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Presentazioni
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Presentazioni
La memoria recita attraverso i segni del tempo e dello spazio. È un percorso a ritroso che implica soste e ripensamenti; una via che spesso si copre di altri segni e tracce. E il territorio è l'ambito in cui queste orme devono essere carpite; a volte casualmente, sempre più di frequente come atto specifico di volontà di ricerca da parte di persone che condividono questi obiettivi. Ricostruire la memoria è un atto che richiede profonda umiltà, ma anche intelligenza; è ricondurre al principio di unità tutto ciò che è frammentario, erratico, senza significato immediato. Il ritrovamento, di cui il presente volume è testimonianza e studio, è stato possibile grazie all'attenzione del Gruppo Archeologico Cervese, ed in particolare del signor Agostino Finchi, persona di forte presenza in quel lavoro di unità compositiva delle tracce della nostra comunità. Un ringraziamento infine ai curatori della pubblicazione, alla loro perizia e professionalità e l'augurio che il cammino intrapreso sia sempre più ricco e positivo. Il Sindaco MASSIMO MEDRI
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Non poteva esserci migliore occasione per annunciare i dieci anni della nascita e citare l'attività del Gruppo Archeologico Cervese. Oggi conta oltre cento iscritti ed è crescente l'interesse di conoscenza del passato del nostro territorio e, in generale, delle antiche popolazioni che hanno lasciato segni indelebili sulle cose e nella memoria. Anche se il territorio, ove abbiamo posto la nostra attenzione, non presenta eclatanti elementi archeologici, è comunque estremamente interessante per i molteplici micro ritrovamenti che come piccole tessere formano, unite, un grande mosaico. Da diversi anni, con l'iniziativa dei "mercoledì archeologici" (lezioni serali svolte prevalentemente dalla D.ssa Maria Grazia Maioli durante il periodo estivo), un crescente, interessato ed appassionato pubblico ha potuto conoscere e documentarsi sulle civiltà del passato attraverso l'illustrazione dei ritrovamenti museali delle varie domus; dei modi di vita attraverso le immagini delle suppellettili; del commercio per mare attraverso le imbarcazioni venute alla luce lungo l'antico litorale. Il mosaico pavimentale della chiesa di S. Martino prope litus maris è il ritrovamento più consistente finora emerso dal sottosuolo del nostro comune. Non potevamo ignorare un tale evento e nascondere un notevole sforzo; si è concertato con l'Assessorato alla cultura del Comune di Cervia la pubblicazione dei risultati di quello scavo con l'intento di fare la sintesi storico-archeologica anche dei precedenti ritrovamenti emersi attorno a questo sito. Pensiamo di esserci riusciti. Gli obiettivi futuri del G.A.C, sono ora rivolti alla costituzione di un "Antiquarium" che, assieme alla civiltà salinara, possa racchiudere tutta la raccolta storico-archeologica e sociale, compresa la cultura marinara. per il Gruppo Archeologico Cervese PAOLO ANCARANI
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Alle spalle di Cervia, del borgo settecentesco e della variopinta fascia balneare, si stende, antica, la salina. Coltivata da tempi remoti, essa generò precocemente abitati, inghiottiti poi dalle acque salmastre. Qui sorse già nell'VIII secolo la prima Cervia. Non lontana - secondo una tradizione erudita - si stendeva la romana Ficucle. Nei pressi delle saline le fonti collocavano anche la chiesa altomedieva-le di S. Martino prope litus maris. La conferma è venuta da un ritrovamento fortuito e, poiché tale, ovviamente, traumatico. Neanche l'esplorazione di quanto emerso è stata facile, ostacolata dalla natura stessa del terreno e dalla falda idrica salata. Lo scavo, del resto, è tuttora incompleto. Ma già siamo in grado di ricostruire con buona approssimazione la pianta, cruciforme, dell'edificio ritrovato e congetturarne l'identificazione oltre che, sulla scorta dei tacerti musivi recuperati, la datazione, non posteriore alla prima metà del VI secolo. Restano da riportare in luce la zona del nartece della chiesa, le estremità dei bracci, soprattutto l'area circostante. Restano in attesa di ricollocazione - e di conseguenza di un intervento conservativo da questa necessariamente condizionato - i mosaici. Nel licenziare, quindi, quest'opera, che, a pochi anni dalla scoperta, ne illustra meritoriamente il significato, mentre ci rallegriamo di un ritrovamento che getta luce sulla formazione stessa, storica, del territorio cervese, non ci nascondiamo i problemi che ci attendono e le difficoltà che dovremo superare per risolverli. Non senza rammaricarci una volta di più per l'assenza di norme che impongano a chiunque progetti grandi o piccoli movimenti di terra l'accertamento, mediante indagini preventive, di eventuali preesistenze archeologiche sepolte nel terreno interessato, che risparmino ai privati proprietari, ma soprattutto allo Stato, responsabile della tutela del patrimonio artistico e storico, defatiganti contenziosi e perdite irreparabili. Nelle condizioni in cui siamo costretti a operare una collaborazione insostituibile ci viene, come sempre, dal volontariato, da quei cittadini attenti e sensibili che hanno prontamente segnalato, anche in questo caso, l'affioramento da uno sterro praticato in una zona d'allevamento ittico di laterizi e tessere musive; dall'Ente locale, che ha prontamente còlto l'interesse del ritrovamento, il più importante sinora nel Cervese. I docenti e gli allievi della Scuola per il Restauro del Mosaico e dell'Istituto d'arte per il mosaico, la Cooperativa Mosaicisti di Ravenna hanno messo a disposizione della Soprintendenza la loro insostituibile professionalità. A costoro, ma anche ai numerosi volontari che hanno attivamente collabora-to allo scavo, va tutta la nostra gratitudine. MIRELLA MARINI CALVANI Soprintendente per i Beni Archeologici dell'Emilia-Romagna
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Introduzione
La ricerca archeologica, anche casuale, può ancora riservare insospettate scoperte. Non sempre queste vanno a modificare in maniera rilevante una consolidata tradizione di studi, aprono nuovi orizzonti di ricerca, costituiscono una pietra miliare nelle conoscenze archeologiche. Rappresentano, comunque, un ulteriore, seppure modesto, contributo nella costruzione delle fonti. Del resto l'affinamento dei metodi diagnostici e il progressivo spostamento degli obiettivi di ricerca (rispetto ad un passato non poi così lontano), ci rendono oggi sufficientemente accorti nel confidare troppo sul rinvenimento eccezionale come panacea dei nostri problemi storiografici. La scoperta di Cervia rientra in questa categoria di fonti: casuale e insperata restituisce alla conoscenza collettiva l'esistenza e la consistenza materiale di un edificio noto, ma dimenticato, la cui visibilità storica era fino a qualche tempo fa relegata in qualche documento medievale e nella sopravvivente toponomastica sub-attuale. Chi ha avuto, per mera competenza istituzionale, il compito di indagarlo (pur con tutte le difficoltà che molto spesso questi insperati ritrovamenti comportano), ha ritenuto che fosse altrettanto doveroso rendere nota la documentazione prodotta nell'occasione delle due campagne di scavo: secondo quei tempi (non sempre brevi, ma comunque accettabili), che necessariamente passano tra l'entusiasmo della scoperta e la più faticosa messa a punto della pubblicazione. Questa è dunque una edizione di scavo, cioè una edizione di fonti. Non è questa la sede per chiederci se i metodi che fino ad oggi ci hanno guidato nella costruzione degli archivi archeologici debbano passare dalla tradizionale e voluminosa edizione a stampa alle pagine su video che i sempre più raffinati programmi informatici ci propongono: le epoche di passaggio (e questa ci sembra una delle più critiche) palesano contraddittoriamente la convivenza tra vecchio e nuove» (e le scelte verso il futuro ci paiono sempre un po' troppo avveniristiche). È certo, comunque, che un problema del genere non possa venire eluso arroccandosi sul già conosciuto e praticato, sul consuetudinario che di per sé porta a lidi più tranquilli ed apparentemente sicuri. Ma se la scelta di imboccare nuove strade può essere, anche se non per molto, procrastinata, ciò che non si deve rimandare è la costruzione dei nostri archivi, ordinati e consultagli, in modo tale che la tutela non rimanga un esercizio disancorato dalla conoscenza e dalla divulgazione, ma si tramuti anche in trasmissione di sapere. Molte sono le persone che gli AA. sentono il dovere di ringraziare: alcune di queste hanno agevolato l'intervento nel suo divenire, altre hanno, singolarmente o congiuntamente, favorita la ricerca nella sua fase di elaborazione. Innanzitutto il Gruppo Archeologico Cervese, che ha segnalato il ritrovamento ed ha coadiuvato l'equipe durante tutte le operazioni di scavo; l'Amministrazione Comunale di Cervia, che ha contribuito alla realizzazione dello scavo e, successivamente, si è fatta carico anche della sua pubblicazione; Cervia Ambiente, che ha curato questa iniziativa. Le persone che hanno lavorato allo scavo: Remo Bitelli, Chiara Bocchini, Egle Cicognani, Sabrina Paglierani, Pietro Panizzi, Giuliano Pierpaoli. © 1996 All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale
Ancora per lo scavo la Ditta Conti e i proprietari del terreno Coriolano ed Eros Mazzolani. Il Prof. Umberto Foschi, il Sig. Franco Torre e il Sig. Umberto Zaccarini (Ispettore Onorario per i Beni Archivistici). La Prof.ssa Gisella Cantino Wataghin, dell'Università di Torino e il Prof. Augusto Vasina, dell'Università di Bologna. Isabella Tommasoli per le elaborazioni al computer, Agnese Mignani per i disegni e Claudio Cocchi e Moreno Fiorentini per le fotografie. L'Istituto d'Arte per il mosaico e la Scuola d'Arte per il restauro del mosaico della Soprintendenza ai Beni Ambientali ed Architettonici di Ravenna (in particolare Paolo Raccagni). Il Personale e la Direzione della Biblioteca Classense di Ravenna e dell'Archivio Storico Comunale. Ancora tra gli Istituti l'Archivio di Stato di Ravenna, la Biblioteca E. Saffi di Forlì, con particolare riguardo per il Dott. Brigliadori, curatore del fondo Piancastelli. E infine l'Archivio Storico Arcivescovile di Ravenna, con particolare riguardo per don Giovanni Montanari e il Prof. Giovanni Rabotti.
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I. S. Martino prope litus maris: individuazione, scavo e discussione della sequenza insediativa
1. La scoperta e lo scavo
Nel maggio del 1989, in loc. Podere Mariona (un sito ubicato a ovest della via Romea, in prossimità dello svincolo che porta all'attuale abitato di Cervia, da una parte, e alle saline, dall'altra) (Figg. 1-2), venne segnalato, da alcuni membri del Gruppo Archeologico Cervese, il casuale ritrovamento di lacerti di un pavimento musivo. La scoperta era avvenuta in occasione di uno scavo per la realizzazione di una serie di vasche per l'allevamento ittico; tale scasso, praticato con mezzo meccanico per una profondità di circa m 2 dal piano di campagna, aveva casualmente intaccato, e quasi ovunque rimosso, lo strato archeologico fino al terreno sterile. La qualità del lacerto musivo e la constatazione che, per quanto danneggiata, l'area poteva ancora conservarne altri, consigliarono l'immediata sospensione dei lavori ed una prima ricognizione sui resti che avvenne, nonostante le condizioni avverse, nell'estate immediatamente seguente (le condizioni avverse consistevano principalmente nel fatto che gli strati archeologici, solo per brevi periodi dell'anno, si trovavano all'asciutto e, per una loro corretta esplorazione, sarebbe stato necessario impiantare un costoso sistema di drenaggio). L'assenza di strutture murarie (se non nel settore più occidentale dello scavo, in cui lo scasso aveva raggiunto una maggiore profondità) impedirono immediatamente una corretta interpretazione dei resti rinvenuti. Dico questo perché, tra la prima e la seconda campagna di scavo, il ritrovamento di Cervia passò, e non solo in una pubblicistica di stampo locale (MAIOLI 1989, p. 39), come una villa tardo-antica («Archeologia Medievale», 1990, Schede scavi 1989, p. 530): dove se genericamente corretto era il riferimento cronologico, non altrettanto lo era quello funzionale. Accertata la consistenza del ritrovamento, si decise di procedere ad una seconda campagna di scavo, che avvenne nel 1991: scopo di tale intervento era quello di interpretare in maniera più corretta (e possibilmente completa) la sequenza insediativa, verificare l'estensione dei mosaici conservati e, infine, valutare l'opportunità di un loro distacco. L'indagine interessò per una buona estensione l'area occupata dall'edificio (750 mq ca.), ma non ne esaurì, per mancanza di fondi, l'esplorazione (Figg. 2-3): tuttavia, alla fine della campagna di scavo, eravamo nella possibilità di definire a grandi linee la pianta del monumento e di recuperare quanto restava del tappeto musivo, purtroppo mal conservato. Le vicende nel tempo del complesso architettonico risultavano invece meno comprensibili, sia per l'originaria scarsa stratificazione, sia per i forti danneggiamenti subiti dal monumento in occasione dei sunnominati sterri operati con mezzo meccanico. L'alto costo di un'altra campagna di scavo (che avrebbe necessitato 11
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anche l'abbattimento di barriere artificialmente create per la realizzazione delle vasche suddette nonché il continuo funzionamento di pompe per il drenaggio dell'acqua) è stato motivo principale per suggerire il distacco e il restauro dei lacerti musivi (di contro ad un'originaria ipotesi di conservazione in situ) e per dissuaderci dal proseguirne, almeno in tempi brevi, l'esplorazione. I dati ricavati erano tuttavia sufficienti non solo per attestare semplicemente l'esistenza di un edificio dimenticato (e che le fonti scritte ci documentavano in una fase piuttosto tardiva: vd. infra 1.3), ma anche per delinearne la fisionomia almeno nella sua configurazione originaria. L'area indagata si presenta di forma irregolare e, a sua volta, suddivisibile in quattro settori (1-4; Fig. 4): prima di discutere la sequenza sarà opportuno fornire alcune indicazioni sulla strategia adottata e sul grado di approfondimento archeologico operato in ciascuno di questi settori. Il settore 1, il più occidentale, era stato interessato da uno scasso molto più profondo. Qui non rimaneva più traccia né dei depositi archeologici, né dei livelli pavimentali dell'edificio, ma esclusivamente alcuni relitti strutturali (usm 49, 98, 99 e 100), ubicati nell'angolo sud-est. L'intervento è consistito solo nella loro documentazione, che ha interessato un'area di circa mq 100. Il settore 2, il più ampio e centrale (mq 500 ca.), di forma pressoché quadrangolare, è stato indagato estensivamente. Qui l'intervento del mezzo meccanico era stato meno invasivo rispetto al settore 1, risparmiando, in alcuni punti, il pavimento musivo, le fosse di spoliazione e, probabilmente, qualche brandello dei livelli archeologici successivi al primo impianto (vd. 14
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infra Periodo II). Tuttavia durante lo scavo ci si è resi conto che il passaggio dell'escavatare aveva talora riposizionato sui resti di mosaico (o sul loro sottofondo) del terreno che, a prima vista, poteva venire scambiato per un deposito archeologico in situ, pertinente alle fasi di abbandono o, ancora meglio, ad una nuova sistemazione pavimentale, ma che in realtà non lo era, o non lo era più nella sua configurazione originaria. Questo fatto ha fortemen-
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te limitato l'interpretazione delle vicende successive la costruzione dell'edificio e, soprattutto, le forme e i tempi delle sue trasformazioni, contrassegnate, con certezza, solo da taluni lacerti murari e da alcune fosse di spoliazione. Lo scavo di questo settore è stato integrale, almeno per quanto concerne l'individuazione dei livelli d'uso originari all'interno della chiesa: per mancanza di tempo, tuttavia, alcune fosse di spoliazione non sono state compiutamente scavate (o sono state indagate solo per campionatura). In particolare del perimetrale sud dell'edificio è stato individuato solo il riempimento (us 52) della fossa (us 69), ma non è stato scavato. Gli ultimi due settori (3-4), ubicati nella zona orientale, di dimensioni più modeste (complessivamente poco più che un centinaio di mq), sono stati aperti solo in un secondo momento, con la precisa finalità di determinare la configurazione della parte absidale del nostro edificio una volta compresane la planimetria.
2. La sequenza insediativa PERIODO I (Figg. 5-7) La prima attività riscontrata nel sito è costituita dalla costruzione di un edificio di culto canonicamente orientato. Di questo edificio sono stati rintracciati alcuni lacerti musivi pavimentali (usm 6, 45-46, 50-51, 61-63), che verranno discussi più oltre (infra II), resti del loro sottofondo (us 53, 74 e 81), qualche relitto strutturale (usm 49, 41, 76, forse 98, 99) e una serie di fosse di spoliazione (us 39, 40, 73, 75) che permettono di ricostruirne in parte l'icnografia (non sarà inopportuno premettere che la pianta dell'edificio è certa per un buon cinquanta per cento, mentre maggiori imprecisioni si registrano per la zona nella quale dobbiamo ubicare la facciata, prossima cioè al settore 1). L'edificio di culto venne edificato direttamente su un paleosuolo privo di tracce di frequentazione e costituito, dove è stato possibile indagarlo, da sabbie marine (us 7, 31-32, 35, 37, 43, 60 (?), 65, 71, 72, 77 e 80): ciò conferma che la linea di costa non doveva essere distante quando venne costruito (sulla linea di costa vd. VEGGIANI 1988, pp. 22-23, fig. 8 e 12), come del resto tradisce l'intitolazione stessa, benché attestata tardivamente (vd. infra 1.3). La presenza di qualche frustolo di ceramica di epoca romano-imperiale non può essere interpretato, al momento, come indizio di una stabile occupazione del sito in epoca anteriore la costruzione della chiesa. L'edificio aveva pianta cruciforme (croce latina), con abside di forma poligonale all'esterno e semicircolare all'interno: sui fianchi sud e nord erano stati addossati due portici (Fig. 8). La parte absidale è piuttosto ben conservata, anche se la forma di quest'ultima (eptagonale all'esterno) è documentata in base all'impronta lasciata nella fossa di spoliazione (us 70): la luce era di m 12, la profondità m 6 e lo spessore dei muri ca. m 1,20 (ma quest'ultimo dato è difficile da calcolare con precisione, sempre in base alle dimensioni della fossa di spoliazione: non verrà dunque mai computato nelle misurazioni dell'edificio, vd. infra). Un muro continuo (sp. m 0,80) ancorava, secondo un uso abbastanza diffuso, i terminali della parte absidale. Le dimensioni dei due bracci della croce, dei quali sono state identificate le fosse di spoliazione di alcuni perimetrali (us 47), sono indizialmente 16
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calcolabili in base all'estensione e alla configurazione dei lacerti musivi che li decoravano (Fig. 9), poiché non sono state individuate le chiusure delle testate nord e sud: di forma all'incirca rettangolare dovevano essere larghe m 7 e lunghe m 9 ca. Anche in questo caso i muri dei bracci erano ancorati tra loro da un ulteriore muro dello spessore di m 0,80 (spessore analogo a quello dei perimetrali). Più incerta la lunghezza dell'edificio poiché non sono stati identificati i resti della facciata (la quale doveva trovarsi nel settore 1) né è stato possibile determinare anche se vi fosse o meno un nartece. Tuttavia siamo in grado di formulare qualche ipotesi sul primo problema, basandoci sui resti del porticato laterale meridionale. Come abbiamo detto l'edificio doveva essere circondato da due portici, pavimentati non a mosaico bensì in laterizio (us 64 e 96), di cui sono stati identificati con certezza almeno due pilastri di quello meridionale (us 49 e 41). Di forma all'incirca quadrangolare (m 0,60), non collegati da una fondazione continua, dovevano essere distanziati secondo un interasse di ca. m 3. L'ampiezza del porticato era di m 4. Sul prolungamento del porticato meridionale, a ca. m 9 dall'ultimo pilastro conservato, si individuavano i resti di una fondazione continua (usm 99), conservata per una lunghezza di m 3,20 (spessore m 0,55), con tracce di una lesena sull'esterno (m 0,70x0,20, quest'ultima misura non è quella originale perché la lesena era rotta), costruita, anche questa, con pezzame laterizio di reimpiego e cementata con malta abbastanza resistente. Tale struttura si presenta oggettivamente disassata rispetto al porticato e ai perimetrali della chiesa, ma bisogna tener conto del fatto che questi ultimi sono stati ricostruiti attraverso le fosse di spoliazione e, in forma congetturale, per una buona parte regolarizzandone l’andamen-
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to. La pertinenza di questo lacerto strutturale alla parte terminale del porticato non è certa, ma possibile. Se il lacerto murario 99 è, come abbiamo ipotizzato, ancora parte del porticato della chiesa, attraverso la modularità delle dimensioni dei pannelli in mosaico rinvenuti all'interno della chiesa, è possibile congetturare l'ubicazione della facciata con una certa plausibilità. Di fianco alla solea (vd. infra) sono stati identificati due pannelli con decorazione geometrica che, comprese le cornici, misurano m 5,50 di lunghezza. Considerando la posizione della us 99, dunque, solo altri tre pannelli, delle medesime dimensioni, sono ipo-tizzabili all'interno dell'edificio (Fig. 9). In questo caso la chiesa doveva essere lunga intorno ai 32 metri (senza considerare la profondità dell'abside, calcolando la quale arriveremmo a m 38). Basandoci ancora sulla distribuzione dei lacerti musivi è stato possibile anche individuare l'ubicazione e le dimensioni del bema e della solea (Fig. 9). In coincidenza di questa struttura, infatti, non solo era mancante la decorazione musiva, ma era anche assente il relativo vespaio di fondazione. Ciò sembra giustificare l'ipotesi che in quel punto la pavimentazione doveva essere rialzata rispetto al resto della chiesa e quindi del tutto cancellata dallo sterro con mezzo meccanico. La vasta lacuna centrale andava poi a disegnare, in negativo, una struttura che è facile, per caratteristiche e dimensioni, identificare con il bema dell'edificio, di forma rettangolare (m 10x9). Per lo stesso motivo era possibile determinare la presenza della solea, anch'essa di forma rettangolare allungata (m 6x3). La chiesa era pavimentata, come abbiamo detto, in mosaico. La presenza di numerose lastrine di marmo di vario tipo e colore, rinvenute sparse in tutto lo scavo, suggerisce poi l'ipotesi che i perimetrali dell'edificio fossero rivestiti di crustae marmoree (vd. infra III, contributo Novara). Resti di opus sectile per pavimentazione sono pure attestati, ed anche in notevole quantità: tuttavia a questo proposito è opportuno rilevare la grande disomogeneità di forma e dimensioni dei singoli tasselli, fatto che pare presupporre un loro uso secondario nell'edificio. In poche parole i tipi attestati non sembrerebbero indicare che la chiesa avesse avuto parti originali decorate in questa maniera, bensì che i tasselli recuperati fossero pertinenti ad una successiva pavimentazione, andata poi completamente distrutta e nella quale erano stati reimpiegati, in maniera abbastanza disorganica, materiali più antichi (vd. comunque a questo proposito Periodo III e, soprattutto, infra III contributo Novara). Dell'originario tappeto musivo che doveva rivestire l'intera navata dell'edificio e i bracci della croce, restavano conservati (almeno per le parti indagate), solo alcune ampie porzioni in corrispondenza del bema e della solea. Qualche lacerto appena intellegibile era conservato nel braccio destro della croce, mentre in quello sinistro erano solamente piccolissimi frammenti. La decorazione musiva si presentava composta da pannelli di ineguali dimensioni, che si adattavano all'impianto dell'edificio: quattro pannelli, di ineguale forma e dimensioni, nei bracci della croce, due lunghi e stretti corridoi di fianco al bema, uno lungo il corridoio centrale in corrispondenza della solea e, infine, se l'ipotesi ricostruttiva è corretta, ancora otto pannelli rettangolari in aderenza ai perimetrali sud e nord dell'edificio. Pochissimo materiale è stato rinvenuto associabile ai livelli di costruzione dell'edificio. Nel sottofondo pavimentale (us 38) era un frammento di parete di anfora, non databile con precisione ma collocabile tra V-VII secolo (vd. infra III contributo Stoppioni). La sua cronologia, dunque, deve basarsi sull'analisi dell'impianto musivo (vd. infra II) che comunque si presenta sotto
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questo profilo unitario e, in via indiziaria, sui materiali rinvenuti durante le operazioni di pulizia (o nelle fosse di spoliazione, o nei depositi ritenuti pertinenti alle fasi di abbandono del monumento). L'evidenza numismatica e quella dei materiali, per quanto possa essere utilizzata a tal fine, non sembra contraddire l'ipotesi di una cronologia dell'edificio nella prima metà del VI secolo. In prossimità del portico settentrionale sono stati rinvenuti forse i resti di una sepoltura (usm 97), purtroppo in gran parte distrutta, di cui restavano solo due embrici giustapposti in piano. In questo caso l'ipotesi più probabile è che fosse del tipo a cassa di laterizi con copertura piana o a doppio spiovente (ed. "alla cappuccina") (tipi II-III GAGNIÈRE: 1965), ambedue attestati in Romagna, per il momento, non oltre i primi decenni del VI secolo (vd. MAIOLI 1979, per Imola (Bo); MAIOLI 1980, per Rimini; MAIOLI 1984, pp. 469-471, per Castelbolognese (Ra)). La relazione cronologica con l'edificio resta, per l'assenza di qualsiasi rapporto strutturale, del tutto ipotetica, ma la forma della presunta sepoltura non ci consente di procrastinarne la costruzione molto dopo la realizzazione della chiesa. PERIODO II Le fasi successive all'impianto dell'edificio sono indirettamente ricostruibili attraverso una serie di attività, spesso di difficile connessione tra di loro: poiché non sono quasi mai interrelate fisicamente, la loro consequenzialità cronologica è solo congetturale. Appartiene a questa categoria di indizi il fatto che i pochi mattoni in situ, sia nel portico meridionale che in quello settentrionale (usm 64 e 97), si presentavano, oltre che frammentari, anche fortemente combusti. Poiché tracce di combustione sono state individuate anche su alcuni lacerti musivi, si può congetturare che tali evidenze siano da riferire ad un incendio (esteso?), piuttosto che da ricollegare con attività praticate all'interno dei due corridoi laterali. Una situazione analoga si è riscontrata anche nel portico settentrionale della basilica di S. Cassiano a Imola (GELICHI in Villa Clelia, pp. 121-127), dopo la sua chiusura e durante l’altomedioevo. Se è corretta l'ipotesi che la chiesa abbia avuto una nuova pavimentazione in sectile in epoca carolingia (vd. infra Periodo III), tale incendio deve essere collocato tra VI e IX secolo. PERIODO III Un rinnovamento del monumento, o almeno di una parte di questo, nell'alto-medioevo, è documentato dalla presenza di alcuni elementi usati per un opus sectile pavimentale e frammenti scultorei, relativi, questi ultimi, ad una recinzione presbiteriale (vd. infra III contributo Novara). Secondo la ricostruzione della Novara i frammenti in marmo pertinenti ad un pavimento in sectile sarebbero indiscutibilmente da riconnettere con un rifacimento pavimentale (parziale, totale?) dell'edificio, ottenuto mediante il recupero di materiale di spoglio. Potrebbero appartenere al sottofondo di questo pavimento i pochi resti di un deposito a matrice argillosa ricco di carboni e con numeroso materiale (us 30), individuato in alcune zone poco disturbate del settore 2. Tale ipotesi potrebbe essere confermata dal fatto che questo deposito era effettivamente tagliato dalle fosse di spoliazione tardo e post-medie-vali (Periodo IV). Se l'interpretazione è corretta (ed avremmo confronti, ad
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es., nel vicino territorio ravennate in S. Croce a Ravenna, GELICHI-NOVARA PIOLANTI 1995, Periodo III, oppure in S. Severo a Classe, BERMOND MONTANARI 1968, pp. 21-23, fig. 12), questo pavimento (senza sottofondo: vd. sempre per confronto il caso di S. Croce citato), sarebbe stato distrutto (parzialmente, totalmente?) durante la fase di demolizione e spoliazione del monumento, oppure definitivamente rimosso dal mezzo meccanico prima dell'intervento archeologico. Il tipo di capitellini e di pilastrini riconduce, come cronologia, al IX secolo. Forse a questo Periodo è da ricollegare la realizzazione di un setto murario in pezzame laterizio legati con malta povera (usm 98 e 100), di cui restavano piccoli lacerti murari nel settore 1 e la cui funzione risulta poco chiara. PERIODO IV La chiesa venne abbandonata: le uniche tracce archeologiche di questo Periodo sono rappresentate dalle fosse di spoliazione che interessavano, in maniera quasi sistematica, tutti i perimetrali dell'edificio e i pilastri del porticato (us 33, 39=48, 66, 69, 70). Queste attività di spoliazione non sono ben databili. A tale proposito vi è una certa incongruenza tra il dato archeologico e l'evidenza documentaria relativa alla nostra chiesa, identificata, lo vedremo più avanti, con S. Martino prope litus maris. Le fonti scritte (vd. infra 1.3), infatti, attestano che l'edificio, ancora nel XIV secolo, veniva officiato. In epoca successiva non compare più la chiesa, bensì una torre, detta di San Martino, che doveva svolgere funzioni di controllo del canale (TURCHINI 1988, p. 206). Nelle fosse di spoliazione scavate ci sono esclusivamente materiali tardo-antichi (vd. infra III Stoppioni): ma la possibilità che questo edificio sia stato demolito (anche parzialmente) nell'alto-medioevo viene contraddetta sia dalla supposta ricostruzione pavimentale in sectile di cui sono stati rintracciati probabili elementi del sottofondo pavimentale (us 30) (vd. infra III Novara), sia dagli elementi di arredo liturgico dell'area presbiteriale, attività queste che paiono indicare un rinnovamento dell'edificio in epoca carolingia (vd. supra Periodo II). Dunque l'evidenza materiale che discende dall'analisi del contenuto delle fosse di spoliazione deve essere ritenuta scarsamente significativa a questo proposito. Durante l'esplorazione del sito e nelle, fasi di pulizia superficiale dopo gli scassi operati dal mezzo meccanico, sono stati rinvenuti due frammenti di boccali in “maiolica arcaica” di produzione romagnola (vd. infra III Stoppioni): il tipo di impasto, il decoro e la consistenza del rivestimento stannifero sembrerebbero indicare una datazione nella seconda metà del XIV secolo. Per quanto decontestualizzati questi frammenti costituiscono il terminus post quem più basso circa l'occupazione di questo sito: l'evidenza archeologica, dunque, sembrerebbe confermare che, almeno fino ai primi anni del XV secolo, l'area dove era stata costruita la basilica era frequentata. Nelle mappe 580 e 581 dell'Archivio Storico Comunale di Ravenna (Piante topografiche: vd. infra 1.3; edite anche in FABBRI 1975, fig. 2 e 3-4) databili al tardo XV o, al massimo, inizi del XVI secolo (certo dopo il 1487 in quanto vi compare, in ambedue, la chiesa di S. Maria del Pino: MONTANARI 1971, pp. 63-74) è raffigurato un edificio identificato in maniera inequivocabile come S. martino, nella prima, e t(orr)e s(an) martino nella seconda (Figg. 15-16). Pur nella estrema semplificazione degli elementi che descrivono il paesaggio antropico (la città, le chiese, le case, sono realizzate in maniera abbastanza schematica), gli autori delle due mappe sembrano concordare nel 23
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voler caratterizzare il nostro edificio come una struttura in rovina: meglio una sorta di torre che si erge da un corpo di fabbrica più basso e reso in maniera abbastanza irregolare. Poiché l'ubicazione di questo edificio coincide, per quanto sia possibile una coincidenza a questo grado di dettaglio, con la zona indagata archeologicamente, sembra discenderne che la torre di San Martino, ricordata dalle fonti e riprodotta, come crediamo, in queste due carte, era stata realizzata in stretta contiguità con i resti della chiesa, se non addirittura riutilizzasse una precedente torre campanaria. Ma se questa ipotesi è giusta, dove si trovava la torre? Per quanto le due mappe siano state disegnate dallo stesso punto di vista, nella n. 580 la torre sembra ubicata a sinistra di quel corpo di fabbrica, nella n. 581 a destra. Tale differenza, tuttavia, potrebbe forse imputarsi ad un diverso modo di rappresentare, a silhouette, l'edificio. Nel caso della mappa 581, infatti, la struttura è raffigurata frontalmente, piatta, e con l'indicazione di un accesso, mentre nella n. 580 l'edificio è disegnato con un modesto accenno di scorcio. Dunque sembra abbastanza plausibile che la nostra struttura dovesse collocarsi a sinistra della facciata della chiesa, cioè sul lato nord, zona che, è bene ricordarlo, non è stata indagata archeologicamente perché interessata da uno scasso più profondo (vd. supra settore 1). Riassumendo e collazionando i vari documenti possiamo supporre che l'edificio ecclesiastico fosse ancora funzionante tra il 1316 e il 1328 (data di compilazione degli Statuti). Quésto dato non è contraddetto dall'evidenza archeologica che documenta ancora materiali della seconda metà del Trecento. Verso la fine del secolo successivo l'edificio è rappresentato collabente o in rovina: forse gravemente danneggiato dal terremoto del 1484, non si ritenne più necessario ricostruirlo, ma riutilizzarne esclusivamente la torre campanaria. Dunque le fasi di spoliazione dovrebbero collocarsi dopo questo Periodo. SAURO GELICHI
3. L'identificazione della chiesa e la documentazione scritta 3.1. Una carta descrittiva, redatta presumibilmente nel XVI secolo, ora conservata in una busta pertinente all'archivio del monastero di Classe presso l'archivio di Stato di Ravenna1 (Fig. 10), illustra in modo minuzioso l'area territoriale posta a sudest di Ravenna lungo il fiume Savio sino alla città di Cervia Vecchia. Lungo il percorso viario che, deviando dalla stradela che interseca la carata Ravegnana con andamento parallelo alla linea di costa, conduce a Cervia Vecchia è indicata la presenza di un edificio intitolato a San Martine. Della costruzione non si specifica la natura, tuttavia la collocazione richiama quella dei resti dell'edificio di culto rimessi in luce nel podere Ma-riona; ciò può indurre a riconoscere nel S. Martino della mappa la chiesa recentemente indagata. La carta in questione venne allegata dai monaci di Classe alla documentazione relativa a una vertenza fra l'abbazia di S. Apollinare e quella di S. 1 ASR, CRS, Classe, voi. 368, fase. 2, mappa n. I. Carta a penna, inchiostro color seppia, mancante della porzione angolare inferiore destra; incollata su un supporto cartaceo estraneo, costituito da uno spesso foglio a stampa. Pessimo stato di conservazione. Mis.: mm 430 x mm 720. Edita fra l'apparato iconografico allegato al contributo TURCHINI 1988, fig. 46, senza tuttavia riferimenti nel testo. Tra l'altro la mappa è stampata in visione speculare, pertanto sostanzialmente illeggibile.
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Giovanni Evangelista, negli anni intorno al 1763, circa il diritto di pesca in un fossato scavato dai monaci di S. Giovanni, fossato entro il quale era stato in seguito innestato lo scolo Bevano. Il disegno non reca alcuna datazione, ed il Bernicoli che lo censì nei primi anni del nostro secolo, lo ritenne, probabilmente sulla base della scrittura, del XVI secolo2. Sicuramente la redazione fu successiva al 1487, anno di costruzione della chiesetta di S. Maria del Pino », che già è segnalata, e anteriore alla fondazione di Cervia Nuova, avvenuta fra il 1697 ed il 17054. Stando alla lettera allegata alla documentazione di cui la carta faceva parte, la mappa serviva ad attestare la situazione della zona sin da «due secoli» prima dell'inizio della vertenza, pertanto genericamente dalla prima metà del XVI secolo. Indicazioni utili alla datazione del disegno non sono riportate nemmeno nella copia che della mappa eseguì il perito Giuseppe Guarini (o Guerrini) nel 17655 (Fig. 11), dopo avere collazionato i vari frammenti della vecchia carta dell'abbazia di Classe e averli incollati al supporto sul quale ancora si 2
Sul retro della mappa, a mano, ritengo, del Bernicoli, si legge: «Carta topografica descrittiva dei terreni a Sud di Ravenna sino a Cervia. Sec. XVI». Così inoltre, nell'inventario da lui redatto delle mappe esistenti negli archivi ravennati, cfr. B ERNICOLI , «Inventario», f. 65. 3 Notizie relative alla cronologia della costruzione del santuario della Madonna del Pino, peral tro supportata da una buona quantità di documenti, sono contenute in M ONTANARI 1971, pp. 63- 74; FOSCHI 1985, pp. 1 1 - 30. 4 Circa la nascita di Cervia Nuova cfr. FOSCHI 1971, pp. 85- 1 13; [DEM 1988, pp. 219- 229, con rassegna di documenti; T URCHINI 1986, pp. 27- 59. 5
ACR, Piante topografiche, n. 382. Carta a penna, inchiostro color seppia. Mis. : mm 490 x mm 760.
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conservano - come pare potersi intuire da quanto egli stesso scrive - e neppure si riscontrano in una piccola carta6 (Fig. 12) che, a mio avviso, costituisce lo stralcio della mappa classense relativa al solo tratto raffigurante la zona posta a sud del fiume Savio. L'area di nostro interesse, nelle tre mappe, è rappresentata in modo assai schematico. Lungo la via che conduce a Cervia Vecchia con andamento parallelo al canale portuale, e all'incrocio con la strada de San Martine, la continuazione dello stradello con andamento nord/sud che giungendo dal Savio si incrocia con la carara ravegnana, è segnalata la presenza dell'edificio intitolato San Martine. La strada de San Martine presenta una biforcazione, desinente nella vena de S. Martine. Nella piccola carta n. 588 dell'Archivio Storico Comunale (Fig. 12) al posto di strada de San Martine troviamo come indicazione fondo de San Martino, probabilmente un'errata lettura dal più antico disegno. L'edificio intitolato a San Martino compare, poi, in altre due mappe7 (Figg. 13-14), probabilmente redatte come documentazione di atti giudiziari, da ritenersi cronologicamente molto vicine a quella dell'Archivio di S. Apol-linare, o forse di poco anteriori8. In entrambi la costruzione intitolata a San Martino, nella stessa collocazione riscontrata nella carta del monastero di S. Apollinare in Classe, è schematicamente raffigurata come una sorta di robusta torre quadrangolare con annessa una fabbrica di minori dimensioni. Nella mappa n. 581 (Fig. 13) pare potersi leggere in scrittura abbreviata, anche se la grafia è incerta, t(orr)e S(an) Martino. Mancano, tuttavia, le restanti indicazioni topografiche circa lo stradello e la vena che prendono nome dalla vicina costruzione, presenti nelle tre mappe descritte più sopra. 3.2. Le più antiche menzioni9 di un edificio di culto dedicato a S. Martino situato in territorio cervese sono contenute in un gruppo di documenti ascrivibili ad un arco cronologico che va dalla seconda metà dell'XI sino alla fine del XII secolo. Si tratta di un bannum emesso dall'arcivescovo Guiberto nel 107910, della petitio relativa ad una salina inoltrata dall'arcivescovo Gualtiero 6
ACR, Piante topografiche, a. 588. Carta a penna, inchiostro color seppia. Molto sbiadita.Mis. : mm 282 x cm 430. Ad opinione del Bernicoli è da attribuire al XVI secolo, cfr. B ERNICOU, «Inventario», f. 100. Un particolare della mappa è pubblicato fra il corredo iconografico del contributo FOSCHI 1980, p. 16, senza tuttavia accenni nel testo. 7 ACR, Piante topografiche, n. 580. Carta su tela, acquerellata, con toponimi in inchiostro color seppia; abrasa lungo i margini. Mis. : mm 570 x mm 840. Edita in FABBRI 1975, p. 398, figg. 3- 4; Q UARTIERI 1987, pp. 28- 29. Accenni al contenuto della mappa sono inoltre, in FABBRI 1988, p. 30, fig. 13. ACR, Piante topografiche, n. 581. Carta su tela a penna, inchiostro color seppia. Disegno molto sbiadito. Mis. : mm 820 x mm 830. Edita in FABBRI 1975, p. 398, fig. 2 (particolare). Tralascio di citare, per ovvi motivi di spazio, i numerosi contributi nei quali le due mappe compaiono fra la documentazio ne iconografica, ma senza accenni nel testo. 8 Il Bernicoli, che le annoverò in BERNICOLI , «Inventario», f. 99, le ritenne del secolo XV; ad opinione di Paolo Fabbri la tecnica cartografica e i caratteri usati possono consentirci di ascrivere en trambe le mappe alla fine del XV secolo o ai primi anni del XVI; la presenza di alcuni toponimi di matrice veneziana indurrebbero a collocarla, sempre secondo Fabbri, entro l'arco cronologico durante il quale Cervia fu sotto il diretto controllo della Serenissima (1463- 1509), anche se la presenza della chiesa della Madonna del Pino restringe la datazione sicuramente agli anni posteriori al 1487, cfr. al riguardo FABBRI 1975, p. 398 e per la cronologia della chiesa della Madonna del Pino vd. supra nota 3. In relazione alla sola mappa n. 580, Quartieri ritiene che la si possa ascrivere al XV secolo, cfr. Q UARTIE RI 1987, p. 28. 9 Un rimando degli Indici del IV tomo degli Ann. Cani., alla voce S. Martino di Cervia, indurreb be a ritenere la chiesa in questione citata nella descrizione dei confini di una salina sita in territorio ficoclense in un documento (Ann. Cam. IV [1759], coli. 620- 627) emesso l'I 1 maggio 973 in Ravenna da parte di Pietro duca in favore del monastero di S. Apollinare Nuovo. Secondo la lettura degli Annalisti presso uno dei confini sarebbe stata ubicata l'ecclesia S. Martini qui vocatur in Russo, tuttavia a una più attenta lettura il Federici ritiene di dovere sciogliere il passo in: ab alio (latere) posidente Martino negociatore qui vocatur Russo (vd. Regesto S. Apollinare, n. 2, pp. 5- 13, particolarmente p. 7). 10 AAR, G 2781 [A|, 1079 maggio 20, in domo Tricoli: l'arcivescovo Guiberto vieta di coltivare
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nel 1123 11 e di un gruppo di concessioni di saline e terreni facenti parte del patrimonio arcivescovile ravennate in Cervia del 1186 1 2 . Nella quasi totalità dei documenti in questione la chiesa di S. Martino viene indicata come sita prope litus maris; tale puntualizzazione costituisce un indizio per l'identificazione con l'edificio di culto individuato nelle mappe più sopra descritte nelle quali è evidente l'ubicazione della chiesa lontano dall'area nella quale secondo la tradizione si doveva estendere l'antico abitato di Ficocle (vedi infra) e successivamente quello accertato da dati archeologici, di Cervia Vecchia ed in vicinanza dell'antica linea di costa13 . La chiesa di S. Martino è annoverata, poi, fra i benefici sottoposti al controllo del vescovo di Cervia nei privilegi emessi dai pontefici Urbano III e Innocenzo IV rispettivamente nel 1187 14 e nel 1244 15 . Nella prima metà del XIV secolo l'edificio di culto doveva esistere ancora e svolgere regolarmente le sue funzioni. Due capitoli del I libro degli Statuti, che come è noto costituisce il nucleo primitivo delle leggi del Comune di Cervia redatto presumibilmente fra il 1311 ed il 1316 e trascritto con alcune interpolazioni all'epoca in cui Ostasio da Polenta fu defensor civitatis (a. 1328)16 , riferiscono espressamente dell'esistenza della chiesa di S. Martino de littore maris. L'edificio compare, infatti, fra quelli che, nel giorno della festività del santo titolare, dovevano essere visitati dal podestà e dai membri del Consiglio17 , e fra quelli il cui clero officiante doveva rivolgersi al podestà saline nel campo S. Martini prope litus maris. Regesto in FANTUZZI V (1 80 3), n. 23, p. 162 (lo stesso documento, ma con intitolazione della chiesa errata - S. Maria prope litus maris - FANTUZZI II (1802), n. 4, p. 422). 11 AAR, H 3706 [A], 1123 febbraio (..): Giovanni abate del monasterium di S. Martino in Cervia (sic) chiede per se e per i suoi successori la concessione di una salina posta in fundamento Bucca de Rio all'arcivescovo Gualtiero. Regesto in F ANTUZZI V (1803), n. 28, p. 163. 12 AAR, F 2184 [AJ, 1186 settembre 1, in lacu phicoclensi: l'arcivescovo Gerardo concede in enfiteusi a Rustico, arciprete e rettore del monasterium di S. Martino qui est bedificatum et confectum prope litus maris, una salina posta in fundamento novo de Bucca de Rio. Regesto in FANTUZZI II (1802), n. 6, p. 423. AAR, b 449 [A], 1186 novembre 1, in lacu Phicoclensi: l'arcivescovo Gerardo concede in enfiteusi a Rustico, arciprete e rettore del monasterium di S. Martino qui est edifìcatum et confectum prope litus maris, una salina situata in fundamento novo de Bocca de Rio e metà di una salina in fundamento novo de mare. Regesto in FANTUZZI li (1802), n. 7, p. 423. AAR, H 3726 [AJ, 1186 novembre 1, in lacu phicoclensi: l'arcivescovo Gerardo concede a Rustico, arciprete del monasterium di S. Martino qui est confectum prope litus maris, e ai suoi successori metà di una salina posta in fundamento Cursazene, un appezzamento di terreno sito nel territorio di Cervia e una tumba sita in lacu Phicoclensi. Regesto in FANTUZZI II (1 802), n. 8, p. 423 (e lo stesso documento ma con collocazione archivistica errata, A 3726, in FANTUZZI V (1803 ), n. 38, p. 164). Nel quarto volume degli «Indices» del Ginanni (GINANNI, «Indiccs», ad v. S. Martinus prope litus Maris) è segnalato un altro documento che tuttavia non contiene nessun termine di riferimento per la chiesa in questione, cfr. AAR, G 2590 [A], 1186 settembre (..): Rustico arciprete e rettore della chiesa di S. Maria ottiene a livello dall'arcivescovo Gerardo una salina situata nel luogo detto puteus de lupo; dall'archivio Portuense. Sempre il Ginanni (GINANNI , «Indices», ad v. Cerviensens episcopatus) segnala il documento AAR, G 2747 [A], 1194 marzo 21, Ravenna: l'arcivescovo Guglielmo concede aPetrus Quatorcosse la sua parte di catena sino a S. Martino per 30 lire imperiali. La catena di Cervia, probabilmente quella che chiudeva l'imbocco portuale al pari dell'analoga catena esistente in Ravenna, è ricordata anche in un altro documento del 1213 il cui ristretto è edito in AMADESI 1783, p. 164 ex AAR, Acta curiae archiepiscopalisRavennae, R. 7 (= FANTUZZI V [1 8 0 3 ], p. 311). 13 Relativamente alla linea di costa in età antica e tardoantica cfr. V EGGIANI 1988, pp. 13- 25, particolarmente fig. 12. Anche nelle mappe analizzate in questa sede risulta evidente, ancora nei secc. XV e XVI, la localizzazione della chiesa di S. Martino più verso la costa che verso l'abitato. 14 1 1 8 7 ottobre 10, Ferrariae. Ed. : FANTUZZI IV (1802), n. 73, pp. 283- 285 (ex tabulario Elephantutio); MIGNE CCII, n. 141, col. 1524. Cfr. inoltre K H.HR V, n. 7, p. 1 14. 15 1244 febbraio 1, Lugduni. Ed. : U GHELLI , Italia sacra, II (1717), coll. 472- 473; FANTUZZI IV (1802), n. CXVIII, pp. 355- 357 (che lo trasse dalle schede di Pier Paolo Ginanni). 16 Per tutte le notizie riguardanti la stesura degli statuti di Cervia, la cui edizione a stampa fu possibile in seguito alla conferma da parte di papa Sisto V, cfr. FOSCHI 1965, particolarmente pp. 5 12513 per il I libro. Va rilevato che questo primo nucleo di leggi, andato disperso, venne ricopiato da un codice esistente a Rimini negli anni in cui Cervia si trovava sotto la dominazione veneziana (per volontà di Gerolamo Malipiero, a. 1492, o Gerolamo Canai, a. 1506), cfr. ibid., p. 513. 17 Cfr. Statuta civitatis Cerviae, libro I, cap. 35, p. 21 : De visitatione ecclesiarum et cereis dandis. Nello stesso capitolo si sancisce, inoltre, l'obbligo di santificare la festività di S. Martino.
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in caso di bisogno di adiutorum, consilium et favorem l8. Per i secoli successivi le notizie sono scarse. Le fonti documentarie l9 non soccorrono alla nostra ricerca, e anche la letteratura erudita pare non conoscere l'edificio di culto 20. Le mappe descritte in precedenza costituisco18
Cfr. ibid., libro I, cap. 58, p. 31: De dando auxilium et favorem sacerdotibus volentibus officiare. Fra i numerosi fascicoli dell'Archivio Vescovile di Cervia conservati presso l'AAR sono state analizzate le buste miscellanee nn. 1- 5 (aa. 1600/ 1667) - in totale in nn. di 13 - senza trovare indicazioni utili al riguardo; non ho preso in considerazione le visite pastorali del vescovo di Cervia alla diocesi in quanto conservate solo a partire dal 1709 e relative esclusivamente al sito di Cervia Nuova. 20 Accenni alla chiesa intitolata a San Martino o al toponimo, non sono presenti nelle descrizio ni di Cervia contenute negli itinerari e nelle storie erudite locali e non, cfr. in particolare per gli ìtinerari eruditi B IONDO FLAVIO, Roma restaurata, e. 134v; A LBERTI, Descrittore, cc. 269v- 270r; SANSOVINO, Città d'Italia, e. 20r; SCOTO, Itinerario, parte I, e. 122r; per le storie e le raccolte documentarie erudite locali TONDINI, «Cervia», passim; I DEM , «Spogli»; IDEM , «Schede»; PIGNOCCHI, «Istoria», passim; SENNI , «Memo119
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no, in aggiunta ad alcuni documenti e riferimenti contenuti nel IV libro degli Statuti cittadini, le ultime attestazioni della presenza nel sito di un edificio recante tale intitolazione. I capitoli allegati al I libro degli Statuti sono frutto di una compilazione successiva alla prima metà del XIV secolo e redatta in forma definitiva nel 1526 21. In essi più volte viene citato il campus Sancti Martini 22, che io riterrei il terreno posto tra i due percorsi viari con andamento nord/ sud che incrociavano il porto canale, e la strada a latere Sancti Martini23. Ugualmente, negli elenchi dei possedimenti del capitolo della cattedrale, sempre del XVI secolo, si rileva la presenza di un fundus Sancti Martini24. Da questi pochi accenni sembra che l'edificio di culto non fosse più funzionante. Nelle mappe nn. 580 e 581, come anche in precedenza si è notato, la didascalia San Martino è riferita all'immagine stilizzata di una sorta di torrione, con annessa una piccola struttura, e in un caso - la mappa n. 581 - pare potersi leggere to(rre) S(an) Martino (vedi supra). Che nel sito nel medioevo inoltrato sorgesse una torre si evince anche dal capitolo n. 36 del IV libro degli Statuti, col quale si ordina la manutenzione della triona (sic) sancti Martini e se ne vieta l'atterramento pro utilitate portus Cerviae, et omnium hominum volentium de nocte inde transire in portum Cervia25. Alla luce della documentazione in nostro possesso, tuttavia, non è possibile chiarire se la torre rappresentasse una costruzione il cui nome derivava semplicemente dalla presenza della vicina chiesa o se l'edificio di culto stesso fosse stato tramutato in torre, in seguito al parziale abbattimento e al rinforzo di alcune strutture, quali ad esempio il campanile. Solo a livello di ipotesi si potrebbe supporre che la chiesa fosse stata colpita dal violento terremoto che devastò Cervia nel 1484 riducendo in stato di rovina la maggior parte delle costruzioni della città26, e che, essendosi salvato solo il campanile e una parte del corpo principale, i resti fossero riutilizzati, con adeguati rifacimenti, a scopo di fortificazione. La definitiva spoliazione della struttura potrebbe essere avvenuta, poi, all'epoca della costruzione di Cervia Nuova (1697- 1705), quando sappiamo che anche gli edifici della più antica città vennero atterrati per fornire materiale da costruzione per la nuova fabbrica. Paola Novara rie di Cervia», passim. 21 L’incipit della intitolazione del II libro degli Statuti recita: In nomine Domini Nostri Iesu Cbristi (...) Anno a Nativitate Domini Nostri Iesu Christi Millesimo Quingenetesimo Vigesimo Sexto, die 30 Aprilis (...), in Statata civitatis Cerviae, p. 36. 22 Ibid., libro IV, cap. 17, p. 121: Statuimus et ordinamus, quoti Potestas teneatur omni anno infra 15 dies introitus Kalen. Maii, facere cavare a panteria ricolorum usq(ue) ad panteriam de Zalinis fossatum, quod est iuxta campum Sancti Martini^...); libro IV, cap. 31, p. 127: De fossatis, quae retinent capita ad campum Sancti Martini (...). Un commento a quest'ultimo capitolo anche in T URCHINI 1988, p. 206. Il campo di S. Martino è menzionato nella documentazione già a partire dal 1079, cfr. supra nota 10. 23 Statuta civitatis Cerviae, libro IV, cap. 14, p. 120: Statuimus et ordinamus quod Potestas teneatur facere manu teneri pontes sfrata, et pedritium per quod itur ad Mare a latere Sancti Martini (...) et unus ager debet fieri per ea Sancti Martini usq(ue) ad fossatum archipraesbitteri (sic) per quam aggerem homines possint ire, et redire commode (...). 24 BCF, Fondo Piancastelli, Scritture ed interessi della Mensa vescovile e Capit(olo) della Città di Cervia e sua Diocesi posti in buon lume da M. Scipione Santacroce vescovo della stessa città nell'anno 1573, fasce, sparsi 40 e 61, 1573 giugno 17, Cervia: copia di elenco di benefici del capitolo della cattedrale. 25 Statuta civitatis Cerviae, libro IV, cap. 36, p. 129: De triona (sic) sancti Martini manu tenenda. Un commento al passo degli Statuti è contenuto in T URCHINI 1988, pp. 205- 206. Per quanto riguarda l'edificio raffigurato nelle mappe nn. 580 e 581 se ne veda interpretazione in F ABBRI 1975, p. 402; T URCHINI 1988, p. 206. 26 Per quanto riguarda la descrizione della situazione in cui versava Cervia Vecchia all'indomani del terremoto cfr. la lettera inviata al Podestà di Ravenna in data 16 giugno 1488 (BCR, Cod. 490 [Lettere ducali venete], cc. 379v- 38Ov; stralcio in F ANTUZZI IV (1802), p. 499).
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4. S. Martino e il territorio cervese nell’alto-medioevo
La cronologia dell'edificio e il suo impianto originario sono due aspetti abbastanza sicuri. Per quanto concerne la datazione, essa è congetturata principalmente sulla scorta dell'impianto musivo, che sembra potersi collocare entro la prima metà del VI secolo (vd. infra II). Per quanto possa risultare di un qualche significato, anche la stragrande maggioranza delle ceramiche, scoperte nelle fosse di spoliazione o nei livelli superficiali disturbati, si colloca prevalentemente tra VI e VII secolo (quelle anteriori sono in numero irrisorio: vd. infra III): purtroppo nessun materiale datante è stato rinvenuto al di sotto delle pavimentazioni. Una tale cronologia coincide anche con quella di alcuni frammenti di elementi architettonici riutilizzati nel pavimento in sectile del Periodo II. La Novara, giustamente, osserva che tali frammenti non necessariamente devono essere messi in relazione con l'impianto originario della chiesa, in quanto, come elementi di spoglio, possono provenire da altri edifici. Tuttavia non sfuggirà il fatto che questi frammenti appartengono a lastre o colonnine di recinzione presbiteriale, quella che, proprio intorno al IX secolo, dovette venire rifatta. La pianta dell'edificio è ricostruibile con una buona approssimazione (vd. supra). Come abbiamo visto ci sfuggono le dimensioni precise dei bracci della croce (ipoteticamente congetturabili sulla scorta dei resti musivi) e molto lacunosa risulta la parte anteriore dell'edificio (è probabile avesse il nartece). Le chiese a struttura cruciforme sono state oggetto, in questi ultimi anni, di numerosi studi. L'impianto a croce commissa (SEDLMAYR 1966) trova la sua realizzazione in un discreto numero di edifici dell'area alto-adriatica, i quali, a loro volta, sono stati ricollegati al prototipo ambrosiano della basilica Virginum di Milano (ora S. Simpliciano) (PIUSSI 1978). In area ravennate soltanto tre sono gli edifici paleocristiani con questo tipo di pianta (o per i quali la pianta cruciforme è stata congetturata): la basilica Probi (DEICHMANN 1976, pp. 357-358), la basilica Apostolorum e la basilica di S. Croce. Nel primo caso (basilica Probi) l'impianto è ipotizzato sulla scorta di vecchie scoperte del XVIII secolo e di indagini archeologiche non proprio ortodosse (CORTESI 1970; IDEM 1980). Lo studio dei mosaici superstiti (FARIOLI 1975a, pp. 178191), come di alcune strutture murarie, ha consentito di ipotizzare almeno una fase di ristrutturazione all'epoca dell'arcivescovo Massimiano (VI secolo) (FARIOLI CAMPANATI 1983, p. 43), cui sarebbe da attribuire anche la realizzazione del quadriportico e del transetto. Ancora più complessa, se è possibile, la situazione della basilica Apostolorum (ora S. Francesco), di cui è nota solo l'originaria partizione del capocroce e l'area della facciata (MAZZOTTI 1969; IDEM 1974). Meglio conosciuta la basilica di S. Croce, fatta costruire da Galla Placidia nella prima metà del V secolo e nota, nel suo impianto originario, grazie ad una serie di ricerche archeologiche (per ultimo GELICHINOVARA PIOLANTI 1995). Le analogie con l'edificio cervese sono riconducibili, oltre che nell'impianto generale a croce commissa, anche in alcuni aspetti dimensionali (es. la larghezza interna dell'aula basilicale, m 11,20 nel caso ravennate, CORTESI 1978, p. 62, e 12 in quello cervese): ma S. Croce era probabilmente appena più lunga e con i bracci della croce più larghi. Anche la terminazione quadrangolare dell'area absidale la diversifica dal nostro monumento (ma ciò può essere dovuto ad una aderenza dei nuovi moduli costruttivi ravennati ed alto-adriatici nell'esempio cervese, di un centinaio d'anni più tardo). Analoga è invece la presenza dei porticati laterali, scanditi
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da colonne, nel caso ravennate, e forse da pilastri nella chiesa cervese: tuttavia simili ne risultano le dimensioni (m 4 e l'interasse, m 3,50), le stesse che riscontriamo, tra l'altro, nell'edificio basilicale di Villa Clelia ad Imola all'incirca dello stesso periodo (fine V, inizi VI secolo: G ELICHI in Villa Clelia, p. 124). Portici analoghi ai nostri sono stati congetturati anche per la chiesa di Sepen sull'isola di Krk (Veglia) (SONJE 1978, figg. 2-3), un edificio a pianta cruciforme molto vicino a S. Croce di Ravenna, terminanti in una «una costruzione a pianta quadrata» che si addossava al nartece, qui interpretata, anche per le dimensioni, come una torre (ibid. p. 512). La funzione di questi porticati laterali, che non è esclusiva delle chiese cruciformi e che si ritrova, nel territorio ravennate, in altri monumenti ecclesiastici come la basilica della Ca' Bianca (FARIOLI CAMPANATI) 1983, pp. 46-47) e forse Sant'Apollinare in Classe (per ultimo NOVARA 1990, pp. 15-16) è stata connessa da Hubert (HUBERT-PORCHER-VOLBACH 1967, pp. 33-34) con la presenza di sepolture: anche se ciò è vero in taluni casi, questa ipotesi non può essere automaticamente estesa a tutte le sedi in cui siano presenti strutture del genere, come ha opportunamente messo in evidenza Duval (1991, p. 214). Questi portici potevano servire per ospitare le comunità all'uscita dall'edificio, o i pellegrini, o per celebrare alcune festività (ibid.), oppure potevano essere parte integrante nelle cerimonie liturgiche, come si è proposto per quelli annessi alla chiesa cruciforme di Reccopolis, in Spagna (OLMO ENCISO 1988, pp. 170-172): una funzione non funeraria pare confermata anche dal caso cervese (vd. infra). Nessuna basilica a pianta cruciforme dell'arco adriatico, tra quelle censite dal Piussi (1978), presenta strette analogie con quella scoperta a Cervia. L'innesto dei bracci della croce sulla corda dell'abside (ed anche il tipo di abside recentemente scoperta) potrebbero richiamare la basilica aquileiese alla Beligna (CANTINO W ATAGHIN 1989 e 1992, p. 338): ma quest'ultimo, oltre a restare un edificio di incerta esegesi e cronologia, è a tre navate e di dimensioni molto maggiori. Più vicina, sia sul versante della datazione (la seconda fase è collocata nella prima metà del VI secolo) che delle dimensioni, è invece la basilica di via Madonna del Mare a Triste (MIRABELLA ROBERTI 1969-70,
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pp. 101-112), anche se i bracci della croce sono immissi e più piccoli (Fig. 17). Per quanto manchino confronti puntuali, tuttavia, alcuni elementi architettonici (come il tipo di bema con solea che trova confronti con quello della basilica di S. Severo a Classe, nonché di altri monumenti nord adriatici, OLIVIERI FARIOLI 1968, e la forma dell'abside poligonale all'esterno, caratteristica questa dell'architettura ravennate), costruttivi (l'uso dei tubuli fittili per le volte: vd. infra III Stoppioni), infine decorativi (il tipo di mosaico: vd. infra II), consentono di iscrivere il nostro monumento nell'ambito delle esperienze costruttive maturate in area ravennate nel VI secolo. La funzione dell'edificio resta un problema aperto, poiché un uso cimiteriale non sembra sostenibile per l'assenza di sepolture (con l'incerto caso segnalato nel portico settentrionale), né possono considerarsi probanti, in questo senso, le segnalazioni di tombe in anforoni in un'area abbastanza vicina al nostro edificio, poiché si tratta di notizie troppo generiche e comunque mal correlabili (per la distanza) con la funzione del nostro monumento. Per quanto riguardala dedica a San Martino può essere di un certo interesse sapere che il culto venne introdotto, a Roma, da papa Simmaco (498-514), che fece costruire la chiesa a lui dedicata presso le terme di Traiàno, oggi nota come San Martino ai Monti (Biblioteca Sanctorum, VIII, Coll. 1248-1291). A Ravenna, e nel suo territorio, il culto non è tuttavia documentato prima della metà VI secolo. L'arcivescovo Agnello riconsacrò a San Martino, nel 561, la basilica palatina (ora Sant'Apollinare Nuovo: LUCCHESI 1971, p. 76). Un altare dedicato a San Martino era però nella chiesa ravennate dei Santi Giovanni e Paolo, secondo il racconto di Venanzio Fortunato, il quale narra di una miracolosa guarigione prima di intraprendere il suo famoso viaggio per la Gallia (ROSADA 1990). Infine, sempre a Ravenna, è documentata un'ultima chiesa dedicata a San Martino (post ecclesiam Maiorem), nota però solo a partire dal secolo X, di cui, ancora nel XV secolo, il Ferretti ne vedeva avanzi (ZIRARDINI 1908-1909, pp. 177178). Purtroppo non siamo in grado di poter stabilire se l'intitolazione dell'edificio cervese, che compare nelle carte dopo il Mille, fosse quella originaria, nel qual caso potrebbe costituire l'attestazione più antica nota in quest'area. Come è noto la documentazione scritta precedente il secolo X è, per il territorio cervese, quasi inesistente (VASINA 1971): solo da questo periodo, infatti, anche in connessione con il passaggio giurisdizionale alle dipendenze del metropolita ravennate (VASINA 1988, p. 171) e, secondo i più recenti studi (MONTANARI 1988; VASINA 1988), anche in relazione con un intensivo sfruttamento delle saline, il territorio cervese comincia a fare la sua comparsa, con continuità e frequenza, nella documentazione scritta d'area ravennate. Insieme al territorio (e alle saline), compaiono anche le menzioni di un abitato (quello di Cervia), di una sede episcopale presso la chiesa cattedrale di San Paterniano (che è stata opportunamente ubicata all'interno dell'abitato di Cervia), di una serie di edifici ecclesiastici (la cui presunta antichità è stata congetturata sulla scorta delle intitolazioni: VASINA 1988), tra i quali il nostro. Questo ingresso, tardivo, nella storia, può non essere un caso. La prima attestazione di un vescovo risale alla fine del V secolo (ZATTONI 1974a): si tratta di un certo Gerontius ricordato per la prima volta forse nel 495-6, certamente presente alla sinodo romana del 501 (MANSI VIII, col. 247; LANZONI 1927, p. 713). Il vescovo è chiamato con l'appellativo di fico-dense, etimo di origine e significato incerto (VASINA 1988, pp. 169-170). Benché nessun abitato in epoca antica sia attestato in questo territorio, men che meno con questo nome, la tradizione erudita locale ha postulato l'esistenza di una città di Ficucle in età romana (per una sintesi finale del proble-
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ma vd. FOSCHI-RONCUZZI 1969). Inoltre, anche se l'appellativo di civitas non compare mai nelle fonti scritte alto-medievali in associazione con tale toponimo, il fatto che esistesse un vescovo con questo appellativo (ficoclense) e che, verso il X secolo, prendesse corpo giuridico e demico un abitato di nome Cervia, ha portato, nel migliore dei casi, ad identificare nell'uno (Ficocle) il nucleo generatore dell'altro (Cervia) (Rossi 1589, lib. IV, p. 223; CAPPELLETTI 1844, II, p. 557; per ultimo V ASINA 1988); non è mancato, invece, chi ha voluto vedere un vero e proprio spostamento dell'abitato (FOSCHI 1955, pp. 15-16; IDEM 1960, pp. 10-17; ZATTONI 1974a-b). L'episcopio cervese si configura, (come aveva già rilevato il KEHR, V, p. 113, ripreso dal LANZONI 1927, p. 713 e, con nuove e stringenti argomentazioni, dal V ASINA , 1988, pp. 170-172), in maniera del tutto anomala nel quadro dell'organizzazione ecclesiastica dell'antica Regio VIII. Venne istituito, cioè, in un territorio fino ad allora privo di visibilità storica, compresso com'era tra i centri ben più importanti di Rimini (a sud), di Ravenna (a nord), di Cesena (ad ovest). In epoca romana questo territorio è contrassegnato dalla presenza esclusiva di fattorie e forse qualche villa (MAIOLI 1988, pp. 5657): non si è in grado di determinare a quale entità amministrativa esso afferisse, ma non è da escludere, con il Mansuelli (MANSUELLI 1948, p. 30), che non dipendesse da Ravenna, bensì, in quanto ubicato alla sinistra del Savio, da Caesena. Resta aperto il problema dello sfruttamento delle saline nell'antichità. Recentemente (HOCQUET 1978 e 1988; VASINA 1971; MONTANARI 1988) si è supposto che un incremento nella lavorazione delle saline sia da collocare tardivamente nel medioevo (X secolo), in concomitanza con la crisi di Comacchio e con la progressiva acquisizione di diritti, prima ecclesiastici, poi comitali, da parte dell'arcivescovo di Ravenna (che già comunque doveva vantare da tempo diritti di carattere patrimoniale su parte di questo territorio). Ma un incremento nello sfruttamento delle saline nel pieno medioevo, sorto dallo stretto legame che «allora si instaura tra il territorio cervese e gli interessi dell'arcivescovo di Ravenna» (MONTANARI 1988, p. 132), non significa escludere del tutto la possibilità che queste fossero state attive anche nell'antichità (e che potessero essere appartenute, come si è congetturato, alla famiglia imperiale: SANTORO BIANCHI 1988, p. 99). Questo fatto spiegherebbe meglio, forse, l'istituzione della diocesi cervese, non solo perché qui doveva esistere già un centro organizzativo ed amministrativo delle medesime (ibid. p. 99), ma anche per la presenza di vaste proprietà fiscali, che potrebbero aver costituito la base patrimoniale necessaria per l'istituzione episcopale (come del resto sembra accadere nel vicino e poi non molto dissimile caso di Vicohabentia: vd. infra). Se vogliamo leggere in questa ottica le dinamiche insediative del territorio cervese, o ficoclense, (la cui esistenza, sarà bene sottolinearlo, è nota solo dal X secolo: VASINA 1988, p. 162, nota 3), sarà opportuno evitare di andare alla ricerca di una fantomatica città che peraltro le fonti, scritte ed itinerarie, anche quelle più vicine alla data dell'istituzione della diocesi, cioè la Tabula Peutingeriana, non nominano mai (ricordo, per inciso, che in quest'ultima compaiono solo due mutationes o tabernae, ad Novas, menzionata anche da Andrea Agnello e Sabis: VASINA 1988, pp. 166-168). La presenza della diocesi, dunque, acquista un qualche significato solo se la si riconnette con un disegno strategico, voluto dalla Chiesa romana, da cui dipenderà fino al X secolo, prima nel «prendere misure di contenimento dell'arianesimo in queste terre» (VASINA 1988, p. 172), poi nel frenare le tendenze autocefaliche e scismatiche della chiesa ravennate, vive per tutto l'alto-medioevo (SIMONINI 1969, p. 56). Il termine ficoclense, attribuito alla diocesi, sarebbe dunque, 35 © 1996 All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale
almeno nella fase iniziale, da interpretare come toponimo territoriale. Ciò spiegherebbe, ad esempio, anche il fatto che è detta ficodense la pieve di S. Stefano di Pisignano (MAZZOTTI 1975, pp. 81-83), ubicata a qualche chilometro di distanza dall'area dove sorgerà, nell'alto-medioevo, Cervia (o dal Prato della Rosa, altro sito nel quale si vuole ubicare l'antica Ficocle: MAIOLI 1988): toponimo, sarà bene ricordarlo, che ha indotto taluni studiosi a spostare proprio nei pressi di Pisignano il sito della presunta antica città. La dottrina ha da tempo stabilito una stretta interconnessione tra sede episcopale e civitas, dove se non costituisce fattore automatico la presenza del vescovo in ogni città romana (come spesso si è congetturato), è invece vero il contrario, cioè che non vi è sede episcopale al di fuori della città (DUPRÈ THESEIDER 1959; VIOLANTE-FONSECA 1964), anche fisicamente (TESTINI-CANTINO WATAGHIN-PANI ERMINI 1989): questo vale anche per l'antica Regio VIII (GELICHI 1994, pp. 568-572). Tuttavia qualche eccezione non manca, seppure leggermente più tardiva, che potrebbe ricordare il nostro congetturato esempio di Cervia. Nel secolo IX il vescovo di Populonia, nella Tuscia, si trasferisce, dall'originaria sede, in Cornino, dove risiederà per circa due secoli prima di stabilirsi definitivamente a Massa Marittima (GARZELLA 1991, pp. 5-8). Il toponimo non si riferisce ad un abitato specifico, bensì ad un territorio, quello appunto della valle di Cornia, mentre è probabile, secondo una recente e convincente ipotesi (GARZELLA 1995, pp. 175-176), che il vescovo risiedesse a Suvereto, dove, presso la chiesa di S. Giusto, concede un livello nel 923. Ma anche il caso di Voghenza, a ben vedere, può in qualche modo ricalcarsi sull'esempio cervese. Anche qui il vescovo prende nome da un territorio (vicohabentino) dove esisteva certamente un nucleo abitato accentrato, gerarchicamente collocato nel quadro del tessuto insediativo, ma privo di rilevanza amministrativa: un insediamento che, a partire dal I sec. d. C. (e lo sappiamo dall'abbondante documentazione epigrafica), appare abitato da schiavi e liberti imperiali, amministratori delle vaste proprietà del fisco (BOLLINI 1984, p. 10). Ciò non ha impedito il consolidarsi, nel primo alto-medioevo, di un insediamento attorno alla sede episcopale, cui potrebbero essere pertinenti i nuclei cimiteriali recentemente scavati (BERTI 1989 e 1992), come potrebbe benissimo essere accaduto per Ficocle/Cervia; ciò non ha impedito, in ambedue i casi, ma in tempi diversi, il loro declino, istituzionale ed amministrativo, a favore di altri centri, nel primo caso, addirittura, con lo spostamento della sede episcopale (ORSELLI 1975, p. 315), evidentemente estranea alle nuove dinamiche insediative del delta. Tornando al problema della chiesa di San Martino, restituita di recente alla conoscenza archeologica, possiamo solo rilevare come la sua edificazione, se l'ipotesi di datazione è corretta, venga a collocarsi in un momento decisivo nel formarsi storico del territorio cervese. Sono gli anni, l'abbiamo rilevato, della prima attestazione episcopale, di quel Gerontius episcopus presente alla sinodo di Roma del 501, tenuta sotto il pontificato del papa Simmaco, a cui si deve l'introduzione, tra l'altro, del culto di San Martino a Roma. Vi è tra tutto questo una qualche relazione? possiamo attribuire all'evergetismo del nascente episcopato cervese, già in stretta connessione con la Chiesa di Roma, la fondazione di questa grande basilica? È un'ipotesi che la tardiva documentazione scritta, nell'indicare il monasterium S. Martini prope litus maris come ancora appartenente ai benefici del vescovo cervese, potrebbe in qualche modo suggerire. SAURO GELICHI
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II Cervia, podere Mariona, i mosaici
1. Introduzione Il complesso del podere Mariona a Cervia, identificato come un edificio religioso a pianta cruciforme fiancheggiato da portici, assume particolare importanza nella problematica del mosaico pavimentale tardoantico nel Ravennate e in Romagna nonché in tutta l'area altoadriatica, proprio per la particolare eccellenza della sua pavimentazione musiva, dalla tipologia variata e di buona tecnica. L'edificio infatti (Fig. 18) presentava la navata e i bracci pavimentati in mosaico policromo a motivi geometrici, con l'esclusione della sola zona centrale, identificabile con il bema con relativa solea; a causa delle modalità specifiche del rinvenimento (vd. supra 1.1 e MAIOLI 1991-1992), la pavimentazione, completamente mancante nella parte di navata vicina alla facciata, si presenta molto lacunosa: resta relativamente ben conservata la parte centrale della navata con le zone vicine al bema; ne sono conservati solo alcuni frammenti nei bracci e non resta alcuna traccia della pavimentazione dell'abside né elementi in posto di quelle del bema e della solea; le parti mosaicate rimaste, essendo geometriche e ripetitive, possono essere completate disegnativamente, in modo da riempire quegli spazi che dovevano occupare anche in origine. La planimetria dell'edificio, come è restituita dallo scavo, si presenta leggermente irregolare; poiché però la planimetria è stata ricostruita basandosi in massima parte sulla localizzazione degli scassi di demolizione delle murature, tutta la ricostruzione ha un certo margine di incertezza; ciò vale in particolare per la lunghezza dei bracci di cui non è stato individuato il muro laterale, nemmeno a livello di scasso. I mosaici di Cervia si inseriscono all'interno di una produzione ben indagata, almeno per quanto riguarda le sue fasi più tarde (FARIOLI 1971; EADEM 1975a-b) relative soprattutto a pavimentazioni di chiese bizantine di Ravenna, del Ravennate e della zona nordadriatica, cioè dalla parte nord delle Marche fino ad Aquileia, Grado e Pola (FARIOLI 1975b; FARIOLI CAMPANATI 1982); in queste aree e in quest'epoca, dalla metà alla fine del Vl-inizi VII secolo, il mosaico pavimentale di tipo ravennate è caratterizzato da un progressivo irrigidimento degli schemi compositivi, dalla riduzione della tavolozza e dal diminuire dei modelli e dei cartoni, con la qasi totale eliminazio-ne di raffigurazioni figurative, nonché da un progressivo deteriorasi della tecnica, con la perdita della perfezione della composizione geometrica, i cui schemi vengono ormai eseguiti a mano libera, senza più interesse perla loro coerenza interna; un esempio evidente di ciò è dato dai pavimenti della chiesa di S. Severo a Classe, della fine del VI sec. (BERMOND MONTANARI 1968; FARIOLI CAMPANATI 1983, pp. 28 ss.; MAIOLI 1992a) in cui le pavimentazioni presentano un progressivo deterioramento formale al quale si affianca la scomparsa della originaria policromia variata, ormai appiattita sui toni verdognoli del sasso di fiume o rossastri del cotto.
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Meno conosciuta e studiata è la produzione musiva precedente, anche per la oggettiva scarsità di edifici religiosi cui fare riferimento; a ciò si aggiunge il fatto che spesso si è verificato uno scollamento fra le conoscenze degli archeologi classici, i cui studi vertono soprattutto sull'epoca romana imperiale, e gli specialisti delle fasi bizantine e altomedioevali, con la conseguenza di una mancata diffusione e comparazione degli studi e delle conoscenze, e quindi con le conseguenti incertezze nelle datazioni e nelle attribuzioni dei materiali delle fasi intermedie. Un esempio di ciò può essere dato dai mosaici della villa tardoimperiale di Meldola (FO) che, attribuiti dal loro rinvenitore ad epoca teodoriciana (AURIGEMMA 1940), vennero poi portati al IV sec. (G.A. MANSUELLI, relazione alla Soprintendenza Archeologica di Bologna in data 5/12/1950) e successivamente restituiti all'inizio del VI sec. (FARIOLI 1966), anche in base ad inoppugnabili dati di scavo. Gli studi più recenti (MAIOLI 1987b) hanno permesso di raggruppare tutta una serie di pavimentazioni musive in prevalenza da case private, edifici palaziali, ville rustiche, caratterizzate tutte dalla presenza di stesure in mosaico policromo a tessuto geometrico di maggiore o minore complessità, in cui ritornano come un motivo conduttore soprattutto tipologie decorative ad annodamenti e a rosoni. Alla fase attuale delle conoscenze, sembra possibile ipotizzare l'esistenza di un centro principale che, più che una diffusione delle maestranze, sembrerebbe provocare una divulgazione di modelli e di gusti (FARIOLI 1975a; FARIOLI CAMPANATI 1982; MAIOLI 1987b): sembrerebbe naturale proporre come centro-guida la città di Ravenna, sede della corte e quindi origine delle locali tendenze del gusto. Questa ipotesi sembrava però essere difficilmente dimostrabile per la scarsità di rinvenimenti di mosaici pavimentali di quest'epoca in zona, al confronto con le abbondanti produzioni di Rimini (MAIOLI 1992b) e di Faenza (MAIOLI 1987a), di livello anche qualitativamente molto alto. Nella produzione riminese in particolare è possibile seguire l'evoluzione del gusto locale, con l'utilizzo di tipi specifici che si ripetono nei diversi complessi: è il caso ad esempio dello schema a croci greche derivate dall'ac-corpamento di motivi a stella di otto losanghe (Décor, pl.. 179 passim) o di schemi con quadrati impostati sui lati di poligoni (Décor, pl.. 205 passim). Nella produzione specifica riminese è possibile inoltre seguire il progressivo deterioramento dei tipi, o la loro riproduzione per mano di maestranze meno rigorose, con l'ingrandimento delle dimensioni delle tessere e quindi la dilatazione dei tipi dei singoli cartoni che, pur essendo originariamente dei riempitivi, finiscono coll'occupare settori molto più ampi di pavimentazione o con essere l'unico motivo decorativo utilizzato. La produzione riminese più antica inserisce nei tappeti anche scene figurate, derivate dalla rielaborazione di modelli mediomperiali secondo la visione artistica tardoantica: è il caso delle raffigurazioni inserite nel complesso di Palazzo Gioia, con una scena di offerta di doni ed un'altra con una Venere - o la domina - allo specchio (ZUFFA 1979; BOLLINI 1980, p. 293; MAIOLI 1992b,pp. 57). Analoga ma con caratteristiche proprie è la situazione di Faenza, nelle pavimentazioni musive ivi rinvenute, tutte di eccezionale livello (MAIOLI 1987a); vi si riscontrano infatti pavimentazioni con scene figurate piuttosto complesse, come quelle con il mito, di Achille nell'edificio di via Dogana, (MAIOLI 1987a, p. 189 ss.) dotato di un aula palaziale e presumibilmente attribuibile ad un funzionario di corte, associate a composizioni geometriche di rilevante complessità; a queste si contrappongono gli. schemi naturalistico-pittorici delle pavimentazioni di via Ubaldini, con chiari e precisi confronti
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nella produzione africana del IV-V secolo. Si potrebbe quindi ipotizzare l'esistenza di scuole musive diverse, con caratteristiche specifiche di produzione e con maestranze locali; ognuna di queste scuole, formata da botteghe diverse e con maestranze di livello più o meno elevato, presenterebbe quindi caratteristiche sue proprie nell'ambito di un gusto comune. La situazione della produzione musiva pavimentale nella città di Ravenna sembrava invece piuttosto negativa, data la scarsità di materiale rinvenutovi, appartenente praticamente solo ad edifici religiosi, quasi tutti databili dalla metà del VI secolo. L'unica eccezione era data dai mosaici del cd. Palazzo di Teodorico, purtroppo con molti problemi di datazione (BERTI 1976): i pavimenti della singole fasi, molto frammentati, restituiscono una notevole campionatura dei tipi decorativi in uso nella zona dal IV secolo. Negli ultimi tempi tuttavia la situazione si è abbastanza modificata, con il rinvenimento recentissimo del grande complesso archeologico di via D'Azeglio ed altre scoperte sparse, ma molto significative, come appunto quella dell'edificio religioso in podere Mariona a Cervia. Il nucleo di via D'Azeglio (MAIOLI 1993a-b; EADEM 1994) presenta una complessa situazione stratigrafica con sovrapposizioni di edifici dall'epoca repubblicana al medioevo, la maggior parte dei quali dotata di pavimentazioni musive ben conservate; l'abbondantissimo materiale rinvenuto offre una campionatura di tipi decorativi tale da aumentare notevolmente la conoscenza dei modelli e dei cartoni alla base dello sviluppo del mosaico pavimentale ravennate, nonché della sua evoluzione cronologica. Tutto il complesso, del quale sono state pubblicate solo relazioni preliminari e una documentazione fotografica (MAIOLI 1995), è ancora in studio: la pubblicazione definitiva potrà mettere un punto fermo per l'inquadramento tipologico dei singoli cartoni e della loro evoluzione cronologica, illuminando così gli inizi della scuola musiva ravennate di epoca tardoantica. Il complesso di mosaici di Cervia, relativo ad un unico edificio e con una sola fase cronologica, permette invece di accorpare una buona esemplificazione di motivi decorativi, logicamente in uso contemporaneamente; trattandosi di tipi ampiamente diffusi, soprattutto lungo la costa nordadriatica, la loro associazione è da ritenersi quindi particolarmente significativa. La pavimentazione inoltre si presenta raffinatale ben curata dal punto di vista compositivo e tecnico; un esame preciso di queste sue caratteristiche permetterà la puntualizzazione e la conferma, o la smentita, di elementi che si ritenevano acquisiti nella conoscenza del mosaico pavimentale ravennate. Bisogna tuttavia considerare che il mosaico dell'edificio religioso del podere Mariona a Cervia, dopo essere stato sottoposto a strappo per necessità di conservazione, attualmente è conservato in magazzino in attesa di un intervento di restauro definitivo. Poiché quindi esso non era disponibile per un esame diretto, la presente indagine è stata condotta esclusivamente sulla documentazione di scavo, grafica e fotografica, sul materiale d'archivio e sui ricordi della scrivente, senza un ulteriore esame specifico dei singoli elementi; sono quindi possibili inesattezze dovute a difficoltà o a imprecisioni di lettura della documentazione esistente, che potranno essere corrette in un secondo tempo, una volta effettuato il restauro della pavimentazione.
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2. La pavimentazione a mosaico La pavimentazione musiva della chiesa (Fig. 18) è costituita da riquadri geometrici regolari che compartiscono lo spazio e ne seguono le particolarità architettoniche, sottolineandole; ogni riquadro ha un motivo decorativo diverso, prevalentemente geometrico ed in ogni caso inserito in un tappeto geometrico, sottolineato da cornici; i singoli riquadri si presentano differenziati, realizzati da mani diverse, forse anche da officine diverse, e comunque con materiali differenti. Tutta la pavimentazione nella parte iniziale della navata è mancante; il primo settore conservato appartiene alla parte centrale della navata stessa; è estremamente frammentario e potrebbe essere costituito sia da un unico riquadro che riempie tutta la larghezza della navata, che da tre riquadri con motivi decorativi diversi. Si è preferita questa seconda soluzione in quanto i piccoli frammenti di mosaico rimasti nelle zone laterali non sembrano inserirsi esattamente nello schema derivato dal motivo centrale; di questo rimane una piccola parte che restituisce il motivo fino alla solea del bema; sono relativamente ben conservati i due riquadri ai lati della solea e le due fasce ai lati del bema, mentre restano pochi frammenti dei mosaici dei bracci, cioè le cornici di quello di destra e minimi particolari di quello di sinistra.
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ro progressivo; l'analisi dei mosaici viene fatta per settori, descrivendo prima il motivo generale, poi i particolari, procedendo, salvo diverse indicazioni, da sinistra verso destra e dall'alto verso il basso; l'identificazione dei colori, tranne indicazioni diverse, procede sempre dall'esterno verso l'interno; lo stesso per l'identificazione dei materiali. Riquadro 1, a destra presumibilmente circa a metà della navata. Resta solo un minimo frammento verso il bordo sinistro del riquadro, nel quale appaiono delle linee sinuose affiancate, in chiaro e scuro alternati, terminanti in alto in una piccola zona di tessere in pasta vitrea azzurra. Il motivo per il momento non sembra identificabile, anche se potrebbe essere assimilato al lato di un kantharos con ansa; non corrisponde però la parte superiore la cui sagoma è diversa da come appare generalmente l'attacco di una bocca di vaso. Il fondo è in calcare bianco e le linee in pietra tipo Lavagna; le tessere della parte sud, interna al motivo, sono in marmo bianco mentre quelle superiori, come già detto, sono in pasta vitrea azzurra e verde; data questa caratteristica specifica, la raffigurazione doveva assumere una certa importanza nell'insieme delle pavimentazioni della chiesa. Riquadro 2, centrale, nel centro della navata fino alla solea del bema (Fig. 19; Tav. III, 2). Resta soltanto un frammento centrale in vicinanza della solea, sufficiente però ad identificare il motivo; considerando lo stato e le dimensioni del frammento, non è possibile dedurre le dimensioni effettive del riquadro che però, presumibilmente, seguiva la partizione data dalle strutture architettoniche, proseguendo gli allineamenti delle cornici degli altri riquadri: - Fascia decorativa parallela all'ingresso della solea: motivo a ottagoni sovrapposti intersecantisi in modo da formare quadrati incorniciati da esagoni allungati; l'unico rimasto è potenziato da un quadrato centrale diviso in quattro quadrati in rosso con cornice nera; gli esagoni sono in grigio e bruno e in rosso. Gli esagoni in grigio e bruno sono ottenuti con marmo e sasso di fiume; degli altri resta solo la parte in marmo Rosso di Verona; il fondo è in calcare biancastro, con i motivi marginati in nero di Lavagna. Il motivo è uno dei più comuni nel repertorio decorativo delle pavimentazioni tardoantiche e bizantine (Décor, pl. 28, b) ed è svilupparle anche a tappeto (Décor, pl. 169-170); a Ravenna compare nel ed. palazzo di Teodorico (BERTI 1976, tavv. XXXII, 36, XLVI, 58 ) e, in fasi del VI sec. avanzato, nelle pavimentazioni delle chiese di Classe, ad esempio in quella di S. Severo (BERMOND MONTANARI 1968, p. 36 ss.); è presente anche a Rimini in edifici del V e dell'inizio del VI sec, come nel complesso dell'ex Hotel Commercio (MAIOLI 1992b, p. 76). - Pannello centrale: presenta cornice a kyma e tappeto geometrico dato da alternarsi di esagoni e stelle a quattro punte. Cornice: kyma chiuso entro due fasce bianche, presenta una fila di semicerchi intersecantisi e tangenti formanti una linea di ogive e di squame adiacenti, nel nostro caso bianche su fondo scuro, con cuore alternativamente reso in bianco e in rosa; le squame fra le ogive sono in verdognolo. Sono utilizzati sempre il calcare per il fondo, il sasso verde di fiume e il Rosso di Verona per gli interni, il nero di Lavagna per le linee.
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Il motivo non è frequente nel Ravennate e in Romagna, comparendo solo in una pavimentazione del ed. Palazzo di Teodorico (BERTI 1976, tav. XXXV, fig. 41), mentre è molto più diffuso nella Tunisia (Décor, pl.. 49, b). Tappeto: esagoni alternati a stelle a quattro punte: la parte rimasta è sufficiente a riconoscere un motivo molto rappresentato in Romagna, formato da una composizione ortogonale di esagoni tangenti per quattro angoli formanti quadrati e stelle a quattro punte: in questa variante l'esagono non è regolare ma piuttosto allungato; la parte rimasta permette una ricostruzione almeno grafica dell'insieme, inquadrandolo nello spazio a disposizione. Nel nostro caso la stella ha punte con cornice a banda bianca e interno in sfumo dal bruno-rosa al bianco. L'unico triangolo di risulta fra le punte rimasto presenta quello che sembra un riempitivo a scaletta in bianco e nero, mentre l'unico esagono parzialmente rimasto conteneva un kantharos con bocca ovale a sfumatura bruno-rosa e ansa a riccio. Sopra il vaso è un motivo vegetale formato da un racemo arricciato con la spirale volta verso l'alto: non è possibile dire se esso parta o meno dalla bocca del kantharos. Il fondo è uniformemente in calcare; i toni rosati sono resi da sfumature diverse del Marmo di Verona; tutti i motivi sono dati da linee in sfumature più o meno scure di sasso di fiume, tranne il kantharos, realizzato in nero tipo Lavagna. Il motivo, piuttosto diffuso fin dal II sec. (Décor, pl. 186, d, e, f), in epoca tardoantica è presente soprattutto a Rimini, nelle pavimentazioni da Casa Bilancioni Civadda (MAIOLI 1992b, tav. 1.2.4. 1-2), negli ambienti dall'ex Hotel Commercio (ibid., tav. 1.2.2. 1-2), nella domus del Mercato Coperto (ibid., tav. 1.2.3. 1-3), anzi il tipo può essere considerato come uno dei cartoni caratteristici del mosaico pavimentale tardoantico riminese.
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Riquadro 3: ne resta solo una parte minima all'estrema sinistra della navata. Il frammento sembra restituire una serie di elementi ovali affiancati e sovrapposti con colori a bande sul rosato e sul verdognolo; per analogia con altre decorazioni nel pavimento il motivo potrebbe essere identificato, in via di larga ipotesi, con la parte laterale destra del ventre di un kantharos baccel-lato con baccellature a colori alternati. Le sottolineature sono in nero di Lavagna mentre gli altri colori sono ottenuti con marmo Rosa di Verona, calcare bianco e sasso verde di fiume. Riquadro 4: occupa tutta la parte della navata a destra della solea (Figg. 20-22; tav. II, 2). Relativamente ben conservato nella parte est, è lacunoso in basso e mancante del lato destro; presenta una banda di collegamento contro il lato del bema ad est e, entro una cornice, tappeto a quadrati e cerchi alternati e annodati. -banda di collegamento, formata da un motivo di tipo subacqueo ad astragali allungati posizionati ad incastro, alternativamente in sfumature di rosa e di verde con cornice bianca. La sottolineatura del motivo è resa da una linea di tessere in calcare bianco; gli astragali hanno, alternativamente, centro in calcare e corpo in Rosa di Verona e nero di Lavagna, e sempre centro in calcare bianco e corpo in sfumature gialle e verdi di sasso di fiume. Il motivo è comunissimo e diffusissimo in epoca tardoantica (Décor, pl. 221, e); in Romagna compare in numerosi complessi (FARIOLI 1975a, passim); a Ravenna ad esempio è presente in varianti di diversa epoca nell'edificio bizantino del complesso di via D'Azeglio (MAIOLI 1995, figg. 27-28) nonché in composizioni diverse nelle pavimentazioni del ed. Palazzo di Teodorico (BERTI 1976, tav. XXXIII). - cornice, formata da cerchi alternati a losanghe; le losanghe sul lato corto del riquadro sono più allungate di quelle sul lato lungo; i motivi circolari che occupano anche gli angoli della cornice, hanno il centro diviso in quadranti alternativamente rosa e bruno-verdi con una tessera bianca al centro; le lo sanghe sono potenziate da motivi romboidali con lati a scaletta, formati da coppie di tessere in nero, bianco, rosa, azzurro, nero; i triangoli irregolari di risulta presentano bande in colori contrapposti, alternativamente sull'ocraverde e sul rosa. Il colore predominante è il bianco del calcare; i cerchi sono realizzati in Rosso di Verona e sasso di fiume nero-verde che forma anche il cerchio stesso; lo stesso colore rende la maggior parte dei motivi, tranne le losanghe interne e i triangoli rosati resi in nero di Lavagna. Le pietre usate per le tessere sono quelle usuali con la particolarità di una linea in marmo azzurro entro i triangoli ocra-verdi: lo stesso marmo compare anche entro le losanghe. Il motivo sembra essere particolarmente diffuso, in numerose varianti (cfr. Décor, pl. 147, d, inserito in un motivo a reticolato). Nel Ravennate è presente soprattutto in epoca teodoriciana: compare ad esempio nelle pavimentazioni del ed. Palazzo di Teodorico (BERTI 1976, tavv. XXV-XXVI, 24) e nel complesso di via D'Azeglio (MAIOLI 1995, figg. 23-26). - tappeto: presenta una composizione ortogonale disegnata da nastri e listel li, di quadrati tangenti per gli angoli con cerchi annodati negli scomparti; il motivo nel nostro caso parte da una cornice lineare ed è realizzato nei colori rosa e grigio-azzurro; i nastri sono formati, alternativamente, da due linee di 43
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Rosa di Verona e due di calcare, e da una linea di sasso di fiume, una di marmo grigio-azzurro e due di calcare, il tutto marginato da nero tipo Lavagna. I motivi di riempimento sono uguali sulle linee sbieche nei cerchi e sulle linee verticali nei quadrati; i cerchi presentano, entro l'usuale cornice bianca, un motivo a nodo di Salomone in grigio-azzurro e in rosa, e, sull'altro allineamento, un fiore a quattro sottili petali lanceolati, in rosa e in grigio-azzurro, con triangoli di risulta campiti a scaletta; uno dei nodi di Salo-mone presenta piccoli motivi floreali stilizzati originati dagli angoli interni del nodo; tutti i cerchi sono marginati in sasso di fiume, i nodi di Salomone sono resi in nero, con nastri formati da due o tre linee di tessere, in calcare bianco e Rosa di Verona o in calcare e marmo azzurro, a volte con l'inserimento di una linea in sasso di fiume chiaro; i cerchi dell'altro allineamento sono resi con gli stessi materiali, con petali in Rosso e Rosa di Verona marginati in nero e triangoli in nero di Lavagna, sasso di fiume e Rosa di Verona. I quadrati, considerandoli in allineamento da destra verso sinistra, è possibile che, esaminando le dimensioni dell'insieme, avessero una prima linea, ora mancante; quindi si incontra un motivo ad astragali incorniciati in bianco e a colori alternati rosa e grigio-azzurro, questi ultimi con linea rosso45
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bruna al centro, un motivo a squame, rosa e grigio-azzurre in sfumatura, sempre incorniciate in bianco, un motivo a zig-zag verticale, a bande alternate formate da losanghe disposte a spina di pesce, in rosato e in grigio-azzurro, quindi nuovamente il motivo ad astragali, senza la linea all'interno, e quindi nuovamente il motivo a squame; considerando la disposizione, è possibile che la eventuale linea mancante recasse il motivo a zig-zag; tutti i motivi all'interno dei quadrati sono resi da linee in nero; le squame sono alternativamente in calcare e in Rosa di Verona, e in sasso di fiume e marmo bianco-azzurro; gli astragali presentano la stessa alternanza di colori e di materiali; le bande del motivo a zig-zag sono rese da losanghe in sasso di fiume bruno-rosso e sasso di fiume verde, e in marmo bianco e Rosa di Verona. Lo schema decorativo del tappeto (Décor, pl. 148, g), è comunissimo; a Ravenna compare nel ed. Palazzo di Teodorico (BERTI 1976, tav. XLII, 53), a Rimini nel complesso di Palazzo Gioia (MAIOLI 1992b, p. 63, tav. 1.2.1. 4), a Faenza nella domus di via Ubaldini (MAIOLI 1987a, pp. 200-204); per quanto riguarda i riempitivi, sono anch'essi estremamente diffusi. Tralasciando il conosciutissimo nodo di Salomone (Répertoire, n. 54), frequente nei mosaici fin dal periodo tardorepubblicano, il motivo a zig-zag (Décor, pl. 203, d, e, f) è presente in epoca imperiale ad Aquileia (dal fondo Cai: ZOVATTO s.d., p. 47), in Francia (es. a Lione, Recueil Gaule II, 1, 53) e soprattutto in Africa (es. da Hamman Guergour in Algeria, «BAA», 2, 1967, p. 102); quello a squame (Décor, pi. 219, b), oltre che a Faenza nel complesso di via Dogana (GENTILI 1980, pp. 427 ss.; MAIOLI 1987a, fig. 5), è presente a Ravenna nel palazzetto bizantino di via D'Azeglio (MAIOLI 1995, figg. 23,25); di quello ad astragali si è già trattato. Riquadro 5: sul lato sinistro della solea fino al bema (Figg. 23-24; tav. I, 2). Relativamente ben conservato, con lacune soprattutto nella zona destra a contatto con il lato del bema, presenta cornice ad annodamenti e tappeto a cassettonato di quadrati con motivi variati. I quadrati che componevano il motivo in origine erano tre in senso orizzontale e quattro in senso verticale per un totale di dodici: di questi uno è mancante completamente, uno parzialmente, gli altri sono più o meno lacunosi. - cornice: a cerchi grandi e piccoli annodati in modo da formare una treccia a torciglione con maglie alternativamente allentate; i capi sono nelle sfuma ture del rosa e del grigio-azzurro; i cerchi maggiori sono potenziati da un centro rossastro. I due nastri, che presentano alcune irregolarità nella scansione dei colori, sono resi alternativamente da una linea in marmo grigio scuro, una in marmo azzurrognolo e due in calcare, e una linea in sasso di fiume rossastro, una in Rosa di Verona e due in calcare, e profilati in nero tipo Lavagna; i centri dei cerchi sono resi con lo stesso tipo di sasso rossastro. Si tratta di un tipo di cornice diffusissima (Décor, pl. 69, d, e, f, g) presente in numerose varianti: nel Ravennate compare, oltre che nel ed. Palazzo di Teodorico (BERTI 1976, tav. XXX, 30) anche a Cesena, nella domus di via Tiberti (MAIOLI 1987b, p. 228) e a Rimini (MAIOLI 1992b, p. 67 ss.). - tappeto: i riquadri del cassettonato sono delimitati da una cornice "a ven tre di serpente", cioè a cordone formato da tessere a tessitura sbieca con ombreggiatura laterale, nel nostro caso in sfumatura dal bruno-grigio al rosa con una linea nera centrale; gli incroci sono segnati da borchie circolari bian che con centro rosa-nero; i bordi e la linea centrale sono in nero tipo Lava-
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gna; le tessere interne sono in sasso di fiume in sfumature diverse, con inserimenti di linee in calcare e in marmo bianco, bianco-azzurro e grigio di tipo diverso; si tratta di un tipo di cornice piuttosto diffuso (Décor, pl. 6, vari) che, nel Ravennate, è utilizzato anche per formare i nastri di composizioni annodate, come ad esempio nel ed. Palazzo di Teodorico (BERTI 1976, tav. XXVI, 26, tav. LII, 63). I quadrati, ognuno con una cornicetta dentellata interna, in nero con dentellatura in nero o in sasso grigio, sono campiti da motivi geometrici alternati a kantharoi; i kantharoi, tutti baccellati, sono molto simili, con minime variazioni di forma nel rendimento del collo e del piede; i motivi geometrici sono variati e si susseguono senza un ordine preciso: quadrato 1 : lacunoso, nodo allentato formato da un quadrato di otto cerchi, quelli sui lati est ed ovest di dimensioni minori; il motivo si presenta un poco confuso, con irregolarità nel disegno, forse causate da un intervento di restauro antico; i nastri sono in sfumatura rosa e rosso-grigio; i cerchi maggiori hanno un punto bruno al centro; il motivo, su fondo bianco in calcare con linee in nero, è formato da due nastri, uno in sfumature di marmo Rosso e Rosa di Verona, l'altro in calcare, marmo bianco e sasso rosso-bruno di fiume; quadrato 2: con alcune lacune, kantharos, con piede a scala, ventre baccella-to con spicchi rosa, quello centrale rosa-grigio, collo conico svasato in sfumatura grigio rosa con elemento nero centrale, separato dal ventre da una linea, bocca ovale campita in grigio, anse a riccio; dalla bocca escono due elemento vegetali desinenti in foglie cuoriformi, sistemate ai lati del piede, a sinistra azzurrognola e a destra rosata; tutto il motivo è marginato in nero di Lavagna su fondo in calcare bianco; la maggior parte del disegno è ottenuta con Marmo di Verona in sfumatura, con inserimento di linee di marmi grigio e grigio-azzurro; la parte laterale del collo e i racemi sono in sasso di fiume; quadrato 3: mancante; quadrato 4: con lacune, kantharos analogo al precedente ma con un rendimento più pittorico; le baccellature sono in sfumatura, il collo ha una scansione con colori messi a quadratini, le foglie sono rosate; la scelta dei colori e dei materiali è analoga a quelle del quadrato 2: la baccellatura centrale è resa completamente in sfumature di marmo grigio; l'interno della bocca è in sfumatura dall'ocra al rosa; i racemi in sasso di fiume chiaro presentano volute più articolate; quadrato 5: con piccole lacune, annodamento a stuoia formato dalla sovrapposizione di un elemento a quadrato sbieco e di due ovali, nelle sfumature del rosa e del grigio-azzurro con il quadrato in bruno; da ogni apice, come dagli angoli della cornice, parte un fiorellino triangolare in nero e rosa; il motivo è disegnato in nero tipo Lavagna su calcare bianco; il quadrato è in calcare e sasso di fiume bruno; gli ovali sono in calcare e Rosa di Verona e in calcare e marmo grigio; quadrato 6: lacunoso, kantharos, analogo al n. 2 ma di dimensioni legger-mente minori e assottigliate; il collo non ha la linea di divisione dal ventre; stessi materiali dei quadrati precedenti; quadrato 7: lacunoso, quadrato annodato ad un motivo circolare centrale, con nastri uno nelle sfumature del rosa e l'altro del grigio-azzurro; il motivo è formato da linee di calcare e di marmo grigio-azzurro; i triangoli di risulta sono ocra, in sasso di fiume; il riempitivo centrale del cerchio è lacunoso; quadrato 8: lacunoso, kantharos analogo al n. 6, con collo distinto dal ven-
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tre; si nota una preponderanza dei toni rosa, con la stessa disposizione dei materiali degli altri quadrati: quadrato 9: molto lacunoso, sembrerebbe leggibile come un annodamento non esattamente precisabile, forse analogo al n. 5: resta la curva terminale di un elemento ovale, reso da un nastro nelle sfumature del rosa, da cui parte un fiorellino triangolare; lo stesso tipo di fiore si origina da uno degli angoli inferiori del quadrato, ripetendosi presumibilmente negli altri angoli; stessi materiali dei quadrati precedenti; quadrato 10: completamente mancante nella parte inferiore, kantharos, con il ventre che sembrerebbe formato da sole quattro baccellature nelle sfumature del rosa; i racemi originati dalla bocca del vaso hanno due fogliette cuoriformi rosate supplementari anche all'altezza delle anse; le baccellature sono in sfumatura dal calcare chiaro al Rosa di Verona al sasso di fiume bruno; gli stessi materiali formano anche il collo, diviso dal ventre e in sfumature più scure tendenti al brunoocra; quadrato 11: molto lacunoso, annodamento analogo al n. 7: i nastri sono resi in calcare e Rosa di Verona, e in calcare, marmo grigio scuro e marmo bianco-azzurro: questi due colori si invertono nel cerchio centrale che presenta un riempimento raggiato; uno degli angoli di risulta è occupato da un palese restauro antico che ha interessato il lato di uno dei nodi, trasformato in un racemo desinente in una foglietta ovale appuntita; quadrato 12: lacunoso, kantharos; il piede ha lo stelo reso da un elemento circolare; il collo, non diviso dal ventre, presenta una successione di linee verticali a tessere sbieche di colori contrastanti con una buona percentuale di marmi bianco-azzurri e grigi; la baccellatura centrale del vaso è in marmo bianco-azzurro e grigio scuro. Lo schema a reticolato, o a cassettonato, è relativamente diffuso (Décor, pl. 147, d, e, f). Nel Ravennate non è frequente, comparendo in variante solo nella stanza 2 del complesso del palazzetto bizantino di via D'Azeglio (MAIOLI 1995, figg. 23-26); in altri casi può presentarsi con varianti o con soluzioni diverse, come nell'atrio del complesso di via Dogana a Faenza (GENTILI 1980, pp. 427-428; MAIOLI 1987a, fig. 2) ove divide scene figurate, o nel grande ambiente della villa di Pergola nelle Marche (MERCANDO 1984) con i riquadri campiti da annodamenti e riempitivi complessi. Per quanto riguarda i riempitivi, basta rilevare che il kantharos è uno dei più diffusi, essendo presente sia in edifici religiosi che privati, occupando spesso anche spazi di risulta angolari che riempie con i racemi vegetali; compare in questa variante compositiva nel complesso di via D'Azeglio a Ravenna (MAIOLI 1995, figg. 28,30), a Faenza nel complesso di via Dogana (GENTILI 1980, pp. 427 ss.; MAIOLI 1987a, pp. 196, fig. 4), a Rimini nel complesso di Palazzo Gioia (MAIOLI 1992b, pp. 65-66). Il kantharos spesso da origine a motivi vegetali che occupano a candeliere l'ambiente, come ad esempio in uno dei sacelli facenti parte del complesso della chiesa di S. Severo a Classe (MAZZOTTI 1970a, pp. 972-977; FARIOLI 1975a, p. 147) o in un pavimento di VI sec. dalla Cassa di Risparmio di Cesena, inedito. I riempitivi geometrici sono anch'essi molto comuni, almeno per quanto riguarda gli annodamenti più semplici: il tipo dei quadrati 7 e 11, ad esempio, compare nel ed. Palazzo di Teodorico a Ravenna (BERTI 1976, tav. XXV, 24-25), nel mosaico da via Tiberti a Cesena (ZAVATTI 1941, p. 71) nonché nel motivo a cassettonato della stanza 2 del complesso di via D'Azeglio a Ravenna (MAIOLI 1995, 24,26); il nodo a stuoia del quadrato 5 può essere confrontato con varianti nello stesso ambiente (MAIOLI 1995, 24,26). 49
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Riquadro 6: striscia rettangolare allungata sul lato destro del bema, presumibilmente fino all'arco trionfale (Fig. 25; Tav. II, 1). Attualmente presenta cinque quadrati a cassettonato allineati in senso verticale, ma è presumibile che la striscia continuasse verso est con almeno un altro quadrato: lo spazio architettonicamente disponibile permetterebbe la localizzazione di due quadrati ma manca qualsiasi indicazione di come si sviluppasse l'arco trionfale e se questo fosse inquadrato o meno da elementi architettonici in appoggio che potevano occupare una parte del pavimento; tutte le parti di mosaico rimaste sono molto lacunose; i quadrati sono delimitati da una cornice che forma motivo. - cornice: doppia linea di motivi a pelta, giustapposti, tangenti, in linee con trapposte; l'angolo è risolto da un fiore quadripetalo a petali lanceolati; i motivi sono rosso bruni incorniciati in nero; gli spazi di risulta sono occupati da fiori quadripetali con petali triangolari in sfumatura bruno-rosso-rosa; il fondo è in calcare bianco-rosa; le pelte e i motivi angolari sono realizzati tutti in sfumature di sasso di fiume dal bruno scuro al verdastro al rossastro con poche tessere in Rosso di Verona; i fiorellini sono realizzati in nero tipo Lavagna, cotto rosso e Rosa di Verona. Si tratta di un motivo relativamente comune (Décor, pl. 57, d, e), con confronti soprattutto in ambiente africano. - quadrato 1: lacunoso; motivo floreale; il fiore è formato da quattro boccio li divergenti, uniti per la base, a calice con tre petali triangolari appuntiti; negli spazi fra i boccioli sono inseriti petali affusolati; gli angoli del quadrato sono occupati da altri boccioli analoghi ma a base arrotondata; i colori van no nelle sfumature dal rosa al bruno; il fondo è realizzato in calcare, i fiori sono in sfumature di sasso di fiume dal rosso scuro al verde-nero; i bordi interni dei calici sono resi in nero tipo Lavagna. Il motivo non è assolutamente comune nel Ravennate, zona in cui i motivi floreali sono rari; il fiore in sfumatura compare, ma con tipologie diverse, nel pavimento della chiesa di S. Agata, a Ravenna (FARIOLI 1965, pp. 109-117; MAIOLI 1987a, p. 204) e a Faenza, nel complesso di via Ubaldini (MAIOLI 1987a, pp. 201204): lo stesso trattamento sfumato vi compare infatti in un motivo floreale inserito in un pavimento a cassettonato, in cui prevalgono però i riempitivi geometrici (MAIOLI 1987a, fig. 9). - quadrato 2: molto lacunoso; motivo geometrico su fondo bianco; il riqua dro è occupato da un rombo a lati inflessi in bruno-verde con il centro for mato da un disco nelle sfumature del rosa, forse diviso in quadranti; gli ango li del quadrato erano occupati da un elemento ovale appuntito non identificabile, forse una foglietta; i quadranti angolari sono realizzati in marmo bianco cristallino; il disco centrale è in Rosso di Verona in sfumatura, il rombo è in sasso di fiume verdastro; si tratta di un motivo virtualmente sconosciuto nel mosaico pavimentale ma presente invece nelle tarsie, sia pavimentali che pa rietali (GUIDOBALDI 1985, p. 211; GUIDOBALDI 1990, p. 63). - quadrato 3: estremamente lacunoso; presumibilmente presentava un moti vo vegetale: restano due racemi convergenti simmetricamente verso il centro di un lato, originati da un motivo impostato sull'angolo; il disegno è in sasso di fiume bruno su fondo in marmo bianco cristallino; data la frammentarietà della composizione, è impossibile presentare confronti. - quadrato 4: estremamente lacunoso; sembra presentasse un motivo geome trico ad elementi convergenti, in marmo grigio-azzurro marginato in nero su fondo in marmo bianco cristallino. 50 © 1996 All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale
- quadrato 5: molto lacunoso, ma interpretabile come un motivo vegetale originato da una composizione ortogonale di cerchi secanti, in questo caso disegnati da sottili foglie d'acanto, in modo da formare un effetto di quadri fogli che delimitano quadrati a lati concavi; ogni elemento fusiforme presen ta una linea assiale a ventre di serpente nelle sfumature del rosa (Décor, pl. 243, e); i bordi dei fusi, come già rilevato, sono resi da lunghe foglie sottili e ricurve con il bordo interno seghettato, in colore bruno-verde; gli spazi di risulta erano occupati da boccioli triangolari tripetali in bruno con base al centro; il fondo è in calcare; tutto il motivo è reso in sasso di fiume nelle sfumature del verde, tranne la linea centrale in Marmo di Verona. Il motivo, che in questo caso è reso con effetto pittorico, è relativamente diffuso in ambiente ravennate, soprattutto alla fine del VI sec. (FARIOLI 1975a; FARIOLI CAMPANATI 1982, p. 263); compare infatti in un grande tappeto nella chiesa di S. Severo a Classe (BERMOND MONTANARI 1968, p. 37 ss.) e in altri edifici religiosi, come ad esempio nella basilica di Pomposa, probabilmente riutiliz zato (SALMI 1936. p. 128) e a Grado nella chiesa di S. Eufemia (BRUSIN 1928, p. 287 ss.), nonché nella basilica pre-eufrasiana di Parenzo (FARIOLI 1975a, nota 276). Questo settore del mosaico presenta notevoli motivi di interesse sia dal punto di vista tecnico che compositivo. I cinque riquadri presentano tre motivi floreali alternati a due geometrici; i motivi floreali sono decisamente resi in modo pittorico e ricordano, nella composizione molto raffinata e coloristica, motivi africani in prevalenza dalla Tunisia (FARIOLI 1975b ). Nel Ravennate pavimenti con la stessa sensibilità coloristica e compositiva non sono frequenti; gli esempi migliori sono offerti dal pavimento della chiesa di S. Agata a Ravenna (BOVINI 1969; FARIOLI 1965) e da un gruppo di mosaici dalla domus di via Ubaldini a Faenza (GENTILI 1980, pp. 458-485; MAIOLI 1987a, pp. 200-204). I riquadri della composizione geometrica sono caratterizzati dal fondo realizzato in marmo bianco a grana finissima, materiale che non sembra comparire in altre parti del complesso, se non sporadicamente, in tessere isolate, e che in ogni caso non costituisce mai il fondo. Considerando il fatto che anche gli altri elementi delle due composizioni hanno forme nettissime, rese in colori senza sfumature, è possibile che i due quadrati geometrici vogliano raffigurare due formelle quadrate a tarsia marmorea, in contrasto con i riquadri floreali, secondo un gusto per la contrapposizione che compare, ad esempio, anche nelle pavimentazioni dei piani superiori delle Terme di Caracalla o in contesti africani, come nella casa dei Cavalli a Cartagine. Riquadro 7: striscia rettangolare allungata, sul lato sinistro del bema (Fig. 26; Tav. I, 1; IV, 1). Sembra formata da un motivo isolato, le cui dimensioni non sono esattamente precisabili, in aderenza all'attacco sinistro dell'arco trionfale, che non trova corrispondenza simmetrica nella pavimentazione sull'altro lato del bema, e da un susseguirsi di quadrati a cassettonato: - motivo singolo, probabilmente riquadro rettangolare, costituito da un ele mento a pannello centrale e da una cornice; cornice: motivo a boccioli triangolari tripetali adiacenti, diritti e capovolti entro fasce; la fascia est è in sfumo con linee di tessere nero, verde, grigio, rosa, bianco, rosa; quella ovest è grigio scuro, rosa scuro, bianco; la cornice floreale è a fondo nero, con fiori alternativamente volti verso l'alto e verso il basso; i boccioli sono triangolari e dotati di tre petali, il centrale cuspidato; 51
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presentano alternativamente cuore grigio verde con colore sfumato dal grigio verso il bianco rosato e cuore rosso con colore rosa -grigio- bianco rosato; le fasce presentano varie linee di tessere in marmo in varie sfumature di bianco-grigio; i boccioli della cornice sono su fondo in sasso di fiume grigio scuro: sono ottenuti alternativamente in sasso di fiume, marmo venato grigio e calcare bianco, e in Rosso e Rosa di Verona, sasso di fiume ocra e calcare bianco. Questo tipo di cornice (Décor, pl. 62, d) si diffonde specialmente nel corso del VI sec, sempre più rigida e stilizzata: una variante più arrotondata, ma sempre geometrizzata, compare ad esempio nel pavimento della chiesa di S. Vitale a Ravenna (FARIOLI 1975a, pp. 32) mentre la versione a nastro continuo, sempre con i boccioli arrotondati, è presente in varianti nel ed. Palazzo di Teodorico (BERTI 1976, tavv. XLIII-IV, 56). pannello centrale: resta solo la parte inferiore di un motivo non facilmente individuabile data la sua frammentarietà: su una fascia di base formata da due linee di tessere verdastre e una rossa, resta parte di un motivo leggibile presumibilmente come parte della facciata di un edificio. A sinistra è un elemento interpretabile come una colonna con dado di base rettangolare, base a cuscino e fusto cilindrico: la colonna è in marmo bianco con ombreggiatura in grigio bruno. A destra è quello che presumibilmente era l'elemento centrale della composizione: una porta individuata da due colonnette cilindriche in pasta vitrea turchese, su piccole basi, dalle quali sembrerebbe pendere una
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ghirlanda che occupa lo spazio centrale, formata da elementi circolari globosi. La base della scena è in sasso di fiume ocra-verde, la linea superiore rossa è realizzata in tessere di pasta vitrea, la colonna di destra è ottenuta con tessere in sfumatura di vari tipi di marmo bianco e grigio, con bordo in nero tipo Lavagna. Le colonne o pilastri centrali, sempre profilate in nero, sono ottenute con tessere di pasta vitrea di vari toni verdi e turchese, con anche tessere più chiare; gli elementi all'interno del portale sono ottenuti con sasso di varie sfumature, come anche lo sfondo, in grigiorosato. Nel caso che l'interpretazione sia esatta, ci si troverebbe davanti alla raffigurazione di un edificio con porta aperta, fiancheggiata da colonne, forse un protiro o un portico. Nella zona ravennate, il confronto che viene immediatamente alla mente è la raffigurazione del Palatium del re Teodorico sulla parete destra della navata nella chiesa di S. Apollinare Nuovo a Ravenna (DUVAL 1960, p. 342) con tutte le sue difficoltà di interpretazione relative alla lettura di una immagine resa a prospettiva appiattita. Nel nostro caso ci si potrebbe trovare di fronte ad una raffigurazione simbolica della stessa chiesa, forse corredata da una iscrizione e presumibilmente collegata all'eventuale fondatore, come avviene in numerosi esempi orientali. La raffigurazione di edifici, o religiosi o simboli di città e paesi, è infatti tipica delle zone della Siria, della Giordania e della Palestina: l'esempio più conosciuto è dato dalla raffigurazione a volo d'uccello della Palestina nella ed. chiesa della Carta a Madaba (AVI-YONAH 1954) con le piccole immagini di città e la grande raffigurazione a prospettiva aperta e rovesciata di Gerusalemme. Una campionatura di immagini di questo tipo compare nella cornice del mosaico pavimentale della chiesa di Ma'in, sempre nelle vicinanze di Madaba (PICCIRILLO 1985, pp. 339-364). Un esempio relativamente simile al nostro, con la raffigurazione dell'edificio sul pavimento in vicinanza dell'altare, compare ad esempio nella chiesa dei SS. Cosma e Damiano a Gerasa (PICCIRILLO 1981, pp. 257 ss.); nel nostro caso, a comprova del fatto che ci si trovi di fronte ad un elemento di particolare importanza nel contesto decorativo, si rileva l'utilizzo delle tessere musive in pasta vitrea, rossa, verde e turchese, che non si riscontra in alcun altro punto dei mosaici conservati, se non in un minimo frammento in prossimità dell'ingresso. - motivo a cassettonato, occupa tutta la parte corrispondente al lato sinistro del bema. Il settore comprende una fascia di quattro cassettoni quadrati con la relativa corniciatura; il motivo, come il suo corrispondente destro, occupava tutta la larghezza disponibile fra il bema e il muro della navata. Il bordo verso il bema è formato da una fascia rosata con cornice in sfumo verso l'interno in linee di tessere di vari colori. Il motivo, come gli altri a cassettonato, è formato da un reticolato di fasce caricate di losanghe e da quadrati non contigui situati nei punti di incrocio: questa variante comprende cerchi circoscriventi i quadrati e tangenti alle losanghe (Décor, pl. 144, b). I cassettoni sono formati dai quadrati maggiori; i quadrati minori sono riempiti da un nodo di Salomone sbieco con gli anelli in sfumature di rosso-rosa e di nero-verde su fondo nero e cornicina bianca: i materiali utilizzati sono il nero tipo Lavagna e il sasso di fiume per il fondo, il calcare e il sasso di fiume per un anello e il calcare, il Rosa di Verona e il cotto rosso per l'altro. Il quadrato minore, come già detto, è inserito in un cerchio, le cui corde fanno parte della decorazione dei rettangoli formanti i lati del reticolo. I rettangoli presentano, oltre alla parte di cerchio già detta, realizzata in sasso di fiume verde, una losanga centrale con lati formati da quattro rettangoli a lati sbiechi (Répertoire, n. 92), alternativamente in sfumatura di rosso e di verde; il centro della losanga è dato da un fiore con quattro petali triangolari, in nero 53
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e rosso su rosato. Gli spazi fra la losanga e l'elemento circolare sono resi da triangoli in rosa, bianco, verde. I materiali utilizzati sono il calcare e il sasso di fiume in varie sfumature, con inserimento di una linea di cotto rosso in due dei rettangoli delle losanghe; il fiorellino centrale è in nero tipo Lavagna e in cotto rosso; i triangoli di risulta sono in sasso di fiume, marmo grigio e calcare rosato. Il motivo, in questa variante specifica, non è comune nella zona, comparendo solo in un pavimento dal ed. Palazzo di Teodorico (BERTI 1976, tav. XXV, 24); sembra essere più diffuso in Africa e particolarmente in Tunisia, come in esempi di Utica (Corpus Tunisiae, I, 1, 102). I quadrati maggiori presentano, da est verso ovest: quadrato 1: molto lacunoso, a squame formate da pelte sfalsate piuttosto larghe; dalla punta centrale delle pelte pende un fiore triangolare mentre altri mezzi fiori occupano gli spazi di risulta superiori; le pelte hanno cuore rosato con cornice in nero e verde; i fiori sono neri e verdi con petali rossi; i motivi sono bordati in nero tipo Lavagna: la stessa pietra forma i boccioli pendenti, con petali in cotto rosso; le pelte sono in Rosa di Verona e sasso di fiume verde; il fondo è in calcare; si tratta di un motivo piuttosto comune (Décor, pl. 222, a) diffuso specialmente in Africa; nell'area ravennate è usato soprattutto come riempitivo; quadrato 2: leggermente lacunoso, a triangoli convergenti, formati da quadrati in sfumatura sistemati a scaletta; le diagonali del motivo sono in bruno-nero; i triangoli sono formati da quadrati in colore nero focato, rosso scuro, rosa, bianco rosato, alternativamente dal chiaro allo scuro e viceversa; i materiali usati sono il calcare e il sasso di fiume in sfumatura, con l'inserimento di tessere sparse in nero tipo Lavagna, in Marmo di Verona e in cotto rosso; si tratta di un motivo non molto diffuso, che nella nostra area compare solamente in un pavimento a cassettonato dal complesso di via Ubaldini a Faenza (MAIOLI 1987a, pp. 201-203, fig. 9); quadrato 3: lacunoso, a cerchi allacciati in modo da formare quadrati a lati concavi, con effetto di fiori a quattro petali lanceolati; gli spazi interni sono occupati da fiori con quattro petali triangolari, con interno nero e petali rossi; gli ovali sono bianco-verdi con cornice nera; il fondo è in calcare, il motivo è marginato da linee in nero tipo Lavagna con fusi riempiti da sasso di fiume verde in sfumatura; i fiorellini sono in nero con petali in cotto rosso. Si tratta di un motivo molto comune, che compare sia a tappeto (Décor, pl. 237, a-g) che a cornice (Décor, pl. 46, a, d); quadrato 4: con piccole lacune, a tappeto a zig-zag disposto in orizzontale, formato da linee alternate in sfumature di rosso e di verde. Le bande sembrano succedersi in modo irregolare, formate successivamente da: calcare, marmo grigio, sasso di fiume, nero tipo Lavagna, da calcare, Rosa di Verona, cotto rosso, sasso di fiume verde-rosso, da calcare, due linee di sasso di fiume, nero. Il motivo rientra nella tipologia usuale degli schemi a decorazione iridata, conosciuta in numerose varianti policrome e diffusa sia come cornice che come riempitivo; il motivo ad esempio si incontra nei pavimenti del ed. Palazzo di Teodorico (BERTI 1976, tav. XXXV, fig. 41), e nel complesso di via Ubaldini a Faenza, sempre come riempitivo dei quadrati di un cassettonato, sia nella variante ortogonale che in quella sbieca (MAIOLI 1987a, fig. 9). Per quanto riguarda la composizione nel suo insieme, essa si presenta di particolare eleganza, con i singoli motivi ben inseriti ed evidenti nello sfondo chiaro, realizzati su uno schema di base estremamente regolare e preciso. Dal punto di vista tecnico è necessario rilevare la presenza determinante 54
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delle tessere in cotto rosso, utilizzate sia in particolari lineari che per tocchi cromatici particolari, come i petali dei fiori triangolari. Le tessere in cotto sono molto piccole e ben tagliate, di colore brillante ed uniforme e sembrano corrispondere ad una scelta cromatica precisa e personale da parte del mosaicista. Riquadro 8: corrisponde al braccio destro del complesso (Figg. 27-28; Tav. III,1). Del mosaico, presumibilmente formato da un motivo centrale circondato da cornici, restano solo parti di due cornici concentriche alla estremità sud e di una terza più interna che potrebbe anche svilupparsi a tappeto: non è quindi possibile arguire come questo motivo si collegasse a quello ubicato a lato del bema, anche se le dimensioni suggerite dagli scassi di demolizione delle murature laterali est e ovest fanno presumere uno sviluppo del motivo in quadrato. La mancanza del muro terminale sud, già rilevata, impedisce di dedurre esattamente la lunghezza della decorazione che, analogamente al presumibile sviluppo dei motivi del braccio nord, potrebbe essere stata integrata da una fascia di completamento. Come già detto, inoltre, il tappeto, seguendo i muri, leggermente obliqui, doveva innestarsi al mosaico di fianco del bema o con un elemento sbieco, o con delle correzioni di adattamento. - cornice 1, esterna; formata da un motivo a losanghe sdraiate, affiancate da pelte diritte e affrontate. Il motivo si presenta in chiaro su fondo brunoverde; il centro della pelta è campito in rossastro, quello della losanga ha un motivo a rombo diviso in triangoli rettangoli, in sfumature invertite sui toni del rosa. Data la frammentarietà del motivo, non è possibile desumere come fosse risolto l'angolo: il disegno è formato da una banda in calcare bianco profilato in nero tipo Lavagna; gli elementi sono campiti in sasso di fiume in varie sfumature. Si tratta di un motivo piuttosto comune (Décor, pl. 59, b, e), conosciuto in numerose varianti, giocate soprattutto sul rapporto di bicromia: a Ravenna il tipo compare nel ed. Palazzo di Teodorico (BERTI 1976, tav. XXVI, 26, tavv. XXVIIXXVIII, XXIX, 28, XXXV, 41) che nel palazzetto di via D'Azeglio (MAIOLI 1993ab; EADEM 1994, stanza 5). - cornice 2, centrale; formata da una fascia di ottagoni irregolari sovrappo sti, intersecantisi per i lati minori, in modo da formare quadrati centrali in corniciati da esagoni allungati; il quadrato centrale, in bianco, è potenziato da un altro quadrato diviso in quattro quadratini, alternativamente in rosso con centro giallo e in azzurro con centro rossastro; gli esagoni sono in rossa stro con centro chiaro e in grigio-azzurro, verso ovest con centro rossastro e verso est con centro bruno; i quadrati e gli elementi di divisione fra gli esago ni sono in calcare profilati in nero tipo Lavagna; gli azzurri sono ottenuti con varie sfumature di marmo venato, i rossi e i rosa in sfumature di Marmo di Verona, i gialli in sasso di fiume; sono presenti anche tessere sparse di pasta vitrea verde-azzurra. Si tratta dello stesso motivo già comparso come fascia di bordo della solea nel riquadro 2, comunissimo (Décor, pl. 28, a, b, e) e diffuso ampiamente anche nel Ravennate; nel ed Palazzo di Teodorico, ad esempio, compare sia come cornice che sviluppato a tappeto (BERTI 1976, tav. XXXII, 36, tav. XLVI, 58). - motivo 3, interno; dato dall'annodamento di due nastri che formano ellissi alternate a cerchi; i nastri sono uno rossastro con centro chiaro e uno grigio-
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azzurro con centro nero-bruno; resta solo una delle decorazioni che erano contenute all'interno di cerchi ed ellissi: nel cerchio a ovest è un motivo di stella di otto losanghe, tangenti per due sommità formanti quadrati diritti e sulla diagonale; i quadrati che formano le sommità della stella sono chiari, potenziati da un quadrato azzurro o da un rombo rossastro; gli spazi di risulta sono campiti in bruno; i nastri sono profilati in nero e ottenuti con sfumature di Rosso e Rosa di Verona, e con marmo grigio chiaro e sasso di fiume; il motivo a stella è ottenuto in calcare, nero tipo Lavagna e sasso di varie sfumature; i triangoli di risulta sono in sasso di fiume rossastro; i colori di questo settore della pavimentazione sono molto vivaci e leggermente diversi da quelli del restante pavimento: è da rilevare la presenza del giallo, ottenuto con pietre diverse, e dell'azzurro, in marmo. Anche questo motivo è molto comune. Esso si presenta sia come cornice, con ellissi e cerchi alternati (Décor, pl. 149, e) sia più frequentemente sviluppato a tappeto, con l'inserimento fra le ellissi di quadrati o di cerchi di dimensioni maggiori (Répertoire, n. 483), o di motivi variati (Décor, pl. 150, e, d). Nel Ravennate il tipo è frequentissimo, sia con annodamenti e riempitici semplici, come nel ed. Palazzo di Teodorico (BERTI 1976, tav. XXIV, 23) o nella stanza 1 del palazzetto bizantino di via D'Azeglio (MAIOLI 1995, figg. 28-31) che estremamente elaborati, come nell'aula basilicale dell'edificio di via Dogana a Faenza (GENTILI 1980, p. 433; MAIOLI 1987a, pp. 195-196, fig. 4, MAIOLI 1987b, fig. 7). Anche il motivo a stella di otto losanghe è comunis-simo: nella già citata aula basilicale del complesso di via Dogana a Faenza, ad esempio, forma il motivo decorativo al centro del rosone centrale, con tutti gli elementi compositivi interni campiti da annodamenti variati. Riquadro 9: corrisponde al braccio sinistro del complesso (Figg. 18, 29-30). Del motivo decorativo restano minimi frammenti sparsi, collegabili in due gruppi che possono formare un insieme coerente solo con molta difficoltà: gli elementi residui corrispondono a parti di due motivi circolari di diverso diametro e dotati di corniciature, una delle quali, a treccia a torciglione puntinata, si ripete in ognuno dei gruppi di frammenti. Quello verso sud, sviluppato graficamente, si presenta di misure notevoli: considerando le cornici che lo delimitano, esso raggiungerebbe quasi la larghezza del motivo dell'altro braccio, alle cui dimensioni potrebbe essere equiparato con l'aggiunta di un'altra cornice, conservata solo in minima parte e la cui larghezza non è deducibile. Il secondo motivo è sviluppabile come un cerchio inserito in un quadrato con cornici; è possibile che la decorazione del braccio sia costituita quindi da un grande motivo circolare che occupa la prima parte dello spazio, in corrispondenza dell'attacco verso la navata e da un riempimento fino al muro laterale sinistro, formato da elementi disposti in linea a cassettonato, con quadrati contenenti i motivi circolari, ogni quadrato formato da una successione di cornici diverse, raddoppiate o concentriche. Tutti i frammenti residui pertinenti a cornici hanno andamento nord-sud, sono quindi appartenenti ad elementi paralleli; fra i due gruppi di frammenti, un elemento di collegamento potrebbe essere dato dalla cornice a treccia a torciglione che compare in tutti due i complessi, ma non nella stessa posizione. I due motivi verranno quindi considerati indipendentemente l'uno dall'altro e posizionati nella ricostruzione in base esclusivamente alla planimetria di scavo che può essere sfalsata dai cedimenti del terreno. - motivo 1: in prossimità della navata; da ovest verso est (Fig. 29) sono presenti:
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cornice a motivo indistinto di cui sembra restare un elemento triangolare con base sulla linea di cornice; cornice floreale formata da boccioli triangolari tripetali, molto frammentaria; i boccioli, in colore rosato, sono collegati a catena, presumibilmente con il calice di uno originantesi dal petalo centrale dell'altro, e sono volti verso nord; sono realizzati in Rosa di Verona con bordo in nero; si tratta di un motivo poco comune soprattutto nel Ravennate, di cui però sono conosciute diverse varianti realizzate con elementi floreali diversi (Décor, pl. 88, c-g); a Ravenna città è presente esclusivamente nel palazzetto di via D'Azeglio (MAIOU 1995, fig. 40); cornice formata da treccia a torciglione presumibilmente su fondo scuro punteggiato; i capi sono uno nelle sfumature del rosa e l'altro completamente in bianco; fra un cerchio e l'altro della treccia lateralmente è un puntino decorativo formato da una tessera bianca (Décor, pl. 71 e); dai pochi frammenti residui, la treccia potrebbe anche avere un andamento circolare e formare quindi la cornice del cerchio più interno: è formata da calcare, marmo grigio chiaro, sfumature di Rosso e Rosa di Verona, con bordo in nero; grande motivo a rosone circolare costituito da due nastri annodati a formare dei cerchi interni, resta parte di uno dei nastri, in sfumatura di azzurro, che
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forma il cerchio principale, quindi si annoda con l'altro nastro, in sfumature rossastre, per formare uno dei cerchi interni. Considerati i diametri dei motivi, è presumibile che i cerchi interni fossero in numero di otto, come in altri esempi consimili; non resta nulla dei riempitivi che dovevano campire l'interno dei cerchi. I materiali sono quelli usuali, con anche marmo bianco-grigio. Il motivo a rosone a otto cerchi, in numerose varianti, è uno dei più caratteristici nelle pavimentazioni musive ravennati fin dal IV-V secolo. Lo si riscontra infatti nei pavimenti tardoromani del complesso di via D'Azeglio (MAIOLI 1995, figg. 60-63), nei corridoi laterali della chiesa di S. Croce (CORTESI 1978, p. 62, fig. 9; PAVAN 1984-85, pp. 373-376, figg. 20-22), nel ed. Palazzo di Teodorico in pavimenti sia del V che del VI secolo (BERTI 1976, tav. XXIV, 22) ed infine nella stanza 1 del palazzetto bizantino, sempre nel complesso di via D'Azeglio (MAIOLI 1994, fig. 3) e nell'ampliamento della stanza 10 dello stesso complesso, databile alla seconda metà del VI secolo (MAIOLI 1994, fig. 40). Compare inoltre a Rimini nel complesso di Palazzo Gioia (MAIOLI 1992b, pp. 65-66, figg. 1.2.1.4,7) e, in varianti, nella villa di Montesecco di Pergola nelle Marche (MERCANDO 1984, pp. 185-199). L'evoluzione del motivo porterà poi ai tipi più sviluppati ma più rigidi, delle chiese di Grado (ZOVATTO s.d., p. 154). - motivo 2: verso la parete nord del braccio, costituirebbe l'ultimo quadrato a ovest della possibile lista a cassettonato; da est verso ovest (Fig. 30) è formato da: cornice a kyma con ogive alternativamente bianche con cuore grigio-verde e rosate con cuore bianco; i triangoli di collegamento sembrano essere tutti rosati; il motivo è profilato in nero tipo Lavagna, con calcare, sasso di fiume e Rosso di Verona; lo stesso motivo (Dècor, pl. 49 b), compare anche nel riquadro 2; cornice a treccia a torciglione analoga a quella del motivo 1; anche in questo caso la treccia, a causa delle irregolarità del terreno, sembra avere un andamento non rettilineo; i materiali sono analoghi; quadrato, conservato solo in parte, con cornicetta verdognola contenente un motivo circolare; l'angolo di risulta è riempito da un bocciolo ovale rosato, ottenuto in Rosso di Verona, con due volute laterali simmetriche in nero; il cerchio centrale sembra campito da un quadrato a lati inflessi che origina quattro ovali laterali; uno di questi sembra contenere un motivo decorativo in sfumature di rosa mentre l'altro, nella piccola parte rimasta, contiene solo tessere bianche; i materiali usati sono il calcare e il Marmo di Verona in sfumature. Indipendentemente dalle difficoltà di lettura, gli elementi caratteristici della decorazione di questo braccio sono dati dalla tipologia della treccia con l'inserimento della tessera bianca di collegamento e la mancanza dei toni grigio-azzurri ottenuti di solito con l'utilizzo di tessere in marmo di vario tipo: nel nostro caso l'alternanza del colore è data dalle sfumature del Marmo di Verona col calcare bianco; le poche sfumature verde-brune sono ottenute col sasso di fiume e tutti i motivi sono sottolineati in nero tipo Lavagna.
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3. Conclusioni La chiesa del podere Mariona si presenta quindi con una pavimentazione formata da elementi decorativi diversi e di diversa origine, inseriti però in una composizione regolare e ben equilibrata, adattata esattamente alla planimetria dell'edificio. I motivi del tappeto musivo infatti, almeno nella parte conservata, sottolineano con le loro dimensioni e le loro corniciature, gli spazi interni della chiesa, evidenziandone le parti di arredo interne, funzionali al culto, come il bema con la sua solea. Mentre i riquadri che occupano la parte centrale della navata, o almeno l'unico rimasto, presentano un motivo allargato, cioè dilatato nello spazio, i due riquadri ai lati della solea, con il cassettonato a sinistra e il motivo a nodi, ma sempre disposto a scomparti, a destra, si mostrano più centrati, a sottolineare appunto la funzione specifica di questa parte dello spazio interno. I due motivi a cassettonato ai lati del bema, negli stretti corridoi fra questo e la parete, presentano una precisa scansione in successione dei quadrati che forse riprendevano, nella loro regolarità, le dimensioni delle transenne o dei plutei e le distanze fra le colonnine del bema stesso. I motivi dei bracci erano formati da elementi centralizzati, a quadrato, sottolineando e suggerendo con ciò uno spazio più delimitato, ad ambiente chiuso, come doveva essere appunto quello di questa zona specifica. La disposizione dei motivi cioè si presenta molto razionale e funzionale allo spazio cui è destinata. Si è già discusso specificamente della tipologia dei singoli motivi nel corso della loro esposizione; in questa sede basta rilevare che si tratta di tipi tutti piuttosto diffusi ed inquadrabili in una situazione di passaggio, in cui gli elementi decorativi derivati dalla tradizione romana imperiale tendono a stabilizzarsi secondo i nuovi canoni e i modelli della cultura tardoantica e bizantina in genere. Gli elementi che, nel mosaico romano imperiale, venivano utilizzati soprattutto nelle parti di contorno, di corniciatura e di riempitivo, specialmente in funzione delle scene figurate, ora assumono importanza fondamentale e una loro autonomia, eliminando completamente le raffigurazioni o inserendole al proprio interno, esclusivamente in funzione decorativa: è questo il caso ad esempio delle figure di animali o di uccelli inseriti entro i riquadri o i cerchi dei tappeti ad annodamenti. A Ravenna un esempio di ciò è dato dalle pavimentazioni della chiesa di S. Severo a Classe, in particolare nelle stesure in vicinanza del bema e dell'altare (FARIOLI CAMPANATI 1983, pp. 28-40; MAIOLI 1992a, passim). I mosaici di Cervia sono da considerarsi quindi simili, come funzione, a quelli in situazioni architettoniche analoghe, come ad esempio nel grande peristilio del ed. Palazzo di Teodorico a Ravenna (BERTI 1976, passim) in cui i riquadri decorativi occupano in scansione regolare gli spazi in corrispondenza degli intercolumni. Gli esempi ravennati conservati sono pochi e non possono quindi essere considerati determinanti per essere ritenuti indicativi di una situazione assoluta, ma soltanto di una linea di tendenza. I tappeti geometrici del mosaico ravennate e altoadriatico sembrano quindi inserirsi in una scansione regolare dello spazio che rispecchi sia le divisioni e partizioni architettoniche degli ambienti (FARIOLI 1971), sia, in via ipotetica, anche una scansione simbolica, che sottolinei le funzioni d'uso. Le due funzioni possono anche sovrapporsi e coincidere, come ad esempio quando il mosaico sottolinea presenza e funzione di un'abside: è questo il caso, ad esempio del mosaico dell'aula della villa di Meldola (FARIOLI 1966; MAIOLI 1987b, p.
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515). Nella successione cronologica, lo stesso fenomeno degenerativo di appiattimento e stilizzazione dei motivi decorativi si riscontra anche nella rispondenza fra questi e il contesto architettonico: ad esempio, nella chiesa di S. Severo a Classe, della fine del VI sec, non sono più seguiti né la simmetria fra le parti decorative né la corrispondenza fra queste e le scansioni spaziali date dalle colonne delle navate. I singoli tappeti musivi sono di dimensioni diverse e si succedono irregolarmente, indipendentemente dal loro rapporto con lo spazio architettonico (BERMOND MONTANARI 1968, passim; FARIOLI CAMPANATI 1983, pp. 35-36). Il mosaico pavimentale ravennate e altoadriatico del IV-VI secolo sembra svilupparsi su due linee di tendenza contemporanee e convergenti. Da una parte sono presenti grandi decori centralizzati, costituiti generalmente da motivi a rosone di annodamenti, a volte circondati da cornici concentri-che ripetentisi fino a raggiungere le dimensioni richieste dallo spazio a disposizione; dall'altra si riscontrano motivi a tappeto, ripetentisi in successione ma senza una centralizzazione dello spazio. Anche questi possono essere formati da annodamenti e sono spesso marginati da cornici rispondenti alle stesse tipologie. Una sintesi fra le due tendenze è data da mosaici composti da riquadri in cui si alternano i motivi centralizzati, a rosone, e quelli a tappeto: è questo il caso della grande aula della villa di Montesecco di Pergola, nelle Marche (MERCANDO 1984) e della domus di via Tiberti a Cesena (ZAVAÌTI 1941); l'inquadramento dei singoli motivi entro cornici secondo uno schema a cassettonato, è più collegabile a schemi tardoromani, ampiamente diffusi. Nell'edificio di Cervia si riscontra la presenza di motivi decorativi riferibili ad ambedue le tendenze, con gli schemi centralizzati inseriti negli spazi delimitati dei bracci, e i motivi a tappeto negli spazi più aperti della navata; questi ultimi in particolare vengono risolti proprio in uno schema a tappeto affiancato e a passatoia, ognuno con il proprio motivo decorativo, a coprire e sottolineare particolari zone del complesso. Trattandosi di un complesso di pavimenti di epoca tardoantica, è opportuno in questa sede almeno accennare al problema della provenienza dei singoli motivi decorativi. Nel nostro caso si è già rilevato come per la maggior parte di essi sia possibile riscontrare confronti in zona, nell'ambito della usuale produzione tardoromana: è questo il caso dei citati motivi ad annodamenti. Alcuni dei motivi però presentano particolari decorativi che riprendono e ripetono schemi e modelli ampiamente diffusi in ambiente nordafricano: vengono considerati indicativi, ad esempio, i motivi floreali in genere, come quelli presenti nel riquadro 6, di cui si sono già evidenziate le analogie con il pavimento della chiesa di S. Agata a Ravenna e con il complesso della domus di via Ubaldini a Faenza, nonché nel complesso di Meldola (FARIOLI 1966; FARIOLI CAMPANATÌ 1988, pp. 21-35). Si tratta di schemi ampiamente diffusi in tutto il mondo mediterraneo, con numerose analogie stilistiche e tematiche. Non è possibile in questa sede affrontare con compiutezza un problema che comporta lo studio di ogni singolo motivo, in base alla sua cronologia di apparizione e alla sua diffusione nelle diverse epoche; basta rilevare che è presumibile, e certamente più verosimile, un interscambio fra le varie zone, più o meno attivo secondo le epoche e le situazioni. Se è sicura l'influenza dei motivi e dei modelli africani sulla produzione italica nel corso del III-IV sec, come dimostrano anche le grandi ville siciliane, è presumibile che successivamente i rapporti si siano almeno in parte rarefatti e siano stati nuovamente riallacciati, in un mutuo scambio culturale ed economico, all'inizio del VI secolo stanti gli stretti rapporti intercorsi fra Teodorico e il regno vandalico d'Africa. Nel caso della diffusione dei motivi musivi, non
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sembra proponibile però l'ipotesi di trasferimento o spostamento di maestranze, ma piuttosto di una circolazione di schemi basata sulla diffusione di cartoni e di album di disegni, come del resto in epoca precedente (FARIOLI 1978, pp. 267-288; FARIOLI CAMPANATI 1988, pp. 34-35; EADEM 1982, passim). Considerando quindi che ci si trova di fronte a motivi in massima parte molto comuni e ampiamente diffusi nell'orizzonte altoadriatico, non è il caso di soffermarsi su ogni specifico confronto: basta rilevare che si tratta di tipologie ben conosciute in zona e certamente presenti nel repertorio delle singole botteghe musive ravennati. Logicamente i confronti più stretti sono offerti dalle fasi della fine del V, inizi del VI secolo dei pavimenti del ed. Palazzo di Teodorico a Ravenna, che presentano anche analoghe scelte di colore. Un problema a parte è dato dalla scelta dei materiali utilizzati. Il mosaico di Cervia si presenta molto omogeneo, ma con differenziazioni fra i riquadri, che possono essere state determinate o dalle specifiche maestranze, o da una scelta ordinata dei committenti; è il caso dell'uso delle paste vitree in alcuni settori specifici come la scena alla estremità est del riquadro 7, l'utilizzo del marmo bianco cristallino nei fondi dei quadrati del riquadro 6, o del cotto nei particolari dei riquadri 6 e 7. Mentre l'uso della pasta vitrea può essere determinato dalla specifica valenza della scena, che presumibilmente doveva indicare o donatore o motivazioni dell'edificio, negli altri casi il tipo di materiale può essere attribuito ad una scelta specifica o delle singole maestranze o della bottega cui era stato dato l'incarico. Si tratta di materiali molto particolari, che non si riscontrano in altri settori del mosaico. Il cotto, in particolare, si riscontra molto raramente in mosaici di quest'epoca, diffondendosi specialmente nella seconda metà del VI sec, in sostituzione di altri rossi non più facilmente reperibili. La presenza del fondo bianco nel riquadro 6 da invece un tono particolare che diversifica il mosaico all'interno del complesso: si tratta di variazioni di utilizzo che potrebbero far supporre la presenza di botteghe musive diverse, ognuna con specifiche particolarità nell'uso dei materiali. La stessa composizione del pavimento, a settori separati con motivi specifici, potrebbe far supporre che ogni motivo possa essere stato affidato a maestranze, o a gruppi di maestranze, differenti, diverse nella scelta di materiali e motivi ma ben inquadrate all'interno della stessa tendenza di gusto: se lo studio della tecnica delle stesure permette di riconoscere le singole mani dell'operaio, le eventuali differenze di bottega sono molto aleatorie e possono essere dedotte solo in modo indicativo e in ogni caso certamente non probante. Sembra tuttavia certo che il mosaico possa essere attribuibile solamente a botteghe ravennati, sia per la vicinanza di luogo, sia anche per la scelta dei motivi e degli stessi materiali (FARIOLI 1978, passim). La disposizione a tappeti distinti del pavimento potrebbe far ipotizzare che, come in numerosi casi di Ravenna e della zona altoadriatica, la committenza e quindi la spesa della pavimentazione, sia da attribuirsi a persone diverse, ognuna delle quali ha scelto uno spazio, un motivo, e i materiali per realizzarlo: nel nostro caso non è possibile portare argomentazioni prò o contro questa ipotesi, tranne quanto già detto, dato che la pavimentazione stessa non offre dati specifici. Un caso particolare è dato dalla rappresentazione alla estremità est del riquadro 7, cioè la possibile raffigurazione di un edificio a fronte colonnata, realizzata in vicinanza dell'arco trionfale e dell'abside. Trattandosi di un disegno molto frammentato, la cui ricostruzione è presentata solo in via ipotetica, non è possibile logicamente trattarlo se non in modo indicativo (poiché la pavimentazione nella zona corrispondente a destra dell'abside è mancante,
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non è possibile ipotizzarne un corrispettivo sull'altro lato; la zona presenta però una diversa scansione dello spazio). Data la unicità della sua ubicazione nel contesto, se ne può dedurre che fosse un elemento di notevole importanza, come in edifici religiosi dell'area siro-palestinese. È possibile ipotizzare la presenza nel riquadro della raffigurazione schematica e simbolica dello stesso nostro edificio religioso, con una eventuale epigrafe dedicatoria o commemorativa, o con la raffigurazione dello stesso dedicante o fondatore: questa ipotesi non trova confronti in ambiente ravennate, ma ciò non è probante, data la scarsità di pavimentazioni dell'epoca. Bisogna considerare inoltre che, in una fase più avanzata del VI secolo, datazione della maggior parte delle pavimentazioni musive ravennati, questo tipo di rappresentazione figurata scompare. A Ravenna le uniche immagini di questo tipo conservate, e coeve alla nostra, sono le famose raffigurazioni del Palatium e della Civitas Classis nelle pareti della navata centrale della teodoriciana chiesa di S. Apollinare Nuovo, nelle quali comparivano anche figure umane, poi abrase, ma niente impedisce che immagini consimili fossero presenti anche nelle pavimentazioni. Per concludere, il mosaico di Cervia si presenta come un buon campionario di motivi decorativi di un'epoca di passaggio, quando gli schemi stilistici di derivazione tardoromana, al punto del loro massimo sviluppo, stanno evolvendosi verso la più rigida e simbolica decorazione bizantina. Pur non essendo uno dei massimi esempi della produzione, ne mostra perfettamente le caratteristiche, con tipologie decorative che possono essere utilizzate sia in edifici religiosi che civili, mancando esse di specifiche valenze simboliche. Nel nostro caso, ed escludendo sempre la possibile scena figurata, i riquadri sono puramente geometrici e, come tali, si inseriscono e sottolineano perfettamente gli elementi dell'architettura interna dell'edificio, per il quale sembrano essere esplicitamente pensati: le piccole irregolarità della stesura, gli allineamenti non sempre perfettissimi, gli adattamenti dei motivi alle dimensioni e alla realtà dell'edificio, sono normali nella stesura di un grande tappeto musivo ed in relazione alle capacità delle singole maestranze. Anche se realizzato da mani, o forse da botteghe diverse, il mosaico di Cervia deriva certo da un progetto unitario, al quale i singoli tappeti e i motivi decorativi, pur diversi come origine e struttura compositiva, si adeguano e ubbidiscono perfettamente e compiutamente. MARIA GRAZIA MAIOLI
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III. I materiali dello scavo
1. Introduzione Quasi tutte le categorie di materiali provenienti dallo scavo, la maggior parte dei quali purtroppo erratica, avendo i livelli stratigrafici restituito pochissimi frammenti di suppellettile, suggeriscono un orizzonte cronologico collocabile tra la fine del VI sec. d.C. e il VII sec. avanzato con possibili estensioni all'inizio dell'VIII. Pertanto, le percentuali di residualità sono alte, ma non altissime, e comprendono reperti della prima e media età imperiale romana. Tra le produzioni sembrano prevalere quelle locali; materiali di importazione sono frequenti o quasi esclusivi per quei generi che erano scarsamente o affatto fabbricati in zona in questa età, quali le anfore; va tuttavia evidenziato che tra le ceramiche fini da mensa sono del tutto assenti le produzioni tarde di area medioadriatica. La zona cervese appare quindi del tutto marginale rispetto ai flussi commerciali dell'epoca, nonostante la vicinanza al porto di Ravenna. Va ancora sottolineata l'analogia stretta, talora quasi assoluta con altri siti tardo-antichi prossimi a Cervia, quale in particolare Villa Clelia di Imola, rispetto a cui si riscontrano simmetrie ancora più marcate di quelle che si registrano confrontando i dati con quelli ravennati e classensi.
2. Le ceramiche 2.1. Terra sigillata africana Rappresentata soltanto da nove frammenti di modestissime dimensioni, questa classe di materiale annovera esclusivamente sigillata africana D in entrambe le produzioni D 1 e, in forma più consistente, D2. I tipi presenti sono scodelle e coppe ascrivibili soprattutto al V e al VI secolo, con alcuni esempi però di forme la cui fabbricazione perdura fino agli inizi del VII sec. Un frammento di orlo internamente convesso (Fig. 31, n. 1), un poco ingrossato e pendente, appartiene ad una scodella a parete svasata ascrivibile alla forma Hayes 104A1, assai diffusa in tutto il Mediterraneo e che, prodotta in sigillata africana D2, è datata al 500-580 circa. Un'altra scodella (Fig. 31, n. 2) pertinente alla forma Hayes 1052 ha orlo ingrossato e appiattito superiormente e sul margine inferiore, ed un 1 2
H AYES 1972, p. 163 ; Atlante I, tav. XLII, n. 5. H AYES 1972, pp. 166-169; Atlante I, tav. XLIII, 4.
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piccolo incavo all'interno, all'attacco della parete, svasata; anch'essa di produzione D2, è stata attribuita agli anni 580/600-660 con possibile, ulteriore attardamento. Alla forma Hayes 104B3 può essere attribuita un'altra patera (Fig. 31, n. 3) dall'orlo pendente ed esternamente convesso, fabbricata in VI sec. e ancora nei primi decenni del VII. Di dimensioni più ridotte è una scodella con orlo indistinto (Fig. 31, n. 4), leggermente arrotondato, e con parete svasata; la sua produzione, forse in sigillata africana DI, sembra iniziare e attestarsi in IV sec.4. Una piccola patera con orlo pendente a sezione quasi triangolare (Fig. 31, n. 5) e parete svasata, è decorata da una doppia scanalatura che segna l'attacco tra l'orlo e la parete; forme analoghe ma di dimensioni maggiori sono note per ora solo a Cartagine5, in contesti di fine V-inizi VI sec. Una coppa con orlo a mandorla (Fig. 31, n. 6) e parete svasata è ascrivibile alla forma Hayes 99% in sigillata africana D2, la cui produzione segna quasi tutto il VI sec, con attestazioni in contesti di VII ad Antiochia. L'unico frammento residuo con decorazione a stampo (Fig. 31, n. 7) reca al centro, sul fondo, una serie di motivi a rami di palma disposti radialmente; la decorazione, già nota a Classe7, appartiene alla produzione di sigillata DI e D28 ed è in uso dalla metà del IV sec. fino agli inizi del V. Infine due fondi, presumibilmente di patere, di cui uno con piede ad anello verticale abbastanza alto (Fig. 31, n. 8) e l'altro con piccolo piede anch'esso verticale e inferiormente piano (Fig. 31, n. 9) non consentono attribuzioni certe. Le forme presenti a Cervia, peraltro per lo più costantemente ricorrenti nei contesti tardoantichi, descrivono un orizzonte cronologico, confermato anche dalle altre classi di materiali, che, al di là di una generica attribuzione all'età tardoantica, sembra attestarsi intorno alla fine del VI sec. fino almeno alla metà del VII. Dei due frammenti di forma Hayes 104A e 105 (Fig. 31 nn. 1-2), rinvenuti all'interno dell'us 75, corrispondente ad un livello di spoliazione, il primo si attesta all'interno del VI sec, mentre lo Hayes 105 avanza oltre la metà del VII. 2.2. Ceramica verniciata In questa categoria vengono riuniti sia i vasi a vernice continua, che copre interamente la superficie esterna e talora anche quella interna del contenitore, sia i frammenti decorati da_ semplici colature. Nel primo gruppo, rappresentato solo da quattro frammenti, sono presenti soltanto forme aperte e un fondo di discreto diametro, presumibilmente anch'esso pertinente ad un vaso a bocca larga; il secondo raggruppamento, invece, anch'esso piuttosto esiguo, riunisce quasi in ugual misura forme aper-te__e_chiuse. Derivati dalle forme della ceramica comune, o dalle produzioni fini da
3
H AYES 1972, p. 163. H AYES 1972, Forma 50B; Atlante I, tav. XXXVII, nn. 1-4. 5 Forma Atlante I, tav. XLVI, 6. 6 H AYES 1972, pp. 152-155; Atlante I, tav. LI, nn. 1-8. 7 MAIOLI 1983, pp. 87-112. 8 Atlante I, tav. Lllb, n. 61; H AYES 1972, stampo 4. 4
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mensa, hanno sempre argilla ben depurata, per lo più di colore chiaro (beige o beige-rosato), seppure non manchino toni più vivi, nelle sfumature del rosa e dell'arancio. La vernice, rossa o rosso-bruna, è sempre molto diluita, mediamente coprente, spesso molto abrasa. Tra le verniciate si riconoscono alcune coppe con orlo a fascia a doppio gradino arrotondato (Fig. 32, n. 1), o inclinato e aggettante superiormente arrotondato (Fig. 32, n. 2), o ingrossato e spesso, appena distinto dalla parete, fortemente svasata (Fig. 32, n. 3); l'unico fondo, leggermente convesso (Fig. 32, n. 4), reca la vernice di colore rosso, peraltro fortemente abrasa, sia all'interno, sia all'esterno, anche sul piano di appoggio. Un bacile reca un orlo con listello orizzontale (Fig. 32, n. 10) posto immediatamente sotto il bordo, appena arrotondato; la vernice, molto diluita e abbastanza chiara, è stata stesa solo sulla parte superiore del listello. Coperta da una vernice rossa abbastanza scura, molto annerita lungo l'esterno della parete, è una scodella con orlo a bordo ingrossato e profilo convesso (Fig. 32, n. 11), segnato da una doppia scanalatura nel punto di distinzione tra orlo e parete. Una vernice rossa assai diluita è stesa solo all'interno di un bacile con orlo a fascia espansa e con incavo che segna l'attacco con la parete, all'esterno (Fig. 32, n. 12); in argilla rosa, molto polverosa, è attribuibile alle produzioni locali. Colature rosse decorano due brocchette monoansate, la prima delle quali (Fig. 32, n. 5) ha orlo leggermente ingrossato e non distinto dal collo, ansa a nastro rimontante impostata sull'orlo; l'altra (Fig. 32, n. 6), con orlo indistinto a bordo arrotondato, reca un'ansa a nastro che si sviluppa orizzon-talmente dall'orlo. Una ciotola ad orlo verticale e assottigliato sul bordo (Fig. 32, n. 7) reca colature immediatamente sotto l'orlo, all'esterno; pennellate di vernice rossa, in parte abrasa, compaiono invece su un recipiente cilindrico ad orlo indistinto (Fig. 32, n. 8). L'ultimo esemplare documentato è la parete con attacco del fondo, presumibilmente piano (Fig. 32, n. 9) di un vaso di forma cilindrica, lungo la cui parete esterna scende una colatura di vernice rossa. Di produzione presumibilmente locale, i vasi di questa categoria, creati ad imitazione di forme tradizionali affermatesi almeno già dalla prima età imperiale, non offrono elementi probanti di aggancio per la loro definizione cronologica; tra i frammenti di Cervia non compaiono tipi caratterizzanti per proporne una datazione puntuale; l'orizzonte complessivo e l'associazione con gli altri frammenti sembra tuttavia autorizzarne una generica collocazione in età tardoantica. Analogie si riscontrano in particolare con i materiali da Villa Clelia, ad Imola9 e da Ostiglia10. 2.3. Ceramica comune depurata Questa categoria, all'interno della quale sono rappresentate in percentuale più alta le forme chiuse, registra una netta prevalenza di argille molto polverose, chiare, per lo più di colore beige o rosa, con inclusi assai minuti, bianchi o brillanti, raramente affioranti in superficie.
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CURINA in Villa Clelia, pp. 155-162. BIONDANI 1995, pp. 23-28; si veda ancora G IORDANI 1994, pp. 85-88.
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L'esame macroscopico di queste argille e il raffronto con altri impasti analoghi assai diffusi in tutta l'area romagnola costiera consente di ipotizzarne la produzione locale o comunque la provenienza da officine dislocate entro un raggio abbastanza ristretto. Ad esse si affiancano pochissimi frammenti di colore bruno-arancio con fitti inclusi micacei che conferiscono loro un caratteristico aspetto brillante; nove frammenti invece, pertinenti sia ad orli sia a fondi, si contraddistinguono per un'argilla di colore rosa abbastanza vivo, talora tendente all'arancio, in qualche caso ricca di inclusi bianchi affioranti anche in superficie. Altri quattro frammenti sono di colore rosso vivo e l'impasto si presenta assai duro, quasi ruvido al tatto. Le forme sono tutte pertinenti a vasi da mensa, all'interno dei quali si osserva una prevalenza assoluta di brocche; mentre tra quelli in argilla locale, accanto ai tipi ad orlo ingrossato all'esterno e variamente modanato (Fig. 33, nn. 1-2) se ne registrano altri un poco aggettanti all'esterno e dalle pareti quasi sottili (Fig. 33, nn. 3-4) con un'unica attestazione certa di ansa, gli esemplari in argilla ruvida e dura sono caratterizzati per lo più da orlo arrotondato e ingrossato, leggermente (Fig. 33, nn. 5-6) o fortemente convesso all'esterno (Fig. 33, nn. 7-8), generalmente poco aggettante. I tipi ricchi di inclusi micacei presentano orlo quasi verticale con bordo piano e un poco ingrossato all'esterno, ansa impostata direttamente sull'orlo o immediatamente al di sotto (Fig. 33, nn. 9-10) o ne sono privi (Fig. 33, n. 11). Una maggiore varietà di forme si registra tra i frammenti caratterizzati dall'argilla di colore rosa assai dura e mediamente più ricca di inclusioni rispetto agli altri impasti. Questo "gruppo" comprende infatti un frammento con orlo a fascia a doppio gradino (Fig. 33, n. 12), un orlo indistinto su cui si imposta una grossa ansa a sezione subcircolare sopravanzante l'orlo (Fig. 33, n. 13) e due frammenti il cui bordo, ingrossato all'esterno, è a sezione triangolare (Fig. 33, n. 14) o allungata (Fig. 33, n. 15). I fondi sono per lo più piani, risalenti con una inclinatura leggera che si accentua ed arrotonda all'attacco della parete (Fig. 33, nn. 16-17-18-19), o risalgono subito con una decisa svasatura della parete, che stacca tuttavia morbidamente (Fig. 34, nn. 20-21-22) o formando un angolo ottuso abbastanza deciso (Fig. 34, nn. 23-24); taluni si presentano marcati (Fig. 34, nn. 25-26-27) e leggermente incavati (Fig. 34, n. 28). Alcuni recipienti, a fondo piano, hanno parete arrotondata, quasi priva di svasatura (Fig. 34, nn. 29-30-31). A vasi di maggiori dimensioni appartengono un fondo appena incavato, con bordo aggettante, ben marcato (Fig. 34, n. 32) ed uno con piede ad anello (Fig. 34, n. 33), entrambi in argilla bruna ricca di inclusi di colore bianco, come un altro fondo apodo, piano, marcato dalla parete per la diversa inclinatura (Fig. 34, n. 34); ad olle potrebbero appartenere i due frammenti con piede indistinto, piano (Fig. 34, nn. 35-36), caratterizzati dalla buona depurazione dell'argilla. Forse ad una piccola olla appartiene l'unico frammento di questo tipo (Fig. 34, n. 37), con orlo aggettante, bordo tagliato obliquamente e parete di buono spessore. Tra le forme aperte, è discreta l'attestazione di ciotole, con orlo indistinto e bordo superiormente incavato (Fig. 34, n. 38) o bordo arrotondato e appena marcato all'esterno (Fig. 35, n. 39) che, insieme con un altro frammento analogo di ciotola o tegame (Fig. 35, n. 40) potrebbe appartenere a prodotti di importazione diffusi intorno al tardo IV secolo e perduranti fino
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al 500 circa11, come sembrano attestare le argille, molto dure, rosse o brune, ricche, nel secondo esemplare, di inclusi iridescenti molto fitti che affiorano con grande frequenza sulla superficie interna. Altre ciotole in argilla molto chiara e farinosa presentano orlo legger-mente aggettante all'interno, bordo assottigliato e parete sottile (Fig. 35, n. 41) o orlo ingrossato inclinato all'esterno e modanato da una piccola depressione al centro (Fig. 35, n. 42). Un'olla molto chiara ha bordo assottigliato ed orlo introflesso, su cui si imposta un'ansa leggermente soprastante, che si attacca formando una depressione che ne segna la distinzione dall'orlo (Fig. 35, n. 43). A bacili appartengono un orlo a piccola tesa aggettante all'esterno con bordo quasi verticale (Fig. 35, n. 44) e due orli assai simili, a fascia inclinata verso l'esterno (Fig. 35, nn. 45-46); tutti questi frammenti sono presumibilmente di produzione locale e sviluppano tipi già noti dall'età romana. Infine due catini recano sulla superficie interna dell'orlo, quasi a ridosso del bordo, dei motivi incisi a zig-zag (Fig. 36, nn. 47-48): gli orli sono l'uno a fascia inferiormente pendente, l'altro a bordo ingrossato, aggettante all'esterno. Alcune delle forme presenti, pur se già ben documentate a partire dalla prima età imperiale (Fig. 33, n. 1) permangono anche in contesti tardo-anti11
ARTHUR 1994, fig. 118, n. 93.2.
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chi; la maggior parte tuttavia per le caratteristiche morfologiche si inserisce a pieno titolo nell'orizzonte tardoantico l2; alla seconda metà del VI sec. sembra ascrivibile il frammento n. 12, che trova confronti puntuali nel complesso di Carminiello ai Mannesi13, mentre a forme diffuse tra V e VII sec. può essere attribuito il frammento rinvenuto in us 38 (Fig. 33, n. 14). I tipi rispecchiano un gusto e una morfologia abbastanza diffusi e tro vano perciò confronti, se pure non sempre puntuali, con esemplari rinvenuti in altre aree emiliano-romagnole, quali Villa Clelia a Imola14 e più sporadica mente a Modena15. 2.4. Ceramica comune con inclusioni Anche per questa categoria di ceramica, i frammenti rinvenuti appaiono di modestissime proporzioni, così da non consentire quasi mai di conoscerne lo sviluppo del corpo, né le eventuali decorazioni. II gruppo delle grezze o rozze terracotte è rappresentato da una discreta percentuale di frammenti, la maggior parte dei quali tuttavia pertinente a pareti; tra le forme, prevalgono decisamente le olle da_ fuoco, all'interno del le quali sembra di poter riconoscere un gruppo abbastanza omogeneo (Fig. 37, nn. 1-13), riconducibile con ogni probabilità alla produzione, ben orga nizzata e ormai standardizzata, già presente a Classe16. Di forma ovoide, sono caratterizzate da orlo un poco aggettante all'esterno, a sezione quasi rettan golare, labbro tagliato obliquamente, in alcuni esemplari leggermente inca vato all'interno (Fig. 37, nn. 1,7) per l'alloggiamento del coperchio; il fondo, apodo e piano, è sabbiato. Gli esemplari classensi si distinguono per la deco razione sulla spalla, ottenuta a pettine o a stecca; i frammenti di Cervia si arrestano subito sotto l'orlo o appena all'attacco della spalla, quindi più in alto dell'eventuale motivo ornamentale, conservato tuttavia su alcuni fram menti di pareti. L'impasto è complessivamente piuttosto omogeneo: tutti fortemente anneriti dal fuoco, in frattura o a chiazze risparmiate dal fuoco si presentano di colore grigio o bruno, con fitti inclusi di media grossezza, per lo più di colore bianco o iridescenti, spesso affioranti in superficie. Le stesse caratteristiche si allargano ad un gruppo di frammenti pertinenti a fondi pia ni e sabbiati, con ogni probabilità riconducibili allo stesso gruppo di olle (Fig. 37, nn. 8-13). Di tradizione abbastanza antica, già diffuse in età imperiale romana 17, questo tipo sembra affermarsi consistentemente a partire dall'età tardoantica e altomedievale; a Classe sono state datate al VII sec.18, come a Castelseprio e a Luni19, dove compaiono esemplari a quelle sintatticamente assimilabili. Un'olla di dimensioni inferiori (Fig. 38, n. 14) appare tuttavia riconducibile alla stessa tipologia produttiva, se pure forse non alla medesima produ-
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Così per Figg. 7 e 8. A RTHUR 1994, p. 204, fig. 95, n. 95. 14 N OVARA in Villa Clelia, p. 169, fig. 18. 15 LABATE 1988, Tipo CC II D. 16 LABATE 1988, tipo RT I Fe e Ff.l I7 G ELICHI 1983a, pp. 127-129. 18 Ibid. 19 Luni II, tav. 336. 13
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zione; l'impasto, ricco di inclusi bianchi, è di colore nocciola ed è lisciato all'esterno; il bordo appare un poco annerito20. Presente ancora in contesti tardoantichi e .altornedievali è un altro frammento (Fig. 38, n. 15), dal profilo meno deciso, più curvilineo nel passaggio tra orlo e spalla; in regione è documentato tra l'altro a Villa Clelia di Imola21 e nel Modenese22, ed ancora ad Ostiglia23. All'orizzonte tardoantico, se pure non ancora forse altomedievale, riconduce un altro frammento (Fig. 38, n. 16), che si riallaccia alla tipologia canonica e di ascendenza romano-repubblicana delle olle da fuoco. Completano il gruppo degli orli due frammenti (Fig. 38, nn. 17-18) diversamente inclinati ma simili nel bordo, ingrossato e arrotondato, con incavo interno per l'alloggiamento del coperchio, fortemente anneriti, uno dei quali recante all'esterno, immediatamente sotto l'orlo, una decorazione incisa a zig-zag, cui si aggiungono due frammenti di fondi piani, che si differenziano dal resto del gruppo per l'assenza di sabbiatura. Le altre forme in rozza terracotta appaiono documentate sporadicamente e, ad eccezione di un frammento di ciotola rinvenuta in us 75, sono tutte di provenienza erratica. Un coperchio (Fig. 38, n. 19) a parete tronco-conica e bordo tagliato, rientra nei materiali residui di età romana, mentre all'età altomedievale è ascrivibile l'unico frammento documentato di catino-coperchio (Fig. 38, n. 20) di foggia campaniforme, con listello aggettante all'esterno, per il quale l'esiguità del frammento non consente l'attribuzione ad un listello continuo o, come sembra più probabile, ad una presa a linguetta: un esemplare da Classe24, in associazione con le olle di cui sopra, è caratterizzato da una serie di prese a linguetta: la sua datazione è riconducibile al VII secolo. Non mancano ancora tegami (Fig. 38, n. 21), catini-coperchio ad orlo indistinto e bordo quasi piatto (Fig. 38, n. 22), con decorazione incisa a punta, ed infine ciotole ad orlo rientrante (Fig. 38, nn. 23-24), secondo una tipologia ben affermata in età tardoantica ed assai diffusa in tutta la regione e lungo la costa romagnola a partire dal IV secolo con persistenze consistenti almeno per tutto il VI25. Le ceramiche non depurate, pertanto, conducono complessivamente, pur con alcune residuità peraltro statisticamente assai modeste, ad un orizzonte cronologico attestantesi tra la fine del VI secolo ed il VII, e ad un ambito commerciale che sembra riconoscere nell'area ravennate e periraven-nate il proprio riferimento più significativo, o come approvvigionamento diretto dalle fabbriche ravennati, o come influenza di gusto e di modalità dei processi produttivi e degli esiti dei medesimi.
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Riconducibile al gruppo 7 di Ostiglia: cfr. B IONDANI 1995, pp. 15-123. N OVARA in Villa Clelia, p. 171, fig. 19, n. 15. L AB AT H 1 9 8 8 , T i p o R T I E h . 23 B IONDANI 1995, gruppo 6, tav.lX, n. 22/2 e tav. XX, n. 50/3. 24 BROGIOLO-GELICHI 1986, tav. 111,5. 25 Questo tipo di ciotola è attestato negli strati tardoantichi di gran parte dei siti romagnoli, ed in particolare è assai ricorrente in area riminese. 21 22
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3. Anfore Discretamente rappresentata è anche la categoria delle anfore, per le quali tuttavia si conferma la prevalenza di frammenti piuttosto minuti, con abbondanza di porzioni per lo più non identificabili. Secondo uno schema ormai ripetutamente accertato in quest'area, la percentuale più alta è relativa alle africane, cui seguono immediatamente i contenitori LRA 4, originari della regione di Gaza e della Palestina meridionale. Sono attestati inoltre alcuni frammenti di anforette micacee (tipo LRA 3) e un discreto numero con costolature diverse, non identificabilLTra i contenitori africani, si riconoscono due frammenti genericamente pertinenti al gruppo dei cosiddetti «contenitori cilindrici della tarda età imperiale» (Fig. 39, nn. 1-2), corrispondenti al tipo Keay XXV26, ascrivibili al IV-V sec. d.C; ad età più tarda è invece attribuibile la forma Keay LVA (Fig. 39, n. 3), documentata ancora in livelli di VI secolo27. Sono di origina africana un altro orlo (Fig. 39, n. 4) e due puntali (Fig. 39, nn. 5-6) pieni, troncoconici, con estremità convessa, il secondo dei quali, più allungato, è attribuibile al gruppo delle «anforette cilindriche affusolate della tarda antichità di piccole dimensioni»28, la cui produzione in area africana sembra affacciarsi a Cartagine dopo il 535 e persistere tra tardo VI e VII secolo. Le LRA 4 sono rappresentate da tre orli, di cui un tipo rilevato e distinto dalla spalla (Fig. 39, n. 7), un altro arrotondato e pressoché indistinto dalla spalla (Fig. 39, n. 8) ed un terzo infine a sezione quadrangolare e con piccolo dente interno (Fig. 39, n. 9); le argille sono brune, con sfumature tendenti all'arancio e al nocciola; gli inclusi, di colore grigio, sono complessivamente abbastanza minuti. All'area orientale sono forse pertinenti alcuni puntali di anfore diverse, in impasti differenziati ma contraddistinti in parte da argille "saponose", per lo più di colore bruno-nocciola o arancio, con fitti inclusi micacei (Fig. 39, nn. 9-10-11-12). Un frammento di fondo con piede leggermente incavato e bordo distinto (Fig. 39, n. 13) sembra trovare confronto in un esemplare analogo di Milano29, dove l'esame sommario dell'argilla fa supporre un'origine orientale. All'ambito egeo, e forse più precipuamente alla costa del Mar Nero, potrebbero ricondurre due frammenti, di cui uno con orlo a ciotola abbastanza alto (Fig. 39, n. 14), l'altro con imboccatura simile, seppure più stretta e con bordo maggiormente ingrossato (Fig. 40, n. 15): sono contenitori globulari, in argilla rosso-arancio, a frattura netta e un poco granulosa, ricca di inclusioni bianche sporadicamente affioranti in superficie, mista a grani minuti di mica nell'esemplare n. 14. I rinvenimenti sparsi nel Mediterraneo e nelle regioni centrali europee ne pongono l'inizio della produzione alla fine del IV secolo con una persistenza fino alla fine del VI e forse agli inizi del VII30. All'area egea sono ancora riconducibili cinque frammenti di pareti e quello di ansa di anforette micacee, come forse un altro frammento (Fig. 40, n. 16) piuttosto minuto, ad 26
K EAY 1984, pp. 184-212. K EAY 1984, pp. 289-290. PANELLA 1986, pp. 251-272. 29 MM3, vol.4, tav. CXXIV, 277. 30 A RTHUR 1992, p. 204; si vedano i framm. fig. 7:2, nn. 812-813. 27 28
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orlo ingrossato ed arrotondato, collo cilindrico che se correttamente identificato potrebbe rappresentare una delle prime attestazioni in area adriatica e in Italia settentrionale di questo tipo di contenitori. Di probabile produzione egea, questa anfora si ricollega ai tipi globulari tardoantichi ed è prodotta in VII secolo31. Il tipo-guida dello scavo del Podere Mariona è rappresentato da una serie di frammenti (Fig. 40, nn. 17-18-19-20) pertinenti ad un'anforetta ad orlo indistinto e bordo arrotondato, corto e largo collo quasi cilindrico, anse a nastro con decisa depressione al centro impostate in parte ancora sul bordo e sulla spalla, poco sopra la quale ha inizio una fitta serie di scanalature abbastanza profonde. Tutti i frammenti, facilmente identificabili anche dalle sole pareti, hanno un'argilla molto dura, di colore bruno-rossastro o nocciola, ricca di inclusi minuti, bianchi o iridescenti, frattura molto netta e regolare. Il tipo è probabilmente riconducibile alle anfore della cisterna di Samos32, originarie dell'isola di Samos, il cui arco cronologico si colloca tra la metà del VI sec. e il VII, presenti in molti siti del Mediterraneo e già note a Classe33. Altre attestazioni si riferiscono a produzioni non meglio identificate: un orlo (Fig. 40, n. 21) leggermente ingrossato e superiormente obliquo, appena distinto dal collo, un poco convesso, con anse a nastro ingrossato, per le caratteristiche dell'argilla, rosa, polverosa, abbastanza depurata, potrebbe riferirsi a produzioni locali; altri esemplari hanno orlo ad anello (Fig. 40, n. 22) e collo cilindrico con attacco di anse a nastro impostate immediatamente sotto l'orlo, o bordo allargato (Fig. 41, n. 23), collo imbutiforme e ansa a nastro. Un'anforetta dalla stretta imboccatura (Fig. 41, n. 24) si presenta con orlo indistinto e arrotondato su cui si impostano grosse anse a bastoncello. Tra i puntali, se ne registrano alcuni pieni, con stretta e decisa concavità alla base (Fig. 41, nn. 25-26), appena accennata in un terzo esemplare (Fig. 41, n. 27), che si contraddistingue anche per una serie di scanalature all'attacco della parete; i puntali, a tronco di cono rovesciato, hanno bordo aggettante. L'orizzonte cronologico entro il quale si attestano le anfore è dunque prevalentemente inquadrabile tra VI e VII secolo, con un possibile avanzamento in VIII con il frammento Fig. 40, n. 15; all'interno di questo arco, si collocano probabilmente come testimonianze residue i frammenti pertinenti ad anfore di produzione romagnola34, di cui si registrano due frammenti di fondi (Fig. 41, nn. 28-29). A differenza di quanto osservato in altri analoghi contesti tardoantichi di area emiliano-romagnola35, le anfore, pur se presenti in buona percentuale, con un discreto numero tra l'altro di pareti e di frammenti di anse, non raggiungono tuttavia la stessa consistenza che altrove. Ad una diminuzione quantitativa, si affianca in questo sito una minore varietà di forme e di tipi che sorprende anche in relazione alla relativa vicinanza al porto di Classe. Se infatti sono rappresentate quasi tutte le grandi aree da cui partivano le maggiori esportazioni, si rileva al tempo stesso la selezione rispetto alle medesime; l'Africa è presente quasi solo con le fabbriche tunisine, mentre del Mediterraneo orientale appaiono a questo punto 31
V ILLA 1994, pp. 411-413, tav. 11, nn. 1-6. A RTHUR 1990, coll. 281-295; da ultimo, V ILLA 1994, pp. 408-410, tav. 10, nn. 4-5. 33 STOPPIONI PICCOLI 1983, pp. 130-146, fig. 8.44. 34 S TOPPIONI 1993, pp. 145-154. 35 STOPPIONI in Villa Clelia, pp. 176-186. 32
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privilegiate le officine di ambito egeo, oltre a quelle della fascia di Gaza, i cui prodotti conobbero grande fortuna in tutta la nostra zona. Questo dato, assai parziale e limitato dalla modestia dei frammenti, che non hanno spesso consentito una identificazione precisa, potrebbe tuttavia essere indicativo di uno spostamento cronologico, seppure non troppo forte, rispetto agli strati classensi. L'orizzonte che si impone attraverso l'esame dei reperti cervesi fa proporre una cronologia tra fine VI e VII secolo, con un probabile avanzamento almeno ai primi decenni dell'VIII: la presenza, in percentuali superiori a quelle classensi, di anfore tarde come il tipo della cisterna di Samos e, se pure in un unico frammento, del Fig. 40, n. 15 ci forniscono un indizio cronologico importante e confermano la datazione dei livelli di abbandono e di spoliazione del primo impianto della chiesa in avanzato VII secolo o, forse meglio, nei primi anni del]'VIII. L'assenza, o comunque la modesta attestazione di alcuni contenitori che pure erano massicciamente presenti a Classe indica forse, da parte dei mercati, una selezione dei prodotti conseguente alla chiusura di alcune fabbriche e di alcuni empori nell'età cui sono pertinenti i reperti di Cervia.
4. Vetri Frammenti di vetro sono diffusi, pur se in quantità non molto rilevante, in tutti i riempimenti conseguenti alle spoliazioni, e abbondanti sono gli sporadici. Essendo per la maggior parte frammenti di pareti, è impossibile identificarne le forme: rimangono soltanto sei frammenti di orlo e quattro di fondi, di cui uno (Fig. 42, n. 1) pertinente a balsamario di età romana. A questi va aggiunta una porzione di parete e orlo con ansa saldata (Fig. 42, n. 11), presumibilmente riferibile a lucerna a sospensione. Abbondano invece i frammenti attribuibili a vetri da finestra (Tav. IV.2). Tutti i vetri hanno spessore sottile o sottilissimo, e prevale il colore verde, per lo più molto chiaro, trasparente, con striature intense talora abbastanza fitte e microbollicine d'aria, peraltro assai meno abbondanti in quelli azzurrognoli, anch'essi trasparenti e chiari, ad eccezione del frammento Fig. 42, n. 2 di tonalità intensa e molto puro. Il bicchiere a calice con piede a disco su stelo è quasi l'unica forma attestata: il piede è piano e quasi orizzontale (Fig. 42, n. 7), oppure inclinato (Fig. 42, nn. 8-9); gli orli sono essenzialmente di due tipi: indistinto, presente in due varianti di cui una con ingrossatura all'interno (Fig. 42, nn. 2-3) o semplicemente arrotondato (Fig. 42, nn. 4-5), oppure espanso verso l'esterno e ingrossato sul bordo (Fig. 42, n. 6). Questi bicchieri, assai diffusi in tutto il Mediterraneo, vennero prodotti a partire dalla seconda metà del IV sec. fino alla metà del VII36; le analogie con i reperti di Villa Clelia a Imola37, sia per quanto riguarda le forme, sia per le associazioni, suggerisce una datazione tra VII e VIII secolo. Un unico frammento, ad orlo quasi indistinto e ingrossatura verso l'interno (Fig. 42, n. 10) presenta motivi decorativi a filamenti rilevati disposti irregolarmente lungo la parete, a partire immediatamente sotto l'orlo: anche questo frammento, incolore, è riferibile ad un bicchiere a calice. 36 37
ROFFIA 1988, pp. 206-210. CURINA in Villa Clelia, pp. 190-193, fig. 25.
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A lucerna a sospensione è attribuibile il frammento di orlo in vetro azzurro espanso verso l'esterno con bordo leggermente ingrossato ed ansa verticale impostata sull'orlo e sul corpo, assimilabile ai tipi già noti nel Ravennate38 e a Villa Clelia39, riferibile al tipo Uboldi I. 140. In Romagna è presente in contesti di V-VI sec, ma altrove si incontra anche in livelli più tardi, di VII secolo e oltre41. Ai frammenti di vasi si aggiunge una grande abbondanza di frammenti di vetri da finestra, di spessore variabile da 1 a 3 mm., prevalentemente di colore azzurro o azzurro-verdognolo, semitrasparente, o giallo; quelli gialli sono di solito i più sottili; sporadici frammenti si presentano con una sorta di sabbiatura. Fitte sono le striature, talora anche piuttosto larghe, e non mancano microbollicine d'aria. Il taglio, regolare e liscio, è quasi rettilineo, gli angoli sono di 90°; alcuni frammenti presentano bordo arrotondato. Essendo numerosi anche nei riempimenti delle fosse di spoliazione, erano sicuramente pertinenti all'edificio ecclesiastico, cui vanno considerati coevi.
5. Pietra ollare Rappresentata da pochi frammenti di pareti, talora decorate da cordo-nature ravvicinate all'esterno e/o filettature interne, è documentata anche da quattro porzioni di fondi (Fig. 42, nn. 12-15) due dei quali del diametro di cm. 12, un terzo di 16 ed il quarto infine che raggiunge i cm 28. Il primo (Fig 42, n. 12), piano, appartiene a vaso presumibilmente cilindrico o subcilindrico, di dimensioni medio-piccole, decorato all'esterno da cordoni poco rilevati e ravvicinati; forse assimilabile al tipo I di Monte Barro42, trova confronti anche con materiale di Classe43, dove è datato anteriormente alla metà dell'VIII secolo. L'altro frammento di piccole dimensioni (Fig. 42, n. 13), anch'esso piano, si avvicina a quelli di Villa Clelia44, genericamente riconducibili alla produzione altomedievale. Filettature interne caratterizzano la porzione Fig. 42, n. 14 di grandi dimensioni, con fondo piano, mentre ad andamento leggermente concavo è quello Fig. 42, n. 15 pertinente a vaso tronco-conico, che costituisce l'esemplare più grande tra quelli presenti a Cervia. Infine, l'unico orlo attestato (Fig. 42, n. 16) è riferibile a vaso decisamente tronco-conico, di dimensioni medio-piccole, con scanalature esterne e segni di tornio all'interno; ad orlo indistinto, presenta un leggero arrotondamento del bordo e superficie annerita dal fuoco. Per le sue caratteristiche, si avvicina fortemente al tipo VIII di Monte Barro45, rientrante nella produzione altomedievale della pietra oliare. Ad eccezione di Fig. 42, n. 12 di colore grigio chiaro, tutti i frammenti documentati sono contraddistinti da una colorazione grigio-azzurrognola; tra le pareti non mancano alcuni esempi in pietra più scura. 38
CURINA 1983, n. 11.13, p. 169. C URINA in Villa Clelia, fig. 2.5, nn. 17-18. UBOLDI 1995, pp. 104-108, fig. 2. 41 Ibid., cit. 42 B OLLA 1988, pp. 210-217 e in part. pp. 210-211. 43 G ELICHI 1983b, pp. 176-177, fig. 14.3. 44 C URINA in Villa Clelia, pp. 189-190, fig. 21, nn. 4-5. 45 B OLLA 1988, p. 215, tav. XI,H. 39
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6. Tubi fittili Anche se assenti dai livelli di spoliazione, la pulitura ha portato alla luce una discreta quantità di tubi fittili del tipo a siringa (Fig. 43, nn. 1-6), con corpo cilindrico per lo più solcato da fitte scanalature, bordo piano e piccolo puntale cavo, nettamente distinto dal corpo. In argilla chiara, quasi sempre assai dura e mediamente depurata, erano impiegati per alleggerire le volte. Utilizzati a Ravenna nella fabbrica di S. Vitale46 intorno alla metà del VI sec, sono abbondantemente diffusi; a Santarcangelo di Romagna erano già noti dalla pieve di S. Michele in Acerbolis, dove vennero impiegati nella costruzione dell'impianto di VI secolo; recenti scavi ne hanno rivelato un utilizzo anche per le volte di piccole fornaci per la cottura di lucerne imitanti i tipi africani prodotte a Santarcangelo nel corso del VI sec.47.
7. Monete Le monete rinvenute, tutte al di fuori dei contesti stratigrafici, sono complessivamente tre; di queste una è totalmente illeggibile; le altre appartengono rispettivamente alla monetazione dei Goti e a quella bizantina. 1. TEODORICO (Fig. 44, ti. 1) D/ IMVICT / AROMA - Busto di Roma, a destra, con elmo crestato e drappeggio. R/ La lupa, a sinistra, allatta i gemelli; sopra XL - Esergo non leggibile. 0 2,7; AE - Follis Zecca di Roma. 512-522 d.C. 46 47
D E A NGELIS D'O SSAT 1962, p. 138. STOPPIONI 199.3, pp. 107-112.
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ARSLAN 1978, p. 39, n. 52; B.M.C. Ost., pp. 104-105, nn. 24-28; ERCOLANI 1983, nn. 308-312. 2. ERACLIO (fig. 44, n. 2) D/ Eraclio stante frontale, con pendilia, corona sormontata da croce, in abito militare, calpesta col piede destro un nemico e si appoggia a lunga croce; a destra Eraclio Costantino, stante frontale, con corona sormontata da croce, e clamide, tiene globo crucigero. Tra loro, in alto, croce. R/ Segno di valore M nel campo; sopra, croce; sotto, ai lati A//N//N//O X//X//I. RAV. Ø 2,2; AE - Follis. Zecca di Ravenna. 630-631 d.C. D. Oaks, p. 376, n. 297a; MORRISSON, p. 313, n. 5; B.M.C. Byz., p. 248, n. 453; ERCOLANI 1983. 3. Piccolo bronzo illeggibile. Ø 0,5;AE. Il follis teodoriciano, di zecca romana, rientra nelle emissioni della serie pesante, cui anche le recenti revisioni48 riguardo alla produzione di nominali da parte ostrogota mantengono una anteriorità rispetto alla serie leggera. Il follis di Eraclio, che vede l'imperatore associato al figlio, testimonia la varietà di tipi iconografici adottati da questo imperatore, le cui emissioni tuttavia, per le difficoltà di carattere militare in cui versava l'Impero, si fecero abbondanti ma complessivamente affrettate dal punto di vista tecnico49. 48
ARSLAN 1989, pp. 17-72. E RCOLANI 1983, p. 36.
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L'esiguità del materiale numismatico non consente considerazioni sulla circolazione di questa età; va sottolineata però ancora una volta la stretta correlazione con l'area ravennate e le corrispondenze nei tipi documentati.
8. Altri materiali Sporadiche attestazioni di materiali appartenenti ad altre categorie sono rappresentate da: 1. un vago di collana in pasta vitrea di colore verde-azzurrognolo di forma sferica schiacciata, decorato da scanalature convergenti verso il foro; 2. una corniola di forma ovale molto bombata, probabile scarto di lavorazione. Vi si osserva infatti il tentativo di una decorazione a cerchielli incisi molto leggermente nella parte superiore, e un segno informe, che ha inciso abbastanza profonda mente la gemma, compromettendo la possibilità di procedere nella decorazione. La forma ne suggerisce la datazione alla tarda età romano-repubblicana o agli inizi dell'impero; 3. un frammento di situla bronzea (Fig. 43, n. 7) con orlo a piccola fascia inclinata all'esterno e all'interno, bordo molto assottigliato e doppia cordonatura lungo la parete; corpo cilindrico. MARIA LUISA STOPPIONI
9. Frammenti di arredo architettonico e altri materiali marmorei 9.1. Sono numerosi, fra il materiali rimessi in luce nello scavo del podere Mariona, i frammenti marmorei che presentano tracce di lavorazione; si tratta però, per lo più di frammenti di limitatissime dimensioni tali da non rendere possibile, nella maggior parte dei casi, il riconoscimento e la datazione50. Fra i materiali di più facile identificazione sono stati individuati tre gruppi sostanzialmente omogenei che possono essere attribuiti, grosso modo, all'età primo imperiale, alla tarda antichità e all'alto medioevo. I pezzi antichi, in numero assai limitato, vanno riferiti, come si verifica anche per i frammenti epigrafici (vedi infra), a materiali di riutilizzati per ottenere piastrelle pavimentali, pertanto con certezza non attribuibili ad elementi impiegati originariamente nel sito ove sorse la chiesa, poiché, come si chiarirà in seguito, non è da escludere che le piastrelle marmoree siano state recuperate da altri luoghi. A questo gruppo possono essere ascritti un frammento di cornice di lastra di marmo proconnesio in cui sono visibili due modanature a bassissimo rilievo, con spigolo sfondato, rilavorato per ottenerne una piastrella pavimentale, presumibilmente di forma ottagonale51 , un 50 Almeno dieci sono i frammenti, anche in marmi colorati come il 'giallo antico', il 'cipollino' e il 'pavonazzetto', che pur mostrando tracce di lavorazione non sono stati riconosciuti; sembrano, per lo più, brevi tratti di lastre terminanti con cornici (forse mensole). 51 Dim. cm 10 x cm 13; sp. cm 2.5. Marmo proconnesio. Sporadico. Il tipo di lavorazione pare potere riferire il frammento alla produzione di pieno I secolo.
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piccolo frammento di cornice di lastra di marmo bianco 52 ed un frammento di lastra di marmo bianco con tracce di decorazione vegetale53 . I pezzi tardoantichi devono essere riferiti, nella quasi totalità, ad elementi di arredo architettonico e liturgico e, sulla base dei confronti e del tipo di lavorazione, possono essere collocati cronologicamente nel VI secolo. Va segnalato, innanzitutto, un frammento di margine di lastra caratterizzato da una cornice costituita da un listello liscio seguito da una duplice modanatura a spigolo stondato54 ; il tipo di modanatura, che richiama, ad esempio, quella di alcuni plutei ravennati 55 potrebbe far propendere per l'attribuzione del frammento appunto a una lastra di recinzione, ipotesi con la quale non osterebbe lo spessore del pezzo. L'assenza di lisciatura sul retro, tuttavia, non consente una identificazione certa. Un piccolo frammento di colonnina56 (Fig. 45, n. 5), che presenta una terminazione a spigolo stondato, quasi del tutto priva di aggetto, e un listello liscio, può essere riferito a un pezzo con funzione di sostegno di un elemento di arredo liturgico sul tipo di alcune colonnine in blocco unico con capitello e pilastrino note in Ravenna57 ; con questa attribuzione non osterebbero le proporzioni del manufatto e in particolare il diametro vicino a quello delle citate colonnine da pergula ravennati (cm 22/24). Fra i materiali tardoantichi si può individuare anche un frammento in cui presumibilmente si può riconoscere un "fiorone" di abaco di capitello corinzio 58 (Fig. 45, n. 4). Il "fiorone", che per le dimensioni va riferito ad un manufatto di limitate dimensioni, pare richiamare il canonico elemento dei capitelli corinzi cosiddetti "a lira", tipologia scultorea di produzione principalmente costantinopolitana, la cui fabbricazione va collocata fra la seconda metà del V secolo e i primi decenni del secolo successivo59 , e che, come è noto, trova una significativa esemplificazione in Ravenna nei capitelli impiegati nella cappella palatina di Teoderico, ora S. Apollinare Nuovo 60 . Conclude l'esiguo numero di frammenti di questo gruppo un piccolo frammento angolare di cornice a cyma recta 61 il cui primitivo impiego non può essere precisato. I frammenti tardoantichi potrebbero essere riferiti alla primitiva fase di vita della chiesa, sono comunque troppo esigui per poterne trarre considerazioni circa l'arredo dell'edificio nella sua strutturazione primitiva. Più numerosi sono i frammenti riferibili a materiali altomedievali. Il pezzo più significativo è costituito da una piccola porzione del corpo di un pilastrino di marmo grigio 62 di forma parallelepipeda (Fig. 45, n. 7), 52
Il frammento mostra traccia di una modanatura a spigolo sfondato. Dim. cm 5 x cm 3; sp. cm 2. Sporadico. Difficilmente databile, viste le esigue dimensioni. 53 Dim. cm 7 x cm 9 ; sp. cm 2.5 . Sporadico. Non è possibile precisare la natura del motivo ornamentale, né, tanto meno, la datazione. 54 Retro sbozzato. Dimensioni cm 17 x cm 11; sp. cm 3.5. Marmo proconnesio. Dallo strato di riporto. 55 Ad esempio Corpus Ravenna III, n. 133, p. 72, tav. 126 a/ b: prima metà VI secolo. 56 Marmo proconnesio. Diam. cm 22. Sporadico. 57 II confronto più immediato può essere istituito con i due pilastri provenienti da S. Vitale, ora riutilizzati nel puteale di uno dei due chiostri francescani, cfr. Corpus Ravenna III, nn. 89-90, pp. 50-51, figg. 88, 89. 58 Dim. Largh. cm 6; h. cm 5. Marmo proconnesio. Sporadico. 59 Per una discussione circa la cronologia di questi capitelli vd. ora B ETSCH 1977, pp. 220-221. 60 Per i quali cfr. Corpus Ravenna III, n. 25, pp. 25-26, fig. 24. Altri capitelli dello stesso tipo sono attestati in Ravenna reimpiegati nelle ricostruzioni moderne delle chiese di S. Maria Maggiore (ibid., n. 27, p. 26, fig. 26) e S. Agata Maggiore (ibid., n. 26, p. 26, fig. 25); u n analogo capitello di dimensioni assai limitate, è conservato, inoltre, presso il locale Nuseo Nazionale (ibid., n. 28, p. 26, fig. 27). 61 Sp. cm 2.9; lungh. parziale cm 8. Marmo proconnesio. Sporadico. 62 Dim. cm 14.5 x cm 10.5; h. max. constata cm 29. Marmo grigio a cristalli medio-grandi.
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caratterizzato da una scanalatura larga circa cm 3 su entrambi i fianchi e da un motivo dato dal triplice intrecciarsi di un nastro a tre vimini ritagliato a spigolo vivo, collocato entro due listelli lisci, della larghezza di circa cm 2.5 sulla fronte. Il tipo di lavorazione e, soprattutto, il motivo decorativo particolarmente frequente in numerose varianti nella plastica altomedievale63, inducono a datare il pezzo al pieno IX secolo. Analoghi pilastrini sono noti in numerosi edifici di culto laziali64; fra i tanti confronti ritengo vadano segnalati per la resa assi vicina a quella del frammento in questione, in particolare quelli della chiesa abbaziale di Castel S. Elia65, della chiesa di S. Pietro di Tuscania66 e della chiesa di S. Maria della Rotonda di Albano Laziale (Roma)67. Al pezzo appena analizzato si devono aggiungere almeno altri cinque piccoli frammenti68 che per materiale e tipo di lavorazione, possono essere riferiti ad analoghi manufatti (Fig. 45, nn. 8-9). La diversa conformazione delle incorniciature esclude, comunque, l'ipotesi che i frammenti potessero far parte di uno stesso elemento. Grande interesse costituisce anche la piccola porzione in due frammenti di angolo di capitellino cubico69 in cui sono visibili, su due lati consecutivi, il tratto terminale di due volute combacianti costituite da una fettuccia aggettante, desinente in una ricca voluta, al di sotto delle quali è scavata a negativo una foglia liscia, di cui si conserva solo la sommità (Fig. 45, n. 6). Il capitellino cubico rappresenta l'estrema semplificazione altomedievale del capitello corinzio e i numerosi esemplari noti si caratterizzano, soprattutto, per la grande varietà di soluzioni decorative. Sovente in blocco unico con le colonnine, tali capitelli sono attestati in Italia centro-settentrionale da esemplari attribuibili ad un arco cronologico che va dal VII al IX secolo, con una forte concentrazione nei secoli VIII e IX. Il motivo decorativo del capitellino in questione, reso con estrema semplicità, trova confronto, oltre che in numerosi manufatti di area laziale70, nei capitellini provenienti dalla chiesa di S. Maria in Valle di Cividale71, di S. Marco di Luni (Sp)72, in un capitellino reimpiegato in un edificio moderno di Sirmione73 e nel pezzo in opera nella chiesa di S. Angelo a Martelliano di Cortona (Ar)74. In regione un confronto significativamente pertinente è dato da alcuni capitelli in opera nella pieve e nella cripta del duomo di S. Leo (Fo)75, mentre nell'ambito della scultura Strato di riporto. 63 In generale sulla questione C ASARTELLI N OVELLI 1976, pp. 103-113. 64 Vd. per un repertorio dei pezzi Seminario 1976, pp. 267-288; M ACCHIARELLA 1976, pp. 189-199. 65 Corpus VIII, pp. 146-147, tavv. CXVIII, 193-194, CXIX, 195-196: epoca di papa Gregorio IV (827-844). 63 Ibid., pp. 276-277, tav. CCLXX, 448-449. 67 M ARTORELLI 1988, p. 197, tav. II, 8. 68 Due frammenti h. cm 8 e cm 9, marmo grigio a cristalli medio-grandi, entrambi riproducenti un tratto di listello marginale e di treccia; porzione angolare, h. cm 7, marmo grigio a cristalli medio grandi, in cui, entro un listello liscio della larghezza di circa cm 1.5, sono visibili tracce di un motivo a tre vimini lavorati a spigolo vivo che seguono l'andamento dell'angolo; due frammenti, cm 6 x cm 6, sp. parziale cm 4.5 ca. e cm 3.5 x cm 8, sp. cm 5, con tracce di rifinitura marginale, nel primo caso costituita da una duplice modanatura a spigolo vivo.Tutti i frammenti sono sporadici. 69 H. parziale cm 14 ca. Marmo bianco a cristalli medi. Sporadico. 70 Si vedano, ad esempio, un capitellino dalla chiesa di S. Ippolito dell'Isola Sacra di Roma (T ESTINI 1971-1972, pp. 222-224, fig. 3) e i capitellini pertinenti alla chiesa di S. Maria della Rotonda di Albano Laziale (Roma) (M ARTORELLI 1988, p. 195, tav. I, 1-3: VIII secolo). 71 CorpusX, n. 363, pp. 243-244, tav. CXI, 363: primi decenni VIIII secolo. Ora il pezzo si trova nella II Sala del Museo Nazionale di Cividale. 72 V ERZONE 1945, p. 68, fig. 45. 73 LUSUARDI SIENA 1989, p. 119: IX secolo ?. 74 Corpus IX, n. Ili, pp. 123-124, tav. LXIX, 111: primi decenni IX secolo. 75 B UDRIESI 1984, pp. 98-101, fig. 46 p. 175 e per la cripta ibid., p. 100, fig. 18 p. 104.
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ravennate il pezzo si apparenta con il capitello di una colonnina reimpiegata in una polifora della chiesa di S. Pier Maggiore (S. Francesco)76, attribuibile all'VIII secolo. Alla produzione altomedievale va ascritto anche un piccolo frammento di calcare, forse attribuibile ad una cornice77 (Fig. 45, n. 10) caratterizzata da un motivo a volute contrapposte. Il motivo, incompleto, potrebbe essere riferito ad un fregio ad S affrontate, assai comune nella plastica dei secoli VIII-IX78. Nel gruppo di materiali altomedievali ritengo debbano essere inseriti anche quattro frammenti di calcare biancastro che recano su una delle facce, tracce di lavorazione di un nastro a tre vimini e che, seppure in modo dubitativo viste le limitate dimensioni, potrebbero avere fatto parte di un pilastrino79. I frammenti altomedievali, seppure in quantità assai limitata, potrebbero documentare un intervento di rinnovamento dell'edificio di culto cervese collocabile nei secoli VIII-IX. Tale intervento, visto il tipo di arredi di cui si è trovata traccia, dovrebbe avere interessato per lo meno le strutture dell'area presbiteriale, probabilmente con la costruzione di un nuovo ciborio e di un nuovo recinto. L'introduzione di nuovi cibori negli edifici di culto ravennati di V e VI secolo è abbondantemente attestata per i secoli VIII e X80; nella stessa area con minore frequenza è documentata per quei secoli, invece, la sostituzione dei recinti presbiteriali originari con strutture dotate di pilastrini di nuova fabbricazione, confacenti al gusto dell'epoca. In genere, infatti, nei casi meglio documentati di riallestimento della zona presbiteriale si può ipotizzare, sulla base delle testimonianze, il riutilizzo dei pilastrini e delle lastre pertinenti al primitivo recinto81; a conferma di quanto appena detto va rilevata la scarsissima quantità di pilastrini e lastre altomedievali presenti nelle chiese o nelle raccolte ravennati82. Va aggiunto, per concludere, che sono stati rimessi in luce anche cinque piccoli frammenti di colonne. Tutti si riferiscono a fusti lisci. Due pezzi 76
Corpus Ravenna III, n. 96, p. 52, fig. 94; ZANOTTO G ALLI 1994, n. 4, p. 593. Dim. cm 12 x cm 7; sp. cm 6. Sporadico. 78 La resa sommaria delle volute potrebbe accomunare il frammento con una porzione di cornice ora conservata presso il Museo Civico Archeologico di Forlimpopoli, attribuibile al pieno VIII secolo, vd. N OVARA 1993b, pp. 104-108 ed ivi ulteriori confronti. 79 II pezzo di maggiori dimensioni misura cm 5 di larghezza e cm 18 di h. e cm 10 di spessore; la faccia opposta a quella lavorata è liscia. Gli altri tre frammenti misurano rispettivamente, cm 2.5 x cm 4.5, sp. cm 10; cm 13.5 x cm 4.5, sp. cm 3; cm 5 x cm 8, sp. cm 3. 80 Per l'introduzione del ciborio nelle chiese ravennati vd. L AVERS 1971, pp. 131-215. 81 Si veda, ad esempio, il caso della ristrutturazione altomedievale della cattedrale di Ravenna in N OVARA 1993a, pp. 267-286. 82 Fra il materiale conservato nelle raccolte del Museo Nazionale di Ravenna edito, si possono contare meno di dieci pezzi, per lo più di ignota provenienza (pilastrino frammentario inv. n. 760, Corpus Ravenna III, n. 130, p. 68, fig. 123, VIII-IX secolo; Romanico, n. 7, p. 101, fig. 7: IX secolo; pilastrino frammentario inv. n. 761, Corpus Ravenna HI, n. 128, p. 67, fig. 121, VIII secolo; pilastrino con colonnina monoblocco inv. n. 757, Corpus Ravenna III, n. 126, pp. 66-67, fig. 119: VITI secolo; Romanico, n. 4, p. 100, fig. 4: IX secolo; pilastrino con colonnina monoblocco inv. n. 759, Corpus Ravenna III, n. 127, p. 67, fig. 120, VIII secolo; Romanico, n. 5, p. 100, fig. 5; cui si deve aggiungere un frammento di pilastrino reimpiegato per ottenerne un capitellino ora conservato presso il Museo Arci vescovile, Corpus Ravenna I, n. 50, pp. 46-47, fig. 50, VIII-IX secolo), con la sola eccezione per alcuni pezzi sicuramente provenienti dalla località di S. Pietro in Vincoli (pilastrino con colonnina monoblocco inv. n. 758, Corpus Ravenna IH, n. 129, p. 68, fig. 122, VIII-IX secolo; Romanico, n. 6, p. 101, fig. 6; generalmente viene indicato come pilastrino anche il pezzo inv. n. 822, Corpus Ravenna I, n. 48, p. 46, fig. 48, datato al VII secolo, nel quale si potrebbe intravedere piuttosto un architrave di porta o finestra, vista la presenza di una appendice lungo uno dei lati lunghi e la simmetria dei decori rispetto al motivo della pigna centrale che ne presupporrebbero un impiego in senso orizzontale, e per il quale si potrebbe anche ipotizzare una datazione più avanzata). La compilatrice delle schede del catalogo Romanico, G.Z. Zanichelli, pare ipotizzare che i pezzi da lei analizzati siano da riferire ad un unico edificio di culto, senza tuttavia tenere nella dovuta considerazione la notizia della provenienza di uno di quelli dalla località di S. Pietro in Vincoli. 77
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sono di calcare, uno di 'cipollino'83, uno di 'nero antico' e uno di marmo proconnesio. È stato possibile determinare il diametro di ogni singolo pezzo. Si tratta di colonne i cui fusti si aggiravano attorno ai cm 24/26 (frammenti di calcare e 'cipollino') o cm 11/13 (frammenti di 'nero antico' e proconnesio). È pertanto da escludere una funzione portante nelle strutture dell'edificio. La notizia relativa alla presenza di queste colonnine nella chiesa potrebbe costituire un indizio ulteriore a conferma dell'ipotesi della introduzione nella chiesa di arredi per i quali notoriamente si reimpiegavano colonnine di marmi pregiati di recupero84. 9.2. Anche se in misura limitata, fra il materiale rimesso in luce nell'ambito dello scavo del podere Mariona si sono rinvenuti altri frammenti di materiali marmorei di difficile attribuzione. Fra questi va messo in evidenza un frammento di elemento lavorato, caratterizzato da un bordo costituito da una modanatura a bassissimo rilievo e a spigolo stondato85. La frammentarietà del pezzo consente solo una ipotetica attribuzione ad un sarcofago, attribuzione che parrebbe avvalorata sia dalle massicce proporzioni e soprattutto, dallo spessore del pezzo che esclude l'ipotesi della lastra che dalla presenza di sbozzatura sul fondo. Il tipo di lavorazione pare potere riferire il frammento al pieno VI secolo. Sono stati rinvenuti, inoltre, due frammenti combaciami che facevano parte del fondo piano e di parte della parete leggermente ricurva di un recipiente marmoreo di ragguardevoli dimensioni, probabilmente un mortaio"*. Le dimensioni e la morfologia possono consentire di avvicinare il pezzo così ricostruito ad analoghi recipienti di forma troncoconica, con pareti leggermente arrotondate, documentati in numerosi contesti della regione entro un lasso di tempo che va dal I secolo a. C. al VI-VII secolo d. C.87.
10. Epigrafi I frammenti di epigrafi rinvenuti nello scavo del podere Mariona si riferiscono, con la sola eccezione per due piccoli elementi dubbi (nn. 10. 2 e 10. 4), a materiali di recupero ritagliati per ottenere piastrelle marmoree. 1. Frammento di estremità inferiore di lastra rifinita con cornice modanata, incavata. Resecato su tre lati; rifinita l'estremità inferiore; ritagliato per ottenerne una lastra pavimentale di cui non è possibile ricostruire la forma. Dimensioni cm 10 x cm 10; spess. cm 2.9. Marmo bianco venato. Sporadico.
83
Per la definizione dei vari tipi di marmo in questo paragrafo e nei paragrafi successivi si è fatto riferimento all'aggiornato Repertorio di schede in G NOLI -M ARCHEI-SIRONI 1992, pp. 131-302 al quale si devono aggiungere comunque, le considerazioni di L AZZARINI 1990, pp. 257-268. 84 Come documentano i numerosi esempi ravennati, spesso colonne di piccole dimensioni, in particolare se di marmi pregiati e colorati, come nel nostro caso i pezzi di 'cipollino' e 'nero antico', vennero utilizzati nella tarda antichità e soprattutto nell'alto medioevo per arredi di culto, ed in partico lare per i cibori. Vd. L AVRRS 1971, pp. 131-215. 85 Dim. cm 20 x cm 10; profondità max. rilevabile cm 16. Marmo. Sporadico. 86 Diam. fondo cm 13; sp. pareti cm 3.5. Marmo bianco a cristalli di media grandezza. Dalla US 38. 87 Cfr. ad esempio il mortaio frammentario rinvenuto in superficie in località Podere Ca' Nova presso Voghenza (Fé) (C ORNELIO C ASSAI 1985, n. 11, p. 51, tav. XI, 11 : contesto di fine I secolo a. C.-II secolo d. C.) e i numerosi esemplari rimessi in luce nell'ambito degli scavi del sito di Classe (Ra) (M INGUZZI 1983, nn. 15.3, 15.4, 15.7, p. 179).
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Lungo l'estremità inferiore del frammento corre una modanatura incavata, a spigolo stondato. Nel tratto di specchio epigrafico conservatosi sono visibili le estremità inferiori di due lettere (-NT- ?), disposte sullo stesso rigo, la cui altezza può essere ricostruita attorno ai cm 2.5/3 ca. Il carattere delle lettere potrebbe indurre a datare il frammento, presumibilmente pertinente ad una stele funeraria, entro il II secolo d. C. 2. Piccolo frammento di lastra iscritta. Resecato su tutti i lati in modo irregolare; faccia posteriore non rifinita. Dim. cm 4.5 x cm 4 ca; sp. cm 2. Marmo bianco venato. Sporadico. (Fig. 45, n. 1) II frammento costituisce un piccolo tratto di specchio epigrafico di una lastra iscritta, recante tracce di lettere disposte su due righi distanti fra loro circa cm 1.5. Le lettere, di cui è individuabile solo parte di una -P-, potrebbero avere avuto una altezza di circa cm 2. 5. Il carattere rimanda a una datazione e a una attribuzione analoga a quella del frammento della scheda precedente. 3. Piccolo frammento di lastra iscritta. Riutilizzato per una piastrella pavimentale a forma di trapezio isoscele; uno dei lati è resecato in modo irregolare. Dim. cm 9 x cm 6.5; sp. cm 2.5. Marmo bianco a cristalli medi. Sporadico. (Fig. 45, n. 3) II frammento costituisce un piccolo tratto di specchio epigrafico di un elemento marmoreo di cui non è precisabile la natura, vistane l'estrema frammentarietà. E' visibile un breve tratto di lettera (-C- ?), la cui altezza dovrebbe ricostruirsi attor no ai cm 8. Il ductus della lettera induce a datare il pezzo al I secolo d. C. 4. Piccolo frammento di marmo con traccia di epigrafe. Dim. cm 7 x cm 3. Marmo bianco venato. Sporadico. Il frammento, di proporzioni veramente esigue, mostra un tratto di lettera, probabilmente una -C-, la cui altezza dovrebbe ricostruirsi attorno ai cm 8. Il ductus induce a datare il pezzo al I secolo d. C. 5. Piccolo frammento di lastra iscritta. Riutilizzato per ottenerne una piastrella pavimentale di cui non è possibile intuire la forma. Dim. cm 7 x cm 7; sp. cm 2.3. Marmo bianco venato. Sporadico. (Fig. 45, n. 2) II frammento costituisce un breve tratto di specchio epigrafico di un elemento marmoreo non bene identificabile. Vi si distingue nettamente una lettera -E- incisa con un solco netto, con sezione a "V", la cui altezza dovrebbe aggirarsi attorno ai cm 7.5/8. Per il tipo di ductus il frammento potrebbe riferirsi al I secolo.
11. Opus sectile 11.1. Fra il materiale marmoreo rimesso in luce nell'ambito dello scavo del podere Mariona, una grande quantità di pezzi è costituita da elementi originariamente impiegati nella realizzazione di pannelli di rivestimento parietale. Innanzitutto sono presenti numerosissime crustae di porfido e di 'serpentino', con tagli mistilinei (Fig. 46, nn. 1-32; Tav. IV, 3). Queste erano impiegate per formare i motivi decorativi dei pannelli parietali o, meno frequentemente, per formare grandi specchiature e rotae che, quando non erano costituite da un unico pezzo, erano ottenute giustapponendo tante tessere di varie forme e grandezze a mo' di mosaico88. Si sono rimesse in luce, poi, crustae il cui impiego va riferito ai motivi decorativi più minuti, quali, ad esempio, 88 Questo tipo di lavorazione è stato riscontrato ad esempio, anche nelle tarsie della domus ostiense fuori Porta Marina (BECATTI 1969, p. 73) e in quelle della basilica Eufrasiana di Parenzo. Tale uso era legato probabilmente dalla difficoltà di lavorazione di questi due porfidi, particolarmente duri, ma presumibilmente anche da una questione di tipo economico che tendeva ad economizzare su materiali come questi, particolarmente costosi, impiegando anche i ritagli.
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quelli delle bordature o dei rifasci di delimitazione a carattere geometrico soprattutto pelte - o floreale e quelli dei motivi a spiromeandro per i quali erano necessarie tessere di forme particolari e dimensioni inferiori, ritagliate con cura. Gli spessori delle lastrine di porfido e 'serpentino' intere e frammentarie, dei vari tipi esaminati, vanno da un minimo di cm 0.5 ad un massimo di cm 2.4, con un forte addensamento attorno ai cm 0.5/1.2. In particolare le piccole crustae con tagli mistilinei si aggirano sui cm 0.5/1.3. Il porfido ed il 'serpentino' sono presenti, inoltre, in listelli di varia lunghezza il cui impiego ritengo fosse legato sempre ai fregi interni delle specchiature, anche se non è da escludere un uso nelle incorniciature. I listelli sono di larghezza varia, da un minimo di cm 0.9 ad un massimo di cm 3.7, e di spessore oscillante fra i cm 0.5 e i cm 2.4, con un addensamento attorno ai cm 0.8/1.7. Si affiancano alle crustae in porfido e 'serpentino' alcune crustae in marmi chiari, talvolta brecciati ('giallo antico', 'giallo antico brecciato', bianco, 'cipollino'), le cui principali forme sono quelle quadrata (con lato di cm 2.5/2.8 e cm 3.6/3.8) (Fig. 46, nn. 38, 39), quella triangolare - anche se in merito all'impiego di queste tessere sussistono numerosi dubbi, vedi infra -, quella triangolare con lati curvilinei (Fig. 46, nn. 36, 41), quella semilunata, quella rettangolare con un lato corto arcuato (Fig. 46, b. 40) e quella a forma di piccolo petalo (Fig. 46, n. 37). Gli spessori di queste tessere vanno da un minimo di cm 0.4 ad un massimo di cm 1.6, con un addensamento attorno ai cm 0.9/1.5. Alle articolate decorazioni delle specchiature si riferiscono, a mio avviso, anche i listelli della larghezza di cm 0.7/0.9 in 'rosso antico', proconnesio e calcare, il cui impiego, sulla base dei confronti, era limitato alla profilatura dei fregi dei pannelli. Forse la stessa funzione era riservata ai listelli in 'rosso antico' e marmo bianco della larghezza di cm 1.2/1.3. I listelli impiegati per delimitare le specchiature sono in genere di mar mi di colori tenuti, talvolta brecciati, solo in pochi casi non riconoscibili8'; vi si possono riscontrare il proconnesio, i marmi bianchi di varia natura, com presi i bianchi brecciati, il bigio, il 'giallo antico' e il 'giallo antico brecciato', il 'pavonazzetto'; l 'africano', presente peraltro in buona quantità, è il solo marmo in un colore a tonalità intensa. La larghezza dei listelli varia da un minimo di cm 1.7 ad un massimo di cm 7.6, ma non si riscontra la prevalenza di una pezzatura particolare. Gli spessori oscillano da un minimo di cm 0.7 ad un massimo di cm 3.2, con una netta prevalenza dei frammenti spessi cm 0.8/1.7. I listelli interi sono segmenti di modesta lunghezza (oscillante entro i cm 7.5 e i cm 13.5), spesso rifiniti ad una sola o entrambe le estremità con taglio obliquo. Presenti, anche se in numero non eccessivo, sono inoltre, i frammenti di tondino (Fig. 46, nn. 42-47). Sono frammenti di modesta lunghezza, spezzati generalmente ai margini, e rifiniti con un toro liscio, spessi da un minimo di cm 1.2 ad un massimo di cm 2.4. Sono per lo più di marmo bianco venato, verosimilmente proconnesio, con la sola eccezione per due frammenti in 'africano' e 'giallo antico'. II materiale rinvenuto può essere riferito a pannelli di rivestimento parietale rientranti in un filone abbondantemente documentato, a partire dalla fine III inizi IV secolo, con esemplificazioni in particolare a Roma90 e a 89 I marmi non riconosciuti sono due. Si tratta di un marmo bianco brecciato che non escludere, comunque, potersi riferire ad una particolare venatura di "pavonazzetto" ed un marmo a base nera con clasti polìcromi che per ora non trova confronto nei più noti repertori di catalogazione delle pietre antiche. 90 Il più antico esempio documentato in Roma e a noi noto attraverso le descrizioni di Antonio
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Salonicco91, e attestato principalmente in Roma nei secoli IV e V92 e nelle aree artisticamente ad essa legate93. Si tratta di un tipo di ornato solitamente articolato in pannelli rettangolari, delimitati da una cornice formata da uno o più listelli di marmi e larghezze vari, le cui specchiature si presentano variamente strutturate e caratterizzate dal contrasto cromatico dato dall'impiego quasi assoluto dei porfidi rosso e verde ('serpentino'), con l'aggiunta di 'giallo antico', 'pavonazzetto' e raramente altri marmi in tonalità chiare. Gli ornati dei pannelli, che attingevano ad un repertorio decorativo molto vasto, generalmente erano articolati in tabulae rettangolari includenti una losanga o uno scutum, a volte caricato da una rota monocromatica, oppure includenti semplici specchiature rettangolari o rotae cui si aggiungevano altri fregi. Ad esempio le rotae, solitamente in porfido rosso, erano contornate o dal caratteristico fregio a spiromeandro o da motivi a girali floreali, oppure potevano essere inserite assieme ad altri motivi geometrici, di solito triangoli, all'interno dello scudo o negli spazi di risulta. Questo gusto ebbe un nuovo vigore nel VI secolo e soprattutto nell'edilizia di culto costantinopolitana, come attestano i pannelli conservati in opera nella chiesa di S. Sofia94, cui si deve aggiungere il fortunato caso del da Sangallo il Giovane (Firenze, Uffizi, Gabinetto disegni a stampa, A. 896) e dell'Ugonio (U GONIO , «Città di Roma», c . 1 1 6v) e, soprattutto, grazie ad un disegno oggi conservato alla Kunstbibliothek di Berlino (Hdz. 4151, e. 7v) (per una riproduzione vd. KELLY 1987, tav. 130, p. 544), è costituito dal rivestimento posto in opera nell'ambito della ristrutturazione della curia operata in età dioclezianea (285-305), vd. in generale K ELLY 1987, p. 76. 91 Un piccolo frammento probabilmente pertinente ad un siffatto pannello è stato rimesso in luce negli scavi eseguiti all'interno della Rotonda di Galerio all'inizio di questo secolo (vd. H ÉBRARD 1920, p. 36) e pubblicato dalla A SSIMAKOPOULOU A TZAKA 1980, pp. 68-69, figg. 17, a, e. Mancando dati stratigrafici nell'edizione di scavo, sussistono ancora molti dubbi circa la precisa datazione del pezzo se cioè da riferire alla primitiva fondazione o ad una fase strutturale successiva, soprattutto alla luce della più recente interpretazione data circa le varie fasi di vita dell'edificio, secondo la quale alla prima fase costruttiva dell'epoca di Galerio sarebbe segu ita la conversione all'epoca di T eodosio I e u na totale ristrutturazione successiva ad un evento catastrofico (probabilmente uno dei due terremoti del 480 e del 518) nei primi anni del VI secolo, ristrutturazione alla quale sarebbe da riferire anche la posa in opera di un nuovo apparato di rivestimento parietale (vd. T ORP 1991, pp. 13-28). Su basi stilistiche la Kelly ha attribuito il frammento all'epoca di Galerio (K ELLY 1987, p. 76), invece la Assimak opoulou Atzaka, all'epoca della conversione dell'edifico in chiesa che, secondo la letteratura archeologica anteriore le indagini del Torp utilizzata dalla stu diosa, dovrebbe essere attribuita al regno di T eodosio il Grande (379-395) (ASSIMAKOPOULOU A TZAKA 1980, p. 69). 92 Vanno ricordati, a tale riguardo, i pannelli in opera nelle pareti della navata centrale della chiesa di S. Sabina, consacrata da papa Sisto III (432-440) (ASSIMAKOPOULOU ATZAKA 1980, p. 92; KELLY 1987, n. 42, pp. 263-264) e quelli frammentati rimessi in lu ce nell'atrio del battistero lateranense (per il ritrovamento G IOVENALE 1929, pp. 122, 130-132; in generale A SSIMAKOPOULOU A TZAKA 1980, p. 77; K F. LLY 1987, n. 43, pp. 265-266) che, sulla base della interpretazione della cronologia del sito date da ultimo dal Pelliccioni (ma non sempre condivise dalla critica, vd. ad esempio C ECCHELLI 1990, pp. 4647), dovrebbero essere attribuiti, se realmente pertinenti alla prima fase di vita dell'atrio, ad un periodo contenuto entro l'ultimo venticinquennio del V secolo e l'intero VI secolo (P ELLICCIONI 1973, pp. 9395). A questi esempi ancora in situ si aggiungano i numerosissimi pannelli scomparsi e a noi noti at traverso disegni d'epoca, qu ali ad esem pio, qu elli del ta m bu ro del mau soleo di C osta ntina (noti attraverso nove disegni anteriori al distacco dell'apparato decorativo avvenuto nel 1620 per ordine del cardinale Fabrizio Varalli, per i quali vd. S TERN 1958, pp. 209 -212; A M ADIO 1986, nn. 3, 4, 6, 12, 14, 19, 20, 21, pp. 24-51; in generale sull'ornato K ELLY 1987, n. 37, pp. 253 -256) e quelli, ancora di difficile datazione, esistenti nella cappella di S. Croce nel complesso del Laterano (distrutti nel 1588 quando la cappella venne atterrata per volontà di papa Sisto V e a noi noti attraverso alcu ni disegni anteriori, vd. in generale K E LLY 1987, n. 44, pp. 267-268) e nella chiesa dei Ss. Cosina e Damiano (asportati, secondo quanto attestato da Pirro Ligorio, nell'ambito dei grandi lavori di ristrutturazione promossi da papa Pio IV, 1560-1565 e a noi noti attraverso le descrizioni e soprattutto u n disegno dello stesso Ligorio, BVAT, Cod. Vat. Lat. 3439, e. 13; in generale sull'apparato decorativo vd. APOLLONJ G HETTI 1974, pp. 14-16; K ELLY 1987, n. 35, pp. 244-247). In generale su qu esto gu sto in Roma vd. G UIDOBALDI 1990, pp. 64-65. 93 Pannelli frammentari con analoghi disegni geometrici sono stati rimessi in luce nelle superstiti murature dell'abside della tricora che terminava la basilica nuova, costruita attorno agli anni 400-403 per volontà di S. Paolino presso la memoria eretta sulla tomba del martire Felice a Cimitile (Na) (T ESTINI 1978, p. 174). 94 In generale sul rivestimento della chiesa di S. Sofia vd. KLEINERT 1979, pp. 7-44; ASSIMAKOPOULOU A TZAKA 1980, pp. 97-102; K HLLY 1987, pp. 154-190 e n. 75, pp. 311-319, figg. 244-314.
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rivestimento ancora intatto dell'abside della basilica di Parenzo95. In Ravenna il caso più precoce attestato è quello delle tarsie del battistero metropolitano, solitamente attribuite alla metà del V secolo96 , ma il gusto per questo tipo di rivestimenti è principalmente documentato nella seconda metà del VI secolo come dimostrerebbero i pannelli che si sono voluti riconoscere come originariamente pertinenti al rivestimento dell'abside della basilica di S. Vitale97 e i resti rimessi in luce nelle basiliche di S. Agata Maggiore98 e di S. Severo99. 11. 2. Accanto alle forme sicuramente riconducibili alle incrostazioni parietali, va rilevata la presenza di tessere la cui destinazione non è ben chiara. In particolare mi riferisco alle tessere di forma triangolare di altezza inferiore ai cm 4 / 5 (Fig. 47, nn. 43, 44, 47, 48) (quelle superiori a tale pezzature dovrebbero essere ascritte senza problemi esclusivamente ai pavimenti). Le limitate dimensioni, e soprattutto lo spessore, farebbero propendere per un impiego parietale, tuttavia il rinvenimento di alcuni pezzi ancora caratterizzati da uno spesso strato di cocciopesto lungo i margini - secondo caratteristiche riscontrate esclusivamente per le piastrelle pavimentali - possono indurre a ritenere le tessere, pur se di tale pezzatura, attribuibili all'opera pavi95
TERRY 1986, pp. 147-164. 1 pannelli oggi visibili entro le archeggiature pensili del piano terreno sono frutto di un massiccio intervento restaurativo operato fra il 1897 e il 1914 dall'Opificio delle Pietre Dure di Firenze sulla base delle scarsissime tracce che restavano del rivestimento primitivo; va precisato, quindi, che l'inquadramento del rivestimento del battistero ravennate entro il filone in questione non si basa sull'analisi dei pannelli ancora esistenti ma sulle tracce degli ornati originali riscontrate sui disegni d'epoca poiché i pannelli che oggi vediamo costituiscono solo l'interpretazione il più possibile vicina a quella che doveva essere la stesura originale dell'ornato, ottenuta quasi integralmente con materiali nuovi e basata sui resti e sulle fonti documentarie, sulla cui veridicità già al tempo dei lavori si sollevarono molte obiezioni; sui restauri vd. IANNUCCI 1984, pp. 317-318; BERTELLI 1990, pp. 212-224. Pure sulla datazione primitiva dei pannelli e sulla loro originaria collocazione sussistono ancora seri dubbi. 97 Anche il rivestimento oggi presente nell'abside della chiesa di S. Vitale è frutto di un restauro operato fra il 1898 e il 1904 dall'Opificio delle Pietre Dure di Firenze sotto la direzione di Corrado Ricci (BENCIVENNI-MAZZEI 1982, pp. 215-225; LOMBARDINI 1991-1992, pp. 93-99; BERTELLI 1992, pp. 216-227); a differenza di quanto era accaduto per il battistero metropolitano, per il quale i pochi resti in posto e le fonti scritte avevano potuto offrire indicazioni di massima almeno sulla scansione dell'ornato e sui principali motivi decorativi, l'intervento in S. Vitale partiva dall'individuazione di due pannelli in opus sectile, già pesantemente manomessi dal Lanciani, e di quattro pilastrini con capitello, come facenti parte del primitivo ornato absidale ma sulla cui effettiva appartenenza alla decorazione dell'abside (e in generale della chiesa) non vi era assoluta certezza; a queste difficoltà si aggiungeva una lettura forzata dei pochi accenni documentari imposta dal Ricci e voluta, più che altro, per contrastare le numerose voci di dissenso che si alzavano da parte dei collaboratori e dei locali cultori di storia, suoi detrattori. Sussistono quindi molti dubbi circa la reale strutturazione dei singoli pannelli e circa la loro dislocazione entro la fascia decorativa. 98 1 materiali rinvenuti nell'ambito degli scavi condotti nel 1985 (vd. Russo 1987-1988, pp. 32-33, fig. 15; ID. 1989, pp. 2330-2331) e che Eugenio Russo ha datato alla seconda metà del VI secolo, erano localizzati nell'area presbiteriale e si riferiscono principalmente a listelli di incorniciatura di larghezze varie (cm 1.9/ 2.2; 2.6; 3.7/ 4.0; 4.6/ 5.0; 5.5/ 5.6) in 'pavonazzetto', 'verde antico', bigio, bianco, bianchi venati, porfido e soprattutto 'serpentino'. In 'serpentino' sono documentate, inoltre, crustae lavorate con tagli mistilinei da attribuirsi agli ornati dei pannelli (Russo 1989, fig. 8 in basso a sinistra); sono documentate anche tessere con tagli a losanga (ibid., nota 36, p. 2330, n. 2), quadrangolari (ibid., nn. 5,7; Russo 1987 1988, nota 45, pp. 32-33, n. 38) e triangolari (ID. 19871988, nota 45, pp. 32-33, nn. 14, 19, 27, 34; ID. 1989, nota 36, p. 2330, n. 3;). 99 I materiali sono ancora in corso di studio. Si può precisare che anche fra il materiale rimesso in luce nel sito della chiesa di S. Severo vi era una abbondante quantità di listelli e piccole crustae mistilinee di porfido rosso e 'serpentino' ritagliate con cura, spesse da un minimo di cm 0.75 ad un massimo di cm 1.7, con un forte addensamento attorno ai cm 0.8/ 1.2; i listelli, spesso frammentari (per cui risulta difficile stabilirne l'originaria lunghezza), sono larghi da un minimo di cm 0.9 ad un massimo di cm 6, e di spessore oscillante fra i cm 0.8 e i cm 2.2 con un addensamento intorno ai cm 0.8/1.5; sono attestati, inoltre, listelli ottenuti con marmi di colori tenui (giallo di Numidia brecciato, 'pavonazzetto', bianco, proconnesio), talvolta leggermente sagomati, larghi da un minimo di cm 1.4 ad un massimo di cm 5.3 e spessi cm 1.2/ 3.0; rarissimi sono i frammenti di listelli di "rosso antico', generalmente da riferire a pezzi di larghezza assai limitata (cm 0.8). Numerosi sono, infine, i frammenti da riferire a grandi lastre di porfido o 'serpentino': si tratta di pezzi di limitate dimensioni di spessore oscillante fra i cm 0.6 e cm 3.0. 96
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mentale. Anche la rifinitura di alcune delle tessere rimesse in luce, con sbozzatura lungo i lati, e lo spessore delle stesse, possono avvalorare tale conclusione che comunque resta una ipotesi perché non comprovata dal ritrovamento di alcun lacerto pavimentale che ne attesti il sicuro impiego. È probabile che i pezzi di maggiore spessore fossero pavimentali e quelli di spessore inferiore ai cm 1.5 pertinenti ai sectilia parietali100. 11. 3. Diversamente da quanto si può affermare per le tarsie parietali, facilmente collocabili entro un filone artistico e culturale, gli elementi pertinenti all'opus sectile pavimentale, rimessi in luce in grande quantità nel corso delle due campagne di scavo del podere Mariona per lo più nello strato di riporto che copriva l'intera area di scavo, presentano non poche difficoltà interpretative. Il maggior numero di piastrelle è costituita da tessere triangolari (Fig. 47). Le piastrelle triangolari equilatere (totale 45 pezzi), le cui dimensioni vanno da un minimo di cm 5.1 ad un massimo di cm 10.5 di altezza, con una concentrazione maggiore delle pezzature h. cm 7.5, lato cm 8.5 (7 pezzi), h. cm 8.5, lato cm 9 (8 pezzi), h. cm 9, lato cm 10 (17 pezzi), sono prevalentemente in 'nero antico'; in quantità minore sono presenti il proconnesio, il 'pavonazzetto' e il 'giallo antico'. Particolare interesse rivestono, in questo gruppo di manufatti, due piastrelle in cotto (dim. h. cm 9, lato cm 10). Alle formelle triangolari equilatere si aggiunge un consistente gruppo di piastrelle con tagli isosceli e scaleni (totale 82 pezzi) di dimensioni e forme assai varie, fra le quali annoveriamo per comodità di esposizione anche quelle che solo dubitativamente possono essere inserite fra i materiali pavimentali (vd. le considerazioni supra). In genere per ogni forma e/o pezzatura gli esemplari raccolti non superano le quattro unità, con la sola eccezione per il triangolo isoscele schiacciato cm h. cm 6.5 e base cm 13 rappresentato da 11 pezzi. In questi casi il marmo maggiormente rappresentato è il "pavonazzetto"; in misura minore sono piastrelle di proconnesio, bianco venato, 'nero antico', 'giallo antico', pochissime sono di porfido, 'serpentino' e 'africano'. Meno consistente il gruppo delle piastrelle esagonali (10 pezzi), presenti con esemplari in 'nero antico' in cinque diverse pezzature (lato cm 7; cm 7.5; cm 8.5; cm 10; cm 13) (Fig. 48, nn. 1-3, 6, 7) e delle piastrelle romboidali (10 pezzi), anche in questo caso esclusivamente in 'nero antico' in tre pezzature (h. cm 12; cm 21; cm 24) (Fig. 48, nn. 8-10). In numero inferiore sono, poi, le piastrelle quadrate (3 pezzi con lato di cm 10; cm 13.5; cm 14, in 'nero antico' e bianco) (Fig. 48, nn. 4-5). A questo gruppo di piastrelle di forme regolari si aggiungono infine, alcuni esemplari (totale 18 pezzi, di cui alcuni frammentari) con tagli più complessi (Fig. 48, nn. 11-22). Prevale ancora una volta l'impiego di 'pavonazzetto', seguito dal proconnesio, dal 'giallo antico', dall' 'africano' e dal bianco venato. Anche in questo caso risulta talvolta particolarmente difficile riferire con sicurezza la formella ad un uso sicuramente pavimentale. Le dimensioni e le forme della maggioranza delle piastrelle farebbero propendere per un uso in una stesura pavimentale di tipo geometrico a piccolo e/o medio modulo, secondo la definizione codificata da Guidobaldi. Tale tipo di lastricati, la cui area di diffusione pare possa essere individuata, fra il IV e il pieno VI secolo, in tutto l'arco microasiatico, greco, illirico101 ed 100 Anche se questo criterio di classificazione (come nota O RTOLANI 1992, p. 36) non risulta sempre valido in assoluto. 101 Per una analisi dei siti interessati da questo tipo di pavimentazioni nelle regioni citate e per
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altoadriatico 102, con tarde influenze anche in area romana mutuate direttamente dall'oriente greco103, ebbe manifestazioni pressoché analoghe con poche varianti date più che altro dall'integrazione di componenti locali. In genere i motivi decorativi erano numericamente molto limitati e la varietà era data non tanto dalla articolazione di piastrelle di varie forme e dimensioni in complessi motivi geometrici, quanto piuttosto dall'uso di piastrelle della stessa forma ma di dimensioni diverse disposte, pur se in modo semplice, secondo articolazioni diverse, dal contrasto cromatico e dalla diversa scansione dell'intera stesura in pannelli di dimensioni diverse104. In Ravenna, accanto ai noti esempi di pavimentazioni in sectilia geometrici a piccolo e medio modulo documentati in edifici di età onoriano-placidiana105, sono scarsissime le attestazioni di pavimenti di tale tipo, e in genere in opus sectile, per i periodi teodericiano e bizantino, con l'eccezione rappresentata dai lacerti di dubbia datazione rinvenuti nel palazzo imperiale, caratterizzati da un motivo a grande modulo a redazione reticolare, nel quale si fa uso anche di porfido e 'serpentino'106. A questo esempio si devono aggiungere, per il periodo teodericiano, una sintesi circa le principali caratteristiche di tali lastricati cfr. G UIGLIA G UIDOBAI.DI 1984b, pp. 161-166. 102 Un catalogo delle pavimentazioni in sectile a piccolo e medio modulo dell'Italia centro settentrionale non è ancora stato redatto. Il più consistente gruppo di tessellati di tale tipo è documentato a Milano e in Lombardia per un periodo che va dalla seconda metà del IV secolo alla prima metà del VI secolo, al riguardo cfr. B ARRAL I A LTET 1975, pp. 277-278; D AVID 1980-1981, pp. 186-190; G UIDOBALDIG UIGLIA G UIDOBAI.DI 1983, p. 312-327; LAVIZZARI PEDRAZZINI 1990, p. 148; per un aggiornamento circa alcuni dei più noti lastricati milanesi cfr. Milano capitale, pp. 107-110; 114; 119-120; 143 (schede compilate da S. Lusuardi Siena e M. David). Va inoltre ricordato che siffatte pavimentazioni sono note anche a Grado (Go) nella chiesa di S. Maria delle Grazie (B ERTACCHI 1980, p. 294: VI secolo; successivamente è stata proposta la datazione alla seconda metà del V secolo in G UIDOBALDI-G UICLIA G UIDOBALDI 1983, nota 622, p. 324; G UIGLIA G UIDOBALDI 1984a, nota 14, p. 512, già in precedenza accreditata sulla base della cronologia delle fasi di vita dell'edifico di culto). 103 C HIGLIA G UIDOBALDI 1984a, pp. 505-513. 104 Sulle caratteristiche comuni di questo gruppo di lastricati cfr. G UIDOBALDI-G UIGI.IA G UIDOBALDI 1983, pp. 321-327. 105 Pavimenti in sectile sono stati rimessi in luce nell'abside della basilica di S. Giovanni Evange lista (vd. N OVARA PIOLANTI 1995), nella chiesa di S. Croce (vd. G ELICHI-N OVARA PIOLANTI 1995) e nell'an nesso sacello generalmente denominato mausoleo di Galla Placidia (L ANGIANI 1866, p. 74) e si ritiene che fossero anche nel primitivo Apostoleion (così F ARIOLI 1975a, p. 107; nell'ambito di alcuni scavi svoltisi all'interno della chiesa di S. Francesco, ricostruita nel medio evo sull'atterrato Apostoleion, sono state rimesse in luce, negli strati di deposito, piastrelle che possono confermare la presenza di un primi tivo lastricato marmoreo, vd. M AZZOTTI 1974, p. 227; le relazioni di scavo non offrono, tuttavia, alcun ragguaglio circa la quantità e la forma delle piastrelle, né sui tipi di marmi impiegati). Sulla base della testimonianza diretta di chi potè assistere allo scavo eseguito nel 1743 e di un disegno eseguito nel corso dello stesso scavo, si ritiene che anche la primitiva cattedrale, costruita nei primi anni del V secolo, fosse pavimentata in parte con stesure in opus sectile (F ARIOU 1975a, p. 83; E ADF .M 1978, p. 285); anche il battistero metropolitano doveva presentare in origine un pavimento marmoreo, secondo quanto riscon trato dal Lanciani nel corso di uno scavo eseguito nel secolo scorso (L ANCIANI 1871, pp. 7-8); resta da chiarire se la stesura sia da attribuire alla fase ursiana 0 a quella neoniana dell'edificio. Altri vani dell'episcopio, oggi scomparsi, dovevano essere pavimentati in origine con stesure marmoree, come documentato dalle fonti, vd. ad esempio la domus quinque accubìta in Liber pontificalis, Vita Neonis, XVIII, 29, ed. cit. p. 292 e sulla questione D EICHMANN 1975, p. 98. 106 Lacerti di pavimenti marmorei sono stati rimessi in luce nell'aula absidata e in alcuni vani contigui. La più interessante stesura è quella che, sulla base dei dati di scavo, va riferita ad un ampliamento dell'aula absidata che portò la stanza da struttura quadrangolare ad ampio vano rettangolare con profonda abside rivolta a nord; questa ci è nota attraverso alcuni avanzi distaccati all'epoca dello scavo (ora conservati nell’antiquarium allestito al piano superiore della chiesa di S. Salvatore ad calchi) e, soprattutto, grazie ad un disegno eseguito da Alessandro Azzaroni che illustra l'originaria collocazione dei lacerti e la strutturazione del sottofondo di cocciopesto sul quale vennero rimessi in luce pezzi di ceramica disposti a raggiera per l'appoggio delle piastrelle marmoree. Lo schema reticolare, a elementi semplice, rientra, per le dimensioni, nel grande modulo; vennero impiegati Chiampo verde, brecce verdi, 'giallo antico', 'pavonazzetto', porfido e 'serpentino'. Questi ultimi due marmi furono utilizzati esclusivamente sotto forma di sottili listelli di definizione dei motivi decorativi contenuti entro le partiture reticolari. In generale vd. B ERTI 1976, n. 65, pp. 83-84, tav. LIV, 65 e per lo schema decorativo G UIDOBALDI 1985, p. 176, fig. 1, d. Circa la datazione sussistono ancora seri dubbi: la Berti (BERTI 1976, p. 84) lo attribuisce al VI secolo, suppongo, anche se non viene specificato nel testo, alla fase ristrutturativa teodericiana, e così fa anche Deichmann che segue, sostanzialmente, la datazione della Berti (D EICHMANN 1989, p. 64); diversamente si dichiara Federico Guidobaldi che inserisce il pavimento nella produzione onoriana (G UIDOBALDI 1985, p. 176). La datazione delle varie fasi di vita della struttura, non
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le notizie relative alla presenza di altri lastricati marmorei in edifici commissionati dal sovrano goto, anche se al riguardo la documentazione non è del tutto esaustiva107, e la problematica pavimentazione della coeva cappella di S. Andrea108. Per le piastrelle rimesse in luce nell'area di scavo cervese va rilevato, come si è già detto, l'estrema varietà di forme e dimensioni. Accanto alle piastrelle di forme, pezzature e materiali vicini ai tipi maggiormente in uso per i pavimenti in tarsie a piccolo modulo, ad esempio gli esagoni, i triangoli equilateri, i rombi, i rettangoli, ecc. che farebbero propendere per una posa in opera secondo motivi a "esagoni e triangoli"109, "esagoni, quadrati e triangoli"110, "esagoni e rombi"111, sono frequenti, ma non in uguale misura, anche piastrelle di forme che possono ricondurre a tarsie a medio modulo, ed in particolare a modulo quadrato composto secondo il motivo semplice a quadrati inscritti diagonalmente, in redazione più o meno sviluppata112, e soprattutto piastrelle di forme irregolari, anche di notevoli dimensioni, con tagli talvolta mistilinei che farebbero propendere, in alcuni casi, per un impiego in stesure a grande modulo, con motivi complessi, che trovano difficilmente confronto in pavimenti noti nella tarda antichità. II solo frammento rinvenuto che rechi ancora alcune piastrelle compopotendosi basare su una rigorosa indagine stratigrafica - non eseguita nell'ambito degli scavi condotti nel 1909/1912 - è affidata, per quanto riguarda la cronologia relativa, alla analogia stilistica e iconografica dei lacerti musivi e, per quanto concerne la cronologia assoluta, svii confronto con altri mosaici noti, datati con precisione. Sulla base dei dati di scavo l'aula absidata nella quale si sviluppava il pavimento in questione, dovrebbe essere riferita agli interventi teodericiani (GHIRARDINI 1917, col. 822; BERTI 1976, p. 24; n. 65, pp. 83-84). 107 La presenza di un pavimento marmoreo nella cappella palatina (odierna S. Apollinare Nuovo), che pare attestata dalla sommaria descrizione della chiesa offerta da Andrea Agnello (Liber pontifìcalis, Vita Agnelli, XXV11, 87, ed. cit. p. 335), sembra sia da confermare sulla base delle indagini condotte dal Gerola agli inizi del secolo; un saggio aperto fra la porta della navatella sud e l'attiguo pilone, che permise di raggiungere la quota d'uso primitiva, ha consentito di rimettere in luce un breve tratto di sottofondo di cocciopesto (GEROLA 1916, p. 7) e numerose piastrelle marmoree pavimentali fra il materiale di riporto (ibid., nota 8 p. 7); purtroppo di questi reperti non vi è traccia nei magazzini del Museo Nazionale di Ravenna. Indagini condotte dal Gerola e dal Mazzotti hanno accertato la presenza di un pavimento marmoreo anche nel battistero della cattedrale ariana; nei settori indagati dal Gerola agli inizi del secolo, vennero rimessi in luce brevi tratti di cocciopesto che recavano ancora «le impronte delle lastre marmoree rettangolari» (GEROLA 1923, p. 113); Mario Mazzotti, che potè vedere l'intera area pavimentale, conferma la presenza delle impronte di «lastre di marmo greco» nei lacerti di cocciopesto superstite (MAZZOTTI 1970b, p. 118), ma avanza l'ipotesi che il pavimento non fosse da attribuire alla primitiva fase di vita dell'edificio sia per la presenza, nell'absidiola nord, di tessere musive pavimentali (ibid., p. 122), sia perché al di sotto del lastricato in questione vennero rimesse in luce numerose sepolture la cui posa dovette provocare il taglio del pavimento (ibid.); alla luce di tali constatazioni Mazzotti suppose, dunque, che il pavimento originario fosse in mosaico e che solo successivamente e solo parzialmente, fosse sostituito da una stesura a lastre marmoree, principalmente in quei tratti interessati dall'escavazione delle fosse per la deposizione delle sepolture (ibid., p. 123). Anche il vano superiore del mausoleo di Teoderico doveva presentare in origine un pavimento in lastre marmoree di cui resta un piccolissimo avanzo in situ, costituito da una lastra rettangolare di proconnesio, affiancata da tre lastrine di «pietra» verde e rossa, vd. HEIDENREICH-JOHANNES 1971, p. 50, fig. 55; pure le fonti paiono accertare la presenza di un pavimento marmoreo nel mausoleo: «un bel pavimento a intarsio» fu visto da F. J. Deseine nel 1699 (DESEINE 1699, I, p. 281); in generale su queste fonti NOVARA 1995a, pp. 554-555. 108 In genere il pavimento della cappella di S. Andrea viene ritenuto coevo all'allestimento della stessa cappella, avvenuta all'epoca del vescovo Pietro II, così DEICHMANN 1974, pp. 201-202; FARIOLI 1978, pp. 286-287; tuttavia il confronto di alcuni elementi della stesura con quelli dei lacerti ora presenti nel pavimento della cattedrale e che potrebbero essere attribuiti ad una fase pavimentale medievale, dovrebbero indurre a ritenere anche la pavimentazione del vano un prodotto medievale. Già chi si è interessato del pavimento ha notato come l'ornato fosse anomalo rispetto al gruppo di pavimenti di V e VI secolo, anzi queste anomalie sono state ritenute come una novità rispetto al repertorio ravennate, sviluppatesi poi nella produzione medievale locale e altoadriatica (vd. ad esempio FARIOLI CAMPANATI 1993, p. 482 e per le anomalie DEICHMANN 1974, p. 201). 109 GUIDOBALDI 1985, p. 202. 110 Ibid., pp. 202-203. 111 Ibid., p. 213 (piccolo modulo). 112 GUIDOBALDI -GUIGLIA GUIDOBALDI 1983, pp. 62-63, 84, 181; GUIDOBALDI 1985, pp. 182-192.
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ste sul sottofondo di cocciopesto è di dimensioni assai limitate e conserva poche piastrelle per potere essere certi del riconoscimento del motivo decorativo. Il lacerto, tagliato intenzionalmente lungo uno dei margini, presenta tre formelle113(Figg. 45, n. 11 e 49) la cui collocazione si potrebbe riferire ad una stesura a "quadrati e losanghe adiacenti"114, uno schema raramente documentato nella produzione di pavimenti in settile di I e II secolo "' e sconosciuto nella produzione successiva, anche in quella medievale. Lo scavo non ha offerto nessun elemento per potere collocare dal punto di vista sia logistico, sia cronologico l'eventuale impiego di tappeti in tarsie, infatti i lacerti pavimentali rimessi in luce in situ non suppongono nessun 113 Una triangolare di 'nero' base cm 4, h. cm 3, una romboidale di 'nero' largh. cm 7, lato cm 7.2, una forse originariamente rettangolare (?) di 'pavonazzetto' con un lato di cm 7 ed un lato sicura mente superiore ai cm 8.5. Dim. totale frammento cm 17 x cm 10. 114 Per lo schema vd. Répertoire, n. 389, p. 74; per il motivo decorativo presente nei pavimenti marmorei vd. GUIDOBALDI 1985, p. 211, che lo ricollega a quello più frequente, a cubi prospettici. 115 Un pannello recante questo ornato è documentato in una domus pompeiana (domus Cornelia, VIII, 4, 15) dove risulta reimpiegato in associazione ad altri frammenti in gran parte di età augustea (GUIDOBALDI 1985, p. 211, tav. 16, 1; Id. 1994, p. 224, nota 2); a Roma il motivo è documentato in un pannello di un vano di Villa Adriana (ibid., n. 169, pp. 223-224) e in un pavimento rinvenuto presso l'abside della chiesa di S. Lorenzo in Panisperna (ibid., p. 224).
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intervento in opus sectile, a meno che i tratti in marmo non affiancassero i pannelli musivi e/o caratterizzassero luoghi di particolare importanza della chiesa, e in particolare il presbiterio e l'abside, secondo un uso frequentemente attestato nelle chiese orientali, che parrebbe documentato anche in alcune chiese ravennati di VI secolo quali S. Vitale116 e S. Agata Maggiore117 e forse pure nella basilica eufrasiana di Parenzo118. Tale ipotesi comunque, non può essere provata in alcun modo perché la struttura presbiteriale, il cui piano d'uso doveva essere ad una quota superiore rispetto a quella del restante pavimento, ipoteticamente localizzabile nello spazio privo di pavimentazione contenuto fra i pannelli musivi (Fig. 10), era già stata completamente asportata al momento dell'intervento di scavo. Il tipo di piastrelle analizzate mi sembra possa escludere l'ipotesi che l'opus sectile fosse impiegato solo per i rifasci dei pannelli a mosaico. Si sono rinvenuti pezzi di una tale varietà di dimensioni e fatture da non potere assolutamente giustificare un simile impiego. L'uso nei rifasci implicherebbe, infatti, un numero relativamente limitato di motivi decorativi; inoltre i lacerti musivi rimessi in luce paiono non necessitare l'uso di rifasci. Le piastrelle marmoree potrebbero anche essere riferite ad un pavimento successivo alla primitiva fase di vita dell'edificio, ed in particolare ad un ipotetico intervento restaurativo altomedievale che, come si è detto, potrebbe essere documentato anche dal materiale scultoreo rinvenuto nell'area di scavo. Pavimenti marmorei altomedievali sono attestati, anche se in numero limitato, in Italia settentrionale e in area romana. In Italia settentrionale sono documentate alcune pavimentazioni di VIII-IX secolo assai vicine al già citato gusto per la stesura a piccolo e medio modulo, diffuso nel V-VI secolo1", mentre in Roma numerose chiese attestano in età carolingia, un nuovo gusto incentrato sull'uso di stesure di tessere quadrangolari in marmi e porfidi di colori a contrasto (principalmente nei due porfidi rosso e verde cosiddetto 'serpentino'), disposte a scacchiera, arricchite dalla presenza di rotae porfiretiche 120. In Ravenna e in genere nel territorio esarcale, i pavimenti marmorei sono molto rari fra il VI e l'XI secolo, e solo nell'XI-XII secolo si assiste ad un rifiorire del gusto per l’opus sectile pavimentale l21 . 116 Per quanto riguarda la pavimentazione del presbiterio e dell'abside di S. Vitale sappiamo ben poco. Icilio Bocci informa che nello scavo eseguito nell'area absidale nel mese di marzo del 1900 si riscontrò che il pavimento primitivo era interamente a mosaico con la sola eccezione per una fascia di delimitazione che seguiva l'andamento del coro, larga circa m 1, in opus alexandrinum (Bocci 1903, p. 55); di questi ritrovamenti restano alcuni disegni di Alessandro Azzaroni (vd. D EICHMANN 1976, p. 201, figg. 103-105). Nell'ambito degli scavi dell'area presbiteriale condotti Bartoccini negli anni '30 del secolo, vennero trovate tracce della presenza nel pavimento, di una grande rota marmorea, vd. B ARTOCCINI 1932, p. 150, fig. alla p. 149. 1117 Così pare potersi dedurre da quanto espresso in Russo 1987-1988, p. 40; lo. 1989, p. 2340. 1118 L'assetto attuale del presbiterio della basilica è stato dato nell'ambito dei restauri del 1937, che restituirono il piano alla quota originaria, rialzata nel 1233 dal vescovo Adalpero; in quella occasio ne venne estesa una pavimentazione a commesso irregolare (M OLAJOLI 1940, p. 50) ad imitazione di quella primitiva, di cui furono scoperte alcune tracce (ibid.). 1119 Si vedano, in particolare, il pavimento della chiesa di S. Maria foris portas di Castel Seprio (Va) datato recentemente nella seconda metà dell'VIII secolo (C REMA 1950, pp. 194-198 e per la data zione le analisi in SIBILIA 1988, p. 8 1 ) , e quello della chiesctta di S. Maria in Valle a Cividale del Friuli (Ud) (L'Orange-TORP 1977, pp. 46-52). 120 Vd. al riguardo M C C LENDON 1980, pp. 157-165. 1 21 È verosimile che il rifiorire di questo gusto in area ravennate-esarcale sia da legare ad influssi esterni da individuare dapprima nella produzione mediobizantina e successivamente in quella altoadriatica che ebbe come principale centro Venezia. Uno dei più precoci esempi di pavimentazioni settili medievali è da individuare nel settore pavimentale antistante l'altare nella navata centrale della chiesa abbaziale di Pomposa, datato al 1026 da una iscrizione; ad opinione della Farioli, che ha condotto in
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Gli scavi archeologici hanno attestato, in Ravenna, la presenza di pavimenti marmorei altomedievali solo nelle chiese di S. Croce e di S. Severo. In entrambi i casi le pavimentazioni sono ottenute giustapponendo, senza un preciso ordine, piastrelle di recupero. Nel caso della chiesa di S. Croce tale pavimentazione, che è stata rintracciata per due brevi tratti, probabilmente occupava l'intera area ecclesiale122; in S. Severo, invece, il lastricato pare fosse limitato alla sola zona del bema123. La grande varietà di forme e dimensioni riscontrata nel materiale rimesso in luce nell'area di scavo di Cervia, che implicherebbe la presenza nella chiesa di diverse decine di pannelli con motivi l'uno differente dall'altro, non esclude l'ipotesi parallela che le piastrelle non fossero poste in opera secondo un motivo decorativo ben preciso, ma in una stesura che impiegava materiali di provenienza eterogenea, disposti casualmente. In tal senso l'ipotetica stesura pavimentale troverebbe un confronto nei due lastricati documentati nelle chiese ravennati di S. Croce e di S. Severo. P AOLA N OV AR A
materia i più puntuali ed aggiornati studi, nel pavimento pomposiano sarebbe da individuare un diretto influsso orientale (FARIOLI C AMPANATI 1986, p. 170; E ADEM 1993, p. 482). Alla corrente decorativa altoadriatica, sviluppatasi nel XII secolo soprattutto a Venezia e nelle aree limitrofe (per la quale vd. BARRAL I A LTET 1985, passim), vanno verosimilmente ascritti, in Ravenna, i pavimenti medievali della cattedrale (di cui sono stati individuati alcuni pannelli riutilizzati nel pavimento attualmente in uso, vd. N OVARA 1993 C , pp. 331-350; E ADEM 1995b, pp. 551-560, probabilmente ascrivibili alla stessa fase di rinnovamento in cui furono realizzati anche i mosaici absidali datati al 1112), della chiesa di S. Croce (di cui si è rimessa in luce una piccola porzione nel corso di alcune campagne di scavo svoltesi sul finire degli anni '80, vd. G ELICHI-N OVARA PIOLANTI 1995, probabilmente ascrivibile ad una fase di restauro dell'edificio databile agli anni immediatamente successivi alla metà del XII secolo) e di quella di S. Vittore (visibili un tempo nella chiesa oggi scomparsa e a noi noti attraverso alcune foto d'epoca, vd. K IRILOVA K IROVA 1973, p. 73, figg. 4, 8, di cui non è precisabile la cronologia) e, in Pomposa, il pannello prospiciente l'ingresso della chiesa abbaziale, da riferire ad un restauro del complesso commissionato dall'abate Giovanni Vidor nel 1150 (S ALM I 1936, pp. 131-133; S TERN 1968, p. 158). 122 Vd. G ELICHI-N OVARA PIOLANTI 1995. Sulla base dei dati di scavo la realizzazione del pavimento deve essere collocata fra il VII e il X secolo. 123 B ERMOND M ONTANARI 1968, p. 22, figg. 11-12. Il lacerto pavimentale è attribuito dalla stessa all'VIII-IX secolo.
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