STEPHEN LEATHER MACABRI RESTI (The Eyewitness, 2003) Per Ildiko Sicuramente dovevano esserci dei fantasmi tra quei quattromilacinquecento sacchi di plastica che contenevano i resti di esseri umani deceduti per morte violenta. Eppure, mentre Jack Solomon percorreva il corridoio del magazzino, non udì sussurri di vendetta, non vide movimenti nell'ombra, e non ebbe la sensazione che gli si rizzassero i peli sul collo. Non c'era nulla, soltanto il ronzio del condizionatore che manteneva la temperatura tra i due e gli otto gradi centigradi. Questo significava che quattromilacinquecento anime erano già trapassate nell'aldilà? Solomon ne dubitava. Non credeva nell'aldilà e aveva visto troppe atrocità commesse in nome della religione per credere in Dio. In qualunque dio. Un tecnico stava sezionando con una sega elettrica un femore imprigionato in una morsa da falegname. Indossava un camice bianco, guanti di lattice e una mascherina di garza. Quando Solomon gli passò accanto, lo salutò con un cenno del capo. Un altro tecnico, in grembiule blu e mascherina, puliva il pavimento con un aspirapolvere industriale. I sacchi bianchi dei cadaveri erano sistemati su scaffalature di metallo, e ciascuno recava un numero di identificazione. Sopra ogni sacco c'era una borsa di carta con lo stesso numero. I numeri erano progressivi, perché i corpi erano stati estratti dalla stessa fossa comune. I sacchi con i numeri corrispondenti a quelli sul foglio che Solomon aveva in mano erano uno accanto all'altro. Uno di essi conteneva soltanto un torso e una gamba. La testa non era stata trovata. Si trattava del maggiore di due fratelli. Lo scheletro del minore invece era praticamente intatto. Solomon aveva letto entrambi i certificati post mortem, scritti in un inglese perfetto dal dottore tedesco che aveva effettuato l'autopsia, in un box prefabbricato accanto alla fossa comune dove erano stati rinvenuti i cadaveri. Entrambi gli uomini erano stati uccisi da almeno dodici colpi d'arma da fuoco alla schiena, sparati a distanza ravvicinata. Poi qualcuno aveva tagliato loro le gambe a colpi d'accetta. Solomon tirò giù una scala di metallo e salì fino al livello delle due borse di carta marrone che erano sopra i sacchi. Le prese e attraversando un lungo corridoio bianco le portò alla sala di identificazione, dove due donne
musulmane, madre e figlia, attendevano in compagnia di un interprete. In quei frangenti, la cosa più penosa da dover affrontare erano le madri e Solomon era grato per la presenza dell'interprete, che fungeva da filtro tra lui e le cattive notizie. L'interprete era un ex soldato sulla quarantina, addestrato a gestire i contatti con le famiglie dei dispersi. La stanza era stata resa il più confortevole possibile, con due divanetti e poster di scene campestri appesi alle pareti. Su un tavolino c'era un vaso di fiori bianchi e due grossi volumi. Uno conteneva fotografie dei vestiti e degli effetti personali presi dai cadaveri che erano stati seppelliti, l'altro le foto dei corpi che erano stati lasciati sul terreno. Solomon non aveva mai scoperto il motivo di quella distinzione. C'erano tanti altri modi per classificare i morti: sesso, età, cause del decesso. Prima dell'avvento del test del DNA, le foto erano la chiave principale per identificare le vittime. La madre e la figlia avevano già sfogliato i libri, riconoscendo i vestiti che appartenevano ai due cadaveri nel magazzino. Era stato loro prelevato un campione di sangue, e il loro DNA corrispondeva perfettamente. Il fatto che le due donne fossero state richiamate, significava già di per sé che dovevano aspettarsi il peggio. Ma Solomon sapeva, per esperienza personale, che non avrebbero creduto alla realtà finché non l'avessero udita e non avessero esaminato gli oggetti rinvenuti insieme ai resti. Madre e figlia avevano la testa coperta da veli gialli e blu, indossavano gilè imbottiti e gonne di cotone. Gli stivaletti della figlia erano senza lacci e nessuna delle due portava gioielli. Solomon appoggiò sul tavolo le borse di carta, con un sorriso forzato. Le due donne lo ringraziarono: «Hvala lijepo. Hvala za sve». Grazie, grazie di tutto. Le persone in quella sala lo ringraziavano sempre, anche se non faceva che recare cattive notizie. Solomon spinse una delle borse verso la figlia, ma fu la madre a prenderla. Se ci fossero stati dubbi sull'identificazione, Solomon avrebbe fatto indossare alle donne dei guanti di lattice, per evitare contaminazioni. Ma in quel caso non c'era alcun dubbio. La madre tirò fuori dalla borsa un giubbotto nero dai bordi dorati, con un ritratto di Elvis Presley sulla schiena, e si portò una mano alla bocca, trattenendo un singhiozzo. Il giubbotto era la prima cosa che avevano riconosciuto nel libro. Solomon dubitava che ce ne fosse un altro uguale in tutti i Balcani. Era stato lavato e stirato nella lavanderia accanto al magazzino. Per i parenti era già abbastanza intollerabile dover guardare i vestiti presi dai cadaveri; non c'era bisogno di consegnarli nello stato in cui erano stati trovati.
La vecchia posò il giubbotto sul tavolo. Nella schiena c'erano cinque buchi, e lei ci infilò dentro un dito, aggrottando la fronte. La figlia le sussurrò: «Metaci», proiettili. La donna lasciò andare un lamento, e si nascose la testa tra le mani. La figlia estrasse dalla borsa un paio di calzini, stirati e piegati. Ne aprì uno, esaminandone il tallone, e negli occhi le brillò una lacrima. Parlò all'interprete in tono concitato, poi restò in silenzio, ansimando. «Ha rammendato il calzino del fratello il giorno prima che i serbi venissero a portare via gli uomini» tradusse l'interprete. «Dice che la moglie del fratello non sapeva cucire, si pungeva sempre, perciò ci ha pensato lei.» Solomon annuì e sorrise. Non c'era nulla da dire. Si chiese dove fosse la moglie dell'uomo, ma il fatto che non si trovasse in quella stanza probabilmente significava che era morta. La seconda borsa conteneva soltanto una scarpa rotta e una camicia a quadri crivellata dai proiettili. La figlia sembrava sorpresa. Sicuramente si stava chiedendo dove fosse il resto degli oggetti appartenenti al fratello. Ma Solomon preferiva non spiegare loro che i cadaveri erano stati spostati più volte dai serbi, nel tentativo di nascondere le prove dei delitti, che durante gli spostamenti molti corpi erano andati in pezzi e i resti erano stati mescolati tra loro. Parlò in inglese, lentamente, per lasciare all'interprete il tempo di tradurre: «Vorrei spiegare l'accaduto, per evitare confusioni» disse. «Il vostro DNA corrisponde perfettamente a quello di due cadaveri che abbiamo qui. Gli oggetti che avete visto sono stati trovati sui corpi, ma è il DNA la prova conclusiva.» Parlava rivolto alla figlia. Era sempre più facile avere a che fare con i fratelli che con le madri. «Non c'è dubbio che si tratta dei suoi fratelli. Vi restituiremo le spoglie, così potrete seppellirli come previsto dalla vostra religione.» «Non abbiamo soldi per il funerale» disse la figlia. Solomon attese la traduzione, poi disse: «Ci sono opere di carità che possono aiutarvi. Vi diremo a chi rivolgervi». La madre iniziò a parlare a raffica, agitando le mani nell'aria. L'interprete disse che la donna era sicura che doveva trattarsi di un errore, che i suoi figli non erano morti, ma prigionieri in qualche campo di concentramento in Serbia. Solomon ripeté che il test del DNA escludeva la possibilità di un errore, e che ormai era giunto il momento di accettare la realtà. La vecchia lo fissò con occhi pieni di lacrime, e annuì lentamente. Solomon si alzò in piedi, ma prima che potesse allontanarsi la figlia lo
afferrò per il bordo della giacca e gli parlò in serbo-croato. L'interprete tradusse: «Vuole vedere i corpi». Solomon ripeté la risposta di sempre: «Non è possibile». Naturalmente invece era possibile. Avrebbe potuto condurre le due donne nel magazzino, fino ai due sacchi bianchi. Ma poi loro gli avrebbero chiesto di aprire i sacchi, e Solomon sapeva che la vista di ciò che contenevano sarebbe rimasta con loro per sempre. Era meglio che ricordassero i loro cari come li avevano conosciuti. Si strinse nelle spalle, e ripeté che non era possibile. Uscì dalla stanza e ripercorse il corridoio, passando davanti al laboratorio fotografico, dove un tecnico stava posizionando la macchina per fotografare un paio di pantaloni stesi sul pavimento. C'erano altri libri da riempire di foto e da mandare in giro per il mondo, ai parenti lontani, nella speranza che potessero identificare qualche oggetto appartenuto ai dispersi. Quei libri turbavano Solomon più delle migliaia di morti contenuti nel magazzino. I sacchi di plastica erano freddi e impersonali, mentre le foto erano un catalogo di orrori. Aprì la serratura per uscire all'aperto, e richiuse la porta a chiave dietro di sé. Era la procedura standard, per evitare che qualcuno potesse entrare per errore. Solomon salì sulla sua Nissan Patrol bianca con la targa diplomatica, e accese il motore. Era sempre contento di lasciare Tuzla, non solo perché quel magazzino di cadaveri era un posto deprimente, ma anche perché l'aria era talmente inquinata che ogni volta si ritrovava con la gola irritata. La macchina procedeva sobbalzando lungo le strade sconnesse che portavano fuori città. Tuzla sorgeva sopra un enorme lago salato sotterraneo, che era stato sfruttato per centinaia di anni, finché la città aveva cominciato ad affondare lentamente, a causa del crollo delle miniere. Così qualche brillante ingegnere comunista aveva deciso di pompare acqua nel bacino sotterraneo, ma l'acqua aveva sciolto il sale, accelerando il degrado del suolo. Dopo la guerra non c'erano stati soldi per riparare le strade, e ormai era meglio andare in giro soltanto con auto fuoristrada, se non si voleva rischiare una marmitta rotta, o danni alla carrozzeria. Solomon superò l'enorme centrale elettrica a carbone appena fuori città, un imponente resto del sistema comunista. Le torri di raffreddamento ruttavano nell'aria nuvole di vapore, ma la cosa peggiore erano la fornace a carbone, da cui un fumo lacrimogeno si riversava sopra la città senza interruzione, e le fabbriche chimiche che circondavano la centrale elettrica.
La strada a corsia unica per Sarajevo si snodava tra gole e montagne, attraverso villaggi dove non restava in piedi una sola casa, e campi con cartelli rossi che denunciavano la presenza di mine. Alcune zone erano state isolate con un nastro giallo, in attesa delle squadre di sminamento. Sarajevo distava soltanto centotrenta chilometri, ma Solomon non ci aveva mai messo meno di due ore e mezzo per arrivarci. Bisognava attraversare due catene montuose, e ogni incontro con un trattore, un autobus o un veicolo militare significava un ulteriore rallentamento. Mentre Solomon stava affrontando un tornante in seconda, dietro un camion che trasportava carta igienica, a circa un'ora da Sarajevo, il suo cellulare si mise a squillare. Solomon lo incastrò tra la spalla e l'orecchio, in modo da poter tenere entrambe le mani sul volante. Era il suo capo, Chuck Miller, un americano che aveva lavorato per una quantità di organizzazioni non governative in tutto il mondo, e ora aveva aggiunto al suo curriculum anche la collaborazione con la Commissione Internazionale per i Morti in Guerra. Era un manager, un amministratore che sapeva come raccogliere fondi. Da quando era entrato nella commissione, quattro anni prima, il budget a loro disposizione era raddoppiato. «Dove sei, Jack?» chiese. «Sto per entrare in una gola» rispose Solomon, trattenendo con forza il volante e pigiando sul freno. «Guida con prudenza» disse Miller. «Un buon coordinatore non è facile da sostituire. Puoi parlare?» «Sì, dimmi pure. Tanto la strada non migliorerà per i prossimi dieci chilometri.» «Ricordi quel caso di cui ti sei occupato tre anni fa, fuori da Pristina?» «Certo.» Era stato uno dei primi casi che gli avevano affidato, appena arrivato nei Balcani. Un'intera famiglia era scomparsa da una fattoria alla periferia di Pristina, la capitale del vicino Kosovo. Al mattino un contadino aveva visto due donne intente a dissodare i campi, e nel pomeriggio una pattuglia dell'esercito kosovaro aveva notato due uomini che riparavano un trattore. Il giorno dopo, un negoziante che andava regolarmente a comprare uova alla fattoria, non aveva trovato nessuno in casa. L'intera famiglia era scomparsa. Un bollitore sulla stufa, da cui era evaporata l'acqua, sei vacche in attesa di essere munte, un piatto rotto in cucina e una macchia di sangue secco sulla soglia di pietra erano gli unici segni del fatto che gli abitanti non se ne erano andati per scelta. La Commissione era stata informata, ma Solomon aveva potuto fare ben
poco, oltre a schedare le informazioni. Nessuno sapeva per certo quante fossero le persone scomparse, ma dopo aver parlato con i vicini Solomon aveva raccolto ventuno nomi: uomini, donne e bambini, vecchi e giovani, tutti parenti, tutti kosovari albanesi musulmani in una zona popolata da serbi. Nessuno aveva visto o udito nulla, ma anche se avessero visto qualcosa, Solomon sapeva che non avrebbero parlato. Nella ex Iugoslavia molti civili innocenti erano stati assassinati o portati via, le loro case saccheggiate e incendiate, ma nessuno aveva mai visto niente. Coloro che non avevano subito danni, perché erano della razza o della religione giusta, non avevano fatto altro che lavarsene le mani. «Sono ricomparsi, vicino al confine con la Serbia» disse Miller. «Vivi?» chiese Solomon, prima di rendersi conto dell'insensatezza della domanda. «Riprenditi, Jack» disse Miller. «Se fossero vivi, perché ti avrei chiamato? La Kfor ha trovato un camion in un lago, a cinquanta chilometri da Pristina, vicino al confine serbo.» Kfor stava per Kosovo Force, la forza internazionale di pace che si trovava nel paese per garantire che le varie fazioni vivessero in relativa armonia. Un gruppo simile, la Stabilisation Force, o Sfor, era di stanza in Bosnia. «Vuoi che vada a vedere?» «Sì. Tim ha troppo da fare a Belgrado. Stanno aprendo due fosse comuni in questi giorni, e lui deve essere presente per coordinare le operazioni. Puoi andarci subito? Prendi con te Kimete.» Kimete era una interprete della Commissione. «Certo. Appena arrivo passo in ufficio a prendere il dossier.» Solomon inchiodò di colpo, riuscendo a fermarsi a soli pochi centimetri dal camion che lo precedeva. Imprecò, poi si scusò con Miller e chiuse la comunicazione. A Sarajevo restò intrappolato nel traffico dell'ora di punta, e quando parcheggiò davanti al condominio in cui abitava erano quasi le sei. L'edificio, che si trovava su Alipasina Street, era stato uno dei primi a essere ristrutturato dopo la fine dell'assedio, durato quattro anni. L'appartamento di Solomon era appartenuto a un uomo d'affari serbo, che possedeva una catena di garage. Il proprietario era partito la settimana prima che iniziasse l'assedio, avvertito da alcuni parenti che militavano nell'esercito serbo, e non era mai più tornato. Dopo l'assedio aveva venduto l'appartamento a un musulmano, che lo affittava ai membri delle forze internazionali di pace. Solomon salì le scale fino al terzo piano ed entrò. Prese dal frigo una lat-
tina di Heineken e uscì sul balcone. Si accese una Marlboro, guardando l'enorme cimitero cattolico che si stendeva dall'altra parte della strada. Il sole stava tramontando, e un vento fresco gli scompigliava i capelli. In Bosnia c'erano soltanto due stagioni: estate e inverno. I momenti di passaggio dall'una all'altra erano brevissimi, al punto che solo tre giorni prima sarebbe stato impossibile starsene sul balcone senza guanti e cappotto, e ora i tavolini all'aperto dei caffè pullulavano di studenti in abiti leggeri e occhiali da sole. Con la fine dell'inverno era iniziata l'epoca delle esumazioni. Le tombe erano già state identificate, ma gli scavi potevano cominciare solo con lo sciogliersi della neve. Entro pochi giorni molti altri sacchi di plastica sarebbero stati riempiti di cadaveri e i fotografi avrebbero dovuto fare gli straordinari per catalogare vestiti ed effetti personali. Kimete era nell'ufficio di Solomon. Lo aspettava bevendo un caffè. Gli chiese se ne voleva, ma Solomon rifiutò. Kimete era una donna minuta, che a stento superava il metro e cinquanta, e che per apparire più alta indossava sempre stivali con i tacchi e suole spesse. Aveva all'incirca trent'anni, ma dimostrava quasi dieci anni di meno, con i suoi capelli neri ricci e la figura androgina. Parlava un buon inglese, oltre al serbo-croato, all'albanese, al russo e all'italiano. Prima della guerra era insegnante, ma quando i soldi per pagare gli stipendi erano finiti era diventata traduttrice per la polizia e poi per la Commissione. Solomon le spiegò di cosa si trattava, mentre prendeva dallo schedario il dossier sul caso di Pristina. Quindi partirono in macchina in direzione della Serbia. Kimete accese due Marlboro e una la passò a Solomon. In Bosnia quasi tutti fumavano: le sigarette costavano poco, e durante i quattro anni di bombardamenti da parte dei serbi erano state uno dei pochi piaceri di cui potesse godere la popolazione. «Quindi sono restati in acqua per tre anni?» chiese Kimete, con una smorfia. «È quello che dice Chuck.» Sei elicotteri neri della Sfor passarono sopra di loro, diretti verso la Serbia. Kimete li indicò con lo sguardo. «Quello è il modo di spostarsi» disse. «Non lamentarti» rise Solomon. «Non devi neppure guidare.» Ci vollero più di quattro ore per raggiungere il lago, che si trovava lontano dalle strade principali. Non c'erano cartelli stradali, e dovettero affidarsi a una mappa su cui Kimete leggeva le indicazioni.
Sulla strada incrociarono due veicoli blindati Humvee e un gruppo di soldati americani con armi automatiche. Solomon mostrò a uno di loro le sue credenziali, e spiegò che erano venuti per vedere i resti trovati nel lago. Il soldato si allontanò, parlò brevemente alla radio del mezzo blindato, poi tornò da Solomon e gli diede le indicazioni per raggiungere una vicina fattoria. La fattoria si trovava alla fine di una strada sterrata, ai piedi di una collina coperta da fitti boschi. Nel cortile pavimentato in pietra erano allineati tre Humvee dell'esercito americano, diversi furgoni blu della polizia e due Jeep dipinte a colori mimetici. In giro c'erano alcuni soldati, che gettarono un'occhiata distratta alla Nissan con la targa diplomatica e poi continuarono la loro conversazione. A destra della costruzione principale c'era un granaio con il tetto di lamiera, davanti al quale stazionavano due piantoni. Solomon e Kimete si avvicinarono, mostrando i loro documenti. Un attimo dopo dal granaio uscì un tenente in giubbotto antiproiettile blu, che strinse loro la mano salutandoli con un accento strascicato del sud. Notando le dita macchiate di nicotina, Solomon gli offrì una Marlboro, quindi passò il pacchetto a Kimete. Entrarono tutti e tre nel granaio e accesero le sigarette. Dentro c'era un grosso camion frigorifero, coperto da una spessa melma marrone. «Come è stato scoperto?» chiese Solomon. «L'ha visto il pilota di un elicottero che sorvolava il lago a bassa quota, la settimana scorsa» spiegò il tenente. «Ma siamo riusciti a recuperarlo soltanto ieri. C'è voluto un argano e un sacco di fatica.» Solomon indicò le porte posteriori, socchiuse. «Le avete aperte voi?» Il tenente annuì. «Abbiamo tagliato il lucchetto, e quando abbiamo visto ciò che c'era dentro, lo abbiamo portato qui.» «E l'autista?» «La cabina di guida era vuota.» «Avete dei sacchi per cadaveri?» «Arriveranno da Belgrado questo pomeriggio.» «Quanti sono i cadaveri?» «Ne ho contati ventisei. Alcuni sono neonati.» Kimete fece un passo verso il camion, e il tenente la trattenne per un braccio. «Lasci stare, signorina. Non è una bella vista.» Kimete gli rivolse un sorriso tirato. «Ero a Sarajevo, durante l'assedio, tenente. Ho seppellito mio fratello e due cugini, e ho visto centinaia di resti umani dopo la fine della guerra.»
Il tenente annuì. «Okay. Ma questi non sono resti. Sono cadaveri.» Solomon aggrottò la fronte. «Se si tratta della famiglia che penso, sono rimasti in acqua per tre anni.» «Esatto, ma il compartimento frigorifero era a chiusura ermetica e il lago era freddo. Sono intatti, come se fossero morti ieri.» «Li ha esaminati?» Il tenente scosse la testa. «No, non è di mia competenza. Abbiamo avvisato la polizia e li abbiamo portati qui.» «Mi è stato detto che si tratta di una famiglia di Pristina.» «È ciò che pensa la polizia. Hanno esaminato alcuni dei loro effetti personali.» Il tenente notò il fastidio di Solomon. «Sono stati nel camion non più di dieci minuti» aggiunse. «Dopo di loro non è più entrato nessuno.» Si udì una voce gutturale, e dal fondo del granaio emerse un capitano di polizia del Kosovo con una pancia da birra stretta da una cintura di pelle, da cui pendeva una fondina contenente una grossa pistola automatica. Kimete gli spiegò in bosniaco chi erano e perché si trovavano lì e il poliziotto chiese di vedere i loro documenti. «Non capisco cosa c'entri la Commissione in questa faccenda» disse poi, grattandosi un orecchio. Solomon attese la traduzione di Kimete, quindi rispose: «Sembra che si tratti delle vittime di una pulizia etnica. Perciò noi dobbiamo essere presenti all'esumazione, e se troviamo prove di un crimine di guerra, lo notifichiamo al Tribunale per i Crimini di Guerra. È nostro compito esaminare per primi il ritrovamento, e fino a quel momento il luogo deve essere sorvegliato dalla Kfor». Il capitano non attese la traduzione di Kimete. «Questa è la scena di un delitto, perciò è di competenza della polizia.» «Se si tratta della famiglia che pensiamo» ribatté Solomon, «sono musulmani kosovari albanesi, sequestrati nelle vicinanze di Pristina.» Il poliziotto scosse la testa, con le labbra strette. «Può anche darsi che sia stato un incidente. Finché non avremo esaminato il veicolo, non possiamo esserne sicuri.» «È stato difficile trattare con loro» intervenne il tenente. «I miei uomini hanno dovuto tirare fuori le armi, per convincerli a scendere dal camion. Temevo che saccheggiassero i cadaveri.» «Ha fatto la cosa giusta» disse Solomon. Poi chiese a Kimete di spiegare al capitano di polizia che la faccenda era di competenza della Kfor e che il tenente aveva fatto bene a escludere la polizia dalle indagini preliminari. Il
capitano ascoltò con occhi duri e quando aprì la bocca per parlare Solomon lo fermò con un gesto. «Digli che apprezziamo la rapidità con la quale hanno identificato la famiglia» disse a Kimete. «E chiedigli se vuole accompagnarmi dentro il camion.» Kimete tradusse e il poliziotto annuì, sempre a labbra strette. Il tenente americano gettò il mozzicone sul pavimento, lo spense con il tacco della scarpa e chiese ai suoi uomini di aprire i portelli posteriori del camion. Anche Solomon spense la sigaretta. Il tenente gli consegnò una grossa torcia elettrica e lo aiutò a salire. Solomon, a sua volta, tese una mano per aiutare il poliziotto, mentre Kimete si issò a bordo da sola, con grazia felina. Alla luce della torcia, Solomon vide prima di tutto un vecchio e una vecchia, abbracciati come giovani amanti sul pavimento, con gli occhi fissi e le bocche aperte. «Mio Dio» sussurrò. «È difficile credere che siano morti tre anni fa» osservò Kimete. Anche il poliziotto accese una torcia elettrica, puntandola su un uomo di mezza età steso a faccia in giù accanto alla porta. Solomon notò che le mani dell'uomo erano annerite dal sangue seccato e prive di unghie. «È l'uomo che sono riusciti a identificare» disse Kimete, dopo aver ascoltato il poliziotto. «Agim Shala.» Solomon si chinò a esaminare le mani dell'uomo. Sul pavimento del camion c'erano due unghie. Si infilò i guanti di lattice e ne raccolse una. Il poliziotto parlò in bosniaco. «Ha cercato di aprire le porte a mani nude» disse Kimete. «Anche altri presentano ferite simili.» Solomon si alzò in piedi e si diresse all'interno del camion, puntando la torcia sui cadaveri e iniziando a contare. Vide diversi uomini tra i venti e i trent'anni, due ragazze adolescenti e un bambino di sei o sette anni, raggomitolato in posizione fetale. In fondo, contro la parete di metallo, c'era una giovane coppia con una bambina. La bimba aveva gli occhi chiusi e abbracciava un orsacchiotto di pezza. Solomon sentì una mano sulla spalla e si voltò a guardare Kimete. «Tutto bene?» chiese lei. Solomon sentì affiorare le lacrime, e distolse lo sguardo. Lavorava con la Commissione Internazionale per i Morti in Guerra da quattro anni, aveva assistito a decine di esumazioni, ma i resti che aveva contribuito a identificare erano sempre stati poco più che scheletri. Invece quella bambina
con l'orsacchiotto era reale. Il padre e la madre dovevano aver cercato di confortarla, lì, nel freddo, al buio. Il camion doveva averli sballottati, mentre scendeva lungo la riva e cadeva nell'acqua. Cosa avevano provato quegli uomini e quelle donne, quando avevano compreso di essere nell'acqua e che nessuno li avrebbe salvati? Qualcuno doveva aver gridato, qualcun altro forse aveva ritrovato il controllo, dicendo agli altri che sarebbero vissuti più a lungo se fossero restati in silenzio. Poi gli uomini avevano infilato le dita nella stretta fessura tra le porte, tirando e graffiando fino a strapparsi le unghie. Il poliziotto disse qualcosa in bosniaco. «Pensa che possa essersi trattato di un incidente» tradusse Kimete. «Col cazzo» ribatté Solomon. «La porta era chiusa con un lucchetto.» Il poliziotto aspettò la traduzione e parlò di nuovo, indicando i corpi con la torcia elettrica. «Dice che forse erano rifugiati che stavano cercando di lasciare il paese di nascosto. Forse il camion è uscito di strada ed è finito nel lago.» «Stavano andando verso la Serbia. Digli che degli albanesi kosovari non avrebbero cercato rifugio in Serbia. E se è stato un incidente, come mai nessuno lo ha denunciato?» La risposta non si fece attendere. «Dice che forse volevano tagliare attraverso la Serbia per andare in Croazia, e che se gli autisti del camion erano contrabbandieri di uomini, è logico che non abbiano denunciato l'incidente. Se si fosse trattato di pulizia etnica, perché metterli tutti in un camion e portarli in Serbia? Sarebbe bastato ucciderli sul posto.» Solomon scosse la testa. Discutere con quell'uomo era inutile. «Digli che questa faccenda è di competenza della Commissione, e che la Kfor si farà carico di sorvegliare il camion e i cadaveri. Noi dirigeremo l'identificazione, poi passeremo le schede al Tribunale per i Crimini di Guerra. Se lui pensa che si tratti di un incidente, può parlare con gli investigatori del tribunale. Ma per quanto mi riguarda, la sua spiegazione può ficcarsela su per il culo.» Kimete iniziò a parlare, e Solomon aggiunse: «Non tradurre l'ultima frase». «Non ci pensavo proprio.» Solomon tornò verso le porte del camion, contando di nuovo i corpi. Quando saltò giù disse al tenente: «Anch'io ne ho contati ventisei». «Perché hanno fatto una cosa del genere a donne e bambini?» «Come si chiama, tenente?» chiese Solomon.
«Matt. Matt Richards.» «Da quanto tempo è nella Kfor, Matt?» «Sei settimane.» Solomon gli offrì un'altra sigaretta, l'accese e ne prese una anche per sé. «La sua è una domanda destinata a rimanere senza risposta, Matt» disse poi. «Noi possiamo scoprire cosa è accaduto e quando, possiamo identificare i morti e forse persino gli assassini, ma non possiamo entrare nella testa delle persone per scoprire il perché.» «Ma ci sono anche vecchi e bambini.» «I tedeschi hanno mandato migliaia di vecchi e bambini nelle camere a gas.» «È una cosa che non capirò mai» disse il tenente. «Ci si abituerà» fece Solomon. «E non sbaglierà di molto se partirà dal presupposto che gli esseri umani sono fondamentalmente malvagi.» «Non posso accettarlo. Al college ho lasciato entrare Gesù nella mia vita.» Per un attimo Solomon pensò che scherzasse, poi lo fissò negli occhi e vide che parlava sul serio. Cercò di soffiare un anello di fumo, ma non ci riuscì. «Va bene, ecco ciò che faremo ora. Tenga chiuso il camion fino all'arrivo del medico legale. Lui farà le autopsie e determinerà le cause della morte. Poi i corpi saranno infilati negli appositi sacchi. Siamo a corto di personale, perciò le chiederei di affidare questo compito ai suoi uomini. Faccia indossare loro i guanti, per evitare contaminazioni. I cadaveri saranno inviati alla nostra sede di Belgrado.» «E lì cosa succederà?» «Preleveremo dei campioni di DNA, per compararli con il DNA dei parenti, se li troveremo. E presumendo che il medico legale dichiari che si tratta di omicidio, il caso passerà al Tribunale per i Crimini di Guerra.» «Le capitano spesso cose del genere?» «Questo è il mio lavoro.» «E come fa a sopportarlo?» «Lei è un soldato» rispose Solomon, sorpreso. «Deve aver visto di peggio.» Richards aspirò una lunga boccata dalla sigaretta. «Non avevo mai visto un cadavere prima d'ora» disse. Kimete saltò giù dal camion. Il poliziotto era ancora dentro. «Tutto a posto?» chiese Solomon. «Sì. Gli ho lisciato un po' le penne e si è calmato.» Fece una pausa. «Ti
senti bene? Sei pallido.» Solomon annuì. Sentiva in bocca un sapore acido. «Sto bene, grazie.» Ma non riuscì a trattenersi e si mise a vomitare. Kimete e Richards fecero un salto all'indietro. Solomon udì delle risate e si voltò verso il poliziotto che era accanto al camion, con due dei suoi uomini. Fece un passo verso di loro, ma Kimete gli afferrò il polso. «Non ne vale la pena» mormorò. Solomon fissò i tre poliziotti che ridevano di lui. Gradualmente sentì sbollire la rabbia. «Hai ragione» disse. Andò a prendere il dossier in macchina, poi lui e Kimete si diressero verso la casa. Dentro c'era una coppia di anziani che si scaldavano davanti al fuoco. Kimete spiegò loro chi erano, e l'uomo le parlò in serbo-croato, mentre la donna versava tazze di caffè per tutti. «Vuol sapere se verrà rimborsato per l'uso che facciamo del suo granaio» disse Kimete. «Digli di sì» rispose Solomon. «Ma è vero?» «Cristo, non lo so e sinceramente non m'importa» ribatté Solomon. «Digli che l'assegno gli arriverà per posta, poi vedremo.» Kimete pronunciò due brevi frasi, il vecchio sorrise e Solomon sollevò la sua tazza di caffè come in un brindisi. A meno di cento metri c'erano ventisei uomini, donne e bambini morti, e quel vecchio si preoccupava soltanto dei soldi. Solomon si chiese quanto sarebbe durata la fede di Matt Richards in quel paese di campi di sterminio e fosse comuni. «Chiedigli se possiamo restare fino a quando i corpi saranno stati esaminati» disse. «Stasera dovrebbe già essere tutto finito.» Mentre Kimete traduceva, Solomon iniziò a leggere il rapporto. Tra i ventuno nomi che aveva, c'erano quindici donne e due neonati. Niente foto o particolari medici che avrebbero potuto aiutarlo a identificare i corpi con sicurezza. I rapporti erano stati stilati dalla polizia federale a Pristina, e in assenza di prove certe che si trattasse di un delitto, i poliziotti non si erano dati troppa pena. Forse anche loro avevano pensato che la famiglia se ne fosse andata per ricostruirsi una vita da qualche altra parte. Tra i parenti era nominata una sola persona, Teuter Berisha, di settantadue anni, che attualmente viveva in Bosnia. Era la zia di Agim Shala, il proprietario della fattoria da cui quelle persone erano state sequestrate. Sentendo suonare un clacson, Solomon e Kimete si avvicinarono alla porta. Un uomo dai capelli grigi e gli occhi azzurri stava parcheggiando un
fuoristrada bianco con la scritta ONU sulla fiancata. Solomon gli rivolse un cenno di saluto. Si trattava di Alain Audette, un canadese che lavorava da due anni come medico legale a Belgrado. Le caratteristiche principali di Audette erano il suo asciutto senso dell'umorismo e la sua passione per il whisky di malto. Audette scese dall'auto e andò ad aprire il portello posteriore, mentre Solomon e Kimete gli andarono incontro. «Ho portato con me i sacchi per i cadaveri» disse Audette. «Si risparmia tempo.» Solomon gli strinse la mano, Kimete lo abbracciò ricevendo un bacio su entrambe le guance. Audette aveva almeno venticinque anni più di Kimete, ma non la guardava come se fosse sua figlia. Inizialmente Kimete aveva mostrato dell'interesse per lui, ma quando Solomon le aveva parlato delle tre ex mogli e dei sei figli che Audette aveva a Montreal, il suo interesse era decisamente diminuito. «Sono ventisei» disse Solomon. «Ne ho portati trenta, tanto per essere sicuri» precisò Audette. «Dove sono?» «Nel granaio. Farai le autopsie qui?» «Ventisei autopsie? Sono un medico legale, Jack, non il cuoco di un fast-food. Ci sono delle procedure da seguire. Darò loro un'occhiata, dopo di che li infiliamo nei sacchi e li mandiamo a Belgrado.» Matt Richards si avvicinò e si presentò al medico. Audette gli spiegò che dopo aver effettuato un esame preliminare delle vittime avrebbe avuto bisogno dell'aiuto dei suoi uomini per infilare i cadaveri nei sacchi. Richards salutò militarmente e girò sui tacchi. Audette disse, rivolto a Solomon: «Okay, cominciamo pure». Entrarono nel granaio. Solomon aiutò il medico a salire sul camion, ma non fece altrettanto. Audette iniziò a parlare in un registratore portatile. «Stai bene, Jack?» chiese Kimete. «Vuoi piantarla di chiedermi se sto bene? Ieri ho comprato del pollo arrosto al supermarket, probabilmente era andato a male e questo è il risultato.» Kimete annuì, ma era chiaro dalla sua espressione che non gli credeva. Audette restò nel camion circa mezz'ora, poi saltò giù: «Non si trovano spesso dei cadaveri così ben conservati, vero?» disse. «Pare che siano morti asfissiati. Due uomini presentano ferite di arma da fuoco non letali: una nel braccio, l'altra in una gamba.» «Quindi sono stati costretti a salire sul camion contro la loro volontà?»
chiese Solomon. «Direi di sì. Uno degli uomini presenta anche una frattura del cranio, forse dovuta a un colpo con il calcio di un fucile. Tutti musulmani, giusto?» «Così sembra. Tutti della stessa famiglia. I loro vicini erano serbi, ma nessuno ha visto o udito nulla.» «Ci sono state atrocità da entrambe le parti, Jack» disse Audette. «Lo so.» Il medico strinse leggermente una spalla di Solomon. «È un lavoro di merda, Jack, ma se non ci fossimo noi a farlo, questo posto sarebbe ancora peggio di quello che è.» «Sì, lo so.» Audette indicò la fattoria. «Hanno del caffè, lì dentro?» Pochi minuti dopo Solomon, Audette e Kimete erano seduti davanti a un caffè a chiacchierare, mentre i soldati della Kfor mettevano i cadaveri nei sacchi di plastica e li caricavano su un camion delle Nazioni Unite. Matt Richards si avvicinò per salutare, lanciò un'occhiata nostalgica a Kimete, poi salì su un mezzo blindato e guidò il convoglio fuori della fattoria. Audette li seguì con il suo fuoristrada. Solomon si accese una Marlboro e fissò il granaio, con le sopracciglia aggrottate. «Qualcosa non va?» chiese Kimete. «Aspettami qui» rispose lui. Entrò nel granaio, si fece consegnare una torcia elettrica dal poliziotto che era ancora lì, e la puntò dentro il camion. «Cosa cerchi?» chiese Kimete, alle sue spalle. «L'orsacchiotto» rispose Solomon. «Volevo accertarmi che non l'avessero dimenticato.» «Quale orsacchiotto?» «Quello che teneva in mano la bambina. Pensavo che forse lo avevano dimenticato.» «Probabilmente lo hanno infilato nel sacco con lei» sussurrò Kimete. Solomon spense la torcia. «Lo spero» disse. Due giorni dopo Audette gli inviò via fax i referti delle autopsie, con una nota scritta a mano in cui lo invitava a raggiungerlo a Belgrado per una seduta terapeutica a base di whisky di malto. I referti confermavano che tutti i ventisei prigionieri erano morti per asfissia. Solomon prese i fogli del fax e si avviò verso l'ufficio di Chuck Miller.
La segretaria, una donna di mezza età di nome Arnela, era al telefono e gli fece cenno di entrare. L'americano era seduto sulla sua poltrona di pelle, con i piedi sulla scrivania e la tastiera del computer in grembo. «Ciao, Jack» disse senza alzare gli occhi dal monitor. «Cosa c'è?» Accanto ai suoi piedi c'erano tre foto incorniciate: la prima ritraeva la moglie con due bambini, tutti biondi e con sorrisi smaglianti. Nella seconda si vedeva Miller in mezzo a una tribù di mongoli e nella terza mentre riceveva un premio dei Peace Corps. «Ho i referti dei corpi di Pristina» disse Solomon. «Ora stanno facendo le analisi del DNA, dovrebbero essere pronte per la fine della settimana.» «E i parenti?» «Non credo ci siano dubbi. In ogni caso oggi vedrò una parente e le preleverò un campione di sangue. Porto con me Kimete.» «Tienimi al corrente» disse Miller, sempre con lo sguardo fisso sullo schermo. Solomon prese la Nissan e si recò nella parte est della città, fermandosi davanti all'edificio quasi in rovina dove abitava Kimete. Davanti al portone c'era un cratere di mortaio, che quando pioveva si riempiva d'acqua. Quel proiettile aveva ucciso un bambino di due anni e mozzato una gamba alla madre. Ogni volta che Solomon vedeva quel buco nel cemento, non poteva fare a meno di chiedersi se il serbo che aveva sparato il colpo di mortaio sapeva di aver ucciso un bambino e storpiato una donna di venticinque anni, ma soprattutto se sapeva che le sue vittime erano serbe come lui. Suonò il campanello e Kimete rispose al citofono che sarebbe scesa subito. Solomon tornò all'auto e attese, tamburellando le dita sul volante. L'ascensore doveva essere guasto, perché Kimete ci mise cinque minuti buoni a scendere. «Scusa» disse, salendo in macchina. Mentre percorrevano il Mese Selimovica Boulevard, la strada principale per uscire dalla città in direzione di Mostar, Solomon l'aggiornò su Teuter Berisha. «Perché un'albanese kosovara vive in Bosnia?» chiese Kimete. «Perché non è rimasta con la sua famiglia?» Solomon, frenando per evitare una Golf rossa e arrugginita che gli aveva tagliato la strada, rispose: «Se fosse rimasta con la famiglia, ora farebbe parte dei cadaveri che stiamo cercando di identificare». La Golf rossa ritornò nella sua corsia. Dentro l'auto, quattro giovani in giubbotti di pelle ridevano e si agitavano al ritmo della musica che usciva dallo stereo. Solomon rallentò, dando loro tutto lo spazio possibile. Guida-
re lungo le strade della Bosnia era pericoloso. Era come se il fatto di essere sopravvissuti alla guerra avesse dato agli abitanti un senso di invulnerabilità: se i serbi non erano riusciti a ucciderli con i carri armati, i mortai e i cecchini, era impossibile che potessero morire per una cosa banale come un incidente stradale. «Sto solo dicendo che deve esserci stato un motivo» disse Kimete. «Lei è bosniaca, viene da un piccolo villaggio non lontano da Mostar. Ha sposato un albanese e si è trasferita in Kosovo. Quando il marito è morto, lei è rimasta in Kosovo per allevare i figli. Poi, nel novantaquattro, i suoi parenti in Bosnia sono stati quasi tutti uccisi dai serbi. Restavano solo due adolescenti, e lei è tornata in Bosnia per prendersi cura di loro. Probabilmente voleva anche tornare alle sue radici.» «Le prenderà un colpo, quando saprà cosa è accaduto alla sua famiglia. È stata lei a denunciarne la scomparsa?» Solomon abbassò di un dito il finestrino, per far entrare un po' d'aria fresca. Alla sua sinistra c'erano dei palazzoni tristi, mentre la collina a destra era punteggiata di case con i tetti nuovi. Praticamente tutte le case erano state danneggiate dai combattimenti e dopo la guerra i costruttori si erano arricchiti riparando i danni. «No, è stato un vicino. All'epoca non esisteva la procedura di contattare i parenti, e poiché i corpi non erano stati trovati, la denuncia non è stata inclusa nel database. La polizia non l'ha interrogata e non le ha prelevato un campione di sangue. Allora non si usava.» Superarono fabbriche abbandonate, seguendo il fiume Neretva fino a Jablanica, quindi imboccarono la strada piena di curve che si inerpicava tra boschi e gole rocciose. Iniziò a piovere e Solomon azionò i tergicristalli. Quando furono a circa novanta chilometri da Sarajevo, passò a Kimete una mappa, indicando con il dito sulla strada che cercavano. Lasciarono la strada principale e si avviarono su quella sterrata, passarono sopra un ponte di pietra crivellato di proiettili, e superarono un villaggio dove almeno la metà delle case erano scoperchiate. Kimete indicò una casa di pietra a un solo piano. «È lì» disse. Si trattava di un edificio lungo, con il tetto di tegole arancioni e i muri dipinti di bianco. Sotto una tettoia c'era una catasta di legna ben ordinata. Una vacca legata a un ceppo brucava una zolla d'erba rada. Solomon si tirò su il bavero del giubbotto e si avviò verso la porta, seguito da Kimete. Bussò con il battiporta di ottone e restò in attesa con la schiena contro la
porta, cercando di ripararsi dalla pioggia. Dopo un paio di minuti bussò di nuovo, più forte, ma nessuno venne ad aprire. L'acqua fredda iniziava a scendergli lungo il collo. Fece il giro della casa, camminando nel fango. Da una finestra vide una vecchia seduta su una sedia a dondolo, accanto a una piccola stufa nera. Solomon batté con insistenza sul vetro e finalmente la donna si voltò verso la finestra, con gli occhi spalancati. «Signora Berisha?» gridò Solomon. La donna cercò con la mano il bastone appoggiato accanto alla poltrona, e si alzò lentamente in piedi. «Resti pure lì, signora» disse Solomon in bosniaco. «La porta è aperta?» La vecchia annuì e si lasciò cadere di nuovo sulla sedia. Quando Solomon riuscì finalmente a entrare in casa, si presentò: «Mi chiamo Jack Solomon» disse in bosniaco. «Lavoro per la Commissione Internazionale per i Morti in Guerra.» La donna aggrottò la fronte, senza capire. Kimete intervenne, spiegandole di nuovo chi erano. «Chiudete la porta, che il calore se ne va» disse la vecchia. Solomon obbedì, poi si tolse le scarpe infangate e le lasciò accanto alla porta. Kimete lo imitò. «Mettetele ad asciugarsi vicino alla stufa» disse la donna. «Volete un caffè?» «Sì, grazie» rispose Solomon. La donna iniziò laboriosamente ad alzarsi, e Solomon disse: «Lo preparo io, se è d'accordo». «Niente affatto, siete miei ospiti.» Solomon e Kimete la osservarono prendere un vecchio macinino e girare la manovella per ridurre in polvere il caffè in grani. «Chi si prende cura di lei, nonna?» chiese Solomon. Lei alzò le spalle. «Sono io a prendermi cura di me stessa. Siamo sopravvissuti alla guerra. Chiunque è capace di sopravvivere durante la pace.» Solomon indicò la stufa. «Ma chi le taglia la legna? Chi va a farle la spesa?» «C'è un ragazzo che viene ogni mattina. E poi torna la sera per mettermi a letto.» Solomon non comprese la frase, e Kimete gliela tradusse. «È un parente?»
«Il figlio di una lontana cugina. Ma è un bravo ragazzo e rispetta gli anziani.» «Ha altri parenti, qui?» «Solo cugini. Avevo un fratello, ma è morto. Aveva due figli, ma sono morti anche loro.» Continuava lentamente a macinare. Solomon lanciò un'occhiata a Kimete. Toccava a lei spiegare alla vecchia il motivo della loro visita. Kimete stava per parlare, ma la signora Berisha si alzò in piedi di nuovo, si avvicinò alla stufa e versò con un cucchiaio il caffè macinato in una grossa dzezva, una pentola conica di ottone. La mise sulla stufa, agitandola per far tostare il caffè, quindi ci versò dentro dell'acqua calda da un bollitore di metallo. Fece bollire la mistura e aggiunse ancora un po' di acqua calda. Infine mise la dzezva e tre tazze su un vassoio di metallo, e portò il tutto fino al tavolino accanto al quale erano seduti Solomon e Kimete. Riempì le tazze, poi disse, in tono di scusa: «Non ho né zucchero, né latte». «Va benissimo così» disse Solomon. Bevve un sorso: era forte e amaro. Schioccò le labbra e sorrise. «Ukuzan» disse. Delizioso. La vecchia tornò a sedersi sulla sedia a dondolo. Kimete prese una tazza e gliela mise accanto. «Nonna, abbiamo bisogno che lei faccia una cosa per noi» disse. «Sono vecchia, riesco appena a camminare e ci vedo poco» replicò lei, brusca. «Cosa volete da me?» «Ha mai sentito parlare della Commissione Internazionale per i Morti in Guerra?» chiese Kimete. La donna scosse la testa. «Il nostro compito è quello di identificare le vittime di guerra, di dare un nome ai corpi.» Gli occhi della vecchia si ridussero a due fessure nel viso incartapecorito. «Li avete trovati?» «Forse» rispose Kimete, cauta. «Abbiamo trovato dei corpi. Questo è il motivo per cui siamo qui.» La vecchia sembrava confusa. «Abbiamo bisogno di prelevarle un campione di sangue, nonna» continuò Kimete. «Così potremo confrontare il suo DNA con quello dei...» si interruppe di colpo, prima di dire la parola tijela: cadaveri. «Il DNA ci mostrerà se le persone uccise sono i membri della sua famiglia.» «E questo DNA si trova nel mio sangue?» «Si trova in tutte le cellule, ma per noi è più facile prenderlo dal sangue.»
Kimete estrasse dalla sua borsa una piccola sacca di plastica grigia, che passò a Solomon, e un fascio di fogli, che tenne in mano. «Jack preleverà il campione» disse. «Gli piace fare del male alla gente, eh?» disse la donna. Kimete tradusse e Solomon sorrise, mentre apriva la sacca di plastica. Dentro c'era un pezzo di cartoncino su cui far cadere quattro gocce di sangue, due guanti di lattice, un tampone sterile, un bisturi di plastica e un cerotto. Kimete iniziò con le domande di routine. Nome, codice fiscale e storia familiare. «Odio gli aghi» disse la vecchia. «Li ho sempre odiati.» «Non si preoccupi» la rassicurò Kimete. «Non è un vero e proprio ago. Non lo sentirà neppure.» Chiese a Solomon di mostrarle il bisturi, che sembrava una specie di penna. La punta si appoggiava alla pelle e premendo il bottone un minuscolo ago scattava dentro e fuori. «Ne brinite se» disse Solomon. Non si preoccupi. «L'ho fatto migliaia di volte.» «Migliaia?» Solomon annuì. «Ma non sei un dottore.» «No.» «Quindi, ogni volta che lo fai, è perché è morto qualcuno?» «Esatto.» «Il tuo lavoro allora è quello di scoprire chi è il morto per poterlo comunicare ai parenti?» Solomon non riuscì a seguire la frase, e Kimete gliela tradusse, mentre lui si infilava i guanti. «Sì, è questo il mio lavoro, nonna» rispose poi. La vecchia fece una smorfia. «Perché un uomo deve fare un lavoro del genere?» disse piano a Kimete. «Non portate mai buone notizie, vero? Se non ci sono morti, non avete nulla da dire alla gente.» «Qualcuno deve pur farlo, nonna» spiegò Kimete. Solomon tolse la copertura al cartoncino, rivelando i quattro circoli prestampati destinati a raccogliere le gocce di sangue. «Ma non è un soldato, vero?» chiese la vecchia a Kimete. Solomon comprese la domanda. «No, non sono un soldato» rispose. «Quindi fai questo lavoro per libera scelta?»
«Mi dia la mano, per favore, nonna.» La vecchia obbedì, allungando verso di lui un braccio magro dalla pelle sorprendentemente liscia, in contrasto con quella rugosa e macchiata delle mani. Solomon le disinfettò l'anulare con il tampone, poi accennò con il capo a una foto in bianco e nero sulla parete, che ritraeva una ragazza bellissima dai capelli lunghi stretta al braccio di un bell'uomo in completo scuro. «È lei quella, nonna? Con suo marito?» La donna fissò la foto. «Era bello, vero? Tutte le ragazze del villaggio dicevano che ero fortunata ad averlo sposato. Ma non lo conoscevano.» Mentre lei parlava, Solomon le punse il dito, facendo uscire una piccola goccia di sangue. «Aveva un brutto carattere, ed era grande e forte.» La donna sorrise. «Quante cose si sopportano quando si è innamorati!» Si guardò il dito. «Hai già cominciato?» «Ho già finito, nonna. Le avevo detto che non avrebbe sentito niente.» Le prese la mano e premette piano il dito contro ciascuno dei quattro circoli, quindi le coprì la puntura con il cerotto. «Fatto» disse, mettendo il cartoncino sul tavolo ad asciugare. «Quando lo saprete?» chiese la donna. «Tra qualche giorno.» «Dove li avete trovati?» Solomon deglutì e lei notò la sua esitazione. «È stato brutto?» chiese. «È sempre brutto, nonna» rispose Kimete. «Sono stati tempi crudeli.» Prese la mano della donna. «Comunque, non crediamo possano esserci dubbi. Abbiamo bisogno della prova del DNA prima di dichiararlo ufficialmente, ma pensiamo che lei debba prepararsi al peggio.» «Come è accaduto?» chiese la donna. Solomon sospirò. «Nonna...» «Ho diritto di saperlo» disse lei, parlando a Kimete. «Sono una vecchia che non serve più a nulla, ma ho diritto di sapere cosa è successo.» Si chinò, con il viso vicinissimo a quello di Kimete. «So che sono morti. Lo so da molto tempo. Se fossero stati vivi, mi avrebbero cercata. Ma voglio sapere come è successo. Ne ho il diritto, capito?» «Li hanno caricati su un camion» spiegò Solomon, in bosniaco. «Un camion frigorifero. Alcuni di loro si sono ribellati e gli hanno sparato. Poi hanno chiuso le porte con un lucchetto e hanno gettato il camion in un lago.» La donna aggrottò la fronte. «Quindi sono annegati?»
«Sono morti per soffocamento. Il camion era chiuso ermeticamente, e l'acqua non è entrata.» «Posto?» chiese la donna. «Quanti?» «Ventisei.» «Ventisei» ripeté lei. «C'erano anche i bambini?» «Quattro maschi e tre femmine. Una aveva al massimo due anni.» Kimete tradusse. «Una bambina piccola?» «Sì.» «Shpresa» bisbigliò la vecchia. «La mia bisnipote.» Le lacrime sgorgarono, rigandole il viso, ma lei non fece un gesto per asciugarle. Shpresa. Ora la bambina con l'orsacchiotto aveva un nome. Solomon sentì affiorare le lacrime, ma non pianse. «Sarebbe di molto aiuto, nonna» disse, «se lei potesse darmi i nomi di tutte le persone che vivevano alla fattoria.» La donna afferrò il bastone e si alzò in piedi. «Ho delle foto.» «Vado io a prenderle» intervenne Solomon. «Dove sono?» Lei sospirò e si risedette, indicando con il bastone una cassettiera bassa. «Nel cassetto in alto.» Solomon andò ad aprire il cassetto dal quale estrasse un grosso album con la copertina in cartone rigido. Spostò la sua sedia e si mise accanto alla signora Berisha, con l'album appoggiato sulle ginocchia. «È l'album del matrimonio di mio nipote» disse la vecchia. «Non ho potuto andarci, così mia figlia mi ha mandato le foto. Avete una sigaretta?» Solomon fece una faccia sorpresa. «Avanti, giovanotto» disse acida la donna. «Solo perché sono vecchia credi che abbia rinunciato a tutti i piaceri?» Kimete tradusse e Solomon rise. «Più che altro mi sorprende che una fumatrice sia vissuta tanto a lungo.» «Non è il tabacco, sono le porcherie che ci mescolano dentro» disse la donna. «Il buon tabacco non fa male a nessuno. Ora, ce l'avete una sigaretta, sì o no?» Solomon tirò fuori le Marlboro dalla tasca del giubbotto e gliene offrì una. La donna muoveva male l'indice, così la prese tra il medio e l'anulare. Solomon gliel'accese con lo Zippo, lei aspirò il fumo a occhi chiusi, trattenendolo nei polmoni, quindi lo espirò e riaprì gli occhi. «Ora va meglio» disse sorridendo. Solomon offrì una sigaretta anche a Kimete, ne prese una per sé e ap-
poggiò il pacchetto sul tavolo. «Le tenga per dopo.» Aprì l'album, voltando con cura le pagine separate dai fogli di carta velina. Le foto non erano state scattate da un professionista e molte erano sfocate. Lo sposo era un uomo tozzo sui ventisette anni, con le spalle larghe e la mascella quadrata. Un contadino. La moglie era più giovane, forse sui vent'anni. Aveva lunghi capelli neri e il naso leggermente all'insù. In quasi tutte le foto sorrideva guardando con adorazione il marito. «Che bella coppia» commentò Solomon, reprimendo un brivido al pensiero che erano morti in quel camion meno di un anno dopo il matrimonio. «La piccola non era figlia loro?» Kimete tradusse e la donna scosse la testa. «No, Shpresa nacque pochi giorni dopo quel matrimonio.» Appoggiò un dito su una foto dove comparivano sei donne, di cui una vistosamente incinta. «La moglie di mio nipote» disse. Tirò verso di sé con il bastone un portacenere di ottone, e ci lasciò cadere la cenere con un gesto rapido. Solomon continuò a sfogliare l'album. L'ultima era una foto di gruppo: uomini e donne in piedi davanti alla casa. «Sono tutti parenti?» chiese Solomon. La donna fissò la foto con gli occhi socchiusi, poi sbuffò, impaziente. Indicò una libreria accanto a una scalinata di legno. «Lì sopra c'è una lente d'ingrandimento» disse. Kimete andò a prenderla e gliela porse. La donna la prese e si chinò sulla foto. «Alcuni sono parenti. Altri sono amici.» «Li conosce tutti?» «I miei parenti sì, naturalmente. Degli altri ho un vago ricordo. Sono passati molti anni da quando sono andata via da Pristina.» «Posso tenere questa foto?» chiese Solomon. «Ci sarebbe di aiuto per l'identificazione.» Kimete tradusse e la vecchia annuì. «Vuoi tutto l'album?» Solomon staccò la foto dalla pagina. «Solo questa, grazie.» L'appoggiò sul tavolo e ne fece un rapido schizzo, numerando le figure. C'erano trentotto persone. Solomon chiese alla donna i nomi di tutti quelli che conosceva. Ci volle quasi un'ora e cinque sigarette. Ventisette erano parenti stretti. Uno era un cugino della sposa, ucciso da una mina poche settimane dopo il matrimonio. Sei erano amici degli sposi che la vecchia conosceva, e cinque restarono senza nome, ma la signora Berisha assicurò che non erano membri della famiglia. Per ogni persona da lei identificata, Kimete riempì un modulo, con la maggior quantità possibile di particolari.
Ma le informazioni di Teuter Berisha non erano molte. Nella maggior parte dei casi si limitavano a un nome e al grado di parentela. Quando ebbero finito, Solomon ringraziò la donna e chiuse il blocknotes. Piegò il cartoncino con i campioni di sangue. Sul retro c'erano quattro etichette autoadesive con un codice a barre. Ne staccò una e la diede a Kimete, che la attaccò sul modulo con i dati della donatrice. Solomon chiuse il campione in una bustina di carta argentata e la mise via. «Cosa succede adesso?» chiese la donna a Kimete. «Isoleremo il suo DNA dal campione, e lo confronteremo con quello prelevato dai corpi. Lo faremo nei nostri laboratori di Sarajevo. Poi torneremo. Come ho detto, ci vorrà solo qualche giorno.» Prima di andar via, Solomon mise due ceppi nella stufa e baciò leggermente la vecchia sulla fronte. «Portatemi altre sigarette, quando tornate» disse lei. Solomon era in piedi e fissava le fotografie dei ventisei cadaveri speditegli per corriere da Alain Audette. Le aveva attaccate a una lavagna nel suo ufficio. In alcuni casi Audette aveva trovato dei nomi sugli oggetti rinvenuti sui cadaveri, e Solomon li aveva scritti a pennarello nero sotto le rispettive foto. Al centro della lavagna c'era una copia della foto che gli aveva dato Teuter Berisha. L'aveva ingrandita di quattro volte, per poter distinguere bene i volti. La maggior parte dei volti delle foto di Audette combaciavano con quelli della foto di gruppo del matrimonio. Le cinque persone che Teuter Berisha non aveva riconosciuto non apparivano tra i cadaveri, e non c'erano neppure i sei amici della sposa. Restavano così ventisette persone e Solomon era riuscito a identificarle tutte, tranne una. Chuck Miller bussò alla porta aperta. «Come va, Jack?» chiese. «Tutto a posto» rispose lui. «Non credo che avremo bisogno della prova del DNA.» Miller agitò i fogli che aveva in mano. «Mi stai dicendo che abbiamo appena sprecato seimila dollari?» «Quelli sono i risultati delle analisi?» «Appena arrivati.» Solomon tese la mano e Miller gli diede i fogli. Contenevano i profili del DNA dei cadaveri, comparati con il campione prelevato a Teuter Berisha.
L'analisi computerizzata metteva in evidenza un legame genetico. Più la parentela del morto con la donatrice era stretta, maggiori erano le somiglianze tra i campioni. In più della metà dei casi, il legame genetico con Teuter Berisha era chiarissimo. «Mi sembra che non ci siano dubbi» disse Miller, avvicinandosi alla lavagna. «Direi di no.» Miller studiò la foto del matrimonio. «Gesù. Quindi tutti gli ospiti di quella festa sono stati uccisi?» Solomon scosse la testa. «Non tutti. Ma quelli che abbiamo trovato nel camion erano tutti membri della stessa famiglia e vivevano alla fattoria.» «Mi sembra chiaro che si è trattato di pulizia etnica.» «Già. Famiglia musulmana, vicini serbi.» «Passerai questo caso al Tribunale per i Crimini di Guerra?» «Non appena avrò informato la parente viva.» «La donna che ha donato il campione di sangue?» «Sì. Andrò a trovarla nel pomeriggio con Kimete.» «Sono contento di non doverci andare io.» Miller guardò l'orologio. «Ho una chiamata in teleconferenza con Londra» disse. «Ci vediamo.» Uscì e Solomon restò a fissare la foto del matrimonio. Gli uomini in giacca e cravatta, le donne in abito lungo. La sposa e lo sposo. Tutti felici. Solomon con un pennarello tracciò una serie di linee per collegare i volti degli ospiti a quelli delle foto dei cadaveri. Ogni linea rappresentava un viaggio: da una festa di matrimonio a una pulizia etnica. Un viaggio finito con i polmoni pesanti, la gola riarsa, gli occhi sporgenti, e una bambina che mentre moriva abbracciava il suo orsacchiotto. Solomon voltò le spalle alla lavagna. Kimete lo stava aspettando nel parcheggio. Indossava uno spesso cappotto di lana con il bavero rialzato per proteggersi dal vento e fumava una sigaretta croata. La spense appena vide avvicinarsi Solomon. Le sue Walter Wolf costavano la metà delle Marlboro ed erano forti il doppio. Aveva portato con sé qualche cassetta di rap comprata al mercato nero, che ascoltarono a tutto volume mentre si dirigevano verso Mostar. Arrivarono a casa di Teuter Berisha poco dopo mezzogiorno. Il terreno sotto i loro piedi era ancora bagnato dalla pioggia recente, ma il cielo era blu e il vento aveva asciugato le pietre della casa. Solomon bussò alla porta con la mano guantata, poi girò la maniglia ar-
rugginita. «Nonna?» disse ad alta voce, aprendo la porta. La vecchia era seduta accanto alla stufa e beveva qualcosa da una scodella bianca. Appena lo vide sorrise. «Entra pure, giovanotto» disse. «E chiudi la porta prima di farmi morire congelata. C'è anche quella bella ragazza con te?» Kimete entrò e la donna tornò a bere dalla sua ciotola, indicando la stufa con un cenno del capo. «La zuppa è pronta, servitevi pure. Le scodelle sono in cucina.» Notò la stecca di Marlboro sotto il braccio di Solomon e si illuminò quando lui appoggiò le sigarette sul tavolo accanto alla sedia a dondolo. Solomon si tolse le scarpe e le porse la borsa della spesa che teneva in mano. La donna l'aprì e tirò fuori un pacco di biscotti, due scatole di caffè e un chilo di zucchero in zollette. Solomon aveva prelevato il tutto dalla dispensa dell'ufficio. «Sei sposato, giovanotto?» chiese la vecchia. «Se non lo sei e vuoi qualcuno che ti scaldi il letto, puoi trasferirti qui da me.» Kimete portò due scodelle dalla cucina e le riempì di zuppa. Solomon si sedette e ne prese una cucchiaiata. Era buona. Cipolle dolci, cavolo e aglio. «L'ha fatta lei, nonna?» Lei arricciò il naso. «La moglie di mio cugino. Le mie mani non servono più a molto, ormai. Cosa ne pensi?» Solomon ne prese un'altra cucchiaiata. «Manca un po' di sale.» «Esatto!» esclamò la vecchia. «Quella donna è sempre stata avara con il sale e il pepe. Neanche fossero polve e d'oro.» Inghiottì una sorsata di zuppa e si pulì il mento con la mano destra. «In ogni modo, non sono in condizioni di scegliere» fece, con una risata rauca. Solomon appoggiò la sua scodella su uno sgabello, poi tirò fuori il block-notes e la fotografia del matrimonio. Il volto della donna s'intristì. «Erano loro, vero?» Solomon annuì. Teuter Berisha chiuse gli occhi e borbottò qualcosa sottovoce. Solomon sfogliò il suo block-notes. «Mi dispiace, nonna.» «Non è una sorpresa» disse lei, ancora con gli occhi chiusi. «Sapevo che erano morti. Dovevano esserlo. Ma sapere e credere non sono la stessa cosa.» Solomon sapeva cosa intendeva dire. Decine di volte aveva parlato con persone che temevano il peggio, ma che si rifiutavano di abbandonare l'ultima debole speranza, finché non udivano la notizia ufficiale della morte
dei loro cari. La vecchia aprì gli occhi e si sforzò di sorridere. «Non so come fai a fare il tuo lavoro, Jack Solomon» disse, come se gli avesse letto nel pensiero. «Qualcuno deve farlo» rispose lui. Ma ancora prima di finire la frase si rese conto di quanto fossero banali quelle parole e di quanto cominciava a odiare quello che faceva. Mise la foto sul tavolo davanti alla donna. «Tutti i morti dentro quel camion erano membri della famiglia» disse, con il tono privo di emozione che adottava ogni volta che si trovava in quelle circostanze. Era più facile. «Ventisei in tutto. Vuole che le dica i nomi?» Attese mentre Kimete traduceva. «Nema potrebe» disse piano Teuter Berisha. Non ce n'è bisogno. «Nel numero è compresa la bambina. La sua bisnipote.» «Shpresa.» «Esatto, Shpresa. Ora, nella foto ci sono ventisette membri della famiglia, escludendo Shpresa.» «Non era ancora nata, allora.» «Giusto.» Solomon toccò con un dito l'uomo che era morto a causa di una mina poco dopo la festa di matrimonio. «E quest'uomo era già morto quando la famiglia è stata prelevata.» La donna annuì. Solomon indicò un'adolescente. «Quindi resta soltanto questa ragazza» disse. «Lei non è tra i morti trovati in quel camion.» «Nicoletta.» «Nicoletta, sì. Nicoletta Shala.» Solomon indicò l'uomo e la donna ai due lati della ragazza. «Agim Shala e Drita Shala. Il padre e la madre?» «Sì. Lui è il figlio di mio fratello.» La porta di casa si aprì con un cigolio. Solomon sussultò, ma si rilassò quando vide il visitatore: un ragazzo magro di quindici o sedici anni, con il viso segnato dall'acne e i capelli unti. La vecchia lo invitò a entrare con un gesto impaziente. «Chiudi la porta. Il calore se ne va e la legna da ardere non cresce sugli alberi.» Il ragazzo obbedì, poi disse: «Lo ripeti sempre, nonna. Cinquant'anni fa forse era una battuta divertente, ma ora è vecchia». La donna prese il bastone e lo agitò verso di lui. «Ho detto al signor Solomon che sei un bravo ragazzo, rispettoso degli anziani, perciò non farmi fare brutta figura.» Il ragazzo portò in cucina una grossa borsa di carta, quindi tornò nel soggiorno e si sedette su uno sgabello.
«Lui è il signor Solomon» disse Teuter Berisha. «Te ne ho parlato, ricordi? E questa è la sua amica Kimete.» Il ragazzo tenne il viso rivolto a terra, con la frangetta che gli copriva gli occhi come una tenda. «Il poliziotto di Sarajevo» disse, in un inglese dal forte accento. «Non sono un poliziotto» ci tenne a precisare Solomon. «Collaboro soltanto con la polizia. Parli bene l'inglese, sai?» Il ragazzo fece spallucce, sempre senza alzare lo sguardo. Solomon si voltò verso la donna. «Stavo dicendo che Nicoletta non è tra le vittime.» Udendo quel nome, il ragazzo ebbe uno scatto, come se l'avessero punto. «Conosci Nicoletta?» chiese Solomon. Lui si strinse di nuovo nelle spalle. «Andavano a scuola insieme, prima che lui tornasse qui con la famiglia» spiegò la vecchia. Allungò una mano e pizzicò leggermente la guancia del ragazzo. «Il signor Solomon non morde, sai? Puoi parlargli, così fai anche pratica con l'inglese.» Il ragazzo abbassò di nuovo gli occhi, arrossendo. «Non le piaceva essere chiamata Nicoletta» disse. «Voleva che la chiamassero Nicole, come Nicole Kidman, l'attrice.» «Bella donna» commentò Solomon. «Nicole era ancora più bella. Anche lei avrebbe potuto fare l'attrice. Glielo dicevo sempre. Se solo fosse riuscita ad arrivare a Hollywood sarebbe diventata ricca e famosa.» Il ragazzo si zittì di colpo. «Comunque, stavo dicendo che Nicoletta... Nicole, non era nel camion. Volevo chiederle se la ragazza era alla fattoria, all'epoca... dell'incidente.» Kimete tradusse, e la vecchia disse: «Dove altro poteva essere?». Solomon prese la foto e fissò quei volti, a uno a uno. «Il fatto è, nonna, che se in quel momento si trovava fuori a fare una commissione, o se è riuscita a nascondersi, in seguito avrebbe cercato aiuto, no?» «Tako pretpostavljam.» Suppongo di sì. «E la fattoria è stata controllata attentamente, perciò siamo sicuri che non è lì.» Aveva scelto le parole con cura. Voleva dire che il suo cadavere non era lì. «Cosa è accaduto alla sua famiglia?» chiese piano il ragazzo, in inglese. Alzò gli occhi, togliendosi i capelli dalla fronte. «Sono stati uccisi» disse Solomon. Il ragazzo strinse gli occhi. «Come?» «Questo non importa» rispose Solomon. «È più importante trovare chi è
stato.» La vecchia sbuffò. «Sappiamo benissimo chi è stato. Quei bastardi dei serbi. Chi altro avrebbe fatto una cosa del genere?» «Nonna, per favore...» disse Solomon. Era importante tenere le emozioni fuori dalle indagini. Lui voleva solo i fatti. «Voglio solo sapere dove posso trovare Nicole.» Kimete tradusse. «Perché?» chiese il ragazzo. «Perché vuoi trovarla?» «Potrebbe essere una testimone» disse Solomon. «Potrebbe aver visto cosa è accaduto alla sua famiglia.» Solomon fissò la vecchia. «Cosa ne pensa, nonna?» La donna sospirò. «Dove può essere andata, secondo lei?» «Aveva sedici anni. Era una bambina.» «Non è venuta qui?» «La mia memoria non è più quella di una volta, giovanotto, ma non sono ancora rimbambita del tutto. Se fosse venuta qui te lo avrei detto.» «Lo so» mormorò Solomon. «Chiedo scusa. È solo che non riesco a capire perché non abbia cercato aiuto.» «E dove?» disse la donna, in tono sprezzante. «I suoi vicini di casa erano tutti serbi. Credi che l'avrebbero aiutata? O che l'avrebbe aiutata l'esercito serbo? Al suo posto, io avrei cominciato a correre e non mi sarei più fermata.» «Crede che l'abbia fatto?» «Non lo so. Lo spero, perché se non è scappata vuol dire che è morta.» «Perché non la lasciate in pace?» gridò il ragazzo all'improvviso. «Perché continuate a disturbare i morti, come avvoltoi? Ormai sono morti, non c'è più niente da fare!» Balzò in piedi e si precipitò fuori, lasciando la porta spalancata. Solomon si alzò e andò a chiuderla. «Era molto amico di Nicole?» chiese. «Credo che avesse una cotta per lei» disse la donna. «Sembrava un cucciolo innamorato.» Solomon tirò fuori dal portafoglio un biglietto da visita e lo mise sul tavolo, accanto alla donna. «So che è improbabile, nonna, ma se Nicole dovesse mettersi in contatto con lei, potrebbe telefonarmi? O farmi chiamare da lei?» Kimete tradusse. «Dopo tre anni? Credi che tornerà qui, dopo tutto questo tempo?»
«È sempre una possibilità.» La vecchia fece una smorfia. «Terrò il tuo biglietto da visita, ma non contare su quella telefonata.» Solomon stava uscendo dall'ufficio, quando una dattilografa lo chiamò. «Signor Solomon, al telefono!» Solomon emise un grugnito di disappunto. Era già in ritardo per un appuntamento, e doveva andare dall'altra parte della città. «Chi è?» «Non ha voluto dirmi il nome» disse la dattilografa, una quarantenne dalla permanente selvaggia. «Si tratta di un ragazzo, credo.» Era passata più di una settimana dalla visita di Solomon a Teuter Berisha, tuttavia immaginò immediatamente di chi si trattava. Tornò di corsa alla scrivania. «Sono Jack Solomon» disse. Non ci fu risposta, solo un ronzio. «Pronto?» disse Solomon. «Pronto?» «Nicole non è morta» disse la voce del ragazzo. Solomon cercò disperatamente di ricordarsi il suo nome. La donna glielo aveva detto? Forse no. «Spero proprio che sia vero.» «Ma non vuole che qualcuno la cerchi.» «Le hai parlato?» «Vuole essere lasciata in pace» proseguì il ragazzo, ignorando la domanda. «Possiamo vederci? Ho bisogno di parlarti.» «Perché?» «Perché ci sono cose di cui devo parlarti. Quello che è accaduto alla fattoria, quello che è accaduto alla famiglia di Nicole. Non possiamo permettere che gli assassini restino liberi.» «È inutile» disse il ragazzo. «Cosa è inutile?» insistette Solomon. «Prendere gli assassini o parlare con me?» «Tutte e due le cose. Non lo so. Stai cercando di fregarmi.» «Non è vero» disse Solomon. «Voglio solo parlarti, a faccia a faccia. Ascolta, posso essere da te tra due ore.» «No!» esclamò il ragazzo. «Non voglio che mia nonna sappia che ti ho parlato.» «Allora puoi venire tu.» «Non posso venire a Sarajevo da solo. Inoltre devo portare da mangiare alla nonna prima che faccia buio.» «Allora indicami un posto» disse Solomon allungando la mano verso un
blocco e una penna. «Voglio solo fare due chiacchiere.» Ci fu una lunga pausa, in cui Solomon udì il respiro affannoso del ragazzo. «Conosci il ponte con tutti quei buchi di proiettili, appena fuori del villaggio?» domandò alla fine il ragazzo. «Sì.» «Invece di passarci sopra, gira a destra e vai avanti per altri cento metri. C'è un vecchio granaio. È stato incendiato, ma le pareti sono ancora in piedi.» «Lo troverò» disse Solomon. «Ci vediamo lì tra un paio d'ore, d'accordo?» Il ragazzo chiuse la comunicazione. «Tutto bene, Jack?» Solomon sobbalzò. «Accidenti, non volevo spaventarti, Jack.» Era Chuck Miller. «No, ero soltanto soprappensiero, scusami.» Miller aveva in mano una tazza fumante. Indicò il telefono. «Una cosa importante?» «Potrebbe esserlo. Si tratta di quel caso di Pristina. Quello del camion.» Miller aggrottò la fronte. «Credevo che fosse tutto finito. I morti sono stati identificati, no?» «Sì, erano tutti membri della stessa famiglia.» Solomon indicò il telefono. «Era un ragazzo che è in contatto con una superstite.» «E questo in che modo ti riguarda?» «Lei potrebbe aver visto qualcosa.» «Insisto: cosa c'entri tu? Noi identifichiamo i resti, informiamo i parenti, il tribunale, e andiamo avanti.» Resti. Miller diceva sempre «resti». Solomon non gli aveva mai sentito dire «vittime», o «cadaveri». E non si riferiva mai a loro per nome. In nessuna circostanza. «Se la superstite è una testimone oculare» continuò Miller, «ci penseranno gli investigatori del tribunale a proseguire l'indagine. Noi dobbiamo limitarci a fare la nostra parte, Jack.» Indicò la lavagna con le foto attaccate. «Ormai dovresti liberarti anche di quelle» disse. «Domani avrò qui dei visitatori, e una lavagna piena di foto di morti farà passare loro l'appetito.» Miller bevve un sorso del suo caffè. «Non dovresti essere con Lisa Turrell, all'ufficio giudiziario?» «Stavo appunto uscendo» rispose Solomon. Scese le scale, salì in macchina e prima di mettere in moto vide Miller
che lo osservava dalla finestra. Mentre usciva da Sarajevo, chiamò Lisa Turrell con il cellulare, per rinviare l'appuntamento. Lei era un'antropologa legale che lavorava per la Commissione, collaborando a identificare le vittime. Il test del DNA era costoso e gli antropologi legali erano di grande aiuto nelle fasi iniziali, quando si trattava di classificare i resti per età, sesso, altezza e operazioni chirurgiche. Ci mise un'ora e mezza ad arrivare al granaio in rovina. Non c'era traccia del ragazzo. Suonò il clacson e alcuni corvi si alzarono in volo dall'erba. Solomon sorrise appena, e suonò di nuovo il clacson. Attese diversi minuti, ascoltando gli scatti metallici del motore che si raffreddava. Poi scese dall'auto e si avviò versp il granaio. Il soffitto era bruciato e dove prima c'era stata la porta qualcuno aveva inchiodato delle lastre di lamiera. Una era staccata da una parte e ondeggiava nel vento. Solomon rabbrividì e sollevò il bavero del giubbotto. «C'è qualcuno?» chiese. «Sono Jack Solomon.» Poi si chinò ed entrò attraverso il passaggio tra le lamiere. Il ragazzo era seduto in un angolo, con le ginocchia al petto e la testa tra le mani. Solomon gli si avvicinò, passando sopra tegole rotte e pezzi di legno anneriti. «Tutto bene?» domandò piano. Il ragazzo non alzò gli occhi. Solomon si chinò, appoggiandogli una mano sulla spalla. «Stai bene?» Il ragazzo finalmente lo guardò. Aveva gli occhi rossi di pianto. «Hai una sigaretta?» chiese. «Ehi, quanti anni hai?» Lui lo fissò irritato. «Sai quanti morti ho visto? Sai quante volte qualcuno mi ha puntato contro una pistola? Quante volte mi hanno detto che sono un pezzo di merda albanese, buono solo da morto? E credi che mi spaventino le sigarette?» Solomon si sedette sui talloni accanto al ragazzo, tirò fuori il pacchetto di Marlboro, ne fece uscire una con uno scatto del polso e la offrì al ragazzo, che la prese senza una parola. Solomon gliela accese con lo Zippo, poi ne accese una anche per sé. I due soffiarono il fumo verso il cielo. «Ascolta, tua nonna non mi ha detto come ti chiami...» «Emir» disse il ragazzo. «Piacere di conoscerti, Emir.» «Non credo che ti faccia piacere» commentò il ragazzo. «Non ti importa nulla di me. Sei uno straniero e agli stranieri non gliene frega niente di ciò che accade qui.»
«Questo non è vero» replicò Solomon. «Ci sono persone a cui importa. Persone che lavorano per rendere la Iugoslavia un posto migliore.» «Lavorate perché vi pagano» ribatté Emir. «Lo fate per i soldi, solo per i soldi.» Aspirò una lunga boccata dalla sigaretta. «Nessuno vuole davvero aiutarci. Gli altri europei hanno paura che la guerra si estenda e raggiunga le loro case, perciò mandano i soldati a mantenere l'ordine. Mandano le organizzazioni di beneficenza per non lasciarci morire di fame e processano i generali, così sembra che stiano facendo qualcosa, ma in realtà non gliene importa nulla. Se potessero costruirci un muro intorno e lasciarci lì, a ucciderci tra noi, lo farebbero.» Solomon lo fissò a lungo. Sapeva che il ragazzo aveva ragione. Il mondo intero conosceva la situazione della ex Iugoslavia. Genocidi, mutilazioni, violenze sessuali. Emir si era guadagnato il diritto di essere cinico. Solomon scosse la cenere sul pavimento. «Quando hai visto Nicole?» «Cosa vuoi dire?» «Al telefono mi hai detto che hai parlato con lei, dopo che la sua famiglia è stata uccisa.» Emir scosse la testa. «Non le ho parlato. Mi ha scritto una lettera. Non la vedo dalla partita di calcio.» «Quale partita di calcio?» «La mia scuola giocava contro una squadra venuta dall'Irlanda. Nicole era venuta a vedere la partita.» «Da Pristina? Dovevi piacerle molto.» «Non sai quanto mi piace lei» disse Emir. «La amo.» «Quanti anni hai, Emir?» «Cosa c'entra quanti anni ho?» rispose lui, in tono bellicoso. «Tu sei come lei. Diceva che ero troppo piccolo. Lei aveva solo tre anni più di me, ma si comportava come se ne avesse avuti trenta. Ora ha diciannove anni, e io ne ho sedici. Capirai che differenza. Quando io avrò novantasette anni, lei ne avrà cento. E allora?» Le mani iniziarono a tremargli e si infilò la sigaretta in bocca, inalando a fondo. «Comunque dovevi importarle, se ti ha mandato quella lettera» dichiarò Solomon. «Non ha detto a nessuno dove era andata, neppure a tua nonna. Solo a te.» «Mi ha scritto che devo dimenticarla, che la vecchia Nicole è morta e che stava iniziando una nuova vita.» «Ti ha detto dove andava?»
Emir scosse la testa. «Hai conservato la lettera?» Il ragazzo annuì. «Posso vederla?» Udirono sopra di loro il rumore di un elicottero. Solomon guardò in su, ma il cielo era coperto da uno spesso strato di nuvole grigie. Quando tornò a guardare Emir, il ragazzo aveva in mano una busta sgualcita. Solomon gliela prese delicatamente. Il timbro postale era di Sarajevo, la data di circa un mese dopo che la famiglia era stata caricata in quel camion frigorifero. Solomon tirò fuori la lettera dalla busta. Era scritta a mano su un foglio strappato da un quaderno. La calligrafia era poco chiara, e Solomon faceva fatica a decifrare diverse parole, ma preferì non chiedere aiuto al ragazzo. Il messaggio di Nicole comunque era semplice: aveva visto portare via i propri familiari e non aveva dubbi che fossero stati uccisi. Lei era in fuga. Dalla fattoria, da Pristina, dal Kosovo. Aveva pensato di uccidersi, ma non ne aveva il coraggio, così aveva deciso di dimenticare ogni cosa: il suo passato, le persone che conosceva. Aveva iniziato una nuova vita, con un nuovo nome, e non sarebbe mai tornata indietro. Chiedeva a Emir di dimenticarla, ma prima della firma aveva scritto: «Sarai sempre nel mio cuore». «Soffre molto» disse Solomon, piano. «E sta cercando di cancellare dalla sua mente l'accaduto.» «Lo so» fece Emir. «Non sono stupido.» La lettera non dava indicazioni del luogo verso il quale la ragazza era diretta, o dei suoi progetti per il futuro. «Aveva amici in città? Qualcuno che poteva ospitarla?» Emir scosse la testa con forza. «Ero io il suo amico. Se avesse voluto stare da qualcuno, sarebbe venuta dalla mia famiglia.» «Ma tu non abiti in città, Emir. E forse lei voleva stare a Sarajevo.» «No. Lì non conosceva nessuno.» «Posso tenere questa lettera, soltanto per qualche giorno?» «No!» Il ragazzo gliela strappò di mano, e un pezzetto di carta rimase tra le dita di Solomon. «Guarda cosa hai fatto!» urlò Emir. Sistemò il pezzetto di carta in mezzo al foglio, lo piegò e lo fece scivolare di nuovo nella busta. «Quella lettera potrebbe aiutarmi a trovare Nicole» disse Solomon. «Lei non vuole essere trovata» ribatté il ragazzo. «È quello che dice, ma non credo sia quello che vuole. A volte le perso-
ne cercano di allontanare chi le ama, mentre ciò che vogliono davvero è di essere aiutate.» «Io non posso aiutarla.» «Tu no, ma io forse sì» proseguì Solomon. Emir infilò la lettera nella tasca interna del giubbotto. «È importante che riusciamo a trovare chi ha ucciso la famiglia di Nicole» insistette Solomon. «É importante per chi?» «Per te non lo è?» «Non torneranno in vita, no? E comunque sappiamo già chi è stato, come ha detto la nonna: quei bastardi dei serbi.» «Ma quali serbi? Dobbiamo trovarli e processarli.» «Proprio non capisci, eh?» fece Emir, sprezzante. «I colpevoli sono tutti i serbi. Ci vogliono morti. Per ognuno che riesci a mandare in galera ce ne sono altri mille disposti a fare le stesse cose. Avete mandato in galera qualche centinaio di nazisti, dopo la guerra, ma tutti i tedeschi sapevano cosa succedeva nei campi di concentramento. E ne erano contenti. In Bosnia e in Kosovo è la stessa cosa. Il processo a Milosevic è una buona pubblicità, ma se la gente non lo avesse appoggiato lui non avrebbe potuto fare nulla. Se credi che mandare in galera quattro o cinque serbi faccia una qualche differenza, sei un idiota.» Si alzò in piedi. «Non dovevo venire» concluse. «Allora perché sei venuto?» chiese Solomon, restando seduto. Emir non rispose, e gettò via il mozzicone della sigaretta. «Sei venuto perché vuoi che io la trovi» disse Solomon. «È quello che pensi tu.» «Vuoi che io la trovi, così tu potrai avere la certezza che sta bene. Perché quella lettera non è abbastanza. Tu vuoi sapere dov'è e che cosa sta facendo. Io la troverò, Emir, te lo prometto.» Il ragazzo socchiuse la bocca per dire qualcosa, poi cambiò idea e corse via, passando per il buco nella lamiera come un topo spaventato. Solomon finì la sigaretta e tornò alla macchina, pensando alle parole di Emir. Forse il ragazzo aveva ragione; mettere in galera alcuni serbi non avrebbe cambiato nulla. Ma mentre metteva in moto, Solomon giurò a se stesso che avrebbe trovato Nicole, e gli uomini che avevano ucciso la sua famiglia. Avrebbero pagato per il loro delitto e la bimba che era morta con l'orsacchiotto in mano avrebbe ricevuto giustizia. Quando tornò nel suo ufficio ci trovò Chuck Miller che lo aspettava con
i piedi sulla scrivania. «Com'è andata con la signora Tourell?» chiese appena lo vide. Solomon imprecò sottovoce. «Ha telefonato, vero?» «Certo che ha telefonato» confermò Miller, togliendo i piedi dalla scrivania. «Mezz'ora dopo che te ne sei andato. Ha detto che poteva spostare l'appuntamento a venerdì, ma che per farlo avrebbe dovuto rivedere tutta la sua agenda. Cosa cazzo stai combinando, Jack? Te la fai con l'interprete? Te la porti in qualche albergo per una sveltina?» «Non essere ridicolo!» esclamò Solomon. «Ridicolo? Non sono io che sto fregandomene altamente delle procedure d'ufficio. Abbiamo delle agende, Jack» disse, prendendo in mano quella di Solomon. «Così sappiamo dove sono le persone. E se qualcosa va storto, sappiamo dove cercare.» «Non ho avuto il tempo di riportare il cambiamento di programma sulla mia agenda.» «Col cazzo, Jack. Ero qui quando sei andato via, e mi hai mentito. Io sono il tuo capo e perché le cose funzionino devi avere fiducia in me.» Solomon sospirò. «Ascolta, Chuck, sapevo che ti saresti incazzato se avessi cancellato l'appuntamento con Lisa, così non ti ho detto nulla. E non l'ho fatto per andare a scopare in albergo.» «Qualunque sia stato il motivo, è meglio che sia importante.» «Si tratta del caso di Pristina. Quello del camion.» Miller gli puntò contro l'indice. «Lo sapevo.» «Se lo sapevi, allora perché me lo chiedi?» «Volevo che uscisse dalle tue labbra. Ti ho detto che quel caso è chiuso. Non è compito tuo giocare al detective.» «Non sto giocando» ribatté Solomon. «Sto cercando di rintracciare una testimone oculare.» «Ci penserà il tribunale.» Solomon sbuffò. «Anche loro hanno carenza di personale. Ora si occupano soltanto dei pesci grossi, o dei casi facili. E questo non è un caso facile. C'è solo una testimone oculare, ed è scomparsa. Se consegno il dossier al tribunale adesso, tutto finirà qui.» «Ventisei morti, hai detto?» «Già. Donne, bambini, anziani.» «Ed è un delitto razziale, senza ombra di dubbio?» «Erano tutti albanesi.» Miller sollevò le mani. «Quindi è un caso perfetto per il tribunale. È un
crimine di guerra con ventisei cadaveri, non possono lasciarlo perdere.» «Invece lo faranno» insistette Solomon. «Solo la testimone scomparsa ha visto cosa è accaduto. Noi sappiamo soltanto che ventisei persone sono state caricate su un camion, e il camion è finito in fondo a un lago. Senza testimoni, non si può fare nulla.» Miller gli puntò di nuovo l'indice contro il petto. «Ma questo non è un problema tuo! Il nostro budget è al limite. Ho una lista di casi pendenti lunga quanto il mio braccio, e non posso permettermi di mandarti in giro a fare l'investigatore. Punto e basta.» «Va bene» disse Solomon, in tono piatto. «Il tuo va bene non mi basta, Jack. Devi darmi la tua parola che lascerai perdere questo caso.» «E se ci lavoro nel tempo libero?» «Non hai sentito quello che ho detto? Quel dossier va mandato al tribunale. Oggi stesso.» «D'accordo.» Miller indicò la lavagna. «E quelle foto devono sparire. Oggi.» «Va bene.» «Parlo sul serio.» «Ho detto va bene.» Miller lo fissò. «Meno male. Senza rancore, eh?» «Sei tu il capo.» «Esatto.» Miller mise una mano su una spalla di Solomon. «Dovremmo andare a bere qualcosa insieme, una volta o l'altra, dopo il lavoro» dichiarò, uscendo dalla stanza. "Come no" disse Solomon, tra sé. Staccò le foto dalla lavagna, le mise in un cassetto della scrivania, poi cancellò le linee nere con cui aveva collegato le foto dei cadaveri con quelle degli ospiti della festa di matrimonio. Si sedette per un po' al computer, poi si alzò e si avvicinò alla carta stradale di Sarajevo appesa accanto alla porta. Fece scorrere il dito lungo Obala Kulina Bana, e trovò l'edificio delle Poste. Distrutto durante l'assedio, era stato appena ricostruito. Dentro era tutto mogano, ottone e pavimenti di marmo, ma erano stati spesi troppi soldi per restituirgli la gloria passata, e non ne erano rimasti abbastanza per pagare il personale. Ogni volta che Solomon vi si era recato, aveva dovuto fare code interminabili. Se Nicole era andata lì a imbucare la sua lettera, Solomon era certo che nessuno si sarebbe ricordato di lei.
Quando arrivò al lavoro, il mattino dopo, Solomon trovò sotto la tastiera del computer una nota stampata da parte di Chuck Miller. La lesse con un sospiro. Evidentemente Miller aveva pensato che l'ammonimento verbale non fosse abbastanza. Solomon non aveva dubbi che una copia di quella lettera fosse stata inserita nel suo dossier personale. Il senso era chiarissimo: doveva lasciar perdere il caso di Pristina, passarlo agli investigatori del tribunale e mantenere aggiornata la sua agenda degli appuntamenti. Solomon appallottolò il foglio e lo gettò nel cestino. Aprì il primo cassetto della scrivania dal quale prese il dossier del caso di Pristina. Lo firmò, scrisse una nota per la segretaria, dicendo di inoltrarlo al Tribunale per i Crimini di Guerra, e lo mise nel vassoio della posta in uscita. C'era un'intera pila di altri dossier che richiedevano la sua attenzione. Ne prese uno e lo aprì. Sei operai albanesi erano stati prelevati da un autobus mentre andavano al lavoro, portati in un bosco e picchiati a morte con il calcio dei fucili. Quindi gli assassini, dopo averli cosparsi di petrolio, avevano appiccato il fuoco. Il problema in quel caso non era l'identificazione dei morti (i nomi erano sui loro cartellini all'ingresso della fabbrica), ma capire a chi corrispondevano quei mucchi di ossa carbonizzate. I responsabili erano un gruppo di soldati serbi. La polizia aveva raccolto le deposizioni degli altri passeggeri del bus, tutti serbi. Nessuno aveva collaborato. Solomon non doveva fare altro che confrontare i campioni di DNA dei resti con quello dei parenti delle vittime. Non c'erano fotografie, solo pagine stampate. Era uno di quei casi che facevano salire le quotazioni di Miller: sei corpi identificati, sei famiglie informate. Caso chiuso, fine della storia. Solomon imprecò. Contro Miller. Contro la Commissione. Contro la futilità di quel lavoro. Poi riprese il dossier di Pristina dal vassoio e andò alla fotocopiatrice. Fece una copia di tutte le pagine e diverse copie della foto di Nicole; un ingrandimento del viso sorridente alla festa di matrimonio. Il tribunale poteva fare ciò che voleva con quel caso, ma Solomon avrebbe continuato a lavorarci, Miller o non Miller. Era un gran bel nome per un poliziotto, pensava Solomon, aprendo la sua seconda bottiglia di Heineken. Dragan Jovanovic. Il nome Dragan ispirava timore.
Una mano grossa come un badile gli strinse la spalla. «Hai cominciato senza di me, eh? E perché bevi quella schifezza straniera? La Sarajevsko Pivo non è abbastanza buona per te?» «Sei in ritardo, Dragan» fece Solomon, senza voltarsi. «Io lavoro, non passo il tempo a rimestare tra le scartoffie» disse il poliziotto, sedendosi sullo sgabello accanto al suo. Solomon ordinò per lui una birra locale e brindarono con le bottiglie. «Zivjeli» disse Solomon. Salute. Dragan lavorava per la Sektor Kriminalisticke Policije. Era uno dei primi poliziotti che Solomon aveva conosciuto a Sarajevo, e come tutti i poliziotti del mondo amava fare due chiacchiere davanti a un bicchiere. «Come ti va la vita, Jack?» chiese. Era un uomo enorme, alto più di un metro e novanta, con il torace ampio e cosce da sollevatore di pesi. I capelli a spazzola sulle tempie erano grigi, malgrado avesse poco più di trent'anni. Solomon fece una smorfia di disgusto. «Come hai appena detto, io rimesto tra le scartoffie. E porto cattive notizie alla gente, nemmeno fossi il quinto cavaliere.» Dragan lo guardò incuriosito, senza capire. «Cavaliere?» «Morte, guerra, pestilenza e carestia sono i quattro cavalieri dell'apocalisse. Io mi sento come se fossi il quinto, che cavalca dietro di loro: il latore di cattive notizie.» Dragan sorrise, ma era ancora confuso. «Lascia perdere, Dragan. È solo che oggi è una brutta giornata, per me.» «Non può essere peggiore della mia, amico» disse il poliziotto, pulendo il collo della bottiglia con la mano. «Un macellaio ha ucciso la moglie e...» «L'ha macellata?» Dragan sorrise, mettendo in mostra i grossi denti quadrati. «Ne ha fatto salsicce. E ne aveva già vendute più della metà, prima che un cliente andasse a lamentarsi.» «Per il sapore?» «No, perché aveva trovato un'unghia.» «Cristo, è disgustoso» gemette Solomon. Dragan finì la sua birra, e batté la bottiglia sul banco, per attirare l'attenzione del barman. «Due Sarajevsko» ordinò. «Niente più porcherie straniere per il mio amico. Se beve con un bosniaco, deve bere birra bosniaca. Giusto, Jack?» «Se paghi tu, va benissimo.» Dragan annuì, soddisfatto. «Insomma, oltre alle scartoffie e alle brutte
notizie che ti tocca dare, cosa c'è che ti disturba?» «Un caso. Accaduto a Pristina. Tre anni fa, un'intera famiglia è stata prelevata da una fattoria e fatta salire su un camion. Il camion è stato appena ripescato dal fondo di un lago. Ventisei morti.» Arrivarono le birre, i due uomini brindarono di nuovo e bevvero. Solomon continuò: «Credo che ci sia una testimone oculare. All'epoca dei fatti aveva sedici anni, ora ne ha diciannove. Si chiama Nicole Shala. I suoi genitori erano in quel camion: Agim Shala e Drita Shala». «La ragazza ha visto chi è stato?» «Credo di sì. Per questo è scappata.» Jovanovic annuì lentamente. «Le vittime erano albanesi?» Solomon sorrise. «Dovresti fare il poliziotto.» «Pristina, tre anni fa? All'epoca c'erano un sacco di uomini delle forze speciali serbe, in quella zona. Se la ragazza ha visto qualcosa, ricorderà solo uniformi e trucco mimetico.» «Inizi sempre le indagini con questo atteggiamento negativo?» «Solo quelle difficili. Il tribunale si sta occupando del caso?» «Miller mi ha ordinato di passare a loro il dossier, e lo farò. Ma sai bene anche tu quanto lavoro hanno. Daranno un'occhiata ai fogli e diranno quello che hai detto tu.» Dragan bevve un sorso di birra. «Le vittime sono state fucilate?» «No, sono morti tutti per asfissia, quando il camion è affondato nel lago.» Dragan emise un fischio sommesso. «Quindi la ragazza non li ha visti uccidere?» «Probabilmente no. Perché?» «Perché se nessuno ha visto il camion finire in acqua, qualcuno potrebbe sostenere che si è trattato di un incidente.» «Avanti, Dragan. Sai bene quanto me che è stato un omicidio.» «Sto solo facendo l'avocado del diavolo.» «Avvocato» lo corresse Solomon. «E cosa ho detto io?» «Hai detto avocado. Si tratta di un frutto verde e morbido, con un grosso nocciolo.» Solomon tirò fuori di tasca una busta e l'appoggiò sul banco, davanti all'amico. «È venuta a Sarajevo circa tre anni fa. Voglio trovarla. Qui ci sono tutte le notizie che ho su di lei e sulla sua famiglia. E gran parte delle scartoffie della Commissione su questo caso. L'ultimo suo contatto con qualcuno della famiglia è avvenuto tre settimane dopo il fatto. Ha
scritto a un amico fuori da Sarajevo, dicendogli che intendeva iniziare una nuova vita.» «Hai la lettera?» Solomon scosse la testa. «Il destinatario è innamorato della ragazza. Mi ha solo concesso di leggerla. Sulla busta c'era un timbro postale di Sarajevo.» «Questo non ci aiuta molto» disse Dragan. «Tutte le lettere imbucate nel cantone hanno il timbro di Sarajevo. Inoltre se è furba non l'avrà spedita da un ufficio vicino al luogo in cui abita.» «Non credo che sia così furba» disse Solomon. «Inoltre non si aspetta che qualcuno la cerchi. Voleva soltanto dire a quel ragazzo che stava bene e che lui doveva dimenticarla. È un'adolescente, Dragan.» «I ragazzi crescono in fretta, qui» fece il poliziotto. «Sempre se non muoiono prima. Questa Nicole aveva degli amici in città? Qualcuno che potesse occuparsi di lei?» «Credo di no. Ho l'impressione che sia venuta a Sarajevo proprio perché qui non conosceva nessuno.» «E perché non si è rivolta alla polizia?» «Cristo, Dragan, non lo so. Ha visto tutta la sua famiglia caricata su un camion. A tre di loro hanno sparato, per convincerli a salire. È abbastanza perché una persona agisca in modo irrazionale.» «E da allora nessuno ha più avuto sue notizie?» «Solo quella lettera.» Dragan sibilò tra i denti. «Non è molto.» Solomon indicò la busta. «Ma puoi cercarla, vero?» Dragan prese la busta, tirando fuori il fascio di fogli che conteneva. Si leccò il pollice e l'indice, e cominciò a sfogliarli. Quando arrivò alla fotocopia della foto si fermò. «Bella ragazza» osservò. «Non è facile per una bella ragazza sopravvivere da sola, qui.» «Cosa vuoi dire?» «Eri nella Buoncostume in Inghilterra, giusto? Sai cosa voglio dire.» Agitò la foto davanti agli occhi di Solomon. «Se una ragazza come questa arriva in città da sola, i papponi le piombano addosso come cani su un coniglio ferito. Non ci avevi pensato?» Solomon non ci aveva pensato. Non aveva neppure notato quanto era bella Nicole. Per lui era solo un'adolescente spaventata. Prese la foto dalle mani di Dragan e la fissò. Lunghi capelli biondi, naso sottile, lineamenti regolari e labbra piene. Era alta quasi quanto il padre, e il vestito metteva
in evidenza un corpo notevole. Dragan aveva ragione. Una ragazza del genere sarebbe stata una facile preda per il racket della prostituzione di Sarajevo. «Cosa faceva?» chiese il poliziotto. «Andava ancora a scuola, credo.» «Secondo me un'ora dopo essere arrivata in città era già in un bordello.» «Da quando sei diventato così cinico?» chiese Solomon. Ma la sua era una domanda retorica. Anche lui era stato un poliziotto, a Londra, e sapeva che il cinismo faceva parte del lavoro. Segnalò al barman di portare altre due birre. «Supponendo che tu abbia ragione, dove potremmo cercarla?» Dragan scoppiò in una risata rauca. «Una bella biondina adolescente? L'avranno venduta al miglior offerente. Potrebbe trovarsi in qualunque posto d'Europa.» La birra Sarajevsko in genere si trovava in bottiglie marroni, ma una delle due bottiglie che il barman mise loro davanti era verde. Dragan la prese e ne bevve diverse sorsate. Secondo i bosniaci la birra nelle bottiglie verdi aveva un sapore migliore, ma Solomon non condivideva quell'opinione. Per lui il sapore era esattamente identico. Prese la bottiglia marrone. Dragan ruttò rumorosamente. «È inutile negarlo» disse. «Noi siamo un centro di smistamento di prostitute per tutta l'Europa Centrale, lo sai bene. I Balcani sono il posto più facile da cui entrare nella Comunità Europea. E in Italia, in Germania o in Inghilterra possono guadagnare dieci volte tanto quello che guadagnano qui.» «Insomma, stai dicendo che Nicole non è più a Sarajevo?» Solomon tirò fuori le Marlboro e ne offrì una al poliziotto. Dragan la prese e accese un fiammifero con l'unghia del pollice. Solomon si chinò per accendere anche la sua. «Secondo me è la cosa più probabile» disse Dragan. «O è da qualche altra parte, o è morta.» «Avanti, Dragan. Non esagerare.» «Vuoi sapere quante puttane morte mi trovo davanti ogni mese? Overdose, suicidio, omicidio. Le prostitute non invecchiano. Non qui, almeno.» «Proviamo a essere più ottimisti, per favore. Supponiamo che non sia morta e che si trovi ancora a Sarajevo. Dove potrebbe essere?» «In un night club, se è stata fortunata. In un bordello se non lo è stata.» «E tu potresti trovarla?» «Troverei più facilmente un ago in un paglione.» «Pagliaio» lo corresse Solomon.
«Grazie per la lezione di inglese. Ma sai cosa voglio dire.» «Non mi sarei rivolto a te, se fosse stato un caso facile. Puoi farlo, Dragan?» «Stai cercando di sfidarmi, per convincermi a fare il lavoro al posto tuo?» «Cristo, Dragan, preferisci che ti offra una bustarella?» Dragan rise. «Va bene, ci proverò. Prima voglio controllare che non sia già tra le puttane trovate morte. Poi controllerò le liste dei fermati, ma senza le impronte digitali ho soltanto un nome e una foto di tre anni fa.» «Perché non chiedi alla polizia federale? Se ha passato il confine, forse loro potrebbero saperne qualcosa.» Dragan era stato per sei anni nella polizia federale, l'equivalente locale dell'FBI, prima di entrare nella polizia di Sarajevo. Era stato ispettore dell'Odjeljenje Za Organizovani Kriminalitec I Droge, il dipartimento che si occupava del crimine organizzato e della droga. Alzò le spalle. «Certo, ci proverò. Non ho più molti contatti, lì, ma forse posso ancora convincere qualcuno a dare un'occhiata agli schedari.» «Senti» disse Solomon. «Se io volessi fare un giro in quei bar frequentati dalle prostitute... è molto pericoloso?» «Non ci sei mai stato?» «Non ne ho mai sentito il bisogno.» Dragan gli rivolse un'occhiata incredula. «Stronzate.» «Ho lavorato per tre anni alla Buoncostume» disse Solomon. «E mi è passata la voglia. Inoltre in Bosnia la prostituzione è illegale, e non vorrei essere beccato in flagrante violazione della legge.» «È illegale anche in Inghilterra, no?» «Non è così semplice» disse Solomon. Finì la bottiglia, e il barman gliene mise davanti un'altra. «La prostituzione in sé e per sé non è illegale, da noi. Se vuoi pagare per fare sesso puoi farlo. Ma è illegale offrirsi di pagare per avere in cambio del sesso. Questo è molestare. È illegale anche offrire sesso in cambio di soldi. Questo è adescamento. Insomma, è la proposta a essere illegale, non l'atto in sé.» «Ma è assurdo.» «Già. Comunque, proprio perché si tratta di una zona grigia, la polizia non si preoccupa troppo di fermare le ragazze, a meno che l'adescamento non sia troppo evidente e gli abitanti del quartiere inoltrino un reclamo.» Dragan gettò indietro la testa e rise di cuore, dando una pacca sulla schiena a Solomon. «Insomma, a Londra le prostitute non infrangono la
legge, ho capito bene?» «Se non adescano gli uomini per strada, ciò che fanno è legale. Ma devono essere sole. Se una ragazza incontra un uomo in un appartamento è legale, ma se le ragazze sono due o più, si tratta di un bordello, ed è illegale.» «Che leggi sensate» fece Dragan. «È ancora più assurdo di quanto pensi» riprese Solomon. «In realtà una prostituta può avere un'altra ragazza nel suo appartamento, ma solo come governante. Se si limita a rispondere al telefono, a far entrare i clienti e a cambiare le lenzuola, è tutto legale.» «E i poliziotti controllano cose del genere?» «No. In passato lo facevano, ma ora hanno troppo da fare. Gli interessa di più arrestare i papponi.» «Meno male che fare il pappone è illegale! I papponi sono la feccia peggiore.» «Già. E la legge lo sa, infatti rischiano fino a sette anni di carcere per ciò che fanno. Ascolta, non ti andrebbe un bicchiere da qualche altra parte?» Dragan lo squadrò con sospetto. «Dove, per esempio?» Solomon scivolò giù dallo sgabello. «Non so» disse in tono innocente. «Pensavo che forse potresti mostrarmi uno di questi night club di cui parlavi.» «Mia moglie mi ripete sempre di non frequentare le cattive compagnie» disse Dragan, scendendo anche lui dal suo sgabello. «Cosa le dirò, stasera?» «È la moglie di un poliziotto. È abituata a vederti tornare tardi.» «Tornare a casa tardi dal lavoro è una cosa. Tornare a casa tardi con addosso un profumo da pochi soldi è un altro paio di maniche.» «Le spiegherò tutto io» disse Solomon. «So che le piaccio.» «Ti tollera» precisò Dragan. «Proprio come me.» Spinse Solomon verso la porta. «Avanti, se proprio vuoi portarmi sulla cattiva strada, muoviti.» Dragan si diresse a nord, fuori città, nella Golf nera quasi nuova che era la luce dei suoi occhi. «I tedeschi fanno le auto migliori» sentenziò, abbassando il finestrino e soffiando fuori il fumo. «Volkswagen, Mercedes, Audi, BMW, Rolls-Royce...» «Non cominciare, Dragan» disse Solomon. «Sai che non riuscirai a provocarmi.» «Non ti infastidisce il fatto che la più famosa fabbrica di automobili in-
glese sia ora di proprietà dei tedeschi?» «Dragan, la possibilità che io un giorno possieda una Rolls-Royce è talmente remota che non me ne frega un tubo di chi è il padrone dell'azienda.» «Un tubo?» disse Dragan. «È come dire "un cazzo'". Dove stiamo andando?» «Al Purple Pussycat. Vino, donne e musica.» «Ma perché è così lontano?» «Perché i posti come quello sono illegali. Se fossero in centro, attirerebbero troppo l'attenzione.» Solomon aspirò una boccata dalla sua Marlboro, mentre Dragan affrontava a tutta velocità una serie di tornanti da mal di stomaco. Solomon involontariamente fece il gesto di premere il piede sul pedale del freno. Dragan vide il movimento, e accelerò ancora di più. «Come fa la gente a sapere dove andare?» chiese Solomon. «Oh, lo sanno» disse Dragan, superando un camion che sputacchiava fumo nero dalla marmitta. «Le voci corrono. Gli americani della Sfor, per esempio, hanno una lista completa dei posti approvati in cui andare.» «Dei cosa?» «Dei posti approvati. Posti dove non ci saranno irruzioni della polizia.» Dragan sterzò per evitare un trattore, poi accelerò di nuovo e si voltò a sorridere a Solomon. «Non sto andando troppo forte per te, vero?» «Niente affatto» rispose Solomon. «Anzi, mi chiedevo come mai stasera vai così piano.» Dragan scoppiò in una risata ruggente. Un'auto che veniva in senso contrario si immise nella loro corsia per sorpassare, ma Dragan invece di rallentare lampeggiò e accelerò. L'auto frenò e tornò nella propria corsia, suonando il clacson a tutto spiano. «I bosniaci sono i peggiori guidatori del mondo» disse Dragan. «Sono completamente d'accordo con te» ribatté Solomon. «Sapevi che la Bosnia è uno dei pochissimi posti al mondo dove ci sono più auto che persone?» Solomon sospirò. «Sì, Dragan, me l'hai già detto.» I motivi erano due: da un lato la guerra aveva dimezzato la popolazione della Bosnia, e dall'altro il paese era diventato una specie di deposito per le auto che in Europa nessuno voleva. Qualcuno si era dato la pena di calcolare che in Bosnia ora c'erano due auto per abitante, uomo, donna o bambino.
Dragan indicò alla sua sinistra. «Eccoci arrivati» disse. Solomon vide una casa a due piani, non diversa da tutte le altre che punteggiavano le colline intorno a Sarajevo. Non c'erano insegne o luci di nessun tipo. Quando lasciarono la strada per inoltrarsi nel vialetto sterrato, Solomon contò una dozzina di auto ferme, tra cui due fuoristrada bianchi dell'ONU. Dragan parcheggiò dietro quattro berline uguali, tutte con la targa della Sfor. «Se non fosse per le forze di pace internazionali» disse, «i nostri bordelli dovrebbero chiudere.» «Qual è la differenza tra i posti approvati e gli altri?» chiese Solomon, mentre si avviavano verso la porta dell'edificio. Attraverso le finestre chiuse filtrava il pulsare di un pezzo rock. «Droga. Ragazze minorenni. Violenza.» «Queste sono le cose non approvate, giusto?» «Adoro il tuo umorismo inglese» fece il poliziotto. «Alcuni dei gestori sono grossi gangster, che trafficano in droga oltre che in donne. Gli uomini della Sfor ne sono informati, e se si fanno beccare in uno di quei posti vengono mandati a casa. Nei posti approvati invece non ci sono irruzioni. Almeno finché non finiscono sulla lista nera.» «Suona un po' troppo vicino alla mia idea di corruzione» disse Solomon. Dragan si strinse nelle spalle massicce. «La prostituzione esisterà sempre, indipendentemente da qualunque legge. Confinarla in posti sicuri se non altro provoca meno guai a tutti.» «E i posti non approvati?» «È lì che c'è la vera corruzione. I gangster ungono le ruote giuste, e quando si prepara un'irruzione vengono avvisati in tempo. Così spostano le ragazze da qualche altra parte, e tutto continua come prima.» Dragan bussò alla porta. Si aprì una finestrella, e i due furono esaminati da un uomo con un sopracciglio solo. Poi la finestrella si chiuse e la porta si aprì. L'uomo li fece entrare. Uno stereo suonava a tutto volume Paint it Black, dei Rolling Stones. Al centro della sala, una bionda in bikini danzava intorno a un palo lucido, sopra un piccolo podio. Altre cinque o sei bevevano birra sedute su un divano a elle, avvolte in vestaglie rosa identiche. «Un posto salubre» osservò Solomon. «Cosa significa?» chiese Dragan, indicando un divano vuoto. «Significa rispettabile. Stavo facendo del sarcasmo.» «Ah» esclamò Dragan. «Questa fissazione per i doppi sensi vi è costata
un impero, se non sbaglio.» Si sedettero e subito arrivò un cameriere. Dragan ordinò due birre nazionali, e chiese una sigaretta a Solomon. «Il nome cambia dopo ogni irruzione della polizia» spiegò, «ma l'interno è sempre uguale.» «Devo dedurre che eri già stato prima in questo posto?» chiese Solomon. L'altro gli puntò contro un indice ammonitore. «Ci sono stato durante le irruzioni. Non sognarti di dire a nessuno che vengo qui per piacere.» «Non ci pensavo neppure, Dragan.» La canzone finì e la bionda scese dal podio per andare a sedersi con le colleghe. Al suo posto salì una rossa con un seno prosperoso. Il cameriere portò le birre, e Dragan si mise a fissare la ballerina con occhi lascivi. «Le ragazze sono disponibili, vero?» «Per scopare? Certo.» «Come funziona?» «Basta chiedere al barman o al cameriere, e lui manderà al tuo tavolo la ragazza che hai scelto. Puoi pagarle da bere, chiacchierare con lei, e se vuoi portartela di sopra lo dici al cameriere.» «Quanto costa?» «Cinquanta marchi convertibili per mezz'ora. Cento per un'ora.» Dragan sorrise. «Ma forse nel frattempo le tariffe sono aumentate.» Quando le forze occidentali erano entrate nella Iugoslavia divisa, avevano stabilito una nuova valuta, il marco convertibile, legato al marco tedesco. Anche se ormai il marco tedesco era stato sostituito dall'euro, la valuta locale era rimasta in marchi convertibili. Dragan fece un cenno al cameriere, indicando due ragazze. L'uomo le avvisò, e loro saltarono in piedi, avvicinandosi su tacchi altissimi. Il poliziotto le pregò di accomodarsi. La più alta, una bruna con un largo sorriso e uno sguardo perennemente sorpreso si sedette accanto a Solomon, appoggiandogli una mano sulla coscia. Gli parlò in una lingua che sembrava bosniaco, ma lui non riconobbe neppure una parola. L'altra, una bionda magra con un paio di tette così grandi che potevano soltanto essere il risultato di una plastica, si sedette accanto a Dragan. Parlarono per alcuni minuti, poi il poliziotto si chinò verso Solomon. «Sono bielorusse» sussurrò. «Come tutte le altre che lavorano qui.» «E quante ce ne sono?» «Venti, mi ha detto. Un'altra dozzina arriverà la prossima settimana. Sempre dalla Bielorussia.» «È normale?» chiese Solomon. «Credevo che anche le ragazze locali a-
vessero bisogno di soldi.» «Le straniere costano meno» disse Dragan. «Ucraine, lettoni, bielorusse... dai loro un paio di dollari al giorno, e penseranno di essere ricche.» La ragazza accanto a Solomon iniziò a sfregargli la mano sull'inguine. «Puoi dirle che le pagherò da bere, ma che non voglio fare nient'altro con lei?» chiese Solomon. «Se le dici una cosa del genere se ne va. A loro non interessano i clienti che vogliono solo bere. Ordiniamo un drink, poi dirò loro che stiamo decidendo quale delle due prendere. Va bene?» «Va bene» disse Solomon. Dragan ordinò per le ragazze. Parlò ancora un po' con la bionda, quindi diede un colpetto sulla gamba a Solomon, il quale si districò dalla bruna e si avvicinò in modo che il poliziotto potesse sussurrargli all'orecchio: «La mia dice che il proprietario ha un accordo con la mafia bielorussa. Importa le ragazze solo da lì. Credo che non valga neppure la pena di mostrare loro la foto della tua albanese». Arrivarono due drink di un colore verde brillante, ma le ragazze non li toccarono neppure. Gli sfregamenti inguinali della bruna diventarono più insistenti. Solomon le sorrise, e lei avvicinò la testa alla sua, leccandogli il mento e sussurrandogli qualcosa all'orecchio. «Scusami» disse Solomon. «Parlo soltanto inglese.» «Andiamo a scopare.» «Tu parli inglese?» «Andiamo a scopare» ripeté lei. «Non sai dire altro, eh?» «Andiamo a scopare.» Solomon sorrise, suo malgrado. Lei annuì in modo invitante. Solomon scosse la testa e l'espressione della ragazza s'indurì. Si alzò in piedi, disse qualcosa alla sua amica e si allontanò, scuotendo i capelli come un cavallo ombroso. L'altra ragazza sussurrò qualcosa all'orecchio di Dragan, e quando anche lui fece un cenno di diniego con la testa se ne andò a raggiungere l'amica. «Hai visto?» disse Dragan. «Vogliono solo scopare.» «Gli altri locali sono tutti così?» «Non tutti. Alcuni sono più rilassati. Dipende dalla direzione. Qui vogliono che le ragazze ballino o scopino, senza perdere tempo in chiacchiere.» Due uomini imponenti fecero un cenno a un cameriere. Il cameriere an-
dò a chiamare le due ragazze che prima erano sedute con Solomon e Dragan, e pochi minuti dopo i due uomini le accompagnarono di sopra. «I clienti portano mai fuori le ragazze?» chiese Solomon. «A casa loro, intendo dire, o in albergo?» «Non credo» rispose Dragan. «I loro sfruttatori preferiscono averle qui, per controllarle meglio. Le ragazze non vedono i soldi: il cliente paga al pappone, e il pappone paga la ragazza. Inoltre, se non hanno i documenti in regola, per le ragazze è rischioso lasciare il bar.» «Ci sono altri posti che possiamo visitare?» chiese Solomon. «Se questo è ciò che desideri...» Solomon agitò la mano per chiedere il conto. «Solo un altro paio di locali.» «I tuoi desideri sono ordini» disse Dragan, alzandosi in piedi. «Finché continui a pagare da bere.» Un foglio cominciò a uscire dal fax, e Solomon andò subito vicino alla macchina. «Viene da New York?» gridò Miller, dal corridoio. Solomon imprecò sottovoce. L'ultima cosa che voleva era che il suo capo vedesse la lista di night club che si era fatto mandare dal suo contatto nella Sfor. «No, è per me» rispose. «Appena arriva il tuo te lo dico.» Miller si avviò verso il suo ufficio, mentre il primo foglio cadeva nel vassoio. Solomon lo prese in mano. Sul margine superiore, JC aveva scritto a mano: «Questo non l'hai ricevuto da me». Sotto c'era un elenco con una ventina di nomi e indirizzi di bar. Nel vassoio cadde un secondo foglio, poi il fax si spense. Sul margine superiore JC aveva scritto, in stampatello: «E SOPRATTUTTO NON HAI RICEVUTO DA ME QUESTO!». Sul foglio c'erano quattro nomi e indirizzi scritti a mano. JC era un sergente americano, che lavorava all'aeroporto come controllore di volo responsabile di tutti i voli americani da e per Sarajevo. Solomon lo aveva conosciuto in un bar irlandese poco dopo il suo arrivo in Bosnia, e avevano passato una piacevole serata confrontando i pregi del whisky irlandese e di quello scozzese. Entrambi erano tifosi di calcio. Erano diventati amici, e ogni volta che c'era una partita importante si trovavano in quel bar per guardarla insieme alla tivù e ubriacarsi. Solomon aveva chiamato JC, chiedendogli se era vero che esisteva una lista di posti "approvati" dalla Sfor. JC aveva riso, spiegando che c'era effettivamente una lista in circolazione, ma ciò non significava che i grandi
capi approvassero il fatto che i loro uomini frequentassero quei locali. Solomon gli aveva chiesto di mandargli la lista, e anche i nomi di altri bar con ragazze disponibili. Si portò il fax in ufficio. Il Purple Pussycat era nell'elenco dei posti approvati, come anche gli altri due bar dove Dragan lo aveva portato la sera prima. Nell'ultimo che avevano visitato c'erano anche ragazze locali. Solomon aveva mostrato loro la foto di Nicole, ma nessuna ricordava di averla mai vista. «Un ago in un pagliaio» aveva ripetuto più volte Dragan. «Sei occupato?» chiese Miller. Solomon non lo aveva sentito arrivare. Aprì il cassetto in alto e ci gettò dentro i due fogli. «Non più del solito» rispose. «A Tuzla hanno identificato un'altra dozzina di corpi. Hai voglia di andarci?» Una dozzina. Dodici gruppi di parenti in lutto. Per il quinto cavaliere era il momento di rimontare in sella. Solomon annuì. «Ci farò un salto nel pomeriggio.» «Benissimo, ti aspettano. Hai passato il caso di Pristina al Tribunale per i Crimini di Guerra?» «Certamente» rispose Solomon. Miller gli rivolse un sorriso e tornò nel suo ufficio. Solomon passò la notte a Tuzla, in compagnia di un antropologo legale, e tornò a Sarajevo la sera dopo, con la gola irritata per l'inquinamento. Si fece una doccia di venti minuti per togliersi di dosso lo sporco. Poi indossò un paio di jeans puliti, una camicia di tela, e telefonò a Dragan. Il cellulare del poliziotto era spento, e Solomon non lasciò un messaggio. Si fece un caffè, prese i due fogli che gli aveva inviato JC, e sedette sul divano a leggere la lista. Tutti i locali avevano un nome inglese, tranne uno, il Moulin Rouge. Del resto era logico, visto che la clientela era principalmente internazionale. I quattro bar elencati sul secondo foglio non erano approvati dalla Sfor, ma JC gli aveva detto che alcuni suoi amici ci andavano regolarmente, e sostenevano che ci fosse buona musica e belle ragazze. C'era sempre il rischio di un'irruzione, ma JC diceva che accadeva di rado, e di solito gli uomini della Sfor ne erano informati in anticipo. Uno dei locali, il Butterfly, era in un piccolo villaggio a sud di Sarajevo, dove Solomon era stato parecchie volte a prendere campioni di sangue ai rifugiati kosovari. Decise di farci un salto da solo. Tanto, visto che non si
trattava di un bar approvato, Dragan si sarebbe probabilmente rifiutato di accompagnarlo. Infilò in una tasca del giubbotto una foto di Nicole e si diresse verso la sua macchina, ma poi ci ripensò. Non gli sembrava il caso di lasciare un veicolo con la targa diplomatica e il logo della Commissione parcheggiato davanti a un bordello. Arrivò sulla strada principale e fermò un taxi. Diede all'autista le indicazioni e si diressero verso le montagne. Il Butterfly era in un edificio nuovo alla periferia del villaggio. Nel parcheggio c'era posto per una dozzina di macchine, ma ce n'erano soltanto cinque, tutte Volkswagen. Solomon chiese all'autista se poteva aspettarlo, ma l'uomo scosse la testa e tese la mano per ricevere i soldi della corsa. Solomon pagò e restò a fissare la casa, mentre il taxi si allontanava. Si era già pentito di non aver usato la sua macchina. Sperava solo di poter chiamare un altro taxi dal telefono del bar. Si avvicinò alla porta e sollevò la mano per bussare, ma la porta si aprì e ne uscirono due uomini, che puzzavano di whisky e di sigarette turche. Sorrisero a Solomon e si avviarono barcollando verso una delle Volkswagen. Solomon entrò nel locale. La direzione non aveva scelto a caso il nome. Le farfalle, butterfly in inglese, rappresentavano il tema decorativo del bar. Foto incorniciate delle diverse specie erano appese alle pareti, e farfalle di carta pendevano dal soffitto, agitando le ali nel fumo delle sigarette. Tutto il pianterreno era costituito da un'unica sala, piena di divanetti di vimini e tavolini da caffè su cui campeggiavano grandi portacenere a forma di farfalle. Un cameriere molto giovane, con i capelli legati in un codino e i baffetti sottili, condusse Solomon fino a un divano vuoto, e prese la sua ordinazione: una bottiglia di Heineken. «Vuole una ragazza?» gli chiese in bosniaco, indicando con un cenno del capo la mezza dozzina di ballerine sedute su alti sgabelli lungo il bancone del bar. Le ragazze indossavano vestaglie di seta di vari colori, con disegni di farfalle sulla schiena. Si voltarono tutte a guardarlo, con grandi sorrisi. Altre due stavano danzando intorno a un palo di metallo, su un podio ovale al centro della sala. Anche loro sorrisero a Solomon, e una agitò i seni nella sua direzione. «Forse tra un po'» disse Solomon al cameriere. Si dedicò a studiare il locale. Le ragazze tornarono a voltargli le spalle.
Quattro uomini robusti in giacche di pelle erano seduti accanto alla porta. Tutti quanti avevano davanti una bottiglia di Sarajevsko. Uno alzò la birra verso di lui e gli sorrise, con occhi freddi. Buttafuori, senza dubbio. C'erano una ventina di clienti, quasi tutti con una ragazza accanto, e tutti fumavano. Solomon accese una Marlboro. Il cameriere tornò con la sua birra e con una ciotola di noccioline. Solomon indicò le ragazze sedute al banco. «Qualcuna di loro parla bosniaco?» «Certo» disse il cameriere, grattandosi i baffetti. «Ma per fare sesso non è necessario parlare. Vede quella bionda con i capelli lunghi?» «Parla bosniaco?» «No» sorrise il ragazzo. «Ma farà tutto ciò che lei desidera.» Si chinò verso Solomon. «E intendo dire proprio tutto. Può anche farle del male, se vuole. A lei piace.» «Voglio solo una ragazza che parli bosniaco» insistette Solomon, reprimendo l'impulso di dargli un pugno in faccia. «Non abbiamo ragazze bosniache, qui» disse il cameriere. «Sono tutte ucraine o lettoni.» «Non m'interessa di dove sono» spiegò Solomon, paziente. «Ne voglio solo una che parli bosniaco, o meglio ancora inglese.» Il cameriere ne indicò una tra quelle sedute al banco. «È ucraina, ma parla inglese.» Si trattava di una bruna dai capelli corti, che in quel momento aveva la testa appoggiata sulla spalla della ragazza accanto a lei. «Bene» fece Solomon. «Me la mandi.» «Può andare di sopra» disse il cameriere. «C'è una stanza libera. Cinquanta marchi per mezz'ora, tutto compreso, anche i preservativi.» «Vorrei prima bere qualcosa con lei» disse Solomon. Il cameriere alzò le spalle e si avvicinò al banco. Parlò con la ragazza in questione, che si voltò a fissare Solomon, e poi annuì. Pochi secondi dopo era seduta di fronte a lui. Poteva avere diciotto o diciannove anni. «Vuoi una ragazza che parli inglese, ho sentito» disse, con un forte accento. «Già. Mi chiamo Jack» fece Solomon, tendendo la mano. Lei sorrise, mostrando denti bianchissimi, che contrastavano con le dita macchiate di nicotina. «Lyudmilla.» «Bel nome» disse Solomon. «Sei ucraina?» «Come lo sai?» chiese lei, nervosa. «Ci siamo già visti?» Solomon sorrise, cercando di metterla a suo agio. «Me l'ha detto il came-
riere e mi ha detto anche che parli bene l'inglese.» «Non tanto bene» disse lei. «L'ho studiato un po' a scuola.» «Sei molto lontana da casa.» «E tu? Sei americano?» «Inglese.» «Ma ti piacciono le sigarette americane, vero?» Allungò una mano e tirò fuori una Marlboro dal pacchetto di Solomon, tenendola tra le dita con le unghie laccate di rosso, mentre lui l'accendeva. «Come mai sei venuta a Sarajevo?» chiese Solomon. «Per lavorare.» «Qui si guadagna di più?» «Certo» rispose lei. «In Ucraina non c'è niente. Qui ci sono gli impiegati dell'ONU, quelli delle organizzazioni di beneficenza, i soldati... e tutti hanno soldi da spendere.» Sorrise, invitante. «E tu, Jack? Hai soldi da spendere?» «Quanti anni hai, Lyudmilla?» «Perché? Sono troppo vecchia, per te?» «Probabilmente potrei essere tuo padre» disse Solomon. «A me piacciono gli uomini maturi» osservò lei, allungando una mano sotto il tavolo per stringergli una gamba. Ricomparve il cameriere, e Solomon gli chiese di portare un altro drink a Lyudmilla. La ragazza sorrise. «Allora ti piaccio?» «Certo che mi piaci.» «Andiamo di sopra?» «Lyudmilla, voglio soltanto un drink.» «Non vuoi me?» Solomon la guardò attentamente. Occhi verdi, labbra piene, pelle bianchissima, seni sodi che premevano contro il top del bikini, gambe lunghe dalla pelle di seta. Se non fosse stata una prostituta, e se non fosse stata così giovane da poter essere sua figlia, sì, l'avrebbe voluta. Lei fraintese il suo sguardo e gli accarezzò di nuovo la gamba, vicino all'inguine, con un'espressione di attesa negli occhi. «C'è una stanza libera di sopra» disse poi. «Solo cinquanta marchi per mezz'ora. Le lenzuola sono pulite.» Solomon le prese la mano e la tolse dalla sua gamba. «Sono sposato» mentì. «Quasi tutti quelli che vengono con me sono sposati» dichiarò lei, un po' seccata. «Ti stai prendendo gioco di me.»
«No, davvero, non è così.» Il cameriere portò un bicchiere di qualcosa che sembrava coca-cola, e lo mise davanti alla ragazza. Lei bevve un sorso, e si leccò il labbro superiore. Solomon tirò fuori la foto di Nicole. «Chi è quella, tua moglie?» fece la ragazza, ancora fingendo di essere irritata. «È una persona che sto cercando» disse Solomon. «L'hai mai vista prima?» Lyudmilla guardò la foto, e Solomon vide un lampo nei suoi occhi. «Perché vuoi trovarla?» «L'hai mai vista prima?» ripeté Solomon. «Non ne sono sicura. Potrei chiedere alle altre ragazze.» «Si chiama Nicole, e questa è una foto vecchia, di circa tre anni fa.» «Qui nessuno usa il suo vero nome» disse la ragazza. «Il nome è la prima cosa che cambiamo. Sei un poliziotto?» «No» rispose Solomon. «Lavoro per un'organizzazione internazionale. Un mio amico ha conosciuto questa ragazza, poi è dovuto tornare a Londra. Vorrebbe contattarla, ma ha perso l'indirizzo.» «Puoi darmi il nome e l'indirizzo del tuo amico, e se dovessi vederla glieli passerò.» «Allora la conosci?» «Qui passano una quantità di ragazze. Attaccherò la foto nello spogliatoio.» «Non voglio causarle guai, sul serio.» Tese la mano per riavere la foto. «Ha lavorato qui, vero?» Lyudmilla si morse il labbro. «Si faceva chiamare Amy. E aveva i capelli neri, non biondi come in questa foto.» «Dov'è adesso?» Lyudmilla gettò uno sguardo nervoso ai quattro uomini seduti accanto alla porta. «Si trova ancora a Sarajevo?» «È a Londra. Ci è andata quattro mesi fa.» «E cosa fa a Londra?» chiese Solomon. Lyudmilla sbuffò. «Secondo te? È andata a lavorare.» «Chi ce l'ha mandata?» «Perché vuoi saperlo?» «Sono soltanto curioso.» «Hai detto che un amico voleva scriverle.»
Solomon cercò di sorridere in modo rassicurante. «Il mio amico vorrà sapere dov'è e cosa fa, questo è tutto.» «Fai domande come un poliziotto» disse Lyudmilla. Appoggiò la foto sul tavolo e si alzò in piedi. «Non hai finito il tuo drink» disse Solomon. Lei non rispose, e si allontanò verso il bagno delle donne. Prima che la porta si chiudesse alle sue spalle si voltò a guardarlo. Solomon bevve un sorso dalla sua Heineken, poi spense la sigaretta nel portacenere a forma di farfalla. Si diresse verso il bagno degli uomini, ma all'ultimo momento entrò in quello delle donne. Lyudmilla era davanti a uno specchio, intenta a darsi il mascara sulle ciglia. Appena lo vide fece un passo indietro. «Non puoi entrare qui.» «Ti preoccupano quei tizi vicino alla porta? Possiamo andare da qualche altra parte. Potresti dire che ti porto in un albergo.» «Io non posso andare in albergo» mormorò lei, gettando uno sguardo nervoso alla porta. «Posso andare solo di sopra con i clienti. Per favore, va' via. Qualcuno potrebbe averti visto entrare qui.» «Ti pagherò» disse Solomon. «Vuoi scoparmi?» «Voglio parlarti.» Lei aprì la bocca, ma prima che potesse dire qualcosa la porta si spalancò, ed entrò un uomo basso e robusto, in giacca di pelle marrone. Aveva in mano la foto di Nicole, che Solomon aveva lasciato sul tavolo. «Chi cazzo sei?» ringhiò. Era uno dei quattro uomini seduti accanto all'ingresso. «Volevo solo parlare con Lyudmilla» disse Solomon. L'uomo gli agitò la foto sotto il naso. «E questa dove l'hai presa?» Solomon gli spostò il braccio. «Non sto cercando guai.» «Non m'interessa cosa cerchi» sibilò con rabbia l'uomo. «Voglio sapere perché sei venuto nel mio bar a fare domande.» Lyudmilla stava tremando. «Stava solo cercando Amy...» L'uomo la interruppe con uno sguardo minaccioso. «Non sto parlando con te, puttana. Esci di qui e vedi di guadagnare un po' di soldi, se no dirò ai ragazzi di portarti di sopra.» Lyudmilla corse fuori dal bagno immediatamente. «Ti piace terrorizzare le donne, eh?» fece Solomon. «Dammi il tuo portafogli» disse l'uomo. «Col cazzo» rispose Solomon. L'uomo infilò una mano nella giacca, estrasse una pistola e la puntò al
petto di Solomon. «Il portafogli.» «Non c'è bisogno di minacciarmi» disse Solomon, facendo un passo indietro. «Voglio sapere chi sei. Dammi il portafogli.» «Davvero, sto solo cercando la ragazza della foto, questo è tutto.» L'uomo appallottolò la foto con la mano sinistra, e la gettò in faccia a Solomon. «E credi di poter venire così nel mio bar, a fare domande e a infastidire le ragazze? Se questo è ciò che pensi, ti sbagli.» Spinse la canna della pistola nello stomaco di Solomon. «Il portafogli.» Solomon lo tirò fuori di tasca lentamente, e lo aprì per mostrare la sua tessera della Commissione. «Sei un poliziotto» sbraitò l'uomo. «No, sono un coordinatore. Mi accerto che tutto si svolga nel modo previsto.» «So quello che fate, voialtri. Accusate la gente di crimini di guerra.» «No, noi siamo investigatori forensi. Identifichiamo i morti.» L'uomo gli colpì una guancia con la canna della pistola, facendolo sanguinare. Alzò di nuovo la pistola, ma Solomon gli sferrò un pugno sul mento. Si vide riflesso nello specchio, con la guancia sinistra sporca di sangue e uno sguardo da pazzo. Erano più di dieci anni che non si trovava coinvolto in una rissa, e l'ultima volta aveva con sé due detective e sei agenti. L'uomo grugnì e gli puntò la pistola in faccia. Solomon l'afferrò, riuscendo a bloccare il cane con il pollice, e la deviò di lato. L'uomo sollevò un ginocchio e gli assestò un colpo all'inguine che gli fece mollare la presa sulla pistola. A quel punto, con lo sguardo annebbiato, lo colpì sulla testa con il calcio dell'arma. Solomon barcollò, ma riuscì a sferrargli un calcio nel momento in cui l'altro premeva il grilletto. La pistola sparò verso l'alto. Il proiettile gli sibilò accanto all'orecchio e andò a piantarsi nel soffitto. Sferrò un altro calcio, l'uomo si piegò e Solomon lo prese per le spalle, sbattendogli la testa contro la parete. La pistola cadde sul pavimento con un rumore metallico. Quello cercò di afferrarla, ma Solomon gli mollò un calcio nelle costole, poi un altro e un altro ancora, finché l'uomo restò immobile sul pavimento del bagno. Solomon si chinò su di lui, con il fiato grosso, e gli appoggiò due dita sul collo. Le pulsazioni erano regolari. Mentre si rialzava la porta si spalancò di nuovo ed entrarono due buttafuori, con le pistole in mano. Uno afferrò Solomon per il bavero e lo sbatté contro la porta di un gabi-
netto, togliendogli il fiato. L'altro corse ad aiutare l'uomo a terra. «Voleva uccidermi» farfugliò Solomon, in bosniaco. L'uomo che lo teneva fermo lo spinse fuori del bagno. Solomon cercò di voltarsi, ma si trovò a faccia in giù sul pavimento. Senti la canna di una pistola contro la nuca. «Sei morto» sibilò l'uomo. Solomon udì il clic del cane che veniva sollevato, e si maledisse per essere andato in quel locale da solo. Poi udì l'esplosione di una porta sfondata, e voltò la testa in quella direzione. La porta del bar era spalancata. Nella sala c'erano quattro poliziotti in uniforme, tutti armati. Urlarono all'uomo che teneva Solomon incollato al pavimento di gettare la pistola, ma lui la puntò contro di loro, mentre Solomon rotolava verso la parete. «Metti giù la pistola!» urlò il sergente. «Adesso!» Le ragazze si dispersero strillando. Il barman sparì sotto il bancone. I clienti cercavano di nascondersi dietro i divani. L'altro buttafuori uscì dal bagno delle donne, e due agenti lo tennero sotto tiro. «Gettate a terra le armi, o apriremo il fuoco!» urlò il sergente, facendo un passo verso l'uomo che aveva gettato a terra Solomon. «È la vostra ultima possibilità.» Il sergente era un uomo robusto, con grossi baffi e la barba di un giorno sulle guance. L'uomo lo ignorò, e urlò all'altro buttafuori seduto al tavolo accanto alla porta: «Tira fuori la pistola!». L'altro spinse indietro la sedia e afferrò l'arma. Gli agenti si strinsero l'uno contro l'altro, improvvisamente meno sicuri della loro autorità. Il sergente ignorò l'uomo accanto alla porta, e si avvicinò a quello che aveva urlato, tenendogli la pistola puntata contro il viso. Solomon, seduto a terra contro il muro, non riusciva a staccare gli occhi dalla scena. I due erano entrambi alti e grossi, con l'aria di non essere abituati a cedere. Ognuno teneva la pistola puntata contro il viso dell'altro. «Ti sparo» disse il sergente. «Vaffanculo» fece l'uomo. «Abbassa la pistola.» «Abbassala tu.» Il sergente strinse le labbra. Il dito sul grilletto divenne bianco dalla tensione. «Questo è il nostro territorio» disse l'uomo al sergente. «Siamo noi la
legge, qui.» Il sergente rimase in silenzio. Una ragazza iniziò a singhiozzare. Lyudmilla teneva un fazzoletto appoggiato alla bocca. Gli altri poliziotti cercavano di riaffermare la loro autorità, puntando le pistole con entrambe le mani e urlando ordini secchi: «Giù le pistole! Mettete giù le armi o spariamo!». Il sergente doveva sapere che se avesse premuto il grilletto si sarebbe scatenato un inferno, e sarebhero morte chissà quante persone. Fissava l'uomo davanti a sé, senza dire una parola. «Lo sai per chi lavoriamo?» chiese l'uomo. «Questo bar è di Petrovic. Sai quello che farà Petrovic a te e alla tua famiglia? Credi che se gettiamo le pistole sarà tutto finito? Ti sbagli, amico. Sarà solo l'inizio.» Per la prima volta Solomon colse un'ombra di dubbio sul volto del sergente. «Andatevene ora, e dimenticheremo tutto» fece l'uomo. Il sergente si voltò a guardare Solomon. «Mi uccideranno» disse Solomon. «Se ve ne andate mi uccideranno.» Il sergente fece un passo indietro e abbassò la pistola. L'uomo di fronte a lui sorrise, ma prima che potesse dire qualcosa, nel locale irruppero sei soldati americani, in tenuta da combattimento. Si sparsero nella sala, gridando e agitando le armi. I tre gorilla gettarono le pistole, e i poliziotti ne approfittarono per costringerli a stendersi a terra, a faccia in giù. Due soldati si affiancarono al sergente, puntando le armi contro l'uomo che lo fronteggiava. L'uomo li fissò con uno sguardo feroce, poi abbassò la pistola e la fece cadere al suolo. I due soldati gli afferrarono le braccia, portandole dietro la schiena. Un poliziotto tirò fuori un paio di manette, e le fece scattare ai polsi dell'uomo. Uno dei militari era un tenente. Si rivolse al sergente. «Cosa succede qui?» chiese, in un bosniaco fortemente accentato. «Stavano per uccidermi» intervenne Solomon, prima che il poliziotto potesse parlare. L'ufficiale lo fissò, perplesso. «Lei è inglese?» «Lavoro per la Commissione Internazionale per i Morti in Guerra» spiegò Solomon, tirandosi in piedi. La testa gli scoppiava, e aveva la camicia intrisa di sangue. «Come si chiama?» chiese il tenente. «Jack Solomon.»
«Chi le ha fatto questo?» chiese il tenente, indicando il taglio che Solomon aveva sul viso. Un poliziotto aprì la porta del bagno delle donne. «Non è nulla» disse Solomon. «È tutto a posto.» Voleva soltanto uscire da quel bar. «Non è affatto tutto a posto» disse l'ufficiale. «Abbiamo sentito uno sparo.» «Avevamo la situazione sotto controllo» disse il sergente, in inglese. «Stavano per gettare le armi.» «Cosa è successo?» chiese il tenente a Solomon. «Si è trattato di un malinteso» rispose Solomon. Il poliziotto che era entrato in bagno si affacciò alla porta. «C'è una cosa che deve vedere, sergente.» Solomon fece per avviarsi verso l'uscita, ma il tenente americano gli intimò di restare. Lasciò un uomo a sorvegliarlo, e seguì il sergente in bagno. Entrambi tornarono pochi minuti dopo. «Cosa è successo a quell'uomo?» chiese il sergente a Solomon. Nel frattempo un agente stava chiamando via radio un'ambulanza. Prima che Solomon potesse parlare, il gorilla ammanettato cercò di dargli un calcio all'inguine. «È stato lui a ridurlo così» gridò l'uomo. «Mi ha minacciato con una pistola.» «Lì dentro non c'è nessuna pistola» disse il sergente. «L'hanno presa i suoi uomini.» «E cosa ci facevate voi due nel bagno delle signore?» chiese il sergente. «Questo è assurdo» protestò Solomon. «Io sono la vittima.» «Ma non è lei che si trova svenuto sul pavimento» ribatté il sergente. «È meglio che venga con noi.» «Sono in arresto?» «Se rifiuta di venire con le buone l'arresterò» disse il sergente. «E loro?» chiese Solomon, indicando i gorilla ammanettati. «Sono loro che per poco non hanno provocato una strage, qui dentro.» «Al commissariato ci occuperemo anche di loro» fece il sergente. Solomon si rivolse al tenente. «Lei permetterà che mi portino via?» «Sembra un caso di competenza della polizia» rispose l'ufficiale. Solomon capì che era inutile discutere. Fu portato fuori da due agenti, che lo fecero salire sul retro di un furgone blu. Uno dei due salì con lui. I gorilla del night furono caricati in un altro furgone. «Ha già fatto testamento?» chiese a Solomon il poliziotto che era salito
con lui. «Cosa?» «Lo sa chi è l'uomo che ha pestato?» emise un fischio sommesso. «Ha fatto un grosso errore. Un grossissimo errore.» Arrivò un'ambulanza a sirene spiegate. Due uomini in camice verde entrarono nel bar con una barella e riapparvero meno di un minuto dopo con il ferito. Lo caricarono sull'ambulanza e ripartirono a tutta velocità. I soldati americani salirono sui loro veicoli, un Humvee verde e due Jeep. Un poliziotto in uniforme si mise al volante del furgone in cui si trovava Solomon e accese il motore. Il sergente salì al suo fianco e partirono. Per tutto il viaggio fino a Sarajevo nessuno parlò. Parcheggiarono davanti al commissariato centrale, su Mis Irbina Street. Solomon oltrepassò una porta di ferro e fu condotto in una sala dove una poliziotta in divisa e con l'alito che puzzava d'aglio gli tolse il portafogli, le scarpe e la cintura, dandogli un modulo da firmare. Era scritto in bosniaco. Solomon cercò di leggerlo, ma l'agente batté con impazienza il dito sul punto in cui doveva mettere la firma. Solomon firmò e chiese se poteva fare una telefonata. «Dopo» fu la risposta. Solomon si voltò verso il sergente, che si trovava alle sue spalle. «Conosce Dragan Jovanovic?» chiese. «So chi è» disse il sergente. «Potrebbe chiamarlo a casa e dirgli ciò che è successo?» Dragan lavorava in quel commissariato, ma ovviamente non poteva essere in ufficio a quell'ora. «Venga con me» disse la poliziotta, appoggiandogli una mano sulla spalla. Solomon si liberò dalla stretta e fissò il sergente. «Lo farà?» Prima che il sergente potesse parlare, la poliziotta affondò le dita nella spalla di Solomon, e lo trascinò via, lungo un corridoio dal pavimento in pietra. Lo fece entrare in una cella dalle pareti dipinte di verde, con una finestrella alta a sbarre. C'era un letto di metallo con un sottile materassino in gomma, e un secchio di plastica che puzzava di orina stantia. La porta, a spranghe di metallo, si chiuse dietro di lui. «Dragan Jovanovic» gridò Solomon alla donna che si allontanava. «Qualcuno lo chiami, per favore, e gli dica che sono qui.» Sul pavimento di pietra risuonarono dei passi misurati. Solomon sedeva con la testa tra le mani, e non alzò lo sguardo. Un paio di mocassini entra-
rono nel suo campo visivo e lui imprecò. Conosceva soltanto una persona in tutta Sarajevo che indossava scarpe come quelle. «Hai una vaga idea dei danni che la tua scappatella notturna ha procurato alla commissione?» domandò Chuck Miller. Era una domanda retorica, perciò Solomon non sollevò lo sguardo e non rispose. Aveva trascorso in cella tutta la notte e la maggior parte della mattina, e aveva dormito sì e no un paio d'ore. «Noi abbiamo una posizione in questa città» continuò Miller, in tono piatto, come se stesse leggendo da un foglio. «Svolgiamo un lavoro che non può essere svolto dai locali, e dobbiamo mantenere un'apparenza di rispettabilità. Dobbiamo dimostrare di essere migliori di loro.» Solomon alzò gli occhi. «Perché sei qui, Chuck?» «Perché, secondo te?» «Non lo so. Per ridere alle mie spalle?» «Qui non c'è niente da ridere» ribatté Miller, secco. «Sono qui per toglierti dai guai.» «Non ho bisogno del tuo aiuto.» «Davvero? Hai idea di quanto sia precaria la tua situazione?» Solomon si strinse nelle spalle. «Che cosa ti è venuto in mente? Hai scatenato una rissa in un bar.» «Non è andata così.» «Hai mandato un uomo all'ospedale.» «Se lo meritava.» «Non fare lo scemo, Jack. Lo hai quasi ucciso. Che cavolo ci facevi in quel night? Mi devi una spiegazione.» Solomon sospirò. «Non ti piacerà.» «Questo è scontato.» Solomon desiderava intensamente una sigaretta, ma quando era stato arrestato gli avevano tolto anche le Marlboro e lo Zippo. «Stavo cercando la testimone oculare del caso di Pristina.» Miller diede una manata contro le sbarre della cella. «Non ti avevo detto di passare quel caso al tribunale?» «L'ho fatto.» «Allora perché continui a occupartene?» «Voglio trovare quella ragazza. Voglio sapere cosa ha visto.» «Avevi promesso di lasciar perdere.» «Mi dispiace.» «Non mi interessa» disse Miller. «Non puoi continuare a mentirmi così.
Sono il tuo capo, e merito la tua lealtà, se non il tuo rispetto.» «Che altro posso dire? Ho detto che mi dispiace.» «Cos'ha quel caso di così importante? Ci sono quarantamila desaparecidos nei Balcani, e la maggior parte sono stati assassinati. Perché hai preso questa faccenda in modo così personale?» «Perché se non la seguo io non lo farà nessuno. Perché ventisei uomini, donne e bambini sono morti soffocati in quel camion, e qualcuno deve prendere i responsabili.» «E quel qualcuno devi essere tu.» «In mancanza di altri, sì» disse Solomon, fissandolo negli occhi. «È così, Chuck.» Miller sostenne il suo sguardo. «Il tizio che hai picchiato, Ivan Petrovic, conosceva la ragazza?» «Lavorava nel suo club, fino a pochi mesi fa.» «Come prostituta?» Solomon annuì. «Sai in che guaio ti sei cacciato, vero?» chiese Miller. «Non credo che lui sporgerà denuncia» fece Solomon. «Una denuncia è l'ultimo dei tuoi problemi. Sai chi è?» chiese Miller. «È uno sfruttatore di prostitute» rispose Solomon. «Non si rivolgerà alla polizia.» «Non ne avrà bisogno. Ti farà uccidere non appena uscirà dall'unità di terapia intensiva.» «Stronzate» sbraitò Solomon, appoggiando la schiena contro il muro della cella. «Ivan Petrovic non è un semplice pappone. È uno dei più grossi mafiosi del paese.» Solomon chiuse gli occhi. «Come hai saputo che ero qui, Chuck?» chiese. «Ho ricevuto una telefonata. Da uno di qui. Mi ha detto cosa era accaduto, e mi ha raccomandato di farti uscire dal paese.» Solomon annuì. Sicuramente era stato Dragan a chiamare Miller. Quando aveva scoperto l'identità dell'uomo che Solomon aveva pestato, Dragan doveva aver deciso di non farsi coinvolgere nella faccenda. E aveva ragione. I poliziotti guadagnavano troppo poco in Bosnia, per questo la corruzione era tanto diffusa. E senz'altro alcuni colleghi di Dragan erano sul libro paga di Petrovic. «Ho parlato con la polizia» disse Miller. «Mi hanno detto che se garanti-
sco loro di metterti sul primo aereo che parte da Sarajevo, chiuderanno un occhio.» «Mi stai licenziando?» chiese Solomon. «No. Il tuo lavoro sarà sempre qui, ma stai per prenderti i due mesi di ferie che ancora ti spettano. Più un altro mese di aspettativa non pagata. Dopodiché, se le acque si saranno calmate, potrai tornare.» «È ridicolo» protestò Solomon. «O fai ciò che ho detto, o ti licenzio sul serio. Non posso permettermi di avere un mafioso del calibro di Petrovic che scatena una caccia all'uomo.» «So badare a me stesso, Chuck.» «A Londra, forse. Ma qui siamo a Sarajevo. E comunque non puoi svolgere il tuo lavoro qui se devi guardarti costantemente le spalle. Ascolta, le ferie ti spettano di diritto. Prenditi una vacanza, ricarica le batterie. Fra tre mesi Petrovic potrebbe essere morto, da come vanno le guerre tra bande.» «A Londra non ho nulla da fare.» «Hai una famiglia.» «Ho una ex moglie a cui non dispiacerebbe vedermi morto.» «Allora vai da un'altra parte. Vai al mare. Ti spetta un biglietto pagato per Londra. Dopo di che la meta che sceglierai sono affari tuoi.» «Grazie tante, Chuck.» Miller sospirò. «Pensi che io sia un bastardo, vero?» Solomon non rispose. «Non è così» disse Miller. «Ho fatto il tuo lavoro per due anni, e allora avevamo la metà del personale che abbiamo oggi. Ciascuno di noi ha il suo modo di affrontare questo lavoro. Io lo considero come un esercizio accademico. Quei morti non sono persone. Sono casi da chiudere o dà passare a qualcun altro. Se cominci a considerarli individui, sei finito. Capisci?» «Ho sentito ciò che hai detto» mormorò Solomon. Miller continuò: «Stai pensando che a me non importi nulla di nessuno? Non è così. È solo che non voglio provare di nuovo quella maledetta empatia. Non voglio tornare a immaginare come ci si può sentire mentre si è in fila in un campo in attesa che un proiettile ti faccia esplodere la testa. O a essere rinchiusi in una chiesa che poi viene incendiata. O in un camion, con altre venticinque persone destinate a morire soffocate. Ho un'immaginazione piuttosto vivace, e mi rifiuto di usarla per rendere la mia vita un inferno.» Solomon sentì un moto improvviso di simpatia verso Miller. Nei due anni in cui avevano lavorato insieme, quella era la prima volta che Miller
si apriva con lui. «Mi dispiace, Chuck» disse. «Vaffanculo» scattò Miller. «Non ho bisogno della tua comprensione.» «Volevo dire che mi dispiace di averti causato tutti questi problemi. Mi dispiace davvero.» Miller gli voltò la schiena. «Allora vattene, d'accordo? I poliziotti stanno già preparando i documenti. Tra un'ora o due sarai fuori. Va' a casa a dormire. Ti farò recapitare il biglietto. Quando arrivi a Londra chiamami.» Si allontanò senza lasciare a Solomon il tempo di dire nulla. Appena entrato in casa, Solomon fu accolto da una nuvola di fumo dolciastro. Dragan Jovanovic era seduto sul divano, con i piedi sul tavolino. «Non avresti bisogno di un mandato, prima di scassinare la serratura di un onesto cittadino?» chiese Solomon, chiudendo la porta. «Non ho scassinato nulla. Ho solo aperto la porta con un sistema diverso dalla chiave.» «E ti avevo pregato di non fumare quelle sigarette turche qui dentro. L'odore resta per giorni.» «Non sono riuscito a trovare le tue Marlboro» disse Dragan. Indicò cinque bottiglie di Heineken vuote sul pavimento, e una ancora piena per metà sul tavolino. «Però ho trovato la birra.» Solomon restò in silenzio. Andò in cucina, prese una bottiglia dal vecchio frigorifero e andò a sedersi su una poltrona di pelle. Sollevò la bottiglia in direzione di Dragan. «Zivjeli» disse. «Zivjeli» gli fece eco Dragan, sollevando la sua birra. «Com'era l'hotel?» «Uscire è stato molto più piacevole che entrare» fece Solomon. «Avrei apprezzato una tua visita.» Il viso di Dragan si allargò in un sorriso. «L'uomo che hai mandato all'ospedale gioca a biliardo con il mio comandante ogni sabato.» «Be', credo che la partita del prossimo sabato dovranno rimandarla» disse Solomon. «Sei stato fortunato.» «Fortunato? Mi buttano fuori dalla città, Dragan.» «Se quella pattuglia di soldati non avesse sentito lo sparo, adesso saresti morto.» «Stronzate» brontolò Solomon. Ma poi ricordò il suono del cane del revolver pronto a scattare. «Non sono stronzate. Lo hai attaccato nel suo territorio. Nessuno se lo aspettava. È come andare a Buckingham Palace e prendere a calci la regina. Se non fossero passati quei soldati, ora saresti un cadavere.»
Dragan vuotò la bottiglia, ne prese una piena accanto al divano e la stappò con i denti. Spense la cicca e tese la mano. Solomon gli tese il suo pacchetto di Marlboro, e Dragan si accese una sigaretta. «È davvero un tipo così pericoloso?» chiese Solomon. «Anche di più. Comunque gli hai spappolato la milza.» «Merda.» «Già. Sei proprio nella merda. L'inferno diventerà freddo, prima che lui dimentichi ciò che gli hai fatto.» «Miller dice che posso tornare fra tre mesi. Tu cosa ne pensi?» «Penso che se ora resti in città, Petrovic ti ucciderà. Se te ne vai, probabilmente non ti farà cercare. Se torni fra tre mesi... non so. Non è un periodo molto lungo.» «Mi ha minacciato con una pistola, Dragan. Mi ha anche colpito con la canna.» Solomon ingurgitò un lungo sorso di birra. La schiuma gli colò sui pantaloni e cercò di pulirla sfregandoci sopra la mano. «Quindi secondo te qui ho finito» concluse. «Non necessariamente» disse Dragan. «Il mio comandante non vorrà che il coordinatore della Commissione per i Morti in Guerra venga assassinato durante il suo periodo qui.» «Questo è rassicurante.» «Gli parlerò, appena possibile. Gli dirò della pistola. Lui aspetterà che Petrovic si sia calmato, poi faranno due chiacchiere. Forse Petrovic accetterà di lasciare le cose come stanno, e forse no. Questo lo vedremo a suo tempo.» «Il tuo comandante è sul libro paga di Petrovic?» Dragan fece una smorfia. «Jack...» «Ma hai detto...» «Dimentica quello che ho detto. Se hai intenzione di ricordare tutto ciò che dico, terrò la bocca chiusa.» Solomon rise. «Sarebbe la prima volta. Hai detto che giocano a biliardo insieme.» «Già. E non dirò altro.» «Insomma, devo andarmene?» «Prima possibile. Hai il mio numero. Chiamami tra qualche settimana, e ti dirò come stanno le cose.» «Eccellente.» «Comunque, a nome dei membri della polizia di Sarajevo che non giocano a biliardo» disse Dragan, «vorrei ringraziarti per aver preso a calci
nel culo quel pezzo di merda.» Toccò la bottiglia di Solomon con la sua. «E adesso ubriachiamoci.» Solomon si svegliò con un mal di testa martellante e lo stomaco in disordine. Ci mise diversi secondi per rendersi conto che qualcuno stava bussando alla porta. Rotolò fuori dal letto, si avvolse un asciugamano intorno alla vita e andò ad aprire. Sul pavimento del soggiorno c'erano più di dodici bottiglie vuote di Heineken, e una semivuota di slivovitz. Dragan Jovanovic se n'era andato alle due del mattino, promettendogli eterno amore e protezione. Solomon fece uno sforzo per mettere a fuoco lo sguardo sull'orologio. Erano appena passate le otto. Appoggiò un occhio allo spioncino, ma non riuscì a riconoscere il visitatore. «Cosa vuole?» chiese. Nessuno rispose. Solomon infilò la catenella di sicurezza e socchiuse la porta. Era un impiegato della Commissione. «Cosa vuole?» chiese di nuovo Solomon, in bosniaco. L'uomo gli tese una busta. «Il signor Miller mi ha detto di consegnarle questa.» Si chinò a raccogliere un sacco di plastica del tipo che si usava per la spazzatura. «E questo.» Solomon tolse la catena, prese il sacco e chiuse la porta. Dentro c'erano gli effetti personali che teneva nella scrivania dell'ufficio. La busta conteneva un biglietto di andata e ritorno in classe economy per Londra, via Vienna. L'aereo partiva alle due e mezza. Miller non stava certo perdendo tempo. Accanto al biglietto c'era una nota. «Jack, è per il tuo bene, credimi.» Sotto c'era la firma scarabocchiata di Miller. «Sì, certo» disse sottovoce Solomon. Andò in bagno e inghiottì due analgesici. Si fece la barba e la doccia, bevve un mezzo cartone di latte direttamente dal frigo e si preparò un caffè istantaneo. Poi si sedette sul divano e accese una Marlboro. Sotto il portacenere c'era un'altra busta. Solomon la fissò, sorpreso, e l'aprì. Dentro c'erano le fotocopie del caso di Pristina che aveva dato a Dragan. L'amico evidentemente l'aveva dimenticata. Solomon sfogliò le carte, e trovò la foto di Nicole. Restò a fissarla mentre sorseggiava il caffè. Miller lo mandava via, ma lui non avrebbe rinunciato al caso. Il volo dell'Austrian Airlines decollò alle due e mezza in punto, salendo in un cielo coperto di nuvole spesse. Solomon non vide più la terra finché
il jet non si abbassò su un patchwork di rettangoli verdi perfettamente ordinati: i campi intorno a Vienna. I passeggeri erano quasi tutti della Sfor o di qualche organizzazione non governativa, e le conversazioni riguardavano le possibilità di ricevere nuovi fondi, i posti di lavoro che si sarebbero liberati nel prossimo futuro, e quali altri punti caldi del mondo avrebbero avuto bisogno della loro presenza. La Bosnia ormai era storia vecchia, e la maggior parte delle grosse agenzie di aiuti stava tagliando i fondi. Quasi tutti i passeggeri dovevano cambiare aereo a Vienna. Appena i carrelli toccarono il suolo tutti cominciarono ad alzarsi in piedi e ad afferrare i bagagli a mano. Sembrava una svendita ai grandi magazzini, una di quelle occasioni dove uomini e donne rispettabili si trasformano in animali. Solomon non ebbe altra scelta che unirsi alla folla: aveva soltanto venti minuti per prendere la coincidenza per Londra. Arrivò a Heathrow mentre il sole spariva oltre l'orizzonte, spalmando il cielo di rosso. Prese l'espresso per Paddington, poi un taxi per Bayswater. Accese il cellulare: niente messaggi, ma del resto non si aspettava che ce ne fossero. Premette il tasto che attivava la rubrica e chiamò Danny McLaren, il quale rispose al primo squillo. «Danny, sto arrivando» disse Solomon. «Ehi, benvenuto» esclamò McLaren. «Devo restare in ufficio ancora per un'oretta, ma ho lasciato le chiavi di casa al negozio di alimentari di fronte alla stazione di Queensway. Il gestore si chiama Wong, e ti sta aspettando. C'è della birra in frigo, e lenzuola pulite sul letto.» «Grazie, Danny.» «Ci vediamo dopo» rispose lui. «Ora devo lasciarti, sta arrivando il redattore capo.» Solomon si fece portare dal taxi alla fermata di Queensway della metropolitana. Lui e Danny McLaren erano amici da quasi dieci anni. McLaren era un cronista di nera del «Daily Express», e si erano conosciuti quando Solomon era nella polizia. Entrambi amavano il cricket, il calcio, la birra e la cucina indiana. McLaren era stato uno dei pochi ad appoggiare la sua decisione di lasciare la polizia, e quando Solomon era andato in Iugoslavia, gli aveva detto che la stanza degli ospiti era a sua disposizione, ogni volta che ne avesse avuto bisogno. Solomon lo aveva chiamato non appena aveva capito che la sua partenza da Sarajevo era inevitabile. Il signor Wong era un orientale basso e robusto, con un neo peloso sulla guancia. Squadrò Solomon con sospetto e chiese di vedere il suo passapor-
to prima di consegnargli le chiavi. Solomon voltò l'angolo, aprì il portone di un edificio a terrazze, salì le scale ed entrò nell'appartamento di McLaren, all'ultimo piano. Era una casa accogliente e luminosa, con due lucernari, uno nel soggiorno e uno in cucina. Solomon andò nella stanza degli ospiti e appoggiò la valigia accanto a un armadio a specchi. Aprì la finestra per cambiare l'aria, quindi andò a prendersi una lattina di birra in frigo. Accese il televisore, si sedette su uno dei due divani e fece un po' di zapping, fino a trovare un canale che trasmetteva una partita di cricket: Pakistan contro Sudafrica. Sarajevo sembrava lontanissima, e i quattromilacinquecento cadaveri in attesa nei sacchi bianchi, a Tuzla, erano ancora più lontani. Si svegliò al rumore di una chiave che girava nella serratura. Danny McLaren entrò nel soggiorno. «Scusami» disse. «Mi hanno messo a riscrivere tutto proprio mentre stavo per uscire.» Lanciò il soprabito sullo schienale di una poltrona. «C'è ancora della birra, in frigo?» «Sì, ne ho bevuta solo una, prima di addormentarmi» rispose Solomon. McLaren andò in cucina e tornò con due lattine. Ne gettò una a Solomon. «Com'è stata la partita?» chiese, indicando il televisore. Si passò una mano tra i capelli ribelli che, insieme con le lentiggini e la mascella quadrata, gli davano un'aria da contadino irlandese. McLaren era stato uno studente modello, all'università. Aveva vinto una borsa di studio a Oxford, prendendo un master in economia a pieni voti, e poi aveva lasciato a bocca aperta professori e genitori annunciando loro che voleva fare il giornalista. E non il giornalista specializzato che scrive sul «Financial Times», ma il cronista di nera. I genitori alla fine lo avevano perdonato, l'università no. «Non l'ho neppure vista» disse Solomon, guardando l'orologio. Le undici meno un quarto: aveva dormito quasi quattro ore. Aprì la lattina e bevve un lungo sorso di birra. «Allora, raccontami tutto» cominciò McLaren. «Hai detto tre mesi?» «Già, ma non penso ti importi la mia presenza tanto a lungo. Appena trovo un'altra sistemazione, me ne vado.» «Non pensarci neanche» disse McLaren, sedendosi sul divano di fronte e appoggiando i piedi sul tavolino. «Sono contento di avere compagnia, mi chiedevo soltanto cosa hai combinato per farti sbattere fuori per un periodo così lungo.» Solomon gli raccontò come erano andate le cose e McLaren ascoltò attentamente. «Caspita, ti sei fatto un nemico potente, eh?» «Sembra di sì. Anche la polizia lo teme.»
«E non credi che possa mandare qualcuno a beccarti qui?» «Secondo la polizia non lo farà. E io credo che abbiano ragione. Il problema è un altro: quando potrò tornare?» «O se potrai tornare.» «Esatto.» «Merda.» «Merda secca» gli fece eco Solomon, ricordando ciò che gli aveva detto Dragan. L'inferno sarebbe diventato freddo, prima che Petrovic potesse dimenticare ciò che gli aveva fatto. «Quindi qual è il tuo piano, ora?» Solomon si strinse nelle spalle. «Dal punto di vista lavorativo, non farò nulla. Ho le ferie pagate, ho un po' di soldi in banca, perciò non c'è fretta. Tra un paio di mesi saprò come stanno le cose. Se Petrovic sarà ancora sul sentiero di guerra mi cercherò un altro lavoro. Oppure lo ucciderò.» McLaren lo fissò a bocca aperta. «Cosa?» Solomon rise. «Scherzavo. E comunque non riuscirei neppure ad avvicinarmi a lui.» «L'altra volta ci sei riuscito, però.» McLaren finì la lattina e la gettò nel cestina «Ne vuoi un'altra?» «Sì, grazie. L'ho colto di sorpresa. Non credo di poterlo fare di nuovo.» McLaren andò in cucina e tornò con altre due lattine. «E non ti sembra una buona idea lasciar perdere tutto e trovarti un altro lavoro?» «Ho trentacinque anni, Danny. Non ho più molta scelta.» «Non dire sciocchezze» protestò McLaren. «Sei un poliziotto esperto, hai lavorato tre anni con le agenzie di aiuto nei Balcani, e due anni per la Commissione. Qualunque ONG farebbe carte false per averti.» «Forse. Ma a me piace il lavoro che ho adesso.» «L'ultima volta che ne abbiamo parlato, mi hai detto che ti annoiava a morte.» «Sì, ma era prima che cercassero di sbattermi fuori.» Solomon finì la sua birra. «Scusami, sto facendo la vittima. Facciamoci un curry, domani sera, e sarò in forma. Russi ancora?» «Come un treno a vapore.» McLaren si diresse verso la sua stanza e Solomon restò a guardare una partita di calcio italiana, con il volume azzerato, finché si addormentò di nuovo sul divano. Si svegliò all'alba, bevve un bicchiere d'acqua dal lavandino della cucina, e se ne andò a letto. Quando si svegliò, McLaren era già uscito. Gli aveva lasciato un bigliet-
to, appoggiato contro una lattina di birra vuota, sul tavolo della cucina. «Renditi utile, compra dell'altra birra!» Solomon sorrise e si preparò un caffè. Si sedette sul divano e considerò le opzioni che aveva davanti. Non poteva passare tre mesi senza fare nulla. Uno dei motivi per cui gli spettavano due mesi di ferie non godute, era che preferiva lavorare. L'idea di passare due settimane steso al sole su una spiaggia gli dava i brividi. Prima di entrare nella Commissione, aveva lavorato in Kosovo per un'agenzia di soccorso, e sapeva che molte agenzie di quel tipo avevano uffici a Londra. Avrebbe potuto cercare qualcosa da fare lì. Finì il caffè e tornò nella sua stanza per disfare la valigia. Una busta cadde sul pavimento. Era il dossier del caso di Pristina. Si sedette sul letto e rilesse da capo le fotocopie. Lyudmilla aveva detto che Nicole era stata mandata a Londra. Se era vero, forse lui avrebbe potuto provare a rintracciarla. Quella prospettiva gli fece accelerare il polso. Se fosse riuscito a trovare la ragazza e a farsi raccontare cosa era successo in quella fattoria vicino Pristina, il suo viaggio forzato in Inghilterra sarebbe valso la pena. Tornò in soggiorno e compose il numero del cellulare di McLaren. «Ehi, stai già approfittando del mio telefono?» disse l'amico. «Già, il mio cellulare costa troppo, se lo uso qui. Oggi me ne comprerò uno di quelli che puoi usare con una scheda prepagata, senza bisogno di un contratto con il fornitore del servizio. Intanto potresti farmi un favore?» «Certo» rispose McLaren. «Volevo chiederti di trovare tutte le informazioni che puoi sulla prostituzione a Londra.» «Non è difficile. Ho scritto un paio di articoli sull'argomento, non troppo tempo fa. Ti porterò dei ritagli. È ancora valida l'idea del curry, per stasera?» «Sicuro.» «Aspetta un attimo» fece McLaren. «Non dirmi che stai pensando di provare a rintracciare la tua testimone oculare.» «Forse.» «Sta' attento, Jack.» «Sono un ragazzo cresciuto, non preoccuparti.» «Non è così semplice. Ne parleremo meglio stasera, davanti a un piatto di pollo korma.» Dragan Jovanovic mostrò le sue credenziali alla reception e chiese qual
era la stanza di Ivan Petrovir. La donna consultò il suo computer, aggrottando a fronte, poi disse che nell'ospedale non era ricoverato nessuno con quel nome. Dragan le spiegò chi era Petrovic, dicendole che forse era ricoverato sotto un altro nome e che senz'altro c'erano delle guardie davanti alla sua porta. L'infermiera gli diede immediatamente il numero di una stanza al quinto piano, ma gli disse che non erano ammessi visitatori. Dragan le rivolse un sorriso e si avviò verso l'ascensore. Davanti alla porta di Petrovic stazionavano due gorilla in giacche di pelle identiche, jeans neri e occhiali da sole. Appena Dragan uscì dall'ascensore i due infilarono una mano nella giacca. Dragan alzò le mani, per mostrare che non era armato, e si qualificò come un agente di polizia. «Il signor Petrovic non riceve nessuno» disse l'uomo a sinistra. «Io penso che vorrà ricevermi» ribatté Dragan. «Non vuole sporgere denuncia» insistette l'uomo a destra. «Perciò la polizia non c'entra.» Dragan si avvicinò all'uomo fissando dentro i suoi occhiali scuri. «Decido io se la polizia c'entra o non c'entra» disse. «Ora va' a dire al tuo capo che Dragan Jovanovic della Sektor Kriminalisticke Policije vuole parlargli.» L'uomo lo fissò a lungo, poi si voltò, aprì la porta ed entrò nella stanza. L'altro gorilla continuò a guardare davanti a sé, senza dire nulla. La porta si aprì. «Va bene» disse la guardia del corpo. Dragan scoprì i denti in un sorriso freddo, e oltrepassò la soglia. Dentro c'erano altri due uomini, seduti su due sedie accanto alla finestra. Uno aveva al fianco un fucile a canne mozze, l'altro una rivoltella in grembo. Il gorilla che aveva fatto entrare Dragan chiuse la porta e ci si appoggiò contro con la schiena. Petrovic era steso a letto, appoggiato su tre cuscini, con una flebo infilata nel braccio, un cerotto sulla guancia destra e una mano fasciata. «Non hai un brutto aspetto» osservò Dragan. «Forse perderò la milza.» «Si può vivere benissimo senza.» «Davvero? Cosa ne dici se mando i miei uomini a far fuori la tua, di milza? Ti piacerebbe?» ringhiò inferocito Petrovic. «Tu sai dove abito, e io so dove abiti tu. Tu hai uomini armati, e io ho poliziotti armati. Non arriveremo da nessuna parte, con le minacce.» «Tu credi davvero di avere degli uomini ai tuoi ordini, Dragan?» «Non tutti sono sul tuo libro paga.»
«Chi lo sa» disse Petrovic, con un sorriso forzato. Dragan si avvicinò al letto. «Sai perché era venuto nel tuo bar?» «Cercava una ragazza, come tutti gli uomini che vanno nei miei club.» «Ne cercava una in particolare. Te ne ha parlato, prima di batterti come un tappeto?» «Mi ha colto di sorpresa.» «E i tuoi uomini non hanno fatto nulla?» «Eravamo nel bagno delle donne» disse Petrovic. «Ah, la storia diventa sempre più interessante.» «Lui era entrato lì seguendo una ragazza.» «Perché?» «Credeva che conoscesse quella che lui stava cercando.» «E la conosceva?» Petrovic socchiuse gli occhi. «Questo non è un interrogatorio ufficiale, giusto?» «Se fosse ufficiale, ti avrei portato al commissariato. Quella ragazza che lui cercava, dov'è?» Petrovic lo fissò negli occhi. Dragan gli restituì lo sguardo, impassibile. «A Londra» rispose Petrovic, alla fine. «Questo lo so già, Petrovic, non sono stupido. Dove a Londra?» Petrovic scosse la testa. «Non lo so. Quando è andata via dal mio bar, ha detto ad alcune delle mie ragazze che sarebbe andata a Londra.» Dragan. annuì, pensoso. «Sai che Solomon continuerà a cercarla?» Petrovic gli rivolse uno sguardo diffidente. «Perché quella ragazza è così importante per lui?» «È stata testimone di un'atrocità, in Kosovo. L'unica testimone. Non te l'ha detto Solomon?» «Non abbiamo parlato molto. Mi ha detto che lavorava per la Commissione per i Morti in Guerra. Nient'altro. Mi stai dicendo che è andato a Londra per trovare quella donna?» «Per trovare lei, e per stare lontano da te.» Petrovic sbuffò. «Questa è la prima cosa sensata che ha fatto. Cosa vuoi da me, Dragan? Perché sei venuto?» «Voglio che lasci stare Solomon.» Petrovic fece una risata acida. «Guarda cosa mi ha fatto.» «Lo hai minacciato con una pistola, e lui si è difeso. Voglio che la cosa finisca qui.» «Mi ha spappolato la milza, perdio!» gridò Petrovic.
Dragan non reagì, ma le tre guardie del corpo tesero i muscoli. Petrovic fissava Dragan, ansimando. Un medico aprì la porta, ma gli fu sbattuta in faccia. «Esci di qui, Jovanovic» disse il boss serbo. «E di' al tuo inglese che se rimette piede a Sarajevo è un uomo morto.» «Se gli accade qualcosa a Londra, verrò a chiederti spiegazioni.» Petrovic sollevò la mano fasciata. «Non saresti il primo poliziotto che faccio fuori.» «Non sto cercando la guerra» disse Dragan, calmo. «Voglio solo farti sapere che io sto dalla parte dell'inglese, e che se gli succede qualcosa, saprò dove cercare.» Il gorilla con il fucile a canne mozze si alzò in piedi e fece un passo verso Dragan. Il poliziotto alzò lentamente le mani e uscì dalla stanza a ritroso, senza smettere di fissare Petrovic. McLaren restò in ufficio fino alle dieci. Prima di uscire chiamò Solomon e si diedero appuntamento in un ristorante indiano dalle parti di Queensway, a poca distanza dal suo appartamento. Solomon era già alla seconda bottiglia di Kingfisher quando arrivò McLaren, profondendosi in scuse. Era stato costretto a riscrivere un pezzo di un giovane reporter. Indicò la birra a un cameriere indiano, che si affrettò a dirigersi verso il bar. «Lavori troppo» disse Solomon. «Già. E per quello che mi danno, poi. Dovrebbero davvero ringraziarmi in ginocchio.» Solomon preferì non discutere. Il suo amico era uno dei giornalisti più pagati della nazione, e aveva anche un conto spese di tutto rispetto. Il cameriere arrivò con la birra. «Grazie, Rudy» fece McLaren. Era un cliente abituale del ristorante, e conosceva i camerieri per nome. «Salute. E ben tornato a casa.» Dietro di loro apparve un giovane cameriere con un blocchetto in mano. McLaren ordinò per tutti e due, senza consultare il menu. Quando il cameriere si fu allontanato, tirò fuori una busta dalla tasca interna della giacca e la tese a Solomon. «Le informazioni che mi avevi chiesto» disse. «C'è anche un mio pezzo. Ho accompagnato la Buoncostume in una retata a Soho. I tuoi vecchi colleghi» «I miei vecchi colleghi sono stati tutti trasferiti, dopo che sono andato via» disse Solomon.
«Ti fa ancora male, eh? Credevo che avessi superato quella storia, ormai. Comunque hai capito cosa intendevo.» «Sì. Ma come mai una retata? Ai miei tempi le prostitute di Soho le lasciavamo in pace.» «Colpa dell'immigrazione, amico. Tre quarti delle ragazze arrestate erano dell'europa dell'Est e tutte erano entrare in Inghilterra attraverso i Balcani.» «Questa è nuova» «Già. Prima il racket era gestito da gruppi inglesi, francesi, italiani e maltesi.» «Esatto» fece Solomon «Ma erano i maltesi a controllare gli appartamenti.» «È ancora più o meno cos'. Ma le ragazze ora sono tutte bielorusse, lettoni, slovacche... insomma, provengono tutte dall'ex blocco sovietico. È la mafia albanese a importarle. Sono dei bastardi violenti. Un paio d'anni fa hanno stretto un accordo con i maltesi, offrendosi di fornire loro ragazze che avrebbero lavorato più a buon mercato. I maltesi hanno colto al volo l'occasione, ma ora la polizia pensa che ci sarà una guerra di bande, perché gli albanesi vogliono impadronirsi di tutto.» «I maltesi non sono dei ragazzini.» «È vero, ma con gli anni si sono rammolliti, mentre gli albanesi sono affamati. È questo che intendevo, quando ti ho consigliato di stare attento. Se la ragazza che cerchi è gestita dagli albanesi, loro non saranno felici di vederti. Quel tipo che hai picchiato a Sarajevo era albanese?» Solomon scosse la testa. «Serbo. Le ragazze arrestate in quella retata sono state rimandate a casa?» «Sì. È così che funziona il gioco. Controllano i documenti e le ragazze che sono in Inghilterra illegalmente vengono fermate e interrogate. L'ufficio immigrazione vuol sapere come sono entrate nel paese, ma ovviamente si guardano bene dallo spifferare qualcosa. Molte non hanno neppure il passaporto. Lo tengono i loro papponi, come misura di sicurezza. Un paio di giorni dopo le mettono su un aereo e le rispediscono ai loro paesi d'origine. Ma a quel punto ne sono già arrivate delle altre.» «Quindi potrebbe darsi che Nicole sia di nuovo a Sarajevo?» «È possibile» disse McLaren. «Ma è più probabile di no. Nell'ultima retata sono stati controllati trenta appartamenti, cioè un decimo di quelli che ci sono nel quartiere di Soho. Calcola tra seicento e novecento ragazze, delle quali ne sono state fermate e rispedite in patria ventiquattro. La
stampa l'ha presentata come una grande vittoria, ma sappiamo tutti che è una goccia nel mare. Inoltre anche quelle ventiquattro, una settimana dopo probabilmente erano di nuovo qui. O a Roma, o a Parigi.» Arrivò il cibo e passarono i venti minuti successivi a inghiottire bocconi di pollo korma, pollo tikka masala e agnello dansak, bevendoci sopra birra Kingfisher. Tornarono all'appartamento e McLaren tirò fuori dal frigo un pacco da sei lattine di lager, prima di gettarsi sul divano. Solomon accese il televisore, McLaren gli gettò una birra e si misero a guardare una partita di calcio italiana. «Allora, qual è il tuo piano?» chiese a un tratto McLaren. «Cosa vuoi dire?» «La ragazza. La tua testimone oculare. Hai deciso di continuare a cercarla?» Solomon si strinse nelle spalle. «Non ho altro da fare.» «Ma cos'ha di tanto speciale? Devi esserti trovato davanti dozzine di casi come il suo, nel tuo lavoro per la Commissione» «Già.» «Ma questo caso è diverso.» Solomon si accese una sigaretta. Non offrì il pacchetto a McLaren, che aveva smesso da anni, anche se non gli importava che altri fumassero in sua presenza. «Nella maggioranza dei casi le vittime sono state uccise a colpi di arma da fuoco, Danny» disse. «È una cosa orribile: donne, vecchi e bambini, malati, storpi, tutti quelli che non possono fuggire. Ma almeno sai che è stata una cosa rapida. Li hanno presi, gli hanno sparato, fine della storia. E c'è anche una certa logica, in questo, a pensarci bene: un esercito che uccide i sostenitori di un altro esercito. È un crimine di guerra, ovviamente, e non è perdonabile. Ma è quasi comprensibile.» Solomon si schiarì la gola. «Non mi sto spiegando bene. Non sono cose che si possono tradurre in parole. Saresti dovuto essere lì. È stata la premeditazione, capisci? Li hanno caricati su quel camion, hanno spinto il camion in un lago e li hanno lasciati lì a morire. Continuo a pensare a cosa avranno provato, seduti lì al buio e al freddo, mentre l'aria finiva lentamente. Circondati dalle persone che amavano.» Ebbe un brivido. «Danny, mi si rivolta lo stomaco ogni volta che ci penso.» «È colpa dell'empatia, amico. Il mio lavoro non è come il tuo, ma per farlo bene devi imparare a prendere le distanze, a trattare tutto come un caso clinico.»
«Ho fatto il poliziotto per dieci anni, Danny. Non farmi la lezione.» «Già. Ma essere un poliziotto è diverso. Fai parte di una squadra, hai intorno a te un intero sistema, proprio come noi giornalisti. Invece nel tuo lavoro a quanto ho capito sei solo, giusto?» Solomon annuì. «E allora?» «Allora penso che il tuo lavoro ti abbia preso la mano. Se fossi in te me ne andrei al mare per una settimana o due, a guardare il tramonto con una birra in mano e un uccello sul braccio.» «Forse hai ragione.» «Sarei felice se potessi almeno fingere di essere sincero.» Solomon sorrise. McLaren lo conosceva troppo bene. «Ho intenzione almeno di provarci. Se la trovo, bene. Altrimenti ci metto una pietra sopra e me ne vado davvero in vacanza. Ora smettila di farmi la predica.» Petrovic gettò la forchetta sul piatto e ordinò a uno degli uomini di portare vìa il cibo. Lo facevano arrivare da uno dei migliori ristoranti italiani di Sarajevo, ma lui non aveva appetito. Né energia. Il massimo che riusciva a fare era andare da solo dal letto al bagno. Era un grosso sforzo, ma in nessun modo avrebbe permesso che i suoi uomini lo vedessero pisciare in una padella sotto le coperte. Malediceva Jack Solomon, e la visita di Dragan Jovanovic lo aveva irritato, anche se il poliziotto non poteva fare nulla contro di lui: Petrovic aveva troppi amici nella polizia locale e federale. Di tanto in tanto gli chiudevano un locale o arrestavano uno dei suoi tirapiedi, ma non mancavano mai di avvisarlo in anticipo. Inoltre ora Petrovic aveva raddoppiato le guardie del corpo, e non si sarebbe più fatto cogliere di sorpresa. «Datemi un telefono» grugnì. Uno dei suoi gorilla si precipitò accanto al letto con un cellulare. Petrovic compose un numero di Londra. Rispose una voce rauca dall'accento russo. «Sergei, sono Ivan. Come ti va?» Parlavano in inglese, perché lui non conosceva neppure una parola di russo, e il bosniaco e il serbocroato di Sergei Goncharov erano molto limitati. Goncharov era un ex ufficiale della GRU, l'agenzia di spionaggio e controspionaggio dell'Unione Sovietica, Aveva trascorso molti anni a Berlino Est, e alla caduta del muro si era trasferito in Occidente, con una nuova identità e un bauletto di banconote false dell'agenzia. Si era pagato una plastica facciale in Svizzera, e aveva iniziato una nuova vita. Era stato lui a raccontare la sua storia a Petrovic, una notte in cui si erano ubriacati in-
sieme in un bordello. Petrovic non sapeva se fosse tutto vero, ma di fatto Goncharov era uno dei maggiori trafficanti di esseri umani d'Europa. La sua rete di contatti arrivava fino in Asia Centrale e addirittura in Cina. Faceva arrivare rifugiati nella Comunità Europea e li aiutava a chiedere asilo politico. Ovviamente a pagamento. Lavorava con le Triadi di Hong Kong per spostare lavoratori cinesi in tutto il mondo. Ed era un pezzo grosso nel traffico di prostitute. Veniva in Serbia e in Bosnia diverse volte all'anno, e Petrovic gli aveva fornito centinaia di ragazze. «La vita è sempre una lotta» disse Goncharov. «Nasciamo, lottiamo e moriamo.» Petrovic sorrise tra sé. Il russo sembrava vivere in uno stato di depressione permanente, malgrado i suoi miliardi. «Ho bisogno del tuo aiuto per un problema, Sergei» disse, andando subito al punto. «Ricordi una ragazza che hai acquistato da me quattro mesi fa? Si chiamava Nicole, ma lavorava con il nome di Amy.» «Veniva dalla Lettonia, giusto?» «Da qui, dal Kosovo. Diciannove anni, capelli biondi tinti di nero.» «Mi sembra di ricordarmela» disse Goncharov, poco convinto. «Lasciami controllare.» Petrovir udì il russo battere sulla tastiera di un computer, mentre in sottofondo voci di donne rispondevano ai telefoni che squillavano. «Nicole, hai detto?» «Il nome vero era Nicoletta, ma si faceva chiamare Nicole. E sul lavoro Amy.» «Quattro mesi fa?» «Sì. L'hai presa insieme con quattro albanesi.» Un altro ticchettio. «Sì, eccola qui» disse Goncharov. «Adesso lavora in una delle mie agenzie qui in città, e la manderò in un appartamento proprio questa settimana. C'è qualche problema?» «Non con lei, ma con un tizio che la sta cercando. Potrebbe già essere a Londra.» «Potrebbe?» «Sono quasi certo che sia lì. Lavora per una commissione che identifica i morti di guerra. Quella ragazza ha visto qualcosa, e lui vuole parlarle. Il fatto è che se lo lasciamo fare non sappiamo cosa rischiamo. Potremmo finire tutti nei guai.» Petrovic sceglieva le parole con cura. Non voleva confessare che si trattava di una vendetta personale. Il russo avrebbe collaborato con più entusiasmo se avesse pensato che si trattava di tutelare anche i
propri interessi. «E cosa vuoi che faccia? Sposto la ragazza in un'altra città? Non lo farei volentieri. Non ho ancora recuperato il mio investimento.» «Ho un'idea migliore, che risolverebbe il problema in modo permanente. E non preoccuparti, mi accollo io tutte le spese.» Petrovic spiegò cosa voleva, e si accordarono sul prezzo. Era alto, ma se quei soldi fossero serviti a eliminare Jack Solomon, sarebbero stati soldi spesi bene. Solomon uscì dalla stazione della metropolitana di Oxford Circus. Due donne in giacca a vento e jeans sformati distribuivano volantini con la pubblicità di scuole di lingua. Un giovane con la testa rapata vendeva bottigliette di profumo su una scatola di cartone, e reclamizzava la merce con un pesante accento di Liverpool. Solomon scese lungo Oxford Street, facendosi strada tra la folla. Anche alle due del pomeriggio i marciapiedi erano pieni di gente: rappresentanti che correvano da un appuntamento all'altro, turisti chini sulle mappe stradali, famiglie che facevano shopping, ragazzi che avevano marinato la scuola. Un autobus si fermò con uno stridio di freni, e fu preso d'assalto da una folla di passeggeri che sgomitavano per salire a bordo. Sembrava che la regola di fare la fila fosse passata di moda. Solomon non tornava spesso a Londra, e ogni volta la città gli sembrava più ostile. Voltò a destra su Berwick Street ed entrò a Soho. Il quartiere, che una volta era la zona a luci rosse della città, ora si era evoluto, diventando il distretto dei divertimenti in generale, dove agenzie di pubblicità e compagnie di produzione cinematografica si contendevano lo spazio con cocktail bar e ristoranti di lusso. Ma il ventre marcio del sesso a pagamento era sempre lì. Bastava solo cercare. Tra una farmacia e un negozio di articoli fotografici c'era un portone aperto che mostrava una scalinata di legno. Al muro erano appesi due fogli di carta. Sul primo c'era scritto: «Modella italiana. Primo piano». Sull'altro: «Bionda prosperosa. Secondo piano». Solomon salì lentamente le scale. Bussò alla porta del primo piano, e udì un rumore di passi pesanti. Un occhio lo fissò dallo spioncino, poi la porta si aprì. «Entra pure, caro» lo invitò una voce roca. Solomon entrò. Una donna robusta, con un maglione da pescatore e una calzamaglia nera, lo fissò attraverso un paio di spessi occhiali dalla montatura nera. La governante, dedusse Solomon. «Da questa parte, caro» disse
la donna, indicando il corridoio. Solomon superò una porta chiusa, da dietro la quale proveniva il cigolio insistente delle molle di un letto, e arrivò in una stanza con un letto singolo e una sedia con sopra una vecchia rivista. Solomon prese in mano la rivista e si sedette. La donna gli chiese se voleva un tè, lui scosse la testa e lei se ne andò. Cinque minuti dopo udì aprirsi la porta dell'altra stanza, e poco dopo la governante tornò. «Passa pure, caro» e lo fece accomodare nell'altra stanza, dicendo: «Arriverà tra un minuto» e chiuse la porta. Solomon udì il rumore di una doccia. La stanza profumava di lavanda. Sul caminetto c'era un flacone di deodorante spray per ambienti, accanto a un foglio con la lista delle prestazioni sessuali e dei relativi costi. I prezzi erano raddoppiati da quando lui aveva lasciato la Buoncostume. In fondo alla lista c'era scritto, in stampatello: NON FACCIO SESSO ANALE, QUINDI NON CHIEDETEMELO. Gli unici mobili erano un letto matrimoniale, un piccolo armadio e una sedia di legno identica a quella dell'altra stanza. Accanto alla porta c'era un cestino dei rifiuti, pieno di fazzoletti di carta appallottolati. Sopra l'armadio, una valigia con ancora il cartellino dell'aeroporto. Solomon lesse l'etichetta. BEG. Belgrado. Il rumore della doccia cessò e Solomon andò a sedersi sulla sedia. Sul letto non c'erano coperte, solo un lenzuolo arancione sopra il quale era teso un asciugamano blu. La porta si aprì ed entrò una bruna alta, di circa vent'anni, in tacchi e baby-doll. Aveva le labbra rosse e piene, e il viso pesantemente truccato. «Allora, cosa posso fare per te?» chiese sorridendo. Aveva le pupille dilatate e lo guardava fisso. Cocaina, pensò Solomon. O forse crack. Solomon prese il portafogli e le tese quaranta sterline. «Voglio soltanto parlare» La ragazza fece una faccia perplessa. «Vuoi la mia bocca? Un pompino costa cinquanta» disse, indicando la lista sul caminetto. «Niente pompini» precisò Solomon. «Voglio solo parlare.» La ragazza prese i soldi. Le unghie erano affilate come artigli e rosse come se le avesse intinte nel sangue. Poi si voltò e uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle. Pochi secondi dopo la porta si spalancò ed entrò la governante, con in mano una mazza da baseball. «Che cazzo vuoi?» disse. Era una donna robusta, e Solomon intuì che la mazza non le serviva solo per fare scena. Si alzò in piedi. «Volevo solo parlare con lei, nient'altro.»
«Questo non è un fottuto confessionale, è un posto dove si viene a scopare.» «Non sono un poliziotto, sono...» «Non me ne frega un cazzo di chi sei» grugnì la donna, sottolineando ogni parola con un movimento della mazza. «Se vuoi parlare, chiama una hot-line. Adesso smamma.» Solomon aprì il portafogli. «Guarda, posso pagare ancora...» La donna picchiò la mazza da baseball contro lo stipite della porta. «Fuori.» Solomon comprese che non c'era spazio per discutere. Sulle scale incrociò un uomo di mezza età in completo blu, che gli sorrise. «Com'è la ragazza?» chiese. «Un'esperienza indimenticabile» rispose Solomon. Andò a prendersi un cappuccino da Starbucks, in Wardour Street. Si sedette su uno sgabello a guardare fuori della vetrata. Probabilmente la donna in maglione era nervosa a causa della retata di cui gli aveva parlato McLaren. I clienti che volevano solo parlare erano pericolosi. Potevano essere poliziotti o agenti dell'ufficio immigrazione. O giornalisti in cerca di ispirazione. Solomon aveva sperato che offrendole del denaro la ragazza avrebbe accettato di parlare con lui. Ora sapeva che l'unico modo di ottenere informazioni era quello di provare che non era un poliziotto. Doveva togliersi i vestiti e farsi fare almeno un massaggio. Uscì in strada, si accese una Marlboro e cercò un altro appartamento. All'entrata di un vicolo vide l'annuncio: «Modella», e lo seguì. Alla finestra del secondo piano di una casa c'era un'insegna rossa accesa. La ragazza era disponibile. Solomon gettò a terra la sigaretta e la schiacciò con la scarpa. Accanto al portone c'era un citofono con tre campanelli. Su quello di mezzo era stato incollato un pezzo di carta con la scritta «modella». Solomon lo premette, e due secondi dopo si udì un ronzio e lo scatto della serratura. Solomon attraversò lo stretto corridoio, calpestando una distesa di posta pubblicitaria, e salì le scale che puzzavano di cavolo stantio. La porta del secondo piano era già aperta, e sulla soglia lo attendeva una donna sulla sessantina, che lo fece entrare in un piccolo soggiorno con due divani e quattro telefoni cellulari su un tavolino. La donna era piccola, un po' curva, con il viso pieno di rughe. Indicò a Solomon una porta aperta. Dentro la stanza c'era una ragazza seduta sul letto. Alta, sorridente e dai capelli tinti di rosso. Zigomi alti e grandi occhi scuri. «Accomodati» disse
subito, con un accento slavo, indicando una poltrona coperta da un lenzuolo bianco. Solomon si sedette. La ragazza indossava una vestaglia nera, calze rosse con le giarrettiere e un reggiseno rosso. «Mi chiamo Inga.» «David» mentì Solomon. «Cosa posso fare per te?» Solomon finse imbarazzo. «Non so. Non ho mai fatto prima una cosa del genere.» «Sessanta per un pompino, ottanta per scopare.» «Potrei avere un massaggio?» «Massaggio e lavoro a mano, quaranta» disse la ragazza. Ora sorrideva un po' meno. «Quaranta va bene» fece Solomon. Tirò fuori il portafogli e le diede due banconote da venti. La ragazza si alzò. «Mettiti comodo» disse, e lo lasciò solo. La stanza era nuda e triste come l'altra. Non c'erano effetti personali che potessero dare un'idea della provenienza della ragazza. Solomon si tolse la giacca e l'appese allo schienale di una sedia. Mentre si sbottonava la camicia lei tornò. «Tutto bene?» chiese. «Sì» rispose Solomon. «Sono soltanto un po' nervoso.» «Olio o polvere?» chiese lei. «Cosa?» La ragazza indicò alcune bottigliette di Johnson's baby oil e un flacone di talco sul cassettone accanto al letto. «Per il massaggio.» «Va bene il talco.» Solomon si tolse la camicia, i pantaloni e i calzini, e si stese sul letto a pancia in giù. Il lenzuolo puzzava di sudore vecchio. La ragazza si tolse la vestaglia e salì sul letto, senza togliersi le scarpe. Gli spruzzò della polvere di talco sulla schiena e iniziò a massaggiarlo, con lenti movimenti circolari. «Di dove sei?» chiese Solomon. «Italiana.» Era una evidente menzogna. Bulgara o lettone, era più probabile. «Da quanto tempo sei a Londra?» «Due mesi» rispose Inga, senza smettere di massaggiarlo. «Davvero? E ti piace, qui?» «Sì.» Aveva un tono annoiato, come se stesse pensando ad altro. «Facevi questo lavoro anche in Italia?» «No.» Lei gli abbassò i boxer, e gli spruzzò del talco sulle gambe.
«E guadagni bene?» Lei non rispose e iniziò a massaggiargli le gambe. Solomon chiuse gli occhi. Non stava arrivando da nessuna parte. Si rese conto che era stato ingenuo a sperare che lei si aprisse con uno sconosciuto. «Girati, per favore» sussurrò la ragazza. Solomon si girò. Lei gli cosparse il petto di talco, si stese al suo fianco e iniziò ad accarezzargli il torace e lo stomaco, tenendo la testa bassa, in modo da non doverlo guardare in faccia. Le mani di Inga scesero tra le sue gambe. Gli afferrò il pene, ma Solomon la bloccò. «Va bene solo il massaggio.» Lei alzò gli occhi e lo fissò con sospetto. «Sono sposato» mentì Solomon. «Pensavo di poterlo fare, ma ora...» Non finì la frase, cercando di fingere imbarazzo. «Sei mai stato prima con una ragazza come me?» Solomon scosse la testa. «Mia moglie e io... noi non... insomma...» Lei riprese a massaggiargli il petto. «Sei un bell'uomo» disse. «Grazie.» «Quanti anni hai?» «Trentacinque.» «Non sei male, per un trentacinquenne.» «Grazie. E tu quanti anni hai?» «Ventidue.» Un'altra menzogna. Doveva averne almeno ventisei o ventisette. «Il tuo inglese è molto buono» disse. «Lo stai studiando qui?» Lei annuì. «Vado a scuola due ore al giorno, in Oxford Street.» Era uno dei sistemi standard con cui le prostitute entravano nel paese. Le scuole di lingue non effettuavano controlli sugli studenti e di solito offrivano anche assistenza per far loro ottenere rapidamente un visto di studio di sei mesi. Ma poi nessuno controllava se frequentavano le legioni oppure no. «Vuoi che mi tolga il reggiseno?» chiese la ragazza. Solomon aprì gli occhi e sorrise. «No, va bene così.» «Mi piace come sorridi» fece lei. Solomon si sentì in colpa per come le stava mentendo. «Non abiti in questo appartamento, vero?» «No, qui ci lavoro soltanto. Fino a mezzanotte. Poi viene un'altra ragazza che resta fino a mezzogiorno.» «Dodici ore? È un sacco di tempo.»
«Passano in fretta. E io ho bisogno di soldi.» Inga si chinò a baciargli l'interno delle cosce e Solomon sentì che gli diventava duro. Prese la ragazza per le spalle, cercando di allontanarla. «Tua moglie non lo saprà» lo rassicurò lei. «Ma io sì» rise Solomon. «Resta solo stesa accanto a me, va bene?» Lei gettò un'occhiata all'orologio di plastica che aveva al polso. «Ti restano altri dieci minuti.» «Perfetto» Solomon tese un braccio e la ragazza si raggomitolò contro di lui. «Hai amici, qui a Londra?» «Non molti.» «Devi sentirti sola.» «Quando non lavoro, o sono a scuola o dormo.» «E ti vedi con altre ragazze, a volte?» «Fai troppe domande» disse Inga, irrigidendosi. «Solo curiosità. Scusami, non intendevo fare il ficcanaso.» «Noi dobbiamo sempre fare molta attenzione alla polizia e agli agenti dell'immigrazione.» Solomon rise. «Se io fossi un poliziotto, non me ne starei qui nudo a letto con te, non ti pare?» «Non conosci i poliziotti. A volte fanno l'amore con una ragazza, e poi mentono. Non puoi fidarti di loro. Sono uguali in tutto il mondo.» Solomon sapeva che Inga aveva ragione. Parecchi agenti con cui aveva lavorato quando era nella Buoncostume, si vantavano di essersi scopati le prostitute che stavano per arrestare. Le ragazze non potevano farci nulla. Se li avessero accusati in tribunale, sarebbe stata la loro parola contro quella dei poliziotti, e chi avrebbe creduto a una puttana? «Come hai trovato questo appartamento?» chiese Solomon. «Me lo ha indicato un'amica.» «Un'amica italiana?» Lei annuì. Un'altra menzogna. Solomon capì che se voleva ottenere qualcosa doveva rischiare. «Qualcuno mi ha detto che un sacco di ragazze qui a Soho vengono dal Kosovo e dalla Bosnia.» «Albanesi» disse lei, con disprezzo. «Sì. Mi hanno detto che sono le gang albanesi a importarle.» Inga si tirò a sedere sul letto. «Tu fai davvero troppe domande.» «No, stavo solo...» qualcuno bussò due colpi alla porta. «Questo significa che il tuo tempo è scaduto. Te ne devi andare.» Scivolò giù dal letto, afferrò la vestaglia e uscì di corsa.
Solomon si vestì e uscì. Passando davanti al bagno udì scrosciare la doccia. Si sentiva un perfetto idiota. Come poteva pensare di avvicinare delle prostitute e sperare di ottenere delle informazioni? Avevano sempre la guardia alzata. Qualunque storia avesse raccontato loro, lui era solo un cliente, da trattare con sospetto. L'ispettore capo Colin Duggan uscì dall'ufficio oggetti smarriti, si grattò il collo carnoso e si diresse verso il pub. Solomon gli si affiancò, e rise vedendo l'espressione sorpresa dell'altro. «È passato un sacco di tempo, eh, Colin?» «Vaffanculo, Solomon» sibilò Duggan. «Ehi, sono io quello che dovrebbe portare rancore.» «Tu sei quello che ha fatto crollare tutto il castello di carte. Ora vattene, non voglio essere visto con te.» «Voglio solo fare due chiacchiere, Colin, nient'altro, almeno questo me lo devi.» «Io non ti devo nulla.» «Offro io.» Erano arrivati davanti al pub. «Va bene. Un drink e poi sparisci.» Duggan spinse la porta ed entrò. Solomon lo seguì. «Bevi ancora Bell's?» chiese. Duggan grugnì un assenso e Solomon ordinò un doppio whisky con ghiaccio e una pinta di lager. «Come sapevi dove trovarmi?» chiese Duggan. «Un paio di telefonate. Come ti va?» «Come credi che vada?» rispose Duggan, acido. «È un ufficio oggetti smarriti. Mi tocca avere a che fare tutto il giorno con dei babbei che hanno lasciato il cellulare nel taxi, e mi mancano ancora quattro anni alla pensione.» Arrivarono i drink, e Solomon pagò il barman. «Almeno non devi portare l'uniforme.» Duggan vuotò il bicchiere d'un fiato e lo sbatté sul tavolo. «Sei scemo o cosa, Solomon? Mi sono cambiato prima di lasciare l'ufficio. Resterò in uniforme fino alla pensione. In compagnia di due impiegate anziane che non totalizzano mezzo cervello tra tutte e due. Ed è colpa tua. Mi stupisce che tu abbia il fegato di farti vedere in città. Ci sono almeno una dozzina di poliziotti che ti vedrebbero volentieri in un'unità di terapia intensiva.» Solomon segnalò al barman di portare un altro whisky. «Ho fatto ciò che potevo, Colin. Me ne sono andato senza dire nulla.»
«Il che equivaleva a un'accusa.» Una slot-machine sputò una cascata di spiccioli e il fortunato giocatore improvvisò un balletto di gioia. «Potevo fare due cose. O parlare o uscire dal gioco. E sono uscito. Non avevo fatto nulla di male, eppure sono stato io a dover lasciare il lavoro. Come credi che mi sia sentito? Dopo aver sgobbato per dieci anni, me ne sono dovuto andare perché voi eravate marci fino al midollo.» «Eravamo bravi poliziotti, Solomon.» Il giocatore infilò altre monete nella slot-machine. Arrivò il secondo whisky e Duggan lo agitò nel bicchiere, fissando il ghiaccio che si scioglieva. «Avevi una terza possibilità, e lo sai. Bastava solo che facessi muro con noi. Non avevano neppure uno straccio di prova.» «Tu prendevi bustarelle da Montanaro, Colin. Tu e tutti gli altri.» «Vaffanculo» bofonchiò Duggan. «Gli inquirenti non avevano nulla contro di noi, finché tu non hai rassegnato le dimissioni.» «Non volevo mentire. E non volevo neppure mandare voi tutti in galera.» «Così te ne sei andato, lasciandoci nella merda» disse Duggan. «Cosa credevi che sarebbe accaduto, Solomon? Non c'è fumo senza fuoco, dissero loro. C'erano quattordici bravi ragazzi, nella squadra. Ora sei di loro dirigono il traffico, due lavorano all'ufficio reclutamento e uno spiega ai bambini delle elementari che non è prudente parlare con gli sconosciuti. Gli altri si sono dimessi. E io sono in quel buco di merda. Devi sentirti molto fiero di te.» Solomon bevve un sorso di birra, senza dire nulla. «Perché sei tornato?» chiese Duggan. «Sto cercando una ragazza.» «Prova in un'agenzia matrimoniale.» «Una ragazza specifica. Del Kosovo.» Duggan finì il whisky e ne ordinò un altro, senza chiedere nulla per Solomon. «Ho sentito che ora ti dedichi a identificare cadaveri.» «Esatto» fece Solomon. Prese una fotocopia della foto di Nicole e la tese a Duggan. «Si chiama Nicole Shala, e viene da un villaggio vicino a Pristina.» Dallo sguardo di Duggan, Solomon capì che non aveva idea di dove fosse Pristina. «È la capitale del Kosovo.» «Iugoslavia?» «Fa parte della ex Iugoslavia.» Duggan fissò la foto. «Bella ragazza. Quindici anni?»
«Sedici, in quella foto. Ora ne ha diciannove.» «E perché vuoi trovarla?» «È stata testimone di un omicidio di massa.» «Tu non fai mai le cose a metà, eh?» Gli tese la foto, ma Solomon non la prese. «Fa la prostituta qui a Londra.» Duggan aggrottò la fronte. «Hai sentito quello che ti ho detto? Non sono più alla Buoncostume. Sono nel limbo, fino alla pensione.» «Hai accesso ai database della polizia. Ti basterebbe inserire nel computer il suo nome e la data di nascita.» «Cosa cazzo ti fa credere che voglia aiutarti, Solomon?» «È una cosa importante, Colin.» «E la mia carriera non lo era? Tu me l'hai buttata nel cesso.» Duggan si alzò e andò a sedersi a un tavolo vicino al bagno, lasciando la foto davanti a Solomon. Solomon la prese e andò a sedersi accanto a lui. «La mia vita non è stata un letto di rose. Se avessi vuotato il sacco sarebbe stato tutto più facile, per me.» «Davvero? Se lo avessi fatto, non avresti trovato neppure un poliziotto disposto a lavorare con te, in tutto il dipartimento.» Solomon scosse la testa. «Ti sbagli. Ora non è più così, tutto deve essere fatto secondo le regole.» «Lo credi sul serio?» ghignò Duggan. «Ora è uguale a prima. La corruzione è solo scesa un po' più in profondità. Se non fosse stato per te, tutto sarebbe ancora liscio come l'olio.» «Per te, forse. Ma io non avrei potuto vivere così. Non ero entrato in polizia per prendere bustarelle dai delinquenti.» «Io ero un bravo detective» replicò Dugan, in tono amaro. «Con noi, non ci fu un solo omicidio legato al vizio. Una ragazza veniva assalita, e noi arrestavamo il colpevole, che fosse un pappone o un cliente. Le rapine erano al minimo. Avevamo tutto sotto controllo.» «Prendevate bustarelle.» «Tu le chiami così. Io le chiamo commissioni per contribuire a far andare tutto liscio.» «Montanaro controllava la metà delle ragazze di Soho.» «Le controlla ancora, se è per questo» disse Duggan. «Era un sistema stabile. Ora non si capisce più niente. Presto ci sarà una guerra di bande, un bagno di sangue tra albanesi e maltesi. Se gli albanesi fossero arrivati
qui quando c'eravamo noi, li avremmo schiacciati subito.» «Per proteggere Montanaro.» «Per proteggere lo status quo» sibilò Duggan. La slot-machine pagò un'altra volta. Il giocatore fece un altro balletto. «Mi aiuterai a trovare questa ragazza?» chiese Solomon. Si alzò e andò al banco. Quando tornò con altri due drink, Duggan stava studiando la foto. «Cosa ha visto?» chiese. «Tutta la sua famiglia è stata uccisa. Dai serbi, probabilmente.» «Probabilmente?» «Tutto quello che ho sono ventisei cadaveri. Uomini, donne e bambini.» «Gesù» sussurrò Duggan. «Perché?» «Odio razziale. In Bosnia, Croazia e Kosovo ci sono quarantamila dispersi. Noi abbiamo più di diecimila cadaveri da identificare.» «Tutti assassinati?» «Quasi tutti. Ci sono state alcune vittime militari, ma sono state identificate quasi subito. I civili invece finivano nelle fosse comuni. Tanto per darti un esempio, una volta, a Vukovar, in Croazia, alcuni soldati serbi entrarono in un ospedale e fecero marciare in strada tutti i malati e i medici che non erano serbi. Li portarono fuori città, li torturarono e poi li fucilarono a gruppi di dieci. Le persone assassinate quel giorno furono duecentosessanta. Era il 20 novembre 1991. Me lo ricordo perché fu la prima volta che vidi Parker passarti una busta da parte di Montanaro.» Duggan gli rivolse un sorriso sarcastico. «Tutto questo continuava ancora, tre anni fa» riprese Solomon. «La famiglia di Nicole è stata uccisa nel '99. All'epoca io ero già nei Balcani. Il mondo intero sapeva ciò che i serbi stavano facendo, ma nessuno si decideva a intervenire.» «Non credo che sapessimo davvero cosa stava accadendo.» «Stronzate. È come quando i tedeschi hanno detto che non sapevano nulla dei campi di concentramento. Comunque, ora tu hai l'occasione di fare qualcosa.» «Cos'è, una crociata?» «No. Voglio soltanto che le persone che hanno ucciso la famiglia di Nicole abbiano ciò che si meritano. E l'unico modo per riuscirci è trovare la ragazza. È la sola testimone. E si trova qui a Londra.» «Perché pensi che faccia la prostituta?» «Faceva lo stesso lavoro anche a Sarajevo.» «È come cercare un ago in un pagliaio» disse Duggan.
«Non sei il primo che me lo dice.» Solomon fece scivolare attraverso il tavolo un pezzo di carta. «Qui c'è il nome completo e tutte le informazioni presenti sul suo certificato di nascita.» «Pensi che sia arrivata qui usando il nome vero?» «È una possibilità. Anche se so che sul lavoro si fa chiamare Amy.» «Cercarla nel database sarà una perdita di tempo.» «Sarà un inizio. Puoi controllare all'ufficio immigrazione?» Duggan lo fissò, irritato. «Non sono il tuo galoppino. Farò un controllo degli schedari criminali, punto e basta. Come potrò contattarti?» Solomon gli diede il numero del cellulare che aveva comprato quel giorno stesso. «Comunque, solo col nome e la data di nascita, non aspettarti molto.» «Hai anche la foto.» «Se credi che me ne andrò in giro a controllare le foto delle puttane arrestate» abbaiò Duggan, sprezzante, «ti sbagli di grosso. Inoltre ormai la polizia non le arresta quasi più. Abbiamo altre priorità. Se stanno lontane dalla strada e non rapinano i clienti, vengono lasciate in pace.» «Proprio come ai bei vecchi tempi, eh?» Duggan piegò la fotocopia e la mise in una tasca del soprabito. «Controllerò se è stata arrestata, e basta. Se trovo qualcosa, ti chiamo.» Solomon si alzò in piedi, tendendo la mano, ma Duggan la fissò come se fosse una bistecca andata a male. «Come vuoi» disse Solomon. «Comunque sappi che mi dispiace che sia andata così.» «Già» ribatté Duggan, acido. «Dispiace anche a me.» Solomon tornò a casa di McLaren, si scaldò dei fagioli e chiamò Diane Milne, un'amica che lavorava all'ufficio immigrazione dell'aeroporto di Heathrow. L'aveva conosciuta durante il suo primo anno alla Buoncostume, quando l'ufficio immigrazione li aveva chiamati per arrestare ventiquattro ragazze cinesi che lavoravano in un night club illegale. Dopo l'arresto, erano andati tutti insieme a cena, e Solomon si era trovato seduto accanto a lei. Successivamente l'aveva presentata a McLaren, e i tre avevano trascorso insieme molte serate, bevendo birra, guardando partite di calcio e lamentandosi dei rispettivi datori di lavoro. Dopo che Solomon aveva lasciato la polizia, Diane era restata sua amica. Era alta, con un corpo da indossatrice che faceva voltare parecchie teste, e sposata con un infermiere. Fu felice di sentirlo e lo invitò subito a cena. Solomon le disse che aveva bisogno di un favore, e lei acconsentì a immet-
tere i dati di Nicole nel database. «Non la cerchi per ragioni personali, vero?» chiese. «Diane!» protestò Solomon. «È per lavoro.» «Allora perché non passi attraverso i canali ufficiali?» «Ti spiegherò tutto a cena» promise Solomon. Sean Milne aprì la porta e strinse con entusiasmo la mano di Solomon. Era un uomo imponente, alto almeno un metro e ottantacinque. Diane era in cucina e solo quando l'abbracciò Solomon si rese conto che era incinta. «Oh, mio Dio» esclamò. «Perché non mi hai detto nulla?» «Non è figlio tuo» rise lei. Sean aprì una bottiglia di Frascati, riempì tre bicchieri e fecero un brindisi. Più tardi, davanti a un piatto di spaghetti alla carbonara, Diane disse a Solomon che non c'erano tracce dell'entrata nel paese di Nicole Shala. Aveva trovato molte Amy, ma nessuna proveniente dai Balcani. Solomon sospirò. Se la ragazza aveva usato un altro nome, le possibilità di rintracciarla diventavano infinitesimali. «Chi è?» chiese Diane. «La testimone oculare di un assassinio di massa in Kosovo. Tutti i suoi familiari sono stati uccisi.» «Allora forse ha chiesto asilo politico.» «Non credo» disse Solomon. «Sono quasi certo che faccia la prostituta. Sapevo che poteva essere arrivata qui con un nome falso, ma speravo in un colpo di fortuna.» «C'è tutta un'industria che fornisce nuove identità alle prostitute» dichiarò Diane. «Forse ha pagato per un passaporto e un visto, oppure è venuta sotto contratto. In un caso o nell'altro, tutti i suoi documenti saranno stati perfettamente in regola.» «Non potete individuarle quando passano la dogana?» chiese Solomon, riempiendo di nuovo i bicchieri. «Individuare le prostitute guardandole in faccia?» disse Diane. «Non arrivano certo in minigonna e calze a rete.» «No, ma quando vedete arrivare una bella ragazza senza nessun mezzo visibile di sostentamento...» «Potrebbe essere venuta per studiare l'inglese. Gli studenti possono lavorare venti ore alla settimana, per pagarsi gli studi. O potrebbe essere semplicemente una turista. Non abbiamo il tempo di fare esami approfonditi. Se il passaporto e il visto sono in regola, i passeggeri possono entrare nel
paese.» «Quindi non si può fare nulla per fermare la cosa?» «Il problema maggiore sono quelli che chiedono asilo politico, Jack. Le prostitute in un modo o nell'altro lavorano, non chiedono l'assistenza medica gratuita né il sussidio di disoccupazione, e non costano soldi al governo. Perciò non sono considerate un problema.» Solomon si lasciò andare contro lo schienale della sedia. «È sempre lo stesso vecchio mondo» sospirò. «L'ufficio immigrazione non si preoccupa troppo per le ragazze che vengono qui a fare le prostitute. La polizia le lascia in pace, se non creano problemi. E intanto i gangster che controllano la prostituzione diventano sempre più ricchi. Allora perché non legalizziamo tutto e non ne parliamo più?» «Non è una cattiva idea» fece Diane. «Potremmo rilasciare visti per prostituirsi. Sei mesi, rinnovabili se i pagamenti delle tasse sono regolari.» «Lavoratrici specializzate» intervenne Sean. «Perché no?» «Stavo scherzando» sorrise con amarezza Solomon. «Io no» disse Diane. «Il costo attuale di un passaporto falso si aggira sui diecimila dollari, che le ragazze devono ripagare in lavoro alle gang. Se invece il governo rilasciasse loro dei visti specifici, il traffico potrebbe essere controllato.» «Forse hai ragione» assentì Solomon. «Il vero problema sono i mafiosi che gestiscono il racket, non le ragazze. Loro cercano solo di guadagnarsi la vita. Forse lo farei anch'io, se non avessi altra scelta.» «Sul serio?» chiese Solomon. «Saresti capace di dormire con un uomo per denaro?» Diane indicò il marito. «Ho dormito con lui dopo che aveva bevuto sei o sette birre, e non mi ha pagato neppure un penny.» Solomon rise e Sean finse un'espressione offesa. Diane riprese a parlare. «Il sesso a pagamento è un'industria fiorente. Si guadagna bene, e non mi sorprende che tante ragazze facciano la fila per venire qui a fare le prostitute.» «Hai ragione» disse Solomon. «Ho visto i posti da cui vengono parecchie di loro, e devo dire che effettivamente non hanno molta scelta. Il Kosovo non è un gran posto in cui vivere, almeno in questo momento.» «Già. Tutti quei morti» mormorò Sean. «Sono stati i serbi, giusto?» Spiegare la situazione nei Balcani era troppo complicato, pensò Solomon. Niente bianco e nero, ma solo tante sfumature di grigio. «Ci sono sta-
te atrocità da entrambe le parti» spiegò. «I musulmani uccidevano i serbi, e i serbi uccidevano i musulmani. I serbi uccidevano i croati, e i croati uccidevano i musulmani. Tutti indistintamente uccidevano gli albanesi. Quando è crollata la Iugoslavia, c'erano un sacco di vecchi conti da regolare.» «E questa ragazza che cerchi, di che provenienza è?» chiese Sean. «Albanese musulmana.» «Quindi sono stati i serbi a uccidere la sua famiglia?» «Finché non la troverò, non posso saperlo per certo. Ma è molto probabile.» Diane fece segno al marito di aprire un'altra bottiglia di vino. «E come pensi di trovarla?» chiese. «Una volta che una persona è entrata nel paese, non c'è modo di rintracciarla, se lavora in nero.» «Già. Niente codice fiscale, niente tessera elettorale, niente sussidi statali. Tutti i sistemi normali sono vicoli ciechi.» «La polizia?» chiese Diane. «Ho un contatto che mi ha promesso di cercare nel loro database. Ma se lei è qui sotto falso nome...» Diane annuì. «Potresti provare con le cliniche per malattie veneree. Probabilmente farà dei controlli, di tanto in tanto, e non ci sono molte cliniche del genere a Londra. Potresti mostrare la foto ai medici. Forse in questo modo riuscirai a rintracciarla.» «È una buona idea» riconobbe Solomon. «Il problema è che io non sono qui ufficialmente.» Spiegò loro cosa era successo in Bosnia e perché aveva dovuto lasciare il paese. «Porca miseria, Jack» disse Diane, quando ebbe finito. «Tu sì che sai come farti degli amici, eh?» Il giorno dopo, Solomon si sedette in un bar di Wardour Street, e ordinò diversi cappuccini, finché non vide Inga che andava al lavoro. Si era legata i capelli, indossava un lungo soprabito di pelle, stivali al ginocchio e occhiali da sole impenetrabili. Solomon corse fuori dal bar e la raggiunse mentre stava per entrare nel vicolo. «Inga?» chiese, toccandole una spalla. Lei si allontanò di scatto. «Cosa vuoi? Chi sei?» «Sono David» rispose lui, sorridendo. «Sono stato con te due giorni fa.» «Cosa vuoi?» «Ehi, non ti ricordi più di me?»
Lei lo fissò per diversi secondi, poi fece un sorriso teso. «Okay, mi ricordo. Ora devo andare.» «Ho bisogno di parlarti» insistette Solomon. «Vieni su, allora, ma più tardi. Inizio a lavorare dopo mezzogiorno.» «Non verresti a prendere un caffè?» Lei scosse la testa con forza. Poi strinse le labbra, vedendo qualcosa alle spalle di Solomon. Lui si voltò e vide due poliziotti, in giubbotti fluorescenti, che scendevano lungo Oxford Street. «Sei immigrata illegalmente, vero?» «Ho il visto e il passaporto.» «Ma non con il tuo vero nome.» «Chi sei?» «Sono uno che ha bisogno del tuo aiuto, Inga. Lasciami la possibilità di spiegare. Ci vorranno solo pochi minuti. E ti pagherò per il tuo tempo.» Per un attimo sembrò che la ragazza stesse per mettersi a correre, ma poi annuì e lo seguì verso il bar. Solomon andò al banco e prese un espresso per lei e una limonata per sé. Inga lo aspettava seduta a un tavolo accanto alla vetrata. Ringraziò con un cenno del capo quando lui le mise davanti il caffè, ma non toccò la tazzina. Solomon si sedette. «Ascolta, mi dispiace causarti dei problemi.» «Puoi causarmi problemi davvero grossi» mormorò lei. «Io non devo vedere i clienti fuori del lavoro.» «Chi lo dice?» «Il mio capo.» Solomon prese la foto di Nicole e gliela mise davanti. «Sto cercando questa ragazza.» «Perché? Ti ha rubato dei soldi?» «No.» «Hai detto che mi avresti pagata per parlare con te» disse lei, studiando la foto. Solomon le diede quaranta sterline. «Chi è il tuo capo?» Lei lo fissò con sospetto. «Hai detto che stai cercando una ragazza. Che c'entra il mio capo?» «La ragazza che cerco è stata portata qui dalla Bosnia. Forse l'uomo che ha fatto entrare in Inghilterra te ha fatto entrare anche lei.» «È bosniaca?» chiese Inga, prendendo in mano la foto. «Del Kosovo.» Inga sollevò le sopracciglia, improvvisamente interessata. «È serba?»
«Albanese. E tu, Inga, di dove sei?» «Bulgara.» «Sei arrivata qui direttamente dalla Bulgaria?» Inga si tolse gli occhiali da sole, e lo fissò a lungo. «Perché vuoi quella ragazza?» «È stata testimone di un crimine, in Kosovo.» «Allora sei un poliziotto.» «No» disse Solomon. «Lavoro in Bosnia per un'organizzazione di aiuto. Non mi interessa ciò che accade a Londra. Voglio solo trovare questa ragazza.» «È una prostituta, come me?» «Credo di sì.» Lei annuì lentamente. «Anch'io sono stata in Kosovo, per un periodo. Non è un bel posto.» Solomon bevve un sorso di limonata e attese. «I miei genitori sono morti quando ero piccola» raccontò Inga. «Sono cresciuta con una zia, ma lei non mi voleva in casa. Faceva la donna delle pulizie in un hotel, guadagnava pochissimo e aveva due bambini suoi da mantenere.» Si strinse nelle spalle. «Volevo andare via, ma non sapevo dove. Poi, a sedici anni, conobbi Goran. Lui ne aveva venti. Fu il primo con cui feci l'amore. Diceva che eravamo anime gemelle, che saremmo stati insieme per sempre.» Fece una pausa, poi continuò: «Diceva che avremmo potuto lavorare in Macedonia, nel ristorante di un suo amico. Diceva che lì avremmo potuto affittare un appartamento e vivere felici». «E invece non c'era nessun ristorante?» chiese Solomon. Lei scosse la testa. «Andammo a stare a casa di un suo amico. Dopo una settimana lui disse che dovevo andare a letto con il suo amico, perché non avevamo più soldi. Poi ci fu un altro amico, e un altro ancora. Quindi cominciò a portare regolarmente degli uomini nell'appartamento. Io andavo a letto con loro, e lui prendeva i soldi. Se provavo a ribellarmi mi picchiava. Un giorno mi portò in una casa dove c'erano tante altre ragazze come me, e mi lasciò lì. Non l'ho mai più visto.» Solomon si accese una Marlboro. Offrì il pacchetto a Inga, ma lei rifiutò con un gesto. «Restai lì per sei mesi. Poi arrivarono degli uomini. Erano dell'esercito di liberazione del Kosovo. Sai chi sono?» Solomon annuì. Erano violenti come i serbi che odiavano tanto. «Ci fecero sfilare nude davanti a loro. Credevo che fosse per fare sesso,
invece ci stavano comprando. Io fui acquistata per duemila dollari. Comprarono sei di noi. Ci fecero salire su un furgone, e ci portarono in Kosovo.» Inga fissò il traffico lento fuori della vetrata. «Ci tennero in un campo militare per circa un anno. C'erano un sacco di uomini. A volte venti al giorno. Niente preservativi. Una volta al mese ci davano degli antibiotici.» Fuori, taxi neri portavano gli uomini d'affari ai loro appuntamenti. I pony-express correvano sulle biciclette, mentre alcuni produttori cinematografici di belle speranze, vestiti Armani dalla testa ai piedi, gridavano nei loro telefonini. E a pochi passi da loro, Inga parlava di schiavitù, di ragazze comprate e vendute come merci. «Un giorno ci portarono via. A Belgrado. C'era un'asta con centinaia di ragazze. Io fui venduta per tremila dollari.» Sorrise. «Il mio prezzo era aumentato, non so perché.» «Chi ti aveva comprata?» «Il mio capo, Sasha. È albanese. Acquistò sei ragazze a quell'asta, e ci portò tutte a Londra.» «È il tuo pappone?» «È il mio capo.» «Quanto gli dai?» Inga aggrottò la fronte. «Cosa vuoi dire?» «Che percentuale gli dai sui soldi che guadagni?» «Non sai proprio niente, eh?» disse lei, in tono triste. «Non si tratta di percentuali. Tutti i soldi sono per lui. Mi dà un posto dove vivere, il denaro per mangiare e qualcosa per le spese, ma questo è tutto.» «È pazzesco!» esclamò Solomon. «Lui mi ha comprata» sussurrò Inga. «Ha speso dei soldi per farmi arrivare a Londra. Ha pagato per il mio passaporto, per il visto, per il biglietto. Per i miei vestiti. Devo lavorare per lui finché non avrò pagato ciò che gli devo.» «E quanto ci vorrà?» «Non lo so. Lui ha speso ventimila dollari per me. E io devo restituirglieli con gli interessi.» «Ma devi guadagnare abbastanza, no?» «Non tanto. Una decina di clienti al giorno. Alcuni da quaranta sterline, altri da sessanta o da ottanta. Un po' di più se vogliono servizi speciali.» Solomon preferì non chiedere quali erano i servizi speciali. «Quindi fai circa seicento sterline al giorno.»
Lei annuì. «A volte anche di più. Ma quelli servono per l'appartamento. L'affitto, lo stipendio della governante, il telefono, il ragazzo che attacca i volantini... Se guadagno seicento sterline, Sasha dice che la mia percentuale è cento. E quelle cento vanno in conto al mio debito.» Solomon fece un rapido calcolo. Ventimila dollari erano circa quattordicimila sterline. A cento dollari al giorno, ci volevano centoquaranta giorni, per ripagare il debito. «Quindi devi lavorare per lui tre o quattro mesi» disse. «E poi sarai libera?» Lei fece un sorriso triste. «Dimentichi gli interessi. E i soldi per pagare la mia scuola di inglese. E l'affitto del mio appartamento. Sasha mi mette tutto in conto.» «Gli hai mai chiesto quando avrai finito di pagare?» «Sasha non è uno a cui puoi fare domande del genere. Quando il mio debito sarà stato pagato, lui me lo dirà.» «E quante ragazze lavorano per lui?» Inga sollevò la tazza e bevve un sorso di caffè, senza smettere di fissarlo. «Perché vuoi sapere queste cose?» chiese. «Cosa c'entra con la ragazza che stai cercando?» «Niente» fece lui, in fretta. «È solo che non mi sembra giusto ciò che devi subire. Sei una schiava.» «Non sono una schiava!» ribatté lei, offesa. «Ma sei costretta a lavorare per niente.» «Non lavoro per niente. I miei guadagni servono a pagare il mio debito.» «Guadagni cinque o seicento sterline al giorno. Questo Sasha sta facendo una fortuna alle tue spalle. E se un giorno tu non volessi più lavorare per lui? Se volessi tornartene in Bulgaria?» «Non posso. Lui ha il mio passaporto.» «Allora sei una prigioniera.» «Niente affatto» disse Inga. «Sono qui che parlo con te, no? Vado a scuola di inglese. E ogni mese ho un giorno libero.» «Ma non vuoi tornare a casa tua?» «E perché? Lì non ho famiglia, non ho lavoro. Almeno qui ho Sasha.» Solomon non riusciva a capirla. Era stata portata via dal suo paese, venduta come una schiava e costretta ad andare a letto con centinaia di uomini. Eppure nella sua voce non c'era traccia di rabbia o di amarezza. «Devo andare» disse lei, alzandosi. «Se arrivo in ritardo mi multeranno.» «Cosa?»
«Dieci sterline per ogni minuto di ritardo» spiegò Inga. Solomon scarabocchiò il suo numero di cellulare sullo scontrino del caffè e glielo diede. «Se dovessi vederla, chiamami, per favore.» Lei annuì e prese lo scontrino. Si mise gli occhiali da sole e uscì senza salutare. Solomon fu svegliato da un forte ronzio. Cercò a tastoni la sveglia sul comodino, poi si rese conto che si trattava del cellulare. Era l'una di notte. «David?» Una voce di donna. «Sei tu?» Solomon stava per dirle che aveva sbagliato numero, poi ricordò. «Ciao» disse. «Sei Inga?» «Sì. Come stai?» Solomon si sedette sul letto. «Bene, grazie. Tutto a posto?» «Credo di sapere dove puoi trovare la ragazza che stai cercando.» All'improvviso Solomon fu completamente sveglio. «Dove?» «Non so dove si trova, ma ho parlato con una che la conosce.» «È qui a Londra?» «Credo di sì. Ma la mia amica ha bisogno della foto, per essere sicura.» Solomon udì qualcuno che sussurrava accanto a Inga, poi non udì più nulla. Probabilmente lei aveva coperto il microfono con la mano. «Inga, la tua amica è con te, adesso?» Ci fu un momento di silenzio. «È qui, ma non vuole parlare con te. Vuole vedere la foto. Per te va bene?» «Adesso?» chiese Solomon. «È l'una di notte.» «Lei lavora tutto il giorno. Sta in una casa dove ci sono molte ragazze, e non possono uscire senza essere scortate da un uomo del capo. Questo è l'unico momento in cui puoi vederla da sola.» «Non lavora per Sasha?» «No, il suo capo è un russo. E la picchierà se saprà che ti ha parlato. O adesso o mai.» «Dove siete?» «A Soho.» «Prendo un taxi e arrivo. Sarò lì tra mezz'ora.» Inga coprì di nuovo il telefono con la mano. Solomon gettò un'occhiata al display del cellulare, ma il numero del chiamante non appariva. «Va bene, vieni subito» disse Inga. «Conosci Soho Square?» «Certo.» «C'è un bagno pubblico. Ci vediamo lì davanti, dalla parte verso Oxford
Street.» La comunicazione si interruppe. Solomon si vestì in fretta, chiamò un taxi e scese ad aspettarlo sul marciapiede. Dieci minuti dopo arrivò una Honda Civic piuttosto malandata. Durante il viaggio, Solomon guardò ancora una volta la foto di Nicole, chiedendosi se era davvero meglio essere una prostituta in Occidente, piuttosto che una derelitta nel proprio paese. Forse era vero che ragazze come Inga e Nicole stavano facendo l'unica cosa possibile per sopravvivere. Si chiese cosa avrebbe potuto offrire a Nicole, per convincerla a tornare con lui a Sarajevo. Se le fosse importato trovare i responsabili dell'uccisione della sua famiglia, sarebbe restata in Kosovo. Invece aveva deciso di fuggire, e come Inga non aveva motivi per tornare. Solomon dubitava che volesse andare a stare da Teuter Berisha. Si rimise in tasca la foto, e chiuse gli occhi. «La lascio a Charing Cross, va bene?» chiese il tassista, guardandolo dallo specchietto retrovisore. «Va benissimo» disse Solomon. Pagò la corsa e scese, incamminandosi verso la piazza. Sulla soglia di una libreria, un giovane con un collie bianco e nero e una bottiglia di sidro si preparava il letto con dei cartoni. Soho Square era quasi deserta. La maggior parte degli edifici che la circondavano erano uffici. I night club e i locali di strip-tease erano un po' più avanti. Al centro della piazza c'era un giardinetto dove nelle giornate di sole gli impiegati andavano a mangiare i loro panini. Davanti c'era Inga, con gli occhiali da sole malgrado fosse buio. «Dov'è la tua amica?» chiese Solomon. Inga sembrava tesa. «Non voleva aspettare qui» disse. «Aveva paura che qualcuno la vedesse.» Solomon gemette. «Vuoi dire che è stata tutta una perdita di tempo?» «No, no» rispose Inga. «Ci aspetta qui vicino. Possiamo andare a piedi.» «Stai bene, Inga?» chiese Solomon. «Hai un'aria strana.» «Sto bene» rispose lei, e sorrise, prendendolo sottobraccio e guidandolo verso Carlisle Street. «Sono contenta di vederti.» Solomon sorrise a sua volta, ma capiva benissimo che qualcosa non andava. La ragazza stava praticamente tremando. E il sorriso che gli aveva rivolto sembrava più una smorfia da cane spaventato. A un tratto Solomon si fermò e la fece voltare, fissandola. «Inga, cosa succede?» «Niente. Vieni.» Un furgone blu svoltò nella piazza, e lei si girò a guardarlo.
«Non vado da nessuna parte se non mi dici cosa sta succedendo» insistette Solomon. «Per favore, David...» disse Inga. «Sì?» Le portiere di un'auto si aprirono alle spalle di Solomon. Lui si voltò e vide due uomini alti e grossi scendere da una BMW e incamminarsi verso di loro. Uno fumava un sigaro. Solomon cercò di fuggire, ma Inga lo trattenne per un braccio. I due iniziarono a correre. Dal furgone blu scesero altri due uomini. Solomon spinse via Inga. «Cosa succede?» gridò. «Mi dispiace» mormorò lei. «Mi dispiace tanto.» Gli uomini della BMW lo raggiunsero. Erano entrambi più grossi, più giovani e più forti di lui. E uno dei due aveva qualcosa in mano. Un manganello, o una spranga. Solomon alzò le braccia per difendersi. «Cosa volete?» urlò. Quello con il sigaro fece un cenno al compare e gli sferrò un calcio. Solomon saltò di lato, ma perse l'equilibrio e cadde sull'asfalto. Gli arrivò un colpo di manganello sul gomito, e urlò di dolore. Mentre cercava di alzarsi vide Inga sul marciapiede, che si copriva il volto con le mani. L'uomo con il sigaro gli diede un calcio al petto e Solomon cadde all'indietro, battendo la testa. L'altro sorrise, soddisfatto, e aspirò una lunga boccata dal sigaro. I due del furgone blu li raggiunsero e sollevarono Solomon per le braccia. Lui cercò di scalciare. L'uomo con il manganello gli si mise alle spalle, e Solomon sentì una botta in testa. Poi tutto divenne nero. Appena aprì gli occhi sentì arrivare un'ondata di nausea. Vomitò, si pulì la bocca con il dorso della mano e tossì. Era steso su un pavimento di cemento, davanti a una parete di mattoni. Dal braccio sinistro saliva un dolore lancinante. Fletté le dita una alla volta. Non sembrava esserci nulla di rotto. Udì delle voci alle sue spalle e si mise a sedere appoggiandosi sul braccio destro. La testa gli pulsava, e temeva di stare per svenire di nuovo. Qualcuno gli puntò contro una luce e lui voltò la testa. «Chi sei?» chiese una voce. L'accento era familiare, ma Solomon non lo riconobbe. Aveva tutti i suoi documenti nel portafogli, perciò non aveva senso mentire. «Mi chiamo Solomon» disse. «Jack Solomon.» «Alla ragazza hai detto di chiamarti David. Per chi lavori?»
«Per un'organizzazione senza scopo di lucro.» «Sembri più un poliziotto.» Solomon sputò saliva mista a sangue sul pavimento. «Sapete che non sono un poliziotto. Altrimenti non mi avreste aggredito in questo modo.» «Perché hai dato il tuo numero di telefono alla mia ragazza? Cosa ti ha detto?» Le parole furono accompagnate da un calcio nel fianco. «Va bene, va bene!» gridò Solomon. «Sto cercando una ragazza del Kosovo. Ho chiesto a Inga di chiamarmi, se l'avesse vista.» «Quali sono i tuoi interessi in Kosovo?» «Lavoro lì.» Solomon si riparò gli occhi con una mano. Un uomo dalle spalle larghe era seduto su una sedia. Accanto a lui c'era la lampada che gli tenevano puntata in faccia. «Per chi?» «Per un'organizzazione che identifica i cadaveri delle vittime di guerra.» «Puoi provarlo?» «I miei documenti. Sono nel portafogli.» «Mostrameli.» Solomon tirò fuori il portafogli e lo tese all'uomo. Lui si alzò in piedi, lo prese e studiò la carta d'identità e le credenziali della Commissione, poi glielo restituì. «Perché sei a Londra?» chiese. «Sto cercando una testimone di un crimine avvenuto in Kosovo.» «Dove in Kosovo?» «Vicino a Pristina.» Solomon si rimise in tasca il portafogli, e si tastò il braccio sinistro. «Potevate rompermi il braccio.» «Potevamo farti anche di peggio.» L'uomo tornò a sedersi, e parlò in albanese all'uomo che era con lui. Solomon udì dei passi alla sua sinistra, poi qualcuno lo afferrò e lo fece sedere su una sedia. Nella stanza si accesero le luci. Si trovava in una cantina senza finestre, dal soffitto basso. L'uomo seduto accanto alla lampada era quello che fumava il sigaro. Aveva circa trentasette anni, capelli castani corti e occhi grigi. «Sei Sasha?» chiese Solomon. L'uomo socchiuse gli occhi. «Lei ti ha detto il mio nome, eh?» «Non mi ha detto altro» disse Solomon. «È più che abbastanza» ribatté l'altro. «Ascoltate, io non voglio creare problemi a nessuno. Voglio soltanto
trovare la ragazza che sto cercando.» «Come si chiama?» «Nicole. Nicole Shala. Forse si fa chiamare Amy.» «Hai una sua foto?» Solomon tirò fuori la foto. L'altro uomo la prese e la diede a Sasha, che la studiò, poi disse: «Albanese kosovara?». Solomon annuì. Sasha doveva averlo capito dal nome. I nomi nei Balcani erano precisi come un codice a barre. «Musulmana?» Solomon annuì di nuovo. «Cosa è accaduto?» Solomon spiegò come era stata uccisa la famiglia di Nicole. Sasha ascoltò in silenzio. Quando finì, l'altro uomo si mise la foto nella tasca del giubbotto. Solomon non fece obiezioni. Era l'originale che aveva portato da Sarajevo, ma ne aveva delle fotocopie in casa di McLaren. «Perché pensi che si trovi a Londra?» chiese Sasha. «Lavorava in un night di Pristina. Molte ragazze che lavoravano lì sono state portate nella comunità europea.» Era una menzogna, ma Solomon non voleva rischiare di scoprire che Sasha conosceva Ivan Petrovic. Petrovic era serbo e Sasha albanese, quindi in teoria erano nemici giurati, ma il crimine produceva strane alleanze. «Quindi il fatto che sia a Londra è solo una supposizione.» «Dovevo iniziare da qualche parte.» «E avvicinavi delle ragazze a caso, chiedendo loro se l'avevano vista? Non mi sembra un granché come strategia.» «Un ago in un pagliaio, lo so. Ma dovevo fare qualcosa.» «È pericoloso interrogare le ragazze» disse Sasha. «Me ne sono accorto» rispose Solomon, tastandosi il braccio. «Dobbiamo proteggere i nostri investimenti» continuò Sasha. «La polizia e l'ufficio immigrazione vogliono rispedirle a casa. Le altre gang vogliono portarcele via. A volte ci sono dei clienti che vogliono salvarle.» «È questo che avete pensato? Che io volessi salvare Inga?» «Ho trovato il numero di telefono che le hai dato. Lei mi ha raccontato cosa le avevi detto, ma volevo controllare di persona.» Sasha si alzò in piedi. «Ti piace il whisky?» «Cosa?» fece Solomon, confuso. «Whisky. Ti ho chiesto se bevi whisky.» «Certo.»
Sasha si voltò, dirigendosi verso la porta. L'uomo che era con lui si affrettò ad aprirla. «Vieni con me» disse Sasha. Solomon si alzò in piedi e lo seguì fuori della cantina. Salirono le scale fino a una enorme cucina, con pensili di acciaio inossidabile ed elettrodomestici industriali. Il frigo era grande come due cabine del telefono e la stufa era a dieci fuochi. Tutto sembrava nuovissimo. Le superfici erano scintillanti, il pavimento di granito lucido. Sasha attraversò la cucina ed entrò in un soggiorno delle dimensioni dell'atrio di un hotel. Dal lato opposto c'era un camino di marmo, con sopra uno specchio grande come la vetrina di un negozio. La stanza era piena di cornici dorate, mobili con i piedi a forma di zampe e poltrone troppo imbottite. Sasha gli indicò una sedia dall'aspetto scomodo, quindi si avvicinò a un mobile pieno di bottiglie e versò una dose generosa di Johnnie Walker etichetta nera in due bicchieri di cristallo. Ne diede uno a Solomon, poi si sedette su un divano. «Quanto tempo sei stato in Bosnia?» chiese. «Due anni a Sarajevo, un anno in Kosovo. Lavoro alla Commissione Internazionale per i Morti in Guerra. Prima lavoravo per un'organizzazione che consegnava cibo e medicine in tutti i Balcani.» Sasha annuì, e bevve un sorso di whisky. «Ho sentito parlare della Commissione. Identificate i musulmani morti, giusto?» Solomon scosse la testa. «Identifichiamo i resti che troviamo. A volte si tratta solo di poche ossa, e dall'esame del DNA non risulta se la persona era musulmana o cristiana, serba o albanese.» «Io ho perso mio fratello e cinque cugini. Tutti assassinati dai serbi.» «Come è accaduto?» «Come?» ringhiò Sasha. «I serbi sono entrati in casa loro, li hanno portati fuori e gli hanno sparato. Ecco com'è accaduto. Poi hanno rubato tutto ciò che volevano, e hanno appiccato il fuoco al resto.» «È successo in Albania?» «In Kosovo. La mia famiglia è di origine albanese, ma i miei nonni si trasferirono in Kosovo prima della seconda guerra mondiale. Erano cristiani. I vicini di mio fratello erano quasi tutti serbi. Quando li hanno uccisi sono restati a guardare.» «Sono successe cose orribili, laggiù.» Gli occhi di Sasha si indurirono. «Puoi capire cosa vuol dire solo quando succede a te. O a qualcuno che conosci.»
Solomon non disse nulla. Lui sapeva cosa significava veder morire una persona cara, tenere tra le braccia un bambino morente. Ma non aveva intenzione di discutere la sua vita personale con un gangster che lo aveva picchiato e sequestrato. Ora lo aveva invitato nel suo salotto a bere whisky, ma Solomon non si lasciava ingannare da quella improvvisa affabilità. «Cosa ci fa un ebreo in Kosovo?» chiese Sasha. «Non sono ebreo.» «Solomon è un nome ebreo» disse Sasha. «Mio nonno era ebreo, ma sposò una donna cattolica.» «Quindi tu cosa sei?» La risposta a quella domanda non era semplice. Solomon andava in chiesa da piccolo, ma quell'epoca era molto lontana. Anche il suo matrimonio era avvenuto solo in municipio. «Agnostico, direi.» «E cosa significa?» «Significa che non so» rispose Solomon. «Credevo che un agnostico fosse un ateo.» «Gli atei sanno che non c'è un Dio. Gli agnostici non ne sono sicuri.» «È questo è ciò che pensi? Che forse non c'è nessun Dio?» Solomon sospirò. «Sasha, non lo so e francamente non m'interessa. Se esiste un Dio, e se questo Dio ha permesso le cose che sono accadute nei Balcani, non credo di voler avere qualcosa a che fare con lui.» Sasha gettò indietro la testa e rise forte. «Vuoi dire che se quando muori arrivi alle porte del paradiso e Dio è lì che ti aspetta, tu dirai: "Grazie, non mi interessa".» «Non esiste il paradiso, Sasha. Forse esiste l'inferno, ma è qui sulla terra, non da qualche altra parte.» «Sei un uomo amareggiato.» Solomon sollevò il bicchiere. «Grazie per il responso.» «Hai troppe radici. Nonno ebreo, nonna cristiana, e chissà che altro. Mescolare il sangue porta al disastro. Questo è stato sempre il problema in Iugoslavia. Troppe razze costrette a vivere insieme.» Solomon non disse nulla e Sasha finì il suo whisky in pochi sorsi. «Continuerai a cercare quella Nicole?» chiese. «Sì.» «Non ti consiglio di avvicinare le mie ragazze.» «E come faccio a sapere se lavorano per te?» Sasha gli rivolse un sorriso duro. «Se lavorano a Soho, lavorano per me.»
«Tutte?» Solomon lo fissò, sorpreso. «Io difendo il mio territorio, Jack. E Soho è il mio territorio.» «Okay.» Sasha si alzò in piedi. «Sono contento che ci siamo capiti.» Accompagnò Solomon alla porta. Nel vialetto c'era un uomo in piedi davanti a una grossa Mercedes. «Quell'uomo ti accompagnerà in macchina.» «Non c'è problema, prendo un taxi» ribatté Solomon. «Il mio uomo ti accompagnerà» ripeté Sasha, in tono secco. «Dove abiti?» «A Bayswater.» Sasha gridò qualcosa all'uomo in albanese. Solomon non capiva quella lingua, ma in tutta la frase non udì la parola «Bayswater». Salì sul sedile posteriore e chiuse la portiera. L'autista si voltò a guardarlo, con un sorriso esagerato. La portiera anteriore si aprì e accanto al guidatore salì un altro uomo. La Mercedes percorse il vialetto d'ingresso, mentre il cancello in ferro battuto si apriva lentamente. Solomon si voltò e vide Sasha sulla soglia, con le mani sui fianchi. Sasha salì lentamente la scalinata di marmo, portandosi dietro la bottiglia di Johnnie Walker. Superò una fila di porte identiche. Nella villa c'erano ventiquattro stanze da letto, che la governante albanese teneva sempre scrupolosamente pulite, ma nella maggior parte di esse non aveva mai dormito nessuno. Sasha aprì la porta alla fine del corridoio. La ragazza era seduta sul bordo del letto, e si alzò in piedi di scatto. Aveva il viso bagnato di lacrime, e il trucco sciolto. Sasha chiuse la porta con un piede e bevve un sorso di whisky. L'architetto aveva scelto il tema del leopardo per quella stanza. C'era una coperta a macchie sul letto, e una pelle di leopardo autentica sul pavimento. Alle pareti c'erano dipinti incorniciati che rappresentavano leopardi, e sotto la finestra un leopardo di porcellana a grandezza naturale. Sasha si pulì la bocca con il dorso della mano. «Gli hai detto il mio nome.» La ragazza tirò su con il naso e fissò il pavimento. «Mi dispiace.» «Gli hai raccontato dei miei affari.» «No.» «Basta bugie» sibilò Sasha. Bevve un altro sorso dalla bottiglia. «Spogliati.»
Lei obbedì immediatamente. Si sfilò il vestito e lo appoggiò con cura sul letto, restando in tenuta da lavoro: reggiseno, mutandine e giarrettiere nere con calze bianche. Al collo portava una piccola croce d'oro. «Togliti tutto» disse Sasha. La ragazza iniziò a singhiozzare. Era molto tempo che Sasha non vedeva Inga nuda. Aveva messo su qualche chilo, da quando l'aveva comprata all'asta a Belgrado, e le si erano ingrossati i seni. A Sasha le ragazze piacevano giovani e snelle, ma quello che stava per fare a Inga non aveva nulla a che vedere con il piacere. Doveva darle una lezione. «Guardami» disse Sasha. Lei sollevò gli occhi pieni di lacrime. «Mi dispiace» mormorò. «Non ti ho detto di parlare, puttana. Voltati con la faccia verso lo specchio.» Inga eseguì l'ordine. Sasha le si avvicinò, l'afferrò per il collo e la spinse sul tavolino da trucco sotto lo specchio. Poi si aprì i pantaloni e la prese da dietro, con durezza, insultandola tutto il tempo. Non si disturbò a usare un preservativo. Non lo faceva mai con le sue ragazze. Un medico le controllava ogni due settimane, e se avevano un'infezione venivano multate e picchiate. Sasha finalmente venne dentro di lei. Si scostò e si riabbottonò i pantaloni. Inga restò dov'era, singhiozzando in silenzio. «In piedi» disse Sasha. Lei iniziò a tremare. Sasha l'afferrò per i capelli e la costrinse a raddrizzarsi. Le diede uno schiaffo, forte, ma non tanto da romperle qualcosa. Lei tenne la bocca chiusa, sapendo che se avesse urlato sarebbe stato peggio. «Non devi prendere un numero di telefono da un cliente» disse Sasha. «Mai.» Le diede un altro schiaffo. «Non devi vedere i clienti fuori del lavoro. Mai.» La schiaffeggiò per la terza volta. «E non devi dire a nessuno il mio nome.» Schiaffo. «O quello che faccio.» Schiaffo. «Capito?» Inga annuì. «Sì.» «Stenditi sul letto a faccia in giù, puttana.» Inga obbedì. Sasha si tolse la cintura e la piegò a metà. Si avvicinò a Inga, facendola ondeggiare leggermente. Poi cominciò a frustarla. Sasha camminava con la testa alta e la mascella spinta in avanti. Lo seguivano due dei suoi uomini, Karic e Rikki. Lavoravano con lui da dieci anni, e si fidava ciecamente di loro. Durante la guerra Karic si era preso un
proiettile destinato a lui, quando una gang di serbi aveva teso loro un'imboscata. Se non fosse stato per il giubbotto antiproiettile che indossava e per Karic che lo aveva spinto giù, Sasha sarebbe morto quella notte. Invece era morto il capo dei serbi, con quattro dei suoi uomini. Due giovani gay attraversarono la strada, mano nella mano, sorridendosi come scolarette. Sasha odiava gli omosessuali. Nei Balcani non ce n'erano. Non in modo evidente, almeno. Soho invece ne era piena. Sasha disse a Karic e a Rikki di aspettare all'ingresso del vicolo, ed entrò in un edificio in cui aveva tre appartamenti. Alzò lo sguardo, e vide la scritta «Modella» a ogni finestra illuminata da una luce rossa. Quando aveva preso quegli appartamenti, la luce rossa segnalava che la ragazza era libera, mentre se era occupata l'insegna era spenta. Sasha aveva subito cambiato il sistema. L'insegna ora era sempre accesa, ed era compito della governante fare in modo che i clienti non andassero via. Poteva farli accomodare in cucina, in bagno o anche nel ripostiglio delle scope, se necessario. Il concetto era che le ragazze stessero a gambe aperte il più a lungo possibile. Se non scopavano non guadagnavano, e se non guadagnavano non servivano a niente. La ragazza al primo piano era una lettone che lavorava sotto il nome di Elsa. Sasha l'aveva comprata a Sarajevo per duemila dollari, ed erano stati soldi spesi bene. La ragazza negli ultimi due anni gli aveva fatto guadagnare cento volte tanto. Sasha l'aveva introdotta all'eroina (fumata, non iniettata, perché i segni dell'ago scoraggiavano i clienti), e gliela faceva pagare dieci volte il prezzo di mercato, ma lei non se ne accorgeva neppure. L'eroina inoltre la rendeva più compiacente e non c'erano servizi che non fosse disposta a offrire, purché il cliente avesse abbastanza denaro. Non si preoccupava nemmeno più di sapere quando si sarebbe esaurito il suo debito. Ormai apparteneva a Sasha anima e corpo, e lui pensava di usarla per altri due o tre anni, prima di rivenderla. Bussò alla porta e gli aprì la governante, una cinquantenne che lavorava lì da oltre dieci anni. Sorrise appena riconobbe Sasha e lo fece accomodare nella piccola cucina dell'appartamento. C'era uno sgabello e un mucchio di «Penthouse». Sasha sedette sullo sgabello. La donna prese un block-notes da un cassetto e glielo consegnò. Conteneva la registrazione di ogni cliente che Elsa aveva ricevuto, l'ora di arrivo e quella di partenza, il servizio fornito e la somma pagata. Ogni ragazza di Sasha aveva un libretto simile. Sasha controllò le voci della giornata. Dal momento di apertura, alle undici del mattino, non c'erano quasi tempi vuoti tra un cliente e l'altro. Al mas-
simo quattro minuti. «Molto bene, Liz» disse. La donna sorrise. «Elsa è in gamba, piace ai clienti. La maggior parte sono regolari.» Liz e le altre governanti che lavoravano per Sasha erano gli occhi e le orecchie dei suoi affari, e lui le trattava con rispetto. Di ragazze poteva comprarne a dozzine, ma le governanti esperte non si trovavano facilmente. Sapevano scoprire se una ragazza faceva la furba con i soldi, se si stava attaccando troppo a un cliente, o se stava diventando pigra e demotivata. Una buona governante parlava sempre con il cliente all'uscita, per accertarsi che tutto fosse stato soddisfacente e che non gli fosse stato chiesto di pagare nessun extra. E Liz, come le altre governanti di Sasha, periodicamente perquisiva la stanza da letto in cerca di soldi nascosti, mentre la ragazza era in bagno. «Nessun problema?» chiese Sasha. «Tutto regolare» rispose la donna. Aprì un altro cassetto e tirò fuori i guadagni della giornata, ordinati in mazzetti da cento sterline l'uno. Ce n'erano sette. Settecento sterline, ed Elsa era ancora a metà del turno. Sasha intascò il denaro. «Vuole un caffè?» chiese Liz. Dimostrava almeno dieci anni più di quelli che aveva. Troppe sigarette, troppo gin e vent'anni nel mestiere. «No, grazie» disse Sasha. «Voglio solo fare due chiacchiere con Elsa, poi vado via.» La porta della stanza da letto si aprì, e udirono Elsa che andava in bagno. Liz uscì dalla cucina e accompagnò il cliente alla porta. Tornò sorridendo, con una banconota da cinque in mano. «Mi ha lasciato anche la mancia» disse, infilando i soldi nella borsetta. Sasha uscì in corridoio e picchiò alla porta del bagno. «Torna in camera, Elsa.» «Sasha?» «Perché, aspettavi qualcun altro? E non sprecare troppa acqua calda. Hai un'idea di quanto mi costa questo appartamento?» Sasha entrò nella stanza e si sedette sul letto, sotto la lampadina rossa. Sul tavolino accanto al letto c'era un vaso di fiori, e un orsacchiotto con un cuore rosso tra le zampe, sul quale era scritto «Ti amo». Elsa apparve sulla soglia, in reggiseno, mutandine e giarrettiere. Si infilò le scarpe con i tacchi a spillo, e le tremò il mento quando vide che Sasha aveva tra le mani l'orsacchiotto. «Non è mio» disse subito. «Era qui quando sono arrivata. Deve essere di Abi.» Abi era la ragazza che faceva il turno di notte. Una lettone che amava
chiacchierare, e che aveva l'abilità di far innamorare i clienti. Di solito cominciavano regalandole fiori o animali di peluche, quindi profumi, e poco dopo si offrivano di sposarla, o di mantenerla come amante fissa se erano già sposati. Sasha aveva già dovuto usare la mano pesante con due clienti innamorati, e aveva pestato più volte Abi, nel tentativo di farle capire il suo errore. Lei era lì per scopare, non per flirtare con i clienti. Sasha appoggiò l'orsacchiotto sul comodino, sorrise a Elsa e le fece segno di sedersi sul letto accanto a lui. A causa dell'abuso di eroina, Elsa era un po' troppo magra anche per i gusti di Sasha, ma con l'uniforme da scolaretta che molti clienti le chiedevano di indossare dimostrava al massimo sedici anni. E l'uniforme significava dieci sterline extra. Qualunque cosa il cliente desiderava, poteva averla. Pagando, naturalmente. Sasha aveva martellato questo principio nella testa di tutte le sue ragazze. Un cliente voleva sculacciarle? Venti sterline extra. Voleva un pompino senza preservativo? Altre venti. Il sistema funzionava perfettamente. A volte un cliente saliva le scale con l'idea di farsi fare un lavoretto a mano e spendere trenta o quaranta sterline, invece finiva per spenderne sessanta o ottanta. Sasha tirò fuori la foto di Nicole dalla tasca della giacca. «Hai mai visto questa ragazza?» chiese. Elsa spinse una ciocca dei suoi lunghi capelli neri dietro l'orecchio. «Non mi sembra» disse. «Si chiama Nicole, o Amy.» «Sasha, sai bene che non esco con le altre ragazze.» Lui le appoggiò gentilmente una mano sulla coscia. «Elsa, non ti sto accusando di nulla. Voglio solo sapere se l'hai vista. So che a volte vai in discoteca a Leicester Square. Ti sto solo chiedendo se ricordi di averla vista da qualche parte. O se qualcuno che conosci ha mai menzionato una ragazza del Kosovo di nome Amy o Nicole.» Elsa scosse la testa. «No. Ne sono sicura.» Sasha le mise la foto davanti al viso. «Voglio che ricordi questa faccia, Elsa» disse. «E se la vedi telefonami subito.» Elsa annuì. «Sei una brava ragazza. Ti manderò su Karic con un regalino.» Sasha non portava mai droghe addosso. Non aveva senso correre rischi inutili. «Grazie» disse Elsa. «Non vuoi dimostrarmi la tua gratitudine?» Elsa si inginocchiò immediatamente accanto al letto. Sasha si stese sulla schiena e lei gli abbassò la cerniera dei pantaloni. Mentre glielo prendeva
in bocca, Sasha guardò l'orologio. Era importante farsi fare qualche servizio dalle ragazze, di tanto in tanto. Ricordava loro che erano sue, e che lui era l'unico che poteva averle gratis. Ma non avrebbe concesso a Elsa più di dieci minuti. Ogni minuto che lei passava con il suo cazzo in bocca, era un minuto che avrebbe potuto dedicare a un cliente pagante. Solomon si tolse i vestiti e li consegnò all'uomo. «Va bene?» chiese. L'uomo fece un gesto circolare con l'indice, e Solomon fece un giro su se stesso, lentamente. L'uomo grugnì un assenso, consegnò a Solomon un asciugamano bianco e gli aprì la porta della sauna. Il vapore caldo gli si condensò subito sul viso. La stanza era piena di panche di legno su vari livelli, con posti a sedere per una cinquantina di persone, ma dentro c'era soltanto un uomo, che versava dell'acqua su una pila di pietre roventi, producendo sibili e nuvole di vapore. «È abbastanza caldo per te, Solomon?» chiese l'uomo, con un largo sorriso. Rotoli di grasso cascante debordavano dal suo telo da bagno e il viso con il doppio mento era madido di sudore. I baffi e i capelli pettinati all'indietro erano così neri che dovevano per forza essere tinti. «Incontri sempre qui le persone, Marco?» chiese Solomon, mentre la porta si chiudeva alle sue spalle. Marco Montanaro gettò il mestolo di legno in un contenitore pieno d'acqua, anch'esso di legno. «Solo i poliziotti» rispose, sedendosi. «Primo, qui non c'è modo di nascondere un registratore. Secondo, nessun segnale radio può oltrepassare le pareti di metallo dietro i pannelli di legno. Terzo, mi piace veder sudare i poliziotti.» «Non hai saputo che non sono più nella polizia?» Montanaro gli indicò una panca. Solomon si sedette e spalancò la bocca per inalare più aria possibile. Montanaro rise del suo disagio. «La tua telefonata è stata una sorpresa. Quando eri nella Buoncostume non hai mai voluto avere nulla a che fare con me.» «Volevo solo fare due chiacchiere» disse Solomon. «Spero che tu non sia venuto a chiedere soldi.» «Non volevo i tuoi soldi allora e non li voglio neppure adesso. Ho solo bisogno di qualche informazione.» Montanaro rise. «Vuoi delle informazioni? E per quale motivo pensi che te le darei?» «Perché sei in debito con me. Se avessi detto agli inquirenti quello che sapevo, saresti finito in galera.»
«Non dirmi che hai agito così per altruismo. Non hai spifferato tutto solo perché avevi paura che i tuoi colleghi ti avrebbero fatto la pelle.» «Non è così semplice» ribatté Solomon. «E comunque a me non importa un accidente» disse Montanaro. Gettò dell'altra acqua sulle pietre. «Hai rovinato la vita di un sacco di gente, ma non la mia.» «Lo so» disse Solomon. «Duggan era un bravo poliziotto. Tutto andava liscio, quando era lui a comandare. Sai dov'è finito?» Solomon annuì. «E la tua vita, Jack? È migliore, adesso? Hai tratto qualche profitto dal tuo altruismo?» «Non sono pentito di ciò che ho fatto» ribatté Solomon. «Che fottuto animo nobile» disse Montanaro. Allargò le gambe e appoggiò la schiena contro lo schienale della panca. Solomon si passò le mani sul viso. Il calore era soffocante, e non riusciva a non ansimare. «Allora, come va con gli albanesi?» «È di questo che vuoi parlare? Degli albanesi?» «Mi dicono che siete grandi amici. Loro fanno arrivare le ragazze a Londra, e le sistemano nei tuoi appartamenti.» «Questa è storia vecchia. Perché ti interessa?» «Sto cercando una ragazza. Una prostituta. Penso che sia qui a Londra, e ho avuto un incontro con un albanese che sostiene di essere lui a controllare il giro a Soho. Da quello che ricordavo, erano i maltesi a controllare Soho.» «È ancora così» fece Montanaro. «Soho è il nostro territorio.» «Conosci un tizio di nome Sasha?» «Ti ha riempito la testa di stupidaggini, vero?» «Allora lo conosci.» Montanaro accennò un sorriso. «Abbiamo un accordo.» «Lui fornisce le ragazze, tu gli appartamenti.» Montanaro annuì. «Non mi è sembrato il tipo d'uomo che si accontenta di una società al cinquanta per cento» disse Solomon. Montanaro alzò le spalle. «Quando io ero alla Buoncostume, tu avevi gli appartamenti e le ragazze. Più i night club e le sale massaggi. Perché ora hai tanta voglia di lavorare con gli albanesi?»
«Hanno ragazze di ottima qualità. Costano poco e fanno tutto. Sanno cosa rischiano se rifiutano qualche servizio.» «Anche tu non avevi la mano leggera con le ragazze. E ora ti lasci mettere i piedi in testa dagli albanesi.» «Vaffanculo, Solomon!» gridò Montanaro. «Nessuno mi mette i piedi in testa! Nessuno!» Solomon alzò le mani in segno di resa. Non ci guadagnava niente irritando Montanaro. Aveva bisogno del suo aiuto. «Senza offesa» disse. Montanaro lo fissò con occhi di fuoco per alcuni secondi, poi sorrise. «Devo dire che hai le palle, Solomon. Ora non c'è nessuno a proteggerti. Potrei schiacciarti come una formica, e non gliene fregherebbe un cazzo a nessuno. E tu lo sai.» «Già.» «Eppure rompi i coglioni lo stesso.» Montanaro bevve un sorso da una bottiglia di acqua Evian, e si pulì la bocca con un piccolo asciugamano, che poi si mise intorno al collo. «Allora, ti interessa la ragazza, o questo albanese?» «La ragazza. Ma ho pensato che se fossi riuscito a capire cosa sta succedendo qui con gli albanesi, avrei avuto maggiori possibilità di trovarla. Sasha dice che non la conosce, e allo stesso tempo sostiene di controllare tutte le ragazze di Soho.» «Gli piacerebbe. Ne controlla una buona parte, ma ci sono anche altri. Noi, per esempio, poi i neri, e le triadi a Chinatown.» «Ma voi vi state tirando fuori.» «Gli appartamenti sono nostri. E loro ci pagano un buon affitto.» «Allora le vostre ragazze lavorano da qualche altra parte?» «Finalmente cominci a capire.» «Ma dove? I centri del sesso sono sempre stati Soho e Chinatown. Cosa è cambiato?» Montanaro aprì la bocca in un largo sorriso. «Internet. Il sesso a pagamento ora si fa in tutta Londra. Soho ha i giorni contati, ma gli albanesi non l'hanno ancora capito.» «Internet?» chiese Solomon, aggrottando la fronte. «Intendi dire sesso virtuale?» Montanaro rise di gusto. «No, intendo dire sesso reale. Ma invece di attaccare dei volantini nelle cabine del telefono, facciamo pubblicità su Internet. Agenzie di accompagnatrici. Le nostre ragazze possono stare in qualunque quartiere. Nel West End. Nella City. A sud del fiume. Possiamo
metterle dovunque ci sono clienti.» «E loro come le trovano?» «Si collegano a Internet, visitano un sito e compongono un numero di telefono. Spiegano quale ragazza vogliono, e noi diamo loro l'indirizzo. Nel sito web ci sono fotografie, descrizioni, prezzi. Il cliente può scegliere quello che vuole, al prezzo che preferisce.» Montanaro prese la bottiglia di Evian e si versò dell'acqua sulla testa, poi scosse i capelli bagnati, spruzzando gocce d'acqua sul viso di Solomon. «È un grosso business, Jack. Molto grosso. Le prime agenzie online risalgono alla fine degli anni Novanta. Ora ce ne sono centinaia. E le più grandi sono nostre. Intaschiamo molto di più di quanto rendevano gli appartamenti di Soho. Abbiamo un'agenzia d'alto bordo dove le ragazze costano cinquecento sterline l'ora.» Solomon restò a bocca aperta. «E la gente paga cifre del genere?» «Migliaia di persone le pagano. Una notte costa tremila sterline e gli uomini fanno la fila per pagare. Alcune ragazze sono prenotate con settimane di anticipo.» «Pazzesco» esclamò Solomon. Cercò di calcolare cosa poteva guadagnare in un anno una ragazza che chiedeva cinquecento sterline l'ora. Cifre da capogiro. «Ti faccio un esempio» continuò Montanaro. «Un tizio lavora per una banca di New York. I suoi capi lo mandano a Londra per qualche giorno. Lui va su Internet, trova la ragazza di suo gusto, la prenota con una e-mail e successivamente paga con la carta di credito. La ricevuta mostrerà che ha pagato per un pasto in un ristorante. Si fa la migliore scopata della sua vita, e paga l'azienda.» Solomon fissò con desiderio la bottiglia di Evian, ma il maltese non sembrava avere intenzione di offrirgliela. «E la Buoncostume vi lascia in pace?» chiese. «Perché non dovrebbe? Togliamo la prostituzione dalle strade. Niente pubblicità nelle cabine telefoniche, niente cartelli nei portoni, niente prostitute che infastidiscono i cittadini. Solo begli appartamenti in bei quartieri, tutto discreto, tutto di alto livello.» «Ma è sempre illegale, dico bene?» Montanaro rise. «Conosci la legge meglio di me, Jack. Con tutte le informazioni su Internet, non si tratta più di adescamento. Il cliente sa ciò che riceverà già prima di chiamarci.» «Elencate sul sito i servizi in offerta?» «Non ce n'è bisogno. Ci pensano i siti dedicati a recensire le prostitute.»
«I siti che fanno cosa?» Montanaro gettò dell'altra acqua sulle pietre, e respirò il vapore. «Perché diavolo ti sto aiutando, Jack? Cosa hai mai fatto tu per me?» Solomon non disse nulla, e attese. Ora che non era più un poliziotto non rappresentava una minaccia, e Montanaro non doveva avere molte opportunità di vantarsi. «Va bene» proseguì Montanaro, dopo un silenzio. «Funziona così. Nei siti di recensione i clienti stessi descrivono le ragazze che hanno visto, quanto hanno pagato, cosa hanno ricevuto in cambio. Noi ne usiamo uno chiamato Punternet.com. I nostri uomini mandano delle recensioni che spiegano cosa fanno le ragazze. Così le prostitute non devono adescare nessuno. È la cosa più vicina alla legalità. E sai quanto rende?» Solomon scosse la testa. «Otto milioni di sterline, solo l'anno scorso. E parlo di guadagno netto, non delle entrate lorde.» Montanaro rise vedendo la faccia incredula di Solomon. «Esatto, è un business enorme, Jack. Ora capisci perché siamo stati felici di cedere Soho agli albanesi. Percepiamo l'affitto degli appartamenti, ma presto li venderemo. Se gli albanesi vogliono comprarli, ben vengano. Altrimenti li venderemo a una delle agenzie di sviluppo immobiliare che non vedono l'ora di mettere le mani su Soho. Hai un'idea di quanti soldi faremo? Possediamo quegli appartamenti fin dagli anni Cinquanta. Quanto hai guadagnato l'anno scorso, Jack?» «Abbastanza per vivere» rispose Solomon. «Io ho gusti semplici.» Montanaro rise. «Per quanto tempo sei stato alla Buoncostume?» «Cinque anni.» «E cosa hai ottenuto, eh?» Solomon non rispose. Sapeva dove il maltese voleva arrivare, e non intendeva lasciarsi trascinare in quella discussione. «Ora chiedimi cosa ho ottenuto io, in quei cinque anni, Jack.» Non era necessario. Solomon aveva visto il dossier di Montanaro, cinque anni prima. Aveva visto le foto della sua villa, le automobili d'importazione, lo yacht. Il jet privato. E poteva solo immaginare quanto si fosse arricchito da allora. «Non c'è bisogno di sbattermelo in faccia, Marco» disse Solomon. «Lo so che non ce n'è bisogno, ma mi fa sentire bene. Hai sprecato quegli anni, Jack. Credi che al pubblico importi qualcosa se la polizia combatte la prostituzione? Molti ormai la vogliono legalizzare. Così almeno le
puttane pagherebbero le tasse.» «Ho già sentito dire un milione di volte la stessa cosa a proposito delle droghe» ribatté Solomon. «La droga è un altro paio di maniche» disse Montanaro. «Nessuno è mai morto per un'overdose di scopate.» «C'è l'aids.» «Le puttane non prendono l'aids. E se lo prendono è perché si drogano, non perché scopano. Loro sanno tutto sul sesso sicuro, Jack. Nessuna delle nostre ragazze farebbe nulla senza un preservativo. E comunque un cliente che scopa una prostituta senza preservativo si merita qualunque malattia. La prostituzione è un crimine senza vittime, e tra pochi anni il governo dovrà riconoscerlo e legalizzarla. Vedrai.» Bevve un lungo sorso di Evian. «C'è qualcos'altro che posso fare per te?» chiese, in tono sarcastico. «Se ti mostro una foto della ragazza che cerco, mi dirai se lavora per te?» «Da dove viene?» «Dal Kosovo. È arrivata qui da Sarajevo.» Montanaro fece una smorfia. «Quasi tutte le nostre ragazze sono della Comunità Europea. Così non abbiamo problemi neppure con l'ufficio immigrazione. Usiamo anche cinesi o tailandesi, ma solo se hanno un regolare visto di studio.» «Quindi non usate ragazze che vengono dai Balcani?» «Qualcuna, forse. Devono parlare bene l'inglese, perché con il nostro sistema lavorano da sole. Negli appartamenti è diverso, perché c'è la governante che parla con i clienti. E utilizziamo solo le più belle, perché le loro foto sono sul sito web. Negli appartamenti questo è meno importante, perché una volta che il cliente è entrato, difficilmente cambia parere.» «Questa ragazza è bella» disse Solomon. «E giovane.» Montanaro annuì. «Consegna la foto all'uomo qui fuori, e lascia un numero di telefono. Qualcuno ti contatterà.» Solomon si alzò in piedi e tese la mano. «Grazie.» Montanaro fissò la mano tesa per un paio di secondi, poi la strinse. «Davvero non ti capisco, Jack.» «Non sono sicuro di capirmi neppure io» asserì Solomon. L'uomo lo aspettava fuori con i suoi vestiti. Solomon prese una copia della foto di Nicole e scrisse in fondo il numero del suo cellulare. «Il signor Montanaro mi ha detto di darle questa foto» disse. L'uomo la prese, ma non disse nulla. Attese in silenzio che Solomon si vestisse, poi lo ac-
compagnò fuori. Solomon prese un taxi per Bayswater e trovò un Internet Café in una strada dietro Queensway. Prese un doppio espresso e una bottiglia d'acqua minerale e si sedette davanti a un computer in un angolo. Bevve mezza bottiglia d'acqua, poi lanciò Internet Explorer. C'erano più di venti computer nella sala, quasi tutti occupati da studenti stranieri che scrivevano e-mail. Solomon girò il suo monitor in modo che nessuno potesse vedere ciò che stava guardando. Digitò «www.punternet.com», e attese, sorseggiando il suo espresso. La home page gli diede il benvenuto nel sito, offrendogli una lista di servizi. Solomon cliccò sul link con la scritta «Service Provider Database», e apparve una lista di agenzie di accompagnatrici e di ragazze indipendenti, quasi tutte con un sito web personale. Cliccò sul link di una ragazza di nome Alison. Il sito era professionale, con varie pagine dedicate ai servizi offerti dalla donna. C'erano anche i prezzi e due pagine di foto. Era una bella lettone, bionda, con le gambe lunghe e le tette rifatte. C'era anche un indirizzo e-mail. Solomon tornò al database. C'erano pagine intere di link. Le agenzie avevano nomi tipo Fotogirl, Agency Provocateur, Legal Escorts e Oriental Angels. Solomon esplorò alcuni siti a caso. La maggior parte avevano in elenco una dozzina di ragazze, ma alcuni ne offrivano più di cinquanta. Il layout era diverso da un sito all'altro, ma il contenuto era più o meno lo stesso. Descrizione della ragazza, misure, tariffe. Non si parlava mai di sesso, ma solo di quanto costava un'ora con lei. Dovevano esserci centinaia di donne in offerta sul database di punternet, e Solomon udì la voce di Dragan Jovanovic che diceva: «Un ago in un paglione». Provò a cercare nell'indice per nominativi del sito, ma non trovò nessuna Nicole. C'erano due Amy: una bruna grassa con la passione del sesso anale, e una nera che stava a Bristol. Solomon cliccò sul Message Board, dove clienti e prostitute potevano scambiarsi messaggi. Più o meno come scrivere annunci sulle porte dei bagni pubblici. Diede un'occhiata. Clienti in cerca di puttane, puttane che si lamentavano di alcuni clienti, poesie orrende e stupidaggini varie. Cliccò sul messaggio di un uomo che scriveva sotto lo pseudonimo di Wonderboy, che voleva consigli su un rash cutaneo che gli era apparso sui genitali. Il parere prevalente, nella comunità di punternet, era che avrebbe fatto be-
ne a rivolgersi al suo medico di base. Solomon cliccò sulle recensioni, e richiamò tutte quelle inviate negli ultimi sette giorni. Ce n'erano circa trecento. Bevve un sorso di caffè. Il motore di ricerca mostrava il nome della ragazza oggetto della recensione, e la zona dove si trovava. Solomon ne scelse una a caso: Helen, Londra nord. Il rapporto seguiva un modello standard. Nome della ragazza, nome del recensore, luogo, ora, quanto era costata l'esperienza, quanto era durata e i dettagli per contattare la ragazza, compreso un numero di telefono. Solomon capì cosa voleva dire Montanaro. Una volta letta la recensione, il cliente sapeva esattamente qual era la merce in offerta, e non c'era più bisogno di quello che la legge definiva "adescamento". Solomon provò a cercare se c'erano recensioni a nome di Nicole, ma non ne trovò neppure una. Di Amy ce n'erano a decine, sparse in tutto il paese, ma nessuna recensione gli diede l'idea che si trattasse di quella che cercava. Solomon sospirò. Se la ragazza stava lavorando sotto un altro nome, non l'avrebbe trovata mai. Sentì squillare il cellulare, e rispose immediatamente. «Jack Solomon?» disse una voce d'uomo. «Sì?» «Chiamo da parte del signor Montanaro.» «Mi dica.» «Il signor Montanaro dice che la ragazza che lei cerca non è una delle nostre.» «Ah. Grazie» disse Solomon. L'altro chiuse la comunicazione. Solomon si mise il telefono in tasca e ordinò un altro espresso a una cameriera di passaggio. Forse cercava davvero un ago in un pagliaio, ma era comunque più facile trovarlo su Internet che visitando a uno a uno tutti gli appartamenti di Soho. Tornò sul database di punternet e iniziò dal primo sito, chiamato AAA-Girls. C'erano sei ragazze orientali. Solomon sospirò. Sarebbe stata una esplorazione lunga. Colin Duggan si abbottonò il soprabito e uscì in strada, con le spalle curve contro il vento. Odiava il suo lavoro, ma gli mancavano ancora quattro anni alla pensione. Era poco più di un commesso. Riceveva gli oggetti smarriti e teneva aggiornato l'inventario. Quel giorno la cosa più interessante era stata una giovane segretaria che aveva lasciato il cellulare in un taxi. Indossava un vestito scollato, e per quanto Duggan era riuscito a ve-
dere, niente reggiseno. «Perso nei tuoi pensieri?» disse una voce alla sua sinistra. «Vaffanculo, Solomon» grugnì Duggan, senza neppure voltarsi. «È un paese libero, no?» fece Solomon, accendendosi una Marlboro. Offrì il pacchetto a Duggan, il quale scosse la testa. «Cosa vuoi, ora?» «La ragazza, Nicole Shala. Trovato niente?» «Se avessi trovato qualcosa ti avrei chiamato, no?» «Forse no. Non lo so. Insomma, non hai trovato niente?» Duggan si fermò e lo fissò negli occhi. «Niente. Ho anche chiesto a un amico di controllare la sua foto al computer dell'ufficio immigrazione. Non è tra le donne che sono state rispedite a casa. Non c'è altro che possa fare per te.» Solomon soffiò il fumo verso il cielo. «Un drink?» «Sto andando a casa.» «Solo uno.» Duggan imprecò e si avviò verso il pub. Non aveva nulla di importante da fare a casa. Sua moglie era morta dieci anni prima, e persino Solomon era una compagnia migliore della tivù e di una cena scaldata nel microonde. Duggan spinse la porta del pub e andò a sedersi a un tavolo, mentre Solomon si dirigeva al banco. Solomon gli mise davanti un bicchiere di Bell's con ghiaccio, poi si sedette. «Sono andato a trovare Montanaro» esordì. A Duggan andò il whisky di traverso. «Cosa?» esclamò appena ebbe finito di tossire. «A che gioco stai giocando? Vai a trovare lui e poi vieni da me. Stai cercando di incastrarmi?» «Non essere ridicolo.» Duggan si chinò in avanti e appoggiò una mano sul petto di Solomon, tastandolo fino allo stomaco. «Non ho un microfono nascosto» disse Solomon. Duggan rimase in silenzio, e fece scorrere la mano sulla schiena e sui fianchi di Solomon. «Colin, vuoi piantarla?» Duggan tolse la mano. «Perché non te ne torni dritto in Bosnia?» «Ci tornerò quando avrò trovato la ragazza.» «Bene, nel frattempo stai lontano da me. Mi hai già rovinato abbastanza. Che impressione può fare, se qualcuno ti vede parlare prima con Montanaro e poi con me?» «Non mi ha seguito nessuno, non preoccuparti.» Solomon bevve un sorso della sua lager e indicò il bicchiere vuoto di Duggan. «Un altro?»
Duggan non disse nulla. Solomon si alzò e andò a prendere un altro whisky. «Perché sei andato da lui?» gli chiese Duggan, quando tornò al tavolo. «Controlla una buona parte delle ragazze di Soho. Volevo sapere se aveva visto Nicole.» «E l'ha vista?» «Dice di no.» «Gli credi?» Solomon non rispose subito. «Non ha bisogno di mentire, ora.» «Forse vuole divertirsi a farti incazzare.» Solomon sorrise. «Sembrava molto contento dei suoi accordi con gli albanesi. Da ciò che mi ha raccontato, lui sta spostando il business su Internet, mentre gli albanesi mettono le loro ragazze nei suoi appartamenti di Soho.» «E allora?» «Gli albanesi sono dei clienti difficili.» «Chi non lo è, oggi? Albanesi, russi, colombiani. Londra è piena di bastardi violenti. La malavita locale non ha nessuna possibilità.» «Il fatto è che gli albanesi non si accontenteranno di una divisione dei profitti. In Italia hanno sfidato la mafia e hanno vinto.» «Lasciami pensare un attimo se me ne frega qualcosa» disse Duggan. Restò in silenzio per un paio di secondi. «No, non me ne frega un cazzo.» «Tu non vuoi vedere una guerra di bande qui, Duggan» proseguì Solomon. «Sei sempre un poliziotto.» Duggan accennò un sorriso triste. «No. Sto solo segnando il passo fino al giorno della pensione.» «Stronzate» disse Solomon. Duggan vuotò il bicchiere. «Cosa pensi di fare, adesso?» «Sto cercando tra i siti Internet. Almeno lì ci sono le foto.» «Non sempre sono autentiche. Proprio come le cartoline attaccate nelle cabine telefoniche. Quello che vedi non è necessariamente quello che ricevi.» «È la voce dell'esperienza che parla?» «Non sono mai andato con una prostituta. Ad alcuni dei ragazzi piaceva inzuppare il biscotto, ma quella è una linea che io non ho mai oltrepassato.» «Scherzavo» fece Solomon. «Già. Il tuo senso dell'umorismo un giorno o l'altro ti costerà caro.»
Solomon finì la sua lager. «Un altro drink?» Duggan scosse la testa, e Solomon si alzò in piedi. Duggan lo fissò mentre usciva dal pub. Malgrado tutto, Solomon gli piaceva. Ma non glielo avrebbe mai detto. Non dopo i disastri che aveva combinato. Duggan andò al banco e ordinò un altro Bell's doppio con ghiaccio. Non aveva pensato di bere tanto, ma una volta iniziato trovava difficile smettere, soprattutto in quel periodo. Solomon bevve un sorso del suo espresso doppio e cliccò di nuovo sul database di punternet. Era circa a metà della lista delle agenzie di accompagnatrici e di lavoratori indipendenti. Procedeva in ordine alfabetico, un sito dopo l'altro, controllando tutte le foto. Con le ragazze indipendenti era abbastanza facile, mentre le agenzie gli prendevano più tempo. In genere avevano una pagina con le foto di tutte le ragazze che lavoravano per loro, e cliccando su una foto individuale si finiva in un'altra pagina dedicata a quella ragazza, con altre foto e una piccola biografia. Solomon eliminava immediatamente le nere e le orientali, ma controllava tutte le pagine dedicate alle bianche, bionde, brune o rosse. Nicole era bionda, ma a Sarajevo si era tinta i capelli di nero, e poteva aver cambiato ancora. Le ragazze che gli causavano più problemi erano quelle il cui volto era oscurato o coperto da una striscia nera sopra gli occhi. Allora gli toccava regolarsi in base alla forma del corpo, e non era facile, perché nella foto del matrimonio Nicole indossava un abito lungo, mentre la maggior parte delle ragazze sui siti web erano nude. Un altro sistema di eliminazione era l'età. Nicole aveva diciannove anni, e lui evitava di controllare tutte le ragazze che dicevano di avere dai venticinque anni in su. Fino a quel punto aveva una lista di tre ragazze possibili. Le facce di due di loro erano state oscurate elettronicamente. Erano entrambe bionde e lavoravano per delle agenzie. Si chiamavano Savana e Bianca. La terza era una indipendente che stava a Earl's Court, e si faceva chiamare Nikita. Il suo viso non era oscurato, ma in tutte le foto era girato in modo da nascondere i suoi lineamenti. Solomon si era fatto fare una stampa a colori delle tre ragazze dal giovane arabo che gestiva l'Internet Café. La prima volta l'uomo gli aveva strizzato l'occhio, ma Solomon lo aveva incenerito con lo sguardo, e le altre due stampe erano state consegnate senza nessun commento. Solomon cliccò sul sito di un'agenzia chiamata Legal Escorts. La home
page mostrava una bella bruna che sorrideva maliziosa. Sotto la foto c'era l'avviso che il sito conteneva materiale di natura sessuale, e chiunque avesse meno di diciotto anni era invitato a uscire cliccando sul bottone «exit». Solomon cliccò su «enter», e caricò una pagina di foto. Erano almeno venti ragazze, senza nomi né commenti di nessun tipo. Quattro erano orientali, due nere. Solomon controllò le altre una per una, esplorando le loro pagine individuali. La sesta ragazza si chiamava Amy, e quando la sua pagina apparve sullo schermo, Solomon seppe di aver trovato Nicole. C'erano otto foto, quasi tutte di spalle, ma una era di fronte. Nicole indossava una uniforme da scolaretta, con i calzettoni bianchi e i capelli legati in due codini. Era seduta su un letto, con le gambe aperte. Sotto le foto c'era una lista di prezzi e la scritta: «Outcall only». Significava che non era possibile andare a trovarla nel suo appartamento, ma era lei che andava dai clienti. L'agenzia applicava una tariffa di duecento sterline per un'ora, che saliva fino a millecinquecento per una notte intera. C'erano due numeri di telefono, entrambi cellulari. Solomon cliccò su «stampa» e andò alla cassa a prendere il foglio. In quella foto Nicole aveva i capelli castani, più lunghi che nella foto del matrimonio, e i seni erano un po' più pieni, ma il sorriso era lo stesso. Un po' furbetto, malizioso, nervoso. Nella biografia era descritta come italiana, probabilmente perché i proprietari dell'agenzia preferivano pubblicizzare le loro ragazze come appartenenti alla Comunità Europea, per evitare problemi con l'ufficio immigrazione. Solomon piegò in due il foglio e lo infilò nella tasca interna. Era un ago in un pagliaio, ma lo aveva trovato. Seduto sul divano, Solomon rilesse ciò che avrebbe detto. Per non sbagliarsi aveva annotato tutto quanto su un taccuino. Poi compose il numero. Rispose una donna di mezza età, con un accento dell'Europa orientale. «Parlo con Legal Escorts?» chiese Solomon. «Sì. Cosa desidera?» «Vorrei un appuntamento di un'ora con Amy, oggi. È possibile?» «Si è già servito della nostra agenzia?» «No, è la prima volta.» «A che ora vuol vedere Amy?» «Alle sei» disse Solomon. «Come si chiama?» «Richard Williams.»
«E qual è il nome del suo hotel, Richard?» «Io... ecco, mi chiedevo se Amy sarebbe disposta a venire a casa mia, a Bayswater.» «Certamente. La richiamo tra qualche minuto per confermare l'appuntamento. Qual è il suo numero?» Solomon le diede il numero del cellulare. Cinque minuti dopo la donna lo chiamò per la conferma e scrisse il suo indirizzo. «La tariffa per un'ora è di duecento sterline» disse. «La ragazza forse le chiederà un contributo per il taxi, ma sta a lei decidere se darglielo. Grazie per aver chiamato, Richard.» La donna chiuse la comunicazione. Non si era mai parlato di sesso, né delle prestazioni che Amy gli avrebbe offerto. Fino a quel momento la transazione era stata completamente legale. Udendo il campanello del portone Solomon ebbe un soprassalto. Prese il citofono. «Chi è?» chiese. «Amy.» «Oh, Amy, sali pure» disse Solomon, e aprì il portone. Quando suonò il campanello della porta, fece un respiro profondo e andò ad aprire. Restò a bocca aperta. La ragazza davanti a lui non era Nicole. «Ciao, sono Amy» disse, con un gran sorriso che metteva in mostra i denti un po' irregolari. Sfiorava il metro e ottanta, con gli occhi di un blu così intenso che poteva essere solo il risultato di un paio di lenti a contatto colorate. Indossava un cappotto di finta pelliccia con il bavero rialzato, pantaloni neri attillati e stivali neri dai tacchi alti. Solomon non disse nulla. Restò a fissarla con la mano sulla maniglia. Aveva chiesto Amy, e c'era soltanto una ragazza con quel nome sul sito web dell'agenzia. La ragazza davanti a lui era più alta, più vecchia, con la mascella forte e il naso pronunciato. Era molto bella, ma non era Amy. «Non mi fai entrare?» Solomon riuscì a sorridere e si tirò indietro. «Scusami» disse. Lei entrò, si tolse il cappotto e lo gettò su uno dei divani. «Hai i miei soldi?» chiese. Solomon prese un mazzo di banconote da venti. Lei le contò, poi tirò fuori un Nokia dalla borsetta. «Chiamo l'agenzia per far sapere che è tutto a posto» disse. Gli voltò le spalle, e parlò con la donna dell'agenzia in una lingua che sembrava russo, quindi tornò a voltarsi verso di lui. «Posso usare il bagno, per favore?» chiese.
Solomon annuì e glielo indicò. Lei sorrise, e chiuse la porta. Solomon aveva la mente in tumulto. L'ultima cosa che si aspettava era uno scambio di persona. Se ora avesse detto all'agenzia che voleva la ragazza del sito web, si sarebbero chiesti perché. Inoltre ormai le aveva già dato i soldi, perciò se non avesse fatto sesso con lei sarebbe sembrato sospetto. Prese il cellulare e chiamò McLaren, pregando che non fosse fuori ufficio. L'amico rispose al secondo squillo. Solomon parlò a bassa voce. «Danny, chiamami tra dieci minuti. Fa' finta di essere il mio capo, e di' che c'è bisogno di me in ufficio.» «È davvero così brutta la ragazza?» «Per favore, Danny. Ti spiego tutto dopo.» In bagno l'acqua smise di scorrere. Solomon appoggiò il cellulare sul tavolino. «Ti preparo qualcosa da bere?» urlò alla ragazza. «No, grazie» rispose lei, da dietro la porta. Solomon prese una lattina di lager dal frigo e si sedette sul divano. Circa un minuto dopo la ragazza uscì dal bagno. Si era tolta i vestiti, avvolgendosi intorno alla vita un corto asciugamano, che lasciava scoperte le sue lunghe gambe. Appoggiò i vestiti sul bracciolo del divano, e gli stivali sul pavimento. «Andiamo in camera da letto?» disse. Solomon sorrise, indicandole di sedersi accanto a lui. «Rallenta» disse. «Mi piace fare le cose con calma.» Il sorriso della ragazza si allargò. «Vuoi essere sedotto, eh?» Gli si avvicinò lentamente, leccandosi il labbro superiore. «Bene, a me piace sedurre gli uomini.» Solomon bevve un sorso di birra mentre lei gli si sedeva accanto, iniziando a far scorrere le dita sulla sua coscia, fissandolo negli occhi. Solomon dovette farsi forza per non ridere. La ragazza era una pessima attrice. «Sei molto bella» le disse. Quello almeno era vero. Aveva la pelle morbida e bianca, e sotto l'asciugamano si intravedeva un seno notevole. «Grazie» rispose lei. «Anche tu sei un bell'uomo.» Gli soffiò leggermente nell'orecchio, accarezzandogli il collo con il dorso di una mano, mentre con l'altra continuava il suo andirivieni sulla coscia. «Ma tu non sei Amy, vero?» Lei fermò la mano. «Non ti piaccio?» «Mi piaci molto, ma avevo chiesto Amy.» «Non mi vuoi?» chiese lei, indurendo il tono. «No, sei perfetta» disse Solomon. Si chinò in avanti e la baciò. Lei aprì le labbra, infilandogli la lingua in bocca, e riprendendo ad accarezzargli il
collo. Senza interrompere il bacio gli scivolò a cavalcioni, e iniziò a sbottonargli la camicia. Solomon sentì che gli diventava duro e la spinse via, ridendo. «Sei terribile» disse. Lei divenne subito seria. «Terribile?» «Non intendo in senso negativo. Voglio dire... è difficile spiegarlo. Ho la sensazione di essere violentato.» Lei si illuminò. «È questo che ti piace? Posso legarti al letto e violentarti, se vuoi.» A dire la verità, Solomon trovava la proposta allettante, ma quello non era il luogo né il momento. Appoggiò un dito sulle labbra della ragazza. «Mi piace fare le cose lentamente» ribadì. «Parlami, mettimi a mio agio, poi faremo l'amore. Come due fidanzati, capito?» Lei annuì. «Capito. Andiamo in camera da letto, ora?» «Tra un attimo.» Solomon l'aiutò a sedersi accanto a lui, e le passò un braccio intorno alle spalle. «Allora, come ti chiami?» chiese. «Tanya.» «Di dove sei?» «Ucraina. Ci sei mai stato?» «No.» «È un bellissimo posto.» «Ne sono sicuro.» Lei si voltò per guardarlo in faccia. «Perché ne sei sicuro?» «Deve essere un bel paese, per aver prodotto una così bella ragazza.» Lei sorrise e tentò di baciarlo di nuovo, ma Solomon rise e voltò la testa. «Sono di nuovo terribile?» chiese lei. «Sì» mormorò lui. Bevve un sorso di lager e disse: «Cosa è successo ad Amy?». «Oggi ha le mestruazioni» disse Tanya. «Non può lavorare.» «Perché l'agenzia non mi ha detto nulla?» Lei fece spallucce. «Forse temevano che avresti annullato l'appuntamento.» «Da quanto tempo lavori con loro?» «Due mesi.» Tanya lo afferrò per le orecchie e lo baciò con forza in bocca. Lui cercò di spingerla via, ma lei lo tenne fermo, stringendoglisi contro e spingendogli la lingua in bocca. Solomon ebbe di nuovo un'erezione, e lei se ne accorse. L'asciugamano scivolò via e gli premette i seni contro il petto. Solomon cercò di protestare, ma lei non smise di baciarlo.
Il cellulare squillò. Solomon spinse via Tanya. «Devo rispondere.» «Sei sicuro?» ansimò lei. Per un attimo Solomon non ne fu affatto sicuro. Tanya era giovane, bella e già pagata. Portarla in camera da letto sarebbe stata la cosa più facile. Lei sorrise, intuendo la sua indecisione, ma lui premette il tasto di risposta. Era McLaren. «Come va, amico?» «Sono a casa» disse Solomon. «C'è qualche problema?» «C'è bisogno di te in ufficio. Ma perché dico queste stronzate? Tanto lei non può sentire, giusto?» «Ma perché io? Non può farlo qualcun altro?» «Bla, bla, bla» fece McLaren. «Bla, bla e ancora bla.» «Va bene, ma devo dire che non mi sembra giusto» disse Solomon, rivolgendo a Tanya un sorriso di scusa. Lei prese l'asciugamano e se lo avvolse intorno alla vita. «Be', se non ti sembra giusto resta lì e inzuppa il biscotto» disse McLaren. «Sì, capisco» continuò Solomon, gettando un'occhiata all'orologio. «Sarò lì tra mezz'ora. Dica loro che sto arrivando.» Chiuse la comunicazione, con un gesto seccato. «Tanya, mi dispiace, devo andare in ufficio. C'è un problema da risolvere. Tieni pure i soldi.» «Possiamo fare l'amore prima che tu vada via. Possiamo farlo velocemente.» Solomon prese i vestiti della ragazza e glieli porse, scusandosi profusamente. Lei andò in bagno e pochi minuti dopo tornò vestita. Si sedette sul divano per infilarsi gli stivali. «Mi dispiace davvero tanto» fece Solomon. «Non c'è problema» disse lei. «Mi chiamerai ancora?» «Certo» mentì Solomon. L'accompagnò fuori, e quando fu uscita chiuse la porta, maledicendo la sua sfortuna. Sasha uscì dall'aeroporto e rabbrividì malgrado il pesante cappotto di Armani che indossava. Karic e Rikki lo seguivano a poca distanza. Karic aveva una valigetta di metallo attaccata al polso con una catena sottile. Davanti a loro erano parcheggiate tre Mercedes dai vetri oscurati. Accanto a ciascun veicolo stazionavano due uomini che sorvegliavano la folla con occhi attenti. Belgrado era un posto pericoloso, anche per un uomo come Sasha. Uno degli uomini si fece avanti e lo abbracciò con forza. «Bentornato,
fratellino» esclamò. Sasha gli restituì l'abbraccio, cercando di lasciarlo senza fiato. Era un gioco infantile che facevano ogni volta che s'incontravano. «Hai smesso di allenarti, Markovic? Non mi sembri molto in forma.» Markovic rise. «Davvero, fratellino?» Lo chiamava sempre così. Aveva quarantun anni, cinque più di Sasha, ma sembrava più vecchio, per via della testa rasata e del viso segnato dalle intemperie, dopo una fanciullezza trascorsa a lavorare nella fattoria di famiglia, nel sud della Serbia. Sasha si sciolse dall'abbraccio. «Andiamo, abbiamo parecchio da fare.» Uno dei serbi aprì la portiera posteriore della Mercedes centrale e Sasha salì a bordo, seguito da Karic. Markovic salì davanti. L'autista aveva già acceso il motore. Le auto partirono. Erano tutte corazzate, con vetri a prova di proiettile. Le due Mercedes davanti e dietro di loro erano zeppe di uomini armati. Markovic prese due Glock dallo scomparto portaoggetti, poi ne consegnò una a Sasha e l'altra a Karic. Sasha controllò che la sicura fosse inserita e si mise in tasca l'arma. In Inghilterra non correva mai il rischio di girare armato, ma lì si sentiva tranquillo. «Allora, come vanno gli affari, fratellino?» chiese Markovic, svitando il tappo di una fiasca d'argento. Offrì un sorso a Sasha, il quale bevve e gliela restituì. «Gli affari vanno a gonfie vele» rispose. «Stavolta prenderò altre otto ragazze e dieci il mese prossimo. E a te come vanno le cose?» «Non mi lamento. Mandiamo cento chili alla settimana in Germania e cinquanta in Italia.» Come Sasha, Markovic aveva fatto i soldi durante l'assedio di Sarajevo. Ma mentre Sasha faceva entrare di nascosto cibo e medicine nella città, Markovic faceva uscire le persone. Persone con abbastanza soldi per sottrarsi al fuoco dei cecchini e alle bombe. Durante l'assedio, durato quattro anni, c'erano stati diecimila morti e Markovic aveva guadagnato più di un milione di dollari. Quando era finita la guerra ed erano arrivate le forze internazionali di pace, Markovic si era dedicato alla prostituzione e alla droga, prima rifornendo la popolazione locale e le forze di pace, poi spostandosi all'estero. Importava eroina dall'Afghanistan e la trasportava in Europa. Di recente aveva cercato di coinvolgere Sasha nell'apertura di una rete di distribuzione a Londra, ma Sasha era riluttante. Nel Regno Unito la prostituzione rendeva più della droga, e comportava molti meno rischi. Il convoglio si fermò davanti a un albergo a circa cinque chilometri dal-
l'aeroporto. Era un cubo di cemento alto otto piani, costruito nell'austero stile comunista dell'epoca di Tito. Attualmente era di proprietà di Jon Nikolic, un boss della mafia serba che lo usava principalmente per riciclare il denaro della droga. I quattro piani inferiori erano riservati agli ospiti paganti, mentre i quattro superiori erano occupati dalla gang di Nikolic. Negli ultimi due anni vi si erano svolte le più grandi aste di prostitute del paese. Davanti all'ingresso montavano la guardia quattro uomini in lunghi cappotti neri, con auricolari e occhiali scuri. Gli uomini della prima Mercedes scesero e si affrettarono ad aprire le portiere delle altre due. Markovic entrò nella hall con Sasha. C'erano divani in plastica, tavolini in legno e piante artificiali ricoperte di polvere. L'aspetto trascurato del posto era proprio ciò che Nikolic voleva: tutti i soldi andavano spesi ai piani superiori. Markovic e tre dei suoi uomini si sedettero su due divani. Altri gruppi di guardie del corpo erano riuniti in diversi punti dell'atrio. Solo il compratore, l'uomo che portava i soldi e un assistente avevano il permesso di salire al quinto piano durante le aste. Altri due uomini in cappotto nero stavano di guardia davanti all'ascensore. Sasha entrò, seguito da Karic e Rikki. Le porte si chiusero e salirono in silenzio fino al quinto piano. Fuori li aspettavano altre due guardie, stavolta con le armi ben in vista. Ciascuno aveva un Kalashnikov AK-47 a tracolla. Solo gli uomini di Nikolic potevano portare armi, lì dentro. Accanto all'ascensore c'era un tavolo e un metal detector come quelli in uso negli aeroporti. Sasha, Karic e Rikki consegnarono le pistole. Un uomo con occhiali da sole avvolgenti scrisse qualcosa su un foglio e mise le pistole su uno scaffale alle sue spalle, già stracolmo di armi di tutti i tipi, comprese due granate. Karic aprì la valigetta di metallo. L'uomo controllò che contenesse soltanto i soldi, poi annuì e indicò a Sasha in quale stanza dovevano recarsi. Karic aprì la catena della valigetta, e passò attraverso il metal detector. Quindi la riprese, attese il passaggio di Sasha e Rikki, quindi tutti e tre si incamminarono lungo il corridoio. All'inizio le aste si svolgevano in una sala unica. Ma un giorno un gangster russo, seccato perché non riusciva a battere le offerte di un italiano su due gemelle del Montenegro, aveva tirato fuori la pistola, facendo saltare le cervella al rivale. Da allora era iniziata la consuetudine di consegnare le armi all'ingresso e di tenere separati i compratori. Nikolic andava da una stanza all'altra, mostrando le ragazze e annotando le offerte. Era un sistema
più sicuro, ma richiedeva molta fiducia da parte dei partecipanti, perché Nikolic avrebbe potuto manipolare i prezzi. Sasha entrò nella stanza loro assegnata e si sedette a un grande tavolo di mogano. Karic gli mise davanti la valigetta e si sistemò accanto alla porta. Rikki andò a piazzarsi vicino alla finestra, con le braccia conserte e l'espressione impassibile. Nikolic arrivò, seguito da due gorilla. Era alto come Sasha, ma largo quasi il doppio, con le dita inanellate grosse come salsicce. «Sasha, sei uno degli ultimi» disse. «Ora possiamo cominciare.» «L'aereo è atterrato in ritardo» spiegò Sasha. Nikolic gli fece cenno di sedersi. «L'importante è che tu sia qui. Abbiamo delle ragazze fantastiche in offerta. Quante ne vuoi, stavolta?» «Otto. Ma d'altra parte, sai che sono un compratore impulsivo.» Nikolic rise, con una mano sullo stomaco enorme. «Prima di cominciare, ho una domanda da farti» disse Sasha, tirando fuori la foto di Nicole da una tasca della giacca. «È una delle tue?» Nikolic aggrottò la fronte. «Credevo che non ti piacessero così giovani» commentò. «Cos'ha, sedici anni?» «Diciannove, ora» rispose Sasha. «E potrebbe avere i capelli tinti di un altro colore.» «Da qui passano moltissime ragazze, Sasha. Come potrei ricordarle tutte?» «Si chiama Nicole. O Amy.» «I nomi non significano nulla, lo sai meglio di me. Perché ti interessa?» «Cinquemila dollari americani se riesci a dirmi dove si trova.» Nikolic si sfregò il mento. «Sasha, non sai quanto mi piacerebbe prendere i tuoi soldi, ma non posso aiutarti. Questa è una faccia tra centinaia di altre.» «Potrebbe essere finita a Londra» insistette Sasha. «Allora è una faccia tra mille.» Nikolic gli restituì la foto. «Mi dispiace. Ora dammi cinque minuti per parlare con i russi, poi torno.» «C'è qualcun altro che è venuto da Londra, oltre me?» chiese Sasha. Sapeva che ce n'erano almeno due, aveva riconosciuto i loro uomini alla reception. Nikolic gli puntò contro un dito ammonitore. «Sai che questo non è permesso, Sasha» disse, sorridendo. «Ma potrai incontrare gli altri partecipanti dopo l'asta. Nel frattempo, posso farti avere qualcosa da bere?» Sul tavolo c'erano varie bottiglie d'acqua e un secchiello con ghiaccio.
Sasha disse che l'acqua andava benissimo. Preferiva rimandare gli alcolici a dopo. Attese pazientemente per dieci minuti, poi Nikolic tornò, con una valigetta di Gucci che sistemò sul tavolo, prima di sedersi. «Allora, di cosa hai bisogno, Sasha?» chiese, aprendo la valigetta. «Cos'hai da offrire?» Nikolic estrasse venti foto Polaroid. «Moldave. Ho già un'offerta di cinquemila sterline l'una per tutto il gruppo, ma preferirei venderle individualmente.» Sasha esaminò le foto, scartando diverse ragazze perché gli sembravano troppo vecchie, troppo grasse o semplicemente brutte. In alcune parti d'Europa non importava che aspetto avesse una ragazza. Bastava che fosse una donna e gli uomini erano già contenti. Ma l'Inghilterra era un mercato ricco, dove i clienti potevano permettersi di fare i difficili. Mise due foto davanti a Nikolic. Due ragazze brune, una con i capelli corti, l'altra con le trecce. «Quanti anni hanno?» Nikolic arricciò il naso. «Sui passaporti che ho fatto fare per loro c'è scritto che hanno vent'anni. Ma in realtà quella con i capelli corti ne ha quindici. L'altra è sua sorella e ne ha diciassette.» Sasha aggiunse la foto della quindicenne al mucchio di quelle che aveva scartato. Non toccava mai le minorenni, non solo per i rischi che ciò comportava, ma anche e soprattutto perché in genere non avevano abbastanza esperienza. Sasha non voleva vergini o ragazze che avevano fatto sesso solo qualche volta. Voleva donne esperte, capaci di reggere venti scopate al giorno senza lamentarsi. Gli restavano quattordici foto. «Ho bisogno di ragazze che parlino almeno un po' di inglese» disse. Nikolic annuì e selezionò cinque foto, tra cui quella della diciassettenne. «Sono tutte di sopra» disse. «Puoi provarle.» Sasha diede quattro foto a Karic e Rikki, tenendo per sé quella della diciassettenne. I due uomini lasciarono la stanza. Sapevano cosa fare. Nikolic diede a Sasha la chiave della stanza dove si trovava la ragazza della foto, e gli strizzò l'occhio. «Ti piacerà, vedrai.» Sasha si mise la chiave in tasca. «Che altro hai?» «Bielorusse. Ma sono contadine, niente che si avvicini ai tuoi standard. Io non le scoperei neppure con il cazzo di un altro.» Nikolic rise forte e aggiunse: «Ho anche lettoni, ucraine e bulgare». «Niente kosovare o bosniache?»
Nikolic si grattò il mento. «Due, ma non parlano inglese.» «Voglio vederle.» Nikolic frugò tra le foto della sua valigetta e ne tirò fuori due. «Sul serio, Sasha, sono di seconda scelta. Pensavo di venderle a Hong Kong. Ai cinesi basta che siano bianche, e le trovano tutte bellissime.» «Sono qui nell'hotel?» Nikolic alzò le spalle. «Naturalmente.» Sasha tese la mano, e il serbo gli diede due chiavi. «Quella nella sei-tresei è di Sarajevo, l'altra viene da Pristina. Hanno entrambe un certificato medico in ordine, ma devo avvisarti che al tuo posto io non mi fiderei.» Sasha si alzò in piedi. «Lascia che decida io.» Uscì dalla stanza e andò verso l'ascensore. Uno degli uomini di guardia si scostò per lasciarlo passare. Sasha premette il bottone per il sesto piano. Aprì la porta della stanza seicentotrentasei senza bussare. La ragazza era bruna, sui ventotto anni, con i seni grandi e i fianchi larghi. Indossava un negligé nero, mutandine di pizzo e un paio di scarpe dai tacchi alti troppo grandi per lei. Gli sorrise, nervosa, e aprì il négligé. Aveva il seno e il ventre ricoperti di smagliature e cicatrici. Doveva aver avuto almeno tre figli. La bocca era rosso vivo, e si era messa troppo mascara blu sugli occhi. Fece un passo verso di lui, prendendosi i seni tra le mani, ma Sasha la fermò con un gesto. «Non voglio scopare» disse in serbo-croato. Prese dalla giacca la foto di Nicole e gliela mostrò. «Hai mai visto questa ragazza? Ora ha qualche anno di più, e forse ha i capelli neri.» La donna scosse la testa. «Ne sei certa? Guarda bene.» La donna esaminò la foto, poi scosse di nuovo la testa. Sasha si voltò per andarsene. «Di dove sei?» chiese la donna. «Albanese, ma lavoro a Londra.» «Anch'io voglio lavorare a Londra.» Sasha aprì la bocca per dirle che non aveva speranze. C'erano un sacco di ragazze più giovani e più belle di lei sui marciapiedi londinesi. Ma vide dall'espressione sul suo viso che la donna non aveva bisogno di spiegazioni. Aveva già abbandonato ogni speranza. Chissà con quanti uomini aveva scopato, solo per arrivare in quella stanza d'albergo dove sarebbe stata venduta come un animale. «Londra è un mercato difficile» disse Sasha, in tono quasi gentile. «C'è molta concorrenza. Dove sono i tuoi figli?» «Se ne occupa mio marito» rispose lei. «La terra intorno alla nostra fat-
toria è minata, perciò non possiamo coltivare nulla.» «Lui sa quello che fai?» La donna abbassò lo sguardo. «Non abbiamo nulla. Dicono che ci vorranno sei anni, forse anche di più, prima che vengano a togliere le mine. Hanno altre priorità. Terre che appartengono a gente più importante di noi.» Sasha annuì. Lei lo guardò con un filo di speranza. «Puoi portarmi a Londra?» «No, mi dispiace» rispose lui, e la lasciò lì, seduta sul letto con le mani in grembo. La ragazza di Pristina era nella stanza accanto. Quando Sasha aprì la porta stava leggendo una rivista, ma si alzò rapidamente, petto in fuori e pancia in dentro, e sorrise in modo seducente. Sasha annuì. Era stata ben addestrata. Era truccata come si deve e indossava una vestaglia trasparente, calze autoreggenti e un reggiseno troppo piccolo. Niente mutandine; altra dimostrazione che aveva ricevuto un buon addestramento. Mostrando subito al cliente la merce in offerta, si perdeva meno tempo. Aveva un bel viso, e un buon taglio di capelli. Ma le cicatrici di rasoio all'interno delle braccia erano già di per sé un motivo per rifiutarla. Non si trattava di veri tentativi di suicidio, piuttosto di atti di autolesionismo per ricevere attenzione. «Parli inglese?» chiese Sasha. Lei lo fissò senza rispondere. Sasha allora tirò fuori la foto di Nicole. «La conosci?» chiese, in bosniaco. La ragazza annuì. «Sì. Abbiamo lavorato nello stesso bar, a Pristina.» Sasha restò senza parole dalla sorpresa. «Ne sei certa?» «Ha fatto la cameriera per circa tre settimane. Poi è passata a fare la ballerina. Infine il capo l'ha venduta a un bar di Sarajevo.» «È proprio la stessa ragazza?» «Sì. Era bionda come nella foto quando è arrivata, ma poi si è fatta bruna.» «E come si chiamava il bar di Sarajevo dov'è andata poi?» «Nessuno me lo ha detto. Un giorno sono andata al lavoro e lei non c'era più. Questo è tutto quello che so.» Sasha prese la foto e uscì dalla stanza. Salì al piano di sopra senza usare l'ascensore, ed entrò nella stanza delle sorelle moldave. Le ragazze erano sedute sul letto. La più giovane sembrava ancora più piccola, vista dal vivo. Dimostrava tredici o quattordici anni. «Come ti chiami?» chiese Sasha alla più grande.
«Katrina» disse lei, alzandosi in piedi. «Quanti anni hai?» «Diciassette. E mia sorella sedici.» Sasha ignorò la menzogna. «Sai cosa vuol dire sesso anale?» La ragazza annuì. «Ti va bene?» «Se non fa male.» L'espressione di Sasha s'indurì. «Non mi interessa se fa male. Voglio sapere se lo fai volentieri o no. È un servizio che a Londra i clienti chiedono spesso.» Sentendo nominare Londra, la ragazza s'illuminò. «Lo faccio volentieri» disse. Mise una mano sulla spalla della sorella. «Anche lei.» «Se ti chiedono un pompino, sai cosa significa?» La ragazza annuì, mimando il gesto di mettersi qualcosa in bocca. La sorella rise. «Togliti la vestaglia» disse Sasha. Katrina obbedì e Sasha la esaminò attentamente. Pelle morbida, seni sodi, stomaco piatto. La ragazza si voltò di spalle, senza aspettare che lui glielo chiedesse. Natiche alte, gambe lunghe. Sasha annuì, soddisfatto. Sul comodino c'erano preservativi e fazzoletti di carta. Non aveva senso pagare migliaia di dollari per poi scoprire, una volta a Londra, che la ragazza lavorava male. Sasha disse alla sorella di passargli un preservativo, e iniziò a slacciarsi la cintura. Katrina gli si avvicinò. «Lascia fare a me» disse. Sasha sorrise. Era ben addestrata. Katrina si inginocchiò, glielo tirò fuori e lo prese in bocca. Mentre muoveva la testa su e giù continuava a guardarlo negli occhi. Bene. Il contatto visivo dava l'idea che fosse una cosa personale. Sasha sentì delle mani che gli accarezzavano la schiena. Era la sorellina. Gli diede il preservativo, con il cellophane già aperto. Sasha lo passò alla ragazza inginocchiata. Lei glielo infilò, mentre le mani dell'altra iniziavano a togliergli la camicia. Sasha disse a Katrina di alzarsi in piedi, la sollevò e glielo mise dentro. Lei lo strinse con le ginocchia. Lui si avvicinò al comodino, la fece sedere lì sopra, e continuò a scoparla. «Sì, dai, mi piace, mi piace tanto» sospirava lei. Dava proprio l'impressione che le piacesse, ed era un'ottima cosa. Il cliente si sarebbe sentito speciale, e sarebbe stato spinto a tornare. Sasha venne con un grugnito, e la ragazza lo baciò su una guancia, ab-
bracciandolo stretto. La sorella più piccola cercò di trascinarlo verso il letto, ma Sasha si tirò su i pantaloni, andò in bagno e gettò il preservativo nella tazza, tirando lo sciacquone. Si pulì il viso dalle tracce di rossetto, e quando tornò nella stanza le due ragazze erano sul letto, e parlavano a bassa voce nella loro lingua. Sasha indicò Katrina. «Ti porterò a Londra» disse. Lei sorrise, e passò un braccio attorno alle spalle della sorella. «E lei?» disse. «Quando sarà più grande. Non posso usare ragazzine, a Londra. Tra due anni farò venire anche lei, ma non ora.» Katrina aprì la bocca per protestare, ma Sasha la zittì con un gesto. «Tu fai quello che dico io. Sono il tuo capo, tu obbedisci e basta. È chiaro?» Katrina tolse il braccio dalle spalle della sorella e annuì. «Bene. Se lo ricorderai sempre, andremo d'accordo.» Sasha non si disturbò a spiegare a Katrina che a Londra avrebbe dovuto lavorare per pagare il suo debito. Glielo avrebbe detto in seguito, quando ormai sarebbe stato troppo tardi. Inoltre avrebbe potuto usare la sorella come arma di ricatto. Katrina non avrebbe saputo dove trovarla, lui sì. Tornò nella sua stanza e si sedette. Karic e Rikki erano già tornati. Gli restituirono le polaroid dicendo che le ragazze andavano bene. Sasha si fidava del loro giudizio. Si versò un bicchiere d'acqua, e stava per aggiungere un cubetto di ghiaccio quando entrò Nikolic. «Tutto bene?» chiese, sedendosi di fronte a Sasha e aprendo la valigetta. Sasha spinse verso di lui la foto di Katrina. «Ah, la più graziosa» disse Nikolic. «Ho già un'offerta di quindicimila euro per lei. E altrettanti per la sorella.» «Avevi detto cinquemila sterline, prima.» «L'asta è iniziata, Sasha. Quelle due sono belle e ben addestrate.» «La sorella non mi interessa» fece Sasha. «Per lei ti offro dodicimila sterline.» Nikolic scrisse qualcosa in un quaderno dalla copertina in pelle. Sasha gli passò le foto delle altre quattro moldave. «Seimila sterline l'una per queste.» Nikolic ne indicò una. «Per lei ho già un'offerta di diecimila dollari americani.» «Okay, ottomila sterline per lei, e seimila per le altre.» Nikolic prese nota sul suo quaderno, poi tirò fuori delle altre foto. «Ho anche queste da sottoporti. Parlano tutte inglese.» Sasha esaminò le polaroid. L'asta ormai era iniziata, e sarebbe andata
avanti per tutta la giornata. Ma di una cosa era certo. Avrebbe comprato Katrina a qualunque prezzo. La ragazza avrebbe ripagato l'investimento, e inoltre Sasha sapeva che con lei si sarebbe divertito parecchio. Solomon stava guardando di nuovo il sito della Legal Escorts, sorseggiando un espresso, quando squillò il cellulare. Era Danny McLaren. «Sembra che avrai l'appartamento tutto per te, nei prossimi giorni» gli disse. «Le cose in Iraq si stanno muovendo, e questo pomeriggio mi mandano in Arabia Saudita. Tornerò per il fine settimana. Devo raccogliere materiale per una delle nostre articoliste di punta, fornirle le citazioni giuste perché possa vincere un altro premio. E lo dico senza nessuna amarezza.» Solomon gli augurò buon viaggio e l'amico gli chiese cosa stesse facendo. «Sto controllando di nuovo il sito web di quell'agenzia» rispose. «Hai scoperto a nome di chi è registrata? Probabilmente il proprietario avrà preso delle precauzioni, ma vale la pena di provare.» «Cosa devo fare?» «Vai in un motore di ricerca per il controllo dei domini. Ce n'è uno su www.registryweb.com. Ti diranno a nome di chi è registrato il sito, chi sono i tecnici, da quanto tempo hanno il dominio, eccetera. Quindi hai intenzione di riprovare a invitare quella ragazza nella mia umile dimora?» «Non è detto» rispose Solomon. «Ora qui dice che è disponibile anche a casa sua. Forse è stato per questo che non è potuta venire, l'altra volta. Magari era in pieno trasloco. Cercherò di fissare un appuntamento con lei per stasera.» McLaren rise. Solomon gli augurò di nuovo buon viaggio e chiuse la comunicazione. Poi andò subito su Registry Web e inserì i dati del sito di Legal Escorts. Il proprietario sembrava essere una compagnia Internet del Surrey. Probabilmente avevano registrato il sito a loro nome su richiesta del vero proprietario. Avevano acquistato quel dominio nel marzo del 2000. Solomon tornò a casa prima di chiamare l'agenzia. Gli rispose una donna più giovane di quella dell'ultima volta e con un accento meno pronunciato. Solomon chiese di prenotare Amy per un'ora, alle quattro del pomeriggio, ma gli fu risposto che non era libera fino a tarda sera. «Le interessa un'altra ragazza?» chiese la donna. «A che ora è disponibile Amy?» chiese Solomon. «Non prima delle nove.» «Posso prenotare un appuntamento con lei dopo le nove, allora?» chiese
Solomon. «Nel suo appartamento?» «Non c'è problema. L'ha già vista altre volte?» «No» disse Solomon. «Può lasciarmi il suo nome?» Solomon restò paralizzato, perché aveva dimenticato il nome che aveva dato l'ultima volta. Senz'altro l'agenzia aveva preso nota del nome e del numero. «Mi scusi, la sento a intermittenza» disse, cercando di prendere tempo. «Non ho capito cosa ha detto.» A un tratto ricordò dove aveva lasciato il blocchetto su cui aveva scritto ogni cosa. Corse nella sua stanza, mentre la donna ripeteva la domanda. Il taccuino era sul pavimento. Lo afferrò e lo aprì. «Richard» rispose, cercando di mantenere calmo il respiro. «Richard Williams.» «La chiamerò per confermare, Richard. Mi lascia un numero, per favore?» Solomon le diede il numero del cellulare, e cinque minuti dopo la donna lo richiamò, dettandogli un indirizzo in St. John's Wood. Solomon prese una birra dal frigo, si sedette in cucina e cercò di pensare bene a ciò che avrebbe detto a Nicole Shala. Il cielo si era oscurato fuori dell'hotel quando l'asta finì e Nikolic presentò il conto a Sasha. Ottantacinquemila sterline, più una commissione del venti per cento: Nikolic prendeva una percentuale dal venditore e dal compratore. Sasha aprì la valigetta di metallo e ne tirò fuori fasci di banconote. «Vorrei che gli inglesi si decidessero ad adottare l'euro» disse Nikolic. «Renderebbe tutto più facile.» Sasha contò i soldi. Aveva comprato Katrina per ventimila sterline, il prezzo più alto che avesse mai pagato per una ragazza. Inoltre aveva acquistato due lettoni, due ucraine e quattro moldave. Nikolic lo aveva convinto a prendere anche una giovane bulgara specializzata come dominatrice. A Sasha quel lato dell'industria sessuale non interessava, ma conosceva una donna che gestiva un locale sadomaso nella City che gli avrebbe dato senza problemi il triplo del prezzo da lui pagato per quella ragazza. «Hai ricevuto offerte per la donna nella sei-tre-sei?» chiese Sasha. Nikolic alzò le spalle. «La bosniaca? Qualcuno sembrava interessato, ma poi non ci sono state offerte.» «Quanto vuoi per lei?» «Stai scherzando?»
«Ti sembro uno che scherza su queste cose?» Nikolic si fece serio. «Le triadi mi darebbero ottomila, per lei» disse. «Ottomila dollari di Hong Kong?» chiese Sasha. «No, dollari americani.» «Non sono nato ieri, amico. Ti darò duemila sterline.» «Quattromila.» «Tremila.» «Tremilacinquecento.» Sasha sospirò. «Sono troppo stanco per continuare a discutere» disse. Contò le banconote, le diede a Nikolic e disse a Karic di chiudere la valigetta. Poi si accomiatò, dicendo che sarebbe tornato tra un paio di mesi. Markovic lo aspettava alla reception. «Com'è andata?» chiese. «Ne ho prese dieci» rispose Sasha. «Ottima merce. Più una di Sarajevo. Manda qualcuno a prenderla, Nikolic deve averla già fatta preparare. Hai ancora quel bar fuori Sarajevo, quello dove vanno a bere i poliziotti federali?» Markovic annuì. «Dalle un lavoro come cameriera, o in cucina. Pagala bene, per favore. Non in modo esagerato, ma insomma vorrei che te ne prendessi cura.» Markovic gli diede una pacca sulla schiena. «Non ti starai rammollendo, eh?» Sasha gli afferrò le palle con una mano. «Se vuoi vedere quanto sono rammollito, continua a dire stronzate del genere.» Risero entrambi, e si avviarono abbracciati verso le auto in attesa. Anna bussò alla porta aperta dell'ufficio e Sergei Goncharov sollevò lo sguardo dal monitor del computer. Anna sorrise, niente affatto spaventata dall'espressione dura del russo. Lavorava con lui da quattro anni, e si era abituata ai suoi sbalzi di umore. Anna veniva dall'Estonia. Era bionda, alta e con un fisico da modella. Per tre anni era stata una delle migliori call-girl di Goncharov. Era stata lei ad avvicinarlo, poco dopo essere arrivata a Londra. Poiché non era stata importata su contratto, aveva iniziato a lavorare con lo stesso trattamento riservato alle ragazze inglesi dell'agenzia, tenendosi i due terzi del denaro che guadagnava. Tre anni dopo aveva un quarto di milione in banca, una casa a Knightsbridge e almeno sei proposte di matrimonio da parte di avvocati della City e ricchi uomini d'affari. Per un motivo che Goncharov non era mai riuscito a capire, aveva sposato invece un insegnante che vi-
veva con la madre anziana, e aveva smesso di fare la call-girl. Goncharov era stato più che contento di tenerla come receptionist addetta agli appuntamenti. Era professionale, aveva una bella voce al telefono e faceva un po' da madre alle ragazze più giovani, anche se aveva solo venticinque anni. «Sergei, ricordi di avermi chiesto di tenere d'occhio Amy?» Gli si rivolgeva sempre in russo, in parte perché sapeva che lui preferiva parlare nella sua lingua, in parte perché questo le dava un vantaggio sugli altri membri dello staff, che non conoscevano il russo. Sergei annui, senza dire nulla. «Abbiamo appena ricevuto una richiesta da un certo Richard Williams. L'aveva chiesta anche due giorni fa, ma lei non era disponibile e gli abbiamo mandato Tanya. Oggi ha chiamato di nuovo e gli ho dato un appuntamento con Amy, nel suo appartamento.» «E allora? Amy è una ragazza molto richiesta.» «Ho chiamato Tanya per sentire come era andata con quel Richard, e lei mi ha detto che si è comportato in modo strano. Sembrava a disagio, non voleva scopare, e continuava a chiedere di Amy, anche se non l'aveva mai incontrata prima. Poi ha ricevuto una telefonata che lo richiamava urgentemente al lavoro. Ha mandato via Tanya, ma le ha detto di tenere i soldi.» Goncharov si chinò in avanti, interessato. «Com'è questo Williams?» «Secondo Tanya è un bell'uomo. Sui trentacinque, occhi e capelli castani, alto un metro e ottanta circa.» «Non ha menzionato la Bosnia, parlando con Tanya?» «No.» «E ha un appuntamento con Amy alle nove?» «Esatto. Cosa vuoi che faccia?» Per la prima volta da giorni il russo sorrise. «Niente, Anna. Ci penso io. E grazie, hai fatto un ottimo lavoro.» Appena la donna fu uscita Goncharov tornò a fissare il computer. Gli affari erano in crescita. La Legal Escorts gli aveva fruttato più di centoquarantamila sterline nell'ultimo mese, ed era soltanto una delle agenzie che possedeva. Con le saune e i bar guadagnava quasi un milione di sterline al mese. Il denaro non restava a lungo in Inghilterra. Goncharov lo spostava attraverso una catena di conti correnti, fino a farlo arrivare a una compagnia di Budapest, che lo usava per acquistare grossi quantitativi di beni facili da rivendere. Poteva trattarsi di qualunque cosa, dalle scarpe per bambini alle auto usate, che venivano poi inviate in tutto il mondo. Le filiali della com-
pagnia vendevano le merci e ricevevano i pagamenti, e il denaro veniva spostato in altri conti all'estero, finché diventava praticamente impossibile rintracciarlo. La polizia non avrebbe mai potuto mettere le mani su nulla. Tutto ciò che Goncharov usava in Inghilterra era in affitto o a noleggio: la villa a Kensington, le auto, lo yacht ormeggiato a Chelsea Harbour. Nulla era intestato a lui, e avrebbe potuto abbandonare ogni cosa senza un momento di esitazione. L'appartamento si trovava in un edificio di dieci piani vicino alla stazione della metropolitana di St. John's Wood. Seguendo le istruzioni scritte su una targhetta d'ottone, Solomon premette il tasto «cancella», quindi compose il numero dell'appartamento seguito dall'asterisco. Ci fu un momento di attesa, poi una voce di donna disse: «Sì?». «Amy?» chiese Solomon. «Sono Richard.» «Sali pure, Richard.» Ci fu uno scatto e il portone si aprì. Solomon prese l'ascensore e scese al secondo piano. Nel corridoio c'era una moquette di lusso, e belle lampade di ottone sui muri. La porta si aprì non appena bussò, e Nicole Shala gli sorrise. Indossava una vestaglia leopardata, era più alta di quanto sembrasse dalla foto, e dimostrava più dei suoi diciannove anni. «Entra» lo invitò. Lo fece accomodare in un soggiorno spazioso, con un caminetto sopra il quale era appeso uno specchio dalla cornice dorata. Gli appoggiò le mani sulle spalle, massaggiandole leggermente. «Vuoi qualcosa da bere?» chiese. «Sì, grazie» rispose Solomon. «Whisky, birra, coca?» «Un bicchiere d'acqua. Grazie.» Lei gli accarezzò una guancia. «Mettiti comodo» disse, dirigendosi verso la cucina. Solomon si sedette su uno dei due sofà stile Luigi XIV ai lati del caminetto. Alle pareti erano appesi quadri in pesanti cornici dorate che rappresentavano varie capitali europee. Dal centro di una decorazione elaborata che sembrava di plastica, pendeva un lampadario a candeliere. Solomon si rese conto che in quella stanza tutto era finto: le riproduzioni di mobili antichi, le stampe di pittori famosi... «Sembri preoccupato» disse Nicole, tornando dalla cucina. «Stavo solo pensando.» «Meglio non pensare» disse lei, porgendogli un bicchiere d'acqua.
«Ne sei davvero convinta?» chiese Solomon, sedendosi e appoggiando il bicchiere su un tavolino di marmo. «Pensare non aiuta.» Lei si sedette sul divano accanto a lui, e gli mise una mano su una gamba. «Allora, cosa vuoi fare?» «In che senso?» «Nel senso di quello che preferisci fare a letto.» «Ah, non so. In realtà volevo solo parlare.» Lei sollevò le sopracciglia. «Parliamo pure, allora. Vuoi che ti dica quello che mi piacerebbe farmi fare da te?» La sua mano cominciò a risalire lungo la gamba di Solomon. «Nicole...» mormorò lui, e la ragazza si bloccò di colpo. «Cosa hai detto?» «Ti chiami Nicole, vero?» Lei si alzò in piedi. «Chi sei?» «Mi chiamo Jack. Voglio solo parlare con te.» «Te ne devi andare» disse lei, nervosa. «Subito.» «Per favore, Nicole, siediti. Concedimi solo qualche minuto.» Solomon prese il portafogli, e ne estrasse due banconote da cento. «Guarda, ecco i soldi. Chiama l'agenzia, di' loro che io sono qui, e poi ascolta quello che ho da dirti. Per favore.» «Come mai conosci il mio nome?» chiese lei, ignorando il denaro. «Come hai fatto a trovarmi?» «Vengo da Sarajevo» disse. «Ho parlato con Emir.» «Emir?» Nicole si sedette, con le mani in grembo. «Come sta? Cosa fa?» «Sta bene. Gli manchi molto. Ha letto e riletto la lettera che gli hai mandato almeno un milione di volte.» «Emir mi ama» disse lei, semplicemente. «Su questo non c'è dubbio» disse Solomon. «Dovresti metterti in contatto con lui, fargli sapere che stai bene.» «Nicole Shala non sta bene. È morta.» «Questo non è vero, Nicole» fece Solomon, piano. «Nicole è morta tre anni fa. Io mi chiamo Amy.» «Nicole...» «Non usare quel nome!» gridò lei. «Va bene, va bene. Se preferisci Amy, ti chiamerò Amy.» «Preferisco che tu te ne vada. Subito.» «Abbiamo trovato la tua famiglia.» Per un attimo le si illuminarono gli occhi, ma la speranza svanì rapida-
mente. «Sono morti» sussurrò. Solomon annuì lentamente. «Tutti?» «Il camion era in fondo a un lago.» Nicole si strinse le braccia al petto. «È stata colpa mia» disse, e gli occhi le si riempirono di lacrime. Solomon si alzò e le appoggiò le mani sulle spalle. «Non è vero. Non devi neppure pensarlo.» Lei cominciò a singhiozzare, e Solomon l'abbracciò, aspirando il suo profumo al gelsomino, senza sapere bene che dire. Un cellulare squillò. La suoneria era l'ouverture del Guglielmo Tell. Nicole spinse via Solomon, si asciugò gli occhi con il dorso della mano e andò a rispondere. «Sì, sì, è arrivato. Stavo giusto per chiamare. Sì, va tutto bene.» Chiuse la comunicazione e gettò il telefonino sul divano. Poi si voltò a fissare Solomon, con il volto rigato di lacrime. «Per favore, vattene. Non c'è bisogno che mi paghi, va' via e basta.» «Dobbiamo parlare» insistette Solomon. «No!» sibilò lei, con forza. Poi attraversò il soggiorno, entrò in un'altra stanza e sbatté la porta. Solomon la udì piangere. «Nicole. Vieni fuori e parla con me.» Non ci fu nessuna risposta. Solomon bussò alla porta. «Nicole, per favore.» Provò ad abbassare la maniglia, ma la porta era chiusa a chiave. Si sedette sul pavimento, con la schiena appoggiata alla porta, e si accese una Marlboro. «Aspetterò qui finché non uscirai, Nicole. Devi parlare con me. Devi dirmi cosa è accaduto tre anni fa. Sei l'unica testimone. L'unica persona che può assicurare alla giustizia i responsabili. Capisco che tu sia fuggita, e che voglia dimenticare tutto. Ma ora devi affrontare la situazione. Se non parli, se non dici al mondo ciò che è accaduto, i responsabili resteranno impuniti.» Solomon udì un clic. Si alzò in piedi, spense la sigaretta in un posacenere e abbassò la maniglia della porta. Era aperta. Entrò in una stanza da letto piccola ma ben ammobiliata, con un letto in ottone, un tavolino da trucco bianco e un armadio a muro con le ante a specchio. C'era anche una foto incorniciata di Nicole, un vaso di cristallo con delle rose, e quattro coniglietti di peluche con cravattini a farfalla di diversi colori. Sul tavolino c'erano una dozzina di profumi, tutti costosi, probabilmente regali di qualche ammiratore. Nicole era seduta su uno sgabello e fissava la propria immagine nello
specchio del tavolino da trucco. «Ora puoi tornare senza pericolo» le spiegò Solomon. «Il Kosovo è un posto diverso da tre anni fa. Ci sono gli americani, i soldati europei, l'ONU che sorveglia tutto. Sono tutti lì perché sia fatta giustizia. Ti aiuteranno. C'è un'intera organizzazione che si dedica a individuare i criminali di guerra e ad assicurarli alla giustizia.» Nicole si alzò e lo fissò negli occhi. Nella mano destra aveva una limetta per unghie. Appoggiò la punta contro il polso sinistro. «Se non te ne vai immediatamente, mi uccido.» «Nicole, non dire sciocchezze» fece Solomon. Lei spinse più forte la limetta contro il polso. «Parlo sul serio.» «Ti prego» insistette Solomon. «Non voglio farti del male, voglio soltanto parlare.» «Non ho nulla da dirti. Ora vattene o mi taglio i polsi.» Solomon sapeva di poterla bloccare prima che potesse farsi male seriamente, ma a cosa serviva? Se Nicole voleva davvero suicidarsi, non c'era nulla che le impedisse di farlo non appena lui se ne fosse andato. Sollevò le mani in segno di resa. «Va bene, me ne vado. Ma posso almeno lasciarti il mio numero di telefono? Così potrai contattarmi, se ci ripensi.» «Non ci ripenserò» disse lei, sempre con la limetta premuta contro il polso. Solomon uscì dalla stanza da letto, e Nicole lo seguì fino alla porta d'ingresso. Prima di uscire, lui tirò fuori del portafogli un biglietto con il numero del cellulare. «Questo è il mio numero. Pensaci, per favore. Io posso aiutarti. Insieme possiamo rintracciare gli assassini della tua famiglia. Tu sei l'unica che può farlo.» «Vattene» ripeté lei, spingendo la limetta contro il polso. Una goccia di sangue zampillò sulla pelle. Solomon aprì la porta, uscì e la richiuse. Restò sul pianerottolo per un minuto buono, indeciso. Ma ormai quello che doveva dirle l'aveva detto. Ora poteva solo sperare che Nicole cambiasse idea. Sergei Goncharov si grattò l'inguine, osservando senza simpatia sul monitor la ragazza che singhiozzava sul divano. Amy aveva un altro cliente alle dieci e trenta, e se non smetteva di piangere avrebbe mandato uno dei suoi uomini a raddrizzarle la schiena. Sollevò il telefono e compose un numero. Aleksei Leskov rispose al secondo squillo.
«Lo stai seguendo?» chiese Goncharov. «È in un taxi diretto a sud» fu la risposta. Leskov aveva lavorato vent'anni nel KGB ed era un esperto in pedinamenti. Avrebbe seguito fino a casa l'uomo che si faceva chiamare Richard Williams, pronto a fare qualunque altra cosa fosse stata necessaria. Goncharov chiuse la comunicazione e tornò a fissare lo schermo video. C'erano due telecamere nascoste nell'appartamento della ragazza: una nel lampadario del soggiorno, l'altra in camera da letto. I microfoni invece erano quattro, dissimulati nelle prese elettriche. Dopo la telefonata di Petrovic, Goncharov aveva osservato tutti i visitatori di quell'appartamento. Si chiedeva cosa avesse visto la ragazza in Kosovo. Lui non si sarebbe certamente fatto intimidire dalla minaccia di tagliarsi i polsi. Quell'uomo era uno stupido e un debole. Goncharov conosceva Petrovic da più di dieci anni. Era un contatto utile, e inoltre aveva pagato senza discutere per far uccidere quell'uomo. Goncharov avrebbe rispettato l'accordo. Solomon chiuse gli occhi e si sfregò la nuca. Aveva rovinato tutto. Era stato troppo diretto con Nicole. Avrebbe dovuto rivelarle il vero motivo della visita solo dopo essersi conquistato la sua fiducia. Lei era poco più di una bambina, una bambina la cui famiglia era stata massacrata. Guardò fuori del finestrino del taxi. Almeno l'aveva trovata. Se non altro avrebbe potuto dire al Tribunale per i Crimini di Guerra dove abitava. Loro erano più bravi di lui a fare domande, e inoltre avrebbero saputo convincerla che non correva alcun pericolo. Forse allora lei avrebbe parlato. Rabbrividì ripensando al gesto di Nicole. Non gli era sembrato un bluff. Cosa aveva visto, per essere pronta a suicidarsi piuttosto che raccontarlo? Solomon era un esperto nel dare alla gente brutte notizie, e ogni volta la reazione era la stessa. Le persone volevano parlare dell'accaduto, di come erano morti i loro cari, volevano ricordarli, spiegare come si sentivano. Parlare faceva parte del processo necessario per superare il dolore, prima di poter riprendere la vita normale. Nicole non aveva mai parlato di quello che aveva visto. Probabilmente l'accaduto era stato tanto traumatico che lei aveva cercato di cancellarne il ricordo. Eppure, a quanto ne sapeva Solomon, aveva visto soltanto la sua famiglia caricata su un camion. Il vero orrore era accaduto molte ore dopo, lontano dai suoi occhi e dalla fattoria. Certo, c'era stata violenza alla fattoria, ma Solomon aveva incontrato superstiti di massacri peggiori, ed erano sempre stati disposti a parlare, rive-
lando tutti i particolari, ansiosi di ricevere giustizia. Il silenzio di Nicole non aveva senso. «Inverness Terrace, giusto?» chiese il tassista. «Sì, ma mi lasci pure a Queensway, grazie.» Ormai in frigo non c'erano più birre né cibo, e Solomon andò in un supermarket a fare un po' di spesa. Tornò verso Inverness Terrace con quattro borse, immerso nei suoi pensieri. Voleva fare un altro tentativo con Nicole Shala. Era come interrogare un sospetto. Anche il criminale più incallito poteva parlare, se si trovava la chiave giusta. A volte era l'ego, o il desiderio di essere capiti, o l'impulso di contraddire. Se si gestiva l'interrogatorio nel modo giusto, le persone parlavano. Forse non confessavano, mentivano soltanto, ma almeno iniziavano un dialogo. Entrò in casa, sistemò la spesa e si fece un'omelette. Poi bevve quattro lattine di McEwan's guardando una partita di calcio su Sky Sport e se ne andò a letto, ripromettendosi di tornare da Nicole il giorno dopo. Aleksei Leskov tossì, con le mani nelle tasche del cappotto. Quando lavorava per il KGB, a Kiev, fumava sessanta sigarette al giorno. Ora le aveva ridotte a venti, e nonostante la tosse peggiorasse, si rifiutava di andare dal medico. Non si fidava dei dottori. Con lui c'erano tre uomini, due russi e un ucraino. Avevano seguito l'uomo chiamato Richard Williams in due auto. Appena lui era sceso dal taxi, due di loro l'avevano seguito a piedi. Era stato facile. Lui non si era guardato intorno neppure una volta, e poco dopo averlo visto entrare nel portone, gli uomini avevano notato accendersi le luci nell'appartamento all'ultimo piano. L'ucraino era andato a controllare la serratura: una semplice Yale che poteva essere scassinata in meno di un minuto. Sorvegliarono l'appartamento a turno, fumando sigarette senza filtro, e quando le luci si spensero andarono nel parcheggio dove avevano lasciato le auto. L'ucraino aprì il portabagagli di una delle due, e tirò fuori quattro pistole con silenziatore dal compartimento della ruota di scorta. Ciascun uomo ne prese una, poi Leskov diede rapidamente le istruzioni. L'ucraino e uno dei russi avrebbero scassinato la serratura entrando nell'appartamento, mentre il secondo russo sarebbe restato in attesa sul marciapiede di fronte all'edificio. Leskov avrebbe sorvegliato il lato posteriore. Leskov li mandò a prendere posizione, e andò a sistemarsi dietro il giardinetto ben curato dell'edificio. Trovò una buona posizione, nell'ombra, e avvitò lentamente il silenziatore sulla canna della pistola.
Solomon si voltò sul letto, mezzo addormentato. Aveva la gola secca, e cercò a tastoni il bicchiere d'acqua che aveva lasciato sul comodino. In quel momento udì uno scatto metallico in corridoio. Il suo primo pensiero fu che McLaren fosse tornato, ma il rumore non era stato quello di una chiave girata in una serratura. Era un "clic, clic, clic" ripetuto. Solomon si alzò, s'infilò un paio di jeans e percorse il corridoio in punta di piedi. Il rumore veniva dalla porta d'ingresso. A un tratto s'interruppe, e Solomon udì delle persone che parlavano sottovoce in una lingua che sembrava russo. Solomon si schiacciò contro il muro, con il cuore in tumulto. Si guardò intorno in cerca di un'arma, ma l'unico oggetto a portata di mano era il telefono. Udì dei passi. Erano entrati in casa. Il corridoio era a forma di "T". La porta d'ingresso si trovava alla fine di uno dei bracci corti della "T", mentre il braccio lungo conduceva alla camera da letto. Bastava che gli intrusi facessero soltanto due passi, e l'avrebbero visto. Solomon andò in cucina, trattenendo il respiro. Udì chiudersi piano la porta d'ingresso, e afferrò un coltello per il pane sopra il lavandino. Tornò indietro e spiò dalla porta socchiusa della cucina. Quello che vide gli gelò il sangue. Un uomo si muoveva nell'appartamento, e aveva in mano una pistola con un silenziatore lungo e sottile. Solomon sentì che gli tremavano le gambe. Quelli non erano topi d'appartamento. Erano lì per lui. Un'asse del parquet scricchiolò sotto i piedi di uno degli intrusi, e Solomon strinse il coltello così forte da farsi male alla mano. Si costrinse a rilassarsi. Se quegli uomini erano lì per lui, come avevano fatto a sapere dove trovarlo? Chi conosceva il suo indirizzo a Londra? Diane e Chuck Miller, a Sarajevo, e alcuni amici di McLaren a Londra, ma certamente non potevano essere stati loro a mandargli in casa degli uomini armati. Solomon sapeva che il suo coltello non sarebbe servito a nulla contro le pistole. L'unica sua possibilità era quella di chiamare la polizia, ma il cellulare era rimasto in camera da letto. Udì dei passi che si avvicinavano. Aveva solo pochi secondi per decidere cosa fare. Poteva restarsene nascosto in cucina e sperare che loro andassero direttamente in una delle due stanze da letto. In quel caso, lui avrebbe potuto correre verso la porta e uscire di casa prima che loro iniziassero a sparare. Ma se fossero entrati prima in cucina, era spacciato. L'altra possibilità era quella di affrontarli in corridoio. Avrebbe avuto il vantaggio della sorpresa, ma dubitava che servisse a molto.
Un'altra asse scricchiolò. Solomon era in un bagno di sudore, ma aveva la bocca secca. Udì una voce soffocata. Russi. Dovevano essere dell'agenzia. Evidentemente l'avevano seguito quando era uscito dall'appartamento di Nicole. Solomon guardò il suo coltello. Aveva la lama seghettata, ed era fatto per affettare, non per colpire. Cercò qualcos'altro, e afferrò una bottiglia di champagne da uno scaffale sotto il tavolo della cucina. Poi si appiattì a lato della porta. Un altro scricchiolio, e il silenziatore apparve nel suo campo visivo, puntato in direzione della stanza da letto. Solomon colpì forte il polso dell'uomo con la bottiglia. La pistola cadde sul pavimento. L'uomo urlò. Solomon sollevò di nuovo la bottiglia, e la gettò in faccia all'altro, che lo stava prendendo di mira con la pistola. L'uomo barcollò, portandosi la mano al volto, mentre il compagno si abbassava per riprendere la pistola sul pavimento. Solomon gli diede una ginocchiata in faccia, e sentì lo scricchiolio del naso che si rompeva, ma l'uomo aveva già afferrato la pistola. Solomon cercò di colpirlo con il coltello, ma lo mancò. I due gli bloccavano la strada verso la porta d'ingresso. Solomon gettò il coltello, si voltò e corse in camera da letto. Entrò, chiuse a chiave la porta e ci spinse contro il letto. Sapeva che ciò non li avrebbe fermati, ma voleva solo guadagnare tempo. Prese il cellulare e compose il 999. Un proiettile sfondò la porta con una pioggia di schegge, e andò a piantarsi nella parete accanto alla finestra. Solomon si appiattì nell'angolo. Il telefono squillava, ma non rispondeva nessuno. «Sto chiamando la polizia!» gridò. «Mi avete sentito? Sto telefonando alla polizia!» Ci fu un altro sparo attutito, e un proiettile si piantò nella parete a poca distanza dalla sua testa. Poi uno degli uomini diede una spallata alla porta, abbastanza forte da allontanare il letto di parecchi centimetri. Solomon si infilò il telefono nella tasca dei jeans, spinse di nuovo il letto contro la porta e corse chinato in due verso la finestra. Cercò di aprirla tirando la cordicella, ma il pannello non si mosse. Un altro colpo alla porta, e il letto scivolò di nuovo via. Solomon lo spinse indietro, e tornò a cercare di aprire la finestra. Guardò in alto e vide che c'era una serratura, della quale non aveva la chiave. Con l'urto successivo il pannello superiore della porta si piegò. «La polizia sta arrivando!» urlò Solomon. Ci fu un breve silenzio, seguito da una conversazione a bassa voce. Poi
più nulla. Per un attimo Solomon pensò che se ne fossero andati, ma subito dopo ci furono quattro spari soffocati, il rumore del legno che si rompeva e la finestra esplose in una pioggia di schegge di vetro. Solomon afferrò il telefonino. C'era in linea una donna, che gli stava chiedendo che tipo di servizio desiderava. Solomon gridò il suo indirizzo, poi si rimise in tasca il cellulare e afferrò un cuscino, con cui spinse fuori della finestra i pezzi di vetro rimanenti. Dietro di lui, la porta tremava sotto i colpi dei due. Solomon guardò fuori. A sinistra della finestra, a meno di un metro, c'era una grondaia in ferro. Se fosse riuscito ad afferrarla poteva usarla per scendere i tre piani che lo separavano dal suolo. Scavalcò il davanzale e afferrò la grondaia. Nella porta si aprì una fessura, dalla quale spuntò la canna di una pistola. Un attimo dopo un altro proiettile si piantò nella parete. Solomon si lasciò andare contro la grondaia, con i piedi nudi che scivolavano sui mattoni umidi. Cominciò a scendere, un passo dietro l'altro, graffiandosi le mani. Respirava a fatica e il cuore gli batteva forte. Passò accanto a una finestra. Era al secondo piano. Guardò giù. Almeno altri sette metri da scendere. Sotto di lui c'era un cortile di cemento, e poi un piccolo prato che arrivava fino a un'altra parete di mattoni. Udì una sirena in lontananza, ma non riuscì a capire se si trattava della polizia, dei pompieri o di un'ambulanza. In alto, udì il rumore della porta sfondata, e continuò a scendere il più velocemente possibile. A un tratto sentì sotto le mani un materiale diverso. Il tubo non era più di ferro, ma di plastica. Un attimo dopo si staccò dalla parete, e Solomon cadde all'indietro. Urtò il cemento, e sentì la gamba sinistra spezzarsi, appena sotto il ginocchio. Rotolò di lato, battendo la testa per terra. Mentre cercava di alzarsi vide un pezzo d'osso che spuntava attraverso la carne. Guardò in alto. Uno dei due uomini si sporgeva dalla finestra. Solomon strisciò verso il prato, mentre l'uomo puntava la pistola e sparava. Il proiettile sollevò uno sbuffo di polvere accanto alla sua testa. Solomon strisciò più rapidamente, trascinandosi dietro la gamba rotta. Ogni movimento gli causava tremende fitte, senza contare che il sangue gli stava inzuppando i pantaloni. Udì un altro sparo attutito, e il suo braccio destro scattò in aria. Un proiettile l'aveva colpito alla spalla. Il dolore arrivò un attimo dopo e Solomon urlò, ma non smise di strisciare. In quel momento vide l'uomo in cappotto scuro appoggiato alla parete, che gli puntava una pistola in faccia.
Leskov gridò all'ucraino di uscire dall'appartamento, e l'uomo scomparve dalla finestra. «Cosa state facendo?» gridò a un tratto una voce di donna. «Ho chiamato la polizia.» Leskov si voltò, ma non riuscì a vedere la donna. L'uomo ferito cercò di trascinarsi verso un capanno per gli attrezzi. Leskov era a soli sei o sette metri da lui. La sirena diventava sempre più forte. A un tratto ne udì una seconda in avvicinamento. Prima di sparare, doveva sapere dov'era la donna, e se si trovava in una posizione da cui poteva identificarlo. Vide una finestra illuminata al primo piano, con una persona affacciata. Puntò la pistola, e la persona si gettò a terra. Ci fu uno stridio di freni, seguito subito dopo dal rumore di portiere aperte e grida. Leskov fece un passo verso l'uomo a terra, prendendo la mira. Sparò, l'uomo sobbalzò, poi restò immobile. I passi si avvicinavano in fretta. Leskov non aveva tempo per sparare ancora. Si voltò e corse lungo il vicolo, svitando il silenziatore e infilandoselo in tasca, insieme alla pistola. Forme ovali ruotavano intorno a una forte luce bianca. Qualcuno mormorava, un cane ululava, e il mondo si scuoteva in preda a un violento terremoto. Solomon non sapeva di preciso cosa fosse accaduto, ma certamente non era niente di buono. Ora però si sentiva tranquillo e caldo, e si lasciò scivolare verso la luce bianca. «Non te ne andare!» Una voce di donna, la voce di qualcuno che si aspetta di essere obbedito, come un insegnante, o un soldato. Solomon cercò di dirle di lasciarlo in pace, ma non riusciva a parlare. «Avanti, non te ne andare!» La voce aveva un tono di urgenza, stavolta, ma Solomon la ignorò. Gli sembrava di galleggiare in una nuvola calda e umida. «Papà?» Solomon cercò di sorridere, ma una specie di nodo in gola glielo impedì. «Papà?» Allora la vide: aveva quattro anni, e lunghi capelli biondi. «Papà, cosa fai?» La bambina allungò una mano e gli toccò la fronte. «Posso darti un bacio, papà?» Solomon provò ad annuire, ma non riuscì a muovere la testa. Voleva dirle che lei gli mancava, che gli dispiaceva per ciò che era accaduto, ma la gola gli faceva male, e gli impediva di parlare.
Lei gli diede uno schiaffo. Solomon era confuso. Perché lo picchiava? Un altro schiaffo, ancora più forte, poi delle dita gli afferrarono il viso. Dita grandi, non quelle di una bambina di quattro anni. «Non te ne andare, porca miseria!» Era tornata la donna. E anche il cane ululante. Qualcuno gli sollevò la palpebra destra, e un volto mascherato lo fissò. Una donna sui trent'anni, con i capelli neri pettinati all'indietro e gli occhi coperti da grossi occhiali protettivi. «Riesce a sentirmi?» gridò. Solomon annuì. Lei gli lasciò il viso. La barella su cui Solomon si trovava sbandò a destra. «Fate piano, Cristo!» urlò la donna. «Perde sangue!» Dietro di lei c'era un uomo, anche lui con maschera e occhiali protettivi. Solomon stava scivolando di nuovo nell'incoscienza, ma la donna tornò a sollevargli la palpebra, puntandogli nell'occhio un raggio di luce. «Mi sente?» chiese. Solomon annuì di nuovo. L'ululato adesso era più forte. Una sirena. Si trovava in un'ambulanza. Alcune immagini gli sfrecciavano nella mente. La bottiglia di champagne che aveva tirato in faccia a quell'uomo, nell'appartamento. La grondaia che si staccava dal muro. Il proiettile che gli si era piantato nella spalla. «Stiamo per arrivare in ospedale. Le ho somministrato un antidolorifico, ma lei deve restare cosciente. Mi ha capito?» Solomon non poteva parlare. Il nodo in gola era un tubo di plastica che gli usciva dalla bocca. Un flacone appeso a un gancio ondeggiava qua e là mentre l'ambulanza procedeva a tutta velocità. La sirena cominciò a svanire, Solomon chiuse gli occhi e tornò la bambina. «Papà?» disse. Solomon sorrise. Goncharov compose il numero di Ivan Petrovic, fissando con durezza Leskov. «Non è stata colpa nostra» disse Leskov. «Eravamo sicuri che dormisse.» Goncharov lo zittì con un gesto impaziente e appena Petrovic rispose gli raccontò l'accaduto. «Insomma, è morto o no?» chiese il bosniaco. «Gli hanno piantato due proiettili in corpo, ed è caduto dal secondo piano di un edificio.» «Non hai risposto alla mia domanda» grugnì Petrovic. «La polizia è intervenuta prima che potessimo esserne certi» fece Goncharov. «L'hanno portato via in ambulanza.»
«Almeno siete certi di avergli sparato?» chiese Petrovic, in tono sarcastico. «È stato colpito due volte. Uno dei miei uomini lo ha preso in un braccio, l'altro nel fianco.» «E due uomini armati non sono riusciti a finirlo?» «Sono uomini in gamba, di solito» disse Goncharov. «Sono stati interrotti dall'arrivo della polizia. Cosa vuoi che faccia, ora? Possiamo finire il lavoro in ospedale, o aspettare che torni a casa.» Per qualche secondo Petrovic non disse nulla, poi rise piano. «Lasciatelo andare. Non tornerà più a Sarajevo, dopo quello che gli è successo, e le cicatrici gli ricorderanno cosa lo aspetta, se torna.» «Sei sicuro?» «Non preoccuparti, Sergei. Avrai i tuoi soldi.» Goncharov arrossì. Non era il pagamento a preoccuparlo, ma l'idea che Petrovic considerasse poco professionale il suo operato. «E la ragazza?» chiese Petrovic. «È andato a trovarla, vero?» «L'abbiamo usata come esca» disse Goncharov. «È così che l'abbiamo beccato.» Voleva far capire a Petrovic che il lavoro era stato ben progettato, anche se l'esecuzione non era perfettamente riuscita. «Se non è morto, parlerà della ragazza alla polizia.» «L'ho già spostata da un'altra parte» assicurò Goncharov. «Ma sarebbe ancora meglio se lei uscisse dal paese.» «Se la mando via ora, per me sarebbe una perdita.» «Sono disposto a riacquistare il suo contratto» disse Petrovic. «A condizione che non cerchi di fregarmi.» «Te l'ho pagata diecimila sterline.» «Me lo ricordo.» «Ma ci sono state delle spese extra.» «Ti ho detto di non cercare di fregarmi, Sergei. Ai suoi documenti avevo già pensato io. Tu le hai pagato soltanto il biglietto.» «Ma ho dovuto spendere dei soldi per lei qui a Londra» insistette Goncharov. «Rimandamela qui» disse Petrovic. «Posso sempre usarla da qualche parte. Mettila sul primo aereo per Sarajevo, e ti darò un credito di dodicimila sterline per il prossimo acquisto.» «D'accordo» fece Goncharov. «La ragazza ha parlato con lui?» chiese Petrovic. «Pochissimo.»
«Sai cosa si sono detti?» Aveva posto la domanda in tono casuale, ma Goncharov capì istintivamente che doveva scegliere le parole con cura. «Non è rimasto in casa a lungo» disse. «Quando lei ha capito che non voleva fare sesso, gli ha detto di andarsene.» «L'ha interrogata?» «Ha detto che voleva parlarle, e lei gli ha risposto picche. Questo è tutto.» Seguì un silenzio prolungato. A un tratto Goncharov pensò che fosse caduta la linea. «Pronto?» disse. «Mandala a Sarajevo. Noi ci vediamo il mese prossimo.» Goncharov appoggiò il cellulare sulla scrivania. C'erano parecchie domande che avrebbe voluto fare a Petrovic. Voleva sapere chi era quell'uomo, e cosa aveva visto quella ragazza in Kosovo. Voleva sapere perché era fuggita e da chi. Ma sapeva che certe domande era meglio evitarle, soprattutto con un uomo come Ivan Petrovic. Jack Solomon aprì gli occhi e udì un bip bip regolare accanto a sé. In un certo senso era un suono tranquillizzante e mentre lottava per concentrarsi notò che coincideva con i battiti del suo cuore. Voltò la testa a sinistra, e vide i monitor su un carrello di metallo accanto al letto. Su una sedia c'era anche un grosso biglietto di auguri, con sopra un orsacchiotto che teneva tra le zampe un mazzo di fiori e la scritta «Guarisci presto». «Signor Solomon?» Una voce di donna. Solomon si girò dall'altra parte. Vide un'infermiera nera che gli sorrideva, con uno stetoscopio appeso al collo. Solomon cercò di parlare, ma aveva la gola secca. «Va bene così, signor Solomon, non cerchi di parlare. Non posso darle dell'acqua, ma la flebo che vede garantisce al suo organismo tutti i liquidi di cui ha bisogno, perciò non si preoccupi.» Solomon emise un suono. Voleva sapere se si sarebbe salvato oppure no. «Si trova in terapia intensiva, ma guarirà» disse la donna, come se gli avesse letto nel pensiero. «Ora si rilassi e lasci fare a noi, capito?» Solomon annuì. «Bene. Adesso dorma.» Solomon chiuse gli occhi. L'agente dell'immigrazione gettò appena un'occhiata al passaporto croato di Nicole. Il nome, la data di nascita e la nazionalità erano falsi, ma la foto
era sua. Nicole era più nervosa lì, all'aeroporto di Sarajevo, di quanto lo fosse il giorno in cui era arrivata a Londra. Due uomini di Goncharov l'avevano accompagnata a Heathrow. Lei aveva continuato a chiedere cosa era successo e il perché di quell'improvviso trasferimento, ma loro avevano ignorato tutte le sue domande. C'era un altro uomo ad aspettarla all'aeroporto di Vienna. Ma anche lui rimase muto come un pesce. Si era limitato a starle accanto fino all'annuncio del suo volo, infine si era assicurato che salisse sull'aereo. Nicole aveva pianto per tutto il viaggio fino a Sarajevo. Non riusciva a capire cosa avesse fatto di male. Conosceva le regole, gliele aveva spiegate Anna quando aveva iniziato a lavorare per la Legal Escorts: non parlare dell'agenzia con i clienti, non uscire di casa senza aver prima telefonato all'agenzia, niente contatti con i clienti fuori del lavoro, mai aprire la porta a meno che non stesse aspettando un cliente. C'erano anche regole riguardo ai soldi, all'igiene e a ciò che doveva fare a letto. C'erano regole per tutto e lei le aveva sempre rispettate alla lettera. La sua espulsione dall'Inghilterra doveva avere a che fare con quell'uomo venuto dalla Bosnia, quel Jack. Forse si era lamentato di lei con l'agenzia, o forse avevano scoperto che voleva parlare con lei del Kosovo. Ma se era quello il motivo, allora si trattava di un'ingiustizia, perché lei non aveva risposto alle sue domande. L'agente dell'immigrazione le restituì il passaporto e Nicole si avviò verso l'uscita. Non aveva bagagli. I due uomini che erano venuti a prelevarla nell'appartamento di St. John's Wood non le avevano permesso di prendere nulla con sé. Sapeva che anche a Sarajevo ci sarebbe stato qualcuno ad attenderla. Dopo essere passata dalla dogana si diresse rapidamente verso l'uscita. «Non così in fretta, sorellina» fece una voce gutturale alla sua sinistra. Nicole inciampò, e l'uomo la sostenne. Un altro uomo si materializzò alla sua destra. «Siamo qui per farti da autisti.» Erano entrambi alti e magri, in giubbotti di pelle e jeans. Dall'accento Nicole capì che erano serbi bosniaci. Tenne la testa china, per non far loro capire quanto era spaventata. «Non avere paura, sorellina» cercò di rassicurarla l'uomo alla sua sinistra, dandole un colpetto su una spalla. «Non ho fatto nulla di male» disse lei. «Lo sappiamo, non preoccuparti.» «Dove mi state portando?»
L'uomo scoprì i denti in un sorriso crudele. «In Arizona.» Nicole sentì un nodo alla gola. Sapeva cosa l'aspettava, in Arizona. Cominciò a piangere, ma i due ignorarono le sue lacrime e la condussero via. Solomon seppe che quei due erano poliziotti ancora prima che aprissero bocca. Uno sui ventotto anni, in gessato blu, camicia bianca e cravatta rossa, l'altro sui trentacinque, in giacca blu e pantaloni neri. Entrambi indossavano scarpe scelte più per il comfort che per lo stile. Mentre percorrevano la corsia ridevano. Il più vecchio doveva essere un ispettore, l'altro era il suo tirapiedi. «Jack Solomon?» chiese il più vecchio. «È quello che c'è scritto sulla cartella» rispose Solomon. «Ispettore Bob Hitchcock. Il mio collega è il detective Paul Owen. Come si sente?» Solomon fece un sorriso forzato. Era una domanda difficile. Gli avevano infilato dei chiodi di ferro nella gamba e anche secondo la prognosi più ottimistica sarebbe rimasto per sempre leggermente zoppo. Gli avevano estratto i proiettili, le ferite stavano guarendo, ma le cicatrici sarebbero rimaste. Era in terapia intensiva, imbottito di analgesici, ma ancora vivo e contento di esserlo. «Mi sento bene» disse. Owen avvicinò al letto due sedie di plastica e si sedettero. Owen sistemò con cura la piega dei pantaloni, poi estrasse un taccuino nero e una penna d'argento dalla tasca della giacca. «Cosa può dirci dei suoi assalitori?» chiese Hitchcock, fissandolo con i suoi intensi occhi azzurri. Era un uomo robusto, con una calvizie incipiente. «Erano in due. Credo fossero russi.» «Perché lo pensa?» «Parlavano russo tra loro. Lei sa che ero un collega?» «Conosciamo il suo background.» Senza dubbio avevano consultato il suo dossier, e sapevano perché aveva lasciato la polizia. «Potrebbe identificarli?» chiese Hitchcock. Solomon fornì una descrizione accurata dei due uomini, dando a Owen il tempo di prendere appunti. Quando ebbe finito, Hitchcock chiese: «Perché qualcuno vuole ucciderla, signor Solomon?». Solomon aveva pensato a lungo a come rispondere a quella domanda, arrivando alla conclusione che non era necessario raccontare ogni cosa. Parlò
del massacro in Kosovo, di Nicole, del fatto che aveva trovato la sua foto su Internet, ed era andato a trovarla nel suo appartamento in St. John's Wood. Hitchcock ascoltò pazientemente. «Aveva dato alla ragazza il suo indirizzo?» Solomon scosse la testa. «Le ho dato solo il numero del mio cellulare. Ed è un cellulare a scheda ricaricabile, senza contratto. Era impossibile rintracciarmi a partire da quello.» «La ragazza ha chiamato qualcuno, mentre era con lei?» «No, ha ricevuto una telefonata dall'agenzia, ma io ho sentito tutto e non ha detto che aveva dei problemi con me.» Hitchcock controllò con un'occhiata che il collega stesse prendendo nota. «Se non li ha chiamati mentre lei era lì, come è possibile che l'abbiano rintracciata così presto?» «È una buona domanda» disse Solomon. «Ha dei nemici?» «Non qui a Londra. Ho avuto una lite con un pappone a Sarajevo.» «E quell'uomo era collegato alla ragazza in questione?» Solomon annuì. «Crede che possa essere stato lui a organizzare l'agguato, qui a Londra?» «È possibile. Può avere degli amici in città.» «Possibile o probabile?» Solomon aggrottò la fronte. Petrovic sapeva che lui si trovava a Londra? Gli sarebbe bastata una telefonata al suo ufficio di Sarajevo per scoprirlo. E un'altra al nuovo protettore di Nicole a Londra. «Probabile» fece infine. «Se non è stato lui, non so a chi altro pensare.» «Ho bisogno di tutti i particolari riguardanti il sito web» disse Hitchcock, «la ragazza e l'appartamento.» Solomon parlò e Owen prese appunti. «Non aveva pensato che il fatto di presentarsi a casa della ragazza avrebbe potuto causarle dei problemi?» chiese poi. «Intende dire se immaginavo che avrebbero cercato di uccidermi? No. Non c'era motivo di pensarlo. Tutto quello che volevo era parlare con lei.» «Le è sembrata nervosa, durante il vostro colloquio?» chiese Hitchcock. «Altroché. Ha persino minacciato di uccidersi.» Le sopracciglia dell'ispettore scattarono in alto. «Cosa?» «Non credo che parlasse sul serio, ma ha detto che se non me ne fossi andato si sarebbe tagliata i polsi.»
«Si è comportato in modo aggressivo con lei?» «No, niente affatto» rispose Solomon. «Nel caso che non l'abbiate notato, in questa faccenda io sono la vittima.» «È possibile che la ragazza sapesse dell'agguato che le stavano tendendo?» Solomon ci pensò su. Ricordò come si era agitata Nicole, quando le aveva detto chi era e perché si trovava lì. «No» rispose. «Quindi evidentemente sorvegliavano l'appartamento» concluse l'ispettore. «Il che mi fa fare la figura dello stupido, giusto?» Hitchcock alzò le spalle. «Non necessariamente. Come ha detto lei, non c'era ragione di pensare che qualcuno si sarebbe arrabbiato, se avesse cercato di parlare con la ragazza.» Si grattò il mento. «Ora, ecco una semplice addizione: russi più pistole con silenziatore uguale mafia russa. Questo significa che nessuno nell'ambiente della malavita ci darà informazioni su di loro. Le sue descrizioni sono accurate, signor Solomon. Le sottoporremo delle foto segnaletiche, ma non credo che i suoi aggressori siano mai stati fermati in precedenza, perché in tal caso non sarebbero più nel paese.» Si schiarì la voce. «Abbiamo controllato i proiettili che le sono stati estratti, ma non sappiamo nulla delle pistole da cui sono stati sparati. Del resto anche questo era logico. I russi sono professionisti e senz'altro distruggono ogni arma con cui fanno fuoco. Abbiamo trovato macchie di sangue sul luogo dell'agguato, ma il mio capo non ritiene necessario effettuare una costosa analisi del DNA finché non avremo un sospetto, e secondo me ha ragione.» «Quindi cosa farete?» «Controlleremo l'appartamento, ma non ci vogliono dei poteri paranormali per sapere che la ragazza non è più lì.» «Ma potete mettere i bastoni tra le ruote all'agenzia, almeno.» «Intende dire farla chiudere?» Hitchcock fece una smorfia. «Sarebbe competenza della Buoncostume, il suo vecchio territorio di caccia.» «Ma il proprietario dell'agenzia deve per forza essere un sospetto, no?» Hitchcock sospirò. «Le persone che gestiscono quelle agenzie prendono tutte le misure possibili per restare nell'ombra. Faremo del nostro meglio, ma anche se troveremo il proprietario, difficilmente lo convinceremo a rivelare chi sono i killer, soprattutto se è stato lui a mandarli.» «Insomma, non ci sono speranze?» Hitchcock stirò le labbra in un lieve sorriso. «Lei era del mestiere, cono-
sce le probabilità. La maggior parte degli omicidi sono storie casalinghe e si risolvono in fretta. I serial killer li prendiamo col tempo, perché continuano a uccidere finché si fanno beccare. Ma i professionisti possiamo prenderli solo se commettono un grosso errore, o se qualcuno li tradisce. Ora, la mafia russa non fa errori, tratta solo con gente che conosce e che non tradisce.» «Quindi le persone che per poco non mi hanno ucciso la faranno franca?» «Sto solo mettendola al corrente della situazione. Faremo tutto il possibile, ma non vorrei darle false speranze.» Owen prese il biglietto di auguri con l'orsacchiotto e lo aprì. «Inga?» Solomon si sforzò di sorridere. Era rimasto molto sorpreso del fatto che Inga sapesse del suo ricovero in ospedale e ancora più sorpreso che si fosse disturbata a mandargli un biglietto. «Un'amica di Sarajevo» mentì. «È arrivato in fretta, da laggiù» disse Owen. «Me lo ha mandato per corriere.» Owen rimise il biglietto sul comodino. I due si alzarono in piedi. «Le faremo avere delle foto segnaletiche. E se troveremo qualcosa lei sarà il primo a saperlo.» «Grazie.» I poliziotti se ne andarono. Solomon fissò il biglietto di auguri. Perché Inga glielo aveva spedito? E come aveva fatto a sapere dove trovarlo? Quando Solomon uscì dall'unità di terapia intensiva, Danny McLaren fu il primo a venirlo a trovare. Entrò in corsia con una dozzina di altri visitatori, ognuno con un mazzo di fiori o un cestino di frutta per un parente o un amico malato. McLaren aveva in mano una busta di carta con dell'uva e una copia del suo giornale, che appoggiò sul letto. «Visto che oscillavi tra la vita e la morte» disse, sedendosi su una sedia di plastica e prendendo un grappolo d'uva, «probabilmente non hai letto gli articoli sul tuo caso.» Il quotidiano era di una settimana prima, vale a dire due giorni dopo che Solomon era stato ferito. L'articolo era a pagina sette, sei paragrafi e una foto a mezzo busto, che risaliva agli anni in cui Solomon faceva il poliziotto. In fondo c'era la sigla del reporter di nera del giornale. «Avresti ricevuto maggiore attenzione, se io fossi stato in città» fece McLaren. «Come stai?» «Continuano a dirmi che sono stato fortunato» rispose Solomon. «Fortu-
nato che la gamba si sia spezzata sotto il ginocchio, così non devo stare in trazione. Fortunato che il proiettile nella spalla non abbia reciso un nervo, così non dovrò smettere di suonare il pianoforte.» Sorrise, per far capire a McLaren che quella era una battuta. «È fortunato che il proiettile nel fianco non sia penetrato nelle viscere, così ho evitato un avvelenamento del sangue. Ma secondo me se fossi stato davvero fortunato non mi avrebbero sparato.» «Insomma, non sei cambiato» rise McLaren. «E chi ti ha mandato quel biglietto?» «Una delle ragazze che ho conosciuto.» «Una prostituta ti ha mandato un biglietto con gli auguri di pronta guarigione?» «Deve aver letto l'articolo sul giornale.» «Sì, ma devi averla impressionata parecchio.» «Come va l'appartamento?» chiese Solomon, per cambiare discorso. «La finestra è stata riparata, e ho fatto cambiare la serratura. Non so cosa fare riguardo ai buchi di proiettile in camera da letto. Danno un tono alla stanza, sai? Forse li lascerò.» «È un vero casino, insomma.» «Ha visto giorni migliori.» «Mi dispiace.» «Poteva andare molto peggio, Jack. Bisogna essere grati per le piccole fortune.» «Che sarebbero, esattamente?» «Be', per esempio, non hanno rubato l'argenteria di famiglia» disse McLaren. «Ascolta, hai bisogno di qualcosa?» «Sì, di una stecca di Marlboro. Ma tanto finché non sarò dimesso non mi lasceranno fumare. E visto che per togliermi i jeans li hanno dovuti tagliare, non ho vestiti.» «Quando prevedi di uscire?» «Dovrei essere in grado di muovermi tra una settimana o due.» «È venuta a trovarti la polizia, vero?» «Anche tu hai parlato con la polizia?» «Sì, con un ispettore capo di nome Hitchcock. Non mi è sembrato che nutrisse grandi speranze.» «Mi hanno dato delle foto segnaletiche da esaminare, ma non ho riconosciuto nessuno.» «Quei tizi devono essere già tornati in Russia da un pezzo. Resteranno
nascosti finché si saranno calmate le acque.» «Ma la polizia non ha abbandonato le ricerche?» «L'indagine è aperta, ma non si tratta di omicidio e tu non sei un personaggio famoso. Comunque non disperare. La ragazza ti ha detto qualcosa, quando sei andato da lei?» «Ha tenuto la bocca chiusa come un'ostrica.» «Come mai?» «Non lo so. Bastava solo che mi dicesse cosa era accaduto quel giorno in Kosovo. Io sarei potuto partire da lì, e se poi lei non avesse voluto testimoniare, pazienza. Ma non ha voluto dirmi assolutamente nulla. Sai se Hitchcock ha parlato con lei?» McLaren scosse la testa. «L'appartamento è vuoto. La ragazza è sparita anche dal sito Internet. Stanno cercando di parlare con il proprietario dell'agenzia, ma finora non hanno cavato un ragno dal buco.» «Mi avevano dato l'impressione di non voler fare troppi sforzi, in quella direzione.» «È una questione di risorse, come sempre. L'agenzia usa dei telefonini a scheda senza contratto, perciò ci vorrebbe un'operazione in grande stile solo per scoprire dove si trova il loro ufficio. Tutte le spese vanno giustificate e come ti ho detto non si tratta di un omicidio.» «Continuo a essere fortunato, eh?» «Farò io qualche ricerca» disse McLaren. Tirò fuori il taccuino, annotò tutto ciò che Solomon ricordava riguardo a Nicole e al suo appartamento, poi se ne andò, promettendo di tornare con un po' di roba da leggere. Solomon era esausto. Aveva appena chiuso gli occhi quando una voce di donna fece: «Ciao». Lui sollevò la testa abbastanza da vedere Inga, ma poi la lasciò ricadere sul cuscino. «Lascia che ti aiuti» disse lei, e gli sistemò i cuscini dietro la nuca. «Cosa ci fai qui?» chiese Solomon. «Sono venuta a trovare te» rispose lei, con un largo sorriso. Indossava una minigonna di pelle nera, stivali intonati dai tacchi alti e un giubbotto bianco che scintillava come ghiaccio sotto le luci fluorescenti. I capelli erano sciolti, e gli occhi nascosti dietro occhiali da sole avvolgenti. Prese in mano il biglietto. «Sono felice che tu lo abbia ricevuto. Non ero sicura del nome. Il giornale diceva che ti chiami Jack.» Solomon sorrise. «Nessuno usa il suo vero nome, no? Sono sicuro che tu non ti chiami Inga.»
Lei fece spallucce. «I nomi non importano. Comunque Jack mi piace più di David.» «Anche a me.» Solomon indicò la sedia con un cenno del capo. «Siediti, per favore. Sei la seconda persona che viene a trovarmi, se non contiamo la polizia.» Inga si sedette e appoggiò di nuovo il biglietto sul comodino. «Come sapevi che ero qui?» chiese Solomon. Lei indicò il giornale sul letto. «Sei famoso.» «Famoso per essermi fatto sparare.» «Sai chi è stato?» «Non credo si tratti di Sasha, se è questo che ti preoccupa.» Lei lo fissò, perplessa. «Certo che non è stato Sasha. Perché dovresti pensare che sia stato lui?» «Perdonami, Inga, ma allora perché sei qui?» «Ero preoccupata per te.» «Ecco, il fatto è che ci siamo visti solo due volte e la seconda volta io sono finito in una cantina dove il tuo capo mi ha fatto il terzo grado.» «Il terzo grado di che?» «Voglio dire che mi ha interrogato. Sasha ha voluto sapere perché cercavo Nicole.» «Certo, ma allora non sapeva chi eri e cosa volevi.» «È stato Sasha a dirti di venire qui?» Inga assunse un'espressione offesa. «No, certo che no.» Solomon la fissò con attenzione, ma non riuscì a capire se mentiva. «Credi che sia venuta a spiarti per conto di Sasha?» chiese Inga. «Non lo so» sorrise Solomon. «Sono pieno di analgesici, e non riesco a pensare con molta chiarezza.» «Ti resteranno delle cicatrici?» Solomon rise. «Oh, sì. Avrò due belle cicatrici.» «Le cicatrici possono essere sexy, in un uomo» disse Inga. «Vedremo.» «Per le donne è diverso. Una mia amica ha la cicatrice di una coltellata sullo stomaco, e gli uomini la detestano.» «Lavori sempre nello stesso appartamento?» Inga annuì. «Certo. Gli affari vanno bene.» «Sasha non ti ha creato problemi, a causa mia?» Lei spinse in fuori le labbra e scosse la testa. «Scusami se ti sembro sospettoso. È solo che sei l'ultima persona che
pensavo si sarebbe preoccupata per la mia salute.» «Tu mi piaci» sussurrò lei. «Non devi dire certe cose.» «Perché no? È la verità. Sei un uomo gentile, uno a cui importa degli altri, e la maggior parte degli uomini che incontro non sono così. Ho letto l'articolo sul giornale, e ho visto la tua foto.» «Sono stati i russi, credo.» «A casa tua?» «A casa dell'amico che mi ospitava.» «Sai perché ti hanno sparato?» «Per uccidermi, suppongo.» Doveva essere una battuta, ma Inga la prese sul serio. «Ma perché dei russi dovrebbero volerti morto, Jack? C'entra quella ragazza che cercavi?» Solomon la fissò con sospetto. «Perché dici questo?» «Per il modo in cui ha reagito Sasha quando ha saputo che facevi domande alle sue ragazze. Ho pensato che forse hai continuato a fare domande.» Solomon annuì lentamente. «Sì, hai ragione. Almeno credo. L'ho trovata. Lavora per un'agenzia. Sono andato da lei e poche ore dopo quelli sono entrati nel mio appartamento e mi hanno aggredito.» Inga sorrise, e prese un po' d'uva. «Quanto tempo resterai in ospedale?» «Un'altra decina di giorni, forse meno. Vogliono essere certi che la gamba stia guarendo bene, prima di dimettermi.» Inga tirò fuori dalla tasca del giubbotto un pezzo di carta. «Ci ho scritto sopra il mio numero di telefono. Chiamami, quando uscirai di qui. Mi piacerebbe vederti.» «Come cliente?» chiese Solomon, pentendosene immediatamente, ma lei non sembrò offesa. «Come amico» rispose. «Potremmo andare di nuovo a prendere un caffè.» Si alzò, gli soffiò un bacio e si allontanò. Gli occhi di molti pazienti la seguirono, quindi si voltarono a guardare Solomon, chiaramente sorpresi dal fatto che avesse una visitatrice così bella. Anche Solomon dubitava che la ragazza fosse stata improvvisamente sopraffatta dal desiderio di cercare la sua amicizia. Quasi certamente l'aveva mandata Sasha. Inga uscì dall'ospedale e oltrepassò una cabina telefonica piena di annunci di prostitute. Sapeva perfettamente che le foto sui biglietti non corri-
spondevano quasi mai alla ragazza. Il suo diceva la verità, almeno nel testo: «Rossa mozzafiato. Ogni tipo di prestazioni». Ma la foto era quella di un'altra. I clienti tuttavia non si erano mai lamentati, e parecchi le avevano detto che la preferivano di molto alla ragazza della foto. Sasha l'aspettava nella sua Audi convertibile, in una strada laterale da cui poteva vedere l'ingresso dell'ospedale. Quella era la prima volta che Inga era salita sull'Audi. Quando andava da qualche parte con Sasha, di solito era sempre sul sedile posteriore della Mercedes, con Karic e Rikki. Sasha non andava quasi mai da solo da nessuna parte. Non aveva paura, pensava Inga. Era solo prudente. «Allora?» chiese lui, non appena fu salita in macchina. «Gli hanno piantato in corpo due proiettili, e ha una gamba rotta.» «Questo lo so già» ribatté Sasha, tagliente. «Chi è stato?» «Dei russi, mi ha detto. Ha trovato la ragazza che cercava.» «Lo sapevo» gridò Sasha, dando una manata sul volante. «E lei lavorava per i russi?» «Per un'agenzia, ha detto.» «Quale?» «Non me l'ha detto.» «Ma glielo hai chiesto?» «Sasha, lui è stato molto sospettoso. Voleva sapere come mai ero andata a trovarlo. Se gli avessi fatto troppe domande non si sarebbe più fidato di me.» «Bastardi russi. Se continua così, lo uccideranno.» Sasha sibilò tra i denti. «È riuscito almeno a parlare con la ragazza?» «Sì, ma non mi ha detto di cosa hanno parlato.» Inga vide che Sasha stava per arrabbiarsi, e gli toccò il braccio. «Ascolta, continuava a chiedermi perché ero andata a trovarlo. Comunque gli ho lasciato il mio numero. Gli ho detto di chiamarmi quando uscirà.» «Voglio sapere dov'è quella ragazza adesso!» sibilò Sasha. «E toglimi la mano dal braccio. Quando vorrò farmi toccare da te, te lo dirò.» Inga non disse nulla. Restò seduta con le mani in grembo e lo sguardo fisso mentre Sasha la riportava a Soho. Al lavoro. Solomon trascorse un'altra settimana in ospedale, prima di essere dimesso. Non c'era un'ambulanza disponibile, perciò chiese a un infermiere di chiamargli un taxi. Diane e Sean Milne gli avevano offerto di stare da loro. Anche McLaren gli aveva fatto la stessa offerta, ma con la gamba ingessa-
ta Solomon non credeva di poter riuscire a salire le scale fino al terzo piano. Chiamò Diane dal taxi con il cellulare, e quando arrivò la trovò ad aspettarlo sulla porta. Sospirò, irritato, quando vide Sean che spingeva una sedia a rotelle verso il taxi. «Sean, posso camminare» protestò, mentre prendeva il resto dal tassista. «Sono un infermiere, so quello che faccio» ribatté Sean. «Ma ho le stampelle.» «Siediti qui e smettila di fare storie. So come trattare i pazienti ribelli.» «Lo immagino. Scommetto che li costringi a fare bagni ghiacciati.» Diane lo baciò su entrambe le guance. «Puoi restare finché vuoi» disse, prendendogli le stampelle. «O almeno finché nascerà il bambino. Dopo, mi dedicherò soltanto a lui.» «Resterò una settimana o poco più, lo prometto» disse Solomon. Sean lo spinse sulla sedia a rotelle fino alla porta di casa, poi manovro da esperto per oltrepassare la soglia. «Ti abbiamo preparato un letto in soggiorno, per evitarti le scale. E Danny ieri ha portato qui tutta la tua roba.» Lo spinse in cucina, dove Diane stava già preparando il caffè. Solomon era contento di trovarsi tra amici, in una stanza che odorava di fiori e caffè, e non di vomito e disinfettante. «Come vanno le indagini?» chiese Sean. «Sono a un punto morto» rispose Solomon. «Non c'è traccia di Nicole sul sito dell'agenzia. La polizia ha parlato con la donna che gestisce la Legal Escorts. Giura che non hanno mai avuto nessuna ragazza che corrisponde alla descrizione di Nicole. C'è una Amy, e la polizia ha visto la sua pagina, ma non somiglia affatto a Nicole. Inoltre la donna sostiene che probabilmente mi confondo con qualche altra agenzia. La polizia le ha chiesto se sapeva qualcosa dell'agguato ai miei danni, e ovviamente lei ha risposto che non capiva di cosa stessero parlando.» «Be', c'era da aspettarselo, no?» fece Diane. «Sai come vanno le cose, adesso. La polizia deve seguire il PACE, non può torchiare la gente come in passato.» Solomon sorrise a Sean. «Sta per Police and Criminal Evidence Act» spiegò. «Lo so» ribatté Sean. «Guardo i notiziari, cosa credi?» «Ma tu sei stato assalito poco dopo aver lasciato l'appartamento di quella ragazza» intervenne Diane, appoggiando le tazze di caffè sul tavolo. «Non c'è bisogno di essere Sherlock Holmes per fare il collegamento. Anche se
quella donna sostiene che non si trattava della sua agenzia, tu sai che invece lo era, no?» «L'ho detto alla polizia, ma mi hanno risposto che avevano le mani legate. Inoltre non hanno le risorse necessarie per organizzare un'indagine in grande a carico dell'agenzia. Non sanno neppure dove siano gli uffici della Legal Escorts, o chi la dirige realmente. Sembra che non possano dedicare molte energie al caso, visto che non sono morto.» Bevve un sorso di caffè. Era ricco e aromatico, molto diverso da quello annacquato che gli propinavano in ospedale. «Cosa pensi di fare?» chiese Diane. «Voglio cercare di scoprire cosa è accaduto a quella ragazza.» Sean e Diane si scambiarono un'occhiata. «Stai scherzando» esclamò Diane, seria. «Non voglio mollare. Se lascio perdere, avranno vinto loro.» «Ma ti hanno quasi ucciso. La prossima volta potresti non essere così fortunato.» «Vorrei che la gente smettesse di dirmi quanto sono fortunato. Se abbandono il caso, i responsabili dell'omicidio di ventisei persone resteranno impuniti.» «Devi aver visto decine di casi del genere» disse Diane. «Perché sei così fissato su questo?» «Non lo so.» «Questa non è una risposta» continuò Diane. «Non hai mai preso un caso in modo tanto personale, quando facevi il poliziotto.» «Avresti dovuto vederli» disse Solomon. «Un'intera famiglia spazzata via. Genitori, cugini, nipoti... qualcuno deve pur fare qualcosa perché sia resa loro giustizia.» «Ma perché tu?» chiese Sean. «Non credo che il Tribunale per i Crimini di Guerra se ne occuperà. Perciò devo farlo io.» «Stiamo parlando con Terminator» disse Sean. «Stiamo parlando con uno che finirà ammazzato» precisò Diane. «Jack, ti rendi conto che può essere stata proprio la ragazza a chiedere che ti uccidessero?» «No. Lei è stata usata, ne sono sicuro. A quanto ne so, potrebbero avere ucciso anche lei.» «Jack, per favore. Non puoi semplicemente lasciar perdere?» «No, non posso.»
Diane aveva un computer nello studio, e prima di andare al lavoro mostrò a Solomon come collegarsi a Internet. «C'è del cibo in frigorifero, serviti pure» disse uscendo. Solomon andò in cucina a farsi un caffè. La gamba non gli faceva male, ma l'ingessatura era rigida e ingombrante, e doveva usare comunque le stampelle per tenersi in equilibrio. Il problema peggiore era il prurito dentro il gesso. Un'infermiera gli aveva dato un ferro da calza per grattarsi, ma anche quello gli dava solo un sollievo temporaneo. Saltellò fino allo studio, appoggiò la tazza accanto al computer e si sedette lentamente. Poi si collegò a Internet, aprì il browser e digitò l'indirizzo www.legalescorts.com. Nella pagina delle ragazze, Nicole non c'era più. Al suo posto c'era una bionda statuaria, di nome Amy. Nella pagina dei contatti c'era solo un numero di cellulare e un indirizzo e-mail:
[email protected]. Solomon bevve un sorso di caffè. Stava di nuovo cercando un ago in un pagliaio. Cliccò su punternet, ma non trovò nessuna recensione su Amy della Legal Escorts. Lasciò un messaggio, firmato «Legman» chiedendo se qualcuno sapesse dove trovarla. Passò altre due ore navigando nei siti di altre agenzie, ma non la trovò. Ciò non significava necessariamente che Nicole non fosse più a Londra. Poteva lavorare in un appartamento di Soho, in un salone di massaggi o in un locale di lap-dance. Il cellulare che usava in Bosnia squillò all'improvviso. Sul display non appariva il numero del chiamante. «Jack? Sei tu? Sono Arnela.» La segretaria di Chuck Miller. La connessione non era buona, non si sentivano tutte le parole e c'era un ritardo di un secondo o due quando lei parlava. «Sì, Arnela, ti sento.» Ci fu una serie di clic e la linea si fece più chiara. «Hai un indirizzo, a Londra? Ho una lettera per te, ma non so dove spedirla.» «Una lettera di chi?» «Del signor Miller. Puoi darmi il tuo indirizzo?» «Perché non me la leggi semplicemente al telefono?» «Il signor Miller insiste che te la spedisca.» Solomon sentiva il disagio della donna, ma insistette ugualmente. «Leg-
gimela, per favore.» «Non posso, mi dispiace.» «Posso parlare con Chuck?» Ci fu una lunga pausa. Ormai Solomon aveva capito che la lettera conteneva brutte notizie, e che Miller si nascondeva dietro la segretaria. «È in riunione» disse Arnela. «Mi ha licenziato, vero?» «Jack...» «Chissà quanto tempo ci metterà quella lettera ad arrivare. Per favore, dimmi cosa c'è scritto.» Arnela gliela lesse rapidamente. Era una tipica comunicazione di Chuck, impersonale e attenta nella scelta delle parole. C'erano espressioni come «ristrutturazione organizzativa», «previsioni di budget», «indicatori di performance», ma il significato era chiaro: non c'era più un lavoro per Solomon alla Commissione Internazionale per i Morti in Guerra. Era stato licenziato. «Voglio parlare con lui, Arnela» fece Solomon, quando lei ebbe finito. «Lui non vuole parlare con te.» «Non è in nessuna riunione, vero?» «Jack, per favore...» «Passamelo.» «No. È in ufficio, ma non vuole parlarti.» «È a causa di ciò che mi è successo qui, vero?» chiese Solomon. «Lo ha saputo.» «Sa che sei stato in ospedale, sì.» «E chi glielo ha detto?» «Questo non è giusto, Jack» protestò lei a bassa voce. «Io ho bisogno di questo lavoro. Non posso permettermi di perderlo per causa tua.» Solomon si sentì in colpa. Non aveva il diritto di mettere in pericolo quel poco che Arnela si era conquistata, riuscendo a diventare segretaria di un'organizzazione internazionale. Le chiese scusa e riattaccò. In ogni modo parlando con Miller non avrebbe risolto niente. Chuck doveva aver preso quella decisione a mente fredda, dopo averci pensato bene, e non avrebbe cambiato idea. Solomon si appoggiò allo schienale della sedia, e fissò il soffitto. I soldi che aveva in banca gli sarebbero bastati per almeno sei mesi, e comunque sapeva che non avrebbe avuto problemi a trovare lavoro in un'agenzia di aiuti internazionali, appena si fosse reso disponibile.
Si accese una Marlboro. Dove era finita Nicole? Il fatto che fosse stata tolta dal sito web così in fretta significava che era implicata in qualche modo nell'agguato a casa di McLaren. Solomon doveva trovarla. A qualunque costo. Pagò il tassista e scese con attenzione sul marciapiede. Ormai usava una stampella sola, e tra breve sarebbe passato al bastone da passeggio. Aveva tagliato un paio di jeans per nascondere il gesso, e infilato un calzettone dalla parte del piede. Era l'ora di pranzo. Il pub era pieno di uomini in giacca e cravatta dalle espressioni accigliate, di operai in tuta e di adolescenti che giocavano alla slot-machine. Colin Duggan era seduto in un angolo e leggeva l'«Evening Standard», tenendo davanti un bicchiere di whisky con ghiaccio. Solomon gli si sedette di fronte, allungando la gamba ingessata a lato del tavolo. «Non hai un brutto aspetto, per uno che si è beccato due pallottole» disse Duggan. «Sono stato fortunato.» «Quando ti toglieranno il gesso?» «Tra meno di due settimane. Vuoi un altro whisky?» Duggan annuì. Solomon ordinò un doppio Bell's e una pinta di lager. «Hai parlato con Hitchcock?» «Perché non gli parli tu direttamente?» «Perché tu sei ancora un poliziotto, e io no. Allora?» «Gli ho parlato, ma è l'ultima volta che ti faccio un favore.» Duggan si chinò leggermente in avanti. «Non sanno chi ci sia dietro l'agenzia, ma hanno parlato con una donna che sostiene di essere la proprietaria. Si chiama Anna Gregson. Viene dall'Estonia, ma ha sposato un inglese. Hitchcock è certo che faccia da prestanome.» Fece scivolare una busta sul tavolo. Solomon l'aprì. Dentro c'era un foglio con il nome e l'indirizzo di Anna Gregson. «E qual è l'indirizzo dell'agenzia?» «Non lo sanno.» «Non l'hanno chiesto alla Gregson?» «Ha risposto che fa tutto da casa.» «Hanno perquisito casa sua?» «Primo, perché avrebbero dovuto farlo? Secondo, quale giudice avrebbe dato loro un mandato?» «Perché poche ore dopo aver visto una delle loro "accompagnatrici", io sono stato usato come bersaglio da due russi. E lei è dell'Estonia, cioè pra-
ticamente russa.» «Io sono del Galles, e non mi considero praticamente inglese.» Il barman portò i loro drink. Solomon pagò e attese che si allontanasse. «Perché non l'arrestano con l'accusa di vivere di guadagni immorali?» «Non sono della Buoncostume. Inoltre l'accusa di vivere di guadagni immorali non si applica alle donne. Per loro si tratta di "controllo della prostituzione a scopo di lucro". Hai già dimenticato il codice?» «E perché non passano il caso alla Buoncostume? Potrebbero fare irruzione nell'agenzia, chiuderla, e costringere la donna a rivelare chi è il vero capo.» Duggan bevve un lungo sorso di whisky. «Tengono l'agenzia sotto controllo. Ma finché un cliente non sporge denuncia non possono fare nulla. Hai idea di quanto costerebbe un'indagine del genere? E per cosa, poi?» «Ai miei tempi per controllo della prostituzione si rischiavano sette anni.» «Ora è difficile trovare un giudice che ti condanni a un anno. E sei fuori in sei mesi per buona condotta. Perciò, che senso ha?» «È illegale, Colin. Controllare la prostituzione è un crimine, cazzo. Senza parlare del fatto che mi hanno sparato.» «È un crimine di cui non frega più niente a nessuno.» Solomon spense la sigaretta. «Quindi lasceranno perdere il caso?» «Hitchcock dice di no. Ma sono orientati più a trovare quelli che ti hanno sparato, piuttosto che a cercare di far chiudere l'agenzia.» «Io devo trovare quella ragazza, Colin.» «L'ultima volta che hai parlato con lei, hai passato un mese in ospedale.» «Questo è un buon motivo per cercare di parlarle ancora. Voglio sapere perché scappa.» «Lo sai benissimo, il perché. Se ha visto massacrare la sua famiglia, in Kosovo, deve vivere nel terrore che gli assassini possano rintracciare anche lei. E a un tratto tu bussi alla sua porta.» «Se fosse come dici tu, non avrebbe lasciato che mettessero la sua foto su Internet.» «Lasciala perdere» insistette Duggan. «E tornatene da dove sei venuto.» «Non posso tornare. Mi hanno licenziato.» «Come mai questa notizia non mi sorprende?» fece Duggan, acido. Solomon sollevò il foglio che Duggan gli aveva dato. «A chi posso rivolgermi per far controllare questa donna?» «Cosa c'è da controllare? Ha già parlato con Hitchcock.»
«Ha mentito.» «Non possiamo esserne sicuri. In ogni caso non possiamo fare nulla.» Solomon mise giù il foglio e bevve un sorso di birra. «E se mi rivolgessi a un privato?» «Stai scherzando, vero?» «Voglio sapere dove lavora e per chi. Se alla polizia non interessa scoprirlo, pagherò qualcuno che lo scopra al posto loro.» Diede un colpetto sul gesso. «Non posso correrle dietro di persona, al momento.» «Ma anche se scopri l'indirizzo dell'agenzia, cosa te ne fai? Credi che ti basterà minacciarli con la stampella per spaventarli e convincerli a confessare?» «Conosci qualcuno in gamba?» «Parli sul serio?» «Ho l'aria di uno che scherza?» Duggan prese una penna e scrisse un nome e un numero di telefono sullo stesso foglio dove c'era l'indirizzo di Anna Gregson. «Non dirgli che ti ho mandato io. Se succederà un casino, non voglio entrarci in nessun modo.» Solomon passò zoppicando davanti a un negozio di parrucchiere, dove tutte le ragazze avevano un fisico da modelle, mentre le clienti erano donne di mezza età, sovrappeso, con i volti tirati dal lifting. Una delle stiliste era una bionda giovanissima, con i capelli che le arrivavano fino alla vita e un viso che non sarebbe stato fuori posto sulle migliori riviste di moda. Solomon si fermò e sbirciò dalla vetrina. Le forbici della ragazza scintillavano intorno alla testa di una cinquantenne che leggeva una rivista patinata. Non aveva l'aria di una donna in carriera, perciò probabilmente aveva sposato un uomo ricco. Questo la rendeva molto diversa da Nicole e da quelle come lei? Le prostitute si vendevano a molti uomini, mentre la donna su quella poltrona si era venduta a un uomo solo, ma il principio era lo stesso. La donna sollevò gli occhi dalla rivista e incrociò lo sguardo di Solomon. Aveva uno sguardo freddo e lo fissò con disprezzo, per tornare subito dopo ad abbassare gli occhi sulla rivista. Solomon continuò a camminare. Accanto al negozio c'era una porta nera, con sopra una targa d'ottone che diceva: «Alex Knight Security». Solomon suonò il campanello e una voce di donna chiese: «Chi è?». Lui disse il suo nome, e il portone si aprì. Solomon salì lentamente le scale, e spinse la porta d'ingresso con una spalla. Una bruna notevole lo guardò da sopra un computer, e si scusò quando vide il gesso e la stam-
pella. «Se lo avessi saputo sarei scesa ad aiutarla» disse. «Posso camminare, è solo che ci metto un po' a salire le scale.» «Un incidente sciistico?» «Sono caduto da una finestra al terzo piano di un palazzo.» Prima che la donna potesse dire qualcosa, si aprì una porta dalla quale uscì un uomo dinoccolato sui trent'anni, con un paio di occhiali dalle lenti squadrate. Indossava una camicia di tela blu con le maniche arrotolate, e pantaloni kaki con i tasconi sulle cosce. «Alex Knight» si presentò, tendendo la mano. «Venga pure.» Gli tenne aperta la porta e Solomon entrò nell'ufficio, una stanza con scaffali di metallo alle pareti su cui torreggiavano una quantità di apparecchiature elettroniche. Knight si sedette dietro una grande scrivania di metallo con sopra tre computer. Solomon gli mostrò il foglio che gli aveva dato Duggan. Spiegò chi era Anna Gregson, e perché voleva farla seguire. «Supponendo che io scopra dove lavora, cosa si fa dopo?» «Voglio sapere chi controlla l'agenzia» disse Solomon. «Perché?» «Perché le interessa?» Knight si mise a giocherellare con un tagliacarte a forma di spada. «Non si tratta di una vendetta, vero?» «Cosa glielo fa pensare?» «Lei è appena uscito da una guerra privata. E io non vorrei essere il tramite della sua vendetta. Si rifletterebbe negativamente sulla mia immagine.» «Non cerco vendetta.» «E allora di cosa si tratta?» Non era semplice rispondere a quella domanda. Era una cosa che lui sapeva di dover fare. Ma Knight si aspettava una spiegazione più elaborata. Solomon estrasse dal gesso il ferro da calza, e cominciò a spingerlo su e giù, cercando di grattarsi dietro il ginocchio. Nel frattempo raccontò all'investigatore tutta la storia. «Quindi lei spera che il titolare dell'agenzia le dica dov'è finita questa Nicole?» «Magari» fece Solomon. «La Gregson ha negato di conoscerla, ma forse il suo capo potrebbe dirmi qualcosa di diverso. Prima però devo sapere chi è.» «Va bene» disse Knight. «Accetto l'incarico. C'è qualche motivo per cui
la donna possa sospettare di essere sotto sorveglianza?» Solomon scosse la testa. «La farò seguire da un'auto e da una moto, tanto per stare sicuro.» «Quanto mi costerà?» chiese Solomon. «Se saremo fortunati il primo giorno, potrebbe farcela con cinquecento sterline. Dipende. La donna potrebbe andare direttamente in ufficio, nel qual caso possiamo controllare chi è il padrone di casa e scoprire il nome dell'affittuario. Se la cosa si farà più complicata, glielo farò sapere.» «Io posso far fare un controllo sulla sua fedina penale.» «Non ne dubito. Ma se è incensurato? Vuole sapere il suo indirizzo di casa? Il suo numero di conto corrente? Dove spende i suoi soldi? Tutto questo costa.» Solomon smise di grattarsi e lasciò il ferro da calza dentro il gesso. «Scopriamo prima come si chiama. Poi vedremo.» Knight appoggiò il tagliacarte sul tavolo. «Allora mi faccia un assegno di cinquecento sterline.» Solomon compilò l'assegno, e lasciò all'investigatore anche il suo numero di cellulare. Due giorni dopo, Knight lo chiamò. «Il nome del suo uomo è Sergei Goncharov» disse. «È russo, e ha un visto d'affari della durata di un anno, concessogli dall'ambasciata britannica di San Pietroburgo. È nato il 15 agosto 1949. L'ufficio dell'agenzia si trova a Earl's Court. Ha una penna a portata di mano?» Solomon si trovava nello studio di Diane, e davanti a lui c'era una tazza con dentro una dozzina di penne. Scrisse l'indirizzo. Era un palazzo di uffici in Warwick Road. «Ha una foto di Goncharov?» «Potrei scattargliene una, ma un altro giorno.» «Vuol dire altre cinquecento sterline?» «Sempre che ci riusciamo al primo tentativo.» «Dove abita?» «Posso scoprirlo, ma...» «Altre cinquecento?» «Dipende. Magari è sull'elenco del telefono. Oppure dovrò farlo pedinare da una squadra. Comunque, come le ho già spiegato, più lei è disposto a pagare, più cose possiamo scoprire.» Solomon si grattò il naso. Non vedeva nessun altro modo di ottenere le informazioni che voleva. «Va bene, Alex. Mi procuri il suo indirizzo e una
foto. Poi ne riparleremo.» Chiuse la comunicazione, e restò seduto a pensare. Quando avesse saputo dove abitava Goncharov e che aspetto aveva, cosa avrebbe fatto? Quell'uomo gli aveva sguinzagliato addosso due assassini. Andare a trovarlo a casa e chiedergli notizie di Nicole non sembrava una mossa prudente. Se Solomon voleva convincerlo a parlare, aveva bisogno di aiuto. Di un aiuto serio. Solomon andò a sedersi con la sua tazza di caffè a un tavolo vicino alla finestra, e si mise a osservare il traffico di Wardour Street. Aprì il «Daily Telegraph», ma aveva appena dato un'occhiata ai titoli di testa quando vide Sasha avvicinarsi sul marciapiede. Indossava un soprabito di pelle nera che gli arrivava al ginocchio e un maglione nero. Gli occhi erano nascosti dagli occhiali da sole, malgrado il cielo nuvoloso. Due uomini imponenti lo seguivano a pochi passi di distanza, ma quando Sasha entrò da Starbucks restarono sul marciapiede. Sasha individuò Solomon e gli si avvicinò. «Non sono stato io a mandare quegli uomini, se è questo che vuoi sapere.» «Inga ti ha detto che credevo fossi stato tu?» Sasha fece una smorfia. «Mi ha detto solo che volevi vedermi. Comunque se io avessi voluto farti del male, te l'avrei già fatto nella cantina di casa mia.» «Lo so.» «Allora cosa vuoi?» «Mi hai detto che anche tu hai perso dei parenti, in Kosovo.» «E allora?» «Non vuoi giustizia? O vendetta?» «Le ho già avute entrambe.» «Come?» «Sono tornato là, un anno e mezzo fa. Dei serbi avevano occupato le case dove vivevano mio fratello e la sua famiglia. Li ho uccisi tutti e ho incendiato le case.» Solomon non si era aspettato quella risposta. «Sembri deluso» disse Sasha. Prese un pacchetto di piccoli sigari e ne accese uno con un accendino d'oro. «Non credo che qui sia permesso fumare.» «Se vogliono che lo spenga, basta chiedermelo.» Due giovani brune al tavolo di fronte si voltarono a fissarlo, e una simu-
lò un colpo di tosse. Sasha sostenne il loro sguardo finché entrambe distolsero gli occhi. Poi sollevò gli occhiali sui capelli, e puntò il suo sguardo freddo su Solomon. «Cosa vuoi da me?» chiese. «Il tuo aiuto.» «E perché dovrei aiutarti?» «Avevo intenzione di offrirti la possibilità di vendicarti dei serbi, ma vedo che sono arrivato tardi.» Batté l'indice sulla gamba ingessata. «La persona che ha fatto questo è un russo che gestisce un'agenzia su Internet. Io so chi è e dove abita.» Sasha scosse la testa. «Vuoi che io combatta la tua guerra?» «Lasciami finire. Ricordi la ragazza che cercavo? Nicole?» Sasha annuì. «Lavorava per lui. Il suo nome è Sergei Goncharov, e il suo ufficio si trova a Earl's Court. Possiede un'agenzia chiamata Legal Escorts, con una serie di ragazze in tutta la città. Ho visto una foto di Nicole sul loro sito web e sono andato da lei. Poche ore dopo, degli uomini si sono introdotti nel mio appartamento e hanno cercato di uccidermi. Ora Nicole è sparita dal sito web, e la donna che fa da prestanome a Goncharov sostiene di non averla mai sentita nominare. La polizia da parte sua non ha intenzione di proseguire le indagini.» «Tu invece sì, giusto?» «Esistono due possibilità: o Goncharov ha fatto uccidere la ragazza, o l'ha mandata da qualche altra parte. Se è viva, voglio trovarla, parlarle, e dare Goncharov in pasto alla polizia.» «Dopo quello che ti è successo? Sei testardo o soltanto stupido?» «Non ho intenzione di mollare, Sasha. Non li lascerò vincere.» «Credi che si tratti di un gioco, con un vincitore e un perdente?» «No, ma non posso lasciarmi spaventare. Ventisei persone sono state assassinate in quel camion, uomini donne e bambini. Nicole non ha potuto fare nulla per salvarli, e io non posso fare nulla per riportarli in vita, ma posso almeno trovare i responsabili e consegnarli alla giustizia.» «Per farli condannare a qualche anno di galera?» «Il Tribunale per i Crimini di Guerra ha emesso sentenze severe per le atrocità commesse in Kosovo. Se li prendiamo, con quello che hanno fatto si beccheranno l'ergastolo.» Sasha gettò il sigaro sul parquet, lo schiacciò con il tacco della scarpa e si alzò in piedi. Solomon pensò che volesse andarsene, invece Sasha disse: «Vuoi un altro caffè?».
Solomon chiese un cappuccino. Sasha si avviò verso il banco, con il suo passo elastico. Solomon vide diverse donne, comprese le due che avevano disapprovato il suo sigaro, voltarsi a guardarlo. Sasha tornò al tavolo, appoggiò le tazze e si sedette, spostando la sedia di lato, in modo da tenere d'occhio l'ingresso. «Cosa proponi?» chiese. «Tu sei nel business degli appartamenti» cominciò Solomon, parlando a bassa voce. «Goncharov è in quello degli appuntamenti via Internet. Con tutto il rispetto, lui è il futuro, e tu il passato. Per questo i maltesi sono contenti di lasciarvi il controllo degli appartamenti di Soho. Anche loro si sono già spostati online.» Sasha si fece serio. «I miei affari vanno bene.» «Non dico di no. Ma quanto potrebbero migliorare, se tu prendessi in mano anche l'attività di Goncharov?» «E perché dovrei voler fare una cosa del genere?» «Perché in tal modo ti piazzeresti immediatamente nel giro grosso. Io so dov'è il suo ufficio. Possiamo appropriarci dei suoi file, dei suoi computer. Possiamo scoprire dove sono le sue ragazze, dove mette i suoi soldi. E tu puoi mandarlo in pensione e far lavorare le ragazze per te.» Sasha rise piano. «Sei un vero ingenuo, sai? Perché credi che le ragazze del russo lavorerebbero per me? Io non ho in mano nulla per obbligarle. E credi che lui si lascerebbe tranquillamente togliere di mano la sua attività? Hai idea di quello che farei io, se qualcuno cercasse di fregarmi?» Sasha si chinò verso di lui. «Scoppierebbe una piccola guerra. E io ne faccio volentieri a meno. I miei affari mi vanno bene così come sono.» Solomon fissò il suo cappuccino, senza dire nulla. Quando Sasha parlò di nuovo, lo fece in un sussurro. «Sai chi ha ucciso la famiglia della ragazza?» «No. Lei è l'unica a sapere cosa è accaduto.» «Ma hai almeno un'idea di chi possa essere stato?» «L'omicidio è stato pianificato ed eseguito in modo professionale, perciò penso che siano stati i militari. Se fosse stato qualcuno del luogo, probabilmente li avrebbero ammazzati sul posto. Inoltre nessuno è andato ad abitare nella fattoria. Quando sono i locali a commettere quelle atrocità, di solito si prendono le case e le terre delle vittime.» «Quando è successo?» «Nell'estate del '99. All'epoca, c'erano un sacco di militari nella zona che massacravano i civili mentre si ritiravano verso la Serbia. Se davvero si tratta di soldati, e se Nicole ha visto il loro stemma, abbiamo buone proba-
bilità di identificarli.» «Ma ormai saranno già in Serbia.» «I serbi consegnano i colpevoli al Tribunale per i Crimini di Guerra senza discutere. Hanno troppa paura delle sanzioni. Inoltre sanno che se prima o poi la Serbia vorrà entrare nella Comunità Europea, deve collaborare.» Sasha girò lo zucchero nel caffè, ma non lo bevve. «Perché il Tribunale non si occupa di questo caso?» «Niente testimoni, a parte la ragazza. Se lei si fosse rivolta a loro, invece di fuggire, sono certo che avrebbero seguito il caso.» «E perché la ragazza si è rifiutata di parlare con te, quando sei andato da lei?» «Forse era spaventata.» «O forse aveva un altro motivo per tacere.» «Per esempio?» «Chi lo sa? Ma cercare di ritrovarla potrebbe rivelarsi solo una perdita di tempo.» «Io credo che fosse soltanto spaventata. E ne aveva motivo, visto che subito dopo l'hanno fatta sparire.» «Se è così, potrebbe essere morta.» «Lo so.» Sasha tamburellò con il cucchiaino sulla tazza. Guardava fuori della vetrata, ma aveva la mente altrove. Solomon attese in silenzio. «Va bene» disse Sasha alla fine. «Ti aiuterò a trovare quella ragazza. Ma nessuno deve saperlo. Se il russo scoprirà che ci sono di mezzo io, ci sarà una guerra. A te forse piace l'idea di morire per la tua causa. A me no.» «Perfetto» sospirò Solomon. «Dammi l'indirizzo del russo e tutti i particolari che conosci. Poi lascia fare a me.» «Grazie.» Sasha lo fissò con i suoi occhi grigi. «Non devi ringraziarmi. Non lo sto facendo per te. Lo faccio perché non voglio che quei bastardi di serbi restino impuniti.» «Capisco» disse Solomon. Consegnò a Sasha il foglio su cui aveva annotato le informazioni di Alex Knight. «Domani dovrei avere anche l'indirizzo di casa di Goncharov e una sua foto.» Sasha si mise in tasca il pezzo di carta e si alzò in piedi. «Quando avrai la foto, chiama Inga. Non voglio che mi vedano con te, nel caso che decidano di finire quello che hanno incominciato.»
Uscì dalla caffetteria e si incamminò lungo il marciapiede, seguito dalle guardie del corpo. Solomon tirò fuori il ferro da calza e si grattò la gamba, pensoso. Sasha non aveva detto come pensava di convincere Goncharov a dirgli dove si trovava Nicole. Solomon pensò che preferiva non saperlo. Solomon stava frugando nel freezer di Diane, in cerca di qualcosa da mangiare, quando Alex Knight lo chiamò al cellulare. «Operazione riuscita. Ho la foto e l'indirizzo.» «Ottimo lavoro, Alex.» «Mi dia il suo indirizzo e le mando tutto con un pony express.» Solomon gli diede l'indirizzo di Diane, e disse che avrebbe dato l'assegno al corriere. «Ha bisogno d'altro?» chiese l'investigatore. Solomon rispose che per il momento era tutto, poi chiuse la comunicazione e prese dal frigo una pizza congelata. Aveva appena finito di mangiare quando suonò il campanello. Un corriere vestito di pelle nera dalla testa ai piedi gli consegnò una busta formato A4. Solomon firmò la ricevuta e gli diede la busta con l'assegno che aveva già preparato. Dentro il pacchetto di Knight c'era un biglietto con un indirizzo di Hampstead e tre foto a colori di un uomo panciuto, con la testa quadrata e i capelli corti. Il naso era piccolo e porcino, le labbra strette e pallide. Gli occhi erano nascosti dietro occhiali da sole avvolgenti. In una delle foto l'uomo stava salendo sul sedile posteriore di una Bentley. In un'altra foto, Goncharov aveva gli occhiali da sole in mano e fissava una bella bionda in tailleur, alta almeno quindici centimetri più di lui. Sul retro della foto c'erano scritti due nomi: Sergei Goncharov e Anna Gregson, Warwick Road, Earl's Court. Doveva essere stata scattata davanti agli uffici della Legal Escorts. Solomon chiamò Inga. Stava lavorando, ma disse che si sarebbe fatta sostituire da un'amica e gli diede un appuntamento in un ristorante italiano di Wardour Street, alle nove di sera. Solomon si fece la barba e la doccia, facendo attenzione a non bagnare il gesso. Mentre si asciugava gli venne da ridere. Si stava comportando come se dovesse recarsi a un appuntamento galante, mentre in realtà Inga non era altro che il suo contatto con un pappone violento. Quando arrivò al ristorante Inga era già seduta a un tavolo e stava studiando il menu. Indossava un maglioncino senza maniche e una gonna cor-
ta nera. Al collo aveva una catenina d'oro con un crocifisso, e i capelli erano raccolti in una coda. Gli sorrise appena lo vide. Solomon aveva abbandonato le stampelle. Ora usava un bastone da passeggio che aveva trovato in casa di Diane. «Hai tempo di fermarti a cena?» chiese Inga. «Certo» rispose Solomon, sedendosi. Il ristorante si chiamava Luigi's. Alle pareti c'erano foto incorniciate del proprietario con vari clienti famosi, i tavoli erano coperti da tovaglie immacolate, e i camerieri parlavano tra loro in italiano. Inga aveva davanti una bottiglia d'acqua minerale. Solomon ordinò una birra, poi appoggiò la busta sul tavolo. «Questa è per Sasha» disse. Inga la prese e la mise nella borsetta. «Grazie per essere venuta a trovarmi in ospedale.» «Non c'è di che.» «E anche per il biglietto. È stato l'unico che ho ricevuto.» Inga si tolse una ciocca di capelli rossi dalla fronte. «Non hai una famiglia?» Solomon arricciò il naso. «Non proprio. Ho un fratello, ma vive in America.» «E i tuoi genitori?» «Mio padre è morto quando ero ragazzo. Faceva il camionista, e uscì fuori di strada. La polizia disse che probabilmente aveva avuto un colpo di sonno.» «Mi dispiace.» «È successo molto tempo fa.» «E tua madre?» «Cancro. Circa cinque anni dopo l'incidente di mio padre.» «Oh. Anch'io sono orfana.» «Cosa è accaduto ai tuoi?» «Non lo so. Sono finita in un orfanotrofio quando avevo pochi mesi.» «E non ti hanno detto cosa era accaduto ai tuoi?» «Non lo sapevano.» «Quindi non hai nessuno.» Lei fece una smorfia. «So cavarmela da sola.» Arrivò un cameriere con la birra, e ordinarono la cena: spaghetti alla marinara per Inga, e agnello al rosmarino per Solomon. «Come mai non hai una moglie?» chiese Inga. Solomon spezzò un panino e si mise in bocca un pezzo di pane. Inga at-
tese che avesse finito di masticare, poi gli rifece la domanda. «Sono stato sposato» rispose Solomon. «Molto tempo fa.» «Non ha funzionato?» chiese Inga. «No.» Solomon bevve un sorso di birra. Lei restò a guardarlo, in attesa che continuasse. «È una lunga storia» aggiunse Solomon. «Abbiamo tempo» disse lei, con gli occhi color cioccolata fissi nei suoi. Solomon si rese conto che era solo la seconda volta che la vedeva senza gli occhiali da sole. La prima volta era stato nell'appartamento di Soho. «Mi sono sposato a ventun anni» proseguì. «Con una mia compagna di scuola. Ci eravamo conosciuti alle elementari. Lei divenne insegnante, e io entrai in polizia. Lei sopportava i turni, i capelli corti e le serate di baldoria con gli amici quando lo stress diventava troppo forte.» «Come si chiamava?» «Jennifer.» «Da come ne parli, doveva essere una buona moglie.» «Lo era.» «E allora?» La morte di Charlie era una cosa di cui Solomon non parlava da molto tempo. E forse un ristorante italiano di Soho non era il luogo adatto per discuterne. Ma ormai aveva iniziato. «Avevamo una figlia» mormorò. «Si chiamava Charlotte, ma la chiamavamo Charlie.» Inga appoggiò la mano sulla sua, accarezzandogli il palmo con il pollice. «Era una bambina bellissima. Aveva preso dalla madre.» Solomon sentì spuntargli le lacrime, e si asciugò gli occhi con una mano. «Scusami» disse. «Perché piangi? Cosa è accaduto a tua figlia?» «Non voglio parlarne.» Inga continuò ad accarezzargli la mano. Lui chiuse gli occhi. Immagini di Charlie gli inondarono la mente. Charlie che gli correva incontro, per farsi prendere in braccio. Charlie che aiutava la mamma a fare una torta, con le guance sporche di farina. Charlie tra le sue braccia, coperta di sangue. «È morta?» chiese Inga. Solomon aprì gli occhi. Una lacrima gli scese lungo la guancia. «È stata colpa mia» singhiozzò. «Cosa è successo?» «La stavo portando a scuola. Avevo fretta e davanti alla scuola c'erano
un sacco di macchine parcheggiate in doppia fila, così la feci scendere a cento metri dall'ingresso, e le raccomandai di fare attenzione mentre attraversava la strada.» Chiuse di nuovo gli occhi. Altre immagini. Charlie che attraversava, con lo zainetto sulle spalle. Charlie che si voltava per salutarlo con la mano. L'orsacchiotto di pezza che ondeggiava appeso allo zainetto. Il furgone. L'autista che si accendeva una sigaretta, l'impatto, Solomon che correva verso la figlia, prendendola tra le braccia. Il furgone che si allontanava. «È stata investita da un furgone. Un attimo prima era in mezzo alla strada, sorridente, e l'attimo dopo era stesa sull'asfalto.» «Mio Dio» esclamò Inga. «L'autista del furgone è scappato. Non l'hanno mai preso. Il furgone era rubato. Era pieno di telefoni cellulari.» «Jack, mi dispiace.» Solomon la udiva appena. «Quando la presi in braccio era ancora viva. Aprì gli occhi. Voleva il suo orsacchiotto. Ne aveva uno attaccato allo zainetto, se lo portava dappertutto. La caricai in macchina. La madre di una sua compagna salì al volante per accompagnarci in ospedale. C'era tanto sangue. Su di lei, su di me. La donna teneva la mano premuta sul clacson, e urlava alle altre auto di togliersi di mezzo. Io continuavo a dire a Charlie che sarebbe andato tutto bene, ma sapevo che anche se fossimo arrivati in ospedale...» Non riuscì ad aggiungere altro. «Non è stata colpa tua» disse Inga. «Invece sì. Se avessi parcheggiato vicino alla scuola, se l'avessi accompagnata, se non l'avessi distratta salutandola con la mano...» «Non devi pensare queste cose» disse Inga. «Quando aveva più bisogno di me, l'ho abbandonata.» «È questo che ha detto tua moglie?» «Aveva ragione.» Arrivò il cibo, e Solomon tenne la testa bassa, in modo che il cameriere non potesse vederlo in faccia. Appena se ne fu andato, Inga si chinò verso di lui e gli prese di nuovo la mano. Solomon cercò di sottrarsi a quel contatto, ma lei la tenne stretta, finché lui si rilassò. «Mi dispiace, Inga. Non so perché te l'ho raccontato.» Lei gli lasciò la mano. «Non ne avevi mai parlato prima, vero?» «Non ne parlavo da molto tempo.» Solomon prese forchetta e coltello, ma si rese conto di non avere appetito. «È stato per questo che tua moglie ti ha lasciato?»
«Diceva che era stata colpa mia. E aveva ragione. Se ci fosse stata lei, al mio posto, avrebbe accompagnato Charlie fino al cancello. E nostra figlia adesso sarebbe ancora viva.» Inga non lo contraddisse. Solomon si scusò di nuovo e cambiò argomento. «Dai, mangiamo» disse. Mangiarono in silenzio. I camerieri si tennero a distanza, come se avessero percepito l'atmosfera tesa. Solomon riuscì appena ad assaggiare il suo agnello al rosmarino, e mise giù le posate. «Mi dispiace» riprese Inga. «Non avrei dovuto chiederti di tua moglie. Comunque sono felice che tu me ne abbia parlato. Mi aiuta a capirti meglio.» «E perché vuoi capirmi?» «Te l'ho già detto in ospedale. Mi piaci.» «Mi conosci appena.» «Perché dovrei dirtelo, se non fosse vero?» Solomon voleva dirle che era una prostituta, che il suo lavoro consisteva nel cercare di capire cosa volevano gli uomini per assecondare i loro desideri, di qualunque natura fossero, ma frenò la lingua e provò a sorriderle. «Non voglio nulla da te. Se è questo che ti preoccupa.» «Non si tratta di questo.» «E di cosa, allora?» Solomon mise in bocca un pezzo di carne e lo masticò lentamente. Inga prese una forchettata di spaghetti. «Cosa c'è nella busta?» chiese poi. «Se posso saperlo.» «Sasha non te l'ha detto?» Inga scosse la testa. Una ciocca di capelli le cadde sulla fronte, e lei la rimise dietro l'orecchio. «Ha detto solo che dovevi darmi una cosa. E che se ne avevi voglia, potevamo cenare insieme.» Dovette accorgersi dall'espressione di Solomon che non erano quelle le parole che avrebbe voluto sentire. «Sapeva che non avevo mangiato» spiegò. «E ha detto che non c'era problema se fossi arrivata un po' più tardi.» «Come ti tratta, in genere?» «Bene.» «Non ti picchia?» «Perché me lo chiedi?» «Ero un poliziotto, una volta. E arrestavo i papponi che picchiavano le ragazze. È così che le controllano. Se le ragazze non avessero paura di loro, non gli darebbero i soldi. Non è così?»
«Non lo so» disse Inga, con gli occhi bassi. «Forse non dovrei chiederti di Sasha.» «A Sasha non piace che si parli di lui.» Inga alzò gli occhi. «È difficile trovare qualcosa di cui parlare, eh? Tu non vuoi parlare di te, io non voglio parlare di me.» Mise giù la forchetta. «Forse è meglio che me ne vada.» «No, per favore» disse subito Solomon. Lei si morse il labbro e bevve un sorso d'acqua. «Cosa vuoi fare, in futuro?» chiese Solomon. «Non lo so.» «Ma devi avere un sogno, no? Qualcosa che ti piacerebbe davvero fare.» «Da piccola sognavo di avere una boutique. Di disegnare una linea di abbigliamento. Disegnavo spesso vestiti, ma mi dicevano che perdevo il mio tempo.» «Chi te lo diceva?» «Quelli dell'orfanotrofio. Dicevano che sprecavo la carta, che non sarei mai stata una disegnatrice, e che sarei andata a lavorare in fabbrica, o in una fattoria. Ma si sbagliavano. Ora io vivo a Londra, e loro lavorano ancora all'orfanotrofio. Non avranno mai soldi, non faranno mai un viaggio. Non faranno mai nulla.» C'era eccitazione nella sua voce e Solomon si chiese se non avesse ragione. Forse fare la prostituta a Londra era davvero meglio della vita nell'Europa dell'Est. Altrimenti perché migliaia di ragazze si adattavano a riempire i bordelli e le saune dell'ovest? «Ma non metti da parte nulla, vero?» chiese. «Sasha si prende tutto.» «Certo. Ma quando avrò pagato il mio debito, potrò risparmiare.» «E quando sarà?» Inga alzò le spalle. «Me lo dirà lui. Ma non parliamo di Sasha, d'accordo?» Dopo mangiato, Inga e Solomon dovettero aspettare dieci minuti buoni sul marciapiede, prima di veder passare un taxi libero. «Io vado a Clapham» disse Solomon. «E tu?» Lei lo prese sottobraccio. «Io vengo con te.» Durante i venti minuti di viaggio fino a casa di Diane non dissero neppure una parola. Solomon pagò il tassista, e restarono soli sul marciapiede. «Inga» disse Solomon. «Questa non è casa mia. Sono ospite di amici.» «I tuoi amici sono in casa?» chiese lei. «Non credo» rispose Solomon. Diane gli aveva detto che lei e Sean quella sera avrebbero partecipato a un gioco a premi in un pub.
Lei lo fissò, in attesa che prendesse una decisione. Solomon voleva chiederle se fosse un'idea sua o di Sasha, ma alla fine sorrise e le passò un braccio intorno alle spalle. Lei gli si strinse contro, e si baciarono sulla soglia di casa. Solomon rise. «Chissà cosa penseranno i vicini.» «Penseranno che ci stiamo baciando» fece Inga. Aspettò che aprisse la porta, e appena dentro lo baciò di nuovo, prima piano, poi con maggiore passione. Lui fece cadere il bastone, e lei si chinò a raccoglierlo. «Con la gamba ingessata, non sarà facile» disse Solomon. «Non preoccuparti, non faremo niente di acrobatico.» Andarono verso il letto. Inga lo aiutò a spogliarsi, quindi si spogliò anche lei e si stese accanto a lui. «Le posizioni possibili sono un po' limitate» disse Solomon. «Va benissimo così» sussurrò lei, e gli scivolò sopra. Un paio d'ore dopo, Solomon udì entrare in casa Diane e Sean. Seguì il rumore dei loro passi sulle scale, e li sentì entrare nella loro stanza. «Forse è meglio che me ne vada» sussurrò Inga. «Già» disse lui, accarezzandole i capelli. Non credeva che Diane e Sean avrebbero trovato qualcosa da ridire sulla presenza di Inga, ma preferiva non dover spiegare chi era Inga e come l'aveva conosciuta. «Potremo vederci ancora?» chiese. «Certo» rispose lei. «Sasha non te lo impedirà?» «Non gli dirò nulla» disse Inga, alzandosi dal letto e passandosi le mani tra i capelli. «Ma io lavoro tutti i giorni, lo sai.» Solomon si voltò su un fianco e la guardò mentre si vestiva. «Quando devi tornare al lavoro?» chiese. «Non voglio pensarci. Non roviniamo quello che c'è appena stato.» Solomon sapeva cosa voleva dire. Quella era stata una notte magica, ma restava il fatto che Inga era una prostituta, legata a un pappone albanese, e lui era uno stupido se pensava che la loro relazione potesse continuare. Ma ciò non gli impediva di desiderare di rivederla. Decise che avrebbe lasciato a lei il compito di fare la prossima mossa. «Ti accompagno alla porta.» «Con la gamba ingessata farai un sacco di rumore, e ti sentiranno» rise lei. «Cerchiamo di salvare un po' della tua reputazione.» Si chinò su di lui e lo baciò a lungo. Poi uscì dal soggiorno e Solomon la udì aprire e chiudere la porta di casa. La Mercedes l'aspettava in strada, poco lontano dall'appartamento.
«Com'è stato?» chiese Sasha, appena lei salì in macchina. Inga prese la busta dalla borsetta e gliela diede. Sasha l'aprì e tirò fuori il contenuto. «Non hai risposto alla mia domanda.» «È una brava persona» rispose Inga. Sasha rimise le foto e il biglietto nella busta. «Non attaccarti troppo a lui.» «Non c'è pericolo» disse Inga. Poi voltò la testa, in modo che Sasha non vedesse affiorare le lacrime. Sasha scese dal sedile posteriore della Mercedes. Karic e Rikki lo seguirono lungo il sentiero che conduceva al granaio. Il sole non era ancora sceso sotto l'orizzonte, ma la luna era già sorta. Un gufo emise il suo richiamo. Sasha era cresciuto in una fattoria, ma odiava la campagna. Odiava gli animali, la polvere, il vento. Preferiva la città, ma certe cose era meglio farle in campagna, lontano da occhi indiscreti. Rialzò il bavero del giubbotto di pelle e si infilò i guanti di capretto. Davanti al granaio c'era uno dei suoi uomini, che gli tenne aperta la porta. Sasha gli rivolse un cenno del capo ed entrò. Goncharov era al centro dello stanzone, con le mani incatenate a una putrella di ferro che attraversava il soffitto. Dietro di lui c'erano altri due uomini di Sasha. Uno di loro aveva in mano un forcone. La catena consentiva appena al russo di poggiare a terra le punte dei piedi. Sudava profusamente, malgrado il freddo. Sul suo corpo non c'erano lividi o tagli. Non c'era stato ancora bisogno di violenza. Goncharov rivolse a Sasha uno sguardo pieno di rabbia. «Chi cazzo sei?» Karic e Rikki si sistemarono dietro Sasha a braccia conserte. «Ho bisogno di una cosa da te» disse Sasha. «Poi potremo andarcene tutti a casa. Quella ragazza del Kosovo che lavorava per te, sotto il nome di Amy. Non è più sul tuo sito web né da nessun'altra parte. Dove si trova?» «Ma perché tutti vogliono quella ragazza? Cos'ha di tanto speciale?» «Tu preoccupati soltanto di rispondermi» ringhiò Sasha. L'uomo con il forcone diede un colpetto nelle reni a Goncharov, il quale ondeggiò in avanti, poi recuperò l'equilibrio. «Non è più qui» sibilò. «È fuori dal paese.» «Dove?» «A Sarajevo.» «Perché?»
Goncharov chiuse gli occhi. Il suo stomaco flaccido gli pendeva sulle gambe, ondeggiando a ogni più piccolo movimento. Aveva la pelle bianca e liscia come quella di un pollo lesso. Un cellulare squillò. Sasha si voltò a fissare Karic e Rikki, ma entrambi scossero la testa. Poi videro che il suono veniva dalla pila dei vestiti di Goncharov. Sasha sorrise al russo. «I tuoi uomini si staranno chiedendo dove sei finito.» Poi si rivolse all'uomo con il forcone. «Problemi?» L'uomo scosse la testa. «Due uomini in un'auto davanti alla casa. Li abbiamo lasciati chiusi nel bagagliaio.» «Nessun altro?» «Solo due puttane in una stanza da letto. C'era un'attrezzatura sadomaso completa, così le abbiamo lasciate legate in una posizione artistica.» Il telefonino smise di squillare. «Hai mandato degli uomini a uccidere quell'inglese» disse Sasha a Goncharov. «Perché?» «Per fare un favore a un amico.» «Come si chiama il tuo amico?» Goncharov lo fissò con odio. «Chi cazzo sei per fare domande?» Sasha gli si avvicinò e lo schiaffeggiò con forza, facendogli sanguinare la bocca. «Ora, chi voleva la morte dell'inglese?» «L'uomo che mi aveva venduto quella ragazza. Ivan Petrovic. E a Sarajevo. Ha voluto anche che gli rimandassi la ragazza.» «Sai cosa pensava di farne?» Il russo scosse la testa. Il sangue gli colò giù dal mento, macchiandogli il petto. Il telefonino riprese a squillare. «Chi è questo Petrovic?» «Un serbo bosniaco. Proprietario di bar e bordelli. Vende ragazze.» «Per la tua agenzia?» Goncharov annuì. «L'inglese non è morto. Pensavi di riprovarci?» Goncharov sputò saliva mista a sangue sul pavimento. «Petrovic mi ha detto che bastava così.» Lo squillare insistente del telefonino cominciava a essere irritante. Sasha si avvicinò ai vestiti del russo, tirò fuori il cellulare e lo schiacciò con la scarpa. Quindi tornò a piazzarsi davanti a Goncharov. «Quell'inglese è amico mio.» «Non era niente di personale» spiegò Goncharov. «Petrovic mi ha pagato per farlo.»
Sasha lo fissò. Non c'era paura negli occhi del russo. E neppure rabbia. Avrebbe potuto farlo uccidere immediatamente. La fattoria dove si trovavano era stata venduta poche settimane prima, ed era deserta. Prima che il compratore iniziasse a lavorarci, ogni traccia della tomba del russo sarebbe scomparsa. Ma forse qualcuno avrebbe voluto vendicare la morte di Goncharov. Del resto, se lo avesse lasciato andare, come faceva a sapere che lo stesso Goncharov non avrebbe cercato di vendicarsi? «Il tuo amico non corre nessun pericolo da parte mia» aggiunse Goncharov, come se gli avesse letto nel pensiero. «E mi rendo conto che ora devi fare una scelta.» «Sai quali sono le opzioni?» Il russo annuì. «Se ti lascio andare, cosa farai?» Il russo lo guardò negli occhi, senza paura. «Ho i miei affari a cui pensare.» «Non cercherai di vendicarti?» «Sembri ben protetto. E io mi sono reso conto che i miei uomini valgono meno di quanto pensassi.» Sasha restò impassibile, e il russo aggiunse: «No, non verrò a cercarti». «E non dirai neppure a Petrovic della nostra conversazione?» «I miei rapporti con lui sono soltanto di affari. Ora mi trovo in questo casino per avergli fatto un favore. Non gli devo nulla.» Sembrava sincero. Lui e Sasha erano entrambi dei professionisti e Londra era una città spaziosa. Non c'era bisogno di scatenare una guerra per una puttana. «Ti chiedo scusa per lo schiaffo» disse Sasha. «Non mi considero offeso.» Sasha annuì e si allontanò, seguito da Rikki e Karic. «Slegatelo e riportatelo a casa» ordinò all'uomo accanto alla porta. Solomon si sporse dal letto per rispondere al telefonino. Era Sasha, ed erano le due del mattino. «La ragazza è tornata in Bosnia.» «Merda.» «È salita su un aereo per Sarajevo la mattina dopo che ti hanno sparato.» «Quindi anche lei era implicata?» «Già. Oppure volevano mandarla fuori dei piedi. Ho parlato con il russo, ma non sapeva molto.» «È stato lui a mandare quegli uomini per farmi fuori?» «Sì, ma per conto di un certo Ivan Petrovic, di Sarajevo. Lo conosci?» «È il tizio per cui lavorava Nicole a Sarajevo.» Solomon preferiva non
dire a Sasha cosa aveva fatto a Petrovic. «Goncharov mi ha assicurato che ti lasceranno in pace.» «E Nicole?» «L'ha rispedita a Petrovic.» Solomon imprecò. «Cosa pensi di fare?» chiese Sasha. «E che ne so? Ormai lei è sparita.» «È a Sarajevo. Trovarla non deve essere tanto difficile.» Solomon aveva dormito soltanto un'ora e si sentiva stanchissimo. «Petrovic potrebbe averla mandata in qualunque parte d'Europa» disse. «Non credevo che ti saresti arreso così facilmente. Credevo che volessi davvero trovare quella ragazza.» Solomon aggrottò la fronte, chiedendosi come mai Sasha mostrasse all'improvviso tanto interesse per Nicole. «Jack, sei lì?» chiese Sasha. «Voglio trovarla davvero, Sasha. Sono a letto con una gamba ingessata e due ferite da arma da fuoco. Questo dovrebbe dimostrare che faccio sul serio.» «E allora?» Solomon si asciugò la fronte sudata con il dorso della mano. Voleva parlare con Nicole, convincerla a dirgli chi aveva assassinato la sua famiglia. Voleva che raccontasse al Tribunale per i Crimini di Guerra tutto ciò che sapeva. «Ho un amico a Sarajevo» riprese. «Lo chiamerò e gli chiederò di cercarla.» «E poi?» «Se lui scopre dove si trova, tornerò in Bosnia.» Ci fu una lunga pausa. «Se tornerai laggiù» disse Sasha, «avrai bisogno di aiuto.» «So come muovermi, in Bosnia» lo rassicurò Solomon. «Non sai muoverti neppure a Londra» ribatté Sasha. «Ma fai come ti pare.» Solomon mise giù il telefono, e restò sveglio a pensare. Almeno ora sapeva dove si trovava Nicole. E chi aveva tentato di ucciderlo. L'uomo puzzava di birra e olio per motori, e grugniva come un maiale. Nicole voltò la testa di lato. Sapeva che se avesse vomitato l'uomo l'avrebbe picchiata di nuovo. Era un camionista, il quattordicesimo cliente del giorno.
L'uomo si tirò su e le disse di mettersi sulla pancia. Nicole obbedì, facendo ondeggiare la catena. Da quando era arrivata in quel bordello, in Arizona, l'avevano legata alla testata del letto. La lunghezza della catena era appena sufficiente da consentirle di arrivare fino a un lavandino che si trovava in un angolo. Poteva bere dal rubinetto e lavarsi con un asciugamano sudicio. Sotto il letto c'era un vaso da notte in cui fare i bisogni. L'uomo le afferrò i fianchi e la costrinse a mettersi a quattro zampe. Poi iniziò a pompare dentro di lei, sempre più veloce. Nicole aveva fatto il vuoto nella mente, come sempre da quando era lì. A Londra era diverso. Gli uomini la trattavano con riguardo, mentre il solo scopo di quelli che frequentavano quel bordello in Arizona era di scaricarsi dentro di lei. Nicole non sapeva quanto pagavano, ma sapeva che avevano il diritto di farle tutto ciò che volevano. Lei non poteva rifiutare nulla. Questo le era stato spiegato chiaramente, la prima volta che l'avevano incatenata al letto, in quella stanza al secondo piano. Al piano di sotto c'erano le stanze dove le ballerine portavano i clienti. Nicole a volte udiva risate, cigolii e i gemiti delle ragazze. Migliore era la finzione del piacere, più grossa era la mancia. E se il cliente era soddisfatto, era più probabile che tornasse. Era così che le ragazze facevano qualche soldo. Ma all'ultimo piano le regole erano diverse: gli uomini pagavano per passare mezz'ora con lei, e in quel lasso di tempo nessuno li disturbava. Anche se lei piangeva, o urlava, la porta restava chiusa. Nicole ormai non gridava più. La prima volta che l'aveva fatto, due uomini del locale erano saliti e l'avevano picchiata a sangue, mentre il cliente guardava con il sorriso sulle labbra. Poi, quando loro se n'erano andati, l'aveva picchiata anche lui, e infine l'aveva violentata. Alcuni la picchiavano prima di fare sesso, altri durante e altri ancora dopo. Nicole aveva imparato a non reagire. Più si mostrava sottomessa, prima il calvario finiva. Sasha finì il suo caffè e guardò l'orologio. Era quasi mezzogiorno e si era appena alzato. Aveva passato la serata in un bar di Chelsea con Katrina, la ragazza moldava che aveva comprato a Belgrado, e con due ragazze slovacche che lavoravano per lui da circa tre mesi. Le tre ragazze erano molto belle e gli stavano facendo guadagnare un sacco di soldi. Katrina da sola gli rendeva più di novemila sterline alla settimana. Aveva un talento particolare per il sesso orale, e la governante gli aveva riferito che aveva una dozzina di clienti regolari, che tornavano almeno una volta alla settimana.
Sasha aveva un gran mal di testa, dovuto alle sei bottiglie di Dom Pérignon che si erano scolati al bar. Aveva portato le ragazze a casa sua e se le era scopate tutte e tre, con l'aiuto di una pillola di Viagra e di cinque o sei piste di coca. Poi aveva sbattuto fuori del letto le slovacche, ma aveva permesso a Katrina di dormire con lui. Si alzò in piedi e le urlò di sbrigarsi. Non ricevendo risposta salì le scale ed entrò in camera da letto. Lei era seduta al tavolino da trucco, intenta ad applicare il mascara. Indossava il vestito nero che lui le aveva comprato, scollatissimo e così corto che quando si sedeva doveva tenere le gambe strette. Sasha aveva comprato vestiti simili anche alle slovacche e sorrise ricordando quante teste si erano voltate a guardarle, quando era entrato con loro nel bar. «Farai tardi» disse a Katrina. Lei si alzò, gli corse incontro e gli gettò le braccia al collo. La sua lingua saettò tra le labbra di Sasha, e le mani iniziarono a trafficare con la cerniera dei pantaloni. Sasha sentì un'erezione potente, ma spinse via la ragazza. «Non c'è tempo.» «Sei il capo, ti aspetteranno» fece lei. «Sei già in ritardo. Dovevi essere al lavoro a mezzogiorno preciso.» «Devo proprio andarci?» chiese lei, con un finto broncio. Sasha l'afferrò per un polso. «Tu sei qui per lavorare» sibilò freddamente. «Non dimenticarlo mai. Io posso divertirmi a scoparti ogni tanto, ma questo non significa che puoi saltare il tuo turno. È chiaro?» «Scusami.» Sasha continuò a stringerle il polso con la sinistra, ma con la destra le accarezzò la testa. L'attirò a sé e la baciò con violenza, tirandole i capelli. Lei emise un gemito, che Sasha soffocò con la sua bocca. Quando si staccò da lei, vide che le tremavano le labbra, ma nei suoi occhi non c'erano lacrime. Sasha sorrise. «Scendi di sotto. Adesso.» Katrina afferrò la borsetta, infilò i piedi nelle scarpe e uscì dalla stanza. Sasha la seguì giù dalle scale. Rikki uscì dal soggiorno e aprì la porta di casa. Katrina uscì di corsa e salì sul sedile posteriore della Mercedes, in attesa. Rikki salì accanto all'autista, e Sasha e Karic si sedettero dietro con lei. «Soho» ordinò Sasha all'autista. Katrina gli appoggiò una mano sulla coscia, e cominciò ad accarezzarlo. Sasha spinse via la mano e la fissò, irritato. La ragazza doveva ancora imparare che il lavoro era lavoro, e che poteva diventare piacere solo se e quando Sasha lo desiderava. Sasha tirò fuori il telefonino e chiamò uno dei suoi appartamenti di So-
ho. Rispose la governante. La avvisò che era in ritardo e che sarebbe passato a ritirare i soldi all'una. La governante disse che la ragazza aveva guadagnato quasi duemila sterline durante la notte. «Come mai tanto?» chiese Sasha. «Abbiamo avuto tre tifosi che volevano festeggiare con lei tutti insieme. Io ho fissato un prezzo più alto e ho detto a Julia di essere compiacente con loro.» Julia era una lettone che lavorava per Sasha da circa sei mesi. Non era bellissima, ma compensava con l'entusiasmo e la disponibilità a fare tutto ciò che le veniva chiesto. «Hai sentito, Katrina?» chiese Sasha, premendo il tasto per chiudere la comunicazione. «Duemila sterline in un solo turno.» La Mercedes inchiodò. Sasha dovette tenersi al sedile davanti per non perdere l'equilibrio. L'autista suonò il clacson per far spostare un furgone bianco che era fermo davanti a loro. «Io ho guadagnato anche di più» disse Katrina, imbronciata. «Non mi sembra» le sussurrò Sasha, prendendole il mento tra le dita. «Al massimo sei arrivata a milleseicento.» «Posso arrivare a duemila senza problemi» ribatté lei. «Vedremo.» La faccia di Katrina esplose in una pioggia di sangue e la Mercedes si riempì di schegge di vetro e del rumore assordante di armi da fuoco che sparavano da una distanza ravvicinata. Ciò che restava di Katrina si accasciò contro Sasha, inondandogli la camicia di sangue. Sasha urlò all'autista di schizzare via di lì, ma erano troppo vicini al furgone bianco per aggirarlo. In quel momento il finestrino dell'autista esplose e la parte posteriore della sua testa volò via. Ci furono due forti scoppi. L'auto si inclinò di lato. Avevano sparato alle gomme. Karic spinse giù Sasha e tirò fuori una pistola da sotto il sedile. Sparò tre colpi dal finestrino rotto e urlò a Rikki di far partire l'auto. Rikki stava cercando di afferrare una pistola nello scomparto portaoggetti. La trovò e sparò attraverso il finestrino dell'autista. Altri proiettili si piantarono negli schienali dei sedili, facendo schizzare frammenti di gommapiuma dentro la macchina. Sasha cercò di sollevare la testa, ma Karic gliela tenne giù e sparò ancora. «Tiraci fuori di qui!» urlò a Rikki. «Muoviti, o siamo morti!» Si gettò in avanti, facendo scudo a Sasha con il suo corpo, e sparò altri due colpi. Rikki spinse di lato il cadavere dell'autista, piantò un piede sulla frizio-
ne, innestò la retromarcia e schiacciò l'acceleratore. La Mercedes balzò all'indietro, con i cerchioni che stridevano sull'asfalto. Ci furono altri spari e il parabrezza si frantumò in centinaia di cubetti di vetro. Karic continuò a sparare dal finestrino fino a svuotare il caricatore, poi si lasciò cadere sopra Sasha. Rikki cercava di mantenere la macchina in carreggiata con la sinistra, continuando a sparare con la destra. Ma l'auto, con le gomme a terra, sbandò e fece un testacoda in mezzo alla strada. Un motociclista sbatté contro la fiancata, volò in aria e atterrò contro un lampione. Karic sollevò la testa, allungò una mano tra i sedili e innestò la prima. La Mercedes ruggì e partì a razzo, con il volante che vibrava sotto la mano di Rikki. Altri proiettili disintegrarono il lunotto. Sasha si tolse i cubetti di vetro dai capelli. Udirono una sirena lontana. La testa fracassata dell'autista pendeva fuori del finestrino, sbattendo contro la portiera a ogni sobbalzo dell'auto. Karic gridò a Rikki di tenere il piede sull'acceleratore. Erano contromano. Le altre auto cercavano freneticamente di farsi da parte. Dai cerchioni sprizzavano cascate di scintille. Sasha cercò di guardare fuori del lunotto posteriore, ma Karic gli urlò di stare giù e lo spinse di nuovo contro il cadavere di Katrina. La sirena si faceva sempre più vicina. L'autista di un furgone picchiò sul clacson e cercò di togliersi di mezzo, ma la Mercedes andava troppo forte e non riuscì a evitare l'incidente. Scattarono gli airbag, e il corpo dell'autista, che non aveva allacciato la cintura di sicurezza, fu proiettato fuori dell'auto, andando a spiaccicarsi contro la fiancata del furgone, dove lasciò una scia di sangue e di materia cerebrale. Rikki spinse da parte il suo airbag e si voltò indietro. Non c'era traccia dei quattro killer che li avevano attaccati e il furgone bianco che aveva bloccato loro la fuga stava per sparire in fondo alla strada. Sasha si tirò su. Aveva il viso imbrattato del sangue di Katrina. Se lo pulì con la manica della giacca. «Sono andati via» disse Rikki. Sasha tolse di mano la pistola a Karic e la gettò a Rikki. «Vai. Se la polizia ci trova con queste siamo fottuti.» Rikki afferrò l'arma, aprì la portiera e scostò l'airbag. «Grazie, Rikki» disse Sasha. «Ottimo lavoro.» L'altro annuì e si allontanò di corsa. «Quel russo bastardo» ringhiò tra i denti Sasha. «Avrei dovuto ucciderlo quando ne avevo la possibilità.»
Diede una pacca sulla schiena a Karic. «Questa è la seconda volta che mi salvi la vita.» Karic era pallidissimo e aveva un'espressione di sorpresa sul viso. «Quei bastardi» riprese Sasha. «Gliela faremo vedere.» Karic non disse nulla. Respirava a fatica. «Stai bene?» chiese Sasha. Karic tossì. Un rivolo di sangue gli colò lungo il mento. Sasha gli aprì il soprabito e vide un piccolo buco nero in mezzo alla camicia, da cui il sangue usciva a spruzzi. «Oh, Dio» mormorò. Prese di tasca un fazzoletto di lino e lo premette contro la ferita. «Non morire!» gridò. «Non sognarti di morire così!» Quando Solomon chiamò Dragan Jovanovic in ufficio, a Sarajevo era pomeriggio. Dragan non era alla sua scrivania, così un collega dovette andare a chiamarlo. «Jack?» chiese il detective. «Come stai?» «Ho visto giorni migliori» rispose Solomon, senza scendere in particolari. Disse a Dragan che Nicole era tornata a Sarajevo. «Credi di poterla trovare?» «Non ho intenzione di ricominciare a girare per i bordelli.» «Non ti sto chiedendo questo» disse Solomon. «È arrivata tre o quattro settimane fa. Non potresti controllare all'ufficio immigrazione?» «E credi che sia arrivata con il suo vero nome? Normalmente le prostitute hanno documenti falsi.» Aveva ragione, ovviamente. Se Nicole era arrivata lì sotto un altro nome, le possibilità di ritrovarla seguendo i canali ufficiali erano minime. «E Petrovic?» chiese. «Non credo che sia un buon momento per tornare, se è questo che intendevi.» «No, intendevo dire che forse lei è tornata a lavorare per lui.» «Ho capito. Mi stai chiedendo di andare a fare due chiacchiere con uno dei peggiori criminali di Sarajevo, sulla base della vostra lunga amicizia.» «Potresti mandare qualcuno in quel bar, a vedere se lei è lì.» «E se c'è, cosa farai? Tornerai qui per prendere di nuovo a cazzotti Petrovic?» «Stai bene?» chiese Solomon. «Mi sembri stressato.» «Non più del solito. Ma tu mi preoccupi. Quella ragazza sta diventando un'ossessione per te.» «Piantala!» esplose Solomon. «Ti ho solo chiesto di farmi un favore. Se non puoi non importa.» «Non fare lo scemo» ribatté Dragan. «Chiederò in giro. Ma se fossi in te
lascerei perdere tutto e riprenderei a lavorare.» «Non posso. Pochi giorni fa sono stato licenziato.» «Come mai?» «La motivazione ufficiale è che ci sono problemi di budget.» «Forse non tutto il male viene per nuocere. La cosa peggiore che potresti fare, adesso, è tornare qui.» «Vedremo. Intanto per favore cerca di scoprire che fine ha fatto Nicole.» Dragan promise che avrebbe fatto il possibile, quindi si salutarono. Solomon tirò fuori dal gesso il ferro da calza e cercò di raggiungere il punto che gli prudeva. Non gli avrebbero tolto il gesso prima di altre tre settimane, poi lo attendevano mesi di fisioterapia. Non aveva senso mettersi a cercare lavoro prima di essere guarito. Forse Dragan aveva ragione. Se Petrovic era ancora sul sentiero di guerra, la Bosnia era l'ultimo posto dove andare. Anna Gregson infilò l'ultimo mazzo di banconote da venti nel conteggiatore elettronico. Duemilaseicentonovanta sterline. Con la calcolatrice sommò tutti i totali parziali che aveva annotato su un foglio. Tredicimilasettecentoventi sterline in due giorni. Mica male. A sinistra della scrivania c'era una cassaforte, nella quale ripose le banconote, aggiungendole a quelle che già conteneva. Il contabile di Goncharov sarebbe arrivato tra poco a portare via i soldi. Poi li avrebbe versati in diversi conti correnti, a piccole somme. Anna chiuse il portello della cassaforte e ruotò il disco, quindi uscì dalla stanza ed entrò nell'ufficio principale. Sei ragazze erano sedute davanti ad altrettanti computer, ciascuna con in testa le cuffie che le collegavano a un telefono cellulare. Ognuna di loro raccoglieva le prenotazioni per un'agenzia diversa. La settima ragazza, una spagnola di nome Chloe, stava preparando un caffè nel cucinotto attiguo all'ufficio. Lavorava per l'agenzia da sei mesi, ma era stata ricoverata in ospedale per un problema a un'ovaia e non era ancora in grado di tornare al lavoro. Anna le aveva offerto la possibilità di guadagnare qualcosa in quel periodo lavorando in ufficio, e lei si era rivelata un'ottima receptionist, tanto che probabilmente non sarebbe più tornata a prostituirsi. Era in gamba nel gestire sia i clienti, sia le ragazze. A volte capitava che un cliente richiedesse qualcosa di speciale e di solito una buona receptionist come Chloe era in grado di persuadere una ragazza esitante ad allargare le proprie vedute. Le ragazze che Goncharov importava
in Inghilterra ovviamente non potevano rifiutare nulla, ma nei cataloghi dell'agenzia c'erano anche molte inglesi, che iniziavano a lavorare dichiarando che non avrebbero fatto sesso anale, orale senza preservativo, o perversioni tipo farsi orinare addosso dai clienti. Eppure, dopo qualche mese si adattavano a fare qualunque cosa, se il prezzo era buono. Chloe sapeva esattamente cosa era disposta a fare ciascuna ragazza, il che significava che i clienti non restavano mai delusi. E un cliente contento significava un cliente regolare. Anna chiese a Chloe di recarsi a ritirare i soldi della giornata che le ragazze lasciavano in alcune caselle postali sparse in giro per la città. La maggior parte delle ragazze che lavoravano per le agenzie di Goncharov non sapevano dove fosse l'ufficio principale e i contatti con loro erano gestiti da Anna o da altre ragazze di provata esperienza, che oltre a ritirare i soldi e a controllare che non mancasse nulla le aiutavano a risolvere i problemi con l'ufficio immigrazione, con i padroni di casa o con i clienti difficili. Chloe aprì la porta e un attimo dopo strillò. Un uomo in giubbotto di pelle la spinse brutalmente dentro l'ufficio, facendola cadere a terra. Poi entrò, minacciando le impiegate con una pistola e ordinando loro di allontanarsi dai terminali. Dietro di lui entrarono altri due uomini armati. Una ragazza iniziò a singhiozzare istericamente. L'uomo in giacca di pelle le colpì il volto con la pistola, gettandola a terra. «Lasciala stare!» urlò Anna. Entrò un quarto uomo, sui trent'anni, con il viso squadrato, capelli castani corti e occhiali da sole. Indossava un soprabito di pelle lungo fino al ginocchio, teneva un sigaro tra le labbra. «Dov'è Goncharov?» chiese. Non aveva una pistola, ma c'era qualcosa nella sua mano destra, qualcosa che brillava sotto le luci della stanza. «Non è qui» rispose Anna. «Se sono i soldi che volete, sono nella cassaforte.» Nell'ufficio non c'era mai più dell'incasso di alcuni giorni, e Anna preferiva sacrificare il denaro senza discutere, piuttosto che rischiare che fosse fatto del male alle ragazze. «Fammi vedere» disse l'uomo. Anna lo condusse nell'ufficio di Goncharov, mentre uno degli altri tre chiudeva a chiave la porta d'ingresso. «Se conoscete Sergei, saprete anche cosa vi farà, quando vi troverà.» «Apri la cassaforte» disse l'uomo, spegnendo il sigaro in un portacenere
di cristallo che si trovava sulla scrivania. Anna formò la combinazione sul disco e aprì lo sportello. L'uomo le gettò una sporta di Harrods e le disse di riempirla. Anna obbedì senza discutere. L'uomo prese la borsa, poi le mostrò l'oggetto che aveva in mano. Era un cutter Stanley, con due lame innestate e separate da un fiammifero. «Vedi questo?» Anna annuì. «Se ti sfregio con questo, nessun chirurgo plastico al mondo potrà rimetterti a posto la faccia. Ora, dov'è Goncharov?» Anna fissò il cutter a doppia lama. «A Sarajevo» rispose. «Quando ci è andato?» «Stamattina.» «Quando torna?» «Non l'ha detto.» «Ha lasciato te a sostituirlo?» «Sì.» L'uomo le fece segno di spostarsi dalla cassaforte. Si chinò a controllare che non ci fossero altri soldi, poi frugò tra le carte di Goncharov. In una busta gialla trovò più di venti passaporti, russi, lettoni, bosniaci, ucraini, tailandesi. Appartenevano tutti a ragazze che lavoravano per l'agenzia. Li prese e li gettò nella borsa di Harrods. «Sergei Goncharov da oggi chiude bottega. Capito?» Anna annuì. «Se tu vuoi metterti in proprio, per me va bene. Non ce l'ho con te. Ma queste agenzie le gestirò io. Da ora in poi sarò io a controllare le ragazze.» «Ma non puoi farlo...» iniziò Anna. L'uomo le si avvicinò, puntandole il cutter alla gola. «Io posso fare quello che voglio» sibilò. «Chiaro?» «Sì» disse Anna, con un tremito nella voce. L'uomo la spinse fuori della porta e rientrarono nell'ufficio principale. Le altre ragazze erano tutte stese a faccia in giù sulla moquette. Un uomo stava spegnendo tutti i cellulari, infilandoli in una borsa di nylon blu. Un altro scollegava i computer. «A terra» intimò ad Anna quello con gli occhiali da sole. Poi parlò con gli altri in una lingua che Anna non riuscì a riconoscere. Comunque di una cosa era sicura: quando Sergei Goncharov avesse saputo dell'accaduto, quegli uomini sarebbero morti. E prima di morire avrebbero sofferto molto.
Solomon si sedette sulla panchina di legno, con la gamba ingessata allungata davanti a sé. Aprì una busta di noccioline. In men che non si dica due scoiattoli grigi scesero da un albero e si misero a osservarlo. Solomon gettò una nocciolina a ciascuno, gli animaletti l'afferrarono con le zampe anteriori e corsero via. Era una bella giornata di sole. Solomon indossava una polo rossa e un altro paio di jeans con la gamba tagliata. Una volta tolto il gesso, avrebbe dovuto ricomprarsi tutti i pantaloni. Gli scoiattoli tornarono, diffidenti ma attratti dalle noccioline. Solomon ne gettò altre due, e mentre i due roditori si arrampicavano sull'albero con il bottino udì dei passi alle sue spalle. Si voltò e vide due uomini in soprabito scuro che venivano verso di lui. Si guardò intorno, ma in giro non c'era nessuno a cui chiedere aiuto. Gli uomini ora erano a meno di dieci metri. Uno di loro gli sembrava familiare. Mascella quadrata, capelli cortissimi, labbra pallide e sottili. Solomon afferrò il suo bastone, ma sapeva che era inutile cercare di fuggire o di combattere. Gli si bloccò il respiro in gola. I due uomini si separarono e quello dalla mascella quadrata gli venne di fronte, mentre l'altro si avvicinò da dietro. L'unica passante era una donna in tailleur, che percorreva un vialetto a passo svelto, valigetta in mano e cellulare all'orecchio. Solomon tirò fuori di tasca il suo telefonino, cercando freneticamente di comporre il 999. Ma non fece in tempo. L'uomo dalla mascella quadrata gli era già di fronte. Lo fissò e disse: «Sasha vuole parlarti». Solo allora Solomon ricordò dove l'aveva visto. Era l'autista che lo aveva accompagnato a Bayswater, dopo il suo primo incontro con Sasha. Cancellò la chiamata al 999. «Può venire a parlarmi qui» disse. L'uomo indicò una BMW parcheggiata fuori dal giardino pubblico. «Vuole che tu vada da lui.» «Cos'è, vuole mostrarmi che è lui il più forte?» disse Solomon. Era irritato con se stesso per essersi spaventato tanto. «Sono stufo di questi giochetti. Se vuole vedermi, che venga qui.» L'uomo dietro di lui si chinò, e a bassa voce gli spiegò che cosa era accaduto: «Ieri siamo stati assaliti. Sasha per poco non è rimasto ucciso. Preferiamo che resti in macchina». Per la prima volta Solomon notò i tagli sul viso dell'uomo che gli stava di fronte. «Chi è stato?» chiese.
I due ignorarono la domanda. Solomon si alzò in piedi, aiutandosi con il bastone, e si incamminò verso l'auto. Appena arrivò sul marciapiede la portiera posteriore della BMW si aprì. Solomon salì a bordo. Sasha era seduto dietro. Spinse gli occhiali da sole sulla testa, dicendo: «Quel bastardo di un russo ha cercato di farmi fuori, ieri. Se fossi stato seduto dove mi siedo di solito, a quest'ora sarei morto. Ha ammazzato una delle mie ragazze e un mio amico». «Inga?» chiese Solomon, troppo in fretta. Sasha lo fissò infastidito. «No, non Inga. Ma era una brava ragazza che non meritava quella fine. E neppure Karic la meritava.» «Mi dispiace» fece Solomon. «È tutta colpa mia, vero?» Sasha fece una smorfia. «È colpa mia, per non aver ucciso quel maiale quando ne avevo la possibilità. Ma non commetterò due volte lo stesso errore.» Solomon annuì lentamente, senza sapere bene cosa dire. «Ora è fuggito a Sarajevo. Forse pensa di essere al sicuro, laggiù, ma si sbaglia di grosso.» «Intendi vendicarti?» «Certo. Quanto pensi che durerei, se lasciassi impunita una cosa del genere?» Gettò un'occhiata al suo Breitling in oro bianco. «Sarò su un volo per Sarajevo fra tre ore. Vuoi venire?» Solomon restò a bocca aperta dalla sorpresa. «Goncharov si è portato dietro quattro dei suoi, probabilmente quelli che mi hanno sparato. E due di loro quasi certamente sono quelli che hanno assalito te. Tu li hai visti, sapresti riconoscerli. Io no.» «E allora?» «Allora potresti essermi utile. Inoltre se la ragazza che cerchi è ancora lì, potremmo prendere due piccioni con una fava.» «Prendere, o uccidere?» «Ascolta, ti sto offrendo la possibilità di trovare la ragazza e di vendicarti degli uomini che ti hanno sparato.» Sasha guardò di nuovo l'orologio. «Ma se non vuoi venire...» «Vengo, vengo» disse Solomon, in fretta. «Lasciami solo andare a casa a prendere il passaporto.» Sasha estrasse di tasca un biglietto d'aereo e glielo diede. Era a nome di Solomon: un volo per Sarajevo della British Airways, via Zagabria. Solomon alzò gli occhi. Vide che Sasha rideva: «Sapevo che non ti saresti tirato indietro» disse.
Nicole si svegliò di colpo, sputando e tossendo, con la bocca piena di acqua fredda. Una mano l'afferrò per i capelli e la mise a sedere sul letto. «Svegliati, puttana» sibilò una voce maschile. Era uno dei proprietari del bordello, un uomo alto e magro, con cicatrici di shrapnel sulla faccia e sul collo. Aveva l'occhio destro bianco e gli mancava metà dell'orecchio. Nicole lottò per aprire gli occhi. Era stanchissima. Il bordello era aperto ventiquattro ore al giorno e le finestre del suo piano erano state coperte con assi inchiodate, così lei non aveva mai modo di sapere che ora fosse. Né che giorno, o che mese. Il tempo ormai aveva perso ogni significato. Gli uomini arrivavano, abusavano di lei e se ne andavano. Quella era la sua vita. «Non sei qui per dormire, puttana!» urlò l'uomo. «Sei qui per scopare.» Le mollò un paio di schiaffi. Nicole non tentò neppure di difendersi. Ormai era abituata alle botte. Dietro il proprietario c'era un altro uomo, sui cinquant'anni, con una grossa pancia da birra che gli tendeva la camicia. Era nudo dalla vita in giù, ma aveva tenuto i calzini. Si teneva il pene semieretto con una mano, e si stava pulendo la bocca con l'altra. Gli occhi di Nicole si chiusero di nuovo. L'uomo imprecò e le tirò selvaggiamente i capelli. Lei non reagì. Lui la gettò sul letto. Nicole si raggomitolò in posizione fetale, con le ginocchia al petto, ma fu investita da un'altra secchiata d'acqua. L'uomo la mise di nuovo seduta. Quando Nicole riaprì gli occhi vide che aveva tra le dita una pillola bianca. Serrò i denti, ma l'uomo le tirò i capelli e quando lei urlò le spinse la pillola in bocca. «Mandala giù, puttana, se no ti faccio fare il giro della stanza a calci nel culo.» Nicole provò a inghiottire, ma le venne un conato. L'uomo le avvicinò un bicchiere d'acqua. Lei bevve e mandò giù la pillola. Poi fu costretta a inghiottirne un'altra, più piccola, quindi ripiombò sul materasso. «L'ecstasy la metterà dell'umore giusto» disse il padrone al cliente. «L'amfetamina la terrà sveglia. Ci vorranno un paio di minuti. Ci scusi per l'inconveniente.» L'uomo uscì e Nicole si stese sulla schiena, con le gambe aperte. Il cliente la fissava, ansimando. Poi si inginocchiò sul letto, la fece voltare e la penetrò da dietro, imprecando e chiamandola troia a ogni colpo. Nicole lo udiva appena. Cercava di immaginare di trovarsi in un altro posto, in qualche luogo caldo e sicuro, dove poter dormire in pace.
L'aereo atterrò all'aeroporto di Sarajevo poco dopo le nove di sera, ed erano circa le dieci quando Solomon, Sasha e Rikki uscirono dal terminal. A Zagabria erano saliti altri quattro uomini, che avevano rivolto un cenno di saluto a Sasha e poi si erano riuniti con lui al recupero bagagli. Erano tutti e quattro imponenti, con i capelli portati alla militare e barbe appena accennate. Indossavano bomber, pantaloni comodi e orologi subacquei. Li seguirono verso le due limousine in attesa nel parcheggio. In una delle due era seduto un uomo con un giaccone di tela cerata. I quattro in bomber entrarono nella prima auto, Sasha, Solomon e Rikki nella seconda. Sasha prese una busta gialla dalla tasca interna della giacca e la consegnò all'uomo con il giaccone. L'altro la aprì e prima che la facesse sparire in una tasca interna, Solomon scorse un mazzo di banconote. Rikki aprì un compartimento pieno di bottiglie, e ne prese una di cognac. Sasha annuì e l'altro riempì tre bicchieri di cristallo. Sasha brindò con Solomon, poi vuotò il suo bicchiere in un sol colpo. Solomon invece bevve un sorso e appoggiò il bicchiere su una mensola, dietro il vetro che li separava dall'autista. Gli prudeva la gamba, e tirò fuori il ferro da calza per grattarsi. «Come sei riuscito a portare quell'affare in aereo?» chiese Sasha. «Non ha fatto scattare il metal detector?» «Certo, ma ho detto loro che avevo dei chiodi nella gamba, il che tra parentesi è la verità.» L'uomo in giaccone cerato passò a Sasha una grossa borsa di pelle nera. Sasha l'aprì e ne estrasse una pistole-machine, lunga poco più di trenta centimetri, con un caricatore oblungo che sporgeva in basso. La passò a Rikki, quindi prese un'altra arma per sé. «Cosa pensi di fare?» chiese Solomon. «Qual è il tuo piano?» «Il piano è questo» rispose Sasha, in tono neutro. «Ucciderò quel bastardo russo e chiunque provi ad aiutarlo.» «E io? Non c'è un'arma per me?» «Hai mai sparato con una di queste?» «No.» «E con una pistola normale?» «Neppure. I poliziotti della Buoncostume non girano armati, in Inghilterra.» «Queste fanno rumore anche con il silenziatore e saltano molto» disse Sasha. «È inutile che te ne dia una se non hai fatto molta pratica.»
«Quindi sono qui solo come dama di compagnia?» chiese Solomon. «Sei qui per identificare i due che ti hanno sparato. E anche quel Petrovic. Lo conosci, no?» «L'ho incontrato una volta.» «Non mi hai mai raccontato bene tutta la storia. Non credo che Petrovic si sia dato tanta pena solo per la ragazza, dico bene?» «L'ho mandato in ospedale» spiegò Solomon. Rikki rise e trangugiò un sorso di cognac. «Come ci sei riuscito?» chiese Sasha. «Ho sentito dire che è un vero duro.» «Gli ho spappolato la milza. Forse è stato solo un calcio fortunato, non lo so. È successo tutto molto in fretta.» Sasha gli diede una pacca sul gesso. «Mi sa che devo tenerti d'occhio. Forse non sei la pappamolla che vuoi sembrare.» L'auto davanti a loro si staccò dal marciapiede. «Chi sono quelli?» chiese Solomon. «Croati. Bravi ragazzi. Mi hanno già dato una mano in passato.» La limousine accelerò rapidamente, seguendo la gemella. «Dove andiamo?» chiese Solomon. «A trovare Petrovic» rispose Sasha. «Così potrai chiedergli come va la milza.» «Adesso?» «Tra un po'.» «Come hai fatto a sapere dove trovarlo?» «Ho degli amici a Belgrado, dove lui compra alcune delle sue ragazze.» «E non credi che lo avviseranno?» «Concedimi un po' di fiducia, no? So che di solito sta in uno dei suoi club, il Butterfly.» «Lo conosco. È quello dove ho avuto il mio scontro con lui. E Goncharov?» «I miei amici non lo conoscono. Ma possiamo chiedere a Petrovic dove trovarlo.» Sasha smontò e rimontò con mani esperte la mitraglietta. Inserì il caricatore, spinse la sicura, quindi avvitò un silenziatore a bulbo sulla canna. Solomon si rese conto per la prima volta dell'enormità di ciò che stava per fare. Fino a quel momento aveva viaggiato spinto dall'adrenalina, senza pensare troppo a cosa avrebbero fatto una volta a Sarajevo. Le armi erano un simbolo tangibile di ciò che li aspettava. Passarono per il centro, poi la limousine davanti a loro si diresse verso le
colline. Solomon aggrottò la fronte e Sasha gli spiegò che i croati avrebbero sorvegliato il Butterfly. Si fermarono all'Holiday Inn. Solomon attese in macchina mentre Sasha e Rikki prendevano una stanza. Sasha ne aveva offerta una anche a lui, ma Solomon aveva ancora il suo appartamento in città. I due avevano lasciato le armi sul sedile e anche se i vetri della limousine erano oscurati, Solomon sobbalzava ogni volta che qualcuno passava accanto all'auto. Si chiese qual era in Bosnia la pena per il possesso di armi da fuoco, ma subito ricordò che il possesso di armi era il minore dei delitti che avrebbero commesso quella notte. Prese in mano una mitraglietta, restando sorpreso da quanto pesava. La mise giù e volse lo sguardo altrove. Sasha e Rikki tornarono. La limousine si diresse fuori città. Parcheggiarono lungo la strada, poco lontano dal Butterfly. Sasha e Rikki aprirono le giacche e infilarono le armi nelle fondine ascellari. Rikki disse qualcosa all'autista, il quale aprì il compartimento portaoggetti e gli passò due passamontagna e una macchina fotografica Polaroid. Rikki diede un passamontagna a Sasha e scese dall'auto. Sasha si voltò verso Solomon. «Tu aspetta qui. Qualunque cosa accada, non scendere dall'auto.» Sorrise. «Non preoccuparti, andrà tutto bene.» Gli diede una pacca sulla schiena e scese dalla limousine. Solomon vide avvicinarsi uno dei croati. I tre uomini si avviarono insieme verso il Butterfly. Solomon restò a fissare la nuca dell'autista, sforzandosi di rilassarsi. Qualunque fosse il destino di Petrovic, se lo meritava. Era un criminale che corrompeva i poliziotti, trafficava in donne e credeva di essere al di sopra della legge. Solomon sapeva che in nessun modo avrebbe potuto convincerlo a dirgli dove aveva mandato Nicole, perciò Sasha era l'unica opzione. Vide due uomini avvicinarsi a passo svelto, ed ebbe un soprassalto prima di riconoscere Sasha con uno dei croati. Sasha salì in macchina e gli gettò in grembo una dozzina di Polaroid. «Qual è Petrovic?» chiese. Solomon guardò le foto. Erano tutti uomini, alcuni confusi, altri sprezzanti, altri spaventati. Indicò Petrovic, che fissava la macchina fotografica con uno sguardo carico d'odio. «Riconosci qualcun altro?» chiese Sasha. Solomon indicò gli uomini che erano nel bar quando lui aveva avuto il suo scontro con Petrovic, ma disse che non sapeva i loro nomi. «Benissimo» fece Sasha. «Hai fatto la tua parte, al resto ci pensiamo
noi.» «Cosa vuoi fare?» Sasha si mise in tasca le foto. «Farò due chiacchiere con Petrovic. L'autista ti porterà al tuo appartamento. Ti chiamerò appena saprò qualcosa. Cerca di dormire.» Solomon dovette fare parecchi respiri profondi per calmarsi. Dubitava fortemente che sarebbe riuscito a dormire. Sasha tenne la pistola premuta sul collo di Petrovic durante tutto il viaggio lungo la strada collinare piena di curve. «Hai almeno una vaga idea di chi sono io?» ringhiò Petrovic, steso a faccia in giù sul pavimento della limousine, con un cappuccio sulla testa. Sasha avvicinò la bocca al cappuccio. «Lo so benissimo, chi sei» sussurrò. Rikki era seduto accanto al guidatore, mentre i quattro croati erano dietro con Sasha e tenevano i piedi sulla schiena di Petrovic. Il bosniaco aveva le mani legate dietro la schiena e i piedi stretti con del nastro adesivo. Sul fianco della collina c'era una casa in rovina, senza tetto e senza porte, con le pareti crivellate di proiettili. La casa più vicina era a quasi un chilometro di distanza. Uno dei croati aveva parlato a Sasha di quella casa e della cantina. Aveva detto di aver già usato la cantina, in passato, ma non aveva spiegato per quale scopo. Parcheggiarono dietro la casa e spensero i fari. La luna, quasi piena, illuminava il paesaggio circostante. Rikki e Sasha scesero dalla limousine, mentre i croati trascinavano fuori Petrovic. Due di loro avevano delle torce elettriche. Appena furono in casa le accesero. Rikki tirò fuori di tasca un paio di tronchesine. Sasha annuì con approvazione. «Dita delle mani o dei piedi?» chiese Rikki. «Scegli tu.» «Se ci fossi tu, al suo posto, cosa preferiresti perdere?» Sasha lo fissò con durezza. «Era solo una domanda» disse Rikki. Entrarono in casa. Dalla cantina si sentivano già le urla soffocate di Petrovic. Un'ora dopo Sasha tornò alla limousine. Si pulì la mano sporca di sangue sull'erba e prese il cellulare per chiamare Solomon. «La ragazza è in Arizona. E anche Goncharov.»
«Te l'ha detto Petrovic?» «Sì. Ci vado domani. Vuoi venire?» «Naturalmente.» «Passiamo a prenderti verso mezzogiorno.» «Tutto bene?» chiese Solomon. «Perché me lo chiedi?» «Hai la voce tesa.» «Qui tutto è teso» rispose Sasha. Notò che anche la scarpa destra era sporca di sangue. La sfregò sull'erba. «Fatti trovare pronto, domattina.» Solomon si stese sul fianco, ma il gesso gli impediva di prendere sonno in quella posizione. Poteva dormire solo sulla schiena o sulla pancia. Cercò di calmarsi, ma gli eventi degli ultimi giorni continuavano a ronzargli nella mente. Sembrava che non avesse più nessun controllo su ciò che stava accadendo. Era Sasha a dirigere lo show, e lui era lì solo come spettatore. Sentì odore di fumo, ma ricordava benissimo di aver spento la Marlboro che aveva fumato sul balcone prima di andare a dormire. In camera da letto non aveva neppure un posacenere. Annusò meglio. Era proprio fumo di sigaretta, ma non si trattava di una Marlboro. Era l'odore dolciastro di una marca locale. Solomon si alzò a sedere sul letto. Dragan Jovanovic era seduto sulla poltrona accanto alla finestra, con le gambe accavallate e la mano destra dietro lo schienale. «Cristo, Dragan, ma ti costa così tanto bussare?» «Sono un poliziotto, non ho bisogno di bussare. E tu dovresti chiudere la porta a chiave, Jack. Sarajevo è una città piena di pericoli.» Si passò una mano tra i capelli. «Perché sei tornato?» «Primo, sono abbastanza sicuro di aver chiuso la porta a chiave. Secondo, come hai fatto a sapere che ero tornato?» «Come ti ho appena detto, sono un poliziotto. Il mio lavoro consiste nel sapere ciò che accade in questa città.» «E cosa accade?» Dragan aspirò una lunga boccata dalla sigaretta, poi soffiò il fumo verso il letto. «Potrei decidere di interrogarti al commissariato.» «Vuoi fare il numero del poliziotto buono e del poliziotto cattivo tutto da solo?» Dragan si limitò a fissarlo in silenzio. «Noi due ci conosciamo da molto
tempo» disse alla fine. «Già.» «Allora, perché mi tratti in questo modo? Cosa ti impedisce di rispondere ad alcune semplici domande?» «Me lo impedisce il fatto che stavo dormendo, e tu ti sei introdotto in casa mia scassinando la serratura. Cosa ti succede, Dragan?» «A me niente, ma il mio capo dovrà trovarsi qualcun altro con cui giocare a biliardo. Hanno appena ripescato Ivan Petrovic dalla Miljacka. Morto e con diverse dita in meno. Perciò, Jack, vecchio amico, sono io quello che deve chiedere a te cosa succede.» Solomon sospirò. «Usciamo sul balcone, vuoi? Non ho voglia di fare conversazione in camera da letto.» Dragan andò a prendere due bottiglie di Heineken in cucina, mentre Solomon scendeva dal letto e apriva il balcone. Si sedettero su due sedie in plastica. Dragan aprì le birre con i denti, quindi ne passò una a Solomon. Bevvero con lo sguardo fisso sul cimitero davanti all'edificio. Solomon si accese una Marlboro, e ne diede una anche a Dragan. «Hai davvero una bella casa» disse il poliziotto. «Lo so.» «Pensi di restare qui, ora che non hai più un lavoro?» Solomon si strinse nelle spalle. Aveva addosso solo i pantaloni del pigiama, ma faceva caldo. Dragan allentò il nodo della cravatta. Aveva l'aria esausta. «Non so. Forse riuscirò a trovare un altro lavoro in città.» «Ma non è questo il motivo per cui sei tornato, vero? Non sei qui per distribuire copie del tuo curriculum.» «Gli mancavano delle dita, hai detto?» «Già. Probabilmente tranciate con una tronchesina. Qualcuno voleva farlo parlare. E deve aver parlato, altrimenti gliele avrebbero tagliate tutte. Cosa volevano sapere, secondo te?» Solomon bevve un lungo sorso di birra, senza rispondere. «Riguarda sempre quella fottuta ragazza, vero?» «Non l'ho ucciso io» disse Solomon, piano. «Non ho detto questo. Con quel gesso, non credo che avresti potuto gettarlo nel fiume. Ma sai chi è stato, ne sono sicuro.» Solomon rimase in silenzio. «Hai idea della posizione in cui mi trovo, ora?» disse Dragan. «Mi hai chiamato in ufficio da Londra, per chiedermi di parlare con Petrovic. E po-
chi giorni dopo lui viene torturato e ucciso.» «Non ti avevo chiesto di parlare con lui, ma solo di dare un'occhiata per vedere se Nicole lavorava in uno dei suoi bar.» «Mi hai messo nei guai, Jack. Credo di avere il diritto di sapere cosa sta succedendo.» Solomon si sfregò il collo. Aveva i muscoli tesi e un inizio di mal di testa. «Cosa sai?» chiese. «Sei tizi mascherati hanno fatto irruzione nel Butterfly, ieri sera. Avevano mitragliette con silenziatore. Delle KGP-9 ungheresi, pensiamo. Hanno sparato a tre uomini di Petrovic. Uno è morto, gli altri due sono gravi. A quel punto è successa una cosa strana.» «Cioè?» «Volevano sapere chi di loro era Petrovic. Nessuno ha detto niente, così hanno tirato fuori una Polaroid e hanno fotografato tutti i presenti. Poi uno di loro ha portato fuori le foto. È tornato due minuti dopo, è andato dritto da Petrovic e gli ha dato una botta in testa con la canna della pistola. Quindi lo hanno trascinato fuori. Fine della storia.» Solomon notò che gli tremavano le mani, mentre accendeva un'altra Marlboro. «Ora» continuò Dragan, «se avevano bisogno di qualcuno che identificasse Petrovic dalle foto, significa che non sono gente di qui, perché Petrovic è una celebrità da queste parti. Ma perché quello che doveva identificarlo non si è messo una maschera e non è entrato con gli altri?» Dragan si chinò a dare un colpetto sul gesso di Solomon. «Perché forse aveva qualcosa che una maschera non poteva nascondere.» Solomon si voltò a fissarlo. «Perché sei qui, Dragan?» chiese. «Mi sembra che tu sappia già tutto.» «Eri lì, vero?» Solomon annuì. Non aveva senso negarlo. «E gli uomini mascherati?» «Uno è un mio amico di Londra. Un altro è uno dei suoi gorilla. Gli altri quattro sono croati. Ex soldati, a mio parere.» «Begli amici ti sei fatto in Inghilterra.» «Lui è di qui. Albanese kosovaro.» «E si chiama?» «Il nome che usa è Sasha. Pensi di arrestarmi?» Dragan vuotò la bottiglia e si diresse di nuovo in cucina. Tornò con altre due Heineken, le aprì e ne diede una a Solomon, poi si rimise seduto.
«Allora?» insistette Solomon. «Vuoi arrestarmi?» «Per cosa?» «Lo sai.» Dragan si strinse nelle spalle massicce. «Nessuno al Butterfly ha parlato di un tizio con la gamba ingessata. Perciò non sei indiziato di nulla.» Bevve un lungo sorso di birra, e si pulì la bocca con il dorso della mano. «Credo proprio che dovresti tenere in casa della birra decente, sai?» «La comprerò. E già che ci sono ti farò anche una copia delle chiavi di casa.» Dragan sorrise. «Dov'è la ragazza?» «In Arizona. Petrovic l'ha mandata lì in un bordello.» «Andrai a cercarla?» «I miei amici passeranno a prendermi domani a mezzogiorno.» «L'Arizona è un posto pericoloso.» «Lo so.» «No, è un posto davvero pericoloso. La legge lì non arriva. È come il selvaggio West.» «Sasha sa quello che fa.» «E tu sai quello che fai?» Solomon si chinò in avanti sulla sedia. «Petrovic ha pagato degli uomini per farmi uccidere» disse, toccandosi il gesso. «Non si trattava di un avvertimento, Dragan. Mi hanno piantato in corpo due proiettili. Se non fosse arrivata la polizia avrebbero finito il lavoro. Hanno cercato di ammazzare anche Sasha. Hanno fatto fuori una delle sue ragazze e una guardia del corpo.» «Non è stato Petrovic. Non ha mai lasciato Sarajevo.» «Ha un socio per i lavori sporchi in Inghilterra. Un russo di nome Goncharov. Anche lui è in Arizona.» «Quindi il tuo nuovo amico domani andrà lì per scatenare una bella sparatoria, giusto?» «Andremo a salvare la ragazza. La testimone oculare.» «Non ti è mai venuto in mente che forse lei non vuole essere salvata?» «È impossibile. La sua famiglia è stata assassinata. Deve volere giustizia.» «A me questa non sembra giustizia. Mi sembra piuttosto una vendetta.» «Il confine è sottile» convenne Solomon. «Ma vorrei davvero vedere gli assassini della famiglia di Nicole davanti al Tribunale per i Crimini di Guerra.»
«Questo Sasha però non lo fa per altruismo, dico bene? Vuole Goncharov.» «Non ho intenzione di versare lacrime sul russo, dopo quello che mi ha fatto. E poi è stato lui a rispedire la ragazza in Bosnia.» Dragan tese la mano e Solomon gli gettò una sigaretta. Lui l'afferrò al volo, se la infilò tra le labbra, e accese un fiammifero con l'unghia del pollice. «Sei davvero sicuro di voler andare fino in fondo?» chiese poi. «Non so spiegare come mi sento, Dragan. È come se fossi intrappolato su un ottovolante da cui ormai non posso più scendere fino alla fine del giro.» «A qualunque costo?» «A qualunque costo.» Dragan appoggiò sul pavimento la bottiglia di birra. «Non mi lasci scelta, allora. Dovrò venire con te.» «Cosa?» esclamò Solomon. «Mi hai sentito. Hai bisogno di qualcuno che si prenda cura di te.» «Ci penserà Sasha.» «Quanto lo conosci?» chiese Dragan. «Come fai a sapere che non abbia altri programmi? Se decidesse di eliminare anche te in Arizona, nessuno potrebbe impedirglielo.» Dragan aveva ragione, pensò Solomon. Sasha aveva già torturato e ucciso Petrovic. E ora si preparava a uccidere Goncharov e i suoi uomini. Avrebbe anche potuto decidere che era meglio non lasciare testimoni in giro. «E come faccio a spiegare a Sasha la tua presenza? Non credo che vorrà un poliziotto alle costole.» Dragan sorrise. «Ovviamente non sarò in divisa, inoltre non dimenticare che ho lavorato per anni sotto copertura, con la polizia federale. Digli che sono un tuo amico della Commissione, preoccupato per la tua sicurezza. So abbastanza del tuo lavoro da poter essere credibile.» «Sei certo di quello che dici, Dragan?» «Se non mi occupo io di te, chi lo farà?» Solomon era sul balcone, con un sandwich all'uovo fritto e una tazza di caffè, quando vide fermarsi sotto casa sua una Range Rover nera e un fuoristrada Toyota blu. Dalla Toyota scese Sasha. Pochi secondi dopo suonò il campanello del portone. Solomon andò al citofono e gli chiese se voleva salire per un caffè, ma Sasha gli rispose di scendere subito. Solomon prese una borsa con un cambio di vestiti, la roba per lavarsi e
scese nell'atrio con l'ascensore. Sasha lo aspettava fuori. Gli tolse di mano la borsa e lo precedette verso la Toyota. «Voglio che venga anche un mio amico» disse Solomon. Sasha si fermò di botto. «Cosa?» «Un mio amico della Commissione.» «Questa non è una gita» disse Sasha. «L'Arizona è terra di nessuno.» «Lui la conosce, c'è già stato.» «Praticamente è zona di guerra» disse Sasha. «Quindi più siamo, meglio è.» «Chi è questo tuo amico?» «Si chiama Dragan. È uno dei nostri esumatori, ma prima era nell'esercito. Ci sarà utile.» «Utile? Non si tratta di una partita a cricket. Stiamo andando in guerra, lo capisci?» «Ascolta, Sasha, tu hai bisogno di me per identificare i due che mi hanno sparato, perché probabilmente sono gli stessi che hanno ucciso il tuo uomo. E io voglio che Dragan venga con noi.» Sasha gli puntò contro l'indice. «Conosco Goncharov, ricordi? E non avrò problemi a farmi dire da lui chi sono i suoi uomini. L'unico motivo per cui fai parte della squadra è che vuoi quella ragazza kosovara.» Solomon gli mise una mano sulla spalla. «Va bene, hai ragione. Sono io ad avere bisogno di te. Non sarei mai riuscito da solo a prendere Petrovic e a farmi dire da lui dove si trova Nicole. So che non potrei mai andare da solo a prenderla in Arizona. Comunque ti chiedo, per favore, di lasciar venire con noi Dragan. Se non altro potrà guardarmi le spalle.» «Non ti fidi di me?» chiese Sasha. Solomon gli tolse la mano dalla spalla. «Non sarei qui, se non mi fidassi di te. Voglio solo dire che se Dragan si occupa di proteggere me, tu puoi contare su un uomo in più.» Indicò la gamba ingessata. «Non sarò di alcuna utilità in una sparatoria. E stavolta non hai autisti. Dragan può guidare una delle auto.» Sasha prese un pacchetto di sigari dalla tasca interna del giubbotto. Ne accese uno. Soffiò una nuvola di fumo bluastro, fissando Solomon con i suoi occhi grigi. Poi sorrise lentamente. «Hai paura, eh?» «Certo, cosa credevi? Nemmeno quando ero un poliziotto mi è capitato di vedere delle mitragliette come quelle che avete usato ieri sera.» «Puoi restare qui a Sarajevo, se vuoi.» «No. Voglio esserci quando troverai Nicole. Lei non sa chi sei o perché
sei lì.» Sasha soffiò un'altra nuvola di fumo. «Se il tuo amico viene, tu sei responsabile per lui.» «Va bene.» Sasha lo fissò con uno sguardo freddo. «Hai capito cosa significa, vero?» disse, con voce priva di emozione. «Se lui fa un casino, ti riterrò responsabile.» «Andrà tutto bene.» Dragan accese una sigaretta e gettò il fiammifero spento dalla finestra. Era la quindicesima che fumava da quando era tornato a casa. Aveva visto le stelle sparire mentre il cielo diventava più luminoso e i primi raggi di sole spuntavano da dietro le colline. Sua moglie era venuta a chiedergli se qualcosa non andava, ma lui l'aveva rispedita a letto, avvertendola prima che sarebbe stato via un giorno o due. Lei non aveva protestato: era la moglie di un poliziotto, e sapeva che le proteste erano inutili. Aveva mormorato qualcosa e lo aveva lasciato solo. Dragan aveva passeggiato per l'appartamento, fumando e maledicendo Jack Solomon per la sua testardaggine. Chiunque altro avrebbe lasciato perdere da un pezzo. Solomon era stato quasi ucciso, eppure era pronto ad andare in Arizona, uno dei posti peggiori del mondo, per salvare una prostituta che forse non voleva neppure essere salvata. «Che tu sia dannato, Solomon» imprecò Dragan ad alta voce. «Dannato e stradannato.» Andò ad aprire l'ultimo cassetto sotto il mobile della tivù. Lì, tra le videocassette pirata, c'era una scatola di plastica con dentro una piccola pistola M70 iugoslava, un set di pulizia, una scatola di munizioni e diversi caricatori. Un souvenir di quando lavorava alla Odjeljenje Za Organizovani Kriminalitec I Droge. Era la sua arma di riserva, che portava in una fondina alla caviglia. Si sedette al tavolino del soggiorno e metodicamente smontò la pistola, la pulì e la rimontò. Infilò otto cartucce nel caricatore e lo spinse dentro. In un mondo perfetto, si sarebbe portato dietro dei caricatori di riserva, ma non aveva senso tenere un'arma nascosta se poi doveva tradirsi con le munizioni che risuonavano in tasca. Andò a prendere la fondina in uno stipo del corridoio, la fissò alla caviglia, quindi abbassò la gamba dei pantaloni e si guardò nello specchio del-
la stanza da letto. Perfetto. Solomon aveva chiamato Dragan al cellulare. Quando arrivarono, lo trovarono in attesa sul marciapiede. «È lui?» chiese Sasha. Dragan indossava un giubbotto impermeabile foderato di pelo, pantaloni marroni e scarpe Timberland. Su una spalla aveva una borsa di nylon verde. Solomon annuì. «Resta qui» disse Sasha. Scese dall'auto, si avvicinò a Dragan e gli strinse la mano. Poi gli indicò la Range Rover con i quattro croati. Dragan salì sull'auto. Sasha tornò sulla Toyota. «Okay, andiamo» ordinò a Rikki, che era al volante. «Perché non l'hai fatto salire qui?» chiese Solomon, mentre Sasha si accendeva un sigaro. «Perché così non dobbiamo preoccuparci di ciò che diciamo.» «Dragan è fidato» protestò Solomon. «Io non mi fido di nessuno» disse Sasha. Diede una pacca sulla schiena a Rikki. «A parte Rikki.» Le due auto lasciarono Sarajevo. Ci misero quasi un'ora ad arrivare a Tuzla. Rikki era un guidatore anche troppo prudente. Controllava lo specchietto retrovisore in continuazione, e si voltava prima di ogni manovra. Parecchie volte Sasha spostò la conversazione su Dragan, con domande apparentemente innocue. Volle sapere come si erano conosciuti lui e Solomon, quanto tempo avevano lavorato insieme, in quali posti erano stati. Sembrava una conversazione casuale, ma Solomon sapeva che Sasha avrebbe rivolto le stesse domande a Dragan e se ci fossero state delle discrepanze avrebbero dovuto dare spiegazioni convincenti. La storia di copertura che avevano concordato era comunque basata sulla verità. L'unica menzogna riguardava il lavoro di Dragan con la Commissione. I croati erano piuttosto taciturni, eccetto quello che si era presentato come Otto, seduto alla destra di Dragan, sul sedile posteriore della Range Rover. Si erano presentati tutti solo con un nome. L'autista, il più grosso di tutti, con una cicatrice sulla guancia sinistra, era Mirko. L'uomo accanto a Mirko era Tafik, ma non si era mai voltato da quando Dragan era salito a bordo, perciò lui non sapeva che faccia avesse. Alla sua sinistra c'era Tomislav, l'unico che gli aveva stretto la mano. Il fiato di Otto puzzava d'aglio e Dragan offrì in giro le sue sigarette, per
coprire quell'odore. Tomislav e Otto tirarono fuori due accendini Zippo con lo stesso stemma. Dragan chiese cosa significasse lo stemma. Otto rispose che era quello della loro compagnia, nell'esercito, senza entrare in particolari. Dragan cercò di non pensare al fatto che si trovava seduto in mezzo a quattro killer addestrati, che solo il giorno prima avevano torturato e ucciso uno dei gangster più spietati del paese. Otto continuava a sorridergli con i suoi denti grigi, e a fargli domande sul suo lavoro alla Commissione. Di tanto in tanto chiedeva particolari specifici: il nome di un ufficiale, l'indirizzo di un ufficio... Dragan fumava e si comportava come se fosse rilassato, ma la sua mente correva a tutta velocità, controllando che ciò che diceva corrispondesse con la storia di copertura. Aveva partecipato a molti interrogatori. Sapeva come riconoscere e come nascondere la menzogna, ma ciò non rendeva la cosa meno stressante. A un tratto Otto gli chiese dell'Arizona. Dragan si sentì subito più a suo agio. C'era stato parecchie volte, quando era nella polizia federale, e una volta quand'era agente in incognito. Il nome derivava dal fatto che quando gli americani erano arrivati nella ex Iugoslavia, avevano trovato impronunciabili i nomi delle strade, così le avevano ribattezzate: la strada principale che collegava la Bosnia alla Croazia era diventata l'Arizona. Il nome era rimasto anche quando le truppe americane se n'erano andate. L'enorme quantità di soldati e di civili che si muoveva lungo quella strada aveva attratto molti liberi imprenditori, che avevano iniziato vendendo cibo, bevande e sigarette, per poi passare a offrire droghe e prostitute. Le poche baracche si erano trasformate in una specie di villaggio che non era segnato su nessuna mappa. I cinesi vendevano vestiti firmati contraffatti e cd pirata realizzati in oriente. I russi vendevano armi e munizioni rubati alla ex armata sovietica. I bosniaci e gli albanesi vendevano ragazze. A poco a poco erano sorte dal nulla altre strade, con bar e bordelli, negozi dove si vendevano eroina e amfetamine sotto l'occhio vigile di gangster armati. Poiché la cittadina era molto vicina al confine tra Bosnia e Croazia, nessuna delle due polizie la riteneva di propria competenza. Molte persone in Arizona sparivano senza lasciare traccia e nessuno andava a cercarle. Auto rubate venivano provviste di targhe nuove, poi inviate in Italia o in Germania. Era possibile ottenere passaporti e visti falsi per qualunque parte del mondo: bastava solo sapere a chi rivolgersi e avere abbastanza soldi.
Commercianti e negozianti di tutta la Bosnia avevano iniziato a recarsi in Arizona per rifornirsi di sigarette di contrabbando e merci contraffatte, approfittando dell'occasione per visitare i bordelli locali. L'Arizona era diventato uno dei maggiori centri dove si vendevano le ragazze all'asta come bestiame. E visti i profitti milionari che la città generava, i poliziotti che cercavano di immischiarsi venivano o corrotti o uccisi. L'operazione in incognito di Dragan, per esempio, era fallita a causa di un ufficiale che prendeva bustarelle dalla Kosovo Liberation Army. Dragan era stato fortunato a salvare la pelle. Da allora non era più tornato in Arizona. Otto continuò a fargli domande, sui trasporti, sulle strade, sulla popolazione e Dragan capì che ormai non si trattava più di un test. Otto voleva quelle informazioni per progettare un attacco militare. I due veicoli raggiunsero la centrale elettrica a carbone alla periferia di Tuzla poco prima delle quattro del pomeriggio. L'autista croato suonò il clacson e Rikki lo lasciò passare avanti. Il croato li guidò fino a un ristorante di fianco alla strada, dove le due auto parcheggiarono. Sasha aprì la portiera e scese. «Mangiamo qui» disse. Diede a Solomon il bastone, e si incamminarono insieme verso il ristorante, un edifico bianco a un solo piano con il tetto di tegole rosse. I croati erano già dentro. Stavano aiutando il padrone a unire due tavoli. Dragan si avvicinò a Solomon, offrendogli una sigaretta. «Come va la gamba?» chiese. «Tutto bene. E loro?» chiese, accennando ai croati. «Gente di poche parole. Non vorrei incontrarli in un vicolo buio.» «Sono dalla nostra parte» disse Solomon. Il padrone, un uomo robusto e calvo con folti baffoni, coprì entrambi i tavoli con una tovaglia bianca. Subito una giovane cameriera in uniforme bianca e nera apparve con cucchiai, forchette e coltelli. Otto le diede una pacca sul sedere e ordinò nove bottiglie di birra locale. Poi Sasha gli fece un cenno e i due uscirono fuori del locale. Arrivarono le birre e tutti brindarono, gridando: «Zivjeli!». Poi la cameriera portò vassoi di pesce affumicato, carni affumicate e formaggio, accompagnati da cestini di pane. «Avanti, mangia!» disse Rikki, dando una gomitata a Dragan, che si limitava a sorseggiare la sua birra. Dragan sorrise e affondò la forchetta nel piatto del pesce. Solomon osservava Sasha e Otto, in piedi accanto alla Range Rover. Erano così vicini
che le loro teste si toccavano quasi. Certamente stavano controllando che la sua storia combaciasse con quella di Dragan. Solomon si sforzò di distogliere lo sguardo, per evitare di sembrare troppo ansioso. Non osava chiedere a Dragan cosa aveva raccontato, per paura che qualcuno degli altri capisse l'inglese. Poteva solo aspettare e sperare. Si chiese cosa avrebbe fatto Sasha, se avesse deciso che le loro storie non corrispondevano. «Forza, Jack» gli disse Dragan, indicando i croati, che mangiavano come se fossero a digiuno da giorni. «Se non ti spicci non resterà nulla per te.» Spinse un piatto verso di lui e gli strizzò l'occhio. Solomon spalmò del formaggio cremoso su una fetta di pane e cercò di mandarlo giù. Mangiare era l'ultima cosa che aveva voglia di fare, ma sapeva che Sasha avrebbe notato ogni segno di nervosismo. Rikki aveva già finito la sua birra e ne stava ordinando dell'altra per tutti, quando Sasha e Otto tornarono. Otto si sedette accanto agli altri croati. Sasha si accomodò tra Solomon e Rikki. «È buono il cibo?» chiese. «Ottimo» rispose Solomon. «Tutto a posto?» Sasha lo fissò per diversi secondi, prima di rispondere: «Tutto a posto». Solomon sentì lo stomaco che si rilassava, quindi allungò una mano per servirsi della carne. «Qual è il piano?» chiese. «Dopo mangiato andremo subito in Arizona. Daremo un'occhiata da fuori. Poi Otto e i suoi entreranno. Noi andremo in un posto dove aspetteremo fino a quando fa buio. Se quella ragazza è lì, la troveremo.» «E Goncharov? Cosa pensi di fare con lui?» Sasha prese all'improvviso l'aspetto di uno squalo pronto a colpire. «Tu cosa credi?» «Credo di essere contento di non trovarmi nei suoi panni.» Sasha rise e gli diede una pacca sulla schiena. Ripeté ai croati ciò che aveva detto Solomon, e tutti risero. Tomislav fece il gesto di tagliarsi la gola con il coltello, e le risate si fecero ancora più forti. Le due auto partirono, la Range Rover davanti e la Toyota dietro. Sasha aveva detto a Dragan di salire a bordo con lui e Solomon, il che significava che aveva superato il test. Proseguirono in silenzio per due ore lungo la strada a una sola corsia, finché Rikki a un tratto annunciò che erano arrivati. Dal finestrino Solomon vide file di baracche di legno ai lati della strada e una quantità di auto parcheggiate.
Passarono davanti ad alcune baracche piene di casse di whisky: Johnnie Walker, Famous Grouse, Suntory. Altre erano ingombre di stecche di sigarette locali e americane. Davanti a una c'erano decine di frigoriferi, televisori, forni a microonde, mentre un'altra offriva ventilatori di diversi colori. Donne cinesi in giubbotti sintetici vendevano fiori di plastica e alberi artificiali, vecchie musulmane sedevano in mezzo a scatole di detersivo in polvere. Alcuni bambini montavano la guardia davanti a mucchi di pezzi di ricambio per automobili, mentre i genitori lucidavano dei motori completi. «Sono stati presi da auto rubate» commentò Dragan. «Qui puoi trovare ricambi di qualunque marca, o puoi anche ordinare l'auto che preferisci. Torni una settimana dopo e la trovi pronta, completa di documenti falsi. Più ti allontani dalla strada, più le merci diventano illegali. Soldi falsi, droghe, armi. Sembra che ci sia un gruppo di russi che può ordinare e far consegnare armi dell'ex esercito sovietico in qualunque parte del mondo. E qui si vendono anche ragazze all'asta.» «Ora non tanto» intervenne Sasha. «La maggior parte delle aste si tengono a Belgrado, perché qui c'erano troppe liti che finivano nel sangue.» Superarono un parcheggio pieno di auto a quattro ruote motrici, tutte usate ma senza targa. I prezzi erano scritti a mano su fogli di cartoncino inseriti sotto i tergicristalli. Un arabo seguito da due guardie del corpo locali andava in giro dando calci alle gomme e scuotendo la testa. «Molte auto finiscono in Medio Oriente» disse Dragan. «Le fanno arrivare via terra, corrompendo qualche doganiere.» Otto si fermò davanti a una baracca che vendeva sigarette. Solomon lo vide abbracciare e baciare sulle guance un uomo barbuto. L'uomo poi abbracciò anche gli altri croati e strinse la mano a Sasha, salutando con un cenno del capo Dragan e Solomon. Li condusse in una stanza con un frigorifero sussultante, un tavolo di formica e una dozzina di sedie. Sasha si sedette a capotavola, con il barbuto a sinistra e Rikki a destra. Rikki aveva in mano una grossa busta gialla. Gli altri si sedettero tutti intorno. «Lui è Bruno» disse Sasha a Solomon, indicando il barbuto con un gesto del pollice. «Conosce il posto dove siamo diretti. La cattiva notizia è che il bordello appartiene a Petrovic, ma la buona notizia è che Petrovic non è più tra noi e non potrà romperci le palle.» Solomon ricordò di fingere sorpresa, perché ufficialmente lui non sapeva della fine del gangster. «Chi è Petrovic?» chiese Dragan.
«Non c'è bisogno che tu lo sappia» commentò Sasha. «Ci siamo già occupati di lui.» Tese la mano e Rikki gli passò la busta. Sasha l'aprì e ne tirò fuori il contenuto. Si trattava delle foto di Goncharov scattate da Alex Knight a Londra. «Questo è l'uomo che cerchiamo. Si chiama Sergei Goncharov, è un russo. Sarà protetto da almeno due uomini, forse più. Di loro non abbiamo foto, ma Jack li ha visti da vicino.» Solomon fece una descrizione accurata dei due uomini che si erano introdotti nel suo appartamento a Londra. Quando finì, Sasha passò in giro le copie della foto di Nicole che gli aveva dato Solomon. «Questa ragazza è in quel bordello. Dobbiamo portarla via.» Tomislav disse qualcosa e Mirko rise, mostrando due denti di metallo. «Tra noi dobbiamo parlare solo inglese» fece Sasha, «così possiamo capirci tutti.» «Stavo solo dicendo che è carina» disse Tomislav. «Carina o orrenda, dobbiamo prenderla e portarla con noi. Quella foto risale a tre anni fa. Lei ora ha i capelli neri o castani.» Solomon tirò fuori la foto di Nicole che aveva stampato dalla pagina web dell'agenzia, e la diede a Sasha. «Questo è il suo aspetto attuale» disse. «L'hanno tolta dal sito dopo la mia visita.» Sasha fece circolare la foto, poi disse: «Ecco come ci muoveremo: Goncharov conosce me, Rikki e Jack. Noi quindi staremo fuori fino all'ultimo momento. Otto, tu e i tuoi ragazzi entrerete tra un po'. Date un'occhiata in giro e vedete se riuscite a localizzare Nicole e Goncharov.» «E io?» chiese Dragan. «Goncharov non mi conosce.» «Questo è un posto pericoloso, se uno non si sa muovere. Il tuo amico ha rischiato la pelle, a Londra, per aver fatto le domande sbagliate. Se l'avesse fatto qui, ora sarebbe morto.» «Non sarebbe la prima volta che entro in un bordello» insistette Dragan. Sasha lo fissò a lungo, poi annuì lentamente. «Okay, entri anche tu, ma da solo. Se ci sono dei problemi, dovrai risolverli da te.» Si rivolse a Otto: «Tu non correre rischi per lui». «Va bene.» «Niente armi» ordinò Sasha. «Dovete solo dare un'occhiata. Siete operai in viaggio verso Sarajevo. Non fate domande, non mostratevi curiosi.» «E se il russo non c'è?» chiese Tomislav. «Allora continueremo a tornare finché non ci sarà» rispose Sasha. «Ma dobbiamo assolutamente evitare di fare domande.» «Perché si trova qui?» chiese Dragan.
«Ha detto a Petrovic che veniva ad acquistare delle ragazze» spiegò Sasha. «Ma la verità è che è fuggito da Londra perché sa che lo sto cercando.» «E perché lo cerchi?» chiese Dragan. Sasha si alzò, spingendo indietro la sedia, e in un attimo aveva la pistola puntata contro Dragan. «Sasha!» gridò Solomon, cercando di alzarsi, ma Tomislav lo spinse giù. «Fai troppe domande, lo sai?» sibilò Sasha, tagliente. «Voglio solo sapere in cosa ci stiamo ficcando» disse Dragan, impassibile. «Non sono affari tuoi. Se non ti va, tornatene a Sarajevo.» Indicò Solomon. «Sei qui solo perché lui ti ha voluto.» Dragan infilò la mano in tasca, e tirò fuori sigarette e fiammiferi. Se ne accese una con mani che non tremavano e gettò il pacchetto a Solomon. «Non voglio interferire» disse poi. «Ma se non so qual è la situazione, potrei fare qualche mossa sbagliata.» «Sasha, metti giù la pistola» intervenne Solomon. «È colpa mia, non gli ho detto quasi nulla.» Sasha continuò a fissare Dragan, poi appoggiò la pistola sul tavolo e tornò a sedersi. «Goncharov ha cercato di uccidermi. Non ci è riuscito, ma ha fatto fuori un mio amico e una delle mie ragazze.» «Quindi tu sei qui per ucciderlo?» «Dragan, lascia perdere» intervenne Solomon. Dragan si voltò a guardarlo. «Se lui scatena una sparatoria, noi diventiamo suoi complici» disse. «Goncharov è un gangster. Ha cercato di far uccidere anche me. E comunque se anche noi due non fossimo qui in questo momento, tutto questo accadrebbe ugualmente. Giusto, Sasha?» «Giusto» rispose Sasha. «Benissimo, allora» disse Dragan, sorridendo. «Scusate per l'interruzione.» Tomislav e Otto presero la Range Rover. Dragan salì sulla Toyota con Mirko e Tafik. Erano circa le sei e il cielo cominciava a scurirsi. Seguirono la strada principale per un paio di minuti, poi voltarono a sinistra, procedendo a passo d'uomo lungo una stradina piena di buche. Passarono accanto a un recinto contenente materiali da costruzione e videro la Range Rover fermarsi davanti a un edificio a tre piani, con il tetto blu. Il par-
cheggio era circondato da una rete metallica di cinque metri. All'ingresso c'era una garitta di cemento davanti alla quale stazionavano due guardie di sicurezza. «Questo è il posto» disse Mirko a Dragan, in serbocroato. «Ci sei già stato prima?» Mirko scosse la testa. «Visto uno, visti tutti.» Aspettarono che Tomislav parcheggiasse e lo videro bussare alla porta del bordello ed entrare, seguito da Otto. «Ora scendi ed entra da solo» disse Mirko a Dragan. «Noi ti seguiremo tra un quarto d'ora. Non guardarci, non rivolgerci la parola. Ci sono due tipi di ragazze, lì dentro: le ballerine, che si portano i clienti di sopra, al secondo piano e le ragazze dell'ultimo piano, che non scendono mai.» «Cosa vuoi dire?» chiese Dragan. «Voglio dire che non ballano, non bevono con i clienti, non parlano. Scopano soltanto. Tu dici a un cameriere quello che vuoi e sali. Se quella che cerchiamo non è in sala, potrebbe essere all'ultimo piano.» «Le ragazze di sopra costano meno?» «Dipende.» «Da cosa?» «Da quello che vuoi fare con loro. Ora scendi, non ho tempo di farti una lezione.» Dragan scese dalla Toyota e si incamminò verso l'edificio. Le finestre al pianterreno avevano i vetri oscurati ed era impossibile vedere cosa accadeva all'interno. Al primo piano c'erano scuri di legno, mentre al secondo le finestre erano chiuse, con le tende tirate. Rivolse un cenno di saluto alle guardie, poi si avvicinò all'ingresso. Le auto parcheggiate erano di tutti i tipi, dalle Mercedes ultimo modello ai furgoni da lavoro. Dragan bussò alla porta. Un uomo muscoloso in maglietta grigia e pantaloni neri lo fece entrare. C'erano tre piattaforme, su ognuna delle quali danzavano quattro ragazze, ciascuna attorno a un palo argentato. Erano tutte giovanissime. Altre ragazze erano sedute sui divani o ai tavolini vicino alle finestre. In tutto dovevano essere una trentina. Quelle che non ballavano fumavano, come quasi tutti i clienti. Dragan si sedette su un divano libero. Subito gli si avvicinò un cameriere in jeans neri e polo. Dragan ordinò una birra e si accese una sigaretta. Tomislav e Otto erano a un tavolo con due bionde dai capelli tinti. Tre uomini in tute macchiate d'olio bevevano slivovitz al banco, ridendo
rumorosamente. Altri cinque o sei in maglioni sformati fissavano le ballerine. Una ragazza e un cliente emersero da una porta a sinistra del bancone. Lei andò a sedersi a un tavolo e scroccò una sigaretta a un'amica. Lui uscì dal bordello sistemandosi la patta dei pantaloni. «Vuole una ragazza?» chiese il cameriere. «È per questo che sono qui.» Il cameriere si avvicinò a un gruppo di ballerine. Pochi secondi dopo tutte e quattro erano in fila davanti a Dragan, in pose provocanti. Erano tutte in bikini, con corte vestagliette color pastello. Nicole non era tra loro, né da nessun'altra parte del locale. Dragan ne indicò due. «Porti loro da bere» disse al cameriere, mentre le ragazze che aveva scelto si accomodavano accanto a lui sul divano. Dragan iniziò a chiacchierare con loro, ispezionando la sala con lo sguardo mentre parlava. A un tavolo vicino al bar erano seduti tre uomini che dovevano essere della sicurezza, tutti in giacche di pelle nera. Ogni volta che si chinavano in avanti, Dragan scorgeva per un attimo le pistole. Le ragazze avevano chiesto della vodka, ma la velocità con cui la bevevano faceva supporre che si trattasse solo di acqua. Dragan offrì loro da fumare, stupendole con la tecnica di accendere i fiammiferi con l'unghia del pollice. Le ragazze risero e gli fecero ripetere il trucco diverse volte. «Non è difficile» disse Dragan, «ma ci vuole esperienza.» «Proprio come la lap-dance» disse una di loro e tutte risero. Dragan finì la sua birra e ne ordinò un'altra. In quel momento entrarono Mirko e Tafik. Andarono a sedersi a un tavolo davanti a una delle piattaforme. «Andiamo di sopra?» chiese a Dragan una delle ragazze. Si chiamava Angelica e prima lavorava in una fabbrica di scarpe. Dragan bevve un sorso di birra. Durante tutto il tempo in cui era stato lì, dalla porta accanto al bar erano entrate e uscite parecchie ragazze con dei clienti, ma Nicole non era apparsa. Probabilmente doveva essere al secondo piano. Mentre Angelica gli mordicchiava l'orecchio, Dragan pensò che l'unico modo di salire di sopra era con una ragazza. Ma in quel caso, avrebbe dovuto fare qualcosa con lei. Otto e Tomislav gli passarono davanti. Tomislav aveva la mano sul culo di una ragazza. Otto ne abbracciava un'altra. Si fermarono al banco, diedero dei soldi al barista e si avviarono di sopra. «Posso fare tutto» gli sussurrò Angelica. «Tutto quello che vuoi.»
Dragan le diede un colpetto sul ginocchio. «Va bene, andiamo.» «Un'ora?» chiese lei. «Mezz'ora.» «E io?» chiese l'altra, di cui Dragan non ricordava il nome. «Una è abbastanza, per me» disse Dragan, e la ragazza si allontanò. Dragan e Angelica si avvicinarono al banco. Il barman chiese a Dragan cinquanta marchi convertibili, e consegnò ad Angelica una chiave con un numero. Lei prese Dragan per mano e lo condusse di sopra. Il pianerottolo era coperto da una moquette consunta. Alle pareti erano appesi mazzi di fiori secchi. Angelica aprì una porta e fece entrare Dragan in una stanzetta con dentro un letto singolo, illuminata da una lampadina nuda a basso voltaggio. Le lenzuola erano grigiastre e macchiate, alla spalliera era appesa una busta di plastica. Sulle pareti c'erano poster turistici di vari paesi: Turchia, Grecia, Olanda e Svizzera. Angelica si tolse la vestaglia e il bikini, e Dragan le disse di sedersi sul letto davanti a lui. «Non ti spogli?» chiese la ragazza. Dragan scosse la testa. Lei sorrise e gli abbassò la cerniera dei pantaloni. Infilò una mano nella busta di nylon appesa al letto e ne tirò fuori un preservativo. Lo aprì con i denti e si mise al lavoro. Mentre la testa di Angelica andava su e giù, Dragan fissava il poster della Svizzera. Uno chalet tra montagne coperte di neve. Una coppia felice in tenuta da sci che brindava con bicchieri di vino rosso. Chissà se Angelica sarebbe mai riuscita ad arrivare in posti del genere, o se sarebbe restata in quel bordello fino a quando non avesse avuto più nulla da offrire, per poi tornare a lavorare nella fabbrica di scarpe. Dragan sentì le mani della ragazza che gli accarezzavano le cosce. Chiuse gli occhi e si concentrò. L'orgasmo arrivò in pochi secondi. Angelica gli tolse il preservativo. Lui tirò su la cerniera e si avviò verso la porta. «Non vuoi scopare?» chiese lei. «Devo andare» rispose Dragan, e uscì rapidamente, chiudendosi la porta alle spalle. Controllò che non ci fosse nessuno in giro, poi salì al secondo piano. Di sopra, il pavimento del corridoio era di cemento. C'erano pesanti porte di legno chiuse da spranghe di ferro sopra e sotto. Le spranghe della prima porta a sinistra erano aperte, e da dentro la stanza si udivano grugniti e insulti. La stanza accanto aveva le spranghe chiuse, il che significava che la ragazza non era occupata. Dragan le aprì ed entrò, chiudendosi la porta
alle spalle. La stanza puzzava di sudore stantio, e la ragazza grassottella seduta sul letto a testa china non era Nicole. Appena vide Dragan si stese sulla schiena a gambe aperte, con un braccio sopra la faccia. Dragan osservò la stanza. C'era una porta che conduceva in un minuscolo bagno. Sul pavimento c'era un piatto di metallo con degli avanzi di cibo e una fetta di pane stantio. La finestra era sbarrata da assi di legno. Dragan uscì e aprì la porta successiva. Sul letto c'era una rossa che piangeva contro il cuscino, sussurrando: «Mamma, mamma». Dragan non poteva vederla in faccia, ma la corporatura non era quella di Nicole. Le due stanze successive, da un lato e dall'altro, erano occupate. Da una proveniva distintamente un rumore di schiaffi. Dragan represse il desiderio di entrare e dare una bella lezione al cliente, ma passò oltre in silenzio. Nella stanza alla sua sinistra trovò una ragazza sdraiata sulla schiena, con le braccia intrecciate sul petto. Respirava pesantemente, come se dormisse, ma aveva gli occhi aperti. Una catena correva dal suo polso sinistro alla testiera del letto. Dragan aprì del tutto la porta e lei si voltò a fissarlo, con occhi privi di espressione. Era Nicole. «Che cavolo stai facendo?» chiese una voce rauca, in bosniaco. Dragan chiuse la porta, e si trovò davanti un uomo alto, con cicatrici di shrapnel sulla guancia e sul collo. L'occhio destro era bianco latte, e gli mancava un pezzo di orecchio. Dalla giacca di pelle, Dragan lo riconobbe come uno dei tre che aveva visto in sala. Dragan lo fissò, impassibile. «Guardo la merce» disse. «La merce si guarda al pianterreno.» «Mi hanno detto che le ragazze quassù sono speciali.» «Cosa vuoi dire?» chiese l'uomo, fissandolo attraverso gli occhi socchiusi. «Voglio dire che a me piace maltrattarle un po'.» «Ah, ti piace il gioco duro, eh?» disse l'uomo, con un sorriso crudele. «Be', questa qui ti farà divertire. È fatta fino agli occhi.» «Come si chiama?» «Quassù non hanno nomi» disse l'uomo, sprezzante. «Solo un numero sulla porta.» Dragan guardò la porta che aveva aperto. Era la numero trentotto. «Se vuoi divertirti con lei, devi pagare di sotto.» «E posso farle quello che mi pare?» «Si lamentano per i primi due o tre giorni, poi capiscono che è meglio
non dire niente. Ti piacerà, vedrai. E con la quantità di ecstasy che le diamo, magari piacerà anche a lei.» Dragan scese di sotto. Angelica era al bar. Parlava con uno dei barman. «Dov'eri?» gli chiese. «In bagno.» «Ti è piaciuta?» chiese il barman, indicando Angelica con un cenno del capo. «Eccellente» rispose lui, strizzando l'occhio. «Il miglior pompino della mia vita.» Mentre si voltava per poco non andò a sbattere contro un uomo dal ventre enorme. Mormorò le sue scuse, ma l'uomo lo spinse da parte e si allontanò. Aveva un naso piatto, con le narici larghe, e le labbra sottili e pallide. Goncharov. Era seguito da vicino da due uomini alti e grossi quanto lui, ma con muscoli al posto del grasso. Uno fissò Dragan con uno sguardo minaccioso, poi tutti e tre si avviarono di sopra. Mirko e Tafik erano seduti al banco, bevendo birra e occhieggiando due bionde che ballavano in topless. Dragan andò a sedersi accanto a Mirko. «Lo hai visto?» mormorò, quasi senza muovere le labbra. Mirko annuì e gli voltò le spalle, mettendosi a parlare con Tafik. «Ho trovato la ragazza» mormorò Dragan dietro di lui, e sorrise vedendolo irrigidirsi. Si era fatto buio e Bruno aveva portato nella stanza sul retro due lampade a petrolio, oltre a un piatto di panini al formaggio e varie bottiglie di Heineken. Mentre Sasha, Rikki e Solomon si servivano, Bruno inchiodò alla parete una lavagna bianca, con sotto una piccola mensola che conteneva tre pennarelli di colori diversi. Solomon aveva appena attaccato il secondo panino quando udì un'auto che si fermava davanti alla baracca. Rikki e Sasha estrassero le pistole e corsero fuori, ma tornarono pochi secondi dopo, seguiti da Dragan, Mirko e Tafik. «Sono dentro» informò Mirko, allungando la mano verso una bottiglia di birra. «Goncharov e due gorilla. Somigliano alla tua descrizione» disse rivolto a Solomon. Sasha e Rikki appoggiarono le pistole sul tavolo. Tafik prese una birra, un panino e si sedette. «Anche la ragazza è lì» disse Dragan. «Ne sei sicuro?» chiese Solomon.
Dragan gli rivolse uno sguardo sarcastico. «Secondo piano, stanza trentotto, incatenata al letto.» «Incatenata?» «Lo fanno, a volte» disse Sasha. «Se la ragazza si rivela difficile.» «È anche drogata.» Sasha si sedette e tirò fuori un sigaro. Dragan si chinò verso di lui, poi accese un fiammifero con l'unghia del pollice. Sasha accese il sigaro e lo ringraziò con un cenno del capo. «Dove sono Otto e Tomislav?» «Sono andati di sopra con due ragazze» disse Dragan. «Saranno qui tra poco» spiegò Tafik. «Cominciamo» fece Sasha. Si alzò in piedi, prese un pennarello nero e lo diede a Mirko. Sul lato sinistro della lavagna, Mirko tracciò una piantina del pianterreno del bordello, con tutte le porte, le finestre e i muri interni. Disegnò anche le piattaforme, i tavoli e i divani. Un lavoro professionale, in scala quasi perfetta. Sulla destra fece uno schizzo del primo piano, mostrando le scale e le porte delle stanze. Poi Sasha chiese a Dragan di disegnare la pianta del secondo piano. Su una delle porte Dragan scrisse il numero trentotto. «È qui che si trova la ragazza» disse. «Le finestre di tutte le stanze sono sbarrate da assi inchiodate, e le scale sembrano l'unica via d'accesso.» Udirono frenare un'auto. Rikki usci dalla stanza, con la pistola in mano, tornando pochi secondi dopo con Otto e Tomislav. Otto si avvicinò subito alla lavagna, studiando i disegni con attenzione. «Ottimo lavoro» commentò. «Qual è il piano?» Sasha prese un pennarello rosso e si avvicinò alla lavagna. Solomon rivolse a Dragan uno sguardo ansioso, ricevendo in risposta un sorriso e una strizzata d'occhio. Non si sentiva affatto sicuro di sé, ora che si avvicinava la parte più difficile. Solomon pigiò sull'acceleratore e Sasha gli sorrise. «Vedi? Puoi farcela benissimo» disse. Si accese un sigaro e ne offrì uno anche a lui. «Preferisco le mie Marlboro» fece Solomon. Quando Sasha gli aveva suggerito di guidare una delle auto, gli era sembrata un'idea assurda, ma Sasha gli aveva fatto notare che la Range Rover aveva il cambio automatico e la pedaliera era abbastanza ampia per il suo gesso. Infatti, con il sedile tirato indietro al massimo, Solomon non aveva problemi a guidare. Sasha aveva ordinato a Dragan di guidare la Toyota, il che aveva portato
a una discussione breve ma accesa. Dragan voleva entrare nel bordello con i croati, ma Sasha glielo aveva impedito, e ora Dragan sedeva al volante dell'auto, scuro in viso. Accanto a lui c'era Rikki, con Otto e Tomislav sul sedile di dietro. Gli altri quattro erano sulla Range Rover. «Andiamo» ordinò Sasha. Fece un cenno a Dragan, il quale accese i fari e partì. Solomon attese quasi un minuto prima di andargli dietro. Ai piedi di Sasha c'era una borsa nera con dentro tre mitragliette. La quarta la teneva Rikki tra le mani. I croati avevano grosse pistole automatiche sotto i giubbotti, mentre Sasha portava un revolver. Dragan non aveva ricevuto nessuna arma, e quando ne aveva chiesto la ragione, Sasha gli aveva risposto che le armi erano per i professionisti. Solomon svoltò sulla pista sterrata che portava al bordello. Quasi tutte le baracche erano chiuse, ma alcune erano ancora aperte, illuminate da lampade a petrolio. I gestori, infagottati in grosse giacche a vento e berretti di lana, chiacchieravano animatamente tra loro e bevevano whisky direttamente dalle bottiglie. Solomon vide la Toyota che parcheggiava davanti al bordello. Otto e Tomislav scesero e si diressero verso la porta, mentre Rikki e Dragan restarono in macchina a fumare. Solomon si fermò davanti alla garitta dei guardiani, i quali sembravano più interessati alla partita di calcio che stavano guardando su un televisore portatile che a ispezionare gli occupanti della Range Rover, e fecero loro segno di passare. Accanto al televisore, Solomon vide due fucili a canne mozze. «Andrà tutto bene, Jack» disse Sasha. «Certo.» «Respiri come una locomotiva.» «Non hai visto quei fucili?» «Non preoccuparti. Probabilmente non ci sentiranno neppure, e comunque appena vedranno queste» sorrise Sasha, dando un colpetto alla sacca, «taglieranno la corda in fretta. I fucili a canne mozze oltre i quindici metri servono a poco.» Solomon parcheggiò lontano dalla Toyota. Mirko e Tafik scesero e si avviarono verso la porta. Bussarono e pochi secondi dopo scomparvero all'interno dell'edificio. Sasha appoggiò il telefonino sul cruscotto, aspirò una lunga boccata dal sigaro, e si rilassò contro lo schienale. Sembrava calmissimo.
Otto bevve metà della sua birra in un sorso solo. Tomislav fissava una bionda dai seni grandi, che si leccava il labbro superiore in modo allusivo. Otto gli diede una pacca sulla schiena e scese dallo sgabello. «Ci vediamo dopo» disse. Tomislav annuì. «Divertiti.» Prese il cellulare e lo appoggiò accanto alla birra. Otto fece un cenno a uno dei baristi, un uomo dai capelli grigi e dai folti baffi neri, quindi si chinò verso di lui per farsi udire al di sopra della musica a tutto volume. «Un mio amico mi ha detto che di sopra c'è una ragazza che io potrei... maltrattare un po'» urlò. Goncharov era seduto a un tavolo. Parlava con un uomo magro con un occhio spento e mezzo orecchio mancante. Le sue guardie del corpo erano a un altro tavolo, e bevevano un whisky con due uomini della sicurezza del bordello. Il barista scoprì i denti in un largo sorriso. «Basta pagare, e puoi maltrattarle quanto ti pare, amico. Soltanto non ucciderle. Se le uccidi, il prezzo sale.» «Quella che dico io dovrebbe essere nella stanza trentotto» precisò Otto. «Oh certo. È abbastanza popolare. Sai, ha appena compiuto diciannove anni. Puoi farle tutto quello che vuoi.» «Il mio amico mi ha detto che per un'ora sono cento marchi.» Otto consegnò i soldi al barista. L'uomo li prese e indicò la porta. «Divertiti. Cerca di non lasciarle troppi segni. E se la fai sanguinare dovrai pagare una differenza.» Otto salì le scale in fretta, trovò la stanza e aprì la porta. La ragazza era stesa su un fianco, con i capelli sul viso. Otto le si avvicinò e scostò i capelli, per guardarla bene. Era Nicole. Lei aprì gli occhi. «Non farmi del male» implorò con voce impastata. «Non preoccuparti, sorellina» sussurrò Otto, accarezzandole una guancia. «Non siamo venuti per farti del male.» Nicole chiuse gli occhi, e slacciò la cintura della vestaglia, che si aprì, rivelando i seni. Otto gliela rimise addosso. «Non c'è bisogno di spogliarsi, sorellina.» Tirò fuori dal giubbotto un paio di tronchesine, con le quali recise la catena vicino al polso. Tomislav si voltò sullo sgabello e bevve un sorso di birra. Goncharov era ancora seduto allo stesso tavolo, mentre le sue guardie del corpo stavano ancora bevendo whisky. Tomislav vide entrare Mirko e Tafik, con le
facce dure. Si guardarono intorno. Mirko indicò il russo con un cenno del capo. Tafik ispezionò la stanza con un'occhiata circolare, poi i due andarono a sedersi su un divano. Il cellulare di Tomislav emise un segnale. Si trattava di un SMS di Otto: «Ho la ragazza» diceva soltanto. Tomislav si alzò e fece un cenno a Mirko. Mirko si alzò e andò verso il corridoio, tirando fuori di tasca un passamontagna di seta. Lo indossò, estrasse la pistola e la sollevò in aria. Tomislav indossò la sua maschera mentre si dirigeva verso il tavolo di Goncharov. Prese la pistola da sotto il giubbotto e la puntò alla testa del russo, urlando nello stesso tempo alle guardie del corpo di non muoversi. «Tutti a terra!» gridò Mirko, prima in serbo-croato, poi in inglese. Anche Tafik aveva indossato la maschera, e si alzò tenendo la pistola con entrambe le mani. «Mani sul tavolo!» urlò Tomislav alle guardie del corpo. «Mani sul tavolo, o gli faccio saltare la testa!» Gli uomini obbedirono. Uno disse qualcosa all'altro in russo. «Un'altra parola e premo il grilletto!» gridò Tomislav. I clienti e le prostitute si stavano gettando sul pavimento. Parecchie ragazze piangevano. «Obbedite senza discutere, e nessuno si farà male» disse Mirko. Tomislav prese il suo telefonino con la mano sinistra. Il cellulare di Sasha squillò due volte, poi tacque. «Ci siamo» scattò lui. «Qualunque cosa accada, tu resta qui finché usciamo. Se te ne vai, prometto che ti troverò e ti ucciderò.» «Sasha, non c'è bisogno di parlare così» disse Solomon. «Dico sul serio» soffiò Sasha, puntandogli contro un dito ammonitore. «Questo non è uno scherzo.» «Credi che non me ne sia accorto?» Sasha aprì la portiera e scese dall'auto, portandosi dietro la borsa con le armi. Dall'altra parte del parcheggio, Rikki scese dalla Toyota. Aveva il passamontagna in testa, ma arrotolato, come se fosse un berretto. Si avviò di corsa verso l'ingresso e arrivò insieme a Sasha. Aprì il giubbotto, prese la mitraglietta e tirò giù il passamontagna. Sasha aveva già il volto coperto. Aprì la borsa, ne estrasse una mitraglietta e tolse la sicura. Poi fece un cenno d'assenso a Rikki. Rikki batté con il palmo della mano sulla porta. Mirko venne ad aprire. Rikki entrò con l'arma in pugno, seguito da Sasha. Mirko richiuse la porta. Sasha diede la sua mitraglietta a Mirko e si diresse verso il tavolo di
Goncharov. A metà strada si fermò un attimo per dare un'altra mitraglietta a Tafik, il quale si infilò la pistola nella cintura e afferrò la nuova arma con entrambe le mani. Un cliente in tuta da lavoro bisbigliò qualcosa all'orecchio di una ragazza. Tafik gli si avvicinò e gli diede un calcio tra le scapole. «Silenzio!» urlò. Rikki si muoveva attraverso la sala, distribuendo calci e minacciando chiunque facesse il più piccolo movimento. Sasha si avvicinò a Goncharov, consegnò la borsa a Tomislav, ed estrasse il revolver. «In piedi» intimò al russo. Goncharov spinse indietro la sedia e si alzò con le mani in alto. Tomislav prese la quarta mitraglietta dalla borsa e la puntò contro le guardie del corpo di Goncharov. Sasha ordinò anche a loro di alzarsi, poi indicò la porta che portava di sopra. «Salite» disse, rivolto a Goncharov e alle guardie del corpo. Tomislav li perquisì tutti e tre, disarmandoli e togliendo i caricatori dalle loro pistole. «Questo posto non è mio» disse Goncharov. «Io non c'entro niente.» Rikki si avvicinò, premendogli la canna della mitraglietta nella schiena e spingendolo su per le scale. Sasha disse ai due gorilla di seguire il loro capo e salì dietro di loro, tenendoli sotto tiro. Tomislav si fermò al primo piano, mentre Sasha e Rikki portavano i tre prigionieri fino al secondo. Trovarono la stanza numero trentotto, Rikki bussò tre volte. Otto aprì la porta. Anche lui era mascherato, con la pistola in pugno. La ragazza era rannicchiata sul letto, con gli occhi chiusi. «Sta bene?» chiese Sasha. «Dorme» disse Otto. «È completamente fatta.» «Portala giù» ordinò Sasha. Otto si caricò senza sforzo la ragazza sulle spalle, e uscì dalla stanza. Sasha ordinò ai tre uomini di entrare, con le mani sulla testa. Rikki entrò per ultimo e chiuse la porta. «In ginocchio» ringhiò Sasha a Goncharov. «Vaffanculo,» Sasha prese di tasca un silenziatore e lo avvitò sulla canna del revolver. «Ti ho già detto che questo posto non è mio» ribadì Goncharov. «Sono soltanto un ospite.» «Lo so chi sei» sibilò Sasha, scoprendosi il volto. «Tu!» esclamò Goncharov. «Sei stato tu a fare irruzione nel mio ufficio, vero?»
«La puttana ti ha chiamato, vedo. Comunque non mi sono limitato a un'irruzione. Ti ho preso tutto. Ora la tua attività è mia, pezzo di merda. Inginocchiati.» «Vaffanculo.» «Come preferisci.» Sasha puntò la pistola al petto del russo, premendo il grilletto tre volte. Il silenziatore ridusse gli spari a degli schiocchi attutiti, come lo scoppiare di un palloncino. Il russo cadde all'indietro sul letto, facendo cigolare le molle. Rimbalzò di nuovo su e giù, poi restò immobile come una balena arenata sulla spiaggia, mentre il sangue si allargava sulla camicia. Rikki sferrò un calcio alle gambe di uno dei gorilla, facendolo cadere a terra. Sasha disse all'altro di inginocchiarsi. Quello ubbidì prontamente. I due si trovarono in ginocchio l'uno accanto all'altro, con le teste chine come se stessero per ricevere la comunione. «Era vostro padre?» chiese Sasha. I due uomini scossero la testa, senza però alzare lo sguardo. «Vostro fratello? Cugino?» Altri segni negativi. «Insomma, non era un vostro parente, ma solo un datore di lavoro?» I due annuirono. Il più grosso si fece il segno della croce e borbottò qualcosa in russo. «Allora non gli dovete nulla. Ora è morto, trovatevi qualcun altro per cui lavorare.» I due alzarono gli occhi di scatto, confusi. «Se vi lascio vivere, voglio che vi occupiate di portare via il cadavere, e di seppellirlo dove nessuno lo troverà mai.» Il grosso tornò a farsi il segno della croce. L'altro fissava Sasha, incapace di credere alle proprie orecchie. «Capito? Voglio che non sia trovato.» Entrambi annuirono energicamente. Sasha si tirò il passamontagna sul viso e si voltò per uscire, ma Rikki gli appoggiò una mano sulla spalla. Sasha lo fissò e vide la preoccupazione nel suo sguardo. Risparmiare la vita a Goncharov, la prima volta, aveva portato alla morte di Karic e Katrina. Stava per commettere di nuovo lo stesso errore? Imprecando sottovoce si voltò e con un solo gesto fluido sparò alla fronte dei due uomini ancora inginocchiati. Sangue e materia cerebrale schizzarono sulla parete, mentre i due cadevano all'indietro, con la bocca aperta.
Rikki annuì in segno di approvazione, poi aprì la porta. Solomon tamburellava con le dita sul volante. Guardò l'orologio. Sasha era dentro da poco più di cinque minuti. Nella Toyota, Dragan fissava intensamente la porta del bordello. Solomon era contento della sua presenza, ma non capiva come mai il poliziotto fosse disposto a rischiare tanto per aiutarlo. Se i suoi capi avessero scoperto che era implicato in quel raid, non solo avrebbe perso il lavoro, ma sarebbe finito in galera per parecchi anni. Sasha voleva uccidere Goncharov, e anche se il russo era un criminale, un omicidio restava sempre un omicidio. La porta del bordello si aprì, interrompendo i suoi pensieri. Era uno dei croati, mascherato e con la mitraglietta puntata in alto. Controllò il parcheggio, poi tenne aperta la porta. Un altro uomo, con una donna sulle spalle, uscì di corsa. Solomon riconobbe Otto, che portava Nicole. Otto si diresse verso la Range Rover, mentre un altro uomo uscì e corse verso la Toyota. Tomislav. Dragan aveva già aperto la portiera. Il croato salì davanti. Solomon accese il motore e si voltò a guardare la garitta. Non c'era traccia delle guardie: probabilmente erano dentro, a guardare la tivù. Sasha uscì e infilò la pistola nella fondina mentre correva verso la Range Rover, seguito da Rikki, con la mitraglietta in pugno. L'uomo che aveva aperto la porta sembrava Mirko. Solomon lo vide voltarsi verso l'interno del bar, mentre un'altra figura uscì sulla soglia. Tafik. I due tenevano sotto mira la gente dentro il bordello. Otto raggiunse la Range Rover, gettò Nicole sul sedile posteriore e salì accanto a lei. «Sta bene?» chiese Solomon. Otto si tolse il passamontagna, usandolo per asciugarsi il sudore dalla fronte. «È drogata e sfinita. Ma si riprenderà.» Si tolse il giubbotto e lo sistemò sulle spalle della ragazza, poi si sfilò la fondina e la sistemò accanto a sé sul sedile. Sasha salì davanti, togliendosi il passamontagna. La sua mano destra era macchiata di sangue. «Andiamo via» ordinò. Solomon innestò la marcia e si diresse verso l'uscita del parcheggio, mentre la Toyota andava a prendere Mirko e Tafik sulla porta del bordello. Quando furono davanti al cancello le mani di tutti erano sulle armi, ma le guardie alzarono la barriera senza degnarli neppure di un'occhiata. La gente incominciò a uscire dall'edificio, urlando e indicando la Toyo-
ta, che era ancora nel parcheggio. Una delle guardie uscì con il fucile in mano, ma saltò da parte vedendo Dragan che accelerava. La barriera di legno andò in pezzi. La guardia sparò, mancando il bersaglio, e prima che potesse pompare un secondo proiettile in canna, la Toyota era già sulla pista che portava sulla strada principale. «Ci inseguiranno» commentò Solomon, guardando nello specchietto retrovisore. Sasha si accese un sigaro con mani ferme, senza tradire il minimo nervosismo. «No. Hanno visto le nostre armi e sanno cosa è successo a Goncharov. Non credo che abbiano voglia di fare la stessa fine.» «Cosa è successo a Goncharov, a proposito?» chiese Solomon. «Ho avuto la mia vendetta.» Sasha si voltò a guardare Nicole, ancora addormentata. «Spero che lei dimostri un po' di gratitudine, almeno.» «Non l'hai fatto per lei» disse Solomon. «Io no, ma tu sì. Ora accelera, abbiamo molta strada da fare.» Solomon parcheggiò la Range Rover davanti a casa sua e si voltò. Nicole dormiva ancora, con la testa sulle gambe di Otto. Scese goffamente dall'auto, mentre Sasha gli passava il bastone. «Salgo con te» disse. Otto guardò il suo grosso orologio subacqueo. «Appena arrivano gli altri, dobbiamo andare.» Erano le otto del mattino. L'alba li aveva sorpresi sulle strade di montagna tra Tuzla e Sarajevo. «Rikki vi accompagnerà all'aeroporto» disse Sasha. Solomon chiese a Otto se voleva un caffè. Il croato annuì. Solomon andò ad aprire il portone. Otto, con Nicole in braccio, prima di entrare si voltò a controllare la strada. Ancora non c'era traccia della Toyota. Avevano deciso di dirigersi a Sarajevo separatamente: se qualcuno avesse provato a inseguirli, li avrebbe individuati più facilmente se fossero stati insieme. Solomon salì in ascensore con Otto e Nicole, mentre Sasha andava a piedi. Appena entrati in casa, Solomon indicò a Otto la stanza da letto, poi andò in cucina a preparare il caffè. Mentre lo versava nelle tazze squillò il campanello del portone. Sasha andò ad aprire. Era Dragan. Due minuti dopo il poliziotto, Rikki e il resto dei croati erano in casa. Dragan aprì il frigo e distribuì a tutti bottiglie di Heineken, scusandosi per il cattivo gusto di Solomon in fatto di birra. Tomislav consegnò a Sasha la borsa nera con le mitragliette. Sasha la mise dietro una poltrona. Dragan si lasciò cadere su un divano, sollevò la bottiglia e ci fu un coro
di «Zivjeli!». Solomon portò una tazza di caffè a Nicole. Si sedette sul bordo del letto e la guardò. Indossava una camicia da notte blu. Il corpo era ricoperto di lividi e sulle gambe erano evidenti i segni di frustate. Nicole aprì gli occhi, fissò Solomon, con un'espressione confusa, poi guardò la stanza. «Dove sono?» chiese, in serbo-croato. «A Sarajevo. Al sicuro.» Lei aggrottò la fronte. «Chi sei tu?» chiese in inglese. «Cosa ci faccio qui?» Dall'altra stanza arrivò il suono di risate rauche. Nicole fissò la porta. «Sono amici, non preoccuparti» mormorò Solomon. «Ti ricordi di me?» Lei cercò di sedersi, ma non ce la fece e ricadde sul letto. La camicia da notte si era sollevata fin sopra le cosce, ma lei non sembrava consapevole della sua nudità. Solomon si alzò a fatica, aprì l'armadio e prese una camicia di tela e un paio di boxer. «Mettiti questi» disse, voltandosi mentre lei li indossava. «Poi se vuoi potrai farti una doccia.» «È passato molto tempo dall'ultima volta che un uomo ha fatto questo.» «Cosa?» «Voltarsi per non vedermi nuda.» Solomon tornò a guardarla. Era seduta sul letto, con le ginocchia al petto. «Quella parte della tua vita è finita, ora.» «Mi hai comprata?» chiese lei. «Ora lavoro per te?» Solomon si sedette di nuovo sul bordo del letto. «Non hai più un padrone, Nicole.» Lei si irrigidì, udendo il suo vero nome. «Chi sei?» «Ci siamo visti a Londra, ricordi?» «A Londra?» disse lei, come se fosse la prima volta che udiva quel nome. «Non preoccuparti, parleremo dopo. Hai fame?» Lei scosse la testa. «Bevi almeno del caffè.» Lei prese la tazza e bevve un sorso. Da fuori arrivò un'altra risata. «Tu sei venuto a St. John's Woods, vero?» chiese Nicole. «Esatto.» «E dopo la tua visita mi hanno rispedita in Bosnia» disse lei, con un brivido. «In quel posto.» Parte del caffè si rovesciò sul piumino. Solomon le tolse di mano la tazza, appoggiandola sul comodino. «Mi di-
spiace.» «Stavo bene, a Londra. Avevo un bell'appartamento, gli uomini erano gentili con me.» Negli occhi le spuntarono due lacrime. «Mi portavano regali. Sai cosa mi facevano in quel posto?» Gli mostrò le braccia coperte di lividi. «Nicole, mi dispiace tanto.» Lei si asciugò gli occhi. «Mi hai rovinato la vita.» «No, questo non è vero.» «Hai rovinato la mia vita. Un lavoro, clienti gentili, soldi. Ora ho perso tutto. Tutto.» Cominciò a piangere, e Solomon le passò un braccio intorno alle spalle. «Non sapevo che sarebbe accaduto tutto questo. Volevo solo sapere chi ha ucciso la tua famiglia.» Nicole lo spinse via, mentre tutto il suo corpo era scosso dai singhiozzi. «Nicole, scusami» ripeté Solomon. «Non capisci proprio, eh?» «Cosa vuoi dire?» Nicole sollevò il viso bagnato verso di lui. «Sono stata io» singhiozzò. «Io li ho uccisi.» Poi ripiombò sul letto, con la faccia sul cuscino. Qualcuno bussò alla porta della stanza da letto. «Rikki sta per accompagnare i ragazzi all'aeroporto» disse la voce di Sasha. «Non vuoi salutarli?» Solomon rispose di sì. Strinse una spalla a Nicole e uscì. Nel soggiorno, Dragan stava abbracciando Otto, dandogli pacche sulla schiena. Solomon strinse la mano ai quattro croati, ringraziandoli per ciò che avevano fatto, ma non riusciva a concentrarsi su ciò che diceva. Riusciva solo a pensare alle parole di Nicole. Come poteva essere stata lei a uccidere la sua famiglia? Non aveva nessun senso. Rikki e i croati uscirono. Dragan prese un'altra Heineken e si rimise a sedere sul divano, accavallando le gambe. «Come sta la ragazza?» chiese. «È scossa» rispose Solomon. «Cosa pensi di fare con lei, ora?» chiese Sasha. «Convincerla a dire agli investigatori del Tribunale per i Crimini di Guerra quello che ha visto.» «E cosa ha visto?» chiese Dragan. «Non lo so ancora.» Solomon tornò nella stanza da letto e chiuse la porta. Nicole era stesa a faccia in giù, come l'aveva lasciata. «Nicole?» «Va' via.»
«Dobbiamo parlare.» «Non voglio parlare.» «Hai detto di essere stata tu a uccidere la tua famiglia. Questo non può essere vero. Non è stata colpa tua.» «Invece sì.» «Lo dici solo perché sei stata risparmiata. Si chiama senso di colpa del superstite, in linguaggio tecnico. È una cosa che conosco bene.» «Tu non sai di cosa stai parlando» gemette Nicole, mettendosi a sedere sul letto, con la schiena appoggiata alla testata. «So che non devi sentirti colpevole.» «Sono stata io a dire dov'era la droga» riprese lei, coprendosi il volto con le mani. «E quando sono venuti a prenderla, si sono portati via la mia famiglia.» «Cosa? Di quale droga stai parlando?» Nicole non rispose subito. «Mio padre» continuò poi, «aveva permesso ad alcune persone di lasciare nella nostra fattoria delle scatole avvolte in plastica nera. Credeva che io non ne sapessi niente, ma li vidi dalla finestra quando le portarono. Erano nascoste in un granaio, in una botola sotto il pavimento, coperte da sacchi di patate.» «E si trattava di droga?» «Eroina. Allora non lo sapevo. Sapevo solo che era un segreto.» «E a chi l'hai detto?» Nicole si asciugò il volto. «Avevo un ragazzo.» «Emir?» Lei rise con amarezza. «Emir è solo un ragazzino. Un ragazzino innamorato.» Sospirò. «Si chiamava Mirsad e lavorava in una fattoria accanto alla nostra. Era più vecchio di me. Era stato a Pristina un sacco di volte. Diceva che potevamo fuggire insieme, cominciare una nuova vita. Ma avevamo bisogno di soldi.» «Perciò gli hai raccontato della droga?» «Gli mostrai il nascondiglio. Fu Mirsad a dire che si trattava di eroina. Disse che avremmo potuto venderne un po', soltanto un pochino, così avremmo avuto abbastanza soldi per aprire un ristorante. Io avrei cucinato, lui sarebbe stato il manager. Pensai che se avessimo sottratto una piccola quantità di quella roba nessuno se ne sarebbe accorto.» Nicole tirò su con il naso. «Tre giorni dopo, arrivarono gli uomini. Io ero con Mirsad. Lui continuava a dirmi di non tornare a casa, ma si era fatto tardi e lo lasciai. Arrivai mentre stavano caricando tutti sul camion.»
«Chi erano?» Nicole alzò le spalle. «Non lo so. Erano mascherati. Avevano grossi fucili, come quelli dei soldati.» «Erano soldati, allora?» «Non lo so, ti dico. Non indossavano uniformi.» «E credi che sia stato Mirsad a dire loro dove trovare la droga?» «Nessun altro conosceva il nascondiglio. Lui mi ha tradita, mi ha usata. E per colpa mia la mia famiglia è stata sterminata.» Si gettò di nuovo con la faccia sul cuscino. Solomon non sapeva cosa dire. Si alzò e tornò in soggiorno. Sasha e Dragan alzarono lo sguardo. «Allora?» chiese Dragan, togliendo i piedi dal divano. «Ha detto che non ha visto gli uomini che hanno portato via la sua famiglia. Cioè, li ha visti, ma erano mascherati.» Dragan scosse la testa. «E perché non l'ha detto subito? Perché non è andata alla polizia, subito dopo il rapimento?» Solomon andò a sedersi accanto a lui sul divano. «È una lunga storia» disse, allungando la mano verso una bottiglia di birra. «Abbiamo tempo» osservò Sasha. «C'è di mezzo la droga» spiegò Solomon, e ripeté loro ciò che gli aveva raccontato Nicole. «Quindi la pulizia etnica non c'entra?» disse Sasha alla fine. «Non sono stati uccisi perché erano musulmani?» «Nicole ha rivelato al suo ragazzo dove si trovavano le scatole con la droga. Tre giorni dopo la sua famiglia è stata caricata su un camion e portata via. Lei ha visto uomini mascherati che prendevano le scatole. E ora crede che sia tutta colpa sua.» «Non ha tutti i torti» commentò Sasha. «Lei non sapeva cosa sarebbe accaduto. Aveva solo l'idea romantica di fuggire con il suo ragazzo, di cominciare una nuova vita con i soldi ricavati da un paio di chili di eroina.» Sasha tirò fuori i sigari. Dragan prese i fiammiferi. La porta della stanza da letto si aprì, Nicole entrò nel soggiorno, con il viso ancora bagnato di lacrime. Solomon le presentò Sasha e Dragan, spiegandole che facevano parte del gruppo che l'aveva liberata. «Grazie. Ora voglio andare via. Non posso restare qui. Voglio andarmene.»
«Dove?» chiese Solomon. «Non lo so. A Londra, forse. Voglio tornare a lavorare per l'agenzia.» Dragan accese un fiammifero con il pollice, e avvicinò la fiamma al sigaro che Sasha si era appena infilato tra le labbra. Nicole spalancò gli occhi. «Tu!» esclamò. Sasha e Dragan la fissarono senza capire. «Sei stato tu» sibilò lei. «Tu hai ucciso la mia famiglia.» Sasha cercò di estrarre la pistola, ma Dragan fu più veloce. Si chinò e un attimo dopo aveva in pugno la semiautomatica che portava alla caviglia. Sparò, centrandolo in pieno petto. Sasha cadde a terra, con uno sguardo sorpreso, mentre il sangue cominciava ad affiorare sulla camicia. Solomon fissò Dragan, con un'espressione allucinata. «È stato lui? È stato Sasha?» Dragan non disse nulla. Si alzò in piedi, diede un calcio nel fianco a Sasha, poi si chinò a controllare che fosse davvero morto. «Non preoccuparti» disse Solomon a Nicole, che sembrava paralizzata sulla porta della stanza da letto. «Non può farti più nulla, ormai.» «Non lui» disse, puntando un dito accusatore verso Dragan. «È stato lui.» «Cosa?» esclamò Solomon. «L'ho visto. Alla fattoria.» Dragan si voltò a fissarla. «Ha un attacco isterico.» «Tu eri il capo» continuò lei. «Non hai detto che erano tutti mascherati?» «Sì, ma il capo accendeva i fiammiferi con l'unghia, come te.» «Non è un trucco difficile.» «Invece sì» intervenne Solomon, in tono calmo. «E tu lo sai.» «Jack, per favore. Hai visto anche tu che Sasha ha cercato di prendere la pistola.» «Perché sapeva di non essere stato lui a uccidere la famiglia di Nicole. Perciò, se non era stato lui, significava che Nicole stava accusando te.» Nicole scivolò a sedere sul pavimento, con le mani intorno alle ginocchia. Dragan puntò la pistola contro Solomon. «Perché, Dragan? Perché l'hai fatto?» «Davvero non lo capisci?» rispose il poliziotto. «Per soldi.» «Non esattamente. Per un sacco di soldi. Più di quanti ne avrei guadagnati in cento anni, facendo il poliziotto. O in mille anni.»
«Hai ucciso ventisei persone!» urlò Solomon. «Uomini, donne e bambini.» «No» rispose Dragan. «Io non ho ucciso nessuno.» «Li hai caricati su quel camion. Lei ti ha visto.» «È tutto quello che ho fatto» ribatté Dragan. «Volevo solo toglierli dai piedi mentre prendevamo le scatole con l'eroina. Non ho mai detto a nessuno di ucciderli.» «Quelli con cui hai fatto il lavoro erano serbi?» «Il suo ragazzo aveva un amico serbo. Lui ha raccontato la storia a un suo amico, che a sua volta lo ha detto a un altro amico che era un mio informatore. Io ho messo insieme la squadra, scegliendo uomini che conoscevo dai tempi in cui ero nella polizia federale.» «Tutti poliziotti?» Dragan si strinse nelle spalle. «Alcuni erano poliziotti, altri soldati. Alcuni di loro erano serbi, ma non era una questione razziale. Era una questione di soldi. Non dovevano uccidere nessuno.» «E cosa pensavi che avrebbero fatto? Che li avrebbero portati a mangiare una pizza?» «Quello che sto dicendo» disse Dragan, alzando la voce, «è che io non ho ordinato a nessuno di gettare quel fottuto camion nel lago! A me interessava solo l'eroina! Non volevo uccidere nessuno. Era roba afgana di ottima qualità. Suo padre la teneva in deposito per conto di una banda di trafficanti che la faceva arrivare nella Comunità Europea. Attraverso quella fattoria passavano centinaia di chili al mese. Milioni di dollari.» «E qual è stata la tua parte?» «Che t'importa?» «Voglio sapere quanto valevano per te le vite di quelle persone, Dragan. Centomila dollari a testa? Un milione? Quanto valeva la bambina?» Dragan attraversò la stanza e puntò la pistola alla testa di Solomon. «Vaffanculo.» «No!» urlò Nicole. Dragan si voltò a fissarla, tenendo sempre la pistola puntata contro Solomon. «Non ho scelta. Non posso lasciarvi andare.» Nicole si alzò in piedi, con la schiena appoggiata alla porta della stanza da letto. «Io non dirò nulla a nessuno. Non l'ho fatto prima e non lo farò neppure adesso.» «Ma lui non starà zitto» disse Dragan, indicando Solomon con uno scatto del mento. «Alla fine il tribunale convincerà anche te a parlare, e io pas-
serò il resto della mia vita in una cella.» «Non voglio morire!» singhiozzò Nicole. «Non mi avete lasciato nessuna scelta» fece Dragan. Fissò su Solomon uno sguardo duro. «Avresti dovuto lasciar perdere tutto, quando era ancora possibile.» «Non potevo.» «Lo so che non potevi!» urlò Dragan. «Credi che non lo sappia che tipo sei, stupido bastardo?» «No!» urlò Nicole. Si gettò su Dragan, con il labbro superiore sollevato in un ringhio animalesco. Dragan fece un passo indietro e la colpì al mento con la canna della pistola. Nicole cadde, agitando le braccia, sul tavolino accanto al divano, che si ruppe sotto il suo peso. «Brutta puttana!» urlò Dragan. «È tutta colpa tua!» Nicole cercò di alzarsi, ma Dragan la inchiodò al pavimento tenendole un piede sul petto e le puntò la pistola in faccia. Solomon cercò con lo sguardo qualcosa da usare come arma. La borsa con dentro le mitragliette era dietro una poltrona, a meno di cinque passi da lui, ma con la gamba ingessata non sarebbe mai riuscito a raggiungerla. «Dragan, non farlo!» urlò. Ma sapeva che era fiato sprecato. Dragan non aveva scelta, come aveva detto lui stesso. Non poteva permettersi di lasciare testimoni. Li avrebbe uccisi entrambi. Solomon si alzò dal divano, maledicendo la gamba ingessata, e a un tratto ricordò il ferro da calza. Lo tirò fuori dal gesso, poi si gettò su Dragan, infilandoglielo tra le costole. Dragan urlò. Solomon continuò a spingere, cercando il cuore. La pistola cadde dalle mani del poliziotto. Solomon spinse con tutta la forza che aveva, ed entrambi piombarono su ciò che restava del tavolino, mentre Nicole rotolava via. Solomon tenne saldo il ferro da calza. Dragan muoveva la bocca senza emettere un suono, con gli occhi spalancati. Nicole strisciò fino al muro e restò lì, coprendosi la bocca con le mani. Dalla bocca di Dragan uscì una bolla di sangue. Il corpo del poliziotto si tese, inarcando la schiena, poi restò immobile. Solomon rotolò via, strisciando accanto a Nicole. Si sedette anche lui con la schiena contro la parete e le passò un braccio intorno alle spalle. «È morto?» sussurrò lei. «Sì.» «È tutto finito?»
Solomon annuì. «Sì, è tutto finito.» «Ora posso tornare a Londra?» «Questo non lo so.» «Voglio tornare a Londra. Ero felice, lì» disse Nicole. Gli appoggiò la testa sulla spalla e chiuse gli occhi. Solomon guardò il corpo di Sasha, poi quello di Dragan. Pensò ai cadaveri lasciati in Arizona e a Londra. Erano morte una quantità di persone, solo perché lui aveva voluto che fosse fatta giustizia per una famiglia che non aveva mai conosciuto. Forse Dragan aveva ragione. Forse sarebbe stato meglio se avesse lasciato perdere tutto fin dall'inizio. A un tratto il braccio di Sasha si mosse di qualche centimetro. «Sasha?» chiamò Solomon, incapace di credere a ciò che aveva appena visto. Il braccio si mosse di nuovo, le dita si strinsero a pugno, poi tornarono ad aprirsi. «Sasha?» Solomon strisciò verso di lui, trascinandosi dietro la gamba ingessata. Sasha aprì gli occhi. Aveva la camicia inzuppata di sangue. «Non dire nulla, sta' fermo e zitto. Nicole, va' a prendere degli asciugamani in bagno.» Nicole non si mosse. Fissava un punto nel vuoto, con lo sguardo perso. «Nicole!» urlò Solomon. Lei lo fissò come se lo vedesse per la prima volta. Solomon indicò la porta del bagno. «Degli asciugamani! Muoviti!» Nicole si alzò in piedi e corse in bagno. Solomon appoggiò due dita sul collo di Sasha. La pulsazione era debole, ma regolare. «Andrà tutto bene, Sasha» mormorò. «Stronzate» gracchiò Sasha. «So quello che dico. Hanno sparato anche a me, ricordi?» Sasha si sforzò di sorridere, ma fu scosso da un attacco di tosse. Solomon fu sollevato vedendo che non sputava sangue. Nicole tornò con due asciugamani. Solomon ne prese uno e lo premette contro il petto di Sasha. «Chiama un'ambulanza.» Nicole andò al telefono e compose il numero. Solomon avrebbe voluto sapere se c'era anche un foro di uscita, ma preferiva non spostare Sasha. L'albanese era pallidissimo, ma respirava. Erano passati anni da quando Solomon aveva seguito un seminario di pronto soccorso, ma ricordava ancora le cose fondamentali: non spostare il corpo. Fare il possibile per arrestare la perdita di sangue e attendere i soccorsi. «Dove siamo?» chiese Nicole, coprendo la cornetta con una mano. Solomon le disse l'indirizzo e lei lo ripeté al telefono. «Partono subito» disse poi. «Vogliono sapere se respira ancora.»
Solomon guardò Sasha. Il sangue aveva inzuppato l'asciugamano e gli scorreva tra le dita. «Sì. Respira.» Solomon girò lo zucchero nel cappuccino. Prese le Marlboro e mentre estraeva una sigaretta una donna obesa e troppo truccata lo guardò con disapprovazione. Solomon accese la sigaretta, e fissò la donna finché lei non abbassò gli occhi. Dopo tutto quello che aveva passato, aveva il diritto di fumarsi una sigaretta con il cappuccino. Osservò il traffico di Wardour Street. La gamba gli prudeva, ma ora non aveva nulla con cui grattarla. Il ferro da calza era rimasto nel corpo di Dragan e lui non l'aveva mai sostituito. Soffiò una boccata di fumo contro la vetrata, poi sorrise vedendo Inga avvicinarsi sul marciapiede. Lei lo salutò da fuori, poi entrò e corse verso di lui. Solomon era già in piedi. L'abbracciò. Inga gli diede un bacio sul collo. «Sono così felice che tu stia bene.» «Ne sono felice anch'io» disse Solomon. Lei si staccò dall'abbraccio, lo guardò, tenendogli le mani. «Credevo che non ti avrei mai più rivisto.» «Hai perso la scommessa. Sono di nuovo qui.» Si sedettero, lei si tolse gli occhiali da sole. Solomon spense la sigaretta. Le aveva già raccontato al telefono quello che era accaduto in Bosnia, senza entrare nei particolari. Lei gli aveva chiesto solo se stava bene e se potevano vedersi. Adesso tra loro c'era un silenzio incerto, come se nessuno dei due sapesse cosa dire. «Sasha mi ha chiamata, ieri sera» disse Inga. «Dall'ospedale?» chiese Solomon, sorpreso. L'ultima volta che lo aveva visto, Sasha si trovava nell'unità di terapia intensiva dell'ospedale principale di Sarajevo. C'erano anche Rikki e Nicole. Poi Rikki era tornato nell'appartamento di Solomon, e aveva portato via il cadavere di Dragan, ripulendo alla perfezione le macchie di sangue. Quando Solomon era tornato a casa, sembrava che non fosse accaduto nulla. Un brutto sogno. Un dottore anziano con una benda sull'occhio e cicatrici di shrapnel sulla fronte, aveva detto che il proiettile aveva mancato l'aorta per un soffio e che Sasha sarebbe guarito. I medici di Sarajevo erano tra i più esperti del mondo nel trattamento delle ferite da arma da fuoco. «Mi ha chiamato dal cellulare» continuò Inga. «Ha detto che sta guarendo.» «Sì, i medici hanno detto che è stato fortunato. È strano che lo dicano ogni volta che qualcuno si becca un proiettile. O muori, o sei fortunato.»
«Ha detto che tornerà a Londra tra una decina di giorni.» Solomon annuì. «A riprendere la sua attività» commentò senza gioia. «Ha detto anche che va bene se io e te ci vediamo» aggiunse Inga, esitante. «Ci vediamo?» Lei annuì. «Fuori del lavoro, voglio dire.» Abbassò lo sguardo. «Sempre se ti va.» Solomon non seppe cosa dire. Sembrava che Sasha avesse dato la sua benedizione alla loro relazione, ma quella benedizione non faceva altro che ricordargli dolorosamente ciò che era Inga. Una prostituta. Inga alzò gli occhi, spingendo una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Allora, ti va?» «Certo» rispose Solomon, ma si accorse dell'esitazione nella sua voce. «Davvero?» Lui annuì. Con maggiore convinzione, stavolta. «Davvero.» «Bene» fece lei, e sorrise. Ci fu un altro lungo silenzio, poi Inga parlò di nuovo. «L'hai trovata, alla fine?» «Chi?» «La ragazza che cercavi. Nicole.» Solomon annuì, portandosi la tazza alle labbra. «Sì, l'abbiamo trovata.» «E ha parlato con te?» «Ha spiegato cosa era accaduto. L'uomo che aveva ucciso la sua famiglia era lo stesso che ha sparato a Sasha. Ora è morto.» «E lei cosa farà?» Solomon fu contento che Inga non gli avesse chiesto come era morto Dragan. L'immagine del suo amico impalato sul ferro da calza continuava a tormentarlo. La sensazione del ferro che penetrava nella carne, la paura negli occhi di Dragan, la vita che lo abbandonava... Solomon ebbe un brivido. «Nicole tornerà a Londra» disse. «A lavorare?» Solomon annuì. «L'uomo che ha assassinato la sua famiglia è morto, lei in Bosnia non ha nessuno, a parte una vecchia parente. Perciò tornerà qui a lavorare per Sasha.» Solomon era presente quando Nicole aveva parlato con Rikki, il quale aveva detto che senz'altro Sasha l'avrebbe presa a lavorare con sé a Londra, se questo era ciò che lei voleva. Nicole aveva risposto di sì, che quello era proprio ciò che voleva.
«Mi occuperò io di lei» disse Inga. «Si riprenderà presto.» Solomon si strinse nelle spalle, senza dire nulla. Non credeva che Nicole si sarebbe mai ripresa del tutto. Il senso di colpa per la morte della sua famiglia l'avrebbe tormentata per tutta la vita, inoltre lavorare come prostituta non avrebbe contribuito ad aumentare la sua autostima. Si sentì impotente. Non poteva fare nulla per aiutarla, non poteva offrirle nessuna alternativa. «È soltanto un lavoro, Jack.» «Non è vero» ribatté Solomon. «E lo sai. Significa vendersi, lasciare che gli uomini abusino di te.» «Stai parlando di lei o di me?» «Scusami. Non voglio giudicarvi, né lei né te. So com'era la vostra vita, prima, e quanti soldi potete guadagnare qui. Forse anch'io, al posto vostro, avrei fatto la stessa cosa.» Inga sorrise, maliziosa. «Non credo che avresti guadagnato molto, come prostituto.» Solomon rise forte. «Hai capito ciò che intendevo. Cosa posso dire a Nicole? Torna in Kosovo e mettiti a lavorare in fabbrica? Non ci sono quasi più fabbriche. Trovati un lavoro in un ufficio? Non ce ne sono. Gli unici che fanno soldi, laggiù, sono i criminali e i membri delle forze di pace. Almeno a Londra lei può vivere in una casa decente, magari risparmiare qualche soldo. Rifarsi una vita. Ma io ho visto con i miei occhi i danni che può fare la prostituzione, a livello fisico e mentale, e non so se lei ce la farà. È solo una ragazzina.» «L'aiuterò io» ripeté Inga. «E chi aiuterà te?» disse Solomon, in tono acido. «La mia vita non è brutta come pensi» ribatté Inga. «In Bulgaria stavo molto peggio. Non uso droghe e sto attenta all'aids. Prima o poi pagherò il mio debito con Sasha, così potrò iniziare a risparmiare. E forse un giorno aprirò un'attività mia.» «Credi davvero che Sasha ti lascerà andare?» «Forse sì. Jack, sono stata io a scegliere questa vita. Nessuno mi ha costretta.» «Non è vero. Se avessi dei soldi tuoi, non credo che faresti quello che fai.» «E se tu fossi ricco, continueresti a fare il tuo lavoro? Continueresti a passare il tuo tempo dicendo alle persone che i loro cari sono morti?» «Non è la stessa cosa.»
«Per me lo è. Tutti e due dobbiamo sopravvivere. Non ci piace quello che facciamo, ma non ci tiriamo indietro e cerchiamo di goderci la vita, per quanto possibile.» Restarono in silenzio a guardare il traffico fuori della vetrata. «E se io comprassi il tuo contratto?» chiese Solomon, a un certo punto. «No» rispose lei, in tono fermo. «Ho dei risparmi. Potrei parlarne con Sasha.» «No» ripeté lei. «Mi compreresti, Jack, e non è quello che voglio. Non voglio un altro padrone. Prima o poi pagherò il mio debito e sarò libera.» Solomon annuì. Inga aveva ragione. Se lui avesse dato dei soldi a Sasha, sarebbe stato come comprarla. E non voleva questo. Voleva che Inga stesse con lui spontaneamente, per scelta, non perché lui aveva estinto il suo debito. «È una cosa che puoi accettare?» chiese Inga. Solomon sorrise e le prese la mano. «Sì. È una cosa che posso accettare.» E si rese conto, con sorpresa, che lo pensava davvero. FINE