdu nell'orecchio del prete. «Abbastanza» rispose Carmody con un filo di voce. Il bisturi sferzò l'angolo della bocca di Carmody, che si irrigidì serrando i denti per non gridare. Abdu gli appoggiò la lama contro la gola: «Una piccola pressione e sarebbe tutto finito. Non ti piacerebbe?» «Mi vergogno a confessarlo, ma mi piacerebbe molto» ammise Carmody. «Dio mi perdoni!» «Già, sarebbe una specie di suicidio, vero? Bene, se c'è l'Inferno, tu ci andrai, ma non avere troppa fretta.» Abdu ritornò al tavolo e prese uno di quegli stecchini simili al bambù: «Proviamo a metterne qualcuno sotto le tue unghie e a dargli fuoco. Non lo hai mai fatto a nessuno?» «Dio mi perdoni ancora» disse Carmody inghiottendo la saliva. «Sì? Tu pensavi che tutte queste cose fossero fuori della tua vita, vero? Ma adesso vedi che ai nostri delitti non si può sfuggire. Ci seguono come un cane che ha fiutato un osso vecchio.» Abdu si avvicinò da un lato, si inginocchiò e appoggiò tutto il suo peso sulle gambe di Carmody. Gli tolse la scarpa e la calza; Carmody cercò di divincolarsi, ma non riuscì a muovere la gamba. Abdu gli cacciò uno stecchino sotto l'unghia dell'alluce, e Carmody urlò. «Grida pure» gli disse Abdu. «Le pareti sono spesse, nessuno ti sentirà.» Prese una scatola di fiammiferi kareenani e ne accese uno, strofinandolo sul pavimento. Diede fuoco allo stecchino. «È legno imbevuto di petrolio» spiegò. «Brucia come l'Inferno, non sei d'accordo?» Fu bussato alla porta. Abdu si voltò, estraendo la pistola da una fondina sotto l'ascella. Qualche altro colpo, poi il rumore finì. Abdu mandò un respiro di sollievo, ma subito trasalì al suono del telefono. Carmody osservava il fumo dello stecchino che crepitava lentamente. Non gridava più, si sentiva svenire. Non poteva immaginare dolore più intenso, ma sapeva che il peggio veniva dopo, quando la fiamma toccava i nervi. «Smetti di suonare, maledetto!» gridò Abdu. «Credo cerchino me» riuscì a mormorare Carmody. «Avranno trovato le
mie guardie del corpo. E sanno che non ho lasciato l'albergo.» «Continueranno a cercare. Non possono entrare se non apro la porta.» Carmody ansimò dal dolore, prese fiato e disse: «E cosa conti di fare? Cercano anche te. Sanno che questa è la stanza della vecchia e che lei non risponde. E che tu non sei nella tua stanza, ma che non sei uscito dall'albergo. Sai benissimo che tengono nota di chi entra e chi esce.» Abdu lo guardò con odio. Andò al tavolo e prese il pezzo di nastro adesivo. Lo mise sulla bocca di Carmody e si avvicinò al telefono. Carmody avrebbe voluto sentire la conversazione, ma non ne fu capace. Il fuoco era già arrivato al legno sotto l'unghia. Sentiva solo le proprie urla, che gli salivano sempre più forti nella testa. Ma il dolore non gli aveva annebbiato la vista, e si accorse del primo sottile ricciolo di fumo che si levava dal chiavistello della porta. Abdu non lo vide perché voltava la schiena e stava ancora parlando al telefono. Sul chiavistello apparve una linea e si allungò verso il basso. La sbarra si divise in due. Nello stesso istante Abdu si voltò: vide il fumo e i due tronconi: mosse le labbra per quella che doveva essere una bestemmia. La porta ruotò sui perni. Abdu alzò l'arma e fece fuoco. Un oggetto sferico cadde nella stanza, rotolò verso Abdu ed esplose in una nube di fumo giallo. Il corpo di Abdu divenne una sagoma che alzava due ombre di braccia per afferrarsi l'ombra di una gola. Cadde a terra, e subito entrarono alcuni kareenani con maschere antigas. Uno si avvicinò in fretta a Carmody e cercò di estrargli dal dito lo stecchino incendiato, ma riuscì solo a spezzare la parte già carbonizzata. Si alzò e fece un segno: subito arrivò un altro kareenano con un'ipodermica e ne iniettò il contenuto nel braccio di Carmody. Dopo pochi secondi l'anestetico faceva effetto e per Carmody venne l'oblio. Si svegliò in un letto che non era il suo. Il dolore al piede e alla faccia era svanito, e a capo del letto c'era Tand. La tensione precedente e l'inattesa visione dell'amico che riprendeva i sensi lo fecero piangere di commozione. Tand non ne fu imbarazzato: gli uomini di Kareen piangevano con la stessa facilità delle donne terrestri. Sorrise a Carmody e gli toccò la mano. «Adesso è tutto a posto, sei al sicuro a casa mia. Sano e salvo, almeno per ora. Siamo stati fortunati: Abdu non ci ha visto, altrimenti ti avrebbe ucciso.» «Abdu è ancora vivo?»
«Sì, è vivo e lo stanno interrogando.» «Ha parlato dei suoi rapporti con Lieftin e Abog?» «Ha confessato tutto sotto il siero della verità. Abdu aveva dato a Lieftin l'ordine di ucciderti: sono stati i suoi uomini gli autori dell'attentato vicino alla casa della signora Kri. Ma Lieftin ha fatto tutto senza farlo sapere ad Abog; anzi, temeva che lo venisse a sapere e che disapprovasse. Abog ti vuole vivo perché lui e Rilg sperano che tu riesca a convincere Yess a rinunciare alla Veglia generale. «Mio caro amico» concluse Tand «eri in una rete di fili incrociati.» «La signora Fratt è morta?» chiese Carmody. «Mi spiace, ma è morta. Abdu ci ha raccontato tutto.» Vedendo l'esitazione di Carmody, Tand si affrettò a rassicurarlo: «Cos'altro potevi fare? Non avevi scelta.» «Ti conosco abbastanza bene» rispose Carmody «tu ti stai chiedendo perché io, un uomo che ha superato la Notte, mi sia difeso così ferocemente. Ti chiedi perché non ho continuato a cercare di convincerla a desistere: la donna stava visibilmente per cedere.» «Me lo sono chiesto, ma comprendo che il tuo istinto di sopravvivenza ti ha preso la mano. E poi, un uomo che ha superato la Notte non è "perfetto", tutt'altro. Io ne ho superate molte, e anche se ogni volta sono "migliore", mi resta ancora molta strada da fare. Inoltre, chi sono io per giudicarti? Forse avrei fatto anch'io la stessa cosa.» Fece una pausa, poi continuò: «Ma non capisco una cosa. Da quando hai superato la Notte, tu hai il potere di separare la mente dal corpo e di non sentire il dolore. Perché non ne hai approfittato?» «Ho cercato» rispose Carmody «ma non ne sono stato capace, per la prima volta nella mia vita.» «Mmmm, vedo.» «Era come se si fosse rotto il circuito» disse il sacerdote. «E la causa è ovvia. Sentivo, o lo sentiva il mio inconscio, che dovevo soffrire per il male fatto alla signora Fratt e a suo figlio. Non era un pensiero logico, perché le mie sofferenze non potevano più cambiare nulla, né la situazione né i sentimenti della signora Fratt, e neppure i miei. Ma l'inconscio ha anche lui la sua logica, lo sai.» Si tastò l'alluce: «Non sento nessun dolore.» «Ti farà male quando svanirà l'effetto dell'anestetico. Ma a quel punto dovresti poter controllare il dolore. A meno che tu non voglia ancora infliggerti la punizione.»
«Spero proprio di no.» Si alzò a sedere. Era un po' debole e scosso, ed era affamato, scoprì con sorpresa. «Vorrei mangiare qualcosa. Che ora è?» «Hai l'appuntamento con Yess tra un'ora. Pensi che potrai farcela?» «Sarò a posto. Dimmi, cosa conti di fare con Rilg e Abog?» «Dipende da Yess. È una situazione molto complessa. Ci vorrebbe del tempo, per decidere un piano e per metterlo in azione. E quello che manca è proprio il tempo. Tra l'altro: Lieftin è ancora uccel di bosco.» Carmody si alzò dal letto. Dopo avere mangiato, essersi fatto il bagno ed essersi rivestito, si sentiva di nuovo la sua vecchia personalità. Tand ne fu soddisfatto. «Voglio che tu sia in forma quando incontri tuo figlio» disse. «Nostro figlio, dovrei dire, ma credo che il vero Padre sei tu, più di noi tutti messi insieme.» «Ci saranno anche gli altri?» chiese Carmody. «Non questa volta» rispose Tand. «Ma avviamoci. C'è molta gente per la strada e conviene affrettarci.» Ma Tand aveva torto. Per la strada c'erano poche persone, e non erano chiassose e frenetiche come le altre volte. «Non ho mai visto una cosa simile» confessò Tand. «Si vede che sono preoccupati per la decisione di Yess. Evidentemente la gente è a casa davanti alla TV per vedere se Yess dà qualche annuncio.» L'auto si diresse verso il retro dell'immenso Tempio, una parte che Carmody non aveva mai visto. Non c'era il porticato sorretto dalle cariatidi, e anche il numero delle sculture era piuttosto scarso. Tand fermò l'auto accanto all'ingresso e accompagnò Carmody a una piccola entrata all'angolo sud-ovest. Una pattuglia di sentinella lo salutò e un ufficiale aprì la porta con una grossa chiave appesa a una catena d'argento. La porta dava in una anticamera. C'era un piccolo tavolino con riviste e nastri magnetici. Di qui si passava a una stanza che conteneva una stretta scala dagli scalini di quarzo e una piccola cabina antigravità. Il pozzo dell'ascensore era stato scavato nella pietra. Tand e Carmody entrarono nella cabina. Tand schiacciò il pulsante contrassegnato dall'ideogramma del numero sette. «Io non entro» disse. «È ovvio che non hai bisogno di presentazione, anche se di solito il protocollo ne richiede una. Yess ha visto la tua foto, e inoltre, chi altro potresti essere?» Carmody si sentiva prendere da un certo nervosismo. La cabina si arre-
stò, Tand aprì la porta ed entrarono in una piccola anticamera. Tand infilò una chiave nella serratura di una porta ovale e la aprì. Poi trasse di tasca una seconda chiave e la diede a Carmody. «Tutti i Padri ne hanno una» spiegò. Carmody indugiava accanto alla porta, e Tand gli disse: «Vai avanti. Yess dovrebbe trovarsi nella stanza dietro la prossima porta. Io scendo sotto e ti aspetto lì.» Carmody fece segno di sì col capo ed entrò. Era in una camera molto più grande, illuminata da un piccolo lampadario. Le pareti erano tappezzate di stoffa rossa, il pavimento era coperto da un tappeto verde chiaro, soffice e molto spesso. Non c'erano finestre, ma Carmody sentiva sulla pelle una corrente d'aria fredda. Sulla parete di fronte a lui c'era un'altra porta ovale, identica a quella da cui era entrato, ed era semiaperta. «Vieni» disse in kareenano una profonda voce baritonale. Carmody entrò: la stanza era ancora più grande. Le pareti erano rivestite di un intonaco grigio chiaro, e c'erano affreschi che illustravano scene della mitologia kareenana. L'arredamento era molto semplice: un tavolo di legno nero e lucido, alcune sedie, leggere ma dall'aspetto funzionale, un letto in una nicchia. C'erano anche un visifono, un grosso televisore e una libreria alta e stretta, costruita nello stesso legno lucido. Sul tavolo erano sparsi alcuni libri, nastri magnetici, oggetti di cancelleria e una vecchia stilografica in pietra dura. Yess era fermo accanto al tavolo. Era molto alto: la testa di Carmody gli arrivava al petto. Era nudo, e il suo corpo era perfettamente proporzionato. I capelli neri sembravano terrestri, ma da vicino si potevano scorgere le piccole piume dei kareenani. Il volto era bello ed era kareenano, ma Carmody si sentì un groppo alla gola: nei lineamenti del dio aveva scorto il viso di Mary. Le orecchie di Yess erano ferme, i suoi denti erano di colore celeste. Ma aveva cinque dita. Carmody sentì un'onda di commozione salirgli dal petto, forzargli un singhiozzo e scaturire sotto forma di lacrime. Piangendo di gioia corse verso Yess e lo abbracciò. Anche Yess piangeva. Yess lo fece accomodare su una sedia. Aprì un cassetto del tavolo e ne trasse un fazzoletto per asciugarsi gli occhi. «Da molti anni attendevo questo momento» disse «ma so che non sarà facile comprenderci. Siamo stranieri, e per quanto possiamo venire a conoscerci, ci sarà sempre una barriera tra noi.» Carmody, per la prima volta nella sua vita, trovava difficoltà a risponde-
re. Cosa poteva dire? «Come vedi, Padre» seguitò Yess «io sono a metà terrestre. Sono davvero tuo figlio. E questo è una prova che il boontismo è la religione universale. Finora confinato a questo piccolo pianeta, il boontismo è destinato a diffondersi per tutta la Galassia. Il suo destino si è reso manifesto nello stesso istante in cui fui concepito da una madre e un padre extrakareenani. Boonta mi ha fatto nascere con uno scopo ben preciso.» A questo tipo di discorsi si poteva ribattere, e Carmody sorrise: «Hai certo una delle mie caratteristiche: non perdi tempo in chiacchiere. E credo che tu ne abbia anche un'altra: l'aggressività. Ma, tutto considerato, non posso dire che la seconda mi piaccia come la prima!» Yess sorrise e si sedette dall'altra parte del tavolo. «Allora vengo subito al punto. Una domanda. Come mai, dopo avere provato il matrimonio mistico con Boonta, ti sei convertito a un'altra fede? Io ritengo che la schiacciante verità di Boonta e le esperienze della Notte avrebbero dovuto rapirti, spingerti a adorarla perché non potevi farne a meno. Ma invece non è stato così.» «Questa domanda mi è già stata rivolta da altri» rispose Carmody «soprattutto dai miei superiori. Forse, se fossi rimasto su Kareen, mi sarei fatto boontista. Ma credo che un Qualcosa, chiamalo il Destino, il Fato, Dio... che è il termine che preferisco... mi abbia guidato su un'altra strada. E ne sono davvero convinto. Mentre ero sotto osservazione al Johns Hopkins ho avuto un'esperienza mistica, convincente come i miracoli che accadono su Kareen. Da allora ho creduto, e penso ancora che la fede che ho scelto sia la più adatta a me.» La voce di Yess non era cambiata, ma stava osservando con profonda attenzione la faccia di Carmody. «Allora tu pensi che Boonta è una falsa divinità?» «No, tutt'altro» rispose Carmody. «Direi piuttosto che Boonta è l'aspetto che il Creatore assume su Kareen. Boonta ne è un'altra manifestazione, mi piace vedere le cose così. Ma non posso saperlo con certezza, e credo che non riuscirò mai a esserne sicuro. La mia Chiesa non ha mai fatto nessuna dichiarazione ufficiale, e ci vorrà molto tempo prima che si pronunci.» «Io non ho alcun dubbio» disse Yess, e tolse dal cassetto una piccola bottiglia e un pacchetto. «Questo vino è kareenano» seguitò «queste sigarette sono terrestri. Mi piacciono tutt'e due, e quando li ho davanti non posso fare a meno di pensare alla mia origine. Io non sono più Yess, il dio del pianeta Kareen; io
sono Yess, il dio di tutti i pianeti.» Ne parlava come di un dato di fatto, indiscutibile. «Ma davvero lo credi?» «Io so.» «Allora non vale la pena discutere» disse Carmody. «E poi ti confesso che non ne avevo neppure voglia. Sarò sincero: io sono venuto qui con un solo scopo. Cercare di convincerti a non fare una certa cosa. Io...» «So perché sei qui» lo interruppe Yess. «li ha mandato la tua Chiesa, per farmi lo stesso tipo di discorsi che mi fa Rilg; detto per inciso, è un algulista, anche se non se ne accorge. Lo so da molto tempo, ma non ho mai preso provvedimenti perché cerco di non interferire con gli affari dei politici. E molti politici sono algulisti, su Kareen e probabilmente anche sugli altri pianeti. Consciamente o inconsciamente.» «Hai già preso la tua decisione?» «L'ho già presa l'anno scorso, ma non darò l'annuncio fino all'ultimo momento. Se la gente avesse troppo tempo per pensare potrebbe opporsi. «E in un certo senso li capisco» continuò Yess. «Nel profondo del loro animo, molti sanno che non supereranno la Notte. Ma il tempo in cui viziavamo gli illusi deve finire. Se dietro la loro facciata di fedeltà a Yess si nasconde un algulista, lo scopriranno a loro spese.» «Ma i bambini?» obiettò Carmody. Sentiva il rossore salirgli al volto, e sapeva anche che Yess si era accorto della sua rabbia. «La vita è rischio. La vita è lotta. Alcuni sopravvivono, altri no» rispose il dio. «Boonta dà, ma non è lei a riprendere. Lascia accadere le cose, e le cose accadono nel loro giusto verso.» Carmody rimase in silenzio. Sapeva di non poter convincere Yess a cambiare decisione: le sue parole sarebbero state inutili. «Quando la Notte sarà finita e noi ci saremo riorganizzati, continuava Yess» inizieremo una grande campagna di proselitismo sugli altri pianeti. Conto di recarmi io stesso in visita agli altri mondi. «Ma non sarà pericoloso?» chiese Carmody. «Se qualche fanatico di un'altra religione riuscirà a ucciderti, la tua parola perderà il suo valore.» «No, apparirà un altro Yess. Uno Yess può venire ucciso, ma questo non invalida la sua divinità, come la morte di Cristo non ha invalidato la sua.» «Adesso» disse Carmody «mi verrai a dire che i pianeti hanno i loro redentori locali, abbastanza validi nei loro limiti, ma destinati a cedere il posto al redentore dell'universo, tu.» «Esattamente» rispose Yess. «È l'evoluzione del divino. Fu così che il
Nuovo Testamento venne aggiunto all'Antico per fare un libro nuovo, e fu così che il Corano aggiornò la Bibbia. Verrà un altro Libro, e soppianterà quelli che lo hanno preceduto. «Adesso sto dettando il Libro di Luce. Tra poco sarà finito. Contiene la storia di Boonta e del suo popolo, e presenta in forma compatta la nostra dottrina. Inoltre compie ciò che nessun altro libro ha mai osato: dà una profezia dettagliata delle cose a venire. E non le descrive in forma vaga e simbolica, che renda possibili migliaia di interpretazioni diverse. Le descrive in modo chiaro e particolareggiato. «Quando il Libro sarà tradotto nelle lingue della Galassia» terminò Yess «e quando tutti potranno averlo, sarà il nostro miglior missionario.» Fissò lo sguardo negli occhi di Carmody, e Carmody si sentì rizzare i capelli. Era, anche se molto più debole, l'emanazione sentita nel Tempio, durante la nascita di Yess, quando Boonta aveva manifestato la sua presenza a lui e agli altri Padri. Improvvisamente la sensazione scomparve. Yess si alzò e disse: «Arrivederci, Padre.» Anche Carmody si alzò. «Posso rendere nota la tua decisione?» chiese. «No, tu non dirai nulla.» Yess si avvicinò a Carmody, lo abbracciò e lo baciò: «Non esser triste, Padre. Ci sono cose al di là della tua comprensione. Devi accettarle, come hai accettato i fenomeni della Notte e la mia nascita da una creatura generata dalla tua mente.» «Vorrei fare come mi dici» rispose Carmody. «Ma non posso accettare le sofferenze e le morti inutili.» «Non sono inutili. Boonta sia con te, Padre.» «E Dio sia con te... figlio.» Tand lo aspettava nell'anticamera al piano terreno. «Com'è andato l'incontro, John» gli chiese «come ti senti?» «Mi sento sconfitto. E sono preoccupato. Mi sento come un attore che arriva sulla scena e scopre di avere sbagliato teatro e rappresentazione.» «La tua missione si può dire finita. Perché non ritorni a casa?» «Non so perché, ma non posso. Sento che ho ancora delle cose da fare. Forse devo scoprire la verità, se esiste. Ti confesso che la teoria del redentore universale enunciata da Yess mi preoccupa. Le verità divine ci vengono rivelate un poco alla volta, man mano che gli uomini sono preparati a riceverle? E Yess sta per rivelarne una? Una valida?»
Carmody ritornò al suo letto d'albergo. Dormì fino al mattino tardi, cosa rara per lui. Quando scese per la colazione, trovò il ristorante vuoto di tutti gli extrakareenani: rimaneva solo qualche terrestre convertito al boontismo. Mangiò da solo una triste colazione, e poco prima di finire venne un sacerdote di Boonta a interromperla. Carmody alzò lo sguardo sulla tonaca verde e il cappello piumato, e gli occorsero alcuni secondi prima di riconoscere Skelder. Carmody si alzò felice e lo abbracciò. L'altro gli rispose con uguale affetto, un gesto che indicava la profondità della trasformazione avvenuta in quel carattere così schivo e altero. «Volevo salutarti prima che incominciasse la Notte» disse Skelder «perché dopo la Notte, chissà?» «Inutile chiederti se sei ancora sicuro della tua scelta» disse Carmody. «Continuo a esserne felicissimo. Non ho mai avuto un istante di dubbio o di pentimento. E tu?» «Neanch'io. Perché non ti siedi a parlare con me?» «Mi piacerebbe» rispose Skelder «ma devo andare al Tempio. Yess darà l'annuncio a mezzogiorno, lo sapevi?» «No, non lo sapevo. E poi cosa succederà?» «L'avvenire è nelle mani di Boonta. So da Tand che conosci i retroscena. Non ci sorprenderebbe se Rilg cercasse di impedire la trasmissione. Non oserà mettere le mani su Yess, almeno ufficialmente, ma potrebbe togliere la corrente o disturbare la ricezione.» «Deve essere disperato.» «Lo è. Bene, devo lasciarti. Ah, Tand dice che Lieftin è sempre libero. E dev'essere disperato anche lui. L'ultima astronave è già partita, e lui non può allontanarsi dal pianeta. Ma forse conta di prendere il Sonno per sfuggire agli effetti della Notte. Crediamo tenterà di agire prima della trasmissione, e forse Rilg spera proprio in questo.» Skelder lo salutò e si allontanò con uno svolazzo di vesti verdi. Carmody appose la sua impronta al conto della colazione e uscì nella strada. Era senza scorta perché ormai non correva più pericoli. Per le strade c'erano molte persone; sostavano mute agli angoli, davanti ai grandi schermi della TV. Evidentemente aspettavano la comparsa di Yess. Molti erano senza maschera. Carmody cercò di parlare con alcuni che sostavano davanti all'albergo, ma smise subito perché nessuno gli rispondeva. La gente sembrava non avere voglia di parlare; scuoteva le spalle e se ne andava, o mormorava
qualche parola incomprensibile. Rientrò nell'albergo, si fermò un poco nella sala e poi salì nella sua stanza. Cercò di interessarsi a un libro di storia kareenana, ma non riuscì a concentrarsi nella lettura. Giunse il mezzogiorno: accese la TV con un senso di sollievo. L'annunciatrice lesse un breve comunicato. Anche con i progressi scientifici terrestri e kareenani, ogni tanto sorgevano ancora difficoltà tecniche. Gli spettatori dovevano avere pazienza, la trasmissione sarebbe andata in onda tra breve. Intanto ecco un importante... Passò una mezz'ora, tra diverse altre assicurazioni e un documentario sull'arrivo dei primi terrestri su Kareen. A quel punto, Carmody sospettava fosse successo qualcosa. Cercò di chiamare Tand al telefono, ma gli rispose solo il segnale di occupato. Passò un'altra mezz'ora, tra altre assicurazioni e documentari che non avevano nulla a che vedere con Yess. Carmody chiamò Tand ancora tre volte, sempre con lo stesso risultato. Evidentemente la centrale telefonica era intasata dalle chiamate della gente che voleva sapere cosa era successo. All'improvviso apparve l'annunciatrice: «Popolo di Kareen, il vostro dio!» Yess apparve sullo schermo dalla vita in su. Sorrise e disse: «Miei amatissimi, vengo a voi per...» Lo schermo divenne bianco. Carmody bestemmiò. Tolse il chiavistello alla porta, fece di corsa il corridoio e scese a precipizio le quattordici rampe di scale fino alla sala. Questa era piena di gente che parlava in tono concitato. Afferrò un fattorino, e gli chiese: «La stazione TV? Dove si trova?» «Tre isolati, Padre. A est» rispose il fattorino. Era stupefatto. Carmody si fece strada tra la folla e corse fuori della porta. Adesso c'era per la strada tutta la popolazione, visibilmente scossa. Molti parlavano in modo incoerente. Anch'essi sospettavano fosse successo qualcosa al loro dio. E se prima temevano il suo annuncio o mostravano animosità nei suoi confronti, adesso avevano perso ogni risentimento, erano spaventati, preoccupati, intontiti, offesi. Si scostavano al passaggio del piccolo terrestre che correva in mezzo a loro, lo guardavano con gli occhi sbarrati. A un isolato dall'edificio della TV, Carmody scorse il fumo che usciva dalle finestre dei primi due piani. Una folla compatta intralciava il percorso dei poliziotti e delle ambulanze. Carmody provò a fare pressione contro le schiene che aveva davanti, ma non riuscì a scuoterle di un palmo. Sentì una mano che gli batteva sulla spalla. Si voltò e vide Tand.
«Cos'è successo?» chiese Carmody. «Dev'essere stato Lieftin. Ha messo una bomba, e deve averla nascosta bene: la polizia non è stata capace di trovarla» spiegò Tand. «O forse non aveva voglia di trovarla. Abbiamo rimandato la trasmissione di un'ora e abbiamo ispezionato tutta la stazione TV per cercare ancora. Poi è arrivato Yess e... hai visto. Dovevo esserci anch'io, ma ero in ritardo perché la mia auto ha avuto un incidente. Io non mi sono fatto niente, ma il mio autista è rimasto ferito.» Guardò verso la stazione TV: «Credi che Yess sia morto?» «Non saprei» rispose Carmody. «Ma cosa succede?» Si sentiva un grande clamore. Improvvisamente la folla si divise, come mossa da una mano invisibile: passava Yess, sporco di nero, contuso, graffiato, ma illeso. Yess fece un gesto, e Tand gli corse incontro, seguito da Carmody. «Prendi la macchina e portami alla stazione Fuurdal» disse Yess. «Ho un'auto qui vicino» disse Tand. «Non è la mia perché la mia è inutilizzabile. Andiamo.» Li guidò per la strada e la gente faceva largo al loro passaggio. Piangevano di gioia vedendo che il loro dio era vivo. Alcuni vennero avanti, si inginocchiarono e cercarono di baciare la mano a Yess. Egli li salutò con un gesto, sorrise e passò avanti. In un minuto i tre erano sulla macchina con Tand al volante, diretti alla stazione TV. «Chiunque sia stato, Lieftin o un altro» disse Yess «non capisco come abbia fatto a nascondere la bomba. La polizia e i sacerdoti hanno controllato ogni pezzo delle apparecchiature, tutto ciò che poteva nascondere una bomba. Strano, ma è stato proprio Abog a voler rimandare la trasmissione sino alla fine dell'ispezione.» «Forse voleva fornire un alibi al governo» disse Carmody. «Forse. Quando è scoppiata la bomba Abog non era nell'edificio. Vicino a me tutti sono rimasti uccisi, o gravemente feriti. I Padri sono morti. Adesso gli unici in vita siete tu e Tand.» Yess piangeva. Poi, senza più mostrare l'emozione che ancora sentiva, disse: «Fai venire i tuoi uomini più fedeli, Tand. Forse avremo bisogno di una guardia del corpo, per ritornare al Tempio.» Tand prese il telefono dell'auto e si mise a chiamare i suoi uomini. Quando giunsero davanti alla stazione, si era già assicurato la presenza di una cinquantina di guardie e di un buon numero di sacerdoti armati. Carmody li seguì all'interno, ma non entrò nello studio da cui Yess do-
veva fare il suo annuncio. Sentiva che Yess non era ancora al sicuro da altri attentati. Si mise di guardia alla porta: chi voleva passare di lì per attaccare Yess avrebbe dovuto vedersela con lui. Yess era entrato da pochi secondi, quando si sentirono colpi di pistola nel corridoio. Un kareenano con la pistola in mano irruppe nella stanza. Carmody, riparato da una tenda, lo colpì al capo con una statuetta. Raccolta l'arma caduta di mano all'uomo, Carmody la mise in tasca e andò nel corridoio. Sul pavimento c'erano tre aggressori morti e due poliziotti feriti. Un impiegato della stazione si nascondeva dietro un divano. Carmody lo fece uscire dal suo nascondiglio e lo mandò a cercare un'ambulanza. Poi ritornò al suo posto di guardia. Dieci minuti dopo, Yess e Tand uscirono dalla sala di registrazione. Entrambi apparivano preoccupati. «È fatto» disse Yess. «Adesso accadrà ciò che Boonta vorrà.» Tornando al Tempio, la gente si scostava davanti alla scorta armata di Yess. Carmody osservava i volti e le maschere, e improvvisamente gridò: «Ferma la macchina!» Yess ordinò all'autista di fermarsi e si voltò per chiedere a Carmody cos'era successo, ma il piccolo terrestre era già scappato fuori. Carmody aveva visto un uomo mascherato che camminava come Lieftin. Per paura che gli potesse scappare, era balzato fuori senza dire a nessuno le sue intenzioni. Gridò: «Lieftin, sei in arresto!» e nella sua eccitazione non si accorse che gli altri non lo seguivano. L'uomo si voltò e fuggì. Per un secondo Carmody lo perse di vista, poi lo vide riemergere dalla folla ed entrare in un negozio di confezioni. Lo seguì all'interno. Era un negozio per clientela ricca, un locale molto ampio. C'era una sola commessa, e stava con la faccia alla vetrina, probabilmente per assistere al passaggio di Yess. Carmody le gridò un avvertimento e la donna fece un salto: dalla sua espressione di sorpresa, Carmody pensò che non si fosse accorta dell'ingresso di Lieftin. Carmody ignorò le domande della donna e corse verso il fondo della stanza. C'erano tre porte. Aprì quella a sinistra, passò per diverse stanze e uscì in un vicolo. Non c'era nessuno. Voltandosi per rientrare nel negozio, sentì uno scalpiccio dietro le spalle e un improvviso dolore alla testa. Quando Carmody rinvenne, era steso sui duri ciottoli della strada e si sentiva un gonfiore sulla nuca. Le strade intorno a lui erano silenziose: era incominciata la Notte. Ciò che scorgeva per la strada lo riempiva di sgomento. C'erano corpi in
tutte le direzioni, fino al limite della sua vista. Uomini, donne e bambini, straziati da proiettili e coltelli, tagliati a pezzi da raggi laser. Un carro armato era rovesciato su un fianco, con il cannone spaccato da una bomba gettata da uno dei piani superiori. I soldati che manovravano il laser erano morti. Il sangue formava un piccolo rigagnolo nel mezzo della strada. Carmody tolse di tasca la pistola, controllò il caricatore e si avviò di corsa per la strada. Dopo un attimo si sentì sudato e febbricitante, la vista gli si annebbiò. Poi, improvviso come era venuto, il malessere cessò: era finito il tremolio del sole, efficace anche dall'altra parte del pianeta. Dopo alcuni isolati si imbatté in una motocicletta kareenana, rovesciata per terra. Funzionava ancora, anche se parti del sedile erano state portate via da una bomba insieme al guidatore. Per passare tra i cadaveri dovette compiere un percorso ondeggiante, ma riuscì a evitarli. Poi, svoltato un angolo, la motocicletta scivolò su una macchia di liquido, colpì l'orlo del marciapiede e lo scaraventò a terra. Urtò violentemente la parete di un edificio, ma riuscì a rialzarsi. La ruota anteriore si era accartocciata e il veicolo non poteva andare avanti. Proseguì a piedi. Quando arrivò in prossimità del tempio di Boonta, sentì rumore di spari e vide uomini in corsa. Entrò in un negozio per ripararsi, si nascose in osservazione dietro la vetrina rotta. La folla inseguiva un uomo: una persona magra e sottile che indossava un vestito da sacerdote ridotto a uno straccio. Correva con la forza della disperazione, ansimava e sudava per lo sforzo. Carmody gridò verso di lui, ma la sua voce si perse tra gli spari. Colpito dai proiettili, l'uomo cadde in avanti e giacque senza più muoversi. I lampioni funzionavano ancora, e alla loro luce Carmody lo riconobbe: era Skelder. Ecco, si disse, così termina per Skelder la Notte iniziata tanti anni fa. Sentì il colpo di un proiettile sulla vetrina, si voltò e scappò nel buio del cortile. Da vicino lo inseguivano dei passi. Si buttò a terra: l'inseguitore inciampò contro il suo corpo e Carmody alzò la pistola per fare fuoco. «Non sparare, sono Tand!» gridò l'uomo. Carmody abbassò la pistola: tremava per l'emozione. Tand si alzò e lo spinse verso l'uscita posteriore del cortile. Improvvisamente lo spinse a terra e lo tenne fermo contro il lastricato. Ci fu un rumore assordante e un soffio d'aria da strappare i vestiti. Si rialzarono di scatto e scapparono. Usciti dall'edificio, si scambiarono
qualche parola tra respiri affannosi. «Quando sei entrato» disse Tand «ero nascosto nel negozio. Non sapevo chi eri, vedevo solo la tua ombra, ma quando ti sei girato ho riconosciuto il tuo profilo. Poi ti sono corso dietro...» «Strano» osservò Carmody. «Ci siamo incontrati tutt'e tre nello stesso punto. Quello che è morto davanti al negozio era Skelder.» Tand si fece il segno del cerchio: «Se non altro, i suoi ultimi anni sono stati felici. Ero in cerca di te quando è scoppiata la sommossa, e ho dovuto cercare rifugio. Il Tempio è circondato dagli algulisti, ma sono un gruppo privo di organizzazione. Ogni volta che il sole trema si mettono a lottare tra loro.» «Come facciamo a entrare nel Tempio?» chiese Carmody. «Conosco un passaggio segreto» disse Tand «ma dobbiamo stare attenti a non farlo scoprire. Se il Nemico lo trovasse potrebbe cogliere di sorpresa coloro che sono all'interno del Tempio.» Lasciarono il vicolo e avanzarono ancora di un isolato tenendosi vicini ai muri. Tand guidò il sacerdote a un supermercato che mostrava segni evidenti di saccheggio. C'erano quattro morti vicino ai banchi o dietro le casse; uno era un bambino. Tand fece una smorfia e si diresse verso le stanze della direzione, sul retro. Su una scrivania era disteso un corpo senza testa. Attraversò una porta dietro la scrivania ed entrò in un'altra stanza. Questa era stata adibita a ufficio, ma le carte e i registratori erano sparsi in terra, le macchine da scrivere e le calcolatrici erano fracassate. Tand guidò Carmody verso una catasta di grandi casse da imballaggio, vi passò dietro e poi si fermò davanti alla parete. Tastò i blocchi di pietra e ne spinse uno: una larga porzione di muro si mosse verso l'interno. Si mise carponi e strisciò nell'apertura; il terrestre lo seguì. L'interno era buio, illuminato solo dalla luce che filtrava dall'ingresso. Tand si alzò in piedi e toccò una leva. Il blocco ritornò al suo posto. Tand armeggiò su un interruttore per accendere una luce. Si trovavano in una piccola stanza che terminava in uno stretto corridoio cilindrico. «Il passaggio è stretto e basso» disse Tand «ma poi si allarga. Attento: è in discesa. C'è abbastanza luce per vedere dove passiamo. Seguimi, ma non starmi troppo vicino: può darsi che mi debba fermare all'improvviso e non voglio correre il rischio che tu mi venga addosso e mi spinga in avanti. Potrebbe essere fatale a entrambi.» Mentre Carmody seguiva Tand, si guardava intorno. Il pavimento era coperto di uno spesso strato di polvere e si distinguevano solo tracce di
passi. Ne chiese la ragione a Tand. «Io non sono mai stato qui» rispose «ma ho studiato le piante di questo e di altri passaggi segreti. Solo Yess, i Padri e i più alti sacerdoti ne conoscono l'esistenza, tutte persone che hanno superato la Notte. Ma anche così non si può mai essere sicuri che...» Tand si fermò improvvisamente e fece segno di fermarsi anche a Carmody. Il sacerdote guardò in terra, osservò la parete, ma non vide nulla di strano. «Cosa succede?» Tand indicò uno dei bulbi sul soffitto: «Lo vedi? Ha una macchia nera, come se fosse sporco. È un segnale di avvertimento. Adesso osservami bene, e poi fai come faccio io.» Tand tracciò col piede una linea nella polvere, indietreggiò di una decina di passi e prese la rincorsa. Quando arrivò alla riga piegò a destra e fece alcuni passi di corsa sulla parete ricurva del passaggio. La velocità della corsa gli permise di farlo per un breve tratto. Si arrestò e si rivolse a Carmody: «Tutto bene. Vieni e cerca di non scivolare.» Carmody corse allo stesso modo del kareenano. Lo raggiunse e gli chiese: «Cosa succede a chi si limita a passare sul pavimento, in corrispondenza della macchia?» «Ha una brutta sorpresa, ma ha ancora qualche possibilità di sopravvivere» rispose Tand. «Il soffitto, sopra questo punto, sembra di pietra piena, ma nasconde un trabocchetto. C'è una botola; si apre e cade giù una massa di gelatina che imprigiona chi sta sotto. Insieme scatta un segnale d'allarme, su nel Tempio, e si accende una luce su un pannello. Localizzato il punto da cui proviene l'allarme, l'intruso non può muoversi finché non arrivano le guardie a sciogliere la gelatina. A volte la cosa dà la morte: se copre la bocca e il naso.» Proseguirono per una cinquantina di metri. Il passaggio adesso era leggermente in salita. Infine giunsero a una porta di ferro, e Tand sì tolse di tasca una chiave e non la infilò nella serratura ma in un foro a lato, sulla parete. La porta si aprì. Entrarono in una piccola stanza, priva di arredamento e con uno spesso strato di polvere sul pavimento. Una seconda porta, aperta dalla stessa chiave, dava accesso a un'altra piccola stanza. Una terza porta, montata su perni come le porte dell'albergo, e si trovarono in un'anticamera che Carmody conosceva già: quella con l'ascensore che portava a Yess.
La porta si chiuse alle loro spalle e fece tutt'uno con la parete. «Entra» disse Tand, e salirono alcuni piani con l'ascensore. Alla fine della corsa lasciarono la cabina ed entrarono in un ampio corridoio, lungo almeno mezzo chilometro. Da entrambe le parti si vedevano molte porte, tutte chiuse. Alla fine del corridoio c'era un altro ascensore che li riportò al piano terreno. Superarono altre due stanze e finalmente giunsero nella grande sala dove, molti anni prima, Carmody aveva ucciso il vecchio Yess. Adesso nella stanza c'era il nuovo Yess. Stava parlando ai sacerdoti e alle sacerdotesse raccolti intorno a lui, e si voltò per dare il benvenuto ai due nuovi arrivati: «Non avevo perso la speranza di rivedervi» disse «ma incominciavo già ad avere qualche dubbio.» «Com'è la situazione?» chiese Tand. «Siamo assediati da Rilg e i suoi algulisti» rispose il dio. «Hanno laser e qualche pezzo di artiglieria pesante, ma non li hanno ancora usati contro il Tempio. Non credo che li useranno: lottano contro di me, non oseranno danneggiare molto la Casa della Madre. Ma non lasciano passare nessuno. Credo abbiano intenzione di attaccare più tardi, durante la Notte.» Yess posò le mani sulle spalle di Carmody e disse: «Vieni nelle mie stanze, Padre. Ho qualcosa da darti.» Tand lanciò un grido: «Attenti là in alto!» e fece segno verso una delle balconate. Nella galleria sopra loro c'era Lieftin. Era appoggiato alla ringhiera e puntava un bazooka contro Yess. Carmody prese la pistola e sparò. Solo in seguito riuscì a ricostruire l'accaduto. Lieftin era scomparso in un'esplosione, e lo spostamento d'aria aveva buttato a terra Carmody e tutti gli altri, eccetto Yess. Carmody si alzò: era intontito, e incapace di credere alla scomparsa di Lieftin. Ma riacquistò subito i sensi e vide che la galleria era uguale a prima: c'era solo una grande macchia rossa che copriva alcuni banchi di pietra, simile all'ombra di una piovra. Salì di corsa la rampa di scale che portava alla balconata ed esaminò il luogo. Sotto un banco trovò il bazooka; l'arma era inservibile, la canna squarciata nel senso della lunghezza. Di Lieftin rimanevano qualche pezzo di pelle, sangue, qualche frammento d'osso. Tand era venuto dietro a lui e disse: «Credo che il tuo colpo abbia centrato proprio la spoletta del proiettile di Lieftin, mentre usciva dalla canna. La carica è scoppiata e... be', il risultato lo vedi.» «Miravo a lui, non alla canna» disse Carmody. «È stato solo un colpo
fortunato. Solo una fortuna incredibile.» «Ne sei sicuro?» chiese Tand. «Io no.» «Vuoi dire che qualcuno ha diretto la mia mira? Yess o Boonta?» Tand scosse le spalle e disse: «Non la Madre.» Si fece il segno del cerchio: «La Madre non prende le parti di nessuno. Ma Yess... chi può dirlo? Non certo lui: Yess non ci dirà nulla.» «È stato un caso.» «Come ti pare. Non si può affermarlo e non si può negarlo.» Tand salì all'ultima fila di panche e uscì da una porta. Carmody lo seguì e vide che guardava in una nicchia tagliata nella pietra del muro. «Lieftin, o chi lo ha mandato, ha trovato un'altra delle nostre entrate segrete. C'era da aspettarselo. Chissà da quanto tempo la conoscevano!» «Quando si accorgeranno che Lieftin ha fatto cilecca, credi che proveranno di nuovo?» «Non credo. Hanno puntato tutte le speranze su un uomo che riuscisse a passare, e hanno fatto bene, perché se fossero stati più di uno avrebbero azionato i segnali d'allarme. E sanno che non permetteremo loro di usare lo stesso passaggio due volte. Vado a controllare che siano tutti chiusi.» Tand si allontanò. Carmody ritornò da Yess, e il dio gli ripeté l'invito ad accompagnarlo nelle sue stanze. Quando furono arrivati, Yess prese una bobina da un cassetto del suo tavolo. «L'ho dettata un'ora fa. È l'ultimo capitolo del Libro di Luce. Io stesso non so cosa dica perché mentre la dettavo ero sotto l'influsso della Madre. La Madre parlava, io ero la Sua voce.» Diede a Carmody la bobina: «Prendila e ascoltala quando la Notte sarà terminata: controllerai se ciò che dice si è avverato.» «Hai predetto il corso degli avvenimenti futuri?» «Nei minimi particolari.» «Ma come lo sai, se non ricordi cosa hai detto?» Yess sorrise: «Io so.» Carmody mise la bobina in tasca: «Perché la dai proprio a me? Temi ti succeda qualcosa?» «Non conosco il motivo: so solo che devi ricevere l'ultimo capitolo del Libro. Mi prometti di renderlo di pubblico dominio?» «Mi chiedi una cosa molto difficile» rispose Carmody. «Sono un sacerdote, e la tua religione è una minaccia per la mia Chiesa. E poi, per quale motivo dovrei farlo?» «Perché sei la persona cui è stato affidato. Altro non posso dirti.»
«Non posso promettere nulla. Prima dovrò consigliarmi con i miei superiori. Vorranno ascoltarlo anche loro, e non posso sapere quali saranno le loro decisioni.» «Molto bene. Ma almeno promettimi che lo ascolterai prima di tutti. Poi agirai come meglio credi.» Yess gli diede le ultime istruzioni e, quando Carmody stava per andarsene, lo abbracciò e lo baciò. «Tu sei mio Padre» gli sussurrò. «In un certo senso, sì» rispose Carmody. «Ma mi domando cosa salterebbe fuori da un esame del sangue e del protoplasma. Dimmi: in questo momento non ti senti solo? Non pensi di avere commesso un errore terribile, quando hai ordinato una Veglia generale?» «Anche se sono solo» disse Yess «io non mi sento mai solo. Non confondere il mio amore per te con debolezza o richiesta di comprensione. Io sono Yess, un essere che non puoi capire, un essere che può essere compreso solo da un altro Yess. O da un Algul, anche se ti sembrerà strano.» Yess si allontanò. Carmody lo osservava, e pensava che il dio era una creatura splendida, anche dal punto di vista fisico. Solo un miracolo poteva averlo creato, solo una forza soprannaturale. E questo elemento di soprannaturale rendeva irresistibile la diffusione del boontismo, lo rendeva pericoloso a tutte le religioni, non solo a quelle terrestri. L'ascensore portò Carmody sulla cima del tetto. Uscendo dalla cabina provò una certa sorpresa. Era abituato a vedere tetti piatti e senza sculture: tutti i grandi edifici della Federazione avevano un terrazzo per l'atterraggio degli aeromezzi. Ma adesso si trovava su Dante's Joy, sulla cima del tempio di Boonta e davanti a lui, sopra e sotto, c'era un mulinello di statue di pietra, un incubo di forme ammali. In origine, la cima del tetto doveva essere spessa diversi metri: un'enorme massa di marmo, variegata di molti colori. In quel blocco la follia di un titano aveva scolpito una bolgia di figure contorte, ed era partito proprio dal punto in cui stava Carmody: la corrente, il turbine di roccia, aveva lì il suo centro e di lì si muoveva in tutte le direzioni, come se le statue fossero state trascinate da un gigantesco mulinello. Carmody si trovava al fondo di un vortice di marmi. A prima vista, le statue sembravano formare una massa impenetrabile, ma poi Carmody si accorse che tra i diversi gruppi c'erano alcuni passaggi; si incamminò lungo uno di questi e avanzò lentamente verso l'orlo del tetto. Creature selvagge, lunghi colli, forme striscianti, code e pinne appuntite,
tentacoli, si urtavano l'un l'altro, si voltavano a mordersi e a volte anche a mordere se stessi. Molti animali erano annodati in feroci combattimenti o in copule ancor più feroci, senza riguardo alle differenze tra le specie. Carmody si curvò sotto una grossa testa che gli sbarrava il cammino. I lunghi denti graffiarono il dorso del suo mantello. Poi, improvvisamente, si trovò in una giganto-machia di mostri di terra. Questi, come i mostri marini che li avevano preceduti, si mordevano, si davano la caccia o si accoppiavano con impressionante ardore: solo un maestro poteva avere evocato quella scena dal marmo insensibile. E i musi dei mostri, pur nella loro ferocia, mostravano tracce d'intelligenza, più degli esseri marini di prima, e davano il senso di volersi evolvere verso forme di vita superiori. Dopo gli animali di terra, Carmody incontrò un gruppo di statue isolate che raffiguravano i passati Yess e Algul. Avevano gioielli al posto degli occhi, e i loro sguardi lo seguivano mentre passava in mezzo a loro. Uno degli Algul gli diede un brivido, tanto il suo sguardo era maligno. Si affrettò a superare l'Algul e arrivò alla ringhiera sull'orlo del terrazzo, accanto alla statua di uno Yess. Anche questo gli diede un brivido di sorpresa: aveva riconosciuto il volto del dio assassinato tanti anni prima. Era uguale a quando lo aveva ucciso: Yess aveva ancora in mano un pezzo di candela sbocconcellata; sulla sua fronte c'era una rossa ferita; parte di un'orecchia gli era stata strappata da un proiettile. Carmody cercò di ignorare quel ricordo del suo passato. Si appoggiò alla ringhiera e osservò la città di Rak. Lontano, all'orizzonte, scorgeva le fiamme di un enorme incendio. La coltre di fumo sopra le fiamme era di un rosso acceso, e si muoveva annodandosi come una cosa animata. Serpenti, piovre, volti umani si dissolvevano e si riformavano. "Quei fuochi" pensava Carmody "vengono dalla periferia, dalle case costruite in fretta nei sobborghi: il cuore della vecchia città è tutto di pietra, ma le nuove case bruceranno fino alle fondamenta. I pompieri non possono intervenire: sono morti durante la Notte, uccisi dai mostri del loro inconscio; o forse sono stati proprio loro ad appiccare l'incendio." Dal basso, lontano, si sentiva un clamore in cui si mescolavano grida, voci, suoni che non avevano più nulla di umano, sottolineati dal crepitio delle armi da fuoco, ma immediatamente sotto il Tempio gli spari degli algulisti erano cessati. Forse combattevano tra loro, con le armi che possedevano fin dalla nascita o con quelle che si erano fatti crescere nelle metamorfosi portate dalla Notte. In quel momento, dall'altra parte del pianeta, il tremito del sole lo colpì e
Carmody si sentì come se le grandi mani della stella l'avessero serrato in un cappio. Sentì che gli occhi gli uscivano dalla testa, provò l'impressione di scoppiare. «John Carmody!» piangeva una voce, lontana e lamentosa. «John Carmody, sei un demonio!» Era la voce della signora Fratt. Si guardò a destra perché gli pareva che la donna fosse da quella parte, alla fine della ringhiera. Ma non vide nessuno. «John Carmody! Rivoglio mio figlio! I miei occhi!» Carmody tremava, si aspettava che la donna si materializzasse dall'aria come gli era già successo con Mary. Ma l'aria non si condensò: si limitava a pulsare, rossastra. La voce emise un nuovo lamento: «Sei un assassino, John Carmody! Così hai iniziato, e così finirai!» «Signora Fratt» incominciava a dire Carmody, ma poi si fermò. Si allontanò dal tetto e ritornò alla sala dove era morto Lieftin. Gli altri erano ancora lì, seduti a un grande tavolo rotondo che prima mancava. Carmody chiese la parola a Yess e raccontò della voce che aveva sentito sul tetto del Tempio. «Ti senti colpevole di ciò che hai fatto alla signora Fratt» disse Yess. «Sai che dovevi continuare a cercare di dissuaderla dalla sua vendetta. Ma ti sei fatto prendere dal panico, e hai lasciato che i vecchi riflessi si impadronissero di te.» «Con la persuasione non potevo ottenere altro» rispose offeso il sacerdote. «La donna non era sola. C'era Abdu che insisteva per continuare. Se la signora Fratt si fosse rifiutata, era pronto lui a torturarmi.» «Se tu fossi davvero convinto di ciò che affermi» rispose Yess «adesso non sentiresti la voce della signora Fratt.» «Io non sono un santo!» esclamò Carmody. Yess non disse nulla, e anche gli altri rimasero in silenzio. Gli uomini e le donne seduti al tavolo meditavano sulle parole di Carmody, tenevano il capo chino e gli occhi fissi sulle coppe di vino e sui dolci con le forme dei Sette Padri. Gli altri, in piedi dietro il tavolo o sparsi per la stanza, si guardavano bisbigliando. Infine Tand alzò gli occhi e parlò: «Non disperare, John. Tutti noi che abbiamo visto più di una Notte abbiamo provato ciò che provi tu. Li chiamiamo "residui". Si possono passare sette Notti e non esserne ancora completamente purificati.
«Perché tu lo sappia» seguitò il kareenano «e non lo dico per spaventarti ma per metterti di fronte alla realtà, che è sempre aperta a tutto...» Si schiarì la gola e sorrise: «Non vorrei allarmarti, ma ci sono stati casi, estremamente rari, di ciò che chiamiamo una "retroconversione". Il più famoso, anzi, il più infame di tutti, fu quello di Ruugro. Era uno dei Padri dello Yess precedente. Nella settima Notte successiva a quella in cui fu concepito Yess, Ruugro tradì. Nessuno sa come o perché, ma divenne un algulista. Quando lo uccisero era quasi riuscito a far nascere un nuovo Algul.» «Quindi» disse Carmody «non si può mai essere al sicuro?» «La vita respira il bene e il male con ogni suo soffio» disse Yess. «La lotta la accompagna a ogni scalino. Senza posa.» «E non è mai successo che uno Yess divenisse un Algul?» chiese ancora il sacerdote. «Mai» rispose Yess. «Ma i figli di Boonta, anche se possono morire, non sono mortali nel senso comune della parola.» Mentre la lunga Notte sì svolgeva, Carmody cercava di chiarire le proprie idee su Yess, e scopriva di non esserne capace. Se Yess era il dio del "bene", come proclamava di essere, come poteva avere causato queste distruzioni? Un sacerdote che parlava a Yess lo destò dai suoi pensieri. «Figlio di Boonta» diceva l'uomo «gli algulisti si ammassano davanti al Tempio. Forse si preparano all'attacco.» Yess fece un cenno d'assenso e si avvicinò al tavolo. Vi era posato il candelabro a forma di serpente, ma mancava la candela. Quando Carmody aveva ucciso Yess, molto tempo prima, il suo ultranapalm ne aveva completamente bruciato il corpo e ne erano rimaste poche ceneri. Le ceneri erano state devotamente raccolte e mescolate alla cera di trogur, ma tutta la piccola candela era già stata mangiata dall'attuale Yess, varie Notti prima. Alla vista del candelabro vuoto, Carmody provò un breve istante di colpa: i kareenani credevano che il nuovo Yess acquistasse divinità e forza spirituale dalle ceneri dello Yess che lo aveva preceduto, e il suo atto li aveva privati del sacramento. Ma nessun kareenano accennò a una parola di rimprovero, anche se certo condannavano ciò che aveva fatto. Yess era in piedi accanto al tavolo e posò la mano sul candelabro, come se nell'oggetto rimanesse almeno un po' della forza acquistata dagli dèi che lo avevano preceduto. Sollevò la testa, chiuse gli occhi, e incominciò a salmodiare nell'antico linguaggio permesso solo alle divinità. Tand strinse la mano di Carmody e una sacerdotessa gli prese l'altra.
Tutti, tranne Yess, rimasero collegati così; stavano fianco a fianco e la linea formava un'onda posta dietro Yess. Alle prime parole del dio, Carmody aveva sentito un fremito corrergli per le mani, entrargli nelle braccia e diffondersi nel suo corpo come una debole corrente elettrica. Yess continuava, e mentre l'intensità della sua voce aumentava sempre più, le frasi diventavano sempre più lunghe e la scossa provata da Carmody diventava sempre più forte. Le torce sui muri pulsavano, o almeno così gli pareva: se puntava lo sguardo su una singola torcia, vedeva che continuava a bruciare con continuità. Nella zona più alta della sala l'aria si faceva più scura, come per l'addensarsi di ombre rosse che formavano correnti e mulinelli. La cappa rossastra si alzò: alcuni tentacoli si spinsero verso il basso, poi piegarono anch'essi verso l'alto. Improvvisamente un brivido di freddo spazzò la stanza: una Presenza terrificante aveva succhiato tutto il calore. Carmody sentiva formarsi gocce di sudore sotto le ascelle e sulla schiena. Il freddo e la carica di elettricità statica aumentarono ancora. Il suo cuore batteva forte e gli tremavano le gambe, si sentiva avvolgere da un'onda di luce ghiacciata, una luce che minacciava di accecarlo e di riempirgli il corpo e la mente. Ragione e sensi non potevano sopportarla. «Cerca di resistere» gli mormorò Tand. «Lo sento anch' io, ma dobbiamo resistere. Se non resisti sei perso! E lo siamo anche noi: Boonta non ha pietà per i deboli!» Improvvisamente la porta si spalancò e un gruppo di kareenani fece irruzione nella sala. Molti erano ancora nella loro forma originale, ma alcuni avevano subito metamorfosi. Il loro capo, un uomo che Carmody non riuscì a riconoscere, aveva due lunghi canini che gli uscivano dal labbro inferiore, e il suo naso si era trasformato in un lungo becco appuntito e affilato. Teneva in mano uno spadone sporco di sangue: lo alzò sulla testa e aprì la bocca per urlare, ma a un tratto si fermò, e con lui si fermarono tutti gli assalitori. L'uomo continuava a tenere il braccio alzato e la bocca spalancata, ma la spada gli scivolò di mano e cadde a terra. Yess continuava a salmodiare. I sacerdoti lasciarono andare le mani del vicino, si avvicinarono agli uomini immobilizzati e presero le loro armi. Li uccisero senza mostrare nessuna emozione, e cessarono solo dopo averli uccisi fino all'ultimo. Il solo Carmody non prese parte al massacro, anche se aveva sentito un forte desiderio di uccidere. Yess cessò la preghiera. Lentamente, troppo lentamente per Carmody, la Presenza si ritrasse dalla sala. Il dio esaminò i cadaveri. Scosse la testa.
«Rilg e Abog non ci sono» disse. «Sono ancora fuori, aspettano che i Sette Padri di Algul si siano riuniti. Hanno mandato questi uomini per prova, per saggiare la volontà della Madre. In questo momento la Madre favorisce me, ma sperano che la prossima volta permetta loro di uccidermi. Allora, e solo allora, Algul potrà venire concepito e nascere.» Carmody lasciò la stanza e ritornò sul tetto. Qui si mise a pregare, ma sentiva che le strane stelle che apparivano tra le volute della nebbia non erano le stesse che il suo Dio aveva creato. Ne provò un senso di disperazione, e non riuscì ad allontanarlo. È mai possibile, si chiedeva, che esista più di un Dio, una molteplicità di Creatori? Forse Yess aveva ragione. Forse c'erano redentori locali, e c'era anche un redentore universale. Una volta giunto il redentore universale, i redentori locali dovevano cedergli il passo. Ma questo non comportava che la religione di Carmody fosse falsa: era vera fin dove era arrivata. Adesso ne veniva rivelato un altro aspetto: un altro pezzetto di verità che si aggiungeva al rompicapo dell'universo. «Mostrami la Verità!» gridò Carmody, e nel rosso dell'atmosfera apparve una stella cadente. Lontano echeggiò la risata di un mostro. Non badò a nessuno di quei due segni. Nel cielo kareenano cadevano molte meteore, era solo una coincidenza che il mostro si fosse messo a ridere proprio in quel momento. E poi, anche se Carmody fosse stato talmente superstizioso da afferrarsi a tutto per trarne un auspicio, l’una cancellava l'altro. No, voleva un segno interiore. Ma non sentiva nessuna risposta. Improvvisamente sentì urlare dal basso. Rumore di spari. Si voltò e corse all'ascensore. La cabina incominciava a scendere, ma fu subito scossa come da un'esplosione: sentendo la cabina mancare, Carmody superò con un balzo la distanza che lo separava dal pianerottolo e saltò sul piano sotto di lui. Udì ancora un grido, poi un urlo solo di terrore. Gli spari cessarono, coperti dal rumore del metallo che si fracassava. Si affacciò al pozzo dell'ascensore e vide la cabina infranta al piano terreno. Alcuni corpi erano schiacciati tra essa e il muro, e da sotto le lamiere uscivano gambe e braccia. Sentì sparare da un'altra parte: Yess e i suoi discepoli non erano ancora morti, forse gli invasori potevano essere scacciati una seconda volta. Si avviò di corsa verso il punto da cui sentiva provenire gli spari, ma ne perse la direzione perché le spesse pareti di pietra assorbivano i rumori. Ritornò indietro e di nuovo sentì il rumore della battaglia. Trovò Tand e alcuni sa-
cerdoti alla fine di un corridoio laterale: combattevano per difendere una scala a chiocciola: i Nemici si coprivano sotto gli scalini e facevano fuoco alla cieca verso l'alto. Unendosi a Tand, Carmody gli disse: «Credi abbiano i laser?» «Se li avessero» rispose Tand «li avrebbero già usati.» «Dove si trova Yess?» «Nelle sue stanze» disse Tand, e guardò l'orologio. «Tra poco la Notte sarà terminata.» Esitò: «Non capisco una cosa.» «Non capisci cosa?» chiese Carmody. «Come possano essere così forti nella Casa di Boonta. Ma lasciamo pure che la profanino! Alla fine della Notte, Boonta li prenderà in trappola come topi.» Si udì un'esplosione a metà delle scale. I difensori si buttarono a terra per non venire travolti dallo spostamento d'aria. Dalla nuvola di fumo vennero fuori alcuni algulisti all'assalto, ma furono uccisi nella lotta che seguì. Rimanevano Tand, Carmody e tre sacerdoti. Salirono di corsa al piano superiore e presero posizione. Due bombe lacrimogene caddero vicino a loro, e Tand gettò una bomba a mano contro le scale: l'esplosione spazzò via le bombe e un tratto di rampa. Approfittando della pausa, Tand, Carmody e gli altri si ritirarono ancora di un piano. Erano lì da qualche istante quando apparve Yess con un seguito di sacerdoti e sacerdotesse. «Sono troppi» disse il dio. «Arrivano da tutte le parti. Cercheremo di fare resistenza sul tetto.» «C'è il pericolo che prendano gli aeromezzi» disse Carmody. «Lì sul tetto saremo vulnerabili.» Rispose Tand: «Gli aeromezzi sono tutti fuori uso, come i laser.» Yess apriva la strada lentamente e con dignità. Carmody sudava e si aspettava a ogni istante di venire attaccato alle spalle: avrebbe preferito una fuga di corsa. Quando raggiunsero il tetto, bloccarono le sette rampe di scale che davano accesso alla torre. Yess passeggiava nervosamente avanti e indietro tra le selvagge figure di pietra. Di quando in quando volgeva lo sguardo verso l'alto, alle volute di nebbia che galleggiavano su di loro. La nebbia incominciava a diradarsi, e si scorgevano i primi raggi di un pallido sole. «Presto Boonta renderà manifesta la sua presenza» sussurrò Tand a Carmody. «Poi scenderemo a vedere cosa si può fare per ricostruire il nostro mondo.»
Yess si era fermato. Volgeva gli occhi a interrogare il cielo, piegava la testa come per ascoltare. «La Madre è qui» disse. I suoi lineamenti si tesero in una smorfia di dolore. Gridò: «È qui! E io non L'ho ancora chiamata!» Gli altri tacevano. Uno dei sacerdoti, pallido in volto, fece segno di avvicinarsi. Carmody si fermò dietro l'uomo che li aveva chiamati, e si mise in ascolto. Lontano, debole, dalla scala veniva l'eco di un canto. Le parole non si distinguevano, ma il tono era di trionfo. «Salutano la nascita di Algul!» esclamò Tand. Si volse a guardare Yess: «Ma è impossibile! Tu sei ancora vivo!» «Resta calmo» rispose Yess. «Ascolta.» Il canto era terminato. Dal basso non venivano altri suoni, e la città fuori del Tempio era muta. Tand aprì la bocca per dire qualcosa, ma Yess gli fece segno di tacere. Passarono diversi minuti, e Carmody si chiedeva cosa Yess stesse ascoltando. Un attimo dopo, la sua domanda ebbe una risposta: prima debolmente, poi sempre più forte, si udiva il pianto di un neonato. Yess trasse un respiro lento e profondo: «Aah!» Dalla scala venne la voce di un kareenano: «Ascolta, dio vinto, ascoltate, voi che lo servite. Ascoltate! È nato il figlio di Boonta, Algul, e grida la vostra condanna. Ascoltatelo!» «Mostrati!» gridò Yess. «Fammi vedere mio fratello!» Si sentì la risata dell'algulista: «Mi credi stupido?» gridò in risposta. «Uccideresti me, e, quel che è peggio, uccideresti anche il neonato Algul!» «È la voce di Abog» disse Tand. Gli gridò: «Abog, anima nera, dov'è il tuo degno capo, Rilg?» «L'ho ucciso nel secondo attacco!» rise Abog. «L'imbecille è morto, e adesso il capo dei Padri sono io!» «Buon pro ti farà» gli gridò Tand. «Vai via, e porta con te la tua abominazione! Non vivrai abbastanza da approfittarne.» Si udì ancora una risata, poi il pianto del bambino si allontanò e svanì. Coloro che stavano sul tetto si voltarono a guardare Yess. Il volto del dio era pallido come il sole che si stava allora alzando. «Questa è la prima volta, dall'inizio dei tempi» disse. «La prima volta che io e Algul ci troviamo contemporaneamente a vivere.» Parlò a Carmody: «Fu un giorno segnato dal destino, Padre, il giorno in cui arrivasti sul nostro mondo. Tu fosti il primo terrestre a superare la Notte. E tu fosti anche il primo extrakareenano a divenire Padre. Da allora molte cose su Kareen sono mutate. Ora la Notte è terminata, e dovrebbe
essere terminata anche la Lotta. Il corso dei prossimi sette anni dovrebbe essere chiaro. Ma è nato lui! È nato il mio fratello nero! E io vivo!» «Figlio di Boonta» si lamentò Tand. «Cosa faremo?» Yess si voltò per allontanarsi. Carmody lo seguì e chiese: «Figlio, cosa possiamo fare? Cosa posso fare io?» Yess si fermò e lo guardò: «Forse tu e la tua Chiesa avete vinto questa battaglia, proprio come l'ha vinta Algul. Ci hanno schiacciato, e non potremo continuare a occupare questo tetto.» «Perché affermi che ci hanno schiacciato?» chiese Carmody. «Guarda in basso» gli fece segno Yess. Carmody si piegò sulla ringhiera e osservò la strada. Lanciò un grido di sorpresa: c'erano migliaia di uomini e donne, e anche alcuni bambini. Mentre li osservava, sentì che davano inizio a un canto. «Dove sono riniti i miei fedeli?» chiese Yess. «Non perdere le speranze» rispose Carmody. Prese dalla tasca una piccola scatola metallica, schiacciò un pulsante e incominciò a parlare. Dapprima non ebbe risposta, poi udì una voce che usciva dal comunicatore. Carmody guardò in alto: il sole brillava su un grande emisfero metallico che scendeva lentamente sullo spazioporto, distante una ventina di chilometri. «L'Argus» disse «un'astronave federale per le ricerche astrofisiche. Era rimasta in orbita mentre equipaggio e scienziati avevano preso il Sonno. Adesso vengono giù per studiare il periodo immediatamente successivo alla Notte. Sono sicuro che risponderanno alla mia richiesta di aiuto e verranno a toglierci da questo tetto.» L'astronave si fermò, poi si mosse verso di loro. Un minuto più tardi, il suo immenso ventre piatto era a mezzo chilometro di altezza sopra le loro teste. Si aprì un portello e ne uscì una slitta antigravità. In breve tempo Yess, Tand, Carmody e i sacerdoti e le sacerdotesse erano a bordo dell'Argus, e dopo un'ora l'astronave atterrava sulla costa occidentale del continente. John Carmody salutò Yess prima che il dio e i suoi fedeli lasciassero l'astronave. «Mi fermerò qui a sostenere l'attacco» disse Yess. «Questo luogo è abbastanza lontano da Algul: avrò il tempo di organizzarmi, prima che scopra dove mi trovo e mandi i suoi assassini a cercarmi.» «Rimarrei con te» disse il sacerdote «ma devo ritornare a Roma dai miei
superiori per fare rapporto. Poi mi recherò dove mi manderanno.» Yess sorrise: «E cosa dirai nel tuo rapporto?» «Solo la verità. Cioè, le cose che ho visto e sentito, che sono solo un piccolo aspetto della verità. Ma ti devo dire una cosa: riferirò in tutta onestà la mia opinione, e la mia opinione è che il boontismo è molto meno di ciò che proclama di essere. Non è la religione superiore che toglierà di mezzo tutte le altre. Non riuscirà a vincere la mia Chiesa, non riuscirà a scuotere una sincera fede cristiana. Ci potranno essere conversioni, ma il boontismo non è la vera fede, la fede universale.» «Come fai a dirlo?» chiese Yess, e sorrideva ancora. «Un vero dio non sarebbe sconfitto dalle forze del male. E un dio "buono" non commetterebbe mai un atto malvagio come quello che tu hai commesso quando hai ordinato una Veglia generale.» «Io sono il Figlio della Creatrice» rispose Yess «come Cristo era il Figlio del Creatore. E non sono né onnipotente né onnisciente, non più di quanto lo fosse Cristo nella sua incarnazione terrena. E non sono perfetto, né sono assolutamente "buono". Ricorda che Cristo stesso rimproverò chi lo chiamava "buono". Affermò che lui non era buono: solo Dio è buono. «Io non sono la Madre Boonta» continuò Yess. «Ma sono il figlio che siede alla sua destra, e la destra è la parte favorita. E per questo sono sicuro di vincere, almeno alla lunga distanza. Vincerò, e non solo su Kareen, ma su tutti gli altri pianeti. La Madre ha avuto le sue ragioni quando ha permesso ad Algul questa apparente vittoria, e io le saprò a tempo debito. «Naturalmente, c'è anche la possibilità che la Madre sia completamente indifferente all'esito, e in questo caso l'esito sarà tutto sulle mie spalle. Ma se anche fosse così, io ho fiducia. La civiltà kareenana è stata spezzata e il male ha vinto la battaglia, ma non credere che il boontismo resterà per molto tempo fuori della scena galattica. Da situazioni come questa possono scaturire cose sorprendenti, molto più in fretta di quanto tu creda. Anche la vostra storia parla di nazioni che erano schiacciate, prostrate, ma che in breve tempo si sono riprese e hanno spazzato via i loro conquistatori.» Indicò la tasca di Carmody e disse: «Ascolterai l'ultimo capitolo del Libro?» «Lo ascolterò durante il viaggio di ritorno sulla Terra.» «Non so perché, ma io non posso ancora conoscerlo. Lo conoscerò a tempo debito. Boonta ti sia propizia, Padre. Spero che ci potremo ancora incontrare, in più felici momenti. Ti amo.» Abbracciò Carmody e pianse. Carmody sentì che incominciava a piange-
re anche lui. Restituì l'abbraccio al figlio e disse: «Dio sia con te.» Yess uscì dallo spazioporto. Un uccello, una piccola creatura gialla con un lungo becco e cerchi neri intorno agli occhi, gli volò accanto ed emise sette lunghi trilli. Yess fece all'animale il segno del cerchio, ma non si voltò più a guardare Carmody. Il portello si chiuse e il sacerdote si affrettò a mettersi al suo posto: stava già suonando il segnale della partenza. Una volta che si fu accomodato al suo posto, Carmody infilò la bobina nel foro sul bracciolo della poltroncina, si mise l'auricolare e finalmente si appoggiò allo schienale per ascoltare. Un'ora più tardi, la bobina era terminata. Carmody si accese una sigaretta. Le mani gli tremavano. Negli esatti dettagli, a volte riferendo il nome e il minuto preciso, Yess aveva predetto tutto ciò che era accaduto. Nella bobina c'era ogni cosa: la prima irruzione degli algulisti, la loro sconfitta, il secondo attacco e la nascita senza precedenti di un Algul. L'uccisione di Rilg da parte di Abog, l'arrivo dell'Argus (chiamata con il suo nome esatto e specificando il minuto della comparsa) e il volo alla costa occidentale. Poi, con immagini pittoresche e apocalittiche, Yess parlava della resurrezione del boontismo dalle ceneri della Notte e del suo trionfo sugli altri pianeti. Per tutto l'universo si sarebbero innalzati templi a Boonta, e i templi degli altri dèi sarebbero crollati. Il Libro terminava così: "Ascoltate Boonta: la destra non combatterà in eterno con la sinistra!". Cosa significavano quelle parole? Che Algul avrebbe ceduto a Yess? Oppure Yess ad Algul? Oppure pensiero tremendo! che i due avrebbero unito le forze? Carmody rimise la bobina in tasca. Per un attimo fu tentato di distruggerla, ma poi scosse la testa: avrebbe consegnato la registrazione ai suoi superiori. La decisione se renderla pubblica o no, sarebbe spettata a loro. Ma sopprimere il Libro sarebbe stato come dichiarare che ne temevano il contenuto. E il timore avrebbe indicato che pensavano, consciamente o no, che il Libro contenesse la verità. Carmody prego che non avessero paura. Dopo tutte quelle ore di emozioni, Carmody cadde in un sonno agitato. Lo svegliò una voce, e si rizzò di scatto perché per un attimo aveva creduto che fosse la voce della signora Fratt, che il sacerdote non aveva più udito durante l'ultima parte della Notte. Era ritornata a tormentarlo? No era la
Dea, che gli parlava con la voce della signora Fratt per piegarlo? No. Era la sua stessa voce, che mormorava dai limiti della sua coscienza: «Cosa uscirà dai sogni dei Veglianti? Un bene terribile o un terribile male?» E in quel momento si affacciò alla sua mente un pensiero che andava formulandosi da tempo, e che lo avvolse di una nera ombra di dubbio. Dopo aver visto tutto ciò che aveva visto, come poteva seguitare a non credere all'onnipotenza di Boonta? Credere che solo il caso lo aveva portato a divenire il primo Padre straniero del dio kareenano Yess, dello Yess che affermava che Carmody aveva aperto una nuova strada al culto della Madre, una strada che portava all'universo? Credere che solo il caso gli aveva affidato il profetico Libro scritto dal Figlio di Boonta, che solo per caso era stato scelto a diffonderlo nell'universo? C'era un motivo, se era stato scelto a testimone di tutte queste cose. Lo strano fenomeno che lo aveva convertito alla Chiesa, che gli fosse stato inviato direttamente da Boonta, perché si facesse sacerdote della Chiesa? La sua fede, una fede che credeva salda, gli era stata data non da Dio Padre, ma dalla Madre Boonta per fargli poi giocare il ruolo del traditore? «Padre Onnipotente!» pregò forte. «Tu sai perché queste cose sono accadute! Aiutami, perché io non so. Ho visto eventi troppo grandi e troppo forti per poter resistere! Dammi una risposta! Ho bisogno del tuo aiuto, ora più che mai!» FINE