LAURELL K. HAMILTON RESTI MORTALI (The Laughing Corpse, 1994) A Ricia Mainhardt, la mia agente: bella, intelligente, fid...
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LAURELL K. HAMILTON RESTI MORTALI (The Laughing Corpse, 1994) A Ricia Mainhardt, la mia agente: bella, intelligente, fidata e onesta. Cos'altro potrebbe chiedere di più uno scrittore? 1 La casa di Harold Gaynor scintillava nel caldo sole d'agosto in mezzo a un prato all'inglese circondato da un bel boschetto. Il mio capo, Bert Vaughn, parcheggiò la macchina sulla ghiaia del vialetto, bianca come salgemma. Si sentiva il rumore attutito degli spruzzi, ma non si vedevano gli innaffiatoi L'erba era assolutamente perfetta nonostante una delle più gravi siccità che vi fossero state nel Missouri da più di vent'anni. Comunque non ero certo lì per discutere con Mr. Gaynor dell'utilizzo delle risorse idriche. Ero lì per parlare della resurrezione dei morti. Be', non esattamente della resurrezione. Non sono tanto brava. Intendo gli zombie, i cadaveri ambulanti, i morti putrescenti. Insomma, quelli tipo La notte dei morti viventi, anche se di sicuro sono meno melodrammatici di come li rappresenta Hollywood sullo schermo. Io sono una risvegliante. È il mio lavoro: una professione come un'altra, non molto diversa da quella del venditore. Però quella del risvegliante è una professione riconosciuta e autorizzata da appena cinque anni. Prima era soltanto una maledizione imbarazzante, un'esperienza religiosa o un'attrazione turistica. In parte è ancora così a New Orleans, ma qui a St. Louis è una professione e per giunta è proficua, soprattutto grazie al mio capo. È un incapace, un farabutto senza scrupoli, ma che mi venga un colpo se non sa come si fanno i soldi! È una bella qualità per un imprenditore. Bert giocava a football quand'era all'università. È alto un metro e novantatré, ha le spalle larghe e comincia ad avere un po' di pancia perché tende a bere troppa birra; però quel giorno mascherava la pancia con un completo blu tagliato su misura, che avrebbe dovuto nascondere persino una mandria di elefanti, visto che gli era costato ottocento dollari. L'abbronzatura da velista faceva spiccare drammaticamente gli occhi chiari e i capelli biondi, quasi bianchi, molto corti, come sono tornati di moda da poco.
Si aggiustò il nodo della cravatta blu e rossa, poi si asciugò una goccia di sudore dalla fronte abbronzata. «Ho sentito al telegiornale della proposta di usare gli zombie nei campi coltivati coi pesticidi. Salverebbe parecchie vite.» «Gli zombie marciscono, Bert. Non si può impedire. E non restano intelligenti abbastanza a lungo per poter lavorare nei campi.» «Era soltanto un'idea. I morti non hanno diritti secondo la legge, Anita.» «Per ora.» Era sbagliato resuscitare i morti per trasformarli in schiavi, ma nessuno voleva ascoltarmi. Il governo aveva finalmente deciso d'intervenire e aveva formato una commissione nazionale di risveglianti e altri esperti della quale facevo parte anch'io. Avevamo l'incarico d'indagare sulle condizioni di lavoro degli zombie nei vari Stati. Condizioni di lavoro? Proprio non capivano. Non si possono offrire condizioni di lavoro accettabili ai cadaveri. Non le apprezzerebbero comunque. Gli zombie camminano, parlano persino, però sono molto, molto morti. Bert mi guardò con indulgenza, facendomi venire una gran voglia di tirargli un destro per cancellargli dalla faccia quell'espressione compiaciuta. «So che tu e Charles siete nella commissione e che andate in giro per le imprese a verificare come se la passano gli zombie», disse. «È una gran pubblicità per l'Animators Inc.» «Non lo faccio per questo», puntualizzai. «Lo so. Credi davvero nella tua piccola causa.» «Sei un bastardo arrogante e presuntuoso», gli dissi, dolcemente. «Lo so», replicò divertito. Mi limitai a scuotere la testa, ben sapendo che è pressoché impossibile vincere una gara d'insulti con Bert. Non gliene frega un accidente di quello che penso di lui, purché lavori per lui. La giacca blu del mio tailleur avrebbe dovuto essere estiva, invece era una fregatura. La schiena mi si bagnò di sudore non appena smontai dalla macchina. Bert si girò a guardarmi socchiudendo sospettosamente gli occhi, come faceva spesso. «Sei armata», commentò. «La pistola è nascosta dalla giacca, Bert. Mr. Gaynor non se ne accorgerà neanche.» Il sudore mi stava incollando la camicetta di seta alle cinghie della fondina ascellare. La seta s'increspa subito fastidiosamente sotto le cinghie, perciò tendo a evitare di abbinarla al sistema ascellare. La pistola
era una Browning Hi-Power calibro 9 che mi piaceva avere sempre a portata di mano. «Andiamo, Anita! Non credo che ti serva la pistola per andare a parlare con un cliente nel bel mezzo del pomeriggio!» ribatté Bert, nel tono accondiscendente che usano di solito gli adulti coi bambini: dai, ragazzina! Lo sai che lo dico soltanto per il tuo bene! Be', non gliene fregava niente del mio bene. Voleva soltanto che non spaventassi Gaynor, visto che ci aveva spedito un assegno di cinquemila dollari soltanto per andare a casa sua a sentire cosa volesse. Era implicito che avremmo incassato molto di più se avessimo accettato il caso. Insomma, la prospettiva era quella di guadagnare un sacco di soldi. Bert era elettrizzato, ma io ero scettica. Dopotutto, non era Bert a dover resuscitare il cadavere. Ero io. Il guaio era che probabilmente Bert aveva ragione: in pieno giorno la pistola non mi sarebbe servita. Probabilmente. «E va bene», acconsentii. Bert aprì il bagagliaio della sua Volvo pressoché nuova di zecca mentre io cominciavo a togliermi la giacca; poi si mise tra me e la casa per nascondermi agli occhi dei residenti. Dio non volesse che mi vedessero nascondere un'arma da fuoco nel bagagliaio! Cosa si aspettava che facessero? Che si mettessero a gridare aiuto sprangando porte e finestre? Arrotolate le cinghie intorno alla fondina, posai l'arma sul fondo del bagagliaio, che odorava di macchina nuova, plastica e qualcosa di vagamente irreale. Quando Bert ebbe richiuso il portellone, continuai a fissare il baule come se potessi vedere la pistola attraverso il metallo. «Sei pronta?» chiese. «Sicuro», risposi. Ma non mi piaceva per niente abbandonare la pistola, quale che fosse la ragione. Era forse un cattivo segno? Bert mi esortò con un cenno a seguirlo e io lo feci, camminando con prudenza sulla ghiaia perché calzavo scarpe nere coi tacchi alti. Le donne hanno il privilegio d'indossare un sacco di bei colori, ma gli uomini hanno quello di portare scarpe comode. Bert fissava la porta con gli occhi grigi scintillanti di cordialità e aveva già stampato sulla faccia un sorriso che colava sincerità: il migliore dei suoi sorrisi professionali. Ma era soltanto una maschera che poteva mettere e togliere a volontà, come premere un interruttore. Avrebbe mostrato la stessa cordialità a chi avesse appena confessato di avere assassinato la madre, purché fosse disposto a pagare per farla resuscitare. Non appena la porta si aprì, capii che Bert aveva sbagliato nell'insistere
che la pistola non mi sarebbe servita. L'uomo era alto poco più di un metro e settanta però era enorme, con la polo arancione che aderiva al torace muscoloso e la nera giacca sportiva che sembrava un po' troppo piccola per lui. Le cuciture parevano in procinto di cedere al minimo movimento, come l'involucro di un insetto troppo cresciuto che stesse per trasformarsi. I jeans neri fasciavano la vita snella dando l'impressione che qualcuno gli avesse schiacciato i fianchi quando l'argilla era ancora fresca. Aveva i capelli biondi e ci fissava in silenzio con occhi vacui, morti come quelli di una bambola. Notai la fondina ascellare sotto la giacca sportiva, ma resistetti alla tentazione di tirare a Bert un calcio negli stinchi. Il mio boss invece non si accorse della pistola, oppure la ignorò. «Salve!» salutò, con un sorriso incantevole. «Sono Bert Vaughn e questa è la mia collaboratrice, Anita Blake. Credo che Mr. Gaynor ci stia aspettando.» Il tizio, che poteva essere soltanto una guardia del corpo, si scostò dalla porta e Bert, interpretandolo come un invito, varcò la soglia. Lo seguii senza essere affatto sicura di voler entrare. Harold Gaynor era un uomo molto ricco e forse aveva davvero bisogno di una guardia del corpo, magari perché c'era qualcuno che lo minacciava; o forse era uno di quei tipi cui piace avere sempre intorno un energumeno muscoloso soltanto perché possono permettersi di pagarlo, pur non avendone nessun bisogno. Oppure stava succedendo qualcos'altro, qualcosa che rendeva necessaria la protezione delle armi da fuoco, dei muscoli e di uomini dagli occhi privi di qualsiasi emozione. Non era un pensiero allegro. L'interno della casa era così freddo a causa dell'aria condizionata che il sudore mi si congelò sulla pelle all'istante. Seguimmo la guardia del corpo per un lungo corridoio dalle pareti rivestite di pannelli di legno scuro dall'aria molto costosa. La passatoia sembrava orientale e probabilmente era fatta a mano. Finalmente lo sgherro di Gaynor aprì una porta sulla destra e si fece da parte per lasciarci entrare. Era una biblioteca, ma sarei stata pronta a scommettere che nessuno di quei libri fosse mai stato letto da chicchessia. Gli scaffali coprivano le pareti dal pavimento al soffitto; c'era persino un soppalco cui si poteva accedere mediante una scala stretta ed elegante. I libri erano di colori diversi, però erano tutti rilegati e tutti dello stesso formato, perciò componevano una specie di mosaico. Naturalmente la tappezzeria era di cuoio rosso con borchie d'ottone. Vicino alla parete di fondo sedeva un uomo che, vedendoci arrivare, sorrise. Era grosso, col viso cordiale e rotondo, e col doppio mento. Occupava
una sedia a rotelle elettrica e aveva le gambe nascoste da un piccolo plaid. «Mr. Vaughn! Ms. Blake! Siete stati gentili a venire.» La sua voce era cordiale come il viso, quasi dannatamente amabile. In una poltrona di cuoio sedeva un nero, snello, alto più di un metro e ottanta, anche se era difficile precisare quanto di più, visto che se ne stava stravaccato con le gambe allungate e le caviglie incrociate. Comunque le sue gambe erano più lunghe di quanto sono alta io. Mi fissò con gli occhi castani come per imprimersi nella memoria le mie fattezze, riservandosi di giudicarmi più tardi. Il biondo andò ad appoggiarsi a uno scaffale, ma era troppo muscoloso e aveva la giacca troppo stretta per poter incrociare le braccia. Non ci si dovrebbe mai appoggiare a qualcosa e cercare di fare il duro se non si riesce a incrociare le braccia. Rovina l'effetto. «Avete già conosciuto Tommy», riprese Mr. Gaynor. «Questo è Bruno», aggiunse, accennando all'altra guardia del corpo, il nero in poltrona. «È il suo vero nome o soltanto un soprannome?» chiesi, guardando Bruno dritto negli occhi. Lui si mosse sulla poltrona. «È il mio vero nome. Perché?» «Mai conosciuto una guardia del corpo che si chiamasse davvero Bruno.» «Sarebbe una battuta?» replicò lui. Scossi la testa. Bruno. Non aveva mai avuto neanche una possibilità. Era come chiamare Venere una ragazza. Tutti quelli che si chiamano Bruno devono fare la guardia del corpo. È una regola. Lo sbirro, magari? No, è un nome da cattivo. Bruno si alzò a sedere sulla poltrona con un movimento agile e vigoroso. Se portava una pistola non riuscivo a vederla, però aveva qualcosa che diceva forte e chiaro: «Attenta, sono pericoloso». «Per favore, Anita», s'intromise Bert. «Mr. Gaynor, Mr. Bruno, scusatemi. Ms. Blake ha un senso dell'umorismo tutto particolare.» «Non scusarti per me, Bert. Non mi piace.» Comunque non riuscivo a capire perché fosse tanto dispiaciuto, visto che quello che era davvero offensivo lo avevo soltanto pensato. «Nessun rancore. Vero, Bruno?» intervenne Mr. Gaynor. Bruno mi guardò con la fronte corrugata, non arrabbiato, ma piuttosto perplesso. Dopo avermi fulminata con un'occhiataccia, Bert si rivolse col suo tono più amabile all'uomo in sedia a rotelle. «Sono certo, Mr. Gaynor, che lei è
molto impegnato, quindi perché non ci dice esattamente quanto è vecchio lo zombie che vuole resuscitare?» «Vedo che lei va subito al sodo, Mr. Vaughn. Mi piace.» Gaynor esitò, girandosi a guardare la porta. In quel momento entrò una bionda, alta, con gli occhi fiordaliso e le gambe lunghe, pallide e nude. Il vestito, ammesso che si potesse chiamare così, era di seta rosa e le aderiva al corpo coprendo quello che la decenza imponeva di nascondere, ma lasciando ben poco all'immaginazione. Si avvicinò calpestando la moquette con le scarpe rosa dai tacchi a spillo, perfettamente consapevole di essere osservata da tutti gli uomini presenti nella biblioteca. Poi gettò la testa all'indietro e rise senza emettere suoni. Il suo volto s'illuminò, le sue labbra si mossero, gli occhi scintillarono, ma in assoluto silenzio, come se qualcuno avesse spento l'audio. Appoggiò un fianco a Harold Gaynor e gli posò una mano su una spalla. Lui le cinse la vita, sollevandole di un altro paio di centimetri il vestito. Avrebbe potuto sedersi senza farla vedere a tutti i presenti? No di certo. «Questa è Cicely», presentò Gaynor. Lei fece un sorriso luminoso a Bert, mentre quella risatina silenziosa le faceva luccicare gli occhi. Quando si rivolse a me, il suo sguardo vacillò e le labbra si contrassero. Per un attimo gli occhi le si riempirono d'incertezza, ma il suo volto ridiventò luminoso non appena Gaynor le diede affettuosamente una pacca sul fianco. Ci salutò con un grazioso cenno della testa. «Voglio resuscitare un cadavere di duecentottantré anni», disse Gaynor. Mi limitai a fissarlo, domandandomi se sapesse quello che stava chiedendo. «Be', ha quasi trecento anni», replicò Bert. «È molto vecchio per essere resuscitato come zombie. Molti risvegliantì non ne sarebbero capaci.» «Ne sono consapevole», convenne Gaynor. «Ecco perché ho richiesto Ms. Blake. Lei può riuscirci.» Bert mi guardò. «Anita?» Non avevo mai resuscitato niente di tanto antico. «Posso farcela», risposi. Bert si voltò verso Gaynor, con un'espressione compiaciuta. «Però non intendo farlo.» Lentamente Bert si girò di nuovo a guardarmi, infastidito. Invece Gaynor aveva ancora il sorriso. Le guardie del corpo erano immobili e Cicely mi guardava affabilmente, gli occhi privi di qualunque vo-
lontà o sentimento. «Un milione di dollari, Ms. Blake», suggerì Gaynor, con la sua voce morbida e gradevole. Notai che Bert deglutiva e stringeva convulsamente i braccioli della poltrona. La sua idea di sesso è il denaro, quindi è probabile che gli fosse appena venuta la più grossa erezione della sua vita. «Si rende conto di quello che sta chiedendo, Mr. Gaynor?» domandai. «Fornirò io la capra bianca», dichiarò, sempre in tono gradevole. Il suo sguardo però s'incupì di bramosa aspettativa. Mi alzai. «Vieni, Bert. È ora di andare.» Bert mi afferrò per un braccio. «Per favore, Anita. Siediti.» Fissai la sua mano finché non mi lasciò. Per un momento la sua maschera incantevole si dissolse, rivelando la collera, poi riacquistò la solita cordialità con cui discuteva di affari. «È un compenso generoso, Anita.» «Capra bianca è un eufemismo. Intende un sacrificio umano.» Il mio capo lanciò un'occhiata a Gaynor, poi guardò di nuovo me. Pur conoscendomi abbastanza bene per credermi sulla parola, non voleva farlo. «Non capisco», replicò. «Più è antico lo zombie, più grosso è il sacrificio necessario per resuscitarlo», spiegai. «E dopo qualche secolo l'unico sacrificio abbastanza grosso è un sacrificio umano.» Gaynor mi fissava con sguardo cupo. Cicely invece era ancora affabile. C'era nessuno in casa dietro quegli occhi tanto azzurri? «Davvero vuol discutere di omicidio davanti a Cicely?» domandai. Gaynor mi fece un sorriso radioso, che è sempre un cattivo segno. «Cicely non capisce una parola di quello che diciamo. È sorda.» Cicely mi guardò serenamente. Stavamo parlando di un sacrificio umano senza che lei ne avesse la minima idea. Se era in grado di leggere le labbra, lo sapeva nascondere molto bene. Suppongo che anche gli handicappati pardon, i non udenti - possano finire nelle cattive compagnie, però mi sembra una cosa sbagliata. «Detesto le donne che parlano in continuazione», rivelò Gaynor. Scossi la testa. «Tutti i soldi del mondo non basterebbero per convincermi ad assumere questo incarico.» «Non potresti uccidere molti animali anziché uno solo?» chiese Bert, che come imprenditore è ottimo, ma non sa un cazzo su come si resuscitano i morti.
Lo fissai con sdegno. «No.» Bert rimase immobile sulla poltrona. Sicuramente la prospettiva di perdere un milione di dollari lo faceva soffrire fisicamente, eppure riusciva a nasconderlo. Mr. Negoziatore Aziendale. «Deve esserci un modo per risolvere la faccenda», insistette, con voce calma e professionale, deciso a cercare di concludere l'affare. «Conosce qualche altro risvegliante capace di resuscitare uno zombie tanto antico?» domandò Gaynor. Bert alzò gli occhi verso di me, poi li abbassò al pavimento, quindi guardò Gaynor. La sua cordialità professionale era sparita. Finalmente aveva capito che stavamo parlando di omicidio. Faceva qualche differenza per lui? Mi ero sempre chiesta quali fossero i limiti di Bert e finalmente stavo per scoprirlo. Il fatto che non fossi in grado di prevedere se fosse sul punto di rifiutare il lavoro la dice lunga sul mio capo. «No», mormorò Bert. «Credo proprio di non poterla aiutare, Mr. Gaynor.» «Se si tratta di soldi, Ms. Blake, posso alzare l'offerta.» Un tremito scosse le spalle di Bert, ma lui riuscì a dissimularlo bene. Un grosso punto per lui. «Non sono un'assassina, Gaynor.» «Non è quello che ho sentito dire», interloquì Tommy, il biondo. Lo guardai, constatando che i suoi occhi continuavano a essere vacui come quelli di una bambola. «Non ammazzo la gente per soldi.» «Per soldi ammazzi i vampiri», ribatté. «È del tutto legale, e non lo faccio per i soldi», precisai. Tommy si scostò dallo scaffale. «Ho sentito dire che ti piace impalare i vampiri e che non sei troppo schizzinosa su chi devi far fuori per arrivare a loro.» «I miei informatori mi assicurano che ha già ucciso altri esseri umani, Ms. Blake», riprese Gaynor. «Soltanto per legittima difesa. Non uccido a sangue freddo.» Bert aveva finalmente abbandonato la poltrona. «Credo sia ora di andare.» Bruno si alzò di scatto, agilmente, le braccia lungo i fianchi e le grosse mani nere rilassate, le dita parzialmente chiuse. Avrei scommesso che fosse un esperto di qualche arte marziale. A una certa distanza dalla parete, Tommy aprì la giacca e la gettò all'indietro come un pistolero dei tempi andati, scoprendo una 357 Magnum ca-
pace di aprire buchi molto grossi. Rimasi immobile a fissarli. Cos'altro avrei potuto fare? Forse avrei potuto difendermi da Bruno, ma non avevo speranze contro Tommy e la sua pistola. In un certo senso, la discussione era chiusa. Mi stavano trattando come se fossi molto pericolosa, eppure non sono certo imponente col mio metro e sessanta scarso. Insomma, resusciti i morti, distruggi qualche vampiro e subito la gente comincia a considerarti un mostro. A volte fa male, ma in quella circostanza... be', apriva qualche possibilità. «Credete davvero che sia venuta qui disarmata?» li sfidai, in modo molto deciso e concreto. Bruno guardò Tommy, che abbozzò una stretta di spalle. «Non l'ho perquisita.» Bruno sbuffò. «Però non ha nessuna pistola», aggiunse Tommy. «Vuoi scommetterci la vita?» chiesi, facendo scivolare molto lentamente una mano verso la schiena. Dovevo convincerli che portavo una fondina retroschiena. Tommy si mosse, flettendo la mano vicino alla Magnum. Se l'avesse sfoderata saremmo morti, poi io sarei tornata a perseguitare Bert. «No», intervenne Gaynor. «Non c'è bisogno che muoia nessuno oggi, Ms. Blake.» «No», confermai, «non ce n'è nessun bisogno.» Deglutendo, perché il sangue mi pulsava così forte che mi sentivo soffocare, allontanai pian piano la mano dalla mia pistola immaginaria e Tommy ritirò lentamente la sua da quella vera. Buon per noi. Gaynor assunse l'aria di un affabile Babbo Natale senza barba. «Naturalmente si rende conto che informare la polizia sarebbe inutile.» «Non abbiamo nessuna prova», annuii. «Non ci ha neanche detto chi vuole risvegliare dalla morte e perché.» «Sarebbe la vostra parola contro la mia», puntualizzò. «E sono sicura che gli amici altolocati non le mancano», ribattei. Il suo sorriso si allargò tanto da fargli venire le fossette alle guanciotte grasse. «Naturalmente!» Girai le spalle a Tommy, subito imitata da Bert. Tornammo insieme nel torrido caldo estivo. Notando che Bert sembrava piuttosto scosso, mi sentii quasi intenerita nei suoi confronti. Era bello sapere che anche lui aveva i suoi limiti e che certe cose non era disposto a farle neanche per un milione di dollari. «Ci avrebbero sparato davvero?» chiese in tono pratico, più deciso di
quanto lo fosse il suo sguardo lievemente vitreo. Quel duro di Bert! Aprì il bagagliaio senza che glielo chiedessi. «Col nome di Harold Gaynor nella nostra agenda per gli appuntamenti e anche nel computer?» replicai. Recuperata la pistola, indossai il sistema ascellare. «E senza neanche sapere se abbiamo parlato del nostro viaggio a qualcuno?» Scossi la testa. «Troppo rischioso.» «Allora perché hai fatto finta di essere armata?» domandò Bert. Per la prima volta, vidi l'incertezza sulla sua faccia. Il vecchio sacco di soldi aveva bisogno di una parola di conforto, ma io avevo esaurito la scorta. «Perché avrei anche potuto sbagliarmi.» 2 Il negozio di abiti da sposa era sulla 70 West a St. Peters e si chiamava The Maiden Voyage, cioè «Il viaggio della vergine». Carino. Era tra una pizzeria e un salone di bellezza, il Full Dark Beauty Salon, col nome scritto in neon rosso sangue sulle vetrine nere. Chi voleva poteva farsi fare i capelli e le unghie da una vampira. Il vampirismo era legale soltanto negli Stati Uniti d'America e soltanto da due anni. Nessun altro Paese al mondo lo aveva legalizzato. E non chiedete il mio parere perché io non avevo votato a favore. C'era persino un movimento per il riconoscimento del diritto di voto ai vampiri. Prima, se un vampiro avesse infastidito qualcuno, sarei semplicemente andata a impalare il figlio di puttana. Adesso invece devo ottenere un mandato dal tribunale per poterlo eliminare, perché senza mandato rischierei di essere incriminata per omicidio. Ecco perché ho nostalgia dei bei tempi andati. Nella vetrina del negozio c'era un manichino biondo che aveva addosso tanto pizzo bianco da sembrare sul punto di annegarvi dentro. Non sono una gran patita del pizzo e neanche delle perle e dei lustrini; soprattutto non sopporto i lustrini. Già due volte avevo accompagnato Catherine a cercare l'abito da sposa e non ci avevo messo molto a capire che non potevo proprio esserle d'aiuto, perché non me ne piaceva nessuno. Se Catherine non fosse stata un'ottima amica non l'avrei neanche accompagnata. Mi aveva detto che, se mai mi fossi sposata, avrei cambiato idea. Ma sicuramente essere innamorati non fa perdere il buon gusto, perciò, se mai arrivassi al punto di comprare un vestito da sposa coi lustrini, qualcuno dovrebbe semplicemente spararmi.
Non avrei mai optato per il vestito che Catherine aveva scelto alla fine, ma non era colpa mia se non ero stata presente al momento del responso. Lavoravo troppo e detestavo andare in giro a fare compere, così fui costretta a buttar via centoventi dollari, più le tasse, per un vestito da sera in taffettà rosa da ballo liceale. Quando varcai la soglia del negozio, silenzioso e fresco d'aria condizionata, i miei tacchi alti affondarono in una moquette di un grigio così chiaro da sembrare quasi bianco. La direttrice, Mrs. Cassidy, mi vide entrare e il suo sorriso appassì per un attimo, ma subito dopo riacquistò il controllo di se stessa. Mi finsi cordiale anch'io, senza nessuna voglia di affrontare quello che mi aspettava nell'ora seguente. Mrs. Cassidy era tra i quaranta e i cinquanta, figura snella e capelli rossi così scuri da sembrare quasi castani, con una pettinatura alla Grace Kelly. Si spinse gli occhiali dalla montatura d'oro ad appoggiare più saldamente sul naso ed esordì: «Suppongo che sia qui per l'ultima prova, Ms. Blake». «Spero proprio che lo sia!» «Be', abbiamo lavorato al... problema e abbiamo trovato una soluzione, credo.» Dietro il banco c'era una stanzetta piena di vestiti imbustati nella plastica. Mrs. Cassidy prese il mio, che stava in mezzo a due abiti rosa esattamente identici, poi, tenendolo drappeggiato sulle braccia, mi fece strada fino al camerino. Camminava con la schiena molto eretta, preparandosi ad affrontare un'altra battaglia. Io non avevo bisogno di fare niente, perché sono sempre pronta a battermi. Discutere con Mrs. Cassidy delle modifiche al vestito era maledettamente peggio che avere a che fare con Tommy e con Bruno. Anche se avrebbe potuto finire molto male, e ce l'eravamo cavata senza danni solo perché Gaynor aveva deciso di richiamare i suoi gorilla. Almeno per il momento, come si era premurato di precisare. Che cosa significava esattamente? Forse era ovvio. Quando lo avevo lasciato in ufficio, Bert era ancora scosso per il rischio che avevamo corso, perché non gli capita mai di avere a che fare con gli aspetti più schifosi del lavoro, quelli violenti. No, di quelli mi occupo io, oppure Manny, o Jamison, o Charles. Siamo noi, i risvegliannti dell'Animators Inc., a fare il lavoro sporco. Bert se ne sta al sicuro nel suo bell'ufficio e manda a noi i clienti e i guai. Be', quel giorno era andata diversamente. Mrs. Cassidy appese il vestito all'attaccapanni del camerino e uscì. Prima che potessi entrare, si aprì la porta dello spogliatoio attiguo, dal quale spuntò fuori Kasey, la damigella di Catherine. Aveva otto anni e lo sguar-
do torvo. La seguì sua madre, Elizabeth «chiamami Elsie» Markowitz: alta, snella, mora, carnagione olivastra. Indossava un tailleur, era un avvocato, lavorava con Catherine ed era invitata al matrimonio. Kasey sembrava una versione minuscola e addolcita della madre. Fu la prima ad accorgersi di me. «Ciao, Anita. Non è stupido questo vestito?» «Non dire così», intervenne subito Elsie. «È un bel vestito, con tutte quelle balze rosa.» A me sembrava una petunia anabolizzata, ma, per non dover dire quello che pensavo, mi tolsi la giacca ed entrai nel mio camerino. «È una pistola vera?» domandò Kasey. Avevo dimenticato di averla. «Sì», ammisi. «Sei una poliziotta?» «No.» «Kasey Markowitz, fai troppe domande», la rimproverò sua madre, imbarazzata. «Scusa, Anita.» «Non fa niente.» Poco dopo ero sopra un palchetto, davanti a un cerchio quasi perfetto di specchi. Se non altro il vestito era della lunghezza giusta, con le scarpe rosa dai tacchi alti. Era abbondantemente scollato, con le maniche corte e gonfie, perciò rivelava quasi tutte le cicatrici che avevo. La più recente, sul braccio destro, era rosa e non ancora completamente guarita: l'effetto di una pugnalata, semplice e pulita rispetto alle altre cicatrici. La clavicola e il braccio sinistro invece erano stati fratturati da un vampiro che mi aveva straziato a morsi, come avrebbe fatto un cane con un pezzo di carne. Avevo anche un'ustione a forma di crocifisso sull'avambraccio sinistro, conseguenza della creatività di alcuni servi umani di un vampiro, che l'avevano giudicata un'idea divertente. Io non ero stata dello stesso parere. Sembravo la moglie di Frankenstein vestita per il ballo. Okay, forse l'insieme non era poi così brutto, ma Mrs. Cassidy pensava che lo fosse. Secondo lei le cicatrici avrebbero distolto l'attenzione dal vestito, dalla cerimonia e dalla sposa. Però Catherine, cioè la sposa, non era d'accordo: pensava che meritassi di andarci perché eravamo tanto amiche. Insomma, visto che stavo pagando un sacco di soldi per essere umiliata in pubblico, bisognava proprio che fossimo grandi amiche. Quando Mrs. Cassidy mi consegnò un paio di lunghi guanti di raso rosa, faticai a infilarli. I guanti non mi sono mai piaciuti, perché mi danno l'impressione di toccare il mondo attraverso un velo. D'altra parte, quelle sgar-
gianti guaine rosa avevano il vantaggio di coprire le braccia. Cicatrici scomparse! Che brava ragazza! Sicuro! Rassettata la gonna satinata, Mrs. Cassidy lanciò un'occhiata allo specchio. «Credo che possa andare.» Si alzò e si picchiettò con una lunga unghia smaltata la bocca coperta di rossetto. «Credo di aver trovato il modo di nascondere quella... ehm...» Accennò vagamente con le mani nella mia direzione. «La cicatrice sulla clavicola?» suggerii. Allora mi resi conto per la prima volta che Mrs. Cassidy non aveva mai usato la parola «cicatrice», come se fosse sconcia o irrispettosa. Guardandomi nel cerchio di specchi, una risata mi salì in gola. Mrs. Cassidy prese un oggetto fatto di nastro rosa e di finti fiori arancioni. La risata si spense. «Quello cos'è?» domandai «Questo è la soluzione al nostro problema.» Avanzò minacciosa verso di me. «D'accordo, ma cos'è?» «Be', è un colletto, un ornamento.» «E me lo dovrei mettere al collo?» «Sì.» Scossi la testa. «Non credo proprio.» «Ms. Blake, ho cercato in tutti i modi di nascondere quella... quel segno. Cappelli, acconciature, semplici nastri, mazzolini di fiori...» Alzò le mani, esasperata. «Non so più cosa inventare!» Potevo crederlo. Sospirai profondamente. «Capisco, Mrs. Cassidy, davvero. Sono proprio una gran rompicoglioni per lei.» «Non direi mai una cosa del genere.» «Lo so, per questo l'ho detto io. Comunque quello è il fru fru più orribile su cui abbia mai posato gli occhi.» «Se ha qualcosa di meglio da suggerire, Ms. Blake, sono tutta orecchi.» Incrociò le braccia sul petto, lasciando penzolare il disgustoso «ornamento». «È enorme!» protestai. «Nasconderà la sua...» Serrò le labbra. «Cicatrice.» Mi venne voglia di applaudire: aveva finalmente detto la sconcezza! Se avevo qualcosa di meglio da suggerire? Sicuramente no. «Me lo metta. Se non altro posso vedere come mi sta.» «La prego di sollevare i capelli», disse compiaciuta.
Mi allacciò quell'orrore al collo. Il pizzo mi dava il prurito e il nastro mi faceva il solletico. Pur non avendo nessuna voglia di guardarmi allo specchio, alzai lentamente gli occhi e rimasi muta a fissarmi. «Grazie al cielo ha i capelli lunghi. La pettinerò io stessa, il giorno del matrimonio, per favorire il camuffamento.» Il «coso» sembrava un incrocio tra un collare da cane e il più grosso mazzolino di fiori da polso che si fosse mai visto al mondo. Sembrava che i nastri rosa mi fossero spuntati intorno al collo come funghi dopo la pioggia. Era orrendo e nessuna acconciatura avrebbe mai potuto migliorarlo. Però nascondeva completamente e perfettamente la cicatrice. Mi limitai a scuotere la testa. Che potevo dire? Mrs. Cassidy interpretò il mio silenzio come un assenso, ma avrebbe dovuto essere più perspicace. Fummo salvate dal telefono. «Torno subito, Ms. Blake», promise, prima di allontanarsi silenziosamente pestando coi tacchi alti la folta moquette. Continuai a fissare la mia immagine moltiplicata dagli specchi. I miei occhi sono castani, ma così scuri da sembrare neri come i capelli; sono le caratteristiche latine che ho ereditato da mia madre. Però la mia carnagione è pallida come quella di mio padre, che è di origini tedesche. Con un po' di trucco non sono molto diversa da una bambola di porcellana. E con un gonfio abito rosa avevo proprio un aspetto fragile, delicato, minuscolo. Cazzo! Tutte le altre donne invitate al matrimonio erano più alte di me, quindi poteva anche darsi che qualcuna stesse davvero bene con quel vestito, benché io ne dubitassi. Per aggiungere il danno alla beffa, eravamo tutte quante costrette a portare la crinolina. Perciò sembravo uno scarto di Via col vento. «Così è proprio bella!» Mrs. Cassidy era tornata e mi guardava, raggiante. «Sembra che mi abbiano immersa nel Pepto-Bismol», commentai. Il rosa del vestito era proprio come quello delle confezioni del noto antidiarroico. Mrs. Cassidy deglutì mentre la sua affabilità professionale si spegneva un po'. «Vedo che quest'ultima soluzione non le piace», ribatté in tono severo. Elsie Markowitz uscì dal camerino seguita da Kasey, sempre accigliata. Sapevo perfettamente come si sentiva la bambina. «Oh, Anita», esclamò Elsie. «Sei adorabile!» Magnifico! Era proprio quello che volevo sentirmi dire. «Grazie.»
«Mi piacciono soprattutto i nastri che hai al collo. Sai che li porteremo anche tutte noi?» «Dolente di sentirlo», replicai. Corrugò la fronte, fissandomi. «Secondo me esaltano il vestito.» «Dici sul serio?» Elsie parve perplessa. «Be', sì, certo. Non ti piace?» Decisi di non rispondere, perché la risposta avrebbe potuto irritare qualcuno. Insomma, che cosa ci si può aspettare da una donna che ha un nome bellissimo, come Elizabeth, ma preferisce farsi chiamare come una vacca? «Non c'è proprio altra soluzione, Mrs. Cassidy?» domandai. Annuì una sola volta, risolutamente. La vittoria era sua, e lo sapeva. Quanto a me, avevo capito di essere stata sconfitta nel momento stesso in cui avevo visto il vestito, ma, se proprio ero destinata a perdere, allora ero decisa a fare in modo che qualcuno la pagasse cara. «E va bene! Così sia! Lo metterò!» Per smontare dal palchetto sollevai fino alle ginocchia la crinolina, che era come una campana di cui io ero il batacchio. Il telefono squillò e Mrs. Cassidy corse a rispondere col passo leggero, un canto nel cuore e me fuori dal suo negozio. Gioia nel pomeriggio! Mentre cercavo di far passare la crinolina attraverso la porticina del camerino, mi chiamò: «Ms. Blake! È per lei. Un certo sergente Storr». «Visto, mamma?» commentò Kasey. «L'avevo detto che è una poliziotta!» Non fornii nessuna spiegazione perché qualche settimana prima Elsie mi aveva chiesto di non farlo, convinta che Kasey fosse ancora troppo giovane per sapere dell'esistenza dei risvegliami, degli zombie e degli sterminatori di vampiri. Non che esistessero bambini di otto anni che ignorassero cosa sono i vampiri, visto che sono stati praticamente il più grosso evento mediatico del decennio. Quando cercai di accostare il telefono all'orecchio sinistro, gli stramaledetti fiori si misero di mezzo, costringendomi a bloccare il ricevitore tra il collo e la spalla per potermi slacciare il colletto. «Ciao, Dolph! Che succede?» «Scena del crimine», rispose lui, con bella voce tenorile. «Che tipo di crimine?» «Un macello.» Riuscii finalmente a togliermi il colletto, facendo cadere il telefono. «Anita! Ci sei ancora?»
«Sì, ho soltanto un piccolo problema di vestiario.» «Cosa?» «Non importa. Perché mi vuoi sulla scena?» «Chiunque sia stato non è umano.» «Vampiro?» «L'esperta di non morti sei tu. Ecco perché voglio che tu venga a dare un'occhiata.» «Okay, dammi l'indirizzo e arrivo.» Vicino al telefono c'erano un blocchetto di fogli rosa coi cuoricini e una penna con un cupido di plastica in cima. «St. Charles? Posso essere lì tra un quarto d'ora al massimo.» «Bene.» Riagganciò. «Buona giornata anche a te, Dolph», dissi al nulla, prima di tornare nel camerino per cambiarmi. Quel giorno mi avevano offerto un milione di dollari per ammazzare qualcuno e resuscitare uno zombie, poi ero andata in un negozio di abiti da sposa a provare per l'ultima volta il vestito che avrei messo al matrimonio della mia migliore amica, e adesso un sopralluogo sulla scena del crimine. Un macello, aveva detto Dolph. Si preannunciava un pomeriggio molto impegnato. 3 Un macello. Dolph è maestro dell'eufemismo. C'era sangue ovunque, e le pareti bianche erano imbrattate come se ce lo avessero gettato a secchiate. Un divano bianco a fiori marroni e dorati era quasi completamente coperto da un lenzuolo tanto intriso da essere diventato cremisi. Il sole pomeridiano dava al sangue una splendente sfumatura rosso ciliegia. Il sangue fresco è molto più vivido di quello che si vede al cinema e in televisione, soprattutto se viene sparso copiosamente; ma sullo schermo spicca di più se è cupo, con tanti saluti al realismo. Comunque il sangue che vedevo non era fresco, quindi avrebbe dovuto essere opaco, ma il sole estivo riusciva a farlo scintillare. Dopo avere deglutito, con fatica notevole, respirai profondamente. «Mi sembri un po' verde, Blake», commentò qualcuno accanto a me. Trasalii. «Ti ho spaventata?» mi schernì Zerbrowski. «No», mentii. Il detective Zerbrowski è alto circa un metro e settanta, capelli neri e ric-
ci che cominciano a ingrigire, occhi castani dietro gli occhiali con la montatura nera. Indossava un completo marrone tutto spiegazzato, aveva la cravatta gialla e marrone sporcata da una macchia che probabilmente risaliva al pranzo, e mi sorrideva, come sempre. «Te l'ho fatta, Blake, ammettilo! La nostra feroce cacciatrice di vampiri che vomita dopo aver visto le vittime?» «Sei un po' ingrassato, eh, Zerbrowski?» «Oh, mi fai soffrire!» Si portò le mani al petto, vacillando appena. «Non dirmi che non desideri il mio corpo come io desidero il tuo!» «Piantala, Zerbrowski. Dov'è Dolph?» «Nella camera da letto del proprietario.» Alzò lo sguardo al lucernario nel soffitto a volta. «Mi piacerebbe che Katie e io potessimo permetterci qualcosa del genere.» «Sì, non è male.» Lanciai un'occhiata al divano, dove il lenzuolo aderiva a quello che copriva, qualunque cosa fosse; sembrava una salvietta sopra una macchia di liquido vischioso. C'era qualcosa che non andava. Sul momento non capii che cosa, ma poi ci arrivai: non era abbastanza voluminoso per essere un corpo umano intero. Qualche parte sicuramente mancava. La camera sembrò ondeggiare, così distolsi lo sguardo, deglutendo convulsamente. Erano passati diversi mesi dall'ultima volta che mi ero sentita male sulla scena del crimine, ed era un bene che almeno l'aria condizionata fosse accesa. Col caldo, la puzza è sempre peggiore. «Ehi, Blake! Hai davvero bisogno di uscire a prendere una boccata d'aria.» Zerbrowski mi prese per un braccio come per accompagnarmi fuori. «Sto benissimo, grazie», mentii di nuovo, guardandolo dritto negli occhi castani. Lui capì che mentivo, così mi lasciò il braccio, indietreggiò di un passo e mi fece un beffardo saluto militare. «Mi piacciono le tipe toste.» «Vattene, Zerbrowski», replicai, quasi divertita. «Dolph è in fondo al corridoio, ultima porta a sinistra.» E si allontanò per unirsi agli altri. Sulla scena del crimine c'è sempre troppa gente. E non mi riferisco ai curiosi, bensì agli agenti in uniforme e a quelli in borghese, ai tecnici della scientifica, al tizio che registra tutto con la videocamera. È piena di movimento frenetico e maledettamente affollata, come un alveare. Serpeggiai tra la folla col mio tesserino applicato al risvolto della giacca, in modo che i poliziotti capissero che non ero un'intrusa. Mi permetteva
anche di girare armata in mezzo a un branco di sbirri senza correre grossi rischi. Nel corridoio fui costretta a passare in mezzo alla calca da ingorgo stradale che l'ostruiva, cogliendo frammenti di conversazione. «Cristo! Guarda quanto sangue!» «L'hanno già trovato il corpo?» «Vuoi dire quello che ne è rimasto? No.» Alla fine trovai un po' di spazio libero davanti all'ultima porta a sinistra. Non so come ci fosse riuscito, ma Dolph era solo in quella stanza. Forse gli altri avevano già finito. Era in ginocchio sulla moquette, al centro della camera; le grosse mani, infilate nei guanti da chirurgo, erano appoggiate sulle cosce. Non appena mi vide, si alzò. È alto poco meno di due metri, con un fisico da lottatore, e così il letto a baldacchino parve rimpicciolire all'improvviso. È il capo dell'unità investigativa più recente della polizia, la Regional Preternatural Investigation Team, detta familiarmente Spook Squad, la quale si occupa di tutti i crimini soprannaturali. In pratica, è la discarica dei rompicoglioni. Non mi sono mai chiesta cosa abbia fatto Zerbrowski per finire alla Spook Squad, visto che il suo senso dell'umorismo è strano e assolutamente spietato. Ma Dolph... è il poliziotto perfetto. Così ho sempre immaginato che facendo troppo bene il suo lavoro abbia finito per offendere qualcuno nelle alte sfere. E questa è una cosa che non ho nessuna difficoltà a credere. Sulla moquette accanto a lui c'era un altro mucchio coperto da un lenzuolo. «Anita.» Parla sempre così, una parola per volta. «Dolph», replicai. S'inginocchiò tra il letto a baldacchino e il lenzuolo intriso di sangue. «Pronta?» «So che sei un tipo taciturno, Dolph, ma puoi dirmi almeno che cosa mi aspetta?» «Voglio sapere cosa vedi tu, non quello che io potrei suggerirti di vedere.» Fu un discorso piuttosto lungo, per Dolph. «Okay», cedetti. «Facciamola finita.» Rimosse il lenzuolo dalla cosa sanguinolenta che stava sotto, e vidi soltanto quello che sembrava un pezzo di carne sanguinolenta. Avrebbe potuto essere qualsiasi cosa: una vacca, un cavallo, un cervo... Ma un essere
umano? Sicuramente no. In effetti, il mio cervello si rifiutava di accettare quello che vedevano gli occhi. M'inginocchiai ripiegando la gonna sotto le cosce. Sotto le suole la moquette era fradicia come se avesse piovuto. «Hai un paio di guanti da prestarmi? Ho lasciato il mio equipaggiamento in ufficio.» «Tasca destra della giacca.» Sollevò le mani guantate, sporche di sangue. «Serviti. Mia moglie non sopporta di portare vestiti insanguinati in lavanderia.» Meraviglioso! Il senso dell'umorismo qualche volta è obbligatorio. Fui costretta ad allungarmi sopra quei poveri resti per togliergli di tasca i guanti da chirurgo. Sono misura unica e danno sempre la sensazione di essere cosparsi di talco; più che guanti, sembrano preservativi per le mani. «Posso toccarlo senza danneggiare le prove?» «Sì.» Quando lo pungolai con due dita, fu come tastare un pezzo di carne fresca. Feci scivolare i polpastrelli sui rilievi delle ossa. Costole. Improvvisamente capii di stare guardando un pezzo della cassa toracica di un essere umano, con la clavicola bianca che sporgeva dove il braccio era stato strappato. Mi alzai di scatto e vacillai, pestando rumorosamente la moquette inzuppata di sangue. D'un tratto la camera mi sembrò esageratamente calda. Girai le spalle al cadavere, o a quello che ne restava, e mi ritrovai a fissare una cassettiera con lo specchio che sembrava coperto di numerosi strati di smalto per unghie: rosso ciliegia, cremisi, uva candita... Chiusi gli occhi e contai molto lentamente fino a dieci. Quando li riaprii, la stanza mi sembrò un po' più fresca; per la prima volta mi accorsi che le pale di un ventilatore da soffitto roteavano lentamente. Io, la grande cacciatrice di vampiri, stavo benissimo. Sicuro! Mentre m'inginocchiavo di nuovo vicino al cadavere, Dolph non fece commenti; non mi guardò nemmeno. Cercare di essere obiettiva e di notare il necessario non fu affatto facile. I pezzi di cadavere mi piacciono di più quando non devo sforzarmi di capire che pezzi sono. Invece vedevo solo un ammasso di carne sanguinolenta e riuscivo a pensare soltanto che un tempo era stato il corpo di una persona. «Non mi sembra che siano state usate armi, ma questo dovrà stabilirlo il medico legale.» Mi allungai per toccarlo di nuovo e subito mi bloccai. «Puoi aiutarmi a sollevarlo per guardare dentro la cassa toracica, o quello
che ne resta?» Lasciato cadere il lenzuolo, Dolph mi aiutò. Il torso era più leggero di quanto sembrasse. Dopo averlo posato su un fianco, scoprimmo che era vuoto: tutti gli organi interni protetti dalle costole erano stati asportati. Sembrava proprio una costata di manzo, a parte l'articolazione della spalla. La clavicola era stata spezzata. «Okay», dissi, con voce piuttosto roca, prima di alzarmi e allargare le braccia per evitare che i guanti insanguinati mi sgocciolassero addosso. «Coprilo, per favore.» Lui lo fece e si alzò. «Impressioni?» «Violenza, estrema violenza. Forza sovrumana. Il corpo è stato straziato a mani nude.» «Perché a mani nude?» «Non ci sono segni di arma da taglio. Verrebbe da pensare che abbiano usato un segaossa, come per le bestie macellate, se non fosse che le ossa...» Scossi la testa. «L'assassino non si è servito di nessuno strumento.» «Nient'altro?» «Sicuro. Dov'è il resto del cadavere?» «Nel corridoio, seconda porta a sinistra.!» «Il resto del cadavere?» Mi sembrò che la stanza ridiventasse soffocante. «Vai a vedere e dimmi cosa te ne sembra.» «Dannazione, Dolph! So che non ti piace influenzare i tuoi consulenti, ma a me non piace procedere alla cieca.» Si limitò a fissarmi. «Rispondi almeno a una domanda», mormorai. «Può darsi. Quale?» «È peggio di questo?» Sembrò pensarci sopra per un momento. «Sì e no. Capirai quando lo vedrai.» Non avevo nessuna voglia di capire. Bert si era entusiasmato quando la polizia mi aveva voluto come consulente; il suo commento era stato che, collaborando con le forze dell'ordine, avrei acquistato un'esperienza preziosa. Ma tutto quello che avevo acquistato era una gran quantità di nuovo materiale per i miei incubi. Dolph mi precedette fino all'altra camera degli orrori. In realtà, non avevo nessuna voglia di vedere il resto del cadavere; volevo soltanto tornarmene a casa. Davanti alla porta chiusa aspettò che lo raggiungessi. Sull'uscio c'era una sagoma di cartone che raffigurava un coniglio, come quelle
che si usano a Pasqua; sotto, un'insegna ricamata. La camera di un bambino. «Dolph...» dissi in tono pacato, mentre dal soggiorno giungevano voci attutite. «Sì?» «Niente, niente.» Respirai profondamente, ripetendo a me stessa che potevo farcela. Oh, Dio! Non volevo farlo. Sussurrai una preghiera mentre la porta si apriva verso l'interno. Nella vita ci sono momenti in cui l'unico modo per farcela consiste nell'ottenere una piccola grazia dall'alto. Be', immaginai che fosse uno di quei momenti e che la grazia mi sarebbe stata concessa. La luce del sole entrava da una piccola finestra con le tendine dai bordi ricamati ad anatroccoli e conigli. Sagome di animaletti danzavano sulle pareti azzurre. Niente culla, soltanto un lettino con le sponde parzialmente abbassate. Si chiamano «lettini per bambini», vero? Non c'era molto sangue, grazie a Dio! Chi dice che le preghiere non vengono mai esaudite? Ma in un riquadro di abbagliante sole d'agosto stava seduto un orsacchiotto che sembrava candito perché era tutto ricoperto di sangue. Dal peluche spuntava, rotondo e sorpreso, un occhio di vetro. M'inginocchiai accanto all'orsacchiotto; la moquette non fece rumori schifosi, visto che non era intrisa di sangue. Allora perché diavolo l'orsetto era ricoperto di sangue rappreso? Non riuscivo a vedere neppure un'altra goccia rossa in tutta la stanza. Ce lo aveva forse messo qualcuno? Alzando lo sguardo, mi trovai a fissare una piccola cassettiera bianca dipinta a coniglietti. Sulla superficie spiccava l'impronta perfetta di una manina. Mi avvicinai strisciando e sollevai una mano per confrontare le dimensioni. Le mie mani non sono grandi, anzi sono piccole anche per una donna, ma quella che aveva lasciato l'impronta era davvero minuscola. Un bambino di due o tre anni. «Quanti anni aveva il bambino?» chiesi a Dolph. «Dietro la foto in soggiorno c'è scritto: Benjamin Reynolds, anni tre.» «Benjamin», sussurrai, fissando l'impronta insanguinata. «Qui non c'è nessun cadavere. Non è stato ucciso nessuno qui.» «No.» «Perché hai voluto che lo vedessi?» Sempre in ginocchio, alzai lo sguardo a Dolph. «La tua opinione non vale niente se non hai visto tutto.» «Il ricordo di questo dannato orsacchiotto non mi darà pace.»
«Vale anche per me», assicurò. Mi alzai, resistendo alla tentazione di lisciarmi la gonna. Era sorprendente quanto spesso mi capitava di sporcarmi involontariamente i vestiti di sangue. Ma quel giorno non accadde. «C'è il cadavere del bimbo sotto il lenzuolo in soggiorno?» Nel dirlo, pregai che non fosse così. «No.» Grazie a Dio! «Il cadavere della madre?» «Sì.» «Dov'è quello del bambino?» «Non siamo riusciti a trovarlo.» Dolph esitò, prima di chiedere: «È possibile che sia stato divorato completamente?» «Vuoi dire senza lasciare niente di niente?» «Sì», confermò, mentre il suo viso impallidiva quasi impercettibilmente, com'era probabile che stesse succedendo anche a me. «È possibile, ma persino i non morti hanno i loro limiti.» Sospirai profondamente. «Hai trovato qualche traccia di... rigurgito?» «Rigurgito? Bella parola! No, il mostro non ha vomitato, o almeno non abbiamo trovato niente che lo faccia pensare.» «Allora è probabile che il bambino sia ancora qui intorno da qualche parte.» «È possibile che sia vivo?» chiese Dolph. Lo guardai. Avrei voluto rispondergli di sì, ma sapevo che probabilmente la risposta era no, così optai per un compromesso. «Non lo so.» Dolph annuì. «Passiamo in soggiorno?» domandai. «No.» Uscì senza aggiungere una parola, e io lo seguii. Cos'altro avrei potuto fare? Però non gli corsi dietro. Se voleva giocare al poliziotto duro e taciturno, poteva benissimo aspettare che lo raggiungessi, cazzo! Così seguii la sua schiena enorme attraverso l'atrio, fino alla cucina, immacolata come quella di una foto pubblicitaria su una rivista. Tutta mattonelle azzurre e legno chiaro; il pavimento era cosparso di schegge di vetro. «Bella cucina», commentai. Una porta scorrevole di vetro si apriva sul cortile, che alcuni poliziotti stavano perlustrando. La festa si era trasferita all'esterno e il recinto nascondeva ogni cosa ai vicini curiosi, proprio come aveva nascosto l'assas-
sino durante la notte. Dentro c'era soltanto un detective, intento a scribacchiare qualcosa su un taccuino vicino al lavabo sfavillante. Dolph m'invitò con un cenno a guardare più da vicino. «Qualcuno ha sfondato il vetro della porta scorrevole», cominciai, «e tutto questo vetro frantumato deve aver fatto un baccano d'inferno, nonostante il rumore dell'aria condizionata. Insomma, devono aver sentito.» «Lo credi?» domandò. «Nessuno dei vicini ha sentito niente?» ribattei. «Nessuno vuole ammetterlo.» Ciò non mi sorprendeva. «Allora... il vetro viene sfondato e qualcuno viene a vedere, probabilmente il marito. Certi stereotipi sessisti sono duri a morire.» «Che vuoi dire?» chiese Dolph. «Il cacciatore coraggioso che protegge la sua famiglia», spiegai. «Okay, ammettiamo che sia stato il marito. E poi?» «Il marito entra, vede quello che ha sfondato il vetro e grida qualcosa alla moglie. Probabilmente le dice di scappare... di prendere il bimbo e di scappare.» «Perché non le dice di chiamare la polizia?» «Non ho visto telefoni nella camera matrimoniale.» Accennai con la testa all'apparecchio applicato al muro della cucina. «Probabilmente l'unico telefono è questo, quindi per poterci arrivare doveva passare davanti all'uomo nero.» «Continua.» Girai la testa per lanciare un'occhiata al soggiorno, dove s'intravedeva il divano coperto dal lenzuolo. «Il mostro, qualunque cosa fosse, ha neutralizzato il marito, in fretta. Lo ha tramortito, ma non lo ha ucciso.» «Perché non lo ha ucciso?» «Non c'è sangue in cucina. Lo ha divorato in camera da letto. Se lo avesse ucciso prima, avrebbe dovuto trascinare il cadavere fin là. Invece deve averlo inseguito fino in camera da letto, dove lo ha ucciso.» «Non male. Vuoi dare un'occhiata al soggiorno, adesso?» Per la verità non lo volevo affatto, ma rimasi in silenzio. Della donna era rimasto qualcosa di più: il busto era quasi intatto. Le mani erano infilate in sacchetti di carta perché era stato trovato qualcosa sotto le unghie; mi augurai che risultasse utile. I grandi occhi castani erano aperti a fissare il soffitto. Il pigiama, impregnato di sangue, aderiva alla vita troncata, o meglio strappata. Deglutendo a fatica, ne presi il bordo tra l'indice e il pollice per
sollevarlo. Umida, bianca e ciondolante la spina dorsale scintillò alla luce spietata del sole come una corda strappata. «È stata fatta a pezzi, proprio come il... marito, in camera da letto», constatai. «Come fai a sapere che quello era il marito?» «A meno che non avessero compagnia, dev'essere lui. Non avevano avuto visite, vero?» «No, a quanto ne sappiamo.» «Allora dev'essere il marito, anche perché la moglie ha ancora tutte le costole ed entrambe le braccia.» Cercai di non lasciar trapelare la collera. «Non sono uno dei tuoi sbirri, quindi vorrei che la smettessi di chiedermi quello che sai già.» «Mi sembra giusto. A volte dimentico che non sei uno dei ragazzi.» «Grazie tante.» «Sai cosa voglio dire.» «Sì, e so pure che intendevi farmi un complimento, ma possiamo finire di discuterne fuori, per favore?» «Sicuro.» Si tolse i guanti insanguinati e li gettò in un sacco per i rifiuti che stava aperto sul pavimento della cucina. Lo imitai. Fuori, il caldo mi avvolse come plastica fusa; in qualche modo, però, mi sembrò una cosa bella e pulita. Respirai a pieni polmoni l'aria torrida, che faceva sudare. Ah, l'estate! «Avevo ragione, vero?» domandò. «Non è stato un essere umano.» Due agenti in uniforme tenevano alla larga la folla dei curiosi dal vialetto e dalla strada. Bambini egenitori, ragazzini in bicicletta. Sembrava proprio un fottuto circo! «No, non è stato un essere umano. Non c'era sangue sulle schegge del vetro sfondato.» «L'ho notato. Che significa?» «A parte i vampiri, quasi tutti i morti non sanguinano.» «Quasi tutti?» «Gli zombie morti da poco possono sanguinare, ma i vampiri sanguinano quasi come i vivi.» «Allora non credi che sia stato un vampiro?» «Se fosse stato un succhiasangue, avrebbe mangiato carne umana. Eppure i vampiri non possono digerire il cibo solido.» «Un necrofago?»
«Troppo lontano da un cimitero, e poi la casa sarebbe stata devastata. I necrofagi distruggono furiosamente l'arredamento.» «Uno zombie?» «Sinceramente non lo so. Ci sono zombie che si nutrono di carne. Capita, ma è raro.» «Mi hai detto che esistono tre casi documentati», ribatté Dolph, «e che ogni volta gli zombie sono rimasti umani un po' più a lungo senza marcire.» «Hai buona memoria! È proprio così. Gli zombie che si nutrono di carne non imputridiscono finché continuano a mangiarne, o almeno non tanto in fretta.» «Sono violenti?» «Finora non è mai successo.» «E gli zombie sono violenti?» chiese Dolph. «Soltanto se viene ordinato loro di esserlo.» «Che significa?» «Se sei abbastanza potente, puoi ordinare a uno zombie di ammazzare qualcuno», spiegai. «Uno zombie come arma assassina?» «Qualcosa del genere, sì.» «Cosa può essere stato a fare questo macello?» «Non sono sicura di averlo capito», ammisi. «Lo so. Ma cosa potrebbe essere stato?» «Be', io potrei farlo ma non lo farei mai, come non lo farebbe nessuno di quelli che conosco e che ne sarebbero in grado.» «Lascia che siamo noi a decidere», suggerì Dolph, tirando fuori il suo piccolo taccuino. «Vuoi davvero che ti faccia i nomi dei miei colleghi perché tu possa andare da loro a chiedere se per caso hanno resuscitato uno zombie e lo hanno mandato a massacrare questa gente?» «Sì, per favore.» «Non posso crederci», sospirai. «E va bene! Io, Manny Rodriguez, Peter Burke e...» m'interruppi prima di pronunciare l'altro nome che avevo in mente. «Che c'è?» «Niente. Ho appena ricordato che questa settimana devo andare al funerale di Burke. Non credo che sia da considerare, visto che è morto.» Dolph mi guardò con occhi duri, evidentemente sospettoso. «Sei sicura
che questi siano tutti i nomi che puoi darmi?» «Se mi verrà in mente qualcun altro te lo farò sapere», garantii, con gli occhi spalancati nella mia espressione più sincera. Visto? Non ho nessuna carta nascosta nella manica! «Fallo, Anita.» «Sicuro.» Sorrise e scosse la testa. «Chi stai proteggendo?» «Me stessa», risposi, sconcertandolo. «Diciamo soltanto che non voglio che qualcuno si arrabbi con me.» «Chi?» Alzai lo sguardo al limpido cielo d'agosto. «Credi che pioverà?» «Dannazione, Anita! Ho bisogno del tuo aiuto!» «Ti ho già dato il mio aiuto!» «Il nome.» «Non ancora. Controllerò e, se scoprirò qualcosa di losco, prometto che te lo dirò.» «Generoso da parte tua.» Un rossore improvviso gli salì dal collo alla faccia. Non avevo mai visto Dolph arrabbiato e temevo di essere sul punto di vederlo per la prima volta. «La prima vittima è stata un barbone. Credevamo che si fosse ubriacato e che fosse stato aggredito dai necrofagi, visto che lo avevamo trovato vicino a un cimitero. Il caso sembrava chiuso.» La sua voce si era alzata un po' a ogni parola. «Poi abbiamo trovato una coppia di adolescenti sorpresi a pomiciare in auto, morti e non troppo lontano dal cimitero. Abbiamo chiamato uno sterminatore e un prete. Caso chiuso.» Parlò più piano, ma fu come se inghiottisse un grido. La sua voce era così tesa che la sua ira sembrava quasi palpabile. «E adesso questo. È lo stesso maledetto mostro, qualunque cosa sia, eppure siamo a parecchie miglia dal fottuto cimitero più vicino. Non è stato un necrofago, e forse tutto questo non sarebbe successo se ti avessi chiamata prima. Credo di cominciare a diventare bravo con queste stronzate soprannaturali, ma quel po' di esperienza che ho messo insieme non basta, non basta affatto.» Le sue grosse mani cominciarono a stritolare il taccuino. «È il discorso più lungo che ti abbia mai sentito fare», commentai. Fece una mezza risata. «Mi serve il nome, Anita.» «Dominga Salvador, la sacerdotessa vudù. Ma se le mandi la polizia non parlerà. Nessuno parlerebbe.»
«Con te parlerà, invece?» «Sì.» «D'accordo, ma è meglio che tu mi faccia sapere qualcosa entro domani.» «Non so se riuscirò a organizzare un incontro in così poco tempo.» «Se non lo fai tu, lo faccio io», minacciò. «Okay, okay... In qualche modo ci riuscirò.» «Grazie, Anita. Adesso abbiamo almeno un punto di partenza.» «Potrebbe non essere stato affatto uno zombie, Dolph. È soltanto una supposizione.» «Cos'altro potrebbe essere?» «Se ci fosse sangue sulle schegge di vetro, potrei pensare a un licantropo.» «Oh, magnifico! Proprio quello che mi serve! Un licantropo impazzito!» «Ma sul vetro non c'è sangue...» «Quindi è probabile che sia stato un non morto di qualche genere», concluse. «Esatto.» «Parla con Dominga Salvador e aggiornami al più presto.» «Signorsì, sergente!» Mi fece una smorfia e rientrò. Io non dovevo fare altro che tornare a casa, cambiarmi e prepararmi a resuscitare i morti. Per quella notte avevo tre clienti. Lo psicologo di Ellen Grisholm pensava che per lei sarebbe stato terapeutico confrontarsi col padre che l'aveva molestata da bambina. Purtroppo il padre era morto da alcuni mesi, quindi avrei dovuto resuscitarlo in modo che la figlia potesse spiegargli che razza di figlio di puttana era stato. Lo psicologo sosteneva che sarebbe stata una specie di purificazione. Be', suppongo che i laureati abbiano il permesso di dire cose del genere. Gli altri due lavori erano meno insoliti: un testamento contestato e un testimone chiave dell'accusa che aveva avuto il pessimo gusto di farsi venire un infarto prima di presentarsi alla sbarra. Non era ancora sicuro che la testimonianza di uno zombie fosse ammissibile in tribunale, ma la procura era abbastanza disperata da provarci e per giunta pagare per avere un tale privilegio. Rimasi in mezzo al prato rinsecchito, lieta di constatare che la famiglia non era stata una fanatica degli innaffiatoi e quindi non aveva sprecato acqua preziosa. Forse avevano persino riciclato le lattine e i quotidiani. Forse
erano stati onesti cittadini ecologisti, e forse no. Un agente in uniforme sollevò per me il nastro giallo affinché potessi passare. Ignorando tutta la gente che mi fissava, rimontai a bordo della mia auto, una Nova ultimo modello. Avrei potuto permettermi qualcosa di meglio, ma perché disturbarsi? L'importante era che camminasse. Il volante scottava, così accesi l'aria condizionata per rinfrescare l'abitacolo. Ciò che avevo detto a Dolph su Dominga Salvador era vero. Non avrebbe parlato con la polizia. Però non era per quello che avevo cercato di non coinvolgerla nella faccenda. Se i poliziotti fossero andati a bussare alla sua porta, la Señora Dominga avrebbe voluto sapere chi li aveva indirizzati lì, e alla fine lo avrebbe scoperto. Ebbene, la Señora era la sacerdotessa vudù più potente che avessi mai conosciuto; resuscitare uno zombie assassino era soltanto una delle molte cose che avrebbe potuto fare, se avesse voluto. Io sapevo il minimo indispensabile su quell'aspetto del lavoro, ma la Señora ne aveva inventato la maggior parte. Non volevo che Dominga Salvador si arrabbiasse con me, quindi sembrava proprio che l'indomani avrei dovuto andare a parlarle. Era un po' come prendere appuntamento per incontrare il padrino del vudù, o la madrina, in quel caso. Il guaio era che la madrina non aveva molta simpatia per me, perché tutte le volte che mi aveva invitato a casa sua per presenziare alle sue cerimonie io avevo declinato cortesemente. Ritenevo che potesse essere delusa dal fatto che ero cristiana, perciò fino a quel momento avevo fatto in modo di evitare d'incontrarla personalmente. Insomma, avrei chiesto alla più potente sacerdotessa vudù degli Stati Uniti, se non di tutto il Nord America, se avesse per caso resuscitato uno zombie che se ne stava andando in giro ad ammazzare la gente dietro suo ordine. Ero forse impazzita? Poteva darsi. In ogni caso si prospettava, anche per l'indomani, una giornata molto piena. 4 La sveglia digitale strillò e io rotolai per picchiare sui tasti, ma riuscii a colpire soltanto lo snooze. Alla fine fui costretta ad alzarmi su un gomito e ad aprire gli occhi per spegnere definitivamente la suoneria. Le cifre luminose indicavano le sei del mattino. Merda! Ero rientrata soltanto alle tre. Perché avevo regolato la sveglia alle sei? Non lo ricordavo. Non sono al mio meglio dopo avere dormito soltanto tre ore. Mi sdraiai di nuovo nel
nido ancora caldo tra le lenzuola. All'improvviso, mentre gli occhi minacciavano di richiudersi, ricordai. Dominga Salvador! Aveva accettato d'incontrarmi quel giorno stesso alle sette: una colazione di lavoro! Mi liberai delle lenzuola e rimasi seduta sul bordo del letto per un minuto. L'unico rumore che si sentiva era il fruscio dell'aria condizionata. Una tranquillità da funerale. Finalmente mi alzai, con immagini di orsacchiotti insanguinati che mi danzavano nella mente. In un quarto d'ora mi vestii. Non ebbi bisogno di lavarmi, perché faccio sempre la doccia quando rientro dal lavoro, qualunque ora sia. Non sopporto l'idea di coricarmi tra le lenzuola pulite quando sono tutta imbrattata di sangue raggrumato. Qualche volta è sangue di capra, ma di solito è di gallina. Quanto ai vestiti, non volevo sembrare irrispettosa, ma neanche sciogliermi dal caldo. Sarebbe stato tutto più facile se avessi deciso di non portare la pistola. Dite pure che sono paranoica, però non esco di casa se non sono armata. Scelsi i jeans sbiaditi, le calze da jogging e le Nike. Nella fondina interna - una Uncle Mike's Sidekick - infilai la Firestar calibro 9, cioè la pistola di riserva che porto insieme con la Browning Hi-Power. Quest'ultima era troppo grossa per stare nella fondina interna, ma la Firestar ci si adattava magnificamente. Non mi serviva altro che una camicia capace di nascondere la pistola senza intralciare l'estrazione, ma trovarne una fu più difficile di quanto possa sembrare. Alla fine decisi per un top che mi arrivava appena alla cintura, poi girai su me stessa guardandomi allo specchio. La pistola sarebbe rimasta invisibile se avessi ricordato di non alzare troppo le braccia. Purtroppo il top era di un rosa tanto chiaro che non riuscivo proprio a ricordare che cosa mi avesse convinta a comprarlo. Era stato forse un regalo? Magari! L'idea di avere sprecato una qualsiasi somma per un qualsiasi indumento rosa era più di quanto potessi sopportare. Non avevo ancora tirato le tende, perciò l'appartamento era completamente immerso in una specie di crepuscolo. Mi ero fatta fare tende molto pesanti perché di rado vedo la luce del sole e non ne sento mai molto la mancanza. Quando accesi la lampada sopra l'acquario, i pesci angelo salirono in superficie e cominciarono ad aprire e chiudere la bocca al rallentatore, imploranti. I pesci incarnano il mio ideale di animale domestico. Non rischi di cal-
pestarli, non hanno bisogno di troppe cure, non devi educarli a comportarsi come si deve né devi portarli fuori a fare pipì. Se pulisci l'acquario ogni tanto e li rifornisci regolarmente di cibo, a loro non importa niente di quante ore di straordinario tu faccia! L'aroma del caffè si diffuse in tutto l'appartamento dal mio Mr. Coffee. Seduta al tavolino da cucina, sorseggiai l'ottima bevanda nera colombiana ancora bollente. Chicchi tolti dal freezer e macinati all'istante. Non c'è altro modo di preparare il caffè, anche se in situazioni di emergenza posso accontentarmi di quello che trovo. Il campanello suonò e io sussultai, rovesciando un po' di caffè sul tavolo. Nervosa, io? Lasciai la Firestar sul tavolo di cucina anziché portarmela dietro. Visto che non sono paranoica? Soltanto estremamente prudente. Guardai attraverso lo spioncino, poi aprii. Davanti a me stava Manny Rodriguez. Ha cinquantadue anni, è alto circa cinque centimetri più di me e ha folti capelli ondulati e neri come il carbone, striati di grigio e di bianco, che incorniciano il viso magro dai baffi neri. In una situazione pericolosa preferisco che sia lui a guardarmi le spalle piuttosto che chiunque altro, con una sola eccezione. Ci stringemmo la mano, come sempre. La sua stretta era salda e asciutta. I suoi denti bianchissimi lampeggiarono nel viso allegro dalla carnagione scura. «Sento profumo di caffè!» «Sai che non ho altro per colazione.» Non appena fu entrato, richiusi la porta a chiave. «Rosita sostiene che pensi troppo poco a te stessa.» Passò a eseguire un'imitazione pressoché perfetta della voce severa di sua moglie, che aveva un accento messicano molto più marcato del suo. «Mangia male! È così magra, povera Anita! Niente marito, nemmeno un fidanzato...» «Rosita è come la mia matrigna, Judith. Ha paura che diventi una vecchia zitella.» «Quanti anni hai? Ventiquattro?» «Già.» Si limitò a scuotere la testa. «A volte le donne non le capisco proprio.» «Mi consideri una zitella inacidita?» scherzai. «Anita, sai che non intendevo...» «Lo so, faccio parte della banda, capisco.» «Sul lavoro sei la migliore.» «Siediti e lascia che ti serva il caffè, se non vuoi rovesciartelo sui piedi.» «Non fare la scontrosa. Hai capito cosa voglio dire.» Mi fissò con gli
scuri occhi castani, molto serio in viso. Sorrisi. «Sì, ho capito cosa vuoi dire.» Presi una delle tazze per gli ospiti che tengo nell'armadietto della cucina. Le mie preferite sono appese al portatazze sul piano di lavoro. Manny sedette a sorseggiare il caffè, poi osservò la propria tazza, rossa con una scritta nera: SONO UN INSENSIBILE FIGLIO DI PUTTANA, MA CI RIESCO BENE. Scoppiò a ridere, rischiando di strozzarsi col caffè. Sorseggiai il mio da una tazza decorata a giovani pinguini lanuginosi. Anche se non lo ammetterò mai, è in assoluto la mia preferita. «Perché non porti in ufficio la tazza coi pinguini?» chiese Manny. All'ultima riunione, Bert aveva chiesto a ciascuno di noi di tenere in ufficio una tazza da caffè personalizzata, convinto che avrebbe aggiunto una nota casalinga all'ambiente. Io ne avevo portata una grigia con una scritta grigia un po' più scura: È UNO SPORCO LAVORO, E IO LO SO FARE. Non appena l'aveva vista, Bert mi aveva detto di riportarla a casa. «Mi piace far incazzare Bert.» «Perciò continuerai a portare tazze inaccettabili.» «Già.» Lui si limitò a scuotere la testa. «Ti sono davvero grata per avere accettato di accompagnarmi da Dominga.» Si strinse nelle spalle. «Non potevo lasciarti andare da sola a incontrare la diavolessa.» Corrugai la fronte a quel soprannome. O era un insulto? «È tua moglie che la chiama così, non io.» Lanciò un'occhiata alla pistola che avevo lasciato sul tavolo. «Ma ti porti la pistola, tanto per andare sul sicuro.» Lo guardai sopra il bordo della tazza. «Tanto per andare sul sicuro.» «Se arriveremo al punto di essere costretti a sparare, Anita, sarà troppo tardi. Ha guardie del corpo ovunque.» «Non ho intenzione di sparare a nessuno. Andiamo soltanto a fare qualche domanda. Niente di più.» Non poté resistere dal prendermi in giro. «Por favor, Señora Salvador, ha forse resuscitato qualche zombie assassino di recente?» «Piantala, Manny! So che è una mossa un po' goffa.» «Goffa?» Scosse la testa. «Dominga Salvador reagirà in modo tutt'altro che goffo se la farai incazzare!»
«Non sei obbligato ad accompagnarmi.» «Mi hai chiesto aiuto.» Gli s'illuminò tutta la faccia. «Non hai chiamato Charles e neanche Jamison. Hai chiamato me, Anita. E questo è il miglior complimento che si possa fare a un vecchio.» «Tu non sei vecchio», ribattei. Lo pensavo sul serio. «Non è quello che continua a dirmi Rosita. Ma, anche se mi ha proibito di andare a caccia di vampiri con te, non può pretendere che smetta persino di occuparmi di zombie. Non ancora.» Sicuramente la mia faccia lasciò trapelare la sorpresa, perché subito aggiunse: «So che ha parlato con te, due anni fa, quand'ero in ospedale». «Hai rischiato di morire», osservai. «E tu quante ossa ti sei rotta?» «La richiesta di Rosita è ragionevole, Manny. Hai quattro figli cui pensare.» «E sono troppo vecchio per dare la caccia ai vampiri», commentò in tono ironico, quasi amaro. «Non sarai mai troppo vecchio.» «Sei gentile.» Vuotò la tazza. «Meglio andare. Non vogliamo certo far aspettare la Señora.» «Dio ce ne scampi», esclamai. «Amen», concluse. Lo fissai mentre risciacquava la tazza. «Sai qualcosa che non vuoi dirmi?» «No», garantì. Continuai a fissarlo, consapevole di avere le sopracciglia sospettosamente corrugate. «Manny?» «Non so niente, parola di messicano onesto.» «Allora cosa c'è che non va?» «Come sai, praticavo il vudù prima che Rosita mi convertisse al cristianesimo puro.» «Sì. E allora?» «Dominga Salvador non era soltanto la mia sacerdotessa. Era anche la mia amante.» Lo fissai in silenzio per qualche istante. «Stai scherzando?» «Non scherzerei mai su una cosa del genere.» Scrollai le spalle. Le scelte sentimentali e sessuali della gente non finiscono mai di stupirmi. «Ecco perché sei riuscito a organizzarmi un incontro in così poco tempo. Perché non me l'hai detto subito?»
«Perché forse avresti cercato di andare da lei senza di me.» «E sarebbe stata una cosa così brutta?» Si limitò a fissarmi con espressione molto seria negli occhi castani. «Forse.» Raccolsi la Firestar dal tavolo e la infilai nella fondina interna. Aveva un caricatore da otto, a differenza della Browning, che ne aveva uno da quattordici colpi. Ma siamo realisti. Se mi fossero servite più di otto pallottole, sarei morta, e Manny pure. «Merda», sussurrai. «Che c'è?» «Ho l'impressione di andare a trovare l'uomo nero.» Manny assentì lentamente. «Non è un paragone sbagliato.» Grande! Dannatamente grande! Perché lo stavo facendo? Mi lampeggiò nella mente l'orsacchiotto coperto di sangue di Benjamin Reynolds. E va bene, sapevo perché lo stavo facendo. Se fosse esistita anche soltanto una remota possibilità che il bambino fosse ancora vivo, sarei stata pronta a scendere personalmente all'inferno, ammesso di avere una chance di tornarne viva. Ma non lo dissi, perché non volevo sapere se anche il paragone della visita all'inferno fosse calzante. 5 Era un quartiere degli anni '40 e '50, con le aiuole e i giardini rinsecchiti dalla siccità. Non c'erano innaffiatoi da quelle parti. I fiori - soprattutto petunie, gerani e qualche cespuglio di rose - lottavano duramente per sopravvivere. Le strade erano pulite e ordinate, anche se a un isolato di distanza chi indossava una giacca del colore sbagliato rischiava di essere ammazzato. Le bande non entravano nel quartiere della Señora Salvador. Persino gli adolescenti armati di pistole semiautomatiche avevano paura di ciò che neppure i migliori tiratori riuscivano a fermare col piombo. I proiettili ricoperti di argento feriscono i vampiri, ma non li uccidono. Ammazzano i licantropi, ma non eliminano gli zombie. Anche dopo che hai fatto a pezzi a colpi di scure uno zombie, i suoi arti troncati continuano a inseguirti strisciando. Io l'ho visto succedere, e non è un bello spettacolo. Per questo le bande non invadono il territorio della Señora. Niente violenza. Quello è un posto di tregua permanente. Si racconta di una banda ispanica che pensava di essere protetta dai gris-
gris, gli amuleti vudù. Secondo alcuni, l'ex capo di quella banda è ancora nel sotterraneo di Dominga e ubbidisce a ogni suo ordine. È un bell'esempio per i giovani delinquenti dalla testa calda. Personalmente non l'avevo mai vista resuscitare nessuno zombie, né comandare i serpenti. E avrei preferito che le cose continuassero così. La casa della Señora Salvador era circondata da un bel giardino, con rossi gerani che spiccavano fiammeggianti sullo sfondo delle mura bianche. Rosso e bianco, sangue e ossa. Ero certa che il simbolismo non sfuggisse ai passanti casuali. Di sicuro non sfuggiva a me. Manny parcheggiò la macchina nel vialetto, dietro un'Impala color crema. Il garage a due posti era dipinto di bianco come la casa. Una bimba percorreva il marciapiede pedalando furiosamente sul triciclo, avanti e indietro. Due bambini poco più grandi, seduti sui gradini del portico, smisero di giocare non appena ci videro. Nel portico c'era un uomo. Con una fondina ascellare sopra una T-shirt azzurra senza maniche. Gli mancava soltanto un'insegna lampeggiante al neon che annunciasse: RISSOSO BASTARDO. Le croci e gli altri simboli tracciati a gesso e pastelli sul marciapiede potevano sembrare giochi di bambini, ma non lo erano affatto. Erano i segni di venerazione dei devoti seguaci della Señora. Tutt'intorno c'erano mozziconi di candela quasi completamente sciolti. La bimba in triciclo vi pedalava sopra, avanti e indietro. Tutto normale, no? Mentre seguivo Manny sul prato, la bimba si fermò a guardarci con un impenetrabile visino scuro. Manny si tolse gli occhiali da sole e sorrise alla guardia del corpo. «Buenos dias, Antonio. È molto che non ci vediamo.» «Sì», convenne l'uomo, con voce bassa e astiosa. Aveva le braccia molto abbronzate e le teneva incrociate sul petto, rilassate, ma con la mano destra vicino al calcio della pistola. Nascondendomi dietro Manny, avvicinai con noncuranza le mani alla mia pistola. Come dicono i boy scout, bisogna sempre essere pronti. O sono i marine a dirlo? «Sei cresciuto», osservò Manny. «Mia nonna dice che devo lasciarti entrare», ribatté Antonio. «È una donna saggia», commentò Manny. Antonio si strinse nelle spalle. «È la Señora.» Allungò la testa per guardare me. «Quella chi è?» «La señorita Anita Blake.» Manny si spostò in modo che potessi farmi
avanti. Io lo feci tenendo la mano destra sul fianco come se fosse un'abitudine, ma soltanto per poterla lasciare vicino alla pistola. Antonio mi scrutò con occhi neri che contenevano soltanto rabbia. Non assomigliavano per niente a quelli delle guardie del corpo di Harold Gaynor. Sorrisi. «Piacere di conoscerti.» Mi scrutò per un momento a occhi socchiusi, con sospetto. Continuai a sorridere fino a quando anche le sue labbra non si allargarono lentamente. Pensò che stessi flirtando, e io glielo lasciai credere. Quando disse qualcosa in spagnolo, non potei fare altro che scuotere la testa. Però il tono basso, l'espressione degli occhi scuri e la curva della bocca furono eloquenti. Era una proposta oscena, oppure un insulto. Manny s'irrigidì, arrossì e mormorò qualcosa a denti stretti. Allora anche Antonio arrossì e intanto spostò la mano alla pistola. Rapidamente salii i due gradini per andare a toccargli il polso, come se non avessi capito che cosa stava per fare. I muscoli contratti del suo braccio trasmisero una tensione enorme. Lo omaggiai della mia espressione più radiosa, continuando a stringergli il polso. Lui distolse lo sguardo da Manny per lanciare un'occhiata a me. Lo sentii rilassarsi, ma non gli mollai il polso finché non lasciò cadere il braccio lungo il fianco. Allora mi prese la mano e se la portò alle labbra per baciarla, indugiando e continuando a fissare Manny con gli occhi pieni di sfida rabbiosa. Antonio era un dilettante, pur se armato, e i dilettanti armati finiscono sempre ammazzati. Mi chiesi se Dominga Salvador ne fosse consapevole. Era una sacerdotessa vudù, ma sarei stata pronta a scommettere che non sapesse granché delle armi da fuoco e di ciò che era necessario per saperle usare abitualmente. Qualunque requisito fosse, di sicuro Antonio non lo possedeva. Era capace di uccidere senza problemi, ma per i motivi sbagliati, cioè motivi da dilettante. Certo, la vittima sarebbe morta comunque. Mi fece salire nel portico, tenendomi sempre per la mano sinistra. Be', quella avrebbe potuto tenerla anche tutto il giorno, se ne avesse avuto voglia. «Devo perquisirti per vedere se sei armato, Manuel.» «D'accordo», rispose Manny, prima di salire nel portico. Antonio indietreggiò per avere più spazio nel caso in cui Manny intendesse aggredirlo, ma così facendo mi offrì la possibilità di sparargli nella schiena. Un'imprudenza che in altre circostanze sarebbe risultata fatale. Si comportò come un poliziotto che eseguisse una perquisizione perso-
nale, facendo appoggiare Manny alla balaustra del portico. Lo perquisì frettolosamente, nervoso, come se il semplice fatto di toccarlo lo facesse arrabbiare. C'era un sacco di odio nel buon vecchio Tony. Comunque non lo sfiorò neppure l'idea di perquisire anche me. Ahi, ahi! Intanto sulla soglia, dietro la controporta, era apparso un uomo sulla cinquantina. Aveva i capelli neri, con una frezza bianca proprio sulla fronte imperlata di sudore; portava una camicia a scacchi aperta sulla maglietta bianca e le maniche arrotolate. Avrei scommesso che aveva una pistola dietro la schiena. «Perché ci stai mettendo tanto, Antonio?» domandò con voce cupa, dall'accento marcato. «Lo sto perquisendo.» «La Señora può ricevervi tutti e due», annunciò l'altro. Antonio si fece da parte per riprendere il suo posto di guardia; mentre passavo, m'inviò un bacio rumoroso. La tensione immediata con cui Manny reagì a quella volgarità non mi sfuggì, ma entrammo nel soggiorno senza che si scatenasse una sparatoria. Eravamo sulla lista degli ospiti. Il soggiorno era spazioso, con una zona pranzo sulla sinistra e un arredamento che includeva un pianoforte verticale. Mi chiesi chi lo suonasse. Antonio, forse? Macché! Seguimmo l'uomo per un breve corridoio che conduceva in un'ampia cucina col pavimento di mattonelle bianche e nere. Pareti e rivestimenti erano vecchi, ma l'arredamento era nuovo. Buona parte della parete di fondo era occupata da un imponente frigorifero con congelatore e distributore d'acqua. Era tutto giallo chiaro, oro di mietitura e bronzo autunnale. Al tavolo di cucina sedeva una donna sulla sessantina, col magro viso scuro segnato da tante rughe sottili, con candidi capelli raccolti in crocchia, la schiena diritta, le mani ossute posate l'una sull'altra. Sembrava terribilmente inoffensiva, proprio come una cara vecchia nonnina. Ma, se fosse stato vero soltanto un quarto di ciò che avevo sentito dire sul suo conto, allora quella era l'apparenza più falsa che avessi mai visto. Sorrise, protese le mani e aspettò che Manny si avvicinasse per sfiorarle con le labbra. «È bello vederti, Manuel», dichiarò, con una profonda voce di contralto che aveva una sfumatura vellutata. «Anche per me rivedere te, Dominga.» Manny le lasciò le mani e sedette di fronte a lei. Gli occhi neri della donna guizzarono su di me, che ero rimasta sulla soglia. «E così finalmente sei venuta da me, Anita Blake.» Mi sembrò una frase strana, perciò lanciai un'occhiata a Manny. Dalla
sua espressione era chiaro che nemmeno lui aveva capito cosa avesse voluto dire la vecchia. Grande! «Non sapevo che mi attendesse tanto ansiosamente, Señora.» «Ho sentito parlare di te, chica. Si raccontano storie portentose.» In quegli occhi neri e in quel viso sereno c'era qualcosa che non era affatto innocuo. «Manny?» domandai. «Non sono stato io.» «No, Manuel non parla più con me. La sua mogliettina glielo ha proibito.» L'ultima frase fu pronunciata in tono collerico e amareggiato. Oh, Dio! La più potente sacerdotessa vudù del Midwest si stava comportando come un'amante respinta. Merda! I suoi irati occhi neri si posarono di nuovo su di me. «Prima o poi, tutti coloro che praticano il vudù vengono dalla Señora Salvador.» «Io non pratico il vudù.» Rise, e tutte le sue rughe si spianarono. «Tu resusciti i morti, gli zombie, e non pratichi il vudù! Oh, chica! Sei davvero divertente!» La sua voce spumeggiava di genuino divertimento. Quanto a me, ero proprio tanto contenta di farla felice. «Dominga, tu sai perché abbiamo chiesto questo incontro», interloquì Manny. «Sono stato molto chiaro.» Con un gesto lo zittì. «Sicuro... sei stato molto prudente al telefono, Manuel.» Si curvò verso di me. «È stato chiarissimo sul fatto che non saresti venuta qui per partecipare ai miei riti pagani.» L'amarezza nella sua voce fu abbastanza densa da potercisi strozzare. «Vieni qui, chica», ordinò, porgendomi una sola mano. Forse si aspettava che la baciassi come aveva fatto Manny, ma non ero andata da lei per comportarmi come al cospetto del papa. All'improvviso mi resi conto di non volerla toccare. Non era successo niente di strano fino a quel momento, eppure avevo i muscoli delle spalle dolorosamente contratti per la tensione. Avevo paura e non sapevo perché. Avanzai di un passo e le presi la mano, non sapendo cos'altro fare. La sua pelle era calda e asciutta. Tenendomi la mano, mi fece sedere accanto a lei e disse qualcosa con la sua morbida voce profonda. «Mi spiace. Non capisco lo spagnolo», replicai. Mi toccò i capelli con l'altra mano. «Neri come l'ala di un corvo. Contrastano con la pelle tanto chiara.» «Mia madre era messicana.»
«Eppure non parli la sua lingua.» Volevo liberare la mia mano dalla sua. «Morì quand'ero bambina, perciò fui cresciuta dai genitori di mio padre.» «Capisco!» Liberando la mano mi sentii subito meglio. Se non mi aveva fatto niente, assolutamente niente, allora perché ero tanto maledettamente nervosa? Intanto l'uomo con la frezza si era portato alle spalle della Señora. Lo vedevo bene, e lui teneva le mani in vista. Potevo sorvegliare la porta della cucina e l'entrata posteriore. Nessuno avrebbe potuto aggredirmi alle spalle, però mi sentii accapponare la pelle sulla nuca. Lanciai un'occhiata a Manny, che stava fissando Dominga e aveva le mani intrecciate sul tavolo tanto spasmodicamente da illividire le nocche. Mi sentii come se fossi a un festival cinematografico dove si proiettano soltanto film stranieri senza sottotitoli. Potevo immaginare cosa stava succedendo, ma non potevo essere sicura di avere ragione. La pelle accapponata mi avvertiva che si stava compiendo una magia e la reazione di Manny mi diceva che forse era lui l'obiettivo. D'un tratto Manny rilassò le spalle e le mani, liberandosi visibilmente di una tensione tremenda. Dominga sorrise, facendo balenare i denti. «Avresti potuto diventare molto potente, mi corazón.» «Non voglio il potere», ribatté lui. Li osservai entrambi. Non sapevo cosa fosse successo, né ero sicura di volerlo sapere. Spesso l'ignoranza è una benedizione. Dominga spostò su di me i penetranti occhi neri. «E tu, chica, vuoi il potere?» La pelle mi si accapponò su tutto il corpo, non più solo sulla nuca. Fu come se un esercito d'insetti mi stesse strisciando addosso. Merda! «No», dichiarai. Una risposta bella semplice. Forse dovrei provarci più spesso. «Forse ora no, ma un giorno lo vorrai.» Il modo in cui lo disse non mi piacque affatto. Era ridicolo stare seduta in una cucina soleggiata alle sette e mezzo del mattino e avere paura. Eppure era proprio così. Mi si torceva lo stomaco dalla paura. Lei mi fissò con occhi che non avevano nulla della potenza seduttrice di quelli dei vampiri. Erano semplici occhi umani, eppure... Un brivido caldo mi percorse la spina dorsale. Mi umettai le labbra fissando Dominga Salvador.
Era una specie di schiaffo magico. Mi stava mettendo alla prova, e non era neppure la prima volta che mi succedeva. La gente è molto affascinata da quello che faccio, è convinta che io conosca la magia. Invece no. Si tratta soltanto di un'affinità coi morti. Non è la stessa cosa. Continuavo a fissare i suoi occhi neri, sentendomi risucchiare in avanti; era come cadere senza muoversi. Il mondo roteò per un attimo prima di recuperare la stabilità. Dentro di me un calore si srotolò di scatto e si proiettò verso la vecchia, come una frusta, percuotendola violentemente. Il contraccolpo fu come una scarica elettrica. Mi alzai boccheggiando. «Merda!» «Tutto bene, Anita?» Anche Manny era in piedi e mi toccava gentilmente un braccio. «Non ne sono sicura. Che cosa diavolo mi ha fatto?» domandai alla Señora. «È quello che hai fatto tu a me, chica», rispose lei, che sembrava lievemente impallidita e aveva la fronte imperlata di sudore. L'uomo con la frezza si scostò dal muro, con le braccia lungo i fianchi e le mani rilassate, pronto ad agire. «No, Enzo», ordinò Dominga. «Sto bene.» Ansimava come se avesse appena smesso di correre. Rimasi ferma, con una gran voglia di tornarmene a casa. «Non siamo venuti qui per giocare, Dominga», riprese Manny, con voce cupa di collera, e forse anche di paura. Un'emozione che condividevo. «Non è un gioco, Manuel. Hai forse dimenticato tutto quello che ti ho insegnato, tutto quello che eri?» «Non ho dimenticato niente, ma non ho portato qui Anita perché le facessi del male.» «La sua incolumità dipende da lei, mi corazón.» Quella frase non mi piacque per niente. «Vedo che non ha intenzione di aiutarci. Vuole soltanto giocare al gatto col topo. Be', questo topo adesso se ne va.» Mi voltai per uscire, tenendo d'occhio Enzo, che non era un dilettante. «Non vuoi ritrovare il bambino rapito di cui mi ha parlato Manny?» chiese Dominga. «Ha soltanto tre anni. Non dovrebbe essere nelle mani di un bokor.» Mi fermai, proprio come lei aveva previsto. Maledizione! «Cos'è un bokor?» «Davvero non lo sai?»
Scossi la testa. Le sue labbra si allargarono in un misto di sorpresa e di compiacimento. «Posa la mano destra sul tavolo col palmo verso l'alto, por favor.» «Se sa qualcosa del bambino me lo dica e basta, per piacere.» «Ti aiuterò, se ti sottoporrai alle mie piccole prove.» «Che genere di prove?» chiesi, sperando di sembrare sospettosa come mi sentivo. Dominga scoppiò in un'allegra risata che ancora una volta le spianò tutte le rughe del viso, mentre gli occhi sfavillavano di puro divertimento. Perché avevo l'impressione che stesse ridendo di me? «Non preoccuparti, chica, non intendo farti del male», assicurò. «Manny?» «Ti avvertirò, se farà qualcosa che possa nuocerti.» Dominga mi guardò con una sorta di perplessa meraviglia. «Ho sentito dire che puoi resuscitare tre zombie in una sola notte, notte dopo notte. Eppure sei soltanto una novizia.» «L'ignoranza è una benedizione», sentenziai. «Siedi, chica. Ti prometto che questo non ti farà male.» Questo non ti farà male? Prometteva invece un seguito doloroso. Sedetti e cercai di appellarmi al suo buon cuore. «Qualunque ritardo potrebbe costare la vita al bambino.» Si curvò verso di me. «Credi davvero che il bambino sia ancora vivo?» Probabilmente non aveva buon cuore. Mi scostai senza riuscire a trattenermi, ma non potei mentirle. «No.» «Allora abbiamo tempo, vero?» «Tempo per cosa?» «La mano, chica, por favor. Poi risponderò alle tue domande.» Sospirai profondamente e posai la mano destra sul tavolo, col palmo verso l'alto. La Señora faceva la misteriosa, e io non ho mai sopportato chi fa il misterioso. Prese un sacchettino nero da sotto il tavolo, quasi lo avesse sempre tenuto in grembo; sembrava aver pianificato da tempo tutto quello che stava per fare. Manny fissò il sacchetto come se stesse per sbucarne qualcosa di schifoso. Non fu proprio così, ma quasi. Anziché strisciare fuori da solo, un amuleto fu estratto dal sacchetto da Dominga Salvador. Era un grisgris, composto da penne nere, schegge di osso e una zampa di uccello mummificata. Sul momento pensai che fosse di pollo, ma poi vidi i grossi artigli neri e capii che da qualche parte doveva esserci un falco, o magari
un'aquila, con una zampa di legno. Presumendo che Dominga intendesse conficcarmi quegli artigli nelle carni, fui presa dalla smania di andarmene, ma lei si limitò a posarmi il gris-gris sulla mano aperta. Penne, ossa, zampa di falco mummificata; niente di viscido, né di doloroso. Mi sentii un po' sciocca. Poi percepii il calore. L'oggetto che avevo in mano era caldo, anche se prima non lo era stato. Lo stava diventando sempre più. «Cosa sta facendo?» Dominga non rispose. Notai che mi fissava la mano come una gatta in procinto di balzare sulla preda. Abbassai di nuovo lo sguardo mentre l'artiglio cominciava ad aprirsi e a chiudersi, muovendosi sulla mia mano. «Cazzo!» Avrei voluto alzarmi di scatto e buttare quello schifo sul pavimento, ma non lo feci. Rimasi seduta con la pelle d'oca e il cuore che mi palpitava in gola, lasciando che quella cosa si muovesse sulla mia mano. «Bene.» La mia voce suonò roca. «Ho superato la sua piccola prova. Adesso mi tolga dalla mano questa schifezza!» Dominga prelevò con cura l'artiglio badando a non toccarmi. Non sapevo il motivo, ma la sua cautela fu notevole. «Dannazione!» sussurrai, sfregandomi l'altra mano sullo stomaco fino a sfiorare la pistola nascosta. Era rassicurante sapere che, se il peggio fosse arrivato, avrei potuto semplicemente sparare a Dominga prima che mi facesse cadere stecchita dalla paura. «Possiamo parlare di quello per cui siamo qui, adesso?» La mia voce suonò quasi ferma. Dominga cullava l'amuleto tenendolo nelle mani. «Hai fatto muovere l'artiglio. Eri spaventata, ma non sorpresa. Perché?» Cos'avrei potuto rispondere? Nulla che volessi farle sapere. «Ho un'affinità coi morti e loro mi rispondono. È come per quella gente che sa leggere nel pensiero.» «Credi davvero che la tua capacità di resuscitare i morti sia come la telepatia? Un trucco da salotto?» Evidentemente Dominga non aveva mai incontrato un telepate davvero bravo, altrimenti non sarebbe stata così sprezzante. A modo loro, erano spaventosi quanto lei. «Resuscitare i morti è soltanto un lavoro per me, Señora.» «Non lo credi più di quanto lo creda io.» «Mi sforzo molto di riuscirci», ribattei. «Sei già stata messa alla prova da qualcuno», dichiarò.
«Fu mia nonna materna, ma non in questo modo.» Indicai l'artiglio che si muoveva ancora, come una di quelle mani false che si possono comprare da Spencer. Non avendolo più sul palmo, potevo anche fingere che avesse delle pile minuscole nascoste da qualche parte. Sicuro! «Tua nonna praticava il vudù?» Annuii. «Perché non hai studiato con lei?» «La mia capacità di resuscitare i morti è innata. Non condiziona le mie scelte religiose.» «Sei cristiana», affermò, come se fosse una brutta cosa. «Esatto.» Mi alzai. «Vorrei poter dire che è stato un piacere, ma non è così.» «Chiedimi quello che vuoi sapere, chica.» «Cosa?» Il cambio di argomento mi spiazzò. «Chiedimi quello che vuoi sapere», ripeté. Guardai Manny. «Se dice che risponderà, allora è così», garantì lui, senza sembrarne del tutto contento. Sedetti nuovamente. Un altro insulto e me ne sarei andata sul serio, ma se davvero poteva aiutarmi... Che diavolo! L'esca che mi aveva lanciato era minuscola, ma dopo quello che avevo visto a casa dei Reynolds ero più che disposta a inghiottirla. All'inizio mi ero prefissata di porre la domanda nel modo più cortese possibile, ma ormai non me ne fregava più un cazzo. «Ha resuscitato qualche zombie nelle ultime settimane?» «Qualcuno.» Okay. Esitai prima di passare alla domanda successiva. Riprovando improvvisamente la sensazione dell'artiglio che mi strisciava sul palmo, sfregai la mano sui calzoni per cancellarla. Quale poteva essere la cosa peggiore che avrebbe potuto farmi se l'avessi offesa? Meglio non pensarci. «Ha mandato qualche zombie a svolgere incarichi... di vendetta?» Ecco, ero stata cortese. Sbalorditivo! «Nessuno.» «Ne è sicura?» insistetti. «Lo ricorderei, se avessi scatenato qualche assassino resuscitato dalla tomba», replicò beffarda. «Non necessariamente gli zombie assassini sono stati tali anche in vita», dichiarai.
«Davvero?» Inarcò le sopracciglia bianche. «Sei davvero tanto esperta di zombie 'assassini'? Nei hai resuscitati molti?» Mi sforzai di non avvilirmi come una scolaretta sorpresa a mentire. «Soltanto uno.» «Racconta.» «No. È una faccenda privata.» Era un incubo personale che non intendevo confidare alla signora del vudù. «Nessuno degli assassini che ho resuscitato si è mai dimostrato più violento di uno zombie qualunque.» «Quanti morti hai richiamato dalla tomba?» domandò. Scrollai le spalle. «Non lo so.» «Dammi...» Sembrò avere qualche difficoltà a trovare la parola adatta. «Una stima.» «Non posso. Devono essere centinaia.» «Mille?» «Può darsi. Non ho tenuto il conto.» «Non lo ha tenuto neanche il tuo capo?» «Sì, suppongo che tutti i miei clienti risultino in archivio», ammisi. «M'interesserebbe conoscere il numero esatto.» Cosa poteva esserci di dannoso? «Lo scoprirò, se possibile.» «Che ragazza ubbidiente.» Si alzò. «Non sono stata io a resuscitare il tuo zombie 'assassino', ammesso che sia proprio un essere di questo genere quello che sta divorando i cittadini.» Sembrava che il pensiero la divertisse. «Però conosco persone che non parlerebbero mai con te e che sarebbero capaci di fare questa cosa orribile. Li interrogherò, loro mi risponderanno e mi diranno la verità; poi io comunicherò questa verità a te, Anita.» Pronunciò il mio nome con accento strascicato, quasi solenne, facendolo sembrare esotico. «La ringrazio molto, Señora Salvador.» «Ma c'è un favore che voglio chiederti in cambio di questa informazione.» Avrei scommesso che stava per dire qualcosa di sgradevole. «Di che si tratta, Señora?» «Voglio sottoporti a un'altra prova.» La fissai in attesa che continuasse, ma lei non lo fece, «Che genere di prova?» domandai. «Te lo mostrerò se scenderai nel sotterraneo», rispose, con voce dolce come miele. «No», intervenne Manny, alzandosi. «Anita, nulla di quello che la Seño-
ra potrebbe dirti vale ciò che vuole ottenere da te.» «Posso parlare con certe persone e certi esseri che non parlerebbero mai con nessuno di voi due bravi cristiani», disse Dominga. «Andiamo, Anita. Non abbiamo bisogno del suo aiuto.» Manny si avviò alla porta senza che io lo seguissi. Non aveva visto la famiglia massacrata e non aveva sognato l'orsacchiotto ricoperto di sangue. Io invece sì, quindi non potevo andarmene, se c'era la possibilità che lei mi aiutasse. Il punto non era se Benjamin Reynolds fosse o non fosse morto. Il mostro avrebbe ucciso di nuovo. Io ero pronta a scommettere che tutto ciò aveva qualcosa a che fare col vudù, che non era il mio campo. Dunque avevo bisogno d'aiuto e ne avevo bisogno in fretta. «Andiamo, Anita.» Manny mi prese gentilmente per un braccio, attirandomi verso la porta. «Mi parli della prova», dissi invece io, rivolta a Dominga. La Señora mi guardò trionfalmente, sicura che non me ne sarei andata senza ottenere la sua promessa d'aiuto. «Scendiamo nel sotterraneo. Là ti spiegherò in che cosa consiste.» Anziché lasciarmi, Manny mi strinse più forte il braccio. «Non sai cosa stai facendo, Anita.» Aveva ragione, ma... «Resta con me e aiutami, Manny. Non lasciarmi fare niente di davvero doloroso. Okay?» «Qualunque cosa vuole che tu faccia laggiù, Anita, sarà doloroso. Non fisicamente, forse, ma sarà doloroso.» «Devo farlo, Manny.» Gli accarezzai una mano. «Andrà tutto bene.» «No», obiettò, «per niente.» Non seppi cosa rispondere. Forse aveva ragione, ma non importava. Intendevo comunque fare qualsiasi cosa Dominga mi avesse chiesto, purché fosse entro i limiti della ragione e purché mi potesse permettere di porre fine a quei massacri. Non volevo dover vedere mai più cadaveri semidivorati. Dominga sorrise. «Scendiamo.» «Señora, por favor, posso parlare con Anita da solo?» chiese Manny, sempre tenendomi per un braccio e trasmettendomi così la sua tensione. «Tu avrai tutto il resto di questa bella giornata per parlare con lei, Manuel. Io invece ho poco tempo. Se accetta di sottoporsi subito a questa prova, l'aiuterò in tutti i modi possibili a catturare l'assassino.» Era un'offerta straordinaria, anche considerando che molti avrebbero accettato di parlare con lei semplicemente perché ispirava un puro terrore.
Quattro, forse cinque persone erano già state uccise e per giunta in un modo molto brutto. «Ho già detto che lo farò. Andiamo.» Dominga girò intorno al tavolo e afferrò un braccio di Manny, facendolo sussultare come se lo avesse schiaffeggiato; poi lo allontanò da me. «Non le farò del male, Manuel. Te lo giuro.» «Non mi fido di te, Dominga», replicò lui. «Spetta a lei scegliere, Manuel. Non la sto obbligando.» «La stai ricattando, e per farlo sfrutti la salvezza altrui.» Lei girò la testa a guardarmi. «Ti sto forse ricattando, chica?» «Sì», dichiarai. «Oh, è proprio una tua allieva, corazón! Ha la tua onestà e il tuo coraggio.» «È coraggiosa, ma non ha visto cosa c'è nel sotterraneo», ribatté Manny. Non chiesi che cosa ci fosse esattamente nel sotterraneo, perché in realtà non volevo affatto saperlo. Non era la prima volta che qualcuno mi metteva in guardia da qualche stronzata soprannaturale. Non entrare in quella stanza, se non vuoi che il mostro ti prenda. Be', il mostro di solito c'è e di solito cerca di prendermi, ma finora sono sempre stata più veloce e più fortunata dei mostri. E spero che la fortuna continui ad assistermi. Avrei voluto essere capace di seguire l'avvertimento di Manny. Tornare a casa mi sembrava una gran bella cosa in quel momento. Purtroppo dagli incubi provenne un sussurro, e il dovere mi richiamò all'azione. Non volevo vedere un'altra famiglia massacrata a quel modo. Dominga condusse Manny fuori della cucina e io li seguii con Enzo. Che bella giornata per una processione. 6 La scala scendeva ripida nel sotterraneo, coi gradini di legno che vibravano sotto i nostri passi in maniera tutt'altro che rassicurante. La luce intensa del sole sbiadiva poco a poco, perdendosi nell'oscurità assoluta come se non avesse nessun potere in quella specie di grotta. Mi fermai a scrutare giù nella tenebra senza più riuscire a vedere Dominga e Manny, che pure avrebbero dovuto essere davanti a me. Dietro di me invece aspettava la guardia del corpo, Enzo, paziente come una montagna, senza nemmeno accennare a farmi fretta. Dovevo dunque essere io a decidere? Potevo semplicemente raccogliere i miei giocattoli e tornarmene a casa?
«Manny!» chiamai. «Sono qui, Anita», rispose una voce lontana, troppo lontana. Ma forse era soltanto un'illusione acustica. O forse no. Nonostante gli sforzi, non riuscii a vedere niente nella direzione da cui era provenuta la voce. Scesi altri due gradini, immergendomi nell'oscurità d'inchiostro, poi mi bloccai come se avessi sbattuto contro un muro. C'era l'odore di roccia umida che si fiuta di solito nei sotterranei, ma con qualcosa di stantio, aspro e dolce insieme, cioè l'odore indefinibile dei cadaveri. Lassù all'inizio della scala era vago, però ero pronta a scommettere che scendendo sarebbe diventato sempre più intenso. Mia nonna era stata una sacerdotessa vudù, eppure il suo humfò non aveva puzzato di cadavere. Nel vudù il confine tra il bene e il male non è così netto come nella Wicca o nel cristianesimo e nel satanismo, però esiste e Dominga Salvador lo aveva superato, passando dalla parte sbagliata. Lo avevo capito non appena arrivata e lo percepivo ancora con angoscia. Nonna Flores mi aveva detto che ero una negromante, cioè qualcosa di più di una sacerdotessa vudù e anche qualcosa di meno. Avevo un'affinità coi morti, con tutti i morti. Era difficile essere vudù e negromante senza essere malvagia: la tentazione era troppo forte. Così mi aveva detto la nonna, incoraggiandomi a essere cristiana e incoraggiando mio padre a isolarmi dal ramo materno della famiglia. Lo aveva fatto perché mi amava e perché temeva per la mia anima. E invece io ero lì che scendevo nelle fauci della tentazione. Cosa mi avrebbe detto nonna Flores? Probabilmente di tornare a casa. E sarebbe stato un buon consiglio, almeno a giudicare dalla tensione allo stomaco che mi stava suggerendo la stessa cosa. Quando si accesero le luci, socchiusi gli occhi e sbattei le palpebre. L'unica fioca lampadina ai piedi della scala sembrava luminosa come una stella. Dominga e Manny erano giù, nella zona illuminata, e guardavano su, verso di me. Luce. Perché mi fece sentire subito meglio? Sciocco, ma vero. Enzo lasciò che la porta si chiudesse alle nostre spalle. Quando arrivai quasi in fondo alla scala, l'odore agrodolce diventò più intenso. Cercare di respirare attraverso la bocca mi lasciò sulla lingua e nella gola il tanfo della carne putrescente trasformato in sapore. Dominga entrò per prima nello stretto corridoio illuminato da una serie di lampadine, dove si vedevano a intervalli regolari porte murate col cemento e imbiancate. Stanze. Ma perché sigillarle così? Che cosa nascondevano?
Sfregai la punta delle dita sul cemento ruvido e freddo. Era stato imbiancato da poco, altrimenti avrebbe già cominciato a scrostarsi a causa dell'umidità. Cosa c'era dietro quella porta? Cominciando a sentire una specie di prurito in mezzo alle scapole, resistetti alla tentazione di girarmi a guardare Enzo. Avrei scommesso che essere uccisa a colpi di pistola fosse l'ultima delle mie preoccupazioni. L'aria era fredda e umida. Un autentico sotterraneo sotto le cantine. C'erano tre porte, due a destra e una sinistra, che non erano state murate. Una era chiusa con un lucchetto nuovo di zecca, scintillante. Nel passare oltre la sentii sospirare, come se qualcosa di grosso vi si fosse appoggiato. Mi fermai. «Che c'è lì dentro?» Anche Enzo si fermò. Restammo soli, perché Dominga e Manny avevano già girato l'angolo. Toccai la porta; il legno scricchiolò con un cigolio di cerniere, come se un gatto gigantesco vi si fosse strofinato. Attraverso le fenditure scivolò fuori un odore che mi diede la nausea, obbligandomi a indietreggiare. Il fetore mi rimase in bocca e in gola, poi mi scese nello stomaco mentre deglutivo convulsamente. La cosa oltre la porta emise un suono che assomigliava a un miagolio, impossibile dire se umano o animale. Qualunque cosa fosse, era sicuramente più grande e più grossa di una persona ed era morta. Molto, molto morta. Mi coprii naso e bocca con la mano sinistra per avere la destra libera in caso quella cosa avesse deciso di sfondare la porta. Sapevo che le pallottole servivano a poco contro i cadaveri ambulanti, però avere la pistola era comunque un conforto. Se mi fossi trovata in una brutta situazione, avrei sempre potuto sparare a Enzo; ma avevo la sensazione che Enzo non sarebbe stato meno in pericolo di me, se quella cosa fosse uscita. «Adesso dobbiamo proseguire», disse lui. Il suo viso era impenetrabile. Era tranquillo come se stessimo andando al negozio all'angolo, e per questo lo detestavo. Per Dio! Se ero terrorizzata io, allora dovevano esserlo anche tutti gli altri! Guardai la porta alla mia sinistra, che non sembrava chiusa a chiave. La spalancai. Era una specie di cella - due metri e mezzo per un metro e mezzo, circa - priva di arredamento, col pavimento di cemento, le pareti pulite e intonacate di bianco. Sembrava in attesa del suo prossimo occupante. Subito Enzo richiuse violentemente la porta. Io non mi opposi: non ne valeva la pena. Se la conseguenza era lottare contro un avversario che pesava una cinquantina di chili più di me, ero sempre molto selettiva in fatto di
motivi. Una cella vuota non era sufficiente. Enzo si appoggiò alla porta, il viso luccicante di sudore nella luce aspra. «Non provi ad aprire altre porte, señorita. Sarebbe un grosso errore.» «Sicuro, nessun problema», replicai. Era bastata una cella vuota a farlo sudare. Bello sapere che qualcosa poteva spaventarlo. Ma perché proprio quella stanza e non l'altra, dov'era chiusa la cosa fetida e miagolante? Non avevo indizi per fare supposizioni. «Dobbiamo raggiungere la Señora.» Mi fece un cenno cortese, da maître d'albergo che fa sedere una signora, e io mi rimisi in cammino nella direzione indicata. Dove altro sarei potuta andare? Il corridoio portava in un'ampia stanza rettangolare con le pareti intonacate di bianco, proprio come quelle della cella. Sul pavimento, ugualmente bianco, erano tracciati quei simboli rossi e neri chiamati vevé, che si usano nei templi vudù per evocare i loa, cioè gli dei. I simboli sono come i bordi di un sentiero che conduce all'altare; se si esce dal sentiero, si rovinano i simboli tracciati accuratamente. Non sapevo se fosse un bene o un male, però la norma trecentosessantanove che regola i rapporti con la magia sconosciuta insegna che, quando si è in dubbio, bisogna astenersi. E io mi astenni. Le pareti della stanza erano illuminate e riscaldate da numerose candele guizzanti. Dominga sfolgorava di malvagità in mezzo a tutta quella luce e a tutto quel biancore. Non era soltanto una poco di buono, era proprio malvagia. Non esisteva altro termine per definirla. Il male le luccicava intorno come un'oscurità liquida e palpabile. L'amabile vecchina era scomparsa per lasciare il posto a una creatura di potere. Manny, che se ne stava in disparte a fissarla, mi lanciò uno sguardo con gli occhi strabuzzati per la paura. Animali morti erano ammucchiati sopra l'altare, alle spalle di Dominga, e sul pavimento tutt'intorno. Galline, cani, un porcellino, due capre, mucchi di pelliccia e di sangue raggrumato che non riuscii a identificare. L'altare sembrava una fontana da cui sgorgasse un flusso lento e denso di morte. Non c'era odore di decomposizione. I sacrifici erano recenti, e gli occhi vitrei di una capra mi fissavano. Detesto uccidere le capre perché sembrano sempre molto più intelligenti delle galline. O forse sono soltanto più graziose. A sinistra dell'altare stava una donna, alta e dalla pelle quasi nera, che luccicava alla luce delle candele come se fosse scolpita in un legno lustro e
duro. Aveva i capelli lunghi fino alle spalle, gli zigomi larghi, le labbra carnose ed era abilmente truccata. Indossava un lungo abito di seta scarlatto come sangue fresco, lo stesso colore del suo rossetto. A destra dell'altare stava invece una zombie che un tempo era stata una donna, coi capelli castani molto chiari che le scendevano fin quasi alla vita e che qualcuno le aveva spazzolato sino a farli scintillare. Erano l'unica cosa in lei a sembrare viva. La pelle era grigiastra, la carne rinsecchita intorno alle ossa, mentre il naso quasi scomparso dava al viso qualcosa d'incompiuto. Una veste cremisi pendeva esageratamente larga da quel corpo scheletrito. Qualcuno aveva persino cercato di truccarla con un po' di ombretto malva intorno agli occhi sporgenti, ma le labbra erano troppo avvizzite perché vi si potesse applicare il rossetto. Mi girai a osservare di nuovo l'altra donna. Era una zombie anche lei, una delle meglio conservate che avessi mai visto. Ma, per quanto sembrasse viva e sensuale, era morta. Negli occhi castani con cui mi fissava c'era qualcosa che nessuno zombie può conservare a lungo. La memoria di chi sono e di cosa hanno fatto si cancella dopo qualche giorno, a volte dopo qualche ora. Tuttavia quella zombie era diversa. Era spaventata e la sua paura, come un dolore straziante, le rendeva lucido lo sguardo. Gli zombie non hanno sguardi del genere. Mi girai nuovamente verso la zombie decrepita, che mi fissava a sua volta con gli occhi sporgenti. Nonostante le orbite quasi vuote e il viso scarnito, per cui la sua faccia era quasi del tutto priva di ogni espressività, riusciva a trasmettere la paura. Merda! Dominga fece un cenno con la testa ed Enzo mi esortò con un gesto a inoltrarmi nella stanza, cosa che non avevo nessuna voglia di fare. «Che cazzo sta succedendo qui, Dominga?» domandai, abbandonando ogni cerimoniosità. Il ghigno di lei diventò quasi una risata. «Non sono abituata a tanta scortesia.» «Allora comincia a farci l'abitudine», ribattei. Feci del mio meglio per ignorare l'alito di Enzo sul mio collo, però avvicinai con noncuranza la mano destra alla pistola, cercando di fare in modo che nessuno se ne accorgesse. Certo, portare la mano alla pistola è portare la mano alla pistola; non può sembrare un gesto diverso. Comunque nessuno sembrò farci caso. «Che cos'hai fatto a quelle due zombie?» «Esaminale tu stessa, chica. Lo capirai da sola, se sei così potente come si dice.»
«E se non lo capissi?» domandai. Sorrise, ma i suoi occhi rimasero neri e vuoti come quelli di uno squalo. «Allora non saresti così potente come si dice.» «Questa sarebbe la prova?» «Può darsi.» Sospirai. La signora del vudù voleva appurare se fossi realmente una dura. Ma perché? Forse non c'era nessuna ragione precisa, forse era soltanto una sadica stronza bramosa di potere. Sì, questo potevo crederlo. Ma poteva anche darsi che fosse soltanto una messinscena e, se così era, non sapevo che cosa nascondesse. Lanciai un'occhiata a Manny, che scrollò quasi impercettibilmente le spalle. Neanche lui sapeva che cosa stesse succedendo. Magnifico! Non mi piaceva assecondare i giochetti di Dominga, soprattutto perché non conoscevo le regole. Comunque le zombie continuavano a fissarmi e nei loro occhi non c'era soltanto paura, bensì qualcosa ancora peggiore, vale a dire speranza. Merda! Gli zombie non hanno speranze, non hanno niente perché sono morti. Invece quelle due donne non erano morte del tutto e io dovevo sapere come e perché. Sempre sperando che la curiosità non uccidesse la risvegliante. Girai con prudenza intorno a Dominga, sorvegliandola con la coda dell'occhio, mentre Enzo restava indietro a bloccare il sentiero tra i vevé. Per quanto sembrasse grande e solido, non sarebbe riuscito a fermarmi se fossi stata abbastanza decisa da farlo fuori senza esitare, anche se speravo di non dover arrivare a tanto. La zombie decrepita continuava a fissarmi. Una donna snella e alta più di un metro e ottanta, che probabilmente era stata bella, un tempo. La gonna rossa non scendeva a coprirle i piedi scheletrici. Gli occhi castani, con molto verde, erano sporgenti e giravano con una specie di umido risucchio nelle orbite quasi completamente scarnite. La prima volta che avevo sentito il rumore dei globi oculari che roteavano nelle orbite putrescenti avevo vomitato, ma era stato quattro anni prima, quand'ero ancora una risvegliante inesperta. Ormai i corpi in decomposizione non mi facevano più vomitare, anzi non mi facevano più nessun effetto, di solito. Un profumo dolce, di fiori, come di talco, copriva il fetore della putrefazione, che mi fece arricciare il naso, minacciando di soffocarmi. Ogni volta che avessi fiutato quel profumo delicato e costoso avrei ricordato il puzzo della decomposizione. Be', sembrava comunque troppo costoso perché
potessi permettermi di comprarlo. Considero gli zombie come cose perché, tutto sommato, lo sono. La parvenza di vita che ancora hanno non appena sono usciti dalla tomba non dura a lungo. Marciscono in fretta e, prima ancora del corpo, si deteriorano la personalità e l'intelligenza; Dio non è abbastanza crudele per obbligare qualcuno a essere consapevole della decomposizione del proprio corpo. Ma la zombie mi fissava e decisamente non era una cosa, bensì una donna. Nei suoi occhi c'era personalità. Era successo qualcosa di molto sbagliato a quella zombie. Nel girare intorno a Dominga Salvador badai a starle alla larga, pur senza sapere perché. Ero quasi sicura che fosse disarmata, ma il pericolo che rappresentava non aveva niente a che fare con coltelli o pistole. Semplicemente non volevo che mi toccasse, neanche per sbaglio. La zombie sulla sinistra era perfetta, senza il mimino segno di decomposizione. Lo sguardo nei suoi occhi era vivo e consapevole. Che Dio ci aiuti! pensai. Avrebbe potuto andare ovunque e passare per umana. Come facevo a capire che non era viva? Non si vedeva nessuno dei soliti segni, ma riconosco un morto quando ne percepisco uno; il potere che mi permette di resuscitare i morti, qualunque cosa sia, mi diceva che era una zombie. Quando le guardai il bel viso, la donna ricambiò il mio sguardo con occhi che proiettavano paura. Era sorprendente. Se Dominga era capace di resuscitare zombie così, tra lei e me non poteva esserci competizione. Prima di resuscitare un cadavere, io devo aspettare in media tre giorni, cioè il tempo necessario perché si allontani l'anima, che di solito si trattiene per un po' nei dintorni. Se l'anima è presente vicino alla tomba, non riesco a fare niente. Secondo certe teorie, se il risvegliante riuscisse a conservare l'anima intatta mentre rivitalizza il corpo, si tratterebbe di una resurrezione vera e propria, tipo Gesù e Lazzaro. Ma io a questo non credo, o forse, più semplicemente, conosco i miei limiti. Nel fissare quella zombie capii che la faccenda era diversa: l'anima era ancora nel corpo, e lo stesso valeva per l'altra donna. Com'era possibile, in nome di Dio? Come ci riusciva? «Le anime.» La mia voce lasciò trapelare tutto il disgusto che provavo. Perché avrei dovuto preoccuparmi di nasconderlo? «Le anime sono ancora nei corpi.» «Benissimo, chica.» Mi spostai alla sinistra di Dominga, senza perdere di vista Enzo. «Come
ci riesci?» «L'anima viene catturata nel momento in cui sta per lasciare il corpo», rispose la Señora. «Questo non spiega niente», ribattei. «Non sai come s'imprigiona un'anima in una bottiglia?» Anime in bottiglia? Stava scherzando? No, non scherzava affatto. «No, non lo so», ammisi. «Potrei insegnarti molte cose, Anita. Moltissime cose.» «No, grazie», replicai. «Hai catturato le anime e le hai rimesse nei corpi dopo averli risvegliati.» Tiravo a indovinare, ma mi sembrava plausibile. «Eccellente! È esattamente così!» Mi scrutava con un'intensità tale da mettermi a disagio. «Ma perché quella zombie si sta decomponendo? Secondo la teoria, lo zombie non si decompone se l'anima è intatta.» «Non è più soltanto una teoria», ribatté Dominga. «Io ho dimostrato che è davvero così.» Fissai di nuovo il cadavere putrescente, che ricambiò il mio sguardo. «Allora perché una si decompone e l'altra no?» Due negromanti che parlavano di lavoro. Dimmi, resusciti gli zombie soltanto con la luna nuova? «L'anima può essere rimessa nel corpo e poi di nuovo tolta, a volontà.» Fissai Dominga Salvador cercando di non restare a bocca aperta e di non permettere al mio viso di lasciar trapelare l'orrore che cominciava a invadermi. Si divertiva a sconvolgermi, e io non intendevo concederle nessun piacere del genere. «Lascia che metta alla prova la mia perspicacia», esortai, nel mio più bel tono da secchiona. «Rimetti l'anima nel corpo perché non marcisca, poi la togli per farne uno zombie normale e a quel punto marcisce?» «Esatto», confermò. «Dopodiché rimetti l'anima nel corpo putrescente, restituendogli vita e coscienza. Allora la putrefazione s'interrompe?» «Sì.» Merda! «Quindi potresti mantenere quella zombie così putrefatta praticamente in eterno?» «Sì.» Due volte merda! «E l'altra?» indicai, come se fossi a lezione. «Ci sono persone che sarebbero disposte a pagare molto per averla.» «Aspetta un momento... Vuoi venderla come schiava del sesso?» «Può darsi.»
«Ma...» Era un'idea troppo orribile. Era una zombie, perciò non aveva bisogno di mangiare né di dormire né di nient'altro. La si sarebbe potuta tenere in un armadio e usarla come una bambola, una schiava assolutamente docile. «Ubbidiscono come zombie normali, oppure l'anima permette loro di avere anche il libero arbitrio?» «Sembrano molto ubbidienti.» «Forse hanno soltanto paura di te», suggerii. «Forse.» «Non puoi tenere l'anima così imprigionata per sempre.» «Non posso», ammise Dominga. «L'anima ha bisogno di andarsene.» «In paradiso o all'inferno, per te che sei cristiana?» «Proprio così.» «Queste donne erano malvagie, chica, perciò le loro famiglie le hanno consegnate a me, pagandomi affinché le punissi.» «Ti fai pagare per questo?» «È illegale intervenire sui morti senza il permesso della famiglia», spiegò. Non sapevo se la sua intenzione fosse quella di riempirmi d'orrore. Forse non era così. Ma quell'unica frase bastò a farmi capire che ciò che faceva era del tutto legale. I morti non avevano diritti. Proprio per quello era necessaria una legge che proteggesse gli zombie. «Nessuno merita di trascorrere l'eternità imprigionato in un cadavere», sentenziai. «Potrebbe essere la sorte dei condannati a morte, chica, così potrebbero servire la società dopo l'esecuzione.» Scossi la testa. «No, è sbagliato.» «Ho creato uno zombie che non imputridisce, chica. Tu e i tuoi colleghi vi fate chiamare risveglianti, vero? Ebbene, voi risveglianti state cercando questo segreto da anni, ma io l'ho scoperto e intendo sfruttarlo per ottenere lauti compensi.» «È sbagliato. Forse non ne so molto sul vudù, ma sono sicura che anche per la tua gente è sbagliato. Come puoi imprigionare l'anima, impedendole di andare a raggiungere iloa?» Scrollò le spalle e sospirò, sembrando improvvisamente stanca. «Speravo di ottenere il tuo aiuto, chica. Lavorando insieme avremmo potuto creare gli zombie molto più in fretta. Avremmo potuto diventare più ricche di quanto abbiamo mai sognato.»
«Hai chiesto alla ragazza sbagliata», replicai. «Adesso me ne rendo conto. Speravo che non l'avresti giudicato sbagliato, visto che non sei vudù.» «Cristiani, buddhisti, musulmani... Nessuno potrà mai pensarla diversamente, a qualunque religione appartenga.» «Forse è così, forse no. Chiedere non costa niente.» Guardai la zombie putrescente. «Almeno poni fine alle sofferenze del tuo primo esperimento.» Dominga lanciò un'occhiata alla zombie. «È molto efficace come dimostrazione, vero?» «Hai creato zombie che non marciscono. Grande! Adesso non essere sadica.» «Mi giudichi crudele?» «Sì.» «Manuel, sono forse crudele?» Nel rispondere, Manuel mi fissò, tentando di dirmi con lo sguardo qualcosa che non riuscii a capire. «Sì, Señora, sei crudele.» Lei si girò a guardarlo in un modo e con un'espressione che tradivano sorpresa. «Davvero mi consideri crudele, Manuel? Io, l'amante che hai tanto amato?» Lui annuì lentamente. «Sì.» «Qualche anno fa non eri così pronto a giudicare, Manuel. Più di una volta hai sacrificato la capra bianca per me.» Allora mi girai verso Manny. Fu come uno di quei momenti in cui il protagonista di un film riceve una rivelazione su un altro personaggio. Dovrebbero esserci davvero una colonna sonora e un'inquadratura molto drammatiche, in questi casi, quando scopri che uno dei tuoi migliori amici ha contribuito a compiere sacrifici umani. «Manny?» sussurrai. Per me tale scoperta fu peggiore di quella che riguardava gli zombie. Al diavolo gli sconosciuti! Era Manny, non poteva essere vero! «Manny?» ripetei. Lui evitò di guardarmi. Brutto segno. «Non lo sapevi, chica? Il tuo Manny non ti ha parlato del suo passato?» «Sta' zitta», ordinai. «Era il mio assistente più prezioso. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per me.» «Sta' zitta!» gridai. Lei si bloccò, mentre la collera le smagriva il viso. Enzo avanzò di due passi verso l'altare.
«Non farlo», intimai, senza sapere bene a chi. «Ho bisogno di sentirlo da lui, non da te.» Il viso di Dominga era ancora pieno di collera. Enzo sembrava una valanga sul punto di rovesciarsi giù per le pendici di una montagna. «Allora chiedilo a lui, chica», esortò Dominga con un cenno brusco della testa. «Manny, sta dicendo la verità? Hai compiuto davvero sacrifici umani?» La mia voce non avrebbe dovuto sembrare così pacata, perché lo stomaco mi faceva male per l'angoscia. Però non avevo più paura, o almeno non di Dominga. Quello che mi spaventava era la verità. Lui alzò la testa, e i capelli caddero a incorniciargli gli occhi pieni di sofferenza. Sembrava quasi che volesse scappare. «Allora è vero?» D'improvviso mi venne freddo. «Rispondimi, maledizione!» Eppure la mia voce continuò a sembrare tranquilla. «Sì», confermò. «Cioè hai compiuto sacrifici umani?» Mi guardò con una rabbia che lo aiutò a sostenere il mio sguardo. «Sì! Sì!» «Buon Dio, Manny!» Toccò a me distogliere gli occhi. «Come hai potuto?» La mia voce smise di essere pacata. Se non avessi saputo che era impossibile, avrei detto di essere sul punto di scoppiare a piangere. «Sono passati quasi vent'anni, Anita. Praticavo il vudù e la negromanzia. Credevo nella Señora, l'amavo, o almeno credevo di amarla.» Lo guardai di nuovo e l'espressione sulla sua faccia mi serrò la gola. «Dannazione, Manny!» Rimase là, affranto, senza dire niente. Io non riuscii a conciliare l'immagine che avevo di Manny Rodriguez con quella di chi sgozza una capra senza corna durante un rito. Era stato lui a insegnarmi la differenza tra ciò che era giusto e ciò che era sbagliato nell'ambito del nostro lavoro. Aveva rifiutato di fare tante cose che neanche alla lontana erano così sbagliate come i sacrifici umani. Non aveva senso. Scossi la testa. «Non posso affrontare questa cosa adesso», dichiarai, senza pensarlo davvero. «Benissimo, Señora Salvador, ora hai fatto scoppiare la tua piccola bomba. Però hai detto che se io avessi superato la prova ci avresti aiutato. Ebbene, l'ho superata?» Quando sei in dubbio, concentrati su un disastro alla volta. «Volevo offrirti la possibilità di associarti a me nella mia nuova attività.»
«Sappiamo tutt'e due che non lo farò mai», ribattei. «È un vero peccato, Anita. Con un addestramento adeguato, i tuoi poteri potrebbero rivaleggiare coi miei.» Diventare come lei una volta cresciuta? No, grazie! «Te ne sono molto grata, ma sono felice così.» Lanciò un'occhiata a Manny, prima di guardare di nuovo me. «Felice?» «Manny e io ce la vedremo tra noi, Señora. Adesso vuoi aiutarmi o no?» «Se io ti aiuto senza che tu abbia aiutato me, allora mi devi un favore.» Non volevo essere in debito con lei. «Preferisco scambiare informazioni.» «Cosa puoi dirmi che possa compensarmi di tutto quello che dovrò fare per trovare il tuo zombie assassino?» Ci pensai per un po'. «So che si sta studiando una nuova legge e ti posso assicurare che tra non molto i diritti degli zombie verranno riconosciuti e tutelati.» Era soltanto una mia speranza, ma non c'era bisogno di rivelare proprio a lei con quanta lentezza procedessero i lavori della commissione. «Dunque dovrei sbrigarmi a vendere qualche zombie che non marcisce, prima che l'attività diventi illegale.» «Non credo che il problema della legalità ti farebbe perdere il sonno, visto che anche il sacrificio umano è illegale.» Sogghignò. «Non faccio più queste cose, Anita. Ho rinunciato alle cose cattive che facevo un tempo.» Non ci credetti e lei lo capì subito, perché il suo ghigno si allargò. «Quando Manuel mi lasciò, smisi di dedicarmi alle pratiche malvagie. Sono diventata una bokar rispettabile anche senza le sue esortazioni.» Mentiva, ma non ero in grado di dimostrarlo e lei capì anche quello. «Adesso che ti ho fornito un'informazione preziosa, sei disposta ad aiutarmi?» Assentì magnanimamente. «Interrogherò i miei seguaci per scoprire se qualcuno sa qualcosa del tuo zombie assassino.» Chissà perché ebbi la sensazione che si stesse segretamente prendendo gioco di me. «Dimmi, Manny, ci aiuterà davvero?» «Quando dice che intende fare una cosa, la Señora la fa. Quanto a questo, mantiene la parola.» «Troverò il tuo assassino, se ha qualcosa a che fare col vudù», dichiarò Dominga. «Stupendo.» Non ringraziai, perché mi sembrava sbagliato. Invece avrei voluto dirle che era una grandissima stronza e spararle in mezzo agli occhi; ma poi avrei dovuto far fuori anche Enzo, e per giunta non avrei potuto
fornire giustificazioni valide alla polizia, considerato che non stavano trasgredendo nessuna legge. «Suppongo che se facessi appello al tuo buon cuore non riuscirei a convincerti a rinunciare a questo folle progetto di vendere come schiavi gli zombie che non marciscono, vero?» «Ah, chica, chica! Diventerò ricca oltre i tuoi sogni più sfrenati! Puoi rifiutare di unirti a me, ma non puoi fermarmi.» «Se fossi in te, non ci scommetterei», minacciai. «Cosa vorresti fare? Andare alla polizia? Non sto violando nessuna legge. L'unico modo di fermarmi sarebbe quello di uccidermi», disse, guardandomi dritto negli occhi. «Non tentarmi.» Manny mi si avvicinò. «No, Anita, non sfidarla.» Lo ignorai «Ti fermerò, Señora Salvador. Farò tutto quello che sarà necessario.» «Se tenterai di usare la magia di morte contro di me, Anita, sarai tu a morire.» Non avrei saputo distinguere la magia di morte da un piatto di fagioli, perciò scrollai le spalle. «Stavo pensando a qualcosa di più terreno, tipo un proiettile.» Allora Enzo si avvicinò ancora di più all'altare in modo da mettersi tra me e Dominga, che però lo fermò. «No, Enzo. Stamattina Anita è arrabbiata e sconvolta.» Il suo sguardo si burlava ancora di me. «Non sa niente della magia più potente, quindi non può nuocermi. E la sua integrità morale le impedisce di assassinarmi a sangue freddo.» Purtroppo aveva ragione. Lanciai un'occhiata alle zombie, che aspettavano con la pazienza infinita dei morti, sotto la quale si nascondevano però la paura e la speranza. Il confine tra la vita e la morte continuava ad assottigliarsi sempre più! «Almeno concedi il riposo al tuo primo esperimento. Hai già dimostrato che puoi mettere e togliere l'anima più volte. Non obbligarla a esserne cosciente.» «Ma... Anita! Ho già un acquirente per lei.» «Oh, Cristo! Non vorrai dire... Oh, Dio! Un necrofilo!» «Coloro che amano i morti più di quanto tu o io potremo mai amarli sono disposti a pagare somme straordinarie per cose come lei.» Be', forse dopotutto avrei potuto spararle anche a sangue freddo. «Sei una stronza amorale e spietata.»
«E tu, chica, devi imparare ad avere più rispetto per gli anziani.» «Il rispetto si deve guadagnare.» «Credo che tu, Anita Blake, debba ricordare perché la gente teme l'oscurità. Farò in modo che molto presto un visitatore si presenti alla tua finestra. Durante una notte molto buia, proprio quando ti sentirai più sicura e sarai profondamente addormentata nel tuo caldo letto, qualcosa di malvagio striscerà nella tua stanza e io mi guadagnerò il tuo rispetto, se questo è quello che vuoi.» Forse avrei dovuto avere paura, ma non mi spaventai per niente. Ero soltanto arrabbiata e volevo tornarmene a casa. «Puoi obbligare la gente ad avere paura di te, Señora, ma non puoi obbligarla a rispettarti.» «Lo vedremo, Anita. Chiamami, non appena ricevi il mio regalo. Non dovrai aspettare molto.» «Sei ancora disposta ad aiutarci a trovare lo zombie assassino?» «L'ho detto e lo farò.» «Bene. Posso andare adesso?» Con un gesto, ordinò a Enzo di affiancarsi a lei. «Torna pure alla luce del giorno, dove puoi essere coraggiosa.» Ritornai al sentiero e Manny mi accompagnò; non ci guardammo neanche, perché eravamo troppo impegnati a sorvegliare la Señora e i suoi mostri da compagnia. Poco più avanti mi fermai e Manny mi toccò lievemente un braccio, come se sapesse quello che stavo per dire; lo ignorai, rivolgendomi invece a Dominga Salvador: «Non intendo ucciderti a sangue freddo; ma, se sarai tu la prima ad aggredirmi, verrò a piantarti una pallottola addosso in un bel giorno di sole». «Le minacce non ti salveranno, chica», ribatté lei. Sorrisi dolcemente. «Non salveranno neanche te, stronza.» Il suo viso si scarni per la collera, e il mio sorriso si allargò. «Non diceva sul serio, Señora», intervenne Manny. «Non ha nessuna intenzione di ucciderti.» «È vero, chica?» domandò lei in un cupo brontolio, al tempo stesso gradevole e spaventevole. Lanciai un'occhiataccia a Manny. Non volevo rovinare una bella minaccia con una banalità e neppure con la verità. «Ho detto che ti sparerò, non che ti ammazzerò, vero?» «Sì, è vero.» Manny mi prese per un braccio e continuò a tirarmi verso la scala, ma scelse il sinistro, in modo che mi restasse la mano destra libera per prende-
re la pistola, in caso di necessità. Dominga non si mosse, però i suoi neri occhi furenti mi fissarono fino a quando non svoltammo l'angolo. Manny mi tirò nel corridoio dalle porte rivestite di cemento, poi mi liberai della sua presa e ci fissammo per un momento. «Cosa c'è dietro quelle porte?» domandai. «Non lo so.» Sicuramente il mio viso lasciò trapelare il dubbio, perché subito aggiunse: «Dio mi è testimone, Anita. Non lo so. Vent'anni fa non era così». Continuai a fissarlo come se ciò potesse cambiare la situazione. Avrei preferito che Dominga Salvador avesse tenuto per sé il segreto di Manny. «Anita, dobbiamo andarcene di qui, e subito», disse lui. La lampadina sopra la nostra testa si spense come una candela smoccolata. Tutti e due alzammo lo sguardo, ma non c'era niente da vedere. Con la pelle d'oca alle braccia, mi accorsi che la luce della lampadina davanti a noi si affievoliva fino a spegnersi. Manny aveva ragione. Dovevamo andarcene subito. La porta dal lucchetto scintillante fu scrollata rumorosamente, come se la cosa nella cella cercasse di sfondarla. Un'altra lampadina si spense, mentre l'oscurità ci tallonava. Continuammo a correre e arrivammo alla scala quando restavano soltanto due lampadine accese. L'ultima si spense a metà della salita. Il mondo divenne tutto nero e io mi bloccai sopra un gradino, per nulla desiderosa di continuare a muovermi senza vedere niente. L'oscurità era così completa che avrei potuto toccarmi gli occhi senza vedere le dita. Proseguimmo tenendoci per mano. La sua non era molto più grande della mia, ed era calda, familiare e dannatamente rassicurante. I cigolii del legno echeggiavano come fucilate nel buio e il fetore di carne putrescente riempiva la tromba della scala. «Cazzo!» Mentre l'imprecazione rimbombava nella tenebra, mi rammaricai di essermela lasciata sfuggire. Nel corridoio c'era una cosa che non poteva essere grossa come sembrava. Una specie di strofinio fradicio si avvicinò alla scala, o almeno così sembrò. Salii altri due gradini quasi barcollando e Manny non ebbe bisogno di esortazioni. Continuammo a salire mentre i rumori alle nostre spalle acceleravano. La luce che filtrava da sotto la porta aveva un'intensità quasi dolorosa. Manny spalancò l'uscio e io rimasi accecata dal sole. Per un attimo fummo entrambi abbagliati.
Dietro di noi, la cosa urlò non appena fu sfiorata dalla luce del giorno. La voce quasi umana m'indusse a girarmi per guardare, ma Manny richiuse la porta e scosse la testa: «Non ti piacerebbe vederlo, e io non voglio vederlo». Aveva ragione. E allora perché sentivo la smania di spalancare di nuovo la porta per guardare giù nel buio? Sapevo che sarebbe stata una visione da incubo, fissai la porta chiusa e mi rassegnai a lasciar perdere. «Credi che c'inseguirà?» domandai «Alla luce del giorno?» «Sì.» «Non credo», mormorò Manny. «Però preferisco andarmene senza scoprirlo.» Ero d'accordo. Il sole d'agosto, caldo e reale, inondava il soggiorno. Le urla, l'oscurità, le zombie... tutto sembrava sbagliato alla luce del giorno. Cose che uscivano alla luce del sole? Sembrava assurdo. Aprii lentamente la controporta, con calma. In preda al panico? Io? No. Però ascoltavo con un'attenzione tale da sentirmi pulsare il sangue alle tempie, nel timore di scoprire che lo strofinio fradicio continuava a braccarci. Niente. Antonio era ancora di guardia nel portico, e mi chiesi se fosse il caso di avvisarlo che forse eravamo inseguiti da una specie di orrore lovecraftiano. «Avete conosciuto il mostro del sotterraneo?» domandò Antonio. E tanti saluti all'opportunità di avvertire il vecchio Tony! Manny lo ignorò. «Vaffanculo!» replicai. Scendemmo i gradini del portico senza che Antonio sfoderasse la pistola e ci sparasse. Era già un miglioramento. La bambina in triciclo, ferma vicino alla macchina di Manny, mi fissò mentre aprivo la portiera, e io ricambiai lo sguardo dei suoi grandi occhi castani. Seduto al posto di guida, Manny avviò il motore, inserì la marcia e partì, mentre la bambina e io continuavamo a fissarci. Poco prima che svoltassimo l'angolo, la bimba ricominciò a pedalare su e giù per il marciapiede. 7 L'aria condizionata raffreddava l'abitacolo mentre Manny guidava per strade residenziali lungo le quali i vialetti di quasi tutte le case erano deser-
ti. La gente era al lavoro, i bambini che non andavano ancora a scuola giocavano nei cortili; qualche mamma era davanti a casa. Non vidi nessun papà a casa coi figlioli: le cose cambiano, ma non troppo. Tra noi due si protrasse un silenzio tutt'altro che tranquillo. Manny mi lanciò un'occhiata furtiva con la coda dell'occhio e io mi afflosciai sul sedile, con la cintura di sicurezza che premeva sulla pistola. «Dunque facevi sacrifici umani», esordii. Mi sembrò che Manny trasalisse. «Vuoi che menta?» «No, preferisco non sapere niente. Voglio vivere nella più beata ignoranza.» «Non funziona così, Anita.» «Forse no», ammisi, risistemando la cintura di sicurezza in modo che smettesse di premere sulla pistola. Finalmente mi sentii comoda. Se soltanto fosse stato così facile sistemare anche tutto il resto! «Che cosa vogliamo fare?» domandai. «A proposito del fatto che adesso lo sai?» replicò, guardandomi. Annuii. «Non vuoi arrabbiarti, insultarmi, farmi la predica, dirmi che razza di malvagio bastardo sono?» «Non mi sembra molto utile», mormorai. Allora mi guardò un po' più a lungo. «Grazie.» «Non ho detto che mi sta bene, Manny, ma soltanto che non intendo mettermi a sbraitare. Almeno non adesso.» Superammo una grossa macchina bianca piena di adolescenti ispanici col volume dello stereo talmente alto da farmi battere i denti. L'autista aveva uno di quei visi piatti, con gli zigomi alti, che ricordano le statue azteche. Quando incontrai il suo sguardo, durante il sorpasso, lui mi lanciò qualche bacio con la bocca, suscitando le risate fragorose degli altri, e io resistetti alla tentazione di mostrare loro il dito medio. Non bisogna incoraggiare i piccoli bastardi. Loro svoltarono a destra e noi proseguimmo diritto. Sollievo. Manny si fermò a due macchine dal semaforo all'incrocio con la 40 West. Dovevamo risalire la 270 fino a Olive, che non è lontana dal mio appartamento, perciò ci aspettavano dai quarantacinque ai sessanta minuti di viaggio. Normalmente non era un problema, ma quel giorno volevo stare lontana da Manny perché avevo bisogno di un po' di tempo per digerire la rivelazione e decidere come reagire. «Per favore, Anita, di' qualcosa.»
«Sinceramente, Manny, non so proprio cosa dire.» La verità. Tra amici bisogna cercare di attenersi alla verità. Come no! «Ci conosciamo da quattro anni. So che sei un brav'uomo, che ami tua moglie e i tuoi figli. Tu hai salvato la vita a me e io l'ho salvata a te. Credevo davvero di conoscerti bene.» «Non sono cambiato.» «Invece sì», obiettai, guardandolo. «Manny Rodriguez non avrebbe mai partecipato a un sacrificio umano, in nessuna circostanza.» «Sono passati vent'anni.» «L'omicidio non cade in prescrizione.» «Vuoi denunciarmi agli sbirri?» chiese in tono molto pacato. Il semaforo diventò verde, svoltammo e c'inserimmo nel traffico mattutino, che in quel momento era il più intenso che si può trovare a St. Louis. Di solito non ci sono ingorghi come a Los Angeles, ma procedere a singhiozzo è maledettamente irritante, soprattutto di mattina. «Non ho nessuna prova, tranne la parola di Dominga Salvador, che non è esattamente quella che si potrebbe definire una testimone attendibile.» «Se invece avessi qualche prova?» «Non provocarmi, Manny.» Guardai fuori attraverso il finestrino. Accanto a noi c'era una Miada color argento, scoperta, guidata da un uomo coi capelli bianchi che portava un berretto di traverso e guanti da pilota. Crisi di mezza età. «Rosita lo sa?» domandai. «Lo sospetta, ma non ne è sicura.» «Non vuole saperlo», sentenziai. «Probabilmente no.» Allora si girò a fissarmi. Quasi di fronte a noi c'era un camion rosso. «Manny!» gridai. Lui frenò così violentemente che soltanto la cintura di sicurezza m'impedì di baciare il cruscotto. «Cristo, Manny! Guarda dove vai!» Rimase concentrato sul traffico per poco tempo prima di chiedere, senza guardarmi: «Vuoi dirlo a Rosita?» Ci pensai soltanto per un attimo, poi scossi la testa; mi resi conto che non mi stava guardando e risposi: «Non credo. In questo caso, l'ignoranza è una benedizione. Dubito che tua moglie sarebbe in grado di affrontare una cosa del genere». «Mi lascerebbe e si porterebbe via i ragazzi.» Ne ero convinta anch'io, sapendo che Rosita era molto religiosa e prendeva molto seriamente i comandamenti.
«Già crede che resuscitare i morti significhi rischiare la mia anima immortale», aggiunse Manny. «Non aveva problemi prima che il papa minacciasse di scomunicare tutti i risveglianti che non rinunciassero a resuscitare i morti», replicai. «La Chiesa è molto importante per Rosita.» «Anche per me, ma adesso sono una piccola episcopale contenta. Cambia Chiesa anche tu.» «Non è tanto facile», osservò. Sapevo che non lo era, ma si fa quel che si può, o almeno quel che si deve. «Puoi spiegarmi perché hai fatto sacrifici umani, cioè dirmi qualcosa che per me abbia senso?» «No», rispose, passando nella corsia di sinistra, che sembrava un po' più scorrevole. Subito dopo fu costretto a rallentare. La legge di Murphy vale anche per il traffico. «Non vuoi neanche provare a spiegarmelo?» «È ingiustificabile, Anita. Convivo con quello che ho fatto perché non ho altra scelta.» Un punto a suo favore. «È inevitabile che io cambi l'opinione che ho di te, Manny.» «Come?» «Ancora non lo so.» Ero sincera. Se fossimo stati prudenti e scrupolosi avremmo potuto essere ancora sinceri l'uno con l'altra. «Credi che ci sia qualcos'altro che dovrei sapere? Qualcosa che Dominga potrebbe rivelarmi in qualche altra occasione?» Scosse la testa. «Niente di peggio.» «Okay.» «Okay», ripeté. «Basta così? Niente interrogatorio?» «Basta per ora, e forse anche per il futuro.» All'improvviso mi sentii stanca. Erano le nove e ventitré del mattino e avevo già bisogno di fare un pisolino. Ero emotivamente prosciugata. «Non so come ti senti tu, Manny, e non so come influirà tutto questo sulla nostra amicizia o sui nostri rapporti di lavoro. Non so nemmeno se influirà in qualche modo, anche se penso di sì. Oh, al diavolo! Non lo so!» «Mi sembra abbastanza giusto», dichiarò. «Passiamo a un argomento su cui non siamo confusi.» «E sarebbe?» domandai. «La Señora manderà qualcosa di brutto alla tua finestra, proprio come ha detto.»
«Lo immaginavo.» «Perché l'hai minacciata?» «Non mi piace.» «Oh, grande!» commentò. «Perché mai non ci sono arrivato da solo?» «Ho intenzione di fermarla e ho pensato che dovesse saperlo», spiegai. «Eppure ti ho insegnato che non bisogna mai concedere nessun vantaggio ai cattivi.» «Mi hai insegnato pure che il sacrificio umano è omicidio.» «Questo mi fa male», confessò. «Sì. Anche a me.» «Devi stare in guardia, Anita, perché ti manderà qualcosa, anche se credo che sarà solo per spaventarti e non per farti male davvero.» «Soltanto perché mi hai costretto a confessare che non intendo davvero ucciderla», ribattei. «No, perché in realtà non è convinta che tu voglia farlo. È affascinata dai tuoi poteri, perciò penso che preferirebbe convertirti, piuttosto che ucciderti.» «Per avermi come socia nella sua fabbrica di zombie.» «Sì.» «Non in questa vita.» «La Señora non è abituata ai rifiuti, Anita.» «È un problema suo, non mio.» Mi lanciò un'occhiata prima di concentrarsi nuovamente sul traffico. «Lo farà diventare anche tuo.» «Lo affronterò», ribattei. «Non puoi essere tanto fiduciosa.» «Non lo sono. Ma cosa vuoi che faccia? Che crolli e che mi metta a piangere? Lo affronterò quando e se qualcosa di schifoso entrerà strisciando attraverso la mia finestra.» «Non puoi combattere la Señora, Anita. È potente, molto più potente di quanto tu possa mai immaginare.» «Mi ha spaventato, Manny. Riconosco di esserne rimasta adeguatamente impressionata. E, se mi manderà contro qualcosa che non sarò in grado di affrontare, taglierò la corda. Okay?» «No, non è okay per niente. Tu non capisci, semplicemente non capisci.» «Ho sentito quella cosa dietro la porta, l'ho fiutata e mi ha spaventato», confessai. «Però Dominga è soltanto umana. Nessuna magia potrà proteg-
gerla da una pallottola ben piazzata.» «Non credo che possa bastare questo a eliminarla», replicò Manny. «Che vuoi dire?» «Anche se mi sembrasse morta dopo essersi beccata una pallottola in testa o nel cuore, io la tratterei come una vampira, cioè le taglierei la testa, le strapperei il cuore e brucerei il cadavere.» Così dicendo mi osservò con una certa circospezione. Non dissi niente. Stavamo parlando di assassinare Dominga Salvador, che catturava le anime per rimetterle nei cadaveri. Era un abominio. Probabilmente sarebbe stata lei ad aggredire per prima, mandando qualche regalino soprannaturale a strisciare dentro casa mia. Era malvagia e avrebbe fatto la prima mossa. Se le avessi teso un'imboscata sarebbe stato omicidio? Sicuro. L'avrei fatto comunque? Lasciai che il pensiero prendesse forma nella mia mente, succhiandolo e assaporandolo come una caramella. Sì, avrei potuto farlo. A prescindere dal motivo, essere capace di progettare un omicidio senza fare una piega avrebbe dovuto suscitare in me un certo sdegno, un certo rimorso, invece niente. Anzi mi confortò abbastanza sapere che, se lei mi avesse dato una spinta, io sarei stata capace di restituirla. Chi ero, dunque, per poter scagliare pietre contro Manny a causa dei suoi crimini di vent'anni prima? Già, chi ero? 8 Manny mi scaricò senza una parola. Non chiese di salire, e io non lo invitai a farlo. Continuavo a non sapere cosa pensare di lui, di Dominga Salvador e delle sue zombie che non marcivano, complete di anima. Decisi di non pensarci. Quello che mi ci voleva era una sana attività fisica e, per fortuna, proprio quel pomeriggio avevo il corso di judo. Sono cintura nera, cosa che suona molto più impressionante di quanto non sia in realtà. Nel dojo, con arbitri e regole, sono okay, ma fuori, nel mondo reale, dove quasi tutti i cattivi pesano una cinquantina di chili più di me, preferisco affidarmi alle armi da fuoco. Stavo per toccare la maniglia quando suonò il campanello, così posai il borsone vicino alla porta per guardare dallo spioncino e, come sempre, fui costretta ad alzarmi in punta di piedi per farlo. L'immagine distorta di un biondo dagli occhi chiari mi sembrò vagamente familiare. Era Tommy, il forzuto al servizio di Harold Gaynor. La gior-
nata stava proprio andando di bene in meglio! Di solito non porto armi da fuoco nella palestra di judo. Le lezioni sono sempre di pomeriggio, e in estate questo significa quand'è ancora giorno, mentre le cose davvero pericolose non succedono prima che faccia buio. Sollevai la polo rossa per assicurare la fondina interna ai calzoni. La piccola calibro 9 dava un po' fastidio; se avessi previsto di averne bisogno, avrei indossato jeans più comodi. Il campanello suonò di nuovo. Poteva anche non esserci nessuno in casa, però Tommy non sembrava minimamente scoraggiato. Suonò per la terza volta, con più insistenza. Aprii la porta e guardai Tommy dritto nei limpidi occhi azzurri. Occhi vacui, in cui trovai un vuoto assoluto e perfetto. Ci si nasce, con uno sguardo del genere, oppure si sviluppa con l'esercizio? «Che vuoi?» domandai. Fece una smorfia. «Non m'inviti a entrare?» «Non credo proprio.» Notai le cinghie della sua fondina ascellare, che la giacca troppo aderente non riusciva a nascondere del tutto. Aveva bisogno di un sarto migliore. Una porta si aprì alla mia sinistra, una donna ne uscì con un bimbo in braccio e la richiuse, prima di girarsi e vederci. «Oh, salve!» salutò cordialmente. «Salve», risposi. Tommy fece un cenno col capo. La donna si avviò verso le scale, mormorando con voce acuta qualche sciocchezza al bambino. Tommy mi guardò. «Vuoi davvero parlarne qui in corridoio?» «Di cosa stiamo parlando?» «Affari. Soldi.» La sua faccia era assolutamente impenetrabile. La mia unica consolazione fu che, se avesse voluto farmi del male, probabilmente non sarebbe venuto a suonare alla mia porta. Probabilmente. Indietreggiai di un passo spalancando completamente l'uscio, ma badando a stare alla larga da lui mentre varcava la soglia. Guardò intorno. «Bello, pulito.» «Impresa di pulizie», spiegai. «Comincia a parlare d'affari, Tommy. Ho un impegno.» Fece un'altra piccola smorfia che, mi resi conto, doveva essere la sua versione di un sorriso. «Giù in macchina ho una valigia piena di soldi. Un
milione e mezzo: metà adesso, metà dopo che hai resuscitato lo zombie.» Scossi la testa. «Ho già dato a Gaynor la mia risposta.» «C'era anche il tuo capo. Ora invece ci siamo soltanto noi due. Nessuno saprà che hai accettato. Nessuno.» «Non ho rifiutato per via dei testimoni. Ho rifiutato perché non faccio sacrifici umani.» Mi resi conto che stavo sorridendo e mi sembrò ridicolo, ma subito pensai a Manny e... be', forse non era per niente ridicolo. Comunque non avevo nessuna intenzione di farlo. «Ognuno ha il suo prezzo, Anita. Dimmi quanto vuoi. Possiamo venirti incontro.» Soltanto io avevo nominato Gaynor, lui no. Era prudente, maledettamente prudente. «Non ho nessun prezzo, mio caro Tommy. Torna da Mr. Harold Gaynor a dirgli questo.» Il suo volto si rannuvolò, una ruga gli si scavò in mezzo agli occhi. «Non conosco questo nome.» «Dacci un taglio. Non ho nessun microfono addosso.» «Dimmi quanto vuoi. Possiamo venirti incontro», insistette. «Non è una questione di soldi.» «Due milioni», offrì. «Quale zombie potrebbe mai valere due milioni di dollari?» Fissai la sua faccia vagamente accigliata. «Cosa spera di ottenere Gaynor? Cosa potrebbe fargli incassare tanto da ricavarne un profitto dopo una spesa del genere?» Tommy continuò a fissarmi. «Non è necessario che tu lo sappia.» «Immaginavo che l'avresti detto. Be', puoi anche andartene. Non sono in vendita.» Mi avviai di nuovo alla porta per accompagnarlo fuori. Scattò all'improvviso, con velocità insospettata, allargando le braccia muscolose per afferrarmi. Sfoderai la Firestar e gliela puntai al petto. Si bloccò, fissandomi con gli occhi vacui, battendo le palpebre; poi chiuse i grossi pugni, mentre un rossore quasi purpureo gli saliva dal collo a tutta la faccia. Rabbia. «Non farlo», mormorai in tono pacato. «Puttana», ansimò. «Dai, Tommy, non fare il cattivo. Rilassati, così tutti quanti potremo vivere abbastanza da vedere un altro glorioso giorno,» I suoi occhi chiari si spostarono dalla pistola alla mia faccia, per poi tornare alla Firestar e restarci. «Senza quella non faresti tanto la dura.»
Se intendeva propormi di vedercela corpo a corpo, era destinato a subire un'amara delusione. «Fatti indietro, Tommy, altrimenti ti stendo secco lì dove sei. Tutti i muscoli del mondo non ti aiuteranno.» Notai qualcosa che si muoveva dietro i suoi occhi, prima che tutto il corpo si rilassasse. Sospirò profondamente attraverso il naso. «Okay, stavolta hai vinto. Ma se continuerai a deludere il mio capo farò in modo di trovarti senza quella pistola.» Increspò le labbra. «Allora vedremo quanto sei davvero dura.» Una vocina interiore mi suggerì fervidamente di ammazzarlo subito, senza esitare. Sapevo con assoluta certezza che, prima o poi, il caro vecchio Tommy sarebbe venuto a cercarmi e non avevo nessuna voglia di trovarmelo alle spalle, tuttavia... Non potevo farlo fuori soltanto per quello. Non era una ragione sufficiente, senza contare che non mi sarebbe stato facile fornire una spiegazione convincente alla polizia. «Vattene, Tommy.» Aprii la porta senza distogliere da lui lo sguardo e la pistola. «Vattene subito e di' a Gaynor che, se continua a scocciarmi, comincerò a spedirgli per posta i pezzi delle sue guardie del corpo.» Tommy dilatò quasi impercettibilmente le narici mentre gli si gonfiavano le vene del collo, poi mi passò davanti a passo notevolmente rigido e uscì in corridoio. Io lo seguii con lo sguardo e tenni la pistola lungo il fianco ascoltando il rumore dei suoi passi che si allontanavano giù per le scale. Quando fui ragionevolmente sicura che se ne fosse andato, rinfoderai la pistola, afferrai la borsa e uscii per andare a lezione di judo. Non dovevo permettere che certi piccoli contrattempi rovinassero il mio programma di allenamento, anche se l'indomani non avrei potuto fare a meno di saltare una lezione per andare a un funerale. D'altra parte, se Tommy aveva davvero intenzione di farmi fuori a mani nude, avevo bisogno di tutte le risorse a mia disposizione. 9 Detesto i funerali, ma almeno quello non fu di una persona che mi fosse particolarmente piaciuta. Duro ma vero. Da vivo, Peter Burke era stato un figlio di puttana senza scrupoli, quindi non vedevo perché la morte avrebbe dovuto garantirgli automaticamente la santità. Soprattutto quand'è violenta, la morte sembra trasformare in una brava persona perfino il bastardo più schifoso. Perché mai? Sotto il luminoso sole d'agosto, col mio piccolo tailleur nero e gli oc-
chiali da sole, osservavo i partecipanti al funerale. Era stato montato un baldacchino per ombreggiare la bara e le sedie riservate ai familiari, e naturalmente c'erano i fiori. Magari vi state chiedendo perché ci fossi anch'io, dal momento che il caro estinto non era stato mio amico. Be', la risposta è semplice: Peter Burke era stato un risvegliante. Uno non particolarmente in gamba, è vero, però il nostro è un piccolo club esclusivo; se uno di noi muore, tutti gli altri vanno al suo funerale. È una regola che non ammette eccezioni, se non forse la morte. Ma non è detto, visto che siamo quelli che resuscitano i morti. C'è qualcosa che si può fare per impedire che un cadavere risorga come vampiro, ma gli zombie sono bestie diverse e non c'è niente che possa impedire a un risvegliante di rianimare un cadavere, se non la cremazione. Il fuoco è più o meno l'unica cosa che uno zombie rispetta o teme. Dunque avremmo potuto resuscitare Peter e chiedergli chi fosse stato a sparargli in testa, se l'assassino non gli avesse piantato una 357 Magnum punta cava proprio dietro un orecchio. Ciò che era rimasto della sua testa non era bastato a riempire un sacchetto di plastica. Resuscitarlo come zombie sarebbe stato possibile ma inutile, considerato che non avrebbe potuto parlare. Anche i cadaveri hanno bisogno della bocca per riuscirvi. Accanto a me stava Manny, a disagio nel suo completo nero. Sua moglie Rosita era vicino a lui, con la schiena assolutamente diritta e la borsetta di cuoio nero stretta tra le mani scure. È di ossatura grande, come diceva sempre la mia matrigna. Quel giorno aveva la permanente e i capelli neri tagliati poco sotto le orecchie, cioè troppo corti; facevano risaltare in maniera eccessiva il suo viso perfettamente rotondo. Dietro di me c'era quella specie di montagna nera che è Charles Montgomery. Sembra un ex giocatore di football e ha la capacità di far scappare la gente semplicemente corrugando la fronte. Però ha soltanto l'aspetto dello stronzo energumeno; in realtà sviene alla vista di qualsiasi cosa che non sia sangue animale. È una fortuna per lui avere un aspetto che incute paura, perché è quasi incapace di sopportare il dolore e si commuove ai film di Walt Disney. Insomma, è maledettamente tenero. Sua moglie, Caroline, era assente perché nessuno l'aveva sostituita al lavoro, ma io mi chiedevo quanto si fosse sforzata per trovare qualcuno disponibile a farlo. Caroline è okay, però nutre una specie di disprezzo per quello che facciamo: secondo lei, è magia della specie più abietta. Credo invece che abbia bisogno di sentirsi superiore a qualcuno, visto che fa l'infermiera e ha a che fare coi medici per tutto il giorno.
In prima fila di fronte a noi, oltre la fossa, c'era Jamison Clarke. È alto e magro, l'unico nero coi capelli rossi e con gli occhi verdi che abbia mai visto. Mi salutò con un cenno della testa, e io risposi nello stesso modo. C'eravamo tutti, noi risveglianti dell'Animators Incorporated. Avevamo lasciato Bert a difendere il forte in compagnia di Mary, la nostra segretaria del turno di giorno, perciò speravo che il capo non assumesse in nostra assenza qualche lavoro impossibile o inaccettabile. È capacissimo di farlo, se non stiamo attenti. Il sole mi picchiava sulla schiena come una mano di metallo rovente, gli uomini continuavano ad allentarsi il colletto e la cravatta, l'odore dei crisantemi era soffocante come cera fusa. Nessuno ti regala crisantemi se non sei morto. Tutti gli altri fiori - tipo le rose, i garofani e le bocche di leone vivono felici, mentre i crisantemi sono fiori da funerale, e anche i gladioli, che però almeno non fanno un gran profumo. All'ombra del baldacchino, sedeva in prima fila una donna piegata in due come una bambola rotta. Piangeva tanto forte da sovrastare la voce del prete, di cui, a causa della distanza, percepivo l'intonazione calma e solenne, ma non le parole. Due bambini stavano aggrappati alle mani di un vecchio che forse era il nonno. La paura sui loro visi rivaleggiava col pianto. Guardavano con gli occhi chiari e infossati la madre affranta, che si dimostrava incapace di confortarli, come se il suo dolore fosse più importante e la sua perdita più grande. Stronzate! Mia madre è morta quando avevo otto anni, quindi so bene che è come perdere un pezzo di se stessi: niente può mai davvero sostituirlo. È un dolore che non si placa mai del tutto. Bisogna affrontarlo, bisogna conviverci, bisogna andare avanti, ma rimane sempre. Accanto alla vedova sedeva un uomo che le accarezzava incessantemente la schiena con movimenti circolari. Capelli neri, corti, ben pettinati, spalle larghe. Visto da dietro somigliava in maniera soprannaturale a Peter Burke. Spettri al sole. Il cimitero era cosparso di alberi fruscianti che gettavano pallide e mutevoli ombre. Due uomini stavano in silenziosa attesa sull'altro lato del vialetto ghiaiato. Erano i becchini, che aspettavano di finire il lavoro. Dietro la bara coperta da una coltre di garofani rosa c'era un montìcello nascosto da un tappeto di erba finta. Era la terra fresca che avrebbe riempito la fossa. I parenti non devono pensare all'umile terra rossa che sta per ricoprire il legno della cassa piombata, in cui il marito o il padre è destinato
a rimanere imprigionato per sempre. Anche se protegge dall'acqua e dai vermi, una buona bara non impedisce la decomposizione, e io sapevo che cosa sarebbe successo al corpo di Peter Burke. Vestilo di raso, mettigli al collo una bella cravatta, truccagli le guance, chiudigli gli occhi, ma è pur sempre un cadavere. La cerimonia terminò mentre io ero distratta, e i convenuti si mossero tutti insieme, lieti che fosse finita. L'uomo dai capelli neri aiutò la vedova afflitta ad alzarsi, ma lei rischiò di cadere; un altro uomo corse a sostenerla e lei si afflosciò, costringendoli a sollevarla di peso e a trascinarla. Girò la testa quasi ciondolante e proruppe in uno strillo lacerante, poi si divincolò per gettarsi sulla bara e cominciare a raschiare il legno come se volesse cercare di sollevare il coperchio. Per un momento rimasero tutti come paralizzati a fissarla, inclusi i due bambini, con gli occhi sgranati. Merda! «Fermatela», ordinai a voce abbastanza alta da attirare parecchi sguardi. Non me ne importava niente. Mi feci largo tra la folla verso le sedie e la fossa, dove l'uomo dai capelli neri cercava di bloccare le braccia della donna che strillava e si dibatteva al suolo, la gonna nera sollevata fino a rivelare le mutandine bianche. Il mascara sciolto dalle lacrime le rigava le guance come sangue nero. Mi fermai davanti al vecchio coi bambini, che fissava la vedova come se fosse paralizzato per sempre. «Signore», chiamai, senza ottenere nessuna reazione. «Signore!» Lui batté le palpebre e mi fissò come se fossi sbucata dal nulla. «Signore, crede davvero che i bambini debbano assistere a questa scena?» «È mia figlia», rispose con voce densa e profonda. Droga o soltanto dolore? «La capisco, signore, ma dovrebbe accompagnare i bambini alla macchina, subito.» Intanto la vedova si abbandonò a un pianto straziante e la bambina cominciò a tremare. «Capisco che è suo padre, ma è anche il nonno dei bambini. Faccia il suo dovere e li porti via.» Allora gli occhi dell'uomo lampeggiarono di collera. «Come osa parlarmi così?» domandò. Non aveva nessuna intenzione di ascoltarmi. Ero soltanto un'intrusa che disturbava il lutto della famiglia. Il figlio più grande, un maschio di circa
cinque anni, alzò la testa a guardarmi con gli occhi spalancati nel viso magro e pallido, quasi spettrale. «Credo che sia lei a doversene andare», aggiunse il nonno. «Ha ragione, certo.» Girai loro intorno e mi allontanai sul prato, sotto il sole estivo. Non potevo fare niente per quei bambini. Com'era capitato a me quand'era morta mia madre, nessuno poteva aiutarli. Ma io ero sopravvissuta, quindi anche loro ci sarebbero riusciti. Forse. Rosita, che mi aspettava accanto a Manny, mi abbracciò. «Vieni a pranzo da noi, domenica, dopo la funzione.» «Non credo di farcela, ma grazie dell'invito», replicai amabilmente. «Ci sarà anche mio cugino Albert», aggiunse. «È ingegnere e sarebbe un ottimo padre di famiglia.» «Non mi serve un ottimo padre di famiglia, Rosita.» Sospirò. «Guadagni troppo per essere una donna, perciò t'illudi che non ti serva un uomo.» Scrollai le spalle. Se mai mi fossi sposata, cosa di cui ormai cominciavo a dubitare, non sarebbe stato certo per i soldi. L'amore! Merda, stavo forse aspettando l'amore? No, io no di sicuro! «Dobbiamo andare a prendere Tomas all'asilo», intervenne Manny, sporgendo la testa da dietro le spalle della moglie. Lei è quasi trenta centimetri più alta di lui e torreggia anche su di me. «Certo, salutatelo da parte mia.» «Dovresti venire a pranzo», insistette Rosita. «Albert è un gran bell'uomo.» «Ti ringrazio, Rosita. Sei molto gentile a preoccuparti per me, ma passo.» «Vieni, moglie», ordinò Manny. «Nostro figlio ci sta aspettando.» Nonostante l'espressione di disapprovazione, Rosita si lasciò condurre alla macchina. Era intimamente offesa dal fatto che a ventiquattro anni non avessi nessuna prospettiva di matrimonio. La mia matrigna condivideva il suo sentimento. Probabilmente Charles si era affrettato a tornare in ufficio per incontrare qualche cliente, perché era scomparso. Invece, contrariamente alle mie aspettative, Jamison era ancora lì ad aspettarmi. Indossava un doppiopetto impeccabile, con sottile cravatta scura a piccoli pois neri e fermacravatta in onice e argento. Mi sorrise, e questo è sempre un brutto segno. I suoi occhi verdi erano infossati per il pianto. Se si piange abbastanza, succede che gli occhi prima si gonfiano e si arrossano, poi s'infossano e si
slavano. «Sono contento che fossimo in tanti», dichiarò. «So che era tuo amico, Jamison. Mi dispiace.» Annuì, poi si guardò le mani, in cui teneva gli occhiali da sole; infine guardò di nuovo me, fissandomi dritto negli occhi, serissimo. «La polizia non vuol dire niente alla famiglia», riferì. «Qualcuno ha fatto saltare la testa a Peter e loro non hanno neanche un indizio.» Avrei voluto dirgli che la polizia stava facendo del suo meglio perché era davvero così, ma quell'anno a St. Louis c'erano stati così tanti omicidi che avremmo potuto gareggiare con Washington per il titolo di capitale dell'assassinio. «Stanno facendo del loro meglio, Jamison.» «Allora perché non ci dicono niente?» Con uno scatto convulso e uno schianto di plastica spezzata le sue mani frantumarono gli occhiali senza che lui sembrasse accorgersene. «Non lo so», risposi. «Tu hai conoscenze nella polizia, Anita. Non potresti informarti?» I suoi occhi rivelavano un dolore sincero e profondo. Quasi sempre riesco a ignorare Jamison, e persino a trovarlo antipatico perché mi prende in giro, flirta, mi provoca ed è un progressista dal cuore tenero, convinto che i vampiri siano soltanto persone coi canini molto aguzzi. Quel giorno, però, capii che era sincero. «Cosa dovrei chiedere?» gli domandai. «Se stanno facendo progressi, se hanno qualche sospetto. Cose del genere.» Erano domande un po' vaghe, ma importanti. «Vedrò se posso scoprire qualcosa.» Fece una smorfia dolente. «Grazie, Anita, ti sono davvero grato.» Mi offrì la mano; io la presi e ci scambiammo una stretta. Allora si accorse di avere stritolato gli occhiali da sole. «Dannazione! Novantacinque dollari buttati nel cesso!» Novantacinque dollari per un paio di occhiali da sole? Sicuramente scherzava! Nel frattempo, alcuni parenti benintenzionati si stavano occupando della donna, trasportandola di peso lontano dalla fossa, mentre il nonno li seguiva coi bambini. Nessuno vuole mai ascoltare i buoni consigli. L'uomo che visto di spalle somigliava tanto a Peter Burke si allontanò dal gruppo per incamminarsi verso di noi. Era alto poco più di un metro e ottanta, carnagione scura, baffi neri, il viso incorniciato da una barba nera sottilissima e appuntita. Era un bell'uomo, tipo divo del cinema, ma c'era
qualcosa di strano nel suo modo di muoversi. Comunque non avrebbe potuto fare altro che la parte del cattivo. «È disposta ad aiutarci?» chiese, senza tanti preamboli e senza neanche salutare. «Sì», rispose Jamison. «Anita Blake, questi è John Burke, il fratello di Peter.» Avrei voluto chiedere se fosse proprio quel John Burke, il più grande cacciatore di vampiri e risvegliante di New Orleans. Uno spirito affine. Ci scambiammo una stretta di mano e la sua fu vigorosa, quasi dolorosa, come se avesse intenzione di farmi trasalire. Be', io non trasalii e lui mi lasciò. Forse non era consapevole della propria forza, ma ne dubitavo. «Sono davvero dispiaciuta per tuo fratello», dichiarai, sincera e contenta di esserlo. «Grazie per avere accettato di parlare con la polizia», replicò lui. «Mi sorprende che tu non abbia chiesto alla polizia di New Orleans d'informarsi presso la nostra», confessai. Ebbe la cortesia di tradire un certo disagio. «Ho avuto un piccolo disaccordo con la polizia di New Orleans.» «Davvero?» Avevo sentito certe voci, ma volevo sapere la verità, che è sempre più strana della fantasia. «John è stato accusato di avere partecipato ad alcuni omicidi rituali», spiegò Jamison, «ma soltanto perché è un sacerdote vudù.» Era proprio quello che avevo sentito dire. «Da quanto tempo sei in città, John?» «Quasi una settimana.» «Davvero?» «Peter era scomparso da due giorni quand'è stato ritrovato il... corpo.» Si umettò le labbra, poi lanciò un'occhiata alle mie spalle. Mi girai per vedere se stessero arrivando i becchini, ma non era così e la fossa mi sembrò esattamente identica a poco prima. «Ti saremo molto grati per qualsiasi cosa riuscirai a scoprire», aggiunse Burke, «Farò il possibile.» «Adesso devo tornare a casa.» Scrollò le spalle come per sciogliere i muscoli. «Mia cognata non la sta prendendo troppo bene.» Lasciai correre, guadagnandomi un sacco di punti. Un'altra cosa, però, non la ignorai. «Puoi occuparti dei tuoi nipoti?» Mi guardò, perplesso, corrugando le sopracciglia nere.
«Voglio dire, puoi cercare di fare in modo che non assistano alle manifestazioni di dolore più strazianti?» Assentì. «È stato difficile, per me, quando si è gettata sulla bara a quel modo. Dio! Cosa staranno pensando i bambini?» Le lacrime gli scintillarono negli occhi come argento. Così, per impedire che colassero sulle guance, li tenne molto spalancati. Non sapevo cosa dire e non avevo nessuna voglia di assistere al suo pianto «Parlerò con la polizia e farò il possibile per scoprire qualcosa. Se ci riuscirò informerò Jamison.» John Burke annuì prudentemente. I suoi occhi erano come un vetro che minacciasse di frantumarsi sotto la pressione dell'acqua. Salutai Jamison con un cenno della testa e me ne andai. In macchina accesi l'aria condizionata e la misi al massimo. Quando inserii la marcia e mi avviai, i due uomini erano ancora fermi in mezzo al prato secco, sotto il sole rovente. Sì, avrei parlato con la polizia e avrei cercato di scoprire qualcosa, però avrei anche fornito a Dolph un altro nome, perché John Burke - il miglior risvegliante di New Orleans, nonché sacerdote vudù - mi sembrava un sospetto. 10 Il telefono cominciò a squillare mentre infilavo la chiave nella serratura della porta del mio appartamento. «Sto arrivando!» gridai. «Sto arrivando!» Perché la gente si comporta così? Perché grida al telefono prima di rispondere alla chiamata, come se l'altro potesse sentire e aspettare? Spalancai la porta e sollevai il ricevitore al quarto squillo. «Pronto!» «Anita?» «Dolph», risposi, con una stretta allo stomaco. «Che c'è?» «Crediamo di aver trovato il bambino», spiegò in tono neutro e pacato. «Credete?» domandai. «Che significa?» «Sai che cosa significa, Anita», replicò. Sembrava stanco. «Come i genitori?» chiesi, ma non fu una vera domanda. «Già.» «Dio, Dolph. Quanto ne resta?» «Vieni a vedere. Siamo al cimitero Burrell. Lo conosci?» «Certo, ci ho già lavorato.» «Arriva prima che puoi. Voglio tornare a casa ad abbracciare mia mo-
glie.» «Sicuro, Dolph, capisco», assicurai, ma stavo parlando a me stessa perché il telefono era già muto. Rimasi per un momento a fissare il ricevitore, con una sensazione di freddo sulla pelle. Non volevo andare a vedere i resti di Benjamin Reynolds. Non volevo sapere. Respirai lentamente e profondamente attraverso il naso. Mi guardai le scarpe coi tacchi alti, le calze nere, il tailleur nero; non era il mio solito abbigliamento da scena del crimine, ma ci avrei messo troppo tempo a cambiarmi. Di solito ero l'ultima esperta a essere convocata: quando avevo finito io si poteva coprire la salma, e tutti se ne potevano tornare a casa. Presi un paio di Nike nere per camminare nell'erba e nel sangue; le scarpe eleganti non vengono mai completamente pulite quando sono sporche di sangue. La Browning Hi-Power nella fondina era posata sopra la mia pochette nera. Durante il funerale l'avevo lasciata in macchina perché non ero riuscita a escogitare un modo per nasconderla sotto il vestito. So che in televisione si vedono le fondine da coscia, ma la parola «sfregamento» non vi dice niente? Dopo breve esitazione decisi di non mettere la mia pistola di riserva nella borsa, perché, come tutte le borse, sembra contenere un buco nero itinerante. Non sarei mai riuscita a tirar fuori la Firestar in tempo, se ne avessi davvero avuto bisogno. Avevo un pugnale d'argento nel fodero fissato alla coscia sotto la gonna nera; mi faceva sentire come una specie di Kit Carson travestito da donna, ma dopo la visitina di Tommy non volevo farmi sorprendere disarmata, poiché non mi facevo illusioni su quello che altrimenti mi sarebbe successo. I pugnali non sono efficaci come le pistole, ma sono sempre meglio che strillare e scalciare coi piedini. Non mi era mai capitato di dover sguainare in fretta un pugnale dal fodero cosciale; probabilmente sarebbe sembrato vagamente osceno, ma se fosse servito a salvarmi la pelle... be', un po' d'imbarazzo sarei riuscita a sopportarlo! Il cimitero Burrell è sul crinale di una collina. Le lapidi s'innalzano come stanche sentinelle nell'erba lussureggiante alta mezzo metro; alcune sono vecchie di secoli, tanto consumate da risultare illeggibili. Poco distante c'è la casa del custode, che però non ha granché da fare perché da parecchi anni il cimitero, ormai pieno, non è più stato utilizzato. L'ultimo
defunto sepolto lassù ricordava, quand'era vivo, addirittura la Fiera Internazionale del 1904. Non c'è nessuna strada che porta al cimitero, solo una specie di sentiero, una traccia spettrale dove l'erba cresce un po' meno alta che altrove. Dietro la casa del custode trovai il furgone della medicina legale e le macchine della polizia, in confronto alle quali la mia Nova sembrava piuttosto scialba. Forse avrei dovuto procurarmi un'antenna con la bandiera o magari applicare sulla fiancata una scritta tipo SPECIALISTA DI ZOMBIE, ma probabilmente Bert si sarebbe arrabbiato. Presi dal bagagliaio una tuta che mi copriva dalle caviglie al collo e la infilai sopra il vestito. Non ho mai capito perché, ma quasi tutte le tute hanno il cavallo all'altezza delle ginocchia; era così anche quella, quindi la gonna non mi si arrotolò. All'inizio usavo le tute soltanto per impalare i vampiri, ma il sangue è sangue, senza contare che le erbacce rovinano le calze. Presi anche un paio di guanti da chirurgo, di cui tengo sempre una scatola nel bagagliaio. Sostituite le Nike alle scarpe col tacco alto, fui finalmente pronta a esaminare i resti. I resti. Bella parola. Cercando di non inciampare in qualche pezzo di lapide, m'incamminai verso Dolph, che torreggiava su tutti i presenti come una specie di antica sentinella. Un vento rovente frusciava nell'erba e io avevo già cominciato a sudare sotto la tuta. Il detective Clive Perry mi venne incontro come se mi servisse una scorta. È una delle persone più educate che abbia mai conosciuto, un gentiluomo all'antica nel senso migliore della definizione. Mi sono sempre chiesta cosa abbia mai fatto per finire nella Spook Squad. Aveva il viso nero e magro tutto imperlato di sudore e indossava ancora la giacca del completo benché dovessero esserci quasi quaranta gradi. «Ms. Blake.» «Detective Perry», replicai, lanciando un'occhiata al crinale della collina, dove Dolph e alcuni altri se ne stavano fermi come se non sapessero cosa fare. Nessuno guardava il suolo. «Mi dica, detective Perry, quanto è orribile?» Scosse la testa. «Dipende dal criterio di valutazione.» «Ha visto i nastri e le foto della casa dei Reynolds?» «Li ho visti.» «È peggio?» Era quello il mio nuovo criterio per valutare la cosa peggiore che avessi mai visto. Prima c'erano stati i vampiri di una banda di Los
Angeles che avevano cercato d'insediarsi a St. Louis. La comunità locale dei succhiasangue li aveva fatti a pezzi a colpi di scure. Quando li avevamo trovati, i pezzi stavano ancora strisciando per la stanza. Forse i Reynolds non erano peggio, forse era soltanto che il tempo aveva un po' offuscato il ricordo. «C'è meno sangue», aggiunse, poi esitò. «Però era soltanto un bambino. Era piccolo.» Non c'è nessun bisogno di spiegare perché è sempre peggio quando si tratta di bambini, anche se non l'ho mai capito esattamente. Forse è un istinto primordiale che induce a proteggere i cuccioli, una specie di cosa ormonale molto profonda. Comunque sia, coi bambini è sempre peggio. Mi trovai a fissare una lapide bianca, opaca, che sembrava ghiaccio fuso. Non volevo salire in cima alla collina, non volevo vedere. Tuttavia andai sul crinale, seguita dal detective Perry. Coraggioso lui e coraggiosa io. Sull'erba c'era un lenzuolo drappeggiato come una tenda. Il poliziotto più vicino era il capo della Spook Squad. «Dolph», salutai con un cenno del capo. «Anita.» Nessuno si offrì di togliere il lenzuolo. «È lì sotto?» «Sì.» Dolph sembrò scuotersi, o forse fu un brivido, poi si curvò ad afferrare un bordo del telo. «Pronta?» chiese. No, non ero pronta. Non volevo essere costretta a guardare, non volevo! Con la bocca arida e il cuore palpitante in gola, annuii. Il lenzuolo fu sollevato e una folata di vento lo fece sventolare come un aquilone bianco. L'erba era tutta calpestata. Segno di lotta? Era mai possibile che Benjamin Reynolds fosse stato portato tra l'erba alta di quel prato mentre era ancora in vita? No, sicuramente no. Dio, speravo proprio di no! La tutina del pigiama, stampata a minuscoli personaggi dei cartoni animati, era stata parzialmente strappata come la buccia di una banana. Un braccino era accostato alla testa, come nel sonno, e le palpebre dalle ciglia lunghe rafforzavano l'illusione. Il viso era pallido e liscio, la boccuccia era dischiusa. Avrebbe potuto avere un aspetto peggiore, molto peggiore. Più in basso c'era un'ampia macchia marrone. Non volevo vedere che cosa lo aveva ucciso, ma ero lì proprio per quello. Esitai, con le dita a breve distanza dal tessuto strappato, e commisi l'errore d'inspirare profonda-
mente. Così vicino al cadavere, poco tempo dopo la morte, nel caldo e nel vento d'agosto, il fetore è come quello di una latrina, soprattutto se la vittima è stata sventrata. Dunque l'odore mi preannunciò cosa avrei visto quando avessi rimosso il tessuto insanguinato. Per qualche minuto rimasi inginocchiata con una manica premuta sulla bocca e sul naso, respirando lievemente con la bocca. Ma il naso ricorda il lezzo, una volta che lo ha fiutato; me lo sentivo in gola senza riuscire a scacciarlo. Brusco oppure cauto? Di scatto o lentamente? In fretta! Il tessuto incrostato di sangue coagulato resistette brevemente allo strappo prima di staccarsi con una specie di schiocco fradicio. Sembrava che qualcuno lo avesse svuotato con un gigantesco cucchiaino da gelato. Lo stomaco e le viscere non c'erano più. Mentre la luce del sole ondeggiava intorno a me, fui costretta ad appoggiare una mano al suolo per non cadere. Alzai lo sguardo al viso. I capelli castani erano come quelli della madre, e alcune ciocche umide aderivano alle guance. Ma subito l'addome straziato attirò di nuovo il mio sguardo. Dall'estremità dell'intestino tenue colava un denso liquido scuro. Indietreggiai barcollando dalla scena del crimine, reggendomi alle lapidi per restare in piedi. Sarei scappata di corsa se non avessi avuto la certezza di crollare, ma il cielo roteò tanto violentemente da scontrarsi con la terra e alla fine caddi a vomitare in mezzo all'erba alta. Quando fui completamente vuota e il mondo ebbe smesso di roteare vertiginosamente, mi asciugai la bocca con una manica e mi rialzai sostenendomi a una lapide inclinata. Nessuno disse una parola quando tornai. Il lenzuolo copriva nuovamente il cadavere. Il cadavere. Dovevo considerarlo così, senza indugiare sul fatto che era stato un bambino. Non potevo farlo. Se lo avessi fatto sarei impazzita. «Ebbene?» chiese Dolph. «Non è morto da molto. Dannazione! È stato stamattina, forse poco prima dell'alba! Era vivo! Era vivo quando quella cosa lo ha rapito!» Fissai Dolph, sentendomi gli occhi caldi di lacrime. Ma non volevo piangere, non volevo crollare due volte nello stesso giorno. Così cominciai a respirare profondamente. «Ti ho concesso ventiquattro ore per parlare con quella Dominga Salvador. Hai scoperto qualcosa?»
«Dice che non sa niente, e io le credo.» «Perché?» «Perché se volesse far fuori qualcuno non dovrebbe fare niente di tanto drammatico.» «In che senso?» «Basterebbe una maledizione», risposi. Spalancò gli occhi. «Ci credi davvero?» «Può darsi.» Mi strinsi nelle spalle. «Sì. Che diavolo ne so? Di sicuro quella donna mi spaventa.» Dolph aggrottò la fronte. «Lo ricorderò.» «Però ho un altro nome da aggiungere alla tua lista», ripresi. «Chi è?» «John Burke. È venuto da New Orleans per il funerale del fratello.» Annotò il nome sul suo piccolo taccuino. «Se è qui soltanto di passaggio, credi che ne abbia avuto il tempo?» «Non so quale potrebbe essere il movente, ma avrebbe potuto farlo, se avesse voluto. Chiedi informazioni sul suo conto alla polizia di New Orleans. Credo che laggiù sia sospettato di omicidio.» «Come mai ha potuto lasciare lo Stato?» «Probabilmente non hanno prove contro di lui», dissi. «Comunque, Dominga Salvador ha promesso di aiutarmi. Chiederà in giro e, se scoprirà qualcosa, mi avvertirà.» «Anch'io ho chiesto in giro dopo che mi hai parlato di lei, quindi so che aiuta soltanto la sua gente. Come hai fatto a convincerla?» Scrollai le spalle. «Il fascino della mia personalità.» Dolph fece una smorfia. «Niente di illegale. A parte questo, non voglio parlarne», aggiunsi. Lasciò perdere, confermando di essere un tipo sveglio. «Informami non appena sai qualcosa, Anita. Dobbiamo fermare questo mostro prima che uccida ancora.» «Sono d'accordo.» Mi girai a guardare il prato ondulato. «È vicino a questo cimitero che avete scoperto le prime tre vittime?» «Sì.» «Allora può darsi che una parte della risposta si trovi qui», suggerii. «Che vuoi dire?» «Molti vampiri devono rientrare nelle loro bare prima dell'alba. I necrofagi dimorano nel sottosuolo come talpe gigantesche. Se si trattasse di uno di questi mostri, direi che è nascosto qui da qualche parte in attesa che ca-
da la notte. Ma, se si tratta di uno zombie, allora se ne frega della luce del sole e non è costretto a riposare in una bara. Ora potrebbe essere ovunque, però credo che sia venuto da questo cimitero. Se hanno usato il vudù per resuscitarlo, deve esserci qualche traccia del rito.» «Per esempio?» «Un vevé disegnato col gesso, simboli tracciati intorno alla tomba, sangue raggrumato, magari un fuoco.» Lasciai vagare lo sguardo sull'erba frusciante. «Io però non vorrei accendere un fuoco all'aperto in un posto così.» «Se invece non è stato il vudù?» chiese Dolph. «Allora è stato un risvegliante e ha lasciato tracce, come il sangue raggrumato o la carogna di un animale. In tal caso però i segni sarebbero meno numerosi e più facili da cancellare.» «Sei sicura che sia uno zombie di qualche genere?» domandò. «Non so cos'altro possa essere. Ci conviene comportarci come se lo fosse, per avere almeno un'idea di dove e cosa cercare.» «Se non fosse stato uno zombie non avremmo neanche questo», osservò. «Esatto.» «Spero che tu abbia ragione, Anita.» «Lo spero anch'io.» «Se è venuto da qui, pensi di riuscire a trovare la tomba?» «Forse.» «Forse?» ripeté. «Forse. Resuscitare i morti non è una scienza, Dolph. A volte percepisco i morti sottoterra. È come una specie d'inquietudine. Oppure so quando sono morti senza bisogno di leggere la lapide.» Scrollai le spalle. «Ma non sempre ci riesco.» «Ti daremo tutto l'aiuto che ti serve», assicurò. «Devo aspettare che sia notte. I miei... poteri funzionano meglio di notte.» «Manca ancora qualche ora. Non possiamo fare niente adesso?» «No. Mi spiace, ma non possiamo.» «Okay. Allora tornerai stanotte?» «Sì», confermai. «A che ora? Manderò qualcuno.» «Non so dirtelo con precisione e non so neanche quanto ci vorrà. Forse mi toccherà andare in giro per diverse ore senza trovare niente.» «Altrimenti?»
«Potrei anche trovare il mostro in persona.» «Allora ti servono rinforzi. Non possiamo correre rischi», disse Dolph. «D'accordo. Però le armi da fuoco, anche se caricate con munizioni d'argento, non servono.» «Cosa ci vuole?» «Lanciafiamme e napalm, come fanno gli sterminatori nelle gallerie dei necrofagi», risposi, «Non li abbiamo in dotazione.» «Chiama una squadra di sterminatori», suggerii. «Buona idea.» Prese nota. «Mi serve un favore», aggiunsi. Alzò lo sguardo. «Quale?» «Peter Burke è stato assassinato e suo fratello mi ha chiesto di scoprire se ci sono progressi nelle indagini.» «Sai che non possiamo dare informazioni del genere.» «Lo so, ma, se tu riuscissi a sapere come stanno le cose, io potrei riferire a John Burke soltanto il minimo indispensabile per mantenere il contatto con lui.» «Sembra che tu sia in buoni rapporti con tutti i nostri sospettati», commentò, «Già.» «Cercherò di sapere qualcosa dalla omicidi. Sai a chi compete il caso?» «Posso scoprirlo. Così avrei una scusa per parlare di nuovo con Burke.» «Hai detto che è sospettato di omicidio a New Orleans. E potrebbe essere stato lui a fare questo.» Accennò al lenzuolo. «Già.» «Stai attenta, Anita.» «Lo faccio sempre», assicurai. «Chiamami stasera, non appena puoi. Non voglio che tutti i miei ragazzi se ne stiano seduti a girarsi i pollici nelle ore di straordinario.» «Lo farò non appena potrò. Dovrò cancellare tre clienti soltanto per esserci.» Bert non sarebbe stato affatto contento. La giornata stava decisamente migliorando. «Perché ha divorato soltanto una parte degli organi interni?» chiese Dolph. «Non lo so», ammisi. «Okay, allora ci vediamo stanotte.» «Saluta Lucille da parte mia. Come se la cava col master?»
«È a buon punto. Finirà prima che il più giovane dei nostri ragazzi si laurei in ingegneria.» «Grande!» Il lenzuolo sventolò nel vento caldo e un rivolo di sudore mi scivolò sulla fronte. Avevo esaurito i convenevoli. «A più tardi», salutai, prima d'incamminarmi giù per la collina. Dopo un po' mi fermai e mi voltai. «Dolph?» «Sì?» «Non ho mai sentito parlare di uno zombie che si comporti esattamente come questo. Forse esce dalla tomba come un vampiro. Se tu lasciassi qui una squadra di sterminatori e un po' di rinforzi fino a dopo il tramonto, potresti riuscire a beccarlo e a farlo fuori mentre esce dalla tomba.» «È probabile?» «No, ma è possibile», risposi. «Non so come riuscirò a giustificare lo straordinario, ma lo farò.» «Arriverò non appena possibile.» «Cos'altro ci può essere di più importante?» chiese. «Nulla che ti piacerebbe sapere.» «Mettimi alla prova.» Scossi la testa. «D'accordo. A stasera», disse Dolph, perplesso. Il detective Perry mi riaccompagnò alla macchina, forse per cortesia, forse soltanto per allontanarsi dal corptis delicti. In tal caso, non avrei potuto biasimarlo. «Come sta sua moglie, detective?» domandai. «Il nostro primo figlio nascerà tra un mese.» «Congratulazioni!» «Grazie.» Il suo viso si rannuvolò, la fronte s'increspò tra le sopracciglia nere. «Crede che riusciremo a trovare questo mostro prima che uccida ancora?» «Lo spero», replicai. «Quante probabilità abbiamo?» Voleva essere rassicurato oppure voleva la verità? La verità. «Non ne ho la più vaga idea.» «Speravo che non lo dicesse», confessò. «Anch'io, detective. Anch'io.» 11
Cosa c'era di più importante che prendere il mostro che aveva sbudellato una famiglia intera? Niente, assolutamente niente. Però la notte era ancora lontana e io avevo altri problemi. Tommy sarebbe tornato da Gaynor a riferire la mia risposta? Sì. E Gaynor avrebbe lasciato perdere? Probabilmente no. Mi servivano informazioni. Avevo bisogno di sapere fino a che punto poteva spingersi. Mi serviva un cronista. Irving Griswold in soccorso! Irving aveva uno di quei cubicoli pastello che passano per uffici. Niente soffitto e niente porta, soltanto pareti. Irving mi piace, se non altro perché è alto un metro e sessanta scarso. Non mi capita spesso d'incontrare uomini che siano della mia stessa statura. I capelli ricci e castani gli incorniciano il cucuzzolo calvo come i petali di un fiore; con la faccia tonda e le guance rosee sembra un cherubino pelato. Non ha l'aspetto di un licantropo, anche se lo è. Nemmeno la licantropia cura la calvizie. Al St Louis Post-Dispatch nessuno sapeva che Irving era un lupo mannaro. La licantropia è una malattia, quindi è illegale discriminare chi ne è affetto, proprio come per i malati di AIDS, però succede comunque. Forse l'amministrazione del giornale si sarebbe dimostrata di ampie vedute, ma io la pensavo come Irving. La prudenza non è mai troppa. Seduto alla scrivania, Irving indossava una camicia bianca con le maniche arrotolate fino al gomito e il nodo della cravatta a mezz'asta. «Come vanno le cose tra i cadaveri ambulanti?» chiese, quando mi appoggiai a una parete del suo cubicolo. «Credi davvero di essere divertente o è soltanto un'abitudine fastidiosa?» replicai. Sorrise. «Sono un tipo divertente. Chiedilo alla mia ragazza.» «Figuriamoci», ribattei. «Che c'è, Blake? E dimmi, per favore, che si tratta di qualcosa che si può divulgare, non di un segreto!» «Che ne dici di un articolo sulla nuova legislazione riguardante gli zombie attualmente in preparazione?» «Potrebbe andare», concesse, prima di socchiudere gli occhi con un luccichio sospettoso. «Che cosa vuoi in cambio?» «Per il momento non si può ancora divulgare niente, Irving.» «Non mi sorprende.» Corrugò la fronte. «Continua.» «Mi servono tutte le informazioni che hai su Harold Gaynor.» «Il nome non mi dice niente. Dovrei conoscerlo?» Intanto il suo sguardo vivace diventò serio. La sua concentrazione era quasi perfetta quando fiu-
tava una storia. «Non necessariamente», replicai, con prudenza. «Puoi raccogliere informazioni per me?» «In cambio della storia sugli zombie?» «Ti porterò da tutte le ditte che utilizzano zombie. Potrai anche tirarti dietro un fotografo e scattare foto ai cadaveri.» I suoi occhi s'illuminarono. «Una serie di articoli con un sacco di foto quasi macabre e tu al centro del palco, in tailleur! La Bella e le Bestie! È probabile che piaccia al mio caporedattore.» «Lo supponevo, ma la faccenda del palco mi lascia perplessa.» «Al tuo capo piacerà! La pubblicità incrementa gli affari.» «E la vendita dei giornali», aggiunsi. «Sicuro», convenne Irving, prima di restare a osservarmi senza parlare per circa un minuto. La sala era silenziosa; quasi tutti erano già andati a casa. La lampada di Irving era una delle poche ancora accese. E tanti saluti alla stampa che non dorme mai! Il ronzio tranquillo dell'aria condizionata riempiva la quiete serale. «Vedrò se Harold Gaynor è nel computer», disse finalmente Irving. «Ricordi il nome anche se te l'ho detto una volta sola. Bravo!» «Dopotutto sono un esperto cronista», osservò, prima di mettersi alla tastiera del computer con gesti esagerati, ruotando la sedia girevole, infilandosi un paio di guanti immaginari e sistemandosi le code di un frac altrettanto immaginario. «Ma falla finita!» lo punzecchiai. «Non mettere fretta al maestro.» Digitò poche parole e lo schermo si accese. «È in archivio», riferì. «Un grosso file. Mi ci vorrà un'eternità per stamparlo tutto.» Ruotò di nuovo la sedia per guardarmi. Brutto segno. «Ecco cosa facciamo. Io raccolgo tutto il file, foto comprese, ammesso che ce ne siano, poi lo consegno nelle tue dolci manine.» «Dov'è il trucco?» Si toccò il petto con la punta delle dita. «Mai? Niente trucchi! Il mio cuore è buono e sincero.» «Va bene, portamelo a casa.» «Perché invece non ci vediamo da Dead Dave?» suggerì. «Dead Dave è nel quartiere dei vampiri. Perché bazzichi da quelle parti?» Mi scrutò col suo viso da cherubino. «Corre voce che ci sia un nuovo
Master della Città. Voglio conoscere tutta la storia.» Scossi la testa. «Quindi frequenti Dead Dave per raccogliere informazioni?» «Esatto.» «I vampiri non ti diranno niente. Sembri umano.» «Grazie del complimento», replicò. «Però i vampiri parlano con te, Anita. Sai chi è il nuovo Master? Posso incontrarlo, lui o lei che sia? Posso intervistarlo?» «Cristo, Irving! Non hai già abbastanza guai senza andarti a immischiare col re dei vampiri?» «Allora è un lui», dedusse. «Era soltanto un modo di dire», obiettai. «Tu sai qualcosa che io non so.» «Quello che so è che non dovresti avere nessuna voglia di attirare l'attenzione di un vampiro Master. Quelli sono tipi cattivi, Irving.» «I vampiri stanno cercando di essere accettati e vogliono copertura mediatica favorevole. Io voglio soltanto intervistare il Master per sapere come intende governare la comunità dei vampiri e qual è la sua visione del futuro. Sarebbe vantaggioso per tutti e due. Niente battute sui cadaveri ambulanti, niente sensazionalismo. Puro e semplice giornalismo.» «Come no! Un ghiotto titoletto in prima pagina: 'Il Master di St. Louis si confessa'!» «Sì, sarebbe grande.» «Stai soltanto cercando uno scoop, Irving.» «Posso farti avere tutto quello che abbiamo su Gaynor, foto comprese.» «Come sai che ce ne sono?» domandai. Mi fissò con una vacua ilarità sul viso tondo e simpatico. «Hai riconosciuto il nome! Figlio di...» «Dai, Anita! Procurami un'intervista col Master della Città, e io ti faccio avere tutto quello che vuoi.» «Avrai una serie di articoli sugli zombie, con fotografie a colori di cadaveri putrescenti, Irving. Farà vendere un sacco di copie.» «Niente intervista col Master?» insistette. «No, se sarai fortunato», ribattei. «Posso avere il file su Gaynor?» «Okay. Raccolgo tutto.» Mi guardò. «Comunque vediamoci da Dead Dave. Forse troverò qualche vampiro disposto a parlare con me.» «Irving, non ti guadagnerai la fiducia dei succhiasangue facendoti vedere in compagnia di una cacciatrice di vampiri autorizzata.»
«Continuano a chiamarti la Sterminatrice?» «Tra le altre cose.» «Okay. Che ne dici di farmi assistere alla tua prossima eliminazione in cambio del file su Gaynor?» «No.» «Dai, Anita...» «No.» Allargò le mani. «Okay, era soltanto un'idea. Ne verrebbe fuori un articolo stupendo.» «Non mi serve pubblicità, Irving, o almeno non di questo genere.» «Sì, va bene! Ci vediamo tra un paio d'ore al Dead Dave.» «Tra un'ora. Preferisco essere fuori del Distretto prima di notte.» «C'è qualcuno che vuole farti fuori, da quelle parti? Non voglio metterti in pericolo, Blake! Mi hai fornito troppe storie da prima pagina. Non vorrei mai perderti.» «Grazie della sollecitudine, ma non c'è nessuno che vuole farmi fuori, a quanto ne so.» «Non mi sembri del tutto sicura.» Lo fissai, considerando l'opportunità di raccontargli che il nuovo Master della Città mi aveva mandato una dozzina di rose bianche per invitarmi a ballare e che io avevo rifiutato. Poi mi aveva lasciato un messaggio in segreteria per chiedermi di accompagnarlo a un ricevimento, e io lo avevo ignorato. Finora il Master si era comportato come il perfetto gentiluomo che era stato qualche secolo prima, però non poteva certo durare. JeanClaude non era tipo da rassegnarsi facilmente alla sconfitta. Comunque finii per non dire niente a Irving; non era necessario che sapesse. «Ci vediamo da Dead Dave tra un'ora. Corro a casa a cambiarmi.» «Adesso che mi ci fai pensare, non ti avevo mai vista vestita così.» «Oggi sono andata a un funerale.» «Lavoro o personale?» «Personale», risposi. «Allora mi dispiace.» Mi strinsi nelle spalle. «Devo proprio andare, se voglio avere il tempo di cambiarmi e di arrivare puntuale. Grazie, Irving.» «Non è un favore, Blake. Dovrai ricambiarmi con quegli articoli sugli zombie.» Sospirai. Già lo vedevo mentre mi costringeva ad abbracciare un povero cadavere. D'altra parte la nuova legislazione aveva bisogno di attenzione.
Più gente si fosse resa conto di quanto era orrendo lo sfruttamento degli zombie, maggiori sarebbero state le opportunità che il progetto fosse approvato. Quindi Irving mi avrebbe fatto un favore anche con gli articoli, sebbene non fosse affatto necessario farglielo sapere. Allontanandomi nella semioscurità della sala quasi deserta, lo salutai con un cenno senza girare la testa. Volevo togliermi quel vestito e indossare qualcosa che mi permettesse di girare armata. Dovevo andare a Blood Quarter e avrei potuto averne bisogno. 12 Dead Dave è in una zona di St. Louis che ha due nomi. Quello ufficiale è Riverfront, quello sprezzante è Blood Quarter. Tra le zone dove i vampiri svolgono le loro attività commerciali è la più sensazionale: una grossa attrazione per i turisti. È grazie ai vampiri se St. Louis è entrata a far parte degli itinerari dei vacanzieri. Si potrebbe pensare che basterebbero i monti Ozark, alcune delle migliori zone di pesca del Paese, la musica sinfonica e i musical al livello di quelli di Broadway. Invece no. Be', credo sia difficile competere coi non morti. Per me almeno lo è. Quando arrivai al Dead Dave, che all'esterno ha soltanto vetri oscurati e insegne di birra, non era ancora il crepuscolo. Il sole stava calando e i vampiri sarebbero arrivati soltanto a notte fatta. Avevo poco meno di due ore per entrare, esaminare il file e andarmene. Facile. Come no! Indossavo calzoncini neri, polo blu, Nike nere a bande blu, calze da jogging bianche e nere, cintura di cuoio nero per assicurare la fondina ascellare con la Browning Hi-Power sotto il braccio sinistro, e una camicia nera e blu a maniche corte per nascondere il tutto. Esteticamente eccezionale. Col caldo che faceva, avevo la schiena fradicia di sudore, però la Browning mi garantiva tredici proiettili. Volendo se ne potrebbero avere quattordici, ammesso di essere abbastanza folli da tenere anche un colpo in canna, oltre al caricatore pieno. Comunque non pensavo che le cose si sarebbero messe tanto male. Un caricatore di riserva mi deformava una tasca dei calzoncini, ma dove avrei dovuto metterlo? Uno di questi giorni mi comprerò un sistema ascellare di lusso con doppio portacaricatore bifilare, ma finora ho trovato soltanto modelli che dovrebbero essere modificati per adattarsi alla mia taglia e non farmi sembrare Frito Bandito. Non porto quasi mai caricatori di riserva quando ho la Browning. Di-
ciamolo pure, se ti servono più di tredici proiettili è finita. La cosa veramente triste era che la scorta non era per Tommy o per Gaynor, bensì per Jean-Claude, il vampiro, il Master della Città. Certo, le pallottole d'argento non l'avrebbero ammazzato, però lo avrebbero ferito abbastanza gravemente e la sua guarigione sarebbe stata lenta quasi quanto quella umana. Volevo uscire dal Distretto prima che facesse notte, perché non volevo imbattermi in Jean-Claude. Non mi avrebbe aggredita, anzi aveva ottime intenzioni, sebbene non fossero esattamente onorevoli. Mi aveva persino offerto l'immortalità senza gli sgradevoli inconvenienti del vampirismo, ma con certe implicazioni che avrei dovuto sopportare per l'eternità. Lui era alto, pallido, bello, sexy, e mi voleva come sua serva umana. Purtroppo per lui, io non ero la serva di nessuno e non volevo diventarlo neanche in cambio della vita e della giovinezza eterne, nonché di un piccolo compromesso a proposito della mia anima. Era un prezzo troppo alto, anche se Jean-Claude non riusciva a capirlo. La Browning mi sarebbe servita nel caso mi fossi trovata costretta a convincerlo. Entrata nel bar, rimasi cieca per un momento e aspettai che la mia vista si adattasse alla semioscurità, come in uno di quei vecchi film western in cui il buono esita davanti al bancone e osserva la folla. In questi casi ho sempre sospettato che faccia così non perché sta cercando d'individuare il cattivo, ma semplicemente perché col passaggio improvviso dalla luce al buio non ci vede più niente. Mi sono sempre chiesta perché nessuno gli spara mai prima che abbia il tempo di abituare gli occhi alla penombra! Erano le cinque passate di un giovedì, tutti i tavoli e molti sgabelli erano occupati da uomini in giacca e panciotto e donne in tailleur, con una spruzzata di scarponi da lavoro e abbronzature fino al gomito. Nonostante gli sforzi per mantenere un profilo basso, Dead Dave è diventato un locale alla moda. E, a quanto sembrava, era in piena happy hour. Merda! Un sacco di yuppie che erano lì per sbirciare i vampiri senza correre rischi. Sarebbero stati già un po' brilli all'arrivo dei primi succhiasangue e ciò probabilmente avrebbe reso l'esperienza ancora più eccitante. Seduto all'angolo arrotondato del bancone, Irving mi vide e mi salutò con un gesto. Risposi allo stesso modo, avviandomi verso di lui. Mi ci volle una bella manovra per insinuarmi tra due eleganti gentiluomini, e un salto tutt'altro che elegante per montare sopra uno sgabello. Irving mi fece un gran sorriso; il mormorio della conversazione nell'aria era come un rumore di risacca, così fu costretto a curvarsi verso di me perché potessi sentirlo. «Ho dovuto massacrare parecchi draghi per tenerti il
posto», dichiarò. «Spero che lo apprezzerai.» Il suo alito aveva un vago odore di whisky. «Coi draghi è facile», ribattei. «Prova coi vampiri, una di queste volte.» Sgranò gli occhi. Prima che potesse replicare, aggiunsi: «Stavo scherzando, Irving!» Cristo! Certa gente non ha proprio il senso dell'umorismo! «E, poi, i draghi non sono mai esistiti nel Nord America.» Mentre sorseggiava il whisky, il liquido ambrato scintillò attraverso il bicchiere. All'estremità opposta del bancone c'era un gruppo di tizi molto allegri. Se fossero stati un po' più allegri sarebbero svenuti sul pavimento. Li stava servendo Luther, il barista del turno di giorno. Non è alto, però è grosso, anzi grasso, di un grasso così solido da essere quasi muscolo. La pelle è così nera da avere riflessi purpurei. La brace della sigaretta che gli pendeva dalle labbra brillò arancione quando aspirò. Non ho mai conosciuto nessuno che sia bravo quanto lui a parlare senza togliersi la sigaretta di bocca. Irving prese una vecchia valigetta di cuoio dal pavimento ai suoi piedi e ne trasse un pacco di fogli spesso più di sette centimetri, trattenuto da un grosso elastico. «Cristo, Irving! Posso portarmelo a casa?» «No, mi spiace. Una mia collega sta facendo un'inchiesta sugli affaristi locali che non sono quello che sembrano. Ho dovuto prometterle mari e monti per convincerla a prestarmelo per stasera.» Guardai il pacco di fogli e sospirai. Il tizio seduto alla mia destra rischiò di tirarmi una gomitata in faccia e si voltò: «Scusi, signora. Mi dispiace. Tutto bene, vero?» chiese, con tipica cadenza da ubriaco. «Tutto bene», assicurai. Si girò di nuovo verso il suo amico, che scoppiò in una risata fragorosa per chissà quale battuta. Quando si è abbastanza ubriachi diventa tutto divertente. Luther venne a fermarsi di fronte a me, sfilò una sigaretta dal pacchetto che ha sempre a portata di mano e l'accese col mozzicone di quella che aveva tra le labbra. L'estremità avvampò come una brace e il fumo gli scivolò sinuosamente fuori del naso e della bocca, proprio come un drago. Poi schiacciò la cicca nel portacenere di vetro trasparente che si portava sempre dietro quasi fosse un orsacchiotto. È un fumatore compulsivo, è abbondantemente in sovrappeso e, a giudicare dai capelli grigi, ha più di
cinquant'anni, eppure non sta mai male. Dovrebbe posare per la pubblicità nazionale dell'Istituto del Tabacco. «Un altro?» chiese a Irving. «Sì, grazie.» Luther prese il bicchiere, lo riempì da una bottiglia che teneva sotto il bancone, poi lo posò su un tovagliolo pulito. «Cosa posso servirti, Anita?» domandò. «Il solito, Luther.» Mi versò un succo d'arancia che poteva passare per uno screwdriver. Sono astemia, ma cosa vai a fare in un bar se non bevi? Luther cominciò a lustrare il bancone con uno strofinaccio bianco immacolato. «Ho un messaggio del Master per te.» «Il Master della Città?» intervenne Irving, con l'inconfondibile sfumatura di eccitazione che aveva sempre quando fiutava una notizia. «Che messaggio?» domandai, senza la minima eccitazione. «Vuole assolutamente vederti.» Lanciai un'occhiata a Irving prima di guardare nuovamente Luther. Cercai d'implorarlo telepaticamente di non parlare in presenza del cronista, ma non funzionò. «Il Master ha sparso la voce. Chiunque ti veda deve riferire il messaggio.» Irving spostava freneticamente lo sguardo da Luther a me come un cucciolo bramoso. «Che cosa vuole da te il Master della Città, Anita?» «Messaggio ricevuto», dichiarai. Luther scosse la testa. «Non hai intenzione di parlargli, vero?» «No», confermai. «Perché no?» domandò Irving. «Non sono affari tuoi.» «Ufficiosamente», promise. «No.» Luther mi fissò. «Dammi retta, ragazza, parla col Master. In questo momento tutti i vampiri e tutti i freak hanno l'incarico di dirti che il Master vuole incontrarti. Il prossimo ordine sarà quello di trattenerti e portarti da lui.» Trattenere fu un bell'eufemismo per rapire. «Non ho niente da dire al Master.» «Non rischiare che la cosa degeneri, Anita», consigliò Luther. «Parla con lui. Non c'è niente di male.» Lo credeva lui. «Forse lo farò», dissi. Tutto sommato, Luther aveva ra-
gione. Se avessi rifiutato d'incontrarlo subito, avrei dovuto farlo in seguito e allora probabilmente la conversazione sarebbe stata molto meno cordiale. «Perché il Master vuole parlare con te?» interloquì Irving, come un curioso uccello dagli occhi luccicanti che avesse appena visto un verme. Ignorai la sua domanda per farne una io. «La tua collega non ti ha dato qualche ragguaglio sul file? Non ho tempo di leggere Guerra e pace prima di domattina.» «Se mi dici cosa sai del Master ti fornisco i ragguagli.» «Tante grazie, Luther.» «Non era mia intenzione», replicò il barista, con la sigaretta penzolante all'angolo della bocca. Non ho mai capito come diavolo ci riesca. Destrezza labiale? Esperienza pluriennale? «Volete smetterla di trattarmi come se avessi la fottuta peste bubbonica?» scattò Irving. «Sto soltanto cercando di fare il mio lavoro!» Sorseggiai il succo d'arancia e lo guardai. «Ti stai immischiando in faccende che non capisci, Irving. Non posso fornirti informazioni sul Master. Proprio non posso.» «Non vuoi», corresse. «Non voglio, ma il motivo per cui non voglio è che non posso.» «Questo è un argomento capzioso», protestò. «Fammi causa.» Terminai il succo, che comunque non avevo avuto nessuna voglia di bere. «Senti, Irving, abbiamo un accordo. Il file in cambio del servizio sugli zombie. Se vuoi rimangiarti la parola, l'accordo salta, ma almeno dimmelo. Non ho tempo di stare qui a gingillarmi con qualche dannato indovinello.» «L'accordo resta valido. La mia parola è vincolante», affermò col tono più solenne che riuscì a mettere insieme nel vocio del bar. «Allora forniscimi questi ragguagli e lasciami uscire dal maledetto Distretto prima che il Master mi trovi.» Il suo volto diventò improvvisamente serio. «Sei nei guai, vero?» «Può darsi. Per favore, Irving, aiutami!» «Aiutala», intervenne Luther. Forse fu perché glielo avevo chiesto per favore, o forse fu la presenza incombente di Luther, comunque Irving annuì. «Secondo la mia collega, Gaynor è uno storpio in sedia a rotelle.» Mai condizionare, questo è il mio stile, «Gli piacciono le donne storpie», aggiunse, «Che vuoi dire?» domandai, ricordando Cicely dagli occhi vacui.
«Cieche, paralitiche, amputate, quello che ti pare. Al vecchio Harry piacciono.» «Sorde?» suggerii. «Sono il suo tipo.» «Perché?» chiesi. Le domande intelligenti sono la mia specialità. Irving scrollò le spalle. «Forse con loro si sente più a suo agio perché anche lui è storpio. La mia collega ignora perché sia un pervertito, sa soltanto che lo è.» «Cos'altro ti ha detto?» «Non è mai stato incriminato, però sul suo conto corrono voci davvero brutte. Si sospetta che sia in combutta con la malavita organizzata, anche se non ci sono prove. Come ho detto, sono soltanto voci.» «Dimmi.» «Una sua ex fidanzata scomparve dopo avere cercato di fargli causa per ottenere un vitalizio.» «Come a dire che probabilmente fu uccisa?» ipotizzai. «Proprio così!» Se Gaynor aveva già incaricato Tommy e Bruno di far fuori qualcuno, gli sarebbe stato più facile impartire l'ordine una seconda volta. O forse l'aveva già fatto molte altre volte, e non era mai stato beccato. «Che favori fa alla mafia per avere in cambio le sue due guardie del corpo?» «Hai conosciuto i suoi esperti della sicurezza?» «Già.» «La mia collega sarebbe felice di parlare con te.» «Non le avrai detto di me, vero?» «Ti sembro forse una spia?» ribatté Irving sorridendo. Lasciai correre. «Cosa fa per la mafia?» «Aiuta a riciclare il denaro sporco, o almeno questo è quello che si sospetta.» «Nessuna prova?» «Nessuna.» Luther scosse la testa, schiacciando la cicca nel portacenere e sparpagliando un po' di cenere sul bancone, per poi affrettarsi a pulire con lo strofinaccio immacolato. «Sembra un ritratto poco rassicurante, Anita, perciò accetta un consiglio gratis. Lascia in pace quel tizio.» Era un buon consiglio, ma purtroppo c'era un inconveniente. «Non credo che quel tizio voglia lasciare in pace me.» «Non ti chiedo niente, non voglio saperlo.» Luther si allontanò verso al-
cuni clienti che gesticolavano freneticamente per avere ancora da bere. Nello specchio appeso alla parete, lungo quanto tutto il bancone, potevo osservare l'intero locale e persino la porta senza dovermi girare. Utile e rassicurante. «Io invece te lo chiedo», riprese Irving. «Voglio saperlo.» Mi limitai a scuotere la testa. «So una cosa che tu non sai», aggiunse. «E credi che voglia saperla anch'io?» Annuì tanto vigorosamente da scuotersi i capelli ricci. «Allora dimmela.» «Prima tu.» Ne avevo abbastanza di quel gioco. «Ti ho detto tutto quello che ho intenzione di dirti, Irving. Ho il file e lo guarderò. Tu puoi soltanto farmi risparmiare un po' di tempo, ma in questo momento un po' di tempo potrebbe essere molto importante per me.» «Uffa! Togli tutto il divertimento al mestiere dell'indomabile cronista!» Mi guardò col broncio, come se stesse per mettersi a piangere. «Dimmelo, Irving, se non vuoi che diventi violenta.» Fece una mezza risata, quindi forse non mi credette. «E va bene, va bene!» Con un gesto rapido e armonioso, da illusionista, mostrò quello che mi aveva nascosto fino a quel momento: una fotografia in bianco e nero che raffigurava una ragazza sulla ventina, bella, coi lunghi capelli castani. Evidentemente non si era messa in posa, anzi aveva l'espressione di chi non sa di essere fotografato. Comunque non la riconobbi. «Chi è?» «È stata la sua ragazza fino a cinque mesi fa, più o meno», rispose Irving. «Perciò è... handicappata?» Guardai di nuovo il bel viso sincero. Dalla fotografia non si capiva. «Wheelchair Wanda.» Lo fissai, accorgendomi di avere gli occhi sgranati. «Non dirai sul serio!» «Wheelchair Wanda batte in sedia a rotelle. È molto famosa presso un certo tipo di persone.» Una prostituta in sedia a rotelle? No, era troppo bizzarro. Scossi la testa. «Okay, dove la trovo?» «La mia collega e io vogliamo esserci», disse Irving. «Per questo hai tolto la foto dal file.»
Non ebbe neppure la buona creanza di fingersi imbarazzato. «Wanda non parlerà soltanto con te, Anita.» «Ha parlato con la tua amica cronista?» Corrugò la fronte, mentre la luce della conquista si spegneva nei suoi occhi. Ne intuii il motivo. «Rifiuta di parlare coi giornalisti, vero?» «Ha paura di Gaynor», replicò Irving. «Ne ha tutte le ragioni», approvai. «Perché dovrebbe parlare con te e non con noi?» «Per il fascino della mia personalità», risposi. «Piantala, Blake!» «Dimmi dove batte, Irving.» «All'inferno!» In un unico sorso rabbioso terminò quello che restava del suo drink. «Sta dalle parti di un club chiamato The Grey Cat.» «Il gatto grigio», come nel vecchio detto secondo cui al buio tutti i gatti sono bigi. Carino. «Dov'è il club?» domandai. Rispose Luther, che era tornato senza che me ne accorgessi. «A Tenderloin, angolo tra Twentieth e Grand. Ma se fossi al posto tuo non ci andrei da solo, Anita.» «So badare a me stessa.» «Sì, però non sembra. E sicuramente non vuoi sparare a qualche teppista idiota soltanto perché ha commesso un errore di valutazione. Portati dietro qualcuno che sembra cattivo e risparmiati questo disturbo.» Irving si strinse nelle spalle. «Neanch'io ci andrei da solo.» Detestavo ammetterlo, però avevano ragione. Sarò anche una terribile cacciatrice di vampiri, ma a prima vista non si nota. «Okay, chiamerò Charles. Sembra abbastanza tosto da far fuori i Green Bay Packers al completo, anche se ha un animo tanto gentile!» Luther rise, soffiando fumo. «Non lasciare che il vecchio Charlie veda troppe cose! Potrebbe svenire!» Svieni una volta in pubblico e nessuno ti permette più di dimenticarlo. «Farò in modo che Charles non corra rischi.» Posai sul bancone più soldi del dovuto; di solito Luther mi fornisce un sacco d'informazioni, anche se quella sera non lo aveva fatto. Sono sempre buone informazioni e, visto che collaboro con la polizia, mi fa lo sconto. In quel momento vidi Dead Dave. Faceva lo sbirro, prima che lo cacciassero perché era un non morto; i suoi capi non erano stati molto lungimiranti e lui era ancora incazzato per questo. Comunque gli piaceva essere
d'aiuto e mi forniva informazioni, che io a mia volta riferivo alla polizia, dopo un'accurata selezione. Quando Dead Dave uscì dal retro, mi girai verso i vetri oscurati per guardare fuori. Non si vedeva niente, ma se Dave era già in piedi voleva dire che ormai era notte. Merda! Per tornare alla macchina avrei dovuto camminare in mezzo ai vampiri. Be', se non altro avevo la pistola. Davvero rassicurante! Dave è alto e grosso, coi capelli castani molto corti; era già stempiato quand'era morto e, anche se i capelli non gli sono ricresciuti, da allora non ne ha più persi. Mi fece un sorriso abbastanza largo da lasciar lampeggiare le zanne. Una specie di fremito percorse i clienti, come se avessero toccato lo stesso nervo a ognuno, e i sussurri si diffusero come cerchi sull'acqua. Un vampiro! Cominciava lo spettacolo! Dave e io ci scambiammo una stretta di mano. La sua era calda, vigorosa e asciutta. A giudicare dal colorito roseo e dall'espressione allegra doveva essersi già nutrito, perciò mi chiesi chi fosse stato il donatore e se fosse stato consenziente. Probabilmente sì. Dave era un brav'uomo per essere un non morto. «Luther mi dice che passi spesso, ma sempre di giorno. È bello vederti nei bassifondi dopo il tramonto.» «A dire la verità intendevo lasciare il Distretto prima di notte.» Corrugò la fronte. «Sei armata?» Gli lasciai intravedere la Browning. Irving spalancò gli occhi. «Hai la pistola!» Non gridò, ma quasi. Il vocio si ridusse a un mormorio carico di attesa, una quiete sufficiente perché qualcuno potesse udire la nostra conversazione. Era proprio per quello che i clienti erano lì, cioè per ascoltare i vampiri e per confidare le loro pene ai non morti. «Annuncialo al mondo intero, Irving», suggerii sottovoce. Si strinse nelle spalle. «Scusa.» «Com'è che conosci il giornalista?» chiese Dave. «Qualche volta mi aiuta nelle mie ricerche.» «Ricerche? Fantastico!» Sorrise senza mostrare le zanne. È un trucchetto che s'impara dopo qualche anno. «Luther ti ha riferito il messaggio?» «Sì.» «Vuoi comportarti da sveglia o da tonta?» Dave mi piace, anche se va un po' troppo per le spicce. «Da tonta, probabilmente», ammisi.
«Non illuderti soltanto perché hai un rapporto speciale con lui. È pur sempre il Master e questa sarà una notizia dannatamente spiacevole per lui. Non cercare di fotterlo o ti fotterà lui.» «È proprio quello che sto cercando di evitare.» «Merda! Vuoi dire... No, non ti vuole soltanto perché sei una gran bellezza!» Era piacevole sapere che mi considerava una gran bellezza, o almeno credo. «Come no», replicai. Irving stava praticamente rimbalzando sullo sgabello. «Che diavolo sta succedendo, Anita?» Ottima domanda. «Sono affari miei, non tuoi.» «Anita...» «Non seccarmi, Irving. Dico sul serio.» «Non seccarmi? Lo diceva mia nonna!» Lo guardai dritto negli occhi e intimai, lentamente, con voce dura: «Non rompere il cazzo. Va meglio così?» Sollevò le mani in un gesto di rinuncia. «Stavo cercando soltanto di fare il mio lavoro.» «Be', vallo a fare da un'altra parte.» Scivolai giù dallo sgabello. «Si è sparsa la voce che dobbiamo trovarti, Anita», riprese Dave. «Qualche altro vampiro potrebbe diventare troppo zelante.» «Vuoi dire che qualcuno potrebbe cercare di rapirmi?» «Sì.» «Sono armata, con tanto di crocifisso e tutto il resto.» «Vuoi che ti accompagni alla macchina?» chiese Dave. «Grazie, Dave, non lo dimenticherò. Ma sono una ragazza adulta, ormai.» A molti vampiri non piaceva che Dave passasse informazioni al nemico, e io sono la Sterminatrice. Se un vampiro passa il segno chiamano me. Non c'è niente di simile all'ergastolo per i vampiri. È pena di morte o niente. Il fatto è che non c'è prigione che possa trattenerli. In California ci provarono, ma un vampiro Master riuscì a liberarsi e in una notte di sangue massacrò venticinque persone, non per nutrirsi, soltanto per ammazzare. Credo che la detenzione lo avesse fatto incazzare. C'erano crocifissi sulle porte e addosso alle guardie, ma i crocifissi non funzionano se non ci si crede davvero e sono ancora meno efficaci se un Master vi convince a toglierveli.
Insomma, per i vampiri io sono l'equivalente della sedia elettrica. Ecco perché, sorpresa sorpresa, non hanno molta simpatia per me. «Ci sarò io con lei», intervenne Irving, prima di posare il denaro sul bancone. Probabilmente non voleva perdere di vista il grosso file che tenevo sottobraccio. «Così dovrà proteggere anche te», commentò Dave. Irving fece per ribattere, ma subito ci ripensò. Avrebbe potuto rivelare di essere un licantropo, se non avesse voluto evitare che la cosa diventasse di dominio pubblico. Si dava un gran da fare per sembrare umano. «Sicura che andrà tutto bene?» chiese Dave, offrendomi un'ultima occasione di farmi scortare alla macchina da un vampiro. In pratica mi stava offrendo protezione dal Master, ma purtroppo era morto da meno di dieci anni, quindi non era all'altezza. «È bello sapere che ti preoccupi per me, Dave.» «Forza, vattene», esortò. «Guardati le spalle, ragazza», aggiunse Luther. Feci un gran sorriso a tutti e due prima di girarmi e uscire dal locale quasi silenzioso. I clienti non avevano di sicuro sentito granché della conversazione, sempre ammesso che avessero ascoltato qualcosa, però mi sentivo addosso gli sguardi di tutti. Resistetti alla tentazione di girarmi di scatto e fare «Bù!» ma sarei stata pronta a scommettere che, se lo avessi fatto, qualcuno si sarebbe messo a strillare. È la cicatrice a forma di crocifisso che ho sul braccio. Soltanto un vampiro potrebbe averla, giusto? Un crocifisso premuto su carne impura. Nel mio caso invece si era trattato di un ferro da marchio fabbricato appositamente per ordine di un Master ormai defunto. Era buffo, a pensarci bene. O forse era soltanto Dave, e nessuno si era accorto della cicatrice. Forse ero soltanto troppo sensibile. Diventi amica di un simpatico vampiro rispettoso delle leggi e la gente subito s'insospettisce. Hai qualche strana cicatrice e la gente si chiede se sei umana. Ma tutto questo è okay. Il sospetto è utile perché mantiene in vita. 13 L'oscurità soffocante mi si strinse addosso come un pugno caldo e appiccicoso. Un lampione stradale creava sul marciapiede una specie di pozza di luce fusa. Imitazioni di quelli a gas di fine secolo, tutti i lampioni s'innalzavano neri e armoniosi, ma con qualcosa di fittizio, come un co-
stume di Halloween. Il cielo notturno incombeva sugli edifici di mattoni, ma i lampioni tenevano alla larga il buio. Era come una tenda di tenebra sostenuta da pali di luce. L'oscurità non sembrava una realtà, ma soltanto una sensazione. M'incamminai verso il parcheggio sotterraneo vicino a Fifth Street, dove avevo lasciato la macchina; parcheggiare a Riverfront è pressoché impossibile, e i turisti non fanno altro che aggravare il problema. Senza contare che guidare sul selciato autentico, fatto per i carri e per i cavalli, non per le automobili, è uno schifo; allo stesso tempo, però, ha il suo fascino. Mentre io ero quasi silenziosa con le mie Nike Airs, Irving mi seguiva camminando rumorosamente sul selciato con le sue scarpe dalle suole di cuoio. Era come un cucciolo chiassoso, a differenza della maggior parte dei licantropi che ho conosciuto, sempre furtivi. Sarà anche un lupo mannaro, però assomiglia di più a un cane, o meglio a un cagnone allegro e giocherellone. Incrociammo coppie o gruppetti di amici che chiacchieravano e ridevano con voci troppo acute. Erano lì per vedere i succhiasangue dal vivo. O forse sarebbe meglio dire dal morto? Erano tutti turisti, curiosi, guardoni. Avrei scommesso una bella sommetta che io avevo visto più non morti di chiunque di loro, e non riuscivo proprio a capire che cosa ci fosse di tanto affascinante. Ormai era notte, Dolph e gli altri mi stavano aspettando al cimitero Burrell e io non potevo assolutamente mancare. Cosa dovevo fare con Irving e col file su Gaynor? A volte la mia vita è troppo piena. Un'ombra si staccò dal buio degli edifici senza che riuscissi a capire se fosse stata là in agguato o se fosse semplicemente apparsa dal nulla. Magia. Mi bloccai a fissarla, come una lepre abbagliata dai fari di una macchina. «Che succede, Blake?» domandò Irving. Gli consegnai il file e lui lo prese, perplesso. Volevo avere le mani libere, nel caso mi si presentasse la necessità di sfoderare la pistola, anche se probabilmente non sarebbe successo. Probabilmente. Il vampiro Jean-Claude, Master della Città, ci venne incontro con l'andatura agile e sinuosa di un danzatore o di un felino, un concentrato di potenza e di grazia che attendeva di esplodere in violenza. Non è molto alto, più o meno un metro e ottanta. I capelli morbidi, ondulati e assolutamente neri cadono a incorniciargli il volto; gli occhi, se si ha il coraggio di guardarli, sono di un blu così scuro da sembrare quasi ne-
ro. Sono foschi gioielli sfavillanti. Portava una camicia bianca e luccicante aperta sul petto pallido, con un laccio sciolto al colletto e lunghe maniche larghe dai polsini a tre bottoni. Era così ampia che non gli ondeggiava intorno come un mantello soltanto perché era infilata nei jeans neri e aderenti. Si fermò a meno di due metri da noi, abbastanza vicino perché si vedesse la cicatrice a forma di crocifisso che ha sul torace. È l'unica cosa che guasta la perfezione del suo corpo, o almeno quello che ho visto del suo corpo. La mia cicatrice è soltanto il risultato di uno scherzo di pessimo gusto, la sua è la conseguenza dell'estremo tentativo di sfuggire alla morte che voleva infliggergli un povero bastardo. Mi chiesi se il povero bastardo fosse riuscito a cavarsela e se Jean-Claude me lo avrebbe mai detto, ammesso che decidessi di domandarglielo. Forse non volevo davvero conoscere la risposta. «Salve, Jean-Claude.» «Buonasera, ma petite», replicò lui, con una voce morbida e carezzevole come folta pelliccia, vagamente oscena, quasi che soltanto parlargli fosse qualcosa di sporco. Forse lo era davvero. «Non chiamarmi ma petite», ammonii. Abbozzò un sorriso senza lasciar intravedere le zanne. «Come preferisci.» Poi si volse a Irving, che subito distolse lo sguardo per non commettere l'errore di guardarlo negli occhi. Non bisogna mai guardare i vampiri negli occhi. Mai. Allora perché io lo stavo facendo impunemente? Già, perché? «Chi è il tuo amico?» L'ultima parola suonò molto dolce, in qualche modo minacciosa. «Irving Griswold, un cronista del Post-Dispatch. Mi sta aiutando in una piccola indagine.» «Ah...» commentò. Girò intorno a Irving come per esaminare una merce in vendita. Intanto Irving lo sorvegliò con alcune nervose occhiatine, poi guardò me. «Che sta succedendo?» «Sì», disse il vampiro. «Che cosa sta succedendo, Irving?» «Lascialo in pace, Jean-Claude.» «Perché non sei venuta a trovarmi, mia piccola risvegliante?» Piccola risvegliante non era molto meglio di ma petite, però potevo sopportarlo. «Ho avuto da fare.»
L'espressione che gli passò sul viso fu quasi di collera. Non volevo che si arrabbiasse davvero con me, perciò aggiunsi: «Però avevo intenzione di farlo». «Quando?» «Domani notte.» «Stanotte.» Non fu un suggerimento. «Non posso.» «Sì, che puoi, ma petite.» La sua voce fu come un vento caldo nella mia testa. «Sei maledettamente esigente», osservai. Allora rise. Una risata gradevole e risonante, come un profumo costoso che indugia nell'aria quando chi lo porta se n'è andato; risuonava nelle orecchie come una musica lontana. Non avevo mai incontrato nessun Master con una voce altrettanto bella. «E tu sei così esasperante», ribatté, in tono ancora vagamente ilare. «Cosa devo fare con te?» «Lasciarmi in pace», risposi, con assoluta serietà. Era uno dei miei più grossi desideri. Il suo viso divenne assolutamente inespressivo. Sembrava fosse stato premuto un interruttore: acceso, allegro; spento, impenetrabile. «Troppi miei seguaci sanno che sei la mia serva umana, ma petite. Sottometterti alla mia volontà è una delle cose che devo fare per consolidare il mio potere.» Sembrava quasi che se ne rammaricasse. Un grosso aiuto per me. «Sottomettermi alla tua volontà? Ma che stai dicendo?» Cominciavo ad avere una paura tale che, se non ne fossi morta, mi sarebbe venuta un'ulcera. «Sei la mia serva umana. Devi cominciare a comportarti come tale.» «Non sono la tua serva.» «Sì, che lo sei, ma petite.» «Maledizione, Jean-Claude! Lasciami in pace!» D'improvviso mi fu accanto, senza che percepissi il suo movimento. Era riuscito a offuscarmi la mente in meno di un batter di ciglia. Cercai d'indietreggiare, ma lui, con una mano pallida e snella, mi afferrò per il braccio destro, poco sopra il gomito. Col cuore in gola, rimpiangendo di avere cercato di allontanarmi anziché tirar fuori la pistola, sperai di poter sopravvivere all'errore. «Credevo che due dei tuoi marchi non bastassero a permetterti di controllare la mia mente», dissi con voce pacata. Almeno sarei morta con co-
raggio. «Non posso soggiogarti con lo sguardo, però posso obnubilarti la mente, anche se è un po' più difficile.» Mi trattenne per il braccio senza farmi male, e io non cercai di sottrarmi alla presa. Sapevo che avrebbe potuto stritolarmelo senza versare una sola goccia di sudore, o anche strapparmelo dall'articolazione, o magari fare sollevamento pesi con una Toyota. Non ero in grado di lottare con Tommy, figurarsi con Jean-Claude! «È il nuovo Master della Città, vero?» interloquì Irving. Ci eravamo quasi dimenticati di lui, e probabilmente sarebbe stato molto meglio per lui se lo avessimo fatto. Jean-Claude rafforzò lievemente la stretta intorno al mio braccio destro e intanto si volse a guardare Irving. «Tu devi essere il cronista che sta cercando d'intervistarmi.» «Sono io.» Irving sembrò appena un po' nervoso, non molto, soltanto una lieve tensione nella voce. A parte quello, si mostrava coraggioso e risoluto. Bravo, Irving! «Forse, dopo aver parlato con questa bella ragazza, ti concederò un'intervista.» «Davvero?» La sua voce non celò affatto lo stupore. «Sarebbe magnifico! Accetto tutte le tue condizioni...» «Silenzio!» L'ordine galleggiò nell'aria, e Irving tacque come per effetto di un incantesimo. «Irving, tutto bene?» Buffo da parte mia chiederlo; dopotutto ero io nelle mani del vampiro. «Sì», rispose Irving, con voce soffocata dalla paura. «È solo che non ho mai sentito nessuna presenza come la sua.» Lanciai un'occhiata a Jean-Claude. «In effetti è un tipo abbastanza unico.» Jean-Claude volse di nuovo la sua attenzione a me. Ottimo! «Scherzi sempre, ma petite.» Lo fissai nei suoi begli occhi, che erano soltanto occhi perché lui mi aveva conferito il potere di resistervi. «È un modo per passare il tempo. Che cosa vuoi, Jean-Claude?» «Sei molto coraggiosa, persino adesso.» «Non hai certo intenzione di farmi fuori in mezzo alla strada, davanti a un sacco di testimoni. Sei il nuovo Master, ma sei anche un uomo d'affari e un vampiro che rispetta le leggi. Questo t'impone di non superare certi limiti.»
«Soltanto in pubblico», precisò, così sottovoce da essere udito esclusivamente da me. «Benissimo. Quindi siamo d'accordo che non intendi ricorrere alla violenza, qui e adesso.» Continuai a fissarlo. «Perciò piantala di essere melodrammatico e dimmi che cosa diavolo vuoi.» Sorrise con un lieve movimento delle labbra, poi mi lasciò il braccio, indietreggiando. «Naturalmente anche tu eviterai di spararmi in mezzo alla strada senza provocazione.» Personalmente ritenevo di essere stata provocata a sufficienza, ma niente che potesse giustificarmi agli occhi della polizia. «È vero, non voglio essere arrestata con l'accusa di omicidio.» Il suo sorriso si allargò, sempre senza mostrare le zanne. In questo era il migliore di tutti i vampiri vivi che avessi mai conosciuto. O forse vampiro vivo è un ossimoro? Non ne sono più tanto sicura. «In conclusione, non abbiamo intenzione di aggredirci a vicenda in pubblico», dichiarò. «Probabilmente», convenni. «Insomma, che cosa vuoi? Sto facendo tardi a un appuntamento.» «Che cosa devi fare stanotte? Resuscitare qualche zombie o uccidere qualche vampiro?» «Nessuna delle due cose», risposi. Mi guardò, sperando che gli dicessi qualcosa di più. Non lo accontentai. Alla fine scrollò elegantemente le spalle. «Tu sei la mia serva umana, Anita.» Aveva usato il mio vero nome, perciò capii di essere nei guai. «No, non lo sono», replicai. Emise un lungo sospiro. «Porti due dei miei marchi.» «Non per mia scelta.» «Saresti morta, se io non avessi condiviso il mio potere con te.» «Non dire stronzate sul fatto che mi hai salvato la vita! Mi hai costretta ad accettare due dei tuoi marchi, senza chiedere il mio consenso e senza spiegarmene il significato. Col primo marchio mi hai salvato la vita? Grande! Col secondo però hai salvato la pelle a te stesso, e io non ho avuto scelta nessuna delle due volte.» «Altri due marchi e avrai l'immortalità. Non invecchierai, perché io non invecchierò. Resterai viva e umana, potrai continuare a indossare il tuo crocifisso e a entrare in chiesa. Non comprometterai la tua anima. Perché ti opponi a me?»
«Come sai che cosa potrebbe compromettere la mia anima? Non hai più la tua anima immortale: l'hai barattata con l'eternità terrena. Ma io so che anche i vampiri possono morire, Jean-Claude. Che cosa ti succederà quando morirai? Dove andrai? Sparirai e basta? No, andrai all'inferno, come meriti.» «E credi che ci verrai con me, visto che sei la mia serva umana?» «Non lo so e non voglio scoprirlo.» «Opponendoti a me mi fai sembrare debole, ma petite, e io non posso permetterlo. In un modo o nell'altro dobbiamo risolvere questo problema.» «Lasciami in pace e basta.» «Non posso. Sei la mia serva umana e devi cominciare a comportarti come tale.» «Non insistere, Jean-Claude.» «Altrimenti cosa farai? Mi ucciderai? Credi forse di esserne capace?» Fissai il suo bel viso. «Sì.» «Sento che mi desideri, ma petite, come io desidero te.» Cosa avrei potuto dire? «È soltanto un po' di lussuria, Jean-Claude, niente di speciale.» Anche nel dirlo sapevo che era una balla. «No, ma petite, sono molto di più per te.» Avevamo attirato una folla di curiosi, che però si teneva a distanza di sicurezza. «Vuoi davvero parlarne in mezzo alla strada?» Sospirò profondamente. «È vero, ma petite, mi fai dimenticare quello che sono.» Grande! «Sono davvero in ritardo, Jean-Claude. La polizia mi sta aspettando.» «Però dobbiamo finire questa discussione, ma petite.» Aveva ragione. Avevo cercato d'ignorarlo, ma non è facile ignorare un Master. «Domani notte», dissi. «Dove?» domandò. Educato da parte sua non ordinarmi di andare nella sua tana. Riflettendo su quale avrebbe potuto essere il posto più adatto, ricordai che volevo farmi accompagnare a Tenderloin da Charles, che avrebbe dovuto verificare le condizioni di lavoro degli zombie in un club di recente apertura. Be', sarebbe stato un posto buono come un altro. «Conosci il Laughing Corpse?» Sorrise, scoprendo a malapena la punta delle zanne e facendo sospirare una donna tra la piccola folla che ci osservava. «Sì.» «Allora ci vediamo là, diciamo alle undici.»
«Con piacere.» Le sue parole mi accarezzarono come una promessa. Merda! «Ti aspetterò domani notte nel mio ufficio.» «Un momento! Che significa nel tuo ufficio?» Avevo un brutto presentimento. Le sue zanne scintillarono alla luce dei lampioni. «Sono il proprietario del Laughing Corpse. Credevo lo sapessi.» «Un accidente!» «Allora ti aspetto.» Ero stata io a scegliere il posto, quindi non potevo fare marcia indietro, cazzo! «Andiamo, Irving.» «No, lascia che il giornalista rimanga. Non ha ancora avuto la sua intervista.» «Per favore, Jean-Claude, lascialo in pace.» «Voglio soltanto soddisfare i suoi desideri.» Non mi piacque per niente il modo in cui lo disse. «Che cosa stai tramando?» «Io, ma petite? Perché dovrei tramare qualcosa?» «Anita, voglio restare», intervenne Irving. Mi girai a guardarlo. «Non sai che cosa stai dicendo!» «Sono un cronista. Sto facendo il mio lavoro.» «Giuramelo, Jean-Claude. Giurami che non gli farai del male.» «Hai la mia parola», dichiarò. «Che non gli farai del male in nessun modo.» «Che non gli farò del male in nessun modo.» Il suo viso era privo di espressione, come se tutti i suoi sorrisi di poco prima fossero stati pure illusioni. Aveva l'immobilità tipica di chi è morto da molto tempo. Bello da guardare, ma privo di vita come un quadro. Rabbrividii guardando nei suoi occhi vacui. «Irving, sei sicuro di voler restare?» «Sì. Voglio l'intervista.» Scossi la testa. «Sei uno sciocco.» «Sono un bravo reporter», ribatté. «Sei comunque uno sciocco.» «So badare a me stesso, Anita.» Ci scrutammo a vicenda per un lungo momento. «Benissimo, allora, divertiti. Posso avere il file?» Abbassò lo sguardo al file che teneva sottobraccio, come se lo avesse dimenticato. «Riportamelo domattina, altrimenti a Madeline verrà un col-
po.» «Sicuro, nessun problema.» Recuperai il malloppo di documenti e lo sistemai sotto il braccio sinistro. Mi avrebbe intralciato se avessi dovuto estrarre la pistola, ma non si può certo dire che la vita sia perfetta. Così avevo informazioni su Gaynor e il nome della sua ex ragazza. Wanda ce l'aveva con lui; forse avrebbe accettato di parlarmi e magari perfino di aiutarmi, o forse mi avrebbe semplicemente detto di andare all'inferno. Notai che Jean-Claude continuava a osservarmi con occhi immobili. Ne avevo avuto abbastanza per una sola notte. «Ci vediamo domani», dissi, e mi allontanai. Un turista che faceva parte di un gruppetto puntò la sua macchina fotografica su di me. «Se mi scatti una foto, ti strappo la macchina e la distruggo», minacciai. Il turista abbassò dubbiosamente l'apparecchio. «Era soltanto una foto!» «Hai già visto abbastanza», ribattei. «Andatevene adesso. Lo spettacolo è finito.» I turisti si dissolsero come fumo al vento, e io proseguii lungo la strada verso il parcheggio. Nel voltarmi, scoprii che i turisti si erano radunati di nuovo intorno a Jean-Claude e Irving. Tutto sommato avevano ragione loro, lo spettacolo non era ancora finito. In ogni caso, Irving era un ragazzo cresciuto e voleva un'intervista. Chi ero io per giocare a fare la balia di un lupo mannaro adulto? Jean-Claude avrebbe scoperto il segreto di Irving? E, in tal caso, quali sarebbero state le conseguenze? Non era un problema mio. Il mio problema era composto da Harold Gaynor, Dominga Salvador e un mostro che divorava i bravi cittadini di St. Louis. Che Irving se la sbrigasse da solo coi suoi problemi. Io ne avevo abbastanza di miei. 14 Il cielo notturno era una tazza di liquido nero; le stelle simili a diamanti minuscoli diffondevano una luce dura e fredda, mentre la luna era un luminoso mosaico di grigi e di argento dorato. La città fa dimenticare quanto sia buia la notte e luminosa la luna, quanto siano numerose le stelle. Il cimitero Burrell, privo di lampioni, era illuminato soltanto dai lontani chiarori gialli delle finestre di una casa. In cima alla collina, in tuta e Nike, sudavo.
Il cadavere del bambino era stato trasportato alla morgue, dov'era in attesa delle attenzioni del medico legale. Io avevo finito e non sarei più stata costretta a rivederlo, se non in sogno. Accanto a me c'era Dolph, muto; osservava l'erba alta e le lapidi decrepite, in attesa che io facessi la mia magia e tirassi fuori il coniglio dal cappello. Il coniglio avrebbe potuto materializzarsi, e in tal caso l'avremmo distrutto; oppure avremmo potuto trovare la sua tana e scoprire qualcosa. In ogni caso, sarebbe stato sempre di più di quello che avevamo. Gli sterminatori erano pochi passi dietro di noi. Un uomo e una donna. Lui era grasso, basso, coi capelli grigi molto corti. Sembrava un allenatore di football in pensione, però coccolava il lanciafiamme che aveva in spalla come se fosse vivo, accarezzandolo con le grosse mani. La donna era giovane, sui vent'anni, poco più alta di me, minuta. I sottili capelli biondi erano raccolti in coda di cavallo e qualche ciocca le sventolava sul viso mentre con gli occhi grandi scrutava l'erba alta, come un artigliere alla ricerca di un bersaglio. Speravo che non avesse il grilletto facile perché, anche se non volevo essere divorata da uno zombie assassino, non volevo nemmeno essere fusa dal napalm. Bruciata viva o divorata viva? Cos'altro offre il menu? L'erba scricchiolava e sussurrava come le foglie secche in autunno. Se avessimo usato i lanciafiamme sul prato, si sarebbe scatenato un incendio; e allora saremmo stati fortunati se fossimo riusciti a cavarcela scappando. D'altra parte il fuoco è l'unica cosa che possa fermare uno zombie, sempre ammesso che avessimo a che fare con uno zombie e non con qualcosa di completamente diverso. Scossi la testa e cominciai a camminare. I dubbi non portano da nessuna parte, quindi tanto vale comportarsi come se si sapesse quello che si sta facendo. È una delle mie regole di vita. Ero sicura che la Señora Salvador conoscesse un rito o un sacrificio specifico per trovare la tomba di uno zombie. Doveva rispettare più regole di me, ma naturalmente era libera d'intrappolare le anime nei cadaveri putrescenti. Io non avevo mai odiato nessuno al punto di volergli fare una cosa del genere. Potevo uccidere, certo, ma intrappolare un'anima per obbligarla ad aspettare coscientemente la decomposizione del corpo... No, quella non era soltanto crudeltà, era qualcosa di molto peggiore. Pura malvagità. Bisognava che qualcuno la fermasse, e soltanto la morte poteva riuscirci. Sospirai. A ogni notte il suo problema. I passi di Dolph echeggiavano i miei, disturbandomi. Mi girai per lancia-
re un'occhiata ai due sterminatori. Uccidevano qualsiasi cosa, dalle termiti ai necrofagi, ma i necrofagi di solito sono vigliacchi, mentre il mostro cui stavamo dando la caccia non era niente del genere. Cercai di sgombrare la mente per iniziare la ricerca, ma non riuscii a sentire altro che il rumore dei passi, la paura della donna, e tutto ciò turbò la mia concentrazione. Mi fermai. «Dolph, mi serve più spazio.» «Che vuoi dire?» «State un po' più indietro, altrimenti non riesco a concentrarmi.» «Rischieremmo di essere troppo lontani per intervenire.» «Se lo zombie dovesse sbucare dal sottosuolo e saltarmi addosso...» Mi strinsi nelle spalle. «Voi che cosa fareste? Lo brucereste col napalm insieme con me?» «Hai detto tu che l'unica arma è il fuoco», osservò. «Infatti, è così. Ma se lo zombie dovesse aggredire qualcuno, chiunque sia, gli sterminatori non dovrebbero friggere anche la vittima. Informali.» «Vuoi dire che non potremmo usare il napalm, se lo zombie aggredisse uno di noi?» chiese. «Esatto!» «Avresti potuto dirlo prima.» «Mi è venuto in mente soltanto adesso.» «Grande», commentò. «Ho sbagliato.» Scrollai le spalle. «Vado avanti io. Voi state indietro e lasciatemi fare il mio lavoro.» Mi avvicinai a lui per sussurrare: «E tieni d'occhio la donna. Sembra abbastanza spaventata da mettersi a lanciar fiamme alle ombre». «Sono sterminatori, Anita, non poliziotti o cacciatori di vampiri.» «Stanotte le nostre vite dipendono da loro, perciò tienili d'occhio. Okay?» Annuì e girò la testa per lanciare un'occhiata ai due sterminatori. L'uomo sorrise e annuì a sua volta. La donna si limitò a fissarlo a occhi spalancati. Riuscivo quasi a fiutare la sua paura. Comunque, aveva tutto il diritto di essere spaventata. Perché mi preoccupavo tanto? Forse perché lei e io eravamo le uniche donne presenti e dovevamo dimostrarci migliori degli uomini, cioè più coraggiose, più svelte, più tutto quanto. È una regola, quando si gioca coi maschioni. Mi allontanai da sola e aspettai finché l'unica cosa che riuscii a sentire non fu il morbido sussurro dell'erba secca. Sembrava che stesse cercando
di dirmi qualcosa con voce stridula e frenetica; sembrava che fosse spaventata. Era una stupidaggine. L'erba non sentiva un cazzo. Io invece sì ed ero coperta di sudore su ogni centimetro quadrato di pelle. Era forse lì, davvero, nascosto in agguato in mezzo all'erba, il mostro che aveva ridotto un'intera famiglia a carne macellata? No, gli zombie non sono abbastanza intelligenti per tendere agguati. Eppure il mostro con cui avevamo a che fare lo era tanto da nascondersi e non farsi prendere dalla polizia. Furbo per essere un cadavere. Troppo furbo. Forse non era affatto uno zombie, dopotutto. Finalmente avevo trovato qualcosa che mi spaventava più dei vampiri. Col fatto che sono molto cristiana e tutto il resto, non ho una gran paura della morte in sé, ma piuttosto di come si può morire; essere mangiata viva è uno dei tre modi che mi piacciono meno. Chi avrebbe mai detto che avrei finito per avere paura di uno zombie? Era una bella ironia, però avrei potuto ridere più tardi, quando mi fosse tornata in bocca la dannata saliva. C'era quell'atmosfera di quiete carica d'attesa che è presente in tutti i cimiteri, come se i morti trattenessero il respiro tutti insieme e aspettassero. Ma cosa? La resurrezione? Può darsi. Comunque ho a che fare coi morti da troppo tempo per credere che esista un'unica risposta. I morti sono come i vivi, cioè ognuno si comporta diversamente dagli altri. Molta gente muore e va in paradiso oppure all'inferno, questo è un fatto. Ma per pochi, quale che sia la ragione, non funziona così. Spettri, spiriti tormentati, violenza, malvagità o semplice confusione possono intrappolare uno spirito sulla terra. Non sto dicendo che resta intrappolata l'anima perché non credo che sia così, però una specie di memoria dell'anima, l'essenza, permane. Mi aspettavo dunque che uno spettro spuntasse dall'erba e mi aggredisse strillando? No, non avevo mai incontrato uno spettro capace d'infliggere veri danni fisici. Se ne è capace, non è uno spettro. Magari è un demone o lo spirito di uno stregone. Magia nera, ma non uno spettro. Era un pensiero quasi rassicurante. Un dislivello improvviso mi fece perdere l'equilibrio. Mi accorsi di stare su una tomba senza lapide e subito sentii una specie di formicolio lungo le gambe, il sussurro dell'elettricità spettrale. Mi ritrassi di scatto e caddi a sedere. «Anita!» urlò Dolph. «Tutto bene?» «Benissimo!» gridai a mia volta, in direzione della voce; da laggiù, in mezzo all'erba alta, non riuscivo a vedere niente. Mi rialzai con prudenza,
per evitare d'inciampare di nuovo nel terreno smosso della tomba senza lapide. Chiunque fosse il defunto sottoterra, sicuramente non era felice. Il luogo non era infestato, però era qualcosa che ci somigliava, un punto caldo. Probabilmente si trattava di uno spettro antico che con l'andar del tempo si era in gran parte dissolto; gli spettri si consumano come vecchi indumenti, poco a poco, e alla fine si disfano e se ne vanno, ovunque se ne vadano i vecchi spettri. Anche la tomba sarebbe scomparsa, probabilmente prima della mia dipartita, sempre che fossi riuscita a sfuggire ancora per qualche anno agli zombie assassini, nonché ai vampiri e ai sicari umani. Al diavolo! Il punto caldo sarebbe durato probabilmente più di me! Mi girai, scorgendo Dolph e gli sterminatori a una ventina di metri di distanza. Non sono maledettamente tanti, venti metri? Avevo detto loro di restare un po' indietro, non di abbandonarmi! Insomma, sono incontentabile. Se gli avessi detto di avvicinarsi, si sarebbero arrabbiati? Probabilmente. Così m'incamminai verso di loro cercando di non calpestare altre tombe, sebbene fosse difficile, visto che quasi tutte le lapidi erano nascoste dall'erba alta. Per giunta c'erano anche parecchie tombe abbandonate, senza lapide. Stavo rischiando di vagare alla cieca per tutta la dannata notte. Credevo davvero di potermi imbattere per caso nella tomba giusta? Sì, la speranza non muore mai, soprattutto quando l'alternativa non è molto umana. I vampiri e gli zombie sono stati umani e quasi tutti i licantropi lo sono, all'inizio, a parte i rari individui che sono vittime di qualche maledizione. Insomma, tutti i mostri sono normali prima di diventare tali, tranne me. Per me resuscitare i morti non è stata una scelta, come se si trattasse di un lavoro qualsiasi. Non è che un giorno ho deciso che volevo resuscitare i morti per vivere. Non è stato affatto così semplice. Ho sempre avuto un'affinità coi morti, e non mi riferisco ai morti recenti perché non m'immischio con le anime. Però, quando l'anima se ne va, io lo sento. Ridete pure. È la verità. Da bambina, come molte bambine, avevo una cagnolina e, come capita a molte bambine, la cagnolina morì. Io avevo tredici anni. Seppellimmo Jenny in cortile. Una settimana dopo mi svegliai e me la trovai accucciata accanto, con la folta pelliccia nera tutta incrostata di terra. I suoi occhi seguivano ogni mia mossa, proprio come aveva fatto da viva. Per un attimo ebbi la folle illusione che fosse ancora viva. Fu uno sba-
glio, ma adesso so riconoscere un morto quando ne vedo uno. Lo sento e posso richiamarlo dalla tomba. Chissà cosa avrebbe pensato Dominga Salvador di questa storia. Risvegliare un animale come zombie. Sconvolgente. Resuscitare un defunto per sbaglio. Terribile, disgustoso. La mia matrigna, Judith, non si è mai ripresa dallo shock; molto raramente dice alla gente cosa faccio per vivere. Papà? Be', anche papà fa finta di niente. Ho cercato di farlo anch'io, ma con scarsi risultati. Vi risparmio i dettagli, ma significa qualcosa per voi il termine «incidente mortale»? Per Judith, sì. Sembravo una specie di versione da incubo del Pifferaio Magico. Alla fine mio padre mi portò a conoscere la mia nonna materna, che non fa paura come Dominga Salvador, però è... interessante. Nonna Flores fu d'accordo con papà. Non avrei dovuto imparare il vudù, ma soltanto il modo di controllarmi abbastanza per far cessare i problemi. «Insegnale soltanto a controllarlo», disse papà. Lei lo fece, io imparai, papà mi riportò a casa e nessuno ne parlò mai più, almeno in mia presenza. Mi sono sempre chiesta cosa abbia detto la mia cara matrigna nell'intimità. Qualunque cosa fosse, papà non ne era contento. Ma che diavolo! Non lo ero neanch'io. Bert mi reclutò quand'ero al college. Non ho mai saputo come mi avesse scoperta. All'inizio rifiutai, ma lui mi sventolò sotto il naso un sacco di soldi. Fu forse una ribellione contro le aspettative dei miei genitori? Oppure mi resi finalmente conto che le opportunità d'impiego sono maledettamente scarse per i laureati in biologia soprannaturale, con specializzazione in creature leggendarie? Questa precisazione nel curriculum fu davvero utile. Era come una laurea in greco antico o in poesia romantica. Interessante, bello, ma poi che cosa diavolo ci fai? Avevo intenzione di dedicarmi all'insegnamento, ma arrivò Bert a rivelarmi il modo di trasformare il mio talento naturale in un lavoro. Se non altro posso dire che uso la mia laurea tutti i giorni! Non ho mai nessuna perplessità su come sono arrivata a fare quello che faccio. Non c'è nessun mistero. È un fatto biologico. Ferma in mezzo al cimitero, sospirai profondamente e col dorso della mano mi asciugai un rivolo di sudore dal viso. Avevo freddo anche se stavo sudando come un maiale. Paura, non dell'uomo nero, ma di quello che stavo per fare. Se fosse un muscolo lo muoverei, se fosse un pensiero lo formulerei, se
fosse una parola magica la pronuncerei. Invece non è niente di tutto ciò. È come se la mia pelle si raffreddasse sotto i vestiti e le mie terminazioni nervose toccassero il vento. Per questo avevo la pelle fredda anche in quella calda notte di agosto, pur essendo fradicia di sudore. È quasi come se una brezza fredda emanasse dalla mia pelle, ma non è un vento, nessuno può sentirlo, non devasta gli ambienti come in un horror hollywoodiano. Non è niente di appariscente. È una cosa tranquilla, privata; è una cosa solo mia. Le fredde dita del mio «vento» si protesero fino a permettermi di frugare le tombe in un raggio che andava dai tre ai quattro metri e mezzo. Quando mi muovevo il cerchio si muoveva con me, consentendomi di cercare ovunque. Che sensazione si prova a frugare il suolo compatto alla ricerca di cadaveri? Niente di umano. Sono come dita fantasma che setacciano il sottosuolo alla ricerca dei morti. Naturalmente non è proprio così, è soltanto un'approssimazione. La bara più vicina era stata schiantata dall'acqua, anni addietro. Frantumi di legno e di ossa, niente d'intero. Legno sporco e ossa pulite, morte. Il punto caldo avvampò, e io provai una sensazione di bruciore senza riuscire a percepire il contenuto della bara. Custodiva i suoi segreti e non valeva la pena insistere. C'era una forza vitale che sarebbe rimasta intrappolata nella tomba finché non si fosse completamente dissolta. Capivo la sua rabbia. Avanzai lentamente toccando le ossa, le bare intatte, i resti degli indumenti nelle sepolture più recenti. Però era un cimitero antico e non c'erano più cadaveri in decomposizione, la morte era giunta alla sua fase pulita. Qualcosa mi afferrò una caviglia facendomi trasalire; proseguii senza abbassare lo sguardo. Non bisogna mai guardare giù, è una regola. Intravidi per un attimo alle mie spalle una specie di nebbia pallida con occhi sfolgoranti: uno spettro, un autentico spettro. Avevo calpestato la sua tomba e lui mi aveva fatto capire che non gli era piaciuto, afferrandomi per la caviglia. Niente male. Ma basta ignorarle e le mani spettrali svaniscono. Se vi si presta attenzione, si fornisce loro sostanza e si rischia di finire nella merda fino al collo. Ecco un importante suggerimento di difesa che vale nella maggior parte dei casi quando si ha a che fare col mondo spirituale: se lo ignori, ha meno potere. Non funziona con demoni e affini. Fanno eccezione alla regola anche i vampiri, gli zombie, i necrofagi, i licantropi, le streghe... Al diavolo! Ignorarli funziona soltanto con gli spettri! Però con loro funziona davvero.
Mani fantasma mi tirarono per i pantaloni della tuta. Dita scheletriche mi si arrampicarono su per le gambe, come se volessero sfruttarmi per uscire dalla tomba. Cazzo! Continuai a camminare, col cuore in gola. Ignorali, se ne andranno. Le dita scivolarono via con riluttanza. Certi spettri sembrano avercela coi vivi, come una specie di gelosia. Non possono farti del male, ma ti spaventano a morte e sghignazzano contenti. Trovai una tomba vuota con pochi resti della bara e niente ossa. Niente cadavere. Niente. La terra che la copriva era fitta di erba. C'erano piante parzialmente divelte, con le radici scoperte, come se qualcuno avesse cercato di strapparle o come se qualcosa avesse tentato di sbucare in superficie. Mi misi carponi nell'erba secca, con le mani posate sulla dura terra rossastra, sentendo l'interno della tomba come se lo assaporassi. Non si vede, eppure si percepisce. Il cadavere era scomparso, ma la bara era intatta. Uno zombie era uscito dalla tomba. Era forse quello che stavamo cercando? Nessuna garanzia. Però non riuscivo a percepire altri cadaveri che fossero stati resuscitati come zombie. Distolta l'attenzione dal sepolcro per osservare il prato, mi fu difficile usare soltanto la vista. L'immagine della tomba era impressa nella mia mente, anche se non per mezzo dei nervi ottici, in maniera tale che riuscivo quasi a vedere sottoterra. Il cimitero che riuscivo a vedere con gli occhi terminava con un recinto a meno di cinque metri di distanza. L'avevo già esplorato tutto? Era quella l'unica tomba vuota? Rimasi immobile a osservare le tombe tutt'intorno, mentre Dolph e i due sterminatori si trovavano ancora a una trentina di metri da me. Una trentina di metri? Bella copertura! L'avevo esaminato tutto. C'era lo spettro che mi aveva afferrata, c'era il punto caldo, c'era la tomba più recente. Era mio. Conoscevo il cimitero e tutti i defunti che non riposavano in pace. Tutti quelli che non erano completamente morti danzavano sulle loro tombe, turbati, bianchi fantasmi brumosi, luci sfavillanti di rabbia. Non esisteva un unico modo per destare i morti. Col tempo, però, anche quelli si sarebbero placati e addormentati, ammesso che si potesse dire così. Nessun danno permanente. Mi voltai a guardare di nuovo la tomba vuota. Nessun danno permanente. A gesti chiamai Dolph e gli altri, poi presi una busta Ziploc da una tasca
della tuta e ci misi dentro un po' di terra.. D'improvviso la luce della luna sembrò indebolirsi. C'era Dolph vicino a me, incombente, quasi minaccioso. «Allora?» domandò. «Uno zombie è uscito da questa tomba», risposi. «È lo zombie assassino?» «Non lo so con certezza.» «Non lo sai?» «Non ancora.» «Quando lo saprai?» «Porterò questo campione a Evans e lascerò che lo esamini.» «Evans, il chiaroveggente», commentò Dolph. «Sì.» «È un tipo strambo.» «È vero, però è bravo.» «Il dipartimento non si serve più di lui.» «Il dipartimento faccia quello che vuole», ribattei. «Però è ancora consulente dell'Animators Inc.» Dolph scosse la testa. «Non mi fido di Evans.» «Io non mi fido di nessuno», replicai. «E allora? Qual è il problema?» Nel frattempo raccolsi alcuni campioni di erbe, badando a non rovinare le radici, e li misi in un'altra busta. Ma non c'era la lapide, dannazione! Era stata scalpellata alla base, staccata, portata via. Merda! «Perché hanno distrutto la lapide?» chiese Dolph. «Il nome e la data avrebbero potuto fornirci qualche indizio per scoprire perché è stato resuscitato lo zombie e cosa è andato storto.» «In che senso?» «Si può resuscitare uno zombie per ammazzare una o due persone, ma non per compiere vere e proprie stragi. Nessuno lo farebbe.» «Se non fosse pazzo», suggerì. Lo fissai. «Non è divertente.» «No, non lo è per niente.» Un pazzo capace di resuscitare i morti, uno zombie assassino controllato da uno psicotico. Grande! E se lui, o lei, aveva potuto farlo una volta... «Dolph, se c'è un pazzo in giro, potrebbe anche esserci più di uno zombie.» «E se è pazzo non segue uno schema», aggiunse. «Merda!»
«Esatto.» Nessuno schema, nessun movente. C'era il rischio di non riuscire a capirci niente. «No, non ci credo.» «Perché no?» volle sapere. «Perché se lo credessi non potremmo più fare niente.» Presi il coltello a serramanico che avevo portato per l'occasione e cominciai a scheggiare ciò che restava della lapide. «Deturpare una pietra tombale è contro la legge», rammentò Dolph. Misi alcune schegge in una terza busta, poi riuscii a staccare un pezzetto di marmo grosso quanto il mio pollice; infine intascai tutte le buste e il coltello. «Credi davvero che Evans possa ricavare qualcosa da quella roba?» «Non lo so.» Mi alzai e guardai la tomba, mentre i due sterminatori se ne stavano a breve distanza per lasciarci un po' di privacy. Quanto erano educati! «Sai una cosa, Dolph? Anche se la lapide è distrutta, la tomba è ancora qui.» «Ma senza cadavere», osservò. «È vero. Comunque la bara potrebbe dirci qualcosa. Tutto può essere utile.» «D'accordo, mi procuro un mandato per l'esumazione.» «Non possiamo portarla via subito?» «No», dichiarò. «Devo giocare secondo le regole.» Mi fissò, serio. «E quando torno qui non voglio scoprire che la bara è già stata dissotterrata. Le prove non valgono un accidente se sono state manomesse.» «Prove? Credi davvero che questo caso possa arrivare in tribunale?» «Sì.» «Dolph, dobbiamo soltanto distruggere lo zombie.» «Voglio i bastardi che l'hanno resuscitato, Anita, e li voglio inchiodare per omicidio.» Ero d'accordo, però mi sembrava improbabile. Dolph era un poliziotto e doveva preoccuparsi della legge. Io invece mi preoccupavo di cose più semplici, come la sopravvivenza. «Se Evans scopre qualcosa di utile te lo faccio sapere», promisi. «Ci conto.» «Qualunque cosa sia, Dolph, il mostro non è qui.» «Allora è là fuori da qualche parte?» «Già», confermai. «Impegnato a massacrare qualcun altro, mentre noi ce ne stiamo qui a
morderci la coda.» Avrei voluto confortarlo, dirgli che andava tutto bene, ma purtroppo non era così. Capivo come si sentiva. Ci stavamo davvero mordendo la coda. Forse avevamo scoperto la tomba dello zombie assassino, ma questo non ci aveva ancora portati sulle sue tracce. Invece dovevamo scovarlo, intrappolarlo e distruggerlo. Ma ci saremmo riusciti prima che avesse bisogno di nutrirsi? Questa era la domanda da un milione di dollari, e io non conoscevo la risposta. Anzi una risposta l'avevo, ma non mi piaceva. Là fuori, da qualche parte, lo zombie si stava già nutrendo nuovamente. 15 Il campeggio dove vive Evans è a St. Charles, vicino alla Highway 94. Un'estensione enorme di case mobili, che naturalmente non si muovono mai. Quand'ero bambina le roulotte venivano agganciate alle macchine e spostate. Una cosa semplice, che era parte del loro fascino. Adesso ce ne sono alcune che hanno tre o quattro camere da letto e più di un bagno. Le uniche cose che le possono muovere sono le motrici e i tornadi. La roulotte di Evans è un vecchio modello. Credo che, se proprio ci fosse costretto, l'aggancerebbe a un camioncino e la sposterebbe. Sarebbe più facile che traslocare, suppongo, ma dubito che Evans lo farà mai. È quasi un anno che non esce da quella dannata roulotte! I finestrini erano dorati di luce e la porta era ombreggiata da una piccola veranda. Ero sicura che Evans fosse sveglio, perché è sempre sveglio. L'insonnia sembra una cosa abbastanza innocua, ma lui ne ha fatto una malattia. Mi ero tolta la tuta e avevo messo le tre buste nel marsupio; se fossi entrata là dentro a sventolarle, Evans sarebbe andato nel panico. Dovevo lavorarmelo con accortezza, fargli credere che ero passata soltanto a salutare un vecchio amico, niente secondi fini. Sicuro! Aprii la controporta e bussai. Silenzio. Nessun movimento. Sollevai la mano per bussare ancora, poi esitai. E se Evans fosse finalmente riuscito a addormentarsi? Sarebbe stata la sua prima notte di sonno decente da quando lo conoscevo. Maledizione! Me ne stavo ancora là con la mano sollevata quando sentii che mi stava fissando. Alzai lo sguardo e lo vidi che mi scrutava attraverso le tendine. Quando i suoi occhi azzurri ammiccarono, lo salutai con la mano. La sua faccia scomparve, la chiave girò nella serratura, la porta fu aper-
ta. Nessun segno di Evans. Entrai e mi accorsi che stava nascosto dietro la porta. La richiuse e vi si appoggiò, ansimando come se avesse appena smesso di correre, gli ispidi capelli biondi che cadevano sopra un accappatoio blu, la faccia irta di barba rossastra. «Tutto bene, Evans?» Rimase appoggiato alla porta con gli occhi troppo spalancati, il respiro sempre troppo affannoso. Era un brutto momento? Stava male? «Evans, tutto bene?» Nel dubbio, invertire la costruzione della frase. Annuì. «Che vuoi?» chiese, con voce roca. Ero sicura che non se la sarebbe bevuta, se gli avessi detto che ero soltanto passata a salutarlo. Chiamiamolo pure istinto. «Mi serve il tuo aiuto.» «No.» «Non sai neanche cosa voglio.» «Non importa.» «Posso sedermi?» domandai. Visto che l'approccio diretto non funzionava, pensai di ricorrere alle buone maniere. «Sicuro.» Osservai il piccolo soggiorno, sicura che ci fosse un divano sotto quel mucchio di giornali, piatti di carta, tazze mezze piene e vecchi indumenti. Sul tavolino, un cartone di pizza pietrificata. C'era anche una bella puzza di rancido. Avrebbe perso la testa se avessi spostato qualcosa? Potevo arrischiarmi a sedere sul mucchio che secondo me era il divano senza che si rovesciasse tutto quanto? Decisi di tentare. Purché Evans accettasse di aiutarmi, mi sarei seduta persino su quella schifosa pizza ammuffita. Mi appollaiai sopra un mucchio di giornali, che sicuramente nascondevano qualcosa di grande e solido, magari proprio il divano. «Posso avere una tazza di caffè?» «Non ho tazze pulite.» Potevo crederlo. Se ne stava ancora addossato alla porta, come se avesse paura di avvicinarsi, con le mani affondate nelle tasche dell'accappatoio. «Possiamo parlare?» domandai. Scosse la testa, e io lo imitai. Allora corrugò la fronte. Forse c'era qualcuno in casa. «Che vuoi?» chiese. «Te l'ho detto, mi serve il tuo aiuto.» «Non faccio più queste cose.» «Quali cose?» domandai. «Lo sai», replicò.
«No, Evans, non lo so. Dimmelo tu.» «Non tocco più le cose.» Strano modo di dire. Osservando nuovamente il mucchio di piatti sporchi, vestiti e così via, mi sembrò davvero che niente fosse stato toccato. «Evans, fammi vedere le mani.» Scosse la testa senza che io lo imitassi. «Evans, mostrami le mani.» «No!» rifiutò, forte e chiaro. Mi alzai e mi mossi verso di lui. Non mi ci volle molto a bloccarlo nell'angolo tra la porta d'ingresso e quella della camera da letto. «Fammi vedere le mani.» Aveva gli occhi colmi di pianto; quando batté le palpebre, gli scivolarono le lacrime giù per le guance. «Lasciami in pace», mormorò. All'improvviso provai un senso di angoscia. Cosa aveva fatto? Dio! Cosa aveva fatto? «Se non mi mostri spontaneamente le mani, Evans, ti obbligo a farlo.» Mi sforzai di non toccarlo, sapendo che avrebbe reagito male. Piangendo e singhiozzando, sfilò di tasca la mano sinistra, pallida, ossuta e intatta. Sospirai profondamente. Grazie a Dio! «Cosa credevi che avessi fatto?» domandò. Adesso mi guardava davvero. Avevo ottenuto la sua attenzione. «Non sono mica tanto pazzo.» Mi trattenni dal dirgli che non lo avevo mai pensato, perché evidentemente non era vero. In effetti avevo pensato che si fosse amputato le mani per non dover più toccare niente. Dio, che follia! Una vera e propria follia! E io ero venuta a chiedergli di aiutarmi in un caso di omicidio! Chi era più matto tra noi due? Meglio non rispondere. «Che ci fai qui, Anita?» Aveva ancora il viso rigato di lacrime, ma la voce era calma. «Mi serve il tuo aiuto per risolvere un omicidio.» «Non lo faccio più, te l'ho detto.» «Una volta mi hai detto che non puoi fare a meno di avere visioni, che la tua chiaroveggenza non si può semplicemente spegnere.» «Ecco perché me ne sto qui. Se non esco non incontro nessuno, così non ho più visioni.» «Non ti credo», ribattei. Sfilò di tasca un tovagliolo candido e lo avvolse intorno alla maniglia della porta. «Vattene.» «Oggi ho visto quello che restava di un bimbo di tre anni divorato vivo.»
Appoggiò la fronte alla porta. «Non farmi questo, ti prego.» «Conosco altri sensitivi, Evans, ma nessuno con una percentuale di successi come la tua. Adesso mi serve il migliore. Mi servi tu.» Sfregò la fronte contro l'uscio. «Ti prego, non farlo.» Avrei dovuto ascoltarlo e andarmene, però non lo feci. Rimasi dietro di lui ad aspettare. Forza, vecchio amico mio, rischia la tua salute mentale per me! Ero una spietata risvegliante di zombie e non provavo il minimo senso di colpa. Contavano soltanto i risultati. Come no! In un certo senso era proprio così. Soltanto i risultati contavano. «Morirà altra gente se non lo fermiamo», spiegai. «Non m'importa.» «Non ti credo.» Rimise in tasca il fazzoletto e si girò di scatto. «Non è una balla quella del bambino, vero?» «Non ti mentirei mai.» «Oh, certo.» Si umettò le labbra. «Dammi quello che hai trovato.» Tirai fuori le buste dal marsupio e aprii quella con le schegge di lapide. Dovevo pur cominciare da qualche parte. Non chiese cosa fosse, perché sarebbe stato come imbrogliare. Non avrei parlato neanche del bambino, se non avessi avuto bisogno di qualcosa per convincerlo. Il senso di colpa è uno strumento meraviglioso. La sua mano tremò quando gli feci cadere nel palmo la scheggia più grande, badando a non sfiorarlo neppure con le dita. Non volevo che scoprisse i miei segreti. Avrebbe potuto spaventarsi. La sua mano si strinse intorno alla scheggia. Un brivido gli corse lungo la schiena, poi fu scosso da un tremito violento. Chiuse gli occhi e partì. «Lapide, tomba.» Girò la testa da una parte, di scatto, come per ascoltare qualcosa. «Erba alta, caldo, sangue. Si ripulisce dal sangue sulla lapide.» Guardò intorno con gli occhi chiusi. Avrebbe visto la stanza se avesse avuto gli occhi aperti? «Da dove viene il sangue?» chiese. Avrei dovuto rispondere? «No! No!» Indietreggiò barcollando fino a sbattere contro la porta. «Una donna che urla, strilla! No! No!» Spalancò gli occhi e scagliò via la scheggia. «L'hanno uccisa! L'hanno uccisa!» Si premette i pugni sugli occhi. «Oh, Dio! Le hanno tagliato la gola!» «Chi sono?» domandai. Scosse la testa, sempre coi pugni sugli occhi. «Non lo so.» «Cos'hai visto, Evans?» «Sangue.» Mi fissò attraverso la fessura tra le braccia con cui si copriva
il viso. «Sangue ovunque. Le hanno tagliato la gola e hanno spalmato il sangue sulla lapide.» Avevo altri due reperti per lui. Dovevo osare? Be', chiedere non nuoce. O sì? «Ho altre due cose da farti toccare.» «No!» Si allontanò da me, indietreggiando verso il breve corridoio che conduceva alla camera da letto. «Vaffanculo! Vattene da casa mia! Subito!» «Cos'altro hai visto, Evans?» «Vattene!» «Dimmi qualcosa di quella donna, Evans. Aiutami!» Si appoggiò alla porta e si lasciò scivolare sul pavimento. «Un braccialetto. Lo portava al polso sinistro, con alcuni piccoli ciondoli: cuoricini, arco e freccia, una nota musicale.» Si coprì di nuovo gli occhi. «Vai via, adesso.» Feci per ringraziarlo, ma non era ancora tutto. Cercai la scheggia, che era finita in una tazza di caffè con qualcosa di ammuffito sul fondo. La raccolsi e la pulii sopra un paio di jeans buttati sul pavimento, quindi la rimisi nella busta e infilai tutto quanto nel marsupio. Guardandomi intorno, in tutta quella sozzura, dissi a me stessa che non volevo lasciarlo lì. Forse mi sentivo semplicemente colpevole per avere approfittato di lui. Forse. «Grazie, Evans.» Non alzò neanche lo sguardo. «Se ti mando qualcuno a pulire e rimettere tutto a posto, lo fai entrare?» «Non voglio nessuno qui.» «Il conto potrebbe pagarlo l'Animators Inc. Siamo in debito con te per questo.» Allora mi guardò; sulla sua faccia si vedeva soltanto collera. «Fatti aiutare da qualcuno, Evans. Ti stai distruggendo.» «Vaffanculo, fuori della mia casa!» intimò, pronunciando ogni sillaba con un furore rovente. Non lo avevo mai visto arrabbiato. Spaventato sì, ma così mai. Cosa avrei potuto rispondere? Dopotutto ero in casa sua. Uscii e indugiai sotto la verandina traballante; sentii lo scatto della serratura dietro di me. Avevo ottenuto informazioni, proprio come volevo, quindi perché mi sentivo tanto male? Perché avevo approfittato di un uomo gravemente disturbato. Okay, era per quello. Senso di colpa, senso di colpa. Nella mente mi lampeggiò l'immagine del lenzuolo fradicio di sangue sopra il divano, la spina dorsale di Mrs. Reynolds che ciondolava umida e
scintillante alla luce del sole. Tornai alla macchina e sedetti alla guida. Se torturare Evans avesse permesso di salvare una famiglia, ne sarebbe valsa la pena. Se fosse servito a impedire che vedessi un altro bambino di tre anni sventrato da uno zombie assassino, avrei pestato Evans con una mazza oppure avrei lasciato che lui picchiasse me. A pensarci bene, non era proprio quello che era appena successo? 16 In sogno ero di nuovo bambina. La macchina, dopo lo scontro, aveva la fiancata tutta accartocciata come carta stagnola. La portiera era aperta. Strisciai all'interno sulla tappezzeria chiara, quasi bianca, che conoscevo così bene. C'era una chiazza di liquido scuro sul sedile, non tanto grande. La toccai con esitazione, sporcandomi di cremisi. Era la prima volta che vedevo il sangue. Alzai gli occhi al parabrezza, piegato verso l'esterno e segnato da una ragnatela di crepe dove mia madre aveva sbattuto la faccia, prima di essere catapultata fuori a morire sul campo lungo la strada. Ecco perché non c'era molto sangue sul sedile. Guardai il sangue che avevo sulla punta delle dita. Nella vita reale era stata soltanto una macchia asciutta. In sogno invece è sempre fresco. Sentivo anche odore di carne putrescente, e questo era strano. D'improvviso mi resi conto che stavo sognando, ma che il fetore non era nel sogno, era nella realtà. Mi risvegliai all'istante e fissai l'oscurità, col cuore in gola. La mano scattò verso la Browning infilata nella sua seconda casa, cioè la fondina applicata alla testiera del letto. Era solida, rassicurante. Rimasi seduta sul letto, impugnando la pistola con entrambe le mani. La luce della luna entrava da una fessura sottile tra le tende, disegnando una sagoma maschile che avanzava sulla moquette a passi strascicati senza reagire ai miei movimenti né alla pistola. Aveva inciampato nella mia collezione di pinguini di peluche ammassati sotto la finestra, rovesciandone alcuni. Sembrava incapace di sollevare i piedi per scavalcarli, così arrancava faticosamente tra i pinguini come se fosse immerso nell'acqua. Continuando a puntare la pistola con una sola mano contro quell'essere, allungai l'altra mano verso la lampada sul comodino senza girarmi a guardare. Nel passaggio improvviso dall'oscurità alla luce battei le palpebre per accelerare la contrazione delle pupille; quando la mia vista si fu adattata
alla nuova condizione vidi che si trattava davvero di uno zombie. Da vivo era stato enorme. Aveva spalle possenti, larghe come la porta di una stalla, mani enormi e apparentemente forti, un occhio disidratato e avvizzito come una prugna. L'altro occhio mi fissava. Non c'era niente in quello sguardo: nessuna attesa, nessuna eccitazione, nessuna crudeltà, soltanto un vuoto che Dominga Salvador aveva riempito con uno scopo. Avrei scommesso che gli aveva ordinato di uccidere. Era il suo zombie, quindi io non potevo ordinargli di fare niente prima che avesse portato a compimento gli ordini di Dominga. Dopo avere ammazzato me sarebbe stato docile come un cucciolo morto. Dopo avere ammazzato me. Be', non volevo aspettare tanto. La Browning era caricata con munizioni di sicurezza Glazer ricoperte d'argento, che sono capaci di ammazzare un uomo in qualunque parte del busto lo colpiscano perché aprono buchi troppo grandi per poter essere richiusi. Purtroppo un buco nel petto non avrebbe dato nessun fastidio allo zombie, che avrebbe continuato ad avanzare anche senza cuore. Se si è abbastanza precisi, colpire un uomo a un braccio o a una gamba con le munizioni di sicurezza significa amputazione istantanea dell'arto. Sembrava che lo zombie non avesse nessuna fretta. Avanzava a passi strascicati tra i pupazzi di peluche con l'inarrestabile determinazione che è tipica dei morti. Pur non essendo dotati di forza sovrumana, gli zombie possono sfruttare al massimo e senza risparmio quella di cui dispongono. Un essere umano è in grado di compiere sforzi sovrumani, in casi eccezionali. Ti si strappano i muscoli, ti si lacera la cartilagine, ti si spezza la spina dorsale, però puoi anche riuscire a sollevare una macchina. Soltanto gli inibitori del cervello impediscono a tutti noi di autodistruggerci. Ma gli zombie non hanno inibitori, quindi il gigante avrebbe potuto fare a pezzi me mentre io facevo a pezzi lui. D'altra parte, se davvero avesse voluto uccidermi, Dominga avrebbe mandato un cadavere meno decomposto. Quello che avevo di fronte era tanto putrido che forse avrei potuto evitarlo e correre alla porta. Eppure... Impugnai di nuovo la Browning con tutt'e due le mani, la destra intorno al calcio, col dito sul grilletto, e la sinistra sotto, a sostenerla. Quando feci fuoco, l'esplosione echeggiò assordante nello spazio chiuso della stanza. Lo zombie sussultò e incespicò mentre il suo braccio destro volava via in uno spruzzo di carne e di ossa, senza sangue. Era morto da troppo tempo per averne ancora.
Però continuò ad avanzare. Mirando al gomito dell'altro braccio, trattenni il fiato, premetti il grilletto e feci centro. Le due braccia troncate cominciarono a strisciare sulla moquette verso il letto. Se avessi insistito a mutilarlo, tutti i pezzi avrebbero continuato a cercare di uccidermi. Un colpo al ginocchio destro non staccò la gamba, però lo zombie sbandò e cadde. Poi rotolò su un fianco e continuò a spingere con la gamba che gli restava, mentre un liquido scuro colava dall'altra, maciullata. Il fetore aumentò a tal punto che anche solo deglutire fu disgustoso. Saltai giù sulla moquette e girai intorno al letto per prendere alle spalle lo zombie, che si accorse del mio spostamento e cercò di voltarsi verso di me, sempre spingendo con l'unica gamba intera. Intanto le mani e le braccia strisciavano più in fretta. Mi alzai e sparai all'altra gamba da una distanza di circa mezzo metro. Carne e ossa imbrattarono i miei pinguini. Cazzo! Le sue braccia erano ormai vicine ai miei piedi nudi. Con due rapidi colpi spappolai le mani sulla moquette. Le braccia continuarono a cercare di strisciare verso di me. All'improvviso un fruscio d'indumenti e un movimento alle mie spalle, nel soggiorno buio. Nel girarmi verso la porta aperta, capii che era troppo tardi. Un altro zombie mi afferrò, stringendomi contro il suo petto, e mi conficcò le dita nel braccio destro, immobilizzandolo. Girai la testa per proteggermi il viso e il collo coi capelli. Gridai quando i suoi denti affondarono nella mia spalla. Avevo la faccia premuta contro una spalla dello zombie, che continuava a stringermi un braccio, minacciando di stritolarlo, e intanto mi lacerava la spalla, mordendo. Per fortuna non aveva zanne, ma solo denti umani. Faceva un male d'inferno, ma la ferita sarebbe guarita, se fossi sopravvissuta. Con la pistola schiacciata contro la sua spalla, girai la testa dall'altra parte e premetti il grilletto. Squassato in tutto il corpo, perse il braccio sinistro. Mi scostai, col suo braccio che pendeva dal mio, le dita conficcate nel mio avambraccio. Dalla soglia della camera da letto fissai lo zombie che mi aveva quasi fregata. Un maschio bianco, alto circa un metro e ottantacinque, corporatura da giocatore di football. Era appena uscito dalla fabbrica, come dimostrava il sangue che perdeva dalla spalla. Non ebbi il tempo di occuparmi delle sue dita, che continuavano a stringere e a essere pericolose, perché
lui mi aggredì, cercando di afferrarmi con l'altro braccio. Mi sembrò di avere tutto il tempo del mondo per puntare e mirare con la Browning impugnata a due mani, nonostante l'ostacolo del braccio amputato che continuava a stringere come se fosse ancora collegato al cervello dello zombie. Esplosi due rapidi colpi, e lo zombie crollò senza più la gamba sinistra. Troppo tardi, però; era troppo vicino. Mi cadde addosso, schiacciandomi sulla moquette, ma riuscii a sollevare le braccia in modo da poter usare la Browning. Ero inchiodata dal suo peso e non potevo farci niente. Il sangue scintillava sulle sue labbra. Nello sparare a bruciapelo chiusi gli occhi, non soltanto perché non volevo vedere, ma anche per proteggermi dalle schegge di osso. Quando li riaprii, la testa era scomparsa, tranne un pezzo di cranio e uno di mandibola. La mano che gli restava mi strisciò verso la gola e l'altra, stretta intorno al mio braccio, aiutò il suo corpo. La posizione in cui mi trovavo m'impediva di girare la pistola per sparare al braccio. Sentendo qualcosa di pesante scivolare alle mie spalle, piegai la testa all'indietro e vidi il gigante zombie che si avvicinava con la bocca spalancata. Strillando, mi girai di nuovo. Afferrai il braccio con cui il secondo zombie cercava di strangolarmi e lo spinsi verso il suo stesso avambraccio troncato. Lo strinse. Senza cervello, non era più tanto sveglio! Il braccio amputato allentò la presa; fu scosso da uno spasmo ed esplose in un getto di sangue, come un melone maturo. La mano mi lasciò. Poi lo zombie stritolò il suo stesso braccio, maciullando la carne e schiantando le ossa. Il gigante zombie che strisciava dietro di me era sempre più vicino. «Polizia!» Una stentorea voce maschile dal corridoio. «Uscite con le mani in alto!» Al diavolo l'impassibilità e il cavarsela da soli. «Aiuto!» «Signorina! Che sta succedendo là dentro?» Piegando di nuovo la testa all'indietro, mi trovai col naso vicino a quello del gigante zombie. Allora gli infilai la Browning nella bocca aperta, raschiando i denti con la canna, e premetti il grilletto. D'improvviso un poliziotto si stagliò sulla soglia. Dal mio punto di vista appariva grande e grosso, capelli ricci e castani che cominciavano a ingrigire, baffi, pistola in pugno. «Cristo!» commentò. Il secondo zombie lasciò il suo stesso braccio ridotto in poltiglia per cercare ancora una volta di strangolarmi. Allora il poliziotto lo afferrò saldamente per la cintura con una sola mano e lo sollevò di peso. «Scappi», e-
sortò. Non ci fu bisogno di dirmelo due volte! Strisciai via e fuggii carponi in soggiorno. Un secondo agente mi aiutò ad alzarmi prendendomi per il braccio destro e si trovò la mia Browning in faccia. Di solito gli sbirri intimano prima di tutto di buttare la pistola, perché non sempre sono in grado di capire subito chi sia il cattivo. Se sei armato, sei cattivo fino a prova contraria. La presunzione d'innocenza non vale in queste situazioni. Così mi tolse di mano la Browning e io, conoscendo la procedura, non mi opposi. Una detonazione improvvisa alle nostre spalle fece trasalire me e anche lo sbirro. Aveva circa la mia età, ma in quel momento mi sentivo un milione di anni più vecchia di lui. Ci voltammo, scoprendo che lo zombie si era liberato e si era rimesso in piedi. Il primo sbirro continuò a sparargli, facendolo barcollare senza riuscire a fermarlo. «Vieni qui, Brady!» ordinò. L'agente più giovane sfoderò la pistola, avanzò ed esitò, lanciandomi un'occhiata. «Lo aiuti», dissi. Cominciò a far fuoco contro lo zombie. La sparatoria, assordante come un rimbombare ininterrotto di tuoni, riempì la stanza sino a farmi perdere l'udito; il fetore della polvere da sparo diventò quasi insopportabile. Le pareti erano sforacchiate e lo zombie continuava ad avanzare barcollando, irritato. Il problema dei poliziotti è che non possono usare le munizioni di sicurezza Glazer, anche perché non s'imbattono nel soprannaturale tanto spesso quanto capita a me. Di solito danno la caccia a delinquenti umani. Se staccano una gamba a un tizio soltanto perché ha sparato loro addosso, rischiano brutte conseguenze. Non dovrebbero avere il diritto di ammazzare qualcuno soltanto perché questi ha cercato di ammazzare loro. Giusto? Così usano munizioni normali, magari rivestite con un po' di argento per facilitare le cose, ma niente che possa fermare uno zombie. Uno ricaricava mentre l'altro sparava, però erano costretti a indietreggiare davanti allo zombie che avanzava barcollando, con un braccio proteso alla ricerca di qualcosa, cioè me. Merda! «La mia pistola è caricata con munizioni di sicurezza Glazer», dichiarai. «Usatela.» «Brady», esclamò il primo sbirro. «Ti avevo detto di portarla fuori di qui!» «Ti serve aiuto», replicò Brady.
«Porta la civile fuori di qui, cazzo!» Civile, io? Senza altre domande, Brady indietreggiò. «Venga, signorina. Dobbiamo uscire di qui.» «Mi ridia la mia pistola.» Mi lanciò un'occhiata e scosse la testa. «Sono con la Regional Preternatural Investigatìon Team.» Speravo di fargli credere che fossi uno sbirro anch'io. Era giovane, quindi lo credette e mi restituì la Browning. «Grazie.» Mi avvicinai allo sbirro più anziano. «Sono con la Spook Squad.» Mi guardò senza smettere di tenere sotto tiro il cadavere che avanzava. «Allora faccia qualcosa.» Qualcuno aveva acceso la luce in soggiorno e, dato che nessuno gli stava più sparando, lo zombie stava uscendo. Camminava come un uomo che stesse attraversando la strada, con la differenza che era senza testa e aveva un braccio solo. Il passo era agile e vigoroso. Forse percepiva la mia vicinanza. Dato che era in condizioni migliori del gigante, non lo avrei fermato neanche se lo avessi storpiato. Comunque gli piantai una terza pallottola nella gamba sinistra, che avevo già ferito. Questa volta ebbi più tempo per mirare, e la mia mira è precisa. La gamba sinistra cedette, ma lui continuò a trascinarsi con un solo braccio e con l'altra gamba, che era anche l'ultima che aveva. Scoppiai a ridere, ma subito la risata mi si soffocò in gola. Girai intorno all'estremità opposta del divano perché non volevo rischiare incidenti dopo quello che gli avevo visto fare al suo stesso braccio. In altre parole, non volevo che mi stritolasse un braccio o una gamba. Quando cercai di prenderlo alle spalle, si girò verso di me più in fretta di quanto avrebbe dovuto. Mi ci vollero due colpi per staccargli anche l'altra gamba. Non ricordavo più quante cartucce avessi esploso, perciò non sapevo se me ne restassero due, una oppure nessuna. Mi sembrava di essere l'ispettore Callaghan, con l'unica differenza che il mio delinquente se ne fregava del piombo che assorbiva. Non è mica facile spaventare i morti. Strisciava con la mano, trascinandosi dietro le gambe quasi staccate. Con un colpo sparato quasi a bruciapelo gli feci esplodere la mano in un fiore cremisi sulla moquette bianca, ma lui continuò a trascinarsi col mon-
cone. Premetti di nuovo il grilletto, e il percussore scattò a vuoto. Merda! «Ho finito le munizioni», annunciai, indietreggiando, subito inseguita dallo zombie. Lo sbirro anziano andò ad afferrarlo per le caviglie e lo tirò indietro, ma una gamba si sfilò lentamente dai calzoni e gli rimase in mano. «Cazzo!» La lasciò cadere. Mentre la gamba troncata si contorceva come un serpente dalle vertebre spezzate, fissai il cadavere che continuava con determinazione incrollabile a cercare di raggiungermi senza fare però grandi progressi, anche perché il poliziotto continuava a trattenerlo per l'altra gamba. Non avrebbe mai desistito, a meno che non fosse stato incenerito o Dominga Salvador non avesse revocato o cambiato il proprio ordine. Nel frattempo altri agenti in uniforme entrarono nell'appartamento e si gettarono sullo zombie massacrato, come avvoltoi addosso a uno gnu. Lo zombie si dibatté per divincolarsi e portare a termine la propria missione, cioè uccidermi, ma gli sbirri erano abbastanza numerosi per trattenerlo in attesa che arrivassero i ragazzi del laboratorio, che avrebbero fatto tutto quello che si poteva fare sul posto. In seguito lo zombie sarebbe stato incenerito da una squadra di sterminatori. Quando avevano cercato di conservare gli zombie alla morgue per compiere esperimenti, parecchi pezzetti erano sempre riusciti a scappare e a nascondersi nei posti più strani. Di conseguenza il medico legale aveva stabilito che tutti gli zombie dovevano essere morti davvero prima di essere trasferiti. I paramedici e i tecnici si erano dichiarati d'accordo. Quanto a me, li capivo, però capivo pure che il fuoco distrugge quasi tutte le prove. Insomma, è sempre questione di scelte. Me ne rimasi in disparte nel soggiorno di casa mia, dimenticata a causa della confusione, e non mene lamentai affatto; non avevo più nessuna voglia di fare a botte con gli zombie, almeno per quella notte. Per la prima volta mi resi conto che sopra le mutandine indossavo soltanto una T-shirt di qualche misura troppo grande, talmente impregnata di sangue da essere diventata aderente. Tornai in camera da letto, per infilare un paio di pantaloni, e mi bloccai alla vista dello zombie sul pavimento, il primo che mi aveva aggredito. Cercava invano di muoversi, come un insetto cui avessero staccato le zampe. Quel troncone insanguinato si stava ancora sforzando di ubbidire all'ordine: uccidere Anita Blake! Dominga Salvador mi voleva morta. Aveva mandato due zombie, uno
dei quali risvegliato da poco, perché mi voleva morta. Questo pensiero echeggiò e riecheggiò nella mia mente come il ritornello di una canzone. Ci eravamo minacciate a vicenda, ma perché arrivare a un tale livello di violenza? Perché uccidermi? Sapeva che legalmente non potevo fare nulla per fermarla, quindi perché aveva compiuto un tentativo tanto maledettamente serio di farmi fuori? Forse perché aveva qualcosa da nascondere? Mi aveva dato la sua parola di non essere stata lei a resuscitare lo zombie assassino, ma forse la sua parola non valeva niente. Non c'era altra risposta. Aveva qualcosa a che fare con lo zombie assassino. Lo aveva resuscitato lei? Oppure sapeva chi era stato? No, doveva essere stata lei, altrimenti perché avrebbe dovuto cercare di ammazzarmi poco dopo il nostro incontro? Non poteva essere una coincidenza. Dominga Salvador aveva resuscitato uno zombie che era sfuggito al suo controllo. Doveva essere così. Per quanto fosse malvagia, non era psicotica, quindi non avrebbe mai scatenato uno zombie assassino. La grande regina del vudù aveva commesso un errore grosso come una montagna e forse era incazzata più per quello che per i massacri, per il rischio di essere accusata di omicidio, o per qualunque altra cosa. Non poteva permettersi di rovinarsi la reputazione. Dietro il troncone fetido e insanguinato c'erano i pinguini di peluche imbrattati di sangue e di carne putrescente. Sarebbe riuscita la mia vecchia lavasecco a pulirli alla perfezione? Coi miei vestiti se la cavava benissimo. Le munizioni di sicurezza Glazer mi piacciono anche perché non perforano i muri. Le pallottole dei poliziotti invece avevano aperto un sacco di bei buchi rotondi nelle pareti della camera da letto. Fino a quella notte non ero mai stata aggredita in casa mia, non a quel modo. Avrebbe dovuto essere contro le regole. Ognuno dovrebbe essere al sicuro nel proprio letto. Lo so, lo so! I cattivi non hanno regole. È proprio questo uno dei motivi per cui sono cattivi. Sapevo chi aveva resuscitato lo zombie, quindi non dovevo fare altro che dimostrarlo. Ovunque c'erano sangue e roba ancora più schifosa. Quanto al fetore, mi ci stavo già abituando, ma... cazzo, che schifo! Tutto l'appartamento puzzava. E quasi tutto l'arredamento era bianco, pareti e moquette, divano e poltrona, così le macchie spiccavano alla perfezione, come ferite appena inferte; le crepe e i fori aperti dalle pallottole nelle pareti completavano la devastazione. L'appartamento era semidistrutto. Dovevo dimostrare che la colpa era di Dominga e, con un po' di fortuna, ricambiarle il favore.
«Occhio per occhio», sussurrai, col pianto che mi bruciava in gola. Non volevo mettermi a piangere, però avevo anche voglia di strillare, e tra piangere e strillare mi sembrava meglio piangere. Finalmente arrivarono i paramedici, inclusa una donna nera di bassa statura che aveva circa la mia età. «Vieni, cara, lascia che ti diamo un'occhiata», invitò con voce gentile, allontanandomi da quel massacro. Non soltanto non mi opposi, ma non mi disturbò neppure sentirmi chiamare «cara». Avevo una gran voglia di strisciare in grembo a qualcuno per farmi confortare, anzi ne avevo un bisogno enorme. Eppure sapevo che nessuno mi avrebbe confortata. «Prima di portarti giù in ambulanza, cara, dobbiamo esaminare le tue ferite.» Scossi la testa. «Il sangue non è mio», spiegai, con voce che suonò lontana e distaccata. «Cosa?» La guardai, sforzandomi di restare concentrata, senza distrarmi, senza confondermi. Era lo shock. Di solito me la cavo meglio, ma che diavolo, abbiamo tutti i nostri momenti di debolezza. «Il sangue non è mio. Ho soltanto un morso a una spalla.» Mi guardò incredula, e io non potei certo biasimarla. Di solito quando si vede una persona tutta coperta di sangue si presume che, almeno in parte, quel sangue sia suo. Non si tiene conto che si può avere a che fare con una risvegliante cacciatrice di vampiri dura come il ferro. Gli occhi mi si riempirono di lacrime pungenti. Tutti i miei pinguini erano imbrattati di sangue. Non me ne fregava niente delle pareti e della moquette, che potevano essere restaurate e sostituite. Ma erano anni che collezionavo quei dannati pupazzi di peluche! Mi lasciai portar via dai paramedici mentre le lacrime mi rigavano le guance. Non stavo piangendo, era soltanto una reazione naturale dei miei occhi perché c'erano schifosi pezzi di zombie su tutti i miei pupazzi. Maledizione! 17 Avevo visto abbastanza scene del crimine per sapere cosa dovevo aspettarmi. Fu come rivedere un film già guardato molte volte. Potevo prevedere tutte le entrate e tutte le uscite, sapevo a memoria molte battute. L'unica grossa differenza era che si trattava di casa mia. Era sciocco da parte mia offendermi perché Dominga Salvador mi aveva
aggredita in casa mia. Era stupido, ma era così. Aveva violato una regola che non avevo mai neanche saputo di avere. Tu non aggredirai l'eroe, o l'eroina, nella sua casa. Cazzo! Per questo avrei inchiodato la sua pelle a un albero. Sì, certo, e con l'aiuto di quale esercito? Magari con quello della polizia. Le tende del soggiorno si gonfiavano nella brezza calda perché il vetro della finestra era stato fracassato nella sparatoria. Ero proprio contenta di avere appena firmato un contratto d'affitto di due anni. Se non altro non sarei stata sfrattata. Seduto di fronte a me in cucina, Dolph faceva sembrare minuscoli il tavolo per la colazione e le due sedie. In un certo senso, riempiva la cucina. O forse era soltanto che io mi sentivo piccola, quella notte. O era già mattina? Guardando l'orologio, scoprii che una chiazza scura e vischiosa nascondeva il quadrante, impedendo di leggere l'ora. Avrei dovuto ripulirlo completamente! Infilai di nuovo il braccio sotto la coperta che mi avevano dato i paramedici, perché avevo più freddo di quanto avrei dovuto. Persino la prospettiva della vendetta non riusciva a scaldarmi. Col passar del tempo mi sarei riscaldata e mi sarei incazzata. Per il momento ero soltanto contenta di essere viva. «Okay, Anita, che cos'è successo?» chiese Dolph. Guardai il soggiorno, ormai quasi vuoto. Gli zombie erano stati portati via e inceneriti in mezzo alla strada per offrire un po' d'intrattenimento a tutte le famiglie del vicinato. «Per favore, posso cambiarmi prima di rilasciare una dichiarazione?» Mi scrutò per qualche secondo prima di annuire. «Grande.» Strettamente avvolta nella coperta, sollevai gli orli per non inciamparvi inavvertitamente. Mi ero già messa abbastanza in imbarazzo per quella notte. «Conserva la T-shirt come prova», raccomandò Dolph mentre mi allontanavo. «Sicuro», promisi, senza girarmi. Avevano coperto con alcuni lenzuoli la maggior parte delle macchie, per non pestarle e non lasciare impronte insanguinate in tutto l'edificio. Bella idea. Il bagno puzzava di cadavere in decomposizione, sangue e morte antica. Mio Dio! Non sarei riuscita a dormire nell'appartamento quella notte. Ho anch'io i miei limiti. Avrei voluto farmi una doccia, ma non credevo che Dolph avrebbe a-
spettato tanto; così mi accontentai di portare in bagno jeans, calzini e una T-shirt pulita. Chiusi la porta, attenuando notevolmente il puzzo; sembrava proprio il mio bagno. Niente disastri, lì. Lasciai cadere sul pavimento la coperta e la T-shirt insanguinata. Avevo chiazze di sangue raggrumato sulle braccia e sulle gambe. Un voluminoso bendaggio mi copriva il morso alla spalla; ero stata fortunata che lo zombie non mi avesse staccato un pezzo di carne. I paramedici mi avevano anche praticato un'iniezione antitetanica. Chi viene morso da uno zombie non diventa zombie a sua volta, però il rischio d'infezione è notevole perché i morti hanno bocche davvero schifose e l'antitetanica è una buona precauzione. Senza prendermi neanche la briga di lavarmi le mani, decisi di rimandare il tutto a più tardi, quando avrei potuto ripulirmi da capo a piedi sotto la doccia. Sulla T-shirt pulita che mi copriva fin quasi alle ginocchia c'era una caricatura di Arthur Conan Doyle che guardava attraverso una lente d'ingrandimento gigantesca, con un occhio comicamente enorme. Nello specchio sopra il lavandino osservai la T-shirt, morbida, calda e rassicurante. Avevo bisogno di conforto in quel momento. Era impossibile salvare la T-shirt insanguinata, ma forse sarei riuscita a salvare qualche pinguino. Feci scorrere l'acqua nella vasca. Forse il lavaggio in acqua fredda che andava bene per gli indumenti avrebbe funzionato anche coi pupazzi. Non avevo nessuna voglia di camminare coi calzini sul sangue che si stava essiccando, quindi presi da sotto il letto un paio di scarpe da jogging. Dopotutto le scarpe sono fatte proprio per occasioni del genere. E va bene! Chi ha inventato le Nike Airs non ha certo mai previsto l'eventualità di calpestare sangue di zombie! Non è mica facile prevedere tutto. Prelevati con cautela due pinguini inzuppati di sangue, li portai in bagno, li immersi nella vasca perché s'impregnassero d'acqua abbastanza da non galleggiare completamente, li lasciai a mollo e chiusi il rubinetto. I due pupazzi perdevano rivoli di sangue come se fossero stati spugne risciacquate. Se fossi riuscita a lavare quelli, avrei potuto salvare anche tutti gli altri. Mi asciugai le mani sulla coperta, visto che non avrebbe avuto senso sporcare anche un asciugamano. Sigmund, il pinguino con cui dormivo di tanto in tanto, aveva soltanto qualche schizzo sul bianco ventre lanoso. Una piccola benedizione in quel-
lo sfacelo! Ebbi la tentazione di tenerlo in braccio nel rilasciare la dichiarazione, pensando che probabilmente Dolph non lo avrebbe detto a nessuno, ma poi mi limitai a spostarlo perché fosse abbastanza lontano dal sangue e dalla schifezza, come se ciò potesse essere d'aiuto. Ebbene, vedere quello stupido pupazzo al sicuro in un angolo mi procurò un bel sollievo. Intento a osservare l'acquario, Zerbrowski mi lanciò un'occhiata. «Sono i pesci angelo più fottutamente grossi che abbia mai visto. Se ne potrebbe friggere qualcuno in padella.» «Lascia in pace i pesci», intimai. «Era solo un'idea», replicò con un ghigno. In cucina, Dolph sedeva con le mani intrecciate sul tavolo, il viso impenetrabile. Se era turbato per il fatto che mi ero salvata a stento da un tentativo di omicidio, allora non lo dava a vedere. D'altra parte non manifesta mai granché in fatto di sentimenti. Non lo avevo mai visto così emozionato come si era mostrato per il caso che stavamo seguendo. Uno zombie assassino e molti civili massacrati. «Vuoi un po' di caffè?» gli domandai. «Sicuro.» «Anch'io», intervenne Zerbrowski. «Soltanto se lo chiedi per favore.» Si appoggiò alla cornice della porta della cucina. «Per favore.» Presi dal freezer la confezione del caffè. «Tieni il caffè in freezer?» chiese Zerbrowski. «Nessuno ti ha mai preparato un vero caffè?» ribattei. «Secondo me il migliore è il caffè istantaneo.» Scossi la testa. «Barbaro.» «Se voi due avete finito di scambiarvi battute», intervenne Dolph, «che ne direste di cominciare con la dichiarazione?» La sua voce fu più dolce delle sue parole. Sorrisi a lui e a Zerbrowski. Era proprio bello vederli tutti e due! Certo che dovevo essere ferita più gravemente di quanto credessi, se ero contenta di vedere Zerbrowski! «Dormivo e badavo ai fatti miei quando sono stata svegliata da uno zombie che si stava avvicinando al letto.» Misurai la quantità e versai i chicchi nel macinacaffè nero che avevo comprato perché si abbinava alla caffettiera. «Che cosa ti ha svegliata?» chiese Dolph.
Premetti il pulsante del macinacaffè e il denso aroma dei chicchi freschi appena macinati si diffuse in tutta la cucina. Il paradiso! «Il puzzo di cadavere», risposi. «Spiegati meglio.» «Mentre sognavo ho sentito il fetore della decomposizione e, dato che non c'entrava niente col sogno, mi sono svegliata.» «Poi cos'è successo?» Teneva la penna tra le dita, sospesa al di sopra del suo onnipresente taccuino. Concentrata su ogni minima fase della preparazione del caffè, raccontai a Dolph tutto quello che era successo, inclusi i miei sospetti sulla Señora Salvador. Poi si sparse in tutto l'appartamento il meraviglioso aroma che il caffè ha sempre quand'è pronto. «Allora credi che sia stata Dominga Salvador a resuscitare lo zombie che stiamo cercando?» chiese Dolph. «Sì.» Mi fissò con occhi molto seri al di là del tavolino. «Puoi provarlo?» «No.» Sospirò profondamente e chiuse gli occhi per un attimo. «Grande! Davvero grande!» «Il caffè è pronto, a giudicare dal profumo», interloquì Zerbrowski, seduto sul pavimento, con la schiena contro la cornice della porta della cucina. Mi alzai per versare il caffè. «Se volete zucchero o panna, servitevi.» Portai sul tavolo la zuccheriera e la panna. Autentica panna. Zerbrowski mise zucchero in abbondanza e una macchia di panna, mentre Dolph preferì il caffè nero. Anch'io lo prendo quasi sempre così, ma quella notte aggiunsi sia la panna sia lo zucchero. Vera panna e vero caffè! «Se ti facessimo entrare nella casa di Dominga, saresti in grado di trovare le prove che occorrono?» riprese Dolph. «Le prove di qualcosa sicuramente sì, ma dimostrare che è stata lei a resuscitare lo zombie assassino...» Scossi la testa. «Se davvero è stata lei e se lo zombie è sfuggito al suo controllo, non vuole certo essere coinvolta, quindi ha sicuramente distrutto tutte le prove. Se non altro per salvare la faccia.» «La voglio inchiodare», affermò Dolph. «Anch'io.» «Potrebbe anche riprovare a farti fuori», avvertì Zerbrowski dalla porta, prima di ricominciare a soffiare sul caffè per raffreddarlo.
«Non scherzare», replicai. «Credi che ci riproverà?» chiese Dolph. «È probabile. Ma come diavolo hanno fatto due zombie a entrare nel mio appartamento?» «La serratura è stata forzata con un grimaldello», spiegò Dolph. «Credi che lo zombie...» «No, uno zombie non userebbe mai un grimaldello, anche se fosse capace di utilizzarlo. Piuttosto strapperebbe la porta dai cardini.» «Quindi qualcuno ha scassinato la porta per farli entrare», concluse Dolph. «A quanto pare.» «Qualche idea su chi possa essere stato?» «Uno dei suoi gorilla, suppongo. Cioè suo nipote Antonio, oppure Enzo, un tizio grande e grosso, sulla quarantina, che sembra essere la sua guardia del corpo personale. Non so se siano abbastanza abili come scassinatori, ma lo farebbero. Scommetterei su Enzo ed escluderei Antonio.» «Perché?» «Se fosse stato Tony sarebbe rimasto per assistere allo spettacolo.» «Ne sei sicura?» Scrollai le spalle. «Gli si addice. Enzo si limiterebbe a eseguire gli ordini, farebbe il suo lavoro e se ne andrebbe. Antonio no.» Dolph annuì. «Ci sono molte pressioni dall'alto per risolvere questo caso, quindi credo che riusciremo a ottenere un mandato di perquisizione entro quarantott'ore.» «Due giorni sono un sacco di tempo.» «Due giorni senza uno straccio di prova, Anita, tranne la tua parola. Mi sto esponendo molto.» «In qualche modo lei è coinvolta, Dolph. Non so perché e neanche come possa aver perso il controllo dello zombie, però ne sono convinta.» «Otterrò il mandato», ribadì. «Uno dei fratelli in blu ha riferito che gli hai detto di essere uno sbirro», osservò Zerbrowski. «Gli ho detto che sono con la squadra. Non ho mai dichiarato di essere uno sbirro.» «Sarai al sicuro qui per stanotte?» chiese Dolph. «Credo di sì. Dubito che la Señora voglia avere guai con la legge. Le streghe criminali sono trattate più o meno come i vampiri criminali. La sentenza di morte è automatica.»
«Perché la gente ha troppa paura di loro», commentò Dolph. «Perché alcune streghe sono capaci di sgusciare fuori attraverso le sbarre», puntualizzai. «E le regine del vudù?» volle sapere Zerbrowski. «Non voglio neanche pensarci.» «Adesso sarà meglio che andiamo e ti lasciamo dormire un po'», suggerì Dolph, lasciando la tazza vuota sul tavolo. Anche se non aveva finito di bere il caffè, Zerbrowski posò la sua tazza sul piano di lavoro e lo seguì fuori della cucina. Li accompagnai alla porta. «T'informerò non appena avremo il mandato», promise Dolph. «Puoi trovare il modo di farmi esaminare gli effetti personali di Peter Burke?» «Perché?» «Ci sono soltanto due modi per perdere completamente il controllo di uno zombie. O si è abbastanza forti per resuscitarlo, ma non per controllarlo - e io sono sicura che Dominga è in grado di controllare qualsiasi zombie -, oppure qualcuno altrettanto potente interviene per una specie di sfida.» Fissai Dolph. «John Burke potrebbe essere abbastanza forte per averlo fatto. Forse, se lo portassi a vedere gli effetti personali di suo fratello, con la scusa di scoprire eventuali mancanze o cose del genere, potrei indurlo a tradirsi in qualche modo.» «Hai già fatto incazzare Dominga Salvador. Non ne hai abbastanza per questa settimana, Anita?» «Ne ho abbastanza per tutta la vita», assicurai. «Però è qualcosa che posso fare in attesa del mandato.» «Va bene, organizzo tutto io. Domattina chiama Mr. Burke per fissare un appuntamento, poi telefona a me.» «D'accordo.» Dolph esitò per un momento sulla soglia. «Stai attenta.» «Come sempre», replicai. Zerbrowski mi si avvicinò per mormorare: «Bei pinguini». Poi seguì Dolph lungo il corridoio. Ero certa che tutti i ragazzi della Spook Squad avrebbero saputo che collezionavo pupazzi di peluche. Il mio segreto non era più tale perché Zerbrowski l'avrebbe svelato a tutti. Se non altro era coerente. Era bello sapere che un po' di coerenza esisteva ancora. 18
I pupazzi di peluche non sono fatti per essere lavati in acqua fredda. I due che avevo lasciato in ammollo erano rovinati. Forse potevo usare lo smacchiatore? Il puzzo era denso e sembrava permanente. Lasciai un messaggio d'emergenza sulla segreteria telefonica dell'impresa di pulizie di cui ero cliente, ma senza fornire troppi dettagli perché non volevo spaventare nessuno. Misi in una borsa quello che mi serviva per trascorrere la notte, cioè due cambi d'indumenti e un pinguino con la pancia appena spazzolata, il file su Harold Gaynor e la Firestar nella fondina interna. Per nascondere la Browning che portavo nella fondina ascellare indossai un giubbotto di pelle scamosciata. Nelle tasche della giacca infilai i caricatori di scorta; in tutto avevo munizioni per ventidue colpi. Ventidue colpi. Perché non mi sentivo sicura? A differenza di molti cadaveri ambulanti, gli zombie sono in grado di sopportare la luce del sole, anche se non ne vanno pazzi; quindi Dominga avrebbe potuto ordinare a uno zombie di ammazzarmi in pieno giorno, non soltanto al chiaro di luna. Non avrebbe potuto resuscitarne nessuno di giorno, però sarebbe bastato un po' di corretta programmazione per resuscitarne uno di notte e poi mandarlo ad accopparmi il mattino successivo. Una sacerdotessa vudù abile nella tattica e nella strategia. Che fortuna! Non credevo davvero che Dominga tenesse qualche zombie di scorta pronto a saltarmi addosso alla prima occasione, ma chissà perché mi sentivo un po' paranoica. È anche vero che paranoia è sinonimo di longevità. Prima di uscire nel corridoio silenzioso guardai a destra e a sinistra, come se dovessi attraversare una strada. Niente, nessun cadavere ambulante nascosto nell'ombra. L'unico rumore era il fruscio dell'aria condizionata. Nel corridoio c'era un'atmosfera particolare che ben conoscevo. Torno a casa all'alba abbastanza spesso da saper riconoscere quel tipo di silenzio, così mi soffermai brevemente a riflettere. Sapevo che era quasi l'alba senza bisogno di guardare l'orologio o la finestra, ma per qualcosa di più profondo, una sorta d'istinto atavico che doveva essere stato sviluppato da chissà quale remoto antenato che aveva trascorso le sue notti nascosto in una caverna buia in trepida attesa del giorno. Molta gente ha soltanto una vaga paura del buio, teme quello che ci si può nascondere. Io, che resuscito i morti e che ho distrutto più di una dozzina di vampiri, so esattamente che cosa si nasconde nella tenebra e ne ho terrore. Si presume che la gente abbia paura dell'ignoto, ma l'ignoranza è
una benedizione, mentre la consapevolezza è qualcosa di maledettamente spaventoso. Sapevo che cosa mi sarebbe successo se fossi stata più lenta a reagire o meno precisa nello sparare. Due anni prima c'erano stati tre omicidi senza nessuna connessione tranne il metodo usato per commetterli. Le vittime erano state letteralmente fatte a pezzi dagli zombie, senza essere divorate. Normalmente gli zombie non mangiano niente; magari danno qualche morso, ma niente di più. L'episodio del tizio cui era stata squarciata la gola era stato accidentale, nel senso che gli zombie mordono dove arrivano più facilmente. In quella fattispecie era stato un caso se il morso era stato mortale. Pura e semplice sfortuna. Di solito gli zombie fanno a pezzi le loro vittime come i bambini con gli insetti. Resuscitare uno zombie allo scopo di utilizzarlo come arma omicida implica ineluttabilmente la condanna a morte. Negli ultimi due anni il sistema giudiziario è diventato talmente efficiente che la condanna a morte non è più rinviata così a lungo come succedeva un tempo, soprattutto se il crimine è connesso in qualche modo col soprannaturale. Le streghe non vengono più bruciate sul rogo, finiscono sulla sedia elettrica. Se fossimo riusciti a trovare le prove, Dominga Salvador sarebbe stata giustiziata per avere tentato di uccidermi. John Burke avrebbe fatto la stessa fine, se fossimo riusciti a dimostrare che aveva consapevolmente scatenato la furia omicida dello zombie assassino. Il difficile, coi crimini soprannaturali, è riuscire a illustrarli in maniera convincente nelle aule di tribunale. Nella maggior parte dei casi i giurati non sono al corrente delle ultime novità in fatto d'incantesimi, e neanch'io, se è per questo. Ma mi è già capitato di testimoniare sugli zombie e sui vampiri, così ho imparato a semplificare e a cercare di aggiungere il maggior numero possibile di dettagli orrendi, nonostante le obiezioni della difesa. I giurati apprezzano un po' di brivido per procura. Di solito le testimonianze sono terribilmente noiose o strazianti, perciò tento di suscitare interesse, tanto per cambiare. Il parcheggio era buio. Le stelle scintillavano ancora nel cielo, ma vacillavano come fiamme di candela nel vento. Sentivo nell'aria il sapore dell'alba e lo gustavo. Forse è per via dell'esperienza che ho accumulato come cacciatrice di vampiri, ma adesso sono più in sintonia col passaggio tra giorno e notte di quanto non lo fossi quattro anni fa. Allora non ero capace di sentire il sapore dell'alba. Ovviamente i miei incubi erano molto meno interessanti quattro anni fa.
A ogni perdita corrisponde un guadagno. Così è la vita. Poco dopo le cinque del mattino mi recai in macchina alla ricerca dell'albergo più vicino. Non sarei riuscita a resistere nel mio appartamento prima che fosse stato completamente ripulito e il fetore cancellato, sempre ammesso che l'impresa di pulizie riuscisse a eliminarlo del tutto. In caso contrario il mio padrone di casa non sarebbe stato affatto contento; ancora meno lo sarebbe stato della finestra fracassata e delle pareti perforate dalle pallottole. Sostituire il vetro e rifare l'intonaco? Non sapevo cosa si potesse fare per chiudere i fori di proiettile, ma mi auguravo almeno di non essere citata per danni. La limpida luce bianca, prima avvisaglia dell'alba, si spandeva nell'oscurità del cielo a oriente. Molti credono che l'alba sia multicolore come il tramonto, invece all'inizio è bianca, una pura assenza di colore che è quasi assenza di notte. Il primo motel in cui m'imbattei aveva soltanto camere al primo o al secondo piano, alcune terribilmente isolate. Io volevo stare invece in mezzo alla folla, così presi alloggio allo Stouffer Concourse. Forse non era molto economico, ma almeno gli zombie sarebbero stati costretti a usare l'ascensore, dove il loro fetore avrebbe attirato l'attenzione. Inoltre c'era il servizio in camera a tutte le ore, inclusa quella indegna alla quale mi presentai. Avevo davvero bisogno del servizio in camera. Caffè, datemi del caffè! Il portiere mi guardò a occhi sgranati con la tipica espressione che significa «Sono troppo educato per dire qualcosa». Poco dopo, in ascensore, capii perché. C'erano alcuni specchi, e per qualche piano non ebbi altro da fare che esaminare la mia immagine riflessa. Il sangue scuro e raggrumato m'incrostava i capelli; una chiazza, sul lato destro della faccia, scendeva dalla fronte al collo. Merito dello shock, se non l'avevo notato quando mi ero guardata allo specchio nel bagno di casa mia. Comunque non era stato il sangue a turbare il portiere; se non si ha l'occhio abbastanza esercitato, non si capisce che è sangue. No, il problema era la mia pelle mortalmente pallida, bianca come carta. I miei occhi, che sono perfettamente castani, sembravano neri. Erano grandi, neri e... strani. Inoltre avevo un'espressione sbalordita, come se fossi sorpresa di essere ancora viva. E forse era proprio così. Continuavo a sforzarmi di reagire allo shock, ma, per quanto mi sentissi a posto, la mia faccia raccontava una storia del tutto diversa. In attesa di riuscire finalmente a dormire, decisi di leggere il file su Gaynor.
La stanza aveva due letti e più spazio di quanto me ne servisse. Indossai indumenti puliti, misi la Firestar nel cassetto del comodino e portai la Browning in bagno. Se fossi stata attenta e se non avessi fatto andare il getto della doccia troppo forte, avrei potuto appendere la fondina ascellare al portasciugamani, cioè a portata di mano; non si sarebbe neanche bagnata. Ma in realtà quasi tutte le armi moderne sparano anche se sono bagnate, e persino sott'acqua. Avevo quasi dimenticato il servizio in camera. Vestita soltanto di un asciugamano ordinai caffè, zucchero e panna. Quando mi chiesero se lo volessi decaffeinato risposi educatamente di no. È una cosa insopportabile, come quando un cameriere ti chiede se preferisci una Diet Coke invece di una normale. Agli uomini non chiedono mai se vogliono la Diet Coke, nemmeno se sono grassi. Quanto a me, posso fare il pieno di caffeina e dormire come una bimba. Il vero caffè non mi tiene sveglia e non mi rende nervosa. Però è molto più buono. Sì, potevano lasciare il carrello fuori della porta. No, non dovevano bussare. Il caffè mi sarebbe stato addebitato sul conto? Mi stava benissimo. Il numero della mia carta di credito lo avevano già. E, quando ce l'hanno, sono sempre ansiosi di aggiungere qualcosa al conto. Entro il limite della carta, ovviamente. Incuneai una sedia sotto la maniglia della porta della camera, per non essere colta di sorpresa da eventuali tentativi d'irruzione. Poi mi chiusi a chiave in bagno con la pistola vicino alla doccia. Erano tutte le misure di sicurezza che potevo prendere in quella stanza. Chissà perché mi sento vulnerabile quando sono nuda. Preferisco di gran lunga affrontare i cattivi quando ho i vestiti addosso. Ma credo sia così un po' per tutti. La spalla morsa e bendata era un problema, ma dovevo lavarmi il sangue dai capelli. Usai lo shampoo e il balsamo dei flaconcini forniti dall'albergo, che profumavano come i fiori dovrebbero profumare e non profumano. Con le incrostazioni di sangue raggrumato sembravo maculata e l'acqua scorreva rosata giù per lo scolo. Consumai un flaconcino intero di shampoo per lavarmi i capelli sino a farli stridere. L'ultimo risciacquo m'infradiciò le bende. Il dolore alla spalla destra era acuto e persistente. Avrei dovuto ricordarmi di non rimanere mai sfornita di siero antitetanico. Col sapone dell'albergo e col guanto di spugna mi lavai il più scrupolo-
samente possibile, poi rimasi sotto il getto caldo, con l'acqua che mi scorreva su tutto il corpo, senza più curarmi delle bende. E se non fossimo riusciti a collegare Dominga agli zombie? Se non fossimo riusciti a trovare le prove? Lei ci avrebbe riprovato, perché ormai era in gioco il suo orgoglio. Con un piccolo aiuto da parte della polizia, avevo distrutto i due zombie che Dominga aveva mandato a uccidermi, quindi per lei era diventata senz'altro una questione personale. Aveva resuscitato uno zombie che era poi sfuggito completamente al suo controllo e, pur di non ammettere il suo errore, lasciava massacrare un sacco di gente innocente. E naturalmente avrebbe preferito farmi fuori piuttosto che permettermi di dimostrarlo. Stronza vendicativa! La Señora Salvador doveva essere fermata; se il mandato non fosse servito, avrei trovato un altro modo. Aveva detto chiaro e tondo che si trattava di lei o di me. Io preferivo che fosse lei. Riaprii gli occhi e chiusi la doccia. Non volevo più pensarci, perché sarebbe stato omicidio premeditato. A me sembrava piuttosto legittima difesa, ma dubitavo che una giuria avrebbe condiviso quella opinione. Sarebbe stato maledettamente difficile provarlo. Quello che volevo era Dominga fuori dai piedi, morta o in galera, in modo da poter restare viva senza essere condannata per omicidio; e poi volevo trovare lo zombie assassino prima che commettesse altre stragi. Sarebbe stata dura, per non parlare del ruolo che poteva avere John Burke in tutto quel casino. Ah, dovevo anche impedire a Harold Gaynor di costringermi a compiere un sacrificio umano. Sì, quello l'avevo quasi scordato. Dopotutto, era stata una settimana impegnativa. Il caffè era fuori della porta, sopra un piccolo vassoio. Lo portai dentro, lo posai sul pavimento, richiusi a chiave la porta, incuneai di nuovo la sedia sotto la maniglia. Soltanto dopo avere fatto tutto ciò portai il caffè sul tavolino dove avevo già lasciato la Browning. La fondina era sul letto. Aprii le tende alle finestre. Normalmente le avrei lasciate chiuse, ma quel giorno volevo vedere la luce del giorno. Il sole non era ancora spuntato, però un morbido chiarore mattutino era diffuso nel cielo. Il caldo non era ancora arrivato a soffocare la frescura del mattino. Il caffè non faceva schifo, ma non era neanche buono. Certo, anche il peggior caffè è comunque una cosa meravigliosa, tranne forse quello della stazione di polizia. Il caffè mi conforta. Credo che sia meglio degli alcolici. Posai il file sul tavolino e cominciai a leggere. Alle otto del mattino,
prima dell'ora in cui mi alzo di solito, avevo letto tutto fino all'ultimo appunto e avevo esaminato tutte le foto, incluse le meno nitide. Ormai sapevo più di quanto avrei voluto su Mr. Harold Gaynor, ma purtroppo non c'era niente di particolarmente utile. Non c'erano prove sui rapporti di Gaynor con la mafia. Era un multimilionario che si era fatto da solo e poteva permettersi di spendere i due milioni che Tommy mi aveva offerto. Bello conoscere qualcuno in grado di pagare i propri conti. La madre era morta da dieci anni, il padre prima della sua nascita, ma non esistevano documenti al riguardo. Sembrava anzi che suo padre non fosse mai esìstito. Voleva nascondere di essere figlio illegittimo? Forse. In tal caso era letteralmente un bastardo. E con questo? Già lo era in senso figurato. Appoggiai alla caffettiera la foto di Wheelchair Wanda. Sorrideva come se fosse consapevole che qualcuno la stava fotografando, o forse era soltanto molto fotogenica. Altre due fotografie la ritraevano con Gaynor. Nella prima sorridevano tutti e due, tenendosi per mano, la sedia a rotelle di Gaynor spinta da Tommy e quella di Wanda spinta da Bruno. Lei osservava lui con uno sguardo che avevo già visto in altre donne. Adorazione, amore. Era capitato anche a me quand'ero al college, ma soltanto per breve tempo. È una cosa che si supera. La seconda foto era identica alla prima, con Bruno e Tommy che spingevano le sedie a rotelle, ma i due innamorati non si tenevano più per mano e soltanto Gaynor sorrideva. Wanda sembrava arrabbiata. Accanto a Gaynor, dalla parte opposta, c'era la bionda Cicely dagli occhi vacui. Era lei a tenere la mano a lui. Dunque Gaynor se le era tenute tutt'e due per un po'. Ma perché Wanda se n'era andata? Gelosia? Volontà di Cicely? Gaynor si era stancato di lei? L'unico modo per scoprirlo era chiederlo alla diretta interessata. Collocai la foto con Cicely accanto al primo piano di Wanda che sorrideva. Una giovane donna infelice, un'amante abbandonata. Se il suo odio per Gaynor era superiore alla paura, forse avrebbe accettato di parlare con me. Sarebbe stata una pazza a lasciarsi intervistare dai giornalisti, ma io non volevo divulgare i suoi segreti. Semmai volevo scoprire quelli di Gaynor, per impedirgli di farmi del male. A parte quello, volevo qualcosa da riferire alla polizia. Mr. Gaynor avrebbe avuto altre preoccupazioni se fossi riuscita a farlo sbattere in galera. Allora forse si sarebbe dimenticato di una risvegliante
che rifiutava di collaborare, sempre che, naturalmente, non scoprisse che io ero responsabile del suo arresto. Se ciò fosse successo, sarebbe stato un vero guaio: Gaynor mi sembrava un tipo abbastanza vendicativo. Dopo aver fatto arrabbiare Dominga Salvador non avevo bisogno d'inimicarmi nessun altro. Chiusi di nuovo le tende e chiesi di essere svegliata a mezzogiorno. Irving avrebbe potuto accettare un po' di ritardo nella restituzione del file, visto che gli avevo procurato l'intervista col nuovo Master della Città. Ih caso contrario, che andasse al diavolo! Io volevo dormire. L'ultima cosa che feci prima di coricarmi fu chiamare la casa di Peter Burke, dove supponevo che alloggiasse John. Al quinto squillo rispose la segreteria telefonica. «Sono Anita Blake. Potrei avere qualche informazione per John Burke a proposito della faccenda di cui abbiamo discusso giovedì.» Ammetto che il messaggio era un po' vago, ma non volevo certo dire: «Chiamami. Devo parlarti dell'omicidio di tuo fratello». Sarebbe sembrato melodrammatico e crudele. Per sicurezza lasciai il numero dell'albergo, oltre al mio. Probabilmente la famiglia Burke aveva disattivato la suoneria. Io lo avrei fatto. La notizia era stata pubblicata in prima pagina perché Peter era - anzi era stato - un risvegliante e non capita spesso che i risveglianti rimangano uccisi durante una rapina qualsiasi. Normalmente è qualcosa di più insolito. Decisi che nel tornare a casa avrei lasciato il file alla portineria del giornale; non me la sentivo di parlare con Irving della sua favolosa intervista, e sentirmi dire quanto fosse affascinante Jean-Claude e quali piani grandiosi avesse per la città. Sicuramente il Master era stato molto prudente nelle sue dichiarazioni perché era deciso a fare bella figura, ma io ero a conoscenza della verità. Sapevo che i vampiri erano mostri proprio come gli zombie, se non peggiori, considerato che di solito, a differenza degli zombie, scelgono di diventare cadaveri ambulanti, proprio come Irving aveva deciso di ascoltare Jean-Claude. Certo, se Irving non fosse stato con me, il Master lo avrebbe probabilmente ignorato. Insomma, era colpa mia anche se lui aveva potuto scegliere. Sebbene fossi esausta, sapevo che sarei riuscita a dormire solo dopo avere sentito la voce di Irving. Potevo fingere di chiamarlo soltanto per dirgli che gli avrei portato il file più tardi. Non sapendo se fosse già uscito per andare al lavoro, provai prima a casa sua e lui rispose al primo squillo. «Pronto.» Subito mi rilassai. «Ciao, Irving. Sono io.»
«Ms. Blake! A cosa devo questo precoce piacere mattutino?» La sua voce sembrò perfettamente normale. «Stanotte c'è stata una festicciola nel mio appartamento, così speravo di poterti portare il file un po' più tardi.» «Che tipo di festicciola?» domandò, in un tono che rivelava la smania di sapere tutto. «Del tipo che riguarda la polizia e non te», ribattei. «Immaginavo che avresti detto qualcosa del genere», replicò. «Stai per andare a dormire soltanto adesso?» «Già.» «Suppongo di poter concedere un po' di sonno a una risvegliante che ha lavorato fino a tardi. La mia collega potrebbe persino essere comprensiva.» «Grazie, Irving.» «Tutto bene, Anita?» Avrei voluto rispondere di no, ma non lo feci. Preferii ignorare la domanda. «Jean-Claude ha fatto il bravo?» «È stato grande!» assicurò Irving con un entusiasmo sincero. «È magnifico nelle interviste!» Tacque per un momento. «Ehi, ho capito! Hai chiamato soltanto per sapere com'è andata, per accertarti che stessi bene.» «No di certo», mentii. «Grazie, Anita. Significa molto per me. Comunque ti garantisco che è stato un vero gentiluomo.» «Magnifico. Allora adesso ti lascio. Buona giornata.» «Lo sarà sicuramente. Il mio capo sta facendo la ruota come un pavone per la gioia di poter pubblicare un'intervista esclusiva col Master della Città.» Pronunciò l'appellativo con una tale soddisfazione che non potei trattenermi dal ridere. «Buonanotte, Irving!» «Cerca di dormire un po', Blake. Ti richiamo tra un paio di giorni per quegli articoli sugli zombie.» «Allora ci sentiamo.» Riagganciammo. Irving stava magnificamente. Avrei dovuto preoccuparmi un po' più di me stessa e un po' meno degli altri. Spensi le luci e mi rannicchiai sotto le lenzuola, col pinguino tra le braccia e con la Browning Hi-Power sotto il cuscino. Non era così comoda e rapida da impugnare come se fosse stata nella fondina assicurata alla testiera del letto in camera mia, però era sempre meglio di niente. Non avrei saputo dire se fosse più rassicurante il pinguino o la pistola.
Forse lo erano tutti e due allo stesso modo, anche se per ragioni diverse. Recitai le mie preghiere come una brava bambina, chiedendo sinceramente la grazia di non sognare. 19 Grazie alla cancellazione di un precedente impegno, l'impresa di pulizie poté accogliere la mia richiesta. Nel pomeriggio, il mio appartamento fu tutto lindo e profumato come dopo le pulizie di primavera. La manutenzione del condominio sostituì il vetro rotto e stuccò i fori di proiettile, trasformandoli in macchioline bianche sulle pareti. Nell'insieme il risultato fu magnifico. John Burke non rispose al mio messaggio, forse perché ero stata troppo criptica. Mi riproposi di lasciargliene uno un po' più chiaro in seguito, e passai a qualcosa di più gradevole: fare jogging. Indossai una canottiera, calzini di spugna molto carini, Nike bianche a bande azzurre e calzoncini blu a bande bianche. In una tasca interna chiusa dal velcro misi un'American Derringer calibro 38 Special: 184 grammi per una decina di centimetri, praticamente una grossa piuma. Certo, la tasca col velcro non permetteva un'estrazione rapida e se avessi dovuto tirare a più di un metro di distanza sarei stata più precisa con lo sputo; ma i gorilla di Gaynor non volevano uccidermi, volevano soltanto farmi male, quindi avrebbero dovuto avvicinarsi abbastanza da permettermi di usare la Derringer. Avevo soltanto due colpi, esplosi i quali mi sarei trovata nei guai; purtroppo non ero riuscita a escogitare nessun modo di portarmi dietro la calibro 9. Non si può mica andare a correre con una tale artiglieria. È sempre questione di scelte. In soggiorno mi aspettava Veronica Sims, detta Ronnie, un metro e settantacinque, bionda, occhi grigi. È un'investigatrice privata e collabora con l'Animators Incorporated. Ci alleniamo insieme due volte la settimana, a meno che una di noi due sia fuori città, ferita o impegnata a lottare coi vampiri. Le ultime due evenienze si verificano più spesso di quanto vorrei. Ronnie indossava calzoncini porpora e una T-shirt che diceva: AL DI FUORI DEL CANE, IL LIBRO È IL MIGLIOR AMICO DELL'UOMO. DENTRO IL CANE, È TROPPO BUIO PER LEGGERE. Dopotutto qualche motivo c'è, se lei e io siamo amiche. «Mi sei mancata, giovedì, in palestra», dichiarò. «È stato tremendo il funerale?»
«Gia.» Non chiese particolari, perché sa che non sono molto portata per le cerimonie funebri. A differenza di molta gente, che detesta i funerali per via dei morti, io li odio per tutte le stronzate emotive che comportano. Con le lunghe gambe divaricate, Ronnie stava facendo stretching. Il riscaldamento lo facciamo sempre nel mio appartamento, perché quasi tutti gli esercizi di stretching sono poco adatti ai calzoncini. Quando la imitai, i muscoli delle mie cosce protestarono. La scomodità della Derringer era sopportabile. «Tanto per curiosità», riprese Ronnie, «perché senti il bisogno di portarti dietro una pistola?» «Lo faccio sempre», risposi. Si limitò a guardarmi con evidente disgusto. «Se non vuoi dirmelo, va bene, ma niente stronzate.» «D'accordo, d'accordo!» cedetti. «Ti sembrerà strano, ma nessuno mi ha chiesto di non andarlo a raccontare in giro.» «Come?» replicò. «Nessuno ti ha intimato di non andare alla polizia?» «Nessuno.» «Terribile! Quanta cordialità!» «Niente cordialità.» Sedetti sul pavimento e divaricai le gambe, imitata da Ronnie. Ci curvammo tutt'e due come per far rotolare una palla. «La cordialità non c'entra proprio niente.» Piegai il busto a sinistra fino a toccare la coscia con la guancia. «Racconta», esortò. Lo feci. Quando arrivai alla fine del racconto anche gli esercizi di riscaldamento erano conclusi. Eravamo pronte a partire, «Merda, Anita! Zombie che ti entrano in casa per ammazzarti e un milionario pazzo che vuole farti compiere un sacrificio umano!» Mi scrutò con gli occhi grigi. «Sei l'unica persona di mia conoscenza che abbia problemi più strani dei miei.» «Grazie tante!» Chiusi la porta a doppia mandata e misi le chiavi nella tasca interna insieme con la Derringer. Sapevo che l'avrebbero graffiata tutta, ma cosa avrei dovuto fare? Correre con le chiavi in mano? «Harold Gaynor, eh? Posso cercare di scoprire qualcosa sul suo conto», propose. «Non stai lavorando a nessun caso?» Scendemmo rumorosamente le scale. «Ne sto seguendo tre di frode assicurativa, ma si tratta soprattutto di fare
sorveglianza e scattare fotografie. Se mi tocca pranzare ancora una volta in un fast food, mi metto a cantare jingle pubblicitari!» «Torna da me a farti la doccia e a cambiarti, poi andiamo a goderci un vero pranzo.» «Sarebbe bello, ma non vorrai certo far aspettare Jean-Claude.» «Dacci un taglio, Ronnie.» Scrollò le spalle. «Dovresti stare alla larga il più possibile da quel... quella creatura, Anita.» «Lo so. Ma accettare d'incontrarlo mi è sembrato il male minore.» «Qual era l'altra possibilità?» «Farmi rapire e portare da lui.» «Bella alternativa!» «Già.» Uscire dal palazzo fu come entrare in un forno. Il caldo m'investì come una percossa, facendomi quasi barcollare. Dovevamo proprio andare a correre con un caldo del genere? Guardai Ronnie, che è una decina di centimetri più alta di me, soprattutto gambe. Per correre con lei devo essere io a fare l'andatura e per giunta mi devo sforzare. Ottimo allenamento. «Ci saranno quasi quaranta gradi», osservai. «Nessun dolore, nessun beneficio», sentenziò Ronnie, che teneva una bottiglietta d'acqua nella sinistra. Più pronte di così non avremmo potuto essere. «Sei chilometri d'inferno», profetizzai. «Facciamolo!» Come sempre partimmo ad andatura lenta e regolare, ma la corsa sarebbe durata una trentina di minuti, come al solito. L'aria sembrava solida per via del caldo. L'umidità è quasi sempre intorno al cento per cento, qui in città; con quasi quaranta gradi di temperatura, è come stare all'inferno. Viva l'estate di St. Louis! L'esercizio fisico non mi piace. I fianchi snelli e i polpacci modellati non sono un incentivo sufficiente per una tortura del genere, mentre lo è la capacità di correre più in fretta e più a lungo dei cattivi. A volte si riduce tutto a chi è più svelto, più forte, più reattivo, e io di sicuro non ho il fisico adatto a questo lavoro. Non mi sto certo lamentando, ma quarantotto chili non fanno una stazza imponente. D'altra parte, anche pesare più di cento chili non mi servirebbe a niente, visto che i vampiri sono capaci di sollevare una macchina con una mano sola. Insomma, sono tagliata fuori dalla competizione e mi ci sono dovuta abituare.
Il primo chilometro è sempre il peggiore, ma soltanto quando ne ho fatti tre il mio corpo si rende conto che è inutile tentare di convincermi a porre fine a quella follia. Stavamo attraversando un vecchio quartiere con molti cortili recintati e case degli anni '50 o persino dell'Ottocento. C'era anche un magazzino di mattoni che risaliva a prima della guerra civile e segnava i nostri tre chilometri. Ormai mi sentivo così sciolta e vigorosa che mi sembrava di essere capace di correre in eterno, a patto di non accelerare troppo. Ero completamente concentrata sulla corsa, per non perdere il ritmo, perciò fu Ronnie a vedere l'uomo. «Non voglio essere allarmista», esordì, «ma perché quel tizio se ne sta fermo laggiù?» Guardai avanti. All'angolo di un muro di mattoni c'era un olmo molto alto con un uomo accanto. Non cercava di nascondersi, però indossava una giacca di jeans che era decisamente eccessiva con quel caldo, a meno che non servisse per nascondere una pistola. «Da quanto tempo se ne sta là?» «È appena sbucato da dietro l'albero», rispose Ronnie. La paranoia regna suprema. «Torniamo indietro. Sono comunque tre chilometri.» Ronnie annuì. Girammo sui tacchi e continuammo a correre nella direzione opposta, senza che l'uomo alle nostre spalle c'intimasse di fermarci. La paranoia è una brutta malattia. Dall'angolo opposto del muro di mattoni sbucò un secondo uomo. Continuammo a correre ancora per qualche passo mentre io giravo la testa a guardare indietro. Mr. Giacca Jeans ci seguiva con disinvoltura, infilandosi una mano sotto la giacca sbottonata. E tanti saluti alla paranoia. «Corriamo», suggerii. Il secondo uomo sfilò una pistola dalla tasca della giacca. Subito smettemmo di correre. Sembrò una buona idea in quel momento. «Bene», approvò l'uomo. «Non me la sento d'inseguire qualcuno con questo caldo. Dovete essere soltanto vive e coscienti, ragazze. Tutto il resto è facoltativo.» Aveva un'automatica calibro 22: senza molto potere d'arresto, ma perfetta per ferire. Avevano previsto proprio tutto. Sentendo che Ronnie era molto tesa accanto a me, ebbi la tentazione di stringerle una mano, ma resistetti. Non sarebbe stato adatto a una cacciatrice di vampiri dura come il ferro. «Che volete?» domandai.
«Così va meglio», approvò. Indossava una T-shirt e aveva la pancia, ma le braccia erano grosse. Sarei stata pronta a scommettere che i suoi pugni facevano male anche se era in sovrappeso, ma speravo di non essere costretta a mettere alla prova la mia teoria. Mi misi con la schiena contro il muro di mattoni, imitata da Ronnie. Nel frattempo Mr. Giacca Jeans ci aveva quasi raggiunto. Nella destra aveva una Beretta calibro 9, che non serviva soltanto per ferire. Guardai Ronnie, poi Ciccio, che le era molto vicino, poi Mr. Giacca Jeans, e infine di nuovo Ronnie. Lei ricambiò il mio sguardo, umettandosi le labbra una sola volta, prima di fissare nuovamente Ciccio. La calibro 22 a lei, il tizio con la Beretta era mio. Il meglio in fatto di divisione dei compiti. «Che cosa volete?» ripetei, anche se odio ripetermi. «Soltanto che veniate a fare un giretto con noi», ghignò Ciccio. Sorrisi anch'io, prima di volgermi a Giacca Jeans e alla sua docile Beretta. «Tu non parli?» «Certo che parlo», rispose, prima di avanzare di due passi, con la pistola fermamente puntata al mio petto. «Sono molto loquace.» Mi sfiorò i capelli con la punta delle dita, quasi toccandomi con la Beretta. Se avesse premuto il grilletto, sarebbe stata la fine per me. Sembrava che la nera canna opaca della pistola diventasse più grande. Era soltanto un'illusione, ma in questi casi, quando sei dalla parte sbagliata dell'arma, più la guardi più t'inganni. «Niente da fare, Seymour», intervenne Ciccio. «Niente fica e non possiamo ucciderla. Queste sono le regole.» «È una stronzata, Pete.» «Puoi avere la bionda», lo rincuorò Pete, alias Ciccio. «Nessuno ha detto che non possiamo divertirci con lei.» Evitai di guardare Ronnie per fissare Seymour. Dovevo tenermi pronta per un'eventuale occasione. Guardare la mia amica per vedere come stesse reagendo alla prospettiva del suo stupro imminente non sarebbe servito a nulla, davvero. «Potere fallico, Ronnie», commentai. «Si riduce tutto alle gonadi.» Seymour corrugò la fronte. «Che cazzo significa?» «Significa che ti credo stupido, Seymour», spiegai sorridendo, «e che il poco cervello che possiedi lo hai tutto nelle palle.» Mi tirò un ceffone che mi fece barcollare senza atterrarmi, ma la sua pistola rimase salda, senza neanche un tremito. Merda! Con un brontolio
sordo mi tirò anche un cazzotto e questa volta andai giù. Rimasi per un momento sul marciapiede granuloso ad ascoltare il martellare del sangue alle tempie. Il ceffone mi aveva procurato soltanto una specie di bruciore, ma il cazzotto mi aveva fatto male. Qualcuno mi tirò un calcio nelle costole. «Lasciatela stare!» gridò Ronnie. Rimasi bocconi fingendomi ferita, ma i colpi non erano stati duri. Intanto cercai la tasca interna col velcro. Seymour agitò la Beretta davanti alla faccia di Ronnie, che gridava. Pete l'aveva afferrata per le braccia nel tentativo d'immobilizzarla. Insomma, la situazione stava degenerando. Bene! Sorvegliando le gambe di Seymour, mi alzai in ginocchio, poi gli ficcai la Derringer nell'inguine. Lui si bloccò e abbassò gli occhi. «Non muoverti o ti spappolo i coglioni», intimai. Subito Ronnie tirò una gomitata nel plesso solare a Ciccio, che si piegò portandosi le mani allo stomaco. Lei si girò a dargli una violenta ginocchiata in faccia, facendogli spruzzare sangue dal naso. Mentre barcollava gli sparò un pugno in faccia, spingendo con una rotazione delle spalle e del busto. Lui crollò e lei s'impossessò della calibro 22. Resistetti alla tentazione di gridare: «Brava Ronnie!» perché non sarebbe stato da vera dura. Avremmo potuto scambiarci un cinque più tardi. «Di' al tuo amico di non muoversi, Seymour, altrimenti premo il grilletto.» Lui deglutì abbastanza rumorosamente perché potessi sentirlo. «Non muoverti, Pete. Okay?» Pete si limitò a fissarci. «Per favore, Ronnie, prendi la pistola a Seymour. Grazie.» Ero ancora in ginocchio nella ghiaia con la Derringer ficcata nell'inguine di Seymour, che si lasciò disarmare senza opporsi. Chissà perché. «Questo lo tengo sotto tiro, Anita», annunciò Ronnie. Non mi girai a guardarla perché sapevo che lei avrebbe fatto il suo lavoro come io avrei fatto il mio. «Seymour, questa è una 38 Special a due colpi che può sparare anche munizioni calibro 22, 44 o 357 Magnum.» Era una balla, perché la Derringer in nuova versione leggera non poteva usare munizioni di calibro superiore al 38, ma sarei stata pronta a scommettere che Seymour non era in condizione di apprezzare la differenza. «Col 44 o il 357 dovresti dare il bacio d'addio ai gioielli di famiglia. Col 22 potresti anche cavartela soltanto con una sofferenza straziante. E adesso, per citare uno dei miei modelli, dimmi: 'Ti senti fortunato oggi'?» «Cosa vuoi, cazzo? Cosa vuoi?» chiese, con voce acuta e tremante di
paura. «Chi vi ha assoldati per rapirci?» Scosse la testa. «No, cazzo, ci ammazzerà.» «Il 357 Magnum apre buchi fottutamente grossi, Seymour.» «Non dirle un cazzo», intervenne Pete. «Per favore, Ronnie, se dice soltanto un'altra parola fagli saltare una rotula.» «Con vero piacere», acconsentì lei. Mi chiesi se l'avrebbe fatto davvero e anche se, in caso contrario, io stessa le avrei imposto di farlo. Meglio non scoprirlo. «Parla, Seymour, e subito, altrimenti premo il grilletto.» Spinsi un po' più forte con la Derringer e sicuramente gli feci male, perché eseguì una specie di balletto sulla punta dei piedi. «Dio! Non farlo, ti prego!» «Chi vi ha assoldati?» «Bruno.» «Sei una testa di cazzo, Seymour!» gridò Pete. «Adesso quello ci ammazza!» «Per favore, Ronnie, sparagli», dissi. «Hai detto una rotula, vero?» «Già.» «Che ne dici di un gomito, invece?» «Scegli tu.» «Siete pazze», esclamò Seymour. «Sì, e faresti bene a non dimenticarlo», replicai. «Cosa vi ha detto esattamente Bruno?» «Ha detto di portarvi tutt'e due a un edificio su Grand, ma che potevamo far male alla bionda per convincere te.» «Dammi l'indirizzo», ordinai. Seymour ubbidì. Credo che mi avrebbe svelato anche l'ingrediente segreto della salsa magica, se glielo avessi chiesto. «Se ci andate, Bruno capirà che ve l'abbiamo detto noi», osservò Pete. «Ronnie...» «Spara pure, non me ne frega niente», soggiunse Pete. «Se andate là, o se ci mandate la polizia, noi siamo morti comunque.» Guardai Pete, che sembrava molto sincero. Certo, lui e il suo compare erano due cattivi, ma... «Okay, non andremo a far visita a Bruno.» «E neanche alla polizia?» domandò Ronnie.
«No. Se lo facessimo, tanto varrebbe ammazzarli subito. E non è necessario farlo, vero, Seymour?» «No, cazzo, no!» «Quanto vi paga il vecchio Bruno?» «Quattrocento a testa.» «Non è abbastanza», valutai. «Adesso mi alzo, Seymour, e lascio le tue palle dove si trovano, ma non avvicinarti mai più a me o a Ronnie, altrimenti dico a Bruno che l'hai venduto.» «Quello ci ammazza, cazzo! E prima ci tortura!» «Esatto, Seymour. Però possiamo semplicemente far finta che tutto questo non sia mai successo, vero?» Annuì vigorosamente. «Sei d'accordo anche tu, Pete?» domandai. «Non sono mica stupido. Bruno ci strapperebbe il cuore e ce lo farebbe mangiare. Non parleremo.» Sembrava disgustato. Mi alzai e indietreggiai prudentemente per allontanarmi da Seymour, mentre Ronnie puntava la Beretta contro Pete. Aveva la 22 infilata nei calzoncini. «Andatevene», ordinai. Seymour aveva il viso pallido, tutto imperlato di sudore, come se fosse in preda alla nausea. «Posso riavere la mia pistola?» chiese, con candore. Decisamente non era molto sveglio. «Non dire cazzate», ribattei. Pete si rialzò, col sangue che cominciava a coagularsi sotto il naso. «Vieni, Seymour. Dobbiamo andarcene adesso.» S'incamminarono fianco a fianco lungo la strada. Seymour se ne stava un po' raccolto in se stesso, come se stesse resistendo alla smania di afferrarsi il pacco. Ronnie si lasciò sfuggire un gran sospiro, addossandosi al muro, con la pistola ancora nella destra. «Mio Dio», commentò. «Già», convenni. Mi toccò il viso, dove Seymour mi aveva colpita, facendomi trasalire di dolore. «Tutto bene?» «Sicuro», mentii. Metà della faccia mi faceva un gran male, ma dirlo non sarebbe servito a farmi sentire meglio. «Andiamo in quel posto dove dovevano portarci?» chiese Ronnie. «No.» «Perché no?» «So chi è Bruno e da chi prende ordini. So anche perché hanno cercato di rapirmi. Cos'altro potrei scoprire che valga il sacrificio di due vite?»
Ronnie ci pensò per un momento. «Credo che tu abbia ragione. Ma non vuoi neanche denunciare l'accaduto alla polizia?» «Perché dovrei? Io sono okay, tu sei okay, Seymour e Pete non torneranno.» Si strinse nelle spalle. «Non volevi che gli facessi davvero saltare una rotula, eh? Voglio dire, stavamo facendo il poliziotto buono e il poliziotto cattivo, giusto?» Così dicendo mi guardò dritto in faccia coi suoi fervidi e sinceri occhi grigi. Distolsi lo sguardo. «Torniamo a casa. Non ho più molta voglia di correre.» «Neanch'io.» Ci mettemmo in cammino. Ronnie si sfilò la T-shirt dai calzoncini per coprire la Beretta; tenne nascosta in mano la 22, che così non si notava granché. «Era soltanto una finta, vero? Stavamo soltanto facendo un po' di scena, no?» «Non lo so.» «Anita!» «Davvero, non lo so.» «Non potevo mica sfracellargli un ginocchio soltanto per farlo star zitto», disse Ronnie, sempre più perplessa. «Allora è un bene che tu non sia stata costretta a farlo.» «Avresti davvero sparato a quel tizio?» domandò. Da lontano arrivava il canto di un uccellino che sembrava portare un po' di fresco nel caldo afoso. «Rispondi, Anita. Avresti davvero premuto il grilletto?» «Sì.» «Sì?» ripeté, con una certa sorpresa. «Sì.» «Merda!» Proseguì in silenzio accanto a me per un paio di minuti prima di domandare: «Che calibro usi oggi?» «38.» «L'avresti ammazzato.» «Probabile.» Mi accorsi che mi guardava di sbieco con un misto di orrore e di ammirazione, cioè un'espressione che avevo già visto, ma mai sulla faccia di un'amica. Ne fui addolorata, però quella sera cenammo al Miller's Daughter, a Old St. Gharles. Atmosfera piacevole e cibo fantastico, come sempre.
Passammo una gran bella serata chiacchierando e ridendo, senza che nessuna di noi due accennasse a quanto era successo nel pomeriggio. Se si finge con convinzione sufficiente, forse sparisce. 20 Alle dieci e mezzo di quella stessa sera arrivai nel quartiere dei vampiri. Indossavo polo blu, un paio di jeans e una giacca a vento rossa per nascondere la Browning Hi-Power nella fondina ascellare. Avevo le ascelle fradicie di sudore, ma era maledettamente meglio che essere disarmata. Il divertimento pomeridiano si era risolto senza danni, ma in parte era stata soltanto fortuna, senza contare che Seymour si era spaventato e io ero riuscita a incassare le sue botte con disinvoltura sufficiente. Anche se il ghiaccio aveva fatto effetto, avevo la metà sinistra del viso arrossata e gonfia come un frutto troppo maturo, ma almeno non c'era ancora il livido. Il Laughing Corpse era uno dei club più nuovi del Distretto. I vampiri sono sexy, questo devo ammetterlo. Ma divertenti? Non credo proprio. Tuttavia mi resi conto di essere in minoranza, almeno a giudicare dalla gente che aspettava di entrare. La fila faceva il giro dell'isolato. Non avevo pensato che mi servisse un biglietto, una prenotazione o chissà cos'altro. Dopotutto, conoscevo il capo. Così superai la fila dirigendomi alla cassa. I clienti erano soprattutto giovani: donne eleganti, uomini in abiti sportivi, qualcuno in giacca e cravatta; tutti chiacchieravano eccitati e si sfioravano con apparente noncuranza. Coppie. Ricordo cosa significa uscire in coppia, anche se è passato parecchio tempo dall'ultima volta. Forse, se non fossi sempre immersa nella merda fino al collo, uscirei più spesso in coppia. Forse. «Ehi!» protestò un uomo, quando passai davanti a due coppie. «Scusi», replicai. La cassiera mi guardò corrugando la fronte. «Deve mettersi in fila e aspettare il suo turno, signora.» Signora? «Non voglio il biglietto e non sono qui per vedere lo spettacolo. Ho appuntamento con Jean-Claude.» «Be', non so che dire. Come faccio a sapere che non è una giornalista?» Giornalista? Respirai profondamente. «Chiami Jean-Claude e gli dica che Anita è qui. Okay?» Continuò a scrutarmi con la fronte corrugata. «Senta, chiami Jean-Claude e basta. Se fossi una giornalista ficcanaso ci
penserebbe lui a liquidarmi. Ma, siccome sono chi ho detto di essere, sarà felice di essere stato chiamato. Non può sbagliare.» «Non ne sono sicura.» Resistetti a una gran voglia di mettermi a inveire, perché probabilmente non sarebbe servito. Probabilmente. «Per favore, chiami Jean-Claude, la prego», insistetti. Forse fu l'implorazione a convincerla. Mi diede le spalle con una rotazione dello sgabello girevole e sollevò a metà uno sportello nella parete alle sue spalle. Aveva davvero poco spazio. Non sentii cosa disse, però si girò di nuovo verso di me. «Okay, il direttore dice che può entrare.» «Magnifico! Grazie!» Salii i gradini, mentre tutti i clienti in fila mi guardavano malissimo. Sentii sulla schiena la loro rovente ostilità. D'altra parte sono stata guardata anche peggio, quindi non feci una piega. Comunque sia, so che chi fa il furbo non piace a nessuno. Nel club regnava la semioscurità, come capita solitamente nei locali del genere. «Biglietto, prego», mi accolse un tizio che stava vicino alla porta. Alzai gli occhi a guardarlo. Indossava una T-shirt che diceva: IL LAUGHING CORPSE È UNO SPASSO. Sul petto aveva anche una grossa caricatura di un vampiro a bocca spalancata. Era grande, grosso, muscoloso e aveva «buttafuori» tatuato in fronte. «Biglietto, prego», ripeté. Prima la cassiera e adesso il bigliettaio? «Il direttore ha detto che posso entrare. Devo vedere Jean-Claude», spiegai. «Willie! L'hai fatta passare tu?» chiese. Mi girai, trovandomi di fronte Willie McCoy, e gli sorrisi. Ero contenta di vederlo, cosa che mi sorprendeva. Di solito non sono felice di vedere i morti viventi. Willie è basso e magro, coi capelli neri spalmati all'indietro. Nella semioscurità non vedevo bene di che colore fosse il suo completo, ma sembrava una specie di rosso pomodoro un po' spento, con una larga cravatta di un verde sgargiante sopra la camicia bianca. Fui costretta a guardarlo due volte per esserne sicura, ma era proprio così; il fermacravatta fosforescente aveva la forma di una ragazza che ballava l'hula. Non avevo mai visto Willie vestito con più buon gusto. Sorrise, rivelando abbondantemente le zanne. «È bello vederti, Anita!» «Anche per me, Willie.» «Davvero?» «Certo.» Il suo sorriso si allargò e i canini scintillarono nella luce fioca. Non era
morto da molto. «Da quanto sei il direttore?» domandai. «Circa due settimane.» «Congratulazioni.» Mi si avvicinò di un passo, e io indietreggiai istintivamente. Niente di personale, ma un vampiro è pur sempre un vampiro, quindi non bisogna lasciarlo avvicinare troppo; anche se è morto da poco, ha il potere d'ipnotizzare con lo sguardo. Okay, forse nessun vampiro che fosse cosi «fresco» come Willie avrebbe potuto davvero affascinarmi con lo sguardo, ma le vecchie abitudini sono dure a morire. Willie divenne subito serio e nel suo sguardo guizzò qualcosa. Dispiacere? Non cercò di avvicinarsi di più, però abbassò la voce. Era molto più sveglio da morto di quanto fosse mai stato da vivo. «Il capo mi tratta molto bene perché l'ultima volta ti ho aiutata.» Sembrava di essere in un vecchio film di gangster, ma Willie era fatto così. «Sono contenta che Jean-Claude sia gentile con te.» «Oh, sì», confermò Willie. «Questo è il miglior lavoro che io abbia mai avuto e il capo non è...» Agitò le mani. «Capisci cosa intendo.» Certo che capivo. Anche se mi lamentavo continuamente di lui, sapevo che Jean-Claude era un bonaccione rispetto alla maggior parte dei Master di Città. Un bonaccione grosso, pericoloso e carnivoro, ma sempre meglio degli altri. «Il capo è impegnato, adesso», riprese Willie. «Ti ha riservato un tavolo vicino al palco, proprio nel caso che arrivassi prima.» Grande! «Quanto gli ci vorrà?» Willie scrollò le spalle. «Non lo so esattamente.» «Okay, aspetto un po'.» Willie esibì nuovamente le zanne. «Vuoi che gli dica di sbrigarsi?» «Lo faresti?» Fece una smorfia strana, come se avesse appena inghiottito uno scarafaggio. «Diavolo! No di certo!» «Non preoccuparti. Se mi stanco di aspettare vado a dirglielo di persona.» Willie mi guardò un po' di sbieco. «Tu invece lo faresti davvero, eh?» «Già.» Scosse la testa e s'incamminò, guidandomi tra i tavolini rotondi, tutti affollati di gente che rideva, sospirava, beveva, si teneva per mano. La sensazione di essere immersi in una calca sudaticcia e fremente era quasi so-
verchiante. Guardai Willie, chiedendomi se provasse anche lui la stessa sensazione. La calda oppressione della folla umana stimolava il suo appetito? Quando tornava a casa, la sera, sognava forse di avventarsi selvaggiamente sulla calca vociante? Fui tentata di chiederglielo, ma provavo per lui tutta la simpatia che ero capace di provare per un vampiro, quindi preferivo non conoscere la risposta, nel timore che fosse affermativa. Sopra un tavolo vuoto in seconda fila c'era un grosso segnaposto bianco: RISERVATO. Quando Willie si accinse a scostarmi la sedia, gli feci segno che non doveva. Non è questione di emancipazione della donna. Semplicemente non ho mai capito come ci si aspetta che mi comporti quando un tizio mi spinge una sedia sotto il culo. Dovrei forse sedermi e starlo a guardare mentre mi spinge di peso? Imbarazzante. Una volta restavo in piedi ad aspettare che mi spingesse la sedia dietro le ginocchia. «Ti va di bere qualcosa mentre aspetti?» domandò Willie. «Posso avere una Coca-Cola?» «Niente di più forte?» Feci di no con la testa. Willie si allontanò tra tavoli e clienti. Sul palco c'era un uomo dai corti capelli neri. Nonostante il viso quasi cadaverico e il corpo emaciato, era sicuramente umano. Il suo aspetto era tutto sommato comico, tipo clown dinoccolato e longilineo. Vicino a lui, a fronteggiare inespressivo la folla, c'era uno zombie. I suoi occhi chiari erano ancora umani, però non batteva le palpebre e fissava il pubblico con uno sguardo vitreo che mi era ben noto. La gente faceva poco caso alle battute, interessata soprattutto al cadavere, abbastanza decomposto da far paura, ma non ancora fetido. Bel trucco, se si riesce a farlo. «Ernie è il miglior compagno di camera che abbia mai avuto», stava dicendo il comico. «Mangia poco, non mi rompe i timpani con le sue chiacchiere e non mi chiude fuori per divertirsi con la bella pollastrella che si è portato a casa.» Nervose risatine mentre tutti gli sguardi erano incollati al vecchio Ernie. «Però sembrava che gli piacesse un sacco quella bistecca di maiale andata a male che era rimasta in frigo!» Lo zombie si girò con lentezza, quasi dolorosamente, a fissare il comico, che gli lanciò un'occhiata prima di sorridere al pubblico. Lo zombie continuò a fissarlo; non sembrava granché contento e io non me la sentii di biasimarlo, visto che neanche ai morti piace essere derisi.
Comunque le battute non erano per niente divertenti. Quello che contava era la novità. In altre parole, l'attrazione era lo zombie. Bella idea, decisamente perversa. Willie mi portò personalmente la Coca. Servita al tavolo dal direttore! Ollallà! Certo che anche la prenotazione era un trattamento di riguardo. «Divertiti», augurò Willie, posando la bibita su uno di quei sottobicchieri di carta traforata che non servono a niente. Quando fece per andarsene, lo trattenni toccandogli un braccio e subito me ne rammaricai. Anche se il braccio era abbastanza solido e abbastanza reale, fu come toccare un pezzo di legno. Era morto. Non avrei saputo descriverlo altrimenti. Nessuna sensazione di movimento, niente. Lasciando cadere lentamente la mano, sollevai la testa; grazie ai marchi di Jean-Claude, riuscii a guardarlo negli occhi castani, che lasciavano trapelare qualcosa di simile alla tristezza. Mi sentii pulsare il sangue alle tempie e fui costretta a deglutire per calmarmi un po'. Merda! Col desiderio improvviso che Willie se ne andasse, mi girai, mettendomi a fissare intensamente la Coca. Lui se ne andò. Forse furono le risate, ma non lo sentii mentre si allontanava. Willie McCoy era l'unico vampiro che avessi mai conosciuto anche prima della morte, quindi ricordavo quello che era stato da vivo: un delinquente di mezza tacca che sbrigava commissioni per i pezzi grossi. Forse pensava che essere un vampiro bastasse a fare di lui un pesce grosso, ma in tal caso si sbagliava. Era soltanto un piccolo pesce non morto. JeanClaude, o qualcun altro come lui, avrebbe dominato la sua «vita» per l'eternità. Povero Willie. Mi sfregai su una coscia la mano con cui lo avevo toccato, nel tentativo di dimenticare la sensazione di quel corpo morto, ma non ci riuscii. Il corpo di Jean-Claude non suscita la stessa sensazione, ma d'altronde lui va maledettamente vicino a passare per umano. Qualcuno dei più antichi ci riesce, e forse col tempo anche Willie imparerà. Che Dio lo aiuti. «Gli zombie sono meglio dei cani. Ti portano le ciabatte e non hai neanche bisogno di accompagnarli fuori. Ernie se ne sta seduto ai miei piedi a implorare, se glielo ordino.» Il pubblico rise, anche se non capii bene perché. Di sicuro non fu una risata genuina. Lasciò trapelare una sorta di atroce, sconvolta sorpresa, del tipo: «Non riesco a credere che l'abbia detto davvero». Lo zombie avanzò come al rallentatore verso il comico, protendendo le mani. Allora l'angoscia mi bloccò lo stomaco, perché rivedevo un
flashback di quello che era successo la notte precedente. Quando aggrediscono, gli zombie si limitano quasi sempre ad allungare le mani, proprio come nei film. Il comico non si accorse che Ernie aveva deciso di averne abbastanza. Se viene resuscitato nella maniera più semplice, senza ricevere ordini precisi, lo zombie si comporta di solito come faceva normalmente da vivo. Un brav'uomo resta un brav'uomo finché la decomposizione del cervello non lo priva della sua personalità. Molti zombie non uccidono se non viene loro espressamente ordinato, ma ogni tanto capita di avere la fortuna di resuscitarne uno con tendenze omicide. Ebbene, al comico era toccata proprio quella fortuna. Lo zombie camminò verso di lui come una pessima imitazione del mostro di Frankenstein. Allora, rendendosi finalmente conto che qualcosa non andava, il comico s'interruppe a metà battuta e sgranò gli occhi. «Ernie», riuscì a dire, prima che le mani decomposte gli afferrassero la gola e cominciassero a stringere. Per un momento fu così piacevole che mi venne voglia di lasciarlo fare, anche perché sono assolutamente contraria allo sfruttamento dei morti. Però... la stupidità non è punibile con la morte. Se lo fosse, ci sarebbe un drastico calo della popolazione. Mi alzai e guardai intorno per scoprire se fossero state previste contromisure per una simile eventualità. Willie corse sul palco, afferrò lo zombie alla cintura e lo sollevò di peso senza che quello smettesse di stringere, mentre il comico scivolava in ginocchio emettendo gemiti strozzati, paonazzo in viso. Il pubblico rideva, pensando che tutto quanto facesse parte dello spettacolo, e in effetti era maledettamente molto più divertente. Montai sul palco e sussurrai a Willie: «Serve aiuto?» Si girò a fissarmi, sempre tenendo lo zombie per la cintura. Con la sua forza straordinaria avrebbe potuto strappare le dita allo zombie una per una, impedendogli di strangolare il comico. Però la superforza da vampiro non serve, se non si pensa neanche a usarla, e Willie non ci pensava mai. Certo, forse lo zombie avrebbe potuto sfracellare la trachea al comico prima che Willie riuscisse a rompergli tutte le dita... Anche se pensavo che il comico fosse un coglione, non potevo starmene lassù a guardarlo morire. Non potevo, davvero. «Basta», ordinai, a voce bassa, in modo che lo zombie mi ascoltasse. Lui smise di stringere, pur senza mollare la presa, e il comico si afflosciò. «Lascialo.»
Lo zombie ubbidì e il comico crollò sul palco, semisvenuto. Willie lasciò lo zombie e si rassettò il completo rosso pomodoro. Aveva ancora i capelli perfettamente spalmati all'indietro. Erano troppo impomatati perché un po' di lotta bastasse a scompigliarli. «Grazie», sussurrò, prima di ergersi in tutto il suo metro e sessantadue per annunciare: «Il Portentoso Albert e il suo zombie addomesticato, signore e signori!» Il pubblico rimase un po' perplesso prima d'incominciare ad applaudire. Quando il Portentoso Albert si rialzò barcollando, l'ovazione scattò. Allora lui gracidò nel microfono: «Ernie pensa che sia ora di tornare a casa, adesso. Siete stati un grande pubblico». L'applauso fu fragoroso e genuino. Il comico abbandonò il palco, ma lo zombie rimase a fissare me, in attesa. Aspettava un altro ordine. Non riesco a capire perché non sia possibile a tutti farsi ubbidire dagli zombie. A me non sembra neanche magia, non sento nemmeno il formicolio lieve del respiro del potere. È come in quella vecchia pubblicità che cominciava con una gran confusione, poi si sentiva una voce che diceva: «Il mio consulente è E.F. Hutton ed E.F. Hutton ha detto...» Silenzio, poi tutti si giravano ad ascoltare il tizio che aveva parlato. Be', è così anche per me. Io parlo e gli zombie ascoltano. Io ed E.F. Hutton. «Segui Albert e ubbidisci ai suoi ordini finché non ti dico di fare diversamente.» Lo zombie chinò la testa a fissarmi per un attimo, poi si girò lentamente e a passi strascicati seguì il Portentoso Albert. Non avrebbe più tentato di ucciderlo, ma non andai a dirglielo. Preferii lasciargli credere che la sua vita fosse in pericolo e che avrebbe dovuto permettermi di restituire lo zombie al suo riposo eterno. Era quello che volevo e probabilmente era anche quello che voleva Ernie. Sicuramente costui non sembrava contento di fare da spalla al comico, ma cercare di strangolarlo era stata una reazione alquanto spropositata. Willie mi riaccompagnò al tavolo. Io sedetti di nuovo a sorseggiare la Coca e lui si accomodò di fronte a me. Sembrava scosso, le sue manine tremavano. Era diventato un vampiro, ma era pur sempre Willie McCoy. Mi chiesi quanti anni ci sarebbero voluti per cancellare anche gli ultimi rimasugli della sua personalità. Dieci? Venti? Un secolo? Quanto ci voleva perché il mostro divorasse completamente l'uomo? Se ci fosse voluto tanto, non sarebbe stato un mio problema, dal momento che non sarei più stata presente ad assistere. A dire la verità, non ci tenevo per niente a esserne testimone.
«Gli zombie non mi sono mai piaciuti», dichiarò Willie. Lo fissai. «Hai paura degli zombie?» Mi lanciò un'occhiata, poi abbassò lo sguardo al tavolo. «No.» Gli sorrisi. «Hai paura degli zombie. È una fobia.» Si curvò verso di me. «Non dirlo, ti prego. Non dirlo.» Nei suoi occhi c'era vera paura. «A chi dovrei dirlo?» «Lo sai.» Scossi la testa. «Non so di cosa stai parlando, Willie.» «Il MASTER.» Si sentiva che Master era tutto maiuscolo. «Perché dovrei dirlo a Jean-Claude?» «Sei la sua serva umana, che ti piaccia o no», sussurrò. Sul palco c'era un altro comico, il pubblico rideva e vociava, eppure lui sussurrava. «Ci dice sempre che parlare con te è come parlare con lui.» Eravamo tutti e due curvi sul tavolino, in modo tale che i nostri visi quasi si sfioravano. Il soffio gentile del suo fiato profumava di pasticche alla menta. Quasi tutti i vampiri hanno l'alito alla menta. Non so come facessero prima dell'invenzione delle caramelle, ma suppongo che avessero un alito schifoso. «Sai che non sono la sua serva umana.» «Ma lui vuole che tu lo sia.» «Il fatto che Jean-Claude voglia qualcosa non significa che possa ottenerla», obiettai. «Tu non lo conosci.» «Invece credo di sì...» Mi toccò un braccio senza che io mi tirassi indietro, troppo intenta ad ascoltare quello che stava dicendo. «È molto diverso da quand'è morta la vecchia Master. Adesso è molto potente. Neppure tu sai quanto.» Questo lo avevo sospettato. «Allora perché non dovrei dirgli che hai paura degli zombie?» «Ne approfitterebbe per punirmi.» Lo fissai, con gli occhi a pochi centimetri di distanza dai suoi. «Insomma, stai dicendo che tortura la gente per dominarla?» Fece di sì con la testa. «Merda!» «Non glielo dirai, vero?» «Non glielo dirò. Te lo prometto.» Notando che sembrava sollevato, gli toccai affettuosamente una mano. Mi sembrò una mano qualsiasi; la sua
carne non era più dura come il legno. Perché? Non lo sapevo e probabilmente neanche Willie avrebbe saputo spiegarmelo, se glielo avessi chiesto. Era uno dei misteri... della morte. «Grazie.» «Se non sbaglio avevi detto che Jean-Claude era il Master più gentile che avessi mai avuto.» «Lo è», confermò Willie. Terribile! Se il più gentile sfruttava le paure più tenebrose della gente per torturare, chissà cosa aveva fatto Nikolaos! Be', questo a dire il vero lo sapevo, perché mi ero scontrata con quella psicotica. Jean-Claude non era crudele per il puro gusto di veder soffrire la gente. La sua crudeltà era motivata dalla necessità di consolidare il potere. Willie si alzò. «Adesso devo andare. Grazie per avermi aiutato con lo zombie.» «Sei stato coraggioso, sai?» Le zanne scintillarono nella luce fioca, mentre mi lanciava un sorriso, che però sparì subito, come se fosse stato premuto un interruttore. «Non posso permettermi di essere altro.» I vampiri assomigliano molto ai lupi: i deboli vengono sottomessi o annientati, l'esilio dal branco non è previsto. Willie stava salendo di grado; un segno di debolezza qualsiasi avrebbe interrotto la sua ascesa, o anche peggio. La sua confessione era una risposta parziale a una domanda che mi facevo spesso, e. cioè di cosa avessero paura i vampiri. Be', eccone uno che temeva gli zombie; sarebbe stato divertente, se non avessi visto la paura nei suoi occhi. Il comico sul palco era un vampiro recente, con la pelle bianca come il gesso e gli occhi che sembravano bruciature nella carta. Aveva le gengive esangui, consumate, e zanne che qualsiasi pastore tedesco avrebbe invidiato. Non avevo mai visto un vampiro così mostruoso. Di solito i succhiasangue fanno di tutto per sembrare umani. Lui no. Non avevo badato a come fosse stata accolta la sua comparsa, ma in quel momento il pubblico stava ridendo. Le sue battute erano peggiori persino di quelle sullo zombie. Una donna seduta al tavolino accanto al mio rise tanto che le lacrime le rigarono le guance. «Sono stato a New York, una volta. Città dura. Alcuni delinquenti mi hanno aggredito, ma io gli ho messo il morso.» Gli spettatori intorno a me ridevano a crepapelle, tenendosi i fianchi come se avessero le costole rotte. Io non capivo; non c'era proprio niente di
divertente. Guardandomi intorno, scoprii che tutti fissavano il vampiro sul palco con la devozione assoluta di chi è sotto l'effetto di un incantesimo. Stava usando l'illusione ipnotica. Avevo visto vampiri sedurre, minacciare e terrorizzare mediante la pura concentrazione, ma non ne avevo mai visto nessuno che ricorresse allo stesso mezzo per far ridere. Insomma, li stava obbligando a divertirsi! Non era certo il peggiore uso dei poteri vampirici che avessi mai visto. Dopotutto, non stava cercando di nuocere al pubblico; senza contare che l'ipnosi collettiva è innocua, oltre a essere soltanto temporanea. Comunque era una cosa sbagliata. Il controllo mentale collettivo è una delle cose più spaventose che i vampiri sanno fare e che la maggior parte della gente ignora. Io invece ne ero a conoscenza, e non mi piaceva per niente. Era morto da poco e la sua comicità mi avrebbe lasciato indifferente anche se non avessi avuto i marchi di Jean-Claude. Essere una risvegliante mi rende parzialmente immune ai poteri dei vampiri. E questa una delle ragioni per cui tanto spesso i risvegliatiti sono anche cacciatori di vampiri. Avevo appuntamento con Charles, ma non lo vedevo ancora, benché in mezzo alla folla sia come Godzilla che attraversa Tokyo. Dove si era cacciato? E per quanto ancora Jean-Claude mi avrebbe fatto aspettare? Ormai erano le undici passate. Se c'era da costringermi a un incontro con le minacce e poi farmi aspettare, potevo star certa che quell'arrogante figlio di puttana non mi avrebbe delusa. Proprio in quel momento Charles entrò in sala dalle porte oscillanti della cucina e s'incamminò tra i tavoli in direzione dell'entrata, scuotendo la testa e mormorando qualcosa a un piccolo asiatico che doveva correre per stargli dietro. Gesticolai per attirare la sua attenzione e lui deviò verso di me, mentre l'ometto protestava: «La mia cucina è molto pulita!» Charles mormorò qualcosa che non riuscii a sentire. Intanto, il pubblico ipnotizzato ignorava tutto quello che non succedeva sul palco. Se avessimo esploso una salva di cannone, nessuno avrebbe fatto una piega. Sino alla fine dell'esibizione del comico vampiro, nessuno avrebbe sentito altro che le sue battutacce. «Sei forse un dannato ispettore sanitario?» riprese l'ometto, che indossava il tradizionale costume da chef e si schiacciava tra le mani il grande copricapo floscio. I suoi neri occhi a mandorla scintillavano di collera. Charles è alto un metro e ottantacinque, però sembra più grosso perché è
largo uguale dalle spalle ai piedi, come se non avesse il girovita. Sembra una montagna semovente. Insomma, è enorme. Ciascuna delle sue mani è abbastanza grande da coprirmi tutta la faccia. La sua pelle è meravigliosamente scura, proprio come gli occhi. Accanto a lui, lo chef asiatico sembrava un burattino arrabbiato. Non so cosa avesse intenzione di fare, ma afferrò per un braccio Charles, che si fermò, chinò la testa a fissare la mano insolente e, con voce quasi dolorosamente profonda, intimò molto lentamente: «Non toccarmi». Lo chef lasciò cadere il braccio, come se si fosse ustionato, e subito indietreggiò di un passo. Comunque Charles non stava recitando tutto il copione; parecchi sedicenti duri, sottoposti al suo trattamento completo, sono scappati a gambe levate strillando aiuto. Ma un trattamento parziale era sufficiente per uno chef inferocito. In tono calmo e ragionevole, l'ometto ripeté: «La mia cucina è pulita». Charles scosse la testa. «Non puoi tenere gli zombie dove si preparano i cibi. È illegale. Le norme sanitarie proibiscono la prossimità dei cadaveri agli alimenti.» «Il mio assistente è un vampiro, quindi è morto.» Charles roteò gli occhi a guardarmi. Aveva tutta la mia solidarietà, perché avevo già avuto la stessa discussione con alcuni colleghi dell'ometto. «Legalmente, Mr. Kim, i vampiri non sono più considerati morti. Gli zombie invece sì.» «Non capisco perché.» «Gli zombie marciscono e portano malattie, proprio come qualsiasi cadavere. Il fatto che possano muoversi non significa che non siano agenti di contagio.» «Io non...» «Non tenga più gli zombie in cucina, se non vuole che la facciamo chiudere.» «E allora dovrebbe spiegare al proprietario perché l'attività non rende», intervenni, sorridendo a tutti e due. Lo chef sembrò impallidire un po'. Chissà perché. «Io... capisco. Provvederò.» «Bene», approvò Charles. Dopo avermi lanciato un'occhiata piena di paura, lo chef se ne tornò in cucina serpeggiando tra i tavoli. Era divertente constatare che Jean-Claude stava cominciando a spaventare un sacco di gente. Eppure era stato uno dei vampiri più gentili, prima di diventare il capo di tutti i succhiasangue della
città. Il potere corrompe. Charles sedette di fronte a me, sproporzionatamente grosso rispetto al tavolino. «Ho ricevuto il tuo messaggio. Che succede?» «Mi serve una scorta per andare al Tenderloin.» È difficile capire quando Charles arrossisce, ma in quel momento si contorse sulla sedia. «Perché diavolo vuoi andare laggiù?» «Devo parlare con una persona che ci lavora.» «Chi?» «Una prostituta», risposi. Si contorse un'altra volta, in modo tale che mi sembrò di osservare una montagna a disagio. «Caroline non ne sarà affatto contenta.» «Non dirle niente», suggerii. «Conosci Caroline e sai che io non mento a lei come lei non mente a me, su niente.» Mi sforzai di restare impassibile. Se Charles era costretto a rendere conto a sua moglie di tutto quello che faceva, era una scelta sua; non era mica obbligato a sottomettersi al controllo di Caroline. E se stava bene a lui... Eppure mi dava fastidio, come raschiare le unghie su una lavagna. «Dille soltanto che si tratta di lavoro extra per la ditta. Non ti chiederà dettagli.» Caroline pensava che il nostro lavoro fosse disdicevole. Decapitare galline, resuscitare zombie... Che rozzezza! «Perché devi trovare questa prostituta?» Ignorai la domanda per rispondere a quella che non mi aveva fatto. Meno ne sapeva su Harold Gaynor, più sarebbe stato al sicuro. «Mi serve qualcuno che abbia un aspetto minaccioso. Non voglio essere costretta a sparare a qualche povero bastardo soltanto perché ha cercato di mettermi le mani addosso. Okay?» «D'accordo», disse Charles. «Sono lusingato che tu lo abbia chiesto proprio a me.» La verità era che Manny era molto pericoloso e sarebbe stato un aiuto migliore. Purtroppo era come me, cioè non sembrava per niente pericoloso. Charles era tutto il contrario, quindi era perfetto per l'occasione. Non mi serviva potenza di fuoco, ma soltanto un buon bluff. Guardando l'orologio, scoprii che era quasi mezzanotte. Jean-Claude mi stava facendo aspettare da un'ora. Mi voltai e intercettai lo sguardo di Willie, che subito si avvicinò al tavolo. Avrei cercato di usare quel potere soltanto per fare del bene. Si chinò su di me, senza avvicinarsi troppo, e lanciò un'occhiata a Char-
les, salutandolo con un cenno della testa. Charles rispose allo stesso modo, impassibile. «Che cosa vuoi?» domandò Willie. «Jean-Claude può ricevermi o no?» «Sì, stavo giusto per venire a chiamarti. Non sapevo che aspettassi compagnia.» «È un collega.» «Resuscita gli zombie?» chiese Willie. Charles rispose: «Sì», mentre il suo viso nero restava impassibile. La sua espressione era tranquillamente minacciosa. Willie sembrò impressionato. «Dunque avrai da fare con gli zombie dopo aver visto Jean-Claude?» «Già», confermai, alzandomi. Mormorai qualcosa all'orecchio di Charles, anche se probabilmente Willie sentì ogni parola. Persino chi è morto da poco tempo ha un udito migliore di quello dei cani. «Farò prima che posso.» «D'accordo», replicò. «Però ho bisogno di tornare a casa presto.» Capii alla perfezione, sapendo che la moglie lo teneva a guinzaglio corto. Non era una bella situazione, ma sembrava che importasse molto più a me che a lui. Forse è una delle ragioni per cui non sono sposata. Non sono granché brava nei compromessi. 21 Willie mi precedette oltre una porta, in un breve corridoio. Quando la porta si chiuse alle nostre spalle, il vocio della sala fu così attutito da sembrare lontano come un sogno. Dopo la semioscurità del club, le luci furono così intense da farmi battere le palpebre. Willie aveva le guance rosee; anche se non sembrava del tutto vivo, era abbastanza sano per essere un morto. Sicuramente si era nutrito di qualcosa, forse un animale, o di qualcuno, forse un umano consenziente. Forse. Sulla prima porta a sinistra era scritto: UFFICIO DEL DIRETTORE. Quello di Willie? Macché! Willie aprì l'uscio e mi fece entrare, senza seguirmi. Lanciò un'occhiata in direzione della scrivania, indietreggiò e richiuse la porta. La moquette era beige, le pareti erano bianche come il guscio d'uovo; una grande scrivania nera laccata era vicino alla parete di fondo, con una lampada nera che sembrava spuntare dal piano e una cartella esattamente
al centro, ma niente documenti e niente graffette. C'era soltanto JeanClaude, seduto con le lunghe mani pallide incrociate sulla cartella, i capelli neri morbidi e ondulati, gli occhi blu, la camicia bianca dagli strani polsini. Era perfetto e perfettamente immobile, come un ritratto, bello come un sogno erotico, ma irreale. Tutta quella perfezione era soltanto apparenza. Contro la parete sinistra c'erano due armadietti in metallo marrone e un divano in cuoio nero, sotto un grande quadro a olio raffigurante St. Louis nel XVIII secolo. Chiatte di coloni che scendevano il fiume, luce autunnale, bimbi che correvano e giocavano. Non era per nulla intonato all'ambiente. «È tuo quel quadro?» domandai. Annuì quasi impercettibilmente. «Conoscevi l'autore?» Sorrise senza scoprire minimamente le zanne, allargando le belle labbra. Se fosse esistita una rivista per vampiri tipo GQ, Jean-Claude sarebbe finito sicuramente in copertina. «La scrivania e il divano stonano col resto dell'arredamento», osservai. «Sto rimodernando», spiegò. «Sei stato tu a volermi vedere. Che cosa vuoi?» «Hai fretta?» Abbassò un po' la voce, carezza di pelliccia sulla pelle nuda. «Sì, perciò dacci un taglio. Che vuoi?» Le sue labbra si allargarono ancora un po' e per un attimo abbassò gli occhi, quasi timido. «Sei la mia serva umana, Anita.» Mi aveva chiamato per nome. Brutto segno. «No, per niente», obiettai. «Porti già due dei miei marchi» Ne restano soltanto altri due.» L'espressione cordiale del suo bel viso non si addiceva a quello che stava dicendo. «E allora?» Sospirò. «Anita...» Si alzò e girò intorno alla scrivania. «Sai cosa significa essere il Master della Città?» Sedette sul bordo della scrivania, e la sua camicia si apri a rivelare il petto pallido. La cicatrice a forma di crocifisso era un insulto alla sua perfezione. Mi resi conto con imbarazzo che gli stavo fissando il torace, perciò lo guardai negli occhi riuscendo a non arrossire. «Essere la mia serva umana può essere molto vantaggioso, ma petite.» I suoi occhi erano completamente neri, inghiottiti interamente dalla pupilla, profondi e risucchianti. Scossi la testa. «No.»
«Non mentire, ma petite. Sento il tuo desiderio.» Si umettò le labbra con la lingua. «Ne sento il sapore.» Dannazione! Come fai a discutere con qualcuno che percepisce le tue sensazioni, i tuoi sentimenti? La risposta è che non discuti, puoi solo assentire. «E va bene, ti desidero. Sei contento adesso?» «Sì.» Una sola parola che mi attraversò la mente, mormorando cose inespresse. Sussurri nel buio. «Desidero molti uomini, ma questo non significa che vada a letto con tutti.» I suoi occhi sembravano stagni molto profondi. «Il desiderio passeggero si domina facilmente», sentenziò, alzandosi con un movimento fluido. «Ma l'attrazione fra noi non è affatto passeggera, ma petite. Non è semplice lussuria, è vero desiderio.» Mi si avvicinò protendendo una mano. Mi sentivo il cuore in gola, ma non per la paura, e non credevo che fosse un'illusione ipnotica. Vero desiderio, aveva detto lui, e forse era proprio così. «Non farlo», sussurrai. Lui naturalmente non si fermò, ma mi sfiorò una guancia con le dita. Mi ritrassi per sfuggire al contatto con la sua pelle e soffocai un lungo sospiro tremante. Comunque mi fossi comportata, avrebbe percepito il mio disagio; fingere era inutile. Sentendo ancora il suo tocco, abbassai lo sguardo e aggiunsi: «Mi rendo conto di quelli che sarebbero i benefici collaterali, Jean-Claude, davvero. Però non posso e non voglio». Lo guardai negli occhi. Il suo viso era di una vacuità terribile, il nulla, lo stesso volto di poco prima, eppure del tutto privo di qualsiasi scintilla di umanità o di vita. Il battito del mio cuore accelerò di nuovo, questa volta non per eccitazione sessuale, ma per paura. «Come preferisci, mia piccola risvegliante. Ma, anche se non siamo amanti, quello che sei per me non cambia. Sei la mia serva umana.» «No», insistetti. «Sei mia, Anita. Che tu lo voglia o no, sei mia.» «È così che mi perdi, Jean-Claude. Prima cerchi di sedurmi mostrandomi il tuo lato attraente, poi, visto che non funziona, fai ricorso alle minacce.» «Non è una minaccia, ma petite. È la verità.» «Niente affatto. E piantala di chiamarmi con quel dannato ma petite!» Un sorriso gli increspò le labbra. Dato che non volevo divertirlo, la collera sostituì immediatamente la paura. È un sentimento che mi piace, che mi rende coraggiosa, nonché stu-
pida. «Vaffanculo!» «Te l'ho già proposto.» La sua voce mi fece torcere qualcosa nel basso ventre. Sentii la vampa mentre arrossivo. «Che tu sia dannato, Jean-Claude!» «Dobbiamo parlare, ma petite. Anche se non siamo amanti, anche se non vuoi essere la mia serva umana, dobbiamo parlare.» «Allora parla, perché io non ho tutta la notte a disposizione.» Sospirò. «Non mi faciliti le cose.» «Se è questo che vuoi, scegliti qualcun altro.» «Ben detto. Allora siediti, per favore.» Si appoggiò di nuovo alla scrivania e incrociò le braccia sul petto. «Non ho tempo», ribadii. Corrugò lievemente le sopracciglia. «Credevo che fossimo d'accordo di parlare, ma petite.» «Eravamo d'accordo di vederci alle undici. Sei stato tu a sprecare un'ora intera, non io.» Le sue labbra si contrassero in una smorfia. «Benissimo. Ti fornirò... una versione condensata.» «D'accordo.» «Io sono il nuovo Master della Città, ma per sopravvivere, quando Nikolaos era viva, ho dovuto nascondere i miei poteri. E ci sono riuscito fin troppo bene. Adesso ci sono alcuni che non mi giudicano abbastanza potente per essere il Master di tutti, e mi sfidano. Una delle cose che usano contro di me sei tu.» «Come?» «La tua disubbidienza. Se non riesco nemmeno a controllare la mia serva umana, come posso dominare tutti i vampiri della città?» «Che cosa vuoi da me?» domandai. Mostrò le zanne, in un sorriso ampio e sincero. «Voglio che tu sia la mia serva umana.» «Non in questa vita, Jean-Claude.» «Posso importi il mio terzo marchio contro la tua volontà, Anita.» Nessuna minaccia, soltanto un fatto puro e semplice. «Preferisco morire piuttosto che essere la tua serva umana.» I vampiri Master riconoscono a fiuto la verità, quindi capì che dicevo sul serio. «Perché?» Rinunciai subito a spiegarlo, perché ero sicura che non avrebbe capito. Meno di un metro ci separava, ma era come se fossero chilometri, un tene-
broso abisso che nessun ponte poteva varcare. Era un cadavere ambulante, in cui non, restava più niente di ciò che era stato da vivo. Era il Master della Città, e questo non si avvicinava minimamente all'essere davvero umano. «Se provi a farlo ti ammazzo», minacciai. «Dici sul serio», constatò, con sorpresa. Non capita spesso che una ragazza riesca a sbalordire un vampiro pluricentenario. «Sì.» «Non ti capisco, ma petite.» «Lo so.» «Non potresti fingere di essere la mia serva?» Era una strana domanda. «Che significa 'fingere'?» «Potresti venire a qualche riunione e sostenermi con le tue pistole e con la tua reputazione.» «Vuoi il sostegno della Sterminatrice.» Lo fissai per alcuni istanti, mentre il vero orrore di quello che aveva appena detto s'insinuava con lentezza nella mia mente. «Credevo che i due marchi fossero stati casuali, che tu ti fossi lasciato prendere dal panico, e invece hai sempre avuto intenzione d'impormeli, vero?» Si limitò a sorridere. «Rispondi, figlio di puttana!» «Quando si è presentata l'opportunità, non l'ho respinta.» «Non l'hai respinta!» Quasi gridai. «Mi hai scelta consapevolmente per farmi diventare la tua serva umana! Perché?» «Sei la Sterminatrice.» «Che cazzo significa?» «Fa impressione essere il vampiro che è finalmente riuscito a neutralizzarti.» «Non mi hai affatto neutralizzata.» «Se tu ti comportassi come si conviene, gli altri lo crederebbero. Soltanto tu e io sapremmo che si tratta unicamente di una finzione.» Scossi la testa. «Non starò al tuo gioco, Jean-Claude.» «Non vuoi aiutarmi?» «No.» «Ti offro l'immortalità senza il compromesso del vampirismo. Ti offro anche me stesso. Nel corso degli anni ci sono state donne che soltanto in cambio di questo avrebbero fatto qualsiasi cosa avessi chiesto.» «Il sesso è sesso, Jean-Claude. Nessuno vale tanto.»
«I vampiri sono diversi, ma petite, e tu potresti scoprire quanto, se non fossi così ostinata.» Fui costretta a evitare il suo sguardo, che stava diventando troppo intimo e troppo pieno di possibilità. «C'è una sola cosa che voglio da te», replicai. «Cosa, ma petite?» «E va bene, ci sono due cose. Tanto per cominciare devi smetterla di chiamarmi ma petite. Poi devi lasciarmi libera, cioè cancellare i tuoi stramaledetti marchi.» «Posso soddisfare la prima richiesta, Anita.» «E la seconda?» «Non potrei neanche se volessi.» «E non vuoi», sottolineai. «No. Non voglio.» «Stai lontano da me, Jean-Claude. Stai lontano da me, cazzo, o ti uccido.» «Ci hanno già provato in molti nel corso degli anni.» «Quanti di loro ne avevano già fatti fuori altri diciotto?» Sembrò colpito dalla domanda. «Nessuno. C'era un tizio, in Ungheria, che giurava di averne uccisi cinque.» «Che gli è successo?» «Gli ho squarciato la gola.» «Allora devi capire una cosa, Jean-Claude. Preferisco finire con la gola squarciata nel tentativo di ammazzarti piuttosto che sottomettermi a te.» Lo fissai cercando di appurare se avesse capito qualcosa di quello che avevo detto. D'improvviso mi fu dinanzi, senza che lo avessi visto muovere. Da un momento all'altro apparve a pochi centimetri da me. Allora credo di essermi lasciata sfuggire un gemito. «Saresti davvero capace di uccidermi?» La sua voce fu seta sopra una ferita: gentile, ma con una sfumatura di sofferenza, proprio come il sesso. Una carezza di velluto all'interno del cranio, piacevole nonostante la paura che mi straziava tutto il corpo. Merda! Avrebbe davvero potuto avermi, sottomettermi. Lo guardai negli occhi blu e risposi: «Sì». Non mentivo, e lui lo capì. Batté armoniosamente le palpebre, una sola volta, prima d'indietreggiare. «Sei la donna più ostinata che abbia mai conosciuto», commentò, senza nulla di scherzoso. Fu un'affermazione pura e semplice.
«È il più bel complimento che tu mi abbia mai fatto.» Rimase di fronte a me con le mani sui fianchi, totalmente immobile. I rettili o gli uccelli possono restare assolutamente immobili, ma persino i serpenti comunicano la sensazione di qualcosa di vivo, che può ricominciare a muoversi da un momento all'altro. Jean-Claude invece se ne stava là senza comunicare assolutamente nulla, come se fosse scomparso, lasciandomi davanti agli occhi nient'altro che un'illusione. Era assente. I morti non fanno rumore. «Che ti è successo alla faccia?» Mi toccai involontariamente la guancia gonfia. «Niente», mentii. «Chi ti ha picchiata?» «Perché? Vuoi andare a punirlo?» «Uno dei benefici collaterali di essere la mia serva consiste nell'avere la mia protezione.» «Non ho bisogno della tua protezione, Jean-Claude.» «Ti ha ferita.» «E io gli ho piantato una pistola nell'inguine obbligandolo a dirmi tutto quello che sapeva», raccontai. Jean-Claude sorrise. «Cos'hai fatto?» «Gli ho ficcato una pistola nei coglioni. È chiaro adesso?» I suoi occhi cominciarono a sfavillare mentre il suo viso si rallegrava; infine scoppiò in una gran risata, dolce e contagiosa. Se fosse stato possibile chiuderla in una bottiglia, sono sicura che sarebbe stata nutriente, o magari orgasmica. «Ma petite, ma petite! Sei assolutamente meravigliosa!» Lo fissai, lasciandomi avvolgere da quell'incantevole risata. Era ora che me ne andassi. Per quanto sia difficile essere dignitosa quando qualcuno ride fragorosamente di te, io ci riuscii. La mia battuta di commiato lo fece ridere ancora di più. «E piantala di chiamarmi ma petite!» 22 Ritornata nel vocio della sala, trovai Charles in piedi davanti al tavolino. Sembrava a disagio. Si stava torcendo le grosse mani e aveva la faccia nera contratta da una smorfia quasi dolorosa. Un dio benevolo gli ha dato un aspetto grosso e cattivo perché la sua natura è dolce e tenera come un budino. Se avessi avuto la sua stazza, sarei diventata sicuramente una stronza attaccabrighe. Era triste e ingiusto, in un certo senso.
«Che succede?» chiesi. «Ho chiamato Caroline», rispose. «E allora?» «La baby-sitter è malata e Caroline è stata chiamata all'ospedale. Bisogna che qualcuno stia con Sam mentre lei è al lavoro.» Non commentai la notizia. Non sembrò minimamente un duro quando chiese: «Possiamo andare domani a Tenderloin?» Scossi la testa. «Non vorrai mica andarci da sola, vero?» domandò. Alzai lo sguardo su quella gran montagna d'uomo e sospirai. «Non posso aspettare, Charles.» «Ma Tenderloin...» Abbassò la voce come se pronunciare troppo forte quel nome potesse attirarci addosso un'invasione di ruffiani e di prostitute. «Non puoi andare laggiù di notte, da sola.» «Sono stata in posti peggiori, Charles. Andrà tutto bene.» «No, non ti lascio andare da sola. Caroline può sempre trovare un'altra baby-sitter o dire all'ospedale che non può andarci.» Sorrise nel pronunciare questo discorso, sempre felice di aiutare un'amica. Ma Caroline gli avrebbe fatto passare l'inferno e, quel che era peggio, non volevo più portarmelo dietro. Ci voleva molto di più che un'aria da duro. E se Gaynor avesse scoperto che stavo interrogando Wanda? O se avesse saputo di Charles e avesse creduto che fosse coinvolto? No, sarebbe stato egoista da parte mia fargli correre un rischio simile. Aveva un figlio di quattro anni e una moglie. Non potevo implicarlo in quella sporca faccenda. Harold Gaynor se lo sarebbe mangiato crudo a colazione. Charles era un grosso orso cordiale, simpatico e affettuoso, che voleva piacere a tutti. E io non avevo bisogno di un orsacchiotto, bensì di qualcuno che fosse capace di affrontare qualsiasi cosa Gaynor decidesse di mandarci contro. Così ebbi un'idea. «Torna pure a casa, Charles. Ti prometto che non andrò da sola.» Mi sembrò indeciso, come se non si fidasse di me. Chissà perché! «Sei sicura, Anita? Non voglio lasciarti nei guai», disse. «Vai tranquillo, Charles. Ci sarà qualcuno che mi aiuterà.» «Chi potresti mai trovare a quest'ora?» «Niente domande. Vai a casa da tuo figlio.» Mi sembrò perplesso, ma sollevato. In realtà non aveva avuto nessuna
voglia di andare a Tenderloin. Forse il guinzaglio corto di Caroline era proprio quello che gli ci voleva, anzi di cui aveva bisogno: una scusa per tutte le cose che in realtà non voleva fare. Bella base per un matrimonio. D'altro canto, se una cosa funziona non c'è nessun bisogno di aggiustarla. Charles se ne andò mormorando un sacco di scuse, ma sapevo che era contento di andarsene. Quanto a me, non me ne sarei dimenticata. Quando bussai alla porta dell'ufficio seguì un breve silenzio, poi: «Entra, Anita». Come aveva fatto a capire che ero io? Non volevo chiederlo e non volevo saperlo. Jean-Claude sembrava intento a rivedere la contabilità su un grosso registro dalle pagine ingiallite e vergate con inchiostro sbiadito. Sembrava qualcosa su cui avrebbe potuto scribacchiare Bob Cratchit in una fredda vigilia di Natale, per conto di Ebenezer Scrooge. «Cosa ho fatto per meritare due visite in una sola notte?» domandò. In quel momento, guardandolo, mi sentii stupida. Ero continuamente impegnata a evitarlo, eppure stavo per invitarlo ad accompagnarmi in un'indagine? Ma sarebbe stato come prendere due piccioni con una fava. Da un lato avrei fatto contento Jean-Claude, cosa che mi conveniva, visto che non volevo che fosse arrabbiato con me, se potevo evitarlo. Dall'altro, se Gaynor avesse cercato di mettersi contro Jean-Claude, avrei scommesso su quest'ultimo. Era la stessa cosa che aveva fatto Jean-Claude con me, due settimane prima. Mi aveva scelta come campionessa dei vampiri, mi aveva messa contro un mostro che aveva massacrato tre vampiri Master e aveva scommesso che alla fine l'avrei avuta vinta anche contro Nikolaos. Era andata così, ma per un pelo. Se aveva funzionato per lui, poteva funzionare anche per me. Gli mostrai la mia faccia più amabile, contenta di potergli ricambiare il favore dopo così poco tempo. «Ti dispiacerebbe accompagnarmi a Tenderloin?» Si mostrò sorpreso, come avrebbe potuto fare una persona vera. «A quale scopo?» «Devo interrogare una prostituta a proposito di un caso su cui sto investigando e mi servono rinforzi.» «Rinforzi?» ripeté. «Nel caso che la faccenda si metta male. E tu sei adatto.» «Dovrei essere la tua guardia del corpo!» esclamò, raggiante. «Dopo tutte le noie che mi hai dato, potresti anche fare qualcosa di cari-
no, tanto per cambiare.» «Perché questo improvviso cambiamento, ma petite?» «Il collega che doveva guardarmi le spalle è dovuto tornare a casa per stare con suo figlio.» «E se io non ti accompagnassi?» «Andrei da sola», risposi. «A Tenderloin?» «Sì.» D'improvviso fu in piedi e accanto a me, senza che lo avessi visto alzarsi. «Vorrei che la smettessi di farlo», dissi. «Fare cosa?» «Offuscarmi la mente per impedirmi di percepire i tuoi spostamenti.» «Lo faccio soltanto per dimostrare che ne sono ancora capace, ma petite.» «Che vuol dire?» «Quando ti ho imposto i marchi, ti ho trasmesso gran parte del mio potere, quindi mi esercito a fare quel poco che mi è ancora concesso.» Era quasi di fronte a me. «Per non farti dimenticare chi e cosa sono.» Lo scrutai negli occhi molto blu. «Non dimentico mai che sei un cadavere ambulante, Jean-Claude.» Sul suo viso passò un'espressione che non riuscii a interpretare, ma che avrebbe potuto essere dispiacere. «No, ti leggo negli occhi che sai cosa sono.» La sua voce divenne quasi un sussurro, ma seducente e umana. «I tuoi occhi sono lo specchio più limpido che abbia mai visto, ma petite. Quando fingo su me stesso o m'illudo sulla vita, non devo fare altro che guardarti in viso per vedere la verità.» Cosa si aspettava che dicessi? Scusa, d'ora in poi cercherò d'ignorare il fatto che sei un vampiro? «Allora perché mi vuoi avere sempre intorno?» domandai. «Forse, se avesse avuto uno specchio del genere, Nikolaos non sarebbe mai diventata il mostro che era.» Poteva anche darsi che avesse ragione. In questa prospettiva, che avesse scelto me come serva umana rendeva la preferenza quasi nobile. Quasi. Al diavolo! Non volevo certo cominciare a compatire il dannato Master della Città! Né ora, né mai. Stavamo per andare a Tenderloin. In guardia, ruffiani! Avere il Master a guardarmi le spalle era un po' come portare un ordigno termonucleare per
distruggere un formicaio, ma l'eccesso di potenza distruttiva è sempre stato una mia specialità. 23 In origine, cioè nell'Ottocento, Tenderloin era la zona a luci rosse di Riverfront, ma col tempo si è spostato, come gran parte di St. Louis. Adesso si scende Washington oltre Fox Theater, dove passano in tournée le compagnie di Broadway, poi si prosegue fino al margine occidentale del centro di St. Louis e così si arriva alla carogna risorta di Tenderloin. Di notte le strade sono ricoperte di luci colorate al neon che scintillano, lampeggiano e pulsano come una specie di carnevale pornografico. Mancano soltanto la ruota panoramica e lo zucchero filato a forma di gente nuda per intrattenere i bimbi mentre i paparini vanno a sollazzarsi. Non c'è bisogno che le mammine lo sappiano. Seduto in macchina accanto a me, Jean-Claude rimase in silenzio per tutto il viaggio, tanto che fui costretta a lanciargli qualche occhiata per essere sicura che ci fosse ancora. Non mi riferisco alle chiacchiere, ai rutti o ad altre cose eclatanti, ma la gente di regola fa rumore, non se ne sta seduta in silenzio assoluto; cambia posizione, facendo frusciare o strusciare i vestiti contro i sedili, respira, si umetta le labbra, insomma, si muove e fa rumore in qualche modo. Invece Jean-Claude non fece niente di tutto quello. Forse non batté mai le palpebre, neanche una volta. Evviva il morto vivente! Di solito posso sopportare il silenzio come chiunque, anzi meglio di molte persone; ma quella volta arrivai al punto di aver bisogno di riempire il silenzio, di parlare soltanto per sentire qualche suono. Era uno spreco di energia, però ne avevo bisogno. «Ci sei, Jean-Claude?» Girò il collo tirandosi dietro la testa, gli occhi che riflettevano le insegne al neon come scintillanti specchi scuri. Merda! «Puoi anche far finta di essere umano, Jean-Claude, visto che ci riesci meglio di quasi tutti i vampiri che ho conosciuto. E allora perché tutta questa cazzata soprannaturale?» «Cazzata?» mormorò. «Sicuro! Perché fai lo spettrale con me?» «Spettrale?» La sua voce riempì la macchina come se quella parola significasse qualcosa di completamente diverso.
«Smettila!» ordinai. «Di fare cosa?» «Di rispondere a ogni domanda con un'altra domanda.» «Scusa, ma petite, ma riesco a sentire la strada.» «Sentire la strada? Che vuoi dire?» Si addossò allo schienale e al poggiatesta, poi intrecciò le mani sullo stomaco. «C'è molta vita, qui.» «Vita?» «Sì», rispose. «Riesco a sentirli correre avanti e indietro, piccoli esseri alla disperata ricerca di amore, dolore, accettazione, avidità. C'è anche avidità, qui, ma soprattutto sofferenza e amore.» «Non si cerca una prostituta per l'amore, ma per il sesso.» Ruotò la testa in modo da potermi fissare con gli occhi scuri. «Molta gente confonde le due cose.» Guardai la strada, mentre mi sentivo accapponare la pelle. «Non ti sei ancora nutrito stanotte, vero?» «Sei tu l'esperta di vampiri.» La sua voce fu quasi un sussurro, roca e densa. «Non riesci a capirlo?» «Sai che con te non riesco mai a capirlo.» «Un complimento ai miei poteri, ne sono certo.» «Non ti ho portato qui per farti andare a caccia», dichiarai con voce ferma, un po' troppo forte; le tempie mi pulsavano. «Vorresti proibirmi di andare a caccia, stanotte?» Ci pensai per un paio di minuti. Per trovare parcheggio avrei dovuto compiere un'inversione e ripercorrere la strada in senso opposto. Comunque, intendevo proibirgli di cacciare? Sì. Lui conosceva già la risposta, quindi era una domanda trabocchetto. Il problema era che non riuscivo a capire dove fosse il trabocchetto. «Vorrei chiederti di non cacciare qui, stanotte», risposi. «Spiegami per quale ragione, Anita.» Mi aveva chiamata Anita senza che lo esortassi a farlo, perciò stava sicuramente tramando qualcosa. «Perché sono stata io a portarti qui e quindi, se non fosse stato per me, l'avresti fatto altrove.» «Ti senti colpevole nei confronti della persona di cui potrei nutrirmi?» «È illegale nutrirsi di vittime umane non consenzienti», ribattei. «Infatti.» «La pena per questo crimine è la morte», aggiunsi. «Per mano tua.»
«Se tu venissi condannato in questo Stato, sì.» «Ci sono soltanto puttane, ruffiani, imbroglioni. Che t'importa di loro, Anita?» Credo che non mi avesse mai chiamata per nome due volte di seguito, prima di allora. Era un brutto segno. Una macchina s'immise nel traffico a meno di un isolato dal Grey Cat Club. Che fortuna! Infilai subito la mia Nova nel posto libero, anche se affiancare un'auto in sosta e parcheggiare in retromarcia non è la manovra che mi riesce meglio. Per fortuna la macchina che se n'era appena andata era il doppio della mia, quindi avevo spazio in abbondanza per manovrare. Quando la Nova fu rasente al marciapiede, al sicuro dai veicoli in transito, spensi il motore. Sempre addossato allo schienale del sedile, JeanClaude mi fissava. «Ti ho fatto una domanda, ma petite. Che cosa significa questa gente per te?» Slacciai la cintura di sicurezza e mi voltai a guardarlo. Era quasi completamente in ombra, con una striscia di luce dorata che cadeva sul viso pallido, facendo risaltare gli zigomi alti e le zanne che spuntavano appena tra le labbra. Distolsi lo sguardo dai suoi occhi, scintillanti come neon blu, e risposi fissando il volante. «Non c'è niente di personale, Jean-Claude, però si tratta di persone. Buone, cattive o neutre che siano, sono vive e nessuno ha il diritto di ucciderle per puro arbitrio.» «Dunque ti aggrappi alla sacralità della vita?» «A questo e al fatto che ogni essere umano è speciale. Ogni morte è la perdita di qualcosa di prezioso e d'insostituibile.» Nel terminare l'ultima frase lo guardai di nuovo. «Tu stessa hai ucciso più volte, Anita, distruggendo qualcosa d'insostituibile.» «Sono insostituibile anch'io», ribattei. «Nessuno ha il diritto di ammazzarmi.» Si alzò a sedere con un movimento fluido, e la realtà sembrò raccogliersi intorno a lui. Mi parve quasi di percepire il movimento del tempo nell'abitacolo, come un bum sonico della mente anziché dell'orecchio. Là seduto, Jean-Claude sembrava assolutamente umano. La sua pelle pallida aveva acquistato un po' di colorito. I suoi neri capelli ondulati, ben pettinati, erano folti e palpabili. Gli occhi erano di un blu purissimo, senza nulla di eccezionale tranne il colore. In un batter d'occhio era ridiventato umano. «Cristo», mormorai.
«Cosa c'è che non va, ma petite?» Scossi la testa. Se gli avessi chiesto come aveva fatto, si sarebbe limitato a sorridere. «Perché tutte queste domande, Jean-Claude? Perché ti preoccupi del mio punto di vista?» «Sei la mia serva umana.» Sollevò una mano per prevenire l'obiezione automatica. «Ho iniziato il processo per fare di te la mia serva umana, quindi mi piacerebbe capirti meglio.» «Non puoi semplicemente... fiutare le mie emozioni, come fai con la gente in strada?» «No, ma petite. Percepisco il tuo desiderio e poco altro. Ci ho rinunciato quando ti ho imposto i marchi.» «Non riesci a leggere dentro di me?» «No.» Era proprio bello saperlo! Eppure Jean-Claude avrebbe anche potuto non dirmelo. Allora perché lo aveva fatto? Non faceva mai niente per niente, quindi doveva esserci dietro qualcosa che non riuscivo a vedere. «Stasera non dovrai fare altro che spalleggiarmi. Non fare niente a nessuno senza che te lo dica io. Okay?» «Fare niente?» «Non fare male a nessuno, a meno che qualcuno non cerchi di fare male a noi.» Assentì con espressione molto solenne. Allora perché sospettavo che in qualche oscuro recesso della sua mente stesse ridendo di me? Impartire ordini al Master della Città! Suppongo che fosse divertente. Sul marciapiede i rumori erano assordanti. Usciva musica da ogni edificio; le canzoni erano tutte diverse, ma il volume era sempre alto. Le insegne lampeggianti annunciavano: RAGAZZE, RAGAZZE, RAGAZZE, TOPLESS, e così via. Ce n'era persino una dai bordi rosa che diceva: PARLA CON LA DONNA NUDA DEI TUOI SOGNI. Si avvicinò una donna nera, alta e magra, che indossava calzoncini così succinti da sembrare un tanga. Le natiche e le gambe erano fasciate dalle calze a rete. Provocante. Si fermò tra noi due e dardeggiò lo sguardo dall'uno all'altra. «Chi lo fa e chi guarda?» Scambiai un'occhiata con Jean-Claude, che sorrise quasi impercettibilmente. «Scusa», risposi, «ma stiamo cercando Wanda.» «Ci sono un sacco di nomi da queste parti», replicò lei. «Io faccio tutto quello che fa Wanda e anche meglio.» Si avvicinò a Jean-Claude tanto da
sfiorarlo. Lui le prese una mano e se la portò gentilmente alle labbra. Intanto guardava me. «Sei tu che lo fai», commentò lei, con voce roca e sexy. O forse era soltanto l'effetto che Jean-Claude aveva sulle donne. Comunque lei gli si strusciò addosso. La sua pelle spiccava molto nera contro il pizzo bianco della camicia di lui. Le sue unghie erano rosa come ovetti di Pasqua. «Spiacente d'interrompere», intervenni, «ma non abbiamo tutta la notte.» «Allora questa non è quella che stai cercando», dedusse lui. «No», confermai. La prese per le braccia poco sopra i gomiti e la respinse. Lei resistette e gli si aggrappò alle braccia per attirarlo a sé, ma Jean-Claude la tenne a distanza senza nessuno sforzo. Avrebbe potuto bloccare senza fatica persino una motrice. «Con te lo faccio gratis», insistette lei. «Cosa ci faresti con lei?» domandai. «Niente.» Non gli credetti. «Niente, anche se ci sta gratis?» Il sarcasmo è uno dei miei talenti naturali e volevo essere sicura che Jean-Claude lo sapesse. «Rilassati», disse il vampiro. «Non dirmi di rilassarmi!» ribattei. La donna abbandonò le braccia lungo i fianchi e rimase perfettamente immobile. Il comando non era stato per me. Jean-Claude la lasciò senza che lei si muovesse, poi le girò intorno come se fosse una crepa nell'asfalto e mi prese per un braccio. Non glielo impedii, intenta a osservare la prostituta in attesa che tornasse a muoversi. La sua schiena diritta e quasi nuda ebbe un tremito, le sue spalle si afflosciarono. Gettò indietro la testa con un profondo sospiro tremante. Jean-Claude mi condusse via gentilmente, sempre tenendomi per il braccio. La prostituta si girò, ci vide e non tradì la minima perplessità. Non ci riconobbe. Deglutii a fatica, quasi dolorosamente, poi mi liberai della presa di JeanClaude, che non cercò di trattenermi. Buon per lui. Indietreggiai verso una vetrina mentre Jean-Claude restava di fronte a me, lo sguardo abbassato. «Che cosa le hai fatto?» «Niente, ma petite.» «Non chiamarmi così, Jean-Claude, e non mentirmi. L'ho vista.» Due uomini che si tenevano per mano si fermarono accanto a noi per guardare la vetrina. Guardai anch'io e mi sentii arrossire. Fruste, maschere
di cuoio, manette imbottite, altri oggetti di cui non conoscevo neppure il nome. Uno dei due si appoggiò all'altro e sussurrò qualcosa, poi, mentre il suo compagno rideva, intercettò il mio sguardo. Mi voltai subito, perché il contatto visivo da quelle parti è pericoloso. Per di più stavo ancora arrossendo, e non lo sopportavo. I due uomini si allontanarono, mano nella mano. Jean-Claude osservava la vetrina come se fosse in giro il sabato pomeriggio a fare compere. Con indifferenza. «Cos'hai fatto a quella donna?» Continuò a fissare la vetrina, senza che io riuscissi a capire cosa aveva attirato la sua attenzione. «È stato imprudente da parte mia, ma... Anita. È stata tutta colpa mia.» «Che cosa?» «I miei... poteri sono molto più grandi quando la mia serva umana è con me.» Allora mi scrutò in viso. «Con te accanto, i miei poteri si moltiplicarlo.» «Aspetta un momento! Vuoi dire... come una strega col suo famiglio?» Reclinò la testa con un lieve sorriso. «Sì, è molto simile. Ignoravo che sapessi qualcosa di stregoneria.» «Un'infanzia disastrata», ribattei. Non intendevo farmi distogliere dall'argomento che m'interessava. «Dunque la tua capacità d'ipnotizzare la gente con lo sguardo è maggiore quando sono con te, anzi è tanto più forte che hai ipnotizzato quella prostituta senza volerlo.» «È così.» «No, non ti credo.» Si strinse armoniosamente nelle spalle. «Credi pure quello che vuoi, ma petite, però è la verità.» Non volevo crederlo, perché, se fosse stato proprio così, allora sarei stata davvero la sua serva umana senza neppure dovermi comportare come tale. Sarebbe bastato che fossi presente. Mi venne freddo anche se era tanto caldo da avere la schiena bagnata di sudore. «No, non posso affrontare questa cosa adesso. Non posso.» Alzai gli occhi a fissarlo. «Tieni a freno i poteri che condividiamo, okay?» «Ci proverò.» «Non provarci, maledizione! Fallo!» Mostrò la punta delle zanne. «Certo, ma petite.» Per reprimere il panico che mi schiacciava la bocca dello stomaco, strinsi i pugni lungo i fianchi. «Se mi chiami così un'altra volta, ti spacco la
faccia!» Spalancò un po' gli occhi, arcuando le labbra. Mi resi conto che stava cercando di non ridere, e io non sopporto che la gente trovi divertenti le mie minacce. Era un invadente figlio di puttana e volevo fargli male perché mi spaventava. Non era la prima volta che provavo una tale smania di violenza e sapevo che poteva diventare incontrollabile. Continuai a fissare la sua faccia vagamente divertita. Era un bastardo accondiscendente, ma, se mai ci fossimo scontrati davvero, uno di noi due sarebbe morto. Probabilmente sarebbe toccato a me. Scomparsa poco a poco l'espressione divertita, il suo viso rimase calmo, bello e arrogante. «Che c'è, Anita?» chiese con voce morbida, intima. Nonostante il caldo e la folla in continuo movimento tutt'intorno a noi, la sua voce riusciva a sconvolgermi. Era un dono. «Non mettermi alle strette, Jean-Claude. Non voglio essere obbligata a cancellare tutte le opzioni.» «Non ti capisco.» «Se mai arriverò a dover scegliere tra te e me, sceglierò me stessa. Ricordalo.» Mi scrutò qualche istante, perplesso. «Credo che lo faresti davvero. Però ricorda una cosa anche tu, ma... Anita. Far male a me significa far male anche a te stessa. Io potrei sopravvivere al dolore per la tua morte, ma la domanda, amante de moi, è se tu riusciresti a sopravvivere alla mia.» Amante de moi? Che cazzo voleva dire? Decisi di non chiederlo. «Che tu sia dannato, Jean-Claude.» «Questo, cara Anita, era già stabilito molto tempo prima del nostro incontro.» «Che significa?» Il suo sguardo era più che mai innocente. «Ma come, Anita? La tua Chiesa cattolica ha stabilito che tutti i vampiri sono suicidi e dunque automaticamente dannati.» «Io sono episcopale, adesso. Comunque non è questo che intendevi.» La sua risata fu come una carezza di seta alla nuca, liscia e piacevole, che però mi fece rabbrividire. Mi allontanai, lasciandolo là, di fronte a quell'oscena vetrina, per incamminarmi tra la folla di puttane, ruffiani e clienti, sicura che in strada non ci fosse nessuno pericoloso quanto Jean-Claude. E pensare che lo avevo portato lì per proteggere me! Ridicolo.
Mi fermò un ragazzo che non poteva avere più di quindici anni, vestito con un panciotto senza camicia e un paio di jeans stracciati. «Ti vuoi divertire?» Era poco più alto di me, occhi azzurri. Dietro di lui, a breve distanza, altri due ragazzi ci fissavano. «Non arrivano molte donne qui», aggiunse. «Non mi stupisce», replicai. Sembrava incredibilmente giovane. «Dove posso trovare Wheelchair Wanda?» «Una patita degli storpi!» commentò uno degli altri due ragazzi. «Cristo!» Ero d'accordo con lui. «Dove?» Mostrai venti dollari. Era troppo per quella informazione, ma forse glieli avrei dati soltanto per fare in modo che se ne tornasse a casa un po' prima del solito. Forse gli sarebbero bastati per rifiutare uno dei clienti che in auto percorrevano lentamente la strada, su e giù. Venti dollari possono anche cambiare una vita, proprio come a mani nude si può impedire una catastrofe nucleare. «È davanti al Grey Cat, in fondo all'isolato.» «Grazie.» Gli porsi la banconota. La afferrò con le dita dalle unghie sporche. «Sicura che non vuoi un po' di azione?» La sua voce esile era incerta come lo sguardo. Con la coda dell'occhio vidi Jean-Claude che si avvicinava tra la folla. Mi girai di nuovo verso il ragazzo. «Ho già molta più azione di quella che mi serve», replicai. Corrugò la fronte, perplesso. Tutto bene. Ero perplessa anch'io. Cosa fai con un Master che non ti lascia in pace? Bella domanda. Purtroppo quello che mi serviva era una bella risposta. 24 Wheelchair Wanda era una donna minuta sopra una di quelle sedie a rotelle che si usano per gareggiare. Indossava guanti da ciclismo e aveva i muscoli delle braccia che guizzavano sotto la pelle abbronzata mentre spingeva sulle ruote, procedendo nella nostra direzione ad andatura spedita. I lunghi capelli castani cadevano in onde gentili a incorniciare un viso molto bello. Il trucco era di ottimo gusto. Portava una maglietta azzurro metallizzato senza reggiseno, gonna alla caviglia con almeno due strati di crinolina multicolore e un paio di stivali neri alla moda. Nella maggior parte dei casi, gli uomini e le donne che si vendono hanno un aspetto del tutto normale. I calzoncini corti e le pance scoperte non
hanno niente di oltraggioso. E poi, con quel caldo, chi avrebbe potuto biasimarli? D'altronde è naturale, credo, che chi porta tute di rete insospettisca la polizia. Jean-Claude si fermò dietro di me a osservare l'insegna al neon THE GREY CAT, di un fucsia quasi accecante. Ottimo gusto! Come si abborda una prostituta soltanto per fare una chiacchierata? Non lo so, ma ogni giorno s'impara qualcosa di nuovo. Mi misi sulla sua traiettoria in attesa che si avvicinasse. Lei alzò la testa, si accorse che la guardavo e, quando non distolsi gli occhi, mi sorrise. Poi, non appena JeanClaude mi si affiancò, il suo sorriso si allargò, o si approfondì. Fu sicuramente uno di quelli che nonna Blake era solita definire un «sorriso invitante». «È una prostituta?» sussurrò Jean-Claude. «Sì», confermai. «In sedia a rotelle?» chiese. «Già.» «Oh», si limitò a commentare. Immagino che fosse scioccato. Era bello sapere che poteva rimanere sconvolto. Wanda fermò la sedia con un movimento esperto delle mani, allungando il collo per guardarci dal basso. Sembrava un'inclinazione dolorosa. «Salve», salutò. «Salve.» Lei continuò a sorridere e io continuai a fissarla. Perché all'improvviso mi sentivo in imbarazzo? «Un amico mi ha parlato di te», dichiarai. Wanda fece un cenno col capo. «Sei quella che chiamano Wheelchair Wanda?» D'improvviso il suo sorriso divenne autentico. Dietro la maschera c'era una persona vera. «Sì, sono io.» «Possiamo parlare?» «Sicuro. Hai una stanza?» Se avevo una stanza? Avrei dovuto? «No.» Rimase in attesa. Al diavolo! «Vogliamo soltanto parlarti per un'ora o due. Paghiamo la tua tariffa.» Mi disse qual era. «Cristo! È un po' caro», commentai. «Domanda e offerta», spiegò, candidamente. «Quello che ho io non puoi assaggiarlo da nessun'altra parte», aggiunse. Si passò le mani sulle gambe
e i miei occhi seguirono il movimento. Era tutto troppo strano. «Okay, affare fatto.» Era una spesa di lavoro. Carta per la stampante, pennarelli punta media, una prostituta, cartelline, graffette. Visto? Ci stava benissimo. Bert sarebbe stato entusiasta. 25 Portammo Wanda nel mio appartamento. Nel palazzo non ci sono ascensori e due rampe di scale non sono esattamente accessibili alle sedie a rotelle, così Jean-Claude la prese in braccio e mi precedette agilmente, neanche rallentato dal peso di Wanda, mentre io li seguivo con la sedia a rotelle, che invece mi rallentò notevolmente. L'unica consolazione fu l'opportunità di ammirare Jean-Claude che saliva le scale. Fatemi pure causa per pensieri osceni, ma ha proprio un bel fondoschiena per essere un vampiro. Mi aspettò in corridoio con Wanda in braccio, e mi guardarono entrambi con una specie di piacevole vacuità negli occhi. Passai avanti, trascinando sulla passatoia la sedia a rotelle chiusa, seguita da Jean-Claude. Con la sedia a rotelle appoggiata a una gamba, girai la chiave nella serratura, poi spalancai completamente la porta per fare spazio al vampiro. Con una certa difficoltà aprii nuovamente la sedia a rotelle, che era pieghevole come un passeggino. Come avevo sospettato, era più facile chiuderla che aprirla. Impegnata nella lotta, lanciai un'occhiata a Jean-Claude, fermo in corridoio davanti alla porta. Wanda lo fissava con la fronte corrugata. «Che c'è?» domandai. «Non sono mai stato nel tuo appartamento.» «E allora?» «La grande esperta di vampiri! Dai, Anita!» Oh! «Hai il permesso di entrare nella mia casa.» Chinò la testa in una specie d'inchino. «Ne sono onorato.» Mentre chiudevo la porta, Wanda fu deposta sulla sedia a rotelle e si rassettò la lunga gonna sulle gambe. Immobile in mezzo al soggiorno, Jean-Claude si guardò intorno. Fu incuriosito dal calendario coi pinguini che si vedeva in cucina, quindi andò a sfogliarlo fino all'ultima pagina, osservando le fotografie dei goffi uccelli che non volano.
Avrei voluto dirgli di smetterla, ma che male ci poteva essere? Non ho l'abitudine di annotare gli appuntamenti sul calendario. Allora perché mi disturbava tanto che fosse così interessato ai pinguini? La notte stava diventando sempre più strana. «Vuoi bere qualcosa?» domandai alla prostituta che si trovava nel mio soggiorno. Nel dubbio conviene essere cortesi. «Vino rosso, se ne hai», rispose Wanda. «Mi spiace, ma non ho alcolici in casa. Soltanto caffè, bibite non dietetiche e acqua.» «Allora una bibita», decise. Andai a prendere una Coca dal frigo. «Vuoi un bicchiere?» Scosse la testa. Appoggiato a un muro, Jean-Claude osservava tutto quello che facevo. «Neanche a me serve un bicchiere», mormorò. «Non fare lo spiritoso», rimbeccai. «Troppo tardi», ribatté. Non potei fare a meno di sorridere e lui ne sembrò contento, la qual cosa mi fece corrugare la fronte. La vita è dura quando si ha a che fare con Jean-Claude. Si spostò verso l'acquario per concedersi una visitina al mio appartamento, com'era ovvio. Almeno lasciava un po' di riservatezza a Wanda e a me. «Merda! È davvero un vampiro!» commentò Wanda. Il suo apparente sbalordimento mi sorprese, perché io riesco sempre a capirlo. I morti sono morti per me, per quanto possano essere belli i cadaveri. «Non te n'eri accorta?» domandai. «No, non sono carne da bara.» Il suo viso tradiva la tensione; il suo sguardo, mentre seguiva gli spostamenti casuali di Jean-Claude per l'appartamento, aveva un'espressione nuova. Era spaventata. Le porsi la bibita. «Cos'è la carne da bara?» «Una puttana che si fa i vampiri.» Carne da bara. Bizzarro! «Non ti toccherà.» Si girò a guardarmi con occhi castani molto attenti, come se stesse cercando di leggermi nella mente. Stavo dicendo la verità? È terrificante lasciarsi portare chissà dove da una coppia di sconosciuti senza sapere se hanno o no intenzione di farti del male. Disperazione o desiderio di morte. «Quindi vuoi farlo tu con me?» chiese, senza distogliere gli occhi dal mio viso.
Mi ci volle un momento per capire cosa intendeva. «No. Come ho detto, voglio soltanto parlarti. Non era una balla.» Arrossii. Forse si rilassò proprio perché mi vide arrossire. Aprì la lattina e bevve un sorso. «Vuoi chiedermi di farlo con altri mentre tu lo fai con lui?» Accennò con la testa al vampiro intento a curiosare. Jean-Claude era davanti all'unico quadro che ho in soggiorno. È moderno, intonato all'arredamento. Grigio, bianco, nero e un rosa molto pallido. Una di quelle opere in cui più le guardi, più forme riesci a scorgere. «Senti, Wanda, voglio soltanto parlare, e basta. Tutto qui. Nessuno farà niente con nessuno. Okay?» Si strinse nelle spalle. «I soldi sono tuoi. Possiamo fare quello che vuoi.» Quell'affermazione mi colpì allo stomaco, perché diceva sul serio. La pagavo, perciò avrebbe fatto tutto quello che volevo. Tutto? Era terribile, insopportabile, che un essere umano fosse disposto a fare tutto. Comunque non se la faceva coi vampiri; anche le puttane hanno le loro riserve. Wanda mi sorrise con un cambiamento straordinario, che rese luminoso il suo viso, facendolo diventare subito bellissimo. Le brillarono persino gli occhi. Mi ricordò il viso di Cicely quando l'avevo vista ridere in silenzio. Be', era meglio tornare agli affari. «Ho saputo che un po' di tempo fa sei stata l'amante di Harold Gaynor.» Niente preliminari, niente smancerie. Via i vestiti! Il sorriso di Wanda sbiadì, la luce allegra si spense nei suoi occhi, sostituita dalla diffidenza. «Mai sentito.» «Invece lo conosci», obiettai. Ero ancora in piedi, quindi per guardarmi dal basso in alto avrebbe dovuto piegare la testa in modo quasi doloroso. Sorseggiò la bibita e scosse la testa, senza guardarmi. «Dai, Wanda! Lo so che eri l'amante di Gaynor. Ammetti di conoscerlo e partiamo da qui.» Mi guardò, poi abbassò di nuovo gli occhi. «No. Lo faccio con te mentre il vampiro guarda e dico porcherie a tutti e due, ma non conosco nessuno che si chiama Gaynor.» Mi curvai a posare le mani sui braccioli della sedia, avvicinando molto la mia faccia alla sua. «Non sono una giornalista. Gaynor non saprà mai che hai parlato con me, se non sarai tu stessa a dirglielo.» La vidi spalancare gli occhi e mi accorsi che la giacca si era aperta a rivelare la pistola: era quella la causa del suo turbamento. Bene. «Parliamo, Wanda», la esortai con voce pacata, ben sapendo che spesso
il tono più pacato è anche la peggiore minaccia. «Chi diavolo sei? Uno sbirro no di sicuro, e neanche una giornalista. Gli assistenti sociali non girano armati. Insomma, chi sei?» L'ultima domanda fu pronunciata in un tono che lasciava trapelare la paura. Jean-Claude ritornò da una visita alla mia camera da letto. Perfetto! «Problemi, ma petite?» Non lo rimproverai per il nomignolo, perché Wanda non doveva sapere che c'era dissenso tra i ranghi. «Non vuole collaborare», spiegai, prima di scostarmi dalla sedia a rotelle per togliermi la giacca e posarla sul piano di lavoro della cucina. Wanda fissò la mia pistola, come avevo previsto. Forse io non faccio paura, ma la Browning sì. Intanto Jean-Claude girò dietro di lei e le posò le mani snelle sulle spalle, facendola trasalire come se le avesse fatto male. Sapevo che non era così, ma forse sarebbe stato meglio se lo avesse fatto. «Mi ucciderà», dichiarò Wanda. Un sacco di gente sembrava pensarla così sul conto di Gaynor. «Non lo saprà mai», assicurai. Jean-Claude le accarezzò i capelli con una guancia, quindi cominciò a massaggiarle gentilmente le spalle. «E poi, mia dolce civetta, lui non è qui con te stanotte», le disse all'orecchio. «Ci siamo noi.» Mormorò qualcos'altro che non riuscii a sentire, muovendo le labbra silenziosamente, almeno per me. Invece Wanda lo sentì, sgranò gli occhi e cominciò a tremare, scossa in tutto il corpo da una specie di attacco epilettico. Gli occhi le si riempirono di lacrime, che poi scivolarono giù, lungo le curve armoniose delle guance. Merda! «Per favore, no!» La voce di Wanda era soffocata, esile di paura. «Non lasciarglielo fare, ti prego!» In quel momento odiai Jean-Claude e me stessa. Una delle mie ultime illusioni era quella di far parte dei buoni e non ero disposta a rinunciarci neanche in nome dell'efficienza. Wanda avrebbe parlato o non avrebbe parlato di sua volontà, senza torture. «Fatti indietro, Jean-Claude», ordinai. Lui alzò la testa a guardarmi. «Il sapore del suo terrore è come il vino forte. Posso sentirlo.» Gli occhi del vampiro erano di un blu solido, profondo e risucchiante. Sembrava cieco. Il suo viso rimase bello quando spalancò la bocca a far scintillare le zanne. Wanda continuava a implorare, fissando me. Se avesse visto la faccia di
Jean-Claude in quel momento, si sarebbe messa a strillare. «Credevo che tu avessi più autocontrollo, Jean-Claude!» «Il mio autocontrollo è eccellente, ma non è inesauribile.» Si allontanò da Wanda e iniziò a passeggiare avanti e indietro dall'altra parte del divano, come un leopardo in gabbia. Violenza repressa in attesa di scatenarsi. Non riuscivo a vedere il suo viso, perciò mi chiesi se fosse stata soltanto un'esibizione spettrale a beneficio di Wanda, o se avesse fatto sul serio. Impossibile chiederglielo in presenza della prostituta. Forse più tardi. Forse. M'inginocchiai di fronte a Wanda, che aveva stretto la lattina con tanta violenza da comprimerla parzialmente, e le rimasi vicino senza toccarla. «Ti giuro che non gli permetterò di farti del male. Harold Gaynor mi sta minacciando. Per questo mi occorrono informazioni.» Wanda mi guardava, però la sua attenzione era tutta per il vampiro che le stava dietro, come rivelava la tensione guardinga delle sue spalle. Non si sarebbe mai rilassata fintanto che Jean-Claude fosse rimasto nella stanza. La signora aveva buon gusto. «Jean-Claude. Jean-Claude!» Quando si girò a fronteggiarmi, il suo viso era normale. Un sorriso gli increspava le labbra. Era stata soltanto una recita, che figlio di puttana! C'era forse qualcosa che faceva diventare sadico chi si trasformava in vampiro? «Vai in camera da letto per un po'. Wanda e io abbiamo bisogno di parlare in privato.» «La tua camera da letto! Sarà un piacere, ma petite.» Ci lasciò da sole in soggiorno. Wanda rilassò le spalle. «Non gli permetterai di farmi del male, vero?» «No, te lo assicuro.» Allora scoppiò a piangere, morbide lacrime tremanti. Non seppi cosa fare, perché non so mai come comportarmi quando qualcuno si mette a piangere. Dovevo abbracciarla, o magari batterle affettuosamente una mano per confortarla? Alla fine mi sedetti sulla moquette davanti a lei e non feci niente. In pochi istanti smise di piangere e mi guardò. Il trucco intorno agli occhi era svanito, lasciandola con un'espressione vulnerabile che la rendeva ancora più attraente di prima. Mi venne voglia di prenderla tra le braccia e di cullarla come se fosse stata una bambina, sussurrandole menzogne, assicurandole che tutto sarebbe andato bene.
Quando fosse uscita dal mio appartamento sarebbe stata ancora una puttana, una puttana storpia. Com'era possibile che andasse bene? Scossi la testa, più a me stessa che a lei. «Vuoi qualche Kleenex?» Fece di sì con la testa. Le presi la scatola che tenevo in cucina. Si terse il viso e si soffiò il naso molto educatamente, con modi da vera signora. «Possiamo parlare adesso?» Annuì e bevve tremando un sorso di bibita. «Conosci Harold Gaynor, vero?» Mi fissò con sguardo opaco. L'avevamo forse traumatizzata? «Se lo scopre mi ammazza. Forse non voglio essere carne da bara, ma sicuro come l'inferno non voglio neanche morire.» «Nessuno lo vuole. Per favore, Wanda, parliamo.» Emise un sospiro tremante. «Okay, conosco Harold.» Harold? «Parlami di lui.» Wanda socchiuse gli occhi, e molte rughe sottili mi rivelarono che era più vecchia di quanto sembrasse. «Ti ha già aizzato contro Bruno o Tommy?» «Tommy è venuto a fare due chiacchiere in privato.» «Che cos'è successo?» «Gli ho puntato contro la pistola.» «Quella?» chiese, con voce soffocata. «Sì.» «Cos'hai fatto per far arrabbiare Harold?» Verità o menzogna? Nessuna delle due. «Ho rifiutato di fare una cosa per lui.» «Cosa?» «Non ha importanza.» «Non può essere sesso. Tu non sei storpia.» Pronunciò l'ultima parola in tono duro; probabilmente le costava pronunciarla. «Non tocca nessuna donna che non lo sia.» L'amarezza della sua voce fu tanto densa da dare l'impressione di poterla assaporare. «Come lo hai conosciuto?» domandai. «Ero al college quando Gaynor venne a fare una qualche donazione.» «E ti chiese di uscire?» «Già», mormorò, così piano che fui costretta a chinarmi in avanti per sentire. «Cosa accadde?»
«Eravamo tutti e due in sedia a rotelle, e lui era ricco. Fu magnifico.» Arrotolò le labbra come per stendere meglio il rossetto, poi deglutì. «Quando smise di esserlo?» chiesi. «Mi trasferii da lui e abbandonai il college. Fu... più facile che continuare a studiare, più facile di qualsiasi altra cosa. Non ne aveva mai abbastanza di me.» Chinò la testa a guardarsi il grembo. «Poi cominciò a volere cose diverse a letto. Sai, anche se è storpio non ha perso la sensibilità. Io invece sì.» La sua voce diventò quasi un sussurro, obbligandomi ad appoggiarmi alle sue ginocchia per sentire. «Gli piaceva usare le mie gambe. Io non sentivo niente, quindi all'inizio pensai che fosse okay, ma... poi cominciò a diventare davvero disgustoso.» D'improvviso mi guardò, con la faccia a pochi centimetri dalla mia, gli occhi grandi e colmi di lacrime. «Mi feriva. Io non sentivo niente, ma non è questo il punto, vero?» «No», convenni. La prima lacrima le scivolò sul viso, e io le toccai una mano. Lei me l'afferrò con l'altra, senza più lasciarla. «Va tutto bene», mentii. «Va tutto bene.» Le tenni la mano mentre ricominciava a piangere e continuai a mentirle. «Adesso va tutto bene, Wanda. Non può più farti male.» «Lo fanno tutti», ribatté. «Volevi farlo anche tu», aggiunse, con sguardo d'accusa. Era un po' troppo tardi per spiegarle l'espediente del poliziotto buono e del poliziotto cattivo. Comunque non ci avrebbe creduto. «Parlami ancora di Gaynor.» «Mi ha sostituita con una ragazza sorda.» «Cicely», suggerii. Alzò gli occhi, sorpresa. «L'hai conosciuta?» «Un breve incontro.» Wanda scosse la testa. «Cicely è una pervertita. Le piace torturare la gente. È così che gode.» Mi osservò per valutare la mia reazione. Ero sconvolta? No. «Qualche volta siamo state a letto con Harold tutt'e due insieme; poi abbiamo finito per farlo sempre in tre. È diventata davvero dura.» La sua voce si ridusse gradualmente a un roco sussurro. «Cicely si diverte coi coltelli. È molto brava a scuoiare.» Arrotolò di nuovo le labbra come aveva fatto poco prima. «Harold mi ammazzerebbe, se sapesse che ti ho rivelato i suoi segreti sessuali.» «Conosci anche i suoi segreti nel campo degli affari?» «No, te lo giuro. È sempre stato molto attento a tenermi all'oscuro. All'i-
nizio pensavo che fosse per evitarmi l'arresto, se mai fosse arrivata la polizia.» Di nuovo chinò la testa a guardarsi in grembo. «Poi ho capito che lo faceva perché aveva già deciso di rimpiazzarmi. Voleva essere sicuro che non sapessi niente che potesse danneggiarlo quando mi avesse cacciata.» Nessuna amarezza, nessuna collera, soltanto vuota tristezza. Avrei preferito che s'infuriasse, che desse in escandescenze, perché quella quieta disperazione era straziante, una sofferenza che non avrebbe mai potuto essere dissolta. Gaynor aveva fatto peggio che ucciderla. L'aveva lasciata in vita, dopo averla storpiata nello spirito com'era storpia nel corpo. «Posso riferirti soltanto quello che ha detto a letto, ma non ti servirà per danneggiarlo.» «Quand'era a letto parlava soltanto di sesso?» domandai. «Che vuoi dire?» «Segreti personali che non riguardassero il sesso. Dopotutto sei stata la sua donna per quasi due anni. Ti avrà pur parlato di qualcosa di diverso dal sesso.» Corrugò la fronte, riflettendo. «Io... Ha parlato della sua famiglia, credo.» «Cos'ha detto?» «Era figlio illegittimo, ossessionato dalla famiglia del suo vero padre.» «Sapeva che famiglia era?» Wanda annuì. «Molto ricca. Sua madre era una ex prostituta. Quando rimase incinta, fu cacciata.» Come fa Gaynor con le sue donne, pensai. Freud è spesso all'opera nelle nostre vite. «Che famiglia era?» domandai. «Non l'ha mai detto. Aveva paura che ricattassi i suoi parenti, credo, o che andassi a spifferare loro i suoi sporchi segretucci. Vuole disperatamente che rimpiangano di non averlo accolto. Penso che abbia fatto i soldi soltanto per poter essere ricco come lo erano loro.» «Se non ti ha mai detto il nome della famiglia, come fai a sapere che non mentiva?» «Non lo chiederesti, se lo avessi sentito. La sua voce era così intensa. Li odia e vuole quello che gli spetta per diritto di nascita, cioè i loro soldi.» «Come intende ottenerli?» domandai. «Poco prima che lo lasciassi, Harold aveva scoperto dov'erano stati seppelliti i suoi antenati e parlava di un tesoro, un tesoro sepolto. Riesci a crederci?» «Nelle tombe?»
«No, gli antenati di suo padre fecero fortuna con la pirateria fluviale. Navigavano sul Mississippi e derubavano la gente. Gaynor ne era fiero, ma al tempo stesso questa cosa lo faceva arrabbiare. Diceva che erano tutti quanti discendenti di ladri e di puttane. Come hanno fatto a diventare tanto importanti per lui?» Mi scrutò in faccia nel chiederlo e forse capì che stava cominciando a venirmi un'idea. «A cosa gli sarebbe servito conoscere le tombe dei suoi antenati per trovare il tesoro?» «Voleva trovare un sacerdote vudù che li resuscitasse per costringerli a consegnargli il tesoro perduto da secoli.» «Ecco!» commentai. «Che c'è? Ti ho detto qualcosa di utile?» «Già.» Il mio ruolo nel progettino di Gaynor diventava chiaro, dolorosamente chiaro. Restava da sapere perché aveva voluto proprio me. Perché non si era rivolto a una persona senza scrupoli come Dominga Salvador, che avrebbe incassato il compenso, avrebbe ammazzato la capra senza corna e poi non avrebbe perso neanche un minuto di sonno? Perché proprio io, con la mia reputazione di moralità? «Ti ha mai fatto il nome di qualche sacerdote vudù?» «No, niente nomi. Era sempre molto prudente coi nomi. Ma vedo che hai una strana espressione, adesso. A cosa può servirti quello che ti ho appena detto?» «Meno ne sai, meglio è. Non sei d'accordo?» «Lo credo anch'io.» «C'è un posto...?» M'interruppi prima di offrirle un biglietto d'autobus o d'aereo. Qualunque destinazione sarebbe andata bene, purché non fosse più costretta a vendersi e purché potesse guarire dalle ferite interiori. Forse lo capì dalla mia faccia o dal mio silenzio, perché scoppiò in una bella risata profonda. Ma come? Le puttane non dovrebbero avere una risata stridula e cinica? «Alla fin fine sei proprio il tipo dell'assistente sociale! Vuoi salvarmi, vero?» «È così terribilmente ingenuo offrirti un biglietto per tornare a casa o per trasferirti da qualche altra parte?» «Terribilmente! E perché dovresti volermi aiutare? Non sei un uomo e non ti piacciono le donne. Perché dovresti offrirmi la possibilità di tornare a casa?»
«Pura stupidità.» Mi alzai. «No, non è una cosa stupida.» Mi prese una mano e la strinse. «Ma non servirebbe a niente. Sono una puttana. Qui almeno conosco la città e la gente, ho i miei clienti regolari.» Mi lasciò la mano e si strinse nelle spalle. «Tiro avanti.» «Con un piccolo aiuto dai tuoi amici», aggiunsi, citando i Beatles. «Le puttane non hanno amici.» «Non sei mica obbligata a fare la puttana. È stato Gaynor a fartici diventare, ma non è detto che tu debba continuare a esserlo.» Le lacrime le tremarono negli occhi per la terza volta. Cazzo, non era abbastanza tosta per lavorare in strada. Nessuno lo è. «Basta che mi chiami un taxi. Okay? Non ho più voglia di parlare.» Cosa avrei potuto fare? Chiamai un taxi e spiegai che la cliente era in sedia a rotelle; poi lei si lasciò portare giù da Jean-Claude, ma rimase molto tesa e molto immobile tra le sue braccia. Restai a guardare finché il taxi non la portò via; Jean-Claude rimase accanto a me nel cerchio dorato del lampione, proprio davanti al mio palazzo. La luce calda sembrava sbiadirgli la pelle. «Adesso devo andare, ma petite. È stato molto istruttivo, però mi resta poco tempo.» «Devi nutrirti, vero?» «Si vede?» «Un po'.» Mi sentivo male, scontrosa e irrequieta. Ero arrabbiata con Harold Gaynor per quello che aveva fatto a Wanda ed ero arrabbiata anche con Wanda per averglielo permesso, nonché con me stessa perché non potevo farci niente. Insomma, ero incazzata col mondo intero. Avevo scoperto che cosa voleva Gaynor da me, eppure non mi serviva a un accidente di niente. «Ci sono sempre vittime, Anita. Predatori e prede. Il mondo va così.» Gli lanciai un'occhiataccia. «Credevo che non fossi più capace di leggermi nella mente!» «Non ci riesco, infatti, ma mi bastano la tua espressione e quello che so di te.» Non volevo accettare il fatto che Jean-Claude mi conoscesse tanto bene, tanto intimamente. «Vattene, Jean-Claude. Vattene e basta.» «Come vuoi, ma petite.» E scomparve. Una folata di vento, poi più nulla. «Esibizionista», mormorai, rimasta sola nel buio ad assaporare le prime
lacrime. Perché mai avevo voglia di piangere per una puttana che conoscevo appena e per l'ingiustizia del mondo in generale? Jean-Claude aveva ragione. Prede e predatori ci sarebbero sempre stati, e io mi ero data parecchio da fare per entrare a far parte della categoria dei predatori. Ero la Sterminatrice. Allora perché le mie simpatie andavano sempre alle vittime? E perché la disperazione negli occhi di Wanda mi faceva odiare Gaynor ancor di più? 26 Il telefono squillò e io mossi soltanto gli occhi per guardare la sveglia sul comodino. Segnava le 6:45. Merda! Rimasi sdraiata, mezza addormentata, ad aspettare che rispondesse la segreteria. «Sono Dolph. Ne abbiamo trovato un altro. Richiamami...» Afferrai a tentoni il ricevitore, riuscendo anche a farlo cadere. «Ciao, Dolph. Eccomi.» «Fatto tardi?» «Già. Che succede?» «Il nostro amico ha deciso che le case unifamiliari sono più facili», rispose, con la voce roca per la mancanza di sonno. «Dio! Un'altra famiglia?» «Temo di sì. Puoi uscire?» Fu una domanda stupida, ma non lo sottolineai. Avevo lo stomaco nelle ginocchia perché non volevo ripetere l'esperienza di casa Reynolds. Dubitavo che la mia immaginazione potesse riuscire a sopportarlo. «Dammi l'indirizzo. Ci sarò.» Mi diede l'indirizzo. «St. Peters», ripetei. «È vicino a St. Charles, ma...» «Ma cosa?» «È una bella camminata per trovare una casa unifamiliare. Ce ne sono molte di simili anche a St. Charles. Perché mai avrà fatto un viaggio tanto lungo per nutrirsi?» «E lo chiedi a me?» Ci fu qualcosa di quasi simile a una risata nella sua voce. «Vieni sulla scena, Signora Esperta del Vudù, e dicci cosa vedi.» «Dolph, è orrendo come dai Reynolds?» «Orrendo e anche peggio», replicò. «Peggio di qualsiasi cosa.» La risata c'era ancora, ma aveva qualcosa di duro e di autoaccusatorio. «Non è colpa tua», dichiarai.
«Dillo ai pezzi grossi, che non vedono l'ora di fare il culo a qualcuno.» «Hai ottenuto il mandato?» «Arriverà oggi, nel tardo pomeriggio.» «Nessuno ottiene mandati nel fine settimana», osservai. «Eccezione prodotta dal panico», spiegò Dolph. «Porta qua il tuo culo, Anita. Hanno bisogno tutti quanti di tornare a casa.» Riagganciò. Non mi presi la briga di salutare. Un altro omicidio. Merda, merda e ancora merda! Non era così che avrei voluto trascorrere la mattinata del sabato. Però avremmo avuto un mandato, evviva! Il guaio era che non sapevo cosa cercare perché non ero una vera esperta di vudù, ma soltanto un'esperta di crimini soprannaturali. Non è la stessa cosa. Forse avrei dovuto chiedere a Manny di accompagnarmi, però non lo volevo vicino a Dominga Salvador, caso mai lei decidesse di denunciarlo alla polizia per ottenere un accordo. Il sacrificio umano non cade in prescrizione, quindi Manny avrebbe potuto essere processato e condannato. Sarebbe stato nello stile di Dominga cercare di barattare la vita del mio amico per la propria, facendo tortuosamente ricadere la colpa su di me. Sì, le sarebbe piaciuto da matti. La spia della segreteria lampeggiava. Perché non me n'ero accorta prima? Mistero. Comunque ascoltai la registrazione. «Anita Blake? Sono John Burke. Ho ricevuto il tuo messaggio. Richiamami qui quando vuoi. Sono ansioso di sapere quello che hai scoperto.» Aveva lasciato un recapito telefonico senza aggiungere altro. Grande! Una scena del crimine, un viaggio alla morgue e una visita nel paese del vudù, tutto in un giorno solo. Sarebbe stata proprio una giornata piena e sgradevole, perfettamente in sintonia con le due notti precedenti. Merda! Ero in ballo e dovevo ballare. 27 C'era un agente che vomitava in un gigantesco bidone per le immondizie davanti alla casa. Brutto segno. Il furgone di una rete televisiva era parcheggiato dall'altra parte della strada. Segno ancora più brutto. Non sapevo come avesse fatto Dolph a tener fuori i giornalisti per tanto tempo da una serie di massacri compiuta da uno zombie. I cacciatori di notizie avrebbero dovuto avere un sacco di altre cose succulente di cui occuparsi per ignorare qualcosa di così adatto ai titoloni facili. «Famiglia massacrata dagli zombie», «Zombie serial killer in libertà». Cazzo! Sarebbe scoppiato un
gran casino. La troupe televisiva mi osservò mentre m'incamminavo verso il nastro giallo della polizia, poi, non appena mi applicai il tesserino di riconoscimento al risvolto, scattò come un branco di predatori. Un agente in uniforme sollevò il nastro per lasciarmi passare, spostando lo sguardo sulla stampa in arrivo. Io non mi girai a guardare perché non bisogna mai farlo quando si hanno i giornalisti alle calcagna, altrimenti non si può evitare la cattura. Una bionda in tailleur gridò: «Ms. Blake! Ms. Blake! Può rilasciarci una dichiarazione?» È sempre gratificante essere riconosciuti, ma io finsi di non aver sentito e continuai a camminare a testa risolutamente bassa. Una scena del crimine è una scena del crimine, a eccezione delle particolarità da incubo di ciascuna. Mi trovai nella camera da letto di una villetta a un piano molto bella, con un ventilatore da soffitto che roteava lentamente producendo un lieve cigolio, come se non fosse stato avvitato alla perfezione. Meglio concentrarsi sulle piccole cose, tipo la luce che entrava da est attraverso le persiane disegnando sul pavimento striature alternate di ombra e di luce. Meglio non guardare i resti sul letto. Non volevo guardare, non volevo vedere. Invece dovevo vedere! Dovevo guardare, perché potevo anche trovare qualche indizio. Certo, e i maiali potevano fottutamente volare. Eppure, forse qualche indizio c'era. Forse. La speranza è una puttana ingannatrice. Ci sono circa cinque o sei litri di sangue in un corpo umano. Quello che usano al cinema e in televisione non è mai abbastanza. Provate a vuotare cinque litri di latte sul pavimento della camera da letto, guardate quanto casino fa e poi moltiplicate per... qualcosa. Be', in quella camera da letto c'era troppo sangue per una sola persona e camminare sulla moquette, che ne era inzuppata, era come camminare nel fango dopo la pioggia. Le mie Nike bianche si macchiarono di scarlatto prima che arrivassi a metà della distanza che mi separava dal letto. Lezione appresa. Soltanto Nike nere sulla scena del crimine. L'odore di mattatoio e di sauna era così denso che ero ben contenta del ventilatore in funzione. Merda e sangue. È quasi sempre questo l'odore della morte fresca. Oltre al lenzuolo rosso di sangue sul letto, ce n'erano altri sparsi sul pavimento come salviette gigantesche usate per pulire il più grosso spargi-
mento di ketchup che si fosse mai visto al mondo. Doveva esserci un pezzo sotto ogni lenzuolo, ma ognuno era troppo piccolo per essere un cadavere. «Per favore, non obbligatemi a guardare», sussurrai alla stanza vuota. «Hai detto qualcosa?» Sobbalzai, scoprendo che Dolph era proprio dietro di me. «Cristo, Dolph! Mi hai spaventata!» «Aspetta di vedere cosa c'è sotto quei lenzuoli. Allora si, che ti spaventerai.» Non volevo vedere cosa si nascondeva sotto quell'esercito di lenzuoli insanguinati. Sicuramente avevo già visto abbastanza per una sola settimana. La mia quota di spargimento di sangue doveva essere già stata abbondantemente superata due notti prima. Sì, avevo già superato la mia quota. Dolph aspettava sulla soglia. Aveva piccole rughe intorno agli occhi che non avevo mai notato prima, era pallido e aveva bisogno di radersi. Be', abbiamo tutti bisogno di qualcosa. Ma prima dovevo dare un'occhiata sotto quei teli. Se l'aveva fatto Dolph, potevo farlo anch'io. Come no! Dolph girò la testa per sporgersi in corridoio. «Abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti a sollevare i lenzuoli. Quando Blake avrà visto i resti potremo tornarcene tutti a casa.» Dato che nessuno si mosse per darci una mano, capì, credo, che nessuno si sarebbe mai offerto volontario, perciò aggiunse: «Zerbrowski! Perry! Merlioni! Portate qua i vostri culi!» Le borse sotto gli occhi di Zerbrowski sembravano lividi. «Ciao, Blake.» «Ciao, Zerbrowski. Hai un aspetto di merda.» «Già.» «Lieto di rivederla, Ms. Blake», salutò il detective Perry. Non potei fare a meno di sorridere. Perry era l'unico sbirro di mia conoscenza che fosse capace di rispettare le formalità persino in presenza di un simile macello. «Lo sono anch'io, detective Perry.» «Possiamo sbrigarci», intervenne Merlioni, «oppure voi due avete intenzione di scambiarvi altre smancerie?» Era alto, anche se non quanto Dolph. D'altra parte, chi lo era? Aveva i capelli grigi, ricci e corti. Indossava una cravatta col nodo a mezz'asta sopra una camicia bianca con le maniche arrotolate fino ai gomiti. La pistola che spuntava dal fianco sinistro sembrava un grosso portafoglio. «Visto che hai così dannatamente fretta, Merlioni, solleva tu il primo lenzuolo», ribatté Dolph.
Merlioni sospirò. «Si, certo.» Si avvicinò al lenzuolo e s'inginocchiò. «Sei pronta, ragazzina?» «Meglio ragazzina che mangiaspaghetti», rimbeccai. «Comincia lo spettacolo!» annunciò lui. Il lenzuolo era tanto intriso e vischioso che resistette, staccandosi un centimetro alla volta. «Zerbrowski, aiutalo a togliere quel dannato coso», ordinò Dolph. Zerbrowski doveva essere davvero stanco, perché ubbidì subito, senza discutere. Insieme i due detective sollevarono finalmente il lenzuolo con un rumore fradicio. Filtrando attraverso il tessuto arrossato, il sole mattutino rese la moquette ancora più rossa, o forse non ci fu nessuna vera differenza. Grosse gocce di sangue colarono dai bordi come da un rubinetto che perde. Non avevo mai visto un lenzuolo così impregnato di sangue. Una mattinata ricca di prime volte. Non riuscendo a capire cosa fosse il mucchio di piccoli grumi sulla moquette, m'inginocchiai per osservare meglio e il sangue, freddo, m'impregnò i jeans. Sempre meglio che caldo, suppongo. Il grumo più grosso era umido e liscio, lungo circa dodici centimetri: un pezzo d'intestino dal colorito sano e roseo. Vicino c'era un altro grumo, più piccolo, ma più lo scrutavo meno capivo cosa fosse. Un pezzo di carne che avrebbe potuto appartenere a qualsiasi animale. Non era mica detto che l'intestino fosse umano. Dannazione! Invece lo era, altrimenti non sarei stata lì. Pungolai il pezzo più piccolo con un dito guantato, perché questa volta non avevo dimenticato d'infilare i guanti. Era umido, pesante, solido. Deglutii con una certa fatica, sempre incapace di capire cosa fosse. Sembravano bocconi sfuggiti a un gatto o briciole cadute dalla tavola. Cristo! Mi alzai. «Il prossimo», riuscii a dire con voce piatta. Ci si dovettero mettere tutti e quattro a tirare dagli angoli per staccare il lenzuolo dal letto. «Merda!» imprecò Merlioni, lasciando cadere il suo angolo. Il sangue gli era colato sul braccio fino alla camicia bianca. «Ti sei sporcato?» chiese Zerbrowski. «Sì, cazzo! Questo posto è un casino!» «Credo che la padrona di casa non abbia avuto il tempo di fare le pulizie prima del nostro arrivo», replicai, abbassando gli occhi al letto su cui stavano i resti della padrona di casa, ma soltanto per un attimo, prima di guardare di nuovo il detective. «O magari lo sbirro non lo sopporta?» «Posso sopportare qualsiasi cosa sopporti tu, signorina», ribatté.
Corrugai la fronte. «Scommetto di no.» «Ci sto anch'io», intervenne Zerbrowski. Dolph non ci ordinò di smetterla in quanto eravamo su una scena del crimine e non in una sala scommesse. Sapeva che ne avevamo bisogno per salvaguardare la nostra incolumità mentale. Non avrei mai potuto osservare quei resti senza scambiare battute. Semplicemente non ce l'avrei fatta, sarei impazzita. Gli sbirri hanno un perverso senso dell'umorismo perché è necessario averlo. «Quanto scommettiamo?» chiese Merlioni. «Una cena per due da Tony», proposi. Zerbrowski fischiò. «È caro, molto caro!» «Io posso permettermi di pagare il conto. Ci state?» Merlioni accettò. «Mia moglie e io non usciamo da un secolo.» Mi offrì la mano insanguinata, e io la strinsi. Il sangue aderì ai guanti da chirurgo, freddo e umido come se toccasse direttamente la pelle, ma era soltanto una sensazione ingannevole. Sapevo che quando mi fossi sfilata i guanti avrei avuto le mani asciutte di talco, però fu inquietante lo stesso. «Come facciamo a decidere chi vince?» domandò Merlioni. «Qui e adesso», risposi. «Affare fatto.» Dedicai di nuovo la mia attenzione a quel macello, con rinnovata determinazione. Mi aiutò a concentrarmi la volontà di vincere la scommessa, senza lasciare nessuna soddisfazione a Merlioni. Sul letto c'era la metà sinistra di una cassa toracica, con una mammella nuda ancora attaccata. La padrona di casa? Era tutto di uno scarlatto brillante, come se qualcuno avesse gettato secchiate di vernice rossa. Difficile individuare i pezzi. C'era un braccio sinistro, piccolo, femminile; al quarto dito era infilata la fede nuziale. Toccando le dita, scoprii che non c'era rigor mortis. «Niente rigor mortis», annunciai, muovendo quelle povere dita. «Che ne pensi, Merlioni?» Scrutò il braccio e, dato che non poteva lasciarsi surclassare, prese la mano e la fece ruotare. «Potrebbe anche essere già scomparso. Sai che la prima volta non dura.» «Credi davvero che siano passati quasi due giorni?» Scossi la testa. «Il sangue è ancora troppo fresco, quindi il rigor mortis non c'è ancora stato e l'omicidio dev'essere stato commesso meno di otto ore fa.» «Non male, Blake. Ma che ne dici di questo?» Pungolò la cassa toracica facendo dondolare il seno.
Deglutii a fatica, decisa a vincere la scommessa. «Non saprei. Vediamo. Aiutami a girarla», aggiunsi, guardandolo dritto in faccia. Impallidì? Forse, appena un po'. «Sicuro.» Gli altri tre rimasero in disparte ad assistere allo spettacolo. Che facessero pure. Era una distrazione più efficace che considerarlo un lavoro. Quando Merlioni mi aiutò a girare ciò che restava del cadavere, feci in modo di lasciargli la parte più integra, per obbligarlo a tastarlo. Un seno è sempre un seno anche se è freddo e tutto insanguinato? Notando che Merlioni sembrava un po' nauseato, conclusi che una certa differenza doveva esserci. All'interno, la cassa toracica era spolpata come lo era stata quella di Mr. Reynolds. Nel momento in cui la lasciammo ricadere sul letto, ci schizzò di sangue. La camicia bianca di Merlioni si sporcò più della mia polo blu. Un punto per me. Fece una smorfia, strofinò le macchie di sangue con le mani guantate e, così facendo, si sporcò ancor di più la camicia. Allora chiuse gli occhi e respirò profondamente. «Ti senti bene, Merlioni?» domandai. «Se ti disturba, non voglio costringerti a continuare.» Mi lanciò un'occhiataccia, poi fece un ghigno, molto sgradevole. «Non hai ancora visto tutto, ragazzina. Io invece sì.» «Hai anche già toccato tutto?» Un rivolo di sudore gli colò sulla faccia. «Non vorrai davvero toccare tutto?» Adi strinsi nelle spalle. «Vedremo.» Sul letto c'era anche una gamba, che a giudicare dai peli e dai resti di una scarpa da tennis sembrava maschile. La testa del femore sporgeva rotonda, umida e scintillante. Lo zombie l'aveva staccata dal bacino strappando le carni e lasciando illeso l'osso. «Deve avere sofferto maledettamente», commentai. «Credi che fosse ancora vìvo quando gli hanno strappato la gamba?» «Già.» Non ne ero sicura al cento per cento, perché c'era troppo sangue per capire chi fosse morto e quando, però Merlioni mi sembrò un po' più pallido. Tutti gli altri pezzi erano soltanto interiora sanguinolente, carne, frammenti di osso. Merlioni raccolse una manciata di budella. «Prendi!» disse, facendo finta di lanciarle contro di me.
«Vaffanculo, Merlioni! Questo non è divertente!» Mi sembrò che mi si annodasse lo stomaco. «Questo no, ma la tua faccia sì», ribatté. Lo guardai molto male. «O lanci o non lanci, Merlioni, ma niente provocazioni.» Mi guardò ammiccando per un lungo momento, infine mi lanciò con scarsa precisione il groviglio d'interiora, che riuscii a prendere al volo. Erano umide e pesanti, flaccide e spugnose, assolutamente disgustose, ancor più che il fegato di vitello crudo. Dolph sbuffò di esasperazione. «Continuate pure col vostro schifoso giochetto, ma intanto puoi dirmi qualcosa di utile, Anita?» «Sicuro.» Lasciai cadere i resti sul letto. «Lo zombie è entrato dalla porta scorrevole come l'altra volta, ha inseguito fin qui l'uomo o la donna, poi li ha fatti fuori tutti e due.» M'interruppi, come paralizzata. Merlioni stava mostrando una copertina tutta stampata a palloncini e clown, col bordo satinato rosa. Un angolo era casualmente rimasto immacolato, ma per il resto era tanto fradicia di sangue che gocciolava. Fissai i palloncini e i clown finché non si misero a danzare assurdamente in cerchio. «Figlio di puttana», sussurrai. «Ti riferisci a me?» chiese Merlioni. Scossi la testa. Non volevo toccare la coperta, però mi allungai a prenderla e Merlioni si assicurò che il bordo insanguinato mi frustasse il braccio nudo. «Bastardo!» lo insultai. «Ti riferisci a me, stronza?» Annuii e cercai di sorridere, ma senza riuscirci davvero. Dovevamo continuare a fingere che andasse tutto bene, che fosse fattibile, quando invece era osceno. Se non fosse stato per la scommessa, sarei scappata via strillando. Fissai la coperta. «Quanti mesi?» «A giudicare dalla foto di famiglia che c'è di là, direi tre o quattro.» Finalmente girai intorno al letto e vidi qualcosa di piccolo coperto da un altro lenzuolo insanguinato. Rendendomi conto che non c'era niente d'intero, là sotto, fui tentata di annullare la scommessa e di annunciare che li avrei portati tutti quanti a cena da Tony purché non mi obbligassero a guardare. Bastava che non mi facessero togliere quell'ultimo lenzuolo. Per favore! Invece, a prescindere dalla scommessa, dovevo guardare e vedere quello che c'era da vedere. Guardare e vincere, o scappare e perdere. Restituii la copertina a Merlioni, che la riprese e la rimise sul letto in
modo che l'angolo pulito non si sporcasse. Poi c'inginocchiammo tutti e due vicino all'ultimo lenzuolo, io da una parte, lui dall'altra. I nostri sguardi s'incontrarono, scambiandosi una sfida all'ultimo orrore. Infine tirammo via il lenzuolo. C'erano due cose, là sotto, soltanto due. La nausea mi fece tossire, rischiai di vomitare, ma mi trattenni. Avevo creduto che fosse il bambino, ma non era così. Era una bambola talmente insanguinata che il colore dei capelli non si vedeva più. Comunque era soltanto una bambola, troppo grande per una bimba di quattro mesi. Sulla moquette c'era una manina - insanguinata come tutto il resto, ma riconoscibile - troppo grande per essere di un neonato. La confrontai con la mia mano. Una bambina di tre o quattro anni, all'incirca come Benjamin Reynolds. Era una coincidenza? Per forza! Gli zombie non sono tanto selettivi. «Forse sto allattando il neonato quando sento un gran rumore. Mio marito va a controllare, e il chiasso sveglia la bambina, che arriva dalla sua stanza per vedere cosa succede. Mio marito vede il mostro, afferra la bambina e corre in camera da letto. Lo zombie li raggiunge, qui, e li massacra tutti, proprio qui.» La mia voce suonò distaccata e cinica. Cercai di togliere un po' di sangue dalla manina. Aveva un anello come la mamma, uno di quegli anelli di plastica che si trovano nei distributori di gomma da masticare. «Hai visto l'anello, Merlioni?» domandai, prima di sollevare la manina dal tappeto. «Prendi!» «Cristo!» Merlioni balzò in piedi e, prima che potessi fare qualsiasi cosa, si affrettò a uscire. Ma non gli avrei lanciato davvero la manina. Non l'avrei mai fatto. La tenni tra le mie mani e la sentii pesante, come se le ditina mi stringessero, chiedendomi di portarla a passeggiare. La lasciai cadere sulla moquette. La stanza era caldissima e roteava piano. Ammiccai, fissando Zerbrowski. «Ho vinto la scommessa?» «Anita Blake, tipa tosta», rispose. «Una sera di raffinato banchetto da Tony a spese di Merlioni. Mi hanno detto che si mangiano spaghetti fantastici.» Sentir parlare di cibo fu troppo. «Dov'è il bagno?» «In fondo al corridoio, terza porta a sinistra», rispose Dolph.
Arrivai di corsa al bagno proprio mentre Merlioni ne usciva, ma non ebbi il tempo di assaporare la vittoria perché fui troppo impegnata a vomitare. 28 In ginocchio, con la fronte contro il freddo linoleum della vasca da bagno, mi sentii meglio. Fortunatamente non mi ero concessa il tempo di fare colazione. Sentii bussare alla porta. «Che c'è?» «Sono Dolph. Posso entrare?» Ci pensai per un lungo momento. «Certo.» Dolph entrò con un guanto di spugna. Lo aveva trovato nell'armadietto della biancheria, suppongo. Mi fissò per un paio di minuti e scosse la testa, poi bagnò il guanto nel lavandino e me lo porse. «Sai cosa farci.» Lo feci, e la sensazione della spugna fredda sulla faccia e sul collo fu meravigliosa. «Ne hai dato uno anche a Merlioni?» domandai. «Sì, adesso è in cucina. Siete due idioti, ma è stato divertente.» Riuscii a sorridere debolmente. «Adesso che hai finito di metterti in mostra, hai qualche osservazione utile?» Sedette sull'asse del gabinetto. Io rimasi sul pavimento. «Nessuno ha sentito niente neanche stavolta?» «Un vicino ha sentito qualcosa verso l'alba, ma è andato al lavoro come al solito. Ha detto che non voleva restare coinvolto in una lite domestica.» Alzai gli occhi a fissare Dolph. «Gli era già capitato di sentir litigare in questa casa?» Dolph fece di no con la testa. «Dio!» commentai. «Se soltanto avesse chiamato la polizia!» «Credi che sarebbe servito a qualcosa?» chiese Dolph. «Forse la famiglia non si sarebbe salvata, ma avremmo potuto intrappolare lo zombie.» «Inutile piangere sul latte versato», sentenziò Dolph. «Forse. Però lo zombie deve essersene andato da poco. Ha divorato quattro persone dopo averle uccise. Non può essere stata una cosa veloce. All'alba li stava ancora massacrando.» «Hai ragione.» «Fai isolare la zona.»
«Perché?» «Lo zombie si sposta camminando, quindi dev'essere ancora nei dintorni, nascosto in attesa che scenda la notte.» «Credevo che gli zombie non temessero la luce del giorno», obiettò Dolph. «È vero, ma non ci si sentono neppure a loro agio. Non se ne vanno in giro di giorno, a meno che non gli venga ordinato.» «Il cimitero più vicino, allora», suggerì. «Non necessariamente. Gli zombie non sono come i vampiri o i necrofagi. Non hanno bisogno delle bare e neanche delle tombe. Il nostro zombie vuole soltanto nascondersi.» «Dove lo cerchiamo?» «Garage, magazzini, qualunque possibile nascondiglio.» «Potrebbe anche essere nella casa sull'albero di qualche ragazzino», disse Dolph. Sorrisi. Era bello sapere di poterci ancora riuscire. «Anche se ne avesse l'opportunità, dubito che lo zombie ci si arrampicherebbe. Avrai notato che ha sempre scelto case che hanno soltanto il pianterreno.» «E la cantina», osservò. «Nessuno scappa in cantina», ribattei. «Sarebbe servito?» Scrollai le spalle. «Gli zombie non sono bravi arrampicatori, di regola. È vero che questo è più veloce e più attento del comune, ma... Nel migliore dei casi, rifugiarsi in cantina sarebbe servito soltanto a prendere tempo. Magari eventuali finestre avrebbero permesso ai genitori di far scappare i bambini.» Mi strofinai il guanto sulla nuca. «Comunque lo zombie sceglie case che hanno soltanto il pianterreno e sono munite di porte scorrevoli. Potrebbe averne scelta un'altra simile per nascondersi, magari nelle vicinanze.» «Il medico legale dice che è alto più di un metro e ottanta, forse quasi uno e novanta; maschio, bianco, immensamente forte.» «Questo lo avevamo già capito. Il resto non ci aiuta granché.» «Hai qualche idea migliore?» «A dire la verità, sì», risposi. «Trova tutti gli agenti che abbiano all'incirca la stessa altezza e falli camminare per un'ora in tutte le direzioni a partire da qui; poi fai isolare l'area.» «E ispezionare tutti i possibili nascondigli», concluse Dolph. «Inclusi i vecchi congelatori, le cantine, qualsiasi anfratto», aggiunsi.
«E se lo troviamo?» «Friggetelo. Chiama una squadra di sterminatori.» «Pensi che lo zombie possa aggredire di giorno?» «Se si sentirà minacciato, sì. Per giunta è tremendamente aggressivo.» «Non c'è da scherzare», convenne. «Ci servirebbero almeno dieci o dodici squadre di sterminatori, ma l'amministrazione non ce le concederà mai. E comunque dovremo perlustrare una zona dannatamente vasta. Potrebbe sfuggirci con facilità.» «Di sicuro uscirà dal nascondiglio non appena farà buio. Allora, se sarete pronti, riuscirete a prenderlo.» «Okay. A quanto pare, non ci aiuterai nelle ricerche.» «Tornerò a darvi una mano, ma John Burke ha risposto alla mia chiamata», spiegai. «Vuoi portarlo alla morgue?» «Sì, per cercare di usarlo contro Dominga Salvador. Che tempismo!» «Bene. Ti serve qualcosa da me?» chiese Dolph. «Soltanto il permesso per tutti e due di accedere alla morgue», risposi. «Nessun problema. Credi che riuscirai davvero a sapere qualcosa da Burke?» «Lo scoprirò soltanto dopo averci provato», replicai. Sorrise. «Vuoi tirare il tuo colpo migliore, eh?» «E stenderli tutti», risposi. «Vai pure alla morgue a trattare con Vudù John, mentre noi rivoltiamo da cima a fondo questo quartiere.» «È bello sapere che abbiamo tutti e due la giornata programmata», commentai. «Non dimenticarti la perquisizione pomeridiana a casa Salvador», aggiunse. «Sicuro! E stanotte andiamo a caccia di zombie.» «Stanotte dobbiamo farla finita con questa merda», dichiarò. «Lo spero proprio.» Mi guardò con gli occhi socchiusi. «Hai qualche problema coi nostri piani?» «Soltanto che nessun piano è perfetto.» Tacque un momento, poi si alzò. «Vorrei che questo lo fosse.» «Anch'io.» 29
La morgue di St. Louis County è un edificio enorme. Riceve i cadaveri di tutti i defunti che non possono beneficiare di un trattamento privato, per non parlare delle vittime di omicidio. Tutto ciò, in una città come St. Louis, significa un grosso traffico. Andavo regolarmente alla morgue per impalare le vittime dei vampiri, affinché non risorgessero e non banchettassero col personale; però con la nuova legge questo è considerato omicidio, quindi bisogna aspettare che il cucciolo risorga, a meno che il defunto non abbia espresso legalmente, per mezzo di un testamento, la volontà di non risorgere come vampiro. Il documento che attesta le mie ultime volontà dispone che sia posta fine alle mie sofferenze nell'eventualità che si prospetti un mio ritorno zannuto. Diavolo! Ho stabilito anche di essere cremata, perché non voglio tornare nemmeno come zombie, grazie tante! John Burke era come lo ricordavo: alto, bruno e bello, con la barba appuntita che gli dava un qualcosa di vagamente malvagio. Ormai la gente porta questo tipo di barba soltanto nei film horror, quelli con gli adepti di strani culti che adorano idoli cornuti. Sembrava un po' pallido intorno agli occhi e alla bocca. Quando entrammo nella morgue, aveva le labbra serrate in una linea sottile e teneva le spalle come se avesse male da qualche parte. «Come sta tua cognata?» domandai. «Male, molto male.» Avrei voluto che fosse più circostanziato, ma non aggiunse altro, perciò lasciai perdere. Se non voleva parlarne, ne aveva tutto il diritto. Percorremmo un corridoio deserto, abbastanza largo perché potessero passarci tre lettighe affiancate. Il posto di guardia sembrava un bunker della seconda guerra mondiale, completo di mitragliatrici, nel caso in cui qualche morto risorgesse all'improvviso e scappasse in cerca di libertà. Non era mai successo a St. Louis, però era accaduto non molto lontano, cioè a Kansas City. Una mitragliatrice rabbonisce qualsiasi cadavere ambulante. Sono guai soltanto se ce ne sono molti. Se poi sono una folla, allora si è fregati. Mostrai la carta d'identità alla guardia. «Ciao, Fred. È un pezzo che non ci vediamo.» «Vorrei che ti chiamassero quaggiù come facevano una volta. Questa settimana si sono risvegliati in tre e sono tornati a casa. Non è incredibile?»
«Vampiri?» «Che altro? Arriverà il giorno in cui saranno più numerosi di noi.» Non sapendo cosa dire, rimasi zitta. Probabilmente aveva ragione. «Siamo qui per vedere gli effetti personali di Peter Burke. Dovrebbe esserci l'autorizzazione del sergente Rudolph Storr.» Fred controllò sul registro. «Sì, siete autorizzati. Corridoio a destra, terza porta a sinistra. La dottoressa Saville vi aspetta.» Questo mi stupì. Non capitava spesso che il direttore della medicina legale si occupasse personalmente di cose del genere, per la polizia o per chiunque altro. Comunque mi limitai ad annuire, come se mi aspettassi quel trattamento regale. «Grazie, Fred. Ci vediamo all'uscita.» «Sempre più gente esce di qui», commentò, per nulla contento. Le mie Nike non fecero rumore nella quiete perenne, e John Burke nemmeno. Non mi era sembrato tipo da scarpe da tennis e infatti un'occhiata me lo confermò: scarpe marroni, di cuoio, coi lacci, suola morbida. Però si muoveva accanto a me silenzioso come un'ombra. Il resto del suo abbigliamento era intonato alle scarpe. Completo sportivo marrone, così scuro da sembrare quasi nero, e camicia giallo chiaro. Gli mancava soltanto la cravatta per essere un perfetto dirigente aziendale. Si vestiva sempre così o era soltanto per il funerale del fratello? No, ricordavo di avergli visto al cimitero un completo assolutamente nero. La morgue era sempre silenziosa, ma il sabato mattina c'era una quiete mortale. Era mai possibile che nel fine settimana le ambulanze girassero in cerchio come aerei in attesa di un'ora decente? Sapevo che il numero degli omicidi aumentava nel weekend, eppure le mattinate di sabato e di domenica erano sempre tranquille. Vai a capire perché! Contai le porte sulla sinistra e bussai alla terza; poi, nell'udire un fioco «Avanti!» aprii l'uscio. La dottoressa Marian Saville è bassa, coi capelli scuri che le scendono poco sotto le orecchie, carnagione olivastra, occhi castani molto scuri, zigomi alti e fini. La sua ascendenza franco-greca è evidente. Una bellezza esotica che non intimidisce; mi sorprende sempre che non sia sposata. Di sicuro non è perché non è attraente. Il suo unico difetto è che fuma e quindi ha sempre addosso il puzzo di sigaretta. Mi venne incontro sorridendo e offrendo la mano. «Lieta di rivederti, Anita.» Le strinsi la mano e ricambiai il sorriso. «Anch'io, dottoressa Saville.» «Per favore, chiamami Marian.»
«Certo, Marian. Sono quelli gli effetti personali?» Eravamo in un piccolo laboratorio per le autopsie. Sopra un tavolo d'acciaio inossidabile c'erano alcuni sacchetti di plastica. «Sì.» La fissai chiedendomi che cosa volesse. Il direttore della medicina legale non si occupava di faccende come quella, quindi doveva esserci sotto qualcosa. Ma cosa? Non la conoscevo abbastanza bene per andare subito al sodo e non volevo che mi fosse precluso l'accesso alla morgue, quindi non potevo essere sgarbata. Problemi, sempre problemi! «Questi è John Burke, il fratello del defunto», dissi. La dottoressa Saville inarcò le sopracciglia. «Condoglianze, signor Burke.» «Grazie.» John strinse la mano che lei gli aveva offerto, ma non distolse lo sguardo dai sacchetti di plastica. Evidentemente non aveva tempo per le dottoresse attraenti e per gli scambi di cortesie. Era lì per esaminare gli effetti personali che suo fratello aveva posseduto al momento della morte e per cercare indizi che aiutassero la polizia a cercare il suo assassino. Stava prendendo la cosa molto seriamente. Se non aveva niente a che fare con Dominga Salvador, avrei dovuto fargli grosse scuse, ma come potevo indurlo a parlare in presenza della dottoressa Marian? Potevo forse chiedere che ci lasciasse soli? Dopotutto la morgue era sua, in un certo senso. «Devo essere presente per assicurarmi che nessuna prova sia manomessa», spiegò lei. «Abbiamo avuto alcuni giornalisti molto determinati ultimamente.» «Ma io non sono una giornalista.» Scrollò le spalle. «Non sei neanche una poliziotta, Anita. Secondo le nuove regole imposte dall'alto, nessuno che non partecipi alle indagini in veste ufficiale può esaminare le prove di un caso di omicidio senza essere sorvegliato.» «Sono contenta che ci sia tu, Marian.» «Ero già qui comunque, quindi ho pensato che la mia presenza ti sarebbe risultata meno sgradevole di altre.» Aveva ragione. Ma cosa credevano che intendessi fare? Trafugare un morto? Se avessi voluto, avrei potuto uscire alla testa di una processione di cadaveri, dopo avere svuotato l'intera dannata morgue! Forse era proprio per quello che dovevo essere sorvegliata. «Non vorrei essere scortese», intervenne John, «ma potremmo procede-
re?» La sua tensione era tale che sembrava dimagrito intorno agli occhi e alla bocca. Subito fui trafitta dal senso di colpa. «Certo, John. Siamo state indelicate.» «Le chiedo scusa, signor Burke», aggiunse Marian, prima di offrire guanti di lattice a tutti e due. Lei e io li infilammo da vere professioniste, mentre John incontrò qualche difficoltà, non essendo abituato a farlo. Invece il trucco consiste proprio nella pratica. Quando ebbi finito di aiutarlo a indossare i guanti, sorrideva e tutto il suo viso era trasformato, luminoso, bello, senza niente di malvagio. La dottoressa Saville ruppe il sigillo al primo sacchetto, che conteneva indumenti. «Non so come si vestisse», dichiarò John. «Anche se sono i suoi abiti, non sono in grado di riconoscerli. Peter e io... Be', non ci vedevamo da due anni.» Il dispiacere con cui pronunciò le ultime parole mi fece trasalire. «Benissimo. Passiamo pure al resto», disse Marian, gentile e cordiale. Forse si stava esercitando a comportarsi da medico che rassicura i parenti del paziente, visto che di rado ne aveva l'occasione. Aprì un sacchetto molto più piccolo e rovesciò il contenuto sulla lucida superficie argentea. Un pettine, una moneta da dieci centesimi, due da un centesimo, un biglietto del cinema e un gris-gris composto da un tessuto di fili rossi e neri e di denti umani, con piccole ossa appese tutt'intorno lungo i bordi. «Sono ossa di dita umane, quelle?» domandai. «Sì», rispose John, con voce molto neutra e un aspetto molto strano, come se in fondo ai suoi occhi albeggiasse qualche nuovo orrore. Era un oggetto malvagio, però non capivo l'intensità della sua reazione. Mi curvai a toccarlo con un dito. Al centro c'era pelle essiccata, e i fili neri erano capelli. «Pelle, ossa, capelli e denti umani», mormorai. «Sì», confermò John. «Tu conosci il vudù molto meglio di me», ripresi. «Che cosa significa?» «Qualcuno è morto perché potesse essere fatto questo amuleto.» «Ne sei sicuro?» Mi guardò con un disprezzo rabbioso e corrosivo. «Credi che lo direi, se potesse trattarsi di qualcos'altro? Credi che mi piaccia scoprire che mio fratello ha partecipato a un sacrificio umano?» «Pensi che Peter fosse necessariamente presente? Non potrebbe averlo semplicemente comprato dopo?» «No!» proruppe, quasi gridando. Poi ci volse le spalle e si allontanò, re-
spirando quasi affannosamente. Gli lasciai qualche momento per riprendersi, prima di chiedere: «A che cosa serve questo gris-gris?» Si voltò; il suo viso, sebbene calmo, lasciava trapelare la tensione intorno agli occhi. «Permette a un negromante, che altrimenti non sarebbe abbastanza potente, di resuscitare un morto antico prendendo a prestito il potere da un altro negromante, molto più potente.» «Prendere a prestito? E come?» «L'amuleto contiene una porzione del potere di un negromante molto potente. Peter ha pagato caro per averlo e per poter resuscitare più morti, morti più antichi. Dio, Peter! Come hai potuto?» «Quanto bisogna essere potenti per condividere il potere in questo modo?» «Molto», rispose. «C'è modo di risalire a chi lo ha fatto?» «Tu non capisci, Anita. Questo amuleto è parte del potere di qualcuno, sostanza di un'anima. È stato fatto per grande necessità o per grande avidità. Peter non avrebbe mai potuto permetterselo. Mai.» «Si può risalire all'origine?» «Sì, basta entrare nella stanza della persona che ne è la vera proprietaria, perché l'amuleto cominci a strisciare verso di lei. È un pezzo mancante della sua anima.» «Sarebbe una prova valida in tribunale?» «Se si potesse farlo capire alla giuria, sì, credo di sì.» Avanzò verso di me. «Sai chi è stato?» «Può darsi.» «Allora dimmelo.» «Farò di meglio. Ti procurerò il permesso di partecipare alla perquisizione della sua casa.» Un torvo sorriso gli sfiorò le labbra. «Cominci a piacermi molto, Anita Blake.» «Potrai farmi i complimenti più tardi.» «E questo che significa?» domandò Marian. Aveva completamente rovesciato l'amuleto, scoprendo tra i capelli e le ossa una specie di piccolo pendente a forma di chiave di violino. Cosa aveva detto Evans quando aveva toccato la scheggia di lapide? Le avevano tagliato la gola, e lei aveva un bracciale con una nota musicale e tanti cuoricini. Fissando l'amuleto ebbi l'impressione che il mondo vacil-
lasse. In quell'istante tutti i dettagli si unirono perfettamente a comporre un quadro completo. Dominga Salvador non aveva resuscitato lo zombie assassino, però aveva aiutato Peter Burke a farlo. Comunque dovevo esserne sicura e mi restavano poche ore prima di andare con la polizia a bussare alla porta di Dominga per tentare di raccogliere prove. «È arrivato qualche cadavere di donna poco prima o poco dopo quello di Peter Burke?» «Sicuramente», rispose Marian, con un sorriso. «Con la gola tagliata», aggiunsi. Mi fissò per un attimo. «Controllo al computer.» «Possiamo tenere l'amuleto?» «Perché?» «Perché, se ho ragione, la vittima indossava un bracciale con arco e freccia e cuoricini. E questo ne faceva parte.» Esposi alla luce il ciondolo d'oro, che scintillò allegramente come se non sapesse della morte della sua proprietaria. 30 Il primo colore della morte è il grigio. Certo, un cadavere che ha perso molto sangue diventa bianco o livido, ma quando comincia a decomporsi diventa grigiastro. Ebbene, la donna era grigia. La ferita al collo, lavata, esaminata e suturata, sembrava una seconda bocca gigantesca sotto il mento. La dottoressa Saville piegò la testa all'indietro con noncuranza. «La ferita era molto profonda. Ha reciso i muscoli del collo e la carotide. La morte è sopravvenuta quasi istantaneamente.» «Un lavoro da professionista», commentai. «Be', sì, chiunque le abbia tagliato la gola sapeva quello che stava facendo. Ci sono parecchi modi diversi di ferire al collo senza uccidere, oppure uccidendo più lentamente.» «State dicendo che mio fratello aveva molta esperienza nello sgozzare la gente?» intervenne John Burke. «Non lo so», risposi. «Ci sono gli effetti personali della donna?» «Eccoli qui.» Marian aprì un sacchetto e rovesciò il contenuto sopra un tavolo libero. Il braccialetto d'oro luccicò sotto le luci fluorescenti. Lo raccolsi con la mano ancora guantata. Un arco minuscolo completo di freccia, un'altra chiave musicale, due cuori intrecciati. Tutto proprio
come aveva detto Evans. «Come sapevi del braccialetto e della donna?» domandò John Burke. «Ho portato alcune prove a un chiaroveggente, che ha visto la morte della donna e il braccialetto.» «Cosa c'entra tutto questo con Peter?» «Credo che una sacerdotessa vudù abbia aiutato Peter a resuscitare uno zombie e che poi lui non sia più riuscito a controllarlo. Così adesso il mostro è libero e sta massacrando un sacco di gente. La donna ha ucciso Peter per nascondere quello che aveva fatto.» «Chi è stato?» «Per il momento non ho nessuna prova, a parte il gris-gris, che però dev'essere verificato.» «Una visione e un gris-gris.» John scosse la testa. «Difficile convincere una giuria.» «Lo so. Ecco perché ci servono altre prove.» La dottoressa Saville assistette in silenzio alla nostra conversazione come un'avida spettatrice. «Un nome, Anita. Mi basta un nome», disse Burke. «Soltanto se giuri di non andare a vendicarti prima che la polizia abbia fatto il suo tentativo. Promettimi che lo farai soltanto se la legge fallirà.» «Hai la mia parola.» Lo scrutai in faccia per un minuto intero e lui mi ricambiò con gli occhi neri, limpidi e determinati. Avrei scommesso che era capace di mentire senza il minimo scrupolo. «Non mi fido della parola di nessuno», confessai. Il suo sguardo non tradì la minima esitazione. La capacità intimidatoria della mia faccia da dura si era un po' appannata, suppongo, o forse intendeva davvero mantenere la parola. Qualche volta succede. «E va bene, ti credo. Ma non farmene pentire.» «Stanne certa», garantì. «E, adesso, il nome.» Mi volsi alla dottoressa Saville. «Scusaci, Marian, ma, meno sai di questa faccenda, maggiori probabilità hai di non essere svegliata da uno zombie che ti entra in casa strisciando attraverso una finestra.» Era un po' un'esagerazione, ma rendeva bene l'idea. Lei mi guardò come se volesse protestare, poi acconsentì. «Benissimo. Un giorno, però, quando non ci saranno più rischi, mi piacerebbe molto sentire tutta quanta la storia.» «Se potrò farlo, ti racconterò tutto», assicurai. La dottoressa Saville richiuse Jane Doe nella cella frigorifera e uscì.
«Chiamate quando avete finito. Ho parecchio lavoro da fare», dichiarò, prima di chiudersi la porta alle spalle. Ci aveva lasciato tutte le prove. Credo si fidasse di me. O di noi? «Dominga Salvador», annunciai. Burke inspirò profondamente. «La conosco di nome. È spaventosamente potente, se tutto quello che si racconta di lei è vero.» «È vero», confermai. «L'hai incontrata?» «Ho avuto questa sfortuna.» Sulla sua faccia apparve un'espressione che non mi piacque granché. «Hai giurato di non vendicarti», gli ricordai. «La polizia non potrà fare niente», replicò. «È troppo astuta.» «Credo che sia possibile eliminarla legalmente.» «Però non ne sei sicura.» Aveva ragione. «Ne sono quasi sicura.» «Quasi non è abbastanza, dal momento che ha ucciso mio fratello.» «Quello zombie non ha ucciso soltanto tuo fratello, ma anche un mucchio di altre persone. Anch'io voglio farla fuori, ma legalmente, per mezzo di un regolare processo.» «Ci sono altri modi per eliminarla», suggerì. «Se la polizia fallisce, usa pure il vudù, ma senza dirmi niente.» Sembrava perplesso. «Non ti scandalizza che io possa ricorrere alla magia nera?» «Quella donna ha già cercato di uccidermi una volta e non credo che ci rinuncerà.» «Sei sopravvissuta a un attacco della Señora?» domandò, meravigliato. Il suo stupore non mi piacque. «So badare a me stessa, Mr. Burke.» «Non ne dubito, Ms. Blake.» Sorrise. «Ho offeso la tua sensibilità. La mia sorpresa non ti è piaciuta, vero?» «Tieni per te le tue opinioni, okay?» «Se sei sopravvissuta a uno scontro con quello che Dominga Salvador ti ha mandato, allora avrei dovuto credere subito ad alcune delle storie che si raccontano sul tuo conto. La Sterminatrice, la risvegliante che resuscita qualsiasi morto, per quanto sia vecchio.» «Non so niente di quello che hai appena detto. Non faccio altro che cercare di restare viva.» «Non sarà facile, se Dominga Salvador ti vuole morta.» «Quasi maledettamente impossibile», convenni.
«Allora aggrediamola noi per primi», propose. «Legalmente.» «Sei ingenua, Anita.» «L'offerta di partecipare alla perquisizione della sua casa resta valida.» «Sei sicura di potermi far avere il permesso?» «Credo di sì.» I suoi occhi ebbero una specie di fosco scintillio, come una favilla di oscurità, mentre sorrideva a labbra serrate, molto sgradevolmente. Sembrava stesse già immaginando le torture che avrebbe inflitto a una certa Dominga Salvador, e quell'intima visione parve riempirlo di piacere. La sua espressione mi suscitò un brivido tra le scapole. Mi augurai che John non volgesse quello sguardo tenebroso contro di me, perché qualcosa mi diceva che sarebbe stato un nemico molto malvagio, pericoloso e spietato, quasi quanto Dominga Salvador. Quasi, ma non quanto lei. 31 Seduta in soggiorno, Dominga Salvador sorrideva. La sua nipotina, la bimba che avevo visto in triciclo durante la mia visita precedente, le sedeva in grembo, rilassata e languida come una gattina. Due bambini più grandi le sedevano ai piedi. Era l'immagine della beatitudine materna, e mi faceva venire voglia di vomitare. Certo, il semplice fatto che fosse la più pericolosa sacerdotessa vudù che avessi mai incontrato non significava che non potesse anche essere una brava nonna. È raro che le persone non abbiano vari aspetti. Per esempio, Hitler amava i cani, «È il benvenuto, sergente. La mia casa è la sua casa. La perquisisca pure», invitò, con la stessa voce mielata con cui avrebbe potuto offrirci una limonata o il tè ghiacciato. John Burke e io stavamo in disparte a lasciare che i poliziotti facessero il loro lavoro, mentre Dominga li faceva sentire sciocchi per il fatto che sospettavano di lei. Soltanto una simpatica vecchia signora. Sicuro! Anche Antonio ed Enzo se ne stavano in disparte, ma stonavano con l'immagine di beatitudine familiare. Evidentemente Dominga voleva qualche testimone, o forse la possibilità di una sparatoria non era esclusa. «Mrs. Salvador, si rende conto delle possibili implicazioni di questa perquisizione?» chiese Dolph. «Non ci sono implicazioni, perché non ho niente da nascondere», rispose
amabilmente Dominga. «Anita», esortò Dolph. «Mr. Burke.» Avanzammo come gli assistenti di un illusionista durante uno spettacolo di magia, la qual cosa non era molto lontana dalla verità. Un agente di polizia di alta statura era già pronto a registrare tutto con una videocamera. «Credo che conosca già Ms. Blake», riprese Dolph. «Ho già avuto il piacere», confermò Dominga. Il burro non si sarebbe sciolto nella sua bocca menzognera. «Questi è John Burke.» Lei sgranò un po' gli occhi: prima smagliatura nel suo perfetto travestimento. Aveva già sentito parlare di John Burke? La sua reputazione la preoccupava? Speravo proprio di sì. «Sono contenta di poterla finalmente conoscere, Mr. John Burke», disse, con un attimo di ritardo. «Sono sempre lieto di conoscere i colleghi che praticano l'arte», dichiarò lui. Lei chinò cortesemente la testa. Almeno non cercò di fingersi del tutto ignara, anzi ammise di essere una sacerdotessa vudù. Un progresso. Sarebbe stato osceno se la madrina del vudù avesse fatto l'ingenua. «Procedi, Anita», ordinò Dolph. Niente preliminari, niente atmosfera, puro pragmatismo. Ecco, Dolph, ai tuoi ordini. Sfilai di tasca un sacchetto di plastica, mentre Dominga mi fissava perplessa; poi tirai fuori il gris-gris. Il suo viso divenne immobile come una maschera, infine un sorrisino divertito le increspò le labbra. «Cos'è quello?» «Suvvia, Señora», intervenne John, «non faccia finta di niente. Sa benissimo che cos'è.» «So che è un amuleto, naturalmente, ma mi chiedo se adesso la polizia non intenda minacciare le vecchie col vudù.» «Basta che funzioni», mormorai. «Anita!» rimproverò Dolph. «Scusa.» Lanciai un'occhiata a John, che annuì. Posai il gris-gris sulla moquette, a meno di due metri da Dominga Salvador. Per gran parte di quello che avevamo deciso di fare ero costretta a confidare in John. Comunque avevo telefonato a Manny per chiedere anche il suo parere. Se avesse funzionato, se fossimo riusciti a farlo ammettere come prova e poi a farlo capire alla giuria, allora forse il caso avrebbe retto. Non c'erano un po' troppi «se»? Il gris-gris rimase immobile per un momento, poi le ossa delle dita s'in-
cresparono come per effetto di una carezza invisibile. Dominga si tolse la nipotina dal grembo e allontanò i ragazzini, indirizzandoli verso Enzo; rimase seduta da sola sul divano ad aspettare. Aveva ancora lo strano sorrisino sulla faccia, ma cominciava a sembrare un po' sfiorito. L'amuleto iniziò a strisciare verso di lei come una lumaca, coi muscoli che non aveva. I peli mi si rizzarono sulle braccia. «Stai registrando, Bobby?» chiese Dolph. «Sì, sto registrando», rispose lo sbirro con la videocamera. «Non ci credo, cazzo, però sto registrando.» «Per favore, non usare questo linguaggio davanti ai bambini», ammonì Dolph. «Scusi, signora», disse subito lo sbirro. «È perdonato.» Dominga continuava a recitare la parte della perfetta padrona di casa, mentre l'amuleto strisciava verso i suoi piedi. Aveva proprio un bel coraggio! Antonio invece no, e cedette. Avanzò di un passo come se avesse intenzione di raccogliere l'amuleto. «Non lo tocchi», intimò Dolph. «Con questi trucchi sta spaventando mia nonna!» protestò lui. «Non lo tocchi», ripeté Dolph. Questa volta si alzò, e la sua corporatura gigantesca parve riempire la stanza. Antonio sembrò improvvisamente piccolo e fragile. «La prego! La sta spaventando!» Ma era lui ad avere la faccia pallida, coperta da un lucido strato di sudore. Perché il vecchio Tony era tanto preoccupato? Non era mica il suo culo a rischiare la prigione. «Si faccia indietro», ordinò Dolph. «O vuole costringerci ad ammanettarla?» Antonio scosse la testa. «No, io... d'accordo!» Indietreggiò, ma nello stesso momento lanciò un'occhiata fugace e timorosa a Dominga, che intercettò il suo sguardo con gli occhi neri scintillanti di collera, il viso repentinamente stravolto dall'ira. Perché aveva smesso di recitare? Cosa stava succedendo? Il gris-gris strisciò dolorosamente fino a lei e le si strusciò con abbandono contro le scarpe, come un cane o un gatto che volesse farsi strofinare la pancia. Dominga finse d'ignorarlo. «Rifiuta il potere che ritorna a lei?» domandò John.
«Non so di cosa stia parlando.» Aveva ripreso il controllo di se stessa e si fingeva perplessa. Cazzo! Era proprio brava! «Lei è un sacerdote vudù molto potente. È lei che sta facendo tutto questo per intrappolarmi.» «Se non vuole l'amuleto, lo prendo io», replicò John. «Aggiungerò la sua magia alla mia e diventerò il praticante più potente di tutti gli Stati Uniti.» Per la prima volta sentii sulla pelle il flusso del potere di John, simile a una spaventosa pulsazione magica. Avevo cominciato a credere che fosse normale, almeno quanto poteva esserlo ciascuno di noi risveglianti, e avevo commesso un errore. Dominga si limitò a scuotere la testa. John avanzò, s'inginocchiò allungandosi verso il gris-gris, e il suo potere si mosse con lui come una mano invisibile. «No!» Lei lo afferrò per cullarlo tra le mani. John alzò la testa con un ghigno beffardo. «Riconosce di avere creato questo amuleto? In caso contrario posso prenderlo e servirmene come più mi aggrada. È stato trovato fra gli effetti personali di mio fratello, quindi legalmente mi appartiene. Non è così, sergente Storr?» «È così», confermò Dolph. «No, non può», ribatté Dominga. «Posso e voglio, a meno che lei non guardi in quella videocamera e ammetta di averlo creato.» «Te ne pentirai!» ringhiò la Señora. «E tu ti pentirai di avere ucciso mio fratello.» Lei guardò verso la videocamera. «Benissimo, sono stata io a creare questo amuleto, ma non ammetto nient'altro. L'ho creato per tuo fratello.» «Hai compiuto un sacrificio umano per crearlo», accusò John. Lei negò con la testa. «L'amuleto è mio. L'ho creato per tuo fratello, e basta. Avete soltanto l'amuleto.» «Perdonami, Señora», interloquì Antonio, pallido, scosso e molto spaventato. «Calenta!» intimò lei. «Taci!» «Zerbrowski, porta il nostro amico in cucina e raccogli la sua dichiarazione», ordinò Dolph. Allora Dominga si alzò, rivolgendosi ad Antonio: «Stupido! Miserabile stupido! Di' soltanto un'altra parola e la lingua ti marcirà in bocca!» «Portalo fuori di qui, Zerbrowski!» Zerbrowski condusse fuori Antonio, quasi in lacrime. Ebbi la sensazione che il vecchio Tony avesse avuto la responsabilità di recuperare l'amuleto,
che avesse fallito e che fosse in procinto di pagarne le conseguenze. La polizia era il minore dei suoi problemi. Se fossi stata al posto suo, mi sarei dannata per assicurarmi che la nonna finisse in galera quella sera stessa e che non si avvicinasse mai più ai suoi strumenti vudù. Mai più. «Adesso dobbiamo procedere alla perquisizione, Mrs. Salvador», disse Dolph. «Si accomodi pure, sergente. Non troverà niente che possa esserle utile.» Sembrò molto calma quando lo disse. «Neanche le 'cose' dietro le porte?» domandai. «Non c'è più niente, Anita. Non troverete niente che non sia legale e... morale.» Pronunciò l'ultimo aggettivo come se fosse una parolaccia. Dolph mi lanciò un'occhiata; risposi con una scrollata di spalle. Sembrava terribilmente sicura di se stessa. «Okay, ragazzi, frugate in ogni angolo!» ordinò Dolph. Gli agenti in uniforme e i detective si mossero come se avessero uno scopo ben preciso. Quando feci per seguirlo, Dolph mi bloccò. «No, Anita. Tu e Burke restate qui.» «Perché?» «Siete civili.» Civile, io? «Ero un civile anche quando ho perlustrato il cimitero?» «Se avesse potuto farlo uno dei miei, non te lo avrei permesso.» «Permesso?» Corrugò la fronte. «Sai cosa voglio dire.» «No, non credo proprio.» «Sarai tosta e magari sarai anche brava quanto credi, ma non sei della polizia e questo è un lavoro da sbirri. Perciò resta qua in soggiorno con gli altri civili, almeno per questa volta. Quando avremo finito, potrai scendere a identificare l'uomo nero.» «Non voglio favori, Dolph.» «Non mi sembravi una che tiene il broncio, Blake.» «Non tengo il broncio», ribattei. «Allora piagnucoli?» suggerì. «Piantala. Sei stato chiaro e me ne resto qui, ma non sono obbligata a esserne contenta.» «Di solito ti trovi immersa fino al collo in una palude piena di alligatori, Anita. Goditi per una volta l'occasione di non essere in prima linea.» Ciò detto, precedette gli altri nel sotterraneo.
A dire la verità non avevo nessuna voglia di tornare laggiù in quell'oscurità, e di sicuro non volevo vedere la creatura che aveva inseguito Manny e me su per la scala. Eppure... mi sentivo esclusa. Insomma, Dolph aveva ragione. Tenevo il broncio. Stupendo! John Burke e io sedemmo sul divano; Dominga nel frattempo si era trasferita sopra una poltrona reclinabile, dopo avere mandato i nipotini fuori a giocare sorvegliati da Enzo, che era sembrato sollevato dell'incarico. Mi ero quasi offerta di andare con loro. Qualsiasi cosa sarebbe stata meglio che restare seduta lì in angosciosa attesa di udire le prime urla. Se il mostro, per usare l'unica parola che si adattava ai rumori che avevamo udito, era laggiù, allora si sarebbe sicuramente sentito urlare. I poliziotti erano efficientissimi coi cattivi, ma i mostri erano una novità per loro. Sarebbe stato più semplice se di tutta quella merda si fossero occupati soltanto alcuni esperti, come i pochi solitari che combattono dalla parte del bene impalando vampiri, restituendo gli zombie al riposo eterno e bruciando le streghe. A proposito di streghe, fino a non molto tempo fa, diciamo negli anni '50, avrei rischiato di finire anch'io sul rogo. Quello che faccio è indiscutibilmente magico e, quando ancora i mostri non erano usciti allo scoperto, il soprannaturale era soprannaturale, quindi andava distrutto prima che diventasse distruttivo. Erano tempi più semplici. Adesso invece ci si aspetta che la polizia tratti anche con gli zombie, coi vampiri e di quando in quando coi demoni. I poliziotti sono davvero cattivi coi demoni. D'altronde, chi non lo è? Seduta in poltrona, Dominga mi fissava. I due agenti in uniforme rimasti in soggiorno si comportavano come tutti i poliziotti nelle situazioni di questo genere: erano inespressivi e annoiati, ma non si lasciavano sfuggire niente. La noia era soltanto una maschera. Gli sbirri vedono sempre tutto. Obbligo professionale. Dominga invece non guardava i poliziotti e non prestava attenzione neanche a John Burke, che forse non era proprio un suo pari ma ci andava vicino. Continuava a scrutare soltanto me tapina. Guardandola dritto negli occhi neri, domandai: «Hai qualche problema?» Uno sbirro ci lanciò un'occhiata e John cambiò posizione sul divano. «Cosa c'è che non va?» domandò. «Mi sta fissando.» «Farò molto di più che fissarti, chica», ribatté Dominga con voce bassa e insinuante.
I capelli che avevo sulla nuca cercarono di strisciare al riparo sotto gli indumenti. «Una minaccia», sorrisi. «Be', credo che non avrai più la possibilità di far del male a nessuno.» «Ti riferisci a questo?» chiese, mostrando l'amuleto. Quello si contorse come se fosse estasiato di essere stato notato e cominciò a strofinarsi contro la sua mano, che subito lo nascose di nuovo, completamente. Continuando a fissarmi, sollevò lentamente la mano fino al petto. D'improvviso l'aria diventò così densa da rendere difficoltosa la respirazione, e tutti i peli sul mio corpo cominciarono a fremere. «Fermatela!» gridò John, alzandosi. Il poliziotto più vicino esitò soltanto un attimo, ma fu sufficiente. Quando le aprì le dita a forza, la mano apparve vuota. «Un gioco di destrezza, Dominga. Ti credevo superiore a queste cose», commentai. John impallidì. «Non era un trucco», obiettò con voce tremante, prima di sedere di nuovo, pesantemente, sul divano accanto a me. Nonostante la carnagione scura, era decisamente pallido. Il suo potere sembrava avvizzito, e lui stesso sembrava stanco. «Che c'è?» domandai. «Che cos'ha fatto?» «Deve restituire l'amuleto, signora», dichiarò l'agente in uniforme. «Non posso», replicò lei. «John! Che cosa diavolo ha fatto?» ripetei. «Qualcosa che non avrebbe dovuto essere capace di fare.» Cominciai a capire come doveva sentirsi Dolph quand'era costretto a dipendere da me per avere informazioni. Era come togliere un maledetto dente. «Insomma, che cazzo ha fatto?» «Ha riassorbito il suo potere», spiegò John. «Che significa?» «Ha assimilato materialmente il gris-gris. Non hai sentito?» In effetti avevo percepito qualcosa d'indefinibile. L'aria era ancora densa, ma meno di prima; la pelle mi formicolava. «Sì, sento qualcosa, però continuo a non capire.» «Senza un rito e senza l'aiuto di un loa ha riassorbito il potere nella propria anima. Non troveremo più nessuna traccia dell'amuleto. Non abbiamo più nessuna prova.» «Quindi ci resta soltanto il nastro?» domandai. «Sì.» «Se sapevi che poteva farlo, perché non l'hai detto subito? Non le a-
vremmo lasciato l'amuleto!» «Non lo sapevo. È impossibile, senza ricorrere alla magia cerimoniale!» si giustificò John. «Eppure lo ha fatto.» «Lo so, Anita, lo so!» Per la prima volta sembrò spaventato, e la paura non si addiceva molto al suo bel viso bruno. Dopo il potere che avevo sentito promanare da lui, la paura sembrava ancor più fuori posto. Eppure era presente, reale. Rabbrividii come se qualcuno avesse camminato sulla mia tomba e mi accorsi che Dominga mi fissava. «Cosa stai guardando?» «Una donna morta», mormorò lei. Scossi la testa. «Le chiacchiere e le minacce non costano niente, Señora.» John mi toccò un braccio. «Non schernirla, Anita. Se è riuscita a fare una cosa del genere in un istante, è impossibile prevedere che altro è in grado di fare.» Lo sbirro ne ebbe abbastanza. «Non farà proprio niente! Una sola mossa sbagliata, signora, e sparo.» «Sono soltanto una vecchia. Perché mi minaccia?» «Stia zitta!» L'altro agente intervenne: «Una volta ho conosciuto una strega capace d'ipnotizzare con la voce». Tutti e due avevano la mano vicino alla pistola. È strano come la magia cambi la percezione che la gente ha di qualcuno. Erano rimasti tranquilli quando avevano creduto che per agire avesse bisogno di celebrare riti e sacrifici umani, ma era bastato un piccolo prodigio per renderla ai loro occhi improvvisamente pericolosa. Be', io avevo sempre saputo che era pericolosa. Dominga rimase seduta in silenzio, sotto gli sguardi vigili degli sbirri. La sua piccola esibizione mi aveva distratta, ma dal sotterraneo non era salito nessun grido. Niente. Soltanto silenzio. Il mostro li aveva forse fatti fuori tutti, tanto in fretta, senza che sparassero neanche un colpo? No di certo! Eppure avevo lo stomaco contratto e la schiena bagnata di sudore. Tutto bene, Dolph? pensai. «Hai detto qualcosa?» chiese John. «Ho soltanto pensato molto intensamente.» Annuì, come se per lui la cosa avesse un senso. Allora Dolph entrò in soggiorno, la faccia assolutamente impenetrabile.
«Cosa avete trovato?» domandai. «Niente», rispose. «Che significa 'niente'?» «Ha fatto sparire tutto. Abbiamo trovato le stanze che hai descritto. Una ha la porta sfondata dall'interno, ma è stata completamente pulita e imbiancata.» Sollevò una grossa mano macchiata di vernice. «È ancora fresca!» «Non può essere sparito tutto! E le porte murate?» «Sembra che abbiano usato un martello pneumatico. Sono tutte ridipinte di fresco, Anita. Odorano di candeggina e di vernice. Niente cadaveri e niente zombie. Niente di niente.» «Stai scherzando?» chiesi. «Ti sembra che stia ridendo?» ribatté. Mi alzai a fronteggiare Dominga. «Chi ti ha avvisata?» Lei mi guardò in silenzio, con aria beffarda. Mi venne una gran voglia di cancellarle quel ghigno dalla faccia a forza di ceffoni. Picchiarla anche soltanto una volta sarebbe stato una gran soddisfazione. «Indietro, Anita», ordinò Dolph. Forse la mia faccia tradiva la collera, o forse bastava il fatto che avevo i pugni stretti e tremavo da capo a piedi. Non era soltanto rabbia, ma anche l'inizio di qualcos'altro. Se non fosse finita in galera, Dominga sarebbe stata libera di riprovare a farmi fuori quella notte stessa, e poi ancora tutte le notti successive. Sorrise come se mi avesse letto nel pensiero. «Non hai niente, chica. Hai puntato tutto in un colpo solo senza avere niente in mano.» Aveva ragione. «Stai alla larga da me, Dominga.» «Non mi avvicinerò neanche a te, chica. Non ne avrò bisogno.» «La tua ultima sorpresina non ha funzionato tanto bene, e io sono ancora qui.» «Io non ho fatto niente, ma sono sicura che cose peggiori verranno alla tua porta, chica.» Mi volsi a Dolph. «Maledizione! Non c'è proprio niente che possiamo fare?» «Abbiamo soltanto l'amuleto.» Sicuramente la mia faccia lasciò trapelare qualcosa, perché Dolph mi toccò un braccio. «Che c'è?» «Ha fatto qualcosa e l'amuleto è scomparso», risposi. Sospirò profondamente e indietreggiò. «Dannazione! Com'è successo?»
«Fattelo spiegare da John. Io ancora non capisco.» Avevo sempre detestato ammettere la mia ignoranza, ma, cazzo, una ragazza non può mica essere esperta di tutto! Per giunta mi ero impegnata parecchio per restare alla larga dal vudù. E dove mi aveva portato tutto il mio impegno? A fissare gli occhi neri di una sacerdotessa vudù che stava progettando d'infliggermi una morte tutt'altro che piacevole. Be', quando si è in ballo bisogna ballare, perciò mi girai nuovamente verso Dominga, sorridendo. Quando il suo sorriso si offuscò un po', il mio si allargò. «Qualcuno ti ha informata, così hai impiegato questi due giorni per vuotare la cloaca.» Mi curvai a posare le mani sui braccioli della sua poltrona, accostando così il mio viso al suo. «Hai dovuto abbattere i muri e distruggere tutte le tue creature. Il tuo rifugio - il tuo humfò - è vuoto, pulito e imbiancato. Tutti i vevé sono stati cancellati, tutti gli animali sacrificati sono scomparsi. Tutto il potere che hai accumulato poco a poco, pezzo per pezzo, goccia a goccia, è dissolto. Dovrai cominciare daccapo, stronza! Dovrai ricostruire tutto.» L'espressione dei suoi occhi neri mi fece rabbrividire, però me ne fregai. «Ma stai cominciando a essere troppo vecchia per ricostruire tutto. Hai dovuto distruggere molti dei tuoi giocattoli? Hai dovuto scavare qualche fossa?» «Scherza pure adesso, chica, ma prima o poi, in una notte buia, manderò da te quello che mi è rimasto.» «Perché aspettare? Fallo subito, alla luce del giorno. Affrontami apertamente. Oppure hai paura?» Allora scoppiò in una risata calda e cordiale che mi sorprese tanto da farmi rialzare di scatto. «Mi credi forse così sciocca da aggredirti davanti alla polizia? Devi proprio avere poca stima di me!» «Valeva la pena tentare», commentai. «Avresti dovuto unirti a me per fabbricare zombie. Insieme avremmo potuto diventare ricche.» «L'unica cosa che potremo mai fare insieme è ammazzarci a vicenda», ribattei. «E va bene, che sia guerra tra noi!» «C'è sempre stata», corressi. In quel momento Zerbrowski uscì dalla cucina con un sorrisone che gli andava da un orecchio all'altro. Stava succedendo qualcosa di buono. «Il nipote ha appena vuotato il sacco.» Tutti i presenti lo fissarono. «Su cosa?» chiese Dolph.
«Il sacrificio umano. Avrebbe dovuto recuperare il gris-gris consegnato a Peter Burke, dopo averlo ucciso per ordine di sua nonna, ma si è lasciato prendere dal panico quand'è sopraggiunto qualcuno che faceva jogging. Ha una tale paura di lei», accennò a Dominga, «che la vuole vedere dietro le sbarre. Ha il terrore di quello che gli farà per avere dimenticato l'amuleto.» L'amuleto di cui non eravamo più in possesso. Però avevamo il video e la confessione di Antonio. La giornata stava migliorando. Dominga Salvador appariva fiera e terrificante, con gli occhi neri sfolgoranti di una qualche luce interiore. Data la nostra vicinanza, il suo potere mi strisciava sulla pelle, ma ero sicura che un buon rogo l'avrebbe sistemata. L'avrebbero fritta sulla sedia elettrica, poi avrebbero cremato il cadavere e disperso le ceneri presso un incrocio. «Fregata!» mormorai. Mi sputò sopra una mano con una saliva che bruciava come acido. «Vaffanculo!» gridai. «Rifallo, così ti spariamo e facciamo risparmiare un sacco di spese ai contribuenti», minacciò Dolph, con la pistola in pugno. Andai in cerca del bagno per sciacquarmi la mano, sulla quale si era già formata una vescica. Una fottuta ustione di secondo grado con la saliva! Cristo santo! Ero contenta di sapere che Antonio era crollato e che Dominga sarebbe stata rinchiusa. Ero contenta di sapere che sarebbe morta. Meglio lei che me. 32 Riverridge era un quartiere moderno, quindi tutte le case corrispondevano all'una o all'altra di tre tipologie e c'erano file di edifici identici come biscotti sulla teglia da infornare. Invece il nome, Riverridge, cioè «Colline sul fiume», non corrispondeva a niente, dato che non si vedevano fiumi né colline. La casa del massacro, quella al centro della zona da perlustrare, era identica a quella vicina, però era grigia con le imposte bianche, mentre l'altra, che lo zombie assassino aveva ignorato, era azzurra con le imposte bianche. In tutti e due i casi, comunque, le imposte erano puramente ornamentali, cioè finte. L'architettura moderna abbonda di elementi esclusivamente decorativi, come le ringhiere senza balcone, gli abbaini senza soffitte e i portici così stretti che ci potrebbero stare seduti soltanto gli elfi di
Babbo Natale. Mi fa venire una gran nostalgia dell'architettura vittoriana, che magari era alquanto pomposa, ma almeno non aveva niente di finto. L'intero quartiere era stato evacuato, e Dolph era stato costretto a rilasciare una dichiarazione alla stampa. D'altronde non si può nascondere l'evacuazione di un quartiere vasto come una cittadina. Il danno era fatto, e i giornalisti avevano già inventato un titolone: «I massacri dello zombie». Cristo! Il sole stava affondando in un mare di scarlatto e di arancio. Sembrava che qualcuno avesse sciolto due pastelli giganteschi e li avesse usati per imbrattare il cielo. Non c'era tettoia, garage, cantina, casa sull'albero, o altro di concepibile, che non fosse stato perquisito. Eppure non avevamo trovato niente. I cronisti si aggiravano inquieti ai bordi della zona isolata. Se avessimo evacuato centinaia di persone e perlustrato le loro proprietà senza un mandato e senza trovare nessuno zombie... be', ci saremmo trovati nella merda fino al collo. Ma lo zombie c'era, lo sapevo. Insomma, ero quasi sicura che ci fosse. John Burke era vicino a un gigantesco cassonetto. Sorprendendomi, Dolph gli aveva permesso di partecipare alla caccia allo zombie spiegando che avevamo bisogno di tutto l'aiuto possibile. «Dimmi, Anita», chiese Dolph, «dov'è?» Avrei voluto fornirgli una risposta brillante che gli facesse commentare qualcosa tipo: «Mio Dio, Holmes! Come faceva a sapere che lo zombie era nascosto nella fioriera?» Purtroppo non potevo mentire. «Non lo so, Dolph, semplicemente non lo so.» «Se non lo troviamo...» Non completò la frase, però capii che cosa intendeva dire. Anche se avessimo vistosamente fallito, io ero sicura che non avrei perso il mio lavoro, ma Dolph no. Merda! Come potevo aiutarlo? Che cosa ci stava sfuggendo? Che cosa? Osservai la strada silenziosa. C'era una quiete soprannaturale, con tutte le finestre buie e soltanto i tenui aloni luminosi dei lampioni stradali a respingere l'oscurità. Ogni casa aveva la sua cassetta postale al bordo del marciapiede; ce n'erano alcune che erano incredibilmente fantasiose, tipo quella a forma di gatto accucciato, con le zampe che si alzavano se la pancia era piena di corrispondenza. Per giunta il nome della famiglia era Catt. Troppo perfetto!
Inoltre, ciascuna casa aveva almeno un bidone per la spazzatura e tutti erano enormi. Ce n'erano persino alcuni più grandi di me, e la domenica non era certo il giorno del pattume. O lo era e la polizia aveva impedito la raccolta? «I bidoni», dichiarai. «Cosa?» chiese Dolph. «I bidoni dell'immondizia! Ecco cosa!» Lo afferrai per un braccio, sentendomi quasi in preda alla vertigine. «È tutto il giorno che li guardiamo, quei dannati bidoni!» Accanto a me, John Burke rimase in silenzio, corrugando la fronte. «Ti senti bene, Blake?» Zerbrowski mi si avvicinò da dietro, fumando. La brace della sua sigaretta sembrava una lucciola enorme. «I bidoni sono abbastanza capienti perché ci si possa nascondere anche un tizio grande e grosso!» «Non gli si addormenterebbero le braccia e le gambe?» domandò Zerbrowski. «Gli zombie non hanno circolazione sanguigna.» «Controllate tutti i bidoni dell'immondizia!» urlò Dolph. «Lo zombie è là dentro! Muoversi!» Tutti si sparpagliarono come gli insetti di un formicaio sventrato da una bastonata. Io finii per fare squadra con due agenti in uniforme, di cui lessi i nomi sulle targhette: Ki, un asiatico, e Roberts, una bionda. Davvero un gruppetto bene assortito! Ci coordinammo senza bisogno di discuterne preventivamente. L'agente Ki rovesciava ogni bidone mentre Roberts e io lo tenevamo sotto tiro con le pistole spianate, tutti e tre pronti a urlare come demoni nel caso in cui fosse rotolato fuori uno zombie, sapendo che probabilmente sarebbe stato quello giusto. Alle nostre grida sarebbe accorsa una squadra di sterminatori, o almeno avrebbe dovuto, visto che avevamo a che fare con uno zombie straordinariamente veloce e distruttivo, che poteva anche essere particolarmente resistente alle pallottole. Insomma, bisognava soltanto friggere il bastardo e farla finita. Eravamo l'unica squadra in strada, quindi si sentivano soltanto i rumori dei nostri passi, dei bidoni rovesciati, delle bottiglie e delle lattine che rotolavano. Nessuno usava più legare i sacchi della spazzatura? L'oscurità era densa, quasi solida. Sapevo che in cielo c'erano la luna e le stelle, ma non avrei potuto dimostrarlo perché da dove stavamo non si po-
tevano vedere. Nubi dense e fosche come velluto erano arrivate da ovest, quindi soltanto i lampioni rendevano sopportabile la notte. Non sapevo come se la stesse passando Roberts, ma io avevo i muscoli delle spalle e del collo dolorosamente contratti per la tensione. Ogni volta che Ki rovesciava un bidone ero pronta a far fuoco e a salvarlo prima che lo zombie saltasse a squarciargli la gola. Il rivolo di sudore che gli bagnava il viso luccicava persino in quel buio quasi completo. Ero contenta di non essere l'unica ad accusare la tensione. Certo, non ero io quella che ogni volta doveva avvicinarsi al possibile nascondiglio di uno zombie assassino. Il guaio era che non sapevo che tiratori fossero Ki e Roberts. Sapevo soltanto di essere abbastanza brava per rallentare il mostro fino all'arrivo dei rinforzi, perciò soltanto io potevo svolgere il ruolo che mi ero scelta. Era la miglior divisione del lavoro, davvero. Urla a sinistra, e noi tre ci bloccammo. Io mi girai di scatto, senza vedere altro che le case buie e le luci dei lampioni. Nessun movimento. Tuttavia le grida continuarono, acute e colme di orrore. Corsi in quella direzione, seguita da Ki e Roberts, con la Browning impugnata a due mani e puntata verso l'alto. Così è più facile correre. Non osai rinfoderare la pistola, perché mi perseguitava il ricordo dell'orsacchiotto coperto di sangue e anche perché le urla erano diventate più fioche, come se qualcuno stesse morendo. Si percepivano movimenti ovunque nel buio. Sbirri che arrivavano di corsa. Però era tardi. Le urla cessarono e non si sentì sparare. Perché? Perché nessuno aveva esploso neppure un colpo? Superati i cortili di quattro case, arrivammo a un recinto metallico che ci costrinse a rinfoderare le armi, per scavalcarlo. Feci del mio meglio per volteggiare oltre la barriera appoggiandomici con le mani, poi piegai le ginocchia atterrando in una morbida aiuola, e così rimasi nascosta tra i fiori alti. Ki saltò accanto a me, anche lui accucciandosi. Soltanto Roberts rimase in piedi. Ki si alzò senza sfoderare la pistola; io invece estrassi la Browning mentre ero ancora accucciata tra i fiori, perché preferivo alzarmi arma in pugno. Percepii un movimento rapido, ma i fiori m'impedirono di vedere. D'improvviso Roberts cadde all'indietro, urlando. Colpito prima di poter estrarre la pistola, Kì mi cadde sopra e mi rimase parzialmente addosso anche quando rotolai via. «Maledizione, Ki! Spostati!»
Si alzò a sedere e strisciò verso la sua compagna, con la sagoma della pistola che si stagliava nella luce di un lampione. Roberts non si muoveva. Scrutai l'oscurità nel tentativo di scorgere qualcosa, qualsiasi cosa. Si era mosso più in fretta di qualunque essere umano e persino di un necrofago. Nessuno zombie poteva essere così veloce. Avevo sempre sbagliato? Era qualcos'altro, qualcosa di peggio? Quante vite sarebbe costato il mio errore, quella notte? Roberts era morta? «Ki! È ancora viva?» Continuai a scrutare il buio, resistendo alla tentazione di sorvegliare soltanto le zone illuminate. Intanto si udirono grida confuse. «Dov'è?» «Dov'è andato?» Le voci si allontanavano sempre più. «Da questa parte!» gridai. Le voci esitarono, poi tornarono nella nostra direzione, ma stavano facendo troppo rumore, come un branco di elefanti artritici. «È grave?» «Sì.» Ki aveva rinfoderato la pistola per premere le mani sul collo di Roberts, da cui schizzava un liquido scuro. Buon Dio! M'inginocchiai anch'io accanto a Roberts, ma dalla parte opposta, con la pistola puntata, scrutando l'oscurità. Sembrava che tutto durasse un'eternità, eppure erano passati soltanto pochi secondi. Con una mano controllai il polso di Roberts, che era debole, ma c'era; poi mi asciugai sui calzoni la mano insanguinata. Il mostro le aveva quasi squarciato la gola. Dov'era? Ki aveva gli occhi sgranati, le pupille dilatate; la sua pelle alla luce del lampione sembrava quella di un lebbroso, col sangue della compagna che gli filtrava fra le dita. Qualcosa si mosse. Aveva dimensioni umane, ma era troppo basso per essere un uomo, nient'altro che una sagoma strisciante dietro la casa di fronte a noi. Qualunque cosa fosse, si era nascosta dove l'oscurità era più densa e stava cercando di squagliarsela. Un comportamento simile dimostrava più intelligenza di quella che uno zombie poteva possedere. Avevo sbagliato, avevo sbagliato, avevo maledettamente sbagliato, e per questo Roberts stava morendo. «Resta con lei. Non lasciarla morire», dissi. «Dove vai?» domandò Ki.
«Lo inseguo.» Scavalcai il recinto con una mano sola, e sicuramente ce la feci soltanto grazie all'adrenalina. Quando arrivai nel cortile, il mostro se n'era già andato. Una scia veloce come quella di un topo nella luce della cucina, ma grossa come un uomo. Girò l'angolo della casa e scomparve. Dannazione! Mi allontanai dal muro a tutta velocità, con lo stomaco nella morsa dell'angoscia che le dita del mostro mi squarciassero la gola all'improvviso. Girai l'angolo con la pistola puntata a due mani. Niente. Scrutai l'oscurità e le pozze di luce. Niente. Grida alle mie spalle. Erano arrivati gli sbirri. Dio, fai che Roberts non muoia! Un movimento strisciante nella luce di un lampione all'angolo di un'altra casa e qualcuno che gridava: «Anita!» Stavo già correndo in quella direzione. «Portate gli sterminatori!» urlai, proseguendo. Non osavo fermarmi perché ero l'unica ad averlo visto. Se mi fosse sfuggito, non l'avremmo più trovato. Così mi precipitai da sola nell'oscurità, all'inseguimento di qualcosa che avrebbe anche potuto non essere uno zombie. Non era certo la cosa più intelligente che avessi mai fatto, però ero decisa a non permettergli di scappare. Non doveva scappare. Non avrebbe mai più massacrato altre famiglie, se soltanto avessi potuto impedirglielo. Dopo avere attraversato una zona illuminata rimasi temporaneamente accecata dal contrasto con l'oscurità, che per alcuni istanti mi sembrò ancora più densa. Mi bloccai, in attesa che la mia vista si abituasse di nuovo al buio. «Donna inssisstente», sibilò una voce alla mia destra, tanto vicino da farmi rizzare i peli delle braccia. Sempre immobile, lo cercai e lo trovai, ombra più nera dell'oscurità, che si staccava dai cespugli al bordo del giardino di una casa. Si alzò senza aggredirmi. Se avesse voluto uccidermi, avrebbe potuto riuscirci prima che avessi il tempo di girarmi e fare fuoco. «Non ssei come gli altrri.» Si doveva sforzare per pronunciare ogni parola con quella voce sibilante, come se gli mancasse qualche pezzo di apparato vocale. Una voce di gentiluomo resa decrepita dalla permanenza nella tomba. Mi girai lentamente verso di lui. «Rriporrtami lì.» Al buio ci vedo meglio della maggior parte della gente, e le luci dei lam-
pioni mi aiutavano. Aveva la pelle pallida, di un bianco giallastro, che aderiva al teschio come cera parzialmente fusa; ma gli occhi non erano decomposti e mi scrutavano con un ardore scintillante che era più di un semplice sguardo. «Dove dovrei riportarti?» domandai. «Nella mia tomba», rispose, con le labbra che non erano più abbastanza carnose da potersi muovere in modo naturale. D'un tratto una luce mi accecò, lo zombie gridò, coprendosi la faccia, e io non vidi più niente. L'istante successivo mi aggredì, e io feci fuoco alla cieca. Mi sembrò di sentire un grugnito quando la pallottola lo colpì. Sparai di nuovo, con una mano sola per potermi proteggere il collo con l'altro braccio, mentre cadevo semiaccecata. Ammiccando nel buio tagliato dalle luci delle torce elettriche, mi ritrovai sola e illesa. Perché? Mi aveva chiesto di riportarlo nella tomba. Come aveva fatto a capire cos'ero? La maggior parte degli umani non lo capisce. Le streghe ci riescono soltanto qualche volta, gli altri risveglianti sempre. Gli altri risveglianti... Merda! Apparve Dolph a rimettermi in piedi. «Oh, Dio, Blake! Sei ferita?» Scossi la testa. «Cosa diavolo era quella luce?» «Una torcia alogena.» «Mi avete quasi accecata, cazzo!» «Non potevamo sparare perché non si vedeva niente», spiegò. Intanto gli altri sbirri passarono di corsa e scomparvero nell'oscurità. «Eccolo!» gridò qualcuno. Dolph, io e l'insopportabile torcia alogena, luminosa come il giorno, restammo indietro mentre la caccia proseguiva allegramente. «Mi ha parlato, Dolph», ripresi. «Ti ha parlato? Che vuoi dire?» «Mi ha chiesto di riportarlo nella tomba», riferii, guardandolo e chiedendomi se la mia faccia fosse come quella di Ki: pallida, con gli occhi sgranati, le pupille dilatate. Perché non avevo paura? «È vecchio di almeno un secolo e quand'era vivo praticava il vudù. Ecco cos'è andato storto! Ecco perché Peter Burke non è riuscito a controllarlo!» «Come fai a saperlo? Te l'ha detto lui?» chiese Dolph. «No. L'età l'ho capita dall'aspetto. Lui invece ha capito che sono in grado di riportarlo alla morte, e soltanto una strega o un risvegliante avrebbe potuto riuscirci. Sono pronta a scommettere che è un risvegliante.» «Questo cambia i nostri piani?» domandò.
Lo fissai. «Quanta gente ha ucciso?» Non aspettai la risposta. «Lo distruggiamo e basta.» «Pensi proprio come uno sbirro, Anita.» Era un grosso complimento, detto da Dolph, e come tale lo accettai. Non importava cosa fosse stato da vivo. Era stato un risvegliante o un praticante vudù? E con questo? Era una macchina da sterminio e, anche se non mi aveva uccisa - anzi neppure ferita -, non potevo ricambiargli il favore. Alcuni spari echeggiarono in lontananza nell'aria estiva. Scambiai un'occhiata con Dolph. «Facciamolo», dichiarai con la Browning ancora in pugno. Cominciammo a correre, ma lui non tardò a distanziarmi; sono così bassa da arrivargli con la testa alla cintura e quindi non potevo certo mantenere la sua andatura. Forse posso batterlo in resistenza, ma in velocità sicuramente no. Esitò, girandosi a lanciarmi un'occhiata. «Non ti fermare!» gli gridai. Accelerò e sparì nell'oscurità senza più girare la testa. Se gli aveste detto che non c'era nessun problema a rimanere soli al buio con uno zombie assassino in libertà, Dolph vi avrebbe creduto. O, almeno, credette a me. Rimasi sola a correre nel buio, per la seconda volta. Le urla che provenivano da due direzioni opposte mi dissero che gli sbirri lo avevano perso. Merda! Rallentai. Non avevo nessun desiderio di andare a sbattere proprio contro il mostro. Lui non mi aveva ferita, ma io gli avevo piantato addosso almeno una pallottola; anche gli zombie possono incazzarsi per cose del genere. Mi fermai accanto a un albero, ai margini del quartiere; un recinto di filo spinato segnava il confine con la campagna, che si stendeva a perdita d'occhio. Per fortuna il campo era piantato a fagioli, quindi lo zombie avrebbe dovuto sdraiarsi per nascondersi. Sulla destra e sulla sinistra intravidi le torce dei poliziotti, lontane però almeno una cinquantina di metri da me. Frugavano il suolo e le ombre perché io avevo spiegato che agli zombie non piace arrampicarsi; purtroppo non avevamo a che fare con uno zombie qualsiasi. Sopra la mia testa, l'albero frusciò. Mi girai di scatto, con un brivido lungo la schiena, puntando la pistola verso l'alto. Lui ringhiò e saltò, io feci fuoco prima che mi sbattesse al suolo. Non si accorse neanche delle due pallottole che gli piantai nel petto. Premetti il
grilletto una terza volta, ma era come sparare contro un muro. Mi ringhiò in faccia coi denti spezzati, l'alito fetido come una tomba appena aperta. Feci fuoco ancora una volta, strillando, e lo centrai in gola. Si fermò per cercare di deglutire. Inghiottire un proiettile? Gli occhi scintillanti mi fissarono. C'era qualcuno in casa, proprio come nel caso delle zombie in cui Dominga aveva intrappolato le anime. Qualcuno mi guardava attraverso quegli occhi. Restammo immobili tutti e due per uno di quegli istanti ingannevoli che sembrano durare anni. Mi stava a cavalcioni e mi stringeva le mani intorno alla gola senza schiacciare, senza neanche farmi male. Io gli premevo la pistola sotto il mento, ma, visto che nessun proiettile gli aveva fatto niente, perché un altro avrebbe dovuto impensierirlo? «Non volevo ucciderre», mormorò. «Non capivo, all'inizio. Non rricorrdavo cossa erro.» I poliziotti accorsi intorno a noi esitavano. «Non sparate!» urlò Dolph. «Non sparate, dannazione!» «Avevo bissogno della carrne, dovevo rricorrdarre chi erro. Ho cerrcato di non ucciderre, ho cerrcato d'ignorrarre le casse, ma non ho potuto. Troppe casse», sussurrò. Le sue mani si contrassero affondandomi le unghie nel collo, e io gli sparai nel mento. Scattò all'indietro senza smettere di stringere. Una pressione sempre più violenta, finché un nugolo di stelle bianche non mi offuscò la vista e il nero della notte sbiadì nel grigio. Premetti la pistola sul naso e sparai di nuovo, ripetutamente. Rimasi come cieca, ma continuai a sentire la sua stretta e a sparare. La tenebra inghiottì i miei occhi e tutto il mondo. Non mi sentivo più le mani. Ripresi conoscenza tra le urla, grida orribili. Il tanfo di carne e capelli bruciati era denso e soffocante sulla lingua. Trassi un respiro profondo, tremante, doloroso; poi, tossendo, cercai di alzarmi a sedere. Dolph fu pronto a sostenermi; impugnava la mia pistola. Continuai a respirare profondamente ma con fatica, tossendo tanto violentemente che la gola mi faceva male. O forse era stato lo zombie. Qualcosa che aveva forma umana lanciava incessantemente laceri strilli acuti e si rotolava nell'erba estiva, ardendo e spandendo un fiammeggiante chiarore arancione che rompeva l'oscurità come sole sull'acqua, mentre due sterminatori in tuta lo bruciavano col napalm. «Cristo!» commentò Zerbrowski, che stava lì vicino, il viso tinto di arancione dai riflessi delle fiamme. «Perché non muore?»
Non risposi. Non volevo dire che lo zombie non moriva perché da vivo era stato un risvegliante. Era una cosa che sapevo già a proposito degli zombie risveglianti. Quello che non sapevo era che uscivano dal sepolcro bramosi di carne e che riuscivano a ricordare ciò che erano stati soltanto dopo essersi nutriti. Avrei voluto non scoprirlo mai. John Burke arrivò zoppicando nella zona illuminata dalle fiamme, tenendosi un braccio stretto al petto, i vestiti sporchi di sangue. Lo zombie aveva sussurrato qualcosa anche a lui? Sapeva perché il mostro non moriva? Avvolto di fiamme ruggenti come lo stoppino di una candela, lo zombie si girò di scatto e mosse un passo tremante nella nostra direzione, protendendo verso di me una mano che bruciava. Verso di me. Poi crollò, al rallentatore, come un albero abbattuto, lottando per la vita, ammesso che la si potesse definire così. Gli sterminatori si tennero pronti, decisi a non correre rischi, e io non potei certo biasimarli. Un tempo era stato un negromante, quel cadavere che bruciava appiccando lentamente il fuoco all'erba circostante. Era stato come me. Sarei diventata un mostro anch'io, se fossi stata risvegliata dalla tomba? Meglio non scoprirlo. Il mio testamento stabiliva che avrei dovuto essere cremata, proprio perché non volevo che qualcuno mi resuscitasse per divertimento. Era sempre stata una ragione sufficiente, ma adesso ne avevo una in più. Guardai la carne che anneriva, si arricciava, si staccava; i muscoli e le ossa scoppiavano in minuscole esplosioni, con schiocchi come di brace. Mentre guardavo lo zombie morire, feci a me stessa una promessa: avrei visto Dominga Salvador bruciare all'inferno per quello che aveva fatto. Laggiù ci sono fuochi che ardono per l'eternità, in confronto ai quali il napalm è soltanto un inconveniente temporaneo. Dominga avrebbe bruciato per l'eternità, e comunque non sarebbe stato abbastanza. 33 Ero sdraiata sulla schiena al pronto soccorso, dietro una tenda bianca. Non vedevo quello che succedeva dall'altra parte, ma i rumori che si sentivano erano forti e sgradevoli, perciò ero contenta di avere la mia tenda. Il cuscino era piatto, il piano era duro, ma tutto era bianco, pulito e meraviglioso. Deglutire era doloroso e lo era un po' anche respirare. Però respirare era importante e riuscirci era bello.
Me ne stavo sdraiata tranquillamente, facendo, una volta tanto, quello che mi era stato detto di fare. Ascoltavo il mio stesso respiro e il pulsare del mio cuore. Subito dopo avere rischiato di morire sono sempre molto interessata al mio corpo e faccio caso a un sacco di cose che di solito trascuro. Sentivo scorrere il sangue nelle vene delle braccia e assaporavo, come se fosse stata un candito, la pulsazione calma e regolare. Io ero viva, lo zombie era morto e Dominga Salvador era in prigione. La vita era bella! Dolph aprì la tenda e la richiuse come se fosse stata una porta, poi fingemmo tutti e due di avere un po' di riservatezza, anche se oltre la tenda, sotto il bordo, si vedevano i piedi della gente che passava. «È bello rivederti in piedi», disse. «Be', proprio in piedi non direi», replicai, con la voce un po' roca. Tossii per cercare di schiarirmela, ma senza ottenere grossi miglioramenti. «Che dice il dottore della tua voce?» chiese Dolph. «Per un po' rimarrà tenorile.» Notando la sua espressione, aggiunsi: «Ma poi passerà». «Bene.» «Come sta Burke?» domandai. «Un po' di punti, niente danni permanenti.» L'avevo immaginato, però era bello saperlo. «E Roberts?» «Se la caverà.» «Niente conseguenze?» Fui costretta a deglutire, perché parlare era doloroso. «Niente conseguenze. Sapevi che è rimasto ferito anche Ki, al braccio?» Cominciai a scuotere la testa e subito mi fermai perché anche quello faceva male. «Non me n'ero accorta.» «Soltanto qualche punto. Pure lui tornerà come nuovo.» Dolph ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni. «Abbiamo perso tre agenti. Un altro è rimasto ferito più gravemente di Roberts, ma ce la farà.» «Colpa mia.» Corrugò la fronte. «Perché dici questo?» «Avrei dovuto capire», fui costretta a deglutire, «che non era uno zombie qualsiasi.» «Era uno zombie, Anita. Avevi ragione. E sei stata tu a capire che si nascondeva in uno di quei dannati bidoni. Per giunta hai rischiato di farti ammazzare per farlo fuori. Insomma, credo che tu abbia fatto la tua parte.» «Non sono stata io a farlo fuori. Sono stati gli sterminatori.» Sembrava
che le parole lunghe facessero più male di quelle corte. «Ricordi cosa stava succedendo quando hai perso conoscenza?» «No.» «Gli hai scaricato la pistola in faccia, facendogli schizzar fuori il cervello dalla nuca, poi sei svenuta. Ho creduto che fossi morta. Buon Dio!» Scosse la testa. «Non farmi mai più uno scherzo del genere!» Sorrisi. «Ci proverò.» «Mentre il cervello gli colava sulla schiena si è alzato. Gli hai fatto passare tutta la voglia di combattere.» Zerbrowski entrò, per così dire, lasciando la tenda parzialmente aperta. Feci in tempo a vedere un ragazzino con una mano sanguinante che piangeva sulla spalla di una donna, prima che Dolph la richiudesse del tutto. Avrei scommesso che Zerbrowski era uno di quei tipi che non chiudono mai completamente i cassetti. «Stanno ancora estraendo i proiettili dal cadavere, Blake, e sono tutti tuoi.» Mi limitai a guardarlo. «Sei davvero tosta, Blake.» «Qualcuno deve pur esserlo con te intorno, Zerbro...» Non riuscii a pronunciare tutto il nome perché era doloroso. «Fa male?» chiese Dolph. Annuii con cautela. «Il dottore è andato a prendere un antidolorifico e mi ha già fatto l'antitetanica.» «Hai una bella collana di lividi sul quel collo pallido», osservò Zerbrowski. «Poetico», commentai. Si strinse nelle spalle. «Torno a vedere come stanno gli altri feriti, poi ti mando un agente che ti riaccompagni a casa», dichiarò Dolph. «Grazie.» «Non credo che tu sia in condizioni di guidare.» Forse aveva ragione. Mi sentivo una merda, però una merda felice. Ce l'avevamo fatta, avevamo risolto il caso e i responsabili sarebbero finiti in galera. Evviva! Il dottore tornò con gli antidolorifici e lanciò un'occhiata ai due poliziotti. Mi consegnò un flaconcino con tre pillole. «Questo dovrebbe bastarle per stanotte e per domani, ma se fossi al suo posto mi darei malato.» Così dicendo lanciò un'occhiata a Dolph. «Ha sentito, capo?»
Dolph corrugò un po' la fronte. «Non sono il suo capo.» «È lei che comanda, vero?» chiese il dottore. Dolph fece di sì con la testa. «Allora...» «Sono in prestito», intervenni. «In prestito?» «Si potrebbe dire che l'abbiamo avuta in prestito da un altro dipartimento», suggerì Zerbrowski. «Allora dite al suo superiore di concederle la giornata libera, domani», replicò il dottore. «Potrà anche sembrare meno grave degli altri, però ha subito un formidabile shock ed è molto fortunata a non avere riportato lesioni permanenti.» «Non ha nessun superiore», spiegò Zerbrowski, «però lo diremo al suo capo.» E sorrise al dottore. Lanciai un'occhiataccia a Zerbrowski. «Be', allora può andare, e badi che quei graffi non s'infettino. Vale anche per il morso alla spalla.» Scosse la testa. «Voi sbirri ve lo guadagnate davvero lo stipendio!» Con questa perla di saggezza si congedò. «Il dottore non sarebbe contento di sapere che abbiamo lasciato massacrare una civile!» commentò Zerbrowski, divertito. «Ha subito un formidabile shock», disse Dolph, facendo il verso al dottore. «Molto brutto», convenne Zerbrowski. E scoppiarono a ridere tutti e due. Mi alzai a sedere con prudenza, poi mi girai, lasciando ciondolare le gambe dal bordo del letto. «Se voi due avete finito di sghignazzare, avrei bisogno di un passaggio a casa.» Stavano ridendo tutti e due fino alle lacrime e io li capivo, anche se la battuta non era stata granché. Il riso è maledettamente migliore del pianto per alleviare la tensione. Io mi astenni soltanto perché avevo il forte sospetto che ridere sarebbe stato doloroso. «Ti accompagno io», ansimò Zerbrowski, tra una risatina e l'altra. Ero divertita. Quando Dolph e Zerbrowski ridacchiano è quasi impossibile non farsi coinvolgere. «No, no!» obiettò Dolph. «Voi due in macchina da soli? Soltanto uno ne uscirebbe vivo!» «E sarei io», precisai. «Pura verità!» confermò Zerbrowski.
Era bello sapere che almeno su un argomento eravamo d'accordo. 34 Ero mezza addormentata sul sedile posteriore quando la macchina della polizia si fermò davanti al mio palazzo. Il dolore pulsante alla gola era sparito con una dose di analgesico, ma mi sentivo tremendamente fiacca. Cosa mi aveva dato il dottore? Era magnifico, però il mondo mi sembrava come una specie di film, che aveva poco a che fare con me, lontano e innocuo come un sogno. Avevo lasciato le chiavi della mia macchina a Dolph, che aveva promesso di mandare qualcuno a parcheggiarmela davanti a casa entro l'indomani. Aveva detto inoltre che avrebbe chiamato Bert per avvertirlo che non sarei andata al lavoro, perciò mi ero chiesta come l'avrebbe presa Bert. Mi ero chiesta anche se gliene sarebbe fregato qualcosa. In realtà non m'interessava saperlo. Un agente in uniforme comparve davanti al mio finestrino. Con un mezzo sorriso mi aprì la portiera, che all'interno era priva di maniglie, come in tutte le auto di pattuglia. Fu una necessità, insomma, ma lui lo fece di buon grado. «Tutto bene, Ms. Blake?» «Sì, agente...» Fui costretta ad ammiccare per poter leggere il nome sulla targhetta. «Osbom. Grazie per avermi accompagnata a casa. Ringrazi anche il suo collega.» Il suo collega era in piedi dall'altro lato della vettura, con le mani posate sul tettuccio. «È un gran piacere poter finalmente conoscere la Sterminatrice della Spook Squad.» Cercai di rimettere insieme abbastanza pezzi per poter parlare e pensare allo stesso tempo. «Ero già la Sterminatrice molto prima che esistesse la Spook Squad», ribattei infine. Allargò le mani, sempre sorridendo. «Senza offesa.» Ero troppo stanca e troppo drogata per preoccuparmene, così mi limitai a scuotere la testa. «Grazie ancora.» Nel salire le scale mi sentii abbastanza malferma sulle gambe da dovermi aggrappare al corrimano, quasi fosse un'ancora di salvezza. Sicuramente quella notte avrei dormito. Magari mi sarei svegliata in mezzo al corridoio, però avrei dormito. Mi ci vollero due tentativi per riuscire a infilare la chiave nella serratura. Entrai nel mio appartamento barcollando, e appoggiai la fronte alla porta
per richiuderla. Dopo avere chiuso di nuovo a chiave mi sentii al sicuro. Ero a casa, ero viva, lo zombie assassino era stato distrutto. Mi misi a ridacchiare, ma fu l'effetto degli antidolorifici, perché io non ridacchio mai di mia volontà. Rimasi là, con la fronte appoggiata alla porta, a fissarmi la punta delle Nike; sembravano lontanissime, come se le distanze fossero aumentate a dismisura dall'ultima volta che mi ero guardata i piedi. Il dottore doveva avermi dato qualche merda allucinatoria. Decisi che l'indomani non l'avrei presa. Distorceva troppo la realtà per i miei gusti. Le punte di un paio di stivali neri si accostarono alle mie Nike. Perché diavolo c'erano stivali neri nel mio appartamento? Feci per girarmi e sfoderare la pistola, ma troppo tardi, troppo lentamente, troppo maledettamente scoordinata. Forti mani scure mi afferrarono, bloccandomi le braccia lungo i fianchi e inchiodandomi il petto alla porta. Cercai di dibattermi, inutilmente. Mi teneva. Piegai la testa all'indietro nel tentativo di attenuare l'effetto dell'analgesico. Avrei dovuto essere in preda al terrore, con l'adrenalina che pompava, ma purtroppo certe droghe se ne fregano se hai bisogno di usare il corpo. Sei tu che appartieni alla droga finché l'effetto non svanisce, punto e basta. Decisi che avrei fatto parecchio male al dottore, se mai fossi riuscita a salvare la pelle. Era Bruno quello che m'inchiodava all'uscio. E Tommy comparve alla mia destra con una siringa in mano. «No!» gridai. Bruno mi premette una mano sulla bocca; poi, quando cercai di morderlo, mi schiaffeggiò. Pur se il ceffone fu di un certo aiuto, il mondo continuò a sembrarmi ovattato e lontano. Per giunta la mano di Bruno profumava di dopobarba: una dolcezza asfissiante. «È quasi troppo facile», commentò Tommy. «Fallo e basta», ordinò Bruno. Nel fissare l'ago che mi si avvicinava al braccio, avrei detto loro che ero già drogata, se non avessi avuto la mano di Bruno a tapparmi la bocca. Avrei chiesto anche cosa ci fosse nella siringa e se non fosse per caso controindicata con l'analgesico che avevo già preso, ma non ne ebbi mai l'opportunità. L'ago affondò, il mio corpo si ribellò, ma Bruno m'immobilizzò. Impossibile scappare. Maledizione! Quando finalmente l'adrenalina scacciò le ragnatele, era ormai troppo
tardi. Tommy sfilò l'ago e mi sorrise. «Spiacente, ma non abbiamo alcol e cotone!» In quel momento li odiai. Se quella iniezione non mi avesse uccisa, li avrei ammazzati entrambi per avermi spaventata, per avermi fatto sentire indifesa e per avermi colta di sorpresa mentre ero ignara, drogata e intontita. Se fossi sopravvissuta a quell'errore, non lo avrei ripetuto mai più. Ti prego, Signore, lasciami sopravvivere a questo errore! Bruno mi costrinse a restare immobile e muta finché non sentii che l'iniezione cominciava a fare effetto. Mi venne sonno. Un cattivo m'imprigionava contro la mia volontà e a me veniva sonno! Cercai invano di reagire. Ogni sforzo per tenere sollevate le palpebre appesantite fallì. Rinunciai a cercare di sfuggire alla presa di Bruno, perché avevo bisogno di tutte le mie energie per non chiudere gli occhi. Cercai di restare sveglia fissando la porta, che però cominciò a fluttuare tra le onde della vertigine come se fosse sott'acqua. Le palpebre mi si abbassarono di scatto. Riuscii a sollevarle soltanto un attimo, poi non fui più capace di riaprire gli occhi. Una minuscola parte di me precipitò urlando nella tenebra, ma il resto si sentì libero, assonnato e stranamente al sicuro. 35 Ero sulla soglia del risveglio, quando sai di non essere del tutto addormentata ma non vuoi neanche svegliarti. Mi sentivo il corpo pesante, la testa pulsante, la gola dolente. Quest'ultimo pensiero mi fece aprire gli occhi e così mi trovai a fissare un soffitto bianco con chiazze d'acqua che sembravano macchie di caffè. Non ero a casa, perciò dov'ero? Non appena ricordai Bruno e l'ago, mi alzai a sedere, e il mondo oscillò in limpide onde colorate. Subito ricaddi sul letto e coprirmi gli occhi con le mani mi diede un po' di sollievo. Che cosa mi avevano iniettato? Da qualche parte nel turbinio colorato avevo visto una persona. Era stata soltanto un'allucinazione? Aprii di nuovo gli occhi, più lentamente questa volta, contenta di fissare il soffitto con le infiltrazioni. Il letto era grande, con due cuscini, lenzuola, una coperta. Girai prudentemente la testa e mi trovai a guardare in faccia Harold Gaynor, che se ne stava seduto accanto al letto. Be', non era certo la compagnia che avrei maggiormente desiderato avere al mio risveglio. Dietro di lui, appoggiato a un vecchio cassettone, c'era Bruno, con le
cinghie nere della fondina ascellare che spiccavano sulla camicia azzurra a maniche corte. Ai piedi del letto, tra due alte finestre sbarrate con tavole inchiodate di recente, c'era un secondo cassettone, vecchio quanto il primo, con uno specchio. Il profumo di pino delle tavole permeava l'aria calda e stagnante. Cominciai a sudare non appena mi resi conto che non c'era l'aria condizionata. «Come si sente, Ms. Blake?» domandò Gaynor. La sua solita voce gioviale da Babbo Natale aveva una sfumatura sibilante da serpente molto contento. «Sono stata meglio», risposi. «Non ne dubito. Si rende conto di avere dormito per più di ventiquattro ore?» Mentiva? E perché avrebbe dovuto? Cosa ci avrebbe guadagnato? Niente. Dunque era probabile che fosse la verità. «Cosa cazzo mi avete dato?» Nello staccarsi dal cassettone, Bruno sembrò quasi imbarazzato. «Non ci siamo resi conto che avevi già preso un sedativo.» «Antidolorifico», corressi. Scrollò le spalle. «L'effetto è lo stesso quando si mischia con la Thorazina.» «Mi avete iniettato un tranquillante per animali?» «Andiamo, Ms. Blake! Si usa anche nelle cliniche psichiatriche, non soltanto sugli animali», osservò Gaynor. «Cristo!» replicai. «Adesso sì che mi sento molto meglio!» «Se si sente abbastanza bene da fare battute sagaci, allora è anche in grado di alzarsi!» commentò divertito. Battute sagaci? Comunque era probabile che avesse ragione e, a dire il vero, mi sorprendeva di non essere legata. Ne ero contenta, ma anche sorpresa. Mi alzai di nuovo a sedere, questa volta più lentamente, e la stanza si limitò a inclinarsi un minimo prima di stabilizzarsi sulla verticale. Respirai profondamente, con una sofferenza tale che mi portai una mano alla gola, scoprendo che doleva anche all'esterno. «Chi è stato a farle quei brutti lividi?» chiese Gaynor. Bugia o verità? Menzogna parziale. «Ho aiutato la polizia a catturare un cattivo che è diventato piuttosto riottoso.» «Che ne è stato del cattivo in questione?» volle sapere Bruno. «Adesso è morto», dichiarai
Sulla faccia di Bruno guizzò un'espressione troppo fugace perché riuscissi a interpretarla. Rispetto, forse? Macché! «Sa perché sono stato costretto a portarla qui, vero?» domandò Gaynor. «Perché resusciti uno zombie per lei», risposi. «Sì, perché resusciti per me uno zombie molto antico.» «Ho già rifiutato due volte la sua offerta. Che cosa le fa credere che possa cambiare idea?» La sua espressione era quella di un vecchio elfo allegro. «Be', Ms. Blake, ci sono qui Bruno e Tommy per convincerla che sta sbagliando. E ho sempre intenzione di ricompensare i suoi servigi con un milione di dollari. Il prezzo non è cambiato.» «Tommy mi aveva offerto due milioni, l'ultima volta.» «Se avesse accettato. Non possiamo più versarle l'intera somma, adesso che ci ha costretti a correre certi rischi.» «Per esempio una condanna federale per rapimento», suggerii. «Esattamente. La sua ostinazione le è costata un milione di dollari. Ne valeva davvero la pena?» «Non intendo uccidere un altro essere umano soltanto per consentirle di andare a caccia di tesori perduti.» «Vedo che la piccola Wanda le ha raccontato qualche storiella», osservò Gaynor. «Pura supposizione. In un incartamento che la riguarda ho letto qualcosa sulla sua ossessione per la famiglia di suo padre.» Era una spudorata menzogna, ma soltanto Wanda lo avrebbe capito. «Temo che sia troppo tardi. So che Wanda ha parlato con lei. Ha confessato rutto.» Confessato? Lo scrutai nel tentativo di vedere attraverso la sua maschera impenetrabile di giovialità. «Che significa che ha confessato?» «Significa che l'ho fatta interrogare da Tommy. Non è un artista come Cicely, però si lascia dietro più avanzi. Non volevo uccidere la mia piccola Wanda.» «Dov'è adesso?» «Si preoccupa per la sorte di una puttana?» Mi fissò coi luminosi occhi da uccello, per valutare me e le mie reazioni. «Non me ne frega niente di lei», ribattei, sperando che la mia faccia fosse neutra quanto il mio tono. Per il momento non intendevano ucciderla, però avrebbero potuto farlo se avessero creduto che servisse per obbligarmi a collaborare.
«Ne è sicura?» «Senta, non sono mica andata a letto con lei. È soltanto una sgualdrinella molto perversa.» «Allora, cosa possiamo fare per convincerla a resuscitare lo zombie?» «Non intendo commettere omicidi a suo beneficio, Gaynor», dichiarai. «Non ho tanta simpatia per lei.» Sospirò, mentre la sua faccia dalle guance rosee assumeva un'espressione da bambola Kewpie. «Vuole rendere tutto difficile, vero, Ms. Blake?» «Non so come potrei facilitare le cose», confermai, addossandomi al legno decrepito della testiera del letto. Stavo abbastanza comoda, però mi sentivo ancora un po' intontita. Sempre maledettamente meglio che essere priva di conoscenza. «Non le abbiamo ancora fatto del male davvero», riprese Gaynor. «La reazione della Thorazina col farmaco che aveva già assunto è stata puramente accidentale. Non era nostra intenzione nuocerle.» Avrei potuto obiettare, però decisi di non farlo. «Allora che cosa vogliamo fare?» «Le abbiamo tolto tutt'e due le pistole», dichiarò Gaynor. «Senza armi lei è soltanto una piccola donna affidata alle cure di due uomini grandi e forti.» «Ci sono abituata, Harry. Da bambina sono sempre stata la più piccola del circondario.» Sembrò addolorato. «Harold o Gaynor va bene, ma Harry mai.» Scrollai le spalle. «Come vuole.» «Non la spaventa per niente essere completamente alla nostra mercé?» «Questo è tutto da discutere.» Lanciò un'occhiata a Bruno. «Dove prende tanta fiducia?» Senza dire niente, Bruno si limitò a fissarmi con vuoti occhi da squalo. Occhi da guardia del corpo, guardinghi e sospettosi, ma al tempo stesso vacui. «Mostrale che facciamo sul serio, Bruno.» Bruno allargò lentamente le labbra in un ghigno; poi rilassò i muscoli delle spalle e fece qualche esercizio di riscaldamento, senza mai distogliere lo sguardo da me. «Ho capito. Devo fare la parte del sacco?» domandai. «Ben detto», approvò Gaynor. Bruno si avvicinò, agile, bramoso. Io scivolai giù dal letto dalla parte opposta. Oltre ad avere un allungo che era il doppio del mio e gambe lun-
ghissime, Bruno pesava una cinquantina di chili più di me ed era tutto muscoli. Insomma, stavo per beccarmi una bella batosta. Ma finché non mi avessero legata mi sarei difesa e le avrei prese con stile; se fossi riuscita a infliggergli qualche danno serio, mi sarei ritenuta addirittura soddisfatta. Girai intorno al letto con le braccia rilassate lungo i fianchi, in guardia di judo, anche se dubitavo seriamente che l'arte marziale di Bruno fosse quella. Avrei scommesso piuttosto sul karatè o sul tae kwon do. Bruno assunse una posizione di guardia dall'aspetto un po' goffo, a metà tra una «x» e una «t». Sembrava che qualcuno gli avesse accartocciato le gambe, ma non appena io avanzai lui indietreggiò, rapido come un gambero. «Ju Jitsu?» chiesi, pur essendone abbastanza sicura. Inarcò un sopracciglio. «La maggior parte della gente non lo riconosce.» «L'ho già visto», spiegai. «Lo pratichi?» «No.» «Allora ti farò male.» «Ci riusciresti comunque», ribattei. «Sarebbe uno scontro leale.» «Quando due persone hanno capacità equivalenti, la stazza è determinante. A parità di bravura, chi è alto e pesante ha sempre la meglio su chi è basso e leggero.» Scrollai le spalle. «Non deve piacermi, ma è la verità.» «La stai prendendo tremendamente calma», commentò Bruno. «Una crisi isterica mi aiuterebbe?» «No.» «Allora tanto vale che prenda la mia medicina, da brava bimba.» Bruno si accigliò. Era abituato a mettere paura, ma io non lo temevo perché avevo già deciso di sopportare le botte e così avevo raggiunto una certa serenità. Sapevo che mi avrebbe pestata a sangue e che non sarebbe stato bello, però avevo deciso di rassegnarmi. Non sarebbe stata la prima volta. Se l'alternativa era tra farmi picchiare e compiere un sacrificio umano, preferivo farmi picchiare. «Anche se non sei pronta...» incominciò Bruno. «Stai per suonarmele», conclusi per lui. Stavo cominciando a stancarmi di fare la spavalda. «Allora fatti sotto o tirati su. In quella stupida posizione mi sembri seduto sul cesso.» Il suo pugno fu un lampo fosco, ma lo parai con un braccio, che mi s'intorpidì. Quindi mi tirò un calcio nello stomaco che mi fece piegare in due,
togliendomi il fiato. Subito dopo mi diede un calcio in faccia con l'altra gamba, centrandomi proprio sulla stessa guancia dove mi aveva picchiata il vecchio Seymour. Crollai sul pavimento senza sapere bene quale colpo fosse stato più doloroso. Parai un altro calcio con entrambe le braccia, poi mi rialzai di scatto nella speranza di riuscire a bloccargli la gamba e rompergli il ginocchio con una leva; lui però mi sfuggì con una torsione, restando per un attimo sospeso a mezz'aria. Abbassandomi, schivai un doppio calcio alla testa. Ero di nuovo a terra, ma per mia scelta, e lui sembrava impossibilmente alto, visto dal basso. Mi sdraiai su un fianco con le ginocchia piegate. Quando si avvicinò con l'evidente intenzione di chinarsi per tirarmi in piedi, gli sparai un doppio calcio. Basta colpire poco sopra o sotto il ginocchio per slogare la rotula. Urlò quando la sua gamba cedette. Aveva funzionato, cazzo! Senza cercare di fare lotta libera con lui, né di prendergli la pistola, corsi alla porta. Mentre Gaynor faceva manovra con la sua bella sedia a rotelle per cercare di tagliarmi la strada, spalancai l'uscio e mi ritrovai in un lungo corridoio. C'erano alcune porte, e Tommy, che sembrò molto sorpreso di trovarmi lì. Nell'istante in cui portava la mano alla pistola, gli diedi una spinta e gli feci lo sgambetto. Nel cadere all'indietro mi afferrò, ma io mi buttai addosso a lui, assicurandomi di piantargli una ginocchiata nelle palle. Fu sufficiente per fargli mollare la presa e permettermi di proseguire la fuga senza girarmi a guardare verso la stanza, da cui provenivano diversi rumori. Se avevano intenzione di spararmi, preferivo non vedere. Avvicinandomi a una svolta del corridoio, fui rallentata da un odore. Cadaveri appena dietro l'angolo. Cosa avevano fatto mentre dormivo? Girai la testa. Tommy era ancora sul pavimento con le mani premute sull'inguine, Bruno era appoggiato al muro con la pistola in pugno, ma senza puntarla contro di me, e Gaynor sorrideva sulla sua sedia a rotelle. C'era qualcosa di sbagliato. Poi lo vidi. Sbucò dall'angolo, ed era davvero molto sbagliato: alto sul metro e ottanta, largo più di un metro. Difficile dire se avesse due gambe o tre. Era pallido come tutti gli zombie, ma aveva una decina di occhi. Al centro, al posto del collo, c'era una faccia d'uomo con occhi neri e senzienti, seppure privi di qualunque razionalità o equilibrio. Da una spalla spuntava la testa decomposta di un cane che fece scattare le fauci verso di
me come per azzannarmi. In mezzo a quel groviglio spuntava una gamba di donna, con tanto di scarpa nera dal tacco alto. Il mostro mi veniva incontro strisciando, con l'aiuto di tre delle sue numerose braccia, e lasciandosi dietro una scia simile a quella di una lumaca. Infine svoltò l'angolo Dominga Salvador. «Buenas noches, chica!» La cosa orrenda mi spaventava, ma vedere il ghigno di Dominga mi spaventò ancora di più. Il mostro si fermò e si acquattò in mezzo al corridoio, ansimando con le sue tante bocche come se faticasse a respirare. O forse gli faceva schifo il suo stesso puzzo di carne marcia. Di certo faceva schifo a me, però coprirmi il naso e la bocca con un braccio non serviva granché. Gaynor e le sue guardie del corpo rimasero in fondo al corridoio, forse perché non avevano molta voglia di avvicinarsi al mostriciattolo da compagnia di Dominga. Come dargli torto? Comunque era una questione tra noi due: Dominga e me. Più il mostro, naturalmente. «Come hai fatto a uscire di galera?» domandai. Meglio affrontare prima i problemi mondani. Quelli che mettevano in pericolo la sanità mentale potevano aspettare ancora un po'. «Ho pagato la cauzione», rispose. «Così in fretta, nonostante un omicidio che ha a che fare con la stregoneria?» «Il vudù non è stregoneria», osservò. «Secondo la legge, sì, se c'è di mezzo l'omicidio.» Si strinse nelle spalle, poi fece un ghigno beato. La nonna messicana dei miei incubi. «Conosci un giudice corrotto», conclusi. «Molta gente mi teme, chica. Dovresti farlo anche tu.» «Hai aiutato Peter Burke a resuscitare lo zombie per Gaynor.» Si limitò a sorridere. «Perché non l'hai resuscitato tu?» chiesi. «Non volevo che un tipo senza scrupoli come Gaynor mi vedesse assassinare qualcuno. Avrebbe potuto ricattarmi.» «E non ha capito che hai dovuto ammazzare una persona per il gris-gris di Peter?» «Proprio così.» «Hai nascosto qua tutti i tuoi orrori?» «Non tutti. Mi hai costretta a distruggere gran parte della mia opera, ma ho salvato questo. E puoi capire perché.» Accarezzò la pelle viscida del
mostro. Rabbrividii. Il solo pensiero di toccare quell'orrore bastava a raggelarmi. Eppure... «Come hai fatto?» Dovevo saperlo. Era evidentemente un'opera dell'arte che praticavamo entrambe, perciò dovevo saperlo. «Sicuramente sai animare singole parti di cadaveri», cominciò Dominga. Certo che ne ero capace, però non avevo mai conosciuto nessun altro che lo fosse. «Sì», ammisi. «Io ho scoperto di poter prendere e fondere insieme diverse parti.» Fissai la cosa strisciante. «Fondere insieme?» Era un pensiero troppo orribile. «Posso creare esseri che non sono mai esistiti prima.» «Sono mostri», ribattei. «Pensala pure come vuoi, chica, ma io sono qui per persuaderti a resuscitare il defunto per conto di Gaynor.» «Perché non lo fai tu?» Sentii la voce di Gaynor a breve distanza dietro di me. «Il potere di Dominga ha già fallito una volta.» Mi girai di scatto, addossandomi al muro in modo da poter tenere d'occhio tutti, pur non sapendo esattamente a che cosa mi sarebbe servito. «Questa è la mia ultima occasione, l'ultima tomba conosciuta. Non voglio rischiare con lei», aggiunse. Dominga chiuse gli occhi, stringendo a pugno le mani smagrite dalla vecchiaia. Non le piaceva essere scaricata così. «Lei potrebbe farlo più facilmente di me, Gaynor.» «Se lo credessi davvero ti ucciderei, perché non mi serviresti più», chiarì lui. Argomento persuasivo, in effetti. «Mi hai già fatto pestare da Bruno. Che cosa vuoi fare adesso?» Gaynor scosse la testa. «Sei piccola, eppure hai steso le mie guardie del corpo.» «Te l'avevo detto che i soliti mezzi di persuasione non sarebbero serviti con lei», intervenne Dominga. Guardai il mostro alle sue spalle. E quello per lei era normale? «Che cosa proponi?» chiese Gaynor. «Un incantesimo di costrizione che le imponga di ubbidire ai miei ordini. Ma con una potente come lei ci vorrà tempo per farlo. Se avesse una conoscenza decente del vudù non funzionerebbe, però è soltanto una principiante, nonostante la sua arte.»
«Quanto ci vorrà?» «Non più di due ore.» «Sarà meglio che funzioni», intimò Gaynor. «Non minacciarmi», ribatté Dominga. Oh, che bello! Magari i cattivi avrebbero finito per litigare e ammazzarsi tra loro! «Ti pago abbastanza per comprarti un piccolo regno, perciò voglio avere risultati.» Dominga assentì. «Mi paghi bene, è vero, quindi non ti deluderò. Se riuscirò a costringere Anita a uccidere una persona, allora potrò obbligarla anche a diventare mia socia, così mi aiuterà a ricostruire quello che mi ha costretta a distruggere. Non c'è una certa ironia in tutto questo?» Gaynor sorrise come un elfo demente. «Mi piace.» «Be', a me no», intervenni. Lui mi guardò, ostinato. «Tu farai quello che ti diciamo. Sei stata molto cattiva.» Cattiva, io? Intanto Bruno si era avvicinato e appoggiato pesantemente al muro, ma teneva la pistola puntata al centro del mio petto. «Mi piacerebbe ammazzarla subito», dichiarò, con voce che lasciava trapelare il dolore. «Un ginocchio slogato fa un male d'inferno, vero?» lo stuzzicai. Meglio morta che servire volontariamente la regina del vudù. Mi sembrò che digrignasse i denti e che la sua pistola oscillasse un po', ma probabilmente fu più la rabbia che il dolore. «Ucciderti sarà un gioia.» «Non te la sei cavata granché bene, l'ultima volta. Credo che i giudici avrebbero assegnato la vittoria a me.» «Non c'è nessun fottuto giudice, qui, e io ti ammazzerò.» «Ci serve viva e vegeta», ricordò Gaynor. «E dopo che avrà resuscitato lo zombie?» chiese Bruno, speranzoso. «Se accetterà di servire la Señora, non potrai farle male. Ma, se l'incantesimo non funzionerà, allora potrai ucciderla.» Bruno fece lampeggiare i denti in quello che fu più un ringhio che un sorriso. «Spero proprio che l'incantesimo fallisca!» Gaynor lo rimproverò. «Non lasciare che i sentimenti personali interferiscano con gli affari.» Bruno deglutì a fatica. «Sì, signore», replicò, anche se non sembrò che gli venisse facile usare quel termine. Enzo girò l'angolo alle spalle di Dominga e si fermò vicino al muro, il
più lontano possibile dalla «creazione» di lei. Alla fine Antonio aveva perso il suo lavoro di guardia del corpo, ma non era un problema, Enzo era molto più adatto. Tommy arrivò zoppicando, ancora un po' accartocciato, per così dire, ma con la grossa Magnum in pugno e il viso quasi purpureo di rabbia, o forse di dolore. «Ti ammazzo», sibilò. «Prendi il numero e mettiti in fila», ribattei. «Enzo, aiuta Bruno e Tommy a legare questa piccoletta a una sedia», ordinò Gaynor. «È molto più pericolosa di quanto sembri.» Quando Enzo mi afferrò per un braccio non opposi resistenza, giudicando di essere più al sicuro nelle sue mani che in quelle di Bruno e di Tommy. Quei due mi guardavano come se stessero aspettando soltanto che facessi una mossa sbagliata. Credo proprio che avessero una gran voglia di torturarmi. Nel passare davanti a loro trainata da Enzo, chiesi: «È soltanto perché sono una donna o siete sempre incapaci di perdere?» «Io l'ammazzo», grugnì Tommy. «Dopo, dopo», assicurò Gaynor. Mi domandai se dicesse sul serio. Sarei diventata una specie di zombie, se l'incantesimo di Dominga avesse funzionato, e avrei ubbidito alla sua volontà. In caso contrario, Tommy e Bruno mi avrebbero fatta fuori un pezzo per volta. Mi auguravo sinceramente che vi fosse una terza possibilità. 36 La terza possibilità si rivelò essere quella di venire legata a una sedia nella stessa stanza in cui mi ero risvegliata. Era sicuramente la migliore delle tre opzioni, ma non era granché. Non mi piace essere legata: significa passare da poche probabilità a nessuna. Dominga mi aveva tagliato un po' di capelli e di unghie per il suo incantesimo di costrizione. Merda! Mi legarono saldamente a una vecchia sedia, i polsi allo schienale e le caviglie a due delle gambe. Ogni tentativo di allentare i legami fu inutile. Non era la prima volta che venivo legata, eppure tutte le volte ho questa fantasia alla Houdini di non essere legata tanto strettamente da non potermi liberare divincolando i polsi. Be', non funziona mai così. Quando sei legato ci resti, a meno che qualcuno non ti sleghi. Il guaio era che mi avrebbero slegata soltanto per tentare di gettarmi ad-
dosso uno schifoso, piccolo incantesimo. Dovevo riuscire a liberarmi prima che succedesse. In qualche modo dovevo riuscirci. Ti prego, Dio misericordioso, permettimi di scappare! Quasi in risposta alla mia preghiera, la porta si aprì proprio in quel momento; purtroppo non erano i soccorsi. Bruno entrò portando in braccio Wanda, che aveva la parte destra del viso imbrattata dal sangue che le colava da un taglio sopra l'occhio. Aveva anche un grosso livido sulla guancia sinistra, il labbro inferiore spaccato e sanguinante, gli occhi chiusi. La dolorosa contusione che avevo sul lato sinistro della faccia per via del calcio di Bruno non era niente rispetto a quello che avevano fatto a Wanda. Non riuscii a capire se fosse cosciente. «E ora?» domandai a Bruno. «Ti ho portato un po' di compagnia. Quando si sveglia, chiedile cos'altro le ha fatto Tommy. Questo potrebbe convincerti a resuscitare quello zombie.» «Credevo che Dominga dovesse costringermi con un incantesimo.» «Gaynor non ha più molta fiducia in lei dopo il casino che ha combinato.» «Suppongo che non sia tipo da offrire una seconda possibilità», suggerii. «No, infatti.» Depose Wanda sul pavimento accanto a me. «Ti conviene accettare la sua offerta, ragazza. Una puttana muore e tu ti becchi un milione di dollari. Accetta.» «Volete sacrificare Wanda», dedussi, con una voce che suonò stanca persino a me. «Come hai detto, Gaynor non offre seconde possibilità», replicò Bruno. «Come va il tuo ginocchio?» chiesi dopo qualche secondo. Fece una smorfia. «L'ho rimesso a posto.» «Deve aver fatto un male d'inferno», osservai. «Sì, ha fatto male e, se non aiuterai Gaynor, scoprirai esattamente quanto può essere doloroso.» «Occhio per occhio», commentai. «Parla con Wanda e decidi che fine vuoi fare. Gaynor vorrebbe storpiarti e poi tenerti come giocattolo, ma tu sicuramente non sei d'accordo.» «Come fai a lavorare per lui?» domandai. Scrollò le spalle. «Paga molto bene.» «I soldi non sono tutto.» «Detto da una che non ha mai avuto fame.» Non potei ribattere, perciò mi limitai a fissarlo. Ci scrutammo in silenzio
per qualche minuto e finalmente riuscii a cogliere nel suo sguardo qualcosa di umano, pur trattandosi di un sentimento che non fui in grado d'interpretare. Poi si girò e se ne andò. Guardai Wanda, che giaceva su un fianco senza muoversi. Indossava una lunga gonna multicolore e una camicetta bianca col collo di pizzo. Una manica strappata rivelava che il reggiseno era color prugna. Avrei scommesso che aveva indosso mutandine dello stesso colore prima che Tommy le mettesse le mani addosso. «Wanda», mormorai. «Wanda, mi senti?» Mosse la testa lentamente, poi apri un occhio dilatato dal terrore. L'altro era chiuso dal sangue raggrumato, così se lo strofinò freneticamente per un momento. Quando riuscì a tenerli aperti entrambi, mi fissò ammiccando. Le ci volle qualche istante per mettermi a fuoco e riconoscermi. Cosa si era aspettata di vedere in quei primi, pochi istanti di panico? Non volevo saperlo. «Wanda, puoi parlare?» «Sì.» Voce tenue, ma limpida. Avrei voluto chiederle se stesse bene, ma conoscevo già la risposta. «Se riesci ad avvicinarti e a liberarmi, ti porto fuori di qui.» Mi guardò come se fossi uscita di senno. «Non possiamo scappare. Harold ci ammazzerà.» L'ultima frase fu una pura e semplice constatazione. «Non credo nella rinuncia, Wanda. Se mi sleghi, mi faccio venire in mente qualcosa.» «Se ti aiutassi, mi torturerebbe», ribatté. «Vuole usarti come sacrificio umano per resuscitare il suo antenato. Quanto dolore credi di poter ancora sopportare?» I suoi occhi s'illimpidirono. Era come se il panico fosse una droga e lei stesse lottando per non lasciarsene sopraffare. O forse la droga era Harold Gaynor. Sì, aveva un senso. Era una tossicomane, Harold Gaynor era la sua droga, e come tutti i drogati era disposta a morire pur di farsi un'altra dose. Ma io no. «Per favore, Wanda, slegami. Possiamo scappare.» «E se non ci riusciamo?» «Non sarà peggio di così», risposi. Mentre lei sembrava rifletterci, mi sforzai di cogliere eventuali rumori provenienti dal corridoio. Se Bruno fosse tornato prima che lei mi liberasse, ci saremmo trovate in una brutta situazione. Sostenendosi e muovendosi soltanto con le braccia, Wanda cominciò a
strisciare verso di me. Mi aspettavo che fosse lenta, invece fu svelta. Aveva i muscoli delle braccia molto sviluppati. In pochi minuti fu accanto alla mia sedia. Sorrisi. «Sei molto forte.» «Ho soltanto le braccia», replicò Wanda. «Devono essere forti.» Poi cercò di slegarmi il polso destro. «La corda è troppo stretta.» «Puoi farcela.» Per un periodo che sembrò durare ore, ma che probabilmente non superò i cinque minuti, cercò di sciogliere il nodo, che alla fine cominciò a cedere. Si erano allentati! I legami si erano allentati! Sì! «Ce l'hai quasi fatta, Wanda!» Mi sentivo una cheerleader. Dal corridoio giunse il rumore dei passi di qualcuno che si avvicinava. Sollevando il volto pesto, Wanda mi fissò col terrore negli occhi. «Non c'è tempo», sussurrò. «Torna dov'eri, presto», esortai. «Finirai dopo.» Wanda tornò strisciando dove Bruno l'aveva lasciata e si rimise quasi nella stessa posizione; poi, mentre la porta si apriva, finse di essere svenuta. Non male come idea. Sulla soglia apparve Tommy, senza giacca, il sistema ascellare nero che spiccava sulla polo bianca, i jeans neri che accentuavano la vita sottile. Doveva fare un sacco di esercizio coi pesi. Aveva anche un pugnale, che faceva roteare tanto velocemente da mostrare soltanto una scia luminosa. Gran destrezza! «Non sapevo che usassi il pugnale, Tommy.» La mia voce suonò calma e distaccata. Sbalorditivo. «So fare un sacco di cose», ribatté con un ghigno. «Gaynor vuole sapere se hai cambiato idea.» «No.» Il ghigno si allargò. «Speravo proprio che lo dicessi.» «Perché?» Avevo paura di conoscere già la risposta. «Perché mi ha mandato qui per convincerti.» Non riuscii a fare meno di fissare il pugnale scintillante. «Con quello?» «Con qualcos'altro di lungo e di duro, ma meno freddo», replicò. «Vuoi stuprarmi?» La domanda rimase sospesa nell'aria calda e ferma. Annuì, ghignando come un dannato gatto del Cheshire. Be', mi sarebbe proprio piaciuto farlo sparire completamente tranne il ghigno. Non era quello a farmi paura, bensì l'altra estremità. Cercai invano di liberarmi, comunque il legame al polso destro cedette
un po' di più. Wanda aveva allentato abbastanza il nodo? Ti prego, Dio! Fai che sia così! Quando Tommy mi si avvicinò, lo squadrai dai piedi alla testa e nei suoi occhi non vidi niente di umano. Ci sono un sacco di modi per diventare mostri e Tommy ne aveva trovato uno. Nel suo sguardo c'era soltanto brama animalesca. Allargò le gambe ai lati della sedia come per cavalcarmi senza sedersi, schiacciando il ventre piatto contro la mia faccia. La sua camicia profumava di costoso dopobarba. Gettai la testa all'indietro per non toccarlo e allora lui rise, passandomi le dita tra i capelli. Poi li afferrò per bloccarmi e mi piegò la testa all'indietro, «Sono sicuro che mi piacerà», annunciò. Non osando insistere nell'allentare i legami - se mi fossi liberata il polso, se ne sarebbe accorto -, m'imposi di aspettare che fosse abbastanza distratto. Mi venne male allo stomaco al pensiero di quello che avrei dovuto fare per distrarlo, o di quello che avrei dovuto permettergli di farmi. Tuttavia l'obiettivo era restare viva. Tutto il resto era regalato. Non ci credevo davvero, ma mi sforzavo. Mi sedette di peso sulle gambe e mi spinse il petto contro la faccia senza che potessi farci niente, poi mi accarezzò una guancia col piatto della lama. «Puoi fermarmi quando vuoi. Basta che dici si e io torno da Gaynor a riferire.» Aveva già la voce roca, e sentivo la sua erezione contro la pancia. Immaginare Tommy che mi usava per soddisfare la sua libidine quasi bastò a farmi arrendere. Quasi. Ripresi i miei sforzi, e i legami al polso destro si allentarono un altro po'. Qualche altra torsione e avrei avuto una mano libera, una soltanto; Tommy ne aveva due, senza contare la pistola e il pugnale. Probabilità tutt'altro che favorevoli, ma non potevo avere di meglio. Mi baciò, ficcandomi la lingua in bocca. Io non lo ricambiai, perché sicuramente non ci sarebbe cascato, e non gli morsi la lingua soltanto perché lo volevo avere vicino. Con una sola mano libera, mi serviva averlo vicino. Dovevo riuscire a infliggere subito un danno grave. Ma come? Mi sfregò la faccia sul collo e tra i capelli, a sinistra. Ora o mai più. Tirai con tutte le forze che avevo, e i legami cedettero con uno schiocco. Mi bloccai, sicura che avesse sentito. Invece era troppo impegnato a succhiarmi il collo e a tastarmi il seno. Con gli occhi chiusi, mi baciò il lato destro del collo. Per il pugnale non potevo far niente, anche se non lo stringeva più tanto saldamente, però do-
vevo correre il rischio. Dovevo. Quando gli accarezzai una guancia, lui si girò a sfregarmi il naso sul palmo; poi aprì gli occhi, rendendosi conto che avrei dovuto essere legata. Allora gli conficcai un pollice nell'orbita, con tanta decisione e tanta violenza da fargli esplodere il bulbo oculare. Scattò all'indietro con un grido, portandosi una mano all'occhio ferito. Nello stesso momento lo afferrai per il polso della mano armata di pugnale, maledicendo il fatto che con le sue urla avrebbe attirato rinforzi. Braccia robuste afferrarono Tommy alla vita, tirandolo all'indietro. Gli tolsi il pugnale mentre cadeva. Soffriva tanto che non pensò neanche a prendere la pistola mentre Wanda si sforzava di bloccarlo. Rimanere senza un occhio fa molto più male e molta più paura che prendere un calcio nelle palle. Nel recidere i legami al polso sinistro, mi affrettai tanto da ferirmi lievemente; perciò mi costrinsi a essere più cauta con le caviglie, in modo da non rischiare danni più gravi. Tommy riuscì a liberarsi da Wanda e si alzò barcollando, con una mano premuta sull'occhio e il viso insanguinato. «Ti ammazzo!» Prima che riuscisse a sfoderare la pistola, scagliai il pugnale; avevo mirato al petto, ma gli si conficcò nel braccio. Urlò di nuovo. Presi la sedia e gliela sbattei in faccia. Wanda lo afferrò per le caviglie, atterrandolo. Lo picchiai sino a fracassare la sedia, poi continuai con una gamba della sedia stessa, finché la sua faccia non fu ridotta a una poltiglia sanguinolenta. «È morto», annunciò Wanda, tirandomi per i pantaloni. «Basta! È morto!» Crollai in ginocchio, incapace di deglutire e di respirare, tutta imbrattata di sangue. Non mi era mai capitato di ammazzare qualcuno a bastonate, però era stata una bella sensazione. Scossi la testa. Avrei potuto preoccuparmene in seguito. Wanda mi passò un braccio intorno alle spalle. Io le cinsi la vita e ci alzammo. Accorgendomi che pesava molto meno di quanto avrebbe dovuto, decisi che non volevo guardare sotto la sua bella gonna. Le gambe non erano più integre, ma almeno così era più facile da trasportare. Nella destra avevo la pistola di Tommy. «Questa mano mi serve libera, perciò reggiti forte.» Wanda annuì, pallidissima in viso. Sentivo battere il suo cuore contro le mie costole.
«Adesso ce ne andiamo di qui», dichiarai. «Sicuro», disse, con voce tremante. Probabilmente non mi credeva, e in effetti io stessa non ero sicura di crederci. Comunque, Wanda aprì la porta e uscimmo. 37 Il corridoio era esattamente come lo ricordavo, lungo e senza ripari, con un angolo a ciascuna estremità. «Destra o sinistra?» sussurrai a Wanda. «Non lo so. Questa casa è un labirinto. A destra, credo.» Prendemmo a destra perché almeno era una decisione. Non avremmo potuto far di peggio che starcene lì ad aspettare il ritorno di Gaynor. Nell'udire un rumore di passi alle nostre spalle, feci per girarmi, ma il peso di Wanda mi rallentò. Uno sparo echeggiò nel corridoio. Colpita al braccio sinistro, ruotai su me stessa e crollai sul pavimento, sulla schiena, col braccio ferito schiacciato dal peso di Wanda. In fondo al corridóio c'era Cicely, con le lunghissime gambe divaricate e una pistola di piccolo calibro impugnata a due mani. Sembrava sapere perfettamente quello che stava facendo. Sdraiata sulla schiena, sollevai la 357 per mirare a Cicely. L'esplosione mi assordò e il rinculo mi fece scattare il braccio in alto e all'indietro. Il massimo che riuscii a fare fu di non lasciar cadere la pistola. Se avessi avuto bisogno di sparare un'altra volta, non ce l'avrei mai fatta in tempo. Non ce ne fu bisogno. Cicely crollò in mezzo al corridoio, col sangue che si allargava sulla camicetta. Era immobile, ma quello non significava niente. Impugnava ancora la pistola con una mano e non si poteva escludere che fingesse, in attesa di spararmi quando mi fossi avvicinata. Comunque dovevo accertarmene. «Puoi spostarti dal mio braccio, per favore?» domandai a Wanda. Lei si spostò, permettendomi di guardarmi finalmente il braccio, che era ancora attaccato alla spalla. Bene. Era rigato da un filo di sangue, e un piccolo bruciore gelido stava scacciando l'intorpidimento. Avrei preferito conservare quest'ultimo. Facendo del mio meglio per ignorare il braccio, mi alzai e m'incamminai verso Cicely, con la Magnum puntata, pronta a premere il grilletto se soltanto avesse mosso un muscolo. Aveva la minigonna sollevata a scoprire anche le giarrettiere e le mutandine. Che mancanza di pudore! Nel guardarla dall'alto mi resi conto che non si sarebbe più mossa; non
volontariamente, almeno. La camicetta di seta era inzuppata di sangue dove il petto era squarciato da un buco tanto grosso che avrei potuto infilarci un pugno. Morta, decisamente morta. Tanto per non correre rischi, le calciai via di mano la 22. Non si sa mai, con chi pratica il vudù. Avevo già visto resuscitare gente ferita ancora più gravemente. Comunque Cicely rimase lì sdraiata, immobile, a sanguinare. Era stata una vera fortuna per me che mi avesse sparato con un'arma da vera signora. Se mi avesse centrata con un calibro più grosso, avrei rischiato di perdere il braccio. Non sapendo dove altro metterla, infilai la 357 nella cintura, ma prima inserii la sicura. Non mi avevano mai sparato prima. Ero stata morsa, pugnalata, picchiata, ustionata, però nessuno mi aveva mai sparato, e la cosa mi spaventava. Non sapevo quanto potesse essere grave la ferita. Tornai da Wanda, i cui occhi castani sembravano isole nel viso pallido. «È morta?» «Sì.» «Stai sanguinando», osservò, prima di strapparsi un lungo lembo di gonna. «Lasciati fasciare.» M'inginocchiai, lasciando che mi bendasse la ferita dopo averla pulita dal sangue con un altro pezzo di gonna. Non sembrava grave, poco più di un graffio. «Credo che mi abbia presa soltanto di striscio», dissi. Era una ferita superficiale, niente di più. Il dolore era un misto di fuoco e di gelo, ma forse il freddo era dovuto allo shock. Un graffietto di pallottola mi provocava uno shock? Sicuramente no. «Forza, dobbiamo andarcene. Avranno sentito gli spari, e arriverà Bruno.» Tutto sommato il dolore era una buona cosa, perché potevo sentire il braccio. E potevo muoverlo. Anche se il braccio non era d'accordo, fui costretta a usarlo per sorreggere Wanda. Era l'unico modo per portarla via e tenere la destra libera di sparare. «Forse Cicely è venuta da questa direzione. Andiamo a sinistra», suggerì Wanda, con una certa logica. Così passammo vicino al cadavere, i cui occhi azzurri erano fissi e impossibilmente vacui. Non c'è mai orrore sulla faccia di chi è appena morto, semmai sorpresa, come se la morte arrivasse inaspettata. Nel passare, Wanda fissò il cadavere e sussurrò: «Non credevo che sarebbe morta prima lei». Girato l'angolo, ci trovammo faccia a faccia col mostro di Dominga.
38 Il mostro si trovava in mezzo a una saletta che sembrava occupare una parte del retro della casa. In fondo c'era una parete con una porta al centro e una fila di finestre attraverso le quali si vedeva il nero cielo notturno. Dunque la porta comunicava con l'esterno e l'unica cosa che ci separava dalla libertà era il mostro. L'unica cosa. Cazzo! Quando l'ibrido si mosse strisciando verso di noi, Wanda strillò e io non me la sentii di biasimarla. Invece sollevai la Magnum per mirare alla faccia umana in mezzo a quel groviglio. La detonazione echeggiò come un tuono imprigionato. La faccia esplose in un getto di sangue, carne e ossa. Il fetore divenne ancora più intenso, come pelliccia putrescente in fondo alla mia gola. Le bocche emisero un urlo simile all'ululato di un animale ferito, eppure il mostro continuò ad avanzare. Comunque sembrava piuttosto confuso sul da farsi. Lo avevo forse privato del cervello dominante, ammesso che ne avesse uno? Non c'era modo di accertarlo. Sparai altre tre volte, facendo esplodere altre tre teste e imbrattando tutta la sala di cervella, sangue e materia ancora più schifosa. Il mostro però non si fermò. Quando il cane scattò a vuoto, scagliai la pistola contro il mostro, che la deviò con una mano artigliata. Non mi presi la briga di provare con la pistola di Cicely, perché, se non era riuscita a fermarlo una Magnum, sicuro come l'inferno non poteva riuscirci una 22. Così cominciammo a indietreggiare. Cos'altro avremmo potuto fare? Mentre il mostro ci seguiva, riconobbi lo strofinio che produceva spostandosi. Era lo stesso rumore che aveva inseguito Manny e me sulla scala del sotterraneo di Dominga. Stavo guardando l'orrore che la Señora aveva imprigionato. Non c'erano giunture tra le diverse qualità di pelle, pelliccia e osso. Niente cuciture alla Frankenstein. Sembrava cera fusa. Troppo intenta a sorvegliare il mostro per badare a dove mettevo i piedi, inciampai nel cadavere di Cicely e vi caddi sopra insieme con Wanda, che gridò. Il mostro cercò di afferrarmi per le caviglie con le mani deformi e io scalciai, sforzandomi di scavalcare Cicely. Poi un artiglio mi prese per i
jeans, tirò e allora toccò a me gridare. Quello che un tempo era stato un arto umano, mi afferrò una caviglia. Mi aggrappai al corpo ancora caldo di Cicely e lui ci tirò entrambe senza sforzo. Graffiai il legno liscio del pavimento senza trovare appigli, poi mi girai a guardare le bramose bocche putrescenti, spalancate per azzannarmi coi denti spezzati e lerci. Le lingue sembravano serpenti decomposti. Che schifo! Wanda cercò di tenermi per un braccio, ma non poteva puntellarsi con le gambe e riuscì soltanto a farsi trascinare con me, «Molla!» gridai. «Anita!» strillò lei, seguendo il suggerimento. «No!» urlai a mia volta. «Basta! Fermati!» Misi in quell'urlo tutto ciò che avevo, non nel senso del fiato, bensì nel senso del potere. Dopotutto era soltanto uno zombie, quindi sapevo che avrebbe dovuto ubbidire, sempre che non avesse ricevuto ordini specifici. Era soltanto uno zombie. Dovevo crederlo, o morire. «Smettila subito!» aggiunsi, con voce quasi isterica. Avrei voluto solo mettermi a strillare senza più smettere. Il mostro si fermò prima di azzannarmi il piede e mi fissò in attesa di altri ordini. Deglutii, poi cercai di sembrare calma, pur sapendo che al mostro non importava. «Lasciami.» Ubbidì. Il cuore minacciava di schizzarmi fuori dal petto. Rimasi sdraiata sulla schiena per qualche istante, il tempo sufficiente per imparare di nuovo a respirare; poi alzai la testa e vidi che il mostro se ne stava seduto ad aspettare ordini, da bravo piccolo zombie. Così lo accontentai. «Resta lì e non muoverti», comandai. Gli occhi continuarono a fissarmi con l'ubbidienza che è caratteristica esclusiva dei morti. Sarebbe rimasto là, immobile, fino a quando non gli fosse stato comandato di fare diversamente. Grazie a Dio, uno zombie è uno zombie! «Che sta succedendo?» chiese Wanda, con voce rotta dai singhiozzi. Strisciai fino a lei. «Va tutto bene. Ti spiegherò più tardi. Adesso non possiamo sprecare il poco tempo che ci resta. Dobbiamo andarcene subito.» La presi in braccio, poi tornai zoppicando verso il mostro. Wanda mi si aggrappò al braccio ferito per scostarsi il più possibile dalla cosa. «Va tutto bene. Non ci farà niente, se ci sbrighiamo.» Non avevo idea di dove fosse Dominga e non volevo rischiare che gli impartisse altri ordini
mentre noi eravamo nelle vicinanze. Quando rasentammo il muro e lo superammo, fummo seguite dagli occhi che il mostro aveva dietro, ammesso che avesse un davanti e un dietro. Il puzzo delle ferite era quasi insopportabile. Ma cos'era mai un po' di nausea tra amici? Nel momento in cui Wanda aprì la porta esterna, il caldo vento estivo ci sferzò i capelli sul viso come fili di ragnatela. Fu meraviglioso. Perché Gaynor e gli altri non erano tornati? Sicuramente avevano udito gli spari e le urla. Almeno le pistolettate avrebbero dovuto attirare qualcuno. Scendemmo tre gradini di pietra, fino a un vialetto ghiaiato che girava intorno alla casa. Nell'oscurità si profilavano colline coperte di erba ondeggiante e cosparse di lapidi decrepite. Eravamo a casa del custode del cimitero Burrell. Chissà cosa aveva fatto Gaynor al custode. M'incamminai verso la strada lontana, poi mi fermai, comprendendo finalmente perché non si era visto nessuno. Il cielo era denso e nero, così carico di stelle da far pensare che si potessero pescare gettando una rete. La luna quasi non si vedeva in tutto quello sfolgorio. Attraverso le calde dita del vento che frugava, avvertii il richiamo. Dominga Salvador aveva completato l'incantesimo. Nel fissare le file di lapidi, seppi di dover andare da lei. Proprio come il suo zombie aveva ubbidito a me, io dovevo ubbidire a lei. Non c'era più rimedio, non c'era più salvezza. Ero prigioniera. 39 Mentre restavo del tutto immobile sulla ghiaia, Wanda si girò a guardarmi, il viso incredibilmente pallido alla luce delle stelle. Era pallido anche il mio? Lo shock era forse diffuso sul mio viso come la luce della luna? Cercai di avanzare di un passo per portare in salvo Wanda, ma mi fu impossibile. Pur sforzandomi tanto che i muscoli delle mie gambe cominciarono a tremare, non riuscii a muovermi. «Che succede?» chiese Wanda. «Dobbiamo andarcene prima che torni Gaynor.» «Lo so», risposi. «Allora che stai facendo?» Inghiottii qualcosa di freddo e di duro, mentre il cuore mi martellava il petto. «Non posso andarmene.» «Che vuoi dire?» La voce di Wanda aveva una sfumatura isterica e l'iste-
rismo sembrava perfetto in quella situazione. Promisi a me stessa che, se fossi uscita viva dal cimitero, mi sarei abbandonata a un incondizionato crollo nervoso. Eppure non sembrava possibile uscirne. Lottavo contro qualcosa che non potevo vedere né toccare, però mi tratteneva saldamente. Dovevo rinunciare, se non volevo che le gambe mi cedessero per la spossatezza; avevamo già abbastanza problemi di quel tipo. D'altronde, se non potevo avanzare, forse potevo indietreggiare. Indietreggiai di un passo, poi un altro. Sì, funzionava. «Dove stai andando?» domandò Wanda. «Nel cimitero», risposi. «Perché?» Bella domanda. Purtroppo non ero sicura di poter rispondere in una maniera che le risultasse comprensibile, visto che io stessa non capivo. Non ero in grado di andarmene, ma dovevo per forza portare anche Wanda con me? Oppure l'incantesimo mi avrebbe permesso di lasciarla lì? Decisi di tentare. Deporla sulla ghiaia fu facile, come se avessi ancora qualche possibilità di scelta. «Perché mi lasci qui?» Si aggrappò a me, terrorizzata. Be', lo ero anch'io. «Cerca di arrivare alla strada», suggerii. «Trascinandomi con le mani?» ribatté lei. Ben detto, ma cosa potevo farci? «Sai sparare?» chiesi. «No.» Dovevo lasciare la pistola a lei, oppure portarla con me e cercare di ammazzare Dominga? Ammesso che l'incantesimo funzionasse come nel caso degli zombie, sarei stata libera di spararle se non me lo avesse espressamente proibito; in un certo senso ero ancora dotata di libero arbitrio. Una volta che fossi stata nelle loro mani, però, sarebbero tornati a prendere Wanda, che doveva essere la vittima del sacrificio. Tolsi la sicura e le consegnai la 22. «È carica e pronta a sparare», spiegai. «Dato che non sai usare le armi da fuoco, tienila nascosta finché non ti si avvicina Enzo o Bruno, poi spara a bruciapelo. Da così vicino non si può sbagliare.» «Perché mi abbandoni?» «Credo che sia un incantesimo», risposi. «Che tipo d'incantesimo?» «Permette a loro di ordinarmi di raggiungerli e proibisce a me di scappa-
re.» «Oh, Dio!» commentò. «Già.» Le feci un sorriso rassicurante che era del tutto falso. «Cercherò di tornare a prenderti.» Mi fissò in silenzio, come una bimba abbandonata nell'oscurità pullulante di mostri; poi, con la pistola in pugno, continuò a guardarmi mentre mi allontanavo nella notte. L'erba alta, secca e pallida ondeggiava nel vento, sibilando contro i miei jeans. Le lapidi spuntavano come piccoli muri o come dorsi di mostri marini. I miei piedi sembravano conoscere la strada senza che dovessi badare a dove andavo. Si sentiva così uno zombie che ubbidiva a un ordine? No, la distanza era troppa. Uno zombie doveva essere a portata di voce perché lo si potesse comandare. Dominga Salvador si stagliava sullo sfondo della luna al tramonto, in cima a una collina. Era ancora buio, però la notte era quasi finita e l'alba era vicina. Tutto era immobilità e silenzio, velluto, argento, profonde sacche d'ombra, ma s'intuiva la vaga presenza dell'alba nel vento caldo. Se fossi riuscita a resistere fino all'alba, non avrei più potuto resuscitare lo zombie e allora, forse, anche l'incantesimo si sarebbe dissolto. Con una gallina morta ai suoi piedi, Dominga era all'interno dell'oscuro cerchio di potere che aveva già tracciato. Non dovevo fare altro che entrarci e massacrare un altro essere umano. Be', avrebbero dovuto passare sul mio cadavere, se necessario. Harold Gaynor sedeva sulla sua sedia a rotelle elettrica all'esterno del grande cerchio, al sicuro, con accanto Enzo e Bruno. «Dov'è Wanda?» chiese. Avrei voluto mentire dicendo che era ormai in salvo, però la verità mi sfuggì di bocca. «È sulla ghiaia, giù alla casa.» «Perché non l'hai portata qui?» «Puoi darmi soltanto un ordine alla volta. Mi hai comandato di venire qui, e l'ho fatto.» «Sei ostinata anche adesso. È curioso», commentò. «Enzo, vai a prendere la ragazza. Ci serve.» Mentre Enzo si allontanava senza una parola nell'erba secca e frusciante, mi augurai che Wanda lo ammazzasse, che gli scaricasse addosso la pistola; anzi no, meglio risparmiare qualche pallottola per Bruno. Dominga impugnava con la destra un machete dalla lama nera di sangue.
«Entra nel cerchio, Anita», ordinò. Cercando di oppormi, di non ubbidire, rimasi per un po' al bordo del cerchio, quasi vacillando, poi lo varcai. Non era chiuso, anche se mi diede un formicolio su per la schiena. Non so cosa avesse fatto, ma non era chiuso. Benché sembrasse abbastanza solido, era ancora aperto, in attesa del sacrificio. Alcuni spari echeggiarono nell'oscurità, Dominga trasalì e io sorrisi. «Cos'è stato?» «Credo che la tua guardia del corpo abbia fatto una brutta fine», risposi. «Che cos'hai fatto?» «Ho dato una pistola a Wanda.» Mi schiaffeggiò, facendomi male soltanto perché mi colpì dove mi aveva già calciata Bruno. Era la terza volta che mi picchiavano nello stesso punto. Il livido sarebbe diventato un capolavoro. Dominga guardò qualcosa alle mie spalle e un ghigno le illuminò il viso. Capii di cosa si trattava prima ancora di girarmi a guardare. Enzo stava salendo la collina con Wanda. Maledizione! Avevo sentito diversi colpi, perciò mi chiesi se si fosse lasciata prendere dal panico e avesse fatto fuoco troppo presto, sprecando munizioni. Wanda urlava, tempestando di piccoli pugni la schiena larga di Enzo. Se fossimo sopravvissute, le avrei insegnato qualche tecnica di difesa più efficace. L'invalidità non le impediva di lottare. Enzo entrò nel cerchio; prima che fosse chiuso avrebbe potuto farlo chiunque, senza dissolvere la magia. Poi scaricò Wanda al suolo e la bloccò per i polsi, tenendole le braccia dolorosamente piegate all'indietro. Nonostante ciò, lei non smise di dibattersi e di urlare. Be', non potevo certo biasimarla. «Chiama Bruno perché la tenga ferma», ordinai. «Dev'essere uccisa con un colpo solo.» «Sì, va bene», approvò Dominga. Con un cenno esortò Bruno a entrare nel cerchio. All'esitazione della sua guardia del corpo, Gaynor intervenne: «Fai come dice». Visto che Gaynor era il suo dio denaro, Bruno mise da parte ogni diffidenza e venne ad afferrare per un braccio Wanda. Sebbene priva dell'uso delle gambe e trattenuta dai due uomini per le braccia, lei continuava a divincolarsi con violenza. «Fatela inginocchiare e bloccatele la testa», ordinai.
Quando Enzo le spinse una grossa mano sulla nuca, immobilizzandole la testa, Wanda cominciò a piangere. Intanto Bruno s'inginocchiò a sostenerla con una mano sotto le spalle. Era importante che la morte fosse inflitta con un colpo solo. Tutta sorridente, Dominga mi consegnò un vasetto marrone; conteneva un unguento bianco che emanava un profumo intenso di chiodi di garofano. Io preferisco usare il rosmarino, ma i chiodi di garofano vanno benissimo. «Come fai a sapere di cosa ho bisogno?» «Ho chiesto a Manny, e lui me lo ha detto.» «Non ti ha detto un cazzo!» «Invece sì, perché ho minacciato la sua famiglia.» Dominga rise. «Oh, non fare quella faccia triste, chica, non ti ha tradita. Manuel credeva che fossi soltanto curiosa a proposito dei tuoi poteri. E lo sono davvero, sai?» «Be', tra poco sarai soddisfatta», replicai. Accennò una specie d'inchino con la testa. «Spalmati l'unguento.» Mi applicai sulla faccia e sul cuore, sotto la camicia, l'unguento freddo, che aveva la consistenza della cera e profumava di chiodi di garofano. Poi toccò alla lapide. Non restava altro da fare che compiere il sacrificio. «Non muoverti», ordinò Dominga. Rimasi dove mi trovavo, paralizzata dalla magia. Anche il suo mostro era ancora immobile come me, laggiù nella casa? Dominga posò il machete sull'erba vicino al bordo del cerchio, poi ne uscì. «Resuscita il morto, Anita», ordinò. «Prima fai una domanda a Gaynor, per favore.» Fu doloroso chiederlo per favore, ma funzionò. Mi guardò incuriosita. «Quale domanda?» «Anche questo suo antenato era un sacerdote vudù?» «Che differenza fa?» chiese Gaynor. «Idiota!» Dominga si girò di scatto, chiudendo le mani a pugno. «Ecco cosa è andato storto l'altra volta! E tu mi hai fatto credere che fosse colpa dei miei poteri!» «Che stai blaterando?» ribatté lui. «Quando si resuscita un sacerdote vudù o un risvegliante, può capitare che qualcosa vada storto», spiegai. «Perché?» volle sapere. «La magia del tuo antenato ha interferito con la mia», rispose Dominga. «Sei sicuro che questo tuo antenato non avesse niente a che fare col vu-
dù?» «Non che io sappia», dichiarò. «Sapevi dell'altro?» domandai. «Sì.» «Perché non me l'hai detto?» Il potere avvampò intorno a Dominga, avvolgendola in una nube fosca. Voleva ammazzarlo oppure preferiva i soldi? «Non credevo che fosse importante.» Mi sembrò di sentire Dominga digrignare i denti e non me la sentii di biasimarla, considerato che Gaynor aveva fatto perdere la reputazione a lei e la vita a una dozzina di disgraziati; eppure lui continuava a non vederci niente di sbagliato. Comunque Dominga non l'ammazzò. L'avidità ebbe la meglio. «Datti da fare, adesso», esortò Gaynor. «O non vuoi più il tuo compenso?» «Osi minacciarmi?» s'infuriò Dominga. Fantastico! I cattivi stavano cominciando a litigare tra loro! «Non ti sto minacciando, Señora. Semplicemente non ti pagherò, se non resusciterai lo zombie.» Dominga raddrizzò le spalle e si volse a me. «Ubbidisci all'ordine. Resuscita il morto.» Aprii la bocca per cercare di tirarla in lungo, sapendo che l'alba era ormai vicina. «Basta indugi, Anita! Resuscita subito il morto!» dichiarò in tono di comando. Deglutendo a fatica, mi recai al bordo del cerchio con una gran voglia di fare quello che mi veniva impedito, e cioè andarmene. Mi appoggiai al muro invisibile, intangibile e spinsi finché i tremiti dello sforzo non mi scossero in tutto il corpo. Alla fine emisi un sospiro tremante e raccolsi il machete. «No, Anita! Ti prego!» urlò Wanda. «Non farlo!» Si divincolò, ma era immobilizzata. Ucciderla sarebbe stato più facile che decapitare una gallina con una mano sola, come faccio quasi ogni notte. M'inginocchiai di fronte a Wanda, che nella sua disperazione emetteva gemiti gutturali, immobilizzata dalla mano di Enzo sulla nuca. Signore Iddio, aiutami! «Sollevale la testa», ordinai a Enzo. «Voglio essere sicura di ucciderla.» Lui la prese per i capelli e le tirò dolorosamente indietro la testa. Wanda
aveva gli occhi stralunati e la gola che pulsava visibilmente persino nella luce fioca della luna. Appoggiai il machete al collo, solido e reale contro la lama. Lo sollevai per un attimo, poi colpii con forza la gola di Enzo, facendo sgorgare un getto nero di sangue. Per un attimo rimasero tutti come paralizzati, tranne me. Sfilai il machete dal collo di Enzo e lo conficcai nello stomaco di Bruno, che aveva già parzialmente sfoderato la pistola; spingendo con tutto il peso del corpo, feci ruotare la lama, sventrandolo. Le interiora si riversarono sul prato, calde e fumanti. L'odore della morte riempì il cerchio mentre il sangue mi schizzava sul viso, sul petto, sulle mani, imbrattandomi completamente, e il cerchio si chiudeva. Avevo sentito chiudersi centinaia di cerchi, ma non era mai stato così. Lo shock mi lasciò ansimante, incapace di respirare nella marea del potere. Era come se una corrente elettrica mi attraversasse il corpo, facendo prudere dolorosamente la pelle. Sdraiata sull'erba, inondata di sangue altrui, Wanda era in preda a una crisi isterica. «Ti prego, non ammazzarmi! Ti prego! Non ammazzarmi! Ti prego!» Non ero stata costretta a uccidere Wanda perché Dominga mi aveva ordinato soltanto di resuscitare il morto. Ebbene, era proprio quello che avevo intenzione di fare. Sacrificare animali non aveva mai destato un potere come quello. Mi sembrava che la pelle mi si staccasse. Comunque, convogliai nel suolo il potere che fluiva attraverso di me, anche se non soltanto nella tomba dell'antenato di Gaynor. Avevo troppo potere. Si diffondeva da me come le increspature sull'acqua, riversandosi denso e limpido sul suolo, permeando tutte le tombe che avevo esaminato per Dolph. Tutte tranne quelle con gli spettri, perché quella era una specie di magia dell'anima e la negromanzia non funziona con le anime. Toccai ogni tomba e ogni corpo, sentii che la polvere, i resti e le ossa spezzate si ricomponevano a formare cose che non erano del tutto morte. «Sorgete dalle vostre tombe, voi tutti, defunti, al suono della mia voce! Sorgete e servitemi!» Normalmente non avrei potuto resuscitarne neanche uno senza chiamarlo per nome, ma il potere di due sacrifici umani era troppo perché i morti potessero resistere. La terra s'increspò e i defunti ne uscirono come nuotatori dall'acqua.
«Che stai facendo?» chiese Dominga. «Resuscito il morto», risposi. Forse la voce mi tradì, o forse lei lo sentì. Comunque cominciò a correre verso i margini del cerchio. Però era troppo tardi. Le mani dei morti lacerarono la terra ai piedi di Dominga, l'afferrarono per le caviglie, la stesero tra l'erba alta. Persi di vista lei, ma non persi il controllo degli zombie. «Uccidetela», ordinai. «Uccidetela!» L'erba tremò e si gonfiò come i flutti del mare. Gli schiocchi densi e umidi dei muscoli strappati dalle ossa, i rumori delle carni lacerate e gli schianti delle ossa spezzate riempirono la notte, ma furono sovrastati dalle urla di Dominga. Con un ultimo rumore fradicio e denso, le urla di Dominga cessarono all'improvviso. Sentii le mani squarciarle la gola, e la fontana nera del sangue che spruzzava l'erba. L'incantesimo di Dominga si stracciò nel vento. Il potere mi possedeva e io lo cavalcavo come un rapace sulle correnti del vento. Mi sosteneva e mi trasportava, solido e quasi intangibile come l'aria. La terra arida della tomba dell'antenato di Gaynor si spaccò, una mano pallida schizzò verso il cielo, l'altra la seguì, lo zombie continuò a straziare il suolo, mentre altre tombe si rompevano nella silenziosa notte estiva. Lo zombie uscì dalla fossa, proprio come Gaynor aveva voluto. Sul crinale della collina, seduto sulla sedia a rotelle, Gaynor era circondato da decine di zombie in varie fasi di decomposizione, che gli si avvicinavano a passi strascicati. Tuttavia non avevo ancora dato l'ordine e, senza di quello, non gli avrebbero torto neanche un capello. «Chiedigli dov'è il tesoro!» gridò Gaynor. Mi girai a guardarlo e tutti gli zombie fecero lo stesso, ma Gaynor non capì. Come molta gente, scambiava il denaro per il potere. Be', non è affatto la stessa cosa. «Uccidete Harold Gaynor!» ordinai, a voce abbastanza alta per essere udita nell'aria immota. «Ti darò il milione di dollari per averlo resuscitato, anche se non troverò il tesoro», dichiarò Gaynor. «Non voglio i tuoi soldi, Gaynor», ribattei. Gli zombie gli si avvicinavano da ogni parte, lentamente, con le mani protese, proprio come in tutti i film horror che vi è mai capitato di vedere. Qualche volta Hollywood è precisa nella descrizione, sapete? «Due milioni!» offrì, con voce rotta di paura. «Tre milioni!» Aveva po-
tuto assistere alla morte di Dominga da una posizione migliore della mia, quindi sapeva esattamente cosa stava per succedergli. «Quattro milioni!» «Non bastano.» «Quanto?» gridò. «Dimmi quanto vuoi!» Non lo vedevo più, perché gli zombie me lo nascondevano completamente alla vista. «Non voglio soldi, Gaynor. Mi basta la tua morte.» Cominciò a lanciare grida inarticolate mentre sentivo le mani e i denti che cominciavano a farlo a pezzi. Wanda mi afferrò per le gambe. «No! Non fargli male! Ti prego!» Mi limitai a fissarla, ricordando l'orsacchiotto insanguinato di Benjamin Reynolds, la manina con lo stupido anello di plastica, la camera da letto tutta fradicia di sangue, la copertina del bambino. «Merita di morire», dichiarai, con una voce che sembrava indipendente da me, lontana, echeggiante. Non sembrava affatto che mi appartenesse. «Non puoi assassinarlo così!» protestò Wanda. «Sta' a guardare.» Cercò di arrampicarmisi addosso, però fu tradita dalle gambe inerti e ricadde ai miei piedi, singhiozzando. Non capivo come potesse implorare per la vita di Gaynor dopo quello che lui le aveva fatto. Amore, suppongo. Alla fin fine lo amava davvero e quella, forse, era la cosa più triste. Quando Gaynor morì, lo seppi. Quando i pezzi del suo corpo ebbero sporcato quasi tutte le loro mani e le loro bocche, i morti si fermarono e si volsero a me, in attesa di nuovi ordini. Il potere ribolliva ancora dentro di me, non ero stanca. Ne avevo ancora abbastanza per riportarli al loro sonno? Speravo proprio di sì. «Ritornate alle vostre tombe! Riposate nella quiete della terra! Ritornate, ritornate!» Si mossero come soffiati dal vento e rientrarono a uno a uno nelle loro tombe; si sdraiarono e furono inghiottiti di nuovo dalla terra arida, tutti insieme, come da magiche sabbie mobili. Il suolo tremò come un dormiente che si spostasse per assumere una posizione più confortevole. Alcuni cadaveri erano antichi quanto l'antenato di Gaynor e ciò significava che non avevo bisogno di sacrifici umani per resuscitare morti di trecento anni. Bert sarebbe stato contento. A quanto pareva le morti umane erano cumulative; ne erano bastate due per svuotare tutto un cimitero. Non era possibile, ma lo avevo fatto. Le prime luci dell'alba tinsero come latte il cielo a oriente, e il vento mo-
rì. M'inginocchiai accanto a Wanda, che piangeva nell'erba insanguinata. Si ritrasse di scatto quando la toccai. Era comprensibile, forse, ma quel comportamento mi diede un po' fastidio. «Dobbiamo andarcene», dichiarai. «Ti serve un dottore.» Mi fissò. «Che cosa sei?» Quel giorno, per la prima volta, non seppi come rispondere a quella domanda, perché la categoria dell'umano non sembrava sufficiente. «Sono una risvegliante», dichiarai finalmente. Continuò a fissarmi in silenzio. Anch'io sarei stata incredula e spaventata, se fossi stata al suo posto, ma si lasciò prendere in braccio. In ogni modo continuò a guardarmi di traverso. Evidentemente mi considerava un mostro come gli altri e forse aveva ragione. D'un tratto la sentii ansimare e la vidi spalancare gli occhi. Mi girai troppo lentamente, chiedendomi se fosse arrivato il mostro di Dominga. Jean-Claude sbucò dall'ombra. La sua comparsa fu così inaspettata che per un attimo rimasi senza fiato. «Che ci fai qui?» domandai. «Il tuo potere mi ha chiamato, ma petite. Stanotte non c'è morto in città che non abbia percepito il tuo potere. E io sono la città, quindi sono venuto a indagare.» «Da quanto sei qui?» «Ti ho vista uccidere quegli uomini e resuscitare il cimitero.» «Non ti è mai venuto in mente di darmi una mano?» «Non ne avevi bisogno.» Il suo sorriso si vide a stento nella luce della luna. «E, poi, non saresti stata tentata di fare a pezzi anche me?» «Non è possibile che tu abbia paura di me», ribattei. Allargò le mani. «Hai paura della tua piccola, umile serva umana? Moi?» «Non è paura, ma petite, soltanto prudenza.» Sì, aveva paura di me, e per quello mi sembrò quasi che fosse valsa la pena dover sopportare tutta quella merda. Fui io a portare Wanda giù per la collina, perché lei non volle neanche essere toccata da Jean-Claude. Una scelta fra mostri. 40 Dominga Salvador non si presentò in tribunale per l'udienza. Chissà perché! Non appena saputo che Dominga era stata liberata su cauzione, Dolph
mi aveva cercata, trovando però il mio appartamento deserto. La spiegazione che gli fornii su quello che avevo fatto durante la notte non lo soddisfece, tuttavia lasciò correre. Che altro avrebbe potuto fare? Fu ritrovata la sedia a rotelle, ma nessuna traccia di Gaynor. È rimasto uno di quei misteri di cui si racconta intorno al fuoco del campeggio. Una sedia a rotelle vuota e imbrattata di sangue in mezzo a un cimitero, resti di animali e di uomini nella casa del custode. Animato soltanto dal potere di Dominga, il mostro era morto, disgregandosi, quand'era morta lei. L'ipotesi fu che il mostro avesse ucciso Gaynor, ma nessuno sembrò capire da dove fosse venuto quell'essere. La polizia seppe che i resti erano stati uniti a comporlo soltanto perché fui convocata sulla scena del crimine a esaminarli. Quando Irving mi chiese cosa sapessi realmente della scomparsa di Gaynor, mi limitai a fare una faccia imperscrutabile. Non mi credette, ma non aveva altro che sospetti, e coi sospetti non si scrivono articoli sensazionali. Wanda rifiutò senza nessuna cortesia il lavoro che Jean-Claude le offrì al Laughing Corpse e ora fa la cameriera. Il «lavoro» precedente le aveva permesso di mettere da parte un po' di soldi. Non so se ce la farà o no, ma è libera di tentare, visto che Gaynor è scomparso. Era una drogata, ma la droga che si era scelta non c'è più, quindi è sempre meglio che seguire un programma di disintossicazione. Andai al matrimonio di Catherine con una benda al braccio ferito. I lividi al viso e al collo avevano assunto una disgustosa sfumatura gialloverdastra che faceva a pugni col vestito rosa, perciò avevo detto che mi sarei presentata così o non avrei presenziato affatto alla cerimonia. L'organizzatrice si era dichiarata più che favorevole alla seconda ipotesi, ma Catherine non aveva voluto saperne. Così mi avevano coperto i lividi col trucco, salvando capra e cavoli. Ho una fotografia che mi ritrae a braccetto di Catherine con quel vestito tremendo. Sorridiamo tutt'e due. Certo che l'amicizia è una cosa strana. Jean-Claude mi mandò in ospedale una dozzina di rose bianche con un biglietto: «Vieni al ballo con me, non come mia serva, ma come mia ospite». Non ci andai. Avevo già abbastanza problemi senza cominciare a uscire col Master della Città. Compiere un doppio sacrificio umano mi aveva procurato una bella sensazione. Il ricordo dell'onda di potere era come quello di un rapporto sessuale doloroso, quando tutto sommato si ha una certa voglia di rifarlo. For-
se Dominga Salvador aveva ragione. Forse il potere parla a tutti, persino a me. Sono una risvegliante e sono la Sterminatrice, ma adesso so di essere anche qualcos'altro, e cioè la cosa che nonna Flores temeva di più. Sono una negromante. I morti sono la mia specialità. RINGRAZIAMENTI Come sempre, a mio marito, Gary, che dopo quasi nove anni è ancora il mio innamorato. Ginjer Buchanan, il nostro editor, che fin dall'inizio ha creduto in Anita e in me. Carolyn Caughey, il nostro editor nel Regno Unito, che sta portando oltreoceano Anita e me. Marcia Woolsey, che dopo aver letto il primo racconto di Anita lo giudicò buono. (Per favore, Marcia, contatta il mio editore: mi piacerebbe molto parlare di nuovo con te.) Richard A. Knaak, buon amico e alternate historian onorario, che finalmente potrà leggere il resto del libro. Janni Lee Simner, Marella Sands e Robert K. Sheaf, che hanno garantito l'autonomia di questo romanzo. Buona fortuna in Arizona, Janni: ci mancherai. Deborah Militello, per avermi rassicurata quando ne avevo bisogno. M.C. Sumner, vicino e amico. Alternate historians per sempre. Grazie a tutti coloro che hanno assistito alle mie letture a Windycon e Capricon. FINE