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ED McBAIN LA BELLA E LA BESTIA (Beauty And The Beast, 1982) Personaggi principali: MATTHEW HOPE avvocato GEORGE N. HARPER rigattiere MICHELLE BENOIS moglie di George LLOYD DAVIS ex commilitone di George LEONA DAVIS moglie di Lloyd ANDREW OWEN amico di George SALLY OWEN ex moglie di Andrew KITTY REYNOLDS proprietaria di una boutique DALE O'BRIEN amica di Matthew Hope SUSAN ex moglie di Matthew Hope JOANNA figlia di Matthew Hope FRANK SUMMERVILLE avvocato MORRIS BLOOM agente investigativo 1 A Calusa, in Florida, le spiagge mutano con le stagioni. Quella che in maggio era un'ampia distesa di sabbia bianco nitido in novembre diventa una stretta striscia di alghe, conchiglie e legno contorti. Qui la stagione degli uragani è temibile sia per i danni che procura alle case sia per la distruzione che semina lungo le preziose coste del Golfo del Messico. Di fronte a Calusa si allineano cinque Key, ma di queste soltanto tre, Stone Crab, Sabal, e Whisper, sono disposte da nord a sud, parallele alla terraferma. Flamingo Key e Lucy's Key sorgono nella baia simili a massicce pietre affioranti che colleghino la terraferma prima a Sabal e poi a Stone Crab la quale ha sofferto parecchio per le violente tempeste autunnali proprio perché aveva già poco. Stone Crab è la più stretta delle Key di Calusa a causa dei decenni di acqua e vento che hanno eroso le sue spiagge un tempo splendide. In settembre la strada asfaltata a due corsie di Stone Crab è stata completamente sommersa dall'acqua: la baia e il Golfo che la fiancheggiano si sono uniti sulla strada vietando così il passaggio a qualsiasi cosa che non fosse un dingo.
Sabal Beach ha sofferto meno, forse perché in fondo un Dio esiste. È a Sabal che i tutori della legge della città di Calusa guardano dall'altra parte quando si tratta del cosiddetto nudismo. In realtà, non completamente dall'altra parte. A Sabal le donne hanno il permesso di fare il bagno o di giocare sulla spiaggia in topless. Ma aspetta che la zona dei genitali maschili o femminili resti esposta per una sola frazione di secondo, e di colpo una macchina bianca della polizia apparirà magicamente sulla strada d'accesso alla spiaggia, e un tutore della legge in uniforme avanzerà solenne sulla sabbia, a testa china per studiare il terreno, e opererà immediatamente un arresto citando un'ordinanza che risale al 1913, anno dell'ammissione di Calusa. Il mio socio Frank è un nuovaiorkese trapiantato qui, e lui sostiene con cocciutaggine che l'interpretazione data dalla polizia a quella particolare ordinanza è semplicemente un altro indizio della totale mancanza di vera raffinatezza a Calusa. Frank sostiene che il nudo è nudo, totale o parziale che sia. A Calusa piacerebbe di considerarsi sufficientemente sofisticata da permettere ai bagnanti di godere il sole integrale, dice Frank, ma allo stesso tempo i padri della città sentono di dover rabbonire tutti i puritaneggianti cittadini emigrati a sud da luoghi infinitamente poco illuminati quali l'Ohio, l'Indiana e l'Illinois. Da qui il compromesso, secondo il mio socio Frank Summerville di New York. Io sono convinto che Frank non sappia nemmeno dove sono l'Ohio, l'Indiana e l'Illinois. In qualche punto là in alto. Da qualche parte a sinistra di New York. Naturalmente sa che io sono originario dell’Illinois, nativo di quella incredibilmente goffa e incolta città che si chiama Chicago. Forse è per questo che io sono talmente rozzo da apprezzare la vista di un bel seno in pieno sole e di ringraziare Dio per i piccoli piaceri della vita. Frank e io siamo avvocati. Lo è anche Dale O'Brien. Dale è una donna. Questo è tassativo. Una donna con un cervello tagliente e una mente acuta, che ha ridotto a idioti balbettanti i più coraggiosi testimoni della parte avversa in parecchie aule di tribunale. Inoltre è una donna di straordinaria bellezza, alta un metro e settanta,con capelli rossi (lei preferisce definirli color rame) occhi verde giada e la pelle chiara che, contraddicendo un vecchio credo, si rifiuta tenacemente di diventare rosso gambero quando esposta al sole ma si abbronza invece in maniera intensa e seducente. La conosco da gennaio, quando ci siamo incontrati professionalmente. La nostra relazione è sopravvissuta al furioso assalto stagionale degli zigoli delle nevi, alla loro partenza di maggio, al caldo e all'umidità
opprimenti dei mesi estivi, alle torrenziali piogge d'autunno che hanno spazzato via i resti delle spiagge di Stone Crab, risparmiando però miracolosamente quelle di Sabal. Avevamo passato la notte insieme nella mia casa d'affitto sulla terraferma di Calusa, ci eravamo svegliati a mezzogiorno, e avevamo fatto colazione insieme in un nuovo ristorante chiamato (profeticamente avevamo pensato entrambi) L'Ultimo Giorno di Custer, destinato certo a chiudere prima della fine del mese se la misura del suo successo era data dalle uova alla Benedict che servivano. Adesso, nello smagliante sole di metà novembre camminavamo lungo la North Sabal grati per le fantasie capricciose dell'uragano Gloria e per lo splendido sabato insolito per quel periodo dell'anno. Dale indossava un bikini verde appena più scuro dei suoi magnifici occhi, riparati ora dal sole dietro un paio di enormi occhiali da sole graduati. Io indossavo calzoncini bianchi. Non avevo intenzione di fare il bagno nonostante la temperatura quasi calda per essere in novembre (diciassette gradi al mattino come ci avevano sottolineato nel bollettino meteorologico) perché l'acqua del Golfo sarebbe stata soltanto un paio di gradi più alta. Ormai vivevo a Calusa da un tempo sufficiente per pensarla come i locali: l'autunno inizia il 21 di settembre e dopo quel giorno soltanto gli zigoli sono sufficientemente pazzi da entrare in acqua. «Sono una vigliacca ecco cos'è» disse Dale. «Non è vero, tu sei molto coraggiosa» dissi io. «Ti prego, Matthew ! Se avessi soltanto un briciolo di coraggio mi toglierei il reggiseno.» «Questo non ha niente a che vedere con il coraggio» dissi io. «E con che cosa ha a che fare? Lascia perdere, non dirlo. Credo che adesso lo farò.» «E allora fallo.» «Lo farò, ti ho detto. Dammi solo un minuto.» «Benissimo.» «Guarda, Matthew, che lo faccio sul serio.» «Lo so.» «Tu non mi credi, ma io lo farò davvero.» «Io ti credo.» «No che non mi credi.» «Sì, invece. Credimi, ti credo.» «Vedrai.» «Vedranno tutti.» «Adesso mi hai spaventato di nuovo.»
«Scusa» dissi io. Stavamo camminando vicino all'acqua, il modo migliore per evitare le cacche dei cani, a Calusa, dato che l'ordinanza contro il comportamento dei cani in pubblico è fatta rispettare meno strettamente di quella contro il nudo totale. Tutt'attorno c'erano cani che saltavano, correvano, ansimavano: labrador e pastori tedeschi, barboncini e volpini, dalmati e levrieri, pechinesi e bassotti, fox-terrier e maltesi, doberman e chihuahua e bastardi di ogni incrocio, una autentica enciclopedia di varietà canine. E tutt'attorno c'erano anche seni nudi, seni fatti a mela e fatti a pera, seni grossi come fragole o come meloni, seni color latte o color miele, seni sodi come melograni e seni grinzosi come prugne, seni con capezzoli come piselli o con capezzoli come ciliege, una autentica festa mammellaria di ispirazione vegetale. «Se può farlo lei posso farlo anch'io» mormorò Dale. Si riferiva a una donna che stava sguazzando fuori dall'acqua in topless. Indossava un monokini rosso smagliante che si tendeva coraggioso nel tentativo di coprire un ventre enorme e un altrettanto enorme deretano. I suoi seni (per abbandonare i paragoni ortofrutticoli) pendevano simili a bige bistecche fino alla vita e ballonzolavano svergognati nel sole. Mentre si lasciava cadere su un asciugamano, a un metro circa dalla linea lungo cui le onde mordevano la sabbia, la donna si strinse nelle mani i suoi tesori come per assicurarsi di non averne perso uno nell'oceano. «Sto per farlo» disse Dale. «E fallo.» «Ora lo faccio.» Stava davvero portando le mani alla schiena per slacciare le fettucce del reggiseno quando qualcosa interruppe il gesto. Non potevo vedere i suoi occhi, nascosti com'erano dalle lenti nere degli occhiali, ma lei stava indubbiamente guardando lungo la spiaggia verso qualcosa che aveva attirato la sua attenzione, le mani ancora dietro la schiena, le braccia piegate ai gomiti, immobili, simili alle ali di un elegante gabbiano prossimo al volo. Seguii la direzione del suo sguardo invisibile e vidi la più stupenda, spettacolare, incredibile donna che avessi mai visto, Al primo momento pensai che fosse completamente nuda. Poi mi accorsi che il triangolo nero non era l'eco pubica dei lunghi capelli neri che le scendevano sulle spalle, ma il minuscolo pezzo di bikini sorretto da esili lacci. Non aveva più di ventidue o ventitré anni, era alta quanto Dale e con curve tanto voluttuose che al confronto Dale (perfettamente proporzionata)
appariva quasi angolosa. Su una spiaggia affollata di donne che esibivano corpi abbronzati a diversi stadi di perfezione bronzea, la donna che si stava avvicinando sembrava scolpita in alabastro, la bianca faccia squisita incorniciata dai capelli nero ebano, la carne del seno nudo quasi traslucente che scintillava sotto i raggi del sole, i morbidi fianchi che si allargavano sopra i lacci del triangolo nero, luccicante miraggio in bianco e nero che si avvicinava sempre più, occhi grigio chiaro nella splendida faccia, profumo di mimosa al suo passaggio, e poi più niente. «Dovrebbe esserci una legge» disse Dale. Il lunedì mattina alle dieci e un quarto la donna che avevamo visto sulla spiaggia venne nel mio ufficio. Indossava un paio di blue jeans attillati, una maglietta bianca, un paio di sandali, e occhiali da sole. Sotto le maniche corte della maglietta le braccia erano coperte di lividi. Sul bel naso c'era un cerotto. Quando lei si tolse gli occhiali vidi gli occhi tumefatti, uno chiuso dal gonfiore. Le labbra erano gonfie e viola, e quando le aprì per parlare notai il vuoto al posto di alcuni denti. «Mi chiamo Michelle Harper» disse. «Vi prego di scusare il mio inglese.» Il suo inglese aveva un inequivocabile accento francese, la sua voce bassa era più roca di quanto ci si aspetti da una donna tanto giovane. «Mi siete stato consigliato da Sally Owen» disse. Annuii. «Vi siete occupato del suo divorzio» disse lei. «Sì, ricordo.» «Mi ha detto che voi avreste saputo cosa fare.» «E che cosa vorreste che facessi?» «Voglio che mio marito sia arrestato.» Presi un blocco per appunti e una penna. «Come si chiama?» «George Harper.» «Harper con la acca?» «Oui. Mais George il est sans... pardon. George senza la esse finale. Mio marito è américain.» «George Harper.» «Oui exactement.» «Perché volete che venga arrestato?» «Per quello che mi ha fatto. Il a... mi ha rotto il naso, e mi ha fatto cadere tre denti...»
«Quando è successo, signora Harper?» «Ieri sera. Regardez» disse, e di colpo sollevò la maglietta a scoprire il seno. Non indossava niente. I seni che sabato sulla spiaggia avevo visto bianchi e intatti adesso erano coperti da brutti lividi. «Mi ha fatto questo» disse lei e abbassò la maglietta. «Avete chiamato la polizia?» «Quando lui se ne è andato, volete dire?» «A che ora se n'è andato?» «Alle due.» «Le due del mattino?» «Oui. Io non ho chiamato la polizia. Avevo paura che lui tornasse, e non sapevo cosa fare. Così questa mattina sono andata da Sally.» «A che ora questo?» «Alle nove. Non sapevo che cosa fare, vous comprenez? Lei mi ha detto che dovevo andare da un legale. Mi ha detto che George se ne è andato e quindi io non ho le... prove?» «Sì, prove.» «Oui, le prove che sia stato lui a farmi questo. Ha detto che prima dovevo vedere un legale.» «Sally sarà una bravissima estetista» dissi «ma non è un buon avvocato. Avreste dovuto chiamare subito la polizia. Ma non preoccupatevi, non è troppo tardi. Io però non sono un avvocato penalista, capite?» «Oui, ma Sally mi ha detto che...» «E in ogni caso, questa vicenda non ha bisogno di un avvocato, non per voi comunque. Se quello che mi avete detto è vero, è vostro marito che avrà bisogno di un avvocato.» «È tutto vero, Bien sur.» «Non ho motivo di dubitarne.» Allungai la mano verso lo scaffale alle mie spalle per cercare l'indice del quarto volume dello Statuto della Florida. Sfogliai le pagine in cerca degli articoli su aggressione, vie di fatto e abuso della moglie annotando sul mio blocco il numero delle pagine e del capitolo. E poi le lessi l'articolo 901 paragrafo 15. «Una persona può venire arrestata senza bisogno di mandato» lessi «qualora esista motivo per credere che detta persona sia passata a vie di fatto contro la moglie ed esistano prove di maltrattamenti fisici...» Alzai la testa. «Sicuramente queste prove esistono. E almeno un centinaio di persone possono testimoniare che sabato non eravate in questo stato.»
«Pardon?» disse lei. «Sulla North Sabal» dissi. «Oh, oui» disse lei. «Quindi abbiamo motivo per un arresto senza mandato, e andremo alla polizia non appena avrò visto cosa...» sfogliai il volume all'indietro fino all'articolo 784 comma 03 che definiva le vie di fatto. Lessi in silenzio le poche righe poi rialzai la testa e citai per lei: «Di una persona si dice che è passata alle vie di fatto qualora abbia (a) intenzionalmente toccato o colpito un'altra persona contro la volontà di questa...» «Lui l'ha fatto.» «Oppure (b) abbia intenzionalmente causato danni fisici a un individuo.» Tornai ad alzare la testa. «Vediamo cosa può avere per questo reato.» «Avere?» «Qual è la pena.» «Oh, oui.» Risfogliai all'indietro fino all'articolo 775 comma 082 in cui si definivano le pene per un reato di primo grado. «Ci siamo» dissi. «Tempo di incarcerazione non superiore a un anno.» «Soltanto un anno? Per tutto quello che mi ha fatto?» «Vediamo che cosa c'è sotto la voce aggressione» dissi e sfogliai il volume in avanti. Lessi mentalmente l'articolo 784 comma 011 poi glielo citai. «Per aggressione si intende l'intenzionale e illegale minaccia a parole o gesti di usare violenza su una persona...» «Lui ha fatto queste minacce.» «...qualora sussista la capacità fisica di farlo...» «George è molto forte.» «...e il compimento di un atto che generi fondata paura nell'altra persona di un imminente realizzarsi della violenza.» «È un monstre» disse lei. «Un monstre véritable.» «In ogni caso» dissi, «si tratta soltanto di una infrazione di secondo grado. Nel caso in cui venisse riconosciuto colpevole di entrambe le accuse la seconda aggiungerebbe solo sessanta giorni alla condanna.» «E quando lui esce dal carcere? Quando è passato l’anno e sono passati i sessanta giorni? Allora lui mi ucciderà, vero?» «Ecco... facciamo prima in modo che venga arrestato, okay ? E facciamo in modo che non possa farvi ancora del male dopo il rilascio su cauzione.» «Che cos'è questo, la cauzione?» «Dopo l'incriminazione il giudice può decidere di rilasciarlo fino al pro-
cesso.» «Rilasciarlo? Lasciarlo libero?» «Sì, se lui versa la somma che la corte ha deciso come cauzione. È una specie di assicurazione che lui si presenterà al processo. Viene chiamato appunto rilascio su cauzione. Sono certo che esiste anche in Francia.» «In Francia non abbiamo uomini che fanno queste cose» disse lei. Io pensai che la Francia era la patria del marchese de Sade ma fui tanto gentiluomo da non accennarne. «Andiamo» dissi, «abbiamo alcune cose da fare.» Il posto di polizia di Calusa è conosciuto come Il Palazzo della Sicurezza Pubblica. Secondo il mio socio Frank questo è un altro tentativo di ammantare tutto di rispettabilità. Insomma, un eufemismo puro e semplice. Frank sostiene che il pane va chiamato pane e che definire un posto di polizia palazzo della sicurezza pubblica equivale a definire tecnico della sanità uno spazzino. Comunque è così che viene chiamato, e le parole Palazzo della Sicurezza Pubblica sono scritte in bianchi caratteri discreti sul basso muro esterno. A destra dell'ingresso, scuro cancello metallico, e parzialmente nascosta dai cespugli di pittosforo c'è la scritta meno evidente che dice Dipartimento di Polizia. L'edificio è in mattoni di varie sfumature di marrone, e la facciata dalla severa architettura è interrotta unicamente da strette finestre che sembrano le feritoie di una fortezza. Per Calusa questo non è insolito perché i mesi estivi sono torridi e finestre ampie producono soltanto calore e riverbero. Seduta alla scrivania, Michelle compilò la denuncia accusando il marito George N. Harper residente con lei al numero 1124 di Wingdale Way di avere, la sera di sabato 15 novembre, alle ore 11,45 p.m.. commesso contro di lei atti di aggressione e di essere passato a vie di fatto nel seguente modo: rotto il naso, anneriti entrambi gli occhi, spaccato il labbro, buttato giù tre denti, e procurato lividi su braccia, gambe e seni. Il poliziotto che ricevette la denuncia ci disse che avrebbero cominciato immediatamente a cercare il marito e che ci avrebbero informato appena l'avessero preso. Dieci minuti dopo lasciammo il posto di polizia e tornammo al mio ufficio dove, nella zona di parcheggio, Michelle aveva lasciato la sua macchina, una Volkswagen Beetle di età incerta. Prima di smontare dalla mia macchina lei mi disse: «Merci, Monsieur, vous êtes très gentil.» Io le assicurai che tutto sarebbe andato bene e che era solo questione di tempo perché la polizia prendesse suo marito e lo incarcerasse per quello che aveva
fatto. Quando lei mi chiese che cosa sarebbe successo se lo avessero rilasciato su cauzione, le dissi che avremmo compilato una petizione richiedendo la non scarcerazione di un marito che abusava in tal modo della moglie, cosa che poteva venire concessa quando era in corso un'azione di divorzio o se esisteva una denuncia per reati penali. Le promisi poi che le avrei telefonato non appena avessi avuto qualche notizia dalla polizia, e che l'avrei chiamata comunque nelle prime ore del mattino seguente per sapere come stava. Non ebbi mai l'occasione di telefonarle. L'agente investigativo Morris Bloom mi chiamò prima lui a casa, alle sette di martedì mattina, per dirmi che una donna identificata come Michelle Harper era stata trovata cadavere sulla spiaggia di Whisper Key a una trentina di metri dalle cabine del Bagno. Le mani e i piedi le erano state legati con filo elettrico, e a quanto pareva era morta bruciata. 2 Non ero mai stato prima in un obitorio. Nei film c'è un inserviente tutto vestito di bianco che fa scivolare fuori un lungo carrello, e un parente del morto china la testa a guardare il corpo mentre l'inserviente scosta con delicatezza il lenzuolo che copre la faccia, e poi il parente singhiozzando fa l'identificazione e l'inserviente spinge il carrello al suo posto, tutto qui. Nei film l'obitorio è così. Nella realtà un obitorio è una squadra di patologi in camice verde macchiato di sangue che aprono crani o studiano il contenuto di uno stomaco asportato a un cadavere, un obitorio è carne morta su tavoli d'acciaio dove il sangue scorre e defluisce lungo stretti canali sino a una bacinella fissata a un'estremità, un obitorio è corpi nudi ed essere umani ridotti a bestie da macello, un chilo e quattro di cervello e trecentotrenta grammi di cuore, un obitorio è l'odore stagnante di decomposizione, il dolciastro odore che invade le narici e riempie di sé ogni poro della pelle. Michelle Harper aveva lottato con tutte le sue forze contro i cavi che le stringevano mani e piedi e contro le fiamme che l'avevano consumata. Può sembrare assurdo usare il termine congelato per descrivere la posa assunta da un corpo morto carbonizzato ma lei era così, congelata, contorta e irrigidita in una posizione che non si penserebbe possibile per un corpo umano. Era morta fra i tormenti e il suo corpo esprimeva questo tormento in maniera assai più completa di quanto avrebbe potuto rivelare il risultato di
qualsiasi autopsia. «È stata trovata una tanica di venti litri di benzina a tre metri da lei» disse Bloom. «Adesso è nelle mani del laboratorio. Vedremo se è possibile ricavarne qualche impronta. Chiunque sia stato l'ha proprio inzuppata.» «Siamo sicuri che sia lei?» chiesi. «Sono stati trovati i suoi vestiti e la sua borsetta nella sabbia. C'erano portafoglio e patente di guida. Questo significa che la donna è andata là con i suoi mezzi. Nessuna donna porta con sé la borsetta se viene trascinata via. Stiamo sempre cercando il marito, George N. Harper. Ho saputo che ieri sei stato alla polizia per sporgere una denuncia. Non abbiamo ancora trovato traccia di lui. Tu sai cosa significa quella enne del suo nome? Lei non te l'ha detto per caso?» «No. Perché lo chiedi? È importante?» «No, è solo curiosità» disse Bloom e si strinse nelle spalle. «Non sono molti i nomi maschili che cominciano per enne. Norman, Nathan... te ne viene in mente qualcun altro?» «Nelson» dissi. «Già, Nelson, giusto» disse Bloom. Mi era difficile credere che stavamo parlando così in quel posto con il cadavere carbonizzato di Michelle lì davanti a noi, e tutti intorno gli altri corpi e quell'odore di morte che mi riempiva il naso e la gola. «Anche Neil» disse Bloom. «Già, Neil.» «Comunque, mi piacerebbe proprio trovarlo» disse Bloom. «Da quello che ho letto nella denuncia...» «Dobbiamo proprio parlare qui?» dissi io. «Come? Ah, per via dell'odore. Io ci ho fatto l'abitudine ormai. Ho passato un sacco di tempo negli obitori. Quando ho cominciato come agente investigativo a Long Island continuavo a lavarmi le mani. Tornavo dall'obitorio e mi lavavo le mani dieci, venti volte nel tentativo di togliermi di dosso l'odore. Vedrai, Matthew, ti laverai parecchio le mani, oggi. Su, vieni, usciamo.» Ci sedemmo su un muretto all'esterno dell'ospedale. Il sole splendeva, l'aria era dolce, ma l'odore persisteva. «Sto covando un raffreddore» disse Bloom, frugandosi in tasca per prendere il fazzoletto. Si soffiò il naso, se lo risoffiò, poi disse: «Sono venuto in Florida perché uno non si aspetta di prendere il raffreddore da queste parti. Be', ho preso più raffreddori qui di quando stavo al nord.» Rimise
via il fazzoletto. «Ti ho telefonato perché ieri sei stato alla polizia con lei.» «Infatti.» «Per fare quella denuncia.» «Sì» dissi. «Dunque era una tua cliente, giusto?» «Lo era da ieri mattina.» «Non da prima?» «No.» «L'hai vista ieri mattina per la prima volta?» «Sì. Be', no, l'avevo vista sabato sulla spiaggia.» «Ah. E sabato hai parlato con lei del suo problema?» «No. Non sapevo nemmeno chi fosse. L'ho soltanto vista camminare sulla spiaggia.» «Però ieri mattina quando l'hai vista te la sei ricordata, è così?» «Sì. Era una donna stupenda, sai Morris.» «Già» disse lui e scosse la testa. «Questo è il lato peggiore, no? Da quello che ho letto nella denuncia era stata conciata male. E adesso la troviamo sulla spiaggia morta bruciata. A te sembra una coincidenza?» «No.» «Nemmeno a me. Ecco perché sono ansioso di trovare il suo bel marito. Uno che scompare senza lasciare tracce deve avere i suoi buoni motivi non ti pare?» «Sì.» «L'omicidio è un motivo molto buono» disse Bloom. Tacque pensoso per un momento, poi disse: «Ecco che cosa intendo fare, Matthew. Nel rilasciare la notizia della morte ai giornali, alla radio e alla televisione non accennerò al pestaggio di domenica sera. Ti sarò grato se anche tu non ne farai parola. Chiunque l'ha uccisa, il marito o altri che sia, non ne saprà niente a meno che non sia stato lui a picchiarla. Non voglio che si costruisca un alibi perché ha saputo che noi sappiamo, okay? Per il delitto avrà certo un alibi, ma per il pestaggio forse no, a meno che non lo si metta noi sull'avviso. Quindi manteniamo il nostro piccolo segreto, okay? Non una parola sulla faccenda di domenica sera.» «D'accordo» dissi. Bloom mi ritelefonò alle quattro del pomeriggio mentre io ero in riunione con il mio socio Frank. Qualcuno sostiene che Frank e io ci assomigliamo. Sono senza dubbio persone assertrici del fatto che le coppie di marito e moglie cominciano a sembrare coppie di gemelli dopo essere stati in-
sieme per un considerevole numero di anni. Io non credo di assomigliare alla mia ex moglie con la quale sono stato sposato quattordici anni, come non credo che ci sia la minima rassomiglianza tra Frank e me. Io sono alto uno e ottantatré e peso settantotto chili. Frank è cinque centimetri più piccolo di me e quattordici chili più leggero. Vero che abbiamo tutti e due capelli e occhi scuri, ma Frank ha la faccia più tonda della mia. Frank sostiene che al mondo esistono soltanto due tipi di facce: quelle da maiale e quelle da volpe, e definisce se stesso come faccia da maiale e me come faccia da volpe. Le definizioni non hanno niente a che fare con il carattere o la personalità, ma sono unicamente descrittive. A me però sembrava che quel pomeriggio, mentre andava su e giù per l'ufficio, Frank si stesse comportando in maniera decisamente maialesca a dirmi in quel modo che un conto era accompagnare una giovane donna alla polizia per stendere una denuncia e tutto un altro farsi coinvolgere in un caso di omicidio, cosa che secondo Frank io mi ero messo a fare con frequenza allarmante. «Perché poi Bloom ha ritenuto necessario telefonarti questa mattina?» chiese andando avanti e indietro. «Perché ha voluto che tu vedessi il cadavere ? Ci occupiamo di una faccenda di normale amministrazione per una persona che ci capita qui inaspettata, e subito dopo tu ti trovi all'ospedale di Calusa a guardare un cadavere.» «Credi che io avessi voglia di guardare un cadavere?» «E allora perché sei andato a guardarlo?» «Perché Michelle Harper era una cliente.» «Capirai!» disse Frank facendo roteare gli occhi. «Un altro paio di clienti come Michelle Harper e possiamo chiudere bottega. Nonostante il parere di qualcuno, caro Matthew, qui noi cerchiamo di tirare avanti un'impresa, e il tuo tempo è prezioso. Se tu preferisci sperperarlo andandotene in giro per la città a guardare cadaveri...» Fu a questo punto che Cynthia chiamò dal suo telefono. Cynthia Huellen, nativa della Florida, ha lunghi capelli biondi e una magnifica abbronzatura che coltiva quasi con fanatismo: non c'è weekend che Cynthia non passi sulla spiaggia o in barca. Cynthia, venticinque anni, è la più bella componente dell'ufficio legale Summerville e Hope e lavora da noi come segretaria telefonista. Ha studiato legge all'università della South Florida e noi la prenderemo nello studio vero e proprio non appena avrà dato la laurea. Ogni volta che andiamo sull'argomento Cynthia sorride e dice che ne ha avuto abbastanza della scuola. È la miglior persona che conosca tra i giovani, possiede una mente sveglia e aperta, un ottimo caratte-
re e un buon senso dell'umorismo. Adesso mi disse che c'era l'agente investigativo Morris Bloom sulla linea sei. Premetti il pulsante corrispondente e dissi: «Pronto, Morrie.» «Salve, Matthew» disse lui. «L'abbiamo preso.» «Bene» dissi e guardai Frank che si era incupito non appena mi aveva sentito fare il nome di Bloom. Adesso mi fissava con le mani sui fianchi. «Dove l'avete trovato?» «È venuto dritto qui. Dice che è stato a Miami per qualche giorno, e ha saputo la notizia dalla radio mentre stava tornando. Sto per fargli un po' di domande, ma c'è un piccolo problema.» «Quale sarebbe?» «Non ha un avvocato e ne vuole uno durante l'interrogatorio. Gli ho detto che potevamo assegnargliene uno d'ufficio, ma lui pensa che potrebbe esserci sotto qualcosa. Quindi mi sono chiesto se... se tu hai tempo potresti magari venire qui e parlargli, forse ti troverà di suo gradimento. Soltanto per l'interrogatorio, Matthew. Quello che farai in seguito, se e quando l'avremo incriminato, sta a te. Cosa ne dici?» «Quando dovrei venire?» «Il tempo di fare la strada.» Guardai di nuovo Frank. «Dammi dieci minuti» dissi. «Va bene, ci vediamo» disse Bloom e riappese. Deposi il ricevitore sul supporto. Frank continuava a guardarmi con aria torva. «Che cosa voleva?» mi chiese. «Hanno preso George Harper. Morrie mi ha chiesto di assisterlo durante l'interrogatorio.» «Oh, Cristo» disse Frank. Non mi aveva sfiorato la mente che George N. Harper poteva essere un nero. Sally Owen, la donna per la quale il nostro studio aveva curato un anno prima le pratiche di divorzio, la donna alla quale Michelle aveva chiesto consiglio prima di venire da me era nera, ma anche a Calusa esiste gente bianca che ha amici neri. E nemmeno l'indirizzo di Michelle, Wingdale Way 1124, mi aveva fatto scattare la molla. Wingdale Way era nel cuore del quartiere nero, che veniva ancora chiamato quartiere di colore dai residenti più anziani, e che la buona società di Calusa chiamava Città Nuova. A me proprio non era venuto in mente il collegamento.
Mi sono sempre sentito un po' a disagio con l'etichetta che i neri si sono scelta. Probabilmente è giusta quanto l'etichetta di bianco o di giallo o di rosso, ma prima di quel martedì pomeriggio non avevo mai incontrato un cosiddetto nero che non avesse la pelle di una sfumatura più o meno marrone. George N. Harper invece aveva il colore del carbone, il colore della notte, il colore di un funerale. George N. Harper era il nero più nero che avessi mai visto in vita mia. E il più grosso. E il più brutto. Quando aprii la porta ed entrai, lui stava andando su e giù nell'ufficio del capitano. Si voltò subito a guardarmi, incredibile montagna alta più di un metro e novanta, che se non pesava centocinquanta chili non pesava nemmeno un etto. Indossava una salopette blu, una camicia di tela blu, e un paio di scarpe di pelle scura alte alla caviglia. Le spalle e il busto erano enormi, la faccia butterata aveva narici larghe e grosse labbra rosso scuro, capelli ricci e gonfi, occhi segnati di rosso che mi guardavano da sotto le sopracciglia spesse. Le mani enormi si aprivano e chiudevano mentre lui si voltava, neandertaliano colto di sorpresa. «Il signor Harper?» dissi. «Siete l'avvocato?» disse lui. «Sono Matthew Hope» dissi e gli tesi la mano. Lui non la strinse. «Per che cosa devo aver bisogno di un avvocato?» disse lui. I suoi occhi continuavano a scrutarmi. «Il signor Bloom mi ha detto che voi avete richiesto l'assistenza...» «Non l'ho uccisa io.» «Nessuno dice che l'abbiate fatto.» «Allora perché ho bisogno di un avvocato?» «Avete il diritto di averne uno, se lo volete. Il signor Bloom non vi ha spiegato quali sono i vostri diritti?» «Sì.» «Potete avere l'assistenza di un avvocato, se lo volete. O potete rifiutarvi di rispondere a qualsiasi domanda, se così preferite. Dipende da voi.» «Siete l'avvocato dei poliziotti?» «Non capisco che cosa volete dire.» «Siete uno di quegli avvocati che loro mi hanno detto di potermi procurare?» «No, non sono un legale d'ufficio.» «Credete che io abbia bisogno di un avvocato?» «Dovete deciderlo voi. Se non avete niente a che fare con l'uccisione di vostra moglie...»
«Non sono stato io.» «Ne siete sicuro?» «Sicurissimo.» «Perché nel caso in cui abbiate...» «Vi sto dicendo che non sono stato io.» «Vi rendete conto, vero, che tutto quanto direte alla polizia potrà in seguito essere usato come prova? Se voi mi state mentendo, signor Harper, devo consigliarvi di non rispondere alle domande, a nessuna domanda.» «Non sto mentendo. Io non l'ho uccisa.» «Ne siete sicuro al cento per cento?» «Cento per cento.» «Allora che cosa intendete fare?» «Se non voglio rispondere penseranno che sono stato io a ucciderla.» «Non è detto. Se volete, però, io renderò molto chiaro nella registrazione che state rispondendo alle domande di vostra volontà. Stanno aspettando. Che cosa decidete?» «Sì, facciamo queste domande» disse Harper. L'interrogatorio (o intervista come viene chiamato eufemisticamente) si tenne nell'ufficio di Bloom, adiacente a quello del capitano. Oltre a Bloom, Harper e me c'era un quarto uomo seduto davanti a un registratore. Harper guardò l'apparecchio poi guardò Bloom e chiese: «Voi registrerete tutto?» «Sì, signor Harper» disse Bloom. «Tutto quello che dirò?» «Tutto. Il vostro avvocato vi ha detto che questo può essere usato come prova?» «Sì, me l'ha detto. Va bene se registrano?» mi chiese. «Se decidete di rispondere alle domande deve restare una registrazione di quello che direte.» «Ah, sì, immagino che vada bene» disse Harper. L'uomo seduto davanti al registratore premette i due pulsanti che azionavano l'apparecchio, disse qualche parola nel microfono, per prova, le riascoltò, poi fece scorrere di nuovo indietro il nastro. Bloom lesse la Miranda Escobedo come era richiesto per legge, e sollecitò da Harper le risposte che rendevano chiara la sua conoscenza dei diritti che gli spettavano, la comprensione degli stessi e la sua volontà di rispondere alle domande che gli sarebbero state fatte. «Agente investigativo Morris Bloom» dissi io, «voglio che sulla registrazione ci sia chiaro che il mio cliente nega ogni addebito per l'uccisione
di sua moglie e che risponderà alle domande volontariamente e con l'intento di collaborare.» «È stato registrato» disse Bloom, e cominciò l'interrogatorio. «Signor Harper, quando avete visto per l'ultima volta vostra moglie viva?» «Sabato notte.» «A che ora di sabato notte?» «Dopo le due.» «Antimeridiane?» «Sissignore.» «Quindi è stato domenica mattina?» «Sì, però sembrava sabato notte.» «Dove l'avete vista?» «A casa.» «Volete dirmi l'indirizzo, per favore?» «Wingdale undici ventiquattro.» «E questa sarebbe stata l'ultima volta che l'avete vista viva?» «Sissignore. Poco prima di partire per Miami.» «Siete partito alle due del mattino?» «Sissignore.» «Non è un'ora un po' strana per iniziare un viaggio?» «Nossignore. Volevo proprio partire presto.» «Perché siete andato a Miami?» «Volevo vedere un amico. E anche consegnare un carico.» «Un carico di che cosa?» «Rottami. Sono nella compravendita di rottami.» «E siete andato a Miami per...» «Vendere rottami a un tale con il quale faccio affari.» «Come si chiama?» «Lloyd Davis. È saltato fuori però che ho fatto il viaggio per niente.» «Cosa volete dire?» «Lloyd non c'era. Sua moglie mi ha detto che questo fine settimana era fuori con la riserva. Passa un sacco di tempo con loro. La riserva dell'esercito. Io sono stato nell'esercito con Lloyd, oltre oceano. È così che ci siamo conosciuti.» «Quando siete arrivato domenica, lui però non c'era.» «Nossignore, non c'era. Non c'era neanche mia madre. La vicina mi ha detto che era andata in Georgia a trovare mia sorella.» «E tutto questo a che ora, signor Harper?»
«Oh, al mattino presto. Ci ho messo un sei ore per arrivare là. Saranno state lo otto, le nove, più o meno.» «Che cosa avete fatto dopo aver scoperto che né vostra madre né il signor Davis erano a Miami?» «Sono andato a fare colazione.» «Dove?» «Non ricordo il nome del posto. Un piccolo bar sulla strada là vicino.» «Avete fatto colazione da solo?» «Sissignore.» «Poi che cos'avete fatto?» «Ho telefonato a un altro vecchio compagno d'armi. È un sergente del reclutamento a Miami.» «Come si chiama?» «Ronnie Palmer.» «Da dove gli avete telefonato?» «Dal posto dove ho fatto colazione.» «Di che cosa avete parlato?» «Oh, soltanto di come vanno le cose e scambiarci saluti, così.» «E poi?» «Sono andato a Pompano.» «Perché?» «Ho pensato che già che c’ero potevo anche andare a dare un'occhiata. È subito fuori di Lauderdale, sapete?» «Quanto tempo siete stato a Pompano?» «Appena il tempo di guardarmi in giro.» «E poi?» «Ho continuato verso nord fino a Vero Beach.» «Per quale motivo?» «Sempre per dare un'occhiata.» «Su fino a Vero Beach?» «Non è poi tanto lontano.» «Circa centocinquanta chilometri da Pompano, no?» «Non sono tanti.» «Quanto tempo ci siete rimasto?» «Un paio d'ore non di più.» «E poi?» «Sono tornato a Miami.» «E una volta là che cos'avete fatto?»
«Sono andato a mangiare qualcosa e poi alla spiaggia. Ho dormito un po'. Mi sarebbe piaciuto andare a casa di mia madre, ma lei non c'era e io non ho la chiave.» «Quindi, avete dormito sulla spiaggia?» «Sissignore.» «A Miami?» «Sissignore, a Miami Beach.» «Alle undici e quarantacinque di sera eravate sulla spiaggia?» «Sì, ho dormito sulla spiaggia tutta notte.» «C'eravate alle undici e quarantacinque?» «Morrie» dissi io, «mi sembra che abbia già risposto alla domanda.» «Voglio che sia ben chiara l'ora, Matthew, se non hai niente in contrario» disse Bloom. «Signor Harper, avete qualche obiezione a...» «Niente affatto. Alle undici e quarantacinque di sera ero sulla spiaggia, sissignore. Tutta notte ci sono stato, proprio come ho detto.» «A Miami Beach, giusto?» chiese Bloom. «Miami Beach, sì.» «Quindi non eravate a Calusa, giusto?» «Morrie» dissi,«te l'ha appena detto almeno quattro volte.» «Va bene va bene» disse Bloom e tornò a rivolgersi ad Harper. «Signor Harper» disse, «siete al corrente che lunedì mattina vostra moglie ha presentato alla polizia di Calusa una denuncia accusandovi di averla picchiata alle undici e quarantacinque di domenica sera, quindici novembre?» «Cosa?» disse Harper, e distolti gli occhi da Bloom si voltò a guardare me. «Siete al corrente di questo?» chiese Bloom. «Nossignore, non ne sono al corrente» disse Harper. «Come potrei... Vorreste dire che io sono sospettato di averle fatto questo?» «La denuncia vi accusa di averle rotto il naso e...» «Nossignore, quella denuncia è sbagliata. Nossignore.» «È stata vostra moglie a fare la denuncia.» «Nossignore che lei non può averla fatta.» «Signor Harper, quando siete ripartito da Miami?» «Questa mattina.» «A che ora?» «Verso le dieci. Sì, saranno state le dieci.» «E arrivato a Calusa siete venuto direttamente qui alla polizia, giusto?»
«Direttamente.» «Perché non siete tornato a casa ieri? Il vostro socio in affari non c'era...» «Lloyd non è il mio socio. È soltanto un vecchio compagno d'armi con il quale faccio affari, tutto qui.» «Però lui non c'era.» «Questo è vero.» «E non c'era nemmeno vostra madre.» «Questo è vero.» «Quindi perché stare a Miami? Perché non siete semplicemente tornato indietro ieri mattina?» «Pensavo che Lloyd sarebbe tornato.» «Ed è tornato?» «Nossignore.» «Dunque perché siete rimasto là?» «Pensavo che sarebbe potuto tornare.» «Capisco. Da quanto tempo siete sposato, signor Harper?» «Sarebbero stati due anni il prossimo giugno.» «Vostra moglie era straniera?» «Sissignore.» «Dove l'avete conosciuta?» «A Bonn, in Germania. Io ero di stanza a Bonn con la polizia militare.» «Quando?» «Volete dire quando l'ho conosciuta?» «Sì.» «Esattamente due anni fa. L'ho conosciuta in novembre e l'ho sposata il giugno seguente.» «Vi siete sposato in Germania?» «Nossignore, qui a Calusa.» «Che tipo di matrimonio direste che è stato il vostro?» chiese Bloom. «Io l'amavo da morire» disse Harper, e di colpo si coprì la faccia con le mani e cominciò a piangere. Nel silenzio dell'ufficio l'unico rumore era il ronzio del nastro che registrava il dolore di Harper. Stava seduto su una sedia che sembrava minuscola, le spalle scosse dai singhiozzi, il pianto che saliva dal petto ampio, le grosse mani che nascondevano la faccia butterata, le lacrime incontrollabili. Bloom aspettava. Sembrava che Harper non avrebbe finito più di piangere. I suoi singhiozzi echeggiavano nella stanza simili ai gemiti di un animale ferito nel segreto di una giungla dove
nient'altro poteva raggiungerlo e dove soltanto la luna era testimone. E poi, alla fine, i singhiozzi cessarono e lui portò una mano alla tasca posteriore, ne tolse un fazzoletto sporco e si asciugò gli occhi e poi si soffiò il naso e rimase immobile sulla sedia, là a tirare su col naso, le spalle abbandonate, come se vita e spirito fossero stati prosciugati dal corpo gigantesco. «Signor Harper» disse Bloom in tono gentile, «voi dite che domenica mattina eravate a Miami, che poi siete andato a Pompano e a Vero Beach e che quindi più tardi siete tornato a Miami. Giusto?» «Sissignore.» Teneva sempre la testa bassa e sembrava intento a studiarsi le scarpe. «Qualcuno vi ha visto mentre eravate in quei posti?» «Tanta gente mi ha visto.» «In particolare qualcuno che potrebbe affermare con certezza che eravate davvero dove dite di essere stato?» «Soltanto la moglie di Lloyd e la signora che abita vicino a mia madre.» «Questo però per domenica mattina.» «Sissignore.» «E per domenica sera?» «No. Domenica sera non ho visto nessuno.» «E lunedì mattina?» «Nessuno.» «Proprio nessuno?» «Nossignore. » «Signor Harper, siete sicuro di non essere stato a Calusa domenica sera? Siete sicuro di non essere tornato qui per...» «A questo mi devo opporre, Morrie» dissi. «Hai già avuto la risposta. Domenica sera lui era a Miami, te l'ha già detto.» «Allora come spieghi la denuncia che sua moglie ha presentato lunedì mattina?» «Vuoi interrogare anche me? In questo caso è meglio che tu mi legga prima quali sono i miei diritti.» Bloom sospirò. «Signor Harper» disse, «avete ucciso vostra moglie Michelle Benois Harper?» «Nossignore, non l'ho fatto» disse Harper. «Va bene, vi ringrazio. C'è qualcos'altro che volete aggiungere?» «Non l'ho uccisa» disse Harper direttamente nel microfono. Dale e io non ci eravamo mai detti ti amo.
Sapevo che una volta Dale era stata innamorata pazza di un artista conosciuto a San Francisco dove lei stava facendo pratica legale. Sapevo anche che aveva vissuto con lui per due anni e che la separazione le era stata molto dolorosa perché era stato il risultato dell'improvvisa rivelazione che fino a quel momento non avevano condiviso niente. Il gennaio scorso, quando ci eravamo visti la prima volta, lei aveva parlato molto di lui. E anche in seguito. Adesso però non ne parlava più. Ma non mi aveva mai detto di amarmi. Da parte mia, io avevo usato le parole ti amo molto spesso e con diverse sfumature di sincerità. Ho trent'otto anni, e quando ero ragazzo a Chicago non avevo goduto di nessuna delle facilitazioni sessuali di cui godono oggi i giovani. Avevo diciassette anni agli inizi dei Sessanta, così persi di misura la permissività che seguì. Una buona dose della mia energia d'adolescente era stata spesa per progettare febbrili piani sul come raggiungere i tesori nascosti da una camicetta di cui ogni bottone equivaleva a una divisione Vietcong di guardia alla strada per Hanoi. Mi piacevano le gambe, mi piacevano i seni, mi piacevano le cosce, mi piacevano i sederi, mi piacevano le ragazze con una passione travolgente. E lungo la strada perigliosa di questa consumazione avevo scoperto che le parole ti amo qualche volta funzionavano. Ti amo Harriet, ti amo Jean, ti amo Helene, ti amo Melissa, e le dita tormentavano freneticamente i bottoni maliziosi e ostinati e le diaboliche allacciature dei reggiseni, inventate da una scienziata pazza. Ti amo Joyce, ti amo Louise, ti amo Roxanne! Quelli erano i giorni dei reggicalze e calze di nylon che presto avrebbero ceduto ai collant (inventati dalla solita pazza nel suo laboratorio fumante), e che delirio sfiorare la biancheria liscia mentre i finestrini della vecchia Oldsmobile di mio padre si appannavano per il respiro affannoso di un'intenzione maschile e di una decisa resistenza femminile, e ti amo Angela, ti amo Shirley, ti amo Ming Toy, ti amo chiunque tu sia. Usavo quelle parole come denaro spicciolo da spendere in un supermercato. Più tardi, quando conobbi e mi innamorai di Susan, la donna che in seguito sarebbe diventata mia moglie, imparai che le parole considerate da me fino a quel momento le due più a buon mercato nella mia lingua erano in realtà le due più costose in ogni linguaggio. Non faccio riferimento al pagamento degli alimenti che passo ancora mensilmente a Susan, 24.000 dollari l'anno aumentabili di pari passo con il costo della vita, quelli chi li conta? No, mi riferisco alla perdita di un'entità privata ceduta al compa-
gno, al dolore della totale consegna di sé. Susan e io eravamo stati buoni compagni per molti anni, lo riconosco, mentre parecchi divorziati, uomini e donne, tendono a negare la felicità una volta condivisa e a ricordare soltanto i momenti brutti, ma forse era stato questo il guaio: essere diventati buoni compagni e aver smesso di essere amanti. Eppure come compagni avevamo fatto funzionare la nostra unione per quattordici anni, e insieme avevamo dato vita alla luce dei miei occhi, la mia bella Joanna dalle lunghe gambe e tanto simile a sua madre, Joanna che mi è tanto cara, alla quale voglio bene da morire, ma che posso vedere solo ogni due fine settimana e per metà delle sue vacanze. Quando una moglie diventa una compagna e nient'altro, e quando un'altra donna si materializza di colpo come uscita dai vecchi tempi di passeggiate mano nella mano facendo rivivere i ricordi dell'adolescenza e gli affanni vissuti sui sedili di una macchina, quando l'amore entra di nuovo nella vita di un uomo con tutti i batticuore dei fiammeggianti attimi di mezzanotte, allora l'unione fra marito e moglie va in rovina, il matrimonio si dissolve, il matrimonio finisce perché allora ti amo Aggie... lei si chiamava così Agatha Hemmings, e ora è anche lei divorziata e vive a Tampa, e così è passato quel temporale pieno di lampi che ha lasciato dietro di sé soltanto terra bruciata. Quindi il nostro pudore, mio e di Dale per le parole ti amo forse è comprensibile. O forse non abbiamo bisogno di dircelo a voce alta. Se quello che viviamo insieme non è amore (ma cos'altro potrebbe essere) ne è per lo meno un ottimo facsimile. Siamo sempre felici di vederci e quando siamo insieme parliamo in continuazione non soltanto del lavoro che abbiamo in comune ma di tutto quello che c'è sotto il sole, e sotto il sole di Calusa c'è parecchio. Inoltre io trovo sempre più difficile non toccarla, cerco le occasioni per toccarla, sfiorarla, in pubblico e in privato, non sopporto di essere con lei e non avere almeno il più piccolo contatto fisico. Mi capita a volte in un ristorante di tendere una mano per scostarle una ciocca di capelli. Le sfioro la punta delle dita, le tocco il braccio, cerco di sentirla contro le mani quando l'aiuto a infilare il soprabito, mi sembra di assorbire dal suo contatto l'essenza di lei, di rendermi più consapevole che lei è lì davvero. Il mio socio Frank dice che il mondo si divide in toccatori e ballerini di tiptap. Il mio socio Frank ha la tendenza a semplificare e generalizzare. Io so soltanto che mai in vita mia (se si eccettuano le mie deliranti fatiche d'adolescente quando avrei toccato anche una iguana se fosse servito ad acquietarmi i sensi) sono stato particolarmente espansivo di gesti, ma il mio bi-
sogno di toccare Dale mi sbalordisce. Dale sostiene che è a causa del colore dei suoi capelli, alludendo non solo a quelli color rame che sono bellissimi. Dale è una vera figlia degli anni Sessanta, ha trentadue anni, e spesso è assai più candida dei ballerini di tip-tap in materia sessuale. (Per Frank i ballerini di tip-tap sono quelli che fuggono e rifuggono da qualsiasi contatto fisico). Quella sera, a letto con Dale, le raccontai tutto del colloquio del giorno prima con Michelle Harper e del suo successivo omicidio (di cui lei era già al corrente per averne letto nel Journal di Calusa senza però aver collegato quella storia con la bellissima donna vista sabato sulla spiaggia), e dell'interrogatorio di suo marito e del fatto che lui non aveva un alibi né per il pestaggio di domenica sera né per l'omicidio. Dale mi ascoltò poi si girò a prendere una sigaretta, meditando su quello che avevo detto, soppesando le mie parole con la sua mente acuta da avvocato in cerca di qualche cosa che fosse a favore di Harper. Sbuffò una boccata di fumo poi disse: «Se fosse stato lui a fare tutto questo non credi che avrebbe avuto pronto un...» e il telefono suonò. Io avevo già rimpianto il momento di follia che mi aveva consigliato di dare a Morris Bloom il numero di telefono della casa di Dale a Whisper Key. Lei rispose al telefono, ascoltò un attimo, disse «È per te, Matthew.» Mi tese il ricevitore, poi si sedette sul letto a gambe incrociate e continuò a fumare a occhi chiusi. «Pronto?» dissi. «Matthew, sono Morrie. Mi scuso per disturbarti a quest'ora.» «Non ti preoccupare» dissi, e Dale fece una smorfia. «Ci sono un paio di cose che secondo me dovresti sapere» disse lui. «Ricordi che t'ho parlato d'una tanica di benzina trovata vuota sulla spiaggia?» «Sì.» «Ecco, abbiamo controllato con la stazione di servizio dove va Harper con il suo camioncino e dove anche sua moglie si serviva di solito. È all'angolo della strada dove abita Harper. Abbiamo immaginato che fosse quello il posto più probabile dove cercare e siamo stati fortunati. La stazione è la A&M Exxon, all'angolo di Wingdale con Pine Street. Comunque l'inserviente, un nero di nome Harry Loomis, ha fatto il pieno ad Harper sabato mattina verso le sette, sette e mezzo. Ha anche venduto ad Harper una tanica da venti litri e gliel'ha riempita. Una tanica rossa come quella trovata sulla scena del delitto.» Una pausa. «Matthew» disse poi, «l'abbiamo portato qui per identificare la tanica e lui l'ha riconosciuta come quella
venduta ad Harper la mattina di sabato.» «Com'è possibile distinguere una tanica rossa da un'altra?» «Non è tutto. Dieci minuti fa ho ricevuto una telefonata dal laboratorio... ecco lascia che vada un momento indietro, okay? Ti ricordi che prima di lasciare il posto di polizia oggi pomeriggio Harper ha acconsentito a lasciarci prendere le sue impronte digitali dicendo che lui non aveva niente da nascondere? Eri presente quando gliele hanno prese giù al pianterreno.» «Sì, mi ricordo.» «Bene, abbiamo mandato le impronte al laboratorio dove stavano lavorando su quelle prelevate dalla tanica, e dieci minuti fa mi hanno telefonato. Le impronte sulla tanica sono quelle di Harper. E, senti, sono le uniche impronte presenti sulla tanica. Ci sono quelle di Harper e di nessun altro.» «Stai chiedendo il mio parere?» dissi. «Allora eccolo: Harper ha comperato quella tanica per benzina...» «E se l'è fatta riempire, Matthew.» «Sì, alle sette, sette e mezzo di sabato mattina. Poi è tornato a casa e c'è rimasto per tutto il sabato. Niente ci dice che lui non abbia lasciato quella tanica in garage o in un altro posto prima di partire per Miami alle due del mattino della domenica. Se lui ha lasciato la tanica a casa chiunque può averla trovata e usata.» «Sopra ci sono le sue impronte, Matthew.» «Naturale che ci siano se lui l'ha maneggiata.» «E che cos'è successo delle impronte di Loomis, l'uomo che gliel'ha venduta e riempita?» «Stai insinuando che Harper ha cancellato le impronte dell'inserviente, poi ha commesso l'omicidio e si è dimenticato di cancellare le sue? Andiamo, Morrie!» «La gente si lascia prendere dal panico, sai, Matthew? Ho già avuto casi in cui l'assassino ha lasciato gravi prove contro se stesso. C'è stato un tale che ha strangolato una prostituta mentre stava facendo l'amore con lei. Quando l'ha uccisa erano nudi, e lui ha dimenticato la camicia con il suo monogramma. È scappato a piedi nudi con addosso soltanto i pantaloni e ha lasciato una camicia con il monogramma R.D. Ricordo ancora le iniziali. Quindi non è una cosa tanto insolita. Chiunque può lasciarsi prendere dal panico, e l'omicidio non è un crimine da professionisti a meno che a commetterlo non sia stato un sicario.» «Sono tutte prove circostanziali, Morrie. Un tale compra una tanica di benzina, se la fa riempire...»
«Ho un testimone che li ha visti sulla spiaggia il lunedì notte.» «Quale testimone?» «Un pescatore fermo con la sua barca poco lontano da riva. Ha visto una donna bianca e un nero lottare sulla spiaggia.» «Ha identificato Harper?» «In maniera sufficiente. Un nero grande e grosso che lottava con una donna bianca nuda.» «Ma ha specificatamente identificato Harper?» «Stiamo portandolo qui. Probabile che a quest'ora l'identificazione sia stata fatta.» «Allora perché mi hai chiamato?» «Perché se ho una identificazione positiva dovremo incriminare Harper. Voglio dire che... senti Matthew, lo so che non è un caso...» «Cosa ne pensa il procuratore?» «Ritiene che se quel tale identifica Harper allora abbiamo un caso.» «E se non lo fa?» «Continueremo a cercare. Quelle impronte sulla tanica, il fatto che lui abbia comperato la benzina due giorni prima che il delitto fosse commesso, il fatto che sua moglie ha fatto denuncia il giorno in cui è poi stata uccisa, tutto questo può non essere sufficiente per una incriminazione, ma basta perché ci si lavori sopra. Questo se il tipo che stava in barca...» «Hai detto che è un pescatore?» «Già. Dichiara di averli visti lottare e ha sentito l'uomo gridare il suo nome. Questo non può esserselo inventato, Matthew. Il nome Michelle non è tanto comune.» «No, infatti. Però non so ancora perché mi hai chiamato.» «Se avremo una identificazione positiva, il procuratore avrà una buona carta in mano e questa volta lo incriminerà. Quindi ho pensato che forse vorrai assisterlo durante l'interrogatorio formale. E questa volta sarà una cosa seria.» «Morrie, io non sono un penalista.» «Questo lo so.» «Però io so benissimo che cosa gli consiglierò di fare questa volta.» «Se quello lo identifica, sarà una cosa seria.» «Allora lo consiglierei di non rispondere a nessuna domanda.» «È quello che avevo immaginato. Ma non credi che dovrebbe esserci qui qualcuno a dirglielo?» «Alludi a me?»
«Be', sì, se te la senti di venire. Il fatto è che quella stramaledetta Miranda Escobedo dice che per legge dobbiamo assegnare un legale se viene richiesto, ma noi non abbiamo avvocati che gironzolano qui al posto di polizia. La legge dà la bocca ma non i denti, se mi capisci. Quindi, visto che tu conosci già Harper, e che questo pomeriggio l'hai assistito tanto bene e... a proposito mi dispiace di quel battibecco fra noi...» «Non ti preoccupare, Morrie.» «Quindi, dicevo, non sarebbe una cattiva idea se tu riprendessi in mano la faccenda da dove l'hai lasciata. Per Harper, voglio dire. Da come si mette, lui è in un grosso guaio e avrà bisogno di tutto l'aiuto possibile.» «Quando sarà lì?» «Pete Kenyon sta già andando in Wingdale. A meno che Harper non se la sia filata dovrebbe essere qui entro...» «Credi che sia scappato?» «Vuoi il mio parere? Io dico che quando arriva là, Pete lo trova in casa. No, non penso affatto che sia scappato.» «Perciò quando ritieni che arriverà lì?» «Direi fra cinque minuti, a meno che non dia qualche guaio a Pete.» Una pausa. «Pete non è andato da solo. L'ho fatto seguire da due macchine. Se Harper ha assassinato la moglie...» «Se» dissi io. «Lo so che questo è ancora tutto da dimostrare, ma se avremo quella identificazione ci sarà a sufficienza per incriminarlo, e lo faremo. Non vorresti venire qui, Matthew?» «Mi piacerebbe venire lì» dissi, «però mi piace essere dove sono. Mi piace molto essere qui.» Dale mi buttò un bacio sulla punta delle dita. «Be', soltanto tu puoi decidere» disse Bloom. «Non fategli nessuna domanda finché non arrivo» dissi io. «Davvero vuoi farlo?» disse Bloom. «Non voglio, però nell'ufficio del procuratore c'è gente molto astuta.» «Nessuna domanda, te lo prometto.» «Hai capito bene, vero, che io gli consiglierò di non dire niente?» «Certo. È esattamente quello che farei io» disse Bloom. «Allora vieni?» «Sì» dissi, e sospirai. «Grazie Matthew» disse Bloom e riappese. Guardai Dale. «Un giorno o l'altro passerò da un sexy shop a prendermi un surrogato»
disse lei in tono minaccioso. 3 Benny Weiss è forse il miglior penalista di Calusa. Il mio socio Frank dice che è perché lui stesso ha l'aria del criminale. Non so che aspetto dovrebbe avere un criminale. Una volta mi è capitato sott'occhio un test psicologico con una serie di fotografie che ritraevano alcuni schizofrenici e alcune persone normali come Frank e me. Ora pare che quando quelle foto vengono mostrate a schizofrenici in carne e ossa, loro scelgono invariabilmente quelle degli schizofrenici come se stessi. Non ho capito che cosa volesse dimostrare il test. Ma supponendo che Frank abbia ragione su Benny, allora forse questo spiega il gran numero di criminali che ricorrono alla sua assistenza quando incappano nella legge. Personalmente penso che Benny assomigli a un cocker. È tutto minuto: alto meno di uno e settanta con le scarpe, di corporatura snella, la faccia stretta con tristi occhi scuri e capelli scuri sempre scompigliati e che lui si pettina con le dita ogni tre o quattro minuti. Fuma in continuazione. Quel mercoledì mattina alle dieci e mezzo, seduto nel suo ufficio, fumava e si pettinava alternativamente. Aveva l'aria di non aver dormito troppo la notte prima. Forse perché alle undici io l'avevo tirato giù dal letto per chiedergli di incontrarsi con me in centro dove un certo Luther Jackson, il pescatore ancorato davanti alla spiaggia di Whisper Key la sera in cui Michelle era stata assassinata, aveva identificato George Harper come l'uomo visto lottare con lei. L'identificazione era stata fatta fra sei uomini tutti neri, cinque dei quali erano poliziotti del dipartimento di Calusa. L'avvocato dell'ufficio del procuratore l'aveva interrogato, o meglio aveva tentato di interrogare Harper subito dopo l'identificazione. Sia Benny sia io gli avevamo consigliato di non parlare. Quel mattino alle nove ero andato con Harper in tribunale per l'udienza preliminare, che di solito viene tenuta il mattino successivo all'arresto, con l'intenzione di chiedere per lui il rilascio su cauzione. Dal novembre scorso, quando la Corte Suprema di Calusa si era data un nuovo regolamento, anche una persona accusata di omicidio di primo grado aveva diritto al rilascio su cauzione. Il regolamento stabiliva che prima di negare un simile rilascio bisognava che ci fossero prove evidenti del crimine commesso oppure una presunzione ben motivata di questo. Spettava al procuratore opporsi al rilascio dimostrando che le prove in suo possesso erano legalmente
sufficienti a ottenere un verdetto di colpevolezza. La corte aveva il diritto di concedere o negare il rilascio unicamente a sua discrezione. Il giudice del tribunale di contea che presiedeva l'udienza mi informò subito che dovevo sottoporre la questione al giudice del tribunale che avrebbe poi avuto giurisdizione sul processo. Il giudice del tribunale interessato avrebbe potuto annullare la mia richiesta chiedendo una cauzione impossibile da pagare, magari mezzo milione di dollari, invece preferì negare il rilascio su cauzione giustificando il rifiuto (cosa che non era tenuto a fare) sulla base della natura particolarmente brutale e nefanda del crimine. George Harper venne portato nel carcere di contea in attesa della decisione del gran giurì. E il gran giurì aveva in programma di riunirsi il lunedì seguente, 23 novembre. «Lascia che ti dica qualcosa sulla legge penale» disse Benny, e aspirò una boccata di fumo. «La legge penale coinvolge colpevoli e innocenti. Tu puoi obiettare che anche il divorzio... o questo argomento ti tocca troppo?» «No, non mi tocca» dissi. «Dicevo, tu puoi obiettare che anche il divorzio coinvolge colpevoli e innocenti, almeno in parecchi stati. Un uomo e una donna che divorziano, però, anche se uno di loro ha infranto il sacro vincolo del matrimonio...» e a questo punto Benny, scapolo convinto, fece roteare gli occhi e sorrise, «non sono in particolare pericolo, a meno che tu non consideri un pericolo un'alta cifra per gli alimenti.» «Io la considero un pericolo» dissi. «D'accordo, comunque, per quanto colpevole sia una delle due parti in una storia di divorzio, nessuno dei due deve affrontare un periodo di carcere o la sedia elettrica, che è il massimo della pena vigente in questo stato per l'omicidio di primo grado, crimine di cui è stato accusato il nostro amico George N. Harper. A proposito, che cosa significa quella enne?» «Non lo so» dissi. «Ora, Matthew» disse Benny spegnendo la sigaretta e subito dopo passandosi la mano tra i capelli quasi a ripulire le dita dalle chiazze di nicotina, «sicuramente ricorderai i principi dell'etica professionale che garantiscono a un legale il diritto di difendere un imputato indipendentemente dalla sua opinione personale sulla colpevolezza o l'innocenza dell'accusato... Dove hai studiato legge?» «Alla Northwestern» dissi. «Allora ti sono familiari.» «Sì, mi sono familiari.»
«In caso contrario potrebbe capitare che a un innocente venga negata una giusta difesa, nel qual caso tutto il nostro sistema giuridico andrebbe a carte quarantotto, e nel nostro paese tanto equanime non ci sarebbero più né legali né legge. E dove finisce la legge comincia la tirannia. Citazione. Oliver Wendell Holmes, mi pare.» «Che cosa stai cercando di dirmi, Benny?» Lui prese un'altra sigaretta dal pacchetto, accese un fiammifero, lo avvicinò alla sigaretta ed esalò una grossa nuvola di fumo. Poi, come ripensandoci, soffiò sul fiammifero. «Ora, Matthew» disse, «se tu accetti un cliente in un caso penale, allora sei tenuto... c'è anche questo nei principi sull'etica professionale, sei tenuto, dicevo, a dargli, con ogni mezzo leale e onorevole, tutta la difesa che la legge dello stato consente cosicché nessuno venga privato della libertà o della vita se non come risultato del processo. Credo che la citazione sia esatta, ma se vuoi controllare ho qui il volume sull'etica professionale.» «Ti credo sulla parola.» «Grazie.» «Benny, non ho ancora capito che cosa vuoi dirmi.» «Matthew, ti sono molto grato davvero per avermi tirato giù dal letto ieri sera. Mi fa sempre piacere andare al posto di polizia alle due di notte.» «Erano soltanto le undici.» «A me l'effetto è stato delle due. Ma non importa, che bisogno c'è di dormire? Mi è anche piaciuto ascoltare tutte le idiozie di quell'avvocato dell'ufficio del procuratore, ti assicuro che mi hanno riempito di gioia, ma vedi, Matthew, per quanto i principi di cui sopra mi diano il diritto di difendere anche chi ritengo colpevole, non mi costringono però ad assumere una tale difesa. Io credo che George N. Harper sia colpevole. Col tempo mi sono stabilito la regola di non difendere mai chi ritengo colpevole. Ecco perché sono un penalista tanto bravo. Difendendo esclusivamente gli innocenti non posso non ottenere tante assoluzioni.» «Benny...» «Ho anche adottato la politica di non difendere mai uno che non mi piace, anche se ritengo che sia innocente. George N. Harper non mi piace, ma non chiedermi il perché. Quindi, per quanto grato ti sia dell'occasione offertami di alzarmi in piena notte e di andare alla polizia senza nemmeno farmi la barba, devo declinare la tua offerta di rappresentare George Harper in questo caso.» «Benny, lui ha bisogno di un buon avvocato» dissi.
«Tu sei un buon avvocato, Matthew.» «Ma conosco poco il ramo penale.» «Allora lascia che se ne occupi un avvocato d'ufficio.» «Io credo che Harper sia innocente.» «Si dice che anche gli avvocati d'ufficio a volte credono all'innocenza di una persona accusata di un reato» disse Benny in tono secco. «Non è questo il punto. Lo so che tra di loro ci sono ottime persone, e per esempio mi piace molto Dick Jorgenson, ma... insomma, Benny, loro si devono occupare di talmente tanti casi che temo che quello di Harper si perda nella confusione.» «Allora difendilo tu» disse Benny. «Non saprei da dove cominciare.» «Comincia da dove comincerà l'avvocato dell'accusa» disse Benny e spense la sigaretta. «Lui costruirà il suo caso dimostrando oltre ogni ragionevole dubbio che George Harper ha ucciso sua moglie. Lui metterà insieme tutto quello che potrà allo scopo di provare che Harper ha avuto il modo il motivo e l'opportunità di farlo. Non ho idea di quando si terrà il processo, e potrebbe essere soltanto l'anno prossimo. Perciò avrai tutto il tempo necessario per mettere insieme tutti i fatti tesi a dimostrare che Harper non ha avuto il modo il motivo e l'opportunità. Se credi che sia innocente, è questo che dovrai dimostrare, Matthew. E dovrai dimostrarlo in maniera convincente a sufficienza per tenere il tuo uomo lontano dalla sedia elettrica.» «Non so se riuscirò a farlo.» «Allora vuol dire che non credi abbastanza nella sua innocenza.» «Sono convinto di sì, Benny.» «Allora accetta il caso. Convinci la giuria.» «Tu non mi aiuteresti?» «Io penso che sia colpevole» disse Benny e si mise in bocca un'altra sigaretta. C'erano parecchie buone ragioni perché io non assumessi la difesa di George N. Harper. Per cominciare io non ero un penalista e sentivo che potevo fargli più male che bene. L'articolo 784 paragrafo 04 diceva: "L'uccisione illegale di un essere umano, qualora perpetrata con piano premeditato per ottenere la morte della persona uccisa... deve essere considerata omicidio di primo grado e quindi reato grave punibile come illustrato nel capitolo 775 para-
grafo 02". Il capitolo che illustrava la pena faceva riferimento ancora a un altro capitolo, corollario di quello intitolato alle sentenze di morte e che elencava le circostanze aggravanti. Un paragrafo di questo elenco recitava: "Qualora il reato abbia avuto carattere particolarmente nefando, atroce e brutale" e finiva dicendo: "il reato di omicidio sia stato commesso con freddezza, calcolo e premeditazione senza alcuna scusa morale o legale." Se l'avvocato dell'accusa riusciva a dimostrare che Harper aveva in effetti legato mani e piedi alla moglie con il filo elettrico prima di cospargerla di benzina e darle fuoco, non c'era dubbio che il delitto fosse stato commesso con freddezza calcolo e premeditazione, e che fosse anche stato particolarmente nefando atroce e brutale. Harper rischiava la sedia elettrica, e per quanto lui mi avesse chiesto specificatamente di assisterlo io adesso mi chiedevo se non sarebbe stato più giusto per lui chiedere alla corte un avvocato che avesse maggior esperienza in simile materia. In secondo luogo, come a Benny Weiss, anche a me George Harper non piaceva. Cercai di capire questa mia irrazionale antipatia per quell'uomo. Era forse causata da un persistente pregiudizio razziale, relitto degli anni passati a Chicago in gioventù e che divideva bianchi e neri come una reale barriera di filo spinato? Non credevo che fosse questo. E allora perché non mi piaceva George Harper? Forse perché era tanto brutto. Io stesso non avevo mai vinto un concorso di bellezza, ma le dimensioni di Harper, il suo aspetto scimmiesco, l'aria di minaccia dei suoi occhi e del suo corpo, e delle sue mani enormi che penzolavano all'estremità delle braccia poderose, il suo aspetto spaventevole mi spingevano a indietreggiare involontariamente quando eravamo insieme in una stanza come se fossi convinto che l'uomo era capace di commettere contro di me lo stesso crimine che era accusato di aver commesso contro sua moglie. E anche se il colore della pelle non c'entrava, perché avrebbe dovuto avere importanza l'aspetto fisico? Forse che un processo giusto spetta soltanto alla gente bella? Harper non aveva forse diritto alla stessa difesa leale di cui avrebbe goduto Robert Redford? Oppure dentro di me sentivo che era colpevole ed ero soltanto in cerca di scuse per rifiutargli il mio patrocinio, privandolo prima del tempo della sua libertà e della sua vita col negargli il giusto processo richiesto dalla legge? No, Harper era innocente. Lo sentivo con certezza. Lui era innocente e maledizione a me, l'avrei difeso. Io l'avrei difeso. Ma c'era un altro motivo per cui avrei dovuto dirgli di no. Lasciamo perdere la mia inesperienza, lasciamo perdere la mia antipatia per l'uomo, la-
sciamo perdere tutto, rimaneva ancora una valida ragione per rifiutare. Avevo progettato una vacanza. Egoistico, sì, lo ammetto. Forse non stupidamente egoistico se si considera che Dale aveva programmato la sua vacanza nello stesso periodo e che le nostre due vacanze coincidevano con la chiusura della scuola di Joanna per il giorno del Ringraziamento, periodo in cui avevamo progettato di andare tutti e tre in Messico. Avevamo studiato il viaggio per mesi, consultando la miglior agenzia di Calusa (non gran che ma il meglio sulla piazza) e avremmo dovuto partire per Puerto Vallarta venerdì 27 novembre, fra nove giorni, per passare qualche giorno ospiti di Samuel Thorn, un giudice in pensione, in una villa acquistata da un anno dopo che aveva deciso di trasferirsi a Mexico City, per tornare di nuovo a casa in aereo sabato cinque dicembre. Sarebbero stati soltanto nove giorni e se, secondo i calcoli di Benny, il processo si sarebbe tenuto soltanto l'anno seguente, la perdita di nove giorni non sarebbe stata un grande guaio per la preparazione del caso. A meno di considerare il fatto certo che l'avvocato dell'accusa avrebbe lavorato durante quei nove giorni per raccogliere le prove che secondo la sua speranza avrebbero portato Harper sulla sedia elettrica. Ritenevo che Dale avrebbe preso la notizia di una vacanza annullata da adulta qual era. Ma Joanna aveva appena compiuto quattordici anni e aveva già progettato un tema sulla sua avventura messicana e si era comperato un nuovo bikini da indossare alla piscina del Camino Real dove progettava di esibire il seno che dopo un lungo ritardo stava infine sbocciando a velocità allarmante, allarmante per lo meno per un padre che avrebbe volentieri bastonato qualsiasi diciottenne che avesse osato guardarlo apertamente. Quando lei l'aveva indossato per farlo vedere a Dale e a me io avevo commentato debolmente, e con un certo imbarazzo, che era un po', come dire, rivelatore, per una ragazza di soli quattordici anni, non lo credeva anche lei? Joanna con il suo solito candore aveva detto: "Avresti dovuto vedere quello che non ho comperato!". Fine dell'argomento. Ma adesso come facevo a dirle che pensavo di annullare il nostro viaggio in Messico in favore della difesa di un uomo che non mi piaceva, un uomo che era stato accusato di aver ucciso la moglie nel modo più orribile, un uomo che io sentivo innocente (mai sentire, mi aveva detto Benny nel momento in cui stavo per lasciare il suo ufficio, bisogna sapere) mentre tutti gli indizi indicavano che era colpevole? Venerdì io non avevo ancora deciso se difendere George Harper come
lui mi aveva chiesto o consigliargli di trovarsi un altro avvocato oppure richiedere che gli venisse assegnato un difensore d'ufficio. Quel fine settimana Joanna avrebbe dovuto passarlo con sua madre, ma all'ultimo momento la mia ex Moglie mi telefonò per chiedermi se non mi dispiaceva tenere con me Joanna per due fine settimana consecutivi perché lei, Susan, era stata invitata a Tampa per assistere sabato all'incontro di calcio, e lei e Arthur avevano progettato di passare insieme là il fine settimana tornando solo domenica sera tardi, avevo qualcosa in contrario? Io non ho mai niente in contrario a vedere mia figlia per due fine settimana consecutivi. In realtà vorrei vederla tutti i giorni. E non mi importava nemmeno l'evidente bisogno di Susan di informarmi quale appetibile scapolo stava frequentando al momento e forse dormendo con. All'inizio dell'anno lei aveva avuto una breve ma indubbiamente laboriosa relazione con un certo Georgie Poole considerato l'uomo più ricco di Calusa, uno scapolo di quarantacinque anni che, così si diceva, aveva una predilezione per le stelline della TV e per le situazioni un po' grevi, ragione per cui faceva frequenti viaggi di affari a Los Angeles. A marzo il romanzo si era raffreddato, e puntualmente Susan mi aveva informato di essersi messa a frequentare un uomo tanto caro di nome Arthur Butler, lo stesso che intendeva portarla a Tampa per sabato e domenica. In uno dei suoi momenti più brillanti, Susan mi aveva briosamente fatto capire che non soltanto Butler l'aveva fatto ma l'aveva anche fatto in maniera eccezionale e che continuava a farlo regolarmente. È facile indovinare che cosa. Non capisco perché Susan insista nel ricordarmi che lei è una donna desiderabile. Sapevo che era desiderabile quando l'ho sposata e pensavo che lo fosse anche quando ho divorziato da lei. (Non capisco nemmeno perché molte donne divorziate si sentano attratte dalla vendita di immobili, il lavoro cioè che faceva adesso anche la mia ex moglie). Vorrei soltanto che si tenesse per sé le sue svariate relazioni. Finché queste non fanno del male a mia figlia Joanna, a me non interessa affatto quello che Susan fa della sua vita. Però non mi piacciono le ipocrisie. Susan aveva tutto il diritto di passare il weekend a Tampa con Arthur Butler e di godersi la partita di calcio e anche gli altri sport entro casa. Ma le prime parole che mia figlia mi disse quel venerdì quando andai a prenderla a scuola furono: «Mamma non mi lascia venire in Messico se con noi viene anche Dale.» Prima voglio dirvi che Joanna è bionda con occhi azzurri e gambe lunghe, è la più bella ragazza di Calusa o forse della Florida, o forse anche di
tutto il mondo. È anche un genio scientifico. O per lo meno si prende ottimi voti in biologia e in geometria anche se qualche maschilista poco illuminato sostiene che queste materie andrebbero lasciate ai maschi della specie. D'altro canto Joanna non va affatto bene in lettere, non sa fare un uovo bollito e non l'ho mai vista né cucire né lavorare a maglia né suonare il piano né fare alcuna di quelle piccole cose squisitamente femminili che al periodo in cui era presidente Abramo Lincoln erano considerate il segno distintivo delle capacità domestiche della donna americana. Joanna vuol diventare chirurgo del cervello. Lei ha letto da qualche parte che un famoso chirurgo di Indianapolis aveva l'abitudine di tenere in esercizio le dita tentando di fare un nodo all'interno di una scatola di fiammiferi, con una sola mano. Quando Joanna cenava o pranzava fuori con me chiedeva che i fiammiferi sul tavolo non fossero del tipo a bustina ma di quelli in scatola. Spesso, seduta sul bordo della piscina di casa mia, faceva nodi con la destra dentro una scatoletta di fiammiferi e intanto leggeva Psicopatologia quotidiana di Freud. Trovava che Freud era chiaro. L'altra cosa che dovete sapere su Joanna è che lei adorava Dale. La sua immediata adorazione era stata per me una sorpresa assoluta. Prima di Dale, mia figlia aveva sempre demolito immediatamente qualsiasi donna che io avessi avuto l'improntitudine di presentarle. I soprannomi che affibbiava sottovoce a quelle ignare signore erano di natura distruttiva. Aveva bollato una del nome Madame Tanta per via di una certa abbondanza di attributi femminili, un'altra l'aveva chiamata il Grande Houdini perché la signora in questione aveva la sorprendente ma non inspiegabile abitudine di scomparire non appena si faceva viva Joanna, e aveva soprannominato un'altra El Loca per via delle sue iniziali, Eleanor Loomis, il cui monogramma era sfortunatamente comparso un pomeriggio d'ottobre su una sua maglietta. Per lealtà verso Joanna devo dire che Eleanor non era troppo intelligente. Lo sguardo di Joanna poteva ridurre in cenere ogni bellezza che avesse il coraggio di mettere gli occhi su di me. Ma questo risaliva a prima di Dale. Per Dale O'Brien mia figlia sarebbe andata nel fuoco. E adesso Joanna mi stava dicendo che la mia adorata ex moglie non le avrebbe permesso di venire in Messico se ci fosse venuta anche Dale. «Ma perché?» le chiesi. «Dice che sono affidata a lei.» «Questo lo so. Ma che cosa c'entra con...»
«Dice che lei è responsabile per la mia rettitudine morale.» «C'è qualcosa di troppo» dissi io. «Eh?» «Rettitudine significa drittura morale. Se uno dice rettitudine morale è come se dicesse morale morale.» «Ah. Comunque non mi lascerà venire, papà.» «Tu vuoi venire?» «Scherzi? Sono mesi che faccio progetti!» «Anch'io. Sarà meglio che le telefoni.» «Credo che sia già partita per Tampa» disse Joanna. «Proverò lo stesso.» Non era ancora partita per Tampa. In realtà stava ancora preparando il bagaglio quando le telefonai alla casa che un tempo avevamo abitato insieme. «Che cosa c'è?» disse lei. Il suo era il tono di una madre che vede la sua bambina uscire dalla cucina lasciando il soufflé incustodito nel forno. «Dimmelo tu» dissi io. «Ah, è il gioco dei rebus, giusto?» «No è quello delle domande e risposte. Cos'è questa storia di Joanna?» «Quale storia di Joanna?» «Le hai detto che non può venire in Messico con me?» «Ah, è questo, allora!» «Già, è questo, Susan.» «Se hai qualche dubbio sull'affidamento ti consiglio di telefonare al mio avvocato. In questo momento ho da fare e...» «Non ho nessuna intenzione di dire a quel tuo balordo logorroico...» «Sono sicura che Eliot McLaughlin sarebbe felice di sapere che cosa pensi di lui.» «Lo sa già. E poi la custodia di Joanna non c'entra. L'hai avuta per te a Pasqua e l'avrai ancora a Natale, io l'avrò per il giorno del Ringraziamento. E intendo portarla con me in Messico. Tutto qui.» «No, se la rossa viene con te.» «Se dicendo rossa intendi...» «Sai benissimo chi intendo.» «Ti riferisci a Dale O'Brien?» «Oh, si chiama così? E io che credevo che Dale fosse il nome di un uomo.» «Susan, piantala.»
«Piantare cosa?» «Queste stronzate su Dale.» «Spero che tu non usi questo linguaggio in presenza di Joanna. È abbastanza brutto...» «Susan, sto cercando di dirti che non esiste nessun mezzo legale per impedirmi di portare mia figlia in qualsiasi posto voglia portarla.» «No? Cosa ne dici di corruzione morale di minorenne?» «Non essere assurda.» «Portare una bambina di quattordici anni in Messico dove tu vivrai nel peccato con...» «Vivere nel peccato? Andiamo, Susan, non siamo nel Medio...» «Tu come lo chiameresti, Matthew? Starai nella stessa casa con Joanna e qualunque sia il nome della rossa...» «Il suo nome è Dale O'Brien.» «...per quattro giorni. Non è così che mi ha detto Joanna? Quattro giorni nella deliziosa villetta di Sam Thorn con tu in una camera, a letto con la rossa che ti fa uscire il cervello per lo sforzo, e Joanna all'altro capo della stanza...» «Quello che faccio in privato non...» «Meglio dire in pubblico.» «Ci sono quattro camere da letto nella villa. Joanna avrà la sua...» «Gentile da parte di Sam procurarti una sistemazione tanto lussuosa per te e la tua piccola mantenuta.» «Siamo proprio nel Medio Evo ! Non ho più sentito la parola mantenuta da quando...» «Come preferisci che la chiami, Matthew?» «Tu come chiami Arthur Butler?» «Come chiamo io Arthur è cosa che non ti...» «Dove dormirai con lui questo fine settimana?» «Anche questo non è affar tuo. Inoltre Joanna non sarà con noi.» «Chi l'ha detto?» «Come?» «Chi lo dice che Joanna non sarà con te?» «Questo che cosa significa?» «Questo significa che io te la riporto a casa immediatamente. La restituisco alla tua custodia, cara. Così potrai proteggere la sua rettitudine.» «Cosa?» «Ho detto...»
«Mi avevi detto che questo fine settimana poteva stare con te!» «Questo è stato prima che tu sollevassi tutto quel polverone per il Messico. Sarai ancora lì per una decina di minuti? Non vorrei che Joanna si trovasse in una casa vuota. Potrebbe avere brutte ripercussioni quando metterò in dubbio la tua custodia.» «Cosa?» «Lascia che te lo dica chiaro, Susan. Primo, noi siamo divorziati. A me non piace essere trascinato nella tua vita privata e vorrei che ti tenessi fuori dalla mia.. Secondo, non mi piacciono queste scene per telefono. La collera è una forma di intimità e io non voglio nessuna intimità con te. Terzo, tu puoi scegliere. O Joanna viene con me in Messico la prossima settimana proprio come eravamo d'accordo, o io te la riporto appena riattacco il ricevitore, così tu potrai decidere se passare il fine settimana a casa o se portarla con te a Tampa dove tu vivrai nel peccato, come hai deciso di chiamare la situazione, con un certo Arthur Butler, cosa che il tribunale potrebbe ritenere comportamento inadatto per una donna a cui è affidata una quattordicenne.» «Questo è un ricatto» disse Susan. «In ogni caso, qual è la tua risposta? Joanna viene in Messico con me o a Tampa con te? Oppure tu resti a Calusa per questo fine settimana? Sono sicuro che il tuo amico può trovare qualcun altro da portare alla partita di calcio e...» «Sei un bastardo.» «Deciditi, Susan.» «Portala in Messico.» «Grazie.» «Un maledetto bastardo» disse lei e riattaccò. Mi sentivo come se avessi vinto una causa importante davanti alla Corte Suprema. Curioso e sorprendente, ma fu mia figlia Joanna che mi aiutò a prendere una decisione circa George Harper. La sua reazione alla notizia che la madre aveva riconsiderato l'atteggiamento preso sul Messico fu di totale estasi, ma quasi subito cadde in una specie di depressione, indice chiaro per me che Joanna aveva in testa qualcosa di più importante. Durante gli anni ho imparato che non è mai saggio fare pressione su Joanna quando lei sta rimuginando un problema. Se vuole parlarmene, se vuole un mio consiglio o un mio parere, sarà lei stessa a dirmi tutto, e quasi sempre di colpo, come
fece quella sera dopo cena. A Calusa di notte la temperatura a volte scende sgradevolmente anche nei mesi migliori. Novembre non è uno dei mesi migliori, anche se nelle ultime settimane eravamo stati benedetti da una temperatura benigna e dal cielo sereno, mentre gli amici nuovayorkesi di Frank soffrivano di temperature prossime allo zero. Quella sera la casa era fredda. Io avevo acceso il fuoco e mi stavo versando un cognac quando senza alcun preambolo Joanna disse: «Secondo te Heather è una sgualdrina?» Sul momento ebbi qualche difficoltà a ricordarmi chi fosse Heather. Da quando Joanna andava all'asilo in casa c'era sempre stata una processione di bambine e poi ragazze, tutte con nomi assai sofisticati come Kim, Darcy, Greer, Alyce, Candice, Erica, Crystal e, sì, Heather. A volte mi chiedevo che fine avessero fatto i bei nomi antichi come Mary, Jean, Nancy, Alice con la i semplice e Betty. «Heather?» dissi. «Sì, Heather» disse lei. Ricordavo vagamente una ragazzetta un po' grassa con capelli color topo e occhi scuri, che, almeno all'età di sei anni, aveva l'abitudine allarmante di scoppiare in lacrime quando doveva passare la notte a casa nostra. Non riuscivo a conciliare l'immagine della bimbetta singhiozzante con quella evocata dalle parole di Joanna. «Tutti dicono che è una sgualdrina» disse Joanna. «Chi sono tutti?» «Tutti.» Nel linguaggio di Joanna significa le ragazze che frequentano la sua classe. «Tu pensi che lo sia?» «Be', può darsi che scherzi un pochino, ma cosa significa? Lo fanno anche tutte le altre.» Nel lessico di Joanna scherzare significava avere intimità con un esponente dell'altro sesso, e tutte le altre vuol dire un gruppetto di ragazze precoci. «Io no» disse in fretta, e sorrise, poi tornò subito seria. «Ma non è questo il punto» disse «cioè che lo sia o non lo sia. È che non mi piace che loro lo dicano senza esserne sicure.» «È una tua amica intima?» «No, non intima.» «Però è un'amica?»
«Ecco, in realtà non è nemmeno un'amica. Sì, la conosco, e ci salutiamo, tutto qui. Voglio dire... ecco lei non è bella, papà. È grassa e anche un po' stupida per essere in una scuola come il Saint Mark dove non è tanto facile entrare, anche se non è come il Bedloe. E parla in un modo... Ecco bestemmia e dice parolacce anche più delle altre. Esagera davvero come se volesse dimostrare quanto è matura, capisci cosa voglio dire?» «Ah, ah» dissi io. «Hai capito che cosa voglio dire?» «Certo, lei...» «Strafà un poco, capito?» «Ah, ah.» «Questo però non ne fa una sgualdrina, vero?» «Non necessariamente.» «Voglio dire, anche se scherza un po'. Cosa che nessuno sa con certezza.» «Che cosa significa un po'?» «Be'... con più di un ragazzo. Forse con due o tre ragazzi. O magari quattro.» «Ah, ah.» Ebbi paura di chiederle che cosa poteva significare molto. «Papà, stai bene?» «Oh, sì, benissimo» dissi. «E così tutte le voltano le spalle come se lei fosse una specie di... paria... è giusta la parola?» «Sì, è giusta.» «Già, paria. Insomma, anche se lei non è uno splendore come parecchie altre, e impreca parecchio, o fa cose, non mi sembra un motivo per trattarla come se non esistesse, no? O per chiamarla sgualdrina alle spalle e qualche volta anche in faccia, no? Oggi Garland le ha dato della sgualdrina in faccia.» «Garland, eh?» «Sì, Garland McGregor. La conosci, ha dormito a casa una volta.» «Ah, sì, Garland.» «Lei che scherzava quando aveva tredici anni. Garland, voglio dire. Sì con quel tale del Bedloe che era uno schianto. Oggi, quando è successo, per poco non mi sono messa a piangere, quando Garland l'ha chiamata sgualdrina così in faccia, voglio dire che anche lei ha i suoi sentimenti, no? Heather voglio dire. Non ha i suoi sentimenti anche lei?» «Sì, cara, anche lei ha i suoi sentimenti» dissi.
«Lunedì andrò da lei a dirle di non far caso a quello che dicono tutte quelle stupide.» «Perfetto» dissi. «Pensi anche tu che sia una cosa giusta? Voglio dire che, vedi, papà, lei non mi piace nemmeno. E immagina che... Ecco immagina che lei sia realmente una sgualdrina come tutte dicono.» «Tu però non lo sai con certezza, vero?» «No, non lo so.» «E non lo sanno nemmeno le altre.» «No, non lo sanno di sicuro, papà.» «Allora è la cosa giusta da fare.» «Sì, è quello che pensavo» disse Joanna. Io avevo già deciso che avrei tentato di difendere George Harper. 4 Il capitolo 905 paragrafo 17 dello Statuto della Florida elencando le persone che possono presenziare alla sessione di un gran giurì, dice inequivocabilmente: "Nessuno deve essere presente alla sessione di un gran giurì a eccezione dei testimoni in esame, l'avvocato di stato e i suoi assistenti, gli assistenti prescelti come stabilito dal capitolo 27, 18, lo stenografo del tribunale e l'interprete." Può sembrare che questo sia contrario agli interessi dell'imputato, ma non è così. L'imputato non è costretto a testimoniare se decide di non farlo, ma se viene invitato al banco e supponendo che lui accetti di deporre gli vengono subito letti tutti i suoi diritti e lui può far interrompere in qualsiasi momento l'interrogatorio per consultare il suo avvocato che aspetta fuori dall'aula. Lunedì mattina, 23 novembre, io aspettavo nel corridoio del tribunale mentre George N. Harper era nell'aula ad ascoltare le testimonianze del medico che aveva fatto l'autopsia sul corpo di Michelle Harper, dell'inserviente del garage che gli aveva venduto e poi riempito la tanica di benzina, dei tecnici del laboratorio che avevano rilevato dalla tanica le impronte di Harper, del poliziotto che aveva ricevuto la denuncia fatta da Michelle la mattina del 16 novembre e del pescatore che aveva identificato positivamente George Harper come l'uomo visto lottare la notte dello stesso giorno con una donna bianca sulla spiaggia di Whisper Key. Harper non uscì mai dall'aula per interpellarmi perché gli avevo detto di rifiutare ogni invito a testimoniare.
La sessione del gran giurì si concluse con l'escussione dei testimoni alle dieci e un quarto e ci fu la pausa per la decisione. Quando Harper uscì in corridoio gli chiesi: «Com'è andata?» «Cercheranno di incastrarmi» disse lui. «Lo vedremo. Non sappiamo ancora come voteranno.» «Quanto mi costerà tutto questo?» mi chiese lui. «Io non sono ricco. Non voglio indebitarmi con voi per il resto della vita.» «Vi prometto che non andrà così.» «E per l'altro avvocato che avete detto di voler cercare perché vi aiuti? Quanto vorrà?» «Prima devo trovarlo.» «Dovete dirglielo che non sono ricco.» «Glielo dirò, state tranquillo.» Alle undici e un quarto i giurati tornarono con un biglietto firmato dal capo della giuria in cui si richiedeva all'avvocato di stato di preparare l'incriminazione per omicidio di primo grado ,George Harper venne riportato alla prigione di contea, e io andai da James Willoughby, un penalista che aveva lavorato per l'ufficio del procuratore di stato prima di entrare a far parte dello studio Peterson, Pauling e Merritt, familiarmente conosciuto a Calusa come il Peter, Paul e Mary. Willoughby era sulla quarantina, con faccia da volpe e occhi azzurri, famoso per essere astuto e intelligente come pochi altri, l'unico avvocato che un giorno avrebbe preso il posto di Benny Weiss come decano locale dei penalisti, se le previsioni fatte nell'ambiente legale di Calusa si rivelavano esatte. A differenza di Benny, Willoughby aveva nelle sue difese il vantaggio della conoscenza del modo di operare del procuratore di stato, suo precedente datore di lavoro, e l'irriducibile desiderio di umiliare il suo ex capo (quel figlio di puttana, come Willoughby lo chiamava ogni qual volta se ne presentava l'occasione). Willoughby dichiarava che era stato proprio il suo ex capo a ostacolargli la camera nel pubblico servizio per paura che lui potesse un giorno scalzarlo dal suo posto in seguito a pubbliche elezioni. Willoughby stava addosso all'ufficio del procuratore di stato come fa un terrier con un topo. La cosa al mondo che gli dava maggior piacere era quella di mandare all'aria l'accurata preparazione di qualsiasi accusatore il figlio di puttana avesse assegnato al suo ultimo omicidio, rapina, incendio doloso, o disturbo della quiete pubblica. Willoughby era l'uomo giusto per me. «Però non voglio che tu mi pasticci tutto» mi disse subito.
«Cosa vuoi dire?» «Che mi unirò a te nella difesa solo se tu mi prometti che limiterai il tuo ruolo. Non voglio perdere un processo contro quel figlio di puttana perché un avvocato divorzista...» «Io non sono un avvocato divorzista.» «Il tuo studio tratta parecchie causa di divorzio.» «Il nostro studio tratta anche...» «Tratta casi di omicidio?» «No, ma...» «E allora ho ragione io» disse Willoughby e allargate le braccia mi sorrise in modo un po' diabolico, mi parve «Vedi Matthew, il punto è che per quanta stima io abbia per le tue capacità in altri campi legali, non posso permettere che tu faccia qualche pasticcio quando c'è in gioco la vita di un uomo.» «È proprio questo il motivo per cui sono venuto da te» dissi. «Non c'è bisogno che tu mi tenga una lezione su...» «Scusami, non volevo darti nessuna lezione.» «Sono conscio dei miei limiti.» «Perfetto. Devi solo ricordarti che siamo sul mio campo da gioco.» «Me ne rendo conto» dissi. «Anzi, se ti occuperai del caso e se il mio cliente accetta io me ne terrò fuori del tutto.» «No, questo no» disse Willohghby. «Perché?» «Da quanto mi hai detto il tuo uomo e povero e...» «Io non ho detto questo. Lui ha un suo lavoro, un affare di rottami.» «Può permettersi l'assistenza del miglior penalista di Calusa?» «Il miglior penalista di Calusa è Benny Weiss.» «Molto gentile, Matthew. Se Benny è così prezioso vai da Benny.» «Ha rifiutato.» «Posso sapere il perché?» «Ritiene che Harper sia colpevole.» «E con questo? Scusami, Matthew, ma è un ragionamento da codino. Cosa c'entra se è colpevole o innocente? O sei un lottatore o non lo sei. O hai il desiderio di scendere nell'arena e rischiare la tua reputazione anche per un caso nel quale non credi, o stai a ingrassare e poltrire mentre quel figlio di puttana continua a mandare gente in galera o sulla sedia elettrica. A me non importa anche se mille testimoni dicono che quell'uomo ha spolpato la moglie con un coltello da macellaio...»
«È stata carbonizzata.» «Che importanza ha? Pugnalata, strangolata, impiccata, che importanza ha? Il divertimento sta nel convincere una giuria che il tuo uomo non può averlo assolutamente fatto. E questo il divertimento, Matthew.» Non mi riusciva di paragonare il tentativo di salvare la vita di Harper a un gioco divertente ma non dissi nulla. Avevo bisogno di Willoughby e lui lo sapeva. «Ma per rispondere alla tua domanda» disse,«il motivo...» «Non ricordo più qual era la domanda» dissi io. «In ultima analisi la domanda era "perché ho bisogno di te?" Ho bisogno di te perché la mia parcella normale sarebbe di parecchio superiore a quanto il tuo cliente può permettersi.» «Se da un processo tu ricavi tanto divertimento» dissi, «forse dovrebbe essere lui a farsi pagare.» «Anche questo non è gentile, Matthew. Può darsi che tu voglia trasformare la tua attività in una organizzazione benefica...» «Un giorno o l'altro dovresti parlare con il mio socio.» «Condivide il mio punto di vista? Il punto è che il gran giurì ha richiesto l'incriminazione. Quando questa sarà diventata formale avremo due o tre settimane per presentare la nostra dichiarazione che naturalmente sarà di non colpevolezza, e richiedere il normale processo. Ora, considerato l'accumulo di cause, questo non potrà avere luogo prima dell'inizio del prossimo anno. Il punto, Matthew, è che non posso sprecare il tempo e l'energia necessaria per una difesa agguerrita a meno che il mio compenso non sia commensurabile alle mie fatiche. Dal momento che almeno nominalmente il caso è tuo, suppongo che tu non rifiuterai di fare tutto il necessario lavoro preparatorio...» «Ehi, aspetta un momento...» «Sotto la mia supervisione, naturalmente. Ti dirò quello di cui abbiamo bisogno e tu me lo procuri. Siamo d'accordo su questo?» «Ecco...» «È necessario che si sia d'accordo su questo, Matthew. In caso contrario non contare su di me. Non sto dicendo che dovrai fare tu tutto il lavoro di gambe. Puoi assumere qualche investigatore che rintracci quelli che saranno i tuoi testimoni, puoi incaricare qualche apprendista del tuo ufficio di prendere le deposizioni... a meno che per scelta tua non preferisca fare tutto tu, nel qual caso la puoi considerare pratica nella professione.» «Grazie» dissi.
«Io chiederò il minimo per le ore impiegate sul caso prima del processo e per il tempo che dovrò passare in tribunale.» «Quanto credi che sarà?» «Il tempo in tribunale? Per un normale omicidio? Una settimana o dieci giorni.» «Qual e la tua tariffa oraria, Jim?» «La stessa della tua, ne sono sicuro.» «Non credo che Harper possa permetterselo.» «Allora trovagli un altro campione» disse Willoughby. «Farò un accordo con te» dissi. «Se lo tiri fuori...» «Niente accordi» disse Willoughby. «Si tratta di omicidio, Matthew.» Guardò l'orologio. «Aspetto una persona per la una» disse. «Siamo d'accordo? Il tuo studio si occupa della preparazione, sotto la mia supervisione, e io mi occupo del processo vero e proprio. Come compenso chiederò la mia tariffa oraria per tutto il tempo che dedicherò al caso prima del processo e per tutta la durata dello stesso. Ti sembra onesto?» «Ho forse una scelta?» «Ci sono altri avvocati sulla piazza» disse Willoughby in tono secco. «Forse non tanto bravi come Benny Weiss...» «Okay, okay» dissi. «Bene» disse lui. «Ti dirò da dove voglio che tu cominci.» «Cominciare? Non è ancora stato incriminato ufficialmente.» «Lo sarà, quindi perché non anticipare di un passo il procuratore di stato? Nessuna mossa andrà sprecata, credimi. Qualsiasi indizio si potrà trovare, ne sarà valsa la pena. L'accusa imposterà il caso su a) la formale denuncia fatta da Michelle Harper alla polizia e secondo cui la sera prima del delitto il marito l'ha picchiata, b) il fatto che Harper ha comperato una tanica da venti litri e l’ ha fatta riempire di benzina due giorni prima del delitto, c) il fatto che sulla tanica ci sono le sue impronte digitali, e d) il fatto che una persona l'ha identificato come l'uomo visto lottare con sua moglie la notte del delitto. Sono convinto che il ragazzo del garage gli abbia veramente venduto e riempito una tanica, perché non avrebbe nessun motivo per mentire. Ma come mai le sue impronte non erano sulla tanica insieme a quelle di Harper? Parlagli, Matthew, scopri i dettagli di come ha maneggiato e riempito quella tanica. Scopri se Harper l'ha portata o no con lui quando è partito per Miami. Se l'ha fatto siamo nei guai perché significa che la benzina era nelle sue mani e non in giro in qualche posto dove chiunque poteva impadronirsene. Le impronte digitali fanno sempre impres-
sione su una giuria. È gente che legge troppi romanzi gialli e vede troppi film polizieschi. Quindi stai addosso a quella tanica e scopri dove è finita e quante persone possono averla presa prima che finisse sulla spiaggia dove è stato trovato il cadavere.» Lo guardai e sospirai. «In quanto al pescatore... come diavolo si chiama...» «Luther Jackson.» «Bianco o nero?» «Bianco.» «Non importa. Il punto è, ha realmente visto Harper sulla spiaggia o possiamo dimostrare che la sua identificazione è dubbia? È lui il primo con il quale devi parlare, Matthew.» «Okay» dissi e sospirai di nuovo. «E adesso Michelle» disse Willoughby. «Sfortunatamente lei non ci può più fare commenti. Michelle ha detto che era stato il marito a farla blu. Ma come facciamo a sapere che è stato lui?» «Lei è venuta nel mio ufficio...» «Sì, e tu l'hai accompagnata alla polizia, ma noi abbiamo soltanto la parola di Michelle che adesso è morta. Come facciamo a sapere se non è stato qualcun altro a picchiarla? E poi assassinarla la notte seguente?» «Lei era andata da una vicina a chiedere consiglio» disse. «È stata la vicina a consigliarle di venire da me.» «Dopo aver sentito la storia da Michelle, giusto?» «Giusto.» «Dalla bocca di Michelle e da nessun altro. Vai a sentire quella vicina... come si chiama?» «Sally Owen.» «Già, Sally Owen. Vai a parlare con lei, scopri che cosa le ha detto esattamente Michelle quel lunedì mattina dopo che il marito l'aveva picchiata. Forse Michelle le ha detto qualcosa che noi non sappiamo ancora.» «Va bene» dissi. «Ma prima trova quel Luther Jackson e chiedigli che cosa ha visto e sentito sulla spiaggia. Lui è il teste principale dell'accusa. Senza di lui possono buttare il loro caso alle ortiche.» «Okay» dissi. «Questo per scompigliare le carte dell'accusa» disse Willoughby. «Ma è soltanto metà della battaglia. Il nostro caso si regge unicamente sugli alibi. Harper dichiara di essere stato a Miami, con una breve puntata a Pompano
e Vero Beach, da una certa ora di domenica mattina sino a martedì mattina. Se era davvero a Miami la domenica sera allora non può essere stato lui a picchiare la moglie come lei ha sostenuto. E se era davvero a Miami anche la notte di lunedì allora non può essere stato con lei sulla spiaggia dove il signor Jackson dice di averlo visto. Se il suo alibi regge noi siamo nella bambagia. Parlagli, Matthew, spremilo per qualsiasi cosa riesce a ricordare sul periodo passato sulla costa est, scova qualcuno del posto che l'abbia visto pisciare contro un muro la domenica sera, qualche donna che sia andata a letto con lui il lunedì notte, scava dappertutto, trova i fatti e trova le persone, soprattutto le persone, perché abbiamo bisogno di stabilire che non poteva essere qui a fare guai se era veramente in un altro posto. Hai afferrato tutto?» «Ho afferrato» dissi. «Bene» disse Willoughby. Sorrise e mi tese la mano. «Buona fortuna» disse. Ebbi la sensazione di stringere la mano al diavolo. L'ufficio del procuratore di stato deve, per legge, fornire agli avvocati della difesa nomi e indirizzi di tutti i testimoni che deporranno al processo. Per quanto stessi iniziando prima del tempo non avevo motivo di credere che avrei avuto qualche guaio con loro. Nonostante l'opinione di Willoughby, ogni avvocato di Calusa considerava Skye Bannister (così si chiamava il procuratore di stato) uomo onesto e leale, votato a difendere le leggi del suo stato. Qualcuno dell'ufficio di Bannister mi diede immediatamente il nome del battello di Luther Jackson e quello della marina a cui era ancorato, poi buttò nel sacco anche i nomi e gli indirizzi di Lloyd Davis e della madre di Harper. Curioso, ma prima di riattaccare mi augurò buona fortuna. Quel giorno mi auguravano tutti buona fortuna. Cominciavo a credere che ne avrei avuto bisogno. Arrivai alla marina Sandy Pass soltanto dopo l'una del pomeriggio. Avevo già telefonato all'ufficio della marina, e la persona che mi aveva risposto mi era suonata un po' scettica sul fare avere un messaggio a Jackson prima del mio arrivo. Mi aveva detto che ci avrebbe tentato, e secondo la mia esperienza chiunque dica che tenterà, ha soltanto l’intenzione di andare a pranzo. Il battello, però, era là, a uno dei moli, e un uomo che io ritenni essere Jackson se ne stava acquattato a poppa, intento ad aggiustare una rete. L'uomo alzò la testa quando mi avvicinai. «Il signor Jackson?» dissi.
«Sì» disse lui. «Sono Matthew Hope. Rappresento George Harper, l'uomo che voi...» «Salite» disse lui, e si alzò. Era fra i sessanta e i settanta, con la faccia erosa dal sole e dal mare, il grosso naso solcato da vene, i duri occhi azzurri incassati profondamente nella faccia color cuoio. Non tese la mano. Prese invece una pipa posata su una traversa, scosse la cenere fuori bordo, riempì il fornello di tabacco, e quando misi piede sul ponte lui la stava accendendo. «Se siete venuto qui per dirmi che non ho visto lui» disse, «ripeto che l'ho visto e che non c'è niente da discutere.» «È di questo che vorrei parlare con voi» dissi io. «State perdendo il tempo.» «È tempo mio» dissi. «Anche mio. Ho già passato due ore in tribunale questa mattina, non mi piacerebbe sprecarne altre due con voi.» «Signor Jackson, c'è in gioco la vita di un uomo» dissi. «Non per questo cambierò idea su quello che ho visto e sentito. Ho già detto tutto prima alla polizia e poi in tribunale. Non c'è ragione perché adesso ripeta tutto quello che ho già detto.» «Però quando vi inviteremo a deporre dovrete dirci di nuovo quello che intendete dire al processo.» «Chi lo dice?» «È la legge, questo paese la legge è anche fatta per proteggere gli innocenti.» «Il vostro uomo non è innocente» disse Jackson. «Io l'ho visto e l'ho sentito. È stato lui a ucciderla.» «Comunque, volete dirmi ora che cosa credete di aver visto e udito quella sera?» «Non si tratta di quello che credo, signor Hope, ma di quello che è.» «E per l'esattezza che cosa sarebbe?» «Se tutto questo lo saprete durante una deposizione, perché volete saperlo adesso?» «Signor Jackson, stiamo sprecando più tempo a discutere se parlare o no di quanto ne sprecheremmo se ci limitassimo a parlare.» «Già, credo che abbiate ragione» disse lui. «Allora posso smetterla di usare le tenaglie? Io faccio l'avvocato non il dentista.» Jackson sorrise.
«Va bene» disse. «Che cosa volete sapere?» «Voglio sapere tutto quello che avete visto e sentito la sera del sedici. Per prima cosa ditemi che ora era.» «Attorno alle dieci.» «Voi dove eravate?» «Ancorato davanti alla spiaggia.» «La spiaggia di Whisper Key?» «Sì. Avevo sentito i pesci muoversi nel buio così ho buttato due palamiti.» «Che tipo di notte era?» «Luna piena, caso mai pensaste che non potevo vedere la spiaggia. Controllate sui giornali. Scoprirete che quella sera c'era luna piena.» «A che distanza dalla riva eravate ancorato?» «Ero a sei metri circa, non di più.» «E dite che potevate vedere chiaramente la spiaggia?» «Chiara come vedo voi adesso.» «E che cosa avete visto esattamente, signor Jackson?» «Un negro e una donna bianca che arrivavano correndo. La donna era nuda.» «Che aspetto aveva?» «Capelli lunghi e neri, pelle pallida come un raggio di luna.» «E l'uomo?» «Alto e corpulento. E nero. Il negro più nero che avessi mai visto.» Mi annotai mentalmente di chiedere a Luther Jackson, quando sarebbe venuto a deporre, di parlarci un po' del suo atteggiamento verso i negri. Mi riproposi anche di chiedere a Morris Bloom quale sfumatura di marrone avevano i cinque poliziotti neri allineati con Harper per il riconoscimento: ce n'era stato qualcuno nero quanto lui? Oppure Jackson aveva fatto la sua identificazione unicamente in base al colore di Harper? «Avete visto la faccia dell'uomo?» chiesi. «Certo che l'ho vista.» «Da sei metri di distanza?» «Ho un'ottima vista signor Hope. Dato che riesco a vedere uno sciame di pesci a trecento metri dalla prua posso anche vedere la faccia di un uomo a sei metri dalla fiancata.» «Com'erano i suoi capelli?» chiesi. «Come quelli di Harper.» «E di che colore aveva gli occhi?»
«Gli occhi non li ho visti. Molti negri hanno gli occhi castani, come Harper.» «Nel dire corpulento voi...» «Voglio dire come Harper.» «E la statura, signor Jackson?» «Alto come Harper.» «A quanto avreste stimato il suo peso?» «Come quello di Harper.» «In voi quindi non c'è alcun dubbio che l'uomo visto sulla spiaggia fosse George Harper?» «Nessuno.» «E dite di averlo visto attorno alle dieci.» «Più o meno. Lui e la donna. È stata prima la donna ad attirare la mia attenzione, tutta nuda com'era. Non è facile vedere un negro nel buio, sapete?» disse e ridacchiò. Io mi annotai mentalmente un'altra cosa: chiedergli, sempre in sede di deposizione, tutto sulla difficoltà di vedere negri nel buio. «Camminavano semplicemente sulla spiaggia?» chiesi. «Sono arrivati correndo. La donna davanti a lui. Harper che la seguiva.» «Lei aveva qualcosa in mano?» «Io non ho visto niente.» «Niente borsetta o altro?» «Niente. Era tutta nuda e brillava sotto la luna» disse Jackson. Ricordai che la polizia aveva trovato sulla sabbia la borsa di Michelle, e che aveva potuto identificare la donna dai documenti nella borsa. Era stata la presenza della borsa a dare a Morris la quasi certezza che lei fosse andata sulla spiaggia di sua volontà. Aveva forse lasciato cadere la borsa sulla sabbia vicino alle cabine prima di scappare via dal suo assassino? «E lui? Lui aveva in mano qualcosa?» «Chi? Harper?» «L'uomo che avete visto seguire correndo la donna.» «Eh, no. Non ho visto niente.» «Da quanto tempo eravate là ancorato quando avete visto quelle due persone?» «Un paio d'ore. Sono partito di qui verso le sei e mezzo e ci avrò messo quaranta minuti per arrivare a Whisper Key. Diciamo che ero ancorato là dalle sette e mezzo circa.» «Quindi erano due ore e mezza.»
«Come ho detto io. Un paio d'ore.» «C'era alta o bassa marea?» «Alta. Non avrei potuto stare a sei metri dalla riva se la marea fosse stata bassa. Controllate sui giornali, se non mi credete. Alta marea e luna piena.» «Che cos'avete fatto in quelle due ore e mezzo?» «Ho pescato. Cosa credevate. Io sono un pescatore.» «Preso qualcosa?» «Sì. Non quanto speravo ma qualcosa ho preso.» «Che cosa facevate quando non stavate prendendo pesci?» «Ho bevuto un paio di birre per far passare il tempo. I pescatori sono abituati a restare in mare da soli.» «Quante birre?» «Qualcuna. Se pensate che ero ubriaco, signor Hope, scordatevelo. Non esiste pescatore in Calusa capace di farmi finire sotto un tavolo.» «Ma per la precisione, quante birre avete bevuto?» «Un paio di pacchi da sei.» «Dodici birre?» «Più o meno.» «Per l'esattezza, signor Jackson, più o meno?» «Forse ho aperto un'altra confezione da sei. Non c'è gran che da fare in mare quando i pesci non abboccano.» «Quindi avete bevuto tra le dodici e le diciotto birre in due ore e mezza prima di vedere l'uomo e la donna sulla spiaggia?» «Il che non significa che fossi ubriaco.» «Nessuno l'ha detto. Avete visto un fuoco sulla spiaggia?» «No. Non ho visto nessun fuoco.» «Però avete visto l'uomo e la donna lottare.» «Sì. Lui l'ha afferrata per le braccia facendole perdere l'equilibrio. Poi si è messo a schiaffeggiarla, almeno mi sembra, non ho visto molto chiaramente quando la storia è cominciata. Però sentivo il rumore degli schiaffi e ho anche sentito che lui gridava il nome della donna.» «Quale nome avete sentito?» «L'ha chiamata sporca puttana. Ha detto che lei era rimasta una puttana e che delle puttane non ci si può più fidare.» «Avete sentito tutto questo dalla barca?» «Sì. Il vento soffiava da est, controllate pure i giornali. Vento da est, alta marea, luna piena.»
«Che cosa diceva la donna?» «Niente. Gemeva soltanto mentre lui la picchiava.» «Poi cos'è successo?» «L'ha trascinata via.» «Trascinata sulla sabbia?» «Sì. Per le mani, mi è sembrato. Lei aveva le mani unite insieme e lui la trascinava.» «Voi che cosa avete fatto?» «La stessa cosa.» «Cioè?» «Mi sono trascinato via.» «Perché?» «I pesci avevano smesso di abboccare, non c'era senso a restare là. Ho ritirato i palamiti e me ne sono andato.» «E avete riferito alla polizia quello che avevate visto?» «Soltanto dopo aver sentito del delitto.» «Cioè quando?» «A una certa ora di martedì. L'ho sentito alla radio e ho pensato che forse era quello che avevo visto sulla spiaggia lunedì.» «Voi però non avete visto un fuoco sulla spiaggia.» «No.» «Non dopo aver visto le due persone e non mentre vi stavate allontanando.» «Eh, no. Io sono andato a sud loro stavano andando nell'altra direzione verso le cabine dove poi hanno trovato il corpo.» «Signor Jackson, vorrei che veniste nel mio ufficio per ripetere sotto giuramento quello che mi avete appena detto. Avreste qualcosa in contrario a firmare una deposizione?» «Niente affatto. Non servirà ad aiutare il vostro uomo però. Io l'ho visto sulla spiaggia, l'ho sentito insultarla, l'ho sentito schiaffeggiarla, l'ho visto trascinarla sulla sabbia. Ed era Harper che ho visto non un altro, e lo giurerò anche su cento Bibbie.» «Vi ringrazio, signor Jackson» dissi. «Per che cosa?» disse lui. Dall'ufficio della marina telefonai a Sally Owen e riuscii a parlarle tra una cliente e l'altra del salone di bellezza dove lei lavorava. Mi disse che aspettava una cliente alle due e mi chiese se potevo essere là alle due e
mezzo perché in mezz'ora avrebbe finito. Risultò che alle tre meno venti quando arrivai stava ancora lavorando sulla sua cliente. Sally era una bella donna nera sulla trentina, e per lavorare indossava pantaloni attillati e un grembiule bianco che spiccava sui pantaloni come una minigonna. Portava i capelli acconciati nel taglio che Angela Davis aveva reso famoso, e sfoggiava un paio di orecchini rossi a pendente che sembravano più adatti a una serata elegante che all'arredamento asettico del salone. Il negozio era nella Città Nuova, il quartiere nero di Calusa, vicino alla casa dove Michelle aveva abitato con il marito. Sally mi pregò di sedermi, e io rimasi a guardarla mentre lei continuava a sistemare i capelli della donna nelle infinite treccine rese popolari da Bo Derek nel film 10. La donna sulla quale Sally lavorava era a dire tanto una sei, se decidi di classificare le donne in base al loro aspetto. A Dale il film non era piaciuto. In seguito mi aveva chiesto, domanda in un certo senso giustificata, come poteva divertirmi venire irretito da un sistema numerale. Mi aveva detto che il regista, Blake Edwards, doveva essere uno sporco maschio sciovinista. Io le avevo risposto che avevo trovato il film appena divertente ma che Bo Derek era indubbiamente una magnifica donna. Con un sorprendente voltafaccia Dale mi aveva chiesto, con una certa timidezza e un po' di pudore, come avrei classificato lei. Le avevo detto che lei meritava almeno un venti per l'aspetto più un altro venti per l'acutezza della mente. Dale aveva detto "Bugiardo!" però si era stretta più vicino a me. La pettinatura era pronta soltanto a metà quando Sally mi venne accanto. «Non mi aveva detto che voleva quella roba» disse. «Ci vorrà almeno un'altra ora. Sarà meglio parlare adesso.» Ci spostammo in un angolo del negozio lontano dalle poltrone e dai caschi e dai lavandini. Tra di noi c'era un tavolino coperto da vecchi numeri di Vogue, Harper's Bazar ed Ebony. Sally mi offrì una sigaretta e ne accese una per se. «Gran brutta storia, eh?» disse. Aveva occhi stupendi, color ambra, che risaltavano sullo sfondo più scuro della carnagione. L'occhio sinistro era leggermente storto, troppo poco per renderla davvero strabica ma abbastanza da dare al suo sguardo un che di sensuale. Era alta circa uno e sessantacinque, perfettamente proporzionata, e adesso che stava seduta a gambe accavallate, gli orecchini parvero di colpo bene intonati ai suoi sandali. «Si conosce una persona e poi va a succedere una cosa come questa» disse scuotendo la testa.
«Fino a che punto la conoscevate?» chiesi. «Molto bene. Eravamo buone vicine e andavamo d'accordo più di tante. Abitava soltanto tre edifici più in su. Era l'unica donna bianca del quartiere.» «Quindi la conoscevate come vicina?» «Anche come amica, direi, considerato tutto.» «Considerato cosa?» «Che lei era bianca e io sono nera. In questa città non sono molte le bianche e le nere vere amiche tra di loro, no?» «È così che la consideravate ? Un vera amica?» «Diciamo che io ero la spalla su cui piangere.» «Come mai?» «Ogni volta che King Kong si scatenava, lei veniva da me.» «Chi è King Kong?» «George, suo marito.» «In che modo si scatenava?» «Be', cominciava a tormentarla.» «Che cosa significa esattamente?» «Significa il mostro dagli occhi verdi.» «Era geloso di lei? È questo che volete dire?» «Dirlo così è un eufemismo. Be', potete immaginarlo da solo. Prendete una donna come Michelle che sposa un gorilla, be', lui crederà tutto quello che gli salta in mente di credere, no?» «Non riesco a seguirvi. Che cosa credeva lui, esattamente?» «Lui era pazzo, ecco tutto.» «Pazzo in che senso?» «Diciamo che era ipersensibile a qualsiasi altro uomo che lei guardasse» disse Sally. «E lei guardava gli altri uomini?» «No! Era pura come un giglio. Era tutto nella sua testa, capite?» «Avete detto che lui l'accusava di...» «Accusare forse non è il termine giusto.» «Quale termine preferireste?» «Diciamo che lui sospettava che Michelle prestasse troppa attenzione agli altri.» «È questo che lei vi diceva?» «Veniva da me tutta in lacrime a lamentarsi di come lui la tormentava continuamente.»
«Ah, ah. E si confidava con voi, giusto?» «Si confidava con me.» «Quante volte è successo?» «Successo cosa?» «Che lei vi abbia detto che il marito l'accusava...» «Be', non è che l'accusasse...» «Sally» dissi, «trovo qualche difficoltà a capire bene. Harper accusava o no la moglie di interessarsi agli altri uomini?» «Lei ha detto che lui la sospettava di questo.» «E di conseguenza la tormentava?» «Giusto.» «Questo significa accusarla, no?» «Be', se volete metterla in questo modo» disse Sally e si strinse nelle spalle. «Quante volte è successo?» «Volete saperlo con precisione?» «Sì, ve ne prego.» «Almeno tre o quattro volte.» «Lei è venuta da voi almeno tre o quattro volte?» «Giusto.» «Piangendo?» «Giusto.» «Per confidarvi che suo marito l'aveva accusata di badare troppo agli altri uomini?» «È proprio quello che Michelle mi ha detto.» «Voi siete mai stata testimone?» «Di che cosa?» «Di Michelle che si interessava ad altri.» «No. Come vi ho detto era lui che lo pensava.» «Siete mai stata con loro in compagnia di altra gente?» «Certo.» «E non avete mai visto Michelle comportarsi diversamente che da moglie perfetta?» «È così.» «Come si comportava lui in quelle occasioni?» «Sempre come al solito.» «E sarebbe?» «Non parlava mai a meno di non strappargli le parole di bocca. Lui è ve-
nuto a casa mia qualche volta con Michelle, ma se ne stava per tutto il tempo seduto senza parlare, come se qualcosa lo rodesse. C'erano magari sei o sette persone, ma lui se ne stava là senza dire una parola a nessuno. Tutto introverso, mi spiego? Vi dirò una cosa, non mi sorprende affatto che l'abbia uccisa. Sono gli introversi che alla fine esplodono in maniera inaspettata.» «Vi dava l'impressione di essere un violento?» «Be', l'ha picchiata, no?» «Per questo avete soltanto la parola di Michelle.» «Che cosa volete dire?» «Quando è venuta da voi lunedì mattina, è stata lèi a dirvi che suo marito l'aveva maltrattata.» «E vi assicuro che la cosa non mi ha sorpreso.» «Che fosse venuta a dirvelo...» «Che lui l'avesse conciata in quel modo. Era quello che lei aveva sempre temuto. Aveva paura che un giorno o l'altro in un accesso di gelosia le facesse del male.» «Ve l'ha detto lei?» «Sì. Anzi....» scosse la testa. «Dite.» «Mi ha detto di aver paura che un giorno o l'altro l'ammazzasse.» «Quando vi ha detto questo?» «La sera di Halloween. Me lo ricordo perché quando lei ha bussato alla porta io ho pensato che fosse qualche bambino in cerca di dolci o soldi. Invece era Michelle tutta in lacrime. Era venuta a dirmi che King Kong aveva avuto un'altra crisi e che l'aveva minacciata...» «Minacciata?» «Sì, le aveva urlato che se avesse guardato un altro uomo l'avrebbe sistemata.» «E lei ha interpretato che il marito intendesse dire che l'avrebbe uccisa?» «È quello che ha detto Michelle.» «Che l'avrebbe uccisa?» «O picchiata malamente. La mattina che è venuta qui, lunedì mattina, era piena di lividi al seno e alle braccia, aveva il naso rotto e le mancavano un paio di denti. L'aveva ridotta in quel modo perché non fosse più attraente per gli altri uomini, capite?» «Ah, ah. Tutto questo però voi l'avete soltanto sentito dire da Michelle, giusto?»
«Infatti.» «Quindi si tratta soltanto di un sentito dire.» «Che cosa significa?» «Che in realtà voi non avete mai visto o sentito niente del genere in pubblico, mai assistito a una scenata di gelosia. Insomma non vi risulta personalmente che lui fosse capace di simili esplosioni di violenza.» «Uno che intende picchiare la moglie non invita nessuno ad assistere, signor Hope.» «Questo è vero.» Rimasi zitto per qualche secondo e Sally interpretò il mio silenzio come un segno che la nostra conversazione era finita. Spense la sigaretta poi guardò l'orologio alla parete. All'altro capo del negozio, la donna che avrebbe voluto essere una dieci cominciava a dare segni di impazienza. «Da quanto tempo conoscevate Michelle?» chiesi. «Da quando si sono sposati.» «Da un anno e mezzo, quindi, giusto?» «Giusto. La conosco da allora.» «Siete andata al loro matrimonio?» «No. In realtà l'ho conosciuta soltanto dopo.» «Si sono sposati a Calusa,vero?» «Sì, e dopo hanno dato un grande ricevimento. A casa. La strada era piena di macchine.» «Ma voi non siete stata invitata.» «No. King Kong e io non eravamo amici, e come vi ho detto Michelle l'ho conosciuta soltanto in seguito.» Guardò ancora l'orologio. «Solo un altro paio di domande» dissi. «Per me va bene. È la mia cliente che sta diventando nervosa.» «Non ho capito una cosa. Se, come dite, Harper aveva minacciato Michelle già in precedenza...» «L'ha fatto.» «Secondo voi, perché proprio questa volta le sue minacce sono diventate vera violenza?» «Chiedetelo a lui» disse Sally. «Ma non credo che avrete molta fortuna. Come vi ho detto, King Kong non è il tipo che apre il suo cuore.» Stavo pensando a quello che George Harper, seduto nell'ufficio di Bloom durante l'interrogatorio, ci aveva detto apertamente e con onestà. L'amavo da morire. Stavo pensando a lui che subito dopo scoppiava a piangere e poi si nascondeva la faccia tra le grosse mani, singhiozzando come se
stesse per scoppiargli il cuore. Ringraziai Sally per il tempo che mi aveva concesso e uscii dal negozio in un sole tanto smagliante da fare dolere gli occhi. 5 Il mio socio Frank ha una sua legge personale: se c'è qualcosa che potrebbe andar male prima di una vacanza, allora andrà sicuramente male. Il tuo gatto sanissimo, o nel caso in questione il sanissimo gatto di Dale, rivelerà all'improvviso una febbre a 104 gradi che il veterinario vi assicurerà non essere poi tanto alta per i gatti, i quali hanno una temperatura normale di 100-103, ma sarà comunque necessario fare una serie di test per stabilirne la causa. Di solito, come il veterinario disse a Dale, e come lei mi riferì per telefono nella tarda serata di lunedì, la febbre di un gatto può essere direttamente collegata a uno scontro con un altro gatto o con un cane, o, qui a Calusa, con un orsetto lavatore. Ma Dale insisteva che Sassafras era un felino di buon carattere che non mostrava mai nemmeno le unghie, figuriamoci poi farsi coinvolgere in una vera battaglia. Ciononostante adesso Sassafras era dal veterinario e Dale avrebbe dovuto telefonare il giorno dopo per sentire quello che aveva, e il giorno dopo era martedì, due giorni prima del Giorno del Ringraziamento, tre giorni prima della nostra partenza per il Messico, e lei sperava che non fosse niente di serio perché non avrebbe potuto sopportare l'idea di partire per una vacanza, lasciandosi dietro un gatto malato. Questo, il lunedì sera alle undici. Il martedì mattina verso le otto l'altoparlante dell'aeroporto di Calusa gracidò la notizia che il mio volo Sunwing Shuttle delle 8,30 per Miami avrebbe subito un ritardo e sarebbe partito soltanto alle 9. Per chi non risiede a Calusa può essere difficile credere che ci siano sempre tanti guai per volare da qui a Miami, lontana soltanto duecentocinquanta chilometri in linea d'aria. La nostra modesta città è servita da quattro grandi Compagnie Aeree, ma tre di queste, la Delta, la United e la Pan American, non fanno servizio per Miami. La Eastern ha cinque voli giornalieri per Miami, ma soltanto uno, quello delle 9.48 di sera è diretto, per tutti gli altri bisogna cambiare aereo a Orlando o a Tampa. È quindi più semplice prendere un volo della Sunwing Shuttle, una piccola Compagnia che ha tre voli quotidiani per Miami e ritorno. Il volo richiede un'ora e venticinque minuti, quando è in orario. Il mio volo delle 8.30 di quel mattino partì in realtà so-
lo alle 9.20, tanto per confermare, ammesso che ce ne fosse bisogno, l'esattezza della famosa legge Summerville. Arrivai a Miami un po' prima delle undici, un'ora dopo di quando sarei dovuto arrivare, e telefonai immediatamente al mio ufficio. Cynthia Huellen mi informò che il procuratore aveva già formulato l'accusa contro Harper (non perdeva tempo quel figlio di puttana) e che Karl Jennings, altro legale del nostro ufficio, si era già rivolto al giudice giurisdizionale che già in precedenza aveva negato ad Harper la libertà su cauzione. Come c'era da aspettarsi l'aveva negata di nuovo, stabilendo fra due settimane e mezza la data entro cui noi avremmo dovuto presentare la nostra documentazione. Il tassì che presi all'aeroporto era guidato da un cubano che conosceva Miami quanto io conoscevo Cuba. Gli ci volle un'ora per trovare l'indirizzo che avevo scritto chiaramente per lui su un foglietto, e altri dieci minuti per farsi cambiare un biglietto da venti dollari in un negozio due porte più in là della casa dove abitava e lavorava Lloyd Davis. Quando alla fine smontai dal tassì erano le 12 e un quarto. La casa di Davis era piccola e costruita in travi di legno dipinte di verde. L'aiuola che la fronteggiava era ornata e fiorita con piccoli pezzi di rottami ammucchiati contro il fianco dell'abitazione e sul retro, una disordinata collezione di parti di automobili e di termosifoni e frigoriferi, e bottiglie e rastrelli e tubi di piombo e qualsiasi cosa vi venga in mente Lloyd Davis l'aveva. Un cane di origini incerte stava seduto sotto il portico della casa intento a grattarsi un orecchio. Mi diede appena un'occhiata quando salii i gradini e mi avvicinai alla porta. Dentro c'era in funzione un giradischi. Billie Holliday che cantava un blues. Non c'era campanello. Bussai delicatamente sullo stipite che circondava la grata consunta. Nessuna risposta. Bussai ancora e gridai: «Ehi, di casa!» «Chi c'è?» disse una voce femminile. «Cerco Lloyd Davis» dissi. La voce di Billie salì in cerca di una nota acuta, la trovò, la tenne, poi scivolò verso note più basse. «Ehi, di casa!» gridai. «Un momento» rispose la donna. Il disco finì. Dall'interno adesso veniva soltanto il fruscio della puntina che percorreva i solchi non incisi. Poi, silenzio. La donna comparve di colpo dietro la grata. Sui trent'anni, avvolta in una sbiadita vestaglia di seta, i capelli avvolti ai bigodini, gli occhi che mi studiavano sospettosi.
«Siete venuto per la bici?» chiese. «No.» «Oh» disse lei. «Sono un avvocato. Rappresento George Harper» dissi. «Vorrei vedere il signor Davis se è possibile. È in casa?» «È sul retro, nel garage» disse la donna. «Io sono sua moglie.» «Posso andare da lui?» «Non vedo perché no» disse lei. «Vi dispiace se prima vi faccio un paio di domande?» «A che proposito?» «Sulla visita che il signor Harper ha fatto il giorno quindici.» «Oh» disse lei. Non aprì la porta. Rimase solo ferma là dietro la grata, sagoma vaga che si stagliava contro il buio dell'interno. «È stato qui?» «Sì, c'è stato.» «A cercare vostro marito?» «Sì, a cercare Lloyd.» «A che ora? Ve lo ricordate?» «Al mattino.» «Non potete essere più precisa?» «Verso le otto, direi. Otto e mezzo, forse.» «Quanto tempo si è fermato?» «Cinque minuti. Ha detto che voleva vedere Lloyd e io gli ho detto che Lloyd era fuori con l'esercito.» «Non ha detto dove sarebbe andato via di qui?» «No. Ha soltanto ringraziato e se n'è andato via.» «Grazie, signora Davis» dissi. Lei non rispose. L'attimo prima c'era e l'attimo dopo se n'era andata, scomparsa di colpo così come era comparsa. Mentre andavo verso il retro della casa sentii ricominciare il disco di Billie Holliday. Lloyd Davis, circa ventotto anni, era alto uno e ottantatré e pesava più o meno novanta chili. Indossava un paio di blue jeans e una camicia bianca sportiva. I muscoli del petto e delle braccia sporgevano tesi mentre lui trasportava una vecchia cucina a gas da un punto all'altro del garage. Nonostante il peso della cucina lui si muoveva senza sforzo, come un attaccante che superi una inefficiente linea difensiva, scegliendo con disinvoltura la strada sul pavimento ingombro, poi mettendo giù la cucina con un mezzo grugnito e poi voltandosi a guardarmi con un sorprendente sorriso. Un lie-
ve strato di sudore brillava sulla bella faccia rendendo lucidi gli zigomi ben modellati e il naso leggermente aquilino. La sua pelle era scura come quella di Harper, colore del cioccolato amaro, gli occhi avevano la sfumatura verde delle olive. Nell'ampio sorriso i denti spiccavano bianchi e perfetti. «Siete quello che ha telefonato?» mi chiese. «Come?» dissi. «Avete telefonato per la bici a motore?» «No» dissi. «Sono Matthew Hope. L'avvocato di George Harper.» «Oh» disse. «Piacere di conoscervi. Io sono Lloyd Davis» tese la mano e strinse la mia con forza. «Volete una birra? Io sto morendo di sete.» «No, grazie» dissi. Attraversò il garage andando verso tre vecchi frigoriferi allineati uno accanto all'altro contro una parete, aprì lo sportello di quello in funzione e ne prese un barattolo di birra. Il garage traboccava degli stessi rottami accatastati fuori: vecchie falciatrici, water ingialliti, grondaie e tubi, paralumi, tavolini, radio, condutture di rame, manicotti d'ottone, biciclette con e senza ruote, schettini, vasi di coccio, una macchina da scrivere, una serie di brutte valigie di pelle, una lampada a stelo con la base metallica, il tutto in lotta per lo spazio con scatoloni pieni di tutto, da vecchie riviste a portacenere ricordo a piatti sbreccati. «Credevo che foste quel tale della bicicletta» disse. «Ha telefonato una decina di minuti fa dicendo di aver sentito che io ne avevo una in buono stato.» Aprì la lattina di birra, la portò alle labbra e bevve un lungo sorso. «Mmm, se ne avevo voglia!» disse. Depose la lattina in equilibrio precario sui resti di una statua di gesso che rappresentava un leone o una foca o forse la Venere di Milo, difficile stabilirlo visto che mancavano testa e arti. «Allora George si è messo nei guai, eh?» disse. «Così sembra.» «Da quello che immagino sta usando Miami come alibi, giusto? Dice che quando è successo lui era qui, no?» «Lui c'era, qui, non è vero?» «Lui era qui domenica mattina, ecco quando c'era. Ha parlato con Leona, mia moglie, e poi se n'è andato. Io non so dove fosse dopo.» «Voi però non l'avete visto, è giusto?» «Già. Ero fuori con la riserva. Devo fare un certo numero di ore se voglio conservare il grado e la paga. Sedici ore al mese più altre due settimane intere all'anno, di solito in estate. Mi distoglie dai miei affari ma cosa
posso farci? Comunque con gennaio avrò finito.» «Che genere di affari trattate, signor Davis?» «Questa è una svendita continua» disse Davis. «È quello che piace di più ai pensionati. Sono convinti di prendere la roba per niente. Tutti i sabati e le domeniche vengono qui come se io dessi via tutto gratis. Non hanno niente da fare, e vengono in cerca di tutto quello che può essere ancora usato. Il Giorno del Ringraziamento sarà aperto. Dovrebbe essere una buona giornata per me.» «Voi lo sapevate che il giorno quindici Harper sarebbe venuto qui?» «No.» «Non vi ha telefonato prima?» «Non lo fa mai. Carica il suo camioncino e viene giù a vedere se ha qualcosa che voglio comprare. Ha anche un altro paio di compratori qui, ma io sono il suo miglior cliente.» «Sapete chi siano questi altri compratori?» «No. George è molto riservato quando si tratta di affari. Per la verità lo è su qualsiasi cosa. Davvero non volete una birra?» chiese prendendo in mano di nuovo la lattina. «No, grazie» dissi. Esitai e poi chiesi: «Era così anche in Germania?» «Così come?» «Riservato.» «Ah, certo. Tranne quando stava malmenando qualche povero bastardo in permesso che si era ubriacato. Un sacco di soldati venivano a Bonn in permesso perché c'erano ancora un sacco di truppe di stanza in Germania. Venivano là per il fine settimana, si ubriacavano e cominciavano a ululare alla luna. George ci godeva a malmenarli. Ha in lui una grossa carica di violenza. Non mi sorprende che sia finita in questo modo.» «Alludete a quello che è successo a Michelle?» «Già, a cos'altro dovrei alludere? Il modo in cui usava il suo manganello su quei poveri cristi... insomma dico che non mi sorprende.» «Dicendo il modo in cui usava il manganello...» «Be', quelli erano quasi sempre ubriachi ma era tutto qui, voglio dire che non facevano male a nessuno, capite cosa intendo? D'accordo, ogni tanto qualcuno pisciava nel Reno, qualcun altro correva dietro a qualche ragazza tedesca che lui credeva fosse una puttana e che poi risultava essere la figlia di un onesto borgomastro, capite? Ma anche così erano tutte cose innocue per dei poveri cristi in permesso. George li trattava come se avessero ammazzato qualcuno. Ha fatto sputar sangue a più stupidi militari...» Davis
non completò la frase. Portò la lattina alle labbra e bevve. «Avete conosciuto Michelle a Bonn?» «Certo. È proprio là che l'ho conosciuta.» «Dove?» «A Bonn. Ve l'ho appena detto.» «Sì, ma in che posto? In quali circostanze?» «Ah. Una sera George e io siamo usciti con due ragazze. Io stavo con una pollastra bianca che cantava in un locale... ehi, non parlatene con Leona, eh?» disse e mi strizzò un occhio. «Io ero già sposato, ma stavo un bel po' lontano da casa. Voi siete mai stato molto lontano da casa?» «Qualche volta» dissi. «Allora sapete com'è» disse Davis e sorrise. «Così siete usciti in quattro...» «Già. Siamo andati in un piccolo locale al ponte Kennedy... conoscete Bonn?» «No.» «Comunque, è lì che ho conosciuto Michelle. L'ho vista quella sera ecco com'è andata.» «Come mai?» «Come mai cosa?» «Se Harper era vostro amico...» «Ah, sì, capito, ma sapete com'è, uno vuole starsene da solo con la sua pollastra, giusto?» «Che cosa ci faceva a Bonn? Credevo che fosse francese.» «Suo padre era francese, ma la madre era tedesca. Prima vivevano a Parigi. Si sono trasferiti a Bonn quando lei aveva... non ricordo più se ha detto tredici o quattordici anni. Quando l'ho conosciuta ne aveva diciannove.» «Quella sera è stata la prima e l'ultima volta che l'avete vista?» «No, no. L'ho vista ancora qui negli Stati Uniti quando lei è venuta a cercarlo.» «A cercare Harper?» «Giusto. È venuta qui a casa mia. Il primo posto in cui è venuta. No, devo correggermi. Prima è andata dalla madre di George, e dopo è venuta qui. Sono stato io a darle il suo indirizzo di Calusa.» «Questo quando è successo, signor Davis?» «Un anno e mezzo fa, forse un po' di più.» «Prima che si sposassero?» «Sì, certo. Vedete, è stato per quello che lei è venuta qui. Per trovarlo e
farsi sposare da lui. Era pazza di lui.» «Ma anche lui era pazzo di lei, vero?» «Ah, sì? Curioso modo di dimostrarlo. Quando abbiamo ricevuto gli ordini e abbiamo saputo che saremmo tornati a casa, lui non le ha neanche fatto uno squillo.» «Sarebbe a dire?» «Non le ha telefonato, niente, ha impacchettato la sua roba e se n'è andato.» «Voi come fate a saperlo?» «Me l'ha detto lui, ecco come lo so.» «Vi ha detto di non averle telefonato?» «Che non aveva intenzione di telefonarle. Ha detto che lei era una bella pollastra bianca ma che ormai era finita e che lui sarebbe tornato a casa per mangiare qualche minestra paesana. Sono state le sue parole esatte.» «Aveva già in mente una persona specifica?» «Eh?» «Quella minestra di cui ha parlato.» «Ah, no, parlava in generale di ragazze nere» disse Davis e sorrise. «Lei però l'ha seguito lo stesso.» «Eh, sì che l'ha fatto. Una donna tenace quella Michelle» disse, e sorrise di nuovo. «Quando non l'ha trovato a Miami è andata dritta a Calusa e l'ha intrappolato come un topo. Ha detto che l'amava e che voleva sposarlo, quindi o lui la sposava o lei si sarebbe annegata nell'oceano.» «Chi ve l'ha detto, questo?» «Me l'ha detto lei.» «Allora l'avete rivista dopo che ha lasciato Miami?» «Certo. Ero al matrimonio. Sono stato testimone al matrimonio.» «Quando vi ha detto la storia di annegarsi se lui non l'avesse sposata?» «Ah, non me lo ricordo. Una volta sono andato a trovarli. Lei ci ha scherzato sopra, sapete, su come agganciare un uomo che non vuole essere agganciato. Anche George ha riso.» «Ah, ah. Quindi avete continuato a vederli, dopo il matrimonio, giusto?» «Ogni tanto. Per passare il tempo, volete dire? Ogni tanto. Per affari vedo George tutti i mesi più o meno, ogni volta che lui arriva con un carico di mercanzia.» «Vediamo se ho capito giusto» dissi. «Dopo una relazione appassionata, Harper ha lasciato la Germania senza nemmeno telefonare a Michelle...» «Esatto.»
«E così lei l'ha seguito fin qui e gli ha chiesto di sposarla se no si sarebbe annegata.» «Avete capito giusto.» «Era nei guai?» «Cosa volete dire?» «Era incinta?» «No. Perché pensate che fosse incinta?» «Una donna segue un militare americano fino in America, dice che se lui non la sposa lei si annegherà... a me questo fa venire in mente una cosa sola, signor Davis.» «Comunque lei non era incinta.» «Lo sapete con sicurezza?» «Lo so come realtà. Ero al matrimonio che è stato circa sei mesi dopo che avevamo lasciato Bonn. Una donna incinta di sei mesi non può indossare un abito attillato come quello che portava lei senza che si veda che è incinta.» «Indossava un abito attillato?» «Di seta bianca» disse Davis. «Stava benissimo. Era una vera bellezza. Lo sa Dio che cosa ci vedeva in George.» «Secondo voi, che cosa ci vedeva?» «E chi lo sa?» disse Davis e scosse la testa. «È un vero peccato» disse. «Michelle era una brava ragazza. Vi dirò, signor Hope, che per quanto George sia un mio amico, vorrei che finisse sulla sedia elettrica per quello che ha fatto. Vorrei che lo legassero ben stretto su quella sedia e dessero otto milioni di watt di elettricità, riducendolo in cenere.» Trovai la madre di George Harper in una chiesa Battista del quartiere nero. Prima ero stato a casa sua, e l'uomo che abitava vicino mi aveva detto dove potevo trovarla. Nella chiesa c'era soltanto lei. Stava seduta su una sedia pieghevole della terza fila dall'altare, la testa china, le mani unite in preghiera. Non mi piaceva disturbarla, ma ero lì per suo figlio, e si trattava di cosa urgente. «Signora Harper?» dissi. Lei alzò la testa, sbatté le palpebre strappandosi ai suoi pensieri, e parve sorpresa di vedere un bianco in una chiesa di neri. «Sono Matthew Hope» dissi. «L'avvocato che rappresenta vostro figlio.» Era sulla settantina, la pelle nera come quella del figlio, la faccia saggia e stanca, gli occhi che mi studiavano con un sospetto nutrito da secoli di
schiavitù e rafforzato da un altro secolo di rifiuto sociale, e che chiedevano in silenzio perché mai suo figlio non si fosse scelto un avvocato nero. «Sì, signor Hope» disse. La sua voce era appena un mormorio, una eco del fragile corpo avvolto nel logoro soprabito nero. «Vorrei parlare con voi se è possibile.» «Accomodatevi, prego» disse lei. Mi sedetti sulla sedia vicina. Dietro l'altare, un'alta finestra lasciava entrare il sole del pomeriggio. «Signora Harper, vostro figlio è in un guaio serio» dissi, «è stato accusato di aver ucciso la moglie.» «Sì, lo so.» «Vorrei farvi qualche domanda. Le vostre risposte potrebbero aiutarci a...» «Io non ero a Miami quando lui è stato qui» disse lei. «Se volevate sapere questo, io non ero qui. Ero andata a trovare mia figlia malata in Georgia. È ancora malata ma io non potevo stare via di più. Non potevo con George incolpato di aver fatto quello che dicono.» «Signora Harper, voi pensate che lui l'abbia fatto?» «No, signore, non lo penso. Nessuno ha un animo più gentile del mio George. Amava quella ragazza da morire, non avrebbe mai levato un dito su di lei.» «Signora Harper, vostro figlio dichiara di essere venuto a casa vostra la domenica che...» «Sì, è venuto.» «E una vicina gli ha detto che voi eravate in Georgia.» «Ed è proprio dove ero.» «Quale vicina gliel'ha detto, lo sapete?» «La signora Booth della porta accanto.» «Potete darmi il suo nome completo, per favore?» «Alicia Booth.» «E il suo indirizzo?» «McEwen Road otto tre sette.» «Lei vi ha riferito che vostro figlio era stato qui?» «Sì, me l'ha detto.» «E quando ve l'ha detto?» «Quando sono tornata a casa.» «Cioè quando?» «Mercoledì scorso. Appena ho saputo che mio figlio era stato arrestato.»
«Vi ha detto che lui era stato qui domenica quindici?» «È esattamente quello che mi ha detto.» «Mi piacerebbe vederla prima di tornare a Calusa» dissi. «Sapete se durante la giornata è a casa oppure va a lavorare?» «Ha novantaquattro anni ed è cieca» disse la signora Harper. «La troverete a casa di sicuro.» «Signora Harper, da quello che mi risulta vostra nuora è venuta a Miami a cercare vostro figlio. È giusto? Sto parlando di prima del matrimonio. Più o meno un anno e mezzo fa. Vi ricordate?» «Mi ricordo.» «Quindi è venuta realmente da voi?» «È venuta.» «Quando è stato con precisione?» «George è stato congedato in gennaio e loro si sono sposati in giugno, quindi deve essere stato in primavera, in marzo o aprile. Ricordo che aveva un cappotto. È insolito vedere a Miami qualcuno con il cappotto anche nei giorni più freddi. Ma lei aveva proprio il cappotto. Ci stava tutta avvolta dentro come se si aspettasse una tempesta.» «Potete dirmi tutti i particolari che ricordate di quella visita?» Da quanto la signora Harper ricordava, quel giorno era appena rientrata da una visita a un'amica... sì, doveva essere stato in aprile perché si rammentava che lei e l'amica avevano parlato di come sistemare i fiori che progettavano di mettere sull'altare della chiesa la domenica di Pasqua, quindi doveva essere stato un po' prima di Pasqua. Lei stava appendendo il cappello all'attaccapanni dell'atrio quando aveva sentito bussare alla porta, così aveva aperto e là fuori c'era quella bellissima donna, la donna più bella che lei avesse mai visto, bianca o nera. La donna aveva detto di chiamarsi Michelle Benois e che stava cercando George Harper, era lì che abitava? La signora Harper aveva afferrato l’accento francese di Michelle e aveva immaginato che fosse qualcuna conosciuta da George oltreoceano, ma non aveva intenzione di dirle dove poteva trovare suo figlio perché lei sapeva una cosa sola che c'erano guai, là davanti a lei, sull'ingresso, quella donna che rabbrividiva in una temperatura di venti gradi, che si teneva il cappotto stretto al corpo e chiedeva dove poteva trovare George Harper diceva guai. George ormai si era spostato a Calusa per i suoi affari e aveva detto alla madre che avrebbe fatto fortuna comprando e vendendo rottami. Ma lei non avrebbe detto alla bella donna sconosciuta con l'accento francese dove
trovare George, non glielo avrebbe detto prima di aver parlato con suo figlio, cosa che faceva tutti i sabati per telefono, il sabato, per godere della tariffa ridotta. Aveva progettato di chiamarlo subito il giorno dopo, ecco, adesso ricordava che era stato un venerdì quando Michelle era venuta a casa sua perché lei aveva in mente di chiamare il figlio il giorno dopo, e lei chiamava sempre di sabato, e gli avrebbe chiesto se aveva fatto bene a non dire alla forestiera dove viveva lui. Poi Michelle le aveva chiesto, con sua sorpresa, se sapeva dove era possibile trovare un certo Lloyd Davis che era un amico di George e che, aveva detto Michelle, lei aveva conosciuto a Bonn. La signora Harper allora aveva pensato che quello fosse proprio un guaio nel quale erano coinvolti sia George sia Lloyd che, lei lo sapeva, era stato nella polizia militare in Germania con suo figlio e che lei conosceva quel tanto da salutarlo quando lo incontrava ma con il quale non aveva mai parlato. Lei non sapeva dove abitasse Lloyd, sapeva che era sposato e che viveva con sua moglie in quello stesso quartiere, ma non esattamente dove, e comunque non avrebbe in ogni caso dato l'indirizzo di Lloyd anche se l'avesse saputo, così come non intendeva dire a nessuna donna bianca in cerca di guai dove trovare George. «Sono stata gentile con lei» disse la signora Harper, «ma le ho detto di provare al supermercato, o in uno dei bar, provare a chiedere là dove abitava Lloyd Davis perché io proprio non lo sapevo.» «Secondo voi, che genere di guai poteva rappresentare Michelle?» chiesi. «Non so, signor Hope. So soltanto che una bellissima donna molto giovane e bianca era comparsa lì a casa mia, nel cuore della città nera, a chiedere dov'era mio figlio, e questo voleva dire guai, guai bianchi. Poi è saltato fuori che avevo fatto uno sbaglio, ma quel giorno non me ne ero resa conto.» «Che genere di sbaglio, signora Harper?» chiesi. «Ecco, io non sapevo che George era innamorato di lei. Non sapevo che sarebbe stato felice di vederla.» La guardai. «Avete detto felice di vederla?» «Oh, sì» disse lei. «Il giorno dopo gli ho telefonato, sapete, era sabato, e io lo chiamavo sempre di sabato, e gli ho detto che questa Michelle era venuta da me il giorno prima a chiedere dove poteva trovarlo. Ecco, vi dico che non avevo mai sentito mio figlio tanto contento e agitato. Ha continua-
to a farmi domande, che aspetto aveva Michelle, che cosa indossava, se si era tagliata i capelli come gli aveva detto che avrebbe fatto l'ultima volta che si erano visti, e se aveva lasciato un numero di telefono dove raggiungerla...» «Ha detto quando era stato?» «Come?» «L'ultima volta che si erano visti.» «No, non ricordo che l'abbia detto. Ma era... era tutto sottosopra all'idea che lei fosse negli Stati Uniti. Gli ho detto che aveva chiesto anche di Lloyd e lui mi ha detto che gli avrebbe telefonato subito appena finito di parlare con me, e non stava più nella pelle, tanto che non mi ha nemmeno chiesto come andava con i miei reumatismi che ultimamente mi avevano tormentato.» «Sapete se ha telefonato a Lloyd Davis?» «Immagino che l'abbia fatto, ma non gli è servito.» «Cosa volete dire?» «È riuscito a vederla soltanto due settimane dopo quando lei è andata a Calusa.» «Le ci sono volute due settimane per rintracciarlo?» «Quasi.» «Non capisco. Il signor Davis mi ha detto di averle dato l'indirizzo di vostro figlio a Calusa.» «Non so come sia. So che soltanto due settimane più tardi lui mi ha telefonato per dirmi che Michelle era con lui e che lui le aveva chiesto di sposarlo e lei aveva detto di sì.» «Ah, ah.» «È stato un bel matrimonio. Lei era bella come un quadro, una bellissima sposa di giugno. Tutta in seta bianca, ricordo. Devo dirvi, signor Hope, che io non ero troppo contenta all'idea che mio figlio sposasse una donna bianca, perché io sapevo che genere di guai questo porta. Ma immagino che sia andato tutto bene, per lo meno non ho mai sentito dire il contrario da lui. Fino adesso era andato tutto bene. Adesso qualcuno l'ha uccisa e loro danno la colpa al mio ragazzo e questo non è giusto. Lui non può averla uccisa, signor Hope, l'amava troppo.» Feci appena in tempo a prendere l'aereo delle due e un quarto per tornare a Calusa. Dalla casa della signora Harper ero andato direttamente dalla sua vicina,
la signora Booth, la quale mi aveva confermato che George Harper si era effettivamente fermato a casa di sua madre la domenica in cui aveva detto di essere stato là. Dato che la signora Booth era cieca, le avevo chiesto come faceva a sapere che era stato proprio Harper e seppi che lei lo conosceva da quando era in fasce e che avrebbe riconosciuto la sua voce e il suo odore in qualsiasi posto li avesse sentiti. Fino ad allora non avevo mai avuto idea che gli esseri umani emanano particolari odori distinguibili dai ciechi. Ringraziai la signora Booth e me ne andai con la certezza che lei sarebbe stato un buon testimone quando sarebbe venuto il momento di puntualizzare la presenza di Harper a Miami. Naturalmente il problema non era di dove lui avesse passato la mattina di domenica quindici, ma piuttosto dov'era stato quella sera mentre Michelle veniva picchiata brutalmente, e dov'era stato lunedì mentre lei veniva uccisa a Calusa. Arrivai alla prigione di contea soltanto poco prima delle quattro. Il custode non fu affatto contento di vedermi: nell'accompagnarmi alla cella di Harper continuò a ripetermi che quello non era un albergo e che prima avrei dovuto telefonare. Harper indossava gli abiti della prigione, assai simili a quelli che aveva addosso la prima volta che l'avevo visto: pantaloni blu scuro e camicia azzurro chiaro, scarpe nere. Al posto delle scarpe marrone, alte, la contea gli aveva fornito scarpe nere dall'aria curiosamente formale, che contrastavano con il resto dell'abbigliamento, quel genere di scarpe lucidissime che uno vede al gran ballo annuale di Calusa. Non appena il custode ebbe aperto la porta per farmi entrare, lui si alzò. Il soffitto sembrava troppo basso per lui e le pareti troppo vicine. Risentii l'aria di minaccia emanare da lui e sperimentai la gelida sensazione della paura quando sentii il custode richiudere a chiave e allontanarsi. I suoi passi risuonarono sul cemento del corridoio. Adesso Harper e io eravamo soli. «Ho chiesto a quel bastardo del custode di chiamare per me il vostro ufficio» disse lui in tono collerico. «Ha telefonato tre volte e per tre volte gli hanno detto che voi eravate ancora fuori città. Dove diavolo siete stato? Pensavo che foste il mio avvocato.» «Sono stato a Miami» dissi. «Ho parlato con le persone di cui avremo bisogno come testimoni quando arriveremo al processo.» «Quali persone?» «Lloyd Davis e sua moglie. Poi vostra madre e la donna che abita vicino a lei, la signora Booth.» «Perché siete andato a disturbarli?»
«Per sapere se eravate davvero a Miami quando avete detto di esserci stato.» «C'ero.» «Adesso lo so. Per lo meno so che ci siete stato per un'ora circa. È il resto del tempo che mi preoccupa.» «Ve l'ho detto dove sono stato il resto del tempo. A Pompano, a Vero Beach e poi di nuovo...» «Ma senza testimoni.» «Non sapevo che mia moglie sarebbe stata uccisa. Se l'avessi saputo avrei chiesto nome e indirizzo a tutti quelli che ho incontrato per la strada.» «Dove avete pranzato quella domenica?» «A Pompano.» «Ricordate il nome del posto?» «No. Era la prima volta che andavo a Pompano.» «E per la cena?» «A Miami.» «Dove?» «In un piccolo ristorante.» «Il nome di questo lo ricordate?» «No.» «Ricordate almeno dov'è?» «In centro.» «Lo riconoscereste rivedendolo?» «Era un ristorante come tutti gli altri.» «Non ricordate che tipo era il cameriere che vi ha servito?» «Ho mangiato al banco.» «Che aspetto aveva l'uomo del banco?» «Non ricordo.» «Era un uomo?» «Mi pare di sì.» «Bianco o nero?» «Non ricordo. Ho mangiato un hamburger, patate fritte e una Coca Cola. Poi ho pagato e sono uscito.» «E siete andato sulla spiaggia?» «Giusto.» «A dormire.» «Giusto.» «E dopo siete rimasto a Miami tutto il lunedì.»
«Sì.» «Perché?» «Ve l’ho già detto. Pensavo che Lloyd sarebbe tornato.» «Lloyd mi ha detto che a Miami fate affari anche con altre due o tre persone.» «Con un paio, sì.» «Quel lunedì avete contattato qualcuno di loro?» «No.» «Nonostante che aveste il camioncino carico di roba che non potevate vendere a Lloyd?» «Lloyd non c'era.» «Questo lo so. Ma non avete tentato con un altro dei vostri clienti?» «La roba andava giusto bene per Lloyd.» «È vostra abitudine fare affari la domenica?» «La domenica ero sicuro di trovare Lloyd. I fine settimana sono i giorni migliori per Lloyd.» «Non gli avete telefonato prima...» «Non ce n'era bisogno. Di solito la domenica lo trovo.» «Il sabato prima di partire avete fatto il pieno di benzina, vero?» «Sì.» «Alle sette, sette e mezzo di mattina, alla A&M Exxon?» «Già.» «Avete anche comperato una tanica di venti litri e ve la siete fatta riempire.» «È così.» «Da un certo Harry Loomis.» «Harry mi ha venduto la tanica e l'ha riempita, sì.» «Aveva i guanti?» «Cosa?» «Guanti. Quando ha maneggiato la tanica il signor Loomis calzava i guanti?» «Perché uno dovrebbe portare i guanti a Calusa?» «Qualche volta gli inservienti delle stazioni di servizio...» «Non ricordo se aveva i guanti.» «Ha ripulito la tanica prima di consegnarvela?» «Non me lo ricordo.» «Cosa ne avete fatto di quella tanica, signor Harper?» «L'ho messa nel retro del mio camioncino.»
«L'avete portata con voi a Miami?» «Nossignore.» «Che cosa ne avete fatto?» «L'ho messa nel garage.» «Perché?» «Perché mi serviva lì.» «Per che cosa?» «Per la mia falciatrice meccanica.» «Affermate di aver comprato la benzina per questo? Per la vostra falciatrice?» «Sissignore.» «Perché era tanto urgente comperare la benzina per la falciatrice proprio il mattino prima di partire per Miami?» «Non c'era niente d'urgente, ma io ero là a fare il pieno e così mi sono comperato una nuova tanica e l'ho fatta riempire.» «Che cos'era successo alla vecchia tanica?» «Si era rotta e ho dovuto buttarla via.» «Quando l'avete buttata via?» «Quando mi sono accorto che perdeva.» «Prima di partire per Miami?» «Due o tre giorni prima. Aveva sparso benzina per tutto il garage, e ho dovuto asciugare dappertutto prima che succedesse un incendio.» «Dove l'avete buttata?» «Tra i rifiuti.» «A casa vostra quando passano a ritirare i rifiuti?» «Il lunedì e il giovedì.» «Quindi, se è stato due o tre giorni prima della vostra partenza per Miami, la vecchia tanica può essere stata portata via giovedì.» «Possibile.» «E voi dite di aver messo la nuova tanica piena di benzina nel vostro garage la mattina di sabato.» «È quello che ho fatto.» «In che punto del garage?» «Su uno scaffale, sopra il mio banco di lavoro.» «Siete sicuro di non aver portato quella tanica con voi a Miami?» «Sicurissimo.» «Va bene. Adesso parliamo un po' di Bonn. È là che avete conosciuto vostra moglie, vero?»
«Già.» «Come l'avete conosciuta?» «L'ho incontrata in un bar.» «E avete cominciato a uscire insieme?» «Già.» «E vi siete innamorato di lei, giusto?» «Sissignore.» «Allora perché siete partito da Bonn senza nemmeno telefonarle?» «Cosa?» «Lloyd Davis...» «Le avrò telefonato dieci, venti volte il giorno prima di partire. Ho continuato a chiederle di sposarmi, e ha...» Scosse la testa. «Le avete chiesto di sposarvi mentre eravate ancora a Bonn?» «L'ho fatto cento, mille volte.» «E lei?» «Lei diceva che aveva bisogno di pensarci.» «Cosa che evidentemente ha fatto.» «Non capisco.» «Voglio dire che tre mesi dopo è venuta qui a cercarvi.» «Giusto.» «Insistendo perché la sposaste, in caso contrario si sarebbe annegata.» Per la prima volta da quando lo conoscevo, Harper sorrise. Il sorriso lo trasformò completamente. Niente l'avrebbe fatto diventare bello o anche soltanto un minimo attraente, ma il sorriso gli illuminò gli occhi e lo trasformò da creatura densa di minaccia a un essere molto umano. «Già» disse, godendo al ricordo. «Michelle lo diceva sempre. Diceva che se non l'avessi sposata lei si sarebbe annegata.» «C'era qualche motivo per fare una simile minaccia?» «Era soltanto uno scherzo.» «Era forse incinta?» «Incinta? Michelle? Nossignore che non lo era.» «Avete avuto una relazione intima con lei a Bonn?» «Non mi sembra che questo vi riguardi, signor Hope.» «Forse no, ma se devo tenervi lontano dalla sedia elettrica...» «Non l'ho toccata nemmeno con un dito prima del matrimonio.» «Mmmmm.» «È la verità. Qualche bacio, qualche carezza ma niente di più, mai. Mi-
chelle era vergine quando l'ho sposata. Ho dovuto insegnarle tutto come a una bambina. Lo giuro,signor Hope,non c'è stato niente di quel genere tra me e lei a Bonn.» «Cosa provavate riguardo a lei e gli altri uomini?» «Quali altri uomini? Nella vita di Michelle c'ero soltanto io. Era una buona moglie, signor Hope. Chiunque dice il contrario è un bugiardo.» «Voi però eravate molto geloso di lei, non è vero?» «Non avevo motivo di essere geloso. Perché uno dovrebbe essere geloso di una moglie che è una buona moglie sotto ogni aspetto?» «Non avete mai fatto discussioni con lei su quello che secondo voi era un comportamento improprio da parte...» «Non so che cosa significa impor... quello che avete detto.» «Non avete mai pensato che lei si interessasse troppo ad altri uomini?» «Mai, perché lei non lo faceva, tutto qui. Lei mi amava, signor Hope. Una donna innamorata pazza di un uomo non fa attenzione a...» «Era ancora pazza di voi dopo un anno e mezzo di matrimonio, è così?» «Sissignore.» «Nessun problema, allora, giusto?» «Ecco non è esattamente così ma...» «Cosa volete dire con questo?» «Sapete com'è tra due persone sposate, loro... Voi siete sposato, signor Hope?» «Lo sono stato.» «Allora lo sapete com'è. Le cose sono differenti, ecco tutto. Questo non significa che due non si amino, significa soltanto che devono accordarsi sulle cose che non sono più come prima.» «Che cosa non era più come prima?» «Piccole cose personali, signor Hope, e non ha niente a che fare con la storia che io sono sospettato di aver ucciso Michelle. Niente. Non c'erano tra noi guai che potessero portarmi a ucciderla. Nessuno.» «Quali cose personali non andavano bene fra di voi?» «Personali significa personali. Significa cose che uno non discute con il suo sacerdote o con il suo medico e nemmeno con il suo avvocato.» «Erano questioni di cui si sarebbe potuto parlare con un sacerdote o con un medico?» «Erano cose personali, signor Hope, quindi lasciamo stare questo argomento.» «D'accordo. Allora parliamo del vostro servizio oltreoceano. Eravate con
la polizia militare, giusto?» «Sì.» «Eravate particolarmente brutale con chi avevate in custodia?» «Nossignore.» «Usavate il manganello con gli ubriachi?» «Nossignore.» «Non avete mai malmenato qualche militare che...» «Mai.» «Ho continue versioni contrastanti, signor Harper.» «Da chi?» «Da voi, Sally Owen, e Lloyd Davis. L'unica cosa sulla quale tutti sembrano d'accordo è che la mattina di domenica quindici eravate a Miami. A parte questo...» «È là che ero.» «Ma a parte questo...» «Non so perché tutti vogliono mentire su me e Michelle, o su che persona era lei e su che persona sono io. Niente andava male nel nostro matrimonio. Noi ci amavamo, ci rispettavamo, e chiunque dica che non era così è un bugiardo puro e semplice. Adesso, signor Hope, io voglio sapere perché non mi lasciano uscire di qui. È per questo che per tutto il giorno ho cercato di parlarvi mentre voi invece eravate a Miami a parlare con gente che vi ha detto soltanto bugie su me e Michelle. Io voglio sapere che cosa state facendo per farmi uscire di qui. Quel bastardo del custode mi ha detto che fino a gennaio non ci sarà il processo. Dovrei restare qui tutto questo tempo? Perché questa mattina avete mandato dal giudice con me quel lattante? Avrei potuto dirvelo anch'io che nessun giudice avrebbe dato retta a un ragazzo per un rilascio. Quando mi tirerete fuori? È questo che voglio sapere.» «Non posso fare niente per farvi uscire» dissi. «Un giudice non è obbligato a concedere un rilascio su cauzione. Nel vostro caso il rilascio è stato negato perché la corte considera questo un omicidio particolarmente brutale. È questo che può portarvi alla sedia elettrica, signor Harper, il fatto che il crimine abbia avuto natura particolarmente brutale e nefanda. Ecco perché vorrei rivedere con voi tutto quello che mi avete detto, e se c'è qualcosa che non è vera...» «È tutto vero.» «Allora tutti gli altri mentono. Conoscete un certo Luther Jackson?» «Nossignore.»
«Lui dice di avervi visto sulla spiaggia con Michelle la notte in cui lei è stata assassinata.» «Si sbaglia.» «Un altro bugiardo, allora? Sally Owen mente, Lloyd Davis mente, Luther...» «Forse è più semplice, forse non ricordano bene. Comunque Sally non ha mai avuto simpatia per me, e Lloyd è più che altro uno con cui faccio affari. A proposito, signor Hope, quanto mi verrà a costare esattamente tutto questo?» «Non ho ancora avuto l'occasione di discuterne con il mio socio» dissi. «Ma vi ho già detto di...» «Be', vorrei che lo faceste al più presto» disse Harper. «Non c'è senso a evitare la sedia elettrica e poi dover lavorare tutta la vita per pagare gli avvocati.» «Signor Harper, prima le cose che vengono prima, d'accordo?» dissi. «A me sembra che la prima cosa sia questa. E quando avete deciso il compenso voglio che me lo mettiate per iscritto. Non voglio che più tardi mi cambiate le cose.» «Ve lo metterò per iscritto» dissi, e sospirai. «Okay» disse Harper e mosse la testa su e giù. Mi venne da pensare che se un uomo si preoccupa più di una parcella che di una probabile esecuzione capitale è ingenuo come un bambino. In ogni caso come mai la sua versione dei fatti differiva tanto da quella che Lloyd Davis e Sally Owen mi... «Avete detto che non siete mai stato simpatico a Sally. Che cos'ha contro di voi?» «Suo marito è amico mio. Il suo ex marito. Quando c'è stato il divorzio io mi sono schierato dalla sua parte. Lei non me l'ha mai perdonato e non me lo perdonerà mai.» «Dov'è adesso il suo ex marito.» «Qui a Calusa. Ha una bottiglieria sull'angolo della Seconda o della Terza Strada.» «Si chiama Andrew, vero?» dissi, sforzandomi di ricordare. «Esatto. Andrew Owen.» «Che cosa significa la enne nel vostro nome?» «Come?» «L'iniziale enne del vostro nome.» «Nat. Mi è stato dato il nome di Nat Turner. Questo cosa c’entra?»
«È solo che non mi piacciono i misteri» dissi. Erano quasi le cinque quando arrivai alla bottiglieria di Andrew Owen. Quando entrai lui era alla cassa. Alle sue spalle si allineavano gli scaffali con file e file di bottiglie di whisky di tutte le sfumature di marrone. La sua sfumatura personale era mogano scuro. Owen era alto quasi quanto me, ma molto più grosso, tarchiato, con le grosse mani intente a trasferire i contanti dalla cassa al banco facendo mucchietti di banconote da uno, cinque, dieci e qualche venti. Finalmente lui alzò la testa. «Cosa c'è?» disse. «Sto per chiudere.» «Mi chiamo Matthew Hope» dissi. «Rappresento...» «Hope» disse lui. Mi guardò più attentamente, annuì, e uscì da dietro il banco. Andò alla porta del negozio, la chiuse a chiave, poi girò il cartello appeso al vetro in modo che la parola Chiuso fosse leggibile dall'esterno. Girandosi sopra la spalla disse: «Mi ricordo di voi. Siete l'avvocato che ha procurato a Sally il suo buon accordo.» «Non poi tanto buono» dissi io. Stavo pensando a quello che mia moglie era riuscita a estorcere a me sotto la guida di quell'esoso bastardo di Eliot McLaughlin. «Trattandosi di me, la casa e trecento dollari al mese sono più che un buon accordo» disse Owen tornando dietro il banco. «Cosa c'è questa volta? Sta ricominciando? Io ho fatto i pagamenti ogni mese, puntuale. Che cosa...» «Il vostro accordo di divorzio non c'entra.» «Allora di cosa si tratta?» «Il vostro amico George Harper è stato accusato di aver ucciso sua moglie. Io sono l'avvocato...» «Già, l'ho sentito in televisione» disse Owen. «Io rappresento Harper.» «Poteva capitare peggio. Dopo quello che avete fatto per Sally dico che forse non andrete male per George.» «Lui è un vostro amico, vero?» «Credo che si possa dire così.» «Voi come direste?» «Un amico, sì.» «Un buon amico?» «Così. Siamo andati spesso a pescare insieme. Lui è stato molto gentile con me quando è cominciata la storia con Sally. Questo significa essere un
buon amico? Immagino di sì. Ultimamente ci siamo un po' persi di vista ma eravamo, sì, buoni amici.» «Cos'è intervenuto a cambiare questa amicizia?» «Niente. Chi ha detto che è cambiata? Lui è ancora un mio amico. Solo che la gente si allontana, sapete? Sì, ci si allontana.» «Che tipo di sostegno vi ha dato durante la faccenda del divorzio?» «Mi ha offerto una spalla su cui piangere» disse Owen. Erano le stesse parole usate dalla sua ex moglie per descrivere il tipo di relazione tra lei e Michelle. «Volete essere più preciso?» «Perché no? Però avrei preferito che me l'aveste chiesto all'epoca del divorzio. Forse ne sarei uscito un po' meglio. Io amavo molto Sally. Lei voleva il divorzio. Io no. Ho parlato molto a George di questo, e lui ascoltava. George è un buon ascoltatore. Un amico, al bisogno.» «Quando è stato tutto questo?» «Circa un anno fa. Voi che vi siete occupato del divorzio non ve lo ricordate?» «Sto cercando di... All'epoca lei era già amica con Michelle, vero?» «Sì, certo.» «Erano buone amiche?» «Immagino di sì.» «Abbastanza perché Michelle si confidasse con lei?» «Ehi, io avevo già abbastanza da pensare a me senza dovermi preoccupare anche se Michelle si confidava con mia moglie.» Qualcuno bussò allo stipite della porta. «Siamo chiusi» gridò Owen. «Leggete il cartello ! C'è scritto chiuso!» scosse la testa e disse: «Maledetti ubriaconi, aspettano fino all'ultimo minuto per venire a prendere quello di cui hanno bisogno. Il cartello dice chiuso cosa continua a scuotere la maniglia?» Guardò di nuovo la porta e di nuovo gridò: «Siamo chiusi! Vattene a casa!» Scosse di nuovo la testa e ripeté a bassa voce: «Maledetti ubriaconi» poi disse: «Comunque la storia è questa.» «Harper ha mai parlato di Michelle con voi?» «No.» «Vi dava l'impressione di essere geloso?» «No.» «Come si comportava lei quando c'erano anche altri uomini?» «Bene.»
«Non ha mai flirtato con nessuno?» «No.» «Non avete mai visto lei e Harper discutere in pubblico?» «No.» «Mai arrivato a casa e trovato lei là in lacrime? A parlare con vostra moglie?» «No.» «Di che cosa parlava Harper quando andavate in giro a pescare?» «Non andavamo in giro. Noi andavamo sul ponte e pescavamo da là.» «Di notte?» «Solitamente di notte. Qualche volta durante i fine settimana. Un ponte non è un ponte se sopra non ci sono almeno una decina di negri che pescano.» Aspettò la mia reazione e parve deluso quando la mia faccia non ne dimostrò alcuna. «Comunque, di che cosa parlavate quando stavate pescando?» «Volete sapere prima del divorzio o dopo?» «Prima.» «Di tutto. George è il più gran parlatore che io conosca. Mi rintronava l'orecchio per tutto il tempo. Storie dell'esercito, storie sui suoi affari, storie successe a Miami quando lui era un ragazzo. Parlatore senza sosta.» «Vostra moglie non ha questa impressione.» «Be', lui è così. Un chiacchierone. Sentite, Sally è la donna più balorda che esista e le sue impressioni non sono sempre molto accurate, mi capite? L'unica cosa che interessa Sally è Sally e la piccola proprietà privata che si ritrova fra le gambe. George avrebbe potuto anche diventare senatore e Sally non se ne sarebbe accorta.» «Eppure sembrava avere tanto interesse per Michelle da ascoltarla quando andava da lei per...» «Il fardello della povera donna negra» disse Owen, e di nuovo studiò la mia reazione. «Non deve essere stato facile per Michelle, non credete?» dissi. «Una straniera, una bianca sposata con un nero. Non deve aver avuto molti amici a Calusa.» «Non ho mai sentito dire che Michelle avesse qualche difficoltà. Non so quali fesserie Sally vi abbia detto, ma io non mi fiderei di quello che dice. Vi ha fatto tante smorfie?» «No. Per lo meno non me ne sono accorto.»
«Non ha accavallato le gambe facendo salire la gonna fino all'ombelico?» «No.» «Non vi ha sventolato le tette in faccia?» «No.» «Allora sta invecchiando» disse Owen. «Che impressione avete di Lloyd Davis?» chiesi. «Chi è Lloyd Davis?» «Credevo che lo conosceste. È stato testimonio di Harper per il matrimonio.» «Io non ci sono andato.» «E pare che abbia frequentato Harper in diverse occasioni sociali.» «Ah, sì, Davis. Un grosso negro nero come me, giusto?» Non feci commenti. «Adesso lo ricordo» disse Owen, e sorrise come se avesse vinto una sua battaglia segreta. «Ditemi qualcosa di più su Harper» dissi. «Che cosa volete sapere?» disse Owen, e sospirò. «È stata una giornata lunga, sapete, e ho voglia di andarmene a casa.» «A voi sembra un tipo violento?» «No. Tutto il contrario. È un mite. Lo disturbava persino dover togliere l'amo dalla bocca dei pesci. Diceva che anche i pesci hanno i loro sentimenti, come noi.» «Pensate che abbia ucciso lui sua moglie?» «Non l'avrebbe fatto nemmeno in un milione di anni.» Quando arrivai, un po' dopo le sei, il mio socio era ancora in ufficio. A Frank non era piaciuto l'accordo che avevo fatto con Willoughby e continuava a non piacergli. «Noi siamo soci, no?» mi disse. «Tu non hai il diritto di farmi le cose dietro le spalle.» «Non avevo questa intenzione» dissi io. «Ah, no? Però vai, senza avermi consultato, da quel piccolo pidocchio famoso in tutta Calusa per il suo complesso della vendetta, e fai con lui un accordo secondo il quale tu farai tutto il lavoro mentre lui se ne sta comodo e si prende tutta la gloria se ce la fa a vincere questo caso, del che dubito con uno colpevole come Harper sembra che sia.» «Io non sono convinto della sua colpevolezza.»
«Chi si sobbarcherà le perdite, Matthew?» «Quali perdite?» «Quelle in cui incorreremo mentre tu vai in giro a fare il lavoro per Willoughby. La perdita del tuo tempo, Matthew. La perdita in cui siamo già incorsi perché tu oggi sei stato a Miami, tutto il giorno lontano dall'ufficio mentre qui i telefoni diventano incandescenti. Per citare Abramo Lincoln, "Tempo e consigli sono la merce di scambio di un avvocato". Qui al Summerville e Hope noi vendiamo il nostro tempo, Matthew, il tuo e il mio, che è quello per cui siamo pagati. Ora, se tu riesci a spiegarmi come la perdita del guadagno che il tuo tempo avrebbe procurato se tu non fossi ossessionato da...» «Io non sono ossessionato» dissi. «Tu come lo chiami, allora?» «Senti» dissi, «non voglio parlare di questo, okay? Se ti disturba tanto rinuncerò alla mia parte per tutto il tempo che ci vorrà a...» «E poi dici che non è ossessione?» «Sia quello che sia, non parliamone più, okay?» «Okay, d'accordo» disse Frank. «Io vado a casa. Domani mattina ci gratificherai della tua presenza, o ci sono altre faccende urgenti che richiedono la tua assenza?» «Ho in programma di esserci» dissi. «Mi sento onorato. Se hai un momento potresti dare un'occhiata alla pila di messaggi che Cynthia ha accumulato sulla tua scrivania. Buona serata, Matthew» disse. Mentre lui se ne andava mi venne in mente che in tutti gli anni da che lavoravamo insieme non avevamo mai avuto prima una discussione di serio rilievo. Andai nel mio ufficio e trovai sulla scrivania il promesso cumulo di messaggi messo da Cynthia. Presi la mia borsa e senza tante cerimonie ci buttai dentro tutti i messaggi. Avrebbero aspettato fin quando fossi stato a casa. In fondo, domani era un altro giorno. C'era però una cosa che volevo controllare prima di andarmene. Nei classificatori che delimitavano il cubicolo di Cynthia trovai la documentazione che cercavo e con quella tornai nel mio ufficio. Cominciava a essere molto buio. Accesi la lampada da tavolo poi aprii l'ultimo cassetto della scrivania e ne tolsi la bottiglia di whiskey che tenevo di riserva per i clienti che si agitavano particolarmente come capitava che qualcuno facesse mentre mi esponeva i suoi problemi. Era raro che io personalmente toccassi un goccio di whiskey quando ero allo studio legale. Preferivo bere
con tranquillità nel mio tempo libero, con comodo e senza mai eccedere, anche se la mia ex moglie Susan si lamentava costantemente che i martini mi rendevano rincretinito, rintontito e rinscemito. Dal cassetto presi anche uno dei bicchieri che Cynthia teneva sempre pronti per l'emergenza di improvvise esplosioni isteriche,mi versai due dita di scotch poi aprii la cartella di Sally Owen. Sally era venuta da noi nell'ottobre dell'anno prima a denunciare che il marito, Andrew N. Owen (un'altra enne, pensai. Cosa vorrà dire questa volta, Nicholas, Norris, Newton, Nathaniel?) l'aveva abbandonata ed era andato a vivere con una certa Kitty Reynolds nell'appartamento che lei occupava sulla Lucy's Key, sopra la boutique diretta dalla Reynolds nell'esclusivo complesso commerciale di Lucy's Circle. La donna che Sally dichiarava averle rubato il marito era descritta come bianca, trentacinquenne e bionda. Chiusi la cartella. Di colpo mi sentivo stanco. 6 Non riuscii a vedere Kitty Reynolds, la donna nominata nell'incartamento per il divorzio di Sally, fino alle quattro del mercoledì pomeriggio. Il senso di colpa mi tenne incatenato alla scrivania dell'ufficio. Il senso di colpa e la faccia scura di Frank. Il senso di colpa e un certo numero di questioni pressanti che dovevano essere risolte per un certo numero di clienti prima della scadenza stabilita per la mia vacanza, con inizio il giorno dopo, e la mia susseguente partenza di venerdì per i nove giorni di riposo che sarebbero finiti il sabato successivo ma che mi avrebbero tenuto lontano dall'ufficio fino a lunedì 7 dicembre. La prima telefonata di quella mattina arrivò da un cliente di nome Mark Portieri. «Come stai, Mark?» dissi. «Male» disse lui. «Cos'è che non va?» «Voglio un nuovo testamento.» «Un altro?» dissi, sorpreso. «Perché?» «Per essere sicuro che lei non prenderà un soldo.» «Lei chi?» «Janie» disse lui.
Janie era la sua ex moglie. Sei mesi prima il nostro studio si era occupato del divorzio di Mark, e da allora aveva già steso per lui un nuovo testamento che escludeva la ex moglie dall'elenco dei beneficiari. «Lei non è più nominata nel testamento» dissi. «Questo lo so. Però voglio una clausola specifica in cui si dice che alla mia morte lei non avrà un soldo.» «Non occorre una simile clausola» dissi. «Se lei non è nominata...» «Voglio che ci sia.» «Mark, tu non hai l'obbligo di lasciare niente alla tua ex moglie» dissi. «Se nel testamento il suo nome non c'è, lei non ha la possibilità...» «Quando verrà letto il testamento» disse lui, «quando saranno tutti lì ad ascoltarne la lettura, voglio che la frase ci sia. Voglio che ci sia scritto "e alla mia ex moglie Jane Portieri non lascio proprio niente".» «Va bene» dissi, e sospirai. Lui aveva in mente una di quelle scene fatte a Hollywood dove l'intera famiglia si riunisce in un ufficio polveroso per ascoltare un vecchio legale il quale legge il testamento a voce alta. Nella vita reale, di solito i beneficiari di un testamento vengono informati per telefono o per posta che stanno per ereditare una grossa cifra di denaro o una casa alle Bermude o una boccia con un pesce rosso. «Però prima tu pensa a quello che ti ho detto. Non mi piace l'idea di farti affrontare spese inutili quando sei già adeguatamente...» «Voglio che il testamento sia cambiato, Matthew!» gridò lui e riappese il telefono. Cynthia mi richiamò per dirmi che un certo Albert Fieldston (nome che ricordavo dai messaggi telefonici del giorno prima) era lì e chiedeva se gli potevo concedere un po' di tempo. Le dissi di farlo entrare. L'orologio a muro segnava le 9,30. Fieldston era un nero di oltre settant'anni che mi disse di essere nato in una cittadina del Mississippi quando le autorità ancora non tenevano nota dei dati anagrafici dei neri. Mi disse di non avere un certificato di nascita. «Sto diventando vecchio» mi disse, «e non ho mai avuto un certificato di nascita. Voi potete farmene avere uno?» «Se non esiste già, è impossibile» gli dissi. «Allora che cosa dovrei fare?» «Ecco, ci sono altri modi per stabilire la vostra nascita e ottenere così l'equivalente di un certificato.» «Dite davvero?» disse lui e la faccia si aprì in un largo sorriso senza denti.
«Vostra madre o vostro padre sono ancora vivi?» «No» disse lui, e il sorriso scomparve. «Avete un fratello o una sorella maggiori di voi e che possano essere al corrente della vostra data di...» «Sono figlio unico» disse lui. «Forse uno zio o una zia che sappiano quando e dove siete nato?» «Zia Mercy c'era quando sono nato» disse lui. «È stata la levatrice di mia madre.» «È ancora sana di mente?» «Sveglia e acuta come un ago» disse lui. «Datemi il suo nome e il suo indirizzo» dissi. «Farò in modo che le arrivi una richiesta di deposizione.» «E questo mi renderà legale?» chiese lui e sorrise di nuovo. «Voi siete sempre stato legale» dissi e ricambiai il sorriso. Alle dieci meno un quarto cominciai a fare qualcuna delle telefonate che si erano accumulate il giorno prima. Per primo chiamai un certo Hal Ashton, nato Harold Ashkenazy, un attore che si produceva in uno spettacolo del Candlelight Club, uno dei teatri-ristorante di Calusa. Dietro il sipario, nel buio, due sere prima era inciampato in uno sgabello di scena e si era rotto una clavicola. Chiedeva se poteva citare il proprietario del locale. «Quale locale?» dissi io, «il Candlelight Club o il Pacific Street Salon?» «Ehi, come mai conoscete il nome del bar?» chiese, compiaciuto. «Siete venuto a vedere lo spettacolo?» «Ho lavorato in quella commedia» dissi. «Cosa volete dire?» «All'epoca della scuola.» «State scherzando?» «Un vecchio attore non ne prende in giro un altro.» «Che parte facevate?» «Blick, il poliziotto della buon costume.» «La parte di un antipatico» disse lui. «Qualcuno deve pur fare anche quelle» dissi. «Allora posso citarlo o no?» chiese lui, lasciando cadere l'argomento della mia breve e passata carriera di attore illustre. «La materia riguarda gli infortuni sul lavoro» dissi. «Avete una penna?» «Pronto» disse lui. «Telefonate a questa persona» dissi, «e ditegli che vi mando io. È un avvocato specializzato in questo campo.»
«Infortunio sul lavoro, eh?» disse lui un po' deluso, e poi annotò nome e indirizzo che gli diedi. Non appena ebbi riattaccato, chiamò Cynthia. «Vostra figlia sulla linea cinque» mi disse. Premetti il pulsante relativo. «Ciao, tesoro» dissi. «Papà, poche parole in fretta perché sono a scuola. Mamma vuol sapere se devo fare la valigia prima di venire da te oggi o posso farla più tardi.» «Cosa significa più tardi?» «Le ho promesso che sarei tornata a casa per un po', dopo il tacchino voglio dire. Ti va bene? Perché, capisci, dopo parto per il Messico e non la vedrò per nove giorni.» «Certo, va benissimo. Però farai meglio a preparare prima la valigia, d'accordo? A che ora le hai detto che saresti tornata?» «Subito dopo mangiato. Va bene?» «Perfetto.» «Okay, papi» disse, e riattaccò. Raramente mi chiamava papi. Guardai pensoso il ricevitore, poi premetti il pulsante per avere la linea e chiamai Dale allo studio legale Blackstone, Harris, Gerstein, Garfield e Pollock. «Blackstone Harris Gerstein Garfield e Pollock» disse la telefonista. «Dale O'Brien, per favore» dissi. «Chi la vuole?» «Matthew Hope.» Aspettai. «Pronto, signor Hope» disse una voce femminile. «Sono Cathy, la segretaria della signorina O'Brien. Mi dispiace ma in questo momento l'avvocato è in riunione. Posso farvi richiamare?» Guardai l'orologio. Erano le dieci e dieci. «Sarò qui fino a mezzogiorno» dissi.«Chiedetele per favore di chiamarmi prima di quell'ora.» «Sì, signore.» «Grazie» dissi e riattaccai. Dale mi richiamò venti minuti dopo. «Salve» disse, «come ti va?» «Da miserabile.» «Poverino» disse lei. «Aspetta di vedere il tacchino che ho comperato.» Nonostante il mio desiderio di sollevarle dalle fatiche culinarie, Dale e mia figlia avevano insistito per preparare loro un pranzo tradizionale per il
Giorno del Ringraziamento, completo di tacchino imbottito, patatine arrosto, salsa di mirtilli fatta in casa (cosa c'è che non va in quella già pronta? avevo chiesto), piselli, dolce di fragole, per non parlare del resto compreso il pane e tutto quello che doveva precedere o seguire o accompagnare il piatto forte. Io avevo detto a tutte e due che potevamo benissimo andare al ristorante, soprattutto considerato che c'erano altre faccende di cui preoccuparci, tipo i bagagli. Loro mi avevano informato, in tono quasi risentito, che tutte e due avrebbero preparato i bagagli molto prima di cominciare a preparare il pranzo che era una cosa che loro volevano fare e che io avrei fatto meglio a gustare perché soltanto Dio sapeva che cos'avremmo mangiato in Messico. Quello che avremmo mangiato in Messico era stata una delle nostre più grandi preoccupazioni. Io avevo consultato Jamie Phelps, il medico di famiglia, e anche cliente per il quale mi ero una volta occupato di una faccenda che si era rivelata il mio primo approccio con un caso di omicidio, e lui ci aveva prescritto pastiglie di vibramicina da prendere al mattino per misura cautelativa; e un'altra medicina, il Lomotil, da prendersi solo se e qualora la vendetta di Montezuma si fosse abbattuta su di noi. Eravamo ancora un pochino preoccupati. A proposito di malanni, ricordai di colpo il gatto di Dale. «Come sta Sassafras?» chiesi. «Bene» disse Dale. «Non ha i vermi, hanno controllato, e la febbre è sparita. Uno dei tanti misteri della vita. A che ora ci vediamo questa sera?» «Hai in programma di fermarti, dopo, o cosa?» «Sì, resto.» «Allora perché non vieni subito dopo il lavoro?» «No, prima voglio fare la valigia. Diciamo attorno alle otto, va bene?» «Ci vediamo a quell'ora.» Misi giù il ricevitore e Cynthia richiamò. «Abe Pollock sulla linea cinque» mi disse. Ripresi il ricevitore. «Salve» dissi, perché non installiamo una linea diretta? Abe Pollock era il Pollock dello Blackstone, Harris, Gerstein Garfield e Pollock, lo studio con il nome più lungo di tutta Calusa. Non sapendo che avevo appena finito di parlare con Dale, rimase comprensibilmente sorpreso per il mio approccio. «Ci siamo già telefonati?» mi chiese. «Era solo una battuta» dissi io. «Non mi fare battute prima di pranzo» disse. «Che cos'ha quel tuo noio-
so cliente?» «Quale?» «Quello che ha assunto la Okay Contracting per farsi ridipingere la casa.» «C'è che la Okay non è affatto okay» dissi. «Sarebbe a dire?» «Lui li ha assunti sei mesi fa. Parte del lavoro non è ancora stato fatto, e quello già fatto è stato fatto malamente. Adesso il tuo uomo vuole essere pagato ma mi faccio dannare piuttosto che approvare il pagamento finché...» «Abbi un po' di cuore, Matthew» disse Abe. «Schultz chiede soltanto la metà del compenso pattuito.» «È per caso parente di quell'altro gangster?» «Di chi parli?» «Schultz l'Olandese» dissi. «Mai sentito.» «Grosso gangster di Chicago» dissi io. «Tu sei un gangster ancora più grosso» disse Abe. «Dì al tuo cliente di dargli la metà, per favore. Tienimi Schultz fuori dalle scatole per un po'.» «Nemmeno un soldo, Abe. Niente finché il lavoro non è completato e i ritocchi non sono stati fatti con piena soddisfazione del mio cliente.» «Abbi un po' di cuore, Matthew!» «Io terrò tutti i pagamenti in deposito fino a quel momento, ti va bene così?» «Tu non conosci Schultz.» «No, ma conosco il suo lavoro.» «Lascia che tenga io il deposito del pagamento, ti va? Così lui si sentirà più sicuro.» «Va bene.» «Come?» «Ho detto che va bene.» «Allora i miracoli succedono!» disse Abe. «Io sarò fuori tutta la prossima settimana ma farò in modo da mandarti l'assegno.» «Dove vai?» chiese Abe. «In Messico.» «A quanto pare tutti gli avvocati di Calusa la settimana prossima vanno in Messico» disse lui, e mi parve di sentirlo ridacchiare.
«Non tutti. Soltanto due» dissi io. «Be', divertiti» disse. «E non stare a pensare nemmeno un minuto a quelli di noi che restano qui a tenere il forte mentre tu sei a rosolarti al sole.» «Non lo farò» dissi. «Me lo prometti? Non vorrei che la vacanza ti venisse rovinata da sensi di colpa o da rimorsi.» «Te lo prometto, Abe. Senti, mi ha fatto piacere parlare con te, ma...» «Mandami quell'assegno» disse lui e riattaccò. Quel giorno a pranzo ero impegnato con tre finanziatori di Calusa, clienti dello studio. Insieme i tre possedevano un ampio lotto di Sabal Key dove avevano progettato di costruire centossettanta case in condominio. Il proprietario del lotto confinante aveva progettato di costruire, sul suo, centodieci palazzi. Ma a causa delle stravaganze della regolamentazione edilizia, se i miei clienti e il signore del lotto accanto combinavano insieme i loro due terreni avrebbero potuto costruire (senza violare la legge e senza violare le ordinanze edilizie) trecento edifici al posto del duecentottanta che potevano costruire separatamente. Nell'unione sta la forza, e stavano anche due milioni di dollari per quei venti palazzi in più a centomila dollari l'uno. I miei tre clienti volevano una fusione con l'uomo del lotto accanto, e volevano che io organizzassi un incontro con lui e con il suo avvocato. Quei tre erano tipi ostinati, particolarmente votati a fare quattrini, determinati ad ammassare una fortuna anche se avessero dovuto, per arrivarci, fare il pane di plastica. (Veri idealisti, amava definirli il mio socio Frank). Chiaro che a nessuno di loro era mai venuto in mente che la costruzione di venti edifici in più sui due lotti, anche se l'accordo non violava la legge, significava realizzare quel cemento contro cemento che Calusa stava cercando con forza di evitare. I quattrini erano lo scopo primo e ultimo, e la bellezza naturale di Sabal Key andasse pure a farsi benedire. Tornai in ufficio che erano quasi le tre. Telefonai a tutti coloro che mi avevano cercato durante la mia assenza, poi chiamai Karl Jennings per dirgli se poteva venire un momento da me. Karl, ventisette anni, era un recente laureato di Harvard che aveva deciso di venire a fare pratica al sud, dove la vita era facile e il cotone cresceva bene. Come avvocato più giovane dello studio, spesso portava in qualche difficile caso un fresco punto di vista a volte tristemente assente in uomini con l'età mia e di Frank. Già, uomini di mezza età. O forse, se si vuole essere rigorosi , più sulla china discendente. Io ho trentotto anni e immagino
che mi spetti una vita tra i settanta e i settantacinque. Trentotto è la metà di settantasei quindi, come dicevo, già sulla discesa. Per venire allo studio, Karl si vestiva sempre come per presenziare a un funerale, un'abitudine di abbigliamento ereditata dal padre, banchiere di Boston. Dal pater familias aveva anche ereditato gli ispidi capelli biondi, un disgraziato naso a becco d'aquila e acquosi occhi scuri che spiccavano dietro le lenti spesse degli occhiali cerchiati di tartaruga. La sua voce era caratterizzata dall'inequivocabile accento dialettale che di solito viene associato al clan dei Kennedy. Dissi a Karl del mio colloquio con Abe Pollock, e gli chiesi di assicurarsi che il nostro cliente facesse un assegno ad Abe, quale avvocato della Okay Contracting, in modo da trasferire a lui l'acconto per la ditta. Karl disse che se ne sarebbe occupato subito il lunedì mattina non appena rientrato dal lungo weekend. Poi io gli dissi che c'era un tale Harry Loomis della A&M Exxon, angolo Windgale con Pine, con il quale volevo che parlasse. Volevo che Karl tirasse fuori a Loomis tutto quello che l'inserviente si ricordava del mattino in cui George Harper era andato a fare il pieno con il suo camion, e soprattutto quello che ricordava della vendita di una tanica che poi gli aveva riempito di benzina. «Mi interessa particolarmente capire come mai sulla tanica non c'erano le sue impronte digitali» dissi.«Harper non crede che portasse i guanti ma non ricorda se Loomis ha ripulito o no la tanica. Vedi di scoprirlo.» «Okay» disse Karl. «Nient'altro?» «Ho dato a Cynthia un numero di Puerto Vallarda a cui mi si può trovare. Varrà solo fino a lunedì sera. Il martedì sarò a Messico City, al Camino Real. Cynthia ha anche questo numero.» «Va bene» disse Karl. «È tutto» dissi io. «Divertiti» disse Karl, e se ne andò. Ripresi il telefono e chiamai Kitty Reynolds sul posto di lavoro, le dissi che rappresentavo un uomo accusato di omicidio e le chiesi se potevo vederla quel pomeriggio. Lei mi disse di andare subito, e venti minuti più tardi ero in Lucy's Circle. Mi ci vollero altri dieci minuti per trovare lo spazio per parcheggiare, e soltanto alle quattro ero là sul marciapiede di fronte alla boutique della signorina Reynolds a guardare l'insegna sopra la vetrina. Il Circle, come lo chiamavano familiarmente abitanti e visitatori di Calusa, era proprio un circolo, una ruota il cui centro ospitava un piccolo parco mentre l'anello intorno allineava ristoranti, gioiellerie, negozi di souve-
nir, un fotografo, un fiorista, un ottico, un ufficio postale, diversi antiquari, tre gallerie d'arte, un negozio di formaggio, uno di cioccolato, una gelateria, due calzolerie per uomo, cinque calzolerie per donna, un barbiere, alcune tavole calde, cinque o sei negozi di abbigliamento femminile, uno che vendeva mobili moderni, tre di abbigliamento maschile, una farmacia, un grande magazzino, una cartoleria, un negozio che vendeva arance e pompelmi che si potevano spedire a domicilio per chi, meno fortunato, stava a Toronto o nel Minnesota, uno che vendeva soltanto orecchini, uno di mobili in rovere, e una discoteca dove quel mercoledì sera davano uno spettacolo di spogliarello maschile a cui era ammesso soltanto pubblico femminile (attuale scandalo di Calusa). L'insegna sopra la vetrina diceva Kitty Corner, nome che, stando corner per angolo, era del tutto inadeguato. Angoli, nel Circle ce n'erano, ma la boutique stava al centro di un isolato tra una calzoleria e una galleria d'arte. La vetrina esponeva minuscoli bikini, biancheria suggestiva, abiti affusolati. Quando entrai e richiusi la porta, nella boutique c'era una sola persona, una bionda sui trentacinque, alta circa uno e sessantadue, peso sui cinquanta chili ben distribuiti, che indossava una delle più spettacolari creazioni visibili in vetrina, un tubino di seta con una spaccatura fino alla coscia e scollato a rivelare i seni che minacciavano la resistenza della seta. Per un attimo ebbi l'impressione di essere capitato nel Club Alyce di Calusa dove per pochi dollari infilati nell'elastico degli slip, ragazze poco vestite si strusciavano a qualsiasi uomo seduto a un tavolino. «La signorina Reynolds?» dissi. «Sono io.» «Matthew Hope» dissi. «Ho telefonato poco fa...» «Ah, sì. Piacere di conoscervi, signor Hope» disse lei, e mi venne incontro con la mano tesa, un sorriso, ogni curva in movimento contro la stoffa leggera del quasi vestito che lei indossava. L'abito era azzurro pastello un poco più scuro dei suoi occhi. Aveva sulle palpebre un ombretto grigio fumo e al collo un filo di perle barocche che ne riecheggiavano la sfumatura. Il suo rossetto colore delle melegranate rendeva lucide le labbra aperte nel sorriso. Da lei emanava un leggero profumo di muschio. «Al telefono avete detto...» «Sì, rappresento un uomo accusato di omicidio e vi sarei grato del vostro aiuto.» «In che modo posso aiutarvi?» disse lei e mi lasciò la mano.
«L'uomo si chiama George Harper.» «Sì?» «È un amico di Andrew Owen.» «Sì?» ripeté lei. Avevo la netta impressione che quei nomi non significassero niente per lei. Non mi ero aspettato che conoscesse Harper, ma dopo quello che avevo letto nella documentazione di Sally Owen... «Andrew Owen» ripetei. «Dovrei conoscere questi signori?» disse lei. «Pensavo che conosceste il signor Owen.» «Mi dispiace, non lo conosco.» «È un nero che ha una bottiglieria sulla Terza Strada angolo Vine Street.» «Mi dispiace, ma...» «Signorina Reynolds, l'anno scorso mi sono occupato del divorzio di Sally Owen. A quell'epoca lei era la moglie del signor Owen.» Una pausa. Nessuna espressione sulla sua faccia. «La signora Owen ha fatto il vostro nome come testimone nella sua azione legale.» «Il mio nome?» disse lei e spalancò gli occhi. «Voi siete Kitty Reynolds, vero?» «Lo sono infatti.» «E abitate in un appartamento sopra questo negozio?» «No, vivo sulla Flamingo Key.» «Non avete mai abitato in un appartamento sopra questo negozio?» «Non da sei mesi.» «L'anno scorso abitavate qui?» «Sì.» «L'azione per il divorzio è iniziata nell'ottobre scorso.» «E voi dite che la signora Owen mi ha nominata come...» «Ha affermato che il signor Owen l'aveva abbandonata per venire a stare con voi.» «È assurdo.» «È quanto ci ha detto lei.» «Allora perché non sono... Voglio dire, se c'è stato un processo o un'udienza o come altro lo chiamate, perché non sono stata convocata come testimonio?» «Siamo arrivati a un accordo prima di andare in tribunale. Non c'è stato bisogno di...»
«Comunque è una cosa assurda. Chi è questa donna? Come si permette di dire una cosa simile? Vivere con un nero! L'unico nero che conosco è il mio giardiniere.» «Immagino che siate nubile, è così?» «Sono divorziata da sei anni.» «Quindi eravate nubile l'anno scorso quando la signora Owen ci ha...» «Questo non significa che conoscessi suo marito! Non ho mai saputo niente di lui finché non l'avete nominato.» «Allora Owen non ha vissuto con voi?» «Certo che no! Inoltre che cosa c'entra questo con me...» E s'interruppe di colpo. Il modo brusco in cui aveva interrotto la sua domanda, il modo in cui aveva lasciato sospesa la frase con quel "me" finale, mi dava da pensare. Cosa stava per aggiungere a quel me? Un nome, forse? E poi mi venne in mente che forse non aveva affatto detto "me" ma l'inizio di una parola, anzi, di un nome, l'inizio del nome Michelle. «Cosa stavate per dire?» «Quello che dovevo dire l'ho detto.» «No, vi siete interrotta.» «Mi avete detto che rappresentate un certo George Harper?» «Sì.» «Quindi che cosa c'entra il resto con... con quello che può essere successo?» «È successo che sua moglie è stata assassinata.» «Capisco. Ma che cosa c'entrano tutte quelle vostre domande su... che nome avete detto?» «Andrew Owen. Signorina Reynolds che cosa stavate per dire?» «Vi ho già risposto, ho detto che...» «Io credo invece che foste sul punto di dire Michelle.» «Non conosco nessuna Michelle.» «Però è quello che stavate per dire, vero? Voi stavate per dire "che cosa c'entra questo con Michelle?"» «Be', non riesco a immaginare come potete sapere quello che stavo per dire. Leggete forse nel pensiero, signor Hope?» «Conoscevate Michelle Harper?» «No.» «Conoscete George Harper?» «No.»
«Torniamo per un momento ad Andrew Owen.» «Non torniamo a nessuno. Vedete di trovare la porta e andarvene, signor Hope.» «Signorina Reynolds...» «Prima che chiami la polizia» disse lei. «Va bene» dissi e me ne andai. Avevo la sensazione che tutti, compreso il mio cliente, mentissero. E mi chiedevo il perché. 7 Nel 1621, William Bradford, governatore del Massachusetts, decretò che il 13 dicembre sarebbe stato considerato giorno di festa e di preghiera per esprimere la gratitudine dei coloni per l'abbondanza del primo raccolto di granoturco da quando avevano messo piede a Plymouth Rock. Gli indiani invitati alla festa portarono in dono cervi e tacchini selvatici che le donne servirono con pesce, oche e anatre forniti dagli uomini della colonia. C’era abbondanza di pane di granoturco, e focacce e fagioli con frumento e noci e zucca stufata in succo d'acero. I coloni e i loro ospiti indiani passarono tre giorni a pregare, cantare e festeggiare. Quello fu il primo Giorno del Ringraziamento. In questa parte della Florida le tribù indiane di Calusa e Timucua non se la passavano bene come i loro compagni del nord. Il primo uomo bianco che loro videro fu il conquistatore spagnolo Juan Ponce de Leon che arrivò sulla costa nel 1513 dopo l'esplorazione del lato sull'Atlantico che lui aveva battezzato Florida e reclamato per la Spagna il possesso di tutta la terra su cui aveva posato il piede. Qui, sul lato occidentale, incontrò la coraggiosa resistenza degli indiani e fu costretto a rifare vela per Porto Rico senza quell'oro che era venuto a cercare. Soltanto otto anni più tardi, nel 1521, de Leon mantenne la sua promessa di tornare, ma venne accolto da una freccia avvelenata che mise fine e alla sua vita e ai suoi sogni di ricchezza e di eterna gioventù. (Se fosse ancora vivo probabilmente si unirebbe ai miei tre clienti-finanziatori nelle loro intenzioni di conquista e sfruttamento delle ricchezze naturali di Sabal Key.) De Leon non fu però l'ultimo spagnolo ad approdare alle spiagge della Florida. Nel 1539 il suo conterraneo Hernando de Soto arrivò a quella che ora si chiama Stone Crab Key in cerca dello stesso oro sfuggito al suo predecessore, un tesoro di cui gli indiani sembravano ignorare l'esistenza. La
lotta fu dura e sanguinosa e procurò agli spagnoli una disfatta tale che la Spagna rinunciò a ogni spedizione futura a caccia dell'oro. Altri uomini bianchi invece non si lasciarono dissuadere dal venire in Florida a più riprese portando con sé una magnifica collezione di tesori della civiltà, come il vaiolo e la sifilide, e portando via merce più pregiata dell'oro sfuggente che continuavano a inseguire: i giovani corpi di coraggiosi Calusani e Timucuani. Nel 1621, mentre i bianchi e gli indiani del Massachusetts stavano festeggiando insieme ai lunghi tavoli disposti all'aperto e coperti di cibi e bevande, i Calusani e i Timucuani erano in via di estinzione. Alla fine del secolo, nella fascia costiera dove avevano vissuto per duemila anni ne restavano a malapena trecento. Al nord, in Georgia e in Alabama, i fortissimi Creeks stavano avendo i loro guai con gli inglesi. Costretta a spostarsi a sud, la tribù diventata famosa col nome di Seminoie trovò poca resistenza da parte dei decimati Calusani e Timucuani. Gli indiani si scontrarono con gli indiani su terra indiana e gli indiani vinsero. Calusani e Timucuani non esistevano più, ma anche i Seminoie avevano i giorni contati. La Florida diventò territorio degli Stati Uniti soltanto nel 1822, dopo che il governo l'ebbe acquistata dalla Spagna. Quattordici anni più tardi, dietro insistenza di impazienti sostenitori del rafforzamento interno, il governo degli Stati Uniti cominciò la sua guerra dello sgombero contro gli indiani, una soluzione finale che poteva gareggiare con quella adottata un secolo più tardi in un altro paese civilizzato. La guerra dei Seminole come è chiamata normalmente, finì soltanto nel 1842, tre anni prima che la Florida entrasse a far parte dell'Unione come ventisettesimo stato. Per quell'epoca,i Seminole che non erano stati massacrati erano già stati trasferiti nelle riserve dell'Oklahoma dove, forse, i loro discendenti stavano in quel momento celebrando il Giorno del Ringraziamento (fissato dal Congresso del 1941 nel quarto giovedì di novembre) come tutti noi veri americani. Il mio socio Frank sostiene che un giorno gli archeologi troveranno un fossile in base al quale verrà stabilito senza dubbio che i primi esseri umani a mettere piede su suolo americano erano stati Russi provenienti dalla Siberia attraverso lo stretto di Bering quando questo era ancora un ponte di terraferma. Frank diceva che questa scoperta avrebbe spinto i Sovietici a reclamare per sé tutti i territori degli Stati Uniti mettendo in moto una colossale causa che sarebbe durata per secoli e avrebbe procurato lavoro a tutti gli avvocati esistenti al di qua e al di là della Cortina di Ferro. Come sottoprodotto, la scoperta archeologica avrebbe messo fuori causa ogni
probabilità di attacco nucleare perché i Russi non avrebbero certo voluto distruggere una terra che era loro per diritto di nascita. Forse Frank ha ragione. O forse dovrebbe andare a dirlo ai Seminole. Il Giorno del Ringraziamento fu freddo grigio e ventoso, l'ideale per tre persone che progettavano di partire il mattino seguente per il sole messicano. Susan mi portò mia figlia alle dieci del mattino. Dale e io avevamo già fatto colazione, ripulito il tavolo della cucina, e cominciato a togliere dal frigorifero tutto quello che lei e Joanna avevano in mente di trasformare nel nostro pranzo. Joanna aveva con sé una valigia più adatta a un mese in Europa che a nove giorni oltre il confine sud. Io le chiesi come mai fosse così pesante, e lei si strinse nelle spalle e disse: «Quando viaggio mi porto sempre un ferro da viaggio.» Susan colse una rapida visione di Dale che in cucina stava contemporaneamente consultando un libro di ricette e togliendo le piccole penne rimaste al tacchino già spennato, e mi sorprese dicendo: «È molto bella, Matthew» poi se ne andò in fretta verso la Mercedez Benz (parte dell'accordo di divorzio) parcheggiata rasente al marciapiede. Dale abbracciò Joanna e Joanna abbracciò Dale e poi tutte e due mi cacciarono fuori dalla cucina sostenendo che troppi cuochi rovinano la pietanza. Io andai nella piccola stanza che avevo arredato come studio e telefonai a Jim Willoughby a casa, a Stone Crab. Quando gli ebbi riferito tutto quello che ero venuto a sapere (o meglio che non ero riuscito a sapere) e gli dissi che secondo me mentivano tutti, lui mi chiese subito cosa mi avesse dato quell'idea. «Ecco» risposi, «le loro versioni sono discordanti.» «Non significa necessariamente che mentano» disse Willoughby. «E poi, Matthew, vorrei che tu ricordassi una cosa molto importante. Un penalista neofita cade spesso nella trappola di voler cercare un vero assassino da sostituire al suo cliente che lui ritiene accusato ingiustamente. Questo non è compito nostro. Nostro compito è dimostrare che il nostro uomo è innocente del delitto imputatogli e basta. Non ci deve interessare chi ha commesso il delitto. Questo spetta alla polizia una volta assolto il nostro uomo, quindi lasciamo che siano loro a trovare il pazzo che vaga per le strade, capito?» «Non vedo come le due cose si escludono a vicenda» dissi io. «Non metterti a cercare l'assassino» disse Willoughby in tono più fermo. «Cerca piuttosto qualcuno da far salire sul banco dei testimoni per rintuzzare l'affermazione dell'accusa secondo cui il nostro cliente è colpevole ol-
tre ogni ragionevole dubbio. È questo che dobbiamo cercare... una sfilata di testimoni che sollevino il problema del ragionevole dubbio. Noi cerchiamo soltanto questo. Noi vogliamo sapere dov'era Harper e che cosa stava facendo mentre sua moglie veniva ammazzata. Non capisco perché tu ti sia impelagato in quella storia di dove lui ha conosciuto lei e di dove e quando si sono sposati, e non vedo come questo ci possa interessare. Se ti attieni alla...» «Pensavo di poter dimostrare quanto lui l'amava e...» «Uno può adorare la moglie al mattino e tagliarle la gola nel pomeriggio. Sono i brutti fatti della vita.» «Perché quella gente sta mentendo?» «Se stanno mentendo, cosa di cui non puoi essere sicuro. Forse è solo un errore di memoria, comprensibilissimo se tu ti metti a fare domande su fatti di un anno o due anni fa, domande che, prima di tutto, tu non avresti dovuto fare. O forse ognuno di loro ha un suo scheletro nell'armadio e non vuole...» «È quello che comincio a pensare» dissi. «Non spetta a noi rimestare negli scheletri altrui» disse Willoughby. «A me non interessa se Arthur Owen...» «Andrew.» «Andrew Owen andava a letto con Kitty Foyle e...» «Reynolds.» «...una decina di ragazze cinesi dell'unica bottega dell'oppio di Calusa, che per quanto mi riguarda potrebbe anche non esistere. A me interessa sapere dove diavolo George Harper ha passato tutta la domenica e il lunedì mentre sua moglie veniva prima picchiata a sangue e poi ridotta a torcia. È questo che mi interessa sapere. Vedi se riesci a trovarmi qualcuno, uomo o donna, in grado di testimoniare di aver visto George Harper a Miami alle undici e quarantacinque di domenica sera quando perciò non poteva essere a Calusa a fare blu la moglie. E questo sistemerebbe la prima parte dell'accusa cioè la violenza fisica che il procuratore tende a collegare al successivo omicidio. E se si può trovare qualcuno che dica di essere stato con George Harper la sera di lunedì, perché allora l'accusa potrà seppellire il suo caso, e a me non importa quante taniche di proprietà di Harper sono state trovate sul luogo del delitto o quante impronte sue hanno trovato sparse sulle taniche. Uno non può essere in due posti nello stesso momento, questa è una legge fisica. Se possiamo dimostrare dov'era Harper, e spero che lui non fosse a Calusa, allora siamo a posto. Perciò, Matthew, per favore,
concentrati su quello che stiamo cercando di dimostrare e piantala di cercare invece scheletri nell'armadio, d'accordo?» «Se questi scheletri esistono sarebbe bene saperlo» dissi. «Perché?» «Perché il procuratore metterà al torchio ogni testimonio che noi porteremo alla sbarra, e se questi scheletri hanno qualcosa a che fare con George Harper non voglio che mi colgano di sorpresa.» «Lascia che mi occupi io di questo quando sarà il momento, okay?» «No, Jim» dissi, «non è okay. Io non voglio sorprese.» «Che genere di sorprese ti aspetti?» «Non lo so, ma quando la gente comincia a mentire...» «Ti ho già detto che forse è solo...» «Ma può non essere così.» «Matthew, è il Giorno del Ringraziamento, mio fratello e sua moglie stanno arrivando da Tampa per il gran pranzo, e per una giornata come guaio mi basta senza che tu ti metta a fare il giovane talento da scoprire.» «Ma io sono un giovane talento da scoprire.» «Allora vedi di cambiare» disse Willoughby, «a meno che tu non voglia che Harper sia il prossimo tacchino fatto arrosto.» «Sai benissimo che questo non lo voglio.» «Allora fidati di me. Ho molta esperienza in questo campo.» Tutte le volte che qualcuno mi dice di fidarmi di lui, io corro a mettere in salvo l'argenteria. Adesso ascoltai Willoughby ripetere e risottolineare l'unica cosa che avrebbe dovuto preoccuparmi al mio ritorno dal Messico, cioè dove e come George Harper aveva passato il tempo la domenica e il lunedì che lui dichiarava di aver trascorso a Miami. «Okay» dissi. «Okay?» «Okay.» «Finora hai fatto un buon lavoro, Matthew» disse lui. «Vedi però di non perdere di vista la foresta per voler guardare l'albero.» «Frase nuova» dissi io. «Come?» «Nada» dissi. «Ci riparleremo al mio ritorno.» «D'accordo» disse lui. «Divertiti, Matthew,» Una delle cose che preferisco in Dale è la sua imprevedibilità. Un'altra è la sua spontaneità.
La notte prima avevamo fatto l'amore e ci eravamo finalmente addormentati alle due del mattino dopo esserci ripromesso altri simili sfoghi passionali durante i nostri nove giorni in Messico. Adesso erano le quattro del pomeriggio del Giorno del Ringraziamento, appena quattordici ore più tardi. Avevamo consumato un pasto che avrebbe potuto nutrire tutta la popolazione del Kansas. Io avevo lavato e asciugato pentole e pentolini, sistemato i piatti nella lavastoviglie, raccolto e portato fuori i rifiuti, e accompagnato Joanna a casa di sua madre dove avevo estorto a Susan la promessa che me l'avrebbe riportata alle nove. Mi sentivo appesantito e anche un po' insonnolito quando fermai la macchina nel vialetto di casa, e desideravo solo fare una dormitina prima di cominciare a preparare il bagaglio. A mezzogiorno era spuntato il sole e la temperatura era salita, anche se con un po' di riluttanza, verso i diciotto, non abbastanza per starsene in sedia a sdraio sul bordo della piscina in bikini, ma era lì che stava Dale ed era quello che indossava. «Salve» mi disse. «Salve.» «Arrivata bene?» «Certo.» «Quando tornerà?» «Alle nove.» «Nove» ripeté Dale. Avrei dovuto captare un avvertimento, o una promessa, nel modo in cui lei disse quell'unica parola. Invece, stupidamente, non me ne resi conto. «Che cosa vorresti fare adesso?» mi chiese lei. «Un pisolino» dissi. «E tu?» «Mi piacerebbe fare pratica» disse lei. «Fare pratica?» «Per la spiaggia messicana.» Aveva legato i capelli sulla nuca con un nastro verde. Non vedevo i suoi occhi nascosti dagli occhiali da sole. Stava là sdraiata con il corpo completamente rilassato, e la bella abbronzatura uniforme spiccava nel contrasto con il bikini bianco. Un paio di sandali bianchi erano per terra di fianco alla sedia. «Quale pratica vuoi fare per la spiaggia messicana?» chiesi perplesso. «Per quello che le signore fanno sulla spiaggia di North Sabal» disse lei. Continuavo a non vedere i suoi occhi ma c'era un sorriso sulle sue labbra. «Fallo in Messico e ti mettono in galera» dissi io.
«Pensavo che Puerto Vallarta fosse molto chic e cosmopolita.» «È anche molto cattolica.» «Lo sono anche la Francia e l'Italia. Ma in Francia e in Italia le signore portano il topless.» «Se vai in topless in Messico non ti considerano una signora.» «Liz Taylor non usava il monochini in Messico?» «Ne dubito.» «Mmm» disse lei. Rimase zitta per qualche momento poi disse: «Allora farò pratica per Calusa, per quando torneremo dal Messico.» La guardai. «Perché non ti siedi?» disse lei. Mi misi sulla sedia di fronte alla sua. Guardandomi, sempre con quel sorriso, lei si tirò su a sedere, allungò una mano a prendere i sandali, ne infilò prima uno poi l'altro, e poi di colpo si alzò, resa ancora più alta dai quattro centimetri di tacco. Sollevò le braccia a sciogliere il nastro dei capelli tirandone un capo come si fa con la cordicella di un paracadute e liberando così una cascata di capelli rossi lunghi alle spalle. Fece ondeggiare i capelli, si tolse gli occhiali e li depose sulla sedia, e io vidi i suoi occhi. «Dimmi se faccio tutto giusto» disse. Si voltò e andò sino al limite della piscina dove basse mangrovie e alti pini australiani schermavano la casa nascondendola alla strada. C'era gente che abitava al di qua e al di là di me, ma la donna dalla quale avevo affittato la casa era conosciuta nel quartiere come Sheena la regina della giungla, soprannome appioppatole dopo che lei aveva piantato nella sua proprietà più alberi, siepi, e cespugli di quanti se ne trovano in un orto botanico. Qualsiasi cosa Dale progettava di fare, avrebbe goduto di una intimità quale mai avrebbe potuto avere sulle spiagge di Calusa. Di colpo mi sentii sveglissimo. Dale si voltò e si mise le mani sui fianchi. «Pensavo a una camminata molto semplice e ingenua» disse, «così» disse, «in modo che nessuno possa sospettare quello che succederà» disse, e cominciò a ondeggiare verso di me in maniera semplice e ingenua quanto doveva aver fatto Dalila con Sansone. «Poi porterò le mani dietro, in modo casuale» disse,«niente di spettacolare, solo un gesto tranquillo» disse continuando a muoversi lenta e inesorabile verso di me, le braccia piegate ai gomiti «e darò una breve tiratina, così e poi... ooooh» disse e abbassò gli occhi a guardare con finta sorpresa i seni esplosi di colpo dalla stoffa bianca allentata. «Ho fatto tutto giusto?»
mi chiese. Si fermò a tre metri da me e tornò a mettere le mani sui fianchi. Rimase là così per un tempo che mi parve lunghissimo, immobile, poi riprese ad avanzare, gli occhi fissi sulla mia faccia. «E poi» disse, «se trovo abbastanza coraggio» disse «e se riesco a far tacere la mia naturale paura per la polizia, allora potrei anche togliere lentamente anche la parte inferiore» e cominciò a farlo, «così» disse, e il telefono suonò. «Oh Cristo!» disse Dale. Il telefono continuava a suonare. Ferma là davanti a me con le dita ancora infilate nell'elastico dello slip già abbassato di qualche centimetro, Dale mormorò: «Non rispondere.» «Potrebbe essere Joanna» dissi. «No, è quel tuo rompiballe di Bloom» disse lei. Era quel rompiballe di Bloom. «Matthew» mi disse, «è successa una cosa terribile. Spero che tu sia seduto.» «Di cosa si tratta?» chiesi. «Il tuo uomo se n'è andato.» «Cosa?» «Harper. È scappato di galera.» «Cosa?» ripetei. «Ha rubato la macchina di un poliziotto dopo averlo atterrato, e solo Cristo sa dove sia adesso. Matthew, ho diramato un bollettino a tutte le... scusami, un BOLO come lo chiamano adesso, che sarebbe un bollettino generale di ricerca, e significa che ogni poliziotto dello stato lo sta cercando. Ma non credo che lui starà su quella macchina più del necessario. Matthew, mi hai sentito?» «Ho sentito» dissi. Quando arrivammo a Puerto Vallarta stava piovendo, quella specie di precipitazione torrenziale che ci si può aspettare a Calusa durante l’estate. Quando eravamo partiti quel mattino splendeva il sole. Il mio socio Frank dichiara che gli piace la pioggia. Dichiara anche che gli piace la neve. Lui dice che la monotonia del bel tempo di Calusa potrebbe anche mandare in confusione, e lo dice nonostante tutte le stagioni degli uragani che ha passato là. A Frank sarebbero piaciuti il vento e la pioggia che entravano dai due lati della jeep senza finestrini in cui Sam era venuto a prenderci all'ae-
roporto. Sam Thorn indossava un cappello e un impermeabile di plastica gialli, più adatti a un pescatore di Capo Cod che a un giudice in pensione. Ma evidentemente lui conosceva la sua bestia, infatti era l'unico di noi vestito in maniera adeguata al tempo e alla corsa disagevole fino alla sua villa. Noi tre invece avevamo addosso quello che ci eravamo messi al mattino nella assolata Calusa. Nessuno di noi si era aspettato di arrivare nel mezzo di un tifone. Dale aveva un paio di jeans e una maglietta verde intonata ai suoi occhi. I capelli svolazzavano nel vento, la sua faccia era bagnata e gli occhiali erano spruzzati di pioggia. Joanna, con spirito di emulazione e di adorazione, si era vestita in maniera identica, blue jeans e camicetta verde, e persino un girocollo simile a quello che portava Dale. I lunghi capelli biondi erano legati a coda di cavallo. Anch'io indossavo i blue jeans e una camicia sportiva con le maniche rimboccate sui polsi. La camicia si era inzuppata ancora prima di uscire dall'aeroporto e lungo la strada che costeggiava il mare, dove il vento del Pacifico soffiava molto più forte. Sam ci spiegò che quel tempo era insolito per il mese di novembre. Sam ci disse che in novembre le precipitazioni assommavano al massimo a meno di un centimetro mentre la temperatura avrebbe dovuto aggirarsi sui ventisei gradi. Ma già da alcuni giorni faceva freddo e pioveva. Molto insolito, disse. Poco oltre la sessantina, alto e snello, con il naso diritto e vivaci occhi azzurri, Sam aveva una gran testa di capelli bianchi che curiosamente lo facevano sembrare più giovane della sua età. Parlava con la calma e la precisione di un giudice, soppesando bene le parole come se stesse sempre rivolgendosi a una giuria. La villa che aveva acquistato (o meglio affittato per novantanove anni, perché in Messico gli stranieri non possono possedere beni immobili) era a una decina di miserabili ventosi e piovosi chilometri a sud della città, arrampicata su un picco che si affacciava su Mismaloya Beach. Ci volle un quarto d'ora per arrivarci, ma a me sembrò un'ora. «Ci siamo» disse alla fine Sam, e noi smontammo dalla jeep e passammo oltre un cancello di ferro battuto di fianco al quale, su una piastrella incassata nel muro di cinta, erano incise la parole CASA ESPIÑA. «Espiña significa spina» disse Sam poi gridò con tutta la sua voce: «Carlos! Ven acà!» Carlos era una metà della coppia che Sam aveva assunto di recente e che, ci confidò sottovoce, avrebbe licenziato non appena avesse trovato una coppia più adatta. Carlos non parlava una sola parola di inglese. L'uo-
mo scese saltellando la lunga scala di pietra che fiancheggiava tutta la casa, e per un pelo non scivolò sul primo gradino evitando di misura una caduta fatale sulla strada sottostante e la spiaggia oltre la strada. La casa costruita in cima alla collina, e raggiungibile solfando da una brutta strada battuta che la pioggia dei giorni precedenti aveva semidistrutto, gli assicurava però, spiegò Sam, tutta l'intimità a la solitudine che lui voleva. Carlos si arrampicò sulla jeep e scaricò il nostro bagaglio allineando borse e valige sul tratto piastrellato oltre il cancello, e noi cominciammo la scalata ai gradini di pietra che salivano alla porta d'ingresso. «La porta è antica di due secoli» disse Sam, «vecchia quasi quanto me.» Lo seguimmo in una stanza tutta aperta su una terrazza che mi fece trattenere il respiro. Era la sala da pranzo, el comedor la chiamava Sam, una zona spaziosa, aperta, che comprendeva la sala vera e propria e la cucina situata a sinistra. Il pavimento era in piastrelle verdi, posate irregolarmente in modo da dare l’impressione di un mare increspato racchiuso entro l'alta ringhiera che delimitava la terrazza e offriva sicurezza dallo strapiombo e dal mare autentico. La vista era spettacolare. A sinistra l'ampio arco di sabbia bianca con le barche tirate in secca e capovolte per proteggerle dalla pioggia e le palapas con il tetto di paglia e la penisola su cui, spiegò Sam, era stato girato in parte La notte dell'iguana. Lì era stata costruita la scena più tardi distrutta da un incendio per esigenze di sceneggiatura. «È cominciato tutto così» disse Sam. «Per quello che Puerto Vallarta è oggi vanno ringraziati Elizabeth Taylor e Richard Burton.» La strada passava oltre le rovine del set cinematografico e scompariva fra le montagne lussureggianti di vegetazione e che si susseguivano fino all'orizzonte, picco dopo picco, ognuno un'eco minore del precedente. A destra della spiaggia e della strada si apriva il Pacifico, oggi gonfio e tempestoso, che si stendeva all'infinito segnato, poco lontano da riva, da due enormi rocce chiamate Gli Archi per le arcate naturali che li attraversavano. E in fondo, all'orizzonte, improvviso, l'arcobaleno. «Guarda, papà» mormorò Joanna e mi prese per mano. «Avete portato il bel tempo» disse Sam sorridendo. «Andiamo a bere qualcosa. Toni dovrebbe essere qui da un momento all'altro.» Toni era una diciannovenne svedese alta quasi quanto Sam, più bionda di mia figlia, vestita in maglietta e pantaloni larghi, e che a giudicare da come baciò Sam doveva essere un'ospite decisamente alla pari. Entrò come una folata e depose i cento pacchetti che aveva fra le braccia, ci strinse la mano con energia quando le fummo presentati poi si scusò (solo un minu-
to, sì?) e ripresi i pacchi delle spese fatte in città si affrettò giù per la scala che portava alla grande camera da letto del piano inferiore, lo stesso dove c'erano anche le camere per gli ospiti e la piscina. «Dovreste vedere il nostro letto» disse Sam in un tono che non lasciava dubbi all'interpretazione. «È rotondo come quelli di Playboy.» Eravamo sul terrazzo a bere margaritas preparati da Maria e serviti da Carlos che a me sembravano camerieri ideali, per cui mi chiesi come mai Sam voleva licenziarli. «Toni parla sei lingue» disse Sam. Le sei lingue erano lo svedese, naturalmente, poi inglese, francese, italiano, spagnolo e un po' di portoghese. «Io l'amo da morire» disse Sam, e io pensai a George Harper che aveva detto le stesse parole durante l'interrogatorio, e improvvisamente provai un senso di colpa. C'erano due enormi ragni sul soffitto del nostro bagno. Io volevo spruzzarli di insetticida, ma Dale mi disse che loro erano lì da prima di noi quindi avevano diritto al loro spazio vitale. Li chiamò Ike e Mike. Ogni volta che andavo in bagno controllavo per vedere se erano dove dovevano essere. Non si muovevano mai. E non facevano nemmeno la ragnatela. Mi chiesi come potessero sopravvivere. Il nostro primo mattino a Casa Espiña cominciai a capire perché Sam volesse licenziare la sua coppia di camerieri. Noi eravamo già tutti svegli alle sette e mezzo, ma Carlos e Maria non comparvero in cucina per preparare la colazione prima delle nove. Maria si scusò di aver frainteso, per quanto Toni le avesse dato tutte le istruzioni in spagnolo. La colazione valse la pena dell'attesa: succo d'arancia, fette di papaya, uova con prosciutto diverse da quante ne avevo mangiate prima, cotte e croccanti al punto giusto, caffè nero forte servito in tazze che Sam aveva comprato nel suo ultimo viaggio a Guadalajara. Sam mi chiese se i produttori di caffè Brimm facessero ancora alla televisione quella stupida pubblicità in rima. Gli dissi che guardavo poco la televisione. A Casa Espiña non c'era televisore. Non c'era nemmeno il telefono. Quando ci aveva invitati, Sam mi aveva detto che potevamo farci chiamare al Garza Bianca Hotel, a un paio di chilometri sulla strada per la città, dove i telefoni c'erano e dove il direttore sarebbe stato felice di mandarci un fattorino con un messaggio. Avevo lasciato il numero a Cynthia ma non mi aspettavo una chiamata di emergenza. Sam ci disse quella mattina che, volendo, poteva farsi mettere il telefono, ma preferiva di no.
«La maggior gioia di essere qui è la pace e la serenità» disse. «Niente ci disturba a meno che tu non voglia considerare un disturbo lo stormo di pappagalli che tutte le mattine alle nove vola davanti al terrazzo. Ricordo quando ero a Calusa quel maledetto telefono che suonava ogni dieci minuti. Sono felice di esserne lontano. Non tornerò più indietro.» Anch'io ero felice di essere lontano da Calusa ma a differenza di Sam avrei dovuto tornarci il cinque di dicembre. La domenica mattina Sam ci svegliò alle sette annunciando che dopo una rapida colazione avremmo preso un battello per Yalapa, una spiaggia raggiungibile soltanto dal mare. Alle nove ci imbarcammo sul battello, in realtà un traghetto, e prima dell'ora di pranzo eravamo a Yalapa. Mangiammo in un ristorante vicino alla spiaggia, dove un venditore ambulante cercò di vendere a Dale un fermaglio per capelli identico a quello che lei aveva comperato a Puerto Vallarta per quaranta pesos meno. Dopo pranzo, sulla spiaggia conobbi un uomo che mi ricordò quello che mi aspettava a Calusa. I due distesero un lenzuolo da spiaggia vicino a noi. Lei era la donna più sottile che avessi mai visto. Era bruna, con un bikini marrone e la pelle quasi altrettanto scura. Ci sorrise mentre si distendeva sul lenzuolo. Anche suo marito sorrise, e poco dopo stavamo chiacchierando. Lui mi disse di aver lavorato in una agenzia di pubblicità di New York prima di venire in Messico dove viveva ormai da otto anni. Mi disse di essere stato accusato di aver ucciso la moglie in un impeto di collera e di essere stato finalmente assolto dall'imputazione dopo un processo durato due mesi. Mi disse che dopo il processo aveva lasciato il suo lavoro, aveva venduto tutto quello che possedeva e si era trasferito lì a Yalapa con la sua ex segretaria, che era adesso sua moglie. Lì, insieme, avevano trovato una felicità mai conosciuta prima. Mentre mi raccontava tutto questo io avvertii in lui una solitudine così disperata, profonda e patetica che per poco non mi misi a piangere. Quando il traghetto suonò la sirena chiamando i passeggeri, ci scambiammo una stretta di mano, e mentre sguazzavamo verso il canotto in attesa io pensai a George Harper che era scappato di prigione e aveva rubato una macchina della polizia, e mi chiesi quale solitudine stesse provando in quel momento. Il traghetto partì alle quattro e mezzo, e alle sette eravamo di nuovo a Puerto Vallarta. Cenammo in un ristorante. A tavola, Joanna ci informò che il giorno dopo avrebbe indossato per la prima volta in pubblico il suo
bikini e si fece promettere da tutti noi che non ci saremmo messi a ridere. Tornati alla villa, la popolazione femminile, come diceva Sam, andò a letto lasciando noi due in salotto con un bicchiere di cognac e la scacchiera. Sam aveva i bianchi e io i neri. In dieci minuti mi aveva dato scacco matto. «Cosa c'è che ti turba?» mi chiese. Lo misi al corrente del caso Harper. Gli dissi della mia conversazione con Lloyd Davis e sua moglie e con Sally Owen e il suo ex marito. Gli dissi di aver parlato con la madre di Harper e con la sua vicina di casa, gli raccontai della mia insoddisfacente conversazione con Kitty Reynolds e del mio convincimento che quasi tutti quelli con cui avevo parlato mi avessero mentito. «Nessuno mente se non ha qualcosa da nascondere» disse Sam. «Ma tutti? Hanno tutti qualcosa da nascondere?» «In una cospirazione sì.» «Andiamo, Sam! Che genere di cospirazione potrebbe essere?» «Droga?» disse Sam. «No, no.» «È la maggiore attività della Florida dopo il turismo. Hai detto che qualcuna di quelle persone vive a Miami?» «Sì.» «Il locale traffico della droga a Miami è valutato in sette miliardi di dollari l'anno» disse Sam. «Il settanta per cento della cocaina, l'ottanta per cento della marijuana, e il novanta per cento delle altre droghe che entrano negli Stati Uniti viene dal Sudamerica attraverso il porto di Miami.» «Non credo che Harper e sua moglie fossero coinvolti nel traffico della droga.» «E i loro amici?» «Non ne ho avuto nessun indizio.» «Allora perché mentono?» «Non lo so.» «Va bene. Cosa c'è d'altro?» Gli dissi di aver chiesto a Karl Jennings di rintracciare l'inserviente del garage che aveva venduto a George Harper la tanica con i venti litri di benzina, gli dissi di aver chiesto a Karl di scoprire come mai sulla tanica non c'erano le impronte digitali di Loomis e poi ammisi di essere preoccupato perché Karl non mi aveva ancora telefonato per farmi sapere che cosa aveva scoperto. «Hai lasciato il numero del Garza Bianca?» mi chiese Sam.
«Sì.» «Be', siamo solo a domenica» disse Sam. «Giovedì era il Giorno del Ringraziamento, e probabilmente il venerdì il tuo ufficio era chiuso.» «Infatti.» «Non ti puoi aspettare che lui abbia lavorato nel fine settimana, Matthew. Inoltre lui sa che tornerai il giorno cinque, quindi anche se ha già l'informazione richiesta, che tra l'altro mi sembra solo...» «Non è stata una mia idea» interruppi. «È Jim Willoughby che lo vuole.» «È lui l'avvocato con il quale stai lavorando?» «Sì.» «Un buon uomo ma un po' sul paranoico. Skye Bannister è il miglior procuratore di stato che Calusa abbia mai avuto, e io ne ho visti tanti, credimi. Da come Willoughby sparla di lui si direbbe...» Scosse la testa. «Comunque» disse, «sono sicuro che quando torni a casa avrai l'informazione su quella tanica.» «Già, è probabile» dissi. «Che cosa te ne faresti, qui?» «Niente.» «Infatti. Rilassati, Matthew. Godi la tua vacanza, goditi il Messico. Tornerai ai lavori forzati di Calusa anche troppo presto.» «Credi che finora abbia fatto tutto giusto?» chiesi. «Nessun vizio di forma nel tuo comportamento» disse Sam e sorrise. Finimmo il nostro cognac. Sam si alzò e sbadigliò e disse che il giorno dopo potevamo dormire fino a tardi perché in programma c'era soltanto una tranquilla giornata a Mismaloya Beach. Quando entrai in camera, Dale era ancora sveglia. «Che cosa sta succedendo?» chiese. «Cosa vuoi dire?» «Perché Toni se ne va in giro per la casa come una spia?» «Non l'ho notato.» «Non ti sei accorto di tutto il suo parlottare con Carlos e Maria?» «No.» Scoprimmo quello che stava succedendo soltanto il lunedì sera alle otto. Sam, Toni, Dale e io (finalmente tornata dalla spiaggia Joanna era in camera sua a preparare freneticamente la sua roba per Messico City), eravamo seduti in salotto a bere i piña coladas che Carlos ci aveva preparato, quando sentimmo rumore di macchina, portiere sbattute, voci, risate e tutto
a un tratto musica. Toni sorrideva da un'orecchia all'altra mentre una decina di persone seguite da un'orchestra di mariachi entravano nel salotto cantando a piena voce Tanti auguri a te. «Questa poi!» disse Sam e abbracciò prima Toni, Dale, e me e poi tutti gli ospiti che Toni aveva invitato per festeggiare il suo sessantacinquesimo compleanno. In gran segreto, Carlos e Maria ci avevano già informati che quella sera la cena sarebbe stata servita soltanto alle nove, e adesso erano impegnati a portare margaritas e piña coladas per tutti, seguiti da Bianca, la sorella di Maria assunta per l'occasione, che portava i vassoi con gli antipasti. «Sono riuscita a farti una sorpresa?» chiese Toni a Sam. «Tu sei sempre una sorpresa, mia cara» disse Sam e l'attirò a sé. Gli ospiti, undici, sette messicani e cinque americani abitavano in parte lì sulla collina in parte in città. I dispari erano una messicana e un coltivatore della Pennsylvania ormai a riposo. Lei assomigliava a Carmen Miranda lui sembrava l'uomo con il forcone nel quadro di Grant Wood. Ero impegnato in una conversazione con lui quando un'altra macchina arrivò al cancello della villa. Pensai che fossero altri ospiti, invece arrivò Carlos che parlottò svelto con Toni, e poi Toni venne da me e mi disse: «Matthew, c'è un fattorino del Garza Bianca. C'è stata una telefonata per te.» Il fattorino era un pilota di formula uno. Non parlava una parola di inglese ma arrivammo all'hotel in sei minuti. Avevo ancora nell'orecchio la melodia di Cielito Lindo che l'orchestra di mariachi stava suonando quando ero uscito. Una giovane messicana in abito lungo, con un gran spacco fino alla coscia, stava in piedi davanti al banco della ricezione intenta a parlare con un impiegato dell'albergo. Interruppi la loro conversazione (mi parve quasi di sentirla pensare "il solito brutto americano") e dissi all'uomo che ero Matthew Hope. «Ah, sì, signor Hope» disse lui. «Volete chiamare questo numero per favore? Potete usare una delle cabine lì a sinistra. È meglio la cabina per l'addebito o il pagamento con la carta di credito.» Il numero che il direttore aveva scarabocchiato su un foglietto era quello di Morris Bloom al Palazzo della Pubblica Sicurezza di Calusa. «Morrie» dissi, «sono Matthew.» «Salve Matthew» disse lui. «Mi dispiace di interferire con le tue vacanze ma è una cosa importante.»
«Di cosa si tratta?» «Ho telefonato al tuo socio, a casa, e lui mi ha dato questo numero dove raggiungerti in caso di emergenza. Spero di non aver fatto niente di male...» «Non preoccuparti» dissi,«va bene così. Ma di cosa si tratta?» «Non mi piace dover essere io a darti la notizia ma ho pensato che era meglio fartelo sapere subito. Il tuo uomo è ancora in giro, non siamo riusciti a trovarlo, e adesso pare che abbia ucciso un'altra persona.» «Cosa?» «Sally Owen è stata assassinata.» «Cosa?» «La sua vicina di casa è andata da lei verso le sette, ora locale, per restituirle un vassoio ed è capitata su un omicidio. La donna era distesa sul pavimento, vicino all'acquaio. Aveva la testa spaccata. Con un martello.» «Come fai a sapere che è stato usato un martello?» «L'abbiamo trovato sul pavimento vicino al cadavere.» «Che cosa ti fa pensare che Harper...» «Sul martello, sul manico, ci sono le sue iniziali impresse a fuoco. G.N.H.» «Chiunque potrebbe aver inciso quelle iniziali sul...» «Questo lo so. Ma se è davvero il suo martello, come noi pensiamo che sia, allora è un altro omicidio, Matthew, un secondo omicidio. A me è venuto in mente che se tu gli facessi un appello, gli parlassi, forse potremmo convincerlo a costituirsi prima che...» una pausa. «Prima che uccida ancora qualcuno.» «Come faccio a parlargli se non so dov'è?» «Potresti farlo per televisione, forse.» «Come posso farlo?» Lui non mi rispose. «Morrie, io sono in Messico» dissi. «Come faccio a comparire lì in televisione mentre sono in Messico.» Continuò a non parlare. «Morrie» dissi, «la risposta è no.» «Speravo che...» «La risposta è no.» «Prima che faccia ancora qualcosa, Matthew.» Questa volta fui io a non rispondere. «Be', pensaci» disse Bloom. «Com'è il tempo lì?»
«Bellissimo» dissi. «Pensaci» disse lui e riappese. 8 Arrivai a Calusa - via Houston - alle due del giorno dopo, martedì primo dicembre. Andai direttamente in ufficio, scambiai poche parole con il mio socio Frank (il quale mi disse che la peggior cosa che avessi mai fatto in vita mia era stato iniziare un qualsiasi rapporto con l'agente investigativo Morris Bloom) poi chiesi a Cynthia se potevo vedere un momento Karl Jennings. Non avevo ancora telefonato a Susan per dirle che Joanna era andata a Messico City sola con Dale, e non ero sicuro che mi piacesse dirglielo. Calusa però è un posto piccolo e se incocciavo in lei in un ristorante o in un supermercato, sicuramente Susan avrebbe voluto sapere che cosa ci facevo lì e dove diavolo era nostra figlia, e allora avrei dovuto spiegarle che era stata una mia idea che Joanna e Dale continuassero la vacanza senza di me. Meglio farlo per telefono. Ma non subito, Karl Jennings era lì pronto a riferire. «Non che abbia molta importanza adesso che lui ha ucciso un'altra persona» disse. «Questa è soltanto una supposizione della polizia» dissi io. «È anche la linea seguita da giornali e televisione» disse Karl. «Dovresti vedere i titoli di questa mattina. Sembra quasi che qui abbiamo un Jack lo Squartatore tutto nostro. Comunque, ieri ho parlato con quel Loomis. Sono andato là all'alba... sei al corrente che Frank non apprezza il modo in cui il nostro studio spende tempo improduttivo per...» «Sì, ne sono al corrente. Che cos'ha detto Loomis?» «Mi ha mostrato la stanzetta dove vendono accessori per automobili, tergicristalli, chiavi inglesi, quei piccoli portacenere che poggiano su un sacchetto pieno di piombini, portachiavi con il marchio delle diverse vetture e taniche da venti litri. Ce n'erano una mezza dozzina su uno scaffale, tutte uguali.» «Come quella che ha venduto ad Harper?» «Identiche a quella venduta ad Harper. Il nome della ditta è Reddi-Jiff e sono fatte da una fabbrica dell'Ohio. Se ti serve ho preso il nome.» «Bene, continua. Che cos'è successo il mattino in cui Harper è andato là?» Loomis stava facendogli il pieno quando Harper ha detto: "Mi farebbe
comodo una tanica. Ne avete?" o qualcosa di simile. Loomis allora l'ha accompagnato nella stanzetta e gli ha detto: "Sceglietene una" o qualcosa del genere. «Sceglietene una, eh?» «Giusto.» «Sono state le sue parole esatte?» «Più o meno. Ma il punto è che ha lasciato là Harper da solo a fare la sua scelta e lui è tornato alla pompa.» «Allora è stato lo stesso Harper a prendere la tanica dallo scaffale, è così?» «Così ha detto Loomis. Harper ha preso personalmente la tanica dallo scaffale e l'ha portata a Loomis vicino alla pompa di benzina.» «Poi cos'è successo?» «Harper gli ha chiesto di riempirgliela.» «E allora?» «Loomis ha svitato il tappo e...» «L'ha fatto Loomis?» «Sì.» «E poi?» «Ha riempito la tanica» disse Karl e si strinse nelle spalle. «Chi ha rimesso il tappo?» «Loomis.» «Ha toccato il manico?» «No, soltanto il tappo.» «Chi ha preso la tanica una volta riempita?» «Harper. L'ha messa dietro, nel camioncino.» «Il che significa che le impronte di Loomis erano sul tappo.» «No.» «No? Ma se ha tolto e rimesso il tappo...» «Sì, però aveva le mani sporche di grasso perché quando era arrivato Harper lui stava cambiando le candele a una macchina. Si è accorto di aver sporcato il tappo e allora l'ha ripulito con uno straccio.» «Harper mi ha detto di non ricordare che Loomis avesse ripulito la tanica.» «Harper era già risalito in cabina e in realtà stava per ripartire. Loomis gli ha gridato di aspettare un momento, ha ripulito il tappo, gli ha detto: "Okay, fatto" o qualcosa del genere e gli ha fatto segno di andare.» «Bene» dissi. «Questo sistema il fatto che non c'erano le impronte di
Loomis. Se chi ha ucciso Michelle aveva i guanti...» «Già i guanti» disse Karl in tono dubbioso. «Allora si spiega perché sulla tanica c'erano solo le impronte di Harper.» «E anche sul martello» disse Karl. «Come?» «Hanno trovato le sue impronte anche sul martello. E soltanto le sue. Era sui giornali questa mattina.» Karl esitò. «Matthew» disse poi, «io sono soltanto l'ultimo arrivato, qui, ma a me sembra che sia stato proprio Harper a farlo, e per due volte.» Un'altra esitazione. «Forse, quando lo troveranno ti converrà considerare l'ipotesi di una dichiarazione di colpevolezza.» Non appena Karl fu uscito dal mio ufficio chiamai Bloom. «Sono qui» gli dissi. «Immaginavo che saresti arrivato» disse Bloom. «Te ne sono grato. Le cose vanno sempre peggio per Harper. Spero che vorrai fare...» «Peggio in che modo?» «Ecco, non ci sono più dubbi ormai che il martello sia suo. Un suo vicino di casa, un giovanotto sveglio che lo conosce bene...» «Come si chiama?» chiesi e mi misi davanti il blocchetto per gli appunti. «Roger Hawkes, Windgale Way undici ventisei.» «Bianco o nero?» «Nero. Puoi parlare con lui, se vuoi, ma ti dirà soltanto quello che ha già detto a noi.» «E cosa sarebbe?» «Ha riconosciuto il martello come l'utensile che si era fatto prestare da Harper un paio di settimane fa. Doveva fare qualche lavoro in casa e sapendo che Harper era ben fornito di utensili è andato a farsi prestare il martello. Lo stesso che ha identificato per noi, con le iniziali impresse a fuoco sul manico.» «Quando ha restituito il martello ad Harper?» «Nel pomeriggio dello stesso giorno.» «Okay» dissi. «Ma non è tutto. Ti ho detto che sta andando sempre peggio.» «Come può peggiorare ancora?» dissi. «Il garage di Harper è chiuso con un'ottima serratura non uno di quei giochetti da quattro soldi. E anche la porta d'ingresso. In quel garage si può entrare soltanto o direttamente dalla sua porta o da una porta all'interno dell'abitazione. Il posto è ben chiuso, Matthew, e non ci sono tracce di scasso.»
«Cosa significa?» «Significa che Harper è entrato nel suo garage e ha preso il suo martello dallo...» «Lui o chiunque altro avesse una chiave» dissi. «Chi altri poteva avere la chiave? Michelle è morta...» «Quando è scappato di prigione, Harper si è fermato a ritirare i suoi effetti personali?» «Be', no, ma...» «Normalmente non confiscate ai prigionieri portafoglio, chiavi e...» «Be', sì...» «Se Harper non aveva le chiavi come ha potuto aprire la porta del garage o quella...» «A volte la gente lascia un paio di chiavi all'esterno, in quei portachiavi magnetizzati da attaccare sotto qualcosa.» «Un invito per i ladri, giusto?» «Be', sì, Matthew, ma...» «Se aveva un paio di chiavi nascoste da qualche parte allora chiunque potrebbe averle prese, no?» «Sì, ma...» «Quindi non è stato necessariamente Harper a...» «Matthew non siamo in tribunale. Io ti sto solo dicendo come questa faccenda appare ai nostri occhi. Ammetto di non aver pensato che lui non poteva avere le chiavi. Certo, uno che scappa di galera non ha con sé le chiavi di casa, questo è vero. Ma se c'era una chiave nascosta da qualche parte e se Harper l'ha usata per entrare nel suo garage, allora si spiegano le sue impronte digitali sul martello che è stato trovato accanto al cadavere. Ora, Matthew, questo è un fatto incontrovertibile: le sue impronte erano sull'arma del delitto, su tutte e due le armi del delitto, la tanica di benzina e il martello. Adesso io ti chiedo di comparire in televisione questa sera. Ho già chiamato la stazione locale di Calusa e anche un'altra a Tampa che copre una zona più vasta. Sono d'accordo, se tu vuoi. Quindi dipende da te. E devo dirti un'altra cosa che può influenzare la tua decisione in questo senso.» «Di cosa si tratta?» «Abbiamo trovato la macchina rubata da Harper quando è scappato. Era vicino al Chickasee River Lookout. Sul sedile posteriore di quella macchina c'era un fucile. Adesso non c'è più. Harper l'ha preso quando ha abbandonato la macchina. Questo significa che il bollettino adesso dice armato e
pericoloso. Mi segui, Matthew?» «Ti seguo.» «Abbiamo un elenco di tutte le macchine rubate da quando Harper è scappato giovedì. Una lunga lista. Non si penserebbe che in un posto come Calusa ci siano tanti ladri d'auto, vero? Comunque, al bollettino abbiamo unito quella lista per il caso in cui Harper avesse deciso di rubare un'altra macchina dopo aver abbandonato quella della polizia. Così adesso abbiamo un fuggitivo accusato di omicidio di primo grado possibilmente a bordo di una macchina rubata e armato di fucile. Cominci a vedere il quadro completo?» «Sì, Morrie.» «Te lo spiegherò lo stesso. Qualche zelante tutore dell'ordine di questo stato ha l'abitudine di non fare domande se nota un negro nero come il carbone, possibile autore di due omicidi, armato di fucile. Io voglio che Harper si costituisca prima di far del male a qualcun altro. Tu dovresti volere che si costituisca prima che qualcun altro faccia del male a lui.» «Okay» dissi, «organizza la faccenda della televisione.» «Grazie» disse Bloom. «Ci sono un paio di cose che vorrei fare» dissi. «Dimmi.» «Mi piacerebbe dare un'occhiata alla scena del delitto.» «Quale?» «La casa di Sally Owen.» «Abbiamo ancora un uomo di guardia là. Gli farò avere il tuo nome e lui ti lascerà entrare. I miei e quelli del laboratorio hanno finito dentro e fuori, quindi non puoi fare guai.» «E poi voglio vedere il garage di Harper.» «Vedrò di farmi dare le chiavi da quelli della prigione.» «Mi ritelefoni tu?» «Appena possibile» disse Bloom. «Sentirò dalla televisione. Probabile che quelli di Calusa ti mandino in onda dal vivo per il notiziario delle sei, mentre quelli di Tampa faranno una registrazione da trasmettere con quello delle undici. Se vuoi ti farò accompagnare là da qualcuno. So che per te questa sarà una lunga giornata.» «Te ne sarò grato.» «Ti richiamo» disse Bloom e riappese. Quando la chiamai, Susan era del suo solito umore affascinante. «Cosa significa? È andata a Messico City con Dale?» urlò.
«Sì, dietro mio consiglio» dissi. «Io dovevo tornare qui ma non c'era senso a far troncare le vacanze a Joanna soltanto perché dovevo farlo io.» «E senza consultarmi, vero?» disse Susan. «Non ho pensato che fosse necessario consultarti» dissi. «Faresti meglio a leggerti il nostro accordo di separazione, amico» disse Susan. Da quando la conoscevo Susan non mi aveva mai chiamato amico, e con quel tono. «Conosco benissimo i termini del nostro accordo» dissi, calmo. «Non sono tenuto a consultarmi con te mentre Joanna gode del privilegio di stare con suo padre» dissi, un po' meno calmo. «Chiamerò subito Eliot McLaughlin» disse Susan. «Per cosa? Vuoi fargli estradare Joanna dal Messico? Per cristo santo, Susan, lei sarà di ritorno sabato, sono soltanto quattro giorni. Posso assicurarti che Dale...» «Non voglio sentir parlare di Dale» disse Susan. «Posso assicurarti che è una persona responsabile» dissi, di nuovo calmo. «È una persona adulta e responsabile che saprà prendersi buona cura di Joanna per questi altri pochi giorni in Messico.» «Dove fertilizzano i campi con escrementi umani!» urlò Susan. «Dale non è un coltivatore» dissi. «Se succede qualcosa a mia figlia...» «Nostra figlia» corressi. «Bel padre sei» disse Susan, «lasciarla sola con un'estranea...» «Dale non è un'estranea,» «In quanto a questo ne sono sicura» disse Susan. «Susan» dissi, alzando la voce, «ti ho telefonato per dirti che io sono tornato mentre Joanna è ancora in Messico. Tornerà sabato. Non ho altro da dirti.» «Ci sarà molto di più che Eliot dovrà dire a te.» «Aspetto con ansia una telefonata da quell'asino» dissi, e riappesi. Tremavo. A Calusa c'è gente sempre pronta a ricordare a chiunque che qui i neri stanno molto meglio dei neri che vivono in grandi città come New York e Detroit. Ti sottolineano con orgoglio che quasi tutte le case della Città Nuova valgono dai quaranta ai cinquantamila dollari, l'equivalente cioè di quanto può permettersi un bianco della classe medio bassa in qualsiasi pe-
riferia di una grande città. Quegli stessi, forse, non si sono accorti che alla recente esibizione di Count Basie tenutasi all'Helen Gottlieb Memorial Auditorium, una sala con duemila posti, tra il pubblico c'erano soltanto otto neri. Io simili cose le noto. E anche il mio socio Frank. La notte prima a Puerto Vallarta non avevo dormito molto. La telefonata di Bloom, la consapevolezza che il mattino dopo avrei avuto a che fare con un'agenzia di viaggi, e l'orchestrina di mariachi che aveva imperversato fino alle due avevano congiurato per rendermi uno straccio quando Sam mi aveva scaricato all'aeroporto. Poi le due ore di attesa a Houston, le successive cattive notizie da Bloom e l'insoddisfacente conversazione telefonica con Susan non erano certo servite a sollevarmi il morale. Mentre infilavo il passaggio per arrivare alla casa di Sally Owen, tre porte più in su dall'abitazione di Harper, provavo quella strana sensazione di nervosismo e leggerezza simile a quella che un ubriaco litigioso sperimenta quando si mette a litigare con un barista e contemporaneamente ride della propria aggressività. La casa era una costruzione bianca rivestita di legno e circondata da una recinzione in paletti bianchi. Anche il poliziotto fermo là davanti era bianco. Alto, massiccio, in divisa blu, la 375 Magnum infilata nel fodero, faccia grassa e rossa punteggiata di lentiggini, capelli rossi che spuntavano da sotto il berretto sulla fronte e sopra le orecchie. Mi guardò con aria sospettosa mentre percorrevo il vialetto. Alla porta d'ingresso era attaccato un cartello con scritto Luogo di un delitto e un grosso lucchetto messo dalla polizia assicurava la porta allo stipite. «Proibito» disse il poliziotto, segnalandomi di andarmene con lo sfollagente. «Sono Matthew Hope» dissi. «L'agente investigativo Bloom mi ha detto che avrebbe...» «Ah, sì» disse il poliziotto. «Volete fare un'ispezione del posto, vero?» «Infatti.» «Siete dell'ufficio del procuratore di stato?» «No.» «Allora chi siete?» Non me la sentivo di presentare le mie credenziali quindi aggirai la domanda. «Bloom vi ha avvertito, no?» «Ha mandato un messaggio radio alla macchina di pattuglia.» «Allora posso entrare» dissi. «Certo» disse il poliziotto e presa una chiave dalla tasca aprì il lucchetto.
«Sarà bene però che non tocchiate niente.» Non mi preoccupai di informarlo che Bloom mi aveva detto che la polizia aveva già finito, dentro e fuori. Per qualche strano motivo la presenza di quell'uomo mi infastidiva, forse perché Bloom mi aveva detto che esistevano tutori dell'ordine svelti a sparare a un nero senza dargli il tempo di chiedere l'ora. Appena entrato avvertii la presenza della morte. Lì dentro era successo qualcosa di terribile. La sensazione stagnava nella pallida luce pomeridiana che entrava dalla piccola finestra ad arco alla fine del corridoio. Nell'ingresso c'era un grande orologio a pendolo ma aveva smesso di ticchettare. Sul pavimento vidi la posta non aperta lasciata cadere dall'apposita fessura da un postino che faceva il suo servizio con la neve col ghiaccio con la pioggia con l'omicidio. Dalla porta aperta della cucina vidi i segni del gesso sul pavimento di linoleum. L'inconfondibile sagoma di un corpo, e quella più piccola, che rappresentava chiaramente un martello, a circa un metro dall'altra, e fatta in gesso rosso a contrastare con la sagoma bianca tracciata attorno al corpo di Sally Owen immobile nella morte. Entrai in cucina aggirando con attenzione i due segni. Cercai di immaginarmi George Harper che entrava nella casa, sorprendeva Sally vicino al lavandino, sollevava il martello e lo abbatteva ripetutamente sul cranio della donna e poi lasciava cadere il martello prima di sparire nella notte. Perché, mi chiesi. Perché ucciderla? Perché lasciare dietro di sé l'arma del delitto con le sue iniziali impresse a fuoco sul manico e le sue impronte digitali? La gente si lascia prendere dal panico, aveva detto Bloom. Anche i professionisti. Harper non era un professionista anche se, secondo la polizia, era avviato a diventarlo. Due delitti in due settimane. L'esperienza insegna. E a quanto pareva lui si era fatto prendere dal panico per due volte, la prima lasciandosi dietro una tanica con le sue impronte e la seconda abbandonando un martello ugualmente incriminante. Perché? Era stato panico o pura stupidità? Harper era distratto? Imprudente? Suicida? O tutte e tre le cose? O nessuna delle tre? Uscii dalla cucina e tornai nell'ingresso. La posta, una decina di buste, era là, bagnata da un raggio obliquo di sole punteggiato da granelli di polvere. Percorsi il corridoio e entrai in un piccolo salotto, a sinistra. Un divano e due poltrone. Un tappeto verde. Le tende aperte a lasciar entrare altro sole polveroso. Sopra il divano il quadro incorniciato di due terrier scozzesi come quelli del marchio di fabbrica del Black and White, le teste un po' piegate, un'espressione sveglia sui piccoli musi. Mi protesi a cercare la
firma. Non ce n'era. Il dipinto ricordava una di quelle brutte cose che si possono comprare per cinque dollari nelle strade di Calusa durante marzo e aprile quando i turisti sono più numerosi e di gonzi ne nascono uno al minuto. Sally Owen era stata una pittrice dilettante con scarso talento? O una che amava gli animali con una predilezione per i cani? O una bevitrice di scotch, e aveva dipinto i due simpatici cagnetti, uno bianco e uno nero, per ricordarsi che, sole e pioggia, le ore felici arrivavano a Calusa ogni giorno? La camera da letto era di fronte. Un letto ad acqua, sfatto. Ai piedi del letto un materasso coperto con un lenzuolo stropicciato. Su una parete altri quadri indubbiamente dello stesso autore senza talento e nello stesso stile. Tutti senza firma. Alcuni incorniciati. Tele di diverse dimensioni e tutte dipinte a olio. I soggetti erano banali come lo stile. Sopra il letto c'era una tela senza cornice, di un metro e venti per uno e ottanta, che rappresentava, incredibile, uno spargisale e uno spargipepe ritti una a fianco dell'altro e grandi almeno cento volte le dimensioni naturali. Sulla parete adiacente, a sinistra della finestra un altro dipinto, più piccolo, con due pezzi degli scacchi, uno bianco e uno nero, che avrebbero dovuto essere un re e una regina se quelle che sembravano corone lo erano veramente. A destra della finestra altro capolavoro dello stesso artista, con un paio di pinguini su un banco di ghiaccio. Di fronte al letto un quarto quadro, enorme, che mostrava due dadi anche questi enormi, alti almeno novanta centimetri. Molte tele non incorniciate stavano appoggiate al muro di fianco alla porta. La prima ritraeva due uccelli, un corvo, forse, e una colomba. Quella sotto era un misero tentativo di ritrarre due zebre. Contro la stessa parete, un cassettone con uno specchio in cornice nera, e di fianco allo specchio, bene incorniciata e coperta dal vetro, la prima pagina dell'Herald Tribune di Calusa il cui titolo principale diceva Uomo d'affari nero ucciso. Mi protesi sul cassettone e lessi l'articolo sotto il titolo. All'inizio d'agosto dell'anno precedente un poliziotto di Calusa aveva notato una macchina ferma sulla strada d'accesso all'aeroporto. Erano le sei del mattino. Era passato con la sua auto davanti alla macchina si era notato il numero di targa e aveva chiesto informazioni via radio. Da Tampa gli avevano detto che si trattava di una macchina rubata. Lui aveva superato l'aeroporto poi era tornato indietro sulla strada d'accesso e la macchina era ancora là con il guidatore immobile con la testa reclinata sul volante. Il poliziotto aveva estratto la sua pistola poi si era avvicinato e aveva bussato sul finestrino chiedendo al guidatore documenti e patente. Il guidatore a-
veva abbassato il finestrino, aveva detto "Lasciatemi in pace", poi, come ripensandoci aveva allungato una mano verso lo scompartimento del cruscotto. Il poliziotto gli aveva sparato alla testa. Il resto della storia, come era stato spiegato più tardi, e come adesso ricordavo bene perché l'inchiesta aveva fatto scalpore nell'ambiente legale di Calusa, era che l'uomo ucciso possedeva una tintoria sulla strada 41 e la sera precedente aveva saputo della morte della sorella. La sorella viveva a Chicago e lui era andato all'aeroporto per prendere un aereo che partiva di primo mattino. Ma, evidentemente sopraffatto dal dolore, si era fermato sulla strada d'accesso, e quando il poliziotto si era avvicinato, lui stava piangendo, accasciato sul volante. Il rapporto sulla macchina rubata era stato un errore, l'auto apparteneva all'uomo che la occupava. Ma il poliziotto, credendo di avere a che fare con un criminale, aveva subito immaginato che l'uomo stesse per prendere un'arma. La storia aveva avuto una conclusione infelice: il poliziotto era stato assolto da tutte le accuse. Ma lì, nella camera da letto di Sally Owen vicino a uno specchio c'era, incorniciata, la prima pagina di un giornale di sedici mesi prima, insieme con una collezione d'arte senza valore. Non sapevo che cosa mi fossi aspettato di trovare là dentro. Forse le prove che non poteva essere stato George Harper a uccidere la donna. Ma non mi sembrava di aver trovato molto. Il poliziotto davanti alla casa stava fumando una sigaretta quando io uscii. Evidentemente continuava a credere che fossi dell'ufficio del procuratore perché appena mi vide spense la sigaretta sotto il tacco. «Avete trovato quello che cercavate?» mi chiese. «Grazie» dissi io. Bloom mi stava aspettando davanti alla casa di Harper in una macchina del Dipartimento di Polizia di Calusa, al cui volante c'era un poliziotto bianco. Vedendomi arrivare, aprì la portiera e quando gli fui vicino mi tese la mano. «Vista la casa?» chiese. «Sì, grazie» dissi. «Cosa ne pensi dei quadri?» «Orribili» dissi. «Già. Li ha fatti Sally.» «Come fai a saperlo?» «Non sei stato nel garage?» «No.»
«Là dentro c'è un cavalletto con sopra un quadro non finito, e un lungo tavolo coperto di tubetti di colore. Sul tavolo da lavoro c'era il suo modello, una fotografia ritagliata da un giornale. A proposito, che cosa ne pensi di quel giornale incorniciato in camera da letto?» «Non so. Forse quell'incidente aveva un grosso significato per lei.» «Ah, certo. Un bastardo spara e ammazza uno che sta andando a un funerale! Se io fossi stato un nero avrei dato fuoco al posto di polizia. Lei ha incorniciato l'articolo. Protetto da un vetro, anche» disse Bloom. «Come ricordo permanente, forse. Tutto in quella camera è in bianco e nero e l'articolo lei poteva leggerlo mentre si metteva il rossetto. Perché immagini che tenesse quel materasso ai piedi del letto?» «Perché mi fai tutte queste domande?» «Pensavo che tu potevi aver avuto una fulminazione.» «Nemmeno mezza.» «Un letto ad acqua tanto grande da poter ospitare l'armata russa. Allora perché quel materasso sul pavimento?» «Non ne ho idea.» «Nemmeno io. E cose del genere mi disturbano. Non disturbano anche te?» «Quello che mi disturba è quel nero ucciso da un poliziotto dal grilletto facile.» «Dava fastidio anche a lei, a quanto pare.» «Sally Owen non aveva un cliente in fuga.» «Forse le cose cambieranno dopo che sarai apparso in televisione. Ti ho già organizzato tutto. Dovrai essere alla WSWF alle cinque e mezzo. Sai dov'è?» Non sapevo dove fosse la stazione televisiva e lo dissi a Bloom. Mi sentivo uno straccio. La leggerezza di testa era scomparsa ma restava l'irritazione. «È sulla Old Redford, tre chilometri dopo Spinnaker» disse Bloom. «Immediatamente alla tua sinistra vedrai un edificio bianco con sopra un'antenna parabolica. Subito dopo la trasmissione di qui dovrai andare a Tampa, quindi forse sarà meglio che ti dia qualcuno che t'accompagni, ti aspetti, ti porti là e ti riporti. Va bene per te?» «Va benissimo» dissi. «Oggi mi sembri molto turbato» disse Bloom. «Lo sono.» «Anch'io. Se vuoi che te lo dica, in questo caso ci sono molte cose che
non mi piacciono. E questo è uno dei motivi per cui sono tanto ansioso che Harper si costituisca. Ho un paio di domande che vorrei fargli. Per esempio come può essere stato tanto stupido. Voglio dire, una volta va bene, posso accettarlo. Uccidi qualcuno e ti dimentichi di cancellare le impronte dall'arma del delitto, d'accordo. Ma due? Persino una pulce ammaestrata sa tutto sulle impronte digitali. Questo non ti disturba, Matthew?» «Sì.» «Disturba anche me.» «Noi due siamo su posizioni opposte, Morrie.» «Chi l'ha detto? Io voglio essere sicuro di avere l'uomo giusto. Non mi piace pescare in un barile e non mi piace nemmeno far finire un innocente sulla sedia elettrica.» «Dunque adesso pensi che sia innocente, eh?» «Non ho detto questo. Stando alle prove abbiamo dovuto arrestarlo e incriminarlo. Ma lui non sarà colpevole finché non lo dirà una giuria. È così che funziona, giusto, Matthew?» «È così che dovrebbe funzionare.» «Certo è il modo in cui mi piace che funzioni» disse Bloom. «In caso contrario avrei scelto il mestiere sbagliato. Non sono ansioso di appuntare una rosa sul tuo cliente a meno che non abbia davvero ucciso quelle due persone. E come ho detto ci sono alcune cose che mi intrigano. Voglio un paio di risposte da lui. Per favore, questa sera fai del tuo meglio. Convincilo a tornare.» «Ci proverò.» «Okay. Allora, vuoi vedere questo garage o no?» Andammo verso la casa di Harper. Era simile a quella di Sally Owen, opera certo dello stesso costruttore, ma anziché in bianco era dipinta in grigio e non aveva la palizzata ma una bassa fila di cespugli. Bloom tolse di tasca un anello portachiavi. «Sai che ho dovuto firmare una ricevuta per questo?» disse e scosse la testa. «Ho preso tutto perché non so quale sia quella della casa. Harper ha più chiavi di un secondino.» Tentò diverse chiavi sulla serratura del garage e alla fine trovò quella che si adattava, aprì e poi si chinò ad afferrare la maniglia. La porta si sollevò con fracasso. Contrariamente a quello di Lloyd Davis, e considerato che i due uomini facevano lo stesso lavoro, il garage di Harper era un modello di ordine e pulizia. Anche qui ogni centimetro di pavimento e tutto lo spazio delle pareti era coperto da mercanzia che Harper sperava di vendere, ma mentre garage, cortile aperto e vialetto adiacente della casa di Davis erano una
confusione caotica, il garage di Harper dava l'impressione di un magazzino bene organizzato. Radio insieme alle radio, cornici con le cornici, tubi con tubi, ogni cosa con la sua compagna o compagni, vera arca di Noè perfettamente ordinata. Lungo una parete, a una rastrelliera, erano appesi abiti femminili e soprabiti. Subito dopo, la rastrelliera con abiti maschili e giacche sportive. I libri usati erano sistemati in ordine alfabetico per titolo, su una libreria in un angolo. Le vecchie riviste stavano ammucchiate in scatole di cartone su cui Harper aveva scritto, a volte facendo errori, il nome della testata, New Yorker, National Geographic, Lady's Home Journal, Harper's Bazar, Time, Playboy. Dietro il banco di lavoro c'era una lunga striscia di cartone assicurata alla parete e su cui erano dipinti i contorni dei vari attrezzi, evidentemente arnesi suoi personali e non in vendita. Spiccava la mancanza del martello che avrebbe dovuto pendere sopra la propria sagoma. «Persona ordinata» disse Bloom. «Già» dissi io. «Allora perché va in giro a lasciare le sue impronte dappertutto?» Sopra un'asse, sul banco di lavoro, c'era una fila di contenitori chiusi di varie dimensioni con dentro chiodi di vario peso, viti di diverse lunghezze, dadi, bulloni, ganci, ranelle. Su una seconda asse, barattoli di vernice, un barattolo di acqua ragia e uno spazio vuoto che poteva benissimo aver ospitato una tanica da venti litri. Contro la parete vicino al banco di lavoro, una falciatrice meccanica pulitissima e bene oliata. E vicino alla falciatrice un panno copriva qualcosa inclinato contro la parete. Bloom sollevò il panno. Stavamo guardando una pila di dipinti. Il primo era indubbiamente un Sally Owen originale. Il soggetto però era sorprendente. Il quadro rappresentava un uomo nero e una donna bianca che si baciavano appassionatamente. Bloom e io ci guardammo. La tela dopo questa era un altro olio, un ritratto elementare copiato da un famoso quadro di Rembrandt. Dietro questo un dipinto che rappresentava un peschereccio, e ancora dietro quello che avrebbe dovuto essere un tramonto radioso. Solo la prima tela era stata dipinta da Sally Owen, gli altri erano in stili diversi e ugualmente penosi ma sicuramente non suoi. «Credi che dovrebbero essere Harper e sua moglie?» chiese Bloom. «Non sono molto somiglianti.» «Non assomigliano molto a nessuno» disse Bloom. «Sono soltanto un tale nero che bacia una donna bianca.»
«Forse lui l'ha comperato per la moglie» dissi io. «O forse è stato un dono dell'artista» disse Bloom, calcando sull'ultima parola in maniera da farla suonare un giudizio critico. Rimise a posto il panno e uscimmo dal garage. Nel cortile c'erano cataste di legname ordinatamente disposte per grossezza e lunghezza, tre sedie dipinte di verde una accanto all'altra contro la parete del garage, e di fianco un paio di poltrone senza imbottitura. Quattro scalette appoggiate l'una sull'altra, una vasca da bagno e un lavandino dello stesso colore azzurro. «A volte questi tipi mastodontici sono persone molto pulite» disse Bloom. «Come i grassi che si muovono con leggerezza, sai? Mio zio Max, che riposi in pace, pesava centoquaranta chili ma era delicato come una farfalla, sul serio. E preciso. Come un orologio. Un posto per ogni cosa e ogni cosa al suo posto. E molto gentile. Una persona veramente gentile.» «Harper mi è stato descritto così.» «Da chi?» «Da un suo amico. L'ex marito di Sally.» «Davvero?» «Ha detto che Harper si addolorava persino di dover togliere un amo dalla bocca di un pesce.» «Ma non di dare fuoco a qualcuno, eh? O di spaccare la testa di qualcuno.» «Stai di nuovo cambiando musica» dissi. «Sto soltanto cercando di capire» disse Bloom. «Abbiamo finito, qui?» «Una sola cosa» dissi. «Sarebbe?» «Vuoi fare cercare dai tuoi una seconda chiave nascosta da qualche parte all'esterno della casa?» «Sarà la prima cosa che farò fare domattina» disse Bloom. Alle cinque e un quarto, una macchina della polizia venne a prendermi in ufficio e andammo a Canale 36, la stazione televisiva di Calusa. Un assistente della squadra che preparava il notiziario mi disse che prima di andare in onda dovevo passare dal truccatore. Gli dissi di aver letto una volta una intervista con Alfred Hitchcock in cui il maestro parlando degli attori aveva detto Pressappoco così: "Com'è possibile rispettare chi si guadagna da vivere sporcandosi la faccia col trucco?". L'assistente non considerò divertente l'informazione. Disse che dovevo farmi truccare perché se non lo facevo allora tutti gli altri avrebbero avuto l'aspetto di gente truccata. Non
afferrai la sua logica ma lo seguii in una stanzetta dove una donna piccola e grassoccia stava pettinando una bionda che riconobbi come l'annunciatrice addetta alle notizie meteorologiche. «Siete voi l'ospite?» mi chiese la truccatrice. «Sì» dissi. «Bisognerà ritoccare un po' il contorno degli occhi e il segno della barba» disse guardandomi. Non mi ero più rasato dalle sette del mattino, ora di Puerto Vallarta. Visto nello specchio tutto circondato da lampadine elettriche sembravo Richard Nixon sul punto di rivolgersi alla nazione. «Fatto, cara» disse la truccatrice, e la bionda si protese verso lo specchio, sfiorò con un dito un angolo della bocca come per togliere qualcosa di invisibile, poi si alzò. Mi sorrise nel passare e io immaginai che il giorno dopo avremmo avuto cielo sereno. Occupai la sedia rimasta vuota. «Userò il pancake» disse la truccatrice. «Verrà via con facilità.» Andai in onda alle sei e ventuno dopo che la bionda aveva previsto per l'indomani freddo e pioggia e prima che il cronista sportivo in attesa desse le notizie sulla squadra locale. L'assistente mi presentò. Io guardai dritto in camera e dissi: «Rivolgo questo appello a George Harper. George, sono Matthew Hope. Se state guardando la televisione vi chiedo di ascoltare attentamente. Io sono ancora fermamente convinto della vostra innocenza e farò tutto il possibile per dimostrarlo a una giuria quando sarà il momento. Vi chiedo di telefonarmi. Troverete il mio numero nell'elenco di Calusa. Chiamatemi a casa o in ufficio, allo studio legale Summerville e Hope, in Heron Street. Voglio parlarvi. È importante che parliamo. Per favore, telefonatemi. Grazie.» Mi sentivo come uno stupido. Tornai da Tampa soltanto alle dieci di sera dopo aver registrato più o meno lo stesso messaggio che sarebbe arrivato a un maggior numero di ascoltatori. Ero esausto. Mi preparai un martini molto forte, ci misi dentro due olive e andai nello studio dove passai la segreteria telefonica sull'ascolto. Il primo messaggio era di Jim Willoughby. "Matthew" diceva, "non capisco perché diavolo sei apparso in televisione, ma spero che il procuratore non chieda il trasferimento della causa dopo aver sentito il tuo pronunciamento sull'innocenza di Harper, che può aver raggiunto ogni possibile giurato. È stata una cosa molto stupida, Mat-
thew. Sarà bene che mi telefoni appena puoi. Comunque, credevo che tu fossi in Messico. Gli altri dieci o undici messaggi venivano da gente matta. "Signor Hope" diceva il primo, "ho sentito il vostro discorsetto alla televisione e voglio farvi sapere il mio parere sulla vostra difesa di quel negro assassino. Gli sta bene la sedia elettrica. E anche a voi." Un fruscio poi la voce di una donna: "Io lo so dov'è, signor Hope. È nella città dei negri a ubriacarsi in modo da poter uccidere qualcun altro. Dovreste vergognarvi." Un clik. Un ronzio. Poi un'altra voce di donna. "Sembravi carino in televisione, signor Hope. Quando ne avrai voglia, fammi una telefonata, capito? Chiedi di Lucilie, ma telefonami al lavoro perché io sono sposata. Faccio la cameriera al ristorante Loftside sulla South Trail. O magari puoi venire là una volta a dare un'occhiata alla merce prima di impegnarti. Sei molto carino, tesoro." Un click. Un ronzio. Una voce maschile. "Vorrei che quel negro non si limitasse a telefonare ma venisse a trovarvi, signor Hope. Perché, vedete, io sarò parcheggiato davanti a casa vostra con un fucile a canne mozze, e non appena lo vedrò gli farò saltare le cervella. Dormite bene, signor Hope." La voce successiva, quella di un uomo, disse soltanto: "Dio vi colpirà coi suoi fulmini, signor Hope, così imparerete a farvela con i negri." Poi una donna. "Se Dio avesse voluto che a comandare fossero i negri sarebbe Harper che difende voi invece del contrario. Lui ha già alzato la mano su una creatura bianca, e io spero che venga a trovarvi e usi su di voi lo stesso martello che ha usato su quel rifiuto negro che ha ammazzato dopo. Così ci saremo liberati di lei e di voi. E salutatemi il demonio." Un uomo. "Avete proprio fatto una bella cosa. Fate ancora del vostro meglio e tutti i negri della città si precipiteranno nel vostro ufficio in modo che possiate farli assolvere da tutto quello che hanno fatto, omicidio, rapina o stupro di donne bianche. Congratulazioni, signor Hope, siete di gran valore per la comunità." Un donna. "Ho detto a mio marito che siete tutti i rifiuti del mondo. Lui mi ha detto che dovrebbero spararvi in piazza." Un'altra donna. "Perché non andate in Africa, signor Hope? Saranno in tanti là ad adorarvi, e forse vi faranno anche capo tribù. Pensateci." Un uomo. "Telefono a nome del CIRC, signor Hope. Non so se conoscete la nostra organizzazione. Le lettere significano Cittadini interessati nella
repressione del crimine. Stiamo lavorando perché tutti quelli come il vostro cliente Harper vengano puniti adeguatamente per i crimini che commettono contro la nostra comunità. Voglio farvi sapere, signor Hope, che abbiamo aggiunto il vostro nome all'elenco di quelli che invece lavorano contro questo scopo. Dubito che dopo il vostro discorsetto di questa sera vedrete molta gente onesta nel vostro ufficio. Spero che siate capace di lucidare le scarpe, signor Hope. O forse la pulizia dei gabinetti pubblici può essere più nel vostro stile." Poi il nastro scorse silenzioso a lungo. Spensi l'apparecchio e tornai in salotto frastornato. Fino a quel momento non avevo creduto veramente a tutto quello che avevo letto di telefonate e lettere offensive da parte del pubblico in casi di grandi reati. E per quanto sapessi che le relazioni tra bianchi e neri a Calusa erano cattive come in ogni altra parte della nazione, avevo fino ad allora covato la speranza forse ingenua che le cose potessero soltanto migliorare. Adesso sapevo esattamente fino a che punto arrivava l'odio. Mi sedetti sorseggiando il mio martini e chiedendomi se dovevo chiamare Bloom. Un uomo aveva minacciato di mettersi davanti a casa mia con un fucile a canne mozze, no? Dovevo chiedere la protezione della polizia? Dovevo far mettere il telefono sotto... Il telefono suonò. Rimpiansi immediatamente di aver staccato la segreteria telefonica. Non volevo parlare di persona con qualcuno che sputava offese o faceva minacce. Il telefono continuava a suonare. Misi giù il martini e andai a rispondere. «Pronto?» dissi. «Il signor Hope?» «Sì...» «Sono Kitty Reynolds.» «Dite, signorina Reynolds.» «Mi dispiace disturbarvi a quest'ora, ma mi chiedevo se... Signor Hope, non potreste venire qui per qualche minuto? C'è... ecco c'è qualcosa di cui vorrei parlare con voi.» «Di che cosa si tratta, signorina Reynolds?» «Vi prego, non al telefono. Sono a Flamingo Key, l'indirizzo è Crane Way due zero quattro, subito dopo lo yacht club e oltre il ponte. Lo so che è tardi, ma se potete venire ve ne sarei grata.» Guardai l'orologio. Erano le undici meno dieci. «Datemi venti minuti» dissi.
9 Arrivai a Flamingo Key soltanto verso mezzanotte perché un camion con rimorchio si era messo di traverso sulla strada 41 e ne era risultato un ingorgo degno di un film di Fellini. La nuova tangenziale di Calusa doveva venire inaugurata in maggio e la nuova strada a quattro corsie avrebbe collegato Travers a nord con Venice a sud eliminando, almeno lo speravamo, la maggior parte del traffico turistico che intasava le principali arterie di Sarasota e di Calusa. Per il momento me ne stavo seduto in macchina ad ascoltare musica dietro una lunga colonna di automobilisti furibondi. Flamingo Key, il mio socio Frank la chiama Fandango Key per via dello stile spagnolo largamente diffuso nell'architettura e preferito dagli abitanti. Se a Calusa c'è una Costa d'Oro (cosa che non c'è), allora questa è proprio Flamingo Key. Qui le case vanno dai 500.000 dollari in su e i canali allineano velieri e motoscafi in alcuni casi più costosi delle abitazioni. Su Flamingo ogni casa dà sull'acqua sia quella di Calusa Bay o quella degli innumerevoli canali naturali che percorrono l'immacolato paesaggio. Frank dice che tutti i prati di Flamingo sembrano passati sotto le mani di un barbiere del Corpo dei Marines. Anche Frank ha i suoi pregiudizi. Al cancello principale la guardia di sicurezza uscì dalla sua guardiola non appena fermai la Karmen Ghia. Mancavano pochi minuti a mezzanotte, un po' tardi per una visita. Gli dissi che la signorina Reynolds mi stava aspettando, lui disse: «Un momento per favore» e tornò nella guardiola dove consultò un elenco attaccato a un riquadro di legno. Poi prese il ricevitore di un telefono a muro, compose un numero e mentre aspettava la risposta mi chiese: «Il vostro nome, per favore.» «Matthew Hope» dissi. Lui parlò nel telefono. «Signorina Reynolds» disse, «un certo signor Hope chiede di vedervi.» Ascoltò poi disse: «Grazie» e riappese. «Prima strada a destra» mi disse, «il duecentoquattro è la seconda casa.» Ripartii con la Ghia, arrivai all'angolo, svoltai nella prima a destra e trovai la cassetta postale contrassegnata dal numero 204 davanti a una specie di fattoria spagnola di fianco a un'altra fattoria spagnola con il numero 206 sulla cassetta della posta. Infilai il vialetto, spensi il motore e raggiunsi la porta d'ingresso. C'erano luci accese dappertutto dentro casa. Kitty Reynolds aprì nell'attimo stesso in cui toglievo il dito dal pulsante del campanello.
«Temevo che non sareste venuto» disse.«Entrate, prego.» Indossava un'altra delle creazioni che sicuramente vendeva al Kitty Corner, un abito da casa di nylon azzurro con un spacco sulla gamba sinistra e molto scollato. I lunghi capelli biondi le scendevano sulle spalle. Non era truccata. I suoi occhi, che echeggiavano l'azzurro pallido del vestito passarono dalla mia faccia al vialetto e al prato alle mie spalle. Fui quasi sul punto di voltarmi a guardare. «Entrate» ripeté lei, spostandosi per lasciarmi passare. Poi richiuse la porta e girò la chiave. «Mi scuso per il ritardo» dissi. «C'è stato un incidente sulla quarantuno.» «Di solito sto alzata fino a tardi lo stesso» disse lei.«Volete qualcosa da bere? Io stavo versandomi un cognac.» «Il cognac va benissimo» dissi. Mi fece strada in un salotto arredato quasi completamente in azzurro: tappeto azzurro chiaro, rivestimenti azzurro più scuro, tendine trasparenti azzurre, un quadro di Syd Solomon dipinto in varie sfumature di azzurro, sopra il camino, alla parete stuccata in bianco. Nessun dubbio che l'azzurro fosse il suo colore. Quando ero andato al negozio era vestita d'azzurro, e vestiva di azzurro adesso nella stanza dove l'azzurro predominava. La osservai versare i due cognac negli appositi bicchieri. Poi lei portò i bicchieri sul tavolino accanto a uno dei divani dove mi ero seduto, davanti al camino. «Vogliamo accendere il fuoco?» chiese mentre mi porgeva uno dei bicchieri. «Fa un po' freddo, vero? Vi dispiace farlo voi? Sono una idiota quando si tratta di accendere il fuoco.» Strappai a strisce un foglio di giornale e lo infilai sotto la grata. Poi misi sulla grata una manciata di legna piccola e sopra sistemai due ciocchi. Accesi un fiammifero e l'avvicinai alla carta. La legna prese fuoco e i due ciocchi cominciarono subito a scoppiettare. «Grazie» disse lei. «Ecco fatto» dissi, e rimesso a posto il parafuoco mi risedetti di fronte a lei. «Voglio scusarmi per il mio comportamento della settimana scorsa» disse. «Non vi preoccupate» dissi io. «È che... stavate rivangando il passato e io invece volevo dimenticarlo. Va bene il cognac?» «Perfetto» dissi. «Signorina Reynolds, perché avete voluto vedermi?»
«Perché sono spaventata.» «Da che cosa?» «Quegli omicidi...» «Sì?» «Mi hanno terrorizzato.» «Perché?» «Perché io vivo da sola e...» «Però non è questo il motivo per cui mi avete chiamato, vero?» «No.» «Se aveste voluto protezione avreste telefonato alla polizia, non è vero?» «Sì.» «Allora perché mi avete fatto venire qui, signorina Reynolds?» «Va bene. Conoscevo Andrew.» «Volete dire Andrew Owen?» «Sì. E adesso sua moglie, la sua ex moglie, è stata uccisa, e forse l'omicidio è in qualche modo collegato a...» S'interruppe. «A Michelle?» dissi. «Sì, a Michelle.» «Quindi conoscevate anche Michelle, giusto?» «Sì, la conoscevo,» «Perché non cominciamo dall'inizio?» dissi. «È stato più di un anno fa» disse lei, e sospirò. «Quando esattamente?» «Ecco, è stato in agosto che Jerry è stato ucciso...» «Chi è Jerry?» «Jerry Tolliver. Gerald in realtà. E adesso siamo in dicembre, il primo dicembre, vero?» «Il due» dissi, e guardai il mio orologio. «Quindi sono... agosto, settembre, ottobre, novembre» disse contando sulle dita,«sono quattro mesi pieni, quindi sedici mesi fa.» Il nome mi suonò di colpo conosciuto. «Jerry Tolliver è l'uomo che è stato ucciso da un poliziotto...» «Sì, è lui. Aveva una tintoria sulla South Trail. Stava andando al funerale della sorella quando un poliziotto...» «Okay» dissi. «E allora? Conoscevate anche lui?» «No.» «Dunque che cosa...»
«Ecco, ci stavo arrivando. Qualcuno del comitato lo conosceva, ma io no. Io mi sono unita al comitato soltanto perché mi era sembrato sleale quello che era successo. Un uomo viene assassinato e loro lasciano andare libero il poliziotto! Ecco perché mi sono unita a loro. Pensavo che bisognava fare qualcosa.» «Di quale comitato parlate, signorina Reynolds?» Il comitato, come spiegò la donna, era un piccolo gruppo di neri e bianchi convinti che la giustizia fosse stata presa in giro se non addirittura offesa, nel caso Jerry Tolliver. L'iniziativa era partita da una donna nera sposata a un medico bianco e dapprima era stato soltanto un piccolo gruppo di persone, lei e alcuni bianchi come suo marito per lo più residenti a Fatback Key come loro, ma poi si era allargato a comprendere trenta o quaranta persone di Calusa e di altri posti, sia bianchi sia neri, alcuni benestanti altri poveri in canna. La prima riunione a cui Kitty aveva partecipato si era tenuta a Fatback, una settimana dopo la costituzione del comitato, ed era stato in quell'occasione che lei aveva conosciuto Michelle e George. «Perché, vedete, il medico e sua moglie» disse Kitty, «stavano cercando di coinvolgere nel comitato altre coppie miste come la loro. Come saprete, di coppie così a Calusa non ce ne sono molte.» «Avrei detto il contrario.» «Invece no, credetemi sulla parola» disse «Kitty. Comunque, quando il comitato cominciò a funzionare... ecco in realtà non funzionò mai, ma insomma quel poliziotto era ancora libero come l'aria. Le uniche coppie, però, che la moglie del dottore... ora non ricordo il suo nome, riuscì a trovare furono, oltre alla sua, Michelle e George e un'altra coppia di Venice, che però non è Calusa. Tutti gli altri non erano sposati. Voglio dire che c'erano neri sposati con nere e bianchi sposati con donne bianche ma nessun'altra coppia di sale e pepe.» Di colpo ripensai al dipinto con lo spargisale e lo spargipepe appeso sopra il letto di Sally Owen. Non dissi niente. «Il comitato si sciolse tre settimane dopo la prima riunione. Si erano fatte tante riunioni di giorno e di sera ma voi conoscete questa città, qui non si riesce mai a concludere niente. Così tutti sono tornati a casa a piangere sulle speranze infrante. La signora di Fatback e suo marito... adesso mi ricordo, si chiamava Naomi Morris... loro sono tornati a coltivare orchidee, e tutti gli altri a fare le solite cose. Solo che...» esitò. «Sì?» dissi. «Ecco, alcuni di noi avevano fatto amicizie durante quegli incontri e così
hanno continuato a vedersi.» «Andrew e Sally Owen c'erano a quelle riunioni?» «Sì, facevano parte del comitato.» «È così che avete conosciuto Andrew? A una delle riunioni?» «Sì» disse lei. Lo disse a voce molto bassa poi bevve un sorso di cognac. Nel camino uno dei ciocchi scricchiolò e si ruppe. Fuori, dalla baia venne il rumore di un motoscafo. «Sapete» disse, «io ero una divorziata con una prospera boutique nel Circle, ma non c'era altro nella mia vita, ed è forse per questo che all'inizio mi sono unita al comitato, per sentire che stavo facendo qualcosa di significativo, qualcosa di importante. Il divorzio è duro da superare» disse. «Sì, lo so.» «Ci siete passato anche voi, eh?» «Ci sono passato.» «Ecco» disse lei e sospirò di nuovo. «Andrew era pieno di attenzioni per me, Andrew era attraente, Andrew e io... insomma, lo sapete.» «Quando è successo?» «In settembre o in ottobre dell'anno scorso. Comunque in autunno.» «E Sally l'ha scoperto.» «Immagino di sì.» «Lo immaginate soltanto?» «Be'... sì, l'ha scoperto.» «E immediatamente ha chiesto il divorzio.» «Sì.» «Perché l'altro giorno siete stata tanto riluttante a dirmelo?» «Era una cosa, ecco, molto personale.» «Lo è ancora, no?» «Be', sì, però allora Sally non era morta.» «Michelle però sì.» «Io non sono stata coinvolta in una storia con il marito di Michelle.» «Volete dire che la morte di Sally...» «No, no.» «... è in qualche modo connessa con la vostra storia con suo marito?» «Certamente no!» «Allora come mai la sua morte ha cambiato le cose? Una settimana fa non volevate parlare di questo e invece adesso...» «È solo che ho cominciato a pensare. Prima Michelle, poi Sally, come se tutte le donne dell'ore...»
S'interruppe di colpo. Aveva l'abitudine di interrompersi. L'aveva fatto prima quando stava per pronunciare il nome di Michelle, e adesso appena iniziata una parola aveva chiuso la bocca. La guardai. Lei abbassò gli occhi e disse: «È solo che in un gruppo come il nostro, dopo che il comitato si è sciolto, voglio dire che... insomma non era contemplato che io mi innamorassi di Andrew come invece ho fatto.» «Ma questo può andar bene per qualsiasi gruppo in cui ci siano persone sposate e...» «Sì, certo, ma la reazione di Sally... è stata, come dire... esagerata. Sally era molto vanitosa sapete, è... è diventata una vera furia, ecco. Ci ha detto chiaro e tondo che da allora saremmo stati fuori, ci ha detto che nessuno dell'ore... nessuno dei nostri amici avrebbe più avuto niente a che fare con noi. Ecco perché ha chiesto il divorzio e ha fatto il mio nome per l'eventuale azione legale. Fuori tutti e due, capite? Scomunicati.» «Questa ore che continuate a nominare...» «Cosa?» «Avete detto più volte la parola ore.» «Vi sbagliate.» «Sono convinto di avere sentito giusto.» «Davvero? No» disse lei. «Un altro po' di cognac?» «No, grazie. Quindi, da quanto ho capito, voi avete perso i contatti con le persone con le quali eravate entrata in amicizia nel...» «Sì, perché è stato così che Sally voleva.» «Gente qui di Calusa?» «Sì. In verità anche di altri posti. Il caso aveva attirato molta attenzione, sapete? C'era una coppia di Venice, e gente di Tampa, Miami, Sarasota... insomma chiunque fosse preoccupato per l'ingiustizia di quanto era successo.» «Chi c'era di Miami?» «Adesso non ricordo. È stato tanto tempo fa.» «Non ricordate se c'era un certo Lloyd Davis?» «Non ricordo tutti i nomi. Davvero.» «Lui era stato nell'esercito con Harper. Pensavo che...» «Be', ecco...» «Se Harper e sua moglie facevano parte del comitato come avete detto...» «Infatti.»
«Allora è probabile che si sia messo in contatto con Davis e abbia cercato di interessarlo a...» «Ora che ne avete parlato, mi sembra che a una delle riunioni ci fosse un certo Davis.» «Lloyd Davis?» «Mi pare.» «E sua moglie, anche?» «Mi sembra di sì.» «Il nome è Leona.» «In realtà non ricordo.» «Dove è stato?» «A una riunione, mi sembra in casa di Andrew. È stato un anno fa, anzi, più di un anno fa. Mi pare proprio che sia stato là. La gente veniva e basta, capite. Ora non so se Sally e Andrew lo conoscevano o se l'aveva portato qualcun altro. C'era sempre parecchia gente.» «Trenta o quaranta avete detto.» «A volte anche di più. Per lo meno all'inizio.» «Capisco» guardai l'orologio. «Signorina Reynolds» dissi, «io non so ancora perché mi avete chiesto di venire qui.» Una lunga esitazione. Poi lei disse: «È perché siete l'avvocato di George.» «E con questo?» «Ho sentito il vostro messaggio di questa sera in televisione, e ho pensato, se lui vi chiama...» «Sì?» «Voi potreste dirgli che io non c'entro.» «Con che cosa, signorina Reynolds?» «Con quello che è cominciato.» «Che cosa è cominciato?» «Voi ditegli così. Qualsiasi cosa stia pensando...» «Che cosa credete che stia pensando?» «Credo che abbia scoperto...» Scosse la testa. «Lasciate perdere» disse. «Scoperto che cosa, signorina Reynolds?» «Niente. Ditegli solo quello che vi ho detto. Lui sta addosso a tutte noi e io non voglio essere la prossima vittima.» «Tutte noi, chi?» «Le donne.» «Quali donne?»
«Quelle della nostra cerchia,» «No, non capisco, quale cerchia?» «Quelli di noi che eravamo amici. Prima del divorzio. Prima che Sally e Andrew si separassero.» «E voi pensate che George, o chiunque abbia ucciso Sally e Michelle...» «È stato George» disse lei. «Come fate a saperlo?» «Chi altri può essere stato?» «Allora voi pensate che George voglia eliminare tutte le amiche che avevate voi e Andrew Owen?» «Be'... sì.» «Per me non ha senso. Perché dovrebbe...» «Se non capite cosa sto cercando di dirvi, allora lasciate perdere.» «Perché invece non me lo dite?» dissi. «Qualsiasi cosa sia, parlate e spiegatevi.» «Ho già detto abbastanza.» «Mi pare che siate davvero spaventata» dissi. «Sì.» Fissava il bicchiere di cognac e la sua voce era molto bassa... «Forse dovreste chiamare la polizia.» «No» disse, alzando gli occhi di colpo. «In questa città? Dopo quello che e successo a Jerry? No, niente polizia.» «Be'» dissi. Sospirai e mi alzai. «Se c'è qualcos'altro che volete dirmi, sapete dove trovarmi. Se non...» «Ditelo a George, d'accordo? Diteglielo quando gli parlerete.» «Se gli parlerò.» «Vi accompagno» disse e si alzò di scatto. Il vestito si aprì scoprendo le gambe. Lei avvicinò i lembi, andò in fretta alla porta, l'aprì e disse: «Buona notte, signor Hope. Grazie per essere venuto.» «Buona notte» dissi, e uscii nelle prime gocce della pioggia promessa dalla signorina Meteo, una pioggerella sottile che cadeva dal cielo nero. Alle mie spalle sentii lo scatto leggero della serratura. Quando arrivai a casa era la una e un quarto. Misi la Ghia nel garage e abbassai la saracinesca, aprii la porta che dal garage portava in cucina, spensi la luce del garage alle mie spalle e allungai la mano ad accendere quella della cucina, poi chiusi e sprangai la porta di comunicazione. Non sapevo se prendere un altro martini o un bicchiere di latte. Optai per il latte. Andai al frigorifero, presi la bottiglia, mi versai
un bicchiere di latte, rimisi via la bottiglia, e stavo entrando in salotto quando mi presi un grosso spavento. George Harper era seduto là nel buio. «Gesù!» dissi e accesi di scatto la luce. «Come state, signor Hope?» disse lui. Teneva le grosse mani unite in grembo, e sedeva immobile come la morte nella grande poltrona vicina al camino di fronte alla porta ad arco della cucina dove stavo io con il bicchiere di latte in mano. Le mani mi tremavano. «Come siete entrato?» chiesi. «La porta posteriore era aperta» disse lui. «No, non è vero.» «Allora forse l'ho forzata» disse. «Mi avete fatto una gran paura. Dove siete stato?» «A Miami.» «A far cosa?» «Sono andato a trovare mia madre.» «Siete scappato di galera per andare a vedere la mamma, eh?» «Giusto, signor Hope. A volte mi manca molto.» «Sapete che Sally Owen è stata assassinata?» «Sì, l'ho sentito.» «L'avete uccisa voi?» «Nossignore.» «Sapete che il vostro martello è stato trovato sul posto?» «Sissignore.» «Con sopra le vostre impronte?» «Così ho sentito.» «Nessuna idea di come sia arrivato là?» «Nossignore.» «Le vostre chiavi di casa le avevate soltanto voi e Michelle?» «Sì.» «Allora come è uscito dal garage quel martello?» «Non so dirvelo, signor Hope.» «Lo sapete in che razza di guaio vi trovate?» «Lo immagino.» «Perché avete fatto la sciocchezza di scappare?» «Ve l'ho detto. Dovevo vedere mia madre.» «Per che cosa?»
«Affari.» «Sentite, signor Harper, è meglio che la smettiate con questa fesseria delle cose personali, mi avete capito? Se volete che vi aiuti allora non dovranno più esserci cose personali. Tutto deve essere chiaro, noi siamo soci, capito?» «Non mi è mai piaciuta l'idea di essere socio con qualcuno» disse Harper. «No, eh? Vi piace l'idea della sedia elettrica? Vi attira?» «Non molto. Ma quello che deve essere sarà.» «Non c'è niente che deve essere, signor Harper, se noi non vogliamo che lo sia.» «Alcune cose succedono e basta» disse lui. «Voi siete scappato dalla prigione giovedì scorso» dissi. «Siete stato a Miami per tutto il tempo?» «Sissignore. Sono tornato a Calusa questa notte. Ho pensato che sarebbe stato meglio venire da voi.» «Dove eravate quando mi avete sentito in televisione?» «Cosa?» «Non siete qui a causa dell'appello...» «Cosa?» ripeté lui. «Ma mi avete sentito alla televisione?» «Nossignore.» «Allora perché siete qui?» «Siete il mio avvocato, no? Ho pensato che dovevo sapere come si sta mettendo il caso.» «Oh, il caso si sta mettendo meravigliosamente. Ogni poliziotto dello stato è pronto a spararvi a vista. Pensano che abbiate ucciso due persone, sanno che siete scappato di prigione, sanno che avete un fucile... l'avete ancora quel fucile?» «Sissignore.» «Dov'è?» «In macchina.» «Quale macchina?» «Quella che ho preso.» «Avete rubato una macchina?» «Sissignore.» «Magnifico» dissi. «Mi serviva una macchina» disse Harper e si strinse nelle spalle.
«Dov'è adesso?» «Parcheggiata nella strada. Non volevo bloccare il vostro vialetto d'ingresso perché immaginavo che aveste bisogno del garage.» «Grazie. Siete stato molto premuroso.» Harper non disse niente. «Voglio che vi consegniate» dissi. «Nossignore, non ho intenzione di farlo.» «Se non avete ucciso vostra moglie...» «Non l'ho uccisa.» «Se non avete ucciso Sally Owen...» «Nemmeno lei.» «Allora perché diavolo scappate?» «Non sto scappando, signor Hope.» «E che cosa state facendo?» Non rispose. «Signor Harper» dissi, «potete darmi un buon motivo del perché vostra moglie è venuta da me il lunedì mattina sedici novembre a dichiarare che la sera prima l'avevate picchiata brutalmente e a chiedere che...» «Non me ne viene in mente nessuno» disse Harper. «Quella domenica voi eravate a Miami, vero?» «Sì.» «Dove siete andato prima da Lloyd Davis e poi da vostra madre...» «Giusto, ma non c'erano né l'uno né l'altro.» «E così avete telefonato a un vecchio compagno d'armi.» «Sissignore. Ronnie Palmer.» «Un sergente dell'ufficio reclutamento.» «Sissignore.» «E poi siete andato a Pompano e Vero Beach.» «Sissignore.» «Perché?» «Ve l'ho detto. Per guardarmi un po' in giro.» «Dove eravate il lunedì sera? La sera in cui lei è stata uccisa?» «Ero tornato a Miami. Vi ho già detto anche questo.» «Perché siete tornato a Miami?» «Pensavo che Lloyd poteva essere tornato.» «Signor Harper» dissi, «cominciate a seccarmi.» «Questo mi dispiace» disse lui, «ma ci sono cose che non sapete.» «Allora perché non me le dite?»
«Non posso» disse lui. «Che cosa avete scoperto, signor Harper?» Non mi rispose. «Kitty Reynolds crede che abbiate scoperto qualcosa. Che cosa, signor Harper?» Sedeva immobile come una pietra e mi fissava. «Signor Harper» dissi, «vi chiedo di venire con me alla polizia. Voglio che vi costituiate volontariamente prima che qualcuno vi spari. Se non avete commesso quei delitti non avete niente da nascondere. Cosa ne dite? Verrete con me.» Rimase seduto là a pensare per un minuto buono. Poi fece segno di sì con la testa. Si alzò. E poi, quel bastardo, mi colpì in pieno sulla faccia con un pugno. 10 Stava suonando il telefono. Il tempo era piovoso, ventoso e freddo. Erano le nove di mercoledì mattina 2 dicembre, un po' meno di otto ore da quando George Harper mi aveva fatto perdere i sensi ed era scappato. Avevo ripreso coscienza dopo una ventina di minuti. Il mio orologio faceva le 1.46. È un orologio digitale. Nessuno dice più "le due meno un quarto", adesso sono sempre o l'una e 44 o l'una e 46. Avevo pensato di telefonare a Bloom, invece ero andato a letto. Adesso al telefono c'era lui. «Ti ho svegliato?» chiese. «No, ero già in piedi.» «Notizie di Harper?» Una breve esitazione poi dissi: «No.» «Be', a volte ci vuole un po' perché uno si decida» disse Bloom. «Forse comparirà oggi al funerale.» «Quale funerale?» «Quello di Sally Owen. Ti informo che presidieremo la zona come per una visita presidenziale. Metà dei nostri poliziotti saranno là. Ottima giornata per una rapina a una banca del centro, eh?» «Ottima giornata anche per un funerale.» «Sì, magnifica» disse Bloom. «Ci andrai?» «Perché dovrei?»
«Se Harper fa la sua comparsa avrà bisogno del suo avvocato.» «Dubito molto che si farà vivo, Morrie.» «Oh» disse Bloom. Seguì una lunga pausa, poi: «Che cosa te lo fa pensare?» «Se tu l'avessi uccisa andresti al suo funerale?» «Un sacco di assassini fanno cose stupide dopo il delitto. C'è stato un tale una volta, a Long Island, che ha ammazzato la moglie con un coltello da carne, e il giorno dopo, con tutta la polizia che lo cercava ha portato il coltello ad affilare. Ci crederesti? Portare ad affilare un coltello con il manico ancora sporco di sangue, sai, attorno a quei chiodini del manico. L'arrotino ha portato il coltello nel retro e ci ha telefonato, e quando l'abbiamo arrestato quel tale ha detto soltanto: "il coltello non tagliava". La gente fa cose stupide, Matthew.» «Già» dissi. «Be', comunque il funerale è alle undici. Se per caso vuoi venire è al Floreal Park Cemetery.» «Non aspettarmi» dissi. «Hai l'aria scontrosa, questa mattina» disse lui. «Ho mal di denti.» «Brutto guaio. Ce l'hai un buon dentista?» «Sì, grazie, Morrie.» «Informami se senti qualcosa di Harper» disse, e riappese. Non so perché andai al funerale. I funerali mi deprimono anche quando non piove. Certo non mi aspettavo di vedere là Harper. Non prendi a pugni il tuo avvocato la notte prima per poi il giorno dopo andare dritto fra le braccia della polizia. Avevo davvero il mal di denti, due mal di denti o forse anche tre, nel punto in cui Harper mi aveva colpito. Per di più tutta la parte sinistra della faccia era gonfia e bluastra, e quel mattino quando mi ero lavato i denti, le gengive inferiori avevano cominciato a sanguinare. Non mi era piaciuto prendere il pugno. L'ultima volta che ero stato colpito alla mascella (o in qualsiasi altro posto se è per questo) avevo quattordici anni e mi ero impelagato in uno scontro con un giocatore di football per via di una ragazza della squadra di sostenitrici. Lui, si chiamava Hank, mi aveva detto di stare lontano da lei, che si chiamava Bunny. Io gli avevo detto che era uno stronzo idiota. Lui mi aveva annerito tutti e due gli occhi, slogato la mascella e buttato giù un molare. Avevo ancora in bocca il dente rimessomi dal dottor Mordecai Simon di Chicago. Serviva a ricordarmi di
non iniziare mai una rissa con un giocatore di football o con chiunque altro. Ma chi si aspetta che sia un cliente a colpirlo? Da quel momento però io mi aspettavo che i miei clienti mi prendessero a pugni. Mi aspettavo che anche i preti mi prendessero a pugni. Mi aspettavo che i bambini in carrozzina mi colpissero col biberon. Se ti aspetti il peggio, non ti sorprenderai quando succede. L'unica sorpresa al funerale di Sally Owen fu la comparsa del suo ex marito. Andrew Owen arrivò tardi, con l'ombrello aperto, appena in tempo per sentire le ultime parole dell'officiante prima che la bara venisse abbassata nella fossa. Lui tenne gli occhi fissi sulla bara. I presenti cominciarono a disperdersi e lui stava ancora con gli occhi sulla fossa aperta. A qualche distanza da lì, Bloom stava parlando con un poliziotto in divisa, un capitano. Gli agenti assegnati a quel lavoro, dovevano essere una quarantina, sembravano spettri neri sotto la pioggia, con gli impermeabili lucidi d'acqua, gli occhi a ispezionare il perimetro del cimitero, le mani vicine all'impugnatura sporgente delle pistole. Proprio non avrei voluto che Harper fosse così pazzo da farsi vedere lì. Mi avvicinai a Owen che stava ancora guardando la tomba, l'ombrello aperto sopra la testa reclinata. «Come va?» gli dissi. Alzò gli occhi e si girò a guardarmi. «Gran brutta cosa» disse. «Mi sorprende vedervi qui.» «Siamo stati marito e moglie» disse lui. «Una volta l'amavo» disse e scosse la testa, poi sospirò e prese a camminare verso le macchine parcheggiate su un dosso fangoso in cima a un pendio verde d'erba. I nostri ombrelli, il mio e quello di Owen, si sfiorarono e si urtarono come spie intente a confidarsi segreti. «Nessuna idea su chi può essere stato?» chiesi. «No.» «Pensate che sia stato George Harper?» «No. George forse è stupido ma non è pazzo.» «La polizia vi ha interrogato?» «Ex marito? Divorzio combattuto? Certo che mi hanno interrogato.» «Risultato?» «Dalle domande che mi hanno fatto ho immaginato che sapessero già che era stata uccisa tra le due o le quattro del pomeriggio. Lunedì io sono stato al negozio tutto il giorno. Il lunedì è la mia giornata più laboriosa... be', il lunedì e il sabato, per la verità. Ma il lunedì tutti gli alcolizzati hanno finito la scorta del fine settimana e calano da me come falchi. I poliziotti
sono venuti da me che era quasi mezzanotte. Io avevo già sentito alla televisione che il corpo era stato trovato alle sette di sera quando la vicina di casa, Jennie Pierce, la conosco, una simpatica persona, quando Jennie, dicevo, è andata per restituire a Sally un piatto o qualcosa del genere. Ho detto ai poliziotti che alle sette io stavo chiudendo il mio negozio e che avevo soltanto un milione e mezzo di testimoni pronti a giurare su una cassa di Chivas Regal che ero stato in quel negozio per tutta la giornata, proprio dietro il banco dove uno si aspettava di trovarmi. Mi hanno ringraziato per il tempo che mi avevano fatto perdere, ormai era la una del mattino, e se ne sono andati. "Tenetevi fuori dai guai" mi hanno detto. Tenermi fuori dai guai! Da dieci anni, da quando sono tornato dal Vietnam, sono sempre stato un onesto commerciante, e non ho mai preso nemmeno una multa per sosta vietata e loro mi dicono di tenermi fuori dai guai. Si sono soltanto dimenticati di aggiungere "negro".» Si era fermato davanti alla sua macchina, una Pontiac blu e stava cercando le chiavi in tasca. Bloom e il capitano della polizia, sempre immersi nella loro conversazione, stavano risalendo il pendio in direzione delle macchine. «Questa notte ho parlato con Kitty Reynolds» dissi. Owen, intento a infilare la chiave nella portiera, alzò la testa. «Ah» disse. «Già.» Una pausa poi dissi: «Continuate a vederla?» «No.» «Come mai?» «Le cose finiscono, la gente si separa.» «Quando è finita?» «Quasi prima di cominciare. Non appena Sally ha chiesto il divorzio è cominciata ad andare male. Tutti i nostri vecchi amici, le persone con le quali eravamo abituati a passare il tempo... be', non si sono più fatti vedere, hanno smesso di frequentarci. E se uno non ha amici si sente molto solo.» «Anche Harper?» «Harper cosa?» «Anche lui ha smesso di vedervi?» «No, George no, ma George non sapeva...» Owen si interruppe. Forse è un male contagioso. Forse dopo aver passato un po' di tempo a letto con una persona se ne assumono le abitudini. Kitty Reynolds era una esperta nell'interrompersi a metà di una frase. Adesso Owen aveva ingoiato il resto di quello che stava per dire e si era ri-
messo a trafficare con la portiera. «Che cosa non sapeva?» chiesi. «Non vi seguo» disse lui. «Stavate per dire...» «Stavo per dire arrivederci, signor Hope.» «Soltanto un secondo, okay?» Lui aveva già aperto la portiera. Accorgendosi che l'acqua bagnava il sedile, la richiuse. «Che cosa c'è?» disse, e sospirò. «La prima volta che ci siamo parlati avete avuto qualche difficoltà a ricordarvi di Lloyd Davis.» «E allora?» «Kitty Reynolds dice di averlo conosciuto a casa vostra.» «Ah, sì?» «A una delle vostre riunioni.» «Davvero? Quali riunioni?» «Mi ha detto che una signora di Fatback Key aveva formato un comitato...» «Ah, sì, quello stupido comitato.» «Per vedere di fare qualcosa per il caso Jerry Tolliver.» «Già.» «E che lei ha conosciuto voi e Lloyd Davis a una di quelle riunioni. A casa vostra.» «Se l'ha detto sarà vero.» «Eppure voi avete faticato a ricordarvelo.» «A quelle riunioni la gente andava e veniva» disse Owen e si strinse nelle spalle. «Ieri sono stato a casa vostra» dissi. «Ah, sì?» «Quella prima pagina di un giornale incorniciata in camera da letto c'era quando eravate ancora sposato con Sally?» «Quale prima pagina?» «Quella con l'articolo sull'uccisione di Tolliver.» «Ah, quella. Sì, mi pare di sì.» «E i quadri?» «I quadri di Sally? Sì, lei li appendeva in tutta la casa.» «Mai visto quello di una bianca e di un nero che si baciano?» «Chi se lo ricorda? Lei ne faceva in continuazione.»
«Nessuna idea di come quel particolare quadro sia finito nel garage di George Harper?» «Neanche l'ombra.» «Non ricordate se glielo ha dato Sally? O se gliel'ha venduto?» «Sally non andava d'accordo con George. Ve l'ho già detto.» «Potrebbe aver dato il quadro a Michelle?» «Li distribuiva a tutti.» «Davvero? E a chi li dava?» «A chiunque li accettasse. Voi li avete visti, quindi sapete quanto sono brutti.» «A chi li dava?» «Ve l'ho detto. A tutti e a chiunque. Io devo andare, signor Hope. Ho già perso mezza giornata, devo proprio aprire il negozio.» «Un'ultima domanda» dissi. «D'accordo, ma...» «Cos'è che Harper non sapeva? Cos'è che Harper ha scoperto?» «Queste sono due domande e io non conosco la risposta a nessuna delle due.» Chiuse l'ombrello, lo buttò sul sedile posteriore e si mise al volante. Lo guardai infilare la chiave nell'accensione e mettere in moto, poi indietreggiai mentre lui si avviava sotto la pioggia. Bloom era appena dietro di me e sbirciava da sotto l'ombrello verso la macchina che descriveva la curva in cima all'altura e poi spariva alla vista. «Chi era?» mi chiese. «Andrew Owen» dissi. «Candido come un giglio» disse Bloom. «Ha un alibi lungo un chilometro.» Mi sbirciò tra la pioggia fitta. «Cosa ti è successo alla faccia, Matthew?» «Ho sbattuto contro una porta.» «Ah, sì? Dovresti stare più attento» disse Bloom. L'ultimo volo per Miami partiva alle 2.50 del pomeriggio e arrivava alle 4.20. C'era un po' di vento sulla costa orientale ma splendeva il sole e il tassista che mi portò alla casa della signora Harper continuava a voltarsi per guardare l'ombrello come se fosse una spada brandita da un cavaliere medioevale. Quando il taxi si fermò, la signora Harper era china su una aiuola di gardenie del suo giardino. Alzò la testa quando smontai dal taxi e continuò a guardarmi mentre io pagavo e poi mi dirigevo all'ingresso. A-
veva nella sinistra un pugno di semi e un piantatoio nella destra. «Buongiorno, signora Harper» dissi. «Signor Hope» disse lei e fece un cenno con la testa. «Ho cercato di telefonarvi» dissi, «ma...» «Ho staccato il ricevitore. Troppe telefonate di giornalisti.» «Spero che mi possiate dare un minuto del vostro tempo.» «In questi giorni tutti vogliono un minuto del mio tempo. Non vedevo un'anima per giorni e giorni. Adesso tutti bussano alla mia porta.» «Si tratta di vostro figlio» dissi. «È quello che dicono tutti.» «Sapete che giovedì scorso è scappato di prigione, vero?» «Così ho sentito.» «E sapete che è stata uccisa un'altra persona, una donna di nome Sally Owen?» «Sì, so anche questo.» «Quando vostro figlio è venuto da voi giovedì scorso...» «Avrei voluto che l'avesse fatto» disse la signora Harper. La guardai. «Deve però aver pensato che questo sarebbe stato il primo posto in cui sarebbero venuti a cercarlo. Il primo posto in cui sono venuti, infatti. La polizia di Miami è stata qui quella stessa sera a chiedere se sapevo dov'era il mio ragazzo. Io gli ho detto che il mio ragazzo era in prigione. E così loro si sono accampati sulla mia porta aspettando che lui si facesse vivo. Vorrei proprio che l'avesse fatto, signor Hope. Non avrebbe dovuto scappare dalla prigione come ha fatto. È riuscito soltanto a fare le cose più brutte per sé, vero?» «Lui mi ha detto che era venuto a vedere voi.» «No, non l'ha fatto.» «Ha detto che aveva delle faccende personali con voi.» «Non mi viene in mente nessuna faccenda personale che lui può avere con me. Ma perché ha detto che era qui quando invece non c'era!» Ero volato a Miami nella speranza che lei potesse dirmi di che cosa aveva parlato con suo figlio, nella speranza che lui avesse rivelato a lei quello che si era rifiutato di rivelare a me, nella speranza che lei fosse la persona alla quale lui aveva scelto di confidare quello che aveva scoperto. Adesso il mio meraviglioso orologio digitale giapponese faceva le 5.12. Avevo impiegato due ore e mezzo per venire lì e, se ero fortunato, avrei impiegato altre due ore e mezzo per tornare indietro. Nessuna possibilità di prendere
il volo della Sunwing delle 5.30 che mi avrebbe depositato a Calusa un po' prima delle sette. La Eastern aveva in programma un volo alle 6.10 con cambio di aereo a Tampa e arrivo a Calusa alle 8.15. Stavo cercando di decidere se dovevo tentare di trovare un posto su quell'aereo o piuttosto mangiare all'aeroporto e poi partire con l'ultimo volo della Sunwing alle 7.30, quando la signora Harper, che Dio la benedica, disse: «Forse è andato da Lloyd. Forse ha tentato di vedere se poteva nascondersi da Lloyd.» Il taxi che chiamai da una cabina telefonica mi depositò davanti alla casa di Lloyd Davis cinque minuti più tardi. Erano quasi le cinque e mezzo quando imboccai il vialetto fiancheggiato dai rottami. Il sole era quasi tramontato e le ombre erano lunghe. Dalla casa veniva il suono di un giradischi. Billie Holliday. "Strange Fruit". Bussai alla porta schermata. Nessuna risposta. Bussai di nuovo. «Sì?» Una voce femminile. «Signora Davis?» dissi. «Sì.» «Sono Matthew Hope. Posso entrare?» «Certo, venite avanti» disse lei. Aprii la porta ed entrai nella casa. La donna era seduta nel salotto, e la debole luce del tramonto entrava dalla finestra alle spalle della sua poltrona, uno sconquassato relitto salvato dal garage del marito. Indossava un kimono a fiori fermato in vita da una sciarpa rossa. Quando entrai nella stanza e la porta sbatté alle mie spalle lei non si voltò. Fissava il giradischi come se volesse assorbire la musica con gli occhi. Sul tavolino accanto alla poltrona c'era una bustina accartocciata e accanto alla bustina un cucchiaio annerito. Per terra, ai piedi della donna, una siringa. Il disco finì. Il fruscio della puntina presa negli ultimi solchi parve avvertirla della mia presenza. Si voltò a guardarmi. La sua carnagione aveva il colore dello zucchero di canna non raffinato, effetto di generazioni di mescolanze razziali, gli occhi, scuri e umidi affondavano nella faccia dagli zigomi alti, il naso era aquilino, la bocca generosa. Una volta doveva essere stata molto bella, ma adesso il corpo affondato nella poltrona sembrava fragile e impalpabile, e gli occhi che mi guardavano non avevano vita. «Salve» disse lei. La luce era quasi scomparsa ormai e la stanza stava soccombendo al
crepuscolo. Lei non fece il gesto di accendere la lampada del tavolino. Unico suono nella stanza il fruscio della puntina. «Cerco vostro marito» dissi. «Non c'è» disse lei. «Sapete dove posso trovarlo?» «No.» «Signora Davis...» «Vi dispiace chiudere quello, per favore?» disse lei e sollevò la mano, indicando con un gesto molle il giradischi. Attraversai la stanza e alzai il braccio fermando il disco. «Chi avete detto di essere?» chiese lei. «Matthew Hope.» «Ah, sì, Hope» ripeté lei. «State bene, signora Davis?» «Benissimo» disse lei. «Sapete quando tornerà a casa vostro marito?» «Non lo so con certezza. Lui va e viene.» «Sapete dove sia andato?» «Con l'esercito, credo.» «L'esercito? Cosa volete dire?» «Con la riserva. Se ne va sempre via con la riserva da qualche parte, cosa importa?» disse lei e troncò l'argomento con un gesto impaziente del braccio che poi lasciò ricadere. «Volete farmi un favore?» «Certo.» «Quella sì che era roba potente.» «Che cosa volete?» «Roba potente. Costa tanto ma è potente. Volete farmi un favore?» «Certo.» Lei fece un cenno con la testa e poi, prima di potermi dire che cosa voleva chiuse gli occhi, reclinò la testa e salì dritta nella stratosfera volando più alta e più leggera di quanto avesse mai fatto un aereo della Sunwing. La guardai. Il respiro era pesante ma regolare. La stanza adesso era molto buia e io distinguevo a malapena la donna. Accesi la lampada che c'era sul tavolino, e in quel momento suonò il telefono. Mi girai di scatto come se avessi sentito uno sparo. Il suono veniva da una stanza che vedevo dalla porta aperta. La cucina, senza dubbio. Vedevo il lavandino e il frigorifero illuminati vagamente dal riflesso della luce in salotto. Il telefono continuava a suonare.
«Va bene» mormorò la donna alle mie spalle. Il trillo forava il silenzio della casa. «Va bene, va bene» disse lei, riscuotendosi dal suo torpore e iniziò il gesto di alzarsi ma poi ricadde indietro. «Ah» disse,«proprio potente.» Il telefono suonò ancora un paio di volte poi tacque. «Bene» disse lei, e poi mi guardò come se scoprisse in quel momento la mia presenza. Le mani pendevano molli dai braccioli della poltrona, le gambe erano allungate in avanti, i lembi del kimono si erano aperti e rivelavano i segni della sua tossicodipendenza all'interno delle cosce. «Ehi, fatemi un favore» disse. «Datemi un bicchiere d'acqua. Sto morendo di sete.» Andai in cucina, trovai un bicchiere pulito, lo riempii d'acqua e glielo portai. Lei lo bevve tutto in un unico sorso, si girò per mettere il bicchiere sul tavolino e lo lasciò andare prima che avesse trovato un solido sostegno. Il bicchiere cadde sul pavimento e si ruppe. «Ooo» disse lei e mi sorrise. «State meglio adesso?» chiesi. «Sto tornando» disse lei. «Avete voglia di parlare un po'?» «Ho voglia di dormire.» «Non ancora» dissi. «Signora Davis, riuscite a ricordare esattamente che cosa avete detto a George Harper la domenica in cui è stato qui?» «È passato tanto tempo.» «Non tanto, poi. Cercate di ricordare. Lui vi ha chiesto dov'era vostro marito...» «Mmmmm.» «E voi gli avete detto che era fuori con la riserva.» «Era così.» «Cos'altro gli avete detto?» «Nient'altro.» «Gli avete detto dov'era vostro marito?» «Gli ho detto con la riserva.» «Con la riserva d'accordo, ma dove?» «Dove non lo sapevo.» «Dove va di solito?» «Dove dice l'unità.» «Quale unità? Una unità della polizia militare?» «No.»
«Allora di cosa?» «Artiglieria.» «Quale unità?» «Non lo so.» «Avete detto a George Harper...» «Non so che cosa gli ho detto» disse lei.«Adesso scusatemi, ma io devo dormire.» «Signora Davis, se vi ricordate che cosa gli avete detto...» «Non posso ricordare» disse e si afferrò ai braccioli con tutte e due le mani e si mise in piedi. Poi notò la siringa sul pavimento, si chinò a raccoglierla, la depose con cura sul tavolino accanto al cucchiaio e uscì dalla stanza. Il telefono suonava di nuovo quando lei passò davanti alla cucina. La donna diede un'occhiata pigra alla porta aperta e continuò lungo il corridoio fino a quella che immaginai essere la camera da letto. Il telefono continuava a suonare, insistente. Io seguii la signora Davis e mi fermai davanti alla porta della stanza. Lei era seduta sull'orlo del letto, al buio, e si stava togliendo una pantofola. La lasciò cadere e poi si tolse l'altra. Il telefono continuava a suonare. «Non andate a rispondere?» dissi. «Suona sempre» disse lei. «Andate a casa, io devo dormire.» «Soltanto un momento» dissi. «Per favore cercate di ricordare se...» «Non ricordo niente.» «Signora Davis, avete detto a George Harper che vostro marito era con l'artiglieria?» «Può darsi.» «Non ricordate con certezza?» «Andate a casa» biascicò lei. Non volevo che mi sfuggisse ancora. Allungai la mano verso l'interruttore e accesi la luce. La prima cosa che vidi fu l'enorme quadro sulla parete dietro il letto. Era un quadro di Sally Owen. Di colpo il telefono smise di suonare. La casa tornò silenziosa. Leona Davis, lunga e distesa sul letto, sbatteva gli occhi e tentava di proteggerseli con la mano. «Spegnete, per favore» disse. Io stavo guardando il dipinto. Come gli altri, visti nella camera da letto di Sally, e quello trovato sotto il panno nel garage di Harper, anche questo era un olio tutto in bianco e
nero. Questa volta però Sally era andata dritta al punto. Secondo Freud (interpretato da mia figlia Joanna) i sogni che vertono su un dato problema sono dapprima simbolistici. Se il problema persiste i sogni diventano sempre più espliciti sino a che il contenuto ne viene rivelato in maniera quasi documentaristica. Nel caso di Sally, i dipinti erano passati dagli oggetti inanimati come i pezzi degli scacchi e i dadi alla vita animale, zebre e pinguini, corvi e colombe e poi cani domestici per arrivare alla fine agli esseri umani come erano rappresentati nel dipinto trovato nel garage di Harper. E anche per Sally l'espressione artistica era passata dal simbolismo all'esplicito. Il dipinto appeso sopra il letto di Leona Davis non lasciava niente all'immaginazione. Il quadro rappresentava una coppia avvinta in un abbraccio più che rivelatore. La coppia era rappresentata da un nero e da una donna bianca. «In che modo l'avete avuto?» chiesi. «Spegnete la luce.» «È un quadro di Sally Owen, vero?» «Se volete parlare spegnete almeno quella maledetta luce!» Si mise seduta di scatto e accese la lampada accanto al letto. Un cono di luce ambrata si allargò sul letto. L'orologio sul tavolino segnava le 5.50. Avrei perso il volo della Eastern. Spensi la luce centrale, «È un quadro di Sally?» ripetei. «Di tanto tempo fa» disse lei. «Come mai è qui?» «Ce l'ha dato lei.» «Un regalo?» Fece segno di sì. «Da quando eravamo ancora l'Oreo.» «Il cosa?» «Oreo.» «Che cos'era?» «Lasciate perdere» disse lei. «Oreo?» dissi. Ricordai improvvisamente. Kitty Reynolds che si interrompeva bruscamente dopo aver detto ore. Era stata sul punto di nominare quel misterioso Oreo? Guardai Leona. «Parlatemi dell'Oreo» dissi. «Non c'è niente da dire. L'Oreo non esiste più.» «E che cos'era quando esisteva?»
«Niente.» «È il nome di qualcosa?» «Ho bisogno di dormire» disse lei. «C'era qualcosa chiamata l'Oreo?» «Non c'è più tempo per quelle fesserie» disse lei e ricadde sul guanciale. «Che roba meravigliosa. La più meravigliosa che ci sia.» Alzò un braccio, fece un gesto vago in direzione del quadro e disse: «Quello lì è Lloyd.» Tornai a guardare il quadro. «Con Michelle» disse muovendo la testa su e giù, e poi scivolò ancora nel mondo in cui la trasportava quella roba meravigliosa che aveva preso. 11 Alle nove in punto di giovedì mattina, dal mio ufficio, chiamai il Comando dell'Ufficio Reclutamento dell'Esercito a Miami. Avevo tentato di raggiungerli telefonicamente la sera prima dell'aeroporto, prima di imbarcarmi sull'aereo della Sunwing, ma mi aveva risposto la segreteria telefonica da cui avevo saputo che l'ufficio era aperto tutti i giorni dalle nove del mattino alle cinque del pomeriggio, eccettuato il sabato quando chiudeva a mezzogiorno. Adesso mi rispose una donna, il caporale Dickinson. Le dissi che speravo di aver chiamato il posto giusto e che cercavo di mettermi in contatto con il sergente Ronnie Palmer del reclutamento e lei mi chiese di aspettare per favore, signore. «Sergente Palmer» disse una voce maschile. «Sergente, sono Matthew Hope, l'avvocato che rappresenta George Harper.» «Sì, signore?» «Parlo con il Ronnie Palmer che conosceva il signor Harper mentre era in servizio?» «Sì, signore.» «Ho saputo che lui vi ha chiamato alcune settimane fa mentre era a Miami. Dovrebbe essere stato domenica quindici novembre. Ricordate la telefonata?» «Sì, signore. Mi ha telefonato a casa.» «E ricordate di che cosa avete parlato?» «Prego?» «Ricordate l'argomento della conversazione?» «È stata una normale conversazione, signore. Ci eravamo conosciuti in
Germania e lui voleva sapere come stavo cosa facevo eccetera.» «Non vi ha fatto qualche domanda sull'artiglieria?» «In realtà, sì. Anzi, ne sono rimasto un po' perplesso. Vedete, io sono stato il suo sergente di reclutamento in Germania ed è per questo che sono esperto in questo lavoro particolare. Tutto chiaro, signore?» «Non completamente.» «Ecco, quando uno si arruola di solito resta impegnato con l'esercito per sei anni, quattro di servizio attivo e due nella riserva. Nel caso di George è stato un po' più complicato. Completati i quattro anni di servizio attivo lui si è riconfermato per altri tre anni e sono stato io ad aiutarlo in modo che li facesse in Germania piuttosto che in qualche altro posto dove si poteva riprendere a sparare in qualsiasi momento. Ma quando è tornato dalla Germania lui ormai aveva finito e non doveva all'esercito altro tempo da passare nella riserva. È questo che mi ha lasciato perplesso.» «Non sono sicuro di aver capito, sergente.» «Ecco, lui mi ha chiesto se chi era stato nella polizia militare poteva finire il suo periodo in artiglieria.» «Cosa gli avete detto?» «Che era possibilissimo. A Miami non abbiamo la riserva della polizia militare, perciò uno che stato nella MP deve chiedere il passaggio a un'altra specialità. Se la richiesta viene accettata può entrare in una delle unità della riserva esistenti a Miami. L'artiglieria è una di queste. Il settantanovesimo Battaglione.» «Capisco. E voi avete detto questo ad Harper?» «Sì, signore. Poi lui mi ha chiesto dove sarebbe stato questo mese a fare esercitazioni uno del settantanovesimo. Io gli ho detto che dipendeva. Il Battaglione è diviso in Compagnia Comando, batteria ausiliaria, batteria A e batteria B. Le prime due di solito si esercitano a Pompano.» «A Pompano, capito. Continuate.» «La batteria A fa le esercitazioni a Vero Beach, e la batteria B a Port Charlotte.» «E voi l'avete detto ad Harper?» «Sì, signore.» «Vi ringrazio molto» dissi. «Signore, avete qualche idea del perché lui volesse queste informazioni?» «Credo di sì. Penso che volesse raggiungere qualcuno. Sergente, mi chiedo se non potete farmi un altro favore. Potete controllare i vostri regi-
stri per un certo Lloyd Davis? È stato con la polizia militare e sono quasi certo che adesso è in una unità d'artiglieria. Volete farmi sapere con che batteria è?» «Per questo dovrò fare alcune telefonate, signore.» «Volete essere tanto gentile? E poi richiamarmi, per favore?» «Sì, signore» disse lui. «Con piacere.» «Grazie, sergente» dissi. Mi richiamò dieci minuti più tardi per informarmi che il caporale Lloyd Davis aveva incominciato il suo addestramento, o riaddestramento, con il settantanovesimo nel gennaio di due anni prima e che il quattordici gennaio prossimo avrebbe esaurito i suoi obblighi verso l'Esercito. Mi disse inoltre che Davis era nella batteria A che il 14 e il 15 novembre era stata a Vero Beach. Il sergente della batteria A aveva detto a Palmer che la domenica mattina 15 novembre Lloyd Davis aveva ricevuto una telefonata e subito dopo era andato da lui, chiedendogli di essere esonerato dal servizio per motivi di famiglia. Aveva promesso che avrebbe recuperato l'esercitazione saltata entro i trenta giorni come permesso dal regolamento. Il sergente l'aveva visto per l'ultima volta mentre se ne andava con una Thunderbird convertibile rossa. Ringraziai di nuovo Palmer e riappesi. La telefonata dell'agente investigativo Bloom arrivò verso la fine della giornata. Stavo preparando la mia borsa e rimettendo ordine sulla scrivania quando Cynthia chiamò per dire che il poliziotto era in linea. «Matthew» disse, «abbiamo preso Harper. I poliziotti di Miami lo hanno preso nelle prime ore del pomeriggio. Miami gli piace proprio, eh? Era al volante di una macchina rubata qui a Calusa, una Cadillac Seville, addirittura. Adesso è qui, e noi dovremo interrogarlo sull'omicidio di Sally Owen. Dovresti venire.» Chiesi a Bloom di scambiare qualche parola con il mio cliente prima che cominciasse l'interrogatorio. Un poliziotto in uniforme accompagnò Harper nell'ufficio dove lo stavo aspettando. Era ammanettato e incatenato. Era la prima volta che vedevo un essere umano incatenato come un animale. La catena gli girava intorno alla vita, passava sopra il pezzo di catenella delle manette che gli assicuravano le mani dietro la schiena, poi gli ricadeva tra le gambe e attorno all'altro pezzo di catena che collegava i cerchi metallici stretti attorno alle caviglie. Aveva sangue raggrumato sulla faccia e gli occhi erano gonfi e tumefatti. Vedendolo così ridotto e incatenato in
quel modo mi venne in mente che Sally Owen l'aveva chiamato King Kong. «Come state?» gli chiesi. «Così così» disse. «Sedetevi.» «Con le mani messe dietro la schiena non è molto comodo.» Però si sedette su una sedia di pelle, spostandosi in maniera da restare seduto di sghembo. «Perché mi avete colpito?» gli chiesi. «Voi stavate per consegnarmi.» «No. Io vi ho chiesto di costituirvi.» «È lo stesso.» «Temevo che restaste ferito.» «Sono stato ferito, infatti, no?» «Chi è stato?» «In realtà non lo so. Un sacco di poliziotti tra Miami e qui. Tutti con il manganello.» «Cosa stavate facendo ancora a Miami?» «Mi guardavo in giro.» «In cerca di Lloyd Davis?» Lui si irrigidì e i suoi occhi evitarono i miei. «Signor Harper, siete andato a Miami a cercare Lloyd Davis?» Non mi rispose. «E cosa mi dite di Pompano? Il giorno quindici eravate là. Ci siete andato per cercare Lloyd Davis?» Ancora non mi rispose. «E Vero Beach? Siete stato anche là lo stesso giorno. Vi aspettavate di trovare là Lloyd Davis?» «Queste sono un mucchio di domande, signor Hope.» «Ma non ho avuto nessuna risposta. Non volete aiutarmi?» «Perché avrei dovuto andare in quei posti a cercare Lloyd?» «Perché sua moglie vi aveva detto che lui era con una unità dell'artiglieria della riserva e il vostro ex compagno d'armi Ronnie Palmer vi aveva detto dove si esercitavano tutte le batterie del settantanovesimo. Voi non sapevate con quale batteria fosse Lloyd quindi avete provato a cercarlo in tutti i posti. Perché cercavate Lloyd Davis?» «È una questione personale, signor Hope.» «No, non lo è più.»
«Non capisco che cosa vogliate dire.» «Signor Harper, io penso che voi abbiate scoperto di lui e Michelle. Io penso che è questo il motivo per cui...» Schizzò su dalla sedia e si buttò contro di me. La catena assicurata agli anelli che gli stringevano le caviglie lo bloccò. Rimase là a tremare, facendo forza sulle catene, e per un attimo pensai che sarebbe riuscito a romperle come aveva fatto King Kong. E poi, di colpo, lui cominciò a piangere come aveva fatto la prima volta lì in quello stesso edificio, solo che questa volta non era seduto, questa volta lui stava là in piedi, montagna umana che eruttava lacrime, le spalle e il petto scossi dai sussulti, tutto il corpo tremante, e le lacrime che gli scorrevano sulla faccia come lava liquida. Gli andai vicino e gli misi una mano sulle spalle. «Va tutto bene» dissi. Lui scosse la testa. «Sedetevi.» Scosse ancora la testa. «Vi prego, sedetevi.» Lo aiutai a tornare alla sedia. Lui si sedette, piegato in avanti, i polsi ammanettati dietro la schiena, il corpo tremante, le lacrime che continuavano a scorrere nel pianto incontrollabile. «Come l'avete scoperto?» chiesi. «Ho trovato il quadro fatto da Sally Owen.» «Quello che c'era nel vostro garage?» «Sissignore.» «Parlatemene.» «L'ho trovato in un armadio e ho chiesto a Michelle che cos'era. Le ho chiesto che cosa intendeva significare. Chi era quell'uomo nero che baciava una donna bianca? Mi disse che eravamo io e lei, disse che il quadro rappresentava lei e me. Disse che era un regalo di Sally. Io le dissi che l'uomo del quadro non assomigliava affatto a me, e se rappresentava noi due, se era un regalo di Sally che aveva voluto dipingere noi due, perché chiuderlo in un armadio? E poi lei... lei me l'ha detto.» «Quando è successo questo, signor Harper? Quando avete trovato quel quadro?» «Sabato notte. Ero stato su a guardare la televisione e sarà stato la una di notte quando sono andato in camera da letto. Lei era stata tutto il giorno alla spiaggia e aveva preso troppo sole così era andata a letto presto. Mi è capitato di vedere il quadro perché il giorno dopo volevo andare un po' a
pesca, la domenica, dico, e io tenevo un paio di stivali di gomma dentro l'armadio a muro, sul fondo, e la c'era il quadro, girato contro la parete. Allora mi sono chiesto che cosa ci facesse là, e in quel momento lei si è alzata per andare in bagno e io gliel'ho chiesto. E poi è venuto fuori tutto.» «Che cosa vi ha detto lei?» «Ha detto che in quel quadro erano lei e Lloyd. Ha detto che si frequentavano regolarmente in Germania, avevano cominciato subito dopo la sera che si erano conosciuti. Ha detto... signor Hope, questo non posso dirvelo, mi fa troppo male dirlo. È per questo che mi sono tenuto tutto dentro, mi capite? Per la vergogna.» «Ditemelo, signor Harper.» «Lei... lei mi ha detto che lo amava. Ha detto che lo amava fin dal primo giorno.» «Poi che cos'è successo?» «Mi sono vestito e sono partito per Miami.» «Perché?» «Per andare a trovarlo» disse Harper, e di colpo sollevò la testa e mi guardò dritto negli occhi. «Per ucciderlo, signor Hope. È per questo che sono andato a Pompano e a Vero Beach. È per questo che quando non sono riuscito a trovarlo nemmeno in quei due posti sono tornato a Miami. Per ucciderlo. Avevo in mente di restare a Miami ancora ad aspettarlo finché fosse tornato a casa da dove diavolo era. Ma poi ho sentito le notizie su Michelle e sono tornato dritto a Calusa. Sono scappato di prigione per andare ancora in cerca di lui, signor Hope. Ci sono ancora cose che devo fare, signor Hope. Una volta che uscirò di qui...» «Di questo ci preoccuperemo più tardi. Per il momento, loro vi interrogheranno per l'omicidio di Sally Owen. Voi non dovrete rispondere a nessuna domanda, chiaro?» «Non intendevo rispondere, signor Hope. Ho risposto a tutte le loro domande su Michelle e sono finito in prigione. Non ho ucciso nemmeno Sally Owen, e adesso non dirò loro niente se non il mio nome, grado e numero di matricola.» «Nome, grado e numero di matricola, giusto» dissi, e sorrisi per la prima volta in tre giorni. Quella sera andai a casa un po' dopo le sette. Mi versai un martini e andai direttamente nello studio per ascoltare i messaggi lasciati alla segreteria telefonica. C'erano soltanto tre telefonate di quelle balorde: sic transit
gloria mundi. Una era della mia ammiratrice Lucilie. Aveva detto soltanto: "Sto ancora aspettando una telefonata". Le altre due erano di uomini i quali mi descrivevano in dettaglio quello che mi avrebbero fatto se quel negro avesse evitata la sedia elettrica. La telefonata successiva era di Jim Willoughby. "Matthew" diceva, "non stare a richiamarmi. Voglio semplicemente dirti che sciolgo la società fatta con te per questo caso. Non mi piace il modo in cui ti muovi, e sento che tu hai compromesso ogni nostra possibilità di ottenere un'assoluzione, quindi mi ritiro. Buona fortuna a te." La seguente veniva da Eliot McLaughlin. "Matthew, sono Eliot" diceva. "Gradirei che tu mi richiamassi per questa grave faccenda del tuo contravvenire agli accordi. Credo che tu sappia a cosa mi sto riferendo. Hasta la vista." Stupido bastardo, pensai. "Matthew, sono Frank" diceva il seguente. "Il tuo socio, ricordi? Volevo ricordarti che domani mattina alle nove hai una riunione importante alla banca per quella faccenda che sai. In questo caso il nostro compenso è di ventimila dollari, occorre che dica altro? Nell'ambiente si vocifera che stai per aprire uno studio a Miami. È vero?" Sorrisi. Dall'apparecchio venne un ronzio prolungato. Spensi, poi sollevai il ricevitore e composi il numero di Kitty Reynolds. Rispose al quinto squillo. «Signorina Reynolds» dissi, «sono Matthew Hope.» «Oh» disse lei. «Vorrei farvi qualche domanda, se posso. Voi restate in casa?» «Ecco, in realtà...» «Sì?» «Stavo per uscire a cena.» «A che ora sarete di ritorno, signorina Reynolds?» «Non posso dirlo con certezza.» «Pensate che alle dieci vada bene?» «Ecco... non si può aspettare domani mattina?» «Preferisco parlarvi questa sera, se non avete niente in contrario.» «Allora... non si può fare un po' più tardi?» «Dieci e mezzo?» «Undici?» «Sarò lì alle undici. Dite alla guardia che sono atteso, per favore.» Depo-
si il ricevitore, mi tolsi la giacca e andai in cucina. Dal congelatore del frigorifero presi una confezione di pollo alla cacciatora, lessi le istruzioni, misi sul fuoco una pentola d'acqua e mi versai un secondo martini. Quando l'acqua bollì ci misi dentro il pacchetto di plastica, fissai il timer del mio orologio sui venti minuti e andai in salotto a cercare di capire qualcosa dai frammenti di informazione in mio possesso. C'erano ancora diverse domande in attesa di risposta. Per esempio, perché Michelle Benois, evidentemente tanto innamorata di Lloyd Davis da seguirlo negli Stati Uniti tre mesi dopo che lui aveva lasciato la Germania, aveva invece sposato George Harper? Perché Michelle aveva aspettato due settimane prima di venire a Calusa a rintracciare Harper? Il mattino di domenica 15 novembre dove era andato Lloyd Davis quando aveva chiesto il permesso di lasciare le esercitazioni dopo aver ricevuto una telefonata da... Da chi? Dove era stato da allora? Dov'era adesso? E che cos'era l'Oreo? Una infinità di domande. Il timer suonò. Tornai in cucina, tolsi la confezione di plastica dall'acqua bollente, ne tagliai un angolo con un paio di forbici e versai su un piatto il pollo alla cacciatora, poi mi sedetti al tavolo a mangiare e durante tutto il magro pasto continuai a sperare che quando fossi stato da lei alle undici Kitty Reynolds avrebbe risposto almeno a una di quelle domande. Le feci la domanda di punto in bianco. «Che cos'è l'Oreo?» Di punto in bianco mi rispose: «Non ne ho idea.» «Che cosa significa per voi quella parola?» «Niente. Che cosa significa per voi?» «Per me significa un biscotto. Uno di quei biscotti con uno strato di crema bianca tra due wafer al cioccolato.» «Ah, sì» disse lei, «è vero. Il biscotto Oreo.» Eravamo seduti in salotto. Lei era vestita in maniera più tranquilla delle altre volte. Indossava un semplice vestito di lino blu a righe orizzontali azzurro chiaro e rosa, con una fascia a quadri degli stessi colori stretta in vita. Nel caminetto c'era il fuoco acceso. Evidentemente aveva imparato ad
accenderlo, dall'ultima volta che ci eravamo visti. «Un biscotto Oreo non vi suggerisce niente?» chiesi. «Cosa dovrebbe suggerirmi? Avete fame?» «No.» «Allora perché tutte queste domande sui biscotti?» «La moglie di Lloyd Davis mi ha detto che Sally Owen le ha dato un quadro, tempo fa, e cito le sue parole "da quando eravamo nell'Oreo".» «Leona è una drogata» disse Kitty. «Io non mi fiderei di quello...» «Come fate a saperlo?» «Be'... è di dominio pubblico.» «L'avete vista di recente?» «No, ma...» «Di recente avete visto Lloyd Davis?» «Non lo vedo dai tempi del comitato.» «Leona era già drogata, allora?» «In realtà non lo so.» «Allora come fate a sapere che adesso è drogata?» «Sentite, signor Hope, non sono sotto giuramento. Io sono stata gentile a lasciarvi venire qui ma se questo deve risultare un terzo grado allora potete anche andarvene. Io non so quando Leona è diventata tossicomane, so soltanto che lo è, punto e basta. E non so niente dei quadri in bianco e nero di Sally, o di questo Oreo che voi...» «Come fate a sapere che sono in bianco e nero?» «L'avete detto voi.» «No, di questo non ho parlato.» «Mi pareva che l'aveste fatto.» «I quadri però sono proprio in bianco e nero, no?» «Se lo dite voi. Signor Hope cominciate a irritarmi. Ho appena avuto una cena molto noiosa con un venditore di Tampa, perciò se non vi dispiace...» «Signorina Reynolds» dissi, «posso farvi avere un mandato di comparizione e chiedervi una deposizione sotto giuramento...» «E allora fatelo» disse lei. «Preferirei che parlassimo qui tranquillamente e civilmente. Vi rendete conto che qualcuno ha ucciso due persone...» «Sì, George Harper.» «Non credo che sia stato lui» dissi. «Avete mai visto qualche quadro di Sally?»
«Dato che sapevo che sono in bianco e nero allora significa che li ho visti da qualche parte.» «Dove?» «A casa sua immagino. Sapete che sono stata a casa sua per una di quelle riunioni.» «Sì. Quando avete conosciuto Andrew, giusto?» «Giusto.» «E Lloyd Davis e sua moglie.» «Sì.» «Andrew ha avuto qualche difficoltà a ricordarsi di Davis.» «Non sono responsabile per la memoria di Andrew.» «A voi non sembra strano che i quadri di Sally siano in bianco e nero e che il comitato formato da voi...» «Io non ho formato nessun comitato.» «Allora diremo la signora di Fatback. Questo comitato era formato da cittadini bianchi e neri... cittadini preoccupati.» «Sì, eravamo preoccupati. Non cercate di far sembrare che la cosa fosse stupida, signor Hope. Noi eravamo davvero preoccupati per quello che era successo. Molto preoccupati.» «Il comitato si chiamava Oreo?» «No.» «Allora che cos'era l'Oreo?» «Non ne ho idea.» «Può essere stato il gruppo che ha stretto rapporti sociali dopo lo scioglimento del comitato?» «Vi ho già detto che non so che cosa fosse.» «Avete mai visto il quadro appeso nella camera da letto dei Davis?» «Non sono mai stata a casa dei Davis.» «E i Davis non sono mai stati qui?» «Non abitavo qui quando l'Oreo...» S'interruppe. «Dite, signorina Reynolds.» «Non abitavo qui.» «Già.» «Avevo un appartamento sopra il negozio.» «Già. Che cosa stavate per dire?» «Niente.» «A proposito dell'Oreo, intendo.»
«Niente.» «Il dipinto che ho visto nella camera da letto dei Davis...» «Sarà meglio che ve ne andiate, signor Hope.» «...rappresenta una donna bianca posseduta da un nero.» Lei mi guardò e sbatté le palpebre. «Se sapete già...» disse, e s'interruppe di nuovo. Non parlai. «State cercando di mettermi nei guai, vero?» disse lei. «State cercando di coinvolgermi in quello che è successo.» «Non è così.» «Allora che importanza ha se io facevo parte o no dell'Oreo?» «Ne facevate parte?» «Che diavolo d'importanza ha? Perché non vi chiedete piuttosto per quale motivo il vostro prezioso cliente ha ucciso sua moglie, eh? Perché non ve lo chiedete? Ve lo dirò io il perché, signor Hope. Perché ha scoperto tutto di Michelle, ecco il perché. E Sally è stata la vittima successiva perché è da lei che è cominciato tutto, con loro tre.» «Quali tre?» «Credevo che lo sapeste già. Avete visto il quadro, no? Credevo che...» «No, non lo so.» «Allora lasciamo perdere.» «Siete già andata troppo avanti, signorina Reynolds.» «Sono andata troppo avanti nel momento in cui mi sono lasciata coinvolgere a parlare di...» E di nuovo si interruppe. «Continuate.» «Che cosa volete, signor Hope? Uno spettacolo gratuito? Un film porno? Avevamo un nostro club, va bene? È cominciato con Michelle, Sally e Lloyd, poi c'è rimasto coinvolto Andrew, e una sera mi hanno chiesto se mi sarebbe piaciuto partecipare, e io l'ho fatto. Quella prima volta siamo stati soltanto noi cinque, tre sul letto, e due, io e Lloyd, sul materasso.» «Quello sul pavimento?» «Sì.» «Continuate.» «Non c'è altro.» «No, c'è di più.» «E va bene, c'è di più» disse lei e sospirò. «All'inizio Michelle e io eravamo le uniche bianche. Ma c'erano molti altri bianchi, uomini e donne,
nel comitato, e alla fine, dopo che il comitato si è sciolto, gli altri sono confluiti nell'Oreo.» «Quante persone?» «Nell'Oreo? Quando era in funzione? Una decina, direi.» «Leona ne faceva parte?» «All'inizio. Prima che si desse all'eroina.» «George Harper ha mai partecipato a queste...» «George? Quello scimmione? Non siate ridicolo. Lui non ha mai saputo nemmeno quello che succedeva. Lui era fuori a trafficare con i suoi rottami mentre sua moglie si rotolava nel fieno. Perché credete che l'abbia uccisa? Perché ha scoperto tutto, ecco perché.» «Cosa mi dite di quei quadri?» «Sally ne ha dato uno a tutti noi dell'Oreo. Avete visto quello a casa dei Davis, quello di Lloyd e Michelle? Una sera loro hanno posato per quel quadro, con Sally piena d'erba che faceva lo schizzo di Michelle e Lloyd. Il colore l'ha dato dopo. Il mio quadro io ce l'ho ancora da qualche parte. Sul mio c'è una pantera. Una pantera nera che mangia un gatto bianco.» Una pausa. «Avete capito tutto, adesso, signor Hope?» disse lei. «Qualche altra domanda, avvocato?» «Soltanto una» dissi. Tacqui un attimo, poi chiesi: «Perché?» «Perché? Ecco, vi dirò, signor Hope, all'inizio è stato soltanto un modo di comunicare. Il comitato si era sciolto, noi avevamo fallito il nostro scopo, e quello era un modo di mantenere i contatti. O di dimostrare che per noi il colore della pelle non importava, di dimostrare che per noi non aveva importanza se su quel letto c'era un bianco o un nero, non aveva la minima importanza. In seguito...» Si strinse nelle spalle. Sorrise. «Era eccitante» disse. «Era terribilmente eccitante.» 12 Quando chiamai Bloom a casa era già venerdì mattina, 4 dicembre, ore 12,06 secondo il mio orologio digitale. Ebbi il sospetto che la mia telefonata avrebbe interrotto una faccenda di sesso tra lui e sua moglie. Invece lui mi rispose con la voce impastata di chi si risveglia da un sonno profondo.
«Morrie» dissi, «sono Matthew.» «Chi?» chiese. «Matthew Hope.» «Oh, sì» disse. Immaginai che stesse guardando l'orologio sul comodino. O forse l'orologio da polso. Teneva l'orologio anche a letto? Era un orologio digitale bello come il mio, con il piccolo pulsante da premere per illuminare il quadrante? «Morrie» dissi, «ho appena avuto un colloquio interessante con Kitty Reynolds.» «Kitty chi?» «Reynolds.» «E chi diavolo è?» «Pensavo che ormai la conoscessi.» «Matthew, è mezzanotte passata, e stavo dormendo. Se vuoi giocare agli indovinelli...» «Lei e Andrew Owen hanno avuto una relazione. Ecco perché Sally ha divorziato dal marito.» «Okay» disse. «E allora?» «C'è dell'altro.» «Sentiamo» disse. Glielo dissi. Tutto. Il comitato, i quadri, l'Oreo, tutto. Lui ascoltò senza dire una parola. Dal telefono veniva soltanto il suo respiro regolare. Quando terminai, lui continuò a tacere. Pensai che si fosse riaddormentato. «Morrie?» dissi. «Sono qui.» «Cosa ne pensi?» «Che dovremmo fare un paio di domande a Lloyd Davis.» Il venerdì è sempre il giorno più lungo della settimana. Quel venerdì, mentre aspettavo che la polizia rintracciasse Lloyd Davis, fu il venerdì più lungo che ricordassi. Dopo la riunione alla Tricity tornai all'ufficio, verso le dieci e mezzo, e trovai ad aspettarmi certi Ralph e Agnes West. I West erano il nipote e la nipote acquisita di un cliente morto senza lasciare nessun altro parente più prossimo. Dopo il decesso dello zio mi avevano telefonato più volte per chiedere se potevano venire da me a ritirare la loro parte di eredità. Ogni volta che avevano chiamato avevo detto loro quello che praticamente dissi anche adesso. Al telefono mi ci erano voluti ogni volta quattro o cinque minuti. Adesso impiegai circa un'ora
perché sia Ralph sia Agnes West erano ottusamente e ciecamente decisi a non venire defraudati della loro parte legittima. «Prima di poter distribuire le parti del patrimonio ci sono diverse cose da esaminare» dissi meccanicamente. «Quali cose?» chiese Ralph. Era un tipo squallido che quel mattino aveva dimenticato di radersi. Stava seduto con le ginocchia unite strettamente come se avesse un bisogno disperato di correre in bagno. Sua moglie, altrettanto squallida, con i capelli biondi raccolti strettamente a crocchia dietro la nuca, sedeva accanto a lui facendo cenni affermativi. «Come vi ho già spiegato al telefono» dissi, «ci sono procedure di registrazione e notifiche agli altri eredi, e notifiche ai creditori e questioni di tasse da risolvere, prima di passare alla distribuzione.» «Questo ce l'avete detto due settimane fa» disse Ralph, e Agnes annuì. «Lo zio Jerry è morto il tredici di novembre, il venerdì tredici, sono già passate tre settimane e noi non abbiamo ancora avuto i nostri soldi.» «Come vi ho detto... .» «Qui c'è in ballo una grossa somma» disse Ralph, «e noi intendiamo avere i nostri soldi.» Agnes annuì. «Il patrimonio ammonta a diecimila dollari» dissi, «e voi lo dividerete in parti uguali con gli altri eredi non appena potremo...» «Avrebbe dovuto lasciare un testamento» disse Ralph ad Agnes. E Agnes annuì. «Ma non l'ha fatto» dissi io. «Stupido vecchio bastardo» disse Ralph. «Se avesse fatto testamento adesso non ci sarebbero tutti questi altri che saltano fuori dal bosco.» Fui abbastanza garbato da non precisare che anche loro, Agnes e Ralph, erano usciti dal bosco non appena saputo che l'amato zio Jerry era morto. «Quanto tempo ci vorrà?» chiese Ralph. «Dai quattro ai sei mesi» risposi. «Cosa?» disse lui. «Cosa?» disse Agnes. «Dai quattro ai sei mesi» ripetei. «Gesù!» disse Ralph, e Agnes annuì. «Com'è possibile che ci voglia tanto?» Così, ancora una volta ripetei tutta la storia sulle registrazioni, notifiche ad eredi e creditori, tasse da pagare sul patrimonio, punto per punto, contando sulle dita, spiegando ogni particolare con tanta calma che anche un paio di scimpanzé ammaestrati avrebbero capito, e Ralph continuò a scuo-
tere la testa e Agnes ad annuire, e quando finalmente riuscii a cacciarli dal mio ufficio erano le undici e venti. Poi risposi alla telefonata di un autore locale il quale aveva scritto un libro di cui si erano vendute appena dodicimila copie e che non aveva più visto un soldo dopo il piccolo acconto. La casa editrice di New York aveva ignorato le sue innumerevoli richieste di resoconti e ulteriori pagamenti. Gli dissi che come mossa preliminare avrei scritto chiedendo l'invio del resoconto e il pagamento. Ecco, quello che dissi in realtà fu: «State tranquillo, gli starò alle costole.» Dieci minuti più tardi Cynthia citofonò. «C'è una zingara vagabonda sulla linea sei.» «Cosa?» «Ha detto così. Una zingara vagabonda. Da Messico City. La voce è tutta quella di vostra figlia Joanna.» Premetti il pulsante illuminato. «Joanna?» dissi. «Stai bene?» «Chi ti ha detto che ero io?» «Una intuizione di Cynthia. Tutto a posto?» «Sì, ma sentiamo la tua mancanza. Poi, tutti i tassisti di Messico City sono maestri dell'estorsione. In un giorno di festa o qualcosa del genere siamo andate al museo, quel grande museo archeologico che volevi visitare, ricordi?, e non c'erano guide inglesi, così tutte le spiegazioni ce le hanno date in spagnolo. Sai, papà, a scuola avrei dovuto studiare lo spagnolo e non il francese come hai voluto te.» «Come hai voluto tu, non te.» «Ecco, proprio. Me e Dale sentiamo molto la tua mancanza, papà.» Rinunciai a correggere quel me e Dale. Molti giovani laureati in lettere fanno lo stesso errore. «Come sta Dale?» «Bene, papà, è davvero un tesoro. Ieri a Xochimilco ci siamo divertite da matti. È dove ci sono quelle barchette tutte decorate coi fiori, ricordi? Dove si rema lungo i canali. In realtà si pertica, perché gli uomini spingono le barche usando lunghe pertiche... Papà, indovina una cosa! Una delle barche si chiamava Joanna. Sai, hanno tutte un nome, e su una c'era scritto Joanna. Ma non Dale. Voglio dire, su nessuna delle barche c'era il suo nome. Lei ha fatto la foto alla barca con il mio. Carino, no?» «Molto carino» dissi. «È lì con te? Mi ci fai parlare?» «Papà! Si dice mi fai parlare con lei» disse, e scommetto che stava ridendo da un orecchio all'altro per il trionfo sintattico. «Un momento.»
Aspettai. «Salve» disse Dale. «Stai bene?» «Mi manchi.» «Anche tu mi manchi.» «Il motivo per cui abbiamo chiamato...» «Credevo che fosse per il bisogno disperato di sentire la mia voce.» «Certo, anche per questo» disse Dale. «Ma anche per ricordarti che domani prendiamo il volo Delta due trentatré in arrivo a Calusa alle quattro e cinque del pomeriggio.» «Lo avevo segnato sull'agenda» dissi. «E l'ho anche impresso nella memoria.» «Mi manchi davvero, Matthew» disse lei. «Anche tu» dissi. «Dale, mi chiamano all'altro apparecchio. Torna presto.» «Delta due trentatré» disse Dale. Era già mezzogiorno del giorno più lungo della mia vita. Morris Bloom telefonò soltanto alle otto di sera. Mi trovò a casa. «Matthew, abbiamo Davis qui a Calusa» disse. «Gli abbiamo telefonato a Miami per dirgli che volevamo stabilire bene alcuni punti dell'alibi di Harper e che gli saremmo stati grati se poteva venire a darci una mano. Abbiamo detto che gli avremmo rimborsato il viaggio e l'alloggio in un motel. La solita storia del guanto di velluto. Lui c'è cascato... e la cosa in sé è un po' sospetta, o sbaglio? Voglio dire, perché non ci ha detto di andare noi da lui se proprio volevamo parlargli? Comunque adesso è qui, in un motel della South Trail, e verrà da noi domani mattina alle undici. Gli ho chiesto se non aveva obiezioni che al colloquio fosse presente anche l'avvocato di Harper, e lui ha risposto di essere più che felice di confermare quello che ti aveva già detto a Miami. Ora, Matthew, il problema è questo, lui è qui come testimone volontario, noi non possiamo imputargli niente e infine non sappiamo se ha fatto veramente qualcosa. Però, nel caso in cui qualcosa salti fuori, io voglio la registrazione di tutto quello che dirà. Potrei tenere in tasca un registratore, sarebbe il sistema più semplice. Non credo che possa sospettare che io nascondo un microfono, no? Comunque, registratore o no, quello non ci dirà niente che lo possa incriminare a meno che non ce lo portiamo noi a dirlo. Mi segui, Matthew?» «Non del tutto» dissi. «Ecco quello che penso. Secondo me noi siamo più furbi di lui, e secon-
do me potremmo fare il giochino del buono e del cattivo, portandolo ad aprirsi. Puoi essere qui domani mattina alle dieci? Per studiare tutta la faccenda.» Davis mi salutò con calore e inoltre si scusò in anticipo per quello che avrebbe dovuto confermare alla polizia e cioè che lui non aveva visto il suo amico Harper a Miami la domenica in cui Harper dichiarava di esserci stato. Io gli dissi che doveva dire la verità come risultava a lui e lo ringraziai per essere venuto a Calusa su richiesta di Bloom. Se Harper era davvero colpevole, dissi, una dichiarazione di colpevolezza era spesso più assennata di una cocciuta rivendicazione d'innocenza. Bloom e io avevamo studiato la nostra strategia in ogni dettaglio, però avevo la netta sensazione che stessimo per lanciarci in un difficile esercizio al trapezio senza rete. Una svista, e Davis sarebbe sgusciato fuori dal tendone. «Bene, perché non cominciamo?» disse Bloom in tono cordiale. «Credo che prima dovresti leggere al signor Davis i suoi diritti» dissi io. «Perché?» disse Bloom. «Se userai qualcosa di questo al processo...» «Di questo cosa? Non stiamo registrando, Matthew. Noi vogliamo sapere soltanto se lui può comprovare l'alibi di Harper.» «Comunque credo che dovrebbe essere protetto.» «Contro cosa?» chiese Bloom. «Contro tutto quello che la polizia potrebbe poi dichiarare come detta dal signor Davis mentre invece lui non l'ha detta. Senti, dipende dal signor Davis. Comunque, se fossi in lui ti chiederei di leggermi i miei diritti.» «Va bene, glieli dirò, li conosco a memoria» disse Bloom. «Per me, però, resta una perdita di tempo.» «Registrerai quello che dice?» «Ho appena detto di no.» Lo guardai scettico. «Cosa c'è che non va?» disse Bloom. «Che non resterà nessuna registrazione, ecco tutto.» «Non mi servono registrazioni» disse Bloom. «Io voglio fargli soltanto qualche domanda.» «E la registrazione per lui?» «Per lui?» «Una registrazione di quanto verrà detto qui dentro potrà servirgli per il caso in cui in seguito venisse citato erroneamente.»
«Ma questa non è una deposizione» disse Bloom. «Quest'uomo non è sotto giuramento. Senti, lascia perdere tutte queste idiozie, d'accordo?» «Fai quello che vuoi» dissi. «Io pensavo soltanto che fosse mio dovere dirlo.» Davis guardò me poi guardò Bloom. «Forse una registrazione di quello che dirò dovrei averla» disse. «Se volete la registrazione, registriamo» disse Bloom e sospirò. Andò alla porta. «Charlie» gridò, «portami il Sony, per favore.» «E penso che dovreste leggermi i miei diritti» disse Davis. «Come volete» disse Bloom. «Matthew, io ti ho fatto un favore, chiedendoti di venire, non capisco perché tu faccia tante difficoltà per un paio di domande.» «Non mi piace che vengano violati i diritti di nessuno» dissi. «Adesso l'ostacolo è superato, okay?» disse Bloom e scosse la testa. Charlie, poliziotto in divisa, faccia da cherubino, portò il registratore e lo mise sulla scrivania. Bloom lo accese, ne provò il funzionamento, lesse a Davis i suoi diritti da cima a fondo, ottenne la conferma che lui intendeva rispondere alle domande senza l'assistenza di un legale, e poi si rivolse a me. «Va bene, avvocato?» disse. «Benissimo.» La trappola era pronta. «Signor Davis» disse Bloom, «George Harper afferma che domenica mattina quindici novembre è venuto a cercarvi a casa vostra. Afferma inoltre che quando è arrivato voi non eravate in casa e che vostra moglie gli ha detto che eravate fuori con quelli della riserva.» «Questo è quanto so che lei gli ha detto» disse Davis. «È importante che noi si stabilisca dove era Harper quel fine settimana perché, come sapete, sua moglie è stata uccisa il lunedì sedici.» «Sì.» «Voi però dite che quella domenica non l'avete visto, giusto?» «Giusto.» «Dove eravate, signor Davis?» «Fuori, con l'esercito. A Vero Beach.» «Ci siete stato tutto il giorno di domenica?» «No, signore, non tutto il giorno. Non mi sentivo bene, così ho chiesto se mi potevano esentare per il resto del tempo.» Aveva fatto il suo primo errore. Secondo Palmer, il sergente dell'ufficio arruolamento di Miami, Davis aveva ricevuto una telefonata alle nove di
domenica mattina e aveva chiesto di poter essere esonerato per motivi di famiglia. «Che ora sarà stata, signor Davis?» chiese Bloom. «Non lo so, le nove, forse le dieci del mattino.» «Ed è stato allora che siete partito da Vero Beach?» «Sì.» «In che modo?» «Avevo la mia macchina.» «Dove siete andato una volta partito da Vero Beach?» «A casa.» «A Miami?» «Sì, signore.» «A che ora ci siete arrivato?» «Non saprei. Verso le undici e mezzo. Non lo so di sicuro.» «Vostra moglie c'era, quando siete arrivato a casa?» «Sì, c'era.» «Vi ha detto della visita del signor Harper?» «Sì, me l'ha detto.» «E per tutta la giornata di domenica non avete visto Harper?» «No, signore.» «Il signor Harper dice di esservi venuto a cercare a Pompano e poi a Vero Beach. Non l'avete visto in nessuno di questi due posti?» «No, signore.» «Il lunedì mattina eravate a Miami?» «Sì.» «Avete visto il signor Harper nella giornata di lunedì?» «No, non l'ho visto.» «Perché, vedete, il signor Harper era ansioso di trovarvi e ha passato tutta la domenica e il lunedì a cercarvi. Afferma di essere tornato a Calusa il martedì mattina dopo aver saputo dell'uccisione della moglie.» «Be'» disse Davis, «se avessi picchiato mia moglie la domenica e l'avessi poi uccisa il lunedì, direi anch'io di essere stato lontano da Calusa.» Aveva appena fatto il suo secondo errore. In nessun posto, su nessun giornale, in nessun notiziario radio e televisivo si era minimamente accennato al fatto che Michelle era stata picchiata brutalmente la notte prima di essere uccisa. Colsi lo sbaglio e compresi che anche Bloom se n'era accorto: me lo fece capire il lieve inarcarsi di un suo sopracciglio. «Signor Davis, dove eravate il Giorno del Ringraziamento?» chiese gen-
tilmente Bloom. «A Miami.» «È il giorno in cui Harper è fuggito di prigione, come sapete.» «Già.» «Lui dice di essere tornato a Miami a cercarvi.» «Non riesco a capire come non mi abbia trovato. Io ero là.» «Fino a quando ci siete stato?» «Fino a ieri sera quando mi avete telefonato per chiedermi se potevo venire qui da voi.» «In altre parole, dal quindici novembre, giorno in cui avete lasciato Vero Beach, voi siete sempre rimasto a Miami?» «Proprio così.» «E non avete mai visto il signor Harper nei giorni in cui lui afferma di avervi cercato?» «No, signore, non l'ho mai visto.» «Bene, questo è tutto» disse Bloom e si rivolse a me. «Il tuo cliente afferma che lo ha cercato, e qui abbiamo il signor Davis il quale sostiene di non essersi mai mosso di là. Com'è possibile che non sia riuscito a trovarlo?» «Già, è vero» dissi, e sospirai. «Vuoi fargli qualche domanda?» «Non posso senza il suo permesso.» «Vuoi farmi un favore? Piantala di preoccuparti dei suoi diritti. Io glieli ho letti e lui può interrompersi quando vuole. Intendi fargli qualche domanda o no?» «Se per voi sta bene, signor Davis» dissi. «Certo» disse Davis. «D'accordo allora, Morrie?» «Fai pure.» «Signor Davis, questo mercoledì eravate a Miami?» «Mercoledì?» «Doveva essere... quanti ne abbiamo oggi, Morrie?» «Cinque» disse Bloom. «Allora era il due» dissi io. «Mercoledì due dicembre.» «Sì, c'ero.» «Eravate a casa?» «Stavo lavorando, sì.» «Nel garage? Dove vi ho parlato quando...»
«Sì. È lì che lavoro.» «E dite che questo mercoledì c'eravate?» «Matthew» disse Bloom,«questo signore ci ha appena detto che è rimasto a Miami dal giorno in cui è tornato da Vero Beach. Ha lasciato Miami ieri sera, dopo che l'ho chiamato io.» «Mi stavo chiedendo...» «Voglio dire, se vuoi fare domande su argomenti che abbiamo già trattato...» «Da che ora a che ora siete rimasto a casa, signor Davis?» «Per tutto il giorno.» E aveva fatto il suo terzo errore. Quel mercoledì io ero stato a Miami, a casa di Davis, a parlare con sua moglie Leona, e di lui non avevo visto nemmeno un capello. Decisi di scendere ai particolari. «C'eravate alle cinque e mezzo sei?» «Ci sono rimasto tutto il giorno» insistette lui. «Un momento, sono uscito all'ora di pranzo per prendermi un panino.» «Ma a parte questo...» «Ci sono rimasto per tutto il giorno» ripeté. «Allora non devo avervi visto» dissi. «Cosa?» «Mercoledì sono stato a casa vostra, a parlare con vostra moglie, verso le cinque e mezzo, proprio al tramonto, e non vi ho visto, signor Davis.» Lui mi guardò. «Allora avete ragione» disse. «Vi sono sfuggito.» «Vostra moglie vi ha detto che ero stato là?» «No.» «Questo è strano. Se eravate a Miami quel mercoledì, e io non vi ho visto quando sono stato a casa vostra, non credete che vostra moglie vi avrebbe detto che ero stato là?» «A volte lei mi dice le cose e a volte non me le dice.» «Lei però vi ha detto che Harper era stato là domenica quindici, giusto? Ve l'ha detto quando siete tornato a casa dopo aver lasciato Vero Beach.» «Sì, me l'ha detto.» «E siete stato a Miami per tutto questo tempo?» «Fino a ieri sera quando ho avuto la telefonata dell'agente Bloom.» «Non siete venuto a Calusa in nessun momento durante...» «No, signore.» «Allora come facevate a sapere che Michelle Harper era stata picchiata
brutalmente la notte di domenica quindici?» Esitò, diffidando di colpo di me, indeciso se insistere o più semplicemente tacere. Decise di rischiare un urto frontale. Fu il suo errore finale. «Me l'ha detto Sally» disse. «Sally?» «Sally Owen. Ha telefonato per parlare con mia moglie, ma Leona era fuori, e così ha parlato con me.» «Questo quando è successo, signor Davis?» «Mi sembra lunedì.» «Il giorno in cui Michelle venne assassinata?» «Credo di sì.» «Era o non era lunedì?» «Chi se lo ricorda? Sentite, volete dirmi cos'è questa storia? Sono venuto qui per dare una mano e mi ritrovo...» «Ha ragione, Matthew» disse Bloom. «Non mi piace la piega che hai preso. Se mi fossi reso conto che intendevi tormentare quest'uomo con un terzo grado...» «Grazie, agente Bloom» disse Davis, rivolgendosi subito a lui e annuendo vigorosamente. Ancora non sapeva che eravamo in due sulle sue tracce, ancora non sapeva che anche Bloom stava aspettando nei cespugli il momento di fare il balzo. «Volete che si smetta?» gli chiese Bloom. «Se vuole farlo può smettere in qualsiasi momento di rispondere alle domande» dissi io. «Questo è vero, signor Davis» disse Bloom, aggrappandosi a quello che avevo detto. «Anche se decidete di interrompere l'interrogatorio nessuno qui penserà a voi come a un indiziato anziché un testimone favorevole. È nel vostro diritto, signor Davis. Potete smettere di rispondere alle domande in qualsiasi momento decidiate di farlo.» Bloom aveva appena fatto un triplo salto mortale senza rete e aveva afferrato la sbarra del trapezio un attimo prima di precipitare. Secondo le regole stabilite dalla Miranda-Escobedo, un funzionario di polizia non è tenuto, nel corso di un interrogatorio, a dare consigli sul come e perché una persona dovrebbe chiedere l'assistenza legale o rispondere alle domande o smettere di rispondere. E Bloom in realtà non aveva dato nessun consiglio a Davis, si era soltanto limitato a dire che poteva smettere di rispondere quando lo voleva e questo era semplicemente una ripetizione dei diritti che gli aveva letto in precedenza. E non aveva nemmeno insinuato apertamente
che un rifiuto a rispondere ad altre domande poteva costituire presunzione di colpa. Era tutto. Nel nostro piccolo gioco del buono e del cattivo era tutto semplice allusione. Prova un po' a dimostrare le allusioni dall'ascolto di un nastro registrato! Il seme comunque era stato piantato. «Oh, Cristo» disse Davis, «io sono venuto qui per rispondere a un paio di domande su George e adesso mi...» «Certo che siete venuto per questo» disse Bloom. «Allora che cosa dovrei fare?» «A che proposito?» «Devo rispondere alle sue domande?» «Non ho il potere di darvi consigli» disse Bloom, mettendosi di nuovo al coperto. Tutto perfetto. Tutto in regola. Davis mi guardò dritto negli occhi. «Sì, Sally Owen ha telefonato il lunedì in cui è stata uccisa Michelle» disse. «Vi ricordate a che ora?» «Al mattino.» «Presto?» «Verso le otto.» «E vi ha detto che la sera prima Michelle era stata picchiata?» «Sì. In realtà lei voleva dirlo a Leona, capite, ma Leona era fuori.» «Alle otto del mattino?» «Be'... sì. Avevamo bisogno di spremuta d'arancia. Per la colazione. Eravamo rimasti senza succo d'arancia.» «E mentre lei era fuori Sally Owen ha telefonato.» «Sì.» «E vi ha detto che Michelle era stata picchiata.» «Sì.» «E vi ha detto che era stato George Harper a picchiare sua moglie?» «Sì.» «Come faceva lei a saperlo?» «Gliel'aveva detto Michelle.» «Alle otto del mattino?» «Immagino di sì. Se Sally ha telefonato alle otto...» «Allora Michelle deve averglielo detto prima delle otto, giusto?» «Immagino di sì.» Stava mentendo come un rappresentante di commercio. Quel lunedì mattina, nel mio ufficio, Michelle aveva detto di essere andata da Sally alle
nove. Alle otto Sally non poteva ancora sapere, e nemmeno Davis. A meno che... «Fino a che punto conoscevate Sally Owen?» «Non molto bene.» «Lei però ha deciso di rivelare a voi quel fatto.» «Ecco, in realtà lei voleva parlare con Leona.» «Invece l'ha detto a voi.» «Be', sì. In una tempesta ogni insenatura è porto, giusto?» disse lui e sorrise, «Conoscevate Sally abbastanza bene da posare per lei?» «Posare per lei?» «Per un quadro.» «Cosa?» «Un quadro in bianco e nero.» «Non capisco che cosa vogliate...» «Un dipinto di voi e Michelle abbracciati» disse inaspettatamente Bloom, e in quel momento Davis si rese conto di essere finito in una trappola. Adesso anche il suo amico poliziotto era sulle piste, tutti i cani addosso a lui. «Che cosa... che cosa vi fa pensare che Michelle avrebbe...» «Una donna di nome Kitty Reynolds era presente la notte in cui Sally ha fatto lo schizzo» disse Bloom che non era più buono, adesso, che aveva affilato le unghie, adesso, che mandava fiamme dagli occhi, adesso. Davis guardò quegli occhi e capì che la festa era finita. Ma non si arrese lo stesso. «Non conosco nessuno che si chiami Kitty Reynolds» disse. «Perché avete lasciato Vero Beach?» chiese secco Bloom. «Ve l'ho detto, non stavo bene.» «Chi vi ha telefonato là domenica mattina?» «Telefonato? Nessuno. Chi dice che...» «Il vostro sergente dice che domenica mattina alle nove avete ricevuto una telefonata. Chi era? Michelle Harper?» «Michelle? Se la conoscevo appena!» «Che vi ha chiamato per dirvi che suo marito stava andando a Miami?» «Ehi, un momento, sentite...» «Per cercare di voi?» «Questo è sbagliato. Veramente sbagliato...» «A cercarvi per uccidervi, signor Davis?»
Davis non disse niente. «Avete avuto paura che lui avesse scoperto tutto dell'Oreo, signor Davis.?» Ancora lui non disse niente. «Paura che Harper vi avrebbe ucciso perché aveva saputo dell'Oreo?» Rimase in silenzio ancora qualche secondo. Poi disse: «Oh, Gesù!» «È stata Michelle a telefonarvi per avvertirvi?» «Oh, Gesù» ripeté, e poi, quasi come se fosse contento che alla fine tutto fosse diventato chiaro, nascose la faccia tra le mani come aveva fatto Harper in quello stesso ufficio quasi tre settimane prima, e cominciò a piangere mentre ci raccontava tutto dall'inizio. Il nastro girava impietoso, e il recente passato diventò di colpo il presente. 13 Bonn. La città è capitale della Repubblica Federale Tedesca dal 1949, e da quando è diventata sede di governo la sua popolazione è salita a trecentomila abitanti. Bonn sorge su una riva del Reno di fronte alle Siebengebirge, le Sette Montagne, che la guardano dalla riva opposta. Il clima è piovoso. Qui piove quasi sei mesi all'anno. È una piovosa serata di novembre di due anni fa. L'ambiente è un bar nel vecchio quartiere barocco della città, vicino al Kennedy-brücke. Seduto a un tavolo con la sua amica cantante di cabaret, Davis sta aspettando che arrivi Harper con la ragazza di cui si è innamorato, la diciannovenne Michelle Benois conosciuta in un bar qualche tempo prima. La ragazza arriva al braccio di Harper alle sette e un quarto. I lunghi capelli neri le fanno cascata attorno alla faccia bella ma un po' troppo truccata. Indossa un cappotto nero e sotto porta un attillato vestito rosso molto scollato che le fascia i fianchi. Lui la individua subito per quello che è. Ce ne sono tante come lei a Bonn. George Harper si è innamorato di una prostituta. Quella sera più tardi, a letto con Davis, la cantante bionda chiede in tedesco: "Quella ragazza è una puttana?". Il giorno dopo Davis si sorprende nel sentirsi chiamare alle baracche da Michelle. Pensa subito che gli affari devono essere in ribasso: troppa merce gratuita a portata dei soldati americani ansiosi di avere una Fraülein.
Comunque accetta di incontrarsi con lei più tardi in un piccolo locale vicino all'Hofgarten, e lì Michelle gli dice che non sa cosa fare con Harper. Lui si è innamorato di lei ma a lei non importa niente di George. Come potrebbe una donna ricambiare l'amore di un simile monstre gli dice in francese. Michelle non si riferisce alla brutalità che più tardi Davis attribuirà ad Harper. Lui adesso lo ammette mentre il registratore riceve tutte le sue parole, ammette che era lui quello che usava il manganello su tutti gli ubriachi che raccoglievano in giro. ("Vi ho detto che era George perché ho immaginato che questo avrebbe reso più credibile che lui l'avesse picchiata in quel modo"). Michelle si riferisce invece all'aspetto di Harper, all'aspetto scimmiesco di quel monstre véritable, ripete in francese. Per quasi due ore si attardano in quel bar mentre lei gli apre il suo cuore. Lui pensa che gli piacerebbe andare a letto con lei ma non alle sue condizioni. Lui non ha mai dovuto pagare per quelle cose, non in patria dove la moglie Leona sta aspettando che lui termini i quattro anni di servizio attivo, e non in Germania, dove può avere quello che vuole semplicemente chiedendo. Sa qual è il mestiere della ragazza ma fa ugualmente balenare la prospettiva di un incontro gratuito, e con sua sorpresa lei accetta subito. Fanno l'amore per la prima volta nella camera di un albergo della Koblenzstrasse. "Non sapevo che dopo lei sarebbe diventata pazza di me" ci dice. Continuano a vedersi. Harper non sa niente della loro relazione. Harper è ciecamente innamorato di una ragazza che si vende a Bonn da quando aveva tredici anni, da quando era scappata da Parigi e dall'esistenza borghese che conduceva là con il padre francese e la madre tedesca. A Davis non importa quello che è, anzi la sua esperienza gli dà emozioni nuove. A letto con lei impara sempre qualcosa. L'ultimo dell'anno lei si finge malata per evitare un appuntamento con Harper e organizza invece una piccola sorpresa per Davis. Quando lui si presenta alla camera d'albergo che Michelle ha prenotato in anticipo, lei lo sta aspettando insieme con una splendida ragazza nera che fa la prostituta come lei. "Bonne année" gli dice, e inizia Davis alla pratica che lui in seguito ricorderà come il suo primo "trittico", «Questo è stato il vero inizio» ci dice adesso.«Il vero inizio dell'Oreo, l'inizio di tutto.» È Davis e non Harper che lascia Bonn senza telefonare a Michelle. Lui la considera niente di più di quello che è: una puttana con uno splendido bagaglio di giochi erotici. Lui è contento di tornare a casa, non per rivedere la moglie Leona che lui considera soltanto una noia, ma "per mangiare
qualche minestra paesana" (frase che più tardi attribuirà ad Harper). A quell'epoca non sa che in capo a tre mesi Michelle lo seguirà negli Stati Uniti. E non sa che Michelle è incinta di lui. Lei arriva a Miami poco prima di Pasqua. Indossa lo stesso cappotto nero che indossava la prima volta che si sono visti a Bonn. La temperatura è mite ma lei se ne sta insaccata in quel cappotto per tentare di nascondere agli occhi degli estranei la rotondità del suo ventre. Non ha l'indirizzo di Davis che si era rifiutato di darglielo prima di lasciare Bonn, però sa dove trovare Harper il quale le chiedeva continuamente di sposarlo e andare a vivere con lui negli Stati Uniti. Va all'indirizzo che le ha dato Harper ma soltanto per scoprire dove può trovare Davis. La madre di Harper non glielo dice e così Michelle deve chiedere in giro prima di potersi finalmente presentare a Davis con l'annuncio della sua gravidanza e la minaccia che si annegherà se lui non la sposerà. Questo diventerà in seguito un gioco segreto tra gli amanti e Michelle racconterà in giro con piacere maligno che quelle erano state le sue parole esatte rivolte ad Harper quando alla fine gli aveva proposto di sposarla, a Calusa. Ma prima di allora lei aveva già abortito a Miami. L'aborto era stato un'idea di Davis. E anche il suggerimento di sposare Harper. «Le ho detto che lui era un gran lavoratore» ci dice lui adesso. «Le ho detto che si sarebbe sistemata bene e intanto noi due potevamo riprendere quello che era stato interrotto in Germania. Le ho detto che non c'era motivo perché smettessimo di frequentarci. George era uno stupido idiota che non avrebbe mai saputo quello che c'era tra di noi.» E avrebbe potuto essere così, George Harper poteva davvero non scoprire mai la relazione tra sua moglie e Lloyd Davis se le circostanze (come le definisce Davis) non fossero cambiate. «Era stata un'idea di Michelle» dice. «Michelle era sempre piena di idee.» L'idea venuta in mente a Michelle nel mese successivo al suo matrimonio con Harper è che sarebbe stato bello fare un regalo di compleanno al suo amante. Il compleanno è il diciotto di luglio. Non sarebbe stato bello organizzare un piccolo omaggio per lui nel successivo fine settimana? Ormai è diventata amica intima di Sally Owen, e Sally le ha confessato diverse avventure extramatrimoniali di cui il marito Andrew è all'oscuro. A sua volta Michelle le ha rivelato la lunga relazione con Lloyd, le ha descritto
nei particolari quale meraviglioso amante sia Lloyd, e adesso suggerisce, con molta discrezione, che sarebbe meraviglioso se qualche volta loro tre potessero trovarsi insieme in qualche posto lontano da Calusa e da Miami, soltanto loro tre. E all'inizio infatti si tratta soltanto di loro tre, Sally, Michelle e Lloyd, uno strato di crema bianca fra due wafer al cioccolato. Questo è l'inizio dell'Oreo come loro tre chiamano in segreto il terzetto. L'Oreo, il loro Oreo, comincia il fine settimana successivo al ventinovesimo compleanno di Lloyd, nella stanza di un motel di Palm Beach dove le donne avevano detto ai rispettivi mariti che sarebbero andate per fare delle spese. Nell'agosto successivo, Jerry Tolliver viene ucciso da un poliziotto troppo zelante, e una nera sposata con un medico bianco di Fatback Key decide di promuovere un comitato di protesta. Più tardi il comitato si scioglie, ed è di nuovo Michelle a suggerire, una sera, verso la fine di quel mese, durante una riunione sociale (mentre il marito George è convenientemente lontano per uno dei suoi viaggi di natura commerciale) che poteva essere divertente se tutti gli uomini presenti venivano bendati a turno e poi baciavano tutte le donne nel tentativo di identificare la moglie. «Un'idea di Michelle» dice Davis. «Era sempre piena di idee» ripete. Curioso, ma è la coppia impegnata socialmente, quella di Fatback Key, a unirsi all'Oreo qualche settimana più tardi. L'Oreo continua a incontrarsi segretamente durante il resto dell'estate e l'autunno. Adesso fa parte del gruppo anche Kitty Reynolds. Sally Owen ha cominciato a dipingere quadri simbolici sull'attività sessuale che loro condividono. Nessuno può immaginare che, con tutto quel sesso a portata di mano, pronto e libero, un paio di componenti dell'Oreo inizino una loro relazione, si innamorino l'uno dell'altro. Questo era successo a Kitty Reynolds e ad Andrew Owen. Furiosa, Sally li aveva esclusi dal circolo di amici e poco dopo l'Oreo aveva cominciato a disintegrarsi. E tutto torna a loro tre soli come era all'inizio, Sally, Lloyd e Michelle. Continua così per un anno. E poi... Domenica 15 novembre. Notte. Harper trova un quadro che lo lascia perplesso, e quando interroga Michelle a proposito del quadro lei confessa il suo amore per Lloyd, ma con una certa delicatezza evita l'argomento delle orge pensate e promosse da lei e che le mancano tanto. Harper, preso dalla furia, lascia la casa alle due di notte e va in cerca di Lloyd... per ucciderlo. «Lei mi chiama a Vero Beach per avvertirmi che lui mi cerca» dice
Lloyd. «Quando io torno a Miami mia moglie mi dice che Harper è già stato lì. Devo sparire. Non voglio scontrarmi con quel gorilla che mi avrebbe spaccato la testa con le mani nude. Continuo a pensare a Michelle e a come ha potuto essere tanto stupida. Voglio dire, andava tutto bene, no? Noi tre, Sally, lei e io. E allora perché rovinare tutto? Mi sono detto che meritava una lezione. Nessuna maledetta prostituta può mettere Lloyd nei guai e cavarsela. No. Sono andato a Calusa...» Lui va a Calusa apposta per darle una lezione. Entra nella casa di Harper con la chiave che Michelle gli ha dato mesi addietro. Lui spera quasi di trovarla a letto con qualcuno, magari il medico bianco di Fatback Key o chiunque altro avesse fatto parte dell'Oreo. Invece, quando lui arriva quella domenica alle undici e mezzo di sera lei è sola in casa. Le urla invettive, le dice che è soltanto una sporca puttana, le dice che l'ha messo in posizione tale da dover temere per la propria vita. Che cosa dovrebbe fare lui, qualora King Kong riuscisse a trovarlo? Come ha potuto essere tanto idiota? «E poi l'ho picchiata a sangue» dice. Ma non appena la collera sbollisce, si rende conto di aver soltanto peggiorato le cose. Non appena George Harper tornerà a casa e Michelle gli avrà detto che è stato Davis a picchiarla, lo scimmione perderà le staffe. Allora va a casa di Sally Owen e le dice quello che ha fatto. Lei lo calma, lo consola, e con sua sorpresa lui si accorge che la collera si è trasformata in un'altra forma di eccitazione e si rende conto di desiderare Sally con una passione mai provata prima per lei. È dopo aver fatto l'amore che Sally se ne esce con la sua idea. «Sono sempre le pollastre che si fanno venire le idee» dice Davis. Cosa ne pensi, bada, è soltanto una idea, gli dice Sally, cosa ne pensi se Michelle dicesse che è stato George a picchiarla? Se lei andasse da un avvocato facendo le cose tutte in ordine e legalmente, e gli raccontasse che è stato George a conciarla in quel modo? I poliziotti lo metterebbero in galera, no? Basterebbe a guadagnare tempo intanto che tu pensi a qualcos'altro da fare, no? Non ho ragione? Intanto però tu farai meglio a tenerti fuori tiro. Se George ti pesca... È Sally che telefona a Michelle al mattino presto per suggerirle di mettersi in contatto con un avvocato che lei conosce per poi andare alla polizia a fare la falsa denuncia contro George. Ma intanto Lloyd, che si è nascosto in una stanza di motel, comincia a preoccuparsi. «E se loro lasciano andare George?» ci dice. «Picchiare la moglie non è poi un reato molto grave, no? Se lo lasciano andare e lui si rimette a cer-
carmi? Cosa faccio?» Ci pensa e ci ripensa a lungo. Il pensiero continua a tormentarlo. Non può rischiare che George Harper finisca col trovarlo. Sa che cosa succederà se quel gorilla lo trova. Ma come può evitarlo per sempre? Prima o poi Harper... Poi gli viene un'idea. E se Michelle venisse... assassinata? E se Harper venisse accusato dell'omicidio come è stato accusato dei maltrattamenti? Era possibile studiare la cosa in maniera che sembrasse Harper il colpevole? Fare in modo che Harper finisse in galera per parecchio o forse anche sulla sedia elettrica, ecco. In un caso o nell'altro Harper sarebbe stato reso innocuo e lui Davis avrebbe potuto tornarsene a casa libero. Lunedì, 16 novembre. Harper è ancora a Miami in cerca dell'amante della moglie. Davis va alla casa di Harper,entra di nuovo con la sua chiave, si scusa con Michelle per quello che le ha fatto la sera prima, si accerta che lei sia già andata alla polizia per accusare il marito e poi suggerisce di andare fino a Whisper Key, e magari fare un bel fuoco sulla spiaggia, loro due soli come quando erano a Bonn, per rappattare qualsiasi dissidio. Stare là a baciarsi davanti al fuoco, eh? Un po' di sesso strano, magari, come piace a te, okay? Per preparare il sesso strano suggerito da lui, Davis prende i guanti dal cassettino della Thunderbird. Guanti neri di pelle. Ha indosso i guanti quando preleva la tanica di venti litri di benzina dal garage di Harper. Li ha indosso quando stacca dalle rastrelliere il filo metallico. E quando lei gli chiede a che cosa gli servono lui risponde: "per trafficare con il fuoco, tesoro". Sulla spiaggia di Whisper Key lui tenta di legarle i polsi con il filo metallico (un po' di sesso strano, giusto, Michelle? Tu sei sempre alla ricerca di cose strane, no?) e lei finalmente si rende conto delle sue vere intenzioni e scappa spaventata. È già nuda perché il loro rappattare il dissidio è già arrivato sino a quel punto. Lui la insegue, la raggiunge, la riporta indietro trascinandola, la picchia finché lei non reagisce più, le lega mani e piedi con il filo metallico, la bagna con la benzina, accende il fiammifero fatale e scappa nella notte. «A casa, libero» dice. Almeno fino al Giorno del Ringraziamento. Il Giorno del Ringraziamento Harper scappa dalla prigione e Davis è costretto a nascondersi di nuovo. Torna a Calusa. Ma ha fatto i conti senza
Sally Owen. Il lunedì pomeriggio, 30 novembre, a casa di Sally, la donna gli dice di sospettare che sia stato lui a uccidere Michelle. Gli dice inoltre che uno dei prossimi giorni potrebbe decidere di andare alla polizia a dirlo. Lui non sa se Sally lo sta solo tormentando o no. Sono a letto insieme e la donna si è appena dimostrata brava quanto Michelle. Ma sta parlando sul serio? Lui non lo sa, ma non può correre rischi. Esce di casa dicendo che va a prendere un po' di pollo fritto per la loro cena, invece va alla casa di Harper, entra nel garage in cerca di un'arma, di qualcosa che appartenga ad Harper, qualcosa che colleghi Harper al secondo delitto che lui ha già deciso di commettere. Quando trova il martello con le iniziali di George ride soddisfatto. Prende il suo fazzoletto, lo avvolge attorno al manico del martello e torna a casa di Sally. Quando lui entra, la donna è in cucina a preparare l'acqua per il caffè. Lui dice "tesoro, sono tornato" ma lei non si volta. Davis è convinto che Sally non abbia nemmeno capito che cosa l'ha colpita. E forse non ha nemmeno sentito il secondo colpo che l'ha raggiunta mentre già stava cadendo. «Ho lasciato cadere il martello» ci dice. «Un altro indizio contro George, ho pensato. La mia assicurazione.» Alza gli occhi. Guarda prima Bloom e poi me, e poi dice : «Ho proprio rovinato tutto, eh? Voglio dire che noi avevamo messo bene le cose, no? In che altro modo neri e bianchi possono mettersi insieme in questa città? Soltanto a letto. Voglio dire che noi, oh, Gesù, noi avevamo trovato la risposta giusta al problema.» E improvvisamente si mise a piangere. Il procuratore di stato, Skye Bannister in persona questa volta, arrivò al Palazzo della Pubblica Sicurezza mezz'ora dopo che la confessione battuta a macchina era stata firmata da Davis. Era eccezionalmente alto, forse uno e novantadue, con l'aspetto di un giocatore di pallacanestro, snello e pallido, capelli biondi e occhi celesti. Lesse la confessione in silenzio, poi alzò la testa. «Non avevo mai creduto all'identificazione fatta da quel pescatore» disse. «Uno con il naso pieno di vene è sicuramente un bevitore.» «Reggerà la confessione?» chiese Bloom. «Non vedo perché no» disse Bannister. «Cosa state pensando?» «Al fatto che gli abbiamo teso una trappola» disse Bloom. «No, siete stati tutti e due molto furbi» disse Bannister. Si rivolse a me. «Meditate di diventare un penalista, signor Hope?» «Non ci penso seriamente» dissi. «Non fatelo» mi consigliò Bannister. «Abbiamo già abbastanza guai a
ottenere una condanna.» Sorrise poi tornò a rivolgersi a Bloom. «Manderò uno dei miei fra un'ora per l'interrogatorio formale. Arrivederci, signori. Avete fatto un buon lavoro.» Eravamo di nuovo soli nell'ufficio, Bloom e io. «E così, dopo tutto non era stato Harper, eh? Era Davis la bestia che volevamo prendere.» «Lo era davvero?» dissi io. «O la bestia era in verità la bella?» «Come?» «Michelle» dissi, poi me ne andai all'aeroporto a prendere mia figlia e Dale. FINE