RICONOSCERE LA DEPRESSIONE E PREVENIRLA di Elio Blancato e Ivan Blancato ************************* I grandi eventi della...
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RICONOSCERE LA DEPRESSIONE E PREVENIRLA di Elio Blancato e Ivan Blancato ************************* I grandi eventi della storia mondiale sono, in fondo, profondamente insignificanti. La cosa fondamentale è la vita dell’individuo: solo qui avvengono le vere grandi trasformazioni.
Carl Gustav Jung ***************************
INDICE Introduzione I LA DEPRESSIONE Dati sconfortanti -- La stirpe di Adamo -- L’altalena delle emozioni -Fisiologia delle emozioni. II L’UMORE La funzione dell’umore -- L’umore disturbato -- Il barometro della vita. III MANIA E DEPRESSIONE Gli stati maniacali -- Un cammino pieno d’insidie -- Gli eterni incompresi -- I segni esteriori della malattia. IV VERSO LA DEPRESSIONE Una malattia multiforme -- Le sindromi nevrotiche -- Le psiconevrosi -La nevrosi ansioso-depressiva -- La sindrome da somatizzazione. V LA NEGAZIONE DELLA VITA I sapori della vita -- L’assenza di emozioni -- La sede della tristezza. VI LE FACCE DELLA DEPRESSIONE Terapia o prevenzione? - Le sindromi psicotiche -- Le variabili della personalità -- Le depressioni secondarie. VII I SEGNALI DELLA DEPRESSIONE Un’informazione poco trasparente -- Classificazione dei disturbi depressivi -- La Depressione Maggiore. VIII LA DISTIMIA Criteri diagnostici generali -- La Distimia -- Una malattia sociale -Emozioni senza slancio. IX LA TRISTEZZA STAGIONALE Il ruolo del sonno - I ritmi biologici -- Il Disturbo Affettivo Stagionale.
X I DISTURBI BIPOLARI Euforici, ma depressi -- L’ipotesi genetica. XI LE SINDROMI DEPRESSIVE MINORI Sempre più depressi -- La Depressione infantile -- La Depressione adolescenziale -- La Depressione “sotto soglia” -- La Depressione puerperale o post partum -- La sindrome da tensione premestruale. XII SCOPRIRSI DEPRESSI Una molteplicità di cause -- Le cause ereditarie -- Le ipotesi neurologiche -- Le ipotesi biochimiche -- L’ipotesi virale -- Stress e cause psicologiche. XIII CONSIGLI PER LA PREVENZIONE La forza plasmatrice della sofferenza - Normalità e adattamento -- La prevenzione in campo medico -- La prevenzione delle sindromi depressive - Abitudini da abbandonare -- Abitudini da coltivare -- Per i giovani -Il suicidio: la faccia tragica della depressione -- Per gli adulti -- Per gli anziani. APPENDICE Glossario Indirizzi utili Bibliografia ********* INTRODUZIONE Da tutti i più recenti convegni di psichiatria infantile è emerso un identico allarmante dato: la continua crescita del numero di bambini che soffrono di disturbi psichiatrici e, più in particolare, di depressione. Il quadro che emerge dagli studi e dalle relazioni presentate in questi convegni è davvero inquietante. Oggi, i disturbi psichiatrici presenti nell’infanzia e nell’adolescenza interessano il 20% della popolazione giovanile, mentre fra quindici anni, nel 2020, coinvolgeranno un minore su due. È desolante pensare che andiamo nello spazio, che costruiamo tecnologie avanzatissime, i computer più sofisticati, e poi vedere che abbiamo perso per strada la capacità di rendere migliore e più serena la vita dei nostri figli. Che mondo stiamo costruendo se psichiatri e psicoterapeuti si vedono ogni giorno portare bambini di 6 o 7 anni che hanno le stesse patologie degli adulti e che soffrono, in maniera pressoché cronica, d’insonnia, di rabbia e di malinconia? Come saranno questi bambini da adulti? Possiamo immaginarlo. Le statistiche ci dicono che nove ragazzini su centomila non vedranno mai l’età adulta perché prima di superare il 24e anno di età si saranno già tolti la vita, mentre altri mille, pur avendo cercato d’imitarli, saranno per fortuna ancora vivi. Ma, che vita avranno? La morte ci ha sempre fatto paura. Da quando siamo nati ci hanno insegnato a ignorarla, a occultarla, a non parlarne quasi non esistesse, fino al momento in cui compare imperiosamente davanti a noi alimentando i nostri pensieri, le nostre paure e tutta la nostra fragilità. La cronaca
italiana ripropone ogni giorno in modo drammatico, attraverso una serie incredibile di suicidi “singoli” e anche “allargati”, il problema della depressione in ogni fascia d’età. L’elenco, assai incompleto, è davvero spaventoso. Giulia, una quattordicenne di Nanto (Vicenza), si è impiccata a un albero perché non andava bene a scuola. Anche Elena, un’altra quattordicenne di Chiuro (Sondrio), ha fatto la stessa fine gettandosi da un ponte per gli stessi problemi. A Segrate (Milano), Beatrice, alla vigilia del suo quindicesimo compleanno, si è buttata giù dall’ottavo piano della sua abitazione perché la vita che conduceva non la soddisfaceva. A Palermo, uno studente sedicenne ha deciso di uccidersi per una delusione d’amore e così si è lanciato da una finestra della scuola che frequentava insieme alla sua morosa. A Firenze, Nadia e Simone -- due fidanzati di 19 e 20 anni -- si sono fatti straziare, strettamente abbracciati, dalle ruote di un treno sulla linea ferroviaria per Pisa. A Brescia, un trentenne aiuto regista si è buttato dal quarto piano di un albergo, sotto gli occhi atterriti della convivente, incinta di sette mesi. A Bangkok, in Thailandia, Andrea, un quarantacinquenne ex pilota dell’Alitalia, si è ucciso lanciandosi senza paracadute da un aereo da turismo dopo aver saputo che la malattia che lo affliggeva era incurabile. Ambrogio, un quarantottenne perito informatico di Monza, depresso per aver perso il lavoro, ha costruito una cassa e si è chiuso dentro lasciandosi morire d’inedia. Maria Nunzia, una maestra torinese di 54 anni da poco in pensione, si è tolta la vita nel bagno di casa tagliandosi la giugulare. Giovanna e Gaetano, due coniugi spezzini di 62 e di 65 anni, hanno deciso di morire insieme gettandosi con l’auto in mare. Giovanna era malata da tempo e aveva ormai pochi mesi di vita. Il marito non ha avuto cuore di restare solo ed è andato via con lei. Queste penose vicende fanno ben capire quanto sia difficile il confronto con se stessi e con la vita. Età diverse, culture diverse, ragioni diverse, ma un’unica grande insopportabile sofferenza: la fatica di vivere. Situazioni ancora più dolorose e strazianti sono gl’infanticidi ad opera di genitori depressi. In questi momenti di lacerante follia si perde completamente il contatto con la realtà e si giunge a considerare il figlio come parte integrante di sé, come un’appendice che non può essere tolta e da cui non ci si deve separare. Così, se si stabilisce che la vita non vale la pena d’essere vissuta, si estende questa decisione anche ai figli, che vengono coinvolti nel progetto suicidario con l’intento di sottrarli agli orrori del mondo. È quanto avrà pensato Rosa, la madre trentanovenne di Volpiano (Torino), che ha ucciso a coltellate la figlioletta Nausica di quattro anni e poi ha rivolto il coltello contro di sé lacerandosi l’addome. Alla stessa conclusione deve essere giunto Michele, un operaio edile quarantaseienne di Pollutri (Chieti), quando, angosciato per aver perso il lavoro, ha stretto a sé la figlia più piccola e si è lanciato con lei nel vuoto. Quando si perde il contatto con la realtà, la morte non fa più paura e appare come l’unica via di fuga da un’esistenza divenuta insopportabile. E così la si guarda in faccia senza timore, con sollievo, forse con gioia, e la si abbraccia come si dovrebbe abbracciare la vita. Non c’è una regola condivisa per queste tragedie. Il suicidio “singolo” può essere emulativo, quello “allargato” no. C’è chi uccide i propri figli mentre dormono e poi si suicida. Chi li porta in riva al lago e poi, tenendoli per mano, li fa annegare. Chi li soffoca con un sacchetto di cellophane. Chi li strangola con una calza di nylon. Chi preferisce la
simultaneità dell’atto e conclude la vita insieme a loro. Chi, invece, vuole assicurarsi della loro sorte prima di pensare a sé. Giuliana, una donna napoletana di 27 anni, sofferente di depressione post partum, ha ucciso il figlio Vincenzo di 6 mesi gettandolo giù da una finestra di casa. Carmela, una trentacinquenne siciliana da tempo in cura per la depressione, si è tolta la vita con i due figli di quattro e cinque anni lanciandosi con l’auto nelle acque del porto di Messina. Eugenio, un milanese di 44 anni separato e disoccupato, ha ucciso il figlio Nitai di 6 anni soffocandolo con un cuscino, e poi ha cercato di seguirlo tagliandosi le vene dei polsi. Loretta, una trentunenne di Santa Caterina Valfurva (Sondrio) -- in cura da alcuni mesi presso un’Asl valtellinese per depressione post partum - ha ucciso la figlia di otto mesi lasciandola annegare nella lavatrice. Anna, una maestra trentaseienne di Castel di Sasso (Caserta), si è uccisa insieme alle sue tre figlie di sei, due e un anno, saturando l’abitacolo dell’autovettura con i gas di scarico. Anche Anna soffriva di depressione ed era in cura da anni. Inutile sottolineare che la causa di questi “suicidi allargati” è sempre stata la depressione. Molte di queste persone erano in cura da anni, ma non per questo sono riuscite a evitare la tragedia; altre si curavano da pochi mesi; altre ancora credevano di farcela da sole. Ma, c’è il dramma nel dramma. Le statistiche dicono che l’80% dei genitori infanticidi, se sopravvive, ritenta poi il suicidio nei 10 anni successivi l’evento, e metà di essi riesce a realizzarlo. Succede, infatti, che quando si supera la fase acuta della malattia e ci si rende conto di ciò che si è fatto, il peso di una colpa così grande travolge anche l’istinto di conservazione e spinge l’infanticida a chiudere definitivamente la partita con la vita. Che cosa si può fare per evitare simili tragedie? Prevenzione. “Prevenire una malattia è sempre meglio che curarla”. Questa affermazione è tanto più vera quanto più ci si riferisce alla depressione che è una patologia ciclica grave, complessa, difficile da curare per i suoi multiformi aspetti e per la sua imprevedibilità. Riconoscerla precocemente significa non soltanto sottrarsi ad anni e anni di cure, di delusioni, di ricadute, ma anche evitare una delle esperienze più penose della vita, con tutto il suo carico di sofferenza e di tragicità. Se nel libro Depressione. A ciascuno la sua cura abbiamo esplorato tutte le possibili strade terapeutiche -- convenzionali e non -- per curare la malattia, con questo nuovo saggio ci proponiamo di far conoscere la depressione nei suoi aspetti più peculiari, per poterla individuare prima che essa compaia. Chi sta sviluppando la depressione dà inevitabilmente qualche segnale della malattia, perché ha già in sé tracce visibili di quella sofferenza che muove l’anima nella direzione della rinuncia e dell’oscurità. Qualche lieve disturbo del sonno, inappetenza o, viceversa, eccessivo appetito, la voglia di appartarsi, di restare soli, lunghi silenzi, apatia, malinconia, irritabilità, sono questi alcuni dei segni anticipatori più comuni che genitori, insegnanti e familiari dovrebbero saper cogliere e valutare in termini di durata e di intensità. La depressione non fa sconti a nessuno e si pone sul nostro cammino per avvertirci che c’è qualcosa in noi che non va, e che è giunto il momento di capire, di cambiare e di crescere. Per facilitare il riconoscimento dei prodromi della malattia e delle conseguenti azioni di prevenzione da realizzare, si è ritenuto opportuno far riferimento a tre distinte categorie -- Giovani, Adulti,
Anziani -- che permettono al lettore un’immediata identificazione delle misure da adottare in relazione alle proprie specifiche necessità. In Italia, sperare in una prevenzione istituzionalizzata della depressione è un’utopia. Poche persone ne parlano; pochissime, anche tra gli “addetti ai lavori”, fanno concretamente qualcosa per sollecitare un’azione in tal senso. Perché nessuno dei cattedratici che hanno scritto volumi sulla depressione, ha mai trattato il problema della prevenzione? Per opportunismo? Per superficialità? Per dimenticanza? Esiste obiettivamente qualche difficoltà, ma non tale da giustificare una resa così incondizionata. Forse hanno ritenuto opportuno ignorare il problema e sigillarlo dietro un comodo ”Non si può!”, anziché impegnarsi in un’opera d’informazione preventiva che poteva risultare sgradita alle case farmaceutiche e poco vantaggiosa anche per la loro professione. Chissà! Per quel che ci riguarda, non avendo interessi da difendere, abbiamo deciso di affrontare l’argomento della prevenzione con l’intento di offrire a tutti coloro che credono in essa uno strumento efficace per conoscerla meglio e per poterla attuare. Poche semplici e chiare indicazioni saranno le tracce che aiuteranno il lettore a capire come muoversi in questa direzione. Gli Autori *********** I
LA DEPRESSIONE
“Ero talmente depresso che ho preso una pistola, l’ho caricata e me la sono infilata in bocca per farla finita”. E ciò che racconta Kirk Douglas, in un suo libro autobiografico, quando parla della depressione che lo ha colpito qualche anno fa, a seguito di un ictus. “È imbarazzante parlarne -- continua l’attore americano -- anche perché per mesi sono stato a malapena capace di balbettare...” “Ma -- aggiunge - il suicidio è un atto di grandissima stupidità e di egoismo. Purtroppo quando sei depresso non pensi agli altri, non t’importa più di nulla”. Chi non è riuscito a fermarsi in tempo è stato Jacques Mayol, il noto subacqueo francese, che, l’antivigilia di Natale del 2001, all’età di 74 anni, ha posto fine a una vita intensa e ricca di successi, impiccandosi nella sua casa di Calone nell’isola d’Elba. Il “Signore degli abissi” -- così era chiamato per essere stato il primo, nel 1976, a infrangere in apnea il muro dei cento metri di profondità -- soffriva da tempo di depressione ed era in cura da un famoso psichiatra, ma ciò non è bastato a salvargli la vita. Lontano dall’affetto dei suoi cari, solo, stanco, con l’anima ormai spenta, non è riuscito a trovare la forza necessaria per riemergere dal baratro della malattia e così si è ucciso. Lui -- uomo forte, saldo di nervi, senza paura -- che aveva sfidato con successo i profondi recessi del mare, non è riuscito a salvarsi dall’unico vero abisso della vita. La stessa tragica sorte è toccata, nel 2004, a Gabriella Ferri, famosa cantante romana, e a Marco Pantani, simbolo dell’Italia sportiva che ama i pedali, ucciso da un cocktail micidiale di psicofarmaci e cocaina. Qualche nome illustre per introdurre un problema che coinvolge più di 400 milioni di persone nei Paesi industrializzati del mondo, ma di cui ancora oggi si sa troppo poco. Non ci sono dati certi, ma si calcola che in Italia più di quattro milioni di persone siano afflitte da depressione
nelle sue forme più gravi, con una netta prevalenza delle donne rispetto agli uomini. La situazione più preoccupante riguarda però i bambini e gli adolescenti che, nel nostro Paese, rappresentano circa un settimo di tutti i depressi e raggiungono globalmente la quota del 14%.
Dati sconfortanti Ma, che cos’è la depressione? La depressione è una malattia ciclica grave e complessa, che di solito non guarisce, ma che si esaurisce spontaneamente anche senza nessuna cura, rimanendo però latente nella mente della persona, per poi ripresentarsi a distanza di sei mesi, un anno o anche dieci, se nel frattempo non sono state individuate e risolte le cause che l’hanno generata. Per queste sue caratteristiche, la depressione è una delle poche malattie in costante aumento non soltanto in Italia, ma anche in Europa e in America, dove si registrano dati assai simili ai nostri. È opinione diffusa che nel ricco Occidente industrializzato il 35% della popolazione sperimenti nel corso della vita almeno un episodio di questa “grave, corrosiva malinconia” che cancella il sorriso e la voglia di vivere. Allarmanti anche le previsioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che, dopo aver rilevato un raddoppio dei casi negli ultimi quarant’anni, prevede che entro tre lustri la depressione sarà la malattia più diffusa sul Pianeta, superando persino le patologie cardiovascolari. Sempre l’OMS ha denunciato che un buon 50% dei casi di depressione non viene diagnosticato come tale perché una parte dei medici curanti non è in grado di riconoscerla, anche se i disturbi che produce la rendono spesso più invalidante di tante altre malattie come artrosi, ipertensione e diabete. Il dato più inquietante, quello che dovrebbe far riflettere tutti, è che poco meno della metà (il 43% circa) di coloro cui è stata diagnosticata la malattia tenta prima o poi il suicidio, e un terzo di essi -- quasi il 15% dei malati totali -- riesce a realizzarlo. Questi pochi dati fanno capire come la depressione non debba mai essere sottovalutata sia per le inabilità che produce, sia per i suoi esiti frequentemente funesti. Il primo vero passo, lo sforzo che occorre fare è renderla visibile a tutti, educando le persone a riconoscerla, ad accettarla per quella che è, senza nasconderla né a se stessi né agli altri, quasi fosse una colpa o qualcosa di umiliante di cui vergognarsi. Parallelamente, altrettanta conoscenza e vigilanza dovrebbe esserci da parte di tutti coloro che operano in ambito sanitario, e in particolare da parte dei medici di base, cui spetta il difficile compito di diagnosticarla precocemente e di farla correttamente curare.
La stirpe di Adamo La depressione è una malattia che affonda le sue radici nella storia dell’umanità e più in particolare in quel complesso e variegato universo che sono le emozioni. Nell’antichità era già nota presso i medici egizi che la consideravano una sorta di “afflizione morbosa” causata da qualche strano maleficio.
Nel quinto secolo a.C. Ippocrate ne smitizzò la genesi e la strappò dal terreno della magia riconducendola a quello della patologia. Ippocrate era greco, contemporaneo di Sofocle e poco più anziano di Platone. Veniva dall’isola di Kos, nelle Sporadi, ma viveva nell’Atene di Pericle, di Fidia e dei grandi tragici. In questa società illuminata abbandonò non soltanto la medicina magica e rituale del passato, ma anche quella sacra e sacerdotale del suo tempo per fondare una “medicina più razionale”, basata sull’analisi dei sintomi, sulla sintesi delle conoscenze e sulla deduzione del trattamento. Con Ippocrate la malattia perde ogni connotazione magica e viene recepita come la rottura di un equilibrio preesistente, e quindi come ostacolo a una nuova condizione di benessere. Ragionando sulla “oscura malattia dell’anima” Ippocrate pensò di chiamarla “melanconia”, ossia bile nera, vocabolo che deriva dall’unione di due parole melan “nero” e cholos “bile” e che esprime bene quella condizione di assenza di luce e di gioia di vita. Secondo la sua “teoria umorale”, nell’organismo umano coesistono quattro diversi umori - sangue, muco, bile gialla e bile nera -- la cui armonica mescolanza (eucrasia) determina un equilibrio che s’identifica con lo stato di salute (crasia), mentre la rottura di questo equilibrio (discrasia) dà origine alla malattia. Ora il depresso era una persona malata perché aveva nel suo corpo un eccesso di produzione di bile nera che andava ad alterare il rapporto d’equilibrio con gli altri umori. Il Maestro di Kos aveva intuito bene. Oggi sappiamo che l’eccessiva presenza di certi ormoni (in particolare quelli dello stress) determina una riduzione di alcune sostanze oppiodi naturali (endorfine) e di diversi mediatori chimici (serotonina, dopamina) che sono i garanti del buonumore Se questo equilibrio ormonale si rompe, la persona diventa depressa.. Terminato il doveroso approfondimento della geniale intuizione d’Ippocrate, riprendiamo il nostro rapido viaggio nel passato. Ciascun’epoca ha dato al “cancro dell’anima” significati diversi, dettati dalle concezioni e dalle credenze vigenti in quel tempo. Nel Medioevo, la depressione veniva chiamata “tristizia” ed era intesa come una volontaria mancanza d’interesse per le cose della vita. Questa perdita totale di volontà e di coscienza veniva considerata una colpa grave della persona che non sapeva reagire e che si chiudeva completamente in se stessa rinunciando alla vita. Più tardi, nel Cinquecento, Theofrastus Bombastus von Hohenheim -famoso medico, astrologo e alchimista di Einsiedelm (Svizzera), più noto col nome di Paracelso -- cancellò dalla depressione l’idea medioevale della colpa e collocò la malattia tra quelle affezioni mentali che egli chiamava “insanie”. Alla fine del Settecento, con l’introduzione del termine “nevrosi” ad opera di W. Cullen, la depressione e la mania vennero identificate come facce opposte di uno stesso disturbo e si cercò per entrambe di scoprire la causa organica che poteva averle generate. Da quel momento in poi, per diversi decenni, prevalse la teoria organicistica che considerava la depressione alla stregua di una qualsiasi altra malattia del corpo, ignorando volutamente ogni precedente ipotesi e congettura. Fu soltanto verso la prima metà dell’Ottocento che comparve l’idea che la depressione non fosse dovuta ad un’alterazione anatomica del cervello, bensì a un suo non corretto funzionamento, pur nell’integrità di tutte le sue componenti. Sigmund Freud (1856-1939) andò oltre ipotizzando che depressione e lutto fossero intimamente collegati ed avessero una stessa comune
matrice: la perdita di un oggetto d’amore. Per il padre della psicoanalisi, era proprio questa perdita affettiva la causa di quell’introiezione di sentimenti negativi irrisolti che erano la base su cui si sviluppava poi la depressione. Nel 1920, lo psichiatra americano A. Meyer coniò per questa malattia il termine “depressione”, che fu subito adottato da tutta la comunità scientifica internazionale.
L’altalena delle emozioni Emozioni e sentimenti (stati d’animo più duraturi) accompagnano tutte le esperienze della nostra vita: da quelle più comuni (quotidiane), a quelle meno usuali, insolite (eccezionali). Quanto più le emozioni sono forti, tanto più scatenano reazioni profonde e vibranti, dapprima soltanto ormonali, poi anche fisiche e comportamentali, che coinvolgono l’intero organismo in ogni sua manifestazione, compreso il modo di percepire la realtà e anche quello di agire. È stato accertato che alla base di ogni emozione c’è sempre una condizione di eccitazione più o meno intensa che si manifesta sotto forma di agitazione, inquietudine o turbamento improvviso. L’intensità di questo stato emozionale determina la base affettiva che ciascuno di noi ha e che varia in relazione alle cause che l’hanno prodotta, alle caratteristiche individuali del soggetto e alle sue condizioni psicofisiche in quel preciso momento. Allegria, tristezza, paura, desiderio, compassione, vergogna, rabbia, sono alcuni dei momenti emozionali più frequenti che si alternano in ciascuno di noi e che hanno il compito di favorire l’adattamento a quegli eventi che ci hanno più colpito. Difficilmente la vita presenta gli stessi accadimenti nella stessa forma e con la stessa intensità. A volte può sembrare che i fatti si ripetano tali e quali, ma non è così. Due avvenimenti possono apparirci uguali perché presentano contenuti analoghi, ma poichè avvengono in momenti diversi, non possono mai essere perfettamente identici. D’altra parte, il presente non è mai il passato: è, invece, l’anticipazione di un futuro che stiamo costruendo e che è sempre più prossimo. L’esperienza del passato e l’unicità del momento presente accentuano le differenze esistenti tra i due fatti, col risultato di modificarne la percezione e quindi le emozioni conseguenti. Altrettanta importanza va attribuita alle cosiddette atmosfere dominanti che, essendo stati emozionali ricorrenti, segnano non solo il volto, ma anche l’atteggiamento mentale e fisico delle persone, facendole apparire tendenzialmente più allegre o più tristi di altre. Tuttavia, quando le emozioni sono troppo intense o durano troppo a lungo rispetto alla situazione che le ha generate -- e ciò capita più sovente con quelle sgradevoli -- allora è bene considerare l’eventualità che ci possa essere un qualche problema nella sfera dell’affettività. Questa, per essere davvero armoniosa ed equilibrata, deve poter oscillare tra una pluralità di stati emozionali tutti transitori e non troppo intensi. La “staticità” delle emozioni, ossia la presenza di una condizione emotiva sempre uguale, è spesso sintomo di un disagio interiore di cui si può essere o non essere coscienti.
Fisiologia delle emozioni È noto che, dal punto di vista fisiologico, le emozioni sono controllate da quella regione centrale del cervello chiamata sistema limbico. È in quest’area assai antica - racchiusa dalla corteccia cingolata e comprendente talamo, ipotalamo, amigdala, ippocampo, area del setto ... - che nascono le più diverse emozioni: piacere, dolore, gioia, paura, tristezza, disgusto, sgomento. Tutte queste percezioni emozionali vengono poi trasferite alla corteccia cerebrale, al cervelletto e al tronco encefalico per essere convertite in quei particolari stati mentali e fisici che tutti ben conosciamo. I collegamenti tra queste strutture cerebrali sono assicurati da speciali sostanze chimiche, i neurotrasmettitori (serotonina, adrenalina, dopamina, noradrenalina, acetilcolina...), la cui principale funzione è il trasferimento dei segnali nervosi da una cellula all’altra per preparare un’adeguata risposta dell’organismo alle diverse necessità del momento. Nel caso, ad esempio, della paura, si attiva per prima l’amigdala che ha il compito di riconoscere le situazioni di pericolo in base a tutta una serie di sensazioni visive, uditive, olfattive, gustative e tattili memorizzate in precedenza. Riconosciuto il pericolo, l’amigdala invia il suo segnale di allerta alla corteccia cerebrale che a sua volta lo trasmette all’ipotalamo che, sollecitato, aumenta la produzione di corticotropina (o CRH). Quest’ormone stimola l’ipofisi a liberare l’adrenocorticotropina (o ACTH), “l’ormone precursore dello stress”, che mette subito in azione le ghiandole surrenali, facendo loro produrre e rilasciare nel sangue una maggiore quantità di cortisolo, adrenalina e noradrenalina. Per effetto di tali sostanze l’intero organismo si prepara a fronteggiare la situazione di pericolo, cercando la soluzione che in quel momento appare più vantaggiosa, e cioè rispondere all’aggressore con la lotta oppure fuggire. E così i muscoli si tendono, le pupille si dilatano, i bronchi si espandono allargando la loro superficie d’azione, mentre cuore e fegato lavorano più intensamente per portare rispettivamente più ossigeno alle cellule e più zuccheri nel sangue, al fine di garantire al corpo una maggiore reattività ed energia. Il corpo, ormai in allarme, è ora teso come un arco, pronto a scattare, preparato a bruciare con la lotta o con la fuga quel surplus di energia che gli ormoni gli hanno fatto produrre. Se però, per una qualsiasi ragione, viene a mancare la reazione attesa, queste sostanze rimanendo nel sangue troppo a lungo e in quantità superiore rispetto al fabbisogno normale dell’organismo - finiscono col creare una situazione di “ristagno biochimico” che può avere pericolosi effetti “corrosivi” su cellule, organi ed apparati. Infatti, non trovando un’adeguata risoluzione fisica, le secrezioni ormonali, trasportate dal sangue, viaggiano per l’intero organismo e si depositano nel cervello, nei reni, nel fegato, dando luogo a una progressiva distruzione cellulare, con danni talvolta irreversibili. Quando ciò accade, le prime ad essere compromesse sono proprio le cellule cerebrali (neuroni) che vengono - prima e più di altre aggredite e danneggiate. La condizione migliore per evitare tali rischi e per garantirsi quel benessere psicofisico a cui tutti aspiriamo, è mantenere una corretta alternanza delle emozioni. Per realizzarla con successo, è necessario lasciar fluire le emozioni evitando di reprimerle; accettarle di buon grado; viverle con lievità e consapevolezza,
focalizzandosi su quelle piacevoli (gioia, soddisfazione, allegria...) ed esaurendo rapidamente quelle spiacevoli (paura, rabbia, rancore...), assai più pericolose e deleterie. Una vita gratificante e intensa presuppone la presenza di tutte le emozioni perché predispongono all’azione e facilitano così il processo di adattamento. Questo è esattamente il contrario di quanto avviene nei depressi.
II
L’UMORE
L’umore, con le emozioni e i sentimenti, fa parte di quella sfera soggettiva profonda che gli studiosi della mente chiamano affettività. L’umore è una disposizione d’animo personale ed esclusiva in grado di determinare una particolare risposta emotiva chiamata “reazione”. Quando questa disposizione d’animo presenta tratti di durevolezza e stabilità, diventa prevalente e si trasforma in inclinazione o umore di fondo. Differente è lo stato dell’umore, che varia nella stessa persona da momento a momento, in base alle condizioni fisiche, ai pensieri e alle situazioni della vita. Ancora diverso è il tono dell’umore che oscilla occupando tutte le possibili posizioni comprese tra la gioia intensa e la tristezza più profonda. Aristotele - il famoso filosofo greco vissuto nel IV secolo a.C. aveva notato che molti uomini illustri del suo tempo (Platone, Socrate, Aiace ed Empedocle), avendo un temperamento particolarmente melanconico, soffrivano di disturbi legati a quella condizione. Da queste prime osservazioni, arrivò a chiedersi se non fosse proprio questa loro inclinazione a renderli così eccellenti nelle attività che svolgevano. Nessuno può dirlo: tuttavia, molti illustri personaggi del passato -Dante, Petrarca, Michelangelo, Tasso, Mozart, Schumann, Lincoln, Flaubert, Tolstoj, Dostoevskij -- ed anche dei nostri tempi - Churchill, Kafka, Eltsin, Liz Taylor, Brigitte Bardot, Montanelli, Gassman, Pavarotti, Andreotti, Ornella Vanoni e persino Jean Claude Van Damme (l’attore belga esperto di arti marziali) - hanno convissuto o convivono con questa dolorosa condizione dell’anima. Leopardi stesso -- in una lettera scritta a Pietro Giordani nell’aprile del 1817 -- riferendo della sua condizione, diceva all’amico di avere “un’ostinata, nera, orrenda, barbara malinconia” che lo “limava e lo divorava nella profondità del suo essere”, e che, come “compagna fedele e invisibile”, lo accompagnava sempre, qualunque cosa facesse e in qualunque luogo si trovasse.
La funzione dell’umore
L’umore -- inteso nella sua accezione di stato mutevole dell’animo - segue la globalità dei pensieri, delle azioni e delle esperienze della nostra vita quotidiana. Non resta mai fermo, ma fluttua continuamente da un polo all’altro, da una condizione ad un’altra, a seconda dell’emozione che in quel momento prevale. È come un pendolo che -- oscillando continuamente dal dolore alla gioia, dalla paura alla serenità -- scandisce tutti i momenti della nostra esistenza, facendoci accettare più facilmente anche gli eventi
meno graditi. Al pari delle emozioni, è in grado d’influenzare non solo la nostra attività intellettiva e comportamentale, ma anche quella endocrina, immunitaria e vegetativa, svolgendo così un’importante funzione adattativa che ha lo scopo di porci immediatamente in contatto con gli avvenimenti da affrontare in modo da contenerne rapidamente gli effetti attraverso un processo di continua trasformazione. Per tali ragioni, l’umore riveste un’importanza determinante per il benessere mentale e fisico della persona. È, infatti, l’umore che condiziona il libero fluire dei pensieri; è l’umore che influenza la nostra percezione, facendo apparire gli eventi piacevoli, indifferenti o sgraditi; è sempre l’umore che carica la nostra progettualità, le nostre azioni, e ci spinge a comportarci ora in un modo ora nell’altro. Anche se non ne siamo consapevoli, il nostro umore traspare sempre e si mostra con chiarezza persino agli occhi di chi c’è estraneo e ci vede per la prima volta. Lo rendono palese la mimica, i gesti, gli sguardi e tutto il nostro portamento, che riflette lo stato di serenità o di turbamento che in quel momento proviamo.
L’umore disturbato Ogni giorno ciascuno di noi affronta e risolve una quantità incredibile di problemi che normalmente non pesano e di cui non ci si rende neppure ben conto. È questa la migliore riprova del fatto che l’umore svolge correttamente la sua funzione di “ammortizzatore naturale”, adeguando la nostra reattività alle esigenze del vivere quotidiano. Uno dei primi segnali di mal funzionamento del “circuito dell’umore” è la cosiddetta instabilità prevalente che si manifesta con un’imprevedibile e ingiustificata mutevolezza emozionale che porta l’animo ad esaltarsi o ad abbattersi senza alcuna apparente ragione. Altrettanto frequente è la comparsa di un’eccessiva risposta emozionale di fronte ad eventi di per sé insignificanti, ma che in quel momento vengono valutati con spessori e valenze esagerati. Una telefonata, un contrattempo, un ritardo, possono in pochi secondi far passare la persona dalla gioia alla tristezza, dall’allegria alla disperazione, creando difficoltà relazionali impensabili e di non poco conto. C’è però da aggiungere che l’instabilità dell’umore non è sempre così evidente. Ci sono casi in cui la variabilità è più sfumata, meno appariscente e si presenta diluita in tante continue fluttuazioni d’umore ora in senso espansivo (euforiche), ora in senso restrittivo (depressive). È questa una condizione particolarmente pericolosa perchè può accompagnare l’individuo durante l’intero arco della sua esistenza, finendo col condizionarlo progressivamente sia nel pensiero, sia nell’azione. Altre volte può, invece, accadere che la persona scopra di avere periodi ricorrenti di umore basso -- che durano anche trenta o più giorni - durante i quali il suo umore si colora di tutte le tonalità dal grigio al nero. In queste condizioni avrà un rapporto assai difficile con la realtà poiché vedrà ogni cosa sotto una luce più cupa e pessimistica. Di conseguenza, cercherà di condurre un’esistenza più appartata, sopportando mestizie e disagi ben maggiori di quelli che avrebbe patito se il suo umore così non fosse stato. Tuttavia, la consapevolezza di essere in questo stato potrebbe tornagli utile, facendogli superare più rapidamente
i momenti di sconforto che inevitabilmente si presentano. D’altra parte l’essere edotti su quanto si sta patendo, conoscere la propria malattia, può rappresentare un’importante spinta per realizzare quel “riassetto cognitivo” dell’esistenza che è la meta inconscia di ogni essere umano che soffre per propria o per altrui “debolezza”. Oggi, queste alterazioni del tono dell’umore sono fatte rientrare un po’ forzosamente tra i disturbi psichiatrici, anche se l’estrema variabilità dei quadri clinici presenti avrebbe dovuto suggerire una diversa e più articolata ripartizione. La conseguenza più evidente è che alcuni di questi disturbi sfuggono spesso alla diagnosi, mentre altri vengono erroneamente diagnosticati e quindi sottoposti a trattamenti non appropriati.
Il barometro della vita La continua oscillazione del tono dell’umore è diretta conseguenza della presenza di diverse emozioni che scuotono il nostro essere nel profondo e che si alternano fra loro in una sorta d’imprevedibile e misteriosa danza. Diventano, come abbiamo già chiarito, fenomeni morbosi (patologie) quelle anomale oscillazioni dell’umore causate o da emozioni vissute in modo esasperato (paure e ansie profonde) o da emozioni troppo intense - e quindi sproporzionate rispetto all’evento scatenante (fobie, ossessioni) - o anche da quelle emozioni più incalzanti che permangono a lungo (manie, tic). Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (il DSMIV) dell’American Psychiatric Association -- testo di riferimento internazionale per la diagnosi delle malattie mentali -- colloca i disturbi dell’umore in una molteplicità di quadri clinici riconducibili a due grandi categorie: i disturbi con umore depresso (depressioni unipolari) e i disturbi con umore euforico (depressioni bipolari). Nella prima categoria si riscontra un appiattimento dell’umore verso il basso, prodotto da uno stato d’animo in cui prevalgono insoddisfazione e pessimismo, condizioni tipiche della Depressione Maggiore e della Distimia. L’umore, nella fattispecie, sembra essere inchiodato sulla malinconia e sull’afflizione proprio come l’ago di un barometro in un periodo di prolungata tempesta. Nella seconda categoria il tono dell’umore è, invece, elevato a causa di un’euforia esagerata, spesso accompagnata da eccitazione psichica, iperattività mentale e fisica, accresciuta autostima e manie di grandezza. È questa la condizione tipica dei Disturbi Bipolari e Ciclotimici. Metaforicamente parlando, è come se l’ago del barometro, raggiunta la tacca più alta, rimanesse ancorato su di essa nel vano tentativo di superarla, e poi precipitasse di colpo senz’alcuna apparente ragione. In entrambi i casi l’umore perde le sue caratteristiche oscillazioni e rimane innaturalmente bloccato su una delle due posizioni estreme (depressione o euforia), a conferma di uno stato di sofferenza psichica prodotta da un qualche forte scompenso emozionale.
III
MANIA E DEPRESSIONE
Quando muta il nostro umore, cambia anche la percezione che abbiamo del mondo circostante, poiché si modificano i modi e i termini con cui esso ci chiama e ci parla. D’altra parte, è molto più facile riconoscere un cambiamento intorno a noi che non quello che avviene dentro di noi. Ciò accade proprio a causa della mutevolezza dell’umore che si pone da filtro tra noi e la realtà esterna, al punto da farci apparire uno stesso evento piacevole o spiacevole in base soltanto alla disposizione d’animo che in quel momento prevale. Se siamo allegri, gioiosi, anche un contrattempo seccante viene accettato senza fastidio, con lievezza; viceversa, se siamo tesi o incolleriti, il più piccolo intoppo, la più banale delle contrarietà è vissuta come una iattura, come una disastrosa calamità.
Gli stati maniacali La mania è uno stato di sovraeccitazione delle funzioni psichiche caratterizzato da un anomalo innalzamento del tono dell’umore. Quando si è in tale condizione si prova un senso di benessere insolito, assai particolare: ci si sente gagliardamente allegri, euforici, eccitati come non mai, disinibiti, sicuri, ottimisti, pieni di illimitata fiducia in se stessi, senza però che vi sia una precisa ragione. È come se l’energia vitale si fosse all’improvviso moltiplicata, trasformandosi in furore. L’attività si fa frenetica; idee e progetti si accavallano in un crescendo vorticoso, mentre le relazioni con gli altri diventano d’incanto più facili e naturali. Questa inusuale smania di vita stimola tutte le pulsioni istintuali: la sessualità aumenta, così come l’impulso a muoversi, a parlare, a darsi da fare in ogni dove con comportamenti impetuosi e appariscenti. In questo stato di anomala eccitazione, il mondo, l’avvenire e ogni altra cosa appaiono al malato nella loro luce più rosea e tutto sembra raggiungibile e perfetto. Avendo, però, perso l’ancoraggio con il passato e trascurando il futuro, il maniaco si trova a vivere soltanto nel presente più immediato con una spregiudicatezza che rasenta la follia. Ciò spiega la facilità con cui intraprende iniziative che puntualmente non porta a termine, oppure come coltiva idee grandiose e irrealizzabili che poi non segue e che sostituisce rapidamente con altre. La volubilità dei pensieri, la discontinuità delle azioni e la perenne distraibilità mentale, sono spesso associate ad un enorme bisogno di spazio che si rivela non soltanto nella scrittura a lettere cubitali, ma anche in un continuo vociare e in un’esagerata gestualità. Anche quando tutto sembra procedere per il meglio, si avverte che c’è qualcosa che non va e che quella situazione, che è già durata ben oltre ogni ragionevole previsione, non potrà continuare ancora. Infatti, questo stato d’insolita esaltazione è destinato rapidamente a svanire per lasciare spazio alla vera, cruda realtà: un abisso di rimorsi, di disperazione e di mestizia. Se si potesse, anche solo per un momento, togliere al maniaco la sua maschera di eccitazione e d’euforia, si scorgerebbe il volto di una persona perduta, tragicamente sgomenta. Il fatto è che in questi malati coesistono due anime opposte: quella vera, più radicata e profonda, è sempre “l’anima depressa” che continua ad autoalimentarsi al di sotto dell’altra, meno reale e drammaticamente farsesca.
L’anomalo innalzamento dell’umore è, dunque, una condizione assai precaria, destinata a trasformarsi alla prima difficoltà o al più banale degli intoppi in irritazione e malumore. Esiste, infatti, una sottile zona d’ombra, una misteriosa base comune che lega mania e depressione. Quest’area di confine è la tristezza cupa, ossia quella profonda malinconia che pervade entrambe le condizioni e che le accomuna nel disagio e nella sofferenza. Tuttavia, mentre nella depressione la tristezza è immediatamente avvertibile, nella mania è mascherata da comportamenti contradditori finalizzati ad occultarla. E così entrambe, mania e depressione, possono essere considerate facce contrapposte di una stessa malattia: la difficoltà di vivere pienamente la vita, ricavandone gioie ed anche dolori. La nostra mente utilizza queste due modalità di difesa per sfuggire alle angosce quotidiane e per allontanare la fatica e l’insoddisfazione di dover essere sempre come gli altri ci vogliono, e mai come veramente siamo. In questo senso, mania e depressione appaiono non più come condizioni opposte e contrastanti, ma come due diversi percorsi emozionali attraverso i quali la nostra affettività si esprime per difenderci da situazioni tormentose e stressanti che altrimenti non riusciremmo a sopportare.
Un cammino pieno di insidie Nella mania riveste un ruolo importante la predisposizione personale, vale a dire quella tendenza innata che si manifesta con alcuni tratti caratteristici della personalità. Di conseguenza è più esposto alla mania chi ha un’emotività troppo fragile, fortemente incline alla commozione o alla rabbia; oppure chi possiede un’abnorme energia vitale che non riesce a canalizzare correttamente; o, infine, chi manifesta un’eccessiva prontezza e rapidità d’azione che porta ad agire con troppa frenesia e precipitazione. Ed è proprio questa dissennata smania d’azione, accompagnata da un’esasperante loquacità, la traccia prima e più evidente di quelle modificazioni psichiche indotte dalla condizione maniacale. Questo stato può andare avanti pochi giorni o durare parecchi mesi prima che abbia termine il suo normale corso, esaurendosi spontaneamente oppure trasformandosi in depressione. I disturbi fisici più frequentemente riscontrabili nella condizione maniacale sono rappresentati da un evidente dimagrimento, da una riduzione delle ore di sonno (senza segni di stanchezza) e da una sudorazione profusa, accompagnata da una sete intensa e persistente. Durante il periodo acuto della crisi, sentimenti, pensieri ed emozioni seguono un andamento parabolico discendente, evidenziato da un continuo cambiamento di idee, da attività confuse e inconcludenti e da un pericoloso decadimento dei processi valutativi che possono spesso causare danni rilevanti sul piano patrimoniale e lavorativo. Nei casi più gravi possono anche comparire “deliri di grandezza”, in seguito ai quali si è convinti di essere eroi, artisti, geni, sempre e comunque personaggi molto più importanti di quanto non si è in realtà. In tali casi, il ricorso ai farmaci appare la soluzione più rapida, anche se paradossalmente la condizione maniacale potrà continuare a permanere per un tempo piuttosto lungo prima di cedere il passo ad un umore più equilibrato e corretto. Molto spesso, prima dell’agognato ritorno alla normalità, la persona deve faticare parecchio, patire affanni diversi ed
essere costantemente seguita da un bravo psicoterapeuta per scoprire la causa della sua malattia, evitando così altre possibili complicazioni. Tuttavia, è bene sapere che, se si fa ricorso ai farmaci stabilizzatori dell’umore (litio, carbamazepina, acido valproico) o ai neurolettici, esiste il pericolo reale che la mania si trasformi presto in depressione, con tutte le conseguenze del caso. L’evenienza non è scontata, ma neppure remota. Se, invece, si è riusciti a contenere la malattia facendo un limitato ricorso ai farmaci, la condizione maniacale tenderà ad esaurirsi più lentamente, ma anche con minor rischio di ricadute o di pericolosi scivolamenti in altre patologie.
Gli eterni incompresi Chi soffre di mania non ha, di solito, consapevolezza del suo stato e pertanto non si rende conto di essere malato. C’è in lui soltanto un’evidente condizione di disadattamento che però viene imputata al comportamento degli altri che non lo capiscono o che non sanno cogliere il valore della sua persona. Chi soffre di più è chi gli sta vicino (familiari, parenti, amici) soprattutto se costretto alla convivenza, poiché deve dar prova di grande comprensione, tolleranza e coraggio. Infatti, i malati in fase maniacale si trasformano sovente da persone normalissime (studenti coscienziosi, impiegati metodici, casalinghe tranquille) in individui ribelli, prepotenti, fortemente inquieti, insofferenti ad ogni regola e limitazione. Hanno continuamente bisogno di essere approvati, lusingati, apprezzati per le loro idee stravaganti e grandiose, ma soprattutto devono essere seguiti in tutti i loro progetti che cambiano in continuazione e che non portano mai a termine. Guai a negare loro qualcosa, a contraddirli, a contrastarli: s’inalberano immediatamente diventando aggressivi e litigiosi. Non è raro che diano in escandescenze, mostrando reazioni inconsulte e violente che mai si sarebbe pensato potessero avere. Anche quando scherzano lo fanno pesantemente, ferendo con la loro grossolanità la sensibilità di chi li ascolta. Non lo fanno di proposito: sono così perché hanno perso il senso della misura e non lo sanno. Allegri, dinamici, instancabili, pieni di iniziative, si ritrovano in una condizione di finto benessere che, all’inizio, può facilitare loro il lavoro, lo studio od ogni altra attività, ma che successivamente può cacciarli in situazioni spiacevoli dalle quali non è facile tirarli fuori. La cosa più grave è che a questa eccitazione psicomotoria si contrappone un preoccupante affievolimento del senso critico e delle capacità introspettive, che può renderli insopportabili e sgraditi persino a chi li ama. Loquacità eccessiva che sfocia in logorrea, attività frenetica, inconcludenza e megalomania sono le avvisaglie tipiche dell’acuirsi del loro stato ed anche la conferma dell’evolversi della malattia.
I segni esteriori della malattia Il maniaco, ossia colui che è affetto da sindrome maniacale, molto spesso si riconosce dal suo aspetto esteriore: ha sovente il volto teso, quasi contratto per la fretta di fare; gli occhi, spiritati e mobilissimi, sono in genere arrossati a causa del poco dormire; collo,
gote e fronte denunciano l’agitazione provata con ampie zone di color rosa scuro che macchiano la pelle a mo’ di leopardo. La smaniosa attività e l’agire frenetico rendono più affrettata la respirazione e di conseguenza anche la circolazione sanguigna, con il frequente inconveniente di un’imbarazzante sudorazione soprattutto delle mani e della fronte. Interloquisce, dialoga e parla quasi sempre a voce alta, incurante del fastidio che arreca agli altri. Spesse volte, durante la conversazione, si distrae, pensa ad altro come se stesse seguendo il filo logico di chissà quali importanti ragionamenti. Nell’eloquio -- oltre allo spreco di barzellette sconce e di motteggi più o meno volgari -- fa spesso uso di proverbi, di detti popolari, di parole in rima, tutte peraltro irriguardose o sboccate. Al primo approccio può apparire gioviale, aperto, forse troppo loquace, ma sempre pronto alla battuta e allo scherzo. Tuttavia, anche l’interlocutore meno attento rimane colpito dai mutamenti repentini del suo umore, che lo fanno passare con sorprendente facilità dal riso alla rabbia, dall’allegria al malumore. Ed è proprio per tale ragione che questo disturbo dell’umore -- per i suoi incontrollabili momenti ora di sovraeccitazione, ora di abbattimento - è chiamato dagli psichiatri “mania” che in greco vuol dire appunto “furore”, perchè furioso è il comportamento di chi ne soffre in ogni circostanza e con ogni persona. Avendo perso il senso dell’autolimitazione, il maniaco si controlla con difficoltà e nei rapporti interpersonali può diventare spesso irritante. Può, ad esempio, scrivere centinaia e centinaia di lettere e cartoline, o tempestare di messaggi e di chiamate in qualsiasi ora del giorno e della notte, violando con prepotenza la privacy degli altri. Chi ama disegnare o scarabocchiare pone per iscritto le sue idee ed emozioni, imbrattando ogni superficie libera, compresi muri e pareti. Veste sovente in modo vistoso, al limite dell’originalità, prediligendo colori vivaci e inusuali, forse proprio per non passare inosservato. Se è donna, fa di tutto per essere provocante e seduttiva: si trucca e si abbiglia in modo appariscente o si copre di anelli, collane e gioielli. Non è raro incontrare signore, di solito garbate e composte, che in preda ad una crisi di mania hanno atteggiamenti triviali e impudichi o che si danno al turpiloquio. Quando la china discendente è stata completamente percorsa, ci si può trovare di fronte o all’abisso della depressione o, se si è fortunati, ad una lenta e graduale risalita verso la normalità.
IV
VERSO LA DEPRESSIONE
Alcune ricerche hanno evidenziato che il consumo di cure psichiatriche è direttamente proporzionale al livello culturale delle persone: più cresce il grado di scolarizzazione di un individuo, più aumenta il suo bisogno di far ricorso alle cure dei “maestri della psiche”. Ritenendo, però, che conoscenza e cultura non possano creare alcun danno alla mente, non rimane che cercare altrove le ragioni di tale correlazione. Una prima ragione potrebbe essere la constatazione che la sofferenza psichica è una vera e propria malattia e pertanto chi scopre di averla fa di tutto per allontanarla; una seconda ragione concerne la questione economica, ossia la possibilità concreta di accedere alle cure
mentali, assai lunghe e costose, e quindi più facilmente alla portata dei ricchi che sono spesso anche i più scolarizzati. In questo senso si potrebbe provocatoriamente affermare che la depressione è una “malattia da ricchi”, non perché colpisce solo loro, al contrario, ma perché soltanto i ricchi possono veramente curarsi in modo serio e corretto. Ai poveri, le lunghe e costose terapie sono di solito precluse. A loro non rimane che la speranza nella remissione spontanea della malattia oppure, come spesso accade, l’alcol, la droga o il suicidio.
Una malattia multiforme È bene chiarire subito che non esiste “la depressione” (al singolare), ma tante diverse forme di depressione. Ciò significa che le depressioni non sono tutte uguali tra loro, ma che possono manifestarsi con sintomi e modalità differenti da persona a persona. Attualmente sono riconosciute e classificate 39 forme cliniche di depressione e tale numero risulta già oggi superato poiché se ne scoprono sempre di nuove. La necessità di avere un codice comune, che permettesse ai medici di tutto il mondo di confrontarsi su studi e terapie, ha consigliato la definizione di schemi diagnostici universali, la cui articolazione non ha però risolto un problema così complesso e sfaccettato. Fatta questa necessaria premessa, scopriamo che le classificazioni oggi più usate sono due: il Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali -- curato dall’American Psychiatric Association -- alla sua quarta edizione (DSM- IV) e il Manuale delle Sindromi e dei Disturbi Psichici e Comportamentali -- giunto alla sua decima revisione (ICD - 10) -- a cura degli psichiatri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Entrambe queste schematizzazioni -- piuttosto aride e non sempre lineari -- hanno lo scopo di evidenziare dei criteri diagnostici specifici per ciascun disturbo mentale. Ciò, però, non esclude il ricorso alla precedente e forse più chiara divisione dei disturbi mentali in nevrotici (lievi e di facile risoluzione) e in psicotici (più gravi e di incerta conclusione). Alla base di ogni malattia psichiatrica, c’è sempre l’incapacità della persona di affrontare e superare le difficoltà del vivere quotidiano o per problemi di adattamento (nevrosi) oppure per fattori costituzionali (psicosi). In verità, sembrano essere proprio queste due strade quelle che, più frequentemente di altre, conducono alla depressione.
Le sindromi nevrotiche Le nevrosi sono delle malattie psichiche prive di una causa organica, che si manifestano con particolari disturbi che alterano il corretto funzionamento di organi ed apparati. Storicamente il termine viene attribuito a William Cullen, un medico scozzese che nel 1776 parlò delle nevrosi che egli considerava affezioni funzionali ben localizzate, ma “senza infiammazione della struttura”. Nel corso del tempo il concetto subì diverse trasformazioni. Freud, sulla cui “teoria delle nevrosi” si basa ancora oggi la scuola psicoanalitica, distinse quattro tipi di nevrosi: le nevrosi d’angoscia, le fobie, le nevrosi ossessive e l’isteria. Cercando poi di scoprirne le
cause, Freud formulò la teoria che attribuiva la nascita delle nevrosi all’esistenza di un conflitto profondo tra la coscienza e le tendenze istintuali della persona. Oggi, la psicoanalisi è solita distinguere tra nevrosi classiche, determinate da conflitti in età infantile, e nevrosi attuali, prodotte da conflitti più recenti legati a problemi di insoddisfazione sessuale. Parlando dei disturbi dell’umore a base nevrotica si fa riferimento a quelle condizioni patologiche reattive la cui causa può essere ricercata in un preciso evento scatenante (un lutto, un abbandono, la perdita del lavoro, la maternità, il pensionamento oppure un qualsiasi altro dolore vissuto male). La vita di ogni persona è corredata da una molteplicità di eventi che segnano profondamente dal punto di vista emozionale. Il susseguirsi di situazioni psicologicamente rilevanti -- tutte diverse tra loro -costringe ad un continuo processo di adattamento che si realizza cambiando di volta in volta il proprio modo di pensare, di agire e di essere. Questo continuo processo di riadattamento porta con sé un’inevitabile quantità di tensione emotiva (stress) che, quando è eccessiva o prolungata (distress), produce importanti modificazioni prima ormonali, poi mentali e fisiche. La fatica di trovare, momento dopo momento, un nuovo equilibrio psicofisico, affrontando tutti gli agenti stressanti (stressors) che ci si presentano dinanzi, costituisce la comunissima e ben nota sindrome di adattamento. Questa incapacità emotiva di elaborare una corretta risposta nei confronti degli agenti stressanti rappresenta il terreno ideale per far attecchire prima il seme del disagio psichico, poi quello della malattia. Tra le più frequenti situazioni di maladattamento ricordiamo la sindrome di burn-out (o “della candela esaurita”), causata da un prolungato dispendio di energie che può condurre alla depressione attraverso il distacco dalla realtà e l’apatia, e la sindrome da superallenamento, in cui una troppo intensa attività fisica, legata a motivi di forma o di immagine del proprio corpo, finisce con l’alterare l’equilibrio ormonale dell’organismo causando incontrollabili tensioni, fragilità emotiva, turbe del sonno e talvolta anche anorressia. Qualche parola in più va spesa per la “sindrome di burn-out” che può colpire non soltanto medici, psicologi e operatori sanitari, ma anche tutti coloro che lavorano in situazioni difficili, a stretto contatto con malati gravi o con persone affette da disturbi mentali o da dipendenze varie. Il termine, introdotto nel 1974 da Freudenberger, significa in italiano “esaurito” ed indica proprio quella particolare condizione di logoramento che si manifesta in situazioni di elevato stress psicoemotivo in grado di determinare un rilevante calo psicologico, con conseguente deterioramento di tutti i rapporti esistenti, sia professionali che interpersonali. Le teorie più recenti sono orientate a considerare tale sindrome non soltanto come sintomo di una sofferenza individuale, ma anche come un problema di natura più ampia, dal momento che entrerebbero in gioco oltre alle dinamiche personali anche quelle di carattere politico, economico e sociale.
Le psiconevrosi Il concetto di psiconevrosi trova la sua giustificazione nella psicoanalisi -- la tecnica terapeutica formulata da Freud per lo studio
dei processi mentali inconsci -- e ad essa si ricollega riconoscendo l’esistenza di sintomi psiconevrotici come conseguenza di conflitti psichici profondi. Il “padre della psicoanalisi” sosteneva che le psiconevrosi -- da lui chiamate neuropsicosi da difesa -- erano l’espressione simbolica di un conflitto inconscio, già presente nell’infanzia, tra desiderio sessuale e volontà di sopprimerlo (difesa) o di allontanarlo perché ritenuto sconveniente. Il sintomo psiconevrotico sarebbe, dunque, una sorta di compromesso tra uno o più impulsi rimossi e la personalità dell’individuo stesso che li rifiuta e che si oppone al loro ingresso nell’area del suo pensiero cosciente. In altre parole, le psiconevrosi sarebbero delle nevrosi i cui sintomi psichici (o somatici) sono generati dalla repressione inconscia (rimozione) di quelle tendenze istintuali che la coscienza respinge perché le giudica inaccettabili. Oggi, l’interpretazione più condivisa è che le psiconevrosi siano delle sindromi caratterizzate da elementi di sofferenza psichica specifica (come nel caso delle fobie e delle ossessioni) o da elementi di sofferenza psichica aspecifica (come nel caso dell’ansia), aventi però tutte natura funzionale e totalmente priva di segni psicotici. La tortuosità delle definizioni proposte fa sì che ancora oggi, tra gli “addetti ai lavori”, non sia ben chiara la differenza esistente tra “nevrosi” e “psiconevrosi”, cosicché nella pratica quotidiana i due termini finiscono col sovrapporsi, per cui c’è chi utilizza l’uno intendendo l’altro e viceversa. Questo conferma che nel campo delle malattie psichiche la vaghezza è norma, non essendoci spiegazioni o definizioni che abbiano i crismi della chiarezza, della completezza e dell’universalità, per poter essere accettate e condivise da tutti. Stando così le cose, è prevalsa la prassi dell’esclusione, per cui una qualsiasi patologia viene riconosciuta come tale solo quando l’insieme di tutti i suoi sintomi presenti contemporaneamente (sindrome) non può essere imputata a nessun’altra malattia. Soprattutto nel campo dei disturbi mentali questa “coperta scientifica” risulta troppo corta, per cui se tirata da una parte, finisce inevitabilmente per scoprire l’altra. Ora, la genericità dei criteri diagnostici adottati fa sì che non vi sia neppure una netta separazione tra le due più grandi categorie psichiatriche: le “nevrosi” e le “psicosi”. Ciò comporta che gli stati intermedi tra queste due categorie (i cosiddetti borderline), sfuggendo ad una precisa attribuzione, sono da alcuni considerati a sé stanti -- e quindi fatti rientrare nell’area delle sindromi marginali -- da altri assimilati ora all’una ora all’altra categoria, a seconda del peso attribuito alle due componenti di base. Capita spesso, in queste “patologie di confine”, che vi sia una forte produzione di meccanismi nevrotici (ansie, fobie, ossessioni) che fungono da copertura e che proteggono la persona dall’insorgere della psicosi. In tali casi, la prudenza terapeutica è d’obbligo: occorre agire con grande cautela nel rimuovere questi meccanismi di difesa perché, una volta rimossa la copertura, potrebbe saltare fuori la psicosi sottostante.
La nevrosi ansioso-depressiva
Anche se il DSM IV ha ormai abolito il termine “nevrosi” scegliendo di raggruppare i diversi quadri clinici nevrotici in tre diverse aree (i disturbi somatoformi, quelli dissociativi e quelli d’ansia), ci è parso utile, per chiarezza espositiva, mantenere la precedente suddivisione che è di più facile comprensione. La nevrosi ansioso-depressiva -- chiamata da alcuni psiconevrosi depressiva -- fa parte delle patologie nevrotiche legate ai disturbi dell’umore. In quanto tale può essere considerata una malattia reattiva o da disadattamento e pertanto la sua causa d’insorgenza va ricercata in un cattivo adattamento della persona a situazioni o ad eventi vissuti con eccessiva difficoltà e sofferenza. È chiamata così perché tanto l’ansia quanto la depressione sono componenti essenziali di questa patologia, anche se queste due condizioni possono essere entrambe presenti in misura diversa e variabile. Quando prevale la prima, si parlerà di “reazione d’ansia”; viceversa, se s’impone la seconda, si avrà una “reazione depressiva”. In quest’ultimo caso, il quadro clinico non lascia dubbi: si nota, infatti, che l’umore è orientato stabilmente verso il basso e tende a non risalire. Tuttavia, ai fini di una corretta diagnosi dovranno essere considerati anche altri fattori che sono: la conoscenza della malattia; la qualità del dolore; il vissuto che il paziente dà del dolore stesso e soprattutto l’assenza di sintomi psicotici (deliri e allucinazioni) che potrebbero far pensare ad altre patologie. Quando prevale la reazione d’ansia si nota uno stato di forte tensione e di instabilità emotiva che influenzano la vita psichica del paziente, timoroso ed insicuro per il presente ed il futuro. Questo stato ansioso -- che può mantenersi stabile oppure acutizzarsi in occasione di eventi emozionalmente significativi -- porta con sé sintomi somatici diversi che coinvolgono l’apparato cardiaco, respiratorio, digerente, nonché quello muscolo-scheletrico e sensoriale. Per quanto riguarda la reazione depressiva la caratteristica principale è la tristezza, spesso accompagnata da sentimenti di insoddisfazione e pessimismo. In questa condizione emergono la fragilità emotiva del paziente e la precarietà delle sue difese, non più in grado di gestire gli eventi che prendono così il sopravvento, causando ulteriore sconforto e apatia. Anche in questo caso i sintomi somatici sono simili a quelli della reazione d’ansia, ma con in più il tratto caratteristico dell’insonnia, che si può manifestare o come difficoltà a prender sonno o come sonno non ristoratore, inframmezzato da brevi e frequenti risvegli. Se la diagnosi è agevole, ben più difficile è individuarne le cause, che possono essere molteplici e ben distanziate nel tempo, ma sempre e comunque in grado di generare i dolorosi effetti di quella penosa condizione.
La sindrome da somatizzazione Nell’ambito delle psiconevrosi rientra anche questa sindrome, caratterizzata dalla comparsa di disturbi fisici diversi che vanno dalla gastrite al mal di testa, dalla stanchezza alle vertigini, dalle difficoltà respiratorie al mal di cuore. I sintomi fisici (dolori, oppressioni, fastidi) sono effettivi, ossia percepiti davvero, pur non essendo attribuibili ad alterazioni
organiche reali. In altre parole non sono causati da una vera malattia fisica, ma da uno stato d’ansia o di depressione che esiste e di cui non si vuole prendere coscienza. La presenza di tali disturbi è, secondo alcuni studiosi, legata all’esistenza di conflitti psicologici profondi che fungono da base allo sviluppo di sintomi così diversi tra loro, ma tutti ugualmente logoranti. Tuttavia, la spiegazione più accreditata fa riferimento ad errori nell’attività cerebrale, dovuti ad un temporaneo “black-out” della mente che, sollecitata da stimoli opposti e contrastanti, perde la giusta condizione di equilibrio e crea “scompensi” nella sua attività di comando e di coordinamento. Questa anomala situazione è in grado di alterare una qualsiasi funzione del corpo che, a lungo andare, può trasformarsi in una “lesione d’organo”, chiudendo così quell’incredibile ciclo di reazioni a catena che porta un semplice disagio psichico a volgersi in una vera e propria malattia fisica. Le più frequenti patologie che possono avere anche origine psicosomatica sono: le cefalee; alcune forme di epilessia, di sindrome vertiginosa e di ipertiroidismo; l’anoressia mentale (assenza di appetito); la bulimia (appetito eccessivo) e l’obesità; alcune malattie dell’apparato digerente (gastrite, duodenite, ulcera, colite spastica, rettocolite ulcerosa, colon irritabile); l’asma bronchiale e le allergie; l’ipertensione arteriosa; alcune forme di angina pectoris; alcune malattie della pelle (alopecia, psoriasi, lichen ruber planus, pruriti); alcune affezioni dell’apparato muscolo-scheletrico (tendiniti, algodistrofie). La varietà di queste malattie fa ben capire come ciascuno di noi scelga la patologia che gli è più congeniale, la sofferenza che in quel momento lo tocca di più e che, meglio di altre, è in grado di fargli capire gli errori che sta commettendo. Chi soffre, ad esempio, di gastrite può forse non riuscire a sopportare una persona, o una situazione affettiva o professionale difficile, che il suo inconscio ha già comunque giudicato intollerabile. Insieme al cibo, portiamo sempre dentro di noi anche le esperienze della vita quotidiana che dobbiamo “digerire” e che entrano a far parte della nostra persona. Quando c’è qualcosa che non ci piace o che non accettiamo, il meccanismo s’inceppa. E così una cattiva digestione, un processo infiammatorio o una lesione d’organo (come l’ulcera), possono diventare reazioni di dissenso e di avversione verso qualcosa o qualcuno che non tolleriamo, ma che dobbiamo in qualche modo subire. Capita così in molti altri casi dal momento che, più sovente di quanto si creda, le malattie nascono da un disagio psicologico profondo che non cogliamo a livello razionale, ma che esiste da tempo e che è ben radicato nel nostro inconscio. V
LA NEGAZIONE DELLA VITA
Erich Fromm, nella sua lunga esperienza di psicanalista e scrittore, ha avuto diverse felici intuizioni. Una di queste è l’aver compreso che la felicità non è il divertirsi -- come credono la maggior
parte degli sciocchi -- né l’esser ricchi -- come sostengono i poveri di spirito -- né l’aver successo e potere -- come sognano ambiziosi e narcisisti -- e neppure una vita senza dolore e sofferenza -- come molti potrebbero pensare -- ma è la vera realizzazione di un vivere quotidiano pieno e vitale. Per Fromm chi vive intensamente è una persona felice perché prova necessariamente sia “gioia” sia “dolore”, insieme a tutti gli altri momenti emozionali immancabilmente presenti in ogni vita umana che sia pienamente vissuta. Anche chi sembra vivere prevalentemente nella pena e nel dolore ha dei momenti gioiosi e felici ai quali può aggrapparsi, richiamandoli frequentemente alla memoria per poterli rivivere e rinnovare. La felicità non è, dunque, il frutto prezioso di un albero rarissimo che fiorisce soltanto eccezionalmente, ma è un sentire comune che tutti ci portiamo dentro e che dobbiamo saper cogliere e assecondare soprattutto nei momenti più tristi e dolorosi della vita. Per potersi muovere nella direzione di questa felicità terrena, occorrono due particolari condizioni della mente cognitiva che purtroppo sovente latitano: la chiarezza degli scopi della propria vita e le scelte necessarie a raggiungerli.
I sapori della vita Tutti nella vita abbiamo provato gioia, dolore, allegria, tristezza, inquietudine, tranquillità, rabbia, paura.... Sono questi alcuni dei numerosi momenti emozionali che quotidianamente danno colore e sapore alla nostra esistenza. Per poterli accettare e apprezzare è necessario non contrastarli, non opporsi ad essi, ma viverli con la consapevolezza di chi non li giudica, ma li vede passare davanti a sè, ben sapendo che potranno rinnovarsi più e più volte. Chi non riesce a provare gioia non può sentirsi vivo e quindi non è neppure felice, al pari di chi non vuole provare dolore. Il dolore e la pena, come la gioia e la felicità, sono parti integranti della nostra esistenza e ciascuno di noi li incontrerà più o meno spesso nella sua vita nella misura in cui ha deciso di accoglierli e di accettarli, scegliendo saggiamente la comprensione e non il travisamento. Come un pendolo che, con archi lievi e sincroni, scandisce il passare delle ore, così la nostra mente si muove oscillando da un’emozione all’altra e ci dona tutti i colori della vita indirizzando il nostro umore ora in un senso ora nell’altro, a seconda del sentimento che in quel momento prevale. Pensare di essere felici senza aver provato tutte le diverse emozioni -- quindi anche quelle meno piacevoli -- è un’illusione, un’idea assurda e infantile, propria di quel “pensiero debole” che talvolta s’impone, impadronendosi di noi e impedendoci di cogliere l’armoniosa coerenza della vita. Siamo tutti, in misura preponderante, artefici della nostra esistenza ed essa, pur se tracciata a grandi linee, rimane sempre saldamente nelle nostre mani con le scelte che di volta in volta facciamo. Scegliendo di viverla con consapevolezza e coraggio, accettando tutti i frutti che essa ci porta, riusciremo con minor fatica ad essere più sereni e soddisfatti. Viceversa, se abbiamo paura di qualcosa o se rigettiamo certe emozioni, neghiamo l’essenza stessa della vita e la nostra mente si muoverà di conseguenza procurandoci pensieri ed umori svantaggiosi e negativi.
L’assenza di emozioni Per chi, come Fromm, intende la felicità come vitalità, come una vita vissuta pienamente, la depressione non può che esserne l’esatto contrario. Il vero depresso non prova nulla e ringrazierebbe il cielo se riuscisse a sentire anche soltanto dolore. Il suo cuore è una gelida tomba, un sepolcro ormai vuoto, dove emozioni e sentimenti sono soltanto più un ricordo. La depressione è così terribilmente tragica perché è l’annullamento di tutto, la negazione stessa della vita per l’incapacità di provare una qualsiasi emozione. Nel depresso c’è la netta sensazione di sentirsi morto nella mente e nello spirito, mentre il corpo è ancora in vita. Questa totale assenza di emozioni è assolutamente insostenibile. Il depresso vorrebbe gioire, patire, esultare, arrabbiarsi, soffrire, ma non può, non ci riesce: gli è precluso. Anche la volontà si è spenta: non può più essergli di aiuto e neppure sostenerlo. Indifferenza e apatia hanno ormai occupato ogni cellula, ogni spazio vitale del suo corpo, prosciugandolo di energia e vigore. La vita perde a poco a poco i suoi colori e diventa così grigia, arida, inutile. Il depresso si sente solo anche quando è in mezzo agli altri perché è spento, indifferente a tutto, estraneo a se stesso e agli affetti più cari. Il suo momento peggiore è la mattina, al risveglio, perché vede davanti a sé una lunga, interminabile giornata, piatta, vuota come tutte le altre e per ciò stesso ancora più difficile da accettare e da far trascorrere. È, di solito, sempre stanco, esaurito, evanescente anche nei pensieri che diventano via via più lenti, ripetitivi. Si sente prigioniero di sé, bloccato nel corpo, tradito dalla mente, quasi fosse in un tunnel oscuro e cieco da cui non gli è possibile uscire. In questa condizione, che altro può fare se non sperare che anche la vita del corpo lo abbandoni? È questa la fase più critica della malattia, il momento peggiore e più pericoloso perché la morte sembra sorridergli e gli appare non come rinuncia alla vita, ma come agognata liberazione. In questa fase la terapia elettiva è quella farmacologica perché, agendo direttamente sui sintomi, li contiene e permette così al depresso di riacquistare più rapidamente volontà e interesse per la vita. C’è chi sostiene che oggi ci si ammala di più di depressione perché si tende a controllare maggiormente le emozioni, a reprimerle, a soffocarle. Nelle nostre società industrializzate, il controllo delle emozioni sembra essere diventato una virtù. Manifestare ciò che si sente dentro è considerato una debolezza, un grave difetto: guai a piangere in pubblico, o a ridere, o a cantare. Bisogna essere impassibili, totalmente controllati, di ghiaccio. Sul lavoro si deve dire sempre di sì, accogliendo qualsiasi richiesta, anche la più insensata. A scuola t’impongono le loro idee, scelgono per te autori, materie, testi e tu devi accettarli se vuoi sperare di avere domani un lavoro meno alienante e precario. Persino in famiglia è difficile trovare serenità ed armonia. Problemi economici, comportamenti aggressivi, egoismi manifesti, finiscono col riprodurre in maniera esasperata l’ambiguo gioco dei ruoli che la società impone, creando barriere insormontabili di amarezze e incomprensioni. Solo chi dispone di difese genetiche e mentali più forti non si ammala o almeno riesce a procrastinare nel tempo la caduta nella
depressione. Tutti gli altri cercano di difendersi come possono. Per non pensare si annullano nei modi più diversi -- con alcool, sesso, droghe, giochi d’azzardo -- o utilizzano in maniera compulsiva quei “surrogati di compensazione psicologica” (consumismo, sfrenatezze, spettacoli beceri, attività estreme) che il “circo sociale” inventa per loro. Ma, se il pendolo delle emozioni si ferma, non oscilla più, anche la vita smette di scorrere e allora qualsiasi soluzione, anche la più nefasta, può apparire una via d’uscita. La società contemporanea chiede a tutti di rinunciare alla propria individualità, a quei tratti caratteristici della personalità che, se liberamente manifestati, potrebbero aiutare a vivere meglio, ma che mal si addicono alle esigenze sociali della produzione, del profitto e della carriera. È forse per questa ragione che la seconda metà del Novecento sarà probabilmente ricordata come “l’età della malinconia e dell’alienazione”. Le generazioni del dopoguerra appaiono, infatti, colpite da attacchi di malessere esistenziale (ansie, fobie, ossessioni, depressioni) in misura maggiore rispetto alle precedenti sia per il massiccio ricorso ai “farmaci dell’umore”, sia per i numerosi condizionamenti che la società impone. I vantaggi derivanti dai processi di modernizzazione e il maggior benessere economico vengono pesantemente pagati in termini di maggior stress e di un’accresciuta fragilità psicologica che incide non soltanto sulla qualità della vita, ma anche sulla sua durata.
La sede della tristezza Una decina di anni fa, nell’ospedale parigino della Salpetrière, durante la sperimentazione di una nuova terapia per la cura di pazienti affetti dal morbo di Parkinson, si è scoperto che stimolando elettricamente alcune strutture cerebrali profonde (i gangli della base) situate nella “sostanza nera” dell’emisfero di sinistra, s’inducevano repentine crisi di pianto, dovute a sensazioni di profonda tristezza. Questa scoperta sembra confermare le ricerche condotte sulle strutture cerebrali interne che indicano come sede delle emozioni (pauragioia, piacere-dolore) il sistema limbico, quell’area cerebrale molto antica racchiusa nella parte più profonda dell’encefalo e comprendente talamo, ipotalamo, amigdala, ippocampo, area del setto, corpo mammillare e fornice. Altri studi più recenti, realizzati con l’ausilio della risonanza magnetica e della tomografia a emissione di positroni (Pet), sembrano indicare l’esistenza di fattori cerebrali interni in grado di influenzare direttamente la percezione di due importanti emozioni: la gioia e la tristezza. Parrebbe, infatti, che le persone che si descrivono come tendenzialmente ottimiste e gioiose abbiano una più elevata attività del lobo prefrontale sinistro. Questo lobo sembrerebbe in grado di “smorzare” l’intensità delle emozioni spiacevoli (tristezza, paura, aggressività), bloccando in qualche modo l’attività dell’amigdala e del lobo opposto. Viceversa, il lobo prefrontale destro sarebbe sede dei sentimenti negativi, e pertanto chi è ansioso o depresso farebbe lavorare maggiormente quest’area, coinvolta, al pari di quella sinistra, nella concretizzazione degli stati umorali. La stessa ricerca ha anche rilevato che, di fronte ad avvenimenti inattesi ma “piacevoli”, il cambiamento d’umore (gioia, allegria,
soddisfazione) dura più a lungo negli ottimisti, perché prestano maggiore attenzione a tutti i segnali positivi che ricevono dall’esterno. Per contro, davanti a fatti inattesi ma “spiacevoli”, sono i pessimisti e i depressi quelli che si affliggono maggiormente e per più tempo, perché inclini a focalizzare l’attenzione sugli aspetti negativi di ogni situazione. Una conferma indiretta della “miglior salute” degli ottimisti è data dal diverso livello di anticorpi presenti nel sangue. Si è visto, infatti, che questo livello è molto più elevato nelle persone ottimiste e meno in quelle pessimiste, a riprova della maggiore efficienza del sistema immunitario in chi nutre fiducia ed è portato a vedere il mondo “più rosa”. Ogni emozione è sempre accompagnata da tutta una serie di modificazioni fisiologiche (aumento del battito cardiaco, presenza di zuccheri nel sangue, accelerazione o riduzione della peristalsi intestinale) dovute alla liberazione nel sangue di particolari mediatori chimici (adrenalina, noradrenalina, dopamina, serotonina...) che hanno lo scopo di preparare l’organismo a reagire in maniera adeguata alla situazione che ha provocato l’emozione stessa. Il modo di rispondere con reazioni fisiche diverse alle differenti emozioni dipende non soltanto dal tipo di emozione provata, ma anche dalle inclinazioni personali che, rimanendo pressoché immutate nel tempo, condizionano la percezione di sensazioni ed eventi.
VI
LE FACCE DELLA DEPRESSIONE
La scienza -- compresa quella medica -- è solita basarsi sulla rigorosa osservazione dei fatti naturali per trarre leggi o presunte verità. In questa suo processo di ricerca, non tiene però conto del fatto che la natura è tanto forte e potente da risultare spesso imprevedibile, anche in quelle che dovrebbero essere le attese più certe.
Terapia o prevenzione? Altrettanta aleatorietà si riscontra nel campo dei disturbi mentali, dove non esistono certezze, ma soltanto ipotesi suscettibili di evolversi nella direzione sperata. Per tale ragione, pur con tutte le conoscenze raggiunte, non sono ancora oggi chiare le cause di molte gravi malattie mentali, tra cui anche quelle della depressione. Non conoscendo le cause d’insorgenza del “male oscuro”, non è compito agevole istituire una terapia efficace e risolutiva, e pertanto, nella maggior parte dei casi, ci si limita ad agire sui sintomi per ridurne la gravità. Così facendo si rende silente la malattia, ma non la si sradica, con l’ovvia conseguenza che essa prima o poi ricomparirà. Quale medico serio potrebbe, in scienza e coscienza, dire a un suo paziente che, avendogli curato soltanto i sintomi, è guarito definitivamente dalla sua malattia? È ciò che invece accade nel campo dei disturbi depressivi, dove si trattano solo i sintomi e poi si fa credere al paziente di averlo guarito dalla sua malattia. È questo un luogo comune da sfatare, una falsa credenza alimentata da quella schiera di psichiatri che sostengono che la depressione può essere bloccata sul nascere con la sola assunzione di farmaci antidepressivi, quando invece tutti sanno bene che la loro azione
farmacologica è diretta esclusivamente a ristabilire la funzionalità del sistema di trasmissione dei segnali nervosi, e non già a rimuovere le cause che hanno creato tale disfunzione.. Se fosse come hanno sempre assicurato, con tutti gli antidepressivi che vengono consumati ogni giorno nel mondo, non ci sarebbero 400 milioni di depressi, molti dei quali al limite della disperazione per le continue ricadute e per l’inutilità delle cure seguite. Provate, per curiosità, a chiedere ai pazienti di qualche famoso psichiatra se - dopo aver pagato trecento euro a visita (tre minuti col luminare e poi in mano ai suoi assistenti) ed aver ingurgitato antidepressivi per anni - sono guariti dalla depressione. Certo, fanno più notizia quei pochi personaggi famosi che si prestano a dare testimonianza della loro “felice” esperienza, che non centinaia e centinaia di poveretti che hanno visto svanire nel nulla, con i loro risparmi, anche le residue speranze di guarigione. La supponenza scientifica di certi “baroni” della psichiatria e i colossali interessi economici legati alla produzione dei farmaci, hanno fatto dimenticare a molte persone la regola fondamentale di ogni guarigione: l’individuazione delle cause che hanno prodotto la malattia e la loro rimozione. Non fatevi incantare! Nel campo dei disturbi depressivi non esistono pillole magiche, ma soltanto aiuti farmacologici temporanei che possono servire a contenere i sintomi, facilitando il superamento dei momenti più critici della malattia. La complessità della malattia depressiva, la molteplicità delle sue forme -- ne sono già state classificate a livello clinico 39 -- la pluralità delle cause d’insorgenza, rendono obiettivamente difficile la sua cura e lungo (e tormentato) il percorso che porta alla guarigione. Per tutte queste ragioni -- e anche perché è una malattia invalidante, con un alto rischio di suicidio -- è consigliabile muoversi anticipatamente, nel senso della prevenzione, e non aspettare che faccia la sua comparsa. Quando la malattia è conclamata, tutto diventa più difficile. Il paziente, se è nella fase acuta della malattia, non ha più volontà, interessi, stimoli, e così non collabora e si chiude in se stesso, rifiutando ogni aiuto.
Le sindromi psicotiche A differenza delle nevrosi - originate essenzialmente da problemi di adattamento - le sindromi psicotiche sembrano avere una diversa radicazione, meno legata all’ambiente e più vicina a fattori di tipo genetico-costituzionale. Questo porta a ritenere che la loro insorgenza sia determinata da un cattivo funzionamento del cervello che creerebbe tutta una serie squilibri biochimici in grado di alterare il tono dell’umore. Si tratterebbe, dunque, di un’origine organica. Ma, una domanda sorge spontanea. “È possibile affermare che esistono malattie soltanto organiche ed altre soltanto psicologiche?” A parer nostro: “no”. Infatti, a tutt’oggi, non si conosce ancora l’esatto confine che separa queste due aree, dal momento che cause psicologiche possono scatenare reazioni biochimiche e modificazioni biochimiche possono dar luogo a implicazioni psicologiche. L’unitarietà dell’essere umano esclude ogni tipo di demarcazione, di separazione, di frattura. È, dunque, ragionevole ritenere che nelle sindromi psicotiche siano sempre contestualmente presenti -- sia pure in misura diversa -- fattori
genetici costituzionali e altri di natura psicologica, derivanti dalla difficoltà di adattamento a specifiche situazioni ambientali. In ogni depressione minore (o nevrotica) è facile scorgere una certa fragilità dell’individuo di fronte a pressioni ambientali che lui giudica importanti. Per contro, in ogni depressione maggiore (o psicotica) si possono individuare -- accanto ad una base genetica di predisposizione alla malattia -- le conseguenze e gli effetti di precisi eventi scatenanti, apparentemente anche non gravi. Un caso interessante è la cosiddetta depressione mascherata, caratterizzata da una sorta di pigrizia mentale patologica che si accompagna ad una particolare condizione ansiogena, nota come la “sindrome da risveglio”, capace di far vedere i normali impegni della giornata in modo assai angosciante. Le cose più banali (lavarsi, radersi, vestirsi) diventano così ostacoli insormontabili e la paura di non riuscire a gestirli può far sorgere malesseri spesso fittizi, ma talvolta anche reali (cefalee, disturbi gastrici, digestivi, tachicardie, tremori, nausea), che il malato enfatizza per comunicare agli altri la sua sofferenza. In realtà questa condizione è priva di un importante sintomo caratteristico della depressione: l’insonnia. Si dorme, infatti, benissimo, salvo sapere che puntualmente, il mattino successivo, l’angoscia si ripresenterà appena aperti gli occhi. Il vissuto ansiogeno -- circoscritto alla parte iniziale della giornata -- unito ad altre specifiche condizioni, fa sì che su questa patologia non ci sia unanimità di vedute. Alcuni pensano sia un disturbo d’ansia mascherata; altri la includono a pieno titolo tra le forme depressive minori; altri ancora sostengono sia un modo singolare di vivere uno stato depressivo, la cui natura nevrotica o psicotica non appare del tutto definita. In ogni caso, se il malato prenderà coscienza che i sintomi fisici che manifesta altro non sono che una maschera del suo disagio interiore, avrà certamente compiuto un importante passo avanti nella risoluzione della sua malattia.
Le variabili della personalità Uno dei concetti più difficili da esprimere dal punto di vista psicologico è senza dubbio quello di “personalità”. La definizione stessa, variando da contesto a contesto, non è esaustiva e perciò dà adito a critiche e a precisazioni. È noto che ogni persona ha un suo proprio modo di essere, un sistema caratteristico di valutazione che riguarda se stesso e gli altri, attraverso il quale esprime la propria conoscenza del mondo. Questo modo di essere è la personalità. In altre parole, è l’insieme di tutte le operazioni mentali che servono alla persona per costruire, mantenere o perfezionare la sua unità psicofisica (individualità), differenziandola da quella degli altri. È l’immagine che diamo di noi agli altri; è una sorta di contropelle, una maschera che abbiamo inconsapevolmente plasmato e che portiamo sempre con noi per mostrarla, per esibirla in pubblico. Questo secondo volto -- che traspare sotto le linee del primo -- è per alcuni la sintesi armonica di altre due importanti variabili: il temperamento e il carattere.
Il temperamento può essere definito come l’insieme delle inclinazioni dell’individuo che rispondono alla sua particolare costituzione biologica e alle caratteristiche affettive che lo distinguono dagli altri. Racchiude perciò in sé le tendenze innate proprie di ogni individuo, che possono essere esaltate o avvilite dalla cultura, ma mai cancellate. Secondo la “Teoria degli umori” elaborata da Ippocrate, i vari temperamenti umani deriverebbero dalla mescolanza dei quattro umori di base presenti nel corpo: sangue, muco, bile gialla e bile nera. La prevalenza dell’uno o dell’altro determinerebbe l’orientamento del temperamento individuale e quindi la sua indole (passionale, flemmatica, collerica, malinconica). Il carattere, invece, sembra essere la parte più esterna, l’impronta esteriore che si acquisisce dall’ambiente, dalla famiglia, dalle persone frequentate ed è perciò legato alla storia di ognuno e alle esperienze vissute. Può essere: forte, debole, aggressivo, pacifico, accomodante, inflessibile, rigido, accattivante. Tendenze innate (temperamento) e assimilazione dei condizionamenti ambientali (carattere) si intrecciano profondamente l’un l’altro e costituiscono quell’unità psicofisica chiamata “personalità”. Questa, da un punto di vista patologico, può essere definita ansiosa, fobica, isterica, ossessiva, paranoica, ipocondriaca, a seconda della prevalenza di un disturbo rispetto ad un altro. Il senso conclusivo di questo discorso è che la diagnosi di un qualsiasi disturbo dell’umore -- e quindi anche della depressione -- non può prescindere dalla valutazione dei tratti caratteristici della personalità del soggetto, e deve altresì tener conto della situazione ambientale e della familiarità esistente con questa od altre patologie.
Le depressioni secondarie Le manifestazioni depressive -- al pari di tutti gli altri disturbi dell’umore -- possono comparire anche nel corso di malattie organiche e psichiatriche, oppure possono essere indotte dall’uso di farmaci, droghe o da particolari condizioni ambientali e psicologiche che sottopongono il soggetto a tensioni particolarmente stressanti e disadattative. Le malattie organiche, che più frequentemente di altre possono dare origine a forme di depressione secondaria, sono: -- le malattie neurologiche che, interessando direttamente il cervello, determinano sempre una modificazione dell’equilibrio biochimico cerebrale e quindi dell’emotività (demenza, ictus, meningiti, encefaliti, Parkinson, epilessia, Aids, tumori cerebrali, sclerosi a placche, traumi cerebrali); -- le malattie non neurologiche che, pur non coinvolgendo direttamente il cervello, possono in un secondo tempo riflettersi su di esso. In particolare le malattie infettive (epatite virale tubercolosi, febbre reumatica, mononucleosi); malattie endocrine (tiroidee, ipofisarie, surrenali e ovariche); malattie di organi ed apparati (colite ulcerosa, ulcera duodenale, insufficienza renale, infarto del miocardio, coronaropatie, ipertensione arteriosa, artrite reumatoide, tumori). In tutti questi casi il miglioramento della malattia organica comporta quasi sempre un’evoluzione positiva anche della sintomatologia depressiva. Tuttavia, quando ciò non accade, il disturbo dell’umore deve
essere affrontato a parte, con indagini e terapie appropriate, scollegandolo completamente dal problema principale. VII
I SEGNALI DELLA DEPRESSIONE
L’esistenza di una pluralità di forme di depressione e la ridotta intensità dei principali sintomi nella fase iniziale della malattia, non rendono agevole il suo riconoscimento precoce. Tuttavia, esiste una traccia, un segno anticipatore che può indicare prima di altri la sua indesiderata presenza. Questo segnale, che fa da spia ad uno stato depressivo ormai prossimo alla latenza, è la progressiva perdita -- a causa di un andamento anomalo dell’umore - della capacità di rispondere adeguatamente a quei continui stimoli che ci colpiscono dall’interno e dall’esterno (stressors), e che sono il banco di prova della nostra idoneità di adattamento all’ambiente. L’umore -- lo abbiamo già sottolineato - funge da ammortizzatore emozionale filtrando gli eventi, e si muove tra le diverse emozioni oscillando armonicamente dall’una all’altra, a seconda del sentire del momento. Quando ci si accorge che l’umore non oscilla più regolarmente -e lo si può capire dall’insofferenza, dall’agitazione o dal fastidio provato -- ma rimane innaturalmente ancorato a una sola emozione (tristezza, irritabilità o apatia), vuol dire che è giunto il momento di incominciare a pensare alla depressione. Se poi si notano anche stanchezze inusuali, atteggiamenti d’incomprensibile chiusura, rifiuti mentali e fisici mai avuti in precedenza, con tendenza a isolarsi, scarso o eccessivo appetito, disturbi del sonno o un disinteresse generalizzato, è bene darsi da fare, perché se non si è già depressi, poco ci manca.
Un’informazione poco trasparente La medicina dei nostri giorni presenta sovente condotte paradossali. Una di queste, legata al discorso sulla depressione, nasce dal fatto che non sempre vengono tenute in debito conto esperienze significative del passato. La smania d’innovare a tutti i costi porta sovente a ritenere superati importanti riferimenti che hanno, invece, ancora validità e quindi ragion d’essere. Nel caso della depressione si era arrivati qualche anno fa a suddividerla e a raggrupparla in differenti categorie contrapposte (nevrotica/psicotica, endogena/reattiva, primaria/secondaria, minore/maggiore, lieve/grave) che ne chiarivano immediatamente la natura e la gravità. Ora, questa suddivisione è caduta in disuso perché ci si è orientati a classificare la malattia non di per se stessa, ma in funzione della produzione di nuovi farmaci e degli effetti terapeutici che ne possono derivare. Che bella trovata! E così, per ogni nuovo farmaco scoperto, vengono subito individuate altrettante nuove forme patologiche di depressione che rivoluzionano tutte le precedenti classificazioni, rendendo inutile molto del lavoro fatto in precedenza. A parte ogni altra considerazione, ciò che balza immediatamente agli occhi è il totale asservimento della scienza medica agl’interessi dell’industria del farmaco che crea un’assurda e dannosissima dipendenza. È una preoccupazione questa segnalata ripetutamente da numerosi autorevoli personaggi del mondo scientifico internazionale, allarmati dal fatto che enti e associazioni medico-scientifiche sono sempre più condizionati dai finanziamenti delle
case farmaceutiche, interessate a promuovere l’uso dei loro farmaci attraverso ricerche pilotate e servizi forzosamente elogiativi, presentati con enfasi sulle più importanti riviste del settore e nei congressi. Peter Glassman, ricercatore presso l’Università della California, spulciando i bilanci di alcune prestigiose riviste mediche americane che godono di grande considerazione in tutto il mondo (Journal of American Medical Association, New England Journal of Medicine, Annals of Internal Medicine), ha scoperto che la loro sopravvivenza era garantita quasi per intero dagli introiti pubblicitari, così alti da rappresentare una vera e propria dipendenza economica nei confronti di diverse case farmaceutiche. Segnalazioni analoghe, comparse su altre autorevoli testate, hanno messo in luce una sudditanza economica tale da compromettere ogni libertà d’azione e, in diversi casi, anche gli obiettivi primari degli enti medesimi. In altre parole, si viene a creare non soltanto un condizionamento psicologico che funge da barriera nei confronti degli altri concorrenti presenti sul mercato, ma anche una vera e propria azione collusiva che mira a fornire al pubblico informazioni parziali e non trasparenti, per favorire gli interessi delle case farmaceutiche maggiormente “benefattrici”. L’esistenza di norme legislative lacunose e poco chiare, ha favorito il proliferare di questi comportamenti a danno di tutta la collettività. Tuttavia, se in America si piange, in Italia certamente non si ride. Le vicende “Lipobay” (agosto 2001) e “Glaxo Wellcome” (febbraio 2003) hanno fatto emergere l’esistenza di dinamiche corruttive che coinvolgevano medici, primari, docenti universitari, ricercatori e dirigenti ospedalieri, accusati tutti di attività di comparaggio per aver favorito e prescritto, in cambio di denaro e doni vari, i prodotti delle case farmaceutiche incriminate. Allo sconcerto del pubblico, fa riscontro l’amarezza dei tanti medici seri che svolgono il loro lavoro con onestà e amore.
Classificazione dei disturbi depressivi Federico Fellini si è sempre dichiarato fortunato perché non aveva mai conosciuto -- a differenza di molti altri suoi colleghi del mondo della celluloide -- “l’abisso senza fondo e il terribile gelo della vera depressione”. Da uomo curioso qual era, non si meravigliava mai di nulla ed era sempre vivacemente proteso alla scoperta, alla conoscenza di tutto ciò che esisteva, pronto a cogliere anche le sfumature più piccole, quelle che agli altri abitualmente sfuggivano. “Perché -- si chiedeva stupito -- dobbiamo essere così presuntuosi da escludere che siamo attraversati da raggi invisibili provenienti da tutte le direzioni e che siamo fatti di equilibri delicatissimi continuamente minacciati? Ma, se basta un po’ di tepore di sole per farci vedere il mondo migliore e uno spiffero d’aria per mal disporci nei confronti degli altri, perché mai pretendiamo di dare giudizi, teorie, spiegazioni se non sappiamo assolutamente nulla?”. Sagge parole, ahimè, troppo spesso inascoltate. Sanno, invece, molto gli estensori del DSM IV (il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) dell’American Psychiatric Association, che è la Bibbia della psichiatria mondiale, ossia il testo di riferimento per la diagnosi dei disturbi mentali e psichici. Basandosi
soltanto sui sintomi, sulla loro durata e sull’assenza di fattori organici conosciuti, hanno suddiviso le forme depressive in: -- Disturbi Unipolari (Depressione Maggiore, Distimia, Depressione Minore) -- Disturbi Bipolari (Disturbo Bipolare I, Disturbo Bipolare II, Ciclotimia) -- Disturbi Secondari (di cui si è già parlato e chiamati così in quanto conseguenti ad altre malattie o indotti da sostanze). La validità di tale classificazione è, però, soltanto temporanea in quanto soggetta a periodiche, profonde revisioni.
La Depressione Maggiore È una sindrome clinica caratterizzata principalmente dalla presenza di umore depresso, di apatia e dall’incapacità di provare piacere (anedonia) per ciò che prima era fonte di interesse e di soddisfazione. Questi sintomi -- presenti per più di due settimane -- di solito coesistono, anche se talvolta chi ne soffre non riesce a coglierli tutti, ma si limita a considerare soltanto quello più evidente che è la tristezza esistenziale. La Depressione Maggiore è una malattia che ha una frequenza molto variabile. Può, infatti, manifestarsi con un episodio singolo, unico in tutta la vita, o con episodi sporadici, distanziati anche di molti anni fra loro, oppure con episodi ricorrenti la cui durata varia da pochi giorni fino anche a diversi mesi o anni (depressione cronica). L’episodio depressivo maggiore può essere di varia entità (lieve, moderato o grave); con o senza manifestazioni psicotiche (deliri, allucinazioni); o, viceversa, essere accompagnato da manifestazioni di tipo catatonico come l’immobilità o l’eccessiva attività motoria; oppure può presentare manifestazioni atipiche come l’aumento dell’appetito o del sonno. Per qualificare uno stato di tristezza profonda come Depressione Maggiore, il DSM IV postula la presenza contemporanea di almeno cinque dei nove sintomi qui di seguito indicati, che devono manifestarsi per un periodo di almeno due settimane. Questi sintomi sono: 1. Umore depresso per la maggior parte del giorno; 2. Rilevante diminuzione d’interesse per tutte le attività per la maggior parte del giorno; 3. Significativa riduzione di peso senza essere a dieta, e parallela diminuzione d’appetito (oppure aumento di peso e di appetito), 4. Insonnia o ipersonnia (sonno prolungato) quasi ogni giorno; 5. Agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno; 6. Faticabilità o mancanza di energia quasi ogni giorno; 7. Sentimenti di autosvalutazione o di colpa eccessivi o inappropriati, quasi ogni giorno; 8. Ridotta capacità di pensare o di concentrarsi, o indecisione quasi ogni giorno; 9. Pensieri ricorrenti di morte (ideazione o pianificazione di tentativi di suicidio). Tali sintomi devono, inoltre, causare un disagio clinicamente significativo o compromettere le normali attività di relazione e di lavoro, senza peraltro essere causati da sostanze tossiche o farmacologiche, od essere conseguenza di lutti, perdite o abbandoni. In
ogni caso uno dei cinque sintomi presenti deve essere necessariamente costituito da umore depresso o da perdita di interesse o piacere. La diversità dei sintomi -- comuni spesso ad altre malattie e anche opposti tra loro (insonnia o sonno prolungato, perdita di peso o aumento di peso) -- fa ben capire la difficoltà di arrivare a una precisa diagnosi, che diventa invece più certa davanti a pensieri e a propositi di suicidio. Non bisogna, infatti, dimenticare che circa la metà delle persone affette da Depressione Maggiore ha pensato o tentato almeno una volta il suicidio, mentre un terzo di esse (16%) lo ha realizzato. Questa propensione al suicidio può, nei casi estremi, coinvolgere altre persone. Di fronte alla minaccia di un avvenire sempre più oscuro, il depresso può decidere di trascinare con sé nella morte anche i propri familiari, con l’intento di sottrarli a una vita che egli giudica inutile o impossibile da gestire. Ulteriori elementi di rilevanza diagnostica sono: la gravità dei sintomi; la loro durata che, come abbiamo visto, può essere brevissima o protrarsi per anni; la loro periodicità, che fa sì che si ripetano a intervalli più o meno regolari di tempo; la repentina variabilità dell’umore, che rende il soggetto imprevedibile o perché assolutamente indifferente, oppure perché eccessivamente reattivo nei confronti di eventi di per sé insignificanti. Chi soffre di questa forma di depressione ha, di solito, pochi argomenti di conversazione: parla svogliatamente, a bassa voce, con tono piatto e monocorde. Non ama la folla, gli spazi aperti, quelli troppo angusti o stretti, in quanto molto spesso soffre anche di altri disturbi (manie, fobie) legati all’ansia. A queste persone mancano le energie e a loro tutto risulta più pesante e faticoso. Persino le attività quotidiane e di minor impegno -- come per esempio il vestirsi, il radersi o il truccarsi -- diventano fardelli gravosi che fanno malvolentieri poiché richiedono per loro assai più tempo ed energia del dovuto. Chi è depresso molto spesso non riesce neppure a lavarsi, ad aver cura del suo aspetto o del suo stato fisico. È completamente estraneo a se stesso: non gli importa nulla di essere trasandato e di ciò che gli altri pensano di lui. Il suo è un mondo indifferente, privo di colori, di odori, di sapori, di interessi, di emozioni: un mondo che non sente più suo e a cui rinuncia di appartenere per disistima, indegnità o autodisprezzo. Anche il suo pensiero ne soffre: è lento, monotono, privo di flessibilità e d’iniziativa. L’attenzione poi, sempre inchiodata su temi melanconici, rende povera la sua progettualità, difficoltose le associazioni, penosi i suoi ricordi. Tutto per lui è irrilevante, tranne l’inizio della giornata. Il mattino è per il depresso un vero tormento: è il momento peggiore del giorno perché preludio di azioni e di cose da fare. Ogni attività -- anche la più semplice e banale -- viene percepita come un impegno fastidioso che opprime e che si vorrebbe evitare. Poi, col passare delle ore, le cose sembrano andare meglio, anche perché ci si avvicina alla sera, il momento meno pesante della giornata, quello che il depresso vive meglio perché lo fa sentire meno “impegnato” nei confronti di se stesso e degli altri. Un altro aspetto caratteristico di questa malattia è la ciclicità non soltanto giornaliera, ma anche stagionale, con momenti di acuto peggioramento in autunno/inverno e di parziale miglioramento in primavera/estate, proprio in coincidenza con i periodi di maggior luce. Le ragioni di tale ciclicità non sono ancora ben chiare, ma fanno riferimento alla diversa presenza nel sangue di particolari ormoni legati
alla variazione della temperatura corporea e al ciclo di produzione della melatonina che, come si sa, partecipa alla regolazione di alcune importanti funzioni neurovegetative quali il sonno, l’assunzione di cibo e quindi anche l’umore. Nel DSM IV è classificata anche una sindrome chiamata Depressione Minore che presenta gli stessi sintomi della Depressione Maggiore, ma di intensità più lieve. Questa malattia, per le sue particolari caratteristiche, viene spesso confusa con la Distimia - che però dura più a lungo - o con altre sindromi depressive meno gravi e intense. VIII
LA DISTIMIA
La storia dei disturbi dell’umore -- conosciuti fin dall’antichità e descritti in modo anche discorde -- riflette la difficoltà di individuare i confini di tali malattie che hanno aspetti così complessi e discordanti da trarre sovente in inganno anche gli operatori più attenti e preparati. Il vero problema è che ogni forma depressiva ha una sua storia segreta fatta di segni e di tempi diversi, una trama invisibile che si svolge silenziosamente e che conduce a smarrire il senso della vita. Che fare? Occorre valutare ogni aspetto, il più piccolo segnale, per poter riconoscere la depressione il più precocemente possibile e porvi così immediato rimedio.
Criteri diagnostici generali La diagnosi di un paziente depresso non è per nulla agevole. Tuttavia, alcuni segni esteriori evidenti possono aiutare a identificarla con sufficiente precisione. Vediamoli brevemente: perdita improvvisa di cura per la propria persona che si traduce in un aspetto trascurato e dimesso; apatia, indolenza, sciatteria (anche nel vestire) riflettono un calo d’interesse e scarsa vivacità mentale; sguardo triste e assente, cui spesso s’accompagna un eloquio grave, piatto, tedioso, fatto di discorsi brevi e di risposte a monosillabi. Lo specialista, però, non si limita a questi soli segni esteriori, va oltre. La vera difficoltà che incontra non è tanto la diagnosi differenziale della malattia, che spesso è immediata, quanto la collocazione dei disturbi riscontrati nel paziente in una delle numerose forme di depressione previste dal DSM IV. A tal fine, focalizzerà la sua attenzione su tre principali fattori: la presenza di un gruppo ben definito di sintomi, la loro durata e la loro intensità. Il sintomo da cui partire è sempre la tristezza, ossia quello stato di cupo e profondo abbattimento che conduce il malato a un progressivo distacco emozionale dalle persone a lui più care e da tutto ciò (situazioni e oggetti) che un tempo andava ricercando perché a lui graditi. La tristezza, come tutte le emozioni, è un momento mutevole dell’animo umano, e come tale non deve durare troppo a lungo. Si è tristi per una molteplicità di ragioni: per un lutto, per una malattia, per un amore non corrisposto o finito, per una perdita, per un danno, per un litigio, per qualsiasi cosa che ci ha turbato nel profondo. Tuttavia, quando la tristezza è protratta nel tempo o assai cupa, o spropositata o non legata a una causa precisa, ma è espressione di un più generalizzato
disagio di vivere, ecco che allora diventa elemento qualificante per ipotizzare l’esistenza di una qualche forma di depressione. Altrettanto importante è valutare la durata dei sintomi depressivi che dovranno essere presenti per un periodo di tempo significativo, ossia adeguato alla gravità della condizione. Mesi e mesi di disperazione o di profondo abbattimento di fronte ad un evento sia pure grave, sono in ogni caso segni indicatori di una risposta adattativa non corretta e quindi di una probabile patologia. Di solito, la durata di un episodio depressivo acuto “trattato farmacologicamente” varia da sei a dodici mesi. Se però il trattamento non ha avuto successo, è possibile che duri più a lungo (due o più anni), con eventuale persistenza di sintomi residui che tendono a cronicizzarsi. Ulteriore elemento di diagnosi è l’intensità dei sintomi che viene misurata in base a tre diversi criteri: la quantità di disagio e di sofferenza prodotta; gli impedimenti reali che ne derivano e il rallentamento dei processi decisionali e cognitivi del soggetto.
La Distimia Il proliferare di sindromi depressive e il numero crescente di persone colpite, sono lo specchio di una situazione evolutivamente complessa. La maggior frequenza di queste patologie mentali deriva da diversi fattori, tra cui anche il fatto di vivere in società che impongono modelli disumanizzanti, basati sull’esasperata competitività e sulla negazione d’importanti bisogni individuali -- quali l’autostima e l’autorealizzazione -- che sono poi quelli che danno valore e senso alla vita. Quest’alienante realtà crea nelle persone prima frustrazione e sgomento, poi un angosciante senso di vuoto che conduce a una progressiva perdita d’identità, pericoloso momento anticipatorio di quel malessere esistenziale che spinge a rinunciare alla vita. E così ci si scopre incapaci di gioire, privi di una propria volontà, omologati, passivi, in una condizione di sudditanza psicologica che costringe a fare ciò che gli altri vogliono e non ciò che si vorrebbe. Una simile condizione di vita è in grado di disarticolare qualsiasi equilibrio, tanto più se reso precario da esperienze dolorose non ancora superate, e di far precipitare nell’angoscia, nell’apatia e nell’isolamento. Da questo lacerante conflitto fra ciò che si sente e ciò che invece si fa, nasce e si sviluppa una sensazione di totale inutilità che è spesso causa di quel doloroso processo di “scollamento dalla vita” che chiamiamo “depressione”. Tra le numerose forme di depressione, la Distimia rappresenta meglio di altre questo graduale distacco dalla realtà, dal momento che si manifesta con una progressione così lenta e impercettibile che rende assai difficile l’individuazione precoce della malattia. Da un punto di vista clinico la Distimia -- al pari della Depressione Maggiore -- è inserita nel gruppo dei disturbi unipolari, ossia tra quelle sindromi depressive caratterizzate da umore depresso, da apatia e da incapacità a provare piacere. Si distingue dalla “sorella maggiore” solamente per una sintomatologia più attenuata, anche se di più lunga durata. Fino a qualche anno fa la Distimia era considerata più genericamente uno dei tanti disturbi dell’umore proprio a causa dei suoi sintomi poco gravi che vedevano l’alternarsi nel tempo di episodi
depressivi intercalati da periodi di apparente normalità; per tale ragione veniva fatta rientrare come “nevrosi depressiva” nella categoria delle psiconevrosi. Oggi, invece, il DSM IV la classifica come disturbo depressivo cronico, caratterizzato dalla presenza di sintomi di grado lieve, capaci però, a causa della loro persistenza, di incidere pesantemente sullo stile e sulla qualità di vita del malato. Il decorso della Distimia tende, di solito, a persistere nel tempo e presenta una durata media di circa tre anni, anche se si possono avere casi in cui la malattia si protrae per otto-dieci anni. Chi ne soffre -- avendo perso la dimensione della vita normale - è convinto di essere nato depresso e di non aver mai vissuto un giorno felice: ma, non è così. I sintomi più manifesti sono: l’umore depresso; una significativa caduta dell’autostima; un’accentuata affaticabilità, dovuta a frequenti perdite di energia; una sensibile riduzione della capacità di concentrazione, unita ad evidenti difficoltà decisionali; insonnia o ipersonnia; scarso appetito o iperfagia, il tutto accompagnato da sentimenti di abbattimento e di disperazione. Per formulare una diagnosi attendibile è necessario che i sintomi indicati siano non episodici, persistenti e presenti quasi tutti i giorni per almeno un anno. Per una diagnosi più certa, devono essere esclusi tutti gli altri disturbi depressivi (forme maniacali e ciclotimiche) e il paziente in esame non deve essere portatore di personalità melanconica. Ed è proprio per quest’ultima ragione che la Distimia viene spesso sottodiagnosticata, in quanto si tende ad attribuirne i disturbi al carattere della persona e non alla presenza di questa patologia. Le terapie adottate -- farmacologiche o non -- dovranno essere associate alla psicoterapia e portate avanti per un tempo sufficientemente lungo, con richiami stagionali in autunno e primavera.
Una malattia sociale Al culmine del loro apparente benessere materiale, le nostre società opulente scoprono di soffrire di una varietà incredibile di mali a lungo ignorati. Se ventitré secoli fa Diogene andava in giro con la sua lanterna a cercare un uomo onesto, oggi farebbe ancor più fatica a trovare un uomo soddisfatto di sé e non depresso. Le società industrializzate contemporanee sono fonti di malesseri così ampi e generalizzati che neppure la crescita del tenore di vita riesce a mascherare. Molte delle protezioni che hanno funzionato in passato -- religione, patriottismo, famiglia -- sembrano aver perso oggi efficacia e così una crescente moltitudine di persone sente di essere esposta ai ricatti psicologici della società: efficienza, competitività, consumismo, ricchezza. A questi “usi sociali” si deve sacrificare tutto, compresi libertà, equilibrio e salute. E così si costruiscono abitudini ritualizzate che hanno il compito di “coprire” l’ansia e le insoddisfazione provate. Con simili scelte di vita è facile che compaia la Distimia o una qualsiasi altra forma depressiva, come a ricordarci che siamo sulla strada sbagliata e che dobbiamo cambiare. La malattia esordisce prevalentemente in età giovanile, anche se non mancano casi di esordio più tardivo in età matura o avanzata. Per la sua durata, ma soprattutto per l’impatto negativo che ha sull’attività lavorativa, la Distimia può essere collocata tra le malattie sociali a più alta incidenza e in particolare tra quelle in grado di favorire
comportamenti autodistruttivi come l’alcolismo, l’uso di droghe o l’abuso di farmaci. Due aspetti caratteristici ma contraddittori di questa malattia sono: la possibilità che possa passare da sola, anche se in un lasso di tempo piuttosto lungo, mediamente superiore ai cinque anni; il rischio che possa, invece, sfociare in episodi depressivi più gravi. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità questa malattia colpirebbe oggi l’8% della popolazione mondiale, ma il dato sembra essere fortemente sottostimato.
Emozioni senza slancio Astenia, esaurimento, svogliatezza, sono i sintomi d’esordio di una condizione che compare subdolamente e che poi si radica nella mente della persona, autoalimentandosi con le esperienze del vivere quotidiano. Il distimico si sente infelice e lo avverte distintamente perché vive avvolto in una perenne coltre di tristezza -- immutabile e senza tempo -che spesso inizia nell’adolescenza e può protrarsi sino all’età adulta ed andare anche oltre. Le prime delusioni sentimentali, i problemi familiari e scolastici inaspriscono tale condizione che è sovente associata ad altre patologie psichiche come ansia, ossessioni, fobie e tic. Nel distimico tutte le emozioni, piacevoli e spiacevoli, sono vissute sempre senza entusiasmo, con una sorta di tiepidezza disarmante che rasenta l’indifferenza. Ciò perché il distimico accetta con rassegnazione e ineluttabilità il suo destino di tristezza cronica, pensando sia l’unica condizione esistenziale che conosce e gli appartiene. Sembra quasi un modello di vita accettato passivamente e via via codificato nel tempo. Stando così le cose, l’intervento terapeutico più appropriato non può che essere rivolto a scardinare quest’autolimitazione e a far capire al paziente che esiste un altro modo di vedere la vita e di viverla con sensazioni ed emozioni più piacevoli e gratificanti. Le ricerche degli ultimi anni sulle possibili cause della malattia evidenziano l’esistenza di una carenza di dopamina, un neurotrasmettitore che sembra stimoli la “voglia di fare”, la “ricerca di novità” e quindi anche lo stress e il rischio. La terapia farmacologica oggi più seguita prevede l’uso di molecole antidepressive -- in particolare le benzamidi - che paiono in grado di potenziare l’attività dopaminergica. Non va, comunque, dimenticato che in medicina non esistono certezze: ogni affermazione deve essere sempre riferita allo stato attuale delle conoscenze acquisite e alla possibilità di essere smentiti in ogni momento. Per quanto concerne le psicoterapie, la vera difficoltà è rappresentata dal contatto iniziale col paziente distimico, di solito poco propenso ad approfondire le esperienze della sua vita e a mettere in discussione i modelli cognitivi che ha elaborato.
IX
LA TRISTEZZA STAGIONALE
L’instabilità dell’umore, che è uno dei parametri fondamentali del disturbo depressivo, può manifestarsi in molteplici e svariate forme. Come tutte le funzioni ritmiche dell’organismo, anche l’umore, con le sue caratteristiche oscillazioni, è collegato al ciclo giornaliero (circadiano) notte-giorno. Questo ciclo -- iscritto nel patrimonio
genetico di uomini, animali e piante -- è finalizzato a regolare i ritmi di attività e di riposo (veglia-sonno) che sono indispensabili per il benessere di ogni creatura vivente.
Il ruolo del sonno Nelle persone depresse è molto spesso presente un’alterazione della funzione del sonno che si manifesta con ripetuti risvegli, difficoltà di addormentamento, anticipazione del risveglio mattutino, con la conseguenza di far diminuire le ore totali di sonno e di rendere il riposo assai poco ristoratore. Se trascorriamo un terzo della nostra esistenza dormendo, un motivo ci sarà pure. Il sonno favorisce il reintegro dell’energia muscolare consumata durante la veglia; “mette a riposo” diversi organi ed apparati; rende più efficiente il sistema immunitario con la produzione delle citochine; infine permette ai processi mentali cognitivi, e in particolare alla memoria, di elaborare con più calma tutte le informazioni ricevute durante la giornata, memorizzando quelle utili e scartando quelle inutili. William C. Dement -- appassionato studioso della materia -- ricorda che “siamo una società di assonnati”, ossia che dormiamo troppo poco rispetto alle nostre reali necessità, tanto che “in quest’ultimo secolo abbiamo perso mediamente un’ora e mezzo di riposo notturno”. Aggiunge, per coloro che pensano di poterne fare a meno, che è scientificamente provato che per star bene occorre mediamente un’ora di sonno ogni due di veglia, il che equivale a circa otto ore di sonno al giorno. “Noi non ci facciamo caso -- chiarisce Dement -- ma il nostro cervello tiene conto di tutto il sonno che abbiamo perso giorno dopo giorno e, quando meno ce l’aspettiamo, ci presenta il suo conto che, tradotto in termini per noi comprensibili, significa spossatezza, stress e calo dell’umore”. Chi di notte dorme bene, e per il tempo necessario alle sue esigenze psicofisiche, al mattino sprizzerà energia e ottimismo da tutti i pori: sarà più sereno, raggiante, pieno d’iniziativa, proprio l’opposto di chi è depresso. Dormire non è, dunque, una perdita di tempo o una cattiva abitudine -- come lascia, invece, intendere uno studio dell’University of California di San Diego secondo il quale soltanto chi dorme tra le cinque e sette ore per notte vivrebbe più a lungo - ma è un modo intelligente e semplice per star bene e prendersi cura di sé. È bene, però, sapere che il sonno diurno non ha per l’organismo gli stessi benefici effetti di quello notturno. Non riesce, per esempio, a “mettere a riposo” il sistema cardiovascolare; non inibisce la produzione di cortisolo, “l’ormone dello stress”, la cui eccessiva presenza può avere effetti negativi su diversi organi, tra cui il cervello; infine non favorisce la secrezione dell’ormone della crescita (o GH), che viene prodotto di notte ed ha un ruolo fondamentale per l’accrescimento dei bambini e per la sintesi delle proteine negli adulti.
I ritmi biologici Il sonno è un bene davvero prezioso: è il modo insostituibile con cui si recuperano energie fisiche e psichiche, e la sua privazione può avere effetti devastanti sull’intero organismo. L’uomo ha spesso provato a farne a meno, ma ne è uscito sempre sconfitto. Il bisogno di dormire è
imperioso e forte: quando c’è, si fatica a mantenere l’attenzione, ad elaborare e memorizzare dati, a prendere decisioni, a fare qualunque cosa, fino a quando, vinti dal suo ultimo attacco, si cade inevitabilmente addormentati. Il sonno è vita a tutti i livelli (fisico, psichico, biologico), ma molti lo dimenticano preferendo rinunciarvi per fare altro. Il fatto è che l’avvento della luce elettrica ha sovvertito molti dei nostri ritmi biologici giornalieri, facendoci staccare dal tempo reale che è quello scandito dalla natura. Da milioni e milioni di anni fino a circa un secolo e mezzo fa, l’uomo è sempre andato a dormire col calare della notte e si è alzato alle prime luci dell’alba. Tutte le attività quotidiane sono sempre state regolate dall’alternanza naturale del buio e della luce, che hanno effetti specifici sul corpo e sulla mente. Sappiamo, infatti, che le cellule della ghiandola pineale (epifisi) producono un importante ormone, la melatonina, che scandisce i più importanti ritmi biologici della nostra vita. Una particolare caratteristica della melatonina è quella di essere molto sensibile all’alternanza luce/buio sia giornaliera (notte, giorno), sia stagionale (inverno, estate), dal momento che la sua massima produzione è legata alla totale assenza di luce. Nelle persone adulte e sane, i livelli di melatonina aumentano rapidamente al calare della sera e raggiungono la massima concentrazione tra mezzanotte e le tre, proprio nel bel mezzo delle ore di buio e quindi di sonno. Viceversa durante il giorno, quando c’è luce, la produzione di melatonina si riduce toccando i livelli più bassi e rimane tale fino all’imbrunire. Una volta secreta, la melatonina si riversa nel sangue dove, legandosi alle proteine, raggiunge diversi bersagli tra cui l’ipotalamo, una complessa struttura cerebrale sede del cosiddetto “orologio biologico”, che svolge attività di controllo su una molteplicità di funzioni: da quelle vegetative (sonno, veglia, fame, sete, termoregolazione) a quelle endocrine e comportamentali (umore, dolore, piacere...). Poiché la massima produzione di melatonina coincide con le ore di pieno buio e di riposo profondo, una qualsiasi attività fisica notturna, al di fuori del sonno, determina una drastica riduzione dei suoi livelli con conseguenze non trascurabili sulla qualità del riposo che, a sua volta, si riflette sull’umore e sul sistema immunitario. Analoga situazione si riscontra nei ritmi circannuali -- quelli aventi ciclicità più lunga come, ad esempio, l’alternarsi delle stagioni -- dove sono state notate le stesse significative variazioni di produzione di melatonina. Soprattutto in autunno e in inverno, a causa del prolungarsi del periodo di buio, si nota un progressivo aumento di melatonina che fa arrivare “all’orologio ipotalamico” un preciso messaggio di tipo invernale. Si avrà, dunque, maggior appetito, minor energia, maggiore sonnolenza, maggiore bisogno di riposo (letargia) e un umore tendente al depresso. Viceversa, in primavera e in estate, con il prolungarsi del periodo di luce, si ha una riduzione della concentrazione di melatonina notturna e quindi stimolazioni opposte, di tipo estivo: minor appetito, maggior energia, minore sonnolenza, minore bisogno di riposo e umore orientato all’euforia. Quello che qui ci preme evidenziare è il diretto legame esistente tra la melatonina e altri due importanti neurotrasmettitori -- serotonina e dopamina -- che si ritengono implicati negli stati depressivi.
Melatonina e serotonina sono intimamente legate fra loro in quanto prodotti dalla trasformazione di una stessa sostanza, il triptofano, un composto organico presente in alcuni alimenti proteici quali latte, carne, pesce, banane. Sotto l’azione di due particolari enzimi, il triptofano viene prima trasformato in serotonina e poi -- attraverso due ulteriori reazioni enzimatiche -- in melatonina. Questi due ormoni non sono concomitanti, ma hanno un andamento ciclico opposto, tale per cui alla massima presenza dell’uno, fa riscontro la minore concentrazione dell’altro. Alti livelli di melatonina nel sangue rappresentano per l’organismo un messaggio di tipo “invernale” (depressivo); viceversa, alte concentrazioni di serotonina forniscono all’ipotalamo un’informazione opposta, ossia di tipo “estivo”. È per tale ragione che gli SSRI -- i noti farmaci antidepressivi che inibiscono la ricaptazione della serotonina -- determinando un incremento di serotonina nel sangue, agirebbero sull’umore dando al corpo un messaggio euforizzante di tipo estivo (più luce, meno buio) che fa ridurre immediatamente la produzione di melatonina. Più complesso e ancor meno chiaro è il ruolo della dopamina, un neurotrasmettitore che interviene in tutti i più importanti processi cerebrali. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che una delle cause della depressione possa essere la carenza di dopamina nel sangue, la cui azione sembra stimolare la “voglia di fare” e la “ricerca di novità”, comportamenti tipici del mondo maschile, realizzati a prezzo di un più elevato livello di stress e di rischio. Questo, secondo loro, dovrebbe spiegare perché le donne sono più colpite dai disturbi depressivi rispetto agli uomini, ma a noi pare non sia così. Lo stress, ne parleremo più avanti, ha un ruolo fondamentale nell’insorgenza della depressione e colpisce chiunque, indipendentemente dal sesso di appartenenza. L’ipotesi comunque più verosimile è quella che ritiene la depressione conseguenza di uno squilibrio di tutti questi tre ormoni (melatonina, serotonina e dopamina) che, variamente presenti nel sangue, finirebbero coll’alterare l’equilibrio ormonale delle aree cerebrali connesse con le emozioni, favorendo la caduta del tono dell’umore.
Il Disturbo Affettivo Stagionale La depressione, pur presentando un’ampia variabilità di forme cliniche, ha come base comune la ciclicità e la ricorrenza. Già Ippocrate, nel V secolo a.C., aveva capito l’importanza di osservare le malattie facendo attenzione al periodo dell’anno in cui esse comparivano. È questo il modo giusto per dare rilievo all’influenza delle condizioni ambientali che hanno grande importanza sullo stato di salute dell’individuo e sulla sua capacità di adattarsi ai diversi contesti. Oggi, esiste una scienza, la cronobiologia, che si occupa proprio di questi aspetti e che studia le relazioni esistenti tra fenomeni biologici e ritmi naturali, tra situazioni organiche ed eventi ambientali. Il Disturbo Affettivo Stagionale -- noto con la sigla SAD (Seasonal Affective Disorder) e recepito anche dal DSM IV - è la riprova dell’influenza che il clima esercita sui disturbi dell’umore e del comportamento. Il SAD è una forma molto diffusa di depressione che può configurarsi in due differenti modi: come disturbo autunno-invernale, caratterizzato da umore depresso e come disturbo primavera-estivo, meno frequente e con caratteristiche diverse. La primavera può, infatti,
produrre un apparente benessere e un inconsueto attivismo che sono però soltanto fittizi in quanto durano poco e finiscono il più delle volte col trasformarsi in depressione, dissolvendo quell’illusoria sensazione di felicità. Diversa è la depressione autunnale. L’autunno è per molte persone sintomo di tristezza e di melanconia, tanto da produrre una rilevante perdita di energia che fa precipitare nell’abbattimento e nell’apatia. Questo stato -- caratterizzato da umore basso, da spossatezza, da sonnolenza diurna e da aumento di peso per maggior assunzione di carboidrati -- può durare anche tutto l’inverno e attenuarsi soltanto in primavera, oppure trasformarsi nella sindrome estiva, descritta in precedenza, e poi ripresentarsi in autunno. La scienza conferma che le buie giornate invernali favoriscono questo tipo di depressione. Quando l’intensità e la durata della luce solare diminuiscono, la ghiandola pineale produce una quantità maggiore di melatonina che fa diminuire proporzionalmente i livelli di serotonina nel sangue. La presenza concomitante di questi fattori -- minore produzione di serotonina e rilevante aumento di melatonina -amplificherebbe le sensazioni di abbattimento mentale e fisico, facendo emergere tutti gli altri problemi psicologici apparentemente superati, ma in realtà soltanto rimossi. Questo spiegherebbe l’alto numero di depressi - e di conseguenza anche di suicidi - presente nei Paesi scandinavi, dove l’irraggiamento solare e la durata della luce sono ridotti e meno intensi. Come tutti gli animali che in inverno cadono in letargo e riducono le loro principali funzioni organiche (compresa quella riproduttiva), anche l’uomo avverte biologicamente questa necessità. Tuttavia, poiché è ormai distaccato dai ritmi naturali della vita lavorando anche di notte e nei periodi destinati al riposo, cade inconsciamente in conflitto con se stesso e finisce con l’ammalarsi. Questa contrapposizione tra esigenze biologiche ed esigenze sociali è spesso causa di profonde disarmonizzazioni che, acuite da altri vissuti personali di sofferenza, possono facilmente trasformarsi in SAD. Rientra in questo quadro clinico anche la “tristezza invernale” -conosciuta come winter blue -- frequentemente presente e molto penosa nelle ricorrenze annuali e soprattutto nelle festività di fine anno.
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I DISTURBI BIPOLARI
La depressione fa parte di un gruppo molto vasto di disturbi che comprendono da un lato le sindromi d’ansia e da stress -- spesso precursori di diverse forme depressive -- dall’altro i disturbi dell’umore nelle loro molteplici gradazioni. Stanchezza mentale, ansia e depressione sono condizioni talmente “vicine” da essere sovente confuse tra loro, anche al di là delle rigide classificazioni imposte dai manuali psichiatrici. La presenza concomitante di molti sintomi comuni, differenti soltanto per intensità e durata, rende difficile la diagnosi e così spesso si lascia trascorrere troppo tempo prima di accorgersi di essere caduti nella trappola della depressione.
Euforici, ma depressi
Tra le sindromi depressive di più difficile individuazione ci sono i Disturbi Bipolari, chiamati anche psicosi maniaco-depressive. Questi disturbi, che possono presentarsi in una grande varietà di forme, hanno sempre un denominatore comune: l’alternanza di periodi di euforia (up) ad altri di depressione (down). Di solito sono patologie a carattere ricorrente, contrassegnate da periodi depressivi seguiti da altri di euforia (mania) di durata sufficientemente ampia. L’alternanza di questi periodi e la loro frequenza sono molto varie: fra un episodio e l’altro, possono anche verificarsi recuperi parziali o totali di umore, senza apparenti intralci nelle attività abituali di lavoro e di relazione. Il bilanciamento tra fasi depressive e fasi di euforia è un delicatissimo meccanismo che può essere alterato da fattori fisici, chimici, genetici, climatici, dai vissuti personali del soggetto, dal tipo di educazione ricevuta e dai ritmi biologici giornalieri. Nell’ambito di questo gruppo di patologie, il DSM IV ne distingue tre: il Disturbo Bipolare I, il Disturbo Bipolare II e la Ciclotimia. Chi soffre di queste particolari forme di depressione passa da una condizione estrema all’altra. Nei periodi in cui ci si sente “giù”, in cui l’umore è “basso”, sono presenti i classici sintomi della Depressione Maggiore e cioè: • umore depresso per la maggior parte del giorno che si riconosce dalle sensazioni di tristezza, di vuoto e di abulia; • marcata diminuzione di interesse per tutte le attività abitualmente svolte; • significativa perdita di peso, pur non facendo diete, o, viceversa, aumento di peso correlato ad una maggiore o minore presenza di appetito; • disturbi del sonno quasi ogni notte (insonnia o ipersonnia), • agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno; • affaticabilità o mancanza di energia soprattutto di mattino; • sentimenti di autosvalutazione o di colpa percepiti in maniera esagerata e perlopiù senza ragione; • ridotta capacità di pensare e di concentrarsi, accompagnata da un’esasperante indecisione di fronte a questioni anche banali; • pensieri ricorrenti di morte, anche senza una precisa ideazione di piani suicidari. Nei periodi, invece, in cui la persona è “su”, quando cioè l’umore è “alto”, i sintomi sono quelli caratteristici della Mania: • eccessiva autostima e grandiosità di idee; • diminuito bisogno di sonno (ci si sente riposati dopo due o tre ore di sonno); • eccesso di loquacità, caratterizzato dal bisogno di parlare in continuazione, facendo anche ricorso ad argomenti e toni iperbolici; • gran produzione di pensieri e di idee che si susseguono incessantemente senza alcuna precisa finalizzazione; • eccessiva distraibilità, dovuta a un’attenzione scarsa o troppo mobile, facilmente deviata da stimoli esterni poco importanti; • agitazione psicomotoria, accompagnata da un aumento dell’attività finalizzata (iperattività in campo sociale, lavorativo, scolastico o sessuale); • eccessivo coinvolgimento in attività ludiche e non, aventi tutte un’alta probabilità di produrre conseguenze dannose per la salute o per il portafogli (ad esempio: spese pazze, eccessi nel bere, nel mangiare,
nel fumare, comportamenti sessuali a rischio, investimenti in affari avventati o perdenti...). Logicamente tutti i sintomi qui descritti devono causare disagi importanti, clinicamente significativi, o tali da compromettere la normale realizzazione delle attività lavorative, sociali e di relazione. Inoltre, questi stessi sintomi non devono essere conseguenza di lutti, o di altre situazioni in cui siano presenti perdite affettive o danni economici, e non devono essere dovuti agli effetti diretti di sostanze stupefacenti o tossiche, come droghe, farmaci o alcol. Se nella fase depressiva il rischio più alto è rappresentato dall’idea del suicidio, nella fase maniacale la condizione di frenetica attività può causare una perdita parziale o totale della percezione della realtà, per cui si adottano comportamenti assurdi o addirittura pericolosi per sé e per gli altri. E così si fanno spese ben al di sopra delle proprie possibilità acquistando automobili, gioielli, tappeti, quadri, tutti oggetti voluttuari che normalmente non ci si potrebbe permettere di comprare. Altre volte si producono idee a getto continuo, facendo grandiosi progetti che non potranno mai essere realizzati. Caratteristico è anche “l’eloquio a mitraglia”, che copre ogni argomento, compreso l’ascoltatore. In questa fase ci si sente pieni di arguzia, brillanti, intelligenti, capaci di qualsiasi impresa e per tale ragione si pensa di essere invidiati dal mondo intero. Anche l’abbigliamento segue gli stessi iperbolici canoni: è vistoso, eccessivo, appariscente, fatto apposta per stupire e sconcertare. In realtà, è la vita stessa del “bipolare” che diventa esagerata, ridondante, plateale, quasi come un melodramma dai toni ora penosi, ora farseschi. L’apparente star bene, il sentirsi padrone del mondo, non può però nascondere quella forte tensione che traspare da ogni parola o gesto, e che contraddice l’immagine che il depresso vuole dare di sé. Il non essere in sintonia con se stesso e con il mondo, fa sì che in queste forme depressive il rischio di suicidio sia più elevato in quanto assomma, oltre alle negatività tipiche della depressione, anche i danni e le conseguenze economiche e sociali prodotte dalla fase di euforia. Un ulteriore inconveniente è rappresentato dal fatto che queste forme depressive sono spesso complicate dall’abuso di sostanze che creano dipendenza (alcol, tabacco, droghe, farmaci), la cui disassuefazione può richiedere frequenti ricoveri e trattamenti specifici prolungati nel tempo. Per quanto riguarda il Disturbo Bipolare I -- malattia più diffusa di quanto si creda e che colpisce indifferentemente i due sessi -- il primo episodio si verifica in genere tra i 15 e i 30 anni, anche se in verità ogni età può essere quella buona. Di solito il malato, se si trova nella fase euforica, rifiuta di farsi curare perché non ne vede la ragione, convinto com’è di stare benissimo. Poi, quando improvvisamente passa dalla fase euforica a quella depressiva, piomba nel pessimismo più nero e si accorge della gravità della sua condizione. Il mondo sembra crollargli addosso dal momento che si rende ben conto dei danni che ha provocato quando si sentiva forte e padrone di tutto. È questo il momento più critico della malattia perché il rischio di suicidio è realmente elevato. Il Disturbo Bipolare II si distingue da quello precedente soltanto perché agli episodi depressivi seguono fasi di euforia più contenuta (ipomania), prive di produzioni allucinatorie. Questo fa sì che le alterazioni dell’umore -- anche se persistenti e significative -- non
raggiungano mai momenti deliranti, tali da compromettere l’attività lavorativa e i rapporti interpersonali del malato. Attività e rapporti che, comunque, non potranno mai essere totalmente affidabili a causa dell’imprevedibilità delle fluttuazioni dell’umore. Il Disturbo Ciclotimico (o Ciclotimia) presenta una condizione meno alterata dell’umore, per cui anche se le fasi depressive e quelle euforiche si alternano frequentemente, non raggiungono mai quei livelli di incontrollabilità tipici del Disturbo Bipolare I. La minore gravità degli episodi depressivi e ipomaniacali permette al paziente ciclotimico di avere una condizione lavorativa e sociale meno critica e perciò stesso più gestibile, e quindi accettabile. Nonostante sia meno grave delle precedenti, la Ciclotimia non ha però periodi di completo recupero e di soddisfacente benessere. Per tale ragione, e anche perché può durare diversi anni, è considerata a tutti gli effetti una malattia cronica.
L’ipotesi genetica In questi ultimi anni si è fatto un gran parlare di genetica, trasferendo al pubblico il messaggio che tutti i nostri malanni -- non soltanto quelli fisici, ma anche quelli psicologici - siano di origine genetica in quanto iscritti nel nostro DNA, ossia in quella grande molecola di acido desossiribonucleico, a forma di doppia elica, che determina le nostre caratteristiche più peculiari. E così non passa giorno senza che si annunci che qualche ricercatore ha scoperto il gene responsabile della timidezza, o quello dell’avarizia, dell’aggressività, della depressione, dell’alcolismo, della promiscuità, della schizofrenia, facendo credere che la nostra storia medica e anche quella psicologica non dipendano sostanzialmente da noi, ma siano conseguenza del patrimonio genetico che abbiamo ereditato dai nostri genitori. È facile comprendere come molte di queste affermazioni siano soltanto frutto di azioni strumentali, di strategie opportunistiche che antepongono bassi interessi di bottega ai veri obiettivi di una seria ricerca scientifica. Nascono, infatti, con l’intento di promuovere l’attività di qualche gruppo di ricercatori che devono farsi pubblicità per trovare i fondi necessari alla propria sopravvivenza. Fateci caso come tutte queste ricerche -- apparentemente sensazionali e di grande utilità - non abbiano poi corso alcuno e, se non sono già state smentite prima da analoghe ricerche, vengano tutte presto dimenticate. Per far meglio capire i limiti di simili boutades comunicative, è bene ricordare che fino ad oggi non esiste nessun gene che possa essere considerato, da solo, responsabile di una malattia psichiatrica e tantomeno di un comportamento più o meno deviante. Quando si sente parlare di “gene responsabile” di questa o quella malattia psichiatrica, bisogna capire che si sta soltanto indicando una predisposizione, una possibilità, spesso anche remota, che potrà essere o non essere espressa a seconda dell’ambiente e della storia personale del soggetto. Ma, c’è di più. In che misura, poi, possa incidere l’impronta genetica oppure l’ambiente circostante, questo nessuno ancora lo sa. Se c’è invece qualcuno che dice di saperlo, è soltanto perché sta esprimendo la propria opinione personale, non suffragata per il momento da alcun riscontro scientifico.
Dopo queste premesse, è facile comprendere quanto sia controversa la questione dell’ereditarietà delle forme depressive bipolari. I dati a disposizione lasciano aperte tutte le ipotesi, anche se, nella logica dei fatti, si dovrebbe riconoscere una leggera prevalenza alla tesi ambientale rispetto a quella genetica. La sfortuna di crescere in una famiglia a rischio, profondamente disturbata dalla malattia di uno dei due genitori, può avere un qualche impatto sui figli caratterialmente più deboli, che avranno una maggiore probabilità di contrarre questa o altra forma di depressione. Il clima delle famiglie in cui sono presenti “malati bipolari” segue di norma l’andamento della malattia ed è pertanto soggetto a un’elevata variabilità, oscillando da momenti di esaltante ottimismo, a periodi di cupa tristezza e di inaudita tensione. In queste famiglie sono assai frequenti i divorzi, le separazioni, i fallimenti, i problemi legati alle dipendenze più varie, i capovolgimenti economici e quindi i drammi di ogni genere. In mezzo a tante tristezze c’è, però, un aspetto positivo: tra tutte le malattie mentali i disturbi bipolari sono quelli che, se diagnosticati precocemente e in modo corretto, possono meglio di altri essere curati e risolti con successo.
XI
LE SINDROMI DEPRESSIVE MINORI
L’allungamento della vita, che oggi sfiora gli ottantatré anni per le donne e i settantasette per gli uomini, sta portando ad una maggior incidenza delle malattie mentali e in particolare della depressione, le cui cause però non sono state ancora pienamente chiarite. Le ipotesi oggi più accreditate fanno riferimento a una ridotta presenza di alcuni neurotrasmettitori nelle aree limbiche, e pertanto le terapie adottate utilizzano farmaci psicotici in grado di ripristinare il livello originario di tali sostanze. L’approccio farmacologico -- in verità mai completamente privo di effetti collaterali di rilievo - non è però sempre efficace, a conferma sia della multifattorialità delle cause all’origine della depressione, sia della diversa situazione biologica e mentale di ogni individuo davanti alla malattia.
Sempre più depressi È stato calcolato che il 50% della popolazione mondiale soffre di disturbi neuropsichiatrici diversi che vanno dalla sordità alla cefalea, dagli effetti dell’uso di alcol e droghe alle demenze, dai disturbi dell’ansia a quelli depressivi. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità una persona su tre, nell’arco della sua vita, va incontro a seri problemi di natura psichiatrica. Oggi, seicento milioni di persone nei soli paesi industrializzati soffrono di disturbi mentali, inizialmente lievi, ma destinati ad aggravarsi col passare del tempo. Delle dieci principali cause di invalidità psicofisica, cinque sono di natura psichiatrica e tra queste al primo posto c’è proprio la depressione. In Italia, i dati relativi al 1999 dicono che: 15 persone su 100 sono portatrici di disturbi mentali; di queste 15, 7 persone soffrono di depressione nella sua forma più grave, 3 nelle sue forme più lievi; i più
colpiti sono coloro che risiedono in città con più di 100000 abitanti, con prevalenza di donne rispetto agli uomini e con un’età compresa tra i 30 e i 50 anni. Altri due dati completano il quadro della malattia nel nostro Paese. Il primo riguarda la spesa per acquisto di psicofarmaci che nel 1999 è stata di circa un miliardo di euro, pari a 1920 miliardi delle vecchie lire. Il secondo, ben più drammatico, riguarda il numero dei suicidi: nel 1999, ogni giorno 20 persone hanno tentato di uccidersi e 10 ci sono riuscite.
La Depressione infantile Il dato più allarmante della ricerca è però un altro: il 20% della popolazione infantile, di età compresa tra 1 e 12 anni, mostra precisi sintomi di sofferenza psichica e una buona metà di questi bambini deve essere seguita con attenzione. Un’ulteriore metà (5 bambini su cento) soffre di disturbi depressivi che si manifestano con perdita di interesse per il gioco e per le compagnie, con accentuata irritabilità, con tendenza a isolarsi o, viceversa, con un attivismo tanto sterile quanto sfrenato. Il bambino che si avvia alla depressione può essere timido, insicuro, lamentoso, o al contrario iperattivo, impulsivo, irrequieto, discolo a casa, insopportabile a scuola, disubbidiente, soggetto a frequenti scatti d’ira e di aggressività. In entrambi i casi si tratta di bambini tristi, instabili, chiusi in se stessi, isolati, e perciò poco amati dagli altri bambini che evitano la loro compagnia. In una simile condizione è facile che perdano l’autostima, coltivando sentimenti d’indegnità e di autosvalutazione. Tipica dell’età infantile è la Depressione anaclitica che si manifesta nei bambini separati dalla madre per lunghi periodi di tempo, dopo aver trascorso con lei almeno sei mesi di vita. Nella fattispecie questi bambini si isolano dal mondo esterno, rifiutano ogni contatto e manifestano, oltre a vistose perdite di peso, anche una spiccata tendenza a contrarre malattie e un ritardo motorio generalizzato. Tuttavia, se prima del periodo critico (valutabile in tre o quattro mesi) si restituisce al bambino la madre o si riesce a trovare per lui una sostituta accettabile, ecco che i disturbi descritti si riducono rapidamente fino a scomparire del tutto. Esistono poi dei casi, abbastanza frequenti, in cui i più giovani vivono la depressione con le stesse modalità degli adulti. Questi bambini mostrano un’estraneità preoccupante, una passività innaturale, un disinteresse generalizzato per tutto ciò che li circonda, anche per le cose che prima ricercavano e che poi non interessano più. Cogliere questi segnali è molto importante perché consente a familiari e insegnanti d’intervenire precocemente, prima che la malattia sia conclamata. Purtroppo ciò accade raramente, perché la depressione non è ancora conosciuta da tutti e troppo poche persone sono in grado di identificarla nei suoi segnali anticipatori. Tuttavia, quando i genitori si accorgono che il loro figlio ha delle concrete difficoltà a vivere le stesse esperienze dei coetanei e che tende a isolarsi chiudendosi in se stesso, è opportuno che agiscano con tempestività rinunciando all’idea che tutto possa risolversi da solo, senza bisogno di un intervento esterno. A un bambino depresso si prospetta una vita difficile perché avrà il doppio di probabilità,
rispetto a un coetaneo sano, di sviluppare la malattia in forma più grave nell’adolescenza e nell’età adulta. Per ciò che concerne la terapia, il medico curante dovrà innanzi tutto valutare il reale stato emotivo del bambino depresso. Successivamente, occorrerà saper distinguere tra depressioni passeggere e quelle di più lunga durata. Solo a questo punto si potrà pensare alla terapia da istituire. Personalmente riteniamo che gli antidepressivi in tenera età siano, per quanto possibile, da evitare. Infatti, oltre ai più comuni effetti collaterali, possono indurre dipendenza e creare gravi alterazioni all’equilibrio biochimico cerebrale, essendo molto potenti e difficili da dosare. Il percorso terapeutico più appropriato dovrebbe essere il supporto psicologico - a questa età particolarmente efficace -associato a cure più dolci di tipo omeopatico, floriterapico e fitoterapico. Di parere opposto sono ovviamente le case farmaceutiche e i medici ad esse collegati, che invitano in modo irresponsabile a far uso di psicofarmaci anche in tenera età. Si è mossa in questa direzione anche la Food and Drug Administration che, all’inizio del 2003, ha autorizzato, tra lo sconcerto generale, la vendita negli Stati Uniti del Prozac a bambini di età superiore ai sette anni.
La Depressione adolescenziale Recenti studi hanno evidenziato che, nella fascia d’età compresa tra i 12 e i 18 anni, un adolescente su 4 presenta una qualche forma depressiva, sia pure di lieve entità. La causa principale sembra essere il mutamento psicofisico che avviene nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza. In questo periodo di vita, il corpo subisce tante e tali trasformazioni da non essere più lo stesso. Si cambia nell’aspetto esteriore, assumendo i caratteri tipici del sesso di appartenenza, ma anche a livello psichico - dove compaiono le prime forti pulsioni sessuali, scatenate dalla tempesta ormonale che coinvolge l’intero organismo -- e a livello mentale, dove emergono le insicurezze, le crisi d’identità personale e i problemi d’identificazione. Un adolescente depresso può non saperlo, oppure può non capire di esserlo. Tuttavia, i sintomi della depressione sono ben presenti, anche se spesso non vengono correttamente interpretati perché assimilati ai comportamenti e ai vissuti tipici di quell’età. Il sintomo più frequente è l’abbattimento, l’astenia, ossia la perdita di slancio vitale che provoca un tracollo di risorse mentali e fisiche, spesso confuso con la noia, l’apatia o l’indifferenza. Segnali altrettanto importanti sono l’irritabilità, l’irrequietezza, la scarsa concentrazione e l’autoisolamento. Fino a pochi anni fa i disturbi psichiatrici di bambini e adolescenti venivano sostanzialmente trascurati e liquidati come passeggere “crisi esistenziali”. Oggi c’è maggiore attenzione, soprattutto perché s’ipotizza che dietro i suicidi messi in atto da giovanissimi, oppure dietro atti efferati e inspiegabili, possano esserci problemi psichiatrici sottovalutati o non riconosciuti in tempo. Per facilitare l’approccio diagnostico, si è pensato di ripartire i sintomi della depressione giovanile in quattro grandi categorie: sintomi comportamentali, rappresentati dalla difficoltà di agire, di portare a termine i propri compiti, dalla propensione a isolarsi, evitando, per quanto possibile, ogni contatto col mondo; sintomi psicologici,
caratterizzati dalla tendenza a vedere tutto nero, a non sentirsi in grado di gestire le situazioni, ad avere poca stima di sé, a non riuscire a concentrarsi e soprattutto a vedere foscamente il proprio futuro; sintomi fisici, tra cui la scarsa cura per il proprio corpo e per la propria salute, inappetenza oppure un’alimentazione scorretta -- per cui si mangia poco (anoressia) o troppo (bulimia) -- continui mal di testa, un’eccessiva affaticabilità e gli immancabili disturbi del sonno; sintomi affettivi, che si manifestano con un umore stabilmente triste e cupo, con la propensione a vedere i lati negativi delle cose, con l’incapacità di essere gioiosi, di comunicare i propri affetti, di accogliere con soddisfazione gli eventi favorevoli e ciò che di buono c’è nella vita. Molti di questi stati d’animo, soprattutto quelli di autoesclusione affettiva e sociale, possono essere scambiati come momenti difficili dell’adolescenza, caratteristici di un periodo psicologico carico di insoddisfazioni, di idee irrealizzabili e di profondissimi sconforti. È proprio questa la vera difficoltà: il non accorgersi che l’adolescente non è soltanto nella fase critica della sua vita, ma che è anche portatore di un disagio diverso e più profondo. Per quanto concerne la terapia, vale indicativamente quanto detto per i bambini. La psicoterapia dovrebbe essere lo strumento privilegiato, mentre il ricorso a farmaci antidepressivi o ai modulatori dell’umore è consigliabile solo in casi particolari (forme più gravi o familiarità alla malattia) e per un periodo di tempo limitato.
La Depressione “sotto soglia” È una forma di depressione che fa parte dei disturbi depressivi minori, classificati dal DSM-IV come “Depressioni non altrimenti specificate”. Si tratta, in realtà, di situazioni che non hanno le caratteristiche delle depressioni più gravi e che presentano sintomi diversi e fluttuanti. Pur con tutto ciò, la Depressione sotto soglia è una sindrome depressiva ad ampia diffusione, difficile da riconoscere anche da parte degli esperti perchè si accompagna spesso a disturbi d’ansia, con i quali si mimetizza e convive. A differenza di altri disturbi depressivi, questa forma presenta solo alcuni sintomi tipici della malattia (alternanza di malesseri fisici e psicologici, agitazione, senso di inadeguatezza, scarsa considerazione di sé, tendenza a svegliarsi presto al mattino), mentre l’aspetto più specifico è la difficoltà di concentrazione che si manifesta attraverso una sensibile riduzione dei tempi di riflessione. Le persone che soffrono di questo disturbo si affaticano facilmente, si sentono svuotate, prive di energia e stentano a prendere decisioni perché manifestano un atteggiamento di chiusura e di rifiuto. Tuttavia, mentre gli adulti hanno strumenti più idonei per affrontare e mascherare questo disagio, i giovani risultano totalmente indifesi, in quanto questa sindrome depressiva si sovrappone e si confonde con altre patologie. Fanno parte delle “Depressioni altrimenti non specificate”: la Depressione anancastica tipica delle personalità ossessive, che accomuna tensioni e angosce a idee fisse e paranoidi; la Depressione ansiosa, caratterizzata da un’ansia profonda e cupa che si trasforma in una sensazione angosciante di morte interiore e di perdita del
Sé; la Depressione da sradicamento che subentra quando ci si allontana dai luoghi in cui si è vissuto (per emigrazione o trasferimento), con conseguente perdita delle abitudini e dei rapporti sociali costruiti; la Depressione esistenziale, tipica delle persone che non riescono a raggiungere gli obiettivi della loro vita e che per tale ragione avvertono il fallimento della loro intera esistenza; la Depressione delirante causata da impulsi autodistruttivi, da profondi sensi di colpa, da idee di rovina, di possessione o di negazione del proprio corpo.
La Depressione puerperale o post partum Il puerperio può generare in un numero considerevole di donne una flessione dell’umore in senso depressivo, soprattutto nei primissimi giorni dopo il parto. In altri casi, questa “tristezza esistenziale” non compare subito, ma si presenta a distanza di settimane o anche di mesi dal parto stesso. Le cause d’insorgenza sono diverse. Da un punto di vista biologico, il parto provoca importanti modificazioni del sistema endocrino, dovute principalmente all’espulsione della placenta che è un organo con rilevante attività ormonale. Venendo a mancare una notevole quantità di ormoni steroidei, dotati di un’efficace azione sedativa e ansiolitica, aumentano di conseguenza i livelli di ansia e di stress. Accanto a queste prime cause biologiche, ne esistono altre (psicologiche e ambientali) altrettanto importanti. I lunghi mesi di gestazione -trascorsi talvolta nel terrore di perdere il feto -- la trepidazione del parto, l’inquietudine per la salute del nascituro, le preoccupazioni per il futuro, a parto avvenuto si “sciolgono” e generano un forte allentamento della tensione emotiva che sfocia prima in crisi di pianto, poi in tristezza e abbattimento. A queste preoccupazioni del passato se ne aggiungono di nuove: il timore di non saper allevare il figlio, di non riuscire a capirlo quando piange, le levatacce notturne per allattarlo o calmarlo, gli accresciuti impegni domestici ed anche i rapporti con il coniuge, non sempre comprensivo e tollerante. Per queste ed altre ragioni la condizione post partum -- chiamata un tempo “pianto del latte” -- risulta sovente problematica e stressante. Infatti, ansia, stanchezza, abitudini diverse, senso di inadeguatezza e soprattutto solitudine, diventano sovente scivolosi gradini che possono condurre allo scoramento e alla depressione. Nella prima settimana dopo il parto, il 75% delle donne va incontro a episodi depressivi di lieve entità che si alternano a momenti di contentezza e gioiosa euforia. Questa condizione, del tutto normale, si trasforma in depressione quando si protrae nel tempo e si accompagna a pensieri cupi e angoscianti. La sindrome depressiva post partum -- che colpisce il 13% delle puerpere -- si risolve in genere nel giro di tre mesi, ma può durare anche più a lungo, e in casi più rari (2 o 3 su mille) può trasformarsi in una patologia assai più grave chiamata Psicosi puerperale. Quando ciò accade, la madre sviluppa un senso delirante di colpa che la porta a giudicare la vita insopportabile e il mondo crudelmente ostile. Così decide che non vale più la pena vivere e pensa concretamente al suicidio che, in un momento di follia, può essere esteso anche ai figli. Soltanto la vigilanza attenta e affettuosa dei familiari può scongiurare quelle tragiche conclusioni che la cronaca troppo spesso documenta con morbosa curiosità e con dovizia di particolari. La presenza dei familiari e il
loro costante interessamento sono le azioni più efficaci per dimostrare alla puerpera attenzione e affetto: ciò serve a farle capire che non è abbandonata a se stessa, ma amata e accudita come la sua creatura. Il vero problema sono quelle madri che, soffrendo già di disturbi dell’umore, non riescono a riagganciarsi alla vita e coltivano angoscia e tormento nel timore di non essere in grado di gestire gl’impegni quotidiani della loro nuova famiglia. Un buon supporto psicologico, poche cure mirate e tanto amorevole accudimento sono le azioni più efficaci per riportarle alla gioia della maternità e della vita. Per rendere più lievi argomenti così carichi di dolore e sofferenza, annotiamo volentieri una scoperta: sembra che la depressione post partum colpisca anche gli uomini. Un gruppo di ricercatori dell’Institute of Psychiatry di Londra, dopo aver sottoposto a esame un campione di settemila neo-padri, ha riscontrato che un buon 3% soffriva di depressione post partum. Il parere dei ricercatori è che la depressione del padre sia indotta da quella della madre, ma in realtà esistono diverse altre cause che partecipano attivamente alla comparsa di questa “nuova” patologia. Un ruolo importante sembra averlo il cambiamento esistenziale causato dalla nascita di un figlio, specie se è il primo. Questo evento, ancor più del matrimonio, rappresenta il vero ingresso nell’età adulta, con responsabilità nuove e maggiori. È altresì elemento di crisi la trasformazione del rapporto di coppia che vede lo spostamento delle attenzioni della donna dal marito sul figlio. Un ultimo, ma non meno importante elemento, è rappresentato dal mutato ruolo del padre che in questi ultimi trent’anni è radicalmente cambiato. Il “padre d’oggi” è più attento, partecipe, più aperto alle esigenze della compagna e della prole, e ha saputo trasformarsi, da spettatore incuriosito ma distaccato, in secondo protagonista della vita familiare.
La sindrome da tensione premestruale Le donne, nei giorni che precedono le mestruazioni (fase luteale) oppure in quelli immediatamente successivi, sono sovente irritabili, ansiose e depresse. In questi casi, abbassandosi la soglia di reattività agli stimoli, saltano su per un nonnulla, perdendo parte della loro naturale dolcezza. Parallelamente, deprimendosi l’umore, cresce la loro vulnerabilità e così diventano più sensibili e reattive, con le lacrime pronte a comparire tra uno scatto d’ira e uno sbuffo d’impazienza. Se poi soffrono già di disturbi ansiosi o depressivi, quei giorni cruciali di ogni mese possono diventare ancor più fastidiosi e pesanti perché finiscono con l’aggiungere ai consueti disturbi fisici premestruali anche le tormentose sofferenze di una mente già in parte alterata. Differente nella forma, ma assai simile nella sostanza è la Depressione climaterica che accompagna spesso la cessazione delle mestruazioni. Si manifesta come una sorta di melanconia diffusa la cui origine va ricercata nelle alterazioni ormonali della menopausa che producono effetti impensabili sulle emozioni e sull’umore. Quasi tutte le sindromi depressive minori possono essere efficacemente trattate senza far ricorso agli psicofarmaci, ma con il supporto di psicoterapie brevi, abbinate nei momenti più critici a cure
fitoterapiche, floriterapiche o naturopatiche a base di sali minerali quali litio e magnesio.
XII
SCOPRIRSI DEPRESSI
Nel campo dei disturbi depressivi molte cose non sono ancora chiare in quanto connesse ad altre del tutto sconosciute. Questa limitata conoscenza fa sì che la "malattia dell’anima” sia, per certi aspetti, ancora oggi misteriosa e incomprensibile, quindi difficile da individuare precocemente e anche da curare. Per quel che concerne la diagnosi precoce, qualche segnale anticipatore c’è sempre -- si pensi, ad esempio, alla tristezza, alla perdita di interesse, all’irritabilità -- ma, nella maggior parte dei casi, non viene colto perché ritenuto passeggero o perché attribuito ad altre malattie. Difficoltà analoghe si riscontrano quando si vanno a cercare le cause d’insorgenza della malattia. Avendo la depressione tipologie e forme diverse, non si hanno certezze, ma soltanto ipotesi più o meno probabili che vanno trattate come tali, in attesa di verifiche più certe.
Una molteplicità di cause Se si conoscessero le cause della depressione certamente anche la sua cura sarebbe più rapida e sicura. Allo stato attuale di conoscenze, si può soltanto affermare che non esiste un’unica causa scatenante, ma una pluralità di situazioni - ambientali, biologiche e personali - in grado di favorirla. Ogni singolo episodio depressivo sembra, infatti, essere il risultato di una molteplicità di cause che si sommano tra loro, creando negli anni il terreno adatto su cui poi si svilupperà la malattia. Da ciò si deduce che nessuna persona può ritenersi immune da questa patologia, anche se possiede solide basi psicologiche ed emotive, perché non è possibile sapere quanta tensione depressiva ha già accumulato, né quanta parte di essa è ancora in grado di sopportare. Questa “tensione depressiva” non è soltanto il risultato di tutte le situazioni della vita che portano dolore e disagio, ma è anche la somma di tutti i “rischi depressogeni” che si corrono con le scelte fatte e i comportamenti tenuti. Le cattive abitudini alimentari, lo stile di vita adottato, l’uso di droghe, il fumo, l’alcol, l’inquinamento ambientale, le malattie che si hanno e i farmaci assunti, sono tutti fattori potenzialmente in grado di favorire l’insorgenza della depressione. La loro azione, infatti, va a incidere -- sia pure in misura diversa -sull’equilibrio ormonale del cervello, che è il garante della corretta funzionalità delle emozioni e dell’umore. Ogni minima alterazione di quell’equilibrio provoca una variazione delle quantità di neurotrasmettitori presenti nelle aree cerebrali, con effetti a cascata sull’intero organismo. Se, a tutti questi fattori organici potenzialmente depressogeni, aggiungiamo la nostra condizione biologica e le conseguenze degli stress psicofisici che segnano le principali tappe della nostra vita, il quadro è completo. Col tempo, a forza di accumulare tensioni fisiche e psichiche, la nostra mente si satura, destabilizzandosi nel profondo. A questo punto anche un fatto di poco conto, l’accadimento più banale, può diventare scatenante, facendo precipitare nella tristezza e nella disperazione. Detto questo, è facile capire come il più recente
evento spiacevole accaduto in ordine di tempo non sia la vera causa della depressione, ma soltanto “l’ultima goccia” di una sofferenza che ha fatto traboccare il calice della nostra sopportazione, ormai colmo di tutte le altre vicissitudini patite in precedenza.
Le cause ereditarie Come riceviamo in eredità dai nostri avi (genitori, nonni, bisnonni) alcuni tratti esteriori del corpo (lineamenti, mimica, gesti), così possiamo anche ereditare la cosiddetta reattività emozionale, ossia quella particolare sensibilità che determina il nostro comportamento davanti ad eventi che riteniamo importanti dal punto di vista emotivo. Esistono, infatti, contesti familiari in cui vengono inconsciamente prodotte, sviluppate e tramandate ansie, visioni pessimistiche della vita, incertezze, timidezze e ritualità che, se esasperate, diventano segni di una fragilità emotiva che può trasformarsi in depressione. Chi vive in simili realtà familiari ha maggiori probabilità rispetto ad altri di contrarre quegli “aloni caratteriali” che costituiscono le “atmosfere dominanti” del suo casato, vale a dire le debolezze tipiche della sua stirpe e ciò per due ragioni: per l’esistenza di fattori genetici trasmissibili e per l’importanza dell’ambiente familiare nella formazione della personalità dell’individuo. Fino a qualche anno fa si considerava più importante il fattore genetico al punto da addebitargli tutte le responsabilità della malattia. E così vennero formulate diverse ipotesi che tennero banco per qualche stagione e che riguardavano: il cromosoma X, il cui difetto genetico era ritenuto causa della trasmissione del disturbo bipolare da madre a figlio; il cromosoma 18, cui si imputava la trasmissione dello stesso disturbo da padre a figlio; il cromosoma 6, che per alcuni era coinvolto in numerose malattie a spiccata componente familiare; il cromosoma 21, un cui gene era ritenuto responsabile della trasmissione del disturbo bipolare tra consanguinei. Tralasciate le strade genetiche per i modesti risultati raggiunti, si passò a esplorare le ipotesi neurologiche, riconducibili essenzialmente a tre grandi aree di ricerca: la dopaminergica, che ipotizza la carenza di dopamina come causa principale dei disturbi dell’umore; la catecolaminergica, che assegna la responsabilità della depressione al gene TH, la cui azione limiterebbe la produzione di dopamina e noradrenalina; la serotoninergica, che riconduce il problema dell’anomala oscillazione dell’umore all’insufficiente presenza di serotonina negli spazi intercellulari. La situazione è in rapida evoluzione, e oggi sta riguadagnando credito l’ipotesi del fattore ambientale che, studiato in diversi contesti, ha dimostrato di avere un ruolo determinante nell’insorgenza della malattia. Numerose ricerche condotte su bambini adottati hanno chiarito che i figli di genitori affetti da sindromi depressive importanti (Depressione Maggiore, Disturbi Bipolari) hanno maggiori probabilità di crescere sani se vengono adottati da famiglie esenti da tali patologie. Viceversa, bambini sani hanno una più alta probabilità di ammalarsi se sono adottati da famiglie in cui uno dei genitori è gravemente depresso. Per quanto riguarda le Depressioni Minori -- che costituiscono la parte più cospicua di tutte le sindromi depressive -- non esistono
ricerche altrettanto chiarificatrici, e di conseguenza i dati a disposizione non sono significativi. Tuttavia, si può ragionevolmente supporre che queste sindromi lascino minori “tracce ereditarie” rispetto alle forme più gravi, anche perché sono, nella quasi totalità dei casi, facilmente risolvibili. Per ciò che concerne i Disturbi Bipolari, si è notato che hanno una frequenza di trasmissione genetica maggiore rispetto alle Depressioni Unipolari, e che comunque la possibilità di trasmissione decresce se in famiglia esiste un solo caso di malattia, mentre risulta significativamente maggiore se entrambi i genitori o più persone consanguinee soffrono di quel disturbo. Ciò non significa che chi vive in una famiglia con un’alta presenza di persone depresse debba necessariamente avere lo stesso male. La scienza su questo argomento è precisa: spiega, infatti, che chi soffre di disturbi dell’umore può benissimo avere figli sani e normali, anche se la concomitante presenza di fattori genetici e ambientali non può certamente consigliare atteggiamenti troppo ottimistici. Vale, comunque, la pena ricordare che ci muoviamo sempre nel campo delle ipotesi e che quando si parla di “trasmissione genetica” si indica soltanto una predisposizione generica, non una certezza.
Le ipotesi neurologiche Il nostro organismo, e in particolare tutto il sistema nervoso, è stato creato per sopportare e assorbire una quantità enorme di stimoli diversi sia interni che esterni. Tutti gli accadimenti della vita, in particolare quelli più dolorosi (una malattia grave, la perdita di una persona cara) devono essere vissuti, elaborati e superati rapidamente affinché rechino il minor danno possibile alla mente e al corpo. In presenza di eventi che il nostro organismo giudica pericolosi perché destabilizzanti, si attivano immediatamente delle risposte fisiologiche automatiche che hanno il compito di aiutarci ad affrontare e a superare le situazioni avverse, favorendo quel naturale processo di adattamento alla nuova condizione che si chiama “omeostasi”. Quando questo meccanismo riadattativo non funziona bene, compaiono tutti quei disturbi psicofisici (insonnia, apatia, stanchezza, irritabilità, mancanza d’appetito o, viceversa, iperfagia) che segnalano l’esistenza di un disagio interiore profondo. Il corrispettivo biologico di tale situazione sembra essere la diversa presenza nel sangue di alcuni neurotrasmettitori che hanno il compito di garantire la trasmissione dei segnali nervosi tra le cellule del sistema nervoso centrale e periferico. Di questi mediatori chimici - se ne conoscono 150 e se ne scoprono sempre di nuovi -- si sa purtroppo poco. Come chiarisce lo scienziato americano Greengard, premio Nobel 2000 per la medicina, “si è ancora ben lontani dal conoscerli a fondo e dal capire tutte le loro reciproche interazioni”. Fatta questa necessaria premessa, osserviamo che i sostenitori della teoria organicistica ritengono che le alterazioni del tono dell’umore siano da ricondursi a mutamenti nella situazione biochimica del cervello, e più in particolare ad una diversa concentrazione nel sangue di tre neurotrasmettitori - serotonina, noradrenalina e dopamina - che sembrano essere in qualche modo legati a tutte le sindromi depressive. Mentre il ruolo della dopamina -- implicata nel morbo di
Parkinson (per carenza) e nelle sindromi schizofreniche (per eccesso) -sembra essere marginale in quanto corresponsabile dell’insorgenza di sintomi depressivi secondari, il ruolo della noradrenalina appare più diretto, dal momento che essa esplica i suoi effetti sul tono dell’umore e sui livelli d’ansia, provocando una caduta dell’attenzione e della vigilanza. I riscontri sperimentali più significativi riguardano, però, la serotonina, un importante modulatore chimico derivante dalla trasformazione enzimatica del triptofano, una sostanza proteica presente in diversi alimenti. È stato accertato che la serotonina ha effetti regolatori sul sonno, sull’appetito, sul comportamento sessuale e soprattutto sull’equilibrio umorale, tanto da risultare, tra tutte le sostanze neuromodulatrici, quella maggiormente coinvolta nei disturbi dell’umore. Sembra, inoltre, che un abbassamento dei livelli di serotonina nel sangue -- dovuto a minore disponibilità o a una sua parziale utilizzazione -- sia in grado di determinare un’immediata caduta del tono dell’umore, con conseguenti riflessi su tutte le principali funzioni organiche. Intorno a questi tre mediatori chimici ruota oggi gran parte della ricerca farmacologica, finalizzata a trovare nuove sostanze per contrastare più efficacemente i sintomi della depressione. Sempre nell’ambito delle ipotesi neurologiche è stata individuata un’alterazione cerebrale che sembra possa essere legata alle forme familiari depressive, sia di tipo bipolare (alternanza di euforia a depressione), sia di tipo unipolare. Si tratta della perdita, in una zona ristretta dell’area frontale del cervello, di particolari cellule, dette gliali o della neuroglia, che fungono da supporto ai neuroni e che sono strettamente connesse col sistema serotoninergico. Quest’alterazione è rilevabile solo nelle forme ereditarie, al punto d’apparire come caratteristica specifica di chi è geneticamente predisposto alla depressione. La ricerca in questione, condotta dall’Università americana di St. Louis, cerca di dimostrare che esistono significative differenze tra malati con una storia familiare di depressione alle spalle e malati che invece sono privi di questa svantaggiosa caratteristica.
Le ipotesi biochimiche Nel variegato mondo delle sindromi depressive sembrano essere coinvolti anche altri sistemi biochimici, il cui ruolo, però, non è stato ancora pienamente definito. Una di queste situazioni, associata alla Depressione Maggiore e solo più raramente ai Disturbi Bipolari, è quella determinata dalla presenza di alti valori di cortisolo nel sangue. Il cortisolo -- noto anche come “ormone dello stress” e prodotto dalla corteccia surrenale - svolge importanti funzioni nel mantenimento della normale produzione di glucosio (gluconeogenesi) da parte del fegato e nel metabolismo dei grassi, coinvolgendo nella sua azione anche i reni, i muscoli, il sistema immunitario e il sistema nervoso centrale. È stato accertato che nel cervello esistono dei recettori specifici per il cortisolo -- ossia delle strutture chimiche capaci di “leggere” i messaggi di quest’ormone -- situati soprattutto nell’ippocampo, nella formazione reticolare e nei nuclei vegetativi del tronco cerebrale. Con un meccanismo non ancora noto, il cortisolo riesce a modulare non soltanto le funzioni percettive, ma anche quelle emotive, partecipando
così al processo di modificazione del tono dell’umore. Nelle condizioni di carenza di cortisolo è stato osservato un aumento della sensibilità uditiva, olfattiva e gustativa, mentre nelle condizioni di eccesso sono state riscontrate alterazioni nell’organizzazione del sonno e rilevanti effetti sul tono dell’umore che veniva ora esaltato, ora depresso. Negli ultimi anni sono stati oggetto d’indagine anche i neuropeptidi, brevi catene di aminoacidi che fungono da neurotrasmettitori cerebrali. Tra i numerosi peptidi che svolgono una funzione di trasmissione attiva nel sistema nervoso centrale, alcuni (endorfine, encefaline, ACTH e somatostatina) sembrano avere un ruolo importante nella dinamica dell’umore. Gli studi più approfonditi riguardano la somatostatina, sostanza che più delle altre sembra avere una qualche relazione con i disturbi depressivi. La somatostatina -venuta qualche anno fa alla ribalta con la “terapia antitumorale del professor Di Bella” -- è un ormone ipotalamico che svolge la funzione di inibire la secrezione del GH (l’ormone della crescita) da parte dell’ipofisi. Partecipa anche al meccanismo di assunzione e di regolazione del cibo, bloccando alcune funzioni gastriche e intestinali allo scopo di prevenire dannosi sovraccarichi di elementi nutritivi. A livello del sistema nervoso centrale, si è notato che la somatostatina ha una presenza ridotta nel liquor cefalorachidiano -- quel liquido organico che circola nelle cavità cerebrali con funzione di protezione e di mantenimento dell’equilibrio pressorio -- durante la fase più acuta dell’episodio depressivo, mentre poi ritorna normale nella fase di risoluzione del disturbo stesso. Anche in questo caso sono del tutto sconosciuti i motivi di tale variazione e il significato terapeutico che ne potrebbe derivare. Un altro fattore di rilievo nell’insorgenza della depressione dovrebbe essere la ridotta presenza di endorfine, quelle sostanze oppioidi naturali che con le encefaline, dinorfine e betaendorfine svolgono funzioni analgesiche e favoriscono tutte le sensazioni di rilassamento, benessere ed euforia. Ulteriori ipotesi, tutte da confermare, riguardano le alterazioni degli ormoni tiroidei -- la tiroxina (T-4) e la triiodotironina (T-3) -che agiscono sul metabolismo corporeo, sui processi di accrescimento, su quelli di produzione di energia muscolare e di calore. La presenza di eccessivi livelli di questi ormoni (ipertiroidismo) provoca un’accelerazione metabolica con conseguente dimagrimento corporeo, tremori, irrequietezza, ansia, tachicardia, nervosismo e un significativo aumento dell’emotività. Viceversa, livelli insufficienti di ormoni tiroidei (ipotiroidismo) provocano nell’infanzia un arresto dello sviluppo fisico e di quello mentale (cretinismo), mentre nell’adulto rallentano il processo metabolico, determinando obesità, apatia, spossatezza, sonnolenza, nonché rallentamento dei movimenti, della parola e del pensiero. Ora, entrambe queste disfunzionalità tiroidee potrebbero rappresentare condizioni ideali per la comparsa dei disturbi dell’umore, soprattutto a causa dell’evidente situazione di disagio psicofisico che sono in grado di provocare. Altre ricerche hanno, invece, interessato la melatonina, l’ormone secreto dalla ghiandola pineale e strettamente collegato alla serotonina da un andamento ciclico opposto, tale per cui alla massima produzione dell’una corrisponde la minor presenza dell’altra. Un’anomala secrezione di melatonina, alterando i ritmi biologici giornalieri, può incidere sui
livelli di produzione di diversi mediatori chimici tra cui il cortisolo, con evidenti ripercussioni sull’umore. Anche alcuni ormoni sessuali, gli estrogeni e i progestinici, prodotti dalle ovaie, sembrano avere un qualche ruolo attivo nella depressione. La loro alterazione è stata, infatti, associata alla Depressione post partum che interessa il 13% delle puerpere ed è legata alla drastica riduzione dei livelli di questi ormoni nel sangue. Hanno importanti effetti biochimici anche tutte le situazioni di stress acuto e quelle legate ad emozioni forti e persistenti. Un grave trauma psicologico nei primi mesi di vita -- per un bambino il trauma più grande è la separazione dalla madre o da chi ne fa le veci -- potrebbe creare rilevanti scompensi a livello neurologico, favorendo la comparsa di diversi disturbi, tra cui la Depressione anaclitica. È stato detto che se i bambini di pochi mesi vengono privati per qualche tempo della presenza materna, cadono immediatamente in depressione e si chiudono in se stessi come per rifiutare la vita. Ritrovata, però, la madre, tutti i disturbi svaniscono rapidamente, mentre le tracce di quell’esperienza rimarranno impresse nel loro inconscio e si trasformeranno in una sorta di fragilità psicologica che li accompagnerà per tutta la vita. Esperienze di separazione prolungata per oltre sei mesi hanno effetti ancor più pesanti sulla psiche del bambino, che da adulto potrebbe scoprirsi incapace, a livello inconscio, di instaurare legami affettivi importanti e duraturi.
L’ipotesi virale Un gruppo di ricercatori berlinesi ha isolato un virus che si annida nelle cellule cerebrali e che sembra avere delle corresponsabilità nell’insorgenza delle Sindromi maniaco-depressive (Disturbi Bipolari). Nel sangue di alcuni pazienti degli ospedali psichiatrici berlinesi sono stati isolati, per la prima volta, tre diversi tipi di Borna virus, responsabili di un’infezione che si sospetta possa essere una delle cause della depressione. La scoperta, risalente all’estate del 1996, è nata dall’intuizione di un gruppo di ricercatori del “Robert Koch Institut” di Berlino che avevano rinvenuto nel sangue di alcuni pazienti psichiatrici degli anticorpi prodotti proprio dalla reazione contro il Borna virus, ritenuto “fattore attivo” nell’insorgenza della depressione. A sostegno della loro ipotesi hanno indicato due fatti: primo, che il 25% dei pazienti depressi era portatore di anticorpi contro il virus; secondo, che l’incidenza del micro organismo era direttamente proporzionale alle diverse fasi della sindrome maniaco-depressiva, per cui quando il paziente era depresso la presenza di questi anticorpi aumentava, mentre si riduceva quasi del tutto quando il paziente usciva dalla fase depressiva per passare in quella maniacale. La scoperta, in realtà, non è del tutto originale, in quanto il Borna virus era già stato da tempo isolato negli animali. Infatti, le prime ricerche su questo virus risalgono alla fine del 1800, a seguito di una mortale epidemia scoppiata fra i cavalli della regione tedesca chiamata appunto “Borna”. Si racconta di cavalli divenuti così riluttanti e apatici al punto di non mangiare più e di lasciarsi morire. Nel cervello di quei cavalli malati - ma anche in quello di altri animali (pecore, gatti, scimmie e struzzi) che avevano contratto il virus -
furono trovati tanti piccoli strani “nodi”. Queste inspiegabili alterazioni -- che nulla hanno a vedere con la più recente encefalopatia bovina (Bse) che distrugge il cervello in modo rapido e brutale producevano una “graduale e fine distruzione” del sistema nervoso degli animali attraverso una massiccia concentrazione di proteine. Ora, i virologi del Koch Institut sono convinti che questo stesso virus produca anche nell’uomo una sorta di distruzione cerebrale lenta e sottile, e che ad essa debba essere imputata l’instabilità umorale tipica dei Disturbi Bipolari.
Stress e cause psicologiche Ciascuno di noi, nel corso della vita, va incontro a situazioni nuove e non sempre piacevoli alle quali deve comunque adattarsi. Queste situazioni sono legate all’età, alle scelte effettuate in campo lavorativo, familiare, sociale, nonché al carattere della persona. Di solito vengono affrontate e superate con naturalezza, ma quando ciò non accade significa che si è in balìa di uno stress eccessivo (distress) che può creare non pochi problemi. Lo stress non è una malattia, ma una reazione di difesa dell’organismo che risponde a una diversa condizione di vita tanto dissimile da quella precedente da comportare un riadattamento dell’equilibrio mentale e fisico della persona. Il termine inglese stress -- che significa “sforzo”, “pressione” -- è entrato nel linguaggio corrente come sinonimo di stimolo nocivo, venendo riferito ad un ampio spettro di stimolazioni interne ed esterne che agiscono sull’individuo a livelli diversi (fisico, psicologico, biofisiologico, psicosociale) con particolare intensità e durata. Lo stress è, quindi, l’insieme di tutte quelle reazioni che mobilitano il nostro organismo, permettendogli di rispondere alle più disparate sollecitazioni che giungono da ogni parte. La reazione emotiva con cui cerchiamo di adattarci agli eventi stressanti ha sempre importanti effetti biochimici e si sviluppa attraverso risposte fisiologiche (automatiche) e risposte psicologiche di adattamento (consequenziali). Quando, però, questo adattamento non avviene -- ad esempio quando non riusciamo a superare la perdita di una persona cara o le conseguenze di una grave malattia -- ecco che mettiamo in atto risposte disadattative che sono poi causa diretta di disturbi fisici (nevralgie, cefalee, gastriti, ulcere...) e psichici (ansie, fobie, depressioni). Da ciò consegue che alla base di ogni alterazione dell’umore c’è sempre una reazione emotiva intensa che non è stata “metabolizzata” o che non ha prodotto il necessario riadattamento. Questo accade quando il nostro personale “livello di sopportazione” è stato colmato, per cui ogni ulteriore evento, anche poco stressante, non viene più assimilato, ma rigettato e trasformato in “fattore scatenante”. Nella vita quotidiana gli eventi potenzialmente scatenanti sono numerosissimi: la morte di una persona cara, una grave malattia propria o di un familiare, delusioni d’amore, tradimenti, dissesti economici, separazioni, divorzi, perdita del lavoro, aborti, condanne reclusive, disoccupazione, procedimenti legali, pensionamento, insuccessi scolastici, dissidi familiari, incidenti stradali, aspettative mancate e ogni altra cosa che determini un cambiamento di vita anche di segno
positivo, come un matrimonio, la nascita di un figlio, una vincita inaspettata o una piacevole sorpresa. Altrettanto paradossale e frequente è il cosiddetto “distress emotivo da vacanze” che può colpire tutti, giovani e anziani, e che è conseguenza di un forte affaticamento psicofisico causato dai lunghi viaggi, dal caldo o dal freddo eccessivo e dalle mutate abitudini alimentari e di vita. Nei casi più gravi può provocare una vera e propria “depressione da vacanze” (holidays blues), che di solito passa nel giro di una settimana. Da quanto detto si deduce che anche in quelle depressioni apparentemente prive di motivazione, se si va bene a fondo, si può individuare l’evento che ne ha determinato la comparsa e che può essere recente o passato. Questa ricerca, in apparenza oziosa, è invece determinante soprattutto in psicoterapia perché fa emergere una precisa situazione da cui partire per ricostruire i vissuti emotivi del paziente, le sue principali “debolezze” e da queste le cause reali che lo hanno condotto alla malattia. Molti di coloro che sono guariti definitivamente dalla depressione raccontano che il calvario della malattia è stato per loro l’inizio di una nuova esistenza, assai più ricca e vera di quella precedente, perché attraverso gli insegnamenti tratti da quell’esperienza così dolorosa e devastante sono riusciti a far emergere la parte nascosta e più bella di sé.
XIII
CONSIGLI PER LA PREVENZIONE
Dalla lettura di un manuale di psichiatria e dallo studio delle malattie più comuni presenti in ambito psichiatrico si può ricavare l’idea che le nevrosi, le psicosi e i disturbi dell’umore siano, nella maggior parte dei casi, delle risposte disadattative che l’individuo dà al problema dell’esistenza umana. Da questo punto di vista è, dunque, possibile affermare che ad ammalarsi di più psichicamente siano proprio le persone più sensibili, quelle cioè che più di altre trovano difficoltà a fare propri gli usi e le convenzioni della società in cui vivono, forse perché si pongono costantemente il problema del valore delle proprie azioni e del senso da attribuire alla vita.
La forza plasmatrice della sofferenza Inquietudine, tristezza, angoscia e depressione, sono tutti stati mentali connaturati all’esperienza umana dell’esistenza. Queste dolorose ombre dell’anima in fuga da se stessa nascono molto spesso dall’incapacità di dare un significato alla propria vita che appare quindi vuota, inutile, vana. “Dare significato alla propria vita” è senz’altro un’azione vantaggiosa ed evolutiva non soltanto perché ci preserva dagli oscuri slittamenti dell’anima, ma anche perché è la motivazione più seria e profonda tra tutte quelle che guidano il nostro agire quotidiano, l’unica in grado di farci superare la fatica di esistere, soprattutto quando questa fatica è resa ancor più penosa dalla solitudine, dai lutti e dalle malattie. Se “vivere” equivale a soffrire, “sopravvivere” è invece aver trovato il senso di questa sofferenza esistenziale. Ora, vi sono casi in cui la sofferenza esistenziale può essere in parte evitata, attenuata o
anche estinta, purché si agisca sempre perseguendo l’obiettivo del proprio ben-essere con coerenza e determinazione. Altre volte, invece, la sofferenza esistenziale non può essere evitata e neppure allontanata perché ci spetta, ci tocca tutta, in quanto parte integrante di quel processo evolutivo che abbiamo deciso di compiere in questa vita. Il vero dramma non è, dunque, quello di dover soffrire, quanto di soffrire senza averne capito la ragione: è proprio questa condizione di obnubilamento, di assenza di comprensione, a rendere la sofferenza davvero insopportabile. Diversi recenti studi hanno evidenziato che affetti, sentimenti ed emozioni sono strettamente collegati col sistema immunitario. La parte più antica del nostro cervello -- quella che contiene l’ipotalamo e le altre strutture del sistema limbico -- influenza costantemente tutte le funzioni ormonali del corpo, con dirette conseguenze sulla capacità del nostro organismo di difendersi dagli assalti provenienti dall’interno e dall’esterno. Ora, quando siamo stressati o in preda a sentimenti negativi, le nostre difese immunitarie s’indeboliscono rapidamente e ci rendono più esposti alle malattie. Chi è stanco, abbattuto, depresso, chi ha subìto una perdita affettiva, un abbandono, chi soffre per qualsiasi ragione si ammala di più e trasferisce tutte le sue pene o sul corpo (malattia funzionale) o sulla mente (disagio psichico). La sofferenza fisica o psichica -- quella che non possiamo evitare -- è un importante momento di riflessione che dobbiamo saper cogliere perché è un invito a crescere e uno stimolo alla scoperta di quella parte nascosta di noi che ci fa paura e che non vogliamo conoscere. Questa sofferenza non va, dunque, mai soffocata, ma ascoltata con attenzione e capita nel suo significato più profondo, perché è l’urlo muto del nostro spirito che cerca di liberarsi dagli intrecci contorti della mente e dei fatui bisogni del corpo, e che ci vuole dire che è giunto il momento di cambiare, di rinnovarci e di crescere.
Normalità e adattamento La sofferenza psichica di natura non organica nasce sempre da una condizione di disarmonia della persona che è in conflitto con se stessa, con il mondo o con Dio. Riflettendo sui nostri disagi interiori, ci rendiamo conto di essere diversi da come eravamo prima, insoddisfatti della nostra vita e quindi incapaci di compiere tutte quelle azioni quotidiane che di solito si fanno in modo automatico e che sono il metro di valutazione del nostro star bene. Se siamo onesti con noi stessi, non possiamo non cogliere la fragilità che ci scuote nel profondo e l’inquietudine che tormenta la nostra mente, piena di dubbi e di paure per l’insoddisfazione che proviamo nei confronti di una vita artefatta che non apprezziamo perché troppo lontana dai ritmi della Natura e dagli obiettivi del nostro essere. Oggi, il termine “malattie mentali” è usato per indicare un ventaglio molto ampio di condizioni di sofferenza psicologica e sociale che, pur non costituendo precise patologie d’interesse psichiatrico, identificano una significativa riduzione della salute mentale di un individuo. In questo senso possiamo affermare di essere tutti un po’ “malati mentali”, anche se molto spesso non ce ne accorgiamo o non vogliamo riconoscerlo. Una battuta che circolava qualche anno fa, e che rispecchia molto bene questo stato di cose, diceva che “in un ospedale
psichiatrico l’unica differenza esistente tra medici e pazienti sta nel fatto che i primi hanno le chiavi e i secondi no”. Al di là di ogni motto faceto, sappiamo bene tutti quanto sia sottile e ondivago il confine tra salute mentale e malattia, confine tanto incerto e ambiguo da essere posto su una stessa linea continua, chiamata per questa ragione “continuum” tra normalità e patologia. Uno degli orientamenti oggi più seguiti postula che la salute psichica di una persona dipenda in larga misura dal suo grado di adattamento al sistema di vita della società in cui vive e dalla sua capacità di affrontare e superare lo stress. In altre parole, più una persona riesce a integrarsi e ad adattarsi all’ambiente che lo circonda (familiare, scolastico, professionale, sociale), meno problemi ha perché, aderendo alla “normalità” riconosciuta da tutti, non crea negli altri diffidenza, fastidio o paura. Per contro, un comportamento palesemente difforme -molto distonico o disadattativo - viene subito giudicato inidoneo e la persona che lo manifesta è considerata non normale, psichicamente diversa, dunque malata. Ma le cose stanno veramente così? Illuminante in tal senso è il racconto di Herbert George Wells, Il paese dei ciechi, che narra la storia di un giovane smarritosi sulle Ande ecuadoriane che, dopo aver vagato per giorni e giorni, incontra una tribù dove sono tutti ciechi da molte generazioni a causa di una particolare malattia divenuta col tempo congenita. Il giovane, per sua sfortuna, ci vede benissimo e questo gli crea non pochi problemi in seno alla comunità perché tutti diffidano di lui e lo temono. Il giovane cerca comunque d’integrarsi e per farlo accetta di sottoporsi a un’accurata visita da parte dei luminari della tribù che giudicano la sua capacità di vedere un’anomalia pericolosa per il buon funzionamento del suo cervello che sarebbe, a loro dire, eccessivamente sovraccaricato e distratto da un’ingente mole di stimoli visivi. La sua vista era, dunque, un danno, un pericolo, non una fortuna. Il tempo passa e il giovane, vivendo lì, s’innamora di una ragazza. Vorrebbe sposarla, ma non può. Il padre di lei si oppone fermamente alle nozze e condiziona il suo assenso al fatto che il giovane rinunci alla vista e si sottoponga a un’operazione che lo renda cieco come tutti gli altri. Inutile dire che il giovane abbandona l’idea delle nozze e fugge subito via da quella tribù. La vicenda paradossale di questo racconto fa ben capire quanto sia soggettivo il concetto di “normalità” e come esso venga spesso identificato col nostro modo di pensare, di agire e di essere. Noi siamo sicuramente normali: gli altri, chissà!
La prevenzione in campo medico In Italia si fa da anni un gran parlare di prevenzione, ma quando poi si cercano riscontri pratici ecco che l’entusiasmo iniziale si trasforma quasi sempre in delusione. Il problema nasce dal fatto che la maggior parte delle iniziative della cosiddetta medicina preventiva si muovono secondo la logica della “riparazione” e non della “prevenzione”. Si fa, insomma, una gran confusione tra quella che è la prevenzione in senso stretto e altre forme d’intervento che non prevengono, ma che servono a contenere la pericolosità di un evento, com’è appunto il caso della diagnostica precoce. Approfondendo l’etimologia del vocabolo “prevenire”, notiamo che deriva dal verbo latino praevenio, ire, formato a sua volta dal prefisso
prae che esprime anteriorità nel tempo e dalla forma verbale venio, ire che significa “venire”, “giungere”, “arrivare”. “Prevenire” vuol, dunque, dire “agire in anticipo”, “muoversi prima”, “anticipare”, allo scopo di evitare le conseguenze negative di una situazione che si ritiene in qualche modo perniciosa. “Prevenzione” è di conseguenza un’azione di difesa, di tutela anticipata, di salvaguardia, che si esplica in un complesso di misure di protezione adottate prima che si verifichi un evento ritenuto dannoso, sia per scongiurarlo, sia per limitarne gli effetti indesiderati che ne possono derivare. Nella prassi medica, la prevenzione di una malattia è classificata in tre diversi gradi: primaria, se posta in essere prima che la malattia si instauri. Dal punto di vista pratico consiste in tutte quelle azioni individuali o collettive (vaccinazioni, profilassi, interventi di sostegno, campagne d’informazione di massa) messe in atto per evitare l’insorgenza della malattia; secondaria, se realizzata, invece, durante il periodo di latenza clinica della malattia. In altre parole, pur non essendoci nessuna manifestazione palese, la malattia è già presente, per cui s’interviene per contenerla nella sua durata temporale e nei danni che essa può produrre. Dal punto di vista pratico si attua attraverso la diagnosi precoce e trattamenti terapeutici conseguenti; terziaria, quando i sintomi della malattia sono conclamati e pertanto s’interviene allo scopo di evitare recidive o ulteriori più gravi conseguenze. Un esempio, mutuato dal campo odontoiatrico, può chiarire meglio le differenze tra queste tre diverse tipologie di prevenzione. Lavarsi accuratamente i denti dopo ogni pasto, fare la detartrasi (l’asportazione del tartaro) o assumere del fluoro in tenera età, sono tutte azioni di prevenzione primaria. La visita periodica dal dentista -- per esempio ogni 6 mesi - rientra invece nella prevenzione secondaria perché permette di scoprire precocemente un’eventuale condizione patologica non ancora avvertita ma già presente. Andare dal dentista quando si ha un dente spezzato, un inizio di carie o una gengiva infiammata, è una tipica azione di prevenzione terziaria che non serve ad allontanare il problema, che già esiste, ma a risolverlo rapidamente evitando guai maggiori. Volendo rendere ancor più essenziali questi concetti, possiamo dire che la prevenzione vera e propria dovrebbe coincidere con quella “primaria”, mentre la “secondaria” può configurarsi come la scoperta precoce della malattia e la “terziaria” come il saggio e prudente avvio di un’azione riparatrice.
La prevenzione delle sindromi depressive La medicina ha fatto in questi ultimi cinquant’anni passi da gigante, compiendo diversi prodigi nella riparazione con successo di danni apparentemente irreversibili: bypass coronarici, trapianti d’organi, guarigioni di malattie infettive letali e tante altre cose ancora. I successi della medicina “riparatrice” non hanno però trovato analogo riscontro nel campo delle malattie mentali dove la sofferenza è evidentemente meno facile da curare perché non è fisica. Ciò non toglie che il disagio mentale sia talvolta più grave e invalidante di quello fisico in quanto investe le principali aree di dominio della persona -ossia l’area psicologica, l’area affettiva e l’area sociale -- che danno
significato e qualità alla vita. Questa obiettiva difficoltà nell’impostare un’efficace azione terapeutica avrebbe dovuto suggerire alle autorità sanitarie di muoversi con maggior impegno nel campo della prevenzione, per evitare i rischi di soluzioni curative incerte e aleatorie. Non è stato così: forse per inettitudine o per scarsa lungimiranza o per interessi diversi. L’amara conclusione è che oggi, in Italia, la prevenzione delle malattie mentali non viene fatta. Ma, cerchiamo di capirne di più. Per cogliere l’importanza della questione non va dimenticato che alla base di ogni malattia psichiatrica c’è sempre l’incapacità della persona di affrontare e superare le difficoltà del vivere quotidiano sia per problemi emotivi o di adattamento (nevrosi), sia per problemi più gravi di ordine affettivo o funzionale (psicosi), per i quali non sempre è possibile evidenziare una causa di origine organica. Va da sé che in un ventaglio di situazioni patologiche come queste, i protocolli terapeutici risultino spesso inefficaci in quanto difficili da modulare sulla persona e sul decorso della sua malattia. Queste osservazioni valgono in particolar modo per le sindromi depressive che sono così complesse e variegate da creare non pochi problemi sia nella fase di diagnosi che in quella di terapia. Ora, se queste malattie -- che continuano a crescere in modo esponenziale - sono così difficili da individuare e da curare, perché invece non cercare di prevenirle? La depressione -- dobbiamo prenderne atto -- è il cancro del terzo millennio ed è così diffusa da sembrare una pandemia. Questa profonda tristezza dell’anima che annulla le emozioni e spegne ogni interesse per la vita, è la patologia del nostro essere al mondo, ed è così comune che l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che nel 2020 sarà la malattia più diffusa sul Pianeta, tanto da coinvolgere un abitante su tre. Cerchiamo, dunque, di conoscerla meglio e di fare qualcosa per contenere la sua diffusione. La depressione -- lo abbiamo più volte sottolineato -- è una malattia ciclica grave e complessa che di solito non guarisce, ma che si esaurisce spontaneamente anche senza nessuna cura, rimanendo però latente nella mente della persona, per poi ripresentarsi a distanza sei mesi, un anno o anche dieci, se nel frattempo non sono state individuate e risolte le cause che l’hanno generata. Come disagio psichico nasce molto spesso da un sentimento di insoddisfazione profonda, dal rifiuto di accettare il fallimento dei propri sogni, dall’incapacità di ridimensionare le proprie aspirazioni o dal non sentirsi all’altezza delle proprie aspettative e di quelle degli altri. È la tragedia di chi, vinto dalle delusioni della vita, si chiude in se stesso e decide di spegnere tutte le sue emozioni per non soffrire più. Questa rinuncia alla vita è lo specchio impietoso del nostro disadattamento esistenziale: è la conferma, se mai ce ne fosse bisogno, della vacuità delle scelte fatte in precedenza, del nostro correre vano, di come ci siamo arrabattati per condurre un’esistenza che non aveva sbocchi perché lontana dai ritmi della Natura e dai veri obiettivi del nostro essere. È questo un fardello troppo pesante, gravoso da portare, difficile da reggere a lungo, e così inevitabilmente si cade. La complessità della malattia depressiva, la molteplicità delle sue forme -- oggi se ne conoscono 39, dalle più lievi alle più gravi -- e la pluralità delle cause che contribuiscono alla sua comparsa, dovrebbero suggerire alle autorità sanitarie d’impegnarsi in una seria opera di prevenzione, idonea a porre un argine alla diffusione della malattia e ai conseguenti rischi umani e sociali che ne derivano. La drammaticità e la
frequenza dei casi che la cronaca propone, e che vedono protagoniste persone depresse, è l’accusa più forte e diretta all’inerzia di coloro che dovrebbero preoccuparsi del problema e che invece non lo fanno. Sperare in una prevenzione istituzionalizzata della depressione è oggi nel nostro Paese un’utopia che rimarrà tale per chissà quanti anni ancora. Troppo poche persone ne parlano, e nessuno degli “addetti ai lavori” fa qualcosa per cambiare questa situazione. I forti interessi individuali e le pressioni esercitate dalle case farmaceutiche fanno sì che il problema venga sempre accantonato e sigillato dietro un comodo “Non si può!” che la dice lunga sull’effettiva volontà di affrontare la questione e di risolverla. Certo, non è facile, perché non si tratta di combattere un’epidemia virale o batterica, contro cui esistono vaccini specifici in grado di contenerla e debellarla, ma ci sono diverse azioni collettive d’indubbia utilità che potrebbero essere fatte e non lo sono. Ci riferiamo in particolare alla carenza d’informazione che circonda la malattia depressiva e che riguarda non soltanto i cittadini, ma anche la stragrande maggioranza delle strutture sanitarie di base che dovrebbero essere le prime a intervenire sul territorio a supporto del malato e dei suoi famigliari, con azioni concrete, suggerimenti, consigli. Ecco, qui da noi manca questo! E non bastano le parole di pochi illuminati psichiatri ---Andreoli, Borgna, Crepet, Morelli -- a far capire a tutti che il vero problema, il lutto da elaborare, non è tanto quello della morte fisica di una persona, evento spesso atteso e ineluttabile, quanto quello della sua morte psichica, che sovente precede e determina l’altro. Quando la vita -- soprattutto quella affettiva e sociale -- perde valore e si consuma giorno dopo giorno nella tristezza e nell’apatia, ecco che finisce inevitabilmente con l’assumere i contenuti e i colori della morte. Posto che le caratteristiche stesse della depressione - estrema variabilità dei sintomi e dei meccanismi d’insorgenza - rendono difficile l’introduzione di efficaci misure di prevenzione di massa, si dovrebbe almeno operare in senso informativo, promuovendo la conoscenza della malattia con apposite campagne d’informazione e di sensibilizzazione -attraverso le Aziende sanitarie locali, i Dipartimenti di salute mentale, i medici di base -- negli ospedali, nelle scuole e sui mass media, per far conoscere a tutti la reale portata della malattia, i suoi principali sintomi e le misure da adottare nelle diverse situazioni. È una cosa tanto difficile da realizzare? Si fanno tante campagne - per la sicurezza stradale, contro il cancro, contro il fumo, contro l’alcol, l’obesità, l’ipertensione - e non se ne può fare una per far conoscere a tutti la depressione? Perché mai? Vorremmo che qualcuno ce lo spiegasse, anche perché non riusciamo proprio a capirlo. Tuttavia, una soluzione personale c’è. Quello che non è possibile o non si vuole realizzare a livello collettivo, è invece fattibile a livello individuale, purché si abbiano le conoscenze necessarie e la volontà di renderle pratiche. Il punto da cui partire è proprio l’informazione, la conoscenza. Kurt Lewin, uno dei più grandi teorici della Psicologia Sociale, era solito affermare che è la conoscenza a far evolvere l’uomo. Infatti, con la conoscenza si ha sempre un cambiamento, che è fonte di apprendimento, il quale a sua volta è ulteriore conoscenza, in un processo evolutivo circolare che si perpetua all’infinito Seguendo questa linea d’azione, ben sapendo che soprattutto in campo medico la prevenzione è sempre la scelta migliore, forniremo qui di seguito alcune indicazioni di carattere generale utili a tener lontana la
depressione. Iniziamo dai punti dolenti, che sono di solito i più difficili da superare.
Abitudini da abbandonare Abbandonare le proprie abitudini svantag giose è un passo faticoso ma necessario. L’abitudine è un modo di sentire, di pensare, di fare, che abbiamo acquisito e che si esprime in una modalità d’essere e d’agire che tende a ripetersi nel tempo in forma pressoché identica. È un elemento che subito ci dà tranquillità perché è rassicurante e non ci espone all’ansia del nuovo, ma che a lungo andare ci limita nelle azioni, imprigionandoci in comportamenti antichi e stereotipati - dai quali non è sempre facile uscire - che riducono notevolmente la nostra disponibilità a cambiare, a trasformarci e a crescere. Mutare le proprie abitudini non è mai agevole - anche quando si tratta di passare da comportamenti palesemente svantaggiosi ad altri più salutari - per via di tutte quelle resistenze che la nostra mente oppone. Il risultato più frequente è che si finisce col “girare a vuoto”, indugiando, rinviando il momento del cambiamento di giorno in giorno, fino a quando la situazione ci scappa di mano e non offre più spazio a indecisioni e tentennamenti. Il nostro inconscio ci avverte sempre per tempo, segnalandoci ripetutamente la necessità di mutare rotta, di cambiare abitudini e pensieri, ma noi spesso restiamo sordi e non cogliamo questi segnali o per pigrizia o per superficialità. La conseguenza evidente di questo nostro comportamento è la comparsa di una sofferenza - fisica o psichica - che ci costringe a fermarci, a riflettere sulla nostra condizione e a prendere finalmente in considerazione ciò che avevamo in precedenza ignorato. Per cambiare, occorre essere consapevoli della necessità di farlo, e lo si è soltanto dopo aver esaminato a fondo la propria situazione, valutando con attenzione i rischi che si corrono e tutti gli altri svantaggi che ne possono derivare. Ecco, soltanto alla fine di un’analisi impietosa e obiettiva dei fatti, è possibile pensare di costruire un proprio “percorso di cambiamento” che dovrà essere realizzato con determinazione e gradualità, agendo sia da soli che con l’aiuto di altri. Se “prevenire è sempre meglio che curare”, non c’è dubbio che lo sia ancor di più nel caso della depressione non soltanto perché fa evitare una patologia imprevedibile e con un’elevata incidenza di ricadute, ma anche perché preserva da tutta una serie di malattie secondarie, causate dal cattivo funzionamento del sistema immunitario, reso più debole dalla caduta dell’umore. Dal punto di vista fisiologico, tutte le forme di depressione sembrano condividere una stessa situazione: la ridotta presenza nelle aree cerebrali di alcuni neurotrasmettitori (serotonina, noradrenalina e dopamina) coinvolti più di altri nei disturbi dell’umore. Le ricerche condotte in questa direzione hanno messo in luce l’esistenza di diversi fattori potenzialmente in grado di influenzare l’umore alterando l’equilibrio biochimico cerebrale. Alcuni di questi fattori sono del tutto indipendenti dalla nostra volontà (ad esempio quelli ereditari o genetici); altri sono contenibili solo in parte (fattori ambientali, stress psicologici); altri invece dipendono esclusivamente da noi (abitudini sbagliate, stili di vita inopportuni, comportamenti inadeguati o svantaggiosi) ed è proprio su questi che bisogna agire, modificandoli.
La prevenzione primaria della depressione passa necessariamente dall’evitamento, dal non uso di tutte quelle sostanze che inducono dipendenza. Alcol, fumo, droga -- e in misura minore anche caffeina e teina -- creano una forte dipendenza psicologica, causa diretta di ansia e di altri pesanti effetti depressogeni. Le droghe, in particolare, agiscono direttamente sul cervello sovvertendo il normale equilibrio degli aminoacidi che, come sappiamo, sono i principali costituenti delle monoamine, i più comuni neurotrasmettitori cerebrali. Per tale ragione tutte le droghe hanno tra i diversi effetti secondari anche l’abbassamento del tono dell’umore, segno anticipatore e ricorrente della depressione. Alcol e fumo non sono da meno. Il loro uso smoderato deprime l’attività cerebrale e fa aumentare la produzione di cortisolo, l’ormone dello stress che inibisce la produzione di serotonina, alterando così tutte le principali attività cicliche dell’organismo. Conseguenze di minor conto, ma sempre spiacevoli, sono prodotte dalla caffeina e dalla teina che, a dosi elevate, generano sovente ansia, irritabilità e anche alterazioni del ritmo sonno-veglia. Inutile ricordare che l’uso congiunto di due o più sostanze fa crescere in misura esponenziale il rischio di caduta rapida dell’umore. Un discorso a parte meritano i farmaci, la cui assunzione dovrebbe essere limitata ai soli casi di effettiva necessità e sotto controllo medico. I farmaci -- è bene non dimenticarlo -- non agiscono mai soltanto nei confronti del problema specifico per cui sono assunti, ma producono numerosi altri effetti collaterali che possono influire sull’equilibrio ormonale e quindi alterare l’umore. Tutto dipende dal tipo di sostanza assunta, dalla posologia, dalla durata della cura, dalle eventuali interazioni con farmaci e alimenti e dalle condizioni psicofisiche del soggetto. Da questo punto di vista, particolare attenzione va usata con tutti gli psicofarmaci (antidepressivi, ansiolitici, neurolettici, stabilizzatori dell’umore) che oltre a creare dipendenza fisica e psicologica hanno sovente numerosi effetti indesiderati quali confusione, sonnolenza, vertigini e cefalea, mentre in casi più rari possono provocare come “effetto paradosso” agitazione, irritabilità, collera e come “effetto rebound” (o sintomi da rimbalzo) insonnia, ansia e persino depressione. Altrettanta vigilanza è richiesta con gli ormoni, i cortisonici, la levodopa (per il morbo di Parkinson), le anfetamine (per dimagrire), gli steroidi anabolizzanti (per aumentare la massa muscolare), i contraccettivi orali, gli stimolatori della memoria, gli antiacidi (per l’ulcera) ed anche con molti antibiotici. La conclusione paradossale di questo discorso è che per “star bene di testa” bisogna essere fortunati e non avere altre malattie da curare. Se si hanno malattie gravi, la depressione può nascere sia come risposta disadattativa all’evento traumatico, sia come conseguenza delle cure che si stanno facendo. Pensieri, comportamenti e stili di vita hanno un ruolo importante nell’insorgenza della depressione. Se siamo troppo ansiosi o emotivi; se abbiamo pensieri tristi e tormentosi; se siamo perennemente in affanno e stressati; se siamo insoddisfatti della vita che conduciamo, delle persone che frequentiamo, del lavoro che facciamo; se teniamo troppo alla nostra immagine e al giudizio degli altri; se ci poniamo obiettivi difficili da raggiungere; se siamo sovente in preda al pessimismo e allo scoramento; se non sappiamo fare ordine e pulizia dentro e fuori di noi, se siamo così abbiamo elevate probabilità di cadere nella depressione.
Pensieri, comportamenti e stili di vita ci dicono la strada che abbiamo scelto di percorrere e di conseguenza quello che ci potrà accadere. Per avere uno stile di vita orientato verso la salute è necessario mettere al bando non soltanto i pensieri pessimistici e rimuginativi, ma anche i sentimenti di ostilità verso noi stessi e gli altri, insieme a tutte quelle abitudini che sappiamo essere più svantaggiose: la sedentarietà o viceversa l’iperattivismo, la maniacalità, l’ossessività, il perfezionismo, ed ogni altro atteggiamento mentale e fisico capace di generare elevati livelli di stress. Se poi, pur con tutte queste attenzioni, ci accorgiamo che apatia e disagio stanno ugualmente crescendo in noi, dobbiamo immediatamente cambiare tutti i nostri modelli mentali di riferimento e cercare nuovi interessi, spazi maggiori da dedicare a noi stessi, all’ideazione e alla creatività. Non dobbiamo rintanarci nel nostro guscio e piangere sulle nostre sfortune - non serve a nulla -- e neppure ripetere gli errori del passato: lamentarci o cercare capri espiatori non ci aiuterà certo a risolvere il problema che ci sta a cuore. È necessario essere saggi e non recitare la solita parte, quella che conosciamo bene, ma che non è la nostra e che forse ci ha procurato un sacco di guai. Evitiamo di prenderci ancora in giro, di bluffare con noi stessi: sarebbe assurdo e controproducente. Cerchiamo, invece, di essere seri, onesti, umili, capaci di cambiare le nostre idee se riconosciamo che sono sbagliate. Dobbiamo riuscire a cancellare tutte quelle false credenze che ci hanno sempre bloccato e che hanno impedito il libero fluire del nostro vero essere. Come fare? Il modo più semplice e diretto è guardarsi dentro, osservarsi con distacco, per scoprire le profondità del proprio essere e capire come veramente si è. Solo così si potrà sapere se c’è qualcosa in noi che non va e che cosa è opportuno cambiare per riconsegnarci alla vita e poterla di nuovo vedere con gli occhi luccicanti e curiosi di un bambino.
Abitudini da coltivare Lo stato organico perfetto è un’astrazione umana, inesistente nella realtà che conosciamo. In natura, infatti, non esiste un tipo organico di perfezione, ma una singola verità organica che è poi quella che ciascuno di noi possiede e con la quale ci dobbiamo confrontare per tutta la vita. Siamo noi, applicando le tecniche della statistica, ad aver creato un metro fisiologico di valutazione su cui misuriamo la “normalità” nostra e quella degli altri, proponendo un confronto con i valori medi di quella che riteniamo debba essere la salute perfetta di un individuo. Questa “normalità” in natura non esiste perché ciascun individuo ha una sua propria originalità organica che è quella che poi gli permette di lottare e di vincere la sua battaglia per la vita. Perché, allora, omologare ogni cosa, compresi gli esseri umani, a criteri di perfezione e normalità che non esistono? In natura la perfezione è soltanto una tendenza verso cui ci si muove, ma che è talmente lontana da risultare irraggiungibile. Lo stesso discorso vale anche per la salute, verso la quale siamo tutti naturalmente predisposti, ma che ciascuno persegue con i mezzi fisici e psichici che ha a disposizione. La salute è uno stato a cui tendere, una condizione dinamica ed evolutiva che non è mai la stessa e che si deve conquistare momento dopo momento con un continuo ed intelligente lavoro fatto sul corpo, sulla mente e sullo spirito.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ormai da diversi anni ridefinito il concetto di “salute” ritenendola non più “semplice assenza di malattia” ma “benessere totale”, ossia pieno equilibrio psicofisico attraverso cui ciascuno di noi può esprimere e sviluppare il meglio di sé. Una bella definizione di salute è quella data da Louise L. Hay nel suo libro Guarisci il tuo corpo. “Godere di buona salute significa: non avvertire alcuna stanchezza; avere appetito; dormire bene e svegliarsi ben riposati; avere buona memoria, senso dell’umorismo; essere precisi nei pensieri e nelle azioni; essere onesti, umili, pieni di gratitudine e di amore”. Siamo così? Per essere sani e vivere in salute dobbiamo riuscire a creare in noi uno stato di armonia profonda, un giusto equilibrio tra i bisogni del corpo, le esigenze della mente e le necessità dello spirito. In quest’ottica la mente può esserci di grande utilità perché fa da trait d’union, da congiunzione tra la materialità del corpo e la trascendenza dello spirito. Se impariamo ad usare bene la mente, con tutte le sue facoltà, e se riusciamo ad indirizzarla correttamente verso il benessere e la positività, troveremo sicuramente ciò che ci serve per arrivare alla “nostra” salute. Iniziamo ad affrontare la vita col buonumore, senza farci sovrastare dai problemi, dalla stanchezza o dalla malinconia, è staremo subito meglio non soltanto psichicamente, ma anche fisicamente, perché il nostro organismo reagirà nel senso voluto e si allineerà alla nostra decisione. Diverse ricerche hanno confermato che essere di buonumore, ottimisti, ben disposti con se stessi e nei confronti degli altri, è un atteggiamento assai vantaggioso perché attira ciò di cui abbiamo bisogno e rende più efficiente il nostro sistema immunitario. Se siamo di buonumore, difficilmente potremo cadere in depressione. Ma, come fare a tenere alto il proprio umore? Basta essere ottimisti e seguire poche semplici regole. La prima regola è darsi una disciplina alimentare. I saggi dicevano che la salute inizia proprio a tavola e la scienza oggi dà loro ragione. Un’alimentazione sana e varia è la miglior difesa dell’organismo perché aiuta a conservare la salute psicofisica e rende l’umore più sereno ed equilibrato. È noto da tempo che i fattori nutrizionali hanno un ruolo di rilievo nella patogenesi di diversi disturbi tra cui quelli depressivi. Agendo sulle abitudini alimentari è, dunque, possibile assicurarsi una buona condizione di salute e prevenire numerose malattie, insieme ad alcuni effetti degenerativi propri dell’invecchiamento. Mangiare in modo vario ed equilibrato deve diventare uno stile di vita condiviso e applicato sempre, perché il cibo è già di per sé terapia. Parlando del cervello, è risaputo che lo si mantiene in buone condizioni non facendogli mai mancare il giusto apporto di zuccheri, che sono la sua principale fonte di energia. Va, però, detto che è bene limitare gli zuccheri contenuti nei dolciumi e preferire quelli presenti nella frutta fresca (banane, ananas, prugne, kiwi) e secca (noci, arachidi, mandorle). Una ridotta presenza di zuccheri nel sangue (ipoglicemia) -- al pari di una carenza di vitamine (B, C, H), di sali minerali e di aminoacidi -- può produrre un’alterazione della funzionalità cerebrale, creando i presupposti per l’insorgenza di stati d’ansia e di depressione. Per evitare questi rischi è consigliabile adottare una dieta ricca di verdure, cibi integrali, carni bianche e pesce, che contengono tutti i principali elementi nutritivi utili a tenere alto il tono dell’umore. In particolare, in una dieta finalizzata al buonumore non dovrebbero mai mancare:
gli AMINOACIDI, ossia quei composti organici che partecipano alla sintesi delle proteine e che sono presenti in tutti i più importanti processi biologici, compresa la formazione dei neurotrasmettitori cerebrali. Tra questi, da privilegiare: il triptofano, precursore della serotonina e della melatonina (lo si trova nel latte, pesce, carne, banane); la fenilalanina, che riduce i sintomi depressivi (è contenuta nei formaggi, soia, arachidi, mandorle); la feniletilamina, antidepressiva e stimolante, (presente in alte concentrazioni nel cioccolato); la tirosina, precursore della noradrenalina, dall’azione antidepressiva e antistress (la si trova nei legumi, arachidi e formaggi); la S-Adrenosyl-Metionina (SAM), che regola il sistema nervoso centrale e la cui assenza ha effetti negativi su alcuni neurotrasmettitori come serotonina e dopamina (è presente nel latte, pesce, fegato e uova); i MINERALI, quelle sostanze inorganiche che mantengono efficiente il sistema immunitario e che garantiscono la corretta trasmissione degli impulsi nervosi. In particolare il magnesio, coinvolto in diverse funzioni cerebrali, la cui carenza provoca fragilità emotiva ed ansia (ne sono ricchi i vegetali a foglia verde, legumi, cereali integrali, soia, noci e lievito di birra); il calcio, carente soprattutto negli anziani e nelle donne in gravidanza, che contrasta gli attacchi di panico e la depressione (è presente in alte concentrazioni nel latte, formaggi e latticini, a concentrazioni più basse nel pesce, carne, noci e fagioli); il litio, un potente stabilizzatore dell’umore che viene preparato sotto forma di sali; il selenio, un oligoelemento dalle note proprietà antiossidanti e immunitarie, la cui scarsa presenza è associata negli anziani ad un declino delle capacità cognitive; gli ACIDI GRASSI ESSENZIALI, quei “grassi buoni” (polinsaturi) che tengono pulite le arterie e garantiscono il perfetto trasporto dei principi nutritivi a tutte le cellule del corpo. Un’alimentazione ricca di pesce (sgombri, salmoni, sardine) o di olio di semi di lino o di oliva fa aumentare la disponibilità di alcuni acidi grassi omega-3 (linoleico, linolenico, deicosaesanoico) che sono i costituenti principali delle membrane cellulari, mantenute, grazie alla loro azione, perfettamente elastiche e permeabili. Se un’alimentazione mirata e varia è la prima regola per tenersi lontani dalla depressione, la seconda, ancora più importante, è contenere lo stress. Lo stress -- come tutti sappiamo - non è una malattia, ma una reazione del nostro organismo che cerca di adattarsi ad un evento, ad una situazione che è giudicata in qualche modo faticosa, logorante. In realtà, tutto può generare stress: una malattia, un lutto, una separazione, un incidente, un esame andato male, il capo ufficio rompiscatole, il marito ubriaco, la moglie chiacchierona, il figlio disubbidiente, la televisione del vicino, le sedute dal dentista, i matrimoni, le feste, il traffico.... Quando si è stanchi, tesi o irritati, la nostra capacità di sopportare gli stimoli stressanti (stressors) si riduce drasticamente, e così anche l’evento più banale può scatenare in noi una risposta emotiva eccessiva, esagerata, non in linea con la situazione che l’ha generata, e per questa stessa ragione disadattativa. Quando ciò accade, l’organismo produce un surplus di “ormoni dello stress” (cortisolo, adrenalina, noradrenalina) che alterano l’equilibrio biochimico del cervello, provocando tutta una serie reazioni tra cui la caduta dell’umore. I fisiologi attribuiscono la responsabilità
maggiore al cortisolo, la cui presenza in eccesso andrebbe a stimolare la produzione di un enzima, la triptofano idrogenasi, che ridurrebbe la disponibilità di triptofano, il precursore della serotonina. “Poco triptofano” equivale a “poca serotonina” e quindi a un umore molto basso, primo e importante passo di caduta verso la depressione. Attenzione, dunque, agli stress intensi e prolungati che rappresentano sovente l’anticamera di una possibile sindrome depressiva. In questo senso, un’efficace azione di prevenzione può essere quella di evitare gli stress intensi. Non sempre è possibile farlo - come nel caso di eventi luttuosi, di disgrazie, di abbandoni -- mentre, invece, altre volte siamo proprio noi ad andarceli a cercare con i nostri comportamenti dissennati e imprudenti. Ci riferiamo, ad esempio, a quelle folli diete ipocaloriche che aboliscono totalmente zuccheri e grassi, all’eccessivo attivismo, alla pratica di sport estremi o troppo rischiosi, e a tutte quelle altre abitudini poco salutari che spesso coltiviamo con leggerezza e superficialità, ma che creano nel nostro organismo le reazioni tipiche di un forte stress. A parte i casi prima citati, che sconfinano nell’autolesionismo patologico, un metodo efficace per contenere lo stress e mantenere alto l’umore, è incrementare la produzione di endorfine. Queste sostanze sono veri e propri oppioidi naturali, in grado di determinare sensazioni prolungate di benessere e di euforia. Il nostro organismo le produce e le utilizza per lenire il dolore e contrastare lo stress. Ora, quanto più endorfine produciamo, tanto più siamo euforici, stiamo bene e teniamo lontana da noi la depressione. La psiconeurofisiologia ci dice che mente e corpo sono parti integranti di una stessa unità, per cui è possibile agire sul corpo attraverso la mente e sulla mente attraverso il corpo. Se è vero che un pensiero, un’idea, un sentimento, possono determinare significative variazioni fisiologiche, è altrettanto vero che un’azione, un gesto, un movimento, sono in grado di modificare gli stati mentali di una persona cambiandone pensieri ed atteggiamenti. La conclusione logica di questo discorso è che il nostro cervello non è mai lo stesso, ma si modifica in continuazione (plasticità cerebrale) a seconda degli stimoli che riceve dall’interno e dall’esterno. Il modo più semplice e rapido per stimolare la produzione di endorfine è avere un’attività fisica regolare, preferibilmente aerobica (camminare, correre, fare ginnastica, nuotare, andare in bicicletta) e non troppo intensa. Praticare uno sport, fare della ginnastica, muoversi con regolarità durante tutta la settimana -- è sufficiente anche solo camminare per mezz’ora al giorno -- vuol dire aumentare il benessere e la funzionalità del corpo, ma soprattutto liberare la mente da quelle pericolose tossine che sono prodotte dai pensieri negativi ricorrenti. A livello fisico, camminare, muoversi, stare a diretto contatto con la natura e gli animali, dà numerosi vantaggi: migliora la capacità respiratoria e l’ossigenazione dei tessuti; riduce il grasso corporeo a favore delle masse muscolari; limita il rischio di malattie cardiovascolari, abbassando la pressione sanguigna; migliora la funzionalità di cuore, polmoni e dell’apparato gastrointestinale; rafforza ossa, legamenti, tendini, abbassa colesterolo e trigliceridi; incrementa l’efficienza immunitaria, aumenta la concentrazione di calcio nelle ossa, prevenendo l’osteoporosi e migliorando equilibrio e portamento.
A livello mentale i benefici sono altrettanto evidenti. Dalle numerose ricerche condotte in tutto il mondo si sa che l’esercizio fisico contribuisce ad abbassare la tensione e l’ansia; combatte lo stress, riducendo nel sangue i livelli di cortisolo, adrenalina e noradrenalina; migliora la funzionalità cerebrale, convogliando una maggiore quantità di ossigeno nell’encefalo; stimola l’ideazione e la creatività; allontana dalla mente i pensieri ruminativi, accresce l’autostima; dà equilibrio; facilita il sonno e soprattutto risolleva l’umore. In questa prospettiva di benessere endorfinico, sono altrettanto importanti numerose altre attività (leggere, dipingere, scrivere, ascoltare musica, conversare, andare a teatro, al cinema, viaggiare) fatte sempre con l’intento di gratificarsi e di trarre piacere. Ogni attività o pensiero graditi determinano un aumento di secrezione di endorfine -- prodotte non soltanto dal cervello, ma anche dal midollo spinale e dal tubo digerente -- che ha immediati riflessi sul sistema immunitario e sull’umore. Per tale ragione è bene, dunque, fare le cose che piacciono, tralasciando gli impegni inutili e noiosi, per trovare un po’ di tempo da dedicare a noi stessi e alle persone che ci aiutano a stare bene.. Dobbiamo imparare a prenderci cura di noi, a volerci bene, perché soltanto così possiamo voler bene agli altri e apprezzare di più la vita. “È grande e giusto -- diceva Johannes Meister Eckhart, filosofo e mistico tedesco del 1300 -- colui che , amando se stesso, ama in egual misura il suo prossimo”. È questo un insegnamento molto importante, che non sempre viene colto nel suo significato più profondo. Molte persone credono sia virtuoso amare gli altri e iniquo amare se stessi. Si sbagliano. Non è così! Chi non si ama, chi non ha un buon rapporto con se stesso, difficilmente può averlo con il prossimo. L’amore per sé e l’amore per gli altri non sono contrapposti, non si escludono a vicenda; al contrario si completano e si integrano perché uno riequilibra l’altro ed entrambi sono l’unica soluzione possibile al problema del “male di vivere”. Siamo nati per amare, e questo il nostro inconscio lo sa. Volendo contrastare lo stress lavorando più in profondità su se stessi, molto utili sono le pratiche meditative e di rilassamento. Ciascuno di noi, con i pregi e i difetti che ha, è la costruzione più bella che mai sia stata concepita nel meccanismo generale del creato, perché rappresenta un cosmo a sé stante nel quale sono racchiuse tutte le forze dell’universo. Questa concezione è ben sintetizzata dal celebre motto dell’oracolo di Delfo “Conosci te stesso”, che Socrate ha fatto suo e che ha poi eretto a scopo primario della sua vita e del suo filosofare. “Conoscere se stessi” è un processo evolutivo spirituale che trascende ogni razionalità. È un cammino iniziatico individuale che si attiva spontaneamente a tempo debito, senza alcun atto di volontà, e che poi riverbera e si flette nell’universale. È un desiderio profondo che sommerge e che fa capire che è giunto il momento di guardarsi dentro, di rispecchiarsi nella propria ombra, per attraversare emozioni e sentimenti e spingersi nel profondo dell’essere, scavando e riscavando per arrivare là dove l’umana divinità si cela. Che meravigliosa scoperta! Non la si può fare se non si tolgono tutte le protezioni, tutte le inutili e polverose difese che abbiamo costruito, tutte le maschere che abbiamo indossato per paura, per convenienza, per vanità, e se non si rimane soli col mistero della propria umanità. Ecco, la meditazione e il rilassamento possono essere strumenti molto utili per iniziare questo colloquio con se stessi. In ogni caso servono a farci fermare, a porci distanti dalla quotidianità, ad allentare le tensioni, a farci staccare la spina dei
pensieri, delle preoccupazioni, e a farci finalmente trovare un momento di pace e di serenità. Essere sempre obbligatoriamente condiscendenti, amabili contro voglia, disposti a soffocare i propri sentimenti; a nascondere le emozioni, essere, insomma, distaccati dalla propria natura per far piacere agli altri, è davvero cosa improba e faticosa che richiede un controllo continuo e costante. Questo sforzo, protratto nel tempo, produce elevati livelli di stress che affaticano la mente e mettono in tensione i muscoli del corpo, con immediate ri percussioni su tutti i principali organi e le loro funzioni. A lungo andare questa condizione di persistente vigilanza psicofisica tende a cronicizzare, trasformando quelle iniziali disfunzionalità in vere e proprie malattie d’organo. Quando ciò accade, oltre al danno organico può aggiungersi anche la beffa della depressione. Dal punto di vista pratico, esistono numerose tecniche meditative e di rilassamento che originano da differenti filosofie e tradizioni locali. Tecniche semplici o più complesse, strutturate o libere, attive o più passive, contemplative o di movimento, tutte però potenzialmente efficaci se utilizzate in sintonia con la propria personalità e in coerenza con i bisogni che si vogliono soddisfare. Tutte quante, sia pure in misura diversa, possono aiutare a trovare un equilibrio interiore che è il primo passo verso la riconciliazione con se stessi, col mondo e con Dio. Meditazione trascendentale, Meditazione profonda, Training autogeno, Yoga, Tai chi chuan, Mind control, Gruppi di preghiera, Terapie di visualizzazione, Tecniche di psicocibernetica, Trance dance, Do in, sono alcune delle pratiche più conosciute e seguite. Scegliete quella che fa al caso vostro e praticatela con serietà e impegno: i risultati vi stupiranno. Dopo la disciplina alimentare e le diverse attività finalizzate a contenere lo stress, c’è ancora una cosa importante da fare: prendere il sole. L’esposizione regolare alla luce del sole (elioterapia) è un rimedio semplice ed efficace per migliorare il proprio umore. La luce solare determina sulla nostra pelle tutta una serie di reazioni biochimiche che investono alcuni importanti sistemi organici (l’immunitario, l’endocrino, il metabolico) e diversi apparati, tra cui quello cardiocircolatorio e il muscoloscheletrico. La luce - oltre a favorire più in generale la salute, la vitalità e il benessere -- svolge un’azione determinante nella regolazione del nostro orologio biologico che, com’è noto, controlla attraverso specifiche secrezioni ormonali diverse importanti funzioni cicliche dell’organismo: l’assunzione di cibo, la riproduzione, il metabolismo, il sonno..., funzioni tutte coinvolte nei disturbi dell’umore. Ora, esponendosi con regolarità alla luce solare -- o in sua assenza a quella di particolari lampade fototerapiche a luminescenza controllata - si dà all’organismo un messaggio euforizzante di tipo “estivo” che farà aumentare la produzione di serotonina, la cui ridotta presenza è causa diretta della depressione.
Per i giovani In tre diversi congressi -- in quello della Iapac, l’International association for child and adolescent psychiatry and allied professions, tenutosi nella sua 16ma sessione a Berlino (agosto 2004), poi in quello della Società italiana di pediatria (ottobre 2004) e in quello di
Neuropsichiatria infantile (novembre 2004)-- è emerso un unico allarmante dato: la continua e preoccupante crescita del numero di bambini che soffrono di disturbi psichiatrici e di depressione. Il quadro che emerge dalle relazioni e dagli studi presentati in questi convegni è inquietante. Oggi i disturbi psichiatrici riscontrabili nell’infanzia e nell’adolescenza interessano il 20% dei soggetti, mentre fra quindici anni (nel 2020) coinvolgeranno un minore su due È desolante pensare che andiamo nello spazio, che costruiamo le tecnologie più avanzate, i computer più sofisticati e poi vedere che abbiamo perso per strada la capacità di rendere migliore e più serena la vita dei nostri figli. Che futuro gli stiamo riservando? Vogliamo lasciar loro questo mondo terribile, malsano, aggressivo? Le immagini terribili di guerre e di attentati, vissute direttamente o portate nelle case dalla tv, fanno danni inimmaginabili nelle menti vulnerabili dei bambini la cui prima risposta è lo stress e successivamente l’aggressività da autodifesa. Molti degli illustri partecipanti a quei convegni non hanno esitato a manifestare tutta la loro preoccupazione per la salute psichica dei giovani, tormentati già in tenera età da un florilegio di disturbi che vanno dall’insonnia, all’anoressia-bulimia, alla depressione. “I giovani -- spiega il professor Bollea, pioniere della psichiatria infantile in Italia -- stanno vivendo in un periodo fortemente oscuro, di grande malinconia, in un mondo profondamente turbato che li opprime e li disorienta. All’apparenza sono allegri, ma dentro vivono abbattimento e tristezza. Certo l’adolescenza è l’età del malessere, con tutto ciò che da sempre comporta. Ma, quando ti vedi portare bambini di 6 o 7 anni che soffrono d’insonnia, di crisi di rabbia e di malinconia, allora capisci che c’è qualcosa che non va e che la situazione è davvero critica”. La pensa così anche Ernesto Caffo - ordinario di neuropsichiatria infantile all’Università di Modena e fondatore di Telefono Azzurro -- che sottolinea come i giovani, continuamente bombardati da notizie di guerre e di violenze d’ogni genere, non avendo nessun filtro, tendano a chiudersi sempre più in se stessi, diventando schiavi della tv, dei computer e dei telefoni cellulari”. Come saranno questi giovani da adulti? Ma, soprattutto, che cosa possiamo fare per aiutarli? Molto. Possiamo innanzi tutto stare di più con loro, ascoltarli, abituarli al dialogo, aiutarli a capire, trasferendo loro serenità, fiducia nella vita, spiegando che da questi periodi bui si può uscire più forti, ossia più determinati nel perseguire quei valori che sono il fondamento di ogni civile convivenza. Non è un compito facile, ma è l’unica strada seria che genitori e insegnati hanno a disposizione per essere parte attiva di quel processo evolutivo che vede l’umanità proiettata verso orizzonti di serenità, di pace e di prosperità condivisa. Connessa con la precoce comparsa dei disturbi depressivi è quella falsa cultura libertaria che spinge una parte dei giovani a cercare effimere e artificiali fughe attraverso l’uso di sostanze che inducono dipendenza. Ci riferiamo al fumo, all’alcol, alla droga. I dati più sconfortanti riguardano inaspettatamente il consumo di alcol, troppo a lungo sottovalutato. L’Istat fa sapere che in Italia il consumo di aperitivi, alcopops (bevande a basso tasso alcolico) e di birra è cresciuto, tra i giovani al di sotto dei 24 anni, del 33% tra il 1998 e il 2001. Ma il dato che più inquieta è che s'inizia a bere da bambini, a 11-12 anni, e che poi si continua a farlo diventando consumatori abituali di alcolici. Perché i giovanissimi si avvicinano all’alcol? Lo fanno per
motivi diversi: per sentirsi più grandi, più sicuri, loquaci; per curiosità; per noia; perché è “trendy” e perché facilita l’inserimento nel gruppo dei pari. Discorsi sostanzialmente analoghi si possono fare per il fumo e per la droga. Le evidenze di queste malsane abitudini dimostrano come la realtà (personale, familiare, sociale) non venga sovente accettata e come si cerchi di modificarla con comportamenti autolesivi che non risolvono il problema, ma che lo ingarbugliano ancora di più creando ulteriore disagio, maggiore fragilità e quindi disperazione. Non legata alle dipendenze, ma emblematica per la sua drammatica ritualità, è la vicenda di una quindicenne di Segrate, vicino a Milano, che prima di uccidersi si è vestita come se dovesse andare all’appuntamento più importante della sua vita, scegliendo con cura i capi da indossare, e ha poi annunciato la sua morte in diretta inviando diversi sms ad amiche e compagni di scuola. Beatrice P. era una studentessa timida, bella, che i genitori e la sorella maggiore adoravano e a cui, apparentemente, non mancava nulla. Eppure venerdì 14 novembre 2004, a poche ore di distanza dal suo quindicesimo compleanno, ha deciso di togliersi la vita buttandosi giù dall’ottavo piano della sua abitazione. Era rimasta sola in casa con una scusa. Poi, a metà mattina, dopo essersi vestita di tutto punto ed aver scritto un paio di lettere e diversi messaggi col cellulare, si è lanciata nel vuoto senza un grido. “Anche se non fossi mai nata -- ha lasciato scritto ai suoi genitori -sarebbe stata la stessa identica cosa, perché vivo una vita che non è la mia”. Una morte assurda, sconcertante, inspiegabile, anche perché non c’era nulla che la lasciasse presagire. Beatrice non aveva mai fatto trapelare nulla. Si era sempre dimostrata serena, equilibrata, assolutamente normale in casa e a scuola. Coltivava diversi hobbies; era circondata da amiche e amici, e viveva in una bella casa con una famiglia che l’adorava. Eppure nella sua vita c’era qualcosa che non andava, qualcosa che la disturbava nel profondo: non era felice. Una persona felice non si uccide. Nel suo cuore dovevano albergare sentimenti che non aveva mai confidato a nessuno: forse si sentiva insoddisfatta, incompresa, amata ma non capita, certamente annoiata, scontenta di una vita che non giudicava sua e che vedeva distante, molto distante dalle aspettative e dai sogni che coltivava. Era possibile capire il suo tormento? la sua insoddisfazione? Si sarebbe potuto fare qualcosa per lei? Il punto focale di ogni discorso sul disagio umano è proprio questo: si può cogliere in tempo utile il momento critico, il punto di rottura che precede la decisione di chiudere la partita con la vita? Molti psichiatri pensano di sì e suggeriscono a genitori e insegnanti d’integrare il dialogo con i ragazzi con un’attenta osservazione dei loro comportamenti, per cogliere i segnali anticipatori del loro malessere esistenziale. Per i bambini, i segnali da ricercare sono quasi tutti desumibili dalle loro reazioni fisiche ed emotive. Molto importanti in questo senso sono: gli scoppi di pianto, riso o tristezza esagerati; rossori o pallori improvvisi; gastralgie, cefalee, disturbi alimentari; un’eccessiva timidezza; stati d’ansia ricorrenti; timori ossessivi; reazioni aggressive non giustificate; disturbi dell’apprendimento e la tendenza a isolarsi, a chiudersi, a restare soli. Un intervento psicoterapeutico precoce può, nella maggior parte dei casi, risolvere il problema senza strascichi e complicazioni. Da evitare, per quanto possibile, la pericolosa tendenza, molto in voga negli USA, a
medicalizzare la vita di quei bambini che si scostano dai parametri della nostra presunta normalità. Per i ragazzi e gli adolescenti il discorso si fa più complesso sia per il maggior numero di variabili da prendere in considerazione (le frequentazioni, il gruppo dei pari, i primi amori), sia per le minori possibilità di controllo delle loro azioni dal momento che sono più liberi e autonomi. In linea di massima, si può dire che è questa l’età più a rischio, quella in cui si disprezza di più la vita e nella quale è più facile acquisire abitudini svantaggiose che sono poi le vere discriminanti tra normalità e disagio mentale. In questo senso, il pericolo reale sembra crescere di pari passo con la fragilità individuale e può spingersi, quando ci si sente schiacciati dalla fatica di vivere, fino all’ideazione e all’attuazione di progetti suicidari. In Italia, ogni centomila ragazzi fra i 15 e i 24 anni, 9 si tolgono la vita. Di questi, 7 sono maschi e 2 femmine. Guardando, invece, ai tentativi di suicidio - messi in atto da un minore su dieci - i dati si ribaltano e mostrano una netta preponderanza delle femmine sui maschi. In pratica, sembra che i maschi tentino il suicidio di meno, ma che lo realizzino di più perché sono, per natura, più aggressivi e violenti delle femmine. Per queste ragioni, ma anche perché il disagio mentale degli adolescenti può nell’età adulta sfociare in vere e proprie psicosi, è bene non sottovalutarlo mai, ma cercare di prevenirlo con un’attenta osservazione. Inizialmente i sintomi possono apparire molto sfumati e quindi difficili da cogliere da parte di genitori e insegnanti, anche perché l’interessato tende a negarli o a sminuirne l’importanza. L’esperienza, in ogni caso, insegna a non trascurare nulla e a tenere in debita considerazione soprattutto i cambiamenti ingiustificati dell’umore e del comportamento sociale. Se prima l’adolescente era socievole, curioso, allegro, e poi diventa improvvisamente triste, cupo, schivo; se prima era bravo a scuola, attento, desideroso di apprendere, e poi lo si scopre distratto, incapace e non più interessato allo studio; se prima era gioioso, simpatico, sereno, e poi si mostra scontroso, irascibile, teso; se non tollera più frustrazioni, delusioni, avversità; se prima era sempre in mezzo alla gente, brillante, aperto, e poi si chiude in casa isolandosi da tutti, è giunto il momento d’intervenire perché la serietà dei sintomi è tale da non lasciare spazio a dubbi. Genitori e insegnanti dovranno allora stargli vicino, parlargli a lungo, capire le ragioni del suo cambiamento e convincerlo a farsi aiutare da un esperto (psichiatra, psicologo, psicanalista) che valuterà insieme a lui la strada più conveniente da percorrere per fargli ritrovare la serenità e il gusto per la vita.
Il suicidio: la faccia tragica della depressione In questi ultimi anni il suicidio tra giovani sembra aver assunto carattere epidemico, anche se molti minimizzano il fenomeno sostenendo che è sempre esistito e che oggi appare più evidente soltanto perché è più visibile, in quanto vistosamente amplificato dai mezzi di comunicazione. In una società fortemente orientata alla competizione com’è la nostra, i giovani sono l’anello più debole perché non hanno ancora sviluppato un numero sufficiente di anticorpi mentali e fisici che li metta al riparo dalla frustrazione di non possedere le capacità necessarie per realizzarsi secondo i modelli della cultura del profitto e
dell’immagine. La loro fragilità è dunque massima, e basta un nonnulla per destabilizzarli nel profondo. E così si tolgono la vita per una bocciatura, per una delusione amorosa, per un rimprovero, per un rifiuto, per un presunto torto subìto. Al primo ostacolo vacillano e cadono vinti, mettendo in discussione tutti i valori più importanti, compresi quelli morali e di vita. Davanti a queste tragedie il sentimento comune è l’impotenza. Per superarla, si cercano responsabilità e capri espiatori accusando, di volta in volta, il vuoto d’ideali, la famiglia colpevolmente assente, il ruolo della scuola, le colpe della società e anche il compiacimento con cui i mezzi d’informazione descrivono i dettagli di tali drammi, suscitando pericolose emulazioni. Per ogni adolescente suicida si deve necessariamente scovare un colpevole, trovare una causa, anche se si sa che è soltanto un alibi, un penoso tentativo per rimuovere il peso di quel rimorso collettivo che si prova davanti all’autodistruzione di una giovane vita. Al di là di ogni personale considerazione, esiste un dato inconfutabile: i suicidi per depressione sono molto più numerosi di quelli che risultano dalle statistiche ufficiali. Ci sono, infatti, “atti insani” che sfuggono ad ogni controllo e che si celano dietro tragici eventi che vengono poi attribuiti a cause diverse, tra cui anche la fatalità. Collisioni stradali, cadute, incidenti automobilistici, infortuni, annegamenti, coma etilici e overdoses, sono accadimenti che spesso nascondono precisi intenti suicidari, portati avanti con lucidità e determinazione. Come fare a scoprirli? Sono indagini lunghe, difficili -- ne sanno qualcosa le compagnie di assicurazione - che lasciano sempre qualche dubbio, ma che comunque confermano che il suicidio per depressione è un fenomeno molto più ampio di quanto si creda. Una prova indiretta giunge dalle statistiche americane che collocano il suicidio al nono posto tra tutte le cause di morte, dal momento che interessa il 2,5% dei decessi annui totali. Nello stesso elenco, il suicidio figura al terzo posto come causa di morte tra i bambini delle scuole elementari e al secondo posto tra gli adolescenti. Dati inquietanti, che fanno ben capire come il problema sia sempre stato sottovalutato. Ma, perché si giunge a compiere un’azione tanto grave? Quando gli impulsi fondamentali della vita (istinto di conservazione, gratificazioni, interessi, affetti) sono compromessi da sentimenti di indegnità e di autosvalutazione, vengono meno anche tutti quei legami che sono il contatto diretto con la vita e ogni cosa perde di significato, annullandosi in un abisso d’indifferenza e di apatia. In una simile condizione tutto può accadere, e così anche il suicidio -- che è l’azione più autolesiva di tutte -- può diventare un’idea accettabile, un progetto da coltivare e da portare avanti. Le spiegazioni che prendono in considerazione la psiche del suicida o i macroscopici difetti della società, a qualcuno non sono sembrate sufficienti, e così ora si sta cercando di far emergere una qualche motivazione di carattere biologico che soddisfi le teorie organicistiche e che aiuti la coscienza collettiva a liberarsi dei propri rimorsi. In questa direzione si stanno muovendo alcuni studi che partono dall’ipotesi che chi si toglie la vita o tenta di farlo avrebbe una personalità particolarmente aggressiva, quasi a “corto circuito”, per cui tenderebbe a risolvere d’istinto, con un gesto impulsivo, situazioni che una persona “normale” è invece in grado di affrontare e concludere in maniera costruttiva.
L’osservazione di diversi casi di persone suicide ha fatto supporre ad alcuni ricercatori l’esistenza di una qualche propensione ereditaria che si manifesterebbe come una sorta di ricorrenza, nell’ambito della stessa famiglia, di una forma di depressione suicidaria che - insieme all’alcolismo, alla droga, alla solitudine e alla vecchiaia -- porterebbe un soggetto su cinque, tra coloro che sono predisposti, a togliersi la vita. Ma chi, tra questi cinque soggetti a rischio, metterà davvero fine alla propria esistenza? I ricercatori non sanno dirlo, e devono a malincuore riconoscere che quando si esce dai luoghi comuni, dalle spiegazioni generiche - come possono essere quella della “depressione” o dei “dispiaceri” -- tutto si fa più difficile perché ci s’inoltra in un territorio sconosciuto dove ogni cosa è nello stesso tempo possibile e aleatoria. Insomma, per dirla più chiaramente, sembra essere finora sfuggita la traccia più importante: il “segno biologico”, ossia quel ”marcatore” che spingerebbe la persona al comportamento autodistruttivo. Il marcatore in questione dovrebbe ovviamente essere di tipo biologico e non psicologico e potrebbe essere legato ai recettori delle benzodiazepine -- le sostanze ansiolitiche che inibiscono l’attività di alcuni neurotrasmettitori cerebrali potenziando l’acido gamma aminobutirrico (Gaba), il calmante naturale del cervello -- o a quelli delle molecole di cortisolo, uno degli ormoni dello stress. L’ipotesi -- com’è facile capire -- è ancora tutta da verificare, approfondire e dimostrare. Su un terreno analogo si stanno muovendo altri ricercatori che fanno, invece, riferimento a una ridotta presenza nelle aree cerebrali dell’acido 5-idrossiindolacetico, un metabolita della serotonina che sarebbe scarsamente presente nei cadaveri dei suicidi. Non sono aree semplici da esplorare. Così, senza essere paragnosti o avere particolari doti di precognizione, è facile immaginare come queste ricerche andranno avanti nel tempo, anche perché oggi si è ancora lontani dall’aver individuato con buona approssimazione un solo fattore biologico capace d’indicare a priori le persone più esposte al rischiosuicidio. In attesa che ciò accada, “facciamo fuoco con la legna che abbiamo” e cerchiamo di prevenire i comportamenti palesemente autolesivi con i supporti psicologici che abbiamo a disposizione, con la vigilanza, con l’osservazione intelligente e soprattutto con l’amore.
Per gli adulti È stato di recente pubblicato su Health and Quality of Life Outcomes - una prestigiosa rivista medica statunitense - uno studio realizzato da un gruppo di ricercatori della Cdc (Centers for Disease Control) di Atlanta sulla salute mentale degli americani negli anni d’oro dell’era Clinton, ossia tra il 1995 e il 2000, quando il Paese era, a detta di molti, più prospero e felice. La ricerca, effettuata con questionari telefonici su un campione di 166.000 uomini e donne con oltre 18 anni di età, ha toccato 38 degli Stati dell’Unione ed è durata più di un anno. I dati definitivi hanno mostrato il volto di una società dove la maggior parte della popolazione è risultata essere “triste, infelice o depressa” mediamente 3 giorni su 30, a causa del fumo, dell’alcol e della mancanza di lavoro e di reddito. Interessanti sono le differenze riscontrate all’interno dei vari sottogruppi indagati. Si è avuto così conferma che le donne sono più depresse degli uomini; che i giovani tra i 18 e i 24 anni lo sono più degli anziani, così come fumatori e bevitori
di alcol sono molto più depressi dei non fumatori e dei non bevitori. Dalla stessa ricerca risulta poi che la depressione colpisce maggiormente gli obesi, chi non fa attività fisica e soprattutto che decresce proporzionalmente col salire del reddito e del titolo di studio. Insomma, il record di depressione spetterebbe, secondo i dati della ricerca, ai poveri e ai disoccupati -- beffati una volta di più dalla vita - che sarebbero mediamente depressi un giorno sì e uno no. Se l’America piange, l’Italia certamente non ride. Facendo quattro rapidi conti sul reddito annuo pro capite e sul tasso di disoccupazione, vediamo che la situazione qui da noi è decisamente peggiore. Contribuiscono a risollevarla un po’ il clima del nostro Paese - più mite e soleggiato -- la dieta mediterranea -- che tutti ci invidiano e di gran lunga la più indicata per i disturbi dell’umore - e soprattutto il nostro temperamento latino che ci porta ad apprezzare di più le piccole gioie della vita. Per gli adulti, una delle fonti più sicure di disagio mentale è lo stress. Le cause che lo possono determinare sono numerosissime: lutti, abbandoni, malattie, paure, problemi economici, ansie, frustrazioni, responsabilità, lavoro, cambiamenti di abitudini, pensionamento, fretta, rumore, traffico.... Sorprenderà, ma anche eventi piacevoli -- come una promozione, una vincita, una nascita, un matrimonio -- possono determinare la stessa tempesta emozionale la cui intensità è la vera causa di quella reazione adattativa che chiamiamo “stress”. Ora, quando alcune delle principali situazioni ansiogene sono presenti simultaneamente o avvengono in rapida successione, può accadere che i meccanismi di adattamento individuale subiscano una pressione tanto forte da non riuscire ad elaborare una risposta adattativa adeguata, capace cioè d’imbrigliare lo stress e di rivolgerlo nella direzione voluta. Continuando ad accumulare stress, le difese immunitarie si abbassano e si diventa logicamente più vulnerabili, ossia maggiormente esposti ad ogni tipo di aggressione proveniente dall’ambiente circostante. In queste condizioni, i problemi sembrano moltiplicarsi d’incanto ed è facile che tutto inizi a non funzionare: la salute, gli affetti, il lavoro. Ogni cosa sembra andar male, risolversi nel modo peggiore, accanirsi contro di noi, e così anche le più piccole contrarietà diventano sovente ostacoli insormontabili. Delusione, frustrazione, impotenza sono le ultime ben visibili tracce prima della comparsa della tristezza, dell’apatia e dell’abbattimento. A questo punto, per contenere la sofferenza, si rifugge dal mondo e ci si chiude in se stessi, rinunciando a emozioni e sentimenti. È un passo fatale: la vita perde così il suo principale valore e si trasforma prima in un optional, poi in un’ombra minacciosa, che diventa presto un incubo da scacciare a ogni costo. Questa perdita di contatto con la realtà è uno degli aspetti più pericolosi delle sindromi depressive perché porta a non vivere ma a vegetare, fino al momento in cui anche quella condizione risulta insopportabile e allora si pensa concretamente alla morte: alla propria e talvolta anche a quella dei familiari più indifesi, i figli. È quanto è accaduto a Volpiano, un paese vicino a Torino, dove il 1 dicembre 2004, Rosa, una donna di 39 anni, ha ucciso a coltellate la figlioletta di quattro anni, Nausica, e poi ha rivolto l’arma contro di sé cercando di togliersi la vita. Rosa soffriva di depressione post partum ed era da tre anni in cura presso il Dipartimento di salute mentale di Settimo Torinese, dove si recava ogni settimana per le cure del caso. La terapia farmacologica a base di Serenase - un potente
psicolettico contenente aloperidolo - sembrava aver dato qualche risultato e Rosa mostrava segni di miglioramento. Poi, all’improvviso, il dramma. Qualcosa è scattato nella sua mente e così ha deciso di chiudere la partita con la vita attuando un “suicidio allargato” che ha coinvolto anche la piccola Nausica, la persona a lei più cara, da sottrarre alle pene del mondo. Il caso non è isolato. La lunga sequela di vicende analoghe porta a interrogarsi su che cosa fare per evitarle. Sono fatti tragici che nascono sovente dalla maternità. Il mistero della maternità - che siamo soliti ammantare esclusivamente di buoni sentimenti -- è in realtà un abisso profondo, oscuro, uno spazio del tutto sconosciuto nel quale la mente umana si perde, e dove la vita incontra le emozioni più forti e contrastanti: l’amore, l’odio, l’ansia, la paura, la gioia, il dolore. Dal punto di vista biologico sappiamo che il parto porta con sé importanti modificazioni del sistema endocrino, dovute principalmente all’espulsione della placenta, un organo ricco di vasi sanguigni e con un’elevata attività ormonale. Espulsa la placenta con tutto il suo carico di mediatori chimici, il sistema endocrino è costretto a riadattarsi e ad adeguare tutte le sue attività alle mutate esigenze fisiologiche della puerpera. Non è un processo semplice, neppure rapido, e può comportare rilevanti modificazioni delle concentrazioni ormonali che hanno immediati riflessi a livello fisico e psichico. Dal punto di vista psicologico la situazione è ancora più complessa. In questo caso entrano in gioco -- in aggiunta ai tratti individuali di personalità e carattere -- tutte le paure e le insicurezze che hanno afflitto la puerpera nei lunghi mesi di gestazione. La neomamma ha paura e si tormenta: sa che deve accudire suo figlio, mentre capisce benissimo che è lei stessa ad aver bisogno d’essere accudita. Che angoscia! Che tormento! Quando nasce un figlio, è necessario accudire sempre anche la madre. Grande è la metamorfosi del suo corpo, troppa la rapina del suo tempo, troppo grande l’occupazione del suo spazio vitale. Quando un’anima è svuotata dall’angoscia, soltanto l’affetto, la presenza partecipe e l’assistenza continua possono riportarla alla vita colmandone il vuoto. Perciò ai mariti diciamo: “Non lasciate mai sole le neomamme. Accuditele e amatele come se fossero le vostre”. Il senso d’inadeguatezza, la solitudine, la voglia di piangere, l’irritabilità, l’insonnia, l’irrequietezza, l’ansia, l’apatia, la paura, sono stati d’animo assolutamente normali dopo un parto e, nella maggioranza dei casi, non sfociano in niente di più serio. Infatti, soltanto il 13% delle madri va incontro a forme di depressione post partum che, se non sono gravi, dovrebbero comunque risolversi nel giro di pochi mesi. Quando, però, questi sintomi durano più a lungo o assumono un’intensità tale da impedire alla madre di svolgere le sue normali attività quotidiane, è necessario agire subito rivolgendosi a uno specialista. Particolare attenzione deve essere posta da parte di quelle madri che hanno: una storia di depressione alle spalle; disturbi alimentari o del comportamento (fobie, ansie, ossessioni); che hanno avuto un parto difficile (travaglio prolungato, taglio cesareo, strascichi pesanti) o che hanno fatto uso di sostanze stupefacenti.
Per gli anziani
Dostoevskij diceva che “vivere oltre i quarant’anni è di cattivo gusto”. È un’affermazione volutamente paradossale che rispecchia però bene l’inizio di quella fase di decadenza fisica che conduce poi alla vecchiaia. La vecchiaia, come si sa, è un lento e graduale processo di deterioramento organico continuamente controbilanciato da una serie di meccanismi di adattamento e di riadattamento che tentano di porre rimedio ai danni provocati dallo scorrere del tempo. Chi ha meccanismi di riadattamento più efficienti invecchia più lentamente e meglio. La psico-neuro-endocrino-immunologia -- una nuova scienza che studia le relazioni esistenti tra il sistema nervoso, l’endocrino e l’immunitario -- ha confermato che stress prolungati e cronici costituiscono una delle principali cause d’invecchiamento dell’organismo. Infatti, una prolungata esposizione agli ormoni prodotti nelle situazioni di stress, e in particolare all’adrenalina -- che ha il compito di garantire un maggior afflusso di sangue e di materiale energetico di pronto impiego -- e al cortisolo -- che coordina l’azione di risposta di tutto il sistema -- può provocare varie sofferenze a carico di diversi organi, malattie di origine psicosomatica, disturbi cardiovascolari, coronaropatie e una forte inibizione del sistema immunitario che può far aumentare il rischio d’insorgenza di tumori. Il fatto determinante è che negli anziani i meccanismi di controllo e di regolazione di questi ormoni sono in parte disattivati o resi inefficienti da un uso prolungato e logorante. Si può ben capire come in simili condizioni le normali reazioni di risposta agli stress tendano a non esaurirsi rapidamente, ma a durare molto più a lungo, cronicizzandosi e creando così ulteriori danni all’organismo. In questo senso, un ruolo importante è riconosciuto al cortisolo, la cui alta concentrazione nel sangue produce nel tempo effetti tossici su un gran numero di cellule cerebrali, e in particolare su quelle dell’ippocampo che vengono precocemente distrutte, con grave nocumento per le capacità di memoria e di pensiero dei soggetti più anziani. Quando lo stress dura due o tre settimane si ha una progressiva atrofizzazione delle radici dei neuroni (dendriti) dell’ippocampo. Nelle persone giovani questa condizione è temporanea e reversibile, ossia torna come prima, se lo stress cessa nel giro di pochi giorni. Se, invece, lo stress permane più a lungo o se chi lo subisce è avanti negli anni, ecco che quella stessa atrofizzazione diventa irreversibile e produce degenerazioni gravi e permanenti. L’eccessiva e prolungata presenza di cortisolo nel sangue determina, oltre i danni già indicati, anche un’alterazione dell’equilibrio biochimico cerebrale, con riflessi a cascata sulle concentrazioni di diversi neurotrasmettittori, in particolare di serotonina e dopamina, la cui carenza è causa di depressione. Diverse ricerche hanno dimostrato l’esistenza di una stretta correlazione tra elevati livelli di stress e l’insorgenza di sintomi depressivi. Non va, peraltro, dimenticato che tutte le situazioni possono essere potenzialmente stressanti, sia quelle piacevoli (positive), sia quelle spiacevoli (negative). Il loro modo di ripercuotersi sulla persona è determinato da una molteplicità di fattori concomitanti, tra cui l’intensità dell’emozione che si prova, che non è sempre uguale, ma che dipende tra l’altro dalle condizioni psicofisiche del soggetto in quel particolare momento, dal suo stato d’animo, e dalla sua età. L’età costituisce una delle variabili più importanti da tenere in considerazione perché racchiude in sé molti altri fattori (il grado
d’istruzione, il tipo di cultura, le credenze religiose, le esperienze vissute) determinanti per la valutazione che si andrà a dare dell’evento potenzialmente stressante. Nell’infanzia, la capacità di superare le situazioni emozionalmente più logoranti è scarsa, e così certi eventi -come la separazione, l’abbandono o la perdita di un genitore -- assumono un significato diverso e ben più grave che per un adulto. Nella vecchiaia, la capacità di superare lo stress torna ad abbassarsi a causa sia di un accentuato logorio psicofisico, sia di una ridotta capacità di adattamento. La progressiva rigidità degli schemi cognitivi e di pensiero, unita alla frequente concomitanza di malattie fisiche, di lutti e d’abbandono, possono determinare nell’anziano una maggiore vulnerabilità anche di fronte a eventi di per sé poco stressanti. È questa la ragione principale per cui in età avanzata l’esordio della depressione è molto spesso correlato con una condizione di stress prolungato o cronico. Oltre l’età, un altro importante fattore scatenante è la presenza di malattie. È risaputo che esistono diverse malattie che possono essere contestuali agli stati depressivi o addirittura precederli. È il caso, ad esempio, del diabete -- le cui variazioni dei tassi glicemici si riflettono sulle emozioni e sull’umore - dell’anemia, dell’epatite cronica, dell’insufficienza surrenale, dell’ipotiroidismo, delle malattie ipofisarie e di alcune neoplasie. Tutte queste malattie possono generare diversi sintomi di tipo depressivo che vengono poi classificati e riuniti sotto il nome di “sindromi depressive secondarie”. Di solito, curata la malattia principale, anche la depressione “secondaria” tende a scomparire a distanza di breve tempo, senza bisogno di alcuna specifica terapia. Un discorso diverso va, invece, fatto per le malattie neurologiche (demenza precoce, morbo d’Alzheimer, morbo di Parkinson, ictus, meningiti, encefaliti, epilessia, sclerosi a placche, tumori cerebrali) per le quali si riscontra sempre una rilevante modificazione dell’equilibrio biochimico cerebrale e, di conseguenza, dell’emotività. In questi casi la depressione secondaria va sempre curata come malattia a sé stante e non in dipendenza della patologia principale. Strettamente connesso con il discorso delle malattie è il problema dei farmaci, il cui consumo cresce parallelamente con l’avanzare dell’età, in ragione della maggior presenza di malattie fisiche e degenerative. Molti sono i farmaci che possono scatenare la depressione, andando ad alterare l’equilibrio biochimico del cervello. Hanno questa azione: gli psicofarmaci (neurolettici, barbiturici, sedativi ipnotici), alcuni ipotensivi, i betabloccanti e i calcioantagonisti (usati per l’ipertensione arteriosa), i cortisonici, gli ormoni, gli antitumorali, la levodopa (per il morbo di Parkinson), gli stimolatori della memoria, gli antiacidi e molti antibiotici. La minore reattività fisica e il deterioramento organico caratteristici della “terza età” obbligano le case farmaceutiche a fornire nei foglietti illustrativi (bugiardini) precise indicazioni sulle possibili interazioni tra farmaci e sulla posologia più sicura da adottare da parte dei pazienti più anziani. Fonte di grande stress è anche la solitudine. Madre Teresa di Calcutta -- la piccola grande suora albanese, fondatrice della Congregazione religiosa delle Missionarie della Carità, proclamata Beata il 19 ottobre 2003 -- era solita ricordare che “la malattia più grave non è la lebbra, l’Aids o il cancro, ma la sofferenza che deriva dal sentirsi soli, trascurati, abbandonati da tutti”. Il dolore più grande non si annida mai nelle piaghe della carne, ma nelle afflizioni dello spirito,
dove assume il volto della desolazione, della solitudine e dell’abbandono. La mancanza di legami soddisfacenti, l’isolamento affettivo e sociale, l’afflizione, assestano colpi durissimi all’efficienza del sistema immunitario e predispongono alle malattie molto di più di altri fattori a rischio quali il fumo, l’obesità e l’ipertensione. Dal punto di vista psichico sono noti da tempo i legami della solitudine con la bassa stima di sé, con le nevrosi, l’ansia, l’apatia e la depressione. Non a caso la solitudine è tra le prime cause dei decessi per suicidio e dei tentativi di suicidio messi in atto in età adulta. Quando una persona scopre di essere affettivamente sola per la perdita di chi gli era più caro, il primo organo a risentirne è proprio il cuore che perde il contatto con le emozioni più belle e si spezza, -- ovviamente in senso figurato - s’infrange. La “sindrome del cuore infranto” può dare un tipo di morte ancora più penosa di quella reale, la morte di chi apparentemente vive, ma ha in realtà rinunciato alla vita. È il caso di molti anziani che sono rimasti soli, abbandonati a se stessi, esclusi da ogni legame affettivo e sociale, non accolti da figli e parenti, e perciò destinati a ricoveri in ospizi, in gerontocomi, dove con la speranza perdono sovente anche la loro identità. Di tutte le solitudini la vedovanza è forse quella più dolorosa perché è spesso vissuta dall’anziano come menomazione, come perdita di quella parte importante di sé che sorregge, che dà fiducia e sicurezza. Questo evento, per quanto prevedibile, è il più temuto perché crea sempre una situazione di disperazione, di tristezza profonda che si trasforma spesso in depressione, con conseguente perdita di ogni interesse per se stessi e per la vita. È questa una condizione di debolezza estrema, di grande precarietà, assai più preoccupante nell’uomo che non nella donna, perché l’uomo è meno dotato di risorse pratiche ed emotive e quindi meno preparato ad affrontare quest’evento dedicandosi -- come, invece, fanno spesso le donne - alla cura e all’assistenza degli altri. Per tutte queste ragioni, è bene che l’anziano non resti mai troppo a lungo da solo. Accoglietelo affettuosamente tra voi, aiutatelo a inserirsi in famiglia, a vivere con dignità, a crearsi nuovi interessi, a costruire rapporti sociali e affettivi, a impiegare bene il suo tempo e soprattutto a sentirsi ancora utile a qualcuno. Un ulteriore non secondario problema è l’alimentazione, non sempre adeguata alle necessità dell’anziano e alle carenze del suo organismo. Molto spesso la vecchiaia è anche sinonimo di povertà e questo complica ancora di più le cose. La fascia più disagiata è costituita da coloro che, molto avanti negli anni, vivono da soli, in condizioni di estrema precarietà fisica ed economica, con un reddito ai limiti della sopravvivenza, in ambienti malsani e fatiscenti. Per costoro il cibo è doppiamente “terapia” in quanto non sempre riescono a procurarselo in quantità sufficiente e per tutti i giorni del mese. Negli anziani, l’alimentazione gioca un ruolo fondamentale perché una dieta troppo povera o non correttamente variata può determinare gravi carenze organiche che costituiscono la condizione ideale per l’insorgenza della depressione. In particolare nella dieta dell'anziano non dovrebbero mai mancare le vitamine (B, C e H) e alcuni minerali: il magnesio, la cui carenza provoca una debolezza psicofisica generalizzata, con fragilità emotiva e disturbi d’ansia; il calcio, utile non soltanto per la fragilità ossea, ma anche perchè contrasta l’insonnia, il panico e la depressione; il selenio, importante per le sue proprietà antiossidanti e
immunitarie, ma soprattutto perché aiuta a mantenere alto il tono dell’umore contrastando la tristezza e lo scoramento. Altrettanto importanti sono gli acidi grassi omega-3, quei grassi polinsaturi (buoni) che tengono pulite le arterie e che costituiscono i componenti essenziali delle membrane cellulari, mantenute, grazie a loro, elastiche e permeabili. Se presenti in quantità insufficienti nell’organismo, questi acidi grassi essenziali possono favorire l’insorgenza di malattie coronariche, di disturbi cognitivi e di depressione. Si trovano principalmente nel pesce “azzurro”, negli sgombri, nei salmoni, nell’olio di lino e, in quantità minore, nell’olio d’oliva. Per concludere il discorso da un punto di vista più generale, possiamo dire che muoversi con l’intento della prevenzione, ossia prima che la depressione abbia fatto la sua comparsa, significa non trascurare nulla, essere attenti, vigili, pronti ad agire con tempestività non appena si avverte una variazione anomala dell’umore che non ha ragion d’essere o che si protrae oltre il dovuto. In questo compito di vigilanza acuta e diligente, due semplici quesiti possono aiutare a riconoscere uno stato di sofferenza psichica latente, suscettibile però di trasformarsi col tempo in depressione. Le domande da porsi sono: “COME PERCEPISCO IL MIO UMORE?” e poi “PROVO ANCORA PIACERE IN QUALCUNA DELLE MIE ATTIVITA’ QUOTIDIANE?”. Rispondete con sincerità a entrambi i quesiti e capirete subito se è necessario correre ai ripari oppure no. Un ultimo importante consiglio: non fatevi mai mancare la simpatia, l’affetto e il sostegno delle persone che vi sono vicine -- possono essere parenti, amici o anche soltanto dei conoscenti -- e non abbiate paura di chiedere il loro aiuto. Se imparerete ad aprirvi agli altri come fanno i bambini; se smetterete di giudicarvi accettandovi così come siete; se bandirete scetticismo, presunzione, orgoglio; se deciderete di nutrirvi dei vostri sentimenti più belli e di donarli anche agli altri; se farete tutto questo con umiltà e con amore, lo spirito della vita che alberga in voi si ravviverà e vi terrà lontani da quella “ostinata, nera, orrenda, barbara malinconia” che divora l’anima e la svuota di ogni luce e di speranza.
APPENDICE Glossario La cura dei disturbi psichici è affidata a diversi specialisti della mente. Vediamo in breve le loro competenze. Psichiatra: medico specializzato in psichiatria che si occupa delle malattie nervose e mentali. Si chiede il suo intervento quando la sintomatologia psichica è così intensa da alterare la qualità della vita. Cura facendo prevalentemente ricorso a terapie mediche e farmacologiche. Può essere anche psicoterapeuta e lavora nelle strutture sanitarie pubbliche (ASL, ospedali, SERT...) o privatamente. Neuropsichiatra infantile: è un medico specialista con competenze specifiche nel campo dei disturbi mentali e psicologici dei bambini. Cura sia con i farmaci che con le psicoterapie. Lavora nei reparti pediatrici degli ospedali o privatamente. Neurologo: medico specializzato in neurologia. Si occupa delle alterazioni patologiche del cervello e non dei disturbi di natura
psicologica. Si ricorre al neurologo quando è presente un sintomo fisico ben preciso (vertigini, tremori, disturbi visivi, cefalee persistenti...) che fa sospettare un’alterazione organica del sistema nervoso centrale o periferico. Cura con i farmaci e lavora sia nei reparti di neurologia che privatamente. Psicologo: è un laureato in psicologia che cura i disturbi mentali e psicologici. Non può prescrivere farmaci, ma, se abilitato, può praticare la psicoterapia. Lavora negli ospedali o nei Centri psicosociali di salute mentale. Esegue test e svolge colloqui ed analisi psicologiche. Psicologo clinico: in possesso di laurea in medicina o in psicologia, è specializzato in psicologia clinica. Svolge attività di diagnosi e di psicoterapia nei reparti ospedalieri di psicologia clinica e psicoterapia, nei Centri psicosociali o come libero professionista. Psicanalista: psichiatra o laureato in psicologia che diventa psicoterapeuta dopo aver concluso un’autoanalisi e una didattica istituzionale presso una scuola di psicoanalisi riconosciuta. Lavora di solito privatamente. Psicoterapeuta: medico, psichiatra o psicologo che ha seguito un corso quadriennale di psicoterapia riconosciuto a livello ministeriale. Si ricorre allo psicoterapeuta per avere un sostegno al proprio stato di malessere e per esplorare le cause del proprio disturbo psichico. Lavora sia nelle strutture pubbliche, sia privatamente. Per cercare uno “specialista della mente” è consigliabile chiedere al proprio medico curante, o a un medico di fiducia, o a persone conosciute che hanno già fatto questa esperienza. Come alternativa ci si può rivolgere agli ospedali, agli ordini professionali o alle associazioni che svolgono appositi corsi di specializzazione.
Indirizzi utili N.B. Le indicazioni qui di seguito riportate -- tratte da giornali, riviste specializzate, Pagine Gialle e Internet -- possono aver subito variazioni anche sostanziali nel periodo di tempo intercorso tra la stesura del libro e la sua pubblicazione. Indichiamo ora alcuni dei più frequentati CENTRI PUBBLICI SPECIALIZZATI in PSICHIATRIA a cui è possibile rivolgersi per la diagnosi dei disturbi depressivi. . Clinica psichiatrica, Policlinico consorziale, Bari, tel. 080/5592160; . Istituto di Psichiatria, Bologna, tel. 051/524315; . Clinica psichiatrica, Ospedale Civile di Brescia, Brescia, tel. 030/3995235; . Istituto di Psichiatria (presso Usl 20), Cagliari, tel. 070/485146; . Clinica psichiatrica, Università degli Studi, Catania, tel. 095/310355; . Istituto di Psichiatria, Università degli Studi, Chieti, tel. 0871/3556758; . Istituto di Psichiatria, Università degli Studi, Ferrara, tel. 0532/2368809; . Clinica psichiatrica, Ospedale Carreggi, Firenze, tel. 055/427731;
. Istituto di Psichiatria, Università degli Studi, Genova, tel. 010/354751; . Istituto di Psichiatria, Policlinico universitario, Messina, tel. 090/2212089; . Istituto di Psichiatria, Università degli Studi, Milano, tel. 02/5465840; . Dip. di Scienze Neuropsic., Osp. S. Raffaele, Segrate (MI), tel. 02/26433219; . Clinica di Neuropsichiatria, Osp. S. Gerardo, Monza (MI), tel. 039/22781; . Istituto di Psichiatria, Università degli Studi, Modena, tel. 059/365315; . Istituto di Psichiatria, Università Federico II, Napoli, tel. 081/7462875; . Istituto di Psichiatria, Università degli Studi, Padova, tel. 049/8213830; . Istituto di Psichiatria, Policlinico universitario, Palermo, tel. 091/6555164; . Istituto di Neuropsichiatria Infantile, Palermo, tel. 091/6820282; . Istituto di Psichiatria, Università degli Studi, Pavia, tel. 0382/502612; . Istituto di Psichiatria, Università degli Studi, Perugia, tel. 075/5783568; . Istituto di Psichiatria, Università degli Studi, Pisa, tel. 050/835411; . Istituto di Psichiatria, Università degli Studi, Roma, tel. 06/72591; . Istituto di Psichiatria, Policlinico Gemelli, Roma, tel. 06/30154455; . Clinica psichiatrica I, Università La Sapienza, Roma, tel. 06/49914539; . Istituto di Psichiatria, Università degli Studi, Siena, tel. 0577/2322220; . Clinica psichiatrica, Università degli Studi, Torino, tel. 011/6634848; . Istituto di Neuropsichiatria Infantile, Torino, tel. 011/6961642; . Istituto di Psichiatria, Università degli Studi, Trieste, tel. 040/571077; . Istituto di Psichiatria, Policlinico G.B. Rossi, Verona, tel. 045/8074441; . Servizio psichiatrico IV, Ospedale di Soave, Verona, tel. 045/6138731.
GRUPPI di AUTO-AIUTO AIUTIAMOLI (Associazione Italiana Famiglie Ammalati Psichici) Svolge nel suo centro diverse attività terapeutiche, dalle psicoterapie individuali e di gruppo alla musicoterapia. Fornisce, inoltre, sostegno attraverso gruppi di auto-aiuto e un servizio di ascolto telefonico. Ha sede a Milano, corso di Porta Romana, 116/A -- tel. 02/58304712. ASSOCIAZIONE PIEMONTESE PER LA RICERCA SULLA DEPRESSIONE Si prefigge di favorire l’approfondimento scientifico, la sensibilizzazione, la divulgazione e la prevenzione in materia di depressione, ansia e disturbi da attacchi di panico. Organizza conferenze, incontri di approfondimento con specialisti per le persone depresse e i loro familiari. È un centro polivalente che fornisce a pagamento servizi di psicoterapia individuale e di gruppo ed utilizza anche tecniche come lo psicodramma, la musicoterapia e il rilassamento. Offre un servizio di ascolto telefonico e fornisce a richiesta materiale informativo e scientifico. Ha sede a
Torino, in via Belfiore, 72 -- tel. 011/6699693-6699584. La presiede Salvatore Di Salvo. DI.A.PSI. È un’associazione nata nel 1993 nell’ambito della DI.A.PSI.GRA.. Si occupa in prevalenza di malati schizofrenici che segue con diversi servizi di assistenza, consulenza e anche accompagnamento domiciliare. Per i familiari dei malati, assai spesso depressi, svolge un servizio di accoglienza e di ascolto quotidiano, gestito da volontari. In Piemonte esistono cinque sedi autonome presenti rispettivamente a Torino, Cuneo, Chivasso, Savigliano, Giaveno, più una ad Aosta. Alla sede di Torino (via Sacchi n. 32 -- tel. 011/546653) fanno anche capo quattro “punti di riferimento” dislocati a Torre Pellice, Ciriè, Acqui Terme e Vercelli. DI.A.PSI.GRA. (difesa dei malati psichici gravi). È un’associazione che si propone di sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti dei disagi mentali e di dare un aiuto concreto ai malati e alle loro famiglie. Quest’aiuto concreto si manifesta anche attraverso l’organizzazione di gruppi di auto-aiuto e con un’opera di consulenza e assistenza per problemi di ordine legale e sanitario. La sede dell’associazione è a Roma, in via del Mancino, 16/a -- tel. 06/69923855. ESPRIMERSI È una associazione con diverse sedi nell’Italia centrosettentrionale. Organizza gruppi di auto-aiuto coordinati da psicologi e psichiatri. Opera anche come centro di ascolto per tutti i problemi legati alla depressione e all’ansia, fornendo la consulenza di medici e psicologi. Le sue sedi sono: a Torino, via Grassi, 7 -- tel.011/4343700; a Imperia, via Carducci, 46 -- tel. 0183/650207; a Verona, via Volta, 33 -- tel. 045/8401116; a Bologna, piazza Roosevelt, 4 -- tel. 051/260958. FONDAZIONE P. VARENNA Ha come obiettivo la promozione di attività scientifiche rivolte ai problemi dei disturbi depressivi. La fondazione svolge anche opera di sensibilizzazione nei confronti delle Istituzioni e dei medici sui principali temi legati alla depressione. Ha sede a Milano, in corso di Porta Nuova, 20 -- tel. 02/29001603. IDEA (Istituto per la ricerca e la prevenzione della depressione e dell’ansia). Oltre ad occuparsi dei principali problemi connessi con la depressione e l’ansia l’istituto ha organizzato due linee telefoniche di ascolto ed anche diversi gruppi di auto-aiuto in varie città d’Italia. Ha sede a Milano, in via Statuto, 8 -- tel. 02/654126-02/653994. Ne è presidente Giovanni B. Cassano. PSICHE 2000 È una associazione di familiari e volontari per la salute psichica. La sua attività è incentrata sull’informazione e sulla sensibilizzazione, con incontri pubblici e produzione di materiale informativo. Effettua un servizio telefonico di ascolto e fornisce supporto alle famiglie dei malati attraverso l’organizzazione di riunioni periodiche. Ha sede a Thiene (Vicenza), via Corelli, 11 -- tel. 0445/368893. TELEFONO AMICO È un’associazione di volontari nata in Italia nel 1964, a seguito dell’esperienza fatta a Milano da padre Eligio. Dispone di 46 sedi sparse su tutto il territorio nazionale -- cinque di queste sono in Piemonte -- dove, nel più totale anonimato, si presta ascolto ai problemi di chi è deluso, angosciato, depresso, di chi non è capito, di chi si ritrova solo di fronte ai propri guai. I volontari non sono medici e neppure psicologi, ma soltanto persone di buona volontà che fanno da specchio ai problemi degli altri. Il servizio di ascolto è attivo 24 ore al giorno e risponde al numero verde 800-590002.
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